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FEBBRAIO 2007”
INDICE 1/15 APRILE 2007
La
Repubblica LA STORIA Codice Vespucci. Vittorio Zucconi
L’Arena
di Verona 15-4-2007 "La Turchia resterà laica" Manifestazione
ad Ankara
Sarebbe facile, ma ingeneroso, soprattutto ora che il segretario
dei Ds Piero Fassino è criticato nel suo stesso partito, ironizzare
sulla questione del Pantheon, l'insieme di illustri padri nobili che dovrebbe
dare un pedigree al costituendo Partito democratico. è più utile
riflettere su ciò che l'idea del Pantheon rivela, sulla
difficoltà della politica italiana di istituire un rapporto non tortuoso
con il passato e, per conseguenza, con il futuro. In altri luoghi
dell'Occidente ci sono culture politiche nelle quali i riferimenti al passato
sono patrimonio condiviso. Il richiamo ai "padri fondatori" serve
solo come espediente retorico per accendere l'orgoglio patriottico o di
partito. Se il passato è fonte di condivisione anziché di divisione, ne
consegue anche che le contrapposte identità politiche non possono
definirsi in rapporto ad esso: devono definirsi in rapporto al futuro, alle
diverse idee di futuro. Non vale la regola: dimmi il tuo patronimico, dimmi di
chi sei figlio, e saprò chi sei. Vale la regola: dimmi (con precisione,
senza menare il can per l'aia) cosa farai e saprò chi sei. Tutto il
contrario in Italia. Qui la memoria è divisa. Qui ci si fa la guerra
tuttora sui nomi di Craxi, di Berlinguer o di Togliatti. Pertanto, la
strumentalizzazione della storia e delle sue interpretazioni da parte della
politica arriva spesso al parossismo. Le identità politiche tendono a
definirsi in rapporto al passato anziché al futuro. Ci si aggrega contro
qualcun altro usando il passato (diviso) come fonte di identità. Una
conseguenza è che si è esentati dal dover essere troppo
dettagliati sul futuro, su ciò che si intende fare. Certo, giocano
anche, nel caso specifico, le particolarità dei Ds: il loro rapporto
nevrotico con la (loro) storia, gli sforzi, che durano da quindici anni, di
quadrare il cerchio, rivendicando sia la rottura che la continuità con
il passato. Si è visto però che questo gioco delle memorie divise
e delle identità declinate al passato fa ancora presa soprattutto sulla
classe politica e connessi (militanti, sistema dell'informazione politica,
eccetera). Meno, o sempre meno, sugli elettori. è stato
Berlusconi a farcelo capire. Solo a un outsider totale come lui poteva infatti
venire in mente di definire la propria identità politica in rapporto al
futuro anziché al passato - il "contratto con gli italiani", la
promessa di tagliare le tasse - suscitando scandalo anche per questo, ma
ottenendo un travolgente successo (mentre quando ha provato a richiamarsi a De
Gasperi è stato molto meno credibile). Dopo che Berlusconi ha
spezzato il cerchio, continuare a declinare al passato le identità
rischia di essere suicida. Il Partito democratico non sarà una impresa
vitale se non saprà districarsi dai lacci del passato, se non
saprà costruire la propria identità in rapporto al futuro. Ma qui
c'è anche l'inghippo. Qualche vera presa di posizione (circostanziata,
non generica) sulle scelte future darebbe al nuovo partito "più
identità" di qualunque riferimento al passato ma lo dividerebbe
subito, drammaticamente: si tratti della collocazione in Europa, delle
questioni che oppongono laici e cattolici, o di eventuali proposte
innovative in campo economico destinate a suscitare le ire di un sindacato
iperconservatore. Eppure, senza passare da quel collo di bottiglia non ci
sarà una nuova identità. E serviranno a poco le operazioni
nostalgia.
Così l'Italia "emigra" verso Nordest e Nordovest
La caccia alle Regioni autonome dove i privilegi sono maggiori Conseguenza
è un aumento generalizzato e consistente dei costi di bilancio
Più delle identità del territorio contano gli interessi
particolari e logiche politiche L'istituzione di nuove Province avviene dopo un
gioco di scambi fra i partiti nazionali (SEGUE DALLA PRIMA P
Esattamente cinquecento anni fa il geografo Martin WaldseemÜller
disegnava e battezzava la "terra incognita" scoperta a occidente.
Salvo poi pentirsene e avviare una querelle che dura ancora oggi Amerrik era
una catena di monti dell'odierno Nicaragua, gli indiani Algonquin chiamavano la
loro terra Em-merika, e c'è un Ommerika nella lingua vikinga per
definire lontane lande a Nordovest
Washington America. Il nome
scivola sulla lingua come lo scafo di una caravella sulle acque del Caribe,
canta con una gentilezza musicale che soltanto l'italiano sa generare. Lo fa da
cinque secoli esatti, dal giorno 25 aprile 1507 quando un cartografo tedesco,
Martin WaldseemÜller, letteralmente Martino "Il mugnaio del lago nel
bosco", immaginò quel nome e lo stampò per la prima volta su
una striscia di terra intravista da Colombo e poi da Vespucci, agli estremi
confini occidentali del mondo. E se non sono stati sufficienti cinque secoli
per placare le discussioni sulle origini del nome, sull'autenticità
delle lettere di Amerigho, o Amerrigo, o Alberigo Vespucci a Piero de' Medici,
per sedare le rivendicazioni di studiosi anticolonialisti, nazionalisti,
terzomondisti, revisionisti o soltanto invidiosi fradici, quella "mappa
mundi" oggi conservata alla Libreria del Congresso di Washington è
ormai definitivamente, irreversibilmente, il certificato di battesimo. Non
v'è certezza assoluta, tra ipotesi, tracce, reperti, su chi per primo
toccò quelle terre navigando da Est. Ma se non sappiamo chi
scoprì l'America, sappiamo chi la inventò: Martino il Mugnaio del
Lago nel Bosco. La storia di come quella enorme massa continentale - che copre
il trenta per cento di tutte le terre emerse, eppure era rimasta
sostanzialmente ignota per quasi diecimila anni a tutti coloro che non ci
fossero arrivati a piedi dagli altipiani asiatici, come gli Inuit, gli
Iroquesi, gli Anasazi, i Maya, i Toltechi, gli Aztechi - sia stata battezzata
con il nome di un fiorentino mandato in Spagna per l'allestimento di navi,
è un romanzo che sa di complotti e di segreti e forse di inganni. Una
storia "nel nome dell'America" che profuma di conventi, di abbazie,
di documenti falsi, di salsedine, di vento, di ambizioni umane, di muffa, e
dell'inchiostro spalmato sui blocchi di legno inciso che il "Mugnaio"
usò per tirare mille copie della mappa che cambiò per sempre
l'anagrafe della Terra. Ma odora soprattutto di quell'elemento impalpabile,
immateriale e invisibile che indirizza tanto spesso il viaggio della conoscenza
e quindi della storia. Il Caso. Oggi - quando per decidere la toponomastica di
un vicoletto insignificante in una qualsiasi cittadina si devono attendere
anni, riunire commissioni e consigli comunali, ottenere nullaosta, sentire
esperti, mercanteggiare tra fazioni e partiti - ci sembra incredibile che
un'enormità storica come battezzare un continente che occupa un terzo
delle terre e occuperà poi l'intera storia del mondo possa esser dipeso
dall'umore, dal ghiribizzo, dalla decisione casuale di un solo individuo,
chiuso nell'abbazia di San Deodato, oggi Saint-Dié-des Vosges, in Lorena. Ma fu
esattamente così. Quando Martin il geografo - o meglio il
"cosmografo", come modestamente si considerava, che pare avesse una
passione per cambiare i nomi e aveva cambiato anche il proprio, da quello del
villaggio natale, Radolfzell, a quello che si era attribuito, WaldseemÜller -
lesse i quattro resoconti inviati da Vespucci ai Medici di Firenze con il
racconto dei suoi viaggi dalla Patagonia fino alle spiagge caraibiche del
Nicaragua di oggi, decise di scegliere il nome dell'autore, Amerigus.
Ovviamente e correttamente, scrivendo Martin in latino, lo declinò al
femminile, trattandosi di terra: "America". Con la leggenda sotto:
"Provincia invenita est per mandatum regis Castelle" (sic), la
provincia scoperta per mandato del re di Castiglia. Con la punta di un bulino
sui blocchi legno usati per stamparlo tagliò così, per le future
generazioni, la diatriba che già era cominciata, appena quindici anni
dopo il primo viaggio di Colombo e appena un anno dopo la sua morte, con coloro
che avrebbero preferito, nel segno della primogenitura, chiamarla Colombia.
Forse un castigo severo e un'amarezza risparmiata al genovese, ostinato fino
alla fine nella persuasione di non avere affatto toccato una "terra
incognita", ma il lembo più orientale delle Indie, dunque d'Asia.
Peccato che il gossip, il passaparola del Sedicesimo secolo e i pettegolezzi di
frati e cartografi avvertissero anche allora, così come farà la
storiografia moderna, che quei quattro racconti erano apocrifi, opera di
falsari decisi a sfruttare la popolarità internazionale di quei
navigatori e delle loro sensazionali imprese, specialmente quelle di Vespucci
che stava vendendo molte più copie del suo Novus Mundus di quante
l'amico e rivale Colombo avesse venduto. Soltanto due lettere a Piero de'
Medici sono oggi riconosciute come autentiche, ma il dubbio di avere avuto
troppa fretta nel voler essere il primo a fare lo scoop del battesimo di un
continente nuovo e di avere preso un granchio epocale attribuendolo al toscano,
dovette raggiungere anche i Vosgi e la chiesa di San Deodato. Dopo la tiratura
iniziale di mille copie della mappa allegata al trattato Cosmographiae
Introductio, andate rapidamente esaurite e diffuse in tutta l'Europa che
sapesse leggere, nella seconda edizione si autosmentì e ritirò il
nome. Sconfessò la propria invenzione, cancellò America, e si
affidò a un burocratico e prudente "Terra Incognita" stampato
sopra quella lingua di terra. Ma era già troppo tardi. Senza
comunicazione istantanea, cellulari, talk show o banda larga, quel nome aveva
raggiunto e contagiato tutta l'Europa del Rinascimento che contasse, tutti
coloro, diremmo oggi, che facevano opinione. Si era abbarbicato per sempre alle
terre sfiorate da quelle caravelle che avevano definitivamente
"scoperto" l'America e spalancato le sue terre alla ingordigia di una
civiltà onnivora e invadente, la nostra. Fu come se anche quel nome non
fosse stato inventato ma, proprio come le terre toccate, soltanto scoperto.
Come se fosse stato sempre lì, da millenni, in attesa di essere trovato.
Uno strano animale mitologico niente affatto "nuovo", come lo
chiameranno Vespucci e poi tutti gli Europei nella loro sconfinata presunzione
eurocentrica, quasi non fosse mai esistito prima, un ippogrifo addormentato in
quelle sierre del Nicaragua dove, lontano dalle spiagge dei primi incontri con
l'"homo caucasico" venuto dal mare, qualcuno aveva già
battezzato una catena con il nome di "Amerrìk": i monti del
vento che soffia forte. Amerrik? Secoli prima che vi arrivasse Amerigo e che il
cosmografo in un abbazia della Lorena inventasse quel nome? Una coincidenza o
un plagio senza pari, un altro furto tra i milioni di spoliazioni che i seguaci
delle rotte di Colombo e Vespucci avrebbero compiuto? E come avrebbe potuto il
nome di una popolazione di montagna nel ponte di terra centrale fra sud e nord,
appunto gli Amerrìk o Amerìques secondo la successiva grafia
spagnola, dal Nicaragua arrivare fino a un'abbazia nei Vosgi, oltre un oceano
che allora pareva immenso, fino alla tipografia di un cartografo ambizioso e
immaginoso ma serio, quando i contatti con gli indigeni erano stati rari,
superficiali e senza interpreti? Si scopre, o si immagina di scoprire, che
Vespucci stesso non si chiamava affatto Amerigo, ma era nato come Alberigo,
nella sua Firenze, diventando poi Americius, addirittura Amerricius, con due
"r", alla fine della vita, solo dopo i suoi viaggi e la sua fama,
quasi avesse voluto assimilare il proprio nome a quello che aveva sentito
portare fino alla costa dal "vento che soffia forte" giù dalle
montagne degli Amerrìk, nella terra incognita? E rubato. Si spalancano a
questo punto portali di dubbi, di rivendicazioni, di rancori anti-imperialisti
e, in Europa, anti-italiani, attizzati da pubblicisti, antiquari, romanzieri, pataccari,
dolenti organizzazioni di amerindi perennemente in collera contro quei
maledetti avventurieri italiani che scoprirono in realtà, più che
un continente, il modo e le rotte per arrivarci, seguendo i venti del
commercio, i "Trade Winds" permanenti del sud, gli stessi Alisei che
oggi portano gli uragani dall'Africa, ben più benigni per gli indigeni
di quelle devastanti navicelle di legno. Si immaginano complotti, trame di
mercanti e di vanitosi, comunque di euro-prepotenti, per appropriarsi del nome,
premessa culturale necessaria per appropriarsi poi delle terre e delle loro
ricchezze. è nato e vive da secoli una sorta di Codice Vespucci, un
thriller, una fiction costruita per smascherare la gaffe del
"Mugnaio" cartografo. "Mi hanno rubato anche il nome, il nome
della mia terra", lamenta Danilo Antòn nel suo libro Gli orfani del
paradiso, "perché Vespucci, gli italiani, gli euros si sono impadroniti
del nome di una provincia montagnosa nella cordigliera del Chontales, oggi
Nicaragua, chiamata Amerrique nel linguaggio lenca-maya della gente che la
abitava molto prima che arrivasse il primo visitatore, Cristoforo
Colombo". Questa gente scendeva al mare per commerciare, circolava sulla
costa delle Moustiques, dove sicuramente Colombo attraccò. E il futuro "ammiraglio",
il suo equipaggio, i messi castigliani incaricati di piantare la croce e la
spada della Spagna cattolicissima e rapacissima in quelle "nuove
terre" non potevano non aver ascoltato i locali, o i Carib, che in quella
costa vivevano, indicare i monti alle loro spalle ripetendo il loro nome,
appunto "Amerrik", come si fa con i turisti testoni. E altrettanto
dovette ascoltare Vespucci. Per i nativi quelle erano soltanto cime, foreste
sullo sfondo. Per i navigatori, quella era l'America. "Non gli è
bastato rubarci il legno, l'oro, le donne, ci hanno rubato anche il nome,
cioè la nostra dignità". Ed ecco, alimentata dal secolo
celebre per i falsi, le riproduzioni, le imitazioni le scoperte sbalorditive,
dall'Ottocento, infiammarsi la polemica, accendersi il revisionismo colorato di
antropologia e di cattiva coscienza. Spuntano documenti firmati da Albericus
Vesputius, prova apparente di come l'uomo d'affari fiorentino, trasformato in
divo, nominato "piloto major" dai sovrani, autore di best seller,
avesse metamorfizzato il proprio nome di battesimo per adattarlo a una
toponomastica già esistente. Inutilmente un linguista della State
University of New York, Jonathan Cohen, cerca di spiegare che buona parte di
queste contestazioni sgorgano dalla gelosia, ben comprensibile, di rivali e
tardi colleghi - come lo spagnolo Bartolomeo de las Casas che detestava
Vespucci e spese la vita per calunniarne il buon nome, descrivendolo come
"un commerciante di cetrioli" che a mala pena era qualificato come
"timoniere" - o da pura fantasia alla Dan Brown. Cohen si affanna a
chiarire che non solo il buon nome, ma il nome del fiorentino è
perfettamente difendibile, perché il certificato di battesimo indica
"Amerigho", che la storia di "Alberigo" è l'invenzione
di un autore inglese deciso a screditarlo, che "Almerigo" è
semplicemente la versione spagnola, come Cristobal per Cristoforo, che comunque
la radice è germanica, Elmerich o Elmerik, forse ungherese, in onore di
San Emerico. Osservazione incauta che immediatamente sollecita gli ungheresi a
mettere anche loro il cappello sulla "mappa mundi" di WaldseemÜller,
rivendicando le origini magiare della toponomastica. Tutti vogliono il nome per
sé, come ne concupiscono la terra, come se impadronirsi del nome giustificasse
il ratto di un continente, senza ascoltare il lamento di Pablo Neruda:
"America, non invoco il tuo nome invano". "America",
illustra il dizionario più diffuso negli Stati Uniti, il Webster,
"è nome derivato da Amerigo Vespucius". Punto e basta. Ma
subito sotto lo stesso lemma, l'augusta enciclopedia annota che "Amerrique
era il nome usato dai primi esploratori". Punto e a capo. E, un momento,
ci sono altri capitoli sempre più bizzarri nel Codice Vespucci. Si
avanzano gli Algonquin, la nazione di aborigeni vissuti tra la Virginia e il
fiume di New York, lo Hudson, che si riferivano alla loro terra come
"Em-merika". Nella lingua dei Vikinghi, di Eric il Rosso, dei popoli
dalle lunghe navi arrivati certamente in Groenlandia assai prima degli
italo-spagnoli nel Caribe, c'è un "Ommerika" come anche un
"Amterik", riferito a lontane e abbandonate lande a occidente. Se non
bastasse, ecco aleggiare puzza di stoccafisso in un saggio recente dello
storico americano Rodney Broome (Terra Incognita) grazie a un mercante gallese
che dal porto di Bristol navigò verso ovest nel 1497 per cercare nuove
fonti per il suo commercio di merluzzi salati. Tornò in Inghilterra
annunciando, anche lui, di avere scoperto un altro "nuovo mondo", a
Terranova. Il suo nome? Richard Amerike. La terra senza nome, il continente
anonimo che nessuno aveva mai battezzato nella sua interezza, diventa
ironicamente il continente con troppi padrini, affogato dai pretendenti al suo
battesimo, come il nipote primogenito stiracchiato da troppi nonni. Ma se
l'attribuzione a Vespucci è accettata come la più convincente, un
segno della confusione rimane nell'equivoco quotidiano e globale commesso,
quando si usa America ormai come sinonimo degli Stati Uniti d'America, quasi
che la nazione più importante oggi si fosse divorata, insieme con i
misteri della toponomastica, non una parte del tutto, ma il tutto. Aveva
ragione Neruda, invitando a non invocarlo invano, perché si fa sempre troppo
presto a dire America, a declamare un nome dolce da pronunciare quanto amaro da
inghiottire, per quei milioni e milioni di uomini e donne nel mondo che lo
digrignano con odio, lo bruciano in effigie, e sono pronti a morire uccidendo
per ferire lei, l'America. Che cosa ci sia davvero nel nome della cosa,
è meno importante della cosa che sta all'apice dei sogni e degli incubi
di generazioni. La sera del 3 settembre 1939, quando Adolf Hitler si mise in
viaggio da Berlino verso la frontiera polacca per assistere alla prima sequenza
della tragedia che avrebbe distrutto lui e il suo tempo e avrebbe inginocchiato
il vecchio mondo davanti alla supremazia di quello nuovo, s'imbarcò su
un treno corazzato speciale riservato a lui, senza immaginare quale presagio
portasse. Il nome del treno personale del FÜhrer era "Amerika". Il
cartografo tedesco ne avrebbe sorriso.
Un sondaggio rivela che i ragazzi che hanno seguito i corsi di
castità hanno rapporti e usano i profilattici Otto Stati avevano
accettato i fondi federali e inserivano la verginità nei curricula
scolastici (SEGUE DALLA PRIMA P
Prima delle elezioni presidenziali "La Turchia resterà
laica" Manifestazione ad Ankara: quasi un milione in piazza Ankara. No a
Erdogan presidente. No a un qualsiasi islamico alla presidenza: lo ha gridato
l'imponente manifestazione laica svoltasi ieri nella capitale turca, Ankara,
con centinaia di migliaia di persone a sfilare nel nome del padre della Patria,
Kemal Ataturk. A fine mese il Parlamento turco eleggerà un nuovo capo
dello Stato, in sostituzione dell'attuale, Ahmet Necdet Sezer. La
Turchia laica ha esercitato ieri così un'energica pressione sul partito
al governo, il conservatore di radici islamiche Akp, che dispone in Parlamento
di un'ampia maggioranza (354 seggi su 550) affinché rinunci a nominare un
candidato scelto dalle sue fila. L'afflusso di gente, pervenuta con ogni mezzo
di trasporto da ogni parte della Turchia, con bandiere turche (una era lunga
ROMA Prodi rilancia la sua richiesta di rinviare la raccolta delle
firme sul referendum elettorale, ma riceve un fermo
"niet" dal comitato promotore che, anzi, alza il tiro: la macchina si
fermerà solo a riforma elettorale approvata e non, come
fino a Pasqua si era promesso, dinanzi ad un accordo formale tra le parti. Lo
stesso premier ha anche lanciato una nuova proposta per venire incontro ai
timori dei partiti più piccoli: quello di uno sbarramento inizialmente
basso, che si innalzerebbe solo alle successive elezioni. Prodi, ospite di
Giancarlo Santalmassi a Radio
Europa
14-4-2007 Nel Pantheon mettiamoci una bella bomba di STEFANO MENICHINI
Il
Riformista 14-4-2007 Boselli vara la
costituente in rosso che piace al Pse di Tommaso Labate
La
Republlica 14-4-2007 Sicilia al top, qui gli assessori guadagnano più
dei ministri
Stampa e
opinione pubblica non hanno certo mostrato di sottovalutare il valore sintomatico dei disordini
scoppiati nella Chinatown milanese, ma pur nell'allarme non ne hanno colto, mi
sembra, tutta la portata. E allora diciamolo subito senza giri di parole: la
questione decisiva che gli avvenimenti di Milano obbligano a guardare fino in
fondo è una questione di sovranità, la questione della
sovranità dello Stato italiano, del valore effettivo delle sue leggi
sull'insieme del territorio. «Non esistono zone franche », ha detto il sindaco
Letizia Moratti, ma magari fosse vero: nel nostro Paese, invece, «zone franche
» sono sempre esistite; fin dalla sua unità. E anzi è proprio
questo uno dei tratti costitutivi del suo Dna.
Da 150 anni
zone interne della Calabria e della Sardegna, come l'Aspromonte, il Soprammonte o parti della Barbagia,
interi quartieri dei grandi agglomerati urbani del Mezzogiorno (penso a Napoli,
a Palermo), sono luoghi dove il dominio della legge e la possibilità per
le forze dell'ordine di esercitarlo sono quanto mai aleatori.Acustodire queste
autentiche enclave extraterritoriali sta un'ulteriore caratteristica storica
del nostro Paese: l'esistenza di potenti organizzazioni criminali radicate in
quegli spazi e loro padrone di fatto. Come è stato già notato,
non c'è alcuna vera differenza tra l'assalto ai vigili urbani da parte
dei cinesi di via Sarpi e il più o meno identico assalto, che si ripete
quasi ogni settimana, nei vicoli di Napoli da parte di torme di donne
inferocite, ogni qualvolta la polizia vi fa irruzione.
Dopo un secolo
e mezzo dalla sua unità l'Italia, insomma, è l'unico Stato dell'Europa occidentale dove
allignano due aspetti patologici che rappresentano altrettante facce della
stessa medaglia: porzioni non proprio minuscole della sua società sono
dedite ad attività illegali se non criminali, e in parallelo parti del
territorio nazionale sono virtualmente fuori dalla sovranità dello
Stato; chi vi entra, anche il semplice turista, lo fa a suo rischio e pericolo.
Ma ora questo dato storico del nostro Paese minaccia di subire un brusco salto
quantitativo e quindi qualitativo. La rivolta della Chinatown milanese è
per l'appunto il segnale che forse l'antica
extraterritorialità/extralegalità italiana, collocata
tradizionalmente in alcune zone del Mezzogiorno interno e delle sue
città, è sul punto di estendersi alle metropoli del Nord.
Principalmente per effetto di comunità di immigrati che sono in certo
senso per loro natura stessa alternative alla comunità nazionale, non
condividendone la lingua, la storia, la cultura, quasi sempre neppure la
religione.
A forza di
rivendicare esplicitamente
la propria extraterritorialità culturale — come è il caso degli
islamici con la richiesta di scuole islamiche — o di praticare una forma di
ferrea anche se silenziosa extraterritorialità, come nel caso dei
cinesi, è inevitabile che si arrivi, come si è di fatto arrivati
a Milano, a rivendicare una sorta di vera e propria extraterritorialità
legale, che vuol dire, in pratica, l'anticamera della
extraterritorialità politica vera e propria. E’ solo un caso che si
siano viste sventolare nel centro della capitale lombarda ad opera dei
dimostranti le bandiere della Repubblica Popolare cinese? La statualità
italiana, già insidiata fin dalle sue origini dalla presenza nel
Mezzogiorno di spezzoni violenti di anti-Stato, si vede così costretta,
in prospettiva, ad affrontare il problema nel Settentrione di queste enclave
nascenti, o già consolidatesi, di extraterritorialità di fatto
che hanno origine fuori dei nostri confini.
E per chiudere
il cerchio, va osservato
che proprio i fenomeni appena accennati producono a loro volta, in quella parte
significativa della popolazione italiana che li vive più da vicino,
sentimenti confusi ma forti di autonomismo estremo, desideri di autogestione
dell'ordine pubblico, talora di secessionismo, che finiscono per rendere ancora
più grave la crisi dell' involucro statual-nazionale. Tutto porta a
concludere, insomma, che sia giunto il momento di reagire con forza allo stato
di cose esistenti. Ma intervistato ieri, il ministro degli Interni, Giuliano
Amato, ha reputato opportuno parlare di «dialogo», di «percorsi di integrazione
», dei diversi tipi di immigrazione, e così via sociologizzando.
Tutte ottime
cose; le quali però,
mi sembra, vengono dopo una cosa preliminare che forse dovrebbe essere in cima
alle preoccupazioni di un ministro degli Interni (il quale invece,
singolarmente, nella sua intervista non ne ha fatto neppure cenno): vale a dire
l'imposizione della legge, la necessità di trasmettere a tutti il
messaggio che chi esce fuori dalla legge sarà sempre e comunque
sanzionato. Non è un caso se i Paesi a cui è effettivamente
riuscito di integrare gli immigrati sono solo i Paesi dove su questa regola non
è stato permesso a nessun nuovo arrivato, a differenza che in Italia, di
farsi la benché minima illusione.
14 aprile 2007
La Stampa 14-4-2007 Questa bambola ha la faccia di papàLanciate in America per i figli dei soldati in guerra
Tricia e Nikki sono entrambe sposate con marines in servizio in
Iraq e la prolungata assenza dei mariti da casa le ha spinte a far fronte al
«consistente bisogno di affetto» dei rispettivi figli, creando un surrogato dei
padri: le «Daddy Dolls».
Si tratta di bambole gonfiabili che sul davanti hanno stampata l’immagine del
papà al fronte, sul dietro possono essere a stelle e striscie oppure
avere uno dei colori delle divise militari (blu, marrone, marine, mimetica
chiara o scura) e nascosto in una mini-sacca ospitano un microfono capace di
ripetere all’infinito una frase incisa dal padre prima di partire.
Le «Daddy Dolls»
L’iniziativa delle due donne di Midway Park, in North Carolina, è
nata dal bisogno di far fronte a una necessità famigliare, ma ha presto
contagiato le altre mogli delle basi militari dei marines e si è quindi
diffusa sull’intero territorio nazionale grazie a un sito Internet che
raccoglie le prenotazioni delle «Daddy Dolls», assicura discrezione, tempi
rapidi nella fattura e le recapita a domicilio anche se la famiglia risiede in
una base all’estero. Le «Daddy Dolls» non hanno prezzi proibitivi: il formato
gigante «Grande abbraccio all’eroe» è quello più caro e costa
24,95 dollari, a cui bisogna aggiungerne altri 7,95, se si vuole anche il piccolo
nastro inciso.
Il successo ha portato alla moltiplicazione dei prodotti. Non solo le «Daddy
Dolls» possono essere acquistate nel formato ridotto «Piccolo abbraccio
all’eroe», ma Tricia e Nikki offrono «cuscini grandi» e «cuscini piccoli» per
consentire ai piccoli di dormire la notte con la testa posata sulla foto
stampata del papà, ciondoli da portare al collo con l’immagine del
genitore e mosaici fotografici di varie forme e costi. Senza contare la
possibilità di donare a favore delle famiglie che non hanno soldi a
sufficienza per acquistare una «Daddy Doll» ai figli. Non sono mancati i casi
nei quali a chiedere le bambole gonfiabili sono stati padri con le mogli in
divisa e anche in queste occasioni la procedura è stata la stessa: tutto
comincia con la scelta di una foto digitale da inviare al sito «Daddy Dolls»
affinché sia al più presto impressa su una bambola gonfiabile. Fra le
maggiori preoccupazioni delle due mamme c’è quella di evitare che le
«Daddy Dolls» possano finire in lavatrice: «E’ preferibile lavarle a mano
perché altrimenti l’immagine potrebbe risentirne» o sbiadirsi e dunque avere
l’effetto opposto a quello desiderato di un papà sempre presente come se
fosse in carne e ossa.
Con almeno un milione di uomini e donne che hanno già servito o servono
in divisa in Iraq ed Afghanistan - spesso per più turni di seguito -
Tricia e Nikki si trovano a gestire un’idea iniziata quasi come passatempo, ma
diventata una piccola industria. Da qui la richiesta di «non telefonare»,
mandando email anche perché la posta elettronica è silenziosa, mentre
rispondere al telefono può essere complicato per chi si trova impegnata
in maratone fra sveglia, colazione, scuola, pranzo, cena, cambio pannolini,
ginnastica o lezioni di piano al seguito di figli di età differenti, ma
con bisogni pressanti, e senza papà disponibili per lunghi periodi. Le
richieste di «Daddy Dolls» nelle ultime settimane si sono moltiplicate a
seguito dell’annuncio del Pentagono dell’estensione del periodo di ferma per i
soldati al fronte da dodici a quindici mesi.
Anche noi vorremmo mettere qualcosa nel Pantheon del Partito
democratico. Una bella bomba. Che facesse un bel botto. Tanto non c’è
nessuno da ammazzare: sono già tutti morti e le loro spoglie,
giustamente venerate, sicuramente sono infastidite dai ripetuti tentativi di
reclutamento.
Lo scrive un giornale che, a ogni occasione del calendario, rende il dovuto
omaggio a Sturzo, De Gasperi, Moro, Zaccagnini, Dossetti. Per carità, la
memoria prima di tutto. Ma non commetteremmo mai l’errore di spiegare che
è nel loro nome che siamo impegnati per il Partito democratico. O che
vorremmo da loro una benedizione post mortem, da af- fiancare a quelle di
Berlinguer, Gramsci, Nenni, Craxi, Spinelli, Einaudi, Gobetti, Turati, Gandhi,
madre Teresa, Mandela, i Kennedy, Martin Luther King, Brandt, Olof Palme,
Maritain, Darwin, Freud...
Ma per favore. Lo diciamo per il bene dei leader già non fortissimi che
si sono caricati sulle spalle l’impresa del Pd. Basta col giochetto dei
ritratti alle pareti. Perché alla fine quelli che ci rimettono sono loro.
Sono la loro statura, la loro ambizione e il loro orgoglio a uscire
ridimensionati dal confronto con gente che ha fatto la storia, ma che quando
è partita non cercava di muoversi nell’ombra degli antenati: voleva fare
qualcosa di nuovo, e di proprio.
Dicono che a questo Partito democratico manchi l’anima. Il sogno. Il coraggio.
La visione. Sarà.
Ma manca soprattutto l’uomo o la donna che decide di investire tutto in
un’operazione nuova, senza cercare riparo nel passato, trovando buoni argomenti
solo nel presente e nel futuro del proprio paese. Dichiarando anzi che
batterà strade sconosciute.
Ognuno dei grandi celebrati ha fatto soprattutto questo: ha iniziato. Ha fatto
qualcosa che prima non era stato fatto, e in maniera diversa, senza tutela
preventiva, senza la garanzia di riuscire.
Pensate che sia ingeneroso mettere i nostri a confronto con Gramsci, Lincoln o
Gandhi? È vero.
Possiamo però fare di molto peggio.
Per esempio possiamo metterli a confronto con Berlusconi. Proprio il diavolo in
persona. Paradigma negativo quanto vi pare, ma quando ha deciso di fare una
cosa non s’è inginocchiato davanti ai Lari e ai Penati. Ha preso
l’anticomunismo come bandiera, ha speso un sacco di soldi, s’è fatto i
calcoli sugli affaracci propri, ha corrotto qualche coscienza; poi però
c’ha messo tutto del suo. Su Craxi, poco e niente. Ha fatto una mossa su De
Gasperi, rintuzzata. Ma certo non ha affidato alla memoria dell’uno o
dell’altro le proprie fortune di newcomer.
Paragone offensivo? Un po’. Peraltro noi neanche lo vorremmo, un Partito
democratico fondato e comandato da un Berlusconi. Abbiamo tutti gli anticorpi,
pensate ai lazzi che s’è preso De Benedetti solo perché chiedeva una
tessera. Però uno che ci metta la faccia, questo lo vorremmo. Uno che
non abbia bisogno di farsi scortare dai cari estinti, né si illuda che citando
una volta De Gasperi, una volta Craxi e una volta Einaudi possa raccattare voti
dentro micro-particelle di mercato elettorale.
Scusate la mancanza di rispetto, ma agli italiani che cosa frega di Gobetti e
Turati, ma pure di Bob Kennedy? Forse vorrebbero essere guidati da persone con
quella tempra morale, piuttosto che da abili cacciatori di citazioni. Non ci
sono personaggi di quel calibro in giro? Avevamo il sospetto. Neanche Occhetto
però era un Lenin, citava a casaccio anche lui, eppure nel momento
topico ha rischiato senza rete. Non è che Blair nel ’97 si sia nascosto
dietro l’eredità di Wilson: voleva appunto rompere, col vecchio Labour.
O che Clinton, per diventare Clinton, non abbia innanzi tutto dovuto
accantonare la disastrosa esperienza dei liberal degli anni ’70.
Dunque parateviun po’ meno, fondatori del Partito democratico. Se la vostra
gente vedrà che ci mettete qualcosa in più, qualcosa del vostro,
e che legate ogni vostra fortuna al tentativo, saprà perdonare gli
errori. E non rimpiangerà gli Antenati.
Il Riformista 14-4-2007
Boselli vara la costituente in rosso che piace al Pse di Tommaso Labate
Fiuggi. «What a wonderful colour…red». Come rimarca sorridente Poul Rasmussen
all’inizio del suo intervento al Palaterme di Fiuggi, c’è rosso ovunque
nella scenografia del quinto congresso dello Sdi. Quello che dà inizio,
come sottolinea più volte Enrico Boselli, alla nuova costituente «aperta
a tutti coloro che credono nel socialismo».
Ad assisterne alla nascita, ci sono tutti. C’è Fabio Mussi, che non si
nasconde: «Sì, sono interessato». C’è Gavino Angius, che guarda
«con molta attenzione» e specifica: «Parlare di una casa comune non è
certo una bestemmia». E il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano
che prima di entrare nella sala dice: «Oggi siamo al classico, al confronto fra
socialisti e comunisti. Noi siamo interessati a formare un soggetto
antiliberista e pacifista ma penso che sia molto interessante il progetto di
Boselli, perché in esso emergono contenuti molto precisi». I contenuti precisi,
forse, sono gli stessi che ha in mente Franco Grillini, quando - tra l’ironico
e il dispiaciuto - afferma: «Vedo che qui si parla di laicità, di quella
cosa che avrei voluto vedere nei congressi di Ds e Margherita. Dicono tutti che
in questa stagione di congressi manchi l’entusiasmo…A me pare che, fuori dal
recinto del Pd, questo benedetto entusiasmo non manchi».
L’entusiasmo alimentato dall’Inno di Mameli e dall’Internazionale socialista
(curiosità: Piero Fassino entra quando quando le note di quest’ultima
cessano), che danno il via alle assise, si trasforma, negli occhi di più
d’un delegato, in commozione.
Quasi un miliardo di euro finisce nelle tasche dei 280 mila
consulenti, e ancora di più va a sostenere il ricco staff dei ministri
Troppe cariche negli enti locali. Saranno ridotti i costi delle campagne
elettorali. Invito agli organi costituzionali Ai nostri parlamentari stipendio
doppio che a Parigi o Berlino La denuncia di Prodi: fenomeno esplosivo. Un ddl
entro maggio VLADIMIRO POLCHI ROMA - In Italia o vinci la lotteria o ti butti
in politica. Il risultato è lo stesso: una vita al riparo dalle
difficoltà economiche. Questo devono aver pensato gli oltre 400mila
cittadini che oggi vivono di politica: deputati, assessori, consiglieri
locali e consulenti. Un esercito, che costa caro alle casse dello Stato: oltre
tre miliardi di euro, all'anno. A lungo la politica ha promesso
interventi d'austerity. Ora ci prova Romano Prodi e il suo ministro per
l'Attuazione del programma, Giulio Santagata, che annunciano un disegno di
legge ad hoc, entro fine maggio. "I costi della politica -
ha detto il premier - sono esplosi". Quanto guadagna oggi un parlamentare?
Il calcolo non è facile, tante le voci da sommare. Senatori e deputati
si portano a casa 14mila euro netti al mese. All'indennità di 5.486 euro
(ridotta del 10% con la legge Finanziaria 2006), va infatti aggiunta una diaria
di 4.003 euro, "a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma"
e altri 4.190 euro (che diventano 4.678 per i senatori) per "il rimborso
delle spese inerenti al rapporto tra eletto ed elettori". Ma non è
tutto. Il parlamentare non deve preoccuparsi dei suoi viaggi, usufruisce,
infatti, di "tessere per la libera circolazione autostradale, ferroviaria,
marittima e aerea sul territorio nazionale". Se poi deve andare all'estero,
ha rimborsi annui di 3.100 euro. La bolletta telefonica non è un
problema: per le sue chiacchierate, il deputato dispone di una somma annua di
3.098 euro, il senatore di 4.150 euro. Altri rimborsi sono infine previsti per
i taxi (3.323 euro ogni tre mesi). Il parlamentare pesa sulle casse dello Stato
anche da ex: bastano due anni, sei mesi e un giorno di legislatura per maturare
il diritto alla pensione. Oggi la percepiscono 2.005 ex deputati e 1.297 ex
senatori, per una spesa complessiva di 186 milioni di euro all'anno. I
parlamentari italiani possono fare la voce grossa in Europa: i loro stipendi,
infatti, fanno invidia ai colleghi tedeschi, spagnoli, francesi e inglesi, che
guadagnano anche meno della metà. Ma i parlamentari nazionali sono solo
una goccia nel mare dei costi della politica. Cesare Salvi e
Massimo Villone (nel libro "Il costo della democrazia") calcolano che
nel piatto oggi mangiano oltre 427mila persone: 149mila titolari di cariche
elettive (dai deputati ai consiglieri circoscrizionali) e 278mila consulenti.
Quanto costano? Un miliardo e 851 milioni l'anno. E la fetta più grossa
finisce proprio nelle tasche dell'esercito dei consulenti (ben 958 milioni di
euro ogni anno), mentre deputati e senatori spendono "solo" 187 milioni.
Ci sono poi i ministeri, con i loro corposi staff, che "succhiano" un
altro miliardo e 375 milioni di soldi pubblici. E il Quirinale? Il capo dello
Stato ha un appannaggio di 218.407 euro all'anno, ma l'intera macchina del
Colle costa circa 235 milioni di euro (destinati per l'87,6% alle spese per il
personale). Insomma, il sistema politico spende e spande, tanto da far dire a
Romano Prodi che "sono esplosi i costi della politica,
nettamente superiori ormai agli altri Paesi europei". Tocca a Giulio
Santagata, presentare la strategia dell'esecutivo per contenere le spese:
"Il governo - spiega il ministro a Repubblica - è pronto a
intervenire con un suo disegno di legge entro maggio". Quali le linee di
intervento? "Primo, ridurre la proliferazione delle cariche negli enti
locali, diminuendo per esempio il numero dei consiglieri comunali, provinciale
e regionali, insieme al numero delle circoscrizioni cittadine. Secondo -
prosegue il ministro - abbattere i costi delle politica e delle
campagne elettorali. Terzo, aumentare la stretta sulle consulenze". Ma non
basta. "Anche i vari organi costituzionali, come Camera e Senato, devono
ridurre autonomamente le loro spese. In tal caso, però - conclude
Santagata - il governo non può fare nulla".
Un milione di euro al giorno per mantenere un esercito di 11mila
persone il caso
PALERMO - Un milione di euro al giorno. è il costo della politica
in Sicilia, la somma necessaria a mantenere quell'esercito di 11 mila persone
che nell'isola possono vantare una carica in un'istituzione grande e piccola:
dall'Assemblea regionale siciliana alle circoscrizioni. Indennità,
gettoni di presenza, missioni e rimborsi spese costano in tutto 362 milioni l'anno:
dato che risulta dalla lettura dei bilanci. è come se ogni siciliano -
minorenni compresi - pagasse alla politica una tassa di 72 euro l'anno.
L'Ars, che si picca di essere il parlamento più antico d'Europa,
è sicuramente il più "caro": da solo, incide sulle casse
pubbliche per 156 milioni, più o meno le risorse occorrenti per il
personale politico dei 390 Comuni siciliani. L'Ars è l'unico consiglio
regionale d'Italia dove gli stipendi sono pari al 100 per cento di quello dei
parlamentari nazionali - dei senatori, per l'esattezza - e dove gli assessori,
con i loro 14.500 euro netti al mese, guadagnano più dei ministri. I
sindaci siciliani se la passano meglio dei colleghi del resto d'Italia: Diego
Cammarata, primo cittadino di Palermo, vanta un introito mensile lordo di 9.475
euro. Guadagna 352 euro al mese in più (
. Anzi. Dal ministero dell'Economia sono già partite
lettere formali (firmate da Enzo Grilli) per delineare in maniera concertata
tra istituzioni a chi e come affidare o distribuire le competenze dell'ex Cicr.
Fonti del Tesoro ritengono che sarebbe il ministero dell'Economia e delle
Finanze il naturale erede delle funzioni dell'ex comitato interministeriale,
anche perché lo stesso disegno di legge assegna al governo l'alta vigilanza
sulla stabilità finanziaria. Ma un'impostazione di questo tipo non
è affatto condivisa dalla Banca d'Italia. Significativa a
questo proposito della visione dell'Istituto centrale governato da Mario
Draghi, secondo gli specialisti del settore, è stato un recente
intervento a un seminario di studi tenuto da Marino Perassi, responsabile
dell'area legale di via Nazionale. Perassi ha sostenuto che l'"alta
vigilanza" prevista dal testo del '47 e attribuita al Cicr ora soppresso,
potrebbe far temere il risorgere della tentazione di pressioni politiche nei
confronti della Banca centrale, più pericolose che mai a fronte
dell'attività di Vigilanza. Un rischio che sarebbe esorcizzato una volta
per tutte con l'attribuzione a via Nazionale delle funzioni del Cicr. Il
dibattito tra istituzioni, comunque, è solo agli inizi. E pare che dalla
parte di Draghi sia schierata una parte non indifferente dello stesso
esecutivo.
La
Repubblica 13-4-2007 L'ANALISI Colpo al cuore della fortezza americana VITTORIO
ZUCCONI
La
Repubblica 13-4-2007 LA POLEMICA Una scorta laica per Bagnasco FRANCESCO MERLO
La
Stampa 12-4-2007 Banca Mondiale, Wolfowitz: "Sì, ho favorito la mia
amante"
Vita.it
12-4-2007 Blitz di Greenpeace alla Banca d'Italia
"Non vedo perché formazioni che hanno una tradizione debbano essere
eliminate"
"Vogliono fottere i partiti più piccoli"
ROMA - La politica italiana potrebbe arricchirsi
presto di una nuova strana coppia. Clemente Mastella ha dichiarato oggi il suo
nuovo feeling con Umberto Bossi. A tenere insieme l'insolito asse
Ceppaloni-Gemonio è il timore che Udeur e Lega possano rimanere entrambe
vittime della riforma elettorale.
"Mi sono sentito con Bossi e abbiamo convenuto che vogliono fotterci. Sono
più d'accordo con lui e con la Lega, che con i miei", ha detto
senza mezzi termini il ministro della Giustizia registrando la puntata di Otto
e mezzo in onda questa sera su La 7. "I piccoli partiti - ha aggiunto -
resistevano anche alle intemperie della prima Repubblica. Non vedo perché i
piccoli partiti che hanno una tradizione debbano essere eliminati".
Mastella ha quindi confermato che pur di bloccare l'eventuale referendum sulla
legge elettorale non esiterebbe a scatenare una crisi di governo. Secondo il
leader dell'Udeur c'è "una situazione incredibile sullo sfondo: tutti
dicono di voler fermare il referendum. Ma di là Berlusconi prende in
giro i suoi e di qua vogliono fottere noi". Mastella ha ammesso "che
ci sono leggi di convenienza", come quella elettorale. "Ma perché -
ha aggiunto - debbo accettare la convenienza della Margherita e non quella del
mio partito?".
Ma in questa fase il tema del sistema elettorale non è l'unico motivo di
freddezza tra l'Udeur e gli alleati del centrosinistra. A rendere difficili i
rapporti c'è anche la tormentata gestazione del Partito democratico.
"A me - ha ricordato Mastella - qualcuno ha detto: perché non vieni? Ho
risposto lasciatemi stare. Preferisco stare da me". "Vedo un po' di
stranezze - ha aggiunto - e non una logica politica".
Nota ufficiale del ministero degli Esteri di Pechino: «Ci
auguriamo che l'Italia risolva i problemi con equilibrio»
PECHINO
- La Cina «si augura» che l'Italia «risolva con equilibrio» i
problemi sorti con gli incidenti di giovedì a Milano
tra immigrati cinesi e polizia municipale. Lo afferma una nota diffusa dal ministero degli Esteri di
Pechino.
LA POSIZIONE DEL GOVERNO - Nella nota, il
ministero sottolinea che ora la situazione «è calma» e si augura che
venga risolta «tenendo conto delle ragionevoli esigenze e degli interessi
legali dei cinesi residenti all' estero». La nota ricostruisce brevemente i
fatti, attribuendone l'origine ad un «problema di parcheggio».
I TAFFERUGLI VISTI DA PECHINO - La notizia degli
incidenti è stata diffusa dall'Agenzia Nuova Cina, secondo la quale le
violenze sono scoppiate «dopo che la polizia aveva multato una donna incinta
che stava scaricando merci da un carretto». L'agenzia riporta le affermazioni
degli immigrati secondo i quali «non si è trattato di un caso
isolato».«Nei due mesi scorsi i commercianti cinesi si sono spesso lamentati
del comportamento della polizia», aggiunge Nuova Cina. Una lunga corrispondenza
da Milano è stata messa in onda dalla «Phoenix Tv», una televisione di
Hong Kong che si riceve nel sud della Cina ed in alcuni complessi residenziali
ed alberghi di lusso.
13 aprile 2007
PRIMO PIANO Un addio in silenzio, che dovrebbe diventare
assordante per le coscienze degli italiani. Gherardo Colombo, il pm che
indagò sulle coperture a Michele Sindona, che smascherò la loggia
P2 di Licio Gelli, che condusse le indagini di Mani pulite e i processi a
Silvio Berlusconi, lascia la magistratura. E per la prima volta spiega le
ragioni del suo gesto. Ecco uno stralcio dell'intervista concessa a Enzo Biagi.
Dottor Colombo, lei ha deciso di abbandonare la toga. Cosa c'è oggi nel
suo animo, rimpianto, delusione, rabbia? "Sicuramente non c'è
rabbia. E anche per quel che riguarda rimpianti e delusione, io vedo questa mia
decisione in una prospettiva un po' diversa. Ormai sono 33 anni abbondanti che
faccio il magistrato: ho sperimentato il funzionamento della giustizia. Ripeto
ho maturato, ho sperimentato - anche perché contemporaneamente mi è
successo di andare a parlare nelle scuole, nei circoli, nelle parrocchie, un
po' ovunque - il fatto che è difficile, difficilissimo far funzionare la
macchina della giustizia senza che da parte dei cittadini ci sia una forte
condivisione delle regole. E allora la mia decisione è dipesa da quello.
Io credo che sia molto importante cercare, nei limiti del possibile, di
comunicare con le persone, con i giovani soprattutto, quale sia il perché delle
regole e quale sia la loro importanza". Quanto ha contato la politica
nella sua scelta? "Mah. la politica può aver contato per quel che
riguarda la mancanza di interventi forti sulle regole che servono a far
funzionare meglio la giustizia, sugli strumenti che consentono a tutto
l'apparato giudiziario io non parlo soltanto di magistrati, mi riferisco in
genere a chi opera nella giustizia , sui mezzi che servono a far funzionare
meglio questa macchina che vista sia dall'esterno che dall'interno, sembra
così farraginosa e si muove con grande difficoltà. Sappiamo tutti
che i processi durano tantissimo. Io credo anche che le garanzie non sempre
siano distribuite in modo esatto, magari qualche volta ce ne sono troppe, ma in
altri casi ce ne sono anche troppo poche. E allora io credo che, ma non solo
alla politica, più in generale alle istituzioni, si possa addebitare il
fatto che la giustizia non funziona bene". Che destino attende il
corrotto? Magari una bella carriera? "Chi lo sa: dipende poi dalle
situazioni personali. Il fatto è che se non esiste un atteggiamento
complessivo della società, io direi, delle persone, delle regole, delle
istituzioni verso i reati e quindi anche verso la corruzione. Se non esiste un
atteggiamento di riprovazione, poi è più facile che il corrotto
faccia magari una bella carriera". Non c'è stato un momento o un
episodio nel quale lei ha sentito che sembrava quasi che questo paese avesse
smarrito il senso della legalità? "Io credo che nel nostro paese la
relazione con la legalità, con le regole che hanno come riferimento la
Costituzione, che la relazione tra le persone e le regole sia una relazione
incredibilmente sofferta. Come si potrebbe spiegare altrimenti che
provvedimenti di clemenza, condono edilizio, condono fiscale e via dicendo,
continuano a ripetersi, praticamente da quando siamo una repubblica. Questi
provvedimenti richiedono, per essere di qualche utilità, che la devianza
sia massiva, e quindi sono un indice di cattivo rapporto con le regole". Una
specie di carattere nazionale allora? "No, io non credo che sia un
carattere nazionale". Un aspetto della vita italiana? "Un aspetto
della - molto molto tra virgolette - 'cultura italiana', del modo di intendere
la vita e le relazioni. Forse noi apprezziamo di più la persona furba
che elude le regole, piuttosto chi cerca di impegnarsi perché siano trattati
gli altri allo stesso modo di come si è trattati". Se un magistrato
butta la spugna, il cittadino qualunque a chi si deve affidare? "Io
premetto che non butto la spugna. La mia non è una decisione di
rinuncia, la mia è una decisione di impegno. Io credo che si possa, nei
limiti ovviamente del possibile per ciascuno di noi, nei miei piccoli limiti,
che si possa fare molto per la giustizia operando fuori dalle strutture
istituzionali. Io credo molto nel modo di essere delle persone rispetto alle
regole. Penso sia importante che ai ragazzi e non solo, sia proposta una
riflessione su come riuscire a capire il significato delle regole, partendo da
lontano, andando alla storia, provando a leggere Antigone e via dicendo. Quello
che vorrei fare io nel futuro è cercare di comunicare, attraverso libri,
riuscendo a parlare con i ragazzi, con le persone. Non è un gettare la
spugna. Io credo che se i cittadini si impegnassero nel vivere la propria vita
badando anche alle regole. Pensi a quante cose noi badiamo: stiamo molto
attenti a come ci vestiamo: i ragazzi hanno tutto o quasi tutto griffato e via
dicendo. Stiamo attenti, attentissimi al cibo; ci piace avere un'automobile che
sia in consonanza e in sintonia con la nostra persona, ci piace farla vedere
agli altri; ci piace mostrare una bella casa, eccetera. Ci preoccupiamo di una
serie di aspetti della nostra vita. Non altrettanto facciamo con un punto di
riferimento che secondo me è essenziale, che sono le regole". Conta
quindi più mostrare che essere? "Tante volte sì. Io credo
che si sia persa un po' l'idea dell'essere. Si è dimenticato che esiste
anche un essere, oltre all'apparire". Quindici anni dopo, che bilancio si
sente di fare dell'esperienza di Mani Pulite? "Io constato che attraverso
queste indagini si è scoperto molto. Credo si ricordi che prima del 17
di febbraio del 1992 si parlava di questo fenomeno della corruzione che era
così esteso nel paese, però di fatti ce n'erano pochi,
pochissimi. Da allora in avanti per quei tre, quattro, cinque anni in cui si
è investigato sulla corruzione, di fatti ne sono emersi tanti,
tantissimi: sono emersi episodi dettagliati, sono emerse le transazioni
finanziarie. Io credo che sotto questo profilo l'informazione, la giusta
informazione che è conseguenza naturale del processo pubblico, sia stata
una cosa positiva. Per quel che riguarda i risultati all'interno del processo,
beh, chissà quante sono le posizioni che sono finite in prescrizione, e
quante sono le posizioni che sono finite con un proscioglimento perché sono
cambiate le regole del processo, perché sono cambiate le regole sostanziali,
perché una cosa che prima era reato adesso è un pochino meno reato e via
dicendo. Allora sotto il profilo rigorosamente giudiziario, io credo che il
risultato non sia stato quello che ci si aspettava". Il potere non cerca
di fare la giustizia a sua misura? "Sì io credo che il potere
cerchi di espandersi, magari anche al di là, qualche volta, delle
possibilità che gli danno le regole. A proposito dell'esperienza di Mani
Pulite, per quanto riguarda gli aspetti personali sicuramente è stato un
periodo intenso, quindici anni, in cui sono successe tante cose. Ci sono stati
dei dolori molto forti, per quel che riguarda me, non è mai indolore
inserirsi così nella vita delle altre persone". Cosa pensa dei
colleghi che hanno scelto la politica? "Guardi non penso proprio niente.
Io credo che siccome le regole lo consentono è una cosa che si
può fare. Io posso dirle però che per quel che riguarda me, io
credo che sarebbe una bella cosa inserire un intervallo, un intervallo di una
certa consistenza, fra l'esercizio dell'attività di giudice o di
magistrato in generale e il dedicarsi all'attività politica. Primo. E
secondo, non dovrebbe esistere la possibilità di tornare indietro.
Questa è la regola che io mi prefiguro e per quel che riguarda invece le
mie scelte personali, io credo che sia molto importante cercare di operare
nella società. Ribadisco una cosa che riguarda me: una volta in cui si
decide di non far più parte di un'istituzione, forse, il rivolgersi ad
altri campi, completamente diversi, è una cosa che mi si addice di
più". n Guai a raccontare questo Paese di Roberto Saviano
L'incontro tra l'anziano giornalista e il giovane scrittore. In una
società dove non si perdona chi dice la verità Ci sono dei
momenti in cui hai l'impressione di attraversare il tempo diversamente, come se
secondi e minuti si unissero in una specie di coltre, costringendoti a
comprendere che ogni momento ti resterà tracciato nella memoria. Vivere
il ritorno televisivo di Enzo Biagi è uno di quei momenti. Quando Loris
Mazzetti, giornalista e regista, mi ha portato l'invito di Enzo Biagi ad andare
in trasmissione avevo compreso la necessità di quest'incontro, la
necessità di partecipare al ritorno di qualcosa che era stato spezzato
piuttosto che interrotto. Enzo Biagi l'ho incontrato a casa sua. Abbiamo
mangiato insieme. Lentamente. Parlava con tono chiarissimo, e non sembrava
neanche per un momento aver perso la capacità di ficcarsi dentro le
questioni e divertirsi a discutere con le cose che pulsano, valutando i veri
meccanismi piuttosto che gli epifenomeni. Mi ha parlato come se conoscesse ogni
cosa di me, ogni cosa detta, scritta e persino pensata. Discutiamo sullo stato
di cose, una sorta di ricognizione degli elementi del disastro. Su una politica
che non ha la geometria della buona amministrazione e né l'energia di muovere
grandi passioni. Su un Paese spaccato in due, dove Nord e Sud non comunicano,
dove tutto possiede un'unica dimensione del racconto, dove sempre meno si
conosce ciò che avviene e tutta l'attenzione è rapita dal
ginepraio della politica, discutiamo di un Paese dove "il pensiero di un
parlamentare rischia di avere un peso maggiore rispetto a quello che
accade". D'improvviso mi guarda e chiede un'attenzione particolare.
"Mi ascolti, bene", dice, fermandomi la mano mentre mangiavo:
"Lei ha raccontato questo Paese, nessuno glielo perdonerà mai.
Nessuno perdona in questo Paese quando si viene ascoltati. Nessuno. Troppe
persone l'hanno ascoltata, questo non glielo perdoneranno politici, colleghi
scrittori, giornalisti, mi creda. Nessuno qui vuole sapere come stanno davvero
le cose. Chi lo fa è come se mettesse in fallo tutti gli altri che non
vengono ascoltati e per questo non si incolpano ma incolpano gli altri".
