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L’Unità 15-7-2007 Per il Partito Democratico
Furio Colombo
La
Repubblica 15-7-2007 Nel Paese debole esplode la voglia di un "uomo
forte" ILVO DIAMANTI
Chi avesse assistito nella mattina di venerdì 13 luglio al
dibattito al Senato sul riordino dell'ordinamento giudiziario avrebbe notato
subito un grave errore nel "manifesto per il Partito democratico"
firmato da Rutelli, Chiamparino, Cacciari, Follini. Quel manifesto, pubblicato
lo stesso giorno da Europa col titolo "Il coraggio delle riforme"
dice: "È finita la lunga stagione in cui la coesione del
centrosinistra è stata garantita dall'antagonismo verso
Berlusconi". Ecco la prova dell'errore. Il senatore Gerardo D'Ambrosio si
era appena alzato a parlare sulla legge che deve cancellare la nefanda
"riforma Castelli" quando la senatrice Anna Cinzia Bonfrisco è
scesa nell'emiciclo per urlare all'ex procuratore della Repubblica di Mani
Pulite: "Delinquente, assassino, zitto assassino, questo è il tuo
giorno!". Anna Cinzia Bonfrisco, pur essendo immensamente volgare
nonostante capelli e trucco già pronti per una festa e un abito argento
da pubblicità dei cioccolatini, non è matta. E infatti il
senatore Schifani ha ingiunto a D'Ambrosio di chiedere lui scusa alla senatrice
insultante. E Buttiglione le ha baciato la mano. Tutti hanno ricevuto gli
ordini e il messaggio. La sera prima Berlusconi era in televisione, due
"dirette" di Rai e di Sky (oltre al Tg 2). Dirette che non
toccheranno mai a George W. Bush quando avrà lasciato la Casa Bianca e
non toccheranno mai a Chirac, a Shroeder, persino al carismatico Tony Blair.
Insomma, mai a nessuno, in Paesi di normale democrazia. In Italia Berlusconi
è tutt'ora in grado di stare, come vuole e quando vuole, al centro della
scena. È in grado di prendersi la "diretta" e di incitare il
Paese alla rivolta. Berlusconi in una piazza di Napoli ha mentito per due ore.
Ha detto persino (citazione) "Ho fatto più di trenta riforme, 106
opere pubbliche e 12 codici". Proprio così. Ha detto "12
codici". E ha chiamato l'Italia alla rivolta. I suoi senatori ci stanno.
I nvano i capigruppo Zanda dell'Unione e Russo Spena di
Rifondazione difendono D'Ambrosio e invocano il ritorno alla ragione. La
manifestazione indecente si porta via una buona ora nella triste storia di
questo Senato. Ma il punto è stato fermamente segnato. Berlusconi
è (politicamente) vivo e combatte insieme a loro. Perché ripetere il
grande errore di negarlo? A beneficio di chi? Non del Partito democratico. ***
Ma ecco ciò che sto per dire ai lettori di questo giornale, a coloro che
mi seguono la domenica e che rispondono con e-mail di obiezioni e sostegno,
approvazione e dissenso ai miei interventi: intendo candidarmi alla segreteria
del nascente Partito democratico. Questo, vi è chiaro, non è
l'annuncio del giornale l'Unità, che resta libero e aperto a tutte le candidature
(speriamo molte). È l'annuncio di un candidato. Immagino una prima
legittima obiezione: ma non avevamo detto di fare spazio ai giovani? È
una obiezione giusta è non c'è alcuna risposta logica se non
questa: ognuno fa (deve fare) quello che può, quando può. Se lo
fa bene, in una situazione che interessa tutti (o tanti) come questa, lo fa per
passare il risultato agli altri. Che vuol dire: prima di tutto, per cambiare il
gioco. O almeno per arricchirlo, se ci riesce, naturalmente. La seconda
obiezione è mia, nella forma di una incertezza. Si può
partecipare alle elezioni primarie per la segreteria del Partito democratico,
con una serie di regole che sembrano scritte per gli apparati dei partiti (i
due "grandi", Ds e Margherita), i soli ad essere presenti e a poter
agire in fretta su tutto il territorio del Paese? Vorrei ricordare che le
elezioni primarie americane si svolgono nell'arco di molti mesi, Stato per
Stato, luogo per luogo, quasi mai con coincidenza e sovrapposizione di date, e
che ogni singolo episodio (vincere o perdere nel Vermont o in quale graduatoria
ci si piazza nelle primarie del Maine) si riflette sia nel luogo sia nella
opinione pubblica nazionale (nel 1980 Bush padre prevaleva su Reagan in alcune
singole primarie, ma Reagan guadagnava sempre più favore nei sondaggi,
anticipando i risultati delle votazioni successive). Non dubito che gli addetti
al disegno definitivo di percorsi e di regole - proprio perché scelti e
nominati e insediati in base, devo pensare, a esperienza e buon senso - si
porranno il problema più importante per questa nuova entità
politica: come si nasce nel nuovo partito (dalla partecipazione alla
candidatura) se non si è figlio di uno dei due partiti? Intendo infatti
rappresentare coloro che figli dei partiti non sono, non hanno alcun passato
partitico da ricordare o da dimenticare. Intendo portare al centro
dell'attenzione dei nuovi democratici lo squilibrio sociale nel quale vive il
nostro Paese e la cui descrizione e interpretazione abbiamo affidato -
chissà perché - soltanto agli uffici studi di banche e imprese,
mostrando invece una sorta di istintivo fastidio, quasi una reazione allergica,
se, quando parlano i sindacati. *** Userò ancora per un momento il
"manifesto" Rutelli-Chiamparino- Cacciari-Follini per indicare la
diversità (e anche, se volete, l'estraneità) della mia
candidatura rispetto a ciò che fino ad ora è stato detto e anche
celebrato. Dicono i nostri, fra l'altro, che "modernizzare l'Italia non
è solo indispensabile ma può essere popolare". Affermo che
la vera innovazione e modernità del Partito Democratico non è una
gettata di cemento in più o in meno ma riconquistare, attraverso
comunicazione chiara e immediata, attraverso il contatto continuo e l'ascolto,
la partecipazione dei cittadini, che sono, o si sentono adesso, troppo lontani
dai punti di decisione e troppo estranei ai modi in cui si decide. Vicenza
è un capolavoro negativo, da non ripetere. Nessuno, mai, (tranne la
finta rappresentanza istituzionale di un sindaco inadeguato) ha interpellato o
ascoltato i cittadini di quella città sulla base Usa da costruire. Il
mio modello sono i town meeting (assemblea di città o di villaggio) di
Bill Clinton. S'intende che la decisione finale era responsabilità del
presidente. Ma prima il presidente girava mezza America per spiegarsi e
ascoltare, due atti essenziali di un governo moderno. "Coesione sociale
è il futuro", affermano i "coraggiosi" di Rutelli. Ma
coesione sociale è un punto di arrivo, non di partenza. Sul terreno
troviamo un'Italia spaccata e divaricata in cui gli operai vengono ammoniti a
non pretendere troppo sulle pensioni, ma è "moderno" stare
bene attenti alle "giuste richieste" delle imprese. Aggiungono i
"coraggiosi" che bisogna dare "potere alla creatività dei
giovani, un ascensore sociale che torni a far salire talenti, merito,
lavoro". Traducendo dallo stretto politichese, io dirò (direi, se
risulterà possibile candidarsi) che ci si deve impegnare nel sostegno -
e rifinanziamento - della scuola pubblica e dei suoi insegnanti; che occorre
motivare le banche a sostenere con prestiti sulla parola i giovani universitari
che non hanno la protezione di una famiglia agiata, ma meritano il prestito
(come negli Usa e in Inghilterra) in base ai voti; che il merito non conta
niente nel mondo del precariato e della raccomandazione. E che dunque tutto
ricomincia dalla squalifica del familismo professionale (i genitori fortunati a
cui subentrano figli o nipoti fortunati) e dal ritorno di concorsi bene
organizzati e tecnicamente irreprensibili. Nel manifesto dei "coraggiosi"
trovo una frase inspiegabile in un testo politico. È la seguente:
"È urgente uscire dall'inverno demografico". Sono stupito e
dirò perché. Il problema di governare è creare accesso alle
scuole, anche quelle specialistiche, anche quelle costose; al lavoro,
attraverso un disegno dei percorsi che non abbandoni i giovani alla solitudine
(più soli, più poveri); alla casa, attraverso progetti e
programmi che, da decenni, non esistono più. Tutto ciò è
urgente, ed è responsabilità pubblica. I figli sono una splendida
scelta privata su cui i politici, in un contesto politico, non hanno niente da
dire. *** Trovo strana, infine, e un po' minacciosa, la frase finale (dunque,
in senso retorico, la più importante) del manifesto
Rutelli-Chiamparino-Cacciari-Follini che alcuni considerano fondativi del nuovo
Partito Democratico. Trascrivo: "La maggioranza che ha vinto deve
governare i cambiamenti. Sappiamo che potrà essere confermata solo se
soddisferà le attese degli elettori. Altrimenti il Partito Democratico
dovrà proporre una alleanza di centro sinistra di nuovo conio. Per non
riconsegnare l'Italia alle destre. Ma soprattutto per non essere imprigionato
dal minoritarismo e dal conservatorismo di sinistra, né della paralisi delle
decisioni". Il problema grave posto da questa frase è che prefigura
uno spostamento di scena in cui esce dalla inquadratura una parte della
sinistra, arbitrariamente definita da un presunto vertice illuminato. Ed entra
in scena una parte della destra, indicata con la elegante espressione "un
centrosinistra di nuovo conio". Sostengono gli illuminati che
"Veltroni a queste ragioni si ispira". Non mi risulta. In ogni caso
propongo di battermi per un Partito Democratico meno gassoso e più
fondato sulle cose, non tante. Ma chiare e sempre spiegate. *** Proverò
a riassumere. Il Partito Democratico a cui penso è perfettamente
cosciente del perdurare della minaccia Berlusconi, che continua a essere visto,
anche fuori dall'Italia, come l'incognita allo stesso tempo ridicola (vedi le
sue domande parafasciste e un po' insultanti per la folla di Napoli) e
pericolosa per la nostra vita pubblica. Lo sbarramento a Berlusconi si realizza
con la presentazione (già avvenuta) e il sostegno (di cui siamo in
attesa) di una legge che ponga invalicabili ostacoli al conflitto di interessi.
Il Partito Democratico a cui penso si fonda sulla più rigorosa
legalità, vuole sapere tutto dello spionaggio militare a cui sono stati
sottoposti magistrati e giornalisti nei cinque anni del governo Berlusconi, e
sull'intreccio di quello spionaggio con le intercettazioni private da parte di
una grande impresa esente da conseguenze e sugli effetti mediatici di tutta
l'operazione. Quanto è stata deviata, inquinata, cambiata, avvelenata da
quella vasta operazione illegale l'informazione su tutto ciò che
sappiamo delle vicende italiane? Il Partito Democratico in cui intendo
impegnarmi propone come temi fondamentali i diritti civili, il lavoro, la
scuola, la salute, la ricerca, l'ambiente, la casa. Tutto ciò nel quadro
- rigorosamente confermato - della Costituzione italiana. Si tratta di settori
e aspetti della vita a cui il mercato (grande e superiore eroe della
modernità) non provvede o che preferisce ignorare quando il costo non ha
immediata contropartita. Le grandi democrazie ci dicono che la contropartita
è costituita dai due valori della fiducia e della partecipazione dei
cittadini. Il Partito Democratico di cui parlo capisce e si fa capire, in uno
sforzo di comunicazione che non tollera zone d'ombra, segreti e cose non dette.
Non vuole la solitudine disorientata dei cittadini con cui nessuno parla,
spiega, ascolta prima di decidere. Il Partito Democratico di cui stiamo
parlando non sarà il congiungersi di due burocrazie di partito ma
l'afflusso libero di cittadini decisi a essere protagonisti della vita pubblica
e non spettatori passivi. L'impegno è un paesaggio finalmente normale in
cui la sinistra è a sinistra e la destra a destra, contando non sulla
contaminazione o l'incrocio dei poli ma sulla chiarezza e sul riconoscimento
reciproco, una volta espulsa l'illegalità e il conflitto di interessi
dalla scena pulita della vita pubblica italiana. Sinistra è lo spirito
della tradizione solidaristica europea, dello schierarsi socialista e cristiano
con i più deboli, della tolleranza "liberal" e multiculturale
di impronta americana, tutti valori che sono il più vicino possibile
alla pace, alla giustizia, alla eguaglianza almeno come punto di partenza.
L'impegno è di restituire al cittadino laico lo stesso riguardo,
rispetto e attenzione che viene dedicato al credente e alle gerarchie religiose
del credente. Per tutte queste ragioni chiederò, se sarà
possibile - ai cittadini che si orientano a sostenere e dare vita e anima al
Partito Democratico - di considerare la mia candidatura indipendente e laica
che propongo nello stesso spirito con cui alcuni si candidano, in questo
periodo, alle elezioni primarie americane. Lo spirito è dare un
contributo di proposte e di esperienza, che altrimenti non ci sarebbe. Lo
spirito è far sapere ai cittadini che voteranno in queste elezioni
primarie che si apprestano a scegliere tra veri candidati e vere proposte
alternative. La vostra risposta di lettori sarà il primo modo di rendere
possibile questa candidatura. Essa è soggetta, come già detto, a
un chiarimento e a una condizione. Il chiarimento è che l'Unità,
con questo articolo, ospita la mia intenzione. È un annuncio, non un
"endorsement" (cioè quando i grandi quotidiani americani,
sotto elezioni, dichiarano le loro scelte politiche ai lettori). La condizione
è che le regole consentano davvero la partecipazione di candidati senza
apparato di partito e scorta di carica.
furiocolombo@unita.it.
In
poche settimane il "ciclone Sarkozy" ? non c'è altro modo per
descrivere gli effetti del nuovo presidente della Repubblica ? ha trasformato
la Francia e l'Europa. Lunedì sera Nicolas Sarkozy ha partecipato,
fatto senza precedenti, alla riunione dei ministri delle Finanze dell'euro e ha
chiesto clemenza: "Per riformare la Francia ho bisogno di spendere qualche
soldo in più". E' stato accolto con scetticismo, i ministri
temevano le solite promesse: più spese oggi, riforme mai. Quattro giorni
dopo il Parlamento francese ha approvato i primi articoli della legge che
elimina di fatto le 35 ore. Sarkozy lo fa con astuzia, non modificando l'orario
di lavoro ma introducendo fortissimi incentivi a lavorare di più: il
salario percepito nelle ore di straordinario non è tassato e le imprese
non devono versare alcun contributo. Il passo successivo è
l'unificazione del mercato del lavoro. Contratti a tempo determinato (i
precari) e a tempo indeterminato verranno aboliti e sostituiti con un nuovo
contratto di lavoro uguale per tutti. Le garanzie saranno crescenti nel tempo:
tutti precari all'inizio, ma con la prospettiva di divenire dipendenti via via
più stabili se il rapporto fra lavoratore e impresa funziona. Anche
l'Italia a Bruxelles ha chiesto clemenza. Ma per far fronte agli effetti
dell'ormai probabile abbassamento da 60 a 57 anni dell'età minima per
andare in pensione. E per le nuove spese (circa 20 miliardi di euro nel 2008,
in primis per gli aumenti concessi ai dipendenti pubblici) che il Dpef
castamente indica come "eventuali" ma che, spiega Luigi Spaventa su
la Repubblica , sono ormai certi. Al Consiglio europeo di giugno Sarkozy, con
l'appoggio di Angela Merkel, ha chiuso un decennio di illusioni federaliste e
di fallimenti dell'Europa. Il nuovo trattato è minimalista, ma
consente all'Europa di guardare avanti. Per questo risultato il
presidente francese ha tuttavia chiesto un prezzo molto elevato: la
cancellazione della concorrenza dagli obiettivi primari dell'Ue. Sebbene
gli articoli 81 e 82 del Trattato di Roma non siano stati modificati ? e quindi
la Commissione conservi intatti i suoi poteri in materia di concorrenza
e di aiuti di Stato ? il segnale politico è forte e si farà
sentire. Da Roma, dove ha sede un governo presieduto da un ex presidente della Commissione
il cui quinquennio verrà ricordato per l'incisività con cui ha
promosso la concorrenza e vietato gli aiuti di Stato, nessun commento. Al suo
ministro delle Finanze, Christine Lagarde, il presidente ha chiesto di
"dialogare con la Banca centrale europea per dotare l'euro di una
strategia monetaria e di una politica del tasso di cambio". Da qui a
mettere in dubbio l'indipendenza della Bce il passo è breve, e
d'altronde Sarkozy ha più volte criticato l'eccessiva indipendenza dei
banchieri di Francoforte. I tedeschi sono insorti in difesa della Bce; da Roma,
dove il ministro dell'Economia è un ex membro del comitato esecutivo
della Bce, nessun commento. Martedì scorso, con straordinaria
abilità diplomatica, Sarkozy ha convinto i 27 Paesi dell'Ue a
sostenere la candidatura di Dominique Strauss Kahn alla direzione generale del
Fondo monetario internazionale. Candidatura non scontata, considerando che la
Francia già occupa tre importanti presidenze internazionali: Bce, Wto e
la Banca europea per lo sviluppo. Da Roma, che pure aveva almeno 5 candidati
eccellenti, nessun commento. Domani Sarkozy e la signora Merkel si recheranno
insieme a Tolosa, sede di Airbus, per scegliere presidente e amministratore
delegato di Eads, la società franco-tedesca che controlla l'azienda
aerospaziale. L'attuale presidente, l'imprenditore francese Arnaud
Lagardère, ha le ore contate. Se si attendeva un segno di come Sarkozy
interpreta il ruolo dello Stato nell'economia, Tolosa offrirà un esempio
illuminante. Eads è una società quotata in Borsa, il 45% delle
azioni è sul mercato, Daimler Chrysler possiede il 22,4%. Lo Stato
francese possiede, a metà con Lagardère, una società che
controlla il 27%. La maggioranza del gruppo è quindi in mano a privati.
La nostra lunga latitanza europea costerà cara a chiunque
succederà a Romano Prodi. Francesco Giavazzi.
Sorprende
lo straordinario successo di Nicolas Sarkozy in Italia. Paragonabile a quello
che gli è stato tributato nel suo Paese. Anche in Italia Sarkozy piace,
alla classe politica e agli elettori. Di destra, sicuramente, ma anche di
sinistra. Forse perché rappresenta ciò che in Italia attendiamo,
inutilmente, da troppo tempo: il rinnovamento. Sarkozy, infatti, è
veramente un "homo novus", come lo ha definito Barbara Spinelli (su
"La Stampa"). "Sospettato" di essere accentratore e
decisionista. Secondo la tradizione e il linguaggio francese: un
"bonapartista". Determinato a interpretare la parte del
"Presidente che governa" (anche se in modo flessibile, come segnalava
nei giorni scorsi Bernardo Valli, su "la Repubblica"). Ma più
che un vizio, per gran parte degli elettori (anche di sinistra) questo è
un pregio. Una virtù. In Francia e ancor più in Italia. Dove
avanza, inarrestabile, una grande voglia di "cesarismo" (versione
italiana del "bonapartismo"). In un recente sondaggio condotto da
Demos-Eurisko per "la Repubblica" (su un campione nazionale
rappresentativo), infatti, l'84% degli italiani si dice d'accordo con
l'affermazione: "Ci vorrebbe un uomo forte a guidare il Paese". Perché
"oggi c'è troppa confusione". Il dato è ancora
più clamoroso se valutato in termini di tendenza. Visto che dal 2004,
fino a novembre 2006, era cresciuto dal 49% al 56%. Mentre negli ultimi sei
mesi la domanda di "un uomo forte alla guida del Paese", in Italia,
è aumentata di 30 (!!!) punti percentuali. Sulla differenza dei valori
(lo chiariamo per prudenza) può avere influito il fatto che l'ultima
rilevazione sia stata condotta da un istituto diverso rispetto alle precedenti
occasioni: Eurisko invece di Demetra.
Boom
di consensi per una guida decisionista. Per anni il gradimento era fermo a
quota 50 L'Italia paese debole cerca il suo Sarkozy L'84% dei cittadini vuole
un "uomo forte" mappe Le istituzioni hanno assunto un'immagine
"personale". Però continuano ad apparire deboli L'accelerazione
del Pd mira, tra l'altro, a rispondere a questo deficit. Ma per Veltroni non
sarà facile (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) ILVO DIAMANTI
Tuttavia, si tratta di agenzie demoscopiche di elevata e riconosciuta
professionalità. E, soprattutto, il divario è troppo elevato per
dipendere da fattori tecnici. Indica, invece, un sentimento diffuso, che negli
ultimi tempi ha, improvvisamente, tracimato, allagando tutta la società.
Le distinzioni anagrafiche e territoriali, infatti, sono limitate. Più
rilevanti appaiono, semmai, le differenze dettate dalla posizione politica.
Visto che questo orientamento cresce, in modo costante, passando da sinistra a
destra. Il sostegno più convinto, infatti, proviene dagli elettori di An
e della Lega Nord: 96% in entrambi i casi. Non dissimile dal dato espresso
dagli elettori di Forza Italia: 93%. Tuttavia, questo orientamento è
largamente condiviso anche sul versante politico opposto. Perfino tra coloro
che si collocano all'estrema sinistra e fra gli elettori di Rifondazione
Comunista, infatti, la voglia di un "uomo forte alla guida del Paese"
è vicina al 70%. Questa dilagante simpatia "cesarista"
può suggerire il diffondersi, nell'opinione pubblica, di sentimenti
autoritari. Tuttavia, fra gli italiani, il valore della democrazia resta
elevatissimo. Circa l'80% dei cittadini lo considera "il migliore dei
mondi possibili" (Indagine Demos-FNE-Pragma, settembre 2005). Anche se
quasi il 60% dei cittadini si dice "insoddisfatto del funzionamento della
democrazia in Italia" (Demos-Eurisko, giugno 2007). Più che un
sentimento autoritario, allora, questo orientamento segnala "voglia di
autorità". Di "democrazia efficiente". E', quindi,
anzitutto, un segno di sfiducia verso le istituzioni, i partiti (oppure
ciò che ne resta e residua) e la classe politica (nel senso oligarchico,
attribuito da Gaetano Mosca). Peraltro, questo sentimento riflette la tendenza,
ormai consolidata nell'Italia della (cosiddetta) seconda Repubblica, di
ricondurre ogni soggetto politico e istituzionale a "singole
persone". Lo Stato: identificato con Ciampi oppure Napolitano. Il governo:
riassunto nella figura di Berlusconi o di Prodi. I partiti: tutti, impersonati
dai leader. E ancora, gli enti territoriali, impersonati dai sindaci e dai
presidenti. Ma anche le associazioni di categoria, le stesse banche.
Berlusconi, da questo punto di vista, non è solo il modello, ma anche
l'inventore e l'idealtipo della seconda Repubblica. Imitato da tutti. In altri
termini, gli italiani chiedono un "uomo forte" perché istituzioni e
partiti hanno assunto un'immagine "personale". Il volto di
"uomini". (Di donne, nei luoghi del potere, in Italia, non c'è
traccia). Ma continuano ad apparire "deboli", quanto a
credibilità e autorità. Gli italiani, dunque, vorrebbero partiti
e istituzioni "personali" più autorevoli, con cui confrontarsi
direttamente. Da ciò, la domanda di semplificare la rappresentanza
politica, fino a trasformare il bipolarismo in bipartitismo. E questo in
bipersonalismo. Non a caso la voglia di "uomo forte" è, appunto,
più "forte" (oltre 5 punti percentuali) tra gli elettori dei
due schieramenti che vorrebbero trasformare la loro coalizione in un
"partito unico". Assistiamo, dunque, a una duplice richiesta di
semplificazione: riassumere la sfrangiata e sparsa compagine dei partiti e dei
partitini in due soli grandi soggetti politici; in due grandi partiti. Da
ricondurre, a loro volta, a due leader. Un modello americano, insomma. Oppure
"alla francese", ma nella versione interpretata, in questa fase, da
Sarkozy. (Il quale, peraltro, ambisce a riassumere "entrambi gli
schieramenti", destra e sinistra, nel suo "governo
presidenziale"). D'altra parte, in Italia, dal 1996 ad oggi il confronto
politico ed elettorale si è progressivamente ridotto a un fatto
personale, tra Berlusconi, da una parte, e Prodi (con la variante di Rutelli,
nel 2001), dall'altra. L'accelerazione impressa alla costruzione del Pd e alla
candidatura di Veltroni mira a consolidare questa tendenza. Rendendo più
competitivo il centrosinistra, oggi in stato di asfissia. Ma rischia di
accentuarne anche le contraddizioni. Perché in Italia regna il caos
istituzionale. Siamo una Repubblica "preterintenzionale", dove
agiscono presidenti senza presidenzialismo, premier senza premierato, partiti
maggioritari senza maggioritario. Partiti personali in cui la persona e il
partito (ridotto perlopiù a un'oligarchia) sono prigionieri l'uno
dell'altro. Dove ogni leader, quando vince le elezioni e governa, diventa
"debole". Come Prodi, che, dopo un anno di governo, ha raggiunto un
indice di fiducia infimo. Mentre Berlusconi giganteggia. Un cigno. Ma ieri,
quando governava, alle prese con promesse eluse e deluse, era un brutto
anatroccolo, anche lui. Perché, in Italia, è "forte" solo chi
sta all'opposizione. E chi, invece della politica, pratica e predica
l'antipolitica (o la "contropolitica", come la definisce Alfio
Mastropaolo, in un'inchiesta di Gigi Riva sull'"Espresso" di questa
settimana). Da ciò l'accelerazione, davvero formidabile, che ha caratterizzato
la domanda di "uomo forte" negli ultimi mesi. Riflette il malessere -
acuto - della società, frustrata da un deficit di autorità e di
senso. Senza guida, senza riferimenti condivisi. A livello politico, ma anche
culturale. Un Paese dove è difficile perfino individuare i "poteri
forti". Ostaggio di mille "poteri deboli". Capaci di
"interdire" ma non di "dire". Di "porre" veti, ma
non di "imporsi" agli altri. Di agire nel retroscena, non sulla
ribalta. Come una commedia senza soggetto e senza sceneggiatura. Senza
protagonisti. Recitata da comparse. Senza dialoghi. Solo un fastidioso brusio
di fondo. Da ciò la difficoltà, per noi, di imitare il modello
francese. Affidando il nostro futuro a un prossimo scontro fra Berluskozy e
Veltrozy. Un Paese Debole non produce Uomini Forti. E quando li produce, meglio
diffidarne?.
DA
17 ANNI, dunque, Berlusconi - soi disant "uomo che s'è fatto da
sé" - possiede abusivamente una casa editrice, con i suoi libri e i suoi
settimanali (tra i quali Panorama e il defunto Epoca), che ha utilizzato
finanziariamente per accumulare utili e politicamente, prima per sostenere i
suoi padrini (Craxi in primis), poi per costruire il consenso necessario alla
sua "discesa in campo", ai suoi due governi e alle sue quattro
campagne elettorali. Ancora l'altroieri il sito di Panorama ha diramato, in
violazione del segreto investigativo, la notizia della presunta iscrizione sul
registro degli indagati di Romano Prodi da parte della Procura di Catanzaro: ma
Panorama, senza la sentenza comprata del 1991, non apparterrebbe a Berlusconi.
Visto lo spazio lillipuziano riservato dai media "indipendenti" a un
verdetto così clamoroso (nemmeno un accenno sulla prime pagine di
Corriere della sera, Messaggero e Stampa, per non parlare del Giornale),
è il caso di riepilogare la storia di quella sentenza comprata. IL LODO.
Nel 1988 Berlusconi, che già da tempo ha messo un piede nella casa
editrice rilevando le azioni di Leonardo Mondadori, annuncia: "Non voglio
restare sul sedile posteriore". De Benedetti, che controlla il pacchetto
di maggioranza, resiste all'assalto e si accorda con la famiglia Formenton,
erede di Arnoldo, che s'impegna a vendergli il suo pacchetto azionario entro il
30 gennaio '91. Ma gli eredi cambiano idea e, nel novembre '89, fanno blocco
con Berlusconi che, il 25 gennaio 1990, si insedia alla presidenza della casa
editrice. Oltre a tre tv e al Giornale, dunque, il Cavaliere s'impossessa del
gruppo editoriale che controlla Repubblica, Panorama, Espresso, Epoca e i 15
giornali locali Finegil, spostandolo dal campo anticraxiano a quello
filocraxiano. La "guerra di Segrate", per unanime decisione dei
contendenti, finisce dinanzi a un collegio di tre arbitri, scelti da De
Benedetti, dai Formenton e dalla Cassazione. Il lodo arbitrale, il 20 giugno
'90, dà ragione De Benedetti. Il suo patto con i Formenton resta valido,
le azioni Mondadori devono tornare all'Ingegnere. Berlusconi lascia la presidenza,
arrivano i manager della Cir debenedettiana: Carlo Caracciolo, Antonio Coppi e
Corrado Passera. Ma il Cavaliere rovescia il tavolo e, insieme ai Formenton,
impugna il lodo alla Corte d'appello di Roma. Se ne occupa la I sezione civile,
presieduta da Arnaldo Valente (secondo Stefania Ariosto, frequentatore di casa
Previti). Giudice relatore ed estensore della sentenza: Vittorio Metta,
anch'egli intimo di Previti. La camera di consiglio si chiude il 14 gennaio
'91. Dieci giorni dopo, il 24, la sentenza viene resa pubblica: annullato il
Lodo, la Mondadori torna per sempre a Berlusconi. L'Ingegnere lo sapeva
già: un mese prima il presidente della Consob, l'andreottiano Bruno
Pazzi, aveva preannunciato la sconfitta al suo legale Vittorio Ripa di Meana.
"Correva voce - testimonierà De Benedetti - che la sentenza era
stata scritta a macchina nello studio dell'avvocato Acampora ed era costata 10
miliardi... Fu allora che sentii per la prima volta il nome di Cesare Previti,
come persona vicina a Berlusconi e notoriamente molto introdotta negli uffici
giudiziari romani". Nonostante il trionfo, comunque, Berlusconi non riesce
a portare a casa l'intera torta. I direttori e molti giornalisti di Repubblica,
Espresso e Panorama si ribellano ai nuovi padroni. Giulio Andreotti, allarmato
dallo strapotere di Craxi sull'editoria, impone una transazione nell'ufficio
del suo amico Giuseppe Ciarrapico: Repubblica, Espresso e i giornali Finegil
tornano al gruppo Caracciolo-De Benedetti; Panorama, Epoca e il resto della Mondadori
rimangono alla Fininvest. I SOLDI. Indagando dal 1995 sulle rivelazioni di
Stefania Ariosto sulle mazzette di Previti ad alcuni giudici romani, il pool di
Milano scopre il fiume di denaro che dalla Fininvest affluì sui conti
esteri degli avvocati della Fininvest e da questi, in contanti, nelle mani del
giudice Metta. Il 14 febbraio '91 dalle casse della All Iberian parte un
bonifico di 2.732.868 dollari (3 miliardi di lire) al conto Mercier di Previti.
Da questo, il 26 febbraio, altro bonifico di 1 miliardo e mezzo (metà
della provvista) al conto Careliza Trade di Acampora. Questi il 1° ottobre
bonifica 425 milioni a Previti, che li dirotta in due tranche (11 e 16 ottobre)
sul conto Pavoncella di Pacifico. Il quale preleva 400 milioni in contanti il 15
e il 17 ottobre, e li fa recapitare in Italia a un misterioso destinatario:
secondo l'accusa, è Vittorio Metta. Il giudice, nei mesi successivi, fa
diverse spese (tra cui l'acquisto e la ristrutturazione di un appartamento per
la figlia Sabrina e l'acquisto di una nuova auto Bmw) soprattutto con denaro
contante di provenienza imprecisata (circa 400 milioni). Poi si dimette dalla
magistratura, diventa avvocato e va a lavorare con la figlia Sabrina nello
studio Previti. A proposito di quei 3 miliardi Fininvest, Previti parla di
"tranquillissime parcelle", ma non riesce a documentare nemmeno uno
straccio di incarico professionale in quel periodo. Mentono anche Pacifico e
Acampora. E così Metta che, sulla provenienza dell'improvvisa, abbondante
liquidità (per esempio, un'eredità), viene regolarmente smentito
dai fatti. Poi giura di aver conosciuto Previti solo nel '94, ma mente ancora:
i pm Boccassini e Colombo scoprono telefonate fra i due già nel 1992-93.
Poi ci sono le modalità a dir poco stravaganti della sentenza Mondadori:
dai registri della Corte d'appello emerge che Metta depositò la
motivazione (168 pagine) il 15 gennaio '91: il giorno dopo della camera di
consiglio. Un'impresa mai riuscita a un giudice, né tantomeno a lui, che
impiegava 2-3 mesi per sentenze molto più brevi. Evidente che quella era
stata scritta prima che la Corte decidesse. IL PROCESSO. Nel 1999 il pool
chiede il rinvio a giudizio per Berlusconi, Previti, Metta, Acampora, Pacifico.
Nel 2000 il gup li proscioglie tutti con formula dubitativa (comma 2 art. 530
cpp). Ma nel 2001 la Corte d'appello, accogliendo il ricorso della Procura, li
rinvia a giudizio, tranne Berlusconi, appena tornato a Palazzo Chigi e salvato
dalla prescrizione: a lui i giudici accordano le attenuanti generiche. Perché a
lui sí e agli altri no? Per "le attuali condizioni di vita individuale e
sociale il cui oggettivo di per sé giustifica l'applicazione" delle
attenuanti. La Cassazione conferma: il Cavaliere non è innocente, anzi
è "ragionevole" e "logico" che il mandante della
tangente a Metta fosse proprio lui. Ma un semplice fatto tecnico come le
attenuanti prevalenti "per la condotta di vita successiva all'ipotizzato
delitto". Anziché rinunciare alle generiche per essere assolto nel merito,
Berlusconi prende e porta a casa. E fa bene: gli altri coimputati, senza le
attenuanti, saranno tutti condannati. In primo grado, nel 2003, Metta si prende
13 anni, Previti e Pacifico 11 anni sia per Mondadori sia per Imi-Sir, e
Acampora (per la sola Mondadori) 5 anni e 6 mesi. Nel 2005, in appello, tutti
condannati per Imi-Sir e tutti assolti (sempre col comma 2 dell'art. 530) per
Mondadori. Ma nel 2006 la Cassazione annulla le assoluzioni e ordina alla Corte
d'appello di condannare anche per Mondadori. La qual cosa accade nel febbraio
2007: Previti, Pacifico e Acampora si vedono aumentare la pena di un altro anno
e 6 mesi e Metta di 1 anno e 9 mesi, in "continuazione" con le
condanne ormai definitive per Imi-Sir. Scrivono i giudici che la sentenza
Mondadori fu "stilata prima della camera di consiglio",
"dattiloscritta presso terzi estranei sconosciuti" e al di
"fuori degli ambienti istituzionali". Tant'è che al processo
ne sono emerse "copie diverse dall'originale". Berlusconi era all'oscuro
dell'attività corruttiva del suo avvocato-faccendiere (che ufficialmente
non difendeva la Fininvest nella causa, seguita dagli avvocati Mezzanotte
Vaccarella e Dotti)? Nemmeno per sogno: il Cavaliere - scrivono i giudici -
aveva "la piena consapevolezza che la sentenza era stata oggetto di mercimonio".
Del resto, "la retribuzione del giudice corrotto è fatta
nell'interesse e su incarico del corruttore", cioè di Berlusconi. E
"l'episodio delittuoso si svolse all'interno della cosiddetta "guerra
di Segrate", combattuta per il controllo di noti ed influenti mezzi di
informazione; e si deve tener conto dei conseguenti interessi in gioco,
rilevanti non solo sotto un profilo meramente economico, comunque ingente, ma
anche sotto quello prettamente sociale della proprietà e
dell'acquisizione dei mezzi di informazione di tale diffusione". La Corte
riconosce infine alla parte civile Cir di De Benedetti il diritto ai danni
morali e patrimoniali, da quantificare in separata sede civile: "tanto il
danno emergente quanto il lucro cessante, sotto una molteplicità di
profili relativi non solo ai costi effettivi di cessione della Mondadori, ma
anche ai riflessi della vicenda sul mercato dei titoli azionari". Ora che
la sentenza è definitiva, e che Previti si è visto revocare
l'affidamento ai servizi sociali per il "regime" dei domiciliari (e
potrebbe decadere anche a breve il suo mandato parlamentare), la Cir con gli
avvocati Pisapia e Rubini chiederà 1 miliardo di euro di danni. In
pratica, 17 anni dopo, la restituzione del maltolto. Chissà se il
Cavalier Prescritto li farà pagare ai condannati, o se metterà
mano al portafogli. Nella prima ipotesi, qualcuno potrebbe innervosirsi e
ricordarsi qualcosa. Magari raccontando chi gli chiese di comprare la sentenza
Mondadori.
Bari
Per i giudici ha strumentalizzato la malattia: dovrà scontare 4 anni
MARA CHIARELLI La malattia non si strumentalizza, neppure se si tratta della
propria. Con questo principio, recependo le richieste del pm Ciro Angelillis, i
giudici della seconda sezione penale del tribunale di Bari hanno condannato a
quattro anni Francesco I., 40 anni, accusato di associazione a delinquere
finalizzata alla truffa. L'uomo è uno dei componenti l'organizzazione
che dal 2000 al 2002 avrebbe truffato il sistema sanitario nazionale
per oltre quattro milioni di euro. Nel marzo 2002, infatti, i carabinieri del
Nas arrestarono Annibale Pepe, titolare dell'omonima farmacia al quartiere
Japigia di Bari, sua nuora Anna Maria Mastrangelo, e tre pazienti affetti da
emofilia. La farmacia fu sequestrata. Francesco I. e gli altri due pazienti,
sarebbero stati parte attiva nella maxitruffa, per essersi fatti prescrivere
dai medici di base, in quantità di gran lunga superiore al necessario,
un prezioso farmaco salvavita a totale carico del servizio sanitario nazionale.
L'Emoclot, il medicinale specifico per quel tipo di malattia, veniva ritirato
con la ricetta proprio dalla farmacia Pepe, che ne riportava un cospicuo quanto
illecito guadagno: ogni confezione costava circa 650 euro. Una parte del
denaro, che il dottor Annibale Pepe riceveva come rimborso dal servizio sanitario
nazionale veniva poi girata, in forma di ricompensa ai tre ammalati.
Francesco I., hanno calcolato gli investigatori, avrebbe ritirato in un solo
anno dalla farmacia 770 confezioni di Emoclot. Un giro di denaro che avrebbe
provocato un pesante danno all'erario e, di conseguenza, la condanna per
Francesco. Contro di lui l'accusa, sottolineata dal pm Angelillis nella sua
requisitoria, di aver abusato della situazione, strumentalizzando la malattia per
conseguirne un indebito arricchimento. E poco rilevante, secondo il magistrato,
è il fatto che lo stesso imputato sia emofiliaco, perché la truffa cui
avrebbe preso parte ha danneggiato la collettività e, di conseguenza, ha
penalizzato altri malati come lui che, invece, avrebbero potuto beneficiare
dell'Emoclot. L'uomo era l'ultimo imputato rimasto nel processo perché l'unico
ad aver scelto di proseguire con il rito ordinario: gli altri coinvolti nella
maxitruffa sono già stati condannati nei mesi scorsi, con il
patteggiamento o con l'abbreviato, a pene fino ai due anni di reclusione. Nello
stesso processo, sono stati assolti i genitori di una delle due farmaciste,
indagati nell'inchiesta perché accusati di aver agevolato la consegna dei
farmaci ai pazienti. Le indagini, basate su controlli incrociati di ricette e
documentazione medica, si sono concentrate anche su quello che fedelmente
registravano le microspie piazzate dai carabinieri sotto il bancone della
farmacia: chiacchierate, ordini trasmessi per telefono, accordi e quant'altro,
tutto finito nel fascicolo della procura di Bari.
Adesso
anche il New York Times, con un editoriale al vetriolo, ha suonato la sveglia,
proprio mentre va aumentando la tribù dei senatori repubblicani che, sul
piede di guerra, chiedono a George Bush di trovare in fretta una via di fuga
dall'Irak, prima che la sua ferrea, ma decisamente infausta determinazione,
finisca per portare in carrozza alla Casa Bianca, l'anno prossimo, il candidato
del Partito democratico, chiunque esso sia. Gli americani sono stufi di un
intervento "per l'esportazione della democrazia" che si è
invece trasformato nella metafora di una politica estera ondivaga e
senza bussola. Un carnaio costato finora un sacco di vite umane, che brucia
risorse con la velocità di un altoforno e che, oltre al danno la beffa,
ha fatto aumentare l'ostilità verso la bandiera a stelle e strisce in
tutto il pianeta (ultimo rapporto Pew Research Center), rianimando le disperse
legioni qaidiste. Insomma, l'esatto opposto di quello che qualsiasi corretto
progetto strategico di relazioni internazionali dovrebbe ottenere. Se ogni
"foreign policy" dev'essere giudicata dai risultati, allora non solo
il presidente, ma anche gli altri poteri che concorrono più o meno
direttamente alla sua formazione (Dipartimento di Stato in primis, e poi
Consiglio per la sicurezza nazionale, Pentagono, Vicepresidenza, agenzie di
intelligence, Commissioni del Congresso) dovrebbero battersi il petto e
recitare il "mea culpa". Oggi l'Islam è in fiamme.
Dall'Algeria fino alle Filippine, passando per il Medio Oriente, la Penisola
arabica, il Pakistan e l'Asia Centrale, non passa giorno senza che non vi siano
massacri, rivolte di piazza, autobomba e teste mozzate. Ma siccome le vittorie
hanno cento padri e le sconfitte sono sempre orfane, ecco che adesso infuria la
battaglia per scaricare responsabilità e riposizionarsi su più
comode e politicamente redditizie sponde "pacifiste". E, si badi
bene, la ritirata su tutto il fronte, che rischia di diventare una rotta o,
peggio, un "si salvi chi può", è equamente divisa in
senso trasversale, perché sono in molti anche fra i democratici quelli che
hanno bisogno di farsi perdonare l'interventismo "umanitario" della
prima ora. Come Hillary Clinton. "The road home", "La strada
verso casa", è il titolo eloquente dell'articolo che il più
importante quotidiano americano ha dedicato al ginepraio irakeno. E ancora
più "tranchant" sono le prime parole: "E' arrivata l'ora
per gli Stati Uniti di lasciare l'Irak, senza perdere tempo, se non quello di
cui il Pentagono ha bisogno per organizzare un rimpatrio ordinato". Il New
York Times affonda il coltello nella piaga, parlando senza mezze misure di
disastro "creato senza validi motivi", un'aperta sfida all'opinione
pubblica internazionale, priva di un piano per stabilizzare il Paese
dopo il conflitto. L'editorialista spara le sue bordate contro le forze di
sicurezza addestrate da Washington, definite "milizie partigiane"
incapaci di riportare l'ordine e dipinge tutta la guerra come "un fardello
insostenibile per i contribuenti", un conflitto che tradisce il mondo, che
invece si aspetterebbe "una saggia applicazione della potenza
americana". Che il vento fosse decisamente girato lo si era già
capito da un pezzo, da quando la Casa Bianca si era affannata a rimodulare la
strategia dell'intervento, lo scorso gennaio, elaborando un documento (ispirato
dal National Security Council) caratterizzato più dalla foga di metterci
una pezza che da un respiro geopolitico innovativo. Le "guidelines"
di quel programma riproponevano tre punti cardine: vincere la guerra in Irak
è indispensabile per abbattere il terrorismo; un fallimento avrebbe
serie conseguenze per gli Stati Uniti, i suoi alleati e per tutta la regione;
non c'è una soluzione "miracolistica" del problema, ma ogni
scelta è gravata da rischi conseguenti e inevitabili. Secondo questo
scenario, Al Qaida in Irak lotta per istituire un Califfato attraverso il terrore,
mentre gli americani devono invece battersi per difendere le istituzioni
democratiche. L'Iran e in misura minore la Siria interferiscono
pericolosamente. Le forze di sicurezza irakene sono lacerate da
"settarismo" e non sono ancora in grado di padroneggiare la situazione,
anche perché numerosi soldati disertano. Spesso gli attacchi terroristici,
prima ritenuti di esclusiva matrice sunnita, si combinano con scontri tribali o
fra clan, per cui diventa difficile tracciare una linea di demarcazione e
approntare una risposta adeguata. Dal canto loro, i leader politici "non
hanno la visione comune di un Irak unito" rendendo impossibile intavolare
una trattativa generale e costringendo tutti a estenuanti negoziati bilaterali.
La situazione a Baghdad rimane critica, il governo non riesce a garantire i
servizi essenziali né a controllare l'ordine pubblico, mentre il sostegno della
gente alle forze della coalizione è in declino. Nonostante questa
analisi decisamente pessimistica, la strategia americana sei mesi fa puntava
ancora su un Irak unificato e federale, capace di autogovernarsi. Per
raggiungere questo obiettivo, il documento suggeriva i seguenti punti:
sconfiggere i terroristi sostenuti da Al Qaida, riprendere il controllo della
capitale, contrastare l'ingerenza siro-iraniana, salvaguardare la democrazia,
favorire la riconciliazione nazionale, rafforzare le forze di sicurezza locali,
sviluppare l'economia, cercare il sostegno delle nazioni vicine e della
comunità internazionale. L'ultimo paragrafo della "Irak
strategy" (meglio nota tra gli addetti ai lavori come "The
surge", "Lo slancio") snocciolava poi le mosse operative per
conseguire gli obiettivi sopraccitati: aumento delle truppe (cinque brigate in
più), presenza di consiglieri militari americani nei reparti regolari
irakeni, utilizzo della Guardia Nazionale per alimentare le turnazioni,
raddoppio degli esperti civili, intensificazione delle azioni contro la
guerriglia sostenuta dagli iraniani, ampliamento delle strutture militari Usa
in tutto il Golfo Persico, maggiori fondi per le forze dell'Esercito e dei
Marines. Praticamente un decalogo, che ora viene però rimesso in
discussione dagli stessi repubblicani. Nelle ultime settimane, ai pesanti
rilievi critici del senatore John W. Warner, della Virginia, si sono uniti quelli
di Richard Lugar (Indiana), Gorge Voinovich (Ohio) e Pete Domenici (New
Mexico): tutti hanno chiesto a Bush, loro compagno di partito, di voltare
velocemente pagina. E mentre anche i democratici affilano le armi, a cominciare
dal leader al Senato Harry Reid ("andarsene dall'Irak è un dovere
morale"), il presidente ha cercato di parare le botte annunciando un
"cambiamento del cambiamento", cioè una revisione del
documento di gennaio. Parlando al Naval War College, Bush ha detto di aver dato
mandato all'ambasciatore Ryan Crocker e al comandante militare, il generale
David Petraeus, di studiare un diverso approccio, meno "difensivo".
Con l'operazione "Tuono fantasma" resa possibile da nuove truppe, gli
americani hanno alzato la loro pressione nella capitale e soprattutto sono
andati all'attacco delle roccaforti della guerriglia a Dyala, nella regione di
Anbar, dove più forte è la presenza qaidista, e lungo il corso
inferiore del Tigri. E' una mossa rischiosa "perché - mette le mani avanti
la Casa Bianca - le perdite sono destinate ad aumentare" e le polemiche,
di conseguenza, a diventare incandescenti. Una spallata, frutto del fiato ormai
bipartisan sul collo del presidente, che mira evidentemente ad accorciare i
tempi del conflitto. Proprio per questo Bush ha chiesto al Congresso di
aspettare settembre e la relazione di Petraeus, prima di prendere decisioni
intempestive. Anche se non più tardi di qualche giorno fa, lo stesso
generale si è lasciato scappare con la BBC una sconsolata dichiarazione:
con questi chiari di luna, la guerra potrebbe durare almeno altri 10 anni. Noi
pensiamo che basterà invece molto meno tempo, come ha auspicato il New
York Times, per convincere gli americani a studiare il modo di ritrovare la
strada di casa. Un Paese antico L'Afghanistan è una nazione dell'Asia
centrale. Confina ad ovest con l'Iran, a sud e a est con il Pakistan, a nord
con il Turkmenistan l'Uzbekistan e il Tagikistan e con la Cina nella regione
più a est della nazione. È tra i paesi più poveri al
mondo. Dopo la caduta dei talebani in seguito all'invasione statunitense e con
la sua nuova costituzione il Paese viene ufficialmente chiamato Repubblica
Islamica dell'Afghanistan. L'Afghanistan è un mosaico di gruppi etnici e
culture e un crocevia tra Oriente e Occidente. Una terra antica che è
stata spesso saccheggiata. La storia recente della nazione l'ha vista devastata
dall'invasione sovietica seguita dall'ascesa e dalla caduta dei talebani e
dall'intervento della Nato nel 2001. (domenica 15 luglio 2007).
Panorama 6-7-2007 Intrigo a Catanzaro: le relazioni pericolose del
Professor Prodi
Dilaga il caro spiagge: prezzi in aumento di almeno il 3 percento
(si arriva però anche al 17) rispetto allo scorso anno. Un bagnante può spendere fino a 100 euro al giorno per lettino, cabina, ombrellone
e parcheggio soprattutto se sceglie la costa versiliese, o la spiaggia del
Poetto di Cagliari o i Faraglioni di Capri. Sono i dati di una inchiesta che
l'AGI che fatto ha nelle regioni italiane.
Toscana
Aumento di circa il 3% dei prezzi negli stabilimenti balneari della Toscana:
questo l'incremento registrato, per l'estate 2007, dalla Mercury, società di
ricerca che opera nel settore delle statistiche in campo turistico. Chi ha
scelto di prendere un abbonamento stagionale in Versilia quest'anno dovrà
pagare tra i 450 ed i 600 euro, mentre per ombrellone, sdraio, sedia ed un
lettino affittati giornalmente il costo oscilla tra i 18 ed i 30 euro.
L'aumento delle attrezzature da spiaggia in Toscana si attesta a metà
strada tra gli incrementi medi rilevati negli stabilimenti del nord Italia (più
1,5%) e del sud Italia (intorno al 5%). L'ombrellone più
costoso, nell'intera penisola, è comunque a Forte
dei Marmi, dove in uno stabilimento balneare si oscilla tra i 40 euro della
bassa stagione ed i 55 dell'alta stagione.
Il costo dei servizi balneari, in Versilia, è
relativo anche all'offerta dei singoli stabilimenti. Chi offre la piscina
privata richiede dai cinque ai dieci euro in più
rispetto a chi non prevede questo servizio. Differenze di costo anche per chi
sceglie ombrelloni posizionati nelle prime file. Anche se ufficialmente il
prezzo dovrebbe essere lo stesso, la realtà è
che la richiesta dei gestori per un servizio più
vicino al mare è mediamente del 20% più alta rispetto a chi
si accontenta di accomodarsi lontano dal bagnasciuga. Per chi intende usufruire
di tutti i servizi la giornata al mare, in Versilia, rischia di costare tra i
50 ed i 100 euro, in relazione alla categoria del bagno. Un esborso complessivo
che comprende - oltre ai servizi in spiaggia anche il pranzo (dai 15 ai 40
euro, in relazione alla scelta tra semplici pasti freddi o pasti completi) ed
il parcheggio per l'auto. Un costo, quest'ultimo, contestato dalle associazioni
dei consumatori. In Versilia risulta infatti difficile trovare - a parte i
pochi posti disponibili nei singoli stabilimenti balneari - un posteggio
libero. I comuni hanno scelto di 'fare cassà,
applicando tariffe che - per una giornata sulla spiaggia - si attestano intorno
ai dieci euro al giorno.
Sardegna
Passare una giornata al mare sulla spiaggia del Poetto di Cagliari, se si
sceglie lo stabilimento più esclusivo, può
arrivare a costare sino a 100 euro per una famiglia media di quattro persone.
Meno della metà, invece, se si preferiscono le strutture più
piccole e che sono sorte negli ultimi anni lungo la spiaggia del capoluogo
sardo. La spesa giornaliera per una cabina negli stabilimenti «storici» può
raggiungere anche i 35 euro - anche se non mancano le offerte -, mentre il
prezzo dell'ombrellone oscilla fra i 5 e i 15 euro al giorno cui si aggiunge il
costo del lettino (da un minimo di 4 euro a un massimo di 10). Per una doccia
dopo il bagno è necessario sborsare un minimo di 30 centesimi mentre per un giro
di un'ora in canoa o in pedalò non si spendono
meno di 10 euro. Il prezzo di una giornata al mare sul litorale cagliaritano
sale se uno decide di concedersi un pranzo o uno spuntino in uno dei tanti
«baretti» disseminati lungo la spiaggia dove un caffè costa in media un euro. Per un pranzo completo di primo, secondo
(ma si tratta di prodotti preconfezionati e riscaldati al microonde,
considerato che questo tipo di strutture non possiedono licenze per la
ristorazione) e macedonia non si spendono meno di 20 euro, se ci si accontenta
di un'insalata la spesa si aggira fra i 6 e gli 8 euro. La spesa per una
giornata al mare però dipende, ovviamente, anche da quanto si è
abituati alle comodità e da quanto si è disposti a
rinunciarci: per chi ama la spiaggia libera ed è
disposto a portarsi dietro l'ombrellone di famiglia, un panino e una bottiglia
d'acqua il mare del Poetto può ancora risultare
alla portata di tutti.
Calabria
Sono in leggero aumento i costi in Calabria per i servizi sulle spiagge.
Quest'anno per ombrelloni, sdraio e cabine si registrano aumenti che possono
raggiungere anche punte del 16% nelle località più
rinomate. L'effetto della liberalizzazione del settore si fa, comunque,
sentire, al punto che è facile trovare prezzi
completamente differenti tra strutture balneari poste a poche decine di metri
una dall'altra. Sulla costa ionica catanzarese, ad esempio, sullo stesso tratto
di spiaggia, i prezzi per un mese di servizi sul bagnasciuga variano dai 170 ai
350 euro, pur tenendo conto delle possibili differenze in termini di qualità
dei servizi. Secondo la Confesercenti calabrese, a cui aderiscono la gran parte
delle strutture balneari, non si registrano aumenti ufficiali significativi sui
costi dei servizi, mentre sono in leggero aumento il numero delle concessioni
demaniali per nuovi insediamenti balneari, anche se questo, sempre secondo
Confesercenti, non pregiudica il libero accesso alle spiagge libere che restano
ancora molto numerose in Calabria.
Puglia
come molte altre regioni, registra quest'anno un incremento dei costi per
accedere ai servizi forniti da un qualsiasi stabilimento balneare. Dalla sdraio
all'ombrellone, dal lettino alla cabina tutto costa un pò di
più
anche se i prezzi, dai primi rilievi ufficiali, risultano in aumento mediamente
del 3%. L'incremento, specie se rapportato a quello di circa il 20% negli
ultimi tre anni, la dice lunga su come cresce la spesa pro capite per l'accesso
ai lidi privati specie se si tratta di nucleo familiare più
numeroso. Si calcola in media che per trascorrere una gionata in spiaggia una
famiglia di 4 persone arrivi a spendere anche 60 euro tra accesso al lido,
sdradio, ombrellone, lettino e cabina. Mediamente l'accesso al lido nel barese
si paga sui 5 euro ma si può salire anche a 7-8
euro nei giorni festivi. Sempre 5-6 euro ci vogliono per sdraio e ombtrellone
mentre l'abbonamento per tutta la stagione di una cabina può
costare poco più di un migliaio di euro. Intanto la Regione Puglia, assessorato al
Demanio, ha ripristinato perentoriamente l'accesso libero alla costa per tutti
i cittadini, ovviamente si tratta solo dell'accessoalla battiglia mentre si
pagano regolarmente i vari servizi messi a disposzione dai lidi. Da lunedì
16, infatti, per tutti i gestori balneari scatterà la
revoca della licenza se non saranno rimosse le barriere architettoniche
(recinzioni, muretti etc) che impediscono il libero accesso al mare.
Abruzzo
Nessun aumento delle tariffe, quest'estate, sulle spiagge abruzzesi, rispetto
all'anno scorso. È pratica,emte l'uinico caso. Il listino prezzi,
assicura la Federazione italiana balneari della Confesercenti, è
rimasto praticamente invariato. Negli stabilimenti che aderiscono a questa
sigla affittare per un giorno un ombrellone tradizionale, con un lettino e una
poltrona costa, a luglio e agosto, 17 euro nel primo settore, e quindi nella
zona più vicina al mare, e 13 euro nel secondo settore,più in
là
rispetto alla riva. In bassa stagione (maggio,giugno e settembre) il prezzo
giornaliero di un ombrellone con un lettino e una poltrona scende a 13 euro per
il primo settore e 12 per il secondo. Aggiungere un lettino, sempre in alta
stagione, costa 6 euro al giorno, una sdraio o una poltrona 4 euro, una
cabina-spogliatoio 8 euro, mentre l'ombrellone hawaiano, la cosiddetta 'palmà,
più
grande dell'ombrellone tradizionale e più
vicina al mare, costa 35 euro al giorno. I prezzi per affittare un ombrellone
per l'intera stagione vanno dai 400 ai 520 euro, mentre per assicurarsi una
'palmà
per tutta l'estate la spesa si aggira sui 1.250 euro.
Sicilia
Scoppia il caro ombrellone anche sulle spiagge siciliane. La tintarella in una
spiaggia attrezzata sembra tramutarsi in un lusso. Secondo quanto rilevato da
alcune associazioni dei consumatori, infatti, lettino e ombrellone in un
arenile attrezzato dell'Isola, quest'anno costa più
caro: il media il 10-13% in più rispetto alla
passata stagione, come a Mondello, con punte del 14-15% nelle province di
Catania e Messina. Se i gestori di stabilimenti mettono le mani avanti e parlano
di aumenti contenuti tra il 2,5 ed il 5%, in realtà le
voci di costo (ombrellone e lettino, soprattutto) registrano aumenti a due
cifre. Secondo la rilevazione, infatti, per una sdraio si pagherà,
in luglio e in agosto, da 6 a 7 euro; per un ombrellone da 6,5 a 7,5 euro; e
per un lettino da 7 a 8 euro. Quanto al biglietto d'accesso agli stabilimenti,
di norma non viene richiesto, ma quando è
previsto passa mediamente da 4 a 5 euro, con punte di 7 euro qualora dia il
diritto ad accedere a servizi particolari, come la piscina. Insomma, un
'pacchettò estivo può arrivare a costare
tra i 3.500 e 5 mila euro, se ai tradizionali servizi lettino-sdraio-ombrellone
si aggiungono, ad esempio, babysitter, fitness di gruppo e parcheggio.
Emilia Romagna
Nella ricercata riviera romagnola - Rimini, Milano Marittima, Riccione su tutte
- si è
registrato un aumento del 2,5 per cento. I bagnanti, per un lettino, ad
esempio, spenderanno tra i 5-7 euro, ricordando che in un lido più
raffinato si potrà spendere fino a 12-15 euro. La conferma giunge da Riccardo Borgo,
presidente del sindacato italiano balneare, che lunedì
sul tema terrà un dettagliato rapporto.
ROMA - Nasce la
'Costituente socialista' con l'obiettivo di porre fine alla diaspora. A sancire
l'atto costitutivo del nuovo soggetto unitario socialista è stata la
firma di una dichiarazione ribattezzata "del 14 luglio", sottoscritta
da tutti i leader aderenti al progetto: oltre a Enrico Boselli (Sdi), Bobo
Craxi (I socialisti) e Gianni De Michelis (Nuovo Psi). La cerimonia si è
conclusa nel primo pomeriggio all'Auditorium del Massimo a Roma, tra gli
applausi della platea. Tra le adesioni, a titolo personale, quelle di Franco
Grillini (presidente onorario dell'Arci Gay, ex Ds ora aderente a Sinistra
democratica), Cinzia Dato (Margherita), Roberto Barbieri (deputato campano Ds).
Da Gavino Angius, vicepresidente del Senato, già capo dei senatori Ds
che ha lasciato la Quercia dopo il congresso che ha sancito la nascita del
Partito democratico, è arrivata una lettera che fa ben sperare Boselli e
i suoi: "D'ora - scrive Angius - in poi volgerò il mio impegno
politico per contribuire alla nascita in Italia di una forza di ispirazione
socialista e democratica che sia parte integrante del Pse, per far sì
che in essa possano riconoscersi con le loro storie e culture milioni di nostri
concittadini". E poi: "Le forze che si riconoscono nei valori del
socialismo europeo potranno presto ritrovarsi in un progetto comune, magari in
una assemblea fondativa, per dare vita a una nuova sinistra di governo
internata da nuovi protagonisti in grado di rappresentare al meglio le sfide
future che ci attendono". Nel suo messaggio, Angius dice anche che il
Partito democratico non è un partito di sinistra.
Boselli annuncia per ottobre "una grande conferenza per il
programma e a dicembre il congresso di fondazione del partito". Poi
precisa: "non sarà e non dovrà essere la pura e semplice
somma delle nostre organizzazioni". Quanto al nome del nuovo soggetto
politico, Boselli si sbilancia: ''Penso di chiamare il nuovo partito Psi,
Partito Socialista Italiano'', ma chiarisce subito che è solo il suo
punto e invita tutti a discuterne auspicando la rinascita dei socialisti e la
fine della diaspora.
La questione centrale è sembrata proprio la stessa posta dalla lettera
di Angius: la necessità, cioé, di riempire uno spazio
"socialista" (in senso anche europeo) della sinistra italiana che né
il Pd né Rifondazione sembrano riuscire a coprire: "Intendiamo - ha detto
Boselli - diventare una vera sinistra italiana ed europea. Credo che debba
finire - ha aggiunto - l'anomalia italiana, che non vede nel nostro Paese una
vera forza socialista. Siamo aperti in primo luogo a chi è socialista
nell'anima, ma guardiamo con grande interesse anche ai liberali, ai laici e ai
radicali. Tutto questo perchè siamo convinti che il Partito democratico
sia frutto solo di un accordo tra Ds e Margherita".
Ma Boselli ha parlato anche del governo con un'interpretazione piuttosto
pesante della nascita del Pd: "Romano Prodi non ha avuto un proprio
partito quando esistevano Ds e Margherita ed ora rischia di avere un partito,
il Pd, che è solo ansioso di sostituirlo alla guida dell'esecutivo. Le
primarie per l'indicazione del nuovo leader del Pd rischiano di essere lo
strumento per svuotare e far perdere di legittimità quelle che hanno
indicato Prodi a candidato premier".
Alla Costituente è stato eletto anche un coordinatore nella persona di
Giacomo Mancini, deputato calabrese, nipote del leader calabrese che portava lo
stesso nome: Mancini ricoprirà il ruolo solo per lo Sdi e non per tutti
i partiti, movimenti e singoli che hanno deciso l'adesione. La decisione,
infatti, resa dall'esecutivo dello Sdi, su proposta di Boselli, e non dalle
altre organizzazioni aderenti.
I lavori si erano aperti sulle note di Imagine di
John Lennon sul palco dell'Auditorium del Massimo. Lo speaker, il giornalista
Alessandro Cecchi Paone che ha esordito dicendo: "Io mi sento a
casa". In una sala affollata, insieme ai leader, tanti militanti e
simpatizzanti dell'ex partito del Garofano. Come da tradizione, nella
scenografia ha prevalso il rosso.
(14 luglio 2007)
Un dato che, da solo, dimostra la sproporzione tra
l'enormità dei costi di una politica impazzita e la volonterosa
sforbiciatina decisa dal governo. Il cui disegno di legge, se riuscisse davvero
a far risparmiare 1.300 milioni di euro, rivelerebbe in modo lampante come si
possa tagliare molto di più. "La montagna ha partorito un
topolino", commenta il nazional-alleato Adolfo Urso. "Per qualunque
cosa a loro interessi propongono un decreto di immediata esecutività,
quando devono soltanto fare degli annunci, come stavolta col taglio dei costi
della politica, propongono invece disegni di legge che verranno approvati nel
mese del poi e nell'anno del mai", ridacchia il leghista Roberto
Calderoli. "Dopo innumerevoli annunci ci si aspettava qualcosa di serio e
invece il governo Prodi, al posto di annunciare il taglio immediato del numero
di ministri e sottosegretari del governo più numeroso d'Europa e della
storia italiana, annuncia un ddl per tagliare qualche telefonino e qualche auto
blu?", accusa il forzista Gregorio Fontana. Pulpiti sbagliati, per le
prediche: i bilanci ufficiali dicono che negli anni 2001-2006 in cui
governavano loro, con una maggioranza larghissima, le spese per gli organi
costituzionali (dal Quirinale alla Camera, dal Senato alla Corte
Costituzionale) si impennarono del 23% oltre l'inflazione. Né si ha memoria, su
questo fronte, di qualche riforma significativa. Per tacere del numero di
ministri e sottosegretari: prima che a Romano Prodi, che svetta oggi solitario
in cima alla oscena classifica, il record di poltrone apparteneva a Giulio
Andreotti (101) seguito con 98 dal terzo governo guidato da Silvio Berlusconi:
56 in più del primo governo De Gasperi. Insomma: chi è senza peccato
scagli la prima pietra. Detto questo, è fuori discussione che sul
versante della lotta alla crescita abnorme dei costi della politica era lecito
aspettarsi molto, molto, molto di più. Confida il ministro Giulio
Santagata agli amici che lui ce l'ha messa tutta, che avrebbe voluto incidere
il bisturi più in profondità, che si rende conto perfettamente
che dopo tanta attesa il disegno di legge varato ieri dal Consiglio dei
ministri (e destinato a un cammino ricco di insidie e lungo lungo, al punto che
non si entrerà probabilmente nel vivo prima di gennaio) può
apparire insufficiente. Sospira che il governo non può mettere mano a
certi capitoli che sono di esclusiva competenza altrui. E sbuffa lasciando
capire che sui giornali tutti si riempiono la bocca ma poi, nelle segrete
stanze, da sinistra e da destra, arricciano il naso davanti a questo e a
quello. Come Francesco Rutelli che, davanti al taglio dei consigli
circoscrizionali, avrebbe mostrato di essere assai riottoso. Fatto sta che su
questo punto il documento governativo, stando alla relazione illustrativa,
è per lo meno ambiguo. Dice infatti che sì, certo, bisogna
"eliminare i consigli circoscrizionali nei comuni con popolazione
inferiore a 250.000 abitanti (attualmente, la soglia minima è di
100.000)" ma aggiunge che va prevista "la possibilità di
istituire circoscrizioni per i comuni aventi popolazione tra i 100.000 e i
250.000 abitanti". Una subordinata che, potete scommetterci, sarà
interpretata, in un Paese ricco di furbetti, col tentativo di riproporre
esattamente il quadro di prima: basterà cambiare il nome. Per
carità, qualche sforzo di buona volontà si vede: l'impegno a una
maggiore trasparenza, un giro di vite sulle società miste e sui consigli
di amministrazione (dei consiglieri della Società autostradale Brescia-Verona-Vicenza-Padova
i politici riciclati e non sono 11 su 15), una stretta alla distribuzione di
cellulari ai dipendenti regionali, una razionalizzazione delle spese
telefoniche con l'uso delle chiamate via Internet, una serie di nuove norme sui
contratti flessibili per arginare la discrezionalità con cui certe
amministrazioni locali vanno ad "aggirare i divieti esistenti di procedere
a nuove assunzioni", una omogeneizzazione di compensi degli amministratori
che oggi per fare lo stesso lavoro in luoghi diversi prendono buste paga
diversissime, un limite al cumulo di incarichi, una disposizione perché i
compensi dati ai consulenti non solo siano pubblici ma diventino operativi solo
"dopo" la loro pubblicazione on line. E infine una riduzione del 20%
(anche se la strada per arrivare al traguardo sarà assai accidentata)
dei consiglieri e degli assessori regionali, comunali e provinciali. Nonché
delle loro indennità e dei rimborsi. Evviva. Ma è davvero poco.
Manca ogni accenno alla proposta avanzata da più parti di sopprimere le
province. Manca ogni accenno all'accorpamento di un po' di comuni, anche se ce
n'è uno come Monterone, in provincia di Lecco, con 33 abitanti. Manca
ogni accenno alla necessità non solo di rendere i bilanci trasparenti ma
leggibili: a cosa serve che vadano su Internet se poi l'"acquisto di
giornali e libri" per una somma enorme (128 mila euro) può essere
nascosta dalla Regione Sicilia sotto 7 voci esattamente uguali ma sparpagliate
in capitoli diversi? Manca un impegno a ridurre, ora e non domani o dopodomani,
i membri di un governo troppo obeso. Manca perfino l'incompatibilità,
che era stata chiesta dalle stesse comunità montane, tra l'essere comune
di mare e comune di montagna. Per non dire del silenzio, accanto alla timida
voce del governo, degli altri organi costituzionali chiamati a far la loro
parte. Come il Quirinale, che non ha ancora detto se quest'anno renderà
finalmente pubblico il suo bilancio. Come la Camera e il Senato, dove anche gli
uomini di buona volontà (e ce ne sono) magari aboliranno la barberia ma
non riescono a metter freno all'aumento "automatico" delle spese
dovuto a un sistema impazzito, come nel caso citato del dilagare di edifici
parlamentari che con la targhetta "Montecitorio" occupano complessivamente
ormai 204.212 metri quadri pari alla superficie di 14 basiliche di San Pietro,
31 campi da calcio internazionali o 420 campi da basket. Ce lo possiamo
permettere? Questo è il nodo. Anche a dispetto di Massimo D'Alema. Il
quale, durante una recente cena in Sudafrica, ha sbuffato davanti a un bel po'
di testimoni che uffa, tutte queste polemiche sui costi della politica sono
solo farina del sacco di "giornalisti sfaccendati"? Mica male, per
uno che aveva detto: "Rischiamo di essere travolti?". Sergio Rizzo.
L’inchiesta del sostituto procuratore di Catanzaro Luigi De
Magistris sulla cosiddetta loggia di San Marino
sta prendendo la strada di Palazzo Chigi, sede della presidenza del Consiglio.
L’ultimo atto è l’iscrizione sul registro degli indagati, con l’accusa
di associazione per delinquere, truffa e violazione della legge Anselmi sulle
associazioni segrete, del deputato dell’Ulivo Sandro Gozi, 39 anni, ex
“assistente politico” (così si autodefinisce nel curriculum) di Romano
Prodi all’Unione Europea e oggi membro (”in sostituzione del presidente del
Consiglio Prodi” precisa il sito della Camera dei deputati) nella commissione
Affari costituzionali.
Nei giorni scorsi il pm aveva ordinato una ventina di perquisizioni e aveva
iscritto sul registro degli indagati altri due imprenditori considerati vicini
al premier: il romagnolo Piero Scarpellini, 57 anni, e il calabrese Pietro
Macrì, 43 anni. Nelle ultime ore De Magistris ha inviato un altro avviso
di garanzia destinato a fare rumore: l’indagato è infatti Luigi
Bisignani, 53 anni, ex giornalista, una condanna per Tangentopoli, consulente
di molte aziende e, dal 2000, procuratore dell’Ilte (industria libraria
tipografica). Ma soprattutto tessitore di relazioni in campo politico e
finanziario.
La loggia di San Marino
Il magistrato calabrese ritiene che anche Gozi e Bisignani facciano parte di
quel “comitato d’affari”, trasversale ai partiti e con base nel paradiso
fiscale di San Marino, che grazie ad amicizie altolocate (anche all’interno
della Guardia di finanza e della magistratura) e un reticolo di società
costituite ad hoc sarebbe riuscito a drenare centinaia di milioni di euro di
finanziamenti pubblici (in particolare dell’Unione Europea), indirizzandoli
nelle casse dei partiti e nelle tasche dei politici e dei loro amici.
Il comitato sarebbe, con coloriture massoniche (la maggior parte degli indagati
è anche accusata di aver violato la legge sulle associazioni segrete),
una lobby nazionale che controllerebbe con la sua rete di contatti parte del
sistema politico ed economico del Paese.
“Non andiamo a caccia di grembiulini, quello è solo folclore, anche se
qualcuno lo abbiamo trovato” si lascia scappare uno degli investigatori. Che
sanno di non agire in solitudine: infatti quella che è già stata
soprannominata, in modo suggestivo, “nuova P3″ affiora in controluce in
altre inchieste delle procure italiane, in particolare quelle milanesi sulle
deviazioni dei servizi segreti e su fabbriche e botteghe di dossier illegali.
Per provare le sue ipotesi investigative, De Magistris, 40 anni, erede di una
famiglia di magistrati (il bisnonno era regio procuratore a Napoli), sta
utilizzando con zelo intercettazioni (poche), perquisizioni (abbastanza),
tabulati (molti), ma soprattutto l’analisi dei flussi finanziari.
Gli ultimi accertamenti (sono ancora in corso) riguardano per esempio i
movimenti di Bisignani e gli affari che ruotano intorno al suo ufficio di
piazza Mignanelli 3 a Roma.
Il cellulare presidenziale
Tutto inizia con la scoperta nella memory card di uno degli indagati di un
numero di telefono registrato come “Romano Prodi cellulare”. Gli inquirenti
fanno una verifica e scoprono che quell’utenza era originariamente intestata
all’azienda Delta impianti srl di Cornate d’Adda (Milano); nel 2005 diventa un
numero dell’”Ulivo-i Democratici”; infine, nel 2007, passa sotto la presidenza
del Consiglio. Oggi a quel telefono (32074…), come ha verificato Panorama,
risponde una signora che assicura che quel numero è attualmente
utilizzato da Prodi.
Ma che cosa c’entra la Delta impianti con il premier? È un rebus un po’
opaco. Per il magistrato la Delta srl è collegabile, attraverso alcuni
passaggi societari, alla Delta spa di Bologna, holding finanziaria che ha tra i
suoi azionisti una banca di San Marino. La stessa che ha una partecipazione
nella Nomisma, il laboratorio di idee fondato dal Professore.
In ogni caso l’analisi dei tabulati del numero “Romano Prodi cellulare” ha
permesso di ricostruire la rete di contatti (30 mila in due anni, dal 2005 al
2007). Un traffico diretto soprattutto verso Bruxelles e i telefoni portatili
di molti degli indagati nell’inchiesta di Catanzaro: in particolare Gozi, Piero
Scarpellini e il figlio Alessandro, gli imprenditori Francesco De Grano,
Antonio Saladino e Franco Bonferroni. Praticamente la compagnia su cui sta
lavorando De Magistris.
In attesa di essere interrogati gli indagati spiegano ai giornali i loro
rapporti con Prodi. Saladino, 53 anni, imprenditore nel settore del lavoro
interinale, legato all’imprenditoria cattolica della Compagnia delle opere,
dichiara a Panorama: “Con Prodi c’era solo un’amicizia personale”. L’ex
veterinario nega i rapporti di affari, non i consigli: “Per esempio, in un
incontro milanese gli ho spiegato gli aspetti positivi della legge Biagi”. E la
loggia di San Marino di cui ha scritto in un’email? “Uno scherzo, una battuta”.
Piero Scarpellini, dipendente della sammarinese Pragmata (costituita da molti
ex uomini della Nomisma), si definisce consulente per le questioni africane del
premier e ammette gli incontri con alcuni degli indagati. “Soprattutto
attraverso l’attività del Laboratorio democratico europeo” dice. Un
gruppo di giovani ulivisti presieduto da Gozi, molto attivo tra Roma e San
Marino, dove il deputato è protagonista di incontri e iniziative.
Cavolini e peperoncino
Ma chi è Sandro Gozi? Originario di Sogliano sul Rubicone
(Forlì-Cesena) è un ex funzionario dell’Unione Europea, un
tecnocrate riservato, poco noto al pubblico. Campione di squash ed esperto di
“sfoglia emiliano-romagnola” (ha cofirmato una proposta di legge per
valorizzarla), è un predestinato della politica: dopo la laurea in
giurisprudenza a Bologna, studi diplomatici e corsi di perfezionamento in giro
per l’Europa, dalla London school of economics alla Scuola nazionale
d’amministrazione di Parigi (Ena), al master di politica internazionale a
Bruxelles. Dove, qualche anno dopo, diventa membro del gabinetto di Prodi
all’Unione Europea e consigliere dell’attuale commissario José Maria Barroso,
sino all’elezione alla Camera nel 2006.
In Parlamento, oltre a sostituire Prodi nella I commissione, fa parte di quella
per le politiche dell’Unione Europea. Secondo De Magistris, sarebbe Gozi uno
degli uomini chiave di questo “comitato di San Marino” pronto a fare affari tra
Bruxelles e la Calabria.
Un altro protagonista dell’inchiesta (è indagato per associazione per
delinquere, truffa e violazione della legge Anselmi) è Pietro
Macrì, vibonese, 43 anni, dirigente di una società di
informatica. Durante gli studi a Bologna entra in contatto con l’entourage di
Prodi e nel suo ufficio campeggia una foto che lo ritrae insieme con il Professore.
Secondo due testimoni dell’accusa, Macrì ai collaboratori “consigliava
di mandare i soldi a San Marino”.
Ma i problemi per lui non sono finiti. A Lamezia Terme una decina di ex
dipendenti della Met sviluppo, di cui Macrì è stato
amministratore delegato, hanno presentato un esposto parlando di “operazioni
finanziarie ed economiche poco chiare” del gruppo.
Alberto Burrone, ex dirigente della Met Sviluppo, è uno dei promotori
dell’azione e a Panorama dice: “Prendevamo ricchi finanziamenti per lavori di
poco conto che, spesso, venivano sovraffatturati”. I settori d’intervento erano
diversissimi. “Faccio un esempio: noi che siamo specializzati in
contabilità in ambito sanitario ci siamo occupati anche di immigrazione
clandestina e sicurezza”.
Per un certo periodo la Met sviluppo ha ricevuto una mole di commesse che i
dirigenti non riuscivano a spiegarsi: “Quando mi hanno chiesto di preparare un
sistema per monitorare il rischio tsunami a Stromboli, mi sono messo a ridere”.
La Met sviluppo ha gestito pure il sito internet della Camera di commercio di
Parigi: “Era un lavoro impegnativo, apparentemente senza ritorni per l’azienda,
ma giustificava una serie di viaggi a San Marino, dove era stato progettato un
sito fotocopia di quello parigino da attivare in caso di attacco hacker”.
A quali società e a quali personaggi legati alla repubblica del Monte
Titano facevano riferimento gli uomini della Met sviluppo? “Ricordo la Pragmata
(quella di Scarpellini, ndr) e a Bruxelles Macrì diceva che era
“raggiungibile” Gozi” conclude Burrone. Di nuovo San Marino, di nuovo
Bruxelles.
Calabria euromiliardaria
Gli affari tra l’Italia e il Belgio (con snodo sul Monte Titano) sono il
leitmotiv dell’inchiesta calabrese. In cui è finito pure l’Osservatorio
del Mediterraneo fondato nel 2004 dal vicepresidente della Commissione europea
Franco Frattini. L’ex capo della sua segreteria al ministero degli Esteri,
Fabio Schettini, è indagato da tempo, mentre a febbraio è stato
ascoltato come testimone un membro del cda dell’osservatorio, l’ambasciatore a
riposo Achille Vinci Giacchi. In procura ha parlato dei finanziatori della
fondazione. Un argomento che interessa molto a De Magistris.
Cinquantamila euro li avrebbe versati personalmente Schettini. Altrettanti
arrivarono dalla Finmeccanica, 30 mila dall’Enel. L’osservatorio
partecipò con un proprio stand al meeting di Comunione e liberazione di
Rimini, “per far conoscere i suoi scopi”. Una kermesse a cui hanno preso parte
anche i vertici del Laboratorio democratico europeo di Gozi e gli uomini della
Compagnia delle opere sotto inchiesta a Catanzaro. Per il pm
quell’affollamento, a pochi chilometri da San Marino, sarebbe più che
una coincidenza.
Perché uomini così influenti avrebbero dovuto scendere in Calabria per
fare affari? Secondo la procura, la risposta è semplice: la regione
è considerata dall’Unione Europea un “obiettivo 1″, ovvero una di
quelle aree depresse a cui vengono destinati aiuti particolari. Questo
significa che, per esempio, il Programma operativo regionale (Por) dovrà
distribuire sul territorio oltre 8 miliardi di euro di fondi strutturali
europei per il periodo 2007-2013.
Per gestire questo fiume di soldi l’estate scorsa Francesco De Grano, cognato
di Macrì e fratello di Maria Angela (è indagata pure lei),
è stato nominato responsabile dei finanziamenti Por. Per gli inquirenti
di Catanzaro il suo nome avrebbe messo d’accordo Ds, Margherita e il presidente
della regione Agazio Loiero, promotore del Partito democratico meridionale e
socio fondatore del Pd di Prodi.
Il premier: "Sono totalmente estraneo
ai fatti"
Berlusconi: "Non faccio alcun
commento, auguro al Professore di uscire con onore da questa situazione"
ROMA - Il presidente del Consiglio Romano Prodi è indagato
per abuso d'ufficio dalla procura di Catanzaro nell'ambito dell'inchiesta sulla
cosiddetta "Loggia di San Marino". L'iscrizione sulla lista degli
indagati, per la procura, è un atto dovuto per permettere al presidente
del Consiglio di chiarire i rapporti tra il premier e altri personaggi sotto
inchiesta.
L'indagine condotta dal sostituto procuratore Luigi De Magistris si riferisce a
un presunto comitato d'affari tra San Marino e Bruxelles nel quale sarebbero
coinvolte delle persone in qualche modo collegabili al premier. Ci sarebbe
anche un'utenza telefonica intestata a Prodi alla quale le persone coinvolte si
sarebbero più volte collegate. Il premier ha fatto sapere di non aver
ricevuto nessun avviso di garanzia.
Il nome di Prodi sarebbe emerso nel corso di una perquisizione ad Antonino
Saladino, ex presidente della Compagnia delle Opere del Sud Italia e titolare
di una miriade di società che hanno lavorato e ottenuto contributi da
regioni ed enti locali italiani e dall'Unione europea. Sull'agenda di Saladino
compare un numero di cellulare sotto la voce "Prodi". La procura di
Catanzaro lo affida a un consulente informatico, Gioacchino Genchi, che, di telefonata
in telefonata e di voltura in voltura, risale al primo titolare (una
società di nome "Delta"), poi all'Ulivo di Bologna, all'Ulivo
nazionale e, infine, alla presidenza del Consiglio, l'ultimo ente che paga la
bolletta.
Sul cellulare in questione arrivano e partono telefonate con diversi utenti tra
i quali un vecchio amico di Prodi, Piero Scarpellini, impiegato in una
società con sede nella Repubblica del Monte Titano e definito dal pm nel
decreto di perquisizione 'consulente di Prodi' ('consulente non pagato dell'ufficio
del consigliere diplomatico della presidenza del Consiglio per i paesi
africani, ha precisato di recente palazzo Chigi)". Anche il figlio di
Scarpellini, Alessandro che a sua volta collabora con il premier, risulta
indagato.
Seguendo i tabulati telefonici, gli inquirenti giungono anche
all'onorevole Sandro Gozi, ex funzionario dell'Unione europea, già
assistente di Prodi a Bruxelles e attualmente suo sostituto in Commissione
Affari Costituzionali della Camera. Altre utenze coinvolte sono quelle degli
alti ufficiali della Guardia di Finanza, Walter Cretelli e Paolo Poletti,
entrambi già indagati e perquisiti in questa vicenda. Da lì
(anche se non ci sono contatti diretti con l'utenza attribuibile a Prodi) si
arriverebbe anche a personaggi come Giuliano Tavaroli, il famoso
"spione" della vicenda Telecom.
Romano Prodi, che ha detto di non avere ancora ricevuto l'avviso di garanzia,
ha dichiarato la sua fiducia nei confronti dei giudici e si è detto
certo di potere provare la sua estraneità ai fatti. "Pur non avendo
ricevuto alcun avviso di garanzia o informazione al riguardo - ha detto il
Professore - non posso che testimoniare, come sempre, la mia totale fiducia nel
lavoro dei magistrati che hanno voluto tutelare la mia persona, se l'avviso di
garanzia sarà effettivamente confermato, con un atto che
permetterà di dimostrare la mia totale estraneità a qualsiasi
eventuale accusa".
Il leader dell'opposizione Silvio Berlusconi non attacca. "Non faccio
alcun commento - ha detto il capo della Cdl ai cronisti - mi limito ad augurare
a Romano Prodi di uscire presto con onore da questa situazione". Il leader
dell'Udc Pier Ferdinando Casini invita a non speculare sulle notizie apprese
oggi. "Non speculerò né oggi né mai sulle vicende giudiziarie
perché non si può esser garantisti con gli amici e forcaioli con gli
avversari politici".
Il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Mariano Lombardi, ha però
dichiarato di non essere "a conoscenza dell'iscrizione di Prodi nel
registro degli indagati". Lombardi ha poi aggiunto che se "il
sostituto De Magistris avesse deciso o avesse iscritto il presidente del
Consiglio nel registro degli indagati, avrebbe dovuto informarmi. Il che non
è avvenuto".
(13 luglio 2007)
L'iscrizione sul registro degli indagati del premier da parte del
pm Luigi De Magistris viene smentita dal procuratore Lombardi (che mesi fa ha
denunciato il pm a Salerno per altri questioni) ma confermata da fonti
investigative. Siamo di fronte all'ultimissimo atto della maxi-inchiesta per
truffa, associazione per delinquere e violazione della legge Anselmi sulla
massoneria coperta che al momento vede indagate una ventina di persone, tra cui
Sandro Gozi, deputato dell'Ulivo, ex "assistente politico" di Prodi
all'Unione Europea, diventato componente della commissione Affari
Costituzionali in sostituzione dell'allora neopremier, oggi nel mirino per un
presunto business illecito tra Bruxelles e la Calabria. Il sospetto di
favoritismi nell'elargizione di finanziamenti europei a vantaggio di questo
asserito "comitato", e una dettagliatissima consulenza tecnica
inerente l'incrocio delle telefonate tra Romano Prodi e alcuni degli indagati
eccellenti, ha convinto il magistrato a dare un'accelerata all'indagine destinata
a sfociare nella richiesta di autorizzazione alla Camera per l'acquisizione dei
tabulati telefonici di Prodi nel periodo coperto da immunità
parlamentare. Per capire dove punta l'inchiesta occorre fare un passo indietro,
esattamente a metà giugno quando il magistrato calabrese dispone
perquisizioni e sequestri nei confronti di personaggi definiti organici alla
cosiddetta "Loggia di San Marino". Molti degli indagati hanno avuto,
e continuano ad avere, contatti diretti e ripetuti col premier. La certificazione
arriva con una consulenza del super esperto Gioacchino Genchi, che parte
dall'esame dei traffici telefonici dell'indagato Piero Scarpellini, "che
insieme al figlio Alessandro - scrive il pm nel decreto di perquisizione -
rappresenta persona di assoluta fiducia del premier, di cui è
consulente" (non pagato, preciserà Palazzo Chigi). Se Piero ha
interessi in Africa attraverso la fondazione "Teresys" di San Marino
ed è dipendente della società sanmarinese "Pragmata"
fondata da ex soci di Nomisma, Alessandro dal 2004 risulta essere
l'assistente-portaborse di Prodi, il suo uomo ombra. Di Scarpellini senior e
degli interessi a San Marino parla la gola profonda dell'inchiesta, la teste
"alfa", una funzionaria della Compagnia delle Opere che tira in ballo
il rappresentante per il Meridione della CdO, Antonio Saladino, collegato a
Scarpellini e considerato il crocevia della lobby trasversale. Attraverso
Saladino si arriva per la prima volta al premier per via di un riferimento a
"Romano Prodi cellulare" in evidenza sulla rubrica del suo cellulare.
