HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli
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Il Riformista 4-10-2007 S’incrina l’asse Londra-Washington. Mauro
Botarelli
Il Riformista 4-10-2007 Scusa, Walter,
c’era proprio bisogno di Veronica? Paolo
Franchi
L’Unità 3-10-2007 Sme, tutti
colpevoli. Ma il reato è ormai prescritto. Marco Travaglio
LONDRA
- L'aeroporto di Heathrow continua a essere la spina nel fianco del sistema di
trasporti londinese. Al punto che la Competition Commission, l'anti-trust
britannico, ha lanciato un monito a Baa, l'ente di gestione a cui l'aeroporto
fa capo: o migliora il trattamento dei passeggeri o sarà costretta a
fare fronte a pesanti multe. In un rapporto appena presentato la Commissione ha
parlato di «ritardi inaccettabili per passeggeri, equipaggi e voli». La
Commissione ha preso atto che non tutti i problemi sono da addebitare all'ente
di gestione (oggi di prorpietà del gruppo spagnolo Ferovial) dato che
alla congestione dell'aeroscalo contribuisce il comportamento delle linee aeree
oltre alle estenuanti misure di sicurezza e alle misure delle autorità
d'immigrazione. Davanti alle crescenti code, la Commissione ha deciso di
mettere un tetto a quelli che paiono ritorni eccessivi per gli aeroporti a
fronte di un servizio pessimo.
Così ha deciso che nei due grandi aeroporti di Heahrow e Gatwick,
(controllati da Baa) la società sarà obbligata a rendere soldi
alle linee aeree se i passeggeri saranno obbligati a fare code superiori ai 10
minuti nelle aree di controllo di sicurezza. Le multe saranno triplicate dal 3
al 10% dei ricavi provenienti dai diritti d'atterraggio.
La Civil Aviation Authority, l'ente regolamentare degli aeroporti, ha accolto
positivamente le proposte dicendo che «vanno nel senso da noi richiesto di non
permettere code di una durata superiore ai 20 minuti». Ferovial ieri ha messo
in guardia gli azionisti: i costi delle multe potrebbero incidere sul
rifinanziamentio di obbligazioni per 9,3miliardi di sterline emesse per pagare
l'acquisizione di Baa, oltre agli investimenti per migliorare le strutture dei
Terminal 1 e 2 che, sono quelli in cui i passeggeri si m,uovono nelle
condizioni peggiori.
Ma non è tutto plumbeo il panorama dei trasporti della capitale, a
giudicare da un sondaggio condotto a TripAdvisor un sito online di vacanze e viaggi,
secondo cui Londra avrebbe il sistema di traporti più sicuro del mondo con
la miglio metropolitana e i migliori taxi. Lo stesso non si può dire per
la pulizia, dato che Londra viene superata da Washington, Parigi e Tokio. Ma
è comunque una consolazione.
DAL
NOSTRO CORRISPONDENTE
WASHINGTON — L'appello del piccolo Graeme Frost, che venerdì corso lo
aveva pregato di non farlo, è stato inutile. George Bush ha negato ieri
l'assistenza medica gratuita a quasi quattro milioni di bambini americani, le
cui famiglie non sono in grado di pagare le costose polizze assicurative
private. Il presidente ha posto il veto sullo
State Children's Health Insurance Program o Schip, il piano che dà la
copertura sanitaria pubblica ai figli di coppie a basso reddito, approvato al
Congresso con ampia maggioranza bipartisan.
È una scelta politica molto azzardata, che rischia di isolare
ulteriormente il capo della Casa Bianca. Lo Schip è infatti un programma
molto popolare, appoggiato da uno schieramento trasversale, che vede insieme
democratici, repubblicani moderati, industria farmaceutica e perfino le Chiese
cristiane. In vigore da 5 anni, finanziato con 25 miliardi di dollari, esso ha
garantito cure gratuite a 6,6 milioni di bambini, figli di famiglie non
abbastanza povere da poter accedere al Medicaid, il programma federale di
assistenza medica per i poverissimi, ma comunque non in grado di pag arsi una
mutua privata.
Nella versione votata la scorsa settimana, il Congresso prevede di portare la
spesa dello Schip a da
«Non cambierà idea», ha detto ieri la portavoce della Casa Bianca, Dana
Perino, secondo la quale è tempo di «cercare un compromesso,
concentrandosi sull'obiettivo originario, quello di coprire prima di tutto i
bambini più bisognosi».
Ma la reazione democratica è stata durissima. «Oggi — ha detto il
senatore Ted Kennedy, che guida la Commissione per la Sanità — abbiamo
appreso che un presidente pronto a gettar via 700 miliardi di dollari in Iraq,
non è disposto a spendere una piccola frazione di quella somma per dare
l'assistenza medica ai bambini americani». Secondo Harry Reid, capo della
maggioranza al Senato, «il veto dimostra quanto Bush sia ormai disconnesso
dalle vere priorità del Paese». Ma voci critiche si sono levate anche
dalle file repubblicane: «Spero che l'Amministrazione non intenda affrontare il
popolo americano, aprendo il portafogli sulla guerra e dicendo ai bambini senza
assistenza medica di andare a farsi benedire », ha ammonito il deputato della
Louisiana, Jim McCrery.
Negativo anche il giudizio del senatore del Mississippi, Trent Lott, che
però si è detto fiducioso «si possa trovare un punto d'incontro».
Il veto infatti non blocca l'operatività dello Schip, che intanto
è stato prolungato fino al 15 novembre nella sua forma attuale, mentre
esecutivo e Congresso cercano di formulare un compromesso. La Casa Bianca,
VAI AL TESTO
DELLA RICERCA ISTAT
ROMA - Due
milioni e 623.000 famiglie in stato di povertà, corrispondenti a
7.537.000 persone. La povertà nel 2006 è rimasta
"sostanzialmente stabile", secondo l'Istat, interessa l'11,1 per
cento delle famiglie residenti, ma peggiorano le condizioni degli anziani. E
rimane più che mai marcato l'abisso tra Nord e Sud: nel Mezzogiorno vive
il 65 per cento delle famiglie povere. I poveri del Sud vivono anche in
condizioni peggiori: le famiglie in stato d'indigenza infatti presentano una
spesa mensile inferiore del 22,5 per cento rispetto alla "soglia di
povertà". L'incidenza della povertà è maggiore tra le
famiglie numerose, con tre o più figli. Di contro, risulta meno diffusa
tra i single e tra le coppie senza figli di giovani e adulti.
La soglia di povertà. Quest'anno la "soglia di
povertà", cioè la spesa mensile per consumi della famiglia
al di sotto della quale un nucleo viene definito povero, è stata fissata
dall'Istat in base all'indagine sui consumi a 970,34 euro per una famiglia di
due persone (di tratta della cifra equivalente alla spesa media procapite). Per
una persona la soglia di povertà si attesta a 582,20 euro di spesa
mensile; per una famiglia di quattro a 1581,65 euro.
Caratteristiche delle famiglie povere. Risiedono al Sud,
il capofamiglia presenta un basso livello d'istruzione o un basso livello
professionale o è disoccupato, hanno molti figli o almeno un componente
anziano: è l'identikit delle famiglie povere italiane, così come è
delineato dall'Istat. "Si mantengono tutte le caratteristiche strutturali
degli anni precedenti - spiega la responsabile dell'indagine sulle condizioni
delle famiglie dell'Istat Linda Laura Sabbadini - in condizioni peggiori le
famiglie con tre o più figli: costituiscono il 48 per cento dei nuclei
al di sotto della soglia di povertà".
Le differenze territoriali. Nel Mezzogiorno oltre un quinto delle
famiglie residenti (22,6 per cento) è sotto la linea di povertà
relativa. Nel Centro la percentuale è del 6,9 per cento, al Nord il 5,2
per cento. Al Sud, rileva l'Istat, "ad una più ampia diffusione del
fenomeno si associa una maggiore gravità: le famiglie pvoere presentano
una spesa media mensile equivalente di 752,01 euro (l'intensità è
del 22,5 per cento) contro i 797,62 e 806,35 osservati per il Nord e il
Centro". Di conseguenza, al Sud risiedono i tre quarti delle famiglie
"sicuramente povere", la cui spesa media mensile è cioè
inferiore di oltre il 20 per cento alla soglia minima. Mentre al contrario i
tre quarti delle famiglie "sicuramente non povere" (cioè oltre
il 20 per cento sopra la linea standard) risiede al Nord.
CORRISPONDENTE
DA NEW YORK Tommaso Padoa-Schioppa è il nuovo
presidente del Comitato finanziario e monetario del Fmi di Washington. E’ stato
il nome del ministro dell’Economia italiano ad uscire vincente dal ballottaggio
finale che lo ha visto opposto al collega canadese Jim Flaherty ed a fare la
differenza è stata la scelta dei Paesi emergenti dell’Asia. Quando il
seggio delle votazioni istituito al n. 700 della 19° Strada di Washington
è stato aperto, alle 18 di ieri, fra i due sfidanti era testa a testa ma
tre ore dopo lo spoglio ha premiato l’italiano. «Sono molto contento che sia
avvenuto, Padoa-Schioppa va a ricoprire una carica di prestigio e responsabilità»
ha commentato da Roma il presidente del Consiglio, Romano Prodi.
La proclamazione del vincitore avverrà come da tradizione per consenso
ma ciò che trapela è che il voto dei 24 Paesi rappresentanti nel
Comitato finanziario e monetario (Imfc) ha premiato il candidato dell’Ue grazie
a un’alleanza con i Paesi emergenti - primi fra tutti Indonesia, India e Cina -
alla quale si è opposta senza successo la candidatura di Flaherty
sostenuta dagli Stati Uniti, da altri Paesi anglosassoni, dal Giappone e dall’Arabia
Saudita. A favore di Padoa-Schioppa ha giocato l’esperienza internazionale e la
convinzione dei Paesi emergenti che sia favorevole alle riforme, come
testimoniato dalla sua proposta di limitare a due le possibili presidenze
successive del comitato da parte di ogni area geografica.
A poco più di un anno da quando il «Financial Times» diede a
Padoa-Schioppa il voto più basso fra i titolari dei dicasteri
dell’Economia in Europa, il ministro italiano succede dunque al britannico
Gordon Brown alla guida dell’organismo che costituisce il forum ministeriale
del Fondo monetario internazionale. L’incarico è triennale e ciò
prospetta a Tommaso Padoa-Schioppa lo scenario di una stretta collaborazione
con il neo-direttore esecutivo, il francese Dominique Strauss-Kahn, sul fronte
della tanto attesa riforma del Fmi, che entrambi affermano di sostenere.
Quanto avvenuto nella giornata delle votazioni porta all’insediamento di un
tandem franco-italiano ai piani alti del Fmi e anticipa la genesi di una
possibile alleanza geopolitica sulle più delicate decisioni da prendere:
la scelta di India, Indonesia e Cina di convergere sul candidato italiano
prefigura la possibilità di un’intesa di largo respiro fra le maggiori
economie emergenti e l’Unione Europea senza la quale la necessaria
ridistribuzione delle quote non potrebbe essere possibile. Se da un lato
Strauss-Kahn assicura che tale redistribuzione «non danneggerà gli Stati
Uniti», più importante azionista con una quota del 18 per cento,
dall’altro non può prescindere dall’esistenza di una vasta intesa fra
gli altri maggiori azionisti del Fondo monetario.
In tale cornice l’altro nodo che Padoa-Schioppa e Strauss-Kahn sono chiamati a
sciogliere è il rapporto con Mosca che ha fatto sapere di voler pesare
di più all’interno del Fmi avanzando la candidatura di bandiera dell’ex
governatore della Banca di Praga Joseph Tosovsky alla poltrona di direttore
esecutivo.
Il risultato della votazione di ieri non sarebbe stato possibile senza una
forte coesione fra i Paesi dell’Unione Europea: se all’indomani delle
dimissioni di Gordon Brown, annunciate in estate in coincidenza con la
successione a Downing Street, emerse subito il nome del ministro italiano come
candidato comune, nei mesi seguenti il coordinamento fra le capitali si
è consolidata al punto da riuscire a bloccare la strada al concorrente
canadese, le cui quotazioni erano salite nelle ultime settimane per via del
consistente sostegno ottenuto dal governo degli Stati Uniti.
Proclamata una «zona speciale di pace» lungo la
costa occidentale della penisola. Possibile un nuovo trattato
SEUL
- Passo storico tra le due Coree che hanno deciso di proclamare una «zona
speciale di pace» lungo la costa occidentale della penisola. La decisione
è il punto principale di un comunicato congiunto firmato a Pyongyang al
termine di un vertice fra il leader del Nord, Kim Jong Il, e il presidente del
Sud, Roh Moohyun. Come anticipato nei giorni scorsi dalle due parti, il
documento è stato pensato come una sorta di dichiarazione di pace, atta
a prefigurare la firma di un trattato che sostituisca l'armistizio che nel 1953
pose termine alla guerra di Corea.
IL COMUNICATO: DALL'ARMISTIZIO ALLA PACE - «La
Corea del Nord e del Sud sono d'accordo che l'armistizio esistente fra loro
debba essere sostituito da una sistemazione permanente di pace». È
questo il punto focale di un comunicato congiunto in otto articoli pubblicato
oggi a Pyongyang al termine del primo vertice intercoreano dal 2000. Il
documento preconizza una definitiva definizione dell'assetto postbellico
tramite un vertice con gli Stati Uniti e la Cina, che furono gli altri due
protagonisti del triennale, sanguinosissimo conflitto conclusosi con l'armistizio
del 27 luglio 1953. Come primo passo in tale direzione il comunicato proclama
l'intento di creare una «zona speciale di pace» nel mare a occidente della
penisola: in proposito si svolgeranno dal mese prossimo colloqui fra i
rispettivi ministeri della Difesa. Tra le misure per promuovere la
collaborazione e le prospettive di unificazione fra Nord e Sud è
prevista anche l'istituzione di uno stabile servizio di trasporto merci su
rotaia, lungo la linea transfrontaliera riaperta il 17 maggio scorso.
Il conflitto, che fece due milioni e mezzo di
morti e si concluse con la divisione della penisola lungo il 38/o parallelo, fu
combattuto anche da «volontari cinesi» e da forze statunitensi in
rappresentanza dell'Onu. Da allora la stipula di un trattato di pace con la
partecipazione di Usa e Cina è sempre stata una priorità della
politica estera nordcoreana, condivisa da quasi un decennio anche al Sud, nella
prospettiva a lungo termine di una riunificazione del paese. È appunto
in tale contesto che il comunicato congiunto preconizza un prossimo «vertice a
quattro» con Usa e Cina. La pubblicazione del documento, composto di dieci
articoli, era prevista in un primo momento per mercoledì sera.
Il rinvio di 24 ore è parso motivato da
un intento di «sincronizzare le precedenze» rispetto alla pubblicazione di un
documento congiunto sui negoziati internazionali a sei sul disarmo nucleare
nordcoreano, avvenuta mercoledì sera a Pechino. Con ogni
probabilità sono stati proprio i lievi ritardi registrati nel mettere a
punto il comunicato di Pechino che hanno indotto Kim a proporre a Roh di
protrarre di un giorno la sua permanenza a Pyongyang. Pur ringraziando per
l'invito, Roh lo ha declinato nè il prolungamento è parso
più necessario grazie ai tempi strettissimi in cui la Cina è
comunque riuscita a pubblicare il documento a sei sulla base degli assensi
provenienti dalle rispettive cancellerie a Pyongyang, Seul, Pechino,
Washington, Mosca e Tokyo.
Londra. Il messaggio è di quelli
perentori: da quando Gordon Brown è salito al potere «gli Stati Uniti
non vedono più la Gran Bretagna come l’alleato più leale in
Europa» e questo ha portato «a un aumento dell’attenzione nei confronti di
Francia e Germania. Il presidente Sarkozy ha dimostrato da subito un appeal che
Washington apprezza e anche Angela Merkel, col passare dei mesi, si è
dimostrata migliore di Gerhard Schröder». Non esiste alcun documento ufficiale
al riguardo, ma una fonte senior del Dipartimento di Stato conferma che ci sono
«serie preoccupazioni sull’operato del nuovo premier britannico, anche se
queste sono compensate dall’ottimo rapporto che ultimamente la Casa Bianca sta
avendo con Parigi e Berlino. Il bisogno di far girare sui cardini di Londra
tutto quanto riguarda la sicurezza in Europa non esiste più». Insomma,
sembra che David Miliband, il nuovo ministro degli Esteri britannico, abbia
raggiunto il suo obiettivo: per Washington «Londra resterà la pietra
angolare della politica americana in Europa, ma questo non potrà far
sparire il disappunto creato dalla decisione inglese di abbandonare Bassora.
Sia chiaro, a livello operativo i britannici hanno lavorato male laggiù
ed è un bene che se ne vadano, lasciandoci campo libero anche nel sud
dell’Iraq, ma l’atteggiamento di Brown è stato di aperta sfida».
Insomma, la special relationship non esiste più.
E più di un particolare lo conferma. La riduzione dei contatti tra la
Casa Bianca e Downing Street da quando Tony Blair ha passato il timone a Brown
è stata netta e pochissimi ministri del nuovo governo hanno visitato
Washington. George W. Bush e il primo ministro britannico hanno parlato al
telefono soltanto due volte in tre mesi, ovvero da quando Brown si recò
a Camp David in giugno: Blair e il presidente americano tenevano
videoconferenze settimanali. In aperto contrasto con il nuovo corso deciso
dall’inner circle della Casa Bianca è apparso Kurt Volker, senior
official del Dipartimento di Stato con delega sull’Europa, secondo il quale «la
decisione di abbandonare Bassora è stata puramente tattica e il caos che
qualcuno prediceva nella realtà non c’è stato. Inoltre Brown ha
dimostrato una fermezza che in pochi gli avrebbero riconosciuto e nonostante il
suo stile sia completamente differente da quello di Blair ha un piglio deciso e
saldo in politica». Una difesa netta, che comunque non ha evitato che Volker
dovesse ammettere come le cose in Europa stiano cambiando «molto rapidamente e
nessuno a Washington ha potuto ignorare l’importanza del discorso del ministro
degli Esteri francese, Bernard Kouchner, rispetto alla necessità di
prepararsi a una guerra contro l’Iran. Un commento importante e di grande aiuto
visto che ha puntualizzato una volta per tutte che la situazione è
seria. Il tempo della diplomazia che non offre risultati è finito».
E se questo apre nuovi scenari rispetto alla politica bilaterale tra i due
paesi - con tutte le ricadute che questo può apportare -, anche per
quanto riguarda la politica interna il cambio di strategia verso Washington
potrebbe avere ripercussioni sul governo Brown e in favore dei Conservatori,
fin qui messi maluccio. Una possibile, per ora sarebbe più corretto dire
potenziale, inversione di tendenza che giungerebbe proprio mentre le voci di
un’elezione generale anticipata per il 1° o l’8 novembre diventano di giorno in
giorno più insistenti (martedì prossimo Brown dovrebbe
annunciarle ufficialmente). Owen Paterson, ministro ombra per l’Irlanda del
Nord, recentemente ha incontrato alcuni dirigenti chiave della Casa Bianca, tra
cui Barry Jackson, l’uomo che ha raccolto l’eredità di Karl Rove come
consulente politico di Bush.
«Dopo l’addio di Blair le cose sono molto cambiate alla Casa Bianca - ammette
un diplomatico inglese di stanza a Washington - Prima erano abituati a stare al
telefono con Blair sempre, per qualsiasi cosa. Ora non accade più, per
il semplice fatto che Brown vuole essere l’unBlair. Anche al Pentagono
c’è la chiara impressione che Londra stia abbandonando del tutto l’Iraq
e quindi oggi il migliore amico è Nicolas Sarkozy, il vero erede di
Blair. Ma sia chiaro: se e quando la situazione irachena dovesse precipitare,
la prima telefonata di Washington sarà ancora verso Londra». Magari, sperano
i Tories dalla fede più incrollabile, con un governo conservatore.
Ieri, concludendo con un discorso a braccio il congresso di Blackpool, David
Cameron ha ribadito la certezza di poter vincere le elezioni. Probabilmente
anche galvanizzato dall’autogol del rivale su Bassora. Al momento, considerate
anche le non poche difficoltà che l’astro nascente dei Tories sta
incontrando all’interno del suo stesso partito (non ultima, la bocciatura di
Margaret Thatcher, che lo ha accusato di essere troppo leftist), Brown resta il
favorito. A patto che porti al più presto la Gran Bretagna alle urne.
Trent’anni fa, un altro premier laburista, James Callaghan (anch’egli giunto a
Downing Street ereditando il lavoro e non dopo una tornata elettorale), decise
di non ricorrere alle urne nell’autunno del 1978, sottovalutando i segnali che
l’economia e la politica estera stavano inviandogli: fu il famoso “winter of
discontent”. E la primavera successiva Sunny Jim fu battuto alle urne da un
outsider, la signora Thatcher.
04/10/2007
Cara Europa, non capisco l’impegno previsionale
di Prodi, Bindi, Veltroni, Fassino sul numero di italiani che il 14 ottobre
voterà alle primarie per l’elezione del segretario del nuovo Partito
democratico: se 1 milione, o meno, o addirittura 2 milioni. A me pare che non
sia proponibile alcun confronto con la volta precedente, il 14 ottobre 2005,
quando andammo a votare in oltre 4 milioni per scegliere l’anti-Berlusconi
(cioè Prodi). Ma perché ci confondono le idee, già tanto confuse?
ALDA
PIROMANI, MILANO
Perché i politici, cara signora, nessuno
escluso, vivono su un pianeta popolato da poche decine di migliaia di persone
(camarille e casta) che hanno ragioni di vita, esigenze e linguaggio
assolutamente diversi da quelli dei “cittadini” di cui si parla nel catechismo
democratico. Chi dice un milione di voti si rifugia nella nicchia degli
iscritti a Ds e Margherita. Ma quanti di quegli iscritti siano veri, noi non lo
sappiamo; e quanti dei veri iscritti si siano allontanati con la diaspora dai
due partiti, nemmeno lo sappiamo. Parlare, come ha fatto Fassino, di 2 milioni
di elettori mi sembrerebbe dignitoso, a patto che si chieda loro di uscire non
dagli elenchi dei partiti ma dal corpo elettorale, dai cittadini senza tessere
ma politicamente orientati. E a patto che non si faccia alcun confronto coi 4
milioni e passa di Prodi, perché due anni fa c’era verso il governo Berlusconi
la stessa non simpatia che in tanti hanno oggi per il governo dell’Unione. Si
votava Prodi per scegliere l’anti-Berlusconi.
Erano elettori di tutta l’Unione, da Rifondazione a Mastella, dai Ds a Di
Pietro, dalla Margherita ai verdi e ai socialisti.
Oggi alle urne si reca solo chi è interessato alla segreteria del Pd.
Perché questo è il catastrofico errore di comunicazione commesso da
tutti i candidati alla segreteria, i quali hanno finto di non capire, con
l’eccezione di Veltroni, che il segretario del Pd dev’essere il naturale
candidato premier di quella che sarà, quale che sia, la futura alleanza
del centrosinistra; e, comunque, il candidato premier del Pd. Si è
voluto far credere ai cittadini che il 14 ottobre si elegge un segretario, poi,
alla vigilia delle elezioni politiche, i partiti di centrosinistra che
resteranno nell’alleanza sceglieranno il candidato premier. Assoluta
falsità, che ci costerà cara: perché gli elettori che non sono
del Pd ma pensano di votare centrosinistra anche alle prossime elezioni, col
discorso dei due tempi si sentono automaticamente esclusi dal voto per il
segretario del Pd. E dunque solo chi «milita» si sente impegnato per il 14
ottobre. Io comunque andrò a votare e sceglierò Veltroni per la
ragione detta sopra, la premiership: ma so già che alla mia sezione (se
vorrà, le farò nomi e cognomi) non troverò quasi nessuno
dei ds, rifondazionisti, margheritini, verdi, eccetera che 2 anni fa tirarono
la carretta delle primarie, dopo aver promosso l’entusiasmo.
Sono tutti fuori del gioco (compresi quei margheritini e diessini che sono
rimasti nei due partiti, ma esclusi, per faide interne, dalle candidature e
dalle piccole cariche locali). Ecco perché parlare di 1 o 2 milioni di votanti,
ai quali, dopo le feste di settembre, non ci si è degnati di dedicare
incontri e dibattiti sul programma del nuovo partito, è sbagliato.
Naturalmente, spero che sbagli chi dice 1 milione e ci azzecchi chi dice 2.
Premessa. Non conosco la signora Veronica Lario
ma, per quel che leggo e sento di lei, mi sembra persona intelligente e aperta.
Sono lieto di apprendere, quindi, che anche Walter Veltroni la pensa
così, come ha confidato a Maria Latella, il direttore di A, una
bravissima giornalista che della signora Lario è studiosa tra le
più accreditate. Veronica, dice il candidato, è open minded,
curiosa, ha una grande autonomia intellettuale. E per di più è
anche discreta. Per quel poco che ne so, sottoscrivo. Magari non avrei detto
open minded, ma i complimenti mi sembrano del tutto meritati.
Io, però, non sono il candidato segretario del Partito democratico.
Veltroni, sì. Dunque, se io dico che «sarebbe bello disporre di un
contesto dove la signora Berlusconi possa dare un suo contributo», e insomma
che, sempre che lei lo volesse, la vedrei bene nel Pd (un partito, come osserva
giustamente Piero Fassino, che dovrà essere «senza pregiudizi»), dico
una cosa sacrosanta e magari anche un po’ ovvia, che potrei dire per ogni
persona dotata di grande autonomia intellettuale, discreta e curiosa, anzi,
open minded. Ma, se a fare la medesima osservazione è Veltroni, che alla
leadership del Pd è il candidato per eccellenza, qualche riflessione e
qualche domanda in più si impongono persino a chi, come me, pensa che,
con questi chiari di luna, sarebbe meglio concentrare altrove l’attenzione. A
differenza da Rosy Bindi, non credo che questa sia «l’esternazione più
improbabile sentita nel corso della campagna elettorale per le primarie». Per
il semplice motivo che, se questo è un tentativo di reclutamento
(seppure soft) di Veronica Lario nel centrosinistra e nel Pd, Veltroni arriva
buon ultimo. La storia, lunga e istruttiva, è ricostruita bene (seppure,
per esigenze di spazio, solo in parte) da Elena Muschella sul Corriere di ieri.
Non provo nemmeno a ricapitolarla, parto da quello che (errore!) ne sembrò
l’epilogo. Nel marzo scorso, quando Repubblica pubblicò la celebre
lettera in cui la signora pretendeva dal marito Silvio pubbliche scuse per le
sue reiterate ostentazioni di machismo, da sinistra (signore in testa) si
levò un possente coro di lodi per il coraggio, la dignità, la
forza intellettuale della donna che aveva osato sfidare lui, vivente
incarnazione dell’arroganza e della volgarità maschile. Una sola voce,
se volete una vocetta, si staccò dal coro, per segnalare come «il
complesso di Veronica» esprimesse in ultima analisi un’inconfessata e
inconfessabile subalternità di tanta parte della sinistra verso il
«tiranno» cui la signora era andata a suo tempo in sposa: pensaci tu, Veronica,
a facci sognare, ché noi da soli non siamo più capaci. Ricordo per inciso
che questa vocetta era la nostra.
Sono passati sei mesi, sembrano secoli. Adesso c’è il Pd a vocazione
maggioritaria, adesso c’è Veltroni in campo. E tutto posso pensare
fuorché Walter, il Walter che tassativamente esclude di aver voluto fare un
dispetto al Cavaliere vestendo i panni di un improbabile Sarko de noantri, sia
subalterno a Berlusconi. Ma escludo pure che il Candidato abbia voluto fare un
esempio a caso per dimostrare quanto aperto, e dialogante, e moderno sia il
partito che ha in mente. Dunque, non mi capacito: mi piacerebbe che qualcuno mi
aiutasse a capire che bisogno ci fosse, mentre tutti auspicano un colpo d’ala
nel dibattito programma, la cultura politica e l’identità del partito
nascituro, di riscoprire per l’ennesima volta il fattore Veronica. Per parte
mia, temo che spiegazioni ragionevoli non ce ne siano. E proprio questo
è il sospetto più angoscioso.
04/10/2007
Intro. Per
i signori eurodepuati Alain Lamassoure (gollista francese) e Adrian Savarin
(socialista rumeno) non sono più italiano. Non lo sono nella misura in
cui la mia qualità di cittadino dotato di diritto di voto in Italia non
viene considerata ai fini del computo del numero di parlamentari che il mio
Paese (anche col mio suffragio) avrà a Strasburgo a partire dalle
elezioni comunitarie del 2009. Io conto come un belga perché vivo qui.
Esattamente com un extracomunitario - svizzero o tunisino che sia - residente a
Roma o Torino è considerato italiano anche se non può votare. Che
pasticcio.
I fatti. La commissione affari costituzionali ha dato ieri il via
libera con 17 voti a favore, cinque contrari e tre astenuti alla proposta di
ridistribuzione dei seggi del Parlamento europeo a partire dal 2009, con la
quale l'Italia perderebbe la parità attuale con Francia e Gran Bretagna
e passerebbe dagli attuali
I criteri. Posto che il numero dei deputati è direttamente
proporzionale alla popolazione, è stato considerato come riferimento il
numero dei residenti e non quello dei cittadini. Cioè il numero
delle persone che abitano in un paese e non quello che ha il
diritto/dovere di eleggerli. Avendo Germania, Francia e Francia un numero
maggiore di residenti rispetto all'Italia, e un minor numero di emigrati, esse
totalizzano un numero di eurodeputati più alto del
nostro. Ecco perché io, in quanto residente, sono belga anche
se qui non voto. E non sono più italiano, anche se voto in Italia.
Così dice il metodo Lamassoure.
I numeri. Considerando i residenti come proposto da Lamassoure e
Severin, il capitale umano della Francia è di 62,8 milioni di persone,
quello britannico di 60,2 e il nostro di 58,4. Utilizzando il criterio degli
aventi diritto al voto i numeri diventano 49,8 per l'Italia, 49,8 per il Regno
Unito e 41,5 per i cugini d'Oltralpe. Ovvio che i conti non tornano.
Pensieri. Incassiamo un altro schiaffo. Nemmeno su un principio
così elementare come il legame diretto fra chi vota e chi è
eletto riusciamo a far sentire la nostra voce e imporre le nostre legittime
ragioni. Si sgretola ulteriormente l'immagine europea della nostra
nazione, segata miseramente dal governo Berlusconi e per nulla rafforzata
dall'attuale maggioranza. Abbiamo ancora un'opportunità al vertice di
Lisbona, fra due settimana, ma è facile essere pessimisti.
La reazione. Il rappresentante permanente presso l'Ue, Rocco
Cangelosi, ha diffuso ieri sera una piccata nota. «Difficilmente
l’Italia potrà dare il proprio assenso ad una proposta che, da un lato,
viola principi fondanti del nuovo Trattato». Veto probabile al vertice di
Lisbona fra due settimane, insomma.
Conseguenze. Già li sento i grilli e le cicale gridare
"tanto peggio tanto meglio". Il terreno è fertile per le
Cassandre, ma il gioco al massacro è, per definizione, massacrante e non
salva nessuno. La credibilità del paese si scioglie e sparisce come
le più classiche delle "lacrime nella pioggia". E quelli
che credono che bisognerebbe essere seri, costruttivi, motivati, solidi,
restano soli a guardare il rivolo della credibilità che scorre via
rapidamente.
Un'idea per darci un senso e farci sentire?
Il
titolo della notizia, rivelata ieri da Luigi Ferrarella sul “Corriere della
Sera”, potrebbe essere questo: «Come vendere la Giustizia per decenni e vivere
felici». Almeno per quanto riguarda Renato Squillante, già vicecapo
dell’Ufficio Istruzione di Roma, già capo dei Gip capitolini, già
consulente giuridico di Craxi a Palazzo Chigi e di Cossiga al Quirinale, amico
della famiglia Berlusconi, candidato al Senato per Forza Italia nel ’96
(candidatura poi tramontata causa manette): il giudice che nel ’96 teneva in
Svizzera un tesoretto di 9 miliardi di lire e disse, respingendo le accuse di
corruzione, di averli guadagnati con l’insider trading e l’evasione fiscale,
che come alibi non era niente male.
Ora Squillante è uscito indenne anche dall’ultimo processo aperto a suo
carico. Non perché innocente, anzi: le prove della sua stabile corruzione da
parte degli avvocati Fininvest Cesare Previti e Attilio Pacifico ci sono
eccome. Ma riguardano fatti commessi fino al 1991, dunque sono cadute in prescrizione.
L’ha stabilito il gip di Perugia, Claudio Matteini, che ha accolto la richiesta
di archiviazione avanzata dai pm Miriano, Comodi e Paci per il processo
Sme-Ariosto, trasferito un anno fa dalla Cassazione nel capoluogo umbro a un
passo dalla sentenza definitiva: «Un’archiviazione nel merito non è
possibile, stanti i numerosi, precisi, riscontrati e incontrovertibili elementi
di prova raccolti nel corso delle indagini a carico degli indagati». Dunque
«non può farsi altro che constatare l’intervenuta prescrizione di tutti
i reati contestati». Cosa che non sarebbe avvenuta se la Cassazione, il 30
novembre 2006, non si fosse spogliata del processo inventandosi in zona
Cesarini una competenza perugina, ma avesse invece confermato le condanne
d’appello per Squillante (7 anni), Previti e Pacifico (5 anni a testa).
Un anno fa, infatti, i reati non erano ancora prescritti: la ex-Cirielli non
funziona per i processi in dibattimento. Ora invece lo sono, anche perché,
retrocedendo il fascicolo all’udienza preliminare, si «aggancia» la ex-Cirielli
che dimezza i termini di prescrizione: così il reato è estinto
dal 2002.
Risultato: Previti e Pacifico evitano di tornare ai domiciliari per 5 anni (il
bonus-indulto se lo son già giocato per la condanna Imi-Sir), ma
soprattutto Squillante la fa franca da tutto. Nel processo Imi-Sir era accusato
di corruzione giudiziaria per aver incassato 133 milioni di lire nel ’91 dalla
famiglia Rovelli in cambio dell’«avvicinamento» di un giudice della Cassazione
che doveva decidere sulla causa: ma la Suprema Corte lo mandò assolto,
riconoscendo che i soldi e il fatto erano dimostrati, ma stabilendo che per la
legge italiana il «traffico di influenza» non è reato. Qui invece,
secondo il gip di Perugia, «nessun dubbio vi può essere sulla
qualificazione giuridica dei fatti»: cioè sulla corruzione del giudice
estero su estero con soldi Fininvest. Senza la prescrizione, sarebbe stata
condanna sicura.
La «prova regina» del mercimonio è il famoso bonifico del 5 marzo 1991,
quando in poche ore 434.404 dollari provenienti dal conto svizzero Ferrido
(alimentato dal patrimonio personale di Berlusconi) transitarono sul conto
Mercier di Previti e di lì al conto Rowena di Squillante. Poi c’è
la testimonianza di Stefania Ariosto, che giura di aver visto alla fine degli
anni 80 almeno due passaggi diretti di denaro da Previti e Squillante: il primo
al circolo Canottieri Lazio, quando Previti inseguì l’amico giudice con
un pacco di banconote gridando «A Rena’, te stai a dimentica’ a bbusta!»; il
secondo a casa Previti, quando notò da una porta socchiusa il padrone di
casa e il magistrato che maneggiavano mazzette di contanti su un tavolino.
Soldi che, secondo l’Ariosto, Previti vantava di ricevere dalla Fininvest per
foraggiare una «lobby di magistrati» al servizio del Biscione e di Craxi.
Anche i versamenti cash, secondo il gip, sono provati: «È stato
documentalmente ricostruito il percorso del denaro giunto poi su conti esteri
riferibili a Squillante e inoltre sono state accertate e verificate le erogazioni
in denaro contante da Previti a Squillante». Ricorda il giudice che è
stata la Cassazione, nella sconcertante sentenza sull’incompetenza di Milano a
favore di Perugia, a «individuare in Roma il luogo delle dazioni di denaro e
indicarle componenti essenziali della “reiterazione” remunerativa a favore del
magistrato considerato “a libro paga” (della Fininvest, ndr),
con ciò avvalorando e ritenendo credibile Stefania Ariosto, testimone
oculare di tali pagamenti».
Chi s’è perso nella giungla di 12 anni di indagini e processi, leggi ad
personam, ispezioni, ricusazioni, richieste di rimessione e di incompetenza,
denunce penali contro i pm e i giudici, domanderà: e Berlusconi? Se per
la sentenza comprata da Previti con soldi suoi per arraffare la Mondadori l’ha
sfangata per prescrizione, al processo Sme-Ariosto il fortunato Cavaliere
è stato processato separatamente dopo lo "stralcio" del 2003 e
addirittura assolto in appello, sia pur in base alla vecchia insufficienza di
prove (comma 2 art. 530 Cpp). Ma la sentenza fa acqua: quanto al bonifico
svizzero, si ritiene improbabile che Berlusconi pagasse i giudici con bonifici
anziché con versamenti cash; quanto ai versamenti cash di Previti a Squillante,
si ritiene improbabile che Previti pagasse i giudici con versamenti cash
anziché con bonifici in Svizzera. Visto che sono provati sia il bonifico sia i
versamenti, è come dire che la corruzione esiste solo quando non viene
scoperta; ma se non viene scoperta, non è mai punibile. La Cassazione
esaminerà il ricorso del Pg De Petris a novembre. Se questa
scombicchierata assoluzione fosse annullata, non ci sarebbe comunque il tempo
per celebrare un nuovo appello prima della prescrizione. Ma almeno si
cancellerebbe una macchia nera dalla Giustizia italiana.
Il Giornale 2-10-2007 La tassa dell’autogol di Michele Brambilla -
Il Riformista 3-10-2007 Ma quali eroi
civili, nelle nostre università regna l’omertà.
L’Unità 2-10-2007 Il silenzio dopo Grillo Giuseppe Tamburrano
L’Unità 2-10-2007 Se paga il
Contribuente Silvano Andriani
ROMA
- Oggi il "caso Visco" al Senato dovrebbe finire com'è finito
ieri il "caso Unipol" alla Camera, cioè senza sorprese.
"D'altronde - come spiegherà in Aula il capogruppo di An Matteoli -
non è dal voto sul viceministro dell'Economia che dipendono le sorti di
Prodi". Perciò, anche nella remota ipotesi che palazzo Madama
"sfiduciasse" il potente braccio destro di Padoa-Schioppa, politicamente
non accadrebbe nulla. Le due vicende rischiano tuttavia di avere un impatto mediatico
devastante nell'Unione, potrebbero incrinare ancor di più il rapporto
già deteriorato tra la maggioranza e l'opinione pubblica. Non a caso il
centrodestra aveva chiesto la diretta tv per il dibattito odierno al Senato,
sentendosi opporre il "no" di Marini. è vero che il ciclone
dell'antipolitica si sta abbattendo su tutto il Palazzo, ma - sondaggi
alla mano - è la maggioranza a soffrirne in modo particolare. Il clima
è così pesante che i rappresentanti dell'Unione lo avvertono
fuori dal Parlamento, "ed è un'atmosfera che non si respirava
nemmeno nel '92", secondo Caldarola: "Da anni prendo l'autobus per
tornare a casa - racconta il deputato dei Ds - e su quella linea alla fine ci
conosciamo tutti. Ma giorni fa ho assistito a una discussione accesa. Sono
state usate parole pesanti, specie verso i presidenti delle Camere. No, contro
Prodi no, ormai non lo considerano più... Ma contro Marini e Bertinotti
il linguaggio era violento. A un certo punto mi sono sentito come un
repubblichino dopo il 25 luglio. Impressionante". Caldarola sostiene che
questa "esperienza" lo accomuna a molti altri suoi colleghi:
"Alcuni sono stati fermati appena fuori da Montecitorio e si sono sentiti
chiedere se erano deputati. Per paura della reazione hanno negato, dicendo che
erano solo dei dipendenti della Camera". E l'invettiva non si ferma ai
parlamentari, se è vero che il deputato ulivista Volpini tempo addietro
ha assistito "impotente" per strada a "un'aggressione verbale di
un energumeno " contro la moglie, "colpevole di avere il permesso
auto per il centro storico". Sono solo alcuni casi di un fenomeno che si
sta riflettendo sui comportamenti dei politici e sulle loro scelte. "Il
guaio però - chiosa Caldarola - è che il clima da elezioni
anticipate finisce per far litigare la maggioranza, perché ormai ognuno parla
ai propri elettori". Così il "caso Visco" e il "caso
Unipol" vengono sfruttati da alcune forze della maggioranza nel tentativo
di lucrare consensi a danno del Partito democratico. La polemica tra Bertinotti
e Prodi sui costi della politica è frutto anche di questa
particolare "competition ", lo si capisce dal modo in cui il
capogruppo del Prc, Migliore, censura l'atteggiamento di palazzo Chigi:
"Un conto è lavorare insieme per risolvere un problema, altra cosa
è fare i primi della classe". Ormai non si contano le querelle che
stanno alimentando un clima di reciproci sospetti nell'Unione. Mastella si
è convinto, per esempio, che "la storia dell'aereo di Stato doveva
servire a farmi dimettere". Di Pietro non perde occasione per pressare
Prodi, e per fargli capire che non scherza ha disertato la riunione del Cipe
dopo la Finanziaria. E proprio sulla manovra economica rischia di esplodere
un'altra mina. Stavolta non c'entra il protocollo sul Welfare, né c'entrano le manovre
di Berlusconi. La miccia a fuoco lento si è accesa sull'articolo 14
della Finanziaria, là dove il governo ha previsto di tagliare i costi
della politica riducendo il numero di consiglieri nelle amministrazioni
locali. La norma faceva già parte del ddl messo a punto dal ministro
Santagata, ma era stata bocciata in gran segreto dalla quasi totalità
dei partiti del centrosinistra. Ora che è riapparsa nel testo
della manovra, apriti cielo: Rifondazione, i Verdi, il Pdci, l'Udeur, sono
pronti a dar battaglia. Non è una questione di poco conto, pare anzi che
l'articolo 14 sia una delle ragioni che hanno spinto Bertinotti all'affondo
contro Prodi. "Ridurre i costi della politica - avvisa Migliore -
non vuol dire ridurre la democrazia. Il governo elimini gli enti inutili, le
consulenze, invece di tagliare il numero dei consiglieri. Perché questo non
è un privilegio, così si lede il diritto alla rappresentanza
". Il sospetto è che la norma nasconda, dietro obiettivi di
risanamento economico, intenti politici. E il capogruppo dei Verdi, svela il
"diabolico meccanismo": "Riducendo il numero dei consiglieri nel
modo previsto dalla manovra, si introduce surrettiziamente uno sbarramento
elettorale altissimo, intorno al 12%. Questa - denuncia Bonelli - è una
strategia pianificata dal Partito democratico per cancellare le altre forze.
Non è la solita polemica dei partitini, perché anche il Prc, la
Lega, l'Udc, persino An potrebbero in alcuni casi venire estromessi dalle
amministrazioni locali. Altro che riduzione dei costi della politica,
siamo al rastrellamento. Non ci stiamo". E meno male che i pericoli per
Prodi vengono solo da Dini.
ROMA - Un governo con diciassette ministri e un
massimo di 62 persone tra sottosegretari e viceministri. Riduzione dei rimborsi
elettorali, snellimento della Presidenza del Consiglio "ridotta" a
staff di supporto, blocco degli automatismi negli stipendi dei parlamentari e
taglio del 30 per cento degli stipendi dei ministri. E così via per 32
articoli suddivisi in due grandi capitoli, il primo riduce la spesa degli
organi istituzionali e dei rimborsi elettorali; il secondo interviene sulla
trasparenza delle attività di rappresentanza politica, sindacale e di
relazione istituzionale. Il risparmio stimato non è tantissimo - circa
600 milioni di euro - ma è all'incirca un ottavo del costo totale della
politica (circa 4 miliardi euro). Soprattutto dietro le norme c'è
un'impostazione diversa della cosa pubblica e i partiti tornerebbero ad essere
"socialmente utili e non solo privatamente interessati".
Maggioranza ed opposizione insieme per ridurre i costi della politica, il
leader dell'Italia dei valori Antonio Di Pietro e il presidente di Alleanza
Nazionale Gianfranco Fini, Gianni Alemanno e Antonio Bonfiglio (An) e Silvana
Mura (Idv) seduti allo stesso tavolo in una saletta dell'hotel Nazionale in
piazza di Montecitorio a spiegare il loro comune disegno di legge. A vederli
così potrebbero sembrare le prove generali del dopo crisi di governo. A
sentirli parlare, la loro è invece e solo coscienza e
responsabilità istituzionale. "Se non facciamo qualcosa di
concreto, omogeneo e credibile adesso, il prima possibile, rischiamo di
celebrare il funerale della democrazia" dice Fini, e non per andare dietro
a un comico (Beppe Grillo, ndr.), "ma perché basta andare in
autobus o a fare la spesa per capire che la credibilità della politica
non è mai stata così in basso e l'ostilità così in
alto". Di Pietro la dice a modo suo: "Siccome stanno spuntando
disegni di legge da tutte le parti, ognuno fa la gara a presentare il suo (vedi
il battibecco ieri tra palazzo Chigi e Bertinotti ndr) e poi però
nessuno decolla veramente, ne facciamo uno tutti insieme, maggioranza ed
opposizione, e così vediamo chi ci fa e chi ci marcia". Tradotto:
chi fa solo della propaganda e chi invece lo vuole davvero.
Di Pietro e il "coraggio" di Prodi - Si era creata molta attesa per
questa iniziativa comune Idv-An. Non che sia la primissima volta - stavano
dalla stessa parte della barricata anche per i referendum di modifica della
legge elettorale - ma di sicuro oggi fa ancora più effetto con i rumors
di crisi e gli occhi puntati proprio sull'agitazione dei centristi, da Di
Pietro a Mastella passando per Dini. Di Pietro chiarisce che lui "non
farà il cavallo di Troia per l'opposizione" e che finché ci sono i
numeri lui è fedele. Certo tra le proposte del disegno di legge
c'è la riduzione dei ministri. E allora che fa Di Dietro, si dimette e
lascia il suo dicastero per coerenza con la necessità di tagliare i
costi? "L'Italia dei valori chiede di ristrutturare, di tagliare 6-7
ministeri e si mette a disposizione. Deve decidere Prodi, se ne ha coraggio. Io
avrei già deciso". Per ulteriore chiarezza su chi-sta-con-chi, Fini
alla fine saluta così: "Adesso io vado a cercare di far cadere Pro!
di; Di Pietro va a dargli una mano per stare su".
Governo snello, da un minimo di
La dieta degli enti locali: nuove Province solo se "finanziate"
dai cittadini. Oltre alla riduzione del numero degli assessori e dei
consiglieri comunali e provinciali, il ddl prevede il taglio del 15 % delle
indennità di funzione dei presidenti dei consigli circoscrizionali, dei
sindaci con meno di 30 mila abitanti e dei presidenti delle Province. Vietato
il cumulo di incarichi e rimborsi spese solo se documentati. Vietati anche gli
incarichi dirigenziali a persone esterne alla pubblica amministrazione. Poiché
non si possono sopprimere le Province con legge ordinaria, la proposta è
quella di bloccare la nascita di nuove "subordinandone l'istituzione e la
gestione al finanziamento dei cittadini residenti".
Abolizione delle Comunità montane e dei consigli di amministrazione.
E' la fine di gettoni di presenza, tripli e quadrupli stipendi per gli
amministratori e degli enti inutili. Le Comunità montane vengono
"soppresse"; i consigli di amministrazione delle società a
totale partecipazione pubblica "sostituti con un amministratore
unico"; diventano al massimo tre "i consiglieri nelle società
a capitale prevalentemente pubblico.
I partiti ai cittadini. Una parte del disegno di legge An-Idv introduce
una serie di norme per rendere più trasparenti partiti e sindacati. Non
esattamente un risparmio quindi, ma un'operazione per ridurre la distanza tra
politica e società. Ad esempio i partiti subiranno un taglio del 50 per
cento dei rimborsi elettorali "se non sceglieranno una parte dei candidati
con elezioni primarie".
(3 ottobre 2007)
Roma. “Walter Veltroni dimostra di non avere la
minima cultura dell’innovazione e del cambiamento – dice Piero Ostellino – e
nessuna cultura liberale”. Al candidato segretario del Partito democratico
Ostellino rimprovera di avere raccolto domenica l’appello di diversi
intellettuali, assicurando loro che “il Pd farà scudo alla
Costituzione”. Nell’appello firmato tra gli altri da Giuliano Amato, Franco
Bassanini e Oscar Luigi Scalfaro a “mettere in sicurezza” la Carta
costituzionale, semmai, l’editorialista del Corriere della Sera vede “una
ragione di più per cambiarla”.
Giorgio Tonini, senatore dei Ds tra i più vicini a Veltroni, osserva
però che nella sua lettera a Repubblica il candidato alla guida del
Partito democratico è stato chiaro. “Occorre difendere la prima parte
della Costituzione – riassume Tonini – quella che contiene i principi
fondamentali, ma per quanto riguarda forma di governo, bicameralismo,
federalismo, le riforme ci vogliono eccome”. Una chiarezza che non persuade
Ostellino, convinto che sia proprio la prima parte della Costituzione quella
che più di ogni altra dovrebbe essere cambiata. D’altronde, la chiarezza
della posizione ricordata da Tonini non esclude un’ambiguità di fondo,
che non riguarda semplicemente il tema delle eventuali riforme istituzionali,
ma investe innanzi tutto la cultura politica del nuovo partito che dalla scontata
incoronazione di Veltroni, il 14 ottobre, dovrebbe finalmente prendere forma.
Il problema più generale è quello ammesso implicitamente da
Stefano Ceccanti, costituzionalista, diessino anche lui e anche lui molto
vicino al sindaco (in un collegio della capitale è il primo candidato
della lista “Veltroni
Così il nuovo partito nasce vecchio
“E’ evidente che il Partito democratico non sarà nemmeno lontanamente
liberale – è la conclusione di Ostellino – perché una Costituzione che
rispetti i diritti individuali è il minimo che si può chiedere a
un paese civile”. Mentre è proprio la prima parte della Costituzione a
essere la base di una “cultura politica dirigista, un incrocio tra soviettismo
e dossettismo profondamente illiberale, che ignora i diritti del cittadino in
nome di astrazioni collettiviste che si potranno anche giustificare sul piano
storico, ma che oggi sono assolutamente indifendibili”. Inutile aggiungere che
nel centrosinistra nessuno, nemmeno i riformisti più intransigenti,
metterebbe mai in discussione la prima parte della Costituzione. E poi, osserva
Tonini, per quanto riguarda i principi fondamentali, “la Costituzione è
quella che la storia ci ha consegnato, quella del ’48 e dei partiti della
Resistenza, ed è giusto che resti così”. Un po’ come la bandiera
o l’inno nazionale. Resta il problema dell’innovazione istituzionale. Per
Ceccanti è evidente che “un nuovo partito non può oggi non porsi
questo come il primo problema, dinanzi al moltiplicarsi dei poteri di veto”.
Dunque la richiesta di rendere ancora più stringente l’articolo 138,
contenuta nell’appello dei giuristi, va accolta come “completamento di una
riforma coerente con il maggioritario, da fare assieme maggioranza e
opposizione, non come un freno”. Una riforma che proprio quei moltiplicati
poteri di veto, però, rendono assai improbabile. E che l’enfasi sul Pd
come “baluardo” della Costituzione, da parte di Veltroni, rendono forse
addirittura inverosimile.
Ci sono provvedimenti della pubblica
amministrazione inutili, altri ingiusti, altri dannosi. Quello con cui il
Comune di Milano costringe gli automobilisti a pagare per entrare in centro
riesce purtroppo a sommare le tre sciagurate caratteristiche: è inutile,
è ingiusto, è dannoso. Vediamo perché.
Il ticket è inutile perché non abbatterà neppure di uno zero
virgola l’inquinamento, e siccome è stato concepito proprio per rendere
l’aria più respirabile, basterebbe questa considerazione per chiudere il
discorso.
Sul fatto che lo smog non calerà non ci sono dubbi per almeno tre buoni
motivi. 1) A causa della provvidenziale opposizione di gran parte dei partiti
(soprattutto dello stesso centrodestra), il provvedimento è stato via
via limato fino a riguardare soltanto alcuni tipi di auto e solo la parte
più centrale della città. 2) Sempre a causa di queste
opposizioni, il costo dell’abbonamento per ciascun automobilista è sceso
rispetto all’iniziale stangata prevista. Siamo arrivati infine a tre scaglioni:
da 100, 200 e 500 euro all’anno. Ora, basta saper usare una calcolatrice per
rendersi conto che con questi ticket entrare in centro costerà da un
minimo di 38 centesimi a un massimo di 1,91 euro al giorno, quindi sempre e
comunque meno di quanto costino i mezzi pubblici. È vero che adesso non
si paga nulla, ma se il ticket doveva essere un incentivo per passare dall’auto
al bus o al metrò, è un incentivo che non incentiva. 3) Anche se
fosse stato disgraziatamente esteso a più automobili e a un’area
più vasta, il ticket non avrebbe ripulito l’aria per il semplice motivo
che come tutti sanno l’inquinamento è dovuto in parte debordante agli
impianti di riscaldamento, utilizzati in modo scellerato senza che siano puniti
gli eccessi (nessuno a Milano mette più un maglione di lana o una giacca
in casa e in ufficio: ma è così indispensabile stare in maniche
di camicia anche d’inverno?). La prova provata che non sono le auto a inquinare
sta in un fatto tanto semplice quanto di un’evidenza solare: d’estate, quando i
riscaldamenti sono spenti, le polveri sottili crollano.
E veniamo a spiegare perché il ticket oltre che
inutile è ingiusto.
Qui le motivazioni sono due. 1) Visto che sarà in vigore solo dal
lunedì al venerdì e solo dalle 7 alle 19, il provvedimento
colpirà esclusivamente chi entra a Milano per lavorare. Il ticket
sarà dunque una poco simpatica (diciamo così) tassa sul lavoro,
con l’aggravante di essere ancor più gravosa per coloro che hanno
automobili più vecchie. E quindi, presumibilmente, per i più
poveri. 2) Il ticket è ingiusto perché una pubblica amministrazione non
può indurre i cittadini a preferire i mezzi pubblici all’automobile
quando i mezzi pubblici non ci sono. E sul fatto che non ci siano, non
v’è dubbio. I mezzi pubblici ci sono solo per chi gira in città,
non per chi viene da fuori. Tanto per dirne una: Monza, che è la terza
città della Lombardia con 130.000 abitanti e che dista da Milano non
più di quattro-cinque chilometri da confine a confine, non ha la
metropolitana. E come non ce l’ha Monza, non ce l’hanno di conseguenza anche le
centinaia di migliaia di persone che vengono da Nord, vale a dire dalla
Brianza, dal Lecchese, dal Comasco: stiamo parlando di aree fra le più
produttive del Paese. Ci sono i treni, è vero: ma già stracolmi,
con i disagi che sappiamo e limitatissimi negli orari per il ritorno. Per
chiedere di lasciare l’auto nel box di casa ci vorrebbe una metropolitana come
quella di Londra, a sproposito invocata più volte come pietra di
paragone da chi ha voluto il ticket. Ci vorrebbe, ma non c’è. E non ci sarà
per almeno questa generazione.
Infine, il provvedimento è dannoso perché introduce due concetti gravidi
di nefaste conseguenze. Primo: chi ha voluto il ticket si è detto mosso
dal nobile principio di voler combattere l’inquinamento, ma di fatto ha
stabilito che, pagando, inquinare è lecito. Secondo: il rischio di un
effetto-domino è altissimo. Perché Bergamo non dovrebbe far pagare chi
ci va in auto per farsi un giro sul Sentierone o a città alta? E perché
Monza non dovrebbe far pagare chi va al parco? E Como chi va al lago? Passasse
questo principio del ticket d’ingresso, tutti o quasi i comuni italiani
troverebbero un valido motivo per farlo pagare. E chi si trovasse
malauguratamente a girare più città nello stesso giorno, magari
perché fa il rappresentante, dovrebbe chiedere un mutuo per circolare.
Abbiamo lasciato perdere la politica e ci siamo
limitati a considerazioni pratiche, che poi sono le più importanti
perché toccano la vita quotidiana della gente. Ma siccome anche la politica in
questa faccenda ha un suo peso, ci chiediamo: ma non è un autogol
introdurre una nuova tassa proprio nel momento in cui il centrodestra contesta
a Prodi di averci tartassati? Questa è la prima domanda. La seconda
è: signor sindaco Moratti, lei sa che noi abbiamo grande stima di lei, ma
non sarebbe meglio lasciar perdere?
Michele Brambilla
Cara Europa, lunedì mattina a “Prima
pagina”, la rassegna stampa che va in onda su Radiotre, un’ascoltatrice ha
telefonato, contestando alla polizia che tre visitatori “dell’est” erano
entrati nella sua casa, che lei ne aveva informato il 113 che le aveva risposto
di non avere né macchine né uomini per intervenire e l’aveva liquidata
consigliandole, semmai, di fare una denuncia l’indomani.
È così che le forze dell’ordine proteggono i cittadini in
democrazia?
LEO PANEBIANCHI, FORLÌ
Solitamente no, caro Panebianchi, e la sua
lettera mi dice che lei sospetti disaffezione delle polizie per gli istituti
democratici e disinteresse di questi istituti per i cittadini italiani,
sacrificati ai miti correnti dell’universalismo, della fratellanza,
dell’accoglienza di tutti, delle frontiere aperte. Chi è nato, come me,
nella società delle frontiere chiuse (per trasferirsi da Campobasso a
Roma occorreva il “passaporto interno”, ancora per vari anni dopo la caduta del
fascismo) è naturalmente favorevole alle frontiere aperte. E tutta la
giovinezza della mia generazione è stata pervasa dagli ideali
dell’Unione europea: quella dei sei paesi fondatori, Italia, Francia, Germania,
Belgio, Olanda e Lussemburgo, e del progressivo allargamento ad altri paesi di
eguale storia e cultura: Austria, Boemia, Ungheria, Spagna, Portogallo,
Inghilterra, Irlanda, Grecia, Danimarca, paesi nordici. «Questa era l’Europa
dei nostri sogni e desideri: non avevamo mai pensato a un’Europa dei 27, estesa
fino alle frontiere della Russia, che può diventare Europa dei 28 con la
Turchia e dei 29 con l’Ucraina: paesi che, come tanti altri imbarcati nei 27,
vengono in Europa non per crescere insieme a noi in una cultura comune, ma per
sfuggire a difficili situazioni coi loro attuali confinanti e per portare in
Europa usi e costumi che con l’Europa non hanno niente a che fare: dal velo
islamico (caro Amato, le nostre monache portano il velo, ma sono appunto
monache) al randagismo, eufemisticamente chiamato nomadismo.
Il nostro decoro europeo e la sicurezza dei nostri concittadini sono crollati
da quando la malavita e la diseducazione orientali si sono aggiunti alla
diseducazione e alla malavita di larghe regioni del nostro paese. Ora gli
italiani si ribellano e i leader della sinistra moderata – Veltroni, Rutelli,
Amato, Cofferati, per citare – ne danno l’allarme ai dormienti e chiedono cose
diverse ma convergenti: potere di espulsione ai prefetti, più poteri di
polizia ai sindaci. Il fatto che Cofferati abbia dovuto prendere le distanze
dal questore di Bologna per il mancato intervento della polizia contro una
manifestazione sediziosa, la dice lunga: la destra soffia contro il lassismo
del centrosinistra, le polizie si rifiutano di intervenire (si tratti di
Bologna o del 113) sia per effettiva mancanza di mezzi sia per dimostrare ai
cittadini che con governi di centrosinistra la loro sicurezza sarà
sempre a rischio.
Bellissimo l’articolo di Amato sul Messaggero, “Difendere i cittadini ed
evitare la crescita della tigre dell’intolleranza”.
Perciò aspettiamo di leggere i dati definitivi della Finanziaria.
Il mio articolo di lunedì
sull’università che produce studenti rassegnati e passivi mi è
valso l’accusa di sparare nel mucchio. Dopo il piccolo florilegio di commenti
pubblicati sul Riformista di ieri, sento il bisogno di fare una pubblica
confessione. È vero, lo ammetto: l’accusa coglie perfettamente nel
segno; quando si parla dell’università italiana, il mio primo istinto
è quello di mettere mano al kalashnikov, senza andare troppo per il
sottile. Il professor Dimitri della Sapienza mi ricorda che «in molti atenei
vivono e lavorano anche molti professori e ricercatori appassionati e
sottopagati, veri eroi civili che dalla mattina alla sera, con competenza e
dedizione tirano la carretta, portando avanti didattica e ricerca con ottimi
risultati». A me, però, questa storia degli “eroi civili” che tirano la
carretta nonostante le avversità non ha mai convinto. Lo so anch’io che,
nelle nostre università ci sono persone di indiscutibile valore. Ci
mancherebbe pure che in una comunità che riunisce centinaia di migliaia
di persone non ce ne fossero. Il problema, però, è che non fanno
massa critica.
Il vero dramma non è che un polemista della domenica spari nel mucchio
senza fare distinzioni. Il dramma è che non le faccia
l’università, trattando tutti allo stesso modo: luminari e lavativi,
“eroi civili” e orrendi cialtroni. Sono anni che ministri di ogni colore
tentano di inserire elementi di meritocrazia nell’università, senza
alcun successo. Il sistema di valutazione introdotto dalla Moratti avrà
pure i suoi difetti. Ma affondarlo tout court, ripristinando la tradizionale
irresponsabilità dei professori, non ha certo risolto il problema.
Per come la vedo io, i casi sono due. O gli “eroi civili” sono una maggioranza
silenziosa che, da anni, è ostaggio di una banda di facinorosi che
rifiutano pervicacemente ogni forma di meritocrazia. Oppure, e mi sembra
l’ipotesi più probabile, gli “eroi civili” sono una minoranza che cerca
di arrabattarsi nel mezzo di un oceano di de-responsabilizzazione. In entrambi
i casi, a prevalere è l’omertà. Altro che “eroi civili”! Nella
migliore delle ipotesi, i meritevoli dell’università sono gente che si
fa gli affari propri. Se fossero tanto eroici, non si accontenterebbero di
rintanarsi nelle loro nicchie di eccellenza: porterebbero avanti una vera
battaglia politica per il riconoscimento del merito nell’insieme del sistema
universitario. Sfrutterebbero la loro posizione per denunciare i colleghi
fannulloni, per spingere gli studenti a rivendicare i loro diritti, per
scatenare una vera guerra contro la corruzione, il nepotismo e l’ignavia che li
circondano.
E invece no. Per amor di quiete o per timidezza, gli “eroi civili” se ne stanno
in disparte: vivono e lasciano vivere. In un sistema basato sulla cooptazione,
nessuno vuole farsi la fama del rompiballe. A invocare la meritocrazia restano
così i soliti quattro editorialisti dei giornali. Dall’accademia, invece,
non è mai venuto un vero, serio slancio riformista. Qualche convegno,
qualche timida ricerca comparativa e nulla più. I tentativi di riforma
sono sempre arrivati dall’esterno e si sono sempre infranti contro un muro di
gomma. In queste condizioni, più che di eroi civili, forse, si dovrebbe
parlare di militi ignoti.
Giuliano da Empoli
03/10/2007
Si
sta esaurendo il fenomeno Grillo? Apparentemente sì: certo, se ne parla
di meno. Io sarei però cauto nei giudizi. Dopo l’esplosione sui mass-media
e nel dibattito politico era inevitabile che il polverone si posasse. Ma le
cose non sono cambiate. Voglio dire che il successo del comico è dovuto
al fatto che egli interpreta uno stato d’animo della pubblica opinione,
è la spia di un forte malessere, è il sismografo di un moto
tellurico della società italiana e può diventare un «detonatore»,
come egli si è definito. Perciò discutere di Grillo è
discutere di tale malessere, dei suoi aspetti, delle cause, dei rimedi.
Vi è una forte protesta per le condizioni sociali in cui vivono vasti
strati di ceto basso e medio. Vi è la rivolta contro gli sperperi e gli
abusi della «casta» che è tanto più aspra a ragione
dell’immobilismo dei partiti; vi è infine la critica dei cittadini del
centro-sinistra per l’incapacità del governo, paralizzato dalle
divisioni, di dare attuazione al suo programma.
Grillo ha drammatizzato e spettacolarizzato questa situazione rivelata dalle
folle che lo acclamavano, ma anche dai sondaggi che rivelano lo scollamento tra
opinione pubblica e partiti e spostamenti significativi nelle preferenze del
voto a favore della destra e ancor più significativi aumenti delle
propensioni all’astensione. Mi pare che anche questo giornale abbia colto il
processo con i risultati del suo recente appello ai lettori.
Visto in questa luce il caso Grillo è cosa molto seria. Non per nulla il
paragone con il primo fascismo ricorre sempre più spesso. Certo la
storia non si ripete, e nessuno può prevedere il futuro; ma è
certo che Grillo tornerà a fare il mestiere di comico se e quando la
politica - e soprattutto quella di centro-sinistra - tornerà a fare il
suo dovere. Altrimenti la protesta degli shows si consoliderà in
iniziative politiche come le «liste civiche».
In proposito, mi sembra molto pericolosa l’alleanza tra demagogia e
«legalità», tra Grillo che arringa le folle e Di Pietro che lo
sponsorizza con il suo giustizialismo. I partiti presi di mira, e specie quelli
di centro-sinistra che hanno la responsabilità del governo, debbono
reagire e presto: il fattore tempo è importante allo scopo di evitare
che la situazione si incancrenisca e la protesta esca fuori dei confini della
democrazia.
Molta fiducia si nutre nel Partito democratico ed in particolare in Veltroni.
Ma il modo col quale si costruisce il nuovo partito è ancora deludente:
tuttora non si sa qual è il suo progetto, la sua identità. E non
si sa nulla sulla sua struttura, la forma-partito: ad esempio, saranno ammesse
le correnti? Leggo risposte negative di Bettini. E che, si torna al «centralismo
democratico» del Pci? Ve la immaginate Rosy Bindi che non fa una corrente?
Le attese per la leadership di Veltroni sono grandi, ma il suo cammino è
difficile e lungo. Sostiene il governo Prodi - e non potrebbe fare
diversamente. Ma fin quando Prodi resta in sella la sua successione eventuale
(può vincere il centro-destra!) si proietta nel tempo fino al 2011: e in
questi anni il vuoto nel paese si può allargare. Farà in tempo
Veltroni a riempirlo? E come? Oppure il tempo lungo esaurirà le attese
«salvifiche» della sua leadership?
Veltroni sostiene che non si può tornare a votare con questa legge
elettorale. Si capisce perché: con questa legge si va al voto con le attuali
traballanti e paralizzanti alleanze e sicuramente vince Berlusconi. Ma come si cambia
la legge? Tutti i tentativi di concordare un nuovo testo con l’opposizione sono
andati a vuoto. Potrebbe farlo il centro-sinistra a maggioranza - come ha fatto
la destra - ma nel centro-sinistra non vi è accordo su questo tema.
Insomma non si muove nulla, nemmeno un rimpasto per la riduzione dei ministeri.
Ma questo irresponsabile immobilismi al vertice è un potente esplosivo
nella società. Ed è questo il vero caso.
P.S. Veltroni insiste su un aspetto del Pd. Riporto la frase da l'Unità
del 30 settembre ’07: «Quando mai è successo nella nostra
storia... che un partito nascesse non per scissione, non dopo una spaccatura,
ma per unione?... Il Pd nasce così!». Voglio correggere Veltroni non per
pignoleria di storico, ma per scaramanzia: i socialisti e i socialdemocratici
divisisi nel 1947 si sono riunificati nel 1966. Ma quell’unione è durata
poco.
La
Banca centrale statunitense (Fed) ha ridotto di ben 50 punti base i tassi
ufficiali e i mercati hanno esultato, ma se tale decisione sarà in grado
di evitare una crisi finanziaria e una recessione negli Usa è ancora da
vedere. Il complesso delle vicende innescate dalla crisi dei mutui
statunitensi, sino al cambiamento della politica monetaria, avvenuta a grande
richiesta dei mercati, merita ancora qualche riflessione. Nell’era della moneta
elettronica è sorprendente vedere code di risparmiatori all’addiaccio
per il timore di non potere riavere i propri denari dalla banca, cosa che a
Londra non si vedeva dal 1886. Non meno sorprendente il comportamento della la
banca centrale inglese.
La quale il 12 settembre aveva apertamente criticato gli interventi della Bce e
della Fed, considerandoli un salvataggio che avrebbe incentivato l’azzardo
degli speculatori, e solo tre giorni dopo è intervenuta platealmente nel
tentativo di salvare la Northern Rock dal fallimento. Ancor più
sorprendente che il governo inglese, quello che nel 1979 con la Thatcher ha
dato inizio all’era neo-liberista, abbia dichiarato di assumere il rischio di
tutti i risparmiatori sulle spalle dei contribuenti.
Non meno incoerente il comportamento della Fed: solo pochi giorni dopo aver
dichiarato di ritenere ancora l’inflazione il pericolo principale e di non
potere cambiare politica monetaria ha inondato di liquidità le banche e,
quel che è peggio, ha accettato a garanzia dei loro debiti proprio quei
titoli dai quali era scaturita la crisi; dopodiché ha ridotto prima il tasso di
sconto e poi il tasso di interesse ufficiale, cioè ha cambiato politica
monetaria.
Tutto ciò dovrebbe dirci qualcosa a proposito dei sistemi di regolazione
e della politica economica. La prima considerazione è praticamente una
constatazione: la capacità di previsione delle autorità di
controllo sulla finanza è quasi nulla: a pochi giorni dal terremoto
nessuna di esse ha avvertito la benché minima scossa. E questo già ci
dice qualcosa a proposito dell’attività di controllo.
Dopo le grandi crisi finanziarie degli anni 90, la fase di deregolazione dei
mercati, iniziata da Reagan e da Thatcher, si è esaurita ed è
iniziata una lunga fase di riregolazione che è passata attraverso alcune
tappe - Basilea I, Basilea II, Solvensy I, Solvensy II, Iass - Ora è
evidente che in questo corpo di regole si sono aperte della enormi falle. Fino
a ieri si riteneva che la nuova regolazione avesse rafforzato la
stabilità dei sistemi finanziari, anche se alcuni sostenevano che questo
non comportava inevitabilmente una maggiore stabilità dei mercati
finanziari. Oggi, con quello che sta avvenendo, la stabilità dei sistemi
finanziari e soprattutto di quelli bancari è di nuovo in discussione.
In linea generale si può dire che le nuove regole sono state elaborate
guardando alle grandi crisi finanziarie degli anni 90, mentre la realtà
dei mercati e dei sistemi finanziari, e quindi anche la natura delle crisi,
sono, negli ultimi dieci anni, sostanzialmente mutate. L’enorme trasferimento
di rischi realizzato da banche ed assicurazioni, anche in risposta alle nuove
regole, che tutti hanno salutato con soddisfazione, comporta anche che non si
sa più su quali titolari siano allocati i rischi e se essi siano in
grado di comprenderli e di gestirli adeguatamente. Inoltre la progressiva
sovrapposizione dell’attività delle banche, degli investitori
istituzionali e di nuovi soggetti finanziari marcatamente speculativi, tipo
hedge fund, fa sì che parte del trasferimento dei rischi avvenga fra
imprese finanziarie, essi restano perciò dentro il sistema finanziario,
ma collocati in buona misura fuori bilancio e quindi sottratti al controllo. Un
ripensamento delle regole del controllo si impone.
Se si considera la politica economica, vi è innanzitutto l’evidente
asimmetria della politica monetaria. Alla richiesta ripetuta nel corso degli
ultimi anni che la banca centrale intervenisse per frenare la formazione ormai
evidente di una bolla speculativa immobiliare, la Fed, ancora di recente, ha
risposto che non è suo compito influenzare i prezzi dei beni
patrimoniali. Senonchè, quando poi le bolle esplodono, gli interventi -
immissione massiccia di liquidità, accettazione a garanzia di titoli
spazzatura, riduzione dei tassi di sconto e di interesse - hanno come
finalità anche quella di impedire un eccessivo ribasso dei prezzi. Non
è vero dunque che le banche centrali si astengano dall’influenzare i
prezzi dei beni patrimoniali, è vero invece che si rifiutano di porre un
freno alla loro crescita quando si potrebbe impedire la formazione di una
bolla, ma intervengono pesantemente per impedire che scendano eccessivamente
quando la bolla esplode.
Vi è una seconda asimmetria. La politica monetaria ha assunto da tempo
come obbiettivo la lotta all’inflazione, la crescita cioè oltre certi
limiti dei prezzi dei beni prodotti correntemente. Questo in larga misura
significa impedire un aumento del costo del lavoro. La politica monetaria
dunque mentre interviene per porre un freno all’aumento delle retribuzioni,
opera invece per sostenere i prezzi dei beni patrimoniali e questo nonostante
che da un trentennio il valore di quei beni aumenta quasi dappertutto in misura
maggiore del prodotto lordo in corrispondenza con una crescita del peso della
rendita sul reddito nazionale.
Vi è poi il tema dei salvataggi. Da circa trenta anni, da che si
è affermato su scala mondiale il pensiero neo-liberista, i salvataggi
sono considerati tabù. Nessuno tuttavia protesta per i massicci
salvataggi operati a favore della finanza. Non è la prima volta. Se si
guarda al trentennio si possono ricordare il salvataggio dell’intero sistema
delle casse di risparmio statunitensi, quello di tutti i sistemi bancari dei
paesi scandinavi, quelli del sistema bancario giapponese e di quelli di
numerosi paesi dell’America Latina, per non parlare del salvataggio di singole
grandi istituzioni finanziarie, tipo Credit Lyonais. Questi salvataggi in
genere vengono considerati normali. Anche qui c’è un’evidente
asimmetria.
La giustificazione di questi salvataggi è che altrimenti si creerebbero
rischi per l’intero sistema economico nazionale o mondiale. Essi tuttavia
comportano una rilevante redistribuzione di reddito dalle tasche dei
contribuenti a quella di risparmiatori, incauti debitori, azionisti ed
investitori e speculatori. E poiché la ricchezza patrimoniale è
concentrata nelle mani dei più ricchi ancor più del reddito
nazionale anche questa redistribuzione gioca contro i meno abbienti. Anche di
questo si dovrebbe tenere conto per evitare che nel sistema finanziario gli
utili siano privati e le perdite collettive.
Questi temi, che attengono la natura profonda del capitalismo, la sua
evoluzione e le contraddizioni e le ingiustizie che esso genera dovrebbero far
parte di un discorso rivolto a definire un progetto di riforma del capitalismo
che non può essere pensato in una dimensione esclusivamente nazionale.
+
Il Sole 24 Ore 2-10-2007 Il deficit cala di 14,3 miliardi di Luigi Lazzi
Gazzini
Ma il titolo sale a Wall Street
L’Unità 1-10-2007 Invece della
guerra Furio Colombo
La
Finanziaria 2008 giunge al Senato col conforto di buone notizie dal fronte dei
conti pubblici. Il mese di settembre appena terminato ha messo a segno un
deficit di cassa di soli 5 miliardi, circa
Pur trattandosi del conto di cassa, diverso dunque da quello sottoposto ai
vincoli europei e per giunta relativo a un ambito più ristretto (settore
statale anziché pubbliche Amministrazioni), il saldo diffuso ieri dall'Economia
rappresenta per il 2007 la conferma di un andamento più positivo di ogni
previsione. E tale da rafforzare anche le stime relative al saldo di competenza
oggetto del trattato di Maastricht.
Ancora una volta, spiega l'Economia, il miglioramento del fabbisogno di
settembre è stato determinato dal buon andamento delle entrate fiscali,
oltre che da una dinamica dei pagamenti risultata contenuta in tutti i settori
della pubblica amministrazione. Ne è derivato un risparmio che ha
più che compensato il maggior onere per interessi sui titoli di Stato,
pari a circa 1,5 miliardi, connesso a una diversa distribuzione del pagamento
delle cedole in corso d'anno.
Come chiuderanno i conti del 2007? Sul saldo finale è previsto pesare il
decreto legge di luglio, che ha speso 6 miliardi tratti dal miglioramento dei
conti accertato a metà anno. E peserà anche il nuovo decreto
legge collegato alla Finanziaria 2008 che anticipa all'anno in corso alcune
spese che, altrimenti, sarebbero gravate sull'anno prossimo. Tuttavia, col
soccorso di un dicembre, e relativi incassi tributari, che si prospetta positivo,
i conti del 2007 sembrano in grado di assorbire buona parte di questi aggravi.
Ecco allora acquistare consistenza la stima di un disavanzo di competenza delle
Amministrazioni, questo sì soggetto ai vincoli europei, che la Nota di
aggiornamento del Dpef indica al 2,4% del Pil quest'anno, meglio del 2,5%
previsto dal Dpef di fine giugno, nonostante chea pesare sul disavanzo si sia
aggiunto il nuovo decreto. Senza il quale, il deficit di competenza 2007
secondo Maastricht sarebbe stato del solo 1,9% del Pil.
Ancora più impressionante il dato "tendenziale" che la Nota
attribuisce al 2008: senza la manovra appena giunta a Palazzo Madama, il
disavanzo sarebbe del solo 1,8% del Pil, meno di 30 miliardi. La scelta del
Governo è stata però, come già nel 2007, per un intervento
espansivo: a una manovra "netta" pari a zero corrisponde un
intervento che appesantisce il deficit di 0,4 punti di prodotto, portandolo al
2,2% del Pil.
Che significa? Che l'intero miglioramento spontaneo dei conti 2008 (6,4
miliardi) rispetto all'obiettivo stabilito per il saldo, finanzierà
minori entrate o maggiori spese. E che altri 4,6 miliardi, oggetto della
manovra, serviranno per raggiungere gli 11 circa dell'intervento 2008.
ROMA - "L'esecutivo è in ritardo rispetto a ciò che
ha già fatto la Camera dei deputati". Il presidente della Camera
Fausto Bertinotti commenta così la notizia dello stop, contenuta nell'articolo 8 della legge
Finanziaria, del taglio degli aumenti automatici per le
indennità parlamentari.
Una risposta chiara a chi gli chiede se se palazzo Chigi abbia voluto 'mettere
il cappello', con il via libera alla riduzione dei parlamentari. "Si
possono fare molte questioni di forma. Siccome io penso che anche alla Camera
sta lavorando a proposte di riduzione dei parlamentari, c'è sì
qualche propensione, diciamo così, a invasioni di campo, ma sono
questioni di carattere" spiega il presidente della Camera. Che aggiunge:
"'Ogni volta che si va nella direzione di una riduzione dei costi della
politica e' inutile propendere alla polemica".
Dalla prossima Finanziaria, dunque, gli stipendi dei parlamentari rimarranno
bloccati per 5 anni a partire dal 1° gennaio del 2008. E per lo stesso periodo
viene cancellato l'aggancio delle retribuzioni di deputati e senatori al 100
per cento di quelle dei magistrati. Stando così le cose a Palazzo Madama
l'ultimo scatto è stato già percepito dai Senatori prima
dell'estate, mentre la Camera resterà a bocca asciutta fino al 2012.
(2 ottobre 2007)
ROMA - Gli stipendi dei parlamentari rimarranno bloccati per 5 anni a
partire dal 1° gennaio del 2008. Lo prevede l'articolo 8 della Finanziaria che
inizia il suo iter al Senato: per il medesimo lasso temporale viene dunque
cancellato l'aggancio delle retribuzioni di deputati e senatori al 100 per
cento di quelle dei magistrati. Il capitolo "costi della politica"
entra così direttamente in Finanziaria, senza passare per un
provvedimento collegato. La tagliola per Palazzo Madama arriva in ritardo:
l'ultimo scatto è stato già percepito dai Senatori prima dell'estate,
mentre la Camera - che aveva congelato gli aumenti - resterà a bocca
asciutta fino al 2012.
Nel menù c'è anche l'intervento sulle Comunità montane:
non potranno essere costituite con meno di
Altre norme di contenimento di costi dell'amministrazione e, in qualche modo di
moralizzazione, riguardano gli stipendi dei dirigenti e dei manager dell'intera
pubblica amministrazione (dai ministeri, alle Regioni, agli enti pubblici
economici). L'articolo 91 della Finanziaria prevede infatti che gli stipendi di
questi dirigenti non possano essere superiori a quelli del primo presidente
della Corte di cassazione, cioè 274 mila euro. La norma è
particolarmente estesa: fino ad oggi valeva infatti il comma Salvi della
passata Finanziaria che metteva un tetto solo ai dirigenti dello Stato
provenienti dall'esterno, dal prossimo anno nelle maglie della norma finiranno
anche i capi della Polizia, dell'Arma dei carabinieri e tutte le alte cariche
dello Stato oltre ai manager delle "società totalmente o
prevalentemente partecipate" dalle amministrazioni pubbliche. Taglio del
20 per cento agli stipendi anche ai commissari straordinari di governo.
Tra le novità dell'ultima versione del testo figura anche la
possibilità per i giovani, di un'età compresa tra i 20 e i 30
anni, di usufruire di maggiori detrazioni fiscali sugli affitti, sempre che la
casa sia diversa dall'abitazione principale dei genitori. La nuova detrazione
varia dai 495,8 euro se il reddito complessivo supera 15.493,71 euro ma non
30.987,41 euro ai 991,6 euro se il reddito non supera i 15.493,71 euro. In
totale, secondo la Relazione tecnica alla Finanziaria, coloro che beneficeranno
dello sconto sugli affitti, tutte le età comprese, sono 3,1 milioni.
Spunta anche la detraibilità del 19 per cento delle spese, fino a 250
euro, per l'acquisto degli abbonamenti ai servizi di trasporto pubblico locale,
regionale ed interregionale. Per il 2008, ciò comporterà un minor
gettito per 93 milioni, che salirà a 163 milioni nel 2009.
(2 ottobre 2007)
NEW
YORK - La crisi dei mutui non sembra
archiviata. Anche se Alan Greenspan, l'ex timoniere della Federal Reserve,
intravede «segnali incoraggianti», Citigroup, il colosso finanziario leader al
mondo, ha lanciato un preoccupante allarme utili, annunciando di aspettarsi per
il terzo trimestre dell’anno un calo dei profitti del 60% circa su base
annuale. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Dow Jones, il gigante
dei servizi finanziari ha motivato la propria decisione con i problemi relativi
«ai titoli garantiti dai mutui», alle condizioni in cui versa il mercato del
credito e al «deterioramento delle condizioni del credito al consumo».
TITOLO
IN RIALZO - Malgrado il tono delle notizie, la
fiducia domina sui mercati finanziari: il titolo Citigroup, a metà
giornata sui mercati americani, guadagna addirittura il 2%. Per gli operatori,
evidentemente, i motivi che hanno causato il «profit warning» della banca sono
eccezionali e soprattutto transitori e il mangement ha le risorse per tenere
sotto controllo il disordine nel business.
RISULTATI
DELUDENTI - Per il numero uno dell'istituto,
Charles Prince, i risultati rappresentano comunque una «evidente delusione».
Commentando l’allarme utili di Citigroup, il presidente e ad ha sottolineato
che «la flessione dei profitti è stata alimentata soprattutto dalla
debole performance delle attività del mercato del credito a reddito
fisso, dalle svalutazioni nei prestiti (per i leveraged buyout, ovvero le
acquisizioni a debito, ndr) e dagli aumenti dei costi del credito al
consumo». Parole ancora più severe sono state utilizzate con riferimento
alle operazioni di trading delle attività a reddito fisso, definite
«aberranti». Prince si augura comunque che il ritorno a una reddività
«normale» avvenga nel quarto trimestre dell'anno.
SVALUTAZIONI
ED ESPOSIZIONE - Tornando ai risultati del terzo
trimestre, a pesare saranno svalutazioni pari a 1,4 miliardi di dollari in
relazione alle operazioni di leveraged buyout al cui finanziamento Citigroup
sta lavorando; perdite per un valore di 1,3 miliardi di dollari negli
investimenti in titoli garantiti dai mutui; perdite di 600 milioni di dollari
nelle attività di trading che hanno per oggetto asset a reddito fisso.
Ancora, Citigroup ha precisato che i costi relativi alle operazioni di credito
al consumo saranno superiori di 2,6 miliardi di dollari a causa soprattutto
della necessità di aumentare le riserve che coprono le perdite sui
prestiti erogati. Gli utili di Citigroup saranno resi noti al mercato il 15
ottobre prossimo.
SEGNALI
POSITIVI - Insomma, si tratta di una
situazione parecchio intricata e legata alla crisi che si è aperta nel
settore dei mutui subprime, quelli meno garantiti. Una crisi che ha
evidentemente contagiato altri settori della finanza. Eppure c'è chi
vede rosa: nell'ennesima intervista rilasciata per promuovere la sua
autobiografia, Alan Greenspan ha pronosticato la fine della crisi finanziaria.
L'ex presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana, a Londra,
ha osservato come negli ultimi giorni le emissioni di bond di lungo termine da
parte di aziende abbiano trovato una buona accoglienza sul mercato: «Un buon
segno», ha dichiarato. «Questo significa che la crisi di agosto-settembre
è forse terminata? Forse sì», ha concluso. Da Citigroup arrivano,
però, segnali preoccupanti.
FMI
- Anche Dominique Strauss-Khan,
durante la sua prima conferenza stampa da presidente del Fondo monetario
internazionale, nostra fiducia: la crisi dei subprime non avrà «effetti
drammatici», ha detto il neo-presidente dell'Fmi.
01 ottobre 2007
Ora
è chiaro e documentato, dunque storicamente vero: Saddam Hussein stava
per andarsene. Aveva accettato di lasciare il potere e di scomparire in esilio.
Voleva una buona uscita esosa (un miliardo di dollari). Ma non c’erano bombe,
non c’erano morti iracheni (decine, forse centinaia di migliaia), non c’erano
morti americani (al momento quasi quattromila) non c’erano trentaduemila
giovani americani feriti, molti dei quali non torneranno più alla vita
di tutti. Non c’era il costo immenso di una guerra che non finisce.
Per capire di cosa sto parlando (giornali e Tv sfiorano appena l’argomento)
occorre tornare ai giorni di incubo e tensione che hanno preceduto la guerra in
Iraq. Da un lato il vento furioso della Casa Bianca di Bush, del febbrile
interventismo di Tony Blair, che, letteralmente «hanno fatto carte false»
(hanno mentito su tutto) pur di fare la guerra.
Dall’altra due pacifismi avvinghiati, uno di passione, constatazione, buon
senso (ormai hanno capito in tanti che la guerra non è più una
risposta possibile, troppo costo, troppo sangue e - da quando esistono solo
armate professionali - troppe poche persone disposte a morire); l’altro
ideologico, contrario a tutte le guerre ma specialmente a una guerra americana.
All’improvviso (siamo nel
Ora sappiamo tre cose che sarà bene non dimenticare. Sappiamo che la
“proposta Pannella” era realistica proprio come noi, con lui, avevamo detto
allora, irritando anche un po’ alcuni a sinistra nonostante il netto
schieramento di pace (col segno arcobaleno nella testata) di questo giornale.
Ora sappiamo che l’audace, avventurosa, “impossibile” trama diplomatica era
andata a buon fine, fino al punto finale: pagare e liberarsi del tiranno. Lo
sappiamo dal diario di Aznar. E sappiamo che i Berlusconi e gli Aznar che hanno
detto di sì a quella guerra lo hanno fatto per compiacere l’amico
potente pur sapendo che quella carneficina si poteva evitare. Una bella
responsabilità nella Storia.
Pannella ricorda nel suo comunicato che tra tutti i giornali, solo l’Unità
ci ha creduto. Noi ne siamo orgogliosi e lo ringraziamo. Non della citazione ma
dell’impegno, quasi riuscito, di non fare la guerra.
colombo_f@posta.senato.it
Cara
Europa, leggo sul Corriere di domenica, insieme a un editoriale di Mario Monti
che attribuisce equanimemente debiti e ingovernabilità a centrodestra e
centrosinistra ma si dimentica della scientifica paralisi di governo preparata
col Porcellum, un articolo in cui il Cavaliere spacconeggiando più del
solito, assolve Bossi da intenzioni secessioniste (“per lui garantisco io”),
assicura che il referendum sulla legge elettorale non si farà perché ci
saranno le elezioni, intima di non nominare governi tecnici dopo la caduta di
Prodi, chiama all’adunata pre-28 ottobre 1922 del 2 dicembre.
Com’è possibile che in un paese democratico il leader dell’opposizione
parli questo linguaggio? E che gli altri tacciano?
MICHELE SANTILLI, MILANO
Caro
Santilli, Berlusconi parla da padrone perché la maggioranza di governo è
debole, fratricida, dedita anche al salvataggio personale di troppi topi che si
gettano nelle scialuppe.
Ma intanto ci fa sapere con quali intenzioni di bastonatore tornerebbe al
governo (e le dirò che, se bastonasse taluni topi che gli si affollano
intorno, non è che ci dispiacerebbe).
Ma il problema grave è un altro. Il Cavaliere sa che non sarà lui
a stabilire cosa si farà dopo un’eventuale crisi del governo Prodi. Lo
stabilirà il capo dello stato, a norma della Costituzione.