Biagi poi racconta di quando era andato al matrimonio di Giovanni Falcone:
"Fino alla fine hanno diffidato di lui, solo con la sua morte è
riuscito a dare giustizia al suo lavoro. Che la sua strada era la strada giusta
per modificare il mortale rapporto tra cosa nostra e politica. Solo dopo la
morte tutti l'hanno compreso. Un Paese che riconosce queste cose solo dopo il
sacrificio è un Paese malato". Enzo Biagi non ha perso la
lucidità dello sguardo: è complesso discutere, ciò che
nelle discussioni è per me citazione, bibliografia, verso tirato
giù a memoria, citazione conservata nello stomaco, per lui è
memoria reale; ciò che ho letto, lui l'ha conosciuto, incontrato,
criticato, ascoltato. E genera una sorta di sensazione di straneamento, come se
le mie parole fossero di una materia di inchiostro e carta e lui invece avesse
sentito l'odore del sudore di ciò che ho potuto conoscere solo con la mediazione
della scrittura. Una voce ci chiama: "Al trucco". Ci passano sul viso
una specie di ovatta imbevuta di qualcosa. Loris Mazzetti però lo chiama
mentre accompagnato dalla figlia Bice sta per andare a sedersi nella
poltroncina della trasmissione. Si guardano: "Enzo, cinque anni... Enzo,
cinque anni... Ora torniamo". Biagi si commuove, Mazzetti sembra stringere
i denti. è come scoccata un'ora, un momento in cui il veto viene a
cadere, aver resistito sembra esser stato il comportamento più corretto,
una forza che viene da lontano che ha i muscoli allenati già a superare
velenosi pantanti melmosi, il fascismo, le Br, la Democrazia cristiana, il Pci,
Tangentopoli. Ci incontriamo nello studio, Biagi mi sorride, e sibila:
"Senza il sud questo paese sarebbe un paese mutilato, povero. Non sopporto
chi blatera contro il sud". Impossibile non vivere una sorta di flashback,
vedere dinanzi a lui tutti i visi: mi è apparso Pasolini quando dinanzi
a Biagi lancia la sua accusa verso la televisione di massa, quando proclama di credere
nello sviluppo "ma non in questo sviluppo". è come vederseli
tutti. Siamo lì nello studio, la regia è pronta. Nessuno sa bene
cosa avverrà e come avverrà: è passato molto tempo e quasi
ci si è dimenticati di come funzionano le cose, e l'emozione di tutti
è palpabile persino ascoltando i respiri, come se tutti avessero fatto
una corsa. Siamo invece tutti immobili da mezz'ora. Con Biagi e Mazzetti
discutiamo: "Parleremo d'ogni cosa. di quello che si può dire e di
ciò che non si può dire. Su quanto è impensabile dire in
tv e su quanto dovremmo invece dire, sulla letteratura e sulla capacità
di raccontare. ancora questo Paese". Biagi si è sistemato dinanzi a
me, i riflettori caldissimi, le telecamere accese. Gli occhiali di sempre, lo
sguardo ai fogli dinanzi a lui e il mezzobusto che ha raccontato un Paese, si
materializza dinanzi ai miei occhi. Ogni stanchezza scompare, persino ogni
malinconia scompare. Biagi è lì come se nulla fosse capitato,
come se nessuno l'avesse cacciato, come se l'ultima intervista l'avesse fatta
il pomeriggio precedente, come se fuori la porta fossero appena usciti
Mastroianni e Pasolini, ancora fermi sul pianerottolo. Come se tutto iniziasse
adesso, ma con un origine di sempre mai interrotta. Come se tutto dovesse
ancora essere raccontato, testimoniato, come se sino ad oggi si fosse compiuto
solo l'inizio del percorso. Tre... due... uno. via.
Il tentativo di minimizzare è comprensibile. Ma la
reazione dell'estrema sinistra alle ipotesi di riforma elettorale della
Margherita e dei Ds non sembra una "tempesta in un bicchier d'acqua".
E, se lo è, potrebbe anticiparne un'altra di proporzioni maggiori dentro
l'Unione. Archiviando polemicamente il tentativo di compromesso studiato dal
ministro Vannino Chiti, Rifondazione comunista ha aperto le ostilità
contro il maggioritario voluto da Fassino e Rutelli. E si è messa
all'avanguardia del fronte dei piccoli partiti, disposti a tutto pur di evitare
un bipolarismo ancora più accentuato; e quel referendum elettorale che
ne sarebbe il catalizzatore. Annunciare, come è stato fatto ieri dal
Prc, che adesso le intese vanno cercate in Parlamento, in apparenza vuol dire
poco: nel centrosinistra è una parola d'ordine comune. Ma quando si
aggiunge che "ognuno farà per sé", cercando "alleanze con
tutti", allora palazzo Chigi ha di che allarmarsi. L'impressione è
che il partito di Bertinotti e Franco Giordano alzi la voce tatticamente: lo
conferma la richiesta al premier Romano Prodi di far slittare l'inizio della
raccolta delle firme. La sostanza però rimane. Ed è quella di uno
scontro via via meno governabile fra piccoli e grandi partiti della coalizione
e della stessa opposizione. Dietro gli altolà al doppio turno e le
stucchevoli diatribe fra sistemi da importare, si avverte una diffidenza
reciproca che nasce da interessi diversi; e che alla lunga può
scaricarsi sul governo. Già il ministro della Giustizia, Clemente
Mastella, ha avvertito che se si arriverà al referendum, la sua Udeur
uscirà dal governo, provocandone la crisi. Il nervosismo affiorato ieri
nelle file di Rifondazione segnala un'altra minaccia. E nessuno è in
grado di placare le polemiche. D'altronde, rafforzare il maggioritario
significa adattare il sistema al futuro Partito Democratico, inseguito da Ds e
Margherita. Il proporzionale, invece, assicura la sopravvivenza delle
formazioni minori. Si tratta di un gioco a somma zero, anche se tutti giurano
che si sta cercando un compromesso per tenere compatta l'Unione e soddisfare il
centrodestra; e si fanno scudo delle raccomandazioni arrivate ripetutamente dal
Quirinale perché ci sia la quasi unanimità. In realtà, i margini
rimangono striminziti. E l'opposizione può annunciare che "la
Babele dell'Unione" renderà quasi inevitabile il referendum:
sebbene lo stesso centrodestra sia diviso fra i referendari di An, tifosi del
maggioritario, ed i proporzionalisti dell'Udc e della Lega, con FI in posizione
d'attesa. Non a caso, il partito di Gianfranco Fini ricorda che senza un'intesa
rapida, il referendum va celebrato perché è "la strada
migliore". Su questo sfondo in cui la confusione è sovrana, il
futuro del governo, e perfino della legislatura diventa ancora più
precario. Le probabilità che un referendum nel 2008 terremoti Prodi sono
alte. Ma rischiano di salire anche quelle che si arrivi al voto anticipato, pur
di scongiurare una scadenza che semplificherebbe il sistema riducendo il numero
dei partiti. Sono pericoli concreti. Proprio per questo potrebbero fare il
miracolo di produrre un accordo sulla nuova legge elettorale nei "tempi
strettissimi" invocati da Prodi alla fine delle sue consultazioni a
palazzo Chigi. Ma nel marasma che si intravede oggi, si tratterebbe di un esito
non scontato: appunto, miracoloso. I tempi strettissimi del premier per
raggiungere un accordo non scontato.
Cara Europa, vorrei sapere cosa pensate dal reality televisivo
di Raidue “La sposa perfetta”, che ci ripropone scherzosamente ma non troppo
l’immagine della storica suocera italiana, colonna dell’altrettanto italiano
familismo amorale, che vede tutto il bene nel suo figlio maschio e tutto il
male nella donna che lo porterà via, magari perché “brava a letto” e “la
dà subito”. Contemporaneamente, Canale 5 ci offre l’Italia contadina (un
po’ parodistica) di “Un due tre stalla”: insomma un’Italia democristiana,
mentre la società è tormentata da un’ennesima crisi giovanile cui
si vorrebbe rispondere con modelli arcaici. Noi genitori grandi idee non ne
abbiamo, ma le élite, la classe dirigente ne hanno? ELENA DI VAIO, LA SPEZIA
Non credo, cara signora. Né in Italia né all’estero, mi pare. Lo
dico anche in base alle ultime notizie apprese dai genitori, come la decisione
del governo Blair di “combattere” i cyber-bulli, cioè il bullismo sul
web (mi scusi se adopero questa lingua mista da colonia, ma è quella dei
giornali, che più possono usarla e più credono di essere
internazionali).
Bullismo, comunque, di alunni e alunne delle scuole di Sua maestà, che
il ministro dell’educazione Johnson vorrebbe contrastare in collaborazione coi
siti come Google e You Tube, i più usati dai giovani che filmano e
spacciano fotografie e insulti in rete. Da noi il ministro Fioroni ha accolto
con interesse l’iniziativa del collega britannico, che solleva un tema comune
nel mondo, ma aggiunge: «Nessuna censura, sia chiaro: a è troppo
chiedere ai gestori di vigilare sui contenuti dei video che circolano sui loro
siti, in particolare quelli di bullismo?».
Io non credo, caro ministro, che sia troppo chiedere ai gestori di vigilare,
almeno ai giganti del web (ci risiamo con la colonia), come i citati Google e
You Tube. Ma forse il problema non è solo questo. Almeno come prima
terapia d’urto, il problema è coinvolgere penalmente e civilmente le
famiglie nei resti – perché tali sono – commessi da figli a scuola e, in caso
di minorenni, anche fuori dalla scuola; e convincere i collitorti (clericali o
laici) che in tutto il mondo dirigono i grandi media tv radio, internet, a non
offrire ai giovani, e gli stessi adulti, modelli alternativi arcaici.
Appunto quelli di Raidue e Canale 5 di cui parla lei, gentile signora, che
finiscono col rappresentare l’idiozia arcaica degli adulti anche quando
ammantano le loro credenze sulle future nuore e sulle mogli altrui con
espressioni volgarucce prese dai giovani. I quali non sanno che duemila anni
prima di loro, e senza essere volgaruccio, Ovidio le scriveva nell’Ars amandi,
garantendo, lui gran conoscitore, che Quae dant, quaeque negant, gaudent tamen
esse rogatae.
Dunque, togliere dal video i reality senza cultura è giusto così
com’è doveroso chiudere grandi e piccoli siti ai cyberbulli e
sequestrare i telefonini a scuola, registrando le reazioni dei genitori, i
quali già registrano a loro volta le reazioni dei professori immaginando
di portarle in tribunale anziché di riempire di ceffoni le facce dei figli
rincoglioniti dalla tempesta ormonale dell’età.
Ma il problema è che la società generale deve dare un giro di
vite: non ai morenti che non ce la fanno a sopportare i dolori, o sulle coppie
non sposate che vivono pacificamente e chi dono qualche diritto civile, contro
cui si scatena l’odio teologico (pensate se a San Giovanni si andasse, anziché
per “Più Famiglia”, per “Più cultura ai giovani”); ma un giro di
vite sugli abusi diventati senso comune, dallo spinello (ministra Turco) ai
superbolidi del sabato notte, dallo spaccio sotto casa alla prostituzione
dovunque, dalla sodomie in parrocchia alla libera vendita di armi, dalle mani
nel tanga della professoresse agli sfottò che portano il ragazzo al
suicidio. Potremmo fare un libro, ritagliando questi episodi dai giornali degli
ultimi tre mesi, e chiuderlo con una domanda: chi ha pagato?
Annunciata in
febbraio come ultima spiaggia sulla quale fermare la marea del disastro
iracheno e vincere la guerra, raccontata imprudentemente già l'8 marzo
scorso da George Bush come "un successo incoraggiante", l'escalation
della guerra in Iraq sta producendo i risultati facilmente e tristemente
previsti: un cambio di strategia del nemico che sceglie dove e come colpire, e
riesce a ferire addirittura il cuore della fortezza americana, la Zona Verde,
facendo strage di parlamentari e di personale civile in una caffetteria,
quattro anni dopo l'altro, mitico annuncio di "missione compiute".
LO SCENARIO
"Sono gli stessi che vogliono colpirci" l'ira di Bush contro il
doppio attentato Oggi come nel '68 quando i Vietcong assalirono l'ambasciata
Usa a Saigon La Casa Bianca è "vicina a coloro che soffrono".
Lodi al governo di Al Maliki che lavora per la "riconciliazione" Il
presidente Usa rispolvera la teoria della "carta moschicida":
"Meglio combatterli là, che trovarseli di fronte qui" (SEGUE
DALLA PRIMA P
L'AQU
LA Partita dalla
constatazione della necessità del dialogo interculturale - "un vero
e proprio segno dei tempi" -, la relazione della professoressa Santerini
ha subito indicato la sfida - "centrale per il futuro" - nella quale
l'educazione si trova a essere impegnata oggi: "rendere possibile la convivenza
tra diversi, favorire un dialogo che costruisca una società
pacifica". Gli obiettivi dell'educazione interculturale, quindi, devono
essere ampliati: non si tratta più soltanto di aprire le istituzioni
formative agli immigrati, "ma soprattutto di contribuire a creare e mantenere
la coesione sociale in contesti di pluralismo culturale", e "non
soltanto di tipo etnico". Come? Dopo aver svolto una riflessione sull'idea
di cultura e sulla differenza (perché "un rinnovamento della visione del
confronto di culture" precede necessariamente la revisione delle strategie
educative), sottolineando in particolare che "ogni cultura fin dalle
origini va considerata mista" e a maggior ragione al tempo della
globalizzazione, la studiosa ha messo in guardia dai rischi del relativismo
culturale che "postula l'uguale validità delle culture e la
neutralità nei loro confronti, ma all'estremo ne impedisce le
relazioni". Il che, in educazione, significa "impedire il dialogo e
la reciproca trasformazione, rafforzando, anziché ridurre, i confini tra i
gruppi". Nelle sue prime fasi, ha ricordato Santerini, "l'educazione
interculturale ha corso proprio questo rischio; educatori e insegnanti, pur con
le buone intenzioni di abbandonare l'etnocentrismo e lo sguardo monoculturale,
hanno finito con l'esaltare la differenza fine a se stessa". Da parte sua,
la scuola negli ultimi decenni ha affrontato - a livello europeo - l'enigma
multiculturale attraverso tre fasi distinte: la fase dell'assimilazione (per
cui ci si è sforzati di inserire le culture minoritarie senza troppo
preoccuparsi delle stesse), quella del multiculturalismo (con la scoperta del
pluralismo, ma anche - come si diceva - il rischio del relativismo e della
folklorizzazione delle culture) e quella dell'interculturalità, una
"fase ancora in divenire in cui occorre realizzare l'integrazione delle
culture nella reciprocità". La prospettiva educativa che nasce da
quest'ultima, ha spiegato Santerini, "contrasta l'idea dell'altro in
termini deterministici e assoluti e presuppone la differenza sostenendo la
persona, essa stessa multiculturale, nella costruzione di un'identità
complessa e non esclusiva". Si pone allora la "domanda
centrale": come trovare un linguaggio comune? "Come elaborare quella
che Joseph Ratzinger ha chiamato la "grammatica" che ci permette di
comunicare, davanti alla paura della diversità?". È forse
proprio questo il ruolo dell'educazione oggi, secondo la studiosa:
"promuovere quel dialogo che rende possibile la comunicazione tra diversi,
aiutando a "tradurre" i differenti modi di pensare e sentire".
Ma "non si tratta soltanto di dialogo inteso come procedura o come metodo,
ma di aiuto affinché le persone tornino alla propria cultura a partire dalle
culture altre, cioè riflettano su se stesse in un orizzonte di "appartenenza
all'umanità"". A scuola, il problema della
"grammatica" per il dialogo comporta la necessità di
esercitare "un riconoscimento, un rispetto per le culture di origine dei
ragazzi immigrati, che risponda alla loro domanda non di comunitarismo ma, al
contrario, di più integrazione in un modello laico e
universalista". Una "scuola della cittadinanza", insomma,
"in cui la dimensione interculturale sia per tutti, immigrati o meno, che
porti a scelte di plurilinguismo, guidi criteri per la distribuzione degli
alunni imnmigrati e non la concentrazione in scuole-ghetto, punti sulla
pedagogia della cooperazione per affrontare le differenze nella classe,
affronti i problemi di discriminazione". Non solo. Bisognerà
puntare "alla diversità culturale, ma anche a quella sociale, con
essa intrecciata, e alla posizione che le famiglie occupano nel contesto
esterno, attuando misure di sostegno a una stabile integrazione". Ma
attenzione: l'educazione interculturale dovrà coinvolgere tutta la
classe. Perché tutti - come dimostrano le migliori esperienze al riguardo - ne
possano trarre beneficio. Francesca Sandrini Un enigma. Ha parlato di
"enigma multiculturale" Milena Santerini, ordinario di Pedagogia
generale all'Università Cattolica del Sacro Cuore che ieri ha introdotto
con la sua conferenza i lavori del colloquio internazionale dell'Acise.
Sono arrivate,
le incivili e minacciose scritte sui muri contro il neopresidente della Cei
Bagnasco e contro Papa Ratzinger, proprio quando i vescovi italiani stavano
rischiando di renderci simpatico, per reazione, il diavolo. Sono arrivate a
ricordarci che questo nostro cattolicesimo, in cui siamo nati e in cui
intendiamo continuare a vivere, va protetto anche da se stesso, va difeso anche
quando viene colto dalla fregola fondamentalista, e dunque va scortato non solo
dalla polizia come sta avvenendo a Genova, ma, se occorre, da tutti gli
italiani. Insomma siamo pronti a offrirci volontari come guardie del corpo del
vescovo Bagnasco anche noi laici. Uno scorta laica per Bagnasco (SEGUE DALLA
PRIMA P
Il leader carismatico dell'Udc: «Ora aspetto sulla riva del
fiume». «Il referendum elettorale? Se ci sarà, io guiderò il
fronte del no»
ROMA—I
sostenitori del terzo polo rischiano di restare delusi. Per il leader dell’Udc, Pier Ferdinando
Casini, che si prepara al Congresso, «è un’idea astratta». La
prospettiva è ristrutturare il sistema politico: «Aspetto sulla riva del
fiume— dice— che passino le bugie».
Non davano
Berretti verdi e non era neppure un cinema. Ma anche la storia politica di Pier Ferdinando Casini
(come quella di Fini) comincia a Bologna davanti a un’occupazione dell’estrema
sinistra; appoggiata però dalla destra. Il liceo Galvani era occupato.
Con un gruppo di ragazzi «fuori dal coro», Casini guida la rivolta dei
moderati. «Ho ancora i volantini: "Contro la svolta rossa e nera".
Seguì un referendum che vincemmo con il 60%». Il Galvani è la
prima scuola ad avere il consiglio degli studenti, anni prima della legge. «Era
il 1973, segretario Dc era Forlani, fu suo il primo comizio che andai a
sentire. Ecco, io mi sento coerente con il ragazzo di allora».
Andare contro
quello che era considerato il senso comune, per poi scoprire di essere, in realtà,
maggioranza. Il primo ad accorgersi di lui fu Giovanni Forti del manifesto,
dopo un’assemblea a Pisa nel 1976: «Come fa un giovane a essere seguace di
Flaminio Piccoli? ». Era Toni Bisaglia; ma rendeva l’idea. Eppure le sue scelte
avrebbero presto portato Casini lontano dalla Democrazia cristiana. Deputato a
27 anni, segretario di partito a 38: ma fuori dalla Dc divenuta partito
popolare. Senza per questo confluire in Forza Italia. Quando Berlusconi gli propone
di diventarne coordinatore, risponde di no sorridendo: «Lasciata la politica,
potrei lavorare con te aMediaset, non ora...».
Dirigente
della Dc emiliana, quindi votato all’opposizione, è il padre. «Un moderato vero, degasperiano e
scelbiano». Casini rivendica di aver onorato allo stesso modo i padri politici,
i grandi vecchi democristiani, a cominciare da Cossiga (dopo la morte di Moro e
le dimissioni è il primo a invitarlo a un incontro pubblico, all’hotel
Carlton di Bologna). Ma sarebbe fuorviante interpretare come recupero del
passato la linea che il congresso Udc — apre oggi il segretario Cesa, chiude
lui domenica — è chiamato a confermare. C’è un unico, decisivo
elemento di continuità: la mancanza di complessi di inferiorità
culturale verso la sinistra. «Tutta la storia del cattolicesimo democratico—
è la convinzione di Casini—nasce da una sorta di attrazione fatale verso
la sinistra perché là sventolano le bandiere della pace, là si
difendono i poveri. Ma poi sono venuti Wojtyla, Ratzinger e Ruini, ad aprire
una nuova stagione, a confutare l’idea della Chiesa come una grande ong».
A rileggere
la sua storia negli archivi,
c’è una prima fase in cui gli vengono rimproverate la levità, lo
«spirito del purgatorio», l’avvedutezza — essendo Pierfurby il più
ricorrente tra i tanti soprannomi riepilogati anni fa dal Foglio: Pierre, Polly
il bello, Tergicristallo, Colazione da Tiffany... —, persino il
bell’aspetto—«bello come un attore americano » scriveva già Vittorio
Orefice —. Poi viene l’elezione alla presidenza di Montecitorio, quando Casini
non nasconde la sua duplice natura, l’esuberante e la moderata, i «ciao» con le
mani e i baci ai familiari in tribuna e l’invocazione alla madonna di San Luca.
Quel giorno chiamarono un po’ tutti. Tra le poche telefonate che fece lui, una
fu per Romiti, la persona che chi gli aveva fatto incontrare Cuccia e avviato
un legame coltivato con riservatezza—una serie di incontri in un ristorante di
Milano, il Ranieri, che gli diedero modo di apprezzare «l’intima e privata religiosità»
del capo della finanza laica italiana —.
Sono anni di
autonomia da Palazzo Chigi
e di applausi bipartisan, il che infastidisce un poco Berlusconi. Ora che la
frattura è consumata, è tempo invece di attacchi mediatici, forse
anche di trappole. Che lui però minimizza. «Non ne sono innervosito. Non
mi sento un perseguitato, perché non lo sono ». La sua vita, racconta nelle
conversazioni private, è sotto gli occhi di tutti. Avrebbe potuto
comportarsi «come altri, vivere una vita doppia, tripla». Invece la scelta
dolorosa del divorzio. L’incontro con Azzurra Caltagirone, il viaggio nel
Sinai. «Siamo rimasti affascinati dal monastero di santa Caterina, ci siamo
detti: se avremo una figlia la chiameremo così. Caterina è
arrivata, è la mia terza figlia, ho voluto che nascesse come le altre a
Bologna, la mia città. Franco, che ha fama di uomo glaciale, con la
nipotina si scioglie. Il rapporto con il padre di Azzurra è affettuoso
sul piano personale, e la cosa finisce lì: quando ci siamo conosciuti io
ero già presidente della Camera e lui era già Caltagirone ».
Il
ragionamento che sviluppa con i collaboratori è che, se davvero l’Udc fosse irrilevante, i
giornali non scriverebbero che Berlusconi ha frenato sulla vicenda degli
ostaggi per non lasciarle spazio. Del caso Mastrogiacomo è convinto sia
un «pasticcio», di cui però è inopportuno discutere in piazza.
«L’idea di una commissione di inchiesta sui sequestri è davvero da
repubblica delle banane. Quando toccò a noi occuparcene, Gianni Letta si
mosse con straordinario senso dello Stato. Non a caso già l’anno scorso
si pensava a lui come candidato a Palazzo Chigi…». Non sarà però
sulla questione della leadership o dei rapporti con Berlusconi che Casini
incentrerà il congresso. Com’è ovvio, non potrà eludere il
nodo delle alleanze. Ma i punti fermi resteranno quelli di sempre. Il partito
rimane alternativo alla sinistra; Giovanardi che si candida alla segreteria per
impedire che l’Udc vada di là esprime una preoccupazione vana.
Però anche i sostenitori del terzo polo rischiano di restare delusi. In
queste condizioni il terzo polo è «un’idea astratta. Può
diventare una necessità. Un rimedio ».
Non una
strategia. Casini resta
convinto che nel ‘94 Martinazzoli abbia compiuto un errore: se, d’intesa con
Segni, avesse schierato la Democrazia cristiana da una parte, probabilmente
Berlusconi non sarebbe sceso in campo. Così come resta convinto che, se
l’anno scorso l’Udc si fosse presentata da sola come voleva Follini, sarebbe
andata incontro a una catastrofe numerica e politica. La prospettiva semmai
è di ristrutturare il sistema politico e solo in caso di fallimento
rinegoziare l’alleanza in un quadro nuovo. Con un’altra composizione, e
un’altra leadership. Senza fretta, però. «Posso permettermi di aspettare
sulla riva del fiume, in attesa che passino le bugie, le contraddizioni ». Per
vincere, i moderati non potranno prescindere dall’Udc. I moderati; non il
centrodestra com’è adesso. Casini è convinto che il sistema
politico di oggi vada cambiato, e sia destinato a cambiare. «Non è detto
che la normalità in Italia sia impossibile, che saremo ricattati in
eterno dagli estremisti di entrambi i campi».
I segni di
movimento ci sono. La
nascita del partito democratico apre uno spazio al centro e crea un
interlocutore, da criticaremacon cui confrontarsi. Il referendum elettorale non
è un dramma. Anzi, Casini è pronto a cavalcarlo, «a capeggiare il
no», a rivendicare la proprietà di un risultato che finirebbe comunque
per legittimare il proporzionale; e magari aprire la strada al sistema tedesco,
che superi le divisioni artificiali e avvicini le forze omogenee. Tanto la
scelta del sistema elettorale non sarà fatta ora, «ma all’ultimo momento
». Ai collaboratori Casini confida la sensazione che Berlusconi quasi preferisca
un centrodestra normalizzato alla caduta di Prodi. Del resto
l’antiberlusconismo gli appare il collante che tiene insieme l'attuale
maggioranza. I due strappi—il no al corteo di piazza San Giovanni, il sì
alla missione a Kabul — non hanno messo in gioco soltanto il rapporto con il
Cavaliere. Forlani lo critica, «ma non ne sono sorpreso: è mio amico,
come lo è di Berlusconi».
Giovanardi lo
attaccherà al congresso, però la fronda interna non è inutile se serve a
contenere l’emorragia di consensi verso destra; e poi l’amicizia è
solida, se è vero che quando Casini decise di separarsi fu Giovanardi il
primo collega a saperlo (due ore di colloquio in macchina, in un parcheggio di
Serramazzoni, sotto la neve). Com’è solido il rispetto per gli avversari:
«Con Franceschini stiamo invecchiando insieme; ero amico della fidanzata di
D’Alema, Giusi Del Mugnaio, ho sofferto con lui quando l’ha persa». Con Follini
non si sentono più: quando «un forte sentimento» si spegne, meglio una
pausa che una telefonata formale per gli auguri di Pasqua. Più che ad
allearsi con lui e con Mastella, preme a Casini rinfrancare il proprio
elettorato. «Se siamo al 7% con questo clima, non potremo che crescere».
Aldo Cazzullo
Fateci caso,
è la stagione degli "invece". Tiepidi, bollenti, ghiacciati.
Di ogni genere, a catena, appena qualche esempio. Alla vigilia dei congressi
prenatali del partito democratico, si scrive che la scelta unitaria è
una realtà: invece sono evidenti più linee politiche in
contrasto. Tre o quattro Ds, almeno un paio Dl, quella dell'Ulivo quando capita
un minimo di coesione (ma nel Pd "in fieri" non tutti sono ulivisti).
Piero Fassino proclama: "a dividerci è solo la storia da cui
veniamo". Invece, sul fronte Dl, il ministro Gentiloni sostiene: "non
riusciamo a declinare il nuovo partito al futuro". Boh. Si legge in
continuazione: "Nell'Unione sono tutti contro tutti". Nel
centrodestra invece pure. Ogni tanto si parla di un partito dei moderati o si
entra nei dettagli di un patto federativo: invece all'orizzonte si staglia il
solito fil di fumo. L'Udc teorizza una sorta di terza via e invece continua la
caccia al voto, quasi ovunque, insieme agli alleati: al limite, non si dovrebbe
più discettare di "due opposizioni", bensì di una e
mezza... Si cita incautamente, per darci coraggio, una sentenza di Mao Zedong:
"Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è
eccellente". Invece il momento è pessimo per eccesso di confusione.
O meglio, per la sua qualità scadente. Il nostro caos non è
affatto creativo. Il governo usa a perdifiato, in originale e fotocopia, il
termine "forte" per accompagnare decisioni o definire provvedimenti:
invece fragilità o addirittura evanescenza sono all'ordine del giorno,
proprio nei settori in cui l'esecutivo è insostituibile. Si è
regalato "per tabulas", mai scalpellino fu più incisivo, un
portavoce unico: invece ministri e sottosegretari dichiarano, controdichiarano,
polemizzano a ogni piè sospinto. A Palazzo Chigi sono tolleranti. Dicono
che si tratta di chiacchiere inutili. Com'è vero... Dovrebbe, il
governo, astenersi da pesanti intrusioni nelle attività economiche
private: invece non tralascia occasione per mettere becco o zampino nel
mercato, se non entrambi. A proposito di Telecom (e non solo) si grida che
interessano "innanzitutto le regole": invece microscopi, telescopi e
periscopi sono puntati sulle squadre in campo. Sui singoli giocatori. Nessuno
nega la necessità di profonde riforme istituzionali: invece restano
intatte, sotto teca manco fossero icone preziose, le distorsioni e le anomalie
del sistema (ammesso che esista un nostro sistema, almeno un sistemino). Si
auspica costa poco, il concorso della maggioranza e dell'opposizione per
significativi cambiamenti: invece "con" si perde lungo la strada e si
corre in ordine sparso. Verso dove? La riforma elettorale, poi,
è un "must". Il governo assicura impegno prioritario per la
ricerca di nuove norme "condivise": invece, tenta di allungare il
brodo a nutrimento di una stentata sopravvivenza. Si desidera, di qua e di
là, il superamento degli errori del passato: invece il punto meno
controverso (si fa per dire, vista la tenace disparità delle proposte)
sembra quello di negare ancora agli elettori il diritto di scegliere coloro che
li rappresenteranno in Parlamento. Un po' tutti speravano che il referendum
facesse bau-bau, insomma che fosse un canone di pezza: invece morde, anzi
minaccia di diventare un cannone. Che sia la "Grande Bertha"
dell'interminabile transizione italiana? Per ripasso, la signora Krupp (delle
omonime acciaierie) prestò il nome alla potente arma, lunga
«Ho incontrato il Board e mi rimetterò a qualsiasi sua
decisione»
NEW YORK
«Chiedo scusa e mi faccio carico di tutte le responsabilità del caso».
Con queste parole il numero dalla Banca Mondiale, Paul Wolfowitz ha aperto il
briefing di presentazione dei lavori dell’Istituto di Washington. Le scuse di
Wolfowitz si riferisconono alla vicenda per la quale avrebbe agevolato il
trasferimento della sua compagna al Dipartimento di Stato, dove guadagna poco
meno di 200.000 dollari all’anno. «Ho incontrato il Board questa mattina e mi
rimetterò a qualsiasi decisione si prenderà». Il Board della
Banca Mondiale sta decidendo adesso su eventuali misure da adottare.
«Ho fatto un errore del quale mi scuso», ma «non posso rispondere a queste
domanda», ha proseguito Wolfowitz riferendosi a chi gli chiedeva se avesse
rassegnato le dimissioni. «Sono speculazioni alle quali non posso replicare ora
che il Board è riunito per prendere le sue decisioni. Wolfowitz nel
settembre 2005, tre mesi dopo avere assunto l’incarico presso la Banca
Mondiale, aveva aiutato la sua compagna Shaha Riza, dirigente di banca, a
passare al dipartimento di Stato. I compensi della donna, che ammontavano a
circa 132.000 dollari, sono aumentati a 193.500 dollari, all’incirca quanto
percepisce il segretario di Stato Condoleezza Rice.
«Il mio rammarico è di non essere riuscito a tenermi fuori da questa
situazione che, in ultima istanza, danneggia anche l’Istituzione per cui
lavoro». «Due anni fa quando ho assunto la guida della Banca Mondiale ho
immediatamente posto la questione alla commissione Etica dell’Istituto. Era una
situazione senza precedenti, eccezionale, e pertanto il Board ha deciso di
promuovere Riza e di trasferirla», ha spiegato Wolfowitz, che ha poi ammesso
che avrebbe voluto seguire il suo primo istinto, non occupandosi della vicenda
in questa occasione.
Il numero uno dell’Istituto di Washington ha inoltre spiegato che ci sarebbero
stati dei rischi legali se la situazione non si fosse rivolta con un accordo
consensuale. «Mi assumo pertanto - ha ribadito - tutte le responsabilità
per i dettagli, e non me ne voglio sottrarmi esponendo altri ad assumere
responsabilità». «Si è trattato di un doloroso dilemma personale.
Ancora non conoscevo l’Istituzione, ma chiedo comprensione e chiedo di essere
giudicato non associandomi al mio lavoro precedente», ha precisato il
presidente della Banca (con l’amministrazione del presidente George W. Bush
ndr). «Lavoro per una Istituzione in cui credo profondamente, la Banca
Mondiale, e per la cui missione nutro una grande passione».
Michael White
risponde dal suo studio del Southwestern Medical Center all’Università
del Texas di Dallas e spiega i dettagli degli studi appena terminati da un team
di ricercatori, senza però lasciarsi prendere da eccessivo ottimismo.
Ciò che distingue White infatti è la volontà di
sottolineare i limiti dei risultati, al fine di chiarire che la rivoluzionaria
terapia genetica basata sulla tecnologia Rna è appena all’inizio.
Qual
è il fine della ricerca genetica che avete condotto?
«La ricerca tenta di risolvere il problema dato dal fatto che molte persone non
rispondono positivamente all’assunzione di farmaci anti-cancro e altre, pur
rispondendo positivamente, generano una ricaduta che diventa intrattabile con
il farmaco che è stato adoperato».
Quali
sono i vostro obiettivi che vi proponete di raggiungere per rimediare al
problema?
«Sono due. Primo: far funzionare farmaci antitumorali come il Taxol in un
numero maggiore di persone di quanto avviene. Secondo: consentire ai medici di
sviluppare terapie che portino a ridurre la chemioterapia che ha effetti
tossici pur continuando a essere molto efficace contro le cellule cancerogene.
Insomma, puntiamo a rendere la chemioterapia da un lato più efficace per
più persone e dall’altro portatrice di minore tossicità».
Come
siete siete arrivati a ottenere tali risultati?
«Grazie all’avvenuta mappatura del genoma umano e alla possibilità
di attivare o disattivare ogni gene presente nel genoma. Senza questo punto
d’inizio non avremmo potuto fare nulla. Ciò che abbiamo fatto in
laboratorio è esaminare i geni uno per uno, interrogandoli per
comprendere l’impatto sulle cure con farmaci anti-cancro. Abbiamo quindi preso
le cellule resistenti al Taxol, comunemente usato per curare i tumori al
polmone, cercando di identificare i geni capaci di aumentare l’efficacia del
trattamento, diminuendo le resistenza. E abbiamo ottenuto un significativo
successo, riuscendo a identificare in particolare almeno un paio geni risultati
determinanti».
Allora
perché la sua prudenza sull’esposizione dei risultati che sono stati ottenuti,
con l’accento sulla precisazione che «non sono ancora utilizzabili per gli
esseri umani»?
«Perché la tecnologia Rna che abbiamo adoperato per attivare i geni funziona
assai bene in laboratorio ma dobbiamo ancora lavorare molto affinché possa dare
identici risultati negli esseri umani, dentro organismi viventi. Un’alternativa
che stiamo esaminando può essere quella di identificare le proteine capaci
di attaccare i geni identificati. Ma non siamo ancora arrivati a questo punto,
ci aspetta molto lavoro».
Ritiene
che la chemioterapia sia un rimedio oramai datato e che la soluzione potrebbe
venire da una terapia basata sulla genetica?
«Certo, la chemioterapia è uno strumento vecchio e sarebbe opportuno
sostituirlo al più presto con qualcosa di più efficiente nel
produrre effetti tali da contrastare i tumori negli organismi umani. Ma non
bisogna avere fretta: la realtà è che la chemioterapia oggi
funziona e non siamo ancora in grado di liberarcene, ciò che invece
possiamo fare è combinarla con l’uso di medicinali capaci di attaccare i
geni che riusciamo a identificare come decisivi per diminuire la resistenza
degli organismi dei singoli pazienti».
Come
giudica l’andamento della lotta ai tumori?
«La medicina è diventata molto sofisticata nell’identificare
scorciatoie, rimedi, capaci di aggirare le resistenze delle cellule
cancerogene. Vi sono molte strade da percorrere e noi abbiamo voluto indicarne
una razionalmente basata sulle possibilità offerte dalle scoperte
ricavate dalla mappatura del genoma umano, terminata da poco. Abbiamo
identificato gli obiettivi da colpire: i geni che impediscono ai farmaci
antitumorali di avere effetto positivo in quanto servono alle cellule per
sopravvivere al cancro. Trovando dei farmaci per intervenire su queste cellule
potremmo avere molti, positivi, effetti a catena».
CHI E'
Michael
White
Professore associato di Biologia cellulare al Southwestern Medical Center di
Dallas (Texas)
Vita.it 12-4-2007 Blitz di Greenpeace alla Banca
d'Italia
Greenpeace ha proposto a Mario Draghi, governatore della Banca
d'Italia, di vendere il palazzo per due pacchi di sale, 18 barre di sapone,
quattro pacchetti di caffè, 24 bottiglie di birra e due sacchi di
zucchero, quello che le multinazionali del legno offrono alla gente dei
villaggi del Congo in cambio dell'accesso alle loro preziose foreste.
In vista dell'incontro della Banca Mondiale, che si terrà a Washington
nei prossimi giorni, Greenpeace ha consegnato a Draghi, che è anche il
Governatore italiano della stessa Banca Mondiale, un rapporto che rivela come
gli sforzi di quest'istituzione di controllare l' industria del legno stiano
fallendo mentre la foresta scompare nell'illusione che, estraendo il legno, si
possa combattere la povertà.
A preannunciare l'azione dimostrativa nei giorni scorsi erano
comparsi in alcuni parchi romani e di altre città numerosi cartelli sugli
alberi che ne annunciavano l'abbattimento. Non era vero, ma non era neppure uno
scherzo. Era solo la riproduzione in scala ridotta di quello che avviene
dall'altra parte del nostro negozio di mobili o parquet.
Proprio ieri Greenpeace ha presentato il rapporto "Sos
Congo" denunciando come la foresta pluviale del Congo, la seconda per
estensione dopo quella Amazzonica, una delle principali difese del pianeta
contro i cambiamenti climatici, sia a rischio. "Immaginate una ruspa che
entri in casa nostra sfondando le pareti, i quadri, i mobili. È quello
che accade ogni momento ai popoli indigeni della foresta, quando le motoseghe e
le ruspe si fanno spazio devastando la loro casa, il loro supermercato, la loro
biblioteca" afferma Sergio Baffoni, responsabile foreste di Greenpeace.
"Per questo oggi siamo entrati in azione a Roma e in altre città e
abbiamo fatto appello al governatore della Banca d'Italia e ai ministri degli
esteri e dell'ambiente perché intervengano. La Banca Mondiale che si riunisce
nei prossimi giorni può fare molto per fermare questo saccheggio delle
foreste".
Ogni due secondi un'area di foresta grande quanto un campo da calcio viene
distrutta per sempre. In Africa foreste millenarie vengono saccheggiate per
portare via legni pregiati come iroko, wengè, afrormosia. A rischio
è la sopravvivenza stessa di numerose specie animali, come i nostri
più vicini parenti nel mondo animale, gorilla,
bonobo e scimpanzè. Un'area di foresta africana grande una volta e mezzo
l'Italia è stata già data alle aziende del legno. Greenpeace
chiede al governo italiano e alla Banca mondiale di non promuovere in Congo un
modello economico basato sull'industria estrattiva, che non ha portato sviluppo
ma solo povertà e devastazione
ambientale.
La Repubblica 12-4-2007
Napoli La borghesia e la plebe Vincenzo Spagnuolo Vigorita
L’Unità
12-4-2007 Veltroni: "L'Ulivo deve avere l'ambizione di arrivare al 40%
Italia
Oggi 14-4-2007 Tra le righe spuntano i
partiti
La storia dimostra che le rivoluzioni (non necessariamente e in
tutto sanguinose) le fa la borghesia "crassa", la borghesia
imprenditoriale dell'industria, della finanza, del commercio; o anche i Lords,
quando erano titolari di manifatture o patenti di corsa. In ogni caso, la
borghesia ricca, associata e strutturata nella consapevolezza di sé, della
propria forza e dei propri diritti-interessi. Nei piccoli Paesi Bassi, il
ferreo governo della gilde dei mercanti contrastava il passo alle armate
spagnole nel massimo splendore del "siglo de oro"; e le "ronde
di notte" immortalate da Rembrandt ("La compagnia del capitano
Banning Coq") tenevano a bada malavita e tangenti d'ogni natura. In periodi
fortunati, alla grande borghesia economica facevano da ornamento e orientamento
circoli di veri intellettuali. Questi ultimi da soli però, e l'esempio
è proprio qui da noi nel 1799, sono finiti sulle forche dei Borboni e
dei sanfedisti. Non sottovaluto la possibilità di un fronte di opinione,
che arrivi a possedere una qualche forza di pressione: ma ci vorrebbe Voltaire
(appunto) e gli Enciclopedisti, e i grandi giornalisti, e i grandi maestri
della cattedra e della critica; e poi la coscienza comune e anche di sé, il
cercarsi e trovarsi, l'abnegazione, il disinteresse, il coraggio. E tuttavia
non si andrebbe lontano senza le strutture e le forze imprenditoriali. Da noi
purtroppo le carenze si sommano. La borghesia economica latita non solo per
consistenza, ma per autonomia e spirito d'impresa. Il professore
d'università non forgia una scuola per elaborazioni superiori, ma si
gloria delle ore di lezione come il bidello di servizio nel corridoio; il
giornalista non scaglia campagne mirate contro la corruzione, e teme
anche di attaccare a chiare lettere l'infame centravanti della squadra di
calcio; il medico non produce ricerche e statistiche ma tessere di partito.
Meno che mai c'è una coscienza civica, la consapevole pretesa d'aver
accesso a una piattaforma non discutibile né trattabile di diritti, di
libertà, di lavoro, di dignità. Regna il credo dell'elemosina,
delle briciole, della carità: per cui si innalza a gigante anche il
più analfabeta (ricerca ardua!) degli esponenti di quartiere. E senza la
pluralità di centri di potere bilanciati la democrazia è uno
schema vuoto. Già la borghesia cosiddetta civile è una minoranza
in una città oppressa da una plebe sterminata, incolta, aggressiva,
irrecuperabile. La depressione è il meno che ti possa colpire quando poi
si vede il borghese "civile" anche più dotato e fortunato
prodursi nella sfrenata corsa al mercimonio, compiere virtuosismi nell'arte
della compravendita e della caccia all'incarico clientelare. Molti partecipano,
certo, al governo della città e del territorio: ma in posizione servile,
perché nella più vergognosa baratteria prendono soldi dalla sciagurata
direzione di imprese pubbliche o parapubbliche, o perché preparano in mille le
mille ordinanze di stampo illegale e mafioso che il presidente si vanta di
firmare senza leggere. Altro che Aventino! E non riesco a capire come si sia
sostenuto che - qui e oggi - su quel colle metaforicamente ci sono solo posti
in piedi, in virtù evidentemente di un massiccio disinteresse. Qui
c'è invece l'ennesima riprova aggravata della vecchia abitudine italiana
di precipitarsi in soccorso del vincitore. Sull'Aventino dissero di ritirarsi
nel 1924 - in ricordo della leggendaria iniziativa della plebe romana degli
inizi e della metà del IV secolo a. C - i deportati antifascisti
indignati per il vile assassinio di Matteotti, nella generosa illusione di
provocare la caduta del governo Mussolini e la punizione dei colpevoli. Quei
deputati dissidenti quindi sentivano fortemente la questione morale (come
sottolineò Giovanni Amendola), rischiavano la pelle contro le bande di
delinquenti armati dai fascisti, alla fine persero il seggio parlamentare. Essi
dunque persero la battaglia politica, ma la combatterono con coraggio,
con piena consapevolezza di battersi per una causa grande e giusta. E gli
stessi plebei del IV secolo a Roma - che pare si siano veramente ritirati sul
colle Aventino - avevano coscienza di classe e obiettivi di grande rilievo:
politico, come l'accesso alle magistrature, riservato ai patrizi; o sociale,
come il connubium con le donne patrizie, strumento palese verso l'eguaglianza;
o civile, come la certezza del diritto. Si rivedono forse oggi simili
motivazioni, simile coscienza, simili responsabili rischi nell'atteggiamento
del borghese che - seppur non si precipiti ad arraffare la livrea del
lacchè - si disinteressa della cosa pubblica? A me pare che la borghesia
napoletana, per quel che ce n'è e non sia compromessa, abiti a
Posillipo, al Vomero, al Monte di Dio. L'Aventino, nel senso della nobile
tradizione, proprio non lo vedo. Forse perché esso è, nella
realtà, solo una piccola altura di appena
Nei palazzi della Roma eterna, il Partito democratico aleggia come
uno spettro fra stelle e stalle, fra il 23% e il nonsoché, fra volte
affrescate, paure demoscopiche e la neolingua "democratese", che
tutto minimizza e annacqua. Il premier minimizza. Dice Romano Prodi, dopo che
sul Corriere della Sera Renato Mannheimer ha dedicato una lenzuolata al
sorprendente fenomeno rilevato dalle indagini sulle intenzioni di voto, quello
che porta i due elettorati di Ds e Margherita (31%) a sottrarsi, piuttosto che
a sommarsi: "Io non mi stupisco dei sondaggi: in questo momento - spiega
il premier - se anche guardo dall'esterno quello che sta avvenendo, è
fisiologico e fatale per un periodo di contrattazione". Splendidamente
camomilloso: conoscendo il Professore non ti aspetti nulla di diverso: periodo
di contrattazione per meno 10% vince il premio eufemismo 2007. Veltroni &
Rutelli. E allora entri nel salotto buono di Palazzo Madama, la sala Zuccari -
la più fastosamente affrescata del Senato, forse - per una serata che
meglio di così non potrebbe annunciarsi: nell'ora della verità, a
discutere della nuova creatura ci sono Walter Veltroni e Francesco Rutelli. E
insieme a loro un direttore di quotidiano, Roberto Napoletano, e il senatore
Antonio Polito, che sul tema ha scritto un libro brillante e provocatorio
(Oltre il socialismo, Marsilio). Nel giorno in cui nei sondaggi la neonata
creatura cola a picco - pensi - Rutelli e Veltroni potrebbero aprire uno
squarcio di futuro, far assaporare un antipasto di leadership, l'anteprima di
una battaglia di idee, magari convergere o dissentire su diversi progetti di
partito. Ovviamente ti illudi, e a fine serata, quel che resta nel taccuino dei
cronisti sconfortati è l'eterno minuetto di sintonie e frecciate, di due
leader che affilano le zanne scambiandosi effusioni. Con piglio filologico proviamo
a dimostrarvi come parlando straordinariamente bene l'uno dell'altro, i due si
siano cordialmente manifestati reciproco dispetto. Confronto ovattato. Ecco la
cronaca tutta arbitraria di un confronto che non c'è stato. a)
Rutelli come suo solito arriva con un quarto d'ora di ritardo, perché teme che
altrimenti non lo si noti (Napoletano tocca la mezz'ora, e poi si mette a fare
domande sul debito pubblico!). Veltroni invece se ne va mezz'ora prima e dice:
"Scusatemi, devo andare in Campidoglio, sapete, io sono un fondamentalista
della puntualità!" (tiè). b) Rutelli, con un giochino di
parole, butta lì la sua lisciatina all'anima cattolica: "Questo
deve essere un partito interamente laico in cui deve potersi ritrovare chi
è cattolico intero". E poi (excusatio non petita Pagina successiva
>>.
Il sindaco di Roma con Rutelli che polemizza coi sondaggi e
aggiunge: "Penso ad un partito laico nel quale ci siano cattolici
"interi"" di Maria Zegarelli / Roma Il cuore oltre il sondaggio.
Soprattutto se l'ultimo blocca il partito democratico al 23% dei consensi. Per
il sindaco di Roma Walter Veltroni si deve "puntare al 40% dei voti e
questa non è un'utopia ma una necessità. Se l'ambizione non
è questa non capisco la scelta che stiamo facendo". "Lasciamo
perdere i sondaggi - continua il sindaco Ds durante la presentazione del libro
di Antonio Polito "Oltre il socialismo" - è difficile che
siano attendibili soprattutto se parlano di un partito che non
c'è". Francesco Rutelli, gli siede accanto e concorda: "Simon
Peres una volta disse: "I sondaggi sono come i profumi: annusare, non
bere". Puntare in alto, avere l'ambizione di coinvolgere la società
civile nella nascita del partito del nuovo secolo, dicono l'attuale vicepremier
e l'ex vicepremier che si si sono dati il cambio nella guida della più
grande e complicata città del Paese. Rispondendo alle domande del
direttore del Messaggero, Roberto Napoletano, cercando di allontanare i nuvoloni
che da tempo minacciano il Pd. L'Italia, dice Veltroni, ha bisogno "di
stabilità, politica e istituzionale, e di modernizzazione. Credo proprio
che sia quest'ultima la scintilla" in grado di accendere nuove passioni.
Lo sa bene lui, alla guida di una coalizione "che in anni ha spostato il
31% dei voti, un terzo dell'elettorato". "Il paese ha bisogno di
avere certezza di chi lo governa", e ci vuole coraggio per cercare di
unire "coloro che sono più vicini". "Se dovessimo
accettare un nuovo conflitto tra laici e cattolici faremmo un grande
passo indietro - dice il primo cittadino -. Io, da democratico non posso non
essere profondamente preoccupato per le scritte contro monsignor Bagnasco, ma
questo non vuole dire che non possa continuare ad avere la mia idea sulla
laicità dello Stato". Il Pd, aggiunge Rutelli, deve
"essere un partito laico, interamente laico nel quale deve trovarsi anche
un cattolico "intero"", senza per rischiare nel dire questo di
essere tacciati di "clericalismo". Entrambi insistono sui "contenuti,
non sui contenitori". Dunque, la questione della leadership del futuro
partito non può essere posta all'ordine del giorno perché "è
prematuro, si dovrebbe parlare di temi, non di geometrie organizzative e
partitiche", insiste il vicepremier. Non più rinviabile la riforma
elettorale, "che non si fa per aiutare i processi politici ma per aiutare
un paese ad avere stabilità. La riforma è un'esigenza del Paese e
non del Pd - spiega Veltroni -. La strada maestra per una nuova legge
elettorale resta il Parlamento e spero che tutti si accorgano che senza una
nuova legge elettorale chi vince non potrà garantire la
stabilità".
ROMA
Il paradosso più stridente, la peculiarità più singolare
della base diessina, nonché il vero motivo per cui il Partito democratico alla
fine si farà, risiede in un dato generazionale che gli analisti, e i gruppi
dirigenti della Quercia, faticano a mettere a fuoco: la «base» è
più giovane del vertice. In molti sensi, ma specialmente in uno: il
militante, l’attivista, il segretario di sezione andava alle elementari quando
è caduto il Muro, Togliatti l’ha studiato sui libri di scuola e i conti
con il comunismo - «che tanto appassionano il Corriere e Fassino», sorride una
ragazza della Garbatella - appartengono al suo mondo quotidiano e al suo
orizzonte ideale non più del Risorgimento o della Grande Guerra. I post-comunisti
sono davvero postcomunisti, e del Pci conservano tutt’al più un ricordo
familiare. Per questo le scaramucce al vertice interessano poco e nulla, e per
questo la minoranza di Mussi, ancorché percepita come nobile e legittima,
appassiona poco.
Nell’oleografia comunista la «base» era convenzionalmente identificata, da
amici e avversari, con le feste dell’Unità, con le salsicce e con le
coccarde: generosa e fedele, un poco ottusa, e in rapido invecchiamento. Questa
antica favola ancora sopravvive al dissolvimento del Pci: ma nei Ds di oggi
trova la sua smentita più clamorosa. La mitica sezione Mazzini - mitica,
a Roma, perché frequentata dai borghesi del quartiere Prati e dal mondo Rai -
è già, per dire, una sezione del Pd: causa lo sfratto dalla storica
sede, oggi i diessini dividono la nuova con la Margherita e anche con lo Sdi.
«Qui forse metteremo Mussi», spiega Renato, trent’anni, iscritto da tre,
indicando la stanza che ospita i socialisti di Boselli: ma il concetto è
che «oramai siamo tutti una famiglia, che ci piaccia o no», e dunque «il
Partito democratico si farà pe
Già: sul futuro Pd s’è persino aperta (al vertice, naturalmente)
una stucchevole polemica sulla permanenza o no di Gramsci-Togliatti-Berlinguer
ai muri delle future sezioni democratiche. Dimenticando che quei ritratti -
tranne forse l’ultimo, che è da tempo un’icona innocua quanto astratta,
come «Che» Guevara - già da tempo sono spariti dalle sezioni.
Intendiamoci: ci sono anche gli anziani, nelle sezioni diessine. E ci sono i
nostalgici, gli identitari, i «rompiballe», gli ingraiani e persino i
cossuttiani, e quelli che ancora vengono in sezione col «manifesto» perché
dissentono ma non troppo, e quelli che la domenica diffondono l’ «Unità»
come se ancora la dirigesse Macaluso. Ma sono frammenti, residui, «madeleines»,
cui i giovani guardano con delicatezza e rispetto, senza alcuna nostalgia.
Per loro - per la spina dorsale della Quercia, per quelli che ne organizzano le
campagne elettorali - il tema non è il gulag o l’Internazionale
socialista, e neppure «questa idea di aggiungere ogni giorno qualcuno nel
nostro Pantheon: stavolta ha proprio ragione Stefania Craxi, mancano soltanto
Totò e Macario...» (Marco, trent’anni, architetto, San Lorenzo). Ai
trentenni che oggi hanno, letteralmente, le chiavi del partito in mano, importa
di capire che cosa succederà adesso, non che cosa è successo nel
’56. O «come si fa a vincere le prossime elezioni, perché non sarà certo
il restare o no nel Pse a deciderlo...» (Paolo, ultra 40enne, Garbatella).
Visto dal basso, il vertice diessino sembra muoversi seguendo una mappa vecchia
di dieci o vent’anni: ma persino la topografia urbana è cambiata
radicalmente. Oggi il palazzone rosso di via delle Botteghe Oscure è un
residence di lusso, l’«Unità» ha lasciato da tempo il quartiere popolare
di San Lorenzo e la storica sezione di Ponte Milvio - vi era iscritto
Berlinguer - appartiene da anni a Rifondazione. Se agli «anziani» - ai
dirigenti, agli intellettuali, agli opinionisti - quel paesaggio appare stravolto,
per tutti gli altri è il mondo così come l’hanno sempre
conosciuto. «A me Veltroni piace - spiega Barbara, trent’anni, “dalemiana”
convinta, precaria e benestante - non perché fa il dj con Diaco, ma perché non
parla mai di Togliatti».
Alla generazione di Barbara manca, per ora, un leader: nessun dirigente della
Quercia ha meno di cinquant’anni, non c’è (ancora) un Franceschini o un
Letta. Del resto, nessuno - neppure i «rompiballe» - coltiva una vera antipatia
per Fassino, D’Alema o Veltroni, anzi. Ma di fronte alla «Villetta», il casale
della Garbatella che dal ’45 ospita la sezione del Pci, e poi, in regime di
separazione dei beni, quelle del Pds-Ds e di Rifondazione, la giovane militante
trae le sue conclusioni: «Il mio Partito democratico? L’hanno fatto Barbara
Pollastrini e Rosi Bindi con il disegno di legge sui Dico».
La riorganizzazione delle forze del centro sinistra sta giungendo a una stretta
risolutiva. Nel giro di pochi giorni si terranno i congressi dello Sdi, dei Ds
e della Margherita. Dagli ultimi due verrà sancita la nascita del
Partito democratico. I tempi e i modi sono ancora avvolti in una nuvola di
incertezza, ma lo sbocco è ormai inevitabile. Sottolineo l’aggettivo
inevitabile, perché il sentimento più diffuso fra i sostenitori di
questo progetto non è più da tempo l’idea di un grande
cambiamento, di un pensiero politico forte e innovatore, bensì l’ineluttabilità
di una scelta cui è legata ormai la credibilità e la stessa
sopravvivenza della classe dirigente della Margherita e di gran parte di quella
dei Ds. Le ragioni di chi non condivide questo progetto dal punto di vista di
una sinistra laica, liberale e socialista sono già state esposte fino
alla noia. L’abbiamo fatto insieme: associazioni, circoli e club ancora al
convegno di Bertinoro del 3-4 marzo, dedicato all’obiettivo della costituzione
di una forza politica «laica e liberalsocialista, a vocazione maggioritaria, in
competizione con il Partito democratico, collocata in Europa nel Pse». Il
successo di quel convegno ha confermato la crescita dello spazio potenziale per
una forza di sinistra che sappia coniugare la ferma difesa dei valori della
laicità e dei diritti civili con i principi socialisti della giustizia
sociale. Per questo abbiamo scomodato dagli archivi quel particolare filone del
pensiero politico che va sotto il nome di socialismo liberale, che in vari e
successivi passaggi ha ispirato il rinnovamento del socialismo europeo negli
ultimi decenni dalla socialdemocrazia tedesca, al new labour, al Psoe di
Gonzales.
Per questo abbiamo presentato in quel convegno ipotesi precise in materia di
politica internazionale, di politica economica e di welfare, tese a definire
una piattaforma di confronto con tutte le forze disponibili alla sfida della
modernità e del cambiamento. Per creare un soggetto politico che si
candidi a una chiara, effettiva, identificabile leadership riformista e
modernizzatrice nella sinistra italiana, capace di attrarre anche forze
riformiste liberali che ancora stanno nel centro destra.
Il titolo del manifesto politico dell’associazione per la Rosa nel pugno,
l’associazione che costituimmo nel luglio dello scorso anno per salvaguardare
il fecondo nocciolo di verità della Rosa nel pugno, anche dopo il suo
fallimento come soggetto politico unitario, suona appunto così: laici,
liberali in economia, radicali per i diritti civili, socialisti nel welfare.
Queste posizioni politiche incrociano secondo noi sentimenti diffusi nella
società italiana, portati ancora più in luce dalle carenze e
dalle contraddizioni di un Partito democratico che la logica politica sospinge
verso una collocazione di centro a tendenziale vocazione cattolica. Da qui il
malessere profondo degli ulivisti prima maniera e soprattutto di gran parte
dell’elettorato diessino, non solo della piccola parte residuale, nostalgica
del Pci, ma anche e soprattutto di quello più laico e moderno che dopo
l’89 si aspettava la trasformazione del Pci in un partito socialista e liberale
(vi ricordate la “rivoluzione liberale” promessa da D’Alema, ancora in fase
socialdemocratica?).
L’insieme di questi fatti attribuisce un vero significato dì strategico
al congresso dello Sdi che si apre domani a Fiuggi. Compiendo la scelta della
Costituente socialista «aperta a tutti: progressisti, liberali, laici, radicali
e ambientalisti» lo Sdi taglia il nodo gordiano che lo stringeva da tempo,
andando ben oltre il mero rifiuto della prospettiva del Partito democratico e
la mera riaggregazione della diaspora socialista. È importante che la
mozione di Boselli non si sia lasciata catturare dalla tentazione di riproporre
pari pari il vecchio Psi, pure in una fase storica in cui il sentimento di
rivalsa riemerge legittimamente, dal momento che il revisionismo storico in
atto induce a riconoscere i meriti del Craxi migliore e più innovativo
anche da parte di quanti ne furono i più acerrimi nemici. Con questa
scelta lo Sdi può proporsi come fattore di guida e di impulso di un
processo politico distinto e competitivo con il Partito democratico nella guida
della sinistra e del paese. Con ciò dando uno sbocco anche alla crisi
della Rosa nel pugno e a quanti, fra i radicali, vorranno uscire da una pura logica
autoreferenziale. Occorre inoltre sottolineare che questo progetto di
Costituente viene lanciato mentre matura nel paese un crisi profonda
dell’assetto politico-istituzionale della seconda repubblica, con l’esigenza di
superare le strettoie dell’attuale bipolarismo coatto, come dimostra tutto il
dibattito sulla legge elettorale.
