HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli
Archivio Piccola Rassegna 1/15 marzo 2007
Archivio – 16/28 FEBBRAIO 2007”
Archivio - 1/15
FEBBRAIO 2007”
INDICE
1/15 Marzo 2007
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++ La Repubblica 15-3-2007 Fioroni: "telefonini spenti
a scuola" Altrimenti scattano le
sanzioni
++ La Repubblica 15-3-2007 Moratti, Berlusconi,
Alberini e l'insicurezza a Milano
La Stampa 15-3-2007 Steve Hanke "L’immobiliare si avvia
verso 18 mesi di saldi”
Il Riformista 15-3-2007 Intercettazioni, è il
momento di dire basta
La Stampa 15-3-2007 Pensioni, le minime verso l'aumento
Stefano Lepri
Tempo medico on line 15-3-2007 Costano care le
disuguaglianze nella salute, costano la vita.
La Nuova Venezia 15-3-2007 Il mondo della cultura
contro la base USA
ROMA - Cellulari spenti in classe durante le ore di lezione. Per
i trasgressori scatteranno sanzioni disciplinari compresa quella del ritiro
temporaneo del cellulare durante le ore di lezione e la restituzione, ove
occorra, in presenza dei genitori. E' quanto prevedono le linee guida sull'uso
dei cellulari a scuola e sulle sanzioni disciplinari per episodi di particolare
gravità emanate oggi dal ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe
Fioroni.
"Le linee di indirizzo - ha spiegato il ministro in una conferenza stampa
- scaturiscono dalla necessità di rendere cogente nel più breve
tempo possibile il divieto dell'uso del telefonino nelle classi e la
possibilità da parte dei docenti di ritirarli fino al termine delle
lezioni. Il divieto dell'uso del cellulare durante le lezioni - ha ricordato il
ministro - è già normato, ma ora diventa cogente da subito".
Fioroni ha ribadito ancora una volta che, invece, il divieto di accesso a
scuola dei telefoni cellulari va regolamentato per legge".
(15 marzo 2007)
ROMA
Alla fine, l’unica cosa certa è che Piero Fassino vincerà il
congresso. La maggioranza del segretario è salda, e veleggia nei dati
ufficiali ancorché non definitivi del Botteghino al momento ben oltre il 75 per
cento. Ma da quando le sezioni della Quercia hanno aperto i battenti, con le
tre mozioni congressuali depositate, perché gli iscritti possano esaminarle,
discuterle anche coi leader, e infine votarle, in casa diessina è
successo veramente di tutto. Ricorsi a valanga alla commissione garanzia,
decine di pratiche aperte alla commissione comunemente detta (non a caso)
«vigilanza congressi», riunioni-fiume delle medesime, con faldoni e insulti che
volano e le minoranze che se ne vanno sbattendo la porta. «Questo, nel nostro
partito non era mai successo, mai in queste proporzioni», accusa Gavino Angius,
titolare con Mauro Zani ed Alberto Nigra della mozione che vorrebbe almeno
discutere se davvero, e come, i diesse debbano sciogliersi nell’abbraccio con
la Margherita.
Quercia in subbuglio, da Bologna in giù, conferma Lalla Trupia, l’ex
«ragazza di Berlinguer» che presiede il collegio dei garanti e appartiene alla
sinistra che candida Fabio Mussi come segretario, «con la sola eccezione del
Nord, dal quale non abbiamo avuto alcun ricorso». Ma per il resto, l’entusiasmo
per il nuovo Partito Democratico, come lo valuta il fassiniano Migliavacca, ha
intanto curiosamente prodotto qualcosa come 30 mila tessere in più.
Tempestini, della segreteria politica, segnala il successo di Fassino e sul
resto ci sono gli organismi di garanzia.
Ma è un bollettino di guerra. Una quantità di «anomalie».
Iscrizioni gonfiate, accusano le minoranze. Perché è chiaro, sottolinea
Nigra, «se Fassino invece di vincere, stravince, non avrà davvero nessun
ostacolo, nemmeno una discussioncina sulla via del Partito Democratico». Uno
dei casi più vistosi, Vibo Valentia-Catanzaro, dove ci sono «sezioni
morte», cioè senza nemmeno un iscritto, come a Brognaturo, Pannaconi,
Ionadi 2, Motta, Filocastro, Comparni, Nicotera 2, Simbario, improvvisamente si
son precipitate a iscriversi 23, 39,45 anche 60 persone. A Caserta, da 2800 si
arriva a
Ventuno federazioni al di sotto di ogni sospetto. E poi Roma: in pochi mesi, da
Poi ci sono le Regioni rosse. «Da noi nessun tesseramento gonfiato» dice
orgoglioso Mauro Zani, che una volta rappresentava a Botteghe Oscure tutto il
peso (anche finanziario) dell’Emilia-Romagna, «però c’è una
mobilitazione parossistica: vota gente che non s’è mai vista metter
piede in sezione, e gli anziani li vanno a prendere anche a casa...». Infatti,
«ricordo un caso in cui al dibattito sulla mozione Fassino c’erano in sala al
massimo 120 persone, e il giorno dopo a votare erano in 504», conferma Trupia.
Risultato: a Bologna Fassino sta sull’87 per cento, Mussi al 4,3, Angius al
7,3, «ma è un successone, perché noi un mese e mezzo fa non esistevamo».
E le polemiche, poi: Katia Zanotti del Correntone ha denunciato «pressioni e
intimidazioni sui segretari di sezione» da parte dei fassiniani, e in effetti
così era andata con Gabriella Ercolini rea di aver mostrato propensione
per Angius e Zani. A Scandicci, vicino Firenze, le operazioni in sezione sono
invece cominciate in ritardo rispetto alla metà di febbraio prevista
perché il segretario (fassiniano) aveva convocato tutti gli iscritti
invitandoli a votare «per il Partito Democratico», e purtroppo proprio
così si intitola la mozione di Fassino.
Il fatto è che il congresso nazionale di Firenze, se Fassino come previsto
vince nei congressini, sarà di pura celebrazione delle sorti magnifiche
e progressive del Partito Democratico. «Il nostro congresso ormai è un
votificio», dice Angius. «La maggioranza vuole il Pd per farne un
partito-Stato, come era la Dc», accusa Alberto Nigra. Amarezza, rabbia: questo
si sente, a parlare con le minoranze. E corre voce che la sinistra di Mussi
potrebbe anche arrivare a non partecipare al congresso, quello «vero». Di certo
«il 29 riuniremo i nostri delegati e decideremo il da farsi», dice Alfiero
Grandi. Fassino, D’Alema, lo stesso Veltroni sono però stati
letteralmente acclamati, in giro per l’Italia. A Firenze, una sera in una
convention, il Partito Democratico ha perfino preso l’83 per cento dei voti. Ma
era un sondaggio: si votava col telecomando.
Rubriche
» Bussole
Può sembrare inconsueta l'iniziativa del sindaco di Milano, Letizia
Brichetto Moratti, di promuovere una manifestazione per la sicurezza dei
cittadini. In aperta contestazione con la disattenzione del governo Romano. E
può, forse, suggerire commenti ironici l'adesione del consigliere
comunale Silvio Berlusconi.
Ma è difficile negare che Milano, oggi, è un'emergenza. Bastano
un po' di numeri, ricavati dalle graduatorie sul benessere (sic) degli
italiani, compilate ogni anno dal Sole 24 Ore, in base a indicatori statistici
"strutturali". E quindi non opinabili. Nella classifica dedicata alla
sicurezza, la provincia di Milano (di cui la città costituisce gran
parte), nel 2006, si poneva al 102° posto. Penultima. Più sotto, solo
Bologna (magari Cofferati, che, da ex-sindacalista, ha consuetudine con le
manifestazioni di massa, potrebbe seguire l'esempio). Insomma: Milano è
peggio di Napoli (anche se i media non le hanno riservato lo stesso
trattamento). Più in particolare: è al 99° posto in Italia, per
rapine denunciate, al 101° per furti d'auto, scippi e borseggi, all'86° per
percentuale di crescita dei reati negli ultimi anni. Le forze dell'ordine sono
del tutto insufficienti ad affrontare una situazione così critica. Tanto
che il 95% dei furti e il 70% delle rapine restano impuniti.
Insomma, ha mille ragioni, il Sindaco Letizia Brichetto Moratti a mobilitare i
cittadini, per scuotere questo governo disattento. D'altronde, la Moratti
è una lady di ferro. Non ha mai esitato ad esporsi. Come l'anno scorso,
quando, insieme al padre, vecchio partigiano, si recò alla
manifestazione del 25 aprile. Da cui venne allontanata, a causa delle proteste
di sedicenti antifascisti, capaci di mischiare l'antifascismo con
l'intolleranza (e la stupidità).
Stavolta, però, non ci saranno contestazioni. La criminalità,
infatti, è fra i problemi che preoccupano maggiormente i cittadini, nel
Nord, soprattutto in Lombardia (Demos, novembre 2006). La Moratti preferisce,
quindi, diventare (e brandire) la bandiera dell'insoddisfazione popolare, per
non divenirne il bersaglio. Diversamente dal sindaco che l'ha preceduta,
Gabriele Albertini. Anch'esso di Forza Italia. Anch'esso a capo di una giunta
di centrodestra. Eppure Albertini avrebbe avuto motivi forse anche più
validi per mobilitare la piazza, negli anni scorsi. In fondo, nel 2001, quando
fu rieletto sindaco, Milano, nella graduatoria della sicurezza, era posizionata
molto, ma molto meglio. Al 46° posto. Insomma: a metà classifica. Una
realtà sicura, per essere una metropoli. Ma un anno dopo era scesa
già al 69°. Poi, il crollo. Il 99° posto, nel 2005. Il 102°, nel 2006.
Albertini avrebbe dovuto - lui per primo- mobilitare i cittadini, proclamare un
Security Day. Fra il 2001 e 2006. Ma non l'ha fatto. Un Security Day, a Milano,
venne organizzato nel 1999. Ma si trattò di una manifestazione
"nazionale" di FI. Contro il governo "nazionale". Al tempo
(occasionalmente) di centrosinistra.
Altra personalità e altro stile, lady Letizia. Fosse stato sindaco lei,
avrebbe organizzato prima, questa manifestazione. Due, forse tre anni fa. E
avrebbe marciato, con Silvio Berlusconi a fianco. Per protestare contro il
governo romano. Guidato da Silvio Berlusconi (milanese, patron del Milan). Di
cui era esponente (autorevole) un ministro milanese. Letizia Brichetto Moratti.
(15 marzo 2007)
HANNOVER -
Anche l'era dell'hard disk è finita. Lo sviluppo delle nuove
nanotecnologie nel campo dei microprocessori e delle memorie ha decretato il
pensionamento anticipato del disco fisso, quell'unità presente in tutti
personal computer dove vengono conservati i dati personali e che è
conosciuta come hard disk. Al Cebit, la più importante fiera dell'Information
technology che si è aperta oggi ad Hannover, i veri protagonisti sono
diventati gli SSD, solid state drives, che altro non sono che piccole schede di
memoria flash, e la porta USB che grazie agli sviluppi tecnologici è
destinata a diventare il principale punto di accesso al mondo digitale.
La Sasmung, che è leader nella produzione di memorie flash, ha
presentato il primo Ultra Mobile PC, un portatile touch screen che pesa solo
Accanto alla Samsung tutti i produttori di schede e pennine puntano sulla
disponibilità di memoria a costi sempre più bassi: la SanDisk al
Cebit ha presentato una scheda SSD sottile come una carta di credito in grado
di sostituire un hard disk da 32GB. I prezzi delle memorie flash sono destinati
a scendere sempre di più permettendo a questi prodotti di andare a
conquistare il 50% del mercato dei pc portatili entro il 2013 secondo le stime
della società di ricerche In-Stat.
Le novità come sempre al Cebit non mancano, anche se la corazzata
tedesca mostra vistosi segni di debolezza di fronte all'aggressività di
internet. Da oggi sino a domenica nei padiglioni del quartiere fieristico sono
attesi più di 400000 visitatori che potranno visitare gli stand di
più di 6000 aziende provenienti da 77 paesi. Ma dopo lo scoppio della
bolla nel 2001 il numero degli espositori si è letteralmente dimezzato e
ora è attestato ad un terzo del livello record raggiunto nel 2000. Per
una fiera che ha celebrato nel 1965 il lancio del primo computer realizzato
dalla Nixdorf e nel 1987 il primo cellulare Gsm della Nokia l'assenza di grandi
aziende come la stessa multinazionale finlandese insieme a Philips, Motorola e
Canon mette in evidenza da una parte il ruolo crescente degli eventi
specializzati, come il GsmCongress di Barcellona o il Consumer Electronic Show
di Las Vegas, e dall'altra il ruolo della Rete dove gli stand sono virtualmente
aperti 24 ore su 24, 365 giorni l'anno.
(15 marzo 2007)
«Il Canada vieta il voto agli italiani»
Il governo teme la
richiesta da parte di altre comunità straniere con il rischio di aprire
contenziosi diplomatici. Il deputato Bucchino: «Potrebbero esserci altre
sorprese»
M
MARZIANI - «La decisione
è arrivata come un pugno nello stomaco, anche se in molti non negano un
sentore legato a una serie di episodi, di conversazioni negate e di
indifferenze da parte dei due Paesi che già nel novembre del 2005
avevano siglato l'accordo storcendo il naso» scrive il settimanale. Ma il fatto
scatenante sarebbe la possibilità che comunità "a
rischio" come quella cinese e quella indiana pretendano lo stesso diritto,
aprendo contenziosi diplomatici di difficile soluzione. L'articolo, a firma
Paola Bernardini, caporedattore del Corriere Canadese e corrispondente di
Diario, riporta le reazioni del deputato Gino Bucchino (Unione), eletto appunto
con il voto degli italiani all'estero: «Me lo aspettavo, il Canada ha
autorizzato la campagna elettorale e l'elezione di un rappresentante nel
governo italiano (nella tornata dell'aprile 2006, ndr) solo all'ultimo momento
perché è stato un calcolo elettorale». Bucchino poi avverte: «Spesso nel
Parlamento italiano siamo visti come marziani, ma non so ancora se la partita
è davvero chiusa. Attenzione però, potrebbero esserci delle
sorprese». Vale a dire, scrive la giornalista, che anche gli Stati Uniti e
l'Australia potrebbero seguire l'esempio Canada mettendo definitivamente la
parola fine al voto all'estero.
LA PERPLESSITA' DELL'AMBASCIATORE -
Un'altra opinione sull'argomento è riportata dal giornale locale
Embassy, ed è attribuita dall'estensore dell'articolo Angelo Persichilli
all'ambasciatore italiano, Gabriele Sardo. Il diplomatico non commenta
direttamente quella che viene definita una decisione non ancora ufficiale
(l'annuncio formale, secondo Embassy, è atteso a giorni ma il primo
ministro di Ottawa Stephen Harper avrebbe già emesso il suo parere) ma
dice a Persichilli che «apprezza l'interessamento canadese, ma sono un po'
deluso perchè una richiesta di dialogo da parte mia e del nostro
viceministro degli esteri Danieli non sono state recepite. E questo non
è il livello di relazioni che ci si aspetta tra due Paesi alleati e
amici».
15 marzo 2007
M
Gli americani si ritrovano in difficoltа nel ripagare i mutui-casa. E
nelle Borse di mezzo mondo si scatenano le vendite. Non bastavano dunque i 272
miliardi di capitalizzazione andati in fumo due settimane fa sull’onda del
crollo di Shanghai: ieri i listini europei ne hanno persi altri
Sul mercato sono quindi scattati tutti i ragionamenti del caso. Il primo, e
piщ urgente, ha riguardato il settore finanziario pesantemente colpito
per la sua esposizione sul business dei mutui ad alto rischio, peraltro
presenti pure nel portafoglio di hedge fund e degli investitori sotto forma di
cartolarizzazioni. Societа poco conosciute ai piщ, come la
specilizzata New Century Financial, rischiano il crack. A catena temono impatti
negativi le banche finanziatrici di tali societа e pure un colosso come
Lehman Brothers, pur presentando utili a mille, ammette le difficoltа nel
settore immobiliare.
Il secondo, invece и di natura sistemica. Con una semplice equazione: la
gente in difficoltа nel ripagare il mutuo necessariamente tenderа a
raffreddare i consumi, minando quindi le prospettive economiche di Washington.
Basta poco, dunque, a spiegare il perchй di quel -1,97% con cui due sere
fa il Dow Jones di Wall Street ha dato il via al secondo giorno nero di questo
2007, seguita dalle principali piazze asiatiche. Il dato complessivo lo offre
ieri il Dj Stoxx 600, che raggruppa i principali titoli del Vecchio Continente:
-2,66%, 226 miliardi andati in fumo. Milano non manca all’appello di questo
nuovo collasso. L’S&P/Mib, che riunisce i titoli piщ «pesanti»,
lascia sul campo il 2,45%, il piщ generale Mibtel il 2,23. All’estero
suona la stessa musica, con Parigi in calo del 2,52%, Francoforte che cede il
2,66% e Londra a -2,61%.
Ma sul mercato non и ancora panico totale, tanto che il Dow Jones ieri va
al recupero a +0,48%, assieme al Nasdaq, a +0,9%. «La situazione sembra analoga
a quanto successo tra maggio e giugno del 2006: in successione ci furono una
correzione, una fase di assestamento, un nuovo ribasso. Poi il mercato
tornт a salire», spiega Antonio Cesarano, a capo della research &
strategy di Mps Finance. Lo scenario «resta rialzista, anche se restano le
incognite sul mercato immobiliare, che potrebbero riperquotersi sui consumi».
Prima di gridare alla catastrofe, perт, occorre dell’altro. Spiega
Alessandro Nilo, strategist del Fad Credem: «Solo con dati allarmanti sulla
disoccupazione accompagnati da un brusco movimento al ribasso dei rendimenti
decennali dei titoli di Stato americani ci sarebbe veramente da preoccuparsi».
Per il momento, secondo Nilo, «stiamo assistendo a una normale scossa di
assestamento, positiva per il mercato, che potrа rimbalzare, finchй
la situazione non peggiori davvero».
E alla fine, conta anche un certo realismo. «Quello azionario - ricorda Mario
Spreafico, direttore investimenti di Citigroup - и un mercato che cresce
quasi ininterrottamente da quattro anni. Rispetto a prima le azioni oggi sono
meno competitive, a livello di rendimenti, delle obbligazioni. In Europa
perт il contesto economico migliora, la crescita degli utili permane.
Anche per questo questa ha tutta l’aria di una correzione quasi fisiologica
tesa a trascinare le valutazioni su livelli piщ attraenti».
CORRISPONDENTE
DA NEW YORK
Docente
alla Johns Hopkins University e ex consigliere economico di Ronald Reagan,
Steve Hanke legge la tempesta sui mercati finanziari come la sovrapposizione di
due bolle speculative, dicendosi però sicuro sulla possibilità
che il settore immobiliare americano ritrovi il proprio equilibrio.
I mercati sono scossi dall’impatto della bolla immobiliare?
«In realtà di bolle ve ne sono due. Una riguarda il mercato
immobiliare in America, che da tempo è in una fase di rallentamento. E
un’altra riguarda i crediti finanziari che sono andati per anni al settore
immobiliare, concessi in maniera spesso superficiale. Qualcosa del genere,
questa sovrapposizone fra le due bolle, si è verificato anche in Europa
e in particolare in Gran Bretagna».
Quali sono gli scenari?
«Siamo nella fase nella quale si appurano le scorte di beni immobili.
Quanti ne sono rimasti da vendere, quanti ne richiede il mercato e quanti degli
investimenti fatti, dei mutui concessi, possono sperare di rientrare e di
ottenere profitti. Servirà del tempo, forse un anno o 18 mesi, prima che
il mercato del settore immobiliare riesca a trovare un nuovo equilibrio
interno».
Quale è il problema di fondo?
«È finanziario. Sono stati concessi troppi crediti, e troppo facilmente,
per la costruzione di immobili che ora rischiano di non trovare acquirenti. Su
questa analisi non ci sono molti dubbi fra gli esperti del settore. Il punto
è che a volte in mercato reagisce con il panico agli assestamenti
necessari affinché il settore immobiliare ritrovi l’equilibrio».
Non teme terremoti finanziari?
«No, se guardiamo i mercati ci accorgiamo che sono oggi più o meno dove
erano alla fine dello scorso anno. Non siamo alla vigilia di un crollo ma di un
assestamento, reso necessario dai troppi crediti concessi. E’ un processo
iniziato con le prime scosse nel 2005 e continuato nel 2006 con la
manifestazione della bolla immobiliare. Adesso la situazione è che
coloro che hanno investito si trovano di fronte a rischi che non avevano
considerato nei prezzi da dover pagare».
Eppure in Europa c’è chi teme che la bolla immobiliare finisca per
trascinare Wall Street..
«Il panico non serve. Bisogna analizzare i dati. La bolla immobiliare
sarà corretta una volta che saranno noti i numeri delle abitazioni
costruite e rimaste invendute. A quel punto i prezzi degli immobili
scenderanno. Ci saranno un po’ di saldi nei prossimi 18 mesi. Quello che, a
quel punto, resterà da appurare sarà l’impatto su chi ha concesso
i mutui per le aziende immobiliari».
Quali sono i rischi?
«Il rischio è che ad essere coinvolti alla fine potrebbero essere non
solo aziende immobiliari ma forse banche o fondi di investimento. Non possiamo
dirlo con certezza perché non sappiamo nelle mani di chi è il debito.
Non sappiamo chi c’è alla fine della catena dei crediti che sono stati
concessi».
Non
ci piace fare le anime belle. Ma neppure essere presi in giro. Il Giornale,
ieri, ha incartato in un involucro di insopportabile ipocrisia una scelta
editoriale e professionale di rara scorrettezza.
Cominciamo proprio dall’ipocrisia, che non è un aspetto secondario della
triste vicenda. Al Giornale hanno sostenuto di aver tirato fuori il nome di
Silvio Sircana, o meglio del «portavoce di Prodi» che è quello che
veramente stava loro a cuore, per difenderlo in quanto potenziale (e innocente)
vittima di un ricatto, peraltro mai andato a fine. Noi dovremmo berci questa
sciocchezza? Ma andiamo... Il quotidiano ha fatto il nome di Sircana perché ha
ritenuto opportuno associarlo a una storia sordida, da “sparare” alla grande in
prima pagina e poi - come cantava Jannacci - «vedere l’effetto che fa». Quel
titolo, «Ricatto al portavoce di Prodi», era non rispondente alla verità
dei fatti (il ricatto non c’è mai stato), ma rispondente al proposito di
far cadere «il portavoce di Prodi» in un lago di fango, contando che gli
schizzi arrivassero lontano, almeno fin dalle parti di Palazzo Chigi.
Qualcuno ne dubita? Allora legga le cronache interne del quotidiano. Scoprirà
che in modo un po’ ingenuo, o molto impudente, il redattore che racconta la sua
telefonata a Sircana mostra di sapere che anche altri giornali erano al
corrente che nell’intercettazione figurava anche il nome del “ricattando”. Solo
che gli altri il nome non lo hanno scritto. Per correttezza professionale.
Quella che impone prudenza e scrupolo, qualità che al Giornale non sono
mai mancate, e che ha anzi sempre energicamente reclamato dagli altri, quando
sulla stampa finivano nomi “amici”, salvo a scomparire nel nulla quando i nomi
erano invece “nemici”. Come fu il caso di Livia Turco, alla quale, sulla base
di una riscontrabilissima omonimia, vennero attribuite altamente improbabili
simpatie per l’eutanasia.
E veniamo a quel che c’era dentro il brutto pacco che il Giornale ha consegnato
a tradimento a noi e a tutti gli italiani. Per l’ennesima volta sono finiti sui
giornali i fatti privati di persone coinvolte o fatte oggetto di
intercettazioni a fini di giustizia. Nonostante tutte le polemiche, nonostante
i reiterati buoni propositi di cambiare le leggi, annunciati e (come troppo
spesso accade da noi) non tradotti in fatti, lo scandalo continua. Ebbene, lo
diciamo nel modo più semplice a nome, crediamo, di una buona parte
dell’opinione pubblica e, speriamo, della maggioranza dei giornalisti: questa
vergogna deve finire. Su tutti i fronti. Sul fronte delle molte Procure della
Repubblica dove evidentemente si pratica un uso troppo disinvolto di uno
strumento di indagine utilissimo, sì, ma anche terribilmente delicato,
come dimostra la ben più severa prassi che è adottata negli altri
paesi democratici. Sul fronte degli uffici investigativi, dai vertici dei
servizi segreti fino ai cancellieri di tribunale e - facciano qualche esamino
di coscienza anche loro - agli avvocati. Non tutte le intercettazioni sono
necessarie, non tutte quelle necessarie sono rilevanti ai fini dei
procedimenti, nessuna, in linea di principio, dovrebbe finire sui giornali, se
non per imprenscindibili necessità di cronaca. Il gran bailamme che ci
accompagna da mesi e mesi, tra la corsa al gossip pecoreccio e lo spregiudicato
uso a fini di lotta politica, mostra che delle intercettazioni, in Italia, si
fa un uso potenzialmente criminale. Le responsabilità dei media non sono
le uniche, ma sono le più forti. Adesso basta.
15/3/2007
(7:31) - IL MINISTRO SPERA DI CONCLUDERE ENTRO L'ESTATE. Ma sulla revisione dei
coefficienti è già scontro aperto tra governo e sindacati
ROMA
Aumento delle pensioni minime in essere, per il futuro una revisione dei
coefficienti di calcolo: la posizione del governo sulla previdenza si precisa,
in vista del negoziato con le forze sociali che si aprirà tra una
settimana, il 22, benché l’ala sinsitra della maggioranza recalcitri. Il
ministro del Lavoro Cesare Damiano spera di concludere «entro l’estate» ma
l’intervento sulle pensioni minime - che potrebbe essere anche realizzato sotto
forma di «assegno fiscale» anziché di aumento del trattamento Inps - potrebbe
arrivare prima.
Pensioni minime e calo dell’Ici sono i due scopi per cui viene già
conteso il «surplus» (3-4 miliardi di euro?) che il buon gettito fiscale e la
maggior crescita consentirebbero di redistribuire. I conteggi a cui sta
lavorando la Ragioneria dello Stato pare prevedano un deficit pubblico al
2,5-2,6% quest’anno, più basso del 2,8% concordato con l’Europa. La
crescita del prodotto lordo arriverà attorno al 2%. Per il governo si
profila un dilemma: se si redistribuisce troppo subito, con l’occhio al voto
amministrativo di maggio, si dovrà di nuovo stringere con la legge
finanziaria 2008.
Per la previdenza, rivedere i coefficienti di trasformazione (con cui si
calcoleranno le future annualità di contributi per chi oggi lavora) «fa
parte della legge Dini» in vigore, è un atto dovuto, dice il ministro
Damiano. «Vanno aggiornati con un criterio politico che tenga conto delle
conseguenze che si scaricano sulle pensioni più basse e sui giovani»
spiega il suo braccio destro Giovanni Battafarano. Si lavora su due ipotesi:
revisione più morbida dei coefficienti per i precari a basso stipendio,
oppure una forma di integrazione per le pensioni più basse che
risulterebbero dai nuovi calcoli.
Finora, i sindacati hanno detto di no alla modifica dei coefficienti. Ma,
significativamente, la Cgil ieri ha taciuto. La Cisl e la Uil senza alzare la
voce replicano che «così la trattativa parte male», pronte peraltro a
valutare ciò che il governo proporrà. La promessa di intervenire sulle
pensioni minime (si parla di una spesa di circa un miliardo di euro) qualche
effetto l’ha avuto. Ma nella serata di ieri l’ala sinistra della maggioranza ha
ripreso il suo gioco al rilancio. Diverse voci di Rifondazione e del Pdci hanno
rinnovato il no al ritocco. Non c’è ancora una posizione comune del
governo, «le dichiarazioni di Battafarano sono inopportune» ha detto la
sottosegretaria al Lavoro Rosa Rinaldi, del Prc. Il varo «prima possibile»
degli aumenti alle pensioni è peraltro subordinato a un do ut des significativo
con i sindacati che dia via libera ai coefficienti.
I
dati del rapporto dell'Osservatorio italiano sulla salute globale. Una vita che
in Giappone è di 48 anni più lunga rispetto a quella in Sierra
Leone; una vita che ogni anno, per 11 milioni di bambini, durerà meno di
cinque anni. Le disuguaglianze nella salute in Inghilterra costano a un
manovale sette anni di vita rispetto all'aspettativa di vita di un professionista
e in Italia comportano una probabilità doppia di ricevere un trapianto
di rene per chi ha un livello di istruzione superiore. A distanza di due anni
dal primo, il secondo rapporto dell'Osservatorio italiano sulla salute globale,
intitolato A caro prezzo. Le diseguaglianze nella salute (Edizioni ETS, Pisa,
2006, 344 pagine, 20 euro), invita a concentrarsi sulla distribuzione delle
possibilità di salute nel mondo. "Le disuguaglianze nella salute e
nell'assistenza sanitaria si sono terribilmente dilatate in questi ultimi
vent'anni, rappresentando uno dei più gravi scandali di questo
tempo" scrive Gavino Maciocco, presidente dell'Osservatorio, nelle pagine
introduttive del Rapporto. Maciocco ricorda anche le parole scritte
dall'epidemiologo Michael Marmot, che ha presieduto la Commissione sui
determinanti sociali della salute costituita presso l'Organizzazione mondiale
della sanità: "Le disuguaglianze nella salute tra e all'interno dei
paesi sono evitabili. Non esiste alcuna ragione biologica perché la speranza di
vita debba essere di 48 anni più lunga in Giappone rispetto alla Sierra
Leone o vent'anni più corta tra gli aborigeni rispetto agli altri
australiani. Ridurre queste disuguaglianze sociali nella salute, venendo
così incontro ai bisogni delle persone, è un problema di
giustizia sociale". Risultato del lavoro di diversi autori, il Rapporto
offre ai lettori l'opportunità di addentrarsi fra i temi della
sanità e della salute globale attraverso la lente delle disuguaglianze e
presenta il quadro generale delle diversità tra le nazioni nell'area
materno-infantile, in contesti di guerra, a seguito di catastrofi naturali,
nelle diverse condizioni di lavoro e così via. Ma offre anche uno
spaccato dei sistemi sanitari e delle diverse possibilità di cura all'interno
di alcuni paesi, per esempio negli Stati Uniti. "La nazione più
ricca e potente del mondo non è tale per quanto riguarda la salute dei
suoi cittadini" si legge nel Rapporto. "Riferendoci agli indicatori
più comunemente usati per misurare lo stato di salute delle popolazioni
si nota che gli Stati Uniti sono superati da tutti i paesi industrialmente
più avanzati". Anche dall'Italia se viene messa a confronto, per
esempio, la speranza di vita: 78 anni per gli uomini e 84 per le donne rispetto
a 75 e 80 anni rispettivamente per gli statunitensi. Viene presentata anche la
situazione dell'India, in cui convivono scenari contrastanti in campo
sanitario. "Se la sanità indiana è avara e disastrata per la
grande maggioranza dei cittadini del secondo paese più popoloso del
mondo, è invece - in alcune sue nicchie - particolarmente attraente per
pazienti provenienti dall'estero, particolarmente da Stati Uniti e Gran
Bretagna" si legge nel Rapporto. "Numerosi ospedali privati, infatti,
si stanno specializzando nel turismo sanitario, offrendo prestazioni a prezzi
concorrenziali con tempi di attesa minimi". E ancora il libro si sofferma
su Cina, Brasile, Uganda, Moldova e Kazakhstan, senza dimenticare un quadro
più generale delle disuguaglianze nella salute in Europa.
"Constatare, prevedere, osservare, documentare, anno dopo anno, la morte
di minoranze e maggioranze non è un dato epidemiologico: è un
genocidio, con le conseguenze di responsabilità che questo
comporta" si legge nella postfazione del Rapporto. "Qualsiasi
adattamento, addolcimento o distinguo è una manipolazione programmata,
che coinvolge la responsabilità della comunità scientifica e di
tutti coloro che prendono decisioni come se si trattasse di
qualcos'altro". Responsabilità alla quale non ci si deve sottrarre,
con l'appuntamento al prossimo rapporto. di Valeria Confalonieri - Tempo Medico
n. 819 15 marzo 2007 "A caro prezzo. Le diseguaglianze nella salute"
di Osservatorio italiano sulla salute globale Edizioni ETS, Pisa, 2006.
VICENZA.
"L'area in cui dovrebbe sorgere l'ampliamento della base militare
americana a Vicenza è stata designata quale patrimonio monumentale
dell'umanità dall'Unesco e per la sua tutela l'Italia ha sottoscritto,
nel 1958, la convenzione internazionale dell'Aja". Lo sottolinea lo
storico dell'arte veneto Lionello Puppi, che ieri sera è stato ricevuto
dalla Commissione Cultura della Camera dei Deputati. Puppi, che ha portato un
appello proposto dalla Fondazione Benetton, sottoscritto da oltre 120
intellettuali italiani ed esteri, sottolinea come agli impegni internazionali
che dovrebbero portare alla concretizzazione del progetto militare Usa, si
contrappongano altri impegni internazionali, precedenti e per nulla segreti,
volti a proteggere i luoghi di particolare valore storico, artistico e
paesaggistico. "Vicenza ed il suo sistema di ville palladiane estese sul
territorio - ricorda lo studioso - sono stati dichiarati patrimonio
dell'umanità nel 1995 e l'Unesco è già intervenuta alcuni
anni fa per tutelare una villa palladiana dal vicino attraversamento
dell'autostrada Valdastico". "E' dunque comprensibile - aggiunge -
che lo stesso organismo si mobiliterà a causa dell'installazione di una
base militare straniera a
++ Da Affari Italiani 14-3-2007 Guai in vista per
Profumo e Palenzona...
++ Il mistero dell'Eucaristia ci spinge a un impegno
coraggioso nelle strutture di questo mondo. Occorre prendere decisioni sul
rispetto e la difesa della vita umana, sulla famiglia, sulla libertà di
educazione. Di
Benedetto XVI
+ Il Sole 24 Ore 14-3-2007 Recordati patteggia con 2
milioni Ma.Mo.
Il Riformista
14-3-2007 Sul Pd traballa il modello
Roma di Stefano Cappellini
Il Sole 24 Ore 14-3-2007 Taglio dell'Ici e aliquota
unica del 20% sugli affitti di Dino Pesole
La Repubblica 14-3-2007 Tettamanzi: "Sulla
famiglia serve il dialogo, non lo scontro"
"Undici conti esteri di Palenzona". Il titolo del Corriere della Sera
non sarà un buon mattino per Alessandro Profumo e neppure per lo
stesso banchiere Fabrizio Palenzona. Il Corsera ha fatto di tutto per
"nascondere" la notizia, ha messo in servizio in taglio basso delle
cronache e non l'ha richiamato in prima ma per il numero due di Unicredit e
consigliere d'amministrazione di Mediobanca restano notizie bruttissime. E per
Profumo notizie imbarazzanti.
Secondo il servizio firmato dai bravissimi Paolo Biondani e Mario
Gerevini, nelle tasche del banchiere arrivarono versamenti milionari in nero
per ordine di Fiorani. "Palenzona l'ho pagato nell'estate del 2004
anche su una banca di Chiasso - aveva detto Fiorani - aggiungendo che
"questo bonifico proviene dal nostro conto Gattuccio ed era di oltre un
milione di dollari". I due cronisti scrivono che "dai documenti in
mano alla magistratura milanese risultano anche due depositi intestati alla
madre di Palenzona di 82 anni".