E Napolitano ha già fatto sapere che non indirà le lezioni col
Porcellum, ma pretenderà una nuova legge elettorale: o quella del
referendum o quella del parlamento indirizzata da un governo tecnico. Ora,
l’ingiunzione vicentina di Berlusconi: niente referendum, elezioni col
Porcellum, nuova legge elettorale fatta dal mio governo, è un autentico
attacco al Quirinale, assai più serio di quello della secessione padana,
sparata da Bossi; un attacco che sollecita una immediata ed enorme risposta di
massa, da parte di milioni di cittadini che vedono un nuovo governo degli
affamatori e degli evasori come la peste nera. Alcune centinaia di migliaia di
questi cittadini si riuniranno il 14 ottobre per eleggere il segretario del
Partio democratico: più numerosi saranno, più implicito
sarà il messaggio al Sarkozy di Arcore senza gollismo.
Il 20 ottobre, poi altre centinaia di migliaia di italiani, della sinistra
“radicale”, scenderanno in piazza a chiedere altre cose al governo Prodi ma
anche a difendere quelle che sta facendo: sarà l’occasione per dire che
se il 2 dicembre Berlusconi pensa a una sua adunata di piazza per dare la
spallata non al governo Prodi ma alla presidenza della repubblica, potrebbe
avere la sorpresa di trovare quella stessa piazza, in quello stesso giorno, in
quelle stesse ore, occupata da qualche centinaio di migliaia di italiani
disposti a difendere il Quirinale e la Costituzione contro di lui.
È solo un’ipotesi, s’intende, perché io non so quale sia il grado di
dignità e di virilità superstite negli italiani di “sinistra”. Mi
basterebbe se fosse come quello dei monaci buddisti.
L’Unità 30-9-2007 Politica,
ultimo appello Furio Colombo
Il Sole 24 Ore 29-9-2007 Come farsi finanziare evitando le trappole
E' la maggioranza silenziosa che si fa sentire
con forza
Talvolta si legge solo una parte della storia. Trentamila firme
contro la Tav e 150 delegati del movimento che incontrano i vertici europei
finiscono giustamente sui giornali. Della gente qualunque che sta sull'altro
fronte, quelli che magari la Tav la vogliono, non si sente parlare. Nessuno li
ha mai contati veramente, ma c'è chi dice siano una maggioranza.
Silenziosa.
Succede
ovunque. In Polonia gli euroscettici attirano tutte le attenzioni, mentre degli
europeisti (che nei sondaggi superano il 60 per cento) ci sono solo vaghe
tracce. Sfilano per le strade italiane gli antinuclearisti, non i nuclearisti
che – a occhio - non sono poi così pochi. A Bruxelles gli europei
marciano contro l'Islam, e chi con l'Islam ha un buon rapporto (mica scarsi di
numero, peraltro) non lascia il traccia.
E' giusto che tutti abbiano diritto di protestare e manifestare in modo non
violento, come fanno gli antiTav, gli antinuclearisti ma non gli antislamici
delle Fiandre. Vista da fuori sembra però che la protesta sia
sempre asimmetrica. Che certi messaggi protestino più facilmente di
altri.
Succede ovunque, ma in Belgio adesso c'è un'eccezione. Sino a pochi mesi
fa la voce che faceva più rumore era quella dei politici estremisti di
destra desiderosi di spaccare il paese in due, Fiandre da una parte, Vallonia
dall'altra. Il sistema politico, diviso anch'esso, fatica a tenere in mano
la situazione. I cittadini no. Hanno preso il toro per le corna.
Per sfidare la minoranza scissionista, sostanziosa ma pur sempre minoranza,
i belgi hanno cominciato ad appendere la bandiera nazionale alle finestre
di casa. In pochi giorni il messaggio unitario si è diffuso a macchia
d'olio di palazzo in palazzo. Rosso, giallo e nero su ogni edificio. La
maggioranza silenziosa, quella che non scende i piazza, ha deciso di far sapere
cosa pensa.
I davanzali imbandierati trasmettono la sua voce, dicono “Basta alla
politica che non sa formare il governo” e "Basta con chi vuole
dividere il Paese". E' un silenzio dei più rumorosi, la cui voce
arriva lontano. La città brilla di colori e tinge di luce l’incipiente
autunno. “Restiamo insieme”, dice. Tutte quelle bandiere valgono cento cortei.
Sorge una domanda: quante maggioranze silenziose ci sono fra noi?
LA
SCUOLA non gode di buona fama e di buona stampa, da qualche tempo. Perché
considerata asimmetrica rispetto ai cambiamenti sociali, economici, culturali.
Perché gli insegnanti hanno perduto considerazione, credibilità. Perché
pare divenuta un luogo insicuro, attraversato da violenze quotidiane, piccole e
(talora) grandi. Il sondaggio di Demos-coop, però, fornisce un'immagine
diversa. Certo, la sua credibilità fra i cittadini, negli ultimi anni,
è calata. Ma, il giudizio nei suoi confronti risulta ancora largamente
positivo. Circa il 55% degli italiani, infatti, manifesta fiducia nella scuola
e nell'università. Una quota ancor più ampia, il 60%, negli
insegnanti. Oltre i due terzi delle persone si dicono "soddisfatti" dei
servizi e delle prestazioni della scuola. Pubblica. Mentre la scuola privata,
di ogni ordine e grado, ottiene commenti assai meno positivi.
Si tratta di dati inattesi, in contrasto con il dibattito politico e mediatico,
ma anche con il senso comune. Riflettono il rapporto ambiguo fra scuola e
società, tra le famiglie e il sistema educativo, tra i genitori i
professori.
I cittadini, infatti, esprimono fiducia nella scuola e negli insegnanti
"nonostante". Perché, in realtà, vorrebbero una scuola diversa.
Con più risorse, maggiori relazioni con il mercato del lavoro. In grado
di riconoscere e di promuovere il talento degli studenti, permettendo ai
migliori di emergere.
Vorrebbero, inoltre, insegnanti più motivati. Sottoposti a un costante
processo di "valutazione". E, quindi, "premiati" in base al
merito, in termini di carriera e di retribuzione. Come propone, d'altronde, il
"Quaderno bianco sulla scuola", predisposto di recente dai ministeri
della Pubblica Istruzione, del Tesoro e dell'Economia. Si tratta di attese
largamente deluse. Da cui originano, fra l'altro, le contestazioni di molti
genitori nei confronti degli insegnanti. A "protezione" dei figli.
Non sempre per "giustificato motivo".
In altri termini: la scuola fornisce un servizio utile e piuttosto apprezzato,
dalle famiglie e dagli studenti. Ma non riesce più a trasmettere il
senso del futuro. Non dà più "sicurezza". Come, invece,
è avvenuto, in passato, nel nostro Paese. La scuola: il "centro"
della vita sociale, dell'educazione, della formazione. Dove si comunicano
valori, modelli e conoscenze. Dove, per dieci-vent'anni, gli individui
trascorrono gran parte del loro tempo di vita. Dove passano dall'infanzia,
all'adolescenza, alla giovinezza fino all'età adulta (anche se pochi,
ormai, accettano di "diventare grandi"). Senza soluzione di
continuità. Dove i giovani coltivano amicizie e incontrano
"maestri", buoni o cattivi non importa; ma capaci di fornire modelli,
di fungere essi stessi da esempio. Dove si ridimensionano le differenze sociali
e si valorizzano i "talenti" individuali.
Nella "memoria" degli italiani la scuola è tutto questo. Anche
se, nei fatti, si tratta di una raffigurazione eccedente e mitizzata. Oggi,
però, è "impossibile" immaginare che tutto ciò
sia "possibile". Perché è cambiato tutto; intorno ma anche
all'interno. Il mondo, il sapere, i valori, l'organizzazione della conoscenza,
la comunicazione. Sono cambiate la demografia, la struttura e la dinamica del
mercato del lavoro. E' cambiato il rapporto fra genitori e figli.
Però la scuola resta sempre lì. Al suo posto. Allo snodo tra i
giovani, le famiglie, la società, le istituzioni.
Anzi, occupa una "porzione" del tempo di vita personale e familiare
crescente. Visto che si tende ad anticipare l'ingresso nel sistema educativo e,
nello stesso tempo, ad accompagnare un numero più ampio di persone fino
alla laurea, senza "perderle per strada". Visto che il rarefarsi del
numero dei figli ha accentuato la pressione e l'attenzione dei genitori sulla
loro "carriera scolastica".
Da ciò il contrasto di atteggiamenti e di giudizi. La scuola e gli
insegnanti soffrono di cattiva fama, perché subiscono la pressione di attese
irrealistiche. Che contribuiscono ad alimentare le tensioni con gli studenti e
i loro genitori. D'altronde, la legittimazione sociale degli insegnanti, oggi,
è declinante. Il "professore universitario" dispone ancora di
un prestigio professionale notevole. Poco inferiore ai magistrati e più
elevato rispetto ai manager privati e agli imprenditori. Ma i maestri e i professori
delle secondarie - superiori e medie - godono, invece, di considerazione assai
minore. Il che ne limita l'autorevolezza: in classe e nell'ambiente sociale.
(Difficile ottenere rispetto da ragazzi i cui genitori hanno redditi, consumi,
posizione professionale di livello molto più elevato).
Tuttavia, "nonostante tutto", la scuola e i professori condividono
con gli studenti e le famiglie un percorso biografico molto lungo. E ciò
spiega la grande fiducia di cui godono. Perché, in fin dei conti, la scuola
continua a fare da "collante" in una società
"scollata". E' un elemento "normale", per questo
importante, della storia personale e della vita quotidiana. Non è un
caso che venga apprezzata in misura maggiore fra coloro che ne hanno esperienza
diretta. La fiducia nella scuola, ad esempio, è espressa dal 54% della
popolazione nell'insieme, ma dal 62% di coloro che hanno un familiare che
studia e, infine, dal 66% degli studenti. Al tempo stesso, cresce
parallelamente all'ottimismo nel futuro, al senso di sicurezza personale, alla
fiducia negli altri. Perché è una risorsa di "capitale
sociale". Luogo di relazioni, dove, per quanto in modo contraddittorio e
traballante, si rafforza il "senso civico", la solidarietà.
Altra origine delle tensioni che scuotono la scuola è la
frammentarietà degli interventi riformatori, di cui è stata
oggetto nel corso degli anni. Soprattutto nell'ultimo periodo. Privi di
coerenza, di un disegno. L'hanno cambiata senza fornirle una identità,
un profilo comune. Senza comunicare un progetto, a chi vi opera, agli studenti,
alle famiglie. Per questo, alcuni elementi della riforma annunciata dal
ministro dell'Istruzione, Fioroni, incontrano un favore così massiccio.
La riproposta degli esami di riparazione (80%), l'apertura degli istituti di
pomeriggio (77%), la maggiore attenzione dedicata a materie come la geografia,
la matematica e soprattutto l'italiano.
Riscuotono un consenso ampio perché evocano i "fondamenti" della
tradizione educativa. Il ritorno alla scuola di un tempo, "quando le cose
funzionavano". E riflettono l'insoddisfazione per l'esperienza recente,
che non riesce a dare orientamento, senso del futuro. Certezze.
Da ciò il sospetto che le famiglie cerchino nella scuola una supplenza
(ma anche un alibi) alle proprie difficoltà di capire e di educare i
giovani. Come suggerisce la questione del "bullismo". Un fenomeno
preoccupante, che, tuttavia, gran parte degli italiani non considera
un'emergenza. Tanto meno i giovani e gli studenti. I più spaventati sono
quelli che non vanno a scuola. E che non hanno studenti in famiglia. Si tratta,
dunque, di una "paura" largamente in-giustificata; e in-definita.
Riflette un senso di insicurezza più generale. Non è un caso che
i principali responsabili della violenza nelle scuole siano ritenuti,
anzitutto, i genitori. Poi, in misura più limitata, gli insegnanti.
Accusati, entrambi, di non esprimere né esercitare "autorità".
L'insicurezza delle scuole, così, finisce per riflettere la crisi di
senso e di governo che affligge la società. L'autorità perduta,
non solo dalla politica e dalle istituzioni. Ma anche dalla famiglia. Da
ciò l'atteggiamento contraddittorio nei confronti della scuola. Che
critichiamo tanto. Ma ispira, nonostante tutto, fiducia. E' come provare
disagio davanti allo specchio. Guardando la nostra immagine riflessa. Perché la
scuola siamo noi.
(1 ottobre 2007)
ROMA
— Dicono gli esperti che si sarebbe fatto prima a costruire un'autostrada
nuova. Soprattutto, si sarebbe speso meno. Per costruire la Salerno- Reggio
Calabria ci sono voluti circa undici anni (dal 1963 al 1974) e una somma che oggi
corrisponderebbe a 5,6 milioni di euro a chilometro. Per ammodernarla, di anni
ne serviranno quattordici (dal 1998 al 2012) e si spenderanno 20,3 milioni al
chilometro. Il conto è di 9 miliardi di euro, cioè 152 euro per
ogni cittadino italiano, neonati e vegliardi compresi. Naturalmente, salvo
sorprese. Per avere un'idea di che cosa significa una cifra del genere, basti
pensare che per la realizzazione ex novo del tracciato collinare
dell'autostrada tirrenica sponsorizzato dall'ex ministro delle Infrastrutture
Pietro Lunardi e che l'attuale maggioranza contestava per l'impatto ambientale
e i suoi costi eccessivi dovuti a gallerie e viadotti, era stata prevista una
spesa di 14,9 milioni a chilometro.
DUE CORSIE — Ma chi pensa che, dopo aver tirato
fuori tutti questi quattrini, la sgarrupata A3 lascerà il posto a una
highway californiana, resterà probabilmente deluso. Dei
IL
«GIRONE» —
Un pannicello caldo. Ma è meglio di niente. Da mesi il tratto calabrese
è un girone dantesco. I disagi vengono giustificati dall'Anas con il
fatto che i lavori devono essere fatti «in sede», senza interrompere la
circolazione dei veicoli. Ma questo spiega soltanto in parte perché il calvario
sia destinato a durare, nella migliore delle ipotesi, ancora fino al 2012. Un
giorno di ottobre di tre anni fa l'ingegner Carlo Bartoli, direttore centrale
dell'Anas, ha allargato le braccia: «I gravi problemi della Salerno-Reggio
Calabria partono da un'errata concezione dei progetti, che ha rallentato
enormemente i lavori». Ma se la colpa vada addebitata (come sempre!) a chi
c'era prima, o piuttosto le responsabilità non vadano cercate
semplicemente, come ha detto non più tardi di un paio di mesi fa Fausto
Bertinotti, alla «impotenza della politica», di cui l'autostrada A3 sarebbe
secondo il presidente della Camera «il monumento», poco importa. Quello che
conta è il risultato. E purtroppo l'autostrada Salerno- Reggio Calabria
non è nemmeno un'eccezione. Qualche mese fa Di Pietro ha portato in
Parlamento dei dati che dimostrano come un chilometro di linea ferroviaria ad
alta velocità costi 13 milioni di euro in Francia,
NIENTE
CONTROLLI —
Ma senza caselli, vuol dire anche senza controlli. Quindi, terra di nessuno.
Così sulla Salerno-Reggio Calabria è successo di tutto. Dagli
scheletri rinvenuti nei canali di scolo, agli agguati a poliziotti e
carabinieri a colpi di lupara, alle rapine con abbordaggio dei veicoli in
transito: la più tragica finì con l'omicidio del piccolo Nicholas
Green. La Salerno-Reggio Calabria poteva costare pure il posto a un ministro
della Repubblica, quando nel 2005 il centrosinistra presentò una mozione
di sfiducia nei confronti di Lunardi per un clamoroso ingorgo con centinaia di
auto intrappolate sotto una tempesta di neve. Proprio Lunardi, che nel 2001,
sedendosi sulla poltrona di responsabile delle Infrastrutture, aveva promesso:
«L'autostrada sarà pronta nel 2004-2005. Ho già chiesto che si
paghi il pedaggio». A promettere aveva cominciato nel 1987 Bettino Craxi: la
Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata sistemata con 1.000 miliardi, ovvero 983
milioni di euro di oggi. Cinque anni più tardi i miliardi erano
diventati già 5 mila. Altri cinque anni e il preventivo salì a 6
mila. Nel 1999 il procuratore nazionale Antimafia Piero Luigi Vigna
ammonì: «Nel Mezzogiorno arriveranno migliaia di miliardi per grandi
opere fra cui il raddoppio della Salerno- Reggio Calabria. La mafia è
già al lavoro». I lavori erano cominciati da un anno ma andavano a
rilento. E continuarono così. Nel 2004 la Fillea Cgil denunciò
che di quel passo sarebbero finiti nel 2040. Intanto il conto era salito a 6,9
miliardi di euro. Ancora tre anni e si è arrivati alla bellezza di 9
miliardi, con la previsione di chiudere nel 2011-2012. E mancano sempre i
caselli.
01
ottobre 2007
Via
dal video, tutti e subito. Mi riferisco alla folla di volti e di voci della
politica che sono presenti dovunque a tutte le ore. Proverò a dimostrare
perché questo può essere il primo, vigoroso taglio al costo della
politica. Non è soltanto un simbolo. Ecco le ragioni.
Aula del Senato italiano, giorno 27 settembre, ore 9,30. Il senatore Marconi
(Udc) chiede di parlare «sull’ordine dei lavori», espediente per rallentare il
lavoro, già lentissimo della “Camera alta”. Il senatore si dedica a una
dettagliata recensione del programma Porta a Porta della sera prima,
analizza i difetti vistosi, dal punto di vista dell’oratore, di quella serata
televisiva e dedica un giudizio particolarmente severo alla performance di
Antonio Di Pietro, che è personalità televisiva e non solo
ministro della Repubblica, o così appare nel discorso di critica
televisiva. Senato italiano, 27 settembre, ore 9,50. Chiede di parlare il
senatore Calderoli. Poiché il tema della mattina sono i conti dello Stato e
poiché il sen. Calderoli, quando non è un leghista sarcastico e crudele,
è un estroso inventore di espedienti per confondere i dibattiti in aula,
tutti prestano la dovuta attenzione.
Anche il senatore Calderoli, però, dedica il suo intervento a una
vicenda televisiva. Oggetto della sua critica, ben organizzata e serrata, non
è Porta a Porta con Vespa, ma Ballarò,
con Giovanni Floris, ospite d’onore Clemente Mastella. Anche il giudizio di
Calderoli sul programma esaminato è drastico e negativo come i
più fermi corsivi di Aldo Grasso. Il giudizio riguarda il trattamento
piuttosto insolito che è stato dedicato al ministro della Giustizia,
circondato da una folla ostile nel mezzo di uno studio televisivo, più
gogna che dibattito. Molti in aula concordano. Il problema è:
c’è, e se c’è, dove passa il confine fra televisione e politica,
fra ministro (certamente trattato male) e personalità televisiva, che
affronta gli stessi rischi dei partecipanti all’Isola dei famosi?
Mi sembra di vedere una grande confusione in cui non si capisce se la cattiva
politica genera cattiva televisione o il contrario.
E se persino la politica non cattiva, quando diventa show gladiatorio, a
disposizione degli umori del pubblico, non diventi spettacolo indecoroso.
* * *
I lettori sanno che da anni provo e riprovo a lanciare lo stesso messaggio: non
andare a Porta a Porta, il talk show politico in cui un conduttore abile
conduce il suo non disinteressato programma dove vuole e, nonostante la
sensazione di appagamento (quasi due ore in video, quasi ogni sera) dei suoi
ospiti, li conduce alla brutta figura. Avevo torto e avevo ragione. Avevo torto
nell’affermare che tutti i mali della comunicazione erano accatastati a
Porta a Porta. Forse è stato vero sotto Berlusconi. Ma
è diventato chiaro, in quest’ultima stagione difficile e infelice della
vita politica italiana, che nessuno show è migliore di un altro. E dopo
il caso Mastella diventa difficile avere preferenze. Ma avevo ragione quando
insistevo nel dire: guardate che in nessun Paese democratico l’impegno
principale è di andare ogni sera (ogni sera) in televisione. Ci
sarà un motivo se altrove, dalla Spagna agli Stati Uniti, non avviene. E
infatti quando è stato sollevato il problema della casta - problema che
non è in esclusiva italiano - i destinatari erano tutti in scena, tutti
noti, tutti costantemente presenti nella retina oculare e nel retro pensiero
degli italiani, dopo anni di ininterrotta "performance" televisiva di
un cast che si fa presto a identificare come casta. Accanto al libro di Stella
e Rizzo che si moltiplicava nelle librerie, in televisione c’era, e c’è,
un presepio vivente di voci e volti impressi, ormai, nel vissuto italiano. Ce
n’è abbastanza per far divampare, da una legittima denuncia, un immenso
incendio che non accenna a spegnersi. E quando fa irruzione in tv il faccione
di Grillo, lo schermo è già stabilmente affollato di volti fissi,
come le figure da abbattere nel tiro a segno di un luna park. Non resta che
indicare le sagome da colpire.
Ho detto e ripeto: questo affollamento visivo continuo di politici in
televisione è un grave fenomeno esclusivamente italiano. Infatti, oltre
ai reality show politici che vediamo sul piccolo schermo quasi ogni sera (a cui
si aggiungono le apparizione festose degli stessi politici in programmi,
diciamo così, di divertimento o "leggeri") c’è
l’esibizione continua delle stesse teste parlanti, che compaiono implacabili in
ogni telegiornale allo scopo di dire, una dopo l’altra, frasi incomprensibili.
Ancora più incomprensibili se dette - in sovrapposizione alle immagini -
dalla voce disinteressata dello speaker, che con giusto distacco, pronuncia
schegge di un parlato senza riferimenti e senza senso. Anche questo è un
fenomeno unicamente italiano, così dannoso da essere visto
ragionevolmente da molti come il luogo di nascita dell’antipolitica.
* * *
Se dunque l’antipolitica, nel suo ceppo più pericoloso e aggressivo e
virulento nasce dal fiume incontenibile del cast/casta della politica in
televisione, sembra naturale affermare che arginando, anzi bloccando questo
fiume si compie un gesto importante che non è un puro simbolo. Al contrario
si elimina un potente irritante. Non si può certo dire che la
televisione generi il problema. Di certo lo ricorda, lo evoca, lo ripete, lo
ostenta, e non è una cosa da poco. Più che una esibizione
è una provocazione. Figuriamoci una provocazione che si ripete ogni
giorno e ogni sera, sempre con gli stessi partecipanti uniti dal legame ambiguo
di contrapposizione e colleganza, di somiglianza, di reclamo di inconciliabile
diversità ma anche di intesa bonaria, di convivenza, distruzione,
scontro finale.
Mi sento di dire questo. Nessuna delle trasformazioni, cambiamenti o riforme
della politica, del suo ingombro, del suo costo, può essere fatto in
tempo reale, come sembrano esigere le nuove voci dell’antipolitica. Ciò
è comprensibile. Le grandi ondate di protesta giungono fatalmente in
momenti di estrema esasperazione in cui non è ragionevole aspettarsi
pazienza, meno che mai la pazienza di accettare lunghi intervalli di promesse e
di attesa. Lo prova il fatto che gli esperti autori della
Casta Stella e Rizzo hanno denunciato sul loro giornale che "i
costi della politica non scendono", (Corriere della Sera 25 settembre) e lo
hanno fatto meno di tre mesi dopo la pubblicazione del loro libro-denuncia.
Certo gli autori sanno che la dimensione o incisività di eventuali tagli
immediati appariranno fatalmente piccoli, inadeguati, ridicoli, perché nessuno
potrebbe realizzare istantaneamente un taglio drastico e visibile nella casa
della politica senza fare amputazioni improvvisate o puri annunci. Ma
sopratutto manca un criterio guida, come invece avviene nelle aziende, in cui
si conoscono prodotti, costi, missione.
La politica e i suoi costi si espandono in un modo che mima la natura. Si
espandono al modo di una foresta di rampicanti e di piante voraci.
Occorrerà un lavoro autorevole profondo e molto esteso per ricondurla a
un disegno sensato in cui i costi non siano privilegi, i tagli non siano
mutilazioni di funzioni necessarie e le riduzioni abbiano senso oltre lo scopo,
ovviamente prevalente, del risparmio.
* * *
Eppure qualcosa di ben visibile e certamente utile può essere fatto
subito con conseguenze mediatiche (dunque di percezione) molto forti. E
conseguenze che avranno altre conseguenze, prima fra tutti il mutamento del
modo di comportarsi in pubblico e dunque di fare politica. È la
scomparsa istantanea e completa del protagonismo mediatico dei politici. So che
nessuno accetterà, ma è un peccato. Il ritiro immediato, generale
e spontaneo verrebbe visto come un atto di austerità che anticipa le
restrizioni e rinunce ancora non fatte e diventa simbolo forte e vistoso di
quella operazione di rientro nei limiti che non è facile né rapido
persino se ci fossero buone intenzioni.
Se è vero che l’esibizione continua di un cast fisso di politici in
televisione, dai talk show ai telegiornali, è una delle grandi cause
dell’antipolitica perché si trasforma in una overdose di parole, dunque di
annunci, fatalmente sconnessi dai fatti, è per forza anche vero
l’effetto immediato - sorprendente e benefico - di un black out auto-imposto.
Non si tratta di un ritiro ma di una rinuncia per lasciare spazio al
giornalismo e alla responsabilità giornalistica di interpretare e
rappresentare, sfidando le televisioni pubbliche italiane, privandole del
volontariato politico, a ritrovare il senso di buona conduzione professionale
che altri colleghi del mondo democratico non hanno mai perduto.
Entrino in campo i professionisti dell’informazione e si elimini l’occupazione
politica degli spazi-notizia, che al momento - e ogni sera, e in ogni telegiornale
- sono autogestiti dagli interessati, cioè dagli stessi politici.
Finisca il gioco del protagonismo fisso che genera più sentimenti
antipolitici delle auto blu e degli aerei di Stato con figli e amici, perché
ingombra lo spazio dei cittadini e stimola gogna e vendetta.
Non si tratta di chiedere ai politici di scomparire. Si tratta di lasciar
cadere ciò che ormai appare - molto più del barbiere di
Montecitorio - il più arrogante dei privilegi, quello di occupare quasi
tutti gli spazi dell’ informazione. Occorrerà rinegoziare la presenza
dei politici nei media in modo molto più austero e deliberatamente
autolimitato, restituendo il resto dello spazio all’opinione pubblica e agli
interpreti professionali dell’opinione pubblica.
Questo dunque è l’appello, forse l’ultimo appello prima che l’ondata sia
troppo forte. Via dal video per iniziare un’epoca profondamente diversa,
civile, rispettosa, ansiosa di comunicare ai cittadini, fine dell’invasione del
loro tempo. Ma c’è anche un vantaggio molto importante per i
protagonisti della politica: la fine della complicità con i conduttori
Tv, che usano i politici come animali da circo. Porterà subito un po’
più di rispetto al difficile lavoro della politica.
colombo_f@posta.senato.it
Come
indicano i diversi atteggiamenti sulla questione del programma nucleare
dell'Iran, l'Europa potrebbe di qui a poco sperimentare nuove e pesanti
divisioni, dopo quelle che si verificarono all'epoca della guerra in Iraq. In
tal caso, soprattutto se il governo Prodi dovesse durare ancora per diversi
mesi, sarebbe proprio l'Italia a trovarsi nella posizione più scomoda.
Come era prevedibile, l'uscita di scena dell'antiamericano Chirac e la vittoria
di Sarkozy hanno dato una botta pesante alla politica estera italiana
così come originariamente impostata da Romano Prodi e dal ministro degli
Esteri Massimo D'Alema. È venuta meno per il governo italiano la sua
principale sponda europea. Che la Francia di Chirac fosse questo per gli
italiani lo si vide durante e dopo la guerra del Libano del-l'estate
I
francesi, infatti, in perfetta sintonia con gli americani, stanno picchiando sempre più duro.
Prima, Bernard Kouchner, il ministro degli Esteri di Sarkozy, dichiara (salvo
poi, diplomaticamente, addolcire la pillola) ciò che tutti sanno, ossia
che la guerra con l'Iran può diventare inevitabile se non cesserà
la preparazione della bomba. E ora, ancora Kouchner, prendendo atto dello stallo
al Consiglio di Sicurezza dell'Onu a causa dei veti russi e cinesi, propone che
sia l'Europa a imporre proprie sanzioni agli iraniani. L'Italia, primo partner
commerciale europeo dell'Iran, e esclusa, fin dai tempi del governo Berlusconi,
dal gruppo europeo (Francia, Gran Bretagna, Germania) che si occupa del
nucleare iraniano, non perde occasione per testimoniare i propri legami
speciali con l'Iran: da ultimo, con il tentativo di D'Alema, prima
dell'intervento armato italo-britannico, di ottenere la mediazione iraniana
nella vicenda degli agenti del Sismi rapiti in Afghanistan. Ma che farà
l'Italia se sulle sanzioni la Francia otterrà l'assenso della Germania e
di altri Paesi europei? Sceglierà di dissociarsi? Difficile crederlo.
Anche dal punto di vista simbolico, continuare a nascondersi dietro l'ombra
dell'Onu (impotente a causa delle posizioni russe e cinesi) rifiutando di
partecipare a una azione concertata europea sarebbe assai difficile. Il dilemma
può essere così riassunto: aderire a una iniziativa tutta «occidentale
» (americana e europea) contro l'Iran al di fuori dell'Onu sarebbe impossibile
per il governo Prodi a causa dei suoi equilibri interni di coalizione. Ma non
aderire sarebbe altrettanto impossibile a causa dell'insostenibile isolamento
italiano che ciò provocherebbe. Comunque vada, il tempo degli
equilibrismi e delle ambiguità della politica estera italiana sembra
ormai scaduto.
01
ottobre 2007
CORRISPONDENTE
DA NEW YORK I genitori lavoravano a Hollywood, venne
preso al college perché giocava bene a basket ed ha poi fatto carriera nell’Us
Navy fino a diventare l’ammiraglio responsabile delle recenti manovre militari
anti-Iran nel Golfo Persico: questo è Michael Mullen, da oggi titolare
della stanza 2E676 del Pentagono con i gradi di capo degli Stati Maggiori
Congiunti.
Il sessantenne Mullen viene dalla California e più precisamente dai
paraggi di Hollywood dove il padre lavorava nell’ufficio stampa degli studios
Mgm e la madre era la segretaria dell’attore Jimmy Durante. Da giovane a scuola
non eccelleva più di tanto e fu grazie al basket che varcò la
soglia del college, iniziando un percorso accademico che avrebbe completato a
pieni voti lungo un doppio binario: gli studi militari all’accademia navale di
Montenery, dove fu compagno di classe dell’Oliver North regista dello scandalo
Irangate a metà degli anni Ottanta, e gli studi economici, che
completò a pieni voti alla Business School di Harvard.
Molto determinato di carattere ma abile nella diplomazia, l’Us Navy ha trovato
in lui prima una recluta durante la guerra in Vietnam e poi l’ammiraglio
più apprezzato per lo studio delle operazioni asimmetriche richieste
dalla guerra al terrorismo iniziata dopo l’11 settembre. Sono i suoi studi e le
esercitazioni che ha condotto negli ultimi cinque anni a proiettarlo nella
sfida globale al terrorismo. Ed a chi gli chiede come è riuscito ad
adattarsi tanto rapidamente alle nuove minacce è solito rispondere: «E’
stata Napoli a farmi aprire gli occhi». Il riferimento è al comando della
base Usa di Napoli, che ebbe dal 2004 al 2005, da dove si è trovato a
guidare la task force navale Nato su uno scacchiere che va dai Balcani agli
Stretti di Hormutz, ovvero in prima linea contro Al Qaeda. Sposato con Deborah,
dalla quale ha avuto due figli, è questo ammiraglio «pragmatico ed
esperto», come lo descrive Michael O’Hanlon della Brookings Institution, che
riceve sulle spalle il compito di guidare le intere forze armate a ridefinire
la presenza Usa nel Golfo, diminuendo il numero dei soldati in Iraq ed
accrescendo la pressione militare sull’Iran.
E’ stato lo stesso Mullen ad anticipare la missione che lo aspetta durante le
audizioni al Congresso: da un lato si è detto «frustrato» per
l’andamento della guerra in Iraq e «preoccupato» per il prolungato impegno di
un eccessivo numero di soldati di terra «che mette a dura prova la nostra
capacità di reagire a nuove eventuali crisi», e dall’altro ha usato
termini duri nei confronti di Teheran definendo «inaccettabile che l’Iran
fornisca ai nostri nemici in Iraq e Afghanistan i mezzi per colpirci». E’ stato
Mullen a condurre, fra la fine del 2006 e l’inizio 2007, le simulazioni di
guerra di fronte alle coste iraniane, sviluppando piani per attacchi
aeronavali, per difendersi dai barchini kamikaze e per la protezione del
territorio di nazioni rivierasche alleate - come il Bahrein - da lanci di
missili. Il risultato di tale esperienza è nella convinzione, svelata lo
scorso giugno, di «non essere a favore di una massiccia invasione di terra dell’Iran»
ma di ipotizzare un «attacco dentro i confini» per eliminare i centri da dove
arrivano aiuti per la guerriglia in Iraq.
Oltre ad avere il profilo militare adatto a guidare un blitz contro l’Iran,
Mullen completa il nuovo assetto dei vertici che premia le forze aeronavali
perché alla guida del Comando centrale delle Truppe Usa, dal quale dipendono le
forze in Medio Oriente, c’è l’ammiraglio William Fallon. L’Air Force ha
inoltre riattivato la cellula top-secret «Checkmate» (Scaccomatto) alle dirette
dipendenze di Michael Moseley, capo di Stato Maggiore dell’aviazione, e
ulteriore tassello è la scelta di affiancare a Mullen come vice il
generale James Cartwright, già comandante delle forze strategiche,
dotate di munizioni nucleari.
Michael Mullen
E’APPENA DIVENTATO CAPO DEGLI STATI MAGGIORI CONGIUNTI AMERICANI E’ STATO
COMANDANTE DELLA MARINA E SI E’ OCCUPATO DI PREPARARE I PIANI PER UN POSSIBILE
ATTACCO CONTRO IL REGIME DI TEHERAN.
Dopo
la crisi dei mutui subprime statunitensi, anche molte banche e finanziarie
italiane stanno stringendo i rubinetti del credito. Nei prossimi mesi, quindi,
ottenere un mutuo o un finanziamento personale diventerà più
complicato o più costoso. Di fronte a queste diffiicoltà, molti
potrebbero cercare scorciatoie che spesso, però, portano nelle mani di
operatori spregiudicati, in grado di agire in una "zona grigia" dove
la legalità sconfina nello strozzinaggio.
«Plus24», il settimanale di finanza e risparmio del «Sole-24 Ore», spiega le
trappole più comuni nell'accesso al credito e presenta le regole da
seguire per evitare brutte sorprese. Inoltre vi mette a disposizione una serie
di risorse online per scegliere in modo consapevole e informato finanziamenti e
mutui.
Ecco le trappole dei finanziamenti
Prestiti e mutui, su Internet le scelte consapevoli
Finanziarie borderline e forzature nelle vendite
I consigli dell'associazione dei consumatori Adusbef
ANALISI / Finisci in mora? Puoi pagare anche il 28% - (di Marco Liera)
Nuovo
polo bancario Si vuole creare un sistema per dare prestiti a basso interesse
bypassando gli istituti di credito Dalla finanza all'informazione: il programma
"politico" alla base del Vaffa day La vita quotidiana La vera
politica? Fare la spesa bene informati, boicottare i prodotti impuri, scegliere
bottiglie d'acqua in base alla vicinanza (per ridurre i Tir sulle autostrade: "Perché
comprare un'acqua marchigiana se ho una sorgente a due metri da casa?").
Nel suo blog sono postate tutte le aziende ritenute pericolose, come la carne
Montana e le Macine del Mulino Bianco. Il Papa e la Chiesa Grillo, molto duro
con Papa Ratzinger, auspica uno scambio con i francesi: "Facciamo come ai
tempi di Avignone, voi prendetevi il Vaticano e noi i vostri politici
giovani". Grillo è stato tra i primi a mostrare il documentario
sulla pedofilia nella Chiesa. Giornalisti e informazione Il prossimo V-Day
sarà contro di loro, in particolare contro la legge sul finanziamento
pubblico all'editoria. Nello spettacolo cita, come giornali da chiudere,
Manifesto, Libero e Foglio. A questa battaglia è legato un suo scivolone
di due anni fa, quando tra le testate "inutili" citò Il
Mucchio Selvaggio. Peccato che nel 2000, quando nessuno lo cercava, Grillo
concesse a quel giornale due lunghe interviste. Grillo ha poi detto, negli
ultimi spettacoli, che prima del V-Day ha mandato una mail a 500 giornalisti
per invitarli a una conferenza stampa, ma nessuno gli ha risposto: o le ha
inviate solo a Scalfari e Mazza, o non dice il vero. Prima del V-Day è
stato intervistato da molte radio (Radio Due, Radio Deejay, Radio Capital) e ha
avuto la copertina di Rolling Stone. La rete e il nuovo mondo Per Grillo i
media "canonici" sono morti: esiste solo la Rete. Riguardo alla tv,
porta avanti la battaglia contro Rete 4, che da anni occupa
"abusivamente" le frequenze assegnate a Europa 7 da una serie di
sentenze (Corte Costituzionale, Consiglio di Stato, Corte di Giustizia Europea)
ignorate dalla Legge Gasparri e dall'attuale ministro Gentiloni. I Comuni a 5
stelle Ogni Comune dovrebbe svettare su 5 punti (stelle): trasporti, energia,
connettività, acqua, rifiuti. Quindi: lotta contro inceneritori (o
termovalorizzatori) e biomasse, perché "il rifiuto non esiste e tutto deve
essere riciclato". Grillo propone l'accorpamento di tutti i Comuni sotto i
15 mila abitanti (per risparmiare), maggiore spazio all'energia eolica e ai
pannelli solari ("non è possibile che in Danimarca sfruttino il
sole più che a Napoli"). No alla Tav. L'acqua non deve essere
privatizzata ("nessuno ha mai pagato la pioggia"). Grillo vuole
l'accesso gratuito alla Rete per ogni cittadino e l'uso di Wimax, un'antenna
che nel raggio di
ROMA ? DA OGGI lo psicodramma cambia palcoscenico. Non più ? o non soltanto ? Palazzo Chigi, ma il Senato. Il filo del dialogo faticosamente ripreso fra Partito democratico e ala sinistra sulla finanziaria lascia immutato l'interrogativo principale: come fare per "neutralizzare" Dini? Pure i gatti sanno che c'è il rischio che il senatore rompa e la manovra ? ancor meglio l'accordo sul lavoro ? potrebbe fornirgli lo spunto: "Se cambiano anche un virgola del protocollo sul Welfare, la finanziaria non avrà la maggioranza", confidava ieri mattina. E il progetto del nuovo partito ? illustrato al nostro giornale ? aumenta i mal di pancia degli alleati. Sui quali non hanno un effetto benefico le dichiarazioni di Berlusconi su possibili fughe dalla Margherita verso sponde più moderate di quelle del Pd. Vero? Falso? Certamente, quella è la platea cui si rivolge l'ex ministro degli Esteri. Poiché i numeri non tornano a Palazzo Madama senza di lui è chiaro che ha un potere di contrattazione immenso: "La partita è aperta", ammette. Ma lo è anche per altri dello stesso colore: resta l'incognita Mastella, assieme a quella costituita da Bordon e Manzione, l'ala destra dell'Ulivo (Polito & co.) e la Rosa nel pugno. "Il continuo tira e molla sulla manovra non ci convince", dichiara Boselli. Sul fronte opposto, è Turigliatto (con Cannavò) a schiacciare il pulsante d'allarme: "Da noi un "no" senza incertezze che ripeteremo anche quando arriverà in Parlamento per il voto E' la solita Finanziaria che dà soldi solo alle imprese". SE PRODI FA buon viso a cattivo gioco ("sono tranquillo, ne discuteremo, ma in generale è stata accolta bene") i pompieri della maggioranza sono al lavoro per tenere assieme i cocci. "E' stata superata una prova impegnativa", dichiara il presidente della Camera Bertinotti. Rilancia Fassino: "Rafforza le scelte politiche del governo". Gli fa eco Rutelli: "E' una vera svolta all'economia italiana e alle politiche sociali". Tiene insomma l'asse nato mercoledì sera durante il vertice di maggioranza: del resto, tranne qualcuno, né i moderati del Pd né l'ala radicale hanno alcuna intenzione di andare adesso alla crisi e men che mai alle elezioni anticipate. Lo dicono chiaramente il leader in pectore del Pd, Veltroni, e quello di Prc, Giordano: le differenze ci sono, ma le due anime della sinsitra "possono convivere e devono dialogare". Perché insieme si perde, divisi di più. Certo: resta la variabile parlamentare. Perché la finanziaria si sa come arriva alle Camere ma non come esce. "Non vogliamo che succeda come lo scorso anno, quando venne stravolta", dicono gli esponenti di Prc. Se è abbastanza trasparente il tentativo di Dini di utilizzare la tassazione delle rendite finanziarie come punto di non ritorno (peraltro, fa sapere di non aver gradito il meccanismo dell'Ici basato sul reddito e non sulle rendite catastali) è altrettanto chiaro che la cosa rossa su quel punto non transige: è possibile, perciò, che se ne vedranno delle belle a Palazzo Madama quando partirà la guerra degli emendamenti. LA CDL NON aspetta altro. E sa che le insidie possono venire anche dai ministri. Con Amato che punta comunque a ottenere qualche soldo di più; lo stesso Parisi ? che racconta qualcuno sia arrivato a minacciare le dimissioni l'altra notte ? o la Bindi che avrebbe fatto fuoco e fiamme per ottenere lo scambio (o una certa compensazione) fra la riduzione dell'Ici e gli assegni alle famiglie con più figli. Le insidie cominciano adesso. E l'antipasto ci sarà mercoledì, quando a Palazzo Madama si discuterà il caso Visco.
VICENZA - «La libertà non si può più conquistare in Parlamento ma attraverso la lotta di milioni di uomini disposti al sacrificio in una guerra di liberazione». Dopo quella dello sciopero fiscalo (applaudita da Berlusconi), da Umberto Bossi arriva un'altra iniziativa-limite contro il governo. Il leader della Lega ha parlato a Vicenza, davanti alla platea del Parlamento del Nord.
DEVOLUTION - Bossi ha poi accusato il presidente della Repubblica e la sinistra di avere «fatto una cosa gravissima, di avere tirato fuori il referendum per lottare contro la devolution. In questo modo hanno affossato la democrazia del Paese che ha perso ogni barlume di lucidità democratica». Secondo Bossi, a Roma, tra le file della maggioranza c’è «un odio razziale e ideologico contro i popoli del Nord» che ormai non hanno più la possibilità di vedere realizzato il federalismo attraverso un cambiamento della Costituzione con metodi democratici e «possono trovare la loro libertà solo attraverso la lotta di liberazione».
CANDIDATO - Grande feeling tra il senatùr e Belusconi. «Il candidato premier per noi rimane lui, perché riesce a tenere bene insieme tutta la coalizione - ha detto Bossi -. Una coazlizione in cui ci sono tanti matti. Io stesso non nascondo di essere un po' matto...» ha aggiunto, spiegando che «Berlusconi è almeno uno che cerca di muoversi per cambiare qualcosa».
LINGUAGGIO - E proprio il leader di Forza Italia ha difeso il «linguaggio colorito» di Bossi. «Lui usa sempre un linguaggio colorito nelle riunioni, ma poi, nella pratica, ha sempre dimostrato un grande senso di responsabilità - ha detto l'ex premier -. Io incontri con la Lega li faccio tutte le settimane e quindi ho l'abitudine anche alle espressioni colorite che usa Umberto, rassicuro tutti che la Lega ha avuto sempre un comportamento corretto e responsabile».
29 settembre 2007
PARIGI
Nei quattro grandi tecnocentri, il «cervello» della Renault, molti ricordano lo
slogan di una campagna pubblicitaria: «Renault, auto da vivere». E invece
è il tempo di interrogarsi se in questi luoghi per le auto si muore: per
fabbricarle più rapidamente e a costi sempre più bassi e
competitivi. A Guyancourt, nelle Yvelines, in primavera, quattro tentativi di
suicidio: tre, purtroppo, riusciti. Il primo è stato definito «incidente
sul lavoro», per un altro gli ispettori hanno individuato prove di mobbing e la
magistratura indaga. E c’è già un altro morto: a Aubevoye, questa
volta, nell’Eure, un tecnico in malattia da inizio mese si è tolto la
vita a casa.
Difficile accertare quanto l’angoscia privata e lo spleen della fabbrica si
intrecciano fino a esplodere con l’organizzazione dell’impresa, i ritmi e
l’ossessione della produttività. «Mobilitazione eccessiva», «pressioni
insopportabili» dicono i documenti sindacali a Guyancourt: in fondo espressioni
vaghe. E i tecnocentri Renault sono luoghi ultramoderni dove si inventano i
nuovi moedelli, i 15 mila dipendenti sono quadri tecnici, nulla riporta alla
«catena». Eppure la gente si uccide. Il sindacato è cauto, «prematuro
trarre conclusioni», ma poi aggiunge: «Conosciamo bene gli effetti
dell’organizzazione del lavoro a Guyancourt».
La direzione ha appena annunciato una riorganizzazione dei tempi «per riportare
serenità e miglior equilibrio». Dovrebbe entrare in vigore il primo
novembre: cambierà l’orario di apertura, le 7 e non più le 5,30 e
le 6, chiusura alle 20,30 e non alle 22,30. Sottolineato il divieto di portare
il lavoro a casa salvo che sotto forma di invio di email. Si promettono nuove
assunzioni nel
Cara
Europa, leggo che al liceo classico Mamiani di Roma gli studenti contestano il
rispetto dell’orario e protestano contro il nuovo regolamento scolastico.
Trattandosi di studenti e di Mamiani, non mi sorprende. Ma mi avvilisce ancora.
ENZA SANTANGELI, ROMA
Cara
signora, neanche io sono sorpreso. I licei esprimono il contesto sociale dal
quale gli studenti provengono: quello del Mamiani è il contesto di un
ceto medio anarcoide, dove anche i padri che si fingono “servitori dello stato”
(impiegati, funzionari, professionisti, ecc.) in realtà lo contestano
con comportamenti poco rispettosi delle regole. Talvolta le regole sono
ridicole, come quelle, mi dicono, introdotte in una scuola superiore di
Civitavecchia: grembiule blu per le fanciulle, pantaloni grigi, camicia nera,
bracciale rosso (niente croce uncinata, però) per i ragazzi. Spesso ai
giovani il cattivo esempio viene dall’alto, con regole capotiche o con
atteggiamenti a-morali: come quello del vescovo di Trento Bressan, che, nel
referendum di domenica prossima sull’abrogazione del finanziamento pubblico
provinciale alle scuole paritarie, invita a non votare (e sono due): «Perché –
spiega – votare no può essere più espressivo, ma la scelta
dell’astensione si rivela in questo caso più efficace». Il fine
giustifica i mezzi, viva la pedagogia democratica degli adulti.
Ciò detto, trovo che i giovani facciano la loro parte distruttiva
quando, come nel caso del Mamiani, rifiutano il nuovo regolamento che impone il
suono della campanella alle 8,10 anziché alle 8,20, con perdita di “crediti”
per i ritardatari: e contestano tutto il regolamento, che, loro dicono,
è stato votato senza il concorso dei genitori e dei ragazzi (cioè
senza rispetto delle regole). Comunque, sono d’accordo col sottosegretario Dalla
Chiesa quando dice che l’inciviltà della società sbrindellata
nasce anche dall’indifferenza alla puntualità: puntualità che
nessuno oserebbe violare quando si entra allo stadio. E sono d’accordo con la
signora italo-americana Bruna Pelucchi, che in una lettera a Repubblica
contesta gli studenti di un liceo di Vicenza in guerra contro l’anticipo delle
lezioni alle 7,30; e ricorda che in America del Nord i suoi figli di 10-13 anni
(scuola media) prendono l’autobus alle 7 e sono a scuola alle 7,30 anche quando
ci sono 20 gradi sotto zero. Come vede, la storia dei “vecchi fusti” rimpianti
da Longanesi, che ho ricordato di recente, non vale solo per gli adulti, ma
anche per i ragazzi e i giovani: ce ne sono già “fusti” a dieci anni e
tanti altri già smollacchiati a quindici.
ROMA
Se ne sono dette davvero di tutti i colori, negli ultimi giorni, ma ora tra
Beppe Grillo e Clemente Mastella sembra arrivato il momento di una "pace
di Ceppaloni". Un colpo di scena che non solo potrebbe archiviare i
durissimi scambi di accuse sull’indulto ma addirittura veder nascere una strana
coppia editoriale, se andasse davvero in porto quella sorta di versione
alternativa al fortunatissimo La Casta, vagheggiata da Mastella e
colta al volo da Grillo.
L’iniziativa la prende proprio il comico-blogger che, a sorpresa, dichiara da
Internet: «Non ci sto più al gioco al massacro ceppalonico. Mastella
è solo un capro espiatorio. Il migliore sulla piazza della politica,
certo. Per questo hanno scelto lui. Ma l’indulto non è una sua idea, ne
sono convinto». Di più: «Mastella ha detto una grande cosa, ha
annunciato un libro "su tutte le altre caste, a partire dai giornalisti".
Questa volta sono d’accordo con lui. Gli offro la mia prefazione o, se
preferisce, il libro lo possiamo scrivere a quattro mani. Vado fino a Ceppaloni
se mi invita».
E l’invito arriva davvero. «Rispondo a Grillo che a scrivere sulle caste sono
disponibile. Può venire tranquillamente a Ceppaloni come mi ha chiesto e
possiamo scrivere a quattro mani», dice a L’Aquila il ministro di Giustizia.
«Io credo - ha rilevato Clemente Mastella - che nel nostro Paese ci sia oggi
sotto pressione la classe politica, le sue responsabilità, ma ci sono
tante caste molto più forti e più potenti della cosiddetta casta
della politica. Ci sono "castisti" molto più forti».
+
Il Sole 24 Ore 28-9-2007 Myanmar,
i soldati ora rifiutano di sparare sulla folla. Guarda i video
Il Riformista 28-9-2007 Se la
Costituente sembra l’anticamera della Casta
di Claudia Mancina
Italia Oggi 28-9-2007 Crack
finanziari, fondo ok di Marco Gasparini
TRANSPARENCY
/ Il paese più corrotto del mondo
Foto / le immagini dei cortei dei monaci
La
storia/ 45 anni di dittatura
Bush
all'Onu: Fidel Castro vicino alla fine
Prodi
all'Onu: dobbiamo fermare la pena di morte
Dopo le speculazioni su presunte spaccature tra i generali al potere in
Birmania, ecco i nomi: il numero due del regime, generale "Maung Aye e i
suoi fedelissimi sono contrari a sparare sulla folla". Lo ha rivelato una
fonte vicina ai vertici militari al sito di
informazione degli esuli birmani, Mizzima News. Il generale Maung Aye, braccio
destro del capo della giunta militare golpista, Than Shwe, ha una posizione ben
diversa dal suo "superiore" sul come affrontare le proteste degli
ultimi giorni nel paese, secondo il sito. Il sito Mizzima News è stato
creato nell'agosto 1998 da un gruppo di giornalisti birmani in esilio.
Il
bilancio delle vittime della sanguinosa repressione contro i manifestanti per
la democrazia nel Myanmar, scatenata dal regime per porre fine a cinque
settimane di proteste, sarebbe in realtà assai più elevato
rispetto alle cifre ufficiali: lo ha denunciato l'ambasciatore d'Australia
nell'ex Birmania, Bob Davis, intervistato dall'emittente radofonica pubblica
"Abc". Secondo la Giunta militare birmana, i morti ammonterebbero
complessivamente a dieci, ma a detta del diplomatico di Canberra testimoni
oculari avrebbero riferito ad alcuni suoi collaboratori di aver visto
«rimuovere ieri dal teatro delle manifestazioni nel centro di Yangon un numero
di cadaveri significativamente superiore» a quello reso noto dal regime. Il
computo reale, ha aggiunto Davis, sarebbe «parecchie volte il multiplo» delle
dieci persone uccise «riconosciute dalle autorità».
Nuove sanzioni Usa.
Gli Stati Uniti hanno annunciato l'imposizione di nuove sanzioni economiche
contro quattordici alti dirigenti governativi birmani a causa della repressione
delle manifestazioni per la democrazia nel Paese. Il dipartimento del Tesoro ha
riferito di aver preso le misure dopo la decisione del presidente George W.
Bush di rafforzare le sanzioni già esistenti contro la giunta militare
birmana. «Il presidente è stato molto chiaro sul fatto che noi non
resteremo con le braccia incrociate mentre il regime tenta di far tacere le
voci del popolo birmano con la repressione e l'intimidazione» ha dichiarato
Adam Szubin, direttore dell'ufficio gestione averi al dipartimento del Tesoro.
Saranno perstanto bloccati tutti gli averi detenuti dai dirigenti birmani nelle
banche americane o in altre istituzioni finanziarie poste sotto giurisdizione
americana. A tutti gli americani è poi vietato commerciare con quelle
persone.
Tagliato Internet
Dopo due giorni di violenze nelle strade di Yangon), il principale collegamento
a Internet ha smesso oggi di funzionare. Un responsabile birmano delle
telecomunicazioni ha attribuito il problema a «un cavo subacqueo danneggiato».
«Internet non funziona perché è stato danneggiato un cavo subacqueo», ha
dichiarato sotto anonimato all'agenzia di stampa France Presse un responsabile
dell'azienda di stato, Myanmar Poste e Telecomunicazioni. Proprio la rete ha
consentito nei giorni scorsi di poter diffondere immagini e testimonianze di
quanto sta avvenendo nel Paese.
Ucciso un fotoreporter giapponese
I bilanci ufficiali riferiscono di nove morti, 11 feriti tra i manifestanti e
31 agenti del governo contusi. Tra le vittime c'è anche un reporter
giapponese, Kenji Nagai, 50 anni, collaboratore dell'agenzia stampa giapponese
Apf. Nagai è rimasto ucciso sotto il fuoco dei militari del sanguinoso
regime di Than Shwe. Con lui sarebbe morto un altro giornalista, ma la notizia
non è stata confermata nè si hanno precise indicazioni sulla sua
nazionalità. Proprio l'assenza di notizie precise, l'incertezza che
accompagna gli eventi di queste ultime ore testimoniano la grave repressione in
corso.
Le reazioni diplomatiche
Sul fronte diplomatico, mentre si susseguono le dimostrazioni di
solidarietà nei confronti del popolo birmano (ieri a Roma manifestazione
di solidarietà in Campidoglio) restano però le profonde divisioni
interne alle istituzioni internazionali con Russia e Cina, entrambi membri
permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, contrari a infliggere sanzioni
contro il governo del Myanmar (Birmania). La Cina si è tuttavia unita
agli altri paesi Onu nell'appello alla moderazione rivolto alla giunta
militare. Ieri i Rappresentanti permanenti degli Stati membri della Ue
(Coreper), riuniti a Bruxelles, hanno deciso di rafforzare il sistema di
sanzioni già in vigore, decidendo di mandare al contempo un segnale di
solidarietà ai cittadini della Birmania. Parole forti sono giunte anche
dal presidente americano Bush che ha invitato «i Paesi che possono influenzare
il regime affinché si uniscano a noi nel dare sostegno alle aspirazioni del
popolo birmano». E intanto il ministero del Tesoro statunitense ha annunciato
sanzioni economiche nei confronti di 14 alti membri del governo di Myanmar. Il
ministro degli Esteri Massimo D'Alema e il segretario di Stato di Washington
Condoleezza Rice hanno trovato «piena intesa» sulla crisi in Birmania nel
vertice bilaterale a porte chiuse che si è svolto al Palazzo di Vetro di
New York. I capi delle due diplomazie condividono la «gravissima
preoccupazione» e la convinzione che la comunità internazionale debba
rimanere «focalizzata su questo punto e faccia pressioni per risolvere la
situazione, che resta molto seria». Contrarietà, infine, a quanto sta
accadendo in Birmania è stata espressa anche dall'Asean (Associazione
dei Paesi del sud-est asiatico) i cui rappresentanti si sono incontrati a New
York a margine dei lavori dell'Assemblea generale dell'Onu.
Bruxelles
– Se la crisi dei mercati finanziari non sarà superata rapidamente
allora l'anno prossimo saranno guai per la crescita dell'eurozona. Lo ha
ammesso indirettamente il commissario europeo Joaquin Almunia in una intervista a un quotidiano spagnolo:
"Prima dell'inverno annunceremo che nel 2008 ci sarà qualcosa meno
in termini di crescita del pil. Ciò non vuol dire che non seguirà
un recupero, ma sta di fatto che siamo in una fase del ciclo economico
più matura e ci sono più rischi al ribasso: salvo che la crisi
non si prolunghi l'anno prossimo non c'è da essere pessimisti". A
parte il "pensiero magico" di moda in Francia, con il passare delle
settimane la crisi subprime, con qualche scossone bancario in Germania e il
tracollo della Northern Bank nel Regno Unito, il rischio di una erosione
più rapida dei valori immobiliari nei paesi in cui le famiglie hanno
contratto in massa mutui a tasso variabile (come in Spagna), la grande
incertezza sugli sviluppi oltre Atlantico, ha radicalmente cambiato l'umore dei
responsabili politici fino a ieri superottimisti. Il motivo è semplice:
ormai è assodato, dice la Commissione Ue, che il punto più alto
della crescita nell'eurozona è "alle spalle". Già
all'inizio dell'estate la produzione era aumentata a un tasso annualizzato
dell'1,4%: rispetto all'inizio dell'anno la velocità dell'espansione si era
dimezzata. Poi rema contro il fattore fiducia. In settembre l'indice BCI
(business climate indicator) per l'eurozona è caduto di 0,28 punti,
peggio del calo di luglio (prima della pausa di agosto); l'indice ESI che
misura il "sentimento" sull'andamento attuale e futuro dell'economia
nell'industria, nei servizi, tra i consumatori, nel commercio al dettaglio e
nelle costruzioni, è calato di 2,8 punti. Anche se i valori restano al
di sopra della media di lungo termine, il trimestre si chiude malissimo.
Emerge un caso Germania, che vale un terzo dell'economia eurozona e colleziona
i risultati peggiori in tutti i settori eccetto le costruzioni seguita dalla
Spagna. Contrariamente a quanto sostiene la Bundesbank, convinta che la ripresa tedesca ha una
"forte dimensione endogena" anche se rallenta, il centro di ricerche Zew di Mannheim, che pubblica l'importante
indice sulla fiducia in caduta per due mesi consecutivi dopo la crisi subprime
e sotto la media storica, invece "non esclude la possibilità che la
crisi possa diffondere i suoi effetti sull'economia tedesca" in
particolare nelle banche, nelle assicurazioni e nelle costruzioni. Anche se
nell'eurozona la crescita salariale è modesta e i profitti delle imprese
restano elevati, con i tassi di interesse in ascesa (soprattutto dopo il 2,1%
di inflazione in settembre) e l'apprezzamento dell'euro stanno progressivamente
erodendo i fattori che hanno sostenuto l'attività economica. Per l'European Forecasting
Network "la ripresa degli investimenti si esaurirà in
autunno". I consumi compenseranno la frenata perché aumenta l'occupazione
e cala la disoccupazione, ma non c'è da fidarsi troppo: abbiamo alle
spalle anche il picco della crescita degli occupati. Quanto al supereuro, anche
se le esportazioni dell'eurozona negli Usa contano meno del 3% del pil, la
relativa dissociazione (decoupling) dell'Europa dalle fortune e dalle sfortune
americane non protegge consumatori e imprese dall'aumento dei costi. A quota
1,40-1,50 dollari anche la competitiva industria esportatrice tedesca, che ha
bisogno come il pane di un euro più forte di quanto convenga alla
Francia, si preoccupa. Per dotarsi di beni intermedi e componenti la Germania,
infatti, importa l'equivalente del 10% del pil attraverso le imprese
delocalizzate. Il solo vantaggio è che il barile di petrolio costa 80
dollari.
«A
Roma spadroneggia un piccolo gruppo di padreterni, i quali si sono persuasi, insieme con
qualche ministro di avere la sapienza infusa nel vasto cervello». Non sono parole
di Beppe Grillo, né diGuglielmo Giannini, né di quel Corrado Tedeschi che
inventò il Partito della bistecca e neppure di Umberto Bossi ai tempi in
cui tuonava «mai più soldi agli stronzi romani». L'atto di accusa
è di Luigi Einaudi, oggi venerato come uno dei padri della Patria e una
delle figure più limpide della nostra storia anche da quanti un tempo lo
consideravano un avversario.
Era
il primo febbraio 1919,
la Grande Guerra era finita da poche settimane, Guglielmo II era fuggito nei
Paesi Bassi, a Berlino erano stati appena rapiti e uccisi Rosa Luxemburg e Karl
Liebknecht, a Parigi s'era aperta la Conferenza di pace e da noi, dove Luigi
Sturzo aveva appena fondato il Partito Popolare, cominciava quel «biennio
rosso» che si sarebbe concluso con una dura sconfitta delle sinistre e
l'avvento del fascismo. Alla guida del governo c'era Vittorio Emanuele Orlando,
agli Esteri Sidney Sonnino, al Tesoro Bonaldo Stringher, alla Giustizia Luigi
Facta. Gente che Einaudi considerava, per usare un eufemismo, in larga parte
inadeguata. Come dimostra appunto quanto scrisse sul Corriere in uno degli
articoli oggi raccolti dalla Mondadori nei bellissimi «Meridiani» dedicati al
«Giornalismo italiano ». Il futuro capo dello Stato, al fianco degli
industriali «inferociti», accusava l'esecutivo: «Non mantiene le promesse,
impedisce con i suoi vincoli il movimento a coloro che avrebbero voglia di
agire, fa perdere quei mercati che gli industriali italiani erano riusciti a
conquistare, prepara disastri al Paese, accolla sempre nuovi oneri alle
industrie...». Perché? Per la mania di mettere le mani su tutto, immaginare
«monopoli che non sa poi come amministrare», rivendicare compiti che poi non sa
assolvere impedendo insieme che «provvedano i privati».
Per
non dire di lacci e lacciuoli come gli «istituti dei consumi, grazie a cui magistrati,
professori, segretari di prefettura, postelegrafici perderanno il proprio tempo
ad annusar formaggi e negoziar merluzzi». O della scelta di «sovracaricare i
proprietari di case di nuovi balzelli sperequati e impedir loro un parziale
adattamento delle pigioni ». Basta, scriveva: «Bisogna licenziare questi
padreterni orgogliosi (...) persuasi di avere il dono divino di guidare i
popoli nel procacciarsi il pane quotidiano. Troppo a lungo li abbiamo
sopportati. I professori ritornino ad insegnare, i consiglieri di Stato ai loro
pareri, i militari ai reggimenti e, se passano i limiti d'età, si
piglino il meritato riposo».
Insomma:
«Ognuno ritorni al suo mestiere». E «si sciolgano commissioni, si disfino
commissariati eMinisteri » così che «un po' alla volta tutta questa
verminaia fastidiosa sia spazzata via. Coloro che lavorano sono stanchi di
essere comandati dagli scríbacchiatori di carte d'archivio» superiori alla
società governata «soltanto per orgoglio e incompetenza ». Parole
durissime. Che non salvavano pressoché nulla e nessuno. Era un qualunquista,
Luigi Einaudi? Un demagogo? Un populista? Un «giullare della Suburra»? Meglio
andarci piano, sempre, con le etichette insultanti. Forse, se i politici
«padreterni» di allora lo avessero ascoltato senza fare spallucce, tre anni
dopo ci saremmo evitati la Marcia su Roma.
28
settembre 2007
ROMA - Un contratto di vendita, con tanto di firme.
Un accordo, nero su bianco, per vendere un pacchetto di voti, sotto elezioni,
in cambio di un posto da dirigente alla Provincia di Udine. L'acquirente
è l'attuale presidente, Marzio Strassoldo, alla guida di una giunta di
centrodestra, riconfermato proprio dopo le amministrative del 2006.
Il venditore è un politico locale con un gruzzolo di preferenze, Italo
Tavoschi, ex vicesindaco di Udine, centrista eletto con una lista civica. Nel
documento stilato c'è pure il prezzo. Senza troppi giri di parole: 210
mila euro, in tre anni. Ora, Tavoschi, che si dichiara disoccupato, ha
presentato ricorso all'ufficio del lavoro. Sì, proprio all'ufficio del
lavoro. Lamenta il mancato rispetto di quel contratto.
Lui, scrive nel ricorso, l'accordo l'ha onorato e il presidente i suoi 420 voti
"dopo un'intesa campagna elettorale", li ha ottenuti. Il centrodestra
ha vinto le elezioni, ma, il posto da dirigente, dopo un anno, ancora non l'ha
avuto. Un accordo comunque, che entrambe le parti, interpellate, definiscono lecito,
seppure poi, dissentono sulla sua risoluzione. La vicenda è stata
rivelata ieri dal "Messaggero Veneto".
Per il presidente Strassoldo "è uno di quei tanti accordi politici
che si sottoscrivono in campagna elettorale. Solo che invece di chiedere un
posto in giunta, per il quale Tavoschi, come singolo candidato, non aveva
titolo, ha preteso un incarico dirigenziale". E, aggiunge, "in
effetti l'accordo teneva conto del fatto che c'erano prospettive che si
liberassero alcuni posti da dirigente. Ma subito, quelle opportunità
sono state vanificate dalle norme della Finanziaria che ponevamo precisi
paletti...".
Ma ecco, parola per parola, il contenuto del contratto, firmato il 20 febbraio
2006, cinquanta giorni prima del voto. "Italo Tavoschi si impegna a
sostenere il prof. Strassoldo, alle prossime elezioni provinciali, e lo fa
schierandosi in una lista che fa capo a Strassoldo, presentandosi in uno o
più collegi nella città, oppure a discrezione dello stesso
presidente, in altri collegi del territorio. Il presidente Strassoldo si
impegna a riconoscere a Italo Tavoschi, per questa personale discesa in campo,
nel caso di vittoria elettorale e conseguente conferma a presidente della
Provincia di Udine, un incarico amministrativo, per la durata minima di tre
anni, eventualmente rinnovabile.
Detto incarico, riguarderà il comparto delle attività produttive
ed in particolare la promozione turistica della nostra provincia. Al dott.
Tavoschi sarà riservato il trattamento economico lordo annuo di euro
70.000,00 (settantamila), nell'area dirigenziale, con oneri previdenziali a
carico dell'ente Provincia. In alternativa potrà essere sottoscritto un
contratto a progetto, di pari importo annuo, per la durata di anni cinque.
Firmato Mario Strassoldo e Italo Tavoschi".
Sempre nel ricorso all'ufficio del lavoro, Tavoschi sottolinea di aver speso
oltre tremila euro per "santini" e manifesti. E aggiunge che, in
seguito, "non ha nemmeno potuto trovare altra occupazione dato che era in
attesa dell'incarico promesso". Imbarazzo nella coalizione di centrodestra
che sostiene il presidente. An, Forza Italia e Udc, chiedono un vertice
urgente. La Lega minaccia di ritirare gli assessori. Il Movimento Friuli,
espressione sia del presidente che della lista dov'era candidato Tavoschi,
tace.
(28 settembre 2007)
Il Partito democratico vuol essere la risposta all’antipolitica: perché
è il superamento dei vecchi partiti, l’inizio di una “nuova stagione”,
il ritorno di quella bella e buona politica di cui tutti sentiamo la nostalgia
(qualcuno fino al punto di rimpiangere i partiti ideologici, le affiliazioni
quasi religiose del Novecento: il che è decisamente troppo). La grande
avventura democratica delle primarie è stata dipinta da Veltroni come
una esperienza del tutto nuova in questo paese, che muterebbe il volto e la
qualità della politica. E certamente la fondazione di un partito nuovo
con un atto democratico di questo genere è qualcosa di assolutamente
inedito, che potrebbe essere entusiasmante, e spegnere le critiche di quanti
fin dall’inizio hanno visto nell’operazione Pd solo la fusione di due partiti
di mediocre fortuna, che si metterebbero insieme per superare la loro debolezza
e i limiti del loro insediamento. È così?
I primi passi del candidato Veltroni hanno dato fiducia e fatto sperare in un
buon vento, ma la formazione delle liste per l’Assemblea costituente ha di
nuovo fatto calare le vele del Pd. Non tanto perché le liste appaiono alla fine
costituite da una robusta nomenclatura con una spruzzata tipicamente
veltroniana (tanto cinema, un po’ di letteratura, un pizzico di beni culturali,
cognomi eccellenti, vecchie glorie & sedicenni); ma soprattutto perché la
regia mediatica del sindaco di Roma non ha potuto, nonostante la sua consumata
abilità, nascondere la frenesia con la quale migliaia di candidati si
sono precipitati su queste liste, neanche si trattasse dell’elezione al
Parlamento. Le cronache hanno raccontato di notti allucinanti; le polemiche del
giorno dopo si sprecano. È vero che ogni formazione di liste porta con
sé inevitabili polemiche; in questo caso, però, ciò che appare
preoccupante è proprio la somiglianza con la formazione delle liste di
elezioni politiche o amministrative. L’assemblea costituente di un partito non
può essere percepita come il Parlamento di uno Stato. Se i candidati
cadono in questa piuttosto sconcertante illusione ottica, c’è qualcosa
che non funziona. Anzitutto, io credo, è abbastanza assurdo pensare in
termini di campagna elettorale personale dei candidati alla costituente. Mentre
infatti per la carica di segretario c’è effettivamente una elezione
primaria, e quindi è del tutto normale e necessaria un campagna
elettorale che metta a confronto i diversi candidati, non si comprende che cosa
questo possa significare nel caso dell’elezione della costituente, che non
prevede preferenze e quindi non può essere considerata una primaria. I
diversi candidati possono certamente fare campagna per il candidato segretario
da loro sostenuto, per promuovere la partecipazione e per sostenere la singola
lista di cui fanno parte. Ma una campagna elettorale personale non ha senso
logico. Purtroppo il regolamento di autodisciplina è complice di questa
situazione, perché (condividendo quella illusione ottica che confonde
l’assemblea con il Parlamento) consente una campagna personale, ponendo un
tetto di spesa ma non impedendo, per esempio, l’affissione di manifesti con
nome e foto, in tutto simili ai manifesti elettorali, come si vedono a Roma.
All’articolo 4, infatti, dice: «È ammessa l’affissione in luoghi
pubblici di manifesti diretti a promuovere la candidatura o le iniziative di
singoli o liste purché negli spazi e con le modalità previste dalla
normativa vigente».
Sarebbe stato preferibile non consentire la propaganda personale, non per
ragioni moralistiche, ma perché estranea all’occasione specifica costituita
dall’elezione dell’Assemblea costituente. Ci si può stupire che a molti
- certo influenzati dalla fase che il nostro dibattito pubblico sta attraversando
- questo modo di concepire l’elezione della costituente evochi, più che
la fondazione di un nuovo partito democratico, una prenotazione per le future e
autentiche liste (Parlamento, consigli regionali, provinciali ecc.), ovvero una
specie di preiscrizione ai ranghi della “casta”?
La Bce presta 3,9 miliardi al 5% a istituti
costretti alla misura di emergenza ROMA. Supereuro anche ieri, ormai ad un
passo da 1,42 dollari, con un nuovo record a 1,4189. Il mercato valutario punta
dichiaratamente su un nuovo taglio dei Fed Funds da parte della banca centrale
statunitense, in occasione della riunione di fine ottobre. Proprio ieri del
resto dagli Stati Uniti è arrivato il dato peggiore delle attese sulle
compravendite di nuove case ad agosto, con una flessione dell' 8,3% e il prezzo
medio delle abitazioni calato del 7,5%, il peggiore risultato dal 1970.
Paradossalmente, dopo la comunicazione di questa statistica l'euro ha perso
qualche posizione, pur mantenendosi largamente sopra 1,41 dollari. Con ogni
probabilità sono scattate le prese di beneficio, considerato che nelle
ultime sei sedute la valuta unica ha inanellato record su record. L'euro ha
risentito negativamente anche del fatto che la Bce ha ieri comunicato di aver
accordato un finanziamento da 3,9 miliardi al tasso marginale, un tasso di
emergenza che ha un costo di un punto percentuale superiore a quello overnight.
Si tratta dell'importo più elevato accordato tramite questo strumento -
che equivale al tasso di sconto - dal mese di ottobre del 2004 (quando le banche
presero in prestito 7,9 miliardi di euro), di conseguenza l'intervento ha
alimentato rumors circa le difficoltà di uno o più istituti
bancari, segno che lo scossone dei mutui subprime non si è esaurito. La
mossa ha colto di sorpresa anche trader e operatori, che non vedono al momento
nel mercato una carenza di liquidità tale da costringere le banche
a fare ricorso ad una modalità di finanziamento penalizzante, a cui
solitamente attingono quando si trovano a corto di liquidi. Sono 2.141 le banche
ammesse a tale forma di finanziamento, ma la Bce non ha mai comunicato ufficialmente
i nomi di chi ne ha fatto ricorso e difficilmente succederà ora il
contrario. Molti analisti ricordano come solo martedì scorso la Bce
abbia iniettato nel mercato 33 miliardi di euro, mentre ieri sono stati immessi
nel sistema altri 38 miliardi, l'importo più elevato dallo scorso 10
agosto, quando ci si trovava nel pieno della crisi scaturita dalle
difficoltà del credito cosiddetto 'subprime'. A questo punto, diversi
osservatori iniziano a domandarsi "dove siano seppelliti i cadaveri",
lasciando intendere che le cifre sull'esposizione delle banche europee
siano state sottostimate, mentre l'ottimismo sinora mostrato potrebbe essere
solo di facciata. Il cross dollaro/yen si è infine attestato su un
massimo a 115,88; nelle ultime sedute si è assistito ad un indebolimento
della valuta nipponica per via del riproporsi delle operazioni cosiddette di
'carrying trade' in cui gli investitori si indebitano in yen per acquistare
asset più redditizi in altre valute. La ripresa di questi movimenti
testimonia in ogni caso il ripristino di condizioni di maggiore calma sul
mercato valutario, dopo che questa tipologia di interventi si era fermata del
tutto in coincidenza con la crisi provocata dal dissesto dei mutui immobiliari
statunitensi ad alto rischio.
Oggi in cdm il decreto che istituisce le
misure a garanzia dei risparmiatori Crack finanziari, fondo ok Risarcimento del
danno subito entro 60 giorni Tempi certi per il risarcimento del danno subito e
armi più efficaci per evitare il dribbling delle banche e degli
intermediari che hanno violato le norme sulla correttezza e la trasparenza dei
prodotti finanziari esponendosi alla censura della Consob. Queste le
principali novità inserite nel dlgs che istituisce presso la Commissione
nazionale per le società e la borsa le procedure di conciliazione, …..
+ L’Unità 27-9-2007 Babele a
Roma Gianfranco Pasquino
Qualche
tempo fa ho visto un film, Tredici giorni, non particolarmente
brillante, infatti, ha avuto poco successo nelle sale, ma altamente istruttivo
da più punti di vista. Al centro della narrazione stava il Presidente
degli Stati Uniti d’America, John Fitzgerald Kennedy, che doveva rispondere
all’installazione a Cuba di missili sovietici probabilmente dotati di testate
nucleari. Il Presidente aveva convocato nella famosa Sala Ovale della Casa
Bianca non più di una decina fra consiglieri, generali e ministri (fra i
quali, il fratello Robert, Ministro della Giustizia).
Non soltanto, il dibattito, come è confermato da tutti i resoconti, era
intenso e aspro, ma nessuno dei partecipanti mostrava alcun timore reverenziale
nei confronti del Presidente. Anzi, in più occasioni il Presidente
veniva criticato, ovviamente con la proposizione di argomenti contrari alla sua
posizione e con motivazioni specifiche. Alla fine, toccò al Presidente
prendere la decisione, «chiamando» quello che poteva anche non essere un bluff
sovietico e Kruscev decise di ritirare i missili.
Qual'è la parte istruttiva del film Tredici giorni? In primo luogo che i
grandi leader non si circondano di «yes men», ma di consiglieri la cui
autorevolezza e la cui competenza permettono loro di contraddire anche un
Presidente degli Usa. In secondo luogo, che il grande leader vuole essere
contraddetto per impararne di più. Se tutti gli dicessero «sì,
hai ragione», le motivazioni di una decisione e la sua validità non
potrebbero essere saggiate. In terzo luogo, che se una sede è
decisionale, allora i partecipanti debbono essere pochi. Al di sopra di una
certa soglia, probabilmente dieci o dodici partecipanti, la procedura
decisionale diventa farraginosa, confusa, poco produttiva. Anche il cosiddetto
«inner Cabinet» inglese, vero luogo decisionale, ha per l'appunto un basso
numero di partecipanti. Infine, la decisione è formulata e presa dal
capo dell'esecutivo.
Qualche lettore si chiederà dove va a parare questa narrazione che non
è soltanto una premessa. Anzitutto, intende essere una critica,
nient'affatto sommessa, ma esplicita, ai riti dell'attuale governo italiano (i
precedenti li ho criticati a tempo debito) celebrati in incontri pletorici
quasi che il coinvolgimento di tutti possa portare a decisioni migliori o,
quantomeno, disinneschi i dissensi. No, le decisioni troppo negoziate non sono
affatto migliori e, quanto ai dissensi, quando la riunione non è neppure
ancora terminata, i dissenzienti hanno già trovato modo di rilasciare
dichiarazioni alle radio e, preferibilmente, con buona pace delle serie parole
del Presidente Napolitano, alle televisioni nel tentativo, spesso coronato da
successo, di comparire nei telegiornali.
Naturalmente, conosco anche la replica alla mia critica. La coalizione di
governo è ampia, oh, yes, e composita. Bisogna tenere conto di tutti i
punti di vista. D'altronde, è lo stesso schieramento sociale del
centro-sinistra che si esprime in una molteplicità di rappresentanti.
Dulcis in fundo, se poi Prodi si definisce «assistente sociale» della sua
maggioranza, non c'è più nulla da paragonare a processi
decisionali anglosassoni, ma neppure, per non andare troppo lontano, francesi.
Si aggiunga che, per coinvolgere un po' tutti, non soltanto ci sono
all'incirca, poco più poco meno, 35 mila candidati all'Assemblea
Costituente del Partito Democratico, ma l'Assemblea che, dunque, non
potrà essere che molto marginalmente una sede decisionale, se non per
linee estremamente semplificatorie, avrà duemilacinquecento componenti.
Certamente, un grande esperimento di massa, la cui qualità dovrebbe
essere freddamente valutata in seguito, e per fortuna che il segretario del
Partito democratico, se ottiene almeno il 50 per cento dei voti di tutti coloro
che si recheranno alle urne il 14 ottobre, sarà eletto direttamente.
Il fatto è che la sinistra, al governo e nel paese, non riesce a
sfuggire alla tentazione di rappresentare la frammentazione (ma il
rispecchiamento non è mai rappresentanza) e non riesce ad approdare a
due lidi molto raccomandabili: la competizione e la decisione. Si ha vera
competizione quando tutti «corrono» senza reti di sicurezza, ad esempio, non si
fanno cooptare come capolista in liste bloccate, dopo avere proposto e promesso
«primarie sempre» e teorizzato la «contendibilità» di tutte le cariche.
Si ha competizione quando chi perde esce, almeno per un giro, senza
necessariamente, se davvero fa politica per passione, uscire dal giro. Quanto
alla decisione, chi è a capo di un governo (o di un partito) ha l'onere
e l'onore di prendere le decisioni, certamente dopo avere ascoltato, ma non
necessariamente ceduto in maniera tale da produrre soltanto decisioni di minimo
comune denominatore.
La decisione guarda avanti.
È una sintesi proiettata nel futuro, ma, naturalmente, può essere
riformata a ragione veduta. Se, come il Ministro Bersani ha dichiarato fin
troppe volte, la politica ha una marcia in meno della società (a mio
parere, non sempre e non dappertutto, neppure nel Nord!)) e nel distacco si
manifestano e proliferano i germi dell'antipolitica, allora è chiaro che
vertici di governo, per di più allargati, non sono mai uno strumento che
aumenti la velocità della politica. Anzi, sembrano fatti apposta per
confermare le critiche politiche e antipolitiche. E quando la politica non
è la soluzione dei problemi di un paese, della sua spesso frammentata,
autoreferenziale e egoista società, diventa rapidamente un problema per
quella società e per le opportunità di costruire una buona
politica. Semplificare e rendere trasparente è possibile, a cominciare
dai vertici. Forse, adesso, è addirittura indispensabile.
ROMA
— È il partito più grande d’Italia. Non ha un nome ufficiale e nemmeno
sezioni sparse ai quattro angoli del Paese. Ma in Parlamento può contare
su quasi 400 (inconsapevoli) iscritti. Sono i deputati e i senatori al primo
mandato, mai eletti prima. Debuttanti. Per loro il giorno x è a
metà ottobre 2008: se allora saranno ancora in sella avranno diritto
alla pensione da parlamentare. Se invece si dovesse andare al voto prima,
nisba, nemmeno un euro per rendere più lieve la vecchiaia. Una tentazione
trasversale per evitare elezioni troppo anticipate? Caso concreto, cominciando
dall’opposizione che rischia pure il conflitto d’interessi tra politica e
portafoglio.
Metà
novembre, voto in bilico al Senato, la Cdl può riuscire nella
spallata. Senatore Mario Baldassarri, sceglie il tasto rosso che fa cadere il
governo oppure ripiega sul tasto verde che tiene in piedi la sua pensione e il
governo? «Per carità —ride l’ex ministro di An—cada Prodi e pure la
pensione. Nessun dubbio. Tanto io l’ho già maturata come professore universitario».
Negano tutti, certo. Ed è forse esagerato pensare al Papp (Partito
Aspiranti Pensionati Parlamentari) come ad una misteriosa Spectre capace di
influenzare i destini d’Italia.
Ma
è comunque una variabile della formula che potrebbe riportarci alle urne prima
del previsto. Nella maggioranza dovrebbe essere tutto più facile.
Antonio Polito (Ulivo) lo spiega con una battuta: «È un motivo in
più per augurare lunga vita al governo Prodi. Meglio qualche euro in
più che qualche euro in meno. Ma se uno si fa i conti in tasca non
è che poi ci sia tutta questa differenza». Ecco, i conti in tasca. Dopo
due anni, sei mesi e un giorno di lavoro alla Camera o al Senato (calcolati dal
giorno della proclamazione) l’assegno è intorno ai 2.500 euro lordi al
mese. Non si prendono subito ma una volta compiuti 65 anni. Forse troppo in
là per far cadere in tentazione i giovani.
E
infatti non bastano a convincere chi, eletto con l’Unione e di poco sopra i
30 anni, è deluso dal governo. «Per me — dice Francesco Caruso, Rifondazione
— possiamo votare pure domani. Chi se ne frega della pensione se dobbiamo stare
qui ad aspettare i ricatti di Lamberto Dini ». «La legislatura — concorda
Daniele Capezzone, Rosa nel pugno — è già arrivata
all’accanimento terapeutico. Spero che nessuno pensi di vivacchiare un annetto
per qualche spicciolo in più». Cadono tutti dalle nuvole. Come l’ex
soubrette Mara Carfagna, Forza Italia: «Chissà cosa farò quando
avrò 65 anni... io non ho deciso di far politica per soldi maper
passione, per contribuire all’interesse nazionale».
Nessuna
intesa sotterranea,
nessuna riunione carbonara, nessun ammiccamento quando in Transatlantico gli
iscritti al Papp incrociano gli sguardi? Giulia Bongiorno (An) rispolvera il
linguaggio delle sue arringhe migliori: «Se qualcuno dovesse porre in essere
condotte finalizzate a tenere in vita il governo solo per una propria
soddisfazione economica... » Cosa accadrebbe, avvocato? «Ci troveremmo davanti
ad un comportamento se non penalmente rilevante di sicuro moralmente rilevante».
E niente clemenza della corte. Il punto è che molti dei debuttanti hanno
già un lavoro alle spalle. Nicola Buccico: «Se volevo guadagnare di
più, continuavo a fare l’avvocato. E poi la pensione già ce l’ho
come consigliere regionale. Faccio pure il sindaco, senza indennità.
Domani, dopodomani, votiamo quando volete».
Fernando
Rossi, l’ex Pdci
che con il suo non voto contribuì a mettere in crisi il governo: «Tra
poco maturo la pensione da impiegato regionale. Lunga vita a Prodi, ma non per
i soldi: dopo di lui chiunque sarà peggiore». Sergio De Gregorio, l’ex
dipietrista passato con la Cdl, dopo una vita fra tv e quotidiani: «La pensione
e la cassa sanitaria dei giornalisti sono meglio di questa. Nun me ne po’
frega’ de meno». Chi è giovane vede il traguardo troppo lontano, chi
è più grandicello magari una pensione ce l’ha già. Ma,
allora, il problema non esiste? Paola Binetti esce dall’Aula del Senato e ci
pensa su: «Io non mi sento di escludere che qualcuno il pensierino ce lo
faccia. Ma la soluzione è proprio questa: basta con i politici di
professione, tutti i parlamentari dovrebbero venire dal mondo normale, quello
di chi lavora. A quel punto le pensioni dei parlamentari le potremmo anche
abolire».
27
settembre 2007
ROMA
- Occupare
case popolari non sempre è reato, secondo la Cassazione. La casa
è un bene primario come la vita o la salute, scrivono i giudici. Quindi
non c'è reato se si agisce in uno stato di "reale indigenza".
La suprema Corte ha accolto il ricorso di una 38enne romana, sola e con un
figlio a carico, condannata dal Tribunale e dalla Corte d'appello di Roma per
il reato di occupazione abusiva di un immobile di proprietà dell'Iacp.
Scrive il relatore Pietro Zappia: "Rientrano nel concetto di danno grave
alla persona non solo la lesione della vita o dell'integrità fisica, ma
anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti fondamentali della
persona, secondo la previsione contenuta nell'articolo 2 della Costituzione", quello che garantisce i diritti
inviolabili dell'uomo.
La Corte d'appello, "colpevole" di non aver svolto un'indagine
sufficiente per verificare lo stato di necessità lamentato dalla donna,
dovrà dunque riesaminare il caso.
La donna era stata condannata dal Tribunale della capitale a 600 euro di multa,
pena confermata dalla Corte d'appello nel dicembre scorso. Il pronunciamento
della Cassazione congela il verdetto e rimanda alla corte di secondo grado il
procedimento suggerendo ai giudici d'Appello di verificare, con "una
più attenta e penetrante indagine giudiziaria", lo stato di
povertà della ricorrente.
Per i giudici della Cassazione, il "diritto all'abitazione" merita di
essere annoverato tra i diritti fondamentali della persona. Spiega la Seconda
sezione penale di piazza Cavour: "Rientrano nel concetto di danno grave
alla persona anche quelle situazioni che attentano alla sfera dei diritti
fondamentali della persona e l'esigenza di un alloggio rientra fra i bisogni
primari della persona".
Il pronunciamento della Suprema Corte ha spaccato il mondo politico. Esulta la
sinistra radicale. "La sentenza fissa un punto fermo di grande
civiltà nei diritti sociali delle persone", ha dichiarato il
ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, per il quale
"il diritto primario all'abitazione non può ritenersi subordinato
al diritto di proprietà". Le conseguenze politiche sono
inevitabili. "La prossima Finanziaria dovrà definire le risorse per
un nuovo Piano casa", dice l'esponente di Rifondazione. Il collega di
partito Francesco Caruso si spinge ancora più in là:
"Ci vuole un provvedimento che legalizzi le occupazioni di case".
Secondo il deputato no global, a determinate condizioni, ossia in caso di
"abitazioni sfitte da oltre 2 anni e di situazione di indegenza economica
degli occupanti", devono essere riconosciute "le pratiche di
riappropriazione dal basso del diritto alla casa". Anche il verde Paolo
Cento, sottosegretario all'Economia, plaude alla decisione della Cassazione
e parla di "sentenza di civiltà".
Per il ministro della Famiglia, Rosy Bindi, è stato confermato
che "quello alla casa è uno dei diritti fondamentali della
persona". La ricetta del candidato alla leadership del Pd è chiara:
"Bisogna incentivare l'edilizia pubblica, far emergere il sommerso, grazie
alla fiscalità, e aumentare la disponibilità della abitazioni in
affitto". Insomma, per la Bindi, come per Ferrero, "il Piano casa non
potrà che essere uno degli elementi qualificanti della prossima
Finanziaria''.
I commenti del centrodestra sono di segno opposto. "Esiste ancora la
proprietà privata?", si chiede la portavoce di Forza Italia, Elisabetta
Gardini. Per la collega di partito Isabella Bertolini "occupare
abusivamente case è un reato grave, senza se e senza ma". Ragione
per cui "l'Italia è da oggi un Paese meno civile". Per il
vicesindaco di Milano, Riccardo De Corato, "la sentenza della
Cassazione tutela l'illegalità". La Lega, per bocca di Massimo
Garavaglia, capogruppo nella Commissione Bilancio della Camera, non ha
dubbi: "Siamo agli espropri proletari".
(26 settembre 2007)
TORINO
Due volte l’anno, il 1° gennaio e il 1° di luglio, scatta l’adeguamento
automatico dei rimborsi chilometri per i consiglieri e gli assessori regionali.