È dunque uno scenario di grandissimo interesse quello che si sta
aprendo. Uno scenario che richiede coraggio, lungimiranza e una grande apertura
politica e culturale, perché l’obiettivo è estremamente ambizioso, non
tanto nei confronti delle aspettative della società italiana, quanto per
lo stato dei soggetti politici chiamati a implementare questo processo. Uno
stato gracile, frammentato e spesso puntiforme. Lo Sdi, che pure è il
soggetto maggiore, è una piccola forza che porta i segni dei lunghi anni
di battaglia per la sopravvivenza autonoma all’interno della sinistra. Poi ci
sono le organizzazioni, ancora più piccole, de “I socialisti”, del Psdi,
di parti importanti del Nuovo Psi che sta andando verso un congresso
risolutivo. Poi c’è quello che noi chiamiamo il movimento di Bertinoro:
un pulviscolo diffuso di circoli, associazioni e militanti di area socialista,
ex diessina, laica liberaldemocratica, repubblicana e radicale.
Un pulviscolo che può garantire la fecondazione del progetto nella
società ed estendere moltissimo l’area di ascolto e partecipazione,
tuttavia un pulviscolo difficile da aggregare e fare contare. Poi c’è
quanto sta avvenendo nei Ds.
Nelle prossime settimane si porrà infatti il problema del rapporto con i
numerosi militanti che votando le mozioni di minoranza al congresso Ds, hanno
dichiarato la propria volontà di non aderire al Partito democratico. Il
possibile incontro con queste forze ha fatto gridare allo scandalo Piero
Fassino e ha alimentato una campagna di interdizione verso la Costituente
socialista, presentandola come il fantasma di un nuovo Psiup. Qui si gioca una
partita decisiva per il profilo politico e culturale della forza che vogliamo
costruire. Credo che nessuno avverta davvero né il bisogno di un nuovo Psiup,
né di un rinato Pci. Questo vuol dire in altri termini che non si può
pensare nei tempi pratici della politica (altri sono quelli della storia) che
l’attuale processo costituente possa coinvolgere Rifondazione comunista e altre
forze della sinistra radicale. Non perché non si veda il travaglio politico e
ideale in atto in quel partito, anche alla luce dell’esperienza di governo, ma
perché proprio per rispetto di quel travaglio, non si può pensare che il
passaggio dalla rifondazione comunista alla costituente di una forza
socialista, laica liberale possa essere ridotto a operazione politicista, a
pura tecnica politica, incomprensibile per l’opinione pubblica e per il paese.
Stiamo parlando di socialismo europeo non di Sinistra Europea. Non a caso il
socialismo europeo è diventato il tema distintivo del contrasto politico
dentro i Ds, e lo Sdi ne è al momento l’unico partito italiano aderente
senza incertezze anche per il futuro.
Non dubito che la grande maggioranza dei compagni e delle compagne che si
apprestano a lasciare i Ds siano ben consapevoli di queste differenze ancora
fondamentali e che con la loro opzione per il socialismo europeo, vorranno
confrontarsi positivamente con il processo all’ordine del giorno della
costituente socialista. Vi porteranno le loro sensibilità e i temi su
cui sono più impegnati, sul solido terreno di una sinistra moderna,
riformista e di governo, che saprà guardare con rispetto e nei termini
delle convergenze possibili sia verso il Partito democratico sia verso una
sinistra radicale in via di trasformazione.
Un’ultima considerazione sui tempi e i modi di organizzazione della
Costituente. Le molte esperienze del passato, soprattutto l’ultima della Rosa
nel pugno, ci ammoniscono a non trascurare gli aspetti di organizzazione e del
modello di partito. Fra l’altro possiamo veder in questi giorni l’impasse della
“fusione a freddo” fra Ds e Margherita, gli scontri di potere che già si
agitano sotto il pelo dell’acqua, la dispersione in atto di quel grande
patrimonio di partecipazione della prima fase dell’Ulivo e poi delle primarie.
Crediamo che a regime il nuovo soggetto politico dovrà riuscire a
bilanciare l’esigenza di un partito organizzato che valorizzi l’apporto dei militanti,
con quella di partecipazione e controllo da parte di una platea di sostenitore
ed elettori più ampia. Nella fase transitoria il processo di amalgama,
selezione e consolidamento in un gruppo dirigente nuovo, inevitabilmente
condizionato e marcato dall’origine relativa di ogni aderente al partito,
sarà inevitabilmente lungo e difficile: una struttura federale
permetterebbe nella transizione di affrontare al meglio le difficoltà
della battaglia politica senza dovere nel contempo risolvere tutti gli inevitabili
problemi personali e di gruppo che accompagneranno questo processo.
Quello che comunque è decisivo è la definizione urgente di regole
per cui tutti coloro che lo vorranno possano registrarsi come iscritti alla
Costituente e che alla fine solo essi, siano o no anche iscritti ai soggetti
politici partecipanti alla Costituente, abbiano diritto a votare sugli
indirizzi politici e sui dirigenti del futuro partito. Michele Salvati, che
disperatamente patrocina da anni la causa del Partito democratico, ha cercato
di trovare una risposta alle difficoltà di quel progetto con proposte di
partecipazione intelligenti e innovatrici. Non credo che basteranno a superare
le difficoltà politiche del Pd, ma quell’idea esposta martedì
scorso sulCorriere della Sera di un’offerta pubblica di adesione al nuovo
partito, potrebbe essere assunta da noi per la nostra Costituente.
Ma questa volta, forse, la polemica politica sembra cedere il
passo a una preoccupazione più immediata. La canea scatenata dalla
tragica esecuzione di Adjimal, l'interprete di Daniele Mastrogiacomo, ha ceduto
il passo, alle nuove minacce della Jihad islamica anche all'Italia e, anche
grazie all'invito di Giorgio Napolitano, a una riflessione sulla gestione
multilaterale dei rapimenti nei teatri di guerra. Hanno risvegliato ieri le
ultime preoccupazioni gli attentati firmati da Al Qaida ad Algeri con decine di
morti e la relazione semestrale inviata dai servizi segreti al Parlamento che
indica di nuovo l'Italia "nel novero dei potenziali obiettivi
dell'offensiva jihadista" e definisce "di prima grandezza" i
rischi per attacchi al personale delle nostre missioni all'estero, a cominciare
dall'Afghanistan e dal Libano. È auspicabile che la Pasquetta di insulti
tra maggioranza e opposizione sulla liberazione di Mastrogiacomo e il ruolo di
Gino Strada non vengano a turbare il dibattito in aula, anche se la Casa delle
libertà, che sembra non più appassionarsi alle questione delle
trattative e dei riscatti vista la chiamata a correo, è oggi tentata di
dividere la maggioranza sulla richiesta della sinistra radicale che esige da
Prodi la difesa di Emergency e la liberazione del suo mediatore scomparso nelle
galere di Kabul senza che gli sia stata mossa una formale accusa, in barba ai
principi democratici e dello stato di diritto che proprio l'Italia è
andata a insegnare in Afghanistan. Sul dibattito a Montecitorio aleggia anche
la proposta di una commissione d'inchiesta per far luce su tutti i sequestri in
zone di guerra, che, presentata dalla Lega, ha trovato una sponda inattesa e
astuta in casa diessina (Massimo Brutti). L'ansia di verità qui
contrasta con le ragioni di opportunità. La commissione dovrebbe infatti
indagare sul ruolo dell'intelligence. Ma esigere trasparenza dai servizi
segreti è una favola. Oppure un ossimoro. L'ipotizzata commissione
finirebbe per compiere una gincana tra segreti di Stato, ragioni internazionali,
rifiuto di collaborazione degli Stati Uniti e omissis vari, in terre esotiche
ma anche pericolose. Che oggi si adagiano sulla sponda sud del Mediterraneo,
dal Marocco alla Turchia, con retroterra nel Sahel (Mauritania, Mali e Niger in
prima fila). Gli attentati di Algeri, rivendicati dalla neonata "Al Qaida
per il Maghreb islamico", seguiti a sole ventiquattr'ore dalla tragica
caccia al terrorista di Casablanca, raccontano che è operativa in
Nordafrica la fusione delle organizzazioni jihadiste e che, come sottolinea
Antoine Basbous, fondatore e direttore dell'Osservatorio (parigino) dei Paesi
arabi, "l'Europa fa parte degli obiettivi" di questa rifondazione
jihadista. "Tutto è sapere se ci arriveranno, come e in quale
momento". Ancora una volta è indicato il rischio dell'entrata in
azione di membri di cellule dormienti che hanno fatto training in
Afghanistan e in Iraq e che oggi praticano, in Italia, Francia e Spagna, il
mimetismo sociale tra le comunità di appartenenza. La relazione dei
servizi segreti censisce burocraticamente per l'ultimo semestre 71 minacce
riferite al territorio italiano. Numero a parte, non è certo la prima
volta. E l'unica variante non tranquillizza: anche il Papa e il Vaticano sono
minacciati. La difesa contro il terrorismo islamista esige anche, e forse
soprattutto, una riflessione sull'impegno dell'Occidente nei Paesi islamici,
oggi affidato, invece che alla lotta contro l'ingiustizia e la povertà,
al business, alla guerra e alle minacce. Il Palamento se ne ricordi. Lo scandalo
Palestina, evocato dall'Europa democratica all'indomani dell'11 settembre,
è intatto. E intanto sono passati cinque anni. 12/04/2007.
L’incontro con
Romano Prodi, a questo punto, dovrebbe esserci. Ma a Roma, non a Washington. Il
presidente Usa, George Bush, si ritaglierà un giorno italiano durante il
vertice del G8 in Germania a giugno. Dovrebbe vedere il capo dello Stato,
Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio, e Benedetto XVI. Fonti
diplomatiche fanno capire che del colloquio col pontefice si parla da tempo.
Bush lo vuole pensando alle presidenziali del 2008, con i repubblicani indeboliti
dalla guerra in Iraq e Afghanistan. Ma ci sarà anche il primo contatto
con i vertici istituzionali italiani, dopo mesi di tensioni.
Le polemiche sul
caso Mastrogiacomo ripropongono un contrasto di metodo fra gli Usa e l’Italia,
a prescindere dalle maggioranze al governo. E dicono che il conflitto fra il
presidente afghano, Hamid Karzai e il medico Gino Strada, potrebbe avere
contraccolpi nella maggioranza prodiana. Ieri la Farnesina ha dovuto
riconoscere «la presenza preziosa» di Emergency: una precisazione alla vigilia
del dibattito alla Camera, nel quale toccherà a Massimo D’Alema
difendere il governo; e mentre l’organizzazione, emigrata per protesta a Dubai,
minaccia di lasciare l’Afghanistan. Qualcuno vede nelle parole del ministro degli
Esteri una concessione all’«antagonismo» pacifista, furioso con Karzai e pronto
a solidarizzare con Strada. L’accusa di Prc, Pdci e Verdi a Palazzo Chigi
è di avere scelto il metodo dell’ «usa e getta».
A Prodi si imputa
prima di essersi affidato a Strada per trattare con i talebani; e poi di aver
lasciato che Karzai imputasse i collaboratori di Emergency di fiancheggiare i
terroristi. Le frange più antiUsa arrivano a dire che non è
Strada a dover lasciare l’Afghanistan, ma le truppe italiane. Sono segnali che possono
riaprire un fronte scivoloso nell’Unione. La verifica si avrà nel
dibattito odierno. La cautela di Silvio Berlusconi fa pensare che nessuno
voglia lo scontro su una «linea umanitaria» dietro la quale possono spuntare
armadi pieni di scheletri bipartisan. C’è il rischio aggiuntivo di
esporre i servizi di sicurezza italiani, già colpiti dopo il sequestro
dell’imam Abu Omar da parte della Cia. Ma la prudenza si deve anche al sospetto
che Karzai abbia qualche ragione per dubitare di alcuni elementi di Emergency;
e all’ultimo rapporto del Sismi, per il quale l’Italia rimane un bersaglio dei
terroristi islamici.
La Repubblica 12-4-2007 Usa, niente "zar" per Iraq e
Afghanistan Rapporto choc della Croce Rossa sulle sofferenze degli iracheni.
Dopo la Siria la Pelosi vuole andare a Teheran la Casa Bianca: sconcertante
Bush non trova un coordinatore delle guerre. Scontro con l'Iran
sui prigionieri Prolungata da
Il Tirreno 14-4-2007 Dico e dintorni. Alla Chiesa non c'è
che dire grazie
In Europa la seconda causa di morte tra i ragazzi è il
suicidio; la seconda causa di morte è l'aborto (per i bimbi, non per le
donne). Già, se non ci fosse questa seccatura della Chiesa che reclama
politiche a sostegno dell'educazione, della famiglia fondata sul matrimonio,
del rispetto della vita umana dal suo concepimento alla morte, anche gli
italiani si sentirebbero più europei... Purtroppo da noi c'è
un'"inaudita offensiva clericale". Pensate, la Chiesa si ostina a sostenere
che la differenza sessuale è insuperabile. Addirittura. Sguainerà
la sua spada per dimostrare che le foglie sono verdi? Altrove, per fortuna, la
democrazia va a gonfie vele, lo Stato è laico e il colore delle
foglie è affar vostro, basta che la legge non dica "verde",
sennò discrima gli altri colori. Qualche esempio? In Portogallo il
popolo fa mancare il quorum a un referendum abortista e il governo socialista
prende atto che si tratta di una chiara indicazione per approvare una legge
abortista. In Spagna il proprietario della più grande catena di
giornali, radio e tv, grande elettore di Zapatero, sostiene che l'opposizione
non ha il diritto di fare opposizione perché altrimenti è
"franchista". In Gran Bretagna le Ong cristiane per l'infanzia devono
chiudere i battenti perché non possono nemmeno fare obiezione di coscienza alla
legge che, per non discriminare i gay, obbliga loro a dare in adozione i
bambini alle coppie omo. Nei Paesi Bassi chiunque può accedere alla
fecondazione in provetta e in Belgio l'eugenetica è legge. è
vero, solo in Italia la Chiesa resiste più che altrove, sostiene le
manifestazioni per la famiglia, scrive splendide note pastorali e fa del nostro
paese l'apripista di una controffensiva politica e razionale all'impoverimento
mentale in corso su tutto il continente. Che dire se non "grazie"?
Salvo D'Acquisto Montignoso (Ms) DICO E DINTORNI La Nota dei vescovi, voce
fuori del coro Alcuni giornali scrivono che la Nota dei Vescovi è un
atto di potere, d'ingerenza sugli affari della politica, che i vescovi sono
come i fondamentalisti islamici, addirittura fascisti, talebani; per il
"Riformista" sono aridi, crudeli e un po' ottusi. "Europa"
se la prende non con i vescovi ma con chi esaspera ad arte uno scontro che non
ha motivo di esistere. In realtà il documento ha dato voce a chi,
credente o no, ha opinioni per nulla coincidenti con quelle delle potenti lobby
del genere sessuale. Se i Vescovi avessero voluto trovare facili consensi ai
vertici, avrebbero potuto cavarsela standosene zitti o mandando qualcuno di
loro in uno degli innumerevoli talk show televisivi a dire sul tema le cose
"politicamente corrette", che purtroppo anche qualche cattolico e
perfino qualche prete va a dire in tv: accolto, ovviamente, da uragani di applausi.
Quando un governo perde tempo ed energie su di un aspetto marginale significa
che non ha idee e proposte concrete. Ing. Augusto Bruno Lido di Camaiore DICO E
DINTORNI Troppe ingerenze di Papa e vescovi Ma il nostro è uno Stato
laico o confessionale? Secondo la Costituzione è laico ma seguendo tutti
i giorni tv, radio e carta stampata, dove imperversano gli interventi dei
porporati cattolici, mi sembra che la nostra società stia
scivolando verso un cattolicesimo integralista. Si sta cercando con una
pressante intromissione del Papa e dei Vescovi di ostacolare la ricerca
scientifica e peggio ancora di intervenire nelle leggi in discussione al
Parlamento. Tutte le mattine si alza un Vescovo che vuol dire la sua. L'ultima
è stata veramente sconvolgente: "Se verrà approvata la legge
sui Dico arriveremo anche a legalizzare l'incesto e la pedofilia". Sono
affermazioni fatte da una mente offuscata dai dogmi cattolici e non
liberata nella concezione della vita dell'uomo moderno. Però non riesco
a capire i nostri politici. Non ce n'è stato uno che abbia
ritenuto giusto intervenire con forza per far cessare queste illecite
intrusioni. Sia a destra che a sinistra non c'è la volontà
politica di affermare che l'Italia è uno Stato laico e che il
Vaticano è uno Stato sovrano con i suoi canali d'informazione che
possono far da portavoce al Papa e ai Vescovi invece di affollare le nostre Tv
(tipo "Porta a Porta") e rilasciano interviste entrando nel merito di
leggi e provvedimenti promulgati dal parlamento. La chiesa deve curare le
anime, i governi gli uomini. Leandro Morroni Livorno UOMINI E CANI Il povero
Billy cerca una famiglia Caro "Tirreno", grazie per aver pubblicato
la settimana scorsa il mio appello per il povero cane Billy incatenato e
abbandonato a se stesso. Purtroppo il cane, nonostante gli sforzi miei e di
tante altre persone, ha avuto la sorte peggiore: i proprietari hanno firmato la
rinuncia e il cane è stato prelevato e portato al canile di
Viareggio. La triste storia di Billy oggi è ancora più triste:
abbandonato da tutti vive ora in una gabbia e rifiuta il cibo. Oggi Billy ha
bisogno di una famiglia pronta ad accudirlo e dargli affetto. Aiutatemi a
diffondere questo appello. Chi fosse interessato a Billy può contattare
me (Alessia: 335/6657844) o rivolgersi al canile di Viareggio. Spero che Billy
trovi presto una nuova famiglia. Grazie! PRIVILEGI Onorevole, ci ridia la sua
pensione Ho letto che duemila ex parlamentari e mille eredi di deputati e
senatori incassano un vitalizio che varia (a seconda degli anni trascorsi in
Pralamento) da 3mila
Un riferimento diretto a
partiti e sindacati non c'è, ma anche per loro arrivano novità
nello schema di legge delega di riforma delle fondazioni e delle
associazioni che è stato predisposto dal ministero dell'economia. La
bozza, infatti, prevede una nuova disciplina per le associazioni non
riconosciute, tra cui figurano appunto partiti e sindacati, ovvero quegli enti
sprovvisti del riconoscimento della personalità giuridica e della
conseguente limitazione della responsabilità al solo patrimonio
dell'ente.Lo schema prevede per gli enti non riconosciuti
'l'applicabilità delle regole organizzative dettate per le associazioni
riconosciute, in caso di esercizio dell'attività d'impresa commerciale'.
In sostanza i sindacati e i partiti, attualmente associazioni non riconosciute,
potranno darsi all'attività d'impresa. Così facendo, però,
saranno soggetti a tutte quelle norme che impongono una disciplina di bilancio
rigorosa previste per le associazioni riconosciute.Insomma, anche su questo
fronte per i partiti potrebbero esserci delle novità. Del resto sul
punto già nei mesi scorsi si è creato un certo movimento per
cercare di dare a questi soggetti maggiori opportunità di finanziamento.
E così all'interno di un ddl presentato da Siegfied Brugger (Svp), che
aveva l'obiettivo di ottenere un semplice differimento del termine per la
presentazione delle richieste di rimborso delle spese elettorali, è
finito un emendamento del verde Marco Boato che consente ai partiti di
costituire fondazioni verso le quali di fatto dirottare i finanziamenti. Dietro
l'operazione, in particolare, ci sarebbero il tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, e
il vicepresidente di Fi, Giulio Tremonti. Dopo un momento di stasi,
però, l'argomento sembra tornare alla ribalta. In senato, commissione
affari costituzionali, è infatti cominciato in silenzio l'iter
congiunto di 5 ddl che puntano al riconoscimento giuridico dei partiti e ad
aprire nuove strade per il loro finanziamento.
++
Libero 11-4-2007 Camere sotto costo nei conventi
romani di NICOLETTA ORLANDI
++ Da
AgenParl 11-4-2007 UNIONE EUROPEA: DE CASTRO, ITALIA
UNICA IN EUROPA A VIETARE USO TRUCIOLI
+ Il
Tirreno 11-4-2007 CASO TELECOM E c'è chi si
scandalizzava agli appelli di Fazio. Andrea Romano.
Europa
11-4-2007 Il miracolo di un anno impossibile
di FEDERICO ORLANDO
Il Vaticano
ringrazia comitive, famigliole, coppiette, studenti, pellegrini. Roma in questi
giorni è invasa dai turisti. Ma a gongolare per come stanno andando gli
affari non sono soltanto gli albergatori capitolini. È proprio lo Stato
della Chiesa che ne trarrà grandi benefici: grazie alla trasformazione
di conventi, parrocchie, scuole in hotel e bed&brekfast la Santa sede
può disporre di larga parte degli oltre 15 milioni di pernottamenti
l'anno del turismo religioso, ovvero il 12% della capacità ricettiva
nazionale, con un business che supera i 4 miliardi di euro l'anno. Nulla di
male, ovviamente. Se non fosse che la competizione con gli albergatori
"laici" risulta falsata. L'albergo-convento è infatti esentato
dal pagamento dell'Ici e sul reddito d'impresa paga una tassa (l'Irpeg) ridotta
del 50%. Ci sono poi le ristrutturazioni. Prima del Giubileo lo Stato
sborsò qualcosa come 2 miliardi di euro destinati all'accoglienza dei
pellegrini, e gran parte di questi in realtà furono utilizzati dal
Vaticano per convertire parte dell'immenso patrimonio immobiliare della Chiesa
in strutture alberghiere, che a tutt'oggi hanno la medesima destinazione d'uso.
La metamorfosi continua, come dimostrano i tanti cantieri aperti nella
Capitale. Uno su tutti, quello segnalato da Mario Staderini, dirigente
nazionale della Rosa nel pugno, nonchè capogruppo in I Municipio. Si
tratta del convento delle suore oblate di Santa Maria dei Sette Dolori in via
Garibaldi, al civico 27, posto ai piedi del Gianicolo. "Nello splendido
palazzo seicentesco, opera del Borromini, sono in corso dei lavori
straordinari", spiega Staderini, "al termine dei quali il Vaticano
disporrà di un albergo con ben 62 stanze. Stanze dal valore unico,
considerando il pregio architettonico dell'edificio e la bellezza del luogo in
cui sorge. Questa", puntualizza l'esponente della Rosa nel pugno,
"è concorrenza sleale nei confronti degli altri albergatori".
Anche perché, sottolinea Staderini, non si tratta più esclusivamente di
turismo religioso, ma del più redditizio turismo commerciale:
"Suore e monache, infatti, non ospitano più solo pellegrini, ma
soprattutto viaggiatori comuni ai quali applicano prezzi ben al di sotto del
mercato. In centro storico chiedono circa 700 euro al mese per una camera".
Tutto questo, secondo Staderini, avviene con il placet dello Stato italiano.
"Non è un caso che gli ultimi due Ministri dei Beni culturali e del
Turismo siano stati Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli, ovvero", fa
notare, "importanti leader politici legati da rapporti durevoli con le
gerarchie vaticane. Il Ministero, in questi anni ha finanziato innumerevoli
restauri di beni cattolici, magari a discapito di resti del periodo romano e
quindi precristiano, e ha sottoscritto con la Cei una serie di accordi tra cui
quello che ha dato origine al più grande database di arte sacra
esistente in Italia". Ministero, dicevamo, ma anche Enti locali. Come il
Comune - basti pensare ai bus "Roma Cristiana" che godono del
patrocino del Campidoglio - e la Provincia di Roma. Che alla borsa
internazionale del turismo di Berlino, ha annunciato l'istituzione di una
Consulta per il turismo religioso, la prima in Italia, e il potenziamento del
progetto "Cammini della cristianità". Ovvero la promozione
della "Via Francigena dell'Est" (che passerà attraverso
Venezia, Ravenna, Rieti, Roma e Assisi) e delle feste patronali nei centri
dell'hinterland, ma anche lo sviluppo del circuito dei sopracitati bus. In
Germania a siglare l'accordo c'era il presidente della Provincia Enrico Gasbarra
e monsignor Libero Andreatta, amministratore delegato dell'Opera romana
Pellegrinaggi. Organo della Santa Sede, alle dirette dipendenze del Cardinale
Vicario del Papa, l'Opr è l'istituzione che gestisce gran gran parte dei
flussi turistici religiosi e non. Nata per organizzare i viaggi in Terra Santa,
Lourdes, Fatima, Santiago di Compostela, Czestochowa, Roma e "condurre
lungo le strade del mondo migliaia di persone che si mettono in cammino alla
ricerca di Dio", oggi in realtà prepara pacchetti per ogni dove.
Con 4 mila euro circa, ad esempio, è possibile andare in Namibia dove,
si legge sul sito, si potrà ammirare "il deserto del Namib,
l'Oceano Atlantico, attraversare il Damaraland, tra animali e grandi spazi,
fino ai safari in Etosha". Tutte cose che ben poco hanno a che fare con la
religione. "E chissà come verranno trattati i dipendenti",
incalza Staderini, "visto che non sono soggetti alle tutele del diritto
del lavoro italiano perché soggetto a quello internazionale, trattandosi di
ente dello Stato Vaticano". Salvo per uso personale è vietato
qualunque tipo di riproduzione delle notizie senza autorizzazione.
Roma, 2 Aprile
2007 – AgenParl – “Basta confondere i consumatori. L’Italia è unica in
Europa ad avere espressamente vietato l’uso dei trucioli nei vini di
qualità”. Lo ha ricordato il Ministro delle Politiche agricole
alimentari e forestali on. Paolo De Castro, precisando nuovamente, alla luce
del persistente circolare di non corretta informazione, che il decreto firmato
il 2 novembre 2006 non è un decreto autorizzativo.
Il testo dispone infatti il divieto dell’uso dei trucioli per i vini doc e
docg.
Dal canto suo il Consiglio Europeo dei Ministri dell’Agricoltura aveva
autorizzato l’uso dei trucioli per tutte le tipologie dei vini fin dall’ottobre
del 2005 e l’Italia continua ad essere ad oggi il solo Paese UE ad essersi
dotato di una norma restrittiva. Pertanto l’eventuale accoglimento da parte del
Tar del Lazio del ricorso voluto da Coldiretti,
Legambiente, Citta' del Vino e altri, annullando gli effetti del D.M.,
comporterebbe la possibilità di utilizzo dei trucioli per l’intera
produzione enologica e quindi anche per i vini certificati DOC e DOCG.
La vicenda della offerta di vendita di Telecom
Italia agli americani di At&t e ai messicani di America Movil mi pare abbia
fatto esplodere in un solo colpo tutte le contraddizioni del nostro sistema
economico, il famigerato capitalismo straccione assistito da una politica
altrettanto debole. Infatti, coloro che si scandalizzarono quando
l'ex-governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio proclamava di voler
difendere l'italianità delle nostre banche, opponendo alle sue teorie le
meraviglie della concorrenza internazionale, oggi invocano l'intervento di
qualche salvatore della Patria che eviti il passaggio di Telecom in mani
straniere. Non solo: da anni sentiamo ripetere che è necessario evitare
gli intrecci fra il sistema industriale e quello bancario, per non replicare
periodicamente nuovi crac Parmalat, eppure oggi vogliono tutti che siano le
banche a comprarsi Telecom, piuttosto che gli americani e i messicani. Infine,
il presidente della Confindustria Luca Montezemolo ha ben pensato di regalarci
la sua perla di saggezza: pur provenendo dal mondo della Fiat, la quale venne
ceduta agli americani della General Motors finché non furono loro a volerla
restituire all'Italia, oggi pontifica che con il passaggio di Telecom in mani
(anche) statunitensi il nostro Paese "non ne uscirebbe bene". Se si
può trarre una lezione da questo andirivieni di dichiarazioni
contradditorie, scelte a seconda delle occasioni e delle opportunità,
è che a certi personaggi non interessa né lo sviluppo della concorrenza
globale, né la difesa del sistema economico nazionale, ma solo il proprio
tornaconto.
Salvatore Carrubba
ha posto sul Sole 24 Ore del 16 marzo il tema dell'attualità del
giusnaturalismo. Un giusnaturalismo "laico" che si misuri con quello
cristiano. Il tema esiste.Alle soglie del nuovo millennio, di fronte a una
globalizzazione senza regole, alle novità della scienza e della
tecnologia, all'inedita guerra che non è più tra Stati,è
giusto interrogarsi sulla fondazione etica del diritto. In Italia, negli anni
50, il dibattito su giusnaturalismo e positivismo giuridico fu considerato
chiuso sul versante laico dalla nuova carta costituzionale. I valori comuni e
condivisi sono in quel testo; la battaglia giusnaturalista per i diritti, affermava
nella sostanza Norberto Bobbio,aveva raggiunto i suoi obiettivi. La conclusione
si può sintetizzare nel giudizio espresso allora dal filosofo del
diritto Guido Fassò: "Il giusnaturalismo laico è morto da un
pezzo, quel che rimane è il giusnaturalismo cattolico, o comunque a base
teologica". Il relativismo dei valori, del resto, è alla base della
teoria liberaldemocratica della democrazia. Come scrisse Hans Kelsen,
"proprio come l'autocrazia è assolutismo politico e l'assolutismo
politico corrisponde all'assolutismo filosofico, la democrazia è
relativismo filosofico". Se i valori sono relativi, afferma Kelsen,
l'unico criterio per decidere, in un sistema che non voglia essere autocratico,
è il principio di maggioranza. Positivismo giuridico e concezione procedurale
della democrazia convergono così nell'escludere ogni rilevanza a un
ragionamento fondato sul diritto naturale. Crescente però è
l'insoddisfazione per un esito di questo tipo. L'accelerazione della storia
alla quale assistiamo induce a temere una deriva nichilista del relativismo. Al
"nichilismo giuridico" ha dedicato di recente un acuto saggio
Natalino Irti. Ci si interroga sui "fondamenti morali prepolitici dello
Stato liberale", come ha fatto JÜrgen Habermas nel saggio con il quale ha
interloquito con l'allora cardinale Ratzinger. Ma è, il suo, un filone
di ricerca tutt'altro che isolato nell'odierno pensiero politico e giuridico.
C'è però un problema molto serio. Esso riguarda le precondizioni
di un dialogo tra giusnaturalismo laico e giusnaturalismo teologico, come
quello che all'alba della Repubblica fu alle fondamenta dell'elaborazione dei
principi contenuti nella nostra Costituzione. A coloro che ritengono che
occorre tornare a misurarsi nella non facile impresa di una fondazione
valoriale del diritto positivo,si pone il problema dell'atteggiamento,nel
dialogo volto alla ricerca di valori etici condivisi, che assume oggi la
teorizzazione ufficiale, da parte cattolica, di cosa si debba intendere per
diritto naturale, e delle conseguenze che ne devono derivare
nell'attività produttiva e interpretativa delle norme giuridiche. In una
seriedi documenti,alcuni dei quali direttamente provenienti da Benedetto
XVI,riemerge,con inedita fermezza,l'antica tesi del giusnaturalismo cristiano.
Essendo la "natura"espressione del progetto divino sulla storia,
unico soggetto legittimato a dire la parole finale e decisiva - ancorché
formata alla luce di una recta ratio universale, cioè potenzialmente
propria di tutti gli esseri umani - è colui che sulla Terra è il
titolare del potere e del dovere di comunicare la rivelazione divina. Ritorna
però per tale via la concezione autocratica dei valori alla quale si
riferiva criticamente Kelsen. Seguiamo le cronache di questi giorni. Prima si
afferma che il legislatore è vincolato a rispettare il diritto naturale,
come interpretato dalla dottrina cattolica. Poi si invita alla obiezione di
coscienza: si badi, non chiedendo di estendere le ipotesi legislative
già oggi previste (dall'interruzione di gravidanza per il personale
sanitario al servizio militare), e nemmeno sollecitandone il ricorso da parte
dei fedeli; si chiede di obiettare alle norme poste, comprese le norme
costituzionali. Si consideri l'invito alla obiezione di coscienza rivolto a
magistrati. Il filosofo del diritto Francesco D'Agostino, in un editoriale
sull'Avvenire, ha sostenuto (di fronte al rilievo che il magistrato che
contesti il fondamento etico di una norma di legge ha la via del ricorso alla
Corte costituzionale) che anche nel caso di esito per lui negativo del giudizio
di costituzionalità, egualmente è auspicabile l'obiezione di
coscienza del magistrato. L'invito, cioè, è a non applicare la
stessa norma costituzionale. E ciononostante la Corte costituzionale abbia da
tempo e ripetutamente affermato che al magistrato non può riconoscersi
una facoltà di questo tipo. E del resto, se si ammettesse questo
principio, che cosa dovrebbe impedire al magistrato di fede diversa, per
esempio islamica, o dotato di un forte convincimento politico, per esempio
anarchico, di comportarsi allo stesso modo? Non sarebbe più un dialogo
sui valori, ma un conflitto tra fondamentalismi. Proprio chi crede
nell'attualità di una nuova stagione del giusnaturalismo non può
non credere che si riconosca,a chi legittimamente crede nella formazione
extraumana del diritto naturale, di accettare davvero il dialogo. Il dialogo
è possibile solo se si ammette di non avere il diritto, sempre e
comunque,all'ultima parola.Come ha scritto Enzo Bianchi, il timore del
nichilismo deve essere comune ai credenti e non credenti. Ma allora a ciascuno
va chiesto di ammettere di non essere l'unico portatore dell'unico progetto
possibile per una rinnovata fondazione etica del diritto. I laici possono, e a
mio avviso devono, riconoscere che l'approdo nichilista del relativismo etico
è profondamente insoddisfacente. Ma al tempo stesso devono chiedere che
si riconosca, come del resto lo stesso Enzo Bianchi afferma, che non è
necessario per questo dialogo che il laico faccia proprio il presupposto
dell'etsi Deus daretur. Che si riconosca insomma che non è vera la
famosa frase di Dostoevskij, che vi sono atei e agnostici per i quali, se anche
Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto.
* Senatore ds.
Nella Repubblica
di Ahmadinejad i professori dissidenti saranno ammoniti con una stella e, se
precari, non saranno assunti a tempo indeterminato. Alla seconda stella i mezzi
a disposizione per la ricerca saranno tagliati. E alla terza arriverà la
lettera di licenziamento oppure il pre-pensionamento. Con lo stesso simbolo
erano stati segnati, nei mesi scorsi, i libretti degli studenti ribelli: le
collezionano quando sono fermati dalla polizia e dai paramilitari nelle
dimostrazioni di protesta. E alla terza stella sono espulsi dagli atenei. La
stella è simbolica.
In Iran è sul libretto di lavoro e su quello universitario, ma in Europa
ricorda quella a sei punte cucite sul petto degli ebrei durante l’Olocausto. E
indurrà quindi molti all’ennesimo paragone tra il regime di Ahmadinejad
e il nazismo di Hitler. In realtà, il simbolo della stella a professori
e studenti iraniani indurrà finalmente la stampa occidentale a discutere
della terribile rivoluzione culturale che il presidente iraniano ha avviato
oltre un anno fa. Senza dover ricorrere a simboli, Ahmadinejad ha già
licenziato e mandato in prepensionamento molti docenti universitari. E
sostituito con i suoi fedelissimi decine di diplomatici moderati nelle
ambasciate di tutto il mondo. Gli attivisti che militano nelle organizzazioni
non governative non sono stati più fortunati, poiché il governo di Ahmadinejad
ha bloccato i fondi stanziati dal suo predecessore Khatami. Senza
finanziamenti, le ONG iraniane rischiano la bancarotta.
Dall’università Tarbiat-e Modarres, dove era a capo del dipartimento di
Filosofia islamica ed è stato declassato a semplice docente, il
religioso Mohsen Kadivar spiega che “l’epurazione ha portato i più
fortunati, che parlano inglese e hanno contatti con colleghi stranieri, a
presentare domanda di insegnamento per un anno o due all’estero, per far
calmare le acque nell’attesa che scada il mandato di questo presidente e gli
iraniani tornino alle urne”. Commentando le ultime dichiarazioni di
Ahmadinejad, che ieri ha detto di voler installare ben 50mila centrifughe per
l’arricchimento dell’uranio, Kadivar ha ribadito che “gli iraniani non hanno
solo diritto al nucleare civile ma anche alla libertà di
espressione”.
A sollevare dubbi sulle affermazioni trionfalistiche di Ahmadinejad è
pure la diplomazia russa, che lascia intendere come il presidente iraniano stia
bluffando. Mikhail Kamynin, portavoce del ministero degli esteri di Mosca, ha
infatti detto di dubitare che l’Iran abbia recentemente fatto tanti progressi
tecnologici. Partner dell’Iran nei progetti atomici, la Russia di Putin
è ovviamente interessata alla vendita di know-how a Teheran, che paga in
petrodollari pronto consegna. Ma teme un’escalation della tensione con
Washington e con il resto dell’Occidente.
Le politiche di Ahmadinejad gli fanno perdere sempre più consenso. In
Iran, poiché la popolazione esige, oltre a un’economia solida e diversificata,
maggiore libertà di espressione. E questo vale per tutti ma soprattutto
i 50 milioni di iraniani (su un totale di 70 milioni) che hanno meno di 35
anni. Ma Ahmadinejad perde consenso ovunque. E persino alleati come la Russia
sembrano esasperati dalla sua retorica.
Sciolto
ufficialmente sedici anni fa, il Pci rivive come fantasma, ossessione,
occasione e pretesto per interminabili ripensamenti. Piero Fassino che annuncia
il prossimo solenne omaggio alle vittime italiane del Gulag compie un gesto che
solo apparentemente può significare l'immersione nell'archeologia degli
orrori del Novecento, un viaggio a ritroso nelle dispute che hanno infiammato
le passioni politiche di un tempo ma che ora sono spente, inerti, utili
soltanto ad alimentare le diatribe storiografiche. Ricordare i comunisti
italiani inghiottiti nel Gulag significa invece alludere al ruolo attivo che il
Partito comunista di Togliatti ebbe nel dispotismo staliniano: comunisti
massacrati dai comunisti, una storia tragica di delazioni, tradimenti, compagni
scomodi soppressi, annichiliti, sacrificati al Moloch totalitario. Fassino non
va a Mosca soltanto a commemorare le vittime del Gulag, ma va a ricordare che
anche il Pci contribuì alla costruzione del Gulag.
Gli storici (o almeno quelli che non si piegavano all'ortodossia della vulgata)
lo sapevano già da tempo, ma perché Fassino sente il bisogno
incoercibile di ricordarlo proprio adesso, in un'epoca così lontana da
quei fatti? Perché alla vigilia della nascita del Partito democratico e dello
scioglimento dei Ds, il segretario della Quercia avverte con allarme che la
prima mutazione, quella che nell'epopea dell'89 portò alla chiusura del
Pci, alla cancellazione delle sue insegne, del suo nome e della sua
identità storico-politica, fu sì drammatica, lacerante ed
umanamente gravosa, (quante lacrime copiose rigarono il volto dei dirigenti che
si avviavano a diventare postcomunisti) ma non tanto da spezzare tutti i legami
con il passato. Chi ha diretto il passaggio dal Pci al Pds e poi ai Ds ha
vissuto con un certo cruccio risentito la testarda sollecitazione a fare i
conti con la propria storia senza remore ed esitazioni, come se un destino
crudele costringesse i figli del comunismo italiano a sottostare ad esami che
non finiscono mai e a sentirsi perciò, come amano dire, figli di un dio
minore. Ma il complesso del postcomunista non ha perseguitato per prima proprio
loro, i figli di un dio minore che hanno trascorso un quindicennio nella
ricerca asfissiante di nuove aggregazioni, nuove denominazioni, nuove
rifondazioni, in un susseguirsi vorticoso di Cose dal nome incerto ed
evanescente, in un interrogarsi quasi maniacale sulla propria identità?
Oggi la maggioranza dei Ds guidati da Fassino ha scelto, e ha scelto proprio
grazie all'ammirevole ostinazione del suo segretario che tra pochi giorni
dovrà sobbarcarsi la fatica ma anche l'onore di un congresso che si
preannuncia come una svolta altrettanto dolorosa di quella della Bolognina. Il
suo approdo è il Partito democratico, lo scioglimento definitivo
dell'eredità postcomunista.
Ma con la percezione che è ancora l'altra eredità, quella
storicamente schiacciante, insomma l'eredità comunista, a chiedere di
essere definitivamente dissolta. La «bulimia del ripensamento» che sembra
agitare i dirigenti diessini, così tardivamente intenti a demolire ogni
tassello della passata identità (tranne l'icona di Berlinguer, come ha
acutamente notato un altro ex per nulla tenero con i suoi «compagni di scuola»
come Andrea Romano) sembra proprio la malattia che accompagna questo congedo
che si spera definitivo dal passato. Come se lo spettro del Gulag si fosse
risvegliato per portare i postcomunisti all'appuntamento del Partito
democratico totalmente purificati dalle macchie della loro storia. Anche se
forse ci potevano pensare (molto) prima.
Si può continuare a tacere? O bisogna interrogarsi se non si è
andati oltre? Oltre lo stato laico e il rispetto della pluralità delle
idee. Oltre l’idea di uguaglianza e il principio di non discriminazione.
Uno Stato è laico se religioni e ideologie non hanno influenza sul
governo della società, ma hanno valore solo per le persone. Lo Stato
deve garantire un comune spazio di libertà e non può imporre una
dottrina morale. Per questo è necessario che chi siede in Parlamento per
volontà di elettori ed elettrici serva il principio dell’autonomia e del
pluralismo, rappresentando e disegnando una comunità libera e
responsabile, contrastando le diseguaglianze in un contesto di diritti e doveri
e sancendo la libertà di organizzarsi la vita e le relazioni senza che
le scelte di alcuni diventino obbligo per tutte e tutti, pena la perdita
dell’autonomia personale e la conseguente violazione della dignità della
persona.
Vediamo crescere ogni giorno un ossessivo richiamo da parte della chiesa cattolica
ai valori e ai modelli unici: in questo apostolato scorgiamo, con
preoccupazione, vene di integralismo e di contrapposizione ad altri
integralismi, ma, proprio perché laici, difendiamo la libertà della
Chiesa e della sua missione.
Ciò che ci pare vada oltre è vedere le istituzioni, a partire dal
nostro Parlamento, incapaci di esprimere autorevolmente il proprio giudizio.
Arretrare per evitare la chiarezza, per paura di un sano conflitto di idee non
aiuta la convivenza, anzi descrive una società triste, che guarda
indietro e non sa scrutare il futuro.
I diritti civili segnano l’epoca, parlano dell’accoglienza e delle
società multietniche, del bisogno essenziale di diritti, doveri,
responsabilità, di rispetto, di libertà e quindi di
laicità.
Promotori: Susanna Camusso (sindacalista), Ferruccio Capelli (Direttore Casa
della Cultura di Milano), Sylvie Coyaud (giornalista), Claudio Fasoli
(musicista), Paolo Franchi (direttore del Riformista), Giorgio Gaslini
(musicista), Giulio Giorello (filosofo), Sergio Lo Giudice (Presidente
nazionale Arcigay), Aurelio Mancuso (Segretario nazionale Arcigay), Rita
Marcotulli (musicista), Alfredo Martini (Presidente Onorario Federazione
Ciclistica Italiana), Pier Giorgio Odifreddi (matematico), Moni Ovadia
(regista), Ottavia Piccolo (attrice), Lella Ravasi (psicanalista), Massimo
Rebotti (giornalista), Paolo Soldini (vicedirettore del Riformista).
Per aderire all’appello, si può
scrivere a scamusso@tin.it.
22 gennaio: Le nostre patate sono finite.Dagiorni
circolava per le baracche la voce che un enorme deposito sotterraneo di patate
fosse nascosto da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo;
ora qualche pioniere ignorato deve averlo rintracciato. (Passi, rumore di pale
e di carriole al vento). Un tratto del recinto di filo spinato è stato
abbattuto a colpi di pala, e una doppia processione di miserabili esce ed entra
dalla apertura. (...)
Narratore: Ed anche la fame stava per finire: il
deposito di patate era enorme, ce n’era per tutti… Nessuno sarebbe più
morto di fame (pausa).
25 gennaio: Nessuno sarebbe più morto di fame:
ma la morte continuava a mietere. La debolezza di tutti era estrema: nel campo
nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e di
dissenteria. Non c’erano medici né medicine: i malati e gli esauriti, che non
erano in grado di muoversi, giacevano torpidi nelle loro cuccette, paralizzati
dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. Per la prima volta la
morte è entrata nella nostra camera. È stata la volta di Somogyi:
un ungherese di cinquant’anni, alto, magro e taciturno. Era ammalato insieme di
tifo e di scarlattina. Da forse cinque giorni non parlava. Ha aperto bocca
oggi, e ha detto con voce ferma:
Somogyi:Ho una razione di pane sotto il saccone.
Dividete voi tre. Io mangerò mai più.
Narratore: Non abbiamo trovato nulla da
rispondergli, ma non abbiamo toccato il pane. Finché ha avuto coscienza
è rimasto chiuso in un silenzio aspro. Ma la sera e per tutta la notte,
e per due giorni senza interruzione, il suo silenzio è stato sciolto dal
delirio.
Somogyi: Jawohl..., Jawohl..., Jawohl...
Narratore: Jawohl, il Sì degli schiavi, la
parola dell’obbedienza e della remissione. La sua voce è sommessa,
è estenuata, eppure sembra che passi le pareti del tetto, che gridi al cielo.
Seguendo un ultimo interminabile sogno di schiavitù, Somogyi ha
continuato a dire Jawohl finché ha avuto fiato: regolare e costante come una
macchina, Jawohl ad ogni tensione di respiro, ad ogni abbassamento della povera
rastrelliera delle costole. Jawohl, migliaia di volte, tanto da far venire
voglia di scuoterlo, di svegliarlo, di soffocarlo. Non ho mai capito come
allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. (Silenzio per qualche secondo,
si sente soltanto il Jawohl di Somogyi) Fuori adesso c’è un grande
silenzio. La pianura intorno al campo è deserta e rigida, bianca a
perdita d’occhio, mortalmente triste. Il numero dei corvi è molto
aumentato e tutti sanno perché
26 gennaio: Siamo soli, abbandonati in un universo di
morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà è sparita intorno a
noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione intrapresa dai tedeschi
trionfanti, è stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È
uomo chi uccide, è uomo chi commette o subisce ingiustizia: non è
uomo chi ha perso ogni ritegno, e divide il suo letto con un cadavere. Chi ha
atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane,
può essere innocente, ma è segnato, è condannato, è
maledetto. È più lontano dal modello dell’uomo pensante, che un
sadico atroce e rozzo pigmeo. (Silenzio, si sente adesso in primo piano il
Jawohl di Somogyi. È morente e la sua voce è un rantolo) Erano
questi i nostri pensieri, alla vigilia della libertà. Soltanto Somogyi
si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. (…) Misono svegliato di
soprassalto: Somogyi taceva, aveva finito. Con l’ultimo sussulto di vita si
è gettato a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle ginocchia, delle
anche, delle spalle e del corpo.
27 gennaio: L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto
di membra stecchite, la cosa Somogyi. Nonpossiamo portarlo via. Ci sono lavori
più urgenti, non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo
di aver cucinato e mangiato. I vivi sono più esigenti. I morti possono
aspettare. Ci siamo messi al lavoro come tutti i giorni. Abbiamo preparato la
zuppa, abbiamo rifatto i letti dei malati, poi ci siamo accinti a quell’altro
triste lavoro. (Rumore di stoviglie ecc. Poi si sente un mormorio crescente,
lontano e poi vicino che si muta infine in grida di gioia e acclamazioni) I
russi sono arrivati mentre Charles e io portavamo Somogyi poco lontano. Lo
abbiamo caricato su di una barella: era spaventosamente leggero. Abbiamo
rovesciato la barella sulla neve grigia mentre sulla strada passavano le avanguardie
russe a cavallo. (...)
Narratore: Charles si tolse il berretto, a salutare
i vivi e i morti. A me dispiacque di non avere il berretto.
Primo Levi
Non ripeteremo per Romano Prodi, a un anno dalla sua vittoria
senza gioia alle elezioni del 9- 10 aprile, la frase che si attribuisce
all’abate Sieyès, teorico del terzo stato e padre della rivoluzione
francese, quando, sottrattosi al boomerang di Robespierre, gli domandarono cosa
avesse fatto durante il Terrore: «Ho vissuto». In quest’anno a Palazzo Chigi,
Prodi ha fatto qualcosa di più che aver vissuto, anche se agli italiani
manca la percezione del “Terrore” all’italiana. Glie l’ha descritto ieri, con
la maestria del grande artista, non politologo, non sociologo, non economista,
non giornalista, Vincenzo Cerami su la Repubblica.
Riproduciamo il testo, sperando che qualcuno che non l’ha fatto ieri ritagli la
frase e la conservi nel portafogli, per il giorno delle prossime elezioni di
maggio o per più grandi eventi: «Assediato da destra da sinistra e dal
centro; assillato dagli eterni debiti dello Stato; ricattato al Senato dal
trotskysta di turno ; additato dalla Chiesa come picconatore di famiglie;
dipinto come il Savonarola delle tasse; quotidianamente spintonato da sindacati
e Confindustria; privo di una benché minima attrezzatura che renda visibili le
cose buone del governo , compresa la difficile Finanziaria… Possiamo dire che
Prodi ha compiuto il miracolo. Ma finché la politica , in Italia, rimane
questa, c’è da essere molto ottimisti sull’avvenire del pessimismo, come
direbbe Rostand».
Bloccato al Senato da una legge elettorale Calderoli-Quirinale fatta per non
far governare, e stoppato in Consiglio dei ministri da una sinistra comunista
sudamericana che ci risucchia dalla modernità, il governo ha tuttavia
saputo ottenere i suoi successi più significativi proprio al Senato,
sulla politica estera ben guidata da D’Alema – dal ritiro dei soldati in Iraq
all’intervento in Libano al rifinanziamento delle missioni nonostante il
devastante provincialismo di Berlusconi; e in alcuni caposaldi della politica
economica e sociale, che è quella dove si misura la capacità di
innovazione di un centrosinistra rispetto al governo dei conservatori e delle
caste: intendiamo le liberalizzazioni di Bersani e la legge finanziaria di
Padoa-Schioppa.
Le prime ci avviano fuori dell’età feudale, nonostante la resistenza
degli interessi e di una destra liberista- antiliberalizzatrice-illiberale,
ferma a prima del laisséz faire, laisséz passer. La seconda, integrata da una
politica fiscale (effetto Visco) che aiuta il risanamento dei conti, lasciati
dalla destra come dopo una rapina a mano armata, aiuta a creare il clima in
cui, insieme alle liberalizzazioni, dovrebbero fiorire il rilancio delle
aziende, il benessere delle famiglie, il miglioramento esistenziale di tanti
soli, poveri, precari degli affetti, del lavoro, della casa.
Dovrebbe, abbiamo detto, se nel frattempo la riduzione del costo del lavoro per
le grandi e medie aziende (orrendamente obnubilata dalla nostra stessa campagna
elettorale come “cuneo fiscale”) non fosse desaparecida, se l’aumento delle
tasse non avesse colpito i ceti medi vitali e le famiglie in miracoloso
equilibrio, se la destinazione di una parte del tesoretto al pubblico impiego
fosse stata accompagnata dall’inizio di una defoliazione chimica della giungla
istituzionale (province, microcomuni, comunità montane, Asl, enti
ignoti) nei quali s’annidano centinaia di migliaia di parassiti che vivono di
stipendio politico, e sono una palla al piede dell’Italia 2007 non meno delle
corporazioni professionali, ferme ai privilegi del medio evo. Se, insomma, alla
politica del risanamento, del recupero fiscale, dei primi investimenti sociali,
si fosse affiancata, almeno nelle proclamazioni forti, la politica dei tagli
della spesa. Com’era stato promesso agli elettori.
Una politica sola, da fare tutta insieme, non in due o più tempi, come
invece accadrà.
Non per tutto, s’intende. Per la scuola, l’università, la ricerca, i
beni culturali, insomma il blocco della formazione dei cervelli, delle idee e
del senso comune, qualcosa è stato fatto anche nella razionalizzazione
della spesa, sollevando strilli, molto altro no. La ricerca e
l’università continuano a soffrire di un’attenzione impari alla
tragicità della situazione (che è cosa diversa dalla
gravità), mentre la cultura di base dentro e fuori le aule scolastiche
si è valsa con Fioroni di un risanamento della scissione morattiana fra
scuola del privilegio e scuola della manodopera, dell’innalzamento
dell’obbligo, del ripristino della severità negli esami proprio mentre
infuria il teppismo dei minori (e dei loro familiari iperprotettivi) che
s’accoppia all’ipocondria di molti presidi e all’inadeguatezza professionale e
forse umana di alcuni insegnanti. Alla grande apertura al popolo – come si
sarebbe detto una volta – delle strutture culturali, e alla restituzione di
sempre nuovi beni alla comunità operate da Rutelli, non corrisponde
altrettanto impegno per il servizio pubblico radiotelevisivo, stoppato dalle
corporazioni interne e dal blocco d’interessi con Berlusconi: che garantisce
«la legge Gentiloni non passerà mai»; (né quella, inesistente, sul
conflitto d’interessi); né per la legge del cinema, che l’attende, come la
musica, il teatro, terreni su cui la destra ha lasciato crescere le ortiche.
Non fanno dané. A noi invece piacerebbe che entrassero nel secondo tempo del
governo di centrosinistra, perché cultura e socialità sono le cose che
fanno la differenza: o meglio la farebbero, se ci fosse un po’ di spirito
liberale nella coalizione, non nel senso ottocentesco ma europeo d’oggi,
l’unico effettivamente “rivoluzionario”.
Ma, travolto da una cultura comunista del ghetto, che non ha nulla a che vedere
con la difesa delle minoranze e con la loro liberazione nel diritto comune di
uno Stato laico, il governo Prodi ha iniziato con la toppata dei Dico, che
dovevano costituire invece il campo di una vasta battaglia parlamentare tra
l’antirazzismo di una laicità liberatrice e il razzismo di una
società egoista e bigotta. Come si sta facendo per il testamento
biologico. Ora la politica della famiglia, insieme a quella dei giovani e dello
sport e a quella delle pari opportunità per le donne, finalmente
promosse da Maddalene pentite a incolpevoli di deicidio, dovrà partire
subito, a cominciare dall’imminente Conferenza nazionale organizzata da Rosy
Bindi; mentre salute e droga aspettano qualcosa di più di una
rivisitazione dell’intramoenia e del riordino delle grandi aziende ospedaliere
o della modica quantità di marijuana. Un vero coordinamento di queste
politiche con quelle della famiglia appare, a noi inesperti, piuttosto logico.
Vedremo assai presto se apparirà lo stesso agli esperti. Così
come vedremo se agli esperti apparirà ancora tollerabile la paralisi
ideologica delle infrastrutture e delle fonti energetiche, bloccate da
jacquerie valligiane e cittadine, che in alcun altro paese d’Europa avrebbero
l’ultima parola.
Abbiamo lasciata, dulcis in fundo, perché apre il capitolo delle grandi riforme
istituzionali, la politica della sicurezza e della giustizia. Amato e Mastella
– il primo arricchendo la cultura del governo con la sua scienza delle
istituzioni concretamente applicata, il secondo tormentandola per ragioni di
bottega (Udeur) – hanno avviato nel primo anno del governo provvedimenti
radicali, che ora spetta al parlamento concludere. Pensiamo all’approvazione,
necessariamente entro luglio, delle modifiche alla riforma Castelli, che ne
smontano la struttura verticistica e vendicativa nei confronti dei giudici,
fanno saltare la separazione delle carriere introdotta (di fatto) dal ministro
leghista, ma distinguono nettamente le funzioni, e verificano la
professionalità dei magistrati. Il nuovo ordinamento giudiziario
risponde alle attese dei cittadini, così come le riforme, anch’esse
presentate al parlamento, del codice civile, e infine del codice di procedura
penale che impone ai tribunali di esaurire non oltre i 5 anni il primo grado di
giudizio, attuando un principio del “giusto processo”.
Ora si tratterà di vedere se Camera e Senato lavoreranno con la stessa
diligenza del governo o continueranno a oziare sulle spalle dei contribuenti,
tra paralisi trotskysta dei senatori e distrazioni dei deputati in congressi di
partito, settimane corte ed elezioni amministrative. Tanto, il superstipendio
per lorsignori corre lo stesso. Anzi di più, perché hanno più
tempo per gli affari privati. E ci spiace per gli onorevoli avvocati che solo
il 12 per cento di chi è uscito per indulto sia tornato nelle patrie
galere e avrà bisogno nuovamente di loro. A pagamento.
Si tratta di un 12 per cento quasi esclusivamente italiano, che ridimensiona la
paura per l’immigrato con la quale il governo Berlusconi partorì il
mostro della Fini-Bossi. Qui l’incontro tra il riformismo di Amato e il
comunismo di Ferrero potrebbe dare buoni risultati, ampliando gli ingressi
regolari in Italia e così consentendo di avviare i legalmente residenti
al lavoro, mentre la Bossi-Fini restringeva quegli ingressi, favorendo
l’illegalità di quanti entravano con passaporto turistico di 3 mesi,
restavano come irregolari e s’imboscavano nella selva oscura del lavoro nero,
dello spaccio, della prostituzione, della droga. Alla faccia della politica
della sicurezza, esigenza di tutti i cittadini, ma usurpata in passato come
bandiera dei padroncini della “fabbrichétta” e della “villétta”. Tutti colleghi
del Cavaliere.
Certo, tutte queste cose, cariche di valore effettuale, come il risanamento dei
conti, le liberalizzazioni, la scuola, o di valore potenziale, come i
provvedimenti in itinere, avranno senso compiuto soltanto se compiuto
sarà, finalmente, il nostro sistema istituzionale ai livelli più
alti: una sola camera legislativa che dà la fiducia, un senato delle
autonomie e dell’“appello”, un governo non presidenziale ma con poteri di primo
ministro per chi lo rappresenta, una legge elettorale che consenta maggioranze
e alternanze, come in Germania, e non sia una legge di sussistenza per bande e
capibanda che ogni altra democrazia ridicolizzerebbe.
Una democrazia che ritrovi lo “Stato” dopo tanto parlare di federalismo e
decentramento, che fin qui hanno partorito caricature di governatori e
tantissimi feudi, sottofeudi e vassallaggi nei quali s’irradiano le metastasi
della partitocrazia, e delle troppe braccia sottratte alla zappa, che in essa
campano. Se il governo si deve sfasciare, si sfasci su queste grandi cose. In
ogni caso, prendiamo atto con l’amico Cerami che in un sol anno, «assediato, ha
fatto miracoli». Anche se per l’attesa degli italiani, a cominciare da chi
scrive, è poco. Un poco che va addebitato interamente o quasi ai
capitribù che lavorano per la bottega e non per il paese.
l contatto in
strada a Milano, poi sui ponteggi per lavorare dalle sette fino al tardo
pomeriggio senza casco e protezioni
A UN CERTO punto
mi assale l'angoscia dell'infortunio, e non mi mollerà più. Paura
di finire schiacciato sotto un blocco di tavole di ferro, quelle imbracate da
una corda consunta che dal cortile vedo piombare giù dal settimo piano
del ponteggio, e se perdi l'attimo, o ti distrai, o se una di quelle lastre che
devi afferrare prima che tocchino terra si ribella alla morsa del moschettone,
rimani sotto. Il terrore di venire travolto da una betoniera. Stritolato da un
cavo d'acciaio. Che le braccia cedano, o semplicemente di scivolare
dall'impalcatura dove mi fanno arrampicare anche se sono nuovo del mestiere.