"La partita delle banche". E' ancora una volta Rosario Dimito
sulle pagine del Messaggero a dare la "linea" su quanto
accadrà in Telecom. "L'obiettivo finale è chiaro: le
banche si stanno muovendo per acquisire l'80% di Olimpia in mano a Tronchetti
Provera, la cassaforte che possiede il 18% di Telecom. Non si tratta ancora
di un'offerta formale vera e propria ma di un impegno a comprare in via di
definizione. Ma a quale prezzo?".
Bersani tuona contro il pericolo straniero dopo che Telecom e Fastweb
rischiano di finire in mano a gruppi esteri ma il Sole 24Ore ammonisce:
"Banche e fondazioni stanno mettendo a punto l'offerta da presentare a
Pirelli per rilevare la quota di controllo di Telecom Italia. Ieri è
arrivato anche un pubblico appello del ministro Bersani ai "soggetti
finanziari" per evitare l'arrivo di capitali stranieri. Ma gli
investimenti delle banche non dovrebbero essere suggeriti dalla politica".
È
importante rilevare ciò che i Padri sinodali hanno qualificato come
coerenza eucaristica, a cui la nostra esistenza è oggettivamente
chiamata. Il culto gradito a Dio, infatti, non è mai atto meramente
privato, senza conseguenze sulle nostre relazioni sociali: esso richiede la pubblica
testimonianza della propria fede. Ciò vale ovviamente per tutti i
battezzati, ma si impone con particolare urgenza nei confronti di coloro che,
per la posizione sociale o politica che occupano, devono prendere decisioni a
proposito di valori fondamentali, come il rispetto e la difesa della vita
umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia fondata sul
matrimonio tra uomo e donna, la libertà di educazione dei figli e la
promozione del bene comune in tutte le sue forme. Tali valori non sono
negoziabili. Pertanto, i politici e i legislatori cattolici, consapevoli della
loro grave responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente
interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere
leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana. Ciò ha peraltro un
nesso obiettivo con l'Eucaristia (cfr 1 Cor 11,27-29). I Vescovi sono tenuti a
richiamare costantemente tali valori; ciò fa parte della loro
responsabilità nei confronti del gregge loro affidato.
A questo proposito è necessario esplicitare la relazione tra Mistero
eucaristico e impegno sociale. L'Eucaristia è sacramento di comunione
tra fratelli e sorelle che accettano di riconciliarsi in Cristo, il quale ha
fatto di ebrei e pagani un popolo solo, abbattendo il muro di inimicizia che li
separava (cfr Ef 2,14). Solo questa costante tensione alla riconciliazione
consente di comunicare degnamente al Corpo e al Sangue di Cristo (cfr Mt
5,23-24).
Giustizia
Attraverso il memoriale del suo sacrificio, Egli rafforza la comunione tra i
fratelli e, in particolare, sollecita coloro che sono in conflitto ad
affrettare la loro riconciliazione aprendosi al dialogo e all'impegno per la
giustizia. È fuori dubbio che condizioni per costruire una vera pace
siano la restaurazione della giustizia, la riconciliazione e il perdono. Da
questa consapevolezza nasce la volontà di trasformare anche le strutture
ingiuste per ristabilire il rispetto della dignità dell'uomo, creato a
immagine e somiglianza di Dio. È attraverso lo svolgimento concreto di
questa responsabilità che l'Eucaristia diventa nella vita ciò che
essa significa nella celebrazione. Come ho avuto modo di affermare, non
è compito proprio della Chiesa quello di prendere nelle sue mani la
battaglia politica per realizzare la società più giusta
possibile; tuttavia, essa non può e non deve neanche restare ai margini
della lotta per la giustizia. La Chiesa «deve inserirsi in essa per via
dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le
quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunzie, non può
affermarsi e prosperare».
Nella prospettiva della responsabilità sociale di tutti i cristiani i
Padri sinodali hanno ricordato che il sacrificio di Cristo è mistero di
liberazione che ci interpella e provoca continuamente. Rivolgo pertanto un
appello a tutti i fedeli ad essere realmente operatori di pace e di giustizia:
«Chi partecipa all'Eucaristia, infatti, deve impegnarsi a costruire la pace nel
nostro mondo segnato da molte violenze e guerre, e oggi in modo particolare,
dal terrorismo, dalla corruzione economica e dallo sfruttamento sessuale».
Tutti problemi, questi, che a loro volta generano altri fenomeni avvilenti che
destano viva preoccupazione. Noi sappiamo che queste situazioni non possono
essere affrontate in modo superficiale. Proprio in forza del Mistero che
celebriamo, occorre denunciare le circostanze che sono in contrasto con la
dignità dell'uomo, per il quale Cristo ha versato il suo sangue,
affermando così l'alto valore di ogni singola persona.
Responsabilità
Non possiamo rimanere inattivi di fronte a certi processi di globalizzazione
che non di rado fanno crescere a dismisura lo scarto tra ricchi e poveri a
livello mondiale. Dobbiamo denunciare chi dilapida le ricchezze della terra,
provocando disuguaglianze che gridano verso il cielo (cfr Gc 5,4). Ad esempio,
è impossibile tacere di fronte alle «immagini sconvolgenti dei grandi
campi di profughi o di rifugiati — in diverse parti del mondo — raccolti in
condizioni di fortuna, per scampare a sorte peggiore, ma di tutto bisognosi.
Non sono, questi esseri umani, nostri fratelli e sorelle? Non sono i loro
bambini venuti al mondo con le stesse legittime attese di felicità degli
altri?».
Collaborazione
Il Signore Gesù, Pane di vita eterna, ci sprona e ci rende attenti alle
situazioni di indigenza in cui versa ancora gran parte dell'umanità:
sono situazioni la cui causa implica spesso una chiara ed inquietante
responsabilità degli uomini. Infatti, «sulla base di dati statistici disponibili
si può affermare che meno della metà delle immense somme
globalmente destinate agli armamenti sarebbe più che sufficiente per
togliere stabilmente dall'indigenza lo sterminato esercito dei poveri. La
coscienza umana ne è interpellata. Alle popolazioni che vivono sotto la
soglia della povertà, più a causa di situazioni dipendenti dai
rapporti internazionali politici, commerciali e culturali, che non a motivo di
circostanze incontrollabili, il nostro comune impegno nella verità
può e deve dare nuova speranza»...
Il mistero dell'Eucaristia ci abilita e ci spinge ad un impegno coraggioso
nelle strutture di questo mondo per portarvi quella novità di rapporti
che ha nel dono di Dio la sua fonte inesauribile. La preghiera, che ripetiamo
in ogni santa Messa: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», ci obbliga a fare
tutto il possibile, in collaborazione con le istituzioni internazionali,
statali, private, perché cessi o perlomeno diminuisca nel mondo lo scandalo
della fame e della sottoalimentazione di cui soffrono tanti milioni di persone,
soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. Il cristiano laico in particolare,
formato alla scuola dell'Eucaristia, è chiamato ad assumere direttamente
la propria responsabilità politica e sociale. Perché egli possa svolgere
adeguatamente i suoi compiti occorre prepararlo attraverso una concreta
educazione alla carità e alla giustizia. Per questo, come è stato
richiesto dal Sinodo, è necessario che nelle Diocesi e nelle
comunità cristiane venga fatta conoscere e promossa la dottrina sociale
della Chiesa. In questo prezioso patrimonio, proveniente dalla più
antica tradizione ecclesiale, troviamo gli elementi che orientano con profonda
sapienza il comportamento dei cristiani di fronte alle questioni sociali
scottanti. Questa dottrina, maturata durante tutta la storia della Chiesa, si
caratterizza per realismo ed equilibrio, aiutando così ad evitare
fuorvianti compromessi o vacue utopie.
14
marzo 2007
M
CITTÀ DEL VATICANO - La Congregazione per la dottrina della
fede (ex Santo Uffizio) ha definito contrarie alla dottrina cattolica due opere
di Jon Sobrino, gesuita salvadoregno considerato uno dei padri della teologia
della liberazione. I libri sotto accusa sono «Gesù Cristo liberatore -
Lettura storico teologica di Gesù di Nazareth» del 1991, e «La fede in
Gesù Cristo» del 1999. Si tratta del primo provvedimento del genere
della Congregazione dall'elezione di Benedetto XVI. Quando Joseph Ratzinger era
vescovo di Monaco finanziò la traduzione in tedesco della tesi di
dottorato di Sobrino.
TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE - La decisione
di esaminare gli scritti del teologo gesuita, che con Leonardo Boff e padre
Casaldaliga è uno dei maggiori esponenti della Teologia della
liberazione, è stata presa nel 2001 (quando a dirigere la Congregazione
era proprio Ratzinger). Fra le affermazioni di Sobrino giudicate «pericolose»
vi quelle che mettono in dubbio punti cruciali della fede, come la
divinità di Gesù Cristo, l'incarnazione del Figlio di Dio, la
relazione di Gesù con il Regno di Dio, la sua autocoscienza e il valore
salvifico della sua morte. I rilievi critici del Vaticano a Sobrino sono di
aver valorizzato troppo la componente storica della figura di Gesù
separandola dalla sua dimensione divina.
PADRE LOMBARDI - «Sobrino è uomo che ha vissuto da
vicino l'esperienza drammatica del suo popolo, per questo ha teso a sviluppare
una "cristologia dal basso" e ha coltivato una sintonia spirituale
profonda con l'umanità di Cristo», ha commentato la notificazione della
Congregazione per la dottrina delle fede il direttore della sala stampa
vaticana, padre Federico Lombardi. «Tuttavia l'insistenza di Sobrino sulla
solidarietà fra Cristo e l'uomo non deve essere portata al punto da lasciare
in ombra o sottovalutare la dimensione che unisce Cristo a Dio».
14
marzo 2007
Nel
novembre del 2003, quando Silvio Berlusconi lasciò di stucco anche Putin
proclamandosi «avvocato» della guerra russa in Cecenia, l'opposizione di
centrosinistra lo sommerse giustamente di critiche. Non erano, le violazioni
dei diritti umani compiute dalle forze di Mosca, assimilabili alla comune lotta
contro il terrorismo internazionale.
E appariva davvero inaccettabile che un presidente del Consiglio italiano a
quelle violazioni di fatto si associasse, perché nessuna amicizia personale e
nessun interesse economico potevano cancellare d'un colpo la primazia dei
nostri valori. Oggi Vladimir Putin è di nuovo in visita in Italia,
Berlusconi è all'opposizione e il centrosinistra è al governo.
Nel tempo trascorso dal 2003 la guerra in Cecenia si è parzialmente
placata, ma sul Cremlino pesano altri capi d'accusa: una generale involuzione
autoritaria gestita dall'alto, lo scarso rispetto dei diritti democratici per
esempio nel settore dell'informazione, la totale sottomissione della Duma, le
restrizioni di legge imposte a chiunque voglia cercare una rappresentanza
politica diversa da quella ufficiale. Ebbene, sarà coerente con le
giuste critiche del
Non siamo tanto ingenui da ignorare che le bordate lanciate dall'opposizione
sono cosa diversa dalle responsabilità di governo. Basti pensare alla
Casa delle libertà che oggi vorrebbe mandare più truppe italiane
in Afghanistan, e farle combattere: direbbe la stessa cosa, se si trovasse sui
banchi dell'Esecutivo? Ma se la politica comporta fatalmente una certa dose di
gioco delle parti, esiste anche per ognuno degli schieramenti il dovere di tener
fede a principi giudicati inalienabili. E in più esiste, per il governo
guidato da Romano Prodi, quel ricorrente test della «discontinuità» cui
le manchevolezze democratiche del sistema Putin paiono prestarsi mirabilmente.
Il ministro degli Esteri D'Alema, ieri, ha dichiarato che nei rapporti con la
Russia bisogna coltivare «un impegno comune basato sui diritti dei popoli e sui
diritti umani». È un primo, cauto passo positivo. Ma al termine dei
colloqui tra Prodi e Putin che si svolgeranno oggi al Castello Svevo di Bari ci
aspettiamo di più, speriamo in una più netta e formale
riaffermazione dei nostri valori.
Non si tratta soltanto di coerenza con l'indignazione del 2003, o di
discontinuità rispetto al governo di allora. E nemmeno pensiamo che sia
giusto abbandonarsi a eccessi retorici, o ignorare le peculiarità
storiche della Russia. Ma il rispetto dovuto al grande Paese che Vladimir Putin
rappresenta non esclude, e anzi richiede in un rapporto collaudato e maturo
come il nostro, che tra i doveri governativi figuri anche quello di rendere
esplicita e percepibile la propria identità. Siamo di questa stessa
opinione quando si dialoga con la Cina o quando ci troviamo davanti agli orrori
di Abu Ghraib. Cosa potrebbe mai spingerci a essere ancora gli «avvocati» di
Putin, allora, anche se questa volta la difesa dovesse scegliere la tecnica del
silenzio?
Una possibile risposta la conosciamo: il gas, il petrolio, gli interessi
economici vecchi e nuovi. Ma Angela Merkel, se proprio abbiamo bisogno di un
esempio, resta in buoni rapporti con l'America dopo aver detto a Bush di
chiudere Guantanamo e fa affari d'oro con la Russia dopo aver strigliato Putin
sui temi della democrazia. Vogliamo sperare che oggi il presidente del
Consiglio non sia da meno.
14
marzo 2007
Il
dipartimento di Stato di Washington ha corretto il tiro nella serata di
martedì sulla notizia diffusa dall'agenzia di stampa di Tripoli Jana
secondo cui ci sarebbe stato un accordo per lo sviluppo di centrali nucleari a
scopo pacifico in Libia. «Siamo in trattativa con i libici su un progetto
destinato alla creazione di un centro di medicina nucleare. E' questa l'unica
cosa che possa giustificare l'utilizzo del termine nucleare», ha detto il
portavoce di Condoleezza Rice, Tom Casey, parlando ai reporter a Washington.
«Per il resto deve essere chiaro che non abbiamo raggiunto alcun accordo con la
Libia per la costruzione di una centrale nucleare per la produzione di energia
elettrica, non c'è alcun accordo in fase di definizione e non abbiamo
alcuna intenzione di affrontare il nodo del nucleare in tempi brevi». Libia e
Stati Uniti hanno riallacciato i rapporti diplomatici l'anno scorso a tre anni
dalla rinuncia del colonnello Muammar Gheddadi al riarmo nucleare e al sostegno
del terrorismo. «In futuro, saremo aperti a discutere sull'uso dell'energia
atomica per fini civili - ha continuato Casey - ma credo che nessuno pensi che
sia già il momento di farlo».
Ieri mattina, poche ore prima dell’atterraggio
dell’aereo presidenziale di Vladimir Putin, a Roma è sbarcato anche un altro
passeggero proveniente dalla Russia. Anzi, in fuga dalla Russia: Umar Khambiev,
ceceno, ex ministro della Sanità con il governo indipendentista di Aslan
Maskhadov e poi emissario dei ribelli ceceni in Europa, ha messo a verbale con
la polizia di frontiera italiana la sua richiesta di asilo politico in Italia.
Tutta la relativa documentazione sarebbe stata quindi trasmessa al Consiglio
italiano per i rifugiati (Cir). E oggi, mentre a Bari Romano Prodi e Vladimir
Putin presiederanno il summit italo-russo, Khambiev in una conferenza stampa
alla Camera dei Deputati racconterà la sua Cecenia, dalla quale ha
deciso di scappare. Per esempio, racconterà del suo fratello Magomed -
anche lui ex indipendentista, ora ministro nel nuovo governo filorusso - che
tre anni fa è stato costretto alla resa dai militari che gli avevano
sequestrato la famiglia.
Un argomento dimenticato, quello del Caucaso, che anno dopo anno dai primi
punti dell’ordine del giorno dei vari vertici e conferenze cui partecipa il
leader russo scende sempre più in basso, fino quasi a scomparire.
Amnesty International nei giorni scorsi ha chiesto, in una lettera inviata al
presidente del Consiglio e al ministro degli Esteri, la necessità di
«sollevare» con Putin il tema dei diritti umani in Russia, in particolare
«nella regione del Caucaso del Nord dove continuino a verificarsi detenzioni
arbitrarie, esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, rapimenti e
torture».
Per il Cremlino la guerra in Cecenia è archiviata, è in corso,
anzi si è quasi conclusa la «normalizzazione», e il nuovo presidente
Ramzan Kadyrov - «uomo di Putin», come si autodefinisce - danza quasi ogni
giorno alle inaugurazioni di aeroporti, concorsi di bellezza e conferenze per i
diritti umani, mostrando davanti alle telecamere che la sua repubblica è
sempre più felice, che «diventerà presto un luogo dove la gente
andrà in vacanza». Ma dietro le quinte di questo spettacolo la Cecenia
rimane ancora un inferno quotidiano, come sostiene anche il Comitato del
Consiglio d’Europa contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti
(Cpt). Che ieri ha deciso di rendere pubbliche le sue critiche - normalmente
inviate in forma riservata agli Stati membri - dopo che le autorità di
Mosca si sono dimostrate indisposte a intervenire sulle lacune segnalate dagli
esperti del comitato tecnico dopo le visite effettuate in Cecenia ad
aprile-maggio e novembre 2006. «Il Cpt rimane profondamente preoccupato, il
ricorso alla tortura e ad altre forme di maltrattamento da parte dei membri
delle forze di polizia e dei servizi di sicurezza continua, così come la
pratica correlata delle detenzioni illegali». Il comitato parla di «un clima di
impunità», pur riscontrando «progressi certi» nelle «condizioni
materiali di detenzione». La decisione di ricorrere ad una dichiarazione
pubblica sulla situazione in Cecenia - è stata definita «una misura
eccezionale spiacevole ma completamente giustificabile» dal segretario generale
del Consiglio d’Europa, Terry Davis.
Il Cremlino reagisce di solito con fastidio ad accuse di violazioni dei diritti
umani che vengono da organizzazioni internazionali, Ong e governi stranieri,
soprattutto occidentali. I leader delle democrazie europee affrontano sempre
più timidamente l’argomento con Putin. Ma perfino fonti ufficiali russe
segnalano un peggioramento drastico della situazione con i diritti umani: le
violazioni delle libertà civili nel 2006 sono aumentate del 47%, secondo
il rapporto dell’Incaricato per i diritti umani russo Vladimir Lukin. In 400
pagine si denuncia una giustizia corrotta e parziale, l’impennata degli
attacchi di ispirazione xenofoba, e un potere autoritario che impedisce ai
russi di esercitare i loro diritti «sociali», inclusi quelli
all’attività imprenditoriale e alla scuola. Per quanto funzionario dello
Stato russo, investito di status ufficiale e nominato dalla presidenza, Lukin
giunge alla conclusione che «i russi non si fidano del loro governo, e non
credono che esso si adoperi per garantire i loro diritti sociali, economici e
politici».
«L'arco di alleanza sarà più
ampio». «Prodi sta a palazzo Chigi, non è lui a dover costruire il nuovo
soggetto politico»
ROMA
— «Il tempo è scaduto, è il tempo
della scelta». Il presidente del Senato sta parlando del Partito democratico,
sta chiedendo che dalle assise dei Ds e della Margherita arrivi
«un'accelerazione, imposta da una realtà politica italiana troppo frammentata».
Basta questo accenno per far capire che Franco Marini non sta ragionando solo
sul futuro soggetto riformista, e la seconda carica dello Stato diventa
più esplicita quando spiega che «il tempo è scaduto» anche per
l'attuale sistema, «che va cambiato perché vive ormai da parecchi anni in
bilico, e senza una capacità di guida forte della società».
È chiaro dunque che il suo pensiero è giocato su un doppio
registro. Da un lato infatti Marini sprona la Quercia e i Dl a far sì
che i congressi di aprile siano «il momento decisivo per la nascita del Pd.
Allora bisognerà decidere. E presa la decisione, dovrà subito
iniziare la fase costituente. Il processo di maturazione c'è stato,
è durato dieci anni». Dall'altro lato, se è vero che «il nuovo
soggetto servirà a far fronte al cambiamento della società
italiana», «bisognerà garantire risposte nuove dinnanzi agli squilibri
sociali, dare certezze ai giovani preoccupati dal precariato, lanciare idee
più chiare sulla redistribuzione della ricchezza e sul superamento delle
incrostazioni corporative che bloccano la nostra società. Insomma, ci
sarà bisogno di scelte fuori dall'ordinario, altrimenti l'Italia
resterà ferma in una realtà politica impantanata».
E pensa che il Pd sarà la soluzione dei problemi?
«Intanto potrà mettere in moto un meccanismo di ristrutturazione anche
nell'altro schieramento, per rendere il sistema più efficace e
governabile. Bisognerà avere il coraggio di scommettere, perché al
più presto, entro un anno, si realizzi il progetto. Se del caso pagando
qualche prezzo. Perché non si fanno grandi operazioni politiche senza pagar
dazio. Noi non dobbiamo costruire un movimento, nè abbiamo bisogno di
rifare un nuovo, indistinto cartello di alleanze. Noi abbiamo necessità
di un partito, che non potrà assorbire tutto il centrosinistra ma che
dovrà essere in grado di orientare. Poi si faranno le alleanze con chi
è possibile farle».
Cosa vuol dire?
«Finora gli schieramenti sono stati costruiti per battere lo schieramento
avverso più che per governare. Non svelo un segreto se dico che anche
l'alleanza con cui mi sono candidato ha redatto un enorme documento
programmatico, ma non è riuscita a sciogliere certi nodi. Alcune
contraddizioni sono rimaste. E questo è un limite. Il Pd dovrà
essere un partito aperto ma omogeneo al proprio interno, capace di costruire
programmi di governo».
Quando parla di «prezzi da pagare» si riferisce al rischio di scissione nei
Ds?
«Le scissioni dispiacciono, spero che nel Pd vengano tutti. Ma che a sinistra
del soggetto riformista si identifichi un'area con cui poter costruire alleanze
efficaci, non mi pare un dramma. D'altronde un'area a sinistra c'è, e lo
ritengo un fatto positivo se sarà più caratterizzata, capace di
dialogare e di costruire in futuro un'alleanza seria per governare».
Questo vuol dire che il futuro Pd potrebbe guardare anche ad altri tipi di
alleanze, magari con un'area di centro?
«Quando si ristrutturerà il sistema politico, con un Pd ormai affermato,
l'arco delle possibili alleanze naturalmente sarà più largo.
Abbiamo deciso di essere alleati con chi sta alla nostra sinistra, sebbene
siano evidenti dei limiti nell'azione di governo. Penso sia naturale continuare
il dialogo, ma non è possibile precostituire da ora il futuro».
L'accelerazione verso il Pd serve anche per evitare che un'eventuale crisi
di governo travolga il progetto?
«Non vedo nessun automatismo tra le due questioni. Certo, una crisi di governo
non aiuterebbe un progetto così importante, mentre la sua tenuta sarebbe
una garanzia per uno sviluppo ordinato del processo».
Questo processo porterà Prodi alla guida del partito, o visto che
Prodi è premier sarà opportuno che un altro si impegni al suo
posto?
«Prodi è il leader del centro-sinistra che guida il governo. Proprio per
questo saranno altri a dover gestire la fase di costruzione del partito. Poi si
vedrà, e tra i possibili leader ci sarà anche Prodi».
Senta, con Rutelli come va? Si dice che i rapporti tra voi si siano
ultimamente raffreddati...
«Per due dirigenti che hanno militato e militano nello stesso partito ci
dev'essere sempre l'accordo. Poi, come in ogni famiglia, ci sono alti e bassi».
Nella Dc i doppi incarichi non hanno mai portato bene: prima Fanfani, poi De
Mita, ne hanno pagato le conseguenze. Rischia anche Rutelli?
«Portare avanti per lungo tempo incarichi di grosso peso e di grande impegno
può essere gravoso. Ma osservando dall'esterno la vita del partito da
cui provengo, ho visto che c'è stata la saggezza di mettere al
coordinamento della Margherita, dunque a tempo pieno, un dirigente come Soro
che sta lavorando con impegno e serietà».
In Francia è vigilia di presidenziali: farà il tifo per il
centrista Bayrou nella corsa all'Eliseo?
«Da parlamentare europeo ho avuto modo di conoscerlo bene. So che è un
politico capace, espressione di una Francia profonda che avverte, se non il
fastidio, il peso di una semplificazione dello scontro politico tra
conservatori e socialisti che non risponde più alla complessità
di quel Paese. Proprio per questo lo vedo molto competitivo, in grado di
ottenere un ottimo risultato. Ovviamente spero che vinca».
Peccato che i Ds, con cui dovrete fare il Pd, sostengano la socialista
Royal...
«È del tutto naturale che facendo parte della famiglia socialista
facciano il tifo per lei».
Ma questa differenziazione tra voi e i Ds ripropone l'eterno dilemma: dove
siederà nell'Europarlamento il Pd? Finirà tra i banchi dei
socialisti, come annuncia il capogruppo Schulz?
«Mettiamo da parte le spigolosità di Schulz, che non sempre sono
gradevoli. E diciamo anche che non è un'offesa stare tra i
socialdemocratici europei. Non lo sarebbe in linea di principio nemmeno per me.
Io dico però che ha ragione Prodi quando spiega che questo problema va
risolto dopo, quando insieme stabiliremo quale sarà la collocazione più
rispondente alla natura del Pd».
Parisi sostiene che il nuovo soggetto, così come si sta costruendo,
è a rischio perché «manca la politica» e tutto sembra ruotare attorno ad
«accordi di vertice».
«Riconosco a una personalità come Parisi un impegno che non è mai
venuto meno sulla costruzione del Pd. È un uomo volitivo, caratterizzato
magari da alti e bassi di umore. Però - ne sono certo - non farà
mancare il suo apporto alla realizzazione del progetto».
Perché fare ora la legge elettorale, visto che mancano ancora quattro anni
alla scadenza della legislatura?
«Considero la riforma elettorale una priorità perché va corretto lo
squilibrio che l'attuale sistema ha provocato nelle due Camere, e perché va
restituito al cittadino il diritto di scegliere il proprio candidato. Inoltre,
poiché in questa legislatura nessuno può prevedere l'evolversi della
situazione, e se tra uno, due, tre anni ci sarà una stabilizzazione o
un'accelerazione verso le urne, da presidente del Senato mi preoccupa il fatto
che l'attuale meccanismo di voto resti in vigore. Questo è un rischio
troppo grande per il Paese. Bisogna eliminare il rischio, tenendo presente che
la Costituzione non prevede l'automatico ritorno alle urne dopo il varo della
nuova legge elettorale».
A proposito di rischi: riferendosi alla proposta di maggioranze variabili
formulata dal ministro Amato, lei ha paventato il timore che la
«variabilità finisca per toccare il governo».
«In genere si parla di maggioranze variabili quando uno la maggioranza ce l'ha,
e può pensare di allargarla in una direzione o nell'altra. Ma al Senato
il centro- sinistra dispone di una maggioranza risicata. In questa situazione
non ha senso parlare di maggioranze variabili, sono impraticabili. Piuttosto su
temi di interesse nazionale ci possono essere convergenze tra maggioranza e
opposizione, ed è una cosa nobile, che io auspico».
A forza di raccogliere complimenti come presidente del Senato, non pensa che
verrà invitato a cambiar palazzo? Magari palazzo Chigi...
«Due cose. La prima è che palazzo Chigi è occupato, e per me ben
occupato. La seconda è che il politico che si fa lusingare dai
complimenti è perlomeno un ingenuo, per non usare una parola che
renderebbe meglio l'idea».
14 marzo 2007
C’è quasi da chiedersi se, parlando di Partito democratico, il famoso
«modello Roma» stia funzionando al rovescio di come dovrebbe. Un interrogativo
politico cui è ancora presto per dare una risposta certa. Per ora parlano
alcuni numeri e dicono che la mozione di Piero Fassino per il Partito
democratico, che in tutta Italia viaggia non lontana dall’80 per cento, nella
capitale è ferma a quota 59. Con la prospettiva della scissione agitata
sia da Mussi che da Angius, non è rassicurante per Fassino sapere che
finora in città quasi un iscritto su due è ostile o scettico sul
Pd. La Margherita romana, che ha appena celebrato il suo congresso all’insegna
della parola d’ordine «Noi per il Partito democratico», ha vissuto giorni
difficili tra divisioni di corrente, tesseramento sospetto e affluenza
contestata: le cifre ufficiali dicono che nel fine settimana all’hotel Ergife
hanno votato circa 15 mila dei 49 mila aventi diritto, ma secondo fonti del
partito i votanti effettivi sarebbero poco meno di 4 mila. Insomma, nonostante
il convegno dell’altroieri al teatro Eliseo partecipato da un pezzo importante
della futura classe dirigente democratica, da Goffredo Bettini a Nicola
Zingaretti passando per Piero Marrazzo (ma pressoché disertato dai Dl), a Roma
- peraltro feudo politico di due leader ultrademocrat come Francesco Rutelli e
Walter Veltroni - il Pd non sembra partire sotto i migliori auspici.
Il coordinatore uscente della Margherita Roberto Giachetti, che non ha ricucito
col successore Riccardo Milana e non ha gradito l’accordo di quest’ultimo con
lo sfidante popolare Lucio D’Ubaldo («Penso che le differenze esistenti al
nostro interno avrebbero dovuto trovare una chiara rappresentazione al momento
del voto», ha scritto Giachetti sul suo blog) è in sciopero della fame
per chiedere una data certa per la Costituente del nuovo partito e teme che
Roma possa risultare il laboratorio della disaffezione al Pd: «Abbiamo lasciato
troppo tempo il progetto a bollire. Se continuiamo di questo passo non
sarà Roma il problema, ma l’Italia tutta».
Sulle modalità di distribuzione del
«dividendo fiscale» scende in campo la maggioranza e pone sul tavolo della
trattativa anche l'eventuale introduzione nel Ddl delega in materia di
tassazione delle rendite finanziare, in discussione alla Camera, anche
l'aliquota unica del 20% sugli affitti.
Probabilmente la prossima settimana — ha annunciato ieri la capogruppo
dell'Ulivo in commissione Finanze della Camera, Laura Fincato — si terrà
un vertice dell'Unione sui nodi del Ddl delega. Si tratta, in primo luogo, di
stabilire le modalità di attuazione del nuovo meccanismo di prelievo al
20% per tutti i redditi di capitale e dei redditi diversi di natura
finanziaria. Sarà al tempo stesso l'occasione per fare il punto sulle
proposte emerse finora all'interno del Governo, su come articolare lo sconto
fiscale che va emergendo per il buon andamento delle entrate tributarie.
Cifre certe ancora non ce ne sono. Si attendono i dati della Trimestrale di
cassa, in arrivo entro una decina di giorni. Secondo quanto deciso due sere fa
nel vertice serale a Palazzo Chigi tra il premier Romano Prodi,i vice premier
Francesco Rutelli e Massimo D'Alema e i ministri economici, non appena i dati
della Trimestrale saranno disponibili si aprirà il confronto in sede
politica e con le parti sociali sul complesso delle questioni sul tappeto: il
dividendo fiscale, ma soprattutto la riforma della previdenza con annesso
riordino degli ammortizzatori sociali,il nodo dei contratti pubblici.
In primo piano il pacchetto casa.Sul tappeto al momento restano due opzioni:
abolizione
tout court dell'Ici per la prima casa,
per un costo di 2,7 miliardi su un gettito totale pari a 10 miliardi ( ieri
rilanciata dal sottosegretario all'Economia, Mario Lettieri, che propone la
strada del decreto legge); incremento delle detrazioni a beneficio delle
famiglie con più figli, per un costo che si aggira attorno ai 2
miliardi. Il tutto andrà coordinato con la revisione degli estimi
catastali. L'idea che sembra emergere in queste ore (soprattutto in seno alla
maggioranza) è di inserire nel pacchetto anche l'aliquota unica del 20%
sugli affitti. Ipotesi emersa nel corso della fase preparatoria della
Finanziaria, poi accantonata.Il mancato gettito è quantificato in 1,5
miliardi, che sarebbe compensato da una stretta sull'evasione degli immobili.
Il complesso di misure allo studio prevede anche sconti, sotto forma di maggiori
detrazioni, a beneficio sia degliinquilini che dei proprietari.
Si segnala nel frattempo la decisione assunta dal Comune di Roma di ridurre
l'Icisullaprima casa dal 4,9 al 4,6 per mille e di aumentare al tempo
l'addizionale Irpef dallo 0,2 allo 0,5 per cento.
Una volta decisa in sede politica la priorità degli interventi, si
individuerà il veicolo normativo. L'inserimento dell'aliquota unica del
20% sugli affitti nel Ddl delega sembra essere la strada più lineare,
anche se al momento non si esclude che la nuova misura possa essere introdotta
in Finanziaria, per entrare in vigore con certezza nel
Al ministero dell'Economia domina la prudenza. Soprattutto perché ancora non
è chiaro a quanto ammonti effettivamente la cifra disponibile
nell'immediato né quali siano le reali priorità che il Governo
deciderà di perseguire. Appare improbabile che vi siano risorse sia per
il «dividendo fiscale» sia per il riordino degli ammortizzatori sociali (che
costa 2,5 miliardi), tanto per citare due delle questioni sul tappeto. Poi si
tratta di metter mano ai cosiddetti«incapienti », e incrementare le pensioni
minime, secondo quanto annunciato da Prodi. Infine, per la Finanziaria 2008, si
prepara un pacchetto di sconti per i redditi oltre i 40mila euro.
L'arcivescovo di Milano: lavoriamo insieme
per andare avanti ed evitare scontri il percorso Dobbiamo saper parlare anche alle
persone che sono lontane dalla Chiesa Va fatto uno sforzo le regole I contenuti
del Vangelo sono quelli e sui principi non si possono fare sconti. Ma anche lo
stile è importante il perdono Se la comunità cristiana non
è compatta non è credibile. Ma sia compatta nel perdono la
sofferenza Bisogna stare vicino a tutte le famiglie, soprattutto a quelle che
soffrono, magari senza saperlo ZITA DAZZI DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME -
"I contenuti del Vangelo sono quelli, e sui principi non si possono fare
sconti. Ma l'importante è lo stile, il modo di proporre questi contenuti
anche alle persone che sono lontane dalla chiesa. L'importante è lo
sforzo di andare avanti e riprendere il dialogo, giorno dopo giorno". Il
cardinale Dionigi Tettamanzi parla a Nazareth, dopo una messa nella basilica
dell'Annunciazione, nel primo giorno di un pellegrinaggio della Diocesi
ambrosiana. E' alla guida di 1300 fedeli arrivati in Terrasanta per festeggiare
gli 80 anni di Carlo Maria Martini. Ma all'arcivescovo di Milano, che celebrerà
a Gerusalemme anche i suoi cinquant'anni di sacerdozio, ancora una volta preme
sottolineare che la Chiesa deve restare unita, evitare le spaccature. L'altro
invito esplicito, nel momento più apro del dibattito sui temi della
famiglia, è quello affinché si cerchi una mediazione anche col mondo
politico, senza sfoderare un'intransigenza "senza perdono".
Arcivescovo, quest'anno ha impostato il percorso pastorale di Milano sul tema
della famiglia, sollecitando i parroci a dare ascolto a tutte le famiglie,
anche a quelle che non vivono secondo la regola cattolica, quelle non sposate.
"Bisogna stare vicino a tutte le famiglie, soprattutto a quelle che
soffrono, a quelle che hanno più bisogno e pensano magari di non averne
bisogno. Comunque se non ci sta la chiesa, vicino a queste famiglie,
sicuramente sta vicino a loro il Signore, il Gesù della croce e della
gloria". Ma quali sono i problemi della famiglia oggi? "Oggi
c'è una miriade di problemi che affliggono le famiglie, anche quelle che
in teoria vivono bene da un punto di vista economico e culturale. Anche le
famiglie cattoliche che partecipano alla vita della comunità cristiana e
alla vita sociale. Tutte queste sono famiglie messe alla prova". Ma in
questo momento, il dibattito politico sui problemi della famiglia moderna
è così difficile che sembra quasi non ci sia margine di dialogo.