Un aumento che tiene conto delle variazioni di una serie di parametri usati
dall’Automobile Club tra cui anche il costo della benzina. Adeguamenti minimi
che però fanno la differenza. E centesimo dopo centesimo portano a 560
euro in più all’anno per i consiglieri che vivono a Torino e che per
legge hanno diritto ad un forfait che comprende 8 presenze fisse e
Per i consiglieri che risiedono fuori Torino l’entità dell’aumento
è legata alla distanza dall’abitazione di residenza alla sede del
Consiglio regionale. L’assemblea di Palazzo Lascaris riconosce un contributo di
0,503 centesimi, due in più di quelli erogati nel 2006. I calcoli sono
presto fatti. Chi percorre cento chilometri al giorno avrà diritto a due
euro in più; chi ne fa
Praticamente tutti i Consigli regionali ad eccezione della Liguria riconoscono
un rimborso delle spese di trasporto. Non esiste un unico criterio e le
modalità di contributo alle spese è deciso in maniera autonoma
dalle singole assemblee legislative. La Lombardia, ad esempio, riconosce un
forfait calcolato sulla base di due parametri: percorrenza e costo chilometrico
equivalente ad 1/4 del prezzo medio della benzina. Un consigliere regionale
della Lombardia che percorre
Il prossimo aumento del rimborso chilometri scatterà a gennaio.
Difficile ipotizzare che i consiglieri scelgano di autocancellarsi
l’adeguamento automatico di rimborsi e indennità. «Inutile fare
annunci», spiegava nei mesi scorsi il presidente del Consiglio regionale,
Davide Gariglio. E così l’intesa si potrebbe trovare su un dossier per
rendere più trasparenti le regole per l’assegnazione dei gettoni di
presenza e dei rimborsi spese. Tra le proposte ci sarà quella
dell’introduzione del sistema della doppia firma ad inizio e fine della seduta
di Consiglio e/o di commissione. Adesso, invece, ne basta solo una. Il gettone,
poi, non sarà erogato nel caso di partecipazione dei consiglieri ad
attività esterne come, ad esempio la partecipazione alla cerimonia del Grinzane
Cavour a ad un convegno sugli Ogm in provincia di Cuneo.
Cara Europa, spero che almeno questa volta, il
tragico nudo femminile, che appare in quei giganteschi manifesti che sono
affissi sui muri di tutte le nostre città, dopo essersi affacciato nelle
pagine di tanti giornali, possa essere accolto, a destra e a manca, senza
polemiche.
Non si tratta di pubblicità, ma di combattere una gravissima malattia,
quale è l’anoressia, checché ne dicano psichiatri e associazioni di
parenti, che mi sembano preoccupati più della forma che della sostanza.
GISELLA SORDI, ROMA
Cara signora, condivido interamente quel che
scrive. La “pubblicità scandalo” dell’anoressica Isabelle Caro, 27 anni,
che posa nuda mostrando il suo corpo devastato, le sue forme ridotte a esangui
membrane o poco più, è stata una geniale idea, che ha trovato
consensi che contano: da Oliviero Toscani, che l’ha definita «Una sorta di Urlo
di Munch contro l’anoressia», al ministro della salute Livia Turco, che,
purtroppo, parlando politichese, com’è condanna dei politici, ha detto
che l’anoressia è una «malattia ‘multifattoriale’, perché può
colpire chiunque di ogni ceto sociale».
Certo, preferiremmo una più chiara lingua italiana da chi rappresenta il
popolo italiano; così come vorremmo vedere solo immagini di donne e
uomini in salute, come quella di Elisabetta Canalis col telefonino, che tanta
pruderie suscitò in un giornale britannico la scorsa estate fino ad aver
indotto a qualche conformismo alcune aziende e la Rai.
Scontato il coro polemico di associazioni di familiari e di psicosessuologi,
preoccupati di possibili effetti negativi dell’immagine su altri anoressici
(non sapevamo che essi diventassero esibizionisti dei loro corpi, convinti di
averne ottenuto, attraverso la devastazione, il miglioramento).
Ma, anche se c’è qualche fondamento in questa tesi, ci uniamo ad altre
voci fuori coro, come quella della sessuologa clinica Marinella Cozzolino, che
dice «Quella foto andava fatta. È arrivato il momento di far vedere.
Molte famiglie non vogliono aprire gli occhi e, con loro, tante adolescenti. I
giovani non riescono a ipotizzare cosa potrebbe accadere. Chi pensa di gareggiare
con Isabelle sta già talmente male che non è certo quella foto ad
aggravare la situazione».
E lei, Isabelle, che dice? «Quindici anni di calvario – dice –. Mi sono
nascosta e coperta per troppo tempo, adesso voglio mostrarmi senza paura anche
se so che il mio corpo ripugna. Le sofferenze fisiche e psicologiche che ho
subito hanno un senso solo se possono essere d’aiuto a chi è caduto
nella trappola da cui io sto cercando di uscire».
Che si può dire di meglio? Soltanto grazie Isabelle, e auguri di
diventare presto anche tu come Elisabetta Canalis, e magari tornare sui muri
delle città e nelle pagine dei giornali a fare scandalo per la troppa
grazia piuttosto che per il troppo squallore. Grazie per un atto di coraggio
civile che, pruderie o non pruderie, aiuterà a fare un po’ di bene:
anche nel mondo della moda (ci vorrebbe Zapatero anche in Italia) e delle
ragazze dei vari premi e concorsi.
A cominciare da quello di Miss Italia, le cui partecipanti fanno bene a
ribellarsi a chi vuole fotografarne il fondoschiena, e altrettanto bene faranno
a conservarselo.
++ Il Sole 24 Ore 26-9-2007 Rischio
di corruzione privata per manager e revisori
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La Repubblica 26-9-2007 Finanziaria, tagli alle spese per 4,6 miliardi
di euro
L’Unità 26-9-2007 La
ghigliottina contro "La casta" piace su Virgilio
Il Riformista 26-9-2007 Sui talebani
Londra apre al modello Fassino di Mauro Bottarelli
Libertà 26-9-2007 Ma
dov'è la bolla speculativa? Francesco Arcucci .
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La Comunitaria 2007 taglia il traguardo del Senato. Il
provvedimento che recepisce 16 direttive e quattro decisioni quadro passa ora
all'esame della Camera. Senza l'articolo 8, contenente le disposizioni su Cip 6
che approderanno in Finanziaria. Molte le novità: si va dalla
moltiplicazione delle informazioni contabili al recpeimento delle regole
comunitarie in materia di Iva alla possibilità di introdurre nel nostro
ordinamento la fattispecie di corruzione del privato che punta a sanzionare il
comportamento di manager, sindaci e revisori che incassano tangenti.
ROMA
- La finanziaria per il 2008 sarà di 10,7 miliardi di cui 4,6 miliardi
di tagli. Secondo quanto si apprende, il Governo varerà venerdì
prossimo anche un decreto legge da 7,5 miliardi. Secondo indiscrezioni, dei
10,7 miliardi circa 6 mld arriverebbero dalle entrate - grazie al maggior
gettito fiscale - e 4,6 miliardi da risparmi di spesa. In particolare, dalla
Pubblica amministrazione sarebbero attesi circa 300 milioni di risparmi, e
oltre 400 mln dagli enti di previdenza. Per la casa, gli interventi sarebbero
nell'ordine di due miliardi, mentre altri due andrebbero al pubblico impiego in
particolare per finanziare contratti già stipulati. Al welfare e a
misure di protezione sociale verrebbero invece destinati circa 2 miliardi.
Quanto invece al decreto legge, il provvedimento destinerebbe in particolare
2,9 miliardi alle Fs e circa 600 milioni all'Anas. Circa 1 miliardo andrebbe
invece ad alcuni interventi per la mobilità a Roma e Napoli. Nel
provvedimento, figurerebbero anche interventi di carattere sociale per oltre 1
miliardo.
(26 settembre 2007)
Il
Governo del presidente francese Nicolas Sarkozy ha presentato la sua prima
Legge finanziaria, che per il 2008 si pone il duplice obiettivo di rilanciare
la crescita economica, facendo leva su misure fiscali, e tenere sotto controllo
la crescita del disavanzo di bilancio, che anzi viene previsto in lieve calo.
Nel
Il progetto rivela tagli superiori alle attese per la Pubblica amministrazione
transalpina: nel 2008 non verranno sostituiti 22.921 tra i funzionari pubblici
che andranno in pensione. Il taglio, secondo il documento, consentirà di
ridurre le spese per 458 milioni di euro. Ieri, martedì 25 settembre, il
primo ministro François Fillon ha presentato ai parlamentari dell'Ump parte del
documento che è stato adesso formalizzato dal Consiglio dei ministri.
Accanto alle misure per il contenimento della spesa, per rilanciare la crescita
economica è stato inserito un "pacchetto fiscale" che prevede
un taglio complessivo da 10 miliardi di euro sulle tasse. Il taglio fiscale
toccherà diverse voci, tra cui le ore di lavoro straordinario, gli
interessi sulle rate dei mutui e le imposte di successione.
E
su, ci vorrebbe anche un «vaffa» autoironico, che Beppe Grillo si alzasse e
urlasse «not in my name», non vi scannate tra voi a nome mio. Ecco, e sia
scusata visto il tema la franchezza: quand’è che Grillo manderà
affanculo anche i custodi dell’ortodossia del V-day?
Già perché fa un po’ ridere quel che sta capitando nel mondo dei fan di
Beppe, i grillanti già si dividono e litigano, un’aristocrazia che si
sente legittimata direttamente dal comico attacca quelli che invece
usurperebbero il marchio “V” come se fosse il simbolo di una Udeur qualsiasi;
oltretutto è probabile che tutto accada malgré Beppe, come spesso
succede a chi ha fatto detonare una bomba, e non può sapere quante
schegge ci saranno, e se colpiranno i bersagli voluti oppure no. Lunedì
un gruppo di fan del comico ha creato un falso blog di Casini in cui l’ex
presidente della Camera assicurava di esser pronto a entrare a Palazzo Chigi,
stampellando la maggioranza.
Per un po’ qualcuno c’ha creduto - sorpreso semmai che Casini lo dicesse. I
giornali l’hanno riportato. Anche Pier ne è venuto a conoscenza, e ha
querelato i burloni. Tutto normale, «ce l’aspettavamo», dicono adesso questi
grillanti di serie B; perché esistono, si scopre ora, quelli di serie A, gli
oligarchi o i sacerdoti del verbo: che ieri li hanno scomunicati un po’ come si
faceva a Campo de’ Fiori.
Ricordate? Una delle trovate più sussiegose seguite al V-Day è
stata l’idea di marcare con un bollino i meet-up autentici, i comitati di
grillanti di origine controllata. Parve fin da subito idea meno travolgente
della raffica di vaffa che ci aveva fatto sganasciare a Bologna, qualunque cosa
pensassimo delle accuse di populismo rivolte al comico. «All’inizio era un
grande show, e almeno in parte doveva restare così», dice uno dei
grillanti di serie B, tra gli autori della burla ai danni di Casini. Ma siamo
tutti così seri, in Italia...
E Casini, querelando, non è neanche stato quello che s’è
arrabbiato di più; a prendersela davvero sono stati i grillanti che
«siamo noi i veri grillanti», quelli della purezza tradita, che già
vedono la Forza originaria dell’Idea sbiadire in un «cazzeggio demenziale» (parole
loro). Ma non era nato tutto appunto dal «cazzeggio»? E quand’è il
momento della vita (o della storia) in cui si diventa irrimediabilmente
seriosi? I grillanti di serie A l’hanno doppiato alla velocità della
luce se accusano gli altri con toni così, «siete dei c..., se volete
prendere iniziative personali (e ovviamente potete), non nascondetevi dietro il
simbolo del V-day! Cosa c’entra il V-day, scusate?».
Qualcuno ha difeso i reprobi, «non cadiamo in errore, dare una forma al V-day
significa dare la possibilità di minarlo e strumentalizzarlo»;
ciononostante il peso degli insulti è stato così forte da indurre
i falsari a un classico alla Giordano Bruno: le scuse sulla pubblica piazza (la
Rete, stavolta). «Su richiesta di molti abbiamo tolto il simbolo del V-day. Con
tutti i problemi che ora abbiamo non vogliamo scatenarci contro anche 300 mila
persone (delle quali abbiamo fatto parte anche noi), per carità. Certo
è che non ci aspettavamo che la V fosse diventata più sacra della
Madonna di Loreto.
Non sapevamo che ci fossero dei sacerdoti custodi del pensiero puro». Pensavano
che la protesta potesse declinarsi in diverse forme, che non ci fosse un
canone, un vangelo sacro della contestazione. «Non avevamo capito che Grillo
fosse diventato un guru e che ci fossero degli adepti superortodossi da non
offendere, non ci eravamo accorti che ne fosse nata una nuova religione. Eppure
ci era sembrato che lo stesso Beppe avesse fatto capire più di una volta
che “sta storia del guru è una c...”».
Come i fratelli grillanti, anche i fratellastri sono ragazzi con parecchio
tempo libero nella giornata; ma sono poi colti, autoironici, raffinati, colpe
insopportabili in ogni transizione dalla rivoluzione al termidoro. Il loro
portavoce, scusandosi di aver turbato gli ortodossi, sul blog si firma Diadorim
Riobaldo, unendo i nomi di due personaggi del «Grande Sertão», il
romanzo di João Guimarães Rosa, storia di briganti, di uomini in
guerra, di donne inafferrabili; storia di un ex bandito, Riobaldo, narrata da
lui stesso a un dottore silenzioso in viaggio nel Sertão. Un ex bandito?
Coi grillanti? Era chiaro che non gli avrebbero dato il bollino chiquita.
ROMA
— Il «vaffa-clima» è come uno tsunami dopo il terremoto. Si abbatte sul
governo e sul centrosinistra con una tale furia da suscitare un vero e proprio
«allarme democratico » a Palazzo Chigi, al Campidoglio e in quasi tutti i
partiti dell'Unione. Perché dopo l'offensiva mediatica di Grillo i timori si
sono tramutati in certezze, e i dati dei sondaggi riservati in mano ai leader
stanno a dimostrarlo. In una settimana il centrosinistra ha ceduto quasi un
punto e mezzo, perdendo quanto aveva faticosamente recuperato da luglio: oggi
la coalizione vale appena il 42,1%. E ciò che l'Unione perde lo guadagna
il Polo, che solo due settimane fa aveva preso una china molto negativa,
cedendo quasi due punti percentuali. Ora è tornato a salire, e dal 54,8%
di consensi è arrivato al 56,1%.
Il motivo di questa inversione di tendenza è spiegato nel «commento » a
corredo dei dati demoscopici, elaborati da un'importante società di
ricerca: l'opposizione «mostra un significativo recupero» rispetto a sette
giorni fa, e gli analisti ritengono sia dovuto con ogni probabilità
«alle polemiche sorte dopo la performance di Grillo che hanno coinvolto
soprattutto il governo Prodi».
Nell'Unione nessuno (o quasi) si salva dall'«uragano
Beppe». Perde mezzo punto il Partito democratico, ora al 26,2%, e
perdono in blocco tutte le forze della Sinistra: il Prc (che scende dal 7,3 al
6,7%); i Verdi (dal 2,2 al 2,1%); e il Pdci (dall'1,5 all' 1,3%). L'unico a
reggere è Di Pietro, passato dal 2,8 al 2,9% grazie a una strategia
mediatica che in sequenza l'ha portato a chiedere prima «un passo indietro» di
Prodi, poi la «riduzione dei ministeri», e ora di fatto le dimissioni del
viceministro Vincenzo Visco. E poco importa all'ex pm se gli alleati sono
furibondi, lui sa e dice che «nella piazza di Bologna c'era anche il mio
elettorato». Perciò lo vellica.
Si era capito che il comico stava diventando una «variabile politica». Ora ce
n'è la conferma. E se il «fattore G» viene temuto nell'Unione, è
invece vezzeggiato da Berlusconi, perché «Grillo ci aiuta», «Grillo ci fa bene
», dice il Cavaliere dati alla mano: a beneficiarne sono infatti Forza Italia
(che dal 28,9 sale al 29,3%), An (dal 15,4 al 15,8%) e la Lega (dal 5 al 5,3%).
Soltanto l'Udc scende ancora di due decimali, al 4,6%. L'ex premier era
convinto che il fenomeno Grillo non l'avrebbe danneggiato, e ne ha spiegato i
motivi ai suoi: «Anche se sono sceso in campo tredici anni fa, la mia immagine
è diversa da quella dei politici di professione. La gente mi vede come
un imprenditore, un editore e un presidente di una squadra di calcio vincente».
Insomma, il «vaffa-clima» ha reso euforico Berlusconi, e
non perché il comico abbia spostato consensi dall'Unione al Polo, ma perché —
come dice il capo del Pri Nucara — «con le sue sparate ha alimentato
l'astensionismo nel centrosinistra». I dati sono impressionanti: oggi il
partito del non voto è al 33,2%, ed è in aumento.
De Mita non ha letto i sondaggi, non ne ha bisogno per capire che «siamo arrivati
al momento decisivo. Ma non solo per Prodi e il suo governo, che sono in
effetti al capolinea. Il redde rationem sta arrivando per tutti. Il clima
è quello del '92, e spero non si ripeta l'errore di allora, quando ci fu
chi ritenne che bastava dare in pasto Craxi per salvarsi. No, oggi come allora
non si salverebbe nessuno». Nell'Unione la crisi è data per scontata,
«bisogna capire se avviene in ottobre o a gennaio », sussurra un dirigente
dell'Ulivo: «Nel primo caso si va a un governo tecnico. Nel secondo al voto».
Ma qual è la soluzione auspicata da Veltroni? De
Mita racconta che «il progetto di Walter passa per un cambio di assetto. Solo
che gli manca l'innesco per accendere la miccia ». In modo più prosaico
ne parlavano ieri alla Camera il sottosegretario verde Cento e il forzista
Bruno. Cento: «Vedrai che dopo il 14 ottobre Veltroni porrà una
questione a Prodi: pochi ministri, un paio di riforme e poi al voto». Bruno:
«Quando? ». «Nel 2009». «Vabbè, se dobbiamo andare alle urne fra due
anni, ci troviamo un altro interlocutore, chessò Marini. E Veltroni
aspetta fuori dalla porta». «Se andrà a votare tanta gente, sarai lui il
vostro interlocutore ». «Ma il Pd quanto varrà? Perderà sul
territorio pezzi dei Ds e dei Dl, quelli incazzati perché sono rimasti
esclusi». «Non sarà così». «E comunque, Berlusconi è
convinto di votare nel 2008».
Talmente convinto che ha avviato la macchina organizzativa.
E come in tutte le altre sue campagne elettorali è pronto a
rilanciare il tema «dell'anticomunismo». Non a caso tra le iniziative ha
previsto una «festa» per il 9 novembre, anniversario della caduta del Muro di
Berlino, da celebrare in tutti i capoluoghi di regione, che saranno collegati
fra loro con un sistema video. Berlusconi ha illustrato il progetto ai responsabili
di partito la scorsa settimana: «Da Milano a Palermo, bisogna far capire chi
siamo noi e chi sono loro. Per esempio, tutti questi sindaci che se la prendono
con i lavavetri e parlano di tolleranza zero, cercano di copiarci. La gente
deve sapere che sono dei post comunisti ». Basterà questa strategia per
battere Veltroni?
26
settembre 2007
L'intervista
al segretario dei Ds Piero Fassino, pubblicata l'altro ieri dal Corriere, è un modo
concreto per rispondere alla sfiducia crescente che i cittadini dimostrano
verso la classe politica. Le parole di Fassino sono coraggiose: «L'Italia
è frenata da un asse trasversale e conservatore. Quella destra che ha
ingenerato la paura dell'Europa, dell'euro, di un mercato aperto. Ma anche a
sinistra si fa fatica a capire che se è giusto essere contro la
precarietà, è invece sbagliato rifiutare una flessibilità
connaturata a un mercato non più racchiuso nei confini nazionali ».
«La sola
parola "merito" in Italia è ancora tabù. La sinistra ha sempre pensato che il merito fosse un
trucco dei ricchi per fregare i poveri, non capendo che è esattamente il
contrario. È grazie al merito, al talento che il povero può
annullare le differenze sociali e avere le stesse opportunità ». «La
sinistra ha sempre difeso i deboli: chi è più debole se perde
quel poco che ha è privo di tutto. Comprensibile una reazione istintiva
di difesa che però rischia di essere velleitaria e perdente. Non
è arroccandosi che si ottengono maggiori certezze». Perfetto. Ma sono
disposti Piero Fassino e il Pd a tradurre queste affermazioni coraggiose in
decisioni coerenti, a cominciare dalla prossima Legge finanziaria? Ecco alcuni
problemi concreti. È sempre più evidente che la spesa pubblica
concertata fra governo e sindacati non è il modo per difendere i deboli.
L'aumento delle pensioni minime deciso a luglio (che pure Fassino nella sua
intervista difende) ha favorito solo in piccola parte i veri poveri,
cioè le famiglie degli otto milioni di pensionati che non arrivano a 750
euro al mese, l'80% dei quali non raggiunge neppure i 500 euro.
La quota
principale dei soldi stanziati andrà alle famiglie dei lavoratori tipicamente iscritti ai
sindacati, gli stessi che hanno beneficiato più di altri
dell'abbassamento, da
L'assunzione
a tempo indeterminato è oggi
troppo rischiosa per il datore di lavoro e così i precari rimangono tali
per sempre. A Milano due settimane fa Walter Veltroni si è detto
favorevole alla proposta di un contratto unico (tutti precari all'inizio e
tutele crescenti con l'anzianità), un'idea di Tito Boeri e Tiziano Treu
che Nicolas Sarkozy sta cercando di realizzare in Francia. Cesare Damiano non
è d'accordo: «Non sarò io il ministro che tocca l'articolo 18»,
ha detto in quell'incontro. Con chi sta Piero Fassino? Il sindacato non ha mai
caldeggiato l'introduzione di sussidi di disoccupazione generalizzati (siamo
l'unico Paese avanzato a non averli). Preferisce la cassa integrazione
negoziata caso per caso, che dà al sindacato — e alle Unioni industriali
— un motivo per esistere. È disposto il Pd a farne una priorità
della prossima Finanziaria?
Le imprese,
pubbliche e private, ricevono dallo Stato aiuti pari a circa il 2 per cento del Pil. La maggior
parte va alle aziende del Mezzogiorno, ma non c'è evidenza che questa
messe di fondi pubblici abbia mai aiutato quelle regioni a crescere. Il
ministro Bersani propone di cancellarli tutti e trasferire quei fondi in
investimenti in infrastrutture, a cominciare dall' infrastruttura più
importante oggi nel Mezzogiorno, la certezza della legge e l'ordine pubblico.
È disposta la sinistra di governo a imporre questa scelta in
Finanziaria? Una conseguenza dell'assenza di meritocrazia è
l'invecchiamento della nostra classe dirigente. Il Comitato dei 45 nominato per
costituire il nuovo Partito democratico non include una sola persona sotto i 40
anni! Epensare che più di un terzo degli elettori ne ha di meno.
L'età media del comitato—come hanno notato Vincenzo Galasso e Francesco
Billari su la voce.info—si aggira intorno ai 57 anni: tutto il potere è
concentrato nelle mani di cinquantenni e sessantenni, la generazione cui
appartiene la maggioranza dei leader politici del nuovo partito.
Costoro
hanno accettato di farsi aiutare da qualche «padre nobile» (due componenti del comitato
hanno più di 75 anni), ma non hanno ritenuto necessario coinvolgere i
ventenni o i trentenni, cioè coloro che in futuro dovranno votare per il
nuovo partito. E quando si è trattato di nominare un nuovo membro del
cda della Rai per «dare nuovo impulso all' azienda» come ha detto il ministro
dell'Economia, la scelta è caduta su un manager di 77 anni. È
questo il merito, onorevole Fassino?
26 settembre
2007
Cara
Europa, leggo una strana risposta dell’ambasciatore Romano a una sua lettrice a
proposito della riforma costituzionale varata dalla maggioranza di Berlusconi
nella scorsa legislatura.
Romano spiega, si fa per dire, perché sarebbe stato meglio approvarla nel
referendum che invece la bocciò. A me pare che in Italia tra i problemi
e i cittadini si continui a giocare a gatti e topi.
ARMANDO BOSELLI, MILANO
Caro
Boselli, pare anche a me, e la cosa, se non mi sorprende, mi rattrista perché
vedo l’inutilità delle battaglie che da tante parti si combattono per
migliorare un po’ il rapporto tra sfera pubblica (politica e non politica) e
giudizio dei cittadini. Romano ricorda, giustamente, che anche la precedente
riforma costituzionale, voluta dal centrosinistra e limitata ai rapporti tra
Stato e Regioni secondo il Titolo V della Costituzione, fu (ed è) una
riforma precaria, che ha dato vita, per mancanza di chiarezza, a un infinito
contenzioso sulle competenze davanti alla Corte costituzionale: cui sia lo
stato che le regioni ricorrono per aver ragione, cioè per vedersi
riconosciuto un potere che dalla lettera del Titolo V ha una paternità
quanto meno incerta.
Proprio da questa giustissima osservazione (sono fra quelli che, come deputato
dell’Ulivo, votarono a malincuore quella riforma e mi pento di non aver fatto
allora un gesto di rottura), Romano avrebbe dovuto desumere un giudizio
negativo sulla riforma di Berlusconi: che non si limitava a un solo Titolo
della Costituzione, ma ne riformava oltre 40 articoli, modificando l’intera
architettura dello stato senza coordinamento alcuno e, soprattutto, senza
alcuna misura cautelativa (contropoteri) nei confronti dei potenziali pericoli.
Romano rimpiange che, cadendo quella riforma, sia caduta la possibilità
di dare al presidente del consiglio i poteri che tanto invidiamo ad altri capi
di governo e che, secondo l’ambasciatore, erano il contrappeso alla
volontà della Lega di avere “più federalismo” rispetto a quello
concesso dal Titolo V riformato.
Il rafforzamento presidenziale del premier, voluto da Fini e da Forza Italia,
compensava, secondo Romano, le forze centrifughe messe in moto dal “più
federalismo”.
In teoria è così. In pratica, le vicende inglesi (questione
scozzese) e belga (questione fiamminghi-valloni) confermano che, una volta
messo in moto il federalismo avanzato, o esso delude per i rapporti tra costi e
risultati (caso inglese) o va oltre, fino alla secessione. Il rischio di veder
esplodere il regno del Belgio, cui, soprattutto per l’indimenticato Henri
Spaak, si deve tanto la costruzione dell’Europa, sta a confermarlo. C’è
poi un altro problema: Romano dice che, dal rafforzamento dell’esecutivo,
avrebbero tratto vantaggio «tutti i presidenti del consiglio italiani, di
destra e di sinistra ». In teoria. In pratica, si nasconde che il
presidenzialismo di Berlusconi sarebbe stato, come si disse, “a reti
unificate”. Sarebbe stato, cioè, una concentrazione di potere
istituzionale, politico e mediatico che avrebbe precluso a chiunque altro la
possibilità di giocare la partita democratica.
Questa è la verità (non nuova) da ribadire ogni volta.
Altrimenti informiamo male i nostri concittadini. Come capita spesso agli
intellettuali.
La proposta provocazione e' della Fai toscana, la categoria cisl che associa i
lavoratori dei settori agricolo, alimentare e ambientale. La proposta e' stata
formulata i durante l'assemblea di categoria che si e' svolta stamani a
Firenze. Il segretario toscano Fai, Giampiero Giampieri, nella sua relazione ha
detto che i problemi posti dal Ddl Santagata- Lanzillotta devono far
riflettere. Ci sono nuovi criteri di comunita' esclusivamente altimetrici e in
Toscana quindi verrebbero declassificati 120 comuni su i 140 attuali con danni
irreversibili di carattere finanziario. Si aboliscano piuttosto le province, ha
continuato Giampieri, ridistribuendo le competenze tra Regione e Comuni.
Sono
attesi oltre 600 imprenditori padovani all’incontro-dibattito con Gian Antonio
Stella che si svolgerà stasera mercoledì 26 settembre 2007 alle
ore 20.30 al Centro Congressi AltaForum di Campodarsego (PD - Via Roma, 55),
organizzato dalla Delegazione Camposampierese di Unindustria Padova in
collaborazione con l’Associazione Anthesis (www.anthesis.org).
Insieme all’autore de “La Casta” interverranno al dibattito il presidente di
Unindustria Padova, Francesco Peghin e i parlamentari padovani Antonio De Poli,
Paolo Giaretta, Marino Zorzato, moderati dal giornalista Andrea Camporese.
Introdurrà la serata Gianni Marcato presidente della Delegazione
Camposampierese di Unindustria.
La politica come spartizione di poltrone e privilegi, ritratto di
“un’oligarchia insaziabile che ha allagato l’intera società italiana”,
incapace di “buon governo” e priva degli anticorpi per riformare se stessa. E’
la descrizione amara e graffiante di una certa politica proposta da Stella ne
“La Casta. Così i politici italiani sono diventati intoccabili”, il
dossier scritto con Sergio Rizzo, che ha raggiunto il milione di copie vendute.
Corrosivo e documentatissimo, il pamphlet di Stella ha suscitato un profondo
dibattito e una sana indignazione nell’opinione pubblica, costringendo l’agenda
politica a mettere al centro la riforma delle istituzioni, la lotta agli
sprechi e il rinnovamento della classe dirigente. Dalle comunità montane
a livello del mare alle spese del Quirinale, dagli aerei di Stato che volano 37
ore al giorno ai finanziamenti pubblici ai partiti quadruplicati nonostante il
referendum che li aboliva, le storie e i dati documentati nella “Casta”
offriranno lo spunto per chiedere una seria e rapida riforma della politica e
delle istituzioni.
«La società e l’economia hanno bisogno di una politica rinnovata,
orientata a sciogliere i nodi veri del Paese, non di una casta
autoreferenziale, avulsa dai problemi reali dei cittadini e delle imprese -
sottolinea il presidente della Delegazione Camposampierese di Unindustria,
Gianni Marcato -. Il successo editoriale de “La Casta” misura la domanda di
risposte concrete, lotta agli sprechi e alle inefficienze». Per il presidente
di Unindustria Padova, Francesco Peghin, «l’indignazione e la sfiducia non sono
antipolitica ma l’esatto contrario. Dietro lo sdegno sacrosanto contro gli
sprechi e i costi della politica c’è in verità l’invocazione che
la politica, la buona politica torni. E’ interesse dei politici seri e
responsabili, che sono la maggioranza, accelerare le riforme istituzionali,
correggere le disfunzioni strutturali che sono la vera causa di una spesa
pubblica inefficiente e degli sprechi, correggere deviazioni o disinvolture
ormai insopportabili ai cittadini. E’ così che si riattivano fiducia e
credibilità».
Gian Antonio Stella, nato ad Asolo (Tv) nel 1953, è editorialista e
inviato di politica, economia e costume al “Corriere della Sera”, il giornale
in cui, dopo gli anni della gavetta giovanile e l’assunzione al pomeridiano
“Corriere d’Informazione”, è praticamente cresciuto. Vincitore di alcuni
premi giornalistici (dall’“È” assegnato da Montanelli, Biagi e Bocca al
“Barzini”, dall’“Ischia” al “Saint Vincent” per la saggistica), ha scritto
numerosi saggi. Tra i più noti, Schei, un reportage sul Nordest (Mondadori
2000); Dio Po, gli uomini che fecero la Padania, pamphlet sulla Lega; Lo spreco
(Mondadori 2001); Chic, un viaggio ironico e feroce tra gli italiani che hanno
fatto i soldi (Mondadori 2001); L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi
(Rizzoli 2003); Odissee. Italiani sulle rotte del sogno (Rizzoli 2004); e il
romanzo Il maestro magro (Rizzoli 2005).
(Ufficio Stampa, Studi e Relazioni Esterne Unindustria Padova)
L'immagine di una ghigliottina a corredo di
un articolo dal titolo "La casta senza vergogna. I costi della politica
crescono ancora", ripreso da un pezzo di Sergio Rizzo e Gian Antonio
Stella sul Corriere della Sera. Il portale Virgilio, lunedì scorso,
così aveva confezionato la home page delle proprie notizie.
L'Unità se n'è occupata ieri, mostrando il proprio sdegno per
l'accostamento, su uno dei maggiori portali italiani (legato al gruppo
Telecom), della macchina usata per la pena capitale nella Francia
rivoluzionaria (ma anche, in tempi recenti, per contrastare la rivolta
d'Algeria) e il costo del parlamento italiano. Nel pezzo dell'Unità
c'era un'imprecisione: l'articolo e la sua foto non erano scomparsi dalla home
page di Virgilio. Daniela Cerrato responsabile dei contenuti del portale Alice
(che edita Virgilio attraverso la società Matrix Spa), spiega che
"è rimasto online fino alle 15 di oggi (ieri ndr)". Cerrato,
d'altronde, non vede nessuno scandalo nell'accostamento. "Ci ha stupito
che ve ne siate occupati", afferma. Nel comunicato successivamente
pubblicato su Virgilio, si spiega: "Con quel simbolo volevamo dire e
ribadiamo che è davvero giunta l'ora di tagliare i ponti con certi
eccessi, sprechi e contraddizioni della politica. Il seguito che
stanno ottenendo Beppe Grillo e i suoi "Vaffa" testimonia, se ce ne fosse
bisogno, che gli italiani sono stanchi e vogliono cambiamenti veri".
Poiché il web ha anche una possibilità di risposta immediata, Virgilio
ha deciso di tornare sull'argomento con un sondaggio dal titolo:
"Condividi l'utilizzo della foto della ghigliottina?". Alle nove di
sera, su 89 votanti, il 74,1% rispondeva di sì. E non sembra una buona
notizia. e.d.b.
«Alitalia
è in «stato comatoso, in camera di rianimazione». Lo ha ribadito il
presidente Maurizio Prato aprendo l'audizione davanti alla Commissione Lavori
Pubblici del Senato. «Personalmente - ha aggiunto - mi sorprende molto il
pressochè generale
rifiuto di prendere atto della realtà e di consentire all'azienda di
fare autonome scelte imprenditoriali».
I tagli a Malpensa? Scelta obbligata
«Una azienda sana» non avrebbe deciso così, ma «non è il caso
di Alitalia»: per la
compagnia di bandiera «è una scelta obbligata» rivedere il ruolo
dell'aeroporto di Malpensa e tagliare linee intercontinentali in forte perdite,
come le rotte per «Cina e
India» che perdono «tra 20 e 30 milioni l'anno».
È vero che i voli intercontinentali partono da Malpensa pieni, dice
Prato, riferendosi alle obiezioni del presidente della Regione Lombardia. «Ma
Formigoni forse non sa - aggiunge il presidente di Alitalia - che per portare i
passeggeri ad imbarcarsi a Malpensa la compagnia sostiene «perdite tra 150 e
200 milioni l'anno».
Alitalia, sottolinea ancora Prato, «non è in grado economicamente e
strutturalmente di supportare l'alimentazione di due hub».
Perchè la scelta di Fiumicino
«E' una destinazione naturale- dice il presidente di Alitalia- con un'affluenza
diretta da 350 voli al giorno e quindi, con un bacino d'utenza naturale
potenziale superiore a quello di milano e che non comporta costi di
feederaggio».
Su Malpensa, Prato ha poi aggiunto: «Faremo delle valutazioni quando gli animi
saranno più sereni». Quindi smentisce che fonti ufficiali di Alitalia
«abbiano mai dichiarato nulla contro Malpensa, avanzando critiche sulle
infrastrutture e sull'efficienza». E' evidente, ha quindi sottolineato, che
«un'azienda sana non lascerebbe un aeroporto come Malpensa, ma non é questo il
caso di Alitalia, che é un azienda «all'anticamera di una situazione
fallimentare».
Alla compagnia serve un partner internazionale
«Le integrazioni interne si possono anche fare ma l'obiettivo da perseguire
deve essere quello» di un'alleanza internazionale «altrimenti non si può
competere» con i poli Lufthansa/Swiss, Air France/KLM e British/Iberia. Lo ha
detto il presidente di Alitalia Maurizio Prato secondo cui un'ipotesi 'stand
alonè sarebbe «velleitaria».
Entro il 10 ottobre il numero degli acquirenti potenziali
Entro la «prima decade di ottobre» il presidente di Alitalia, Maurizio Prato,
prevede di riferire in cda sul numero dei potenziali acquirenti della quota del
Tesoro. Roland Berger curerà per Alitalia la vendita della quota del
Tesoro per quanto riguarda la parte industriale accanto all'advisor finanziario
Citi.
320 milioni di finanziamenti da restituire
Alitalia deve restituire complessivamente 320 milioni di euro di finanziamenti
nel 2008-2009 e 714 milioni di prestito obbligazionario nel luglio 2010. Prato
ha sottolineato che si tratta di «importi non generabili dalla gestione».
Effetto aspirapolvere sulle quote intercontinentali
Il mercato intercontinentale delle rotte aeree da e per l'italia «é il quarto
in europa dopo Inghilterra, Germania e Francia con un'incidenza di domanda
inferiore alla media europea». La quota che l'Italia in questi anni ha perso
sulle rotte intercontinentali, dice Prato, «é pari all'80%». Quota che invece,
spiega, hanno guadagnato le compagnie del nord Europa. «E' chiamato effetto
aspirapolvere- aggiunge il presidente- la nostra quota di mercato
intercontinentale é stata aspirata da British, Lufthansa e Air France».
Gli esuberi saranno definiti con i sindacati
Le ricadute occupazionali del piano Alitalia saranno definite in stretta intesa
con le organizzazioni sindacali e le associazioni professionali. Con i
sindacati, spiega Prato «sarà convenuta anche l'individuazione delle
modalità e dei tempi di accesso a tutte le strumentazioni di carattere
gestionale e sociale che si rendessero eventualmente necessari, con l'impegno
già manifestato dalle autorità di governo a provvedere in tal
senso».
Contro i tagli a Malpensa Formigoni si appella alla Ue
Il sistema di assegnazione degli slot in vigore in Italia, secondo il
presidente della regione Lombardia Roberto Formigoni, viola sia il diritto
comunitario che la Costituzione italiana e per questo, nell'ambito del braccio
di ferro in corso tra Roma e Milano sul caso Malpensa-Alitalia, la Regione
prevede di presentare un ricorso alla Commissione europea e alla Corte
Costituzionale.
Questa la strada che Formigoni intende percorrere affinchè lo scalo
milanese e l'istituzione che egli rappresenta non finiscano, per usare le sue
stesse parole, «cornute e mazziate». Ovvero siano costrette a subire la
chiusura delle rotte intercontinentali annunciata da Alitalia senza poter
percorrere alternative valide. Formigoni ha illustrato la sua strategia dopo
aver parlato del caso Malpensa per un'ora con il commissario Ue ai trasporti
Jacques Barrot nel corso di un incontro svoltosi nella sede del Parlamento
europeo a Strasburgo. In questa sede il governatore della Lombardia ha visto
anche il vicepresidente dell'esecutivo comunitario Franco Frattini. «Invieremo
una lettera di interpello a Barrot - ha detto Formigoni - per chiedere
delucidazioni sulla normativa comunitaria in vista della presentazione di un
ricorso. Il commissario mi ha assicurato che incaricherà i suoi servizi
di approfondire la questione». Nel mirino della Regione Lombardia c'è in
particolare Assoclearance, l'associazione che gestisce gli slot a cui
partecipano società aeroportuali e vettori aerei. «La nostra non
è una battaglia politica ma funzionale», ha più volte ribadito
Formigoni. «Il governo ci deve dire se
Londra. «I talebani devono essere coinvolti nel processo di pace in Afghanistan
in qualche livello, visto che la soluzione per il futuro del paese deve avere
una base islamica». Des Browne, ministro della Difesa britannico, non ha
tradito le aspettative dei partecipanti al meeting organizzato dall’Ippr,
Institute for Public Policy Research, a margine del congresso laburista di
Bournemouth lanciando non una pietra ma un macigno nello stagno della missione
Nato in Afghanistan. Per Des Browne il coinvolgimento dei talebani è
ineludibile per la semplice ragione che «esattamente come Hamas nei Territori,
anche loro non lasceranno l’area che ritengono propria. Occorre prenderne atto.
Questo tipo di sfide non possono essere vinte se non partiamo dal presupposto
che dureranno anni, se non intere generazioni. Questo non significa che
l’intervento debba per forza continuare a essere strettamente militare, visto
che a mio avviso il Labour necessita di un’agenda progressista in materia di
difesa. Dobbiamo porci domande importanti come partito riguardo la nostra
relazione con la politica di difesa e conseguentemente rispetto alle
controparti di questa politica». Insomma, non una u-turn ma certamente
un’apertura verso un nuovo approccio sulla questione afghana, una campagna
d’intervento che vede impegnati sul terreno 7.500 soldati di Sua Maestà
e che trova d’accordo anche David Miliband, ministro degli Esteri che
già nel corso della sua visita in Pakistan nel luglio scorso
rimarcò pesanti differenze tra l’approccio americano e quello britannico
rispetto ai talebani e al loro ruolo.
Gli stessi ufficiali dell’esercito britannico di stanza in Afghanistan hanno
più volte criticato l’attitudine eccessivamente militaristica degli
americani, definita controproducente e destinata a garantire solo maggior
supporto ai talebani. Il capitano Leo Docherty, che partecipò alla
campagna per la conquista della città di Sangin nel distretto di
Helmand, scosse il ministero della Difesa quando accusò la politica di
non comprendere la complessità del quadro d’azione: «Abbiamo conquistato
la roccaforte dei talebani ma non abbiamo saputo offrire niente alla
popolazione a livello di sviluppo. Ora abbiamo perso nuovamente terreno e per
noi restare lì significa sopravvivere giorno dopo giorno mentre i
talebani guadagnano supporto e simpatie. Coloro i quali hanno visto la loro
casa e il loro campo di papaveri distrutti e i loro figli uccisi
nell’offensiva, ora si ribellano ai soldati inglesi. Lo farei anch’io in quelle
condizioni». Una posizione, quella di Des Browne, che ricalca inoltre quella
avanzata lo scorso 17 marzo da Piero Fassino in merito alla partecipazione dei
talebani a una Conferenza di pace per l’Afghanistan: «Un vecchio aforisma della
diplomazia - disse il segretario Ds - dice che la pace si fa con il nemico ed
è difficile pensare a una conferenza di pace che non veda sedere intorno
allo stesso tavolo tutti i protagonisti, in modo che questi possano guardarsi
negli occhi e decidere insieme come uscire da una situazione così
drammatica». All’epoca Fassino venne metaforicamente messo in croce non solo
dall’opposizione ma anche da una parte della maggioranza, con Emma Bonino
capofila degli indignati. Chissà che l’apertura di Des Browne,
ovviamente concordata con Downing Street e il Foreign Office, non faccia
cambiare idea a qualcuno.
Tornando all’Afghanistan, non è solo la proposta del ministro della
Difesa a rendere incandescente il clima; c’è anche la vicenda dei due
ufficiali del Sismi rapiti a Farah e liberati nel corso di un blitz congiunto
anglo-italiano che ha portato all’uccisione di nove rapitori ma anche al
ferimento grave di un nostro militare. Ed è proprio sulla dinamica dei
fatti - con ricostruzioni italiane che già parlano di vittime del “fuoco
amico” colpite mentre erano chiuse nel bagaglio del mezzo che doveva
trasferirli - che Londra non intende consentire interpretazioni che esulino
dalla versione ufficiale. Ovvero, i due sono stati non solo feriti prima del
blitz ma sarebbero stati addirittura torturati. Fonti del ministero della
Difesa britannico hanno confermato la presenza in prima linea di una pattuglia dello
Special Boat Service, il corrispettivo delle Sas per la Marina. Nel momento in
cui il comando Nato ha avuto la certezza che i due prigionieri stavano per
essere trasferiti dal loro luogo di detenzione, le Sbs sarebbero entrate in
azione. Condotte sul posto in elicottero, le teste di cuoio inglesi avrebbero
attaccato i due veicoli predisposti per il trasferimento mentre gli italiani
colpivano l’edificio. «Non è chiaro se i due italiani siano stati feriti
dai rapitori o durante il blitz», si è limitato a dire il maggiore
Charles Anthony, portavoce della Nato a Kabul, che ha inoltre avanzato dubbi
sul traduttore dei militari di cui non si conoscono le condizioni: «Non
è chiaro quale sia o sia stato il suo status». Una presa di posizione
netta, quella britannica, figlia dello sgradevole precedente accaduto lo scorso
mese di marzo in occasione del rapimento e della liberazione del giornalista di
Repubblica, Daniele Mastrogiacomo. Anche all’epoca infatti era stato
pianificato un blitz congiunto tra forze italiane e Sas britanniche, presenti
nell’area di Helmand insieme alle truppe di Sua Maestà. L’opzione
sembrava ormai in fase operativa quando il governo italiano decise di optare
per la trattativa gestita da Gino Strada e l’azione venne interrotta, pare per
il rischio troppo alto di morte dell’ostaggio che avrebbe comportato. All’epoca
Londra reagì con durezza condannando la scelta italiana definita
«controproducente» perché leggibile dei rapitori come un segnale di
cedevolezza: tanto più che Downing Street stava cercando una strada per
giungere alla liberazione del reporter della Bbc, Alan Johnston e questo
precedente poteva creare non pochi intoppi nelle trattative. Quindi per Londra
la versione è solo una, quella ufficiale. Il caso è chiuso.
In Italia dalla prima pagina In termini
generali si può dire che è la bolla del credito facile, dell'uso
smodato del credito, dell'eccessiva propensione a concedere finanziamenti da
parte dei potenziali creditori (sistema bancario, hedge funds, medi e grandi
investitori istituzionali). Si tratta del passaggio ciclico dall'inflazione
creditizia ? in cui si fa credito ad ogni costo e con bassissimi spread anche a
famiglie scarsamente solvibili (con mutui, carte di credito, prestiti
personali, etc.) e, per importi colossali, alle imprese e agli investitori
istituzionali sulla base di proiezioni che danno per scontato uno sviluppo
illimitato dei fatturati ? alla deflazione creditizia. Questo passaggio
è particolarmente pericoloso per tre motivi: il primo è che la
bolla era globale, come è dimostrato dall'andamento delle borse di tutto
il mondo negli ultimi due anni. Tutte le piazze, senza eccezioni, sono state
trascinate al rialzo e ora il rischio è che tutte le piazze siano
destinate al crollo. Il secondo motivo è che questa volta i rischi non
sono concentrati nelle Savings and Loans Associations (come nel 1988/1990) o
nel Sud-est Asiatico (come nell'ottobre 1997) o nel Long Term Capital Management
(come in agosto/settembre 1998) o nelle dot com (come nel 2000/2001). Questa
volta gli strumenti usati, come i CDO's e i derivati in genere, hanno spalmato
il rischio così ampiamente che le autorità di controllo non sanno
come fare a organizzare i salvataggi, se non creando genericamente altri mezzi
monetari, e cioè acquistando e rivendendo (pronti contro termine) titoli
di stato. Il terzo è che, come diceva il compianto professor Hyman
Minsky, "quando un sistema finanziario soffre di un periodo troppo lungo
di speculazione o di credito facile, una crisi è inevitabile".
Quello che sarebbe occorso è che le banche centrali, e
specie la Fed e la BCE, si opponessero preventivamente alla creazione di questa
bolla speculativa del credito e non avessero lasciato sfrenare i cavalli come
invece è avvenuto. Le recenti iniezioni di liquidità delle banche
centrali sembrano volere ritardare il momento del redde rationem temuto
da Minsky e, più che uno strumento di controllo, sono un segno del
timore delle autorità monetaria che i mercati non siano più
capaci di autoregolarsi e quindi che la crisi sia inevitabile, appunto perché
il periodo dell'inflazione creditizia è stato troppo prolungato per non
trasformarsi in una fase di deflazione creditizia. I creditori modificano il
loro orientamento fondamentale da quello della concessione a quello del
recupero del credito e anche i debitori diventano più riluttanti a
finanziarsi. Tutto ciò riduce la velocità di circolazione della
moneta, con effetti depressivi sui prezzi delle attività finanziarie
(azioni, obbligazioni convertibili, obbligazioni corporate, etc.) e dei beni
reali. Dopo anni nei quali sui mercati finanziari, a causa del denaro facile e
della liquidità strabordante, si è annebbiata la percezione del
rischio, occorre ora una salutare presa di coscienza del rischio stesso e del
suo prezzo che è ben più alto di quello pagato fino a poco tempo
fa. Nonostante gli interventi delle banche centrali il ciclo del
credito si è invertito e vi è la possibilità concreta che,
parafrasando l'insegnamento dell'Ecclesiaste, "tutto ciò che allora
saliva ora scenda di prezzo e tutto ciò che scendeva ora salga".
Carissimi Rizzo e Stella,… La replica. Tanto tempo buttato via
E ci vuole l'accetta, non la lima. Ringraziamo Gabriele Albonetti per il tono cortese della sua replica.
+
Il Giornale 25-9-2007 La Febbre e la malattia
L’Unità 25-9-2007 Prodi, why
not Marco Travaglio
Il Piccolo di Trieste 25-9-2007
Trieste La scala mobile esiste ancora
Milano Finanza 25-9-2007 MF Se Fassino
s'aggrappa allo stile Marchionne
Il Riformista 25-9-2007 In un clima da
1946, meglio votare alla tedesca di Emanuele Macaluso
ci sono molte cose da cambiare nella vita delle
istituzioni parlamentari e molte voci di spesa che è possibile
progressivamente contenere e ridurre. Molte di queste, le più
importanti, abbisognano di riforme legislative e costituzionali, altre sono possibili
in via amministrativa e regolamentare, a legislazione e Costituzione vigente.
Io e i miei colleghi Questori, perché questo è il nostro compito, ci
stiamo attivamente occupando di queste ultime e abbiamo assunto delle decisioni
(non delle «dichiarazioni di buona volontà» o «pensosi inviti») e altre
ne assumeremo nei prossimi mesi che, però, cominceranno ad avere i loro
effetti sul bilancio del 2008. Considerare il bilancio del 2007 come la cartina
di tornasole che dimostrerebbe l'immobilismo degli organi di direzione e
governo della Camera è operazione non corretta che alimenta l'idea che
nulla si stia facendo e nulla si possa fare.
Il bilancio 2007 è stato predisposto a fine 2006
e approvato dall'Ufficio di presidenza della Camera nei primi mesi
dell'anno e non poteva contenere, neanche nella sua proiezione triennale, i
risultati di atti che sono successivi. Non chiediamo di essere assolti a priori
o fiducie precostituite, anzi l'attenzione critica della stampa è sempre
di stimolo ai riformatori veri. A quelli falsi basta cavalcar l'onda senza
preoccuparsi delle contraddizioni. Tuttavia vorrei che ci dessimo appuntamento
alla presentazione del bilancio preventivo 2008 per verificare insieme se
quanto ho detto nella relazione introduttiva che ho tenuto in aula nel luglio
scorso, che tutti, anche nel dibattito in aula, hanno bellamente ignorato,
potrà essere mantenuto: e cioè che l'insieme dei provvedimenti
presi in questo scorcio d'anno, e quelli che ancora prenderemo di qui a fine
2007, porteranno a una diminuzione del 10% della spesa per beni e servizi in
termini economici e consentiranno di ridurre ulteriormente, rispetto a quella
preventivata, di 110 milioni, da qui al 2010, la dotazione richiesta al
ministero dell'Economia.
Elenco i principali di questi provvedimenti e
delle decisioni assunte o in corso, poiché temo sia necessario esser
puntigliosi e non vaghi.
1. Esternalizzazione del ristorante interno per deputati e giornalisti con un
risparmio di 3.700.000 euro.
2. Riconsiderazione dei contratti nel settore informatico con un risparmio
annuo di 2.500.000 (per un totale di 7.500.000 al 2010).
3. Passaggio ovunque possibile dal cartaceo all'on line con un risparmio di
1.000.000 di euro.
4. Eliminazione dal primo gennaio 2008 dei rimborsi spese per i viaggi di
studio all'estero dei deputati per un risparmio secco di 2.000.000 già
sul primo bilancio.
5. Sospensione e congelamento degli aumenti automatici, legati agli stipendi
dei magistrati, per quanto riguarda le indennità dei deputati con un
risparmio già per il 2007 di circa 1.500.000 euro (non si vede nel
bilancio 2007 perché la legge del 1965 ci fa obbligo di prevederli, tuttavia
non li abbiamo erogati).
6. Blocco selettivo del turn over dei dipendenti (che vuol dire assumere solo
in casi motivati e palesi), con l'avvio di una nuova fase di contrattazione con
i sindacati che porti fin dal prossimo contratto ad introdurre meccanismi di
controllo sulla crescita delle retribuzioni e a rivedere da subito per i nuovi
assunti le curve retributive portandole a livelli competitivi ma comparabili
con il resto del pubblico impiego e facendo partire dal 2001 il nuovo regime
pensionistico fondato sul sistema contributivo. In questo caso non è
semplice indicare la cifra del risparmio, poiché gli effetti si vedranno in piccola
parte subito e in gran parte sul medio periodo.
7. Riforma dei vitalizi dei parlamentari, già deliberata nel luglio
scorso, con eliminazione dell'istituto del riscatto (non sarà più
possibile percepire il beneficio dopo soli 2 anni e mezzo ma ce ne vorranno
almeno cinque e anche in questo caso ci sarà una riduzione al 20%
dell'indennità), blocco fino a un massimo del 60% anche per chi
farà più legislature, estensione delle non cumulabilità
del vitalizio con altre indennità pubbliche nazionali, regionali e
locali. Già qualcosa si vedrà sul bilancio 2008, ma molto - circa
40.000.000 di euro - si risparmierà quando il nuovo sistema andrà
completamente a regime.
8. Revisione degli affitti con la richiesta già inoltrata al ministero
dell'Economia per ottenere dall'Agenzia del Demanio una sede in cui collocare
molti degli uffici e servizi oggi operanti in sedi in affitto, con un risparmio
quando l'operazione sarà completata, di circa 2.500.000 euro.
Capisco che nel grande mare della spesa pubblica
questi obiettivi possano sembrare poca cosa e certo molto di più, sia in
termini di efficienza della democrazia che in termini di minori oneri, si
potrebbe ottenere da riforme che riducano significativamente il numero dei
parlamentari e cambino la funzione di una delle due Camere. Ma qui i deputati
Questori possono far poco se non auspicare che si realizzi presto un'intesa su
queste riforme. Tuttavia l'elenco dei provvedimenti che ho minuziosamente
riepilogato e altri che, nei prossimi mesi intendiamo mettere in cantiere, come
per esempio l'adeguamento ai prezzi di mercato di tutti i servizi interni (dal
ristorante, al bar, alla barberia, ecc.) rappresentano un tentativo concreto di
ricondurre l'attività parlamentare all'essenziale e di tagliare
privilegi e sprechi. Molti in questi mesi hanno parlato, annunciato, proposto;
nessuno ha fatto in poco tempo così tanto di concreto, fra mille
difficoltà di navigazione in mezzo allo Scilla di chi non vuol cambiare
e al Cariddi di chi vorrebbe di più. Ma questo è il destino
faticoso di chi, per modificare le cose, deve ottenere il consenso degli organi
di autogoverno del Parlamento.
On
Gabriele Albonetti
Questore anziano della Camera dei Deputati
Deputato dell'Ulivo
25
settembre 2007
_________________
Gli diamo atto di essere uno dei pochi che a ridurre le spese del Palazzo ci stanno
almeno provando. Ci rallegriamo per il fatto che non rettifichi neppure una
delle nostre cifre, peraltro contenute nel bilancio ufficiale di Montecitorio.
Prendiamo per buone le sue rassicurazioni circa il fatto che i lodevoli impegni
assunti dalla Camera possano produrre effetti concreti nel futuro prossimo. Ma
ce lo lasci dire: in nemmeno un anno e mezzo, il tempo già trascorso
dall'inizio di questa quindicesima legislatura, l'Assemblea costituente
riuscì a stendere la carta fondamentale della Repubblica. Allora forze
politiche che pure si combattevano aspramente e che erano divise da alti
steccati ideologici avvertirono l'urgenza e la necessità di risollevare
il Paese dopo una sanguinosa guerra civile. E in tempi straordinariamente brevi
scrissero il patto costituzionale. Lo stesso senso di urgenza non sembra sia
avvertito oggi, quasi che la classe politica nel suo complesso non si renda
conto fino in fondo di quanto sta accadendo.
Eppure proprio su questo giornale un esponente
di primo piano della maggioranza ora al governo, come il presidente dei Ds
Massimo D'Alema, aveva ammesso allarmato il 20 maggio: «È in atto una
crisi della credibilità della politica che tornerà a travolgere
il Paese con sentimenti come quelli che negli anni 90 segnarono la fine della
prima Repubblica». Da allora i segnali che la situazione si stia facendo sempre
più seria e che il fossato fra il Paese reale e la politica (accusata di
aver smarrito il senso dell'interesse generale e di non saper dare risposte
adeguate) si vada approfondendo sempre di più, si sono moltiplicati.
Nemmeno l'estate, cui forse qualcuno aveva affidato le speranze che la marea
montante evaporasse sotto il solleone, ne ha attenuato l'impeto, mentre dal
Palazzo non arrivavano che reazioni deboli. Contraddittorie. Impalpabili. Un
taglietto qua, un aggiustamento là. Si andava dalle alzate di spalle
all'annuncio di provvedimenti che poi non riuscivano nemmeno a superare i veti
politici degli enti locali, rimanendo sepolti (e lo sono ancora) nei cassetti
del governo. Al punto che i pur lodevoli impegni assunti dal Parlamento sui
vitalizi e altre marginali voci di spesa (impegni previsti come sempre «dalla
prossima legislatura») sono stati spacciati addirittura come svolte epocali. Ci
si deve accontentare? No. Tanto più che la loro portata è ancora
tutta da valutare. E il Parlamento che li dovrà digerire è lo
stesso che il 17 maggio 2006, mentre il governo Prodi prestava giuramento,
prendeva come prima decisione (prima!) della nuova legislatura quella di aumentare
molto generosamente i contributi per i gruppi parlamentari. Ha detto Fausto
Bertinotti, cercando di menar vanto dei ritocchi: «Abbiamo lavorato di lima».
Questo è il punto: la gravità della situazione, come è
nella convinzione anche dei lettori che hanno scritto ieri al «Corriere» un
diluvio di lettere, imporrebbe di lavorare di accetta.
Sergio
Rizzo - Gian Antonio Stella
25
settembre 2007
MILANO - Dopo oltre un anno di udienze l'inchiesta
sul crac del gruppo Cirio è giunta alla conclusione. Il giudice Barbara
Callari ha disposto il rinvio a giudizio dell'ex patron del gruppo, Sergio
Cragnotti, del presidente di Capitalia e del consiglio di sorveglianza di
Mediobanca, Cesare Geronzi, dell'ex ad dell'allora Banca Popolare di Lodi
Gianpiero Fiorani e di altri 32 imputati tranne gli esponenti del gruppo
Sanpaolo. Saranno processati per bancarotta fraudolenta per il crac del gruppo
Cirio che nel 2003 fece andare in default obbligazioni per 1.125 miliardi di
euro emesse fra il 2000 e il 2002. Il processo comincerà il 14 marzo
prossimo davanti alla prima sezione penale del Tribunale.
GLI ALTRI A PROCESSO - Rinviati a giudizio anche
i familiari di Cragnotti, i figli Andrea, Elisabetta e Massimo, il genero
Filippo Fucile, e la moglie Flora Pizzichemi. Prosciolti invece dalle accuse,
nove imputati tra cui gli ex dirigenti del San Paolo Imi, Rainer Masera,
Massimo Mattera e Luigi Maranzana. Assolto l'unico imputato che aveva fatto
ricorso al rito abbreviato, Antonio Petrucci ex componente del collegio
sindacale di Cirio holding. Il gup ha accolto le richieste di rinvio a giudizio
fatte dalla Procura nel maggio di due anni fa e ribadite prima dell'estate
nella requisitoria pronunciata dai pubblici ministeri nel corso dell'udienza
preliminare.
25
settembre 2007
E
se è vero che, da una parte, "la crescita mondiale resta
solida", dall'altra "i rischi al ribasso sono aumentati e, anche se
non si materializzano, le ripercussioni potrebbero essere significative e di
ampia portata". Ammonterebbero infatti a circa 200 miliardi di dollari le
perdite del settore "subprime" negli Usa registrate da
febbraio scorso. Questa l'analisi elaborata dagli esperti del Fondo monetario internazionale
e contenuta nel Global Financial Stability Report. Gli esperti precisano
però che si tratta di un'indicazione approssimativa in quanto i
"timori sulla liquidità e l'incertezza dei mercati potrebbero aver
spinto ancora più in basso i valori dei titoli rispetto ai valori degli
asset in garanzia". Le condizioni del credito "potrebbero non tornare
normali a breve e - rimarcano gli esperti dell'Fmi - alcune pratiche che si
sono sviluppate nei comparti del credito strutturato devono cambiare". La
mancanza di prezzi e mercato secondario di alcuni prodotti strutturati e le
preoccupazioni su localizzazione e ampiezza delle perdite hanno portato a
scossoni e anomalie in diversi settori. Il Fondo monetario promuove le azioni
messe in campo dalle banche centrali per arginare gli effetti della crisi. Bce
e Federal Reserve "hanno messo a segno le mosse giuste per il momento. Da
questo momento ci aspettiamo che non dimentichino in futuro il tema
dell'inflazione e del costante monitoraggio dei dei dati macroeconomici",
dice Jaime Caruana, direttore del dipartimento Capital Market dell'Fmi, secondo
cui "l'impatto della crisi subprime avrà conseguenze ampie sulla
economia mondiale, in particolare negli Stati Uniti, anche per effetto della
contrazione del credito". L'incertezza sulla reale entità delle
perdite nei bilanci di banche e istituzioni finanziarie, con lo stress del
mercato immobiliare Usa, ha fatto salire i tassi interbancari e mandato
in crisi le operazioni di leveraged buyout (operazioni di acquisizione
effettuata ricorrendo soprattutto attraverso i prestiti). Dalle turbolenze dei
mercati e dagli scossoni dello scorso agosto, "ci sono lezioni sia per il
settore privato sia per i regolatori e supervisori dell'arena finanziaria che
devono essere disegnate per la solidità dei mercati finanziari e contro
futuri problemi". Il report elenca cinque aree d'intervento. La prima fa
capo alla necessità di maggiori informazioni, la cui tempestività
nella circolazione sui mercati è l'unica via per "differenziare e
prezzare propriamente in rischio". La seconda è costituita dalla
comprensione dell'innovazione finanziaria nelle attuali turbolenze, mentre, al
terzo punto, figura la posizione delle agenzie di rating ("restano ampi
problemi di metodologie e processi di valutazione dei prodotti di credito
strutturato") e sui loro criteri di assegnazione dei giudizi. Quarta area
è quella degli strumenti complessi che, non avendo mercato secondario,
sono di difficile determinazione in termini di prezzi. Quinto e ultimo punto
individuato dall'Fmi, prosegue lo studio, è che questi episodi di
turbolenza hanno fatto emergere che per le banche il "perimetro di rischi
è più ampio di quello comunemente considerato dai parametri
legali". Ad esempio i rischi sulla reputazione di un istituito possono
costringerlo a farsi carico di spese subite da entità da cui è
legalmente separato. E i rischi di cui un istituto pensa di essersi defilato,
magari ricoprendosi mediante una cartolarizzazione, possono tornare indietro
gravando sulla sua reputazione. g.lombardo@iltempo.it martedì 25
settembre 2007
ROMA
Stretta sui voli di Stato. L'ha decisa Palazzo Chigi, con una direttiva del
presidente del Consiglio pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale di ieri. Da tempo
in gestazione, il provvedimento evidentemente ha subito un'accelerazione dopo
le recenti polemiche sul vicepremier Rutelli e il ministro Mastella, accusati
di aver usato gli "aerei blu" per andare al gran premio di Formula
uno a Monza. La direttiva, intitolata "Disciplina del trasporto aereo di
Stato", tenta di restringere al minimo indispensabile l'usodi questa
possibilità. All'articolo 6 si stabilisce che ogni viaggio in questo
modo va "concesso secondo criteri di economicità e di impiego
razionale delle risorse, previo riscontro dell'impossibilità di
ricorrere ad altri mezzi di trasporto". Così come nella precedente
direttiva, che risale al 2000, principali destinatari di questi voli, e solo
"per compiti istituzionali", sono il capo dello Stato, i presidenti
dei due rami del Parlamento, il premier, il numero uno della Consulta e gli ex
presidenti della Repubblica. I ministri o altre delegazioni istituzionali
possono usufruirne solo se ci sono "comprovate e inderogabili esigenze di
trasferimento " e "non sono disponibili voli di linea".Da notare
l'art. 5, "Composizione delle delegazioni ": l'uso del volo di Stato è
consentito solo "alle personalità e ai componenti della delegazione
della missione istituzionale" che va comunicata prima a Palazzo Chigi. Uno
stop, almeno in teoria, per imbucati e passeggeri dell'ultimo momento. M. Lud.
VENEZIA
- I costi della politica salgono ancora. Così sembra dal bilancio della
Camera dei deputati, da cui emerge che in tre anni le spese di Montecitorio
aumenteranno del 9,2 per cento, con un aggravio sulle casse pubbliche di 92
milioni di euro. E gli stipendi dei parlamentari costeranno il 2,77 per cento
in più. Crescono le polemiche roventi su sperperi e privilegi, soffia il
vento della rabbia popolare delle piazze infervorate dal verbo di Beppe Grillo,
ma la "macchina" della politica continua a correre come se nulla
fosse. Come reagiscono i parlamentari eletti dai veneti al bilancio di
previsione varato dalla Camera? "Basta con gli aumenti di stipendio -
tuona il senatore della Margherita Paolo Giaretta - ho appena scritto una
lettera alla presidenza del Senato per chiedere che non venga applicato il
nuovo scatto previsto. Voglio un "contratto di legislatura", con una
cifra di retribuzione che resti quella. Non possiamo affrontare il dibattito
sul welfare senza prima risolvere il nodo dei privilegi dei parlamentari
". Giaretta precisa: "Sommando le varie indennità io prendo
circa 14 mila euro, ma va distinto ciò che entra nel reddito famigliare
e quanto invece va a finanziare il partito o convegni: l'anno scorso ho versato
50 mila euro al partito. Tolte tutte le varie detrazioni guadagno meno dello
stipendio che avevo come vicesegretario della Camera di Commercio di
Padova". Luca Bellotti, parlamentare di An, punta il dito contro il
governo di centrosinistra: "Predica all'altrui coscienza e poi non
mantiene le promesse. Ma per la qualità della politica di oggi, secondo
i cittadini è buttato anche un solo euro destinato ai politici".
Bellotti snocciola le cifre che lo riguardano: "Prendo circa 15 mila euro,
3000 li spendo in telefono, poi ho segretaria e portaborse da stipendiare
". Su un punto Giaretta e Bellotti concordano, tagliare i privilegi:
viaggi in business class, poi barbiere e ristorante riservati ai parlamentari.
Il viceministro Cesare De Piccoli (Ds) non ha dubbi: "Ogni cittadino che
ricopre incarichi pubblici dovrebbe dimostrare che non si arricchisce con la
politica". E fa sapere: "Io rispondo per quello che mi riguarda, giro
con il 740 e lo stato patrimoniale in tasca, pronto ad esibirlo in nome della
massima trasparenza. Dei 14 mila euro che prendo me ne restano cinquemila,
conta quello che porto a casa, non l'imponibile lordo. I privilegi? Li
eliminerei tutti, a iniziare dal ristorante e il barbiere di Montecitorio,
vecchi e inutili status symbol". "Ma quale crescita degli stipendi -
s'infervora Mauro Fabris, Udeur - gli aumenti sono congelati da gennaio. Se
maggiorazioni ci sono state, sono scatti automatici, derivano da impegni
pregressi. Il bilancio di quest'anno ha cercato di sforbiciare tutto quello che
poteva". Fabris fa i conti: "Guadagno 5000 euro al mese, più
le indennità per pagare due uffici, uno a Roma e uno a Vicenza e quattro
persone che lavorano per me. Altro che stipendi d'oro, se uno fa politica come
la faccio io, è il minimo per andare avanti. A meno che l'obiettivo non
sia passare dalla "casta" al "censo" in modo che possa fare
politica solo chi è ricco di famiglia. Sono in Parlamento da dieci anni,
non ho mai visto arricchirsi chi fa il proprio dovere". Contesta l'aumento
Alessandro Naccarato, Ds. "E' un bilancio di previsione e c'è il
congelamento sulle indennità dei parlamentari - spiega - , c'è
l'intenzione di ridurre sprechi e privilegi. Alla Camera in Commissione Affari
Cosituzionali stiamo facendo un'indagine conoscitiva sui costi della politica.
L'obiettivo è arrivare a incidere su vitalizio e sistema pensionistico e
tagliare i costi dei viaggi all'estero, io ad esempio non ne ho mai fatto
uno". I conti di Naccarato? "Ho un indennità netta di 5000
euro, più 4000 per i rapporti con il territorio e 4000 per la diaria per
Roma, di questi soldi ogni mese verso 7200 euro al partito".
Niccolò Ghedini, Forza Italia, sostiene che "il problema non
è il costo della politica, ma la resa: costiamo, ma non funzioniamo. E
la gente si allontana proprio a causa dell'inefficenza della macchina
politica". Cosa tagliare? "I viaggi e gli affitti dei palazzi: molte
sedi potrebbero essere dismesse, è eccessivo che tutti i parlamentari
abbiano un ufficio a Roma, io ad esempio non me lo sono mai fatto dare".
Filippo Ascierto, An, propone: "Metto il mio stipendio di un mese in mano
a chi vuole gestirlo per me, vediamo cosa riesce a fare". E spiega:
"Quello che percepisco lo ridistribuisco tra cinque dipendenti e due
uffici, poi finanzio incontri, cene con gli iscritti, dò il mio
contributo a An. Ho chiuso l'attività di carabiniere con 50 mila euro in
banca, adesso sul conto ne ho 20 mila, di sicuro non mi sono arricchito. La
casta? E' chi pensa solo ai propri interessi. Gli stipendi andrebbero tagliati
del 10 per cento ". "Se uno rinuncia a un incarico professionale per
entrare in politica è giusto che sia retribuito - sostiene Aldo
Brancher, Forza Italia - Certo, i costi della politica vanno ridotti, ad
esempio iniziando a diminuire i gruppi in Parlamento. E poi barbiere e
ristorante di Montecitorio, mai entrato in 5 anni di governo, ho sempre
pranzato con un panino". "Io prendo 4900 euro di indennità
parlamentare, il resto sono rimborsi spese - dice Elisabetta Alberti Casellati,
Forza Italia -. Ma questo governo ha fatto lievitare tutta la
"macchina", ci sono più sottosegretari e ministeri, con
più auto e personale. Vogliamo chiedere una drastica riduzione di tutte
le spese. La ribellione di piazza della gente è forte perchè non
hanno risposte dal governo. Se ci fosse un buon governo si disinteresserebbero
dei nostri stipendi".
Visto che appellarsi alla
sensibilità di Clemente Mastella è un esercizio inutile questo
è un appello a Romano Prodi. Con l'aria che tira, gentile presidente,
tutto può permettersi il suo governo salvo che attirarsi il sospetto di
voler eliminare un magistrato che indaga sul premier e sul ministro della
Giustizia. A quel che si sa, presidente, il suo nome è iscritto nel
registro degl'indagati di Catanzaro per abuso d'ufficio nell'inchiesta
"Why Not": un atto dovuto per veder chiaro su alcune migliaia di
telefonate che coinvolgono un cellulare "in uso" anche a lei,
oltrechè ad alcuni membri del suo staff da tempo indagati per presunte
truffe sui fondi comunitari. Invece Mastella non è per ora indagato, ma
agli atti della Procura di Catanzaro sono finite diverse telefonate tra due
indagati (il numero due della Compagnia delle Opere, Antonio Saladino, e l'ex
piduista Luigi Bisignani,già condannato per la maxitangente Enimont) e
Mastella. Cioè il ministro che prima ha inviato un'ispezione a Catanzaro
e ora chiede al Csm di trasferire lontano da Catanzaro il procuratore capo
Mariano Lombardi e il sostituto Luigi De Magistris, che delle suddette
inchieste è il titolare. Formalmente il ministro esercita un suo potere.
Di fatto è la prima volta che un ministro della Giustizia chiede di
trasferire un pm che indaga non solo sul capo del governo, ma anche su di lui.
Berlusconi aveva tentato più volte di liberarsi del pool di Milano e addirittura
di un giudice del processo Sme (Guido Brambilla), ma tramite Castelli, mai
"trattato" dai magistrati milanesi. Ora invece, con la richiesta di
Mastella anti-De Magistris, il conflitto d'interessi è addirittura
doppio. Se lei, presidente, è estraneo alle accuse, ha tutto l'interesse
a che il Parlamento autorizzi l'uso dei tabulati telefonici che il pm
invierà alla Camera, così che la sua posizione possa essere
approfondita e poi archiviata senza ombre. Come un cittadino qualunque. Se
invece l'inchiesta fosse tolta a De Magistris, o se il Parlamento negasse il
via libera, resterebbe il dubbio che le indagini siano state bloccate per via
politica. E lo stesso vale per Mastella, le cui telefonate sono oggetto di
indagini. Da quando De Magistris ha cominciato a interessarsi a lei, presidente
Prodi, al suo entourage e al suo ministro della Giustizia, lei avrebbe dovuto
triplicargli la scorta, raccomandare al suo staff di non dire una parola contro
di lui e al suo Guardasigilli di lasciarlo lavorare in pace.. Purtroppo
è avvenuto il contrario: De Magistris - come ha scritto più volte
sull'Unità Enrico Fierro, tra i pochi giornalisti italiani ad accorgersi
del caso Calabria è un uomo solo, sia nella sua procura, sia nella sua
città, sia nella sua regione. Gli addebiti che gli muove il ministero
sono ridicoli: avrebbe infilato alcune telefonate "non pertinenti"
nel mandato di perquisizione del Pg di Potenza, avrebbe rilasciato "troppe
interviste", non avrebbe informato il capo di alcune iscrizioni di indagati.
Ora, quella di parlare per rompere l'isolamento è spesso l'ultima arma
che rimane ai magistrati in terra di mafia: ma, se non violano il segreto sulle
indagini (e De Magistris non l'ha mai fatto), è un loro diritto
costituzionale. Quella delle telefonate non pertinenti è un'opinione
come un'altra. Quanto alle mancate comunicazioni al capo, va ricordato che il
procuratore Lombardi è sospettato di aver informato indagati di un'altra
inchiesta tramite l'on. avv.ind. forzista Luigi Pittelli (socio di studio del
figlio della convivente di Lombardi): sicchè, quando De Magistris li
perquisì, trovò i cassetti vuoti. Con un simile precedente, solo
un pazzo avrebbe continuato a informare il capo. Checchè ne dicano i tg,
quella in corso a Catanzaro non è una rissa tra procuratore e sostituto,
e Mastella non è il paciere che riporta l'ordine a Catanzaro: è
una tragica vicenda, tutt'altro che inedita, di giudici ragazzini che indagano
a 360 gradi e di un potere tentacolare, esteso anche alle alte sfere togate,
che cerca di impedirglielo. Si sperava che storie del genere sarebbero finite
un anno fa, con l'uscita di Berlusconi da Palazzo Chigi. Ci aiuti, presidente
Prodi, a sperarlo ancora Uliwood party.
Cara Europa, a Torino una pattuglia di vigili in
borghese su un’auto civetta priva di distintivo, parcheggiata in divieto e
contromano, è stata beccata e fotografata intenta a fare multe con tanto
di telecamera in centro. Il comandante dei vigili ha ammesso la scorrettezza,
mentre l’assessore competente ha affermato che è tutto regolare e che il
sistema sta funzionando egregiamente da 7 anni, evidentemente in condizioni di
totale ripetuta illegalità. Nessuno pagherà e tutti resteranno al
proprio posto, a partire dai due agenti, ungo la scala delle gerarchie fino
alla giunta comunale, un’altra delle tante caste di intoccabili, cui
verrà riconosciuto il diritto di infrangere leggi, norme e tutto quello
che siamo costretti a rispettare ogni giorno. Di fronte a tali esempi di
illegalità istituzionale non meravigliamoci se chi organizza un semplice
V-day riesce a riempire le piazze tanto facilmente di gente che chiede solo di
poter vivere in un paese normale.
MARGHERITA CAPANNA, ALAGNA VAL SESIA (VC)
Cara
signora, lei aggiorna una storia italiana che dura da secoli. Diciamo,
convenzionalmente, dai “bravi” descritti da Manzoni. Purtroppo, i potenti hanno
sempre rastrellato fra i poveri e gli umili i “tutori dell’ordine” (l’ordine
dei potenti); e i bravi, sottratti così al comune destino di fame grazie
alla paga del signorotto, sono stati sempre severissimi verso gli ex compagni
di povertà, indifesi, mai coi potenti, esentati da obblighi e sottoposti
alla giustizia dei “pari”: cioè della loro casta. Con la democrazia sono
cambiate le forme del rapporto di cittadinanza e anche molti contenuti, meno la
tendenza di alcuni o molti tutori dell’ordine di far valere quell’ordine solo
nei confronti degli indifesi. Così si spiegano le multe con telecamera
che lei denuncia, le prostitute portate in prigione al posto dei loro
sfruttatori (basterebbe lasciarle lavorare in luoghi sicuri e discreti), i
contribuenti fedeli che, per una virgola fuori posto, si vedono multare pur
avendo pagato fino all’ultimo soldo. Poi si scopre – vedi Corriere di ieri –
che in Lombardia vengono smascherati 345 maxi-evasori (onore alla Guardia di
Finanza, che non ha guardato in faccia a costoro), che hanno patteggiato con lo
stato un minimo di 500 mila euro a testa (e i primi 12 oltre 5 milioni). Questi
signori in grado di evadere per decine o centinaia di milioni e di concordare
cifre per lei e per me astronomiche, sono naturalmente “anonimi”, visto che non
vengono raccontati con nomi e cognomi. Sono una casta, ma non so se Grillo
farà un V-day per loro. Invece la casta politica continua a comportarsi
come niente fosse; e sempre ieri Rizzo e Stella scrivono che «non sono bastati
mesi di discussione su certi privilegi insopportabili di quanti governano a
livello nazionale e locale, ore di polemiche in tv, file alle librerie,
spettacolare raccolta di firme per il referendum contro la legge elettorale e
poi per le proposte di legge dei bloggeristi. Tutto come prima.
L’anno prossimo gli stipendi dei parlamentari lieviteranno del 2,77 per cento,
i vitalizi del 2,93, il montepaghe del personale del 3,73, gli affitti dei
palazzi del 6,6». Invece di colpire qui – almeno per dare il buon esempio – si
colpisce il cittadino ignaro con multe a tradimento, di cui ciascuno di noi,
cara signora, è stato vittima anche lontano da Torino. Occorre non
mollare, non lasciar cadere alcuna occasione – possibilmente in forme civili –
di denuncia e protesta. Ne sarà capace il Pd, già tanto criticato
per gli usi e costumi di queste primarie?
lLa scala mobile non è morta. Ve la
ricordate la scala mobile? Permetteva di adeguare automaticamente lo stipendio
all'aumento del costo della vita. Ci convinsero che era inopportuna, dannosa,
che favoriva l'inflazione. Ci fu un referendum. Votammo per il bene comune, per
l'abolizione. Ora, con incredula sorpresa, veniamo a sapere che per qualcuno la
scala mobile è viva e vegeta. Per le caste. I parlamentari e i
magistrati. È di questi giorni un ulteriore aumento di 200 euro netti al
mese più gli arretrati dal gennaio di quest'anno. Questa classe politica
vive fuori della realtà, non si rende conto che la disaffezione, la
sfiducia, l'indignazione stanno montando inarrestabilmente e che bisogna dare
segnali forti di riduzione dei costi della politica, tagliare i
privilegi, recuperare comportamenti trasparenti ed esemplarmente corretti.
Invece ci si esercita, con prolisse analisi, sul perché del fenomeno Grillo.
Siamo tutti Grillo quando ci prende lo scoramento per essere governati da una
oligarchia intoccabile, autoreferenziale, insaziabile, irresponsabile. Ezio
Pelino.
MILANO. I 98 miliardi di euro che la Corte
dei conti chiede alle società concessionarie delle slot machine e
dei giochi da intrattenimento. Uno dei più grandi casi mai accaduti in
Italia. L'inchiesta che il Secolo XIX sta conducendo dallo scorso maggio
è stata "protagonista" ieri sera della prima puntata della
nuova serie di Striscia la notizia, il tg satirico di Antonio Ricci in onda su
Canale 5. Il servizio di apertura, infatti, è stato dedicato interamente
al "caso slot". L'inviato di Striscia, Moreno Morello,
collegato con la sede del nostro quotidiano, ha illustrato le puntate dell'inchiesta
e ha testimoniato dell'impossibilità di ottenere risposte da chi
dovrebbe darle: il governo e il mondo politico. Il caso scatenato dal Secolo
XIX è stato innescato dalla relazione di una commissione parlamentare,
presieduta dal sottosegretario all'Economia Alfiero Grandi, che ha lanciato
dure accuse e indicato responsabilità dei Monopoli di Stato sulla
vicenda. Poi è arrivata l'indagine della Guardia di Finanza, che ha
lavorato d'intesa con la Corte dei conti che, alla fine, ha quantificato l'entità
del danno patito dallo Stato: 98 milioni di euro, per l'appunto. La Corte ha
quindi inviato alle concessionarie (ma anche al direttore dei Monopoli
Giorgio Tino, nominato dal governo di centrodestra e riconfermato da quello di
centrosinistra nonostante il suo nome fosse già finito agli atti di
un'inchiesta della procura di Potenza) gli "inviti a dedurre", ovvero
l'avviso di garanzia della giustizia contabile. Il Secolo XIX ha correttamente
riportato anche la versione delle società concessionarie delle slot
machine. Ma tutti i protagonisti della vicenda hanno lo stesso problema:
l'impossibilità di ottenere risposte dal governo su uno dei casi
più clamorosi mai accaduti in Italia. Così Striscia la notizia ha
mandato in onda le immagini dell'incontro tra i due inviati del Secolo XIX
autori dell'inchiesta, Marco Menduni e Ferruccio Sansa, e il viceministro
Vincenzo Visco nel corso della sua visita a Genova. Ai due giornalisti che
volevano porgli domande e ottenere chiarimenti, Visco ha risposto seccamente:
"Come sapete con voi non parlo. Non mi state simpatici, va bene?".
Silenzio dai Monopoli di Stato, silenzio dal ministro dell'Economia
Tommaso Padoa Schioppa, silenzio dal premier Romano Prodi. Eppure sono stati
persino gli stessi concessionari (cioè chi dovrebbe versare la
supermulta da 98 miliardi) a sollecitare un intervento del governo: "Tutto
il settore potrebbe crollare, con danni incalcolabili per le entrate dello
Stato e per migliaia di lavoratori". Nessuna risposta. Sul sito www.ilsecoloxix.it
è apparso un appello per chiedere direttamente spiegazioni sulla vicenda
al presidente del Consiglio. E migliaia di mail sono state inviate dai
cittadini dopo che la notizia è stata ripresa dal sito di Beppe Grillo.
Striscia ha mostrato le pagine del Secolo XIX scandendo così un
riassunto dell'intera inchiesta. Passata dal mondo delle concessionarie ai
risultati (nell'inchiesta delle Fiamme Gialle) sulle pesanti infiltrazioni
mafiose che ancora oggi gravano sul settore per arrivare all'"interesse"
diretto dei partiti politici nella gestione dei giochi "da
intrattenimento" in Italia, in maniera assolutamente bipartizan. R. I.
25/09/2007.
in Italia è la quinta azienda come
introiti In viale Europa Unita aperta la prima sala slot Anche
tabaccherie e pasticcerie le richiedono Gli indicatori: l'escalation non si
ferma ancora di DOMENICO PECILE Il battesimo è datato 1 maggio 2004:
è il giorno dell'addio ai "famigerati" videopoker e l'inizio
dell'era delle slot-machine, la nuova "invenzione" che entra
di prepotenza, auspice lo Stato, nell'olimpo del cosiddetto gioco legale, una
vera potenza economica, la quinta azienda in Italia come introiti. Oggi, in
tutta Italia, le "macchinette" sono 220 mila, in costante aumento. Di
queste, al 1 novembre dello scorso anno, circa 5000 erano installate nei bar e
in altri pubblici esercizi i della nostra regione (quasi 2000 nella sola
provincia di Udine). Ed è proprio l'analisi dei numeri che, meglio di
ogni altro discorso sociologico, dà l'esatta misura di un fenomeno
sociale in costante e incipiente crescita. Tecnicamente, il costo di una singola
partita non supera i 50 centesimi e la vincita non supera i 50 euro (da fine
anno le nuove slot machine passeranno rispettivamente a 1 euro e 100
euro di vincita.) Al raggiungimento di 14 mila partite si chiude un ciclo. Dei
7mila euro incassati, la macchinetta ne deve "restituire" il 75 per
cento ai giocatori. Per comprendere come avviene questa restituzione si prende
come unità di misura 4 mila euro. Di queste, 3 mila tornano ai
giocatori, mentre delle restanti 1000, il 52 per cento finiscono allo Stato
tramite il Preu (prelievo erariale unico) che viene versato ogni 15 giorni. Del
rimanente, il 4 per cento va al concessionario e il resto viene diviso tra il
barista che "ospita" le slot e i noleggiatori. Tutte le slot
machine sono collegate in rete telematica e gestite da 10 concessionari tra cui
Lottomatica, la Sisal e la Snai. A monte di tutta la filiera c'è la
Sogei, la Società del ministero delle finanze da cui dipendono
direttamente le Amms (Amministrazioni autonome monopoli di Stato) che
"controllano" a loro volta le 10 concessionarie. Poi ci sono i
noleggiatori e infine baristi, tabaccai, ma adesso (anche qui in Friuli)
pasticcerie e quant'altri. Fino al 2006 nel paniere dello Stato degli itroiti
derivanti dai giochi la facevano da padrone lotto ed enalotto. Ma partire dallo
scorso anno le slot machine rappresentano la prima fonte di introito,
più, singolarmente, di lotto, superenalotto, totocalcio e gratta e
vinci. Di più: Nel primo trimestre 2007 lo Stato ha già incassato
dalle slot machine 750 milioni di euro. Insomma, un fenomeno davvero
incredibile. Che piace e che si sta dilatando anche in Friuli dove le slot
machine sono ormai presenti in oltre l'80 per cento dei locali pubblici. A
Udine, in viale Europa unita è stata di recente inaugurata la Sala Slot
(e non sarà certo la prima), mentre anche nelle sale bingo di Udine
cominciano a pullulare le macchinette. Si stima che in Friuli Venezia Giulia
vengano spesi ogni anno 60 milioni di euro, parte dei quali vengono ovviamente
"restituiti" ai giocatori. Come sostiene Alberto Diasparra, titolare
di Friulgames, "i giocatori sono in costante aumento, ma nel contempo
diminuisce l'entità delle giocate. E' un fenomeno di costume in costante
crescita. Qui in Friuli, sia il numero delle macchinette sia del volume di
gioco sono cresciuti del 30 per cento nel 2005-2006 e del 20 nell'anno in
corso. E tutti gli indicatori ci confermano che il fenomeno è destinato
ad allargarsi ancora".
L'amministratore delegato della Fiat, Sergio
Marchionne, ha pubblicato, domenica scorsa, un ampio e molto efficace
intervento sul Corriere della Sera. In esso, forte anche dei risultati
gestionali strepitosi in Fiat, da lui ottenuti in soli tre anni di lavoro, ha
in sostanza affermato che, da una parte, non si può pretendere di tenere
ingessato il paese ma, dall'altra, che i costi della ottenuta fluidità
del sistema non possono cadere sui più deboli che debbono essere, nel
caso, risarciti (e difesi) dalla collettività.Marchionne, nella stessa occasione,
ha anche sottolineato che esiste, in Italia "uno schieramento trasversale
a destra e a sinistra che non vuole accettare il cambiamento e la sfida di una
società che non è più quella nella quale la nostra
generazione è cresciuta". Marchionne ha anche accertato che non
esiste più la supposta dicotomia antagonista fra destra e sinistra. Una
finzione, questa, che viene ancora affermata dai politici di ogni colore che
sui termini (sarebbe azzardato parlare di concetti) di destra e sinistra continuano
a costruire il loro permanente e fragile teatrino delle ombre, dove, grazie a
questi fantasmini (anche qui, chiamarli fantasmi, nel 2007, sarebbe violentare
la realtà, oltre che sfidare il ridicolo) cercano di non tener conto di
quanto, già vent'anni fa, li aveva sbugiardati e sfottuti persino
Giorgio Gaber che, di professione non faceva il filosofo, ma il cantautore.