I numeri in uscita e in entrata sui telefoni di Scarpellini (e Saladino),
confrontati con l'esito degli accertamenti investigativi espletati, spesso
coincidono. Il primo contatta ripetutamente l'onorevole Sandro Gozi nonché
l'imprenditore Antonio Macrì, altro indagato eccellente, noti trascorsi
nell'entourage di Prodi a Bologna, accusato dai dipendenti della sua
società (la Met Sviluppo) di incassare finanziamenti consistenti per
incarichi improponibili. Due testimoni parlano di lui come dell'uomo che
"consigliava di mandare i soldi a San Marino".
Tornando a Scarpellini, osserva il perito del pm, costui era
titolare di una scheda telefonica intestata alla medesima società, la
Delta Spa, cui era intestata la scheda del cellulare in uso a Romano Prodi.
"Il dato evidenziato - osserva il perito - lascia quindi ragionevolmente
presumere che la sim gsm numero 320740(...) intestata alla Delta Spa fosse
intestata al prof Romano Prodi che, in atto, ricopre la carica di deputato oltre
che di presidente del Consiglio". Il telefonino del premier contatta molti
indagati: oltre ai due Scarpellini e a Gozi, sono frequenti le chiamate con il
presunto capo del comitato d'affari, Saladino, con l'ex sottosegretario Franco
Bonferroni, già indagato nell'inchiesta Poseidone ed ora in Finmeccanica
(considerato dalla procura la "cerniera tra il sistema bancario e la
politica") nonché con Francesco De Grano, cognato di Macrì,
dirigente degli Affari Internazionali della Regione Calabria e responsabile dei
finanziamenti del Por, il programma operativo regionale che gestirà gli
8miliardi di euro stanziati dall'Unione europea fino al 2013. Per andare avanti
con gli accertamenti, il consulente aveva fatto presente al pm che "ogni
ulteriore acquisizione, sviluppo e concreta utilizzazione processuale dei dati
di traffico della sim gsm 320740(...) intestata alla Delta Spa, come pure dei
diversi 10 cellulari con i quali risulta nel tempo utilizzata, nonché delle
ulteriori sim gsm coutilizzate coi medesimi cellulari" era ovviamente
"subordinata alla preventiva autorizzazione della Camera dei
deputati". Il discorso non valeva, invece, sull'utilizzabilità dei
dati di traffico dell'utenza Delta Spa di Prodi "per il periodo precedente
alla proclamazione del 21.04.2006 quando il professor Romano Prodi non era
investito da alcun mandato parlamentare". Detto, fatto. I tabulati con il
traffico telefonico di Prodi fino al 2006 sarebbero già stati sviluppati
e confrontati con le varie attività di indagine. Sugli inquietanti
aspetti dell'"effettiva interconnessione societaria che ricollegano il
professor Romano Prodi alla Delta Spa, alla Cassa di Risparmio di San Marino e
alle società collegate", il consulente Gioacchino Genchi non si
esprime. Fa solo presente quanto sia singolare - a suo dire - la sospetta
trafila seguita da questa scheda telefonica attivata dalla Delta il 21 ottobre
2004 presso la Wind e poi volturata, il primo aprile 2004,
all'"Associazione l'Ulivo i Democratici" di Bologna. Da qui, il 17
febbraio 2005, con la medesima intestazione, il contratto con la scheda del
premier viene trasferito a Roma, in piazza Santi Apostoli 73, sede dell'Ulivo.
Tempo due mesi, e la solita sim, "già intestata a Delta Spa e poi
all'Associazione L'ulivo i Democratici" viene rivolturata un'altra volta,
"alla Presidenza del Consiglio (partita Iva 80188230587) via della Mercede
96, Roma. Esiste quindi - chiosa il perito - un incontrovertibile rapporto che
lega, o legava, l'effettivo usuario dell'utenza in oggetto" alla Delta,
all'Ulivo, a Palazzo Chigi. Il cellulare che ripetutamente s'interfaccia con
gli indagati principali dell'inchiesta calabrese sulla loggia di San Marino e
sul comitato d'affari ad essa collegato, dunque, è quello del premier.
Ma c'è di più. Partendo dalla scheda telefonica di Prodi e dai
collegamenti con la Delta Spa, da ulteriori incroci con le utenze di alcuni
indagati, gli accertamenti della procura calabrese si starebbero indirizzando
proprio sul gestore telefonico titolare di quella sim: la Wind. E tra le iniziative
che potrebbero essere prese in queste ultimissime ore, caldeggiate in chiusura
di perizia dal consulente del pm, vi potrebbe essere anche un'altra richiesta
di autorizzazione alla Camera. Stavolta per l'acquisizione ed utilizzazione dei
tabulati telefonici del segretario dell'Udc, Lorenzo Cesa, pure lui in contatto
con alcuni indagati.
+ Il Sole 24 Ore 13-7-2007
Wall Street sfida la
paura derivati di Morya Longo
Europa
13-7-2007 Lobby a palazzo di giustizia FEDERICO ORLANDO
ROMA
- Dopo una nuova discussione il Consiglio dei ministri ha dato il via libera all'unanimità al disegno di legge sui costi della politica e per la promozione della trasparenza amministrativa presentato dal ministro Santagata. Secondo fonti governative i risparmi derivanti dal provvedimento a regime saranno «ben oltre» i 500 milioni di euro.IL
DISEGNO DI LEGGE -
Il provvedimento «Ddl recante misure per la riduzione dei costi
politico-amministrativi e per la promozione della trasparenza», è formato
da 26 articoli. Confermato il meccanismo della «ghigliottina» per gli enti
pubblici: i ministeri competenti avranno l'obbligo di riordinarli con tagli o
accorpamenti e di eseguire una revisione sul loro funzionamento ogni 3 anni.
Tra le novità anche un giro di vite sui telefonini e le auto blu.
L'articolo 8, infatti, contiene «misure di razionalizzazione delle spese per
l'utilizzo di dotazioni strumentali delle autovetture di servizio,
nonchè del patrimonio immobiliare». I cellulari vengono assegnati in
maniera rigorosa solo a coloro che hanno l'esigenza di una reperibilità
permanente. Mentre l'uso delle auto blu sarà razionalizzato e non viene
escluso l'utilizzo di «mezzi alternativi di trasporto, anche cumulativo».In
particolare, il ddl stabilisce il divieto ad istituire società
partecipate il cui effetto non è strettamente collegato al perseguimento
di un interesse pubblico. Dice l'articolo 3 «Partecipazioni delle
amministrazioni pubbliche»: «Al fine di tutelare la concorrenza e il mercato»,
le amministrazioni «non possono costituire società aventi per oggetto
attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie
per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, nè
assumere o mantenere direttamente o indirettamente partecipazioni, anche di
minoranza in tali società». È previsto anche il divieto di
finanziamento di partiti e di gruppi parlamentari da parte di società
concessionarie di diritti pubblici. Il disegno di legge promuove inoltre
l'etica della trasparenza pubblicando sui siti degli enti bilanci ed emolumenti
ma anche i criteri per la ricerca dei consulenti.
GOVERNANCE SOCIETA' PUBBLICHE - Il ddl prevede anche una stretta ai
consigli di amministrazione (cda) delle società pubbliche non quotate. In
particolare il ddl prevede la riduzione del numero dei componenti degli organi
societari, l'attribuzione al presidente anche delle funzioni di amministratore
delegato per i cda costituiti da tre componenti, il mantenimento della carica
di vicepresidente solo per individuare il sostituto del presidente in caso di
assenza o di impedimento, l'eliminazione della previsione di gettoni di
presenza e la limitazione della costituzione di comitati con funzioni
consultive o di proposta ai casi strettamente necessari. Modifiche statutarie,
queste, come si legge nell'articolo 4 del ddl, che «hanno effetto a decorrere
dal primo rinnovo degli organi societari successivo alle modifiche stesse». Ma
le disposizioni, precisa il provvedimento, «non si applicano alle società
quotate in mercati regolamentati». Quindi a società come l'Eni, l'Enel o
Alitalia.
SANTAGATA - «Abbiamo lavorato con l'ottica di agire
in maniera strutturale sulla questione dei costi della politica - spiega il
ministro dell'Attuazione del programma Giulio Santagata - e dobbiamo tener
presente che abbiamo una pressione dell'opinione pubblica che porta a mettere
sullo stesso livello la barberia della Camera e la semplificazione dell'azione
amministrativa. Su questo abbiamo qualche problema. Noi abbiamo cercato invece
di stare sui livelli strutturali di fondo che generano il problema».
TAGLIO PARLAMENTARI E CONSIGLIERI - «Abbiamo fatto un lavoro molto buono e
voglio dare atto della disponibilità degli Enti locali che ha prodotto
risultati significativi» ha detto successivamente il ministro degli Affari
regionali Linda Lanzillotta, a proposito dell'approvazione del ddl Santagata.
Il patto siglato sarà «declinato- spiega Lanzillotta- secondo diversi
strumenti giuridici: il governo attraverso una legge costituzionale si impegna
a diminuire i parlamentari; le Regioni diminuiranno i consiglieri tramite nuovi
statuti e con leggi regionali» Il ministro parla di «una diminuzione media del
20% dei consiglieri», e auspica di tornare agli «accordi pre 2001, con una diminuzione
di un terzo delle Giunte regionali e assemblee elettive».
COMUNITA' MONTANE - Il ddl sui costi della politica prevede
una «riduzione dei costi degli apparati di supporto degli organi politici nella
misura dell'80 per cento rispetto ai costi sostenuti nel 2007» ha aggiunto la
Lanzillotta che ha anche spiegato che il provvedimento intende anche mettere
fine allo scandalo delle comunità montane a livello del mare.
«Introduciamo una nozione di montanità che porta la montagna a un
livello minimo di 600 metri- spiega la Lanzillotta - per cui il comune deve
avere l'80 per cento del territorio ad un'altitudine superiore a 600 metri»
oppure con «un dislivello di almeno seicento metri». Inoltre spiega
Lanzillotta, un accordo con l'Uncem prevede «il taglio del 50% del numero dei
consiglieri. Questo comporterà una riduzione superiore ai 100 milioni di
euro».
13 luglio 2007
ROMA - Il
Consiglio dei ministri ha approvato il Ddl sulla riduzione dei costi della
politica e per la promozione della trasparenza. Il provvedimento, a quanto si
apprende, consentirà un risparmio, a regime, di ben oltre 500 milioni di
euro.
Governo-enti locali: «Meno sprechi, più efficienza»
Costi delle istituzioni ridotti e macchina amministrativa più snella.
Sono i cardini del patto siglato dai presidenti della Conferenza delle regioni
e delle province autonome, della Conferenza dei presidenti dei consigli
regionali, dell'Upi - che nell'occasione era delegata a rappresentare anche
l'Anci (assente a seguito della sospensione con i rapporti con il Governo) - e
dell'Uncem insieme ai rappresentanti del governo, i ministri Vannino Chiti,
Linda Lanzillotta e Giulio Santagata e il sottosegretario all'Interno
Alessandro Pajno.
I principi contenuti nell’accordo confluiranno, nelle parti di competenza
statale, in appositi provvedimenti legislativi a partire dal ddl sul
contenimento dei costi politico-amministrativi approvato in mattinata. Mentre
per le parti di competenza regionale saranno autonomamente attuati dalle
Regioni. Tra i punti dell'accordo raggiunti oggi:
- riduzione del numero dei ministeri con ritorno all'originario testo del dlgs
300/99;
- ripristino del numero dei consiglieri regionali, in linea con quanto previsto
dalla legge 108/68 in proporzione al numero degli abitanti, nel rispetto
dell`autonomia delle assemblee regionali;
- riduzione del numero dei consiglieri provinciali e comunali;
- riduzione e razionalizzazione delle circoscrizioni municipali e
razionalizzazione dei compensi dei componenti di tali organismi;
- riduzione del numero dei comuni montani, attraverso la formulazione di nuovi
criteri di montanità, e dei componenti degli organi delle
comunità montane;
- riduzione del numero degli assessori regionali, provinciali e comunali in
rapporto al numero dei consiglieri;
- riduzione dei componenti e dei compensi degli amministratori delle
società pubbliche statali;
- eliminazione delle duplicazioni di enti e associazioni di comuni che operano
nello stesso territorio;
- riordino e/o soppressione di enti pubblici;
- trasparenza delle cariche e degli emolumenti (benefit compresi);
- attivazione, presso la Conferenza unificata, della Cabina di regia per la
riduzione dei costi amministrativi con il compito di monitorare le iniziative
dei diversi livelli di governo.
Il Governo, riferisce infine il Ministero degli Affari regionali, si impegna
inoltre a promuovere le intese necessarie a favorire la riduzione dei
parlamentari e auspica che le Camere nella loro autonomia adottino le misure
necessarie a rendere effettivo il contenimento dei costi della rappresentanza
politica. Al momento i tecnici del Ministero di Via della Stamperia stanno
mettendo a punto il documento conclusivo sul quale è stato trovato
l’accordo sviluppandone i singoli elementi.
Proprio nel giorno in cui Moody's ha comunicato che si aspetta
maggiori perdite sui bond legati ai mutui americani subprime, Wall Street ha
deciso di rialzare la testa. E di lasciare alle spalle le tensioni. Anche
grazie alla spinta delle numerose fusioni societarie annunciate ieri e nei
giorni scorsi, l'indice Dow Jones ha realizzato il nuovo record storico, chiudendo
con un rialzo del 2,09% a 13.861,73 punti: in punti è il balzo
più consistente dal 2002, in termini percentuali è il maggiore
dall'ottobre 2003. Anche l'S&P 500 ha guadagnato terreno: +1,91%. E i
listini europei hanno seguito la scia, realizzando ieri il rialzo più
consistente dell'ultimo mese: Londra +1,25%, Parigi +1,70%, Francoforte +1,96%
e Milano + 0,83%. Il tutto mentre i titoli di Stato hanno perso quota e
rialzato i rendimenti: il T-Bond decennale americano ha aumentato il tasso d'interesse
di 4 centesimi a 5,13 per cento. Certo, i fattori di rischio non mancano.
Innanzitutto i mutui americani concessi a persone poco abbienti potrebbero
subire nuove perdite. Inoltre il mercato dei derivati cresciuto fino alla cifra
monstre di 327mila miliardi di euro è guardato con apprensione dalle
banche centrali. Ma i mercati finanziari, pur volatili, continuano a correre.
In effetti, analizzando gli elementi di rischio, si scopre che allostato
attuale appaiono tutti gestibili e non eclatanti. Iniziamo dalla questione dei
mutui subprime americani (quelli concessi a persone poco abbienti e dunque ad
alto rischio di rimborso), che nelle scorse settimane avevano causato l'aumento
della volatilità sui mercati dopo un allarme lanciato da Bear Stearns. È
vero che questo mercato è sempre più in crisi: anche ieri
l'agenzia di valutazione Moody's — che martedì aveva declassato il
rating di 399 cartolarizzazioni costruite sui mutui subprime — ha annunciato
che prevede un aumento delle perdite nell'ordine del 10% per i nuovi mutui e
del 25% per quelli vecchi.
Ma se l'allarme sui subprime è elevato, è anche vero che questa
particolare fetta del mercato è piccola rispetto al totale dei mutui
americani: rappresenta solo l'11% di un mercato che vale 9mila miliardi di
dollari. Una crisi in questo settore — sottolineano intanti — potrebbe non
avere impatti violenti sul resto dei mercati. «Fin che il credito si restringe
in questa particolare fetta del mercato non vedo particolari rischi per il
sistema —osserva per esempio Vincenzo Guzzo, senior strategist europeo di
Morgan Stanley —. Il problema si presenterebbe se il razionamento del credito
si propagasse anche sulle personee sulle aziende affidabili, ma questo rischio
non è allo stato attuale concreto». Un po' più cauta, ma non
allarmista, è Jennifer Bridwell di Pimco: «Non si può prevedere
che effetto potrebbe avere la crisi del mercato subprime — afferma —. Di certo
ora la percezione del rischio è maggiore».
Se i mutui subprime per ora non impensieriscono più di tanto i mercati,
anche la "montagna" dei derivati non è percepita come un reale
pericolo. Certo, le banche centrali (dalla Bce alla Fed) hanno sollevato il
problema più volte:i derivati sul credito —aveva detto solo pochi mesi
fa il presidente della Bce Jean-Claude Trichet — stanno cambiando il sistema
finanziario e rappresentano un rischio per la stabilità dei mercati. In
effetti il fenomeno dei derivati è letteralmente esploso negli ultimi
anni. A fine 2006 — secondo i dati dell'Isda — sul mercato c'erano contratti per
un valore nominale totale di 327mila miliardi di dollari: il triplo rispetto a
quattro anni prima. Ma soprattutto i derivati sul credito (strumenti che
servono per "assicurarsi" contro il default di qualunque emittente
obbligazionario) sono esplosi: dai 2mila miliardi di dollari del 2006 ai 34mila
miliardi di fine 2006. Non solo: anche i Cdo (obbligazioni costruite su
portafogli di debiti o di derivati di credito) sono cresciuti in modo abnorme,
tanto che solo nel 2006 in America ne sono stati emessi per 320 miliardi di
dollari.
Ebbene: di fronte a queste cifre è normale che le banche centrali si
mostrino allarmate.
«Credoche lancino l'allarme per cercare di calmare il mercato — osserva Antonio
Cesarano, capo economista di Mps Finance —. Ma il mercato è tranquillo,
anche perché il rischio è polverizzato su moltissimi investitori».
Così le Borse riprendono a correre. E non solo: gli investitori si
stanno indebitando al livello record di 353 miliardi di dollari per acquistare
azioni.
NEW YORK Dopo il discorso del presidente degli Stati Uniti George
W. Bush sull’Iraq, i leader democratici alla Camera dei deputati sono riusciti
a far passare una legge che richiede che il ritiro delle truppe dall’Iraq inizi
entro 120 giorni, per completarsi entro il primo aprile 2008. Nel testo
è previsto che un impegno militare americano sul territorio iracheno
prosegua poi in modo molto ridotto per addestrare l’esercito locale, proteggere
le proprietà americane e scovare i terroristi di Al Qaeda.
È uno sgambetto al presidente Bush, che nella mattina di giovedì,
commentando in una conferenza stampa alla Casa Bianca un rapporto preliminare
sull’andamento delle operazioni in Iraq, aveva messo in chiaro che un ritiro
delle truppe in questo momento sarebbe «disastroso», foriero di «massacri
orribili» e di nuovi pericoli per gli Stati Uniti e l’Occidente. Anche se
«l’America è stanca della guerra», anche se i politici di Washington
vorrebbero chiudere subito per interessi elettorali il capitolo della guerra,
«quando cominceremo a ridurre la presenza militare - ha detto Bush -
sarà perché i nostri comandanti diranno che ci sono le condizioni sul
campo per farlo». Non perché lo dicono gli esperti di sondaggi, aveva aggiunto.
Tuttavia il governo di Baghdad ha compiuto, lo dice il rapporto, passi avanti
soddisfacenti solo su otto dei diciotto obiettivi prefissati. Non solo, nel
rapporto c’è un’accusa gravissima alla Siria, che garantirebbe un flusso
di kamikaze di al-Qaida: attraverso il confine ne arriverebbero ogni mese tra i
cinquanta e gli ottanta. E nonostante alcuni progressi fatti dal governo di
Nouri al Maliki, la «situazione in Iraq è complessa ed estremamente
difficile», il «quadro economico è instabile» e di riconciliazione tra i
gruppi etnici del Paese non si può neppure parlare. Il commento del
presidente della camera Nancy Pelosi è stato: «Dal rapporto traspare che
nemmeno la Casa Bianca può concludere che ci siano stati progressi
significativi».
VENEZIA. E' finita con un'assoluzione piena la polemica veneta sui
costi della politica. E' stata sufficiente una seduta del
consiglio per individuare i "veri" colpevoli, i responsabili dei
reali sperperi del denaro pubblico. Che sono gli enti inutili ed i Cda multipli
per finire con i giornalisti, nella fattispecie Gian Antonio Stella e il
compare Sergio Rizzo che con il libro "La casta" avrebbero aizzato
gli animi. Loro sì - ha avuto la spudoratezza di suggerire qualcuno
all'assemblea - ci hanno guadagnato con i costi della politica.
Talmente assurdo da far sorridere, se non fosse che in questo teatrino
c'è ancora una volta un gabbato, il metalmeccanico separato e mai
divorziato. Dal consiglio si aspettava un segnale, seppur minimo, ed invece ha
rimediato l'ennesimo schiaffo: d'ora in poi i consiglieri potranno assicurare
una vecchiaia serena alla compagna di un vita. Lui, al solito, no. E invece che
assottigliarsi il baratro si allarga. Sia chiaro: nessuno aveva la pretesa di
veder polverizzare le differenze sociali con i consiglieri autoflagellanti che
si riducevano gli stipendi a livello di un impiegato statale, ma nemmeno si
aspettava di vedersi liquidare da un provvedimento strafottente in stile
"siamo già bravi, che volete da noi?". Potevano dirlo subito -
come ha detto lo stesso Galan - sostenere le proprie posizioni, se erano
convinti della loro bontà, invece che gridare allo scandalo e promettere
rivoluzioni che nessuno ha mai pensato di attuare. E invece, esaurito il sacro
fuoco della propaganda, si sono limitati a cercare alibi e nuovi colpevoli,
come i media, accusati di essere partiti in crociata, rintuzzati dai poteri
forti. Su tutti Gian Antonio Stella, reo di aver individuato un "filone
voyeuristico" lucrando sul momento di difficoltà dei politici:
"Ce lo aspettavamo - risponde con un mezzo sorriso l'interessato - sono
accuse che si commentano da sole. Purtroppo ci sono posizioni indifendibili.
Noi, come tutti, vorremmo solo una politica diversa". Indifendibile
è anche la posizione della Lega moralizzatrice, che aveva proposto una
mannaia dal sapore elettorale, prima di sprofondare in un silenzio di
autocensura, su cui sorvola anche lo storico "eretico" del Carroccio.
Forse ripreso per l'eccessiva schiettezza Giuseppe Covre dribbla l'empasse del
suo partito forzando l'ipotesi di una provocazione: "Il problema non
è nel "quanto" ma nel "quanti" - sostiene il
leghista - ovvero quanti sono i consiglieri: ne basterebbero meno se avessimo
la certezza che lavorano bene. Quando uno è ben pagato diventa anche
possibile pretendere molto, innanzitutto che gestisca in maniera oculata le
risorse a sua disposizione, senza permettere che finiscano sprecate, a maggior
ragione in vista di un federalismo. Ma per questo serve il coraggio di misurare
il rapporto tra costi e vantaggi e tagliare i rami secchi, come succede
nelle aziende private". L'affondo riguarda quindi le multiutilities, le
commissioni speciali, le aziende esterne, figlie della politica ma sui
cui sprechi la politica si è sempre lavata le mani. Fino
ai ieri. "Ci sono molta ipocrisia e consociativismo - interviene il
segretario generale della Cgil Veneto Emilio Viafora - la Lega in queste
situazioni è forte in campagna elettorale ma non è altrettanto
famosa per le battaglie successive. E' necessario istituire una conferenza con
le altre istituzioni, comprese l'Anci e l'Upi con cui individuare il sistema
per abbattere i costi di funzionamento e quindi ridurre il numero dei
Cda e dei manager, gli stipendi e accorpare le funzioni, fino ad arrivare a
legare i compensi ai risultati. Quanto al provvedimento votato in consiglio, se
volevano dare davvero un bel segnale dovevano rendere la legge immediatamente
applicabile, invece di decide sempre per quelli che verranno". Come disse
qualcuno doveva cambiare tutto perché nulla cambiasse. Peccato solo averci
sperato.
Due milioni 900 mila euro. È questa l'incredibile cifra
che, RaiDue ha stanziato nell'ultima stagione televisiva per trasmettere 'Balls
of steel' ('Palle d'acciaio'): un programma notturno a base di burle trash che
il critico Aldo Grasso ha definito nell'ordine "campione d'insulsaggine",
"uno scandalo" e "un modo per buttar via budget e risorse
umane".
Assurdo? Soprattutto mentre la tv si evolve e punta ai grandi scenari del
futuro? C'è molto di più, nell'esposto che l'associazione dei
consumatori Codacons ha presentato lunedì scorso alla Procura di Roma e
alla Corte dei conti del Lazio. Ci sono, costo per costo, tutti i denari che la
seconda rete pubblica diretta da Antonio Marano ha investito tra il 2006 e il
2007 per costruire la sua offerta catodica. Dati che per la prima volta diventano
pubblici, e in piena rissa sugli sprechi della politica spostano i riflettori
sulla televisione.
Basti pensare, per esempio, al caso di 'Votantonio', la trasmissione di
fantapolitica prodotta da Einstein Multimedia e condotta da Fabio Canino. Il 7
maggio scorso ha fatto il suo esordio ed è stato un flop: 4,96 per cento
di share con un milione 174 mila spettatori. Dopodiché il programma ha chiuso i
battenti, costando però a RaiDue "1 milione 350 mila euro",
scrive il Codacons. Anche perché oltre alla puntata trasmessa ne sono state
realizzate altre due.
Discorso simile per il naufragio di 'Wild West', il reality prodotto con Grundy
Italia e presentato da Alba Parietti. L'idea della vita selvaggia nella lontana
America, si pensava, poteva sedurre i pantafolai italiani. Invece no. Partito
in prima serata, il programma dopo tre puntate ha tolto il disturbo. A che
prezzo? "2.722,22 euro al minuto", scrive il Codacons, "pari a
490 mila euro a puntata e a complessivi 1 milione 470 mila euro".
A questo punto, non stupisce che per il salotto in prima serata di
'Donne', condotto da Monica Leofreddi e prodotto con Endemol, si siano
investiti ben 489 mila euro a puntata: 163 mila euro l'ora per un totale di
euro 2 milioni 934 mila euro. E nemmeno che per l'edizione serale del reality
'La sposa perfetta', format senza troppa fortuna in Italia, prodotto con
Magnolia e presentato da Cesare Cadeo e Roberta Lanfranchi, siano finiti in
budget 5 milioni 830 mila euro. Come dire 530 mila euro a puntata; o se preferite,
176 mila 666 euro all'ora.
Da queste e altre cifre, scrive nel suo esposto il Codacons, risultano
"evidenti danni al bilancio della rete (RaiDue, ndr), finanziato come ben
si conosce in buona parte dal canone pagato dai cittadini consumatori".
Non solo: "A fronte di questi dati", prosegue l'associazione dei
consumatori, "ciò che stupisce è la condotta editoriale
tenuta dai vertici di RaiDue (...). Non si comprende bene, per quale motivo
spesso non si sia provveduto a interrompere la messa in onda di programmi (...)
di scarso gradimento (...). O viceversa (...) perché alcuni programmi siano
stati interrotti immediatamente, nonostante fossero state già acquistate
e pagate ulteriori puntate".
Un attacco, quello del Codacons, dritto al direttore di RaiDue Antonio Marano.
Il quale di prodotti televisivi se ne intende, come gli riconoscono amici e
nemici. Resta il fatto che a colpire, nell'esposto, non è soltanto il
costo dei flop, ma anche quello dei programmi di successo. Basti pensare alle
serate de 'L'isola dei famosi' (Magnolia), sostenute con 5 milioni 800 mila
euro, cioè 193 mila 330 all'ora. O agli appuntamenti con 'Quelli che il
calcio...', 7 milioni 953 mila euro complessivi, 203 mila a puntata.
In confronto, Michele Santoro fa la figura del poverino. Al suo 'Annozero' sono
stati riservati 65 mila euro all'ora: 130 mila euro a puntata, 1 milione 950
mila in totale.
(12 luglio 2007)
Alla luce dei dati sopra esposti, per Federfarma si sta
rafforzando la possibilità concreta che la spesa farmaceutica nel 2007
rientri nel tetto del 13% della spesa sanitaria complessiva. "Il rispetto
di questa percentuale è per noi molto complicato - conferma Luigi
Cavalieri, direttore di Federfarma Brescia - in particolare per le farmacie
che, oltre a contribuire al pay back (autoacquisto del prodotto per non far
cadere il prezzo) insieme agli altri elementi della filiera, pagano uno sconto
oneroso in favore del Servizio sanitario nazionale, posto
esclusivamente a loro carico" Per il Codacons, di fondamentale importanza
è stato anche l'ampliamento del numero di punti vendita che ha
determinato un aumento della concorrenza nei mercati dei farmaci da banco e un
forte incentivo per le farmacie a praticare sconti. La speranza
dell'associazione a tutela dei consumatori è abbattere l'ultimo scoglio
e proseguire sulla strada delle liberalizzazioni, con la vendita dei farmaci
con obbligo di ricetta negli esercizi commerciali". Non dello stesso
parere Michele De Tavonatti, presidente di Farmacom Brescia (associazione delle
farmacie comunali). "La Legge Bersani - secondo il suo punto di vista -
non ha raggiunto l'obiettivo prefissato di favorire il cittadino. Le zone che
erano scoperte come ad esempio autogrill e paesini della Valtrompia, non sono
state raggiunte da corner e parafarmacie. Tanto valeva dar più incentivi
alle farmacie comunali che con sè portano un business sociale ed economico"
"È stato molto più decisivo il fatto che sono scaduti i
diritti di brevetto di alcuni farmaci - ha sottolineato Vittorino Losio,
presidente della Cooperativa esercenti farmacia - la legge ci deve permettere
di poter svolgere il nostro lavoro di imprenditore sociale" "Spesso,
parlando di farmaci generici (o equivalenti), si possono compiere degli errori
- fa notare Luigi Cavalieri di Federfarma Brescia - sono piuttosto frequenti
affermazioni del tipo "costano meno valgono meno", oppure "fanno
male perchè sono prodotti male", o ancora "le scatolette sono
tutte uguali e quindi ci si confonde". "Per sfatare queste erronee
convinzioni, sempre secondo l'associazione a tutela dei consumatori, diviene
determinante la figura del farmacista. che non è più solo un
esecutore della ricetta medica". Ne dà conferma il Codacons,
secondo il quale sono settantatrè su cento gli italiani che sanno
spiegare correttamente che cos'è un farmaco generico.Al farmacista
spetterebbe, quindi, il compito di informare il cittadino della eventuale
differenza di prezzo tra il generico e la specialità di marca, di
guidarlo nella scelta del farmaco equivalente rassicurandolo circa una corretta
alternativa e di aiutarlo ad attivare sistemi per l'identificazione di
confezioni simili, magari scrivendo sulla scatola del farmaco a che cosa serve
quel medicinale o il nome della specialità che costituisce. Quanto ai
consumi i paesi con basso livello dei prezzi e bassa penetrazione sono quelli
che offrono la più grande possibilità di aumentare i volumi di
vendita. Di questi l'Italia pare essere una delle realtà più
dinamiche grazie alla dimensione complessiva del suo mercato.
Il funambolico procedere della riforma Mastella è senza
rete di protezione, come ricordavano qualche giorno fa Brutti e Finocchiaro ai
senatori ribelli della maggioranza (se il funambolo cade dalla corda, si va
tutti al Traumatologico, cioè a votare). Naturalmente, ci sono i ribelli
ragionevoli, e cioè gli ex magistrati “toghe rosse” Di Lello, Casson e
D’Ambrosio; e ci sono i ribelli irragionevoli, gli ex margheriti Manzione,
Barbi e Bordon. I primi sono stati scomunicati dalla loro ex corporazione,
l’Anm, catafratta contro ogni innovazione allo status dei magistrati, che la
legge Mastella introduce pur nel quadro di una sostanziale riforma della
riforma Castelli, ispirata ai Fioretti del Poverello di Arcore e incombente
già dal prossimo 31 luglio: quando entrerà in vigore, se il
riformista Mastella dovesse cadere dalla fune.
A differenza dell’Anm, i tre ex magistrati condividono due principi che,
secondo l’Associazione, peggiorano la legge Mastella: che il magistrato cambi
regione, se passa dalla carriera requirente a quella giudicante o viceversa, e
che gli avvocati siano ammessi nei consigli giudiziari, anche quando giudicano
l’attività dei magistrati e ne determinano la carriera. Opinioni, come
tutte le opinioni, discutibili, ma spiegate da D’Ambrosio con spirito
istituzionale: «Noi sediamo in parlamento non per fare gli interessi di una
corporazione, ma di tutti i cittadini». Dunque se i tre hanno piegato la testa
– come hanno chiesto Finocchiaro e Brutti –, è solo per impedire la
caduta del governo.
Nessun piegamento di testa invece, fino a ieri mattina, da parte degli ex
margheriti, soprattutto Manzione, avvocato della Magna Grecia e perciò
facondo portavoce del partito degli avvocati: la corporazione (altro che
tassisti) di cui i giovani legali denunciavano martedì scorso su Europa
l’egoismo professionale e che ha fatto 40 giorni di sciopero in un anno, e
altri ne farà per la gioia di chi aspetta una sentenza.
Manzione è autore dell’emendamento che immette gli avvocati nei consigli
giudiziari: una cosuccia gradita al partito di Berlusconi e alle Camere Penali,
visto che non riescono ad annientare l’unità della magistratura
attraverso la separazione delle carriere. (Neanche la riforma Castelli la
comporta, perché occorre cambiare la Costituzione, la quale dice: «I magistrati
si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni», articolo 107.
Diversità di funzioni, non separazione di carriere). Così, non
potendoli frantumare in due ordini e magari in due Csm, che ne dimezzerebbero
l’indipendenza, aggirano il problema col cavallo di Troia: appunto gli avvocati
nei consigli giudiziari, affinché diventino giudici dei giudici. Tant’è
che anche i magistrati, o almeno la lobby dell’Anm, proclamano a loro volta uno
sciopero, beccandosi un’altra bacchettata dall’ex collega D’Ambrosio: «Io non
l’avrei proclamato. I magistrati sono un potere dello Stato, non possono
incrociare le braccia contro un altro potere dello Stato proprio mentre sta
deliberando». Meno male, credevamo di essere rimasti gli ultimi a pensarla
così nel paradiso dell’anarchia.
Ma nella gara delle lobby ieri ha vinto quella degli avvocati. In mattinata,
Manzione ha imposto il primo bagno a Mastella e al governo, facendo approvare
(coi voti della Casa delle libertà più i tre ex margheriti) un
sub-emendamento che dice: il magistrato che da requirente diventa giudicante e passa
dal penale al civile o viceversa, dev’essere trasferito non solo dal
circondario del tribunale ma dalla provincia. E che sarà mai, direte.
Nulla, specie per chi, pubblico dipendente o votato a professioni col ballo di
san Vito (metti i giornalisti), ha conosciuto ben altri trasferimenti: con
famiglia e senza.
Ma questo “nulla” è come il ramoscello che intralcia il torrente, tanto
che lo fa deviare, lo costringe a impantanarsi e a vaporizzare la sua stessa
fisicità.
E sempre allo scopo di squalificare i magistrati nell’opinione pubblica,
coltivata dal berlusconismo, di conseguire una parità fra accusa e
difesa non nel processo, dov’è sacrosanta, ma nell’idea stessa di
giustizia penale: dove la difesa garantisce il cittadino- imputato, mentre
l’accusa incarna la pubblica accusa, cioè la pretesa dello stato, e
quindi di tutti, di ripristinare la legalità.
Che ciò non piaccia al partito degli inquisiti, e a una parte del
partito degli avvocati, è umano e lo comprendiamo. Ma che ciò
stia scritto a chiare lettere nel programma del centrosinistra e vada
sostenuto, è noto anche agli avvocati della Magna Grecia e della Padania
sardanapalesca eletti nell’Unione.
STRUMENTI
Il tempo sta
scadendo, nella raccolta delle firme per il referendum sulla legge elettorale
(il 24 luglio è l’ultimo giorno utile). Ma il tempo è ormai
irrevocabilmente scaduto per una soluzione parlamentare che possa rendere vano
l’iter referendario. Nei mesi scorsi chi ha auspicato che il Parlamento
trovasse una concordia bipartisan, con la stesura di un testo necessariamente
condiviso per lo meno dai maggiori partiti dei due schieramenti, ha sperato
anche che quel traguardo potesse essere raggiunto in tempi certi e ragionevoli.
Invece il traguardo si è allontanato ancora di più. Nessun testo
preparatorio appare credibile come base di discussione utile per approdare a
una soluzione. Ognuno gioca per sé. E anche il tema della riforma elettorale si
appresta ad entrare nell’elenco oramai sterminato delle occasioni mancate,
ennesima vittima di quel morbo della non-decisione tratto caratteristico di
quest’ultima stagione politica.
Per proporre una
soluzione allo schieramento avversario occorre il requisito di un minimo di
univocità nel proprio: non del massimo, di un minimo. Ma nella
maggioranza si assiste piuttosto all’esplosione dei linguaggi e delle
identità particolari. Come dimostra la sconfitta subita ieri in Senato
(posticipata di un giorno solo grazie al provvidenziale sostegno di Giulio
Andreotti), la navigazione della maggioranza si è fatta sempre
più accidentata, preda di una spirale di discordia che oscilla tra il
cupio dissolvi e la rassegnata registrazione dell’esaurirsi di un’alleanza.
Appare oramai remota la preoccupazione del premier Romano Prodi quando ebbe a
lamentarsi dell’invadenza della pulsione referendaria: «una pistola puntata»
destinata a minare la compattezza della maggioranza. E Silvio Berlusconi che
parla spazientito del referendum come di un’iniziativa «impropria », mostra di
affidare ogni speranza al ricorso immediato alle urne, abbracciando senza
remore una visione totalizzante delle elezioni anticipate che non prevede
modifiche alla legge elettorale. La percezione diffusa di un collasso
dell’attuale formula di governo rischia sempre più di configurarsi come
una profezia che si autoavvera. Quale forza persuasiva può avere,
nonostante le ottimistiche previsioni su misteriose «bozze segrete » che
sarebbero alla base di un accordo «vicino », l’idea di una riforma condivisa
del sistema elettorale se ogni voto al Senato su ogni singolo emendamento viene
atteso come la pietra tombale su questo governo?
Tempo scaduto,
dunque. Ma non è scaduta, se entro il 24 luglio verranno raccolte tutte
le firme necessarie, la possibilità che l’impasse della non-decisione
possa essere sfidata da un referendum in cui è posto l’obiettivo di
rafforzare la democrazia dell’alternanza e la diminuzione del potere di ricatto
dei piccoli partiti. Come ha scritto Giovanni Sartori già nel gennaio
scorso in un articolo che ha interpretato autorevolmente l’impegno di questo
giornale sui temi sollevati dai referendari, a consigliare l’adesione non
è tanto l’assetto elettorale (ovviamente discutibile) che scaturirebbe
dall’esito della consultazione ma la convinzione che qualunque soluzione
alternativa possa assomigliare a un pasticcio desolante. Perciò gli
ultimi, decisivi giorni della raccolta di firme saranno seguiti dal Corriere
mettendo a disposizione dei referendari una tribuna quotidiana per spiegare i
termini di una battaglia ancora in corso. Sperando che basti una firma per
arginare la deriva della non-decisione.
13 luglio 2007
ROMA Prima di tutto si deve riconoscere che è una persona
onesta, una di quelle - insomma - dalla quale compreresti la famosa auto usata
perché è onesto il suo modo di ragionare, visto che ti accoglie
avvisandoti che «guardi non è mica che noi siamo dei pionieri, non ci
stiamo mica avventurando coraggiosamente alla scoperta di terre sconosciute: noi
siamo, a voler dire la verità, piuttosto i gestori di un ritardo, perché
l’Ulivo è nato più di dieci anni fa e stiamo ancora qui a
discutere di come farne un partito». Ed è onesta anche la trasparenza
con la quale Rosy Bindi parla del suo dissenso rispetto ad alcuni dei primi
movimenti del nascente Pd. Non le piace l’idea che le liste per l’elezione
della Costituente debbano essere necessariamente collegate alla candidatura del
segretario (e ieri è tornata a proporre, senza fortuna, al «Comitato dei
45» la doppia scheda e il voto disgiunto); non le piace la possibile rotta di
collisione - che già molti intravedono - tra il nuovo partito (e il suo
leader) e il governo di Romano Prodi; e non le piacciono, soprattutto, le
motivazioni ex post utilizzate per coprire esigenze e giochini di Ds e
Margherita, «che naturalmente capisco, perché non è che abbia cominciato
a far politica ieri, ma allora se ne parli con schiettezza, insomma si passi a
metodi nuovi e si cominci con lo spiegare, per esempio, quando, perché e in quale
sede è stato deciso che in ticket con Veltroni ci sia Dario
Franceschini, che è mio amico e che stimo: ma mi chiedo perché serva un
ticket oggi, visto che l’avevamo abbandonato già nel 2001 con la
candidatura di Rutelli e poi di nuovo l’anno scorso, con quella di Prodi».
Non vorremmo che da tutto questo si traesse un’impressione sbagliata dello
stato d’animo di Rosy Bindi, che continua a ragionare (ma il più
è deciso) alla sua candidatura per le primarie del 14 ottobre: è
una entusiasta del Partito democratico, considera «l’elezione diretta del
segretario una delle più importanti innovazioni politiche degli ultimi
anni», ammira Veltroni «che è il leader giusto per fare ciò di
cui questo Paese ha bisogno: unirlo con serenità». Ma non ci sta - per
carattere e formazione - a farsi menare per il naso. Ed essendo nota come
«Sorella coraggio», ed avendo cominciato a rompere le scatole a chi predica
bene e razzola male già un bel po’ d’anni fa, nella sua Dc, quando
segretario era un certo De Mita (e la Dc, certo, non quella di Piccoli o
Forlani), insomma, essendo tutto questo, figurarsi quanto può tremare di
fronte all’idea di dissentire da Rutelli e Fassino: o di fronte alla malizia
che la sua candidatura possa essere fatta passare come quella di una «pasionaria»
(altro suo soprannome) che parte, sventatamente, lancia in resta contro il
quartier generale e il leader designato.
«Non è questo il senso, ovviamente. E del resto non mi pare che sia
avvertita così - spiega accoccolata su un divano del suo ministero (un
appartamento a un quarto piano, moderno, lindo, chiaro, che sembra d’essere
sbarcati in Svezia) -. Ancora più contenta mi rende il fatto che la mia
candidatura non sia intesa come quella “della donna” oppure come la candidatura
“cattolica” di cui il Partito democratico avrebbe bisogno: per quello,
cioè per la corrente cattolica del Pd, c’è Fioroni che lavora, e
basta e avanza... Vede, uno studio condotto tra i potenziali elettori alle
primarie rileva che la caratteristica che mi distinguerebbe sarebbe il mio impegno
nel sociale, per le questioni che riguardano - insomma - direttamente la vita
della gente: bene, è un giudizio nel quale mi riconosco in pieno». E
proprio «la gente» - o meglio: il rapporto tra il nascente Pd e la gente -
è il suo rovello di queste ore. In fondo, dietro la sua candidatura
sembra esserci fondamentalmente questo: offrire un’altra opportunità,
una possibilità di scelta a chi il 14 ottobre andrà a iscriversi
al Pd ma non vorrebbe votare Veltroni. «Io ho chiesto solo regole che non
scoraggiassero altre candidature e quindi più partecipazione da parte
della gente. Gliel’ho detto all’inizio: capisco tutto e c’è poco da fare
i finti ingenui - spiega- . Ds e Margherita hanno equilibri e organigrammi da
far quadrare a Roma e rappresentanze locali da garantire. Però
c’è modo e modo. E questo sistema delle liste nazionali legate
necessariamente a un candidato segretario - e viceversa, naturalmente - non mi
convince. Io sono per la doppia scheda: perché potrebbe essere, per esempio, che
voglio votare per Veltroni segretario ma non anche, per dire, per Bettini.
Inoltre, questo sistema di più liste collegate allo stesso candidato
leader, garantisce certo a Ds e Margherita la possibilità di eleggere
nell’Assemblea costituente tutti i dirigenti regionali e nazionali che devono
sistemare, ma scoraggia altre candidature e ostacola la partecipazione di
gruppi ed esperienze». Ieri, «Sorella coraggio» ha riproposto queste obiezioni
al Comitato dei 45: respinta con perdite, si direbbe in gergo militare.
«Peccato - dice Rosy Bindi -. Ma sa che le dico? Che più ostative
saranno le regole, più ho voglia di candidarmi. E se sarà
così, farò una campagna per segnalare il pericolo maggiore che
aleggia sopra di noi: che il Partito democratico nasca - come qualcuno forse
vorrebbe - contro il governo, e che Veltroni finisca per diventare il nemico
numero uno di Prodi». Questo dirà nella sua «campagna» per le primarie.
Questo e altro, chiaro. Per esempio, l’ennesima fine di un’illusione.
Raccontano i suoi collaboratori che Rosy Bindi avesse assai apprezzato - e ci
avesse creduto - la prima pagina con la quale La Stampa salutò con
grandi foto, il 22 aprile, il giganteggiare sulla scena di tre donne:
Ségolène Royal, Anna Finocchiaro e Rosy Bindi. Grande titolo:
«Democratici, l’ora delle donne». Non era vero. «Promesse, auspici. In fondo
è di questo che abbiamo dovuto accontentarci. Ma che vuole, magari
sarà vera l’ultima, quella di Giuliano Amato: il prossimo capo della
Polizia sarà donna...». Lo dice sorridendo, Rosy la candidata. Come chi,
insomma, alle belle favole è tempo che non crede più.
MF Prosegue il tiro al piccione sulle banche. Dopo gli interventi
del garante della concorrenza, Antonio Catricalà, e del governatore di
Bankitalia, Mario Draghi, ieri è stata la volta di Pier Luigi Bersani.
Il ministro dello sviluppo economico intervenendo a margine dell'assemblea di
Union camere ha spiegato senza fronzoli che le banche dovranno darsi una regolata
per favorire concorrenza e trasparenza nei confronti dei consumatori. In caso
contrario sarà lo stesso esecutivo a provvedere con una serie di nuove
norme per rimediare. Prospettando così una nuova cosiddetta lenzuolata.
"Se ancora non ci fossero meccanismi", ha puntualizzato Bersani,
"che rendano trasparente la concorrenza non escludo che si possa ancora
intervenire". Del resto, il ministro, ricollegandosi alle parole
pronunciate da Draghi in occasione della relazione annuale dell'Abi di
due giorni fa, ha sottolineato, "è stata una bella giornata. Banca
d'Italia ha cominciato a parlare chiaro anche su alcuni istituti come il
massimo scoperto. Istituti su cui siamo intervenuti con norme non per
intervenire sui prezzi ma sul concetto per cui il cittadino deve pagare quel
che consuma". Musica per le orecchie delle associazioni dei consumatori a
poche ore dall'intervento di Bankitalia contro il caro tassi di prodotti come
mutui e credito al consumo. L'affondo di Bersani arriva anche all'indomani delle
critiche dell'Antitrust che ha tra l'altro appena chiuso la procedura sulla
vicenda ius variandi (le modifiche unilaterali delle condizioni nei contratti
sui conti correnti). Vicenda conclusa senza sanzioni del garante ma che ha
costretto l'Abi a fare un passo indietro ritirando la circolare.Sul
fronte Bankitalia, intanto, ieri sono state emanate le disposizioni di
vigilanza per le banche in materia di conformità alle norme. In pratica
sono stati definiti ruolo e responsabilità degli organi di vertice degli
istituti, prevedendo la costituzione della funzione di compliance. L'obiettivo
è rafforzare il sistema dei controlli interni alle banche. Come indicato
in una nota di Via Nazionale la nuova funzione è preposta al presidio e
alla gestione del rischio di sanzioni giudiziarie o amministrative, perdite
finanziarie rilevanti o danni di reputazione in conseguenza di violazioni di
norme imperative o di autoregolamentazione. (riproduzione riservata) MF - Denaro & Politica Numero 139, pag. 4
del 13/7/2007 Autore: Alessandro Pianetti.
Infatti l'artista astigiano, oltre ad aver sfornato
indimenticabili canzoni che hanno lasciato il segno nel nostro paese, è
stato ed è tuttora un valente pittore tanto è che recentemente
gli è stata conferita la laurea honoris causa in pittura dall'Accademia
di Belle Arti di Catanzaro. Vale sicuramente la pena fare una scappata nella
città piemontese per assistere a una della manifestazioni più
suggestive e ricche in fatto di scenografie e costumi che vede ogni anno
ripetersi un'esaltante corsa di 21 cavalli montati a pelo, rappresentanti di
altrettanti borghi, rioni e comuni. Non è solo la tradizione che muove
la città, ma è la passione dei borghigiani che alimenta una festa
lunga un anno. Partecipare al palio può rappresentare l'occasione per un
breve soggiorno che unisce cultura, gastronomia e folklore durante un lungo
weekend. Infatti diversi sono gli eventi collaterali al Palio che iniziano
già il giovedì precedente la corsa, in cui si svolge il Palio
degli Sbandieratori che accende di suoni e di colori la piazza San Secondo: una
parata dedicata alla nobile arte della bandiera messa in scena dai gruppi
rionali di sbandieratori. Il venerdì, sempre in piazza San Secondo, apre
i battenti il variopinto mercatino del Palio in cui ogni comitato offre curiosi
e originali oggetti rigorosamente confezionati con i colori di ogni borgo,
rione e comune partecipante al Palio e infine, il sabato, le grandi prove
generali che vedono un'entusiasmante giornata dedicata alle prove dei fantini
titolari sul campo: opportunità da non perdere per chi voglia davvero
calarsi nell'atmosfera particolare di quest'evento. Mentre la sera del
venerdì e del sabato si svolgono le cene propiziatrici all'aperto nelle
vie e nelle piazze tra canti, balli, gastronomia. La giornata del Palio inizia
con cerimonia della benedizione del cavallo e del fantino nelle varie chiese
cittadine, a cui fa seguito un'esibizione degli sbandieratori in piazza San
Secondo. Alle 14, 15 parte il corteo storico con la partecipazione di 1. 200
figuranti in costume medievale che attraversano il centro storico da piazza
Cattedrale a piazza Alfieri. Una suggestiva e imponente rievocazione storica,
che dà vita a uno spettacolo davvero unico, che vede riproporre quadri
viventi che rappresentano fatti realmente accaduti della storia astese: si
vedranno quindi sfilare nobili e popolani, armigeri e alto clero, dame e
cavalieri che per un giorno torneranno ad abitare la città riportandoci
a vivere nel Medioevo. Quest'anni i figuranti rievocheranno il periodo della
illuminata dominazione orleanese sulla Città di Asti. Infine alle ore 16
parte l'avvicente corsa con cavalli montati a pelo (senza sella) con tre
batterie da 7 cavalli e una finale con nove per aggiudicarsi il 'Drappo',
quest'anno opera, lo ricordiamo, di Paolo Conte. I biglietti per assistere al
Palio si possono acquistare all'Automobile Club di Asti (tel 0141/593534,
acasti@integra. Aci. It). Per informazioni: tel 0141/399482-486;
manifestazioni@comune. Asti. It NON SOLO PALIO ? Ma Asti non è solo
Palio: il visitatore attento potrà scoprire musei e monumenti, botteghe
di antiquari e mercatini, torri merlate e ombrosi cortili; percorrendo da est a
ovest Corso Alfieri, la antica Via Maestra, noterà un palazzo imponente
ed elegante nelle sue forme barocche: è la dimora dei conti Alfieri,
dalla cui stirpe nacque Vittorio (Asti 1749 - Firenze 1803), insigne trageda e
spirito libero, famoso per le sue opere, ma anche per la grande passione che
nutriva per i cavalli. Asti, capitale del vino, è nota anche per la sua
prelibata gastronomia. Dal profumato tartufo bianco agli agnolotti accompagnati
dalla barbera; dal ricco bollito esaltato dai 'bagnetti' alla 'bagna caôda',
portentosa salsa di acciughe aglio e olio nella quale intingere le verdure del
Tanaro; dal 'bönet', sorta di budino al cioccolato, ai fragranti amaretti
annegati in un profumato calice di Asti Spumante e a tutte quelle ricette
tipiche di una città in cui il buon mangiare e il buon bere sono un
tutt¹uno con la sua ricca storia secolare.
+
+ Il Sole 24 Ore 12-7-2007 I sogni
immobiliari dei nuovi poveri di Fabrizio Ghibellini
+
+ AgenParl 12-7-2007 GIUSTIZIA: Donadi
(Idv), ‘Comma Brutti’ tutela indipendenza Magistratura
L’Unità
12-7-2007 Finché Unione non vi separi Marco Travaglio
Europa
12-7-2007 Americani delusi. Non solo da Bush
MARIO DEL PERO
Il
Riformista 12-7-2007 Sarkozy gioca ai dieci piccoli socialisti di Alberto
Toscano
Approvato un subemendamento alla riforma
del ministro, che ha fatto sapere di non poter tollerare il ripetersi di questa
situazione
ROMA - Il governo scivola in
Senato sulla riforma della giustizia: con 157 sì e 154 no l'aula di
Palazzo Madama ha approvato infatti un sub-emendamento del senatore ulivista
Roberto Manzione sul quale era d'accordo il centrodestra, ma con il parere
contrario dell'esecutivo. «Non mi pare ci sia l'apocalisse, però
c'è una questione di metodo», ha detto il ministro della Giustizia,
Clemente Mastella, intervenuto dopo il voto. «Mi sembrava raggiunto un accordo,
ma nell'Unione c'è chi si muove a proprio piacere. Il governo di qui in
avanti, di fronte a proposte che vengono dal centrosinistra, esprimerà
non un parere collaterale o contiguo a quello del relatore, ma si
rimetterà all'aula. Certo, se ci fosse uno stravolgimento del testo ne
prenderei atto, ma visto che non siamo a questo il problema non si pone».
MASTELLA MINACCIA DI LASCIARE - «Se venerdì passerà un altro emendamento di Manzione,
sulla presenza come membri di diritto dei presidenti degli ordini regionali
degli avvocati nei consigli giudiziari al ministro della Giustizia, Clemente
Mastella non esiterebbe un istante a prendere atto di questa difficoltà
e a rassegnare le dimissioni». Lo ha detto il presidente dei senatori
dell’Udeur Nuccio Cusumano, al termine dell’ufficio politico dell’Udeur.
Mastella ha poi fatto la battuta, riferita al voto decisivo del senatore
Andreotti di martedì, che «San Giulio si festeggia una volta sola».
CRITICHE DI FASSINO - «E' spiacevole - ha detto il segretario dei Ds Fassino - che ci
siano alcuni parlamentari del centrosinistra che per far passare un emendamento
che non ha nessun rilievo hanno prodotto una fibrillazione politica. Credo che
dobbiamo lavorare tutti per avere più senso di responsabilità».
TESTO - Il sub-emendamento al «comma Butti» inasprisce le regole per il
passaggio di funzioni dei magistrati. Il testo approvato prevede che per
cambiare funzioni (da inquirenti a giudicanti) per i magistrati che cambiano
anche settore (da penale a civile e viceversa), sarà necessario cambiare
non solo circondario, ma anche provincia. Questo perché in alcuni casi (come
Roma e Palermo) circondari e provincia non coincidono. Era dunque possibile, in
alcuni casi, cambiare funzioni senza cambiare provincia. Con l'emendamento
Manzione, questo non è possibile. Il presidente della commissione
Giustizia, Cesare Salvi, ha definito il sub-emendamento Manzione
«ragionevolissimo» ma «di ridotta importanza».
«MODIFICA IN LINEA CON INTESA POLITICA» - «Il sub emendamento è in linea con
quanto la maggioranza ha fatto in commissione» si è difeso il senatore
Roberto Manzione a proposito della proposta di modifica sul passaggio di
funzione dei magistrati passato in Aula con i voti dell'opposizione. «È
stato votato dall'opposizione - ha aggiunto - per il fatto che la maggioranza a
volte ha paura ad agire nel merito. Ma, nel merito, quella modifica è
perfettamente in linea con l'accordo politico preso».
IDV: NOI LIBERI FINO AL VOTO FINALE - Intanto però, per bocca del
capogruppo, Nello Formisano, l'Italia dei valori annuncia che dopo il voto di
giovedì mattina il partito guidato da Di Pietro potrebbe considerarsi
con le mani libere da ogni vincolo di coalizione per quel che riguarda
l'ordinamento giudiziario. «Quello che è successo in aula è
gravissimo e rischia di mettere in discussione la portata generale dell'accordo
che faticosamente avevamo raggiunto», spiega Formisano, che poi aggiunge: «Noi
valuteremo se non sia il caso, con le forze che condividono i nostri valori, di
avere la stessa libertà che si sta affermando in questa aula, fino al
voto finale». Immediata la replica della capogruppo dell'Ulivo al Senato Anna
Finocchiaro. «Il presidente Formisano - ha detto - mi pare abbia voluto
trasformare le mie valutazioni politiche di elogio del Parlamento e della sua
autonomia in un salvacondotto per sè e per i senatori che lo seguiranno
nel contrastare un provvedimento del governo. Se ne assuma la
responsabilità».
ENTRO SABATO IL VOTO AL SENATO - Prima del voto di giovedì mattina la
conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama aveva fatto sapere che il voto del
Senato sul disegno di legge di riforma dell'ordinamento giudiziario sarebbe
arrivato entro le 12.30 di sabato. La conferenza aveva stabilito anche di non
ricorrere al contingentamento dei tempi nella discussione.
12 luglio 2007
N egli ultimi mesi sono emersi via via
più chiaramente segnali di rallentamento del mercato immobiliare. Per il
momento si osserva una dinamica piatta e si sono ulteriormente allungati i
tempi di compravendita. Si tratta di fenomeni tipici di una fase - quella nella
quale l'offerta riesce solo con crescente difficoltà a incrociare la
domanda - che di solito precede immediatamente la riduzione dei prezzi
(è di questi giorni la notizia che la Federazione agenti immobiliari
prevede per la seconda parte dell'anno una riduzione dei prezzi di circa il 10%
in città come Roma). Di solito l'espansione immobiliare precede e/ o
accompagna la crescita dell'economia nel suo complesso. Potrebbe quindi
sembrare paradossale il fatto che nel caso italiano la frenata del settore
arrivi proprio nel momento in cui, dopo gli "anni orribili" che vanno
dal 2002 al 2005, il tasso di crescita è tornato ad essere
(moderatamente) positivo. La spiegazione di questo apparente paradosso sta in
parte in un fenomeno non solo italiano, ma particolarmente evidente in Italia
nella prima metà di questo decennio: la redistribuzione di ricchezza da
lavoro dipendente a lavoro autonomo. Come evidenziato da molti, l'ingresso
nell'Unione monetaria ha infatti drasticamente ridotto le possibilità di
sopravvivenza di un "modello" di politica economica tipicamente
italiano, per il quale la competitività industriale era per molte
imprese assicurata non da una compressione dei costi, ma piuttosto dal connubio
perverso di evasione fiscale e svalutazioni del cambio. Dopo l'11 settembre
è venuta inoltre meno gran parte della forza della domanda
internazionale. Come sanno sin troppo bene i consumatori, la risposta a queste
difficoltà da parte di molti produttori di beni e servizi (specialmente
nei settori meno esposti alla concorrenza internazionale) si è
concretizzata in un vistoso aumento dei prezzi ( mille lire = un euro). Si
è trattato ovviamente di una soluzione insostenibile nel medio-lungo
termine. Per qualche anno essa ha tuttavia comportato una rilevante
redistribuzione della ricchezza da un settore all'altro della società.
La media borghesia è stata retrocessa a piccola, e sotto di essa si
è creata la categoria sociale dei "nuovi poveri", le famiglie
che con un reddito fisso inferiore ai 20-30mila euro annuali in precedenza
vivevano senza troppi problemi. E in un contesto di bassi tassi d'interesse i
"nuovi ricchi" hanno ovviamente utilizzato parte del maggiore reddito
disponibile nell'investimento più tradizionale: quello del mattone. A
Londra la bolla è stata creata dalle fortune di arabi e russi, in Italia
hanno contribuito commercianti e liberi professionisti. Nello stesso momento,
il precedente Governo ha lanciato gigantesche operazioni (Scip 1 e 2) di
cartolarizzazione immobiliare. Per quanto riguarda l'effetto sulle casse
pubbliche, il tempismo è stato quindi perfetto, dato che si è
venduto praticamente ai massimi di mercato. Dal punto di vista sociale,
l'impatto è invece eterogeneo. Gli inquilini più abbienti hanno
infatti potuto realizzare ottimi affari. Data la sostanziale inesistenza in
Italia di un vero mercato delle locazioni, per quelli a più basso
reddito la scelta di acquistare è stata invece quasi obbligata. è
vero che il prolungamento della locazione era garantito a fasce tutelate, ma la
definizione di tali fasce era talmente restrittiva da non includere, ad
esempio, una famiglia di impiegati. è anche vero che si poteva
acquistare con un significativo sconto. Ma lo sconto percentuale vuol dire poco
quando il livello assoluto del reddito è modesto: sarebbe come proporre
a chi può permettersi di mangiare solo patate di consumare invece
caviale a metà prezzo. Decine di migliaia di famiglie già colpite
dall'effetto "mille lire = un euro", che però, a causa della
gestione "politica" degli immobili pubblici, almeno pagavano affitti
bassi, hanno quindi ricevuto il colpo di grazia rappresentato dall'accollo di
un mutuo a lungo termine da 1.000-1.500 euro mensili. Va detto che, anche se al
prezzo di un crollo del proprio reddito disponibile, per il popolo di Scip
è stato comunque possibile acquistare la casa indebitandosi a tassi
storicamente bassi. Le prospettive globali di chi volesse contrarre un mutuo
casa oggi sono invece complessivamente peggiori. Rispetto a due anni fa, i
tassi medi sono infatti aumentati di circa 150 punti base. In media, anche con
prezzi degli immobili più bassi del 10%, chi contrae un mutuo incorre
quindi in oneri finanziari annui addizionali pari a circa l'1% del capitale
(3-4mila euro su 300-400mila euro mutuati). Per annullare questi oneri
addizionali i prezzi delle case dovrebbero scendere non del 10, ma del 30 per
cento. Può anche darsi che succeda, ma occorre chiedersi cosa fare nel
frattempo. Quando si parla di rilanciare l'edilizia pubblica, di puntare su
fondi di social housing ad affitto "sostenibile" ci si riferisce
infatti a iniziative giuste e ineludibili ma che possono dare i loro frutti
solo fra diversi anni. Nell'immediato, il soggetto pubblico deve comunque
intervenire. Dato lo stato delle finanze pubbliche, può farlo solo
rendendo più equo/efficiente il contesto normativo (ottima l'abolizione
della penale per l'estinzione anticipata dei mutui) e/o "facendo
leva": utilizzando strumenti a più basso assorbimento di capitale
(cofinanziamenti, garanzie ecc.) che tuttavia facilitino l'accesso alla
proprietà e all'affitto. Tra le altrecose, va ad esempio approfondita
l'ipotesi di concedere contributi ai " nuovi poveri" inquilini che
decidano di costituire polizze/piani di accumulo per creare depositi cauzionali
a favore del locatore. Quello che è certo è che occorre trovare
le forme per un intervento in tempi rapidi. Negli ultimi mesi, il Governo ha
organizzato una serie di "tavoli" assembleari sulla casa con la
partecipazione di sindacati, banche, esperti, associazioni dei consumatori,
degli inquilini e dei proprietari. Terminata la riflessione, è forse il
momento di alzarsi da quei tavoli e passare all'azione. UN INTERVENTO URGENTE
Al di là dell'housing sociale, il Governo è chiamato a dare risposte
rapide alle difficoltà per le famiglie con un reddito inferiore ai
20-30mila euro.
Sono le
conclusioni del pm di Milano Luigi Orsi nella memoria depositata martedì
all'udienza sull'utilizzo delle intercettazioni tra alcuni politici e indagati
nell'inchiesta sulla scalata di Unipol a Bnl. Il pm, nel chiedere al gip
Clementina Forleo, che deciderà il 20 luglio, l'autorizzazione a
utilizzare le trascrizioni dei colloqui intercettati, sottolinea che
"è del tutto evidente che tali conversazioni telefoniche
costituiscono esclusiva fonte di prova rispetto a due episodi di insider
trading nonché decisivo elemento di riscontro dell'ipotesi di reato di
aggiotaggio". Nella memoria è scritto che "le comunicazioni
telefoniche intercettate cadono temporalmente proprio nel corso del periodo in
cui il reato di aggiotaggio ipotizzato si sta consumando (giugno-luglio
2005)". "Nel corso della conversazione n. 705 del 14 luglio 2005,
intervenuta con l'on. D'Alema, Consorte informa l'interlocutore che il
lunedì successivo (il 18 luglio) Unipol lancerà l'opa",
scrive il pm. "Questa comunicazione riguarda una notizia riservata
(informazione privilegiata) che Consorte porta a conoscenza di una persona
estranea al novero di quelle legittimate a conoscerne riservatamente",
consumando un fatto di insider trading. Per il pm "la conversazione
telefonica è l'unica fonte di prova di questo fatto di reato". E
ancora: "Nel corso della conversazione n. 1064 del 17 luglio con l'on. Fassino,
Consorte reitera la propagazione di informazioni privilegiate, scandendo i nomi
dei soci che lo affiancheranno l'indomani nel lancio dell'opa". Consorte
ha contestato questa ricostruzione: "Per quanto ci riguarda le telefonate
intercorse con i politici sono state tutte di carattere informativo e non
intromissivo nell'operazione Bnl. Tutte le operazioni relative all'opa
obbligatoria di Unipol sono state condotte nella piena legalità, nella
trasparenza e nel rispetto delle leggi e delle normative e deliberate dal cda",
così come "tutti i comunicati stampa sono stati preventivamente
concordati con la Consob". Consorte ha anche ricordato che attende le
conclusioni dell'inchiesta nata dall'esposto presentato da Unipol a Bologna nel
dicembre 2005 "sulle azioni di ostruzionismo e sui possibili reati
commessi da coloro che hanno impedito di portare a termine l'opa, consegnando
di fatto Bnl a una banca estera". L'ipotesi accusatoria sostiene che
Unipol e gli alleati avessero rastrellato in maniera occulta le azioni Bnl
portandosi al di sopra del 50% ben prima dell'annuncio dell'opa il 18 luglio
2005. Unipol avrebbe cominciato dopo l'assemblea Bnl del 21 maggio assieme
"ad alcuni suoi sodali Bpi, Bper, Popolare Vicenza" a rastrellare
azioni da alcuni hedge fund "il più attivo dei quali (Leonardo
Capital fund) arriva a negoziare da solo circa il 10% di Bnl". Una
condotta che ha vanificato l'offerta del Bbva, provocando aggiotaggio
informativo e manipolativo. In questo filone sono indagati per ora Consorte,
Ivano Sacchetti e Carlo Cimbri e gli ex vertici di Bpi Gianpiero Fiorani e
Gianfranco Boni.
MILANO Le
telefonate del luglio 2005 tra i vertici dei Ds e l'allora presidente di
Unipol, Giovanni Consorte, "costituiscono esclusiva fonte di prova rispetto
a due episodi di insider trading, nonché decisivo elemento di riscontro
dell'ipotesi di reato di aggiotaggio" a carico di Consorte e di quanti lo
sostennero nella tentata Opa a Bnl. La memoria trasmessa dal sostituto
procuratore di Milano Luigi Orsi al giudice per le indagini preliminari
Clementina Forleo ricostruisce le tappe del fallito takeover, e mette a nudo
l'insufficienza patrimoniale dell'Unipol in quell'estate 2005: non potendo
farsi carico dell'onere finanziario dell'Opa, la compagnia bologne-se aveva
dovuto ricorrere al "supporto di economie terze". Quella di Unipol su
Bnl fu una "scalata occulta", scrive il pm. Consorte, Ivano Sacchetti
e Carlo Cimbri (che guidavano il gruppo assicurativo di Legacoop) affiancati da
Gianpiero Fiorani e Gianfranco Boni, di Banca Popolare Italiana (Bpi),
"compivano atti concretamente idonei a provocare una sensibile
alterazione"delle quotazioni di Borsa di Unipol "mentre negavano
reiteratamente e specificamente al mercato di condurre la scalata ":schema
simile a quello seguito da Fiorani, qualche mese prima, per la tentata scalata
ad Antonveneta. Non solo:"nel corso della conversazione n. 316 del 9
luglio 2005- scrive ancora Orsi - Consorte riferisce all'on. Fassino
(segretario dei Ds, ndr) di avere incontrato i vertici di Consob, di avergli
spiegato cosa sta facendo e di avere ricevuto una valutazione favorevole".
Quindi - stando al documento della Procura -la Consob presieduta da Lamberto
Cardia sarebbe stata informata nei particolari delle mosse di Consorte
già nove giorni prima della data di annuncio dell'Opa, comunicata al
mercato solo il 18 luglio 2005.Se la comunicazione fosse avvenuta il 28 giugno,
"Unipol non avrebbe potuto rastrellare le azioni acquistate dopo di
allora". A parere di Orsi, Consorte aveva superato di fatto il 30% di Bnl
(soglia dell'Opa obbligatoria) tra la fine di giugno e i primi di luglio del
2005, grazie agli accordi con Bpi, Bper e Popolare di Vicenza e grazie
all'intesa con i "contropattisti" (Bonsignore, Caltagirone, Coppola,
Grazioli, Lonati, Ricucci e Statuto) siglata "ben prima del 18
luglio". In effetti,scrive Orsi,è almeno dal 21 maggio che Unipol e
le banche al-leate hanno cominciato a rastrellare in Borsa il titolo Bnl,
tramite Euromobiliare e Centrosim. Queste ultime comperano azioni sul mercato
dei "blocchi" "da alcuni hedge fund, il più attivo dei
quali (Leonardo Capital Fund) arriva a negoziare da solo circa il 10% del
capitale di Bnl. A riprova dell'integrazione tra questi soggetti va sottolineato
che acquisti effettuati da Bper sono "ordinati" da Boni, dirigentedi
Bpi, mentre acquisti di Popolare di Vicenza sono " ordinati" da
Cimbri, dirigente di Unipol ". Ciò a conferma del fatto che Unipol
e Bpi agivano di comune accordo e con l'alto patrocinio dell'allora governatore
di Bankitalia, Antonio Fazio, deciso a contrastare l'offensiva straniera del
Bbva in Bnl e quelladi Abn Amro in Antonveneta. Il documento è servito
ad illustrare al giudice gli elementi d'accusa dell'inchiesta. Ora dovrà
essere la Forleo a chiedere al Parlamento che la Procura possa utilizzare come
fonti di prova le intercettazioni tra Consorte, Fassino, l'attuale ministro
degli Esteri, Massimo D'Alema,e il senatore Nicola Latorre. "Nel corso di
queste conversazioni, infatti,l'indagato Consorte espone ai suoi interlocutori
quello che sta facendo, esplicita la logica della sua condotta, fornisce
particolari operativi, solleva obiezioni strategiche e tattiche". Ecco
alcune delle telefonate giudicate rilevanti. 6 luglio: Consorte riferisce al
senatore dei Ds Latorre che "è ormai certo che i contropattisti
venderanno le loro azioni (il 27,5% di Bnl, ndr). Entrambi gli interlocutori
convengono che non sarà Unipol a comprare, ma terzi". 7 luglio:
Consorte e Latorre "discutono della onerosità dell'Opa",
auspicando che ad essa non aderissero né Generali, né Dorint, che con il Bbva
partecipavano alpatto di sindacato di Bnl. Con un'altra telefonata,
"Consorte spiega a Latorre che ha ormai definito gli accordi con gli
immobiliaristi ". Latorre passa quindi l'apparecchio a D'Alema, al quale
Consorte riferisce che il lancio dell'Opa "è cosa fatta". 12
luglio: Fassino teme che Unipol non abbia le risorse patrimoniali per scalare
Bnl. Consorte gli spiega "che il problema si porrebbe se Unipol facesse
un'Opa al buio e dovesse acquistare il 100% di Bnl". Invece Unipol - dice
Consorte al segretario dei Ds - spera di poter rilevare in Opa una quota di
capitale Bnl non superiore al 65 per cento. 14 luglio: Consorte informa D'Alema
che il 18 luglio 2005 Unipol lancerà l'Opa. A giudizio di Orsi, questo
è il primo episodio di insider a carico dell'ex presidente di Unipol.
"La conversazione telefonica è l'unica fonte di prova di questo
fatto di reato". 15 luglio: Secondo presunto episodio di insider: Latorre chiama
Consorte che lo informa di avere già il 51,5% di Bnl. 17 luglio:
"Consorte - conclude Orsi - reitera con Fassino la propalazione di
informazioni privilegiate ". Consorte ieri ha replicato che"tutte le
operazioni relative all'Opa su Bnl sono state condotte nel pieno rispetto delle
leggi e deliberate dal consiglio d'amministrazione di Unipol. Per quanto ci
riguarda, le telefonate intercorse con i politici sono state tutte di carattere
informativo e non intromissivo nell'operazione Bnl". Richiesta analoga a
quella di Orsi è stata indirizzata al giudice Forleo dai pm Eugenio
Fusco e Giulia Perrotti. Le telefonate, in questo caso, sono quelle avvenute
nella stessa estate del 2005 tra l'immobiliarista Stefano Ricucci ed alcuni
parlamentari del centro-destra, tra i quali il senatore Romano Comincioli di
Forza Italia, durante la tentata scalata al "Corriere della sera". In
caso di via libera del Parlamento, queste intercettazioni saranno trasmesse,
probabilmente, alla Procura di Roma, che ha indagato su Ricucci. v.chierchia@ilsole24ore.com
g.oddo@ilsole24ore.com L'ACCUSA Nelle conversazioni con il segretario ds,
D'Alema e Latorre la Procura trova conferma dell'aggiotaggio e intravede
l'insider trading LA DIFESA Per l'ex numero uno dell'impresa assicurativa di
Legacoop, le operazioni avvennero nel rispetto delle leggi e con l'ok del
consiglio
Roma, 12 Luglio
2007 – AgenParl – “L’intesa, che sta emergendo al Senato sull’ordinamento
giudiziario, rappresenta un’ottima soluzione e consente di superare
definitivamente l’impostazione della riforma Castelli che appariva più
come una punizione per i magistrati che come una reale iniziativa di riforma
per una maggiore efficienza del sistema”. Lo dichiara l’On. Massimo Donadi,
presidente del deputati di Italia dei Valori.
“L’articolo 2 del testo, – prosegue Donadi –che deriverebbe dall’approvazione
del cosiddetto emendamento Brutti, trova infatti il giusto equilibrio tra
l’esigenza di porre dei limiti, in particolare di natura territoriale, alla
possibilità per i magistrati di cambiare funzioni e l’esigenza,
ugualmente fondamentale, di tutelare l’autonomia e l’indipendenza della
magistratura”.
Conclude il capogruppo IdV alla Camera: “Ci auguriamo, a questo punto, che
l’approvazione di questa riforma induca l’associazione dei magistrati a
revocare l’ipotesi dello sciopero che rischierebbe, a questo punto, di non essere più compreso”.
Crescono, nel
2006, i controlli del Garante per la protezione dei dati personali su traffico
telefonico, sistemi di informazione creditizia, strutture sanitarie, misure di
sicurezza adottate da amministrazioni e imprese. Contestate 158 violazioni
amministrative (erano 94 nel 2005), con 11 denunce effettuate
all'Autorità giudiziaria. Accanto all'attività ispettiva e
sanzionatoria, il Garante, nell'anno appena trascorso, ha adottato 630
provvedimenti collegiali, di cui 435 emessi a conclusione di trattazione di
ricorsi, oltre a fornire 13 pareri su atti normativi del Governo nonché
risposte a 679 quesiti e a 217 segnalazioni e reclami. Intensa anche
l'attività del Garante nelle sedi internazionali ed europee, in
particolare, sul fronte della cooperazione giudiziaria e di polizia nonché dei
rapporti con gli Usa e delle regole standard per il trasferimento all'estero
dei dati da parte delle imprese. E' questa, in sintesi, la diapositiva scattata
dalla relazione annuale dell'Autorità garante per la protezione dei dati
personali, presentata al Senato, alla presenza dei massimi rappresentanti del
Parlamento, del Governo, delle Istituzioni, del mondo dell'impresa e delle
associazioni di categoria.
La relazione traccia il bilancio del lavoro svolto dall'Autorità, giunta
al decimo anno di attività, nel corso del 2006 e indica lo stato di
attuazione della normativa sulla privacy e le prospettive di azione verso le
quali intende muoversi il Garante nell'obiettivo di fornire maggiore protezione
ai dati personali.
Attività del Garante. L'anno scorso il Garante evidenzia, in
particolar modo, gli interventi sulla delicata materia della messa in sicurezza
delle grandi banche dati pubbliche e private (anagrafe tributaria, Ced del
ministero dell'Interno, gestori telefonici, banche ed istituti finanziari,
servizi di massa). "La protezione dei dati è un'emergenza
nazionale", sottolinea Francesco Pizzetti, presidente dell'Autorità
garante per la protezione dei dati personali nella sua relazione al Parlamento.
Al riguardo, ha assunto un significativo risultato la messa in regola della
trasparenza dell'attività della pubblica amministrazione, con
l'approvazione da parte del Garante di 106 schemi di regolamento sul
trattamento dei dati sensibili. Particolare attenzione è stata poi
riservata alle esigenze delle imprese per facilitarne gli adempimenti e
garantire al contempo la corretta gestione dei dati personali di utenti e
consumatori, anche in un quadro di economia globale e trasferimenti massicci di
informazioni tra Paesi. In tema di lavoro, massima attenzione è stata
garantita alla sicurezza della navigazione in Internet e al controllo dei
lavoratori nonché alla correttezza della gestione del rapporto di lavoro e ai
sistemi di rilevazione biometrica. Interventi anche sul sistema bancario e
assicurativo, nello specifico, sui sistemi di informazione creditizia, black
list e raccolta di immagini e impronte digitali.
Sul versante internazionale, inoltre, nel settore della cooperazione
giudiziaria e di polizia, la relazione sottolinea come all'Autorità
italiana sia stata affidata la presidenza dello specifico gruppo di Garanti Ue
(working party on police and justice). Sul fronte, infine, del delicato tema
dei rapporti tra Unione europea e Usa, il Garante ricorda l'impegno rivolto
alle garanzie da assicurare nel trasferimento dei dati dei passeggeri europei
contenuti nelle schede nominative, il cosiddetto Pnr (personal name record),
oltre al noto "caso Swift" (society for worldwide interbank financial
telecomunication) la società con sede in Belgio di cui si servono da
decenni banche e finanziarie per il trasferimento internazionale di valuta, ai
cui dati hanno avuto accesso le autorità Usa nel quadro della lotta al
terrorismo.
WASHINGTON
Al Qaida è tornata, forte come nel 2001 e pronta a nuovi micidiali
attentati. A sostenerlo è un rapporto dell’intelligence americana,
rivelato dall’Associated Press.
La capacità operativa della rete di Osama Bin Laden sarebbe tornata ai
livelli che permisero le stragi dell’11 settembre a New York. La nuova
valutazione del livello di rischio effettuata dai servizi Usa suggerisce che Al
Qaida ha potuto rigenerarsi malgrado quasi sei anni di guerre, bombardamenti e
altre offensive mirate ad annientarla.
Secondo quanto riferito da un funzionario di intelligence, lo scenario è
delineato in un testo di cinque pagine che sarà discusso oggi alla Casa
Bianca. Si tratta del lavoro di un pool di esperti di anti-terrorismo in vista
della pubblicazione del prossimo National Intelligence Estimate, un rapporto
prodotto da diverse agenzie coordinate dal governo.
Il documento rivelato dalla Associated Press è intitolato «Al Qaida in
una posizione migliore per colpire l’Occidente». Dedica un’attenzione
particolare al Pakistan, considerato una sorta di porto franco per i militanti
della rete terroristica.
Secondo il funzionario di intelligence, il rapporto sostiene che Al Qaida
è «considerevolmente più forte da un punto di vista operativo
rispetto a un anno fa». L’organizzazione di Osama Bin Laden si sarebbe
ricostituita «a un livello mai visto dal 2001». I terroristi - si leggerebbe
ancora nel rapporto - «stanno mostrando un’abilità sempre più
grande nel pianificare attentati in Europa e negli Stati Uniti». Secondo il funzionario
di intelligence, nel documento si afferma che la rete di Bin Laden ha creato
«il più ampio programma di addestramento dal 2001, un programma che
prevede l’impiego di agenti europei».
Il rapporto sottolineerebbe allo stesso tempo «significative deficienze di
intelligence», tali da far supporre che le autorità americane possano
non essere al corrente di attentati potenziali o pianificati.
John Kringen, responsabile della direzione analisi della Cia, aveva
sottolineato ieri le rinnovate capacità operative di Al Qaida in un
intervento presso una commissione del Congresso americano. «Sembrano ben
stabiliti negli spazi privi di autorità del Pakistan» aveva dichiarato
il dirigente, in riferimento alla rete di Bin Laden. «Vediamo più attività
di addestramento. Più denaro. Più comunicazioni. Le loro
attività aumentano».
Il documento di intelligence vede la luce mentre l’organismo governativo
National Security Council sta lavorando alla stesura del National Intelligence
Estimate sulle minacce terroristiche nei confronti degli Stati Uniti.
ROMA Sono alcuni dei capitoli del bilancio di previsione della
Camera per il 2007, contenuti nella relazione dei Questori resa nota
nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui costi della politica.
Una macchina organizzativa decisamente costosa per il contribuente, senza pari
in Europa. Basti pensare che con oltre un miliardo di euro (con esattezza
1.011.505.000), il carrozzone di Montecitorio costa il 27% in più del
Bundestag tedesco, il 32% in più dell'Asseblée Nationale francese e
addirittura il 51% in più della House of Commons britannica. IN
CONCRETO, 266.915.000 euro vanno al personale, 181 milioni all'acquisto di beni
e servizi, 169.180.000 euro alle indennità e al rimborso spese dei deputati,
167.495.000 euro al personale in pensione, mentre 132.450.000 euro ai vitalizi
degli ex deputati (132.450.000 euro). Dati eloquenti che la Camera vuole
cambiare, sebbene per i Questori l'85% delle spese correnti sia obbligatorio,
riducibile quindi soltanto attraverso modifiche di legge o di regolamento.
Tuttavia, ci sono margini di intervento nel restante 15% del bilancio e nella
relazione vengono indicate già alcune linee d'azione: la soppressione
dei rimborsi per i viaggi di studio, nuove regole per i vitalizi e la
razionalizzazione degli affitti, ma anche la riduzione delle spese per
l'informatica (grazie ai software open source e quindi senza licenza), tirature
più basse degli stampati e uso degli sms e della posta elettronica
invece che dei fax e dei telegrammi. Con una regola di fondo: creare sinergia
con il Senato, in tema di attività di documentazione e trattative sui
servizi. Proposte che saranno vagliate nei prossimi giorni e adottate con tutta
probabilità già nella riunione degli uffici di presidenza, in
programma lunedì prossimo. CONTINUA intanto il confronto tra Governo ed
enti locali, in vista del disegno di legge sui costi della politica.
Ieri, si è svolta una riunione a Palazzo Chigi tra il premier Prodi e i
ministri Amato, Lanzillotta e Santagata, e quest'ultimo è intervenuto
anche al question time della Camera, per spiegare che l'obiettivo è la
firma di un patto istituzionale tra centro e periferia, una carta di principi e
impegni valida per tutti. La bozza di intesa sarà discussa oggi alla
Conferenza unificata degli enti locali, per confluire poi nel ddl che dovrebbe
essere approvato nel Consiglio dei ministri di domani. Tra le proposte
annunciate, il tetto di 12 ministri per il Governo, la riduzione delle pensioni
per amministratori ed eletti e regole stringenti per Comunità montane,
società pubbliche e consigli. La bozza della legge prevede inoltre
l'accorpamento di una parte degli enti e la soppressione di quelli inutili,
elimina alcune forme forfettarie di rimborso e dispone maggiore trasparenza su
incarichi e indennità.
ROMA I questori della Camera hanno illustrato ieri in commissione
Affari costituzionali di Montecitorio, nell'ambito dell'indagine conoscitiva
sui costi della politica, le misure che la Camera intende
adottare per ridurre le spese. Queste le novità principali. VIAGGI
ALL'ESTERO ADDIO. Tagliando sui rimborsi delle spese dei deputati all'estero,
si calcola un risparmio di 2 milioni l'anno. ASSEGNI VITALIZI. Verrà
eliminata la possibilità di riscattare gli anni "non lavorati"
in caso di chiusura anticipata della legislatura. Il diritto al vitalizio si
otterrà solo dopo almeno cinque anni di mandato, al compimento del 65°
anno. Si può avere vitalizio a 60 anni solo dopo dieci anni di mandato
effettivo. Si prenderà il 20% dell'indennità con cinque anni di
contributi; il 40 con dieci, e il 60 dal 15° anno di contribuzione in poi. La
nuova norma si applicherà a coloro che saranno eletti per la prima volta
nella prossima legislatura. RISTORAZIONE E PC. Appaltando la ristorazione si
prevede un risparmio di 3,7 milioni l'anno, e la razionalizzazione del sistema
informatico farà risparmiare altri 2,5 milioni. MENO STAMPE. Gli atti
parlamentari saranno stampati sempre di meno visto che sono tutti disponibili
su Internet: per il secondo semestre 2007 si risparmieranno circa 150 mila
euro; per il 2008 circa 290 mila. RASSEGNA STAMPA SUL WEB. Sopprimendo la
versione cartacea della raccolta di articoli di giornali riguardanti la politica,
ci sarebbe un risparmio di 150 mila euro l'anno. L'USO DELLE E-MAIL. Convocando
le commissioni via e-mail e non più per telegramma e telefax, si
risparmiano 200 mila euro l'anno. LA COLLABORAZIONE. Le esigenze di documentazione
delle due Camere sono in larga parte comuni. Così, si pensa a integrare
l'attività dei servizi studi, bilancio, rapporti con l'Ue e rapporti
internazionali, a cooperare per l'approvvigionamento comune di beni e servizi,
e a unificare biblioteche, archivio storico, siti internet, canali satellitari
e le librerie.