Anche se calzo dei banali scarponi da montagna. Niente a che vedere con quelli
antinfortunio, obbligatori. Non indosso nemmeno il casco. Un caporale, un
calabrese duro e silenzioso, mi dice di tenerlo a portata di mano: "Magari
arriva qualche ispettore, ma stai tranquillo, non ti guarda nemmeno".
Lascio riposare il guscio in cima a una pila di assi di legno. Dovrò
caricarle su un camion, assieme a quintali di altro materiale.
Da buon manovale bado solo a lavorare, a guadagnarmi, in nero, i miei 3 o 4
euro l'ora. Per dieci ore fanno 30-40 euro. Pagamento dopo 50 giorni. La prima
settimana di prova, spesso, è gratis. Inizi in cantiere alle sette dal
mattino, finisci, sfatto, alle cinque, sei del pomeriggio. Un massacro. Niente
documenti, sicurezza zero. Alla fine del mese devi pure pagare la mazzetta: 300
euro al caporale che ti ha dato lavoro. Per mantenere il posto. A Milano, in
una settimana da operaio abusivo, caporali e capomastri conoscono a malapena il
mio nome. In un caso solo perché me lo chiede un collega marocchino.
Sulla trentina, magro, sdentato, quasi sempre alterato dall'alcol. Amil
è uno dei pochi che in sette giorni si prenderà il disturbo di
farmi coraggio. "Non è il massimo, ma è sempre meglio che
rubare o spacciare", biascica in un italiano incerto mentre a bordo di un
furgone raggiungiamo un cantiere alla periferia di Novara. Ne ho conosciuti tanti
come Amil. Schiavi. Con loro ho condiviso e subìto il ricatto dei
caporali. Gente spietata che nei cantieri della Lombardia spreme migliaia di
braccia. In barba a ogni regola e a ogni diritto.
A Milano e provincia, dei 120 mila operai edili (il 42,3 per cento sono
immigrati stranieri, nel 2000 erano solo il 7,1), 60 mila sono in nero: la
metà. Tutti gestiti dai caporali. È manodopera fantasma,
soprattutto straniera e clandestina. Ricattabile. Chi non è in regola
col permesso di soggiorno, si deve accontentare. Fa cose da bestia, che gli
italiani rifiutano. Sono albanesi, egiziani, marocchini, romeni, tunisini. E
sudamericani. Italiani pochi: stanno quasi sempre in cima alla piramide.
Impresari. O, appunto, mercanti di braccia.
Ti reclutano all'alba e ti scaricano nei cantieri dove rischi la vita per pochi
spiccioli, e se ti fai male ti lasciano lì in strada. Mai visto, mai
conosciuto. Nemmeno al pronto soccorso puoi andare. Altrimenti metti nei guai
chi ti ha assunto. E perdi il posto. "Tra il manovale e il caporale
c'è un rapporto esclusivo. Tu devi parlare solo con lui, non fare
domande sul dove e il come e per conto di quale impresa dovrai lavorare -
spiega Marco Di Girolamo, della Fillea, il sindacato edile della Cgil - a fine
mese gli devi dare la mazzetta, da
Il mercato degli uomini inizia quando il sole sta ancora sotto la linea
dell'orizzonte. Alle 5 del mattino siamo già tutti qui, in piazzale
Lotto. Schiavi e padroni. Chi cerca lavoro nero, e chi lo offre. I primi
sciamano sul prato, aspettano seduti sulle panchine, sotto le pensiline degli
autobus. I volti stropicciati dal sonno, zainetti e sporte di plastica con
dentro il rancio: pane egiziano, formaggi cremosi da spalmare, riso, kebab in
scatola, bibite dolciastre, molto gassate, birra, bocconi di carne speziata.
Gli scarponi induriti dalla calce, i camicioni larghi di lana, gli invisibili
dell'edilizia attendono l'arrivo dei caporali. Piazzale Lotto è uno dei
luoghi dove tutte le mattine all'alba si svolge la contrattazione per una
giornata di lavoro in cantiere.
Le altre filiali sono piazzale Corvetto, piazzale Maciacchini, piazzale Loreto,
le fermate della metropolitana di Bisceglie, Famagosta, Inganni. La stazione
Centrale, quella di Sesto Marelli. Per essere qui alle 5 centinaia di uomini
scendono dal letto anche due ore prima. Sono giovani immigrati che l'inedia
spinge a elemosinare un lavoro massacrante. Il contratto nazionale di categoria
prevede 173 ore al mese, 8 ore al giorno per 5 giorni settimanali. I caporali
te ne fanno fare in media 250, sabato compreso. Tutelato da niente e da
nessuno.
Inserirsi nella filiera del caporalato non è difficile: bastano una
modesta prova di recitazione, un paio di scarponi, jeans sdruciti, giubbotto e
un cappellino con visiera. Ecco i primi gruppetti intorno all'edicola di
piazzale Lotto. "Cerco lavoro, a chi posso chiedere?" Mi dirottano
prima su un egiziano, poi su un marocchino, un albanese, infine un ucraino.
Italiani, a quest'ora, neanche l'ombra. Arrivano più tardi, al volante
di mezzi di ogni tipo. Utilitarie, station wagon, pick-up, monovolume. Vecchi e
nuovi furgoni.
L'unico sveglio è l'autista. "Fino a un mese fa facevo il
magazziniere, poi la ditta ha chiuso. Chi è il capo?": mi faccio
coraggio fendendo un cerchio umano a due passi dalla fermata della 91.
"Intanto vai da quello là con il giaccone nero". È un
calabrese, sulla quarantina. Viene da Buccinasco. Lancia Ypsilon sporca di
fango. "Da dove vieni?". "Bergamo. Però vivo qui, a
Bonola". "Che cosa fai?" "Magazziniere, qualche trasloco,
ma adesso sono fermo". "Edilizia, mai?" "Mai".
"Oggi ti va bene, ho uno malato che è rimasto a casa. Però
ti dico subito... Lavorare duro senza fare storie, la paga è di 3,50
euro all'ora, finiamo alle cinque, e se succede qualcosa, affari tuoi". Il
contratto si chiude con una pacca sulle spalle.
Un'ora dopo siamo a Monza. Lo scheletro ponteggiato di una palazzina. Salvatore
ci scarica lì. Sta incollato al telefonino. Controlla. "Un
lavoratore regolare per l'impresa ha un costo di 22 euro l'ora. La metà
rimane tra l'impresa appaltatrice e quella subappaltante. La parte restante la
intasca il caporale - spiega ancora Di Girolamo - La quantità di
evasione fiscale contributiva ammonta a 6 miliardi di euro all'anno". Una
bella fetta di Finanziaria.
Nel cantiere monzese ci sono nove operai: cinque noi (due soli in regola), quattro
di un'altra squadra. Mentre all'ultimo piano un giovanissimo muratore albanese
getta il calcestruzzo nelle casseforme e un collega marocchino lo assesta con
un pestello, io ne trasporto dell'altro. Prima con una carriola, poi in secchi
stracolmi, facendo acrobazie tra i correnti del ponteggio. Un piano è
sprovvisto di parapiedi.
Mancano anche le "mantovane", le barriere anti caduta sassi. Una
pioggerella sottile ha reso scivolose le pedane d'acciaio e il rischio di
cadere nel vuoto è altissimo. "Veloce! Veloce!", grida il
caposquadra. Esige il minimo (per lui) rendimento. Che a me sembra
l'impossibile. Alle 17, esausto, chiedo a Salvatore se per favore può
anticiparmi la paga giornaliera. Lui temporeggia. Si capisce che la richiesta è
inusuale. Eppure sono solo 35 euro, per dieci ore di lavoro. "Soldi? Fra
50 giorni - mi gela - nell'edilizia funziona così, bellooo!".
In Italia il settore edile dà lavoro a 1 milione e 200 mila operai. 600
mila sono regolari o mezzi regolari (in "grigio": su 250 ore mensili
solo 80 vengono messe in busta paga); gli altri 600 mila sono in nero. Provo
rabbia. Lo sfruttamento lo senti prima nella mente, poi nei muscoli. Vorresti
scappare. Prima di scivolare da un'impalcatura e spaccarti la testa. Secondo le
stime ufficiali Inail nel 2006 nei cantieri italiani sono morti 258 operai (la
Lombardia conserva il triste primato con 46 vittime), il 35 per cento in
più rispetto al 2005. Gli infortuni sono stati 98 mila. Ma il sommerso
è enorme. I manovali clandestini, i "fantasmi", si fanno quasi
sempre male in silenzio. Persino quando perdono la vita.
Ogni giorno della settimana, con il caporale prendo appuntamento per il giorno
dopo. E puntualmente lo disattendo. Ricevo telefonate da altri a cui ho
lasciato un numero di cellulare. "Allora ci vediamo domani alle
Godono tutti di una sostanziale impunità. In Italia lo schiavismo sui
cantieri non è (ancora) reato. Il 16 novembre scorso il Consiglio dei
ministri ha presentato un disegno di legge, che ora dovrà essere
discusso da Camera e Senato, che introduce il reato di caporalato.
A giudicare dall'esito delle due giornate di cottimo a Rashid credo di non
essergli sembrato troppo svelto. Non mi paga, se voglio continuare, lo
farà, pure lui, tra cinquanta giorni.
Eppure la mia parte l'ho fatta. Tre piani di ponteggio smontati. Tra
cavalletti, tavole, botole, correnti di ogni foggia e dimensione, sono in tre,
lassù, in cima all'edificio. Sgobbano come muli. Mi fanno scivolare
giù la roba con corde e carrucole. A ritmo incessante. Il tempo di
sganciare il materiale dall'imbracatura, impilarlo sul camion, e altro carico
precipita dai piani alti. "Così non va", mi rimprovera il capo
squadra, anche lui egiziano. Sa che sono un novizio. "Vai su, sgancia quei
correnti e passali a lui". 17 anni, boliviano, le guance segnate dalla prima
peluria. Niente casco, niente guanti. A quest'ora dovrebbe essere a scuola,
invece è qui a giocarsi la vita per 40 euro. Non fiata, esegue.
A mezzogiorno consumiamo un pranzo frugale dentro una baracca di lamiere.
Riscaldata, per fortuna, da una stufa elettrica. Una bottiglia d'acqua passa di
bocca in bocca. Poi ognuno addenta il suo rancio. "Un mese fa - racconta
Aziz - mi è caduto un corrente del ponteggio sulla testa, sono sceso dal
ponteggio tutto insanguinato. Ha visto anche la gente del palazzo. Adesso sto
bene", sorride.
Mezz'ora e siamo di nuovo con la schiena piegata sulle passatoie di ferro. Sono
le quattro del pomeriggio, ho già la mente all'alba del giorno dopo.
Altro sfruttatore, altro viaggio, altro sudore, altri soldi che non
vedrò mai. Altri clandestini che si spaccano le braccia per ingrossare
il conto corrente dei caporali e delle imprese lombarde che vogliono tutto, e
subito. Calpesterò fango a Lissone, a Novara, infine in quella valle
Seriana nella bergamasca dove un tempo l'edilizia era considerata
un'eccellenza. Tutto sarà uguale al primo giorno di lavoro. Anzi peggio.
L'edilizia, oggi, è diventata terra di predoni e di oppressi ridotti in
cattività. A volte lasciati morire in silenzio. Come scrive Andrea
Camilleri ne "La Vampa d'agosto". "... è caduto
dall'impalcatura del terzo piano... Alla fine del lavoro non si è visto,
perciò hanno pensato che se n'era già andato via. Ce ne siamo
accorti il lunedì, quando il cantiere ha ripreso il lavoro... Forse,
pinsò Montalbano, abbisognerebbe fari un gran monumento, come il
Vittoriano a Roma dedicato al Milite Ignoto, in memoria dei lavoratori
clandestini ignorati morti sul lavoro per un tozzo di pane".
(11 aprile 2007)
ROMA
Ci sono anche due volti noti del mondo del pallone, Giancarlo Abete e Guido
Rossi, fra i beneficiari del vitalizio regalato dallo Stato agli ex
parlamentari. Il neo presidente della Figc riceve 6.590 euro al mese per i suoi
13 anni a Montecitorio, mentre l’ex Commissario straordinario della Figc riceve
ogni mese 3.108 euro per i suoi 5 anni trascorsi al Senato dall’87 al ’92. E
pensare che il 76enne ex presidente di Telecom Italia non ama incassare
pensioni. Preferisce gestirsele direttamente tanto è vero che
citò la Cassa Forense per riavere in contanti tutti i contributi che vi
aveva versato come avvocato. E nel 2003 la Cassazione gli dette ragione: la
Cassa gli rimborsò parecchi milioni di euro, ma cambiò poi le
regole per evitare che altri legali lo imitassero. Sono circa 2 mila gli ex
parlamentari e poco più di mille gli eredi di deputati e senatori che
ricevono gratis da Camera e Senato un vitalizio, variabile da 3 mila 108
(più di 6 volte la pensione sociale) a 9 mila 947 euro al mese a seconda
della durata in carica. Costo annuo per l’Erario: 187 milioni di euro (127
pagati dalla Camera e 60 dal Senato). Il vitalizio non può essere
rifiutato. Unica alternativa è quella seguita dal Sindaco di Roma Walter
Veltroni, già ministro dei Beni Culturali, che con un nobile gesto ha
devoluto in beneficenza alle popolazioni africane l’assegno di 9.014 euro
mensili. Ma quanti seguiranno il suo esempio? Se il vitalizio può essere
in qualche modo giustificato come segno di riconoscenza dello Stato per chi ha
rappresentato la Nazione, sedendo sui banchi di Montecitorio o di palazzo
Madama senza avere altre forme di pensione, fa invece discutere l’entità
dell’assegno anche per chi è rimasto poco tempo in carica e la sua
cumulabilità con altri redditi.
Da 37 anni c’è poi un’altra anomalia che nessun politico intende
correggere: i dipendenti pubblici e privati eletti deputati, senatori,
europarlamentari, governatori di Regioni e sindaci di grandi città -
grazie all’art. 31 dello Statuto dei lavoratori - possono conservare il posto
di lavoro mettendosi in aspettativa con il diritto di vedersi accreditare i
contributi figurativi dall'Inpdap, dall'Inps o dall'Inpgi.
In pratica, quasi per magia magistrati, professori universitari, militari,
ambasciatori, insegnanti, bancari, piloti, medici ospedalieri, ferrovieri,
telefonici e giornalisti hanno diritto al vitalizio dello Stato ed ai
contributi in gran parte gratuiti (fino al ’99 il regalo era, invece, totale)
sulla loro futura pensione per tutta la durata del mandato se al momento
dell’elezione era già aperta una posizione previdenziale. Molti vitalizi
finiscono così per sommarsi a pensioni maturate a spese di “Pantalone” o
di enti previdenziali di categoria. E d’incanto ottengono quasi gratis 2
pensioni per lo stesso arco di tempo in cui hanno svolto funzioni pubbliche. Il
costo per l’Erario è stato calcolato in almeno 5 miliardi di euro, pari
a circa 10 mila miliardi di lire, ma nella legge n. 300 del ’70 non era
prevista alcuna copertura di spesa. Ad esempio, molti giornalisti parlamentari
hanno chiesto l’accredito dei contributi figurativi: dal leader di An ed ex
ministro degli Esteri Gianfranco Fini al ministro degli Esteri ds Massimo
D'Alema, dall'ex ministro delle Poste Maurizio Gasparri (An) all'ex ministro
della Sanità Francesco Storace (An), dall'ex Sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti (Forza Italia) all'ex segretario Udc e
ideatore del Movimento dell'Italia di Mezzo Marco Follini. In pratica, la loro
pensione finisce per essere in parte pagata dai loro colleghi in
attività perché l’Inpgi è un ente privatizzato senza più
l’ombrello dello Stato. Altri loro colleghi hanno, invece, già maturato
la pensione: il ministro della Giustizia Clemente Mastella (Udeur), il
presidente della Rai Claudio Petruccioli, gli ex direttori del Tg2 Alberto La
Volpe, del Gr Rai Gustavo Selva, di “Panorama” Carlo Rognoni, de “L’Europeo”
Gianluigi Melega, de “Il Tirreno” Sandra Bonsanti, de “La Gazzetta del
Mezzogiorno” Giuseppe Giacovazzo, de “L’Avanti” Ugo Intini, nonchè
Corrado Augias, Alberto Michelini, Carla Mazzuca, Luciana Castellina e
Gianfranco Spadaccia. Solo due giornalisti hanno sinora rinunciato ai
contributi figurativi gratis sulla loro pensione: l’ex direttore de “il Tempo”
ed ex Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta e il
Vicedirettore de “il Giornale” Paolo Guzzanti.
Persino chi ha frequentato poco o niente Montecitorio come il professor Toni
Negri, eletto nell’83 nelle file dei radicali, e che ha preferito restare in
quei 5 anni a Parigi perché ricercato, incassa 3.109 euro al mese oltre ai
contributi gratis per 5 anni sulla pensione di docente universitario. Anche
l’ex ministro della Difesa Mario Tanassi condannato nel ’79 dalla Corte
Costituzionale per lo scandalo Lockheed gode di un vitalizio di 7.709 euro.
Ricevono lo cheque tre ex presidenti della Corte Costituzionale: Leopoldo Elia
(6.590 euro) e Aldo Corasaniti (3.108 euro) poi eletti al Senato, mentre l’ex
ministro, Mauro Ferri, riceve 9.387 euro per i suoi 25 anni trascorsi alla
Camera. Per la loro attività parlamentare assegni anche per due ex
vicepresidenti della Consulta: Ugo Spagnoli (9.760 euro) e Francesco Guizzi
(3.108).
Duplice vantaggio (vitalizio di 8.455 euro più contributi gratis sulla
futura pensione Inpdap) per il presidente di sezione di Cassazione ed ex
sottosegretario agli Esteri Claudio Vitalone e per l’ex ministro dei Lavori
Pubblici Enrico Ferri (3.108 euro). Pensione di magistrato con contributi
figurativi per l’ex Capo dello Stato e senatore a vita Oscar Luigi Scalfaro,
che ha indossato la toga solo per pochi anni nel dopoguerra. Anche l’ex P.G. di
Roma ed ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso beneficia di un vitalizio
della Camera di 4.725 euro. Stesso importo per l’ex p.m. del pool di Mani
Pulite
Altri legali beneficiano del vitalizio: 3.108 euro sia al professor Carlo
Taormina, ex difensore della signora Annamaria Franzoni, sia all’ex presidente
della Commissione pari opportunità Tina Lagostena Bassi. Più
consistenti, invece, gli importi per il radicale Mauro Mellini rimasto per 16
anni a Montecitorio (6.963 euro) e per l’Udeur Lorenzo Acquarone (9.387 euro) .
A questa cifra risultano ex-aequo l’attuale presidente del Cnel ed ex ministro
per le Attività produttive Antonio Marzano, l’ex ministro dei Lavori
Pubblici Nerio Nesi, il demoproletario Mario Capanna e il sindaco di Venezia
Massimo Cacciari.
Lunga la lista di altri ministri della Prima Repubblica: Franco Bassanini,
Giuseppe Zamberletti, Remo Gaspari, Luigi Gui, Virginio Rognoni, Vincenzo
Scotti e Franco Nicolazzi (9.947 euro ognuno), Antonio Gava (9.636 ), Filippo
Maria Pandolfi (9.512), Salvatore Formica (9.387), Salvo Andò, Pietro
Longo e Claudio Martelli (8.455), Renato Altissimo (8.828) ed Emilio De Rose
(4.725). Tra i medici incassa un vitalizio di 3.108 euro il celebre
cardiochirurgo Gaetano Azzolina. Stessa cifra per il regista Pasquale
Squitieri, mentre a Franco Zeffirelli vanno 4.725 euro. Tra i beneficiari del
vitalizio come ex parlamentari non mancano, infine, personaggi del mondo della
finanza, ma nel loro caso non vi è, però, il cumulo con i
contributi figurativi a spese di “Pantalone”: l’ex ministro degli Esteri
Susanna Agnelli (8.455 euro), l’ex ministro dei Lavori Pubblici Francesco
Merloni (9.947), Luigi Rossi di Montelera (8.455), Franco Debenedetti (6.590),
Vittorio Cecchi Gori (4.725) e Luciano Benetton (3.108).
Si può discutere quanto si vuole sull’utilità dei referendum nel
moderno sistema democratico (non va dimenticato che la Seconda Repubblica nasce
dalla spinta referendaria del 1991 e del 1993). Ma quello che sta accadendo
attorno alla riforma della legge elettorale dimostra già l’efficacia di
questo strumento, in sé e per sé, e come stimolo nei confronti di una
situazione politica bloccata.
Nei 36 anni dall’entrata in vigore, i referendum, o la paura dei referendum,
oltre a produrre riforme, hanno determinato crisi e cambi di governo, maggioranze
inedite, scioglimenti delle Camere, elezioni anticipate e l’ingresso di nuovi
partiti in Parlamento. Anche stavolta a decidere la soluzione di una crisi di
governo, che poteva concludersi con la fine prematura della legislatura,
è stato il grimaldello referendario. Grazie anche alla sollecitazione
del capo dello Stato, i partiti hanno riconosciuto che rinunciare almeno a
tentare di riformare la legge elettorale in Parlamento avrebbe dato una
sensazione di impotenza con un riflesso negativo su tutto il sistema politico.
Di qui la rapida ripresa del dialogo all’interno e tra le due coalizioni. E la
definizione di due ipotesi (la proposta Chiti e quella Calderoli), che hanno
numerosi punti di contatto, e che, pure in presenza di autorevoli dissidenti (il
ministro degli Interni Amato e l’ex presidente della Camera Casini), stanno
già portando a un confronto parlamentare che potrebbe concludersi
positivamente in tempi brevi. Potrebbe, appunto, o non potrebbe, esposto
com’è ai mutevoli venti della politica e alle esigenze propagandistiche
della prossima campagna elettorale per le amministrative.
Quello che è sicuro è che in un caso o nell’altro il referendum
ha fatto la sua parte e continuerà a farla fino all’ultimo. Proprio per
questo è importante che i due canali - quello referendario che si
rivolge alla volontà popolare, e quello
governativo-politico-parlamentare - restino separati. Lavorino, pertanto, il
ministro Chiti, i leader dei partiti di maggioranza e opposizione e i
parlamentari delle commissioni di Camera e Senato senza curarsi della raccolta
delle firme che partirà il 24 aprile, e senza chiedere di rinviarla. E
lavori il Comitato, insieme con gli esponenti dei partiti che hanno confermato
la propria disponibilità, per fare in modo che il referendum prosegua la
sua marcia, senza cercare ruoli che non gli competono tra gli attori della
riforma in Parlamento. A ciascuno il suo e a ciascuno il suo mestiere.
Il Corriere della Sera
10-4-2007 Riscatti boomerang di
Magdi Allam
La
Stampa Strada: "Basta con i Ponzio
Pilato" GIULIETTO CHIESA
Libero
10-4-2007 Telecom-ica Il governo studia l'esproprio di OSCAR GIANNINO
Il
Corriere della Sera 10-4-2007 I medici e
i fannulloni . Pietro Ichino
Il
Riformista 10-4-2007 La fiducia fa la felicità
L’Unità
10-4-2007Armi: l’Italia fa boom. Più 61 % nel 2006
Mors tua vita mea.
È questa, all'indomani della barbara decapitazione del giornalista
afghano Adjmal Nashkbandi, la sensazione netta che serpeggia tra gli italiani
circa la cinica logica perseguita dall'insieme della classe politica, dai
governi di destra e di sinistra, per ottenere il rilascio dei nostri
connazionali sequestrati dai terroristi islamici.
Ormai l'Italia si contraddistingue come il Paese occidentale che, più di
altri, è pronto a cedere al ricatto, sia che si tratti di un riscatto in
denaro sia che si tratti di esercitare pressioni per ottenere la scarcerazione
di terroristi, pur di aver salva la vita dei propri ostaggi. E il fatto che non
siamo gli unici, dato che perfino la Gran Bretagna è scesa a patti con
Ahmadinejad per ottenere il rilascio di suoi 15 marinai, non deve farci sentire
sollevati, ma all'opposto deve accrescere la comune preoccupazione per la grave
deriva etica e politica in cui versa l'Occidente.
Finora l'Italia, per ottenere la liberazione dei nostri talvolta improvvidi
connazionali sequestrati, ha pagato dei riscatti sempre più consistenti.
Un fiume di denaro che ha visto concordi governo e opposizione
nell'autorizzarlo e nel negarlo pubblicamente, in una delle rare e non
esaltanti manifestazioni di unità nazionale. Ebbene ciò che ora
non consente più di riproporre quest'approccio spregiudicato, è stata
la decapitazione dell'autista dell'inviato de la Repubblica Daniele
Mastrogiacomo, Sayed Agha, e del suo interprete Adjmal. Due cadaveri di troppo
che non è proprio possibile occultare e tacere. Che vengono pianti dalla
vedova e dai cinque figlioletti di Sayed e dai familiari di Adjmal. Due vite
spezzate in una trama che ruota intorno all'Italia, di natura
terroristico-politica, in cui Sayed e Adjmal hanno finito per essere
brutalmente immolati come vittime sacrificali. Ecco perché ora l'Italia non può
tirarsi indietro.
Credo che l'Italia dovrebbe innanzitutto avere la sensibilità umana e il
senso della giustizia necessari per assumersi appieno la propria
responsabilità nei confronti delle famiglie di Sayed e di Adjmal,
assicurando loro le condizioni materiali per sopravvivere dignitosamente. In
secondo luogo, l'Italia dovrebbe formalmente condannare i Taliban, ritirando la
incredibile proposta di coinvolgerli nella conferenza di pace per
l'Afghanistan. In terzo luogo, l'Italia dovrebbe ufficialmente impegnarsi a non
consentire mai più il pagamento di riscatti o cedere in alcun modo alle
richieste delle bande terroristico- criminali. Non possiamo essere strenui
difensori della legge che in Italia impone il blocco dei beni della famiglia
del sequestrato per impedire il pagamento del riscatto, e poi acconsentire che
sia lo Stato stesso a pagare con denaro pubblico il riscatto ai terroristi.
Infine l'Italia dovrebbe, al più presto, far osservare un minuto di
silenzio nei posti di lavoro, nelle scuole, all'inizio delle manifestazioni
sportive, in memoria di Sayed e di Adjmal, per testimoniare che per noi il
valore della vita è assoluto e universale.
Questo è quanto io immagino gran parte degli italiani vorrebbe che il
nostro governo facesse per recuperare la credibilità dello Stato, la
cultura dell'interesse nazionale, il primato della civiltà occidentale
che non mercanteggia sul diritto alla vita.
10 aprile 2007
Il fondatore di Emergency: sulla liberazione del prigioniero solo
tante parole
ROMA
Ho appena sentito Prodi che dice che hanno fatto tutto il possibile. Chiedo:
cos’è il possibile? Abbiamo richiamato l’ambasciatore italiano a Kabul?
Abbiamo convocato l’ambasciatore afgano a Roma? Abbiamo fatto richiesta
formale, scritta, per la immediata liberazione di Hanefi? A me pare di aver
sentito Ponzio Pilato rivisitato» Gino Strada è furibondo. «L’accordo
formale per la liberazione di Mastrogiacomo era che lo scambio avvenisse
attraverso Emergency». Perché Emergency?, interrompo. «Semplicemente perché noi
abbiamo gli ospedali e di noi si fidano tutti, che altro? Ed è la prima
volta che viene arrestato, da una delle parti, il mediatore che era stato
concordato in anticipo. Capisci? Se in passato fosse stato così avremmo
in galera tutta la Croce Rossa Internazionale e parecchie decine di funzionari
di altre organizzazioni non governative. Qualcuno vuole raccontarci la storia
che non ci si può fare niente?» E la preoccupazione cresce di ora in
ora. Hanefi è in una prigione di sicurezza in cui Emergency ha una
clinica interna. E, per regolamento ogni prigioniero deve essere visitato
quando entra. «Ebbene, guarda il paradosso: Hanefi non abbiamo neanche potuto
visitarlo». Una brutta storia, anche prima della morte di Adjmal. Ma può
uscire qualcosa di bello da una matrioshka piena di fango com’è la
guerra afgana? Perché l’Afghanistan, come l’Iraq, è ormai un
immondezzaio d’intrighi, e perfino chi ci lavora da anni, contro la guerra, in
tutti i sensi, rischia di essere inzaccherato dagli schizzi di una politica –
quella italiana nel caso specifico – che vive d’intrallazzi anche quando
è in gioco la vita di persone innocenti.
«Lasciali dire, quelli che attaccano Emergency e che gettano fango. Mi piacerebbe
che, prima di sputare le loro immonde stupidaggini, rinunciassero pubblicamente
alla loro immunità parlamentare. Invece parlano dietro quella
protezione. A me, a noi di Emergency, interessa solo che si arrivi a una
soluzione ragionevole. Non pretendiamo di essere ringraziati, ma che ci lascino
fuori dai loro scontri politici. Io Prodi non l’ho nemmeno votato, figurati. Ho
agito perché era giusto agire. E degli altri sciacalli non mi curo». E qual
è la soluzione ragionevole? «La liberazione di Rahmatullah e che si
possa continuare a lavorare con la necessaria sicurezza. Noi abbiamo attivato
tutti i nostri contatti e ci muoviamo anche per altre vie, ma certo è
che è difficile lavorare in un paese il cui governo ti è
apertamente ostile». Questo è un momento molto delicato. Dopo l’arresto
di Hanefi, 13 collaboratori afgani di Emergency si sono licenziati, di cui
undici «perché hanno troppa paura». Strada ha convocato a Kabul l’intero staff
di Lashkar Gah per discutere sulle prospettive della sicurezza. Si vedrà.
Dunque l’ipotesi di abbandonare l’Afghanistan è aperta? Strada non la
conferma ma nemmeno la smentisce. «Vedremo», dice dopo una lunga pausa. Ricorda
l’episodio del 17 maggio 2001, quando i taliban invasero l’ospedale di
Emergency a Kabul. «Noi chiudemmo perché per noi è fondamentale che i
governi con cui lavoriamo rispettino i patti. E i talebani non li rispettarono.
E ci vollero mesi di trattative – e tu eri con noi, e le hai seguite passo
passo – e riaprimmo solo quando ci furono assicurate le condizioni».
Ma ora, con la polemica aperta contro Karzai i margini sono logorati oltre il
limite. Difficile dare torto a Gino Strada quando protesta. E’ almeno la
seconda volta che un italiano rapito in Afghanistan si salva grazie
all’intervento di Emergency. Torsello è vivo perché fu proprio Hanefi a
portare i 2 milioni di euro allo scambio. E, come ringraziamento arrivano
frecce avvelenate. Cossiga dice che Strada è amico dei taliban e di Al
Qaeda. Io, che nel 2000 attraversai con Strada le linee dei taliban, da Kabul
alla valle del Panshir , so con quale difficoltà e rischio Gino Strada
ha saputo tenere dritta la barra del timone: per poter continuare a salvare
esseri umani, da una parte e dall’altra. Perché per questo chirurgo italiano la
linea del fuoco è tra la vita e la morte, non stare da una delle parti
che infligge la morte all’altra. Il fatto è che non si sa chi guida la
danza di morte. Hanefi è formalmente prigioniero di Karzai, ma la
questione è quali sono i gradi di libertà di Karzai. Esterni e
interni. Di quelli esterni, a stelle e strisce, c’è poco da aggiungere
perché basta guardare la sua scorta. E di quelli interni dice qualcosa il nuovo
partito di Rabbani, il vecchio capo mujahed, il Fronte Unito nazionale, che sta
raccogliendo tutte le opposizioni: tagiche (Qanuni), uzbeke (Dostum),
hazarà (Ismail Khan), perfino pashtun (l’ex governatore di Kandahar ed
ex comunista, Noor-ul-Haq Ulumi. E, siccome questi non agiscono nel vuoto, si
deve immaginare che Ahmid Karzai potrebbe avere qualche problema a restare al
potere. C’è chi dice, con sarcasmo, che è sindaco di Kabul, e
neanche di tutta. Per cui chi vivrà vedrà. Purtroppo la vita di
Rahmatullah è appesa a fili sottili. A meno che, davvero, l’Italia
decida di far sentire il suo peso. «Non c’è solo la diplomazia con le
sue cortesie formali – aggiunge secco Gino Strada – spendiamo 50 milioni di
euro per cambiare la fisionomia del sistema giuridico afghano. E permettiamo
che ci straccino sul naso gli accordi stipulati?» Ma, come è difficile
capire perché si sta facendo questa guerra, altrettanto lo è sapere da
chi dipendono i servizi afghani: «Io non avrei molti dubbi – replica Strada - .
Il ministro della sanità di Karzai, Fatimie, ci ha detto, senza troppi
giri di parole, che dietro questa vicenda ci sono mani invisibili. Vediamo un
po’. Forse c’è la mano del Principato di Monaco o del Liechtestein?
Vogliamo dare un’occhiata alle parti interessate? C’è Roma e Kabul, ma
ci sono anche inglesi e americani. E quanti di questi sono stati contenti di
come erano andate le cose?» Ugo Intini ha detto che «Gino Strada è un
uomo esasperato», un po’ meno volgare di Berlusconi che parlò di un
«chirurgo confuso».
È proprio
diventata una Telecomica. Intorno al controllo conteso della compagnia italiana
ex monopolista, ogni giorno emergono trovate, indiscrezioni e particolari
sempre più estremi e bombatici. Tanto che, scambiando gli auguri di
Pasqua con uno dei pochi tifosi a tutta prova del mercato che vi sia in Italia,
e che ha per anni tentato di portare il suo verbo nel centrosinistra rimanendo
quasi sempre inascoltato, ci siamo proprio detti che il livello delle bufale
è tale che meriterebbe una testatina quotidiana di messa in burla:
"Telecom-ica", appunto. L'ultima è l'ipotesi che prende sempre
più corpo, e della quale ieri hanno parlato fuori dai denti il ministro
Antonio Di Pietro e il viceministro Sergio D'Antoni: dicono che il governo
guarda con sempre maggior interesse al "modello inglese", e che per
questo sta predisponendo un decreto legge. Un decreto legge? Tutti coloro che
hanno anche solo una minima idea di che cosa si stia parlando, non possono che
fare un salto dalla sedia. Non i lettori di Libero, visto che su queste colonne
abbiamo spiegato tante volte già da un anno e mezzo che cosa sia
davvero, il "modello inglese", come sia nato e in che consista.
C'è il piccolo problema che evidentemente i componenti del governo Prodi
non ne hanno invece la minima idea, se sono in buona fede. E se invece è
la malafede è guidarli, allora usano lo scudo della soluzione inglese
per tentare di spacciare tutt'altra cosa. Cerchiamo - per l'ennesima volta - di
spiegare che cosa sia e che cosa "non" sia, la soluzione data nel
Regno Unito al problema rappresentato non dalla presunta - e del tutto
fantascientifica - "strategicità nazionale" della rete fissa
dell'ex monopolista, bensì invece alla questione della necessità
di garantire pieno accesso alla rete a tutti i concorrenti dell'ex monopolista stesso,
non titolari di rete propria ma gestori sul mercato di servizi che attraverso
la rete devono passare a parità universale di condizioni, e che come
attori del mercato sono naturalmente co-interessati a una rete sulla quale
investimenti adeguati consentano sempre più e sempre meglio di offrire
servizi di generazione avanzata, a banda larga, vasta capienza e alta
velocità. Cos'è lo scorporo Tutti i ministri - ma anche molti
giornalisti di testate confindustriali - che parlano a proposito del modello inglese
di "scorporo" della rete fissa, semplicemente mentono o sono dei
somari. Lo "scorporo", nel diritto societario italiano - perdonate il
tono ma visto che parliamo della quinta società quotata italiana
è a tali norme che bisogna tutti si rifacciano, senza coniare pericolosi
e scivolosi neologismi - è una precisa modalità di separazione di
un'attività rispetto a un'altra, che continua a essere gestita
direttamente. Vi si può ricorrere per esempio per conferire agli
azionisti la propria quota parte di un'attività separata che prima era
inglobata in una controllata, ed era per questo meno valorizzata dal mercato.
In nessun modo e in nessun caso Openreach - la rete fissa di British Telecom -
ha costituito uno scorporo della rete fissa dalla società madre. Openreach
è semplicemente una divisione funzionale di BT, che continua ad averne
piena proprietà e a registrarne nelle quotazioni del proprio titolo il
valore scontato dal mercato. Alla costituzione di Openreach, alla definizione
delle condizioni che su di essa BT deve offrire alle sue concorrenti, dei
parametri di redditività che tali condizioni garantiscono a BT, e alle
modalità di indicazione dei suoi stessi manager, non ci si è
affatto arrivati attraverso uno strumento di legge, varato dal governo Blair e
approvato dal Parlamento britannico. Neanche per idea: per il semplice - ma
decisivo - fatto che Openreach nasce grazie a un'intesa alla quale si è
reso del tutto disponibile un privato, BT appunto, definendone le
modalità attraverso ben 14 mesi di intensa trattativa con Ofcom,
l'autorità di settore che nel Regno Unito vigila sulle
telecomunicazioni. Il torto dell'Agcom italiana guidata da Corrado
Calabrò è stato di risolversi a interessarsi per davvero del
modello inglese solo quando la stima reverenziale per la Telecom di Tronchetti
si era ormai dissolta sui media italiani, alla fine dell'anno scorso. Col
risultato che i primi contatti veri tra Telecom e l'Agcom per una Openreach
"italiana" sono iniziati solo con la nuova gestione di Guido Rossi,
oggi già finita nella polvere. Il che significa che bisognerebbe
aspettare nella migliore delle ipotesi sino a fine anno, per veder definita
almeno una bozza tecnica delle mille delicate problematiche che sono connesse
alla questione, visto che la Telecom tronchettiana è impregnata di una
cultura molto combattiva sia verso il regolatore - imputato di aver sabotato i
nuovi prodotti che l'azienda voleva lanciare una volta deliberata la
convergenza fisso-mobile - sia verso la concorrenza, regolarmente citata in
tribunale quando non spiata illecitamente attraverso dossieraggi. Chiarito
questo, è ovvio che un governo che intervenisse sulla rete Telecom per
decreto legge o per disegno di legge, non volgerebbe affatto il proprio sguardo
al modello britannico. Bensì a quello sovietico, o, se preferite, a
quello del bolivarismo sudamericano alla Chavez e Morales. Sarebbe una
violazione patente e clamorosa della proprietà privata, effettuata
proprio dallo stesso premier che nel 1997 deliberò la privatizzazione di
Telecom a vantaggio del nocciolino duro in cui la Fiat esprimeva il management
della compagnia esattamente con lo stesso 0,6% del capitale detenuto da
Tronchetti oggi, al netto delle scatole cinesi. A dire il vero, di
bestialità se ne vedono comunque molte, e questa non è l'unica.
Sempre il ministro Di Pietro, per esempio, ha parlato di un provvedimento che
abroghi la legge Draghi in materia di diritto societario, e stabilisca che solo
chi ha il 75% delle azioni di una società quotata possa esprimervi il
75% del management. Chissà, con tale concezione da età della
pietra del controllo d'impresa probabilmente il ministro imporrebbe anche il
voto obbligato per legge nelle assemblee agli azionisti. Come una volta era il
voto politico per gli elettori. Visto che il ministro confonde la legge
elettorale proporzionale con i tetti previsti per esprimere il controllo di una
società e lanciarvi un'Opa, rispetto a quelli sufficienti per nominarne
i manager, oppure a quelli con cui ci si può opporre a delibere straordinarie
in assemblea. Le due strade O ancora: prestigiose firme hanno tirato in ballo
nei giorni scorsi del tutto a sproposito il governatore della Banca d'Italia,
Mario Draghi, sostenendo che nel 1999 egli - direttore generale del Tesoro -
chiese al premier D'Alema una lettera scritta per non costituirsi in assemblea
e non votare per Bernabè, che voleva conferire Telecom ai tedeschi
"di Stato" di Deutsche Telekom - nel frattempo assai più
scassati del nostro ex monopolista. Tale lettera venne chiesta perché Draghi
diffidava delle scatole cinesi di Colaninno, scrivono oggi i giornali
confindustriali. E il governatore della banca d'Italia freme in
silenzio di sdegno: per il semplice fatto che quella lettera la chiese perché
la legge sulle privatizzazioni al Tesoro affidava solo poteri in ordine alla
redditività finanziaria delle partecipate, mentre lì si trattava
di una decisione straordinaria. Era dunque una procedura obbligata per legge,
non una valutazione - che a lui n on competeva - sugli eventuali compratori
alternativi alla gestione Bernabè. Potrei continuare a lungo: vi sono
grandi giornali che per invogliare il governo paragonano i 5 miliardi che
costerebbe all'offerta Tex-Mex il rilevare Olimpia, ai ben 12 miliardi di
produzione di cassa da parte di Telecom ogni anno: che è come usare
delle mele per dire che le pesche sono buone. Ma mi fermo qui: sottolineando
però che è evidente che San-Intesa punta molto, sullo scivolone
espropriatore bolivarista da parte del governo. Dopo un tale colpo di scena, la
disponibilità di San-Intesa ad affiancarsi ad América Mòvil e
AT&T vedrebbe la prima sempre interessata a Tim Brasil, la seconda - una
volta effettuato lo scippo per decreto della rete fissa di Telecom - assai
più incerta, e forse pronta a tirarsi indietro. Mediobanca, Generali e
Capitalia continuano a seguire un'altra strada. A oggi continua a sembrare a
molti più interessante. Ma verrebbe devastata da un intervento del
governo. Che, tanto per cambiare, sembra proprio tifare ancora una volta a
favore della propria banca amica. Salvo per uso personale è
vietato qualunque tipo di riproduzione delle notizie senza autorizzazione.
Quando
i certificati diventano troppo facili
Milioni di giornate di malattia di nullafacenti sani come pesci,
certificate da medici irresponsabili STRUMENTI
Nei
giorni scorsi gli Ordini dei medici hanno protestato contro l'accenno, contenuto nel mio ultimo
articolo, alla loro inerzia di fronte ai milioni di giornate di malattia di
nullafacenti sani come pesci, certificate da medici irresponsabili. «Non
è compito nostro controllare le certificazioni», obiettano gli Ordini. E
poi: «Il medico curante non può che fidarsi di quel che gli dice il
paziente». In qualche caso è vero: di fronte a una crisi improvvisa di
emicrania o di lombalgia anche il medico curante ha scarse possibilità
di verifica. Ma in moltissimi casi la mala fede del medico è
evidentissima. Uno di questi, il più clamoroso per dimensioni, è
quello degli 800 certificati di un giorno di malattia rilasciati a Fiumicino il
2 giugno 2003 ad altrettanti assistenti di volo dell'Alitalia, che intendevano
così bloccare i voli senza preavviso, nel corso di una vertenza
sindacale.
«Strafottente
"sciopero sanitario" di hostess e steward», lo definì Michele Serra sulla
Repubblica; «malcostume sindacale e dei medici» titolò il Corriere in
prima pagina. Ma l'Ordine non mosse un dito. Assistiamo tutti i giorni a casi
in cui la mala fede del medico curante è altrettanto evidente; e, anche
quando questi vengono denunciati, l'Ordine chiude entrambi gli occhi. È,
per esempio, il caso del medico di una Asl friulana che, il 5 febbraio 2004,
«certifica» una prognosi di 20 giorni per un'impiegata bancaria, indicando che
essa è - quel giorno stesso - reperibile a Santa Fe in Argentina, pur
essendo l'assenza imputabile soltanto a un «trattamento fisioterapico per
artrosi post-traumatica della caviglia»; il 24 giugno successivo identica
certificazione, con paziente reperibile sul Mar Morto; per l'Ordine e la Asl,
cui la cosa viene denunciata, la certificazione è «professionalmente
corretta e contrattualmente ineccepibile».
L'Ordine
non ha mosso un dito neppure nel caso del professor M. di un liceo di Milano, denunciato dal
Corriere il 16 ottobre scorso, che da anni per centinaia di volte si è
fatto certificare infermo regolarmente nelle giornate di lunedì, di
venerdì, o di ponte tra due festività, e sempre al paesello
natale in Sicilia; o nel caso del sig. A. di Parma, cui il medico certifica per
tre volte di seguito 30 giorni di lombosciatalgia, senza disporre alcun
accertamento diagnostico, né tanto meno alcuna terapia; o nel caso del sig. D.
di Roma, che il giorno stesso in cui gli viene comunicato il trasferimento a un
ufficio a lui sgradito è colto da «depressione del tono dell'umore», per
la quale il medico di famiglia arriva a prescrivere complessivamente sei mesi
di astensione dal lavoro, ma non una visita specialistica, e neppure alcuna
cura appropriata.
Né gli Ordini hanno mai preso alcuna iniziativa
di fronte al fenomeno delle certificazioni puntualmente rilasciate ogni anno a
comando da migliaia di medici ad altrettanti membri esterni delle commissioni
per gli esami di maturità, per consentire loro di sottrarsi alla
chiamata. Certo, questo potere di autorizzare chiunque a «mettersi in malattia»
può essere gratificante per un medico di scarsa levatura professionale;
mentre, al contrario, rifiutare un certificato di comodo può costargli
la perdita di un paziente. Ma ci sono anche molti medici seri che al proprio
interesse antepongono il dovere. E comunque la compiacente certificazione a
comando costituisce una grave violazione del codice deontologico, il quale
imporrebbe al medico, quando egli attesta un'infermità, di farlo con
«formulazione di giudizi obiettivi e scientificamente corretti» (art. 24). Il
fatto che, di fronte a una violazione così platealmente diffusa e
culturalmente radicata, sia addirittura il presidente della Federazione
Nazionale degli Ordini dei medici a giustificare l'inerzia di questi organismi
(Corriere del 23 marzo, p. 53) la dice lunga sulla questione se essi siano
davvero posti a garanzia dell'interesse della collettività, o non
agiscano invece di fatto come una sorta di sindacato nazionale obbligatorio di
categoria. Va anche detto che a questa vera e propria frode istituzionalizzata
concorre il sistema dei controlli sulle malattie dei lavoratori.
Basti osservare in proposito che nei moduli sui
quali i medici dei servizi ispettivi dell'Inps e delle Asl redigono i referti
delle loro visite domiciliari non è neppure contemplato l'accertamento
dell'inesistenza dell'impedimento: il peggio che può accadere al falso
malato è di essere dichiarato idoneo a riprendere il servizio il giorno
successivo a quello della visita ispettiva (salva «ricaduta» la sera stessa
della visita, che il medico curante può sempre tornare a certificare).
Né i magistrati penali e del lavoro brillano per reattività di fronte al
fenomeno: quante sentenze pilatesche si leggono quotidianamente, nelle quali il
giudice chiude entrambi gli occhi di fronte a incongruenze evidentissime tra la
diagnosi «certificata» e il difetto degli accertamenti necessari o delle
terapie appropriate, oppure di fronte a circostanze che escludono l'impedimento
al lavoro.
Fra le molte tare che riducono la capacità di
competere del nostro Paese c'è anche questa; per valutare
quanto essa ci costi, basti confrontare i tassi di assenteismo delle nostre
aziende e amministrazioni pubbliche con quelli dei nostri partner europei.
Sull'Unità del 1˚ aprile Furio Colombo mi rimproverava di tuonare
contro i nullafacenti senza considerare che le retribuzioni italiane sono tra
le più basse in Europa, addirittura la metà di quelle
britanniche; ma a deprimere le nostre retribuzioni sono anche gli enormi sprechi
e lassismi come questo: i tassi di assenteismo britannici sono la metà
dei nostri. Tutti devono fare la loro parte per correggere questa stortura: il
governo, le imprese, i lavoratori, i sindacati, i giudici, i medici. E,
ovviamente, anche chi è preposto al controllo dell'operato di questi
ultimi.
10 aprile 2007
In cima alla classifica troviamo quelli con una grande fiducia nel
prossimo, un alto reddito e un grado elevato di formazione. Che vivono in un
ambiente poco corrotto, dove il fenomeno del lavoro nero è raro,
esattamente come la disoccupazione. E che sono calati in un contesto di mercato
libero, con una bassa protezione sul lavoro, un alto grado di reimpiego degli
anziani e tanti bambini. È la hit parade dei cittadini delle economie
più felici del mondo stilata dalla Deutsche Bank. E non meraviglia,
visto l’identikit dei più soddisfatti, che in fondo figurino gli
italiani, assieme a greci e portoghesi. Ma a sorpresa anche i tedeschi occupano
una posizione piuttosto arretrata. Vivono, secondo il rapporto, in «una
variante poco felice del capitalismo», ad esempio per colpa dell’alto tasso di
disoccupazione. Noi invece, siccome non ne azzecchiamo neanche una, siamo
classificati tout court come versione «infelice» dell’economia di mercato.
Lo studio analizza ventidue dei paesi più ricchi al mondo e quattro
varianti del capitalismo. Risultato: paesi come l’Australia, la Svizzera, gli
Stati Uniti ma anche gli immancabili Svezia e Norvegia e Paesi Bassi ne
rappresentano esempi felici. Hanno cioè «organizzato la società e
le istituzioni in modo tale da creare condizioni favorevoli alla soddisfazione
delle persone». Due gradini sotto, all’ultimo posto, dicevamo, tra gli esempi
della «versione infelice» figura anche il Belpaese, perché è tra quelli
«che non sono riusciti a portare avanti condizioni importanti per la
felicità delle persone».
Ovviamente uno dei segreti dei paesi più felici, scrive la Deutsche
Bank, è che si pongono «intensamente» il problema del benessere dei
propri cittadini. Basti pensare che la Gran Bretagna (che è nel gruppo
di testa) si è posta sin dal 1999 il programma “A better quality of
life” come obiettivo politico. Tony Blair spiegò già allora che ricchezza
e progresso non andavano più considerati sinonimi, anzi. Infatti, lo
studio ricorda che è un dato ormai assodato che «il reddito mostra nel
confronto internazionale una scarsa correlazione con la soddisfazione personale
delle persone». Piuttosto, per capire se i cittadini sono felici, bisogna
tenere in altissima considerazione i rapporti con gli altri. La fiducia nel
prossimo «è un metro affidabile di giudizio per misurare la
stabilità dei rapporti sociali di un paese» e contribuisce in modo
«importante» alla felicità delle persone. Al contrario, siccome la
corruzione «è il sintomo del cattivo funzionamento delle istituzioni
politiche e sociali», trascina i paesi che ne sono afflitti in fondo alla
classifica.
Salta poi agli occhi il fatto che i risultati prescindano totalmente dal tipo
di capitalismo che i paesi analizzati rappresentano. In cima alla lista
troviamo ad esempio due paesi opposti dal punto di vista dell’organizzazione
del welfare o del fisco come Stati Uniti e Svezia. Quindi, «non esiste un
sistema economico ottimale» per garantire un alto grado di felicità ai
cittadini. Infine, perché questo studio? Semplice: «alla lunga i paesi
più felici sono anche quelli che hanno più successo, al livello
economico».
Un incremento
delle esportazioni del 61,12%, oltre un miliardo di euro in più in un
solo anno: è questa la cifra record registrata dall’industria delle armi
del Belpaese nel 2006 secondo il rapporto annuale inviato al Parlamento dalla
presidenza del Consiglio. Il primo dell’era Prodi che sarà discusso in
aula. Il quadro che ne viene fuori è quello di un’industria che sembra
non conoscere crisi e intoppi e che fa fare affari anche alle banche italiane
che, sempre nel 2006, si sono viste autorizzate operazioni di incassi relativi
al solo export di armi per quasi 1,5 miliardi di euro con relativi “compensi di
intermediazione” per oltre 32,6 milioni di euro.
Tra le cosiddette “banche armate” in testa troviamo ancora il
gruppo San Paolo Imi e Bnp Paribas. Nel 2006 sui conti dell'istituto
torinese sono transitati ben 446 milioni di euro frutto di transazioni
internazionali per la compravendita di armi. L'anno precedente erano 164
milioni. Anche Bnp-Paribas supera la quota massima dello scorso anno,
attestandosi sui 290 milioni di euro. Questi due istituti coprono da soli
praticamente la metà delle transazioni dovute a esportazioni definitive.
A seguire vengono Unicredit (in flessione del 15%), la Banca nazionale del
lavoro (+33%), Deutsche Bank (-14%), Banco di Brescia (con uno sbalorditivo
+95%) e Commerz Bank (in crescita dell'85%).
Passando ai Paesi che beneficiano di tanto rifornimento bellico, troviamo al
primo posto come destinatari dell’export nostrano gli Stati Uniti che oltre
alla flotta di elicotteri presidenziali dell'Agusta acquistano dall'Italia
armamenti di vario genere per un totale di oltre 349,6 milioni di euro. Seguiti
a ruota da un Paese che nei rapporti di Human Right Watch si distingue per
«vessazioni nei confronti delle organizzazioni per la tutela dei diritti
umani»: gli Emirati Arabi Uniti ai quali il Governo ha autorizzato la vendita
di bombe, siluri, razzi, missili ed accessori oltre che di navi da guerra e
quant’altro per oltre 338,2 milioni di euro.
Da sottolineare inoltre che, anche se la destinazione principale delle
autorizzazioni rilasciate riguardano i Paesi dell'Ue e della Nato (63,7%), nel
2006 le esportazioni effettuate per l'area extra Ue-Nato sono salite ad oltre
il 44,2% e più del 20,2% dei sistemi d'arma finisce in una delle zone
più calde del pianeta, il Medio Oriente e l'Africa settentrionale al
quale sono destinate armi per un valore complessivo di 442,8 milioni di euro.
Per non parlare della Nigeria che riceve armi per 74,4 milioni di euro o del
microscopico Oman che si vede autorizzate importazioni di armi dall'Italia per
oltre 78,6 milioni di euro.
l La campagna
sconti sui farmaci che con tanta enfasi è stata applaudita non ha
certamente risolto il problema della salute. Il significato dello sconto ha
fatto credere, a molte persone, che il farmaco possa essere inteso come uno dei
tanti prodotti, di consumo, che si acquistano per propria personale
soddisfazione, inoltre la scontistica, ha toccato solo alcuni articoli da banco
permettendo a chi dispone di un buon reddito di procurarseli con più
facilità. Chi invece deve fare i conti con i pochi soldi, di una normale
pensione o di un lavoro poco retribuito o precario, è costretto a
sopportare costi non da poco per potersi curare. Con queste
considerazioni mi permetto di osservare che la funzione delle farmacie comunali
in primis e delle farmacie, in generale, hanno un compito ben più
importante. Non sono e non devono essere dei semplici distributori di prodotti,
esse sono parte integrante del sistema sanitario regionale e nazionale. Compito
della politica, dunque, è gestire questo "mercato"
della salute, un mercato dove le grandi aziende farmaceutiche la fanno da
padrone ed è compito dei politici locali fare in modo che i nostri
cittadini possano vivere dignitosamente, anche nei momenti di difficoltà
e di malattia. Non possiamo restare indifferenti davanti allo spreco del denaro
pubblico, dall'esuberante costo della politica e delle amministrazioni e
poi chiudere gli occhi sui "reali problemi" della gente. Giancarlo
Karlovini Gorizia Un azzardo attraversare le strade della città lSono
rimasto molto sorpreso quando ho appreso che il Comune di Gorizia avrebbe
utilizzato delle "intercettazioni" semaforiche (pari a quelle
telefoniche e ambientali, previste per determinati reati) per scoprire i
colpevoli dell'attraversamento delle strisce orizzontali trasversali in
presenza della luce semaforica rossa. Non credevo in un'evidente utilità
di una misura così invasiva dei diritti degli utenti della strada e, al
contempo, non immaginavo che il numero di incidenti conseguenti a tale
violazione fosse così elevato da richiedere l'utilizzo di tali
strumenti. La sorpresa è poi aumentata quando, leggendo il contratto
stipulato tra la Polizia municipale di Gorizia e la società Ci.Ti.Esse.
di Busto Arsizio, ho scoperto che l'accordo, oltre ad avere una durata prevista
fino al 31.12.2007 ed essere qualificato come comodato dietro pagamento di un
corrispettivo (a differenza di quanto prevede l'art. 1803, secondo comma,
codice civile, che qualifica il comodato come contratto gratuito), prevede il
pagamento di un corrispettivo di euro 29,10 per "ogni singola infrazione
validamente documentata". Quindi, per esere chiari, il Comune si è
impegnato a pagare la Ci.Ti.Esse sulla base delle contestazioni documentate e
non sulla base dei pagamenti ricevuti. Il senso di stupore e di fastidio
suscitato da tale vicenda è stato però subito scalzato da un
sentimento di insoddisfazione e di frustrazione. La solerzia
dell'amministrazione comunale, infatti, dimostrata nel rintracciare e
perseguire i trasgressori è stata degnamente bilanciata da un assoluto
immobilismo su altre questioni ben più importanti riguardanti la
sicurezza. Nulla è stato fatto per rendere più sicuri gli
attraversamenti pedonali in alcune zone della città: mi riferisco, ad
esempio, alla zona del Parco della Rimembranza ove, in prossimità con
via Buonarroti, l'attraversamento da un lato all'altro di Corso Italia è
da considerarsi un azzardo per la propria incolumità. Parimenti
l'incrocio tra le vie Meontesanto, via Palladio e via Mighetti non è certo
il luogo più sicuro per il transito dei veicoli e dei pedoni. Discorso
analogo merita essere fatto per l'accessibilità delle strade cittadine
da parte dei portatori di handicap e delle famiglie con carrozzine con bambini:
basta allontanarsi dai controviali di corso Italia per ritrovarsi in un
percorso a ostacoli, difficilmente superabili. La città di Gorizia non
ha bisogno di un Grande Fratello, ma solo di un po' di buon senso e di avveduti
amministratori. Dario Obizzi Gorizia A Grado si respira aria di ripresa l Grado
si è presentata, grazie anche alle ottime condizioni atmosferiche,
all'appuntamento pasquale con l'avvio della stagione turistica 2007 nel
migliore dei modi. Da tempo assente dall'Isola, complice un po' anche il
fastidio per le lunghe polemiche e i non pochi piagnisei sulle sorti
dell'economia locale, ho scelto di trascorrervi la giornata di Pasqua per il
tradizionale pranzo a base di pesce e la ancor più tradizionale
passeggiata all'aria aperta lungo la diga e in centro storico. Ebbene, devo
dire che sono rimasto più che piacevolmente sorpreso da vari fattori che
contribuiscono a dare di Grado un volto ancora più fresco, bello e
accogliente. Il rifacimento delle strade e dei viali, assieme a un gradevole
arredo urbano, ha fatto sì che il "salotto" di Grado si
presenti finalmente all'altezza del suo glorioso passato. La città si
è proposta in modo molto pulito. La terrazza a mare e la diga sono un
luogo davvero piacevole da dove è possibile, senza alcun ostacolo
visivo, ammirare le mille sfumature di luce della laguna e del suo cielo. E poi
i tanti locali, bar e ristoranti. Ho notato un ringiovanimento nello stile e
negli arredi. Ma soprattutto molta più gentilezza e cordialità
rispetto al passato. Così mi è capitato di essere servito con
molta simpatia dal nuovo gestore del caffè-piano bar del mitico hotel
Fonzari mentre sono stato accolto con un cordiale "Buona Pasqua" al
ristorante-bar di fronte alla spiaggia Costa Azzurra, anche questa tenuta molto
bene e finalmente comodamente raggiugibile grazie al prolungamento della
passeggiata lungo la diga. Luca Normanni Abbazia onora Otto d'Asburgo l Alla
fine di aprile le autorità di Abbazia della cittadina croata
conferiranno la cittadinanza onoraria a s.a.i. Otto d'Asburgo. Finalmente gli
eredi di Jelacic, Sarkotic e Boroevic hanno capito che gli Asburgo avevano
fatto cose molto buone per quanto riguarda Abbazia, prima del 1918 veniva
spesso scelta dalla famiglia imperiale per le vacanze estive e le belle ville e
gli alberghi presenti sono una vera testimonianza in quella che viene definita
la "perla del Quarnero". Mi rivolgo ora al sindaco Dipiazza perché
prenda in considerazione la possibilità che il Comune di Trieste segua
l'esempio non solo di Abbazia, ma anche di città dell'Isontino, del
Veneto e del Sud Tirolo, dando la cittadinanza onoraria all'erede del trono
d'Austria. Ricordo che Otto d'Asburgo quest'anno compirà 95 anni e
sarebbe un vero peccato perdere un'occasione per riconciliarsi con il nostro
passato consegnando all'anziano arciduca il sigillo trecentesco. Abbazia l'ha
capito, Trieste no.