"Non bisogna dimenticare che proprio nel Vangelo ci sono due prospettive
che si incrociano continuamente, che sono la prospettiva del cammino ricco di speranza
e quello del cammino faticoso, che ci fa restare impalati di fronte alle
difficoltà, che a volte ci fa venire la tentazione di rinunciare".
Qual è l'insegnamento? "Quando arriva questa sensazione di
sconfitta bisogna pensare che insieme si può superare l'ostacolo. E questa
esigenza di lavorare insieme non riguarda solo l'appello affinché lavorino
assieme le istituzioni, le varie forze sociali, il volontariato. E' un
"insieme" che deve valere anche dentro alla Chiesa, come è
scritto nel Dna metodologico della comunità cristiana". Bisogna
evitare spaccature all'interno del mondo cattolico o spaccature a livello
politico? "Se la comunità cristiana non è compatta, non
è affatto credibile. Ma l'unione è sempre un'unione nel perdono,
non nello scontro. Chi non è capace di perdonare non è capace di
amare. Siamo tutti poveri nell'amore perché l'istinto che ci prende e ci domina
non è quello del perdono, ma della vendetta, della divisione". Ma
ci sono dei principi sui quali è difficile trovare un'intesa fra laici e
cattolici. "L'importante non sono tanto le parole dette. Anche
queste vanno pronunciate, perché si verrebbe meno alla fedeltà
ministeriale. Ma ciò che conta è lo sforzo che tutti quanti
assieme cerchiamo di fare un passo in avanti, vivendo, magari a fatica, ma con
convinzione, con capacità di riprendere il dialogo giorno dopo giorno e
di vivere la coerenza".
Ma il rapporto Stato-Chiesa resta irrisolto
nei due schieramenti
L'
illusione un po' superficiale di una Cei «liberata» dal cardinale Camillo
Ruini, e dunque meno arcigna verso l'Unione, sta già tramontando. Il
martellamento di Benedetto XVI sulle leggi «contro la natura» che «politici e
legislatori cattolici» non dovrebbero votare, non lascia margini. E il
riferimento alla «coppia dell'uomo e della donna» come «nucleo fondante di ogni
società», fatto ieri dal neopresidente della Cei, Angelo Bagnasco,
chiude il cerchio di una continuità rocciosa. I rapporti fra Santa Sede
e centrosinistra riemergono tormentati come prima.
Il modo stentoreo col quale la sinistra governativa denuncia l'«ingerenza
vaticana», è la replica di un'incomunicabilità vistosa; e di
categorie culturali datate, incapaci di rimodellare il dualismo Stato- Chiesa.
Ma non offre novità neppure il sostegno acritico e a volte strumentale
del centrodestra alle parole del Papa. Silvio Berlusconi è già
immerso in una lunga campagna elettorale senza data del voto. E sembra
scegliere il binomio Chiesa- ordine per logorare il governo. Le lodi al
Pontefice e la presenza alla marcia del sindaco Letizia Moratti a Milano
appaiono pezzi della stessa strategia.
Per l'Unione lo scontro assume contorni taglienti. La legge sulle unioni di
fatto è in bilico. Ministri come Mastella e singoli eletti anticipano
che non voteranno il provvedimento con una convinzione più forte che nel
passato. Non significa che sono diventati numerosi: è solo più
debole il fronte dei «Dico». E la pressione vaticana aumenta dopo le dimissioni
di Ruini del 7 marzo.
Il rettore dell'ateneo Lateranense, monsignor Rino Fisichella, annuncia che la
Cei discuterà la «Nota impegnativa» sulle unioni di fatto il 26 marzo,
quasi in parallelo col Parlamento: una coincidenza quasi minacciosa. Ma
soprattutto, le parole del Papa contengono espressioni che sono riferite alla
situazione italiana. Si conferma un'offensiva concentrata sul Paese considerato
la «vetrina» più vicina e strategica del cattolicesimo.
Non è detto che la pressione abbia successo. Ma sulla carta, al Senato i
voti non bastano. E comunque, per il Vaticano il risultato sembra meno
importante dell'esigenza di affermare principi «non negoziabili». Su questo
sfondo, la sintonia che il centrodestra accredita viene incassata oltre Tevere,
senza rilasciare deleghe. Ma per i cattolici al governo la situazione si
complica. Il loro sforzo di distinguere fra laicità e convinzioni
religiose potrebbe assumere contorni laceranti. Anche perché a tracciarli ora
è Benedetto XVI: l'«alibi Ruini» è caduto.
Massimo
Franco
14
marzo 2007
Contrapponendo la «Chiesa di Ruini» a quella di
Agostino, Pascal, Maritain, Martini, la Chiesa del «potere» a quella del
«vangelo», Eugenio Scalfari ha dato su Repubblica (11 marzo 2007) l'ennesima
prova di quel gusto per l'aut-aut col quale si cerca, da che mondo è
mondo, di ridurre la complessità del reale, radicalizzando, cioè
cercando di portare alle radici, questioni che meglio andrebbero trattate
considerando dell'albero, oltre che le radici, anche il tronco, i rami, le
foglie. Fuor di metafora, non ottiene altro effetto se non quello (paradossale)
di impoverire la complessità del mondo colui che, come Scalfari, ne
irrigidisce la percezione, semplificandola in schemi binari. Sfugge al
fondatore di Repubblica la specificità dell'apporto cattolico alla
lettura delle cose, che in pagine insuperate Jean Guitton riassunse nella
logica dell'et-et, ben diversa appunto da quella dell'aut-aut. Il cattolico
è infatti chiamato a tenere insieme dimensioni (formalmente)
contraddittorie, così come è (ma solo formalmente)
contraddittoria l'idea che Dio possa farsi uomo: per il cattolico è
indispensabile, per capire il mondo, coniugare libertà e ubbidienza,
peccato e grazia, tempo ed eternità, Stato e Chiesa, impegno per il
mondo e fuga da esso, ragione e fede, matrimonio e celibato e (perché non dirlo?
Mai tema è stato così di moda come è oggi questo) uomo e
donna. È vero, come sostiene Scalfari, che ci sono due anime nella
Chiesa cattolica? Certo che è vero. Ma queste due anime, cioè il
Vangelo e il potere, sono convergenti e non divergenti e vanno sapientemente
coniugate. Il Vangelo non si sostanzia infatti in un messaggio spiritualistico,
etereo, sospiroso ed emotivo: la parola di Dio si inserisce ed opera nella
storia e può essere tagliente come una spada. E il potere, letto alla
luce dell'insegnamento del Cristo, cioè come servizio, non solo non
è contrapposto al vangelo, ma diventa una via per attuarlo. Chi ha un
potere - questa è l'essenza dell'insegnamento cristiano - non deve
vergognarsene, né è tenuto a spossessarsene; ha piuttosto il dovere di
usarlo (naturalmente purché e nei limiti in cui ne sia capace) con una
finalizzazione esclusiva, quella al servizio dei fratelli, della
comunità e in definitiva del genere umano, nel nome cioè del bene
materiale e spirituale di tutti. Ecco perché il Cristo, nella conclusione del
Vangelo secondo Matteo, non esita a porre con fermezza la sua stessa persona al
centro del potere («data est mihi omnis potestas in caelo et in terra»), come
fondamento del mandato evangelizzatore che affida ai suoi discepoli. Ed ecco
perché il termine di Signore, col quale così di frequente i discepoli
alludono al Cristo nei Vangeli, pur appartenendo chiaramente al lessico del
potere, non desta nessun sentimento di timore o di diffidenza: quel Signore, al
quale il cristiano affida la sua vita, può essere altrettanto
legittimamente denominato come Salvatore. Ai laici, dice Scalfari, a quei laici
che predicano «libertà, democrazia, tolleranza» piace la Chiesa di
Pascal. Sono lieto di apprenderlo, dato che per i padri nobili del laicismo
moderno (basti pensare a Voltaire o più di recente a Bertrand Russell)
quello di Pascal è un nome che genera solo imbarazzo. In una delle sue
pensées Pascal, infatti, sostiene una tesi che - ove presa sul serio -
obbligherebbe il laicismo relativistico moderno a dilatare a dismisura la
propria sensibilità: «se non si ama la verità - scrive Pascal -
non si è capaci di conoscerla». "Libertà, democrazia,
tolleranza" sono infatti una triade splendida, che facciamo nostra senza
alcuna difficoltà. Ma ad essa premettiamo l'amore per la verità,
un amore operoso, attento alle persone e alle cose, che non ha paura del
potere, quando si manifesta nella logica di un servizio attento e intelligente
al bene umano.
+ La Stampa 13-3-2007 Legge elettorale, Prodi incontra la Lega
La Repubblica
13-3-2007 Perché abbiamo bisogno del Partito democratico VINCENZO CERAMI
Quotidiano.net 13-3-2007 Un italiano su tre è
vittima di truffe Ricerca della Confesercenti.
Punto informatico 13-3-2007 Scatto alla risposta. La
prudenza di Bersani D.B.
Il Corriere della Sera 12-3-2007 Caso Giuliani, la
Corte Ue accoglie ricorso
La Stampa 12-3-2007 "L'Annunciazione" di
Leonardo in viaggio verso Tokyo
A palazzo Chigi sono arrivati il coordinatore
delle segreterie della Lega, Roberto Calderoli e il capogruppo alla Camera,
Roberto Maroni
ROMA
Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, ha avviato oggi i colloqui con gli
esponenti dell’opposizione sulla riforma della legge elettorale. A palazzo
Chigi i primi colloqui sono avvenuti con i membri del Carroccio: il
coordinatore delle segreterie della Lega, Roberto Calderoli e il capogruppo alla
Camera, Roberto Maroni. Agli incontri partecipa anche il ministro per i
Rapporti con il Parlamento e le Riforme, Vannino Chiti.
Prima dell’incontro con la delegazione della
Lega sulla legge elettorale a palazzo Chigi, il premier Romano Prodi ha sentito
al telefono il leader del Carroccio, Umberto Bossi per fare il punto della
situazione.
I COMMENTI DI CALDEROLI
«Il presidente del Consiglio ci ha illustrato la sua iniziativa di ricognizione
informale sulla legge elettorale» spiegando che il ruolo del «governo è
di facilitatore e non certo di legislatore». Lo ha riferito il leghista Roberto
Calderoli in una conferenza stampa a Palazzo Chigi al termine dell’incontro con
Romano Prodi, Vannino Chiti e Enrico Letta sulla legge elettorale.
«Il governo non auspica il referendum, ma quello di un’attività
legislativa del Parlamento - ha spiegato Calderoli - però il referendum
è stato un pungolo per accelerare l’iter. E per questo ha chiesto qual
è la nostra posizione. La Lega è sempre disponibile quando si
tratta di occuparsi di questo tipo di riforme» a patto però, ha
precisato, che ci sia la garanzia che non tenga il referendum. «Per le riforme
serviranno un paio di anni - ha proseguito Calderoli - da qui alla fine di
questo tavolo di chiacchierate di conversazioni informali verificheremo qual
è la proposta. Bisogna evitare che l’avvio di riforme possa lasciare
aperta la porta al referendum. Bisogna avere la certezza che il referendum non
possa modificare la legge elettorale».
I COMMENTI DI MARONI
«Se si trova l’intesa bene, altrimenti si va al referendum e ognun per
sè». Lo ha detto Roberto Maroni, capogruppo della Lega alla Camera, al
termine dell’incontro con Romano Prodi, Vannino Chiti ed Enrico Letta a Palazzo
Chigi sulla riforma della legge elettorale. Un incontro, ha sottolineato
Maroni, dove dall’inizio è stato riscontrato «un clima positivo» che lo
ha fatto durare oltre un’ora anziché «un quarto d’ora». Per questo «siamo
ottimisti» e, ha aggiunto Maroni, «con tutte le cautele del caso mi pare che ci
siano le condizioni per fare una cosa utile e interessante».
CITTA'
DEL VATICANO
Benedetto XVI pubblica oggi la sua «Esortazione Apostolica» sull’eucarestia,
che «La Stampa» è in grado di anticipare, e lancia un monito severo ai
politici e ai legislatori cattolici che, «consapevoli della loro grave
responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati
dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi
ispirate ai valori fondati nella natura umana».
E’ ovvio che il Pontefice, in questo ampio documento (centosessanta pagine) che
raccoglie il lavoro di quasi un mese di vescovi di tutto il mondo, riuniti
nell’ottobre scorso a Roma per un «Sinodo» su questo tema, non ha in mente
solo, o particolarmente, l’Italia e la battaglia dei Dico; ma la
traducibilità in termini italiani è agevole e immediata. Il Papa
parla di «coerenza eucaristica»; il culto a Dio non è mai un atto
meramente privato, ma «richiede la pubblica testimonianza» della fede. E questo
è vero «con particolare urgenza» per quelli che devono prendere
decisioni a proposito di valori fondamentali, «come il rispetto e la difesa
della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia
fondata sul matrimonio fra uomo e donna, la libertà di educazione dei
figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme. Tali valori - ammonisce
Benedetto XVI - non sono negoziabili». E non si chieda alla Chiesa di tacere:
«I vescovi sono tenuti a richiamare costantemente tali valori: ciò fa
parte della loro responsabilità nei confronti del gregge loro affidato».
E’ una presa di posizione che, per la sua autorevolezza, lo strumento usato
(un’ «Esortazione Apostolica») e il fatto di avere origine da un Sinodo
mondiale, segnato perciò da una partecipazione collegiale e qualificata
di vescovi, ha un peso molto forte. In questa luce, anche il tanto atteso
documento della Cei sui Dico (la cui uscita potrebbe slittare a maggio) ne
verrà certamente condizionato.
Il documento - intitolato «Sacramentum Caritatis» - copre un ventaglio
vastissimo di temi: dalla confessione, al celibato sacerdotale, alle
nullità matrimoniali, al canto gregoriano fino alla posizione del
tabernacolo nella chiesa, e a come organizzare la domenica. Fra l’altro, viene
raccomandata «una equilibrata e approfondita prassi dell’indulgenza, lucrata
per sé o per i defunti». L’indulgenza, che come è noto fu una delle
cause dello scisma protestante, prevede la confessione personale; e il papa
esorta a «favorire la confessione frequente», e a non usare l’assoluzione
generale se non in casi eccezionali. Ma vediamo alcuni punti del documento.
Celibato. I sacerdoti devono sapere che il loro ministero «non deve mai mettere
in primo piano loro stessi o le loro opinioni, ma Gesù Cristo». Cristo
ha vissuto la sua missione «nello stato di verginità», e questo è
il punto di riferimento della tradizione della Chiesa latina. Il sacerdote
sposa la Chiesa; e allora, «in unità con la grande tradizione
ecclesiale, con il Concilio Vaticano II e con i sommi pontefici miei
predecessori, ribadisco la bellezza e l’importanza di una vita sacerdotale
vissuta nel celibato... e ne confermo quindi l’obbligo per la tradizione
latina». Divorziati risposati. Non possono essere ammessi ai sacramenti, perché
«il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono
quell’unione di amore fra Cristo e la Chiesa che è significata ed
attuata nell’Eucarestia». Se c’è un dubbio sulla validità del
primo matrimonio, bisogna rivolgersi ai tribunali ecclesiastici, ma
fondamentale è «l’amore per la verità». Tradotto: niente manica
larga con i riconoscimenti di nullità. Se la nullità non
c’è, e però la convivenza è «irreversibile», se vogliono
accostarsi ai sacramenti gli interessati devono vivere «come amici, come
fratello e sorella».
Latino e gregoriano. Per le liturgie di massa: «E’ bene che tali celebrazioni
siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere
più note della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani
in canto gregoriano». E i futuri sacerdoti «fin dal tempo del seminario» siano
preparati a celebrare in latino, «nonché ad utilizzare testi latini e a
eseguire il canto gregoriano». E in generale, la liturgia non può
«subire il ricatto di mode del momento».
Gli
esperti ci ricordano che in Italia la politica si fa per telefono e nei
salotti, che ha un linguaggio autoreferenziale. E che il potere di cambiare le
cose sta strettamente nelle mani di chi non ha alcun interesse a cambiarle.
Probabilmente hanno ragione, e per questo è necessario un grande
scossone per riportare la politica nel suo ambiente naturale, tra i cittadini.
Un grande Partito Democratico è l'occasione giusta. I politologi dicono
che le belle parole sono l'abito elegante di chi invecchia. Sarà vero,
ma chi non pronuncia belle parole è condannato a vivere nel brutto e nel
vuoto. Questa nostra epoca ci vuole tutti uguali, nei modi di essere e nei
consumi. è cattiva scuola quella che tenta di far somigliare tra loro
gli alunni. Il suo compito principale è semmai l'esatto contrario: fare
in modo che tutte le individualità siano differenti e irripetibili. La
coabitazione di persone diverse tra loro, ognuna con la propria storia e la
propria personalità, è più viva di un ricovero nel quale
tutti portano il medesimo distintivo, e poco hanno da dirsi giacché, appunto,
si somigliano. La politica italiana, per come sono andate le cose nel passaggio
dalla prima alla seconda repubblica, ha oggi necessità di aprire spazi
vitali a vaste parti della popolazione, fino a ieri frazionate e circoscritte
in aree chiuse, generate dal percorso della storia. Bisogna prendere atto che
il sistema tradizionale dei partiti non corrisponde più alla
società del nostro tempo. Vanno buttate giù le pareti che fanno
da confine, e lasciare circolare, in un ambito più ampio e arioso, idee
ed esperienze diverse, ma legate dal comune desiderio di un grande balzo in
avanti del nostro paese, sul piano della giustizia, della civiltà e del
benessere. Le giovani generazioni, che del passato non hanno
responsabilità e memoria, faticano a riconoscere nei partiti attuali le
loro idealità e aspettative. Li vivono come sopravvivenze, se non
proprio come stanze del Palazzo. Eppure sono proprio i ragazzi e le ragazze ad
avere necessità assoluta di politica, di credere nella politica. Il
Partito Democratico, di cui tanto si parla negli ultimi mesi, è la
grande opportunità per dare una spallata al vecchio e cominciare a
costruire il futuro, per creare un clima di fiducia e di partecipazione di
tutti alla crescita dell'Italia. Non hanno senso le recriminazioni, le
nostalgie, le impuntature di principio, la difesa degli orticelli, la vaghezza
dei progetti chimerici, e l'aridità del pragmatismo di cui sono
portatori i partiti tradizionali. Così come rallenta - quando non
avvelena - la crescita della politica, l'arroccamento dei quadri al dirigismo e
al personalismo. Il Partito Democratico apre le porte che fino a ieri tenevano
separati laici e cattolici, democratici di De Gasperi e democratici di
Berlinguer, democratici di Nenni e democratici cristiani? Liberarsi di quei
cancelli, mischiando le diversità sotto la stessa bandiera, svuota di
senso i vecchi conflitti, vanifica ogni spirito di supremazia, fa nascere un
nuovo senso di appartenenza, più esteso, ben disposto agli scambi di
esperienze e di culture. Comune denominatore e collante saranno la
continuità della tradizione democratica e l'unanime impegno a creare il
futuro migliore che vorremmo avere, lasciando nel magazzino tutto quanto del
passato, seppure glorioso, è diventato zavorra. I giovani non dovranno
rimettere in piedi una macchina scassata, ma imparare a costruirne una nuova di
zecca, bella e che corra a gran velocità, per affrontare le nuove sfide
culturali, economiche, tecnologiche. In questo nuovo, spazioso partito si
può passeggiare, bivaccare, fare festa, discutere e progettare tra amici
che hanno scelto di separare l'interesse personale da quello generale, che
hanno scelto di stare assieme per essere più forti e dar vita a un'Italia
viva, creativa, efficiente. Il nostro paese ha potenzialità e
intelligenze indiscutibili, sa produrre con estro e cultura, sa coniugare
fantasia e scienza. Gli basta ritrovare fiducia in se stesso, e anche la
tradizionale, straordinaria vocazione all'allegria. I giovani, che sono il
nostro futuro prossimo, hanno bisogno di grandi principi, più forti
della mitologia consumistica diffusa dal mercato. Cercano valori basilari in
cui trovare un'identità sia personale che collettiva, una cultura ricca
che li faccia crescere fuori da ogni condizionamento, nella certezza di un
domani sereno. Hanno diritto a una politica che rispetti la sacralità
dell'uomo e l'integrità dell'ambiente in cui vive. Chiedono già
oggi che la politica ritrovi il suo ruolo di distributore di giustizia, senza
porsi al servizio di interessi particolari, di lobby nazionali e
internazionali. Vogliono viaggiare per il mondo con l'orgoglio di essere
italiani, e non portare il loro talento all'estero perché qui da noi mancano le
occasioni di lavoro. è un nuovo clima che il Partito Democratico deve
far nascere in Italia, un entusiasmo che spinga all'invenzione e alla fantasia,
in ogni campo, nel lavoro, nell'arte, nell'imprenditoria. Quindi
liberalizzazioni, alleggerimenti burocratici, stimoli all'iniziativa,
opportunità di esprimere le proprie capacità. Ottimismo. Non
abitiamo il migliore dei mondi possibili, lo sappiamo benissimo. E non serve a
niente chiederci perché. O lo rifiutiamo o cerchiamo di viverci. Un partito
politico serve a rendere vivibile anche un mondo poco aggraziato. Il Partito
Democratico non può accontentarsi della somma algebrica dei partiti
dell'Ulivo. Dovrà essere un territorio aperto a tutti gli italiani che
hanno a cuore la sorte del loro paese, delle loro famiglie, dei loro figli. Non
importa la provenienza politica d'origine. Sarebbe da augurarsi,
paradossalmente, che un giorno si decida di tirare a sorte la posizione degli
schieramenti nel Parlamento. Che la destra sieda a sinistra, e viceversa. Non
ha alcun senso ispirarsi a un costume passato che non ha più agganci col
presente. La società di massa è una realtà definitiva e
irreversibile. Le differenze non sono più ideologiche, ma fanno
riferimento a un'etica generale con cui si guarda al mondo. Il Partito
Democratico si fonda sulla difesa dei diritti di chi è socialmente
più fragile. Coniuga realismo politico e difesa delle scelte e dei
diritti di tutti. Combatte per la salvaguardia della natura. è per la
laicità dello Stato e contro la pena di morte. è per
l'Europa unita, e contro ogni forma di discriminazione. Opera per la
libertà e il pluralismo dell'informazione. Ha nel gene il principio
della concertazione. Non accetta la guerra come merce di scambio. Al contrario
di chi gli si oppone, sa valutare la centralità della cultura in una
società evoluta. Una sua parte consistente ha rifiutato lo statalismo.
Combatte i moralismi, ed è attenta ai grandi fenomeni sociali che hanno
bisogno di giustizia e di legalità. è più che mai vicino
agli interessi delle aziende che creano benessere e posti di lavoro. Valorizza
l'incontro delle culture e l'integrazione dei nuovi italiani, opera per la
crescita e l'autonomia dei paesi poveri. Deplora e cerca di vincere l'odiosa
evasione fiscale. Rispetta i poteri dello Stato. Opera affinché nel
nostro paese le istituzioni assumano il proprio ruolo costituzionale super
partes, agendo lontano dai partiti. Pone la scuola pubblica al centro della sua
attenzione, in quanto luogo del sapere e motore del futuro, sia per gli agiati
che per i meno agiati. Intorno a questa concezione del mondo può nascere
un impegno "forte", capace di mobilitare l'entusiasmo di molti
italiani e soprattutto dei giovani. Se vuole porsi al centro della vita
italiana nei prossimi decenni, il Partito Democratico deve presentarsi sulla scena
come una grande svolta, chiudendosi una porta alle spalle, e spalancandone
un'altra. Sogniamo un altro panorama culturale, inedito e in stretta sintonia
con i tempi, che faccia precipitosamente invecchiare tutto ciò che
ancora abbiamo sotto gli occhi.
Forse
bisogna ricorrere a questo vecchio schema della guerra fredda, anche se allora
si trattava dell'URSS e il mondo era diverso, per capire il tormento che
caratterizza i rapporti dell'Occidente con la Russia odierna. E per cercare di
comprendere, soprattutto, come vada giudicato quel Vladimir Putin che oggi
sarà ricevuto con tutti gli onori in Italia e in Vaticano. Sette anni dopo
la sua prima conferma elettorale al Cremlino, il presidente russo resta per
molti un enigma irrisolto. Prodi, Napolitano e il Papa accolgono stasera un
salvatore della patria, oppure uno spregiudicato ex agente del KGB che non ha
rinunciato ai suoi vecchi metodi? Putin è l'artefice di una
democratizzazione in marcia dove la democrazia non è mai esistita,
oppure la sua è una dittatura appena mascherata? Siamo al cospetto di un
leader che distribuisce benessere e difende margini di libertà
individuale che l'URSS non conosceva, oppure il Cremlino è animato da
una sete di potere che non si ferma davanti alle violazioni dei diritti umani e
ai delitti eccellenti? Il problema è che Vladimir Putin sfugge a
definizioni tanto nette perché ognuna di esse contiene soltanto qualcosa di
vero. Erede di una Russia in disfacimento dove gli Oligarchi facevano il bello
e il cattivo tempo, Putin ha certamente ristabilito il funzionamento e il
prestigio dello Stato. Aiutato dalle quotazioni internazionali del gas e del
petrolio, Putin ha gestito una crescita economica che ha moltiplicato a
dismisura i miliardari ma ora favorisce anche l'inedita formazione di una
classe media. Davanti alla nuova sfida del terrorismo e all'aggravarsi delle
crisi regionali, Putin ha difeso i suoi interessi ma ha anche offerto
all'Occidente più collaborazione che ostilità. Eppure questo
Putin rassicurante è lo stesso che considera il Parlamento una semplice
camera di ratifica, è lo stesso che mette i bastoni tra le ruote ai
partiti non sottomessi, è lo stesso che ha chiuso più di un
occhio sugli abusi della guerra in Cecenia da lui stesso riaperta, è lo
stesso che si serve di una magistratura docile per tenere in carcere l'ex
petroliere Khodorkovskj e per ridurre al lumicino la libertà di
informazione, è lo stesso che amministra un sistema di potere nel quale
diventano possibili - anche se il Cremlino ne è forse il bersaglio
politico - le eliminazioni di Anna Politkovskaja o di Alexander Litvinenko. Si
capisce allora perché, nei rapporti con la Russia di Putin, l'Occidente si
scopra prigioniero di un dilemma perenne tra valori e bisogni. I valori, quelli
delle nostre democrazie mature, vengono abbondantemente disattesi nella
"democrazia gestita" voluta dal Cremlino. Ma i bisogni appartengono
anch'essi alla politica, e non danno tregua. L'Europa importa dalla
Russia un quarto del suo fabbisogno energetico, e la percentuale è
destinata ad aumentare se l'Unione non metterà in pratica i suoi buoni
propositi nel settore delle energie rinnovabili. La Russia è già
un grande mercato. Le scelte internazionali di Mosca (sul Kosovo, o sull'Iran)
possono infastidire gli USA e alcuni europei, ma Washington e tutti gli
europei sanno che una nuova contrapposizione Russia-Occidente avrebbe ben
più pesanti conseguenze. Tapparsi il naso ed essere pragmatici, è
questa, allora, la strategia migliore? In parte sì, perché a nessuno
possono sfuggire il peso della storia russa e quanto di positivo Vladimir Putin
ha comunque fatto. A cominciare dalla tanto preziosa stabilità, in un
Paese che resta potenza nucleare. Ma il realismo, benché necessario, non basta.
Accanto agli affari e alla difesa dei bisogni anche i valori devono trovare
posto in una "politica russa" che l'Occidente intero stenta a
esprimere. Perché anche la Russia che vende energia ha bisogno di noi che la
compriamo. Perché Mosca avrà presto bisogno di massicci investimenti
proprio nel settore energetico, e non vuole gettarsi tra le braccia della Cina.
Perché, in definitiva, accanto a una questione di principio che dovremmo in
ogni caso porre esiste una reciprocità di convenienze tale da
consigliare alla Russia di ascoltare. A condizione che l'Europa
"vecchia" e quella "nuova", troppo rassegnata la prima e
troppo bellicosa la seconda, riescano a definire una linea comune verso Mosca.
A condizione che il Cremlino non si senta ignorato o trascurato, come sta
accadendo sulle componenti europee dello scudo anti-balistico USA. A
condizione, soprattutto, che la successione al Cremlino nel 2008 non si
trasformi in lotta di potere senza esclusione di colpi. La Russia ne uscirebbe
destabilizzata, e noi potremmo trovarci a rimpiangere Vladimir Putin. il
Dilemma dell'Occidente.
A
cadere nel mirino dei truffatori sono soprattutto anziani, commercianti e
piccole imprese. In costante crescita i raggiri commessi su internet Roma, 12
marzo 2007 - Un'Italia truffaldina che strumentalizza lo Stato e colpisce le
imprese e i cittadini onesti, ricorrendo a ingegnosi artifici e astuti
stratagemmi che producono numerose e quotidiane illegalità. Reati, in
apparenza piccoli, ma in grado di distruggere una famiglia o un'impresa. Questo
il ritratto a tinte fosche della penisola, che emerge dallo studio sul tema 'Il
Bel Paese delle truffe. Costi e vittime di un reato antico e moderno',
realizzato dal Centro Studi Temi della Confesercenti. La ricerca evidenzia,
attraverso dati e notizie, il fenomeno delle truffe relativo agli anni 2001-
Il
ministro dello sviluppo economico ritiene che prima di abolire lo scatto alla
risposta ci vogliano ampie riflessioni. E che forse non servirà -->
Forum Scrivi nuovo Bologna - Le recenti vicende legate al mondo della telefonia
mobile stanno cambiando lo scenario delle offerte commerciali formulate dagli
operatori. Questa è l'opinione del Ministro per lo Sviluppo Economico
Pierluigi Bersani, che ritiene che il regime di concorrenza che si sta sviluppando
possa portare a risultati che i consumatori apprezzeranno. Il Ministro,
intervenuto al convegno Scuola, lavoro, impresa, ritiene opportuno attendere
prima di introdurre l'abolizione dello scatto alla risposta nella telefonia. E
questo perché, in seguito all'abolizione dei costi di ricarica,
stabilita dal decreto che porta il suo nome, il ministro afferma di aver
constatato alcuni iniziali - e importanti - cambiamenti: "Basta guardare
la battaglia a colpi di pubblicità sui giornali e per le tv. Penso che le
stesse compagnie che avrebbero potuto negli anni scorsi farsi concorrenza,
magari tagliando il costo della ricarica, potranno via via anche su
altri meccanismi tariffari farsi concorrenza, magari facendo qualche sorpresa
al consumatore". Bersani ha poi aggiunto: "Se per la questione della ricarica
avevamo alle spalle un'indagine molto puntuale di Autorità competenti,
che ci ha dato il modo di considerare quell'istituto nelle sue particolari
applicazioni, per lo scatto alla risposta c'è un meccanismo più complesso
e dobbiamo fare degli approfondimenti". Il ministro sembra quindi
intenzionato ad attendere l'evolversi degli eventi, esaminando nel frattempo le
reazioni del mercato e le iniziative degli operatori, auspicando forse che, tra
le "sorprese" che questi possono fare ai consumatori, vi sia anche la
loro capacità di autoregolamentarsi.
Secondo la famiglia,
c'è stato un «uso eccessivo della forza»
Giudicata «ricevibile»
l'istanza presentata dai genitori e dalla sorella del ragazzo morto durante gli
scontri del G8 di Genova
BRUXELLES
(Belgio) -
La Corte europea dei diritti dell'uomo ha dichiarato «ricevibile» il ricorso
presentato dai genitori e dalla sorella di Carlo Giuliani, morto a Genova nel
2001 durante gli scontri avvenuti in occasione del vertice del G8. Lo ha reso
noto la stessa Corte precisando che la sentenza sarà pronunciata in
altra data. La decisione dei giudici europei segue la prima udienza che si era
tenuta il 5 dicembre scorso.
«FORZA ECCESSIVA» - La famiglia Giuliani nel suo ricorso a
Strasburgo ha invocato, in particolare, l'articolo 2 della Convenzione dei
diritti dell'uomo (diritto alla vita) sostenendo che la morte di Carlo
«è dovuta ad un uso eccessivo della forza» e considerando che
«l'organizzazione delle operazioni per ristabilire l'ordine pubblico non siano
state adeguate». I ricorrenti lamentano inoltre «l'assenza di soccorsi»
immediati che ha comportato la violazione degli articoli 2 e 3 della
Convenzione (divieto di trattamenti inumani). L'istanza davanti alla Corte di
Strasburgo è stata presentata il 18 giugno 2002.
IL PROCESSO - Le udienze del processo della Corte di
Strasburgo potrebbero cominciare prima dell’estate e saranno pubbliche. La
Corte si pronuncia sulle responsabilità legate alla violazione dei
diritti umani, cioè su un campo di azione più ampio dei singoli
addebiti penali. Sarà tutt’altro che un processo astratto: le sentenze
della Corte di Strasburgo sono direttamente applicabili negli Stati membri,
salvo appello al Collegio della Grande Camera.
12 marzo 2007
L’Annunciazione,
che venne dipinta da Leonardo da Vinci ad appena 20 anni di età,
sarà esposta alla mostra "La mente di Leonardo"
FIRENZE
Allo smontaggio e successivo imballaggio della tavola erano presenti, oltre a
giornalisti e televisioni da ogni parte del mondo (c’erano anche corrispondenti
di testate giapponesi e americane), anche la soprintendente al Polo Museale
Fiorentino, Cristina Acidini e i carabinieri del Nucleo Beni Culturali. Era
invece assente il direttore degli Uffizi, Antonio Natali, che non ha mai
nascosto la sua contrarietà al prestito dell’opera alla mostra di Tokyo.
L’Annunciazione venne dipinta da Leonardo da Vinci ad appena 20 anni di
età. La tavola risale al 1472-1473, quando il giovane pittore era alla
bottega del Verrocchio. Il dipinto si trova nella sala Leonardo della Galleria
degli Uffizi, assieme ad altri due dipinti del Maestro di Vinci, L’Adorazione
dei Magi e Il Battesimo di Cristò.«Se non avessimo ottenuto tutte le
garanzie e se la tavola di Leonardo fosse stata in condizioni anche di lieve
precarietà, allora sarei stata io ad incatenarmi, perchè di
fronte ad un qualunque problema, anche minimo, i tecnici hanno il dovere di far
sentire la loro voce». Lo ha detto Cristina Acini, soprintendente al Polo
museale fiorentino che stamani, assieme ai tecnici della Galleria degli Uffizi,
ha assistito al distacco dalla parete ed al successivo imballaggio della
’Annunciazionè di Leonardo da Vinci, in partenza per Tokyo.
Per protestare contro il prestito dell’opera al Paese del Sol Levante, stamani
il senatore di Forza Italia Paolo Amato si è incatenato a una colonna
del loggiato degli Uffizi. Il direttore della Galleria degli Uffizi, Antonio
Natali, che nei giorni scorsi aveva ribadito la contrarietà al prestito,
stamattina non ha assistito alle operazioni di imballaggio della tavola.
«Ci sono momenti che vanno affrontati con i nervi saldi - ha detto la
soprintendente Acidini ai giornalisti - ma siamo sicuri che ci siamo attrezzati
al meglio di quanto umanamente era possibile, ricorrendo a tecnologie
sofisticate, sia giapponesi che italiane, per garantire la conservazione
dell’opera. Per il resto - ha aggiunto - siamo nelle mani di quello che
qualcuno chiama Provvidenza e qualcun’altro Fato».