ROMA - "Cerchiamo di chiudere. Usiamo il giusto equilibrio e
la necessaria elasticità, ma chiudiamo questo accordo con gli enti
locali e poi il disegno di legge in Consiglio dei ministri". Alla vigilia
della due giorni decisiva per il governo sul fronte dell'abbattimento dei costi
della politica, Romano Prodi ha voluto attorno al suo tavolo a Palazzo
Chigi i ministri Amato, Santagata e Lanzillotta che stanno lavorando alla
"pratica". L'intesa con Regioni, Comuni e Province, d'altronde,
attesa per la Conferenza unificata di oggi pomeriggio, non è affatto
scontata. Ecco perché il premier ha raccomandato ai ministri di non incaponirsi
sulla percentuale dei tagli ai consigli regionali, comunali e provinciali, che
la Lanzillotta vorrebbe riportare oltre la soglia del 20 per cento. Ma nella
piattaforma che oggi la responsabile degli Affari regionali e Santagata
proporranno a governatori e sindaci prevede anche altro. A cominciare dal
dimezzamento del numero dei ministeri, con la riduzione a 12. Punto che sta a
cuore alla ministra ma che lascia un po' freddi i suoi colleghi, se non altro
per l'impossibilità poi di inserirlo nel ddl del governo che dovrebbe
arrivare al traguardo domani. L'esecutivo si impegna poi a sopprimere gli enti
inutili, ridurre i componenti e i compensi delle società pubbliche. Ma
propone anche l'abrogazione delle comunità montane sotto i 600 metri, la
fissazione di un tetto alle indennità, pensioni meno ricche per
parlamentari e consiglieri regionali con il passaggio al regime contributivo.
Proposta, quest'ultima, che ha fatto insorgere ieri gli
"amministratori" della Camera. "Vorrei ricordare al ministro
Lanzillotta che esiste l'autonomia delle Camere e che nessuna decisione che le
riguardi può essere oggetto di intese tra esecutivo e altri livelli
istituzionali - ha protestato il deputato questore ulivista Gabriele Albonetti
- Peraltro la riforma dei vitalizi è già in discussione".
Proprio i questori, nell'ambito dell'indagine sui costi avviata dalla
commissione Affari costituzionali, hanno presentato una sorta di "libro
bianco" in 72 pagine che fornisce una radiografia delle spese di
Montecitorio. Per dire che è difficile intervenire sulle
indennità dei deputati (come chiesto dal 78% degli italiani nel
sondaggio di Repubblica.it), per rivelare che un autentico bubbone sono le
spese per i 1.977 ex onorevoli che costano ormai 132 milioni (perfino le spese
per i loro viaggi sono lievitate lo scorso anno a 2 milioni 788 mila euro). E
ancora, che Montecitorio dispone di 22 autoblu e 22 veicoli di servizio, che il
bilancio cresce di anno in anno e che perciò la Camera spende (634
milioni) più dei Parlamenti di Francia, Germania e Gran Bretagna.
L'unico difetto dello sciopero dell'Anm contro la controriforma
Mastella che dovrebbe rimpiazzare la controriforma Castelli, è che
arriva troppo tardi. Da un anno esatto il governo Prodi e la sua maggioranza
che avevano promesso agli elettori di "cancellare la legge Castelli"
si prodigano per fare il contrario. L'estate scorsa ne han lasciato entrare in
vigore i primi due decreti delegati. Poi, al seguito di Mastella, hanno
trattato per mesi con i noti giureconsulti Schifani, Pecorella e Castelli per
"migliorare" il testo che s'erano impegnati a radere al suolo. Ne
è nato un abortino, la Mastelli o Castella, che ha mandato in vigore con
qualche microritocco altri 7 decreti berlusconiani: così -
annunciò trionfante Mastella - li voterà anche la Cdl. Bella
forza: se il centrosinistra copia una legge del centrodestra, è normale
che il centrodestra la voti (meno normale è che la copi il
centrosinistra). In ogni caso la controriforma berlusconiana avallata
dall'Unione ottenne solo i voti dell'Unione, non uno di più. Ennesima
prova che gl'inciuci sono sempre a senso unico: l'Unione paga,Berlusconi
incassa. L'Anm, mai così afasica e tremebonda, lasciò passare il
tutto, in nome della "riduzione del danno". Restò in sospeso
il decimo decreto: la separazione delle carriere, congelato fino al 31 luglio
2007. Da ottobre a oggi la maggioranza, così fulminea nel varare
l'indulto, il decreto Mastella per la distruzione dei dossier Telecom e la
legge Mastella sulle intercettazioni, hanno cincischiato cercando il solito
accordo con la Cdl e litigando al proprio interno. A due settimane dalla
scadenza ha finalmente partorito il testo definitivo. Che separa di fatto le
carriere dei giudici e dei pm: chi vuole passare dall'una all'altra
dovrà trasferirsi in un'altra regione. Cioè cambiare casa,
lasciare la famiglia e gli amici, e così via. Chi ha fatto il pm e vuol
fare il giudice, o viceversa, diventa un essere infetto, da tenere in quarantena,
sterilizzare, disinfestare, disintossicare. In compenso un avvocato che voglia
diventare magistrato potrà restare tranquillamente nella stessa
città: chi ha difeso mafiosi al Tribunale di Palermo potrà
liberamente diventare giudice o pm a Palermo. Se invece ha condannato o fatto
condannare mafiosi a Palermo, per cambiar funzione dovrà sloggiare da
Palermo. Questa è una separazione delle carriere surrettizia, che corona
dopo trent'anni il sogno di Gelli e Craxi. Berlusconi l'aveva mancato per un
soffio. Ma l'Unione è lì apposta per completare la sua opera. Se
passa la Mastella entro il 31, le carriere saranno separate. Se no entra in
vigore la Castelli e le carriere saranno separate comunque. Una bella
alternativa. Resta da capire se tutto ciò sia compatibile con la
Costituzione, che inserisce tutti i magistrati requirenti e giudicanti nello
stesso ordine giudiziario. Ora Mastella, spaventato dallo sciopero tardivo
dell'Anm, delira di "guerre puniche" e annuncia che "il testo si
può modificare": forse, se le toghe avessero scioperato prima, le
modifiche sarebbero già arrivate. Ma le reazioni unioniste alla protesta
togata fanno cadere le braccia, nel solco di quel "berlusconismo senza
Berlusconi" (anzi, con Berlusconi più potente che mai) che molti paventavano.
Il prc Di Lello, ex giudice, mette sullo stesso piano "le corporazioni dei
magistrati e degli avvocati", come se un potere dello Stato minacciato
dagli altri due fosse equiparabile ai tassisti o ai ferrotranvieri. Il
margherito Tenaglia, ex pm, dice che la Mastella è "punto di
equilibrio per l'indipendenza della magistratura", quasi che un principio
costituzionale potesse essere oggetto di contrattazione. Poi c'è
Boselli, Sdi, che - evidentemente ignaro della Costituzione - domanda
"perché l'Italia debba restare caso unico nel mondo democratico a
mantenere un solo ruolo per i magistrati". Forse non sa che in Europa non
c'è alcuno sbarramento per i pm che vogliono diventare giudici e
viceversa. E che nel 2000 il Consiglio d'Europa "raccomandò"
di "consentire alla stessa persona di svolgere successivamente le funzioni
di pm e poi di giudice, e viceversa", per "la similarità e la
natura complementare delle due funzioni". Per il Ds Calvi "è
grave se il Parlamento si fa influenzare dai magistrati": invece è
normale che si faccia influenzare da 25 parlamentari pregiudicati e 70 imputati
e indagati. Di separare le carriere dei parlamentari da quelle dei condannati,
non se ne parla proprio. Uliwood party.
Wall Street segna
una brusca correzione degli indici, scontando i timori sulla tenuta del
comparto subprime (i mutui ad alta remunerazione e alto rischio di insolvenza)
che pagano il rallentamento immobiliare. Il Dow Jones chiude in calo dell'1,09%
(a 13.501,70 punti), il Nasdaq cede l'1,16% (a quota 2.639,16), mentre lo
Standard & Poor's 500 si attesta a 1.510,12 punti (-1,42%), al termine di
una seduta che vede l'euro schizzare al record di 1,3740 (salito a mercati
chiusi fino a 1,3787) contro il dollaro.
Sul mercato prevalgono le vendite e a poco serve l'intervento del
presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, che ha parlato di "attese
d'inflazione ben ancorate". I mercati hanno imboccato la via delle perdite
dopo che Standard & Poor's ha fatto sapere che potrebbe tagliare i rating
su qualcosa come 12 miliardi di dollari di bond cartolarizzati, emessi con
mutui ipotecari subprime come collaterale.
Questo perchй aumentano i casi
d'insolvenza, portando al peggioramento della qualitа
del credito, Per le stesse ragioni, Moody's ha tagliato i rating a 399 bond
frutto di cartolarizzazione di subprime del valore di 5,2 miliardi di dollari,
mettendo sotto osservazione altre 32 emissioni con possibile downgrade. La
situazione pesa, in particolare, sui titoli bancari e finanziari in generale,
il cui sotto-indice и l'unico, all'interno dello S&P's 500, a essere in calo da
inizio anno.
Sui bilanci pesano i default in crescita fra i proprietari di
abitazioni. Si teme che la crisi dei mutui, che ha giа
causato la piщ forte recessione del mercato immobiliare dal 1991 con un forte
impatto sui consumi, possa avere conseguenze piщ
ampie, sull'economia nel suo complesso, di quanto sinora stimato. E che possa
innescarsi una reazione a catena in grado di riverberarsi su altri mercati. Per
questo motivo gli investitori hanno letto molto negativamente le previsioni di
D. R. Horton: il secondo costruttore edile degli Usa (-1,97% a 19,40 dollari)
cede dopo aver stimato un bilancio in rosso per il terzo trimestre a fronte di
un crollo del 40% degli ordini e ha fra l'altro fatto sapere di non vedere
alcun recupero del mercato immobiliare.
Anche Home Depot (che perт ha chiuso in rialzo
a 40,25 dollari, +0,05%) ha aggiunto un tocco di pessimismo peggiorando le
proprie stime per l'utile per azione dell'anno fiscale in corso, mentre Sears и
scivolata del 10,03% (a 154,24 dollari) a causa del calo dell'utile del secondo
trimestre, a un valore compreso fra i 160 e i 200 milioni di dollari. In calo
(_4,12% a 137,42 dollari) anche Bear Stearns, colosso finanziario Usa
particolarmente attivo nelle cartolarizzazioni di mutui, che ha giа
dovuto sborsare 1,6 miliardi di dollari per evitare il crac di due suoi hedge
fund che hanno fatto tremare Wall Street. In rialzo, invece, Ford (+0,11% a
9,09 dollari) e General Motors (+1,74% a 37,41 dollari) dopo che JP Morgan ha
migliorato a 'overweight' il rating su entrambi i titoli.
PALERMO - Chi è Frank Calì, e perché
tutti lo cercano? Quel nome - il nome di un siculo-americano - ritorna
ossessivamente nelle "parlate" degli uomini di Cosa Nostra. Lo fanno
a Palermo, lo ripetono nel New Jersey, lo bisbigliano a Corleone. Di Frank
sentiremo ancora parlare, giurateci. Eppure, al Dipartimento di Giustizia,
Calì non appare mai nei report sulle cinque "grandi famiglie"
di New York, i Gambino, i Bonanno, i Lucchese, i Genovese e i Colombo. Soltanto
poche, quasi distratte, righe in un dossier dell'Fbi. Più o meno un
"signor nessuno" che deve avere però un potere invisibile o
ancora sconosciuto, se negli ultimi tre anni per lo meno una mezza dozzina di "delegazioni"
di mafiosi siciliani lo hanno raggiunto dall'altra parte dell'Oceano per
discutere di "affari". Ma di quali affari? E, soprattutto, di quale
portata e per quali progetti?
Questa è la storia, o meglio il primo paragrafo di una storia che
soltanto il tempo potrà scrivere. Vi si rintracciano indizi di un
prepotente risveglio di Cosa Nostra dopo un muto decennio di ibernazione. La
mafia sembra volersi liberare dall'arcaicità violenta dei Corleonesi per
ritrovare dalla Sicilia - come in un passato glorioso - ruolo e protagonismo
sulla scena internazionale. Nelle loro casseforti ci vogliono mettere soldi,
molti soldi. Non vogliono più cadaveri per le strade o
"picciotti" nelle galere. A che cosa sono serviti il sangue, le bombe
contro lo Stato, gli ergastoli che hanno umiliato le famiglie? A niente. Ecco
perché adesso tutti cercano Frank Calì.
Del "signor nessuno" si può dire subito - per
quel pochissimo che se ne sa - che è un uomo di rispetto della Famiglia
Gambino designato per trattare, con i Siciliani, la nuova avventura. Se sono
buone le intuizioni degli investigatori, i mafiosi vogliono ritornare ad essere
brokers nel mercato illegale/legale mondiale. Frank Calì serve a tutto
questo. È "l'ambasciatore" americano.
Frank Calì ufficialmente è un imprenditore della Italian Food
Distribution a New York. Da almeno tre anni, gli agenti dell'Fbi lo vedono
intrattenersi con vecchi trafficanti della "Pizza Connection".
E con giovani rampolli delle Famiglie palermitane, nati però negli Stati
Uniti. E con gli emissari di Bernardo Provenzano e Totò Riina, i
Corleonesi. Un'agenda di incontri che mette insieme amici e nemici di antiche
guerre e di mai dimenticati stermini, tutti a far la fila da Frank Calì.
L'elenco è lungo. Da lui vanno in più occasioni Nicola
Mandalà e Nicola Notaro della Famiglia di Villabate, Gianni Nicchi della
Famiglia di Pagliarelli, Vincenzo Brusca della Famiglia di Torretta. Ma forse
la traccia più rilevante per capire che cosa sta accadendo è
nelle triangolazioni telefoniche tra le utenze di Calì e i cellulari
degli uomini di Salvatore Lo Piccolo, ricercato da 27 anni, oggi al primo posto
della lista dei latitanti dopo la cattura di Bernardo Provenzano.
Il suo "scacchiere diplomatico" non è stretto alla Sicilia. Un
rapporto congiunto dell'Fbi e della Royal Canadian Mounted Police svela "i
legami tra Frank Calì, Pietro Inzerillo e i membri del cartello
criminale "Siderno" della 'ndrangheta". Alla sua corte ci sono
proprio tutti, dunque. È la circostanza che spinge Fbi e Polizia
criminale italiana a lavorare insieme, a scambiarsi informazioni e analisi come
negli Anni Ottanta, quando Giovanni Falcone faceva squadra con il procuratore
distrettuale Rudolph Giuliani. Si preparano a fronteggiare il nuovo piano di
Cosa Nostra: la riscoperta dell'America. Con inaspettati protagonisti. Con nomi
che, soltanto fino a qualche anno fa, a Palermo non si potevano nemmeno
pronunciare.
***
Sono tornati gli Inzerillo. Erano stati massacrati dall'aprile del 1981
all'ottobre del 1983 dai Corleonesi. "Di questi qua - disse Totò
Riina - non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme".
Morì Totuccio, il rispettato capo di Passo Rigano, e poi morì suo
figlio Giuseppe. Morirono in ventuno. Fratelli e zii e nipoti e cugini. Molti
scomparvero afferrati dalla "lupara bianca", un impero di 27
società di riciclaggio rimase senza padroni. La scia di sangue si
interruppe soltanto con l'intercessione dei parenti di Cherry Hill. Uomini
potenti. Allora i più potenti d'America come Charles Gambino. Trattarono
una resa senza onore. La Commissione siciliana pretese che gli Inzerillo
avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più
nell'Isola. Mai più. E' la regola che dettò la Cosa Nostra di
Totò Riina. Allora fu nominato, e lo è ancora oggi, un
"responsabile" del rispetto di quel patto. Si chiama Saruzzo Naimo.
Ma le regole, in Cosa Nostra, esistono per essere violate e interpretate per
gli amici e applicate per i nemici. Così alla spicciolata gli Inzerillo
sono rientrati a Palermo. Abitano tutti nella loro borgata di nascita, a Passo
di Rigano.
E' tornato Francesco Inzerillo, figlio di quel Pietro che l'Fbi e la polizia
canadese "vedono" sempre con Frank Calì. E poi Tommaso
Inzerillo, cugino di Totuccio e cognato di John Gambino, il figlio del vecchio
Charles. E un altro Francesco, fratello di Totuccio. Espulso come
"indesiderato" dagli Stati Uniti è tornato Rosario, un altro
fratello di Totuccio. E' rientrato Giuseppe, figlio di Santo, ucciso e dissolto
nell'acido solforico. Soprattutto è tornato l'unico figlio ancora vivo
di Totuccio, Giovanni, nato a New York nel 1972, cittadino americano. A lui
è toccato riaprire dopo venticinque anni la casa di via Castellana 346.
Insieme a loro, sono riapparsi in città gli Spatola dell'Uditore, i Di
Maggio di Torretta, i Bosco, i Di Maio, qualche Gambino. Insomma,
quell'aristocrazia mafiosa che i contadini di Corleone avevano spazzato via con
"tragedie", tradimenti, agguati. A Palermo gli Inzerillo hanno
ricostituito la loro Famiglia. Con quale "autorizzazione"? Con quali
appoggi? Con quali garanzie e impegni?
Se la questione è un enigma per gli investigatori, impensierisce ancora
di più alcuni alleati palermitani dei Corleonesi che erano stati in
prima fila, nella strage degli Inzerillo. La preoccupazione diventa apprensione
quando, nei viaggi in America, scoprono che accanto a Frank Calì
c'è sempre un Inzerillo. A New York come a Palermo, per uscire
dall'isolamento e pensare finalmente alla grande, bisogna fare necessariamente
i conti con "quelli là" e le loro influenti parentele
d'Oltreoceano.
***
Nelle ultime intercettazioni ambientali - una vera miniera di inaspettate
informazioni - "il discorso dell'America" è un tormentone tra
i mafiosi. Riserva un punto di vista inedito su Cosa Nostra. Liquida ogni
lettura convenzionale. Cosa Nostra non è il quieto monolite governato
con i "pizzini" dalla furbizia contadina del vecchio Provenzano né
è attraversata, come pure si è sostenuto, da una frattura
territoriale e culturale. Da un lato, i contadini e i paesi di campagna.
Dall'altra, i cittadini, la grande città, le borgate. E' invece un mondo
smarrito e, al tempo stesso, eccitato dalle nuove opportunità. Ora, come
per un riflesso condizionato, tentato di mettere mano alla pistola per
eliminare ogni irritante contraddizione; ora convinto di dover cercare, senza
sparare un colpo, compromessi per far valere la sola ragione che tutti
può entusiasmare: fare i piccioli. Fare i soldi. Gli esiti della contesa
sono del tutto imprevedibili. Nei prossimi mesi, la guerra ha la stessa
possibilità di scoppiare quanto la pace. Chi lavora, con ostinazione
paranoide, a una nuova contrapposizione si chiama Antonino Rotolo. E' il
capomandamento di Pagliarelli. Basta ascoltare quali erano i suoi argomenti
qualche giorno prima di finire in galera.
"Questi Inzerillo - dice Rotolo ai suoi - erano bambini e poi sono
cresciuti, questi ora hanno trent'anni. Come possiamo, noi, stare sereni... Se
ne devono andare. E poi uno, e poi l'altro e poi l'altro ancora... Devono
starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in
Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io per
esempio - l'ho detto e lo ripeto - so di un tizio che dice a uno dei figli di
Inzerillo: "Non ti preoccupare tempo e buon tempo non dura sempre un
tempo"... Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno perché
nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno, può essere pure che
non ci risvegliamo più. Alzando la testa questi, le prime revolverate
sono per noi. Vero è... Picciotti, non è finito niente. Gli
Inzerillo, i morti, li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze. Si
siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo
scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta, non c'è Dio che li
può aiutare... Ce ne dobbiamo liberare e così ci leviamo il
pensiero... Per il bene di tutti, noi questo dobbiamo fare. L'avete capito o no
che quello, Lo Piccolo, li utilizza già gli Inzerillo? Questa storia non
finisce, non finirà mai...". Antonino Rotolo affronta con
Alessandro Mannino, nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, "il discorso
dell'America". Senza giri di parole, in modo brusco.
Gli dice: "Tu sei il nipote di Totuccio Inzerillo il quale, con altri,
senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma a loro nessuno
gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci hanno trovato. Peggio per loro.
Non siamo stati noi a cercarli. Così si è creata questa
situazione di lutti e di carceri. La responsabilità è di tuo zio
e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati. Quindi io ti dico che non
c'è differenza tra voi, che avete i morti, e le famiglie che hanno la
gente in galera per sempre, perché sono morti vivi. Quindi, i tuoi parenti
devono rimanere all'America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti
garanzie non ne può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e
ci devono fare solo sapere dove vanno perché noi li dobbiamo tenere sempre
sotto controllo".
***
Anche Antonino Rotolo ha spedito a New York il suo fidato
"messaggero", Gianni Nicchi, giovane e "sperto". Al rientro
dalla missione, si fa raccontare e quel che ascolta non gli piace. Rotolo, se
sono sincere le sue parole, non si fida delle promesse di Frank Calì.
Crede che siano soltanto "chiacchiere" per restituire Palermo agli
Inzerillo. I suoi sospetti lo isolano dentro Cosa Nostra. Salvatore Lo Piccolo
- il suo competitore nelle borgate - ha già chiuso l'accordo con gli
Americani. L'ago della bilancia è Provenzano. Però anche a
Provenzano fa gola riallacciare i rapporti con i suoi antichi nemici e
ritrovarseli dopo un quarto di secolo al suo fianco. Negli ultimi mesi della
sua latitanza, finita l'11 aprile del 2006, mette in moto tutta la sua sapienza
ambigua. In un rosario di "pizzini" inviati ai suoi, finge di non
sapere che gli Inzerillo sono già tutti a Palermo. Minimizza la
rilevanza di quel ritorno. Quando gli capita, consiglia di accoglierli "se
vogliono passare il Natale con i loro parenti" o se devono scontare
scampoli di pena in Italia, una volta espulsi dagli Stati Uniti. E' l'abituale
inganno "corleonese". In realtà, il lavorio di mediazione con
gli Americani è l'ultima grande fatica del Padrino di Corleone.
Da due anni, "il vecchio" si adopera per il
recupero totale alle fortune di Cosa Nostra degli Inzerillo, soprattutto dei
loro legami con la mafia americana. Nicola Mandalà è l'uomo
più fidato dell'inner circle di Bernardo Provenzano. Lo aiuta a farsi
operare alla prostata in una clinica di Marsiglia. Fa due viaggi a New York per
incontrare Frank Calì e Pietro Inzerillo. E' possibile che
Mandalà, generosamente finanziato con 40 mila dollari a trasferta, abbia
fatto tutto questo senza un mandato di Provenzano? Un altro
"contadino" di Corleone va in America. E' quel Bernardo Riina che sarà
poi arrestato come "ultimo anello" che conduce i poliziotti nel
rifugio di Montagna dei Cavalli. Bernardo Riina costituisce una società
a New York insieme a suo figlio nel gennaio del 2006. Appena cento giorni prima
della cattura del suo Padrino. E' il ponte lanciato dalla Sicilia all'America.
E' un capovolgimento di schemi e di logiche dove i Corleonesi - dati per
spacciati dopo l'arresto dei suoi rappresentanti più famosi - non solo
non stanno abbandonando i posti di comando di Cosa Nostra ma, al contrario,
provano a penetrare un altro mondo: gli Stati Uniti. Il personaggio chiave
è, dunque, il nostro misteriosissimo Frank Calì che distribuisce
Italian Food su tutta la costa atlantica. Ancora più misteriose, al
momento, sono le occasioni economiche e finanziarie che le due mafie prevedono
di cogliere insieme. Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo. Cosa Nostra
si prepara alla sua nuova stagione.
(12 luglio 2007)
Le improvvise difficoltà economiche di John McCain, i cui
fondi per la campagna elettorale sono ormai ridotti a due miseri milioni di
dollari, costituiscono una spia evidente della crisi in cui versa l’intero
partito repubblicano. Candidato forte, conservatore e moralmente integerrimo,
McCain sembrava la figura ideale per arginare quella crisi di
credibilità che ha investito i repubblicani e ha concorso alla loro
sconfitta alle elezioni del 2006. Per il momento così non è
stato. E questo induce a interrogarsi sulla natura – strutturale o contingente,
transitoria o irreversibile – della svolta politica in atto negli Usa.
A confrontarsi sono due tesi, diametralmente opposte.
Secondo la prima, ci troveremo nel mezzo di una transizione politica dalle
matrici profonde, destinata a produrre un nuovo riallineamento elettorale e a
porre termine al ciclo di dominio repubblicano maturato tra il 1968 e il 1980.
Chi fa propria la seconda tesi, ritiene invece che la crisi dei repubblicani
sia dovuta primariamente ai clamorosi errori politici dell’attuale
amministrazione.
In quanto tale, potrebbe essere invertita dall’avvento di una nuova leadership
capace di proiettare quell’immagine di competenza e onestà su cui i
repubblicani hanno spesso costruito le proprie fortune, ma che Bush ha
sperperato con le sue scelte e i suoi comportamenti.
Entrambe queste letture ci raccontano una parte di verità, ne omettono
un’altra e dimenticano un aspetto fondamentale, che attraversa la
società statunitense e colpisce entrambi i partiti. Chi abbraccia la
tesi strutturalista lo fa utilizzando argomentazioni solide e dati
inoppugnabili.
L’11 settembre e l’emergenza sicurezza hanno fermato solo temporaneamente
dinamiche sociali, culturali e demografiche di lungo periodo che favoriscono i
democratici. Dinamiche, queste, che starebbero concorrendo alla formazione di
un solido blocco elettorale formato da professionisti con un alto livello di
educazione, donne, giovani e minoranze che – per ragioni diverse, ma non
inconciliabili – osteggiano le scelte repubblicane degli ultimi anni.
Il radicalismo populista di parte della destra, il peso crescente della sua
componente religiosa, il successo dentro il partito repubblicano di posizioni
radicali e xenofobe in materia d’immigrazione sono solo alcuni tra i fattori
che più avrebbero spinto questi gruppi a identificarsi con il partito
democratico.
Particolarmente rilevante è il dato relativo ai giovani e all’elettorato
indipendente.
Laddove all’inizio degli anni Novanta il 55 per cento dei giovani tra i 18 e i
25 anni si identificava come repubblicano, ora questa percentuale è
scesa al 35 per cento. Se nel 2000 e nel 2002 gli elettori indipendenti – che
costituiscono circa un terzo dell’elettorato attivo – privilegiarono i candidati
repubblicani, alle elezioni di mid-term del 2006 il 57 per cento di essi
votò per i democratici contro il 39 per cento che scelse i repubblicani.
Eppure, vi sono indicatori non irrilevanti che contrastano con la tesi secondo
la quale si starebbe assistendo alla nascita di una nuova maggioranza
democratica.
Il voto indipendente è volatile per definizione; non è su di esso
che si può pensare di costruire una solida coalizione politica; la sua
improvvisa svolta non può che essere attribuita ai tanti fallimenti di
Bush. In ambito economico e sociale, sia i professionisti sia gli indipendenti
hanno posizioni moderate se non apertamente conservatrici. I criteri che ne
orientano i comportamenti elettorali sono la competenza e l’efficacia di chi
amministra il paese, qualità che sono chiaramente mancate a questa
amministrazione.
Tutti i principali candidati repubblicani alla presidenza sono figure moderate,
capaci di offrire un’immagine diversa da quella di Bush e di garantire una
sintesi tra le diverse anime del conservatorismo statunitense. Infine, la
demografia penalizza solo in parte il Partito repubblicano. Il peso relativo
della working class bianca, che vota in maggioranza repubblicano, è
destinato a diminuire, ma nelle elezioni per la presidenza essa rimane decisiva
in alcuni cruciali swing states (come l’Ohio e la Pennsylvania).
Il sud profondo, infine, costituisce un inespugnabile bastione repubblicano.
Su queste dinamiche aleggia però un elemento, che già in passato
ha dimostrato la sua capacità di scompaginare gli equilibri politici e
di obbligare entrambi i partiti a ripensare le proprie strategie.
È, questo, il vento di un’antipolitica che il disastro Bush ha finito
per esacerbare. Si tratta di una diffidenza che investe tutte le istituzioni,
incluso il Congresso a maggioranza democratica (del quale meno del 25 per cento
degli americani approva oggi l’operato), che non risparmia neanche le figure
pubbliche più popolari, come Giuliani, Obama e Hillary Clinton e che
alimenta i sogni, destinati peraltro a rimanere tali, di potenziali terzi
candidati, come il sindaco di New York Michael Bloomberg.
Proprio la capacità di gestire, coltivare e assorbire questo rigetto
della politica sarà uno dei fattori fondamentali che determinerà
l’esito sia delle primarie sia delle presidenziali 2008.
ROMA. Il boom economico cinese del 2006 è confermato e
addirittura superiore al previsto. E la Cina già quest'anno potrebbe
superare la Germania nella classifica mondiale. La crescita del Pil cinese nel
2006 è infatti stata rivista dall'Ufficio statistico nazionale ad un
tasso dell'11,1%, contro il 10,7% precedente. Il valore del Pil nel 2006 ha
raggiunto i 21.087,1 miliardi di yuan, pari a 2.039,7 mld di euro ai cambi
attuali. Anche nel 2007, infatti, il Pil cinese continua a correre, con
un'espansione dell'11,1% nel 1º trimestre, e diversi organismi
internazionali, come la Banca mondiale, si aspettano che l'obiettivo di
crescita dell'8% fissato dalle autorità cinesi venga nuovamente
superato. Alcuni organismi non escludono una crescita nel 2007 dell'11%. Una
crescita trainata da un enorme flusso di investimenti, ai quali secondo molti
economisti il governo non è stato in grado di porre un freno. A guidare
la crescita è soprattutto l'export che crea non pochi problemi a
Pechino, accusata dall'Europa e dagli Usa di favorire i propri
esportatori sfruttando la svalutazione dello yuan. In base ai nuovi dati, la
crescita è equamente distribuita fra industria secondaria (manifattura e
costruzioni), con un tasso rivisto al 13% dal 12,5%, e terziario (10,8% dal
10,3%). Stabile invece l'agricoltura. Nel 1º semestre 2007 sono stati
prodotti in Cina circa 4,46 milioni di veicoli, in crescita del 22,4% rispetto
ad un anno fa. Le vendite, invece, sono cresciute del 23,3% a 4,37 milioni. Lo
scorso anno la Cina è diventata il secondo mercato mondiale dopo gli Usa.
E le riserve in valuta estera della Cina sono salite alla fine di giugno al
nuovo record di 1,33 trilioni di dollari (il trilione equivale a mille
miliardi) con un balzo del 41,6% al netto delle riserve denominate in oro. Lo
ha comunicato la banca centrale.
Cara Europa, nell’ultimo weekend, sulla spiaggia col Corriere
della sera, mi sono divertito a far notare a mia moglie, pagina dopo pagina,
che ad ogni fatto riferito (politica, cultura, religione, società)
corrispondevano interpretazioni distorcenti: i pugni allo stomaco potevano sembrare
carezze, le accuse più tragiche semplici distrazioni o scherzetti.
Nessuna posizione viene affermata, nulla viene trattato come cosa seria. E noi
non prendiamo sul serio i giornali.
ALDO DI LORETO, OSTIA (RM)
Caro Di Loreto, la sua esperienza mi ha incuriosito e ho voluta
ricostruirla.
Debbo convenire con lei. Si parte dall’articolo di fondo dell’ambasciatore
Romano che s’intitola “Il bersaglio preferito” dagli alleati, cioè
Prodi: e uno può immaginare che l’autorevole fondista scriva per
deplorare l’inciviltà di questa classe politica. Niente affatto.
Quando mancano 15 righe alla fine dell’articolo, l’autore scopre il pensiero
recondito, suo o del giornale, cioè questo: «Finché una parte del
centrosinistra e una parte del centrodestra non si saranno accordate sul modo
di governare la crisi e darle uno sbocco razionale, Prodi continuerà a
galleggiare da uno scoglio all’altro».
Ma non sarebbe stato più concreto intitolare subito l’articolo:
“Facciamo la grande coalizione” e tagliamo le ali? Sfoglio ancora, e trovo
(pag.5) che Fassino ritiene Berlusconi responsabile oggettivamente di quello
che ha fatto il Sismi di Pollari (spionaggio di massa su giudici, giornalisti e
politici di centrosinistra) durante i cinque anni del governo berlusconiano
(2001-2006). Ma l’articolo si conclude coi fuochi d’artificio della destra, per
la quale il problema non è lo spionaggio del Sismi sulla magistratura ma
«i giudici che hanno perseguitato Berlusconi » (Bonaiuti); il problema non
è – come denuncia il senatore Brutti – che Pio Pompa si sia messo per
fax «a disposizione» di Berlusconi, ma «come mai Brutti ne sia venuto a
conoscenza» (Cicchitto).
Diceva Montanelli: se volete trasformare una cronaca in commento, basta che
cambiate l’ordine delle notizie.
Però così si imbrogliano i lettori: si abolisce il fatto – come
dice un bel libro del detestato Travaglio – e lo si sostituisce col
“cazzeggio”.
Infine, arriviamo alla successiva doppia pagina (6-7) sul ritorno al messale in
latino, nel quale c’è la famigerata preghiera del venerdì santo
per la “conversione dei perfidi ebrei”, cancellata da Paolo VI, ed ecco che il
problema diventa la riconciliazione coi tradizionalisti di Lefèbvre
(Messori), mentre da Lisa Palmieri, rappresentante per l’Italia dell’American Jewish
Committee, arriva la scusante per il papa: «Forse non si è accorto o ha
sottovalutato la portata della preghiera».
A questo punto ci fermiamo, perché, a quanto pare, l’arte della dissimulazione
e del cambiare le carte sotto gli occhi del lettore non è arte soltanto
italiana. Se può “sottovalutare” un papa, come pensare che non
“sottovalutino” un Cicchitto o un Bonaiuti?
Montecarlo. Ieri mi trovavo a colazione con sette persone tra cui un nipote di
François Mitterrand. Quando uno dei commensali ha parlato dell’uscita di Jack
Lang dalla direzione socialista, il nipote del fondatore del Ps ha commentato:
«Mi sa che tra qualche mese il presidente del Partito socialista si
chiamerà Nicolas Sarkozy». La boutade indica l’aria che si respira oggi
negli ambienti della sinistra francese dopo che Sarkozy è riuscito a
mettere a segno una serie impressionante di colpi per dividere i suoi
avversari. Ben sei esponenti socialisti (subito espulsi dal partito) fanno
parte del governo di centrodestra guidato dal primo ministro François Fillon:
tra loro c’è un esponente storico della sinistra come il nuovo ministro
degli Esteri Bernard Kouchner. Questa settimana Sarkozy è riuscito a
togliere di mezzo il leader socialista per lui più insidioso: Dominique
Strauss-Kahn, che è stato ministro dell’economia alla fine degli anni
Novanta nel governo Jospin e che guida attualmente l’ala riformista del Partito
socialista francese. Grazie all’impegno di Sarkozy, Strauss-Kahn ha ottenuto
l’assenso europeo per divenire direttore generale del Fondo monetario
internazionale. Il quadro è completato dall’intenzione dell’Eliseo di
assegnare incarichi di prestigio ad altri leader storici socialisti: Hubert,
Vèdrine (che fu dal 1997 al 2002 il ministro degli Esteri del governo
Jospin) e Jaques Attali (già braccio destro di Mitterrand) dovrebbero
ricevere l’incarico di “riflettere” per conto di Sarkozy su una serie di
riforme. E adesso Jack Lang potrebbe entrare in una “squadra” destinata a
studiare l’eventuale modifica della costituzione della V Repubblica.
Preoccupata da questa straordinaria serie di iniziative del neo presidente
Sarkozy (che ha anche avuto un colloquio a quattr’occhi con Laurent Fabius a
proposito del nuovo trattato europeo), la direzione socialista ha deciso di
sospendere ogni suo membro che accetti di partecipare a “commissioni di studio”
per conto dell’Eliseo. Se Vedrine, che ha abbandonato l’attività
politica per dedicarsi al proprio studio di consulenze internazionali, e
Attali, che punta sulla sua attività di saggista, non hanno nulla da
perdere, Lang si è sentito nel mirino delle critiche e dei sospetti. E
ha dunque deciso di prendere la direzione del Ps in contropiede, abbandonandola
di sua stessa iniziativa. Jack Lang, che sta per compiere 68 anni, rimane
deputato socialista, ma abbandona ufficialmente il vertice del partito e
rivendica il diritto di dare in piena libertà consigli a proposito della
riforma delle istituzioni francesi. In ogni caso, ribadisce il proprio
attaccamento al Partito socialista, anche se vi avrà d’ora in avanti un
ruolo meno importante.
Le polemiche nel partito socialista non sarebbero ovviamente tanto aspre se
questa formazione politica godesse di migliore salute. Invece i socialisti
francesi sono entrati in stato confusionale dopo la sconfitta di
Ségolène Royal alle presidenziali dello scorso 6 maggio e dopo la serie
di colpi efficaci che ha inferto loro Sarkozy. Ieri il quotidiano Liberation,
vicino ai socialisti, dedicava grande spazio al “tramonto degli elefanti”,
ossia all’uscita di scena dei dirigenti storici del partito. Secondo Liberation
è in atto tra i socialisti un ricambio generazionale, che sta portando i
trentenni e i quarantenni al timone del partito. Lang si è sentito
probabilmente nel mirino di questa “caccia all’elefante” e ha deciso, anche per
questa ragione, di lasciare ad altri la sua poltrona in seno alla direzione
nazionale. Del resto già nei giorni scorsi Laurent Fabius, altro
“elefante”, aveva assunto una iniziativa analoga.
La storia di Lang è quella di una genialità incompiuta. Nella
Francia del dopoguerra ci sono stati due indimenticabili ministri della
Cultura: Andrè Malraux accanto al generale De Gaulle e Jack Lang
all’epoca della presidenza di François Mitterrand. Divenuto ministro della
Cultura nel 1981, Lang ha scosso la società francese inventando
iniziative a raffica, come la “festa della musica” che cade il 21 giugno e che
ha ormai una risonanza mondiale. È stato lui a concepire, per conto di
Mitterrand, i “grandi lavori” che hanno cambiato il volto di Parigi: il nuovo
Louvre con la sua piramide di vetro, il teatro d’opera in piazza della
Bastiglia, la città della scienza, la città della musica, la
grande biblioteca e così via. Al tempo stesso, Lang ha varato una
politica di sostegni d’ogni genere al cinema francese, che è così
riuscito a resistere efficacemente all’offensiva planetaria delle produzioni
americane. Per tutto il tempo della presidenza Mitterrand (dal 1981 al 1995)
Lang ha fatto parte del cerchio più ristretto dei collaboratori del capo
dello Stato: quelli di cui l’Eliseo sapeva di potersi fidare ciecamente.
Nel 2000 Lang ha tentato di ottenere dal Partito socialista la candidatura per
diventare sindaco di Parigi e - per rendere più credibile quella sua
ambizione - si è dimesso da sindaco della città di Blois, nella
zona dei castelli della Loira. Tuttavia ha rinunciato alla candidatura parigina
per fare spazio a Bertrand Delanoë, amico dell’allora primo ministro Lionel
Jospin. In cambio, Jospin lo ha nominato ministro dell’Educazione. L’anno
scorso si è candidato alle primarie in seno al Partito socialista nella
prospettiva delle elezioni presidenziali. Anche stavolta non ha osato andare
fino in fondo e si è ritirato sulla base di un compromesso con Ségolène,
che lo ha nominato suo consigliere politico. Se la Royal fosse entrata
all’Eliseo, Lang avrebbe potuto realizzare il suo vecchio sogno di diventare
ministro degli Esteri. Ironia della sorte, quel sogno è stato realizzato
dal suo amico Bernard Kouchner, ma in un governo fedele a Sarkozy.
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Convocata per le 14 una riunione dei capogruppo. La conferenza prevista per le
16
ROMA - E' Giulio Andreotti a salvare la maggioranza al
Senato sulla riforma dell'ordinamento giudiziario. L'art. 1, che regola il
concorso di accesso in magistratura, passa in aula con un solo voto di
differenza: 152 a 151 con alcune assenze tra le file della maggioranza. In
particolare si faceva notare quella di alcuni senatori dell'Italia dei valori
impegnati in una conferenza stampa sui senza tetto. In aula non erano presenti
anche alcuni senatori della Cdl: Biondi di Forza Italia, Baccini e Trematerra
dell'Udc e Gabana ex Lega, ora nel misto. Mastella chiede allora un chiarimento
all'interno della maggioranza e per le 14 viene convocata una riunione dei
capogruppo.
Secondo il senatore di Sinistra democratica Paolo Brutti, "i voti non
erano 152 ma 153: aveva votato anche la senatrice Silvana Pisa, ma il suo voto,
per un errore del sistema elettronico, non è stato registrato".
Assenti al voto anche due capigruppo della maggioranza: Giovanni Russo Spena di
Prc e Nello Formisano del Misto e del'Italia dei valori. Non c'erano al voto
anche due senatori di Rifondazione Fosco Giannini e Celeste Nardini, el senador
italo-argentino Luigi Pallaro e per la Sinistra democratica Massimo Villone e,
appunto, Silvana Pisa.
Duro l'attacco del capogruppo leghista al Senato Roberto Castelli. "Il
voto - ha detto il senatore - è stato possibile grazie al voto
determinante di un senatore a vita. Dobbiamo chiederci se questa Camera rappresenta
veramente il voto popolare oppure se è illegittima, visto anche quello
che emerge sui brogli nelle circoscrizioni estere".
Risponde puntualmente alle parole di Castelli ("le
più gravi che possano ascoltarsi in quest'aula") Anna Finocchiaro,
presidente del gruppo dell'Ulivo. Sul voto di Andreotti, dice Finocchiaro che
"l'argomento è frusto e inutile e assolutamente offensivo della
lettera della Costituzione che dice che il Senato è composto da senatori
eletti e da senatori a vita e non opera nessuna distinzione tra le funzioni, le
attribuzioni, i poteri e i doveri degli uni e degli altri". Quanto
all'ipotesi di brogli, "è l'Ulivo - sottolinea Finocchiaro - che
chiede formalmente un dibattito pubblico".
Tra le novità introdotte dall'articolo 1, rispetto alla legge Castelli,
quella che prevede che i candidati al concorso pubblico non dovranno indicare
la scelta relativa alla magistratura requirente o giudicante. Non ci
sarà più il test psicoattitudinale e per accedere al concorso, oltre
alla laurea, servirà anche il diploma di specializzazione per le
professioni legali o un dottorato di ricerca. Potranno accedere al concorso
dirigenti di Stato, professori universitari e avvocati.
Il ministro della Giustizia Clemente Mastella ha poi preso la parola in aula e
ha chiesto alla maggioranza di mostrare maggiore compattezza. "Con molta
obiettività e lo dico con tono risoluto - ha spiegato Mastella - credo
che la mia maggioranza debba chiarirsi le idee in ordine all'art. 2 perché la
controversia che è all'interno della maggioranza e un pò meno
nell'opposizione, che svolge il proprio ruolo con grande dignità. Spero
che tale dignità e tale compattezza sia anche nella mia maggioranza
nella quale faccio parte fino a prova contraria".
Ora l'attenzione si sposta su quello che potrà
succedere alle votazioni successive. Per le 14 è stata convocata una
riunione di maggioranza al Senato che discuterà proprio del ddl sul
sistema giudiziario e in particolare degli emendamenti all'articolo 2 presentati
da Brutti e Cusumano sul passaggio delle funzioni dei magistrati. Alle 16 poi
si terrà la conferenza dei capogruppo.
(11 luglio 2007)
MILANO — Dicono che il sindaco Michael Bloomberg,
tra una stretta di mano e l'altra, non perda occasione per dire che a New York
non si beve acqua migliore di quella che esce dal rubinetto. Provare per
credere, lancia ora la sfida la sua amministrazione: «Dimenticatevi la minerale
e bevete l'acqua che "sgorga" direttamente in casa vostra». E via,
con la moral suasion: è sicura, gradevole, pulita, costa meno di quella
imbottigliata, è più pratica. E soprattutto: permette di
risparmiare e ridurre la produzione di montagne di vetro e di plastica.
Difficile immaginare il sindaco Bloomberg alle prese con filtri di carbonio
attivo, con ingombranti casse di minerale da stivare nel baule della sua
familiare (e/o da legare al portapacchi della bicicletta), o ancora con sacchi
da Babbo Natale ricolmi di bottiglie da gettare nei bidoni della differenziata.
Ma il suo «prova l'acqua del rubinetto» è diventato una campagna
pubblicitaria in piena regola per convertire i newyorkesi al bere in modo responsabile.
Da tempo sui tavoli dei ristoranti della salutista California le brocche di
acqua nostrana hanno preso il posto delle bottigliette di minerale. E anche
nella Grande Mela i primi a rispondere alla svolta ecologista sono stati alcuni
ristoratori che hanno deciso di servire solo acqua del rubinetto. Sarà
forse per l'ondata di grande caldo, ma la campagna divide la città. E
così c'è chi si converte magari al lume di candela, e chi invece
cambia locale. A puntare il dito contro gli svantaggi del mineral water style
sono gli ambientalisti statunitensi e non: quattro bottiglie di acqua minerale
su cinque finiscono sottoterra; il processo di produzione contribuisce al
surriscaldamento globale. Per non parlare della distribuzione: anche quella
inquina. Finché l'invito a bere acqua del rubinetto era solo una faccenda
ecologista era una cosa, ma adesso che l'appello arriva dal governo della
città delle città insorgono le aziende dell'acqua minerale: «Non
è corretto puntare il dito contro un'industria che si sta impegnando a
promuovere il riciclo dei rifiuti e l'introduzione di involucri biodegradabili
». Le caraffe di vetro sui tavoli dei ristoranti però si moltiplicano, e
la campagna pubblicitaria va avanti. «Ma arriva tardi». A rivendicare se non il
primato assoluto dell'iniziativa almeno il fatto di essere arrivati prima di
Bloomberg, sono le città italiane. Roma, Firenze, Milano. C'è chi
ha dotato la propria acqua del marchio doc e chi ha deciso di dare l'esempio
sostituendo i distributori di minerale con bidoni di nostrana. Di campagne
pubblicitarie per promuovere l'acqua di rubinetto a Roma ce n'è stata
più di una. L'ultima la scorsa primavera quando la «capitolina »
è stata dotata di una sorta di carta di identità. Allora il sindaco
Veltroni aveva sottolineato come la certificazione fosse il risultato degli
oltre 250 mila campioni l'anno analizzati (il doppio di quelli previsti per
legge). Ora Roberto Zocchi, presidente della Laboratori, la società che
per conto della Acea si occupa dei controlli, spiega: «L'acqua di Roma arriva
dalle sorgenti appenniniche. Il nostro compito è quello di mantenere la
sua qualità fino al rubinetto ». Guai a fare paragoni qualitativi con le
minerali, ma quanto alla bontà della «capitolina » non ci sono dubbi:
«E' buona, controllata e un metro cubo costa come una bottiglietta di minerale
(senza contare il costo del trasporto, dell'accumulo e dello smaltimento)».
Ormai da tre anni nelle scuole di Firenze le brocche di vetro hanno preso il
posto delle bottiglie di minerale. «Stessa cosa in Consiglio comunale e negli
uffici pubblici dove i distributori di bottigliette griffate sono stati
sostituiti da bidoni di acqua di Firenze», afferma l'assessore al Ciclo
integrato dell'acqua e dei rifiuti Paolo Coggiola. «Da qualche anno abbiamo
scelto la filtrazione a carbone attivo, e adesso sono molti i cittadini che
dicono di preferire l'acqua del rubinetto. Più buona e senza bottiglie
da smaltire». Anche nelle mense scolastiche di Milano si beve solo acqua del
rubinetto (in passato, qualcuno aveva proposto anche di imbottigliarla). Ma sui
tavoli del Consiglio comunale ci sono ancora bottiglie di minerale. Alcune
settimane fa, in occasione della giornata mondiale dell'acqua, il consigliere
Basilio Rizzo (Lista Fo) e i «suoi» sono entrati in aula con un bicchiere di
acqua del rubinetto in mano. «Non ha niente a che invidiare a quella minerale:
deve entrare a pieno titolo in questa aula e in tutti gli uffici comunali».
Ieri l'ultimo atto: una raccolta di firme, in tutto più di 400 mila, è
stata portata a Roma per chiedere una legge che tuteli il patrimonio pubblico
dell'acqua.
Alessandra
Mangiarotti
11 luglio 2007
TRASPORTI.
  VIENNA Dopo una gestazione durata 20 anni, si intravvede la luce per
il tunnel del Brennero: con la firma di un memorandum di intesa, ieri a Vienna,
Italia e Austria chiedono all'Ue una partecipazione finanziaria al progetto,
che prevede da qui al 2022 la realizzazione del tunnel più lungo del
mondo. L'accordo è stato firmato dai ministri delle Infrastrutture
italiano, Antonio Di Pietro, e del Traffico austriaco, Werner Faymann,
nell'ambito di un incontro trilaterale con il ministro dei Trasporti tedesco,
Wolfgang Werner. Austria e Italia finanzieranno per un terzo ciascuna il
progetto, l'Ue è chiamata a finanziare l'altro terzo. Il costo stimato
del progetto è di sei miliardi di euro, che potrebbero arrivare ad 8-9
con i costi aggiuntivi di pianificazione e inflazione. Il 19 luglio Di Pietro
sarà a Bruxelles a presentare la richiesta di confinanziamento dell'Ue.
Parallelamente al memorandum austro-italiano, Tiefensee ha firmato un accordo
di cooperazione col collega austriaco per la tratta Freilassing (Baviera)
Salisburgo (196 milioni di euro) da realizzare entro il 2012 in vista del
collegamento Bratislava, Vienna, Salisburgo, Monaco, Strasburgo, Parigi. La
Germania inoltre si associa impegna a sviluppare infrastrutture per le vie di
accesso al tunnel. L'idea di un tunnel europeo risale al 1986, l'inizio dei
lavori potrebbe avvenire nel 2009-2010, l'entrata in funzione nel 2022. La
galleria ferroviaria del Brennero, il cui obbiettivo è trasferire il
traffico merci dalla strada alla rotaia, avrà una lunghezza di 63 km (56
senza l'anello attorno a Innsbruck): per collegare Bolzano-Innsbruck ci
vorranno 50 minuti contro le due ore attuali, la capacità di mezzi
pesanti su rotaia sarà di 1,8 milioni l'anno. Il progetto
completerà l'asse nord-sud collegando la Scandinavia con Palermo. Di
Pietro: "Il progetto rappresenta una soluzione equilibrata" che tiene
conto dell' ambiente. "Il mio governo crede in questo progetto",
volto "a unire maggiormente la comunità europea". Di Pietro ha
assicurato che per il finanziamento l'Italia non procederà a un aumento
di tasse con rialzi dei pedaggi. Il coordinatore Ue Van Miert ha assicurato che
presenterà un rapporto positivo alla Commissione e si adopererà
affinché Bruxelles garantisca un "cofinanziamento massimo".
+ Il Sole 24 Ore 11-7-2007 «Sia per i mutui che per il
credito al consumo i tassi di interesse praticati dalle banche in Italia sono
più elevati rispetto a quelli medi dell'area euro su operazioni simili».
Lo afferma il Governatore di Bankitalia, Mario Draghi, nel suo discorso
all'assemblea dell'Abi.
Le fusioni
Le banche protagoniste delle ultime grandi fusioni devono realizzare senza
indugi i guadagni di efficienza che il mercato si attende. «Non c'è
tempo da perdere» afferma il Governatore della Banca d'Italia; è un
lavoro complesso «il rischio di resistenze e ritardi è forte». Draghi
raccomanda la massima compattezza del management e il «massimo riserbo» ai
vertici aziendali nella comunicazione esterna.
Secondo il Governatore «il consolidamento delle banche è solo un punto
di partenza. Il riassetto potrà dirsi compiuto con successo quando si
saranno realizzati i guadagni di efficienza previsti dai piani industriali. Il
mercato si aspetta risparmi dall'unificazionde delle piattaforme tecnologiche,
dall'integrazione dei canali distributivi, dall'aumento della produttività
del lavoro». «L'esperienza del passato - aggiunge il numero uno di Via
Nazionale - mostra quanto sia complesso mettere in comune strutture
organizzative, tecnologiche, reti, culture aziendali; il rischio di resistenze
e di ritardi è forte. Occorre la massima compattezza nei management
aziendali, il massimo riserbo nella comunicazione esterna. Non c'è tempo
da perdere».
La vicenda Italease
Bankitalia è «intervenuta» e segue «con la massima attenzione» la
vicenda Italease. Parlando all'assemblea Abi, Mario Draghi sottolinea che
«spingere i clienti ad assumere rischi finanziari anzichè a coprirli,
accresce il rischio di controparte e di reputazione, con possibili perdite
cospicue» e fa emergere «rischi legali e di reputazione» che possono metterne «in
discussione la stabilità». Un caso, quello di Italease, è «sotto
i nostri occhi».
Borsa Spa
Mario Draghi promuove l'integrazione tra Borsa Italiana e LSE. Piazza Affari,
dice, ha «assunto concrete iniziative» per valorizzare «i propri punti di
forza» e cogliere i «benefici dell'integrazione in una realtà globale».
Questa apertura è «un fatto decisamente positivo» anche se, sottolinea
Draghi, Bankitalia «indica quella che ritiene la giusta direzione di marcia» e
«non cerca di determinare chi debbano essere i compagni di viaggio».
La trasparenza
Le banche realizzino concreti progressi sul fronte della trasparenza delle
condizioni applicate alla clientela, esorta il Governatore della Banca
d'Italia, che prende atto con favore del piano d'azione sulla trasparenza
adottato dall'Abi e ribadisce che le liberalizzazioni, positive, devono
tuttavia lasciare spazio all'autoregolamentazione.
La banche italiane devono migliorare i tempi, i costi e la qualità dei
servizi di pagamenti offerti alla clientela. Mario Draghi si concentra in
particolare anche sugli assegni e segnala che «per il perfezionamento di un
pagamento con assegno si richiedono ancora in media 7 giorni». Una modifica
legislativa che «facilitasse la trasmissione digitale dell'immagine - dice -
consentirebbe una significativa riduzione».
Le liberalizzazioni
La Banca d' Italia «guarda con favore alla finalità» degli interventi
previsti dalle leggi di liberalizzazioni per il settore bancario «anche se ha
sollevato dubbi su taluni aspetti tecnici»: la cancellazione delle penali
sull'estinzione anticipata dei mutui a tasso fisso, ad esempio, può
comportare ad un aumento del tassi richiesti. Così il governatore della
Banca d'Italia affronta il nodo delle liberalizzazioni chiedendo in particolare
«di lasciare lo spazio necessario alla regolamentazione secondaria e
all'autoregolamentazione». Draghi parla sia della portabilità dei conti
correnti, sia della cancellazione delle penali per l'estinzione dei mutui. «Per
i conti correnti - dice - le nuove norme hanno dato adito a difficoltà
interpretative e i progressi sono insufficienti: non ne è ancora
assicurata la completa portabilità. Per i mutui a tasso fisso il divieto
di penai per l'estinzione anticipata può comportare un innalzamento del
tasso richiesto dalle banche: l'estinzione anticipata rappresenta infatti
un'opzione implicita a favore del debitore e perciò ha un costo
finanziario».
Le norme Bankitalia sulla governance
«Verranno emanate norme specifiche in materia di governance delle banche». Lo
ha annunciato il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, nel corso della sua
relazione all'Abi dopo aver ricordato che «una condizione del successo
dell'integrazione è la qualità del governo societario». E a
questo proposito Draghi raccomanda «chiarezza degli obiettivi,
razionalità nella divisione della responsabilità» allo scopo di
«orientare le scelte». La banca centrale, osserva Draghi, «è attenta e
attiva; continuerà a vigilare sulle soluzioni adottate, sul modo di
operare degli organi sociali, assicurandone il buon funzionamento ai fini della
sana e prudente gestione, intervenendo tutte le volte che sarà
necessario».
La riforma delle popolari
«Non si tratta di fare guerre di ideologia o religione, ma a coloro che ancora
privilegiano il mantenimento degli equilibri esistenti non cesserò di
ricordare i benefici di una riforma che rimuova, soprattutto per le aziende
più grandi e quotate in borsa, le maggiori anomalie di un ordinamento
adatto a realtà locali di piccola dimensione».
Così, nel corso della sua relazione all'assemblea annuale dell'Abi,Mario
Draghi, torna sul tema della riforma della governance delle banche popolari, il
cui fine, «credo condiviso, è liberarne tutte le straordinarie
potenzialità, assicurare la piena rappresentatività degli organi
di Governo, non stravolgerne le finalità mutualistiche». Secondo Draghi,
«occorre interrogarsi sulla conformità alle regole di mercato di
meccanismi di formazione della volontà sociale che consentono a esigue
minoranze di condizionare decisioni strategiche per la società».
L'economia dell'area Euro
Nel II trimestre del 2007 la crescita del Pil dovrebbe essersi attestata
attorno al 2% in ragione annua». Lo ha detto Mario Draghi, Governatore della
Banca d'Italia nel suo intervento all'Abi riferendosi all'economia dell'area
Euro. «Da gennaio - ha aggiunto - l'inflazione è poco al di sotto del
2%; potrà superare temporaneamente questo valore nei prossimi mesi,
risentendo del recente rincaro dei prodotti.
La conciliazione delle controversie
La Banca d'Italia dovrà presentare al Cicr una proposta per regolare la
soluzione stragiudiziale delle controversie sui contratti bancari. Lo ha
rivelato il Governatore della Banca d'Italia preannunciando una consultazione
con gli operatori e gli utenti. La proposta si baserà sull'esperienza
maturata in Italia e assicurerà che gli organi giudicanti «siano non
solo indipendenti ma anche chiaramente percepiti come tali». Per il successo
dell'iniziativa è necessaria la convinta adesione delle associazioni
degli intermediari.
Bruxelles, 11 luglio 2007 - Durante il suo mandato di Presidenza
dell'Ue il Portogallo spera di stimolare l'iniziativa in tre settori
essenziali: editoria e informazione scientifica, nanoscienze e nanotecnologie,
riforma e modernizzazione delle università. Descrivendo gli obiettivi
della sua Presidenza, il governo portoghese afferma: "Sappiamo che a
livello mondiale l'Unione europea non ha ancora raggiunto l'obiettivo dell'1%
di investimenti pubblici o del 2% di investimenti privati in R&s [ricerca e
sviluppo]. Lo scambio di esperienze e l'apprendimento reciproco tra governi
nazionali sono ancora scarsi e la collaborazione tra governi, istituti di
R&s e organizzazioni scientifiche a livello europeo è ancora nella
sua fase iniziale. " Il Portogallo ritiene che il varo del Settimo
programma quadro (7°Pq) per la ricerca abbia fornito l'opportunità di
guardare con occhi nuovi alla politica scientifica dell'Ue. In materia di
editoria e di informazione scientifica e tecnica, la Presidenza dichiara che
incoraggerà un dibattito incentrato in particolare sulle biblioteche
scientifiche digitali, che coinvolgerà tutte le parti interessate e
sarà mirato a promuovere la fiducia reciproca. L'inserimento di
nanoscienze e nanotecnologie tra le priorità coincide con la revisione
intermedia di una strategia della Commissione in questo campo, in corso di
preparazione. La Presidenza si propone di "dare risalto a questo settore,
incentivando in particolare il coordinamento di attività e iniziative
nazionali ed europee". Secondo il Portogallo, le università sono
tra le principali risorse strategiche per una società e un'economia
basate sulle conoscenza. "La Presidenza contribuirà al processo di
modernizzazione dell'istruzione superiore in Europa, concentrandosi in
particolare sull'apertura, sulla diversificazione e sull'internazionalizzazione
delle università, nel contesto di reti avanzate di ricerca e
formazione" si dichiara nelle priorità. Inoltre, nelle
priorità si rileva che la prima manifestazione tenutasi durante la
Presidenza portoghese è stata, simbolicamente, un incontro del Consiglio
scientifico del Consiglio europeo della ricerca (Cer). Per ulteriori
informazioni consultare: http://cordis. Europa. Eu/portugal/presidency .
Cara Europa, mi dicono che La Casta di Rizzo e Stella abbia
venduto finora più di 600mila copie. Questo dovrebbe dire qualcosa ai
politici, che hanno rinviato alla prossima legislatura i tagli ai vitalizi, e
forse ad altri perché, come ha scritto Eugenio Scalfari l’Italia è un
paese di caste, compresa quella giornalistica, molto severa verso la consorella
della politica.
GIANNI BALDI, MILANO Caro Baldi, il libro di Rizzo e Stella è una manna
dal cielo nella palude della politica, dove non un soffio d’indignazione scuote
la superficie purulenta. Si veda l’unanime “placare, sopire”, che accompagna in
questi giorni la polemica sul Sismi: un organo dello Stato (servizio militare)
che spia un ordine indipendente e sovrano dello stato (magistratura) con
l’avallo o nell’ignoranza dei due poteri dello stato (esecutivo e legislativo).
In un clima – dice il capo delle spie – di «regime» e di «misteri». Regime di
chi? Imposto da quali caste? Con quali “misteri”? Silenzio dei politici. E
silenzio anche dei cittadini, che si sono abboffati d’indignazione con La Casta
e ora sono nel torpore della digestione.
Io spero che Rizzo e Stella o qualcun altro dei superstiti bravissimi
giornalisti d’inchiesta risponda a quelle domande con un libro su altre caste.
Ma temo che non lo scriveranno. Primo, perché è troppo facile ormai
insistere nel solco tracciato, magari dicendo sciocchezze come quella del
pranzo dei deputati a 9 euro, che alla camera costerebbe 90. Poiché ho
partecipato anch’io e talvolta partecipo (con parlamentari, ex, giornalisti,
funzionari) al rancio suddetto, dico che più di quel che si paga non
vale: 90 euro, con sontuosi vini e piatti, li paghi al Toulà, al Parco
dei Principi, al Bristol, alla Casina Valadier, al Forum, alla Terrazza
dell’Hassler, e via a correre. Se quel che a Montecitorio si paga 9 o 10 euro
costa 90 al Palazzo, vuol dire o che o che nel palazzo c’è il casino o
che qualcuno ruba. I commensali non c’entrano. Attenti, perché se nell’attacco
ai costi della politica si scrivono sciocchezze, il rischio è di
invalidare anche le tante verità che quell’attacco contiene.
Il secondo motivo per cui non credo a un nuovo libro sui costi della classe
dirigente in senso lato, compresa quella giornalistica, è il timore che
esso non interessi (come tangentopoli: tutti col pool di Milano finché
bastonò i politici, tutti contro quando prese a bastonare altri).
Inoltre il libro sarebbe una martellata sui ginocchi di molti critici, compresi
i giornalisti, come potrebbero dire gli editori (i quali però non
direbbero quanto essi succhiano dalle pubbliche finanze). I direttori che
stampano le favolose inchieste sui costi dei politici, hanno mai ammonito i
colleghi sui loro costi, a cominciare da quelli dei direttori stessi: stipendi,
residence, viaggi, macchine, segreterie, quattordicesima o quindicesima
mensilità, ristoranti, biglietti omaggio, regali, eccetera? O degli
inviati speciali che in un mese scrivono due servizi, “per non inflazionare la
firma”? O delle colleghe a Cannes, a Venezia, a Parigi, che pretendono
l’albergo a 5 stelle, perché “tutte” le altre damazze scendono colà e
loro non possono essere da meno? Dopo gli avvocati e i medici, i giornalisti sono
la casta che fornisce il maggior numero di soci alla casta dei politici:
nessuno meglio di loro è in grado di confrontare quanto sono costati
alle aziende editoriali e quanto costano all’azienda politica. Parlo, si
capisce, dei giornalisti di “prima fascia”, come di “prima fascia” sono in
democrazia legislatori e governanti di più alto “rango”.
Nel nostro paese da mesi tiene banco un utile dibattito, con
annesse proposte e polemiche, sui privilegi della casta politica. Certo, il
rischio è quello di scadere nel qualunquismo ma la sensazione è
che stavolta le oligarchie di potere abbiano davvero passato il segno in
materia di privilegi e quant’altro. Detto della politica, c’è
però un’altra casta che invece rimane immune da polemiche e dibattiti a livello
pubblico. Parliamo dei magistrati. Ieri il loro sindacato ha proclamato uno
sciopero contro la riforma Mastella che a sua volta corregge i presunti intenti
punitivi della legge Castelli, che risale ai tempi di Berlusconi premier.
Diciamolo pure: sia l’attuale Guardasigilli, sia il suo predecessore hanno
affrontato all’acqua di rose il problema dei problemi della giustizia italiana.
E cioè la separazione delle carriere, necessaria per spezzare quel
vincolo di amicizia e complicità che lega tra loro i magistrati sia
inquirenti sia giudicanti e sovente impedisce la cosiddetta terzietà del
giudice. Eppure, nonostante le riformine partorite in tempi successivi da
entrambi i poli, i magistrati hanno sentito e sentono il bisogno di scioperare.
Un comportamento da casta intoccabile, oppure da corporazione come ha ricordato
ieri il relatore del ddl unionista Giuseppe Di Lello.
Noi ci auguriamo che Mastella vada avanti e riesca a far approvare, come ha
auspicato il Quirinale, la sua riforma entro il 31 luglio, ultima data utile
per non far scattare la Castelli. Per quanto riguarda, loro, i magistrati
sarebbe ora che la sinistra, in particolare quella che si ritroverà nel
Partito democratico, risolva una volta per tutte le sue ambiguità nei
rapporti con la magistratura. Questo paese ha bisogno di una politica
efficiente, è vero, ma anche di una giustizia altrettanto efficiente: le
caste vanno combattute senza distinzione. Non ci sono quelle buone e quelle
cattive. Altrimenti non sarebbero caste.
Uno dei motivi per cui nasce il Partito democratico — non il
principale, ma neppure uno dei meno importanti — è la necessità
per i liberal-democratici di uscire dai vicoli ciechi in cui la sinistra
italiana si è cacciata nell'ultimo decennio in materia di politica del
lavoro, pregiudicando la propria capacità progettuale, impedendosi di
partecipare da protagonista al dibattito europeo su questi temi. La sinistra ci
si è cacciata ogni volta che, per paura della discussione su qualcuno
dei suoi vecchi punti fermi, ha scelto di difenderlo con uno slogan tassativo,
quasi un precetto catechistico, che mirava a troncare la discussione sul
nascere, ma anche a bruciarsi i ponti alle spalle, a precludersi qualsiasi
futuro ripensamento. Per esempio: quando, intorno al 2000, si è
incominciato — anche in seno al centrosinistra, con un progetto di legge di
Tiziano Treu—a discutere della possibilità e opportunità di
riformare la protezione contro i licenziamenti individuali, i Ds e la Cgil,
seguiti ovviamente dalla sinistra radicale, hanno proclamato l'articolo 18
dello Statuto sacro e intangibile, in quanto «baluardo a difesa della
libertà e della dignità della persona nel luogo di lavoro»; e su
questo slogan hanno organizzato manifestazioni oceaniche.
Lo slogan è falso, poiché nessuno può seriamente
sostenere che centinaia di milioni di europei lavorino in condizioni poco
dignitose e di sostanziale servaggio, perché privi dell'articolo 18; ma evocare
la dignità e la libertà della persona umana era una mossa comoda
ed efficace per chiudere la discussione prima ancora che si aprisse. Il nodo
è poi venuto puntualmente al pettine nel 2002, quando la sinistra
radicale, prendendo in parola Ds e Cgil, ha promosso il referendum per
estendere il campo di applicazione dell'articolo 18 alle imprese con meno di 16
dipendenti. Logico: se è in gioco la libertà e la dignità
delle persone, tutti devono goderne. Ma le cose non stanno così e
l'estensione dell' inamovibilità di fatto del lavoratore anche alle
imprese minori sarebbe una follia; per questo, l'anno dopo Ds e Cgil sono stati
costretti a fare poco dignitosamente il pesce in barile, adoperandosi
sostanzialmente perché il referendum fallisse.
Intanto, però, sul piano della possibile riforma, il
discorso era bloccato: col chiudere la questione in un cassetto gettando la
chiave, Ds e Cgil si erano preclusi di affrontarla seriamente per un lungo
tempo a venire. Ora il Libro verde sulla politica del lavoro dell' Unione
Europea ci invita esplicitamente a ripensare la disciplina dei licenziamenti
per motivi economici; ma il centrosinistra italiano si è posto in
condizione di non poter partecipare utilmente a questa discussione: l'argomento
è off limits. Saprà il Pd, con misura e intelligenza, liberarsi
da questo blocco mentale? Qualche cosa di analogo accade sulla delicata questione
della possibilità di differenziare gli standard minimi di trattamento
per i lavoratori nelle regioni più povere e con disoccupazione
più alta: qui la chiusura preventiva della discussione senza appello
è affidata allo slogan «no alle gabbie salariali». In realtà,
lasciare uno spazio alla contrattazione collettiva decentrata per differenziare
il livello e la struttura delle retribuzioni, tenendo conto delle condizioni
peculiari di ciascuna regione, è proprio il contrario dell'imporre una
«gabbia»: la vera «gabbia», semmai, è lo sbarramento che impedisce di
farlo.
Mal'artificio dialettico è efficacissimo: chi mai potrebbe
essere favorevole a qualche cosa che si chiama «gabbia salariale»? Così
quello slogan consente, anche qui, di calare una pietra tombale sulla questione
del possibile decentramento della contrattazione degli standard minimi,
nonostante che proprio questa sia la tendenza ormai nettamente prevalente
nell’Occidente industrializzato. Al Pd non si chiede di essere
pregiudizialmente favorevole o contrario a quella differenziazione di standard,
ma solo di saper aprire su di essa una discussione pragmatica. È ancora
lo stesso errore quello che la sinistra ha commesso quando ha precipitosamente
demonizzato la legge Biagi, oppure lo «scalone pensionistico » (altro slogan
efficacissimo) destinato a entrare in vigore nel 2008, solo perché varati
dall'odiato governo di centrodestra; e ha ripetuto l'errore quando, ancora per
questo solo motivo, di quelle norme ha avventatamente sancito la
necessità dell'abrogazione ponendola addirittura tra i punti essenziali
del proprio programma elettorale.
Salvo poi scoprire che la legge Biagi è uno strumento utile
contro l'abuso dei contratti di lavoro precari e quindi servirsene per questo
scopo, come ha fatto il ministro del Lavoro Damiano nei call center; oppure
dover riconoscere—come hanno fatto onestamente ma ahimè
intempestivamente Massimo D'Alema e Piero Fassino nei giorni scorsi — che la
regola della pensione a 60 anni, sia pure introdotta con lo «scalone» di
Maroni, non è affatto iniqua e rende disponibili risorse utili per
affrontare questioni sociali ben altrimenti urgenti (del resto, non era uno
«scalone » ben più erto quello introdotto dalla riforma Dini del 1995,
col voto del centrosinistra?). Il Partito democratico nasce anche per lasciarsi
alle spalle questo modo fazioso e poco intelligente di affrontare le questioni,
per consentire al centrosinistra di tirarsi fuori dai vicoli ciechi in cui si
è cacciato in questi anni e di elaborare una politica del lavoro più
pragmatica, più aperta al dubbio e alla sperimentazione. Ma su questo
punto il nuovo partito deve avere il coraggio di dare fin d'ora un segnale
inequivoco e forte.
11 luglio 2007
Roma Al primo punto della relazione di Corrado Faissola
all'assemblea di oggi dell'Abi ci sarà la concertazione. Le banche
vogliono essere consultate dal governo, almeno per le questioni che le rigurdano.
Che Bersani intenda. Così, quella parola che fino a ieri per certi
ambienti era un tabù - concertazione appunto - oggi diventa un must.
Cosa mettono loro sul piatto della bilancia? L'impegno a garantire più
trasparenza nel rapporto con i clienti. Trasparenza nei costi e nelle offerte
proposte. "In un sistema con 1081 istituti - spiega il presidente Abi
anticipando qualche traccia del suo intervento di oggi - può sempre
esserci chi non si comporta bene. Ma il nostro impegno su questo fronte non si
ferma". Tanto più che chi si sente "maltrattato" dalla
propria banca può sempre cambiare: secondo dati forniti
dall'associazione il tasso di mobilità nel nostro Paese è in
linea con l'Europa. Che si possa cambiare o meno, i costi del Belpaese in fatto
di conti correnti restano molto superiori rispetto all'estero. È il
presidente dell'Antitrust Antonio Catricalà a rivelarlo in un'audizione
al Senato. "Il costo medio di tenuta conto in Italia è pari a 182
euro annui - dichiara - con una differenza del 14% rispetto alla Germania e
sino all'83% rispetto all'Olanda". Davanti ai senatori della commissione
Finanze il garante del mercato aggiunge che "è pur vero che le
liberalizzazioni nel settore bancario in Italia hanno funzionato, ma è anche
vero che il numero di competitors non influisce sulla concorrenza, e nemmeno
l'ingresso di operatori stranieri. Tant'è che questi assicurano costi
vantaggiosi nei loro Paesi, mentre in Italia si adeguano ai livelli più
alti". Dov'è allora il probblema? "C'è il fatto che
manca la clientela mobile - spiega Catricalà - bisogna stimolare la
clientela a muoversi". A questo punto c'è da chiedersi: clinenti
"pigri" o disorientati? E ancora. come mai per l'Abi il tasso di
mobilità del Paese è in linea con l'Europa e per Catricalà
invece il vero problema è l'immobilismo? Non è chiaro. Faissola
assicura comunque che l'Abi "non è insensibile" ai richiami
giunti da diverse autorità. Anche a quello, giunto dalla Banca d'Italia,
sul conflitto di interessi delle banche che vendono i loro prodotti finanziari.
Mario Draghi ha invitato le banche a muoversi, altrimenti si muoverà
qualcun altro. Nella relazione di oggi (saranno presenti anche Prodi e
Bertinotti) il presidente Abi non parlerà del tema - complicato - della
proprietà degli istituti e nemmeno della riforma delle popolari. Un
capitolo sarà dedicato al grado di concentrazione raggiunto dal sistema
italiano, in cui i primi 5 gruppi controllano il 62% del mercato. Solo la
Francia fa meglio con il 64%. Resta alto il credito erogato all'impresa, che
anche in periodi di crisi non ha mai visto chiudersi i rubinetti del credito.
Catricalà sulle banche "Fusioni ok, ma ora via alla
portabilità del conto corrente" Antitrust, esame su Mediobanca
[FIRMA MILANO Se nella fusione tra Intesa e Sanpaolo il faro dell'Antitrust si
accese sugli incroci assicurativi - tra le due banche, e con le Generali -
nell'operazione UniCredit e Capitalia irrompe il tema Mediobanca. L'authority,
in vista dell'esame che partirà il 17 luglio, è orientato a
scandagliare le implicazioni concorrenziali nell'investment banking e quindi
l'intreccio tra la Grande UniCredit - dove confluiranno la romana Mcc e la
milanese Ubm - e Piazzetta Cuccia, dove il nuovo gruppo assomma una
partecipazione superiore al 18%, destinata comunque a dimezzarsi. Davanti ai senatori
della commissione Finanze del Senato il presidente dell'authority, Antonio
Catricalà, spiega che, dopo il rinvio dell'esame dell'operazione
dall'antitrust europeo a quello italiano, questa "sarà un'altra
occasione importante per applicare i principi che fino ad ora l'autorità
ha inteso affermare e per esplorare gli effetti dell'operazione anche se
ulteriori mercati, compreso quello dell'investment banking".
Catricalà, nel corso di un audizione dove traccia lo stato del mondo
creditizio che da "foresta pietrificata" che era "sta conoscendo
una nuova primavera" fatta di fusioni e acquisizioni, segnala l'apertura
di altre due indagini conoscitive. Sorvegliate speciali saranno le banche
popolari e le fondazioni. Lo scopo? Verificare il loro impatto sulla contendibilità
degli istituti bancari. "Il credito cooperativo - spiega - in Italia
rappresenta, infatti, quasi il 30% della raccolta complessiva". E, nota il
garante, le popolari, rette dalla norma assembleare "una testa un voto",
"sono caratterizzate incontestabilmente da una ridotta
contendibilità e a volte, nel concreto funzionamento, il pluralismo che
si vorrebbe garantito dalle particolari regole di governance può essere
più apparente che reale". Secondo il garante "è
doveroso interrogarsi sul futuro di queste banche", oggetto pure di una
prossima riforma che, in ogni modo, "dovrebbe garantire la piena
contendibilità di tutti con tutti". Altro capitolo, le fondazioni.
Dove "si è attenuato" l'obbligo di separazione tra la loro
attività e la gestione bancaria. E che sono tornate protagoniste nei
processi di fusioni, fatto che "dimostra evidentemente l'effettiva
capacità di influenza nella gestione delle banche". A questo punto,
attacca Catricalà, "ci si può domandare se soggetti simili,
caratterizzati da regole di governance che non rispondono a logiche di
mercato" e "tenuti a perseguire una molteplicità di interessi
diversi, siano i più adatti a far transitare il sistema bancario
italiano verso livelli di efficienza e competitività". A tale
proposito il presidente dell'Antitrust torna a chiedere più concorrenza
nei servizi allo sportello. Chiede "garanzie della stabilità delle
voci di costo" e di "superare i legami tra conti e altri servizi
bancari e finanziari". "Un importante strumento per promuovere efficacemente
la mobilità della clientela - conclude - sarebbe lo sviluppo di
meccanismi che consentano la portabilità del conto corrente". Molte
istanze ancora sul tavolo, dunque, cui oggi l'Abi tenterà di dare una
risposta nella sua assemblea annuale.
Quattro anni di indagini, 94 testimoni ascoltati, centinaia di
migliaia di conversazioni intercettate su cinquantacinque cellulari. Bastano
questi numeri per dare un’idea dell’inchiesta sul calcio sporco avviata nel
2003 dai sostituti procuratori di Napoli Giuseppe Narducci e Filippo Beatrice.
Avviata e, ieri, conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per 37 persone:
il capofila è Luciano Moggi, 70 anni proprio ieri, nato a Monticiano in
provincia di Siena, ex direttore generale della Juve. Sua, secondo i
magistrati, è la paternità dell’ormai famoso «Sistema» che non a
caso porta il suo cognome: una cupola in cui erano cooptati designatori di
arbitri, direttori di gara, dirigenti di club e funzionari della Federazione
Italiana Giuoco Calcio. Tutti erano impegnati a «commettere una serie
indeterminata di delitti di frode in competizioni sportive... allo scopo di
predeterminare i risultati delle partite del campionato di calcio di serie A
per la stagione 2004-2005». Ma qui, proseguono i pm, non si parla solo di
semplici partite taroccate. Il meccanismo messo a punto da Moggi, secondo
l’accusa, avrebbe provocato l’«alterazione degli equilibri di natura
economico-finanziaria relativi a talune società calcistiche operando, in
definitiva, a vantaggio di soggetti funzionali al progetto criminale e
penalizzando, viceversa, coloro che ad esso erano estranei».
I magistrati li elencano, quei «soggetti»: si tratta non solo di dirigenti di
società di calcio, della Figc e dell’Aia, ma anche «di giornalisti e
collaboratori di trasmissioni televisive». Il «sistema Moggi», secondo
l’accusa, orientava poi le nomine ai vertici dei massimi organismi di rappresentanza
del calcio. Non a caso, nell’elenco dei 37 per cui i magistrati chiedono il
processo figura anche Franco Carraro: la «cupola», scrivono i pm, si
adoperò per «garantire l’elezione di Franco Carraro quale presidente
della Figc al fine di favorire Adriano Galliani (vicepresidente del Milan, ndr)
nell’elezione alla presidenza della Lega nazionale professionisti». Sì,
perché il mondo del calcio nell’era-Moggi, e non solo, funzionava così:
in campo si era nemici, ma nel Palazzo si stringevano alleanze in nome dei
comuni interessi economici. L’ex numero uno della Figc è accusato di
frode in competizione sportiva: avrebbe raccomandato a Paolo Bergamo, ex
designatore arbitrale, una squadra «amica», la Lazio di Claudio Lotito.
L’inchiesta della procura di Napoli, col tempo, ha assunto dimensioni
gigantesche. Per anni i due pm hanno lavorato nei loro uffici-bunker al terzo e
quarto piano del grattacielo al Centro Direzionale, ascoltando quasi cento
testimoni, o raccogliendo le deposizioni rese ai carabinieri di Roma. Hanno
sfilato davanti agli inquirenti personaggi noti come Pierluigi Collina e Zdenek
Zeman, l’ex patron del Bologna (squadra punita dal «sistema) Giuseppe Gazzoni
Frascara, Carlo Mazzone e Roberto Mancini. Anche grazie a molte di quelle testimonianze
i giudici hanno stilato l’elenco di quelle che secondo loro erano le squadre
protette dalla «cupola»: oltre la Juve, il Messina di Fabiani, la Reggina, la
Lazio di Lotito, la Fiorentina di Diego e Andrea Della Valle, l’Arezzo, la
Torres Sassari. Tutte queste squadre, sostiene l’accusa, furono favorite grazie
all’assegnazione pilotata di arbitri compiacenti.
Beatrice e Narducci sostengono che il campionato 2004-2005 è stato
stravolto con 29 partite «pilotate» in modo che «venissero favoriti gli interessi
(sportivi e quindi economici) delle società calcistiche alleate nel
sodalizio». Di più: la «cupola» lavorava affinché «venissero fornite
specifiche indicazioni sulla composizione della formazione della Nazionale
Italiana di calcio», anche per assecondare «i contingenti interessi della
Juventus». Si adoperava «perché venissero raccolte informazioni riservate
relative a procedimenti penali in corso, avvalendosi dei servigi o comunque
stabilendo compiacenti relazioni con esponenti anche di vertice delle forze
dell’ordine, appartenenti anche alla Guardia di Finanza e alla Polizia di
Stato».
È questo un capitolo solo in parte esplorato dell’inchiesta napoletana
sul calcio sporco. Sì, perché il lavoro dei due magistrati non è
affatto concluso. Beatrice e Narducci hanno scritto la parola fine a un
troncone, sicuramente il più importante, dello scandalo del calcio
sporco. Ma restano da approfondire il filone che riguarda, appunto, i rapporti
fra Moggi e alcuni magistrati e esponenti delle forze dell’ordine; quello
scaturito dalle dichiarazioni dell’arbitro Gianluca Paparesta, che da vittima
del sistema si sarebbe trasformato poi in complice; quello sul traffico di un
numero impressionante di schede telefoniche di un gestore del Liechtenstein,
che sarebbero state fornite da Moggi ad arbitri e dirigenti della Figc. Ma
proprio Moggi dice di sentirsi sollevato dalla richiesta di rinvio a giudizio
contro di lui: «Ben venga un processo perché finalmente potrò fare
ciò che finora non mi è stato concesso: difendermi».
È l’incertezza il marchio della gioventù dei nostri tempi,
insomma, oggi siamo tutti giovani. D’altra parte le mode, gli stili di vita
mimano la giovinezza eterna. Ma oggi in modo più sistematico e
determinato di un tempo. Per rendere indelebili i segni del tempo che «non»
passa.
Con l’aiuto della scienza e della chirurgia.
Non solo la moda giovane, la musica giovane, i consumi (tecnologici) giovani,
quindi. Ma anche i trapianti tricologici, i trattamenti estetici, il fitness a
ogni costo e a ogni età, il botulino per tutti, il lifting e la
liposuzione. Per combattere l’età, fermare il tempo.
Un ruolo interpretato alla perfezione da Silvio Berlusconi. Divenuto, a
ragione, l’icona del nostro tempo senza tempo.
Così, non dobbiamo sorprenderci troppo se l’87 per cento degli italiani
(riferimento all’indagine Demos & Pi, dicembre 2006) condivide
l’affermazione che nel nostro paese «i giovani dovrebbero avere più
spazio nelle posizioni di responsabilità ».
Lo dicono in tanti.
Lo sentiamo ripetere in modo quasi ossessivo, in tutti i discorsi pubblici e
privati. Ma non è vero. O meglio: è vero solo in parte, perché
questa affermazione riflette la desemantizzazione della parola «giovani». Il
cambiamento di significato che ha subito negli anni.
Gli italiani, in altri termini, invocano maggiore spazio per i giovani perché
si sentono tutti giovani.
Oppure, vogliono restarlo sempre più a lungo. Rifiutano di invecchiare.
Non solo perché restare per sempre giovani non dispiace. (A molti; anche se
alcuni la percepiscono come una condanna). Ma anche perché, in questo modo, gli
adulti allontanano il momento del «ricambio»; della sostituzione dai posti di
potere che occupano saldamente. Lo spostano sempre più in là;
sempre più in avanti.
D’altronde, le figure più rappresentative, in Italia, propongono
l’immagine di un paese in cui il tempo si è fermato. Per assurgere alla
carica di presidente della repubblica occorre avere almeno 80 anni; dieci di
meno per guidare il governo oppure l’opposizione. E i «delfini», le «eterne
promesse» che premono, per rimpiazzare Prodi e Berlusconi – leader senza
alternative da quasi quindici anni – hanno l’età di Tony Blair.
Oggi, che, dopo dieci anni al governo della Gran Bretagna, è a fine
corsa. Per non parlare della Francia, dove a contendersi la presidenza della
repubblica, quest’anno, erano tre cinquantenni: François Bayrou,
Ségolène Royal e il candidato eletto Nicolas Sarkozy, 52 anni, il
più giovane.
Lo stesso discorso vale per i ruoli di maggior potere: nell’editoria, nella
finanza, nelle organizzazioni economiche. All’università.
Dove, mediamente, i ricercatori hanno più di quarant’anni, i professori
associati più di cinquanta e i professori ordinari circa sessanta.
Questa è l’immagine riflessa dallo specchio «pubblico» del nostro paese.
Quando ci si sofferma una attimo di troppo davanti è difficile
trattenere un brivido di angoscia. Suscita la sensazione, insopprimibile, di un
paese immobile, dove il tempo si è fermato. Dove si diventa adulti
sempre più tardi. Ma non si invecchia.
Perché non c’è ricambio, né circolazione, né mobilità sociale. Perché
sono invecchiati tutti. Tutti quelli che contano, quelli che fanno opinione.
Quelli che decidono.
Paradossalmente, ma non troppo, in questa società, protesa all’eterna
giovinezza, si assiste alla progressiva eclissi dei «giovani» veri,
anagraficamente definiti (fra 15 e 24 anni). Non solo perché sono una porzione
demograficamente (sempre più) ridotta. Ma perché vengono osservati,
dagli adulti, con un misto di apprensione e malcelata inquietudine. Secondo
l’indagine di Demos, sono ritenuti, rispetto al passato, più «incerti»,
«infelici»; più «soli ». Ma anche più «viziati».
Allo stesso tempo, le parole maggiormente usate per definirli (catalogate e
analizzate da Natascia Porcellato, di Demos) dagli adulti evocano una
generazione «spensierata» e «irresponsabile». Dunque, «oggettivamente» infelici
e incerti, ma «soggettivamente» spensierati e irresponsabili.
Probabilmente: spensierati perché irresponsabili. Visto che larga parte degli
italiani pensa che i figli non riusciranno a mantenere la posizione sociale
raggiunta dai genitori. Anche questa è una novità. Perché tutte
le «generazioni» del dopoguerra hanno migliorato la condizione sociale di
quella precedente. E hanno vissuto la loro giovinezza guardando avanti, mosse
dalla convinzione che ce l’avrebbero fatta. Oggi, invece, pochi pensano che i
più giovani riusciranno a migliorare la posizione raggiunta dai
genitori. Al massimo, riusciranno a confermarla. Grazie all’aiuto degli stessi
genitori.