Gaber, già allora, faceva notare che il bagno è di destra e la
doccia di sinistra; le scarpe di cuoio sono di destra e quelle da ginnastica sono
di sinistra. Ma se le scarpe da ginnastica sono pulite e ben allacciate, esse
sono di destra mentre se sono sporche e slacciate sono di sinistra. Insomma,
Gaber fotografava una contrapposizione fra cretini, utilizzata dai politici a
mo' di banderilla, per riuscire a svegliare le emozioni (cosa facile) senza
essere obbligati ad affrontare la soluzione dei problemi (che esige molta
più competenza, impegno e rischio.Marchionne socialdemocratico? Il
segretario del Pds, Piero Fassino, è intervenuto il giorno dopo,
cioè ieri, sull'intervento di Sergio Marchionne e si è meritato
dal Corriere della Sera questo titolo a tutta pagina: "Pronto ad allearmi
con Marchionne. Lui sì che è un vero socialdemocratico". A
parte il fatto che bisognerebbe domandare a Marchionne come si sente nei panni
di socialdemocratico, resta il fatto che Fassino, questa volta ha usato, come
complimento, un termine che il suo partito ha sempre usato come un epiteto.
Fino a che il Pci non è entrato nell'Internazionale socialista, e cioè
per gran parte della sua lunga storia ("Veniamo da lontano", diceva
Palmiro Togliatti), dare del socialdemocratico a un politico era come bollarlo
di ignominia. Adesso che, in giro per il mondo, socialdemocratico non vuol
più esserlo nessuno, nemmeno i socialdemocratici veri, quelli del Nord
Europa, Fassino scopre la socialdemocrazia. Cioè, nel 2007, evidenzia
un'altra scatola vuota, un nome senza contenuto sufficiente.Chi è
più filo-Ue. Piero Fassino, ricorrendo sempre a schemi Otto-Novecenteschi,
ha ricordato, nel suo intervento sul Corsera, le malefatte di "quella
destra che ha ingenerato nel paese negli anni scorsi la paura, per esempio,
dell'Europa e dell'euro". Non difendiamo certo "quella destra"
(che, se ha voglia di difendersi, lo farà nella sue sedi e con i suoi
uomini) ma cerchiamo solo di difendere la verità (sia pure con la
minuscola; che è quella che piace a noi che non siamo mai stati
impettiti nei dogmi). Cerchiamo di difendere la verità dei fatti,
dicevamo, perché solo facendo chiarezza sui fatti si può disegnare una
prospettiva di sviluppo che non sia basata sulla confusione delle lingue e
quindi anche sulla contraddizione dei propositi, degli obiettivi e dei
percorsi. Ora, chi ha avuto sempre paura dell'Europa (e persino dell'euro) è
stata la sinistra italiana, a eccezione del solo Psi. Il Pci e il Pds, prima in
obbedienza dell'Urss e poi non si sa in omaggio a che cosa, hanno sempre
bocciato in parlamento, con il voto (che resta agli atti, basta leggerli) e con
sistematica cecità, ogni iniziativa europeistica: dalla istituzione
della Ceca all'Euratom, alla Comunità europea, alla Unione europea, agli
accordi di Maastricht e persino alla nascita dell'euro. Fare gli europeisti
intransigenti con un passato di questo genere, è perlomeno
stravagante.Età pensionistica. Fassino si difende anche dall'accusa che
ci sarebbe resistenza alle riforme di una parte della maggioranza che sostiene
il governo: "Vedremo", dice a questo proposito Fassino, "se con
il referendum sindacale di ottobre passerà la linea della conservazione
o se, invece, come credo, milioni di lavoratori diranno sì a
quell'accordo, sconfessando coloro che si arroccano nella difesa del
passato". Senonché quell'accordo (peraltro contestato) prevedeva, unico
caso nel mondo economicamente sviluppato, addirittura la riduzione
dell'età pensionabile rispetto a quella già stabilita da una
legge dello stato che stava per entrare in vigore. Insomma, mentre Francia e
Germania portano l'età di pensionamento ad almeno 65 anni, noi (che sul
pil siamo indebitati il doppio di loro) continuiamo a tenerla a 58 anni, quando
va bene.La difesa dei deboli. Di fronte all'affermazione di Marchionne che
"bisogna accettare la modernità perché permette di tutelare i
più deboli" (cioè l'opposto di ciò che la sinistra ha
sempre predicato e, in gran parte sta ancora credendo), Fassino sottolinea che
"la sinistra ha sempre difeso i deboli". Il punto non sono le sue
intenzioni ma gli effetti pratici, sui deboli, dei convincimenti e quindi delle
politiche della sinistra a questo proposito. Si difendono, per esempio,
concretamente, i deboli evitando che i nullafacenti (così sono stati
definiti da Pietro Ichino) siano licenziati? Ancora in questa
intervista, Fassino ammette che "si può e si deve licenziare
l'operaio fannullone ma_" E con quel "ma" (secondo una vecchia
tecnica dialettica per negare ciò che si è affermato poco prima)
viene ribaltata l'ammissione precedente e riaffermato il tabù
dell'illicenziabilità anche quando questa è ampiamente meritata.
Si difendono i deboli tenendo in piedi l'Alitalia che brucia 2 milioni di euro
al giorno di risorse pubbliche (che potrebbero andare ai veri deboli)? Si
difendono i deboli tenendo in piedi quei baracconi che sono le Comunità
montane? Si difendono i deboli tenendo in vita le Province che sono enti privi
di ruolo e significato ma che restano ugualmente molto costosi? Si difendono i
deboli non facendo nulla per far sì che un posto letto ospedaliero in
Campania costi 220 mila euro contro i 140 mila della Lombardia? Si difendono i
deboli impedendo la realizzazione dei termovalorizzatori che potrebbero
smaltire i rifiuti in Campania? Si difendono i deboli bloccando il corridoio
ferroviario europeo numero 5 (leggi Frejus) nonché tutte le opere pubbliche
che, lo dice il ministro Di Pietro, continuano a restare nel limbo delle cose
incompiute, togliendo così alla società civile infrastrutture
vitali, impedendo la creazione di nuovi posti di lavoro e facendone lievitare i
costi? E che dire delle nazionalizzazioni surrettizie derivanti dal convincimento
sempre presente a sinistra che "pubblico è bello e che, in ogni
caso, è sempre meglio del privato"? Da una parte infatti si
privatizza l'Enel e dall'altra nascono potentissime municipalizzate
dell'energia che operano in situazione di pesante oligopolio e praticano le
tariffe esose a danno dei cittadini.Luigi Einaudi. "La parola merito in
Italia è considerata tabù", annota Piero Fassino,
"perché si è sempre pensato che il merito fosse un trucco dei
ricchi per fregare i poveri, non capendo che è esattamente il contrario.
è grazie al merito, al talento, che il povero può annullare le
differenze sociali e avere le stesse opportunità". Questi
convincimenti sono i benvenuti perché costituiscono una clamorosa e salutare
rottura rispetto a un lungo e costante passato. Va però tenuto presente
che ce n'è voluto del tempo per arrivare all'accettazione di questo
ovvio principio se queste idee le scriveva Luigi Einaudi fin dal lontano 1913.
Ma chi sosteneva la socialità del merito, ancora negli anni Ottanta,
veniva ritenuto un mentecatto. E anche adesso, peraltro, permangono a sinistra
ampie riserve e spesso evidenti ringhiosità al riguardo. Tutte le leggi
scolastiche, per esempio, comprese quelle che regolano la vita delle
università, sono state giocate sul piano dell'appiattimento verso il
basso.Attaccati alla gonna della mamma. "Oggi i più deboli",
dice Piero Fassino, "sono i giovani. Se il 60% dei matrimoni avviene fra i
25 e i 35 anni, se 4,5 milioni di persone nella stessa fascia di età
vivono ancora con i genitori è evidente che esiste il problema".
Per un uomo politico, l'accertamento dell'esistenza dei problemi è solo
la prima fase. Poi spetta a lui trovare le soluzioni. I giovani, per esempio,
restano a lungo nella casa dei genitori anche perché non trovano case con
affitti moderati. Come mai l'intera classe politica di questi ultimi vent'anni
non si è mai posta questo problema? Perché negli anni 50 e 60 con gli
allora modestissimi contributi tratti dalle buste paga furono realizzati
centinaia di migliaia di appartamenti di edilizia economica e popolare, mentre
adesso, pur continuando a esistere quelle trattenute, di case popolari non si
vede nemmeno l'ombra? Non è questo un problema di destra o di sinistra,
ma di scelte di campo (li vogliamo difendere o no questi deboli?) e di
efficienza (le facciamo o no queste case popolari?). Se si fosse dedicato al
problema della realizzazione delle case popolari un centesimo degli sforzi
profusi nei dibattiti politici inesistenti su categorie fumose, fatti per
ritagliarsi fette di potere, oggi centinaia di migliaia di giovani avrebbero la
loro casa in Italia. E se il problema lo avessero dato da risolvere a Sergio
Marchionne, oggi sarebbe risolto. Non però con le leggi a lacci e
lacciuoli che abbiamo, certo. Ma se le leggi impediscono ai politici di
risolvere i problemi dei più deboli, chi è che deve modificare
quelle leggi che, nella sostanza, sono criminali. Noi, forse? MF
Il Partito democratico è stato pensato, voluto e propagandato come
antidoto alla frammentazione, ma, nei fatti, accade il contrario: nei Ds e
nella Margherita si sono verificate rotture, scissioni e nuovi micropartiti. Il
Partito democratico nasce come asse solido e portante della maggioranza
governativa ma si verifica il contrario: nell’Unione c’è solo disunione,
è cresciuta la conflittualità tra la sinistra massimalista e
l’Ulivo-Pd, si è esasperato il protagonismo dei Mastella, Di Pietro, Dini,
Bordon ed è emersa una tentazione centrista in seno alla Margherita. Il
caos nella seduta del Senato sulla Rai dice bene cos’è la
solidità dell’asse riformista del Pd. La situazione politica quindi si
è fatta più confusa e più evidente è l’ingovernabilità.
Un quadro cui concorre l’opposizione di centrodestra, la quale non delinea
un’alternativa credibile dato che si fonda solo sul ritorno del Cavaliere a
Palazzo Chigi, con conseguenze largamente prevedibili e già sperimentate
negativamente.
Berlusconi, quindi, continua a chiedere nuove elezioni e dal centrosinistra
c’è chi gli dà una mano nel momento in cui si afferma che se cade
questo governo si va al voto subito. L’hanno detto Prodi e D’Alema e più
recentemente Fassino. Lo fanno, si dice, per scoraggiare le manovre centriste
di Casini, Dini e anche di Rutelli. Le elezioni? E con quale legge elettorale?
Solo degli irresponsabili possono chiedere crisi al buio o elezioni se non
c’è più questo governo. Tutti parlano ignorando la Costituzione e
il ruolo che essa assegna al capo dello Stato quando si apre una crisi e si
prospetta lo scioglimento del Parlamento. Ma torniamo ai leader della
maggioranza. Era stato Fassino, solo qualche settimana addietro, a dire che,
anzitutto, occorre cambiare la legge elettorale e a vedere nel sistema tedesco
la soluzione più adeguata agli attuali sviluppi della situazione
politica. Non solo, ma per avviare questa revisione si indicava nell’Udc di
Casini un interlocutore valido. Si tenga presente che anche Rifondazione
comunista caldeggia questa soluzione. Cosa è cambiato in queste
settimane? Si dice che ci sono “manovre centriste” per sostituire in
prospettiva l’alleanza Pd-sinistra radicale. Questo sospetto la dice tutta
sulla consistenza politica di un’alleanza prorogabile solo con un bipolarismo-coatto,
che riprodurrebbe quello che abbiamo conosciuto: l’ingovernabilità per i
due schieramenti. Riflettiamo tutti. Nel momento in cui si costruiscono nuove
forze politiche (Pd, Costituente socialista, Cosa rossa), altre vogliono
trovare un’identità (Udc), altre ancora sono in travaglio identitario
(Fi-An), la proporzionale con sbarramento non è una verifica affidata
agli elettori?
Dopo la Liberazione, i partiti si richiamavano ai loro antenati del
pre-fascismo, e solo il voto nel 1946 ne definì la forza reale e il
ruolo. La legge elettorale tedesca avrebbe il vantaggio di operare questa
verifica, di non sperdere l’esigenza di una bipolarità e della
governabilità. D’altro canto solo ridefinendo se stessi i partiti
possono verificare le affinità anche per un progetto costituzionale, di
cui tutti parlano e i cui esiti parlamentari sino ad oggi (a destra e a
sinistra) sono falliti perché frutto del bipolarismo-coatto. È possibile
in questo clima avviare una discussione serena e costruttiva su questi temi? È
quel che noi tentiamo ancora con questa nota.
+ La Repubblica 24-9-2007 La prova
d'orchestra di pifferi e tromboni di EUGENIO SCALFARI
+ La Repubblica 23-9-2007 Il paese
degli impotenti di ILVO DIAMANTI
Il Riformista 24-9-2007 Che cos'è successo alla nostra politica
estera?
La Repubblica 24-9-2007 Dollaro debole
mossa vincente della crescita Usa HUGO DIXON
ROMA
Sono sessantasei le persone denunciate, per possesso di armi bianche, tutte
riconducibili, secondo gli investigatori, al gruppo Curva Nord degli ultras
della Lazio, al termine di un’operazione condotta dalla Digos e dagli agenti
della polizia del commissariato Vescovio, nella notte tra sabato e domenica
scorsi.
Nei confronti delle 66 persone, tra i 25 e i 30 anni, tra i quali alcuni
minorenni e due donne, sono stati emessi altrettanti provvedimenti Daspo. Gli
ultras laziali erano diretti a Bergamo, in occasione della partita
Atalanta-Lazio, e sono stati intercettati nei pressi di piazza Vescovio in
possesso di machete, manganelli, bastoni e tirapugni. Alcuni ultras sono stati
trovati in possesso di dosi di cocaina
Si chiama Blyk, rivolto a un pubblico dal
16 ai 24 anni e per ora funziona
soltanto in Gran Bretagna. Ma presto potrebbe sbarcare anche da noi
È ARRIVATO stamattina il primo
operatore mobile gratuito al mondo: permette di telefonare e mandare messaggi
senza alcun costo. È Blyk, per ora funziona in Gran Bretagna soltanto,
ma conta di estendersi ad altri Paesi europei nei prossimi mesi grazie ad
accordi con gestori mobili locali.
Il tutto si regge sulla pubblicità: l'utente di Blyk può mandare
gratis, ogni mese, 217 messaggi e fare 43 minuti di chiamate nazionali; in
cambio accetta di ricevere fino a sei messaggi multimediali al giorni pieni di
pubblicità, dai vari sponsor. E già diverse multinazionali hanno
annunciato la disponibilità a sponsorizzare il servizio. Il traffico
eccedente dal tetto di minuti e messaggi gratis va acquistato a parte,
com'è ovvio: viene scalato dal credito prepagato dell'utente.
Blyk è un operatore molto particolare anche perché si rivolge
esclusivamente a utenti tra i 16 e i 24 anni (un target giovanile: ecco perché
sono così numerosi i messaggi gratis). Bisogna essere in questo ambito
d'età, quindi, per attivare una sim di Blyk, che per il resto funziona
come i comuni operatori mobili: su tutti i cellulari, ovunque ci sia rete Gsm.
Blyk si appoggia a quella di Orange nel Regno Unito, essendo un operatore
mobile virtuale- un tipo di gestore molto diffuso in Gran Bretagna e appena inaugurato
in Italia (con Coop e Carrefour). Se quindi Blyk si accorderà con un
operatore mobile italiano, potrà arrivare anche da noi.
A giudicarla con il metro comune, l'idea di Blyk può sembrare
imprudente, ma è supportata da uno staff di tutto rispetto: è
stato fondato da Antti Öhrling e Pekka Ala-Pietilä. Quest'ultimo è stato
presidente di Nokia. Il primo viene invece dal mondo del marketing e della
pubblicità. I due insomma hanno probabilmente la vista lunga su questo
mercato e hanno stimato che il sistema può reggersi da solo; che le
entrate che vengono dalla pubblicità e dal traffico in eccesso
dovrebbero bastare a far quadrare i conti.
Il punto è che Blyk si inserisce in un fenomeno emergente. È
certo un operatore mobile innovativo (mai nessuno prima aveva fondato il
proprio business sulla pubblicità), ma è solo l'avanguardia di un
mercato che si sta sviluppando. Cioè quello della pubblicità sui
cellulari, in cui crede anche Google: solo qualche giorno fa ha lanciato la
versione mobile di Adsense. E l'operatore mobile Virgin Mobile, negli Usa, di
recente ha comunicato di avere 330 mila clienti (su 4,8 milioni) che ottengono
minuti gratis in cambio dell'onere di ricevere pubblicità.
(24 settembre 2007)
Pronti ad acquistare Alitalia mettendo sul piatto oltre un miliardo di dollari
se il governo è disposto a cederla. Aeroflot riapre così il
dossier sulla compagnia di bandiera invitando l'esecutivo a pronunciarsi sulla
reale volontà di venderla. Dopo essersi ritirato lo scorso giugno
dall'asta per mancanza di condizioni, la società russa conferma
l'interesse sul vettore, ma ritiene che prima di presentare qualsiasi nuova
offerta l'esecutivo debba chiarire se veramente vuole mettere sul mercato la
quota di controllo.
«Ci sono persone all'interno del governo italiano - dice all'ADNKRONOS il vice
direttore generale di Aeroflot, Lev Koshlyakov - che preferiscono imporre
alcune restrizioni pratiche che chiudono il mercato agli offerenti per
l'acquisizione di Alitalia». Ma non solo.
Secondo il manager «il governo italiano non ha una posizione chiara sul futuro
di Alitalia, mentre dovrebbe essere interessato a farla ripartire».
Il vice direttore generale sottolinea che Aeroflot per il «pacchetto Alitalia»
ha messo in agenda «oltre unmiliardo di dollari» e che per la sopravvivenza del
vettore italiano il tempo stringe. «Non so per quanto ancora Alitalia possa
andare avanti -spiega- senza un reale offerente. Dipende quanto il governo
è ancora disposto a pagare».
L'insofferenza
dei cittadini, l'"antipolitica" e l'ascesa di Grillo lusconiano e in
questa successiva stagione unionista, il peso di questi gruppi sulle pubbliche
casse è cresciuto del 67,4 per cento. Democrazia e antipolitica Tutti
"costi della democrazia"? Pedaggi obbligatori che altri paesi non
pagano (non così, non così!) ma che gli italiani dovrebbero
essere felici di versare per tenersi stretti "questo" sistema
parlamentare, "questa" macchina pubblica, "questi" governi
statali, regionali, provinciali, comunali che i loro protagonisti presentano,
facendo il verso al "Candido" voltairiano, come il migliore dei mondi
possibili? Tutti costi impossibili da ridurre al punto che il bilancio della
Camera prevede già di costare come prima e più di prima anche
negli anni a venire a dispetto di ogni dubbio e di ogni critica? Dice la storia
che la Regina Elisabetta, invitata dal governo inglese a tagliare, ha preso
così sul serio questo impegno che la spesa pubblica per la Corona
è scesa dai 132 milioni di euro del 1991-
ROMA
Il Papa? «Un amministratore delegato tedesco che gestisce due milioni di
lavoratori in nero». Nella sua foga polemica Beppe Grillo non risparmia neppure
Joseph Ratzinger e dal palco di Jesolo dove è in tournée con il suo
spettacolo attacca tutto e tutti, nessuno escluso. E dopo aver invitato ieri i
grillonauti ad affollare le sale dei consigli comunali d’Italia, torna a
sferzare il mondo della politica: Il Parlamento? Con una media di un
pregiudicato ogni 10 parlamentari - attacca il comico -, «spaventa perfino il
Bronx, dove di pregiudicati ce n’è solo uno su 15».
Ma le parole più dure il comico genovese le riserva a Clemente Mastella.
L’ultimo post lasciato da Grillo sul suo blog è tutto per il ministro
della Giustizia: «Parlare di Mastella è come sparare su un tonno in
scatola. Non riesco più a stargli dietro». Questa volta a finire sul
banco degli imputati è il blog di discussione aperto dal leader
dell’Udeur, che non garantirebbe la totale libertà di espressione tipica
di internet. «La Rete è nata libera - spiega il comico -. Una delle sue
leggi è la trasparenza. Non si può nascondere nulla in Rete e non
si possono raccontare balle.
La Rete è la fine dei politici che dichiarano una cosa e ne fanno
un’altra». Mentre Mastella «ha aperto un blog per dialogare con i cittadini, ma
- ironizza Grillo - non pubblica le migliaia di commenti negativi. Quelli
positivi arrivano solo da Ceppaloni. La Rete non tollera questo tipo di
comportamento». E Grillo, che sul sapiente uso del web ha costruito il suo
successo, gongola per la sorte dell’avversario, ribattezzato per l’occasione
«ministro dell’indulto»: «Hanno clonato il suo blog per poter commentare.
Quando il Ministro dell’Indulto pubblica un post lo pubblicano subito anche
loro consentendo i commenti». Commenti del tipo: «Mastella ha uno sguardo da
banconota falsificata male».
Non è solo il Guardasigilli il bersaglio del comico più discusso
del momento. Destra e sinistra, il leader del V-day ha una parola per tutti. A
Pier Ferdinando Casini che il giorno del V-day lo aveva definito un terrorista
risponde così: «Si deve vergognare: proprio lui che fa il genero di
Caltagirone di professione, e nel cui partito c’era Mele (il deputato dimessosi
dal gruppo dell’Udc dopo essere stato scoperto in un festino a base di droga e
sesso, ndr) e che va al Family day con due famiglie». Di Walter Veltroni
ripete: «Un topo Gigio alla guida di un Partito democratico nato morto».
Il premier è di nuovo «il valium Romano Prodi che ha l’encefalite
letargica». E al viceministro dell’Economia, Vincenzo Visco chiede: «Dove sono
finiti i soldi che mancano derivanti dagli appalti sulle concessioni dei
macchinari per i giochi d’azzardo. Pari a 4 Finanziarie». Ma non è per
nulla tenero nemmeno col ministro delle Telecomunicazioni, Paolo Gentiloni,
colpevole, a suo dire, di tergiversare sulla questione di Rete 4: «Dice di
essere nato vecchio e che ora si sente giovane ma è nato solo str... e
rimane str...».
Le critiche a 360 gradi del comico al mondo delle istituzioni e dei partiti non
scoraggiano però gli esponenti politici dal tentare un’analisi del
fenomeno Grillo. Per il ministro della Solidarietà sociale, Paolo
Ferrero su «moralità politica», esigenza che la «politica riprenda in
mano l’economia» e «lotta alla precarietà», Grillo ha ragione. Mentre un
uomo di spettacolo come Gerry Scotti invita a non fidarsi dei proclami del
comico: «Grillo è bravo, furbo, intelligente e con delle caratteristiche
uniche», ma sinceramente - dice il presentatore di Canale 5 - sono stupito «dal
fatto che tutti sono riusciti a cascarci».
Diversamente da gran parte delle consultazioni elettorali,
l'interesse per le prossime primarie del Partito Democratico — e il parametro di misura del loro
successo o insuccesso — non sta tanto nell'esito in sé, ormai scontato, quanto
nell'ampiezza della partecipazione e del consenso ottenuto dagli «altri»
candidati, al di là del vincitore.
In una ricerca di opinione svoltasi pochi giorni fa, ha
dichiarato di volersi «sicuramente» recare a votare il 14 ottobre
quasi metà dell'elettorato di Democratici di Sinistra e Margherita nel
loro insieme. Come spesso accade nei sondaggi, molte — la gran parte — di
queste dichiarazioni non si tradurranno poi in comportamenti veri. Ma, al di
là della sua effettiva (scarsa) capacità previsiva, il dato resta
assai significativo: esso indica l'interesse, che, malgrado tutto, la creazione
del nuovo partito suscita nell'elettorato del Partito Democratico. E la
presenza di intenzionati a partecipare anche al di fuori degli elettori di Ds e
Margherita mostra come l'attenzione nei confronti della prossima consultazione
sia assai estesa. Lo prova anche il fatto che, rispetto ad un analogo sondaggio
effettuato prima dell'estate, si registra un incremento nelle intenzioni di
voto dichiarato. La partecipazione preannunciata è all'incirca simile
negli elettorati Margherita e Ds, con una lieve accentuazione in quest'ultimo.
Ancora, paiono più propensi a recarsi a votare i meno giovani, forse più
legati all'identità tradizionale dei partiti che daranno luogo alla
nuova forza politica.
Alle precedenti primarie, quelle che indicarono Prodi quale
candidato alle elezioni, parteciparono, si dice (ma nessuna
documentazione affidabile è stata mai fornita), circa quattro milioni di
persone. In quel caso, tuttavia, si trattava al tempo stesso di un voto «per»
Prodi, e, forse ancor più, di un segnale «contro» Berlusconi. Non
è questo il caso alle prossime consultazioni del Pd. Per questo, le
previsioni sulla partecipazione sono assai più contenute e gran parte
degli osservatori ritiene che l'afflusso di un milione di persone potrebbe
già essere considerato un successo.
Come si è detto, la vittoria di Veltroni è
scontata. Preannuncia il voto favorevole verso il sindaco di Roma addirittura
il 70% dell'elettorato potenziale, ancora una volta con una (comprensibile)
accentuazione tra i Ds. Tra gli altri candidati appare molto quotata Rosy
Bindi, che sembra attirare maggiormente i voti degli elettori meno «organici »
a Ds e Margherita e quelli provenienti dagli altri partiti. Enrico Letta si
classificherebbe terzo.
Ma quali potrebbero essere le conseguenze delle primarie
del Pd sullo scenario politico complessivo? Gran parte degli
intervistati, a destra come a sinistra, è scettica e prevede che
l'elezione di Veltroni a leader del Pd farebbe affluire al massimo «qualche
voto in più» e avrebbe scarsa influenza sulla popolarità del
governo.
Quest'ultima affermazione appare fondata. Il
governo sta attraversando un periodo tormentatissimo. Lacerato al suo interno
da contrasti apparentemente insanabili e minato dall'esterno, non tanto da
parte dell'opposizione, quanto dal diffondersi tumultuoso degli atteggiamenti e
dei comportamenti legati all'antipolitica. Queste difficoltà si riflettono
ovviamente anche sui livelli di consenso — giunti ai minimi storici — e su
quelli delle intenzioni di voto espresse nei sondaggi, che vedono il
centrodestra in vantaggio di poco meno di dieci punti.
Va detto però che quella attuale è una situazione da sempre
caratteristica del periodo precedente al varo della Finanziaria. Tutti gli
esecutivi che si sono succeduti nel nostro Paese, di destra o di sinistra,
hanno vissuto in modo tormentato, talvolta drammatico, le settimane antecedenti
all'approvazione della legge. Per questo, la futura popolarità
dell'esecutivo sembra dipendere più dai contenuti della Finanziaria che
dalle sorti del Pd.
La cui nascita potrà, come molti osservatori sostengono (lo ha di
recente suggerito in modo assai efficace Michele Salvati nel suo ultimo libro)
dare un forte impulso al centrosinistra. Ma non aiuterà ad accrescere il
consenso per il governo. Anzi, con l'emergere dell'alternativa Veltroni,
potrebbe forse produrre l'effetto contrario.
24
settembre 2007
La
pessima esibizione del Senato nel dibattito sulla Rai di giovedì scorso
è stata in realtà una sorta di prova generale di quanto
potrà avvenire nell'appuntamento parlamentare con la legge finanziaria
2008. La sessione di bilancio: così si chiama quell'appuntamento che ha
inizio con la presentazione del disegno di legge al capo dello Stato e al
Parlamento e si conclude tassativamente entro la fine dell'anno sgombrando in
quei tre mesi ogni altra iniziativa legislativa salvo i casi di urgenza e la
conversione in legge di eventuali decreti pendenti.
Una prova generale assolutamente "sui generis". Infatti - a
differenza delle prove generali vere - qui non c'era un regista. Ciascuno
recitava a soggetto e ciascuno aveva un soggetto proprio e mai come in questa
deplorevole occasione è utilissimo riandarsi a vedere "Prova d'orchestra",
uno dei più bei film di Federico Fellini, indimenticabile lezione
artistica, umana, politica.
In "Prova d'orchestra" un gruppo di orchestrali che fino a quel
giorno avevano lavorato insieme sotto la guida d'un celebre direttore, decidono
di fare da loro. Il direttore tenta in tutti i modi di battere il tempo con la
sua bacchetta e di far rispettare a ciascuno il suo ruolo e la corretta
esecuzione dello spartito, ma ogni suo sforzo è vano, i violini vanno
per conto loro e così i bassi, il clarinetto, l'oboe, i timpani, i
tromboni. Finisce in una vera e propria rissa a colpi di archetto e di tamburo.
Ero amico di Fellini e un paio di volte andai ad intervistarlo a
Cinecittà durante la lavorazione dei suoi film. Gli chiesi in una di
quelle interviste quale fosse il film che gli era più caro. Ci
pensò un po' e poi - tipico suo - mi rispose: "Mentre li giravo mi
piacevano, dopo il montaggio rivedevo tutte le imperfezioni e ne ero scontento.
E poi non li ho mai più rivisti". Tutti? gli ho chiesto. Scontento
di tutti? "Tutti salvo uno: Prova d'orchestra. Ogni tanto me lo
rivedo".
Suggerisco ai membri del Senato che hanno mandato in scena uno spettacolo
vergognoso per inconcludenza e dimostrazione d'ignoranza dell'argomento di cui
dibattevano, di comprarsi la cassetta di quel film e meditarci sopra. Ne
trarrebbero certamente diletto ma soprattutto sgomento, lo specchio gli
rimanderebbe infatti l'immagine che tutti noi spettatori abbiamo visto ma che
le loro mediocri vanità e personali ambizioni insieme all'ossessiva
contemplazione del proprio ombelico gli hanno nascosto. Se avessero un briciolo
di senso di responsabilità ne sarebbero sconvolti come noi spettatori e
cittadini ne siamo rimasti.
* * *
Comunque la singolare prova generale di quanto potrebbe accadere ad ottobre nel
dibattito sulla Finanziaria c'è stata. E' stata commentata da Prodi in
Consiglio dei ministri, da Berlusconi e da tutto il teatrino politico, come se
gli attori parlamentari fossero persone diverse da quelle che il giorno seguente
commentavano quanto è avvenuto. Queste dissociazioni rispetto al proprio
operato sono frequenti quando la politica si avvita su se stessa dimenticando
il suo alto ruolo e le sue responsabilità. Miserie, che gettano
discredito su tutto incoraggiando le urla degli istrioni di ogni genere e
conio.
Il disegno che emerge è chiaro e si può riassumere così:
1. Il dibattito sulla Finanziaria sarà il momento culminante della
strategia della "spallata ".
2. Il governo non reggerà a causa delle interne divisioni della
maggioranza e dunque imploderà, almeno in Senato dove ormai anche
l'esiguo margine di vantaggio del centrosinistra è scomparso.
3. Dini ha in mente la presidenza del governo interinale che sarà
inevitabile quando Prodi sarà stato sfiduciato dal Senato. Perciò
troverà mille modi per votare contro e sfiancare la maggioranza,
articolo dopo articolo.
4. Mastella vede con crescente preoccupazione l'avvicinamento di Dini al
centrodestra, verso il quale anche lui è da tempo in movimento. Chi ci
arriva prima (nella visione di questi due "statisti") meglio
alloggia. Di qui i loro ambigui e ondivaghi comportamenti.
5. Di Pietro ha scoperto Grillo e ambisce a rinverdire i fasti di "Mani
pulite". Il leader dell'"Italia dei valori" è affascinato
dalle insorgenze in nome della "legalità". Cantavano nel
nostro Risorgimento: "Quando il popolo si desta / Dio si mette alla sua
testa / la sua folgore gli dà". Di Pietro pensa di poter esser lui
quella folgore relegando Grillo al ruolo maieutico ma non politico. Le sue
preannunciate dimissioni da ministro e l'uscita dei suoi parlamentari dalla
coalizione servirebbero egregiamente a consolidare la sua fama di difensore
della legalità disinteressato, mettendo nelle sue mani un seguito per
ora valutabile al 17 per cento che la sua leadership (secondo lui) potrebbe
portare oltre il 20. Insomma un grande partito alla faccia di Veltroni che gli
ha impedito di candidarsi per la guida del Partito democratico.
6. Il quale Veltroni (e Rutelli con lui) non può assistere inerte a questo
sfascio dell'Unione e alle difficoltà che si ripercuotono anche sul
nascituro Pd. Quindi dovrà prendere qualche iniziativa spettacolare. Ma
poiché nelle condizioni attuali ogni iniziativa spettacolare rischia di
accrescere la litigiosità della maggioranza, ecco che i rischi
d'implosione possono venire anche dal sindaco di Roma.
Questa è la diagnosi di quelli che lavorano per la spallata. Ed ora
vediamo chi sono.
Anzitutto il centrodestra al completo. Su questo punto la Casa delle cosiddette
libertà è compatta da Bossi a Casini, passando anche per Tabacci.
Tutti puntano sulla cacciata di Prodi. Dopodiché si dividono: Berlusconi e i
suoi fedeli vorrebbero le elezioni immediate; Casini punta su un governo
istituzionale che prepari la nuova legge elettorale con tutto il tempo
necessario, almeno un anno, per intraprendere la creazione di un piccolo-grande
centro.
Questo disegno d'altra parte è condiviso anche da forze di diversa
provenienza, economiche, editoriali, culturali: cacciata di Prodi, governo istituzionale
che duri almeno fino al 2009, scomposizione degli attuali schieramenti
bipolari, aggregazione centrista con Udc, la parte moderata dei Ds, i cattolici
di Pezzotta, le comunità di Cl e di Sant'Egidio alle ali, la
Confindustria alle spalle e i grandi giornali di proprietà
banco-industriale ai fianchi.
Questo disegno prevede anche, oltre alla cacciata di Prodi con disonore - la
giubilazione di Berlusconi con premi e medaglie e la nascita d'una nuova
leadership non centrista ma centrale. E qui il ventaglio è largo e va da
Montezemolo a Draghi, a Mario Monti, e perché no a Veltroni.
Grillo ha un ruolo in questo disegno: il lavoro sporco. Deve spazzar via i
disturbatori di professione, la sinistra radicale, i diessini non abbastanza
flessibili, il potere della Cgil e dei sindacati in genere. Poi - come ha
scritto il buon Giovanni Sartori sul "Corriere della Sera" - non
servirà più. Butteremo l'acqua sporca (Grillo) ma non il bambino
che in quell'acqua ha emesso i suoi primi vagiti.
* * *
Spero d'esser stato chiaro nell'esporre i vari elementi di crisi che dovrebbero
produrre l'implosione del governo e della maggioranza. Elementi diversi ma
tutti convergenti su quell'obiettivo.
Ci sono però alcuni elementi avversi e anch'essi vanno considerati. Uno
anzitutto: affinché l'implosione si verifichi deve avvenire sulla Finanziaria,
che è la regina di tutte le battaglie parlamentari. Se la Finanziaria
dovesse invece passare indenne, la strategia della spallata di fatto
risulterebbe sconfitta.
Provocare la crisi con la bocciatura della Finanziaria avrebbe tuttavia come
conseguenza l'esercizio provvisorio, il declassamento del debito pubblico
italiano sui mercati internazionali, un terremoto nei nostri rapporti con
l'Unione europea, il fallimento della riforma delle pensioni e il ritorno dello
"scalone", la rivolta dei sindacati, la fine della pace sociale.
Chi si prenderà una così drammatica e storica
responsabilità? Mastella? Lamberto Dini? Rifondazione? Diliberto?
Pecoraro Scanio? Cesare Salvi? Di Pietro? Bordon? Mandare il paese ai margini
dell'Europa, azzerare i timidi accenni di crescita economica, aprire la guerra
sociale? E' vero che si vedono in circolazione molti irresponsabili, ma fino a
questo punto?
Il disegno suddetto si fonda anche sulla giubilazione di Berlusconi. Ma il
"patron" di Fininvest e di Mediaset ha la vittoria a portata di mano.
Vi pare che si farebbe mettere in soffitta proprio adesso? Vi pare che si
separerebbe dalla Lega, che è carne della sua carne e costola del suo
corpo? Berlusconi è certamente un uomo di pulsioni improvvise che lui
stesso non riesce a controllare, ma è anche guidato da un fortissimo
istinto di sopravvivenza. Sa che un governo istituzionale per lui sarebbe una
soluzione a perdere. Ma sa anche che questo è l'obiettivo di gran parte
dei suoi alleati. Potrebbe anche operare in modo che la spallata sulla
Finanziaria sia tentata ma non abbia esito, seguendo i suggerimenti moderati di
Gianni Letta e di Marcello Dell'Utri.
Infine, piaccia o non piaccia, c'è "testa di ferro",
cioè Romano Prodi. Chi lo sottovaluta commette un grave errore. Chi
pensa che sia svagato, distratto, sonnacchioso, bravo soltanto nel tirare a
campare, sbaglia ancora di più.
Prodi ha molti difetti. Non è un principe della comunicazione (ma da
Vespa andò benissimo) è sospettoso. E' rancoroso. Ma è
riuscito a governare in mezzo ad un'incessante tempesta dovuta in gran parte a
quella "porcata" della legge elettorale imposta dal precedente
governo.
In un anno nel quale la sua popolarità è crollata al 26 per cento
(ma quella di Berlusconi non supera il 32) insieme a Padoa-Schioppa, a Visco e
a Bersani è riuscito a rimettere a posto i conti con l'Europa, a far
emergere da zero a 2 punti l'avanzo primario, a realizzare un recupero dell'evasione
di molti miliardi e un super-gettito tributario senza nessuna tassa in
più.
Ha diminuito l'Irap di 5 miliardi a beneficio delle imprese e dei lavoratori.
Sta per decretare il bonus per le pensioni minime e il loro aumento stabile.
Nella Finanziaria semplificherà il pagamento delle imposte per le
micro-aziende (sono tre milioni e mezzo) istituendo un'imposta unica senza
nessun altro adempimento; abbatterà l'Ires di 5 punti stimolando la
crescita come e forse più di quanto la Merkel abbia fatto per le imprese
tedesche.
Per uno che è stato definito Mortadella, Valium, Prozac e - secondo
l'ultima diagnosi di Grillo - Alzheimer, direi che non c'è male.
Io non sono nella sua testa e perciò non so prevedere che cosa
farà nei prossimi giorni, ma di una cosa sono certo: non resterà
esposto ai colpi senza reagire. Se deve implodere, sarà lui ad
esplodere. Anticiperà i tempi. Andrà magari a dimettersi al
Quirinale. O qualche cosa del genere. Oppure sfiderà avversari esterni o
interni ponendo la fiducia sulla sua Finanziaria. Con l'appello nominale e le
eventuali assenze, tutto sarà chiaro e ciascuno si assumerà le
sue responsabilità. Ivi compresi noi giornali e giornalisti. Ci vuole
almeno un po' di grandezza quando si affronta la bufera.
Post scriptum. Nel corso di una trasmissione televisiva (Speciale Tv 7) cui ho
partecipato venerdì, andata in onda all'una di notte,) ho ascoltato gli
insulti e alcune falsità indirizzatimi dalle urla del comico Giuseppe
Grillo. Poiché la mia risposta non sarà stata ascoltata da molti a causa
della tardissima ora, la riferisco qui di seguito.
Grillo ha detto che ho ricevuto venticinquemila "email" di protesta
contro un mio articolo critico nei suoi confronti. In realtà le lettere
a me indirizzate sono state in tutto - fino ad oggi - sessantanove, sette delle
quali in mio favore e sessantadue contro.
Ho anche ricordato, in cortese polemica con Giovanni Sartori in studio con me
insieme al direttore del Tg1 Gianni Riotta, che nel 1919 i fasci mussoliniani
nacquero più o meno con un programma analogo, eccitando gli italiani ad
insorgere contro la decrepita classe politica, contro i partiti esistenti,
contro la monarchia costituzionale, per far vincere l'Italia dell'ordine e
delle persone perbene.
Dal '19 al '23 personalità come Benedetto Croce e Luigi Albertini, che
hanno dedicato la propria intelligenza e la propria vita alla difesa della
libertà, appoggiarono quel movimento o perlomeno non ravvisarono i
rischi cui esso sottoponeva la fragile democrazia italiana. Giudicarono che poteva
essere utile per recuperare "legge e ordine". Poi Mussolini e i suoi
sarebbero stati rimandati a casa con tanti ringraziamenti per il lavoro sporco
che avevano effettuato.
Anche i grandi filosofi e i grandi giornalisti possono commettere gravi errori
e questo fu il caso di Croce e di Albertini.
Nella trasmissione di venerdì mi sono limitato, senza proporre alcun
confronto improprio, a ricordare quanto accadde 88 anni fa e gli effetti che ne
derivarono per questo sempre immaturo Paese.
(23 settembre 2007)
Si
dice che l'ondata di sfiducia popolare sia stata sollevata dall'indignazione
contro i partiti, ridotti a oligarchie. E contro la classe politica. Una
"casta", come recita il titolo del fortunatissimo libro-inchiesta di
Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Che gode di benefici esorbitanti.
Inaccettabili per la "gente comune".
Non ne siamo sicuri. Crediamo, invece, che la delegittimazione non origini dal
distacco della classe politica dalla società, ma dall'esatto contrario.
La perdita di ogni differenza rispetto alla "gente comune". Di cui i
politici riflettono e riproducono, amplificati, i vizi più delle
virtù. Come pretendere che i cittadini possano provare rispetto o timore
nei loro confronti?
Per la stessa ragione, dubitiamo che sia giusto definire la classe politica una
"casta". Termine usato per indicare un gruppo sociale distinto e
diverso dagli altri, in base a motivi (religiosi, come in India) socialmente
condivisi. I cui membri, se occupano posizioni più elevate, possono
accedere a privilegi specifici. Se la classe politica fosse davvero una
"casta", dunque, i riconoscimenti e i vantaggi di cui gode non
provocherebbero scandalo. Sarebbero considerati "benefici di status"
legittimi, legati al loro ruolo di rappresentanza e di governo. D'altronde,
è quanto avviene altrove ed è avvenuto in passato anche in
Italia, senza il "rigetto" popolare di questa fase. Gli innumerevoli
scandali, denunciati da tutti i media, a nostro avviso, c'entrano solo in parte
con questa ondata di sdegno. Conta di più, semmai, l'insoddisfazione per
le "prestazioni" dei politici. La convinzione diffusa che siano poco
competenti e poco efficaci. Che, per questo, i privilegi loro accordati siano
un "costo" sociale improduttivo. Senza benefici per la
società. D'altronde il Presidente della Repubblica Francese, Nicolas
Sarkozy, oggi tanto ammirato, in Italia, da destra a sinistra, ha dichiarato
esplicitamente: "se un uomo politico è capace ed efficiente, non
vedo perché dovrebbe, in aggiunta, vivere modestamente". Appunto: se
è "capace ed efficiente". Altrimenti, come in Italia, esplode
il risentimento popolare.
Tuttavia, neppure questa spiegazione, da sola, ci pare sufficiente. Quando la
sfiducia si trasforma in dileggio generalizzato e sfocia nello "sputo di
massa", non si tratta solo di dissenso. E' qualcosa di peggio:
"banalizzazione". Perdita delle distinzioni fra i cittadini e chi li
rappresenta e governa. La classe politica, in altri termini, è al centro
delle polemiche non perché sia una "casta", lontana da noi. Ma, al
contrario, perché ci somiglia troppo. Difetti, debolezze ed egoismi quotidiani
compresi. Ma se i politici sono come noi, perché dovrebbero godere di tanti
privilegi e favori?
Il problema è che, da molti anni, i politici fanno di tutto per
mostrarsi e per apparire "persone come noi". Anzi: fanno di tutto per
"mostrarsi" e "apparire". Hanno accettato la logica e le
regole della "berlusconizzazione". Senza considerare che solo
Berlusconi è "padrone delle televisioni".
Tutti gli altri, perlopiù copie modeste, si sono tuffati nei
"media" senza mai un ripensamento. Hanno inflazionato le televisioni
con la loro presenza. Convinti che fra "immagine" e
"potere", fra "popolarità" e
"autorità" vi sia un legame di reciprocità. Più
immagine = più potere. Più popolarità = più
autorità. E viceversa.
I politici. Hanno creduto che divenire personaggi televisivi familiari li
avrebbe resi simpatici e, al tempo stesso, credibili. Ne avrebbe fatto crescere
il consenso e la legittimità. Così, eccoli, all'assalto delle
tivù, nazionali o locali non importa. A cucinare, cantare, danzare,
giocare a biliardo, simulare orgasmi. Insieme a veline, cuochi, ballerini,
tronisti, psicologi, sociologi, criminologi, criminali, enologi, attori,
attrici, missitalia, calciatori, allenatori, motociclisti. Leader politici e di
governo che nei cabaret televisivi duettano con i loro imitatori. Fino a
rendere difficile individuare l'originale. Li abbiamo visti ricevere torte in
faccia, lanciate da soubrettes dalle grandi forme, generosamente esibite. Hanno
riempito le riviste di informazione gossip. Soprattutto quelle dove, scorrendo
nomi e fotografie, non riconosci quasi nessuno. I soliti ignoti. La
"Penisola dei famosi", descritta con quotidiana e chirurgica ferocia
dai reportage di Dagospia. Un sito di riferimento per capire se uno esiste. Se
"conta".
Gli uomini politici. Tutti impegnati a conquistare un posto al sole. Nei
salotti tivù più esposti, più visibili. Porta a porta, ma
anche Ballarò, Anno Zero, Matrix. Pronti alla mischia. Accettando
(spesso cercando) la rissa, l'insulto, la frase a effetto. Pronti a darsi sulla
voce, perché non è importante convincere e spiegare, ma gridare
più degli altri. Avere l'ultima parola. Non importa quale.
Per cui ha fatto bene il Presidente Giorgio Napolitano, a diffidare gli uomini
che hanno cariche pubbliche da questa bulimia televisiva. Il suo ammonimento,
però, arriva tardi. Assai prima che Grillo invadesse la rete e - di
recente - le piazze, la classe politica si era già squalificata da sola.
Come ha commentato Altan, con disarmante ferocia, sulla prima pagina della
Repubblica di qualche giorno fa. Quando fa dire alla caricatura del
"politico" medio: "Basta con la demagogia. Siamo perfettamente
in grado di mandarci a fanculo da soli".
Il fatto è che il potere suscita prestigio e timore.
Quando è "legittimo", riconosciuto, evoca rispetto.
"Deferenza". E i riti, gli stessi privilegi che lo accompagnano,
contribuiscono ad alimentarlo e a riprodurlo. Per questo, gli uomini che
dispongono davvero di "potere" non hanno bisogno di esibirlo. Non
hanno bisogno di parole. Bastano il ruolo e i "segni" che lo distinguono.
Il timore che possa esercitarlo. Basta la fama che lo circonda. Ciampi non ha
mai messo piede in uno studio televisivo. E Cuccia: mai una parola,
un'immagine. Lo ricordate? Staffelli, il mastino di "Striscia la
notizia" che lo tallona, lo interroga, microfono e telecamera addosso. E
lui: non una frase. Neppure una parola. Una piega del viso. E De Gaulle?
Parlava il meno possibile.
Certo: altri tempi. L'era del marketing e dell'immagine ha cambiato tutto. E'
la democrazia del pubblico. La comunicazione diventa una risorsa. Perfino una
necessità. Però, Blair (ieri) e Sarkozy (oggi) i media non solo
li conoscono, ma li "usano". Nel senso che non si fanno
"usare". Invece, in Italia, avviene il contrario. Ma ve lo immaginate
Sarkozy interpellato dal Trio Medusa, delle Iene, sull'ultimo provvedimento in
tema di immigrazione. E poi, immancabilmente, irriso a ogni risposta? Oppure
incalzato dalla "Iena" Enrico Lucci, che, come normalmente fa con
"grandi" politici e imprenditori italiani, scherza con lui come fosse
un amicone. Un compagno di notti brave. Riuscite a immaginarlo?
Per questo è inutile prendersela con Grillo. Il quale ha guadagnato
popolarità, in passato, andando in tivù. E si è
conquistato credito e potere, in seguito, quando ha smesso di andarci. Sulle
piazze egli si limita a replicare uno spettacolo che va in onda quotidianamente
sugli schermi. Sui media. Stessi protagonisti, stesse comparse. Così le
sue prediche corrosive, magari divertono, poi indignano. Ma alla fine lasciano
un senso di vuoto. Perché evocano la storia di un Paese minore: il nostro. Dove
privilegi grandi e piccoli vengono esibiti senza vergogna da tanti piccoli
potenti. Pardon: tanti piccoli impotenti. Che non suscitano più né
rispetto, né deferenza. E neppure paura. Perché li abbiamo sempre sotto gli
occhi. Seguiti ovunque dalle telecamere. Più che una "casta",
il "cast" di una politica ridotta ad avanspettacolo. A un reality
show. Se la democrazia esige che le stanze del potere abbiano pareti di
cristallo, per noi è come guardare la casa del "Grande
Fratello".
(23 settembre 2007)
Cosa deve accadere, perché capiscano? Devono esplodere il Vesuvio, fallire
l'Alitalia, rinsecchirsi il Po, crollare la Borsa, chiudere gli Uffizi,
dichiarare bancarotta la Ferrari? Ecco la domanda che si stanno facendo molti
cittadini italiani. Stupefatti dalla reazione di una «casta» che, nel pieno di
polemiche roventi intorno a quanto la politica costa e quanto restituisce, pare
ispirarsi a un antico adagio siciliano: «Calati juncu ca passa a china»,
abbassati giunco, finché passa la piena. Un giorno o l'altro la gente si
rassegnerà...
Non sono bastati infatti mesi di discussioni su certi privilegi
insopportabili di quanti governano a livello nazionale o locale, decine di
titoli a tutta pagina di quotidiani e settimanali, ore e ore di infuocati
dibattiti televisivi, code mai viste nelle librerie di lettori affamati di
volumi che li aiutassero a capire. Non è bastata la sbalorditiva rimonta
nella raccolta delle firme del referendum elettorale che dopo essere partita
maluccio è arrivata in porto trionfalmente. Non sono bastate le piazze
stracolme intorno a Beppe Grillo e le centinaia di migliaia di sottoscrizioni
alle sue proposte di legge di iniziativa popolare.
Macché:
non vogliono capire. Non tutti, certo. Ma in troppi non vogliono proprio capire.
Lo dimostra, ad esempio, il bilancio appena varato della Camera dei deputati.
Dove una cosa spicca su tutte: dopo tante dichiarazioni di buona volontà
e pensosi inviti a rifiutare ogni tesi precostituita e sospirate ammissioni che
alcuni «benefit » erano proprio indifendibili e solenni impegni a tagliare, le
spese sono cresciute ancora. E ben oltre l'inflazione. Il palazzo presieduto da
Fausto Bertinotti era costato nel 2006, quando i primi mesi erano stati gestiti
dalla destra, 981.020.000 euro: quest'anno, alla faccia di quanti sostenevano
che tutta la colpa fosse della maggioranza berlusconiana che aveva lasciato una
«macchina » spendacciona, ne costerà 1.011.505.000. Con un aumento del
3,11 per cento: il doppio dell'inflazione.
GLI STIPENDI E GLI AFFITTI - Non basta. Nel 2008, stando alle previsioni
del bilancio triennale, queste spese che già hanno sfondato (prima
volta) la quota-choc di un miliardo di euro, cresceranno ancora. Fino a
1.032.670.000. Per impennarsi ulteriormente nel 2009 fino alla cifra
sbalorditiva di 1.073.755.000. Sintesi finale: in soli tre anni i costi di
Montecitorio, dopo tutto il diluvio di belle parole spese per arginare
l'irritazione popolare, saranno aumentati del 9,2%. Con un aggravio sulle
pubbliche casse di 92 milioni di euro in più rispetto al 2006.
Ricordate cosa avevano assicurato, per arginare la mareggiata di
contestazioni, a proposito dello stipendio dei deputati? Che
l'indennità, che stando alla politica degli annunci è già
stata tagliata un mucchio di volte, sarebbe calata. Falso: costerà il
2,77 per cento in più: un punto abbondante oltre l'inflazione. E i
vitalizi? Il 2,93 per cento in più. Per non dire delle retribuzioni del
personale. Avete presente la denuncia dell'Espresso sulle buste paga dei
dipendenti delle Camere? La scandalosa scoperta che un barbiere del Senato
può arrivare a 133 mila euro lordi l'anno e cioè 36 mila euro più
del Lord Chamberlain della monarchia inglese? Che un ragioniere della Camera
può arrivare a 238 mila, cioè circa ventimila euro più
dell'appannaggio del presidente della Repubblica? Bene: stando al bilancio di
Montecitorio, il monte-paghe del personale costerà nell'anno in corso il
3,73 per cento in più.
Oltre il doppio dell'inflazione.
Quanto agli affitti per i palazzi a disposizione (insieme
col Senato la Camera è arrivata, tra immobili di proprietà e in
locazione, a 46) sono cresciuti del 6,6%: il quadruplo dell'inflazione. Eppure
non è neppure questo il record. I traslochi e il «facchinaggio» erano
costati nel 2006 la bellezza di 1.255.000 euro, con un rincaro di 45.000 euro
sul 2005. Dissero: «Si è dovuta tenere in giusta considerazione la spesa
aggiuntiva» dovuta alle «esigenze inevitabili nel corso del cambio di una
legislatura ». Può darsi. Ma allora a cosa è dovuta quest'anno
l'ulteriore aggiunta di altri 100 mila euro, pari a un aumento di oltre l'8 per
cento? Siamo entrati, senza saperlo, in una nuova legislatura?
LE SPESE PER I VIAGGI - Quanto ai viaggi, le polemiche sull'uso
spropositato degli aerei di Stato prima nell'era berlusconiana e poi nell'era
unionista, sono scivolate via come acqua. Basti dire che le spese di trasporto,
alla Camera, aumentano del 31,82%. Diranno: è perché da questa
legislatura ci sono 12 deputati degli Italiani all'estero che devono tenere i
rapporti con i nostri elettori emigrati. Costoso ma giusto. Tesi inesatta.
È vero che 1.450.000 euro (121 mila per ogni parlamentare) se ne vanno
in «trasporti aerei circoscrizione estero». Ma il costo complessivo dei viaggi
aerei, al di là del via vai di questa pattuglia di deputati «esteri»,
salirà da 6 milioni a 7 milioni 550 mila. Un'impennata sconcertante.
Ma
mai quanto quella dei costi dei gruppi parlamentari. La regola sarebbe chiara: si può
dar vita a un gruppo parlamentare se si hanno almeno 20 deputati. Su questa
base, all'inizio della legislatura avrebbero dovuto essere otto. Ma grazie alle
deleghe concesse dal subcomandante Fausto sono saliti via via a quattordici.
Con una moltiplicazione delle sedi (che ha costretto a prendere in affitto
nuovi uffici nonostante i deputati potessero già contare su spazi
procapite per
DEMOCRAZIA E ANTIPOLITICA - Tutti «costi della democrazia»? Pedaggi
obbligatori che altri paesi non pagano (non così, non così!) ma
che gli italiani dovrebbero essere felici di versare per tenersi stretti
«questo» sistema parlamentare, «questa» macchina pubblica, «questi» governi
statali, regionali, provinciali, comunali che i loro protagonisti presentano,
facendo il verso al «Candido» voltairiano, come il migliore dei mondi
possibili? Tutti costi impossibili da ridurre al punto che il bilancio della
Camera prevede già di costare come prima e più di prima anche
negli anni a venire a dispetto di ogni dubbio e di ogni critica? Dice la storia
che la Regina Elisabetta, invitata dal governo inglese a tagliare, ha preso
così sul serio questo impegno che la spesa pubblica per la Corona
è scesa dai 132 milioni di euro del 1991-
Eppure,
guai a ricordarlo.
C'è subito chi è pronto a levare l'indice ammonitore: attenti a
non titillare l'antipolitica, attenti a non gonfiare il qualunquismo, attenti a
non fare della demagogia. Ne sappiamo qualcosa noi, ne sa qualcosa chiunque in
questi mesi ha rilanciato con forza alcune denunce, ne sa qualcosa Beppe
Grillo. Ma certo, non tutto quello che ha detto il «giullare- à-penser»
genovese può essere condiviso. Dall'invettiva del «Vaffanculo Day»
lanciata in un Paese che ha bisogno come dell'ossigeno di un linguaggio
più sobrio fino all'appoggio alle tentazioni di rivolta fiscale. Un
acerrimo avversario dello Stato italiano come Sylvius Magnago, straordinario
protagonista di durissimi scontri in difesa dei sudtirolesi di lingua tedesca,
lo ha spiegato benissimo sottolineando di sentirsi «un patriota austriaco ma un
cittadino italiano»: «prima» si devono pagare le tasse, «poi» si può
dare battaglia.
Ma quale autorevolezza hanno per liquidare Grillo
quanti per anni e anni non sono riusciti a dimostrare la volontà, la
capacità, la credibilità, la forza per cambiare sul serio questo
Paese? L'Umberto Bossi che intima a Grillo che «occorre stare attenti a non
esagerare» non è forse lo stesso Bossi che diceva che «il Vaticano è
il vero nemico che le camicie verdi affogheranno nel water della storia»?
Gerardo Bianco che al Grillo che vorrebbe un limite massimo di due legislature
risponde dicendo che «non bisogna seguire la piazza a rimorchio di istrioni
della suburra» non è lo stesso che siede in Parlamento dal 1968? E il
Massimo D'Alema che liquida gli attacchi di Grillo ai partiti dicendo che per
sua esperienza «se si eliminano i partiti politici dopo arrivano i militari e
governano i banchieri» non è lo stesso che nei giorni pari dice che «la
politica rischia di essere travolta come nel 1992» e nei dispari che «i costi
della politica sono un'invenzione di giornalisti sfaccendati»?
E
la destra che, Udc a parte, ha firmato col proprio questore il bilancio della Camera e poi si è
rifiutata di votarlo nella speranza di cavalcare la tigre, non è quella
stessa destra che governava con una maggioranza larghissima nei cinque anni in
cui le spese delle principali istituzioni pubbliche sono cresciute di quasi il
24 per cento oltre l'inflazione? Per quel po' di esperienza che abbiamo fatto
in questi mesi dopo l'uscita del nostro libro, incontrando diverse migliaia di
persone, ci andremmo molto cauti, prima di liquidare l'insofferenza di milioni
di cittadini, confermata inequivocabilmente dai sondaggi e dalle analisi di Ilvo
Diamanti, come «tentazioni antipolitiche». Noi abbiamo visto piuttosto crescere
una nuova consapevolezza. Quella che «prima» del legittimo diritto di ognuno di
noi di sentirsi di destra o di sinistra, abbiamo tutti insieme un problema: una
politica che ha allagato la società. E che, come dimostra il dibattito
di queste settimane, non ha la forza non solo per risolvere i problemi ma
neppure per metterli sul tavolo.
BILANCI TRASPARENTI - È «antipolitico» chiedere come mai non
vengono neppure ipotizzati l'abolizione delle province o l'accorpamento dei
piccoli comuni? Che tutte le amministrazioni pubbliche siano obbligate a fare
bilanci trasparenti dove «acquisto carta da fax» si chiami «acquisto carta da
fax» e «noleggio aerei privati» si chiami «noleggio aerei privati» così
da spazzare via tanti bilanci fatti così proprio per essere illeggibili?
Che anche il Quirinale metta in Internet il dettaglio delle proprie spese come
Buckingham Palace? Che venga rimossa quella specie di «scala mobile» dell'indennità
dei parlamentari ipocritamente legata a quella dei magistrati due decenni
abbondanti dopo l'abolizione del meccanismo per tutti gli altri italiani?
Insomma: viva le istituzioni, viva il Parlamento, viva i partiti. Però
diversi: diversi. E soprattutto: è antipolitico chiedere che certi
politici italiani la smettano di essere così presuntuosi da pretendere
di identificarsi automaticamente con la Democrazia?
24
settembre 2007
ROMA - "Se gli italiani credono che
con la bacchetta magica si risolva d'un colpo il problema dei costi
della politica, resteranno delusi. Fare i botti propagandistici per
rincorrere Grillo non paga. Sarà un lavoro lungo, le strutture non si
smantellano, possono essere cancellati gli eccessi e gli sprechi. Lo
stiamo facendo. Un grosso passo avanti sarà fatto con la
Finanziaria". La manovra che sarà varata tra pochi giorni, annuncia
il ministro per l'Attuazione del programma Giulio Santagata, conterrà
una buona parte delle misure del ddl del governo sui costi della politica.
E alcune novità, dalle consulenze agli stipendi dei manager pubblici. Ma
la vera svolta, se realizzata, sarebbe un'altra: "Andrebbe fissato un
tetto al numero di ministri" dice il più prodiano degli inquilini
di Palazzo Chigi. Resta il fatto che il disegno di legge di luglio non approda
in Parlamento. Gli enti locali non hanno concesso il loro parere. Troppe
resistenze? "Regioni, Comuni e Province hanno tardato a causa di una
vertenza aperta col governo, ora risolta, su altre questioni finanziarie. Non
ho registrato particolari resistenze. Penso che mettere tutto in Finanziaria
sia anche meglio. Abbiamo l'opportunità di trasformare quei provvedimenti
in legge entro fine anno". Cosa finirà, dunque, in Finanziaria?
"Tutto quel che genera risparmi. Gli interventi già previsti sulla
spesa corrente dei ministeri e i tagli agli organi degli enti locali".
Nulla di nuovo rispetto al ddl di luglio? "Oltre a ulteriori risparmi su
auto blu e spese telefoniche a partire dallo Stato, stiamo pianificando
interventi drastici su missioni e consulenze. Per esempio, riducendo gli
stanziamenti già decurtati del 10 per cento nell'ultima Finanziaria.
Ancora, fisseremo un tetto agli stipendi dei manager pubblici e delle
società controllate". Ricorderà che lo scorso anno non siete
riusciti a ridurre quegli stipendi, causa ostruzionismi interni alla stessa
maggioranza. "Le resistenze ci sono sempre. Noi non ci facciamo trascinare
da una foga giacobina, che non paga, ma se certi provvedimenti sono fattibili
li portiamo avanti". Ma quanto contate di risparmiare? "Non ci
sogniamo di sanare i bilanci con i costi della politica.
L'importante non è fare cassa, ma dare un segnale di sobrietà,
che per altro stiamo dando fin dal nostro insediamento. Qualcuno dimentica che
il nostro governo ha tagliato del 50 per cento le ore dei voli di Stato. Che
sono diminuite di 50 unità le auto blu". Che però erano 500,
cambia poco. "è vero, ma abbiamo ridotto anche la cilindrata. Al
ministero dell'Economia viaggiano ormai tutti in Punto. Fare i botti
propagandistici per rincorrere Grillo non paga. L'amministrazione si mette a
posto senza isterie. E poi, sia chiaro che qui non sta rubando nessuno. Si
tratta di scrostare prassi consolidate". Ammetterà che non
sarà facile convincere i suoi colleghi, dato che già la scorsa
settimana - ha lamentato Padoa-Schioppa - si sono presentati in Consiglio dei
ministri con richieste per 24 miliardi. "Nel governo c'è la consapevolezza
che abbattendo i costi a bassa produttività si eliminano gli sprechi
e sarà possibile avere più risorse in futuro. Su questo sono
certo di avere il pieno sostegno del presidente del Consiglio". Non pensa
che, come ritiene qualcuno, tagliare i ministeri sarebbe il più efficace
dei segnali? "La mia ipotesi è che, come per gli enti locali si
inciderà sui consigli, a livello nazionale si intervenga sul Parlamento
e quindi sulla composizione del governo. Per l'esecutivo andrebbe individuato
un tetto invalicabile al numero dei ministri".
BERLINO Sarà per la severa etica
protestante di cui è permeato il Paese, rigorosamente contraria a ogni
forma di spreco, oppure la tradizione prussiana di spartana devozione dei
funzionari dello Stato, sta di fatto che ancora oggi in Germania i politici
devono camminare sul filo del rasoio in fatto di spese a carico della
collettività. Esemplare è rimasto il caso del liberale
Hans-Dietrich Genscher, ministro degli Esteri dal 1974 al 1992, prima con il
cancelliere Helmut Schmidt, poi dal 1982 con Helmut Kohl. Quando nei primi anni
Ottanta la figlia allora tredicenne espresse il desiderio di visitare New York,
Genscher le acquistò un biglietto aereo di andata e ritorno su un volo
della Lufthansa, rifiutandosi di portarla con sè a bordo dell'aereo di
Stato con il quale si recava negli Stati Uniti per partecipare alla sessione
autunnale dell'Assemblea generale dell'Onu. Esemplare è stato anche il
caso dell'ex presidente della Bundesbank, Ernst Welteke, costretto a dimettersi
il 16 aprile 2004 perché, come aveva rivelato il settimanale "Der
Spiegel", in occasione dei festeggiamenti per l'introduzione dell'euro il
primo gennaio del 2002, aveva preso alloggio con la famiglia per un paio di
notti nel lussuoso Hotel Adlon di Berlino a spese di una grande banca tedesca
che aveva pagato un conto di circa 7.500 euro. Il 18 luglio 2002 era stato
invece il cancelliere Gerhard Schroeder a costringere alle dimissioni il suo
ministro della Difesa e compagno di partito Rudolf Scharping, quando si venne a
sapere che questi aveva utilizzato un aereo di Stato per fare visita alla
fidanzata, la contessa Kristina Pilati, divenuta poi sua moglie, in vacanza
sull'isola di Maiorca. A mandare su tutte le furie Schroeder fu il anche il
fatto che Scharping aveva acquistato in una boutique abiti costosi, poi pagati
dal titolare di una società di pubbliche relazioni. Per quanto riguarda
in generale i costi della politica in Germania, va sottolineato
che i deputati del Bundestag percepiscono uno stipendio di 7.009 euro al mese,
mentre da anni tutti i cancellieri che si sono succeduti hanno portato avanti
una drastica riduzione del personale dello Stato. Il numero di dipendenti di
ministeri e degli altri uffici pubblici federali è oggi inferiore a
quello esistente prima della riunificazione del 1990, sebbene alla vecchia
Bundesrepublik siano arrivati in dote i cinque laender tedesco-orientali con
oltre 17 milioni di cittadini. Alla fine dell'anno in corso il totale dei
dipendenti dello Stato tedesco nel settore civile, messo ovviamente da parte
l'esercito, toccherà 260.400 unità e alla fine del 2008
scenderà a 258.000. Rispetto al 1992, quando proprio a seguito della
riunificazione tedesca il numero dei funzionari federali toccò la punta
massima, è sparito quasi un terzo dei posti pubblici, esattamente il 32
per cento. In sintesi, il rapporto tra funzionari pubblici e popolazione
è oggi di uno ogni 320 abitanti, mentre nel 1991 era di uno su 213 e nel
1998 di uno su 261. Le spese per il personale toccheranno nel 2008 il minimo
assoluto del 9,4 per cento del bilancio dello Stato, rispetto al 12,1 per cento
del 1991 e dell'11,4 per cento del 1998. Quest'anno è stato tagliato
l'1,2 per cento dei posti, mentre per il 2008 è prevista un'ulteriore
riduzione dello 0,75 per cento. Il numero di dipendenti della Cancelleria
è di appena 443 unità, mentre il presidente della Repubblica,
Horst Koehler, dispone appena di 170 funzionari. Il Bundestag, il Parlamento
federale, conta 2.347 impiegati di diverso ordine e grado, il Ministero degli esteri
ne ha 2.734, escluso ovviamente il personale in servizio nelle sedi
diplomatiche all'estero. Rischioso per i leader "ritagliarsi" dei
privilegi
Cara
Europa, guadagno da precaria 1000 euro al mese, idem il mio fidanzato. Abbiamo
trovato
Cara
Daniela, se aveste votato centrodestra vi sareste trovati nella brace anziché
nella padella.
Le due non-politiche si equivalgono.
Ecco perché i demagoghi alla Grillo, che sparano contro tutti, hanno successo,
e perché i frontalieri alla Mastella possono rompere ogni giorno i cosiddetti a
voi che avete da spaccare il centesimo.
Ma un provvedimento alla Zapatero, cioè un contributo mensile di 200-250
euro per l’affitto, a coppie come la vostra, non si è visto né con
Berlusconi né con Prodi.
Gli unici che hanno manifestato sensibilità al problema (a meno di mie
distrazioni) sono Giovanna Melandri, ministro per le politiche giovanili, e
Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture. La prima ha ricordato che in
Italia c’è, grazie alla precedente finanziaria, una detrazione del 19
per cento dagli affitti per gli studenti universitari fuori sede, e che
è sua intenzione chiederne l’estensione a tutti i giovani dai 18 ai 35
anni. Con lo slogan dolceamaro “Case low cost per la generazione low cost”, ha
presentato con Di Pietro un progetto per nuovi alloggi ai giovani. A sua volta
Di Pietro – mentre Prodi “sta pensando” a strumenti fiscali per i costi della
casa – propone, oltre a immediati fondi per l’emergenza abitativa, un piano
triennale di 1,2 miliardi per l’edilizia residenziale, utilizzando anche le
risorse dell’Inail (3,9 miliardi), facendo disgustare Montezemolo (sarebbe una
“tassa occulta” sulle imprese, dice).
Questa è l’Italia dei politici frigidi che“stanno pensando” e degli
imprenditori egoisti. Dovete sapere, voi giovani e non, che dopo la prima
guerra mondiale Einaudi, che era Einaudi, scatenò sul Corriere una
campagna di articoli su case e affitti, che qualche anno fa sono stati
pubblicati in ristampa anastatica, un volume grosso così. Trent’anni
dopo quella campagna, usciti dalla seconda guerra, il ministro del lavoro
Fanfani varò, dopo soli 10 mesi dalla vittoria del 18 aprile, il piano
case popolari (Ina-casa) e a dicembre il ministro dei lavori pubblici Tupini
fissava un contributo statale del 4 per cento a favore di chi costruiva case in
cooperativa.
“Vecchi fusti”, si diceva al tempo di Longanesi e del Borghese. Dove li trovi
più?
In Grecia e Spagna le vere occasioni
"Tra le mete più interessanti c'è la Grecia", spiega
Paola Gianasso, responsabile estero di Scenari Immobiliari. "Le quotazioni
sono in crescita ma ancora nettamente inferiori rispetto ai livelli italiani e
gli investimenti migliori garantiscono rendimenti a due cifre. Ad Atene gli
immobili di lusso si aggirano sui 5 mila euro al metro quadro, ma si trovano
buone occasioni sui 3 mila euro". Continua a essere estremamente
interessante la Spagna. A Barcellona i prezzi non superano i 4.700
euro/mq, mentre a Madrid possono raggiungere 5.200 euro. Tuttavia, sono
sufficienti 3.500 - 3.700 euro/mq per acquistare un appartamento di buon
livello nelle zone limitrofe al centro, con una rivalutazione media del 10%
annuo. Buone le prospettive del mercato tedesco, specie per le città
della parte orientale del Paese. Berlino, in particolare, presenta un'enorme
offerta di immobili di alto livello, con prezzi tra i più bassi a
livello europeo. Fino a questo momento gli italiani hanno tenuto in scarsa
considerazione i Paesi nordici, forse perchè non sono appetibili come
piazze dove acquistare una seconda casa. Tuttavia, si tratta di mercati in forte
crescita, che possono offrire ottime soddisfazioni a chi acquista per
investimento. Le capitali presentano uno stock edilizio moderno e di
qualità, a fronte di prezzi contenuti e di buone prospettive di
rivalutazione. Solo Stoccolma presenta prezzi più elevati, intorno
a 5.500 euro/mq. Spostandosi verso est, è in calo l'offerta in Polonia
e, in particolare, a Varsavia, mentre comincia a essere estremamente
interessante l'investimento immobiliare in Bulgaria e Russia. A causa di
un periodo estremamente difficile per l'economia bulgara, i prezzi delle
case sono bassi: gli immobili di lusso non superano 3 mila euro/mq nelle
zone migliori di Budapest. Mosca ha registrato aumenti di circa il 27% annuo
negli ultimi due anni e ha raggiunto quotazioni di circa 4.850 euro/mq, con
punte di 8-10 mila euro. \.
Giovedì
scorso, nelle stesse ore in cui al Senato andava in scena il surreale
spettacolo sulla Rai, un comitato ristretto di rappresentanti di governi
europei cominciava a cercare una linea comune dell'Unione (s'intende l'Unione
europea) sull'inasprimento delle sanzioni contro l'Iran. In questo comitato
l'Italia non c'è. E non c'è neppure nel gruppo di lavoro che sta
discutendo come superare l'impasse del Consiglio di Sicurezza sull'eventualità
di promuovere una nuova risoluzione nei confronti di Teheran. Ciò
nonostante la quantità di relazioni economiche e commerciali che
l'Italia ha con l'Iran e il fatto (molto delicato) che i soldati italiani della
missione nel sud Libano debbano vedersela ogni giorno con gli hezbollah
eterodiretti da Teheran. D'altronde, della missione libanese quasi nessuno
parla più, almeno in pubblico, e ha fatto impressione la nonchalance con
cui è stato accolto, qui da noi, il raid israeliano nei pressi di Deir
ez-Zohr. Come se un bombardamento sul territorio siriano, accompagnato da voci
su progetti nucleari e stoccaggi di micidiali armi chimiche, nulla dovesse
avere a che vedere con la posizione dei nostri militari in una missione che
avrebbe il compito di monitorare i traffici di armi che passano dalla Siria al
Libano.
Cambiamo scenario. Tra un paio di mesi, scatterà una fatale “ora x” a
poche decine di chilometri dalle nostre frontiere. Se non si troverà un
compromesso, il Kosovo dichiarerà unilatelarmente la propria
indipendenza che verrà riconosciuta dagli Usa e, forse, da qualche
governo europeo. Nascerà uno stato la cui unica base economica saranno
pochi aiuti internazionali e i proventi del contrabbando e di altre
attività criminali e la cui esistenza metterà in discussione il
fondamento stesso degli accordi che nei Balcani occidentali assicurano una
fragile tregua basata su un discutibile assetto. A un passo e mezzo da noi.
Eppure sul Kosovo e in generale sui Balcani si legge più sulla stampa
tedesca, francese e americana che su quella italiana. L'attenzione pubblica
riflette sempre le priorità di chi governa, ma quali le priorità
del governo italiano? Nell'area abbiamo ottimi diplomatici, buoni contatti e
bravi esperti: ci manca una politica.
Sere fa, mentre gli italiani che hanno ancora qualche curiosità per la
cosa pubblica cercavano di riaversi dallo choc della tragicommedia sulla Rai in
Senato, al Tg1 new look è stato intervistato in diretta un ministro
D'Alema che pareva il fantasma di se medesimo. Dispiace dirlo, per la stima che
abbiano di lui, ma, sarà stato anche per colpa della sconsolante
banalità delle domande (comunque anche questo è un segno), le
risposte del ministro sono state molto vaghe. E molti, crediamo, si sono
trovati come noi a rimpiangere i tempi in cui l'indirizzo e le scelte di
politica estera furono un fattore di certezza, di forza in patria e di
prestigio all'estero, di un governo Prodi pure già pesantemente
insidiato, negli altri campi, da contrapposizioni rissose e rovinose cadute di
immagine.
Che cosa è accaduto, da allora? La politica estera ha subìto,
certo, gli effetti della più generale, irrisolta (e da Prodi
irresolubile) difficoltà data dalla contrapposizione tra le diverse
anime del centrosinistra, che precipitarono nella pessima gestione della
vicenda della base di Vicenza e nelle peripezie dei voti sull'Afghanistan. Ma a
noi sembra che il problema riguardi, oltre che il governo e la sua
capacità (o non capacità) di iniziativa, un po' tutta la politica
italiana, la quale ci pare malata di autismo: sempre più incapace di
avere relazioni con il mondo reale, sempre più preda dei propri riflessi
condizionati e delle proprie stereotipie, sempre incline alla ricezione passiva
di suggestioni che ne deviano l'attenzione dall'essenza delle questioni vere.
Ci piacerebbe poter credere che questo autismo politico fosse curabile, magari
con la nascita di un partito nuovo come il Pd. Il modo in cui sta procedendo la
costruzione del nuovo partito non ci offre però molte ragioni di speranza.
È un discorso complicato, nel quale non ci addentriamo. Ci limitiamo a
leggerne i riflessi nel campo della politica internazionale. Negli altri grandi
paesi, governi, maggioranze e opposizioni si confrontano, si accordano e si
scontrano sul “che fare” nel mondo e poi compiono scelte e prendono iniziative.
L'Italia rischia, semplicemente, di non esserci.
CORRISPONDENTE
DA NEW YORK «Le redazioni dei media soffrono
l’influenza del governo e delle grandi aziende». Dan Rather, volto storico
della tv Cbs, picchia duro contro il mondo nel quale ha lavorato per mezzo
secolo consegnando lo sfogo-denuncia al collega, amico ed ex rivale Larry King
sugli schermi della Cnn. Reporter dal 1950, primo giornalista tv a dare la
notizia della morte del presidente John F. Kennedy a Dallas nel 1963,
protagonista della campagna del Watergate che obbligò Richard Nixon alle
dimissioni e per 25 anni conduttore delle notizie serali della Cbs, Rather
è stato messo alla porta nel
«Qualcuno a un certo punto deve uscire allo scoperto e dire che in questa
maniera la democrazia non è in grado di sopravvivere - è la tesi
di uno dei conduttori più popolari d’America - perché i media sono
oggetto di interferenza e intimidazione da parte del governo e della grande
industria». Rather guarda oltre il proprio caso «nel quale sono diventato il
capro espiatorio di errori altrui» e vede nella decisione presa dalla Cbs la cartina
tornasole di un approccio oramai molto diffuso: «Sacrificare il sostegno per il
giornalismo indipendente sull’altare delle entrate economiche e dei sostegni
politici». Il riferimento esplicito è al duplice pilastro delle entrate
pubblicitarie e delle notizie di fonte governativa che consente a molti media
di crescere e fare profitti «a scapito della libertà di informazione».
Nel mirino ci sono alcuni dei grandi nomi del mondo del giornalismo americano:
non solo Leslie Moonves, presidente della Cbs, e Summer Redstone, proprietario
del colosso Viacom, ma anche Rupert Murdoch, proprietario di News Corporation
che ha recentemente acquistato il Wall Street Journal, e anche la stessa Cnn,
il New York Times, il Washington Post e molte altre testate. La denuncia punta
a inserirsi sulla scia del mea culpa fatto da alcuni quotidiani - come New York
Times e Washington Post - sul trattamento delle notizie all’inizio della guerra
in Iraq e chiama in causa la credibilità dell’intero sistema
dell’informazione ponendo un interrogativo attorno al quale si è subito
aperto il dibattito.
Bob Steele, docente di etica del giornalismo all’Istituto Poynter in Florida,
ritiene che Rather abbia svelato una realtà da molti conosciuta anche se
taciuta: «Sarebbe da ingenui ritenere che giornali o singoli giornalisti non
soffrano l’influenza di potenti istituzioni». Tuttavia, aggiunge, «sarebbe
anche un errore ignorare che la maggioranza dei reporter di battono per
tutelare la propria indipendenza, e molte volte riescono». Louis Boccardi, ex
direttore dell’Associated Press, ritiene invece che Rather sia fuori strada e
stia solamente tentando di trovare una scappatoia per far dimenticare l’errore
compiuto attestando la veridicità di quattro documenti anti-Bush che
vennero poi facilmente smascherati da alcuni blog, svelando che erano stati
compilati al computer e dunque non potevano risalire al 1968, quando Bush era
sotto le armi nella Guardia Nazionale dello Stato del Texas.
Il taglio operato dalla Federal Reserve
è stata una mossa audace. Il dubbio è se funzionerà, vista
anche l'entità della sfida. A sostenere la crescita statunitense dal
2001 è stato l'aumento dei prezzi delle case, generando
una ricchezza che si è tradotta in spesa reale attraverso
rifinanziamenti e aumentata fiducia. Tuttavia, ora che i prezzi delle case
sono in calo, l'effetto che si percepisce è esattamente opposto, con i
consumatori orientati a risparmiare di più e spendere di meno. Una
dinamica che a sua volta minaccia di determinare un calo della crescita e un
ulteriore abbassamento dei prezzi delle case. Un vortice che la
Fed sta cercando di aggirare. Impresa non facile, anche perché nell'immediato
non sono possibili miglioramenti sul fronte immobiliare, visto che a
luglio il saldo delle case invendute è salito a 4,6 milioni, il
massimo dal 1991. è vero però che se la riduzione dei tassi a
breve contribuirà ad allentare la stretta creditizia, la Fed dovrebbe
riuscire a portare i tassi dei mutui verso il basso, sempre che le previsioni
sull'inflazione non aumentino. Ma è proprio la debolezza del dollaro,
unitamente alla solidità dell'economia mondiale, a dare una
possibilità di successo all'intervento di Bernanke, in un contesto che
favorisce le società americane, incoraggia le esportazioni e rende la
vita difficile ai competitor esteri presenti negli Usa. Gli Stati Uniti, alle
prese con un deficit della bilancia commerciale enorme, attendono da tempo il
concretizzarsi di una crescita indotta dalle esportazioni. Quel momento
è arrivato e sarà proprio il dinamismo delle esportazioni a far
si che la manovra della Fed abbia qualche possibilità di riuscita. Ian
Campbell I CONTI DI FORTIS Fortis non vuole correre rischi con il mastodontico
aumento di capitale che servirà a finanziare parte dell'acquisizione
dell'olandese ABN Amro e ha arruolato altre 13 banche per aiutarla a vendere i
titoli. Merrill Lynch, il principale consulente di Fortis e dei suoi compagni
di cordata Royal Bank of Scotland e Banco Santander, è pronta a
intervenire in caso di difficoltà di collocamento, ma Fortis non può
certo permettersi brutte figure. La richiesta di fondi al mercato avviene in un
momento difficile e, tanto per cominciare, occorrerà versare agli
azionisti di ABN 64 miliardi di euro. La strategia di Fortis punta non solo ad
assicurarsi la lealtà degli azionisti, ma anche a rinsaldare i rapporti
con le banche che l'appoggiano e che si divideranno più di 100 milioni
di sterline di commissioni. Fortis fa bene a cercare di farsi amici gli altri
istituti, per due ragioni: dopo l'emissione di diritti odierna dovrà
chiedere al mercato altri 7 miliardi di sterline e per ammansire gli organi di
vigilanza europei dovrà cedere più del 10% delle filiali bancarie
olandesi. Fortis ha ridotto dello 0,1%, portandolo all'11,1%, il rendimento
previsto dell'operazione e ha abbassato di un terzo l'incremento degli utili
per azione. Spuntare un prezzo mediocre dalla vendita delle filiali olandesi
peggiorerebbe la situazione. Invece, mostrandosi di manica larga con le banche
concorrenti (Fortis cerca di aumentare le proprie possibilità di incassare
qualche spicciolo in più. Mike Verdin (Traduzione a cura di MTC).
+ Il Secolo XIX 23-9-2007 Contro il
malcostume non solo indignazione
+
La Repubblica 23-9-2007 IL COMMENTO
Troppa urgenza signor ministro di
GIUSEPPE D'AVANZO
AGI 21-9-2007 GRILLO: DAGOSPIA GLI FA
LE PULCI, “RICORSE AL CONDONO TOMBALE”
Virgilio notizie 23-9-2007 E ai
poliziotti danno 1.200 euro per scortare un pregiudicato
Europa.it 23-9-2007 Reagite
Democratici, sennò l'Anno zero è il vostro (s. me.)
La Stampa 23-9-2007 IL VERO
ANTIPOLITICO? È IL PALAZZO Barbara Spinelli
Dalla prima pagina E' esattamente per
questo motivo che il governatore ligure ha avuto, e sciupato, l'occasione di un
formidabile spot personale mentre tutt'intorno non si fa che urlare contro i
privilegi dei politici e della classe dirigente. Ma l'immaginate? "Il
presidente della Regione Liguria, fermato per una grave infrazione stradale e
senza documenti, ha chiesto subito di essere accompagnato in caserma per il
riconoscimento d'identità e le contestazioni del caso, ritenendo di non
dover in alcun modo essere favorito dal proprio ruolo". Sarebbe stato il
modo migliore per non aprire neanche la vicenda e per cavarne uno smisurato
consenso, da parte del governatore, se solo le autorità avessero avuto
la bontà - e l'avrebbero avuta, ne siamo certi - di far sapere che anche
un politico di lungo corso, quindi "infettato" da certe cattive
abitudini, può offrire un bell'esempio di cambiamento. Invece no. Spunta
un tesserino da parlamentare a cui non si ha più diritto, gli agenti
lasciano andare l'automobilista imprudente (a dir poco), parte una telefonata
al questore per chiedere "severità" (visto il clima generale),
il prefetto più rapidamente del solito commina la sanzione (vista la
sollevazione popolare) e alla fine i cittadini s'incazzano di nuovo perché
anche nella "seconda fase" di questa storia non c'è nulla di
tutto ciò che accadrebbe a qualsiasi persona pizzicata nelle stesse
condizioni. Ora, non è che Burlando non percepisca di aver fatto una
frittata, lo percepisce con un quid di ritardo che sta giusto lì a dimostrare
come sul terreno dei comportamenti l'interruttore di "lorsignori" sia
irrimediabilmente staccato. Così, la toppa si rivela peggio del buco e,
soprattutto, ci dice che il personale pubblico non possiede l'istinto di quella
normalità per cui, dismesso l'abito del ruolo, davanti al semaforo della
vita quotidiana sa di non avere il diritto di passare con il rosso. Come
chiunque. In realtà, il governatore ligure è solo l'ultimo di
un'infinita serie di cattivi esempi - se ne aggiungeranno, si può star
sicuri - in cui politici, grand commis, imprenditori, ras di quartiere e
giornalisti (una casta, non meno delle altre) non hanno neanche bisogno di
ricorrere a uno sgarbato "lei non sa chi sono io". Grazie a giornali
e tivù, tutti sanno chi sono e quindi s'aspettano, anzi pretendono, un
trattamento "diverso". Arroganza del potere? Arroganza del potere. Ma
pure specchio del Paese. Sarebbe interessante sapere quante delle centinaia di
persone che hanno invaso i siti internet, non escluso quello di Burlando stesso,
possono scagliare la prima pietra, cioè affermare oltre ogni ragionevole
dubbio di non aver mai chiesto una raccomandazione, un favore, la cancellazione
di una multa tanto per rimanere in argomento. Quello dei privilegi, infatti,
è un mercato che risponde alla legge della domanda e dell'offerta: se
l'una o l'altra venissero a mancare, non ci sarebbe mercato. Le cose, invece,
stanno diversamente e per quanto l'indignazione di questi giorni, sui costi
della politica e sui "casi Burlando", sia una spia importante
dei fremiti di cambiamento che percorrono la penisola, è ancora poca
cosa per rendere normale l'Italia. Due ragioni su tutte. La prima: energie
sempre crescenti vengono profuse su argomenti che parlano alla
"pancia" del Paese - gli sprechi, le tasse, i privilegi -
evidenziando anche moti d'invidia e di risentimento che, con un crescendo
rossiniano, stanno indirizzando la protesta verso scenari da
"Jacquerie". La seconda ragione: la rivolta contro il malcostume
è sacrosanta, ma va gestita per impedire la facile (e pericolosa) deriva
di un giustizialismo sfrenato e cieco. Il compito principale spetta certo alla politica,
che una volta per tutte deve sapersi autoriformare, però altrettanto
rilevante è l'impegno al quale è chiamata l'informazione, che non
può utilizzare strumentalmente ogni episodio per "strillare"
un titolo. Una cultura condivisa di rigore dei comportamenti non si crea
dall'oggi al domani: è frutto di un lavoro profondo e certosino, che
comincia dall'istruzione e si dipana nell'esperienza di ogni giorno, attraverso
gli esempi del fare e non del dire. Allora, l'evasione fiscale si combatte
pagando le tasse e contestando anche il proprio leader se dovesse giustificare,
come ha fatto Silvio Berlusconi, l'infedeltà del contribuente, per
quanto tartassato sia. Così come buona cosa sarebbe avere la stessa
sdegnata reazione opposta ai "casi Burlando" per rinfacciare a un
premier, nello specifico Romano Prodi, la mancata riforma di una legge
elettorale che ha espropriato la democrazia. Nell'indifferenza o con la
complicità postuma di chi - vedasi alla voce centrosinistra - prima ha
protestato, poi ne ha fatto largo uso e successivamente - cioè oggi -
non muove un dito per modificarla. Fermarsi agli sprechi della politica,
ai privilegi, a tutto ciò che, alla fine, fa (quasi) soltanto immagine,
significa stare alla superficie del problema, senza incidere sui valori che
sono la vera misura della civiltà di un Paese. Non può piacere a
nessuno il ritorno a un'Italia del "si fa ma non si dice", invece
l'indignazione fine a se stessa nasconde pure questo pericolo. Le monetine
contro Bettino Craxi non hanno cancellato la corruzione. Per la molto
semplice ragione che, se davvero si vuol cambiare, scorciatoie non ce ne sono. luigi
leone 23/09/2007 dalla prima pagina Vengo chiamato a parlare, ma non riesco
neppure ad alzarmi: sono confuso, non mi viene in mente niente da dire, se non
balbettii privi di senso. Mentre mi sto arrovellando per cercare il modo di
tagliare la corda onorevolmente, sento alle mie spalle grida e trambusto: sono
i ragazzi. Quei ragazzi sono letteralmente presi d'assalto dai funzionari del
congresso che li stanno strattonando e malmenando perché si alzino e vadano a
parlare sul palco. Loro non ne vogliono sapere e resistono. In questo stato
è dunque ridotto il mio inconscio, che perverte l'onesto lavoro onirico
in una non richiesta proposta di editoriale politico. Avendo somma sfiducia
nelle capacità della mia intelligenza cosciente, ha tralasciato le complesse
allegorie oniriche per svolgere un racconto che non richiede nessuno sforzo
interpretativo. Cosa penso dunque mentre dormo? Penso che la sinistra non ha
più il problema di comunicare con i suoi simpatizzanti, il suo popolo,
come dicono. Se c'è una cosa che oggi i suoi dirigenti politici ardono
dal desiderio di fare è proprio questa. Ma la sinistra ha un problema
nuovo: è il suo popolo, adesso, che si rifiuta di comunicare. Che non
trova più niente da dire, che non è interessato a dire alcunché,
e si rifiuta alla comunicazione. Lo penso di notte e lo credo di giorno. E se
nel sonno penso alla sinistra, perchéè lì che il mio dente duole,
da sveglio credo che non sia un problema solo suo. E quando il popolo, e il
popolo sono i cittadini, decide di non aver più niente da dire ai loro
politici, "mai de pezo", come diceva mia nonna Anita. Non c'è
niente di peggio e di più pericoloso del rifiuto muto. È meglio
persino il "vaffa", anche se è il livello più basso
possibile della comunicazione.