Mestre. Di fronte
ad un imponibile evaso di oltre 310 miliardi di euro, le imposte sottratte al
fisco oscillano tra i 125 e i 150 miliardi di euro l'anno. Quattro le grandi
aree individuate dalla Confartigianato di Mestre: l'economia sommersa,
l'economia illegale, le grandi e le piccole aziende. Secondo una stima della
Cgia di Mestre, l'imponibile evaso in Italia è di oltre 310 miliardi di
euro l'anno. In termini di imposte (dirette, indirette e contributive)
sottratte alle casse del fisco italiano siamo, sempre secondo l'ufficio studi
mestrino, nell'ordine dei 125/130 miliardi di euro. Dall'analisi effettuata
dagli artigiani mestrini si è cercato, tra grandi difficoltà, di
mappare questo fenomeno individuando quattro grandi aree di evasione/elusione
fiscale presenti nel nostro Paese: l'economia sommersa; l'economia illegale;
l'elusione fiscale delle grandi imprese e l'evasione fiscale dei lavoratori
autonomi e delle piccole imprese. Vediamo nel dettaglio queste quattro aree.
-La prima è la più diffusa e riguarda l'economia sommersa che,
secondo l'Istat, sottrae al fisco italiano circa 200 miliardi di euro l'anno.
In questo ambito si segnala il comportamento sleale di molte imprese (che
sottodimensionano il fatturato o sovrastimano i costi di produzione) e
quello dei lavoratori in nero, composto da oltre 3 milioni di unità di
lavoro standard. Di questi 2,6 milioni sono lavoratori dipendenti che fanno il
secondo o il terzo lavoro. Da queste cifre, sottolineano dalla Cgia, sono
esclusi decine e decine di migliaia di pensionati e disoccupati che svolgono
attività "sommerse" per arrotondare le loro magre entrate
economiche. -La seconda è l'economia illegale compiuta in buona parte
dalle grandi organizzazioni criminali che, in almeno tre regioni del Sud,
controllano buona parte dell'economia di quei territori. Secondo l'analisi il
giro di affari non "contabilizzati" si attesta sui 100 miliardi di
euro l'anno. -La terza area è quella composta dalle grandi
società di capitali. Secondo i dati del ministero dell'Economia e delle
Finanze, il 50 per cento delle grandi società di capitali italiane
dichiara per più anni redditi negativi o pari a zero e un altro 17 per
cento dichiara meno di 10 mila euro. In pratica, su un totale di quasi 770 mila
società di capitali il 50 per cento non versa un euro al fisco italiano,
almeno per quanto riguarda le imposte sul reddito. Si stima
un'evasione/elusione fiscale attorno ai 7 miliardi di euro. -Infine, c'è
l'evasione fiscale dei lavoratori autonomi conosciuti al fisco a causa della
mancata emissione di scontrini, ricevute e fatture fiscali che sottrae
all'erario circa 4 miliardi di euro l'anno. "Questi grandi capitoli che
abbiamo individuato - sottolinea Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di
Mestre - sono in buona parte sovrapponibili e i responsabili negativi di questo
grave problema li ritroviamo presenti in tutti e quattro le aree. Sia chiaro,
gli oltre 310 miliardi di imponibile evaso altro non sono che una stima e non
potrebbe essere diversamente, vista la difficoltà denunciata anche dalle
istituzioni statistiche ufficiali a dimensionare questo fenomeno. Non solo. Ma
in questa elaborazione, a differenza di quanto fa correttamente l'Istat,
abbiamo cercato di mappare gli effetti evasivi dell'economia criminale
presente, in modo particolare, in molta aree del Sud del nostro Paese".
+ Il Giornale 6-4-2007 «Dannose le scatole cinesi, non At&t»
Il
Giornale di Brescia 6-4-2007 IN PRIMO PIANO Le banche al centro della scena
Finanza
e Mercati 6-4-2007 Draghi vuole banche a prova di catastrofe
Il
Giornale 6-4-2007 Insider trading: la Consob "firma" la prima
condanna. Di Rodolfo Parietti
da Roma
Enrico Morando, presidente diessino della commissione Bilancio del
Senato, non condivide la preoccupazione espressa da altri esponenti del suo
partito per l’ingresso dell’At&t e di America Movil in Olimpia; e, quindi,
in Telecom.
«E perché dovrei essere preoccupato? In fin dei conti ci troviamo davanti ad
un’operazione analoga a quella che portò Tronchetti a controllare
Telecom. All’epoca nessuno si pose il problema di come Pirelli, attraverso lo
strumento delle scatole cinesi, arrivò a controllare Telecom, senza
ricorrere a un’Opa. E chi di “non Opa ferisce...”».
Prego, finisca la frase...
«Insomma, qui si finisce di dimenticare che la grande anomalia italiana
è data da quell’originale eufemismo che è il “capitalismo di
relazione”. Le società vengono controllate da patti di sindacato. Ne
consegue che non c’è alcuna tutela degli azionisti di minoranza. Basta
scalare una scatola cinese e il gioco è fatto. Tutto il contrario della
trasparenza garantita dal meccanismo delle Opa: meccanismo che tutela tutti,
azionisti di maggioranza; ma soprattutto di minoranza».
Paradosso per paradosso, anche l’operazione At&t è figlia di questo
«capitalismo di relazione». Nella maggioranza e nell’opposizione si lamenta
che, in questo modo, verrebbe meno l’italianità dell’azienda...
«Ma quale italianità! L’italianità di un’azienda non è un
valore da difendere in sé. L’operazione presenta le stesse lacune che portarono
Tronchetti al controllo di Telecom. Qui non si parla di chi controlla, ma di
come arriva al controllo di un’azienda. È questo il problema che abbiamo
davanti. Eppoi, fino a un po’ di anni fa, la nostra era un’economia domestica,
locale. Le nostre imprese non erano aperte all’esterno. Ora, invece, ci siamo
aperti. E non è un caso che arrivino gli americani e i messicani.
Arrivano perché le nostre imprese sono gestite da questo meccanismo delle
scatole cinesi. Un meccanismo che manifesta l’estrema debolezza del nostro
capitalismo, e i colossi internazionali ne approfittano. Si parla tanto della
rete Telecom e di una sua separazione sul modello inglese. Ma se in Gran
Bretagna si racconta che le aziende sono controllate con i Patti di sindacato,
chiamano il 118».
A dir la
verità c’erano, e forse ci sono ancora, anche gruppi finanziari italiani
interessati a sfruttare quella che lei definisce la debolezza del nostro
capitalismo, le scatole cinesi.
«Certo che ci sono banche e istituti finanziari
pronti a sfruttare la situazione. E quello delle banche è un caso
paradossale. Nel patto di sindacato di Telecom ci sono alcune banche che, oggi,
potrebbero far parte di cordate destinate ad acquistare le azioni di Olimpia.
Cioè della scatola cinese che controlla Telecom. Insomma, sono nella
doppia posizione di acquirenti e venditori. Quale ruolo adotteranno?».
Crede che l’At&t sia stata affiancata
dall’amministrazione americana nell’operazione Telecom?
«Non so se l’At&t sia stata affiancata
dall’amministrazione Usa nell’operazione Telecom. Comunque, non me ne stupirei.
Credo sia naturale che un governo affianchi una propria impresa impegnata in
una grande acquisizione internazionale. Penso che formule di affiancamento ci
siano state anche da parte del nostro governo nei confronti dell’Enel e
dell’Eni in Russia. E ritengo che l’operazione dell’Enel in Spagna non sia
stata proprio indifferente a Prodi. Quindi, perché scandalizzarsi se l’amministrazione
Usa ha affiancato, o affianca, l’At&t?».
STRUMENTI
L e ristrutturazioni imposte dalla crisi
dell'auto Usa stanno facendo scomparire 70 mila posti di lavoro nell'area di
Detroit. L'era della fotografia digitale costringe la Kodak a tagliare 30 mila
addetti. Altri 10 mila posti svaniscono alla Pfizer (farmaci), mente Citibank
annuncia 15 mila esuberi. Eppure da diversi giorni a catturare l'attenzione dei
giornali americani è un'altra vicenda, apparentemente minore: quella di
Circuit City — una catena di negozi di elettronica — che ha deciso di liberarsi
di 3400 dipendenti, l'8% della sua forza lavoro. O meglio: la società ha
deciso di licenziare i dipendenti più esperti e meglio pagati per
riassumerne altri, magari meno preparati, che riceveranno un salario molto più
basso. È proprio questo che fa discutere: per la prima volta una
società dice chiaramente che non licenzia perché deve ridimensionare gli
organici o perché non è soddisfatta dei suoi dipendenti. Anzi, licenzia
proprio quelli che rendono di più ma che, avendo ricevuto aumenti
retributivi per merito o anzianità, sono diventati troppo costosi.
Se ci si limita a guardare ai numeri del
mercato, l'operazione una sua logica ce l'ha.
Nell'economia moderna il potere si sposta sempre più dai produttori ai
consumatori: il rapido calo dei prezzi delle tv a schermo piatto è
benvenuto dalle famiglie americane, ma sta drasticamente riducendo i margini
dei distributori per i quali la flat tv era il prodotto più redditizio.
Best Buy, la catena concorrente di Circuit City, ha reagito meglio all'erosione
dei profitti. Circuit City si è invece ritrovata coi conti in rosso:
tagliando gli stipendi più elevati, conta di recuperare 100 milioni di
dollari e di tornare in utile. Wall Street è d'accordo e ha premiato il
titolo della società dopo l'annuncio dei licenziamenti. E vari
economisti sottolineano come proprio questa estrema libertà di
licenziare spinga poi le imprese americane anche ad assumere con grande
facilità. Tanto che, anche in un periodo di profonde ristrutturazioni,
la disoccupazione Usa rimane a livelli bassissimi: il 4,5%. In parte è
vero, ma il meccanismo messo in moto da Circuit City rappresenta oggi
soprattutto una minaccia per la stabilità del capitalismo americano nel
quale in genere è il datore di lavoro a fornire al dipendente pensione e
assistenza sanitaria. E che già soffre del «tarlo» della polarizzazione
dei redditi, con lo schiacciamento dei ceti che un tempo vivevano in
un'agiatezza da classe media. Fenomeni che erodono il consenso sociale e che in
genere vengono considerati un effetto della globalizzazione: aziende,
soprattutto manifatturiere, obbligate a tagliare occupati e stipendi per poter
competere con i Paesi emergenti.
Invece Circuit City non è un'azienda
manifatturiera ma di servizi e il suo concorrente non sta in
Asia, ma dall'altra parte della strada: ed è americano come lei. Da
quando i democratici hanno ripreso il controllo del Congresso, la politica Usa
sta rivedendo le sue posizioni su globalizzazione e libero scambio. Tanto più
che l'economista Alan Blinder, un liberista convinto che negli anni '90 spinse
Bill Clinton sulla strada del free trade, ha presentato uno studio dal quale
emerge che nei prossimi anni 40 milioni di posti di lavoro americani rischiano
di «emigrare» all'estero. Il caso di Circuit City dimostra che le minacce alla
stabilità vengono anche dall'interno. Oltre che dai lavoratori, la
decisione di licenziare chi guadagna 51 centesimi di dollaro all'ora più
della paga giudicata ottimale dalla direzione aziendale, è stata aspramente
criticata anche da consulenti aziendali e da analisti come quelli di Merrill
Lynch per i quali l'eliminazione del personale più esperto
peggiorerà il servizio offerto ai clienti e finirà per demotivare
il personale.
Massimo Gaggi
L'UOMO delle intelligenze multiple è
tornato. Questa volta per suggerirci cinque minds, modi di pensare, approcci
mentali, che considera decisivi per sopravvivere - ed eccellere - nel futuro.
Si intitola proprio Five minds for the future il nuovo libro di Howard
Gardner, il professore di Harvard che vent'anni fa smontò l'idea che
esistesse un'unica maniera - il quoziente intellettivo - per misurare le
capacità del cervello umano e che per questo si è guadagnato un
posto fisso nella lista dei cento intellettuali più influenti del mondo
compilata ogni anno dalla rivista Prospect.
Nel libro - che da settimane occupa pagine e pagine sulla stampa internazionale
e che le più importanti riviste di settore raccomandano ai manager come
una delle letture must del 2007 - Gardner sostiene che il 21simo secolo
appartiene alle persone che sono in grado di pensare in un certo modo e che chi
non è in grado di sviluppare queste capacità è destinato a
soccombere - professionalmente e socialmente - in un mondo sovrabbondante di
informazioni, dove per fare la scelta giusta occorre farsi guidare da
capacità di sintesi o da intuito ben allenato.
Per "sopravvivere", secondo la teoria di Gardner, occorre essere
rigorosi e creativi allo stesso tempo: il primo dei cinque approcci mentali
presi in esame dal professore americano è quello della mente
disciplinata, la più classica se vogliamo, quella che accoglie i vari
input che riceve nel tempo e poi li indirizza e mette in pratica in un campo
particolare, che sarà quello dove eccelle. Segue la mente sintetica,
essenziale nell'epoca di Internet e dei canali all news: chi ha questo tipo di
impostazione raccoglie le informazioni, le seleziona e le sintetizza in maniera
originale. La mente creativa è invece quella che coltiva nuove idee e si
pone domande insolite, arrivando a risposte inattese.
Seguono poi due approcci che Gardner definisce "non opzioni ma
necessità" oggi: la mente rispettosa - il modo di pensare di chi
accetta le differenze, si sforza di capire gli altri e di collaborare - e
quella etica, quella che valuta i bisogni e i desideri della società
globale, cercando di spingersi oltre gli interessi personali. "Sono certo
che ci sono altri approcci che è interessante studiare - spiega da
Harvard lo studioso - ma questi sono quelli su cui mi pare occorra mettere
più enfasi oggi".
Il motivo, Gardner lo scrive nelle pagine del suo libro: "Il mondo del
futuro - con i suoi motori di ricerca, robot e altre potenzialità
informatiche - ci chiederà di avere capacità che finora sono
state solo opzionali: per rispondere a queste richieste occorre che cominciamo
a coltivare sin da ora queste capacità". Messaggio rivolto in
particolare a insegnanti e genitori.
"Adesso posso dirlo: mi sento sollevato, mi sono tolto un peso. Da
metà settembre fino a martedì scorso ho passato sei mesi
d'inferno. Alla mia età è giunta l'ora di rinunciare alle
illusioni: il sogno di salvare la Telecom, come quello di risanare il calcio
italiano. Erano le illusioni di un vecchio signore che ancora pensa di fare il
riformista. E' tempo che mi passino dalla testa". Il giorno dopo l'ultimo
scontro con Marco Tronchetti Provera, Guido Rossi pronuncia giudizi severi e
lapidari ma con il tono sereno, di chi davvero è convinto di aver chiuso
una pagina.
Può parlare in libertà, può dare la sua versione,
può fare un bilancio di questi sei mesi (poco più) che lo hanno
visto tornare alla testa del gruppo che lui stesso aveva guidato nella
privatizzazione. Il giurista, ex presidente della Consob, promotore della
legislazione antitrust in Italia, da questa vicenda trae la conferma di una
diagnosi spietata sui mali profondi del capitalismo italiano, sulla sua
incapacità di cambiare. Tronchetti; il vizio antico delle scatole
cinesi; le banche; la politica; nessuno si salva: e se questo è lo stato
del paese allora ben vengano gli stranieri, è la sua lezione finale.
Professor Rossi, cominciamo dall'inizio, cioè da settembre.
Visto com'è andata a finire, non era una missione impossibile la sua? E
perché Tronchetti venne a cercare proprio lei, se stava scritto che i vostri
disegni sarebbero risultati incompatibili?
"Perché è venuto a cercarmi? Perché era troppo nei guai, perché era
alle strette sia con l'Antitrust che con l'Authority delle Comunicazioni,
perché la sua situazione sembrava irrecuperabile, perché aveva bisogno di
credibilità. Io mi sono fatto carico di questa responsabilità
nell'interesse dell'azienda, l'ultima grande impresa tecnologica italiana, un
gruppo al quale mi sentivo legato dalla storia della sua privatizzazione. Ma
quando ho cercato di fare pulizia nel conflitto d'interessi fra Tronchetti e la
Telecom, per il bene dell'azienda, del mercato e del paese, siamo entrati in
rotta di collisione. Sono diventato pericoloso per lui, andavo eliminato.
Naturalmente anche negli scontri c'è modo e modo di comportarsi. Che
mancanza di stile, avvertirmi solo la sera prima che Olimpia non mi avrebbe
ricandidato per il rinnovo del consiglio d'amministrazione...".
Ma già prima di questa resa dei conti finale, c'erano stati scontri
strategici. Si è detto che lei ha fatto saltare un primo accordo, quello
che Tronchetti stava negoziando con la spagnola Telefonica. Sarebbe stato,
dopotutto, se non una soluzione italiana almeno un esito europeo.
"Ma chi ha messo in giro questa fandonia? Ho l'impressione che mentre io
mi occupavo dell'azienda, c'è chi passava più tempo a parlare con
i giornali per accreditare queste tesi. Quella che io avrei ostacolato il
dialogo con Telefonica è una menzogna. Al contrario, da un certo momento
sono stato l'unico a tenere i rapporti con Cesar Alierta. Il presidente di
Telefonica era scandalizzato per la tracotanza di Tronchetti. Venne a trovarmi
a casa, passò un'intera domenica pomeriggio a parlarmi. Aveva capito che
Tronchetti voleva incassare tutto il premio di controllo, per un controllo che
non ha. Telefonica è una public company, mi disse Alierta, certe cose
non può farle. Ecco come si parla quando si ha rispetto per il
mercato".
Si è detto anche che lei con il suo ostruzionismo di fatto stava
spianando la strada all'ingresso della Fininvest di Silvio Berlusconi, l'unico
gruppo italiano con i mezzi per subentrare nel controllo di Telecom.
"E' un'accusa ignobile. Purtroppo in questo paese sembra non sia facile
trovare persone libere, non condizionate da logiche d'appartenenza. E
così le dietrologie sfidano anche le regole della verosimiglianza. Io
appoggerei Berlusconi? Guardi, ho vissuto altri momenti drammatici per
l'economia italiana, e basti ricordare il crac Ferruzzi-Montedison, ne ho viste
tante ma questa è davvero la vicenda peggiore. Al conflitto d'interessi
di Tronchetti si sono mescolate le grandi manovre del risiko bancario, le
eterne tentazioni di commistione della politica. Non so se gli stranieri che si
affacciano hanno capito con quale paese hanno a che fare".
Questa volta però il presidente del Consiglio ha deciso di non
intervenire sul caso Telecom.
"Sì, ma il risiko bancario è ancora e sempre impregnato di
politica, è percorso da tensioni fra Prodi e i Ds. Tronchetti si sente
appoggiato da Banca Intesa. Prodi forse pensa di condizionare la vicenda, di
garantire un ancoraggio italiano, attraverso le banche. In tutto questo si
perde di vista l'unica questione seria: nonostante gli anni di
difficoltà, i ridimensionamenti, le occasioni perdute, la Telecom
è l'ultima grande impresa italiana che è ancora in grado di fare
ricerca tecnologica, e la fa. Nel
Il 16 aprile è convocata l'assemblea della Telecom. Lei fino a
quell'assemblea è ancora il presidente. Che farà?
"Non credo proprio che mi presenterò. Che cosa farei, in mezzo a
una lista di amministratori designati per obbedire a chi di suo ha investito lo
0,6% del capitale, e pretende di controllare la società? Qui vengono a
galla problemi strutturali del nostro capitalismo, che ho denunciato da
decenni. Si paga il prezzo delle riforme mai fatte, delle opportunità
sprecate anche quando il centro-sinistra era al governo. Di recente è
diventato di moda scoprire il sistema dualistico di governance d'impresa, il
modello tedesco: lo scopriamo noi proprio quando la Germania per modernizzarsi
prende le distanze da una formula vecchia di settant'anni. Ci si trastulla con
questi inutili diversivi, nessuno invece osa toccare le anomalie patologiche del
nostro sistema: le scatole cinesi, i patti di sindacato. Questa vicenda Telecom
passa tutta sopra la testa del mercato, ecco l'unica certezza: i piccoli
azionisti sono resi impotenti, e saranno beffati come sempre. E un paese che
soffre di una così grave mancanza di regole naturalmente è il
terreno ideale per chi vuole approfittarne, per chi pensa a portar via
più soldi che può. Invece del fare, c'è l'arraffare.
Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei
Baroni Ladri nell'America del primo Novecento. Ma almeno in America un secolo
non è passato invano. Là semmai con la Sarbanes-Oxley oggi hanno
addirittura il problema opposto, quello di un sistema iper-regolato".
Tronchetti ha aperto ufficialmente un tavolo di trattativa per la cessione del
controllo di Telecom all'americana AT&T associata coi messicani di America
Movil. The Wall Street Journal sostiene che si sono rimessi in moto altri due
contendenti stranieri, France Télécom e Telefonica. Alla fine sono tutti gruppi
esteri, con eventuali soci bancari italiani nella funzione di comprimari. Una
parte della sinistra preme su Prodi perché difenda l'italianità della
Telecom. Lei che ne pensa?
"Ma ben vengano gli stranieri! Il nostro sistema paese sta dando il peggio
di sé. In questa situazione mi par di vedere dei ricorsi storici, torniamo a
un'epoca in cui un pezzo d'Italia era sotto gli austriaci, un altro sotto gli
spagnoli... Fuor d'ironia, non sono mai stato un nemico della globalizzazione.
Se veramente si hanno a cuore gli interessi dell'Italia, vanno difesi in altri
modi. Bisogna creare le condizioni ambientali, dalla formazione dei giovani
nelle università alla ricerca scientifica, perché questo sia un paese
dove è comunque vantaggioso mantenere attività ad alto valore
aggiunto, centri d'innovazione. Chi predica la difesa dell'italianità,
dov'era quando occorreva costruire le fondamenta di un mercato dei capitali
moderno, cos'ha fatto per definire regole serie in difesa degli azionisti?
Questo è un paese disperante per chi ha creduto nelle riforme. E' un
paese dove ormai o si muove la magistratura - e lei stessa è sempre
più paralizzata dalle inefficienze - oppure non succede più
niente".
Mercoledì lei è stato a Mediobanca, dove il polo bancario
alternativo a quello di Banca Intesa ha chiesto il suo parere su un eventuale
contropiano da opporre a quello di Tronchetti.
"Ho risposto che ho già dato. Ora sono fatti loro, tra azionisti,
che trovino qualcun altro".
A sei mesi di distanza, le sembra di rivivere un film già visto con lo
scandalo del calcio?
"La trama è diversa, il finale è lo stesso: il trionfo della
restaurazione".
E adesso cosa farà il professor Rossi?
"Quello che per fortuna non ho mai smesso di fare. Mi dedicherò ai
miei studenti universitari. Finirò il ciclo di lezioni sulla pena di
morte e i diritti umani. L'unico terreno su cui l'Europa è rimasta
all'avanguardia nel mondo, e l'America farebbe bene a imparare da noi. Il tema
del mio prossimo libro".
M
Mentre tra Pirelli e l’asse Mediobanca-Generali la tensione resta alta,
Intesa-Sanpaolo chiama a raccolta il mondo finanziario italiano sul futuro
assetto di Telecom Italia. «Nonostante la difficoltà della situazione
che si è venuta a creare - dice l’amministratore delegato Corrado
Passera - riteniamo sia possibile lavorare anche con altre istituzioni
finanziarie per cercare soluzioni che rispettino tutti gli interessi
coinvolti». Un appello alla responsabilità comune per un’azienda «di
grandissima importanza per il nostro Paese», la cui stabilità di
azionariato «può contribuire a rafforzarla».
Passera, dunque, lancia l’ipotesi di una soluzione condivisa da quelli che oggi
hanno interessi su Telecom - e quindi anche gli americani di At&t e i
messicani di America Mòvil - ma che salvaguardi anche gli interessi
generali del Paese e che ricompatti il sistema. Da Parigi un socio di peso di
Mediobanca, Vincent Bolloré, parla dell’attenzione di Mediobanca a «che
l’operazione su Telecom sia perfettamente chiara e nell’interesse italiano».E
che non diventi «solo una questione di prezzo». Il finanziere bretone usa
invece parole chiare sul blitz con cui Marco Tronchetti Provera ha depennato il
nome di Guido Rossi dal futuro Cda Telecom. «Quello che è successo con
la lista del cda che non era la stessa è un primo importante motivo di
preoccupazione». Bolloré non sposa la difesa dell’italianità «a tutti i
costi, ma bisogna stare attenti che non ci siano ricadute negative nel tempo».
Parla del diritto di prelazione che i due gruppi «decideranno se esercitare o
meno solo quando ci sarà un’offerta ufficiale». Ma gli affari, secondo
il finanziere, non sono «solo una questione di prezzo». Quindi spiega che
Mediobanca e Generali «al momento giusto adotteranno le misure necessarie»
visto che, tra i loro compiti, c’è quello di assicurare «il miglior
sviluppo possibile nella stabilità delle aziende italiane».
Ma Pirelli e Mediobanca-Generali divergono su tutto. A partire dalla
ricostruzione degli esiti della riunione in cui giovedì scorso il patto
parasociale aveva trovato l’intesa sulla lista davanti al notaio Carlo
Marchetti, figlio del presidente di Rcs Piergaetano. Nella lettura dell’asse
triestino-milanese tali accordi comprendevano anche il nome di Rossi, tanto che
i due consiglieri di loro espressione avevano accettato la candidatura, sempre
giovedì, subordinatamente alla presenza del giurista. Diversa la lettura
di Tronchetti, propenso nel riconoscere solo l’accordo sulla generica
riconferma del management con un aumento delle professionalità
tecnico-industriali. Insomma, l’identikit di Pasquale Pistorio quale prossimo
presidente.
Nel contempo sono partite le lettere con la richiesta di convocazione del
direttivo del patto di blocco di Pirelli. Sulla carta l’appuntamento dovrebbe
essere fissato entro 15 giorni, ma nelle missive sarebbe esplicitata la
richiesta di agire per le vie brevi, con lo scopo di fissare la riunione prima
del 16 aprile, data dell’assemblea di Telecom. Mentre At&t è stata
impegnata in nuovi intensi contatti milanesi in Pirelli e con il mondo
bancario, le continue voci di prossimi nuovi interessi da parte di cordate
alternative hanno dato nuova benzina alla bagarre in Borsa. Non tanto per le
quotazioni (+0,6% che porta il titolo ai massimi da un anno), quanto per gli
scambi. Ieri è transitato un altro 4% del capitale: fatti due conti,
ciò significa che nelle ultime sedute ha cambiato casacca il 20% del
capitale di Telecom. Tantissimo se si considera che At&t è in corsa
per il 12%, ossia la quota corrispondente al 66% di Olimpia. Segno che la
prossima assemblea potrebbe riservare più di una sorpresa
Una risposta non
superficiale richiede che quantomeno si considerino da un lato i caratteri
dell'attività di vigilanza svolta dalla Banca d'Italia e
dall'altro lato la struttura gestionale e operativa dei gruppi bancari italiani
protagonisti di questi nuovi sviluppi di business. Quanto alla vigilanza svolta
da Bankitalia va sottolineato che essa, pur avendo subito una profonda
trasformazione che l'ha portata ad evitare interventi diretti sulle scelte di
gestione delle banche, continua a tenere sotto controllo banche e gruppi
bancari attraverso la disciplina del loro patrimonio e l'imposizione di una
serie di vincoli che fanno riferimento ai rischi assunti. Gli interventi che
vedono i gruppi bancari al centro delle cronache finanziarie hanno o avranno
ripercussioni sulla dimensione del loro patrimonio minimo di vigilanza e da
tale dimensione risulteranno condizionati. Per quanto riguarda poi l'assunzione
di partecipazioni azionarie che una banca intenda assumere nei riguardi
del capitale di imprese/gruppi non finanziari, va ricordato che vige una
disciplina che prevede limiti concernenti sia le singole partecipazioni, sia il
complesso delle medesime. Sono limiti formalizzati anche livello di direttive
comunitarie, ai quali si aggiunge il cosiddetto limite di separatezza che
esiste solo in Italia e che vieta alle banche di superare il 15% del
capitale della singola impresa partecipata. Quanto poi ai gruppi bancari
italiani, va rilevato che essi non solo hanno realizzato un forte incremento
dimensionale, ma si sono anche dati nuovi assetti organizzativi e di gestione,
dimostrando un miglioramento nel loro tasso di imprenditorialità,
risultato sia degli innesti in ambiente bancario di competenze di provenienza
industriale, sia della maggiore responsabilizzazione che è derivata dal
citato mutamento negli indirizzi di vigilanza di Bankitalia. La struttura di
gruppo a cui le banche italiane sono pervenute ha operato una sintesi efficace
fra il modello della banca universale e quello dell'intermediario
finanziario specializzato, consentendo loro di entrare anche in nuove aree di
business più vicine all'attività di private equity e della banca
di investimento che a quella tradizionale della banca commerciale. Le
performance elevate che i gruppi bancari italiani hanno realizzato, non solo
hanno gratificato gli azionisti, ma hanno anche rafforzato il patrimonio,
così consentendo loro ulteriori assunzioni di rischio. Scontata
l'inesistenza del pericolo di una riproposizione della banca mista di inizi
'900, si conferma e diviene più critico il rilievo assunto dalle aree di
sovrapposizione dei ruoli, dalle relazioni fra parti correlate e dai conflitti
di interessi che conseguono ai rapporti partecipativi, di patto sindacato e di
debito-credito che le varie società del gruppo bancario intrattengono
singolarmente, ma col raccordo di una logica unitaria, con le imprese e i
gruppi non finanziari. Su questo terreno e in applicazione della legge sulla
tutela del risparmio della fine del 2005, la Banca d'Italia e
l'Autorità Antitrust devono poter collaborare per ottimizzare i
risultati di vigilanza e di controllo. Antonio Porteri e impieghi. Può
porsi a questo punto e legittimamente l'interrogativo circa la
compatibilità tra gli sviluppi che, pur in circostanze non ordinarie, il
rapporto fra banche e imprese va assumendo in Italia e l'esigenza di
salvaguardare continuamente l'equilibrio di gestione delle banche stesse. In
altri termini, non vi è forse il pericolo che, sulla scorta della nuova
libertà d'azione aperta alle banche dal Testo Unico Bancario del 1993,
le banche italiane stiano spingendo troppo sull'acceleratore d'una gestione
troppo rischiosa?.
Si chiamano
business continuity e disaster recovery. Due concetti, in Italia non
molto conosciuti, che hanno cominciato a fare il giro del mondo dopo l'11
settembre 2001. Si tratta della continuità operativa e delle misure da
adottare in caso di eventi terroristici o disastri naturali (terremoti,
black-out, attacchi biologici, pandemie). Le grandi aziende hanno cominciato a
muoversi in questa direzione. Del resto i danni, soprattutto per l'industria
finanziaria, possono essere spropositati. Ecco perché si è mossa la Banca
d'Italia che, ieri, ha dettato precisi obblighi per gli istituti di
credito italiani. Obiettivo: evitare l'interruzione dei pagamenti o le
transazioni sui mercati di fronte a qualsiasi evento. Entro 4 ore dal disastro,
le banche devono assicurare la ripresa dei sistemi e avere, in ogni caso, siti
di recovery distanti da quelli primari. Il tutto coordinato da speciali task
force. Ieri, intanto i vertici di Palazzo Koch hanno incontrato un'altra volta
i sindacati. Sul tavolo, la riorganizzazione del servizio studi che si dovrebbe
rafforzare grazie a quattro distinti uffici (statistica e ricerca, e relazioni
internazionali). Fino al 12 aprile le sigle possono presentare osservazioni. Il
progetto dovrebbe essere approvato dal Consiglio superiore di Via Nazionale il
26 aprile per essere operativo già dal 1 giugno.
- 06-04-2007 NUOVA DISTRIBUZIONE Una definizione dettagliata della
consulenza finanziaria indipendente arriverà solo con il regolamento
della Consob. Quando la commissione di controllo specificherà in
ogni punto le modalità di attuazione della direttiva europea Mifid. Ma
gli operatori di settore, nel frattempo, non sono rimasti con le mani in mano.
Sfruttando le chance delle normativa attuale, hanno iniziato a offrire servizi
di consulenza finanziaria, separarata dalla vendita. Il mercato si rivolge
ancora a una nicchia di risparmiatori, ma attira l'interesse di diversi
operatori: non solo fee only (come Consultique o Free & Partners), che
hanno come unico scopo quello di consigliare investimenti (senza collocare i
prodotti), ma anche di reti di promozione finanziaria, che possono aggiungere
la vendita alla semplice consulenza. La prima rete a sperimentare questo
mercato è stata Banca Xelion (gruppo Unicredit), partita a fine 2005 con
il servizio di Advice. E i risultati sembrano aver superato ogni previsione. I
clienti "consigliati" dai promotori del gruppo Xelion sono stati
oltre 2.700, con un patrimonio complessivo di 500 milioni di euro, che
rappresentano più del 20% delle gestioni patrimoniali della banca.
"I risparmiatori hanno la possibilità di richiedere una diagnosi
indipendente sui propri attuali investimenti, detenuti anche presso altri
intermediari, senza obbligo di acquistare prodotti distribuiti da Xelion -
dicono dalla banca - numerosi promotori hanno più del 10% delle masse
gestite con il servizio di Advice, e oltre mille (su un totale di 1.900, ndr)
sono stati già formati per offrire consulenza. Per il 2007 ci aspettiamo
il decollo della consulenza finanziaria e di Xelion Advice grazie anche
all'introduzione della Mifid". Il fenomeno sta quindi prendendo piede, al
punto che nuove aziende sono pronte a lanciarsi in iniziative simili. Come
Banca Generali, che ha riservato il servizio di consulenza ai clienti che hanno
un portafoglio minimo di 250mila euro. Soglia che nei prossimi mesi dovrebbe
essere abbassata a 100mila euro. "Trenta persone di Bsi hanno iniziato a
offrire consulenza a aprile. Alla fine dell'estate tireremo le somme e
apporteremo eventuali correttivi - dice Piermario Motta, direttore generale di
Banca Generali - Poi a settembre tutti i 200 promotori di Bsi avranno accesso
al servizio, oltre a 100 persone di Banca Generali selezionate su una rete
complessiva di 1.600 persone". La banca del gruppo Generali, per offrire il
servizio di consulenza ha stretto un accordo con Morningstar, utilizzando una
piattaforma che permette di censire più del 90% di fondi e sicav
collocati oggi in Italia. "La consulenza coinvolgerà però
anche i singoli titoli, analizzando azioni e obbligazioni acquistate dai nostri
clienti - continua Motta - Del resto il risparmiatore italiano medio detiene
più del 70% del suo patrimonio in titoli. Non potevamo quindi trascurare
questa componente". Ma quanto costerà chiedere consigli a un
promotore del gruppo Banca Generali? "In questa fase iniziale non
costerà nulla, sarà un valore aggiunto - dice Motta - Per
stabilire un prezzo futuro aspettiamo di avere indicazioni più precise
dalla Mifid. L'orientamento attuale è far pagare un costo marginale per
le masse gestire presso di noi, prevendendo invece una spesa una tantum per gli
asset tenuti presso terzi". Diversa, invece, la linea seguita da
Copernico, società indipendente fondata e guidata da Saverio Scelzo, ex
promotore di Ing e Azimut. La sim ha previsto un sistema di remunerazione che
applica commissioni solo al raggiungimento di obiettivi prefissati con il
cliente. In particolare i contratti a parcella sono di tre diverse tipologie.
Nel primo caso il cliente potrà acquistare la consulenza una tantum chiedendo
consigli sugli asset investiti presso altri intermediari e potrà
conoscere la sua attitudine e la propensione al rischio. "Per usufruirne
è necessario possedere un patrimonio di almeno 100mila euro, e la
parcella oscillerà tra lo 0,5% e l'1% del patrimonio", spiega
Scelzo. Oppure c'è la formula on demand, con incontri periodici con il
consulente per monitorare e ridefinire il piano di investimento, che costa in
media 300 euro. E infine, se si desidera avere anche la gestione del proprio
patrimonio, in accordo con il cliente il promotore finanziario crea un
benchmark ad hoc per ogni singolo portafoglio con l'obiettivo di batterlo. Solo
in questo caso è previsto il pagamento della commissione. Per questo
è stato creato un software che permette al promotore di monitorare
insieme al cliente la capacità di generare plusvalenza rispetto al
benchmark. "Per adesso non c'è certo la fila per acquistare questi
servizi, e non tutti i nostro consulenti mostrano interesse a offrirli -
commenta Scelzo - Ma credo molto nello sviluppo di questo settore, che non deve
essere una moda". Oggi i consulenti di Copernico coinvolti dal progetto
sono una decina, ma tra breve sarà accessibile all'intero gruppo.
da Milano
Condanna per abuso di informazioni privilegiate: la sentenza porta
in calce il timbro della Consob, ed è la prima in Italia dal
recepimento, nel maggio 2005, della direttiva Ue sul cosiddetto market abuse. A
esserne colpito è l'imprenditore bresciano Ettore Lonati, al quale
è stata inflitta una multa da 1,5 milioni di euro, confiscati beni per
3,2 milioni (il valore attribuito al profitto illecitamente ottenuto) e imposto
il divieto di ricoprire cariche sociali per i prossimi sei mesi. La vicenda che
ha portato al verdetto non è proprio "freschissima": risale
infatti al 1999, quando Emilio Gnutti passa a Lonati (uno dei suoi alleati
storici, coinvolto anche nel tentativo di scalata ad Antonveneta) alcune
notizie riservate relative a operazioni societarie che avrebbero riguardato la
Cmi, la Cantieri metallurgici italiani della famiglia Falck in procinto di
riconvertirsi al business dell'ecoindustria. I grafici borsistici di Cmi dal
periodo che intercorre dall'11 febbraio al 19 marzo di quell'anno raccontano la
storia di un titolo effervescente come mai era stato, protagonista di un rialzo
di quasi il 23%, tra scambi vorticosi (58mila pezzi, contro una media di 11.500
nel trimestre precedente). Da quei movimenti anomali, scatta un'indagine della
Consob volta ad accertare se vi sia stato insider trading. Alla fine,
l'accertamento si chiude con un atto dovuto, la segnalazione alla magistratura.
Segue così il rinvio a giudizio di Gnutti e Lonati (al quale viene contestato
l'acquisto di 320mila azioni grazie alla "soffiata" dello stesso
Gnutti) e la successiva condanna da parte del Tribunale di Brescia,
rispettivamente, a 8 mesi di reclusione e 100mila euro di ammenda e a 6 mesi e
100mila euro di ammenda. Caso chiuso? No, perché i due imprenditori non
accettano la sentenza, decidendo di ricorrere in appello. Passa altro tempo, e
quando il dossier arriva sul tavolo del magistrato è l'ottobre 2005.
Insomma, fuori tempo massimo, perché l'Italia ha già fatto propria la
normativa sull'abuse market che, tra l'altro, conferisce alla Consob poteri
ispettivi che includono le intercettazioni telefoniche, oltre alla
possibilità di confiscare beni. Ma, soprattutto, uno dei capisaldi della
legge è la netta distinzione tra l'insider primario, cioè colui
che fornisce le informazioni privilegiate e che è quindi soggetto a
sanzioni penali, da quello secondario, ovvero chi quelle informazioni le
utilizza, da colpire con sanzioni amministrative. A quel punto, la Corte di
appello può pronunciarsi soltanto su Gnutti, al quale viene confermata
la condanna (seppur ridotta a 4 mesi di reclusione e 80mila euro di multa),
mentre il caso Lonati diventa di competenza della commissione guidata da
Lamberto Cardia che, accertata la violazione, decide di condannare
l'industriale bresciano.
'Viver
seguri come i po'', recitava un detto Veneziano del Quattrocento; e il tema
sicurezza è essenziale per scegliere tra tfr e previdenza integrativa; a
maggior ragione se si considera che la liquidazione in azienda, oltre a godere
della garanzia di conservazione del capitale e della rivalutazione legale (1,5%
fisso +75% indice Istat), beneficia della tutela di uno speciale Fondo di
garanzia in caso di insolvenza del datore di lavoro costituito presso l'Inps.
Se il tfr confluisce nei fondi pensione è affidato invece, insieme con i
contributi del lavoratore e del datore di lavoro, ai mercati mobiliari. La
dimostrazione che i lavoratori si interrogano sui rischi di affidare a mani
terze la propria pensione è fornita da un recentissimo sondaggio
condotto da Gfk Eurisko per conto di Assogestioni secondo cui in cima ai
desiderata si colloca, secondo il 45% degli intervistati, la sicurezza/garanzia
di avere almeno la restituzione di quanto versato. Il risparmiatore italiano,
corteggiato da più di una rete di vendita, si chiede quindi quali siano
i meccanismi di protezione dei risparmi per la vecchiaia, oltre alla tutela di
base garantita dalla Costituzione. I controllori della Covip. Il nostro
sistema, in particolar modo alla luce della recente riforma Maroni così
come modificata e corretta dalla Finanziaria 2007, prevede un articolato
sistema di garanzie al cui apice si colloca la supervisione generale del
ministero del lavoro, che, di concerto con il ministero dell'economia, emana le
direttive generali in materia di vigilanza. Esiste poi un'apposita Authority,
la Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), già prevista
dalla normativa precedente, 'istituita con lo scopo di perseguire la
trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione
delle forme pensionistiche complementari, avendo riguardo alla tutela degli
iscritti e dei beneficiari e al buon funzionamento del sistema di previdenza
complementare'. Dal 1° gennaio 2007 si attua il principio
dell'omogeneità del sistema di vigilanza previdenziale accrescendosi le
prerogative della Covip, oltre che sui fondi negoziali e sui fondi
preesistenti, con riferimento ai fondi pensione aperti e ai pip assicurativi,
prevedendo che esse riguardino anche quelle in materia di trasparenza e
correttezza dei comportamenti, in precedenza assegnate, rispettivamente, alla Consob
e all'Isvap. La Covip elabora poi schemi per gli statuti, i regolamenti, le
schede informative, i prospetti e le note informative. L'Authority presieduta
oggi da Luigi Scimia vigila sull'attuazione dei principi di trasparenza e sulle
modalità di pubblicità (recentissima una specifica direttiva a
tal proposito). La Covip tiene poi l'albo in cui da quest'anno vanno iscritti
anche i pip (novità assoluta). Resta invece ferma la vigilanza delle
Autorità di controllo (Banca d'Italia, Consob e Isvap) sui
soggetti abilitati, che istituiscano e/o gestiscano le forme pensionistiche
(banche, sim, sgr e imprese di assicurazione). L'Autorità disciplina poi
le modalità di rendicontazione e di comunicazione periodica, esercita il
controllo sulla gestione tecnica, finanziaria, patrimoniale e contabile di
tutte le forme pensionistiche. Va evidenziato come il disegno di legge di
riordino delle Authority preveda l'assorbimento delle competenze della Covip,
dal 1° luglio 2008, da parte di Consob e Banca d'Italia. Una rivoluzione
che trova molte voci critiche, tra cui, la più recente, quella dei
sindacati e delle associazioni dei datori di lavoro che aderiscono a Fonchim e
Fondenergia: 'C'è preoccupazione rispetto alla soppressione della Covip
prevista nel recente disegno di legge governativo sulle Authority. L'effetto di
questa misura appare infatti non coerente con la volontà di dare un
forte impulso alla previdenza complementare e potrebbe comportare una minore
attenzione sull'aspetto previdenziale di forte interesse sociale'.I vigilantes
interni. Un ruolo fondamentale nell'ambito dei fondi pensione è
interpretato dalla banca depositaria, come accade per i fondi comuni dove
questo organo garantisce che i gestori non scappino con la cassa. Le funzioni
da essa espletate sono infatti quella di custodia dei valori mobiliari
dell'organismo previdenziale, di controllo delle transazioni, di
rendicontazione, di riscossione degli interessi e dividendi relativi al portafoglio.
Altro anello fondamentale della catena di protezione è rappresentato
dagli organi di vigilanza interni e dalla governance dei fondi pensione. In
precedenza la figura del responsabile era prevista per i soli fondi pensione
aperti, mentre ora in base alla nuova normativa deve prevedersi per tutte le
forme pensionistiche. Nominato dal consiglio di amministrazione, il
responsabile verifica che la gestione sia svolta nell'esclusivo interesse degli
aderenti, nel rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei
regolamenti e nei contratti; deve provvedere all'invio di dati, notizie e di
una specifica relazione annuale sull'attività complessiva alla Covip.
Vigila poi sul rispetto dei limiti di investimento, complessivamente e per ciascun
comparto in cui si articola il fondo, sulle operazioni in conflitto di
interesse; sull'osservanza dei principi di corretta amministrazione. Con
specifico riferimento ai fondi pensione aperti e ai pip assicurativi (per
questi ultimi tale figura è una novità assoluta) l'incarico non
può essere conferito a uno degli amministratori o a un dipendente della
forma stessa ed è incompatibile con lo svolgimento di attività di
lavoro subordinato, di prestazione d'opera continuativa, presso i soggetti
istitutori delle predette forme, ovvero presso le società da queste
controllate o che le controllano. Ci sono poi gli organi dei fondi pensione. I
chiusi sono soggetti giuridici autonomi dotati di organi di amministrazione e
controllo interni: consiglio di amministrazione, collegio sindacale, assemblea
dei delegati. Tali organi devono essere paritetici, rappresentativi dei
lavoratori iscritti e dei rappresentanti dei datori di lavoro che
contribuiscono al finanziamento del fondo pensione. Per i datori è
prevista la possibilità di designazione dei propri delegati in
assemblea, mentre per la nomina dei delegati dei lavoratori è richiesto
il ricorso al metodo elettivo. In particolare, il consiglio di amministrazione
ha poteri di indirizzo e di controllo. Ulteriore novità è poi rappresentata
dall'obbligo per i fondi pensione aperti che prevedano la possibilità di
adesione in forma collettiva di istituire anche un organismo di sorveglianza;
l'obiettivo è quello di rappresentare gli interessi degli aderenti e
verificare che l'amministrazione e gestione del fondo avvenga nell'esclusivo
interesse degli stessi. Riferisce all'organo di amministrazione del fondo
pensione aperto e alla Covip in merito alle irregolarità riscontrate. In
sede di prima applicazione, l'organismo di sorveglianza dovrà essere
composto da almeno due membri (dotati dei requisiti di onorabilità e
professionalità) da designarsi da parte dei soggetti istitutori dei
fondi aperti, per un incarico che non potrà superare i due anni.
è facoltativa, in sede di prima applicazione, la partecipazione
paritetica dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro
all'organismo di sorveglianza. Poi, dopo questa prima fase, i componenti
dell'organismo di sorveglianza dovranno essere individuati nell'ambito degli
amministratori indipendenti iscritti a un albo della Consob. Nella fase
successiva l'organismo di sorveglianza dovrà essere integrato da un
rappresentante del datore di lavoro e da uno dei lavoratori per ogni azienda o
gruppo ogni qualvolta l'adesione collettiva comporti l'iscrizione al fondo di
almeno 500 lavoratori di una singola azienda o di un medesimo gruppo. Separati
in casa. Altra importante innovazione è la necessità di una
separatezza patrimoniale, amministrativa e contabile. Gli strumenti finanziari
dello strumento previdenziale devono costituire patrimonio separato e autonomo
rispetto al patrimonio del fondo pensione/compagnia, a quello degli altri fondi
gestiti e a quello degli aderenti. (riproduzione riservata) Milano Finanza - I vostri soldi in gestione Numero 070, pag.
29 del 6/4/2007 Autore: Carlo Giuro.
Gli accordi per
dare il via all'operatore mobile virtuale con Carrefour e Poste non sono stati
sufficienti. L'Antitrust (Autorità garante della concorrenza e del
mercato) ha infatti bocciato gli impegni proposti dal gruppo guidato
dall'amministratore delegato Pietro Guindani (secondo la prassi avviata con la
legge Bersani) per chiudere l'istruttoria per abuso di posizione dominante
avviata su ricorso di Tele2 e altri operatori fissi che hanno accusato Tim,
Vodafone e Wind di bloccare di fatto le intese, abusando della loro posizione
dominante.
Quasi indifferente la reazione di Vodafone: «La valutazione dell'Antitrust -
è stata la replica ufficiale - non cambia le nostre strategie e non ci
preoccupa. Abbiamo aperto il mercato agli operatori mobili virtuali già
con due accordi e altri, con soggetti diversi, ne seguiranno. Ciò sarà
motore di sviluppo e rafforzerà le condizioni concorrenziali del
mercato». Dei tre operatori mobili sotto accusa, soltanto Vodafone ha
presentato venerdì 30 marzo e nei termini (a questo punto scaduti)
impegni all'Antitrust per chiudere un accordo con un operatore virtuale entro
il 30 marzo 2007.
La filiale italiana del gruppo britannico si era impegnato ufficialmente a fine
gennaio con gli uffici del garante, Antonio Catricalà, a fare «quanto
ragionevolmente possibile» per chiudere entro il prossimo marzo «un accordo
giuridicamente vincolante, preparatorio o definitivo» per permettere l'accesso
alla propria rete di un operatore di telefonia mobile virtuale. Una partita
iniziata a seguito dell'istruttoria avviata due anni fa per abuso di posizione
dominante collettiva contro Tim, Wind e la stessa Vodafone. Secondo le
risultanze, i tre big della telefonia avrebbero fatto "cartello" per
impedire l'ingresso sul mercato degli operatori virtuali. Il procedimento
dell'Antitrust, che non compromette gli accordi commerciali siglati, prosegue e
si concluderà entro il 7 giugno.
Sulla questione, secondo l'agenzia Radiocor, è pronta a intervenire
anche l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Via delle Muratte
potrebbe infatti riaprire l'indagine sul cosiddetto "mercato 15"
(accesso e raccolta delle chiamate nelle reti telefoniche pubbliche mobili) e
presentare una bozza di provvedimento da mandare alla Commissione Europea che
contenga l'obbligo per gli operatori mobili di concludere accordi con i fissi.
Si passerebbe dunque dalla "moral suasion" usata finora
dall'Autorità guidata da Corrado Calabrò per il raggiungimento
delle intese all'imposizione di un vero e proprio obbligo di natura
regolamentare. L'Agcom aveva già aperto un'indagine sul "mercato 15"
conclusa a gennaio con la valutazione che le condizioni competitive del mercato
erano sufficienti. Ora c'è invece la possibilità che si riaprano
i giochi poiché l'Autorità ritiene gli accordi nel frattempo conclusi
dagli operatori mobili «inadeguati a realizzare l'integrazione fisso-mobile».
Vodafone ha annunciato oggi l'accordo con Poste italiane mentre risale al 2
aprile scorso l'annuncio dell'accordo con Carrefour. Tim, invece, ha concluso
un'intesa con Coop.
+ La
Repubblica 5-4-2007 Il "Nanarellum" Di Ilvo Diamanti
Europa
5-4-2007 Pelosi in Siria, il dopo-Bush è già iniziato di GUIDO
MOLTEDO
Il
Riformista 5-4-2007 Se tre ore vi sembran poche, pensate a Mr. Kissinger. di
Anna Momigliano
Maroni:
io personalmente sono favorevole al testamento biologico, la Chiesa deve poter
parlare ma il Parlamento è autonomo RomaNOSTRA REDAZIONECi sono cattolici a disagio, ci sono
cattolici che condividono, ci sono cattolici che disapprovano e vanno per la
loro strada. E ci sono laici che si indignano e protestano. Nel momento in cui
politica e società si confrontano
su temi dalle forti implicazioni morali e religiose - come i Dico, l'eutanasia
o il testamento biologico - e mentre si prepara il Family day (al quale i
sacerdoti potranno partecipare con i loro parrocchiani) la voce della Chiesa
continua a farsi sempre più presente nel dibattito politico. Una presenza che, forse, non era
mai più stata così forte dai tempi
del dibattito sul divorzio e sull'aborto. E ancora una volta, come
inevitabilmente accade quando in discussione sono temi cosiddetti eticamente sensibili,
gli schieramenti si sfrangiano, le posizioni si incrociano, e gli umori si
fanno strada trasversalmente.Così ad esempio, nella Cdl, l'azzurra Isabella Bertolini condivide
"i dubbi di monsignor Betori e della Cei sulla legge in materia di
testamento biologico", spiegando che "quello che oggi ci spaventa è che attraverso
questo provvedimento si possa arrivare a legalizzare l'eutanasia nel nostro
Paese. Siamo decisamente contrari". Ma su posizioni opposte si schiera il
capogruppo del Carroccio, Maroni, che spiega: "Personalmente sono
favorevole al testamento biologico, anche se la Lega non ha ancora espresso la
sua posizione. Se ci sarà una proposta interessante, ne discuteremo e forse la
sosterremo". Quanto al dibattito sull'intervento delle gerarchie
ecclesiastiche, Maroni sottolinea che "la Chiesa ha il diritto e il dovere
di esprimersi sui temi etici. Ovviamente - aggiunge però - il Parlamento ha la sua autonomia.
La Chiesa esprime la sua opinione, poi spetta ai parlamentari aderire o
meno".Il verde Tommaso Pellegrino intanto, "da cattolico", si
dice "profondamente a disagio per la posizione espressa dalla Cei sul no
al testamento biologico", osservando che "le imposizioni sono fuori
luogo e contrarie a qualsiasi principio etico" e che "la laicità dell'azione
legislativa è essenziale per
un buongoverno: piuttosto - osserva - la Cei sarebbe dovuta intervenire contro
l'ipocrisia dei politici cattolici che, a parole, dichiarano di seguire i
precetti della Chiesa ma che, di fatto, nella propria vita privata fanno
tutt'altro".Nel frattempo accade anche che un altro azzurro, Alfredo
Biondi, guadagna le lodi di un leader del movimento gay, Enrico Oliari. Critico
con monsignor Betori a causa della sua bocciatura di qualsiasi ipotesi di
riconoscimento delle unioni di fatto, anche se limitata ad un contratto
registrato da un notaio come prevede la sua proposta di legge, Biondi protesta:
"Non si accettano neppure i diritti individuali e privatistici di
solidarietà, e questo non
ha nulla a che fare con la pregiudiziale contro il matrimonio dissimulato,
l'attacco al matrimonio che la Chiesa diceva di temere. Qui si vogliono
additare come peccatori sulla pubblica piazza le persone che convivono, siano o
no dello stesso sesso!". Ha ragione, applaude il leader di GayLib: "I
vescovi vogliono avere il pieno controllo della vita affettiva e sessuale degli
italiani. I continui e martellanti interventi della Cei e della Chiesa stanno
portando la discussione politica all'epoca giolittiana, quando la società si trovava in
un forte contrasto fra clericali ed anticlericali".Intanto il ministro per
la famiglia, Rosy Bindi, afferma che, rispetto al Family day "il governo
deve porsi in atteggiamento di ascolto, così come per qualsiasi altra
manifestazione. Il Family day - aggiunge - deve essere visto dalle istituzioni
come la manifestazione di una componente rilevante della vita del Paese, che è quella che si
riconosce nell'associazionismo cattolico e in una serie di valori che si
riconducono all'ispirazione cristiana, e che si convoca in nome dei diritti
della famiglia, proponendo al governo e alle istituzioni una serie di
interventi per meglio tutelare le famiglie italiane".C.G.
Una
legge elettorale, da sola, non può risolvere i problemi della politica e della democrazia.
Certamente, però, può peggiorare
entrambe. Soprattutto se è ispirata all'"adhochismo". Se, cioè, viene
costruita ad hoc: rispondendo a specifici interessi di partito, fazione,
frazione. Anche perché, di solito,
produce effetti molto diversi dal previsto.
Basti pensare alla legge approvata nel 1993, il famoso "mattarellum",
come la definì Giovanni
Sartori, dal nome del primo firmatario, Sergio Mattarella. Un sistema
elettorale misto , in cui tre quarti del Parlamento veniva eletto con il
maggioritario di collegio, il resto con il proporzionale. Concepito in modo
tale da "salvare" i partiti più piccoli e "premiare" le
forze politiche che, allora, apparivano dominanti. La Lega nel Nord, i
post-comunisti nel centro, gli ex-democristiani nel Sud.
Come andò a finire, lo
sappiamo tutti. Dalle macerie della prima Repubblica emerse Forza Italia, il
"partito personale" di Silvio Berlusconi. E scardinò le previsioni,
le premesse e le promesse della legge elettorale. Da allora iniziò l'era delle
"coalizioni eterogenee", in cui tutti i partiti, o sedicenti tali,
contano. Così, una legge
scritta per dare potere ai grandi partiti e salvaguardare i più piccoli ottenne
l'effetto opposto. Inibì l'affermarsi di grandi partiti e rese il sistema politico
ostaggio delle formazioni politiche "marginali". I
"nanetti", come li ha chiamati (di nuovo) Sartori.