Anche questo meccanismo di simbiosi e di complicità, peraltro,
contribuisce a spiegare l’elevata vischiosità dei rapporti fra
generazioni. I genitori «spingono» i figli, li sostengono, inserendoli nel loro
stesso mestiere, nella loro stessa professione.
E i figli si «fanno spingere», visto che le opportunità –e le aspettative
– di lavoro e di mobilità sociale sono divenute molto limitate.
I più convinti di questa sorta di «declino » che segna il destino dei
giovani, peraltro, sono proprio i genitori e i nonni.
Sono loro, i più vecchi, i più anziani, a esprimere un giudizio
pessimista sul presente e sul futuro dei più giovani. I quali, invece,
(come emerge anche dalla recente indagine dello Iard) si sentono e si dicono
abbastanza felici. E guardano il futuro con minore apprensione degli adulti.
Anche perché i più giovani, i figli, il futuro ce l’hanno davanti.
Mentre i loro genitori, e soprattutto i loro nonni, ce l’hanno alle spalle.
D’altra parte, i genitori di oggi sono ritenuti, rispetto a un tempo, meno
autorevoli e meno credibili. (Ma è difficile riconoscere autorità
e autorevolezza a chi rifiuta di crescere e di invecchiare...).
In questa società «per sempre giovane», le indagini suggeriscono che,
oltre ai «confini», si siano perduti anche i «conflitti» fra le generazioni.
Le discussioni in famiglia, le tensioni fra genitori e figli, si sono
progressivamente ridotte, rarefatte. Come i divieti e le sanzioni ai danni
degli adolescenti.
Fra genitori e figli vige una sorta di patto di reciproco silenzio, di
reciproca cautela. Ciascuno cerca di evitare di affrontare argomenti e
questioni che possano sollevare contrasti. Per garantire una coabitazione meno
faticosa.
* Tratto dal saggio “Il Paese dove il tempo si è fermato” di Ilvo
Diamanti, pubblicato sull’ultimo numero del “Mulino”, in uscita la prossima
settimana.
Meno cari i viaggi all'estero e le spese energetiche, ma la forza
della moneta unica pesa sull'export di Eurolandia L'euro vola, vacanze in Usa
"a saldo" ROMA - Estate 2007 all'insegna dei saldi per viaggi,
vacanze e shopping a stelle e strisce. Grazie al supereuro che ieri ha messo a
segno un nuovo record storico, portandosi sopra quota 1,37 nei confronti del
dollaro, il nuovo continente, ma anche tutti i Paesi le cui monete sono legate
al biglietto verde, registra infatti prezzi stracciati per i turisti di
Eurolandia: uno sconto cioè di oltre il 10% solo rispetto ad un anno fa.
Per gli italiani in partenza per l'America un biglietto verde - tanto per avere
un unità di misura più facile da confrontare con il passato -
vale ora circa 1.400 lire. E così per un hamburger o un tradizionale hot
dog, magari accompagnato da una Coca, i turisti del vecchio continente potranno
risparmiare in questi giorni fino a quasi mezzo euro rispetto ad un anno fa.
Una notte in un Hotel da 100 dollari nella Grande Mela alla fine di luglio
dell'estate scorsa - quando un biglietto verde valeva 1,25 dollari - costava
l'equivalente di circa 80 euro. Oggi lo stesso hotel a 100 dollari a notte
"costa" 73 euro, quasi cioè 7 in meno. Vale a dire circa il
10% in meno. Il supereuro non fa bene solo alle vacanze ed allo shopping in
terra statunitense, ma anche alle importazioni: dalle auto di lusso alle jeep,
dall'hi-tech all'abbigliamento made in Usa. E vantaggi arriveranno anche nelle
tasche degli automobilisti e delle famiglie sul fronte dell'energia elettrica e
dei carburanti. Il petrolio ed i suoi derivati sono infatti quotati in dollari
ed il ripiegamento del biglietto verde innesca una spirale al risparmio che,
con l'effetto volano - dai prezzi di produzione a quelli di trasporto e
distribuzione - si dovrebbe riversare anche su quelli finali di molti prodotti
al consumo. Per ogni centesimo di dollaro guadagnato dall'euro sul dollaro, i
prezzi internazionali delle benzine (Platt's per l'Europa) si riducono infatti
di due millesimi di euro al litro. Non manca, comunque, anche l'effetto
boomerang della debolezza del dollaro: a farne le spese rischiano di essere le
esportazioni italiane e dell'intera Eurolandia negli Usa ed in tutti i Paesi
legati al biglietto verde. Con una penalizzazione quindi del Made in Italy e
della competitività. Ecco una breve "mappa" degli effetti
legati all'euro forte VIAGGI E TURISMO Andare oltre frontiera, soprattutto
negli Usa o nei Paesi extra-Ue la cui valuta è legata al biglietto
verde, costa meno. Circa il 3% in meno rispetto all'inizio dell'anno ed il 10%
rispetto ad un anno fa. L'impatto è più limitato per coloro che
hanno già prenotato o acquistato pacchetti tutto compreso: la
programmazione dei Tour Operator si basa infatti normalmente sul cambio di
diversi mesi prima. BENZINA ED ENERGIA Per ogni centesimo di dollaro guadagnato
dall'euro i prezzi internazionali delle benzine (Platt's per l'Europa) si
riducono di due millesimi di euro al litro. Limitatamente alla componente
cambio si riduce anche il costo dell'elettricità con possibili ricadute
sulle bollette. PREZZI Il rafforzamento della moneta riduce il costo del
petrolio (dal quale l'Italia dipende per oltre l'80%) e quindi le spese
energetiche, sia per quanto riguarda i trasporti che i costi delle imprese,
innescando un effetto volano che dai prezzi alla produzione a quelli di
trasporto e di distribuzione, alla lunga, incide anche su quelli al consumo. E,
quindi, crea lo spazio per un possibile raffreddamento del costo della vita.
IMPORTAZIONI Cala il costo dell'import in moneta e si crea spazio a potenziali
alleggerimento dei prezzi dei beni extra-Ue. EXPORTIl supereuro penalizza le
esportazioni rendendo meno appetibili i prezzi dei prodotti Ue. E, anche, se le
imprese pagheranno meno, sui mercati internazionali, per le materie prime, si
rischia un rallentamento della produzione.
+ Rai
News 24 10-7-2007 Pollari: parlero' solo se il premier mi autorizza
L’Unità
10-7-2007 Cesare, in arte Cristo Marco Travaglio
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Riformista 10-7-2007 La politica ridotta a misurare l’altezza degli scalini di
Emanuele Macaluso
L’Unità
10-7-2007 Il mito della linea Maginot Silvano Andriani
La
Repubblica 10-7-2007 Varsavia, a pezzi il governo kaczynski - Andrea Tarquini
Il
Giornale di Brescia 10-7-2007 Consob
verso una "stretta" sulle banche Arriva la direttiva Mifid.
Finanza
e Mercati 10-7-2007 Banche poco chiare su rischio bolla
Miaeconomia.it
10-7-2007 Mutui e penali sotto la lente dell'Antitrust
TORINO
Elezioni politiche dell'aprile 2006 senza pace. Dopo le polemiche degli scorsi
mesi arriva adesso un video destinato a riaprire la discussione. È
girato con un telefonino in una casa australiana di Sydney, dove qualcuno,
ripreso di spalle, ha davanti a sè, su un tavolo un mucchio di schede
elettorali che compila in serie indicando preferenze in massa per l’Unione al
Senato (scheda viola) e, per errore, per Forza Italia alla Camera (scheda
arancione).
L'autore del filmato
Le schede vengono poi richiuse e sistemate nelle buste originali del Consolato
e sigillate. Sono almeno un centinaio. L'autore del filmato (che LaStampa.it
pubblica sul suo sito) è Paolo Rajo, candidato al Senato per l’Udeur
all’estero. Contattato telefonicamente dalle redazione ha affermato di essere
lui l'autore del video: «L'ho girato durante la campagna elettorale per le
scorse elezioni politiche in cui io ero candidato al Senato nella lista Udeur»
spiega a LaStampa.it: «Ero a Sydney, mentre facevo campagna elettorale e
sono giunto nella casa di alcuni conoscenti per invitarli a votarmi. Quando poi
ho spiegato il motivo della mia visita, questo amico mi ha detto candidamente
"Ma Paolo, noi ti stiamo già aiutando, in garage c'è mio
figlio con i suoi amici che stanno preparando voti per te"».
Le lattine di birra
Paolo Rajo continua il racconto: «Io ero titubante, credo fermamente nella
segretezza del voto, ma loro insistevano: "Noi abbiamo per te centinaia di
voti"». Gli amici della famiglia di Sydney votano centinaia di schede, «in
cambio di qualche lattina di birra, d'altronde siamo in Australia». «Il
conoscente - continua il candidato dell'Udeur - mi ha poi spiegato la dinamica
di questa strana vicenda: gli avevano detto "se vuoi aiutare Paolo ti
portiamo le schede e ti diciamo cosa devi fare, poi passeremo a
riprenderle". Entrato in garage ho poi effettivamente visto il tavolo con
tantissime schede pronte al voto in serie: non si votava per l'Udeur, ma per
l'Unione. Ho detto che quell'aiuto non lo avrei mai accettato, e lui ci
è rimasto male».
Il filmato
«Avevo con me il mio cellulare ed ho ripreso la scena ma non ho ripreso i
volti. Mancava ancora una settimana al voto in Italia, così il giorno
dopo ho inviato il filmato all'Udeur ma non ho ricevuto nessuna risposta. Anche
inviare tutto via posta non è servito a niente. L'unica volta in
assoluto che il partito mi ha contattato è stato per chiedermi di
inviare al più presto la nota firmata per le spese elettorali che avevo
sostenuto in Australia ai fini del rimborso. Mi hanno detto poi che per il
video non si sarebbe potuto fare nulla». «Qualche settimana dopo - continua
Paolo Rajo - mi ha chiamato un amico mia ha detto: "Vuoi vedere dove sono
finiti i tuoi voti?". Allora mi ha portato in discarica e lì
c'erano centinaia di schede votate con il mio nome. Schede che non sono mai
state conteggiate. Ho fotografato quelle schede, ho inviato ale foto, ma come
per il video non è successo nulla».
Sismi, Nicolò Pollari respinge le accuse Rapporto dello
007 su una trama Cdl contro il neo-premier FRANCESCO GRIGNETTI ROMA Trepidava
per le sorti di Berlusconi. Temeva che i suoi alleati lo ingabbiassero. E ne
sapeva davvero tanto di quelle indiscrezioni che timidamente circolavano in
Parlamento. In quell'agosto del 2001, Pio Pompa, nei report che scriveva per
Pollari, anticipava tra le altre cose anche scenari politici. E non c'entravano
i ritagli di giornale. Tutt'altro. "Viene riferito da fonti certe e
autorevoli". Per concludere con altrettanta sicurezza da dove venivano le
conferme: "Vaticano... Cardinale Ruini...". Addirittura. Le fonti
"certe e autorevoli" quella volta riferirono a Pompa che, nell'ambito
del centrodestra uscito vittorioso alle elezioni di due mesi prima,
"esponenti politici di rilievo stanno esaminando la possibilità di
sganciare i destini della maggioranza da quelli del premier, sottoposto
all'alea delle azioni giudiziarie e del conflitto di interessi che ne
potrebbero determinare la delegittimazione e/o le dimissioni". Di questo
documento, i magistrati hanno trovato due diverse versioni. Una è
scritta a mano e si legge che le ipotesi di sganciamento da Berlusconi, gli
"esponenti politici di rilievo" le avevano avanzate "in incontri
riservati". Nasceva male, insomma, il nuovo esecutivo. O almeno
così registrava Pio Pompa. Scriveva nel suo appunto manoscritto:
"In tal senso, nell'immediato, una prima iniziativa s'è già
svolta, tesa al condizionamento del ruolo e del potere decisionale, attraverso
una serie di rilievi e suggerimenti rivolti al Presidente". Nella versione
dattiloscritta il testo è leggermente differente: "L'intenzione
è quella di condizionare il potere decisionale del premier".
Attorno a Berlusconi, registrava Pio Pompa, si stava sviluppando una gabbia di
sollecitazioni frenanti. "Rilievi e suggerimenti opportunamente orientati
a far assumere al presidente forme di attendismo poco rispondenti a decisioni
rapide e efficaci". Il risultato, insomma, era un certo immobilismo di
Berlusconi che a Pompa poco garbava. Atteggiamento d'attesa che stigmatizzava
soprattutto su un versante e non per caso: si tardava troppo a fare le nomine
ai vertici dei servizi segreti. Anche qui, alle spalle di Berlusconi, segnalava
un "complotto". Questa volta non dei "nemici", ma di certi
alleati poco leali. E perché? "Al fine di ricavarne margini di manovra per
il controllo di importanti apparati attraverso persone meno organiche al
presidente". Nella versione manoscritta il messaggio era ancora più
esplicito: "Per inserire ai vertici di importanti organismi uomini meno
organici al premier, attraverso cui realizzare un efficiente sistema di controllo".
Ovviamente ai danni di Berlusconi. Non è difficile decifrare lo scritto
a Pollari: attenzione, qualcuno nel centrodestra sta mettendo in campo
candidature alternative alla sua (è di quei giorni anche il report su
Frattini a cui era stato raccomandato il generale Giuseppe Orofino per la guida
del Sismi) e quindi bisogna fare attenzione. Il rapporto di Pompa si conclude
con una conferma autorevole. "Di tale notizia si è avuta conferma
anche in ambienti del Vaticano a seguito dei chiarimenti avanzati, in
proposito, dal cardinale Ruini a persone autorevoli e di sicura
affidabilità". Nella versione scritta a mano, il tono è
persino più drammatico e la storia è leggermente diversa:
"Di tale riservatissima notizia, si è avuto riscontro anche in
ambienti del Vaticano a seguito di chiarimenti in proposito chiesti dal
cardinale Ruini a persone autorevoli e di sicura affidabilità". Chi
fossero, questi misteriosi interlocutori del cardinale, non è scritto da
nessuna parte. Però non è un mistero che l'analista di via
Nazionale era un protetto di don Verzé, il carismatico prete-imprenditore,
fondatore dell'ospedale San Raffaele, che lo sponsorizzò fortemente.
Tutto ciò quanto Pio Pompa portava a conoscenza del vicesegretario
generale del Cesis che si preparava a diventare direttore del Sismi a
metà agosto 2001.
Niccolo' Pollari "Rispetto il segreto di Stato. Ma
se il presidente del Consiglio riterrà di svincolarmi da questo segreto
state tranquilli che sarò estremamente esaustivo. Ma solo se il premier
mi autorizzerà". Lo ha detto l'ex capo del Sismi, Niccolò Pollari
parlando con i giornalisti prima della colazione in un ristorante romano con il
presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga. "Io rispetto il
segreto di Stato" ha affermato Niccolò Pollari. "Ho
delle direttive e dei doveri da rispettare e lo farò sempre, perché sono
un uomo delle istituzioni". "Se però il presidente del
Consiglio - ha proseguito - riterrà nell'esercizio delle sue
attribuzioni di svincolarmi dal segreto, se mi autorizzerà a farlo,
state tranquilli che io sarò estremamente esaustivo. Ma finché questo
non avverrà, io rispetterò la legge come ho sempre fatto in vita
mia". Ma in che contesto intende parlare? "I tutti i contesti - ha
risposto Pollari - in cui il premier mi autorizzerà a
farlo". "Sono un uomo delle istituzioni e rispettero' sempre la
legge, anche a costo di pagare prezzi, come sto facendo". Così l'ex
capo del Sismi, Nicolo' Pollari, parlando con i giornalisti prima del
pranzo con Cossiga. "Finora ho soltanto ascoltato, ora voglio precisare
qualcosa", ha detto Pollari. "E cioé - ha proseguito - che la
mia posizione è e rimane sempre la medesima: sono un uomo delle
istituzioni, io non violerò mai alcun segreto a meno che il presidente
del Consiglio in carica non mi dia l'ordine di farlo. Io rispetterò la
legge a costo di pagare prezzi, come sto facendo in determinati casi".
L'ex direttore del Sismi ha quindi ribadito che spetta al premier svincolarlo
dal segreto: "è lui titolare del segreto di stato non io - ha
affermato Pollari - come qualcuno sembra voler sostenere quando dice che
mi nascondo dietro al segreto di stato". "Io sono l'unico portavoce
di me stesso". E' la precisazione che l'ex capo del Sismi, Niccolò Pollari,
ha tenuto a fare parlando con i giornalisti. Nei giorni scorsi era stato il
presidente della commissione Difesa del Senato, Sergio De Gregorio, a rendere
note alcune affermazioni di Pollari, secondo le quali l'ex capo del
Sismi sarebbe stato intenzionato a dire tutto sui "misteri italiani".
Le spie esistono dacché esistono le guerre, poiché in guerra
conoscere i piani e i movimenti del nemico è la cosa più
importante. I Greci avevano spie a Troia. Lo stratega dell'esercito cinese Sun
Tzu fornisce consigli a tutto campo nel suo L'arte della guerra su come
ingannare il nemico grazie alle spie. I Guelfi avevano spie tra i Ghibellini, e
viceversa. Con ogni probabilità, il drammaturgo inglese Christopher
Marlow è stato una spia per la Corte di Elisabetta. Durante la guerra
civile americana entrambe le parti in conflitto erano infiltrate da un gran
numero di spie nemiche. Ciò nondimeno, le spie affascinano e catturano
stabilmente la nostra immaginazione soltanto quando diventano protagonisti di
opere di fiction: e così è stato nei venti anni che hanno preceduto
la Prima Guerra mondiale, soprattutto in Gran Bretagna. Le spie erano di
importanza fondamentale per la Gran Bretagna a causa del suo impero: al suo
apogeo, l'impero britannico copriva un quarto della superficie terrestre del
pianeta e conteneva un quarto della sua popolazione, e ciò nondimeno era
poco sorvegliato e protetto. Per controllarlo efficacemente, i britannici
avevano bisogno di intelligence per venire a sapere quanto prima possibile di
rivolte tra le tribù locali o a conoscenza di informazioni sui nemici
dell'impero, come pure sui loro stessi alleati. Quando ebbe inizio il
"Grande Gioco", il Great Game - la lotta tra la Russia e l'impero
britannico per il controllo dell'Asia centrale e dell'India - entrambi i
contendenti ebbero bisogno di informazioni attendibili sulla lealtà
delle varie tribù e dei loro leader, e sui movimenti della controparte.
Per la prima volta, gli exploit di queste spie furono oggetto di trasposizione
nella fiction: il Kim di Rudyard Kipling fu tra i primi romanzi di spionaggio.
A quei tempi le spie erano considerate eroi coraggiosi, quanto meno dal loro
Paese. Così sarebbero rimaste le cose, quanto meno nella fiction, per i
decenni a seguire. Le spie dei romanzi di John Buchan - specialmente il suo
protagonista principale, Richard Hannay - sono stereotipi inglesi, come loro
stessi speravano di potersi considerare: riservati, coraggiosi, pieni di
risorse e più di ogni altra cosa abili e di successo nello sventare i
malvagi complotti dei nemici e nel proteggere la libertà della Gran
Bretagna. I Trentanove scalini sono l'opera più famosa tra queste,
trasposta in varie versioni cinematografiche. Quando i Paesi erano sotto
minaccia - principale motivo per scatenare una guerra fino alla metà del
secolo scorso - di solito le spie erano considerate anch'esse in pericolo dal
loro Paese. Dovevano avere coraggio e padronanza di sé, grande intelligenza e
la capacità di agire e intervenire in modo efficiente. Dovevano
chiaramente operare nella massima segretezza e di conseguenza risultavano
quanto mai affascinanti. Chi scriveva romanzi e opere di narrativa sulle spie
era spesso a sua volta un ex agente dell'intelligence, per esempio, nel Regno
Unito, Compton Mackenzie, W. Somerset Maugham ed Eric Ambler, (quest'ultimo
è stato un raro esempio di autore di romanzi di spionaggio di sinistra).
Dopo l'ultima guerra, a ogni buon conto, lo spionaggio ha iniziato a essere
considerato qualcosa di più problematico. Il "Grande Gioco"
è diventato Guerra Fredda tra Unione Sovietica e suoi alleati da una
parte e l'Occidente dall'altra. In Occidente le spie erano spesso quelle che
simpatizzavano con il Comunismo: tra queste le più famose sono state il
diplomatico britannico nonché giornalista Kim Philby, chiamato - che ironia! -
proprio col nome del protagonista di Kipling. Insieme a Philby, Anthony
Burgess, Donald MacLean, John Cairncross e Anthony Blunt avevano tutti studiato
a Cambridge, erano uomini dell'alta middle class e per una molteplicità
di motivi odiavano il loro Paese natale. Philby è stato la spia di
maggior successo tra loro, ha passato ai sovietici enormi quantità di
informazioni, e determinato lo smascheramento e l'omicidio di moltissime spie
che lavoravano per i britannici e gli americani. La Guerra Fredda ha prodotto
il contrapporsi di sinistra e destra perfino in Occidente, e la fiction che
è andata crescendo intorno alle spie si è anch'essa divisa su due
fronti. A destra Ian Fleming ha creato con James Bond la spia di maggior
successo di tutti i tempi: affascinante, gran seduttore, con una spiccata
predilezione per i vini buoni e le sigarette speciali, tanto bravo a letto
quanto nel lottare contro gli agenti del Kgb. Il culto per Bond è andato
ulteriormente crescendo nei film e se all'inizio degli anni Novanta poteva
sembrare che la serie di film su 007 fosse giunta alla sua conclusione, il
recente successo di Casino Royale dell'anno scorso ha dato nuovo vigore alla
tradizione, tanto che attualmente si sta girando il ventiduesimo film di James
Bond. A sinistra le spie diventavano nella trasposizione letteraria molto
più ambigue. Un americano tranquillo e Il nostro uomo all'Avana di
Graham Greene, e il personaggio di George Smiley di John LeCarré, mettono in
scena uomini delusi, stanchi e frustrati del loro lavoro e della vita, che
combattono un nemico che spesso reputano non proprio migliore né peggiore di
loro stessi. Al contempo, l'esperienza della guerra in Vietnam, le rivelazioni
sulle ingerenze della Cia un po' ovunque - specialmente in America Latina -
hanno contribuito a polarizzare le opinioni e i romanzi americani di
spionaggio. Nei romanzi di Tom Clancy gli agenti segreti se talora paiono
misteriosi nei loro obiettivi, in definitiva sono buoni dal punto di vista
morale. Nei romanzi di Charles McCarry - egli stesso un ex agente della Cia - i
protagonisti sono invece più complessi, mentre nei film di Oliver Stone
- specialmente JFK - il mondo delle spie è visto e mostrato come il
tragico mondo che complotta ai danni della democrazia stessa. Una nuova fase
sta iniziando: dopo la pausa al termine della Guerra Fredda è adesso la
volta della Guerra al Terrore, una "guerra" combattuta tanto dalle
agenzie di intelligence quanto dagli eserciti e dalle polizie. Ovunque in
Occidente i servizi segreti stanno dandosi da fare in ogni modo per capire
l'islamismo radicale, e si adoperano per reclutare una nuova categoria di spie,
uomini e donne in grado di infiltrarsi nelle reti del terrore che aiutano gli
islamisti, e che di conseguenza sono spesso di origini mediorientali o
pachistane, e sentono un attaccamento maggiore nei confronti dei Paesi dai
quali sono originari che non dei loro compagni di fede che hanno adottato le
tattiche del terrorismo. Già adesso appaiono in televisione e in alcuni
romanzi nuovi personaggi ispirati a questi nuovi modelli di spia. Quanto tempo
occorrerà prima che spunti fuori il James Bond del futuro, di pelle
scura, con accento pachistano e di fede islamica?
Il personaggio ha sempre avuto un rapporto, per così dire,
problematico con la verità. Fin da quando giurò che i 21 miliardi
di lire recapitatigli in Svizzera dai Rovelli erano una "parcella"
pagata da una famiglia che lui non aveva mai difeso. Poi cambiò tre o
quattro versioni, spiegando poi al Tribunale attonito di aver mentito per
"proteggermi dal fisco". Cioè perché era un evasore fiscale.
Ma guai a ricordarglielo: lui rispondeva rabbioso "non sono un evasore
perché ho fatto il condono", come se il condono lo facessero i
contribuenti modello. Ora però le balle sesquipedali che Cesare Previti
ha raccontato ieri alla giunta per le elezioni suonano decrepite, quasi
provenissero dal Jurassic Park della memoria. Il suo vergognoso caso è
già stato digerito dalla classe politica tutta, che l'ha frettolosamente
archiviato insieme a tutte le altre putribonde indecenze della storia patria.
Il fatto che il braccio destro di Berlusconi comprasse sentenze per conto del
Cavaliere e di altri clienti che vincevano cause civili in cui avevano torto,
scippando la Mondadori a De Benedetti o procurando a Rovelli 1000 miliardi di
lire non dovuti a spese dei contribuenti, è considerato un accidente
della storia. Da non usare mai nella battaglia politica, onde evitare che la
questione morale vi si riaffacci pericolosamente. Da undici anni si sa che cosa
faceva questo barattiere di sentenze con un pugno di giudici corrotti e
impresari corruttori nelle aule di Giustizia, ma nessun leader politico
s'è mai alzato per chiederne solennemente la cacciata dal Parlamento.
Quel che lui ha detto ieri, a prescindere dal voto finale di 11 a 6 (comunque
tardivo e ingiusto, per lo scempio che s'è fatto delle prerogative
parlamentari dinanzi a una sentenza definitiva), dipende dall'annoiata
indifferenza che l'ha avvolto in tutti questi anni. Quel che lui ha detto ieri,
insozzando il Parlamento repubblicano e oltraggiando la logica, il diritto e la
pubblica decenza,è esattamente ciò che lui sapeva di poter dire:
"I miei persecutori non riusciranno mai a fiaccare la mia forza d'animo
che deriva dal fatto che sono sempre stato onesto, leale e sono vittima di una
persecuzione". In un paese che consente a tal Corona d'insultare a reti
unificate senza replica i pm che hanno scoperto le sue porcherie, anche Previti
vuole la sua parte. "L'ultimo mio giudice non è stato imparziale",
ha sostenuto il perseguitato, profittando del fatto che nessuno ricorda quanti
giudici l'han giudicato colpevole in base a prove che con la politica non
c'entrano nulla: i bonifici bancari degli anni 80 e dei primi 90, quando lui
faceva l'avvocato e il suo principale l'imprenditore. Previti s'è
appellato alla Corte europea, come se esistesse per gli adepti della casta un
quarto grado di giudizio. Anzi, un quinto: il quarto è l'incredibile
giunta per le elezioni, che da 14 mesi si permette di discutere una sentenza
della Cassazione e l'interdizione perpetua dai pubblici uffici che ha
già prodotto la cancellazione del nostro dalle liste elettorali.
Così Previti ha potuto affermare: "Tesi contrapposte si dovrebbero
confrontare in una posizione "in dubio pro reo"" (le "tesi
contrapposte" sarebbero una sentenza irrevocabile della Suprema Corte e i
delirii di un pregiudicato). E ha potuto spiegare, in barba alla giurisprudenza
consolidata, che l'anno prossimo, quando concluderà il servizio sociale
nella comunità per ex-tossici di don Picchi, insieme alla pena detentiva
si esaurirà anche quella accessoria, che invece viaggia separatamente
ed, essendo perpetua, è incancellabile. Ma anche se, per assurdo, avesse
ragione, è davvero singolare che si dica: visto che devo scontare 3
anni, tanto vale aspettare 3 anni e non farmi scontare nemmeno un giorno. Se
esistesse un minimo di decenza o di normalità, tutto finirebbe in una
risata omerica. Invece sono tutti seriosi: discutono, si macerano, votano,
rivotano, rivoteranno e chissà quando finirà la pantomima. Ne fa
parte l'ex senatore dell'Ulivo Giovanni Pellegrino, che difende Previti e mette
la faccia per sostenere tesi che uno si vergognerebbe di pensare: i giudici che
han condannato Previti erano "politicizzati", "parziali",
"prevenuti". Insomma, come direbbe anche Pio Pompa, toghe rosse.
Parola del presidente Ds della Provincia di Lecce... Il quale riesce pure a
dire, restando serio: "Qui non si tratta di difendere la persona Previti,
ma lo status di parlamentare: Barabba fu assolto, il Nazaremo fu condannato. E
Socrate fu costretto a bere la cicuta". A nessuno è venuto in mente
di rispondere: sì, ma Gesù e Socrate non rubavano. Pare brutto
parlare di furto in casa del ladro. Uliwood party.
Cara Europa, qui a Roma, nel quartiere Trieste-Salario, si vive
sostanzialmente bene, a parte le popò dei cani sui marciapiedi, gli
alberelli indifesi dalle retromarce delle automobili e le squadracce fasciste
che irrompono (una tantum, per fortuna) a Villa Ada e terrorizzano la gente. La
contromanifestazione degli antifascisti ha chiesto al comune meno equidistanza
e al ministero dell’interno più prevenzione.
Giustissimo, a patto di non ridestare gli eterni fantasmi che ci distolgono dai
problemi veri: Ici, trasporti, asili, rifiuti, vigilanza sui prezzi. ALDO
MARINARI, ROMA
Caro Marinari, quand’ero ragazzino mi colpiva il
fatto che nelle adunate patriottiche (24 maggio, il Piave mormorava), 20
settembre (bersaglieri a Porta Pia), 4 novembre (festa della vittoria), ci
fosse in piazza, a festeggiare con noi scolari e con gli adulti di ruolo, un
gruppo di vecchietti spesso stortignaccoli, con le camice rosse dei
garibaldini, fra tante camice nere del tempo. Noi ragazzini, sempre cattivi, ci
facevamo un po’ di conti. Eravamo nel 1940, e siccome le ultime imprese dei
garibaldini ci sembrava risalissero al 1870, settant’anni prima, dicevamo: se
avevano vent’anni all’epoca delle imprese, oggi ne avranno almeno novanta.
Non sarà che c’è qualche trucchetto? Bastava uno sguardo truce
del maestro per non indurci in tentazioni comunicative, che avrebbero offeso la
religione della patria.
Con l’antifascismo la storia si ripete. La partita fascismo- democrazia
è stata liquidata con la vittoria della democrazia nel 1945, cioè
62 anni fa, da gente che oggi ne avrà più di ottanta.
Francamente, vedere il corteo dei tremila antifascisti che replicano agli
squadristi del Trieste-Salario dietro enormi striscioni (tipo “A.n.p.i. I
Partigiani”) è parso eccessivo perfino a me, che sull’antifascismo sono
intransigente come sul laicismo, due cardini della nostra democrazia.
Sicché vorrei dire ai vecchi partigiani, che in questi decenni hanno custodito
lo spirito della resistenza, di non consentire del protagonismo fuori tempo
dando dignità di nemico alla Banda Bassotti, ma di sostenere i ministri,
i sindaci e le forze dell’ordine nel fare il proprio dovere: che è
quello di reprimere, senza drammatizzare, le manifestazioni sediziose – si
tratti dello stadio, di villa Ada o della caserma Diaz.
Il problema è di polizia, oltre che di cultura, perciò occorre
che i poteri pubblici facciano il loro dovere di prevenzione e che la scuola
educhi, cose che spesso non fanno bene.
A pochi giorni da Villa Ada, c’è stata l’aggressione di Viterbo, dove
cinque neofascisti hanno pestato a sangue uno studente universitario di 27 anni
(4 punti di sutura all’arcata sopraccigliare e 3 alla bocca). Ma Viterbo non
è una metropoli, non si conoscono i teppisti?.
Forse ci sono picchiatori ringalluzziti dai rilanci di Storace per la “cosa
nera”. Alla quale, la politica replicherà politicamente, mentre la
polizia dovrebbe replicare prevenendo cattive intenzioni e possibili fattacci.
Tipo l’uccisione a Focene, vicino Roma, quasi un anno fa, di Renato Biagetti.
Io non so se il presidente del Consiglio e i suoi due vice, i due presidenti
delle Camere, che sono autorevoli esponenti dell’Unione, e tutti i leader dei
partiti governativi (sono molti!) in questi giorni hanno preso coscienza che la
maggioranza politica non c’è più. Il problema che è emerso
in questi giorni non è più quello dei Turigliatto o della
senatrice altoatesina che, nel momento in cui sono chiamati a votare, non si sa
se mettono in minoranza il governo, come è avvenuto. Né si tratta di
sapere, come lascia intendere con la finezza politica che lo distingue il
Cavaliere, se sul mercato c’è qualche senatore in vendita. La
maggioranza non c’è perché su un tema essenziale che riguarda la
politica di bilancio e la riforma del welfare (a spizzichi e bocconi)
c’è una spaccatura tra chi si riconosce nel Pd, i pochi parlamentari
della Rosa nel pugno da un lato e l’insieme di quel che si chiama “sinistra
radicale” a cui ormai vengono associati i parlamentari della Sinistra
democratica dall’altro. Non sottovaluto le sceneggiate di Di Pietro alla
vigilia del voto sulla legge che ritocca la riforma Castelli sull’ordinamento
giudiziario (un compromesso che nella sostanza raccoglie le posizioni dei
magistrati), o quelle di Mastella sui Dico, ma la spaccatura di cui parlo ha un
rilievo strategico per la coalizione. Il richiamo dei partiti dell’Unione al
programma non ha senso perché si tratta di parole incollate l’una all’altra,
senza un’elaborazione e senza progetti reali e condivisi.
La verità è che le forze politiche italiane non hanno elaborato
strategie in relazione ai mutamenti “epocali” di cui tanto si parla. O meglio,
si chiacchiera. Quando dai costruttori del Pd da una parte e dalla sinistra
radicale dall’altra si sentono parole di sufficienza e sprezzo verso le
socialdemocrazie europee c’è da restare interdetti. Ancora una volta
(errare è umano, perseverare no) la sinistra italiana esalta una sua
specificità, una separatezza dal socialismo riformista europeo: “da
destra” il Pd, “da sinistra” i massimalisti. Ma si tratta solo di impotenza e
velleitarismo bel misurarsi con il governo delle società aperte. Oggi
sembra che il Pd difenda i giovani senza un domani e i massimalisti gli anziani
che debbono andare in pensione. Ma né l’uno né l’altro, e tantomeno insieme,
cioè l’Unione, ha elaborato una linea, un progetto complessivo di
riforme del welfare.
I sindacati hanno certo le loro responsabilità (non quelle che
attribuisce loro Scalfari), ma è anche vero che non sono stati chiamati
a confrontarsi con un progetto in cui l’età pensionabile dovrebbe essere
solo una parte e non il tutto. Oggi l’alternativa è: o lo scalone o gli
scalini. E Prodi ha l’ultima parola sull’altezza e sul numero degli scalini.
Penoso. In questa dialettica in negativo tra Pd e sinistra massimalista, l’uno
alimenta l’altra, divisi tra chi sta con il “riformismo confindustriale” o il
“conservatorismo operista”, oppure tra “governisti moderati” o “governisti
estremisti”. La Sinistra democratica di Mussi avrebbe dovuto rompere questa
dualità negativa collocandosi senza equivoci nell’area del socialismo
riformista italiano ed europeo per renderlo più incisivo e in grado di
stimolare, nei due schieramenti, contraddizioni e ripensamenti. Invece sembra
che un fatto politico e traumatico come è stata la separazione dai Ds
serva solo ad accrescere la cosiddetta sinistra alternativa rendendo
così ancora più impotente e perdente la sinistra nel suo
complesso. Volete o no riflettere e discutere?
Patto di stabilità La pressante richiesta dell'Unione
europea ad alcuni Paesi di ridurre il livello del deficit pubblico previsto e,
soprattutto, di ridurre il rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo
è fatta certamente in applicazione del "Patto di
stabilità", ma fa venire in mente l'impegno dei generali francesi
nell'apprestare la linea Maginot quando pensavano di affrontare un'eventuale
seconda guerra mondiale con le stesse tattiche con le quali avevano vinto la
prima e finirono travolti dalle novità della guerra di movimento.
Dall'epoca in cui il patto di stabilità fu concordato tra i paesi
dell'Unione di allora la situazione dell'economia mondiale è
sostanzialmente mutata e con essa sono cambiate le condizioni che possono
generarne l'instabilità. La filosofia che anima il "Patto"
deriva dall'orientamento formatosi in risposta alle grandi contraddizioni
esplose negli anni 70 in seguito all'enorme aumento del prezzo del petrolio e
alla rincorsa salariale verificatasi in molti Paesi
L' instabilità si manifestava attraverso l'esplosione
dell'inflazione e dei deficit pubblici e le politiche economiche furono
gradualmente indirizzate al controllo dell'inflazione ed al contenimento dei
deficit pubblici. Quelle politiche hanno avuto successo e da molti anni ormai
l'inflazione è sotto controllo e, almeno nell'area dell'Unione monetaria,
grazie alle regole concordate, il livello del debito pubblico rispetto al Pil
si è stabilizzato. L'instabilità tuttavia, non è
scomparsa. Essa è andata manifestandosi, negli ultimi venti anni,
attraverso le crisi finanziarie, cioè la formazione e l'esplosione di
bolle speculative: negli ultimi venti anni se ne contano sei di grande portata.
Le bolle speculative sono, in fondo, un'altra forma di inflazione, l'inflazione
dei beni patrimoniali, che le statistiche ufficiali, però, non rilevano
e della quale le politiche economiche finora non si sono occupate. Solo di
recente la Banca Centrale Europea, distinguendosi da quella statunitense e
seguendo gli orientamenti della Banca Internazionale dei Regolamenti, ha
ammesso l'esistenza del problema ed ha assunto come principale indicatore della
sua gravità il livello di indebitamento dei privati, visto la forte
relazione che esiste fra questi due fenomeni. Il "Patto di
stabilità" fissa dei limiti al livello accettabile dell'inflazione,
dei deficit e dell'indebitamento pubblici. Non che esista, come si sosteneva,
un rapporto automatico tra deficit pubblico ed inflazione, che i fatti hanno
smentito, anche di recente: l'esplosione del deficit statunitense, dopo l'11
settembre, non ha avuto effetti apprezzabili sull'inflazione. Un effetto, a
certe condizioni, tuttavia, può esistere e, comunque, un eccesso di
indebitamento pubblico è un male perché menoma, in prospettiva, il
funzionamento dello Stato e le possibilità di sviluppo e riversa il peso
di questi limiti sulle generazioni future. Anche se sarebbe bene valutarne
l'andamento non solo nel singolo anno, ma in un arco pluriennale per dare al
bilancio pubblico la possibilità di contrastare eventuali fenomeni
recessivi. Negli ultimi quindici anni, tuttavia, almeno in Europa, e
soprattutto nell'area dell'euro, il fenomeno principale non è
l'indebitamento pubblico, ma quello privato, soprattutto delle famiglie. A
trainare questo processo sono i paesi anglosassoni: in Usa, Uk, Nuova
Zelanda, Australia il livello di indebitamento delle famiglie è oltre il
cento per cento del reddito disponibile, superando il record raggiunto alla
vigilia della crisi finanziaria del 1929. E poiché dopo l'11 settembre tali
paesi hanno aumentato anche i deficit pubblici, si è rafforzata la loro
attitudine ad importare capitali dall'estero: oggi essi assorbono oltre il 90%
dei flussi netti mondiali di capitale. Ma anche gli altri paesi europei stanno
seguendo quella traiettoria ed il paradosso è che i principali
finanziatori di questi paesi ricchi sono paesi relativamente poveri, come la
Cina e l'India, nel quadro di uno sviluppo mondiale profondamente distorto. Con
il "Patto di stabilità" si è stabilito, giustamente,
che un eccesso di indebitamento pubblico è cosa cattiva. Ma non è
detto che un eccesso di indebitamento privato sia cosa buona o meno cattiva.
Irving Fisher fu un grande economista statunitense, uno dei sostenitori della
"new economy" nella versione anni '20, giacchè pare che questa
teoria, che sostiene la scomparsa del ciclo economico, si ripresenti
puntualmente all'inizio di ogni nuovo ciclo economico. Quando i fatti,
cioè la grande crisi degli anni '30, smentirono clamorosamente la sua
teoria, egli analizzò quella crisi e ci ha dato di essa la spiegazione
più accreditata, che individua nell'eccesso di indebitamento privato la
causa principale della crisi finanziaria e della "grande depressione"
che ne seguì. Oggi questo è il rischio principale, che il patto
di stabilità non rileva e neanche la Commissione europea. E questo
nonostante l'allarme ripetutamente dato dalla Banca internazionale dei
regolamenti ed ora da una serie di banchieri centrali europei, tra i quali
Draghi. Ma forse la più importante ammissione viene da Merving King,
Governatore della Banca Centrale inglese, cioè di uno dei paesi che
traina il fenomeno dell'indebitamento, che in un importante discorso dedicato
alla necessità di riformare il sistema finanziario internazionale
riconosceva che oggi l'elemento più critico da considerare è
"...il rapporto fra gli asset ed i debiti sull'estero dei principali paesi
industrializzati". La valutazione del concorso di ciascun paese alla
stabilità o instabilità dell'economia mondiale dovrebbe essere
misurata, allora, non dal solo livello dell'indebitamento pubblico, ma anche da
quelli dell'indebitamento privato e del tasso di risparmio, in ultima analisi,
dal livello di indebitamento sull'estero. Qualcuno ha provato a rielaborare le
graduatorie con questo nuovo criterio ed il risultato è che paesi che,
come l'Italia appaiono molto viziosi lo apparirebbero molto di meno e paesi
che, come l'Inghilterra, appaiono virtuosi apparirebbero decisamente viziosi.
Il prevalere ancora dell'idea che l'eccesso di indebitamento pubblico sia cosa
cattiva e quello privato cosa buona, così come buona sarebbe la crescita
trainata dall'aumento di consumi privati finanziati con indebitamento è
il segno della perdurante egemonia cultuale neo-liberista di origine
anglosassone e della sua ideologia. Un approccio riformista non può non
misurarsi con questa dimensione dei problemi per tradursi in proposte di
riforma delle istituzioni internazionali e del loro funzionamento.
I PUNTI è crisi nell'esecutivo nazional-populista: il
partito contadino "Samoobrona" abbandona la coalizione con il suo
leader Lepper Varsavia, a pezzi il governo Kaczynski gli alleati in Europa l'opposizione
in Polonia Il premier caccia il vice accusato di molestie ed evoca il voto
anticipato Lo sbocco più probabile sembrano elezioni anticipate a
metà settembre Il primo ministro: "Non ho paura di presentarmi agli
elettori" ANDREA TARQUINI dal nostro corrispondente BERLINO - Esplode a
sorpresa la crisi politica in Polonia. La maggioranza parlamentare del governo
nazionalpopulista dei gemelli Kaczynski è in pezzi: il partito contadino
"Samoobrona" l'ha abbandonata, dopo il licenziamento del suo leader
Andrzej Lepper da vicepremier. Il capo dell'esecutivo, Jaroslaw Kaczynski, ha
apertamente evocato ieri sera elezioni anticipate: "Un governo di
minoranza sarebbe totalmente inefficiente, e io non ho paura di presentarmi
agli elettori", ha detto. Legislative anticipate a metà settembre
appaiono lo sbocco più probabile della crisi. Tutto è cominciato
nel tardo pomeriggio. Quando il premier Jaroslaw Kaczynski ha convocato il suo
vice Andrzej Lepper, capo appunto di Samoobrona. Da tempo accusato di corruzione
e molestie sessuali di giovani donne dipendenti. Nelle settimane scorse gli
agenti speciali dell'ufficio anticorruzione hanno perquisito i suoi uffici e
arrestato due suoi stretti collaboratori. Il faccia a faccia è stato
duro, senza appello. "Jaroslaw Kaczynski in realtà aveva già
deciso la mia sorte", ha detto Lepper uscendo. "Io sarei restato, ma
adesso tutta la delegazione del mio partito uscirà dalla coalizione. Il
governo non ha più una maggioranza". Poco dopo si dimetteva anche
un altro ministro di Samoobrona, il responsabile dello sport Tomasz Lipiec. Il
governo nazionalpopulista è al potere dalle elezioni parlamentari e
presidenziali dell'autunno 2005, che avevano sancito la vittoria di stretta
misura del Pis (Legge e Giustizia), il partito dei gemelli Kaczynski. Appunto
Jaroslaw, il più dinamico e aggressivo, divenuto allora premier, e Lech,
poi eletto capo dello Stato. Il Pis ha al Sejm (la Dieta polacca) 146 seggi, e
governa insieme ai 46 deputati di Samoobrona e ai 29 dell'estrema destra della Lega
delle famiglie polacche, guidata dall'altro vicepremier Roman Giertych e
accusata di antisemitismo. "Le elezioni anticipate sono uno sbocco
probabile", ha detto Jaroslaw Kaczynski. La crisi colpisce a metà
mandato il più discusso, euroscettico e autoritario governo polacco
dall'instaurazione della democrazia nel 1989 con la rivoluzione non violenta di
Solidarnosc. I gemelli Kaczynski - che secondo molti allora, nell'89, furono
colti da una crisi di gelosia e di voglia frustrata di potere quando il primo
capo di governo democratico, Tadeusz Mazowiecki, li escluse dal suo gabinetto -
ruppero con i padri della rivoluzione. Da quando sono al potere governano
chiedendo liste nere di proscrizione, diffamando i loro avversari (Mazowiecki,
Geremek, Michnik, lo stesso Walesa). Hanno appoggiato la discriminazione dei
gay e di altre minoranze, tentano di assoggettare le istituzioni. Lo zloty, che
Mazowiecki e il presidente Kwasniewski avevano agganciato al marco e poi
all'euro, ha perso un quarto del valore, un milione di laureati sono emigrati.
E in Europa, la linea dura all'ultimo vertice europeo - i brutali insultanti
attacchi alla Germania della Merkel e i no a un'Europa politica forte e
funzionante - ha isolato il paese che aveva avviato la caduta del Muro.
Nella relazione del presidente Cardia i temi dei conflitti
d'interesse, delle commissioni e della governance Critiche al modello
"duale" con i consigli di sorveglianza e di gestione MILANO Si
avvicina la stretta Consob sulla politica delle banche italiane di
"spingere" la vendita allo sportello dei prodotti finanziari con
commissioni più alte o delle proprie obbligazioni, anche se queste
rendono meno dei titoli di Stato. L'arma che permetterà alla commissione
di scardinare l'uso di tali pratiche sarà l'arrivo della direttiva
Mifid. Recepita nei giorni scorsi dal Consiglio dei ministri e in vigore dal
prossimo 1° novembre. Uno strumento evocato più volte nella relazione
sull'anno 2006 tenuta ieri dal presidente della Consob Cardia di fronte
a oltre 400 esponenti della politica e della finanza. L'introduzione della
Mifid permetterà di mettere i risparmiatori al centro dell'attenzione
delle banche e assicurazioni spezzando il legame e il conflitto di interesse
latente fra fabbrica e rete distributiva di proprietà dello stesso
gruppo bancario. Una situazione che, secondo la Consob, ha permesso alle
banche di realizzare ricavi importanti spingendo la vendita di obbligazioni
strutturate, con maggiori rendimenti e rischi e commissioni di ingresso
più elevate. SANZIONI - Lo scorso anno, reduce dalla dura lotta ai
"furbetti" Cardia aveva chiesto più poteri e norme per
combattere le illeciti richieste in gran parte accolte e che già danno i
primi frutti sul fronte delle sanzioni (cresciute a 11,7 milioni di euro) e dei
sequestri (40 milioni) anche se, secondo il presidente, va corretto il sistema
delle oblazioni che permette di "patteggiare" e pagare una sanzione
senza che la cosa sia resa pubblica. Consob punta inoltre a una sempre
maggiore vigilanza preventiva, con la magistratura che dovrebbe intervenire
solo in seconda battuta e nei casi più gravi. MERCATO - Le operazioni di
fusione hanno ridotto il numero di sistemi piramidali e "scatole
cinesi" ma il peso del fenomeno, tutto italiano, dei patti di sindacato
nel 2006 è passato dal 16,5 al 22,3% della capitalizzazione complessiva
della Borsa di Milano rendendo minore la contendibilità. GOVERNANCE - Il
modello dualistico con un consiglio di sorveglianza e uno di gestione confonde
piuttosto che separare i ruoli di gestione e di controllo, che nel modello
tradizionale sono divisi in modo chiaro fra Cda e collegio sindacale. Cardia
lancia un attacco diretto al sistema di regole societarie adottato da Intesa
SanPaolo, Mediobanca e Ubi Banca e già finito sotto la lente di
Bankitalia. Cardia propone, per migliorare il controllo nel duale,
"l'affidamento delle funzioni di controllo, con i connessi requisiti, a
uno specifico comitato costituito all'interno del consiglio di
sorveglianza" e "l'attribuzione ad un membro di tale comitato del
compito di assistere alle riunioni del consiglio di gestione". Parole
"sostanzialmente condivisibili", rileva Corrado Faissola, presidente
dell'Abi e vicepresidente del consiglio di gestione di Ubi Banca
(Banca Lombarda-Bpu), uno degli istituti ad avere adottato la governance
dualistica. Faissola ricorda, senza citare Mediobanca, che quella proposta da
Cardia "è una soluzione che qualche gruppo bancario credo abbia
già adottato"."È tutta materia che deve essere
sperimentata", riconosce poi il banchiere. In materia di organi societari
Cardia ha poi preannunciato obblighi di informazione e norme più
stringenti per le società che presentano maggiori rischi di conflitti di
interessi in operazioni con parti correlate ed è tornato a denunciare il
fenomeno dell'"interlocking", ovvero la presenza nei consigli di
amministratori che hanno cariche in altre società quotate, magari dello
stesso gruppo.
"Banche poco chiare su rischio bolla" L'attuale situazione borsistica è
molto florida, forse troppo. Per cui, oculatezza e chiarezza di informazioni nelle
scelte d'investimento è d'obbligo. L'allarme su una correzione netta e
pericolosa all'orizzonte, arriva dal presidente Consob, Lamberto Cardia
che, ieri in Piazza Affari, nel corso dell'incontro annuale con il mercato
finanziario, ha detto che "l'esperienza mostra come gli investitori
individuali tendano a entrare nel mercato nelle fasi di crescita prolungata dei
prezzi, cui spesso seguono riassestamenti, anche di forte
intensità". Ora più che mai, dunque, le banche devono
fornire ai clienti una buona consulenza al momento della scelta degli
investimenti. Tuttavia, in base alle parole di Cardia, non sembra che questo
avvenga. Anzi, gli istituti di credito stanno addirittura incanalando i
capitali provenienti dal riscatto delle quote dei fondi comuni in prodotti di
scarsa trasparenza, ovvero verso "polizze assicurative a contenuto
finanziario" e verso "obbligazioni bancarie, spesso caratterizzate da
strutture complesse e di più difficile valutazione". "Questa
evoluzione - è l'affondo di Cardia - riflette, in larga parte, gli
obiettivi delle reti distributive, che negli ultimi anni hanno visto
privilegiare la vendita di prodotti finanziari a più elevati margini di
rendimento per i distributori e funzionali alle strategie di finanziamento dei
gruppi di appartenenza". Soprattutto riguardo ai bond bancari, la Consob
ha notato che ben il 40% delle emissioni è rappresentato da strutturati,
tanto che su questi " sarà ulteriormente sviluppata la vigilanza
con il supporto di specifici modelli di analisi". Per Cardia, quindi, i
motivi addotti dalle Sgr per spiegare il deflusso di capitali (primo fra tutti
la tassazione sul maturato e non sul realizzato) servirebbero solo a nascondere
una strategia di convogliare i capitali verso prodotti ad alta profittabilità
(per la banca). Le cifre in gioco, d'altronde, sono enormi: da inizio
anno il saldo dell'industria del gestito è negativo per 20 miliardi. Le
responsabilità delle banche non finiscono qui: "L'evoluzione del
mercato e del quadro normativo implica maggiori responsabilità e
consapevolezza dei rischi assunti". Che non sono solo
"fisiologici". Bensì, sul piano "patologico",
possono richiamare "eventuali comportamenti non corretti da parte di
fornitori e servizi finanziari". Per Cardia questi problemi possono essere
risolti anche con "una diffusa cultura finanziaria". Ma soprattutto,
ha concluso, "si avverte forte l'esigenza di favorire il ricorso degli
investitori alle azioni risarcitorie dei danni".
Mutui (10/07/2007) Bacchettata alle banche dall'Antitrust che sta
lavorando per verificare se gli istituti stiano applicando correttamente le
norme previste dal pacchetto liberalizzazioni. Un accertamento partito dopo le
molte lamentele arrivate all'Authority, tra cui compare anche quella dello
stesso presidente dell'Autorità per la concorrenza ed il mercato. Antonio
Catricalà ha infatti precisato che anche a lui è stata chiesta
per l'estinzione di un mutuo "una penale più alta di quella
stabilita dall'accordo siglato a maggio scorso tra l'Associazione bancaria
italiana e i consumatori". I reclami sono arrivati soprattutto dalle
associazioni dei consumatori che hanno inviato una lunga lettera al garante per
denunciare la mancata applicazione da parte delle banche delle norme contenute
nei decreti sulle liberalizzazioni: dalla portabilità dei mutui a zero
spese, all'adeguamento automatico dei tassi sui depositi alle decisioni della Banca
centrale europea, passando per l'applicazione di penali ridotte sui mutui
contratti prima di febbraio 2007, cioè prima del secondo pacchetto
Bersani. Norma che ha abolito le penali per i nuovi mutui e ha lasciato ad Abi
e consumatori il compito di ricondurre "ad equità" le
commissioni sui vecchi mutui, contratti cioè prima dell'entrata in
vigore del decreto. Un compito portato a termine con un accordo raggiunto a
maggio che ha ridimensionato le percentuali richieste dalle banche per ripagare
un prestito immobiliare prima del tempo pattuito. Catricalà ora si dice
pronto ad approfondire la documentazione ricevuta e vedere se sono fenomeni
diffusi o casi isolati. 0 voti - › Vota questa notizia ›.
La Repubblica 9-7-2007 IL RICATTO DELLO SPIONE GIUSEPPE
D'AVANZO
L’Unità 9-7-2007 Dal Sismi a Telecom: tecnica di
un colpo di mano di Marco Travaglio
Roma, 9 Luglio 2007 AgenParl
– Dice Gianfranco Fini che anche
Walter Veltroni è d’accordo
sulla ineluttabilità dello scioglimento del Parlamento agli inizi
dell’anno prossimo per portare in primavera gli elettori alle urne.
Che Fini e Silvio Berlusconi abbiano
questo obiettivo non c’è dubbio. Ma è altrettanto certo che i
loro parlamentari non condividono questa loro volontà.
Su ciò, e cioè sulla necessità di mandare avanti la
legislatura, convengono i leader dell’Unione,
ben sapendo che il voto anticipato segnerebbe la fine del Partito Democratico che
si accingono a costituire.
Sembra ovvio che anche Veltroni debba sottostare alla volontà di quanti,
pur se sarà lui il leader del Pd, di questo partito saranno più o
meno dietro le quinte i veri padroni.
Secondo Fini, a Veltroni converrebbe persino la sconfitta elettorale del Pd in
quanto gli consentirebbe di liquidare i boss diessini e margheritini e quindi
di non doverne subire più i condizionamenti.
Roma, 9 Luglio 2007 – AgenParl
– "Alla luce di tutto quanto sta accadendo: Csm, Pollari, archivi segreti e quant'altro, chiediamo al Presidente del
Consiglio di ripensare e rivedere il segreto di Stato, anche quello opposto nei
confronti della magistratura di Milano per la vicenda Abu Omar". E' quanto dichiara il ministro Antonio Di Pietro
a commento di quanto sostenuto da Pollari sulla necessità di una
commissione d'inchiesta che lo liberi dal segreto di stato e poter così
svelare i fatti di cui è ritenuto responsabile.
“Pollari – continua Di Pietro – anche nel caso Abu Omar, ha sempre dichiarato
di aver agito per conto del Governo e nei limiti del mandato ricevuto.
C'è necessità quindi di sapere – secondo Di Pietro – quale sia
questo mandato e cosa è successo all'interno di quella vicenda,
come di sapere cosa c'è dietro la
vicenda archivi segreti di Pio Pompa.
Chiediamo pertanto, riguardo alla vicenda Abu Omar, che sia revocato qualsiasi
segreto di Stato e ritirato il ricorso alla Corte Costituzionale. Questo –
prosegue il leader dell'IdV – ci
sembra un atto dovuto. Così anche Pollari, come dice oggi, può
dire la sua e cioè se lui e i suoi collaboratori hanno agito negli
interessi dello Stato o fuori dai limiti
istituzionali. C'è bisogno di sapere chi e perchè operò in
quell'occasione e nella vicenda ultima degli archivi segreti relativi a
magistrati e giornalisti redatti da Pio Pompa. Ora Pollari – continua l'ex P.M.
– si propone di collaborare auspicando una commissione; ma collaborare è
sempre un dovere, a meno che non sia l'occasione per buttare altro fango nei
confronti dei servizi italiani. Per questo sono certo della necessità di
una commissione d'inchiesta che valuti tutte le versioni dei fatti. Soprattutto
sono convinto – è la conclusione di Di Pietro – che un funzionario dello
Stato non può aver agito da solo ma, necessariamente, deve aver ricevuto
indicazioni da qualcuno.
ROMA.
Qualsiasi grande gioco di carte comincia con una smazzata, e quella di ieri
è la prima smazzata di una partita che andrà avanti a lungo
scoprendo «carte» sempre più scottanti. Nicolò Pollari affida
alla confidenza col senatore Sergio De Gregorio i primi elementi di un mosaico
che per completarsi avrebbe bisogno dell’esenzione dall’ex comandante del Sismi
dall’obbligo al segreto di Stato e della nascita di una commissione d’inchiesta
parlamentare.
E’ molto difficile che le cose si verifichino entrambe, ma in attesa di servire
gli altri giocatori Pollari fa intravedere quali potrebbero essere i suoi primi
punti. Documenti alla mano - l’Italia è un Paese di casseforti -
è pronto a parlare della missione militare in Libano, a svelare come mai
il Sismi abbia mancato per un soffio la liberazione dei due soldati israeliani
prigionieri degli hezbollah, di come stesse per impedire la strage di Cana, dei
riscatti pagati per il ritorno il libertà di Agliana, Cupertino, Stefio
e di Giuliana Sgrena, nonché di ostaggi polacchi, inglesi e americani
segretamente liberati in Iraq grazie alla rete di contatti del nostro servizio
di sicurezza militare. Sarà bene ribadire ancora che questo è
soltanto il primo giro, scontri ben più poderosi si attendono nei giri
successivi però la prima lista di argomenti serve a far capire agli
avversari che qui non sta bluffando nessuno. In base a ciò che l’ex
direttore del Sismi confida a De Gregorio, prendiamo dunque in esame gli
elementi di un «dossier» che potrebbe diventare sterminato qualora il gioco si
facesse davvero duro.
«Inutili aperture a Hezbollah»
Nei mesi scorsi, dice Pollari, il Sismi ha più volte contrastato la
decisione di inviare in Libano truppe italiane e lo ha fatto per iscritto,
sottolineando problemi di sicurezza e di ordine politico. Nei documenti gli
uomini del Sismi giudicano inutili e controproducenti certe aperture del
governo verso gli «hezbollah» e inoltre hanno segnalato più volte che i
nostri reparti sono stati schierati in zone particolarmente pericolose, dove possono
sopravvivere senza gravi rischi solo grazie alla benevolenza dei guerriglieri
di Hassan Nasrallah. In pratica oggi nel Sud del Libano saremmo politicamente e
militarmente prigionieri di un movimento estremista. Seguiranno dettagli. La
scorsa estate il Sismi aveva avvertito il governo che gli «hezbollah» cercavano
di provocare una strage di civili piazzando loro unità a fianco di
rifugi, come accadde a Cana. Il governo non avrebbe trasmesso l’informazione
per tempo. Il 30 luglio un aereo israeliano bombardò per errore un
rifugio in cui rimasero uccise 60 persone, fra cui 37 bambini.
La rete del Sismi all’estero
Secondo le rivelazioni di Pollari, pochi mesi fa la rete del Sismi era giunta a
un passo dalla liberazione di Ihud Goldver e Aldad Righiz, i due soldati di
Israele prigionieri del movimento di Nasrallah. «La cosa era praticamente
fatta», riferisce De Gregorio, «ma poi non si è potuta attuare perché il
governo italiano non ha agito come avrebbe dovuto». Non si capisce ancora il
genere di atto che ci si aspettava dall’esecutivo. Pollari sarebbe pronto a
fornire materiale inedito circa le liberazioni di Maurizio Agliana, Umberto
Cupertino e Salvatore Stefio e della giornalista Giuliana Sgrena che proverebbe
come siano stati pagati grossi riscatti. In un caso, pare il secondo,
Berlusconi sarebbe intervenuto con il suo patrimonio personale per rendere
possibile una liberazione in tempi brevi, anche se all’epoca il governo e il
suo ministro degli Esteri Fini smentirono con decisione. Grazie alla rete del
Sismi, nei mesi successivi sarebbero stati liberati anche ostaggi polacchi,
inglesi e americani: la guerriglia sunnita si fidava soltanto dei nostri
agenti.
Anche le attività della spia «Betulla», ovvero il giornalista Renato
Farina, oggi radiato dall’Ordine, andrebbero rivalutate. Attraverso i contatti
con il suo amico di «Al Jazeera» Imad El Atrache (oggi protetto in Italia)
secondo Pollari Farina svolse compiti decisivi sotto il profilo umanitario.
Circolano indiscrezioni su esponenti del radicalismo islamico ospitati
segretamente in Italia per cure mediche. Estremisti islamici, non terroristi:
rimane il fatto che da noi Al Qaeda non ha mai compiuto stragi.
Nicolò Pollari, appena ieri lo
spione più amato dalla politica italiana, si dice "pronto a
raccontare i misteri d'Italia dagli anni Ottanta ad oggi, nonostante
l'atmosfera di regime". Non si accontenta delle stanze chiuse della
commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). Sono troppo protette,
dice, e i commissari vincolati alla riservatezza per quel che ascoltano e
accertano. Insomma, da quelle stanze lo spione non può parlare "ai cittadini",
come si è messo in testa di fare.
Pollari vorrebbe "chiarire"
guidando lui il gioco. Ma ha già tre sedi per dire la verità:
processo di Milano, procura di Roma e Copaco La Grande Spia tenta l'ultimo
ricatto Caso Speciale e Csm hanno spinto lo scontro fuori dai
"sotterranei" I precedenti Telekom e Mitrokhin insegnano: in una
commissione d'inchiesta i parlamentari sarebbero alla mercè delle
versioni di comodo (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) GIUSEPPE D'AVANZO Manco
fosse un caudillo e non un funzionario dello Stato che, potentissimo agente
segreto, ha lavorato nel "regime" e per "il regime".
Curioso per uno spione, la segretezza è oggi un deficit per Pollari.
Egli vuole che si sappia che cosa svela e insinua e manipola (è quel che
solitamente gli riesce meglio). Attraverso un bizzarro "portavoce"
(il senatore Sergio De Gregorio, che fa lo stesso mestiere per il generale
Roberto Speciale) chiede allora la platea più visibile e sensibile, una
illuminatissima commissione d'inchiesta parlamentare. Lo spione sa che ogni
iniziativa politica, se agitata nello spazio mediale e con la voce dei media,
può fare a meno di autenticità e fondatezza (basta ripensare alle
commissioni Telekom Srbija e Mitrokhin). Alle prese di venti deputati e venti
senatori che, si possono immaginare, inesperti dei metodi e delle strategie di
un'intelligence così controversa, e addirittura non consapevoli della
cronologia degli avvenimenti, Pollari avrebbe l'opportunità in prima
battuta di scrivere a mano libera il copione. Di graduare, secondo
necessità, il potere di pressione e di condizionamento che si è
assicurato nel tempo intrattenendo rapporti non convenzionali con entrambi gli
schieramenti politici. Che domande potrebbero fargli i quaranta parlamentari?
Dovrebbero soltanto ascoltare la "sua" verità (a Pollari non
piace avere contraddittori), le sue mezze verità e mezze menzogne e, in
attesa di definire la fondatezza del suo racconto, un caos fangoso
schiaccerebbe ogni possibilità di fare luce. E' la condizione che, per
il momento, sconsiglia la commissione d'inchiesta, strumento che offre molte
opportunità a chi deve spiegare che cosa ha combinato e molte poche a
chi deve accertarlo. Appena l'altro giorno si diceva che il gioco sarebbe stato
nelle mani degli spioni e non del Parlamento. E tuttavia chi poteva attendersi
che le minacciose intenzioni di Pollari sarebbero venute allo scoperto, con
tanta fretta, nell'allusiva forma del ricatto? L'iniziativa dell'amatissimo
spione non è altro. E' un chiassoso ricatto che ha il pregio, per così
dire, di rendere chiara e concreta qualche circostanza, anche a chi per
convenienza o spensieratezza o arroganza finora l'ha negata.
L'"agglomerato oscuro", legale e clandestino, nato nella connessione
abusiva dello spionaggio militare (Sismi) con diverse branche
dell'investigazione della Guardia di Finanza (soprattutto l'intelligence
business) in raccordo con la Security di grandi aziende come Telecom e il
sostegno di agenzie d'investigazione private che lavorano in outsourcing, si
è "autonomizzato". Lavora per sé, secondo un proprio
autoreferenziale interesse e non più, come nel passato, al servizio di
questo o quell'utile politico, di questa o quella consorteria politica. La
scandalosa deformità s'era già avvistata. Si immaginava
però che il ritorno sul "mercato della politica"
dell'"agglomerato" con la sua massa critica di potenziali ricatti si
sarebbe consumato, come di consueto, in quei sotterranei dove le fragili
"power élite" italiane si proteggono, si rafforzano, si difendono, si
accordano. L'eterogenesi dei fini ha rotto lo schema. Lo scontro Visco/Speciale
ha costretto il governo di centro-sinistra a dubitare del patto di
non-aggressione tacitamente sottoscritto con il network spionistico. Il
Consiglio superiore della magistratura, con il documento approvato con
discrezione dal capo dello Stato, ha spinto il confine ancora più in
là mettendo sotto gli occhi della società politica una minaccia
per un democrazia ben regolata. Il ceto politico non ha potuto lasciar cadere,
come d'abitudine, la questione e - pur nella diversità degli strumenti
da usare - è stato costretto a impegnarsi a fare verità e
chiarezza. Pollari, come ieri il fido Roberto Speciale, ha cominciato a vedere
davanti a sé un tritacarne e la catastrofe. Se Speciale ha pensato di salvarsi
sollevando un'inchiesta giudiziaria e quindi "giudiziarizzando" il
conflitto con il governo, Pollari è stato costretto a venire allo
scoperto abbandonando il "sotterraneo" dove si trova più a suo
agio. Imputato a Milano e indagato a Roma, è stato costretto a
"politicizzare" la sua avventura e il suo destino. Sollecita
così, per i canali politici che ancora gli restano, la nascita di una
commissione d'inchiesta che gli permette o di far saltare il tavolo o di
ridurre al silenzio i suoi critici di oggi (e magari amici di ieri). Ora
è evidente che il ricatto dello spione non può essere accettato.
Deve essere accettata la sua disponibilità a testimoniare. Nicolò
Pollari dica quel che sa, ma non gli sia consentito di farlo a ruota libera,
senza alcuna regola, in un rapporto diretto con l'emotività
dell'opinione pubblica, lontano da una pratica che sappia accertare fatti e
responsabilità prima di giungere a un qualsiasi esito. Ci sono tre sedi
in cui Pollari può liberare la sua ansia di verità (si fa per
dire). Il Palazzo di Giustizia di Milano, dove è imputato per il
sequestro di un cittadino egiziano. La procura di Roma che lo indaga per
l'ufficio di disinformazione e dossieraggio di via Nazionale. Dinanzi
all'autorità giudiziaria Pollari (come chiede) può liberarsi del
segreto di Stato senza alcuna autorizzazione governativa, perché la
Costituzione privilegia il diritto di difesa dell'imputato rispetto al segreto
di Stato. Pollari può farlo dunque da subito. Lo faccia. C'è una
terza sede, politica, istituzionale. E' il comitato parlamentare di controllo
sui servizi segreti. Chieda di essere ascoltato. Non c'è dubbio che lo
ascolteranno di buon grado e con i tempi adeguati. In quel contesto, e con le
opportune norme di riservatezza, le sue parole possono essere tenute nel giusto
conto, analizzate, verificate. Il Copaco ha strumenti d'indagine limitati? Non
ci vuole molto per rafforzarli (se il Parlamento vuole), ma per intanto il
comitato ha competenza e la memoria (si vedrà se la voglia) per
discernere, nel racconto di Pollari, il grano da loglio anche con il contributo
della documentazione che saprà offrire l'ammiraglio Bruno Franciforte,
oggi a capo del Sismi. Sempre che Pollari non si sia portato dietro l'archivio.
Addirittura dagli anni Ottanta ad oggi.
/ Segue dalla prima Visto che i bersagli
delle sue attenzioni entravano ipso facto nel mirino di Berlusconi e della sua
band. L'episodio più grave tra quelli finora emersi, dunque il
più ignorato da pompieri & minimizzatori, è quello rivelato
due giorni fa da Francesco Grignetti su la Stampa: il falso dossier di Pompa
per screditare l'allora capo del Sismi, ammiraglio Gianfranco Battelli, poi
sostituito dall'amico (di Pompa e di Berlusconi) Niccolò Pollari. Un caso
da manuale di "tecnica di un colpo di mano", che fa il paio con
quello gemello avvenuto in casa Telecom negli stessi giorni dell'estate 2001:
la prima estate del secondo governo Berlusconi. Anche lì si trattava di
epurare la vecchia guardia per rimpiazzarla con la banda Tavaroli, gemellata
col Sismi pollariano tramite Marco Mancini. E anche lì non si
esitò a ricorrere al falso per agevolare il cambio della guardia: una
finta microspia nell'auto dell'amministratore delegato Enrico Bondi screditò
i vecchi 007, prontamente rimpiazzati dai Tavaroli Boys. Due bufale d'autore
per spianare la strada, ai vertici dell'intelligence dello Stato e del colosso
telefonico nazionale, a quella che un generale del Sismi definirà poi
"la Banda Bassotti", ora indagata a vario titolo per sequestro di
persona, dossieraggi illegali, peculato, associazione a delinquere e
così via. Nell'agosto 2001 Berlusconi ha appena insediato il suo governo
e già rischia di tracollare per la sciagurata gestione del G8 di Genova.
Al Sismi c'è ancora Battelli, nominato dal centrosinistra dopo aver
fatto il capo di gabinetto di Beniamino Andreatta, padre nobile dell'Ulivo e
ministro della Difesa nel primo governo Prodi. Pollari scalpita nel suo ufficio
di vicedirettore del Cesis (organo di coordinamento dei servizi) e intrattiene
una fitta corrispondenza con l'"analista" Pio Pompa, segnalatogli dal
comune amico don Luigi Verzè, il prete-affarista del San Raffaele che
è una sorta di cappellano di Forza Italia. Pompa produce
"report" a getto continuo sui presunti nemici del Cavaliere, un vero
e proprio "network internazionale" da "disarticolare" anche
con "metodi traumatici". Il nemico - avverte - si annida ovunque,
financo a Palazzo Chigi, dove urge "bonificare". Cioè,
anzitutto, cacciare l'ammiraglio Battelli, noto comunista, complice - secondo
Pompa - delle manovre del "dispositivo" antiberlusconiano "tese
a introdurre elementi di discredito e di depotenziamento della maggioranza. a
seguito dei gravissimi fatti relativi al G8 e delle durissime polemiche
sfociate nella costituzione del Comitato bicamerale di indagine
conoscitiva". Il vertice Sismi (in una bozza dello stesso report, Pompa fa
nome e cognome di Battelli) avrebbe addirittura "costituito una ristretta
task force con il compito di produrre le prove circa la presenza di estremisti
di destra negli incidenti di Genova". In pratica l'ammiraglio infedele
starebbe trescando con l'ex maggioranza ulivista per sabotare il governo di
centrodestra fabbricando una pista nera (Forza Nuova al posto dei No global)
dietro ai Black Bloc "con l'intento di alleggerire la posizione di
difficoltà dell'opposizione offrendole argomenti in grado di accrescerne
il potere contrattuale nei confronti del governo, costringendolo a mediare
sulle decisioni che investono i vertici di polizia e dei servizi di
sicurezza". L'appunto, fondato sul nulla, è della fine di agosto
del 2001. Il 27 settembre Berlusconi decapita i servizi: al Sismi esce Battelli
ed entra Pollari, con Pompa al seguito. Intanto l'operazione si ripete pari
pari alla Telecom. Qui la patacca non è un dossier fasullo, ma una
cimice-bufala. Protagonista il trio Tavaroli-Mancini-Cipriani (quest'ultimo un
investigatore privato fiorentino amico di Gelli e intimo dei primi due).
Secondo il gip milanese Paola Belsito, che li ha arrestati in blocco, Mancini
come numero 2 del Sismi "acquisiva nell'ambito del suo ruolo istituzionale
informazioni che trasmetteva a sua volta a Tavaroli, il quale le veicolava
sull'investigatore Cipriani, retribuito dalle aziende di Tavaroli con cospicue
somme di denaro". Prova regina della triangolazione: una "bonifica
fasulla fondata su argomenti assai seri e convincenti" che consentì
a Tavaroli di "acquisire un potere ancora maggiore" con
l'"azzeramento dei vertici della security Telecom". Nell'estate 2001,
quando Tronchetti Provera acquista la Telecom, Tavaroli è capo della
security Pirelli. Ma, com'è ovvio, aspira a mettere le mani sulla prima
compagnia telefonica del paese, che gestisce pure le intercettazioni per conto
dei giudici. Ma Telecom una security ce l'ha già, diretta da Piero
Gallina sotto la supervisione del segretario generale Vittorio Nola. Il primo
deve saltare per far posto a Tavaroli e ai suoi boys, il secondo perché
bolognese e dunque ritenuto un pericoloso "prodiano". Detto, fatto.
Occhio alle date. Il 31 luglio 2001 il Cda Telecom nomina Enrico Bondi
amministratore delegato. Il 7 agosto il top manager noleggia un'Audi A8 e
avverte interferenze sospette nell'autoradio. Se ne occupa l'autista di
Tronchetti Provera che, anziché affidare l'auto alla sicurezza Telecom, si
rivolge a Tavaroli (Pirelli). Questi lo manda a Firenze all'officina
Verzoletto, legata all'amico Cipriani. E qui, puntualmente, il 21 agosto viene
trovata la presunta microspia. Tronchetti sporge denuncia contro ignoti, viene
aperta un'inchiesta, la security Telecom - additata come incapace di proteggere
da intrusioni i nuovi vertici del gruppo - è delegittimata: il 10
settembre Nola e Gallina si dimettono: al loro posto arriva Tavaroli, con 500 uomini,
budget e poteri illimitati. Il 15 settembre la Polis d'Istinto fabbrica un
dossier zeppo d'illazioni e veleni su Prodi e Nola a proposito di presunti
finanziamenti occulti al Professore camuffati da attività promozionali
della Telecom. Solo cinque anni più tardi, indagando sul fallimento
della Verzoletto, si scoprirà che la cimice era fasulla (un telefono
cellulare smontato, senza display, tastiera e involucro esterno e dotato di
un'antenna e un cavetto artigianale) e, per giunta, a infilarla nell'auto di
Bondi era stata la stessa ditta indicata da Tavaroli per la
"bonifica". La tecnica del colpo di mano la racconterà ai pm
milanesi nel 2006 Lorenzo Baroncelli, esperto in bonifiche ambientali della
Verzoletto Spa: "Il 20 agosto sera Verzoletto ci disse di prepararci a
bonificare una macchina che sarebbe arrivata il mattino seguente. Il mattino
seguente in laboratorio Verzoletto ci disse che la bonifica avrebbe portato a
trovare una microspia di sicuro, ma io mi chiesi come poteva fare a saperlo
visto che tra l'altro tutte le bonifiche che avevamo fatto fino a quel momento
non avevano mai trovato un tubo. Ma il mio collega mi disse: 'Fava, la
microspia la piazziamo noi'. A quel punto ci disse di fare finta di diventare
operativi e cominciamo a lavorare su questa Audi A8 con operazioni solo tese a
perdere del tempo in modo che l'autista potesse essere allontanato con la scusa
di un caffè. A quel punto la microspia fu piazzata nella plafoniera
della luce di cortesia. Al ritorno dell'autista, Verzoletto affermò che
la microspia era stata ritrovata: si trattava di un cellulare sgusciato di
quelli che preparavamo in laboratorio. ". Fu così che nel settembre
2001, mentre Pollari e Pompa s'insediavano al Sismi, Tavaroli si
installò alla security Telecom. La Banda Bassotti aveva preso il potere.
E non era la sola.
Il
sistema politico italiano soffre di una frammentazione partitica
esasperata. Questa frammentazione, come chiunque può constatare, ci
condanna all'ingovernabilità e, alla lunga, può anche
compromettere il futuro della nostra democrazia. Non è quindi un
ragionare per paradossi sostenere che la sorte del costituendo Partito
democratico dovrebbe stare a cuore anche a coloro che non ne condividono le
proposte e non hanno intenzione di votarlo. Insieme alla raccolta di firme in
corso per il referendum sulla riforma elettorale, la costituzione del Partito
democratico è infatti, attualmente, la sola iniziativa tesa a invertire
la tendenza, a ridurre quella dannosa e pericolosa frammentazione. Se il
Partito democratico diventerà la formazione più forte e vitale
del centrosinistra, una riaggregazione si verificherà certamente anche a
destra. E di queste riaggregazioni la nostra democrazia necessita oggi
più di qualunque altra cosa. Ma i primi passi del nascente Partito
democratico non sono stati felici. Dopo l'entrata in scena di Walter Veltroni,
si sono subito delineati due orientamenti. Il primo è proprio di coloro
ai quali nulla interessa di riaggregazioni nel sistema politico (e poco anche
della capacità di durata del Partito democratico). Costoro sperano solo
di avere trovato in Veltroni un leader capace di battere Berlusconi. Punto e
basta. Se poi Veltroni vince e non riesce a governare a causa del permanere
della frammentazione è cosa che non li riguarda. Per questo costoro sono
pronti anche ad avallare qualunque stravaganza. Essendo l'Italia un Paese
fantasioso che fa sempre cose diverse da quelle che fanno gli altri, ecco la
«stravaganza» che è stata immaginata. Si fanno primarie rigorosamente
finte (sarebbe un bis, dopo quelle fatte a suo tempo con Prodi).
Veltroni,
appoggiato dagli apparati dei Ds e della Margherita e dai loro leader, e magari anche sfidato
per finta da qualche candidato di comodo, viene plebiscitato. Il plebiscito
lascerebbe l'amaro in bocca a molti militanti che hanno creduto sinceramente
nel Partito democratico, ma che importa?: l'unica cosa che conta è
l'attesa ricaduta mediatica e propagandistica dell'evento. Contemporaneamente,
si lanciano tutte le possibile e immaginabili «liste per Veltroni» in modo che
gli organi di partito vengano occupati dalle varie correnti, grandi e piccole,
che si vanno nel frattempo costituendo. Il partito che nascerebbe non avrebbe
alcuna vitalità (non ci sarebbe nessuna vera fusione fra le forze politiche
che lo hanno tenuto a battesimo) ma, ancora una volta, che importa?: l'unica
cosa che conta è che esso regga almeno fino alla conclusione della
campagna elettorale. Esiste però anche un secondo orientamento,
caldeggiato, dentro e fuori il Partito democratico, dalle persone serie, vuoi
per genuina adesione ai valori politici che il Partito democratico potrebbe
rappresentare, vuoi per ostilità alla frammentazione del sistema
partitico. È l'orientamento di chi non si augura false partenze né
bizantinismi, né stravaganze, né coreografie da socialismo reale. Di chi
auspica primarie autentiche, uno scontro vero per la leadership (e, altrettanto
importante, per il controllo di tutti gli organi centrali del partito) fra
candidati con proposte almeno in parte divergenti. Perché solo da uno scontro
vero, dalla lotta politica (non dai calcoli e dalla pianificazione di chi
controlla gli apparati), possono nascere quel generale rimescolamento delle
carte e quella autentica fusione in grado di dare vitalità all'impresa.
09
luglio 2007
Forse è opportuna una riflessione
più attenta, da parte dei gruppi dirigenti promotori del Partito
democratico, sulle tendenze che sembrano prevalere nella convulsa vicenda
politica italiana. Il rischio è che l'operazione che ha condotto in
queste settimane alla candidatura di Veltroni con l'obiettivo di aprire una
nuova e più espansiva prospettiva al Partito democratico possa
rapidamente ridimensionarsi; che i nodi politici irrisolti (che hanno condizionato
il primo anno di vita del governo Prodi) si ripropongano prepotentemente in
vista di una sorta di resa dei conti distruttiva nella maggioranza.
Sbaglierò ma ho la sensazione che, rispetto a tendenze in atto che
muovono le cose in questa direzione, i riformisti del centro sinistra subiscano
gli eventi, quasi incapaci di reagire sul piano politico. Eccessivo pessimismo?
Vediamo.
Lo stato di difficoltà politica e di crisi di comunicazione del governo
è purtroppo evidente. A me pare enorme che, nel volgere di appena un
anno, si siano erose, in misura consistente, le sue basi di consenso e che, su
questo dato, non si rifletta a sufficienza. Quasi fosse possibile aggirarlo. La
verità è che all'origine delle difficoltà del governo non
c'è tanto, né solo, una crisi di leadership. È una
interpretazione consolatoria quella che riduce tutto alla presunta debolezza di
Prodi. I nodi sono di fondo. È la configurazione politica assunta dal
centro sinistra che stenta a reggere alla prova delle scelte necessarie per
affrontare i problemi aspri e duri con cui deve fare i conti il paese. Per
dirla senza mezzi termini (e rischiando qualche semplificazione) la sinistra
massimalista condiziona eccessivamente la capacità di innovazione e di
decisione del governo. Questo comporta inevitabilmente, su alcune questioni
oggetto di negoziati tra le parti sociali e il governo, l'irrigidimento del
sindacato che non intende (né può) lasciarsi scavalcare da gruppi della
estrema sinistra. Esemplare di questo problema è lo stallo sulla
delicata vicenda delle pensioni. Certo, l'alleanza con le componenti radicali
della sinistra è resa inevitabile dall'attuale legge elettorale. Si
tratta tuttavia di uno stato di necessità le cui conseguenze andrebbero
attenuate dalla impronta riformista che sull'azione del governo dovrebbero
imprimere le forze impegnate nella costruzione del Partito democratico. La
verità è che questo, finora, non è avvenuto con la
limpidezza necessaria per timore che una visibilità riformatrice
esplicita ostacolasse la continuità del rapporto con la sinistra
estrema.
Questa è la chiave per intendere la natura dei problemi in cui si
dibatte l'esecutivo. Si tratta di un circolo vizioso in cui il centro sinistra
rischia di avvitarsi e che potrebbe condurre, inevitabilmente, alla paralisi o alla
implosione. Cosa fare? Qui ritorna il nodo del Partito democratico e della
candidatura di Veltroni. Il bel discorso di Walter a Torino segna una marcata
assunzione di valore dell'identità riformista del Pd. Veltroni appare
consapevole che occorre lavorare perché i riformisti diventino realmente il
motore di un nuovo centro sinistra impegnato a realizzare le riforme di cui il
paese ha bisogno. Decisivo tuttavia è che vi sia, in chi si candida a
guidare il Pd, la volontà di affrontare anche l'impopolarità, se
necessario, per difendere un progetto di cambiamento. Che non si abbia timore
di distinguersi visibilmente dai luoghi comuni e dai tabù conservatori
della vecchia sinistra massimalista. Ma c'è un aspetto particolarmente
delicato di cui occorrerebbe discutere in vista delle primarie. La nuova
formazione politica deve rappresentare un fattore di stimolo
nell'attività del governo evitando di appiattire il proprio profilo su
quello dell'attuale maggioranza. Occorre per esempio che il Partito democratico
si mostri pronto a lavorare perché il Parlamento provveda ad approvare una
nuova legge elettorale ma non abbia timore, se ciò (come purtroppo
è probabile) non accade, a sostenere gli obiettivi del referendum; non
abbia timore a promuovere il rilancio delle riforme economiche e sociali
necessarie per il Paese e sostenga coraggiosamente misure innovative ed eque
per la riforma del sistema previdenziale, ispirando a principi di
solidarietà non assistenziale le proposte di riforma del welfare state.
Ecco perché, oltre l'illustrazione di una piattaforma politica (come
efficacemente ha fatto Walter a Torino) occorre un'indicazione concreta delle
riforme da realizzare. La stabilità del governo infine è solo una
delle obbligazioni cui deve tendere il Partito democratico. L'altra è
elaborare una cultura politica propria, distinta dalla semplice identificazione
con il “Patto di maggioranza”. È un percorso arduo di cui non mi
nascondo le difficoltà. Ma a me pare, al punto cui sono giunte le cose, obbligato.
Ed è partendo da queste considerazioni che c'è da chiedersi se
non sia un errore l'assenza, nelle primarie, di una competizione aperta tra
candidature diverse. Io penso che lo sia. La estrema difficoltà politica
dell'impresa, più che una unità rituale di facciata che dura lo
spazio di un mattino, imporrebbe un dispiegarsi di candidature e progetti
diversi nel quadro di regole chiare e condivise. L'argomento secondo il quale o
si è portatori di piattaforme del tutto alternative o non è il
caso di presentarsi, come ha dimostrato efficacemente Michele Salvati, non
regge. Non capisco perché non ci si renda conto di quella che a molti pare una
elementare verità.