Rimane pur sempre uno spiraglio, un'opportunità. Lo sanno benissimo le
coppie in crisi; a un "vaffa" ci si può aggrappare,
disperatamente, per un ultimo tentativo, ma il silenzio è irreparabile.
Per questo, un'altra cosa a cui credo è che il signor Beppe Grillo - che
lui lo voglia o no, lo pensi o non lo pensi - sia un'opportunità, una
minima estrema opportunità, data alla politica; e forse anche ai
politici. Anche se questi non lo capiscono e non lo capiranno, temo, perché
privi degli strumenti intellettuali, dell'elasticità di pensiero, per
capire. La classe dirigente politica è stata selezionata per
partenogenesi, usando i resti di una cultura, gli avanzi dell'epoca che l'ha
generata. Alle ultime elezioni si è votata addirittura da sola, essendo
i cittadini impediti a scegliere gli uomini, e le poche donne, da eleggere. Non
credo affatto che il Parlamento sia formato da una ghenga di ladri e
debosciati, ma di inadatti e poco adatti e raramente adatti ad affrontare il
"vaffa" dei cittadini sì. E affrontare il silenzio sarà
per loro al di sopra di qualunque sforzo di volontà. Il silenzio
è mortale anche se appare del tutto inerte e per niente aggressivo. Il
signor Grillo propone ai cittadini di mostrare il culo ai politici, ma se i
cittadini si rifiutano persino a questo infimo gesto di considerazione, non
sarà per educazione, ma per noncuranza ancor più definitiva. Il
Senato di Roma si è riunito e ha legiferato almeno per un secolo ancora
dopo che nessuno nell'Impero stava più a sentire i suoi banditori.
È così che è finito. E c'è forse qualcosa di peggio
del fascismo per maledire un'epoca nella storia di una nazione e di un popolo:
il definitivo disfacimento della relazione tra Senato e Cittadini. Non a caso
Roma legiferava con la formula: senatus populusque romanus. Il senato con il
popolo di Roma. Non sono ispirato, non sogno profezie, ma solo quello che di
giorno non digerisco. Non mi piace finire la mia vita di cittadino in silenzio,
ma quando finalmente chi ho implorato per una vita di ascoltarmi mi chiede di
parlare, non riesco a fare altro che biascicare scuse per starmene zitto.
maurizio maggiani 23/09/2007.
Perché Luigi De Magistris, perché proprio lui? Qual è la
priorità, l'assoluta, incalzante, impellente, imperiosa urgenza che ha
convinto Clemente Mastella a chiedere al Csm di trasferire, in via cautelare,
il pubblico ministero di Catanzaro?
L'analoga richiesta del ministro contro il procuratore capo Mariano Lombardi
è soltanto il frutto di questa censura. Lombardi, per Mastella, deve
andar via da Catanzaro per non aver controllato con piglio autoritario, diretto
nella direzione giusta, moderato quanto basta le mosse di De Magistris. Quindi,
è De Magistris il problema di Mastella.
Perché? Perché il ministro si è precipitato in avanti con un passo
inconsueto per la sua democristianissima prudenza senza attendere gli esiti
dell'istruttoria in corso al Consiglio superiore della magistratura che si sta
già occupando del conflitto che divide il sostituto (De Magistris) e il
suo capo (Lombardi)? Qual era l'improrogabile necessità che ha convinto
Mastella?
E' alquanto improbabile che il guardasigilli riesca a offrire uno scampolo di
risposta convincente. E' una facile previsione se si guarda al deprimente stato
in cui marcisce l'amministrazione della giustizia in Calabria.
Emilio Sirianni, un giudice civile, appena qualche giorno fa ha raccontato con
dovizia di dettaglio al Sole-24 Ore che cosa accade nelle aule di
giustizia calabresi. Nel novembre del
Capita, in Calabria, di vedere entrare un avvocato in camera di consiglio e
dopo un po' arrivare un cameriere con vassoi di leccornie. Parleranno del
campionato della Reggina? In Calabria può accadere che un giudice decida
che un notaio, imputato di "falso ideologico", non sia considerato un
pubblico ufficiale. Reato derubricato in "falso in scrittura
privata", tempi di prescrizione ancora più brevi. Notaio
prosciolto. Il pubblico ministero non propone l'appello. La disorganizzazione
dell'ufficio lascia scadere i termini.
O il caso del bancarottiere? Dichiara di aver utilizzato i soldi distratti
all'impresa per curare il fratello malato di cancro. Il giudice riconosce lo
"stato di necessità" e, senza chiedergli prova della malattia
del fratello e del suo stato di indigenza, lo proscioglie. Sulla parola.
"Conformismo, tendenza al quieto vivere, fuga dai processi scottanti,
pigrizia" sono per Sirianni i codici di lavoro della magistratura in
Calabria, "una magistratura che - per indifferenza, paura, connivenza,
conformismo, furbizia - gira la testa dall'altra parte, strizza l'occhio ad
alcuni imputati, non vigila e non fa domande sulle anomalie dell'ufficio".
Non sarà agevole per Mastella sostenere che il "caso" di Luigi
De Magistris debba trovare con rapidità una soluzione con il
trasferimento del pubblico ministero perché, in caso contrario,
l'amministrazione della giustizia a Catanzaro e in Calabria ne riceverà
un danno irreversibile. Non sarà agevole anche perché Luigi De Magistris
è al lavoro per sollevare i coperchi di quelle pentole borbottanti dove
si incrociano, protetti da una magistratura connivente, spaventata o
conformista, gli interessi di istituzioni, amministrazioni, politica, imprenditoria,
finanza. Un sistema, sostiene il pubblico ministero, che ha la pretesa di
controllare tutti i finanziamenti pubblici che dall'Unione Europea piovono in
una Calabria, che ha il vantaggio di essere "obiettivo 1" e attende
negli anni 2007/2013 un flusso di danaro pari a 8 miliardi e mezzo di euro. E'
un pugno di indagini che, nonostante il ministro Bersani le abbia in disprezzo
e le definisca "bufale", si muovono intorno ai leader dell'Udc, di
Forza Italia, nei pressi di qualche consulente di Palazzo Chigi, vicino a
qualche amico personale di Mastella. Sarebbe stata una buona ragione, per il
ministro di tenersi lontano da De Magistris. Glielo avrebbe dovuto consigliare
il buon senso e la moderazione. In assenza di risposte soddisfacenti del
guardasigilli, si fa fatica a non pensare che proprio il passo spedito, non
distratto, fermo di quel pubblico ministero sia oggi per il ministro (per il
governo?) l'impellente, imperiosa urgenza che lo ha costretto a chiederne il
trasferimento. Dovremmo chiederci, forse, se la prossima nella lista non sia il
giudice di Milano Clementina Forleo. Anche lei, in verità, qualche
preoccupazione la dà. Ne pagherà le conseguenze, signor ministro?
(23 settembre 2007)
(AGI)
- Roma, 21 set. - “Nel 2000 era il 231esimo contribuente italiano (un posto
sopra Barilla), per due volte e’ ricorso al condono tombale da lui tanto
vituperato, dice di possedere solo due case ma al catasto ne risultano molte di
piu’”. Dagospia fa le pulci a Beppe Grillo e racconta della Gestimar di Genova,
“una immobiliare di cui il comico-politico detiene la maggioranza assoluta
delle azioni (al fratello e’ restata una quota simbolica), ma di cui Andrea e’
restato amministratore unico. Per fortuna, perche’ cosi’ mentre Beppe tuonava
negli spettacoli-comizio contro i condoni fiscali del governo di Silvio
Berlusconi destinati a ladri e malfattori, l’amministratore della sua societa’
vi aderiva con entusiasmo, cercando cosi’ di evitare inutili diatribe con il
fisco. Scrisse Andrea nella relazione al bilancio 2002 della Gestimar -
prosegue Dagospia: - ‘In considerazione della possibilita’ concessa dalla legge
finanziaria 2003 di definire la propria posizione fiscale con riferimento ai
periodi di imposta dal 1997 al 2001, fermo restando il convincimento circa la
correttezza e la liceita’ dell’operato sinora eseguito, si e’ ritenuto
opportuno di avvalersi della fattispecie definitoria di cui all’articolo 9
della predetta legge (condono Tombale)’. L’anno successivo Giulio Tremonti
aveva prorogato al 2002 la copertura del condono. E la Gestimar di Grillo l’ha
rifatto. Sempre tombale, sempre per non avere inutili discussioni con il fisco.
Unica differenza: versando qualcosa in piu’ dell’anno precedente”. Ma la
comunicazione fra i fratelli “non deve avere funzionato al meglio - prosegue
Dagospia. - Perche’ due anni dopo, era il 2004, Grillo, che del condono aveva
appena usufruito per due anni, scrisse una lunga lettera a ‘Repubblica’ e cosi’
si rivolse provocatorio ai parlamentari della Casa delle Liberta’: ‘Mettiamo,
per ipotesi, che costoro non abbiano mai rubato, evaso le tasse, corrotto un
finanziere o un giudice, maneggiato fondi neri, societa’ offshore, P2, tangenti
e condoni…’. Un guaio, quella societa’”.
“Perche’ sul piano personale se c’e’ uno che di condoni non ha mai avuto
bisogno e’ sempre stato Grillo - scrive Dagospia: - di tasse ne ha pagate a
montagne. Basti guardare la lista dei 500 contribuenti 2001 (relativa al 2000)
diffusa due anni dopo dalla Agenzia delle Entrate. Grillo risultava il 231esimo
contribuente in tutta Italia, dichiarando un reddito (allora in lire) di 5
miliardi e 289 milioni. Alle sue spalle, 232esimo posto, c’era il primo
industriale della pasta italiana, Guido Barilla”. (AGI)
23-09-2007 00:19 Jesolo (Venezia), 23 set.
(Apcom) - Il Parlamento italiano, con una media di un pregiudicato ogni 10
parlamentari, "spaventa perfino il Bronx, dove di pregiudicati ce
n'è solo uno su 15". E, cosa ancora più grave, "alla
gente coraggiosa e onesta come i poliziotti danno 1.200 euro al mese, da fame, per
scortare un pregiudicato a rischio della propria vita". Beppe Grillo non
si placa e da Jesolo, dove ha portato in scena il suo 'Reset', continua a dire
"basta" al sistema, al ceto, alla classe politica italiana. Lo
spettacolo si apre con il filmato dell'editoriale del direttore del Tg2, Mauro
Mazza, che ha pronunciato dure parole contro Grillo definito 'un maghetto
cattivo'. "Stava delirando. Meno male che moi avevano espulso dalla Rai
visto che ormai sono sul Tg1, sul Tg2 e sul Tg3 come non riuscirebbe a fare
neanche Padre Pio". Grillo ha sparato contro il giornalismo e i
giornalisti che "da una settimana scavano nella mia vita per portare in tv
aneddoti per screditarmi, che mi definiscono la nuova destra che avanza mentre
quello psico-nano di Berlusconi sta nascosto e si chiede come ho fatto a fare
tutto questo casino senza avere giornali e televisioni". Non piacciono a
Grillo le accuse lanciate da chi lo taccia di essere un terrorista, uno che
"si deve vergognare: lo dice Casini sul Corriere della sera, proprio lui -
ha detto il comico - che fa il genero di Caltagirone di professione, nel cui
partito c'era Mele e che va al Family day con due famiglie". Il 'Grillo
nazionale' ne ha per tutti: contro "il valium Romano Prodi che ha
l'encefalite letargica, non è mica come Sircana che è un curioso
- aggiunge - e sappiamo tutti bene dove va", poi contro Mastella che
"è un caso umano, una istigazione alla satira". Ribatte anche
al presidente della Repubblica che "ha raccomandato che certe cose vanno
fatte nell'alveo costituzionale quando io sono uno dei più grandi
alveoli costituzionali d'Italia". Poi, capitano a tiro Walter Veltroni che
"è un topo Gigio alla guida di un Partito democratico nato
morto", Vincenzo Visco che "è stato condannato per abuso
edilizio. Una piccolezza, ma se uno fa il ministro deve essere trasparente e
migliore delle persone che rappresenta. Tra l'altro, aspetto ancora che ci dica
dove sono finiti i 98 milioni di euro che mancano derivanti dagli appalti sulle
concessioni dei macchinari per i giochi d'azzardo. Pari a 4 Finanziarie mentre
lui ci rompe i c... con 4 miliardi di tesoretto". A sorpresa, parole di
"quasi pietà" arrivano per Cesare Previti, l'unico depennato
dalla lista dei 25 parlamentari condannati in via definitiva e ancora seduti
sugli scranni di Montecitorio: "Previti mi fa pena - ha detto Grillo -
perché ha detto in Commissione parlamentare quando è andato a dimettersi
che è stato mandato via dal Parlamento da due persone: io e Marco Travaglio".
Frecciate per Cofferati che "se la prende con i lavavetri quando i primi
che sono abusivi sono i parlamentari e a togliere di mezzo gli abusivi bisogna
iniziare dalla testa", e naturalmente per Berlusconi "lo psico-nano
che ancora pensa a quando si andrà al voto. Lo hanno fotografato in
Sardegna con quattro veline nella sua villa, ma non hanno capito che erano solo
quattro badanti che lo portavano a pisciare". (Segue).
Chi c'è nel mirino di Grillo, Santoro,
Travaglio, Guzzanti Valeva la pena, sbattersi per riportare Santoro in Rai.
Perché in effetti adesso che è tornato rende un bel servizio. Non
sappiamo se pubblico, perché il servizio offerto giovedì sera dalla
prima puntata di Anno zero sembrava reso più che altro ai partiti. Non
scherziamo. Infatti, da giovedì sera ? cinque milioni di telespettatori
di media ? i partiti di centrodestra sanno con certezza di essere stati
graziati dall'assalto del Partito unico dei moralizzatori. Berlusconi, giustamente,
gode. E i riformisti hanno capito ? o dovrebbero aver capito, e se non l'hanno
capito sono davvero nei guai ? che tutta la buriana messa su da Grillo,
salutata da Di Pietro e Pecoraro Scanio, sostenuta da Travaglio, tollerata
dall'Unità e amplificata da Santoro è tutta, integralmente ed
esclusivamente diretta contro il Partito democratico. Badate, Clemente Mastella
è un falso obiettivo. Le caratteristiche sue e del suo elettorato lo
rendono impermeabile alle grandinate neo-girotondine. Tra il Garigliano e il
Sele, non perderà un voto per le intemerate di Grillo. Viceversa, prima
ancora di nascere il Pd è già eticamente e politicamente
liquidato. Ieri Travaglio (sull'Unità?) citava una delicata metafora
secondo la quale i politici vanno cambiati spesso come i pannolini, e per lo
stesso motivo: è utile sapere che per questi signori la culla
democratica è già piena di merda. Varrebbe la pena di reagire,
basterebbe avere un po' di convinzione in più dell'ottimo Polito, forse
troppo british per gli standard santoriani. Giovedì sera sono passati in
cavalleria gli insulti di Grillo al professor Ichino, che per essersi occupato
da sempre dei lavoratori, e per cercare adesso di bilanciare le garanzie dei
tutelati e i non-diritti dei precari, è finito nei notebook delle Br e
vive una vita sotto scorta. Ebbene, tramite Santoro, Ichino è stato
mandato platealmente a fare in culo, sotto il sorriso ironico e silente del suo
collega editorialista del Corriere Sartori. Ed è passata in cavalleria
la sorprendente affermazione di Travaglio, secondo la quale Grillo compie
meravigliosa opera di svelamento di temi altrimenti estranei all'agenda
politica. Siccome fino a quel momento Grillo, tramite Santoro, aveva sfanculato
i ministri Damiano per il colore della cravatta, e Gentiloni per le sue letture
estive, sfuggiva la rilevanza pubblica dei temi trattati. A meno che Travaglio
non si riferisse alla questione del lavoro precario: effettivamente tema
assente dall'agenda della politica, salvo il fatto che nel centrosinistra da mesi
non si parla (e si legifera) che di questo, e di pensioni, e di tasse, e che il
governo abbia anche rischiato un paio di crisi per averne discusso troppo
seriamente. Prima naturalmente che arrivassero le rivelazioni di Grillo-
Travaglio. Per non parlare della lezione di giornalismo regalata da Sabina
Guzzanti, non paga del fatto che Santoro avesse regalato al suo film un
interminabile megaspot che è stato utile a capire le ragioni di un
colossale fiasco ma anche, temiamo, a renderlo più colossale ancora. Di
tutti questi attacchi ? portati sotto l'immunità della satira e della
libertà televisiva, e guai a chi le tocca ? le uniche ovvie vittime
politiche sono il governo Prodi e il Partito democratico. Perché ciò che
l'ironia e l'insulto cercano entrambi di spezzare, è la fatica
mediatrice del riformismo, gravato da tutti quei compromessi e quei ritardi che
l'estremismo può permettersi di insolentire. In questo, forse,
c'è anche una speranza per il Pd e per Veltroni, sfidati dall'antipolitica.
Perché Prodi non può (ma soprattutto caparbiamente non vuole) sottrarsi
al destino di un riformismo lento, poco luccicante, incastrato nella
mediazione. Viceversa, Veltroni fra un mese può aprire il fronte
imprevisto di un'offensiva riformatrice estremista, davvero radicale, vocata in
prima istanza alla rottura e solo dopo, casomai, alla mediazione, rivolta tutta
agli interessi popolari e non alla compiacenza dei politici, dei media e dei
bloggers assetati di sangue. Lo sappiamo bene, che il sindaco di Roma sembrava
un politico di tipo opposto, non così portato al conflitto. Ma si
cambia. Anche Grillo, una volta, era un bravo comico, e Santoro un bravo
presentatore.
Forse la cosa più intelligente su Beppe
Grillo l'ha detta Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl,
lunedì in un incontro televisivo con Romano Prodi. La sua idea è
che "finché ci saranno molti politici che vogliono fare a tutti i costi i
piacioni, divenendo un po' comici, è chiaro che i comici tenderanno a
far politica". Il che è poi simile a quello che disse un giorno nel
2001 il giornalista-investigatore Travaglio, quando la trasmissione Satyricon
parlò di un'ultima intervista di Borsellino girata per Rai News 24 e
contenente precisi accenni ai legami tra Berlusconi, Dell'Utri e il mafioso
Mangano, stalliere di Berlusconi che i telegiornali Rai ignoravano da mesi:
"La Rai invita giornalisti che non parlano così Travaglio
dunque è naturale che le domande di politica le facciano i comici
satirici". A quell'epoca fu il comico Luttazzi a rompere il silenzio, e
subito fu allontanato dalla Rai. Adesso allontanare Grillo non si può,
perché tante cose son cambiate intorno a noi. Né la politica né le televisioni
né i giornali hanno il potere di estromettere il nuovo mondo della
comunicazione e della denuncia che si chiama blogosfera e che include siti come
quello di Grillo o di YouTube. Qui è una delle novità che si
accampano davanti ai poteri costituiti, non solo politici ma anche giornalistici:
la blogosfera, i movimenti alla Grillo, i giovani diffidenti che firmano
proposte di legge perché sono abituati a rispondere a sondaggi-votazioni su
Internet sono nuovi poteri che fanno apparizione in una democrazia non
più veramente rappresentativa, né veramente rappresentata. Politici e
giornalisti ne discutono animosamente ma non sembrano comprendere tali
fenomeni, e di conseguenza ne sottovalutano la forza. Più precisamente,
non vedono i tre ingredienti che hanno dato fiato e potenza al fenomeno Grillo.
Primo ingrediente, la complicità che lega il giornalista classico al
politico, e che ha chiuso ambedue in una sorta di recinto inaccessibile: il
giornalista parla al politico e per il politico, il politico parla al
giornalista di se stesso e per se stesso, e nessuno parla della società,
che ha l'impressione di non aver più rappresentanti. Secondo
ingrediente: l'esclusione da tale recinto dell'informazione alternativa che
sempre più possente cresce attorno a esso e non è più
emarginabile. Oggi essa disvela e denuncia le complicità esistenti, non
solo in Italia ma in molte democrazie. Terzo ingrediente: la domanda di
politica e non di anti-politica che emana da blog e movimenti alternativi.
Pochi sembrano capire che Grillo in realtà denuncia l'anti-politica, e
non la politica. Pochi sembrano capire che egli invoca la politica. Forse non
lo capisce nemmeno lui. Uno dei motivi per cui si discute senza guardare in
faccia questi tre elementi è la cecità peculiare dei giornali
dell'establishment (i giornali mainstream). Essi vengono processati allo stesso
modo in cui sono processati politici e partiti. È sotto processo la loro
complicità con i politici, ed è questo nesso che si tende a
occultare: il nesso fra marasma della politica e marasma della stampa. Il fenomeno
ha cominciato ad amplificarsi in America, tra l'11 settembre 2001 e la guerra
in Iraq: fu la blogosfera a raccogliere i documenti che certificavano l'enorme
imbroglio concernente le armi di distruzione di massa e i legami di Saddam con
Al Qaeda. La menzogna del potere politico fu accettata da giornali indipendenti
come il New York Times, che nel frattempo ha chiesto scusa ai lettori perché di
copie ne perse molte. Fu quella l'ora in cui l'antipolitica dei blog divenne
politica: quando la politica degenerò in antipolitica e fallì,
cavalcando sondaggi e paure. Non serve molto dunque cercar paragoni, evocare
l'Uomo Qualunque. La figura del buffone che dice la verità senza esser
creduto perché appunto considerato buffone è già nell'Aut-Aut di
Kierkegaard. "Accadde, in un teatro, che le quinte presero fuoco. Il
Buffone uscì per avvisare il pubblico. Credettero che fosse uno scherzo
e applaudirono; egli ripetè l'avviso: la gente esultò ancora di
più. Così mi figuro che il mondo perirà fra l'esultanza
generale degli spiritosi, che crederanno si tratti di uno scherzo". Quel
che Grillo dice non è uno scherzo, perché con toni buffoneschi è
proprio l'incendio dell'anti-politica che denuncia: l'incendio delle cose dette
e non fatte, l'incendio del politico che pretende governare e in realtà
s'azzuffa con l'alleato ed è in permanente campagna elettorale,
l'incendio di una stampa che non indaga né spiega ma fa politica in prima
persona, creando o disfacendo governi con sicumera senza precedenti. Né ha
torto quando aggiunge: l'anti-politica non sono io, ma è al potere.
È a quest'accusa che urge rispondere, non limitandosi a dire al comico:
mettiti in politica anche tu, e vedrai come diverrai simile a noi. Difficile
che Grillo imbocchi questa via. La sua è piuttosto contro-politica o,
come spiega lo studioso Rosanvallon, democrazia negativa: è l'ambizione
a rappresentare nuovi poteri di controllo, di vigilanza e denuncia che
s'aggiungono alla democrazia rappresentativa e che riempiono il vuoto di
partecipazione creatosi fra un'elezione e l'altra (Pierre Rosanvallon, La
contro-Democrazia, Parigi 2006). Questo significa che l'antipolitica nasce
prima di Grillo, e non a causa di Mani Pulite ma perché Mani Pulite non
è riuscita a eliminare immoralità e cinismi ma li ha anzi dilatati.
Il male dell'anti-politica è cominciato con la Lega, per culminare
nell'ascesa di Berlusconi e nel patto d'oblio che egli strinse con parte
dell'ex-Dc, dell'ex-Psi, dell'ex-Pri (oltre che con la sinistra nella
Bicamerale). È un male che ha contaminato parte della stampa e
televisione: da anni quest'ultima dedica dibattiti sul pigiama della Franzoni,
e mai ne dedica uno sulle carte scomparse dopo gli assassinii di Falcone e
Borsellino. Il male è la carriera politica di un magnate televisivo alla
cui origine sono denari di misteriosa provenienza, sono le leggi ad personam
fatte approvare quando il magnate ha governato, ed è l'omertà su
tutto ciò. La sua certezza di non esser colpito dal grillismo è
lungi dall'esser fondata. Per questo impressiona l'indignazione che d'un tratto
Grillo suscita in molti politici e giornalisti, come se nulla prima di lui
fosse accaduto (un'eccezione è Eugenio Scalfari, che critica Grillo
senza mai sottovalutare il pericolo Berlusconi). Si dice che alla diffidenza
che dilaga si deve replicare con politiche bipartisan su quasi tutte le
riforme, senza capire che gli entusiasti di Grillo non chiedono la fine
dell'alternanza ma politiche che trasformino le alternanze in alternative.
Degli errori fatti a sinistra si parla molto, e non stupisce: perché tanti
fedeli del sito Grillo vengono da quel campo, e perché la sinistra si è
fatta dettare l'agenda da Berlusconi anche dopo la vittoria del 2006. Una
porzione notevole del proprio tempo la passa mimetizzandosi con la destra su
tasse, lavavetri, tolleranza zero, e anch'essa è in permanente campagna
elettorale, imitando il leader dell'opposizione. Anche Veltroni sembra
impegnato nella conquista della presidenza del Consiglio, più che d'un
partito. Se ci son colpe a sinistra è di non aver denunciato
quest'antipolitica nata ai vertici della politica ben prima di Grillo, non di
averla troppo denunciata. Quel che la sinistra ha mancato di fare è
rispondere a domande che riguardano legalità, moralità,
giustizia. Altro che "blandire e coccolare il moralismo legalitario",
come scrive Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di ieri. Per la terza
volta Berlusconi sta per tornare al governo (il potere ce l'ha ancora) e per la
terza volta la sinistra sta perdendo l'occasione di varare una legge sul
conflitto d'interessi. Naturalmente tutte le ansie di redenzione hanno un lato
oscuro, politico-religioso. E la contro-politica può diventare simile
all'anti-politica che denuncia. Può generare populismo, e fantasticare
un Popolo compatto, non più diviso in parti (dunque in partiti).
Può mettere tutti sullo stesso piano: mafia, gravi corruzioni, e
Burlando che evita la multa mostrando il tesserino di parlamentare. Ma questa
è l'elettricità della denuncia, come si diceva all'inizio della
Rivoluzione francese quando Marat costruì il suo sito di denuncia e
sorveglianza: allora era un giornale, si chiamava L'amico del popolo. È
un'elettricità rischiosa, che può spingere il cittadino a farsi
delatore. Ed è elettricità che comporta grida, insulti pesanti.
Quel che mi piace di meno in Grillo è il suo urlare, che per forza
genera tali insulti. L'urlo perfino quello dipinto da Munch è
qualcosa che non dà forza al pensiero. Tucholsky fu trattato come un
buffone dai benpensanti della repubblica di Weimar, quando fin dal 1931 scrisse
che quel che più l'indisponeva in Hitler era il suo urlare. Fu trattato
come un buffone anche lui, nonostante avesse visto bene l'incendio, e tanti
spiritosi credettero si trattasse di uno scherzo. Grillo ha più risorse
di lui. Urlare sempre non gli serve.
MILANO
Sono quelli che sanno degli archetipi della finanza sporca, di Michele
Sindona, Roberto Calvi e del Banco Ambrosiano. Sanno della brigata Walter
Alasia e delle sue vittime, di Galli e Alessandrini. Della mafia nuda e cruda e
paludata dai colletti bianchi. Sanno perché c'erano, da giovani si sono
infilati nei covi dei terroristi, hanno scoperto i doppifondi coi memoriali di
Aldo Moro. Hanno imparato a indagare sul cittadino qualunque e su quello
più eguale degli altri. Hanno condotto i processi di Tangentopoli, e
hanno ottenuto l'en plein di conferme in Cassazione. Hanno riaperto le indagini
sull'omicidio del commissario Calabresi e sono giunti alla conferma finale di
un percorso travagliato e infinito di appelli e revisioni. SONO PUNTI di
riferimento di pool dell'antimafia, pool sui reati della pubblica
amministrazione, di intere sezioni di tribunale, di corte d'assise, di corte
d'appello improntate all'esperienza dei loro presidenti. Questa esperienza
è in rotta di collisione con la legge sull'ordinamento giudiziario, con
la norma che impone alle cariche direttive e semi-direttive la decadenza
superati gli otto anni di permanenza ai vertici. Una norma che rientra nella
cosidetta "riforma Mastella", ma alla quale, per una volta, la
magistratura non può dirsi estranea, né tantomeno vittima di una classe
politica conculcatrice, in quanto derivata da una serie di orientamenti di
"svecchiamento" vincenti in seno all'Associazione nazionale
magistrati e al Consiglio superiore della magistratura. MA NEL PALAZZO DI
GIUSTIZIA di Milano la norma taglia teste autorevoli che fanno da riferimento
di interi pool di magistrati. Sulle 329 toghe che in tutta Italia tra fine
gennaio e metà febbraio 2008 (data di ultima proroga) dovranno lasciare
i loro incarichi per ripartire dal via e aspettare una nuova sede ordinata dal
Csm come semplici sostituti o semplici magistrati, ce ne sono 27 nel solo
distretto di Milano, e soprattutto in quel palazzaccio delle grandi inchieste
che da Mani pulite sono via via salite per le scale dell'alta finanza
truffaldina. Se la scadenza da procuratore aggiunto coordinatore della
Direzione distrettuale antimafia Ferdinando Pomarici (nominato il 3 dicembre
1996 è il primo e più eccellente a lasciare l'ufficio dirigente
il prossimo febbraio) suona particolarmente insensata nei riguardi di chi
è ritenuto uno scrigno di conoscenze ed esperienze rispetto a inchieste
sull'eversione interna, sul terrorismo internazionale del quale ha conosciuto
gli albori, sui sequestri di persona, sulla criminalità mafiosa (le
più scottanti e recenti indagini sono in capo ai Ros del traffico di
stupefacenti e, con l'aggiunto dell'antiterrorismo Armando Spataro, sul
sequestro dell'imam Abu Omar per mano Sismi e Cia), non meno dirompente
potranno essere le uscite per legge della quasi intera gerenza di presidenti di
sezione di tribunale e di Corte d'appello. E SE POMARICI farà la scelta
dichiarata (e provocatoria?) di ricominciare dal via come semplice sostituto
chissà dove, altri sono invece posseduti dall'ansiosa amarezza del
buttare la toga in cantina e accelerare i tempi della pensione. Come il
procuratore aggiunto Corrado Carnevali che dirige il pool reati pubblica
amministrazione (fronti sanità, inchiesta sulla centrale di spionaggio
in Telecom, delicatissimi fascicoli sui magistrati del distretto di competenza
torinese) e che alla scadenza di fine 2008 ((è stato nominato il 10
novembre 2000) non pare intenzionato a rientrare nel circolo delle prime
nomine. Lui dice con un sorriso eloquente: "Andrò in
pensione". I suoi sostituti chiosano allarmati: "Non vogliamo neppure
pensare che questo possa accadere". Altro procuratore aggiunto del pool
reati contro le fasce deboli, Ferdinando Vitiello, (nomina 6 novembre 2000)
è in uscita a fine 2008: anche per lui la scelta della pensione
anticipata. Il presidente della Corte d'appello Giuseppe Grechi (nomina del 5
ottobre 2001) è invece in scadenza, sempre che non decida di andare
anche lui in pensione, nel 2009. La legge Mastella fa soprattutto strame di
presidenti di sezione di tribunale, assise e appello: il giudice della prima
sezione penale Edoardo D'Avossa (nomina del 5 ottobre 1998), processi sui
diritti televisivi Mediaset, processo Formigoni-Bussolera Branca, uscirà
nel febbraio 2008. Il presidente della seconda penale Donatella Manfrin (All
Iberian e processi sui falsi in bilancio), nominata il 26 marzo 1997 è
già al commiato. LA CORTE D'APPELLO che in Renato Caccamo (quarta sezione,
processi Enimont-Mani pulite) ha uno storico e inossidabile maestro e punto di
riferimento lo perde in virtù della nomina del 12 maggio 1993 (secondo
la legge Mastella il giudice sarebbe quasi alla seconda scadenza). In uscita
sono quindi Santino Belfiore (nominato il 27 parile 1998), Alfonso Marra e
Sergio Silocchi. Mentre è solo in dirittura d'arrivo il presidente
Roberto Pallini (25 maggio 2001, scadenza a metà 2009) autore di alcune
controversissime sentenze d'appello (piazza Fontana e la corruzione dei giudici
romani di Imi-Sir e Lodo Mondadori). E, decapitata dalla legge Mastella,
è anche la gerenza della prima Corte d'assise con il presidente Luigi
Cerqua (nomina del 9 dicembre 1996) che dirige i più importanti processi
per terrorismo internazionale islamico, come il dibattimento di recente
concluso allo stragista dell'11 marzo di Madrid Osman Rabei. - -->.
+
La Stampa 21-9-2007 Munizioni per Grillo RICCARDO BARENGHI
L’Unità 21-9-2007 Mazzate Marco
Travaglio
Finanza.net 20-9-2007 Arriva
l'inevitabile lavata
La sensazione netta, diciamo quasi una
certezza, è che ormai la valanga sia partita. Oggi è ancora una
slavina, ma se nessuno la ferma - e nessuno sembra in grado di farlo, mentre
molti la alimentano con fragorosi boatos - travolgerà presto tutto il
quadro politico, a cominciare ovviamente dal governo. Il quale, nelle
previsioni più ottimistiche che si sentono circolare nel Palazzo,
riuscirà a sopravvivere fino a dicembre, cioè a condurre in porto
la Finanziaria per poi essere costretto a chiudere la sua storia. È
probabile che cadrà a causa del movimento dei cosiddetti centristi
(Dini, Mastella, Di Pietro...), i quali useranno magari il pretesto della
manifestazione del 20 ottobre organizzata dalla sinistra radicale.
E se così fosse, già si può immaginare il futuro: elezioni
in primavera con probabile vittoria del centrodestra, che potrebbe contare tra
l’altro anche sull’aiutino dei suddetti centristi.
Una dinamica non nuova nella storia del nostro Paese (successe anche dodici
anni fa, primo governo Berlusconi), che in teoria sarebbe anche capace di
sopportare sollecitazioni così forti. Se non fosse che oggi il suo
livello di tolleranza nei confronti della classe politica è sceso a un
livello bassissimo, lo si capisce dai sondaggi che vedono il governo sempre
meno amato, lo si capisce dai fenomeni alla Grillo, lo si capisce soprattutto
ascoltando gli umori che serpeggiano tra la gente normale, altrimenti detti
elettori. E’ la cosiddetta antipolitica che si sta facendo strada e domina la
scena. Peccato però che le risposte della politica a questo fenomeno,
che essa stessa giudica preoccupante ma assolutamente legittimo perché
provocato dalla sua incapacità, inefficienza, arroganza, privilegio e
via dicendo, siano risposte deboli. Anzi peggio: risposte che alimentano
l’ostilità del Paese.
Prendiamo il caso Rai andato in scena ieri al Senato. Al di là del
livello dello spettacolo - che per fortuna non è stato trasmesso in
diretta televisiva -, al di là anche di chi abbia ragione o torto,
quello che un cittadino medio capisce è molto semplice: il Parlamento
intima al Consiglio di amministrazione della Rai di non fare nomine perché si
tratta di un Consiglio nato e lottizzato grazie a una legge in via di estinzione
(la Gasparri) e soprattutto dalla vecchia maggioranza oggi opposizione. Ma
siccome il cittadino medio non è cretino, capisce anche la ragione vera
dell’intimazione: niente nomine oggi perché le vogliamo fare noi domani. E meno
male che il ministro Padoa-Schioppa aveva appena detto che il guaio della Rai
è proprio la continua e pesante interferenza della politica che ne
paralizza la gestione...
Oppure prendiamo il caso Visco, il viceministro archiviato dalla Procura di
Roma in relazione al caso Speciale. Purtroppo per lui, non ne esce affatto
bene. Viene chiesta l’archiviazione perché non sussistono elementi sufficienti
per rinviarlo a giudizio, ma in realtà si tratta di una requisitoria
pesante che parla di «motivi oscuri» adottati da Visco per spiegare perché «era
“interessato” o comunque voleva il trasferimento dei quattro ufficiali...»; di
«interferenze indebite» per rimuovere chi stava indagando sul caso Unipol.
Anche qui è la politica che getta benzina sul fuoco dell’antipolitica.
E visto che siamo in argomento (Unipol), eccoci all’altro caso
politico-giudiziario, il caso D’Alema. Se la Procura di Milano ha sbagliato a
chiedere l’autorizzazione al Parlamento italiano e non a quello europeo, non ne
ha certamente colpa il nostro ministro degli Esteri. Il quale però, se
risolvesse i suoi guai grazie a questo, non farebbe un favore a se stesso. La
sua immagine politica, già intaccata dalle intercettazioni pubblicate
dai giornali, ne sarebbe vieppiù appannata. Il messaggio all’opinione
pubblica sarebbe il solito: i potenti se la cavano grazie a cavilli, trucchi,
errori procedurali e quant’altro. Non sappiamo cosa potrebbe fare D’Alema per
evitare che accada tutto questo, forse niente. Però magari un gesto, una
deposizione spontanea, un chiarimento diretto con il giudice Clementina Forleo.
Insomma, una qualunque cosa che dimostri al Paese che un leader politico non si
nasconde dietro un dito.
Altrimenti non serviranno a nulla gli allarmi sulla crisi della politica, con
conseguente esplosione dell’antipolitica, che con un certo intuito lo stesso
D’Alema lanciò per primo nel maggio scorso dalle colonne del Corriere
della Sera.
H
o incontrato in varie occasioni Jean-Claude Trichet, il presidente della Banca
centrale europea, per via dei nostri ruoli al vertice delle due più
grandi banche centrali del mondo. Eppure, per quante volte lo abbia guardato
all'altro lato del tavolo durante le colazioni ufficiali dei G-7, dei G-10 o di
altri incontri internazionali, non ho mai smesso di meravigliarmi di quanto
l'istituzione che dirige e la sua moneta,l'euro,si siano rivelati un risultato
straordinario. All'inizio degli anni Novanta, durante i lavori preliminari per
la creazione di una moneta unica europea, nutrivo seri dubbi sul fatto che il
potere della decantata Bundesbank tedesca potesse essere replicato su scala
continentale. Inoltre, non ero convinto che una nuova Banca centrale fosse
necessaria:l'Europa ne aveva già una di fatto nella Bundesbank. Ed ero
scettico anche sul fatto che una Banca centrale europea avrebbe funzionato.
Ricordo una conversazione con Alexandre Lamfalussy, l'ex direttore generale
della Bank for International Settlements. Era stato appena nominato al vertice
del nuovo Istituto monetario europeo, il precursore della Bce, in ottemperanza
al Trattato di Maastricht del 1992. Dato che le politiche fiscali ed economiche
dei diversi Paesi europei influenzavano l'equilibrio dei tassi di cambio,
domandai a Lamfalussy se fosse auspicabile congelare per sempre i tassi di
cambio di 11 (oggi 13) economie. Tale blocco avrebbe spinto le politiche
economiche a convergere, come si sperava ufficialmente? Oppure avrebbe
condannato le nazioni con una valuta inavvertitamente sopravvalutata a lottare
per essere competitive e altre con una moneta sottovalutata a combattere
l'inflazione cronica? Lamfalussy non condivideva le mie preoccupazioni
sull'euro; e aveva ragione. Con mia sorpresa, la transizione di 11 monete
separate all'euro avvenne infatti senza scossoni. Grazie al significativo
potere autonomo conferitole dal Trattato di Maastricht, la Banca centrale
europea è diventata una forza prominente negli affari economici
mondiali. Gli attacchi di cui è stata oggetto per le sue politiche
antinflazionistiche e i tentativi di indebolirne l'autorità sono
falliti. Tranne che in momenti di crisi, dubito che potrebbe nascere un
consenso sufficiente per alterarne l'autonomia. Abbiamo di fronte
un'istituzione storicamente unica, una Banca centrale indipendente con il
mandato esclusivo di mantenere la stabilità dei prezzi in un'area
economica che produce oltre un quinto del Pil mondiale. è un risultato
straordinario. Non finisco di stupirmi di quello che i miei colleghi europei
sono riusciti a fare. Osservando i problemi nell'attuazione della strategia di
Lisbona, il piano tratteggiato nel 2000 per dare all'Unione europea la
leadership mondiale in campo tecnologico, sospetto fortemente che oggi il
Trattato di Maastricht susciterebbe il consenso che sollevò nel
SCETTICISMO
INFONDATO "Non pensavo che una Banca centrale europea potesse funzionare a
dovere Se l'Italia tornasse alla lira finirebbe in bancarotta".
Duecentodieci euro al mese per i giovani che
affittano casa, questa è la misura di grido lanciata martedì dal
governo Zapatero per provare a palliare il problema dell'abitazione. La
burbuja, la bolla immobiliare che dal 1998 ad oggi ha fatto gonfiare i prezzi
di acquisto delle abitazioni ad un ritmo del 10% annuo (ormai le banche
propongono mutui su più generazioni) ha spinto in alto anche gli
affitti, portando il problema della casa sul podio delle angosce degli
spagnoli, assieme al terrorismo e all'immigrazione (che se la gioca con la
disoccupazione, a seconda delle stagione). Per fronteggiare la situazione,
l'esecutivo socialista lancia un plan vivienda composto da una serie di misure,
che vanno dalle sovvenzioni alle esenzioni fiscali, un plan che partirà
dal primo gennaio e che ha nello sconto all'affitto la sua misura-stella,
l'iniziativa che potrebbe fare la fortuna di molti giovani in cerca di
indipendenza, ma non necessariamente quella del governo. La proposta arriva
infatti a meno di sei mesi dalle prossime elezioni politiche di marzo, ossia
con una tempistica che puzza di promessa elettorale, ma soprattutto il piano ha
un certo sapore di dejà vu. Nel luglio 2004 lo stesso governo socialista
lanciava una sovvenzione di 240 euro al mese per tutti i minori di 35 anni con
un reddito lordo inferiore ai 19.950 euro. Da allora ad oggi 40.000 inquilini
hanno ricevuto l'aiuto del governo su un bacino indicato, dallo stesso
esecutivo, in 71.000 potenziali beneficiari. E così da martedì la
neo ministra dell'abitazione Carme Chacon, accusata di copiare la sua
predecessora Maria Antonia Trujillo, va ripetendo in tutte le salse che il suo
plan vivienda è nuovo. Al di là delle polemiche, destinate
peraltro a continuare, il progetto del governo suona diverso per condizioni e
per ambizioni. Potranno infatti accedere ai 210 euro mensili i giovani compresi
tra i 22 ed i 30 anni residenti in Spagna da 4 anni e con uno stipendio lordo
inferiore ai 22.000 euro. Diminuisce quindi l'età ma aumenta la soglia
economica e con lei anche i potenziali richiedenti. Chacon ha annunciato che il
primo anno beneficeranno della misura 180.500 persone, con un costo per lo
Stato di 436,5 milioni. Non si tratta di numeri a caso, visto che il programma
elettorale del Psoe prometteva di trovare sul mercato 180.000 abitazioni
"in vendita o in affitto ad un prezzo ragionevole". Una cifra ancora
lontana dalla realtà: solo nel 2006 sono iniziati i lavori per 60.356
case popolari ed in 18 mesi sono stati firmati appena 5.000 contratti. Adesso
il governo corre ai ripari con i 240 euro di aiuto, che rappresentano il 29%
dell'affitto medio nel paese, fermo a 720 euro, una percentuale che scende al
18% a Madrid e sale al 63% in Galizia. Oltre a questi soldi l'esecutivo ha
messo a bilancio anche prestiti di 600 euro per la cauzione ed una garanzia di
sei mesi per assicurare il proprietario sul pagamento dell'affitto. Previste
anche deduzioni fiscali del 10,05% per gli inquilini (potrebbero beneficiarne
700.000 famiglie) che porteranno ad un ulteriore esborso di 349 milioni di
euro, da sommare ai 436,5 milioni di aiuto diretto. In sostanza un impegno
importante e concreto da parte del governo Zapatero, ma anche un impegno che
non tutti gli analisti vedono di buon occhio. Si teme infatti che il bonus
porti ad un ulteriore aumento degli affitti, esattamente come già
successo con le deduzioni fiscali all'acquisto degli immobili.
LODI
DUE ANNI da incubo. Neanche il tempo di tirare un sospiro di sollievo e
dire: "È finita", che scoppia un nuovo scandalo. Gli
strascichi della fallita scalata all'AntonVeneta della Banca Popolare Italiana
prima ha scosso le fondamenta dell'istituto di credito più in vista
d'Italia, e ora scuote le fondamenta di Palazzo Broletto. Tutta colpa della
caduta del "deus ex machina" della banca, Gianpiero Fiorani, che
prima ha fatto lustrare gli occhi a tanti concittadini conquistando più
di dieci banche in due lustri, poi ? durante gli interrogatori alla Procura di
Milano ? ha puntato il dito contro complici e adulatori. Il 13 dicembre, Santa
Lucia, è un giorno maledetto. Due anni fa fu il giorno dell'arresto di
Fiorani. La polizia giunse di primo mattino nella villetta di via Donizzetti e
portò in gattabuia, come un delinquente qualsiasi, "l'eccellentissimo"
(amato da tutti ai tempi della grandeur, scaricato da tanti in seguito) che
camminava a braccetto fra le vie del centro con il Governatore di Bankitalia,
Antonio Fazio. L'ANNO SCORSO, quello stesso giorno maledetto, portò la
condanna giudiziaria di Divo Gronchi, erede di Fiorani che si era presentato
come immacolato cavaliere bianco e che invece fu punito dal tribunale di
Brescia per bancarotta fraudolenta con venti mesi di reclusione. E, nonostante
la condanna, non volle disarcionarsi. Fra gli applausi dei soci toscani e i
fischi di tanti lodigiani. Copione simile per la fusione fra Bpi e Banco
popolare di Verona e Novara: mesi di accuse fra soci e nuova dirigenza (che
aveva promesso lo "stand alone", una dignitosa indipendenza, e che invece
dopo pochi mesi gettò la banca nelle braccia della solida Bpvn). Finito
l'incubo? Macché. Pochi giorni dopo la fusione il titolo del neonato Banco
Popolare crolla sotto il peso della crisi della controllata Italcase: quasi un
miliardo di euro di rosso, prodotti finanziari rischiosissimi venduti come
noccioline agli sportelli e un gran magone in gola agli azionisti del neonato
Banco, che increduli assistono al crollo del titolo in Borsa. Ora, dopo i
"fasti" del 2005 ? quando Lodi divenne per alcuni giorni la capitale
del mondo finanziario ed era sulla bocca di tutti nientemeno che nella City
londinese ? il turbine mediatico procede su due piani: quello del gossip, con
Fiorani che racconta senza vergogna le sue imprese a settimanali e tv,
facendosi immortalare nel bacio alla figlia di Ornella Muti; e sul piano
locale, lontano ai grandi quotidiani e dalle tv inglesi, con il chiacchierato
dirigente comunale Luigi Trabattoni finito sotto accusa per abuso d'ufficio.
Vien quasi da ridere pensando alle profetiche scritte apparse (e subito fatte
cancellare) nei giorni prima del Natale 2005, che inneggiavano: "Grazie
per Fiorani, ora tocca a Trabattoni". Assieme a lui sono finiti sul
resgistro degli indagati, per aver aiutato il "comitato d'affari"
dominato da Fiorani, cinque fra architetti e funzionari del Palazzo. E la
Procura mira in alto. Per ora ha fatto il nome di Filippo Zoncada, figlio di
Desiderio, ex consigliere Bpi, potentissimo re degli autobus e titolare della
Zoninvest. Alla società dei Zoncada è stato sequestrato, giorni
fa, il residence di via Visconti. Cosa rimarrà a Lodi e ai lodigiani,
passata la bufera? Sicuramente, la pessima immagine che si sono costruiti (loro
malgrado) sui mass media. In seconda battuta, i sogni infranti: un Auditorium
edificato con ambizioni faraoniche (e costi stellari) da Renzo Piano, che ora
ospita manifestazioni di piccolo cabotaggio e un'assemblea ogni due anni dei
soci del Banco Popolare, ultima parvenza di potere regalata ai lodigiani dai
padroni veronesi. E resta il "buco nero" dell'ex Abb, area
industriale dismessa che era il fiore all'occhiello delle ambizioni immobiliari
della Bpi condotta da Fiorani. Sarebbero dovuti sorgere in quest'area, a due
passi dal centro dell'ex capitale finanziaria lombarda, due torri alte
La
scena è questa: nel pomeriggio dell'altroieri Mauro Mazza, direttore del
Tg2 in quota An, appare in video per ammonire Beppe Grillo col gesto della
pistola: "Che accadrebbe se un mattino qualcuno, ascoltati gli insulti di
Grillo, premesse il grilletto?" Per la verità Grillo non ha mai
evocato né pistole né fucili, diversamente da Bossi che li evoca continuamente
nella totale distrazione del Mazza medesimo. Per la verità i
"vaffanculo" liberatorii di Grillo in piazza odorano di bucato,
paragonati a quel che si dicono quotidianamente i parlamentari alla Camera e al
Senato (quest'estate un'esagitata forzista urlò "assassino" a
Gerardo D'Ambrosio, ma anche quella volta il Mazza era distratto). Per la
verità, sono dieci giorni che politici e commentatori danno a Grillo del
qualunquista, fascista, populista, demagogo, antidemocratico, additandolo come
il pericolo pubblico numero uno. Che accadrebbe se un mattino qualcuno,
ascoltati gli insulti a Grillo, premesse il grilletto contro Grillo, che fra
l'altro non ha scorta né auto blindata né aerei di Stato per volare ai gran
premi? Pochi minuti dopo l'editoriale del Tg2, Gianfranco Fini incontra i
giornalisti e dice di trovare un tantino eccessivo il rischio paventato
dall'amico Mazza: "Adesso lo chiamo per dirglielo". Segue telefonata.
Lorenzo Salvia del Corriere chiama Mazza un minuto dopo. Forse si aspetta di
trovare un uomo umiliato, mortificato, magari balbettante, forse addirittura
nascosto sotto la scrivania per la vergogna: uno che ha appena preso una lavata
di capo dal suo principale. Invece no, tutt'altro. Mazza fa il brillante:
"E che problema c'è?" Il problema sarebbe che, se Fini gli
telefona per dirgli che non gli piace il presepe, vuol dire che considera Mazza
una cosa sua, una protesi, un maggiordomo. Il che, per un professionista serio
quale Mazza sicuramente è, non è proprio bellissimo. Mazza invece
rivolta la frittata e riesce persino a dire, restando serio, che la telefonata
di Fini è la prova della sua rocciosa autonomia: "Si dice che i
direttori dei tg siano affiliati a un padrino politico che detta il mattinale.
Ecco, è la dimostrazione che non è così. È segno
che sono indipendente" Ricapitolando: Fini chiama Mazza davanti a tutti,
trattandolo come un suo dipendente, non un indipendente, e gli dice più
o meno: "Senti, caro, stavolta hai esagerato". E, se lo fa è
perché è abituato a farlo, e se è abituato a farlo è
perché Mazza qualcosa gli deve, altrimenti non si vede a che titolo un
segretario di partito chiami il direttore di un telegiornale del "servizio
pubblico" per dargli la linea. Ma queste osservazioni di puro buonsenso
non sfiorano più nessuno: né Fini, né Mazza. È normale. Ed
è tutto qui, in soldoni, l'annoso problema della Rai che ieri, tanto per
cambiare, ha rischiato di far cadere il governo. Perché finché si scherza,
parlando di finanziaria, di guerra, di precariato, di pensioni, si scherza. Ma
quando si parla di cose serie (quelle che lo sono per Berlusconi), cioè
la televisione e la giustizia, allora può crollare tutto. Ricordate la
prima crisi del governo Prodi a febbraio? La base di Vicenza e la mozione
sull'Afghanistan erano un puro pretesto: la verità è che la pur
blandissima legge sul conflitto d'interessi era appena approdata in Parlamento.
Il governo andò subito sotto. A fine luglio, sull'ordinamento
giudiziario, replay: governo battuto. Ieri l'ennesimo terremoto, ancora sulla
tv. Ora naturalmente i commentatori che la sanno lunga ci spiegheranno che
"la tv non conta", che Berlusconi "non vince per le tv",
che "controllare le tv non basta", che "la tv non sposta
voti". È quel che Berlusconi vuole che si creda, e il bello è
che a sinistra molti ci credono. Tant'è che lo ripetono a ogni pie'
sospinto. Poi però si ricredono in segreto e corrono a lottizzare la
Rai: altrimenti non si capisce il perché dell'operazione Fabiani, che sta
scuotendo una maggioranza già scossa di suo. Ecco perché, quando
promettono "non lottizzeremo più", nessuno ci crede. Perché
chiunque abbia fatto politica in prima fila in questi anni ha sempre trattato
la Rai come il cortile di casa, cioè come Fini tratta Mazza. Dice bene
Robin Williams nel suo ultimo film ("L'uomo dell'anno"): "I
politici sono come i pannolini: bisogna cambiarli spesso, e per lo stesso
motivo". Uliwood party.
ROMA —
Diserta la ripartenza di Anno Zero, non manda un video per la prima serata tv, rifiuta
pure l'invito al collegamento telefonico con Michele Santoro e quando arriva a
Codroipo (Udine) per il suo show, Beppe Grillo dà ordine di lasciare le
telecamere della Rai fuori da Villa Manin. Per «togliersi una soddisfazione »,
non certo per attutire il clamore di quel che sta per dire. Il video rimanda
l'editoriale del direttore Mauro Mazza, tg2 del 19 settembre: «Cosa accadrebbe
se un mattino qualcuno, ascoltati quegli insulti, premesse all'improvviso il
grilletto?». E l'arringatore di folle, di certo consapevole del botto: «... e
ti sparasse nel culo?». Uscita choc, che riattizza il fuoco dello scontro tra
grillanti e politici, i quali a sentire il comico «stanno tutti delirando ».
Berlusconi? «È acquattato nell'ombra e si rode dall'invidia, se ne sta
in un angolo e si chiede come ha fatto quello lì, senza soldi, a fare un
casino del genere». Fassino? «Dice che sono un fascista». Ciampi? «Dice che
manifestazioni come la nostra vanno fatte nell'alveo della Costituzione. Ma noi
questo abbiamo fatto, l'8 settembre si sono materializzate due milioni di
persone che hanno firmato 350 mila schede della petizione popolare. È
una cosa prevista dalla Costituzione, non era mai successo in 50 anni, non
è mica colpa mia!». E dunque avanti con le liste civiche, ma il
candidato deve «almeno» sapere l'italiano, essere incensurato e non iscritto a
un partito. Eh no caro Beppe, replica a distanza Walter Veltroni, l'Italia «ha
bisogno di soluzioni razionali, non di uno che urli nel tunnel». Sono le dieci
di sera e nello studio di Rai2, dove Santoro si fa paladino del
tritura—politici genovese, si salda l'asse tra il leader dei vaffa—boys e due
girotondini della primissima ora, Sabina Guzzanti e Marco Travaglio. Il quale
dal piccolo schermo spedisce una feroce lettera al «ministro volante» Mastella.
Lo accusa di aver scroccato un Milano—Roma coi soldi dei cittadini, di aver
piazzato il figlio al ministero dello Sviluppo, di aver fatto incetta di
appartamenti a saldo e affonda: «Nel 2000 fu testimone di nozze del braccio
destro di Provenzano. Quando fu eletto disse "sarò più
vicino ai detenuti che ai magistrati", è stato di parola». E adesso
i politici hanno paura della V-generation, si sentono sotto attacco, parlano di
minacce e intimidazioni ricevute via web dal popolo dei grillanti. Mastella
denuncia «bestemmie», «gravi offese», «minacce», «commenti violenti » piovuti
sul suo blog.
E Pier Ferdinando Casini si schiera al fianco
del direttore del Tg2, che per primo ha fiutato il rischio di una
deriva esplosiva dei seguaci di Beppe Grillo. Mazza ha ragione, «basti pensare
alla quantità di mail di minaccia che io ed altri abbiamo ricevuto ». Ma
il leader dell'Udc non si farà intimidire dal «vaffa» che impera e
informa di aver già denunciato l'attacco cibernetico alle autorità
competenti: «Sono indifferente, non mi farò minacciare dalle lettere di
qualche grillonauta ». Il tifone Grillo inquieta il centro, divide la sinistra,
ma non sembra turbare troppo Berlusconi, il quale si è convinto che
«l'antipolitica colpirà più la sinistra che noi». L'onda anomala
che ha investito i politici non è roba sua, prende distanze il leader di
Forza Italia e rivela che i suoi elettori «ritengono Grillo la peggiore costola
della sinistra ». Sarà, ma il comico ne ha in serbo anche per lui, lo chiama
«truffolo», quello «spot vivente», quell'«ologramma », quel «venditore di
bava»... Tocca a Fausto Bertinotti difendere l'istituzione che rappresenta,
dire che il grillismo «non ha grande peso nella società » e che Grillo
rischia di aggravare la crisi. E Franco Marini invita a prestare attenzione
alle parole di Mazza sui rischi del «linguaggio violento ».
Monica Guerzoni
21 settembre 2007
ROMA
- Non prendiamoci in giro. La nascita del Partito democratico non sta maturando
attraverso una "fusione calda", malgrado le speranze suscitate e che
erano sembrate coagularsi in due momenti: i congressi di scioglimento di Ds
-Margherita e la presentazione della candidatura Veltroni. Dopo quei passaggi
ci si attendeva un rilancio che aprisse subito le porte del costituendo partito
a forze sociali fin qui mortificate, a intelligenze creative fin qui messe ai
margini, a spiriti liberi pronti a impegnarsi. La delusione è, per
contro, palpabile. Il timore che la perigliosa iniziativa sfuggisse di mano
alle due nomenclature di riferimento ha prodotto un macchinario selettivo
barocco e antidemocratico. Il suo funzionamento è difficilmente
comprensibile, di nessuna attrattiva, dissuasivo nei confronti di ogni
desiderio di partecipazione. Lo spezzatino delle liste per circoscrizione, la
duplicazione delle medesime (più di una per candidato), la designazione
delle candidature ad opera di piccoli gruppi di vertice addetti alla bisogna,
il rifiuto di permettere le preferenze, così da controllare e gestire
rigidamente l'ordine di ogni lista dei designati, (ricalcando l'aborrita - a
parole - legge elettorale vigente): questi gli aspetti salienti del
marchingegno messo in piedi. Ben altro sarebbe stato l'effetto se si fosse
votato in tutta Italia per i soli candidati alla leadership (Veltroni, Letta,
Bindi, ecc.) attraverso un voto cui partecipassero per internet o per suffragio
al seggio tutti i militanti e i simpatizzanti che lo volessero (le tecnologie
computerizzate di controllo impediscono ormai le duplicazioni), versando una
quota e sottoscrivendo un breve impegno di adesione. L'aver inoltre applicato
alla Costituente un federalismo spinto, accompagnando all'elezione del
segretario nazionale, quella dei leader regionali, oltre ad aver scatenato in
ogni capoluogo una lotta personale asperrima, ha tracciato i binari di un
partito localistico, prefigurando una federazione di micropotentati, di feudi
di signori delle tessere e dei voti, restii a far propri i valori di una
politica nazionale e ancor meno europea. Alla partizione ideologica di partenza
si assommerà, così, quella regionalistica. Tutto questo potrebbe
forse non incidere più che tanto se i candidati di maggior rilievo e, in
primo luogo, Walter Veltroni riuscissero a svincolarsi dai lacci che lo spirito
di conservazione dei partiti d'origine hanno loro imposto e che forse hanno
accettato con troppa rassegnazione, subendo oggi le leggi del compromesso, per
far meglio domani. Sol che questa non è una fase che consenta una lunga
marcia per arrivare a medio termine a secernere sapientemente una nuova classe
dirigente, capace in un prossimo futuro non meglio definito, di dirigere il
nuovo partito dei riformisti, a vocazione maggioritaria, come ha detto Veltroni
e, cioè, in grado di governare, scegliendo maggioranze coerenti. La fase
attuale è, per contro, di rapido e rovinoso smottamento del rapporto di
fiducia tra la democrazia rappresentativa e masse crescenti di cittadini, molti
dei quali o sfiduciati o preda di ogni ventata demagogica e distruttiva.
Potremmo attardarci ad analizzarne le cause, capire quali sono state le
realizzazioni sottovalutate e gli errori non perdonati del governo Prodi (il
maggiore dei quali, a mio avviso, è stato quello di sostenere ad ogni
occasione che l'elettorato è destinato a capire domani, forse fra
qualche anno, la giustezza delle cose di cui oggi si lamenta). Potremmo,
inoltre, elencare le ancor più gravi pecche in cui sono incorsi i
partiti (culminate da ultimo in un impeto suicida nell'apertura delle porte del
Festival dell'Unità all'appello squadristico di Beppe Grillo per la
distruzione di ogni partito presente e futuro, tranne ovviamente il suo). Qui
ed ora urge, però, ben altro che acute disamine politologiche. Urge
prendere atto di una situazione, confermata da tutti i sondaggi (vedi quello di
Diamanti del 18 us) e descritta su queste colonne da Eugenio Scalfari con uno
dei più drammatici pezzi che abbia mai concepito in tutta la sua vita e
di cui sottoscrivo ogni parola ("Il popolo cerca il giudizio
universale", Repubblica, 16 us). Aggiungo, però, che se oggi
"c'è un crescente rifiuto di questa politica, di questi partiti, di
questi uomini politici" e se gli appelli di Beppe Grillo danneggiano solo
la sinistra e fanno ben contento Berlusconi "che da 15 anni fa politica in
nome dell'antipolitica", ebbene questo desolante quadro è il frutto
non di una mutazione antropologica che ha reso il popolo di sinistra
refrattario ai valori della politica ma della delusione amarissima per il
degrado etico, la pochezza, la litigiosità, l'incoerenza, la
presunzione, l'arroganza, la proterva occupazione del suolo pubblico di ogni
ordine, grado e qualità a cui una parte notevole dei ceti dirigenti
dell'arco governativo si è lasciata andare in questi anni, senza
incontrare resistenza e denuncia da parte di chi dissentiva tacendo. Questo ha
sovente anche cancellato la percezione della differenza, nell'azione pratica e
persino nelle parole, tra destra e sinistra. Eppur tuttavia c'è ancora
una possibilità reale di riscossa. Non è affatto detto che almeno
la metà degli italiani, che ha votato centro sinistra nelle ultime
elezioni politiche e amministrative, sia perduta per sempre o stia passando
armi e bagagli nel campo di Berlusconi e Beppe Grillo, uniti sotto spoglie
diverse in un unico disegno. C'è un dato nell'ultimo sondaggio
Demos-Eurisko, su cui Ilvo Diamanti si sofferma ("Repubblica" 16
settembre), che indica chiaramente uno spazio di ripresa, laddove afferma:
"La candidatura di Walter Veltroni ha smosso le acque stagnanti in cui
rischiava di affondare il Pd... Insieme a Fini egli appare ancora il leader
politico più amato dagli italiani..... L'elettorato potenziale del Pd
è molto più ampio di quello attuale. Le stime oggi gli
attribuiscono poco più del 26% dei voti ma la quota di coloro che
ritengono possibile votarlo è molto più ampia. Intorno al 44%. La
componente dei "democratici indecisi" è costituita in larga
misura (40%) da elettori incerti "se" e "per chi" votare...
sulla soglia che separa speranza e delusione". Ecco, dunque, il campo dove
Veltroni dovrebbe giocare la sua partita. Con rapidità, spregiudicatezza,
coraggio. Affrontando la questione di fondo che lui non ha fin qui eluso ma non
ne ha fatto, certo, il centro della sua campagna: la crisi attuale della
politica e la necessità urgente di rifondarne il messaggio. Se quello di
Beppe Grillo ha raccolto 300.000 adesioni, l'assai meno urlato Decalogo (mi
scuso per la citazione) da me proposto il 24 maggio us su questo giornale ne ha
raccolte 150.000. I nostri lettori, ma credo la stragrande maggioranza degli
italiani al di fuori della "casta", volevano e vogliono dei segni
concreti di cambiamento: 1) Un governo snello ed efficiente, di 15 ministri, di
cui 7 o 8 donne e 45 sottosegretari, non di più; 2) Un taglio drastico
dei privilegi e degli stipendi del pletorico ceto che vive sulla politica: più
di mille parlamentari, diecine di migliaia di consiglieri regionali, comunali,
provinciali, delle comunità montane e quant'altro; 3) Un disboscamento
delle migliaia e migliaia di società a partecipazione pubblica, degli
assessorati inutili, delle sovvenzioni clientelari; 4) La fine della
lottizzazione delle cariche negli enti pubblici, nelle Asl, nei ministeri; 5)
L'estromissione dei partiti dalla Rai. Basterebbe questo per rompere il clima
di delusione e rassegnazione, recuperando, quanto meno, incerti e indecisi.
Veltroni, certo, potrebbe obbiettare che queste cose non dipendono ancora da
lui. E' vero, ma è pur possibile, come ha suggerito Piero Fassino
all'ultima Festa dell'Unità, vincolare nel corso della prossima
Costituente ad alcune decisioni, regole e norme di comportamento tutti i
dirigenti e gli esponenti istituzionali del nuovo Partito, raccogliere e
rispondere - è sempre Fassino che parla - "all'indignazione nel
vedere il merito, la capacità, la fatica dello studio travolti da
concorsi truccati, appalti guidati, assunzioni di favore". Veltroni non
può e non deve proporsi affatto di scalzare Prodi. Deve, però,
convincersi che nella sua campagna per la leadership del nuovo Partito gioca
contemporaneamente una partita futura, di cui oggi gli italiani debbono
percepire le caratteristiche essenziali e credibili. Per questo deve dire ora
che tipo di governo ha in mente. Deve proporre ora un tavolo Stato-Regioni che
riporti i governi locali a dimensioni anche di spesa compatibili con la
pubblica decenza. Deve dire ora come vuol mettere fine alla lottizzazione. Ed,
infine, dovrebbe anche aggiornare schemi invecchiati di comunicazione. Ad
esempio le cose che ha detto e scritto negli ultimi mesi sono ricche di idee e
proposte giuste. Avvolte, però, in articoli troppo lunghi, in discorsi
troppo alti ancorché accattivanti, redatti con un linguaggio non sempre adatto
a tradursi in un messaggio immediato, secco, comprensibile a tutti. Mi dicono
abbia aperto un blog. Ne faccia ampio uso e tramite internet entri in contatto,
il più possibile, con quanti non può incontrare direttamente.
Lasci perdere le defatiganti mediazioni. Non c'è più il tempo. Si
rivolga direttamente alla gente. Gli è ancora possibile farsi ascoltare.
GENOVA
-
Per un chilometro e passa ha guidato contromano, rischiando una mezza dozzina
di scontri frontali con le vetture che stavano per imboccare il casello
autostradale. Fermato da una pattuglia della polizia, invece della patente ha
mostrato la tessera da deputato. Che tra l'altro è scaduta da un paio
d'anni. Dicono non sembrasse turbato più di tanto, anzi. "Hanno
ragione", ha detto serenamente Claudio Burlando - ex ministro dei
Trasporti e già sindaco di Genova, fino al
Gli agenti hanno calmato gli animi, preso nota del documento, telefonato in
centrale. Poi lo hanno lasciato andare. Nemmeno l'ombra di una multa. E massima
discrezione. I poliziotti qualche ora più tardi hanno sottoscritto -
"per dovere d'ufficio" - una relazione di servizio. Che avrebbe
dovuto restare chiusa in un cassetto.
E' successo domenica scorsa. "Verso le ore 12,15 la pattuglia veniva
inviata dal locale Centro Operativo Autostradale presso il casello di
Genova-Aeroporto", scrivono gli agenti. Poco prima la centrale ha raccolto
le telefonate - terrorizzate, infuriate - di alcuni automobilisti. "Giunti
sul posto venivamo avvicinati da tre persone". Sono gli occupanti
dell'ultima vettura che stava per essere centrata dalla macchina del Presidente.
Al volante c'è un signore di 59 anni, con la figlia e il fidanzato di
lei. "Asserivano di essersi trovati l'autovettura Mitsubishi Space Runner
targata AH... procedere contromano".
Raccontano i tre di essersi avvicinati furibondi alla macchina per prendersela
con il guidatore. E che quello restava chiuso all'interno dell'abitacolo,
ignorandoli, il telefonino incollato all'orecchio.
Ma chi è l'automobilista? "Alla guida della Mitsubishi si trovava
tale Burlando Claudio, nato a Genova il 27.04.1954, identificato mediante
tessera della Camera dei Deputati numero 938...". Precisano gli agenti:
"Quest'ultimo ammetteva quanto sostenuto dagli utenti senza dare un
giustificato motivo alla manovra effettuata". E in coda alla relazione: "La
pattuglia, non avendo comunque accertato l'infrazione in oggetto, si asteneva
dal contestare alcun tipo di sanzione, limitandosi ad informare il comandante
telefonicamente e a redigere la presente".
Secondo la ricostruzione dei poliziotti, il presidente ligure proveniva dagli
Erzelli, una collina dove sono depositati i container vuoti del porto di
Genova. Voleva dirigersi verso il mare, ma ha sbagliato strada. All'altezza
dell'ingresso autostradale con ogni probabilità intendeva fare
inversione e passare sull'altra carreggiata. E però le due strade sono
divise prima da una barriera di catene, poi dal guard-rail in cemento.
Così è partito in contromano, tenendosi rasente ad un muraglione
sulla sinistra, forse sperando di trovare uno spazio nella barriera ed
infilarcisi.
Il fatto di aver incrociato alcune macchine nell'opposto senso di marcia, di
aver sfiorato più volte lo scontro, non lo ha indotto a desistere. Al
contrario, ha percorso più di un chilometro. Resta da capire perché la
Stradale, nonostante Burlando abbia ammesso le sue colpe, non abbia elevato
alcuna contravvenzione. Codice alla mano, per la guida contromano sono previsti
quattro punti in meno sulla patente. Dieci in caso di curve e strade divise da
carreggiate separate.
ROMA
Tagliare, tagliare dove si può e il più possibile, che gli italiani
ci guardano: con il vento che soffia furioso sui costi della politica e come
una bora tormenta il Palazzo, in questi giorni i deputati sembravano morsi
dalla tarantola più che da Grillo (Beppe). Il dibattito
sull’approvazione del bilancio della Camera è stata una gara tra chi
millanta l’uso della scure e che si è conclusa con un colpo nell’aria.
Intanto un dato: nel 2007 la spesa è cresciuta quasi del 3% per un
totale 1,53 miliardi di euro, comprensivi del finanziamento pubblico ai
partiti. La carica dei 108 ordini del giorno presentati da deputati di destra e
di sinistra, tutti con le forbici in mano, è stata falcidiata perché
ritenuti inammissibili o accolti come raccomandazione. Alla meta ne sono
arrivati un paio: quello dell’Idv (la Camera dovrà ridurre le sue spese
del 10%), quelli del Prc (non si potranno prendere in affitto nuovi immobili;
tagliare di 2/3 la spesa per consulenze esterne; i deputati in missione
potranno usare solo hotel a 4 stelle e volare in Europa in classe turistica).
E’ passato l’Odg del forzista Guido Crosetto per cui Montecitorio dovrà
rendere pubblici stipendi e pensioni di parlamentari e dipendenti.
Respinta la invece la proposta del berlusconiano Gianfranco Conte: via il
ristorante dove i privilegiati parlamentari pagano il pesce fresco poco
più che 4 euro e che costa 5,232 milioni l’anno. Ordine del giorno
bocciato dall’aula, ma ai piani alti di Montecitorio promettono di portare
entro un anno il costo del ristorante a 1,6 milioni. Via la barberia: anche questa
proposta non passa, ma nei prossimi giorni chi andrà a tagliarsi i
capelli noterà un rincaro molto consistente, cioè prezzi di
mercato. Bruscolini, perché in quel miliardo e 53 milioni di spesa previsto nel
bilancio 2007 (cui vanno aggiunti i soldi del finanziamento ai partiti) che
è stato approvato ieri, ci sono cifre che non riescono a calare. Alcune
spese crescono:quelle per i deputati (169.180, + 1,54%), per il personale in
servizio (266.915, + 3,68%), per locazioni di immobili (34.675, + 6,6%). Non
sono stati tagliati i 4 milioni per noleggi di auto, gli oltre 3 milioni per
assicurazioni per deputati e dipendenti.
Galoppano le spese per l’aumento del numero dei gruppi parlamentari (+4%) e qui
c’è la nota dolente che nei due giorni di dibattito parlamentare ha
fatto scoppiare la bagarre. Ad accendere la miccia è stato Gregorio
Fontana di Forza Italia («il nostro Gregory Peck ha tirato fuori gli artigli»,
esultava in Transatlantico l’ex ministro Daniela Prestigiacomo), che ha
presentato un ordine del giorno finalizzato a sopprimere quei gruppi costituiti
in deroga al minimo di 20 deputati. In sostanza sarebbero rimasti a secco, a
sinistra, i gruppi dei Verdi, dell’Udeur, del Pdci, Rosa nel pugno dell’Idv. A
destra, la Dc-Psi di Cirino Pomicino e Del Bue.
Ovviamente i rappresentanti di questi gruppi hanno strillato come aquile, l'Odg
è stato modificato su proposta del presidente della Camera Bertinotti -
mettendo riduzione delle spese per questi mini-gruppi al posto di eliminazione
- ma alla fine con 253 no e 202 sì l’Assemblea di Montecitorio l’ha
respinto. «Qui si parla troppo dell’uso dell’aereo di Stato - ha spiegato
Fontana - e non della lievitazione dei gruppi che ha fatto aumentare la spesa
di 15 milioni». Solo i segretari di presidenza dei piccoli ammonta a 8 milioni
di euro. Risultato finale: il Bilancio della Camera è passato con i voti
dell’Unione, mentre la Cdl si è astenuta. L’Udc, al grido «demagoghi»
rivolto ai loro presunti alleati di opposizione, si è schierata con la
maggioranza. «Ci asteniamo - ha spiegato il capogruppo di An Ignazio La Russa -
perché vogliamo dare un segnale concreto al Paese». Replica del vice capogruppo
dell’Ulivo Gianclaudio Bressa: «Davvero colleghi pensate che il problema sia
qualche gruppo parlamentare in più, o piuttosto la vera sfida sia la
riforma costituzionale del Parlamento, riducendo il numero dei parlamentari?».
Cara
Europa, ognuno, essere irrepetibile, come ci ha insegnato Giovanni Paolo II,
è portatore di piccole verità, dunque ogni donna e uomo possono,
anzi debbono ricercare costantemente la verità in ogni avvenimento;
così come dovrebbero favorire l’affermarsi della giustizia sociale e
della solidarietà su scala mondiale. Con queste premesse non capisco
certi ragionamenti (verbali o scritti) che denotano una forte dose di egoismo
da parte di coloro che li esprimono. Mi riferisco ad alcune lettere pubblicate
sui giornali, compreso l’Avvenire, dove gli autori ostentano tanta sicurezza da
rifiutare ogni tipo di confronto, con gli altri, non curanti di voler scoprire
ulteriori tasselli di quella che Giovanni Paolo II chiamava la verità
sull’uomo. Se oggi sul piano politico, c’è una persona che offre
all’intera società alcuni spunti per approfondire questa ricerca e
diffusione della verità è Rosy Bindi, con interventi e prese di
posizione chiare e prive di qualsiasi ombra di ipocrisia.
GIUSEPPE DELFRATE, CHIARI (BS)
Caro
Delfrate, la sua lettera sulla convivenza e la tolleranza reciproca ci perviene
in un giorno (ieri), il 20 settembre, che a 99 italiani su 100 non ricorda
niente, grazie a Mussolini, che lo cancellò dalle festività
civili della nazione; ma a me e a qualche altro ricorda la “presa di Roma”, cioè
la fine del potere temporale dei papi e la proclamazione di Roma capitale
d’Italia. Il capo del fascismo, per far piacere a Pio XI col quale aveva
firmato il trattato e la conciliazione, promise di sostituire la celebrazione
del 20 settembre 1870 con quella del 28 ottobre 1922 (“Che cos’è?”, gli
avrebbe chiesto il cardinale Borgongini, che, secondo la ricostruzione fatta
ieri da Margiotta Broglio, s’era dimenticato della marcia su Roma degli
squadristi. E il duce concordatario gli rispose con una guardataccia). Ecco:
una religione di stato preferita alla libertà delle fedi nello stato,
una festa del regime preferita alla festa della nazione, sono i frutti velenosi
degli incontri fra poteri che non credono alla libertà laica ma al
rapporto di forze. È’ il motivo per cui, in questi giorni di forti
conflitti tra una veterosinistra illiberale e filoislamista, che vuole la
supermoschea di Bologna, e chi si preoccupa della carica di violenza e di
esclusivismo connaturata all’islamismo come fede politico-religiosa,
personalmente sto con chi si preoccupa ed è contrario a riconoscere
diritti a chi non solo non ne riconosce agli altri ma nega doveri a se stesso.
Per una volta , trovo che l’allarmismo quotidiano di Magdi Allam vada preso in
considerazione proprio in chiave liberale, che è quella che mi sta a
cuore: e cioè libere chiese in libero stato sì, ma chiese che non
si propongano di “evangelizzare” ol ferro e col fuoco i “miscredenti”.
Abbiamo criticato la conquista ispanica del Sudamerica, non vedo perché dovremmo
stendere tappeti alla conquista musulmana dell’Europa. Tutto ciò che
possiamo fare per restare noi stessi, cioè democratici, è
confrontare le reciproche verità o credenze o opinioni, con la garanzia
di uno stato laico super partes e garante per tutti dell’ordine costituzionale.
Che non prevede né infibulazioni di ragazze, né lapidazioni di “adultere” (al
femminile), né impiccagioni di apostati o di eterosessuali, né preparazione di
kamikaze e bombe al plastico in moschea o in altro luogo religioso o laico.
Problemi che , come quelli del Manifesto Una ragione pubblica per la bioetica
che pubblichiamo oggi su Europa, il Partito democratico non potrà
continuare a glissare.
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Troppe le famiglie in difficoltà per il caro casa. Sono 1,9 milioni le
famiglie che faticano a pagare la rata del mutuo, mentre 1,7 milioni quelle in
difficoltà per il peso dell'affitto nel bilancio familiare. In totale,
dunque, 3,6 milioni di nuclei in difficoltà. Dal 1991 al
Il rapporto segnala che nello stesso periodo le disponibilità familiari
sono cresciute solo del 20,8 per cento. L'incidenza della locazione di
un'abitazione di
Il 15,7% delle famiglie italiane, cioè 3,6 milioni di nuclei,
sperimentano, dunque, una situazione di disagio abitativo in quanto i canoni
incidono sul reddito oppure per il sovraffollamento nelle case. Il disagio
è, comunque, superiore tra gli affittuari rispetto ai proprietari.
Inoltre per quasi il 20% degli affittuari l'onere connesso al pagamento
dell'affitto incide per oltre il 30% sul reddito. Poco più dell'1% delle
famiglie proprietarie ha invece analoghe difficoltà con la rata del
mutuo.
Dai dati Istat emerge che nel 2006 tra le famiglie in possesso di una casa di
proprietà il 13,8% paga un mutuo che in media pesa per 458 euro sul
bilancio familiare, il 4,5% rispetto in più rispetto al 2005. Nelle
compravendite quasi la metà degli acquirenti accende un mutuo (47,8%) e
l'importo medio finanziato lo scorso anno è stato di 127.571 euro. Si
registra un rallentamento nella stipula dei contratti di mutuo, segno, secondo
Nomisma, che i ripetuti incrementi della Bce sui tassi di interesse mostrano i
primi effetti in termini di assestamento del mercato. Le statistiche della
Banca d'Italia in merito al numero delle famiglie insolventi mostrano una
tendenza al rialzo. Nomisma mette in luce che l'inasprirsi
dell'onerosità del debito degli ultimi tre anni è stata
parzialmente arginata da condizioni contrattuali più allettanti, dai
tempi di rimborso più lunghi, ai tetti massimi di rata periodica.
Marginale il ruolo dell'edilizia sociale rispetto agli altri paesi europei
occidentali con un progressivo rallentamento, dai 34mila degli anni Ottanta
alle 1.900 abitazioni del 2004. Una abitazione su due è stata edificata
prima del 1981. Evidente, dunque, la difficoltà di accesso a questi
alloggi per le fasce deboli della popolazione.
Quale
criterio si deve adottare nell'assegnazione dei compensi agli amministratori
(consiglieri comunali) componenti del consiglio di amministrazione di una
società a capitale interamente pubblico, alla luce di quanto disposto
dall'articolo 1, comma 718, della legge finanziaria 2007, ove è previsto
che "l'assunzione, da parte dell'amministratore di un ente locale, della
carica di componente degli organi di amministrazione di società di
capitale partecipate dallo stesso ente non dà titolo alla corresponsione
di alcun emolumento a carico delle società"? Parte della
giurisprudenza, sulla base della natura privatistica del rapporto dei
consiglieri di amministrazione con le rispettive spa pubbliche, ritiene che con
l'approvazione delle norme del nuovo diritto societario i consiglieri medesimi
abbiano un diritto irrinunciabile al compenso che non può essere
modificato se non con espressa volontà degli amministratori. Diverse
pronunce, invece, collocano le società degli enti locali su un versante
più prettamente pubblicistico e ciò comporta riflessioni sugli
effetti della legge finanziaria di segno opposto a quello sopra evidenziato. La
stessa Corte costituzionale, nel pronunciarsi in materia di disciplina
applicabile alle società a capitale interamente pubblico, ha espressamente
sancito (Corte cost. n. 29/2006) che dette società, ancorché formalmente
private, possono essere assimilate, in relazione al regime giuridico, a enti
pubblici. La giurisprudenza della Corte dei conti è altresì da
tempo orientata, in conformità con il menzionato indirizzo della Corte
costituzionale, a una qualificazione di tipo sostanziale e non formale delle
società degli enti locali e di quelle pubbliche in generale. Ciò
premesso, per quanto riguarda i termini di decorrenza della norma in esame, la
legge finanziaria non prevede una specifica disposizione in ordine ai propri
effetti sulla situazione vigente. Tuttavia, la circolare in data 13 luglio
MILANO ? "I FIRMATARI di questo
manifesto promuovono una campagna di informazione e di iniziativa politica
su questioni che l'attuale ceto politico ignora (con la complicità
dell'informazione televisiva) perchè affrontarle significherebbe mettere
in discussione se stesso e gli equilibri di potere sui quali ha costruito le
sue fortune". Comincia così il "Manifesto per la riforma della
politica" sottoscritto dai soci fondatori della "Lista Civica
dei cittadini - Per la Repubblica" e che costituisce la base del programma
politico del movimento. Il documento si articola poi in cinque temi
fondamentali che sono diventati l'argomento di altrettante petizioni da
presentare al Parlamento: costi della politica,
responsabilità dei partiti, conflitto di interessi, ambiente e
salute. In sintesi e fermandosi ai primi punti delle richieste, con la
petizione sui costi della politica si chiede "il taglio
drastico delle spese e dei costi collegati al sistema dei partiti",
a cominciare da una riduzione del numero dei componenti delle assemblee
rappresentative (Parlamento e Consigli regionali e comunali), del numero dei
Ministeri e dei componenti il governo, oltre che da una diminuzione delle
retribuzioni dei parlamentari e consiglieri regionali. Con la seconda petizione
si chiede "l'attuazione dell'articolo 49 della Costituzione con una legge
ordinaria che preveda la responsabilità dei partiti di fronte
alla legge e ne sanzioni le violazioni", restituendo ai cittadini un ruolo
da protagonisti. In questo ambito rientra anche la richiesta di abrogazione dei
finanziamenti ai giornali di partito. Conflitto di interessi: si chiede di
inserirlo nella Costituzione, in quanto "mette in discussione valori
costituzionali fondamentali" come la separazione dei poteri e l'uguaglianza
dei cittadini di fronte alla legge. Ambiente: cambiare il metodo di valutazione
della qualità dell'aria e il calcolo della tassa rifiuti (sul peso dei
rifiuti prodotti) oltre ad una serie di modifiche tecnico-normative e fiscali.
Salute: si chiede che "le nomine sanitarie e manageriali siano sottratte
al controllo della lottizzazione politica" con divieto di accesso a
persone che nei dieci anni precedenti hanno ricoperto incarichi di partito,
nelle istituzioni o in enti di qualsiasi livello. Inoltre si chiede che le
prestazioni programmate vengano eseguite entro 15 giorni dalla richiesta
dell'utente. Gi.Gu.
Genova.
Come sono spesi quei 424 euro all'anno che ogni ligure paga per finanziare
l'attività istituzionale della Regione Liguria? L'analisi della Uil,
pubblicata ieri, ha sentenziato che per quella voce (674 milioni di euro) la
giunta ha impegnato il 13,1% del bilancio (5,1 miliardi); mentre per la
sanità serve il 59,7% (3,1 miliardi), per lo sviluppo economico il 2,1%
(109 milioni), per il territorio il 9% (460 milioni) e per non precisati altri
oneri (mutui, interessi, deficit, per un totale di 824 milioni) il 16,1%. Dati
che, se confrontate con le altre Regioni, risultano inferiori - in percentuale
- solo a quelle a Statuto speciale, alla Lombardia, alle Marche e al Molise.
Tutte le altre sono nettamente su quote inferiori, mentre hanno spese
più alte per sviluppo, sanità e territorio (a parte rare
eccezioni). Le spese per attività istituzionali sono di vario tipo, ma
comprendono la maggior parte dei costi della politica. Quindi, se
si considerano comunque andate a buon fine le spese per la Sanità e per
le altre attività di governo, è in questo capitolo che rischiano
di nascondersi i maggiori sprechi. Sommando i costi del consiglio
regionale, degli organi istituzionali, del personale, delle spese di
funzionamento e altri fondi minori, il costo netto del solo
"palazzo"è di 150 milioni di euro l'anno. Di certo, infatti,
nelle attività istituzionali spiccano i 50,6 milioni di euro (previsti
nel 2007, 1,1 milioni in più nel 2006, che è l'anno preso in
considerazione dalla ricerca Uil), impegnati per pagare gli stipendi e i
contributi del personale dipendente (escluso quello di pertinenza del consiglio
regionale). Quindi i 56 milioni per le spese di funzionamento: dalle utenze
alla cancelleria, dalle missioni agli incarichi speciali, dalle spese vive alle
spese per il patrimonio. Escluse voci accessorie di natura prevalentemente finanziaria
(circa 85 milioni), ci sono poi le spese per gli organi istituzionali: il
consiglio e i vari organismi di controllo e vigilanza. Per il solo consiglio
regionale (con i 40 eletti, compresi quindi il presidente e gli assessori,
anche quelli esterni), il bilancio stanzia nel 2006 24,6 milioni e nel 2007
28,3 milioni (l'aumento è dettato dalla totale ristrutturazione della
sede): ai 40 consiglieri vanno 9 milioni tra indennità e rimborsi spesa
(più altre voci minori), ai gruppi consigliari dei partiti sono
attribuiti 2,3 milioni; considerate altri capitoli di minore entità e
arrotondando per difetto, si può tranquillamente dire che ciascun
consigliere costa alla comunità tra i 325 e i 350 mila euro l'anno.
Un'enormità se confrontata con i 4,8 milioni spesi per i 120 dipendenti
della sola struttura consigliare (40 mila euro a testa l'anno). Gli organi
istituzionali: si tratta di 6 milioni di euro, cui vanno aggiunti per circa
mezzo milione l'anno, il Difensore civico e il Corecom (la spesa a bilancio era
in discesa dal 2006 al 2007, ma la nascita di nuovi organi come il consiglio
per l'economia e la consulta statutaria hanno nuovamente innalzato il totale).
A far lievitare i costi istituzionali sono però voci difficili e
il cui stesso nominativo segnala la totale distanza dai cittadini: sono spesi
ogni anno tra i 450 e i 500 milioni di euro per il "servizio del
debito" e per "i fondi perenti". Nel primo caso si tratta,
semplificando, di oneri a carico della giunta per l'indebitamento pregresso
riferito a spese per gli investimenti. Nel secondo caso sono fondi risparmiati
perché non spesi l'anno precedente e di solito accantonati per essere
ridestinati l'anno successivo: non spese vive, dunque, ma in diversi casi
uscite o accantonamenti frutto di errori precedenti (anche di diversi anni).