++ La Repubblica 12-3-2007 Scuola, provocazione shock
di Amato "Antidoping dopo le interrogazioni"
++ La Stampa 12-3-2007 Cina e Usa litigano sul
caffè. Maurizio Molinari
++ Da APCom 12-3-2007. OSSERVATORE ROMANO: SIT IN PER I
DICO, ESIBIZIONE CARNASCIALESCA
++ Da AgenParl 12-3-2007 I socialisti preparano
l’alternativa al PD
++ Da AgenParl 12-3-2007 Anche Veltroni Leader Maximo
+ L’Unità 12-3-2007 Afganistan. Tragica illusione Umberto De Giovannangeli
+ La Stampa
12-3-2007 L'Onu: "Il governo sudanese ha orchestrato i crimini in
Darfur"
+ La Repubblica 12-3-2007 Legge elettorale, definito il
percorso parlamentare
Il Corriere della Sera 12-3-2007 L'addio di Jacques
Chirac all'Eliseo
Da isolapossibile.it L’acqua come l’aria: un bene
pubblico per tutti. Di Chiara Giarrusso
12/3/2007
(16:50) -
M
Il processo al «re» delle televisioni si svolgerà senza riprese tv. Le
telecamere dovranno restare fuori dall’aula del processo che inizierà
domani a Silvio Berlusocni e David Mills accusati di corruzione in atti
giudiziari. Lo hanno deciso i giudici della decima sezione penale del Tribunale
di Milano secondo i quali le riprese tv non sono necessarie e rischiano di
pregiudicare la serenità del dibattimento. Al fine di soddisfare
l’attesa dell’opinione pubblica verso la conoscenza di ciò che accade in
aula viene ritenuta sufficiente la presenza della carta stampata. Il presidente
del collegio Nicoletta Gandus ha scritto poche righe per spiegare il «no» a una
richiesta fatta, ironia della sorte, dai telegiornali di Mediaset, il gruppo di
cui l’ex premier è azionista di riferimento.
Quello che inizia domani è un processo stralcio nato dall’inchiesta sui
presunti fondi neri relativi ai diritti tv di Mediaset che vede la causa
principale in corso dal 21 novembre scorso davanti ai giudici della prima
sezione penale del Tribunale, che conta tra gli imputati gli stessi Berlusconi
e Mills, dove invece le telecamere ci sono. Nell’udienza di oggi relativa a
tale procedimento i giudici della prima sezione penale hanno sospeso la
deposizione di Guido Pugnetti, ex manager Rti e Mediaset adesso alla Rai,
invitandolo a tornare il 26 marzo prssimo accompagnato da un difensore
perchè potrebbe essere sentito come indagato di reato connesso, La
sospensione della testimonianza è stata decisa quando il pm ha mostrato
in aula una mail in cui il manager di Fox Douglas Schwalbe afferma di aver
riferito allo stesso Pugnetti: «L’impero Berlusconi funziona come un elaborato
’shell gamè con la finalità di evadere le tasse italiane». Per
l’accusa quella mail è uno dei documenti più importanti dell’inchiesta
trattandosi tra l’altro dell’allegato numero 1 alla consulenza della
società di revisione Kpmg. In vista del procedimento il pm Fabio De
Pasquale ha presentato una lista di testimoni con 11 nominativi, la difesa
Mills chiede la citazione di 83 persone e la difesa Berlusconi di 63. Molti
testi sono però comuni. Il più famoso la cui deposizione viene
sollecitata sia dall’accusa sia dalla difesa dell’ex premier è Flavio
Briatore.
Stando alla lista testi presentata dagli avvocati Nicolò Ghedini e Piero
Longo, legali di Berlusconi, Briatore va citato per parlare e rispondere a
domande delle parti «in merito a tuitti i fatti di cui al capo di imputazione
ed in particolare in relazione ai suoi rapporti con David Mills, con Silvio
Berlusconi, con Carlo Bernasconi, con Giorgio Patroncini, con Heimo Quaderer,
con Maria De Fusco e con lo studio Marrache». Secondo l’ipotesi accusatoria
Berlusconi avrebbe «comprato con almeno 600 mila dollari» le testimonianze rese
da Mills, l’inventore del sistema di società off shore usato da
Fininvest, nei processi All Iberian e presunte tangenti alla guardia di
finanza.
Il processo all’ex presidente del Consiglio e all’avvocato inglese è a
fortissimo rischio prescrizione. La scadenza è quella del febbraio
dell’anno prossimo. E sembra francamente impossibile arrivare a celebrare i tre
gradi di giudizio previsti in 11 mesi. Comunque i giudici hanno fissato un
calendario abbastanza fitto che prevede 12 udienze fino al prossimo mese di
luglio. La difesa di Silvio Berlusconi intanto domani presenterà insieme
a quella di Mills una serie di eccezioni preliminari. La più importante
riguarda la presunta mancata notifica della celebrazione del processo a
Fininvest come parte offesa del reato.
Va ricordato che Mills è indagato in un altro stralcio di inchiesta,
ancora per falsa testimonianza. Secondo la procura il legale britannico avrebbe
omesso di dire al verità quando depose al processo Sme in trasferta a
Londra. Mills avrebbe incontrato prima delle testimonianza manager e legali
Fininvest per concordare il contenuto della deposizione stessa. Alfredo
Messina, manager Fininvest, sentito come indagato di reato connesso si avvaleva
della facoltà di non rispondere davanti al pm. L’indagine sembra andare
verso una richiesta di archiviazione e va considerato inoltre che su un fatto
accaduto a Londra potrebbe non esserci giurisdizione da parte dell’Italia.
FIRENZE - "Noi
oggi facciamo l'antidoping solo agli atleti. Perché non prevedere un uso
più ampio di questo controllo e renderlo più sistematico, ad
esempio all'uscita delle discoteche e a scuola?". Al convegno dell'Anci
Toscana sulla sicurezza, il ministro degli Interni Giuliano Amato lancia una
nuova idea per combattere la droga: effettuare anche sugli studenti i controlli
sull'assunzione di stupefacenti. Controlli finora riservati, appunto,
esclusivamente agli atleti in gara. E' una proposta che farà discutere,
come sottolinea lo stesso ministro. "Bisogna pensare anche a cose del
genere, anche se può apparire una cos aun po' idiota". Una provocazione,
quindi. "Cose del genere, però, meritano di essere prese in
considerazione. E poi, magari - spiega Amato - sostituite da altre".
Per gli studenti, immagina il ministro, potrebbero diventare obbligatori test
anti-doping tra i banchi. I ragazzi potrebbero dover sottoporsi alle analisi
"ad, esempio, dopo le interrogazioni". Forse in caso di prestazioni
"sospette". E se lo studente dovesse risultare positivo, spiega
Amato, dovrebbe scontarne le conseguenze. "Perderebbe punti. E chiaramente
l'interrogazione non sarebbe valida".
Ma il ministro sa che una norma del genere non sarebbe ben accolta. Neanche dal
corpo docente. "Ho spiegato questa mia idea ad un insegnate che mi ha
detto: ma sei matto? Di sicuro arriverebbero i genitori a fare un occhio nero
al preside o al professore".
Eppure, spiega Amato, qualcosa bisogna pur fare. Per questo occorre estendere
il più possibile i controlli sull'uso di stupefacenti. "In Italia -
continua - c' è bisogno di una campagna enorme contro la droga. E deve
essere rivolta soprattutto a noi stessi, chiamando in causa noi integerrimi
consumatori di coocaina, e quei genitori, e non solo i figli, che prendono la
coca nel weekend per passare un fine settimana più elettrizzante".
Il problema droga, avverte, nel nostro paese ha ormai raggiunto dimensioni
critiche. E trascina nella rete della criminalità organizzata troppi
ragazzi innocenti. Un fenomeno, questo, che non può lasciare
indifferenti. "Io spero che milioni di italiani - ha infatti concluso,
commentando le immagini trasmesse dal TG1 ieri sera - si siano raggelati
davanti al servizio del telegiornale di Gianni Riotta dove si intervistavano a
Torino un parroco e un operatore sociale. Persone che tentano di gestire
ragazzi immigrati usati come corrieri della droga e che usano le fogne come via
di fuga".
(12 marzo 2007)
INIZIATIVA DI
LEGGE ALL'ASSEMBLEA DEL POPOLO: "SIMBOLO DEL CONSUMISMO CHE OFFENDE LA
NOSTRA TRADIZIONE MILLENARIA" Il caffè americano di Starbucks venduto a turisti e passanti in uno dei
cortili della Città proibita di Pechino rappresenta da sette anni la
sovrapposizione fra tradizione millenaria e modernità dei commerci nel cuore della Cina Popolare. Ma questo simbolo del
consumismo potrebbe presto essere obbligato a chiudere i battenti. A chiederlo,
con tanto di proposta di legge, è stato il deputato Jiang Hongbin, rappresentante della provincia
di Heilongjiang all'Assemblea del Popolo e uomo d'affari di indiscusso
successo, noto per la determinazione con cui insegue i propri obiettivi. La sua
tesi, messa nero su bianco in vista della imminente riunione annuale del
Parlamento cinese, è che "fino a quando Starbucks resterà dentro il Palazzo imperiale porrà una grave minaccia alla nostra cultura tradizionale". Il
passo legislativo non è un fulmine a ciel sereno: a dare inizio alla
campagna anti-Starbucks è stato un conduttore televisivo lanciando in
gennaio una campagna online per far allontanare il caffè "made in Usa" da uno dei luoghi più venerati della cultura nazionale, ovvero l'ex residenza degli
imperatori delle dinastie Ming e Qing. L'iniziativa su Internet ha avuto
successo, portando alla genesi di una campagna favorevole al boicottaggio del
caffè "made in Usa". La reazione della
proprietà di Starbukcs è stata finora di gestire il caso scegliendo il basso profilo:
l'insegna esterna al caffè è stata così discretamente rimossa ma le vendite sono
continuate. Al deputato Jiang questo compromesso di immagine non basta e la
proposta di legge punta a spingere l'amministrazione del Museo che gestisce la
Città proibita - costruita 587 anni fa - a prendere
l'iniziativa al fine di arrivare a una chiusura dei locali entro il mese di
giugno. Ma è proprio il Museo a trovarsi nella situazione più delicata perché, se da un lato è il supremo custode della tradizione nazionale e non può quindi mostrarsi indifferente alla campagna di proteste,
dall'altro non vede di buon occhio la prospettiva di dover rinunciare all'affitto
regolarmente versato da Starbucks che contribuisce in maniera determinante a
coprire le consistenti spese per la gestione della Città proibita, visitata ogni anno da circa sette milioni di persone.
Sebbene la proposte di legge presentate dai singoli deputati all'Assemblea del
Popolo raramente vengono fatte proprie dal governo di Pechino in questo caso la
coincidenza con la protesta online crea una situazione di tipo nuovo, nella
quale è difficile ignorare la possibilità di un dilagante boicottaggio di Starbucks da parte di tutti
coloro che ritengono le sua presenza uno scempio culturale, un'offesa alla
nazione cinese nel suo complesso. Saranno i prossimi giorni a dire se i 3000
membri dell'Assemblea del Popolo faranno propria la crociata anti-Starbucks, ma
il persistente silenzio del Museo lascia intendere la presenza di molti dubbi
sulla chiusura in tempi stretti di un'attività commerciale i cui proventi potrebbero essere assai utili per far
fronte alle ingenti spese di ristrutturazione e rinnovamento in vista del
Giochi Olimpici del
Città del Vaticano, 12 mar. (APCom) - Dura condanna dell'Osservatore
Romano alla manifestazione di piazza Farnese di sabato sui 'Dico'. Una
"esibizione carnascialesca" la chiama il quotidiano d'Oltretevere che
definisce "discutibili le presenze" di alcuni ministri e
"insultanti gli slogan" inneggiati.
Si è dunque inscenato sabato - osserva il quotidiano vaticano - il
promesso corteo a favore del riconoscimento legale delle coppie omosessuali.
Una manifestazione nella quale, al di là dell'immagine borghese e rassicurante che si voleva dare, hanno
trovato posto discutibili mascherate e carnascialate varie. Ironie e isteriche
esibizioni da parte di chi invoca riconoscimenti e non esprime rispetto. Erano
in molti, fra l'altro - prosegue l'Osservatore Romano - i manifestanti
omosessuali che recavano sulle spalle o per mano, dei bambini, frutto di
precedenti relazioni o anche di fecondazioni praticate all'estero. Bambini -
ammonisce ancora il quotidiano della Santa Sede - la cui presenza è stata sfruttata proprio allo scopo di accreditare l'immagine, che
vorrebbe essere rassicurante, di una famiglia da tutelare".
L'Osservatore
Romano condanna lo sfruttamento "dei bambini" che godono "anche
nell'ordinamento italiano, di diritti che gli vengono riconosciuti comunque, in
ogni condizione si trovino i loro genitori. Anche per questo - ammonisce il quotidiano
d'Oltretevere - sfruttare la loro ingenuità appare un'operazione particolarmente criticabile". La
manifestazione di sabato, dunque, "è anche, ancora una volta, la prova evidente di quale sia la
finalità di chi si batte per il riconoscimento legale delle
coppie omosessuali, essendo la presenza di minori determinante per garantire ad
un nucleo famigliare particolari diritti. Non è un caso - conclude il quotidiano vaticano - che nelle immagini
trasmesse sul corteo di sabato a parlare siano state quasi esclusivamente le
coppie omosessuali, la categoria per la quale, al di là di ogni tattica politica, i recenti tentativi di regolamentazione
sono concepiti".
L'Osservatore
Romano non manca di criticare anche la presenza al corteo di tre ministri,
"a dimostrazione di come una parte del Governo sembra volersi impegnare
personalmente per una questione diventata inspiegabilmente prioritaria. Una
presenza - prosegue - che ha portato fra l'altro il ministro della Giustizia
Mastella a sfrondare il campo da ogni ipocrisia, avvertendo che sulla questione
dei 'dico' il Governo potrebbe giocarsi la sua stessa esistenza. Mastella ha
anche criticato il presidente del Consiglio Romano Prodi che, a suo modo di
vedere, avrebbe potuto esprimere le sue 'perplessità' sulla presenza dei ministri in piazza 'un po' prima'".
Roma,
12 Marzo 2007 – AgenParl – “Il nostro obiettivo primario è
l’unità socialista”. L’annuncio arriva dal congresso dei Socialisti di Bobo
Craxi.
Prende sempre più forma, quindi, il progetto lanciato dal segretario
dello Sdi Enrico Boselli di creare una “costituente socialista” all’interno
dell’Unione. A tale disegno sembra abbia “aperto” anche un altro socialista,
Gianni De Michelis, che smarcatosi dalla Cdl pur di confrontarsi con l’idea di
Boselli, sembra aver abbandonato i suoi propositi “terzopolisti”.
L’idea dei partiti ex Psi, quindi, è quella di riunire la diaspora
socialista per creare un partito che si contrapponga al Pd.
Infatti non solo hanno risposto “picche” all’appello di Fassino di aderire alla
futura forza unitaria, ma stanno anche cercando di “pescare” all’interno della
Quercia. Infatti sfruttando la querelle sulla collocazione europea del Pd,
corteggiano non poco il Correntone Ds, che vede nel Pse l’unica “casa madre”.
Anche se – viene fatto notare all’AgenParl – la minoranza diessina sembra
essere più attratta dal progetto di un partito unico delle sinistre
ipotizzato da Bertinotti. (G.R.S., F.C.)
Roma,
12 Marzo 2007 – AgenParl – A Roma si sta lavorando per creare un nuovo partito.
Lo vogliono costituire i promotori della “lista civica per Veltroni”.
“Gruppi di partecipazione attiva”. Così si fanno chiamare i “seguaci di
Veltroni”, ideatori di questa nuova forza politica. Ora stanno organizzando
corsi di formazione politica per “aspiranti Walteriani”.
Questa è un’idea nuova di partito, un po’ sui generis, che però
si inquadra nell’andazzo vigente della personalizzazione della politica. Non a
caso – viene fatto notare all’AgenParl – il leader diessino sta sfruttando
“l’esperienza capitolina” per rilanciare una sua candidatura a livello
nazionale o nel futuro Pd.
Intanto il nuovo partito prende forma. Roberto Tavani, assessore alla cultura e
“seguace del sindaco”, ha organizzato in ogni zona della città
l’elezione per nominare i rappresentanti del partito. Parte così il
coordinamento cittadino che domani si riunirà per la prima volta e che
presenterà il suo esecutivo.
Un’altra vetrina importante questa per il sindaco capitolino che, grazie alle
sue idee innovative per la città, conquisterà sicuramente grande
visibilità. (S.G.)
Vogliamo
impedire la vittoria talebana? Vogliamo fare sopravvivere la Nato?, si chiede,
un po' retoricamente, l'editorialista del Corriere. Le risposte offerte hanno
almeno il pregio della chiarezza: se si vuole evitare questa duplice disfatta,
non c'è che un'unica via da imboccare: combattere. Senza se e senza ma.
Combattere per evitare che una vittoria degli oscurantisti talebani possa
determinare un devastante effetto domino che spazzerebbe via "i
traballanti governi più o meno alleati dell'Occidente (dal Pakistan all'Arabia
Saudita)...". Non solo: la vittoria integralista in Afghanistan avrebbe
certamente delle ricadute terribili sugli atteggiamenti dei gruppi
fondamentalisti "ampiamente rappresentati nell'immigrazione islamica in
Europa". Va da sé che a fronte di questa guerra, per l'editorialista del
Corriere è sinonimo dell'opportunismo italiota, un maldestro tentativo
di rassicurazione interna, aver presentato da parte del Governo "non
combattente" di Romano Prodi, la missione in Afghanistan come una
"missione di pace e di ricostruzione". La ricaduta dell'apocalittico
scenario descritto da Panebianco riguarda anche le vicende politiche nostrane:
le "larghe intese" possono essere imposte dal volgere al peggio della
guerra afghana: l'avanzata delle milizie talebane, e la disfatta delle forze
Nato, combattenti e "imboscati", imporrebbero la nascita di un
"esecutivo di emergenza". Un governo di guerra. La politica scompare
in questo ragionamento. Gli sforzi di ricostruzione messi in atto dall'Italia
nel martoriato Paese asiatico sfumano in patetici tentativi di evitare di
guardare in faccia la realtà. Una realtà, quella evocata da
Panebianco, nella quale l'unico linguaggio che conta è quello della
forza militare. E quanti non si adeguano ad esso e come l'Italia, la Francia,
la Germania, la Spagna insistono a rimanere "a presidiare le
retrovie", nel migliore dei casi sono degli irresponsabili. Nel peggiore,
dei complici (indiretti) delle milizie talebane e dei sanguinari fautori del
Jihad globalizzato. Il punto è che la "ricetta Panebianco"
è già stata sperimentata. In Afghanistan, come in Iraq. E ha dato
risultati disastrosi, segnando, i Iraq ma non solo, il fallimento della
strategia della "guerra preventiva" perseguita dalla decadente amministrazione
Bush. Al professor Panebianco sembra peraltro difettare la memoria. In
Afghanistan, e neanche tanto tempo fa, c'è già stata una
"Grande Armata" - centinaia di migliaia di uomini impiegati, mezzi
imponenti, ferocia necessaria - che ha provato a "pacificare" con le
armi il Paese: era l'Armata sovietica. Come è finita è scritto
nella storia. E per venire ai giorni nostri, un anno di guerra asimmetrica
condotta dai britannici, col sostegno Usa, contro i Talebani a Helmand, ha
prodotto come risultato la riconquista di Helmand da parte delle milizie
talebane assieme al sostegno della popolazione locale. Nei giorni scorsi,
l'Unità ha interpellato generali, esperti di strategie militari,
analisti di politica internazionale, studiosi del mondo islamico, nessuno dei
quali può essere tacciato di simpatie talebane. La loro
"ricetta" è agli antipodi da quella caldeggiata da Panebianco:
la scorciatoia militare, hanno sostenuto, è una tragica illusione; la
Conferenza internazionale sull'Afghanistan, aperta ai Paesi della regione (dal
Pakistan all'Iran), che il ministro degli Esteri Massimo D'Alema
rilancerà il 20 marzo nel suo intervento al Consiglio di Sicurezza
dell'Onu, è tutt'altro che un esercizio retorico ma, al contrario,
è tradurre in atti conseguenti una convinzione profonda: sta nella
politica la chiave di volta per ridisegnare il nuovo volto dell'Afghanistan.
Generali e studiosi hanno anche avvertito che l'inasprimento delle azioni
militari di questi giorni da parte americana rischiano di allargare, in chiave
anti-occidentale, il consenso delle popolazioni civili verso i Talebani. E il
vero problema oggi è proprio quello di spezzare questi legami, facendo
il vuoto attorno alle milizie integraliste. Costruire ospedali, scuole,
acquedotti; pensare a piani di riconversione delle coltivazioni di oppio;
gettare le basi di uno Stato di diritto - attività che hanno bisogno di
una presenza militare - tutto questo è combattere una "guerra"
contro i Talebani. Ma è un'altra "guerra" rispetto a quella
invocata dal professor Panebianco.
GINEVRA
La comunità internazionale ha avviato importanti iniziative per
risolvere la grave crisi in corso da quattro anni nella regione sudanese del
Darfur, ma queste «sono state ampiamente ostacolate tanto da risultare
inadeguate e inefficaci». Il rapporto sulla situazione in Darfur, redatto dalla
squadra di esperti nominata dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu e
presentato oggi a Ginevra, sottolinea come la comunità internazionale
abbia l’obbligo di proteggere i civili del Darfur dai crimini di guerra e
contro l’umanità che continuano ad essere commessi nella regione
sudanese, con la partecipazione dello stesso governo di Khartoum.
La missione Onu sostiene quindi che il Consiglio di sicurezza dell’Onu dovrebbe
avviare in tempi rapidi il dispiegamento della forza di pace
"ibrida", composta da Unione africana (Ua) e Onu, e garantire ampio
sostegno all’azione della Corte penale internazionale dell’Aia, che lo scorso
27 febbraio ha indicato i primi due sospetti responsabili di crimini di guerra
e contro l’umanità commessi nella regione a partire dal febbraio 2003.
«Dovrebbero essere pienamente applicate tutte le risoluzioni adottate dal
Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dal Consiglio per la pace e la
sicurezza dell’Unione africana - si legge nel rapporto di 35 pagine - comprese
quelle che impongono il divieto di circolazione e il congelamento dei beni e
delle risorse economiche di quanti commettono tali violazioni».
Sono pesanti accuse contro il governo di
Khartoum quelle contenute nel rapporto dalla missione guidata
dal premio nobel per la pace Jody Williams «Crimini di guerra e contro
l’umanità continuano ad essere compiuti in tutta la regione. Il
principale schema adottato è quello di una violenta campagna di
contro-guerriglia lanciata dal governo del Sudan in collaborazione con le
milizia janjaweed (diavoli a cavallo, ndr) che colpisce soprattutto civili. Le
forze dei ribelli sono anche loro colpevoli di gravi abusi dei diritti umani e
violazioni del diritto internazionale».
Gli esperti Onu accusano inoltre il governo sudanese di aver «evidentemente
fallito ad assolvere il suo compito di proteggere la popolazione del Darfur da
crimini compiuti su vasta scala» e di aver «orchestrato e partecipato a tali
crimini».
La missione Onu denuncia ancora il diffuso ricorso allo stupro in tutta la
regione e la negligenza del governo nel prevenire e indagare su tali crimini.
«Le forze di sicurezza del governo continuano a ricorrere ad arresti e
detenzioni arbitrarie», rivela ancora il rapporto, denunciando un’ondata di
arresti di darfuriani compiuta nei mesi scorsi nella capitale Khartoum. Il
conflitto in corso dal febbraio 2003 nella regione del Darfur ha causato
finora, stando a stime, almeno 200.000 morti e oltre 2,5 milioni di sfollati.
La missione Onu, composta da sei diplomatici ed esperti di diritti umani, venne
creata lo scorso dicembre durante una sessione di emergenza del Consiglio Onu
sulla situazione in Darfur, chiesta dall’allora Segretario generale Kofi Annan.
Appena due settimane fa il procuratore capo della Corte penale internazionale
Luis Moreno Ocampo ha indicato Ahmad Muhammad Harun, ministro sudanese per gli
Affari umanitari, e Ali Muhammad Ali Abd al-Rahman alias Ali Kushayb, esponente
di punta delle milizie arabe dei janjaweed, fra i sospetti di crimini di guerra
in Darfur, la regione occidentale del Sudan dove il conflitto in corso dal
Oggi incontro tra Bertinotti e Marini: "Trovato l'accordo"
Domani Prodi vede la Lega. Bondi: "Accordo o governo
istituzionale"
ROMA - Dopo un faccia
a faccia a Palazzo Madama tra il presidente del Senato, Franco Marini e quello
della Camera, Fausto Bertinotti, il cammino della legge elettorale e delle
riforme istituzionali, fa un passo avanti. "Abbiamo definito un percorso
parlamentare" dice Bertinotti. Proprio alla vigilia dell'incontro tra
Romano Prodi e la Lega Nord che andrà a palazzo Chigi
per valutare se ci sono possibilità di intesa.
Partendo da un dato, scandito con forza da Prodi: "Serve una legge
elettorale condivisa, mai più una riforma
fatta dal amaggioranza senza l'opposizione".
Il segretario diessino Piero Fassino avverte: "Mi auguro che le
dichiarazioni di disponibilità della Cdl siano
vere e non solo mosse tattiche". Ma il forzista Sandro Bondi taglia corto:
"Accordo subito o un governo istituzionale . Da parte nostra c'è veramente la
volontà di raggiungere un accordo nel più breve tempo
possibile". Un'apertira che, però, il
vicepresidente dei deputati di Forza Italia alla Camera, Enrico La Loggia,
circoscrive tra rigidi confini: "Ok a piccole modifiche all'attuale legge,
per renderla più funzionale e garantire più stabilità. Dopo si vada
al voto"
Chi invece frena sull'ipotesi di un ritorno alle urne è Clmente
Mastella. "Se c'è una legge elettorale
condivisa, non è detto che si debba andare per forza al voto - dice
il ministro dell'Udeur - Al voto si va quando le coalizioni saltano o una delle
coalizioni dovesse registrare insuccesso o diffidenza tra i partner che la
tengono in piedi".
(12-03-2007)
Un
governo è debole quando non dispone di una maggioranza parlamentare sufficiente
per governare. Un governo è debole, in secondo luogo, quando la sua
maggioranza è discorde e scollata. E per entrambi questi rispetti il
governo di Romano Prodi era e resta debole, debolissimo. Ma noi abbiamo anche
una «società debole», fiacca e incapace di difendersi. Come si spiega? A
rigor di logica un governo debole potrebbe essere fronteggiato da una
società forte che si fa valere. Invece il Paese è flaccido,
è passivo. Brontola, ma poi si lascia bastonare. In parte è cosi
per retaggio storico. Ma in parte è cosi perché abbiamo avviato un
circolo vizioso nel quale il cattivo esempio dell'alto contagia il basso. Vedi,
per cominciare, il teppismo nel calcio. Sono decenni che i nostri teppisti
viaggiano in trasferta su treni speciali che lietamente devastano. Tanto pagano
le ferrovie. Ed è da sempre che le società di calcio sono
conniventi con le loro tifoserie estreme. Il governo di Silvio Berlusconi era
un governo forte, eppure ha sempre fatto finta di non vedere. Siamo dovuti arrivare
al funzionario di polizia ucciso a Catania per indurre il governo a stabilire
che i «bravi ragazzi» che assaltano con sassi e spranghe le forze dell'ordine
sono da punire in modo esemplare. Vedremo. Al momento i pochissimi fermati per
queste inaccettabili violenze sono quasi tutti tornati a casa. Altri casi. Da
sempre ferrovie e strade vengono bloccate da scioperanti a vario titolo.
Sì; ma non esiste forse un diritto sicuramente prevalente di chi si
trova, innocentissimo, in viaggio, di non essere sequestrato? Eppure in questo
caso polizia e carabinieri arrivano per guardare. La parola d'ordine del
Viminale è, da sempre, «niente grane».
Diritti
e legalità vengono patentemente straviolati, ma il governo latita. L'elenco è
lungo. Scioperi selvaggi, scuole occupate, case abitate da abusivi, centri
sociali extra legem (e che si fanno la legge da soli). Tutte cose assorbite da
quel grande ventre molle che siamo ridotti a essere. E il caso esemplare
è quello dei telefonini a scuola. La scuola plasma, bene o male, le
nuove generazioni. A scuola i giovani dovrebbero imparare qualcosa e il docente
dovrebbe fare lezione. Ma sempre più i giovani vanno a scuola con il
loro cellulare. E, poverini, come potrebbero sopravvivere al tedio della
lezione senza «chattare»? Se non che un professore di Lecco, spazientito,
strappa di mano il telefonino a una studentessa che si beffava dei suoi
richiami. Sapete com'è andata a finire? I genitori hanno spalleggiato la
loro dolce bambina, la vicenda è addirittura finita in Cassazione, e il
docente è stato condannato per violenza privata. Incredibile? Sì,
sono le storture del diritto, del formalismo giuridico. A maggior ragione,
spetterebbe al ministro dell'Istruzione di emanare una norma che vieta il
cellulare a scuola e che ne autorizza il sequestro. Coraggio, signor ministro.
La scuola è allo sfascio. Cominci a rimediare. La morale di queste
storie è che un governo debole non è esentato per questo dal
dovere di gestire con diligenza e fermezza gli affari ordinari. Se il governo
di Romano Prodi non potrà fare granché in sede di «grandi riforme», non
si capisce perché non possa fronteggiare a dovere le emergenze quotidiane. La
nostra non è, nei casi succitati, impotenza di governo: è
menefreghismo, colpevole noncuranza, e irresponsabilità. Speriamo che
dirlo serva a qualcosa.
12
marzo 2007
Roma. È un dialogo costruttivo,
improntato su rapporti che vanno sempre meglio, non solo sul versante economico
che registra una crescita dell'interscambio del 28 per cento nel 2006, quello
che Vladimir Putin e Romano Prodi stanno costruendo. Di fronte a una situazione
internazionale sempre più complessa e costellata di crisi, Roma e
Mosca hanno tutte le intenzioni di collaborare all'insegna del
multilateralismo. Obiettivo facilitato dalla presenza dell'Italia, per due
anni, nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Il rapporto tra Roma e Mosca
troverà un ulteriore punto di saldatura nel quarto vertice che si
terrà a Bari mercoledì e vedrà la partecipazione di un
cospicuo numero di ministri di entrambi i Paesi. Domani Putin sarà a
Roma, dove lo attende un incontro al Quirinale con il capo dello Stato Giorgio
Napolitano e un pranzo di lavoro a Palazzo Chigi con il presidente del
Consiglio Prodi. L'appuntamento più atteso è però
senz'altro quello in Vaticano per il suo primo faccia a faccia con papa Benedetto
XVI. È la terza volta che Putin è ricevuto da un pontefice. A
differenza dei suoi predecessori, Gorbaciov e Eltsin, quando incontrò
Giovanni Paolo II, nel 2000 e nel 2003, non gli rivolse l'invito di recarsi a
Mosca. Si vedrà con Benedetto XVI. L'agenda del summit di Bari si prefigura
ricca di argomenti e fornirà ai protagonisti l'occasione per fare il
punto sulle crisi internazionali (Medioriente, Iraq, Afghanistan e Iran) alla
ricerca soluzioni condivise, per affrontare nuovi capitoli della questione
energetica, per rilanciare la partnership tra Russia e Ue e per rinsaldare i
rapporti economici bilaterali. Su questo versante, il settore energetico resta
un punto qualificante dei rapporti italo-russi, ma è intenzione comune
di dare nuova linfa ai settori aerospaziale, tecnico-militare e delle
telecomunicazioni. L'appuntamento è stato preparato con cura dagli
stessi Prodi e Putin durante l'incontro del 23 gennaio a Soci, sul Mar Nero
dove il leader del Cremlino ha una residenza. Folta la schiera di ministri che
parteciperanno ai lavori del vertice "allargato". Da parte italiana
ci saranno: Massimo D'Alema (Esteri), Arturo Parisi (Difesa), Tommaso Padoa
Schioppa (Economia), Clemente Mastella (Giustizia), Rosy Bindi (Politiche della
Famiglia), Fabio Mussi (Ricerca e Università). Da parte russa sono
attesi: Serghei Lavrov (Esteri), Alexei Kudrin (Finanze), Viktor Khristenko
(Industria e Energia),e Vladimir Ustinov (Giustizia). La mattina prima del
vertice, a Villa Madama a Roma, il ministro degli Esteri Massimo D'Alema aprirà
i lavori del Foro di Dialogo italo-russo promosso dai due governi e organizzato
dall'Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale. Al
dibattito parteciperanno rappresentanti del mondo politico, economico e
istituzionale italiani e russi tra cui Pierluigi Bersani, ministro dello
Sviluppo economico, il ministro russo dell'Industria e dell'energia Khristenko,
il ministro per il Commercio Internazionale Emma Bonino, Alekperov
presidente di Nk Lukoil, il presidente dell'Eni Roberto Poli, Chelpanov
vicedirettore di Gazpromexport e Alessandro Profumo, amministratore delegato di
Unicredit
In un clima di preoccupazione e di attesa per la
sorte di Daniele Mastrogiacomo si avvierà nei prossimi giorni al Senato
la discussione sul decreto che proroga la partecipazione di militari italiani a
missioni internazionali. Nell’aula di palazzo Madama i numeri sono quelli che
sono e le difficoltà, per il centrosinistra, sono note. Nel centrodestra
sembra prevalere unicamente l’interesse a indicare nei 158 voti la soglia sotto
la quale, si sostiene, Prodi dovrebbe lasciare. Sia chiaro, continuo a pensare
che l’Unione non debba né possa considerare irrilevante la mancanza di una
propria autonoma maggioranza al Senato. La teoria delle maggioranze a geometria
variabile palesemente non regge. O meglio, è difficile pensare a un
sostegno del centrodestra che non comporti una qualche intesa tra i due
schieramenti sul piano politico. Questo è il punto. Arduo da affrontare
in quanto comporta, insieme alla consapevolezza della propria fragilità,
una apertura esplicita del centro sinistra al dialogo politico con
l’opposizione.
È disponibile l’Unione a muovere in questa direzione? E il centrodestra
è in grado di volgere lo sguardo alla prospettiva politica più
che a un presunto immediato tornaconto? Difficile da prevedere. Per il
centrosinistra si tratta di una linea di condotta obbligata se intende scongiurare
un succedersi logorante di prove di forza al Senato. In questo contesto, la
ricerca dell’intesa sulla legge elettorale resta fondamentale, ma occorrerebbe
discutere con il centrodestra anche di altri punti programmatici controversi
che giungeranno al vaglio delle aule parlamentari. È evidente che questo
non è un esercizio su cui potrà reggere l’intera legislatura.
Tuttavia, sino alla messa a punto di una nuova legge elettorale, appare
inevitabile. C’è bisogno in sostanza di una gestione politica condivisa
della delicata situazione parlamentare che si è determinata a causa
della pessima legge elettorale con cui si è votato ad aprile dello
scorso anno. Una gestione in cui (fino alla nuova legge elettorale) il
centrosinistra non dovrebbe fingere di considerare un dettaglio la mancanza dei
numeri al Senato e il centrodestra non dovrebbe farne un motivo di richiesta
continua di dimissioni del governo.