Trentino 8-7-2007 Don Milani, la scuola e le cronache
attuali
L’Unità 8-7-2007 Splendori e miserie di
trent'anni di Consob
ROMA
BENVENUTI nel paese di Bengodi, dei miracoli, delle spese folli per la
rappresentanza politica. Giuseppe Bortolussi, segretario della Camera
delle imprese artigiane di Mestre, tira fuori da una cartelletta di recente
costituzione una tabella dalla quale risulta che l'europarlamentare italiano
straccia, quanto a stipendio medio, tutti i suoi colleghi degli altri paesi
dell'Unione. Nel 2005 ha guadagnato 149.215 euro contro i 105 mila attribuiti
al parlamentare austriaco, gli 84.108 incassati dal germanico e gli 82.380
appannaggio del rappresentante del Regno Unito. Da Bruxelles a scendere
è tutto un imitare. Gli eletti nell'assemblea regionale siciliana,
passetto dopo passetto, sono arrivati a tallonare i senatori. Il contagio
dilaga in tutte le istituzioni. Prima di essere defenestrato il governatore
della Banca d'Italia Antonio Fazio incamerava un emolumento che era quasi il
doppio di quello percepito dal suo pari grado Alan Greenspan, guida indiscussa
della Fed americana. Nei palazzi del potere abita una razza marziana che si
sente autorizzata a tutto. Secondo Mario Deveg, un affidabile appassionato di
internet e di calcoli, a Montecitorio siede una giovane deputata che, se
verrà rieletta altre due volte, potrà andare in pensione nel 2024
a 50 anni con un assegno di 8433 euro mensili. A un altro componente dell'assemblea
è riuscito un miracolo di moltiplicazione dei pani e dei pesci. Ad
appena 42 anni è già un ex e riscuote 101.460 euro ogni dodici
mesi, avendo versato in quattro legislature 222 mila euro. Alla faccia di chi
si dibatte nella stretta dello scalone. I DUE RAMI del Parlamento pesano sulla
tasca di ogni cittadino italiano 5,76 volte di più di quanto incidano
negli Usa, 2,13 volte la quota sostenuta da un inglese, il doppio dell'onere
sulle spalle di un francese, 3,5 volte l'obolo chiesto ai tedeschi. Bortolussi
gira il coltello nella piaga mostrando un secondo schema. Le camere e la
presidenza della Repubblica in Italia sono costati nel 2006 un miliardo e 927
milioni di euro, contro i 932 milioni della Francia, i 696 della Spagna e i 443
della Gran Bretagna. Fra le uscite di Montecitorio e di Palazzo Madama, Deveg
scopre misteriose lievitazioni di costi. Nella scorsa legislatura le
spese della Camera per il noleggio di automezzi si sono impennate del 357 per
cento. Al Senato sono esplosi la voce "vestiario di servizio"
(più 140,8 per cento) e il capitolo previdenza (più 159 per
cento). Calando per i rami della rappresentanza politica i punti oscuri
si moltiplicano. Perché, si chiede Bortolussi, l'assemblea regionale siciliana
costerà, nel 2007, 156 milioni di euro, il triplo esatto di quella
Veneta (52) e quasi quattro volte il consiglio dell'Emilia Romagna (42)? Anche
il numero dei dipendenti per abitante è una variabile impazzita. Si
balza dagli 0,39 della virtuosa Lombardia ai 2,79 del Molise. Italia paese di
santi e di funamboli. Confservizi, la confederazione degli enti e delle aziende
che gestiscono i servizi pubblici locali, ha scoperto una stima molto
singolare. Fra il 2001 e il 2006 le società di capitale che forniscono
servizi pubblici locali sono aumentate del 119,5 per cento. Nulla di male se
nello stesso periodo i dipendenti non fossero cresciuti solo del 2 per cento.
La facile conclusione è che è sceso in campo solo un esercito di
consiglieri di amministrazione. In media sono sei per azienda. Le 3211 imprese
registrate nel 2005, nella stragrande maggioranza pubbliche, hanno distribuito
circa 18 mila gettoni di presenza. A questa poderosa falange si deve aggiungere
l'esercito dei consulenti esterni. Secondo il dipartimento della Funzione Pubblica
nel 2004 sono costati 1.097 milioni di euro. Dulcis in fundo, le
contestatissime province. Mario Deveg ha calcolato che in un solo anno, fra il
2004 e il 2005, il loro personale, comprendendo i co.co.co e i consulenti, sia
aumentato del 16,3 per cento. Bortolussi quantifica: "Il costo della politica
è pari ad almeno 10 miliardi di euro all'anno. Insomma quasi una
finanziaria". Deveg è meno ottimista. La sua stima è di 16
miliardi e 376 milioni. Pari, ricorda, al 2,4 per cento del bilancio dello
stato.
Vi si racconta di un vero e proprio
complotto che almeno quattro magistrati di Milano (Edmondo Bruti Liberati,
Francesco Greco, Gherardo Colombo, Armando Spataro) avrebbero architettato
ai danni del governo Berlusconi, in combutta con una giornalista della
"Stampa" (Chiara Beria d'Argentine) e con due illustri politici
diessini (Luciano Violante e Massimo Brutti). Il report di Pompa risale alla
metà di agosto 2001. In tutta evidenza, dato che fa parte della serie
"Aree di sensibilità", è uno tra i tanti documenti che
l'analista di via Nazionale inviava in quei giorni a Nicolò Pollari,
ancora vicesegretario generale del Cesis ma in procinto di diventare direttore
del Sismi. Pio Pompa comincia subito con il rivendicare meriti che
evidentemente ancora non gli riconoscevano. Da settimane aveva segnalato che
occorreva prendere le misure del fronte antiberlusconiano e infatti, guarda
caso, ecco che a metà agosto segnala le prime avvisaglie di un'offensiva
mediatico-giudiziaria contro Berlusconi e i suoi. Scrive: "Come a suo
tempo prefigurato, da fonti certe e sicure, puntualmente abbiamo avuto conferma
che tali fasi preparatorie sono già state avviate, fidando, anche, nell'indubbio
ulteriore vantaggio rappresentato dai gravi fatti accaduti nel Paese e
soprattutto dalle difficoltà anche decisionali che ne sono derivate per
il governo". I "gravi fatti" sono il G8, i tafferugli, la morte
di Carlo Giuliani, lo choc per le violenze alla Diaz. Ma ecco, complice la
disattenzione che Pio Pompa stigmatizza, che i nemici di Berlusconi hanno preso
a muoversi nell'ombra. "Nella mattinata di sabato 11 agosto, presso la
struttura giudiziaria di una città del Nord, è pervenuta la richiesta
da parte di un noto esponente Ds (on. Brutti) di essere posto in contatto con
un magistrato di quella sede (Bruti Liberati)". Il Politico e il
Magistrato, dunque. C'è da registrare subito la smentita di entrambi.
Dice il senatore Massimo Brutti: "Ho verificato. Trattasi di pura
invenzione e posso dimostrarlo. In quei giorni, dopo essere caduto in Aula,
avevo un piede ingessato e sono stato sempre a Capalbio. Il gesso l'ho tolto a
Roma il 16 agosto. Mai stato a Milano in quei giorni". Nega anche Bruti
Liberati, che ha scoperto nei giorni scorsi, da altro documento, di essere
stato pedinato in quell'11 agosto: "Ero in sede e in effetti incontrai i
colleghi Greco e Colombo al bar interno". Ma la storia è
soltanto ai primi passi. "Poco dopo una giornalista (Beria d'Argentine) ha
chiesto se l'esponente Ds avesse preso contatto". Nella versione
manoscritta, la formulazione era leggermente diversa: "Ha chiesto
informazioni se l'esponente Ds avesse inoltrato tale richiesta".
Bell'esempio di prosa burocratica. Anche Chiara Beria d'Argentine smentisce e
promette querele: "E' una stratosferica, ignobile bufala. In quei giorni
non ero neppure a Milano, ma in vacanza. Se ne occuperanno i miei
avvocati". E non è finita. Pio Pompa registra che un secondo
giudice sta sulle spine per quest'incontro. "La stessa domanda è
stata formulata da altro magistrato (Francesco Greco)". Quando finalmente
i protagonisti della congiura sono assieme, ecco svelata la trama. "La
stessa mattina, sono stati prelevati i fascicoli giudiziaria, riguardanti
personaggio politico di primissimo piano, per essere fotocopiati e esaminati
nell'ufficio del magistrato competente (G. Colombo). Tali movimenti
corrispondono perfettamente al disegno di accelerare le azioni aggressive in
presenza del dispositivo predisposto da un noto ex magistrato che si ripropone
in tutta la sua pericolosità (e chi se non Luciano Violante? ndr) in
assenza totale di iniziative di contrasto e disarticolazione". Il
"complotto svelato" da Pio Pompa, però, è ben
più articolato. C'è un fronte aperto a Roma, presso il Consiglio
superiore della magistratura, dove è in azione un altro
"pericoloso" giudice antiberlusconiano. "A seguito della presa
di posizione di alcuni magistrati (su iniziativa di Spataro) circa la necessità
di un giudizio di merito del Csm sulla riforma del diritto societario prima
della sua discussione in Parlamento, è stato costituito un team di cui
fanno parte elementi di spicco del dispositivo". Già, riecco il
temibile "dispositivo". Un incubo ricorrente. "Si sta attivando
per la riconversione dei capi d'accusa che coinvolgono un personaggio politico
di primissimo piano".
GABRIELE G. clicca e riclicca quel tasto.
Ascolta e riascolta su Internet l'audio delle telefonate dei poliziotti alla
Questura, depositate al processo per le violenze del G8 di Genova. E scuote la
testa: "Alcuni pezzi, certi frasari mi sono noti: è come se me li
sentis- si ripetere ancora oggi addosso. Ma la realtà di quel che
è accaduto a Genova non traspare più di tanto. Il clima in quei
giorni di luglio - sottolinea - era davvero pesante". Gabriele nel 2001 si
era appena diplomato e l'occasione di partecipare al G8 non voleva perderla.
Così, tesserato di Rifondazione a Palermo, partì in treno con
loro. "Mi ero equipaggiato bene - racconta -: anfibi, giubotto di salvataggio
e gli occhiali della Fincantieri presi in prestito dal mio papà
operaio". Aveva dormito allo stadio Carlini e la mattina dopo
partecipò al corteo. "A metà corteo, quasi all'altezza di
via Tolemaide mi ero staccato dal gruppo per vedere cosa accadeva in testa,
dove i manifestanti avevano gli scudi in plexigas. I carabinieri che erano di
fronte non volevano che proseguissero oltre, loro invece avanzavano.
Così ecco la prima carica e il fuggi-fuggi generale. Io non mi sono
mischiato, ho cercato riparo in una traversa laterale. Ma era una strada senza
uscita. C'era un ferito sanguinante e un'infermiera che lo medicava, mi chiese
aiuto ed io mi fermai. Ma all'improvviso arrivò un carabiniere e mi
prese: "Tu vieni con me", mi disse. Poi ne arrivarono altri, che
urlavano: "Chi posso prendermi?"". E nella lotteria la sorte
cadde su Paolo F., impiegato di Pavia, arrivato al G8 di Genova solo per
scattare qualche fotografia. Hanno subito lo stesso girone dell'inferno Paolo e
Gabriele, senza conoscersi. Entrambi vegono fatti salire su un furgone e
lì comincia un saliscendi di uomini in divisa che sputa, li insulta, li
picchia. Solo l'inizio di un calvario, "mentre una voce urlava in una
ricetrasmittente: "Sì aquilotto, chiama la canna. Li ho presi tutti
io...". Poi le perquisizioni e i documenti. E per Gabriele le vessazioni
diventano sempre più pesanti. ""Sei un comunista di
merda", mi dicevano - racconta il ragazzo -. Un "terrone comunista
figlio di operai"... E giù botte e manganellate allo stomaco senza
pietà. Avevano sul telefonino "Faccetta nera" e si misero a
cantarla in coro addosso a me". Storie di chi quei giorni di violenza li
ha vissuti sulla propria pelle. Storie di chi è stato arrestato
ingiustamente e ha denunciato l'Arma senza alcun esito. Come Paolo: "Non
voglio dimenticare perchè voglio verità e giustizia. La mia
vicenda personale è stata archiviata e mi è stato negato il
risarcimento per l'ingiusta detenzione di tre giorni. Ma vorrei che la
Benemerita finisse sotto processo. Invece il battaglione Lombardia che mi
arrestò e il comando della caserma provinciale Forte S. Giuliano dove io
e tanti altri fummo pestati, insultati e minacciati sono usciti indenni".
Oggi Paolo ha 43 anni e fa parte del Comitato verità e giustizia per il G8.
Nella carica di via Tolemaide cercò una via di fuga, ma finì
nella stessa stradina cieca di Gabriele. Racconta: "Un uomo in divisa
continuava a ripetermi: "a te ti conosco, ti ho visto a Napoli..."
Non ero un no-global, una tuta bianca. Ero vestito normalmente, di strano avevo
solo un paio di occhialetti da piscina". E dalle 14.20 di venerdì
20 luglio fino alla mezzanotte restò nelle mani della Benemerita. Poi in
carcere a Pavia, fino al lunedì successivo. Il furgone con Paolo e
Gabriele si ferma davanti alla questura per oltre un'ora. Dentro, vengono
"buttate" anche altre persone. Poi riparte in direzione della Fiera,
dove "i miei testicoli assaggiarono il cuoio degli anfibi di un
militare". Ma il racconto degli orrori non si ferma qui. "C'erano marascialli
alla Fiera con il viso mascherato da passamontagna che ci minacciavano -
racconta Gabriele. Eravamo ammanettati e ci dicevano: "Adesso vi facciamo
la festa, vi mettiamo in gabbia con i cani"". Poi
l'"ordine" di spostarsi alla caserma di Forte S. Giuliano, sede del
comando provinciale dell'Arma che ricevette la visita di Fini e del
responsabile della sicurezza Ascieto. "Ci sembrava una liberazione -
conclude Paolo -. Invece... manganelli, sputi e pugni ad ogni passo nei
corridoi. Fino al tormento di un uomo in abiti borghese, con tanto di orecchini
e capelli lunghi lisci: ci segnava con le sue mani in faccia il segno della
croce e mentre un suo amico ci teneva fermi, ci sferzava pugni chiusi sulle
tempie".
In questo momento non esiste nel mondo un
solo analista, esperto o economista che non sia pronto a giurare sulla
solidità e sulla tenuta della ripresa europea. Anzi, tutti si spingono
anche oltre. E spiegano che quest'anno l'Europa andrà molto meglio
dell'America. Se infatti sul Vecchio Continente la crescita sarà almeno
del 2,7-2,8 per cento, negli Stati Uniti sarà difficile andare
più in là del 2,3 per cento (se ci si arriverà). Insomma,
l'Europa non solo va più forte dei cugini di oltre Atlantico, ma li
batterà di un buon 0,5 per cento. Questo risulta persino da un sondaggio
a cui hanno partecipato una dozzina delle più grandi banche d'affari del
mondo e i cui risultati sono stati pubblicati nell'ultimo numero
dell'Economist. Questo diffuso clima di opinioni (molto positivo) spiega anche perché
a ogni sondaggio (con qualche eccezione italiana) invariabilmente tutti,
imprenditori e consumatori, si dicono ottimisti e fiduciosi. E in effetti nulla
sembra poter mandare a rotoli questo 2007 d'oro, per l'Europa. Insomma, sembra
di sentire dire: se questo sarà un po' un anno "no" per
l'America, che sia un anno "sì" per l'Europa. In
realtà, se poi si va a frugare fra le carte di queste stesse banche
internazionali, si vede che tutte queste grandi certezze non ci sono. I
pericoli esistono e sono anche corposi. La congiuntura europea, come tutte le
congiunture, non è affatto blindata e sicura al 100 per cento. E la cosa
dovrebbe riguardare da vicino proprio noi, l'Italia, che di essa stiamo
approfittando in misura molto parziale. Siamo la nave più lenta del
convoglio e quindi, in caso di tempesta, saremo anche la prima che si
inabisserà. Ma esistono possibili tempeste all'orizzonte? Qualcuno (gli
economisti di Goldman Sachs) ha provato a farne un piccolo elenco, dal
quale risulta che le tempeste che potrebbero abbattersi sulla congiuntura
europea sono almeno quattro: forte rialzo dei tassi di cambio, forte ribasso
della borsa cinese e/o americana, forte rialzo del prezzo del petrolio, stretta
del credito. Gli esperti di Goldman Sachs, dopo aver fatto questo
elenco, spiegano che secondo loro la tempesta più temibile è
forse l'ultima, e cioè la possibilità che il costo del denaro in
Europa salga ancora (causa inflazione), mettendo così in
difficoltà le imprese in un momento delicato. Però nemmeno le
altre tempeste sono da sottovalutare. Ad esempio, nella prima parte dell'anno
la congiuntura europea ha perso chiaramente e nettamente di velocità, e
un po' tutti hanno attribuito questo fatto all'improvvisa debolezza del dollaro
e alla troppa forza dell'euro (evento che, ovviamente, penalizza le nostre
esportazioni). Il tasso di cambio, cioè, gioca ancora un ruolo molto
pesante in un'economia come quella europea che vive soprattutto (purtroppo) di
esportazioni e che non sa rilanciare la propria domanda interna. Con quasi
mezzo miliardo di consumatori (contro i 300 milioni dell'America) l'Europa non
dovrebbe aver bisogno di nessuno e dovrebbe poter vivere il proprio benessere
indipendentemente da quello che accade "fuori". Ma non è
così, perché la domanda interna (la spesa dei cittadini) ristagna.
Quindi il tasso di cambio è una porta attraverso la quale potrebbe
entrare la crisi in ogni istante. La seconda possibile tempesta, l'eventuale
rialzo del prezzo del petrolio, non ha quasi bisogno di commenti. Se si esclude
la Francia, che ha una fortissima dotazione nucleare, il resto del Vecchio
Continente ha una enorme dipendenza dal petrolio e quindi qualsiasi cosa accada
su quel mercato pesa su di noi, e molto. Per quanto riguarda l'Italia, che va
quasi solo a petrolio (grazie alla "lungimiranza" dei nostri
ambientalisti), si sa che i grandi broker internazionali nei loro computer
hanno addirittura dei programmi automatici: come sale il petrolio, si vendono i
titoli della Borsa italiana perché è ovvio che i costi delle aziende
italiane saliranno troppo. La terza tempesta, eventuale crollo della Borsa
americana e/o cinese, si spiega da sé. Ne deriverebbe una grossa turbativa sui
mercati internazionali e nelle varie congiunture. Con conseguenze devastanti
per l'economia di un continente come quello europeo che vive bene soprattutto
se gli altri sono in buona salute (poiché è un paese esportatore). La
quarta tempesta (giudicata come quella più grave, e più
probabile), e cioè la stretta del credito con il rialzo dei tassi,
è in un certo senso già nei fatti. La Banca centrale europea va
avanti da circa un anno a aumentare di 25 basis point ogni tre mesi i tassi di
interesse. E ogni mese, quando fa la sua riunione standard, dice sempre la
stessa cosa: attenti all'inflazione, saremo costretti a intervenire ancora
più duramente e lo faremo, siatene certi. Un po' tutti i governi (a
partire dal presidente francese Sarkozy) protestano, ma la Bce di Jean-Claude
Trichet ha il potere di fare quello che dice e lo farà davvero. Quindi
c'è solo da sperare che l'inflazione covi sotto la cenere senza
esplodere davvero. In caso contrario, tempesta assicurata. E a quel punto non
resterà che gettare le scialuppe di salvataggio a mare, e sperare che
qualcuno (ma chi?) ci raccolga.
Attualità Don Milani, la scuola e le
cronache attuali Sollecitato dagli articoli di Nicola Zoller e di Franco de Battaglia
apparsi sul quotidiano "Trentino" il 28 giugno, mi permetto di
inviare la presente lettera di don Lorenzo Milani con alcune mie brevissime
considerazioni. Io credo che il messaggio di fondo da scoprire in don Milani
sia racchiuso prima di tutto nella sua chiara testimonianza di vita (un prete
che dona tutta la sua vita per la promozione umana, culturale e religiosa dei
suoi ragazzi); vada ritrovato in alcune intuizioni di fondo che hanno orientato
il don Milani educatore; volere bene ai ragazzi per entrare in sintonia con
loro e, attingendo alle loro potenzialità, camminare nella ricerca della
verità (questo vuol dire essere laici). Il cantiere-scuola sia aperto a
tutti, senza steccati di sorta. "La libera e pari concorrenza"
farà emergere le esperienze migliori, darà respiro profondo a chi
ama non tanto la scuola statale o la scuola paritaria, ma a chi ama
semplicemente la scuola e i ragazzi che la vivono. Umberto Giacometti TRENTO La
lettera di don Milani cui monsignor Giacometti si riferisce è datata
Barbiana, 9 marzo 1961, ed è stata pubblicata integralmente su
"Avvenire" del 28 gennaio 2000. Il contesto in cui si colloca appare
ormai lontano. L'Italia era ancora un paese contadino di emigrazione, con tanti
figli. La grande ondata di industrializzazione e urbanizzazione doveva ancora
verificarsi, il Concilio era solo nella mente di Giovanni XXIII, la Chiesa
presidiava il territorio, con un parroco in ogni paese, mentre la scuola di stato
era ancora di selezione professionale, non di integrazione sociale, come
sarebbe diventata di lì a poco, con la scuola media unificata. Alle
medie si studiava il latino (come del resto al seminario minore) e
l'alternativa erano le post-elementari. Nonostante questa diversità di
contesto ed una prosa passionale, segnata dalla coerenza antiborghese,
antimercatista (anti-usura, anti-speculazione) dei grandi romanzieri cattolici
("Diario di un curato di campagna" di Francois Mauriac) o dalla prosa
dei polemici "convertiti" come Giovanni Papini, i temi sollevati da
don Lorenzo Milani risuonano attuali. Aiutano a far capire come nel confronto
fra scuola statale e scuola paritaria, vadano salvaguardati i diritti dello
studente e le qualità dell'insegnante, non le ideologie. Merita
riportare alcuni passi della lettera, come spunto per un dibattito che deve
continuare, anche se va rimarcato il rischio costante di usare vecchie parole
per esporre realtà profondamente mutate. I paesi, ad esempio, sono stati
spogliati delle loro scuole anche pubbliche (difficile sostenere che i centri
scolastici siano stati un successo) mentre la scuola cattolica non ha quasi
più preti come insegnanti. Per cui la precarietà di troppe
cattedere supplenti, che don Milani giustamente denuncia come carenza della
scuola pubblica, è oggi diventata un problema anche della scuola
paritaria. Non solo le insegnanti laiche, giustamente, si sposano e hanno
figli, anche quelle cattoliche, e si può ben dire che in questo - un
grave problema per ogni percorso scolastico - scuole private e pubbliche siano
veramente "parificate". Ma vediamo la lettera, scritta ad Aldo
Capitini, direttore del piccolo periodico umbro "Giornale Scuola",
nella quale don Milani rivendica innanzitutto le sue ragioni nei confronti di
due vertenze che lo oppongono alla scuola di stato. "Nella prima
(contro l'Insp) si tratta - scrive - di riconoscere ai barbianesi il diritto di
mandare i ragazzi a scuola "qui" e riscuotere egualmente gli
assegni". Pare cronaca d'oggi, con la Provincia che chiude le piccole
scuole decentrate. La seconda vertenza "è ora sul punto di maggior
incandescenza". "I miei ragazzi organizzano lo sciopero della scuola
elementare di stato ogniqualvolta la supplente arriva a scuola in
ritardo. Lo sciopero consiste nel far venire i bambini a Barbiana, dove uno dei
miei ragazzetti si improvvisa maestro. Verso le 9.30-10 arriva la supplente e
viene a cercare i ragazzi. I bambini, imperturbabili, seguono le loro lezioni
senza alzare la testa. Il direttore ha minacciato il 6 in condotta e
conseguente bocciatura e l'intervento dei carabinieri contro gli organizzatori.
Il pretore, che è quel Marco Ramat che scrive spesso sul
"Mondo", nobilissima figura di laicista, è stato qui
ieri, ed è costretto a darci ragione..." Un altro punto toccato
è l'estrazione sociale dei ragazzi delle diverse scuole: "A Firenze
l'unica scuola socialmente progredita è una scuola di preti, la
Madonnina del Grappa. Il fatto che lo stato, con i soldi dei
contribuenti, non l'aiuti è semplicemente scandaloso. La Madonnina ha
1200 allievi, dei quali non un solo figlio di papà. Anche la scuola di
Barbiana, con 20 allievi, e non un solo figlio di papà, non ha nessuna
sovvenzione, ma anzi aperta opposizione. Scandalose sono le scuole clericali di
lusso di Firenze, ma mai quanto le scuole di stato che (...) servono da
propaganda padronale, dove non regna nessuna libertà di idee, ma solo
conformismo". Il linguaggio si fa forte. "Fogna", è un
termine ricorrente. Un conto - scrive - è parlare di come le scuole di stato
e dei preti "dovrebbero essere", un conto di come sono: "E'
meglio l'amore di Dio dei preti o l'idea dello Stato, o del bene
comune"? La risposta: "Questi sono sogni senza costrutto, perché né
preti, né laici potranno mai fare nulla di perfettamente puro, e sarà
dunque meglio lasciare che si perfezionino quanto possono gli uni e gli altri,
possibilmente senza difficoltà economiche, in libera e pari
concorrenza".
L'INTERVISTA/1 Monsignor Brandolini, della
commissione liturgica della Cei "Obbedirò al Pontefice ma
è un giorno di lutto Si cancella la riforma" Quanta tristezza, ho
un nodo alla gola e non riesco a trattenere le lacrime ORAZIO LA ROCCA
CITTà DEL VATICANO - "Oggi per me è un giorno di
lutto. Ho un nodo alla gola e non riesco a trattenere le lacrime. Ma,
obbedirò al Santo Padre perché sono un vescovo e perché gli voglio bene.
Tuttavia, non posso nascondere la mia tristezza per l'affossamento di una delle
più importanti riforme del Concilio Vaticano II". In
effetti, trattiene a fatica le lacrime, monsignor Luca Brandolini, vescovo di
Sora-Aquino-Pontecorso e membro della Commissione liturgica della Cei
(Conferenza episcopale italiana), quando gli si chiede un commento sulla
reintroduzione della Messa in latino tridentina. "Per favore non
chiedetemi nulla, non voglio parlare, perché sto vivendo il momento più
triste della mia vita di sacerdote, di vescovo e di uomo". Monsignor
Brandolini, perché così contrariato? "è un giorno di lutto,
non solo per me, ma per i tanti che hanno vissuto e lavorato per il Concilio Vaticano
II. Oggi è stata cancellata una riforma per la quale lavorarono in
tanti, al prezzo di grandi sacrifici, animati solo dal desiderio di rinnovare
la Chiesa". Il ritorno facoltativo al rito tridentino rappresenta quindi
un pericolo per la Chiesa? "Speriamo di no. In futuro si vedrà, ma
intanto oggi una importante riforma del Concilio è stata minata".
Perché è così toccato dalla decisione presa da papa Ratzinger?
"L'anello episcopale che porto al dito era dell'arcivescovo Annibale
Bugnini, il padre della riforma liturgica conciliare. Io, al tempo del
Concilio, ero un suo discepolo e stretto collaboratore. Gli ero vicino quando
lavorò a quella riforma e ricordo sempre con quanta passione
operò per il rinnovamento liturgico. Ora il suo lavoro è stato
vanificato". Lei, quindi, non accetterà il "motu proprio"
di Benedetto XVI? "Obbedirò, perché voglio bene al Santo Padre.
Verso di lui nutro lo stesso sentimento che prova un figlio verso il padre. E
poi, come vescovo sono tenuto all'obbedienza. Ma in cuor mio soffro molto. Mi
sento come ferito nell'animo e non posso non dirlo. Comunque, se qualcuno della
mia diocesi mi chiederà di poter seguire il rito tridentino non
potrò dire di no. Ma non credo che succederà, perché da quando
sono vescovo di Sora-Aquino-Pontecorvo non c'è stato mai nessuno che
abbia espresso un desiderio simile. Sono certo che in futuro sarà sempre
così".
L'Autorità di controllo della Borsa
e le società tra retaggi del passato e la sfida delle nuove tutele di
Angelo De Mattia N on siamo all'età dell'oro della Consob, né
è alle viste un nuovo Pericle (regolatore-controllore). Ma rispetto ai
primi passi della Commissione compiuti alla metà degli anni '70, sembra
oggi di essere in un'altra era. Per rappresentare la situazione di allora,
basta ricordare che dopo la costituzione e l'avvio dell'attività con personale
distaccato (lo erano anche i commissari, uno dei quali era il giudice
Squillante, protagonista della cronaca per lunghi anni), la Consob aveva
un solo telefono collocato in uno spazio comune e non disponeva di alcuna
risorsa finanziaria e organizzativa. Non poteva che vivacchiare. Il progetto di
costituzione di una autorità che sorvegliasse le società e il
mercato borsistico era stato a lungo oggetto di riflessione e di studi da parte
di autorevoli giuristi (uno per tutti, Bruno Vicentini). Si era cercato di
allocare le progettate funzioni di controllo nella Banca d'Italia,
ma Guido Carli ritenne che non fosse opportuna una commistione con le
attribuzioni di una banca centrale, organo di vigilanza, tesoriere dello
Stato: così l'idea fu abbandonata. E' all'inizio degli anni '80, con
l'infornata dei professori promossa da Andreatta ai vertici di banche e
istituzioni di governo dell'economia, che alla testa della Consob cambia
aria: arriva Guido Rossi, forte della sua eccezionale preparazione, dei suoi studi
e dell'esperienza comparatistici, ma anche del desiderio di cimentarsi nella
direzione di un organismo allora gracile, e perciò bisognoso di tante
cure e di molta dedizione. Il vento nuovo si avverte; l'opera della Consob,
in quel periodo, si incrocia con le vicende dell'Ambrosiano di Calvi; ne nasce
anche una querelle con la Banca d'Italia. Di lì a poco,
compaiono sul mercato i titoli atipici, prodotti innanzitutto dalle carenze
della legislazione. Dopo viene emanata la prima, sia pure incerta, disciplina
legislativa dei fondi comuni d'investimento. Si avverte - e il primo a farlo
è Rossi - la mancanza di regole che presiedano alle trasformazioni e
innovazioni finanziarie. Lanciata da Rossi, compare per la prima volta la
formula "mercato uguale a un suk". Ne scaturisce un lungo dibattito,
dalle forti ricadute pratiche. E' possibile, metaforicamente, vendere uova
marce o no? C'è chi risponde di sì, ma a patto che mercato e
operatori siano adeguatamente informati. Chi dice no vuole un ruolo della Consob
di ingerenza nel merito delle operazioni. E' il tema che enuclea una filosofia
dei controlli e che conserva una sostanziale attualità. Rossi,
nonostante le diffuse pressioni e le pubbliche denunce, non ottiene ciò
che considera essenziale: una Consob con personale tutto proprio, con
uno statuto di autonomia, con congrue risorse organizzative ed economiche. Se
ne inferisce che non si vuole che essa funzioni come dovrebbe, e il professore
milanese sbatte la porta e va via. E' solo a metà degli anni '80, dopo una
grigia gestione dell'ex ragioniere generale dello Stato Milazzo, che la Consob
consegue - presidente Franco Piga - una legge di riforma che le conferisce
attribuzioni e risorse. E' merito anche della commissione Finanze della Camera,
allora presieduta da Giorgio Ruffolo e composta da parlamentari di particolare
competenza, che sul riordino della Consob si impegnò a fondo. Da
quel momento, la Commissione, allora di via Isonzo, può decollare. Si
registra l'exploit della Borsa e dei borsini; si diffonde il fenomeno dello
yuppismo, con una visione rampante della vita, non solo finanziaria. Non si
può più dire che mancano i poteri di controllo. E tuttavia, il
mercato finanziario, nel suo complesso, viene ancora considerato un far west.
La Consob cerca di fare del suo meglio, anche se non mancano errori,
ritardi o infortuni. Eppure nell'ordinamento italiano non sono ancora presenti,
per nominarne alcune, le discipline dell'insider trading, dell'Opa, delle
società di intermediazione mobiliare (Sim), dei gruppi societari. La
telematica non si è ancora diffusa. Per l'insider trading fioriscono i
riferimenti alla corrispondente disciplina e giurisdizione Usa. Sono citati
spesso i casi Chiarella, un tipografo condannato per aver utilizzato le
informazioni contenute in un avviso societario da stampare, e quello di uno
psicanalista che aveva utilizzato notizie attinte dalla moglie di un manager in
analisi e conseguentemente era intervenuto per operazioni di Borsa: anch'egli
condannato. Stanno per nascere il mercato dei titoli di Stato e quello dei
depositi. Si manifesta l'esigenza di un'opera costituente per la finanza nel
suo complesso, credito e mercato finanziario. Arriverà il Testo Unico
Bancario del '93, saranno introdotte le leggi sull'insider trading, sulle Sim,
sull'Opa; verrà prima, e rifluirà, poi nel testo unico, la
disciplina della trasparenza bancaria. Per le aziende di credito si
aprirà, negli anni '90, la fase del risanamento e della grande
riorganizzazione. Con la legge sulle Sim - che segna anche l'inizio della fine
del ruolo degli agenti di cambio - si opera la prima, importante distinzione di
competenze tra Banca d'Italia, preposta ai controlli di
stabilità, e Consob, cui è affidata la tutela della
trasparenza e della correttezza dei comportamenti. La presidenza Piga - un
eccellente giurista - vive tra contrasti, ombre ma anche approvazioni. Opaca la
successiva direzione di Bruno Pazzi: frequente, durante il suo mandato, il
richiamo alla "bicicletta" - i maggiori poteri acquisiti - e alla
necessità di "pedalare", esercitandoli appieno. In questo
contesto la qualità del personale cresce progressivamente. Le successive
gestioni, a partire da quella di Berlanda, danno impulso all'authority, mentre
si riduce quella che in passato era stata una costante lamentela per la carenza
di poteri. Il Testo Unico della Finanza del '90 comunque accresce e
sistematizza le attribuzioni della Commissione. Ritorna il dilemma tra
interventismo e più accentuata terzietà; tra spostamento
dell'asse verso l'azione ex ante e quella ex post. C'è chi vorrebbe
sospingere la Consob a valutare il merito delle scelte dei soggetti
vigilati, secondo un'impostazione neodirigistica. Centrale è
l'informativa al mercato, agli operatori, ai cittadini, e centrale è il
ruolo dell'autorità perché l'informativa sia la più completa
possibile. Oggi, con la presidenza Cardia, la lunga traversata raggiunge una
vetta con i poteri ulteriormente rafforzati dalla legge sulla tutela del
risparmio, che, in una ragnatela di rapporti con l'Istituto di via Nazionale, a
volte confusa e incoerente e perciò bisognevole di revisione, estende
l'area delle attribuzioni della Consob. I poteri in materia di insider
trading e di market abuse sono di natura paragiurisdizionale, se non propri
della giurisdizione: grande è la responsabilità dell'esercizio.
Non si può dire che il legislatore, che non accolse a suo tempo lo
sconclusionato disegno della superConsob, sia stato avaro. Per di più,
la gamma delle funzioni potrà essere ancora estesa se giungerà ad
approvazione il disegno di legge sulla riforma delle autorità che
prevede la soppressione di Isvap e Covip, con il trasferimento delle loro
competenze, secondo il criterio delle finalità, a Bankitalia e a Consob.
La proposta di legge non mette certo in forse l'autonomia delle authority come
qualcuno ha sostenuto. Frattanto, presso la Commissione, si sta introducendo
una nuova procedura di conciliazione nelle liti tra investitori e intermediari.
Ora è al fare che bisogna guardare: rem teme, verba sequentur. La
visione giuridica è curata con attenzione. Ci sarebbe bisogno di un
maggiore confronto con le imprese e i soggetti del mercato, senza venire meno
alla terzietà, così come di una più intensa opera di
segnalazione dei ritardi dell'ordinamento (non più, ovviamente, nel
conferimento di funzioni alla Consob). I poteri ispettivi debbono essere
sviluppati. Al centro dev'essere collocato il tema della tutela del
risparmiatore, spesso contraente debole, attraverso l'attivazione delle
attribuzioni in materia di trasparenza e correttezza. Attenzione particolare
merita la situazione degli azionisti di minoranza. A livello europeo avanzano i
processi di integrazione degli organi di controllo: è un versante nel
quale si dovrebbe accelerare, come anche recenti vicende societarie dimostrano
essere necessario. Sono maturi i tempi per una visione nella quale diritto ed
economia si sintetizzino meglio. La gestione delle discipline ex direttiva
Mifid e poi di quella sull'Opa esigerà un maggiore impegno. La Consob
ha superato i trent'anni; ha la stessa età che aveva Bankitalia quando
divenne unico istituto di emissione (nel 1926). Il cammino percorso è
stato non agevole. Ma, nel complesso, gli anni vissuti non stati portati male
e, considerato che le risorse umane di cui dispone sono di prim'ordine e di
sicura dedizione, la Consob può dirsi proiettata sulla via di
ulteriori avanzamenti, per affermarsi come magistratura economica.
La Repubblica 7-7-2007 L'ANALISI Quei dossier ad uso
dei governi GIUSEPPE D'AVANZO
Il Riformista 7-7-2007 Bush resta solo ma non molla di
Anna Momigliano
Prima
del ministro della Difesa è stata la Procura di Roma a chiedere informazioni al nuovo Sismi sui
«dossier anti-giudici», e non solo su quelli. Due settimane fa, mentre
convocava Pio Pompa, il pubblico ministero Pietro Saviotti ha scritto al
vertice del Servizio segreto militare. Il magistrato vuole sapere se agli atti
dell'archivio, e in particolare a quelli del direttore, ci siano documenti o
informazioni di qualsiasi tipo riferibili all'attività (illecita,
secondo l'accusa) contestata agli indagati, cioè Pompa e il generale
Nicolò Pollari, nel periodo 2001-06. L'obiettivo è di scoprire se
le informazioni raccolte nell'ufficio distaccato di via Nazionale e trasmesse a
Pollari sono stato effettivamente ricevute ed eventualmente catalogate o
classificate. Che uso ne è stato fatto, insomma. Il servizio segreto
militare non ha ancora risposto. Qualcosa hanno detto, invece, gli indagati.
Prima Pollari, che l'altra sera è comparso in tv per dire che i computer
da cui sono usciti di dossier erano di Pompa e non del Sismi; poi lo stesso ex
consulente, che ieri ha depositato in Procura una nuova «dichiarazione
spontanea» per tentare di precisare alcuni questioni. Naturale però che
gli inquirenti non possano fermarsi di fronte a queste versioni difensive. «A
ulteriore conferma del fatto che non si possa parlare di patrimonio informativo
riservato/ segreto detenuto illegittimamente — sostiene Pompa a proposito della
copia dell'archivio di via Nazionale che gli è stata trovata nell'ultima
perquisizione — rilevo che si tratta di materiale informativo elaborato sulla
base di notizie tratte da fonti aperte (organi d'informazione, internet, ecc.),
custodito in personal computer di mia esclusiva pertinenza, e non formato
mediante l'impiego di risorse del Sismi». In realtà, a leggere i
documenti si scopre che molti traevano origine da attività diverse dal
semplice lavoro ai computer. «Ambiti qualificati, di elevata
affidabilità, hanno riferito circa la verosimile predisposizione di una
ulteriore iniziativa mediaticogiudiziaria in pregiudizio del presidente del
Consiglio e dell'on. Dell'Utri», è l'incipit di un appunto dell'ottobre
2002. «Persona di sicura affidabilità ha ritenuto di dover segnalare
ulteriori, allarmanti elementi di pericolosità », riferisce il report
compilato grazie alla fonte-magistrato non ancora individuata. Per non parlare
del presunto «anonimo» (di cui esistono versioni manoscritte, dattiloscritte e
computerizzate) sull'ipotetica struttura anti-Berlusconi, composta da
magistrati e politici, da «disarticolare» e «neutralizzare », che con internet
sembra avere poco da spartire. O dello schema sui presunti rapporti dell'ex
capo della polizia De Gennaro con esponenti della finanza e delle
telecomunicazioni.
Lo
stesso appunto dedicato al generale Tricarico, con riferimenti anche a Prodi e ai
generali Cucchi e Mosca Moschini, si apre con la frase: «A seguito delle
informazioni assunte in merito alla questione riguardante Rik», cioè lo
stesso Tricarico. Che fine hanno fatto questi documenti? Sono stati ricevuti e
utilizzati in qualche modo dall'ex direttore del Sismi? E se no, perché il suo
consulente continuava a produrre e inviare al direttore quel tipo di
informative? Nell'ultima memoria consegnata al magistrato dagli avvocati Titta
e Nicola Madia, Pompa afferma di non saperlo: «Nei computer personali
conservavo un patrimonio di informazioni di mia esclusiva pertinenza. Quando
ritenevo che una mia analisi potesse essere oggetto di interesse per il Sismi,
e solo in questo caso, la trasmettevo agli organi deputati al suo impiego.
Ignoro quale seguito avessero le mie analisi, se e come venissero verificate,
reputati utili», conclude Pompa che aggiunge: «Di conseguenza nei miei pc
personali non potevano essere memorizzate informazioni riservate/segrete,
giacché la classificazione era un'operazione non di mia competenza, eventuale e
successiva all'inoltro del documento e devoluta ad altre articolazioni del
Servizio, di cui non venivo messo in alcun modo a conoscenza». L'ex funzionario
del Sismi, quindi, sostiene che nel suo archivio non c'erano segreti. Ma un
anno fa non rispose alle domande degli inquirenti milanesi «per adempiere al
proprio dovere giuridico e morale di mantenere la massima riservatezza sulle
proprie attività e sulle attività del Servizio, sempre nell'intento
di tutelare la sicurezza nazionale». La verifica presso gli archivi ufficiali
del Sismi potrebbe dare risposte un po' più certe. Anche se
difficilmente chiarirà come e perché, tra i documenti di Pompa c'era un
appunto con sette domande che sembrano predisposte in vista di un'audizione
della commissione parlamentare d'inchiesta sull'affare Mitrokhin.
07
luglio 2007
PAROLE E BOTTE "Oh Madonna mia...
Volevo sapere la situazione dei malati... nessuna ferita da taglio,
niente?". "No, no, teste aperte a manganellate". Questa è
la conversazione, ore 3 e 42, tra due poliziotti, uno che si trova all'ospedale
San Martino di Genova, per piantonare i primi manifestanti arrestati, e l'altro
al centralino del 113. È la registrazione in presa diretta di una delle
trascrizioni depositate dalla parte civile al processo per la sanguinosa
irruzione della polizia nella scuola Diaz, poi continuata alla caserma di
Bolzaneto, nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. Sono, in tutto, 34
trascrizioni di conversazioni tra la centrale operativa e i mezzi di polizia -
oltre che segnalazioni di semplici cittadini - durante le giornate della contestazione
al G8. Nelle trascrizioni è evidenziato il drammatico clima nel corso
dell'operazione di polizia. Prima ci sono alcune telefonate di persone che
hanno paura dei black bloc, poi cominciano ad arrivare telefonate di
poliziotti, alcune interessanti e altre meno. "Collega, sentime a me, qua
c'è una situazione grave". "Dove?". "Ci stanno un
sacco di giornalisti, dei deputati, abbiamo dei grossi... bisogno dei
funzionari subito". "Ma dove?". "Non lo so dove, siamo in
una scuola". A un certo punto c'è un cambio turno. "Ok ciao
ciao", fa uno. E l'altro alla cornetta: "Il mio bottino ce l'hai
sempre tu?". Poi prosegue: "Ma secondo te siamo deficienti?".
Silenzio. "Sì, no, eravate deficienti se venivate dentro",
dice quello sul posto. "Eravamo quelli che sparavamo... Quante persone
c'erano?". La risposta è vaga: "Eccoli". Insiste quello
del centralino: "Mi meraviglia che non ce ne fossero (evidentemente parla
dei black bloc, ndr). Ce ne sono già una decina di ambulanze lì
sotto. Tra cinque minuti vengono a prendere questo materiale, arriva una
pattuglia della Digos anche perché tira una brutta aria". Arriva
l'ambulanza e quello sul posto dice: "No, no, non so se c'erano black
bloc". A quel punto è all'incirca l'una di notte, ma la mattanza
durerà fino alle 4 del mattino. C'è anche disorganizzazione.
Dalla lettura di queste trascrizioni emerge che i poliziotti sul posto cercano
un'autorità "legittima", sentono che è in corso
qualcosa di fuori dall'ordinario, e che ne sono parte. Ma hanno un mandato:
devono cercare black bloc, "recuperare materiali", hanno delle
direttive anche se sembra mancare un coordinamento. È come se la storia
avesse già un copione: "Avevano delle mazze", "erano
mascherati". Il copione già scritto si deve avverare comunque:
"Le molotov non lasciatemele qui", dice ai ragazzi del Social Forum
il comandante del reparto mobile di Roma, Canterini, al telefono con il capo
della Digos di Genova, Mortola. Altre conversazioni. "Polizia. Mi passi
Andrea?". E aggiunge: "Senti un po', ne è morto un secondo".
"Chi?". "All'ospedale". E gli racconta di un suo collega
che stava di piantone a uno dei fermati, "uno di quelli raccolti per primi
da quelle parti della scuola". Così lo descrive: "Era in una
pozza di sangue". Il suo collega "dice che è andato" e se
ne vuole venire via, "perché questo è morto...". Nelle 176
pagine depositate dal pool di avvocati di parte civile - a sei anni di distanza
- c'è tutto il film di quella notte. L'impreparazione: c'è chi
dà la caccia ai "black buster" scambiandoli per fantasmi. E
chi dà per scontato che ci saranno altre vittime, anche tra le forze
dell'ordine. Ma ci sono anche le ambulanze e gli elicotteri, dalla Diaz voci di
sottofondo "assassini, assassini". "Più voci dicono che
un collega nostro è morto, ci sono tanti feriti, che cosa sta
succendo?". Risposta: "Stando dicendo che un collega nostro è
morto". "Questo non lo so, so che ci sono tanti feriti, questi di
qua, dei manifestanti". "'Sti pezzi di merda". Vittorio
Agnoletto, europarlamentare che in quei giorni era il portavoce del Social
Forum ed era lì fuori dalla Diaz, parla di "strategia della
tensione". Per lui "venerdì 20 luglio il comando reale delle
operazioni di piazza era nelle mani dei carabinieri e del ministro Fini, che in
quel momento si trovava nella sala operativa dei carabinieri. Il 20 c'è
stata un'asse tra An, Fini e i carabinieri", ma la sera del 21 "le
responsabilità dell'irruzione alla Diaz portano ai vertici della
polizia. In primo luogo, a Gianni De Gennaro". Forse. I titoli di coda di
questo film non sono stati ancora scritti. Agnoletto è sicuro che ci
fossero infiltrati. Una trascrizione sembra confermarlo. In un filmato,
trasmesso su La 7 - dice un agente a Nando Dominici, all'epoca capo della
Squadra mobile di Genova, "hanno sostenuto in trasmissione che due persone
con un fazzoletto al viso fossero degli infiltrati della polizia all' interno
dei cortei... Nel filmato c'è un piccolo particolare: si vede che tutti
e due, è vero, sono travisati, ma hanno la placca della polizia in vista...".
Dominici a quel punto chiede: "Ma sul serio?". "Sì",
risponde l'agente, "Si, vede nel filmato". Non era tanto certo.
ROMA - Nel gennaio del 2003, le quattro
giornate del quattordicesimo congresso nazionale di Magistratura Democratica a
Roma inquietano il Sismi. Ne mettono in movimento le "teste". Mancano
due mesi a un intervento militare in Iraq che il mondo intero sa ormai
imminente (l'invasione scatterà la notte del 20 marzo). Il Servizio
insegue l'ombra del "nemico politico interno", nella sua declinazione
"pacifista" e "disfattista", perché se ne possano
anticipare le mosse prima dello scoppio delle ostilità. Il lavoro del
Sismi è occhiuto, pedante, e l'obiettivo torna ad essere,
ossessivamente, lo stesso: la magistratura associata nelle sue articolazioni di
sinistra. Il congresso di Md è dunque un ghiotto appuntamento (come del
resto lo sono state nel tempo persino il lavoro e i convegni
sull'"Iraq" di rispettate fondazioni come l'Aspen, trasformato - lo
abbiamo visto appena ieri - da esclusivo think-tank, che ha avuto e ha tra i
suoi soci Ciampi, Napolitano, Prodi, Amato, Tremonti, in pericoloso centro di
cospirazione). LA STRATEGIA "CORPORATIVA" CONTRO LA GUERRA
Nell'archivio di via Nazionale, un fitto appunto di cinque pagine documenta
l'ascolto delle giornate congressuali e le conclusioni dell'istruttoria di
Forte Braschi. E' un testo tanto poliziesco nella prosa, quanto rozzo
nell'elaborazione. A cominciare dall'epigrafe che, se non se ne conoscesse la
paternità (il Sismi), ricorderebbe linguisticamente certe risoluzioni
delle formazioni armate degli anni di piombo. Si legge: "Oggetto: la
strategia politica, sociale e corporativa del movimento internazionale dei
magistrati e dei "giuristi" militanti e l'occasione rappresentata
dalla crisi irachena". L'incipit del documento, del resto, più che
rappresentarne la premessa ne prospetta già la conclusione. "Ambiti
altamente accreditati hanno informato su come l'attuale crisi irachena avrebbe
impresso una oggettiva accelerazione a quella strategia politica, sociale e
corporativa, di contrasto alla globalizzazione capitalistica e alla violenza
neoimperialista, verosimilmente riconducibile al movimento dei magistrati e
"giuristi" militanti. Il tutto nell'ottica di una rifondazione
complessiva del sistema di sviluppo mondiale, regolato da norme giuridiche
ispirate a una "democrazia sostanziale" che dovrebbe essere garantita
dalla primazìa esercitata, nei confronti di tutti gli altri poteri, da
ben "orientati" Organismi giurisdizionali sovranazionali".
CINQUE GIUDICI "PERICOLOSAMENTE" PACIFISTI Maneggiando con rozzezza i
materiali del congresso di Md, l'addetto del Sismi che lavora l'appunto
illumina ciò che, ai suoi occhi, appare l'inconfutabile prova della
"saldatura" tra il "fronte antimperialista" contrario
all'intervento in Iraq e quello dei "giuristi democratici". Leggiamo:
"Il Congresso ha pienamente accolto la proposta lanciata da Medel
(Associazione di magistrati e giuristi europei ndr.) attraverso il giudice
belga Marie-Anne Swartenbroeckx, che provvede a diffondere l'appello "La
guerra è illegale!". L'iniziativa è stata prontamente
accolta e condivisa dai partecipanti al Congresso (tra cui Sergio Cofferati e
Paolo Serventi Longhi), come dimostrato dalla "Mozione sulla pace e la
guerra", sottoscritta da Ignazio Patrone (magistrato e presidente di
Medel), Franco Ippolito e Giuseppe Cascini (?). Alla citata mozione fa eco la
relazione svolta dal segretario generale di Md, Claudio Castelli, nella parte
dedicata a "Il diritto e la forza". Egli, dopo aver premesso che
"il tema della guerra e della pace riassume in sé sia la crisi del diritto
internazionale classico (e perciò dell'Onu), sia le difficoltà di
costruire un nuovo sistema di relazioni internazionali fondato sul
"diritto", addita gli Usa come i reali responsabili di quanto sta
avvenendo a livello planetario". LE ACCUSE RIVOLTE AI MAGISTRATI
L'intossicata analisi del Servizio si deposita nelle sue conclusioni. In una
stantia accusa di "collateralismo", che propone un sillogismo anni
'70: ieri fiancheggiatori dello spontaneismo armato di sinistra, oggi dei
"no-global no war". "Sulla base di quanto sin qui esposto,
troverebbe conferma l'esistenza di un substrato programmatico comune tra le
istanze politiche del movimento antagonista occidentale e quelle
politico-corporative espresse dalla rete internazionale dei magistrati e dei
giuristi militanti. L'aspetto più delicato di una simile commistione
atterrebbe, aldilà degli obiettivi di contrapposizione dell'Impero
occidentale, nella "tolleranza" e mancata applicazione dei
dispositivi di legge, da parte di determinati soggetti istituzionali, a favore
di organizzazioni e di individui penalmente perseguibili". LA DERIVA
DELL'ANM E IL RISCHIO APPARATI Quattro mesi dopo il congresso di Md, in maggio,
ancora un appunto. Questa volta sulle "elezioni per il rinnovo del
Comitato direttivo centrale dell'Associazione nazionale magistrati". Per
il Sismi la deriva dell'Associazione "a sinistra" si è
compiuta. Ora c'è da attendersi il peggio. Scrive il Servizio: "Un
delicatissimo aspetto atterrebbe a una operazione, verosimilmente facente capo
a specifici settori della magistratura e non solo, di chiamata a raccolta di
quegli elementi, appartenenti agli organi di polizia giudiziaria, ritenuti
"vicini" professionalmente (operando presso Procure e Tribunali) e
politicamente, al fine di orientarne, in questo frangente, le prese di
posizione. Tale presunta iniziativa avrebbe contribuito non poco a far
crescere, in parte del personale di certi corpi di Polizia, un forte sentimento
di avversione contro l'Esecutivo in carica, che si starebbe manifestando, in
maniera più o meno larvata, in diverse realtà territoriali".
La linea di difesa apprestata da Pio Pompa,
Nicolò Pollari e, incautamente, sposata da Silvio Berlusconi è
fragile. Si dice ? lo dice Pollari nel "messaggio alla nazione" ospitato
dal Tg5; lo sottoscrive Pio Pompa in una dichiarazione spontanea al pubblico
ministero; lo conferma Berlusconi in una nota ? le informazioni raccolte
nell'ufficio riservato di via Nazionale non sono altro che una collazione di
notizie reperibili da chiunque nei giornali e in Internet (Pollari). Berlusconi
interviene subito dopo Mastella, che ha chiesto una commissione d'inchiesta.
Una soluzione gradita a Pollari La rete di dossier a uso del Palazzo
Così i Servizi truccavano sui potenziali avversari del Cavaliere
Più che un nuovo organismo dovrebbero farsi largo la magistratura, il
Copaco e la nuova gestione del Sismi di Branciforte
Null'altro che "materiale elaborato sulla
base di notizie tratte da fonti aperte" (Pompa). "Un tipico
monitoraggio delle cosiddette "fonti aperte" che non ha in sé
all'evidenza, alcunché di illecito" (Berlusconi). Il sentiero è
molto sdrucciolevole. è una linea di difesa destinata a sgretolarsi
contro i fatti. L'archivio, contrariamente a quanto si vuol far credere, raccoglie
informative di "fonti" infiltrate dal Sismi - contro la legge - negli
uffici giudiziari, nelle redazioni, nelle burocrazie dello Stato, nelle Forze
Armate. Altro che "fonti aperte". Dimostrarlo è alquanto
agevole. Come è comodo verificare se i dossier calunniosi raccolti da
Pompa e Pollari precedono (e non seguono) le notizie di stampa. Tre magistrati
italiani, giudicati "pericolosi" dal governo, vincono un concorso per
lavorare nell'organismo europeo antifrode (Olaf). Un dossier raccoglie le loro
storie, passa al setaccio famiglie, rete di relazioni, le loro opinioni e
scritti. Lo spoglio di queste informazioni diventa materia per una campagna di
aggressione giornalistica che consente all'esecutivo di non nominarli nel loro
incarico. è questo il metodo messo a punto da Pollari, deciso a servire
il suo leader politico del momento. Tracce di questo programma di discredito -
dossier e campagna di stampa di cui l'esecutivo si avvale per proteggere se
stesso o eliminare coloro che crede "nemici" - si possono individuare
senza affanno nell'archivio di Pompa e Pollari. Qualche "caso"
è limpido e clamoroso. Nell'ufficio riservato del Sismi in via Nazionale
si raccolgono fin dall'estate del 2001 (Pollari, vicedirettore del Cesis, si
prepara a diventare direttore del Sismi) notizie e "appunti" (falsi)
su una sorta di "internazionale delle toghe rosse", che si riunisce
segretamente e coordina le sue iniziative per delegittimare, inquisire,
arrestare Silvio Berlusconi. Ne fanno parte i pubblici ministeri di Milano, un
paio di procuratori spagnoli, ex-magistrati diventati parlamentari europei.
Questa fanfaluca prende corpo nei media qualche mese dopo, alla fine del 2001.
Il momento non è irrilevante. In novembre Cesare Previti ricusa, per la
prima volta, i giudici di Milano. Qualche settimana dopo, Lino Jannuzzi,
columnist di Panorama, ripreso con gran risalto dal Giornale, svela che
"la settimana scorsa in un albergo di Lugano sono stati visti Elena
Paciotti, parlamentare europeo dei Democratici di sinistra; Ilda Boccassini, il
pubblico ministero che sostiene l'accusa contro Silvio Berlusconi e Cesare
Previti; Carla Del Ponte, la procuratrice europea che sta processando
Milosevic, e Carlos Castresana, procuratore anticorruzione di Madrid".
"è scontato - riferisce Jannuzzi - che i quattro di Lugano
"collaborano" per trovare il modo di arrestare Berlusconi".
è un falso. Quella riunione non c'è mai stata. La Boccassini non
ha mai incontrato o conosciuto Castresana; non vede la Paciotti da anni; non
incontra la Del Ponte da sette mesi. La Paciotti non va a Lugano da venti anni;
ha incontrato soltanto una volta, e anni fa, Carla Del Ponte; non conosce Carlo
Castresana. La Del Ponte, in quella settimana, non era a Lugano, Svizzera, ma
ad Arusha, Tanzania, sede del Tribunale internazionale. Castresana "non ha
mai partecipato a nessuna riunione di questo genere né a Lugano né altrove, né
la scorsa settimana né mai". Tuttavia la "bufala" costruita dal
Sismi, veicolata dal settimanale della Mondadori, casa editrice del presidente
del Consiglio, con la collaborazione del Giornale, quotidiano del fratello del
presidente del Consiglio, con un articolo firmato da Lino Jannuzzi, senatore di
Forza Italia, partito del presidente del Consiglio, apre la strada a nuove
richieste di ricusazione e mostra la necessità della legge sulle
rogatorie che vuole eliminare le fonti di prova raccolte all'estero contro
Berlusconi e Previti. Altro che "fonti aperte". Nel lavoro segreto e
illegittimo dell'intelligence militare nascono e si coltivano le muffe che
avvelenano poi il dibattito pubblico. Creano il clima "giusto" per
iniziative legislative che poi il governo proporrà al Parlamento e la
maggioranza approverà. Naturalmente questo non vuol dire che sia stato
Berlusconi a ordinare al Sismi quel "lavoro sporco". Perché escludere
che fosse in buona fede? Perché escludere che Pollari confezionasse dossier di
notizie fasulle in grado di dare concretezza ai fantasmi e alle paure
dell'allora capo del governo? Per il momento si può dire soltanto che
Berlusconi si avvantaggia del lavoro illegittimo del Sismi. Si comprende dunque
perché oggi negando ogni responsabilità per "schedature e
monitoraggi" abusivi, l'ex-presidente del Consiglio difenda la correttezza
di Pollari. La sua sortita appare una risposta diretta alla richiesta di una
commissione parlamentare d'inchiesta avanzata dal ministro della Giustizia.
Clemente Mastella - non lo ha mai negato - è un buon amico di Pollari. I
maligni sostengono che, dietro la richiesta del ministro, lo staff di Silvio
Berlusconi abbia intravisto un'iniziativa minacciosa di Nicolò Pollari,
intenzionato a non finire da solo nel tritacarne che lo attende (l'avvocato di
Pollari, che è anche consigliere personale di Mastella, si è
detto subito entusiasta della commissione d'inchiesta). E' un buon motivo per
prendere la parola; rassicurare il "capo delle spie" nei guai;
escludere ogni personale responsabilità; chiarire addirittura che non
c'è "alcunché di illecito" di cui sentirsi responsabili. Quali
che siano le ragioni che abbiano convinto Berlusconi a farsi avanti, e
nonostante il via libera di molti (da D'Alema a Di Pietro), la commissione
d'inchiesta appare oggi più un'arma brandita contro il sistema politico
(o meglio contro quei segmenti di sistema politico che hanno intrattenuto
rapporti non convenzionali con il Sismi di Pollari), che non lo strumento
necessario per accertare fatti e responsabilità. Le commissioni
parlamentari d'inchiesta, da Telekom Serbjia a Mitrokhin, sono state
l'occasione per seppellire la verità, inquinare le storie, lanciarsi in
operazioni di discredito degli avversari politici. Con l'inevitabile
protagonismo che avrebbero nei lavori della nuova commissione gli uomini e gli
archivi di un Nicolò Pollari con l'acqua alla gola (imputato a Milano e
indagato a Roma, rischia condanne per una decina di anni), un mare di fango, di
dossier fasulli, di "appunti" indecenti sommergerebbe il Parlamento
allontanandolo da ogni possibilità di fare luce. Le "carte"
(vere, false) le distribuirebbero gli spioni e la politica sarebbe soltanto
prigioniera del gioco. Più lineare, coerente e protetto appare oggi uno
schema di lavoro che affidi l'accertamento delle responsabilità penali
alla magistratura e la verifica delle responsabilità istituzionali e politiche
alla commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). L'una e l'altra si
potrebbero avvantaggiare della collaborazione del Sismi di Bruno Franciforte
che, convocato dal ministro della Difesa, è stato invitato a
"mettere a sua disposizione tutti gli elementi in possesso del
Sismi". è questa la strada maestra per venire a capo dei giochi
storti. Magistratura. Un ristretto comitato di controllo parlamentare regolato
da norme di riservatezza. La collaborazione del governo e di un Sismi rinnovato
che vuole cambiare finalmente aria alle stanze.
Cara Europa, giovedì credevo che avrei
trovato nelle vostre pagine un ricordo di Claudio Rinaldi, il grande
giornalista laico, amico di Montanelli e Sechi, direttore e ri-fondatore di
Europeo, Panorama, Espresso. A nome mio e di altri estimatori, vi prego di
pubblicare questo piccolo ricordo.
SANDRO PROSPERETTI, ROMA
Caro Prosperetti, lei ha tutta la nostra
comprensione.
Avremmo ricordato comunque Claudio Rinaldi, dopo avergli reso ieri mattina
l’ultimo saluto nella chiesa di San Carlo ai Catinari.
C’è, in questo nostro piccolo giornale, chi ha lavorato con Rinaldi, a
cominciare dalla segretaria di redazione, e chi, come me, ha avuto
dimestichezza con lui negli anni più difficili per tutti noi, 1992-94,
fra la tempesta di tangentopoli e la controrivoluzione berlusconiana che ne
seguì, e al cui sanfedismo affaristico ciascuno di noi cercò di
opporsi come potè.
Eravamo tutti a Milano e il sabato ci si incontrava a “pranzo” nel ristorante
toscano di Montanelli: tavolo fisso, con Rinaldi, allora direttore
dell’Espresso (rientrava da Roma il venerdì,dopo aver chiuso il
settimanale), e Biagi, Sechi, chi le scrive e, a volte, Mieli, Bocca o altro
giornalista laico, non disposto alla grande marmellata di Arcore.
Già allora – stiamo parlando di quindici anni fa – Rinaldi aveva i primi
segni della malattia che l’ha stroncato a sessantun’anni, quasi nella sesta
ricorrenza (21 luglio) della morte di Montanelli, nomesimbolo, insieme al suo,
del no al berlusconismo.
Fino a ieri, abbiamo letto i suoi articoli sull’Espresso: come ha scritto la
direttrice Daniela Hamaui, «martedì ha aggiornato il suo Blog,
mercoledì ci ha mandato la consueta rubrica». Mercoledì:
pochissime ore prima di morire, come aveva fatto Montanelli al Corriere sei
anni prima. Altro che pensionati bertinottiani a 57 anni.
Adesso ci mancherà: chissà che botte da orbi avrebbe tirato dalla
sua carrozzella sugli spioni del Sismi, sui guastatori dello “scalone”, sul
pastrocchio senatorio Piemonte-Puglia, sulla supervalletta rossosexy di “Tv
della Libertà”, ed altro consimile italianume perennemente sregolato.
Il Riformista 7-7-2007
Bush resta solo ma non molla di Anna Momigliano
Chi pensava che George W. Bush fosse un’anatra zoppa, in questi ultimi giorni
si è dovuto ricredere. Solo contro tutti, il presidente neo-con ha
dimostrato di sapere mantenere ben saldo lo strapotere di cui gode, e di essere
in grado di farlo per tutti i sedici mesi che gli rimangono. Nel giro di una
settimana Bush infatti ha, nell’ordine: concesso la grazia ad hoc a un vecchio
amico di famiglia condannato per il Cia-gate, Lewis Libby, incurante
dell’indignazione di democratici e repubblicani; bloccato ogni tentativo da
parte del Congresso di ottenere la collaborazione della Casa Bianca in una
serie di inchieste giudiziarie, perché il Congresso sarà anche
l’espressione del popolo, che ha voltato faccia all’ideologia neo-con, ma il
presidente è sempre il presidente, e gode dell’«executive privilege»;
continuato a difendere a spada tratta l’intervento in Iraq, nel suo discorso
per l’Independence Day, il penultimo per Bush. E questo, mentre cresce il
numero dei repubblicani di alto profilo che si oppongono alla guerra in Iraq:
ieri il senatore Pete Domenici ha chiesto a sorpresa un’inversione di marcia in
Iraq, prima di lui lo hanno fatto Richard Lugar, George Voinovich, e John
Warner. La lista degli insubordinati è destinata ad allungarsi. Eppure,
con il Congresso in rivolta e ai minimi storici di popolarità, ormai
abbandonato dal proprio partito e mentre i suoi più fedeli collaboratori
stanno lasciando, Bush ha dato prova, nel bene e nel male, di una rara tenacia,
di un’incrollabile determinazione di proseguire per la propria strada, senza
darsi pensiero del Congresso, dell’opinione pubblica, e persino dei propri
consiglieri.
+ Libero 6-7-2007 Il governo taglia gli sprechi Ma solo
quelli degli altri di SALVATORE DAMA
L’Unità 6-7-2007 Forza ladri Marco Travaglio
Il Riformista 6-7-2007 Povero Garibaldi, quante
scemenze sul tuo conto di Claudia Mancina
DAL NOSTRO INVIATO
CATANZARO — Luigi Bisignani è accusato dalla procura di Catanzaro di
associazione a delinquere, truffa, violazione della «legge Anselmi» sulle
associazioni segrete ed è anche ritenuto «potenzialmente idoneo a
gestire operazioni finanziarie finalizzate al riciclaggio di denaro». Casa e
uffici sono stati perquisiti. Il pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, è
arrivato a Bisignani attraverso le inchieste avviate in Calabria e in
Basilicata sui finanziamenti pubblici nazionali, europei e regionali drenati da
comitati d'affari interpartitici e interistituzionali e ha individuato proprio
in lui una delle «teste» del comitato d'affari che munge denaro pubblico per
centinaia di milioni di euro, «operando con modalità occulte e con soci
occulti e alimentando circuiti affaristici illegali, costituiti da
professionisti, faccendieri, politici e imprenditori ».
La
replica: «Mai messo piede in una loggia» di D. Martirano
Secondo la pubblica accusa (del caso si
occupa anche Panorama in edicola oggi), questo dei quattrini erogati
dall'Unione europea è ormai «un sistema ». «Apparentemente — dice il pm
—, un sistema per favorire lo sviluppo e l'interesse generale». In
realtà, un modo più «diretto» per finanziare se stessi: si tratti
del proprio partito, della lobby di appartenenza, o del proprio conto corrente.
Tanto è vero che de Magistris sta anche cercando conti esteri, sia
perché il comitato d'affari avrebbe «solidi legami anche all'estero», sia
perché utilizza utenze telefoniche belghe, britanniche, americane — solo in
entrata o solo in uscita — in un giro di «contatti circolari e numerosissimi»
nel quale si ritrovano sempre gli stessi, eminentissimi personaggi. Tutti, in
un modo o nell'altro riconducibili, per coincidenze strane, o anche «per
scherzo», come sostiene Antonio Saladino, ras della Compagnia delle Opere nel
Sud Italia e tra i personaggi chiave della vicenda, alla cosiddetta Loggia di
San Marino.
Sarebbe questo il nuovo centro di potere
affaristico-massonico che, sempre secondo l'accusa, guarderebbe con favore sia
a destra che a sinistra e porterebbe diritto a uomini dell'entourage del
presidente del Consiglio, Romano Prodi. Non solo per la presenza, tra gli
indagati, di Piero Scarpellini, che di Prodi è stato consigliere per gli
affari esteri, e di suo figlio Alessandro. Di Piero Macrì, definito da
Saladino «uomo di Prodi e della loggia di San Marino» e di Franco De Grano
(capo dipartimento per i fondi comunitari e cognato di Macrì). Ma anche
per il ruolo di due società, Delta spa e Ilte spa, e di due utenze
telefoniche mobili. La Ilte spa fa capo a Luigi Bisignani, definito dal pm «ex
socio attivo della P2».
Il traffico telefonico della Ilte è
stato rintracciato nel cellulare sequestrato al generale della Guardia di
finanza, Cretella Lombardo, al quale viene attribuito «un ruolo centrale e a
dir poco inquietante nella fitta rete, occulta, per colludere in diversi
ambienti istituzionali». Chi parlava con la Ilte, cioè con Bisignani?
Tutti gli indagati eccellenti di questa vicenda, Delta spa in testa (tra i cui
soci fondatori ci sarebbe la Cassa di Risparmio di San Marino). Questa
società, dicono i risultati investigativi finora noti, utilizzava due
diverse schede telefoniche Sim Gsm e lo faceva sullo stesso telefono in cui
venivano utilizzate altre schede Sim Gsm «equivoche». Contatti e colloqui
«riservati» a 360 gradi, dunque, «di assoluto pregio investigativo », anche con
il finanziere Francesco Micheli, alcune attività del quale sono legate a
Bisignani e per questo sottoposte a indagini, e persino «con la società
di intercettazioni Sio srl, che esegue servizi di intercettazioni e altre attività
per conto dell'autorità giudiziaria».
Ma la cosa più sorprendente è
che nella memoria del cellulare sequestrato ad Antonio Saladino il numero di
Delta spa è registrato con il nome «Romano Prodi». Potrebbe trattarsi di
una coincidenza. Ma è da quella utenza che almeno per un paio di anni
Scarpellini, e non solo lui, parlano con Bisignani, Saladino e le altre persone
coinvolte a vario titolo (indagate e non) nel «programma criminoso consistente
nella distribuzione di ruoli tra imprenditori, professionisti e pubblici amministratori,
finalizzato a percepire illecitamente finanziamenti pubblici attraverso la
costituzione di società o la partecipazione in società già
costituite». E i progetti fioccano. Quello denominato Euromediterraneo vale
1.100 milioni di euro, fa capo a Scarpellini e dovrebbe studiare «i flussi
migratori dalla Libia». E il cellulare? Rimane sempre attivo. Nel 2005 e fino
al 2006 lo utilizzano «L'Ulivo - I democratici». Da quest'anno è passato
direttamente alla presidenza del Consiglio dei ministri.
06 luglio 2007
La politica si mette a dieta. Ma soltanto quella
fatta a livello locale. Ministeri, camere e regioni mentengono pressoché
inalterati benefit e privilegi, che non vengono sostanzialmente toccati dal
disegno di legge sui costi della politica predisposto dal governo. Il
provvedimento, oggi all'esame del Consiglio dei ministri, prevede tagli ai
classici status symbol del potere, auto blu e telefonini. Ma soprattutto, ed
è il dato saliente che trapelava ieri dalle prime indiscrezioni sul
testo, dà una bella sforbiciata alle spese degli enti locali. Che, non a
caso, sono già sul piede di guerra. L'Anci è arrivata addirittura
a rompere le relazioni istituzionali con il governo, definendosi, attraverso le
parole del suo presidente Leonardo Domenici, "profondamente
insoddisfatta" dai tagli inseriti nel ddl del ministro Giulio Santagata.
Dal Consiglio dei ministri odierno, in ogni caso, non arriverà il via
libera definitivo. Sarà, spiegano a Palazzo Chigi, un esame preliminare.
Seguirà un'altra settimana di trattativa con gli enti locali, e infine
il via libera conclusivo tra sette giorni esatti. IL RILANCIO DI ROMANO Ieri il
presidente del Consiglio Romano Prodi ha avuto un incontro con Santangata
proprio sull'argomento. I due hanno registrato la forte criticità
dell'Anci, ma non hanno nessuna intenzione di recedere dall'obiettivo. Prodi ha
intimamente legato i tagli al costo della politica con il rilancio della sua
azione di governo. E se ora i sindaci fanno le barricate, pazienza.
"D'altronde", come spiega una fonte governativa, "Santagata si
è già confrontato con l'associazione dei comuni, c'è stato
un percorso comune, sono state recepite le loro indicazioni. Sono infuriati?
Sarà per via del federalismo fiscale, non per il ddl
taglia-sprechi". Intanto il ministro per l'Attuazione del programma di
governo, ancora ieri, ha continuato a limare la bozza che porta il suo nome. La
cura dimagrante studiata dal governo, s'è detto, riguarda soprattutto
gli enti locali, mentre le istituzioni romane vengono appena sfiorate. A
Palazzo Chigi adducono motivazioni di natura tecnico-giuridica. Il governo,
è la spiegazione, non può intervenire con un disegno di legge per
tagliare diarie, indennità e benefit dei parlamentari, tutta roba che
Camera e Senato si autogestiscono avendo piena autonomia di bilancio. Nè
l'esecutivo può mettere mano al numero di deputati e senatori,
riducendolo, perchè occorrerebbe una legge costituzionale. Il
provvedimento in studio, inoltre, non può neanche contrarre stipendi e
numero dei consiglieri regionali, che non sono disciplinati da legge ordinaria
ma dagli statuti. Sicchè, per esclusione, la mannaia governativa
finisce, tra capo e collo, propriosugli enti locali. Nel piano Santangata,
tanto per cominciare, si prevede una significativa riduzione del numero dei
consiglieri comunali e provinciali. Si parla di un taglio tra il 10 e il 15%,
che procederà in proporzione al numero degli abitanti. I sindaci
dovranno anche rassegnarsi a dire addio alle giunte numerose. Che, a quanto
pare, non potranno in alcun caso superare il numero di 14 unità. Netto
giro di vite anche per quanto riguarda le circoscrizioni. Sale la soglia minima
di abitanti per le città che potranno ospitarle (da 100mila a 250mila).
Il governo procede col machete anche a danno delle comunità montane, che
dovranno essere effettivamente tali. Cioè la loro superficie, come
logica vorrebbe, dovrà essere per la quasi totalità
effettivamente montuosa. GETTONI PIÙ LEGGERI Il ministro prodiano sta
inoltre lavorando anche al taglio dei gettoni. Nel senso che si farà
divieto di cumulo delle indennità per chi ricopre più cariche
negli enti locali. E non è finità. Il governo potrebbe volere
pure il dimagrimento delle municipali, delle società legate alla
pubblica amministrazione, dei consorzi, in alcuni casi riducendone il numero
dei consiglieri di amministrazione, in altri sopprimendo gli enti che svolgono
funzioni omologhe. Quelli cosiddetti inutili, per intenderci. Si passa poi al
capitolo degli interventi a forte impatto sull'opinione pubblica. L'idea che
circola, infatti, è quella di ridurre l'uso di telefonini e di auto blu
allo stretto necessario. Anche in questo caso, tuttavia, si colpiscono soltanto
i privilegi degli amministratori locali, dal momento che le istituzioni
parlamentari, in ragione della citata autonomia finanziaria, non devono dare
conto a nessuno. Cosa che, non a caso, ha mandato in bestia i comuni, i
più salassati da Santangata. Fallita la sua mediazione, parte ora
l'estremo tentativo della collega Linda Lanzillotta. "L'esame comincia
domani (oggi, ndr)", spiega la titolare degli Affari Regionali, "ma
si concluderà solo dopo la conferenza unificata del 12 luglio.
Lavoreremo per definire un'intesa su dei punti base. Poi ogni livello
ridurrà i propri costi con gli strumenti che gli competono. Così
arriveremo a un risultato di sistema". TROPPI SOTTOSEGRETARI L'Anci
però rimane sul piede di guerra. "Nel giro di sei mesi", ha
dichiarato il vice presidente Osvaldo Napoli, "ci sarà un taglio
agli enti locali che raggiungerà i dieci miliardi di euro Dei quali -
spiega 2,6 dalla finanziaria, 5,9 dagli avanzi di amministrazione e dai due ai
tre miliardi di diminuzione dell'Ici". Ma soprattutto l'associazione dei
comuni non dimentica che il suo interlocutore è il governo dei cento e
passa sottosegretari, cui spettano cento e passa autoblu, cento e passa
telefonini e cento e passa segretarie. Salvo per uso personale è vietato
qualunque tipo di riproduzione delle notizie senza autorizzazione.
- Le norme operative da novembre Riccardo
Sabbatini L'Italia recupera il ritardo sulla Mifid. Il consiglio dei ministri, in
programma per oggi, si appresta ad approvare il decreto delegato messo a punto
dal ministero dell'Economia che recepisce le norme della direttiva europea sui
servizi d'investimento concludendo così un inseguimento di sei mesi
sull'originario timing del provvedimento. Il varo del decreto, con i
regolamenti attuativi della Consob attesi per le prossime settimane,
permetteranno dunque all'industria finanziaria italiana di prepararsi
all'appuntamento del primo novembre, quando la complessa normativa entrerà
improrogabilmente in vigore in tutto il continente. La Mifid muterà
radicalmente lo scenario regolamentare per le contrattazioni azionarie europee
introducendo una maggiore concorrenza tra intermediari e mercati regolamentati.
In particolare togliendo a quest'ultimi l'esclusiva degli scambi su titoli
quotati di cui finora avevano goduto per effetto della regola sulla
concentrazione, norma che verrà abrogata. Nella loro traduzione
italiana, che ha impegnato per mesi la direzione ministeriale sul sistema bancario
e finanziario guidata da Giovanni Sabatini, le nuove disposizioni sono ancora
più rilevanti stabilendo nel preambolo iniziale i principi della
"buona regolamentazione" ai quali Consob e Banca d'Italia si dovranno
attenere nei rapporti con mercati, intermediari ed emittenti. Gli obiettivi
della vigilanza diventano la salvaguardia della fiducia sul mercato
finanziario, la tutela degli investitori, la stabilità e il buon
funzionamento del sistema finanziario, e la sua competitività. Nella prospettiva
di una crescente concorrenza tra sistemi- paese l'ultima versione del decreto
legislativo, rispetto a quella sottoposta alla consultazione degli operatori,
ha incluso anche il principio presente nella normativa europea secondo il quale
i regulator potranno "soltanto in casi eccezionali", giustificati da
"rischi specifici per la protezione degli investitori o l'integrità
del mercato", imporre o mantenere nei propri regolamenti obblighi
aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla direttiva. Allo scopo di
"ridurre al minimo gli oneri gravanti sui soggetti abilitati", il
decreto prevede anche un "protocollo d'intesa" tra Consob e Banca
d'Italia con il quale le due autorità disciplineranno i rispettivi
compiti e modalità di svolgimento. Quest'approccio liberista, che
rappresenta una significativa novità nell'ordinamento italiano, è
comunque temperato in più punti dall'attribuzione di forti poteri
regolamentari attribuiti alla Consob, anche a scapito delle possibilità
di ricorso all'autoregolamentazione. Ad esempio il decreto affida all'authority
guidata da Lamberto Cardia il compito di dettare con proprio regolamento i
criteri ai quali la Borsa si dovrà adeguare nelle proprie normative per
disciplinare, tra l'altro: l'ammissione degli strumenti finanziari alle
negoziazioni e l'accesso degli operatori ai mercati regolamentati, i casi di
sospensione e esclusione dalle negoziazioni, la compensazione e liquidazione
delle operazioni. Sempre in tema di mercati il decreto stabilisce forme di
collaborazione tra Consob e l'Autorità per l'Energia per la negoziazione
di derivati sull'energia nei mercati regolamentati. Le due autorità, tra
l'altro, stipuleranno protocolli d'intesa e si presteranno reciproca assistenza
e, tra loro, non sarà opponibile il segreto d'ufficio. Tra le altre
novità in arrivo c'è una più puntuale definizione del
nuovo albo in cui saranno inquadrati i consulenti finanziari la cui
attività è stata inclusa tra quelle regolamentate. Il nuovo
organismo, i cui componenti verranno nominati dal ministero dell'Economia,
potrà anche sospendere o radiare gli iscritti che non rispetteranno le
regole di condotta stabilite dalla Consob. Il provvedimento ministeriale, nella
sua ultima versione, contiene anche una più puntuale segmentazione dei
diversi tipi di clientela (al dettaglio, professionale, o classificata come
controparte qualificata) in relazione al rispetto delle regole di comportamento
degli intermediari. è infine rimasta confermata la disposizione che
attribuisce alla Consob la possibilità di estendere gli obblighi di
informativa pre e post negoziazione, previsti obbligatoriamente sulle azioni,
anche a strumenti finanziari diversi. A conferma di un approccio più
attento alle problematiche della trasparenza che il mercato italiano ha
tradizionalmente avuto sugli scambi obbligazionari e che lo distingue rispetto
ad altre piazze finanziarie del continente.
Un filo rosso, anzi marron, collega le
spiate del Sismi, il voto del consiglio comunale di Roma per dedicare una via a
Craxi e le manovre di Forza Italia per far saltare il processo Mondadori in
Cassazione. È lo stesso filo rosso, anzi marron, che ha impedito finora
alla politica e all'informazione al seguito di dire la verità sulla
sentenza della Cassazione che ha dichiarato Giulio Andreotti mafioso fino al 1980
ma prescritto. Come ha osservato giustamente Livio Pepino, se la
mafiosità di Andreotti, simbolo del potere, non esiste o non conta, vuol
dire che tutti i potenti saranno autorizzati a intrattenere rapporti con la
mafia. La rimozione forzata della verità non riguarda soltanto lui:
è un lasciapassare per tutti, a futura memoria. I dossier di
Pollari&Pompa su magistrati, politici e giornalisti non allineati, dunque
pericolosi per Berlusconi, dunque da "destrutturare con azioni
traumatiche" sono noti da un anno. Da allora Pollari e Pompa sono stati
promossi, il primo al Consiglio di Stato e a Palazzo Chigi, il secondo al
ministero della Difesa. Ora, dopo un anno di cincischiamenti, il Csm ha fatto
chiarezza:quelli non erano"servizi deviati",ma istituzionali, piegati
al servizio non della Repubblica, ma di un clan, il solito. E ora di chi
è la colpa? Non di chi ha commesso il fatto, ma di chi l'ha denunciato:
il Csm. Lo dice la Casa delle Impunità, e si può capirla. Ma lo
scrivono pure commentatori, per così dire, indipendenti. Augusto
Minzolini parla su La Stampa di "atto destabilizzante". Ma non da
parte del Sismi: da parte del Csm, "una parodia del Parlamento" che
infanga "il decoro delle istituzioni". E' l'eterna fiaba di
Pinocchio.Il burattino viene derubato? Che si arresti il burattino! Commentando
sul Corriere il voto su Via Craxi e la dura critica di Padellaro, il senatore
veltroniano Goffredo Bettini ha voluto addirittura agganciarlo al nascente
Partito democratico: "Lavoriamo a un progetto, quello del Pd, che cerca di
chiudere un periodo di grande transizione che ha attraversato il Paese.
Possibile che si debba ancora star qui a discutere se Craxi è stato il
bene o il male?". Davvero il Pd si propone di archiviare Mani Pulite
mettendo insieme colpevoli e innocenti? Su un punto Bettini ha ragione: su
Craxi non c'è nulla da discutere. Grande esperto di dossier sui giudici,
aveva 50 miliardi su 3 conti svizzeri personali, è stato condannato
definitivamente per corruzione e finanziamento illecito a 10 anni, è
fuggito all'estero per non finire in galera. A uno così non si intestano
le strade. Punto e fine della discussione. Si riparla pure di Previti:
condannato a 1 anno e 6 mesi in appello per aver comprato la sentenza
Mondadori, "in continuazione" con la condanna definitiva a 6 anni per
Imi-Sir, l'onorevole abusivo comparirà dinanzi alla Suprema Corte l'11
luglio. Se la condanna divenisse definitiva, Previti perderà
l'affidamento ai servizi sociali (ottenuto grazie all'indulto) e tornerà
in carcere. Ecco perché i pasdaran azzurri Bondi, Chicchitto, Vito e Leone
hanno presentato un'interrogazione a Mastella per denunciare lo
"zelo" e l'"accelerazione forsennata" della Cassazione, che
ha fissato l'udienza entro la pausa estiva. Per i Quattro dell'Ave Cesare,
è "un'operazione ad personam contro Previti". In
realtà, come spiega il Pg Vito D'Ambrosio, la Corte ha seguito "la
prassi normale e consolidata" di dare la precedenza ai processi a rischio
prescrizione. Qui, poi, non si tratta di una questioncella da poco: si tratta
della corruzione del giudice Metta, pagato da Previti con soldi Fininvest per
consegnare a Berlusconi il maggiore gruppo editoriale italiano. Il che
puntualmente avvenne nel 1991. Ragion per cui, prima o poi, il Cavaliere
dovrebbe restituire il maltolto. La cosa comprensibilmente inquieta i suoi
discepoli. Le indagini risalgono al '95, l'udienza preliminare al '99, il
dibattimento al 2001. Siamo al 2007: c'è qualcosa di sospetto in
quest'"accelerazione forsennata". Uliwood party.
ROMA
- I cavatelli al salmone fresco e zucchine serviti ieri erano una delizia (3,60
euro). Ma anche gli gnocchi di patate al pomodoro e basilico sembra che abbiano
riscosso un certo successo (3 euro). Gli onorevoli più buongustai sono
passati poi a dell'ottimo pescato del giorno (4,20 euro) e infine a una ghiotta
"scelta di dolci" (1,80 euro). Il tutto per 9 euro, centesimo
più, centesimo meno. Peccato che quel pranzo sia costato alle casse della
Camera dieci volte di più: 90 euro.
Che le cose andassero più o meno in quel modo, a Montecitorio, lo si
sapeva da tempo. Solo che ieri mattina la frittata, è il caso di dire,
è finita sul tavolo dell'Ufficio di presidenza, l'organismo che fa capo a
Fausto Bertinotti e che sovrintende all'amministrazione del palazzo. Non tanto
perché si è appreso che la ristorazione a beneficio dei 630 inquilini
costa 5 milioni 232 mila euro l'anno, anche questo era noto. Ma perché si
è scoperto che quella cifra, ripartita per il numero di deputati, fa
lievitare la spesa per ogni singolo pasto appunto a 90 euro. Il calcolo, un po'
grossolano ma significativo, è stato sottoposto ai colleghi da Gabriele
Albonetti e dagli altri due deputati questori, per far capire che forse era
giunto il momento di mettere un taglio a cotanto spreco.
Il clima di antipolitica montante che si respira fuori dal palazzo, c'è
da giurarci, avrà pure avuto il suo peso. Sta di fatto che si corre per
la prima volta ai ripari. Come? La soluzione individuata consiste
nell'"affidamento all'esterno di una parte dei servizi di ristoro".
Così, i 7 cuochi del reparto cucina e i 25 addetti, tra camerieri e
operatori vari, per un totale di 32 "unità di personale" saranno
destinati "alla professionalità di assistente parlamentare con le
rispondenti qualifiche", ma anche al centralino, al "reparto
riproduzioni e stampa", ai servizi radiofonici e televisivi. Ora, cosa ci
farà un cuoco al centralino non è dato sapere, ma il problema
sarà affrontato in un secondo tempo. Per il momento, questa è la
decisione adottata che si legge nella delibera del collegio dei questori varata
dall'Ufficio di presidenza. E nessuno ieri ha osato obiettare alcunché, coi
tempi che corrono. Anche perché il risparmio stimato supera i tre milioni e
mezzo di euro. A regime, infatti, sottrarre i pranzi e le (poche) cene dei
deputati alla responsabilità diretta della Camera comporterà per
l'amministrazione un costo complessivo di 1 milione 662 mila euro. D'altronde,
tutto è affidato da un pezzo all'esterno anche al Senato.