Certamente, insieme a circa una sessantina di milioni di euro che in
realtà la Regione ha trasferito a enti locali (come Comuni e consorzi di
comunità montane), debiti e riserve rappresentano la quota maggioritaria
di quei 424 euro a testa che ogni ligure spende per far funzionare l'ente.
Tanto è bastato al presidente Claudio Burlando per dire che "la
ricerca Uil considerano nelle spese istituzionali voci che non riguardano le
spese vive dell'ente; valgano per tutte le quote trasferite agli enti locali,
spesi quindi per la comunità". giovanni mari 21/09/2007.
L'intervento di Bernanke è l'ultimo
segnale della grande attenzione con cui le autorità monetarie e i
governi seguono la crisi dei mutui subprime. Nell'ultimo mese abbiamo
assistito ad ingenti immissioni di liquidità da parte della Bce e della
Federal Reserve, il governo tedesco è intervenuto per caldeggiare il
salvataggio di due banche seriamente esposte al rischio subprime, in
Inghilterra la Banca centrale ha aperto una linea di credito illimitata, ma a
condizioni penalizzanti, a favore di Northern Rock e il governo è
intervenuto per placare i timori dei correntisti garantendo i loro risparmi.
Ora è la riduzione dei tassi negli Stati Uniti che cerca di assolvere a
due diversi compiti: rendere la liquidità più a buon mercato e
quindi aiutare i mercati interbancari che soffrono di una crisi di fiducia;
evitare che una crisi finanziaria si tramuti in un rallentamento dell'economia
reale via riduzione dei consumi e degli investimenti. C'è un ulteriore
effetto, forse non voluto o non confessato: offrire una ciambella di
salvataggio a banche, hedge funds a rischio di fallimento.
Sarkozy (Le Monde, 15 Settembre) e Tremonti (Il Sole 24 Ore, 2 Settembre) hanno
attaccato duramente il comportamento delle autorità monetarie e dei
governi nel corso di questa crisi. Il primo segnala come la Bce, immettendo
liquidità sul mercato monetario senza ridurre i tassi, offra un aiuto
agli speculatori finanziari e rimanga invece sorda nei confronti degli
imprenditori che soffrono per l'euro forte. Tremonti ha segnalato l'asimmetria
tra finanza e industria, per cui si interviene per salvare istituzioni finanziarie
in crisi e non ci si cura delle sorti delle imprese e di fenomeni reali quali
la disoccupazione. Vale la pena di ricordare che una posizione simile è
stata espressa dal premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz riguardo al
comportamento del Fondo monetario internazionale nella crisi dei paesi asiatici
nel 1997-1998: il Fondo non sarebbe stato interessato all'economia reale dei
paesi quanto alla loro capacità di ripagare i debiti contratti con le banche
occidentali. Siamo di fronte ad un interventismo a senso unico a favore della
finanza forse perché è proprio lì che risiedono i veri poteri
forti? La risposta non è semplice: occorre capire bene le
peculiarità dell'intervento dello stato e delle autorità
monetarie nell'economia reale e nella finanza e distinguere tra le diverse
forme di intervento. La finanza è diversa dall'industria, il motore
della finanza è la fiducia, a cominciare da quella del correntista che
deposita i soldi in banca: se una crisi di liquidità/fiducia mette in
crisi il suo funzionamento è necessario che le istituzioni intervengano.
La fiducia è un bene pubblico da preservare (come la sicurezza sociale).
Il caso della corsa agli sportelli è sintomatico: se non
esistesse una forma di prestatore di ultima istanza da parte della Banca
centrale o di garanzia sui depositi, quale quella fornita dal governo inglese,
il rischio di ritiro in massa da parte dei depositanti sarebbe alto e potrebbe
portare al fallimento a catena delle banche senza nessun motivo
strutturale con effetti dannosi per l'economia reale. Bene quindi hanno fatto
la Banca d'Inghilterra e il governo inglese ad intervenire, anche se avrebbero
dovuto chiarire il costo del salvataggio per il contribuente. I salvataggi ex
post hanno un inconveniente: premiano l'azzardo morale in quanto garantiscono a
chi assume rischi in modo disinvolto ? come è accaduto in questa vicenda
? che ci sarà un soccorso pubblico a buon mercato. Il rischio è
che non ci sia una minaccia credibile di punizione dei comportamenti avventati,
se non fraudolenti, incentivandoli di fatto. Del resto, per fronteggiare la
crisi della Long Term Capital nel 1998 ? che ha una radice simile a quella dei
subprime ? le autorità ricorsero alle stesse misure (salvataggio da
parte di altre banche e riduzione dei tassi). La crisi dei mutui
subprime mostra che la multa non è stata sufficientemente salata e che
la lezione non è stata appresa. Alla luce di queste considerazioni, le
immissioni di liquidità da parte delle banche centrali sono
doverose. Non siamo di fronte ad autorità monetarie asservite al mondo
della finanza. Più pericoloso è abbassare i tassi, in quanto
questa decisione rischia davvero di offrire un pasto gratis agli speculatori e
di distogliere l'attenzione delle banche centrali dal loro vero
obiettivo: la lotta all'inflazione. Cosa occorre fare? Negli Stati Uniti la
crisi è seria e coinvolge direttamente l'economia reale per lo
sgonfiamento del mercato immobiliare, una riduzione dei tassi era quindi
necessaria. Mezzo punto è forse troppo, ma è presto per dirlo. Ad
oggi non se ne vede invece la necessità in Europa. Piuttosto che agire
sui tassi, azione che declasserebbe la crisi ad incidente di percorso, l'Europa
deve farsi portavoce con forza presso gli Stati Uniti di una più
incisiva regolamentazione che ponga riparo alle falle emerse nel sistema
finanziario (società di rating, veicoli fuori bilancio,
disintermediazione bancaria, ecc.). Quanto all'Italia, vista la dinamica
positiva delle entrate nel 2007, si potrebbe pensare ad un anticipo di alcune voci
di spesa del
Il biglietto verde ieri per la prima volta
ha visto crescere il proprio rapporto di scambio contro l'euro oltre quota
1,40. Come se non bastasse, dopo 31 anni il dollaro canadese è tornato
alla parità con la valuta americana. L'euro si è spinto fino a
1,4097 per poi rallentare leggermente, mentre il dollaro canadese è
arrivato per pochi istanti anche oltre la parità, con il dollaro a
0,9996. Nei confronti dello yen, che pure fa riferimento a un paese come il
Giappone dove i tassi sono allo 0,5%, il dollaro ieri ha perso oltre l'1,3% nel
corso della seduta. L'oro, invece, ha proseguito la sua corsa in direzione
opposta al dollaro salendo fino a 744,20 dollari l'oncia nel corso della seduta
come non faceva dal 1980, e solo nel finale ha leggermente rallentato la sua
corsa pur conservando il forte aumento. L'aumento del differenziale di
rendimento delle attività in dollari dopo il doppio taglio dei tassi
Usa, ma soprattutto le previsioni di ulteriori tagli da parte della Fed, sono
il motivo immediato del forte calo subito dalla valuta americana. Ad accelerare
il fenomeno, però, ieri si sono aggiunte le voci provenienti dal Medio
Oriente, e in particolare dall'Arabia Saudita, sulla decisione del governo
locale di non tagliare i tassi in misura pari a quelli Usa. Il Daily Telegraph
londinese ha ripreso la notizia sottolineando che è la prima volta che
questo accade, ma soprattutto che rappresenta "un segnale che la monarchia
saudita sta preparandosi a rompere il rapporto di cambio fisso col dollaro in
una mossa che potrà aprire il terreno a una corsa in uscita dalla valuta
americana in tutto il Medio Oriente". L'analisi del quotidiano inglese ha
innervosito i listini ma viene considerata azzardata da molti, anche se da
tempo si parla della diversificazione delle riserve di paesi come Cina, India e
paesi del Golfo. Lo strategist valutario di Brown Brothers Harriman a New York,
Marc Chandler, ha sostenuto che "le autorità saudite potrebbero
rompere il cambio fisso con il dollaro, ma è improbabile che questo
porterebbe a un esodo dal mercato obbligazionario statunitense, in particolare
dai gestori delle riserve valutarie delle banche centrali"
che peraltro "per il 63% sono oggi detenute dai paesi asiatici e dalla
Russia". Nondimeno lo stesso Chandler prevede "che il dollaro
resterà sotto pressione visto che il mercato continua a prevedere
ulteriori riduzioni dei tassi da parte della Fed, mentre molti altri paesi
restano fermi o operano attivamente contro il dollaro". Da qui la stima di
un trend negativo per la valuta a stelle e strisce sia nella prossima settimana
che nel prossimo mese. Vale l'opposto, invece, per le altre principali valute
di riserva. Sia per l'euro che per la sterlina e lo yen il trend è
positivo a medio termine e di generale stabilità a breve. In parallelo
il greggio ha toccato un record di 82,70 dollari al barile nel corso della
seduta, e chiuso i contratti di ottobre al record di 83,90 dollari a barile.
L'attesta testimonianza di Ben Bernanke e del segretario al Tesoro Henry
Paulson alla commissione servizi finanziari del Congresso non ha invece fornito
sostanziali novità. Il chairman della Fed ha sostenuto che i fallimenti
sul fronte dei mutui subprime proseguiranno, ma che il sistema finanziario
è forte e ha ammesso (come molti pensano sul mercato) che il taglio
netto di Fed Funds e tasso di sconto abbia voluto "prevenire" gli
sviluppi futuri, ovvero muoversi d'anticipo e non reagire solo a posteriori.
Bernanke ha confermato le azioni della Fed per ridurre il rischio dei
fallimenti immobiliari e confermato la necessità di migliorare tutto il
meccanismo di concessione dei mutui, mentre Paulson si è soffermato
sulla richiesta di maggiori garanzie federali sui mutui stessi. Bernanke ha
anche confermato che lo scenario economico e finanziario è divenuto molto
più incerto dopo le turbolenze delle ultime settimane, frutto della
crisi sui mercati del credito e sul fronte immobiliare, ma ha ribadito anche
che la Fed vuole evitare che i problemi sul fronte dei mutui abbiano
conseguenze per l'intera economia. Per Ian Morris, economista di Hsbc, Bernanke
"si è rimboccato le maniche e cerca di essere pratico, non
accademico. Più come un politico che dice, è possibile. Un
atteggiamento più da microeconomista, che non da analista
macroeconomico".Sul fronte azionario la giornata è stata negativa
per quasi tutti i mercati, compresa Wall Street oggi alle prese con quattro
scadenze tecniche. Se a Londra il Ftse
Puntualmente, con due giorni di ritardo, i
problemi derivanti dalla decisione della Fed arrivano. Il dollaro perde un
ulteriore 1% in velocità e si porta in termini di potere di acquisto al
minimo dagli anni
Nel frattempo, escludendo come già detto titoli legati a temi energetici
e del comparto alimentare (si vedano le nostre liste), è meglio uscire
dal mercato azionario. Le obbligazioni non sono un miglior investimento,
perchè le curve dei tassi di stanno irripidendo.
La cosa più incredibile è che tutti questi banchieri centrali,
invece che accettare che l'economia entri fisiologicamente in stato di
recessione, un fenomeno non drammatico se non probabilmente per la loro
carriera cercano di prolungare artificialmente la crescita con tutti i mezzi
possibili, assomigliando a quelle signore ultracinquantenni che cercano con il
silicone di contrastare gli inevitabili segni dell'età.
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Il Corriere della Sera 20-9-2007 «Insolvenze subprime cresceranno»
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L’Unità 20-9-2007 Casa,
è emergenza affitti. Di Pietro: «Un piano in 12 punti»
+
L’Unità 20-9-2007 Il malessere del cavallo Carlo Rognoni
La Repubblica 20-9-2007 Euro vola
oltre 1,40 dollari. è il nuovo record storico
L’Unità 20-9-2007 La lepre e il
Grillo Marco Travaglio
Il Sole 24 Ore 18-9-2007 Tfr, la
cronaca di un fallimento di Tito Boeri e Luigi Zingales
Il Resto del Carlino 20-9-2007 QUELLA
LEGALITA' IMPOSSIBILE CON LA SINISTRA "REGRESSISTA"
MILANO - Beppe Grillo non ama parlare con i
giornalisti italiani, considerati inefficaci nel loro ruolo di «cani da
guardia» del potere politico. Anzi: secondo il comico genovese i mezzi di
informazione tradizionali «sono finiti» e saranno presto schiacciati dal web,
considerato il solo vero spazio di democrazia. Ma è proprio dalle
telecamere di una tv, seppure non «istituzionale», ovvero il canale satellitare
internazionale Euronews, che torna a parlare in viva voce - mentre sul suo blog non ha mai smesso di scrivere -,
all'indomani delle critiche ricevute dal direttore del
Tg2 Mauro Mazza e
delle polemiche che ne sono scaturite. Del caso Grillo si parlerà poi
questa sera ad «Annozero» di Michele Santoro: sarà in studio Sabina
Guzzanti, già presente sul palco di Bologna nel giorno del V-day. Il
comico, invece, non ci dovrebbe essere.
«VALIUM» E «PSICONANO» - Nell'intervista,
che probabilmente verrà ripresa oggi anche dalle reti televisive
italiane, Grillo parte dal ruolo sempre più importante assunto da
Internet per tornare a prendere di mira Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Del
primo, definito ancora una volta «il nostro valium, quello che fa così
con le manine» (e mentre lo dice fa il verso alla gestualità del
premier), ricorda come abbia tentato di aprire un proprio blog, «ma lo ha
chiuso dopo 15 giorni». Il Cavaliere («noi lo chiamiamo Truffolo») viene invece
dipinto come lo «psico-nano», «uno spot vivente», uno che «non c'è, non
esiste», «un ologramma, un venditore di bava». Grillo elogia il web perché non
consente di mentire: se lo si fa, evidenzia il comico, «dopo 24 ore ti arrivano
2 mila messaggi per dirti che sei un cialtrone».
DESTRA E SINISTRA - Al cronista che gli
chiede se lui si senta di destra o di sinistra, Grillo finge di reagire in
malomodo: «Ma io ti spacco la faccia...», precisando subito che «sto
scherzando» e ribadendo che destra o sinistra sono categorie che non esistono
più. Così come presto non esisteranno più, a suo parere,
anche giornali e tv. E lui farà di tutto per accelerarne la scomparsa:
«Il prossimo v-day sarà per togliere il finanziamento pubblico a questa
merda di informazione».
ATTACCO A TRONCHETTI - Grillo, che in
passato è stato il paladino dei piccoli azionisti di Telecom, ne ha
anche per Marco Tronchetti-Provera, da lui ribattezzato «il Tronchetto
dell'infelicità», che «si spacciava grande imprenditore, ma si è
dimostrato un fasullo». «In America - dice Grillo - gli davano 20 anni. Qui ha
preso 240 milioni di euro e sta andando di bolina con la sua barca a vela,
lasciando nella merda due società, la Telecom e la Pirelli...».
20 settembre 2007
Le insolvenze nel settore dei mutui
subprime sono «destinate a crescere» in un sistema finanziario che negli Stati
Uniti è in «condizioni relativamente forti». Il presidente della Federal
Reserve, Ben Bernanke, in una testimonianza preparata per l'audizione davanti
alla Commissione sui Servizi finanziari della Camera dei Rappresentanti, rileva
la maggiore rischiosità dei finanziamenti ad alto rischio erogati tra
fine 2005 e nel 2006, con «insolvenze maturate dopo appena uno o due pagamenti
in ritardo delle rate».
Un nuovo piano per la casa: è quello
proposto dal ministro per le Infrastrutture Antonio Di Pietro che è
intenzionato a portarlo in Consiglio dei Ministri già la prossima
settimana, al varo della Finanziaria. Quasi due miliardi di euro da destinare
all’emergenza abitativa, tornata agli onori della cronaca dopo la pubblicazione
dello studio realizzato dal sindacato degli inquilini che ha evidenziato come,
ormai, per l´affitto se ne vada più di metà dello stipendio.
Una proposta articolata in dodici punti e che prevede innanzitutto un programma
straordinario triennale di edilizia residenziale pubblica per il recupero di
alloggi Erp, l'acquisto e la locazione di alloggi da destinare preferibilmente
alle categorie disagiate, risorse da destinare ai Comuni pari a 530 milioni di
euro per il 2008. Recupero, quindi, sia degli alloggi Erp sia degli immobili
militari dimessi, nonché l’istituzione di un diritto di prelazione per i Comuni
sull'acquisto di alloggi messi in vendita dagli enti previdenziali.
Il progetto di Di Pietro prevede inoltre alcune misure fiscali, come
l'esenzione dal pagamento Ici degli alloggi di proprietà degli enti
locali e Iacp, la possibilità di rendere permanenti i rimborsi del 36%
delle spese di ristrutturazione, la riduzione del reddito del canone imponibile
del proprietario che affitta a canone concordato. Il ministro proporrà
al Governo anche di istituire un fondo nazionale per il sostegno degli affitti
e di un osservatorio nazionale sull'abusivismo edilizio, oltre a rilanciare
l’attività dell'osservatorio sulla condizione abitativa.
Ma è proprio sul taglio dell’Ici ipotizzato dal Governo che i pareri
sono contrastanti. Il ministro per la Famiglia Rosy Bindi e quello per la
Solidarietà Sociale Paolo Ferrero precisano che il taglio dell’imposta
sugli immobili non può essere indiscriminato. «Deve tenere conto della
composizione del nucleo familiare», spiega la Bindi, mentre Ferrero propone che
sia «agganciato ai redditi, a partire dai più bassi, con carattere
redistributivo». E il ministro della Solidarietà Sociale precisa anche
che la riduzione dell’Ici non può considerarsi una «politica abitativa»
tout court: «Se anche azzerassimo l'imposta sulla prima casa – sottolinea
Ferrero – non avremmo una casa in più per chi non l'ha». La soluzione
per il ministro di Rifondazione potrebbe arrivare dal cosiddetto tesoretto:
«Chi se ne frega – è sbottato Ferrero – da dove vengono i soldi. Ci sono
tot miliardi di extragettito, una quota deve essere destinata al Piano casa».
La proposta del ministro Di Pietro, intanto, ha catturato il consenso dei
manifestanti che presidiano l’esterno del palazzo dove si sta svolgendo il
convegno: «Bravo, coraggio», hanno incitato il ministro. E Di Pietro gongola:
«Grazie, la vostra protesta dà una mano anche alle mie richieste:
ricordatevi che l'unione fa la forza e tra dieci giorni, in consiglio dei
Ministri, dovranno darci una risposta, ma non prendetevela con me, io faccio
solo i mattoni, non decido da solo». Sunia, Sicet e Uniat-Uil, queste le sigle
sindacali del settore abitativo che stanno manifestando a Roma chiedono di
superare l’emergenza e di inserire nella Finanziaria misure precise, come la
definizione dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di welfare
abitativo, un programma nazionale strutturale per l'edilizia pubblica,
riduzioni fiscali a favore degli inquilini e dei locatori, nonché un aumento
delle risorse destinate al Fondo nazionale di sostegno all'affitto.
Oltre a quello dei manifestanti, un altro sostegno all’interesse di di Pietro
per la questione casa, arriva dal ministro per le Politiche giovanili Giovanna
Melandri che, nel suo intervento alla Conferenza, ha parlato di «case lowcost
per la generazione lowcost». Mura a basso prezzo, quindi, da individuare,
prosegue il ministro Ds «attraverso strumenti nuovi non solo di edilizia
pubblica ma anche attraverso tutti gli strumenti del social house». Una
soluzione di continuità con quanto il suo ministero ha già
sperimentato su 500 mila studenti fuori sede: «Quest'anno – ha spiegato la
Melandri – gli studenti universitari fuori sede possono detrarre una quota del
canone di affitto dall'imponibile e se sono incapienti quella detrazione
può essere trasferita a beneficio della famiglia d'origine. È una
pista aperta l'anno scorso – conclude il ministro – ma la vogliamo estendere
quest'anno a una platea più ampia di giovani che vogliono uscire di
casa».
Insomma, misure concrete perché il diritto alla casa possa essere garantito:
nuovi mattoni, cambi di destinazione d’uso di palazzi sfitti, sostegno a chi
non è in grado di accedere al mercato privato e resterà in
affitto vita natural durante. I dati raccolti da Sunia Sicet e Uniat
«confermano una forte pressione sui redditi delle famiglie in affitto, con la
progressiva esclusione dei redditi bassi dal mercato. Incrociando questi dati
con quelli dell'osservatorio del ministero dell'Interno sugli sfratti per
morosità, possiamo affermare che negli ultimi anni la crescita di questo
fenomeno è direttamente collegata all'aumento degli affitti».
Per affittare casa, dice lo studio, bisogna investire dal 40 all’80% dello
stipendio. La situazione è particolarmente grave nelle grandi
città: servono quasi 1000 euro al mese per vivere in
A partire dalle contestazioni
dell´opposizione di centrodestra sulla sostituzione di un consigliere Rai, oggi
il Senato discute del servizio pubblico. Sono sicuro che dal dibattito in Aula
emergeranno utili indicazioni. L´esperienza parlamentare che ho alle spalle mi
insegna che a volte queste sono occasioni di eccessi, di faziosità, di
intemperanze. E pur tuttavia sono soprattutto momenti sacrosanti di confronto
dai quali emergono sempre riflessioni e critiche da prendere in considerazione.
«Il malessere Rai» è sicuramente strumentalizzato dai partiti del centro
destra, ma ha finito per colpire anche quelli di centro sinistra. Anche se,
stando alle dichiarazioni di principio, alla fine non dovrebbe essere
così difficile trovare punti condivisi. Si vuole un nuovo Cda che non
cada nel peccato di lottizzazione? Non c´è chi non si dichiari
d´accordo. Personalmente lo sostengo da anni, e non ho smesso di pensarlo e di
dirlo da quando sono venuto a viale Mazzini. È però anche
doveroso ricordare che le nomine fatte finora hanno una caratteristica: forti
professionalità, maggior equilibrio. Sono state fatte, talvolta molto
faticosamente, non per creare nuove lottizzazioni ma semmai proprio per
smontare gli eccessi della precedente occupazione fatta senza pudore dal centro
destra.
Il malessere che investe il rapporto tra politica e Rai ha origini antiche ma
le scelte fatte sotto il governo Berlusconi hanno portato alla degenerazione
del sistema: la forte critica che risuonerà in Senato - trasversale
rispetto alle forze politiche - non può sorvolare sulla devastazione che
quelle scelte hanno provocato, non ultimo sulla qualità dei programmi.
Se la discussione in Senato serve a ribadire formalmente e solennemente che la
politica vuole un servizio pubblico di qualità, che si rigeneri nella
cultura del pluralismo, benissimo. Finalmente!
Questo è proprio ciò che il Parlamento ed i partiti dovrebbero
chiedere e imporre al servizio pubblico. Allora, per evitare che le
contraddizioni del sistema politico si ripercuotano sulla Rai è decisivo
che il parlamento vari in tempi ragionevolmente stretti una nuova legge di governance
del servizio pubblico.
Per cominciare, oggi il Senato ha l´occasione di riconoscere che l´attuale
situazione Rai è figlia di una legge sbagliata. Leggo invece che
c´è chi ancora invoca e difende la Gasparri. Sulle distorsioni di questa
legge qualche anno fa ho anche scritto un libro (Inferno tv, Marco
Tropea editore). L´esperienza diretta all´interno della Rai mi è servita
a toccare con mano i guai che quella legge ha provocato. Prima di tutto, la
privatizzazione. Impostata nel modo in cui lo faceva la Gasparri ha solo
prodotto danni. Per esempio stimolando un ex direttore generale a immaginarsi
di portare la Rai in Borsa: dimostrare alti profitti tali da poter arricchire
l´azionista. A mo´ di esempio, per attrarre azionisti privati futuri! Come
dimenticare che nel 2005 la Rai ha dato al Tesoro 80 milioni di euro? Quando
con quei soldi la Rai avrebbe potuto accelerare i grandi investimenti necessari
per il passaggio alle tecnologie digitali.
In secondo luogo, i criteri di nomina del cda. Ridare al Tesoro, e dunque al
governo, la responsabilità di indicare un suo rappresentante ha creato
quel pasticcio in cui siamo finiti. Cambiando il governo, doveva cambiare il
rappresentante del Tesoro - questo se si voleva rispettare lo spirito della
legge. Se un errore c´è stato, dunque, è quello di aver aspettato
un anno.
Ma non basta. La legge stabilisce che il direttore generale dura in carica
tanto quanto il cda. Oggi al Senato bisognerebbe anche ricordare che fu proprio
l´ex presidente Berlusconi a volere Meocci alla direzione generale e la scelta
di un direttore generale incompatibile si è ritorta contro chi l´aveva
imposta, poiché la sostituzione di Meocci è avvenuta dopo le elezioni e
quindi, il nuovo direttore generale doveva avere il gradimento del nuovo
ministro del Tesoro.
La leadership si riconosce anche dalla capacità di ammettere i propri
errori. E l´ex presidente del consiglio farebbe un atto meritorio se
pubblicamente riconoscesse che di fatto l´aver imposto lui un direttore
generale incompatibile ha prodotto solo guai: ai consiglieri della sua parte
che - avendo votato Meocci come voleva lui - oggi si trovano alle prese con la
Corte dei Conti; ed alla Rai che ha dovuto pagare una multa di 15 milioni di
euro e per un anno ha sofferto per la mancanza di una strategia e di una guida
in grado di imporre una missione di servizio pubblico all´altezza delle
trasformazioni in atto.
Per parte sua, il cda - avendo deciso di aprire una stagione di confronto
interno sulle linee editoriali di tutte le reti e di tutte le piattaforme - si
è dato chiaramente un obiettivo: usare i mesi che rimangono per
impostare una tv di più alta qualità, riconosciuta dalla maggior
parte degli italiani soprattutto come più moderna, più attenta al
mondo che cambia, e all´altezza delle sfide tecnologiche che aspettano il
paese.
Quando si riflette sui due anni di lavoro di questo cda, si vede che la maggior
parte del tempo e dell´impegno è servita soprattutto a non peggiorare
quel clima di incertezza che dai tempi del centro destra trasuda da viale
Mazzini. Impegno necessario e quindi non sprecato.
Il mandato del cda scade a maggio 2008. Adesso l´opposizione chiede che il Cda
stia fermo fino all´8 novembre, quando il Tar del Lazio si pronuncerà
nel merito della questione Petroni... Sia chiaro, questo cda è
assolutamente legittimato a prendere decisioni. E si tratta di decisioni molto
importanti. La discussione del piano industriale per i prossimi tre anni è
già all´ordine del giorno delle prossime due riunioni e si
concluderà entro ottobre. Si deve ragionare serenamente sulle linee
editoriali. Si deve capire se ci sono i termini per la costruzione di un grande
operatore di rete che metta insieme le risorse dei maggiori broadcaster per
dare al paese più capacità trasmissiva e quindi creare le
condizioni per una reale concorrenza, al di fuori del duopolio. Magari
abbattendo anche i costi.
C´è molta carne al fuoco e di tale rilevanza che una riflessione di quattro
o cinque settimane potrebbe essere utile soprattutto se serve a condividere fra
tutti i consiglieri di amministrazione della Rai progetti e decisioni
ambiziose. La politica può e deve fare da stimolo. Ma sia chiaro che la
responsabilità compete a chi amministra.
ROMA - Un'istruttoria nei confronti
dell'Aie, l'Associazione italiana editori, per possibili intese restrittive
della concorrenza nel mercato dell'editoria scolastica. Ha deciso di avviarla
l'Autorità garante della concorrenza e del mercato dopo la riunione del
13 settembre scorso. Nella giornata di mercoledì i funzionari
dell'Antitrust, coadiuvati dal Nucleo speciale tutela dei mercati della Guardia
di finanza, hanno svolto le ispezioni presso i soggetti interessati.
Secondo l'Antitrust l'assetto del settore,
caratterizzato da imprese con quote di mercato stabili nel tempo, potrebbe essere
determinato anche da «comportamenti delle imprese volti ad alterare il normale
gioco competitivo». In questo contesto l'Aie, secondo l'Antitrust, mettendo a
disposizione di tutti gli operatori, attraverso i propri database,
«informazioni dettagliate sulle tipologie di libri e le condizioni di prezzo
degli stessi», potrebbe aver agevolato il coordinamento delle politiche
commerciali e distributive degli editori. In sostanza l'Aie, in quanto
associazione di imprese, «potrebbe aver rivolto alle case editrici- dice la
nota- indirizzi sui comportamenti di mercato da tenere, intese restrittive
della concorrenza».
20 settembre 2007
ROMA
Il documento recita "informatizzazione uffici giudiziari militari
programmazione attività anno 2006" e riassume le contraddizioni in cui
vive la magistratura militare italiana. Da un parte il lavoro sempre più
scarso, soprattutto dopo l'abolizione della leva obbligatoria, dall'altra parte
questa delibera approvata dal Consiglio della magistratura militare il 28
febbraio 2006 con la quale si chiede con urgenza un ammodernamento del sistema
informativo degli uffici giudiziari militari. Ovviamente non gratis: la gara a
licitazione privata è stata vinta da un raggruppamento temporaneo di
imprese per una cifra complessiva di 583mila euro più Iva, una cifra
attualmente in corso di controllo contabile da parte del ministero della
Difesa. "Spero proprio che non si voglia usare questo documento per
gettare ulteriore discredito sulla nostra categoria"commenta seccamente il
responsabile dell'Ufficio per i servizi informativi del Consiglio, Francesco
Ufilugelli. Eppure, a scorrere la delibera, ci sono aspetti che destano qualche
perplessità, come il "punto 4" che si occupa del
riammodernamento del sistema informativo del Tribunale militare di sorveglianza.
Una struttura che attualmente ha un solo detenuto da controllare, Erich
Priebke, peraltro agli arresti domiciliari. Ebbene, negli interventi ritenuti
urgenti è segnalata la necessità di aggiornare "l'elenco dei
detenuti con indicazione dell'attuale posizione " oppure la
"predisposizione di progetti statistici concernenti l'attività dei
magistrati militari di sorveglianza". I magistrati in servizio presso
quell'ufficio sono appena tre. "è un approccio sbagliato –
replica Ulifugelli –. Questo intervento è stato programmato
almeno un paio di anni fa, è un progetto fatto in accordo col ministero
della Difesa. Se la magistratura ha una ragione di esistere, come ha confermato
anche di recente il ministro Parisi, deve rispondere a criteri di ammodernamento.
Non vedo dunque perché si dovrebbe escludere da questo il tribunale militare di
sorveglianza solo perché non ci sono detenuti militari. Se tutti i comuni
d'Italia devono essere in rete escludiamo un comune perché è piccolo e
ha solo mille abitanti?". Nel riassetto informativo ci sta dentro tutto,
quindi. Anche l'informatizzazione per la gestione delle misure cautelari,
prevista al punto 5. Peccato che nell'ultimo biennio di misure cautelari se ne
saranno applicate non più di una decina. Lo stesso Consiglio della
magistratura militare ha poi sollecitato la richiesta il 2 ottobre 2006,
tornando a battere cassa: "Un sistema di così rilevante
complessità – si legge nella nuova delibera –
necessita di un'attenta pianificazione e presuppone confacenti dotazioni
economiche& ". E più avanti: "Fino ad oggi le dotazioni
dei fondi assegnati hanno consentito di provvedere alle necessità in
modo sufficientemente adeguato pur se con qualche limitazione alla progettualità
per il futuro". Se Ulifugelli respinge le accuse di sperpero di denaro al
mittente, più critico è Sergio Dini, membro del Consiglio
militare. "Un programma di informatizzazione del genere è senza
dubbio sproporzionato – dice Dini –. Si è creato un
contenitore quando il contenuto, cioè il lavoro da fare, non c'è.
è un po' come andare a caccia delle mosche usando la
mitragliatrice". In fatto di spese il ministero non ha mai lesinato.
Emblematico il caso del tribunale militare di Torino che negli ultimi anni
è stato oggetto di restauro. Due anni fa fu inaugurata la sala di
rappresentanza "Norberto Bobbio", l'anno scorso invece è stata
la volta dello scalone di rappresentanza, mentre lo scorso luglio il ministero
della Difesa ha approvato lavori di restauro interni per un importo di circa
160mila euro. Il tutto per un edificio che sarebbe già stato inserito
dal Demanio militare nell'elenco dei beni da vendere al Comune di Torino. Che
forse dello scalone di rappresentanza se ne farà ben poco. Ma al
tribunale di Torino non mancano anche i contributi privati. L'anno scorso, per
l'organizzazione del convegno "Conference on International Criminal
Justice" l'elenco dei donatori era di tutto rispetto: tra questi la
fondazione Cassa di risparmio di Torino che elargì 50mila euro alla
Procura mentre altri 50mila euro sono arrivati dalla Compagnia di San Paolo.
http://www.fondazionecrt.it/ repository/Fondazione/BilanciSociali/
BilancioSociale2006.pdf http://www.compagnia.torino.
it/rapporto_annuale/pdf/rapporto2006_ ita.pdf.
È una bella nemesi quella della
cosiddetta Seconda Repubblica: inaugurata 13 anni fa da un comico pericoloso,
ora viene seppellita da un comico innocuo e innocente, anzi positivo e
propositivo. L'informazione ufficiale, che si sente parte del ceto politico e
infatti lo è, trema alla sola idea di perdere di nuovo i suoi padrini. E
sparacchia all'impazzata, mirando al dito (Grillo) anziché alla luna (la morte
di questa politica). È quello che è avvenuto nell'ultima
settimana, la prima del V-Day After. Poi, sfiatati i tromboni, sono intervenuti
gli spiriti liberi: quelli che, prima di scrivere, pensano, e magari
s'informano pure. Anziché strillare al fascismo, al qualunquismo, al populismo,
all'antipolitica, si sforzano di capire: non per plaudire acriticamente a quel
che è accaduto l'8 settembre in 200 piazze, ma per spiegare ed
eventualmente criticare sul merito; per parlare della luna, non del dito; per
investigare non tanto Grillo, ma il milione e mezzo di persone che han raccolto
il suo appello. L'han fatto, per esempio, Boeri, Spinelli e Rusconi sulla
Stampa. Sartori sul Corriere. E Pasquino, che sull'Unità ha scritto:
"Sembra che per la debolezza della politica siano i Grillo Boys a dettare
l'agenda". È proprio così. Da 13 anni, ogni mattina,
Berlusconi libera una lepre a reti ed edicole unificate, e tutti, per tutto il
giorno, inseguono la lepre. L'indomani, altra lepre e altro inseguimento collettivo.
E così via. La lepre è il processo di Cogne (o Rignano, o
Garlasco) per nascondere i processi a Berlusconi, Previti, Dell'Utri,
Andreotti, Telecom e furbetti. La lepre è la riduzione delle tasse come
imperativo categorico per nascondere i 200 miliardi annui di evasione fiscale.
La lepre sono le "grandi riforme", da fare ovviamente
"insieme", per nascondere le leggi vergogna. La lepre è la
tolleranza zero contro i poveracci per nascondere la tolleranza mille su mafie,
corruzione, reati finanziari, morti nei cantieri, precariato, lavoro nero,
concorsi truccati. La lepre è l'eterno piagnisteo del mitico Nordest per
nascondere il dramma sociale di tanti lavoratori dipendenti,
"flessibili", pensionati. La lepre è la privatizzazione della
Rai per nascondere il trust incostituzionale di Mediaset. Basta leggere certi
discorsi "coraggiosi" di Rutelli o di Veltroni per capire quanto la
lepre berlusconiana abbia contagiato l'Unione. Al punto che una manifestazione
come quella del 20 ottobre per la riforma della legge 30 e contro il precariato
di massa è ormai equiparata al terrorismo, anche se chiede semplicemente
il rispetto del programma dell'Unione. L'altra sera in tv Prodi s'è
benedettamente sottratto all'Agenda Unica: l'Irpef per ora non si riduce perché
non si può; molto meglio farla pagare a tutti, così tutti un
giorno pagheranno meno. Ma Prodi è tra i pochissimi, nell'Unione, a non
inseguire la lepre altrui e a lanciarne ogni tanto una sua. Perciò
Grillo dà tanto fastidio all'establishment politico e giornalistico che,
a destra come a sinistra, sull'Agenda Unica berlusconiana ha costruito le sue
indecenti fortune: perché sta imponendo un'agenda alternativa. Costringe le tv,
dunque i giornali, dunque i politici a occuparsi di lui e di quel che dice. I
ladri li chiama ladri, non esuli. Parla di mafie e corruzione, precariato ed
energie alternative, trasparenza e partecipazione, fine dell'impunità e
giustizia uguale per tutti; e chiede che Rete 4 vada su satellite possibilmente
insieme a Mastella con la sua famiglia e i suoi indultati (nel qual caso gli si
paga volentieri l'aereo di Stato, purché sia l'ultimo). Mastella a parte, quel
che dice Grillo è tutto scritto nel programma dell'Unione. Basterebbe
applicarlo un po', per levargli l'erba sotto i piedi. Parlare meno di lui e
più di quelli che stanno sotto il palco. Che sono giovani, e soprattutto
tanti. Può darsi che siano un "sintomo passeggero", come dice
Lerner; che le liste civiche col bollino di garanzia non siano una buona idea
(ma nei comuni funzionano benissimo da anni); che le tre leggi di iniziativa
popolare non siano prioritarie perché, com'è noto, "il problema
è un altro". Ma intanto non c'è politico o giornalista che
riesca a chiudere una frase senza citare Grillo. Persino Vespa, Floris e Riotta
han dovuto nominarlo e addirittura parlare dei condannati in Parlamento, pur
con la faccia malmostosa. Non vorremmo essere nei loro panni: di questo passo,
un giorno o l'altro potrebbero persino essere costretti a raccontare la
verità su Berlusconi, Previti, Dell'Utri e le scalate bancarie. Dio non
voglia. Uliwood party.
Stremati da dieci settimane di pausa estiva,
che per consuetudine comincia intorno al 10 luglio e si trascina fino
all'ultima decade di settembre, i magistrati militari hanno deciso di tuffarsi
di nuovo nel lavoro con un convegno internazionale. Nella bellissima Toledo.
Dove, per attrezzarsi ad affrontare al meglio i mesi finali dell'anno quando
sono attesi a volte perfino da tre udienze al mese (tre al mese!), sbarcano
oggi in trentadue: un terzo di tutti i giudici con le stellette italiani.
Perché mandare una delegazione di due o tre persone se tanto paga lo Stato? I
viaggetti in comitiva, si sa, sono dalle nostre parti una passione antica.
Basti ricordare certe migrazioni di massa a New York per il Columbus Day. O la
trasferta di un gruppo di deputati regionali siciliani in Norvegia (con un
codazzo di musicisti di un'orchestrina folk, trenta giornalisti, quattro
cuochi, un po' di mogli...) per vedere come i norvegesi avessero organizzato un
mondiale di ciclismo: totale 120 persone. O ancora la spedizione di Bettino
Craxi a Pechino («andiamo in Cina con Craxi e i suoi cari», ironizzò
Giulio Andreotti) finita con mille polemiche sulla scelta di tornare con una
sosta in India per far visita al fratello Antonio, discepolo del santone Sai
Baba, e una strepitosa interrogazione parlamentare di Renato Nicolini con
domande tipo: «Vuole il presidente dirci quali siano le attrazioni di Macao e
di Hong Kong più consigliabili al turista italiano al fine di sprovincializzarne
la mentalità? »
Va da sé che, con questi precedenti, i
giudici con le stellette hanno deciso che non era proprio il caso di fare gli
sparagnini. E appena hanno saputo che nell'antica capitale della Castiglia
organizzavano un congresso internazionale, si sono dati da fare. Certo, il tema
del simposio («La legge criminale tra guerra e pace: giustizia e cooperazione
in materie criminali negli interventi internazionali militari») non è
una leccornia. Ma Toledo è Toledo. L'Alcazar! Il fondaco dell'Alhóndiga!
Il Castillo de San Servando! La Plaza de Zocodover! La casa e i quadri del
Greco tra cui la celebre «sepoltura del conte di Orgaz»! Fatto sta che la
delibera del 5 giugno scorso era assai invitante: le spese del convegno (350
euro a testa, compresi il materiale didattico e i pasti all'Accademia di
Fanteria), più le spese di viaggio e pernottamento, più il
«trattamento di missione internazionale», più una indennità
forfettaria giornaliera di un'ottantina di euro erano infatti a carico del
ministero.
Un salasso? Ma no, avrebbe
risposto la successiva delibera del 3 luglio. Nonostante Padoa Schioppa stia
sempre lì a pianger miseria, diceva il documento, «sono state
individuate disponibilità finanziarie che consentono di coprire la spesa
per la partecipazione al predetto congresso di tutti i magistrati richiedenti».
Tutti? Crepi l'avarizia: tutti. Cioè 32. Tra i quali l'unico (unico)
invitato come relatore, Antonino Intelisano. Vi chiederete: costi a parte, come
farà la Giustizia militare a reggere per ben tre giorni senza un terzo
dei suoi pilastri, dato che i giudici, da Vipiteno a Lampedusa, sono 103?
Rassicuratevi: reggerà. Anche quando presidiano il loro posto di lavoro,
infatti, non è che i nostri siano sommersi da cataste di fascicoli come
i colleghi della magistratura ordinaria. Anzi.
I giudici della Procura Generale Militare presso
la Cassazione, per dire, hanno dovuto sobbarcarsi nel 2006 (assistiti da 35
dipendenti vari, per circa metà militari e circa metà civili) sei
udienze: una ogni due mesi, da spartire in quattro. I tre del Tribunale di
Sorveglianza militare, che contano su 32 assistenti a vario titolo e hanno
competenza sull'unico carcere militare rimasto aperto, quello casertano di
Santa Maria Capua a Vetere do ve sono recluse solo persone in divisa condannate
dalla giustizia ordinaria per reati ordinari, hanno un solo detenuto militare
per reati militari: Erich Priebke, condannato all'ergastolo per la strage delle
Fosse Ardeatine.
Quanto ai dati complessivi, lasciano di sasso:
i 79 magistrati «con le stellette» (in realtà non le portano per niente:
sono giudici come gli altri solo che hanno scelto una carriera parallela)
addetti ai nove tribunali sparsi per la penisola (Roma, La Spezia, Torino,
Verona, Padova, Napoli, Bari, Cagliari e Palermo) e i loro 17 colleghi delle
tre corti d'Appello (Roma, Napoli e Verona) sono chiamati infatti a lavorare
sempre di meno. Al punto che nel 2006 hanno emesso, tutti insieme, un migliaio
di sentenze su temi spesso irrilevanti se non ridicoli: circa
Un esempio di carico di lavoro? Il
presidente della Corte Militare d'Appello di Roma, Vito Nicolò Diana,
quando dirigeva la sezione distaccata di Verona (dal
Adesso, «per capire », vorrebbero
fare una commissione di studio. La terza, dopo quella del 1992 varata dal
ministro della Difesa Salvo Andò e quella del 2003/2004 presieduta dal
procuratore generale Giuseppe Scandina. Nel frattempo la quota dei magistrati
con le stellette che hanno tempo in abbondanza per gli incarichi
extragiudiziari è salita al 36%, contro il 3% dei giudici ordinari. E il
lavoro degli uffici, grazie a tutte le cose che sono cambiate a partire
dall'abolizione del servizio di leva obbligatorio, ha continuato a calare,
calare, calare. Fino a dimezzarsi quest'anno rispetto perfino al 2006.
Benedetto Roberti, uno dei giudici che con Sergio Dini e pochi altri invoca da
anni una riforma, ricorda che nel 1997, quando faceva il Gup a Torino,
arrivò da solo a 1.375 sentenze. Sapete quante ne ha emesse quest'anno
il giudice che fa quello stesso lavoro? Tenetevi forte: 28.
20 settembre 2007
ROMA -
L'editoriale che non ti aspetti. È quello di Mauro Mazza, direttore del
Tg2 che nell'edizione delle 13 del telegiornale della Rai dichiara, senza
troppi giri di parole: il movimento di Beppe Grillo può causare nuove
tragedie.
L'EDITORIALE -
«Cosa accadrebbe - dice Mazza - se un giorno all'improvviso un pazzo, uno
squilibrato sentendo quelle accuse premesse il grilletto? Un tempo c'erano i
cattivi maestri, che additavano come nemico un commissario, un giornalista, un
magistrato e accadeva che qualcuno, pazzo o meno, andasse e premesse il
grilletto e qualche volta uccidesse. Oggi non abbiamo più i cattivi
maestri né i buoni, abbiamo solo gli apprendisti stregoni. La storia, si dice,
si ripete due volte, una volta in tragedia una volta in farsa. Ma cosa
succederebbe se invece facesse il percorso inverso e da farsa si trasformasse
in tragedia? Cosa accadrebbe se un mattino qualcuno ascoltati quegli insulti
contro tizio e contro caio premesse il grilletto?».
LA CRITICA DI FINI -
E a sorpresa Mazza perde l'appoggio del presidente del suo partito di
riferimento il leader di An Gianfranco Fini che critica l'editoriale del
direttore del Tg2: «Ho trovato eccessivi i toni del suo editoriale - ha
spiegato Fini - ora lo chiamo al telefono per diglierlo». Secondo Fini «se si
alza in modo esasperato il tono, poi non c'è più un limite. Per
questo ho giudicato eccessivo l'editoriale di Mazza. Francamente non credo che
ci sia il rischio che qualcuno possa prendere le pistole».
GRILLO: SONO AL DELIRIO -
La prima immagine che appare sui megaschermi piazzati sul palco a sostituire il
simbolo del V-Day rosso su sfondo nero nello spettacolo di mercoledì
sera a Schio, è il volto del direttore del Tg2 Mauro Mazza . «Sono in
preda al panico - urla comparendo sulla scena Beppe Grillo - stanno delirando».
«Addirittura questo - ha proseguito indicando Mazza - ha fatto segno con le
dita tese come una pistola, come se fossimo dei terroristi. Vorrei
tranquillizzarlo, abbiamo fatto una cosa quasi per scherzo». Rivolgendosi
quindi al suo pubblico, accorso in migliaia (circa 6 mila persone) nella grande
spianata di Schio che ospita la tappa vicentina di 'Reset', lo spettacolo del
comico genovese, Grillo urla «vorrei capire se siete con me: non mi lasciate in
pasto a questi qui. Abbiamo fatto una festa l'8 settembre, senza pubblicità.
Inaspettatamente mi sono ritrovato su prima, seconda e terza rete. Ora sono
dappertutto e pensare, che non mi volevano i tv». «Ho sognato Padre Pio - ha
aggiunto Grillo - che mi ha detto 'stai esagerando'». Parlando ancora della
grande manifestazione dell'8 settembre, Grillo ha spiegato che «abbiamo fatto
una cosa che sta montando. Oggi il Tg1 ha aperto ricordando una mia serata
andata male nel 1982, accusandomi di aver preteso 11 milioni di cachet. Che
c... di calunnia è?». «E pensare che due giorni prima del Vaffa-Day - ha
concluso - non ne parlava nessuno. Credetemi questo termine non è reato,
è un consiglio erotico-turistico».
LE ALTRE REAZIONI -
Oltre a quelle di Fini, sono arrivate altre reazioni più articolare dal
mondo politico. «Non vorrei che si stesse commettendo l'errore di enfatizzare
le parole di Grillo per non parlare del tema vero, cioè la crisi della
politica e della rappresentanza». Così Paolo Cento, deputato dei Verdi e
sottosegretario all'Economia, interviene nel dibattito suscitato dall'editoriale
del direttore del Tg2. «Siamo in un paese in cui c'è libertá d'opinione.
Non bisogna fare equazioni sproporzionate e improponibili. Se mai - avverte
Cento- il confronto con Grillo va fatto nel merito delle proposte».
«Il vizio di bacchettare il dissenso e l'antagonismo al Palazzo è grande
e il direttore del Tg2, Mauro Mazza, che grazie al palazzo occupa una
postazione di privilegio, non si è tirato indietro» dice invece Salvatore Cannavò,
deputato del Prc che aggiunge: «Ancora una volta si fa ricorso al peggiore
insulto, quello di connivenza con il terrorismo e l'omicidio. È accaduto
ai no global, al sindacalismo alternativo, a tutti coloro che non si rassegnano
a questo mondo. A coloro che attaccano la legge '30-Treu e vengono accomunati
alle Br. Oggi accade anche a Grillo». Cannavò conclude: «Come si vede,
la casta non è solo quella parlamentare ma è una casta di
sistema, fatta di politici, giornalisti compiacenti, imprenditori scrocconi,
banchieri fasulli che non vogliono sentire critiche o dissensi.
Se la
prende con i seguaci di Grillo che
hanno criticato il direttore del Tg2 il il vicepresidente del Senato Mario Baccini,
dell'Udc: «Chi chiede democrazia non può sopirla. Il direttore del tg2
Mauro Mazza ha espresso nel tg delle 13 di oggi alcune considerazioni - che
possono essere condivise o meno - ma chiamarlo per questo "venduto" e
"servo del potere" e additare i giornalisti come "pupazzi
mafiosi" o "marchette andate a male" non è un buon
servizio alla democrazia». Baccini sottolinea come «chi propone critiche anche
giuste ad un sistema da riformare non possa poi scadere in queste polemiche che
confermano la natura demagogica e populista di chi chiede rappresentanza e
democrazia e poi si muove per sopirla, in contraddizione con se stesso e con
ciò che rivendica».
«Ho salutato con molta simpatia la discesa in campo di Grillo e del suo
movimento, subendo critiche dagli altri partiti. Ciò poco importa,
però buona regola della politica è quella di non attaccare i
giornalisti. Dispiace che dal centrosinistra ci sia ora una levata di scudi
contro il direttore Mazza a cui esprimo la mia solidarietà e quella del
mio partito». gli fa eco il segretario della Democrazia Cristiana per le
Autonomie, senatore Gianfranco
Rotondi.
«Esprimo la mia profonda solidarietá all'ottimo direttore Mauro Mazza» afferma
anche l'ex deputato di Fi e oggi assessore alla Cultura del comune di Milano, Vittorio Sgarbi che
difendendo l'editoriale del direttore del Tg2 dedicato proprio al comico
genovese, fornisce «alcuni elementi per fotografare il personaggio-Grillo.
Innanzitutto, se Michele Santoro non mi avesse tolto l'invito a partecipare
alla sua trasmissione, avrei chiesto a Grillo di dirci quali sono state le sue
dichiarazioni quando arrestarono Gigi Sabani. Non mi risulta che abbia mai
dichiarato in favore di questo innocente».
19 settembre 2007
ROMA - Riccardo Capecchi,
funzionario della Presidenza del Consiglio si è dimesso dopo la
pubblicazione di una sua foto sull'aereo di Stato che riportava Mastella e
Rutelli a Roma dopo il gran premio di Monza. Fonti di Palazzo Chigi hanno
espresso "apprezzamento" per la scelta.
Capecchi ha scritto una lettera al sito Dagospia. "Oggi il vostro sito ha
pubblicato una mia foto mentre mi imbarco sul volo di ritorno da Milano che
riportava a Roma il Vice Presidente Francesco Rutelli dopo il Gran Premio di
Monza.
Ero su quel volo di ritorno da Milano per atto di cortesia del Ministro Rutelli
dopo aver partecipato a titolo strettamente privato al Gran Premio e tengo a
precisare che ero in possesso di un biglietto regolarmente acquistato per il
volo AZ 2119 delle ore 20.00 da Linate a Fiumicino.
Sono certo di non aver commesso alcun illecito o violazione di legge ma
consapevole tuttavia di aver compiuto una leggerezza: mi è ben chiaro
che non tutti hanno l'opportunità di salire su un volo di Stato in
alternativa ad un volo di linea solo per risparmiare alcune ore di attesa. Ciò
a prescindere che in quella circostanza vi siano o meno fotografi appostati per
fare degli scoop giornalistici contro questa o quella Autorità dello
Stato.
E credo anche che nella vita si debba essere conseguenti e che i comportamenti
individuali anche del più piccolo collaboratore, quale io sono, non
debbano in alcun modo inficiare ruoli ed istituzioni, esse sì importanti
e prestigiose.
E' per questo motivo che ho già ritenuto opportuno rimettere in modo
irrevocabile il mio incarico presso la Presidenza del Consiglio.
Ringrazio con l'occasione il Presidente Romano Prodi ed il Sottosegretario
Enrico Letta per l'opportunità che mi hanno dato in questi mesi di
collaborare al loro fianco".
Il responsabile di Dagospia, Roberto D'Agostino, gli risponde: "Questo
gesto le fa onore, ma doveva dimettersi Mastella".
(19 settembre 2007)
Cara
Europa, leggo nel Corriere della sera un articolo di Monica Guerzoni con
anticipazioni sui nomi che Veltroni ha proposto, o proporrebbe, per le liste
che lo sosterranno nella corsa alla segreteria del Partito democratico. Se i
nomi sono quelli in parte elencati, e mi auguro di vederne altri, soprattutto
di scienziati, di pensatori e di economisti, non posso che dirmi soddisfatta.
MICHELA DI VITTORIO, BARI
Cara Signora, sottoscrivo per intero la sua
lettera. Sono fra quelli che hanno fortemente temuto di vedere liste per la
costituente democratica formate in prevalenza da apparati di partito, cosa
disdicevole di per sé perché dà un’idea proprietaria della politica. E
ciò indipendentemente dall’ondata di antipolitica che ancora una volta
percorre il paese e a cui molti politici di mestiere e i loro apparati
rifiutano di prestare attenzione. Anzi, ne ridono: proprio come gli
aristocratici francesi, che andavano a teatro ad applaudire le commedie di
Beaumarchais che li sbertucciavano, mentre già serpeggiava la rivoluzione
che di lì a poco gli avrebbe tagliato la testa.
Avendo quest’idea non lusinghiera di una parte della classe politica, e
l’angoscia di trovarmi in lista “i soliti noti” (è questa la ragione per
la quale ufficialmente Dini e altri parlamentari della Margherita hanno deciso
di non entrare per ora nel Partito democratico), può dunque immaginare
con quanta gioia abbia letto anch’io, come lei, nomi di persone verso le quali
abbiamo simpatia, stima, rispetto o più d’uno di questi sentimenti
insieme. Penso ad architetti come Fuksas e Gregotti e musicisti come Morricone,
a rappresentanti del teatro e della scrittura come Placido, Archibugi, Scola, a
giuristi, economisti, imprenditori come Fantozzi, Cheli, Salvati, Salomon, Afef
Tronchetti Provera, colleghi giornalisti come Lilli Gruber, Chiara Geloni di
Europa, Martina Mondadori, Mario Sconcerti, Furio Colombo, Andrea Purgatori, la
superstite di Auschwitz Tatiana Bucci, personalità come Leopoldo Coen,
Amos Luzzatto, Juri Chechi… Mi basterebbe la metà di questi nomi per
votare la lista. Ma mi auguro che essa sia rinforzata con altri nomi che
rappresentino settori esclusi da quelli riportati sul Corriere, in particolare
scienziati e filosofi della scienza come Veronesi e Giorello, per citare,
decisamente laici, decisamente aperti alle conquiste del mondo moderno e capaci
di dominarle nei laboratori e nelle leggi (Veronesi è stato anche
ministro dell’Ulivo alla sanità). Così come spero di vedere in
lista Ignazio Marino, che da solo fronteggia da oltre un anno la santa alleanza
di quelli che – dalla destra alla sinistra al centro – “pensano”, anzi
“ponzano”, come nella celebre poesia risorgimentale di Giuseppe Giusti:
“ponzano il poi”, ma coi criteri del “prima”, quelli “in uso dal Bargel fino
alla Corte”.
Il perfetto equilibrio fra le culture è questione che mi interessa
almeno quanto il perfetto equilibrio fra uomini e donne, anziani e giovani, che
debbono essere fattori costitutivi della società nuova, non miti da
mezze maniche dello stato civile. E mi farebbe ricordare i giorni della mia
primissima giovinezza che videro la nascita della democrazia, quando anche il
più piccolo dei partiti poteva fregiarsi di centinaia di uomini e donne
di cultura, di giovani bramosi di fare e di vecchi esperti (e spesso marpioni).
Poi, si sa, le classi dirigenti si selezionano, e la grande agorà
iniziale si riduce ad élite, e queste sono sottoposte a ricambio, come da un
secolo si dice citando Mosca e Pareto. Ma quanto più vasta e qualificata
è l’agorà iniziale, tanto più qualificate e durature
saranno le élite.
Il sondaggio Eurisko La riforma del
trattamento di fine rapporto (Tfr) è stata giustamente presentata
come un'occasione unica per aumentare la partecipazione degli italiani ai
mercati finanziari e per incoraggiare, soprattutto i giovani, a costruirsi una
previdenza integrativa con cui rimpinguare pensioni pubbliche inevitabilmente
destinate a diventare meno generose. Purtroppo i dati di un sondaggio condotto
a luglio da Eurisko per conto di AnimaFinLab su di un campione rappresentativo
di lavoratori dipendenti del settore privato ci dicono che entrambi questi
obiettivi sono falliti. In media solo un lavoratore su quattro ha espressamente
optato per un fondo pensione, contro un obiettivo minimo dell'Esecutivo del 40%
(che non verrà raggiunto neanche contando le adesioni tacite). Tra i
giovanissimi (tra i 22 e i 30 anni) la percentuale di adesioni esplicite
è al di sotto del 20 per cento. Prime anticipazioni da una ricerca in
corso sui risultati di questo sondaggio possono anche aiutarci a capire il
perché di questo fallimento. Contrariamente alle aspettative, il fallimento non
sembra essere dovuto alla mancanza di consapevolezza sulle scelte. Il 90% dei
lavoratori ha fatto una scelta e il 90% di questi è stato in grado di
motivarla. Lungi dal non aver capito la riforma, nonostante le sue
complessità, i lavoratori sembrano averla capita fin troppo bene.
Altrimenti si farebbe fatica a spiegare l'enorme differenza di comportamento
tra lavoratori di imprese con meno di 50 addetti e quelli di imprese con
più di 50 addetti. Come si evince dai dati riportati nel grafico qui
sopra, elaborato a partire dal sondaggio, circa tre lavoratori su quattro nelle
imprese più piccole hanno scelto di lasciare il Tfr in azienda e
meno di uno su dieci ha scelto espressamente di destinarlo ai fondi pensione.
Nelle imprese più grandi, invece, la percentuale di chi ha scelto di
lasciare il Tfr in azienda è di poco inferiore al 50% mentre
quattro lavoratori su dieci hanno espressamente optato per un fondo pensione
(soprattutto per quelli ad adesione collettiva). Come si ricorderà, le
opzioni offerte erano molto diverse nei due casi. La Finanziaria 2007 prevede
che i flussi di Tfr "rimasti" in aziende con più di 50
addetti siano destinati a un conto di tesoreria istituito presso l'Inps. Nelle
imprese più piccole, invece, questi fondi rimangono effettivamente in
azienda.Dato l'interesse del datore di lavoro per la permanenza dei fondi in
azienda, ci si potrebbe aspettare che questa differenza sia dovuta a pressioni
esplicite o implicite dei datori di lavoro sui dipendenti. Se crediamo alle
risposte fornite dai lavoratori stessi, però, non c'è evidenza di
pressioni esplicite. Le risposte per "spinte o pressioni " o per
"paura di essere licenziato" rappresentano solo il 2,6% nelle piccole
imprese contro l' 1,8%nelle grandi.C'è invece differenza nella frequenza
della motivazione "Per agevolare l'azienda/per non far gravare sull'azienda
la perdita del Tfr " nelle risposte dei dipendenti di imprese
piccole (5,2%) e medio-grandi (3,1%). Questo può essere un segno di
pressioni implicite o di una maggiore identificazione del lavoratore con
l'impresa in aziende di piccole dimensioni. Le principali motivazioni addotte
dai lavoratori che hanno scelto di tenere il Tfr in azienda hanno,
invece, a che fare con la fiducia. La prima motivazione (con più del 20%
delle risposte) è la possibilità di avere una liquidazione in
contanti al momento della pensione invece che sotto la forma di vitalizio, un
indice di sfiducia nel valore di una pensione privata. Al secondo posto, con il
17% delle risposte, c'è la mancanza di fiducia negli investimenti
finanziari. Al terzo posto c'è la convinzione che il Tfr in
azienda garantisca un rendimento più sicuro di un investimento nei
fondi. Apparentemente, questo sembra un paradosso, visto che un lavoratore che
investe nei fondi può facilmente assicurarsi un rendimento uguale a
quello del Tfr investendo tutti i contributi in un fondo monetario. O i
lavoratori non erano consapevoli di questa opzione, oppure attribuivano un
ulteriore rischio all'investimento nei fondi, associato alla possibilità
di default del fondo stesso. Questa seconda ipotesi è supportata dal
fatto che solo il 3% dei lavoratori ha totale fiducia nei fondi, contro il 31%
che ha totale fiducia per l'impresa in cui lavora. Questo differenziale di
sfiducia contribuisce anch'esso a spiegare il diverso comportamento dei lavoratori
nelle imprese con meno di 50 addetti e in quelle con più di 50 addetti.
I lavoratori delle piccole imprese avevano di fronte a loro un'offerta
più limitata di schemi previdenziali alternativi al Tfr. Un
milione e mezzo di loro non poteva accedere ad alcun fondo contrattuale. In
altri casi, pur potendo accedere a un fondo ad adesione collettiva, i
lavoratori dell'impresa minore non potevano beneficiare del contributo
addizionale del datore di lavoro previsto in molte grandi imprese mentre il
fondo collettivo disponibile era troppo piccolo, come platea di effettivi o
potenziali beneficiari, per poter conseguire significative economie di scala,
dunque per offrire rendimenti netti più elevati. Inoltre, nelle imprese
con meno di 50 addetti, l'alternativa a un investimento nei fondi era il
mantenimento dei contributi in azienda, mentre nelle grandi imprese significava
il versamento del Tfr all'Inps. E se l'azienda ha la totale fiducia del
31% dei dipendenti e molta fiducia da un altro 55%, l'Inps suscita la totale fiducia
di solo l'8% dei lavoratori e "molta fiducia" per il 37 per cento.
Paradossalmente, il trucco inventato dalla Finanziaria 2007 per rimpinguare le
casse dello Stato ha avuto come inaspettata conseguenza quella di favorire un
maggior flusso di contributi nei fondi. Non per fiducia dei fondi, ma per
sfiducia nell'Inps. Ma se vogliamo che i fondi, e il mercato finanziario in
generale, si affermino tra i lavoratori per meriti propri invece che per
demeriti altrui, dobbiamo colmare questo gap di fiducia negli strumenti
d'investimento e aprire i fondi contrattuali ai lavoratori delle piccole
imprese. Le più importanti news in materia fiscale FISCO al 48224.
QUALCUNO
ha paragonato la battaglia contro i lavavetri a quella contro i costi
della politica. Che cosa infatti accomuna questi due problemi? Che
rischiano di finire in un flop, diventeranno una manciata di polvere tanto per
far capire che qualcosa si fa contro la microcriminalità e gli sprechi
delle istituzioni e dei partiti. E tutto continuerà come prima, portando
acqua al mulino dei sostenitori (sono tanti) del benaltrismo. Le ordinanze dei
sindaci di Firenze, Bologna, Padova e di altre città, e lo stesso
pacchetto di misure sulla sicurezza anticipate dal ministro dell'Interno Amato,
sono state sottoposte a critiche durissime, soprattutto da quella parte della
sinistra che preferisco non definire radicale, ma semplicemente massimalista. O
forse regressista, come l'ha etichettata Gianpaolo Pansa, in quanto portatrice
di contenuti demagogici e conservatori. QUESTA sinistra antagonista,che fa
parte a pieno titolo della coalizione di governo, ogni giorno attacca con
insulti, anche volgari, Amato e tutti gli altri esponenti riformisti.Fra coloro
che non demordono dagli attacchi offensivi c'è Manuela Palermi (capo
gruppo al Senato dei comunisti italiani e dei verdi) che ogni giorno insiste
nel definire Amato e Rutelli reazionari. Delle misure sulla sicurezza ha detto:
"Il pacchetto Amato è indecoroso, roba reazionaria che può
essere votata solo da un'altra maggioranza di cui faccia parte a pieno titolo
An. Ma che razza di ministro è uno che si scatena contro lavavetri e
ragazzi che dipingono graffiti, ben sapendo che in Parlamento siedono indagati
e condannati di rango?". Non sarà facile per Amato, in questa
situazione, varare provvedimenti che aiutino i sindaci a far rispettare
l'ordine pubblico, garantendo ai cittadini un minimo di sicurezza. Eppure basta
così poco. Nei giorni scorsi mi trovavo a Firenze e ho potuto verificare
come siano migliorate le cose. Ma per il sindaco Leonardo Domenici non è
facile far digerire l'ordinanza al suo partito e soprattutto agli alleati.
Continua infatti a essere nel mirino degli attacchi politici e, per questo
motivo, ha scelto un profilo basso rifiutando ogni intervista per motivare le
sue scelte (ha cortesemente detto no, grazie anche a Zapping, che l'aveva
invitato in trasmissione). Anche altri sindaci hanno scelto di non parlare, in
attesa dei provvedimenti del governo che tardano ad arrivare perché lo
sbarramento a sinistra è sempre più rigido. E NON SARÀ
facile, per Prodi, mediare tra Amato (e Rutelli) sostenuti da numerosi sindaci
che contano, e i massimalisti che possono facilmente mettere in crisi il
governo. E' probabile quindi che le misure sulla sicurezza, se verranno varate,
rischieranno di venire stemperate, perdendo ogni carattere innovativo. A quel
punto sarebbero sufficienti le leggi sull'ordine pubblico esistenti; basta
farle rispettare. A far rispettare le regole di legge attuali ci sta provando
anche Weltroni a Roma .con i vigili urbani. Ma nessuno si è ancora
accorto che qualcosa sia cambiato rispetto alla situazione di prima. Forse bisognerà
pensare a una formula diversa per l'approvazione del "pacchetto
sicurezza", come quella sperimentata dal presidente della Provincia di
Milano, Penati. la sua proposta è stata approvata col voto favorevole di
Ds e Margherita, con l'aggiunta di Forza Italia, Udc, An e Lega e il voto
contrario di verdi e comunisti delle diverse scuderie politiche. MA SAPPIAMO
bene che questa rondine non farà primavera,perché tutti
(nell'opposizione) lavorano per le elezioni anticipate. E Prodi fa di tutto per
attaccare con il vinavil pezzi di maggioranza che ormai marciano in assoluta
autonomia . Dei costi della politica non si parla quasi
più (almeno nel governo e nel parlamento) e presto la lotta contro le
illegalità ( lavavetri e non solo) saranno un ricordo del passato.
PADOVA.
Ha un sottotitolo decisamente ammaliante, il Libro verde sulla spesa pubblica,
edito dal Ministero dell'Economia e redatto dalla commissione tecnica per la
finanza pubblica, il cui presidente è l'ex rettore dell'ateneo patavino,
Gilberto Muraro: "Spendere meglio: alcune prime indicazioni".
L'immagine che dà la pubblicazione, presentata qualche giorno fa,
è quella di una guida alla razionalizzazione delle risorse. E infatti
propone alcuni esempi settoriali in altrettante macro-aree dell'uscita di
denaro pubblico: la giustizia, la sanità, l'università, il
pubblico impiego e la spesa pubblica dei Comuni. Da sottolineare che un primo,
piccolo, risparmio, si ha nel reperimento del volume stesso: un libello di
circa 150 pagine, scaricabile gratuitamente dal sito internet del ministero:
www.economia.it. Eloquente la presentazione, curata dal ministro all'Economia,
Tommaso Padoa-Schioppa, che nota come "Nella nostra spesa pubblica
ciò che lascia a desiderare non è tanto il suo elevato livello,
quanto la qualità insufficiente rispetto ai bisogni del Paese.
Riqualificare la spesa è perciò divenuto un imperativo urgente e
ineludibile. C'è un solo modo per vincere questa sfida: spendere meglio.
Alcuni risultati possono essere ottenuti con l'eliminazione dello spreco, la
correzione di fenomeni di cattivo costume portati alla luce anche di recente,
la riduzione dei costi della politica". In sintesi, per quel
che riguarda la sanità italiana, essa sembra reggere abbastanza bene il
confronto con le strutture internazionali: la spesa procapite è
più bassa rispetto ad altri Paesi analoghi, l'incidenza sul Prodotto
interno lordo (Pil) è di poco inferiore alla media dei trenta paesi
dell'Ocse (8,9 contro 9 per cento). Nel quadro generale sanitario
esistono forti margini di miglioramento, attuabili sia aumentando il livello di
prevenzione, sia incrementando la medicina territoriale, a discapito dei
ricoveri, che costituiscono il 48% della spesa sanitaria totale. Proprio per
ribadire quest'ultimo bisogno, domani i medici di medicina generale e le
guardie mediche hanno indetto un giorno di sciopero. E il Veneto come se la passa?
Le sue spese sono lievemente superiori alla media nazionale: il costo
medio per abitante dell'assistenza ospedaliera è di 679,98 euro (656,58
la media nazionale). Nelle aziende ospedaliere il costo medio di un
dipendente è di 38.177 euro (media: 43.288), 38.263 nei presidi
ospedalieri. Particolarmente interessanti i dati sugli indicatori generali (tra
parentesi è riportato il dato medio nazionale): il Veneto ha 3,86
posti letto per acuti ogni mille abitanti (4,18), 0,60 posti letto post-acuti
per mille abitanti (0,49), per un totale di 4,46 posti letto ogni 1.000
abitanti (4,67). La degenza media dei ricoveri per acuti negli ospedali
pubblici è di 7,70 giorni (6,80), mentre in quelli privati è di
8,70 (5,50), per cui la degenza totale media di un paziente acuto è di
7,88 giorni (6,67). La degenza media pre-operatoria è di 1,95 giorni
(2,05). Una curiosità riguarda i parti cesarei: essi sono 28,61% in
Veneto, rispetto al 37,8% della media nazionale. Infine, il tasto
dolente, e che fa venire qualche dubbio sulla ragionevolezza della media: gli
indicatori di struttura e di attività delle aziende ospedaliere (tra
parentesi la media italiana). In Veneto ci sono due Aziende ospedaliere, ossia
Verona e Padova, per 3.555 posti letto. Per ogni posto letto ci sono 2,98
operatori sanitari (2,82), e il rapporto tra infermieri e medici è di
2,57 (2,35). Nelle 57 strutture venete gestite dalle Asl, va peggio: ci sono
2,22 persone per posto letto (2,36). Ma qual è l'ospedale veneto che ha
tre persone dedicate ad un posto letto?
ROMA.
La giunta per le Autorizzazioni della Camera non è competente a decidere
sulla richiesta del Gip di Milano Clementina Forleo ad utilizzare le
intercettazioni di Massimo D'Alema nel processo contro l'ex numero uno di
Unipol Giovanni Consorte perchè all'epoca dei fatti (2005) D'Alema era europarlamentare.
E' quanto sostiene il presidente della Giunta per le Autorizzazioni l'ex
ministro Carlo Giovanardi (Udc) secondo il quale il Gip di Milano probabilmente
dovrà rivolgersi al Parlamento Ue per ottenere l'autorizzazione ad usare
le intercettazioni di Massimo D'Alema nel processo a carico dell'ex numero uno
dell'Unipol Giovanni Consorte. E' la proposta (già condivisa da numerosi
componenti) che Giovanardi avanzerà alla Giunta che tornerà a
riunirsi il 26 settembre, quando si dovranno discutere anche le autorizzazioni
per Fassino e Salvatore Cicu. Il gip di Milano Clementina Forleo in serata ha
riaffermato comunque la validità della propria richiesta alla Giunta per
le autorizzazioni della Camera, malgrado l'ex presidente dei Ds fosse
parlamentare europeo ai tempi delle intercettazioni con Giovanni Consorte sul
caso Unipol-Bnl. Il giudice, intervistata dal quotidiano on line
'Affaritaliani.it', spiega infatti che "la legge è chiara, e io
l'ho rispettata. Al massimo devono trasmettere l'atto al Parlamento Europeo, ma
non cambia nulla". La scelta della Procura, sottolinea Clementina Forleo,
"che è stata da me condivisa, è stata quella di inoltrare la
richiesta in base al secondo comma dell'articolo 6 della legge".
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Il Giornale 19-9-2007. D’Alema (forse) si salva.
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Il Corriere della Sera 19-9-2007 Israele: Striscia di Gaza è
entità nemica
L’Unità 19-9-2007 Comma 22
Marco Travaglio
Telereggiocalabria.it 18-9-2007
Morrone, Udeur: "Non sottovalutare messaggio Beppe Grillo"
Milano Finanza 19-9-2007 L'euro ha sconvolto la repubblica delle
banane
Il Riformista 19-9-2007 DA MORATTI A
FORMIGONI Nordisti confusi su Malpensa
Le reazioni sul blog di Beppe Grillo dopo
arrivano decine di messaggi di protesta. «Osceno e scandaloso» scrive un
lettore. «Continuate a disinformare in questo modo - aggiunge un altro - e
presto da 300.000 saremo 3.000.000». E poi: «Ragazzi, sul Tg2 ci hanno dato dei
brigatisti!». «Beppe, non sanno più come fermarti». «Paragonano un
movimento di cittadini pacifici che vogliono cercare di cambiare le cose a dei
terroristi che istigano alla violenza!». «E allora quando Bossi dice di imbracciare
il fucile?». «La Commissione di Vigilanza apra un'indagine!». E via dicendo.
Con gran parte dei lettori che rilancia l'idea di spedire e-mail di protesta al
Tg2 e al suo direttore.
19 settembre 2007
Si dice "preoccupato per i ritardi del
processo sui rifiuti". Si dice "preoccupato per i tempi lunghi del
procedimento", che è il principale atto di accusa costruito dalla procura
dai tempi di mani pulite e si limita a una richiesta che altrove non avrebbe
senso: "Dare subito un giudice e una data a un processo che rischia di
finire in prescrizione". Il procuratore di Napoli Giovandomenico Lepore
commenta così lo stallo del processo che chiama in causa il governatore
della Campania Antonio Bassolino e gli ex vertici del gruppo Impregilo. In una
stanza vuota, al dodicesimo piano della Torre b, ci sono i faldoni che parlano
di truffa aggravata ai danni dello Stato, frode in pubbliche forniture, abuso
d'ufficio. Il problema è capire se ci sono state responsabilità
dolose nella gestione del ciclo di raccolta rifiuti negli anni in cui intere
zona della regione erano un ammasso di rifiuti. Ci vuole un giudice e un'udienza
preliminare. Un mese e diciotto giorni dopo aver firmato la richiesta di rinvio
a giudizio, il processo resta sospeso in limbo di attesa. Da lunedì
mattina, infatti, il giudice Alberto Vecchione - designato dal computer a
incardinare il processo - è passato a comporre il collegio della nona
sezione penale, in esecuzione di un trasferimento firmato tre mesi prima che la
procura depositasse le richieste di rinvio a giudizio. Un passaggio che scopre
una casella decisiva per far partire il processo. Lepore insiste: "Qualsiasi
gip va bene, purché si faccia presto. A me non interessa la persona che
presiede la sezione, ma solo che venga fissata l'udienza preliminare.
C'è da provvedere alle istanze delle parti e più tempo passa
più aumenta il rischio prescrizione, che è un fatto sfavorevole
per gli imputati e per gli inquirenti". Preoccupazioni che vengono
ribadite forte e chiaro dal procuratore Camillo Trapuzzano, coordinatore della
sezione Urbanistica assieme ad Aldo De Chiara, costretto a girare a una stanza
vuota le richieste di notifica e di adempimenti: "Tutti gli atti che
arrivano, noi li trasferiamo al gip, ma ci rendiamo conto che ci sono delle
richieste urgenti, sulle quali occorre il parere di un giudice. Mi riferisco ai
conti correnti sequestrati, alle istanze che arrivano dalle centinaia di comuni
(ne sono 549, secondo i pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo) indicati come
parte lesa al termine dell'indagine". Anche per Trapuzzano, c'è un
problema di prescrizione: "Abbiamo depositato la richiesta di rinvio a
giudizio il trenta luglio, oggi non abbiamo ancora un giudice, né un termine
dal quale far partire il processo. Intanto, il tempo scorre, indipendentemente
dalla feriale e dalla nostra volontà". Un vuoto di organico che
dovrebbe comunque rientrare nelle prossime ore. Al coordinatore della sezione -
il capo dei gip Renato Vuosi - tocca la nuova designazione, sulla scorta dei
nuovi arrivi firmati la scorsa settimana dal presidente del Tribunale Carlo
Alemi. Al momento è entrata in organico della torre B, l'ex giudice di
Sorveglianza Giustina Caputo, alla quale dovrebbe toccare proprio la sezione
lasciata scoperta dal trasferimento di Alberto Vecchione. Dal prossimo 24
settembre, in arrivo al gip anche l'ex pm anticamorra Aldo Policastro, in
procinto di lasciare una sezione penale del tribunale.
Roma - D'Alema ha
trovato la porta socchiusa, sul retro. Ha infilato l'impermeabile e, di
soppiatto, sta cercando di filarsela. Sembra questo lo scenario dell'inchiesta
del gip milanese Clementina Forleo sulla scalata di Unipol a Bnl e dei rapporti
tra il ministro degli Esteri e Giovanni Consorte. "Visto che D'Alema
all'epoca dei fatti che riguardano le sue conversazioni telefoniche con l'ex
numero uno di Unipol era eurodeputato, il gip di Milano Clementina Forleo
farebbe bene a chiedere l'autorizzazione a usare le sue intercettazioni
direttamente al Parlamento europeo e non alla Camera". A sostenere questa
tesi è Pierluigi Mantini (Dl) che cita a questo proposito alcuni
precedenti. "C'è un fatto che non è stato ancora sollevato
dinanzi alla giunta per le autorizzazioni e che dovrà essere
approfondito - dichiara il deputato della Margherita - perché all'epoca delle
conversazioni intercettate sulle scalate bancarie D'Alema era parlamentare
europeo e non deputato". Scappatoia Ecco trovata la scappatoia per non
concedere al gip l'utilizzo di quelle conversazioni. "A rigore dunque -
aggiunge Mantini - la gip Forleo dovrebbe chiedere l'autorizzazione al
parlamento europeo e non alla Camera. Nel caso riguardante l'onorevole Gianni,
nel 2003 - ricorda l'esponente della Margherita - la Camera,
all'unanimità, ha rigettato la richiesta di autorizzazione da parte del
giudice perché all'epoca dei fatti non era membro del Parlamento. Dunque le
stesse considerazioni possono valere per D'Alema e la Giunta deve approfondire
la questione. Nel fermo proposito di leale collaborazione con la magistratura
ogni profilo deve essere esaminato in modo convincente, a partire da quello
della competenza". Giovanardi conferma "Entro domani domani dobbiamo
decidere la richiesta di autorizzazione per D'alema, Fassino e Cicu. Tuttavia,
dopo un approfondimento fatto dagli uffici, abbiamo rilevato che l'onorevole
D'alema all'epoca delle intercettazioni, nel luglio del 2005, non era un
parlamentare italiano, ma europeo". Così Carlo Giovanardi,
presidente della giunta per le autorizzazioni della Camera. "Oggi in
Giunta insieme agli altri colleghi decideremo ma, molto probabilmente, la
richiesta di autorizzazione all'utilizzo delle intercettazioni non andava
mandata al parlamento italiano, ma a quello europeo. Dove i parlamentari
italiani eletti in Europa godono delle stesse guarantigie che hanno in Italia e
che devono essere verificate, però, da un apposito organismo del
parlamento europeo che ha le stesse competenze che ha la giunta in
Italia".
CONSIGLIO
D'ISTITUTO ICS «GAETANO SALVEMINI»
Siamo il Consiglio
d’Istituto dell’Istituto comprensivo statale «Gaetano Salvemini» di Torino e
vogliamo esprimere il nostro disagio e la nostra indignazione rispetto
all’attenzione riservata alla scuola pubblica nel nostro Paese. Dal 2000 al
2006 le risorse assegnate dal ministero al nostro istituto per il funzionamento
amministrativo e didattico sono passate da
Crediamo che il ruolo pubblico della scuola vada salvaguardato e promosso
attivamente dallo Stato in quanto unico soggetto in grado di garantire vero
pluralismo e accessibilità a tutti. Proprio per questo, la scuola non
può vivere d’aria e di buone intenzioni ma ha bisogno di risorse certe,
congrue e durature, in modo che la programmazione sia vera e di qualità,
e non legata all’emergenza. Servono più risorse anche solo per continuare
a garantire la normale gestione del quotidiano; a maggior ragione ne occorrono
di più se si vuole puntare ad arricchire l’offerta formativa e
migliorare le strutture, con l’obiettivo di offrire ai ragazzi un posto bello
per crescere bene e in sicurezza.
Più risorse affinché la scuola sia davvero gratuita e accessibile a
tutti: le scuole chiedono alle famiglie una quota al momento dell’iscrizione,
altre chiedono di portare da casa tutto il materiale di cancelleria e di
toilette. Scuola pubblica o privata? Più risorse certe per le supplenze,
per garantire il diritto alla malattia e alla sostituzione in tempi rapidi,
evitando il fenomeno dello spezzettamento delle classi con l’inevitabile
riduzione della qualità dell’insegnamento. Più risorse perché i
lavoratori della scuola, a tutti i livelli, siano messi in grado di svolgere in
tranquillità il proprio lavoro, senza eccessive e non riconosciute
preoccupazioni.
Crediamo nell’autonomia, l’abbiamo chiesta e difesa, ma l’autonomia non vuol
dire tagli. Siamo d’accordo con i risparmi e vi assicuriamo che il nostro
istituto sta facendo tutto il possibile per ridurre gli sprechi. Però
l’autonomia deve essere accompagnata e sostenuta e solo allora potrà
dare davvero i frutti sperati. Lo Stato deve assumersi le proprie responsabilità
se crede che l’istruzione, la crescita educativa e la formazione dei nuovi
cittadini siano questioni cruciali per la crescita del Paese. Noi riteniamo che
il bilancio dello Stato debba essere costruito intorno al concetto che esistono
delle priorità: una di queste è sicuramente la scuola pubblica,
bene comune e irrinunciabile di tutto il Paese.
Nel periodo gennaio-giugno 2007 il valore
delle esportazioni italiane ha registrato un aumento dell’11,6 per cento
rispetto allo stesso periodo del 2006 (più 12 per cento verso i paesi
europei e più 11 per cento verso l’area extra Ue).
La crescita delle esportazioni ha riguardato tutte le ripartizioni
territoriali; incrementi superiori alla media si registrano per l’Italia
insulare (più 23,4 per cento) e per l’Italia centrale (più 15,1
per cento); incrementi inferiori a quello medio nazionale si registrano invece
per l’Italia nord-orientale (più 10,7 per cento), per quella
nord-occidentale (più 10,2 per cento) e per quella meridionale
(più 9,2 per cento).
La dinamica congiunturale, valutata sulla base dei dati trimestra-li depurati
della componente stagionale, ha evidenziato, nel secondo trimestre 2007
rispetto al trimestre precedente,variazioni delle esportazioni pari a
più 6,1 per cento per le regioni meridionali e insulari, più 1,3
per cento per l’Italia nord-cciden-tale, più 0,7 per cento per l’Italia
centrale e meno 0,8 per cento per l’Italia nord-orientale.
La decisione del gabinetto di sicurezza di Tel Aviv. Israele
potrà ora tagliare le forniture di energia e carburante al territorio
palestinese. Nelle ultime settimane si sono moltiplicati i lanci di razzi
Qassam
CORRISPONDENTE DA NEW YORK Tutti
guardano all’Iraq ma dove sono in gioco i nuovi equilibri del Pianeta è
altrove, nelle sterminate acque dell’Oceano Indiano». Robert Kaplan è
fra i più brillanti analisti militari di Washington e al termine di una
maratona durata mesi attraverso le basi navali e aeree degli Stati Uniti
attorno al mondo ha racchiuso nelle 527 pagine del volume «Hog Pilots, Blue
Water Grunts» la descrizione di uno scenario «tanto reale e lampante quanto
sottovalutato»: le crescenti tensioni fra potenze marittime nell’Oceano
Indiano.
Il tam tam sulla tesi di Kaplan è tale che i centri studi di Chicago,
Washington e New York lo chiamano a raccontare cosa ha visto e compreso. Da qui
la riunione al Carnegie Council sulla 64° Strada, nell’Upper East Side, dove di
fronte ad un pubblico di addetti militari e diplomatici - in maggioranza
asiatici ed americani, con l’unica eccezione europea dell’ambasciatore di
Svezia al Palazzo di Vetro - l’inviato di «Atlantic Monthly» racconta cosa ha
visto a Est dello Stretto di Hormuz.
«Con gli Stati Uniti impegnati a occupare la Mesopotamia e l’Europa che
continua a ridurre le spese militari, le potenze militari emergenti sono quelle
del Pacifico e si confrontano nell’Oceano Indiano». Se infatti Cina, India,
Giappone, Corea del Sud e Australia condividono un consistente aumento delle
spese militari è nell’Oceano Indiano che si svolge la prima prova di
forza fra loro. Basta vedere cosa sta avvenendo in questi giorni: a inizio mese
27 navi da guerra e sottomarini di Usa, Australia, Giappone, Singapore hanno
condotto l’esercitazione «Malabar» assieme a 7 unità della marina
dell’India a largo dell’arcipelago delle Andamane, nel Golfo del Bengala.
Ovvero lo stesso specchio d’acqua dove nell’isola birmana del Grand Coco la
Cina sta realizzando un imponente centro di sorveglianza elettronica.
Partecipando a «Malabar» con unità di primo piano come le portaerei Uss
Nimitz e Uss Kitty Hawk il Pentagono ha compiuto quello che Kaplan definisce un
primo passo verso la «dottrina delle mille navi» messa nero su bianco da
Michael Mullen ovvero l’ammiraglio della Us Navy destinato a succedere al
generale dei marines Peter Pace alla carica di Capo degli Stati Maggiori
Congiunti. Le «mille navi» sono la somma teorica delle unità da guerra
degli Usa e di tutti i Paesi alleati - asiatici ed europei - che Mullen vede
all’orizzonte come unica opzione strategica da seguire per fare fronte
all’inarrestabile crescita, economica e dunque anche militare, della Repubblica
popolare cinese. «Guardate i numeri e vi accorgerete che il declino dell’Us
Navy sui mari è già iniziato» sottolinea Kaplan snocciolando
numeri: gli Stati Uniti avevano 6.000 navi da guerra nel 1945 che si erano
ridotte a 300 alla fine della Guerra Fredda e ora vanno spediti verso quota 150
mentre la Cina ne conta già 248, l’India 156 e il Giappone è
arrivato a 119.
«Se è certo vero che quelle americane sono ancora le navi più
potenti e meglio armate, la bilancia della crescita oramai pende dall’altra
parte e gli Stati Uniti sembrano destinati a fare la fine della Gran Bretagna,
oggi con appena 43 navi destinate a diventare 29, che iniziò il proprio
declino imperiale sugli Oceani alla fine dell’Ottocento» sottolinea Robert
Kaplan, indicando nell’Oceano Indiano la cartina di tornasole dei «nuovi
equilibri militari fra potenze».
A suggerirlo è il fatto che i manuali navali cinesi fanno costante
riferimento alle gesta di Zengh He, l’esploratore nato nel 1371 protagonista
dell’apertura di nuove rotte verso gli Stretti di Hormuz in maniera analoga a
quanto serve oggi a Pechino per garantirsi la stabilità della forniture
energetiche. La Cina mantiene decine di navi nell’Oceano Indiano, stringe i
rapporti militari con Bangladesh e Birmania, corteggia con investimenti Sri
Lanka e Maldive e progetta nel XXI secolo l’apertura di un canale attraverso la
Thailandia per evitare lo Stretto di Malacca, al fine di garantire e proteggere
in proprio le rotte verso i pozzi del Medio Oriente.
Ma così facendo si scontra con l’India, che ritiene l’omonimo Oceano un
proprio lago come attesta la sistematica opera di pattugliamento delle acque,
fino alle estreme propaggini: le coste del Madagascar e le isole dello Stretto
di Malacca. Anche Tokio è interessata alle rotte energetiche cinesi e
punta a consolidare i rapporti con New Delhi con manovre come «Malabar», forte
del fatto di poter contare su una potenzialità di crescita unica degli
apparati militari: con appena il 2 per cento di pil destinato alla Difesa ha
quasi lo stesso numero di navi dell’Us Navy anche se il Pentagono divora (Iraq
incluso) ben il 4,5 per cento dei pil a stelle e strisce.
«Di fronte alle crescita delle flotte di Pechino e New Delhi, finora Washington
ha giocato due carte, una sbagliata e l’altra giusta» osserva Kaplan. L’errore
sta nel «voler puntare su un’alleanza India-Giappone in funzione anti-Pechino»
perché in questa maniera «la tensione sale e ci pregiudichiamo un più
saldo rapporto con la Cina, nostro più importante partner economico».