In questo quadro andrebbe posta la questione del voto al Senato sulla presenza
dei militari italiani in Afghanistan. Sul nodo delle missioni internazionali si
impone un discorso di verità. La mia convinzione è che, allo
stato, per quanto riguarda gli impegni all’estero dei militari, un governo di
centrodestra non farebbe nulla di diverso da quanto sta facendo il
centrosinistra. Anche in Afghanistan. In quel Paese sono impegnati duemila
militari italiani che operano a Herat e a Kabul sulla base di impegni assunti
in sede Nato dal governo di centrodestra e confermati dal centrosinistra. A
Kabul e a Herat non ci si occupa di logistica e salmerie. Tutt’altro. Si tratta
di aree difficili da presidiare, in cui i nostri militari rischiano di essere
l’obiettivo di attacchi talebani da fronteggiare e respingere con le armi. Mi
chiedo: cosa farebbe di diverso un governo di centrodestra? Impegnerebbe le
nostre truppe anche nella partecipazione attiva alle operazioni di
combattimento ai confini con il Pakistan? Posso sbagliare ma non credo che lo
farebbe.
Intendiamoci, discutendo del carattere della nostra missione in Afghanistan
ritornano questioni di fondo che attengono alla concezione che gli europei,
conclusa la storia del Novecento, hanno della guerra. Con il diffondersi di una
repulsione morale e politica verso di esso l’evento bellico sembra scomparire
dalla coscienza collettiva degli italiani e degli europei mentre a prevalere
è una concezione della sicurezza quasi svincolata dalla guerra. Si
tratta di questioni cruciali che andrebbero seriamente approfondite. In quanto
alla drammatica urgenza della questione afgana, non credo che la diffidenza
verso un’ulteriore escalation militare abbia origine, come sostengono alcuni,
da una incapacità degli europei e degli italiani di comprendere fino in
fondo la pericolosità della minaccia terroristica. La discussione con
gli americani più che il giudizio sulla pericolosità del fenomeno
terroristico riguarda la ricerca della strategia più adeguata a
combatterlo.
La sensazione diffusa, nelle opinioni pubbliche e nelle elite europee, è
che gli Stati Uniti stiano combattendo privi di una adeguata strategia; che
l’Occidente si trovi coinvolto suo malgrado in una successione di guerre che ne
alimentano una pericolosissima vulnerabilità. Questa è la portata
delle questioni con cui dobbiamo misurarci. Sarebbe quindi una manifestazione
di serietà se le convergenze al Senato nel voto sulla missione in
Afghanistan si liberassero di ogni calcolo ristretto e di parte. Si tratterebbe
di una scelta di responsabilità. Condivisa dalla stragrande maggioranza
degli italiani. Altro che querelle sulle dimissioni del governo! Ma
accadrà? Lo scetticismo è d’obbligo.
L'ufficializzazione in tv dopo 12 anni da
Capo dello Stato
Il presidente francese annuncia che non si
ricandiderà alle prossime presidenziali per un terzo mandato
PARIGI - Nessuna sorpresa. Jacques Chirac ha
annunciato in diretta televisiva il suo addio all'Eliseo. Il presidente
francese, come previsto, ha ufficializzato la sua rinuncia alle prossime
presidenziali e dunque alla possibilità, in verità molto remota,
di un terzo mandato. Dopo oltre quarant’anni di politica ai massimi
livelli, e a sei settimane dal primo turno delle elezioni che
designeranno il Capo dello Stato, Chirac ha annunciato in un discorso alla
nazione la sua decisione di farsi da parte. Almeno per la carica più
importante. Anche se la scelta sembra preludere alla conclusione della sua
carriera politica.
CANDIDATI - Nessuna sorpresa, perché la Francia
si aspettava ormai da tempo il ritiro di Chirac, dopo 12 anni come presidente.
E i francesi sembrano decisamente pronti a voltare pagina, se è vero,
come dicono i sondaggi, che tre quarti della popolazione voleva che Chirac non
si ricandidasse. Chirac ha parlato in tutto per una decina di minuti: senza
accennare minimamente alle polemiche che lo hanno sovente accompagnato, si
è detto «orgoglioso» del proprio operato alla guida del Paese. Ha
peraltro evitato di indicare chi sosterrà alle imminenti presidenziali,
evitando dunque di schierarsi dalla parte del candidato del centro-destra,
Nicolas Sarkozy, attuale ministro dell'Interno e suo ex delfino, che guida
adesso l'Ump, l'Unione per un Movimento Popolare, il partito conservatore
fondato proprio da Chirac. Sarkozy, dato dai sondaggi in costante ma ridotto
vantaggio sugli avversari, in precedenza aveva dichiarato che un eventuale
appoggio pubblico da parte dell'attuale inquilino dell'Eliseo sarebbe stato «un
evento politicamente importante», ma aveva aggiunto di non aspettarselo, come
è poi in effetti avvenuto. Il ministro è insidiato sempre di
più dal centrista Francois Bayrou che, in un sondaggio pubblicato oggi
dal settimanale 'Le Journal du Dimanche', per la prima volta è dato alla
pari al primo turno di voto, il 22 aprile, con la socialista Segolene Royal: 23
per cento per entrambi, contro il 29 per cento a Sarkozy.
IL DISCORSO - «Al termine del mandato che mi
avete conferito, sarà venuto per me il momento di servirvi in una
maniera differente. Non chiederò i vostri voti né il vostro sostegno per
un nuovo mandato», ha annunciato Chirac, entrando subito in argomento. «Sono
fiero del lavoro che abbiamo svolto insieme», ha aggiunto, citando specificamente
la riforma del sistema pensionistico, i miglioramenti introdotti nelle
condizioni di vita degli anziani e dei portatori di handicap, la riduzione
della disoccupazione e il freno alla criminalità. «La Francia non
è un Paese come gli altri», ha quindi sottolineato, invitando i
connazionali a difenderne i principi nel mondo. «La Francia ha
responsabilità particolari, ha il retaggio della propria storia, e dei
valori universali che ha contribuito a creare».
12
marzo 2007
Il
NordOvest resta al comando, ma dà segni di stanchezza. Questo il quadro
emerso dalla ricerca condotta da Il Sole 24 OreCentro Studi Sintesi di Venezia
sulla distanza delle regioni italiane dagli obiettivi di Lisbona 2010.
La fotografia, scattata mettendo a fuoco i quattro maggiori target europei —
occupazione, innovazione, coesione sociale e sostenibilità ambientale
—evidenzia la profonda eterogeneità del territorio nazionale: Valle
d'Aosta, Piemonte, Abruzzo e Lombardia sono ai vertici, mentre Sardegna,
Sicilia, Puglia, Campania e Calabria sono le più distanti dal traguardo
Ue. Ma se la meta è più vicina per i campioni nazionali, gli
stessi iniziano a rallentare la loro corsa, superati dal ritmo più
intenso delle regioni più lontane. Il quadro globale disegna comunque un
Paese che ha ancora un lungo cammino da percorrere. Soprattutto sul piano
dell'occupazione,dove il Sud regala il bilancio più sfavorevole e la
media nazionale denuncia una distanza ancora significativa dagli obiettivi.
Lontano anche il traguardo in tema di coesione sociale. Qui, tra gli ultimi,
oltre alle regioni del CentroSud, spicca una regione ad alto sviluppo
tecnologico come la Lombardia.
Meno sfavorevole, invece, il bilancio globale nel campo della sostenibilità
ambientale, dove si registrano diverse realtà già allineate agli
obiettivi.È il caso di Abruzzo, Calabria, Molise, Umbria, Toscana,
Trentino Alto Adige e Valle d'Aosta.
Il bilancio complessivo sui progressi fatti nel campo dell'innovazione regala
un dato positivo. La media nazionale registra una discreta vicinanza ai
traguardi di Lisbona, nonostante la presenza di regioni —soprattutto
concentrate al Centro Sud — totalmente escluse dal processo di sviluppo.
Luci e ombre, dunque, nella performance dell'Italia, come già confermato
nei giorni scorsi anche dal rapporto del Center for Europea reform, presentato
dall'Associazione Glocus.
«Dobbiamo recuperare il terreno perso negli ultimi anni— commenta il ministro
delle Politiche comunitarie e del commercio estero, Emma Bonino — ma la strada
che stiamo battendo è quella giusta. Come ha confermato venerdì
scorso il Consiglio europeo, prendendo atto dei progressi fatti finora e
invitando l'Italia ad andare avanti. Le difficoltà saranno molte,lo
sappiamo,perché il Paese soffre di un'incrostazione corporativa che si
ripercuote sui governi,ma il mondo è andato talmente avanti che non si
può più aspettare. L'importanza di Lisbona per il futuro della
nostra economia è ormai davanti agli occhi di tutti ed è cresciuta
la consapevolezza che senza innovazione e sviluppo non esiste domani ». «La
sfida del Governo sarà quella di integrare le risorse nazionali con
quelle locali — aggiunge Linda Lanzillotta, ministro degli Affari regionali e
delle autonomie locali —. Le potenzialità che le regioni possono
esprimere sono molte e lo sviluppo dovrà seguirele vocazioni del
territorio. Bisognerà puntare sulla liberalizzazione del mercato dei
servizi, sulla semplificazione per l'attività delle imprese e
sull'efficienza delle risorse. Con uno sforzo maggiore di trasparenza, per le
regioni, nella gestione dei fondi europei e con un'attenzione più
stringente sui reali obiettivi di Lisbona».
ROMA
Negli incubi del cattivo contribuente il Grande Fratello Fiscale assomiglia ad
una piovra. Un impalpabile spettro che scruta ogni angolo della vita privata,
il conto in banca, per trovare le prove dell’infedeltà nei confronti
dello Stato. E però, se si osserva come l’Agenzia delle Entrate e la
Guardia di Finanza scovano gli evasori si scopre che molto spesso la prima
traccia non ha niente a che vedere con i sofisticati strumenti in mano all’amministrazione
fiscale. Gli esposti in tribunale, la lettura attenta degli annunci economici,
di compravendita e affitto delle case. Solo l’anno scorso l’Agenzia delle
Entrate ha fatto - con successo - più di ventimila accertamenti
immobiliari. Oppure, nel caso delle auto, il controllo alla Motorizzazione di
quelle in proprietà, soprattutto quando di lusso e magari intestate a
società di San Marino. Si incrociano targa del veicolo e dati sul nucleo
familiare - et voilà - ecco scovato il superevasore.
Gli acronimi degli strumenti di cui si servono gli esperti informatici del
Fisco spesso spaventano, oppure appaiono falsamente innocui: Anagrafe
Tributaria, sistema «Amico» - un software che a dispetto del nome seleziona i
soggetti a rischio evasione - Pandora, per il controllo della denuncia delle
ristrutturazioni edilizie. Ma uno degli strumenti di maggior successo delle
Finanze è l’«Attività di analisi e ricerca». Rossella Orlandi,
direttore centrale aggiunto accertamento, la definisce «la normale osservazione
della realtà che ci circonda». Mentre gli informatici mettono a punto i
più sofisticati data-base, la GdF ha capito che era necessario
rafforzare metodi semplicissimi. E di condividerli fra i diversi nuclei
territoriali. Spiega Orlandi: «L’anno scorso ad esempio siamo andati in alcuni
porti, e abbiamo preso i dati delle barche attraccate, un indice senza dubbio
significativo di ricchezza. Una volta risaliti ai proprietari e alle
dichiarazioni, l’incrocio dei dati era bell’e fatto».
Gennaro Vecchione, comandante del nucleo speciale della Guardia di Finanza cita
fra i tanti un caso: i montatori di impianti Gpl. «Chi lo la mettere sull’auto,
ha bisogno di un certificato di conformità alla Motorizzazione. Ebbene,
basta risalire a quei certificati per accertare l’evasione dell’installatore».
Con questo metodi banali, dice Vecchione, talvolta vengono scovati i grandi
evasori. L’ultimo caso è di un mago-sensitivo palermitano, Giuseppe Lo
Burgio. Un finanziere zelante lo ha incrociato a bordo di una Ferrari fra le stradine
del quartiere popolare della Noce. Si è segnato il numero di targa e
l’ha girato al comando della polizia tributaria. Il ferrarista era totalmente
sconosciuto al Fisco. In dieci anni aveva evaso con i consulti circa tre
milioni di euro.
Certo, si tratta di casi singoli, che non fanno la gran parte degli
accertamenti. La differenza fra il prima e il dopo della rivoluzione
informatica per il Fisco è nella capacità di fare controlli di
massa. Semplici data-base che incrociano di tutto: dalle utenze di gas, luce, e
spazzatura - messi a disposizione dai Comuni grazie alla Finanziaria del 2004 -
fino agli annunci sui giornali gratuiti di compravendita degli immobili.
«Nulla di più banale», dice Orlandi. «Se non coincidono intestatario
delle utenze e proprietario nella gran parte dei casi significa un affitto in
nero. Sembrerà strano, ma questo ad esempio è un ottimo strumento
di accertamento, che ci permette di recuperare parecchio evaso. Solo l’anno
scorso - spiega - abbiamo fatto circa ventimila controlli immobiliari». Per un
appartamento affittato a mille euro al mese un anno di imposta evasa vale circa
diecimila euro di sanzione. Più la multa per la mancata iscrizione del
contratto di affitto all’ufficio del Registro. Rischi di incorrere in ligi
contribuenti: pochi. «Abbiamo constatato un basso numero di ricorsi».
Così che l’Agenzia delle Entrate sta mettendo a punto le liste per
un’altra ondata di accertamenti. «Quest’anno contiamo di farne qualche decina
di migliaia».
La redditizia attività di accertamento immobiliare - dice Orlandi -
talvolta viene fatta con «azioni di intelligence». E’ quello che l’anno scorso
il nucleo di Roma ha fatto per aggredire il fenomeno degli affitti in nero
all’Università mescolando un gruppo di finanzieri fra gli studenti. A
rimanere impigliati nella maglia dei controlli sono rimaste gran parte delle
agenzie immobiliari e della loro attività. Ai finanzieri è
bastato controllare i loro archivi.
In
diecimila a Palermo per dire NO alla privatizzazione dell’acqua.
Acqua
forza vitale. Acqua fonte di vita. Bene comune, diritto inalienabile. No alla
gestione privata del servizio idrico in Sicilia. No ai rincari delle tariffe.
Stop agli sprechi. Stop alla gestione privata dell’Ato idrico di Palermo.
L’acqua non è una merce, ma un bene della collettività. Queste le
parole d’ordine degli organizzatori della manifestazione contro la
privatizzazione dell’ acqua, indetta dal Forum dei movimenti siciliani per
l’Acqua, dal coordinamento dei sindaci siciliani dalla Camera del Lavoro di
Palermo, dalle segreterie regionali dei partiti dell’Unione e da un cartello di
associazioni e movimenti. Sindaci, comitati civici, sindacati, esponenti
politici e cittadini, in diecimila provenienti da ogni parte della Sicilia si
sono dati appuntamento sabato mattina alle 10 nel capoluogo siciliano, sotto
una pioggia battente, per rivendicare la gestione pubblica di un bene pubblico
inalienabile, l’acqua, l’emanazione immediata di una moratoria delle procedure
di affidamento, l’approvazione di una legge che stabilisca l’esclusiva gestione
e governo pubblico del servizio idrico integrato, la rimodulazione del servizio
tariffario e una riduzione degli sprechi. Presenti numerosi esponenti della
società civile, del sindacato e della politica. Da Marco Bersani, del
Forum italiano dei Movimenti per l’acqua, al presidente dell’Antimafia,
Francesco Forgione, a Leoluca Orlando, candidato a sindaco al Comune di
Palermo. Un coro unanime con un unico obiettivo: bloccare la trattativa che a
breve consegnerà l’affidamento della gestione dell’Ato idrico Pa 1 alla
società "Acque potabili spa", che si è aggiudicata un
appalto trentennale da un miliardo di euro. I promotori dell’iniziativa
definiscono questa operazione una chiara anticipazione di un graduale processo
di dismissione dell’Amap, con pesanti conseguenza sulle tasche dei cittadini
che vedranno un aumento delle tariffe. Ipotesi questa peraltro annunciata dalla
stessa società, che prevede un aumento di un euro e 30 centesimi a metro
cubo (praticamente più del costo di un litro di benzina). La
privatizzazione del servizio idrico è un processo già in atto in
tutto il territorio nazionale, che interessa la quasi totalità delle
regioni italiane, da nord a sud. Un processo che nei fatti apre al libero
mercato settori dell’economia e beni di interesse pubblico, che prima ne erano
esclusi. Un’inversione di tendenza assai preoccupante anche e soprattutto alla
luce degli stravolgimenti climatici in atto. Intanto i promotori della campagna
tengono a sottolineare che la mobilitazione siciliana inaugura il primo di
tanti appuntamenti previsti in tutta Italia per la settimana dell’acqua in
programma dal 17 - 25 marzo prossimi. Tra i presenti anche Padre Alex Zanotelli
che ha affermato<>. A attendere il corteo a Piazza Verdi i banchetti
della campagna «Acqua Pubblica, ci metto la firma!», per la sottoscrizione
della proposta di legge di iniziativa popolare del Forum Italiano dei Movimenti
per l’Acqua, che ad oggi ha raccolto circa 80.000 mila firme. Molti gli
interventi che chiudono la mobilitazione. Quello di Marco Bersani, del Forum
italiano dei Movimenti per l’acqua, quello dei sindaci dei comuni madoniti di
Caltavoturo e Bivona. Infine Maurizio Calà, segretario della Camera del
lavoro di Palermo, che ha letto un messaggio inviato da Rita Borsellino ai
manifestanti in cui ha annunciato la presentazione di una mozione dell’Unione
sulla gestione delle risorse idriche “per portare- continua la lettera- il
dibattito dentro l’assemblea Regionale e impegnare il governo ad una nuova
strategia sulle risorse idriche. Finalmente a misura dei cittadini".
+ La Stampa 11-3-2007 Nel silenzio delle Camere Michele Ainis
L’Unità
10-3-2007 Cittadini spiati illegalmente: Fbi sotto accusa
Virgilio notizie 10-3-2007 Parte di Cdl illiberale, ma
esecutivo ha creato caos
Il Mattino di padova 11-3-2007 Il
Bossi-Pensiero in pillole
Dopo
Vicenza, Roma. E di nuovo va in piazza lo spettacolo di ministri che
manifestano per chiedere ai ministri questo o quel provvedimento, di leader
della maggioranza di governo che marciano in corteo per incalzare la
maggioranza di governo. Nella prima Repubblica non era mai successo, né - fin
qui - nella seconda. D’altronde, neppure il dr. Jekyll si trasformava in mr.
Hyde senza cambiarsi d’abito e d’aspetto; e men che mai poteva farlo
trattenendo nello stesso istante le sue due identità. Ma c’è una
logica in questa contorsione logica. C’è un presupposto in questa sfida
al presupposto. Ogni democrazia si regge infatti su un governo che decide, su
un Parlamento che legifera: la decisione politica s’esprime per l’appunto nella
legge. Viceversa la legge è ormai un fantasma nelle Gazzette ufficiali,
mentre Camere e governo sono chiusi da tempo per restauri. E allora la piazza
ne costituisce il surrogato, al pari del dibattito in tv, dell’intervista
concessa a un quotidiano, dell’estenuante giro di consultazioni come quelle che
s’intrecciano sulla riforma della disciplina elettorale.
Se
la produttività crolla dell’80 per cento
Le cifre sono quantomai eloquenti. Nei primi dieci mesi della legislatura
(maggio 2006-febbraio 2007) il Parlamento ha battezzato in tutto 30 leggi; nel
medesimo periodo della legislatura precedente (maggio 2005-febbraio 2006) ne
aveva licenziate 148. Dunque un crollo dell’80% nella produttività
parlamentare; ma se poi da quest’elenco si depennano i provvedimenti obbligati
o di routine (quali il rinnovo delle commissioni d’inchiesta, le leggi
comunitarie e di bilancio, quelle che ratificano trattati internazionali, o
anche la stessa conversione dei decreti), rimangono appena 6 leggi appese al
filo. E cioè l’indulto, il finanziamento della missione militare in
Iraq, la nuova disciplina degli esami di Stato, il blocco della riforma
giudiziaria di Castelli, nonché un paio d’interventi sulla casa e in materia
societaria.
E
la piazza diventa il surrogato delle Camere
Ecco: nasce da quest’impotenza il bisogno d’urlare a squarciagola nelle piazze,
quando basterebbe un voto in Parlamento per girare i desideri in legge. E
l’impotenza, come tutti sanno, ha il suo santuario nel Senato. Che infatti si
è riunito in assemblea plenaria per appena 5 volte fra dicembre e
gennaio; mentre le votazioni sono state
Sta di fatto che da due primavere, da quando è iniziata la XV
legislatura, viviamo un po’ tutti sotto ipnosi, in una sorta d’allucinazione
collettiva. I notiziari t’annunciano la legge sui Dico, ma anche la riforma
giudiziaria di Mastella o il giro di vite del ministro Bianchi sulla sicurezza
stradale. Tu a seconda dei casi approvi o disapprovi, e magari vai in ansia
pensando ai 6 mesi di galera che ti toccano se parli al cellulare mentre guidi,
o se hai bevuto qualche bicchiere a cena, prima di metterti al volante. Ascolti
le reazioni, le esternazioni, le controdichiarazioni. Ma in realtà non
c’è nessuna legge; nel migliore dei casi c’è solo un «disegno» di
legge, ossia un progetto, un’intenzione. Progetto per lo più annunciato
dal ministro proponente prima che il governo lo deliberi (l’annuncio al
quadrato); e per lo più rinviato di seduta in seduta dal Consiglio dei
ministri prima di spedirlo al Parlamento, che a sua volta ne rinvierà
l’esame alle calende greche (il rinvio al quadrato). Sicché è giusto
preoccuparsi dell’inefficienza di chi ci governa. Ma quanto all’efficienza no,
non è il caso d’allarmarsi. È tutta una finta, ’n’ammuina.
micheleainis@tin.it
La coincidenza fra l'offensiva alleata nel
Sud dell'Afghanistan e il sequestro
dell'inviato di Repubblica Daniele Mastrogiacomo sta cambiando, agli occhi
dell'opinione pubblica, il significato della nostra presenza militare in quel
contesto. Non ci si può più rifugiare dietro i giochi di parole.
La situazione è precipitata e quella che, ancora poche settimane fa, si
poteva presentare agli italiani, in modo quasi rassicurante, come una «missione
di pace e di ricostruzione dell'Afghanistan», si mostra per ciò che di
fatto è o è diventata: una missione di guerra, benedetta
dall'Onu, al fianco dei nostri alleati occidentali. Nel dibattito italiano le
vere poste in gioco in Afghanistan vengono raramente menzionate. La prima
riguarda il duello fra Occidente e terrorismo islamico. Se i talebani
riprenderanno il controllo dell'Afghanistan, la galassia terrorista avrà
conseguito una vittoria straordinaria e galvanizzante contro gli Stati Uniti e
i loro alleati. L'islamismo radicale, sconfitti e umiliati i Paesi occidentali,
vedrà crescere ancora di più la propria forza e il proprio
prestigio entro il mondo islamico. Quali conseguenze per quel mondo, per
esempio per i traballanti governi più omeno alleati dell'Occidente (dal
Pakistan all'Arabia Saudita), avrebbe una vittoria dei talebani e dei loro
alleati di Al Qaeda? E, ancora, quali effetti avrebbe sugli atteggiamenti dei
gruppi fondamentalisti ampiamente rappresentati nell'immigrazione islamica in
Europa? La seconda posta in gioco riguarda la sopravvivenza della Nato.
Potrebbe la Nato sopravvivere a una
sconfitta in Afghanistan?
E, a maggior ragione, potrebbe sopravvivere se nella sconfitta risultasse
determinante il gioco di «scaricabarile» di fatto praticato dai principali
Paesi europeo-continentali, Francia, Germania, Italia, Spagna, ai danni degli
altri alleati? Come può rimanere in piedi un'alleanza militare nella
quale solo alcuni, nell'emergenza, sono chiamati a combattere e a morire mentre
altri, dicendo no alle richieste d'aiuto, rimangono a presidiare le retrovie? I
suddetti Paesi europeo- occidentali dovranno porsi il problema, nei prossimi
giorni e settimane, se siano interessati a vedere morire la Nato in Afghanistan
e, in caso affermativo, con che cosa intendano sostituirla. Le due questioni
(vogliamo impedire la vittoria talebana? Vogliamo fare sopravvivere la Nato?)
acquistano in Italia una valenza particolare a causa della composizione della
maggioranza di governo, del fatto che alcune sue componenti non temono la
vittoria talebana né un possibile tramonto della Nato. Difficilmente una
missione di guerra può essere condotta con successo in tali circostanze.
In tempi di pace, le democrazie ben funzionanti si affidano al bipolarismo (che
noi italiani abbiamo solo da poco conquistato). In tempi di emergenza, quelle
stesse democrazie ben funzionanti si affidano spesso a governi di emergenza, di
unità nazionale. E' infatti essenziale, soprattutto in caso di guerra,
che le forze che sorreggono il governo ne condividano gli scopi. In occasione
della recente crisi di governo si è adombrata la possibilità di
un esecutivo di «larghe intese» e il tema continua a circolare. Ma se ne
è parlato solo con riguardo alla necessità di fare una nuova
legge elettorale. Se le cose volgeranno al peggio nel teatro di guerra afghano
può essere che di «larghe intese» ci si trovi ancora a discutere. Questa
volta, però, al fine di affrontare ben più drammatiche questioni.
11 marzo 2007
L'Fbi
ha usato in maniera impropria e in alcuni casi addirittura illegale il Patrioct
Act (la controversa legge contro il terrorismo firmata dal presidente Usa George
W.Bush subito dopo gli attentati dell'11 settembre 2001) per spiare e ottenere
informazioni personali su cittadini statunitensi e non. A dirlo un'inchiesta
dell'Ispettore Generale, ovvero il braccio investigativo del Dipartimento di
Giustizia americano, i cui risultati sono stati diffusi in un dettagliatissimo
report di 199 pagine scaricabile anche dal sito internet del Dipartimento di giustizia.
Sotto accusa in particolare le “National Security Letters”, ovvero una sorta
autorizzazioni in bianco che, secondo quanto stabilito dal Patrioct Act, gli
agenti dell’Fbi dovevano solo riempire con nome e cognome della persona su cui
volevano investigare per ottenere tutte le informazioni possibili da banche,
assicurazioni, internet provider, compagnie telefoniche e quant’altro.
Ovviamente le “letters” dovevano essere usate in casi di emergenza e poi sempre
e comunque seguite a un’autorizzazione del giudice. Ma questa estrema
libertà di azione non sarebbe stata sufficiente al Federal Bureau che ne
avrebbe abusato.
Secondo gli ispettori per almeno tre anni, dal 2003 al
L'inchiesta non ha tuttavia trovato nessuna indicazione di condotta criminale.
Secondo gli ispettori a causare questa situazione sarebbero stati "errori
personali" degli agenti e un'archiviazione dei dati disorganizzata e
inadeguata. I dati sui controlli a tappeto dell’Fbi sui cittadini statunitensi
(ma anche stranieri) parlano comunque da soli. Secondo il database dell’Fbi nel
2000, prima dell’entrata in vigore del Patrioct Act, le richieste di controlli
erano state 8500. Nel 2003 erano già 39mila, nel 2004 56mila, scese a
49mila nel 2005. Ma questi dati, ci spiega l’Ispettore Generale, sono per lo
meno «approssimativi». Analizzando i database dell’Fbi e i report al Congresso
Usa infatti i commissari hanno scoperto alte percentuali di omissioni,
segnalazioni incomplete o errate: dal 6 al 17%.
Fatto sta che la notizia ha immediatamente scatenato reazioni politiche. Il
senatore di New York Charles Schumer, membro della commissione Giustizia del
Senato, ha definito le conclusioni del rapporto «una ferita nella fiducia
pubblica profondamente inquietante» e ha sottolineato che «qualcuno avrà
molto da spiegare».
In effetti il direttore dell'Fbi in persona, Robert Muller (nella foto)
ha ammesso l'esistenza di un «problema serio» e si è preso le proprie
responsabilità. «Sono io il responsabile - ha detto Muller durante una
conferenza stampa - Avrei dovuto creare un sistema di revisione, e non l'ho
fatto. Avrei dovuto fornire formazione e supervisione ai nostri agenti, e non
l'ho fatto. La responsabilità è mia, e sono impegnato a riparare
questi errori».
Comunque sia, Muller ha deciso di non rassegnare le proprie dimissioni. D’altra
parte non è la prima volta che l’Fbi finisce sotto accusa per violazioni
della privacy dei cittadini Usa. «Il rapporto dell’Ispettore generale non ci
sorprende affatto – ha dichiarato Anthony D. Romero, direttore dell’Aclu,
importante associazione per i diritti civili negli Usa – Ma resta il fatto che
l’Ispettore generale e l’Fbi sono parte del problema e non possono essere
considerate come una soluzione affidabile del problema stesso. Il Congresso
deve immediatamente abrogare questo pericoloso Patriot Act».
Pubblicato il: 10.03.07
Modificato il: 10.03.07 alle ore 13.12
Tre esplosioni vicino alla sede dei lavori.
Gli Usa: i paesi vicini all'Iraq facciano di più BAGHDAD A detta dei
maggiori protagonisti, la conferenza internazionale di pace per l'Iraq
che si è svolta oggi a Baghdad è stata "positiva e
costruttiva", e ha messo a segno "risultati tangibili", anche se
non sono mancati gli "scambi vivaci", così come non sono
mancati, all'esterno, i sanguinosi attacchi suicidi con le autobomba e con le
granate. Aprendo i lavori in diretta Tv, dopo la lettura di versetti del
Corano, il premier iracheno Nuri al Maliki ha subito esortato "gli Stati
internazionali o regionali" ad "astenersi dall'interferire o
influenzare gli affari nazionali in Iraq", evitando ogni "sostegno a
gruppi etnie o partiti", perchè il terrorismo che semina morte e
distruzione in Iraq, ha detto, "è lo stesso che colpisce in Arabia
Saudita, Giordania, a New York, a Madrid, a Londra". Quasi a sottolineare
le sue parole, poco dopo la sala del palazzo in cui si svolgeva la riunione
veniva scossa dall'esplosione, poco distante, di tre colpi di mortaio.
L'attacco è stato poi rivendicato da due gruppi sunniti, l'Esercito Islamico
in Iraq e Jiash al Rashidin: "se gli ospiti della conferenza non sono in
grado di garantire la propria sicurezza - si chiedono in un comunicato in web -
come posso controllare la situazione in Iraq?. E ancora, nel grande quartiere
sciita di Sadr City esplodeva una autobomba, causando la morte di 20 persone e
il ferimento di una quarantina di altre. Nel pomeriggio, una seconda autobomba
nella zona di Karrada ha causato poi la morte di una persona e il ferimento di
altre tre. Ma non è tutto. Con notevole tempismo uno sconosciuto gruppo
ha diffuso un video di rivendicazione del sequestro di due tedeschi avvenuto il
6 febbraio, in cui si concedono a Berlino 10 giorni "perchè annunci
e inizi il ritiro delle sue truppe dall'Afghanistan". Per la prima volta,
il Paese dei talebani e l'Iraq vengono accomunati in "una sola nazione,
con una sola religione" da un gruppo terroristico, secondo il quale se la
richiesta non verrà accolta, i tedeschi "non vedranno nemmeno i
corpi di questi due agenti", cioè Hannelore Krause di 61 anni e il
figlio di 20, che nel filmato appaiono in lacrime. Anche l'ambasciatore Usa
a Baghdad Zalmay Khalilzad ha frattanto esortato tutti i vicini dell'Iraq a
"respingere fermamente il principio secondo cui è accettabile la
violenza selettiva contro alcune categorie di iracheni o contro le forze della
coalizione", e quindi a "mettere fine al flusso di combattenti, armi
ed altri supporti letali alle milizie e ad altri gruppi armati illegali".
Un'esortazione evidentemente diretta a Siria e Iran, con i cui delegati, ha
riferito il ministro degli esteri iracheno Hoshiar Zebari, Khalilzad ha avuto
uno "scambio vivace", confermato dallo stesso ambasciatore americano,
che ha detto di aver "parlato con loro (gli iraniani e i siriani) in
maniera diretta, in presenza degli altri", per spiegare "le fonti
della nostra preoccupazione". Sia Zebari che Khalilzad hanno voluto
sottolineare che nella riunione si è parlato solo di Iraq, e che quindi
gli altri scottanti dossier regionali o internazionali sono rimasti fuori,
mentre il vice ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi ha voluto
precisare che non ci sono stati incontri "uno a uno" con gli
americani. Araghchi ha inoltre affermato che "la presenza delle truppe
straniere non può aiutare la sicurezza in Iraq a lungo termine" e
pertanto ha sollecitato "un calendario per il ritiro". Il più
soddisfatto di tutti è apparso il ministro Zebari, che ha parlato di
"risultati tangibili", vale a dire la decisione di formare comitati
sul problema della sicurezza, quello dell'energia e quello dei rifugiati, che
in particolare riguarda oltre due milioni di persone all'estero e un milione e
mezzo all'interno dell'Iraq. Khalilzad ha poi precisato che saranno comitati
composti da rappresentanti dei Paesi della regione. Il diplomatico americano ha
inoltre confermato che nel mese di aprile si terrà una nuova conferenza
sull'Iraq, ad Istanbul, e che questa volta sarà a livello di ministri
degli esteri. "La Turchia - ha affermato - si è offerta di ospitare
la riunione ad Istanbul e il segretario di Stato statunitense (Condoleeezza
Rice) ha già detto che sarà presente". Secondo diverse
fonti, al prossimo appuntamento, oltre agli stessi partecipanti di oggi - vale
a dire i cinque Paesi del Consiglio di sicurezza dell'Onu, i Paesi confinanti
dell'Iraq oltre a Egitto e Bahrein, la Lega Araba, la Conferenza islamica e
l'Onu - dovrebbero esserci anche i Paesi del G-8, e quindi anche l'Italia.
BAGHDAD (Reuters) -. "Chiediamo che
gli stati regionali e internazionali smettano di interferire o influenzare gli
affari dello Stato iracheno appoggiando una certa setta, gruppo etnico o
partito", ha dichiarato Maliki come risulta dalla trascrizione del suo
discorso. L'intervento di Maliki si è svolto nell'ambito di una
conferenza per la sicurezza a Baghdad, che ha visto partecipare vice ministri
degli Esteri e altri funzionari di medio livello da Iran, Siria e Stati Uniti.
Al termine della conferenza, il ministro degli Esteri iracheno Hoshiyar Zebari
ha detto che l'incontro ha dato buoni risultati. "L'incontro è
stato costruttivo e positivo nei fatti, nell'atmosfera e nella composizione
(dei partecipanti)", ha detto Zebari durante una conferenza stampa.
"I temi affrontati durante l'incontro si sono focalizzati sulla sicurezza
e la stabilità dell'Iraq", ha aggiunto Zebari, che, quando i
cronisti gli hanno chiesto un commento su eventuali contatti fra Usa e
Iran, si è limitato a dire: "Ci sono stati incontri, discussioni e
consultazioni". Nel discorso di apertura il primo ministro iracheno ha
rivolto un appello a tutti coloro che hanno interesse alla pace nel Medio
Oriente a unirsi nella lotta contro il terrorismo in Iraq. "Chiamiamo
tutti ad assumere una responsabilità morale adottando una posizione
chiara e ferma contro il terrorismo in Iraq e a cooperare nel mandare via le
forze del terrore", ha proseguito Maliki. IRAN CHIEDE RITIRO TRUPPE USA
L'Iraq ha convocato il vertice per raccogliere appoggi per fermare la violenza
che insanguina il Paese da quattro anni. La conferenza è stata anche una
rara occasione di incontro tra funzionari iraniani e statunitensi in un periodo
di particolare tensione tra Washington e Teheran sul nucleare. L'inviato
iraniano Abbas Araghci ha però detto che non vi sono scati colloqui
diretti con gli americani. Araghci ha inoltre chiesto il ritiro delle forze Usa
dal paese, dicendo che stanno alimentando la spirale di violenza. "La
presenza delle forze straniere non può aiutare la sicurezza in Iraq nel
lungo termine", ha dichiarato il viceministro degli Esteri iraniano. Due
esplosioni hanno scosso la località dove si svolgeva la conferenza
intorno all'ora di pranzo. Un testimone Reuters ha detto che sembravano colpi
di mortaio caduti non molto lontano. L'Iraq ha allo studio un incontro tra
ministri degli Esteri della regione e il gruppo dei G8 ad aprile, ha riferito
un portavoce del governo. Alla conferenza odierna hanno partecipato anche
rappresentanti dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu
-- Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia, oltre a Paesi arabi e
confinanti con l'Iraq. L'ambasciatore Usa Zalmay Khalilzad ha
sollecitato a sua volta i vicini dell'Iraq a fare di più per fermare i
combattenti, le armi e la propaganda locale che alimenta la violenza nel Paese.