Si pensi, ancora, alla legge elettorale approvata, con i voti della CdL, pochi
mesi prima del voto del 2006. Presentata dal ministro dell'epoca, Roberto
Calderoli, il quale la definì, senza mezzi termini, "una porcata". E Giovanni Sartori
(sempre lui) la ribattezzò subito il "porcellum". Un proporzionale con premio di
coalizione. Una legge elaborata in modo frettoloso, con l'obiettivo principale
di ridurre il vantaggio del centrosinistra, che nel maggioritario ha sempre
ottenuto più voti rispetto
al proporzionale. Al contrario del centrodestra.
Obiettivo raggiunto. Ma, con alcuni effetti inattesi. Visto che il
centrosinistra ha egualmente vinto le elezioni. Non solo, ma, alla Camera, con
un vantaggio inferiore allo 0,1% dei voti validi, ha ottenuto il 55% degli
eletti. Mentre al Senato ha conquistato la maggioranza, per quanto minima, dei
seggi pur avendo preso meno voti della CdL.
Non propriamente ciò che il
centrodestra si attendeva dal "porcellum". Il quale ha, invece,
esaltato il potere dei "nanetti". Dai partiti "personali",
come FI, si è, anzi, passati
ai "partiti individuali". Che non sono "al servizio di una
persona", ma coincidono con essa. Come l'Italia di mezzo: Follini. L'AISA
(Associazione Italiani del Sud America): Pallaro. E, ultimo, il PSdG: il
"Partito Sergio de Gregorio". Una legge dopo l'altra, siamo, quindi,
scivolati in un Parlamento e in un Paese che dipendono dalle scelte e dagli
umori di alcuni "individui".
Le bozze di legge elettorale presentate, nei giorni scorsi, dalle due
coalizioni, non riescono a farci scorgere una via d'uscita convincente.
Riteniamo, infatti, difficile che coalizioni tanto condizionate da partiti
minimi e individuali possano progettare leggi elettorali adatte a curare il
male della politica italiana. Che coincide largamente con il potere esagerato
dei partiti minimi e individuali. Perché mai, questi, dovrebbero condividere una terapia
che li neutralizzerebbe?
Per cui, non rassicura, ma, anzi, insospettisce un po', l'assonanza fra i due
progetti di legge. Ispirati, entrambi, al modello regionale (il
"tatarellum", visto che venne ispirato da Tatarella, al tempo
eminenza grigia di AN). Prevedono, entrambi, che la gran parte dei seggi venga
attribuita, su base proporzionale, ai partiti che superino uno sbarramento
basso (il 3%, secondo il centrodestra; ancora incerto, per il centrosinistra).
Ancora, entrambi i progetti stabiliscono un premio di coalizione
"nazionale" (anche al Senato) alla coalizione vincente. Per cui, come
avviene ora, i partiti dovranno coalizzarsi e indicare un candidato premier.
Inoltre, nessuno dei due progetti prevede le preferenze. Così le segreterie
dei partiti non perderanno il controllo sulla formazione delle liste e sugli
eletti. Altri aspetti appaiono incerti. Il progetto del centrosinistra
(presentato dal ministro Chiti) ipotizza una modifica costituzionale, che
attribuisca al Senato competenze "federali".
E', comunque, difficile capire cosa possa uscire da queste bozze appena
abbozzate. Tanto più perché dovranno essere
integrate e adattate reciprocamente. E perché sono molte le riserve espresse, al proposito,
nelle due coalizioni. Come dimostrano le critiche sostanziali sollevate dal
ministro Amato, su "la Repubblica". Tuttavia, dubitiamo che proposte
possano disegnare una riforma adeguata a curare il "male" della
democrazia italiana. Viste le premesse, la nuova (ipotetica) legge emergerebbe
dalla media ponderata del calcolo di utilità espresso da ogni partito. Medio,
piccolo, piccolissimo e individuale. Ciascuno proteso a tutelare il proprio
interesse particolare con una determinazione (e un'efficacia) inversa al peso
elettorale.
Dopo il "mattarellum" e il "porcellum", sarebbe, forse, la
volta non del "tatarellum", ma (Sartori ci perdoni, se gli facciamo
il verso) del "nanarellum".
(5 aprile 2007)
Via
libera del Consiglio dei ministri al disegno di legge che prevede
un'accelerazione dei tempi e una razionalizzazione del processo penale.
È anche previsto un adeguamento del sistema delle sanzioni. «Si è cercato di
incidere sulla lentezza dei processi», spiega il ministro della Giustizia
Clemente Mastella. In primo luogo il provvedimento interviene sulla legge ex
Cirielli: in tema di recidiva si abolisce il doppio binario introdotto dalla
legge varata nella precedente legislatura e si riconduce a una sostanziale unità la disciplina,
eliminando la distinzione tra incensurati e soggetti con precedenti penali.
Ridisegnato anche l'istituto della prescrizione del reato, che torna
sostanzialmente ai preesistenti criteri di commisurazione del tempo necessario
a prescrivere. Non si estinguono per prescrizione i reati per i quali la legge
prevede la pena dell'ergastolo, anche se il carcere a vita consegue all'applicazione
di circostanze aggravanti. La conferma della sentenza di condanna anche in
secondo grado sospende il decorso della prescrizione e lo stesso effetto si
produce anche a
seguito della dichiarazione di inammissibilità del ricorso per Cassazione. Altro
punto centrale del provvedimento varato dal Consiglio dei ministri è l'eliminazione
dell'istituto della contumacia, in ottemperanza alle numerose sentenze di
condanna pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti
dell'Italia: sarà consentito, di
massima, lo svolgimento del processo soltanto nel caso in cui l'imputato abbia
effettiva conoscenza dello stesso, dovendone, in caso contrario, disporre la
sospensione. Il giudice portà procedere in assenza dell'imputato se, in ragione del numero,
della natura e della gravità dei reati contestati, o del numero delle persone offese e dei
testimoni o dell'esigenza di garantire la genuinità della prova, la sospensione possa
arrecare grave pregiudizio all'accertamento dei fatti. A tutela dell'imputato
irreperibile che sia inconsapevole della sua situazione, resta applicabile
l'istituto della remissione in termini.
Si tratta, spiega Mastella, «di una risposta di sistema a un problema antico
relativo all'efficienza del processo, partendo dal principio costituzionale
della ragionevole durata nel rispetto delle garanzie per le parti». Il
cittadino «ridiventa protagonista - ha spiegato Mastella - perchè una giustizia
lenta finisce per essere ingiusta. Il disegno di legge prevede interventi
mirati che responsabilizzano gli attori del processo». Previsto, per esempio,
l'obbligo per il giudice di programmare un calendario di udienza, per evitare
una «melina processuale» e giungere a decisioni in tempi ragionevoli: due anni
e mezzo per il primo grado, un anno e mezzo per il secondo grado e un anno per
il giudizio di legittimità, salvo che per i processi di particolare complessità. Il processo
penale potrà anche essere
sospeso con la messa alla prova dell' imputato, che consentirà, per i reati
detentivi con pena non superiore a tre anni, di presentare in udienza
preliminare o in dibattimento «uno specifico programma contenente i propri
impegni ad elidere le conseguenze del reato e, ove possibile, a promuovere la
conciliazione con la persona offesa».
nicoletta.cottone@ilsole24ore.com
Prudente, e
attento a non alimentare lo scontro col Vaticano, Romano Prodi replica
indirettamente. Sceglie di citare lo «spirito laico e cristiano» di Beniamino
Andreatta, suo professore e mentore, appena venuto a mancare, per celebrare «il
senso delle proporzioni anche nello scontro politico»; e per ricordare che la
laicità è «la forma più alta di antideologia, di
antifondamentalismo». Sono parole che arrivano mentre la pressione delle
gerarchie ecclesiastiche si intensifica. E la manifestazione del 12 maggio a
difesa della famiglia assume i contorni del grande «no» alla legge sulle coppie
di fatto voluta dall’Unione; e non solo a quella. Palazzo Chigi appare sulla
difensiva. Sente montare l’offensiva della Cei. Intuisce un’operazione che
parte da Benedetto XVI, dal segretario di Stato Tarcisio Bertone e dal presidente
dei vescovi, Angelo Bagnasco, giù fino alle associazioni. Proprio ieri
la rivista 30 Giorni, diretta da Giulio Andreotti, ha diffuso un’intervista a
Bagnasco sui «Dico».
Una legge di cui
«non si sentiva la necessità»; e che «suona un po’ ridicolo presentare
come il frutto di una modalità cristiana di legiferare». Sono toni
liquidatori, che non concedono nulla; e ai quali il capo del governo cerca di
opporre una laicità attinta dal Concilio. Ma la cautela imbarazzata con
la quale il ministro Rosy Bindi parla del Family day riflette difficoltà
oggettive. Come promotrice della legge sulle unioni di fatto, la Bindi deve
difenderla. In quanto cattolica, non può ignorare le gerarchie. E da
esponente dell’Unione, sa che la tentazione del muro contro muro col Vaticano
è forte almeno quanto in alcuni settori dell’episcopato quello col
governo. Assicura dunque che i promotori riceveranno «attenzione e ascolto come
le altre manifestazioni». E difende Palazzo Chigi che «ha fatto il suo dovere
offrendo al Parlamento una sintesi». È un’eco della posizione di Prodi,
che dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri ha delegato le Camere a
definire che cosa saranno i «Dico»: un modo per consegnare ad altri una
questione che divide la maggioranza e incendia i rapporti con il Vaticano. Il
fatto che Bagnasco annunci «tutto il nostro consenso e sostegno» al Family day
è un segnale di allarme.
L’opposizione, e
sotto voce l’Unione ritengono che una mobilitazione così massiccia possa
accelerare lo svuotamento, se non la bocciatura della legge. Sulla carta,
infatti, non ci sono i numeri per approvarla al Senato. Ma la sinistra non si
rassegna. E torna a guardare a Prodi. Il ministro ds Barbara Pollastrini,
autrice della legge con la Bindi, sostiene che «il ruolo del governo non
è esaurito»; che il provvedimento non si può ridurre a qualche
modifica del codice civile: il risultato a cui puntano la Cei ed i suoi
alleati. Ma sembra la difesa generosa di un’operazione sempre più
acrobatica. Le accuse al «familismo anacronistico» dell’episcopato non bastano
a coprire la debolezza della politica: un vuoto che la Chiesa riempie senza
freni né barriere di autentica laicità.
Massimo Franco
05 aprile 2007
L'uomo è dunque sovrano, stabilisce la propria legge,
anziché riceverla dall'Alto e dall'Altro, da un Dio trascendente. L'uomo
è libero proprio perché non è più costretto ad obbedire a
norme che gli vengono imposte dall'esterno (eteros nomos, eteronomia), ma in
realtà dai poteri terreni che quella volontà divina pretendono di
incarnare (Papi e/o Re). La premessa della modernità è
l'autonomia, la sua promessa è la sovranità dell'autogoverno. Il
lungo papato di Karol Wojtyla ha costituito una ininterrotta denuncia e critica
di questa modernità (modernità incompiuta, si badi: le democrazie
realmente esistenti sono ben lungi dal realizzare la sovranità dei
cittadini). Il Papa polacco ha denunciato l'illuminismo come l'alambicco che ha
prodotto - proprio a partire dalla pretesa dell'autonomia dell'uomo - il
nichilismo morale e di conseguenza i totalitarismi del XX secolo e i loro
omicidi di massa. Voltaire all'origine dei Lager e del Gulag, insomma! Tanto
Wojtyla quanto il suo successore hanno fatto dunque propria la celebre frase di
Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è permesso". Joseph Ratzinger,
che di Papa Wojtyla è stato del resto il principale ideologo, sta
solo radicalizzando l'anatema di Giovanni Paolo II contro la modernità,
e lo sta inquadrando in una vera strategia culturale e politica. In una
efficace crociata oscurantista, che ha oggi nuove possibilità di
successo (almeno parziale) grazie anche al clima di fondamentalismo cristiano
che sta accompagnando negli Usa la presidenza Bush. La chiave di volta di
questa strategia è l'idea che - di fronte alla crisi di valori che sta
portando il mondo globalizzato al tracollo, attraverso conflitti
incontrollabili e sfiducia delle democrazie in se stesse - "solo un Dio ci
può salvare". Il vero scontro di civiltà vede dunque da una
parte le religioni nel loro insieme, e dall'altra l'inevitabile deriva
nichilista di ogni società che voglia fare a meno di Dio (e di una
"legge naturale" che coincide però puntualmente con la legge
di Dio). Il discorso di Ratisbona, che ha spinto più di un governo
islamico a scatenare contro il Papa il fanatismo delle folle, era in realtà
un invito ai monoteismi (Islam compreso, e anzi Islam più che mai) a
fare fronte comune contro la vera minaccia che incombe sulla civiltà:
l'ateismo e l'indifferenza, e insomma un laicismo che pretende di escludere Dio
dalla sfera pubblica e dalla elaborazione delle leggi. Ratzinger ovviamente non
mette tutte le religioni monoteiste sullo stesso piano: alla religione
cristiana nella sua versione "cattolica apostolica romana" riserva il
primato che gli verrebbe dalla capacità, che solo il cattolicesimo realizza
in modo compiuto, di essere una religione non solo della fede ma anche del
logos. Una religione, cioè, capace non solo di assumere la rivelazione
divina ma anche di inverare in sé la ragione umana e la sua tradizione, da
Socrate in avanti. Una religione del vero illuminismo, della ragione
"rettamente intesa". Ma se la dottrina della Chiesa di Roma e del suo
Sommo Pontefice costituiscono una Verità che non è solo di fede
ma anche di ragione, ne consegue la pretesa che parlamenti e governi non promulghino
leggi in conflitto con tale dottrina, poiché sarebbero leggi in violazione
della "natura umana", di quell'animale razionale che è e deve
essere l'uomo. E contro natura, come sappiamo, sono secondo la Chiesa cattolica
l'aborto, la contraccezione (compreso il preservativo), il divorzio, la ricerca
scientifica con cellule staminali, l'omosessualità, e ovviamente
l'eutanasia (cioè la decisione di un malato terminale, sottoposto a
sofferenze inenarrabili, che la sua tortura non venga prolungata). In tutti questi
ambiti, che con il progresso scientifico vanno allargandosi, Ratzinger continua
a ripetere che un parlamento e un governo, che approvassero leggi "contro
natura", diventerebbero ipso facto illegittimi, anche se eletti con tutti
i crismi della democrazia costituzionale. E' la stessa posizione che Wojtyla
aveva già affermato di fronte al parlamento polacco (il primo eletto
democraticamente dopo mezzo secolo!), arrivando a definire l'aborto "il
genocidio dei nostri giorni". Pronunciate nel contesto polacco, parole del
genere stabiliscono una raccapricciante equazione tra olocausto e aborto, tra
una donna che abortisce e una Ss che getta un bambino ebreo in un forno
crematorio. Queste cose venivano - ahimè - perdonate a Wojtyla (anche
dal mondo laico) per via del suo "pacifismo". Joseph Ratzinger ha
invece avviato una fase nuova: è convinto che la crisi delle democrazie
offra alla Chiesa maggiori e insperati spazi di influenza, sia presso la classe
politica sia presso i cittadini. La strategia è esplicita anche nei
tempi e nei luoghi: l'Italia è considerata l'anello debole, dove
sperimentare inizialmente questa vera e propria "riconquista", per
passare poi alla Spagna, senza perdere le speranze per una futura azione in
Germania. La Francia, allo stato attuale, sembra ancora troppo radicata
nella sua laicità repubblicana, perché una crociata culturale e politica
oscurantista sia ipotizzabile. Il cuore di questa strategia, cioè il
fronte comune delle religioni contro l'illuminismo dell'uomo autonomo, è
destinata all'insuccesso. Ogni religione pretende di essere "più
vera" delle altre, il conflitto seguito al discorso di Ratisbona non
resterà l'unico. Ma i danni che questa nuova santa alleanza
cattolico-islamica (e di parti crescenti dell'ebraismo, oltre che dei
protestantesimi di nord e sud America) sta producendo nella sua pars destruens
contro la democrazia sono già ingenti. In Italia il 70% dei cittadini si
è dichiarato a favore dell'eutanasia, ma la Chiesa è riuscita a
bloccare perfino una legge incredibilmente moderata sulle coppie di fatto. E
per il 12 maggio è prevista una gigantesca manifestazione clericale di
massa benedetta dalla conferenza episcopale italiana. E come da copione, anche
quella spagnola annuncia una nuova fase offensiva. Mentre il mondo laico, per
disattenzione o per opportunismo, tace (e l'attacco contro la scienza
darwiniana intanto dilaga, dalla Casa Bianca alla cattedrale di Vienna).
M
Porta in faccia a Guido Rossi e duello con Mediobanca-Generali. Dalla lista
presentata da Olimpia in vista dell’assemblea Telecom, il nome del professore
non c’è. Marco Tronchetti Provera, numero uno di Pirelli, non usa il
guanto di velluto e con un coup de théâtre dà il benservito al suo
avvocato storico, sfilandolo dalla lista targata Olimpia stilata in vista
dell’assemblea che tra dieci giorni ridisegnerà la plancia di comando
della compagnia telefonica. In pole position per la presidenza, al contrario,
secondo le indiscrezioni, ci sarebbe Pasquale Pistorio, già presente in
Cda come consigliere indipendente, fondatore di StMicroelectronics e favorevole
quando si profilò l’ipotesi Telefonica. E nei salotti della finanza
italiana scoppia la battaglia con un doppio duro comunicato targato Mediobanca
e Generali cui Pirelli è costretta a replicare.
Che la giornata si presenti complicata, lo si capisce subito, da quando nel
pomeriggio inizia un lungo comitato esecutivo di Mediobanca a cui oltre al
vicepresidente esecutivo di Telecom, Carlo Buora, partecipa per tre ore lo
stesso Rossi. Scartata in partenza l’opportunità di presentare una
propria lista, monta il nervosismo per la mossa spiazzante di Tronchetti. Il
tutto, in tarda serata, sfocia in comunicato durissimo: Generali e Mediobanca
comunicano con una nota che «la lista presentata da Olimpia per la nomina del
consiglio di Telecom Italia non è stata preventivamente condivisa»
all’interno del patto di consultazione creato il 18 ottobre scorso con la
Pirelli, l’Edizione Holding dei Benetton e Olimpia. Il che tradotto significa
che l’accordo di una settimana fa in cui si conveniva sulla «continuità»
con l’attuale struttura del consiglio e sulla «sintonia con la presidenza» a
lista fatta si è tramutato in carta straccia.
Non solo. Piazzetta Cuccia e il Leone promettono battaglia anche in casa
Tronchetti, visto che richiedono «l’immediata convocazione del patto di
sindacato di blocco» delle azioni della società della Bicocca. I due
azionisti, che hanno sempre considerato strategica la partecipazione in
Pirelli, insomma, non gradiscono il ruolo di semplici spettatori. Guerra
aperta, insomma. Tanto che a ruota, arriva la risposta di Pirelli, secondo cui
il patto «non prevede alcun obbligo per i partecipanti di consultarsi in merito
all’indicazione di candidati al Cda di Telecom». E aggiunge che nella lista di
Olimpia fanno parte Renato Pagliaro di Mediobanca e Aldo Minucci di Generali
che «hanno espressamente accettato, con apposita dichiarazione la relativa
candidatura». Tronchetti Provera inoltre risponde piccato alla richiesta di
convocazione del patto di Pirelli: «Nel caso ne ricorrano le condizioni e
risultino soddisfatti i relativi requisiti la direzione verrà convocata
nei modi e nei termini previsti dal patto stesso».
Nel frattempo si muovono possibili cordate alternative all’offerta presentata
dagli americani At&t e dalla messicana America Movil, già al lavoro,
con l’advisor JpMorgan, per passare al setaccio i conti di Olimpia. Ieri, ad
esempio, sono circolate - ne parlava anche il Wall Street Journal - le ipotesi
di un ritorno di Telefonica con una new entry della partita, France Télécom.
Entrambe avrebbero allacciato contatti con Intesa-Sanpaolo, Mediobanca e Generali
(ma al lavoro ci sarebbero anche Capitalia e Deutsche Bank) per verificare la
possibilità di mettere sul tappetto una controfferta. Senza contare che
sempre indiscrezioni vogliono l’interesse da parte dei tedeschi di Deutsche
Telekom che, però, si dicono «non interessati».
Troppe notizie, troppi tamburi che battono senza sosta. Anche per questo Piazza
Affari tiene sotto pressione il titolo che anche ieri, pur frenando in chiusura
(in giornata arriva a salire di oltre 4 punti percentuali), strappa un +1,47% a
2,408 euro. Ancora sostenuti i volumi: è passato di mano il 4,77% che
porta i movimenti degli ultimi tre giorni a movimentare qualcosa come il 16%
del capitale. Dalle sale operative più che di una febbre da rilancio si
parla di rastrellamenti. Speculazione, anche. Ma pure, secondo qualche
operatore, la volontà di creare un nuovo raggruppamento di soci forti
che facciano venir meno l’utilità economica di pagare un premio di
maggioranza così sostanzioso per controllare il 18% di Telecom (tale
è la quota in mano a Olimpia) che oggi basta a controllare la compagnia
e quindi costringere At&T e la Mòvil a compiere un passo indietro.
Il pensiero va sempre all’assemblea, dove alle liste di minoranza presentate da
Hopa/Holinvest e dei fondi Arca, si aggiunge quella fondamentalmente targata
Tronchetti Provera: ci sono il vicepresidente di Pirelli Carlo Puri Negri, il
direttore generale Claudio De Conto e Luciano Gobbi, responsabile finanza e
pianificazione strategica. Per parte Telecom ci sono il vicepresidente
esecutivo Buora e l’amministratore delegato Riccardo Ruggiero. Da tredici
passano a sei i consiglieri indipendenti.
Non era mai successo che, nel campo della politica
internazionale, e in particolare sul terreno più delicato, quello
mediorientale, Washington mostrasse al mondo due posizioni così diverse.
Anzi, contrapposte.
Quella della Casa Bianca e quella del Congresso. La politica estera, specie nei
momenti di crisi, è sempre stata caratterizzata da una sostanziale
bipartisanship tra repubblicani e democratici, tra presidenza e Campidoglio.
La missione mediorientale di Nancy Pelosi, con la tappa di due giorni a
Damasco, segna una rottura clamorosa rispetto a questa tradizione.
Ma, a ben vedere, non siamo di fronte semplicemente all’esplicitazione di una
linea diversa rispetto a quella presidenziale.
Altro che «messaggi contraddittori lanciati nella regione», come ha commentato
il presidente Bush. Il viaggio della Speaker della House invia un solo
messaggio, estremamente chiaro, ai paesi dell’area e al mondo: la linea
internazionale dell’amministrazione in carica è da considerarsi ormai un
brutto reperto storico, da archiviare; quella dei democratici – oggi
maggioranza al Congresso e il prossimo anno verosimilmente con un proprio
esponente alla Casa Bianca – è già in corso, è quella con
cui fare i conti.
Non è il punto di vista del partito d’opposizione ma di una forza decisa
a far pesare tutta la sua forza numerica e il consenso nel paese per
condizionare oggi la presidenza Bush e precostituire l’indirizzo di governo dei
democrats, domani, quando avranno loro in mano le chiavi dell’amministrazione.
L’iniziativa della Madam Speaker segue di poco il doppio voto, alla camera e al
senato, che impone il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, il prossimo
anno. I democratici sanno che l’operazione sarà complessa, per- fino
drammatica, e intendono creare fin da adesso le condizioni perché in
tutti i paesi della regione ci sia un clima propizio che accompagni la
strategia d’uscita. In una situazione di tensione come quella attuale, e in
prospettiva anche peggiore – il conflitto tra Israele e Palestina, quello
all’interno del Libano, e due paesi-chiave come la Siria e l’Iran sotto
costante pressione – sarebbe inimmaginabile lasciare l’Iraq. Il paese
mesopotamico resterebbe in preda al conflitto etnicoreligioso che lo
dilania, un conflitto che farebbe corto circuito con quelli in corso o
che covano sotto la cenere nella regione. L’intero Medio Oriente diventerebbe
quello che è l’Iraq oggi.
Nancy Pelosi può già contare sul sostegno di Israele, il paese
intorno a cui ruota la strategia americana nell’area.
Attraverso la leader democratica, il premier israeliano Olmert ha fatto sapere
al presidente siriano Assad di essere pronto a colloqui diretti. Se la spola
mediorientale di Condoleezza Rice è stata intensa quanto infruttuosa, la
repentina iniziativa di Nancy Pelosi dà risultati sostanziosi che fanno
bene sperare. Per ora, solo di speranza si può parlare, trattandosi di
una regione a dir poco instabile e imprevedibile nell’arco di ore più
che di giorni. Eppure, la disponibilità israeliana e l’ostentato calore
dell’accoglienza siriana confermano che, agli occhi dei protagonisti
mediorientali, il presidente repubblicano è percepito come un’anatra
zoppa – e, dunque, la sua segretario di stato non ha il potere per negoziare
credibilmente – e che i democratici sono già con un piede nella stanza
dei bottoni. È con loro che bisogna trattare.
Lo stesso Mahmoud Ahmadinejad se n’è reso conto, se ha lanciato ieri –
certo, a modo suo – un’offerta di dialogo agli Stati Uniti nel giorno in cui
metteva fine al braccio di ferro con il loro principale alleato.
Sfoderando sorrisi e dosi massicce di buonismo.
Scenari futuri a parte, la svolta di Nancy Pelosi è la boccata d’aria
fresca che da tempo il mondo si aspettava da Washington.
La ragionevole, saggia fiducia nella forza del dialogo e del negoziato
che, normalmente, si fa con chi non la pensa come te, a volte perfino con
il tuo nemico. La superiorità dell’attitudine all’ascolto rispetto
all’affermazione, spesso brutale, del puro potere militare. Il multilateralismo.
Ecco, in Nancy Pelosi si vedono all’opera i tratti della migliore tradizione
democratica.
Dell’America più rispettata che temuta.
Benvoluta, non subita. Di un’America “amica” a cui è anche riconosciuto
un ruolo positivo, decisivo, nel mondo.
In questi anni di bushismo, è passata l’idea che l’America fosse entrata
in una lunghissima fase storica dominata dal “pensiero unico” neoconservatore,
temperato da alcune sue varianti “neoliberal”, in dissenso non con il merito
della politica internazionale interventista e unilateralista, ma solo con i
metodi. L’intervento in Iraq era sacrosanto, ma gestito malamente, è il
succo di queste posizioni alla Walzer e alla Berman. Gli stessi che, una volta
scoperto il bluff delle armi di distruzione di massa, avevano approvato
l’intervento perché comunque rovesciava un dittatore. E, una volta deposto il
tiranno, che bisognava combattere contro i terroristi in Iraq. E poi che non si
poteva lasciare l’Iraq in mano ai terroristi.
L’ombra lunga dell’ideologia dei nipotini di Leo Strauss ha influenzato
anche il dibattito europeo e influenza tuttora quello italiano. Non solo
pesa sul modo d’intendere le relazioni con Washington: l’assunto sottostante
è che non c’è alcuna diversità tra democratici e
repubblicani e che entrambi gli schieramenti hanno la stessa concezione
dell’interesse nazionale e di come tutelarlo. Ma soprattutto, quest’ideologia
ha pesato e pesa sulla concezione e sulla pratica della nostra politica
internazionale. Per dire, l’idea di negoziare con il nemico è bollata
come un’eresia e un’onta per chi la propugna.
Apochi giorni dalle polemiche contro Fassino, reo di aver proposto una
conferenza internazionale sull’Afghanistan, con la partecipazione dei talebani,
sarebbe divertente sentire cosa dicono quei critici di Nancy Pelosi che si
mostra alle tv del mondo affabilmente a colloquio con il capo di uno stato
canaglia come Bashar Assad.
Ma di fronte alla prospettiva di una nuova epoca caratterizzata dalla
“distensione” – un po’ come avvenne tra Usa e Urss dopo la crisi dei missili –
non sarebbe utile soffermarsi in polemiche retrospettive.
Tanto più che la svolta segnata dal viaggio di Pelosi è
considerevole dal punto di vista simbolico ma è ancora tutta da
costruire, ed è esposta alla rivincita dei falchi.
L’importante è ora sostenerla, con lo sguardo rivolto al futuro.
è già iniziato
La puntualità non è mai stata tra le virtù di Henry
Kissinger, e su questo non ci piove. Per esempio, quando lo scorso week-end il
leggendario ex segretario di Stato ha annunciato in pompa magna che «è
impossibile vincere una guerra in Iraq», Bush si è guadagnato tutte le
nostre simpatie: scusa, Henry, non me lo potevi dire prima? Quattro anni fa, la
stessa informazione sarebbe risultata assai più utile. Detto ciò,
proprio non si capisce perché un ritardo di tre ore stia generando tutto questo
dibattito erudito. E non si parla neppure di Iraq, bensì di un conflitto
che si è concluso più di 30 anni fa, ovvero la guerra del Kippur.
I fatti sono questi: un noto storico americano, Robert Dallek, già
biografo di Kennedy, sta per pubblicare un nuovo libro, dedicato al complesso
ménage tra Nixon e Kissinger. Vanity Fair (edizione americana) ha pubblicato
un’anticipazione, disponibile anche su internet, che rivela l’impensabile: nel
lontano 20 ottobre del 1973, quando siriani ed egiziani lanciarono un duplice
attacco a sorpresa contro Israele, immersa nel giorno più sacro del
calendario ebraico, l’allora segretario di Stato aspettò ben tre ore (3
ore e 25 minuti, per la precisione) prima di avvisare il presidente Nixon.
Perché tanta lentezza? La comunicazione da Gerusalemme era arrivata alle 6 di
mattina, ora di Washington. Il fatto che Kissinger non avesse voglia di buttare
giù dal letto Nixon, che non è certo passato alla storia per il
suo buon carattere e che in quei mesi doveva vedersela con lo scandalo
Watergate, all’alba di un sabato non sfiora l’immaginario di Dallek. Deve per
forza esserci una spiegazione politica: «Kissinger doveva tutto il suo potere
alla debolezza di Nixon» e di conseguenza era nel suo interesse «mantenere il
presidente all’oscuro dei fatti». Dalle 6 alle 9,25 di mattina. Intanto, lo
scoop di Dallek è rimbalzato sulla stampa israeliana, che ha preso la
cosa molto sul serio. Haaretz fornisce persino un’interpretazione alternativa
dei fatti: Kissinger avrebbe rimandato la comunicazione per dissuadere il
presidente da eventuali tentazioni interventiste a favore degli israeliani.
Questo, tra l’altro, farebbe cadere il mito secondo cui un segretario di Stato
di origine ebraica (dopo Kissinger c’è stata anche la Albright) non
può essere distaccato nei confronti di Israele. Eppure lo stesso Nixon,
secondo lo storico Dallek, avrebbe espresso dubbi, dal sapore antisemita, sulle
origini di Kissinger: «Non importa quanto sia obiettivo, un ebreo non
può occuparsi di Medio Oriente. Lì hanno massacrato la sua stessa
gente, lì hanno crocifisso Gesù, e lì sono arrivati
milioni di persone che fuggivano dai forni nazisti: com’è possibile
essere obiettivi?». Non ce ne vogliano i sostenitori di Nixon, però
riesce difficile pensare a Kissinger come un sentimentale. E non ce ne voglia
Dallek, ma non serviva il suo libro, con tanto di aneddoto sulle tre ore di
ritardo, per dimostrarlo.
Ue Prende slancio la cooperazione
giudiziaria per la protezione delle frontiere esterne dell'Unione europea.
Sarà infatti lanciato entro il prossimo anno Eurosur, il sistema unico
europeo di sorveglianza delle frontiere marittime e terrestri dell'Ue.
Lo ha annunciato il commissario alla giustizia Franco Frattini, in occasione
dell'inaugurazione dei nuovi locali dell'Agenzia Frontex, a Varsavia. L'Unione
europea deve sorvegliare una frontiera terrestre e costiera che si estende
rispettivamente su 6 mila e 85 mila chilometri. L'Agenzia Frontex risponde
perciò alla duplice necessità di un'impostazione comune e di una
solidarietà europea riguardo al fenomeno della migrazione. E inoltre
rende possibili nuovi sviluppi tecnologici alle frontiere esterne dell'Unione.
In previsione di sistemi che controlleranno attraverso la raccolta di dati
biometrici i viaggiatori registrati in ingresso e in uscita presso le frontiere
esterne, Frontex sta comunque già conseguendo risultati operativi.
Appena una settimana fa una nave battente bandiera nordcoreana è stata
intercettata in mare aperto in prossimità delle acque territoriali
senegalesi da due navi vedetta, una spagnola e l'altra italiana, nel quadro
dell'operazione Hera III, coordinata dall'Agenzia. L'episodio della nave, che
sarebbe stata diretta nel Regno Unito, dimostra ancora una volta che la
sorveglianza delle coste europee è una sfida comune per tutta l'Europa,
e non soltanto per alcuni stati membri. L'immigrazione clandestina, infatti,
non si limita alle frontiere tradizionali, e dunque sembra necessario che anche
le istituzioni comunitarie (comprese quelle giudiziarie) si adeguino a tale
realtà. Come sostenuto nella recente dichiarazione di Berlino, secondo
Frattini 'è necessario lavorare insieme per gestire il fenomeno della
migrazione'. D'altronde la libera circolazione dei cittadini in uno spazio
senza frontiere è uno dei principali obiettivi realizzati dalla
cooperazione giudiziaria europea. Questa va di pari passo con la protezione
delle frontiere esterne dell'Ue, nell'ambito della quale l'Agenzia
Frontex svolge un ruolo fondamentale. Per ulteriori informazioni sulle
attività del vicepresidente Frattini, si veda il sito.http://www.ec.europa.eu/commission_barroso/frattini/index_en.htm.
SI CHIAMA Web 2.0,
ed è il futuro di internet. E' una rete fatta di community, mondi
virtuali, blog e di contenuti generati dagli utenti. Ed è già
qui: ne sono un esempio siti come My Space, Wikipedia e YouTube, per fare
qualche nome. La novità è che il Web 2.0 piace agli italiani. Che
preferiscono passare il loro tempo su Wikipedia o su Twitter piuttosto che sui
siti di eCommerce e di eGovernment. A gennaio, secondo i dati di una ricerca
della Nielsen/NetRating, il 56% dei navigatori italiani, più di 11
milioni di persone, ha visitato almeno una volta i siti Web 2.0.
Insomma, nonostante il tipico ritardo italiano nell'adozione delle nuove
tecnologie, la rivoluzione della rete ha attecchito anche nel Belpaese. E
adesso, il traffico su Web 2.0 italiano è quarto in Europa per grandezza,
dietro Inghilterra, Germania e Francia. Paesi che hanno una maggior
penetrazione della banda larga.
Tra gli internauti italiani, ad essere più affascinati dai nuovi servizi
sono i cosiddetti "heavy user", gli utenti che si collegano alla rete
più assiduamente della media. Quelli, per dare i numeri, che si
collegano a internet almeno 44 volte ogni mese. Visitano soprattutto le
Communities, che a gennaio hanno raggiunto gli 8 milioni di utenti unici. Ma
anche quei servizi che la ricerca Nilesen mette sotto la categoria Giants:
Wikipedia, MySpace e, soprattutto, YouTube, che hanno raggiunto quota 7
milioni.
"Gli
utenti hanno uno stimolo particolare ad affacciarsi alla finestra dell'online
con continuità", spiega Daniele Sommavilla, vicepresidente sud Europa
di Nielsen/NetRatings. "Vogliono condividere un'informazione, un parere,
un'esperienza. Si sente la necessità di collegarsi soprattutto per
verificare se qualcuno ha risposto allo stimolo messo in rete
precedentemente".
E' il legame di dipendenza che si crea tra gli utenti di Blog. Che infatti sono
in terza posizione, con 4,4 milioni di utenti italiani. "La gente pensa:
posto, dunque sono - spiega Rishad Tobaccowala, CEO della società di
consulenza Denou - è un modo per sentirsi vivi. E di condividere le
proprie conoscenze o opinioni con gli altri".
Gli italiani sembrano pensarla nello stesso modo. Wikipedia, che nell'ultimo
anno è cresciuta del 122%, è stata il Giant che ha raggiunto il
risultato più modesto: YouTube ha segnato un +1034%, e MySpace uno
spaventoso incremento del 1295% degli utenti unici. Ad essere presi in
contropiede sono soprattutto i grandi publisher della rete. Che temono che il
Web 2.0 gli soffi i lettori. In un anno, dopotutto, la categoria "Web
2.0" è entrata direttamente al quinto posto nella top ten delle
preferenze degli internauti nostrani. E il prossimo anno potrebbe superare in
utenti unici i siti di news.
Ma il boom ha suscitato i dubbi di più di un'analista. O'Reilly Media, a
cui si deve il termine "Web 2.0", aveva definito la nuova era di
internet come "la rivoluzione commerciale dell'industria informatica, che
trasformerà internet da semplice rete di connessione a luogo
d'incontro".
Per l'Economist, però, il Web 2.0 è "un'idea affascinante,
ma che non ha a che fare necessariamente con il successo commerciale.
"Troppe aziende competono nello stesso mercato senza un solido modello di
sviluppo - si legge nel reportage dal titolo "Bubble 2.0" - rischiamo
di trovarci di nuovo di fronte all'esplosione di una bolla speculativa. Come ai
tempi della famigerata New Economy". Bolla 2.0, appunto.
(4 aprile 2007)
TRENTO. Uno - Pierpaolo Dal Rì - confessò di
essersi intascato poche migliaia di euro per agevolare alcuni amici
imprenditori nella gare d'appalto. L'altro - Giancarlo Arlati - per qualche
favore qua e là ammise di aver ricevuto in regalo una lavatrice. Valore
258 euro. Per il codice penale questa si chiama corruzione e ora ai due
ex funzionari pubblici (il primo si è licenziato, il secondo è
andato in pensione) è arrivata la batosta della Corte dei Conti che -
per i danni patrimoniali e di immagine provocati alla Provincia - chiede loro
un maxi-risarcimento: 237 mila euro. Nei giorni scorsi alle difese dei due
funzionari pubblici è arrivato l'atto di citazione a giudizio firmato
dal procuratore regionale presso la Corte dei Conti Salvatore Pilato e dal
collega Carlo Mancinelli. Il conto finale dei magistrati è il frutto di
un calcolo molto semplice. Secondo i magistrati il danno erariale corrisponde
alla retribuzione dei due funzionari spalmata su tre anni, dal 2002 al 2005,
periodo durante il quale si sarebbero consumati gli illeciti. Per il geometra
Dal Rì la stima è di 103 mila euro, per Arlati 134 mila euro.
Nelle 29 pagine dell'atto di citazione la procura ricostruisce le fasi della
vicenda partendo dal patteggiamento dei due funzionati concluso nel settembre
del 2005. Per Pierpaolo Dal Rì la pena finale fu di 1 anno e 8 mesi di
reclusione, con un risarcimento di 25 mila euro. Arlati trovò un accordo
su 1 anno 1 mese, con il risarcimento di 258 euro: il prezzo esatto della
lavatrice. L'accusa principale per entrambi era di corruzione e secondo
la procura regionale "le fonti di prova dimostrano che l'associazione a
delinquere è stata organizzata per agevolare l'aggiudicazione dei lavori
conferiti in appalto dal Servizio gestione strade della Provincia ad
imprenditori privati, legati da rapporti di amicizia e interesse
economico". Nell'atto di citazione viene spiegato che "la percezione
della tangente costituisce innanzitutto una irreversibile lesione della
legalità e dell'efficienza dell'agire amministrativo e poi costituisce
anche una radicale infrazione delle regole del mercato e della libera
concorrenza". Insomma, la mazzetta è di per sé indice della
sussistenza di danno erariale, anche per la lesione di interessi non
patrimoniali quali l'immagine e il prestigio della Provincia. Un messaggio
rivolto a tutti i dipendenti pubblici: attenzione a quello che fate, perché la
lesione della rispettabilità dell'ente pubblico potrebbe ricadere sulle
vostre tasche. Nel caso di Arlati e Dal Rì il conto è stato
salatissimo: 237 mila euro (più gli interessi) per i quali la procura
regionale chiede il pagamento in solido. Loro, gli imputati, si sono difesi in
modo diverso. Arlati ha spiegato che il suo ruolo gli impediva qualsiasi tipo
di incidenza nelle decisioni sull'affidamento dei lavori. Dal Rì,
invece, ha escluso qualsiasi tipo di "sodalizio criminoso" con Arlati
spiegando di aver già risarcito i danni patrimoniali.
++
La Stampa 4-4-2007 Evasione fiscale in calo nel 2006
+ Il
Correre della Sera 4-4-2007 L'Eni vince l'asta per gli
asset Yukos. Lo riferisce l'Interfax
Il Riformista 4-4-2007
Dottorandi come pentiti di mafia. di Massimiliano Gallo
Il
Riformista 4-4-2007 LEGGE ELETTORALE I dubbi del Botteghino e la bozza che non
c’è
La
Stampa 4-4-2007 Unione, bozza d'intesa sulla legge elettorale. ANTONELLA
RAMPINO
Il
Sole 24 Ore 3-4-2007 Nuove rendite catastali in oltre 7mila comuni (L’elenco)
Il
Riformista 4-4-2007 La Spd: anche i talebani alla conferenza afghana di Anna
Momigliano
Ahmadinejad consegna medaglie ai soldati iraniani autori della
cattura
TEHERAN - I 15 soldati britannici catturati lo scorso
23 marzo da parte delle forze di sicurezza
iraniane per una presunta
violazione dello spazio marino dell'Iran saranno amnistiati e liberati
mercoledì pomeriggio «come regalo al popolo britannico e per festeggiare
la Pasqua e il compleanno di Maometto». Lo ha annunciato il presidente iraniano
Mahmoud Ahmadinejad in una conferenza stampa televisiva nella quale ha
conferito la medaglia al valore ai tre comandanti responsabili della cattura
dei marinai britannici nel Golfo Persico. Ahmadinejad ha poi accusato il
Consiglio di sicurezza dell'Onu, incapace a suo avviso di fermare l'invasione
dell'Iraq o i «crimini» compiuti in Palestina.
«NESSUNO SCAMBIO» - La liberazione ieri in Iraq
di un diplomatico iraniano, Jalal Sharafi, rapito a Bagdad il 6 febbraio
scorso, aveva indotto molti osservatori a leggervi una mossa per ammorbidire la
posizione di Teheran rispetto alla crisi con la Gran Bretagna. Invece il
presidente iraniano ha anche detto che non vi sono rapporti tra il rilascio dei
britannici e la sorte dei cinque iraniani catturati dalle forze Usa in Iraq:
«Se avessimo dovuto scambiare qualcuno per Jalal Sharafi - ha detto Ahmadinejad
sottolineando il valore del diplomatico - avremmo dovuto scambiare centinaia di
persone». Il presidente iraniano ha poi respinto l’interpretazione della
liberazione dei 15 britannici come il risultato di uno scambio. «Si è
trattato di un dono - ha ribadito Ahmadinejad - di una decisione unilaterale
presa per motivi umanitari».
«RIPRESA RELAZIONI SE USA CAMBIANO» - Quanto
alla possibilità che l'Iran riprenda le relazioni diplomatiche con gli
Usa (interrotte dal 1980), Ahmadinejad ha ribadito una posizione espressa ormai
da anni dai vertici della Repubblica islamica: «Se il signor Bush e il suo
governo cambieranno il loro comportamento, c'è la possibilità che
riprendiamo in esame i rapporti con Washington. Abbiamo già detto - ha
precisato - che con il comportamento attuale del governo Usa, non solo la
nostra nazione, ma nessun'altra nazione sarebbe disposta a riprendere le
relazioni. Del resto non siamo stati noi a interromperle». Fu Washington, 27
anni fa, a interrompere le relazioni diplomatiche, dopo la presa di ostaggi
nella sua ambasciata a Teheran, avvenuta nel novembre del 1979.
CAMBIO DI TONI - Il presidente del parlamento
iraniano, Gholam-Ali Hadad Adel, aveva salutato con favore quello che definisce
il «cambio di tono» da parte di Londra.Il governo Blair era intenzionato a
risolvere la questione della cattura dei militari attraverso il negoziato. «I
britannici hanno cambiato i toni della loro propaganda - ha detto Hadad Adel -
e provano ormai a negoziare con l’Iran a proposito dei loro militari intrusi e
questa è una buona scelta». Sulla vicenda è intervenuto anche il
leader cubano, Fidel Castro, che ha parlato di provocazione e di similitudini con le vicende degli
esuli cubani in Florida. «I validi provvedimenti presi dalla Gran Bretagna
negli ultimi giorni - aveva precisato il numero uno del Majlis, parlando con
l'agenzia di stampa ufficiale Irna - rendono il tono della loro retorica
più logico e, invece che verso la polemica, essi sono adesso orientati
al negoziato».
CONTATTI B
DISTENSIONE E NUOVE TENSIONI - La televisione di Stato iraniana aveva
poi diffuso la notizia secondo cui un inviato iraniano incontrerà cinque
concittadini detenuti dalle forze Usa, dal giorno del loro arresto a Irbil, nel
nord dell’Iraq, avvenuto in gennaio. Secondo il quotidiano del Kuwait, Arab
Times, che cita ambienti della Casa Bianca coperti da anonimato, gli Usa
sarebbero pronti ad attaccare reattori e impianti nucleari dell'Iran entro la
fine di aprile. Un'azione che, sempre secondo Arab Times, il presidente
George W. Bush giustificherà con la necessità di interrompere il
piano di arricchimento dell'uranio portato avanti da Teheran e con l'accusa di
fornire armi e fondi ai gruppi di insorti in Iraq ritenuti causa della morte di
centinaia di soldati americani.
04 aprile 2007
Dietro la
decisione il contrasto sulla decisione di offrire l'azienda ad America Movil e
At&t
Oggi
il comitato esecutivo di Mediobanca affronta il nodo del diritto di prelazione
M
La scelta è probabilmente in relazione ai dissidi fra Marco Tronchetti e
Rossi sulle scelte future dell'azienda, con l'ex commissario della Federcalcio
schierato contro l'ipotesi di cessione agli statunitensi di At&t e ai
messicani di America Movil. Si annuncia dunque una fase quanto mai infuocata
per l'azienda telefonica, visto che Rossi aveva già fatto sapere che non
sarebbe bastata una sua esclusione formale per convincerlo a farsi da parte.
"Anche se la Pirelli avesse deciso di non inserirmi nella lista per il
consiglio di Telecom Italia - aveva annunciato Rossi dalle colonne del Sole 24
Ore - mi presenterei ugualmente in assemblea: a tutti gli effetti sono il
presidente di Telecom Italia e guiderò l'assemblea. Non intendo
dimettermi per nessuna ragione: in gioco c'è il futuro della più
importante azienda del paese".
La battaglia per il controllo del colosso delle tlc non si combatterà
però solo nel cda di Telecom. Un'altra partita fondamentale è
quella prevista nel pomeriggio a Mediobanca, quando il comitato esecutivo del
gruppo bancario affronterà il delicato dossier Telecom. Mediobanca,
azionista tra l'altro di Pirelli con il 4,45%, è legata in una patto
'leggero' con Generali ed Olimpia nella compagnia telefonica che prevede anche
un diritto di prelazione a favore di Piazzetta Cuccia e di Generali che
potrà essere esercitato nei 15 giorni successivi alla fine di aprile,
data in cui scadrà l'esclusiva della trattativa di Pirelli con gli
statunitensi di At&t e i messicani di America Movil.
Davanti al ventaglio di possibili soluzioni sul tappeto, il mondo politico
continua intanto a dividersi. Il presidente del Consiglio Romano Prodi non
è voluto intervenire sul merito. "Di Telecom non parlo", si
è limitato a commentare. Ma nell'Unione inizia a serpeggiare qualche
malumore. Se ieri il leader dei Ds Piero Fassino si era raccomandato che la
proprietà della rete telefonica rimanga comunque pubblica, senza
escludere però la possibilità di un'offerta da parte di Mediaset,
oggi il segretario di Rifondazione Franco Giordano ha preso subito le distanze.
"Sono d'accordo con la proposta di Fassino sul mantenimento della rete
pubblica di Telecom, ma sono assolutamente contrario sul rapporto
Telecom-Mediaset perché siamo in un clamoroso quanto irrisolto conflitto di
interessi", ha spiegato Giordano.
(4
aprile 2007)
I dati emersi dal rapporto annuale 2006 presentato oggi dalla
Guardia di Finanza
ROMA
Quattro miliardi di Iva evasa. È questo uno dei principali risultati del
lavoro svolto dalla Guardia di Finanza ed emerso dal Rapporto annuale 2006
presentato oggi dal Comandante generale dell’Arma, il Generale Roberto
Speciale. Nel 2006 la Guardia di Finanza ha verbalizzato rilievi per Iva dovuta
e non versata per 3,97 miliardi: è questo il picco più alto
registrato negli ultimi 10 anni con un incremento del 38% nella media del
decennio (dal ’96 in poi).
Fra gli altri dati piu significativi, i redditi per il recupero
della tassazione si sono attestati a 16,8 miliardi. Si tratta del secondo
risultato più elevato dal
Infine, il piano di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale
internazionale ha portato all’individuzione di una base imponibile non soggetta
a tassazione per 2,3 miliardi. Da mensionare anche il piano di controlli
sull’emissione di scontrini e ricevute fiscali che sono state più
rapide: i controlli sono stati 381 mila e riscontrati rilievi in 84 mila casi.
Per quanto riguarda le accise sono state 5.500 le verifiche complessive. La
lotta alla criminalità organizzata ha portato al sequestro di beni per
oltre un miliardo concentrati soprattutto in Sicilia, Campania e Puglia, con
1.963 sequestri pari al 23% in più rispetto al 2005. Il contrasto al
riciclaggio ha portato alla denuncia di 1.072 persone di cui 181 arrestati.
«La presentazione del rapporto ha luogo in un momento in cui il
Paese vive un momento delicato di crescita e per questo motivo l’azione di
vigilanza e controllo della Guardia di Finanza, in primo luogo per combattere
l’evasione e l’elusione fiscale, diventa una leva essenziale per assicurare
allo Stato risorse finanziarie da destinare allo sviluppo«, ha detto il Generale
Speciale nel corso della presentazione. Per quanto riguarda gli obettivi per
l’anno in corso, sono due quelli da seguire in particolare: «la lotta
all’evasione e il contrasto alla crimialità economica, così come
richiesto dala direttiva del ministro dell’Economia. Punteremo, inltre, a
rafforzare l’attività investigativa e di cooperazione internazionale,
con verifiche a campagna o a progetto, oltre che calibrare le scelte non solo
in base al rischio di evasione della categoria ma anche sulla loro solvibilità».
Il prezzo per le attività gas del gruppo russo, inclusa la
quota del 20% di Gazprom Neft, è stato di circa 4,4 miliardi di euro
M
GARA - Enineftgas pagherà 151,536
miliardi di rubli (5,83 miliardi di dollari o circa 4,4 miliardi di euro) per
le attività gas del gruppo russo, Arcticgas e Urengoil, inclusa la quota
del 20% di Gazprom Neft, la divisione petolifera russa di Gazprom. Nell'asta
per le attività gas di Yukos erano rimasti in gara in tre: Eni, la
società petrolifera russa a controllo statale Rosneft e Yunitex, che
secondo indiscrezioni stampa agiva per conto di Gazprombank, parte del
monopolista russo del gas Gazprom.
RISERVE - L'intesa permette all'Eni di raggiungere
due obiettivi: l'aumento di circa un terzo delle riserve di gas e petrolio e
l'entrata sul mercato russo, uno dei mercati strategici del settore. L'accordo
risulta anche la contropartita dell'intesa raggiunta con i russi nei mesi
scorsi.
OPZIONE DI ACQUISTO - In precedenza Eni e Gazprom avevano
firmato un accordo su una opzione di acquisto da parte del colosso russo del
20% di azioni di Gazpromneft compresi nel lotto all'asta. Secondo quanto
riferisce l'Interfax, l'opzione di acquisto sarà valida tre anni ed Eni
avrà un posto nel consiglio di amministrazione del colosso russo.
04 aprile 2007
L’ultima
tentazione delle banche? Il confronto, se non lo scontro, all’assemblea Telecom
del 16 aprile con Olimpia e il suo azionista di maggioranza Pirelli. Mentre tra
Intesa e Mediobanca si continua la nuova fase istruttoria - dopo il colpo di
scena dell’offerta messico-americana arrivata a Tronchetti - per capire quali
siano le soluzioni tecniche in grado di riportare Olimpia in area creditizia
senza però sborsare quei 2,82 euro che da oltreoceano si dicono pronti a
pagare, c’è anche chi pensa a una via diretta e un po’ più
brutale per tenere Telecom in mani italiane e Marco Tronchetti Provera in un
angolo. La regia di questa operazione si può cercare proprio nelle
banche più esposte finora per trovare una soluzione «di sistema», ma
anche un passo più indietro. Il presidente di Capitalia Cesare Geronzi
è ad esempio assai attivo in queste ore, quasi teso ad assicurarsi un
ruolo di protagonista in una vicenda che inquieta assai il mondo politico e - a
giudicare dalle reazioni - preoccupa oggi i ds più di Prodi e i suoi
uomini. Un ruolo tutt’altro che smentito, quello del presidente di Capitalia,
anche se da ambienti a lui vicini non si accredita invece l’idea di un Geronzi
disposto a preparare uno scontro in assemblea con Tronchetti. E nel nuovo
scenario si ritrovano anche le Fondazioni bancarie. Sempre evocate quando si
tratta di interventi «di sistema», nelle ultime settimane sembravano essersi
messe un po’ in disparte. Adesso invece, con l’ovvio consenso del mondo
politico si ripensa a un loro coinvolgimento. C’è già chi - come
la Fondazione Cariplo e la torinese Crt - al round precedente aveva fatto
capire di essere disposta ad intervenire.
Lo scenario non è complicato: se Olimpia governa adesso Telecom con il
18% del capitale, nominando i quattro quinti del cda, una nuova maggioranza
superiore a quel 18% che si presentasse in assemblea potrebbe mostrare la sua
forza e di fatto annullare non solo il premio di maggioranza che oggi Pirelli
chiede, ma anche l’interesse di qualsiasi soggetto a comprare proprio una quota
di Olimpia, che diventerebbe a quel punto il secondo e non più il primo
azionista di Telecom. Insomma alle banche che intendessero attuare questa
controffensiva a tappeto servirebbe il 20-25% del capitale di Telecom per
contrastare il 19,35% cui al momento arrivano la quota Olimpia e la
partecipazione diretta di Pirelli nella società telefonica.
Fantafinanza? Non è detto. Ci sono alcuni elementi che vanno messi in
fila. Il primo riguarda gli scambi boom sul titolo Telecom, che in due giorni
hanno visto passare di mano l’11% del capitale. Fatta la tara della
speculazione, sfrondati gli acquisti dalle coperture dei fondi di investimento,
c’è chi è pronto a giurare che un 6-7% almeno del capitale
Telecom sia approdato nelle ultime 48 ore in mani vicine a quelle dei grandi
istituti che stanno cercando una soluzione «di sistema». Del resto c’è
una parte del capitale Telecom che è già in mani bancarie o in
mani amiche delle banche. L’elenco? il 4% delle Generali che hanno come socio
di maggioranza relativa Mediobanca, l’1,9% della stessa Mediobanca che ha come
principale socio bancario Capitalia. Questi due soggetti, pur oggi legati a un
patto parasociale con Olimpia, non avrebbero dubbi su dove posizionarsi in caso
di scontro tra Tronchetti e le banche. E poi si può aggiungere anche un
2% circa della società che appartiene a Romain Zaleski, vicino al
presidente di Banca Intesa Giovanni Bazoli, e a voler forzare un po’ le cose
anche un altro 3,7% oggi posseduto dalla Hopa, dove i soci bancari sono ormai
numerosi e importanti. In tutto si arriva già oltre l’11%: un’altra
quota di pari peso costa - ai prezzi attuali - circa 8-9 miliardi di euro. Non
sarebbe un investimento impossibile per banche e Fondazioni e soprattutto
sarebbe un investimento fatto lontano dai 2,82 euro che chiede Pirelli, visto
che la chiusura di ieri del titolo era a 2,37 euro. Certo, un’operazione di
questo genere avrebbe almeno due controindicazioni. La prima sarebbe quella di
sancire una sorta di guerra aperta fra Tronchetti e il mondo delle istituzioni
finanziarie. Se si trovasse privato dei potenziali privilegi che quel 18% di
Telecom controllato attraverso Olimpia gli attribuisce oggi, il presidente
della Pirelli potrebbe essere tentato a sua volta di fare qualche mossa
spericolata. E l’uomo sta dimostrando anche in questi mesi di dare il meglio si
se stesso proprio quando sembra con le spalle al muro.
Seconda controindicazione, più sostanziale, è la
possibilità di giustificare di fronte al mercato e all’opinione pubblica
internazionale un eventuale intervento delle banche nel capitale della Telecom
senza la presenza di un socio industriale, anzi con il probabile effetto di
spingere via i due potenziali soci con passaporto industriale che si sono
presentati finora. Anche per questo ci sarebbe in queste ore un nuovo fiorire
di contatti sia da parte degli istituti sia da parte della stessa Telecom, per
cercare nuovi possibili partner industriali europei. I nomi che circolano sono
quelli della spagnola Telefonica e di Deutsche Telekom. ma c’è anche chi
non esclude che alla fine i soci americani possano essere accolti con l’«abbraccio»
delle banche italiane. Il presidente di Telecom, Guido Rossi, ha già
dato l’ok ai manager per incontrare i nuovi soci e ieri il vicepresidente Carlo
Buora ha visto l’ad di at&t, Edward Whitacre, e il direttore finanziario
Richard Lindner.
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Conto alla rovescia per la soluzione della crisi dei soldati britannici
detenuti in Iran grazie a un possibile scambio di prigionieri, ma se entro
domani non si scioglierà l’impasse Londra, con il sostegno di
Washington, accrescerà la pressione su Teheran a cominciare dall’Onu.
«Le prossime 48 ore sono critiche» ha detto ieri il premier britannico Tony
Blair, poco dopo che l’ambasciatore di Londra all’Onu aveva avvertito i membri
del Consiglio di Sicurezza sull’incombente inizio di un’offensiva diplomatica
tesa ad accrescere l’isolamento della Repubblica islamica dell’Iran. Se la Gran
Bretagna si prepara a un duello all’Onu con Teheran è perché la
soluzione è arrivata a un passaggio decisivo: fonti del governo iracheno
hanno svelato l’esistenza di una richiesta iraniana di ottenere da Washington
la liberazione di cinque pasdaran catturati ad Irbil in gennaio in cambio del
rilascio dei 15 soldati inglesi catturati nello Shatt El Arab. Sebbene Londra
smentisca ufficialmente il negoziato su uno scambio che ricorda la Guerra
Fredda, qualcosa di simile sul terreno sta già avvenendo: il diplomatico
iraniano Jalal Sharafi è stato rilasciato dalla milizia irachena che lo
aveva sequestrato due mesi fa ed è tornato subito a Teheran. I pasdaran
hanno sempre accusato Washington di essere dietro il rapimento di Sharafi e
dunque la sua liberazione lascia intendere l’esistenza di una trattativa
segreta, che potrebbe coinvolgere anche i pasdaran arrestati ad Irbil.