Giusto invece è consolidare la presenza nella regione facendo leva sulla
lotta alle bande di pirati che infestano le acque dello Stretto di Malacca,
tradizionale via di commercio fra Cina e India. Dopo l’11 settembre è
stato il ritorno della Us Navy nella base filippina di Subic Bay a consentire
un maggiore impiego di unità contro i pirati, a volte collegati a gruppi
di Al Qaeda. Bloccando i pirati l’Us Navy argina il terrorismo ma «fa anche
diplomazia», osserva Kaplan, perché «ferma chi nuoce tanto alla Cina quanto all’India».
Nel grande gioco geopolitico dell’Oceano Indiano c’è anche l’incognita
russa: molte delle navi cinesi sono state acquistate dal Cremlino e la
cooperazione militare fra Pechino e Mosca, anche attraverso il Patto di
Cooperazione di Shangai, fa temere a Washington la nascita di un’alleanza
euro-asiatica anti-Usa. Destinata a consolidare la dottrina Usa della «mille
navi».
Certo, nel caso della Northern lo stato interviene come salvatore,
nel rispetto della vecchia massima, cara anche ai liberisti, della
"socializzazione delle perdite". Tuttavia è pur sempre un
gradito riconoscimento, l'ammissione che il mercato non è sempre il
provvidenziale padreterno dell'economia, il supremo regolatore, il protagonista
del progresso e del benessere universale. Detto tutto questo - un po' polemico
e anche fatuo - viene da chiedersi perché il quotidiano della Confindustria,
ottimamente diretto da Ferruccio De Bortoli, non apra nell'attuale fase di
crisi globale dell'economia una discussione aperta e spregiudicata sui limiti
del mercato e sulla utilità del tanto disprezzato (quando tutto va bene)
intervento pubblico. Un intervento pubblico che non può essere solo di
emergenza e che nell'attuale fase di globalizzazione dell'economia non
può essere più affidato soltanto allo stato nazionale per due
ovvie ragioni: innanzitutto la riduzione dei poteri effettivi degli stati
nazionali e delle singole banche centrali. In secondo luogo perché siamo in
piena globalizzazione e così accade che le insolvenze degli acquirenti
di immobili negli Usa provochino allarmi e disastri anche in Europa. Sarebbe un
buon segno se "Il Sole 24 Ore" aprisse una seria discussione su stato
e mercato in questa fase di crisi seria dell'economia. Non gli mancano le
pagine e i collaboratori competenti. Altrimenti? Altrimenti dovremmo
considerare il grande titolo di ieri come la proverbiale "voce dal sen
fuggita". Ma potrà mai quel giornale, che adesso vuole lanciare la
moda del liberismo di sinistra, dare ascolto al manifesto?.
La terra trema
ormai sotto i piedi della Casta. Per la prima volta il popolo bue la minaccia davvero. Finora i
signori del potere se ne sono infischiati della rabbia crescente di un
elettorato che si sente irretito nell’impotenza (a dispetto dei rombanti
discorsi che lo proclamano, poverello, sempre più sovrano). Ma ecco che,
inaspettatamente, Beppe Grillo entra nella tana del nemico e, alla festa
dell’Unità di Milano, spara a mitraglia contro gli ottimati Ds. Fino a
meno di un anno fa Grillo sarebbe stato subissato dai fischi; invece, è
stato subissato da applausi. Un episodio che richiama alla mente la caduta
della Bastiglia. Di per sé quell’evento della rivoluzione francese fu un
nonnulla; ma ne divenne il simbolo. Forse sto forzando troppo i fatti. Forse.
Vediamo perché. Intanto, e in premessa, cosa si deve intendere per
«antipolitica »? La dizione è ambigua: sta per «uscire» dalla politica,
estraniarsi; oppure per «entrare» a tutta forza nella politica per azzerarla
(il caso di Grillo). Ciò premesso, le novità sono due. Primo,
Grillo entra in politica avendo prima creato una infrastruttura tecnologica di
supporto e di rilancio: Internet, blog, e un radicamento territoriale
assicurato, ad oggi, dai 224 meet up (gruppi di incontro) che in un giorno
raccolsero 300 mila sottoscrittori per una legge di iniziativa popolare. Ora,
né la satira politica di altri bravissimi comici (Luttazzi, per esempio), né i
girotondini hanno mai dispiegato un armamentario del genere.
Dal che ricavo
che misurare la forza di Grillo con riferimento ai suoi predecessori sarebbe una grave
sottovalutazione. Secondo. Grillo ci sa fare. Non propone un nuovo partito (il
32˚, come ironizzano a torto gli altri 31), ma un movimento spontaneo che
li spazzi tutti via. Inoltre ha messo subito il dito sul ventre sensibile della
Casta: il controllo dei voti. Se vogliamo davvero sapere quale sia lo stato di
putrefazione del Paese, la fonte non è Grillo ma il libro La Casta di
Stella e Rizzo. Quel libro ha venduto un milione di copie—un record di successo
mai visto — eppure non ha smosso nulla. Gli italiani dovrebbero esprimere la
loro protesta «razionale» continuando a comprarlo. Ma anche così dubito
che la Casta ascolterebbe. Perché Stella e Rizzo non controllano voti. Invece
Grillo sì. Lo ha già dimostrato e si propone di rincarare la dose
al più presto. Per le prossime elezioni amministrative Grillo
sosterrà liste civiche spontanee «certificate » (da lui) che escludano
iscritti ai partiti e personaggi penalmente sporchi. Ne potrebbe risultare uno
tsunami. Anche perché il grillismo capitalizza, oggi, sulla retorica (ipocrita)
di esaltazione dello «spontaneismo» dispensata da anni sia da Prodi come da
Berlusconi. Hegel elogiava la guerra come un colpo di vento che spazza via i miasmi
dalle paludi. Io non elogio la guerra, e nemmeno approvo le ricette politiche
«al positivo» del grillismo (a cominciare dalla stupidata della
ineleggibilità di tutti dopo due legislature; stupidata che l’oramai
infallibile incompetenza del nostro presidente del Consiglio ha già
approvato). Ciò fermamente fermato, confesso che una ventata — solo una
ventata — che spazzi via i miasmi di questa imputridita palude che è
ormai la Seconda Repubblica, darebbe sollievo anche a me. E certo questa
ventata non verrà fermata dalla ormai logora retorica del gridare al
qualunquismo, al fascismo, e simili.
19 settembre 2007
Passa in rassegna gli ultimi 20 anni come uno spettatore neutrale,
dimentico di essere stato un protagonista della politica monetaria mondiale e
di aver commesso errori clamorosi: essersi accorto troppo tardi che gli Usa nel
2000 erano in recessione; aver praticato tra il 2002 e il 2005 una politica
sciagurata di denaro a basso costo che ha alimentato la speculazione selvaggia
alla base dell'attuale crisi dei mutui. Però un paio di cose
interessanti Greenspan le dice: peccato non abbia aperto bocca prima. Sostiene,
ad esempio, che alla base dell'invasione dell'Iraq c'è solo la questione
petrolifera e che la bassa inflazione degli ultimi 20 anni non è merito
delle ricette monetariste ma dall'allargamento del mercato mondiale,
dell'entrata in scena di un miliardo di nuovi lavoratori ipersfrutati e di
consumatori senza troppe pretese. Ma quei lavoratori ipersfruttati oggi
cominciano a battere cassa e chiedono una quota un po' più grande del
prodotto sociale. Una richiesta fatta propria anche dalla Banca centrale cinese
che ha fatto appello al governo perché elimini le enormi disparità che
stanno lacerando il paese. E' buona cosa che le banche centrali si occupino un
po' meno di moneta e un po' di più di società. Anche se a
occuparsene dovrebbero essere i governi. Quello inglese, ad esempio,
lunedì è intervenuto nella vicenda della Northern Rock, la banca
in profonda crisi, garantendo tutti i depositi e, ovviamente, la sopravvivenza
della banca. Bene: anche chi deposita i propri soldi in una banca - spesso
poche sterline, ma tutti i risparmi - ha diritto a essere garantito. Il
problema, però, è altro: lo stato non deve garantire i propri
cittadini solo in occasioni speciali e quando è a rischio la
stabilità del sistema finanziario. Deve intervenire sempre. Adam Smith,
il grande economista inglese, scrisse che la grandezza dell'economia era il
frutto e la sintesi dell'egoismo e del tornaconto individuale. In parte vero:
ma quella descritta da Smith era un'altra economia fatta di quelle che oggi
definiremmo piccole e medie imprese. Oggi il panorama è più
complesso. Il ruolo degli stati non può essere solo quello di
regolatore, di assicurare trasparenza, simmetria di informazioni. Tutte cose
necessarie, ma non sufficienti: come insegna la scelta del governo inglese, lo
stato deve intervenire con continuità nella gestione dell'economia e
ancora di più dei bisogni sociali, garantendo a tutti i cittadini
diritti fondamentali. Quindi non solo la libertà, ma l'istruzione, la
sanità, il lavoro e le pensioni. Perché quando si lascia che sia il
profitto a decidere al posto dello stato è inevitabile che scoppi la
bolla dei mutui subprime e che la pensione venga falcidiata sulla base dell'andamento
dei mercati, distruggendo i futuro di persone incolpevoli.
Il complotto fascio-qualunquista-plebiscitario-populista-eccetera
di Grillo contro i partiti trova ogni giorno nuovi alleati nei partiti
medesimi. Non bastassero le ambulanze e gli aerei di Stato usati come taxi,
è in fase di decollo la famosa legge Mastella sulle intercettazioni:
quella che, anziché consigliare ai politici di non telefonare ai delinquenti, vieta
ai giornali di pubblicare le telefonate dei politici con i delinquenti. Ma,
siccome non c'è limite al peggio, Franco Bechis rivela su "Italia
Oggi" che il testo già orrendo approvato in aprile dalla Camera sta
per essere aggravato in Senato con un emendamento "anti-Forleo"
dell'ex Dl Franco Manzione: quello che a luglio stava per far cadere il governo
con un emendamento che riusciva financo a peggiorare l'ordinamento giudiziario
Mastella). Ora Manzione merita un'altra menzione. "Lo scopo spiega Bechis
- è impedire la presentazione in Parlamento di altre richieste come
quella della Forleo che possano essere usate contro deputati o senatori, a meno
che prima non vengano indicati i reati per cui sono perseguiti quei
parlamentari. Se non saranno indicati (e non potrebbero, visto che quei testi
sono inutilizzabili senza l'ok delle Camere), l'autorizzazione non verrà
concessa. O verrà concessa solo per procedere contro terzi (Consorte e
Fiorani). Un bel circolo vizioso, che aggiungerebbe nuova immunità alla ricca
protezione costituzionale dei parlamentari". Se le cose stanno
così, l'emendamento è direttamente ispirato al "Comma
22" di Joseph Heller: i piloti militari possono chiedere l'esonero dai
voli di guerra se sono pazzi, ma chi chiede l'esonero dai voli di guerra
è tutt'altro che pazzo: i pazzi sono quelli che li fanno, i voli di
guerra. Qui la situazione è analoga: la legge Boato del 2003 dichiara
inutilizzabili le telefonate di un indagato che parla con un parlamentare,
salvo autorizzazione del Parlamento. Per usarle contro l'indagato ed
eventualmente anche contro il politico suo complice, la Procura deve mandarle
al Gip perché chieda il permesso alle Camere. È quel che ha fatto la
Forleo con le telefonate tra i furbetti e sei politici di FI e dei Ds. La
Procura l'ha avvisata di volerle usare nei confronti dei furbetti (già
indagati su elementi diversi dalle telefonate) e di "altri da
identificare": cioè i parlamentari non ancora
"identificati" ufficialmente perché le conversazioni sono
inutilizzabili. Perché il Parlamento capisse, la Forleo le ha riportate,
sottolineando quelle da cui emerge, "ad avviso di questa autorità
giudiziaria", il "concorso nel disegno criminoso" -
l'aggiotaggio dei furbetti - da parte di alcuni parlamentari. Questi si sono
molto offesi ("atto abnorme", "violazione di legge",
"ordinanza irricevibile"): ma come, un gip ci accusa di un reato per
cui la Procura non ci ha indagati? La risposta è nella legge Boato: la
Procura non li ha indagati perché non può ancora farlo: l'unica notizia
di reato a loro carico emerge dalle telefonate, che però sono
inutilizzabili se il Parlamento non le autorizza. Il gip, per avere il
permesso, spiega per quale reato e nei confronti di chi. Ma il Parlamento
risponde: se prima non indagate i parlamentari, non possiamo autorizzarvi a
usare le telefonate per indagarli. Una follia. Che ora, se passa il comma
Manzione, raddoppia: se il magistrato vuole chiedere di usare le telefonate
anche contro i politici, deve prima formalizzare l'accusa nei loro confronti;
ma, visto che la legge Boato vieta di usarle per formalizzare un'accusa,
è inutile chiedere al Parlamento il permesso di usarle. O il magistrato
distrugge le bobine, o chiede al Parlamento di usarle solo contro i
non-parlamentari (e resta da capire perché mai il Parlamento dovrebbe
pronunciarsi sul destino processuale di chi non ne fa parte). Oggi, almeno in
teoria, è ancora possibile giudicare i parlamentari per i loro reati a
mezzo telefonico (pur se la Boato ha reintrodotto surrettiziamente l'autorizzazione
a procedere abolita nel '93): solo in caso di "fumus persecutionis"
il Parlamento può respingere la richiesta del Gip. Con il "comma
22", invece, i parlamentari diventano invulnerabili. Anziché autorizzare
senza se e senza la Procura di Milano a usare le telefonate nei confronti di
chiunque lo meriti, e cancellare la Boato che ha causato questo pasticciaccio
brutto, il Parlamento la peggiora, mettendo nero su bianco che i giudici non
devono provarci mai più. E che la legge non è uguale per tutti.
Poi, naturalmente, l'"antipolitica" è colpa di Grillo. Uliwood
party.
(segue dalla prima di cronaca) Ma il presidente della Regione
è imputato per "truffa aggravata ai danni dello Stato e frode nelle
forniture" con altri 27. Industriali come Piergiorgio Romiti, docenti come
il subcommissario Raffaele Vanoli, tecnici come Salvatore Acampora che del
meccanismo sa proprio tutto. Sono coinvolte le imprese Fibe e Fisia della
galassia Impregilo. Un processo così andava protetto. Evidente
l'insensibilità: si trascura l'allarme sociale dello sperpero di danaro
pubblico senza che sia stata mai chiusa l'emergenza rifiuti, ma anche
l'interesse degli indagati a difendersi. Lo stesso Bassolino sta
già pagando un prezzo politico: impopolarità e crisi di
leadership, fuoco incrociato di amici e nemici. La notorietà degli
imputati fa correre il rischio più alto alla giustizia: il sospetto su
intralci e fughe dal megaprocesso. Era già intervenuto Lepore per
bloccare i due pm: dopo una inchiesta di tre anni con cento faldoni, 130 mila
pagine, 28 di solo indice, chiesero di cambiare sezione. Era stata ridotta
("Ambiente e Urbanistica") da
NEW YORK
La Federal Reserve ha tagliato oggi i tassi sui fed funds per la prima volta in
più di quattro anni; e la manovra di politica monetaria espansiva decisa
dal presidente dell’istituto Ben Bernanke è stata molto più
incisiva di quanto gli analisti avessero stimato nei giorni precedenti. Il
taglio dei tassi sui fed funds - tasso a cui avvengono i prestiti interbancari
- è stato ridotto infatti di 50 punti base, dal 5,25% precedente al 4,75
per cento. Tagliato, sempre di 50 punti base anche il tasso di sconto - quello
a cui la Fed eroga prestiti alle banche -, che è stato abbassato al
4,75% dal 5,25% precedente, a cui era sceso lo scorso 17 agosto, giorno in cui
la Fed aveva operato un taglio di mezzo punto percentuale per soccorrere i
mercati, piegati dalla crisi del credito.
I precedenti
L’ultima volta che i tassi sui fed funds vennero tagliati fu nel giugno del
2003, quando il costo del denaro venne abbassato all’1 per cento.
Successivamente, la Fed optò per una politica monetaria restrittiva,
complice la crescita economica, fino a portare i tassi di interesse al 5,25% il
29 giugno del 2006. Da allora fino a oggi, dunque per più di un anno, il
costo del denaro è stato poi mantenuto invariato per nove volte
consecutive al 5,25%, nonostante gli appelli degli investitori che da mesi
chiedevano il ritorno a una politica di taglio dei tassi. Quella politica
è tornata ufficialmente oggi e ha sorpreso i mercati, dal momento che la
maggioranza degli analisti aveva previsto una riduzione di un quarto di punto
percentuale, al 5 per cento.
L'Euro vola
Dopo la decisione della Federal Reserve l’euro ha toccato il nuovo massimo
storico a quota 1,3938 dollari, superando il precedente record fissato a 1,3927
dollari. Positiva la reazione di Wall Street dove i listini azionari hanno
puntato verso l’alto. Il Dow Jones ha guadagnato il 2,43%, mentre il Nasdaq è
avanzato del 2,64%.
Ad Alan Greenspan i mezzi certo non mancano per sfruttare i suoi
errori a proprio vantaggio. Nel suo libro di memorie appena pubblicato, per il
quale gira voce che abbia ricevuto la somma di ben 8 milioni di dollari, pari a
16.000 dollari a pagina, l'ex numero uno della Fed ammette di non essere stato
in grado di rilevare gli eccessi del mercato dei mutui Usa fino a quando ormai
non era troppo tardi. Forse perché era troppo indaffarato a mettere a punto i
suoi discorsi, notoriamente sibillini, sulla politica monetaria. Un errore che
probabilmente l'economia statunitense pagherà a caro prezzo,
considerando che da esso sono scaturiti una costruzione di immobili a dismisura
e una vera e propria febbre immobiliare in molte parti del paese, che
ora potrebbe sfociare in un'ondata di pignoramenti. C'è almeno un
esperto, il cui pensiero è spiattellato sulle prime pagine di tutto il
mondo, secondo cui i prezzi delle case potrebbero diminuire di
valori a "due cifre", mentre la possibilità che gli Usa
finiscano nel tunnel della recessione è, sempre a suo dire, del 50%.
L'esperto che ha catturato le prime pagine dei giornali è Greenspan in
persona. L'ultraottantenne ex capo della Fed ha chiaramente e sapientemente
corretto il tiro, conscio che il tipo di gergo prolisso ed ermetico da
banchiere centrale, che lo ha portato ad essere visto dai mercati come un
genio, difficilmente lo avrebbe reso un eroe agli occhi degli editori. Ma nel
promuovere le vendite del memoriale, creando sconforto sui mercati, l'ex numero
uno della Fed ha spostato l'attenzione su un aspetto meno gratificante della
sua eredità: un'economia Usa pericolosamente sovraindebitata. Questo gli
costerà caro, ancorché in una valuta diversa: la sua reputazione.
[northern rock, La storia si ripete ] Che cosa ha in comune il dissesto della
banca inglese Northern Rock con le difficoltà degli intermediari, il
tracollo del fondo Lctm e la crisi asiatica? La radice di tutti questi
pastrocchi finanziari è la pratica di procurarsi, indebitandosi a breve
scadenza, fondi da investire a lungo termine, sovente in immobili. Fino a
quando i mercati vanno bene può sembrare una strategia vincente perché i
finanziamenti brevi sono meno onerosi di quelli a lungo termine (infatti
Northern Rock era stata premiata dall'impennata della quotazione in Borsa), ma
è un esercizio di alta acrobazia: quando la liquidità del sistema
si contrae, chi si è impegolato in simili funambolismi si ritrova
sospeso nel vuoto senza rete di sicurezza, a meno che qualche ente pubblico
accorra al salvataggio per evitare guai peggiori. Le banche che investono in
beni illiquidi (sia direttamente come Northern Rock, sia indirettamente
finanziando chi investe in cartolarizzazioni) devono tutelarsi con
ammortizzatori molto robusti, specie quando per reperire i fondi ci si indebita
a breve scadenza. L'imposizione di coefficienti patrimoniali che attribuiscano
il giusto peso a queste "scadenze asimmetriche" farebbe salire i
costi di simili operazioni e dissuaderebbe da molti comportamenti
irresponsabili, ma forse è troppo pretendere che le banche si adeguino
spontaneamente, tanto più vista la tendenza delle autorità a
salvarle dagli effetti dei loro errori. Stavolta però, dopo la peggiore
crisi del credito da decenni, gli organi di vigilanza dovranno prendere
provvedimenti seri, o tra qualche anno vedremo altre crisi e altri salvataggi.
(Traduzioni a cura di MTC).
Cara Europa, il presidente del consiglio Romano Prodi ha detto
lunedì sera, a Porta a porta, che la società civile non è
migliore della classe politica, che invece la riflette con i suoi pregi e
difetti. E il prof. De Rita dice che gli italiani fischiano “per principio” chi
li governa. Dopo averli eletti. Allora, credo non ci sia scampo, è un
circolo chiuso. ADOLFO RIZZI,
ROMA
Caro Rizzi, proprio così, come dice lei. La classe politica
è ciò che il corpo elettorale esprime. Talvolta, come nelle
ultime elezioni, il corpo elettorale non ha espresso, ma soltanto ratificato
ciò che la classe politica gli ha imposto, nominando essa i deputati e i
senatori. Ma, esaurita rapidamente la precaria popolarità del governo
Prodi, a chi si sono rivolte di nuovo le intenzioni di voto della maggioranza
degli italiani? Proprio a coloro che avevano costruito lo strumento, il
Porcellum, per ridurre il loro voto a mero formalismo. Forse è per
questo che Mussolini diceva che «governare gli italiani non è difficile,
è inutile» (ma si domandava quanti contributi lui e il suo movimento
avessero dato all’antipolitica?).
Del resto, aveva avuto precursori e seguaci da Oriani a Prezzolini, D’Annunzio,
Longanesi, lo stesso mio maestro Montanelli che devastava l’esistente,
proponeva tuttavia di votarlo turandosi il naso, ma progetti di conciliazione
fra popolo e stato, fra società civile e classe politica non ne
promuoveva gran che.
Nati tardi alla storia di popolo indipendente dopo secoli di governi spagnoli,
austriaci, pontifici, granducali, regi, oligarchici, localistici, ecc., gli
indigeni della penisola, diventati finalmente italiani, furono accompagnati
dagli intellettuali non a maturare coscienza civile e appoggio alle
istituzioni, che sono il solo modo di rendere non retorico ma concreto il
cosiddetto “amor di patria”: fu tutto uno scatenamento di ire ideologiche e di
risentimenti di parte contro il Risorgimento, che i repubblicani definivano “La
conquista regia” (Dorso), i clericali “Lo stato degli usurpatori” (cardinal
Antonelli e confratelli d’ogni ordine e grado), i comunisti “Rivoluzione
agraria mancata” (Gramsci), i liberal-azionisti “Risorgimento senza eroi”
(Gobetti) e via sproloquiando. E anche nascondendo pezzi di verità.
Vuole due esempi freschi freschi? Giuseppe De Rita, sociologo che seguiamo da
quarant’anni, parlando di ingiurie e fischi con cui il popolo accompagna chi ha
appena eletto, dice che, arrivato in trionfo a Palazzo Chigi, Berlusconi si
trovò «accerchiato da Moretti che gli faceva intorno un girotondo di
protesta». Falso. Moretti, e noi con lui, i girotondi li facemmo non contro
Berlusconi ma contro i nostri dirigenti di centrosinistra perché si
svegliassero e dessero battaglia al vincitore. Ancora. Lunedì Panebianco
scriveva che in Italia la politica va sempre più giù perché
è finito l’ultimo collante che la teneva unita, «l’odio». Ma di quale
odio parla? Di quello del centrosinistra verso Berlusconi. Dell’odio della
destra verso “i comunisti che mangiano i bambini o li lessano e ne concimano i
campi”, il signor Panebianco s’è dimenticato.
Ecco il “tradimento dei chierici”. Come possono gli italiani diventare
maggiorenni se i loro chierici gli falsificano addirittura i punti di partenza,
i fatti da cui cominciare? Il discorso è lungo, meriterebbe ben altro
che una lettera. Per oggi, s’accontenti.
ROMA - «La componente liberaldemocratica della Margherita non
entrerà nel Partito democratico». Lo ha annunciato Lamberto Dini. L'ex
primo ministro ha ufficializzato la nascita dei Liberaldemocratici, che
resteranno nel centrosinistra continuando ad appoggiare il governo, al cui
operato guarderanno però con attenzione. Oltre a Dini, nei
Liberaldemocratici entrano i senatori Natale D'Amico, Salvatore Scalera (e
forse Willer Bordon, Roberto Manzione e Domenico Fisichella), entrano inoltre
la sottosegretaria alla Giustizia Daniela Melchiorri e Italo Tanoni. «La lotta
tra Ds e Popolari ha schiacciato le altre identità politiche all'interno
del nascente Partito democratico», ha detto l'ex governatore della Banca
d'Italia. «Non cerchiamo posti e i presenti non saranno iscritti alle cosidette
primarie anomale del 14 ottobre. Le chiamo anomale perché non si voterà
per il candidato premier ma per liste predisposte dai partiti».
VELTRONI - «Walter Veltroni è la persona più adatta a guidare il
Partito democratico», ha aggiunto Dini. «Vogliamo essere sostenitori del Pd e
saremo al suo fianco. La nostra infatti non è una scelta definitiva.
Auguriamo al Pd di avere successo. Saremo a fianco al governo ogni qualvolta
sarà in linea con le nostre richieste che mirano a superare il declino
dell'Italia».
«DINI SBAGLIA» - «Dini sbaglia: il Pd è occasione per i
liberaldemocratici», ha replicato il senatore Ds Stefano Passigli. «Quanti come
noi si sono riproposti di dare vita nel Partito democratico a un'area politico
culturale di ispirazione laica, confermano di considerare il Pd come la sola
via per rendere maggioritari questi valori. Prendere le distanze dal Pd
significa indebolirli e perdere un'opportunità di dar loro sostanza».
«Ogni rinuncia rappresenta un'occasione mancata, soprattutto per quelli che
scelgono di non partecipare», ha detto Antonello Soro, coordinatore della
Margherita .
"La politica non può e non deve sottovalutare il fenomeno
Grillo. E nemmeno limitarsi a rispondere con sufficienza". E' quanto
afferma in una nota il segretario di presidenza della Camera dei Deputati e
responsabile nazionale enti locali dell'Udeur, Ennio Morrone, circa le
dichiarazioni di Beppe Grillo sulla politica. "Non si possono ignorare -
ha aggiunto - gli aspetti qualunquistici dei discorsi del comico genovese,
certo. E sul tema dell'indulto, ad esempio, di argomenti poco seri Grillo ne ha
sostenuti molti. Ma il fenomeno deve far riflettere per il seguito e
l'attenzione che gli sta dedicando l'opinione pubblica. Se un comico che parla
di abolire i partiti, azzerare la classe politica e fondare listi civiche con
una sorta di marchio di garanzia costituito dal suo stesso nome ha un tale
seguito è evidente che c'é qualcosa che non va". "Non è
Grillo - prosegue Morrone - dunque il problema. Il problema sta nella fortuna
che sta avendo. La politica deve rispondere. E deve farlo con i fatti. Si deve
opporre alla cattiva politica la buona politica. Gli sprechi della politica
devono lasciare il posto al taglio della spesa pubblica. E' necessario ridare
fiducia ai cittadini. Pensando ai parlamentari gli elettori devono tornare a
pensare ai loro rappresentanti, a chi difende i loro interessi. A chi lavora
per l'Italia. Sembrano obiettivi difficili da raggiungere. In realtà non
è così. Se la politica saprà lavorare bene, la fiducia
degli Italiani sarà presto riconquistata e quanti predicano il
qualunquismo pur di farsi un po' di pubblicità verranno isolati".
"Grillo altro non è - conclude - che un predicatore che ha trovato
uno spazio vuoto da colmare, un'insoddisfazione da cavalcare. Di gente come lui
è piena la storia di ogni democrazia".
Caccia grossa a corrotti e corruttori. Vertice a due tra il
ministro dell’Università Fabio Mussi e il commissario anticorruzione
Achille Serra: «Voglio dire con chiarezza ai docenti coinvolti nelle truffe –
ha minacciato Mussi – che non avrò pace finché non li vedrò
cacciati». «Bisogna liberare l'Università dai corrotti e dai corruttori
– ha spiegato il ministro – Circoscrivere il fenomeno e colpire». A dare man
forte al ministro, anche Serra che ha ammesso che «il fenomeno è più
ampio di quanto appaia». «Ora – ha proseguito il commissario anticorruzione –
abbiamo due obiettivi: valutare l'entità del fenomeno delle
irregolarità, cercando di capire anche se si tratta di un fenomeni
nazionali o legati a realtà locali, e - continua- prevenire gli illeciti
futuri dettando regole precise. Intanto, chi ha sbagliato deve andare via».
Il ministro Mussi lancia un appello alle migliaia di studenti che hanno
denunciato irregolarità nei test di ammissione all’università:
«Denunciate subito – li ha esortati – bisogna contestare a prova aperta». Un
settembre nero per il ministro di Sinistra Democratica, che però tiene a
precisare che questo «non è l'anno della corruzione» ma è l'anno
«in cui è cominciato a venir fuori il fenomeno».
A far emergere le truffe sono state le denunce di centinaia e centinaia di
studenti che hanno assistito a scene clamorose – professori che sedevano al
fianco di alcuni esaminandi, suggerimenti, libera uscita dall’aula solo per
qualche studente – ma anche quelle che Mussi chiama «anomalie statistiche
clamorose», come ad esempio la concentrazione dei migliori risultati in alcune
città, come Messina, dove gli studenti hanno dato magnifica prova di sé,
«in particolare nella stanza 3D», chiosa ironico il ministro.
Ma al di là di quanto successo, il problema è il futuro. «Io sono
contrario al numero chiuso – ha dichiarato il ministro – ma ci sono vincoli
europei per cinque professioni. È evidente che la riduzione dei corsi a
numero chiuso deve andare di pari passo con i mezzi forniti alle
università per fornire percorsi didattici adeguati». Qualcosa, precisa
Mussi, comunque è già stato fatto: «Grazie anche ad una lettera
che mandai ad aprile ai rettori – sottolinea il ministro – per la prima volta i
corsi ad accesso programmato si sono ridotti del 15%, sono
L'euro ha sconvolto la repubblica delle banane Clemente Mastella,
colto assieme al figlio in rotta verso l'autodromo di Monza su un aereo di
stato, ospite di Francesco Rutelli, ha ragione e torto, a un tempo, nel reagire
contro le polemiche che gli si sono abbattute addosso come un temporale estivo.
Ha ragione quando si stupisce del fatto che, almeno inizialmente, solo lui sia
stato incastrato nella gogna mediatica per una scelta, poi, che è
legalmente ineccepibile ma che è anche politicamente azzardata. Ha
invece torto quando non capisce che in Italia il clima è completamente
cambiato nei confronti dei politici che usano con disinvoltura, anche se
legittimamente, i fondi pubblici.L'opinione pubblica italiana, che ai tempi della
Milano da bere sorrideva con sufficienza e compatimento di fronte ai viaggi di
stato pieni di nani e ballerine e che non batteva ciglio quando un ministro che
allora veniva definito come "il Grande forforato", per la lunga
zazzera che non aveva mai conosciuto l'onta di uno shampoo, andava in giro per
balere con voli di stato, adesso non fa più sconti a nessuno. Non
è che 20 anni fa l'opinione pubblica non sapesse. è che 20 anni
fa sapeva e tollerava e invece adesso non tollera più.TSUNAMI POLITICO -
A un sistema (che per molti coincide con la classe politica) che chiede
continuamente nuovi sacrifici alla gente, in un tunnel di cilici di cui non si
vede il fondo, l'opinione non fa più sconti. I mutamenti sociali sono
come gli tsunami. Arrivano improvvisamente, imprevedibilmente. E sono
deflagranti. Non possono essere contrastati. Al massimo, possono essere
surfati. Chi si oppone viene travolto senza scampo. è quindi patetica la
reazione di Silvio Sircana, il portavoce di Prodi, perché è frutto di
una non conoscenza dei fondamenti di questi fenomeni, che un esperto di
relazioni pubbliche dovrebbe conoscere (per documentarsi gli consigliamo
Movimento e istituzione di Francesco Alberoni, che è addirittura del
1977). Sircana, per reagire a questo scandalo mediatico, ha chiesto l'elenco
dei voli di stato fatti durante il precedente governo Berlusconi e
"soprattutto" l'elenco di chi, su quegli aerei, era stato ospitato a
sbafo. Dall'indignazione popolare su questi comportamenti non ci si salva,
oggi, nel 2007, dicendo che gli altri facevano peggio, ma solo dimostrando che
adesso ci si comporta meglio. Come, per esempio, si comporta meglio, bisogna
riconoscerlo, il presidente del consiglio Romano Prodi, che nei suoi
spostamenti da e per Bologna usa regolarmente il treno, mentre il
presidente della Camera, Fausto Bertinotti, si è recentemente rassegnato
controvoglia a usare il treno per andare da Roma a Firenze (due ore di viaggio,
comodissimo), solo perché gli aerei di stato erano tutti prenotati da altri.SEGNI
PREMONITORI - Ma che cosa è successo per far ritenere inaccettabile
ciò che fino a pochissimo tempo fa era digerito senza sforzo
dall'opinione pubblica? E perché un libro di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo
(La casta), che tratta gli stessi argomenti sviluppati dagli stessi autori nei
loro libri precedenti, che però vendevano sulle 20 mila copie, adesso
vende 750 mila copie, e non si è ancora fermato, nelle librerie? E
perché, ancora, l'Espresso, da quando ha scelto di prendere di mira i politici
senza far loro sconti, registra aumenti di vendita del 60%, in un momento in
cui tutti i giornali stanno soffrendo una contrazione?Il motivo di questo
mutamento radicale è dovuto all'adozione dell'euro e ai conseguenti
parametri di Maastricht, nonché alla più accesa concorrenza internazionale
da mondializzazione dei mercati. Euro e Maastricht (con i relativi
parametri-tagliola) ci impediscono di usare quella droga che è
l'inflazione (che toglie il dolore, ma che, come tutte le droghe, dà
assuefazione, dipendenza e intorpidisce le reazioni collettive; dopo il primo
flash che dà sollievo a tutti, essa infatti premia i debitori e punisce
i creditori; fa crescere il valore dei patrimoni, specie immobiliari, ma
deprime il potere d'acquisto delle retribuzioni).Euro e Maastricht ci
impediscono anche di ricorrere a quella sorta di condono-amnistia che è
la svalutazione della moneta.Gli italiani che operano nelle imprese esposte
alla concorrenza sono quindi stati espulsi, di fatto, a causa dell'euro, dalla
repubblica delle banane nella quale abitavano e che criticavano, ma dalla quale
traevano anche deleteri benefici. Le imprese italiane, che adesso sono strette
tra un fisco che non fa sconti, una concorrenza internazionale che
abbassa i prezzi, un euro che, anziché svalutarsi come la vecchia liretta,
continua a rivalutarsi, persino nei confronti del dollaro, e un'Europa senza
frontiere, che è cresciuta come una metastasi fino a includere ben 27
paesi), le imprese italiane, dicevo, stanno da qualche tempo raschiando il fondo
del barile, hanno messo sotto ferreo controllo i costi di produzione, hanno
tolto tutto il grasso dovunque esso fosse, e adesso molte di esse, alla perenne
ricerca di nuove risorse, stanno addirittura incidendo anche sui muscoli
aziendali. E i lavoratori dipendenti, oltre a non trovare posti di lavoro per i
loro figli, constatano che ogni (sia pur modesto) aumento retributivo è
subito divorato dal fisco e dagli oneri contributivi, in un gioco che, se non
fosse crudele, sembrerebbe un brillante esercizio di prestigio. Prendi questo
aumento di 100 euro, ma in busta paga poi leggi che l'aumento, depurato da
tasse e contributi, è solo di 50 euro.LA VERA RAGIONE - Ecco spiegato
(anche se i politici fanno finta di non capirlo) perché 2 milioni di italiani
che avevano votato 18 mesi fa per il centro-sinistra, gli hanno voltato le
spalle nelle ultime elezioni amministrative. Ecco perché, dopo aver appreso che
l'Alitalia perde 4 miliardi di vecchie lirette al giorno, gli italiani
auspicano, senza versare una lacrima, che fallisca al più presto. Ecco
perché, dopo aver alzato le spalle e sorriso con sufficienza, fino a tutti gli
anni 80, davanti all'arroganza dei voli di stato e delle auto blu con le sirene
spiegate, adesso si arrabbiano di brutto. Ecco perché a Bologna (Bologna, la
capitale del partito) il rito contro i partiti, celebrato da Beppe Grillo, ha
attirato 50 mila persone.è cambiato il vento. E i politici di ogni
colore, se vogliono salvarsi, debbono tenerne conto. Abbassando il loro
esibizionismo e convertendosi anche loro, nella gestione della cosa pubblica,
al rigore che gli italiani, che sono stati espulsi dalla repubblica della
banane, sono costretti ad adottare e a subire.
ROMA Piero Fassino indossa i panni del moralizzatore, convinto
che, in tempi di V-Day e di antipolitica, la "casta" debba saper
ascoltare e soprattutto rispondere al disagio dei cittadini. "Stop agli
aumenti automatici degli stipendi dei parlamentari" è la richiesta
che il leader della Quercia avanza ai presidenti di Camera e Senato. Ma la
risposta non è delle più calorose: Bertinotti si affretta a far
notare che "tagli sono stati già fatti e ben prima di Grillo";
Marini constata che solo una modifica della legge può eliminare un
privilegio. E anche nel Pd c'è chi ritiene che la scure sugli stipendi,
indicata da Fassino, non sia la risposta giusta a Grillo. La richiesta del
leader della Quercia arriva, per lettera, ai due rami del Parlamento dove da
gennaio c'è un doppio regime: se ai deputati gli aumenti automatici sono
stati congelati, i senatori possono godere di circa 200 euro in più.
Certo non cifre da capogiro, ma per Fassino significative di una volontà
di avvicinare la vita dei parlamentari a quella dei cittadini e di "non
volgere lo sguardo altrove" davanti ai segnali di insofferenza che
arrivano dai cittadini ma anche dagli elettori del centrosinistra. "La
credibilità di chi riveste incarichi pubblici - scrive il segretario
della Quercia a Bertinotti e Marini - dipende anche dalla sobrietà dei
suoi comportamenti e dal condurre una vita normale. Tutto ciò che appare
privilegio, disparità di trattamento, condizione di favore non
può che irritare i cittadini e ridurre la loro fiducia nelle istituzioni
e nella politica". La replica del presidente della Camera è
immediata, prima per scritto e poi a voce, e tra le righe traspare una punta di
irritazione: "Gli aumenti automatici - risponde Bertinotti - sono stati
congelati a gennaio e Fassino dovrebbe saperlo, essendo deputato".
Montecitorio, rivendica Bertinotti, "ha agito prima di Grillo,
bisognerebbe evitare gli effetti distorsivi nella lettura dei fenomeni".
Fassino ringrazia e si spinge oltre nella cura dimagrante: nuove norme sugli
stipendi dei parlamentari "ispirate a rigore, sobrietà e
trasparenza". Se alla Camera si è già agito, al Senato la
proposta del segretario Ds arriva forse troppo tardi. "C'è un solo
modo di intervenire: cambiare la legge", puntualizza in aula Marini. Fin
qui i vertici delle istituzioni. E non sembrano più entusiasti, al di
là delle belle frasi, parlamentari e partiti. Per la sinistra radicale
la proposta del Ds è poco più che un punto di partenza.
"Bisogna intervenire con la scure e non con la lima", sostiene il
ministro del Prc, Ferrero. Ora, incalza il leader dei Verdi Pecoraro Scanio,
bisogna eliminare "consulenze e maxi-sprechi dal Parlamento alle
Regioni". Tiene tutti in suspence il segretario del Pdci Diliberto
annunciando tra 15 giorni "una salutare cura da cavallo" mentre
l'Italia dei Valori si associa: siamo con Fassino. Dalla Cdl critiche di
"demagogia" nella convinzione, sostiene l'azzurra Bertolini, che il
leader Ds "tenti opportunisticamente di cavalcare il grillismo". Ma
anche nel Pd non tutti sono convinti che la ricetta di Fassino sia la migliore
per zittire "i grilli". Il coordinatore Dl, Soro, spiega di non
condividerla ed avverte che "il più grande errore politico è
cercare di scavalcare Grillo, di scimmiottarlo".
I deputati si lamentano dei
ritardi e delle inefficienze del servizio di trasporto con le auto blu.. Alla
camera si discute di auto blu e non per ridurle, ma per metterci pure un
lampeggiante che ne faciliti lo scorrimento nel traffico. Già, perché,
senza, l'onorevole rischia di rimanere bloccato tra le strade di Roma quando
invece, magari, ci sono leggi importanti da votare in parlamento. La
discussione sul servizio di auto blu è andata in scena tra i componenti
dell'ufficio di presidenza della camera. Chiamati a discutere, e ad approvare,
su proposta del collegio dei questori, il trasferimento di 12 coordinatori e
tecnici del reparto autorimessa ad altra area. Una vera riqualificazione
professionale, quella che interessa 12 sui 34 addetti del parco macchine di
Montecitorio (tutti gli altri autisti sono esterni alla camera), visto che
saranno inquadrati nei ruoli degli assistenti parlamentari. La selezione
sarà fatta tenendo conto delle condizioni di salute degli interessati,
che ne potrebbero limitare la piena funzionalità al reparto autorimessa,
ma sopra tutto della loro naturale "attitudine". I trasferiti saranno
individuati da un'apposita commissione, da istituirsi in seno alla camera, che
assumerà informazioni sull'attività prestata da ogni singolo
dipendente dal competente capo servizio. Un colloquio con il candidato, poi,
sarà la prova decisiva per il passaggio. Ma l'operazione, che
dovrà essere realizzata entro il 30 giugno 2008, finirà
inevitabilmente per sguarnire i ruoli degli autisti, già oggi giudicati
sottorganico rispetto alle esigenze di servizio dei deputati, si sono lamentati
gli onorevoli. E così nell'ufficio di presidenza di Fausto Bertinotti si
parla già di nuove assunzioni. L'argomento auto blu è del resto
molto sentito, tra i deputati. Antonio Mazzocchi (An) si lamenta delle troppe assenze
del personale in servizio, gli fa eco il collega Teodoro Buontempo che chiede
un aumento dell'organico: visto che "le poche unità di personale
che svolgono le mansioni di autista debbono sopperire a molteplici richieste di
erogazione del servizio". E poi c'è il problema del traffico. Per
rispondere a pieno "alle esigenze di celerità connesse a motivi
istituzionali", Buontempo e la Valentina Aprea (Fi) concordano sulla
necessità di dotare tutte le autovetture della camera di
"dispositivi di riconoscimento". Insomma, con un bel lampeggiante si
va molto più veloci. Alla tavola dei deputati, invece, il risparmio
è servito. La camera risparmierà circa 3milioni e700mila euro con
il progetto che prevede di affidare a una ditta esterna (Osama, la stessa che già
opera al senato), il ristorante degli onorevoli. Infatti, se nel 2006 il volume
è stato pari a 5milioni 232mila euro di spesa, a fronte di un costo
medio per pasto di 90 euro, con la esternalizzazione si prevede di spendere
appena un milione e 662mila euro. Si tratta di una prova, però, che
durerà 18 mesi. Solo dopo il collegio dei questori deciderà se
ripassare la palla agli uffici o indire una gara per l'appalto definitivo degli
onorevoli pasti. nel frattempo, però, sette cuochi e venticinque addetti
al servizio di ristoro dovranno trovare altra occupazione. Certo, il salto dal
fornello alle fotocopiatrici o al centralino sarà un po' duro da
digerire. Ma il collegio dei questori assicura che il reclutamento per le nuove
mansioni è avvenuto in piena condivisione: la selezione ha puntato su
chi ha manifestato la volontà di cambiare. E se poi i deputati non
saranno soddisfatti del nuovo servizio e così la gara non verrà
più indetta, tutto tornerà come prima, costi compresi. Ma almeno
si potrà dire che ci hanno provato.
NEW HAVEN. La diminuzione dei tassi di interesse potrebbe portare
un po' di calma nel mercato, ma potrebbe anche preparare il terreno a problemi
ancora più gravi riguardanti i maggiori creditori, in particolar modo la
Cina. Abbiamo provato a immaginare un possibile incontro tra Henry Paulson, il
Segretario del Tesoro statunitense, e un funzionario del governo cinese. Ecco
come l'evento potrebbe svolgersi. Poco prima del meeting della Federal Reserve,
Paulson riceve una chiamata dall'ambasciatore cinese a Washington, che sta
organizzando un incontro con un vecchio amico di Pechino. Paulson invita a cena
il diplomatico cinese. Mentre cenano, i due passano in rassegna una serie di
argomenti mettendo a confronto i rispettivi Paesi di provenienza. Dopo il
dessert ha inizio la vera conversazione. Il diplomatico spiega che la Cina si
preoccupa del fatto che un problema tutto statunitense possa trasformarsi in
una débacle globale. Il Paese asiatico teme che la Federal Reserve possa
tamponare la crisi abbassando i tassi di interesse per evitare una lieve
recessione, che i primi tagli non saranno ritenuti sufficienti dai leader
politici statunitensi e che seguiranno altri provvedimenti. Facendo così
però, il presidente della Federal Reserve getterebbe i semi per la
prossima crisi, dimostrando che gli attuali salvataggi finanziari sono
prontamente disponibili, favorendo così azzardi sempre maggiori. Una
tale azione potrebbe venire legittimata se si profilasse una recessione
più grave. Ma fino ad ora, i soli a suggerire questa soluzione sono
coloro che hanno bisogno di aiuto. Il diplomatico fa notare che il 7 settembre,
dopo pessimi dati sull'occupazione e un crollo della Borsa, lo stesso Paulson
dichiarò che gli Usa potevano essere vicini a un rallentamento
della crescita, anche se non si sarebbe trattato di niente di veramente
drastico. Sì, ammette il diplomatico, le esportazioni cinesi potrebbero
venire danneggiate nel breve periodo se la crisi facesse diminuire la domanda
dei consumatori. Ma Pechino ha in ballo qualcosa di molto più importante
nel lungo periodo. La Cina ha circa 1,4 mila miliardi di dollari di riserve di
scambio estero, sostiene il diplomatico, due terzi delle quali investite in
dollari Usa. Abbassando i tassi di interesse la Federal Reserve
inonderebbe il Paese con denaro mutuabile a basso tasso d'interesse e
ridurrebbe il valore dei dollari detenuti dai cinesi. Non importa, chiosa il
funzionario cinese, che l'amministrazione Bush abbia perseguito una politica
del dollaro debole per molti anni e non importa neppure che gli Usa
spingano la Cina a rivalutare lo yen così che ogni dollaro varrebbe meno
nella valuta cinese. Il problema, continua il diplomatico, è che la
spirale al ribasso del biglietto verde non vede una fine. La Cina quasi spera
in una recessione lieve ora, forzando gli Usa a contenere i consumi,
iniziare a risparmiare e limitare l'attuale deficit riducendo le importazioni.
Queste contromisure rallenterebbero la crescita del debito estero Usa e
renderebbe possibile per la Cina smettere di prestare così tanto denaro
agli Usa e preserverebbero il dollaro dalla svalutazione. "Parlando
francamente, Signor Segretario, il suo Paese è come un maniaco
compulsivo che non riesce a controllarsi, comprando tutto quello che vede,
anche se prende in prestito più di quanto potrebbe permettersi",
potrebbe dire il diplomatico. Il funzionario riferisce che i suoi colleghi non
capiscono come i capitalisti possano essere così poco capitalisti.
Quando i tempi erano migliori, le banche di investimento fecero delle fortune, escogitando
strumenti finanziari troppo complessi da capire per chiunque, perfino per loro
stesse, e assegnando valori arbitrari a tali fondi. In un'economia di libero
mercato, le banche e gli investitori dovrebbero convivere con le conseguenze.
Il diplomatico chiede perché la Federal Reserve dovrebbe andare in aiuto di chi
corre questi rischi: "Prendendo in prestito un'espressione americana, mi
pare che il vostro sistema si basi sulla nozione testa vince,
croce?vince". Il funzionario insiste con Paulson su come gli Usa
possano essere così interventisti e al tempo stesso colpire la Cina per
cercare di evitare che la propria valuta cresca troppo rapidamente, in modo da
salvaguardare le banche cinesi, esportatori ed importatori. L'uomo ricorda a
Paulson la crisi asiatica degli anni '90: "I nostri vicini asiatici vivono
al di sopra dei propri mezzi. Hanno perseguito cattive politiche finanziarie
che li hanno vessati, ma ne sono usciti più forti di prima. Talvolta mi
chiedo se noi asiatici siamo più orientati di voi al sistema di libero
mercato". Fa una pausa prima di riassumere: "La Cina si sente con le
spalle al muro. Il valore delle nostre riserve di dollari sta scendendo, i
nostri investimenti basati sul dollaro perderanno sempre più il loro
valore. Gli americani potrebbero pensare che abbiamo denaro da buttar via ma
quei soldi ce li siamo guadagnati con un duro lavoro e dolorose riforme
economiche. Dobbiamo risparmiare per investire massivamente nella scuola, nel
settore energetico, nella tecnologia ambientale, in un moderno sistema di
sicurezza e molto altro ancora. Inoltre gli Usa hanno reso molto
difficile per gli investitori cinesi l'acquisto di attività nella vostra
economia. Quando abbiamo cercato di comprare le attività della Unocal,
ci avete escluso sulla base di questioni di sicurezza nazionale. Ciononostante,
investire in America è ancora attraente per noi e, forse, potrebbe anche
compensare la svalutazione del dollaro". Paulson è in imbarazzo.
Dopo tutto la Cina è diventata il maggiore creditore americano. Paulson
conosce la verità: gli americani non mettono niente da parte e i
maggiori investimenti vengono di fatto realizzati con il tacito consenso di
Pechino. Quando il governo americano parla di ricostruire New Orleans è
solo perché la Cina dà i soldi allo Zio Sam. Quando gli Usa
decidono di riedificare un ponte crollato, come quello di Minneapolis, è
perché la Cina investe miliardi in buoni del Tesoro americani. Per di
più, se la crisi finanziaria colpisse l'America a causa degli sviluppi
nei mercati di credito o per qualsiasi altra ragione, Pechino potrebbe fungere
da stabilizzatore utilizzando i propri fondi per acquistare attività e
alzare i prezzi. Gli Usa, però, non devono dare la Cina per scontata.
Paulson sa bene che se solo Pechino desse l'impressione di pensare di diminuire
gli acquisti dei buoni del Tesoro americani, ciò sarebbe sufficiente a
gettare Wall Street nel panico. La confusione di oggi sembrerebbe una
sciocchezza. Paulson rimugina sul tempismo della visita, nel bel mezzo del caos
finanziario. Al funzionario chiaramente non piace che la Federal Reserve
abbassi i tassi di interesse. Allude forse al fatto che Pechino vuole essere
consultata, come farebbe ogni importante creditore, su come gli Usa
gestiscono le proprie politiche monetarie ed economiche? Si cela una minaccia
dietro alle sue domande? Paulson capisce di essere il testimone dell'inizio di
una nuova era in cui la Cina farà leva sul suo enorme potere finanziario
per cercare di piegare gli Stati Uniti alla propria volontà. Questo
potrebbe rappresentare un fondamentale punto di transizione nella storia della
finanza, come quando la Gran Bretagna dovette dividere la leadership
finanziaria con gli Usa dopo aver gestito da sola il mondo finanziario
per almeno un secolo. I due uomini chiudono l'incontro scambiandosi qualche
battuta. Il funzionario parla del suo ritorno a Pechino e dell'intenzione di
parlare con amici comuni nelle alte sfere. Non appena il diplomatico sale sull'auto
che lo aspetta, Paulson lo saluta con un cenno, gira su se stesso e chiude la
porta. Corre a un telefono sicuro e chiama il Presidente Bernanke:
"Sarà meglio che si sieda. Abbiamo un problema". © 2007 Yale
Center for the Study of Globalization. Ripubblicato con il permesso di
YaleGlobal Online (http://yaleglobal.yale.edu). (Traduzione di Silvia
Bacigalupo ) Jeffrey Garten è docente di International Trade and Finance
presso la Yale School of Management. È stato sottosegretario al
Commercio Internazionale durante l'amministrazione Clinton. 19/09/2007
Il calo dei saggi può portare un po' di calma sui mercati, però a
danno dei maggiori creditori 19/09/2007.
Certi nordisti difendono una buona causa, ma hanno le idee un po’
confuse. La buona causa è la valorizzazione di Malpensa ora che la
delicata transizione di Alitalia si avvia a entrare nel vivo. Le idee un po’ confuse
sono quelle che - a fatica, invero - si possono tratteggiare e riassumere
accumulando lungo i giorni e le settimane lanci di agenzie, interviste e
proclami assortiti. Come quelli buttati nel mucchio ancora ieri, ad esempio, da
Diana Bracco, Letizia Moratti e Roberto Formigoni. Andiamo con ordine. La
presidentessa degli industriali milanesi, intervistata da Repubblica, grida al
disastro in caso di vendita ai francesi, chiede ad Alitalia di lasciare intatte
le rotte, sostiene timidamente l’ipotesi del doppio hub, e accenna - ma senza
troppo coraggio - alla necessità di ridimensionare Linate. Dopo aver
detto che «se Alitalia avesse creato prima una base di armamento a Milano non
saremmo arrivati a questo punto», e aver invitato a cercare fuori dall’Europa
l’acquirente. Tanto aderente al pensiero di Diana Bracco da sembrare quasi lei
in persona, è stato poi lungo tutta la giornata di ieri Roberto
Formigoni, che oggi incontrerà l’ad Prato. Air France? Non ha la
strategia per fare di Malpensa un Hub. L’obiettivo? Fare di Malpensa un hub
anche senza Alitalia. Unica, rilevante differenza, rispetto alle parole di
Bracco: l’invito a non lasciare inutilizzati, magari nella disponibilità
di Alitalia, gli slot cui la compagnia di bandiera vuole rinunciare. Formigoni,
inoltre, ha annunciato la disponibilità di due investitori
internazionali per la costituzione di una cordata che veda proprio la regione
Lombardia a far da garante. Linate? Va razionalizzato, non certo
ridimensionato.
Infine, è stata la volta anche di Letizia Moratti, intervenuta in un
consiglio comunale straordinario a tema Malpensa. Al governo ha chiesto di
privilegiare le offerte che valorizzino Malpensa come hub (quali sono? E perché
allora il suo uomo in Sea, Beppe Bonomi è corso a Dublino per parlare
con Ryanair che ha certo progetti diversi?), e a chiesto uguale trattamento per
Malpensa e Fiumicino. A leggere tutto e tutto insieme, sembra esserci molta
carne al fuoco. A leggere meglio, però, il fumo sembra più della
ciccia. A tutti, infatti, va ricordato che Air France (che vuole il
ridimensionamento di Malpensa) è un’acquirente che la nostra disastrata
compagnia di bandiera deve tenersi strettissimo, visto che fuori dallo studio
di Prodi e Tononi non c’è mai stata la coda; che il doppio hub è
una fantasia che non ha mai trovato riscontri nella realtà; che è
pura demagogia chiedere oggi, dopo decenni di romanocentrismo incontrastato,
una parità di trattamento tra Malpensa e Fiumicino. Che Malpensa non
sarà mai un hub, e che nessuno sviluppo vero sarà possibile senza
un drastico ridimensionamento - meglio sarebbe dire: chiusura - di Linate. Il
resto sono chiacchiere e lamentele pseudonordiste da politici in eterna
campagna elettorale per un posto che conta a Roma, o da imprenditori che già
pensano al dopo-Montezemolo. E anche Viale dell’Astronomia, se ben ricordiamo,
sta nella capitale.
+
Libero 18-9-2007 Una nuova fondazione con poltrone per gli amici di
NATALIA ALBENSI
Il Riformista 18-9-2007 Grillo alla
festa dell’Unità non è stato un incidente di Emanuele Macaluso
NEW YORK L'America è scossa da una bolla
immobiliare: i prezzi delle case sono destinati a scendere, forse così
rapidamente che nei prossimi mesi ci potrebbe essere anche una caduta fino a un
10 per cento. Quello che Alan Greenspan, l'81enne ex presidente della Federal
Reserve, tratteggia assomiglia a uno di quei trend che possono anche portare
all'esplosione di una bolla speculativa. Finora la temuta parola nessuno la
pronuncia e anche l'ex guardiano dell'economia mondiale si è guardato
bene dal farlo: in passato aveva definito "schiuma" il boom eccessivo
degli immobili. Ma ora, nelle interviste rilasciate in occasione dell'uscita
del libro con le sue memorie,ammette che l'espressione era solo un eufemisno per
dire che in effetti una "bolla" si stava formando. Greenspan ha
lasciato la Fed a inizio del 2006, ma la sua è ancora la voce più
autorevole e ascoltata per capire come si muoverà l'economia. E tolti
gli abiti istituzionali il banchiere è più esplicito: il mercato
immobiliare ha iniziato una discesa ripida. Il declino nei prezzi delle case,
è la sua previsione, "sarà più forte di quanto molti
si aspettano". I valori immobiliari sono probabilmente già scesi di
un 2-3% dai massimi, ma sono destinati a scendere ancora "quantomeno a
tassi a una cifra, molto alta", ma Greenspan ha ammesso di non
sorprendersi se questo valore diventasse a doppia cifra in autunno. L'ex
banchiere centrale ha subito corretto il tiro, avvertendo che è assai
difficile quantificare la discesa. Non è difficile, però, capire
le conseguenze delle parole di Greenspan: se le case perdono valore,
sarà sempre più difficile per le famiglie che hanno contratto
mutui ottenere rifinanziamenti e aumenta il rischio di ulteriori crack
immobiliari, contagiando i mercati. La bolla del mercato immobiliare,
alimentata dal boom dei mutui, è iniziata quattro anni fa e il libro
ricorda alcuni passaggi significativi. Agli inizi del 2003 i tassi sui mutui
trentennali erano ai livelli più bassi dagli anni '60: è nata una
corsa all'acquisto di immobili e nel giro di tre anni la percentuale di
proprietari di case sfiorava il 70% (contro il 44% degli anni 40). Oltre alle
previsioni sul mercato immobiliare Greenspan si spinge oltre e dà il suo
beneplacitoall'impiego dell'euro come valuta di riserva, al posto del dollaro:
attualmente la divisa di eurolandia copre il 25% delle riserve di valute delle
banche centrali mentre il dollaro rappresenta il 66%. Se il banchiere si rivela
un accanito e inatteso tifoso della moneta unica europea, non si può
dire altrettanto delle politiche industriali del Vecchio Continente. Per
Greenspan l'Italia è un paese protezionista, così come tutta
l'Europa. Due righe, solo un breve accenno in oltre 500 pagine di memorie e
commenti, ma molto taglienti. Ricordando la scalata di Enel a Suez, bloccata
dai Governi, Greenspan bolla come solamente finalizzata alla difesa dei
campioni nazionali l'atteggiamento del governo francese, ma anche quello di
Italia e Spagna in altre occasioni (e il riferimento è probabilmente
alla fallita operazione Autostrade Abertis).
DAL NOSTRO INVIATO LONDRA - Un lunedì di
passione per l'economia britannica. I mercati, anche europei, ieri hanno
guardato con grande apprensione le lunghe file di persone davanti alle filiali
della Northern Rock, investita da una crisi di liquidità che l'ha portata
a chiedere aiuto alla Banca d'Inghilterra. Per il terzo giorno la gente ha
continuato a ritirare i propri risparmi al grido di "questa volta li metto
sotto il materasso". Due miliardi di sterline (tre miliardi di euro) hanno
già lasciato le casse del quinto istituto di credito del Paese, l'8% dei
soldi depositati dai risparmiat ori nei conti correnti. Un'emorragia meno
copiosa di quanto temessero alla City, anche se il titolo della Northern,
specializzata nella concessione di mutui per la casa, ieri ha perso il 35,4%.
La crisi ha investito anche altri due istituti bancari dalle caratteristiche
simili: la Alliance & Leicester che ha chiuso con una perdita del 31,3% e
la Bradford & Bingley con il 15,4%. Un segnale negativo che ha fatto
tremare Downing Street, dove si temeva l'effetto domino. Ma finora non sembra
che i clienti delle altre banche siano corsi a ritirare i propri risparmi. Anzi
Barclays e Hbos, il terzo e il quarto istituto britannico dopo Hsbc and Royal
Bank, hanno assicurato di aver avuto più clienti del normale. "Il
flusso di denaro è sopra la media", ha detto il portavoce della
Hbos Andrew McDougall. Ieri il Santander, che controlla Abbey National, ha
dichiarato di non essere preoccupato. Ma la situazione rimane critica. Tanto
che, ieri sera, Alistair Darling si è sentito in dovere di intervenire
nuovamente per rassicurare i cittadini. "Il governo britannico
garantirà la totalità dei risparmi della clientela Northern
Rock", ha detto il Cancelliere dello Scacchiere dopo aver incontrato il premier
Gordon Brown e il ministro del Tesoro americano Hank Paulson che ieri è
arrivato a Londra per discutere della crisi innescata dai mutui subprime.
"Questo significa - ha aggiunto Darling - che la gente può
continuare a prelevare i propri risparmi, ma se sceglie di lasciarli presso la
Northern Rock saranno garantiti". Anche le agenzie di rating hanno
certificato la crisi con il loro intervento. Ieri Fitch ha declassato da
"A" ad "A-" il rating a lungo termine di Northern Rock, ma
allo stesso tempo ha deciso di aumentare da "BB+" ad "A-"
il cosiddetto "rating di supporto" proprio per il sostegno offerto
all'istituto dalla Banca d'Inghilterra tramite la concessione di una linea di
credito d'emergenza. Ma molti a Londra accusano il governatore della Boe Mervyn
Allister King di essere intervenuto troppo tardi. L'esempio da seguire, secondo
gli analisti, era quello della Banca Centrale Europea che, subito dopo la crisi
dei subprime, ha fornito denaro alle banche con un'asta ben sette volte. Ora
cosa ne sarà della Northern Rock? Le voci di una vendita, o di una
fusione, si rincorrono. Ieri sera la Bbc parlava di un interesse da parte di
Rsb e Lloyds Tsb, quest'ultima era già in trattative per l'acquisto
prima dell'estate. La banca, in un comunicato, ha ammesso di stare valutando
"tutte le opzioni strategiche nell'interesse degli azionisti e dei
clienti". E ha lanciato una campagna mediatica per riconquistare la
fiducia dei risparmiatori. Oggi su molti giornali britannici comparirà
una pagina di pubblicità. Il messaggio: "Sono stati giorni
difficili ma la Northern Rock non vi abbandonerà ". La crisi ha
colpito un po' tutta l'Europa. A Londra l'indice Ftse
MILANO. Oggi la Federal Reserve taglierà
il costo del denaro negli Stati Uniti. Attualmente negli Usa il tasso di sconto
è fissato al 5,25% ma la crisi dei mutui, scoppiata nello scorso mese di
agosto, porterà di sicuro le autorità monetarie a tagliare questa
percentuale, magari dello 0,25%. In questo modo si va incontro a chi ha
sottoscritto un mutuo e ora fatica a pagare le rate. Infatti le banche saranno
chiamate ad adeguarsi e, quindi, le rate mensili diventeranno più
leggere. Proprio per questo, c'è chi pensa che il presidente della Fed,
Ben Bernanke, potrebbe addirittura tagliare il costo del denaro di mezzo punto,
portandolo al 4,75%. Questa mossa sarebbe di sicuro gradita ai mercati
finanziari e gli indici delle Borse potrebbero risalire. Però un taglio
così forte potrebbe alimentare l'inflazione. Insomma, la Fed è fra
due fuochi e ieri sono usciti due dati non confortanti: il petrolio ha di nuovo
superato gli 80 dollari al barile (nuovo record) mentre i prezzi dei generi
alimentari sono ancora in tensione. Dunque, con l'inverno alle porte (e il
conseguente aumento di prodotti petroliferi) e il greggio ai massimi, un taglio
drastico del costo del denaro potrebbe dar forza a un rialzo generalizzato dei
prezzi. Se è vero che l'inflazione è il nemico numero uno di
tutte le banche centrali, ecco che ieri sull'argomento è intervenuto
Alan Greenspan, predecessore di Bernanke alla Fed. "Per fronteggiare
l'aumento dei prezzi - ha detto - nei prossimi anni la Fed dovrà fare
rialzi a due cifre dei tassi di interesse. I tassi a due cifre (quindi attorno
al 10%, ndr) dovranno essere adottati per un breve periodo. E' chiaro che il
compromesso fra inflazione e crescita si è alterato. La Fed deve essere
più attenta all'inflazione di quanto abbia fatto io quando ero
presidente". Greenspan, dunque, non vede l'economia Usa cadere in recessione
(anche se, al momento, gli Stati Uniti sono esposti all'esplosione della bolla
nel mercato immobiliare). "L'economia - dice l'ex capo della Fed -
nonostante i problemi fiscali e quelli finanziari, sta ancora rimanendo
salda". Greenspan vede un futuro luminoso per l'euro. "Nei prossimi
anni - dice - potrebbe sostituire il dollaro come principale moneta di riserva.
Il dollaro è ancora al primo posto, ma non ha tutto questo vantaggio
sull'euro. In questi anni la Banca centrale europea è diventata un fattore
serio nell'economia globale". Per Greenspan, nel 2006, il 25% delle
riserve di tutte le banche mondiali erano in euro, contro il 66% in dollari.
Per le transazioni internazionali, tuttavia, l'euro riprende posizioni con il
39% del totale, contro il 43% in dollari. "L'aumento dell'utilizzo
dell'euro - dice Greenspan - ha portato a un abbassamento dei tassi di
interesse in Europa e la cosa ha senza dubbio contribuito all'attuale crescita
economica". Ieri un membro del consiglio della Bce ha detto che "i rischi
di inflazione sono diretti verso l'alto e devono, pertanto, essere monitorati
con grande attenzione". In serata il dollaro veniva scambiato a 1,3864
euro, in leggerissimo rafforzamento rispetto al mattino. (g.f.).
Gli addetti ai lavori si ricordano sicuramente
la data del 24 febbraio. Quel giorno Moody's annunciò infatti di aver
elaborato una nuova metodologia di rating per le banche, in grado di tenere maggiormente
conto del cosiddetto "supporto esterno". In pratica, Moody's aveva
iniziato ad inserire nel rating di ogni banca anche la probabilità di un
sostegno sistemico esterno in caso di difficoltà: per esempio l'ipotesi
di un salvataggio favorito dalla Banca centrale. Il risultato di quella nuova
metodologia fu dirompente. Centocinquanta banche incassarono infatti
un'improvvisa e inaspettata promozione di rating, in alcuni casi anche di
quattro o cinque gradini. Il caso più eclatante fu quello di tre banche
islandesi (Glitnir, Kaupthing e Lansdbanki), passate in un colpo solo alla
"Tripla A": stesso rating del Tesoro americano. Questo attirò
su Moody's violente critiche. Così, alla fine, l'agenzia di rating
decise di tornare sui suoi passi. Era l'aprile scorso, quando rivide la sua
metodologia di valutazione e "tagliò" il voto di 44 banche in
un colpo solo. Oggi, però, il mercato ha toccato con mano cosa intendeva
Moody's: una banca, anche nella patria del libero mercato come la Gran
Bretagna, difficilmente non viene aiutata dal sistema. ( My.L.).
In tutto questo tempo, la macchina dello Stato
non ha fatto altro che ingrandirsi, tramite nuove leggi, nuovi enti, maggiore
burocrazia, dilatando a dismisura i dipendenti pubblici e i relativi costi
amministrativi. Questo mostruoso meccanismo ha finito con l'ingoiare una fetta
sempre più grande della ricchezza prodotta a livello nazionale,
obbligando gli amministratori ad una crescente pressione fiscale. Non solo. Ma
quando il gettito fiscale non bastava a soddisfare esigenze di cassa, i nostri
politici non si sono fatti scrupoli e si sono indebitati, intaccando i redditi
della futura generazione. I politici amano ripetere "pagare tutti per
pagare meno". Ebbene, chiunque abbia memoria politica dal dopoguerra, sa
benissimo che ogni volta che il gettito fiscale è aumentato, è aumentata
la spesa dello Stato. Per contro, ogni volta che il gettito fiscale è
diminuito, invece di tirare la cinghia, i nostri politici hanno aumentato i
debiti. L'attuale governo non fa eccezione alla regola. Di fronte ad un aumento
del gettito fiscale, invece di diminuire le tasse ha aumentato la spesa.
Qualcuno potrà obiettare che l'aumento delle pensioni di sopravvivenza
è dovere morale e sociale. È una vergogna che non si sia
provveduto prima, ma in ossequio alla giustizia: i diritti non si finanziano aumentando
le tasse ma tagliando i privilegi. E non vi è certo la necessità
di elencare questi privilegi, che sono sotto gli occhi di tutti, finanziati dal
sangue e dal sudore della povera gente, che paga allo Stato il 70% di tutto ciò
che produce. Ritengo amorale e vergognoso che lo Stato debba pagare stipendi e
pensioni da nababbi a personaggi che spesso non si limitano ad essere dei
parassiti, ma danneggiano gravemente la comunità. Senza dimenticare
quanto sono costate e continuano a costare le pensioni anticipate, privilegio
esclusivo dei dipendenti pubblici. Senza contare la marea di posti di lavoro
inutili, che i politici hanno creato per soddisfare le loro esigenze di
clientelismo, intollerabile zavorra per il nostro sistema sociale. Sarebbe ora
che lo Stato smettesse di dare soldi ai ricchi, di creare posti di lavoro
inutili, ipotecando i guadagni delle prossime generazioni. Sarebbe ora di
smettere di considerare la pensione come un diritto acquisito, sarebbe ora di
considerarla un semplice assegno di sopravvivenza uguale per tutti, elargito
esclusivamente a quei cittadini che non hanno reddito. Sarebbe ora di snellire
questo Stato elefantiaco, al fine di abbassare una pressione fiscale
intollerabile. Si sa che i cambiamenti epocali non si possono fare in un solo
giorno, e nemmeno in una sola generazione. Basterebbe la volontà
politica di cambiare strada, di muoversi nella giusta direzione.
ROMA "Bisogna essere rigorosi, seri, ma
anche credibili rispetto alle cose che abbiamo promesso e alle aspettative dei
cittadini. Per questa Finanziaria bisogna certamente esercitare il massimo
rigore nei tagli alla spesa, ma dare un segnale tangibile e visibile sulla
riduzione delle tasse". Tiziano Treu, ex ministro del Lavoro e dei
Trasporti, esponente della Margherita è chiarissimo: sul Fisco il
governo deve agire, Subito. Treu, il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa
lancia messaggi preoccupati. Soldi per la riduzione delle tasse ce ne sono
pochi... "Questa Finanziaria è un'occasione che non può
essere sprecata. E voglio essere chiaro: sono totalmente d'accordo con chi - a
cominciare da Padoa-Schioppa - chiede impegno esemplare sul fronte del rigore.
Per l'oggi e per il domani non possiamo adoperare per operazioni di aumento
della spesa pubblica i proventi dell'extragettito, che sono una risorsa
strutturale ma limitata. Nuovi impegni di spesa possono essere finanziati,
certo, ma tagliando in altri punti, agendo sugli sprechi evidenti - come le
mille inutili Commissioni - ma anche con colpi di scure in punti nevralgici
dello Stato". Ovvero? "Io sono d'accordo con Eugenio Scalfari: si
può dimezzare il numero dei ministri, dare una sforbiciata alla lista
dei sottosegretari, riformare in modo forte alcuni livelli di governo. Ad
esempio, si possono subito eliminare le Province che faranno parte delle aree
metropolitane, oppure riunificare e riaggregare un buon numero di Comuni.
Sarebbero segnali forti e inequivocabili: per razionalizzare e ridurre i costi
della politica, ma anche per fare cassa. Stesso discorso va fatto per il piano
di ringiovanimento della pubblica amministrazione pensato dal ministro Luigi
Nicolais, che è importante. C'è già un turnover naturale
significativo tra i lavoratori pubblici, l'idea di accrescerlo è
positiva. Naturalmente bisogna vedere come e dove". Dunque, il suo
è un "no" a un allentamento del rigore. "Ci mancherebbe
altro. Io dico che dobbiamo avere le carte in piena regola sul fronte del
rigore. Dopodiché...". Dopodiché? "... il centrosinistra ha fatto
delle promesse ben precise. Dobbiamo dare un segnale sulle tasse, altrimenti
non siamo più credibili di fronte agli elettori. Il Parlamento, a
larghissima maggioranza, ha dato una indicazione molto precisa sulla riduzione
dell'Ici, indicazione che va mantenuta e rispettata. Del resto, è scritto
esplicitamente nel Dpef, e dunque vale per il Parlamento ma anche per il
ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa: le risorse dell'extragettito
fiscale devono essere utilizzate direttamente per ridurre la pressione fiscale.
Agendo sull'Ici, a favore delle imprese, dando un segnale sulle imposte
personali sul reddito iniziando dai più poveri, i cosiddetti
"incapienti"". Altrimenti, par di capire, sarà lo stesso
governo a correre rischi. "Dobbiamo essere seri. Essere in grado di
tagliare la spesa inutile o errata, e rispettare le promesse di alleggerimento
del prelievo fiscale. Lo ha detto molto bene Walter Veltroni a Padova, ai
lavoratori autonomi e agli imprenditori veneti: bisogna passare dalla vecchia
nozione del "pagare tutti per pagare meno" al "pagare meno per
pagare tutti". Che vuol dire cominciare ad alleggerire il contribuente nel
momento in cui si fa anche una seria lotta all'evasione".
BOLZANO
È restato bloccato per un’ora sulla bretella d’accesso dell’autostrada a
causa di un incidente stradale. Il giudice di pace gli ha riconosciuto un
risarcimento danni di 200 euro.
Il fatto è avvenuto a Bolzano. Il signor
Angelo, commerciante, a maggio si doveva recare a Trento per incontrare un
cliente. Appena entrato sull’Autobrennero al casello di Bolzano Nord,
però, il commerciante era rimasto bloccato in coda per un incidente con
cinque feriti avvenuto un’ora e tre quarti prima. Una volta ripreso il viaggio,
il signor Angelo era giunto in ritardo all’appuntamento e si era perciò
recato dal suo avvocato, Laura Benuzzi, per chiedere danni, anche per il danno
avuto alla sua immagine professionale. Il giudice di pace ha ritenuto fondata
la richiesta del commerciante, assistito dal Cento tutela consumatori utenti di
Bolzano, assegnandogli un risarcimento di 200 euro.
In particolare, il giudice ha accertato che non
esistevano lavagne luminose con le quali avvertire gli automobilisti dei disagi
in vista. Inoltre, il giudice non ha accolto quanto sostenuto della difesa,
è cioè un riferimento ad un regolamento della Ue in tema di
rimborsi dovuti a passeggeri di volo in ritardo, nella parte in cui il
risarcimento viene erogato solo se il volo subisce un ritardo di almeno due
ore. «Infatti - ha osservato il giudice - ben diverso è trovarsi dentro
a un aeroporto dotato di tutti i confort (servizi igienici, bar, telefono,
giornali, ecc.) rispetto al rimanere sul ciglio di una strada: nonostante
ciò, con sole due ore di ritardo, a condizioni ben più vantaggiose,
il passeggero di volo viene rimborsato».
Veltroni fa il bis, come ogni vero artista. E
spunta la Fondazione Cinema per Roma, moltiplicatore di notorietà, di
fondi e di poltrone. Quasi 6 milioni di euro all'anno. Nonostante la sua
campagna elettorale alla segreteria del Partito democratico punti molto sulla
riduzione dei costi della politica, agli amici Walter non nega mai nulla.
Figuriamoci poi quando si tratta di camminare su un tappeto rosso, quello della
Festa del cinema, vecchia passione. Così, dopo la Fondazione Musica per
Roma, che gestisce l'Auditorium Parco della Musica con a capo Gianni Borgna, ex
assessore alla Cultura, si fa il bis con la Fondazione Cinema per Roma,
presieduta dal senatore Ds Goffredo Bettini, che prima ancora era al posto di
Borgna. E poi, arrivano i soldi. Nell'atto costitutivo della Fondazione le
risorse disponibili indicate sono di 5,8 milioni di euro all'anno. Ovviamente,
in quanto ente di diritto privato, senza i controlli riservati alla spesa
pubblica. La Provincia di Roma ci mette 1 milione di euro, la Camera di
Commercio un milione e 800mila, la Regione 1 milione e mezzo e lo stesso vale
per il Comune. Ieri infatti è arrivata la delibera che prevede una
variazione di Bilancio per accedere ai fondi e aderire all'iniziativa.
Immediata la reazione dell'opposizione. "Ci viene chiesto di votare per
l'adesione del Comune alla fondazione "Cinema per Roma"", hanno
esordito Marco Marsilio e Dino Gasperini, rispettivamente capogruppi di An e
Udc, "ma non si capisce perchè Veltroni e Bettini abbiano dovuto
creare una nuova fondazione, dal momento che il successo della prima edizione
della Festa del Cinema era stato garantito dalla gestione della fondazione
"Musica per Roma". Nessuno sentiva pertanto il bisogno di farne
un'altra, aggiungendo ulteriori spese per l'ennesimo presidente e l'ennesimo
consiglio di amministra stipendiati dal Comune". "È un modo di
procedere arrogante", sottolinea Marsilio, "che dimostra un'interpretazione
padronale del Comune di Roma: infatti, contrariamente a quanto previsto dallo
Statuto, al Consiglio non è mai stato chiesto parere sulla costituzione
della Fondazione, mentre ora ci chiedono di ratificare quanto è stato
già deciso". "Inoltre", aggiunge Gasperini, "non
è possibile che alla guida ci sia un uomo di partito: la Fondazione
è presieduta da un regista, ma non cinematografico, il regista
dell'ascesa di Veltroni a leader del Partito democratico, nonché senatore Ds.
Il che stride con la proposta di Veltroni di allontanare la politica dalla
Rai". Nel frattempo, il contributo di Gasbarra è già
arrivato: una delibera votata in estate ha impegnato la Provincia per tre anni
e tre milioni di euro. Non senza conseguenze, come sottolinea il consigliere di
Forza Italia Andrea Napoleoni: "Sono stati sacrificati sull'altare di
Veltroni e Gasbarra centinaia di piccole associazioni che sopravvivono a stento
dopo i tagli inferti a beneficio della Fondazione Cinema". Foto: SOLDI
PUBBLICI La fondazione è finanziata tra gli altri da Comune, Regione e
Provincia hanno stanziato rispettivamente un milione 800mila, un milione
500mila e un milione di euro Salvo per uso personale è vietato qualunque
tipo di riproduzione delle notizie senza autorizzazione.
BOLZANO - è giusto che un consigliere
regionale con alle spalle una sola legislatura abbia diritto a una pensione
vitalizia di 2196 euro al mese? è giusto, cioè, che con cinque
anni di lavoro si possa ricevere una pensione che la grande maggioranza dei
lavoratori non mette insieme neppure con 20,25 o 30 anni di lavoro? Secondo il
gruppo dei Verdi in consiglio regionale non è giusto anzi, è un
privilegio scandaloso che deve finire, subito. Per questo hanno presentato un
disegno di legge regionale che prevede l'abolizione della pensione dei
consiglieri regionali. Il disegno di legge riguarda anche i consiglieri
regionali attualmente in carica e vieta la cumulabilità della pensione.
In pratica nega la pensione come consigliere regionale a tutti coloro che ne
percepiscono un'altra, cioè a tutti quelli che hanno un altro lavoro.
Una categoria della quale fanno parte tutti i consiglieri, dal momento che la
politica non è un lavoro, o non dovrebbe esserlo. "Non
dimentichiamo - precisa Dello Sbarba - che, soprattutto ai consiglieri di
maggioranza dopo l'attività in consiglio viene garantita la presenza nel
consiglio di amministrazione di qualche azienda a partecipazione pubblica.
Spesso questi incarichi vengono pagati centinaia di migliaia di euro. La nostra
proposta dimezzerebbe subito i costi della politica". Sono 125 gli ex
consiglieri regionali che beneficiano di questa pensione. I 30 consiglieri che
hanno alle spalle una legislatura prendono una pensione mensile di 2196 euro.
Coloro che ne hanno fatte due sono 36 e hanno 3690 euro al mese. I 34 con alle
spalle 15 anni da consigliere regionale ricevono un assegno mensile di 5168
euro. Infine i 25 che hanno fatto quattro legislature, o più, ricevono
un assegno di 6637 euro. Per tutti la pensione è reversibile e
cumulabile e scatta al sessantacinquesimo anno di età. Il disegno di
legge regionale è stato presentato ieri dai consiglieri Verdi Riccardo
Dello Sbarba, Cristina Kury e Hans Heiss: "Nel 2006 - ha spiegato Dello
Sbarba - la spesa per le pensioni dei consiglieri regionali è di
11.100.186 euro, tanto quanto si spende per gli stipendi dei consiglieri. Nel
2007 ci sarà il sorpasso. Secondo il bilancio di previsione infatti per
le pensioni si spenderanno 13,5 milioni mentre per gli stipendi 12,7. Questo
disegno di legge regionale è il primo di una serie di atti che mirano a
ridurre i costi della politica, un'esigenza che la politica sente propria a
tutti i livelli da tempo, come prevede l'accordo che Comuni, Provincie e
Regioni hanno sottoscritto con il governo lo scorso maggio. In base a questo
accordo il governo ha ridotto lo stipendio dei ministri e i presidenti di
Camera e Senato hanno ridotto le auto blu, tanto per fare un esempio".
"Cogliamo l'occasione anche per chiedere che il consiglio regionale lavori
- attacca Dello Sbarba - e non faccia come negli ultimi mesi, nei quali tutto
quello che ha fatto è stato incontrare un inviato del Tibet, Luciano
Violante o i rappresentanti della Valle D'Aosta. Il consiglio regionale ha
delle competenze. Vogliamo che se ne occupi". La risposta del presidente
della Provincia Luis Durnwalder: "Sono d'accordo a prendere provvedimenti
di questo genere, ma solo dopo che Roma ha dato l'esempio - dice - in queste
cose bisogna iniziare dall'alto e poi scendere. Se si inizia dal basso, in alto
non si arriva mai. E poi credo che coloro che hanno fatto la proposta siano i
primi a sperare che non venga accettata". Damiano Vezzosi 125 CASI Sono
gli ex consiglieri regionali che beneficiano di una pensione legata ad
"almeno una legislatura" 13,5 MILIONI La spesa nel bilancio di
previsione regionale per le pensioni dei consiglieri Per gli stipendi sono 12,7
milioni
Cara Europa, fra due giorni è il 20
settembre (ai miei tempi sui libri di scuola si scriveva alla latina XX
Settembre). Oggi, né in italiano, né in latino, gli studenti, i genitori e
credo molti insegnanti non sanno nulla del XX Settembre. Potreste ricordarlo
voi, visto che il ministro Fioroni ha deciso di riportare la scuola alla
serietà, e quindi anche alle “nozioni” della storia?
ALBERTO MENNA, NAPOLI
Caro Menna, credo che solo un napoletano
si ricordi del XX Settembre dopo quasi 80 anni che il concordato tra Mussolini
e Pio XI ne fece cadere in disuso la festa nazionale. Trent’anni dopo, essendo
nel frattempo nato anch’io, cresciuto e diventato vice segretario nazionale
della gioventù liberale, scrissi una circolare “storicopolitica” alle
federazioni provinciali, ma il segretario del partito Malagodi, che voleva
tornare a collaborare con la Dc, me la bloccò all’ufficio ciclostile.
L’Italia aveva la nuova costituzione col concordato incorporato, e anche il
leader del partito “erede” della storia che aveva avuto nel 20 settembre la sua
apoteosi, si adeguava al ruolo clerico-moderato: così congeniale ai
conservatori italiani, cattolici o laici.
Oggi solo i radicali torneranno il
Spero che lei, per suo gusto, e i maestri e i professori in coerenza con la
direttiva Fioroni (al quale deve andare il nostro ringraziamento per aver
ribaltato dopo 40 anni la lotta sessantottina al “nozionismo” e al “merito”),
leggano, se non questo libro di 280 pagine, qualche “bignami” fatto bene.
Ma soprattutto vorrei che, insieme alla nozione, ricordassero due cose ai
ragazzi. La prima è che il papa-re finì perché, come aveva detto
Croce del regno di Napoli, “era finito in idea”. La seconda che, secondo il
monito di un altro grande storico, tedesco, «Non c’è Italia senza Roma e
non si va a Roma senza un grande ideale». E questo, più che agli
studenti, vale ricordarlo a chi a Roma malgoverna e sgavazza.
Roma,
17 set. (Ign) - Entusiasti, scettici, apertamente critici, delusi o esaltati.
Dopo il lancio delle liste civiche annunciato
ieri da Beppe Grillo, il popolo del V-day, e non solo, dice la sua sul blog del
comico. Sono oltre 2000 i
commenti postati fino a stamattina e la discussione sembra tutt'altro che
esaurita.
Tra tutti i commenti il sentimento che sembra prevalere è lo stupore. In
pochi si aspettavano una mossa del genere così presto e, se non è
la buonafede del comico a essere messa in discussione, resta la
perplessità di arrivare impreparati al 'grande passo'. ''Grillo, perché tanta fretta? - si legge in un commento - Non era
meglio far crescere il movimento trasversale con altri V-day per aumentare il
numero dei partecipanti, in modo da avere un numero cospicuo di aderenti,
uniformemente sparsi per tutto il territorio?''.
''Sono pienamente a favore della tua proposta - scrive un altro sostenitore -,
ma questo è un
passaggio delicato, non vorrei si corresse troppo, l'obiettivo che ci si propone è
affascinante, giusto e necessario, ma credo richieda organizzazione,
chiarezza''. '' Io propongo a tutti - spiega - di iniziare a muoverci
concretamente ora ma di essere operativi tra 9-10 mesi. Organizziamo altri
V-Day (magari ogni due mesi) con scopi informativi e propositivi!''.
Tra i dubbiosi c'è chi, pur ammettendo che ''per cambiare la politica
bisogna starci dentro'', pensa che l'idea delle liste civiche indebolisca il
movimento. ''E' una mossa giusta - si legge in un commento -, ma è una
mossa d cui non si era mai parlato... neanche accennato e che a vedercela
attuare così di punto in bianco rischia di far perdere
credibilità a tutto quello che abbiamo fatto, a quelle 300.000 firme raccolte''.
E sono in molti a chiedere al comico di tenersi lontano dalla politica. ''La
Casta balbetta, straparla, è alle corde e tu Beppe Grillo che fai? Il vidimatore di bollini per far
parte della Casta!'', si legge in un post. ''Sono totalmente contrario a
questa idea - scrive un altro commentatore - I politici non aspettavano
altro, e Beppe li ha accontentati - avverte -, e poi...la certificazione di
trasparenza....vuoi imitare quelli di Addiopizzo? ma tu sei un comico, che
certifichi tu?''. ''E poi - continua - veramente si è caduti nel
qualunquismo, basta non aver avuto problemi con la giustizia e si va avanti?''.
Iniziano anche le prime defezioni. ''Con questa notizia io abbandono questo movimento - annuncia un commentatore -, Travaglio
aveva detto 'non penso che Grillo sia tanto stupido da entrare in politica'. Si
sbagliava''. ''Ogni volta che i movimenti sono entrati in politica - avverte un
altro - hanno fatto tutti una brutta fine''. ''Beppe...la politica no! -
supplica un sostenitore - Non farti prendere dall'entusiasmo e non deluderci
anche tu''.
''Grillo, ti stai facendo
'normalizzare' - osserva un visitatore del blog - stai rinunciando alla
missione per cui sei nato: essere pungolo del potere costituito''. ''Mossa
pericolosa cari miei - avverte un altro -. La Lega all'inizio degli anni 90
propose una battaglia simile: nè di qua nè di là, lotta
agli sprechi (Roma ladrona), ecc. Poi abbiamo visto cosa è successo''. ''Altre liste, altri partiti, altra
pubblicità elettorale, altra confusione. - si legge in un post - Come immaginavo,
non mi meraviglia, è caduta la maschera''.
Sono in molti, però, a prendere le difese di Grillo. ''Non fraintendiamo il messaggio di
Beppe! -
dice uno dei supporter - Ci sta semplicemente dicendo: la Forza ce l'abbiamo (vedi
8 settembre); lo strumento ce l'abbiamo (la Rete); non aspettiamo nessun
messia! Lavoriamo per costruire finalmente la democrazia diretta in Italia''.
''Non mi sembra che egli si sia presentato direttamente come presidente del
Consiglio! - osserva un altro - Anzi ha fatto un passo indietro e cerca di lanciare i giovani che hanno il
diritto di partecipare alla vita politica del nostro paese''. Tra i 'difensori'
del comico c'è anche chi ipotizza che ''i commenti a sfavore delle idee
di Grillo siano messi spesso da politici camuffati''. ''Attenzione - si legge in un post - tra
ieri e oggi, tantissimi commenti sono firmati da nik mai letti prima''.
Naturalmente, al di là delle critiche in molti hanno accolto con
entusiasmo l'iniziativa. ''Beppe si è mosso alla perfezione - si legge
in un commento -. Ha trainato il
carro finché ha potuto, e lo farà ancora, ma ora tocca a noi prenderci
le nostre responsabilità. Prima o poi questo momento sarebbe
arrivato. Ora bisogna mostrare se il nostro malcontento e la nostra voglia di
cambiamento è reale''. ''Il ruolo di garante, anziché quello di leader - scrive un
sostenitore -, è il migliore che potevi scegliere ed eviterai le
critiche della politica alla quale stai togliendo l'aria''.