"Basta pappagalli, non è
insostituibile" Napolitano: "Legge elettorale?
Un'esigenza" Casini: "Sistema tedesco, o si ridiscute tutto"
Napolitano: "Legge elettorale? Un'esigenza" Casini:
"Sistema tedesco, o si ridiscute tutto"" /> Casini con la
compagna Azzurra Caltagirone RIMINI - "Le esigenze di riforma elettorale
ed istituzionale" sono "obiettive". Lo scrive il presidente
della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel messaggio inviato al congresso de I
socialisti' in corso a Rimini. "Uno sforzo di ulteriore chiarificazione in
vista di possibili evoluzioni del sistema politico è particolarmente
importante nel momento attuale, anche in rapporto al dibattito su obiettive
esigenze di riforma elettorale e istituzionale", afferma il
capo dello Stato. Sul tema della riforma elettorale è
intervenuto oggi anche il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini. "O ci
sarà un sistema proporzionale alla tedesca - afferma l'ex presidente
della Camera - e allora ci sarà un maggiore protagonismo per il centro
oppure se resta questa legge elettorale noi possiamo stipulare un
nuovo patto in cui si ridiscuta tutto: uomini, candidature, programmi".
"E' chiaro - sostiene ancora Casini - che la nostra posizione dà
fastidio. Ma io rispondo con le parole pronunciate da qualcuno che è
più autorevole di me e ha da poco lasciato la guida di una grande
organizzazione cattolica: meglio contestati che irrilevanti...". "Noi
- sottolinea ancora Casini - diciamo no agli yesmen che si limitano a ripetere
slogan che qualcun altro conia. Qui il problema della leadership non si pone,
se io avessi avuto ambizioni personali me ne sarei stato defilato. Invece io ho
voluto andare in avanscoperta perché con gli yesmen e i pappagalli non si
costruiscono alternative alla sinistra". Il leader dell'Udc poi si
sofferma su Berlusconi: "lui è campione del mondo - dice - perché
ha dimostrato grande forza e perché ha tantissimi voti. Ma guai a credere che
ci sia un uomo solo che risolve i problemi di tutti. Nessuno è insostituibile".
10-03-2007 14:37 Articoli a tema | Tutte le
news di Politica Roma, 10 mar. (APCom) - Con il Ddl sui Dico il Governo la
messo in moto una macchina, per poi lasciarla però senza benzina.
Lo dichiara il radicale Daniele Capezzone, della Rosa nel pugno, Presidente
della Commissione Attività produttive della Camera. "Purtroppo -
osserva - un pezzo di Cdl sta tenendo un comportamento illiberale in materia di
unioni civili: e a mio avviso, questo atteggiamento chiuso non corriponde ai
sentimenti di quella parte dell'elettorato. Comportamento negativo (e
situazione per certi versi anche più grave) pure dall'altra parte.
Nonostante l'orientamento di gran parte dell'elettorato di centrosinistra,
è proprio il Governo che ha creato il caos, e che ha le maggiori
responsabilità". "Infatti - prosegue - c'erano proposte di
iniziativa parlamentare che sono state fermate, in attesa della proposta del
Governo. Era chiaro che sarebbe stato un testo al ribasso, e infatti è
stato così. Poi, non pago di questo, il Governo ha messo la questione
sul binario morto del Senato, ha espunto il tema dalle dodici priorità
di Prodi, il quale si è ulteriormente smarcato in un suo recente
intervento parlamentare". "Insomma - conclude - prima si sono
sgonfiate le ruote alla macchina, e poi la si è fatta partire senza benzina.
Questo non cancella ne' copre anche le responsabilità della minoranza,
ma -lo ripeto- sono Governo e maggioranza a doversi assumere il carico delle
scelte compiute. Una sequenza di autogol".
Ma sarà applicato l'indulto Dentista
condannato a un anno di carcere Accusa di peculato. Non dava all'ospedale la
quota di guadagni dell'attività privata: 6mila euro di Claudio
Ernè Un anno di carcere. Lo ha inflitto il giudice Massimo Tomassini al
dentista Roberto Coceano, 56 anni, dirigente medico della Clinica odontoiatrica
e stomatologica del Maggiore. Era originariamente accusato di appropriazione
indebita ai danni del Sistema sanitario nazionale ma nel
corso del processo il capo di imputazione è stato modificato nella
più grave ipotesi di peculato. E per peculato è stato condannato
senza il beneficio della condizionale. Ovvio il ricorso in appello del
difensore, l'avvocato Viviana Rodizza e l'applicazione del recente indulto.
Niente carcere, nemmeno nella più astratta ipotesi. Secondo l'inchiesta
diretta dal pm Federico Frezza il medico non ha versato all'Azienda ospedaliera
quanto ha percepito nella sua attività ambulatoriale privata, esercitata
nell'ambito di un rapporto "intrameonia" allargato. Lavorava come
dentista non solo nella Clinica ospitata dalla palazzina di via Stuparich,
adiacente all'Ospedale Maggiore, ma anche nel suo studio di via Slataper 2. Lo
studio è stato chiuso sei mesi fa per iniziativa del medico, quando
l'inchiesta è giunta alla stretta finale. "Sono trent'anni che lavoro
onestamente. Non ritengo di meritare questa condanna. Molti miei colleghi
lavorano furbescamente in nero e io sono l'unico ad aver chiesto all'Azienda
ospedaliera di poter esercitare anche l'attività privata. Voglio vedere
chi è tanto ligio da emettere una fattura se il cliente non la vuole o
non la chiede" ha affermato polemicamente il medico. Il dentista aveva
ottenuto una specifica autorizzazione a lavorare privatamente. Quanto aveva
percepito per questa attività avrebbero dovuto comunque essere versato
all'azienda ospedaliera che a fine anno gli avrebbe restituito il 93 per cento
dei suoi incassi privati regolarmente fatturati, trattenendo per sè solo
il 7 per cento. Invece l'inchiesta avviata dalla Tributaria ha scoperto una
dozzina di clienti del suo studio che hanno pagato le prestazioni al dentista
ma non hanno ottenuto alcuna fattura. L'imput era arrivato da uno stretto
collaboratore del medico che ha anche indicato agli investigatori dove erano
'custoditi' i libri contabili. Poi la Guardia di Finanza ha inviato 350
questionari ai suoi pazienti con precise domande sulle modalità di
pagamento, Dodici hanno risposto fornendo le informazioni usate poi per il
rinvio a giudizio. Secondo l'inchiesta, nel 2002 e nel 2003 il dottor Coceano
si è trattenuto complessivamente poco più di seimila euro. Il
danno subito dal sistema sanitario nazionale è
inferiore ai 400 euro, visto che solo il 7 per cento dei suoi incassi privati
sarebbe stato trattenuto dalla medicina pubblica. Nel processo svoltosi con
rito abbreviato, l'avvocato Alfredo Antonini ha rappresentato l'Azienda
ospedaliera che si è costituita parte civile contro il proprio
dipendente. Ed è stato proprio l'avvocato Antonini a chiedere il
mutamento dell'originario capo di imputazione nel più grave peculato. Lo
ha fatto esibendo una sentenza dal 2005 della Corte di Cassazione su un analogo
caso. In sintesi al medico dentista è stato riconosciuto dal giudice
Massimo Tomassini lo status giuridico di incaricato di pubblico servizio e
l'appropriazione indebita si è trasformata nel più grave reato di
peculato. Il medico oltre alle pena detentiva è stato condannato a
rifondere il danno morale, dopo aver già risarcito quello materiale.
Inoltre dovrà pagare più di settemila euro di spese legali e di
giudizio. "Non ho rubato nemmeno un paziente al sistema sanitario
nazionale. Non ho attinto alle liste del Centro di prenotazione" ha
affermato il medico. "Erano clienti miei, vecchi di vent'anni che ho
seguito costantemente in un rapporto privatistico. Alcune fatture non sono
state emesse perché i lavori non erano conclusi. Non sono un pubblico ufficiale
e nemmeno un incaricato di pubblico servizio. Il nostro contratto di medici
è privatistico".
Riforma
elettorale. "Questa settimana c'è il tavolo sulla legge
elettorale. E' la prima cosa sulla quale la Lega si gioca il futuro.
Sarebbe preferibile modificare la legge vigente, per quello che serve.
Non c'è altra possibilità perché altrimenti non si può fermare
il referendum. Comunque no al modello tedesco". Manifestazione
leghista a Roma. "Dobbiamo portare milioni di persone in una grande
manifestazione a Roma, per portare le richieste elaborate dal Parlamento del
Nord. Bisogna avere idee chiare sul processo per il federalismo fiscale perché
questo aiuta le famiglie, i cittadini, i paesi e le città. Per prendere
voti al Nord bisogna parlare di federalismo. Oggi la situazione non è
pericolosa, ma lo può diventare da un momento all'altro".
Omosessuali. "Il concetto di famiglia parallela è sbagliato, ma
è giusto e doveroso riconoscere qualche diritto anche agli
omosessuali". Elezioni amministrative. "Intendo lasciare
libertà di decisione ai gruppi leghisti impegnati nelle prossime
elezioni amministrative su eventuali alleanze politiche o su singole
candidature. Localmente non litigherò con la Lega e i leghisti se non
sono d'accordo con le altre componenti della Cdl dove si voterà per le
amministrative. E' difficile che io mi imponga e li costringa ad alleanze.
L'abbiamo già provato in altri anni: dopo un po' litigano e ci sono casi
in cui siamo finiti in tribunale. Non andrò a impormi con la pistola...
Quello che abbiamo sperimentato in termini di alleanze locali spesso non ha mai
funzionato". Afghanistan. "Se Berlusconi dice che se il governo al
Senato per il voto sull'Afghanistan non avrà i 158 consensi dovrà
dimettersi, come faccio a non essere d'accordo? Faccio parte della Cdl. Per il
governo è un problema di forza minima per sopravvivere. Se non ce l'hai
sei un disperato e ogni secondo sei sempre alla ricerca di aiuti. Tuttavia sono
esigue le possibilità che il governo possa dimettersi in seguito al voto
al Senato. Tutto può essere, ma di solito dov'è caduta una bomba
non ne cade mai un'altra. E' difficile che si ripeta la stessa sequenza di
qualche settimana fa". Nero su bianco. "I vertici dell'assemblea
padana devono mettere nero su bianco tutte le conclusioni a cui giungono i
lavori. E' tempo di far stampare ciò che ci diciamo, così avremo
le idee più chiare e qualcosa di concreto da mostrare. Altrimenti il
processo sul quale stiamo lavorando non si vede. Le idee infatti diventano
creatrici di altre idee e per questo chiedo di avere tutti i documenti
stampati".
Da L’Espresso 8-3-2007 Vi racconto l'impero della
cocaina di Roberto Saviano
Giornale di Brescia 10-3-2007 USA E ONU: LA DROGA AIUTA I TALEBANI
"Lotta dura all'oppio afgano"
BERGAMO - Non solo a scuola. Ora il
bullismo sconfina persino negli oratori. È successo a Bariano, nella
bassa bergamasca. La vittima è un dodicenne brasiliano affetto da
autismo, che è stato insultato e picchiato davanti ai coetanei che lo
filmavano con il telefonino. Il dodicenne ha raccontato che un ragazzo
più grande lo avrebbe prima insultato dandogli dello «sporco
brasiliano», e quando il ragazzino ha reagito sputando, lo ha aggredito,
prendendogli la testa e schiacciandola contro un gradino. Medicato in ospedale
gli è stato diagnosticato un trauma cranico non commotivo. A questo
punto la madre è tornata all'oratorio per avere spiegazioni e si
è vista insultata a sua volta. «I giovani e le madri che erano
lì - ha raccontato - mi dicevano di tornare al mio Paese, qualcuno mi
ha anche gridato "brutta nera" e qualcun altro scattava foto col
telefonino. Mio figlio è malato e la sua malattia lo rende iperattivo,
non sa distinguere fra lo scherzo e la provocazione. È seguito da
un'assistente ma negli ultimi tempi provava ad andare un po' da solo
all'oratorio e noi lo sorvegliavamo da lontano. Più volte abbiamo
visto che i grandi lo provocano, lo colpiscono con il pallone». 09 marzo 2007 |
È il petrolio bianco il vero
miracolo del capitalismo moderno. Una ragnatela mondiale che ha nella camorra
il suo terminale. E che dà ai clan un fatturato 60 volte superiore a
quello della Fiat
Non esiste nulla al mondo che possa competervi.
Niente in grado di raggiungere la stessa velocità di profitto. Nulla che
possa garantire la stessa distribuzione immediata, lo stesso approvvigionamento
continuo. Nessun prodotto, nessuna idea, nessuna merce che possa avere un
mercato in perenne crescita esponenziale da oltre vent'anni, talmente vasto da
permettere di accogliere senza limite nuovi investitori e agenti del commercio
e della distribuzione. Niente di così desiderato e desiderabile. Nulla
sulla crosta terrestre ha permesso un tale equilibrio tra domanda e offerta. La
prima è in crescita perenne, la seconda in costante lievitazione:
trasversale a generazioni, classi sociali, culture. Con multiformi richieste e
sempre diverse esigenze di qualità e di gusto. È la cocaina il
vero miracolo del capitalismo contemporaneo, in grado di superarne qualsiasi
contraddizione. I rapaci la chiamano petrolio bianco. I rapaci, ovvero i gruppi
mafiosi nigeriani di Lagos e Benin City divenuti interlocutori fondamentali per
il traffico di coca in Europa e in America al punto tale che in Usa sono
presenti con una rete criminale paragonabile soltanto, come racconta la rivista
'Foreign Policy', a quella italoamericana. Se si decidesse di parlare per
immagini, la coca apparirebbe come il mantice di ogni costruzione, il vero
sangue dei flussi commerciali, la linfa vitale dell'economia, la polvere
leggendaria posata sulle ali di farfalla di qualsiasi grande operazione
finanziaria. L'Italia è il paese dove i grandi interessi del traffico di
cocaina si organizzano e si strutturano in macro-strutture che ne fanno uno
snodo centrale per il traffico internazionale e per la gestione dei capitali
d'investimento. L'azienda-coca è senza dubbio alcuno il business
più redditizio d'Italia. La prima impresa italiana, l'azienda con
maggiori rapporti internazionali. Può contare su un aumento del 20 per
cento di consumatori, incrementi impensabili per qualsiasi altro prodotto. Solo
con la coca i clan fatturano 60 volte quanto la Fiat e 100 volte Benetton.
Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali nel
traffico di coca, in Campania sono avvenuti i maggiori sequestri d'Europa degli
ultimi anni (una tonnellata solo nel 2006) e sommando le informative
dell'Antimafia calabrese e napoletana in materia di narcotraffico, si arriva a
calcolare che 'ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca
l'anno.
La strada africana, la strada spagnola, la strada bulgara, la strada olandese
sono i percorsi della coca infiniti e molteplici che hanno un unico approdo da
cui poi ripartire per nuove destinazioni: l'Italia. Alleanze strettissime con i
cartelli ecuadoregni, colombiani, venezuelani, con Quito, Lima, Rio, Cartagena.
La coca supera ogni barriera culturale e ogni distanza tra continenti. Annulla
differenze, nell'immediato. Unico mercato: il mondo. Unico obiettivo: il
danaro. In Europa, 'ndrangheta e camorra riescono più di ogni altra
organizzazione a movimentare la cocaina. Spesso in alleanza tra loro, alleanze
nuove e inedite tra gruppi a cui i media italiani tradizionalmente riservano
un'attenzione marginale e cronachistica, lasciando che nel cono d'ombra
generato dalla fama di Cosa Nostra continuassero a migliorare e trasformare le
loro capacità di importazione e gestione della coca. I giovani affiliati
della 'ndrangheta, come emerge spesso dalle inchieste dell'Antimafia calabrese,
ormai non la chiamano più col suo nome arcaico e dialettale, ma Cosa
Nuova. E che Cosa Nuova possa essere l'adeguata definizione per
un'organizzazione sempre più trasversale e in strettissima alleanza con
i cartelli napoletani e casalesi della camorra è qualcosa in più
di un semplice sospetto. Tra Sud America e Sud Italia sembra esserci un unico
cordone ombelicale che trasmette coca e danaro, canali noti e sicuri, come se esistessero
immaginari binari aerei e gallerie marine, che legano i clan italiani ai narcos
sudamericani.
Una volta su una spiaggia salernitana ne
avevo incontrato uno. L'unico che sembrava provare soddisfazione nel farsi
chiamare narcos. Stravaccato sulla sdraio, ascelle aperte al sole, raccontava
di sé con i silenzi giusti per alimentare la curiosità e non saziarla.
Raccontava di sé senza dare nessun dettaglio che potesse divenire prova, faceva
intendere ciò che era e lasciava che su di lui fioccassero leggende. Era
uno che si diceva amico di un capo guerrigliero colombiano, Salvatore Mancuso,
ne parlava come di una sorta di semidio, una potenza in grado di far muovere
capitali immensi e di legare il Sud Italia alla Colombia con un unico
indissolubile nodo scorsoio. Ma quel nome non mi diceva niente. Un nome
italiano in Colombia, uno dei molti. Poi, qualche anno dopo, venni a conoscere
ogni centimetro di leggenda e di inchiostro giudiziario. Salvatore Mancuso
è il capo delle Auc (Autodefensas Unidas de Colombia), i paramilitari
che da decenni dominano su oltre dieci regioni dell'interno della Colombia,
contendendo paesi e piantagioni di coca ai guerriglieri delle Farc. Mancuso
è responsabile di 336 morti tra sindacalisti, sindaci, pubblici
ministeri e attivisti per i diritti umani: secondo le sue stesse ammissioni
fatte al tavolo della commissione Giustizia e pace, istituita nell'ambito del
negoziato tra i paramilitari e il governo del presidente colombiano Alvaro
Uribe. Salvatore Mancuso è riuscito ad evitare ogni richiesta di
estradizione sia negli Usa che in Italia, dove vorrebbero che venisse a
rispondere delle tonnellate di coca esportate, perché per evitarle si è
fatto arrestare. Condannato a 40 anni per una delle stragi più efferate
della storia colombiana, quella di Ituango, attualmente collabora al processo
di smobilitazione della guerriglia e per questo la legge 975 colombiana ha
ridotto la sua pena a soli otto anni che sconta lavorando in una fattoria nel
Nord del paese. Ma da lì in realtà continua ad avere una nuova
postazione attraverso cui gestire la diffusione della migliore coca colombiana
con i cartelli italiani. Sentir pronunciare il nome di Mancuso, per molti
significa far affiorare ogni volta la voce di un testimone scampato a uno dei
massacri compiuti dai suoi uomini delle Auc, un contadino che stringendo il
microfono come se stesse spremendo un tubetto di dentifricio per farne uscire
l'ultima stilla, disse in tribunale: "Cavavano gli occhi di chi osava
ribellarsi con dei cucchiaini". Migliaia di uomini al suo servizio, una
flotta di elicotteri militari, e intere regioni da lui dominate, l'hanno reso
un sovrano della coca e della selva colombiana. Mancuso ha un soprannome 'El
Mono', la scimmia, evocato dal suo aspetto di agile e tozzo orango. L'inchiesta
Galloway Tiburon coordinata dalla Dda di Reggio Calabria dimostra che con
l'Italia ha il maggiore numero di affari. Possiede persino il passaporto
italiano. L'Italia sarebbe la nazione più sicura per svernare qualora la
Colombia divenisse troppo rischiosa. Mancuso è considerato in diverse
inchieste dell'antimafia (Zappa, Decollo, Igres, Marcos) il narcotrafficante
che più di tutti, attraverso le finestre dei porti italiani, riempie di
coca l'Europa. Il governo italiano che riuscirà a portare Mancuso in
Italia sarà l'unico in grado di poter dichiarare di aver fatto qualcosa
di decisivo contro il traffico di cocaina, perché sino a quando lo si lascia in
Colombia, ogni giorno sarà come giustapporre la firma ai suoi affari.
Il contributo fondamentale della criminalità organizzata italiana sta
nella mediazione dei canali e nella capacità di garantire continui
capitali d'investimento. I capitali con cui la coca viene comprata si
definiscono 'puntate'. E le puntate dei clan italiani arrivano prima di ogni
altro concorrente: puntuali, corpose, in grado di permettere ai produttori di
avere garanzie di vendite all'ingrosso e persino di liberarli della
necessità di trasportare il carico sino a destinazione. L'operazione
Tiro Grosso coordinata dai pm Antonio Laudati e Luigi Alberto Cannavale,
compiuta nel 2007 dai Carabinieri del nucleo operativo provinciale di Napoli e
che ha visto la collaborazione di Polizia, Guardia di Finanza e la
partecipazione di decine di polizie europee, della Dea americana e della
direzione centrale per i Servizi antidroga diretta dal generale Carlo Gualdi,
costringe a cambiare in maniera radicale lo sguardo sulle vie della coca.
Emerge la nascita di una nuova figura, il broker, e lo spostamento dell'asse
internazionale dei traffici dalla Spagna a Napoli.
Dopo gli attentati dell'11 marzo 2004, la Spagna decretò il massimo
rigore alle frontiere, cosa che si tradusse nell'aumento esponenziale dei
controlli di porti e autoveicoli. E così il paese che prima era
considerato dai narcos un enorme deposito dove poter stoccare cocaina alla sola
condizione che non fosse destinata al mercato interno, ora come snodo di scambi
diventava problematico. Tutta la droga finisce quindi dirottata in altri porti
come Anversa, Rostock, Salerno. La coca vi arriva dopo che le puntate sono
state decise, e a partecipare alle puntate non sono solo i clan, ma anche i
corrieri, i broker stessi e chiunque voglia tentare la strada dell'investimento
in questa sostanza alchemica che rende cento volte il costo iniziale. In
un'intercettazione fatta dai carabinieri di Napoli all'interno dell'operazione
Tiro Grosso, Gennaro Allegretti, accusato di essere un corriere, sta preparando
un viaggio in Spagna e chiama un suo amico per farlo partecipare alla
'puntata'. Dall'alta parte del telefono, l'amico appena uscito dalla banca, sa
di non avere molti liquidi e quindi vorrebbe tirarsi indietro:
"Tu lunedì cosa devi fare?! Perché io domenica già devo
stare preparato... se tu mi dici di no... io domenica notte mi metto nella
macchina e me ne vado. lunedì all'alba ce ne andiamo".
"Penso di no, perché ora sono andato in banca, quasi sicuro di no".
"Compà... non ti perdere sempre i tram, non perderlo. ha
partecipato mezza Italia: ma che tieni da vedere. entri il mese prossimo con
tre milioni in più".
I broker si incontrano negli alberghi di mezzo mondo, dall'Ecuador al Canada e
i migliori sono quelli che fondano società di import-export. Trattano
con i produttori come Antonio Ojeda Diaz che da Quito a Guayaquil - questo
è quanto rivela sempre Tiro Grosso - organizzava i suoi contatti con gli
italiani attraverso ditte di import-export con la Turchia. A Istanbul
arrivavano solo i contenitori, mentre la coca sbarcava a più tappe
durante le soste nei porti italiani e tedeschi. Le modalità del traffico
gestito dai broker napoletani sono sterminate. Dalle scatolette di ananas
sciroppato dove la coca è nascosta a mo' di cuscinetto tra una fetta e
l'altra, ai caschi di banane dove le palline di coca venivano cucite nel corpo
di ogni singola banana. I mediatori sudamericani come Pastor o Elvin Guerrero
Castillo spesso vivono direttamente a Napoli, e gestiscono i loro affari
direttamente da qui. In Italia il numero uno come broker, secondo le accuse,
è Carmine Ferrara, di Pomigliano. Riusciva secondo gli inquirenti a
gestire le puntate più importanti. Lui stesso si vanta della sua bravura
in una intercettazione: "Tutti vogliono lavorare con me.". Le puntate
sono raccolte dai diversi clan, Nuvoletta, Mazzarella, Di Lauro, i Casalesi,
Limelli, gruppi spesso rivali tra di loro, ma che riescono ad accedere alla
coca attraverso gli stessi broker. La forma del traffico è semplice e
aziendale. Broker che mediano con i narcos, poi i corrieri che trasportano e
poi i 'cavalli' che sono gli uomini affiliati che la passano ai vari
sottogruppi dei clan e infine i 'cavallini' che la danno direttamente ai
pusher. Ogni passaggio ha il suo guadagno, ma la coca oggi è passata dai
40 euro al grammo del 2004 ai 10-15 nelle piazze più importanti
d'Italia. Altro capitolo sono le piazze nel cuore di Napoli, la capitale dello
smercio. Il meccanismo dei broker è fondamentale per i produttori di
coca: non sono affiliati, non hanno conoscenza se non sommaria delle strutture
organizzative dei clan e quindi anche se arrivano a parlare, non sanno dei
clan, e il clan non sa di loro. Se i broker vengono arrestati, rimarrà
il cartello criminale pronto a divenire interlocutore di nuovi broker, e al
contempo se una famiglia viene smantellata, i broker continueranno ad avere i
loro interlocutori senza subire altro danno che un cliente perso. Si
rivolgeranno ad altre famiglie o a nuove famiglie che emergeranno. Si leva una
brezza di scandalo momentaneo quando vengono diffusi certi dati inquietanti:
come il fatto che oltre l'80 per cento delle monete italiane risulta tracciato
di polvere di coca o che le fogne di Firenze contengono più residui di
quelle londinesi. Ma che sia la coca il motore primo dell'economia criminale e
che questa, l'economia criminale, sia la più florida delle economie del
nostro tempo, su questo molte procure ci lavorano in silenzio da anni e spesso
con risorse inadeguate.
Il procuratore Franco Roberti, capo del pool anticamorra dell'Antimafia di
Napoli, viso spigoloso, fortemente mediterraneo, taglio d'occhi orientale, un
passato alla Procura nazionale antimafia, da molto tempo e prima d'ogni
emergenza ribadisce, ricorda, sottolinea, con l'ostinazione di chi vuole
guardare al di là del momento critico, dov'è che risiede davvero
il problema. Nelle conferenze stampa delle più importanti operazioni
antidroga coordinate dal suo ufficio delinea senza mezze misure la situazione
grave, gravissima cui si deve far fronte. "A Napoli si ammazza quasi
esclusivamente per la droga. La cocaina scorre a fiumi e genera guadagni
favolosi. I clan si combattono per il controllo dei traffici. Se un clan
investe un milione di euro in una partita di coca, ne ricava in brevissimo
tempo almeno quattro. Quadruplica il guadagno rispetto al costo in un tempo
microscopico". Solo per Tiro Grosso gli affari dei broker napoletani
spaziavano dalla Spagna (Barcellona, Madrid, Malaga) e poi Francia (Marsiglia e
Parigi), in Olanda (Amsterdam e L'Aia), Bruxelles in Belgio, Münster in
Germania e poi corrieri e contatti in Croazia, ad Atene e poi a Sofia e Pleven
in Bulgaria, a Istanbul in Turchia, e infine Bogotà e Cucuta in
Colombia, Caracas in Venezuela, Santo Domingo e Miami negli Usa.
I corrieri utilizzati erano tutti rigorosamente incensurati, e viaggiavano su
auto modificate. E la modifica delle auto era sofisticata fino all'inverosimile.
La coca e l'hashish venivano preparati come un letto steso appena sopra l'asse
dell'auto su cui poi montare il corpo del veicolo. Nelle officine napoletane di
Quarto, Agnano, Marano, il meccanismo usato è, come dicono i meccanici,
'a' kamikaze'. Come i kamikaze hanno mutato per sempre la strategia militare
contemporanea sbaragliando ogni difesa effettiva, perché fino ad allora ci si
basava sull'assunto che l'attaccante cercasse di salvarsi, allo stesso modo i
narcotrafficanti hanno compreso che l'unico modo per salvarsi dai posti di
blocco era organizzare carichi che per scovare bisogna smantellare l'auto
stessa. Cosa impossibile per qualsiasi pattuglia. Una volta, durante
un'operazione di sequestro di un'automobile, pur sapendo con certezza che vi
fosse della cocaina, i carabinieri non riuscivano a trovarla. Smontata l'auto
pezzo per pezzo, non si individuava la coca. I cani la sentivano, ma non
riuscivano a localizzarla, si agitavano confusi e schiumando dal naso. La coca
era nascosta in forma cristallizzata nei fili della parte elettrica dell'auto.
Solo un elettrauto esperto avrebbe potuto scovarla, scoprendo più fili
del necessario. Per il trasporto si usano le famiglie dei trafficanti. Sono il
modo migliore per distribuire i carichi. Le famiglie reali, non metaforicamente
i clan, ma proprio i familiari incensurati e che fanno i mestieri più
disparati. Gli si offre un weekend in Spagna e 500 euro a testa per il viaggio.
L'avvocato pagato in caso di arresto, ovviamente. Una famiglia incensurata -
padre madre e bambina - che parte il sabato o la domenica mattina e fa il
viaggio, non insospettirebbero nessuna pattuglia. Sulla Roma-Napoli la scorsa
primavera i carabinieri fermarono una famiglia che viaggiava su una Chrysler,
spaziosa e ben caricata su un letto di 240 chili di cocaina. Quando hanno
arrestato i genitori, un sottufficiale non riusciva a togliere dalle braccia
della madre una bambina completamente disperata e in lacrime. E i volti di
questi trafficanti della domenica erano increduli come di chi non si è
reso conto sino in fondo di cosa stava facendo.
La Chrysler sembra costruita apposta per i trafficanti che la foderano. Sopra
le gomme, nei vani dei finestrini che spesso non possono essere abbassati ma
che tracimano di coca. Negli anni '80 era la Panda, ora invece non c'è
trafficante che non desideri la Chrysler nel proprio parco macchine. Ogni auto
di trafficante è protetta da un sistema di staffette che segnalano se ci
sono posti di blocco e si organizzano di modo che a ogni uscita la staffetta
avverte se uscire o proseguire sull'autostrada. Non parlano mai per telefono
dell'arrivo o della partenza del carico e neanche loro sanno tutto il percorso,
sanno solo in quali città hanno delle basi e a queste basi fanno
riferimento solamente una volta arrivati. Una volta giunti a destinazione
segnalano la loro presenza, così che sarebbe troppo tardi per gli
inquirenti andare e sequestrare, se hanno ascoltato la conversazione. Una
scheda telefonica per ogni viaggio. Poi si butta. In un'intercettazione un
trafficante al casello di Caserta Nord si accorge che lo stanno aspettando i
carabinieri e che l'hanno beccato e allora temporeggia dinanzi al casellante
chiamando subito gli altri: "Mi hanno bevuto. chiamate l'avvocato, stutate
tutti i cellulare fate fermare tutti quanti". Quando sono pedinati, i
corrieri, le staffette cercano di seminare le auto civetta dei carabinieri e
preparano camion in alcune piazzole di sosta, che aprono il ventre dei loro
autotreni caricano la macchina e partono. Anonimi. Camion tra altri camion.
È così difficile travolgere il sistema di staffette che
nell'aprile scorso per bloccare una macchina i carabinieri sono dovuti
atterrare con un elicottero sull'autostrada verso Capua per fermare un
corriere.
I metodi per depistare sono sfiancanti. Un auto, pedinata per Tiro Grosso,
prima di giungere dalla Spagna a Napoli ha fatto il seguente giro: parte da
Ventimiglia, va a Genova, poi torna a Ventimiglia, poi va a Roma, poi torna a
Firenze, poi va a Caserta e poi a Napoli. Tutto arriva a Napoli, ma da Napoli
può anche ripartire. Pistoia, La Spezia, Roma, Milano e poi Catania. I
nasi imbiancati d'Italia tirano coca battezzata a Napoli. Non c'è luogo
dove la coca trattata dai broker napoletani non giunga. Non c'è gruppo
criminale che non medi con loro. La mafia turca ha chiesto urgentemente coca ai
broker napoletani offrendo armi in cambio. Le indagini per smantellare il
brokeraggio di coca sono complicatissime. Gran parte del meccanismo del
contrabbando è stato metamorfizzato in traffico di coca. Infatti i
Mazzarella - è emerso dalle indagini - hanno concesso ai broker i loro
'capitani', ossia gli scafisti che negli anni Ottanta trasportavano le bionde,
ora dai porti marocchini e spagnoli portano tutto a Napoli, Mergellina, Salerno.
Un scafo Squalo 3 prima di essere usato era necessariamente testato dai
'capitani' napoletani. I napoletani continuano a essere inafferrabili nella
gestione dei traffici per mare, gli introvabili fratelli Russo, i boss nolani
eredi dell'impero che fu di Carmine Alfieri, secondo informative dei
carabinieri, fanno latitanza su navi, non toccano mai terra, sempre in giro,
per Mediterraneo e oceani.
Napoli è città che distrae, la microcriminalità e le faide
danno imperativi che non riescono a concedere tempo ai grandi affari dei clan e
delle borghesie della coca. E questa è una certezza che i broker
conoscono bene. Ma non è sempre così. E per comprenderlo bisogna
incontrare il colonnello Gaetano Maruccia, il comandante provinciale dei Carabinieri
di Napoli. La prima volta che lo incontrai, ebbi l'impressione di discutere con
uno stratega competente e impassibile, ma al tempo stesso ci ritrovai lo
slancio del capitano Bellodi de 'Il giorno della civetta'. Qualità
inconciliabili che parevano invece trovare sodalizio in un uomo capace di
tenere insieme le contraddizioni fra ciò a cui non si può venir
meno in nessun momento e a nessun costo, e ciò che si fa perché dietro
al dovere resta ad agire il motore vivo di una scelta. Pugliese d'origine con
sangue calabrese, un passato in Sicilia e a Roma, somiglianza al Brando maturo,
capelli bianchi tirati indietro, una voce da basso. Immancabile sigaro a lato
della bocca, e nel suo studio uno strano aggeggio che sbuffa ogni tanto un
profumo che tende ad annullare il tanfo del tabacco. Mi stupì che
riuscisse a inquadrare il problema strutturale del territorio in una situazione
dove c'è un perenne rincorrere l'emergenza, l'imperativo della
quotidianità, l'ossessiva richiesta di soluzioni quotidiane e immediate.
Maruccia invece ha idee chiare: "È fondamentale comprendere come il
mercato legale sia non soltanto infiltrato dai capitali generati dalla coca, ma
fortemente determinato da questi capitali. E capire queste determinazioni
è il compito più complicato. Le nostre ultime indagini dimostrano
che Napoli è uno snodo centrale del traffico internazionale di coca, ma
anche un punto di partenza per il riciclaggio, il reinvestimento, la
trasformazione della qualità del profitto del narcotraffico in
qualità economica legale. Scoprire i traffici, i canali di arrivo, le
molteplici tecniche attraverso cui la cocaina e l'hashish giungono qui è
un lavoro fondamentale, ma è solo la prima parte e forse persino la
più semplice del lavoro. Sono le trasformazioni che dobbiamo capire:
dobbiamo capire, come la polvere bianca diventi tutto il resto. Commercio,
aziende, costruzioni, flussi bancari, gestione del territorio, avvelenamento
del mercato legale. Si parte da questa macroeconomia da smantellare e poi i
micro e medio crimini avranno vita difficile e agiranno senza speranza di
crescita. Ma il percorso dev'essere questo e non il contrario".