L’assenza di conferme ufficiali e la complessità di una trattativa che
vede coinvolti anche gli Stati Uniti rendono tuttavia lo scenario di un accordo
assai precario, anche perché Washington ha presentato una richiesta formale a
Teheran - attraverso canali diplomatici elvetici - per avere notizie dell’ex
agente dell’Fbi misteriosamente scomparso sull’isola di Kish.
A conferma che l’escalation della crisi potrebbe essere dietro l’angolo vi sono
le parole pronunciate dal presidente americano George W. Bush alla Casa Bianca:
«Il sequestro dei marinai britannici è indifendibile, sostengo Blair nella
ricerca di una soluzione pacifica e lo sostengo con determinazione anche nella
scelta di non accettare "qui pro quo" quando si tratta di ostaggi».
Ciò significa che Washington si oppone allo scambio di prigionieri con
Teheran e sostiene invece Londra nella ricerca di una soluzione che non
garantisca agli iraniani alcuna vittoria politica. Tanto più che la
pressione contro il programma nucleare iraniano resta alta. «E’ il cardine
della nostra politica nei confronti di Teheran» ha sottolineato Bush, dicendo
di «prendere molto sul serio il loro tentativo di arrivare all’arma atomica»
pur senza spingersi fino a confermare le indiscrezioni della tv Abc secondo la
quale Teheran sarebbe in grado di fabbricare un ordigno nel 2009.
Se passate le «48 ore» indicate da Blair i 15 soldati inglesi dovessero essere
ancora nelle mani di Teheran, il prossimo passo di Londra potrebbe avvenire al
Consiglio di Sicurezza con la richiesta di una condanna esplicita del sequestro
attraverso una dichiarazione della presidenza di turno - ricoperta dai
britannici - oppure con una risoluzione. Nei contatti diplomatici già in
corso si accenna a un testo che condanna Teheran per la violazione della
Convenzione di Ginevra - a causa dell’esposizione pubblica dei soldati catturati
- e delle basilari norme di rispetto dei diritti umani per via
dell’impossibilità dei soldati di avere contatti con il proprio
consolato e, più in generale, di ricevere qualsiasi tipo di visite,
incluse quelle della Croce Rossa. Ad avvertire il rischio che i pericoli nel
Golfo potrebbero aumentare è Mosca, il cui viceministro degli Esteri
Andrei Denissov ha ammonito Washington: «Faremo di tutto per impedire un
attacco vicino ai nostri confini». E lo stato maggiore russo ha aggiunto: «Gli
Usa possono colpire Teheran ma non vincerebbero una guerra».
TRAPANI - Manette a Trapani per l'ex
vicepresidente della Regione siciliana, Bartolo Pellegrino, 73 anni, leader del
movimento politico "Nuova Sicilia". Il politico è accusato di
concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione.
Il gip Antonella Consiglio ha concesso gli arresti domiciliari per via
dell'età dell'indagato.
Pellegrino, fra il 2001 e il
L'indagine della squadra mobile trapanese, denominata "Progetto mafia e
appalti Trapani" costituisce uno sviluppo di attività investigative
che il 24 novembre del 2005 avevano già portato all'arresto di Francesco
Pace, 65 anni, "reggente" di Cosa nostra a Trapani, e di altre 11
persone. A Pace oggi è stato notificato in carcere un nuovo ordine di
custodia.
L'inchiesta ha coinvolto anche il direttore tributario dell'Agenzia del demanio
Francesco Nasca, 61 anni, e gli imprenditori Vincenzo Mannina 46 anni, Michele
Martines, 37 anni, e Mario Sucamele, 52 anni, quest'ultimo in passato
già indagato per mafia
(4 aprile 2007)
Ce lo hanno già ripetuto in tutte le salse che per gustare un po’ di
giornalismo in tv bisogna guardare Le Iene oppure Striscia la notizia. Una
solfa che abbiamo ascoltato più volte e a dirla tutta ci ha persino
stufato. Poi, però, capita che un lunedì sera torni stanco dal
lavoro e ti ritrovi a guardare proprio le Iene di Italia1. Dove, tra un fantastico
reportage sul tristissimo compleanno di Marina Occhiena, l’ex bionda dei Ricchi
e Poveri, e un noiosissimo numero di magia, parte un servizio di Alessandro
Sortino, che denuncia il mancato versamento di contributi Inps da parte di
numerose università italiane a dottorandi o contrattisti, i famigerati
co.co.co.
Quel che ci ha colpito, però, non è tanto la questione in sé
(ormai siamo rassegnati quasi a tutto), quanto la modalità di denuncia.
Dopo aver intervistato due gruppi di giovani lavoratori che mostravano il loro estratto
conto Inps a somma zero, Sortino ha infatti centrato la sua attenzione su un
caso specifico. Quello di una giovane co.co.co. che, non avendo ricevuto tre
mesi di cosiddetti versamenti consolidati - e aver invano protestato presso gli
uffici competenti - non può godere dei cinque mesi di astensione
obbligatoria dal lavoro previsti in caso di gravidanza. Informazioni, queste,
che Sonia - non si sa se il nome è autentico o meno - ha fornito con una
voce camuffata, davanti a una telecamera che inquadrava solo il suo pancione e
omettendo di rivelare l’università di appartenenza. Proprio come fanno i
pentiti, che si fanno intervistare di spalle, lasciandosi paperinizzare la voce
per paura di ritorsioni. Ma, per quel che ne sappiamo, l’università
dovrebbe essere diversa dalla mafia. E la rivendicazione di un proprio diritto,
in uno Stato civile, da parte di una futura mamma dovrebbe avvenire a volto
scoperto. Se non altro per consentire ai responsabili dell’errore di potersi
scusare con la diretta interessata.
Bisogna o no dar credito alle voci che ieri pomeriggio, subito
dopo l’annuncio della «quadra» trovata all’interno dell’Unione sulla legge
elettorale, davano conto dell’«irritazione» di Piero Fassino sulla gestione del
dossier? Il dubbio rimane, anche se nelle vicinanze del segretario - sempre
ieri - indicavano la via del dialogo come unica via d’uscita dall’impasse.
Ci sono due punti-chiave nella vicenda che lega la riforma elettorale agli
umori della guida del principale partito del centrosinistra. Al Botteghino,
infatti, continuano a mettere l’accento sui «tanti, troppi ostacoli»
disseminati lungo il percorso stabilito. E, soprattutto, la Quercia non sembra
avere alcuna intenzione di richiamare quei «compagni» (che tra l’altro sono
tutti firmatari della mozione del segretario) impegnati nel comitato
referendario.
Dal vertice del centrosinistra, animato dai capigruppo dell’Unione, è
emersa una linea di sostegno alla «proposta Chiti» e un niet di fatto al
referendum. La discussione è stata animata. Franceschini, a nome
dell’Ulivo, aveva esordito specificando agli altri componenti del tavolo che
«l’unica proposta unitaria che possiamo prendere in questa sede è
chiedere al comitato referendario di rinviare di un anno la raccolta delle
firme». L’intervento dei “piccoli” (col mastelliano Fabris che chiedeva «il
ritiro di tutti gli ulivisti dal comitato Guzzetta» e Russo Spena su posizioni
più morbide, ma comunque ferme) ha ricacciato il lodo Franceschini in
alto mare.
Risultato: il no politico ai quesiti referendari è stato messo nero su
bianco, al pari del sì al modello Chiti. Una vera e propria «bozza», al
contrario di quanto si dice in giro, non c’è. Nemmeno nelle stanze del
ministero delle Riforme. Di conseguenza, si continua a ragionare sugli atti di
indirizzo del ministro diessino (proporzionale sul modello del Tatarellum,
vincolo di coalizione, premio di maggioranza e - ancora una volta - no alle
preferenze).
Morale? An e Lega rispondono con un sì timido, Forza Italia continua a
tenere le carte coperte, l’Udc a sbandierare il modello tedesco. E se i
più scontenti di tutti fossero proprio i Ds?
Accordo sulla
proposta Chiti: «Confronto col Polo»
ROMA
Ripartire dalla bozza Chiti. Alla fine di due intensissime riunioni, con in
campo di prima mattina Prodi, Fassino e Rutelli, l’Unione trova l’accordo, e
trionfalmente lo comunica. Si parte dalla bozza Chiti, l’unico minimo comun
denominatore possibile, stante che i Ds vogliono il sistema spagnolo (come
messo a punto in un pre-vertice tenuto da Fassino), i piccoli da Rifondazione
ai Verdi il sistema tedesco, e c’è il problema - non irrilevante - di
approntare un marchingegno elettorale che permetta all’Udc di presentarsi da
solo (specularmente, la Cdl punta invece a forzare Casini a presentarsi con
Berlusconi). E la «bozza Chiti» mette d’accordo tutti perché è solo un
sommario che definisce una legge proporzionale senza preferenze (nessun partito
le vuole, pare, perché ormai i segretari si sono affezionati a truppe di
parlamentari non eletti ma designati), con la quale al momento del voto si
scelgono premier e coalizione, che aumenta sensibilmente il numero delle
circoscrizioni, e che però sul punto cruciale, quello capace di
affondare il coltello nelle divisioni, resta sul vago: la soglia di sbarramento
è inversamente proporzionale al premio di maggioranza, come dire che
tanto più alto è quest’ultimo, tanto più bassa sarà
l’asticella per l’accesso dei partitini al Parlamento. L’Unione però
alla fine del secondo vertice di giornata, quello di Chiti con i capigruppo, si
premura di specificare che andranno varate anche alcune riforme costituzionali,
dal superamento del bicameralismo perfetto con l’istituzione del Senato
federale, al premierato forte (con poteri di revoca dei ministri), alla
riduzione del numero dei parlamentari. Correzioni niente affatto minimali, che
richiedono anni per essere messe a punto, come l’esperienza insegna. E
così, mentre Lega e An plaudevano alla «bozza Chiti», che «in fondo non
è tanto dissimile da quella di Calderoli», che del resto ricalca il modello
delle regionali, come spiega Matteoli e come sottolinea lo stesso Calderoli,
arriva l’altolà di Forza Italia: «Riforma costituzionale e riforma
elettorale non sono conciliabili». Il senso del niet di Renato Schifani
è chiarissimo: Prodi starà in piedi finché ci sarà da fare
la legge elettorale, e questa ha senso produrla entro la primavera 2008 per
fermare il referendum, nessun allungamento dei tempi per riforme istituzionali.
L’altro fronte è proprio quello con i referendari. Non a caso la
riunione dell’Ulivo con Prodi è stata in gran parte dedicata al tema
«come fermare il referendum». Dario Franceschini in quella sede ha proposto di
chiedere ai referendari, che guardacaso albergano tutti in seno all’Ulivo, di
rinviare il referendum. Proposta rimandata al vertice dell’Unione: quando
Franceschini l’ha riproposta in quella sede s’è trovato di fronte la
rivolta dei piccoli, a cominciare da Rifondazione. Oggetto del contendere, la
presenza nel comitato dei referendari di importanti ulivisti. Invece di
chiedere ai referendari di rimandare, cosa che finirebbe solo per rafforzarli,
imponete piuttosto a Parisi e Melandri di uscire dal comitato, ha obiettato
Mauro Fabris dell’Udeur. E alla fine, una volta placate le acque, s’è
dovuto mettere in chiaro il no fermo dell’Unione al referendum che in tre
quesiti, abrogazione delle coalizioni, premio di maggioranza alle liste singole
(e non coalizzate), impossibilità di candidarsi in più di un
collegio, si propone in pratica di arrivare a qualcosa di molto simile al bipartitismo.
L’esito dei vertici unionisti, che riprenderanno il 12 aprile con l’incontro
tra Prodi e i segretari dei partiti di centrosinistra, ha immediatamente
irritato i referendari. Bravissimi, han fatto sapere, ma noi il 24 cominciamo
la raccolta delle firme: per quella data, sarebbe possibile avere per iscritto
la legge elettorale sulla quale l’Unione ha trovato l’accordo?
Muro contro muro, ma dietro le quinte della trattativa c'è
il convincimento che alla fine il provvedimento dovrà per forza cambiare
BRUXELLES - Dopo mesi di contatti informali sull'asse Roma - Bruxelles, la
partita sul cuneo fiscale entra nel vivo con la speranza che si concluda entro
maggio. Come confermato dal ministro per le Politiche comunitarie, Emma Bonino,
la notifica del provvedimento inserito in Finanziaria "è partita
tra lunedì sera e martedì mattina". Si tratta dell'atteso
passo formale che investe ufficialmente la Commissione Ue del
dossier. Formalmente il governo mantiene la propria linea, sostenendo la
compatibilità con le norme Ue dell'esclusione dagli sgravi
fiscali per public utilities, banche e assicurazioni. Anche se dietro le quinte
nessuno crede che, salvo clamorosi ripensamenti della Commissione, la
norma resterà così. Il documento inviato in queste ore a
Bruxelles contiene il provvedimento nudo e crudo corredato da una serie di
spiegazioni sul perché Roma ha deciso di escludere alcuni settori dal suo
perimetro. Insomma, un riassunto delle puntate precedenti che contiene le
argomentazioni già illustrate a Bruxelles in tre incontri informali e
nei carteggi tra gli sherpa del governo e quelli del commissario Ue alla
Concorrenza, Neelie Kroes, che, assicurano, "hanno avvicinato le parti
eliminando una serie di malintesi". Anche se dal ministero dell'Economia
fanno sapere di essere "convinti" della propria posizione, a nessuno
sfugge che i dubbi della Commissione sulla
"selettività" degli sgravi saranno difficili da superare.
Ciononostante al momento il governo può solo notificare ciò di
cui dispone, ovvero il testo della Finanziaria e la sua spiegazione. Per gli
accordi ci sarà tempo, fattore che però rischia di diventare il
nemico numero uno di Roma. La Kroes ha due mesi per dare un responso sul cuneo.
Un termine che per il governo andrebbe bene perché consentirebbe alla misura di
entrare in vigore entro giugno. Ma l'imprevisto è dietro l'angolo: i
ricorsi presentati da banche e assicurazioni (Abi e Ania) contro l'esclusione
dai benefici fiscali pesano come macigni e costringeranno la Commissione
ad andare avanti con i piedi di piombo prima di prendere una decisione. E poi
un minimo intoppo, come una semplice richiesta di informazioni, potrebbe
allungare i tempi, rimandando a dopo l'estate l'adozione degli sgravi. A Roma
si attende una presa di posizione ufficiale della Kroes, i cui emissari fino ad
oggi hanno sempre confermato le proprie perplessità ma senza mai dire
con chiarezza come cambiare il taglio dell'Irap. E qui gli scenari sono
molteplici. Gli italiani sono convinti che con una lunga battaglia legale
riuscirebbero a convincere la Ue che l'esclusione del settore finanziario
è compatibile con le norme sugli aiuti di stato, ma un simile confronto
allungherebbe troppo i tempi. E gli addetti ai lavori non nascondono che se la Ue
minaccerà di bocciare la misura, cosa al momento verosimile, alla fine
il governo dovrà mollare e concedere il cuneo a banche e assicurazioni.
Stesso discorso per le public utilities, come Fs, Telecom, Eni ed Enel: nei
colloqui informali sembrava essere emersa una via d'uscita che prevedeva
l'allargamento del cuneo ai concessionari a patto che venisse concesso un
periodo transitorio per modificare le tariffe di alcuni settori che già
premiano il costo del lavoro. Un punto poi passato in secondo piano e lasciato
in sospeso visto che le discussioni si sono concentrate su banche e assicurazioni.
Aggiornata la
banca dati catastale per il settore agricolo sulla base delle dichiarazioni dei
contribuenti. Dalla Gazzetta Ufficiale del 2 aprile riprendiamo l'elenco degli
oltre 7mila comuni (riportati in ordine alfabetico, per provincia) che hanno
rivisto le rendite sulla base delle variazioni colturali denunciate dagli
agricoltori nelle dichiarazioni del 2006.
Gli agricoltori hanno 60 giorni di tempo per fare ricorso alla Commissione
tributaria provinciale. La contestazione potrà riguardare la variazione
dei redditi adottata dal Catasto.
Clicca qui per consultare l'elenco
Intavolare una conferenza di pace per l’Afghanistan: l’idea è partita
dall’Italia, ed ora sta raccogliendo le risposte di alcuni alleati Nato, ovvero
Germania e Turchia, nell’ordine di endorsement. Includere i talebani al tavolo
negoziale: anche questa seconda proposta è stata lanciata per la prima
volta in Italia, dal segretario Ds Piero Fassino, ma finora i leader e i
politici dei paesi europei si erano ben guardati dal commentare un’iniziativa
tanto delicata. Fino a ieri, quando è giunta l’adesione di Kurt Beck,
presidente del partito socialdemocratico tedesco. E’ tempo di dialogare con i
talebani più moderati, ha detto Beck in un’intervista alla radio
Deutsche Welle, mentre si trovava in visita ufficiale a Kabul, dove ha
incontrato il presidente Hamid Karzai. Tuttavia, il leader dell’Spd ha anche
sottolineato che chi non accetta di porre fine alle violenze non può
fare parte dei negoziati.
La proposta di Kurt Beck ha suscitato reazioni contrastanti all’interno dello
stesso governo tedesco. Il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier,
anch’egli rappresentante dell’Spd, ha accolto la proposta con cauto ottimismo:
«Anche la leadership afghana ha espresso il desiderio di includere maggiormente
tutte le forze che accettano di rinunciare alla violenze e che sono disponibili
ad agire in maniera costruttiva rispetto al governo», ha detto il capo della
diplomazia tedesca, esprimendo posizioni che sembrano coincidere con quelle di
Beck, ovvero trattare con i talebani, ma solo a patto che depongano le armi.
Steinmeier ha anche espresso la disponibilità ad ospitare la conferenza
in Germania, come già avvenuto nel 2004. Rolf Mützenich, portavoce
dell’Spd alla Commissione affari esteri del Bundestag, ha subito espresso il
suo pieno sostegno alla linea Beck: una conferenza che includa dei rappresentanti
dei talebani è «essenziale per portare stabilità nel paese».
Commenti positivi sono giunti anche dai Verdi. La destra della Grosse
Koalition, invece, ha bocciato l’idea senza mezzi termini: Eckart von Klaeden,
responsabile esteri della Cdu, ha definito quella di Beck «una proposta
avventata», mentre secondo Karl Guttenberg, rappresentante della politica
estera della Csu, i negoziati metterebbero a repentaglio la sicurezza dei
soldati impegnati nella missione Isaf. Proprio in questi giorni, intanto, stanno
arrivando a Kabul i sei Tornado dell’aviazione tedesca. I caccia dovrebbero
svolgere funzioni di ricognizione e d’intelligence per la Nato, senza prendere
parte ad azioni violente, eppure il loro dispiegamento ha creato qualche
malumore nella sinistra della coalizione.
L’inclusione dei talebani al tavolo di pace, dunque, è un ulteriore
motivo di divisione all’interno della Koalition. Eppure, il governo di Berlino
è unito nel sostenere la proposta, lanciata dalla Farnesina, che una
conferenza di pace s’ha da fare, e al più presto. La cancelliera Angela
Merkel fu la prima, dopo D’Alema, ad esprimere il suo impegno a favore di una
conferenza. Badando bene, però, a non sbilanciarsi sulla composizione.
Ieri, comunque, all’endorsment di Berlino si è aggiunto quello di
Ankara. L’annuncio è arrivato da Egemen Bagis, parlamentare del partito
di governo Akp e consigliere del premier Recep Tayyip Erdogan per la politica
estera. «In questo momento, è necessario fare tutto il possibile per
creare un nuovo sostegno internazionale per la stabilizzazione
dell’Afghanistan, in particolare da parte dei paesi confinanti», ha detto
Bagis, che nei prossimi giorni sarà a Roma, in un’intervista al
quotidiano di lingua inglese Turkish Daily News. Il consigliere di Erdogan ha
posto l’accento sul ruolo cruciale che il Pakistan dovrebbe giocare nella
futura conferenza, che secondo Bagis dovrebbe svolgersi in Italia. Il politico
turco non si è sbilanciato però sull’eventuale inclusione dei
talebani al tavolo di pace. «La Turchia sostiene l’iniziativa Italiana per
l’Afghanistan», titolava ieri il Turkish Daily News.
I
quindici militari inglesi sarebbero stati presi per rappresaglia
LONDRA - La crisi dei 15 militari britannici arrestati
dall'Iran ha origine in una operazione fallita dagli americani, che intendevano
arrestare due capi dell'intelligence iraniana mentre questi erano in visita
ufficiale in nord Iraq: lo rivela oggi l'Independent, ricordando che alla fine
in quel blitz furono arrestati i cinque presunti agenti di Teheran ancora nelle
mani degli Usa.
Nelle prime ore del mattino dell'11 gennaio forze americane a bordo di
elicotteri attaccarono un ufficio di collegamento iraniano nella città
curda di Erbil, senza notificare nulla alle autorità irachene o curde.
Il loro obiettivo erano due pezzi da novanta dei servizi iraniani: Mohamed
Jafari, capo del consiglio di sicurezza nazionale, responsabile della sicurezza
interna, Minojahar Fruzanda, capo dell'intelligence della Guardie
rivoluzionarie. I due erano in visita ufficiale in Kurdistan, e avevano
già visto il presidente iracheno Jalal Talabani e Massud Barzani, capo
del governo regionale curdo. E proprio il capo dello staff di Barzani, Fuad
Hussein, ha detto all'Independent: "Gli americani miravano a Jafari.
Pensavano fosse in quell'ufficio". La presenza di Fruzanda ad Erbil al
momento del raid americano è stata invece confermata da Sadi Ahmed Pire,
capo dell'ufficio di Talabani a Baghdad. Il ministro degli Esteri iraniano
Manuchehr Mottaki disse all'epoca chiaramente che il bersaglio erano i due alti
dirigenti "che erano in Iraq per sviluppare la cooperazione nel settore
della sicurezza bilaterale".
La gravità del gesto americano, scrive il giornale, avrebbe dovuto far
temere a Usa e GB una ritorsione contro la Coalizione, in particolare nella
zona vulnerabile del Golfo, dove 10 settimane dopo sono stati arrestati i 15
marinai e marines. Washington ha detto che i cinque iraniani arrestati erano
sospettati di "essere strettamente legati ad attività contro la
coalizione e le forze irachene". Ma ad Erbil non è mai stato ucciso
nessun militare americano, o della coalizione, dice l'Independent, e il blitz
seguì un discorso di George Bush, il 10 gennaio, in cui diceva che
"l'Iran dà sostegno materiale per gli attacchi contro le truppe
americane".
Punto Informatico
investiga sul fenomeno, partendo dall'esperienza di Empoli.
Roma -
Incrementare la soddisfazione dell'utenza, ridurre i tempi di fornitura del
servizio e risparmiare denaro: alla biblioteca "Renato Fucini" di
Empoli hanno ottenuto la quadratura del cerchio, realizzando i tre obiettivi
cardine della Pubblica Amministrazione. E lo hanno fatto attraverso l'adozione
della tecnologia Skype per migliorare le comunicazioni interne
alla struttura e con gli utenti del servizio. "È il modo migliore
per evitare lunghe attese in compagnia della segreteria telefonica e
alleggerire la bolletta del Comune", scherza ma
neanche troppo Maria Stella Rasetti, 46enne direttrice della biblioteca, con
una laurea alla Normale di Pisa e una passione per le tecnologie che l'ha
portata ad aprire un proprio spazio sul Web per condividere la passione per i libri e
la cultura.
Punto Informatico:
Com'è nata l'idea di utilizzare Skype in biblioteca?
Maria Stella Rasetti: Si è trattato di un "reato" al
contrario: interesse pubblico in atti privati. A inizio anno un mio collega mi
ha parlato con entusiasmo del programma che utilizzava in casa e mi ha invitato
a sperimentarlo in biblioteca. È stata una folgorazione: dopo i primi
tentativi, abbiamo capito che poteva avere un effetto dirompente sulla nostra
capacità di comunicazione con gli utenti e per far fronte alle
ristrettezze di bilancio tipiche della Pubblica Amministrazione. Per qualche
giorno lo abbiamo sperimentato, dedicando ore del tempo libero alla messa a
punto della comunicazione, quindi siamo partiti a pieno regime. È il classico
esempio di una passione nata nel tempo libero e trasformatasi in una strategia
di lavoro.
PI: È possibile fare un primo bilancio a tre mesi dall'avvio
dell'iniziativa?
MSR: Il tempo trascorso è troppo breve per fornire delle cifre sui
risparmi ottenuti. Di certo ogni giorno riceviamo e facciamo decine di
telefonate a costo zero con altri utenti Skype. Non solo: abbiamo adottato il
programma anche per uso interno. La videochiamata consente di scambiarci
informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori in agenda praticamente in
tempo reale, con una resa migliore rispetto alla cornetta.
PI: Quanto denaro si può risparmiare con Skype?
MSR: Per ora siamo posizionati su piccole cifre, comunque registriamo un chiaro
trend di crescita. Difficile pensare che il risparmio economico derivante
dall'uso di questo nuovo mezzo possa raggiungere una massa critica tale da
richiedere un vero e proprio cambiamento delle voci di bilancio, tuttavia
qualsiasi risparmio è il benvenuto perchè consente di destinare
le risorse ad altre necessità della struttura.
PI: Come incide Skype sulla componente tempo? Il programma, infatti, è
spesso considerato un'arma a doppio taglio: il miglioramento dell'efficienza e
il risparmio dei costi rispetto alla cornetta potrebbe spingere a conversazioni
più lunghe
MSR: Nel nostro caso il responso è stato largamente positivo,
soprattutto dal lato utente. Infatti la chat richiede una risposta immediata,
un sì e no al volo, senza logoranti tempi di attesa con la segreteria
attivata. È un passo avanti importante per chi si trova dall'altro lato
della cornetta.
PI: Cosa non si può fare con Skype?
MSR: Non si possono fornire i servizi più complessi. Ad esempio non si
può costruire attraverso la videochiamata un percorso bibliografico
tagliato sui gusti dell'utente. Tuttavia, per queste necessità ci sono
altri canali. Possono bastare pochi secondi per prendere un appuntamento,
definire tempi e modalità di una consulenza, fornire informazioni su
alcune caratteristiche del servizio, per poi magari rimandare l'approfondimento
alla posta elettronica o a un incontro in sede. Utilizziamo un sistema di
comunicazione integrata che prevede anche sms, newsletter via email e servizi
di reference on line attraverso i form web. Presto attiveremo anche un blog per
il nostro gruppo di lettura.
PI: Avete provato a delineare un profilo dell'utente tipo che si rivolge a voi
con questo strumento?
MSR: Abbiamo a che fare con un'utenza molto differenziata, sia per fasce
d'età, sia per attitudini e abitudini con le nuove tecnologie, e quindi
dobbiamo sempre giocare su tavoli diversi, offrendo una gamma il più
possibile ampia di opzioni, anche sul fronte tecnologico. Per il momento,
prevalgono gli utenti giovani, ma non giovanissimi, che già disponevano
di un account Skype. Negli ultimi giorni, invece, abbiamo registrato molti casi
di persone che, leggendo le informazioni su questo nuovo servizio, hanno
chiesto notizie sul programma con l'obiettivo di adottarlo: insomma, in qualche
modo le abbiamo indotte in tentazione!
PI: Ci sta delineando uno scenario fatto solo di rose e fiori. Davvero in
ufficio nessuno ha riscontrato problemi nel passaggio alla tecnologia, non ci
sono state riserve o resistenze?
MSR: Il cambiamento più importante riguarda il linguaggio.
Usando Skype, non si può certo dire "la signoria vostra è
pregata di restituire il volume in oggetto", come si diceva un tempo.
È tutto più familiare, semplice e veloce e il nostro impegno
è diretto ad assecondare questa evoluzione. Un nostro utente ci ha
scritto: "C6x1 libro?", perché voleva sapere se eravamo aperti in
quel momento. Abbiamo risposto "certo che sì" e abbiamo
aggiunto un bello smile. Un passo in avanti importante per una struttura che
non vuole essere un mero deposito di libri o un museo di cose preziose, ma un
luogo di produzione e scambio di idee, attraverso libri e altri media.
PI: Esistono altre biblioteche in Italia che fanno uso di Skype?
MSR: Ne abbiamo censite un'ottantina circa a fine marzo. Un numero di gran
lunga superiore rispetto a paesi tecnologicamente più avanzati come
Stati Uniti e Inghilterra, ma sugli stessi livelli di Spagna e Portogallo. Non
abbiamo fatto rilevazioni scientifiche in merito, ma la sensazione che
ricaviamo è di un'adozione diffusa dello strumento nei paesi in cui le risorse
per le biblioteche sono più limitate: è il caso dell'Italia, ma
anche dei paesi da poco entrati a far parte dell'Unione Europea. Per restare al
nostro paese, gli account sono diffusi soprattutto tra le biblioteche piccole e
medio-piccole.
PI: Solo una risposta alla limitatezza delle risorse?
MSR: Non è solo questo. Le biblioteche più piccole possono
contare anche su una maggiore libertà di manovra. Comunque, stiamo
monitorando il fenomeno attraverso uno scambio di impressioni, esperienze e
consigli. Presto potrebbe nascere un coordinamento delle biblioteche italiane
su Skype.
PI: Un'ultima cosa: qual è l'account al quale gli utenti possono
contattarvi?
MSR: Semplice: direzione.biblioteca.empoli
a cura di Luigi dell'Olio
+ La Stampa 3-4-2007 Mercato e paletti. MARIO DEAGLIO
Nell'Unione la difficoltà - ma anche la scommessa
- si chiama Partito democratico di MARCO BRACCONI
Il Secolo XIX 3-4-2007 Telecom agli stranieri? E'
impossibile dire di no
Il Riformista 3-4-2007 DUE ANNI DOPO WOJTYLA. La Chiesa
assomiglia al cielo?
CITTA' DEL
VATICANO
Noi al Family day non ci saremo». Aumenta il dissenso nella Chiesa per la
crociata sulla famiglia e cresce il fronte dei cattolici «sì Dico»,
cioè sacerdoti diocesani, comunità di base, associazioni e
movimenti ecclesiali che diserteranno la chiamata della gerarchia e degli stati
maggiori del laicato alla «guerra santa» contro la regolarizzazione delle
unioni di fatto. Sono in molti, nelle diocesi e nel laicato, a ritenere che la
prova di forza, l’esibizione «muscolare» di 100mila cattolici in piazza, non
giovi alla causa di un istituto (il matrimonio religioso) la cui crisi non
accenna ad arrestarsi. No alla kermesse, spiega don Vittorio Cristelli,
capofila dei «dissenzienti» in Trentino. «Le manifestazioni di piazza, anche
per esigenze di spettacolarizzazione, si caricano di simboli polemici e di
sceneggiature satiriche, che estremizzano le tematiche e personalizzano lo
scontro», spiega.
E anche tra i movimenti che hanno firmato il manifesto del «Family day» si
aprono lacerazioni interne. Nelle Acli, per esempio, l’adesione del gruppo
dirigente nazionale alla manifestazione del 12 maggio ha fatto infuriare una
fetta consistente della base aclista. Una contrarietà che in alcuni casi
si è tradotta persino in pronunciamenti ufficiali, come il clamoroso
sì ai Dico della presidenza provinciale delle Acli di Arezzo: «Il ddl
Bindi-Pollastrini non tocca l’istituto del matrimonio e nemmeno ne crea un
altro simile, ma prende atto di una situazione e attribuisce alcuni diritti non
alle convivenze in quanto tali ma ai conviventi, in quanto persone». Quindi no
alla partecipazione alla kermesse anti-Dico perché «lo Stato deve occuparsi di
tutti i cittadini senza distinzioni e discriminazioni, riconoscendo i loro giusti
diritti».
Mentre i cattolici del centrosinistra, dai diessini Mimmo Lucà e Giorgio
Tonini agli ex-popolari della Margherita Pierluigi Castagnetti e Antonello Soro
provano ad attenuare l’effetto della nota Cei sul ddl Bindi-Pollastrini, nella
galassia «bianca» e tra i preti «pro-Dico» sono sempre meno quelli disposti a
smussare gli angoli. Non si mobilita affatto contro la legge sulle unioni di
fatto, per esempio, il parroco spoletino don Gianfranco Formenton che invece di
sfilare a piazza san Giovanni il 12 maggio chiama alla «disobbedienza civile i
cattolici impegnati in politica e cresciuti nei valori del cattolicesimo
democratico». Un «contro-Family day», praticamente, «in nome del rispetto di
tutti, della maturità e della coscienza dei fedeli impegnati in politica
considerati, politicamente, dei minorati incapaci di intendere e di volere,
cattolicamente». Eppure, aggiunge don Formenton, «nella "res publica"
ci sono anche gli omosessuali e i conviventi che hanno il diritto di non veder
confinati i loro diritti nel privato ma riconosciuti giuridicamente dallo
Stato».
Family day e nota Cei, rincara la dose il parroco aquilano don Aldo Antonelli,
dimostrano la «talebanizzazione della Chiesa e l’ideologizzazione della
teologia». E a «una gerarchia che non ha occhi per vedere se non se stessa»
corrisponde l’«ammutinamento omertoso e interessato di politici abituati
all’adulazione e alla prostrazione». La genuflessione, osserva don Antonelli,
è «lo sport dominante nei due rami del Parlamento». Diserta il Family
day anche don Beppe Scapino, parroco a Ivrea: «I Dico non sviliscono la
proposta religiosa del matrimonio come unione tra un uomo e una donna per
sempre e non cercano di sostituirsi ad essa, né vogliono imporsi come modello
unico ed esclusivo per la società».
Anche l’adesione dell’Azione cattolica al Family day suscita malumori. Una
parte della dirigenza, a livello locale e nazionale, è in subbuglio. A
Torino, l’appello a favore dei Dico di un gruppo di credenti è stato
sottoscritto, tra gli altri, dai responsabili del Settore Adulti dell’Ac
torinese Nino Cavallo e Paola Gariglio e dall’amministratore diocesano Stefano
Vanzini (tutti e tre membri della presidenza diocesana). Oltre a loro, il
presidente del Meic locale Beppe Elia e gli ex responsabili di Ac-ragazzi
Domenico Raimondi, Elena Gariglio, Roberta Russo, l’ex responsabile Giovani
Luca Bobbio e altri consiglieri. «Sintomo di un malumore diffuso, che ha
trovato una sponda anche a livello nazionale: nel corso di una seduta
straordinaria della presidenza di Ac - evidenzia l’agenzia cattolica Adista - i
vicepresidenti nazionali degli adulti e dei giovani hanno lamentato il ruolo
imposto all’associazione dalla Cei, che ha reso l’Ac semplice cinghia di
trasmissione dei desiderata della gerarchia verso i credenti e le altre
strutture laicali».
Il segretario
Betori ribadisce comunque il sostegno dei vescovi alla manifestazione
Poi puntualizza le dichiarazioni di Bagnasco sui Dico: "Capito male per
colpa delle agenzie"
La
Chiesa "preoccupata" anche dal testamento biologico
"Non deve aprire la strada all'eutanasia"
CITTA'
DEL VATICANO - Piazza
vietata ai vescovi, ma via libera ai parroci. Il segretario generale della Cei,
monsignor Giuseppe Betori, ha ribadito oggi le modalità con cui il clero
potrà prendere parte alla manifestazione in programma a Roma il prossimo
12 maggio in occasione del Family day. "La parrocchia - ha spiegato - non
è una realtà privata del clero, la loro partecipazione al Family
Day dipende da come si organizzeranno al loro interno, certo alcuni parroci
vorranno esserci".
L'iniziativa gode comunque, ha ricordato Betori, dell'appoggio della Conferenza
episcopale italiana, che a sua volta poggia sul consenso pontificio. "Lo
ha detto anche Benedetto XVI - ha precisato Betori - il rischio è quello
di seguire aspettative, desideri e brame. Il convergere sui desideri espone al
rischio di un passaggio da comportamenti considerati illeciti a comportamenti
leciti. Solo se fondiamo su una base forte il riferimento normativo siamo
sicuri che questo non accada".
Nel mirino della Chiesa non c'è però solo la possibile legge
sulle coppie di fatto, ma anche quella per l'istituzione del testamento
biologico. "Siamo preoccupati - ha spiegato Betori - se un eventuale
disegno di legge dovesse aprire a una eutanasia di fatto. Il rischio maggiore
riguarda il concetto della cura della persona, cioè la possibilità
di rinunciare all'alimentazione e l'idratazione che aprirebbe la strada
all'eutanasia di carattere passivo".
Il segretario della Cei ha avanzato poi una richiesta specifica ai legislatori:
"La volontà del paziente - ha detto Betori - non si può
imporre al medico, pena il venir meno della sua stessa funzione. Eventuali
disegni di legge dovrebbero essere 'chiusi' in questa direzione, per evitare
scivolamenti di carattere eutanasico".
Il segretario della Cei è tornato anche sulle polemiche suscitate dalle
parole usate dal presidente Angelo Bagnasco nell'attaccare il disegno di legge
sulle coppie di fatto, paragonandole a pedofilia e incesto. "Monsignor
Bagnasco - ha spiegato Betori - è stato compreso male, anche a causa dei
titoli scelti da agenzie di stampa. Ma il suo richiamo ai fondamenti dell'etica
resta valido, al di là degli esempi fatti, che non intendevano mettere
sullo stesso piano cose che sono diverse". "Monsignor Bagnasco - ha
proseguito Betori - utilizza espressioni sempre articolate e complesse che le
agenzie devono ridurre a un titolo. Quel che dispiace è che il dibattito
poi prende per riferimento non la notizia ma addirittura il titolo
dell'agenzia. Prima di intervenire invece bisognerebbe leggere i testi".
Betori ha poi ricordato che su questo tema la Chiesa è compatta e che
"la Nota della Cei sulle coppie di fatto è stata sottoposta e
approvata dalla Santa Sede ed è stata votata dal Consiglio Episcopale
Permanente con nessun voto contrario e un solo astenuto". Inoltre la prima
discussione sarebbe durata due ore, la seconda circa un'ora e mezza. Betori ha
riferito quindi che ci sono stati dei cambiamenti, ma nessuna modifica
sostanziale.
Quanto alle misure di protezione prese dopo la scritta "vergogna"
comparse sulla cattedrale di Genova, Betori ha affermato che "sono misure
prese in sede locale, relative alla situazione di Genova. A livello nazionale
non abbiamo notizie al riguardo".
(3 aprile 2007)
Per quella che una
volta ci si compiaceva di chiamare «Italia spa», la giornata di ieri ha
rappresentato un durissimo momento della verità. Per Telecom Italia e
Alitalia, due delle imprese italiane maggiormente a contatto con l’economia
mondiale, sono scattate proposte di acquisto da parte di gruppi stranieri alle
quali sarà molto difficile resistere. Se i centri decisionali di queste
imprese, e soprattutto di Telecom, saranno trasferiti all’estero, il
declassamento dell’Italia produttiva potrà dirsi completato: rimarranno,
certo, diversi settori di eccellenza, ma nel complesso il Paese - ormai privo
di significative industrie elettroniche, informatiche e di telecomunicazioni e
senza un vero settore chimico o farmaceutico - non potrà più
dirsi una grande potenza economica, come lo è sicuramente stato dagli
Anni Sessanta fin quasi alla fine degli Anni Novanta. Diventerà oggetto
più che soggetto delle grandi scelte economiche e industriali. La
vittoria «ai punti» di Enel che entra nella proprietà della spagnola
Endesa, ma deve cedere molte attività, è un fatto lusinghiero
tuttavia non basta a raddrizzare il quadro.
Da tempo il Paese scivola vistosamente e fa di tutto per non accorgersene:
tutto intento a discutere su piccoli problemi contingenti, a esempio su come
impiegare il «tesoretto» fiscale accumulatosi negli ultimi dodici mesi, si
lascerà forse portar via un «tesoro» industriale come Telecom. Politici
banchieri e sindacati dovrebbero, come si diceva un tempo, «fare autocritica»
ossia interrogarsi, in maniera il più possibile distaccata, su ciò
che, nel loro modo di comportarsi, può avere contribuito a determinare
il declassamento italiano che ora non si può più nascondere.
Gli imprenditori, dal canto loro, dovrebbero schiettamente domandarsi se le
loro qualità sono in linea con i tempi e il settore dell’informazione
dovrebbe riflettere sull’esaltazione continua del «made in Italy» e sulla
parallela mancanza di attenzione alla scarsissima presenza dell’Italia nelle
attività economiche avanzate. Occorre evitare, insomma, che ci si
concentri semplicemente su come impedire l’acquisizione di Telecom, come
innalzare un muro che tenga gli stranieri fuori dal sacro suolo della patria
economica italiana. Gli schieramenti dei «falchi» che vorrebbero una chiusura
totale della «fortezza Italia» e delle «colombe» che vorrebbero lasciare il
campo totalmente libero al mercato attraversano il governo e la maggioranza che
lo sostiene (e anche, sia pure in misura minore, l’opposizione). Queste
opinioni opposte sono indizio della confusione o addirittura della mancanza di
idee di tutto il Paese sul proprio futuro economico. Si va dal presidente del
Consiglio che afferma, attraverso il suo portavoce, che le decisioni del
consiglio di amministrazione sono «sacre» e che il governo non può (e
non deve) fare nulla, al ministro delle Infrastrutture secondo il quale non
bisogna lasciare via libera alla finanza.
Un comportamento realistico potrebbe consistere nel porre «paletti» precisi e
internazionalmente accettabili all’azione di Telecom Italia e delle altre
società del settore. Di tutte deve essere salvaguardata non già
la nazionalità del gruppo di controllo bensì l’oggetto sociale:
Telecom Italia deve garantire all’Italia una serie di servizi essenziali e
avanzati e ne deve essere assicurata l’autonomia operativa, pur nell’ambito di
gruppi multinazionali. Questo implica l’impossibilità di trasferire
all’estero le funzioni chiave dell’impresa e il mantenimento dell’azionariato
diffuso e della quotazione principale alla Borsa di Milano.
Dovrebbero essere scorporate da Telecom Italia e mantenute sotto controllo
italiano attività essenziali nelle quali è ravvisabile un forte
interesse nazionale; sarebbe, a esempio, semplicemente assurdo che per
un’operazione finanziaria venissero chiusi i laboratori Cselt di Torino che
vantano primati mondiali in molti campi informatici e competono con i settori
di ricerca dell’At&t. L’Italia, insomma, dovrebbe comportarsi in maniera
non dissimile dagli Stati Uniti che, pur in un clima di grande apertura
all’estero, impediscono decisamente il controllo straniero di attività
ritenute di rilevante interesse nazionale.
È ben possibile che si finisca per andare in questa direzione
ma il pericolo maggiore è che, finita l’emergenza immediata,
tutto ritorni come prima; che continuiamo a esaltare il nostro ottimo vino e il
nostro bellissimo «design», a coltivare un orticello ben curato senza
accorgerci che il mondo ci ha ormai sorpassato.
mario.deaglio@unito.it
LA Cdl al 48 per cento. L'Unione al 43. Il
Centro al 7. E' questa la fotografia della forza elettorale dei tre
schieramenti in campo secondo l'ultima rilevazione di Ipr marketing sulle
intenzioni di voto. Una istantanea scattata dopo lo "strappo" di Pier
Ferdinando Casini sull'Afghanistan e la nuova fiducia al governo, nel mezzo di
una fase politica dove molto si muove in modo ancora nebuloso e confuso.
Il primo dato sensibile messo in luce dal sondaggio Ipr per Repubblica.it
è la conferma del vantaggio della Casa delle libertà (An, Lega,
FI, Dc, Nuovo Psi e Mussolini) sull'Unione. Lo schieramento oggi
all'opposizione godrebbe del 48% dei voti, quello che governa il Paese del 43%.
Il secondo elemento di interesse è la sostanziale tenuta dell'Udc, che
non sembra pagare in termine di consensi la rottura con gli alleati. Il terzo -
ed è un a conferma anche questa - è la difficoltà dei due
partiti che stanno per dare vita, con una complessa e perfino dolorosa
transizione, al Partito Democratico.
Vincere comunque. "Vinceremmo anche senza l'Udc", sostiene Silvio
Berlusconi. E' una affermazione che i dati Ipr non avvalorano né smentiscono.
La ex Cdl, grazie soprattutto alla crescita di Forza Italia, è infatti
maggioranza relativa, ma non assoluta. E la tenuta dell'ex alleato Casini, che
assieme a Follini supera di qualche decimale il risultato ottenuto alle
politiche 2006 (7% contro il 6,8%), dimostra che in determinate condizioni - con
una nuova legge elettorale, per esempio - il progetto centrista può
frenare la corsa alla rivincita dell'ex premier. Le cui valutazioni sui numeri,
pur non essendo campate in aria, peccano forse di eccessivo ottimismo.
Ciò malgrado i dati ribadiscono la "dipendenza" del
Polo dalla "sua" creatura politica: la crescita dello schieramento e
il conseguente vantaggio sull'Unione dipendono infatti esclusivamente dalla
crescita di Forza Italia, oggi al 27% rispetto al 23,7% della scorsa primavera.
Il "barometro" del consenso della ex Cdl, insomma, resta legato a
doppio filo al successo del partito del Cavaliere.
L'incognita centrista. Le variabili sono numerose. Dalla legge elettorale al
profilo che si darà il partito democratico. Dalla tenuta dei due leader in
campo, Prodi e Berlusconi, all'esito delle prossime consultazioni elettorali.
Ma per il progetto politico dell'Udc i dati Ipr sono incoraggianti. Con il 7%
raggiunto assieme a Follini sembra intanto scongiurata l'emorragia di consensi
auspicata dagli ex alleati dopo la rottura. A ciò si aggiunga un certo
disorientamento degli elettori cattolici del centrosinistra (si vedano le
percentuali del futuro Pd), che sembra lasciare ampi margine di manovra per il
futuro.
I voti "sottovuoto". I dati Ipr dicono che tra i partiti dell'Unione
la difficoltà - ma anche la scommessa - si chiama Partito democratico.
E' infatti al partito che ancora non c'è, ma di cui si parla come se
già esistesse, che mancano i voti necessari a tenere testa al centrodestra:
mentre le altre formazioni del centrosinistra fanno registrare oscillazioni
poco significative, Margherita e Ds navigano attorno a un deludente 25 per
cento (alle politiche 2006 era il 31,3%).
E' un dato che va comunque pesato con grande prudenza, proprio in ragione della
transizione incorso da diversi mesi. Al di là delle considerazioni
più propriamente politiche - dal tasso di "riformismo"
dell'alleanza di governo alle polemiche sulle questioni eticamente sensibili -
è assai probabile che in questa fase di passaggio l'elettorato Ds-Dl
sconti una certa aliquota di disorientamento. Non è un caso che il
sondaggio non attribuisca a nessun altro partito della coalizione i consensi
perduti dall'Ulivo. Voti che sembrano restare "sottovuoto", in una
zona grigia e in attesa di futura collocazione.
Fuori dalla diaspora. Negli ultimi anni sono stati un po' di qua, un po' di
là. Tra congressi movimentati e tentativi di allenze laico-riformiste.
Ma se i socialisti tornassero tutti assieme, quanto peserebbero? I dati Ipr su
questa ipotesi offrono due scenari diversi e una indicazione significativa:
agli eredi del Garofano converebbe, in termini di consenso, stare nel
centrosinistra. Se infatti il Nuovo Psi si unisse allo Sdi e a Bobo Craxi,
lasciando il centrodestra, la potenzialità elettorale del nuovo soggetto
sarebbe dal 2% al 4%. Se invece accadesse il contrario, con Craxi e Boselli che
si accostano al partito di De Michelis per diventare alleati di Berlusconi, la
forbice si restringe tra l'1 e il 2%.
(3 aprile 2007)
L'ex presidente dell'Ente nazionale per le strade indagato per
abuso d'ufficio: avrebbe autorizzato consulenze strapagate
ROMA - L'ex presidente dell'Anas, Vincenzo
Pozzi, è indagato dalla procura della Repubblica di Roma per l'ipotesi
di reato di abuso d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta sulle cosiddette
«consulenze d'oro» ossia pareri legali, amministrativi, contabili pagati dalla
gestione Anas dal 2003 al
L'inchiesta, scaturita da una denuncia del ministro Antonio Di Pietro, è coordinata dai
pm Perla Lori e Salvatore Vitello che hanno delegato il nucleo valutario della
Guardia di finanza, diretto ad acquisire nella sede dell'Anas una corposa
documentazione. Oggetto dell'indagine sono i contratti di consulenza stipulati
in un triennio dall'Anas che sono stati vagliati nei mesi scorsi anche da una
inchiesta dell'Alto commissariato contro la corruzione. L'inchiesta
dovrà verificare se i pareri legali, contabili e gli incarichi
professionali commissionati all'esterno dell'azienda potevano essere invece
svolti da professionalità interne.
03 aprile 2007
Massimo baldini Entrambi gli schieramenti politici hanno espresso
forte preoccupazione di fronte alla possibilità che Telecom Italia
finisca in mani straniere. Il controllo nazionale sull'azienda è infatti
ritenuto da molti strategico per gli interessi economici del paese. Fausto
Bertinotti ha parlato addirittura di lesione alla sovranità nazionale.
La maggioranza di governo non sembra ripetere il solito copione della
dialettica interna tra ala riformista ed ala radicale, perché quasi tutti sono
ostili alla discesa degli stranieri. Può anche darsi che la prospettiva
di vendere agli americani sia un bluff con cui Tronchetti spera di alzare il
prezzo per le banche italiane, ma vale la pena di porsi il problema di fondo:
la cessione ad acquirenti stranieri di Telecom Italia può provocare
rischi per l'economia nazionale? E' giusto preservare l'italianità delle
grandi reti infrastrutturali, comunicazioni comprese? Per quanto si possa
cercare, difficilmente si potrà trovare, su libri o quotidiani,
l'articolo di qualche economista che sia disposto a rispondere di sì a
queste domande. Le ragioni della preferenza per un mercato che non discrimini
in base al passaporto dei giocatori sono molteplici. La principale è che
un proprietario italiano non dà alcuna garanzia maggiore, rispetto ad
uno straniero, di fare gli investimenti necessari per l'efficienza della rete.
Un monopolista fa solo gli investimenti che ritiene necessari per massimizzare
il profitto, qualunque sia la sua bandiera. Un italiano non investirebbe un
euro in più rispetto ad uno straniero solo perché vuole bene al suo
paese. Visto che la gestione della rete di telecomunicazioni è un
monopolio naturale -a causa della presenza di elevati costi fissi
può cioè esistere un solo operatore - è logico che esso
sia controllato rigidamente da un'autorità di regolazione pubblica, che
esiste già, ed è la sola che può indurre il titolare
dell'azienda, italiano o straniero che sia, a fare gli investimenti che essa, e
per suo tramite il governo, ritiene indispensabili. Forse i politici che
preferiscono che Telecom resti italiana immaginano di poter avere un contatto
più facile e diretto con un imprenditore nazionale. Ma la politica
può intervenire sull'assetto e sul funzionamento dei mercati,
però non può parteggiare per un contendente piuttosto che un
altro. Una volta definito l'assetto dei singoli mercati, sono le
autorità di regolamentazione che devono garantire la concorrenza e
controllare i monopolisti naturali. Gli interventi partigiani della politica
producono clientelismo e corruzione, che non portano efficienza e
avvantaggiano non i cittadini, ma gli imprenditori amici del potere. In
presenza di una buona autorità di controllo, quindi, la
nazionalità dell'imprenditore non dovrebbe essere rilevante. Ma al
problema generale della opportunità o meno di difendere
l'italianitàè difficile dare soluzione senza fare riferimento al
caso specifico. Telecom Italia deve per forza cambiare azionista di
riferimento. Quello attuale, Tronchetti, è ancora schiacciato dai debiti
con i quali l'ha acquistata, e per questo ha sempre costretto l'azienda a
distribuire dividendi elevati per poter ripagare almeno gli interessi passivi.
In questa situazione, dobbiamo chiederci quale sia la soluzione migliore per i
consumatori italiani. Che Telecom finisca nelle mani di un medio imprenditore
nazionale (come Colaninno dieci anni fa) non esperto del settore e sotto la
tutela delle banche, oppure che diventi parte di un gruppo internazionale
guidato da giganti mondiali del settore? Certo la seconda possibilità
presenta rischi, ma non sembra che ci siano alternative migliori. Una
possibilità estrema potrebbe essere la ripubblicizzazione della rete,
caldeggiata qualche mese fa anche da uno dei consiglieri di Prodi. Sono in
molti a sostenere infatti che in Europa tutti sono liberisti a parole, ma poi
nei fatti le società di telecomunicazione sono quasi tutte pubbliche e
comunque certo non guidate da stranieri. E' vero, ma bisogna fare una
qualificazione importante. All'estero vi sono tanti casi di aziende pubbliche -
e anche di amministrazioni centrali e locali- che funzionano bene, ma questo ci
dice poco sulla nostra situazione, perché il settore pubblico italiano è
molto lontano dall'efficienza, ed è troppo permeabile ai condizionamenti
della politica. Molti politici nostrani commettono l'errore di essere a
favore dell'intervento diretto del pubblico nella produzione e vendita di beni
e servizi (a cominciare dai servizi pubblici locali) citando l'esempio di
imprese francesi o tedesche ottimamente gestite. Ma bisogna guardare a quello
che in Italia significa gestione diretta di aziende da parte del pubblico, ad
esempio le municipalizzate delle città meridionali o le aziende di
trasporto pubblico in tutto il paese, e allora il giudizio sarebbe più
obiettivo. Telecom Italia ci ha dato in più lo scandalo dell'uso degli
apparati di sicurezza aziendali per fini oscuri e sicuramente illegali. Dopo
Tronchetti e Colaninno, non ripetiamo per la terza volta l'errore di
privilegiare l'italianità a qualunque costo rispetto alle reali
prospettive di sviluppo. 03/04/2007 vincenzo tagliasco Negli ultimi trent'anni,
a Genova, non è diminuita solo la popolazione, ma si è modificata
radicalmente la struttura dell'età dei suoi abitanti. I bambini che oggi
hanno cinque o dieci anni sono meno della metà di quelli che abitavano a
Genova alla fine degli anni Settanta; anche i giovani fino ai venticinque anni
sono meno della metà di allora. Eppure non si ha la sensazione che
Genova si sia svuotata così tanto. Neppure i medici dei bambini e gli
insegnanti hanno questa percezione perché ciascuno di loro, in media, continua
ad avere relazioni con lo stesso numero di giovani. Nelle ore di punta, sugli
autobus, gli anziani continuano a lamentarsi (come altri anziani molti anni fa)
per l'invasione di giovani incuranti delle esigenze degli altri utenti. Le
automobili che circolano sembrano crescere ogni giorno di più e ovunque
si scavano nuovi parcheggi per nasconderle e farcele stare tutte, data anche la
loro dimensione crescente. Inoltre nuovi edifici sono in costruzione in tutte
le periferie. Genova non dà l'impressione di avviarsi a diventare una
città fantasma, in via di svuotamento. Ha ragione Paolo Arvati,
ineguagliabile guardiano della storia di Genova, quando afferma: "Il
"caso ligure"è un caso di "anticipazione" che sempre
più segnala trasformazioni e criticità di un più ampio
"caso italiano". Forse, tra una decina di anni, il caso demografico
ligure interesserà soprattutto, se non solamente, gli storici". E'
vero, i genovesi hanno anticipato i tempi; ma l'Italia e gran parte dell'Europa
hanno confermato la mutazione sociale in atto. Fino a oggi questo cambiamento,
pur radicale, è andato avanti inavvertito. Ma gli effetti sono ormai tali
che d'ora in poi cominceranno a farsi sentire anche nella percezione quotidiana
dei genovesi. Con Enrico Pedemonte avevamo già suggerito, più di
dieci anni fa, di trasformare il calo demografico in opportunità;
più recentemente, con un libro dedicato a Genova, abbiamo sottolineato
che non siamo più nella fase della previsione, bensì in quella
della gestione di una realtà che sta cominciando a incidere
profondamente nella nostra vita. A meno che la durata della vita non si estenda
a livelli insopportabili a causa di nuovi accanimenti medico-assistenziali, il
numero degli anziani è destinato a stabilizzarsi almeno per alcuni
decenni. Anzi, tenuto conto che il numero dei morti all'anno, dagli anni
Ottanta, si è mantenuto sostanzialmente costante, si può
affermare che l'aumento degli anziani è oggi rilevabile solo nel
confronto con le altre generazioni (è cresciuto il rapporto tra anziani
e giovani), non in valore assoluto. Riporto alcune cifre. Anche se è
aumentata la vita media, a Genova il numero dei morti negli ultimi trent'anni
è rimasto più o meno costante, attorno alle 9.200 unità
(il doppio dei nati). Poiché il numero delle coppie che fino a oggi hanno avuto
bisogno di una casa sono nate ai tempi in cui si facevano molti bambini, la
richiesta di appartamenti è rimasta sostenuta. Le abitazioni lasciate
libere dai vecchi che morivano non bastavano alle nuove coppie in formazione.
Ma tra pochi anni, quando al mercato immobiliare si affaccerà l'esigua
schiera dei nati negli anni Ottanta, le cose dovrebbero cambiare. Così come
dovrebbero diminuire le automobili e la necessità di mezzi pubblici. In
altre parole, coloro che si avviano ad avere trent'anni avranno un impatto
significativo sui ritmi e i tempi della città, e cambieranno la
percezione di "pieno" e di "vuoto". In Italia, sono le
donne che hanno un'età compresa tra i 26 e i 36 anni a mettere al mondo
il 70% dei nati ogni anno. Ma già l'anno scorso, nel 2006, hanno
compiuto 26 anni le donne nate nel 1980 quando i nati per la prima volta erano
scesi sotto le 5.000 unità (nel 1964 avevano sfiorato le 12.000). Questo
potrebbe cambiare radicalmente il numero dei bambini nati. Se le donne genovesi
continueranno a fare un solo figlio come le loro madri, le nascite in
città scenderanno sotto quota 3.000 all'anno (oggi si aggirano attorno a
4.500). Con Pedemonte abbiamo fatto parecchi esercizi di futurologia e siamo
arrivati alla conclusione che la variabile su cui puntare nei prossimi dieci
anni sarà l'immigrazione. Genova è città troppo bella e
accogliente per rimanere "vuota": già oggi una significativa
porzione del mercato immobiliare trova negli immigrati potenziali clienti.