Per il momento e per una "fase sperimentale di diciotto
mesi", i questori hanno deciso di affidare il servizio alla stessa
società che finora ha gestito la mensa dei dipendenti, la
"Onama". Così, senza una gara o un appalto. Perché solo al
termine dell'anno e mezzo di prova si procederà a una selezione pubblica
oppure, ecco la sorpresa nel provvedimento, "al ripristino della gestione
interna". O funziona, oppure - se i deputati non dovessero gradire cotture
e menù - si tornerà all'antico.
Ma l'Ufficio di presidenza non si è occupato solo del mantenimento in
futuro di un buono standard dello "spezzato di manzo al vino rosso" e
della dolorosa rinuncia alla cucina interna. Ha dovuto fare i conti anche con
un'altra grana. Dopo mesi di dibattiti e buone intenzioni seguiti allo scandalo
sollevato dalle "Iene" in tv sui 54 portaborse dei deputati con
regolare contratto a fronte dei 683 collaboratori dotati di permesso di
ingresso, dopo il giro di vite annunciato dai presidenti di Camera e Senato,
Bertinotti e Marini, che avrebbe dovuto comportare la concessione dei nuovi
badge solo agli assistenti messi in regola, ieri Montecitorio ha deciso di
alzare bandiera bianca. E sì, perché dopo due proroghe della scadenza e
molteplici appelli agli onorevoli, a consuntivo si è scoperto che solo
142 deputati hanno stabilizzato 182 collaboratori. E siccome il rischio era
quello di lasciare fuori dalla porta i restanti 500 finora pagati in nero, con
paghe da 400 a 800 euro, ecco l'escamotage che consentirà di fatto di
proseguire come se nulla fosse: l'Ufficio di presidenza ha deciso di concedere
il lasciapassare anche a collaboratori che svolgono una generica
"attività di tirocinio", ma anche a pensionati disposti a
collaborare gratuitamente o a dipendenti di enti e associazioni (e quindi anche
di partiti). Per farla breve, si torna al passato. Tentativo fallito.
Oggi sarà la volta del Consiglio dei ministri, che
inizierà ad esaminare il disegno di legge sui costi della politica
studiato dal ministro Santagata, più volte annunciato e altrettante
rinviato. Ma come ha anticipato anche ieri l'altro ministro che vi sta
lavorando, Linda Lanzillotta, manca ancora il via libera delle Regioni, dunque
oggi al più il testo (in 25 articoli) potrà essere solo
esaminato. In ogni caso, quel documento non è sufficiente ad affrontare
il problema dei costi nel suo complesso, secondo Antonio Di Pietro, che ieri ha
presentato con Gianni Alemanno di An un piano bipartisan per abbattere le
spese. Dal taglio delle tessere gratuite dei parlamentari alla riforma
costituzionale che riduca la stessa rappresentanza politica.
(6 luglio 2007)
ROMA
Tra i tanti «nemici» che nel 2001 il Sismi di Pio Pompa vedeva attorno
alll’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, c’era un generale che
aveva un ufficio a Palazzo Chigi e che il nuovo premier si era ritrovato come
addetto militare, Leonardo Tricarico, dell’Aeronautica militare, chiamato a
quel ruolo da D’Alema e poi confermato da Amato.
Il generale Tricarico - che comunque nel 2002 e 2003 ha organizzato vertici
internazionali di grande prestigio e poi era stato nominato Capo di stato
maggiore dell’Aeronautica - si era meritato un lungo e articolato dossier. Nome
in codice, «Rik». Ne viene fuori un quadro paranoico in cui magistrati, uomini
delle Forze armate, Quirinale, tramano assieme a esponenti diessini per
pugnalare alle spalle Berlusconi.
«Nell’ottica di una strategia, volta a perseguire ambiziosi obiettivi personali
- è l’incipit del documento rinvenuto dai magistrati nell’archivio
occulto di via Nazionale - egli avrebbe mantenuto solidi collegamenti con
l’opposizione appoggiandosi in particolare a Folena, che fungerebbe da “trade
union” (sic), e ad altri elementi di spicco come Violante, Cesare Salvi, e
Brutti facenti parte, tra l’altro, del comitato interno per la sicurezza del
partito dei Democratici di sinistra».
La causa di Cofferati
Il generale di Palazzo Chigi, che Pompa considera un dalemiano, però a
un certo punto avrebbe uno sbandamento ideologico. «Risulterebbe inoltre che
abbia abbracciato la causa di Cofferati e le posizioni da questi rappresentate
sullo scenario attuale. Tant’è che D’Alema, venuto a conoscenza di tale
situazione, avrebbe preso le distanze dal suo vecchio collaboratore».
La sostanza del dossier è che di Tricarico non ci si può fidare
perché «organico alle forze che operano, a livello nazionale e internazionale,
nel predisporre le condizioni per la caduta del Premier». E quindi non soltanto
il generale, secondo quanto Pio Pompa segnala a chi di dovere, intreccerebbe
rapporti con magistrati di sinistra (i soliti «esponenti di rilievo di
Magistratura democratica e Medel»), ma anche giornalisti.
Gruppi di pressione
«Gruppi di pressione mediatica interni, come Serventi Longhi (a sua volta in
stretti rapporti con Mosca Moschin, Camporini, Cucchi e Di Paola \ attraverso i
quali sta attualmente gestendo la vicenda legata alla formazione degli inviati
di guerra) e Furio Colombo, e esterni con una focalizzazione su Le Monde e il
suo direttore». Principale colpa addebitata da Pio Pompa al generale fellone:
passare le notizie alla sinistra. Uno dei canali, insospettabile, è
Marta Dassù, la specialista di questioni internazionali, nonché stimata
collaboratrice di D’Alema. La Dassù, ad esempio, aveva tenuto una
relazione a Bruxelles il 9 settembre (del 2002, Ndr) per un incontro
dell’European Security Forum. Si parlava di Iraq.
Lettura ispirata
La sua lettura della politica italiana sarebbe stata «opportunamente ispirata
da Rik, nella quale viene evidenziata l’incertezza in cui verserebbe
l’Esecutivo italiano, in particolare il Premier, sulla strategia da adottare...
Inoltre la Dassù in incontri riservati avrebbe evidenziato l’estrema
precarietà dell’attuale governo, derivante dai problemi giudiziari del
Presidente del Consiglio e si sarebbe fatta carico di diffondere, su incarico
di Rik, notizie di particolare delicatezza provenienti da ambiti militari».
E’ una fronda interna al mondo militare, quella che Pompa teme. O forse pensa
che Tricarico faccia filtrare questa impressione ad arte. Ma intanto le notizie
di cui sopra sarebbero legate, di nuovo, a Mosca Moschin, Camporini e Cucchi
«facenti parte, tra l’altro, del Comitato organizzatore (di cui farebbe parte
anche Rik) per il rientro anticipato, sulla scena politica, di Prodi». Un
meeting egiziano
E di questo «Comitato», che non si capisce se sia una dicitura ironica o seria,
«si è avuta notizia di un meeting» egiziano, in quel di Sharm el Sheik,
«al quale avrebbero partecipato Romano Prodi, Cucchi, Antonio Casu, Stefano
Nones e Politi». Si rasenta insomma la congiura, se non addirittura l’alto
tradimento. «Dell’obiettivo finale del Comitato sarebbe al corrente anche il
segretario generale della Presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni, cui
farebbe costante riferimento Mosca Moschin scavalcando, su diverse questioni
attinenti il suo ruolo, lo stesso ministro della Difesa». Già, perché
nel 2002, Rolando Mosca Moschin era pur sempre il Capo di stato maggiore della
Difesa.
Affari aeronautici
Infine, puro veleno nella coda, il dossier Tricarico si chiude con un
accenno agli affari. Il generale dell’Aeronautica sarebbe stato avvicinato da
imprese del settore. «Di qui l’asse che lo legherebbe a determinate grandi
multinazionali francesi, quali l’aggressiva Electricité de France, il Consorzio
Air Bus, la Vivendi, il gruppo Thales».
La lunga trattativa sulle pensioni ha di nuovo acceso i riflettori sulla cosiddetta
«concertazione» e in particolare sul potere di veto di cui sembrano godere i
sindacati quando si cerca di riformare il welfare. Questo dibattito non
è solo italiano. Toccare i diritti previdenziali è un'operazione
delicatissima, che ha provocato turbolenze politiche e sociali in molti Paesi,
spesso a causa delle intransigenze sindacali. L'osservazione comparata rivela
tuttavia che il metodo seguito nell'attuale vertenza sullo scalone è
decisamente anomalo rispetto alle esperienze straniere. In che cosa consiste
l'anomalia? Nel fatto che governo e sindacati non stanno in realtà
facendo nessuna concertazione. Ciò a cui stiamo assistendo è
piuttosto un caso di contrattazione «bruta» fra una moltitudine di soggetti
(esponenti del governo, della maggioranza, del mondo sindacale) che si muovono
in ordine sparso, che trattano fra loro in forme assai poco trasparenti, che
promuovono o difendono interessi dichiaratamente di parte. Concertare una
riforma pensionistica non vuol dire «aprire un tavolo » fra governo e parti
sociali e poi vedere che succede. Significa partire da una diagnosi
sufficientemente condivisa dei problemi da affrontare, considerando gli
interessi di tutti coloro che sono toccati anche indirettamente dalle decisioni
(compresi i giovani, ovviamente).
Significa predisporre un’adeguata base di informazioni,
accessibile a tutti, per identificare con chiarezza gli scenari alternativi e
le loro implicazioni. Nei processi decisionali concertati i sindacati sono gli
interlocutori più importanti del governo. Ma essi non possono sottrarsi
al dovere di motivare le proprie posizioni con buoni argomenti e buoni dati, di
giustificare ciò che propongono in chiave di «interesse generale ». Se
mancano queste condizioni, perché un sistema democratico dovrebbe delegare
responsabilità decisionali (o addirittura riconoscere potere di
interdizione) a soggetti privi di legittimità elettorale, espliciti
portatori di interessi particolari? Come emerge da un ampio studio appena
pubblicato da Oxford University Press (lo «Handbook of Pension Politics»), i
casi dell'Austria, dell'Olanda, della Spagna e della Finlandia offrono numerosi
esempi di riforme concertate (nel senso stretto e autentico del termine). La
riforma pensionistica finlandese del 2005 costituisce forse l'esempio
più riuscito: le parti sociali hanno fatto quasi tutto da sole, con
l'aiuto di una commissione di esperti.
Occorre però notare che la concertazione non è l'unico
metodo per cambiare il welfare. In Svezia le pensioni sono state riformate
grazie a un accordo bipartisan fra governo e opposizione, che ha consentito di
superare le resistenze sindacali. La distanza che ci separa da queste
esperienze è enorme. Il problema italiano è che sulle grandi
questioni che riguardano tutti i cittadini (come appunto le pensioni) il
sistema politico non è capace di seguire né la strada della
concertazione né quella degli accordi bipartisan. Non avendo i numeri e la
compattezza per decidere da solo, il governo si trova così impantanato
in un logorante e improduttivo tiro alla fune fra interessi contrapposti, anche
al proprio interno. Altro chemetodo della concertazione: sulla riforma dello
scalone la politica italiana sta rapidamente degenerando verso il metodo del
conflitto di tutti contro tutti. Il quale certo non produrrà alcun
provvedimento serio, ma solo ulteriore disorientamento e sfiducia nella
«politica» da parte dei cittadini, soprattutto quelli più giovani.
06
luglio 2007
Ha impegnato i tavoli tecnici e politici
per cinque mesi, ha prodotto interrogazioni e ordini del giorno, secondo la
commissione Bilancio della Camera (mozione del 15 marzo scorso) doveva essere
risolta con urgenza per permettere agli enti di chiudere i bilanci preventivi.
Ma alla fine la montagna degli avanzi di amministrazione di Comuni e Province
ha partorito il topolino. Il braccio di ferro sugli avanzi, cioè i
risparmi che gli enti locali hanno accumulato dalle gestioni precedenti,
riassume bene tutte le difficoltà del rapporto con il Governo, che le
Autonomie catalogano come "assenza totale di concertazione". In
cassa, bloccati dai meccanismi del Patto di stabilità 2007 che si fonda
sui saldi di bilancio, Comuni e Province hanno 5,6 miliardi di euro, che non
possono spendere per non incidere sui saldi rilevanti e quindi sforare il Patto
di stabilità. Poche settimane fa gli amministratori avevano respinto al
mittente l'ipotesi di sbloccarne il 10%, escludendolo dai vincoli del Patto, ma
il Dl 81/2007 ha portato una dote ben più avara: 200 milioni per i
Comuni e 50 alle Province, a conti fatti il 4,41% dei risparmi bloccati. Il 70%
del "bonus" finirà agli enti virtuosi, che sono riusciti a
chiudere il triennio 2003/2005 con un saldo medio positivo, mentre agli altri
finiranno le briciole. E anche sul meccanismo "premiale" scelto dal
Governo per individuare gli enti a cui sbloccare più risorse non
è piaciuto più di tanto agli amministratori locali. Meno di un
Comune su tre, infatti, riesce a superare con successo l'asticella del saldo
medio triennale positivo, anche perché sul risultato pesano pure gli
investimenti compiuti negli anni precedenti (il Mose e le Olimpiadi invernali,
ad esempio, spingono Venezia e Torino in fondo alla classifica di
"virtuosità" secondo il parametro governativo). Di
conseguenza, la maggioranza assoluta dei sindaci si deve accontentare di cifre
quasi "simboliche" (l'1,3% degli avanzi 2005). Torino, che ha un
bilancio da 2,2 miliardi e in cassa ha risparmi per 27 milioni, potrà
utilizzare 350mila euro, città come Pavia o Treviso si vedono liberare
meno di 100mila euro fino al caso limite di Potenza, a cui il decreto libera 53
euro. Un po' meglio va a Roma (70 milioni sbloccati), ma al Campidoglio gli
avanzi hanno raggiunto la cifra record del miliardo di euro, mentre a Milano si
liberano 10 milioni. Sempre che sindaci e presidenti di Provincia decidano di
rimanere nei binari fissati dal decreto. "Sono soldi nostri",
reclamano gli amministratori locali, che in molti casi potrebbero decidere di
sforare i vincoli, pur di mettere in campo gli investimenti programmati. In
quel caso, però, a pagare il conto saranno i cittadini, perché per chi
non rispetta il Patto la Finanziaria 2007 fa scattare l'aumento automatico
dell'addizionale comunale all'Irpef e dell'imposta provinciale di trascrizione.
gianni.trovati@ilsole24ore.com LA SELEZIONE Premiati solo gli enti
"virtuosi": a Roma 70 milioni, a Milano 10 Torino e Venezia
penalizzate dalle spese per investimenti.
Nella confusione attuale - tra una incombente crisi istituzionale (Csm e Sismi)
e l’impasse della trattativa sulle pensioni - può essere sfuggita la
celebrazione del bicentenario della nascita di Garibaldi, tenutasi al Senato
tra gli schiamazzi della Lega e degli autonomisti siciliani. Eppure il modo in
cui si è andati a questo appuntamento è rivelatore dello spirito
pubblico di questo paese. Dal dopoguerra ad oggi, la nazione italiana non
è stata in grado di confrontarsi con l’eredità del Risorgimento,
che è stato consegnato al luogo comune della “retorica risorgimentale”,
e demolito dalla sinistra come una rivoluzione incompiuta perché borghese e
monarchica, seguendo una lettura gramsciana piuttosto banalizzata, perché
Gramsci in realtà - pur critico - non sottovalutava l’importanza del
movimento risorgimentale. A scuola lo abbiamo studiato come un noioso dovere,
senza simpatia. Ma questa era la sinistra, che però aveva anche usato il
nome e il volto di Garibaldi durante la lotta di liberazione e poi nel 1948. La
novità oggi è che proprio la destra, ormai schiacciata su
posizioni veteroclericali, disconosce il Risorgimento: lo accusa di essere
stato anticattolico e massone, centralista e statalista. Di avere operato una
forzatura rivoluzionaria che ha fatto piazza pulita degli Stati preunitari e
soprattutto dello Stato pontificio; dimenticando che già da tempo la
Chiesa ha riconosciuto che è stato un bene per lei la fine del potere
temporale.
Il risultato di tutto questo è che l’Italia si conferma come un paese
senza memoria, senza tradizione, senza identità nazionale. Un paese il
cui spirito pubblico è bloccato, come in un fermo immagine, al gesto
iconoclasta, che aveva un senso negli anni sessanta e settanta, ma oggi
è una vuota ripetizione che trascolora nel qualunquismo. Il Risorgimento
è il momento fondativo della nazione italiana: lo si può
criticare quanto si vuole, ma si dovrebbe anche rispettarlo, e anzitutto
conoscerlo. Per apprezzare il livello di conoscenza del Risorgimento (e in
particolare di Garibaldi), anche da parte di quelle che dovrebbero essere
persone colte, basta aver visto l’altra sera la puntata di Otto e mezzo, nella
quale si sono sentite sciocchezze inverosimili, come quella che Garibaldi non
credeva all’immortalità dell’anima (sic!) e che non ha fatto riforme
sociali (come se fosse stato primo ministro!). Mentre il conduttore Buttafuoco
è arrivato a interpretare la spedizione dei Mille come esportazione
della democrazia, paragonandola dunque alla guerra irachena: il che significa
considerare il Mezzogiorno come una regione non italiana, considerare i
volontari garibaldini come un esercito imperiale, e, non da ultimo, i siciliani
e napoletani che li accolsero come collaborazionisti. A parte la sconvolgente
approssimazione culturale di questi giudizi, non si può non porre una
domanda: dove va un paese che non ha memoria della sua nascita, pur così
recente; che non ha miti fondativi né grandi personaggi? Non abbiamo avuto un
Churchill, non abbiamo avuto un De Gaulle o un Willy Brandt; i leader politici
del Novecento sono ancora troppo di parte per costituire un Pantheon condiviso;
vogliamo rinnegare i nostri unici personaggi veramente nazionali, e insieme
europei, come Cavour e Garibaldi? La verità è che il Risorgimento
è stato un movimento nazionale del tutto analogo ai movimenti nazionali
di altri paesi, dalla Germania all’Ungheria, che non avevano avuto la ventura
di essere unificati in nazione, secoli prima, dallo stato assoluto. Conseguenza
inevitabile di ciò è stato il carattere di illegalità e di
limitata violenza che l’origine della nazione italiana ha avuto e che oggi, con
scarsa consapevolezza storica, viene addebitato al Risorgimento.
Il rifiuto di quel movimento eterogeneo che si proponeva di “fare l’Italia” e
che, come accade di rado nella nostra storia, ci riuscì, è
rifiuto dell’identità nazionale. Opporsi a questo rifiuto non può
non essere preliminare al tentativo di “rifare l’Italia”, se questo è
oggi il compito che si propone il Partito democratico.
Il quale - sul tema caldissimo dei costi
della politica - si accinge (oggi) a presentare in Consiglio dei
ministri un ddl, per un successivo accordo con Regioni ed enti locali. Un
decreto taglia sprechi. In sintesi: via le circoscrizioni nei centri
sotto i 250mila abitanti; nelle metropoli ogni quartiere non potrà avere
meno di 50mila abitanti; consiglieri circoscrizionali senza alcuno stipendio o
diaria; riduzione dei componenti delle Comunità montane, e per far parte
delle stesse un Comune dovrà avere almeno l'80 per cento della propria
superficie sopra i 600 metri di altitudine! Ancora, riduzione dei consiglieri
comunali. A Rimini scenderebbero da 40 a 36. Inoltre, sforbiciata ad auto blu,
cellulari, società partecipate più o meno inutili ecc. E' GIA'
polemica a Roma, ma anche Rimini non scherza: "Se è così ?
sbotta l'assessore al Decentramento, Roberto Biagini ? vuol dire che il governo
non ha tenuto in nessuna considerazione l'appello salva quartieri del 2 luglio
delle amministrazioni comunali, capofila Modena, sottoscritto da Rimini e da 20
città. Non è certo con l'abolizione dei quartieri che si riducono
i costi della politica. Ma se questa è la linea del
governo, ci dovremo adeguare. Tra l'altro, avevamo già al vaglio, con
alcuni incontri effettuati, una riorganizzazione e razionalizzazione dei nostri
quartieri, riducendoli e cambiando le relative coperture territoriali, in vista
del Piano strategico". "Chi ha ideato questa nuova legge chiaramente
non è mai stato a lavorare in una circoscrizione ? attacca Fabio Betti,
Margherita, presidente del Quartiere 5 ?. QUEST'ANNO abbiamo protocollato
decine di atti, svolto tantissimi incontri. Abolendo i quartieri, dovranno
lavorare molto di più sindaco e assessori per stare in contatto diretto
coi cittadini". "Se pensano di ridurre così i costi
della politica sbagliano ? rincara Giuseppe Riccio, presidente Q1, Forza
Italia ?. Noi siamo l'interfaccia coi cittadini. Eliminarci aumenterà
solo la distanza con le istituzioni". "NON CREDO che l'Italia ora
andrà meglio ? ironizza Abramo Fraternali, Ds, presidente Q3 ?. Vero che
esistono eccessi, troppe auto blu in alcune aree del Belpaese, ma è
reale il problema del decentramento verso il livello più basso. Chiudere
le circoscrizioni non mi pare il massimo. Sarà necessario pensare altri
strumenti". Ma si risparmia sui costi della politica
tagliando i quartieri sotto i 250mila abitanti? "E' una emerita
cavolata", chiosa Fraternali. "Così come sono fatti ora si
possono anche chiudere ? va controcorrente Nevio Gaudi, Rifondazione,
presidente del Q6 ?. Coi nostri poteri attuali, quasi nulli se non con
contrattazioni personali, sono soldi sprecati. Con tempi operativi lunghissimi
Andrebbero però non chiusi ma riorganizzati in maniera efficace".
L'ASSESSORE al bilancio del Comune di
Modena, Francesco Raphael Frieri, ha risposto alla chiamata del ministro
Santagata e ieri era alla Camera dei deputati per esaminare il decreto legge
sul contenimento dei costi della politica. Gli effetti dell'articolo
16 del decreto si faranno sentire a tutti i livelli istituzionali: i tagli
riguarderanno Governo, Regioni, Province, Comuni e anche le circoscrizioni.
Queste ultime sono uno dei nodi fondamentali su cui si discute a Modena, che
sui consigli di quartiere ha un'esperienza lunga 40 anni: probabilmente
verranno eliminate nelle città sotto i 250 mila abitanti. E' il caso di
Modena. Assessore, cosa pensa del decreto per limitare i costi della politica?
"Sono d'accordo con Santagata, ma bisognerebbe cominciare a tagliare
dall'alto, dal Governo, che per esempio, potrebbe risparmiare su autisti e
uscieri. E' uno scandalo vedere come lo Stato spreca i soldi in queste figure
che non sono indispensabili. Basti pensare che il Comune di Modena ha una sola auto
blu per il sindaco". Cosa comporterà il decreto per il Comune di
Modena? "La prima conseguenza riguarda la riduzione del numero degli
assessori che sarà deciso su base demografica. Su questo punto sono
d'accordo, la giunta può restringersi di qualche unità". E
per quanto riguarda il consiglio comunale? "Secondo il decreto,
l'assemblea dovrà essere diminuita del 25%. Questo fatto mi preoccupa un
po' di più perchè il consiglio rappresenta la pluralità di
vedute ed è segno di democrazia. Paradossalmente sono più
favorevole ai tagli nell'esecutivo, cioè nella giunta, piuttosto che nel
consiglio che passerebbe da 40 a 30 membri". A rischiare di più
saranno però le circoscrizioni... "Le circoscrizioni non si
toccano. Faremo di tutto per mantenerle. Sono percorsi di partecipazione dei
cittadini, garantiscono un filo diretto tra popolazione e amministrazione e il
lavoro che svolgono, in termini di iniziative e collaborazione, è
importante e indispensabile per il bene della città". Ma quanto costano
le circoscrizioni? "Un presidente di circoscrizione ha un'indennità
di meno di 2mila euro al mese, mentre i membri percepiscono un gettone presenza
che si aggira sui 40 euro. Il costo è basso rispetto ai vantaggi che
portano". Che soluzione propone per limitare il loro peso sulle tasche
dello Stato? "Come per il Comune, non toccherei i consigli
circoscrizionali, ma proporrei una riduzione dell'indennità del
presidente, che potrebbe lavorare a tempo parziale anzichè a tempo
pieno. sarebbe un modo per limitare ancora i costi di questi enti che,
ripeto, sono fra i pochi ad essere davvero utili". Quali sono gli enti
inutili, che potrebbero essere aboliti? "Beh, io abolirei gli enti di
paragoverno, vale a dire quelli come l'Ato, agenzia territoriale per le tariffe
idriche, e l'Amo, agenzia per la mobilità. Il lavoro che svolgono queste
agenzie può essere fatto da Regioni o Province. Le Province, spesso,
sono dispendiose e producono poco, così potrebbero lavorare e occuparsi
per esempio di mobilità al posto dell'Amo". E per quanto riguarda
le comunità montane? "Sarei per la diminuzione di questi enti.
Soprattutto dovrebbero far parte delle comunità montane solo Comuni con
un'altitudine superiore ai 600 metri, diversamente per quanto accade nel
Modenese, dove ci sono paesi quasi pianeggianti che fanno parte di una
comunità montana". Quindi dei tagli in politica servono...
"Certo, e i soldi risparmiati dovrebbero essere usati per migliorare i
servizi ai cittadini. Però non è giusto accanirsi sulle
circoscrizioni, secondo me bisognerebbe partire dall'alto, diminuendo ministri
e sottogretari e mantenendo quegli enti, come i quartieri, che a Modena
rappresentano una risorsa preziosa".
+ AgenParl
5-7-2007 MANCA IL QUORUM, NIENTE GIUDICE
La Repubblica 5-7-2007
IL SEGRETO SENZA STATO. GIUSEPPE
D'AVANZO
Il Corriere della Sera 5-7-2007 Elenchi e presunti complotti Ecco la fabbrica
dei dossier
Roma 5 Luglio 2007 – Agenparl – Oggi il parlamento si
riunisce per la sesta volta in seduta comune per l’elezione di un giudice della
corte costituzionale. Su chi debba ricoprire il posto vacante alla Consulta non
c’è ancora accordo tra le parti politiche e la questione sembra ancora
lunga. Non è però soltanto una diatriba politica (almeno in
apparenza) a procrastinare l’esito della votazione, c’è anche un fatto
concreto: l’assenteismo dei parlamentari. Nella scorsa seduta, il quorum
necessario dei tre quinti dell’assemblea (572 voti) non poteva comunque essere
raggiunto in quanto deputati e senatori presenti e votanti erano appena 405.
C’è solo da chiedersi il motivo dell’assenza dei restanti 540 componenti
dell’assemblea degli eletti dal popolo. Sembra assurdo che la normale vita
istituzionale sia ostacolata non da questioni di politica generale ma dal
semplice lassismo professionale degli eletti. Opportuna e necessaria appare la
proposta sollevata dai radicali di un monitoraggio pubblico della vita
parlamentare di un onorevole, riportando assenze, proposte ed indirizzi di
voto. (F.G.)
Intervista durante la campagna elettorale: «Se i siti che lo
affermano sono i più cliccati, vuol dire che c'è qualche
verità»
PARIGI – Bush dietro gli attentati dell’11
settembre? Possibile. Almeno secondo Christine Boutin, esponente della
maggioranza del presidente francese Nicolas Sarkozy, oggi ministro delle
Politiche urbane e degli alloggi. Sarebbe il primo caso di un politico di un
governo occidentale a rimettere in dubbio la teoria che vuole Bin Laden come
istigatore dell’attacco alle Torri Gemelle.
VIDEO - A inchiodare la Boutin, un video che
circola in Internet. Qualche mese fa, in piena campagna pre-elettorale,
l'attuale ministra era ospite di una trasmissione di un noto giornalista
francese. Durante l’intervista di rito ecco la domanda fatidica: secondo lei,
Bush può essere all’origine degli attentati dell’11 settembre? La
risposta è immediata: «Penso sia possibile».
PROVE - La Boutin però non argomenta con
prove alla mano, ma si basa su una pura constatazione: «Il fatto che i siti che
rimettono in causa l’11 settembre siano visitati ogni giorno da milioni di
navigatori, mi spingono a pensare che l’espressione della massa e del popolo
non possa non basarsi su un fondo di verità».
IMBARAZZI - Il
video non è sfuggito a reopen911.info, uno dei principali portali che si
prefigge di fare chiarezza sulla prima ondata di attentati da sempre attribuiti
ad Al Qaeda, e che ha deciso di utilizzarlo come spot. Uno spot, che se dovesse
trasformarsi in «tormentone» sulla rete, potrebbe mettere in imbarazzo il
governo di François Fillon, progettato da Sarkozy che non ha mai nascosto le
sue affinità con il presidente americano George W. Bush.
Alessandro
Grandesso
05
luglio 2007
Il Consiglio
superiore della magistratura denuncia che l'intelligence militare (il Sismi) ?
a partire dal 2001 e intensamente fino al 2003 e saltuariamente fino al 2006 ?
ha spiato, anche con l'aiuto di qualche "toga sporca", quattro
procure della Repubblica (Milano, Torino, Roma, Palermo), 203 giudici (47
italiani) di 12 paesi europei. Li ha spiati per sorvegliarne le iniziative; per
intimidirli con operazioni di disinformazione; per screditarli con manovre
"anche traumatiche". Per comprenderla meglio, la notizia va ridotta
all'osso. Nel suo significato essenziale ci racconta che per cinque anni un
programma illegittimo, anticostituzionale e minaccioso è stato coltivato
e realizzato non da un ufficio separato o infedele o "deviato" dello
spionaggio, ma dal Sismi stesso, dalla sua stessa direzione perché ogni
iniziativa e risultato della "pianificazione" è stato riferito
direttamente al capo delle spie, il generale Nicolò Pollari. Per dirla
con una formula, l'attività abusiva del Sismi era
"istituzionale". A conferma dell'uso "separato" che impone
a ogni sua funzione, il generale ? oggi consigliere della presidenza del
Consiglio ? ha replicato alla denuncia del Csm con una lunga e solitaria
apparizione al Tg5. Con il consueto disprezzo per i fatti, negando ogni responsabilità,
anche quelle ammesse dal suo "braccio destro". Ha minimizzato
l'attività di dossieraggio, anche quelle documentate dall'archivio
sequestrato. Ha preso la parola a nome del Sismi, come se ancora lo dirigesse.
Ha polemizzato, quasi si trattasse di una baruffa televisiva, con un organo di
rilevanza costituzionale presieduto dal capo dello Stato. Se c'era bisogno di
avere la conferma dell'esistenza di un "agglomerato" spionistico
(legale/illegale) che si è autonomizzato, privatizzato intorno a interessi
estranei ai compiti istituzionali e del tutto personali e autoreferenziali,
Nicolò Pollari ne ha offerto ieri un saggio con il suo volto e con le
sue parole: con l'irresponsabilità onnipotente di chi si sente ancora e
sempre una sorta di autorità autonoma e separata.
Il j'accuse dei giudici chiarisce: quelle
azioni distorte degli 007 hanno colpito le fondamenta della democrazia Il
ricatto del segreto di Stato per salvare gli "amici" al governo Dopo
la sfida in tv, l'ex capo del Sismi resterà consulente del governo?
La
"sfida" del generale fa chiarezza, tutto sommato. Come chiarezza fa
il documento approvato dal Csm, come sempre esaminato dal presidente della
Repubblica. Il lavoro del Consiglio ha infatti il pregio di eliminare la fuffa
che gli attori, Pollari in prima fila, hanno accumulato su questo affare. Lo si
è voluto rappresentare con la faccia e i modi di un tale di nome Pio
Pompa, diventato dal mattino alla sera, nel 2001, alto dirigente del Sismi, con
un suo ufficio riservato in via Nazionale a Roma, alle dirette dipendenze del
direttore del Servizio. Questo Pompa è un uomo in apparenza ridicolo,
che si comporta in modo ridicolo, che dice cose ridicole. Se ne va in
Parlamento e dinanzi al Copaco (la commissione di controllo dei servizi segreti)
si presenta come "un compagno", uno ? per dire ? che si è
laureato con una tesi su "Togliatti e il Mezzogiorno"; un tipo che la
domenica andava in giro a diffondere l'Unità; un funzionario dello Stato
e agente segreto che riconosce un solo leader degno di governare il Paese.
Romano Prodi, naturalmente. Salvo poi scoprire che scriveva a Berlusconi:
"Sarò, se Lei vorrà, il suo uomo fedele e leale?". Come
prendere sul serio Pompa? Il fatto è che il tipo ridicolo è soltanto
una maschera grottesca e oggi utile. Protegge l'autore e le
responsabilità dell'impresa. Ne occulta la ragione politica e
istituzionale. Il Csm se ne libera con un tratto di penna e va al cuore nero
della vicenda. Pollari, il direttore dell'intelligence militare, era informato
ad ogni passo dello spionaggio contro la magistratura (lo ammette Pompa).
Quindi quel Sismi si è messo al lavoro in forme del tutto illegittime
rispetto alla propria missione istituzionale, che è ? secondo legge ?
"la difesa sul piano militare dell'indipendenza e dell'integrità
dello Stato da ogni pericolo, minaccia o aggressione". Per il Sismi
proteggere l'integrità dello Stato ha voluto dire difendere un governo
dai contrappesi costituzionali, tutelarlo dalle opinioni dissenzienti. è
nella denuncia di questa deformazione, il segnale di pericolo lanciato del Csm.
"è chiaro ? scrive il Consiglio ? che le iniziative giudiziarie
(soggette ai controlli giurisdizionali previsti dall'ordinamento) e il
dibattito politico-culturale sono componenti essenziali della democrazia e
nulla hanno a che vedere con aggressioni o minacce che richiedono azioni di
"difesa sul piano militare"; inoltre, il compito dei Servizi è
quello di vigilare sulla "indipendenza e integrità dello
Stato" e non sulla stabilità del Governo contingente, qualunque ne
sia il segno politico". Nell'interpretazione delle regole praticata dal
generale Pollari, si sono creati sillogismi deformi e antidemocratici. Lo Stato
è il governo, qualunque siano le sue decisioni, mosse, progetti e
responsabilità. Ogni opposizione al governo ? sia controllo
giurisdizionale o informazione o convinzione culturale e politica ? diviene
immediatamente, in questa dottrina azzardata, "una minaccia alla sicurezza
nazionale", quindi un'eversione che giustifica ogni mezzo, ogni
attività di spionaggio, finanche una "pianificazione
traumatica". Per anni, si è voluto rappresentare questo sentiero
stortissimo con una tautologia, a volte anche in buona fede. Si è detto,
l'intelligence è l'intelligence: si sa, lavora con metodi sporchi,
border line, spesso oltre i confini della legalità. Ma il nodo della
minaccia non era nel metodo. Era nel fine. Non era nell'illegalità
possibile del lavoro di intelligence, ma nella legittimità di quel
lavoro che trova ragioni soddisfacenti e adeguate soltanto "nella difesa
dello Stato" e non può trovarle, come è accaduto al Sismi di
Pollari, nella protezione di un equilibrio politico; nello scudo per un governo
(quale che sia); nell'aggressione ad altre indipendenti funzioni dello Stato
(la magistratura), della politica (l'opposizione), della società (la
stampa) e, infine, nella creazione di un potere "autonomo", privato,
extraistituzionale. è nella denuncia di questa mutazione genetica di una
burocrazia dello Stato la rilevanza dell'accusa del Csm. Che non può rimanere
senza esiti e riscontri. Ne potrebbe (dovrebbe) trovare subito tre. In uno dei
primi interrogatori a cui è stato sottoposto, Pio Pompa ha farfugliato
dinanzi al pubblico ministero di Roma la formula del segreto di Stato. Bene, il
governo potrebbe chiarire presto e in modo inequivoco che tutta
l'attività svolta dall'ufficio di disinformazione e dossieraggio di via
Nazionale non è coperta da segreto di Stato in quanto in quell'ufficio
non si è svolta alcuna attività in difesa dell'integrità
dello Stato. Il secondo immediato esito dovrebbe coinvolgere il Sismi, oggi
diretto dall'ammiraglio Bruno Branciforte. Quante delle informazioni, dei
dossier autentici e fasulli raccolti dagli uomini di Pollari ? in base al
sillogismo "Stato uguale governo"; "opposizione uguale
eversione" ? si sono "sedimentati" negli archivi del Servizio?
Bene, ripulire gli archivi di quelle scorie avvelenate deve voler dire mettere
a disposizione della magistratura le informazioni per neutralizzarle, per
accertare le responsabilità di un'ombra che ha oscurato la democrazia
italiana. Infine, un terzo esito. Immediato. Per il generale Pollari. Dopo la
sfida lanciata dalla tv al Csm, può ancora essere consigliere del
governo? Palazzo Chigi dovrebbe battere un colpo.
Sono
fogli sparsi, senza intestazioni né firme, scritti a macchina o al computer,
corretti a mano e con cancellature varie. In alcuni compaiono semplici elenchi
di nomi, in altri la descrizione di presunti complotti ai danni del governo
Berlusconi. E poi progetti per «aggredire » e «disarticolare» quei programmi,
attribuiti ai personaggi indicati nelle liste dei «nemici ».
Sono
le carte che formano gran parte del «dossier antigiudici» trovato nell’ufficio
romano del Sismi di via Nazionale, che per il Csm dimostrano come il servizio
segreto militare guidato dal generale Nicolò Pollari abbia indebitamente
spiato e controllato magistrati da intimidire e screditare. Soprattutto quelli
impegnati in «indagini e processi particolarmente delicati», a Milano e a
Palermo.
L’ufficio
di via Nazionale era gestito dal braccio destro dell’ex direttore del Sismi, al
secolo Pio Pompa. Il quale sostiene che quei documenti non sono suoi. O meglio,
a lui erano arrivati, ma chissà da dove e perché; dunque con il progetto
di «disarticolazione» di magistrati e politici considerati anti berlusconiani
il consigliere di Pollari non c’entra. Al comitato parlamentare di controllo ha
detto di averli ricevuti in una busta chiusa e dimenticati in una borsa
ritrovata durante la perquisizione in via Nazionale.
Del
resto, ha spiegato nelle «dichiarazioni spontanee» alle Procure di Milano e
Roma, lui per lavoro doveva «acquisire, classificare e custodire tutte le
informazioni, senza distinzione di genuinità, affidabilità e
attendibilità». Quindi anche «informazioni inutili, il che non significa
che debbano essere cestinate e non custodite». E a proposito del «dossier
antigiudici» ha precisato: «Si tratta di un vecchio documento anonimo redatto
nell’agosto del 2001 di cui non ho mai fatto alcun uso e il cui contenuto non
ho mai propalato ad alcuno ».
Ma
investigatori e inquirenti non ne sono affatto convinti; e qualche indizio che
siano frutto del lavoro di Pompa si ritrova in quelle stesse carte. Ad esempio
nei fogli in cui si descrivono le presunte «iniziative e azioni aggressive »
contro il governo Berlusconi insediatosi da pochi mesi. Fra queste, una
ipotetica manovra studiata a tavolino l’11 agosto 2001 dal senatore diessino
Massimo Brutti, alcuni pubblici ministeri milanesi e una giornalista ai danni
di un «personaggio politico di primissimo piano», facilmente identificabile in
Silvio Berlusconi. Con tanto di pretesa fotocopiatura ed esame degli atti
giudiziari «nell’ufficio del magistrato competente (G.Colombo)». Nell’appunto
si dice che «tali movimenti corrispondono perfettamente al disegno di
accelerare le azioni aggressive in presenza del dispositivo predisposto da un
noto ex magistrato che si ripropone in tutta la sua pericolosità».
Non
è difficile riconoscere in queste parole lo spettro del «partito dei
giudici » guidato dall’ex presidente della Camera Luciano Violante, che l’anonimo
consigliava di «contrastare e disarticolare ». Ma il particolare interessante,
per il pubblico ministero di Roma Saviotti che indaga sulla vicenda, è
che di questo resoconto sono state trovate varie copie uguali nella sostanza ma
diverse nei caratteri tipografici e in alcune parti (per esempio nella presenza
o assenza dei nomi); e ci sono delle correzioni a mano, forse opera dello
stesso Pompa, poi riportate in bella copia. Di solito un anonimo arriva in
un’unica versione, e soprattutto senza le minute vergate a mano; più
plausibile che quelle carte siano state studiate e rielaborate, anche se ne
resta incerta la provenienza. Ma è certo che Pompa ne fosse in possesso,
e che fossero custodite in una sede del Sismi.A che titolo e con quale scopo
può spiegarlo solo lui. Ieri sera il generale Pollari, che l’ha prima
nominato consulente personale e poi assunto al Servizio per chiamata diretta,
ha spiegato che Pompa si limitava ad analizzare le cosiddette «fonti aperte »,
e che i documenti di via Nazionale col Sismi c’entrano fino a un certo punto.
Gli appunti riveduti e corretti che costituiscono il cuore del «dossier
antigiudici » per Pollari non sono documenti del Sismi. Allora, a meno che non
si creda alla spedizione in busta senza mittente, resta l’ipotesi che sia
materiale confezionato o utilizzato proprio da Pio Pompa, dall’estate del 2001
in poi. Cioè prima, a ridosso e magari subito dopo il suo ingresso nel
servizio segreto. Del quale, il giorno stesso della sua nomina, si
premurò di ringraziare via fax Berlusconi in persona, con la lettera in
cui prometteva al capo del governo di «impegnarsi a fondo nella tutela e difesa
della straordinaria missione che scandisce la Sua esistenza». Dove il «Sua»
significa di Silvio Berlusconi.
GIOVANNI
BIANCONI
05
luglio 2007
Scrive
Pio Pompa in una delle sue note autografe all'allora direttore del Sismi
Nicolò Pollari: "Il segreto è il punto di forza di ogni
mutamento". Ora, almeno in parte, quel segreto cade e l'archivio riservato
di via Nazionale (di cui Pompa era l'addetto) restituisce ciò che vi
è stato custodito. Letti nella loro interezza, gli "appunti" e
le "schede" impilati nell'arco di almeno cinque anni (2001-2006) sul
conto di magistrati, uomini politici dell'allora opposizione, giornalisti,
documentano non solo la natura illegale e calunniosa del lavoro spionistico
svolto dal Servizio, ma il "programma politico" che lo ispirava e chi
ne era il "dominus" tecnico: il generale Nicolò Pollari.
"Alla valutazione del generale" - come indicano gli appunti riservati
- Pompa sottoponeva ogni mossa. Con Pollari e l'insediamento della nuova
maggioranza di centrodestra, a Palazzo Chigi nasce un "nuovo"
Servizio impegnato nella "bonifica del Palazzo", "l'epurazione
della pubblica amministrazione", "la tutela di eminenti
personalità di governo" con il ricorso, se necessario, a iniziative
non ortodosse e traumatiche. Ecco dunque i documenti.
LA BONIFICA DI PALAZZO CHIGI
"Sicurezza del Palazzo" (Palazzo Chigi) - appunto manoscritto
"Nei confronti del personale legato da rapporto di impiego stabile con la
presidenza del Consiglio, a scanso di forti reazioni burocratico-sindacali,
è possibile attuare una ragionevole ed efficace attività
procedendo all'attribuzione di talune funzioni a persone ritenute sicure,
procedendo contestualmente ad avvicendamenti "formalmente
fisiologici" di altri soggetti, onde depotenziare il dispositivo esistente,
o almeno "disorientandolo" e privandolo di sicuri punti di
riferimento (...) In questo senso un'attenzione particolare va rivolta ai
soggetti che curano i flussi documentali e gli apparati di comunicazione. (...)
Il problema di "bonificare" il dispositivo di sicurezza del
"Palazzo" è meno arduo (...) Il segreto è il punto di
forza di ogni decisione di mutamento. Sta nel rapporto fiduciario che deve
legare tale organizzazione con la Presidenza, nonché nel sapiente dosaggio
della necessità e dell'opportunità di avvicendare, nel tempo, i
vari organismi nelle varie funzioni (...) E' necessario pensare alla
costituzione di un dispositivo fiduciario limitato a poche persone da inserire
nell'ambito della struttura (...) un apparato di sensori e cartine di tornasole
utile a prevenire e, se del caso, a reprimere (...) E' superfluo aggiungere che
il dispositivo in parola deve essere caratterizzato da persone di blindata
affidabilità, della quale deve assumere personale responsabilità
chiunque sia chiamato a individuarle".
L'EPURAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
"Supporto conoscitivo all'interno della Pubblica amministrazione"
- appunto manoscritto.
a) Conoscenza e/o possibilità di conoscere le risorse umane e,
segnatamente, gli "atteggiamenti" e i "riferimenti" del
management pubblico. b) Individuazione delle aree e di soggetti in grado di
intervenire in termini "non convenzionali" nelle scelte, nelle
decisioni da assumere e/o per l'ostruzionismo delle stesse. c) Conoscenza delle
aree di gestione degli stimoli impropri e/o della disinformazione organizzata
rispetto alla linea decisa. d) Conoscenza e/o tendenziale possibilità di
individuazione di focolai di contrapposizione tecnico-politica alla linea di
governo. e) Possibilità di corrispondere alle esigenze di Governo di
conoscenza, di volta in volta, di ambiti, soggetti, progetti, iniziative,
atteggiamenti formali o sostanziali di eventuale interesse
dell'Autorità. f) Possibilità di monitoraggio di ambiti,
soggetti, programmi, progetti, iniziative di interesse dell'Autorità. g)
Valutazione preventiva delle risorse umane cui affidare o comunque curare
progetti di interesse dell'Autorità".
LA NEUTRALIZZAZIONE DEL NEMICO POLITICO
"Attività di tutela di eminenti personalità di governo"
- appunto manoscritto
A) Al livello interno.
1) Nei rapporti con le istituzioni:
* Valutazione costante degli "atteggiamenti impropri" propalati,
adottati o adottandi, da Organi o persone, da attivarsi secondo programmi
preventivamente illustrati all'Autorità o su sue specifiche indicazioni.
* Monitoraggio dei settori "notoriamente sensibili".
* Studio di fattibilità di eventuali ipotesi di lavoro volte a
"neutralizzare iniziative improprie".
* Attivazione di procedure indicate dall'Autorità di volta in volta
interessata.
2) A livello di Organi diversi dalle Istituzioni
* Attività di "monitoraggio costante" di ogni iniziativa o
ipotesi di iniziativa volta a incidere sul regolare funzionamento, sul corretto
esercizio e sulla credibilità di organi e/o soggetti di Governo
* Approfondimento cognitivo di situazioni di minaccia riferite ad aree
sensibili, di cui si è attinta autonoma notizia o per cui sono richieste
adeguate attività.
* Valutazione delle "prospettive di rischio" e conseguente studio di
fattibilità degli atteggiamenti e dei provvedimenti da assumere.
* Valutazione, a livello di intelligence economica, delle fonti, delle notizie,
degli indirizzi e delle prospettive di interesse, desunte dal programma di
Governo, o, di volta in volta, indicate dall'Autorità (quest'ultima voce
appare nell'appunto relativo al "Supporto di sicurezza generale"
ndr).
IL MONITORAGGIO DI MEDEL
Appunto al Direttore - 3 agosto 2002
"Dallo studio preliminare delle ultime attività di Medel
(organizzazione europea che raccoglie giuristi e magistrati ndr) e soprattutto
dal suo principale sostegno italiano (Magistratura democratica) emerge quanto
segue: Settori di attività: a) impegno per la garanzia dello status di
magistrato; b) opposizione a legislazione speciale sul terrorismo, che affiderebbe
maggiori poteri all'autorità di polizia ai danni della magistratura; c)
opposizione a politiche e legislazione restrittive in materia di immigrazione.
2) Principali contatti in Italia: a) Gruppo Abele; Arci; Associazione di
promozione sociale; Centro di iniziativa per l'Europa del Piemonte;
Associazione di studi giuridici sull'Immigrazione; Agenzia testimoni di
Ge-Nova; Associazione "Carta". Allegato: Per quanto riguarda i
progetti specifici promossi da enti e associazioni "non profit",
benché non sia esplicito alcun legame con Medel, può essere interessante
approfondire la natura e i contenuti del "progetto Melting pot"
promosso da "Sherwood Comunicazione e Comune di Venezia". I redattori
sono: Avv. Marco Paggi; Rosanna Marcato; Cris Tommesani; Gianfranco Bonesso;
Milena Zappon; Barbara Barbieri; Claudio Calia; Jelena Momcilovic; Nait Salah
Mourad; Leen Elen; Vojsava Zagali; Jonas Chinedu Okonkwo; Graziano
Sanavia".
Appunto al signor Direttore - 13 febbraio 2002 - "La Commissione di
inchiesta su Tangentopoli".
"Presso ambiti qualificati si è appreso che, ben prima
dell'istituzione della Commissione di inchiesta su Tangentopoli, il movimento
dei "giuristi" democratici militanti avrebbe verosimilmente
predisposto una strategia di contrasto sia a livello nazionale che
internazionale. I giuristi si sarebbero avvalsi, da un lato, del supporto delle
componenti politiche, mediatiche e antagoniste a essi contigui o organici,
dall'altro del network internazionale facente capo a Medel. Nello specifico
è stato riferito di incontri e contatti riservati intercorsi nei giorni
immediatamente successivi al varo della Commissione tra Bruti Liberati, Livio
Pepino, Ignazio Patrone, Giovanni Salvi, Cesare Salvi, Sergio Cofferati, il
segretario del Fnsi Paolo Serventi Longhi. In tale contesto, sarebbero emersi i
seguenti orientamenti: adottare forme di pressione sul Presidente della
Repubblica strumentalizzando anche una presunta volontà da parte del
Governo di porlo in difficoltà attraverso il caso Telekom Serbia. (...)
appoggiare strenuamente il disegno, che farebbe capo al fronte antiriformista e
al movimento venutosi a costituire intorno a Cofferati, teso a boicottare
l'attività di Governo in attesa di eventuali esiti negativi delle
vicende giudiziarie del Premier".
La "scheda" Barbe.
"Secondo talune indicazioni, il magistrato di collegamento presso il
ministero di Grazia e Giustizia, Emmanuel Barbe (addetto dell'ambasciata di
Francia a Roma) risulterebbe da tempo in stretti rapporti con diversi esponenti
di Medel (...) Sembrerebbe che Barbe abbia avuto modo di diventare un profondo
conoscitore delle vicende politiche e giudiziarie riguardanti il nostro Paese
sulla scorta di frequentazioni e di legami, agevolati dalla stessa Medel, con
Luciano Violante, Antonio Di Pietro, Giancarlo Caselli, Ignazio Patrone,
Edmondo Bruti Liberati, Alessandro Perduca, Livio Pepino, Claudio Castelli,
Maria Giuliana Civinini, Giovanni Salvi, Luigi Marini".
La scheda "Gallo".
"Fonte di buona affidabilità ha riferito in merito al previsto incontro
tra l'esponente del movimento Batasuna, Joseba Alvarez, e il magistrato del
tribunale di Roma Domenico Gallo, membro di Medel. Tale incontro dovrebbe
svolgersi nella serata del 28 aprile a margine di un'assemblea fissata per le
17.30 sulla situazione nei Paesi Baschi, organizzata dal Centro sociale
Intifada, via di Casalbruciato 15, Roma. In particolare, è stato
riferito che il magistrato in questione risulterebbe contiguo ad ambienti della
sinistra eversiva sia a livello nazionale che internazionale e segnatamente con
i "Carc", l'Eta basca, il movimento bolivariano di Evo Morales,
l'Ezln del Subcomandante Marcos e con le Farc colombiane. Su tale versante,
egli fungerebbe inoltre da collegamento con esponenti politici, sindacali e
della magistratura, tra cui: Sergio Cofferati, Nunzia Penelope (giornalista),
Cesare Salvi, Giovanni Salvi, Papi Bronzini (Md), Ignazio Patrone (Medel),
Edmondo Bruti Liberati (Md), Laura Curcio (Md), Amelia Torrice (Md), Amedeo
Santosuosso (Md), Paolo Mancuso (Md), Giacinto Bisogni (Md), Letizio Magliaro
(Md), Gianni Palombarini (Md), Marco Paternello (Md), Mario Vaudano (Md)".
"Giuristi
militanti e circo mediatico delegittimano il premier"
TELEKOM SERBIA, LA RAI E GLI INCONTRI AL
QUIRINALE
Appunto al signor Direttore - 26 luglio 2002: "Situazione politica e
alcuni suoi possibili risvolti"
"Trasmetto per le valutazioni di interesse. A disposizione per ogni
ulteriore chiarimento, mi è gradita l'occasione per porgerLe cordiali
saluti.
Ambiti bene informati hanno fornito indicazioni inerenti il significato e le
motivazioni che, verosimilmente, sarebbero sottesi al recente messaggio alle
Camere da parte del Capo dello Stato. Motivazioni e significato
rappresenterebbero l'esito di una serie di incontri e contatti intercorsi tra
il Segretario generale del Quirinale, dr. Gaetano Gifuni, e i leaders Ds, Piero
Fassino e Massimo D'Alema. Tali incontri, sollecitati fortemente anche da
Lamberto Dini, avrebbero avuto come finalità la definizione di una
strategia tesa a tutelare il Presidente della Repubblica e alcuni uomini
politici dalle vicende che potrebbe assumere la vicenda Telekom Serbia.
Nell'ambito della suddetta strategia, il messaggio alle Camere, in
realtà, avrebbe perseguito lo scopo di dare un preciso segnale sullo
scontro politico e istituzionale che verrebbe a determinarsi qualora la
Commissione parlamentare di inchiesta sull'affare Telekom Serbia dovesse
orientarsi per una chiamata in causa del capo dello Stato, all'epoca ministro
del Tesoro, unitamente a determinati esponenti del governo e della maggioranza
di quel periodo. In particolare, l'intervento sul pluralismo dell'informazione,
contenente l'auspicio di estendere le prerogative della Commissione
parlamentare di vigilanza sulla Rai alle reti private, costituirebbe
l'anticamera di una ancora più decisa forma di pressione da attuarsi
tramite lo sbarramento dell'opposizione e l'alea del rinvio alle Camere della
legge sul conflitto di interessi".
UNA "VOCE" DA SPEGNERE. UN INGLESE DA SPIARE
Appunto per il direttore - Gennaio 2003: "Attacchi contro il presidente
del Consiglio alla vigilia del semestre italiano" (di presidenza Ue).
"Si è avuta notizia che, sui recenti attacchi portati da alcune
testate giornalistiche, avrebbero essenzialmente interagito:
Il nutrito gruppo di giornalisti e "giuristi" militanti raccolto
intorno alla "Voce della Campania" diretta da Andrea Cinquegrani e
Rita Pennarola; Michele Santoro; Giuseppe Giulietti; Paolo Serventi Longhi;
Ignazio Patrone; Sandro Ruotolo e Giulietto Chiesa; il presidente della stampa
estera in Italia Eric Jozsef, corrispondente del giornale francese
"Liberation", autore di durissimi articoli contro il governo italiano
ripresi e diffusi ad opera del magistrato belga Marie Anne Swartenbroeks.
Quanto poi al ruolo mediatico esercitato dalla "Voce della Campania"
esso risulterebbe caratterizzato dalle forti connessioni stabilite con ambienti
dei cosiddetti "giuristi militanti", dal rappresentare una delle
principali componenti del complesso circuito telematico facente congiuntamente
capo ai siti "Centomovimenti" e "Manipulite. it" che
alimenta il processo di delegittimazione del premier. Prestigiosi opinionisti
(sic) hanno scritto negli ultimi anni per la "Voce". Tra questi,
"Percy Allum", cittadino inglese il cui nome sarebbe Antony Peter
Allum, che, oltre ad essere punto di riferimento di alcuni corrispondenti come
quelli del "Guardian", dell'Economist e del Financial Times, godrebbe
di solidi legami (in ciò agevolato dall'essere docente presso
l'Orientale di Napoli) con ambiti del fondamentalismo islamico napoletano,
fungendo anche da collegamento con quelli attivi in Gran Bretagna".
LA COMMISSIONE MITROKHIN
Appunto al signor Direttore - 6 giugno 2002
"Fonte vicina ad ambienti dell'opposizione ha informato che esponenti di
spicco dei Ds, appartenenti all'area cui fa ancora capo la leadership del
partito, avrebbero manifestato l'intenzione di non voler ostacolare
l'accertamento, da parte della Commissione, dell'eventuale coinvolgimento di
determinati uomini politici della sinistra. Ciò al fine di indebolire
l'asse venutosi a costituire tra la parte più ortodossa del partito, la
Cgil e il suo leader, Rifondazione comunista, Comunisti italiani e l'area
movimentista ricomprendente i no global e le frange più estreme
dell'antagonismo. L'obiettivo sarebbe quello di ricostituire una forte
sinistra, cosiddetta di Governo, in grado di ricompattare l'opposizione e
mantenerne la guida su basi programmatiche".
PRODI SI CANDIDA
Appunto al Direttore (senza data)
"Ambiti bene informati hanno fornito indicazioni
secondo cui la palese entrata in campo politico dell'attuale Presidente della
Commissione Europea, tra l'altro sancita dalla recente diffusione di un vero e
proprio documento programmatico titolato "Europa: il sogno e le
scelte" avrebbe determinato negli ambienti dell'Unione Europea e in
diversi Paesi membri forti reazioni contrarie che starebbero per sfociare in un
clamoroso caso di incompatibilità. In particolare sembra che il caso in
questione sia stato sollevato e fatto proprio, in punto di principio, dagli
stessi organismi della Ue, nonché da diversi gruppi politici del Parlamento
europeo. Tant'è che la eco mediatica suscitata dalla vicenda starebbe
per assumere risvolti clamorosi soprattutto sulla stampa estera mentre in
Italia verrebbe trattata con scarsa attenzione destando non poca meraviglia nel
resto dell'Europa. Tuttavia, il dato rilevante sarebbe che, nel caso di specie,
non si tratterebbe di mera polemica politica, bensì del rispetto di un
principio, ormai consolidato in sede Ue, teso ad evitare fenomeni di
commistione tra il ruolo di Presidente della Commissione e quello di leader di
una coalizione politica nel Paese di appartenenza. Di qui la
trasversalità delle prese di posizione contrarie, che abbraccerebbero
larga parte del Parlamento europeo e non solo, con l'intento di perpetuare il
rispetto di tale forma di incompatibilità cui si sono già
attenuti altri leader politici".
(5 luglio 2007)
ROMA
Il Sismi è stato chiamato in causa «ingiustamente» dal Csm per la
vicenda dei dossier rinvenuti nell’archivio di Pio Pompa. Il Servizio, infatti,
«mai ha svolto attività non consentite, tanto meno nei confronti di
uomini politici, magistrati e giornalisti». Lo ha rivendicato l’ex direttore
del Sismi, Nicolò Pollari, replicando in un’intervista al Tg5
alle conclusioni contenute nella risoluzione approvata oggi dal Csm sui
magistrati "spiati".
«Dal Csm accuse ingiuste»
Pollari ha premesso di avere «sempre mantenuto un doveroso riserbo per rispetto
della funzione che ho svolto e delle responsabilità che me ne derivano
anche oggi». «Mi sono imposto in questo caso una deroga, non al fine di
difendere me stesso ma per il fatto - ha aggiunto l’ex direttore - che le conclusioni
a cui è pervenuto oggi il Csm, secondo quanto divulgato dagli organi di
informazione, investono ingiustamente l’istituzione Sismi». «Il Sismi da me
diretto - ha sottolineato Pollari - mai, dico mai, ha svolto attività
non consentite, tanto meno nei confronti di uomini politici, magistrati e
giornalisti. Il Sismi da me diretto, in un periodo di guerre, si è
occupato di evitare attentati in Italia o contro obiettivi italiani nel mondo,
di salvare vite umane e di portare in salvo cittadini italiani e non solo
sequestrati in paesi ad alto rischio».
Archivi da fonti giornalistiche
«Non esiste nè in via Nazionale nè in alcun altro luogo alcun
archivio segreto del Sismi che contenga dossier illeciti nei confronti di
chiunque, nè esiste alcun documento da utilizzare a fini intimidatori
nei confronti di chicchessia», ha precisato Pollari. «I file oggetto di
discussione, rinvenuti in via Nazionale nei computer personali del dottor
Pompa, che aveva funzioni di analista di fonti aperte e di analista Internet,
recano - ha specificato l’ex capo del Sismi - documentazione di sua personale
riferibilità. Si tratta pertanto, e per quanto mi è dato di
conoscere, di dati e notizie provenienti da fonte giornalistica, attinti da
giornali, libri e da siti internet, siti aperti e disponibili per chiunque
navighi e si muova nel web».
«Documenti mai trasmessi al Sismi»
Secondo Pollari, inoltre, i documenti rinvenuti nell’archivio di via
Nazionale organizzato da Pio Pompa non sono mai stati trasmessi e utilizzati
dal Sismi. «Mai, dico mai, tali atti e documenti sono stati trasmessi al
Servizio e utilizzati in alcun modo dal Sismi», ha detto Pollari. Che ha
aggiunto: «Non ritengo perciò accettabile che vengano emessi
pronunciamenti in assenza di conoscenze complete ed adeguate dei fatti, e che
si celebrino processi mediatici ai danni di un’istituzione repubblicana che ha
operato solo per garantire la sicurezza dello Stato e dei cittadini italiani in
momenti così delicati e difficili per il Paese».
Cara Europa, ho un quesito sul discorso di Veltroni,
partendo dalla lettura de La Casta di Rizzo e Stella. La partitocrazia e le
commistioni illecite fra affari e politica sono zavorra per il sistema Italia e
fanno vivere male l’economia e noi stessi. Per citare (p.129), in Sicilia,
mentre la sanità pubblica affonda, quella privata fiorisce e ingrassa i
politici. Ecco il quesito: quale posizione ha espresso Veltroni rispetto al
perverso intreccio tra politica e affari, così frequente all’ombra delle
patrie istituzioni? PAOLA ROCCHI, SANTA MARINELLA (RM)
Cara Paola, scusa per i taglietti alla lettera,
spero non gravi. È probabile che tu non abbia potuto ascoltare in
diretta il discorso di Veltroni (Sky, Rai News 24) né leggerlo per intero (sito
di Repubblica).
Io, che a differenza di te non ho 25 alunni a cui insegnare, ho potuto farlo e
ti assicuro che per cercare la risposta alla tua domanda bisogna entrare nella
logica di un discorso che dipinge un quadro generale del “sistema Italia”
com’è e come vorremmo che fosse. Allora le risposte verranno implicite
ma limpide.
Mi limito a riferirti quella che riguarda la questione più ricorrente
(ma non unica né la più onerosa per tutti noi): il costo della Casta.
Veltroni non ne parla come di un fatto in sé, perché sa che essa è
l’ultima foglia di un albero malato, che non può essere curato con
l’anticrittogamico.
Occorre una potatura radicale, come quella che facciamo ai nostri olivi quando
li riduciamo a quattro cinque rami partenti dal ceppo. Dice: se i parlamentari
eletti sono 577 in Francia, 646 in Gran Bretagna, 614 in Germania, 435 negli
Stati Uniti, perché in Italia debbono essere mille tra camera e senato?
Vogliamo una sola camera elettiva e legislativa (500 deputati?). Eguale cura
dimezzante “per tutti gli organismi elettivi” (comuni, province, regioni,
consorzi , ecc) o per quelli di essi che sopravvivranno alla falcidia.
Approvazione o bocciatura della legge finanziaria a scatola chiusa (come in
Inghilterra), senza emendamenti per le clientele. Eliminazione di centinaia di
organismi che danno pareri e mettono veti, facendo moltiplicare nelle remore le
occasioni di condizionamenti e corruzione: proprio come negli appalti
subappalti e trasferimenti e lottizzazioni di opere pubbliche o forniture.
Vuoi che vada avanti? Posso farlo, ma il discorso si sposta ben oltre il limite
della Casta politica di Rizzo e Stella: riguarda la tassazione delle rendite e
quella dei risparmi, gli affitti, gli ordinamenti della pubblica
amministrazione, i servizi esasperanti, centinaia di stanze del nostro vecchio
stato barocco fatte apposta per far fermentare i germi dell’ozio,
dell’intrallazzo e della corruzione.
Veltroni li indica. Credo che altrettanto faranno Letta e Bersani e altri
possibili candidati alle primarie.
Resto invece sgomento nel leggere sull’ultimo numero di Micromega gli inciuci
centrosinistra-centrodestra delle ultime legislature uliviste e berlusconiane.
E qui per oggi fermiamoci. Però, dovremo rifletterci molto. Non possiamo
consolarci col fatto che anche in Francia, nonostante il suo limpido sistema
istituzionale che ci piacerebbe, Chirac stia sotto processo.
Caro direttore, in questi giorni ho letto Viaggio in Europa, l’epistolario di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel quinquennio 1925-30, pubblicato da Mondadori e
curato dal mio caro amico Gioacchino Lanza Tomasi e da Salvatore Silvano Nigra.
Le lettere di Lampedusa sono tutte indirizzate ai cugini Piccolo di
Colanovella, Agata Giovanna, Casimiro (pittore) e Lucio (poeta), i quali
vivevano in una villa nobiliare di Capo d’Orlando, in un mondo magico,
fiabesco, surreale. Di questi luoghi e di questi personaggi, i Piccolo, si
è molto scritto e non è questa la ragione per cui oggi ne parlo.
Mi affascinava leggere e capire il Lampedusa giovane che gira l’Europa e scrive
ai suoi cugini con ironia e intelligenza. Altri potranno parlarne per gli
aspetti letterari e anche di costume che le lettere ci rivelano. Quel che mi ha
colpito è il fascismo giovanile di Lampedusa e soprattutto quello
“classista” di sua madre. In una lettera da Parigi a Casimiro (27 luglio 1925)
lo scrittore dice di essere eccitatissimo per la politica e racconta: «Qualche
giorno fa, di già, la strigliata di Amendola mi aveva riempito di
delicata voluttà».
Infatti Giovanni Amendola era stato bastonato a Montecatini e, come è
noto, fu ricoverato in una clinica da dove uscì cadavere. Nella stessa
lettera, Lampedusa vede la Francia «in stato di bolscevismo latente» e si
consola perché «se anche scoppia la rivoluzione nessuno mi torcerà un
capello o mi ruberà un soldo, perché alle mie spalle ho Mussolini». Come
nota il curatore, Nigro, Lampedusa si ravvide presto, già nel 1938
condannò le leggi fasciste razziste e nel Gattopardo deriderà le
baracconate di «gale e pennacchi».
Invece la lettera che la mamma di Lampedusa scrisse alla madre dei Piccolo,
ricordata nella bella introduzione di Salvatore Silvano Nigro, è una
testimonianza di come il ceto alto della società italiana vedeva il
fascismo e lo squadrismo. Scrive la nobildonna: «Ho seguito qui tutti i movimenti
fascisti, l’incendio della Camera del Lavoro, i cortei ecc. L’incendio era
impressionante - il palazzo non ha più che le mura esterne e la
torretta, esso è un edificio imponente, isolato e grandioso. Bisognava
vedere quel giorno quante facce torve, impotenti a reagire, che guardavano
biecamente la distruzione della loro fortezza, sulla quale sventolava un’enorme
bandiera tricolore! Io ne ero entusiasta - nata sotto il Secondo Impero porto
con me, perché negarlo?, tutte le aspirazioni, i sentimenti, le tendenze
diametralmente opposte al proletariato, che secondo me deve rimanere nel suo
ambito e non deve alzare il capo! Perciò ho salutato (alla romana), il
braccio destro teso, i baldi fascisti incoraggiandoli con calde parole di
ammirazione. Le camicie nere in gran numero, come si son vedute qui, sono di
effetto mirabile e commovente; esse ispirano veramente fiducia e si sente che
ognuno di loro ha vero coraggio. Quel giorno dell’assunzione del loro Duce,
attraversavano la via con la bocca dei moschetti chiusa da in fiore (garofano o
crisantemo), grandioso e poetico gesto! Lui (Benito) è l’uomo che ci
vuole per questi conigli traditori [...]. Vi abbraccio fascisticamente».
Se dopo la liberazione quei proletari con «le facce torve, impotenti a
reagire», viste nel 1922, o i loro figli, alzarono il capo e reagirono con lo
stesso spirito di classe (rovesciato) nei confronti di chi si compiaceva delle
bastonate ad Amendola e nel vedere bruciare le Camere del Lavoro, sarà
stato un errore, ma è anche comprensibile. O no? Lo ricordo a chi non ha
memoria.
Nel bilancio della Santa Sede i conti non
tornano: l'avanzo in un anno è sceso da 9 a 2mln di euro.
Confidiamo in Dio, 'in God we trust', così è scritto sul dio
denaro fino a ieri per eccellenza, il dollaro. E la Santa Sede al bigliettone
verde si è affidata, ricevendone in cambio una punizione da più
di 7 milioni di euro, ovvero quanto perso per via dei flussi di cambio tra il
2005 e il 2006. Ma più che dare la colpa al dollaro sarebbe più
corretto dire che a bruciare il patrimonio della Santa Sede è stato
piuttosto il supereuro della stessa Europa che non ha voluto riconoscere
formalmente le proprie radici cristiane.Infatti il bilancio della Chiesa
guidata da papa Benedetto XVI, che sarà presentato domani in conferenza
stampa, è solo all'apparenza positivo con quei 2 milioni e 405.315 euro
di avanzo 2006. In realtà, rispetto ai circa 9,7 milioni di euro
con i quali si era chiuso l'esercizio 2005, e considerato il sostanziale
pareggio tra le entrate 2006 pari a 227.815.031,00 e quelle del 2005 che a loro
volta sono pari a quelle del 2004 ovvero 205,663 milioni, e il pareggio tra le
uscite a bilancio lo scorso anno di 225.409.716,00 euro e quelle del 2005
uguali più o meno al 2004, 202,581 milioni, qualcosa non quadra. E la
domanda sorge spontanea: perché allora l'avanzo 2006 non ripete la
performance del 2005, visto che ci si affida su oboli, offerte e contributi
più o meno sempre uguali? Che fine hanno fatto quei sette milioni e
passa di euro? Volatilizzati per colpa del dollaro debole ovvero dell'euro
troppo forte. Lo riconosce sua eccellenza, monsignor Franco Croci. Il
segretario della prefettura degli affari economici della santa sede spiega a
ItaliaOggi che 'il motivo di un avanzo inferiore rispetto a quello dello
scorso anno è legato ai flussi di cambio'. Dice monsignor Croci:
'Chiudemmo il bilancio 2005 con un dollaro che valeva 1,17 rispetto all'euro.
Al 31 dicembre 2006, invece, la valuta statunitense è balzata a 1,30
euro, un cambio decisamente sfavorevole'. Già sfavorevole al piano di
investimento della Santa Sede che, seppure con prudenza, investe in
obbligazioni e azioni a stelle e strisce. 'Si tratta soprattutto di investimenti
mobiliari, in dollari certo ma anche in euro, ovvero le due valute più
importanti, ma con un cambio così sfavorevole dollaro-euro quest'anno
non abbiamo potuto eguagliare la performance dell'avanzo 2005', aggiunge
sua eccellenza. In verità, a correre meno rischi la Santa Sede ci ha
anche pensato 'con un tentativo di trasformare tutti gli investimenti in euro,
ma alla fine abbiamo deciso di continuare a investire anche in dollari per non
perdere di più', analizza monsignor Croci. Spiega che in effetti per non
correre eccessivi rischi, la Santa Sede si è affidata a un piano di
investimento prudente tra obbligazioni e azioni, più sbilanciato verso
le prime, però. Se il dollaro tira brutti scherzi, nella Santa Sede ci
si può affidare, comunque, sempre alla provvidenza che quest'anno ha
portato nelle casse vaticane 24.081.560,00 euro a bilancio sotto forma di
contributi in base al canone 1271 del codice di diritto canonico, ovvero il
contributo a sostegno della struttura centrale della chiesa che i vescovi
elargiscono secondo le possibilità delle loro diocesi: per un vincolo di
unità e carità. Insomma, al dio pagano di mister dollaro sarebbe
stato meglio cedere alla tentazione del laicissimo euro, anche se in Europa non
sembra esserci più posto per i valori tanto cari a Sacra Romana Chiesa.
(riproduzione riservata).
Mercoledí
04.07.2007 19:22
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LEGGERE IL TESTO INTEGRALE DEL DLGS SULLE TUTELE DEI RISPARMIATORI
Arriva
l'Ombudsman dei mercati finanziari. Il
viceministro dell'Economia Roberto
Pinza ha scritto lo schema di decreto legislativo, riferito in
dettaglio da Radiocor,
che istituisce "procedure di conciliazione ed arbitrato" davanti alla
Consob, per le controversie tra risparmiatori o investitori, sugli obblighi di
informazione, correttezza e trasparenza. Il Dlgs, venerdì in
Consiglio dei ministri, istituisce anche il Fondo di garanzia per i
risparmiatori.
Il
Cdm di venerdì si
occuperà
anche della riforma
del credito al consumo a tutela dei consumatori. Il Disegno di
legge di 7 articoli, infatti, è
all'ordine del giorno.
La
riforma, di cui Radiocor anticipa il contenuto, fa ricadere sotto la disciplina
del credito al consumo operazioni fino a 100mila euro, inclusi crediti per
ristrutturare case e carte di credito rotative. Rende piu' trasparenti i costi
aggiuntivi legati al credito al consumo e la pubblicità.
L’Unità
4-7-2007 Banale cinque Marco Travaglio
Il
Riformista 4-7-2007 L’Hotel Raphael? Sì, in largo Craxi di Paolo Franchi
ROMA
- E' stato il Sismi e non
i "settori deviati" del servizio a svolgere l'attività di
spionaggio nei confronti magistrati che è venuta alla luce con la scoperta dell'archivio di via Nazionale a
Roma. A dirlo è una
risoluzione approvata all'unanimità dal Plenum del Csm.
Secondo il Consiglio superiore della magistratura il Sismi ha svolto
un'attività "estranea" ai suoi compiti con lo scopo
"intimidire" e far "perdere credibilità " ai
magistrati.
Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, prima dell'approvazione da parte del
plenum di Palazzo dei Marescialli aveva dichiarato che "c'è stato
uno sviamento di poteri da parte del Sismi. L'attività del servizio
è andata al di là delle proprie attribuzioni e competenze".
La risoluzione del Csm arriva dopo le dichiarazioni dell'ex funzionario Pio
Pompa che aveva voluto sminuire l'importanza dell'archivio. "La quasi
totalità del materiale sequestrato nei miei pc personali - aveva scritto
nella dichiarazione spontanea consegnata ieri pomeriggio al pm Pietro Saviotti
- proviene da fonti aperte (internet, organi di informazioni, etc.). Le
informazioni contenute nei files attinenti a magistrati sono tutte, ribadisco
tutte, di fonte pubblica, giornalistica o informatica".
Per il Csm, l'opera di intelligence nei confronti delle toghe invece "si
è concretizzata non solo nella raccolta e nella schedatura di materiali
noti o comunque pubblici, ma anche in un capillare monitoraggio delle
attività dei movimenti e della corrispondenza informatica di magistrati,
mediante forme di osservazione diretta o a opera di terzi non
individuati". Non solo. Il documento del Cms sottolinea come "sono
stati posti in essere dal Sismi specifici interventi tesi a ostacolare e
contrastare l'attività professionale o politico culturale dei magistrati
e delle loro associazioni".
In particolare, scrive al riguardo il relatore della risoluzione, Fabio Roia,
l'attività di intelligence da parte del Sismi - "che si è
protratta in modo capillare e continuativo, fino al settembre 2003 e in modo saltuario
fino al maggio 2006" - "fu oggetto di ripetute informazioni al
direttore del servizio e sembra quindi riferibile al Sismi in quanto tale e non
a suoi settori deviati come conferma del resto nella memoria depositata alla
procura di Milano il 7 luglio del 2006 il coordinatore di questa
attività, Pio Pompa".
Infine, a preoccupare il Consiglio superiore della magistratura è anche
il fatto che l'opera di intelligence nei confronti di magistrati "si
è talora svolta con la partecipazione o l'ausilio di appartenenti
all'ordine giudiziario". Al proposito Palazzo Marescialli ammonisce che
"ogni tipo di collaborazione di magistrati con i servizi segreti oltre che
espressamente vietata dalla legge è estranea al modello costituzionale
dell'ordine giudiziario e ai suoi connotati di terzietà e
indipendenza".
(4 luglio 2007)
Lavorando per la
Rai, per la Fininvest, per Mediaset e avendo lavorato anche per La7, era
naturale che Maurizio Costanzo facesse un giro anche a Sky, affinché gli
abbonati al satellite abbiano anche loro la giusta punizione. Il programma
inaugurato dalla Tessera P2 numero 1819 s'intitola "Stella" e si
sottotitola "Siete pronti a cambiare?". Nel senso che, se siete
pronti a cambiare, avete sbagliato programma. Se invece non siete pronti,
allora beccatevi Costanzo tutte le sere via satellite per l'intera estate.
Dopodiché annuncia lui minaccioso "in settembre ripartirà il
Costanzo Show su Canale5". E chi trovasse la sua presenza via etere ancora
riduttiva, può sintonizzarsi su Radio Rai a una cert'ora notturna: vi
troverà, tanto per cambiare, Maurizio Costanzo che biascica
banalità e ovvietà. Il problema di Costanzo è questo: teme
sempre di restare disoccupato, anche se non si comprende proprio come la cosa
potrebbe accadere. Oltre ai suoi modici impegni televisivi e a quelli della sua
deliziosa signora, infatti, l'ex vice-Gelli (nella P2 aveva il grado di
Maestro) ha qualche piccolo impegnuccio anche nella carta stampata, curando una
rubrica sul Messaggero, una su Panorama, una su Libero e, per passare
inosservato, anche una sul Riformista. In più insegna
all'università e dirige il teatro Parioli, è consulente di una
dozzina di enti locali, fra i quali almeno fino a qualche tempo fa la
Provincia di Roma e il Comune di Genova. Ha curato l'immagine di Irene Pivetti
quand'era presidente della Camera (lei, non lui). Ha collaborato con le Ferrovie
dello Stato, infatti guardate come sono ridotte. E ultimamente s'è
dedicato, con analogo strepitoso successo, alla Telecom. L'altro giorno qualche
quotidiano, con grave sprezzo del pericolo, ha pubblicato la notizia della sua
consulenza da 7 milioni di euro per la società così ben gestita
da Tronchetti Provera. "È tutto alla luce del sole", ha
spiegato lui, meravigliato di tanto clamore, "con fatture e relativi
pagamenti di tasse. Da vent'anni sono consulente, ho partecipato a decine di
riunioni con i vertici dell'azienda per pianificare le strategie aziendali e
gli spot, come gli ultimi con Christian De Sica". Costanzo rivela che i 7
milioni della Telecom si riferiscono anche all'ultima parte della gestione
Colaninno-Gnutti-Consorte, quando lui, che all'epoca lavorava già a
Canale 5 e ne era addirittura il direttore, lavorò alla "rilettura
dei palinsesti de La7 e alle risorse artistiche". In pratica, lavorava per
due televisioni concorrenti (si fa per dire, naturalmente). E guardacaso Fabio
Fazio, che aveva in programma uno Show proprio in concomitanza col Costanzo
Show, fu liquidato con una congrua buonuscita perché non partisse nemmeno. Ma
nessuno s'azzardi a parlare di conflitto d'interessi, perché qui il conflitto
non si nota proprio: si notano solo gli interessi. Ora pare che Tessera 1819
sia un po' in freddo con Piersilvio, che formalmente sarebbe il responsabile di
Mediaset, ma lui non lo nomina nemmeno: quando parla di Berlusconi, lui si
riferisce a Silvio, che poi è il padrone. Lo conosce come le sue tasche,
dai tempi in cui lui era maestro della nota loggia e Silvio (tessera numero
1816) era un semplice "apprendista muratore". Poi il muratorino
superò il maestro. "Con Berlusconi dichiara Costanzo al Magazine
del Corriere - il rapporto è sempre stato chiaro e leale, ma la
libertà che si respira su satellite è un'altra cosa". Ecco:
il problema è che cosa se ne fa, uno come lui, della libertà. Per
invitare Giovanni Falcone, come ai tempi belli, forse ce ne voleva un bel po'.
Ma per invitare Platinette e Costantino Vitagliano, Fabrizio Corona e Lele
Mora, come fa oggi, della libertà ne può fare volentieri a meno.
Resta da capire perché mai, un anno fa, prim'ancora di metter mano alla
Gasparri, il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni abbia sentito
l'irrefrenabile impulso di nominarlo consulente del governo per
"l'innovazione e il digitale terrestre". Forse temeva anche lui che
restasse disoccupato. Uliwood party.
Non esiste una via toponomastica alla soluzione della questione Craxi. Tanto
più se la scelta di dedicargli una piazza o una strada matura in modo a
dir poco confuso, come è capitato al Consiglio comunale di Roma. Ma
adesso che la decisione è stata presa, e impegna Walter Veltroni, per lo
meno non si può più girare intorno al problema. Il direttore
dell’Unità, Antonio Padellaro, si indigna alla sola idea che un pezzetto
di Roma porti il nome di uno che, dice, è morto latitante. Io proprio
no. E non solo perché penso che verso Craxi la democrazia italiana, e in
particolare la sinistra, deve onorare un debito pesante. Può sembrare
una provocazione, ma non lo è. Credo che Stefania Craxi abbia più
di una ragione, quando chiede che a Bettino sia intitolato largo Febo. E provo
a spiegare il mio personalissimo perché.
Io c’ero, in largo Febo, davanti all’hotel Raphael, quella sera del ’93. Il
giorno prima la Camera aveva negato alcune autorizzazioni a procedere contro il
leader socialista, provocando le reazioni inferocite della grande stampa
(compresa quella che di Craxi era stata amica) e del Pds. Niente ministri nel
neonato governo Ciampi. E per l’indomani una manifestazione, sempre di
protesta, anzi, di sdegno democratico, in piazza Navona, a due passi dal
Raphael. Andai a vedere, sono un giornalista e un uomo di sinistra. Finito il
comizio di Achille Occhetto, seguii la piccola folla che si spostava sotto
l’albergo di Bettino. In largo Febo, si aggiunse altra gente. Fischi, urla,
insulti, monetine, invocazioni di piazzale Loreto, inni e canti al pronto
sgozzamento del Cinghiale.
Mi è già capitato di scriverlo, torno a farlo. Se non fossi stato
anch’io al comizio, avrei faticato a dire di che manifestazione si trattasse:
comunisti? fascisti di quelli che all’epoca assediavano Montecitorio? leghisti
di quelli che alla Camera innalzavano simpaticamente il cappio? Era come se
lì, in largo Febo, il rosso trascolorasse nel nero e il nero nel rosso,
a formare la miscela lubrica della cosiddetta «rivoluzione italiana». Ebbi la
percezione fisica che un pezzo importante della sinistra italiana, quello che
proveniva dal Pci, invece che evolvere, si fosse snaturata, e si avviasse verso
il baratro. Più tardi, molto più tardi, si corresse, ma solo in
parte, il tiro. Io però in tutti questi anni su quello che capitò
davanti al Raphael non ho cambiato idea. Non succederà. Ma dedicare
largo Febo a Bettino Craxi significherebbe anche emendarsi simbolicamente
dall’orrore di una simile serata, e da tutto quello che, nemmeno troppo
implicitamente, ha rappresentato. E offrire almeno la speranza che la Terza
Repubblica, se mai nascerà, sia tutt’altra cosa da questa Seconda di cui
fatichiamo tanto a liberarci.
VENEZIA - In tanti l'avevano chiamata la "legge della vergogna",
dopo che era stata approvata dal consiglio regionale in notturna e un po' di
soppiatto in una seduta sotto lo scorso Natale. E ieri l'onta è stata
lavata: la prima commissione di Palazzo Ferro-Fini (Bilancio e Affari
istituzionali) ha approvato, a larga maggioranza, un progetto di legge che
ridimensiona le cosidette "pensioni d'oro" degli eletti nel
parlamentino veneto e la loro liquidazione di fine mandato. IL CASO - Inoltre
sparisce quel benefit un po' da menagrami che aveva fatto finire la Regione
Veneto sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e nelle battute della
seguitissima trasmissione tv "Striscia la notizia". D'ora in poi il
funerale i consiglieri regionali se lo pagheranno di tasca propria, niente
più contributo dall'istituzione. E il testo prevede altre norme
destinate in generale a ridurre il costo della politica regionale. Anche
se, nei fatti, si eliminano soprattutto quegli aumenti economici fatti passare
a fine 2006. TEMPI STRETTI - Il sì al provvedimento è, per ora,
solo in commissione, ma l'impegno bipartisan dei poli è di approvarlo
definitivamente in aula nella prossima seduta prevista per l'11 luglio.
Così si avvia all'epilogo la vicenda che era stata aperta da una serie
di articoli del Corriere del Veneto nei primi giorni dell'anno. Il testo varato
ieri conferma la proposta presentata la scorsa settimana, a nome dell'Ufficio
di presidenza del Consiglio, dai vicepresidenti Carlo Alberto Tesserin (Forza
Italia) e Giampietro Marchese (Ulivo- Pd). Un documento ispirato da un ordine
del giorno che l'assemblea di Palazzo Ferro- Fini aveva approvato il 1Ë?
febbraio scorso per rivedere la normativa in materia secondo criteri di
"equità e sobrietà". La retromarcia sarebbe dovuta
avvenire entro l'aprile scorso, ma poi la campagna elettorale amministrativa
l'aveva fatta slittare. A ricordare la cosa ci aveva pensato qualche
consigliere d'opposizione, ma anche Mara Bizzotto della Lega, la prima a
scagliarsi contro la "legge della vergogna". NORME E NOVITà -
Molti gli aspetti sui quali la proposta interviene: assegno di fine mandato
limitato a un massimo di 10 mensilità, indipendentemente dal numero
delle legislature effettuate (a dicembre il tetto era saltato); età
pensionabile innalzata a 65 anni (cosa prevista anche a fine 2006);
entità dell'assegno vitalizio, che va dal 30 (una legislatura) ad un
massimo - tolto con la legge di fine 2006 - del 70% (tre mandati)
dell'indennità consiliare, con un 4% in più per ogni anno in
carica. Limitata la possibilità di avere la pensione per i consiglieri
che non completano una legislatura. Finora bastava un solo anno in carica,
adesso ce ne vorranno almeno due e mezzo. La riforma sopprime, dalla prossima
legislatura, l'assicurazione per l'assistenza sanitaria integrativa,
mantenendola in vigore fino al termine dell'attuale mandato. Invertite
però le attuali quote di costo rispettivamente a carico del consigliere
e della Regione, cioè 30 e 70%, con un notevole aggravio agli eletti.