I risultati del Comando provinciale dei Carabinieri di Napoli sono molteplici.
Per ultimo, l'intero clan dei Sarno, potente nel racket e nella coca, che gestiva
un traffico di armi con l'Est usando come copertura i bus delle badanti,
è stato aggredito con 70 arresti. E anche il meccanismo del
narcotraffico a Scampia è stato affrontato non soltanto con gli arresti
di massa dell'ultimo livello, ossia dei pusher, ma con la distruzione dei
fortini attraverso cui i clan difendono la piazza con un metodo nuovo e
d'impatto, cioè affiancando centinaia di uomini per presidiarla e
impedendo così ogni ipotesi e velleità di rivoltarsi. Maruccia
non ha alcun sogno di palingenesi, soltanto sa vedere oltre il caos, oltre la
coltre di dati singoli che piovono su una realtà che si vuole troppo
spesso schiacciata nel sottosviluppo criminale e che invece cova
potenzialità criminal-imprenditoriali enormi. "È innegabile
che la loro capacità di fare impresa della coca, sia la loro maggiore
qualità. Trasformare una periferia disastrata come l'area nord di Napoli
in un'industria florida seppur criminale è una capacità criminale
con cui dobbiamo confrontarci e che dobbiamo in ogni modo smontare come si
smontano gruppi industriali e finanziari e non combriccole di briganti. Abbiamo
di fronte la più importante azienda del territorio e temo non solo di
questo territorio, anzi dell'intero paese. Quando si tratta di affrontare i
problemi di Napoli non si tratta di rimanere entro i confini regionali, ma anzi
risorse, mezzi, attenzione non bastano mai perché i percorsi partono e a volte
terminano qui, ma coinvolgono i confini dell'intera nazione e spesso del mondo
intero. L'importanza di una sempre più efficiente cooperazione
internazionale non è determinante solo per il narcotraffico, ma
dev'essere trasversale, deve colpire i capitali di investimento che i clan
fanno in ogni parte del mondo. O si parte da questa consapevolezza o si
ragionerà sempre in modo parziale".
Impensabile quindi continuare a osservare la coca come una dinamica
esclusivamente criminale, la cocaina diviene una forma attraverso cui
comprendere l'economia europea che non possiede petrolio, quello nero, e
diviene sicuramente una porta d'accesso per comprendere l'economia italiana.
Basterebbe seguire le tracce degli investimenti di coca dei broker campani e
calabresi per comprendere dove si orienteranno in futuro i mercati legali. La
coca, la magnifica merce, l'innominabile valore aggiunto della vita quotidiana
di migliaia di persone e l'impronunciabile talento criminale dell'economia
italiana, non può che essere raccontata come un modello metaforico usato
per lo zero nel pensiero matematico. Traslando quello che disse Robert Kaplan
"guarda lo zero non vedrai nulla, guarda attraverso lo zero vedrai
l'infinito", sembra imperativo affermare: "Guarda la coca e vedrai
solo della polvere, guarda attraverso la coca e vedrai il mondo".
(08 marzo 2007)
L'oppio dell'Afghanistan - problema numero uno
nella lotta alla droga che si combatte nel mondo - rappresenta per il Paese un
"cancro per la democrazia", ma anche, con i suoi legami col terrorismo,
una minaccia per l'intera comunità internazionale. È la posizione
dell'Amministrazione Usa illustrata a Vienna alla vigilia della conferenza Onu
sugli stupefacenti (12-16 marzo), dal vice responsabile dell'ufficio narcotici
al dipartimento di stato, Tom Schweich. In un briefing per la stampa, il
delegato americano ha sottolineato che sul tema Afghanistan e lotta alla droga,
Usa e Onu hanno la stessa posizione, che include peraltro un "no"
chiarissimo alla liberalizzazione dell'oppio. Nel
09 marzo 2007 Guerra Mentre negli Usa
i democratici si sono accordati per inserire nel disegno di legge che
rifinanzia le missioni in Iraq e in Afghanistan un limite temporale: agosto
2008, si apre a Baghdad la Conferenza internazionale di pace.
Partecipano i cinque paesi permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU, le
organizzazioni internazionali e i paesi vicini dell'Iraq, tra cui Iran e Siria
Sembra che qualcosa si stia muovendo nel mattatoio iracheno. L'operazione
sicurezza a Baghdad, lanciata due settimane fa dall'esercito americano e da quello
iracheno, sta producendo qualche risultato. Le vittime per attentati e
rappresaglie in città sono scese a poche decine al giorno. Una cifra
sempre spaventosa, ma inferiore a quelle dei mesi precedenti. Allo stesso tempo
sono aumentati gli attacchi in altre città e particolarmente nei
confronti dei pellegrini in marcia verso Karbala per la ashura (la più
grande festa sciita). Il nuovo comandante americano in Iraq, David Petraeus,
è stato molto cauto nell'illustrare questi risultati nella sua prima conferenza
stampa a Baghdad. Petraus non corrisponde allo stereotipo del generale tutto
muscoli e poco cervello. Ha studiato ad Harvard e viene considerato uno dei
generali più brillanti. E' un esperto di antiterrorismo e ha redatto il
nuovo manuale di controinsurrezione dell'esercito in cui ha posto l'accento
sulla necessità di garantire la sicurezza della popolazione civile e
conquistarne la fiducia. Sa bene che la sua è una scommessa ad alto
rischio e che non ha molto tempo a disposizione prima che l'opinione pubblica
contraria alla guerra in patria lo costringa a rinunciare. Per questo nella
conferenza ha fatto anche alcune considerazioni del tutto nuove, mai sentite
prima da un generale. Ha detto che l'intervento militare da solo non è
sufficiente a stabilizzare il paese. E' necessaria anche una "soluzione politica",
cioè il coinvolgimento nel processo politico delle forze che oggi si
sentono escluse. Non è una considerazione banale e anticipa l'apertura
di canali di trattativa con la componente sunnita del paese, almeno con quella
parte che non è rappresentata dalle frange più estremiste. Quanto
questo messaggio possa essere accolto dal governo al-Maliki, è tutto da
vedere. Non solo perché la maggioranza sciita che lo sostiene è ben
decisa a conservare il potere dopo decenni di oppressione sunnita, ma anche
perché gli spaventosi attentati di questa settimana contro i pellegrini
dell'ashura hanno ulteriormente esacerbato gli animi e porteranno probabilmente
a nuove rappresaglie nei prossimi giorni. Quali che siano le intenzioni di
al-Maliki, i suoi spazi di manovra sono molto ridotti. Anche lui ha poco tempo
per dimostrare ai suoi sostenitori sciiti (il partito Sciiri e il partito di
Moqtada al-Sadr) che è in grado di fermare gli attentati e le autobombe.
Dopo di che le due milizie sciite, l'Organizzazione Badr e l'Esercito del
Mahdi, riprenderanno le loro operazioni di vendetta indiscriminata e di pulizia
etnica e non ci sarà più ritorno dalla guerra civile. La seconda
novità significativa è costituita dalla conferenza internazionale
di pace che si aprirà domani a Baghdad tra imponenti misure di
sicurezza. Vi parteciperanno i cinque paesi permanenti del Consiglio di
sicurezza dell'ONU, le organizzazioni internazionali e i paesi vicini
dell'Iraq, tra cui Iran e Siria. Gli Stati Uniti hanno accettato di partecipare
(sembra che la stessa Condoleezza Rice abbia incoraggiato l'iniziativa) e, con
tortuoso linguaggio diplomatico, non hanno escluso incontri diretti, a due:
"Se nella pausa caffè gli iraniani o i siriani mi avvicineranno,
non mi volterò dall'altra parte" - ha detto l'inviato della Rice,
David Satterfield. L'evento ha un che di straordinario ed è stato reso
possibile dalla ripresa delle relazioni diplomatiche, interrotte da decenni,
tra Iraq, Siria e Iran. Tanto più se si considera che nelle settimane
scorse gli Stati Uniti avevano lanciato pesantissime accuse nei confronti di
entrambi i paesi per il sostegno che fornirebbero alla guerriglia
"mettendo in pericolo la vita dei soldati americani". L'importanza dell'incontro
è anche legata al fatto che se soluzione politica alla guerra in
Iraq ci sarà, passerà attraverso il consenso e l'attiva
partecipazione nel gioco interno dei suoi due grandi vicini, uno (l'Iran) a
maggioranza sciita, l'altro a maggioranza sunnita (la Siria), oltre che degli
altri paesi della regione -- anch'essi invitati alla conferenza -- Egitto,
Giordania, Arabia saudita. Perché in questo momento storico è in Iraq
che si gioca lo scontro più vasto e di lunga data nel tra sunniti e
sciiti per l'egemonia nel mondo mussulmano. Solo l'Iran può rassicurare
i paesi arabi che un Iraq sciita non li minaccia e solo i paesi arabi possono
rassicurare l'Iran che non incoraggeranno la destabilizzazione permanente
dell'Iraq in funzione antisciita. La terza novità importante consiste
nella decisione presa a Washington dalla camera dei rappresentanti e annunciata
alla stampa da una Nancy Pelosi molto determinata e quasi sprezzante nei
confronti del presidente. Dopo giorni di tentennamenti e di litigi interni, i
democratici si sono accordati per inserire nel disegno di legge che rifinanzia
le missioni in Iraq e in Afghanistan un limite temporale: agosto 2008. Hanno
anche posto precisi paletti all'operato del Governo al-Maliki e stabilito che,
se non saranno raggiunti, il ritiro dei soldati "potrà iniziare
già dalla fine dell'anno". Agosto 2008. Può non sembrare
gran cosa ai militanti democratici che chiedono a gran voce il ritiro delle
truppe. Per quella data, se i morti americani continueranno al ritmo attuale di
tre al giorno, ce ne saranno altri 1500 e altre decine di migliaia di feriti.
Ma è già qualcosa. E' anche la prima volta che viene fissato un
termine preciso per porre fine alla guerra, il che ha fatto infuriare la Casa
bianca che ha sempre affermato che "indicare una data vuol dire
incoraggiare i nostri nemici e mettere in pericolo la vita dei nostri
ragazzi". Bush ha minacciato il veto presidenziale se la modifica
sarà approvata anche dal Senato. Sarebbe la seconda volta che la Casa bianca
si trova a porre il veto su un suo provvedimento, tanto più che si
tratta di una richiesta di fondi per continuare la guerra. L'altra volta fu a
fine 2005 quando minacciò il veto al bilancio della difesa pur di
bloccare un emendamento che vietava la tortura. Nancy Pelosi ha dato prova di
notevoli capacità di manovra per fare accettare l'emendamento ai
democratici più conservatori (i cosiddetti "blue dogs"),
inserendo nel provvedimento anche uno stanziamento per gli ospedali militari,
che in questi giorni sono stati investiti da uno scandalo per le condizioni
abominevoli in cui sono trattati i soldati feriti. Pelosi è stata anche
attenta a non parlare di ritiro, ma di "ridispiegamento strategico"
al fine di meglio combattere l'altra guerra che, dopo cinque anni di quasi oblio,
sta ritornando prepotentemente all'attenzione dei media: quella in Afghanistan.
FONDI & RISPARMIO Pronto a partire l'organismo
Cambiano le regole per i pf Con la nuova struttura di Anasf, Assoreti e Abi,
cambia l'esame per accedere alla professione. Via il test scritto e la prova
orale. Arrivano le prove pratiche di Anna Messia - 10-03-2007 CONSULENTI
FINANZIARI Dopo anni di discussioni finite nel nulla le modalità di
accesso alla professione di promotore finanziario sono finalmente vicine alla
svolta. La Consob ha messo in consultazione la bozza di regolamento che prevede
l'avvio dell'Organismo per la tenuta dell'Albo, sganciando la gestione dalle
sua competenza. L'emanazione del documento conclusivo è attesa entro
fine marzo e lascerà alle associazioni rappresentative dei promotori
(Anasf) e dei soggetti abilitati (Assoreti e Abi) la determinazione delle
regole per la tenuta e l'accesso all'Albo, mentre alla Consob resterà il
ruolo di vigilanza. Una rivoluzione che dà definitivamente autonomia
gestionale ai promotori finanziari. Dopo questa decisione, il contributo di
vigilanza che i consulenti pagano oggi alla Consob (per il 2007 è di 213
euro) confluirà solo in parte alla Commissione di via Martini (sempre
per le attività di vigilanza), mentre il resto andrà nelle casse
dell'Organismo che avrà personalità giuridica e autonomia
finanziaria. La Consob quindi perderà buona parte degli oltre 13 milioni
di euro che riceveva ogni anno dai promotori finanziari. Nei prossimi mesi
bisognerà però redigere lo statuto della nuova realtà,
oltre a predisporre il sistema informativo e le strutture territoriali. Per
questo le associazioni rappresentative sono già al lavoro. Ma quanti
membri avrà il nuovo Organismo? E quali regole introdurrà per i
promotori finanziari? "Con ogni probabilità avrà una
struttura snella, con due rappresentanti Anasf, uno ciascuno per Abi e
Assoreti, e un presidente super partes - dice il presidente dell'Anasf, Elio
Conti Nibali - Il nostro obiettivo è farlo partire entro l'anno, per far
coincidere il trentennale della nostra associazione con l'avvio
dell'Organismo". Novità si preannunciano anche per quanto riguarda
l'accesso alla professione. La bozza Consob infatti dà alle associazioni
la possibilità di cambiare le regole attuali, che prevedono un test
d'esame scritto e una successiva prova orale. Il documento della Commissione
prevede invece una generica prova valutativa, con carattere teorico-pratico,
indetta almeno una volta all'anno. "Nelle prossime settimane, con le
associazioni degli intermediari, discuteremo anche delle prove valutative per
accedere all'albo - continua Conti Nibali - Per quanto ci riguarda non faremo
proposte di modifica dei requisiti scolastici minimi (oggi per fare l'esame si
richiede un diploma di scuola superiore quinquennale, ndr), ma siamo favorevoli
a prove pratiche e a un accesso più consapevole a questo mestiere,
spingendo magari per l'avvio di un corso di laurea per promotori
finanziari". C'è, invece, il rischio che i promotori debbano pagare
contributi più elevati? "Siamo ottimisti- conclude Conti Nibali -
Con l'Organismo contiamo di recuperare in efficienza abbassando il contributo
complessivo a carico dei promotori. Anche se probabilmente non nella fase di
avvio".
++ L’Espresso 3-9-2007 ECONOMIA Diffidate dei castelli
di carta di Paolo Pontoniere [Gli equilibri internazionali sono molto fragili.
E si reggono troppo sul credito cinese. Per questo la festa è già
finita. Parola di premio Nobel per l'economia colloquio con Paul Samuelson]
++ La Repubblica 9-3-2007 Bush alla rinconquista del Sud America. Disordini al suo arrivo in Brasile
Il Giornale 9-3-2007 Rai, la sinistra sabota le nomine
di Cappon di Gian Maria De Francesco
Il Cittadino 9-3-2007 Il Papa: "Rispetto per la
vita fino all'ultimo suo respiro"
L’Unità 9-3-2007 Dico, bufera su Salvi. Lui
ribatte: così potremo fare la legge
C'è
aria di bolla nell'economia internazionale.
Dopo l'esplosione (determinata dalle
speculazioni degli hedge fund e dalla politica del denaro facile delle banche
centrali) il mercato s'avvia verso un aggiustamento radicale. Ma a differenza
del passato, quando il timone dell'economia internazionale era nelle mani delle
Borse occidentali, adesso l'equilibrio s'è spostato verso l'estremo
Oriente, dove i governi tengono ancora d'occhio gli operatori di Borsa e gli
investitori si devono abituare alle dinamiche economiche del mercato azionario.
Paul Samuelson, premio Nobel per l'economia, vede nubi recessive all'orizzonte
dell'economia. Determinate anche dai rischi di una nuova guerra (in Iran), da
problemi ambientali, dal debito statunitense, dal mercato immobiliare in crisi,
dalla tropo rapida crescita economica dei paesi emergenti e dalla
scarsità delle materie prime. Un quadro in cui gli investitori
istituzionali cominciano a tirare i remi in barca. Fondatore, con Kenneth
Arrow, dell'Economia Neoclassica Moderna, autore di 'Economics: An Introductory
Analysis' (best seller economico di tutti i tempi), docente all'Mit,
consigliere dei diversi presidenti democratici a partire da John Kennedy,
Samuelson, 92 anni, dopo la morte di Milton Friedman e Kenneth Galbraith,
è considerato il maggior economista vivente. Aria di fuga in Borsa,
professor Samuelson... "è un castello di carte. Gli equilibri
economici internazionali sono molto fragili, basta il minimo soffio di
incertezza per mandarli all'aria, come per esempio qualcuno in Cina che si
impaurisce del fatto che l'economia sta crescendo con troppa rapidità.
Insomma non è che Shanghai sia Londra o Milano, un crollo di quella
piazza non dovrebbe spaventare gli europei o i signori di Wall Street, e invece
Shanghai starnutisce e si scatena un'ondata di panico mondiale. Vuole sapere
perché?". Ci dica. "Perché le banche d'investimento sanno che
l'età del denaro facile sta per finire, che i tassi devono salire e che
una buona parte dei prestiti fatti nel mercato immobiliare statunitense si
risolveranno in un fallimento. E ci sono segni che la crisi dei mutui a rischio
si sta espandendo anche a quelli che una volta erano considerati sani. I tassi
inoltre sono cominciati già a salire in Giappone e questo mette sotto
pressione gli hedge fund che avevano usato prestiti contratti in quel paese -
dove i tassi erano un quarto di punto percentuale - per investire in Cina, in
India e anche negli Stati Uniti e per realizzare quelle che in termini tecnici
vengono definite posizioni di leva o 'carry trade'. Adesso che i giapponesi
hanno aumentato i tassi d'un quarto di punto, gli hedge fund, da Wall Street a
Londra a Milano, cominciano a vendere per ripagare quei debiti. Inoltre ad
appesantire la situazione contribuiscono anche gli investitori istituzionali,
fondi pensione e fondi d'investimento ordinario, che per ridurre il rischio
stanno chiedendo pure loro di scaricare i titoli sotto pressione. Comunque non
è solo colpa degli hedge fund, la mentalità speculativa ha
infettato un po' tutti. Oggi teoricamente ci sono tutti questi strumenti per
distribuire il rischio: opzioni di vendita, contratti a premio, riporti
valutari, e tutti si sentono autorizzati a tentare il proprio acume
finanziario. Ma sebbene distribuiscano il rischio, questi strumenti lo fanno
pure aumentare nel suo valore totale". Ma allora siamo in presenza di una
bolla? "L'andamento del mercato azionario a livello internazionale negli
ultimi anni è stato fortissimo. Che fosse guidato anche dai 'leveraged
buyout', cioè da operazioni realizzate sulla base di un indebitamento
dove l'azienda comprata veniva usata per garantire il debito stesso, lo
sapevano tutti. Ma si trattava di una situazione che faceva comodo alle banche
di investimento e anche alle banche centrali come quella statunitense che hanno
creato una grande liquidità, e faceva comodo anche agli investitori
d'assalto. Che la corsa si dovesse fermare era un fatto risaputo. Adesso si
dirà che è stato un aggiustamento, che si tratta d'un intoppo
sulla strada verso un futuro radioso, ma sappiamo bene che la bolla si sta
sgonfiando, che il mercato era sopravvalutato e che c'è bisogno d'un
aggiustamento". Quindi non si tratta d'un fenomeno passeggero?
"Niente affatto. Per arrivare dove siamo adesso c'è voluto un bel
po' di tempo, per scendere ce ne vorrà dell'altro. Non posso certo
affermare che ci avviamo verso una manovra speculativa sul dollaro o verso una
recessione mondiale, ma non mi stupirei se nei prossimi sei mesi entrambi
questi eventi avessero luogo. Nei fatti il dollaro si tiene in piedi perché i
paesi esportatori, Cina e India principalmente, non vogliono vedere i nostri
consumi diminuire. Questo comporterebbe la diminuzione delle loro esportazioni,
ma allo stesso tempo il loro investimento negli Usa non è più
redditizio come in passato. Adesso che comincia a tremare il mercato
immobiliare, che è sostenuto dai prestiti che ci fanno i paesi
emergenti, Cina in testa, la situazione diventa insostenibile. Devono
cominciare a disinvestire dal dollaro, e queste sono le prime avvisaglie che lo
stanno già facendo". In passato una crisi asiatica non ci avrebbe
fatto nessun effetto: era già successo nel 1998 e non ebbe alcuna
ripercussione. "Adesso le cose sono differenti. L'economia globale
è più integrata di quanto lo fosse nel '98 e poi la Cina è
il grande elefante dell'economia internazionale, in dieci anni il mercato di
quel paese sarà come quello americano, se non più grande. Il
timone della crescita internazionale ormai non è più solamente
nelle mani dei signori di Wall Street, e se loro se ne infischiano dei dati
negativi prodotti dalla nostra economia, in Cina, in Giappone, in India e a
Singapore si preoccupano e ce lo fanno sentire con chiarezza. Inoltre sullo
stato delle Borse internazionali pesano altri problemi, direi addirittura
maggiori dello stato dell'economia statunitense. L'insieme di questi fattori
crea una situazione che sfugge anche al controllo della Federal Reserve".
Di che problemi si tratta? "Della guerra. E non solo di quella in Iraq,
che va malissimo, ma anche della crescente tensione con l'Iran. Se si scatena
uno scontro nel golfo di Hormuz tra gli Usa e gli iraniani, il petrolio
supererà facilmente i 120 dollari al barile. Capirà che una
prospettiva del genere non piace a nessun investitore. Ci sono poi i problemi
ambientali, la percezione che a livello internazionale non ci sia veramente la
volontà di controllarli e allo stesso tempo il timore che le politiche
ambientalistiche possano gravare sulle imprese. C'è poi lo scontro in
corso tra i paesi industrializzati e quelli emergenti sulla gestione delle
materie prime che scarseggiano e che vengono assorbite dalla crescita
industriale". è circolata anche l'ipotesi che nell'aggiustamento ci
sia stata la mano delle banche centrali che, impaurite dal clima speculativo
creato dagli hedge fund, abbiano operato in direzione calmieratrice. Le pare
una ipotesi credibile? "Questa mi pare dietrologia, e non è il mio
mestiere. Le posso dire però cosa successe il 20 ottobre del 1987, il
lunedì nero. Greenspan era stato appena nominato capo della Fed e il Dow
Jones crollò del 22 per cento, più di quanto fosse mai caduto
prima o di quanto sarebbe sceso dopo. Greenspan chiamò le banche e disse
loro di non liquidare i conti con i loro debitori, che la banca centrale
avrebbe venduto denaro a buon prezzo. La strategia funzionò. Adesso Bernanke
sta cercando di fare la stessa cosa. Ma mentre Wall Steet recupera, in Europa
ed Asia scendono in quanto, qualsiasi cosa dica Bernanke, il mercato se ne va
per i fatti suoi". n.
SAN
PAOLO -Bush
tenta di rinconquistare l'America Latina. Il presidente americano è
partito in misssione diplomatica per riguadagnare la popolarità perduta
nell'"altra" america. E, soprattutto, strapparla all'influenza del
presidente venezuelano Hugo Chavez, che dopo aver raccolto il testimone di
Fidel Castro, sta diventando il campione dell'anti-americanismo latino. Lo
scorso anno, in un discorso alle Nazioni Unite, il presidente venezuelano lo
aveva addirittura definito Bush il "diavolo".
Per questo l'uomo più potente del mondo, ma forse uno dei presidenti
americani meno amati della storia, ha deciso di ricucire i rapporti con il sud
america prima che sia troppo tardi. E gioca la carta della lotta alla
povertà. "Vogliamo solo essere vostri amici - ha spiegato ai
microfoni della televisione Colombiana Rcn - e questo mio viaggio è
un'occasione per dire alla gente che gli Stati Uniti è molto attenta
alle condizioni umane. E che vogliamo aiutare".
"Bisogna dare al presidente degli Stati Uniti la medaglia d'oro per
l'ipocrisia, perché ora ha detto che è preoccupato per la povertà
in America latina", ha contrattaccato Chavez, che questa sera
guiderà una manifestazione antimperialista a Buenos Aires. "Adesso
sta scoprendo, dopo tanti anni, che in America latina c'è la
povertà, quando il principale colpevole è precisamente l'impero
statunitense".
Per Bush non sarà un viaggio semplice. Il quotidiano cubano Juventud
Rebelde ha definito la missione un "periplo non richiesto", e ha
avvertito che Bush incontrerà numerosi ostacoli. "Il presidente -
si legge sul giornale castrista - sarà accompagnato da numerose
manifestazioni di "protesta e ripudio" organizzate in Brasile,
Uruguay, Colombia, Guatemala e Messico. Tutti i paesi, insomma, che Bush
visiterà nel corso della missione diplomatica.
A San Paolo del Brasile, prima tappa del viaggio, l'atterraggio dell'Air Force
One è stato accolto da una manifestazione anti-usa sull'Avenida Paulista
con striscioni che denunciavano l'arrivo del "nemico numero 1
dell'umanità". Negli scontri tra forze dell'ordine e gli oltre
6mila contestatori si contano almeno 23 feriti.
E anche in altre città brasiliane ci sono state proteste, con fantocci
di Bush bruciati e slogan contro il presidente Usa. A Brasilia l'Ambasciata
degli Stati Uniti è stata circondata da militanti dei Mst, il movimento
dei contadini "sem terra". Il traffico già difficile di San
Paolo si è trasformato in un groviglio inestricabile in previsione della
visita che ha interdetto diverse arterie principali della metropoli.
In mezzo a questo caos, domani Bush si incontrerà con il presidente
brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva per firmare un accordo bilaterale di
cooperazione nel settore dei biocombustibili. Il Brasile con la canna da
zucchero e gli Usa col granoturco sono le due potenze emergenti nella
produzione dell'etanolo: questo combustibile alternativo è visto dagli
Stati Uniti come una via d'uscita dalla dipendenza dal petrolio fossile, di cui
il Venezuela di Chavez è il maggiore attore locale.
Il governo Lula ha però negato che con Bush sarà affrontato il
tema del presidente del Venezuela, Hugo Chavez. Ma Washington, spiegano gli
analisti, sarebbe ben felice di una mediazione del "presidente
operaio", piuttosto popolare in tutta l'America Latina, col presidente
rivoluzionario che chiama Bush di "diavolo".
(9 marzo 2007)
Le compagnie telefoniche scrivono
direttamente a Romano Prodi per scongiurare un'altra sforbiciata ai ricavi. I quattro
gestori mobili, attraverso l'associazione Asstel guidata da Pietro Guindani di
Vodafone, hanno deciso di assumere una linea comune (si veda «Il Sole24 Ore» di
ieri) e hanno inviato una lettera aperta al premier, al garante della
Concorrenza Antonio Catricalà e al presidente dell'Agcom Corrado
Calabrò per difendere investimenti e sviluppo di un settore considerato
«liberalizzato» e con prezzi già «in costante discesa». Per Asstel
l'eliminazione dello scatto alla risposta sarebbe «una misura coercitiva»che,combinata
all'abolizione dei costi fissi sulle ricariche, significherebbe una riduzione
dei ricavi del settore di 5,5 miliardi, un quarto del totale. «Questo —
sottolinea l'associazione — porterebbe all'azzeramento dell'utile ante imposte
consolidato di settore e all'abbattimento per circa il 75% dei flussi di
cassa». Secondo le società, sarebbero inevitabili «impatti
occupazionali, una consistente revisione dei piani di investimento, incluso il
rischio che alcuni operatori potrebbero essere costretti ad abbandonare il
mercato».
Allo stato attuale non è da escludere comunque che il duello sui costi
della telefonia mobile si risolva con un classico compromesso. Sono ormai
spariti i contributi sulle ricariche e anche lo scatto alla risposta è
finito sotto esame, ma inparalleloil Governo valuta se eliminare la tassa di
concessione governativa che grava sugli abbonati. In questo modo i gestori
renderebbero più appetibile le offerte in abbonamento, utilizzate oggi
solo dal 9% degli utenti. E verrebbe riequilibrato il mix con le carte
prepagate su cui le compagnie hanno perduto i ricavi derivanti dai costi fissi.
Lo scenario è ancora del tutto aperto, è però certo che
eventuali interventi non saranno inseriti in un emendamento al Dl sulle
liberalizzazioni, visti i tempi stretti e la mancanza dei «requisiti
d'urgenza».
La cancellazione dello scatto alla risposta, fanno trapelare ministero per lo
Sviluppo economico e Autorità dopo un incontro tecnico che si è
svolto ieri mattina, è comunque ancora un'ipotesi condizionata a
un'attenta verifica con la normativa comunitaria.
Dall'altro lato invece, dopo l'abolizione dei costi fissi di ricarica, si
valuta se equilibrare il mercato cancellando anche la tassa governativa e, in
questo caso, se esistono i margini per recuperare un gettito Iva pari a 600700
milioni. In Italia la tassa mensile (5,16 euro per le utenze residenziali e
12,91 euro per i clienti con partita Iva) esiste solo sugli abbonamenti e
rappresenta spesso un disincentivo a sottoscrivere questa forma di contratto.
Ecco in parte spiegato il boom delle linee prepagate, pari al 91% del totale.
Netto il divario in termini di giro d'affari: i ricavi da servizi voce superano
7 miliardi euro con le prepagate e poco meno di 3 miliardi con gli abbonamenti.
È anche vero però che gli abbonati garantiscono ricavi medi
notevolmente più alti: 520 euro l'anno contro 180 euro di una sim
prepagata.
Anche per questo gli operatori pressano Governo e Authority per ottenere una
forma di "compensazione" che favorisca la crescita degli abbonamenti.
Legge elettorale, si riparte dal proporzionale. ROMA — Riposta in un cassetto nelle ore del
«grande equivoco» con Prodi, la «bozza Chiti» rispunta sul tavolo delle
consultazioni del premier con i partiti. «Si riparte da qui» rilancia il suo
ruolo il ministro delle Riforme, dove il «qui» è una proposta organica
per un nuovo sistema di voto proporzionale e tre importanti leggi
costituzionali, il tutto da approvare in poco più di un anno e mezzo.
E il referendum? «Chi lo sponsorizza non vuole il Partito democratico». Ministro, ci sveli cosa contiene la sua
«bozza» di riforma.
Prendere o lasciare? Prima tappa? Terza legge costituzionale? La sua proposta per la riforma del
sistema di voto.
Alt. Qual è la sua soglia? Niente preferenze? Legge elettorale modello Chiti? Sicuro che piaccia a Prodi? Proprio quello che l'ha fatta litigare
con Prodi. Nella sua lettera ai capigruppo lei chiedeva se ci fosse o no
accordo sul sistema tedesco... Per questo ha disertato il Consiglio dei
ministri?
E magari pensa alle dimissioni. Grazie anche all'energica pressione di
Fassino.
Non sarà che Prodi ha avuto paura
delle larghe intese?
Boselli ha detto che Prodi teme «una
legge contro di lui».
C'è anche chi sospetta un «patto»
tra Prodi e Berlusconi... Lei teme il referendum? Ma tra i sostenitori del referendum
c'è anche Parisi, il «padre» dell'Ulivo. 09 marzo 2007 |
La comunicazione ha un peso sempre
più rilevante nelle strategie dei capi talebani. Che ora imperversano
anche su Internet
|
M Ma queste armi non bastano da sole a
glorificare la lotta. Sia pure in ritardo e facendosi forza, visto che per anni
hanno distrutto i televisori considerati come fonte di perdizione, i talebani
hanno investito nella guerra di propaganda. Un piano costruito nel febbraio
2006 con la produzione in proprio di un cd intitolato i «Leoni dell'Islam».
Su ordine del mullah Omar ne sono state incise migliaia di copie distribuite
in Pakistan, Afghanistan e nei Paesi del Golfo, dove vivono e trafficano
generosi finanziatori. I cd sono stati poi smerciati nelle cittadine di
confine, nascosti all'interno di custodie dei popolari film di Bollywood. Il
successo ha incoraggiato i guerriglieri. E il più lesto a sfruttare il
canale mediatico è stato Dadullah «lo zoppo», importante capo militare
della guerriglia. Negli ultimi sei mesi, aumentando la frequenza degli
interventi a livello esponenziale, il mullah ha conquistato la scena. Ha
iniziato a rilasciare interviste a tv sicure, come Al Jazira, quindi
si è concesso a chiacchierate telefoniche con emittenti occidentali. I
messaggi hanno sempre il medesimo tono: stiamo vincendo, l'Afghanistan
sarà la tomba degli occidentali, abbiamo migliaia di kamikaze a
disposizione. Un tentativo di mettersi sullo stesso piano del nemico. Sia sul
campo di battaglia che nella guerra di parole. Avvicinandosi la cosiddetta offensiva di
primavera, Dadullah ha alzato i toni rendendosi conto che dopo ogni
comparsata aumentava la copertura nei suoi riguardi da parte dei giornali
internazionali. Qualsiasi cosa dica viene immediatamente rilanciata
attraverso i canali tradizionali: dal reporter locale alla grande agenzia di
stampa, da questa alle emittenti e ai quotidiani. Guerriero semi-sconosciuto
al grande pubblico, il militante si è trasformato in un titolo: «Il
mullah Dadullah...». E potremmo dire in un marchio. Gli esperti americani — tra i quali
l'autorevole Fred Burton — paragonano il suo successo a quello di Al Zarqawi,
del quale ha usato gli stessi ingredienti: violenza efferata, presa
d'ostaggi, annunci roboanti, ricerca dei media. Poco pratico del mondo
elettronico, Dadullah è stato aiutato da alcune case di produzione
qaediste che hanno il pregio di non fare censure e sono affidabili. Il
ragazzotto venuto dalla California, Adam Gadahn, alias Azzam l'americano,
dopo aver curato l'immagine di Osama e Al Zawahiri diffondendo buona parte
dei video, si è dedicato a quella dei talebani. Il logo della
«As-Sahab» (nuvola) — questa una delle società — è comparso in
un buon numero di filmati, seguito da quelli di «Al Fajir», del «Global Media
Islamic Front» o della storica «Labik». I talebani hanno dato impulso anche al
loro sito, che utilizza strutture pachistane. Ieri ne è stata
annunciata la chiusura, ma la versione inglese dedicata all'Emirato
dell'Afghanistan funzionava regolarmente. Dadullah ha diviso la scena con
mullah minori e con un predicatore-soldato, il libico Abu Yahya Al Libi.
Fuggito in modo rocambolesco dalla base di Bagram nel 2005, è
diventato l'annunciatore qaedista. Si presenta davanti alle telecamere per
declamare composizioni jihadiste, incita al martirio indossando il corpetto
da kamikaze, rivela ai compagni le tecniche di interrogatorio americane.
È rimasto invece al coperto, affidandosi solo a rare comunicazioni
sulle onde radio, il mullah Omar. Non ama farsi vedere in pubblico, impone
alle tribù del versante pachistano di non lasciarsi contaminare dalla
tv e dunque proibisce di guardarla, però lascia campo ai suoi aiutanti
memore della lettera scrittagli nel 2001 da Bin Laden: «La nostra guerra si
svolgerà al 90 per cento sul fronte dei media». Il sequestro del giornalista di
Repubblica, alla luce di tutto ciò, potrebbe sembrare una
contraddizione. Però i talebani hanno un'idea particolare della
stampa. Per loro non esiste quella libera, tutti sono considerati schierati.