Saprà la città intercettare un'immigrazione equilibrata, fatta
non solo di badanti e di forza lavoro indifferenziata, ma anche di tecnici
qualificati? Sarà in grado, Genova, di intercettare intelligenze
distribuite su un ampio ventaglio di competenze e di aspirazioni ai massimi
livelli e non solo persone spinte dal bisogno e dalla disperazione? Un'ultima
considerazione, la solita. I problemi associati agli anziani sottolineano
ancora una volta le drammatiche differenze tra ricchi e poveri: un tragico
aumento della forbice tra chi ha e chi non ha. Molti, in questi giorni,
denunciano il rischio di una grave frattura tra generazioni specie nel momento
in cui si tratterà di pagare le pensioni. Sicuramente le nostre pensioni
verranno pagate con il lavoro degli immigrati. Il problema più grave
è un altro: chi aiuterà gli anziani, non autosufficienti e
"nuovi poveri", che la società desidera mantenere in vita il più
a lungo possibile? Forse, per fronteggiare le nuove mutazioni sociali non si
potrà fare leva solo sugli immigrati, ma sperare che scienza e
tecnologia riescano a realizzare il sogno adombrato nella fantascienza: vivere
bene per un certo numero di anni e, poi, nel giro di pochi mesi, degradare
velocemente in attesa della buona morte, senza traghettarvi attraverso lunghi
anni di malattie penose per i vecchi, per quelli che li amano, e per le
istituzioni, che cominciano a considerarli un peso intollerabile. vincenzo
tagliasco è ordinario di Bioingegneria all'Università di Genova.
03/04/2007.
M
La mossa
inattesa del presidente della Pirelli ha riaperto la partita. Intesa e Mediobanca, che stavano cercando
insieme una soluzione per alleggerire il peso del gruppo milanese in Olimpia,
sono rimaste un po’ spiazzate (qualcuno aggiunge «irritate»). Ca’ de Sass tre
settimane fa aveva messo sul tavolo 2,7 euro ad azione per l’80% della
cassaforte del gruppo telefonico. L’accordo sembrava a portata di mano. Poi
è arrivato il piano alternativo di Mediobanca. E negli ultimi giorni
sembra che, di concerto, Piazzetta Cuccia e Intesa avessero trovato una nuova
soluzione. Sempre, però, a 2,7 euro ad azione. Non è un caso
forse che il giorno dopo l’annuncio a sorpresa delle trattative con At&t e
América Móvil, Enrico Salza sia stato visto a Palazzo Chigi.
Nel pomeriggio
di ieri il presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo è stato a
colloquio da Romano Prodi. Come di consueto i contenuti della conversazione
sono rimasti riservati. Tuttavia, nei corridoi della presidenza del Consiglio
si raccontava di un scambio di opinioni basato su una «presa d’atto»
dell’operazione. Il premier non ha mai nascosto di vedere, ovviamente, con
favore la soluzione «di sistema» tutta italiana, a cui stavano lavorando le
banche. Non solo Intesa e Mediobanca. Anche Capitalia e Montepaschi erano
dentro la partita. Però ora sul tavolo di soluzione ce ne è una
«di mercato» che arriva dall’estero. E il messaggio che sarebbe giunto in
questa giornata convulsa è che sbarrare la strada agli americani di
At&t non è semplice (ancor di più se nell’asta per Alitalia
dovessero vincere i russi di Aeroflot).
Ieri i contatti
sono stati continui tra i vertici degli istituti di credito. Ma una soluzione, al momento, non
sembra facile. L’entrata in scena di At&t e América Móvil ha
improvvisamente alzato l’asticella. Già per arrivare a un’offerta a 2,7
euro per azione sembra che Mediobanca e Intesa abbiano fatto molti sforzi. E
salire a 2,82 non è semplice. Almeno che non vengano imbarcati altri
partner che possano rendere giustificabile con un approccio strategico, e non
solo finanziario, il premio pagato per rilevare il controllo di Telecom da
Pirelli. In tal senso sarebbero ripartiti i contatti informali con possibili
soci industriali. In passato si è parlato di Roberto Colaninno (la cui
disponibilità finanziaria è però relativamente elevata),
fino al gruppo Fininvest- Mediaset. E c’è chi ieri parlava di un
possibile ritorno in campo degli spagnoli di Telefónica.
Comunque sia la
strada è tutt’altro che in discesa. Di sicuro i banchieri starebbero lavorando anche su altri
possibili scenari, che non sono legati necessariamente a un’offerta tout-court,
alternativa a quella degli americani e dei messicani. Ieri, come ha fatto
notare il ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, «che i sistemi
di rete abbiano un radicamento nazionale, in attesa di averlo europeo, è
un dato di fatto comune a tutti i Paesi Ue. Potremmo anche candidarci e fare
l'eccezione ma...». E in quel «ma» potrebbe esserci una eventuale seconda
soluzione, se l’offerta di At&T e América Móvil andasse in porto. Soluzione
che potrebbe addirittura marciare parallelamente. «Non è semplice»,
spiega un banchiere che sta seguendo da vicino la vicenda, «ci stiamo
lavorando».
In questi mesi
di tensione sul gruppo telefonico è risultato chiaro che la rete è uno snodo
cruciale. Tanto al ministero delle Comunicazioni quanto all’Authority sonomesi
che ragionano sull’assetto dell’infrastruttura telefonica più importante
del Paese. E la mossa a sorpresa di Tronchetti avrebbe accelerato il lavoro.
D’altra parte è chiaro che una soluzione al riassetto Telecom non potrà
essere solo tecnica. E’ per questo che probabilmente nello scenario che si
andrà a definire nelle prossime settimane dovranno essere distinti due
livelli. Da un lato, appunto, la soluzione tecnica: un’offerta delle banche
alternativa a quella di At&t e América Móvil, o un piano che mantenga in
Italia la rete di Telecom. Dall’altro lato quella «politica » che
coinvolgerebbe i massimi vertici del sistema bancario: da Giovanni Bazoli a
Cesare Geronzi ad Alessandro Profumo. Anche perché in ballo c’è lo
sbarco sul mercato italiano del principale partner politico del Paese: gli
Stati Uniti. E per sbrogliare la matassa gli interlocutori non potranno che
essere «di livello».
Finora le
banche hanno fatto lavorare le «seconde linee» del management, con i vertici a fare da
raccordo. E, anche se si è chiamata fuori dalla partita, ieri è
stato il vicedirettore generale di UniCredit, Sergio Ermotti, a spiegare
esattamente il clima: «Per il momento non vedo altri nella partita. Abbiamo
preso atto dell'offerta, avrà le sue ragioni industriali. UniCredit — ha
aggiunto—ha sempre detto che solo degli operatori industriali potevano pagare
per Telecom un prezzo superiore a quello di mercato. Questa è sempre
stata la nostra posizione, confermata dagli eventi di ieri». Aquesto punto, però,
non è più solo una questione di prezzo. Certo, quei 2,82 euro
messi sul piatto da Edward Whitacre e Carlos Slim restano sul tavolo.
C’è
comunque un mese e mezzo di tempo per lavorare: il mese dell’esclusiva ottenuta dai due
offerenti più i 15 giorni concessi a Mediobanca e Generali per
esercitare la prelazione. «LeGenerali non prenderanno decisioni fino a quando
l'offerta non sarà vincolante e non scatterà il periodo di
prelazione» ha commentato ieri la compagnia triestina. E visto che la scadenza è
il 30 aprile, questo significherebbe dopo le nomine dei vertici del Leone di
Trieste. A conferma che forse quella che si sta giocando attorno a Telecom
è una partita che riguarderà l’intera finanza italiana.
Federico De Rosa
03 aprile 2007
Il colosso Usa in amministrazione controllata dopo due mesi
di turbolenze La finanziaria a sua volta travolta dalle richieste di rientro
dei prestiti M
ARGENTA. Ancora un po' di tempo, altri 30 giorni per studiare gli
intrecci tra le banche e la CoopCostruttori: la procura ha concesso una proroga
di un mese all'ispettore della Banca d'Italia che dal gennaio
scorso sta traducendo per procura e finanza tutti i documenti commerciali sui
rapporti economici tra il colosso di Argenta e gli istituti che prestavano
denaro, senza batter ciglio. La consulenza, dunque, dovrà essere
depositata dall'ispettore del servizio vigilanza della Banca d'Italia,
Salvatore Pizzoferrato, a fine aprile. E questo sarà veramente l'ultimo
atto dell'inchiesta giudiziaria ormai al rush finale e che si sta allungando da
quasi 3 anni. La consulenza, come si ricorda, era stata voluta dal pm Ombretta
Volta e dagli ispettori della Guardia di finanza che stanno conducendo
l'inchiesta, per avere un riferimento tecnico nel mare di carta della
Coopcostruttori. Il compito dell'ispettore della Banca d'Italia
che da tre mesi sta ispezionando tutte le banche cittadine, e acquisendo i
documenti sui loro rapporti con la Coop, è quello di "leggere"
questi documenti bancari frutto dei rapporti rapporti intercorsi, nel decennio
tra gli anni'90 e i primi anni del 2000, tra la Coopcostruttori e i vari
istituti di credito nazionali e locali. Il compito dell'ispettore dovrebbe,
secondo le intenzioni degli inquirenti, aiutarli a capire meglio tutti i
meccanismi di tecnica bancaria su cui sono nati e si sono prolungati nel tempo
i rapporti tra azienda e finanziatori. E' possibile che una banca, o
più banche, non si siano mai accorte di nulla, che abbiano accolto le
garanzie prodotte dalla Costruttori senza rilevare nulla di illecito o quantomeno
anomalo? Sulla base delle garanzie prodotte, infatti, venivano concessi
finanziamenti, crediti e prestiti: l'ispettore dovrà verificare i
passaggi che hanno portato all'elargizione del denaro e che hanno consentito
negli ultimi 15 anni al gigante di Argenta di prendere fiato di volta in volta.
Non a caso si è arrivati a questa superconsulenza dopo la raccolta di
migliaia di pagine di documentazione bancaria, che riguardano tantissimi
soggetti e altrettante operazioni di finanziamento alla Coop, prima azienda
della provincia: insomma rapporti normali tra chi chiede soldi e chi li concede
in prestito. Rapporti improntati comunque sul rischio di impresa che dovranno
essere letti e tradotti dal superesperto che procura e finanza hanno nominato.
Ma si badi bene, l'ispettore della Banca d'Italia non è
chiamato ad indicare possibili rilievi amministrativi o penali: sarà un
compito, successivo, di procura e Finanza. Un compito che ormai è agli
sgoccioli: infatti la prima tranche della conclusione dell'inchiesta dovrebbe
essere depositata dopo Pasqua: e dovrebbe interessare tutto il gruppo
dirigente, i vari consigli di amministrazione e le società di revisione
dei bilanci.
La Banca d'Italia gela il governo sui conti
pubblici. Altro che euforia da tesoretto: la pressione fiscale, secondo
l'istituto guidato da Mario Draghi, non è mai stata così alta in Italia
e perciò c'è bisogno di un immediato taglio delle tasse. Non
solo. Bisogna proseguire sulla strada del risanamento dei conti, accelerando il
processo di riduzione del disavanzo, e va ridotta la spesa corrente. Il
rinnovato bollettino economico di Bankitalia, ora trimestrale, indica con
decisione la strada da seguire in un momento di congiuntura favorevole. La
crescita dell'economia italiana, nonostante un rallentamento in questa prima
fase del 2007, raggiungerà a fine anno il 2 per cento. "L'andamento
dei conti pubblici consente di accelerare il processo di riduzione del
disavanzo", evidenziano gli economisti di Via Nazionale definendo
"essenziale" il pareggio strutturale per far diminuire il debito.
Primo obiettivo: abbassare il carico fiscale. Il peso del prelievo risulta così
gravoso che le famiglie, nonostante una maggiore disponibilità di
reddito (+1,5% nel 2006), restano molto attente nei consumi: "nell'ultimo
trimestre del 2006 hanno decelerato al di sotto dell'1% su base annua" e
"nei primi mesi di quest'anno non si prospettano significativi mutamenti
di tendenza". Altro fronte su cui agire, la spesa primaria corrente.
Nell'ultimo biennio ha toccato il 40% sul pil. Poi il capitolo dedicato ai
conti delle banche italiane. Che, secondo Palazzo Koch, archiviano il 2006 con
un forte aumento della redditività operativa. I dati indicano un balzo
del 25% del risultato di gestione lo scorso anno rispetto a un incremento di
poco superiore al 5% nel 2005 (il margine d'interesse è salito
dell'11%). Ma attenzione. L'andamento, avvertono gli esperti dell'Istituto
centrale, va valutato con cautela: potrebbe essere influenzato, infatti, dagli
Ias, i nuovi principi contabili internazionali. Uno sguardo alla Borsa: nessun
rischio di bolla, crescita in linea coi mercati mondiali. E sempre ieri
Bankitalia ha annunciato di aver firmato con l'Antitrust un accordo per lo
scambio di informazioni sulle fusioni nel settore creditizio.
Al di là di
dogmi, non possumus e dispute teologiche, il secondo anniversario della morte
di Giovanni Paolo il Magno, al secolo Karol Wojtyla, ci offre l’occasione per
interrogarci su un quesito che sta molto a cuore anche a noi laici: e
cioè quanto è cambiata la Chiesa in questi due anni senza la
guida del pontefice polacco? La domanda la poniamo senza addentrarci nelle
sottigliezze di natura intellettuale che lasciamo volentieri agli atei devoti
più interessati ai paleologi che alla parabole di Cristo. Dunque: che Chiesa
è quella che sta venendo fuori con Ratzinger?
La percezione che si coglie, anche tra i cattolici con cui parliamo e ci
confrontiamo, è prevalentemente negativa, almeno in rapporto al
predecessore di Benedetto XVI. In questi tempi il sorriso di Wojtyla e la sua
forza di pellegrino sembrano un ricordo lontano. Certo, Giovanni Paolo è
stato un papa fortemente conservatore in materia di etica e morale sessuale, lo
sappiamo benissimo. Eppure agli occhi di molti, e non solo necessariamente
cattolici, la sua Chiesa aderiva completamente al vangelo: nel senso che
lasciava una porta aperta a tutti. Insomma era un Chiesa in cui si respirava il
profumo del mistero di Cristo, scolpito da duemila anni nel comandamento
lasciato come testamento agli apostoli nell’Ultima Cena: amatevi gli uni altri
come io ho amato voi. Oggi, invece, la forza di Ratzinger sta più nella
difesa strenua dalla secolarizzazione, dando la sensazione che le porte lascino
passare meno persone del previsto. Che siano i Dico oppure i funerali di Welby,
la Chiesa sta alzando barricate talvolta incomprensibili agli stessi cattolici.
Si tratta di riflessioni che nascono sull’onda del ricordo di Wojtyla, di quel
vangelo posto sulla sua bara che un colpo di vento chiuse il solenne giorno
delle esequie in san Pietro: una metafora possente per chi crede. Il vangelo si
chiuse e nel conclave il vento spirò su Ratzinger l’ortodosso, Ratzinger
il tedesco, Ratzinger l’inquisitore. Un segno che ci ha introdotti in tempi di
altissima conflittualità tra Cesare e Dio. Per carità, non tocca
a noi dire al papa cosa fare o non fare, ma la turris eburnea in cui sembra
aver rinchiuso una Chiesa in stato d’assedio crediamo che non sia un bene per
nessuno. Noi speriamo, da laici, in una chiesa che dialoghi con tutti, che si
faccia finanche agnello tra i lupi, ma che nel mondo e in Italia faccia
prevalere sui divieti il comandamento dell’amore.
Domenica scorsa, con la liturgia delle Palme, siamo entrati nella settimana
santa. In tutte le chiese è stato letto l’intero racconto della Passione
e Morte di Gesù. Pagine tremende, per chi crede, di una bellezza tragica
e divina, che culminano nel Venerdì Santo, quando Cristo viene
inchiodato sulla croce. Chiunque si accosti a questo racconto evangelico, anche
un non credente, non può fare a meno di interrogarsi sul mistero della
morte. Ma sono anche pagine che rimandano al cielo. E per questo ci chiediamo:
questa Chiesa di Ratzinger assomiglia al cielo?
Il Riformista 2-4-2007 Perché non importa quante
divisioni ha il papa
La Stampa 1-4-2007 Il Papa: "Chi ha le mani sporche è lontano da Dio "
La Repubblica 2-4-2007 Commenti Lo scacchiere iraniano RENZO
GUOLO
Italia Oggi 2-4-2007 I servizi di pagamento sono sprint
Pagine a cura di Gabriele Frontoni
Il Piccolo di Trieste 2-4-2007 La lezione tedesca per la
ripresa. Franco A. Grassini.
L'antifrode comunitaria Olaf di Bruxelles, spesso criticata per la
scarsa efficacia e per muoversi quasi sempre solo in seguito a denunce
specifiche, ha recentemente sviluppato importanti indagini in collaborazione
con le autorità giudiziarie di Belgio, Francia, Italia e Lussemburgo,
che rivelano un quadro allarmante sull'uso del denaro pubblico nelle
istituzioni dell'Unione europea. Complessivamente avvalorano la convinzione che
gli oltre 120 miliardi di euro spesi annualmente dall'Ue non siano sottoposti a
controlli sufficienti a limitare al minimo i casi di corruzione e di
frode, pur fisiologici quando si elargisce un'enorme massa di finanziamenti e
di contratti. L'ultimo scandalo è esploso la settimana scorsa con
l'arresto a Bruxelles di tre italiani: l'euroburocrate della Commissione
Giancarlo Ciotti, l'assistente parlamentare Sergio Tricarico (oggi alle
dipendenze dell'eurodeputato Gianni Rivera e in passato collaboratore
nell'Europarlamento dell'attuale presidente del Senato Franco Marini e del
centrista Gerardo Bianco) e l'imprenditore Angelo Troiano. Sono accusati di
fatti corruttivi per appalti nelle sedi della Commissione a Nuova Delhi in
India e a Tirana in Albania. Le indagini si stanno estendendo all'intera rete
di 132 uffici all'estero, che costano ai contribuenti 500 milioni di euro
(gestiti dagli alti livelli dell'euroburocrazia). Un altro dipendente belga
della Commissione, Victor M., è stato arrestato dalla magistratura di
Bruxelles perché avrebbe preteso tangenti per favorire l'accesso ai
finanziamenti dell'Ue all'Ucraina, destinati a risolvere le conseguenze della
catastrofe di Chernobyl. Avrebbe preteso il 2,5% dei contratti milionari
assegnati alle aziende impegnate nell'iniziativa. Emblematica appare la vicenda
di Orlando V., un euroburocrate della Commissione (di cui non è emersa
la nazionalità), responsabile degli acquisti di mobili per gli uffici,
occupatosi anche dell'arredamento del gigantesco palazzo Berlaymont, sede
dell'istituzione presieduta da Josè Manuel Barroso e rinnovato nel 2004 dopo
una lunga ristrutturazione. Assegnato all'Ufficio per le infrastrutture e la
logistica di Bruxelles (Oib), valutava le offerte delle ditte fornitrici.
L'Olaf, che è diretta dal tedesco Franz Bruener, ha trasmesso alla
magistratura belga l'indagine interna sulla sua posizione quando ha saputo di
appalti organizzati in modo da scoraggiare alcuni e favorire altri (in cambio
di tangenti). In più Orlando V. sarebbe risultato co-interessato in
società fornitrici e avrebbe svolto attività in proprio nelle Fiandre
utilizzando mobili sottratti alla Commissione. L'inchiesta dell'Olaf avrebbe
poi allargato le responsabilità delle presunte irregolarità
nell'ufficio Oib. Il vicepresidente della Commissione europea, l'estone Siim
Kallas, responsabile per l'amministrazione, ha ammesso che gli euroburocrati
sotto inchiesta sono tre. E che il responsabile dell'Oib, pur non essendo
indagato, è stato spostato ad altro incarico "in modo da cambiare
lo stile di gestione dell'ufficio". Naturalmente le persone sopra citate
vanno considerate innocenti almeno fino alla sentenza definitiva dei
procedimenti giudiziari in corso. Ma, al di là delle singole
responsabilità, le loro vicende consentono di intuire l'immediata
necessità di attuare controlli più severi su come viene spesa la
massa di miliardi pagata dai contribuenti per finanziare l'Ue.
M
Quella di
At&t è la storia di un monopolio telefonico che è stato frantumato nel 1984 per
dar vita a una galassia di 22 compagnie locali, le famose «baby bells». E che
negli ultimi tre anni si è sostanzialmente ricomposto, aggiornato
però all’era di Internet. Nel
Non a caso
è fra i protagonisti del consorzio mondiale «Open Iptv» insieme a Ericsson, France
Telecom, Sony, Samsung e la stessa Telecom Italia. Carlos Slim ha invece
bruciato le tappe. Nel 1990, fiutato il business delle telecomunicazioni, ha
acquisito l’allora monopolista messicano Telmex, seguita poi da Telcel, rib a t
t e z z a t a América Móvil quando ormai il wireless è diventato il
pilastro dei suoi affari. Da lì non si è più fermato.
Acquisizione dopo acquisizione, oggi il gruppo di Slim è il quarto al
mondo per dimensioni, conta 108 milioni di clienti sparsi in 14 mercati
americani, fattura più di 15 miliardi di dollari e ne guadagna 3
miliardi netti. Negli Usa è il terzo maggiore provider di servizi internet,
con il marchio Prodigy. Quale possa essere l’interesse di Slim per Telecom
Italia è facile da capire. Da un lato c’è Tim Brasil, secondo
operatore mobile del Paese dietro a Vivo (di Telefonica e Portugal Telecom) e
davanti a Claro, che fa capo allo stesso Slim. Dall’altro lato, ovviamente,
c’è lo stesso mercato italiano, con i suoi 70 milioni di carte sim in
circolazione e con le prospettive legate allo sviluppo dei nuovi media
internet.
Quanto a
At&t, che guardi con
interesse verso uno sviluppo in Europa è noto da mesi. Tantopiù
che il vecchio continente rappresenta l’area tecnologicamente più
avanzata al mondo per qualsiasi cosa abbia a che fare con le telecomunicazioni
mobili. La stessa At&t del resto, nei suoi corsi e ricorsi storici ha
già avuto a che fare con un esempio di alta tecnologia italiana: era il
1983 e l’allora monopolista Usa era entrato con una quota nell’Olivetti di
Carlo De Benedetti. Con l’idea, svanita nel 1988, di arrivarne al controllo.
Giancarlo Radice
02 aprile 2007
Mio nonno, che
aveva esordito nella vita pubblica fondando un “Fascio anticlericale Francisco
Ferrer”, pretendeva dai credenti di famiglia il più rigoroso rispetto
dei precetti di Santa Madre Chiesa. Credere, diceva, non è obbligatorio.
Ma se si decide di credere, bisogna essere coerenti.
Mi è venuto in mente leggendo l'editoriale del Foglio del 30 marzo, e
vedendo a Otto e mezzo Giuliano Ferrara rimproverare a Ermanno Olmi la sua
diffidenza per il Verbo e la sua confidenza con la Carne. Neanche per il Foglio
essere cattolici è obbligatorio. Ma chi lo è deve sapere che «il
cattolicesimo non è un supermarket nel quale si prende quel che serve e
si lascia il resto». A prima vista, non fa una grinza. Ma è un
paralogismo se applicato a chi crede che verbum caro factum est, e non
viceversa. Per cui sa che perfino ai tempi del mercato delle indulgenze la
logica di scambio è rimasta sostanzialmente estranea alla vita della
Chiesa.
Del resto nel decennio peggiore del pessimo secolo ventesimo Georges Bernanos
ci ricordava che per i curati di campagna «tutto è grazia». E quando la
lettura del Vangelo era almeno altrettanto assidua della lettura delle note
vescovili ci si stupiva per l'ingiustizia retributiva di cui godevano gli
operai dell'undicesima ora. Finché, con l'aiuto di qualche curato di campagna,
non si comprendeva che il bello del cristianesimo era proprio quello, e si
cominciava a distinguere la logica della Città di Dio da quella della
Città dell'uomo, nella quale «nessun pasto è gratis».
Nella Chiesa, invece, è tutto gratis, e lo Spirito soffia dove vuole. Un
ateo, per quanto sia devoto, comprensibilmente fatica ad accettarlo. E fa
ancora più fatica ad accettare che è proprio per questo, e non
per la superiorità delle teorie di monsignor Sgreccia rispetto a quelle
del professor Lysenko, che la Chiesa ha sconfitto per venti secoli i suoi
avversari, comunismo compreso. E che per questo, e solo per questo, al papa non
importa sapere di quante divisioni dispone.
La libertà di coscienza del cristiano, quindi, non è un beneficio
graziosamente octroyè dalla gerarchia, ma è l'elemento
costitutivo della stessa comunità dei credenti, gerarchia compresa.
Perciò, fra l'altro, la Chiesa è generalmente poco affidabile
come fondamento di un ordine civile. Mentre è sicuramente affidabile per
il continuo incivilimento dell'uomo, che di qualsiasi ordine civile è la
premessa. Lo sanno, meglio degli atei devoti, i cattolici disobbedienti. Che
per questo, fra l'altro, non si stupiscono oggi della testimonianza di rispetto
della sacralità della vita fornita proprio da chi, come Nino Andreatta,
dagli “atei devoti” ha messo per primo in guardia i cattolici italiani. E
pazienza se per Baget Bozzo (Il Foglio del 31 marzo), per esempio, il film di
Olmi «non è un film cattolico» perché si rifà al «cristianesimo
giovanneo», di cui anzi svela «un nocciolo non cattolico»: come sa meglio di
chiunque don Gianni, che è stato a sua volta un cattolico disobbediente,
le sue opinioni teologiche non fanno ancora parte del magistero, e papa
Giovanni non è ancora un eresiarca.
Se non se ne tiene conto il rischio, per gli atei devoti, è quello di
interpretare come un semplice movimento dialettico l'alternarsi della révanche
de Dieu che si manifesta in questo secolo con l'eclisse del “Dio che è
fallito” nel secolo scorso. Mentre alle gerarchie può capitare non solo
di confondere i codici linguistici, come da ultimo è capitato sabato a
monsignor Bagnasco, ma di incrinare l'ineffabile potenza di una Chiesa fondata
sul paradosso cristiano della parola che si fa carne, e che proprio per questo
deve essere usata almeno con lo stesso rigore con cui giustamente si pretende
che venga usato il seme dell'uomo, che né va disperso, né va collocato in vasu
improprio, se si vuole evitare sia il peccato di Onan che quello di Sodoma.
Sempre che si voglia parlare anche di cose serie, oltre che del family day, dei
Dico, degli assestamenti di potere in seno alla Cei e delle fortune politiche
dei teodem.
Il Pontefice
all'Angelus: «Seguire Cristo significa rinunciare ai guadagni e alla carriera»
CITTA' DEL
VATICANO
Opporsi con coraggio alla menzogna e alla violenza, ma soprattutto c’è
«una condizione molto concreta» per accostarsi all’altare del Signore: solo con
«mani innocenti e cuore puro». Da qui l’appello di Benedetto XVI ai giovani che
oggi celebrano la Giornata Mondiale della Gioventù, a livello diocesano.
«Mani innocenti - ha spiegato il Papa - sono mani che non vengono usate per
atti di violenza. Sono mani che non sono sporcate con la corruzione, con
tangenti. Cuore puro - ha aggiunto - è un cuore che non finge e non si
macchia con menzogna e ipocrisia. Che rimane trasparente come acqua sorgiva,
perchè non conosce doppiezza. È puro un cuore che non si strania
con l’ebbrezza del piacere».
«RINUNCIARE A COMODITÀ VITA, CREARE PACE NEL MONDO»
Ancora: no alla carriera e al successo, come «scopo ultimo della propria
vita». Il monito del Papa nella Domenica delle Palme è anche quello di
«non considerare la mia autorealizzazione la ragione principale della mia
vita». Benedetto XVI invita invece a donarsi completamente e «liberamente a un
Altro». «Si tratta - sottolinea il Pontefice di fronte a una piazza gremita -
della decisione fondamentale di non considerare più l’utilità e
il guadagno, la carriera e il successo come scopo ultimo della mia vita, ma di
riconoscere invece come criteri autentici la verità e l’amore. Si tratta
- ammonisce Papa Ratzinger - della scelta tra il vivere solo per me stesso o il
donarmi, per la cosa più grande. E consideriamo bene che verità e
amore non sono valori astratti; in Gesù Cristo essi sono divenuti
persona».
«NO A SUCCESSO E GUADAGNO COME SCOPO DELLA VITA»
Il Papa invita infine a «rinunciare alle comodità della propria
vita» per «mettersi totalmente a servizio dei sofferenti» ma anche ad «opporsi
alla violenza e alla menzogna, per far posto nel mondo alla verità». Non
manca anche un appello a tutti gli uomini e le donne del mondo «a fare del bene
agli altri, a suscitare la riconciliazione dove c’era l’odio, a creare la pace
dove regnava l’inimicizia». Benedetto XVI, dopo aver preso parte alla
Processione all’inizio della celebrazione, portando in mano un ramoscello di
ulivo, ha assistito alla Passione in piedi con il crocifisso in mano.
La "crisi dei marinai" aggrava i già difficili
rapporti tra Iran e Occidente. L'intollerabile esibizione in video dei militari
catturati, obbligati a pronunciare improbabili quanto estorte
"confessioni", suscita vecchi fantasmi e inasprisce le tensioni. La
dura presa di posizione dell'Unione Europea che chiede il rilascio senza
condizioni dei soldati britannici, minacciando in caso contrario l'adozione di
"misure adeguate", "comunitarizza" la crisi, facendola
uscire dall'alveo del contenzioso bilaterale tra Londra e Teheran. Ma il
governo iraniano sembra non curarsene troppo, annunciando che i marines della
Royal Navy potrebbero essere processati per violazione delle acque
territoriali. Perché Teheran esaspera questa crisi in frangenti così
delicati per paese? Non si tratta solo di una reazione alla crescente pressione
internazionale sulla questione del nucleare. Nonostante Ahmadinehjad
abbia definito, ancora una volta, "carta straccia" la nuova
risoluzione Onu in materia, la "presa in ostaggio" dei marinai non
è legata esclusivamente a quella vicenda. Sulla torretta delle
motovedette delle Guardie della Rivoluzione che hanno bloccato le lance
britanniche davanti a Faw, sventolava, metaforicamente, un vessillo che poco
aveva a che fare con l'orgogliosa bandiera della difesa della sovranità
nazionale. Quel vessillo segnalava ai "turbanti", l'ala clericale del
regime, che il gioco tornava in mano al "partito dei militari". Il
governo di Ahmadinejad, espressione di quel "partito", è oggi
in seria difficoltà. Gli equilibri politici sono mutati dopo la svolta
di dicembre, quando il disilluso elettorato un tempo riformista è
tornato alle urne per limitare il peso della fazione radicale del regime. La
svolta ha dato vita a una maggioranza politica e sociale diversa da
quella sortita dalle presidenziali del
Dal 2008 gli stati membri inizieranno il recepimento della
direttiva che crea un sistema unico. Bollette e contravvenzioni al supermercato
e bonifici in 24 ore L'Europa dice sì al sistema unico dei pagamenti.
I ministri delle finanze dell'Ecofin hanno approvato all'unanimità il
testo finale della direttiva concordata con l'Europarlamento che stabilisce
nuove norme per i servizi di pagamento all'interno dei confini dell'Unione. La
questione passerà adesso all'esame del parlamento che dovrà
esprimersi in via definitiva nel corso della sessione plenaria fissata per il
23-26 aprile. Se il cammino della normativa dovesse continuare senza intoppi,
la definitiva liberalizzazione dei pagamenti transfrontalieri dovrebbe iniziare
a partire dal mese di novembre del 2009. Oltre a questo, la direttiva approvata
dall'Ecofin fissa il quadro giuridico per la creazione di un sistema unico dei
pagamenti in euro che garantirà, a partire dal 2008 (e al più tardi
entro il 2010), le stesse condizioni praticate nei paesi d'origine per tutti i
pagamenti in euro con carta bancaria o via bonifico effettuati nei 31 paesi
europei (quelli aderenti alla Ue, oltre a Svizzera, Liechtenstein,
Norvegia e Islanda). 'L'approvazione da parte dei ministri delle finanze
dell'Ecofin del testo finale della direttiva concordata con l'Europarlamento
rappresenta un passo fondamentale verso la creazione di un'area unica di
pagamenti all'interno dell'Europa', ha spiegato il commissario europeo
per il mercato interno e i servizi, Charlie McCreevy. 'Questa direttiva
consentirà di rendere semplici e sicuri i pagamenti transfrontalieri con
carte di credito, di debito, bonifici bancari, o altre forme di pagamento, come
quelli che attualmente vengono effettuati all'interno di ognuno dei paesi di
Eurolandia. E ciò consentirà di ottenere forti risparmi per i
consumatori e, più in generale, per il sistema economico europeo. Oltre
a questo, la direttiva garantirà quella cornice legale necessaria per la
costituzione di un'area unica di pagamenti all'interno dei confini Ue'.
In base ai dati contenuti nel Libro bianco del dicembre 2005 della Commissione
europea, il costo della frammentazione nel sistema dei pagamenti europei grava
ogni anno sul sistema Europa per una quota compresa tra il 2 e il 3% del
pil. 'L'apertura dei mercati nazionali dei pagamenti a nuovi prestatori e la
garanzia di parità di condizioni consentiranno di aumentare la
concorrenza e di promuovere la prestazione transfrontaliera di servizi', si
legge nel documento della commissione. 'Gli utenti di servizi finanziari
beneficeranno di maggiore concorrenza, trasparenza e di una più ampia
scelta nel mercato dei servizi di pagamento. E questo dovrebbe favorire la
convergenza dei prezzi tra gli stati membri e ridurre l'attuale forchetta di
costo dei servizi erogati'. Le novità della direttivaLa direttiva
approvata dall'Ecofin rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana
per il sistema dei pagamenti europeo. Una delle principali novità
è rappresentata dall'ingresso nel mercato di nuove istituzioni
finanziarie. Dal 2009 sarà dunque possibile compiere operazioni
'bancarie' tradizionali come il pagamento delle utenze o l'affitto di casa non
più soltanto presso gli sportelli degli istituti di credito o alle Poste
ma anche al supermercato, nelle agenzie di money transfer o presso tutti quegli
operatori che dimostreranno di possedere i criteri di affidabilità ed
efficienza imposti dalla normativa. Non solo. Le operazioni di pagamento
tradizionale potranno effettuarsi anche tramite il proprio telefonino grazie
all'ingresso degli operatori di telefonia mobile nel grande puzzle dei
pagamenti nazionali e transfrontalieri. Oltre a questo, la direttiva abolisce
le frontiere dei pagamenti all'interno dell'Ue, con regole e
modalità uguali per tutti: bollette e contravvenzioni potranno essere
pagate anche dall'estero, così come sarà possibile utilizzare in
tutta Europa la propria carta di credito o il bancomat grazie
all'introduzione obbligatoria di chip e codice personale al posto della banda
magnetica. Verrà poi attuata la regola del D+1 che consiste nella
riduzione del tempo di esecuzione massimo per i bonifici transfrontalieri in
euro che dovranno essere conclusi nel termine massimo di 24 ore dal momento della
presentazione dell'ordine di pagamento. La direttiva prevede poi che la somma
totale del pagamento venga accreditata senza operare alcuna deduzione a carico
del beneficiario. Non solo. Viene meno anche la regola, al momento in vigore
all'interno degli ordinamenti di alcuni membri dell'Ue27, che prevede la
necessità di aprire una filiale all'interno del paese ospitante per
autorizzare l'offerta del servizio finanziario sul mercato nazionale.
La Germania, per altro, ha saputo accrescere la sua quota delle
esportazioni mondiali dall'8% del 2000 al 10% del 2006; prima di Cina, Giappone
e Stati Uniti. La disponibilità di un'industria dei beni strumentali di
affermata qualità ha certamente aiutato,ma ancora di più sono
servite le consistenti ristrutturazioni che le imprese germaniche hanno saputo
affrontare per divenire competitive in un mercato sempre più difficile.
Altrettanto fondamentali sono stati i massicci investimenti resi possibili da
un sistema bancario che, avendo rapporti molto stretti con le imprese, li ha
finanziati guardando al lungo termine. In questo quadro intere produzioni sono
state trasferite in Paesi a basso costo del lavoro, gli orari di lavoro (in
molti casi - vedi Volkswagen che era scesa a 29 ore settimanali -
eccessivamente brevi) allungati, i salari quasi congelati o comunque aumentati
meno dell'inflazione. Nel breve periodo queste ristrutturazioni sono state
piene di aspetti negativi:la disoccupazione aveva superato i 5 milioni di
unità, i salari reali ridotti, la domanda interna afflosciata, la spesa
pubblica per fini sociali accresciuta sino al punto di far aumentare il deficit
ben oltre quei limiti previsti dal Trattato di Maastricht per imporre i quali
la Germania tanto si era adoperata. Eppure queste ristrutturazioni sono state
portate avanti senza che il Paese soffrisse di aspri conflitti sociali. Al
contrario il Governo del socialdemocratico Schroeder ha avviato, a partire dal
2003, una serie di riforme del mercato del lavoro e del sistema di sicurezza
sociale che gli sono costate politicamente molto care, ma hanno molto agevolato
la ripresa. La ragione sta essenzialmente in due aspetti fondamentali della
società tedesca. La grande coesione che è resa possibile dal
fatto che tutti i processi decisionali - nello Stato come nelle imprese - hanno
nella ricerca del consenso delle parti interessate un fondamento comune. Nello
Stato questo è agevolato dai pochi partiti e da un sistema bicamerale
non di parità assoluta come da noi, ma con una camera alta in cui i
singoli Lander sono rappresentati. Nelle imprese il sistema tedesco, e siamo al
secondo aspetto fondamentale cui si è fatto cenno, prevede una
rappresentanza del personale - analoga alle nostre commissioni interne - per
tutte le aziende con più di 5 dipendenti, mentre in quelle, che
rappresentano il cuore dell'industria tedesca, con oltre 500 la rappresentanza
del personale nel consiglio di sorveglianza è di un terzo e nelle società
con oltre 2000 addetti la posizione è paritetica ( ma con il
Presidente,scelto tra i rappresentanti degli azionisti, con voto doppio in caso
di stallo). È evidente che le decisioni sono spesso lente e comportano
sempre un compromesso,ma sono la base per scelte spesso difficili e impopolari.
La Bundesbank ha calcolato che se dal 1999 al 2006 i salari fossero cresciuti
al 2,5% annuo, la disoccupazione sarebbe stata molto più elevata e la
Germania non sarebbe in ripresa. È pensabile importare in Italia il
modello tedesco? Tal quale indubbiamente no. Tuttavia ci si potrebbe accostare
con modalità più adatte alla nostra storia. Del resto la
concertazione tra le parti sociali del 1993, un modo nostro di decisioni
consensuali, ha prodotto effetti positivi per molti anni. Il vero nodo è
politico: un Paese in cui tutti guardano al proprio particolare e non
c'è mai uno sforzo di comprendere le ragioni degli altri non può
avere molte speranze di risolvere bene e presto i temi difficili che ci pone un
mondo in continuo mutamento.
E con seri problemi. Cuba, stipendio medio: 12 dollari Tutti
costretti a un doppio lavoro non legale. Lo spauracchio della polizia popolare
di quartiere Una manifestazione di regime: giovani sventolano bandiere cubane
davanti ad una gigantografia di Che Guevara Claudio Gandolfo
Al termine
dell’incontro di Caserta sulle riforme, il 13 gennaio scorso, Romano Prodi annunciò un’agenda in 10
punti: dall’accelerazione dei tempi della giustizia, al federalismo fiscale, a
interventi urgenti per il Mezzogiorno. Vi aggiunse anche, sfidando con coraggio
l’ala sinistra del suo governo, un punto specifico sulla riforma delle
pensioni. A Rutelli, che chiedeva una cabina di regia sulle liberalizzazioni,
disse: «Guiderò io le liberalizzazioni ». E lasciò Caserta con
questo impegno: «Accelererò il più possibile. Se non chiudo il 31
marzo, sarà subito dopo». E’ la fine di marzo e, tranne per i provvedimenti
del ministro Bersani approvati ieri al Senato, quei progetti non hanno fatto
grandi passi avanti, soprattutto il più importante, la riforma della
previdenza.
L’incrociarsi
degli eventi (alcuni
importanti, come il finanziamento delle missioni militari all’estero, altri un
po’ più provinciali) e la grande fragilità della maggioranza
sembrano aver distratto il presidente del Consiglio, tanto da fargli scordare
l’impegno che aveva assunto. E oggi l’avvicinarsi di alcune scadenze elettorali
suggerisce provvedimenti che sembrano più dettati dai sondaggi che
coerenti con quell’agenda e con il Programma che un anno fa l’Unione aveva
presentato agli elettori. La buona salute dei conti pubblici consente di
ridurre le tasse: da dove cominciare? Si pensa di ridurre l’Ici e si è
ormai abbandonata l’idea di armonizzare la tassazione delle attività
finanziarie. In entrambi i casi perché così si spera di riguadagnare un
po’ di consenso.
Che cosa
pensava la maggioranza un anno fa? «Per realizzare il progetto federale occorre che siano
immediatamente ripristinati i margini di autonomia tributaria già
previsti dall’ordinamento». Cioè: un federalismo responsabile richiede
che ai Comuni sia concessa ampia autonomia nella determinazione delle aliquote
fiscali, in primis le imposte sugli immobili, che sono la loro maggiore fonte
di reddito. Solo così i sindaci potranno valutare i costi e i benefici
politici delle spese che vorrebbero realizzare. Alcuni alzeranno l’Ici, altri
la ridurranno. Proporre da Roma una riduzione generalizzata dell’Ici è
l’esatto contrario. «Il sistema fiscale italiano è distorto a danno del
lavoro e della produzione. Dobbiamo invertire questa situazione attraverso una
politica fiscale che realizzi... l’uniformità del sistema di tassazione
delle rendite finanziarie».
Anche qui un
progetto assolutamente condivisibile. Il 10% più ricco delle famiglie possiede il 40% di tutte
le attività finanziarie; il 10% più povero solo l’1,2%. Quando lo
Stato tassa i cittadini più poveri per pagare gli interessi sul debito
pubblico preleva il 23% (l’aliquota minima) sui redditi da lavoro e lo
trasferisce per lo più ai ricchi, i quali, sugli interessi che
percepiscono, pagano il 12,5%. L’iniquità riguarda anche le imprese che
sui loro redditi pagano il 33%. Che coerenza dimostra un governo che si
spaventa e per qualche sondaggio abbandona il proprio programma? «Occorre
abbattere gli ostacoli che penalizzano le possibilità di lavoro,
soprattutto delle donne»: era un altro punto importante del programma. Vi sono
due modi per consentire alle donne di lavorare di più. Uno costa:
costruire asili, scuole materne, e non è provato che funzioni. Un altro
paradossalmente raggiunge l’obiettivo facendo risparmiare lo Stato.
Alberto Alesina
e Andrea Ichino hanno proposto (Il Sole 24 Ore, 27 marzo) di abbassare le aliquote fiscali per
le donne e alzarle (ma meno) per i maschi. Questo «miracolo» è possibile
perché gli uomini hanno un’offerta di lavoro rigida. Se fossero tassati di
più, lavorerebbero un po’ meno, ma non molto meno. Viceversa l’offerta
di lavoro femminile è più elastica: a fronte di una riduzione
dell’aliquota fiscale molte più donne lavorerebbero. Con redditi netti
più alti potrebbero lavorare anche quelle madri che oggi sono costrette
a restare a casa perché altrimenti guadagnerebbero troppo poco per pagare
qualcuno che si occupi dei loro figli quando sono fuori casa. Abbassare le
tasse per le donne che lavorano è anche un modo per ridurre la
discriminazione a loro sfavore. Un modo molto più efficace delle «quote
rosa»: comeper l’inquinamento ilmodo migliore di abbatterlo è tassarlo,
così per la discriminazione il modo migliore per combatterla è
renderla più costosa per chi la pratica.
31 marzo 2007
La misura per ora si applica solo all'import della carta
"patinata", ma è un precedente per tutti i settori Dopo 23
anni Washington cambia strategia. Mercati finanziari in allarme Timori per la
crescita mondiale Molte multinazionali statunitensi temono un freno all'export
dal gigante asiatico Altra grande incognita l'impatto di questa manovra sul
dollaro e sui consumatori FEDERICO RAMPINI dal nostro corrispondente pechino -
Con un'improvvisa sterzata protezionista che interrompe 23 anni di
continuità, l'Amministrazione Bush cambia strategia nel commercio con la
Cina, vara un dazio punitivo che a Washington come a Pechino è
considerato l'inizio di una escalation di ostilità dalle conseguenze
imprevedibili. I mercati finanziari hanno già reagito con nervosismo, di
fronte al possibile avvio di una spirale di rappresaglie che può far
deragliare la crescita mondiale. NewPage Corporation, una cartiera di Dayton
nell'Ohio, con un ricorso contro il made in China può avere innescato
una catena di avvenimenti ben più grandi di lei: il classico batter
d'ali di una farfalla che nella teoria delle catastrofi si trasforma in un
uragano dall'altra parte dell'oceano. Accogliendo il ricorso, l'Amministrazione
Bush ha deciso di colpire le importazioni dalla Cina con dazi punitivi dal
10,9% al 20,3%. La misura per ora si applica alle carte patinate di alta
qualità usate per magazine, dépliant, cataloghi, manifesti: una nicchia
di mercato in cui le importazioni dalla Cina l'anno scorso hanno raggiunto i
224 milioni di dollari. Cioè meno di un millesimo del deficit
commerciale bilaterale Usa-Cina, che è stato di 232,5 miliardi di
dollari nel 2006. Ma la protezione concessa dal governo degli Stati Uniti alla
cartiera dell'Ohio è un precedente che aspettavano da tempo altri
settori industriali ben più importanti: le lobby delle macchine
utensili, del tessile-abbigliamento, dell'acciaio, dei mobili e della plastica,
premono con richieste analoghe di dazi e ora le chances che vengano accettate
sono aumentate notevolmente. La svolta dell'Amministrazione Bush è il
risultato dei nuovi rapporti di forze al Congresso di Washington. Dopo le
elezioni di novembre i democratici hanno la maggioranza parlamentare e possono
condizionare la politica del commercio estero. Il partito democratico,
più vicino ai sindacati, è il meno liberista. Diversi esponenti
democratici accusano la Cina di concorrenza sleale, sostengono che le sue
imprese godono di crediti agevolati e sussidi statali all'export. Finora
l'Amministrazione Bush aveva tenuto duro ma il via libera ai dazi sulla carta
è il segnale che si apre una pagina nuova nelle relazioni tra Washington
e Pechino. Due esponenti democratici che presiedono la commissione Finanze e
quella del commercio estero, Charles Rangel e Sander Levin, hanno salutato il
provvedimento così: "Ora ogni settore industriale americano che si
ritiene danneggiato può ottenere giustizia". La reazione cinese
è stata dura. Il portavoce dell'ambasciata della Repubblica popolare a
Washington, Chu Maoming, ha definito la misura "un danno
inaccettabile" e ha annunciato che "il governo cinese si riserva il
diritto di salvaguardare i propri diritti e legittimi interessi". A
Pechino il ministero del Commercio estero ha dichiarato: "Questa azione
degli Stati Uniti contraddice il consenso che era stato raggiunto tra i leader
dei due paesi per risolvere le dispute attraverso il dialogo". Anche negli
Stati Uniti l'improvvisa svolta protezionista ha suscitato preoccupazioni. Il
New York Times vi dedica la prima pagina con un titolo che parla di
"drastico cambiamento". Il Los Angeles Times cita l'esperto di
geopolitica Jason Kindopp di Eurasia Group secondo il quale "la
novità è significativa, può segnare l'inizio di una nuova
tendenza". Un timore è che Pechino possa ricorrere a rappresaglie
contro gli interessi stranieri. Anche se il commercio bilaterale è
pesantemente squilibrato in favore del gigante asiatico, è noto che una
quota consistente delle esportazioni made in China sono prodotte in
realtà nelle fabbriche delle multinazionali Usa insediate da anni
a Shanghai, Canton, Shenzhen. Una frenata alle esportazioni dalla Cina
può rappresentare un duro colpo per i bilanci di molte marche americane.
I mercati finanziari hanno accusato il colpo: venerdì sera il dollaro si
è indebolito e la Borsa di Wall Street ha annullato i guadagni che erano
stati innescati dal calo del prezzo del petrolio. "I dazi contro la Cina
possono affondare il dollaro" ha dichiarato David Watt, responsabile del
mercato dei cambi alla Rbc Capital Markets di Toronto. Joseph Battipaglia, capo
della divisione investimenti nella società finanziaria Ryan Beck di
Philadelphia ha detto che "attaccare la Cina con misure protezioniste
può avere conseguenze incalcolabili". Un'incognita è
l'impatto sui consumatori. Il made in China a buon mercato che domina gli
scaffali di Wal-Mart e di tutta la grande distribuzione americana, ha un
effetto calmieratore sul costo della vita. Se si riduce la disponibilità
di prodotti cinesi l'inflazione può aumentare, costringendo la Federal
Reserve ad alzare i tassi d'interesse, con un effetto depressivo sulla
già debole crescita americana. Un altro rischio è legato al ruolo
della banca centrale cinese come "creditore di ultima istanza" degli
Stati Uniti. A furia di accumulare attivi commerciali, Pechino ha messo da
parte circa 1.200 miliardi di dollari di riserve valutarie ufficiali. La Cina
è diventata uno dei principali serbatoi del risparmio mondiale, e una
esportatrice netta di capitali all'estero. La maggior parte delle sue riserve
(intorno al 70%) sono reinvestite in buoni del Tesoro Usa, quindi
finanziano il debito federale di Washington e indirettamente la spesa delle
famiglie americane. Se la banca centrale cinese dovesse abbandonare il sostegno
al dollaro, la moneta americana sarebbe esposta a una crisi di sfiducia,
destabilizzando i mercati finanziari internazionali. Sia nel caso di un
rallentamento della crescita americana e cinese, sia nello scenario di una
forte svalutazione del dollaro, i danni si farebbero sentire anche in Europa.
Il precedente creato dai dazi punitivi sulla carta cinese è importante
perché segnala un cambio di regole fondamentale. Dall'inizio degli anni Ottanta
gli Stati Uniti si sono preclusi la possibilità di usare i dazi punitivi
contro la Cina, in quanto la classificano tra le "economie non di
mercato". Questa definizione giuridica impedisce in linea di principio di
verificare se le imprese cinesi godano di sussidi all'export. Se infatti si
stabilisce che la Cina non è davvero un'economia di mercato, allora si
deve presumere che le sue aziende siano comandate da direttive governative, non
influenzate da incentivi economici come i sussidi. Nei confronti dei paesi
definiti "non di mercato" gli Stati Uniti possono usare solo le tasse
anti-dumping, molto più basse dei dazi punitivi. Ma nel varare il
provvedimento protezionista per le cartiere il segretario al Commercio Carlos
Gutierrez ha dichiarato: "La Cina di oggi non è la stessa di anni
fa; così come è cambiata la Cina, devono adattarsi anche gli
strumenti con cui noi garantiamo che le imprese americane siano esposte a una
concorrenza leale". Questa svolta ora alimenta le speranze di altri
settori industriali americani, le cui richieste di dazi contro il made in China
erano state bocciate per anni.
Ma anche intrecci tra affari e politica, tra appalti e
cemento. Con l'ombra inquietante della mafia a completare il quadro di una
settimana che ha sconvolto la vita amministrativa ed economica di Campi
Bisenzio, cittadina della periferia nord di Firenze. È stato
lunedì 26 che i Carabinieri sono entrati in azione dopo oltre un anno di
indagini. Trentatre persone colpite da ordinanza di custodia cautelare o da
sottoposizione all'obbligo di firma e un doppio filone d'inchiesta che al
momento coinvolge noti industriali della zona oltre a funzionari e tecnici del
Comune ma che non esclude, nel prossimo futuro, di allargarsi anche all'ambito
politico ed amministrativo. In oltre 200 pagine di ordinanza redatte dal
giudice per le indagini preliminari l'indice viene puntato su una serie di
interventi effettuati nelle province di Firenze e Prato sia riguardo
all'esecuzione di lavori pubblici sia alla predisposizione delle gare d'appalto
ed ai procedimenti di rilascio delle concessioni edilizie. Dalle indagini
condotte dal Ros dei Carabinieri del colonnello Domenico Strada i pm Giusppina
Mione e Leopoldo De Gregorio hanno ipotizzato in primo luogo la costituzione di
una vera e propia cupola costituita da società del settore edile. Un
cartello cui avrebbero aderito una ventina di imprese e che sarebbe stato
diretto dall'imprenditore Vincenzo Aveni (peraltro ex presidente della sezione
edilizia della Confindustria fiorentina). Scopo del cartello sarebbe stato
quello di partecipare ad appalti pubblici per lavori stradali ed
acquedottistici, indetti dai comuni di Firenze, Campi Bisenzio, altre
località toscane come Viareggio e Grosseto, nonché dalla Publiacqua Spa,
società di gestione dell'acquedotto fiorentino. Appalti inferiori a 5
milioni di euro assegnati attraverso il sistema della cosiddetta "media
mediata" (la gara veniva vinta dall'impresa che avesse fatto il ribasso
immediatamente inferiore alla media tra quello più alto e quello
più basso presentati per la gara in oggetto) e quindi ripartiti in
subappalto alle imprese rimaste escluse ma che avevano aderito al cartello. Non
solo. In alcuni casi, infatti, l'accusa ipotizza che l'affidamento dei lavori
veniva assicurato anche attraverso la corruzione di compiacenti
funzionari dell'area tecnica degli enti committenti, come risultato per due
licitazioni bandite rispettivamente dall'Asl di Firenze e dal Comune di Campi
Bisenzio. E proprio l'apparato amministrativo di quest'ultimo Comune, è
risultato caratterizzato da una "generalizzata illegalità"
che, oltre ai casi di corruzione di alcuni dipendenti, coinvolge
l'attuazione del nuovo Regolamento Urbanistico Comunale (Ruc). In molte
conversazioni telefoniche intercettate il dirigente degli appalti pubblici
Marco Cherubini dice chiaramente ad esponenti della giunta o consulenti esterni
che "il Regolamento è illegittimo". Nel dettaglio, l'accusa
che gli inquirenti rivolgono ai funzionari (anche basata su numerose
intercettazioni telefoniche) è che questi attestassero falsamente la
conformità dei progetti allo strumento urbanistico, sovradimensionando,
di fatto, i parametri di sviluppo edilizio autorizzati dalla Regione Toscana e
determinando, di conseguenza, notevoli profitti economici ai soggetti promotori
dell'intervento speculativo. Il tutto, cercando di muoversi all'interno di
delicati equilibri politici: ancora il Cherubini, infatti, non eista a definire
il sindaco "nella morsa" e a lanciare dure accuse alla Margherita
che, dice, "ha interessi talmente colossali in prima persona...".
ROMA. Ridurre i costi della politica. Romano Prodi
lo ha promesso in campagna elettorale ed è tornato a parlarne durante la
conferenza stampa di fine anno. Lo ha ripetuto a ministri e sottosegretari ed infine
lo ha scritto nel patto in 12 punti con il quale un mese fa ha chiesto la
fiducia al Parlamento. Tagliare, ridurre, contenere. Ci hanno provato in tanti
ma i risultati finora sono modesti: la politica in Italia costa sempre
di più. A confronto con gli altri paesi europei, poi ci distinguiamo
nettamente. L'International Herald Tribune ha pubblicato recentemente un
articolo che fa la comparazione tra lo stipendio dei deputati italiani e quello
degli altri parlamentari europei. Le cifre non lasciano dubbi: l'assegno
mensile lordo del deputato italiano è poco inferiore ai 16 mila euro,
quello di un membro dell'Assemblea nazionale francese si aggira intorno ai 7
mila euro. I deputati svedesi si "accontentano" di 5 mila euro. Ma
non è solo uno stipendio smisurato il privilegio di cui godono i nostri
parlamentari. Tra i benefici che provocano irritazione ci sono le auto blu, i
biglietti gratis, le poltrone assicurate ovunque, i conti bancari a costo zero
e una vera giungla di benefici-scandalo. Deputati e senatori incassano ogni
mese più di 15 mila euro tra indennità, diaria e rimborsi vari.
Allo stipendio di 5 mila 486 euro (si chiama indennità) bisogna
aggiungere il rimborso (si chiama diaria) di 4 mila 3 euro per il soggiorno a
Roma e altre 4 mila 190 euro per le "spese inerenti al rapporto tra eletti
ed elettori". Sotto questa voce è compresa anche la cifra che ogni
deputato corrisponde ai propri assistenti (i cosiddetti portaborse che, per una
decisione presa pochi giorni fa da Bertinotti e Marini, potranno entrare in
Parlamento solo se in possesso di un regolare contratto di lavoro). E si arriva
al capitolo trasporti. I depuati, è noto, viaggiano molto. Ma se si
muovono nel territorio nazionale non pagano niente. Non fanno file e prendono
posto in business class. Per loro, gli spostamenti in treno, aereo o traghetto,
sono gratis ed anche per i viaggi in autostrada non versano una centesimo. Ma
non è finita. Serve un taxi? Per questo servizio è previsto un
rimborso trimestrale di 3 mila 323 euro per il deputato che deve percorrere
fino a
Non è neppure necessario entrare nel merito: non importa se
i marinai britannici catturati dagli iraniani abbiano o no sconfinato nelle
acque territoriali dell'Iran, come sostengono le autorità di Teheran.
L'uso che si sta facendo di loro è comunque infame. Il fatto di portare
dei prigionieri davanti alle televisioni e di far inviare da loro messaggi
ricattatori è una pratica contraria alle leggi internazionali, alle
convenzioni e alla sensibilità morale del mondo civilizzato.
Sarebbe bene, per tutti e in primo luogo per il loro popolo, che i governanti
di Teheran cominciassero ad esercitare più correttezza e più
prudenza nei loro rapporti con il resto del mondo. La pratica del ricatto,
l'umiliazione degli avversari non solo non servono, ma sono controproducenti.
Non fanno che confermare le riserve che il mondo ha nei confronti del regime di
Ahmadinejad, della sua politica e dei suoi programmi nucleari. Riserve che
hanno trovato espressione nel voto dell'Onu sulle sanzioni.
Anche chi non è d'accordo con la guerra in Iraq, anche chi ritiene che
le truppe britanniche, come quelle americane, dovrebbero lasciare quel paese,
non può tollerare quel che si sta vedendo in questi giorni e che richiama,
drammaticamente, la vicenda degli ostaggi catturati dai pasdaran
nell'ambasciata Usa di Teheran. Una vicenda che finì molto male e i cui
effetti negativi si continuano ancor oggi a pagare.