Invariate invece le percentuali di spesa per l'assicurazione contro l'eventuale
responsabilità civile per risarcimento danni conseguenti all'esercizio
del mandato: 30 a carico del consigliere, 70 del Consiglio. "Ma nel resto
d'Italia questa la paga tutta la Regione " ricorda Raffaele Grazia (Ppe
Veneto), presidente della Prima commissione. GLI EMENDAMENTI - Due le
correzioni alla bozza di legge. Una, sollecitata dal capogruppo di An
Piergiorgio Cortelazzo, è passata. Stabilisce che consiglieri e
assessori possano rinunciare, devolvendoli alla Regione, in parte o interamente,
ai propri emolumenti al netto delle ritenute obbligatorie. La seconda, bocciata
dal centrodestra (Udc astenuto) e proposta dal capogruppo di Progetto Nord Est
Mariangelo Foggiato, prevedeva, dalla prossima legislatura, per gli assessori
esterni indennità accessorie e rimborsi spese, ma non l'indennità
di carica (circa metà stipendio) che spetta solo ai consiglieri eletti.
E niente indennità di fine mandato né pensione. IL NODO DICO - Respinto
pure un emendamento del consigliere di Rifondazione Pietrangelo Pettenò
che chiedeva l'estensione della reversibilità della pensione anche ai
conviventi (di entrambi i sessi) dei consiglieri da almeno due anni prima del
decesso. La bocciatura di questa proposta, con un voto trasversale, ha
determinato l'astensione di uno dei firmatari del testo di legge, Marchese.
Astenuti pure Pettenò (Prc) e Nicola Atalmi (Comunisti Italiani) per
"l'esclusione dalla discussione della nostra proposta di valutare, tra le
forme di risparmio sui costi della politica, anche tetti agli
stipendi dei manager regionali e l'abolizione delle inutili commissioni
consiliari". Gi. Sc. LA RETROMARCIA I consiglieri hanno ridimensionato le
loro pensioni.
Giro di vite in Regione? Sulla carta un coro di sì. In
realtà punti di vista ancora radicalmente diversi, specialmente se sul
tavolo compare il tema della riduzione delle indennità del 10 per cento
per consiglieri e assessori. In attesa della riunione di maggioranza fissata
per venerdì, il dibattito è vivace. C'è chi sostiene, come
il capogruppo regionale dei ds Rocco Muliere, che è opportuno capire i
tempi di un provvedimento nazionale ma che la riduzione dei costi della politica
non può non partire da una diminuzione delle indennità. Senza
però specificare di quale entità. Altri, come Luca Robotti del
Pdci, sono dell'idea che non siano i consiglieri a dover essere criminalizzati,
ma che il problema dei costi della politica debba comportare una
riduzione complessiva, dalle consulenze al numero delle partecipate e relativi
membri. Poi c'è Rifondazione, che con il capogruppo Gian Piero Clement
dice di essere disponibile a vedersi ridurre del 10 per cento
l'indennità di consiglieri e degli assessori e accoglie con particolare
favore la scure sul Corecom, con una riduzione dei membri da 8 a 5, e dei
compensi da 4 mila e 300 euro a 2.200 mensili. Il dibattito, ieri alle prime
battute, proseguirà anche nel pomeriggio di oggi. Sul tavolo un
pacchetto di proposte concrete presentate dal presidente del Consiglio
regionale Davide Gariglio che coordina il gruppo di lavoro. Molte le
novità rispetto ai punti emersi nella precedente riunione del gruppo che
sta studiando le diverse ipotesi. A partire proprio dall'indennità di
consiglieri e assessori, attualmente l'85 per cento di quella dei parlamentari.
Adesso un consigliere riceve un'indennità lorda di 9.948.09 euro, che
scenderebbe di circa mille euro se venisse applicata la riduzione del 10 per
cento. Un risparmio di 63 mila euro al mese per i 63 consiglieri del Piemonte.
I 14 assessori, che adesso percepiscono una indennità di 12.288.82 euro
mensili, riceverebbero circa 1.200 euro in meno. Un risparmio complessivo di
16.800 euro al mese. Il giro di vite riguarderebbe anche il presidente della
giunta, il presidente del Consiglio, i presidenti delle commissioni. Oltre alla
riduzione del numero degli assessori da 14 a 12, solo quattro dei quali
dovrebbero essere esterni (un risparmio di 525.000 euro all'anno per ogni
assessore in meno, 205.000 euro all'anno per ogni assessore esterno in meno),
il documento elenca anche la diminuzione dei benefit particolari, come le auto
di servizio, con un'attenzione anche ai modelli e alle cilindrate. Ipotesi di
eliminazione del rimborso chilometrico, prevedendo che il rimborso forfettario
mensile sia costituito solo dall'indennità di presenza.
Ridimensionamento anche al Corecom, con una diminuzione del numero dei membri
da 8 a cinque. Con un compenso che cala al 25 per cento dell'indennità
dei parlamentari, Da 4.300 euro al mese a 2.200. Sul gettone di presenza, 122
euro a seduta, la proposta che sia riconosciuto soltanto ai componenti delle
commissioni o ai delegati designati dal presidente del gruppo. Vietato agli
ex-consiglieri di partecipare a viaggi. Diminuiscono le Comunità
montane, da 48 a 22
Risparmiatori raggirati dalle banche e dagli intermediari
finanziari saranno indennizzati dalla Consob. Lo prevede uno schema di dlgs
che dà attuazione alla legge n. 262 del 2005 sulla tutela del risparmio
e la disciplina dei mercati finanziari. Il provvedimento che sarà
esaminato domani in pre-consiglio istituisce un fondo di garanzia alimentato
con le sanzioni pecuniarie irrogate nei confronti delle imprese e degli
operatori attivi nel settore dell'intermediazione mobiliare e prevede
l'attivazione di un meccanismo di conciliazione e arbitrato amministrato
direttamente dalla Commissione nazionale per le società e la borsa. A
beneficiare della nuova procedura di risarcimento saranno i consumatori
danneggiati dalla violazione degli obblighi di informazione, correttezza e
trasparenza stipulati nei rapporti contrattuali con la clientela. A poche
settimane dal varo del regolamento sul fondo anti-crack finanziato dai conti
correnti dormienti presso imprese bancarie, assicurative, sim e operatori del
mercato il governo tende una nuova mano ai risparmiatori e introduce
nell'ordinamento un sistema di indennizzo più rapido ed efficace rispetto
a quello della giustizia ordinaria. Presso la Consob opererà,
infatti, una vera e propria camera di conciliazione e arbitrato formata da
esperti del settore (obbligatorie anche forme di consultazione con le
associazioni dei consumatori) e specializzata nella risoluzione di controversie
tra gli investitori non professionali e gli intermediari autorizzati. La
procedura di conciliazione potrà essere attivata dal cliente mediante
presentazione di una semplice istanza purché non sia già stato presentato
reclamo all'intermediario o non sia scaduto il termine ordinario per
l'impugnazione del contratto. Il procedimento dovrà rispettare i
principi di riservatezza, imparzialità, garanzia del contraddittorio tra
le parti e celerità. La Consob avrà infatti 40 giorni di tempo
per definire la causa con un lodo arbitrale che avrà efficacia esecutiva
immediata e potrà essere impugnato dinanzi al giudice civile solo per la
violazione di norme e principi di diritto. La banca o l'intermediario
riconosciuto responsabile della violazione degli obblighi informativi, di
correttezza o trasparenza del contratto, dovrà pertanto risarcire il
cliente. In caso di inerzia scatterà la garanzia del fondo gestito dalla
Commissione che potrà poi rivalersi nei confronti dell'impresa o del
soggetto inadempiente. Fermo restando il diritto dell'investitore di rivolgersi
successivamente anche al giudice ordinario per il riconoscimento del maggior
danno subito. Le risorse necessarie ad alimentare il fondo saranno garantite da
un duplice flusso. Il versamento della metà dell'importo delle sanzioni
pecuniarie pagate dagli operatori all'autorità di vigilanza e i diritti
posti a carico degli utenti che ricorreranno alle procedure arbitrali.
Sarà la stessa Commissione con appositi regolamenti da emanare entro un
anno dall'entrata in vigore del decreto delegato a disciplinare l'istituzione
della camera di conciliazione, il meccanismo di funzionamento e attivazione del
fondo nonché la determinazione dell'indennizzo massimo che potrà essere
chiesto dai risparmiatori. Per dare maggiore efficacia all'intero impianto
normativo il dlgs prevede il ricorso a un'ulteriore procedura semplificata
destinata a chiudersi con un 'lodo non definitivo' a favore dei risparmiatori
vittime di violazioni 'manifestamente fondate' degli obblighi contrattuali.
Anche questo tipo di provvedimento potrà essere immediatamente opposto
alla banca. Un'ulteriore disposizione a tutela dei risparmiatori
stabilisce che la clausola compromissoria inserita nei contratti riguardanti i
servizi di investimento e quelli eventualmente accessori sono 'vincolanti' solo
per l'intermediario. In questo modo viene salvaguardata la facoltà del
cliente di ricorre a meccanismi di conciliazione diversi da quelli
preventivamente concordati con l'impresa finanziaria incluso, naturalmente,
l'arbitrato amministrato dalla Consob.
+ La
Stampa 3-7-2007 La Cina censura il rapporto sui morti per inquinamento
A ogni
lombardo il Consiglio costa 9 euro, ciascun sardo ne deve spendere 64
Meno
consiglieri, stesso personale e spesa ridotta nel virtuoso Nord
I
consiglieri sardi pagano meno tasse di tutti, rivalutando anche la Sicilia e la
Campania
Il
Riformista 3-7-2007 Le prime
contraddizioni di Veltroni (e Scalfari) di
Emanuele Macaluso
La
Repubblica 3-7-2007 La pericolosa corsa al dollaro dei Paesi asiatici HUGO
DIXON
MESSINA - Suo figlio è stato bocciato, lui ha picchiato un
professore "colpevole". Ora il genitore violento è stato
arrestato per minacce e aggressione a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia
di Messina.
Benedetto Genovese, 35 anni, aveva aggredito l'insegnante di educazione musicale del
figlio il 15 giugno: il docente della suola media "Ugo Foscolo" era,
secondo il padre, la causa della bocciatura del figlio, che non era stato
ammesso alla terza. Nell'atrio della scuola di piazza Convento l'insegnante
aveva ricevuto quattro pugni.
Ma la violenza fisica era arrivata solo dopo un tentativo di far cambiare la
valutazione dello studente attraverso minacce e pressione: il papà aveva
infatti chiesto con prepotenza che fosse riconvocato il consiglio di classe e
che la bocciatura del figlio fosse revocata. Non avendo ottenuto quel che
voleva, aveva mandato dire al professore che l'avrebbe "pagata cara".
Ora il genitore, venditore ambulante di fiori, è agli arresti
domiciliari su richiesta del pm Francesco Massara. Il magistrato gli contesta i
reati di minacce, violenza a pubblico ufficiale, lesioni e tentata estorsione.
L'uomo sarà sottoposto a interrogatori di garanzia nei prossimi giorni.
Un
embrione, al 99,9 per cento umano e per lo 0,1 animale, «nascerà» tra
qualche mese. E non in qualche remoto laboratorio dell’Estremo Oriente,
bensì a due passi da casa nostra, nei centri universitari di Londra,
Newcastle ed Edimburgo, in Gran Bretagna. Si tratta di ciò che viene
detto una chimera o, più correttamente, un ibrido. Dovrà essere
soppresso entro 14 giorni, ma nel frattempo permetterà ai ricercatori di
ottenere colture di cellule staminali embrionali utili a studiare i meccanismi
di malattie come il Parkinson o l’Alzheimer e a trovarne poi una terapia. Il
primo passo verso una nuova frontiera della scienza è stato fatto: un
mese e mezzo fa alcuni ministri inglesi si sono dichiarati favorevoli alla
creazione di ibridi e chimere, appoggiati in questo da un’indagine della
Commissione Scienza e Tecnologia della Camera dei Comuni che, preso atto
dell’insufficienza di embrioni umani disponibili per la ricerca, ha concluso
che è necessario provare altre strade. In nome della libertà
della scienza.
OOCITI IN QUANTITA' - Quindi, visto che mucche e conigli producono grandi
quantità di ovociti, migliaia rispetto a quelli femminili, perché non
svuotarli del nucleo e inserirvi cellule umane con il loro patrimonio genetico?
Così gli esperimenti sui mix uomo-animale sono stati inseriti nel Libro
Bianco del Dipartimento della Salute attualmente in discussione al Parlamento
inglese. Però, mentre il resto dell’Europa, Inghilterra a parte, si
mostra cauta su questo tema, nel mondo si fanno già da tempo esperimenti
avanzati. Ci sono la pecora con gli organi al 15 per cento «umani», creata nel
marzo scorso da Esmail Zanjani, dell’Università del Nevada; i topi con l’1
per cento di cellule cerebrali umane di Irving Weissman della Stanford
University; e le galline che pigolano come quaglie perché Evan Babalan della
McGill Universtity di Montreal ha trapiantato nel loro cervello neuroni di
quaglie. Secondo alcuni questi esperimenti sono espressione della
libertà scientifica, per altri pure aberrazioni della natura.
POLEMICHE E
RISCHI - La polemica
scatenata dalla proposta di legge inglese getta olio sul fuoco dei due filoni
di ricerca che da anni si fronteggiano pro e contro l’uso di cellule staminali
embrionali. Queste vengono studiate da gruppi di scienziati per la loro
capacità di svilupparsi in qualunque organo e tessuto, e quindi
ripararlo; ma la loro fonte è
rappresentata
dagli embrioni, con i problemi etici che ciò comporta; inoltre, non
riuscendo a controllarne la crescita fuori dalla provetta, possono diventare
tumori. In altri laboratori, invece, si preferisce puntare sulle staminali
adulte, già specializzate: si trovano in ogni tessuto e lo «curano», ma
hanno un limite: non possono essere costrette a diventare un tessuto diverso da
quello d’origine. Cosa succederà se, come sembra, entro l’anno la
proposta di legge inglese verrà approvata?
PROGETTI E
DUBBI Gli istituti di
ricerca che otterranno la licenza saranno autorizzati a condurre tre tipi di
sperimentazioni. La prima riguarda gli embrioni transgenici, ottenuti con
l’introduzione di Dna animale in un embrione umano. La seconda si riferisce
alle chimere uomo-animale: all’interno di un embrione umano vengono introdotte
intere cellule animali. Infine, ci sono gli embrioni ibridi citoplasmatici, i
«cibridi», nei quali il nucleo di una cellula umana, per esempio della pelle,
viene inserito nell’ovocita animale svuotato quasi completamente del suo
patrimonio genetico. Una clonazione, praticamente quanto è accaduto nel
caso della pecora Dolly, il cui papà Jan Wilmut si è dichiarato
favorevole a questo nuovo tipo di sperimentazione tanto che il suo Centre for
Regenerative Medicine dell’Università di Edimburgo vuole l’autorizzazione.
Ma il «cibrido» andrà distrutto entro il quattordicesimo giorno dalla
sua formazione. Il Libro Bianco del Dipartimento della Salute, infatti, mostra
di voler impedire la creazione di veri ibridi, perché proibisce che l’embrione
venga impiantato e diventi un feto e vieta che un ovulo umano sia fecondato da
sperma animale o viceversa. «La proposta di legge è ambigua e
fuorviante», dice a Newton David King, presidente di Human Gene Alert, il
comitato di controllo indipendente britannico. «In realtà ha come
obiettivo primario quello di proteggere la competitività del Regno Unito
e di fermare tutti coloro che vogliono porre qualche limite alla ricerca
scientifica».
LE
MALATTIE NEL MIRINO - Cosa
ci aspetta nel prossimo futuro? Newton è entrato nello Stem Cell Biology
Laboratory del King’s College di Londra diretto da Stephen Minger. Minger e
Austin Smith, a capo del Centre for Stem Cell Research di Edimburgo, sono stati
dei pionieri in Inghilterra. Nel 2002 hanno ottenuto per primi la licenza per generare
cellule staminali da embrioni umani. Oggi nel Regno Unito esistono 11 centri
del genere. Il solo Minger ha creato la prima linea di cellule staminali
geneticamente modificate con la patologia della fibrosi cistica e ora 20 centri
internazionali, proprio grazie a lui, sono in grado di studiare questo male.
Con la richiesta di licenza già compilata nel cassetto, il ricercatore
del King’s College sta solo aspettando il via libera alla nuova legge per
passare ad altre gravi malattie. «Vogliamo produrre colture di staminali con
tutte le mutazioni che provocano Alzheimer, Parkinson, atrofia muscolare,
disturbi neurodegenerativi e altro ancora», spiega Minger. «Il nostro obiettivo
è capire in laboratorio come si sviluppano queste patologie, in che modo
possiamo interferire nel processo e, infine, usare queste linee staminali per
favorire lo studio di nuove terapie». «Contro alcune malattie genetiche come il
morbo di Huntington, la fibrosi cistica, la distrofia muscolare e la
talassemia», continua Minger, «si stanno già facendo diagnosi genetiche
sugli embrioni concepiti in provetta dalle coppie a rischio, in modo da
impiantare nell’utero solo gli embrioni privi della mutazione genetica. Ma la
Human Fertilisation and Embriology Authority (Hfea) proibisce di usare questo
metodo di diagnosi per malattie che si presentano in età più
avanzata come l’Alzheimer o il Parkinson». Eppure, solo a proposito
dell’Alzheimer, i dati del 2006 rivelano che nel mondo vivono più di 26
milioni di persone afflitte da questa malattia neurodegenerativa. Uno studio
appena pubblicato della Johns Hopkins University Bloomberg School prevede che
il numero dei malati salirà a 106 milioni entro il 2050; di questi il 43
per cento non sarà autonomo e avrà bisogno di una costante e
costosa assistenza. «Noi vogliamo creare le linee di staminali embrionali con
la clonazione di un embrione umano, ma sappiamo che è un processo
difficile, non ancora sufficientemente sperimentato e che finora non ha dato
risultati certi», ammette Minger. «Il numero di ovuli necessari alla ricerca
è incredibilmente alto e nessuno potrebbe, allo stato attuale delle
conoscenze, chiedere alle donne di sottoporsi a pesanti terapie ormonali per
donare, alla cieca e senza alcun vantaggio clinico, migliaia e migliaia di ovuli».
«Le donne», continua Minger, «possono offrire i propri ovuli per le ricerche
sulla fertilità. Ma per quanto riguarda la clonazione, queste donazioni
sarebbero assolutamente premature, considerata la scarsa efficienza degli studi
e la limitata esperienza che abbiamo in questi esperimenti sia io sia il
collega Lyle Armstrong». Armstrong, capo di un gruppo dell’Institute of Human
Genetics dell’Università di Newcastle, è l’altro scienziato che
oltre a Wilmut vuole dalla HFEA il permesso di condurre esperimenti con ovociti
di mucca per il trattamento del diabete e della paralisi spinale. «Io e il mio
team del King’s College abbiamo bisogno di creare nuovi embrioni con la
specifica mutazione genetica dell’Alzheimer e del Parkinson», spiega Minger. «E
l’unica alternativa che abbiamo è usare ovociti di animali. Vorremmo
impiegare quelli di mucca, che sono più grandi, o quelli pecora e
coniglio semplicemente perché da questi animali, che vengono comunque uccisi
per l’industria alimentare, potremmo ottenere ovociti in grande quantità
e di qualità ottima».
PROCEDURE - Minger continua spiegando la sua
procedura: si prende la cellula di una persona affetta da una malattia genetica
e la si inserisce nell’ovocita di una mucca svuotato del nucleo, dunque della
sua identità genetica. La nuova cellula, stimolata da impulsi elettrici,
comincia a duplicarsi come se l’ovocita fosse stato fecondato ed ecco
l’embrione. Da questo vengono isolate alcune cellule per produrre colture di
staminali embrionali che, ovviamente, presentano la mutazione genetica
prescelta e che possono essere usate come strumento per osservare come la
mutazione alteri e uccida le cellule. Però non tutta la comunità
scientifica è favorevole alla creazione di embrioni transgenici, chimere
e ibridi come quelli su cui lavoreranno Minger e Armstrong. «L’embrione che
viene clonato è di per sé un organismo anomalo e dunque anche la sua
evoluzione rifletterà delle anormalità», sostiene David King
della Human Gene Alert a proposito del lavoro di Minger. «Le linee staminali
così ottenute potrebbero essere diverse da quelle embrionali umane
naturali e dunque inadatte a trovare una terapia valida per l’uomo. Si tratta
di esperimenti artificiosi che non possono che produrre risultati falsati.
Sarebbe invece più utile finanziare ricerche sulle staminali adulte, che
non presentano problemi etici e oltretutto potrebbero anche essere più
efficaci sul piano dei risultati concreti». All’obiezione di King Stephen
Minger risponde che dal suo laboratorio «non uscirà un farmaco contro
l’Alzheimer, ma la sperimentazione sugli ibridi fornirà solo uno
strumento per capire il funzionamento di mali che nel caso del Parkinson
affliggono ormai un ultraottantacinquenne su cinque». Il ricercatore sottolinea
come gli ovuli animali siano l’unica risorsa a disposizione degli scienziati e
che la validità di questo tipo di studi è provata dai risultati
ottenuti qualche anno fa nei laboratori cinesi. Nel 2003 i biologi della Second
Medical University di Shanghai, guidati da Huizhen Sheng, hanno riprogrammato
cellule staminali adulte fondendole con ovociti di coniglio svuotati del nucleo
e ottenendo poi linee staminali embrionali. Non tutti sono convinti del
successo della procedura, ma, dice Minger, «noi vogliamo collaborare con la
professoressa Sheng perché la sua tecnica con ovociti animali non produce
niente di diverso da una linea staminale creata usando ovociti umani. L’impiego
di materiale animale, più facilmente reperibile, potrebbe accelerare la
ricerca scientifica. E comunque», conclude Minger, «ogni linea cellulare che
produrremo sarà depositata nella nostra Stem Cell Bank, a disposizione
di chiunque in qualsiasi parte del mondo». Perché il Paese che ama sentirsi
libero dalle regole, quello che nel 1978 ha visto la prima bambina in provetta,
Louise Brown, e che nel 2001 ha autorizzato la creazione di cellule staminali
da embrioni umani, ebbene quel Paese offre anche questo: la prima banca al
mondo aperta a tutti gli scienziati, con tanto di catalogo fra cui scegliere
linee cellulari umane da usare per la ricerca e la terapia.
03 luglio 2007
ROMA - La rottura si è consumata. E ora
potrebbe fondare un suo partito. Francesco Storace, ex presidente della Regione
Lazio ed ex ministro della Sanità lascia Alleanza Nazionale. «Le mie
dimissioni da Alleanza nazionale - scrive in una nota Storace - le ho inviate
ieri sera (lunedì ndr)
al presidente del circolo di An della Balduina, Daniele Marin, e le ho
comunicate pochi minuti fa al presidente del gruppo al Senato, Altero
Matteoli». «Credo che questa non sia più la mia casa politica - si legge
sul sito web di Storace - ed è facilmente immaginabile quale
possa essere il mio stato d'animo nel prenderne atto. Ma vedo praticamente
esaurita la funzione di Alleanza Nazionale nella rappresentanza dei valori
della destra, con il suo leader molto impegnato nel tentare a tutti i costi,
attraverso attraverso formule che si modificano quotidianamente e
incomprensibilmente, nel liberarsi di quello che appare sempre più un
fardello ingombrante per i suoi disegni politici».
FINI - Immediata la reazione di Fini. «Sono
umanamente dispiaciuto. Trovo le motivazioni politiche addotte da Storace
inconsistenti, perché nessuno in Italia pensa che Alleanza nazionale non sia
più un partito di destra. Ovviamente si tratta di capire cosa si intende
per valori e programma di destra» spiega il presidente di Alleanza nazionale
commentando l'addio al partito di Storace. «Contento lui!» è stata
l'unica contro replica di Francesco Storace alle parole di Fini. L'ex ministro
non ha aggiunto altro, rinviando ogni ulteriore commento.
03 luglio 2007
SONO così vecchio, che i professori
della mia giovinezza avevano studiato ai tempi della Riforma Gentile. Non
vorrei sopravvalutarla. Né vorrei sopravvalutare l'insegnamento dei miei
professori di ginnasio e di liceo: conoscevano male le letterature straniere, e
avevano la pessima abitudine di discutere interminabilmente le opinioni di
Benedetto Croce su Dante o Leopardi o Ariosto. Ma ce n'erano alcuni
straordinari. In primo luogo, meravigliosa conoscenza del greco e del latino,
tanto che Giorgio Pasquali sosteneva che i migliori filologi classici
provenivano dalle cattedre dei licei.
Poi alcuni avevano un modo d'insegnamento che, in parte, si è perduto.
Oggi la letteratura è studiata soprattutto come storia della cultura.
Allora, i professori più intelligenti parlavano di Dante o Petrarca o
Ariosto o Leopardi come se fossero una parte essenziale della vita quotidiana
di ogni ragazzo. Vivevamo in loro e per loro. Uno dei miei professori
discorreva di Machiavelli e di Guicciardini con tale passione e divertimento,
che noi ne discutevamo tornando a casa e poi ne parlavamo a pranzo con nostro
padre e nostra madre, come se tutti i problemi della vita moderna fossero
illuminati dal Principe e dai Ricordi.
Molti maestri, e soprattutto maestre, erano meravigliosi: molto
più bravi di quelli ai quali De Amicis innalzò un monumento nel
Cuore. Appena aprivano bocca, tutto diventava chiaro, limpido, luminoso: i
numeri si addizionavano, moltiplicavano e dividevano per conto loro: i verbi
irregolari non avevano più misteri; la storia diventava un romanzo
d'avventure. Avevano un grande dono comunicativo: uno spirito materno maggiore,
probabilmente, di quello che esprimevano a casa; e le violente o pacate tirate
d'orecchie, e i rapidi colpi di bacchetta sulle mani, venivano accettati senza
ribellione.
Nei piccoli paesi, ogni maestra insegnava a due o tre classi, districandosi non
si sa come in quel fantastico garbuglio. Ciascuna aveva un linguaggio e un
timbro: tanto che si poteva ritrovare nelle voci dei bambini la voce delle
insegnanti. E poi, la bellezza delle calligrafie (io scrivo orribilmente):
tondi perfetti, linee slanciate, filettature, eleganze neogotiche. Credo che la
perdita della bella calligrafia e dello studio delle poesie a memoria sia
stata, come diceva Italo Calvino, una delle principali sconfitte
dell'età moderna.
Tutti sapevano che gli stipendi delle maestre e dei professori non erano alti.
Ma, in generale, era una cosa dimenticata. Nemmeno i più altezzosi
borghesi o aristocratici di Torino ricordavano che gli educatori dei loro figli
erano pagati meno dei loro autisti, e che le professoresse non frequentavano le
grandi sarte. Esisteva l'inconscia convinzione che i professori non
appartenessero a nessuna classe sociale: ma ad uno strano regno, dove né danari
né vestiti né vacanze costose avevano importanza.
Sulla condizione dell'insegnamento nei licei, non posso che rinviare ad un
libro preciso e piacevole di Paola Mastrocola, che possiede un'esperienza molto
più diretta della mia. Ci furono periodi relativamente decorosi. Quello,
per esempio, nel quale l'insegnamento nelle medie e nei licei fu assunto, quasi
esclusivamente, dalle donne: lo stipendio era basso, ma integrava quello del
marito; e poi rimaneva tutto il pomeriggio libero da dedicare ai figli. Ma
questo interludio non fu lungo. Presto il Ministero elaborò una
quantità mostruosa di materiale burocratico o semiburocratico e
paraburocratico - riunioni, commissioni, moduli, discussioni, aggiornamenti,
delirii - che distrussero i bei pomeriggi liberi, nei quali passeggiare o giocare
con i figli.
Per il resto, la storia della scuola elementare, delle medie e dei licei negli
ultimi trent'anni è quella di un rapido disastro. Le cause furono
innumerevoli: le conseguenze del voto politico negli anni dopo il 1968: la
riforma della scuola elementare, che vide la dissennata suddivisione tra i
maestri (come se un solo maestro non fosse capace di insegnare sia aritmetica
sia italiano): l'immissione, per motivi politici, di moltissimi pessimi
insegnanti: la conseguente mancanza di posti per i giovani laureati: la
confusione del Ministero; la stolidità dei programmi e dei non programmi
di studio. A un ragazzo di quindici anni bisogna far leggere Delitto e Castigo,
che lo sconvolge e travolge, non la per lui incomprensibile Coscienza di Zeno.
A questo si aggiunse l'influenza rovinosa di alcuni libri di testo, compilati
da professori universitari di tendenza strutturaliste: i quali imposero ai
ragazzi di imparare a memoria gli attanti e la diegesi di Gérard Genette,
invece di invitarli a comprendere la bellezza e il significato della
letteratura.
Tutto questo ha portato alla degradazione della classe degli insegnanti.
Cinquant'anni fa, era una non-classe, rispettata anche se non temuta. Oggi, gli
stipendi miserabili hanno prodotto una sotto-classe, una specie di
sottoproletariato, che possiede a malapena il danaro per vestirsi e nutrirsi,
ma non per comprare un libro, sia pure in edicola. Ricordo con strazio la
visione di una classe di professori, qualche anno fa: quei golfini
spelacchiati, quei vestiti lisissimi. So di dire una cosa banalissima: oggi,
quando la sorte della civiltà occidentale è affidata alla
specializzazione, un buon liceo e una buona università sono
assolutamente necessari. Invece, l'Italia ha perduto la precisione della sua vecchia
cultura agricola, quando si sapeva potare un olivo e innestare una vigna. Quasi
tutti lavorano in modo confuso ed approssimativo, come se la sorte del mondo
non dipendesse dal dono di piantare un chiodo nel punto giusto.
Non è più possibile continuare a pagare i professori delle medie
e dei licei, che devono tornare ad essere un'élite, con gli stipendi di oggi.
Gli stipendi vanno almeno raddoppiati, e via via aumentati nel corso del tempo.
Gli economisti mi risponderanno che i soldi non ci sono: questa proposta
porterebbe a una spaventosa catastrofe, a una disastrosa inflazione. Ma so
ugualmente bene che, in Italia, quando bisogna sprecarli, i soldi ci sono
sempre. Se risparmiassimo sulla rasatura delle guance dei senatori, i profumi e
i dopobarba dei deputati, le tinture dei capelli ahimè biancastri delle
senatrici, le bare degli assessori veneti, i cuochi e i camerieri del
Parlamento, i gelati dell'onorevole Buttiglione, gli stipendi delle stenografe
siciliane, i premi letterari (in gran parte finanziati dalle Regioni), la
politica estera del presidente Formigoni, potremmo accumulare una ricchezza
immensa.
PECHINO
Il rapporto sull’inquinamento, frutto della cooperazione tra Cina e
Banca Mondiale e costato parecchi anni di lavoro, mette in evidenza che almeno
750 mila persone muoiono prematuramente in Cina ogni anno a causa
dell’inquinamento ambientale.
Come riporta in prima pagina il Financial Times, la Cina ha obbligato la Banca
Mondiale alla censura di un terzo del rapporto poichè, ha detto
una persona che ha partecipato allo studio, si trattava di informazioni «troppo
sensibili, che potevano provocare moti sociali».
È in particolare l’aspetto del costo in termini di vite umane che
Pechino ha voluto non fosse inserito nel rapporto, e, aggiunge il quotidiano
britannico, la Cina ha ottenuto anche di non veder pubblicata la mappa
dettagliata sei siti nei quali più diffusa è la morte per
inquinamento. Nel rapporto, che può essere scaricato da Internet, si sottolinea che 16 delle città
più inquinate del mondo sono in Cina.
In un comunicato l’organizzazione internazionale ha detto che «alcune
considerazioni sull’impatto fisico e alcuni calcoli sul costo economico sono
stati ritirati a causa dell’incertezza su metodi di calcolo e sulla loro
applicazione».
|
Sardegna parsimoniosa.
Risparmiosa. Sobria. Non è Sud profondo, scialacquatore di soldi
pubblici, borbonico e dissoluto. Siamo sardi, fate largo ai virtuosi. Non è
questa l'immagine e l'idea
che gli altri italiani e noi stessi abbiamo dei nostri costumi? Certo che lo è: distinti e distanti dai meridionali,
come sempre ci ritengono al Centro-Nord. E allora? Un falso clamoroso, la
verità è
l'opposto. Uno scandaloso primato: incredibile da credere, amaro ma doveroso
da denunciare. |
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La politica sarda è
la più dissipatrice, spendacciona fino all'esagerazione: molto più,
fatte le debite proporzioni, di quelle siciliana e campana. Quasi da non
credere ai propri occhi e ai numeri. Premessa troppo lunga ma indispensabile per dar conto di
un'emozione negativa quando si credeva di averle viste tutte. Subito un
esempio. Il Consiglio regionale della Sardegna, per una popolazione di un
milione e 600 mila abitanti, 85 consiglieri e 160 dipendenti, costerà
nel 2007 quasi 103 milioni di euro. La Lombardia - la regione più
sviluppata, ricca e popolosa, con quasi nove milioni e mezzo di abitanti, 90
consiglieri e 283 dipendenti - spenderà
per il suo Consiglio appena 71 milioni di euro: il 30 per cento in meno della
Sardegna. Semplicemente incredibile.
Dopo aver frugato per settimane nelle pieghe del bilancio sardo,
scoprendo e disvelando una realtà
pazzesca, con picchi vertiginosi (la buonuscita di 700 mila euro al
segretario generale andato in pensione), credevamo di aver toccato il fondo.
Con una temeraria convinzione: sarà
dappertutto così, più o meno, il costo della politica è
altissimo ovunque: la Sardegna non può
essere il peggio, starà
nell'aurea medianità e mediocrità.
E abbiamo deciso di confortare questa presunzione andando a cercare, con
fatica e decine di telefonate, fax ed email, il riscontro nelle altre
regioni. Dopo i primi accertamenti, si è
pensato a un errore. E giù
altre verifiche. Fino a doversi arrendere a un'evidenza oltraggiosa per il
livello di reddito, le condizioni sociali, l'economia disastrata dell'isola.
Solo nella politica, nel costo del Consiglio regionale, la Sardegna straccia
tutte le altre regioni. Una realtà
sfuggita perfino alle lente ustoria di quanti (i senatori Salvi e Villone in
un libro-inchiesta micidiale, i giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio
Rizzo che spopolano col loro bestseller “La
casta”) hanno scandagliato a 360 gradi il sottobosco della politica
istituzionale e partitica. Non hanno pensato di fare il raffronto realizzato
da noi, con risultati davvero sconvolgenti. Oggi lo proponiamo con le regioni
del Nord popoloso, sviluppato e produttivo. Nei prossimi giorni lo
estenderemo alle regioni del Centro-Sud e infine alle altre a statuto
speciale come la Sardegna. A ogni lombardo il Consiglio costa 9 euro, ciascun sardo
ne deve spendere 64
Ma è un dato assolutamente omogeneo: ogni confronto vede la nostra
assemblea largamente in testa nella disonorevole corsa allo scialo, allo
sperpero da nababbi di soldi pubblici in una terra sottosviluppata. La
comparazione con la Lombardia dice di tutto e di peggio. Con una popolazione
sei volte superiore a quella sarda, il suo Consiglio spende due terzi del
bilancio sardo: appunto 71 milioni contro i nostri (scusate: i loro , di
onorevoli e dipendenti) 103 milioni. Neanche nove euro di costo per ogni
lombardo, contro i 64 euro che il “parlamentino”
isolano costa annualmente a ciascuno di noi. Ma se questo è
il paragone più eclatante, rispetto al ricco Nord ci sono altri cinque esempi
che propongono un'immagine intollerabile della Sardegna povera, ma che offre
ai propri onorevoli trattamenti da sceicchi. Il Piemonte ha appena 63
consiglieri (contro i nostri 85) con quattromilioni e passa di abitanti e 300
dipendenti (contro i nostri 160). Ebbene, il Consiglio regionale di Torino
costa appena 71 milioni di euro, 17 euro annui per ogni abitante. L'opulento
Veneto (oltre quattro milioni e mezzo di abitanti) ha appena 60 consiglieri e
150 dipendenti ma un bilancio consiliare di appena 50 milioni di euro: meno
della metà della Sardegna, con una “tassa”
annua pro capite di dieci euro per ogni residente. Vogliamo continuare? La ricca Emilia-Romagna (quattro milioni e
151 mila abitanti, appena 50 consiglieri e 200 dipendenti) spende 40 milioni
di euro all'anno, contro i 103 del Consiglio sardo. L'austera Liguria, con un
milione 609mila abitanti (come la Sardegna) ha limitato i consiglieri a 40 e
i dipendenti a meno di 130: spesa annuale, 28 milioni di euro, appena il 36,7
per cento di quanto si spende nel palazzaccio platinato di via Roma a
Cagliari. Meno consiglieri, stesso personale e spesa ridotta nel
virtuoso Nord
Sono cifre che si commentano da sole, gettando un fascio di luce
abbagliante sulla munificenza senza paragoni che la Sardegna, con centinaia
di migliaia di poveri e disoccupati, offre alla propria impunita classe
politica. Un'immagine devastante, insopportabile, che muove allo sconforto e
a una reazione furente contro un divario tanto enorme quanto inaccettabile.
Forse che a Milano, Torino, Genova, Venezia e Bologna fare politica costa
meno? E perché mai dobbiamo pagare
tanto per un Consiglio spesso al di sotto di ogni sospetto e decenza, di
fronte all'efficienza, alla serietà
e operosità di altre assemblee
regionali, che hanno tutte meno (tranne Lombardia e Sicilia) e perfino la metà
dei nostri eletti? Il teatrino del vaniloquio, logorroico, nullafacente,
rissoso di via Roma, non è
lontanamente paragonabile ai Consigli del Nord. Eppure costa dal 30 per cento
in più fino al doppio e al triplo di quelli settentrionali. Ma non si sente una parola di autocritica, un atto per
riequilibrare una spesa astronomica rispetto agli altri. Anzi, chi la evoca
viene tacciato di qualunquismo, demagogia e scandalismo antipolitico. Chi
sono i veri qualunquisti che screditano il mandato parlamentare incassando e
facendo spendere il doppio e il triplo dei colleghi che, poniamo a Bologna,
da sempre hanno garantito ben altra efficienza e trasparenza all'amministrazione
pubblica? Non sono mancati e non mancano, sul versante del governo,
scandali e sprechi in Veneto e in Lombardia. Ma, vuoto per pieno, la resa
politica è infinitamente superiore a quella sarda, come il rapporto
spesa-beneficio dei Consigli. Che diranno oggi i nostri onorevoli,
l'imperturbabile presidente Spissu, i pasdaran improbabili moralisti
all'Artizzu e al Sanjust-Robespierre, i campioni della sinistra radicale e
della destra già incorruttibile ex missina? Davanti a un confronto che dovrebbe
indurli a vergognarsi e nascondersi, diranno ancora che non sono
ultraprivilegiati e costosissimi perfino di fronte ai colleghi lombardi,
veneti, emiliani? I consiglieri sardi pagano meno tasse di tutti,
rivalutando anche la Sicilia e la Campania
Ora le carte e le cifre sono sul tavolo, le altre le daremo nei
prossimi giorni: ancora da soli. Servirebbe una battaglia morale dei
cittadini e degli altri e ben più
potenti ma silenti organi d'informazione: si limitano a riprendere i
risultati delle nostre inchieste senza alzare un dito per rilanciare, aprire
un fronte di denuncia e d'attacco e imporre una svolta moralizzatrice. Perché
c'è
ancora tanto da portare alla luce. Lo faremo ancora con i nostri deboli
mezzi, visto che non vengono messi in campo quelli di chi ha ben altra
potenza di fuoco. Ma la nostra battaglia si allarga, coinvolge un numero crescente
di lettori e cittadini giustamente indignati. E il passaparola ci aiuta a
suscitare una mobilitazione che dovrebbe essere generale. Intollerabile
l'accettazione rassegnata di troppi, il silenzio che a questo punto diventa
connivenza. Come sul fatto, documentato dal Sole24Ore , che la media delle
trattenute fiscali degli onorevoli sardi è
la metà di quella media nelle altre regioni. Ingrassano senza pudore e
si smarcano dal fisco che ad ogni contribuente a reddito fisso chiede fino
all'ultimo centesimo. Dopo questa e altre puntate, si vedrà
che dovremmo chiedere scusa ai politici di Napoli e Palermo, considerati
sempre dissipatori a man salva. Lo sono invece, e da Guinness dei primati, i
nostri. Altro che austeri, risparmiosi e virtuosi: sono uno scandalo
nazionale che tracimerà
fuori della Sardegna. Ristabilendo una verità
da arrossire al cospetto degli altri italiani. da www.altravoce.net |
Un anno e sei mesi
con la condizionale. È questa la pena (condonata) che ieri ha
patteggiato davanti al gip Enzo Truncellito, il dottor Leonardo Pacchiele, il
medico radiologo accusato di aver esercitato in proprio all'interno
dell'ospedale Maggiore. Nella breve udienza in Tribunale era presente il
difensore Tiziana Benussi che a suo tempo aveva domandato di accedere al rito
alternativo. Pacchiele era accusato di peculato. Il radiologo triestino era
stato arrestato a metà febbraio dello scorso anno dai finanzieri della
prima compagnia che su ordine del pm Maurizio De Marco gli avevano notificato
un provvedimento di custodia domiciliare dell'allora gip Nunzio Sarpietro.
Secondo l'indagine che si era snodata per quasi sei mesi, il medico - che in
marzo si era dimesso dal servizio sanitario nazionale e che successivamente
aveva risarcito il danno all'ospedale - aveva usato le strutture diagnostiche
della radiologia per fini personali. È stato accertato infatti che nelle
giornate festive o prefestive, ma anche di notte o in orari in cui sapeva che
il reparto era scarsamente frequentato, Pacchiele aveva eseguito radiografie,
ecografie, Tac, risonanze magnetiche e altri esami su suoi pazienti nel
laboratorio del Maggiore. Poi aveva intascato personalmente quanto sarebbe
spettato all'Azienda sanitaria. Niente ricevute, niente contabilità,
niente tasse e imposte. Anzi, se l'esame costava ufficialmente al paziente
"privato" 200 o 250 euro, scattava anche uno sconto consistente:
almeno 50 euro. Tra i pazienti sottoposti a questo genere di esami "privati"
scontati e non contabilizzati come prevede l'Azienda sanitaria, vi erano stati
molti giocatori ed ex giocatori della Triestina calcio. Nell'inchiesta era
emerso il nome di Denis Godeas, infortunatosi alla fine dell'incontro
Triestina-Crotone di novembre del 2005. Gli altri nomi di calciatori della
Triestina finiti nell'inchiesta sono stati quelli di Baù, Briano, Pianu,
Rigoni, Eliakwu. Vi sono anche quelli dell'ex guardalinee internazionale e
accompagnatore degli arbitri, Dino Lodolo e quello del figlio dell'ex presidente
Tonellotto, coinvolto in un incidente sulle piste da sci. Nel corso
dell'inchiesta erano state accertate almeno cinquanta prestazioni irregolari.
All'indomani dell'arresto il radiologo era stato interrogato dal pm De Marco e
aveva ammesso spontaneamente di aver sbagliato. Si era detto disponibile a
risarcire immediatamente il danno provocato, cosa che è poi ha fatto. E
aveva anche confermato di aver dato qualche piccola "mancia" a un
paio di tecnici che lo avevano aiutato nel suo lavoro "privato" al
Maggiore. Aveva spiegato senza timori i motivi che lo avevano indotto a
servirsi del reparto in cui lavorava per fini personali. "Ero in
difficoltà, mi servivano soldi", aveva detto. c.b.
Molti maggiorenti
del costituendo Partito democratico forse non se ne rendono conto ma c'è
il rischio che la nascita del nuovo partito non sia una cosa seria, proprio il
contrario di quei solenni atti fondativi da cui prendono vita le imprese importanti
e durature. Dopo l'autocandidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito
democratico ci si poteva aspettare che altri dirigenti, in disaccordo con la
linea politica da lui tratteggiata, si candidassero subito a loro volta.
Per dare vita a una vera gara. Invece, al momento, aperte critiche ai contenuti
del discorso di Veltroni non ne sono state ancora fatte, i potenziali sfidanti
tentennano, e i "veri" capi dei due partiti che si vanno a fondere
(Ds e Margherita) cercano di scongiurare un conflitto per la leadership. In
compenso, stanno sbocciando, come cento fiori, le "liste per
Veltroni". Da quel che si capisce, chiunque voglia piazzare se stesso e
gli amici suoi negli organi dirigenti del futuro partito metterà in
piedi la sua "lista per Veltroni" e ogni lista, naturalmente,
avrà il suo marchio ("cattolici per Veltroni", "girotondi
per Veltroni", eccetera) e i suoi nobili propositi politici. L'impressione
è che più che un problema di "tecnica" ci sia un
problema di cultura politica. Non viviamo in una "democrazia
popolare". Certi riti, pertanto, bisognerebbe evitarli. Fanno, come dire?,
una brutta impressione. In un normale partito occidentale il solo autorizzato a
dare vita a una "lista per Veltroni" dovrebbe essere Veltroni
medesimo. Gli altri, tutti gli altri, dovrebbero candidarsi nella sua lista o
sostenerla se concordano con lui, oppure, se non concordano, dare vita a liste
contrapposte alla sua, con altri contenuti e altri candidati. I partiti, sempre
e in ogni luogo, hanno una natura oligarchica. Nessuno poteva essere
così ingenuo da pensare che il Partito democratico risultasse
un'eccezione. Esso non può che nascere da una fusione di oligarchie e di
apparati dei partiti preesistenti. Ma la fusione può avvenire in modi
diversi. Quella che si prospetta (come, fra i dirigenti, il solo Arturo Parisi
ha subito colto e denunciato) è la peggiore delle fusioni possibili.
Ciò che si sta delineando è un partito con una struttura
"feudale" (altro che federale), un partito che nello stesso momento
in cui incoronerà Veltroni darà anche vita a un sistema
strutturato di correnti, ciascuna facente capo a un notabile. Ne verrebbe fuori
qualcosa di simile alla Polonia settecentesca. Tra l'altro, un partito
così fatto toglierebbe in partenza al pur plebiscitato Veltroni lo
spazio di manovra necessario per un vero esercizio della leadership. Ferma
restando l'inevitabilità della fusione fra oligarchie e apparati,
c'è anche un altro modo. Consiste in un uso "non improprio"
delle primarie: chi non concorda con Veltroni dovrebbe scoprirsi e candidarsi
proponendo cose diverse da quelle che propone lui (e fare poi pesare, in caso
di sconfitta, i consensi raccolti). Per esempio, davvero nessuno, nel Partito
democratico, ha da obiettare all'"assordante silenzio" di Veltroni
(critiche agli americani per l'Iraq a parte) sulla politica internazionale?
Che identità potrà mai avere un partito il cui leader designato
non propone alcuna scelta di campo di fronte alle gravi sfide internazionali in
corso? Questo sarebbe l'unico atto fondativo in grado di dare forza
all'impresa: primarie vere, un vero confronto (per la leadership e per il
controllo degli organi di partito) fra candidati con idee e proposte almeno in
parte differenti.
Veltroni ha perentoriamente affermato che il governo Prodi durerà sino
al 2011 anche perché, se non sarà così, anche il progetto del Pd
affosserà. Eugenio Scalfari autorevole tutore di Prodi e Veltroni,
sabato ha scritto: «La tenuta del governo e l’arrivo in campo di Veltroni sono
due elementi strettamente interconnessi che non possono fare a meno l’uno
dell’altro. Ogni errore e ogni scarto da questo strettissimo sentiero di
recupero della fiducia collettiva potrebbe essere fatale». Nella stessa pagina
di Repubblica Ilvo Diamanti ha presentato un sondaggio Demos-Eurisko che
attesta come in un anno il governo Prodi sia passato, nella fiducia degli
elettori, dal 59,1% al 26,3%.
Non sono favorevole a una crisi al buio, ma affermare, come fanno Scalfari e
Veltroni (non so con quanta convinzione), che una crisi di governo sarebbe un
disastro e comporterebbe la fine del Pd significa accrescere in misura
esponenziale il potere contrattuale (o di ricatto) dei partiti minori e anche
di singoli parlamentari che al Senato dispongono della vita del governo.
Il fatto poi che le sorti di un partito (il Pd) che dovrebbe nientemeno essere
il motore per la soluzione dei problemi nazionali dipendano dalla crisi di un
governo la dice tutta sulla reale consistenza di quel “progetto”. Il boom
mediatico messo in moto dalla candidatura di Veltroni e l’accoglienza
riservatagli da forze sociali e da poteri che condizionano il sistema economico
e politico ci segnala il carattere profondo di una crisi che sta soprattutto
nel governo. Qui risiede la prima sostanziale contraddizione di Veltroni: vuole
tenere in vita - sino al 2011! - il governo che i suoi sostenitori acquisiti
(non lo zoccolo duro di Repubblica e l’Unità) pensano di potere
licenziare grazie alla sua candidatura.
D’altra parte, se il governo Prodi dovesse cadere certamente per il candidato
leader del Pd si porrebbero problemi di difficile soluzione. Infatti sia Prodi
che D’Alema hanno recentemente affermato che se si verificasse
quell’eventualità, la soluzione sarebbero le elezioni anticipate. E con
quale legge elettorale? L’idea che questo interrogativo tenga in vita la
coalizione non mi pare fondata (ci sono ben altri motivi) ma oggi il tema
è sul tappeto perché c’è il referendum. E - sarà un caso?
- i due leader più quotati nei due poli (Fini e Veltroni) sono tra i
sostenitori, apertamente il primo, sornionamente il secondo, di questa opzione.
Può la coalizione di centro-sinistra trovare un accordo sulla legge
elettorale per evitare il referendum? Se lo trova, il governo ottiene una
proroga, se non lo trova accelera la sua crisi. Ma la legge elettorale è
lo strumento di una strategia politica. Si vuole solo correggere la “porcata”
vigente e mantenere il bipolarismo così com’è? Si vogliono
disarticolare gli attuali schieramenti con una legge alla tedesca con
sbarramenti reali? Insomma le alleanze debbono essere fatte sulla base di una
affinità politica e programmatica oppure per le convenienze suggerite
dalla legge elettorale?
Se si vuole correggere un sistema occorrerebbero modifiche costituzionali, come
ha accennato lo stesso Veltroni. Può l’attuale governo, con i rapporti
politici che ha nella sua maggioranza e con quelli conflittuali con
l’opposizione mettere mano a questo complesso di riforme che dovrebbero essere
condivise?
I miei interrogativi vogliono essere una sollecitazione a stare con i piedi per
terra a valutare la realtà per quella che è, se si vuole capire
dove stiamo andando. Insomma, tra il dire e il fare, come si sul dire,
c’è di mezzo il mare. E, di questi tempi, il mare è forza 7.
Cara Europa, ancora una volta nel centrosinistra ci si tuffa nel
gioco prediletto del tafazzismo. Non è passata una settimana dalle
accoglienze al discorso di Veltroni, ed eccoci all’opera di demolizione. Vada
per la Vittoria Michela Brambilla e il suo complesso edipico per il cavaliere,
ma perché tanti distinguo e animosità anche fra noi? MICHELA VITTORIA BIANCHI,
VERONA
Cara signora, le differenze fra centrodestra e centrosinistra sono
tante, per esempio: il centrodestra ha un padre-padrone (quello del complesso
edipico, come dice lei) e noi no; ha interessi solidali, in primo luogo non
pagare tasse scaricando sulle spalle degli altri il costo dei servizi sociali;
mantenere in piedi l’etica arcaica, dove alle cose che si dicono non
corrispondono quelle che si fanno: la cosiddetta “morale borghese”, che non
è solo borghese. Il centrosinistra è la somma di due mondi
strumentalmente uniti per governare, ma diversi fra loro. Fra noi c’è
ancora chi pensa che a 57 anni, quando la vita… comincia, si debba andare in
pensione, e chi pensa che ricerca, merito, intrapresa non possano avere limiti
di età, di etica, di condizione sociale e che la vita debba essere opera
nostra e non dello stato, che al più deve metterci nelle condizioni di
realizzarla. Basterebbe questa divisione di fondo per spiegare, nel caso delle
primarie dell’Unione del 2005, la candidatura di Bertinotti contrapposta a
quella di Prodi.
Ma qui ora si tratta di eleggere il leader del Pd, dopo il clamoroso insuccesso
d’opinione della coalizione e del suo governo. Inevitabilmente il segretario
del Pd, se sarà una personalità di grande rilievo “trasversale”,
sarà anche candidato del centrosinistra alla guida del governo, quando
ci saranno nuove elezioni.
Fingere di dimenticarlo alimenta la gara tafazziana (dice lei, Galli della
Loggia richiama le Idi di marzo) per demolire il leader già prescelto
nei sondaggi degli italiani e per moltiplicare il numero degli aspiranti
candidati. Si sostiene infatti che per essere vere elezioni primarie occorrono
più candidati: e questo va bene in politologia, va meno bene nel mondo
della gente comune, che distingue poco i tempi e i riti dei politici. Tanto che
nei discorsi di spiaggia, che in questi giorni molti possono fare, le riserve
di elettori di sinistra nei confronti di Veltroni sono perché il sindaco
sarebbe… “molto simile a Berlusconi”, troppo amante della pacificazione nazionale,
e altri consimili difetti che nell’attuale clima civile italiano potrebbero
essere qualità. Insomma, finora di critiche a Walter ne ho raccolte
anch’io, ma nessuna formulata in base alle preoccupazioni dei nostri leader –
politici, politologi, giornalisti –, che sono lussi per chi vive nella
politica. Non che in sé non abbiano valore, solo che dovrebbero essere fatti
valere con discrezione, all’interno delle stanze del potere, non portate in
piazza a rompere quel po’ di incantesimo che per qualche ora aveva ridato
speranze al frustrato popolo del centrosinistra. Perché Pansa, che ormai
potrebbe mettere su una bella impresa di demolizioni del centrosinistra, non ci
dice cosa farebbe sorgere sugli spazi ridotti dalle sue ruspe a cumuli di
macerie?
Alcuni fautori del
suo ritorno sostengono che nella etimologia delle parole latine si celano segreti
e rivelazioni razionalità C'è chi vede nel latino una lingua
logica e razionale, studiando la quale ci si addestra a ragionare Il cardinal
Bertone ha assicurato (la Repubblica del 29 giugno) che la Chiesa non intende
egemonizzare l'Italia ma solo evangelizzarla. In quest'inedito piano di
reconquista il Vaticano usa i suoi argomenti di sempre, a partire dal rilancio
del latino come lingua di tradizione. L'operazione si sta sviluppando su
più fronti. Qualche settimana fa l'insolita coppia formata dal Pontificio
Comitato di Scienze Storiche e dal Cnr ha tenuto a Roma un convegno dal titolo
Futuro Latino, con l'obiettivo di inquadrare il latino come "fondamento
per la costruzione e l'identità dell'Europa" e verificare
(pensate!) le sue potenzialità per la scienza. Non so che risultati il
convegno abbia avuto, ma il segnale è eloquente. Se può esser
difficile convincere gli scienziati che il latino serva loro a qualcosa, agire
sui fedeli (sinceri o fittizi) è più agevole. Oggi tocca infatti
agli aspetti liturgici. Un motu proprio papale di prossima pubblicazione
prevede che, se almeno trenta fedeli lo chiedono, il sacerdote è tenuto
a dire messa in latino senza obbligo di avvertire il vescovo. Così si
chiuderebbe per sempre la riforma "popolare" di Giovanni XXIII, che
introdusse nella liturgia l'uso delle lingue nazionali come segno di
accostamento alla sensibilità della gente. Ma perché mai i fedeli
dovrebbero chiedere una messa in latino? Cosa significa questa lingua per chi
ne rivendica il restauro, quasi si trattasse di un vessillo mortificato? Il
latino è abituato a essere coinvolto in rivendicazioni e nella storia
gli è toccato prestarsi alle maschere più diverse. Per lo
più è stato usato come bandiera del ritorno a un'origine
imprecisata e ai presunti valori che questa rappresenta. Insomma come simbolo
di conservazione o di reazione. Non a caso in una delle sue rivendicazioni
l'arcivescovo Lefebvre richiedeva proprio il ripristino della messa in latino.
Ma rivendicando il latino come lingua liturgica non si aspira certo al piacere
di ascoltare discorsi in una lingua che magari nessuno dei richiedenti è
in grado di capire. Per molti di loro il latino è puro suono, cantilena
o assonanza, fonte più di confusione che di raccoglimento. Le fantasie
nate dall'incomprensione di formule liturgiche sono così numerose e
frequenti che sul tema si sono scritti libri interi (come il bel Sicuterat. Il
latino di chi non lo sa di Gian Luigi Beccaria). Antonio Gramsci raccontava che
per sua zia Grazia il da nobis hodie del Padrenostro era diventato il nome di
una nobile Donna Bisodia, che veniva citata spesso come esempio. Il fatto
è che le religioni amano associarsi a lingue presunte
"originarie" e dotate di un flavor esoterico e iniziatico, anche se
nessuno le capisce: anzi esattamente per quello. Così assicurano la
propria autenticità e continuità rispetto agli inizi: allora le
formule rituali possono trasformarsi tranquillamente in mantra, in "Donne
Bisodie" e in "sicuterat". Non importa che si capisca, quel che
conta è che ci si distingua dagli altri. La chiave in cui la Chiesa
difende il latino è proprio questa. Del resto, va notato che il latino
cristiano, e più ancora quello della chiesa moderna, propriamente? non
è latino. Il primo (come si vede nella traduzione delle Scritture e
nella Patristica) è una metamorfosi semplificata e contaminata
dell'idioma di un tempo. Il latino della Chiesa d'oggi è un'invenzione
delle cancellerie, una sorta di esperanto per preti. A questa visione
fantastico-iniziatica se ne salda un'altra, secondo cui nell'etimologia delle
parole latine si celano segreti e rivelazioni. Sono stati in molti a ricercare
(nelle parole latine e di altre lingue) queste radici arcane, secondo una linea
che potremmo chiamare "Vico-Heidegger." Il meraviglioso Giovanbattista
e l'oscuro Martin hanno infatti pescato a piene mani nella scomposizione
etimologica (vera o fantasiosa), l'uno del latino l'altro del tedesco, alla
ricerca di significati riposti. Il gioco mostra però la corda, perché a
questa linea si sono associati anche autentici folli, come quel Jean-Pierre
Brisset, "Prince des penseurs" amato da surrealisti e psicoanalisti,
che, ai primi del Novecento, proprio scomponendo parole arrivò a
dimostrare l'origine "batracica" del linguaggio, cioè la sua
provenienza dal cracrà delle ranocchie. Di segno opposto è la
seconda maschera che il latino si trova spesso addosso: quella di lingua logica
e razionale, studiando la quale ci si addestra a ragionare. I linguisti sanno
bene che di lingue logiche non ne esistono, perché a esser logiche e ordinate
(o il contrario) non sono le lingue ma semmai le teste di quelli che le usano.
Ma questo semplice fatto non basta a convincere i fissati. Alcuni tratti della
struttura del latino lo espongono davvero, del resto, al rischio di esser preso
per una lingua-calcolatore: è ricco di casi e di flessioni complicate,
ha una sintassi raffinata e mobile, tende a distanziare le parole che hanno a
che fare tra loro e ha una forte propensione all'ellissi (il "sottinteso"
che fa impazzire i lettori di Tacito e di Orazio). Per questo è stato
facile spacciarlo come una lingua che richiede, per essere capita, un lavoro
mentale particolarmente intenso. Anche qui l'argomento è debole. Se si
volesse davvero insistere su quelle forme di complessità, la scuola
avrebbe a disposizione un'altra lingua più ricca e complicata, il greco:
ancora più folto di flessioni e di forme, ancora più drastico
nelle "parole mancanti", ancora più ricco di problemi da risolvere
prima di cominciare a capire qualcosa. Pure Gramsci era cascato in questa
trappola: "Il latino non si studia per imparare il latino", scriveva
in un passo dei Quaderni del carcere dedicato a questo tema. La sua formula
svela l'inganno di tutte queste operazioni: i difensori spuri del latino (dal
clero tradizionalista e i fedeli lefebvriani ai supposti educatori del
ragionamento) non hanno alcun interesse per il latino, ma solo per ciò
che presumono che si possa ottenere usandolo. Chi volesse davvero far qualcosa
per il latino nella cultura della modernità dovrebbe invece promuoverlo
come tale, cioè come una lingua dalla magnifica struttura, come la porta
di una formidabile letteratura e il vessillo di una civiltà che ancora
ci intriga.
Sono passati
esattamente dieci anni da quando il governo tailandese ha rinunciato alla
difesa del baht, una manovra che sfociò in una bailamme di dimensioni
tali da indurre a credere che la lezione fosse servita. Ma il fatto che i
mercati siano ancora dominati da eccessi, come dimostrano il boom delle
leveraged buy out e la crisi dei mutui subprime, fa sorgere qualche dubbio.
Prima ancora di analizzare i cambiamenti avvenuti, vale la pena ricordare che i
mercati emergenti hanno capito un elemento fondamentale: non fare affidamento
su fondi esteri incostanti, giacché fu proprio il loro retrocedere ad innescare
la crisi asiatica. Cosicché oggi gli asiatici tendono ad accumulare anziché
prendere in prestito dollari. Un aspetto spesso rimarcato dagli economisti,
ritenendo che i paesi poveri debbano investire e non risparmiare in valute
estere. Va detto però che le riserve offrono ai paesi le risorse
necessarie per contrastare attacchi di natura speculativa, come quelli sferrati
da George Soros in Malesia nel 1997. Una delle conseguenze di questo accumulo
valutario in Asia è il forte spostamento verso occidente registrato da
questi eccessi finanziari. Gli investitori asiatici finanziano metà del
deficit commerciale Usa, salito al 6% del Pil, più o meno lo
stesso valore percentuale che mise nei guati Tailandia e Indonesia, mentre i
prestiti hanno contribuito a rendere il ricorso al debito facile ed economico
tanto per le aziende quanto per i privati americani. Dopo dieci anni iniziano
ad affiorare i segni di una crisi finanziaria, che per certi aspetti ricorda la
debacle del "long term capital management" (Ltcm). In entrambi i casi
investitori sofisticati si affidarono a modelli matematici che dicevano di
offrire buone garanzie di profitto, senza però tenere conto di quello
che accade quando la liquidità viene prosciugata dai mercati. Ne sa
qualcosa Bear Stearns con i suoi hedge fund subprime, costretta ad alienare le
attività a un forte sconto rispetto al loro valore teorico. Attualmente
la liquidità abbonda così tanto sui mercati internazionali che a
soffrire sono soltanto alcune nicchie, mentre dieci anni fa in Asia la
liquidità si prosciugava con estrema rapidità, diffondendo la
crisi da mercato a mercato come se fosse un'epidemia. Va inoltre detto che la
risposta fornita dalle autorità alla crisi indusse gli investitori a
considerare l'investimento come una scommessa a senso unico, dopo che una serie
di aziende asiatiche fu salvata dal Fondo monetario internazionale, mentre
il fulmineo reintegro dell'Ltcm consentì agli investitori più
spregiudicati di cavarsela pressoché senza danni. Per tutta risposta, la
Federal Reserve tenne i tassi artificialmente bassi, adottando la politica
cosiddetta "Greenspan put", in base alla quale l'ex numero uno della
Fed era sempre pronto ad intervenire in caso di necessità. Una politica
che fu mantenuta anche in crisi successive, come quella a seguito degli
attacchi dell'11 settembre. Oggi sono ancora molti gli investitori che credono
di poter fare investimenti a senso unico, come nel caso dei gestori di hedge
fund e dei baroni del private equity, i cui piani di remunerazione consentono
loro di fare soldi a palate in presenza di mercati in rialzo, ma di non
rimetterci nulla in caso di andamenti negativi. Pur essendo l'epicentro del
rischio finanziario mondiale, gli Usa hanno imparato una lezione
importante dall'esperienza asiatica: non contrarre prestiti in valuta estera.
Contraendo prestiti essenzialmente in dollari, gli Usa difficilmente finiranno
in bancarotta e se poi le cose si dovessero mettere male, basterà
stampare qualche banconota in più e lasciare che il biglietto verde
continui a scivolare. A rimetterci sarebbero gli stranieri, soprattutto gli
asiatici. Edward Hadas e (Traduzione a cura di MTC).
La decisione della
società californiana Like.com di chiudere il suo centro asiatico Pechino
introduce nuove regole: obbligo di contratti scritti e limiti ai posti a
termine FEDERICO RAMPINI dal nostro corrispondente pechino - La legge della
domanda e dell'offerta vale anche per Cindia. La sua rivincita si chiama
"reverse offshoring": delocalizzazione alla rovescia. Per la prima
volta si segnala il caso di un'azienda di software che da Bangalore, la
capitale dell'informatica indiana, ri-trasferisce posti di lavoro nella Silicon
Valley originaria, cioè in California. La ragione? Grazie al formidabile
boom dell'industria hi-tech in India la caccia ai talenti sta facendo lievitare
rapidamente gli stipendi locali. A Bangalore le retribuzioni dei programmatori
di software in certi casi si stanno avvicinando a quelle praticate in America,
e il vantaggio competitivo si assottiglia. Finisce sulle colonne del Financial
Times il caso della Like.com, società californiana che realizza un
motore di ricerca per trovare immagini su Internet. La Like.com ha deciso di
chiudere il suo centro di software indiano e di riportare i posti di lavoro
nella Silicon Valley. Munjal Shah, l'amministratore delegato di Like.com, ha
spiegato la clamorosa decisione sul suo blog: "La crescita degli stipendi
a Bangalore è impazzita". Il top manager ha calcolato che due anni
fa i programmatori di software indiani gli costavano appena il 20% di quelli
americani, adesso si stanno avvicinando al 75%. A questo punto lo "sconto
indiano" non gli basta più per giustificare le spese di una filiale
distaccata oltreoceano, e gli inconvenienti di 12 ore e mezza di differenza nei
fusi orari. Altri imprenditori confermano questa diagnosi: l'India continua ad
avere livelli salariali molto bassi e competitivi, ma nelle zone dove si
concentra lo sviluppo delle tecnologie avanzate come Bangalore e Hyderabad
l'inflazione dei compensi è spettacolare. L'altro gigante asiatico non
è immune da questi effetti livellatori della globalizzazione. Il
Congresso di Pechino ha appena varato uno Statuto dei Lavoratori, la più
importante riforma in questo campo da quando la Cina si è convertita al
capitalismo. La nuova legge introduce regole in un mercato del lavoro che
finora era una giungla. Stabilisce l'obbligo di assumere attraverso contratti
di lavoro scritti; limita le assunzioni a tempo determinato; sancisce il
diritto a un impiego stabile dopo un periodo di prova; introduce la buonuscita
per i licenziati. Questa riforma era in gestazione da tempo, l'assemblea legislativa
cinese la stava discutendo da due anni. Improvvisamente è stata
accelerata, entrerà in vigore con l'inizio del 2008. Tra le cause di
questa svolta, anche in Cina c'è una tensione da "pieno
impiego" nelle zone più sviluppate: la provincia meridionale del
Guangdong, cuore pulsante della potenza manifatturiera cinese con le
città di Canton e Shenzhen, vede crescere i conflitti sociali e ha
dovuto alzare più volte il salario minimo legale per placare le
rivendicazioni operaie. Un peso lo hanno avuto anche due scandali recenti.
All'inizio di giugno i sindacati tessili internazionali hanno rivelato che
alcuni prodotti con il "logo" del comitato olimpico cinese
(magliette, zainetti, album di figurine) provenivano da fabbriche-lager che
sfruttavano operai bambini. Poco tempo dopo la polizia cinese ha smantellato un
altro racket di schiavismo, liberando 600 bambini rapiti alle famiglie e
deportati nelle fabbriche di mattoni dello Shanxi e dello Henan. Il
miglioramento della forza contrattuale dei lavoratori nelle zone più
ricche del paese, insieme con le ripercussioni degli scandali per gli abusi
contro i diritti umani, spingono al rialzo anche i salari cinesi. La protezione
della salute dei consumatori è un altro punto dolente che vede la Cina sotto
accusa. Da un mese si assiste a una escalation di allarmi internazionali. A
Panama cento persone sono morte dopo avere usato un dentifricio made in China
che contiene un gel per usi industriali, spacciato per glicerina ma altamente
tossico. Dello stesso dentifricio, si è scoperto in seguito, 900.000
tubetti erano stati distribuiti negli ospedali degli Stati Uniti. In America 60
milioni di scatolette di cibo per cani e gatti - anche queste provenienti dalla
Cina - sono state ritirate dalla circolazione dopo la morte di 16 animali
domestici (avvelenati dalla melamina, una sostanza chimica per usi
industriali). Un'azienda di giocattoli Usa, la Rc2, ha dovuto allertare
le famiglie sulla pericolosità del popolare trenino "Thomas &
Friends": fabbricato in Cina, contiene vernice al piombo proibita. Di
colpo la Food and Drugs Administration (Fda), l'authority americana che vigila
su medicine e alimenti, moltiplica controlli e sequestri di prodotti made in
China, per motivi igienico-sanitari. La settimana scorsa la Fda ha bloccato le
importazioni di alcune categorie di pesci e frutti di mare asiatici, finché non
saranno tutti risultati innocui ai test igienico-sanitari. Multinazionali
alimentari come Kellogg e General Mills passano in rassegna tutti gli
approvvigionamenti che provengono dalla Cina, nel timore che emergano nuovi
problemi. La Cina non può "giocarsi" il mercato Usa: da
solo vale oltre 200 miliardi di dollari all'anno per i suoi esportatori. Le
autorità di Pechino hanno reagito accusando gli americani di manovre
protezionistiche (può esserci una parte di verità: il clima
politico è meno liberoscambista da quando i democratici hanno la
maggioranza al Congresso di Washington). Al tempo stesso però la
Repubblica popolare cerca di correre ai ripari in casa propria. La settimana
scorsa il governo di Pechino ha annunciato di avere chiuso 180 fabbriche di
generi alimentari e di avere revocato 37 licenze dopo la scoperta di 23.000
infrazioni in produzioni di farine, biscotti, caramelle, conserve, sottaceti e
frutti di mare. E' un'operazione di facciata, orchestrata solo per rassicurare
l'opinione pubblica occidentale? Di certo in Cina "il problema vero
è sempre l'applicazione delle leggi", come ha commentato la Camera
di Commercio dell'Unione europea a Pechino, che rappresenta tutte le imprese
del Vecchio continente. Sul mercato del lavoro come nella tutela dell'ambiente,
la causa degli abusi spesso è nella collusione tra interessi economici e
potere politico autoritario. Ma la forza del mercato è un vincolo serio
anche per il colosso cinese. La sua crescita è stata trainata per un
quarto di secolo dalle esportazioni, e il regime ha imparato ad apprezzarne
l'importanza.
Per entrare nel
nostro paese devono fare richiesta all'ambasciata d'Italia nel loro paese di un
visto di ingresso per motivi di affari, che ha durata massima di novanta giorni.
Per ottenerlo, devono produrre una serie di documenti, dimostrando anche di
disporre dei mezzi economici per affrontare il viaggio. Non vengono però
fornite loro certezze sul rilascio, né sui tempi, che in pratica risultano
molto variabili, a seconda della sede diplomatica e della stagione. Il
risultato è che molti signori Wang e Higuchi scelgono di entrare in
Europa da altre strade, in primis dalla Germania, e in Italia non ci arrivano
mai. Con loro, il signor Rossi perde i loro investimenti e anche altre
opportunità, diventando ogni giorno un po' più povero. Il
permesso di soggiorno del manager Un secondo caso riguarda il distacco in
Italia di manager (e personale specializzato) che curano l'avviamento di
un'attività nel nostro paese: in questo caso il signor Wang e il signor
Higuchi, dipendenti dell'azienda presso sede estera, se hanno qualifiche
particolari, possono evitare i vincoli legati ai flussi contingentati, ma
devono comunque percorrere un iter lento e tortuoso. Le loro aziende presentano
domanda allo Sportello unico per l'immigrazione, presso le prefetture, che poi
trasmette il nulla osta all'ingresso al consolato italiano competente. Arrivati
in Italia, il signor Wang e il signor Higuchi devono poi richiedere il permesso
di soggiorno, da trasmettere alla questura locale, attraverso le Poste. Questo
percorso, che può durare molti mesi, presenta tre tipi di problemi: il
numero di interlocutori, i tempi e soprattutto l'incertezza in cui viene
lasciato l'aspirante espatriato. Per certi versi, la situazione sta lentamente
migliorando, ad esempio, prima dell'istituzione dello Sportello unico, le
pratiche erano due, una per la questura e una per la Direzione del lavoro, e il
tramite delle Poste (che ha moltiplicato gli sportelli) evita le code disumane
fuori dalle questure. Ma inizialmente, l'innovazione di una procedura causa
spesso il blocco della macchina burocratica. Cosa che si è puntualmente
verificata: fra l'istituzione dello Sportello unico per decreto e la sua
operatività sono trascorsi mesi, cioè il tempo necessario
(ampiamente variabile, a seconda delle province) agli uffici coinvolti
per riorganizzarsi e adeguarsi alla nuova normativa. Più recentemente,
è stata la creazione del permesso di soggiorno elettronico (Pse), a
bloccare di fatto la procedura per tre o quattro mesi, con il risultato che
un'innovazione introdotta per agevolare il signor Wang e il signor Higuchi, ha
invece bloccato i loro permessi, allungando ulteriormente il tempo loro
necessario a ottenere il visto. Tre cose da fare Da queste analisi, benché
sommarie, si possono trarre tre spunti per l'agenda dell'esecutivo. Occorre in
primo luogo adeguare l'organizzazione della rete diplomatica, che a oggi
è lo specchio di necessità del passato, con una presenza capillare
in paesi che hanno attratto gli emigranti italiani nel secolo scorso (come il
Sud America) e un presidio leggero delle nuove economie asiatiche.
È sintomatico che il sito web del ministero dell'Estero enumeri sessanta
sedi fra consolati, vice-consolati e agenzie onorarie, in Argentina e appena
quattro in Cina. Occorre poi dedicare attenzione all'intero processo di
implementazione, quando si mettono in cantiere adeguamenti normativi: anche
provvedimenti corretti, possono produrre effetti disastrosi se il legislatore
trascura le difficoltà a cui deve fare fronte la macchina burocratica
per adeguarsi. Fra i principi del buongoverno c'è quello di cambiare le
regole il meno possibile. Ma quando ciòè inevitabile, sembra
utile prevedere momenti di verifica o test sul campo (magari su una o due province),
prima di estendere l'applicazione della nuova normativa a tutto il territorio.
Infine, è necessario andare incontro alle esigenze degli utenti,
allargando l'impiego di due attrezzi ormai di uso comune nel mondo attuale, ma il
cui rapporto con la burocrazia amministrativa è delicato: l'inglese e
l'informatica. I moduli per il signor Wang e il signor Higuchi sono oggi solo
in italiano e di carta. Realizzare materiale esplicativo, renderne disponibili
al pubblico traduzioni in lingua, magari via web, contribuirebbe all'efficacia
del processo. Qualche prefettura aveva fatto dei tentativi in questo senso; ora
è online l'utile sito www.portaleimmigrazione.it, realizzato dalle Poste
con il ministero dell'Interno. Un modello di riferimento può essere il
sito inglese: www.workingintheuk.gov.uk. Oltre che nel front-end,
l'informatizzazione deve essere introdotta anche nel back-office. Per
realizzare il collegamento informatico fra gli uffici amministrativi coinvolti,
che è l'unico modo per ridurre i tempi per il passaggio di documenti che
oggi viaggiano sotto forma di faldoni cartacei, è necessario un
investimento di risorse e una modifica dei regolamenti che limitano l'apertura
di connessioni all'interno della stessa amministrazione. In conclusione, le
politiche di attrazione degli investimenti diretti esteri devono essere mirate,
oltre che ad attività di comunicazione e promozione, all'accoglienza dei
cittadini stranieri, attraverso la leva del servizio. Un primo, urgente, passo
consiste nel mettere le strutture coinvolte - prefetture, questure, uffici
provinciali del lavoro e sedi diplomatiche - nelle condizioni di garantire loro
un accesso veloce e sereno. Andrea Villa è dirigente di ITP- Invest in
Turin and Piedmont. Tratto da www.lavoce.info 03/07/2007 Per entrare in Europa
i cinesi scelgono altri Paesi: il nostro perde occasioni e impoverisce
03/07/2007.
Scena uno, la
cassa si apre. "Sconto contante?". La cassa si chiude. La negoziante
milanese di via Moscova paga alle banche il 2% su ogni incasso con il
PagoBancomat, il 3% per CartaSì, il 3,5% per American Express. Al
cliente che salda cash può abbassare i prezzi, affare fatto. Scena due,
la cassa si apre. "Non accettiamo carte, prelevate al Bancomat". La
cassa si chiude. Lo chef Davide Oldani del D'O di Cornaredo chiede solo
banconote: "Con quello che risparmio tengo bassi costi e prezzi".
L'ha detto il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi il 14
giugno, l'aveva ricordato il viceministro dell'Economia Vincenzo Visco in
dicembre. L'Italia è sotto allarme: troppo contante. Siamo il
fanalino di coda d'Europa per utilizzo del denaro elettronico. Nove pagamenti
su dieci sono cash: il 91,1% contro il 60,6% dei francesi, il 69% degli
inglesi, l'82% dei tedeschi. Usiamo le carte di credito e di debito soltanto
nel 3% delle transazioni, a Parigi e Londra è il quintuplo (16% e 17%).
Per il sistema è un costo: 10 miliardi di euro stima l'Abi, senza
contare la pubblica amministrazione; 12-15 miliardi tutto compreso, giudica
CartaSì. Sono i soldi spesi per trasportare le banconote, assicurarle,
contarle, impacchettarle. È un quinto dei costi di gestione del contante
di tutta Europa: 50 miliardi. Ed è un terzo di tutte le transazioni di
denaro passate su suolo italiano l'anno scorso: 34,9 miliardi di euro. Qualcosa
si muove. La "war on cash", guerra al contante, sta iniziando anche
da noi. Mercoledì partirà la campagna delle Poste "Zero
contanti, più contenti". Ed entro l'anno "è prevista
una campagna di sistema", annuncia Roberto Tittarelli, direttore generale
di Mastercard Italia, che riunirà l'Abi, Mastercard, Visa
e American Express, "per accelerare l'utilizzo delle carte".
Sarà d'aiuto anche la migrazione alla Sepa, l'area europea dei pagamenti
che dal 2008 renderà omogenee commissioni e carte in tutta Europa, per
la quale le banche italiane spenderanno 1,5 miliardi. Ma perché in Italia
circola ancora tanto contante? Eppure l'offerta c'è: "Oltre 50
milioni di carte, quasi un milione di Pos per leggere i Pago- Bancomat, 8
milioni di clienti con conti online", elenca Domenico Santececca dell'Abi.
Perché soltanto la metà dei 31,3 milioni di carte di credito sono
attive? Perché i Pos sono 925 mila e gli operatori del commercio 1,6 milioni,
quasi il doppio? Chi sono i "nemici" della moneta elettronica, i
cavalieri del cash? Con sintesi estrema ne abbiamo individuati quattro: 1)
l'evasore, il titolare di partita Iva che fa pagare in nero; 2) l'hacker, il
pirata informatico che ruba i codici delle carte; 3) il piccolo esercente, che
non ha potere contrattuale per ribassare le commissioni delle carte; 4) infine,
per paradosso ed estensione, il banchiere, per il doppio ruolo. Da un lato
spinge infatti alla diffusione delle carte per abbattere i costi di struttura,
dall'altro deve tenere alte le commissioni, essendo le banche socie dei
circuiti delle carte di credito: Visa è un'associazione di banche,
Mastercard una spa partecipata da banche, lo stesso CartaSì, primo
azionista Intesa-Sanpaolo al 36,7%. Questi quattro profili corrispondono ai
quattro freni alla diffusione della moneta elettronica nel nostro Paese (oltre
alla resistenza socioculturale). Vediamoli. Il primo freno è l'evasione:
la carta di credito o il bonifico lasciano tracce. Nel rapporto Istat 2006
(dati al 2004) si dice che l'economia sommersa in Italia copre il
16,6-17,7% del Pil: sono 230-240 miliardi di valore aggiunto non dichiarato, di
cui l'80% nei servizi. "L'uso del contante nasconde la criminalità
economica ", dicono al ministero dell'Economia e sottolineano i tre
provvedimenti presi. Uno è la Finanziaria 2007, che ha limitato a mille
euro il pagamento in contanti ai fornitori di servizi (obiettivo 100 euro nel
2009). L'altro è il disegno di legge Bersani che chiede l'obbligo, per
la pubblica amministrazione, di accettare i pagamenti elettronici: "Ora
sia applicato dal governo", esorta l'Abi. Il terzo è il
decreto anti-riciclaggio in arrivo, che vieta il trasferimento di contanti
quando il valore dell'operazione supera i 5 mila euro. "Bisogna fare
emergere le falle dell'economia sommersa", dice Giorgio Avanzi, direttore
generale di CartaSì. Che ha un progetto: convenzionare commercialisti,
notai, dentisti, farmacie, agenzie assicurative. "Investiremo alcuni
milioni per installare i terminali", dice. Sono in fase pilota:
"Abbiamo alcune migliaia di adesioni". Il secondo freno è la
sicurezza. L'Abi calcola che il numero delle frodi con carta di credito
sia in calo, da 56.507 nel 2004 a 40.600 nel 2006, -28%. E Davide Steffanini,
direttore generale di Visa Europe, reputa "in un euro ogni mille il
livello fisiologico delle frodi: lo stesso del contante ". Ma molti
consumatori sono ancora restii all'uso della carta, soprattutto online."Il
cliente venga assicurato contro l'hackeraggio", propone Gustavo Ghidini,
presidente onorario del Movimento consumatori. Il terzo freno è la
frammentazione del commercio italiano. Tre piccoli esercenti su 10 non
accettano le carte. Le commissioni che pagano sono un mistero: nessun dato
ufficiale. Sembra siano in calo, quelle medie di Cartasì sarebbero scese
dall'1,81% del 2005 all'1,69% oggi. Ma si sa che la grande distribuzione paga
molto meno, anche lo 0,2%. Mentre il piccolo esercente arriva al 4% per la
carta di credito e al 2% per il PagoBancomat. "È meno del costo di
gestione del contante", dice l'Abi. E Isabella Artioli,
responsabile monetica in quella Unicredit che ha investito 120 milioni in tre
anni per potenziare i servizi "cashless", parla di
"contrattazione". Il nodo però sono le commissioni
interbancarie (lo 0,8%, dice CartaSì) che la banca di chi paga
gira a quella di chi riceve. Dure da abbattere. "Per il Pagobancomat
versiamo una quota fissa e una percentuale dice Ernesto Ghidinelli,
responsabile credito in Confcommercio . Capiamo che è perché ci sono
commissioni a livello interbancario. Il problema è l'entità. In
Francia le commissioni ai commercianti sono più basse".
"Stiamo cercando un trattamento agevolato per le piccole transazioni
", annuncia Steffanini di Visa. E il quarto freno? L'ambivalenza delle
banche, che con una mano danno e con l'altra tolgono? Loro sostengono che
"prevale l'interesse alla diffusione della monetica". Sarebbe un bene
per tutti. Unicredit ha calcolato che dimezzando le operazioni allo sportello
si potrebbe abbassare di 40 euro l'anno il costo del conto corrente
Il
Riformista 2-7-2007 Veltroni Il fattore
Uolter e la Costituente socialista
Trentino
2-7-2007 MAURO BONDI "Veltroni non ha nulla di sinistra"
Il
Giornale 2-7-2007 Messa in latino, ritorno al futuro di Maria Giovanna Maglie
È la
rivoluzione-Ulss targata 2 luglio. Da oggi entra in vigore la delibera della
giunta regionale del 13 marzo, quella che si propone di contenere le liste di
attesa e che introduce una serie di novità alle quali bisognerà
abituarsi pena andare incontro a spiacevoli sorprese. Si paga in anticipo. La
prima novità è che d'ora in poi chi è tenuto a pagare il
ticket e ha bisogno di una visita specialistica ambulatoriale, prima di
ricevere la prestazione dovrà recarsi in cassa. Dovrà cioè
recarsi dal medico con lo scontrino dell'effettuato pagamento, altrimenti
niente visita. "È finita l'era dei furbi", commenta
Gianferruccio Dal Corno dello staff della direzione generale. La seconda regola
da osservare perché per gli inadempienti e i distratti potrebbero essere guai a
livello di portafoglio, è che se uno prenota la visita o l'esame, e poi
decide di non recarsi più in ospedale nel giorno stabilito dal Cup e di
non usufruire più della prestazione richiesta, è tenuto a
disdettare in tempo. Se non lo fa si vedrà arrivare a casa la nota di
addebito della quota dovuta, anche nel caso sia in possesso dell'esenzione. Per
annullare la prenotazione basta telefonare al numero verde 800403960 o recarsi
agli sportelli del Cup. Solo qualche minuto di attesa alla cornetta o una
passeggiata fino al S. Bortolo, ma conviene. "Multe" se salta il
ritiro. Ci sarà rigore pure sul ritiro dei risultati delle visite, degli
esami diagnostici e di laboratorio. Fino ad oggi molti si dimenticavano, non
passavano più, e non pagavano. Ora, è tassativo. Esiti e referti
vanno ritirati entro 30 giorni dalla data in cui sono disponibili agli
sportelli delle casse. Se non si rispetta la disposizione, sono davvero dolori,
perché l'utente, anche se esente a qualsiasi titolo, dovrà pagare il
costo della prestazione per intero. E sono centinaia di euro. Altra
novità assoluta: entrano in vigore le classi di priorità. In
altre parole, sulla ricetta il medico di base, convenzionato o ospedaliero,
dovrà apporre, sulla base del sospetto di diagnosi, un codice fisso che
darà diritto o meno alla precedenza e che stabilirà l'arco
massimo di tempo entro il quale visite o esami dovranno essere fatti. Visite
ambulatoriali. Le classi sono 4. La classe "U" comprende le urgenze e
obbliga l'ospedale a effettuare la prestazione entro 24 ore da quando arriva la
richiesta. La classe "B", che sta per "breve", impone la
visita entro 10 giorni. La classe "D", che sta per
"differita", riguarda visite non prioritarie rispetto alle
precedenti, che andranno effettuate, per la medicina fisica e la
riabilitazione, entro 20 giorni dalla richiesta, e per le altre specialità,
entro 30 giorni. La classe "P", che sta per "programmata",
quella meno urgente di tutte, e contempla quasi sempre i controlli di routine,
prevede, invece, le visite, entro 180 giorni. Esami strumentali. Sono quelli
che si eseguono in radiologia, neurologia, cardiologia: lastre, ecografie,
endoscopie. Anche qui le classi di precedenza sono 4. Entrano in gioco le
urgenze effettive e deve essere il medico prescrittore a determinarle e
certificarle. La classe "U" obbliga a effettuare l'esame entro 24 ore
dalla presentazione della richiesta, la classe "B" entro 10 giorni,
la classe "O" (ordinaria) entro 60, e la classe "P" entro
180. Per prenotare basta chiamare il Cup al numero verde 800403960 da
lunedì a venerdì dalle 8 alle 16. Visite ambulatoriali e esami si
possono eseguire al San Bortolo, negli ospedali di Noventa e di Sandrigo, al
Poliambulatorio 1 di S. Lucia a Vicenza, nei distretti di Creazzo e di
Dueville. Naturalmente, resta immutato il ticket da pagare a meno che non si
sia esenti per la patologia, l'età o il reddito, e non cambiano neppure
le regole per le visite e prestazioni a pagamento in regime di libera
professione che i medici ospedalieri sono autorizzati ad effettuare fuori
dell'orario di servizio, rilasciando una ricevuta. Di questi appuntamenti,
extra servizio sanitario nazionale, si occupa un ufficio allo sportello del
Poliambulatorio del S. Bortolo al primo piano del chiostro da lunedì a
venerdì, dalle 16 alle 19, telefono 0444-752477.