Per il popolo del V-day è dunque arrivata ''l'età dello
svezzamento''. ''Grillo dà oggi una risposta coerente, nel suo stile
provocatorio - si legge in un post -, una risposta che è anche il solito
suggerimento, che sempre ci è piaciuto e che quindi non può
deludere: la politica
siamo noi''.
Insomma, come scriveva ieri Grillo nel suo blog, la parola è ai
cittadini.
Il Riformista 18-9-2007
Grillo alla festa dell’Unità non è stato un incidente di Emanuele
Macaluso
Scorciatoie non ce ne sono e la strada della democrazia italiana è impervia,
accidentata, in salita. Chi ha pensato al Pd come una scorciatoia avrà
amare smentite dai fatti. Ma oggi, su questo tema, vorrei fare un discorso
più generale. Parto da una dichiarazione di Andrea Camilleri, persona
che stimo molto. Il quale, dopo un avvertimento mafioso al presidente degli
industriali di Agrigento, ha riproposto «l’invio dell’esercito in Sicilia». E
perché non in Calabria, in Campania, a Brindisi dove una banda di ragazzi
estorceva con le torture denaro ad altri ragazzi? Caro Andrea, l’esercito
italiano non è più fondato sulla leva, ma sul volontariato di
mestiere, come i Carabinieri, i quali hanno le stellette come altri militari.
Facciamo dell’esercito la quarta polizia? Alcuni sindaci volevano trasformare
la polizia municipale in un altro corpo destinato a contrastare la
criminalità.
L’Italia è il solo paese europeo che ha tante polizie il cui
coordinamento è sempre difficile. La verità, caro Camilleri,
è che né l’esercito, né la polizia, né i magistrati (strutture tutte
necessarie) possono vincere la mafia se nei paesi, nelle città non ci
sono forze sociali e politiche che non cedono ai ricatti mafiosi, e non si
creano centri di aggregazione e di cultura antimafiosa. La decisione di
Confindustria Sicilia di espellere gli imprenditori che pagano il pizzo
è importante soprattutto come segnale. La lotta contro
l’illegalità diffusa è un momento essenziale e va condotta
soprattutto con i comportamenti di chi fa politica, di chi guida un sindacato,
un’associazione, un giornale, una scuola, un ufficio pubblico o una parrocchia.
È questo che manca e non c’è esercito che possa cambiarne il
segno. La Confindustria ha fatto un passo. Occorre farne altri nel quadro di
una battaglia politica, culturale, civile, contro la rassegnazione, il ripiegamento,
le collusioni affaristiche che oggi intrecciano le amministrazioni locali,
regionali e pezzi forti della burocrazia, al potere mafioso.
"Le pmi devono crescere in eccellenza,
ma anche in dimensione e potenzialità - afferma ApiVicenza - Ma quello
che i nostri imprenditori potevano fare con le proprie forze lo hanno
già fatto. Per consolidare lo sviluppo dell'Italia serve anche il
sistema-paese". Sette i punti del manifesto. Sburocratizzazione e
semplificazione delle norme. "In un sistema che vuole essere più
competitivo, non può permanere una burocrazia che assorbe una
quantità di costi enormi. Per non parlare della quantità
di norme che si contraddicono le une con le altre, e che troppo spesso sono
retroattive, incostituzionali e in contrasto con lo Statuto del
contribuente". Un esempio per ApiVicenza sta nella manovra finanziaria
2007 che prevede 370 norme attuative, di cui 302 di tipo ministeriale e 60
regionale. Riforma della fiscalità. Le pmi chiedono che il bilancio
civile diventi anche bilancio fiscale e quindi che l'Irap diventi un costo da
portare in detrazione. Un intervento tanto più urgente per i
subfornitori, cioè quelle aziende che hanno un'alta incidenza della
manodopera e per le quali tra Irap e Ires spesso si arriva a una tassazione
effettiva anche dell'80-90%. Studi di settore. Da un'indagine di Apivicenza
risulta che il 48% delle aziende non è nè congruo nè
coerente con gli studi di settore. Per la maggior parte si tratta di aziende
che hanno fatto molti investimenti e quindi hanno pochi utili in rapporto al
fatturato. Spesso risultano fuori parametri le aziende più virtuose.
Riforma delle strutture a sostegno dell'esportazione. È necessario
creare un Sistema Italia in grado di supportare le pmi all'estero, come accade
per gli altri paesi europei. Così come è urgente l'applicazione
di una copertura al credito per l'esportazione anche per le pmi. Regole chiare
sull'importazione. Dall'import-export su base reciproca, al rispetto delle
norme per i prodotti importati, al fine di combattere la concorrenza sleale
proveniente dai paesi in via di sviluppo. Università e ricerca, dialogo
biunivoco con le pmi. È necessario sostenere il rafforzamento dei
sistemi di ricerca, trasferimento tecnologico e diffusione dei risultati.
È importante il coordinamento dei programmi nazionali, l'incentivazione
alla competitività e all'innovazione, facilitando la partecipazione
delle pmi a programmi di ricerca e sviluppo. Flessibilità nel lavoro.
È necessario anzitutto eliminare l'eccesso di precariato. Dall'altro,
poi, è necessario favorire la buona gestione di forme di
flessibilità regolamentata, introdotte dalla riforma Biagi, che ha
contribuito in maniera evidente a migliorare la situazione occupazionale del
paese.
ROMA I
venti di guerra che soffiano sull’Iran oscurano la riunione di oggi dei
governatori dell’Aiea. Al centro dell’appuntamento a Vienna la questione
nucleare iraniana e proprio con un appello a Teheran il direttore dell’Agenzia
Mohamed ElBaradei ha dato il via ai lavori. ElBaradei ha definito «deplorevole»
il fatto che l’Iran si sia rifiutato di adempiere alle richieste del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite sospendendo le attività di
arricchimento dell’uranio. Ma non ha fatto menzione delle parole del ministro
degli Esteri francese, Bernard Kouchner, secondo il quale il mondo deve mettere
in conto la possibilità di un conflitto contro il regime degli
ayatollah. «Dobbiamo prepararci al peggio e il peggio è la guerra» ha
detto Kouchner definendo al crisi nucleare iraniana «la più grave del
momento».
Per ElBaradei l’uso della forza può essere solo l’ultima risorsa
«Dobbiamo sempre ricordarci che si potrebbe ricorrere alla forza solo quando
ogni altra opzione sia stata esaurita e ritengo che non siamo affatto arrivati
a quel momento», ha dichiarato, «entro novembre o dicembre potremo sapere se
l’Iran sta agendo in buona fede o meno e quindi chiedo a tutti di mordere il
freno fin quando non avremo completato questo processo. Ho messo bene in chiaro
che oggi non vedo un pericolo chiaro e immediato riguardo al programma nucleare
iraniano». Da parte sua il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, frena sulla
possibilità di un intervento militare. «Nuove guerre non credo che
sarebbero la soluzione del problema. Prima di parlare di nuove guerre, bisogna
lasciare il tempo necessario per l’iniziativa politica e diplomatica - ha detto
D’Alema -,nuove guerre...creerebbero solo nuove tragedie e nuovi pericoli».
Anche per il premier francese Francois Fillon bisogna fare di tutto per
scongiurare lo spettro di una guerra. «Il ruolo della Francia è di
capofila nella ricerca di una soluzione pacifica a una situazione che potrebbe
diventare estremamente pericolosa per il resto del mondo» ha detto. «Gli
iraniani» ha aggiunto «devono capire che le relazioni con i Paesi vicini hanno
raggiunto il punto di rottura».
La stampa iraniana ha accusato la Francia di essersi fatta interprete della
politica di Washington, ma gli Stati Uniti stessi, per bocca del ministro della
Difesa Robert Gates, hanno assunto una posizione più moderata sostenendo
che «quello diplomatico ed economico è di gran lunga l’approccio
preferibile».
Il dipartimento di Stato americano ha anticipato che il 21 settembre
sarà discussa a Washington una bozza di sanzioni messa a punto dalle
diplomazie di sei Paesi. Israele, intanto ha accolto con entusiasmo la nuova
direzione presa dall’Eliseo. «L’Iran» ha detto il portavoce del ministero degli
Esteri, «non fermerà il suo programma militare nucleare fino a quando
non capirà che la comunità internazionale è seria,
compatta e determinata».
WASHINGTON
– Ritorna la segregazione nelle scuole del profondo sud americano. Lo dicono il tribuno nero ed ex candidato democratico alla Casa bianca Jesse Jackson, Martin Luther King III, il figlio di Martin Luther King, l'apostolo dei diritti civili, e altri leader della Coalizione arcobaleno (le minoranze) citando alcuni recenti incidenti. I principali: a Tuscalosa nell'Alabama, su pressione dei bianchi, il Consiglio comunale per l'istruzione ha ridistribuito gli alunni nelle scuole cittadine, ma spostando nelle peggiori solo i neri; e a Jena nella Louisiana sei studenti neri, tutti minorenni, che avevano picchiato un compagno bianco, sono stati processati come adulti. Jackson, Martin Luther King III e il reverendo Alan Sharpton hanno organizzato per giovedì una dimostrazione di protesta di 60 mila persone a Jena, che ha appena 3 mila abitanti.La ridistribuzione dei 10 mila alunni di
Tuscalosa è stata decisa dai sei membri bianchi del Consiglio comunale
contro il parere dei due membri neri. È stata fatta, ha dichiarato il
provveditore bianco agli studi Joyce Levy, che l'ha realizzata ad agosto, «per
ridurre i costi di milioni di dollari e riportare nelle scuole pubbliche molti
studenti bianchi che avevano scelto scuole private». Ha ribattuto uno dei due
membri neri del Consiglio, Earnestine Tucker: «Non è vero, lo scopo era
di creare di nuovo scuole solo per bianchi e scuole solo per neri. Siamo
tornati agli Anni cinquanta e sessanta». La Tucker capeggia una rivolta delle
minoranze, la metà circa della popolazione di Tuscalosa: ha fatto
ricorso a un tribunale federale appellandosi alla legge del presidente George
Bush sull'istruzione "No child left behind" (Nessun bambino resta
indietro). La legge stabilisce che gli alunni di una scuola di secondo ordine
hanno il diritto di passare a una scuola di primo ordine indipendentemente
dalla razza.
In America, il processo di Jena
ha destato ancora più scalpore della riforma scolastica di Tuscalosa.
Il dicembre scorso, un alunno nero del locale liceo chiese di sedere sotto un
albero monopolizzato dagli alunni bianchi. Il giorno dopo, qualcuno appese
all'albero due cappi, un brutale richiamo ai linciaggi di mezzo secolo fa.
Seguirono parecchi scontri razziali nella scuola: all'ultimo, Justin Baker, uno
studente bianco di 17 anni, venne pestato da sei compagni neri fino a perdere
conoscenza. Il primo a essere processato come un adulto, Mike Bell, suo
coetaneo, è stato giudicato colpevole di tentato omicidio e rischia 15
anni di galera. Ma la settimana scorsa, dopo il ricorso dei difensori, una
Corte d'appello ha annullato il verdetto ordinando che Bell sia processato come
minorenne. La procura ricorrerà a sua volta, e il caso dei "Jena
six", i sei di Jena come vengono chiamati, minaccia di fare esplodere la
Louisiana, ancora scossa dal disastro dell'uragano Katrina che colpì soprattutto
le minoranze.
Altri incidenti confermano che la
tensione razziale è in aumento nell'istruzione americana:
un cappio è stato trovato anche alla Università del Maryland
presso Washington e tafferugli sono scoppiati alla Università Duke nella
Carolina del nord dopo che alcuni atleti bianchi della squadra di Lacrosse
erano stati accusati falsamente di stupro di una nera.
Ennio
Caretto
Da AGI Economia Oggi 16-9-2007 USA:
GREENSPAN, CROLLO PREZZI CASE PER EFFETTO “BOLLA”
V-day,
Grillo lancia le sue liste civiche "Chi lo merita avrà il mio
bollino"
Il Corriere della Sera 16-9-2007 Il
nemico in casa di Sergio Romano
Washington -
L'euro potrebbe rimpiazzare il dollaro come principale riserva valutaria del
mondo. Lo ha detto Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve al
settimanale tedesco Stern. "E' assolutamente concepibile che l'euro
rimpiazzi il dollaro come riserva valutaria, oppure che venga trattato come
un'egualmente importante riserva valutaria", dice il giornale in un'anticipazione
dell'edizione di questa settimana. Greenspan ha inoltre detto che la regione
che adotta l'euro ha tratto profitto della forza della moneta unica. Il suo uso
come riserva valutaria ha portato a un calo dei tassi di interesse nella zona
euro e "senza dubbio ha contribuito all'attuale espansione
economica", ha dichiarato Greenspan. La crisi dei mutui Il calo dei prezzi
delle case "sarà maggiore di quanto previsto dalla maggior parte
delle persone". Ha detto Greenspan al Financial Times. Greenspan si
aspetta "come minimo" una riduzione "a una cifra" rispetto
al massimo toccato, ma non sarebbe sorpreso se il ribasso fosse "a doppia
cifra", sostenendo che i prezzi sono già scesi del 2-3% dal top
raggiunto a livello nazionale. Gli Stati Uniti sono ormai esposti
all'esplosione della bolla nel mercato immobiliare ma non cadranno in
recessione. La previsione è dell'ex presidente della Fed, Alan
Greenspan. "Finora", ha detto alla Nbc, "non ci sono ancore
prove. L'economia in questo stadio, nonostante i problemi fiscali, nonostante i
problemi finanziari, sta ancora rimanendo salda".
Pacifisti davanti
alla casa bianca e campidoglio Greenspan: siamo andati in Iraq per il petrolio.
Iran prossimo obiettivo Washington. Il "ritiro parziale" dall'Iraq,
promesso giovedì dal presidente George W. Bush nel suo ultimo discorso
alla nazione, non ha fermato decine di migliaia di pacifisti americani che,
sabato pomeriggio, hanno dato vita ad un grande corteo di protesta a
Washington, sfilando davanti alla Casa Bianca e al Campidoglio, sede del
Congresso Usa. Duecento dimostranti sono stati arrestati ai piedi del Capitol,
dopo che sono scoppiati alcuni tafferugli con la polizia, dispiegata in tenuta
antisommossa. Gli organizzatori parlano di almeno 100mila presenze alla
manifestazione indetta dalle principali sigle "No-War". Mischiati tra
i manifestanti anche veterani della guerra in Iraq e molti familiari degli
oltre 3.760 caduti. La tensione tra dimostranti e forze dell'ordine è
stata favorita anche dalla presenza, lungo il percoso del corteo pacifista, di
una parallela contro-manifestazione a sostegno della permanenza delle truppe in
Iraq. A gettare altra benzina sul fuoco è arrivata anche una nuova
stoccata di Alan Greenspan a George W. Bush: dopo aver bocciato la fallimentare
politica fiscale del presidente nelle sue attesissime memorie da oggiani in
libreria negli Stati Uniti, l'ex capo della Federal Reserve americana ha
sostenuto come sia stato il petrolio la "ragione prima" per cui gli
Stati Uniti hanno deciso l'intervento militare in Iraq. "Mi rattrista che
sia politicamente sconveniente ammettere quello che tutti sanno: la guerra in
Iraq è stata fatta, principalmente, per il petrolio", afferma
l'81enne Greenspan, un repubblicano di ferro che per 18 anni ha retto
saldamente le redini della banca centrale americana, prima di passare la mano
nel febbraio 2006 al suo successore, Ben Bernanke. Secondo l'ex capo della
Federal Reserve, Washington ha deposto il regime iracheno di Saddam Hussein
perché ritenuto una seria minaccia alla sicurezza delle riserve petrolifere Sul
fronte della guerra ieri i gruppi della resistenza hanno ucciso almeno 30
persone in diversi attentati. C''è apprensione anche per l'altro fronte
nell'area mediorientale: quello ianiano. Secondo quanto ha rivelato ieri il
"Sunday Telegraph" continuano i preparativi negli Stati Uniti in
vista di una possibile azione militare contro Teheran. Secondo il "Sunday
Telegraph", il Pentagono avrebbe messo a punto una lista di duemila
obiettivi da colpire, mentre sono in molti a ritenere che gli sforzi
diplomatici fin qui perseguiti per costringere Teheran a rinunciare al suo
programma nucleare siano destinati al fallimento. Tanto che, sostiene il
domenicale britannico, anche il segretario di Stato americano Condoleezza Rice,
da sempre fautrice della linea morbida, sarebbe pronta a mettere da parte le
divergenze con il vice presidente Dich Cheney, il "falco"
dell'amministrazione Bush, appoggiando un intervento militare. Secondo lo
scenario raccontato al "Telegraph" da una fonte di intelligence
americana, le accuse all'Iran di interferenza negli affari iracheni verrebbero
addotte a giustificazione di raid contro campi di addestramento iraniani e di
depositi nei quali si fabbricano bombe. Il primo obiettivo sarebbe la base di
Fajr della Forza Quds della Guardia rivoluzionaria nel sud dell'Iran, dove si
sospetta vengano sviluppati gli ordigni utilizzati negli attacchi contro le
forze americane e britanniche in Iraq. A quel punto, secondo la teoria che sta
acquistando sempre più credito fra i circoli della sicurezza di
Washington, l'Iran reagirebbe all'azione americana, per esempio bloccando le
rotte delle petroliere nel Golfo Persico, offrendo così il destro per
giustificare raid aerei americani contro gli impianti nucleari iraniani, che
sarebbero distrutti. L'impressione prevalente nell'intelligence americana
è che il nocciolo duro dell'amministrazione Bush -leggi Cheney - non
voglia lasciare la Casa Bianca senza prima essersi assicurato che Teheran non
sarà in grado di dotarsi di armi nucleari, almeno nei prossimi anni.
R.E. 17/09/2007 Secondo il "Sunday Telegraph" il Pentagono avrebbe
stilato una lista di duemila obiettivi da colpire sul territorio iraniano
Achille Serra non
ha lo stile molto riservato di Gianfranco Tatozzi, né quello garbato e prudente
di Bruno Ferrante, i suoi predecessori. è un ciclone che non ammette
ostacoli, con una lista di iniziative quotidianamente aggiornata e da
comunicare con la più assoluta trasparenza: alla conferenza stampa di
insediamento, Serra ha innanzitutto reso noto il suo numero di cellulare.
Prefetto Serra, l'attività del suo nuovo ufficio finoraè rimasta
al palo e ha già avuto due alti commissari. Perché lei dovrebbe riuscire
là dove non ce l'hanno fatta i suoi predecessori? La nascita di questa
struttura risale a pochissimo tempo fa, quindi non condivido la sua analisi. In
ogni caso, io non scalderò la sedia. Ha già definito le priorità
di intervento? Non potrei comunque rivelarle. Ma intanto posso già
annunciare la messa a punto di una mappa della corruzione: in pochissimi giorni
sarà pronta l'intensità del fenomeno sul territorio italiano. Lei
ha già dichiarato che la sanità è un settore interessato.
Non lo nego. Ma il punto importante non è tanto questo. Il problema
è che questo ufficio deve essere intanto conosciuto dai cittadini. Oggi,
in effetti, è un carneade burocratico. Allora cominciamo a dire che non
siamo un ufficio reclami. Né il difensore civico. Né tantomeno l'alternativa
alle Forze di polizia e alla magistratura, con cui invece vogliamo stabilire la
massima intesa. E come si fa a non creare sovrapposizioni? I compiti sono
già definiti dalla legge, quindi nessuna interferenza. Se ho notizia
certa di reato di corruzione devo immediatamente trasmettere gli atti alla
procura. Noi però il fenomeno dobbiamo conoscerlo, capirlo, e
trasmettere proposte di intervento al presidente del Consiglio. Quali azioni
positive vanno programmate? Ci vuole dialogo e confronto in un'azione a tutto
campo. Intendo andare nelle scuole. Incontrerò i procuratori della
Repubblica delle principali regioni a rischio e poi tutti gli altri. Spero, al
più presto, in una riunione con la conferenza degli enti locali. Per
questo già nei primi giorni di lavoro ho visto il ministro Linda
Lanzillotta. Il muro di diffidenza di Regioni, Comuni e Province finora non
è crollato. Perché dovrebbe? Dipende da come si guarda l'ufficio
dell'Alto commissario. Un fatto è certo: non sono e non intendo essere
uno sceriffo. Però, se vuole intrufolarsi tra le pratiche di un
municipio, o di un ente regionale, è probabile che non sia amato dagli
amministratori locali. Io voglio rovesciare la prospettiva. E far capire loro
che questa struttura non è un'insidia, ma una garanzia e anzi
un'opportunità. Provi a convincerli. è molto semplice. Gli
scandali, e quelli di corruzione in particolare, hanno conseguenze nefaste
sulla fiducia dei cittadini nei politici locali. Gli amministratori, dunque,
hanno tutto l'interesse, compreso quello politico, a garantire procedure
pienamente legittime. La trasparenza e la legalità assicurano consenso.
L'illegalità, compresa quella più o meno nascosta,produce
l'esatto opposto. Un altro terreno da arare è quello della pubblica
amministrazione. Sto pensando a un protocollo con le confederazioni, perché il
sindacato può avere un ruolo prezioso. Intendo incontrare anche il
presidente di Confindustria Montezemolo. è poi allo studio anche un
accordo con il ministro della Funzione pubblica e con le prefetture. Possono
insospettire anche i costi dello Stato? Penso di fare incroci e verifiche sui
flussi finanziari: proprio nelle anomalie della spesa pubblica si possono
scoprire pratiche di corruzione. Magari perfino consolidate. Achille Serra, da
prefetto di Roma ad Alto commissario anti-corruzione LAPRESSE.
LUSSEMBURGO
La Commissione europea ha ragione nel sostenere che Microsoft non ha condiviso
con i concorrenti la documentazione tecnica necessaria a garantire
l’interoperabilità del suo sistema Windows con gli altri programmi e che
l’inserimento di Windows Media Player in Windows 2000 è una forma di
concorrenza sleale nei confronti degli altri produttori di lettori
multimediali. È quanto hanno stabilito i giudici del Tribunale di primo
grado della Corte di giustizia europea nella sentenza emessa oggi a
Lussemburgo, confermando la decisione dell’esecutivo comunitario del 27 marzo
2004 che aveva comminato una multa di 497,2 milioni di euro all’azienda
americana per «abuso di posizione dominante».
Quanto al rifiuto di Microsoft di pubblicare le informazioni tecniche su
Windows la sentenza ricorda che affinchè questo rifiuto si possa
considerare «abuso di posizione dominante» tre condizioni devono essere
soddisfatte: innanzitutto «il rifiuto deve essere relativo ad un prodotto o
servizio indispensabile per l’esercizio di un’attività di un mercato
confinante», in secondo luogo «il rifiuto deve essere tale da escludere ogni
effettiva concorrenza in quel mercato» e infine «il rifiuto deve impedire
l’apparizione di un nuovo prodotto per il quale ci sia una potenziale domanda
da parte dei consumatori». Nel caso di Microsoft, concludono i giudici, «la
Commissione non ha sbagliato nel considerare che tutte queste condizioni erano
soddisfatte» e l’assenza di interoperabilità «ha l’effetto di rafforzare
la posizione competitiva di Microsoft sul mercato e di creare il rischio che la
concorrenza sia eliminata». I giudici infine respingono le argomentazioni
dell’azienda americana secondo cui la documentazione tecnica richiesta dalla
Commissione sarebbe coperta dal diritto di proprietà intellettuale e
stabiliscono che «Microsoft ha fallito nel dimostrare che la richiesta di
rendere pubbliche le informazioni sull’interoperabilità avrebbe avuto un
significativo effetto negativo sugli incentivi ad innovare»
Sul lettore multimediale della casa di Redmond invece la sentenza stabilisce
che il fatto di non permettere ai consumatori di acquistare il sistema
operativo Windows senza Windows Media Player «ha la conseguenza inevitabile di
influenzare le relazioni sul mercato» tra Microsoft e i concorrenti «alterando
significativamente l’equilibrio della concorrenza in favore di Microsoft, a
detrimento degli altri operatori». In questo modo l’azienda di Bill Gates,
osserva la Corte, «ottiene un vantaggio senza precedenti» sulla distribuzione
dei prodotti, garantita dall’ubiquità dei Windows e in questo mondo
«fornisce un disincentivo per gli utenti ad utilizzare i lettori multimediali
delle parti terze». Anche qui, concludono i giudici di Lussemburgo, «la
Commissione aveva ragione nel sostenere che c’era un rischio significativo che
i vincoli avrebbero portato ad un indebolimento della concorrenza». Quindi,
conclude la sentenza, «la Commissione non ha sbagliato nel valutare la
gravità e la durata della violazione e non ha sbagliato nel definire
l’ammontare dell’ammenda. Dal momento che l’abuso di posizione dominante
è confermato dalla Corte, l’ammontare della multa rimane invariato a 479
milioni di euro». Ora, si ricorda nel testo, un appello, limitato alle
questioni formali, può essere presentato alla Corte di Giustizia entro
due mesi dalla notifica.
C'è
tra gli italiani un'estesa voglia di votare Beppe Grillo, dopo le ultime
esternazioni del comico genovese. Il 17% preannuncia senz'altro il proprio
suffragio, il 33% «lo prenderebbe comunque in considerazione». E i consensi appaiono
maggiori tra chi oggi vota per i partiti del centrosinistra.
Il successo delle iniziative di Beppe
Grillo ha scosso il mondo politico e suscitato commenti preoccupati da parte di
leader e osservatori. Motivati, per la verità, più dal timore che
le performance del comico possano scombussolare l'assetto politico attuale che
dal merito delle proposte avanzate, rimaste, tranne rare eccezioni,
completamente ignorate.
Dal punto di vista dell'opinione pubblica, il consenso per le attività
di Grillo è invece assai ampio, tanto che Diamanti lo ha stimato nel 43%
della popolazione.
E' un dato che non deve sorprendere. Grillo è infatti riuscito
sapientemente a legare la politica all'antipolitica, attirando al tempo stesso
i consensi di molti «militanti» o comunque interessati alla politica,
provenienti specie dalla sinistra, e quelli di chi è più
sensibile alle tematiche dell'ant ipolitica tout-court. Quest'ultima, come si
sa, ha sempre avuto un relativo successo nel nostro Paese (e in tanti altri),
sin dai tempi dell'«Uomo Qualunque». Ancora oggi, se si domanda agli italiani
«che cosa le viene in mente quando pensa alla politica?», gli attributi e le
definizioni negative costituiscono la maggioranza, arrivando a toccare il 60%
delle risposte: le più frequenti sono «rabbia», «disgusto»,
«diffidenza». Anche per questo, non a caso, tre italiani su quattro affermano
oggi che «i politici non si preoccupano di quello che pensa la gente come me» o
che «la gente come me non ha alcuna influenza su quello che fa il governo» o,
ancora, che «i politici sono interessati ai voti dei cittadini, non alle loro
opinioni».
Ma, come si è detto, il movimento di Grillo, diversamente da quello di
Giannini e di molti altri, giunge a coniugare la larga diffusione degli
atteggiamenti legati all'antipolitica con la protesta «politica» più
radicale.
Con quali possibili effetti dal punto di vista elettorale? C'è tra gli
italiani una estesa «voglia» di votare per Grillo, se si presentasse alle
elezioni. Il 17 per cento preannuncia senz'altro il proprio suffragio. E un
altro 33 per cento dichiara che «lo prenderebbe comunque in considerazione».
Esiste, insomma, un mercato potenziale che sembra comprendere addirittura
metà dell'elettorato. I consensi appaiono relativamente maggiori tra chi
oggi vota per i partiti del centrosinistra, ma sono presenti in larga misura
anche tra gli elettori del centrodestra, tra gli indecisi e tra i potenziali
astenuti. Ed è molto significativo che la disponibilità verso
Grillo sia più accentuata tra i giovani.
Ovviamente, una cosa è
l'intenzione (o la potenzialità) al voto espressa in
un sondaggio, un'altra è il comportamento di voto vero. Tra chi dichiara
la possibilità di optare per Grillo, molti sono oggi «appartenenti» ai
partiti già esistenti. In particolare, il favore per il comico si trova
in misura maggiore nell'estrema sinistra, ove si connota anche come protesta
radicale. Si tratta di un segmento di elettorato che difficilmente abbandona il
«proprio» partito.
Ciò suggerisce che il seguito elettorale effettivo di Grillo si possa
ragionevolmente collocare a livelli molto inferiori di quello potenziale. Ma
ciò che conta non è la quantità di voti che il comico
potrebbe raccogliere. E' il fenomeno dell'antipolitica, così fortemente
enfatizzato e stimolato da Beppe Grillo, a dover forse preoccupare, per la sua
presenza trasversale in tutti i partiti, anche tra gli elettori più
fedeli. Abilmente mescolato alla protesta «politica» radicale, esso forma un
mix potenzialmente esplosivo, una sorta di fuoco sotto le ceneri. Dagli effetti
imprevedibili.
Renato Mannheimer
17 settembre 2007
(AGI) - Roma, 16 set. - I prezzi delle case negli Stati Unti sono
destinati a crollare per effetto della “bolla” immobiliare. In un’intervista al
‘Financial Times’, l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, ha
affermato che il crollo dei prezzi delle case “sara’ piu’ grande di quanto la
gente si aspetti”. Greenspan ha poi detto il vocabolo usato dal suo successore
Ben Bernanke, che ha parlato di “schiuma” e non bolla, non e’ altro che “un
eufemismo per indicare una bolla”. (AGI)
Fed
ROMA - "E adesso? Dopo il V-day? La parola
è ai cittadini. Ogni Meetup, ogni gruppo può, se vuole,
trasformarsi in lista civica per le amministrazioni comunali". Il via
libera arriva direttamente da Beppe Grillo, che affida al suo blog il passo
avanti della 'V-generation': dalla protesta alla proposta, come si dice in casi
del genere. Con tanto di 'bollino' di garanzia rilasciato ai chi
rispetterà i requisiti-tipo.
"I cittadini - chiarisce, senza lasciare spazio a equivoci - devono
entrare in politica direttamente. Per la loro tutela e per quella dei loro
figli". Perché? Grillo lo spiega così: "I Comuni decidono
della vita quotidiana di ognuno di noi. Possono avvelenarci con un inceneritore
o avviare la raccolta differenziata. Fare parchi per i bambini o porti per gli
speculatori. Costruire parcheggi o asili. Privatizzare l'acqua o mantenerla
sotto il loro controllo. Dai Comuni si deve ripartire a fare politica con le
liste civiche".
Antipolitici sì, ma non proprio in completa autogestione e con le idee
molto chiare da parte dell'animatore del 'Vaffa-day' : "Le liste che
aderiranno ai requisiti che pubblicherò sul blog tra qualche giorno -
anticipa infatti il comico-blogger - avranno la certificazione di trasparenza
'beppegrillo.it'. Tra i requisiti ci saranno, ad esempio, il non essere
iscritti a partiti ed essere incensurati. Le liste potranno comunque chiamarsi
come gli pare ed essere autonome nella loro azione".
"Ci potranno anche essere più liste in una stessa città. Le
liste certificate saranno pubblicizzate dal blog e messe in condizione di
scambiarsi informazioni e esperienze attraverso una piattaforma comune on-line
che sarà messa a disposizione, sempre attraverso il blog". Grillo tiene
però a mantenere una certa distanza dal mondo della politica al quale
sembra invece avvicinarsi sempre di più.
"Io - puntualizza - non parteciperò a nessuna manifestazione nei
prossimi mesi. Non sto promuovendo la presentazione di nessuna lista civica,
nè locale, nè nazionale. La loro voce, i partecipanti del V-day
non la prestano a nessuno. Sono i megafoni di sè stessi. I cittadini che
si fanno politica. Per le liste civiche rimanete sintonizzati sul blog. Stay
tuned".
Con il comico si schiera Antonio Di Pietro. "Finalmente una ventata di
novità nel panorama politico italiano", dice il ministro. "E'
in questo modo - dice ancora il leader dell'IdV - che si dà anche luogo
al ricambio generazionale della classe politica italiana. Soprattutto lascia
che sia il cittadino a scegliere i propri candidati. Ci auguriamo il successo
dell'iniziativa e assicuriamo il nostro contributo".
E contro Di Pietro si scagliano i Verdi. "e liste civiche annunciate da
Beppe Grillo rappresentano un fatto importante e rivolgiamo loro un benvenuto -
dice il capogruppo all Camera Angelo Bonelli - piuttosto, il sostegno rivolto
da Di Pietro a quest'iniziativa appare decisamente opportunistico. Il ministro
delle Infrastrutture, infatti, a più riprese ha attaccato i Verdi e gli
ambientalisti definiti 'quelli che bloccano tutto', 'quelli del no': proprio
lui che vuole costruire un'autostrada che cancellerebbe la Maremma toscana,
piazzare centrali da tutte le parti, riempire l%u2019Italia di cemento e fare i
termovalorizzatori". "Appoggiare oggi le liste ideate da Beppe
Grillo, che sull'ambiente dichiarano di voler fare l'esatto contrario di quanto
il ministro Di Pietro sta praticando %u2013 ha aggiunto Bonelli %u2013 è
dunque da opportunisti".
(16 settembre 2007)
Roma Il giorno dopo la performance anti-partiti alla Festa
dell'Unità, Beppe Grillo parla ai suoi a modo suo: senza
mediazioni. Cioè, dal blog, la cui "reputazione" ha
rivendicato durante lo spettacolo. Annuncia liste civiche
autarchiche, col bollino doc della trasparenza e della fedina penale
pulita, per ripartire dalla politica a livello comunale. Non sarà lui -
chiarisce - a promuovere l'operazione. Nei prossimi mesi neppure
parteciperà a manifestazioni. Ogni gruppo di grillanti può
trasformarsi in lista civica. Se avrà certi requisiti (niente tessere di
partito in tasca e niente condanne) riceverà un "certificato di
trasparenza" e avrà spazio sul blog per pubblicizzarsi e chattare
con altre liste. "I cittadini sono megafoni di se stessi - scrive
il comico-tribuno sul web -devono fare politica direttamente per sé e propri
figli". A partire da temi quotidiani come acqua, ambiente, lotta agli
inceneritori. Iniziativa apprezzata dal ministro Pecoraro Scanio - "In questi
termini sono i benvenuti" - e da Di Pietro, l'unico ministro
"salvato" dal comico: al Palasharp milanese sono andate in onda le
immagini dell'ex pm che firmava la piattaforma Grillo, e il commento di
quest'ultimo: "Non lo fa per farsi pubblicità. Piero Fassino
propone un "codice etico" per il Pd, mentre l'udeurrino Fabris storce
il naso: "Liste civiche? Ricetta usurata". Intanto
l'arringa grillesca in casa della Quercia, ma senza risparmiare premier e
alleati, lascia il segno. Livia Turco, ministro Ds della Salute, parla di
"attacco infondato" perché "bisogna rinnovare la politica per
costruire partiti più forti e non più deboli". Fausto
Bertinotti attribuisce alla scomparsa delle "culture forti della politica"
e al conseguente "disorientamento" questa crisi: "Ormai
c'è chi è d'accordo con la sinistra sul welfare, plaude Grillo
e vota Lega". Confusione totale, con il rischio che "domini il
mercato". Bisogna fare la massima attenzione - avverte il presidente della
Camera - "alle proteste populistiche perché portano a governi
tecnocratici". Il ministro delle Comunicazioni Gentiloni ammette che il
"profeta" genovese intercetta la voglia di rinnovamento "ma le
sue risposte ci portano dalla padella nella brace". Cauto Gavino Angius: "La
piazza va ascoltata, ma non necessariamente condivisa". A difendere il
sequel del V-day è innanzitutto Italia dei Valori. La dipietrista
Silvana Mura ha attaccato: "Li hanno accusati di populismo, antipolitica e
pure fascismo, ma se anche i militanti e gli elettori del futuro Pd si
entusiasmano è evidente che o c'è l'antipolitica pure lì o
sono analisi errate". Anche l'ulivista-bindiano Franco Monaco sostiene
l'iniziativa: "Le reazioni schizzinose o stizzite hanno sapore
esorcistico. Rivelano cecità, debolezza, paura". Certo "non
bisogna appiattirsi sulle iperboli di un comico, ma gli italiani invocano
pulizia e finora non hanno avuto risposta. Dall'opposizione, Casini - anche lui
citato come partecipante al Family Day da titolare di ben due famiglie - irride
la sinistra preda della "sindrome di Stoccolma" (che porta il
prigioniero ad amare il carceriere): "Grillo ha preso i Ds a pesci
in faccia alla loro festa". Poi sospira: quanto era educata la piazza del
Family Day. Il leghista Calderoli si preoccupa: "Il tentativo di dire che tutto
è marcio non passa". Già: se Grillo si intesta la
politica antipolitica, il Carroccio che fine fa? Alla Festa dell'Unità
il suo pubblico lo ha seguito senza defaillances. Alzandosi in piedi all'idea
di un secondo evento contro i soldi pubblici ai giornali. Ed esplodendo in un
boato quando Grillo ha fatto scorrere sullo schermo la lunga serie dei
giornalisti Rai figli di, mogli di, fratelli di, e persino cognati di:
"Informazione niente, ma in compenso trombano come ricci".
ROMA. Il nuovo tsunami dell'antipolitica percorre la rete e si
abbatte rapidamente sulla politica alle 15,16 di una domenica fino a quel
momento piuttosto rituale e sonnacchiosa. E' proprio a quell'ora che infatti
sul blog di Beppe Grillo viene "postato" un nuovo messaggio al
popolo del Vaffa che già dal titolo annuncia bufera: "I Comuni ai
cittadini". E' lui, in persona, il V-leader trionfante delle ultime
settimane a lanciare i suoi fedeli all'assalto del Quartier generale della politica.
La nuova idea? Presentarsi alle elezioni con liste con il suo bollino
di garanzia. "E adesso? Dopo il V-day?", è infatti la domanda
con cui si apre il messaggio di Grillo. "La parola è ai
cittadini. Ogni meetup, ogni gruppo può, se vuole, trasformarsi in lista
civica per le amministrazioni comunali". Il dado è tratto. Mentre i
partiti, e i Ds in particolare, non hanno ancora finito di digerire l'ultimo
attacco lanciatogli il giorno prima da Grillo proprio da una Festa
dell'Unità - al quale subito risponde seccamente Fassino dall'ultima
Festa della storia - ecco profilarsi all'orizzonte la nuova e concreta
minaccia: una miriade di liste civiche pronte a calare sulle
prossime comunali. "I cittadini - continua Grillo nel suo proclama
- devono entrare in politica direttamente. Per la loro tutela e per quella dei
loro figli". Perché? Grillo lo spiega così: "I Comuni
decidono della vita quotidiana di ognuno di noi. Possono avvelenarci con un
inceneritore o avviare la raccolta differenziata. Possono fare parchi per i
bambini oppure porti per gli speculatori. Possono costruire parcheggi o asili,
privatizzare l'acqua oppure mantenerla sotto il loro controllo. Dunque,
è dai Comuni che si deve ripartire a fare politica con le liste civiche".
Ma che liste saranno? Con quali programmi, bandiere, parole d'ordine? Il
condottiero del Vaffa-day non pone limiti, se non quello della propria
"certificazione". E la bandiera che offre di portare in campo
è in sostanza quella con il proprio nome. "Le liste che
aderiranno ai requisiti che pubblicherò sul blog tra qualche giorno -
anticipa infatti - avranno la certificazione di trasparenza 'beppegrillo. it'.
Tra i requisiti ci saranno, ad esempio, il non essere iscritti a partiti ed
essere incensurati. Le liste potranno comunque chiamarsi come gli pare
ed essere autonome nella loro azione. Ci potranno anche essere più liste
in una stessa città. Le liste certificate - continua - saranno
pubblicizzate dal blog e messe in condizione di scambiarsi informazioni e
esperienze attraverso una piattaforma comune on-line che sarà messa a
disposizione, sempre attraverso il blog". In suo nome, ma senza il suo
coinvolgimento. Grillo avverte infatti che lui (per adesso) non
scenderà in campo. "Io non parteciperò a nessuna
manifestazione nei prossimi mesi. Non sto promuovendo la presentazione di
nessuna lista civica, né locale, né nazionale. La loro voce, i partecipanti del
V-day non la prestano a nessuno. Sono i megafoni di se stessi. I cittadini che
si fanno politica. Per le liste civiche - conclude il messaggio -
rimanete sintonizzati sul blog. Stay tuned". Le prime reazioni si
scatenano ovviamente nella casamatta di Grillo su internet, il suo blog.
I messaggi di commento si moltiplicano, diventano alcune centinaia in poco
tempo. Ma a ben vedere la notizia è che non tutti esprimono entusiasmo.
Anzi. Circola imbarazzo, difficoltà, in più di un caso aperta
contrarietà. C'è chi è pronto a partire, chi indica
già i riferimenti in rete, ma anche chi dice chiaro e tondo che non era
di questo che si era parlato. "Grazie Beppe, ma io sono iscritto a
Rifondazione", risponde Massimo B. "Questa cosa delle liste civiche
manda a puttane tutti i buoni propositi", avverte Mauro G. "Tutto
qui? Creare liste civiche e cavarsela da soli?", è la
delusione espressa da Sergio Piterà. E c'è anche chi la butta sul
politico: "Attento Beppe, non stai facendo altro che portare acqua al
mulino di Berlusconi", scrive Andrea Bianco.
"Caro Beppe spero che non cambi idea, meno male che abbiamo
trovato un portavoce del malcontento del popolo e le tue mosse verso questi
ingrati governanti, si stanno rilevando prodighe". O ancora: "Adesso
so chi votare! Vaffanculo ai partiti corrotti! Grande Beppe proviamoci! La
politica a noi!". Di commenti così sul frequentatissimo Blog del
comico genovese ce ne sono molti. Ma a scorrere tutti i 500 e passa post
lasciati dal popolo del V-day si capisce che l'idea delle liste civiche
"certificate" da Grillo non ha trovato tutti d'accordo. Anzi.
Scrive Frank: "No Beppe..non la vedo bene questa cosa di
"sponsorizzare" delle liste civiche. Abbiamo visto
già troppe liste vendute al "padrone di turno" oppure
cavalcare l'onda del malcontento generale per poi farsi i c...i propri".
Stessa paura di Mauro: "Finisce sempre così. Ci si organizza
proponendo cose bellissime e si parte alla grande. Si fanno grupponi e
gruppini. Poi vengono fuori, emergono quelli che fanno del "comando"
sugli altri una ragione di vita. E guarda caso questi sono sempre i più
corruttibili. Ora gli si propone anche di formare delle liste...una
grossa opportunità di guadagno in vista. E fanculo tutti i buoni
propositi e gli ideali". Fra i grillonauti, antipolitici per definizione, circola
la paura del contagio. "Entrare anche noi a far parte della
"Casta"? - si chiede con orrore un blogger - Tu credi davvero che
basti un certificato di garanzia? No, attento Beppe, così perdi per
strada i tuoi fans". Per molti poi il V-day deve rimanere esclusivamente
un movimento di protesta antisistema. "Se un cittadino voleva fare
politica la poteva fare anche prima del V-day...", incalza Alberto.
"Dai Beppe dicci che era solo uno scherzo", conclude. Ma c'è
anche chi contesta il merito dell'iniziativa. "Mi permetta un appunto: lei
paradossalmente, in quanto NON incensurato non potrebbe iscriversi a nessuna
lista civica...sbaglio?", chiede Andrea. Stesso dubbio avanzato da Dario:
"Attenzione a cosa significa essere incensurati. Durante la mia attività
politica sono stato condannato per diffamazione in primo grado contro
funzionari pubblici ed amministratori corrotti che, poi, sono finiti in galera
per le mie denunce. Forse è meglio specificare i reati da escludere,
altrimenti i delusi dalla casta come me devono stare a casa come Cirino
Pomicino e soci". I favorevoli all'iniziativa si dividono invece fra i
concilianti, come Nicola, che scrive: "Direi che la tua idea è
grandiosa, Beppe. Hai attaccato la politica nei suoi vertici, e gli hai fatto
una paura matta con l'ausilio degli italiani buoni. Il ruolo di garante,
anziché quello di leader, è il migliore che potevi scegliere. Io ci
credo, andiamo avanti!"; e gli arrabbiati, che arrivano alle minacce:
"Me e molti altri amici siamo con il movimento. Se le cose non cambiano e
le parole non vengono ascoltate siamo pronti alla violenza. Tiriamo giù
dai loro troni quelle facce di merda. Figli di puttana!", è il post
incendiario di un blogger che si firma significativamente Avvelenato. Ma non
manca nemmeno, forse degli infiltrati, chi se la prende con Grillo e le
sue parole d'ordine: "Era dai tempi del fascismo che non si vedavano
proposte così", accusa Davide. "C'è un sacco di gente -
continua - che si impegna in modo gratuito per cambiare le cose e le generalizzazioni
di un ricco comico rovinano il nostro impegno". Ma la sorpresa più
grande è scoprire fra il popolo dell'antipolitica estimatori dei
partiti. Per Nicola "sono stati i tendini di un paese molto diviso".
E Alessia invita a mettere da parte la retorica antisistema e a farsi
direttamente avanti: "Promuovere tra i cittadini l'idea che i partiti
siano il veleno della democrazia è un'equazione dubbia: non già
perché nei partiti ci sono mele marce vale la pena di dire che siano istituzioni
da abolire. Funzionano male? Miglioriamoli
DAL NOSTRO INVIATO PARIGI - "Bisogna prepararsi al
peggio". E cioè? "Alla guerra". Con queste parole
drammatiche, il ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner, ha svelato
ieri sera in un'intervista televisiva che una guerra all'Iran
è vicina: "Ci stiamo preparando, gli stati maggiori militari stanno
mettendo a punto i piani. Non è una cosa comunque che accadrà
dall'oggi al domani". Fatto salvo ovviamente ogni tentativo diplomatico
per convincere il regime di Teheran a interrompere gli esperimenti
nucleari. Secondo l'inglese The Sunday Telegraph, gli americani avrebbero
già elaborato una lista di 2mila obiettivi da colpire in territorio
iraniano. Il segretario di Stato, Condoleezza Rice, abbandonata l'iniziale
reticenza nei confronti di un'azione di forza, si sarebbe allineata al
vice-presidente Dick Cheney, ponendo un'unica condizione: la preparazione di un
dossier accurato a giustificazione dell'intervento, per evitare gli imbarazzi
che piovvero sugli Usa quando attaccarono l'Iraq. In questo "dossier",
si insisterebbe sulla necessità di reagire alle interferenze di Teheran
negli affari iracheni, in particolare attaccando i campi di addestramento e i
depositi delle bombe da trasferire in Iraq per armare la guerriglia. Il primo
obbiettivo sarebbe la base di Fajr della Forza Quds della Guardia
Rivoluzionaria, nel sud dell'Iran. Se gli iraniani chiudessero per
ritorsione il golfo Persico al transito delle petroliere, gli americani
darebbero via libera ai raid aerei contro gli impianti nucleari iraniani. Il
Pentagono starebbe esaminando due piani alternativi. Nel primo sarebbe previsto
il bombardamento dei soli impianti nucleari, mentre il secondo potrebbe durare
anche qualche giorno, con attacchi a tutti i più importanti siti
militari. è in questo scenario che Kouchner, con un "colpo di
teatro" a cui la nuova presidenza francese fa sovente ricorso, ha
annunciato la prossima "guerra". Reduce da un lungo viaggio
nelle capitali medio-orientali, il ministro di Sarkozy ha tracciato una linea
diplomatica europea nella crisi iraniana. Dopo aver precisato che "le
forze armate francesi non sono per ora impegnate in azioni", Kouchner ha
auspicato che l'Ue studi proprie sanzioni contro Teheran. "Sanzioni
europee", le ha definite con un certo orgoglio, "al di fuori di
quelle dell'Onu". "Le hanno proposte i nostri amici tedeschi",
ha dovuto però aggiungere il ministro francese, per evitare nuovi
attriti col governo di Angela Merkel. Si tratterà di "sanzioni
economiche su alcuni circuiti finanziari", dirette contro "le grandi
fortune e le banche", non contro la popolazione. Da tempo il governo
francese ha chiesto a società come Total e Gaz de France di non
investire in Iran. "Spero che abbiano capito il messaggio e che noi
francesi non siamo i soli ad aver deciso questa linea". Oggi Kouchner
volerà a Mosca, poi alla fine della settimana sarà a Washington.
Nella nuova politica estera francese, più allineata agli Usa che
ai tempi di Chirac ma con pretese di autonomia, c'è anche posto per una
battuta salata sugli errori dell'amministrazione Bush in Iraq. "Per loro
è stata una sconfitta - ha detto Kouchner - C'è poco da fare. Ora
bisogna voltare pagina".
New York - Nella domenica in cui il ministro degli Esteri francese
lancia l'allarme per un nuovo e imminente conflitto, quello iraniano, il tema
occupa le prime pagine dei principali quotidiani americani. L'attacco ai laboratori
e alle centrali in cui il regime di Teheran sta mettendo a punto il
nucleare made in Iran sarà davvero il prossimo passo
dell'Amministrazione Bush, l'ultimo lascito della presidenza repubblicana? I
pareri sono discordi: il dibattito occupa i giornali, i centri studi ed
è entrato a far parte della campagna elettorale, discusso sia dai
repubblicani sia dai democratici. Ma i pareri sono discordi perché anche la
Casa Bianca sarebbe divisa, lo schema, ancora ieri lo ripeteva il New York
Times, è sempre lo stesso e semplificando può essere letto con
Dick Cheney nella parte del falco e Condoleezza Rice in quella della colomba.
Il vicepresidente sarebbe sostenitore di un'azione mirata e preventiva contro
le strutture dove si prepara il nucleare iraniano, per impedire che il regime
di Ahmadinejad possa arrivare a possedere la bomba atomica. Mentre il
segretario di Stato è impegnata in una politica che tenga insieme
l'offensiva diplomatica e un progressivo rafforzamento delle sanzioni contro Teheran.
Lo schema della Rice, che da studiosa dell'Unione Sovietica ripete un modello
già sperimentato con Mosca, si muove all'interno dell'Onu con la
convinzione che l'isolamento crescente dell'Iran possa indebolirlo e
spingerlo alla trattativa. Il 21 settembre i cinque membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, più la Germania, si vedranno
per discutere una nuova bozza di risoluzione che prevede più dure
sanzioni per spingere Teheran a rinunciare al programma nucleare. In
quella sede gli Stati Uniti solleciteranno l'adozione di una terza risoluzione
con nuove e più stringenti sanzioni economiche, come ha spiegato il
sottosegretario del Dipartimento di Stato Nicholas Burns. Certamente entrambe
le opzioni, quella diplomatica e quella militare e i dossier correlati, sono
sul tavolo del presidente, insieme ai piani per un'azione mirata che il
Pentagono ha pronti da tempo. "Tutte le opzioni sono sul tavolo e gli
Stati Uniti non escludono alcuna strada", ha ribadito il capo del
Pentagono, Robert Gates parlando alla Fox tv, ma ha poi sottolineato che
"l'Amministrazione è convinta di continuare a cercare di rispondere
alla minaccia iraniana intensificando gli sforzi diplomatici e le pressioni di
natura economica". Non è casuale che l'Iran sia tornato al
centro dell'attenzione proprio questa settimana: nel momento in cui, seppur in
modo parziale, gli Stati Uniti pensano all'inizio del ritiro delle truppe
dall'Iraq la questione iraniana torna a porsi con forza. Teheran infatti
si appresterebbe ad essere il protagonista principale sulla scena mediorientale
e ad aumentare la sua influenza in tutte le aree di crisi, da Bagdad a Gaza
passando per il Libano. Proprio la Rice ha sottolineato che "l'Iran
riempirebbe immediatamente il vuoto lasciato da una partenza delle truppe
americane". Il generale David Petraeus nella sua audizione al Congresso
americano della scorsa settimana ha sostenuto che Teheran "sta
cercando di trasformare le milizie sciite in una forza simile a Hezbollah per
portare avanti i suoi interessi e condurre una guerra per procura contro
l'Iraq e le forze della coalizione". Anche Hillary Clinton questo fine
settimana ha parlato della minaccia iraniana, chiedendo alla Casa Bianca
un'azione diplomatica più incisiva, mentre per il candidato repubblicano
John McCain la sfida iraniana deve diventare la priorità dell'agenda
politica americana "per cercare di bloccare la crescente influenza di Teheran
in Iraq". Quell'influenza che l'ambasciatore Usa a Bagdad Crocker
ha definito "malefica". E proprio la prossima settimana, in occasione
dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, potrebbe riapparire a New York,
insieme ai capi di Stato e di governo di tutto il mondo, anche il presidente
iraniano Mahmoud Ahmadinejad.
WASHINGTON. WASHINGTON "Lo sanno tutti, la guerra in
Iraq è stata scatenata per il petrolio". Alan Greenspan, per quasi 20
anni presidente della Federal Reserve americana, liquida così la
politica mediorientale del presidente George Bush. Le accuse sono contenute nel
libro scritto dall'ex banchiere in vendita da oggi: "The Age of
Turbolence: Adventures in a New World". "Sono rattristato",
scrive Greenspan, "del fatto che sia sconveniente da un punto di vista
politico sapere ciò che sanno tutti: nella guerra in Iraq
è in gioco soprattutto il petrolio". Greenspan ha guidato la
Federal Reserve per 18 anni e mezzo, dal 1989. "The Age of Turbolence:
Adventures in a New World" costituisce un severo atto di accusa nei
confronti del presidente George W. Bush. La reazione non si è fatta
attendere. Il capo del Pentagono, Robert Gates, ha detto di avere grande
rispetto per l'ex presidente della Federal Reserve Alan Greenspan, ma ha
seccamente respinto la nozione che la sete di petrolio sia la vera ragione per
la quale gli Stati Uniti hanno invaso l'Iraq. Intervistato nel talk show
domenicale dell'emittente Abc Gates ha detto che "Greenspan si
sbaglia", il petrolio non c'entra. "Io non ero parte del governo
nella fase in cui l'operazione militare è stata decisa", ha
premesso Gates. "Ma chi dice che il petrolio è stato il motivo
della guerra sbaglia, in gioco c'è il processo di stabilizzazione
del Medio Oriente". Contro l'intervento degli Usa spara anche
Intervenendo militarmente in Iraq, fino il ministro degli Esteri francese,
Bernard Kouchner, il quale nel corso di un'intervista televisiva ha dichiarato
che Washington è consapevole della "disfatta" in Iraq.
"Noi siamo stati contro l'operazione militare americana in Iraq", ha
ricordato il ministro, aggiungendo che è arrivato il momento di
"girare pagina". Intanto, sul fronte della guerra irachena
l'esercito degli Stati Uniti ha annunciato di aver arrestato un membro di al
Qaida in Iraq responsabile dell'omicidio dello sceicco Abdul Sattar Abu Risha,
leader tribale della provincia di Al Anbar (ovest del Iraq) e alleato fedele
degli Stati Uniti. Lo sceicco era stato assassinato giovedì. Per quanto
riguarda l'Iran, invece, la Casa Bianca avrebbe pianificato
un'escalation che potrebbe portare nei prossimi mesi a un attacco militare
contro Teheran. Lo rivela il Sunday Telegraph, che cita dirigenti dei
servizi segreti americani. Secondo le fonti del settimanale britannico, la
strategia del presidente George Bush si fonderebbe sulla convinzione che gli
sforzi diplomatici per rallentare il programma nucleare dell'Iran siano
destinati a fallire.
OPORTO - Gli accordi attuali per la stabilità finanziaria definiti
quando le banche erano prevalentemente attive all'interno dei confini nazionali
«possono non assicurare soluzioni rapide, efficaci e poco costose in un
contesto globale». È questo il giudizio dell'Economic and Financial
Committee, l'organismo che prepara le riunioni dell'Ecofin, contenuti nel
rapporto finale consegnato ai ministri finanziari europei. Nel documento, di
cui Il Sole 24 Ore Radiocor è venuto in possesso, si mettono a punto una
decina di principi per la gestione comune delle crisi finanziarie con effetti
cross-border.
Per i Ventisette l'obiettivo «non è prevenire i fallimenti bancari» e
l'utilizzo di denaro pubblico per risolvere una crisi «non può mai
essere dato per scontato e sarà solo considerato per rimediare a seri
disturbi nell'economia e quando i benefici complessivi siano superiori ai costi
di ricapitalizzazione a spese degli Stati».
Tra le indicazioni del rapporto quella di cambiamenti legislativi nelle norme
nazionali inclusi « il rafforzamento delle disposizioni per la collaborazione
nell'azione di supervisione (tra organismi di Paesi diversi – ndr) e di
condivisione delle informazioni».
Il rapporto conclude un lungo lavoro di analisi dello stato della vigilanza
finanziaria in Europa e non fa alcun riferimento alla crisi di queste
settimane. Le sue conclusioni non costituiscono di per se stesse un allarme
specifico. Anzi: si afferma che «la probabilità di crisi finanziarie
cross-border di larga scala nell'Unione europea è bassa».
Il mutamento radicale del mercato bancario europeo è sintetizzato in una
cifra: attualmente ci sono 46 gruppi transfrontalieri (cross-border) di cui 21
hanno operazioni "significative" fuori dai confini della nazione di
origine. Si tratta di un andamento che secondo gli sherpa dell'Ecofin
«diventerà più pronunciato nei prossimi anni», con la conseguenza
che «man mano che l'integrazione progredisce è sempre più
probabile che le crisi che coinvolgono una banca abbiano implicazioni
cross-border».
Attualmente gli accordi di supervisione a livello europeo presentano una ampia
varietà di approcci nazionali nella gestione di crisi relativamente alla
condivisione delle informazioni e alla cooperazione, alla valutazione delle
implicazioni "sistemiche", al modo in cui vengono prese le decisioni,
alla divisione dei costi di gestione della crisi.
Secondo i tecnici dell'Ecofin «ci sono debolezze che devono essere affrontate
in via prioritaria» perchè se la probabilità di una crisi
cross-border è bassa (nonostante gli eventi di questa estate) «i costi
economici e sociali potenziali potrebbero essere molto
alti in termini di pil».
L'obiettivo non è quello di creare un organismo paneuropeo di vigilanza
e sorveglianza dei mercati finanziari (come é stato ribadito anche negli ultimi
due giorni da ministri e banchieri centrali riuniti a Oporto per le riunioni
informali d'autunno), quanto quello di rafforzare con forme anche legali (da
recepire nelle legislazioni nazionali) la cooperazione tra autorità e
«specialmente tra paesi in modo da chiarificare ulteriormente il quadro di
regole assicurando che le opzioni previste per gestire e
risolvere una crisi a livello nazionale siano disponibili e possano essere
operative anche in un contesto cross-border».
Inove principi definiti dall'Economic and
financial Committee
1.L'obiettivo della gestione delle crisi «è proteggere la
stabilità del sistema finanziario in tutti i Paesi e nella Ue nel suo
complesso, minimizzare potenziali impatti negativi sull'economia al più
basso costo per le finanze pubbliche. L'obiettivo «non è prevenire
fallimenti».
2.La priorità «va sempre data alle soluzioni del settore privato, che
nei limiti del possibile saranno fondate sulla situazione finanziaria del
gruppo bancario nel suo complesso». Il management dell'istituzione coinvolta
«sarà responsabile, gli azionisti non saranno garantiti e creditori e
depositanti non assicurati dovranno aspettarsi perdite».
3.L'utilizzo del denaro pubblico per risolvere una crisi non deve mai essere
dato per scontato. Le circostanze e la tempistica di un eventuale intervento
pubblico «non possono essere definite in anticipo, dovranno essere applicate
condizioni restrittive e
uniformi per l'utilizzo del pubblico denaro».
4. Se una banca ha attività significative cross-border in diversi stati
membri della Ue «le autorità di questi Paesi dovranno cooperare
strettamente e preparare in tempi normali quanto è necessario per
dividere gli oneri potenziali» di un intervento. I costi di bilancio diretti
dovranno essere ripartiti «sulla base di principi equi ed equilibrati che
tengano conto dell'impatto economico della crisi nei vari Paesi coinvolti e dei
poteri
delle autorità di supervisione dei Paesi che esercitano la supervisione
del gruppo bancario e di quelli che lo ospitano (host country)».
5.Le autorità dei Paesi coinvolti in una crisi devono poter valutare
rapidamente la natura sistemica della crisi e le sue implicazioni cross-border
sulla base di una terminologia e di uno schema di analisi comune (bisogna
definire, infatti, che cosa deve essere considerato «un serio disturbo per
l'economia»).
6.Gli accordi di gestione e soluzione della crisi devono essere coerenti con
gli accordi per la supervisione e la prevenzione delle crisi. Ciò chiama
in causa la divisione delle responsabilità tra autorità e il
ruolo di coordinamento dei supervisori dei Paesi che esercitano la sorveglianza
sul gruppo (home country).
7. Va assicurata la piena partecipazione alla gestione e alla soluzione della
crisi di quei Paesi coinvolti attraverso istituzioni individuali o
infrastrutture tenendo conto che vanno prese decisioni e azioni rapide.
8. L'azione anticrisi dovrà perseguire l'obiettivo di mantenere un
terreno ottimale di concorrenza nel mercato. «Ogni intervento pubblico
dovrà sottostare alle regole di concorrenza europea e sugli aiuti di
Stato".
9. La dimensione globale sarà tenuta in considerazione negli accordi per
la stabilità finanziaria quando necessário e in questo quadro saranno
coinvolti se necessario Paesi terzi.
La tabella di marcia dell'Ecofin prevede che la Commissione europea presenti
una proposta dettagliata che dovrebbe includere anche emendamenti alla
legislazione bancaria comunitaria entro la fine del 2008. Dovrebbe essere
adottata da Consiglio ed
Europarlamento dopo un anno. Tre gli obiettivi: chiarificare gli obblighi
esistenti per supervisori, banche centrali e ministri delle Finanze per lo
scambio di informazioni e la cooperazione in caso di crisi; chiarificazione del
ruolo e delle responsabilità dei supervisori; esaminare i cambiamenti
legislativi nazionali necessari.
Gli Stati dovranno anche considerare, è scritto nel rapporto Ecofin, se
includere o meno nel mandato dei supervisori nazionali l'obbligo di cooperare e
di tenere conto le preoccupazioni per la stabilità finanziaria in tutti
gli stati Ue. Grande importanza viene attribuita alla riduzione delle barriere
per il trasferimento di asset cross-border introducendo nella legislazione
bancaria , sull'insolvenza e sulle società una salvaguardia per
preservare gli interessi legittimi delle entità dalle quali gli asset
sono trasferiti. Ciò perchè «la possibilità di trasferire
asset di un gruppo bancário sarà spesso cruciale per prevenire e gestire
una crisi sia dal punto di vista dell'interesse privato che pubblico».
Nella primavera 2009 è prevista una simulazione operativa di una
gestione di crisi finanziaria.
Il Consiglio dei ministri ha appena approvato un disegno di legge
per tagliare i "costi della politica". Il provvedimento
propone una diminuzione tra il 20 e il 30% di giunte e consigli di ogni
livello, una sensibile riduzione dei parlamentari e un quasi dimezzamento del
governo. Cui si somma un'ulteriore riduzione dei consigli di amministrazione
delle società partecipate dal settore pubblico, il divieto per le stesse
di trasferire denaro agli enti controllanti o a partiti politici, e una
stretta sulla pletora di consulenti a supporto dei vari organi. Beppe Grillo
rincara la dose e mette in moto un movimento. Sovviene un pensiero di Voltaire:
"nessuno aveva nulla da obiettare sui privilegi dei nobili in Francia fin
quando essi assicuravano un governo alla nazione". Seguendo tale chiave di
lettura, potremmo chiederci se i privilegiati di cui si colpiscono le
"carrozze blu" abbiano smesso di assicurare un governo alla nazione.
Autorevoli studi dimostrano come ciò sia avvenuto dagli anni '80 per il
parlamento e dagli anni '90 per gli enti locali. Aule di eletti che spesso lamentano
svuotamenti di potere. Ma a chi è stato ceduto il potere che i
rappresentanti lamentano di non avere piu'? La risposta sta nella stessa
dichiarazione del ministro Santagata, quando (subito dopo gli organi della
democrazia rappresentativa) individua gli ulteriori bersagli dei tagli nei
consigli di amministrazione di società di diritto privato, nonché
consulenti e tecnici. Credendo nell'attualità di Voltaire, parrebbe che
non solo la democrazia rappresentativa non abbia assicurato un governo, ma
anche che abbia delegato una parte non piccola delle sue funzioni, delle sue
inefficienze e dei suoi privilegi a soggetti non eletti dai cittadini. Del
resto, anche la recente proposta referendaria è inquadrabile in un
contesto di sfiducia verso una capacità di riforma della classe politica.
La crisi della democrazia rappresentativa non riguarda solo l'Italia. Da tempo
molte città nei due emisferi del pianeta si misurano con teorie ed
esperienze di democrazia partecipativa proprio per tentare di invertire il
segno delle trasformazioni. Laddove diritti e doveri di cittadinanza sono
concepiti in stretta relazione con il volume della spesa pubblica e la
dimensione del welfare state, i tentativi di innovare la democrazia avvicinando
agli abitanti il governo della cosa pubblica sono nati prima dove la
cittadinanza era debole, poi si sono diffusi dove essa era in decadenza. A tal
punto che perfino il prematuramente defunto "trattato costituzionale
europeo" prevedeva, accanto a un articolo che declamava il fondamento
della democrazia rappresentativa, un secondo articolo dedicato alla democrazia
partecipativa. I Bilanci Partecipativi sono oggi uno strumento diffuso in oltre
1200 città dove co-responsabilizzazione civica, ravvivamento della
fiducia nelle istituzioni e problemi della spesa pubblica vengono affrontati
insieme. Si potrebbe coniare un principio di minima partecipazione immaginando
che la dimensione possibile di ogni livello di governo sia legata alla
dimensione della partecipazione dal basso. Ad esempio, invece di sopprimere le
circoscrizioni, si potrebbe disporre che la presenza di ogni circoscrizione
debba essere legittimata dalla partecipazione di almeno un certo numero di
abitanti a processi pubblici di scelta, e definirne il numero in rapporto alla
popolazione del rispettivo territorio. Dopodiché, se si volesse contrarre il
numero dei consiglieri comunali, si potrebbe dire che, dato un livello minimo
di membri, eventuali estensioni debbano essere legittimate dalla partecipazione
di un certo numero di cittadini (da individuare come in precedenza). Per le
province sarà lo stesso, potendo disporre della facoltà di
estendere la dimensione dei propri organi di governo in relazione alla
partecipazione nei comuni del territorio. E così via fino alle regioni.
Tutti i livelli di governo decentrati, per riappropriarsi dei privilegi
tagliati, dovranno recuperare pubblicamente il proprio ruolo, innovando e
governando assieme ai cittadini fino, forse, a non cercare più nemmeno i
privilegi di prima. Se i tagli proposti dal governo permettessero di recuperare
500 milioni di euro, perché la spesa possa tornare ad espandersi al livello
originario - secondo il suddetto principio di minima partecipazione - sarebbe
necessaria la parecipazione di milioni di cittadini, che (in tal caso) mai
legittimerebbero una ripresa dei costi della politica. Un ultimo
attacco ai governi decentrati avviene sotto forma di erosione delle basi
imponibili degli enti locali: Ici scontata agli enti ecclesiastici, alle onlus,
alle famiglie numerose, e poi una generica riduzione uguale per tutti,
abitazioni di pregio e case popolari. Ma anche provvedimenti che hanno colpito
l'imposta sulla pubblicità, finanziarie che hanno inibito l'uso delle
addizionali Irpef. Tutti questi provvedimenti segnano la competizione del governo
centrale con quelli locali, dove il primo limita le fonti di prelievo fiscale
dei secondi finendo per contribuire alla demolizione della politica
locale. Nei paesi scandinavi sovente i governi locali hanno come fonte di finanziamento
le imposte sulle persone fisiche. Da noi, si invitano i Comuni a pianificare la
cementificazione del proprio territorio per aumentare i proventi derivanti da
Ici e oneri di urbanizzazione per poter mantenere un minimo di servizi alla
persona. Supponiamo si giudichi eccessiva la pressione fiscale dei livelli
locali, il principio di minima partecipazione potrebbe essere applicato anche
in questo caso. La norma potrebbe così recitare: le aliquote delle
imposte locali possono essere ampliate del 10% se partecipa almeno un certo
numero di cittadini a progetti di destinazione delle stesse risorse. In
generale, dati "n" livelli di governo, ognuno di essi può
vedere accresciuto un margine di autonomia quanto più riesce a generare
consenso coi cittadini o con i livelli di governo inferiori. Un principio
romantico, ma molto concreto che, una volta tradotto in norma, potrebbe
garantirebbe autonomia, responsabilità diffusa, ma soprattutto governi
democratici nei territori. Nonché una rinnovata fiducia dei cittadini nella politica.
Può valere la pena tentare?.
Se
si sprecano le occasioni, prima o poi la storia si vendica, presenta il conto. Nella
società disgregata, «a coriandoli», secondo la felice definizione di
Giuseppe De Rita, convivono, senza contraddizione, cinismo, rassegnazione, cupo
pessimismo e movimenti di protesta anti sistema di crescente intensità.
Ciò è il frutto del «Grande errore »: il mancato rinnovamento
dello Stato negli anni Novanta. Per un certo periodo le conseguenze del grande
errore non vennero comprese da molti. Ma nel momento in cui, dal conflitto
orizzontale, fra Berlusconi e i suoi nemici, si passa al conflitto verticale,
fra settori significativi dell'elettorato e la classe politica, quelle
conseguenze diventano drammaticamente evidenti. Dio non voglia che ciò
preannunci un nuovo ciclo di violenza.
Nei cinque anni del governo
Berlusconi, la disgregazione, comunque in atto, rimaneva
nascosta ai più. La società era tenuta insieme da un grande
collante: l'odio. Per mezza Italia, al governo c'era l'Uomo Nero, il Caimano.
Lo scontro fra le fazioni era feroce. Prima che due politiche, nel Paese si
scontravano (credevano di scontrarsi) due antropologie. Era facile, allora, per
metà del Paese, attribuire ogni male, grande o piccolo, al ruolo
malefico dell'usurpatore, dell'Uomo Nero. Ora che l'Uomo Nero non governa, il conflitto
orizzontale ha perso intensità. E la prova deludente del governo di
centrosinistra ha modificato la struttura del conflitto: allo scontro
orizzontale fra Berlusconi e gli altri si è sovrapposto lo scontro
verticale fra settori rilevanti dell'elettorato, soprattutto di sinistra (vedi
gli applausi per Beppe Grillo al Festival dell'Unità) e la classe
politica. Non potendosela prendere solo con il governo per il quale, in
maggioranza, hanno votato, quegli elettori spostano il tiro sul Sistema.
Nei primi anni Novanta, con la fine della Guerra fredda e i conseguenti effetti
dirompenti sulla politica italiana, si aprì una «finestra di
opportunità» che non fummo capaci di sfruttare a fondo. Non ci fu il
passaggio dalla Repubblica dei partiti allo Stato repubblicano. Cambiò
il sistema elettorale, venne l'elezione diretta di sindaci e Presidenti di
Regione. Ma non fu intaccata l'architettura complessiva. Non ci fu realmente
una «Seconda Repubblica».
Per oltre 40 anni i partiti
politici erano stati i supplenti, i sostituti funzionali,
delle istituzioni statali: la «partitocrazia» al posto dello Stato. A quel
sistema dei partiti, quando morì, non subentrarono istituzioni pubbliche
rinnovate (un forte governo, amministrazioni pubbliche snelle ed efficienti,
eccetera). Ne paghiamo il prezzo. Senza più partiti radicati e forti e
con istituzioni sempre inadeguate, sprovviste di autorevolezza, e quindi
deboli, la democrazia si trova priva di ancoraggi. Da qui le spinte centrifughe
e disgreganti. In mancanza di meglio si tenta ora la strada della
ricostituzione dei partiti (il Partito democratico, forse la Federazione della
destra). In un Paese di fazioni, si cerca, almeno, di ridurre il numero delle
fazioni. È una buona cosa perché la frammentazione fa comunque male.
Ma, forse, è troppo poco.
Persino i politici se ne rendono conto e dopo essere stati responsabili del
grande errore riprendono l'infinita danza intorno alle «indispensabili» riforme
istituzionali da fare. Senza considerare che le parole della politica non
servono a costruire consenso e a indicare mete quando sono state logorate per
il troppo uso. Ci vorrebbero leader veri, capaci di rischiare, ma il sospetto
è che i leader siano stati sostituiti dagli uomini dello spettacolo.
17 settembre 2007
Che cosa faceva
Beppe Grillo ieri alla festa milanese dell’Unità? Il comico genovese non
è soltanto il fustigatore della politica italiana. A Bologna ha
dichiarato che non vuole fondare un partito. Vuole distruggerli tutti. Nel suo
sito e nelle sue performance non ha fatto distinzioni e non ha trattato gli
esponenti dei Ds meglio di quelli di altri partiti. Che cosa faceva dunque, con
un suo spettacolo, alla festa annuale di un organismo che è pur sempre,
nelle ossa e nel sangue, l’erede del Pci, vale a dire di un partito che fu
contemporaneamente, per i suoi fedeli, Dio, patria e famiglia? Un incidente di
calendario? È possibile.
Gli organizzatori
della Festa lo avevano invitato verosimilmente prima del V-day e hanno forse
ritenuto che la cancellazione dell’evento sarebbe stata interpretata come una
manifestazione di stizza o codardia. Beppe Grillo, dal canto suo, potrebbe
avere deciso di accettare la sfida e stare al gioco. È un provocatore,
conosce l’arte del palcoscenico, e ha scommesso con se stesso che avrebbe
conquistato e sedotto persino i diessini milanesi. Un comico in tournée sceglie
il suo itinerario secondo le dimensioni, l’acustica e la notorietà dei
teatri in cui dovrà recitare. La Festa dell’Unità è stata
per molti anni il Circo Massimo della politica italiana. Grillo ha scelto il
teatro e il suo pubblico, non l’impresario. E ha vinto la scommessa. Eppure
dietro l’invito dell’impresario potrebbero esservi motivi su cui vale la pena
di spendere qualche riflessione.
Come tutti i
partiti, anche i Ds sono preoccupati da un fenomeno che sta strappando al loro
controllo una parte importante della società. Ma hanno un particolare
motivo d’inquietudine. Fin dalla sua nascita, il partito da cui provengono si
è considerato depositario di una grande promessa e titolare della
opposizione al sistema politico ed economico. Quando un altro partito ha
cercato di conquistare le masse, i comunisti hanno difeso il monopolio della
protesta e hanno combattuto duramente i concorrenti. Il loro scontro con la
socialdemocrazia e con il fascismo, negli anni Trenta, fu politico e strategico
ancor prima che ideologico. Non potevano tollerare che un altro partito
s’impadronisse delle piazze, delle fabbriche, del cuore delle ultime
generazioni.
È probabile
che non abbiano dimenticato la brutta esperienza della contestazione, alla fine
degli anni Sessanta, quando temettero di perdere la federazione giovanile e i
sindacati. Non vorrebbero che Grillo fosse, con nuovi ceti sociali,
l’antesignano di un nuovo «sessantotto », e temono i suoi comizi più di
qualsiasi altro partito. Ma i comunisti e i loro eredi hanno sempre dato prova
di un robusto e spregiudicato realismo politico. In Germania, durante la
Repubblica di Weimar, il partito comunista tedesco scese in piazza, soprattutto
a Berlino, insieme al partito nazional- socialista. Da Mosca, quando si accorse
che Mussolini, con la guerra d’Etiopia, aveva conquistato il consenso della
grande maggioranza degli italiani, Togliatti lanciò un messaggio ai
«fratelli in camicia nera». Alla fine del 1946, mentre il movimento dell’Uomo
Qualunque sembrava destinato a grandi successi, lo stesso Togliatti
esplorò la possibilità di una intesa con il suo fondatore,
Guglielmo Giannini (teatrante, anch’egli, come Grillo).
E Massimo D’Alema,
nel febbraio 1995, disse che la Lega era «una costola della sinistra». Vizio o
virtù, il «dialogo con il nemico», quando il concorrente non può
essere eliminato con altri mezzi, appartiene alla cultura politica dei
comunisti. E sopravvive, a quanto pare, nel patrimonio genetico degli eredi.
16 settembre 2007
Oggi previsti nuovi assalti i mutui a rischio Le scuse dell'ad:
"I'm sorry, cercasi acquirente" Accuse a Gordon Brown Varie filiali
hanno chiamato la polizia per calmare la folla che si accalcava agli sportelli
ENRICO FRANCESCHINI dal nostro corrispondente LONDRA - Quasi due miliardi di
sterline, pari a tre miliardi di euro ritirati in quarantotto ore. La
previsione che a partire da stamattina, nel giro di una settimana, un totale di
quasi venti miliardi di euro, la metà del totale dei depositi, verranno
portati via da risparmiatori in preda al panico. La Northern Rock, quinto
istituto di credito britannico, vacilla. "Cerchiamo un acquirente, un
cavaliere bianco", ammette a malincuore Adam Applegarth, l'amministratore
delegato, "sarebbe un supplizio andare avanti così". E
potrebbe diventare anche peggio: varie filiali, inclusa quella londinese di
Golders Green, hanno chiamato la polizia per calmare la folla che dava
l'assalto agli sportelli e minacciava di tirare giù tutto. La Banca
d'Inghilterra e Alastair Darling, il cancelliere dello Scacchiere ovvero il
ministro del Tesoro, si sforzano di rassicurare l'opinione pubblica: "E'
tutto sotto controllo, la Northern Rock potrà contare su di noi se ne
avrà bisogno, tutti riceveranno indietro i propri soldi". Ma
bisogna andare indietro di trent'anni per ricordare una crisi di liquidità
simile nel Regno Unito: allora fu la Cedar Holding, come la Northern Rock una
banca specializzata nella concessione di mutui sulla casa, a trovarsi nei
pasticci e l'operazione di salvataggio costò alla banca centrale
qualcosa come cinque miliardi di euro odierni. Il timore vero delle
autorità è che il panico sia contagioso: il boom immobiliare
dell'ultimo decennio, scrivono i giornali della domenica in prima pagina,
"è finito", e una banca che precipita rischia di tirarne
giù altre se la gente corre in massa a ritirare i propri risparmi dai
conti correnti. Per il momento, gli analisti della City prevedono che
ciò non avverrà. Ma qualcosa è cambiato. Il boom dei prezzi
delle case appare in declino. I tassi d'interesse, viceversa, puntano al
rialzo. I crediti interbancari, con cui le banche hanno finanziato mutui sempre
più rischiosi, cominciano a chiudersi. E nell'arena politica, sentendo
odore di sangue, si affilano i coltelli. David Cameron, leader dei
conservatori, è partito all'attacco con un editoriale sul Sunday
Telegraph accusando Gordon Brown, per dieci anni ministro del Tesoro e da due
mesi primo ministro, di avere creato una bolla artificiale di ricchezza,
basata sul mercato immobiliare e sui prestiti, non sulla
produttività reale. "Se la Gran Bretagna non riduce la sua dipendenza
dal debito, la crisi della Northern Rock sarà solo la prima di
tante", ammonisce Cameron. Il quale fa la Cassandra, naturalmente, per
mettere in difficoltà i laburisti di Brown: una crisi economica o
perlomeno una sensazione d'incertezza sul futuro sarebbe la sua carta migliore
da giocare alle prossime elezioni. Non è solo sterile polemica,
tuttavia, quella del leader dei Tory: il Regno Unito, in questi anni di
crescita economica e consumismo alle stelle, è diventato il paese più
indebitato d'Europa. Tutti s'indebitano con le carte di credito, mentre
pubblicità televisive o avvisi nella cassetta della posta offrono a
tutti prestiti di ogni genere, per comprare la casa, per restaurarla, per
comprare la macchina, per andare in vacanza. La preoccupazione che questa
catena di debiti colpisca la parte più debole e povera della popolazione
è reale. Se accadesse, Brown sarebbe in seria difficoltà e
l'eredità del blairismo assumerebbe contorni meno sfavillanti. A
infuriare ulteriormente i cittadini britannici c'è il gap ricchi-poveri
che continua a crescere. Una banca sta rischiando di affondare, la Northern
Rock, ma i banchieri se la passano sempre meglio: questa estate i bonus annuali
nella City hanno superato per la prima volta la media del milione di sterline,
un milione e mezzo di euro a testa, e c'è chi se ne è messi in
tasca ben di più. "I am sorry", mi dispiace, piagnucola Adam
Applegarth, l'amministratore della Northern Rock, ma intanto i giornali
pubblicano le foto della sua lussuosa villa da 4 milioni di euro nei sobborghi
più esclusivi di Londra. Tutte le banche britanniche, secondo
indiscrezioni, sono interessate a rilevare la Northern: ma prima vogliono che
il suo valore, già sceso del 30% in Borsa, cada ancora più in
basso. In questa atmosfera, non dovranno aspettare a lungo.
Roma "Ci sono tutte le condizioni per cambiare la legge
elettorale". Il presidente della camera è ottimista al punto
che considera la riforma fattibile "rapidamente" perché
"i tempi sono maturi". Ma come? Berlusconi ha appena chiuso ad ogni
ipotesi di dialogo con il centrosinistra, e Prodi gli ha replicato secco
"faccia quel che vuole"? Fausto Bertinotti suggerisce di non farsi
ingannare dalle apparenze: "Sarei molto smagato e guarderei meno agli
elementi di superfice e più a quelli di fondo". In effetti il
portavoce di Berlusconi, Paolo Bonaiuti, corregge un po' le dichiarazioni
drastiche del cavaliere. "Noi siamo pronti a discutere della legge elettorale
- dice -, ci incontreremo tra noi e qualcosa uscirà fuori. Ma la
sinistra non ha favorito il clima di dialogo". Bonaiuti riconosce che
nemmeno il centrodestra ha le idee chiare al suo interno. Anche se nel
"patto di Gemonio" tra Forza Italia e Lega si parla di una riforma
di tipo proporzionale e soprattutto si prende l'impegno di evitare il referendum
che (corte Costituzionale permettendo) andrebbe fatto la prossima primavera.
Alleanza nazionale la pensa diversamente. Intanto Maurizio Gasparri affonda
l'ipotesi che piace a leghisti e berlusconiani di lavorare sul modello tedesco:
"No grazie. Con quel sistema si ingannano gli elettori tenendosi le mani
libere per governare ora con la destra ora con la sinistra". Poi
Gianfranco Fini sottolinea le differenze tra il suo partito e la Lega:
"Bossi è pronto a tutto pur di evitare il referendum che io
non considero una minaccia o un attentato alla democrazia. Sono disponibile al
confronto sulla legge elettorale, ma solo a certe
condizioni". Casini e l'Udc invece stravedono per il proporzionale alla tedesca
e ieri concludendo la festa del partito l'ex presidente della camera ha
proposto non una soglia di sbarramento ma "una sogliona"
particolarmente alta, metodo sicuro per favorire la nascita di aggregazioni di
partiti e poi, ha detto Casini, "si dovrebbe andare subito al voto".
Obiettivo che è lo stesso di Fini, che infatti ospitando ieri a Roma
alla festa dei giovani di An Walter Veltroni non ha concesso alcuna apertura
sulla legge elettorale e sulle altre riforme: "Questo
parlamento prima se ne va e meglio è". Il problema è
però che con la legge elettorale "porcata" di
Calderoli il capo dello stato ha detto in un paio di occasioni e chiaramente
che sarebbe inutile sciogliere le camere. Dunque anche la destra ha interesse a
intervenire sul sistema di voto e Berlusconi sa che non può affidarsi
solo al referendum rischiando di perdere due partiti (Lega e Udc) su
quattro della coalizione. D'altro canto la primavera 2008 si avvicina: "Si
perde tempo a discutere sui vari sistemi elettorali e intanto si precipita sul referendum",
si allarma il socialista Villetti. Tra gli acceleratori c'è sicuramente
Rifondazione che ha già fatto la sua scelta per il modello tedesco. Ma
nell'Unione non tutti la pensano così e c'è chi anche nel Partito
democratico preferisce un ritorno al Mattarellum con il quale si è
votato nel 2001. Anna Finocchiaro dei Ds lo dice apertamente, altri nell'Unione
(come Verdi e Pdci) sono d'accordo. L'Udeur sospetta e teme che il Pd stia
prendendo tempo perché in realtà spera nel referendum e nella
vittoria dei sì. Veltroni lancia la carica: "Cambiare la legge
elettorale è un'emergenza nazionale, a me piacerebbe che ci
fossero le condizioni". Il sindaco di Roma resta comunque tra i fan del referendum.
A questo punto, nonostante l'ottimismo di Bertinotti, sempre più
probabile. Perché Ds e Margherita, dopo aver affondato le proposte messe
insieme dal ministro delle riforme Chiti che aveva trovato un'intesa
trasversale attorno al sistema delle regionali, dopo aver lanciato il modello
tedesco, adesso lanciano segnali in favore del Mattarellum. Un sistema, rivela
il ministro della Difesa Parisi, che piace soprattutto a Prodi. E che avrebbe
il privilegio di poter essere raggiunto semplicemente cancellando, con una legge
di un solo articolo, la riforma introdotta da Calderoli sul finire della
scorsa legislatura.
LONDRA - La sinistra cresce in tutto il mondo.
Non come ideologia politica, o meglio non solo come tale, considerato che
l'Economist ha dedicato recentemente una copertina proprio a questo sviluppo
("l'America sta svoltando a sinistra?"): bensì la sinistra
intesa come mano. Il numero dei mancini, annuncia un ampio studio condotto in
Gran Bretagna, è più che triplicato rispetto a un secolo fa.
La proporzione di coloro che usano la mano sinistra per scrivere è salita
dal 3 per cento della popolazione nel 1907 all'11 per cento oggi, secondo
un'indagine svolta dall'University College London e anticipata ieri dal Sunday
Times. Il moltiplicarsi dei mancini, spiega il professor Chris McManus, che
ha guidato la ricerca, "è un fenomeno globale probabilmente dovuto
alla riduzione dei tentativi di costringere a scrivere con la destra quei
bambini che avevano la naturale tendenza a scrivere con la sinistra".
Per secoli, i mancini erano visti come anomalie, possibilmente da correggere.
Nell'Impero britannico dell'era vittoriana venivano usati vari sistemi per
impedire ai bambini di scrivere con la sinistra e insegnare loro a farlo con la
mano destra.
Ancora negli anni Sessanta, in Inghilterra e in altri paesi europei, non era
insolito sentire di maestri, educatori o genitori che legavano la mano sinistra
dietro alla schiena di un bambino con tendenza a essere mancino, in modo che
scrivesse, mangiasse, giocasse, facesse tutto esclusivamente con la destra.
Finché studi più recenti, nei decenni successivi, hanno dimostrato che
essere mancino non soltanto non è un'anomalia ma può essere
indice di doti particolari, una condizione associata con alti livelli
d'intelligenza e di creatività.
Nella storia, in effetti, abbondano i casi di mancini di grande successo: da
Giulio Cesare a Michelangelo, da Napoleone Bonaparte a madame Curie, da Ronald
Reagan a Bill Clinton, da Paul McCartney a David Bowie. Per non parlare di Jimi
Hendrix, mancino che si era fatto fare una chitarra su misura. Tra i
contemporanei, usano la sinistra il principe William, futuro re d'Inghilterra,
e l'attrice Nicole Kidman. Senza dimenticare naturalmente i giocatori di
tennis, i cui tiri "mancini" hanno fatto storia e vinto tornei, da
McEnroe al nuovo astro Nadal.
Lo studio dell'University College London analizza la predominanza di una mano o
dell'altra in ogni tipo di attività umana. Lo sport, per esempio: uno
dei casi osservati dagli psicologi dell'università londinese riguarda un
uomo che usa la destra quando è alla battuta nel cricket, predilige il
piede destro nel calcio, ma è mancino quando impugna una racchetta.
Altre combinazioni includono persone che scrivono con la destra ma preferiscono
la sinistra per tirare una boccia da bowling. La ricerca ha inoltre preso in
considerazione il maggiore o minore uso della sinistra per salutare, per fare
ciao con la mano, per esempio in occasione di una parata o di una
manifestazione pubblica.
Grazie a filmati d'archivio che risalgono fino al 1900, gli studiosi hanno
potuto stabilire che all'inizio del secolo scorso solo il 16 per cento della
popolazione usava la sinistra per salutare, mentre oggi lo fa circa il 24 per
cento.
Essere mancini, secondo alcuni studiosi, è una
condizione ereditaria. Altri ritengono che dipenda dall'età della madre:
forse oggi ci sono più mancini perché più donne fanno figli in
età avanzata. Il professor McManus, infine, è convinto che i geni
che determinano l'uso di una mano o dell'altra abbiano forte influenza sullo
sviluppo del linguaggio: sarebbero state mutazioni in simili geni a spingere
gli esseri umani a evolvere un linguaggio complesso. Distiguendoci nella notte
dei tempi da altri primati, scimmie e gorilla, che usano la destra o la
sinistra grosso modo in uguali proporzioni.
(17 settembre 2007)