Bruxelles, 2
luglio 2007 - La frode sanitaria in Europa ha raggiunto un costo stimato
impressionante di 30 Mrd Eur l'anno, e di conseguenza un progetto finanziato
dall'Ue sta sviluppando un detective digitale per investigare sulle truffe
sanitarie. Il progetto iWebcare, avviato nel gennaio 2006, è
un'iniziativa del valore di 2,3 Mio Eur per la progettazione di una risposta
informatica alla sfida degli imbrogli sanitari. Secondo il Counter Fraud
Service (Cfs) del sistema sanitario britannico, il problema è enorme. La
frode rappresenta quasi il 3% della spesa sanitaria pubblica nel Regno Unito, e
dal 3% al 10% della spesa annuale, sia privata che pubblica, degli Usa. Poiché
si stima che la frode sanitaria in Europa raggiunga i 30 Mrd Eur e i costi
della sanità siano destinati ad aumentare a causa dell'invecchiamento
della popolazione europea, l'incidenza della frode potrebbe raggiungere i
livelli statunitensi. La lotta alle frodi è pertanto assurta a
priorità per l'Europa, in quanto il denaro perso potrebbe essere speso
in maniera più proficua per fornire maggiori servizi sanitari a coloro
che ne necessitano. In base all'esperienza britannica, l'istituzione del Cfs ha
fatto diminuire del 45% le perdite causate da frodi. Il progetto iWebcare spera
di esercitare un impatto ancora più incisivo sulla frode sanitaria in
Europa. Mentre i metodi attuali di intercettazione si affidano all'esperienza
relativamente inefficace dei detective umani nell'ambito delle frodi che si
avvalgono di strumenti informatici di estrazione di dati, il progetto iWebcare
svilupperà una piattaforma web con strumenti avanzati di tecnologie
dell'informazione e della comunicazione (Tic), in grado di individuare fino al
90% delle frodi. I partner del progetto sono impegnati nello sviluppo di una serie
di elementi per la creazione di programmi software intelligenti per estrarre o
analizzare i dati sulle operazioni sanitarie. Tale compito immane comporta la
creazione di metadati, ossia informazioni significative per i computer, al fine
di individuare una varietà di dati quali nomi, indirizzi, farmaci e
procedure. I ricercatori stanno elaborando algoritmi speciali che consentano al
sistema di apprendere dalle esperienze passate. In un primo momento sarà
necessario l'intervento dei detective umani per "insegnare"
all'applicazione a riconoscere modalità che meritano un esame più
attento. Col passare del tempo e grazie al perfezionamento dell'applicazione,
quest'ultima sarà in grado di individuare modalità che segnalano
possibili frodi. L'équipe del progetto sta attualmente sviluppando il primo
prototipo operativo, che verrà utilizzato in due Stati membri (Regno
Unito e Grecia) in condizioni di vita reale ai fini del collaudo. A quel punto,
i truffatori di tutta Europa inizieranno a temere le ripercussioni del
detective digitale. Per ulteriori informazioni consultare: http://iwebcare.
Iisa-innov. Com/
Che
cosa vogliamo dai nostri leader politici? Saggezza, esperienza, fermezza anche
nelle difficoltà, lucidità di pensiero: queste erano le
qualità che una volta la maggior parte degli elettori europei sembrava
privilegiare, o almeno era quel che i partiti politici offrivano loro. Ora
assistiamo a un culto della politica per la giovane età dei leader. Il
nuovo primo ministro britannico, Gordon Brown, a 56 anni sembra preoccupato di
apparire troppo vecchio. Ha perciò nominato ministro degli Esteri un
quarantunenne, David Miliband.
David Miliband
non ha alcuna esperienza di affari internazionali, ma ha, provvidamente, la stessa
età dell' uomo che preoccupa Brown: il leader del principale partito di
opposizione, David Cameron. Quest'anno due primi ministri europei hanno
lasciato dopo essere rimasti al loro posto forse più di quanto si
sarebbe voluto: Guy Verhofstadt in Belgio, che aveva 46 anni quando
entrò in carica nel 1999, e Tony Blair, anche lui quarantaseienne quando
divenne primo ministro britannico, nel 1997. Il ministro delle Finanze
austriaco, Karl-Heinz Grasser, che ha lasciato il mandato dopo 7 anni, ora
può passare per un veterano, anche se trentottenne. In America il
candidato presidenziale favorito tra gli intellettuali, anche se non ancora tra
gli elettori, è Barack Obama, che ha 46 anni e solo due di esperienza da
senatore. In politica la definizione di «giovane » è però
relativa, non assoluta.
Se nel 2008
Obama fosse eletto, sarebbe più vecchio di un anno di quanto fosse Bill
Clinton quando divenne presidente nel 1992. Ma per lui il termine di paragone è Hillary Clinton,
la candidata favorita per i Democratici, che nel 2008 avrà 61 anni. La
stessa cosa vale per Walter Veltroni: a 52 anni non è un «giovane»
leader di partito e potenziale futuro premier se pensiamo a Tony Blair, che
assunse la guida del suo partito a 43 anni, ma lo è a fronte di Romano
Prodi, che ha 68 anni, e di Silvio Berlusconi, che ne ha 70. Come dovremmo
allora vedere la questione, noi elettori? L'età è veramente un
buon metro? Venendo meno alla saggia regola per la quale chi scrive non
dovrebbe mai parlare di se stesso, devo dichiarare un conflitto di interessi:
sono diventato direttore dell' Economist nel 1993, a 36 anni. Mi è
quindi difficile sostenere che la giovane età abbia risvolti negativi.
Se penso a quel periodo, rabbrividisco al ricordo degli errori che ho commesso
nel primo anno di lavoro. La gioventù potrà portare freschezza ed
energia, ma porta anche inesperienza e mancanza di maturità. Tornando
alla politica, tutti ricordiamo John Kennedy, il più giovane presidente
che l'America abbia avuto, eletto nel 1960, a 43 anni: immagine di speranza, di
cambiamento, di vitalità. Tendiamo però a dimenticare una delle
sue prime mosse: il fallito tentativo di invadere Cuba alla Baia dei Porci. Una
qualità migliore che gli elettori possono considerare è la
freschezza, che porta con sé indipendenza e apertura mentale. Il vero problema
dei leader politici di sessanta o settant'anni non è tanto l'età,
quanto il fatto che probabilmente sono stati in politica e nei governi
così a lungo da non avere più la voglia o la capacità di
contemplare cambiamenti.
Poche persone
sono in grado di distruggere le strutture che hanno contribuito a costruire. Ci
vogliono dei nuovi venuti,
degli outsider, per farlo. Gordon Brown ha solo quattro anni più del
nuovo presidente francese, Nicolas Sarkozy, che ne ha 52, ma è difficile
per gli elettori britannici credergli quando asserisce di volere un
cambiamento. Nel primo breve discorso da premier ha usato la parola
«cambiamento» otto volte. Ma negli ultimi dieci anni ha svolto un ruolo
centrale per il governo laburista. I propositi di «rottura» fatti da Sarkozy
erano credibili, quelli di Brown non lo sono. E Veltroni? Sappiamo dal suo
libro che vorrebbe essere considerato dagli elettori italiani come colui che
porterà «La scoperta dell'alba». Sappiamo che ammira Bob Kennedy, il
fratello di John, che aveva energia, coraggio e immaginazione. Sappiamo che è
molto più giovane degli attuali leader italiani. Ora dobbiamo scoprire
se veramente vuole portare dei cambiamenti. La giovane età non è
tutto. Traduzione di Maria Sepa
Bill Emmott
02 luglio 2007
ROMA - Il portavoce di Berlusconi, Paolo
Bonaiuti, ipotizza un accordo tra Forza Italia e il Pd. E nella Cdl è
polemica. Per Bonaiuti, nella scelta di Veltroni come futuro leader, il
ragionamento dei vertici della Quercia sarebbe stato: ''Noi siamo disperati, e
per questo prendiamo Veltroni. Ma la verità è che o c'è un
accordo tra Forza Italia e Partito democratico, o il Pd deve allearsi con la
sinistra estrema".
Sono parole che fanno saltare sulla sedia i vertici di An. Che attraverso il
portavoce ufficiale del partito, Andrea Ronchi, chiedono polemicamente allo
stesso Bonaiuti "su quali contenuti programmatici dovrebbe basarsi
l'accordo".
L'esatto contrario di quanto invece dichiara il deputato Udc Maurizio Ronconi.
"Se anche autorevoli esponenti di Forza Italia - spiega - non escludono a
priori un possibile accordo con il Partito democratico, libero dalla alleanza
con la sinistra radicale, si ha il segno di quanto l'attuale bipolarismo venga
considerato obsoleto anche da chi dovrebbe difenderlo d'ufficio".
Per Ronconi "questa è la prova che la discesa in campo di Veltroni
non può essere considerata solo tattica e che il centro destra deve
affrontare la questione con grande attenzione rifuggendo da stucchevoli
slogan".
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In aumento gli stipendi del pubblico impiego. Tra gli impegni
sottoscritti anche 750 milioni per il fondo anti-Aids
ROMA — Due miliardi e 354 milioni per gli stipendi
del pubblico impiego, un miliardo in più per gli ammortizzatori sociali,
750 milioni per gli impegni internazionali. Poi 4 miliardi per le Ferrovie, uno
per l'Anas, 1,2 per le agevolazioni fiscali. E infine le nuove iniziative,
compresi gli sgravi per gli affitti e per l'Ici sulla casa, altri 10 miliardi
di euro. E se questi ultimi sono «a titolo meramente indicativo», gli altri
sono praticamente già accertati: 11 miliardi di maggiori spese (senza
contare il prossimo rinnovo degli statali) che pesano sui conti del 2008 ma che
non sono ancora conteggiati in bilancio. E che potrebbero proiettare la
Finanziaria 2008 da "quota zero", l'ipotesi fin qui accarezzata con
qualche prudenza dal governo, fino alla stratosferica cifra di 21 miliardi.
Spingendo al calor bianco un confronto già accesissimo nella maggioranza
sul costo dell'abbattimento dello scalone previdenziale, che per il 2008 vale
appena 600 milioni di euro. Il bilancio «a legislazione vigente» al quale si
rifà l'esecutivo non richiederebbe manovre correttive per portare il
deficit del 2008 al nuovo obiettivo del 2,5%. Solo che in quel bilancio, come
spiega il Tesoro nel Documento di Programmazione appena diffuso, molte spese
già maturate non ci sono perché ne manca il presupposto giuridico:
c'è l'accordo politico, non la legge. Anche se non c'è il minimo
dubbio che la stragrande maggioranza, se non proprio tutte tutte, siano spese
da onorare. Sicuramente lo sono quelle relative agli «impegni sottoscritti», la
prima categoria individuata dal Tesoro in una tabella inserita nel Dpef con il
pudico titolo: Tassonomia delle spese eventuali.
SPESE IRRINUNCIABILI — Si
comincia con gli aumenti degli stipendi del pubblico impiego, scuola compresa,
già concordati con i sindacati: 2.354 milioni di euro per il 2008, 561
per il 2009 e il 2010. Poi i nuovi ammortizzatori sociali: ancora un miliardo,
oltre al miliardo e mezzo già impegnato con il decreto dei giorni
scorsi. E tra gli impegni «sottoscritti» ci sono pure quelli internazionali,
750 milioni tra il fondo Anti-Aids, i finanziamenti alla Banca Mondiale e la
cooperazione allo sviluppo. La seconda categoria delle spese che minacciano i
conti del 2008, è quella delle «prassi consolidate». Spese comunque
certe ma che, sia pure con pochi margini di manovra, devono essere quantificate
con esattezza nella sessione di bilancio. I contratti di servizio con le
imprese pubbliche, i fondi per le infrastrutture e, ancora, i rinnovi
contrattuali dei pubblici per il biennio che scatta dal 2008, ma il cui costo
non è stato ancora quantificato dal Tesoro (e quindi non figura affatto
nella tabellina). Tra Ferrovie, Anas, Poste, Enav, la proroga di agevolazioni
fiscali (1,2 miliardi di euro l'anno), la stima degli impegni per le prassi
consolidate ammonta in tutto a 7,1 miliardi di euro per il 2008 e 7,6 per il
2009 e 2010.
La seconda categoria delle spese che minacciano i conti del 2008, è
quella delle «prassi consolidate». Spese comunque certe ma che, sia pure con
pochi margini di manovra, devono essere quantificate con esattezza nella
sessione di bilancio. I contratti di servizio con le imprese pubbliche, i fondi
per le infrastrutture e, ancora, i rinnovi contrattuali dei pubblici per il
biennio che scatta dal 2008, ma il cui costo non è stato ancora
quantificato dal Tesoro (e quindi non figura affatto nella tabellina). Tra
Ferrovie, Anas, Poste, Enav, la proroga di agevolazioni fiscali (1,2 miliardi
di euro l'anno), la stima degli impegni per le prassi consolidate ammonta in
tutto a 7,1 miliardi di euro per il 2008 e 7,6 per il 2009 e 2010.
DISCREZIONALITÀ POLITICA
— L'ultima voce riguarda le spese per «nuove iniziative». Del
tutto discrezionali sulla carta, ma in realtà oggetto di accordi
politici e dunque blindate, come gli sgravi per l'Ici e quelli sugli affitti
che dovrebbero scattare dal prossimo anno. In questa voce che vale «a titolo
puramente indicativo» 10 miliardi di euro, rientrano anche alcune misure
già attuate con il decreto di giovedì scorso ma solo sul 2007,
quindi «una tantum». Interventi che «necessiteranno di adeguata copertura —
spiega infatti il Tesoro nel Dpef — nel caso gli si voglia dar seguito per gli
anni a venire ». Il quadro è completo: nel 2008 le maggiori spese
rischiano di arrivare a 21,264 miliardi di euro, nel 2009 e nel 2010 a 19,371
miliardi. Una somma che dovrà essere coperta interamente da altrettanti
tagli al resto della spesa pubblica. «Il governo è impegnato
prioritariamente a contenere e gradualmente ridurre la pressione fiscale. Di
conseguenza — avverte il ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa nel Dpef
— la ricerca delle risorse per finanziare tutti gli interventi della prima
categoria già quantificati, quelli della seconda la cui quantificazione
è ancora oggetto di approfondimenti e alcuni di quelli della terza, deve
avvenire all'interno della componente della spesa primaria». La speranza è
che la spending review, cioè la revisione di tutti i capitoli della
spesa pubblica, crei i margini di manovra necessari. Altrimenti
bisognerà rinunciare a qualche intervento. Oppure mettere nuove tasse.
La Finanziaria "zero" del 2008, comunque sia, è già un
sogno infranto. E non andrà meglio negli anni successivi. Nel 2009 il
Dpef già mette in cantiere una manovra correttiva di 6 miliardi di euro,
nel 2010 un'altra da 11 miliardi e per il 2011 un'ultima Finanziaria di
legislatura da ben 21 miliardi di euro, 1,4 punti di pil. Sempreché tra impegni
sottoscritti, prassi consolidate e nuove iniziative, non salti fuori qualche
altra sorpresa.
Mario Sensini
Qualche giorno fa
stavo passeggiando sotto i portici di piazza San Marco. Ogni tanto mi
affacciavo a curiosare dentro qualche portone. Erano tutti perfettamente
puliti, tranne uno: squallido, deprimente e pieno di cartacce. Era l’ingresso
di un ufficio dell’amministrazione pubblica statale. L’ho trovata una perfetta
rappresentazione dell’immagine umiliante che talvolta lo Stato italiano riesce
a dare di se stesso alla società del Nord». In partenza per Pechino, con
la prima delegazione ufficiale del Pse (Partito socialista europeo) in visita
in Cina, Piero Fassino inizia dalla questione settentrionale per una
riflessione sullo stato di salute del centrosinistra.
Pochi giorni fa, Veltroni che lancia da Torino la sua candidatura.
Mercoledì prossimo, lo stato maggiore della politica italiana che torna
sotto la Mole per il lancio della nuova 500. Esiste una «ricetta Torino» che il
centrosinistra vuole prendere a modello per l’intero Nord Italia?
«Più che un modello, Torino è la metafora del cambiamento che
l’Italia ha conosciuto in questi anni. La città è riuscita a
superare un durissimo ventennio di crisi, dopo essere stata per quasi un secolo
la perfetta factory-town. Ha fatto i conti con la fine della centralità
assoluta della Fiat, con il venir meno delle certezze legate a quel modello di
produzione e socializzazione, ha sofferto il prezzo della delocalizzazione e
della crisi dell’indotto. Ma nel pieno di una crisi così difficile ha
saputo trovare la via della trasformazione virtuosa».
Ma cosa c’entra, questo, con il centrosinistra?
«C’entra eccome, perché Torino è riuscita a passare nel nuovo secolo
senza rinnegare la propria antica identità industriale anche grazie a
uomini come Castellani e Chiamparino. Questo è esattamente quanto sta
facendo la sinistra italiana dando vita al Partito democratico, come ha voluto
sottolineare anche Veltroni: misurarsi con il tempo nuovo senza rinnegare la
propria storia».
Tuttavia il caso Torino è diverso dal resto del Nord Italia,
dove il centrosinistra registra una pesante sofferenza di consensi.
«Innanzitutto va sfatata l’immagine secondo cui il centrosinistra non riesce a
rappresentare il Nord. In realtà, noi governiamo sei regioni su otto e
la gran parte dei principali capoluoghi, da Torino a Genova a Venezia. Ma
esiste certamente un problema con il Lombardo-Veneto, dove non abbiamo colto
fino in fondo i valori dell’innovazione, del saper fare e dell’intraprendere
che sono tanto diffusi nell’area. Non ci siamo riusciti perché non abbiamo
riconosciuto fino in fondo la dignità del nuovo capitalismo molecolare
che anche qui è riuscito a rinnovarsi. Per troppo tempo abbiamo guardato
con sufficienza all’esplosione di piccole e medie imprese che nel Nord Est sono
riuscite a riprendere la strada dell’export e della competitività, come
se si trattasse di un fenomeno effimero».
E’ solo un problema di analisi socio-economica o anche di risposte
politiche sbagliate?
«Non avere riconosciuto la novità del fenomeno ci ha impedito di far
capire il senso di scelte politiche anche giuste. Verso le categorie degli
artigiani e dei commercianti, ad esempio, è prevalsa una
rappresentazione punitiva delle nostre politiche fiscali dominata dalla figura
dell’evasore. Perché non è che scarseggino gli evasori, com’è
ovvio, ma è mancato da parte nostra il riconoscimento dell’enorme fatica
professionale che ogni giorno viene compiuta da quei settori produttivi.
Analogamente dobbiamo fare di più su alcuni nodi programmatici concreti.
Sulle infrastrutture, lo sblocco della Tav è stato un passo simbolico
fondamentale per cominciare a rispondere all’enorme problema della saturazione
del Nord. Sul fisco, dobbiamo andare oltre la percezione persecutoria delle
nostre politiche di tassazione. Sulla pubblica amministrazione, tanto per fare
un esempio, è del tutto evidente che a Varese sia impresentabile
l’immagine di uno Stato che a Napoli tollera l’accumulo di montagne di
immondizia. E infine sulla sicurezza, dove proprio il più alto livello
di legalità che si registra al Nord rende più sensibile la
percezione dei rischi di illegalità. Sono questi i temi che devono
essere rimessi al centro della nostra politica. E deve farlo innanzitutto il
Partito democratico».
Fatto sta che in un solo anno i consensi al governo Prodi si sono
dimezzati, attestandosi oggi poco sopra il 25 per cento.
«Io sono convinto che il trend del consenso possa essere rovesciato, con misure
come il nuovo contratto sul pubblico impiego, lo sblocco della Tav, l’aumento
delle pensioni più basse, la riforma degli ammortizzatori sociali e il
federalismo fiscale. D’altra parte è da molto tempo che sostengo
l’esigenza di accompagnare l’adozione di scelte doverose ma pesanti, come
quelle che abbiamo fatto l’anno scorso con una finanziaria di risanamento,
all’apertura di una fase di innovazione e cambiamento necessaria a dare
ossigeno al Paese».
Quindi, da oggi in poi tutto dovrebbe aggiustarsi?
«Penso che la legislatura possa durare fino al 2011, a patto di governare con la
determinazione di queste ultime settimane, anche se non mi nascondo la nostra
fragilità al Senato. Ma dobbiamo lasciar tempo e spazio anche a nuovi
processi politici: la decisione dell’Udc di distanziarsi da Forza Italia e da
An può essere l’inizio di un percorso. Analogamente, possiamo verificare
con la Lega la possibilità di intese su fisco e autonomie. Non si tratta
di ipotizzare nuove coalizioni, ma di costruire direttamente in Parlamento
convergenze con forze che non fanno ancora parte della maggioranza, ma che non
accettano più di essere un’opposizione pregiudiziale».
Lei ha detto che il sindaco di Roma è stato scelto non perché
più bravo di altri ma «perché non ha le nostre ferite». Ma quali sono le
ferite di Fassino? Cosa le ha impedito di candidarsi alla guida del Partito
democratico?
«È innegabile che in questi anni io, D’Alema e altri dirigenti abbiamo
combattuto un’aspra battaglia di prima linea, sia contro il centrodestra, sia
nella maggioranza, confrontandoci con la sinistra radicale. Per il fatto di
essere rimasto un passo indietro, impegnato a governare Roma, Walter risulta
meno logorato di noi e quindi più accattivante, sia per l’elettorato del
centrodestra che per quello della sinistra radicale. È un dato di fatto,
anche se il mio profilo di riformista non è certo meno innovatore e
moderno di quello di Veltroni».
In vista delle primarie per il Pd, alcuni esponenti Ds, come D’Alema,
sembrano osteggiare la sua proposta di un’unica lista unitaria dei riformisti a
sostegno di Veltroni.
«Io penso a una pluralità di liste regionali che siano rappresentative
di diverse realtà territoriali, ma che uniscano i riformisti di tutte le
aree politiche. Quello che non trovo convincente è la nascita di liste
contrapposte, ispirate unicamente al desiderio di visibilità di questo o
quell’esponente di partito o all’intenzione di misurare la forza di correnti o
cordate personali».
E in questo percorso non vede alcuno spazio per un ritorno nel Pd di
coloro che hanno lasciato i Ds?
«Non solo vedo questo spazio, ma auspico la possibilità che tornino
tutti coloro che se ne sono andati sulla base di un pregiudizio. Non capisco
perché, quando a Firenze io lavoravo per il Pd, stavo liquidando la sinistra,
mentre oggi per Mussi e Caldarola va bene Veltroni che sostiene la stessa
prospettiva da molti anni. La verità è che Mussi e altri non
hanno mai digerito di essere stati sconfitti a Pesaro, hanno tenuto in piedi
un’opposizione interna senza contenuti e alla fine hanno voluto compiere uno
strappo pregiudiziale. Tornino pure tutti quelli che vogliono tornare, ma
ammettano di essersi sbagliati su di me».
E cosa risponde a Macaluso che l’accusa di non aver compreso che
Togliatti tacque di fronte a Stalin per salvare il Pci?
«Rispondo che non mi sfugge la grandezza di Togliatti come costruttore della
Repubblica italiana, anche se questo non assolve i dirigenti del Pci dalla
passività che ebbero di fronte allo stalinismo. E, in ogni caso, vorrei
anche ricordargli che Stalin è morto nel 1953, il ventesimo congresso
del Pcus è del 1956 ma, in questo mezzo secolo, a nessun esponente della
generazione di Macaluso è venuto in mente di compiere un semplice atto
di riparazione alla memoria dei tanti antifascisti e comunisti italiani
trucidati dal terrore staliniano».
www.lastampa.it/romano
Parlate adesso oppure tacete per sempre. Così, scherzando
ma non troppo, ci era capitato di rivolgerci, qualche mese fa, ai socialisti di
tutte le specie. Nella speranza che infine si liberassero dalle infinite
diatribe della diaspora. E ci facessero sapere se a loro giudizio il riformismo
socialista poteva avere un ruolo nel costituendo Partito democratico o se, al
contrario, proprio il terremoto che la nascita del Pd apriva nel centrosinistra
e nella sinistra restituiva attualità non a una impensabile resurrezione
del Psi ma a una ricomposizione politica, in tempi brevi, del socialismo
italiano: di chi socialista lo è sempre stato e di chi al socialismo
democratico e liberale è approdato facendo i conti con la propria
storia. Certo non è stato soltanto, né soprattutto per via del nostro
appello. Ma non c’è dubbio che, in questi mesi, molte cose si sono rimesse
in movimento. Sino a far assumere alla questione socialista, seppure tra mille
incertezze e ambiguità, quel rilievo che sembrava avere definitivamente
perduto. E a porre all’ordine del giorno il tema della Costituente. Che
è, o dovrebbe essere, qualcosa di più e di diverso dalla pur
comprensibile aspirazione a rimettere assieme quel che resta dei cocci di un
partito schiantato dalla tempesta dei primi anni Novanta.
Così stanno le cose. O meglio: così stavano le cose fino a
qualche giorno fa, alla candidatura di Walter Veltroni alla guida del Partito
democratico prima, al discorso di investitura del candidato poi. Da questo
momento, la situazione si è un po’ complicata. Ed è naturale,
anzi, è bene che sia così, perché con Veltroni in campo le cose
cambiano, e in politica, se non ci si vuole condannare da soli all’irrilevanza,
quando le cose cambiano bisogna tenerne conto. I principali fatti nuovi ci
sembrano due. Il primo è che, risolvendosi con Dio sa quante sofferenze
a chiamare sin d’ora Veltroni alla leadership del Pd, le oligarchie e gli
apparati che sin qui avevano cercato di tenere sotto controllo, con i bei
risultati che si sono visti, l’intera operazione hanno di fatto riconosciuto la
loro sconfitta: sarebbe bene che di candidati ce ne fossero anche altri, ma chi
crede che questo sia il problema dei problemi guarda il dito invece di guardare
la luna. Il secondo è che già nel suo primo discorso da candidato
leader (e da futuro candidato premier) Veltroni ha dato qualcosa di più
dell’impressione di volersi muovere in autonomia, cercando di sostanziare il
suo tante volte proclamato riformismo radicale non solo di più o meno
felici immagini retoriche ma anche di indicazioni programmatiche (dal fisco
alla sicurezza, dal nuovo patto tra le generazioni alle riforme costituzionali
necessarie per uscire dalle paludi mefitiche della Seconda Repubblica) che, le
si condividano o meno, risultano in ogni caso innovative rispetto al programma
dell’Unione e, soprattutto, alla pratica politica di questo governo e di questa
maggioranza.
Tutto questo non significa affatto che i socialisti debbano applaudire
Veltroni, chiudere la loro Costituente prima ancora di averla varata, mettersi
disciplinatamente in fila per lucrare qualche posto e trovarsi il loro
spaziuccio nel Partito democratico: i motivi di diversità e di divisione
restano, a cominciare dalla collocazione internazionale del Pd, visto che del
socialismo europeo, in ultima analisi, a Veltroni sembra importare ancor meno
che a Massimo D’Alema o a Piero Fassino. Semplicemente, non si può far
finta che tutto sia rimasto come prima, o sia addirittura peggiorato per via
dell’oggettivo, ulteriore indebolimento di Romano Prodi. Il terreno per un
confronto serio, pubblico, dall’esito non scontato, fino a ieri era inesistente.
A noi sembra che adesso, almeno potenzialmente, ci sia, e pure che sia
nell’interesse dei socialisti, così come di tutta la sinistra di
governo, aprirlo e presidiarlo non solo con la loro storia riformista, ma con
le loro idee e le loro proposte riformiste di oggi. In ogni caso, ci piacerebbe
che di questo politicamente discutessero. Magari proprio qui, sul Riformista.
Come sempre.
La candidatura di
Walter Veltroni alla guida del Partito democratico ha suscitato grande
interesse. Lo stile è stato apprezzato. Gli obiettivi politici, indicati
con chiarezza, sono stati ampiamente condivisi. In questa candidatura, molti
vedono una carica di innovazione capace di dare impulso e forse maggiore
serenità alla politica italiana, non solo al centrosinistra. Sul
Corriere del 25 giugno, Angelo Panebianco chiedeva a Veltroni alcuni
«pronunciamenti netti sulle cose che contano», tali da «dare una vera
identità riformista al Partito democratico » e da porre il candidato
sulla strada della «leadership democratica», non della «leadership ulivista ».
Nel discorso di Torino, Veltroni sembra aver accolto l'invito. Dallo sviluppo
delle infrastrutture alla lotta alle rendite, gli obiettivi chiave per
un’Italia più competitiva ed equa sono stati indicati con forza.
Ma il Partito
democratico — guidato da Veltroni, come è probabile, o da un altro
leader — e il governo del quale il Pd vuol essere la colonna portante
riusciranno a realizzare quegli obiettivi? Con quale metodo di governo
sarà possibile conseguire risultati migliori di quelli finora ottenuti,
con tanto impegno e affanno, dal governo Prodi? Su questo tema cruciale, il
sindaco di Roma per ora non si è espresso. Sarebbe utile che lo facesse.
Così, il dibattito all'interno del Partito democratico e poi l'elezione
del leader sarebbero pienamente consapevoli. E l'intero Paese sarebbe stimolato
a riflettere su una questione che ci riguarda tutti: perché i governi di questi
anni non sono riusciti, quanto avrebbero voluto, a dare all'Italia più
dinamismo, competitività ed equità? Due punti sono rilevanti,
soprattutto alla luce dell'esperienza del governo Prodi: il ruolo della
concertazione e l'interpretazione del bipolarismo.
Concertazione.
Oggi vi è un'asimmetria tra le rappresentanze di interessi. Alle
organizzazioni sindacali e imprenditoriali viene assegnato un potere di
gradimento, se non di veto, sulle politiche economiche e sociali. Altre
categorie, come quelle professionali, sono state trattate con decreti legge.
Gli interessi più meritevoli, come quelli dei giovani o degli anziani
non autosufficienti, semplicemente non trovano rappresentanza, perché non
costituiscono corporazioni. Veltroni manterrebbe questa asimmetria?O la
eliminerebbe, prevedendo che ogni provvedimento sia preceduto da una
consultazione pubblica aperta a tutti, ma non sia contrattato con nessuno? La
questione è importante sul piano della parità di trattamento:
mantenere o eliminare i residui ancora presenti di una visione secondo la quale
la sovranità risiede in fabbrica, non nei cittadini? Ed è
importante per l'efficacia delle politiche: si vedano i casi recenti di
esercizio di un potere di interdizione su pensioni e pubblico impiego.
Bipolarismo.
L'interpretazione «frontale» del bipolarismo ha portato a non cercare neppure
un circoscritto consenso bipartisan per portare a buon fine alcune riforme
strutturali intese a ridurre le rendite delle corporazioni. Propositi lodevoli
in tema di liberalizzazioni hanno avuto risultati pratici modesti.
L'opposizione, dimenticando che a volte pretende di essere «liberale», ha
cavalcato in Parlamento ogni resistenza corporativa. Per imitazione il fervore
di parlamentari della maggioranza si è attenuato. Veltroni riterrebbe
opportuno, pur in uno schema di bipolarismo, ricercare un limitato consenso con
l'opposizione su poche riforme essenziali? Quel senso bipartisan di
responsabilità che emerge a volte a sostegno di missioni internazionali
dell'Italia, non dovrebbe essere applicato anche ad alcuni teatri nei quali la
guerriglia delle corporazioni minaccia il futuro, se non la vita, dei giovani
italiani?
02 luglio 2007
TRENTO. La visita della ministra Giovanna Melandri a Trento non
è piaciuta a tutti. Mauro Bondi, esponente storico dei Ds, ad esempio non
ha apprezzato molto il fervore espresso dalla ministra nei confronti del
nascituro partito democratico. Bondi, da tempo ormai anima dissidente dei Ds
trentini, ha preso in prestito l'espressione già usata dal ministro
dell'università e della ricerca scientifica Fabio Mussi al
congresso di Firenze della Quercia per dire che lui non ci stava: "Io mi
fermo qui". Una frase che dà l'idea di un cammino comune che si
interrompe. Bondi lo aveva detto da tempo che il partito democratico non gli
andava a genio. La scesa in campo di Walter Veltroni quale futuro leader non ha
fatto altro che rafforzare questo suo intendimento: "Per me il partito
democratico è qualcosa di molto diverso dal socialismo europeo nel quale
sono cresciuto e nel quale mi riconosco ancora. Quindi il mio percorso politico
finisce qui. Spero che, con il passare del tempo, il partito democratico sia
più socialista e meno democristiano". Bondi ce l'ha anche con il
segretario in pectore, quel Walter Veltroni che in questi giorni viene osannato
da tutti: "Veltroni è funzionale a questo percorso. Non ci vedo le
caratteristiche del socialismo europeo. Lui non è né carne né pesce.
Racchiude dentro di sé un po' di tutto. Rappresenta tutto, tranne che la storia
della sinistra italiana. Va bene un po' per tutte le stagioni".
L'amareggiato Bondi, ex segretario dei Ds trentini, ne ha anche per la ministra
che è salita a Trento per fare pubblicità al partito democratico
e per auspicare all'interno della futura formazione politica una maggiore
presenza di giovani e di donne: "Anche la Melandri è perfetta per
il partito democratico. E' funzionale a questo percorso in cui i principi del
socialismo non ci sono o sono molto, ma molto annacquati. Va benissimo, ma io
mi riconosco in altre strade. Forse l'unico per il quale potrei votare sarebbe
Pierluigi Bersani. E' l'unico che ha delle prospettive concrete e serie
rispetto al vogliamoci bene che viene sbandierato da Veltroni". Insomma,
Bondi, non chiede nessun posto nel partito democratico: "Magari in futuro
migliorerà. Forse potremmo anche incontrarci, ma per il momento, mi
sembra che sia qualcosa di molto diverso dalla mia storia".
ROMA
- La stretta in arrivo interesserà tutti. Consiglieri regionali,
comunali e provinciali e componenti a gettone degli enti pubblici, chi
amministra le circoscrizioni e i dirigenti della burocrazia. Ma a far discutere
sarà forse la novità dell'ultimora introdotta nel disegno di
legge messo a punto dal ministro Giulio Santagata per ridurre i costi
della politica e pronto per l'approvazione nel consiglio dei ministri di
questa settimana. Ovvero il giro di vite sui telefonini. Da una ricognizione
condotta dal ministero della Funzione pubblica è stato facile scoprire
quel che tutti sapevano: sono migliaia in dotazione ai manager ma anche ai
semplici dirigenti della burocrazia. E allora, ecco in arrivo un taglio nella dotazione,
ma anche un controllo senza precedenti sull'uso che se ne fa. Le
amministrazioni statali e locali dovranno dotarsi di piani triennali di
riduzione dei costi che comporterà, tra l'altro, l'assegnazione
dei telefoni di servizio solo al personale che dovrà garantire una
reperibilità permanente. Ma il provvedimento del governo dispone che
venga motivata l'assegnazione di questo strumento di lavoro e che venga
effettivamente usato solo a scopi di servizio. Così, gli uffici saranno
autorizzati a effettuare verifiche a campione sull'utilizzo. Come? Semplice:
accedendo ai tabulati. Tutto questo però, assicura chi ha curato il ddl,
dovrà avvenire nel rispetto della tutela della privacy. Stessa storia
per le auto blu: nei piani triennali, gli enti che ne dispongono dovranno
specificare il numero e le finalità di utilizzo. Saranno possibili
convenzioni con taxi e autonoleggi per abbattere le spese. Tutti i dati
relativi a personale e costi dovranno essere trasmessi al Cnel. Ma la
stretta su cellulari e auto blu costituisce forse la nota più di colore
di un disegno di legge assai articolato e che finalmente, dopo due rinvii,
approda in Consiglio dei ministri. L'ultimo slittamento dell'esame del testo -
che il premier Prodi avrebbe voluto varare entro il 15 giugno - è
avvenuto nella seduta di giovedì scorso. "Attendiamo ancora una
settimana per accogliere le indicazioni che verranno dalla Conferenza unificata
con gli enti locali per raggiungere un accordo ampio, che abbia realmente
capacità di incidere sulle spese" spiegava dopo l'ultima seduta di
giovedì scorso il primo firmatario, Santagata. Ma il testo è
già pronto e tra giovedì e venerdì avrà il via
libera del governo, frutto del tavolo istituito a Palazzo Chigi e al quale
hanno lavorato i ministeri dell'Economia, degli Interni, Attuazione del
programma, Funzione pubblica e Affari regionali. Tante le misure, dunque, le
più attese e incisive sui costi della "politica"
riguarderanno gli enti locali. Il ddl proporrà una riduzione del numero
dei consiglieri di Regioni, Comuni e Province pari "almeno al 10 per
cento". Soglia inferiore dunque a quel 25 per cento al quale pure si erano
detti disponibili il presidente dell'Anci e sindaco di Firenze Leonardo
Domenici e qualche presidente di Regione. Ma le resistenze opposte dagli enti
locali hanno finito col pesare. Una svolta si annunzia invece per quei pozzi di
spesa dalla dubbia utilità che sono ritenute le Circoscrizioni, con il
loro carico di presidenti e consiglieri. Il disegno di legge del governo ne
prevederà l'obbligatorietà solo per le città con
più di 250 mila abitanti. Accorpamenti in vista per le Comunità
montane. Si procederà invece sulla strada già intrapresa con la
Finanziaria per ridurre il numero degli enti troppo spesso "inutili".
Ma anche per i manager pubblici è prevista una mini stangata: non
potranno percepire una retribuzione per posizione e risultato superiore al 30
per cento dell'importo complessivo della busta paga. Limiti in arrivo pure per
il ricorso alle consulenze esterne. E per deputati e senatori? Il governo non
può e non vuole interferire con l'autonomia di Camera e Senato, tengono
a precisare da Palazzo Chigi. Ma già il 9 luglio gli uffici di
presidenza di Montecitorio e Palazzo Madama sono convocati per approvare un
piano congiunto di riduzione delle spese che inciderà per lo più
su vitalizi (ma dalle prossime legislature) e spese di funzionamento dei
palazzi.
Se alle esangui casse comunali potesse dare le
stesse pillole con le quali ha reso Silvio Berlusconi «tecnicamente quasi
immortale», Umberto Scapagnini sarebbe un sindaco felice. O quantomeno
più tranquillo. Invece no. La sua Catania è sull’orlo del
fallimento, schiacciata da oltre 40 milioni di debiti e una cartolarizzazione
immobiliare tutta giocata sul filo della legalità e i cui nodi stanno
venendo al pettine proprio in questi giorni. Gli ispettori del ministero
dell’Economia sono appena tornati a Roma, dopo aver esaminato per settimane i
conti di quella che una volta era pomposamente chiamata “la Milano del Sud”. La
relazione dovrebbe arrivare sul tavolo del ministro Padoa – Schioppa in tempi
brevi e pare che sarà durissima. «Buon per Catania che la Sicilia sia
una Regione a statuto speciale, altrimenti il Comune rischierebbe di fare la
fine di Taranto», spiega a “L’espresso” un tecnico del ministero. Insomma, lo
spettro della dichiarazione di fallimento c’è ed è piuttosto
ingombrante, solo che toccherà al governatore Salvatore Cuffaro
affrontarlo secondo le leggi. E sarà imbarazzante, per una Regione che
è la cassaforte elettorale della Casa delle libertà, emettere il
verdetto di vita o di morte su un’amministrazione comunale guidata da un
forzista che non è soltanto il medico personale del Cavaliere, ma colui
che allungò la vita al governo Berlusconi vincendo le comunali del 2005.
Già, sembra passato un secolo dal maggio di due anni fa, quando
Scapagnini strappò un secondo mandato da sindaco, quando in tutto il
resto d’Italia il centrodestra era alle corde. La sua campagna elettorale si
era basata su uno slogan molto semplice: “Catania è bella. Veramente
bella”. Il resto, fioriere a parte, ce l’aveva messo la vèrve, il
sorriso, l’ottimismo di un medico – stregone che i suoi concittadini chiamano
“Sciampagnino”. La polvere, però, era solo nascosta sotto il tappeto. Lo
mettono nero su bianco, il 20 febbraio scorso, i revisori dei conti del Comune
su richiesta della magistratura contabile siciliana: a furia di mutui e debiti
con le banche, «si è arrivati al prosciugamento delle
disponibilità liquide e al conseguente stato di tensione finanziaria». I
fornitori vengono pagati con mesi e mesi di ritardo e la stessa funzionalità
degli uffici comunali è messa a rischio. I disavanzi certificati tra
mille difficoltà (i revisori puntano il dito contro un software di
gestione del bilancio che farebbe acqua da tutte le parti) parlano di 40,6
milioni per il 2003 e 42,7 milioni per il 2004. in base alla legge italiana, e
al Patto di stabilità europeo, i passivi vanno ripianati entro tre anni
e le amministrazioni possono indebitarsi solo per investimenti. E non per fare
cassa. Alla scadenza del 31 dicembre 2006, quindi, il Comune di Catania avrebbe
dovuto rientrare a tutti i costi, pena la dichiarazione del dissesto
finanziario. Con l’acqua ormai alla gola, l’amministrazione Scapagnini tira
fuori dal cilindro l’ultima magia: vende a se stessa un bel pacchetto di
immobili comunali e ottiene nuovi mutui bancari per circa 50 milioni di euro.
La sequenza delle date è rivelatrice del dramma finanziario in atto. Il
24 ottobre 2006, il consiglio comunale dà il via alla costituzione di
Catania risorse srl, controllata al cento per cento dal Comune. Giovedì
28 dicembre, mentre la società è ancora in fase di registrazione,
viene conferito il mandato le perizie giurate su 14 immobili che il Comune
vuole vendere a Catania risorse. Tutte le perizie vengono effettuare
venerdì 29 dicembre e depositate entro sera al tribunale. Roba da
Guinness dei primati, ma non c’è tempo di compiacersi di tanta
efficienza. Sabato 30 dicembre, caso pressoché unico nella storia della
città, viene convocato un consiglio comunale che approva la vendita
degli immobili. E domenica 31 dicembre, meraviglia delle meraviglie, viene
stipulato il rogito notarile tra il Comune – venditore e il Comune – compratore
che, pardon, si chiama Catania risorse. Scapagnini e la sua giunta possono
festeggiare il Capodanno 2007 tirando un bel sospiro di sollievo. Hanno trovato
i soldi, seppure accendendo altri mutui.
Il problema, però, è che la fretta ha fatto commettere qualche
errore di troppo. Sono gli stessi avvocati del Comune, in un parere scritto il
18 dicembre 2006 e che non è stato portato all’attenzione del consiglio
comunale del 30 dicembre, a segnalare una serie di gravi lacune. I legali,
guidati da uno stimato civilista come il professor Vito Branca, fanno notare
che Catania risorse avrebbe dovuto essere una spa e non una semplice srl. Che
avrebbe dovuto avere un piano strategico pluriennale. Che ci si è
dimenticati di fissare i requisiti di onorabilità e
professionalità per gli amministratori. Che questi avrebbero dovuto
essere estranei all’amministrazione comunale. Che le valutazioni del patrimonio
immobiliare da gestire sarebbero spettate agli uffici dell’amministrazione
finanziaria dello Stato. Che per le attività di finanzia straordinaria e
di cessione degli immobili ci si doveva avvalere di advisor di elevata
professionalità (insomma, almeno qualche architetto o geometra). Alla
faccia di tutte queste puntuali osservazioni, si è deciso che a
presiedere il cda di Catania risorse andasse il segretario generale del Comune.
E il “mago” che in un giorno solo, tra Natale e Capodanno, eseguì 14
perizie milionarie è un ragioniere, dipendente comunale pure lui e
iscritto all’albo dei revisori contabili.
Come se non bastasse, nell’elenco dei 14 immobili cartolarizzati figurano
almeno tre complessi che per il loro valore artistico e culturale avrebbero
dovuto essere “sdemanializzati” con apposito procedimento. Si tratta di due ex
monasteri, quello di Santa Chiara e quello di Sant’Agata, e dell’ex caserma
Malerba, complessivamente valutati oltre 26 milioni di euro. La sovrintendente
ai Beni artistici di Catania, Maria Grazia Branciforti, al girare delle prime
voci aveva messo le mani avanti e il 23 dicembre del 2005 aveva emesso una nota
per ricordare che alcuni immobili non potevano essere dimessi. Il 22 febbraio
2007, informata dell’operazione di Catania risorse, dirama una seconda nota per
avvertire il Comune della nullità dei trasferimenti. Magari con un po’
di stizza, un’amministrazione comunale sana e prudente avrebbe comunque
ringraziato la signora Branciforti e sarebbe corsa ai ripari. Cinque giorni
dopo, la giunta comunale adotta una delibera nella quale si chiede
all’assessorato regionale competente di adottare provvedimenti nei confronti
della sovrintendente. Che viene prontamente sostituita nel giro di pochi giorni
con un ex assessore provinciale dell’Mpa di Raffaele Lombardo.
Di tutta questa storia, nel dibattito politico siciliano non si trova quasi
traccia. A Catania c’è in gestazione il nuovo piano regolatore e la
Procura, da mesi affidata ad un reggente, ha sì aperto un fascicolo su
Catania risorse, ma procede coi piedi di piombo. Sembra quasi che tutti
aspettino il “botto” di Padoa – Schioppa. L’unico a sollevare il velo
sull’intera vicenda è stato un professore di diritto romano, Orazio
Licandro, che dopo anni di battaglie in consiglio comunale ora è
deputato a Roma, membro della direzione nazionale del Pdci e capogruppo in
commissione Antimafia. Dopo una sua interpellanza della primavera scorsa, gli
ispettori del ministeri dell’Economia sono scesi a Catania e hanno passato al
setaccio i conti. In un posto normale, tanto basterebbe a consigliare cautela.
Macché: a Catania ne hanno combinate un altro paio. Il consiglio comunale ha
autonomamente prorogato di altri sei mesi, ovvero al 30 giugno 2007, il termine
per coprire il disavanzo del 2003. e dieci giorni fa, a Catania risorse sono
state venduti dal Comune altri nove immobili, tra cui il castello di via
Leucatia, per 120 milioni di euro. Tra questi figurano addirittura gli uffici
della nettezza urbana e la cittadella dello sport di Nesima, valutata ben 74
milioni di euro e sulla quale il Coni promette battaglia. Quanto basta per far
dire al giurista Licandro che «evidentemente, a Catania non si applicano le
leggi della Repubblica».
(ripreso da "L'espresso" numero 26
anno 2007)
Con le grandi fusioni bancarie, la riforma di Mediobanca e le
nozze in preparazione tra Aem e Asm il confronto è nell'ordine delle
cose ed è già cominciato su due terreni: le attività in
competizione, soprattutto l'energia, e la governance . Nel primo terreno, al momento,
sembra non esserci partita: Aem l'ha spuntata su Edison. È una storia
che va richiamata in premessa per non dimenticare le beffe del mercato. Con il
collocamento in Borsa deciso nel 1998 dall'allora sindaco Gabriele Albertini,
l'ex municipalizzata pareva dover diventare preda del gruppo di Foro Bonaparte
che prese subito un 5 per cento per avere un trampolino di lancio verso il
controllo. Ma le lotte intestine tra i soci della Edison hanno aperto le porte
a Electricité de France e Mediobanca, che nel 2001 venne sconfitta da uno
schieramento che andava dalla Fiat a Banca Intesa, grande ma senza progetto, si
trovò poi a fare perno su Aem per ricostruire, anche secondo i
desiderata del governo, una compagine azionaria nazionale a bilanciamento del
monopolio statale francese. Considerando le possibilità di sviluppo
dell'azienda Aem, la giunta Albertini non è stata lungimirante. Ha
badato solo a fare cassa, senza aver fortuna neanche in questo. E tuttavia
è risultata meno dannosa dell'azionariato eccellente di Foro Bonaparte.
Tanto è vero che, rispetto al 1998, i ruoli della preda e del cacciatore
si sono invertiti. Regime dualistico Adesso, il consiglio comunale che esprime
la giunta Moratti ha dato nuove prospettive ad Aem attraverso l'integrazione
con la consorella Asm di Brescia. Ed è proprio questa operazione che
riapre il capitolo della governance nelle aziende dove il Comune ha il
controllo di diritto o di fatto. La nuova Aem abbandonerà il
tradizionale consiglio di amministrazione e adotterà il regime dualistico,
fondato sul consiglio di sorveglianza che nomina il consiglio di gestione. Come
per Intesa Sanpaolo e Mediobanca, che l'hanno preceduta su questa strada, la
causale prima è stata la necessità di raddoppiare le presidenze
per favorire le nozze. Come tra i grandi della finanza, anche tra i
partiti-soci la ridefinizione delle regole non esaurisce i giochi di potere. Ma
la competizione tra i partiti-soci non impedisce al consiglio comunale di
approfondire la governance delle società municipalizzate attraverso la
consulenza non retribuita della Fondazione Civicum che da qualche anno, in
collaborazione con Mediobanca, analizza i bilanci e gli indici di efficienza
delle società comunali di Milano, Roma, Torino, Brescia, Napoli e
Bologna. Il presidente di Civicum, Federico Sassoli de' Bianchi, ha affidato
agli economisti Fulvio Coltorti, Francesco Giavazzi, Giulio Sapelli e
Marco Vitale la redazione di un documento sulla governance che è stato
positivamente giudicato sia al sindaco Letizia Moratti che dalla commissione
Affari Istituzionali del Palazzo Marino. Naturalmente, tra la buona educazione
e le decisioni dei politici ci può anche essere una distanza infinita,
ma la qualità degli estensori fa di questo testo un termine di paragone:
a Giavazzi, autore con Alberto Alesina di un fortunato Goodbye, Europe ,
si ispira il riformismo liberista, anche in Parlamento; Sapelli, già
consigliere di Eni e Unicredito e guida di Meta, l'ex municipalizzata di
Modena, nella fusione con l'Hera di Bologna, oggi è lo scomodo presidente
dell'Asam, holding di partecipazioni della Provincia di Milano; Marco Vitale
è vicepresidente della Popolare di Milano e amministratore, critico, di
Asm nonché di grandi imprese non quotate; Coltorti dirige R&S e l'Ufficio
studi di Mediobanca, e partecipa a titolo personale. Valore aggiunto Le imprese
comunali milanesi messe sotto osservazione da Civicum sono otto: Aem (energia
elettrica e gas), Amsa (igiene urbana), Atm (trasporti locali), Metropolitana
Milanese (ingegneria e acque), Milano Ristorazione (mense), Milanosport
(ricreazione e impianti), Sea (Malpensa e Linate), Sogemi (mercati annonari).
Tutte assieme, dati 2005, fatturano 4,8 miliardi con un utile netto di 347
milioni. Occupano 22 mila persone che generano un valore aggiunto pro capite di
85 mila euro l'anno, il più alto nella classifica dei sei comuni,
Brescia a parte perché nella reginetta del socialismo municipale (ancorché di
matrice cattolica) il valore aggiunto per dipendente si attesta a quota 174. Le
otto società per azioni del Comune capoluogo della Lombardia gestiscono
una spesa pari a 2,6 volte quella diretta del Municipio. I loro servizi hanno
dunque un peso rilevante non solo nella qualità della vita dei
cittadini, ma anche nella capacità di Milano di radicare le imprese già
attive nel territorio e di attirarne di nuove. Poiché sono di diritto privato,
queste società non possono rinunciare a una gestione che assicuri la
qualità richiesta al minor costo possibile. E però i quattro
economisti chiariscono che le imprese comunali possono anche non avere come
traguardo esclusivo la creazione di valore per gli azionisti nel medio-lungo
periodo, come invece è previsto dal codice di autodisciplina della
Borsa. Il Comune, in quanto rappresentante dei cittadini-azionisti, può
scegliere, per esempio, una composizione del capitale investito diversa da
quella di un fondo di private equity, perché ha in mente certi obiettivi di
investimento e non il rendimento a 3-5 anni. Ma l'economicità della
gestione resta un dovere. E per le società quotate in Borsa è pur
sempre possibile tenere conto del territorio di fronte a scelte equivalenti sul
piano economico. Il regime dualistico viene ritenuto il più adatto ad
assicurare dirigenze adeguate, perché pone un filtro tra gestione e tentazioni
spartitorie dei partiti. Il consiglio di sorveglianza, dunque, dà le
linee guida che esprimono la politica del Comune-azionista, e nomina il
consiglio di gestione, formato esclusivamente da manager, che avrà
dovrà attuare al meglio le scelte strategiche. Nel dibattito in
commissione, è stata citata a esempio ? con scoperta malizia non tanto
verso il settantottenne Renzo Capra, padre-padrone dell'Asm dei record, quanto
verso le banche ? la tedesca E.On dove i consiglieri di gestione si ritirano a
65 anni e quelli di sorveglianza, che non possono prestare consulenze a imprese
concorrenti né tenere ufficio presso la sede della società, non sono
eleggibili oltre i 70 anni. Sette regole La cruciale nomina dei consiglieri di
sorveglianza compete al sindaco, che a Milano si avvale anche di un comitato di
saggi per esaminare i candidati e stabilire gli eleggibili. I quattro
economisti suggeriscono sette integrazioni: 1) la metà dei nominati deve
essere indipendente; 2) il rinnovo dell'incarico è possibile previa
valutazione positiva del precedente mandato; 3) i saggi vengono eletti dal
consiglio comunale con maggioranza dei tre quinti; 4) alle loro riunioni
assiste un esponente della minoranza senza diritto di voto; 5) i verbali delle
riunioni vengono resi pubblici prima delle nomine; 6) vanno evitati i conflitti
d'interesse tra assessori e società comunali; 7) i curricula vanno resi
pubblici. Ma prima ancora di queste sette clausole, i quattro economisti
consigliano di dichiarare ineleggibili i politici. Anche senza insistere sui
danni provocati dal loro inserimento delle un tempo brillanti aziende a
Partecipazione statale, i politici rappresentano interessi di parte, mentre la
proprietà delle imprese e delle partecipazioni comunali appartiene
all'intera cittadinanza. La logica dei politici, del resto, non sempre collima
con l'efficienza dell'impresa. Questo invito alla distinzione dei ruoli
può avere un valore anche fuori da Palazzo Marino per quanti, nelle
grandi imprese, ritengono che i patti di sindacato, formati dai soci
eccellenti, e i consigli di sorveglianza, che rappresentano l'intero
azionariato, non siano ancora la stessa cosa. Vedremo se Coltorti, Giavazzi,
Sapelli e Vitale faranno scuola. Cartesianamente, i quattro si ispirano
all'equazione che, in un mercato perfetto, l'eccellenza della governance
stimola i migliori risultati nell'impresa. Ma, guicciardiniamente, si potrebbe
osservare che il mercato perfetto non esiste, e dunque anche governance non
edificanti possono generare ottimi profitti.
Da
non cattolica attenta a quel che fa Papa Ratzinger sulla scena mondiale e nello
spirito dell’Occidente, ho notato alcune sciocchezze dette negli ultimi giorni
sul ritorno alla messa in latino, il motu proprio.
La Messa in latino nessuno l'ha mai tolta. Il
Concilio Vaticano II non ha mai eliminato la Messa in latino, ma ha permesso
che venisse celebrata nelle varie lingue, e così è stato. Con
Paolo VI si fecero i nuovi messali, che contenevano le indicazioni del
rinnovamento liturgico conciliare, e tra queste c'era anche quello in latino,
che lo stesso Papa Giovanni Paolo II ha rinnovato con la «Editio typica» nel
2002. Ciò che non era più permesso usare era invece il messale,
il libro con le indicazioni di «rubrica», i gesti, i movimenti, le posizioni,
di Pio V. La riforma liturgica aveva infatti sfrondato molte cose, aveva
rivolto l'altare al popolo, aveva semplificato alcuni passaggi, anche se
sostanzialmente la Messa non cambiava.
Per usare il messale di Pio V era necessario uno
speciale indulto della Santa Sede. Perché? Dopo il Concilio, la corrente
contraria alle riforme, che riteneva questa svolta della Chiesa un danno, aveva
preso come paradigma proprio l'uso del messale di Pio V e della messa secondo
il vecchio stile «con le spalle girate», proprio per girare le spalle al
Vaticano II. Basti un nome: Mons. Lefebvre. Ciò che dice il documento di
Benedetto XVI è che chiunque lo desideri, può usare ancora il
messale di Pio V, senza dover chiedere l'indulto della Santa Sede. Tutto qui.
Il documento di Benedetto XVI va dunque letto come un
documento «moderno» e non come un'inversione di marcia: basta avere il coraggio
di guardare e di conoscere le cose prima di parlarne. Innanzitutto, dopo
quaranta anni dal Concilio, la corrente che si schierava e si dichiarava
totalmente contraria al Concilio Vaticano II si è ormai spenta: lo
spirito della riforma non viene intaccato. L'uso del messale di Pio V, invece
di quello di Paolo VI, in questi quaranta anni ha assunto una valenza
totalmente diversa: dall'essere gesto simbolico di rifiuto del Concilio
Vaticano, all'essere una rivalutazione della tradizione dentro lo spirito del
Concilio, affinché la ricchezza del passato non vada persa nella
modernizzazione. Questo Papa, da grande e fine teologo quale è, fa fare
un passo avanti a tutti, e a un livello profondo. Se la Messa è un
mistero, non ci si può perdere in una mentalità pop alla Harry
Potter. Non si può dire che con un determinato libro «di formule»
è valida, e con le formule vecchie invece l'incantesimo non funziona
più. La mentalità «magica» non ha nulla a che vedere con la
liturgia. Il mistero della presenza di Dio, per chi ci crede, è una cosa
molto più seria Questo è un grande passo all'interno della
Chiesa, perché chiude uno «scisma» che si era aperto dopo il Concilio: l'arroccamento
della tradizione contro lo spirito della riforma. Si rimettono le cose al loro
posto, e la modernità e la tradizione tornano a dialogare. Resta solo un
piccolo accenno, che sembra puramente di stile, ma in realtà è
portatore di una verità profonda. Oggi il pericolo più grosso
della Chiesa è esattamente opposto a quello del dopo-Concilio: è
la sciatteria mascherata da «rinnovamento conciliare», è la
banalità mascherata da modernità. Come ama dirmi un amico
sacerdote e intellettuale, perché le chiese «moderne» devono essere così
brutte, le chiese antiche così disordinate, e quelli che frequentano la
parrocchia devono presentarsi tanto male, così infagottati e dimessi?
Perché sacro è tanto spesso sinonimo di sdolcinato, la misura di
banalità, l'ordine di rigidità, la semplicità di noia?
Perché essere moderni vuol dire essere condannati alla sciatteria? Solo una
modernità che stia ben salda sulle sue radici, può guardare in
faccia il futuro. Attenti allora alle sottigliezze che va introducendo il
pianista Ratzinger, è molto più moderno di quanto sembri! Forse
non lo sarà come immagine, ma lo è come contenuto. Cosa serve di
più oggi alla Chiesa che deve sfidare i Mostri, l'immagine o il
contenuto?
Maria Giovanna Maglie
DAL
NOSTRO INVIATO BOSE - Chiederà consiglio a Prodi, certamente. Ma
"la sosta", i due giorni di ritiro nel monastero di Bose - che Enzo
Bianchi, il priore, definisce "un attimo per chiudere gli occhi e
ritrovarsi, ordinare i pensieri e calmare l'angoscia" - a Rosy Bindi sono
serviti "molto". Non scioglie ancora la riserva, se sfiderà
cioè Walter Veltroni per la guida del Partito democratico (lo
farà forse in settimana) ma il Manifesto-Bindi è già nato
qui, nella comunità monastica sulle colline piemontesi dove "i
fratelli e le sorelle" - età media sotto i quarant'anni - coltivano
una spiritualità non sganciata dalle cose del mondo, "in compagnia
degli uomini", come vuole la regola. Il Manifesto del ministro della
Famiglia potrebbe avere un titolo, almeno a sentire gli oltre cento "laici
credenti", convocati ad inviti dall'Associazione "Argomenti
2000" e che hanno partecipato al seminario sulla laicità e la
politica. Intitolarsi ad esempio, "la differenza cristiana nel Partito democratico".
Che ne ha tanto bisogno, ragiona la Bindi, perché non deve nascere
preconfezionato. E la laicità "non è forse nel Dna dei
cristiani, poiché il grande valore della distinzione tra potere politico e
potere religioso - date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che
è di Dio - non l'ha forse introdotta Cristo? "Se non li facciamo
dentro un monastero questi discorsi, quando li possiamo fare?", esordisce
l'incontenibile Bindi ricordando i Dico, la legge sui diritti dei conviventi di
cui è stata autrice (con la ds Barbara Pollastrini). "Quando ho
pensato a questo incontro ero angosciata per due parole che non-Dico...".
Ora che lo scenario è un altro, molti la incalzano per sapere se
scommettere sulla sua discesa in campo per il Pd. E lei risponde, a margine del
seminario in una vivace discussione che si protrae fino a notte contravvenendo
alla regola del silenzio: "Ci sono tutte le condizioni perché mi
candidi". Per il Partito democratico poi, "ci vuole un leader forte
ma non può essere un partito del leader". Lancia quindi un paio di
bordate su quel che pensa della Chiesa dell'epoca-Ruini: "Dobbiamo
lavorare per considerare una parentesi quella della Chiesa italiana di questi
anni. Va aperta una serena e giocosa correzione fraterna della Chiesa recente".
Stoccata quindi al clericalismo e a Savino Pezzotta: "Non può
essere Radio Maria che forma la coscienza dei cattolici, non per Radio
Maria ma per la sua strumentalizzazione". Platea tutta dalla sua. "Mi
ribello quando qualcuno vuole fare del Family day un movimento politico".
Ce n'è per tutti. "L'Italia della Costituzione è stata tale
perché aveva una classe dirigente che si poneva il problema di costruirlo
questo Paese, se lo poneva allora il presidente degli industriali...".
Come invece non se lo pone ora Luca di Montezemolo, è l'implicito
riferimento. Altro tassello del Manifesto di Bose. Insieme con le parole
d'ordine "contaminazione" delle identità, solidarietà,
no al discredito della politica e alla società corporativizzata.
Confronto serrato, che doveva volare alto, meditare seguendo la "preghiera
delle ore" dei fratelli di Bose, e che plana sulla politica e
l'attualità. Pierluigi Castagnetti, il vice presidente della Camera,
ulivista, e Marco Follini, l'ex leader Udc approdato saldamente nel centrosinistra,
cercano di convincere Bindi a non candidarsi. "Non c'è lo spazio
per una candidatura alternativa a meno che i Ds non sciolgano il blocco e si
riaprano i giochi. Ma Rosy è una testa dura", confessa Castagnetti.
Ugualmente per Follini "il discorso di Veltroni è stato
esauriente, non mi paiono esistere altri spazi". Poi la butta in battuta:
"Ho capito che alla fine vuoi candidare Franceschini". Ci pensa il
priore Bianchi a dire con semplicità cose complesse: "La Chiesa non
può calare i suoi principi dall'alto, non possono esserci ordini
apodittici. C'è molta afonia, poche le voci. I teologi sono
silenziosi". E quando la politica è debole "la religione,
tutte le religioni sono tentate di diventare lobby". Narra "la
portata eversiva del cristianesimo" e l'occasione persa a proposito della
legge sui diritti dei conviventi. Dalle riflessioni teoriche a quelle storiche
di Fulvio De Giorgi, alle provocazioni di Amedeo Piva, alle riflessioni di
Renato Balduzzi, presidente del Meic e consulente legislativo della Bindi. Al
vescovo di Pavia, monsignor Giovanni Giudici, cresciuto alla scuola di Carlo
Maria Martini, il compito di rispondere alle domande più ostiche:
"Monsignore, spiegami: perché devo essere un reazionario per andare in
chiesa?",.
ROMA. L'apertura del
mercato elettrico europeo per i clienti domestici è partita e arriva
l'incoraggiamento di Bruxelles: ora i cittadini potranno scegliere il
fornitore. In Italia, il provvedimento riguarda un bacino potenziale di circa
27-28 milioni di utenze che adesso potranno scegliere il fornitore ed
eventualmente cambiarlo in un momento successivo, ad esempio se i servizi resi
non fossero all'altezza delle aspettative. Ma con l'entrata in vigore delle
nuove regole Ue per la liberalizzazione del mercato, Bruxelles intende
spingere sull'acceleratore per rimuovere gli ostacoli "tuttora
esistenti" per la realizzazione di un vero mercato energetico europeo che
porti reali benefici alle famiglie. "Incoraggio i consumatori europei - ha
detto il commissario Ue all'energia Andris Piebalgs - ad approfittare
della libertà di scegliere i loro fornitori. Un mercato europeo
dell'energia può funzionare solo se i consumatori vi partecipano
attivamente. Ma - ha riconosciuto - ci sono ancora ostacoli per la
realizzazione di un mercato interno veramente competitivo. Per questo la Commissione
continuerà a sorvegliare sulla corretta applicazione delle regole in
vigore e proporrà presto ulteriori misure legislative". Per
rafforzare i diritti dei consumatori e la loro corretta informazione, Bruxelles
ha già annunciato per il prossimo 5 luglio anche il lancio di una
"Carta europea per i diritti dei consumatori di energia". In Italia
intanto sono già arrivate alcune offerte tariffarie da parte delle
società del settore: più che su reali sconti si gioca su
promozioni, pacchetti orari di energia gratuita ed offerte combinate di
elettricità e gas, il cosiddetto dual-fuel.
(AGI) - Roma, 1 lug. - Scatta oggi l’obbligo di certificazione energetica anche per i vecchi edifici
immessi sul mercato immobiliare. Gia’ dal primo gennaio scorso il certificato energetico e’ una condizione
indispensabile per ottenere le agevolazioni fiscali per ristrutturare edifici
in funzione di una maggiore efficienza energetica, ma da oggi diventa
obbligatoria anche per i vecchi edifici e per quelli superiori a 1000 metri
quadrati, nel caso di compravendita.
La certificazione energetica stabilisce il livello di consumo energetico di un
immobile ed e’ redatta
da soggetti terzi. Le integrazioni da oggi operative consentono di evitare il
possibile rinvio dell’Italia
alla Corte di giustizia europea e le eventuali sanzioni economiche che ne
potrebbero derivare. Con l’attuazione
del decreto, il ministero dello Sviluppo Economico si aspetta una spinta del
mercato verso edifici a basso consumo di energia, una riduzione della bolletta
energetica, uno sviluppo dell’industria
sul fronte della bioedilizia e la conseguente ricerca scientifica, e un
incremento occupazionale. L’obiettivo
e’ la riduzione dei
consumi di energia e delle emissioni di anidride carbonica per facilitare il
raggiungimento dell’obiettivo
di Kyoto.
La normativa stabilisce che gli edifici immessi nel mercato immobiliare
dichiarino il proprio consumo energetico, prevedendo tempi piu’ stretti per adeguare le costruzioni
a livelli di isolamento termico efficaci. La proposta e’ ambiziosa: entro il 2010 intende
ridurre le dispersioni termiche nei nuovi edifici di un ulteriore 20%. Per
raggiungere questo obiettivo, viene imposto nei nuovi edifici che l’acqua domestica venga
riscaldata con l’energia
solare e che si collochino protezioni solari esterne per contenere il ricorso a
condizionatori. Il prossimo anno, a partire dal primo luglio, lo stesso obbligo
sara’ allargato agli
edifici sotto i 1000 metri quadrati, mentre dal 1* luglio 2009 l’attestato di efficienza
energetica diventera’
obbligatorio anche per la compravendita del singolo appartamento.
In un prossimo futuro, gli stessi annunci immobiliari potrebbero segnalare la
classe di risparmio energetico degli appartamenti e degli edifici, cosi’ come gia’ accade con le classi di
consumo degli elettrodomestici. (AGI)
Red/Mot
Il
Giornale 1-7-2007 Sessant'anni di persecuzioni e clandestinità
La vigente legge elettorale, partorita dal centrodestra agli
sgoccioli della passata legislatura per far contento (nomen omen) Marco
Follini, è l’esatto contrario di Genoveffa la Racchia. A chiacchiere
nessuno la vuole, però quasi tutti se la tengono cara cara. Per forza,
è partitocratica per eccellenza: conferisce alle segreterie politiche di
elevare al rango di deputato e senatore, se punge loro vaghezza, perfino un
cavallo. Ma sì, il proverbiale cavallo di Caligola.
Sarà per questo che i diretti interessati
sorvolano su tale trave, mentre se la prendono con una pagliuzza che non
è neppure tale. Sostengono infatti che la legge non assicura la
stabilità ministeriale. Come proverebbero i risultati elettorali dello
scorso anno e la risicata maggioranza della quale il governo Prodi gode (si fa
per dire) al Senato. Ma questo è un falso bello e buono. Nessuna legge
elettorale può garantire la governabilità finché avremo un
bicameralismo paritario ed elettorati attivi di diversa consistenza nei due
rami del Parlamento. Ma allora perché mai si fa un gran parlare di riforme
elettorali più o meno salvifiche? Per il semplice motivo che il
professor Giovanni Guzzetta, diavolo d’un uomo, ha ritenuto opportuno fare il
bis, dopo lo strepitoso successo ottenuto nel 1993. Quando tenne a battesimo un
altro referendum elettorale. Che relegò in soffitta la proporzionale e
il tripolarismo. Tolse di mezzo una democrazia consociativa, ma al tempo stesso
bloccata. E, grazie al maggioritario, ci dischiuse le porte dell’agognato
Paradiso del bipolarismo. All’italiana, si capisce. Ma pur sempre meglio di
niente. Moderato di centro o giù di lì, Guzzetta non si considera
affatto un eversore. Non ha mai preteso di indossare i panni del pubblico
ministero e accusare la classe politica d’inconcludenza. Quando capi, capetti e
caperonzoli della nostra partitocrazia hanno sostenuto che dopo tutto questo referendum
non è altro che uno stimolo al Parlamento perché faccia la sua parte,
lui, Guzzetta, non ha fatto una piega ed è stato al gioco. Un confetto
Falqui la sua creatura? E sia, purché si sgombri il campo da questa legge. E si
muova un altro passo avanti verso l’ex perfida Albione. Perché l’ambizione di
Guzzetta è per l’appunto quella di sostituire il bipolarismo con il
bipartitismo di marca britannica grazie al premio di maggioranza conferito non
più alla coalizione vincente ma al partito più votato.
Nel frattempo l’ammuina va in scena alla commissione Affari
costituzionali del Senato. I disegni di legge sono diciotto: una follia. Si
procede in ordine sparso. E il presidente Enzo Bianco nella veste di relatore,
povero Cristo, non è ancora riuscito a sfornare uno straccio di testo
base. A complicare le cose, poi, la senatrice Anna Finocchiaro ci ha messo del
suo. Per conto dell’Ulivo ha presentato un disegno di legge favorevole al
doppio turno alla francese. Con il risultato di scontentare amici e avversari:
la sinistra radicale, contraria al maggioritario, e la Casa delle
libertà, contraria al doppio turno. Insomma la capogruppo dell’Ulivo
è riuscita - quando si dice il genio - a conseguire l’unanimità
dei dissensi. A questo punto se i promotori non riusciranno a raccogliere le
cinquecentomila firme richieste per il referendum abrogativo, in Parlamento si
continuerà a tessere la tela di Penelope. E la legislatura bene o male
continuerà, magari con un nuovo governo. Se invece le firme saranno
raccolte, si voterà nella primavera dell’anno prossimo: o per il
referendum o per il rinnovo delle Camere. Perché lo scioglimento parlamentare
farebbe slittare il referendum di uno o addirittura di due anni. E
quest’ultima, al momento, è l’ipotesi più probabile. Sempre che,
ripetiamo, arrivino le firme: tutte, benedette e subito.
paoloarmaroli@tin.it
da Milano
La nostra inchiesta sugli affari tra politica locale
e finanza passa per le stanze eleganti di un notaio di Milano. Le nostre
ricerche ci hanno fatto mettere il naso su un mercato che vale centinaia di
milioni, che in modo poco trasparente, passano da Comuni e Regioni a grandi
banche internazionali. Il nostro notaio si chiama L.T. e riceve il testamento
di chi scrive, con data certa, 14 novembre 2005. Poche righe: «Il sottoscritto
Nicola Porro conosce in anticipo i vincitori della gara di selezione di un
arranger per operazioni finanziare indetta dalla Regione Piemonte: Merrill
Lynch, Opi-SanPaolo e Dexia».
L’esito. La gara si chiude il giorno dopo. Passano
sei mesi e arriva la delibera della giunta di Mercedes Bresso e annuncia quello
che in molti, e chi scrive, sospettavano: le carte della gara erano segnate. A
vincere sono le tre banche indicate nel testamento, nonostante la lista degli
invitati fosse lunga. Il filo rosso che lega questa emissione da 2 miliardi di
euro alle precedenti storie di Bassolino&Co sono i fratelli Pavesi. La
Regione Piemonte (documento protocollato 36718\9) nell’invitare Merrill Lynch a
partecipare alla gara invia un fax proprio a Napoli a Gianpaolo Pavesi, quasi
fosse egli stesso il legale rappresentante di Merrill Lynch in Italia. La gara
per questa obbligazione da due miliardi parte male, malissimo. Non solo perché
si fa una gara con dei vincitori già scelti, ma perché in pochi
sentivano in Regione l’esigenza di un nuovo bond. Certo i Pavesi e Merrill
Lynch erano molto ben conosciuti a Torino. Bresso li aveva già
utilizzati per una serie di rifinanziamenti in provincia, quando la signora ne
era presidente. Ma in Regione affari zero. E soprattutto alla direzione
Bilancio della Regione Piemonte vi è un gruppo di funzionari
galantuomini, poco avvezzi alla finanza innovativa e ancor di più ad
operazioni costose per i contribuenti.
Il bond Mps. La nostra storia va avanti. La giunta
decide per le tre banche. La struttura dell’assessorato al Bilancio si mette,
per quanto possa, di traverso. C’è infatti un nodo da sciogliere: i
mutui in essere sono a tassi così competitivi che diventa ben difficile
spiegare per quale motivo essi debbano essere sostituiti con il nuovo bond
. Il Monte dei Paschi infatti aveva erogato, in quattro tranche,
prestiti ad un tasso di interesse ottimo: l’euribor a sei mesi (è il
tasso che si applicano le banche quando si prestano i soldi tra di loro, nda)
meno un punto base. Imbattibile. Alla fine l’affare si farà ma un tasso
di interesse superiore e cioè «Euribor flat» (un punto base in
più rispetto ai mutui Mps). Ma la legge è salva. Infatti la
Regione riesce a piazzare un’infinitesimale tranche delle sue obbligazioni, 56
milioni di euro, alle due Fondazioni bancarie di Torino e a quella di Cuneo, in
parte controllate proprio dagli enti locali e dalla politica. Alle Fondazioni
si vendono bond della durata di sette anni con l’obbligo di non cederli almeno
per quattro. Una complessa struttura fiscale che permette all’emittente, e
cioè la Bresso, di portarsi a casa un credito di imposta del 12,5%. E
così giustificare da un punto di vista strettamente di cassa un piccolo
risparmio finanziario. Quando il 17 novembre del 2006 l’assessore al Bilancio,
Paolo Peveraro (prima con ruolo simile alla città di Torino) da Londra
si collega con Mercedes Bresso in videoconferenza a Torino è un tripudio
di reciproci complimenti: l’operazione partita con una gara pubblica
esattamente un anno prima si è felicemente conclusa.
La stangata. Non altrettanto si può dire per i
contribuenti torinesi. Che pagheranno caro questo esercizio di finanza. I maghi
dell’affare sono due abilissimi banchieri di Merrill Lynch, Daniele Borrega e
Antonio Miele (che ora si è trasferito in Nomura). Tra la delibera del
prestito del 2 agosto del 2006 e il lancio, riescono ad ottenere la formula
«bullet» (il capitale viene restituito tutto in unica soluzione alla scadenza
trentennale, nda) e il connesso e obbligatorio fondo di ammortamento (i famosi
sinking fund oggetto della nostra seconda puntata e generosi elargitori di
quattrini per le banche che li gestiscono). Nonostante la delibera di giunta
del 2 agosto prevedesse come forma prioritaria una modalità di rimborso
«secondo un piano di ammortamento», Miele e Borrega spiegano a settembre, quando
il prestito era già stato annunciato, la «necessità, per andare
in contro al mercato», di adottare invece il «rimborso in unica soluzione a
scadenza». Il sinking fund è, semplificando di molto, così
composto: gli 1,8 miliardi di euro di capitale da restituire sono divisi in tre
periodi, nei primi dieci anni verranno accantonati nel fondo fino a 10 milioni.
Nei secondi 10 anni verranno accantonati fino a 100 milioni. E poi nell’ultimo
decennio le giunte dovranno recuperare tutte le risorse necessarie per arrivare
a 1.800 milioni. Una botta per le generazioni che verranno. Sarebbe
interessante vedere quali derivati ci siano nel fondo. Secondo la denuncia di
un ex trader di Nomura nel sinking fund della Regione Liguria retta da Claudio
Burlando per un bond da 200 milioni di euro c’era un prodotto derivato (un
credit default swap, nda) che ha regalato extraprofitti per la banca giapponese
vicini ai 20 milioni. Il 10% del bond. Non sarà il caso piemontese, ma
è bene indagare.
(4. Continua)
30/6/2007 (8:47) - L'ASSASSINIO IL 22 NOVEMBRE 1963
La perizia della ditta
italiana che produsse l’arma del delitto.
Oswald non può aver colpito Kennedy da quella distanza perciò non
era l’unico killer VINCENZO TESSANDORI
La verità esiste, solo il falso dev’essere inventato diceva
il pittore Georges Braque. La verità è che quel 22 novembre 1963,
un venerdì nero pece, venne teso un agguato mortale a John Fitzgerald
Kennedy, 46 anni, trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti, cattolico e
ricco. Gli spararono mentre su un’auto scoperta percorreva un viale alberato a
Dallas, in Texas. Con un fucile di precisione Carcano modello 91/38 matricola
C2766, calibro 6.5, prodotto dalla Regia fabbrica d’armi di Terni. Forse
è stato inventato, dunque è falso gran parte di quanto è
stato detto, scoperto, raccontato in seguito sul complotto che «sconvolse il
mondo» tanto che la radio sovietica sospese i programmi e concluse le
trasmissioni del giorno con una marcia funebre. Mafia, servizi cubani,
traditori: chi il colpevole?
La commissione presieduta dal giudice Earl Warren
stabilì che furono esplosi tre colpi in 7 secondi: un test compiuto nel
poligono di Terni sotto la supervisione di ufficiali dell’esercito, informa
l’Ansa, ha stabilito che quel fucile può spararne uno ogni 5.
Conclusione: è stata raggiunta la prova che almeno un altro fucile fece
fuoco. Chi lo imbracciava?
Allora venne catturato un ex marine di 24 anni, Lee
Harvey Oswald, uno senza arte né parte, si disse, poi gli vennero scoperte
troppe arti e troppe parti, una, soprattutto, inquietante: secondo Waggoner
Carr, consulente legale della commissione Warren, dal 1962 all’assassinio del
presidente, Oswald sarebbe stato agente segreto dell’Fbi con una paga mensile
di 200 dollari. Dissero che aveva sparato da una finestra al sesto piano di un
deposito di libri. Un proiettile attraversò la gola di JFK, che con la
moglie Jacqueline occupava il sedile posteriore, e poi colpì il
governatore John Connally, seduto davanti. Quella pallottola, trovata intatta
sulla barella di Connally, venne definita magic bullet. Il secondo
centrò al capo il presidente e lo uccise. L’ultimo fallì il
bersaglio, forse ferì un passante.
Impossibile, si sottolinea, che colpite due persone,
una pallottola sparata da 80 metri rimanga intatta come il magic bullet: nel
test di Terni, autorizzato dal Comando Logistico dell’Esercito, è stato
fatto fuoco contro due blocchi di carne e il proiettile ne è uscito
deformato. Non solo, ma se avesse centrato la testa del presidente il Carcano
calibro 6.5 l’avrebbe passata da parte a parte: al contrario, non venne trovato
foro d’uscita. Spiegazione degli esperti Usa? Il proiettile si è
disintegrato. Possibile? A questo mondo tutto è possibile, ma a Terni
sostengono come un fenomeno del genere «assai raro con le pallottole standard
del Carcano» possa verificarsi se «i proiettili sono stati incisi da mani
esperte». Allora, un secondo uomo. Accovacciato sotto un albero della grassy
knoll, a 30 metri dal corteo presidenziale, avrebbe fatto fuoco lui e lo
scempio sul corpo del presidente sarebbe compatibile con il tipo di proiettili
rinvenuti.
E c’è un altro fatto singolare: da un
documento del Sifar, come allora si chiamava il nostro servizio segreto
militare, la commissione Warren avrebbe ricavato la convinzione che il Carcano
modello 91/38 fosse un pezzo unico. Ma dagli archivi americani spunta un
dispaccio inviato a Washington dagli agenti Cia a Roma secondo cui Giulio
Andreotti, ministro della Difesa, commissionò al «Depatron Service» un
rapporto sul Carcano di Dallas. E il documento conterrebbe notizie differenti
da quelle sostenute nel rapporto Warren. L’informativa è siglata da
William K. Harwey, capo della Cia in Italia, per anni cervello dell’Executive
Action, creato a Langley per programmare l’eliminazione di leader stranieri:
nella lista Trujillo, Lumumba, Fidel Castro. Evidentemente JFK non approvava
tali sistemi e, pochi mesi prima dell’attentato, mister Harwey era stato
«esiliato» a Roma.
Un altro punto non chiaro è come fosse finito
nella mani di Oswald il fucile Carcano. Forse lui lo avrebbe raccontato, ma
venne freddato da tale Jack Ruby, uno borderline col codice penale, morto
più tardi, per malattia. Ma sì, in fondo «la verità
esiste».
PARIGI
E pensare che il suo presidente, Nicholas Sarkozy, sempre così charmant con
il gentil sesso, ha appena chiamato a compiti di governo Fadela Amara,
fondatrice del movimento «Ni putes ni soumises». In verità Patrick
Devedjian, segretario generale delegato dell’Ump, alla signora Anne-Marie
Comparini non ha nemmeno detto pute, che sarebbe francese da vocabolario, ma
l’ha chiamata salope. Il significato cambia poco, forse appena meno sessuale e
molto più sprezzante. Tuttavia, il termine tradisce una imbarazzante
dimestichezza con gerghi assai poco istituzionali. Più adatti a una serata
al bar fra uomini soli che all’arrivo dei nuovi deputati di Lione all’Assemblea
nazionale.
Certo non immaginava Patrick di essere ripreso in tempo reale dalle telecamere
di Tlm, una tv privata lionese, quando si è felicitato a modo suo con il
collega Michel Havard, diventato neo parlamentare dell’Ump dopo aver battuto,
appunto, la suddetta «salope» alle legislative. Lei, esponente del Movimento
democratico e assai poco «pute» in realtà, essendo stata fra i
pochissimi rimasti fedeli all’astro tramontato di Bayrou dopo la fuga di massa
verso l’Ump, l’ha presa maluccio. Poi l’ha buttata, saggiamente, in politica:
«Come si può, nel nostro Paese, creare la cultura del dibattito, se si
parla così di chi difende valori diversi».
Lo scandalo, acceso dal filmato prontamente diffuso dalla tv e propagato dai
siti internet, è divampato. Segolene Royal ne ha subito approfittato per
una telefonata di solidarietà all’offesa da donna a donna, il caso
è montato Alla fine, a Sarkozy è toccato usare parole dure per
l’avvocato Patrick Devidjan, uno dei suoi, un fedelissimo, al governo con lui
dal 2002. «Non è questo un modo di parlare nè alle donne,
nè a nessun altro», ha scandito. Precisando che, però, il
colpevole si era scusato. In effetti, Patrick si è scusato. Ripetutamente.
Con la Comparini - rinnovandole «tutta la sua stima e la sua amicizia» -, con
la Francia, con il mondo. «Non sono maschilista», ha assicurato ai giornalisti,
riservandosi tuttavia una frecciata contro «le immagini rubate durante una
conversazione privata».
Non lo scusa il ministro della Giustizia, Rachida Dati. «È intollerabile
che si possa qualificare così una donna, politica o no», ha detto, non
escludendo del tutto l’ipotesi di un provvedimento nei suoi confronti. A
proposito. Proprio Rachida è stata all’origine del primo dissapore
sorto, dopo anni di idillio, fra Patrick e Nicholas. Perché al ministero ci
voleva andare lui, ma Sarkozy, che di certo non è maschilista, gli ha
preferito la sua ex portavoce. Forse accendendo la scintilla di quell’esasperazione
che, di lì a poco, gli sarebbe stata fatale?
Roma La comunità cattolica cinese ha sofferto una prima
persecuzione negli anni '50, con l'espulsione dei vescovi e dei missionari
stranieri, l'imprigionamento di quasi tutti gli ecclesiastici e dei
responsabili dei vari movimenti di laici, la chiusura delle chiese e
l'isolamento dei fedeli. Risale alla fine degli anni '50 la creazione degli
organismi statali quali l'Ufficio per gli Affari Religiosi e l'Associazione
Patriottica dei Cattolici Cinesi, con lo scopo di guidare e "controllare"
ogni attività religiosa. Nel 1958 avvennero le prime due ordinazioni
episcopali senza il mandato papale. Nel decennio 1966-1976, la
"rivoluzione culturale" coinvolse violentemente la comunità
cattolica, colpendo anche quei vescovi, sacerdoti e fedeli laici che si erano
dimostrati più disponibili verso le autorità governative. Negli
anni '80, con le aperture di Deng Xiaoping, ha avuto inizio un periodo di
tolleranza religiosa con qualche possibilità di movimento e di dialogo,
che ha permesso la riapertura di chiese, seminari e case religiose, e una certa
ripresa della vita comunitaria. Ancora una volta, il sangue dei martiri era stato
seme di nuovi cristiani: la fede era rimasta viva nelle comunità. Il
nuovo clima non mancherà, però, di suscitare diverse reazioni
all'interno della comunità cattolica. Alcuni vescovi, non "volendo
sottostare a un indebito controllo" da parte dello Stato, hanno
dato vita a comunità clandestine e si sono fatti consacrare di nascosto
per garantire la trasmissione della fede e dei sacramenti. Il Papa nella
lettera spiega che la clandestinità "non rientra nella
normalità della vita della Chiesa" e auspica quindi che questi
vescovi siano riconosciuti. Sono quindi subentrate divisioni e tensioni tra le
comunità clandestine e quelle ufficiali, che avevano accettato il
riconoscimento e il controllo statale. Un dato significativo è quello
dei numeri: i cattolici nel 1948 erano più di tre milioni. Oggi
sono stimati tra gli otto e i dodici milioni.