I mullah dalla doppia anima, che fanno ai pezzi le televisioni ma poi ne
riempiono gli schermi, vedono avversari da tutte le parti. Allora il reporter
che fa il suo mestiere — se serve alle loro manovre — è considerato un
intruso. E il suo sequestro diventa una doppia forma di pressione: è
un giornalista ed è occidentale. Da mostrare in un video. 09 marzo 2007 |
Il ministro degli Esteri: «Quello che deve fare
l’Italia lo ha già deciso il Parlamento»
INVIATO A BRUXELLES
Il governo italiano non cambia posizione e rimanda al mittente la richiesta di
più truppe nel Sud dell’Afghanistan che Tony Blair ha rivolto ai Paesi
della Nato. Un messaggio che Palazzo Chigi e la Farnesina hanno interpretato
come rivolto in particolare all’Italia che non sta operando nelle zone dove
infuriano i combattimenti. «Quello che deve fare l’Italia - ha spiegato Massimo
D’Alema dopo il vertice dei leader del Pse - c’è scritto chiaramente nel
decreto votato dalla Camera. Manteniamo questa linea e non abbiamo intenzione
di cambiarla. Del resto, non abbiamo in previsione nuovi provvedimenti». Punto.
Dunque per il ministro degli Esteri non sarà impiegato un solo soldato
in più dei 2000 già previsti, né ci sarà una dislocazione
diversa delle nostre truppe: siamo a Kabul e Herat e lì rimaniamo a fare
la nostra parte. «E non stiamo lì a raccogliere le margherite», sbotta
un collaboratore del responsabile della Farnesina prima dell’inizio del
Consiglio europeo. Anche nell’entourage di Romano Prodi è palese
l’irritazione per l’uscita del premier britannico: «Prodi sottoscrive la
dichiarazione di D’Alema. Da parte di Blair un po’ di umiltà non farebbe
male». E in serata, lasciando il vertice europeo, Prodi ha infatti detto che
«nella posizione italiana sull’Afghanistan non c’è nessun cambiamento:
l’abbiamo confermata con il voto alla Camera».
La reazione italiana e quella degli altri Paesi europei (tranne l’Olanda)
sembra che abbia reso Blair più prudente. Anzi, qualcuno parla perfino
di una sua marcia indietro. Infatti l’inquilino di Downing Street nel
pomeriggio avrebbe precisato che la Gran Bretagna non chiederà al
Consiglio europeo un maggiore impegno militare in termini di uomini, ma solo
«più sostegno da espletare in forme diverse»: «Ci rendiamo conto delle
implicazioni storiche di alcuni Paesi». In cosa consistano queste «diverse
forme» non è stato però specificato. In ogni caso la questione
afghana Blair l’ha voluta affrontare alla cena di ieri sera con i primi
ministri presenti al vertice europeo. E ciò nonostante l’argomento non
sia all’ordine del giorno. Infatti che il tema non faccia parte dell’agenda di
questo vertice a Blair lo hanno ricordato anche Chirac, Zapatero e la
presidente di turno Angela Merkel.
Rimane il fatto che gli italiani hanno fatto muro. E quando i collaboratori
dicono che il premier inglese dovrebbe essere «più umile e più
attento» a fare certe proposte, si riferiscono alla vicende di questi ultimi
anni: i Paesi della Nato sono andati in Afghanistan e mentre i talebani erano
in rotta, Usa e Gran Bretagna hanno pensato bene di invadere l’Iraq,
distogliendo forze dal campo afghano. E ora i soldati occidentali si trovano a
fronteggiare un’offensiva talebana tesa a recuperare terreno nel Sud di quel
Paese. Blair non può dire all’Italia quello che deve fare: ci sono delle
decisioni prese in sede Ue e Onu, e a quelle gli italiani si attengono. Del
resto, continuano le fonti del governo, l’Italia non si è mai sognata di
rinfacciare alla Gran Bretagna l’inefficacia dell’azione contro il narcotraffico
proprio in quelle aree di competenza inglese. Tra l’altro, aggiungono gli
uomini di Palazzo Chigi e della Farnesina, dobbiamo abbandonare l’idea che la
sicurezza in Afghanistan si garantisca a «colpi di baionetta».
Il governo italiano non vuole sentir parlare dell’esempio della Spagna, che ha
aumentato di recente le sue truppe. «La Spagna - spiegano i collaboratori del
premier - ha mandato 100 uomini in più per aumentare la sicurezza dei
600 soldati che ha sul territorio. Noi ne abbiamo 2000, e non stanno lì
a guardare chi passa». Blair adesso sembra un po’ frenare. Ma se le cose in
Afghanistan dovessero mettersi male e gli scenari di guerra si allargassero
nelle zone dove sono gli italiani, allora le cose potrebbero cambiare.
da
Roma
«Erano venuti per dividerci e invece si sono divisi». Il consigliere di amministrazione
Rai in quota Fi, Giuliano Urbani, non risparmia una vena di sarcasmo nel
commentare la bocciatura delle otto nomine proposte ieri al cda dal direttore
generale Claudio Cappon.
In un sol colpo sono saltate le designazioni di Giovanni Minoli come direttore
di RaiDue al posto di Antonio Marano il cui trasferimento al Coordinamento sedi
regionali non è andato a buon fine. Idem per il repêchage di Carlo
Freccero alla presidenza di RaiSat e di Alberto Barbera alla guida di Rai Cinema.
Silurati anche Scaglia, Del Bracco, Malesani e Sartori.
L’aspetto più clamoroso è rappresentato dal fatto che oltre
all’opposizione dei 5 membri di area Cdl (che rappresentano ancora la
maggioranza) un altro consigliere di centrosinistra ha contribuito al rovescio
delle proposte di Cappon astenendosi o votando contro tranne che su Freccero e
Minoli.
Ieri si è votato con lo scrutinio segreto richiesto proprio da Urbani
per far emergere le contraddizioni del centrosinistra e individuare la «talpa»
non è semplice. Le voci di corridoio portano a Nino Rizzo Nervo (area
Dl) o a Sandro Curzi (vicino al Prc) considerato che il presidente diessino
Claudio Petruccioli ha subito dichiarato di appoggiare le proposte del
direttore generale. Entrambi hanno espresso il proprio rammarico a Minoli,
Freccero e Barbera. L’altro consigliere in area Quercia, Carlo Rognoni, ha
accusato la Cdl di aver messo «in stallo» l’azienda ribadendo di non essersi
astenuto su Barbera, dunque la sua fedeltà alla linea pare un fatto
assodato. I dubbi comunque restano vista la sostanziale mancanza di entusiasmo
per le proposte di Cappon da parte dei consiglieri di centrosinistra nel corso
del dibattito in cda.
Dopo le iniziali diffidenze (Prodi tifava per Perricone, ndr), tra Palazzo
Chigi e direzione generale si era stabilita una buona sintonia. Le otto
bocciature di ieri potrebbero perciò rappresentare un nuovo episodio di
sfaldamento della maggioranza», ha rilevato Alessio Butti, responsabile
informazione di An. Il presidente della commissione di Vigilanza Rai, Mario
Landolfi (An), invece, si è domandato «chi o
che cosa abbia ispirato l’anomalo comportamento del dg».
Il direttore generale, che aveva rifiutato l’invito a
ritirare le candidature, è rimasto in silenzio dopo il no alle sue
proposte. La situazione è critica e la permanenza del manager di scuola
Iri al settimo piano di viale Mazzini non è scontata. Il responsabile
informazione della Margherita, Renzo Lusetti, ha sollecitato l’intervento del
ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Certo, la rimozione di Angelo
Maria Petroni, designato da Giulio Tremonti, ormai non è più
all’ordine del giorno (tranne che per Angelo Bonelli dei verdi) né la
fragilità dell’Unione sembra avallare l’ipotesi di soluzioni di forza.
Come ha sottolineato lo stesso Urbani «proposte di nomina maggiormente
condivise avrebbero trovato ben altra accoglienza».
CITTÀ DEL VATICANO "La vita
umana merita attenzione e rispetto sino all'ultimo suo respiro" è
il messaggio lanciato ieri in Vaticano da Papa Ratzinger durante l'udienza ai
soci del circolo caritativo dell'Obolo di San Pietro. Una frase, poche parole
per ribadire un concetto chiave della dottrina cattolica: quello del no all'eutanasia.
Il discorso di Benedetto XVI non aveva però il sapore del pronunciamento
teologico o politico. Piuttosto che a condannare, era teso a elogiare
l'attività di strutture come quelle dell'Obolo di San Pietro,
un'istituzione antica della Chiesa che ha il compito di raccogliere soldi per
affidarli alle opere di bene decise, di volta in volta, dai pontefici. I soci
del circolo, da qualche anno, gestiscono anche l'Hospice Sacro Cuore, una
struttura ospedaliera dove volontari laici e religiosi assistono malati terminali,
in particolare affetti di sclerosi amiotrofica bilaterale. Proprio da questa
malattia era stato colpito l'esponente radicale Pier Giorgio Welby, l'uomo che
ha voluto che venisse staccata la spina alle macchine che lo tenevano in vita.
Senza addentrarsi in termini espliciti sulla questione dell'eutanasia, il
pontefice ha lodato i soci del circolo per la loro "silenziosa, ma quanto
mai eloquente testimonianza di amore per la vita umana, che merita attenzione e
rispetto sino all'ultimo suo respiro". Sul tema dell'eutanasia, e in
termini ben più espliciti, Benedetto XVI si è espresso più
volte in questa sua prima fase di pontificato. L'ultimo suo intervento risale a
poche settimane fa, quando il Papa, il 24 febbraio scorso, in un discorso alla
Pontificia accademia per la vita, aveva sottolineato la necessità che i
cristiani si mobilitassero contro "i molteplici attacchi cui è
esposto il diritto alla vita". In tale contesto aveva condannato le leggi
tendenti a legalizzare l'eutanasia, mettendola sullo stesso piano dell'aborto o
di certe forme di eugenismo per selezionare il "figlio perfetto".
L'11 febbraio, il Papa aveva tuttavia chiesto con forza di "sostenere lo
sviluppo di cure palliative" per i "malati inguaribili" in modo
da assicurare loro "sostegno umano" e accompagnamento spirituale di
cui hanno fortemente bisogno". Con le cure palliative, aveva spiegato, la
Chiesa propone di alleviare le sofferenze dei malati terminali senza
però mai ricorrere all'eutanasia. "La comunità cristiana",
ha ripetuto più volte Papa Ratzinger non deve mai fare mancare
"vicinanza materiale e spirituale" ai malati, e "non lasciarli
nell'abbandono e nella solitudine mentre si trovano ad affrontare un momento
tanto delicato della vita".
Alla vigilia della manifestazione è
ancora polemica col governo sulla "bocciatura" di Maria Zegarelli /
Roma PIAZZE E PARTITI Chi invita la piazza di domani a "urlare
piano", evitare i "toni gridati e le esasperazioni ideologiche",
come dice Franco Monaco della Margherita, perché "nuocerebbero alla
causa"; chi in piazza ci sarà malgrado sia ministro - come Alfonso
Pecoraro Scanio e Paolo Ferrero; e chi evita la piazza, pur "essendoci
idealmente" - come la ministra Barbara Pollastrini. Infine, c'è chi
annuncia la propria presenza in un'altra piazza, quella del Family Day, come i
ministri Clemente Mastella e Beppe Fioroni, anche se quell'appuntamento per ora
è solo un punto interrogativo. Vigilia di manifestazione "Diritti
ora", ricca di polemiche. "I Dico non passano" ripete il
Guardasigilli. "Passano, se solo mi lasciassero lavorare in pace",
ribatte il presidente della Commissione Giustizia a Palazzo Madama, Cesare
Salvi, che ha smontato "tecnicamente", il ddl firmato dalle due
ministre Bindi e Pollastrini. Loro ci sono rimaste piuttosto male, lui
ribatte:"Mi dovrebbero ringraziare perché se avessimo adottato il ddl del
governo come testo base la legge avrebbe fatto una finaccia. Mastella aveva
già annunciato che avrebbe bloccato tutto con la pregiudiziale di
costituzionalità. Abbiamo salvato il governo ma anche la speranza di
fare una legge sulle unioni civili riaprendo il dibattito in Commissione".
In realtà su di lui è piombato un sospetto: che voglia,
attraverso il ddl, dimostrare che il partito democratico è una via
impraticabile, "un pasticciaccio". A pensarlo già sono in
diversi: da Rosy Bindi (che ieri lo ha esplicitamente sostenuto sulle pagine di
Europa) a Giorgio Tonini, uno dei saggi che sta lavorando al Manifesto del
Partito democratico, al giurista Stefano Ceccanti, Salvi replica: "Ma
stiamo scherzando? Il Pd non mi piace affatto, ma questo è un argomento
a cui dedico non più di 60 minuti di riflessione al giorno. Le mie
critiche al ddl sono critiche tecniche". Sempre dalle colonne del
quotidiano Dl oggi Salvi spiega che "quello che apprezzo politicamente del
lavoro delle due ministre, e l'ho detto in altra occasione, è l'impegno
a trovare un punto di incontro tra cultura laica e cultura cattolica, che
è un obiettivo al quale tutte le persone serie devono considerarsi
impegnate, sia che ritengano che ciò debba comportare la fusione di un
unico partito, sia che, come me, credano che, pur permanendo diritti diversi,
l'alleanza tra cattolici democratici e sinistra socialista sia un punto
decisivo di tenuta del sistema democratico italiano, prima ancora che del
centro sinistra". Argomentazioni che non hanno convinto le due ministre,
però. Intanto il capogruppo dell'Ulivo al Senato, Anna Finocchiaro, dà
una botta alla botte e una al cerchio: "Ci sono due questioni dalle quali
non prescindere: il testo dei Dico è la prima mediazione possibile tra cattolici
e laici e nei Dico c'è una novità rispetto a tutte le altre
proposte perché c'è un sistema di diritti per i conviventi non
concorrenziale nei confronti della famiglia". In sostanza, per la
Finocchiaro, "bisogna riflettere se i diritti dei conviventi si devono
registrare solo quando c'è amore erotico o anche quando ci sono
affinità e assistenza spirituale e materiale". Lei, come Bindi,
Pollastrini e Melandri, è tra i nomi illustri che non saranno in piazza
domani per il ruolo istituzionale che rivestono. Il coordinatore nazionale
della manifestazione, Alessandro Zan, dice: "Vogliamo costruire
un'occasione per mettere in contatto il paese reale, attrverso la testimonianze
delle coppie di fatto e le istituzioni perché non è una manifestazione
"contro" ma è per allargare i diritti in questo paese".
Dopo
l'ufficializzazione dei dati sull'extra-gettito tecnici al lavoro sulle opzioni
per l'impiego
ROMA - Il piano è allo studio dei tecnici del ministero dell'Economia
da giorni. Ma la certificazione del "tesoretto" di 8,6 miliardi di
gettito inaspettato nel 2006 e la conferma che le entrate stanno andando bene
anche nei primi mesi di quest'anno, stanno suggerendo di rompere gli indugi.
L'ultima decisione dovrà essere politica e collegiale all'interno del
governo ma i tempi si stringono con l'avvicinarsi della Relazione Trimestrale
di cassa, che certificherà definitivamente lo stato dei conti pubblici.
Senza contare che si avvicinano le elezioni amministrative di primavera e il
governo potrebbe essere tentato di giocarsi la carta del bonus fiscale prima di
quella data.
Il piano prevede tre mosse. La prima è quella nota, annunciata dalla
stesso premier Romano Prodi, dell'abbattimento dell'Ici sulla prima casa per chi
ha figli: in questo caso è probabile che la misura sia varata a breve
per mezzo di un decreto o di un disegno di legge. La misura da sola costerebbe
dai 2 ai 3 miliardi.
Le altre due mosse - è questa è la novità delle ultime ore
- riguardano l'Irpef. I tecnici del Tesoro, dopo le polemiche sollevate dalla
manovra fiscale della Finanziaria 2007, hanno messo a punto un mix di
interventi per i redditi che superano i 40 mila euro per compensare il vecchio
intervento sulle aliquote che invece ha privilegiato i redditi sotto i 40 mila
euro. I dettagli dell'intervento non sono ancora noti ma di sicuro si
agirà con sostanziosi aumenti delle detrazioni per i carichi familiari e
sugli assegni familiari. Un meccanismo che favorirà dunque le famiglie e
conterrà una implicita risposta alle proposte di iniziativa parlamentare
che, da destra e da sinistra, propongono il cosiddetto "quoziente
familiare", un sistema in voga in Francia e Germania che consente di
abbattere l'imponibile in funzione del numero dei componenti del nucleo.
Infine la terza mossa, i cui tempi tuttavia ancora non sono stati definiti, ma
che potrebbe affacciarsi nel prossimo Dpef 2008-2012 e concretizzarsi nella
legge Finanziaria 2008. Si tratta del problema degli "incapienti",
cioè quei soggetti che hanno un reddito così basso che li rende
esenti dalle tasse e che sono dunque condannati a rimanere a bocca asciutta di
fronte alle diminuzioni di aliquote o all'aumento delle detrazioni fiscali. Per
costoro si sta pensando ad una erogazione netta di denaro, un assegno vero e
proprio, che sarà gestito dall'Inps e dall'amministrazione fiscale.
Secondo alcuni calcoli sono considerati "incapienti" e dunque
possibili beneficiari degli assegni, i nuclei con un reddito annuale di 15 mila
euro e due figli e quelli con 12.500 euro ed un figlio.
Del resto ieri dal governo sono giunti nuovi segnali: il ministro Bersani
(Sviluppo) ha parlato di un "ventaglio di misure", Epifani (Cgil) ha
lamentato la penalizzazione fiscale dei redditi sui 1.300-1.400 euro al mese. Confcommercio
e Confesercenti hanno chiesto un taglio delle tasse.
Decine di persone si sono radunate per vedere
la demolizione. La caduta dei primi pezzi accompagnata da un grande applauso |
NICOSIA - I greco-ciprioti giovedì sera,
con un'iniziativa non prevista e non annunciata, hanno iniziato a smantellare
il muro che divide la capitale di Cipro tra la parte sud greco-cipriota e la
parte nord turco-cipriota. Muro eretto dai turchi nel 1974, parte di una
grande divisione che spacca in due tutta l'isola del Mediterraneo. 08 marzo 2007 |
BRUXELLES - Gli obiettivi della strategia europea
contro il cambiamento climatico avranno un carattere "vincolante",
incluso quello più controverso che prevede di portare al 20%, dal 7%
attuale, i consumi energetici da fonti rinnovabili, come il sole e il vento.
Tagliando le emissioni di gas serra. Domani mattina, il cancelliere tedesco
Angela Merkel, presidente di turno dell'Unione europea, presenterà un
testo di compromesso che include la parola "vincolante": così
hanno riferito diverse fonti europee, al termine della discussione sulla nuova
politica energetica della Ue, che ha impegnato i leader europei nella prima
giornata del vertice di Bruxelles. Il premier svedese Frederik Reinfeldt, in un
breve incontro stampa, ha spiegato che "la presidenza ha concluso che ci
saranno i vincoli ma la Commissione dovrà definire cosa vogliono dire
per ogni Stato membro".
L'obiettivo del 20% a livello europeo sarà raggiunto con contributi
diversi Paese per Paese. E le quote singole saranno determinate tenendo conto
delle differenziazioni delle politiche energetiche nazionali, oltre che delle
caratteristiche socio-economiche.
L'elenco delle deroghe e delle eccezioni è destinato quindi ad
allungarsi. Anche l'Italia ha chiesto, e ottenuto, una deroga per gli impianti
industriali ad alta intensità energetica, perché si tenga conto del loro
ruolo strategico" e si possa preservare "la loro capacità di
competere sul mercato globale".
Ma l'Italia aveva dichiarato fin dall'inizio di sostenere il carattere
vincolante degli obiettivi, incluso quello sulle rinnovabili. "Nella
Finanziaria abbiamo già preso misure importanti", aveva detto nel
pomeriggio il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, ricordando l'impegno per
la benzina vegetale e le energie alternative, solare, eolica, da biomasse.
La Francia ha chiesto di legare il suo sì alle rinnovabili a un
riconoscimento sul ruolo del nucleare come energia a basso contenuto di C02. La
resistenza della Polonia e di altri paesi dell'ex blocco sovietico è
stata superata con la promessa di accordi di solidarietà più
stringenti in caso di crisi energetiche. Quella del Lussemburgo, con l'accoglimento
della proposta di poter usare anche gli aiuti di stato per sviluppare le
energie alternative.
Se il nuovo testo di compromesso riceverà domattina l'imprimatur dei
leader, Merkel potrà dire di avere raggiunto quel "risultato
storico" cercato con grinta e determinazione. Senza sorprese, i 27 hanno
accettato gli altri due target vincolanti della strategia contro il
riscaldamento del pianeta, impegnandosi a ridurre del 20% le emissioni di gas a
effetto serra entro il 2020, con l'opzione di salire al 30% se altri Paesi industrializzati
seguiranno l'esempio europeo. L'Unione europea si impegnerà anche ad
aumentare del 20% il livello della propria efficienza energetica, sempre entro
il
(8 marzo 2007)
+ Da ANSA 8-3-2007 INDAGINI ILLEGALI:
ESPRESSO, E' SANDRO MARZI LA GOLA PROFONDA
+ Il Sole 24 Ore 8-3-200 Fed: negli Usa crescita rallentata di
Riccardo Sorrentino
La Repubblica 7-3-2007 Rivoluzione sicurezza stradale. Arresto per
ubriachi alla guida
Il Riformista 8-3-2007 CASA DELLA CULTURA A MILANO Che sciocchezza colpire
proprio l’islam moderato
++ Il Corriere
della Sera 8-3-2007 Afghanistan,
Rossi e Turigliatto non cedono. Fini: «Senza
maggioranza politica è crisi». Fassino: «Sarà consenso largo»
Dopo il tranquillo passaggio alla Camera, la battaglia sulle
missioni si sposta al Senato. Gli irriducibili della sinistra verso il no
ROMA - Ora che alla Camera lo scoglio,
che poi tale non era visti i numeri, è stato superato in scioltezza la prova verità si sposta al Senato.
Qui, il 27 marzo, approderà il decreto sul rifinanziamento delle
missioni militari all'estero, Afghanistan compreso. L'Aula testerà la
compattezza della maggioranza anche se è prevedibile, e forse messo in
conto anche negli ambienti prodiani, qualche altro scossone. A provocarlo
saranno i soliti noti, ovvero gli irriducibili della sinistra Turigliatto e
Rossi. Quest'ultimo, ex senatore del Pdci, ha lasciato aperte due opzioni: o il
voto contrario o la non partecipazione alla votazione. La seconda ipotesi non
produrrebbe effetti negativi nella maggioranza in quanto il quorum si
abbasserebbe. «Ci sono tutte le condizioni per votare contro - ha spiegato Rossi - Ma se ricomincia la danza e va in scena
un'altra commediola come l'altra volta, "se non ci sono i voti (i 158
dell'Unione, ndr) c'è la crisi e siamo tutti rovinati", allora esco
dall'Aula». Granitico il no di Franco Turigliatto:
«Non ho cambiato idea, confermo che voterò no. A maggior ragione visto
quello che sta accadendo» ha dichiarato il senatore che il Prc ha allontanato
per due anni. Molto tormentato il verde Mauro Bulgarellipreferisce
non prendere posizione. «Mi prendo una pausa di riflessione - spiega - voglio
leggere per bene il testo che è stato approvato da Montecitorio».
Occhi puntati anche su Rifondazione. Alcuni esponenti dell'ala più
radicale del partito hanno votato contro alla Camera. Al Senato la situazione
potrebbe ripetersi. Il presidente dei senatori del Prc, Giovanni
Russo Spena assicura che altri dissensi non ci saranno. «Se alla
Camera, dove la cosa non ha fatto alcuna differenza, due deputati di
Rifondazione non hanno votato il decreto di rifinanziamento, al Senato questo
non accadrà. Tutti i 26 senatori di Rifondazione infatti, hanno preso
l'impegno a votare questo decreto in una riunione del gruppo». «Quanto alle
assurdità su maggioranza numerica e maggioranza politica - sottolinea
Russo Spena - ribadisco che c'è un'unica maggioranza e che si tratta di
una maggioranza valida sotto tutti i punti di vista e, soprattutto, quello
costituzionale che è il principale».
Anche
il segretario del Prc, Franco Giordano derubrica
l'autosufficienza a questione puramente numerica e non politica. «Esiste un
voto unitario su un provvedimento. Questo dice la Costituzione, è
inequivoca, e io mi attengo a quella. Il resto, 158 voti o 157 o 160, sono
tutte stupidaggini». Piero Fassino, segretario
Ds, ritiene che «anche al Senato ci sarà un consenso larghissimo.
L'amplissima maggioranza è positiva per i nostri soldati e per
l'autorevolezza del nostro Paese».
E
la Cdl, confermerà a palazzo Madama il suo sì al decreto? La
previsione che fa Gianfranco Fini è
senz'appello: «Se tra qualche settimana al Senato la maggioranza non dovesse
avere l'autosufficienza politica si aprirebbe per il governo un enorme problema
politico, perché si tratta di politica estera e di difesa». Si tornerebbe, dice
il leader di An, «al punto di partenza anche se non ci sarà la crisi e
loro faranno finta di niente». Paolo Bonaiuti,
portavoce del presidente di Forza Italia Berlusconi, è altrettanto
perentorio: «La sinistra fa esattamente come le cicale: alla Camera c'è
l'estate della maggioranza, ma dopo l'estate anche per le cicale viene
l'inverno. E il loro inverno è il Senato dove i voti dell'Unione non ci
sono».
08
marzo 2007
++
Il Sole 24 Ore 8-3-2007 Su crescita e clima doppia sfida di Angela Merkel al
vertice Ue. di Piero Fornara
Nel
Consiglio europeo che si svolge oggi e domani a Bruxelles i capi di Stato e di
Governo dei Ventisette sono chiamati a trasformare le parole in fatti su due
temi cruciali e strettamente collegati: l'energia e la lotta ai cambiamenti
climatici. «Dobbiamo usare la riunione di primavera per decidere su una
strategia che ci garantisca il rifornimento dell'energia e assicuri la protezione
del clima su una base sostenibile», ha scritto il cancelliere tedesco e
presidente di turno dell'Ue Angela Merkel nella lettera di invito ai leader
europei, aggiungendo: «La nostra risposta a questa questione avrà
ripercussioni per il futuro dell'Europa e oltre». La Merkel ha dedicato tempo e
impegno alla presidenza della Ue, ma finora «ha seminato molto senza
raccogliere nulla», commentano fonti europee. Quindi si gioca una fetta del suo
indiscusso prestigio già in questo summit .
Alla riunione di Bruxelles per l'Italia partecipano il presidente del Consiglio
Romano Prodi, insieme con il ministro degli Esteri Massimo D'Alema e il
ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa. Ma quello di oggi e domani,
oltre a essere il primo Vertice europeo a 27, è un incontro carico di
aspettative anche perché, dopo la bocciatura della Costituzione europea che ha
mandato in stand-by l'Unione europea per più di un anno, in molti vedono
nella presidenza di turno tedesca l'opportunità per rimettere in funzione
il motore dell'integrazione. Al Consiglio europeo la Merkel illustrerà
infatti le linee generali della dichiarazione di Berlino del 25 marzo, che
dovrebbe segnare un punto di svolta e riaprire il capitolo della riforme
istituzionali indicate dalla Costituzione europea.
Ecco gli in sintesi quali sono gli obiettivi della presidenza tedesca:
Crescita. La strategia
di Lisbona «sta dando buoni frutti». La Ue attende un aumento del Pil per il
2007 del 2,7%. Nel biennio 2007-08 dovrebbero essere creati sette milioni di
nuovi posti di lavoro e il tasso di occupazione complessiva dovrebbe salire dal
64% del 2005 al 66% del 2008. Il Consiglio si propone un nuovo passo in avanti
per rafforzare il mercato unico e la competitività. Confermati gli
obiettivi di ridurre all'1% il deficit di trasposizione delle leggi europee
nelle legislazioni nazionali al più tardi entro il 2009 e di portare al
3% del Pil la spesa in ricerca e sviluppo entro il 2010. Il Consiglio concorda
di ridurre del 25% entro il
Unica voce su energia. I 27 si propongono di creare una politica comune
dell'energia per aumentare la sicurezza degli approvvigionamenti e rispondere
in modo rapido alle crisi, assicurare la competitività e
sostenibilità ambientale dell'economia europea, combattere il cambio
climatico. La bozza della presidenza tedesca suggerisce di nominare un
coordinatore per ciascuna di queste aree, mentre propone di parlare a livello
internazionale con una sola voce, una sorta di Mister energia.
Tre volte 20 contro l'effetto serra. Il Vertice chiede un impegno per
ridurre del 20% le emissioni di gas nocivi entro il 2020 rispetto ai livelli
del 1990, con il proposito di salire al 30% se altri Paesi industrializzati
seguiranno l'esempio Ue. Entro il 2020, è richiesto di aumentare del 20%
l'efficienza energetica. E sempre entro questa data viene chiesto di portare al
20% l'uso delle fonti rinnovabili nel totale dei consumi, con un contributo del
10% dai bio-carburanti.
Il «vincolante» resta tra parentesi. Nella bozza resta però tra
parentesi, cioè aperto, il carattere vincolante del target sulle fonti
rinnovabili. Mentre la Commissione e la presidenza tedesca insistono per avere
obiettivi obbligatori, la maggioranza dei paesi si oppone. Il fronte dei «no»
è guidato dalla Francia e comprende quasi tutti i paesi dell'ex blocco
sovietico. Francia, Repubblica eca e Slovacchia chiedono di considerare anche il
nucleare tra le fonti alternative. Alcuni Paesi (tra cui la Gran Bretagna) sono
d'accordo a separare la proprietà delle reti di produzione e
distribuzione, ma molti altri (tra cui Francia e Germania) si oppongono. Un
compromesso potrebbe sancire per ora almeno la «separazione di fatto» delle
reti: stesso proprietario, ma gestore diverso.
++ Il Corriere
della Sera 8-3-2007 La Bce alza i tassi di un quarto di punto Trichet: «La
politica monetaria resta accomodante»
Da Il Sole 24 Ore Il costo del denaro nel mondo
Il costo del denaro sale al 3,75%, lo stesso
livello del settembre 2001. Riviste al rialzo le stime sul Pil, al ribasso
l'inflazione
FRANCOFORTE -
La Banca centrale europea ha alzato di un quarto di punto il livello dei tassi
di interesse portandoli al 3,75%. Lo ha deciso il Consiglio direttivo che si
è riunito a Francoforte. Di conseguenza il tasso di riferimento, quello
sulle operazioni contro termine, sale al 3,75%, il tasso sulle operazioni di
rifinanziamento marginale sale al 4,75% e quello sui depositi overnight al
2,75%.
RIALZI - È la prima stretta varata nel 2007 dalla Bce che porta
così il costo del denaro sul livello del settembre 2001, ai tempi degli
attacchi terroristici alle Torri Gemelle. Il 18 settembre del
TRICHET - Il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, ha definito i
tassi attuali «moderati, mentre il mese scorso erano bassi». La politica monetaria
«resta accomodante», ha spiegato, e l'aumento è stato deciso
«all'unanimità» tenendo conto dei «rischi al rialzo» a carico
dell'inflazione. La Bce ha comunque rivisto al ribasso le sue stime sui prezzi
nell'area euro per quest'anno, portando le previsioni sull'inflazione dal 2%
all'1,8%. Riviste al rialzo le stime di crescita per l'eurozona: per il 2007
sono state portate al 2,5% dal 2,2% previsto nel dicembre scorso, mentre per il
2008 la stima è stata alzata da +2,3% a 2,4% grazie, ha spiegato Trichet,
«al dinamismo della crescita registrato nel secondo semestre 2006 e al calo dei
prezzi dell'energia». Per il numero uno della Bce, le prospettive di crescita
dell'Eurozona «rimangono favorevoli».
08 marzo 2007
+ Da
(
settimanale
- mette a disposizione i propri conti all'Ubs di Zurigo e le proprie
società, controllate tramite la fiduciaria svizzera Fidinam.
"Ghioni - afferma Marzi, secondo i brani riportati dall'
"Espresso" - mi chiese se lo potevo aiutare a ricevere degli incassi
all estero per consulenze da lui svolte (...) io non avevo interesse a
contrariarlo, inoltre mi aveva rappresentato che l'esigenza era momentanea
(...) gli consigliai di aprire un conto all'Ubs di Lugano". Da quel
momento in poi la M&A di Marzi (una società off shore) viene
utilizzata - dice il settimanale - per incassare le fatture del responsabile
della sicurezza informatica di Telecom. Nel giro di pochi mesi arrivano poco
meno di 300 mila euro e transitano per il conto Mao 887418 di Marzi, dopo
essere stati ulteriormente filtrati da un conto della società Trumaco
con sede, mi pare, nei Caraibi". Oggi tutta la documentazione relativa a
quei conti, riportata in Italia da Marzi, è - dice l' Espresso - in mano
alla Procura. Marzi, secondo L' Espresso, non si muove "a costo zero e
trattiene per ogni operazione effettuata per conto di Ghioni il 10% degli
importi. In particolare, secondo L' Espresso, Marzi aveva legato maggiormente
con un giovane manager Telecom che non mancava di riferirgli perfino
"pettegolezzi d' azienda, come per esempio - dice Marzi - i presunti
disaccordi tra Tronchetti e Bondi (Enrico, ad tra il 2001 e il 2002) sull' uso
del jet presidenziale da parte di Afef". (
+ La Stampa 8-3-2007 Il permier inglese insiste:
servono uomini per combattere Blair agli italiani "Dovete dare di
più" PAOLO MASTROLILLI
NEW
YORK
Mullah Mahmood aveva addosso il burka, quando martedì i soldati afghani
lo hanno catturato nella provincia di Kandahar. Così, vestito da donna,
uno tra i più importanti leader dei taleban cercava di scappare alle
operazioni di sicurezza ormai in corso in tutta l’area meridionale
dell’Afghanistan.
Alla «Operation Achilles», lanciata nella provincia di Helmand da 4.500
militari Nato e mille uomini delle forze di Kabul, si sono aggiunti scontri
vicino alla città di Khost e nella regione di Zabul. Il contingente
dell’International Security Assistance Force (Isaf) ha dovuto registrare anche
le prime perdite britanniche, mentre proprio il premier Blair ha avvertito che
chiederà agli altri europei di fare di più per la riuscita
dell’offensiva di primavera. I contorni dell’operazione «Achilles» si vanno
chiarendo. Tra le forze Nato - Isaf mobilitate ci sono anche circa 1.500
paracadustisti americani della 82nd Airborne Infantry Division, trasportati in
zona poco prima dell’attacco. Con questa mossa, i comandanti sperano di aver
ottenuto due risultati: più potenza rispetto all’operazione Medusa, non
riuscita nel settembre scorso, e sorpresa. L’obiettivo è utilizzare una
strategia in due tempi: primo, riprendere le aree di Helmand di cui si sono
impossessati i taleban; secondo, restare sul terreno per avviare i progetti di
ricostruzione, indispensabili per riconquistare l’appoggio della popolazione.
Non è un caso che l’Isaf punti a controllare la diga di Kajaki, che
serve a dare elettricità e acqua ad una vasta regione. I lavori di
riparazione finora non sono potuti partire a causa della presenza dei taleban,
e questo è un esempio delle ragioni per cui solo il 6% degli afghani ha
la luce nelle case. Dunque l’offensiva di Helmand punta a bonificare l’area sul
piano militare per poi rilanciare quei progetti civili di pace a cui tiene
molto pure la sinistra radicale italiana. L’attacco, però, ha già
provocato le prime vittime: due soldati britannici sono stati uccisi domenica a
Sangin da un razzo, e uno è morto martedì. Il bilancio tra i
taleban, per ora, sarebbe di quattro vittime. Il loro comandante, Abdul Qassim,
ha detto di avere nella provincia di Helmand 9.000 uomini pronti a rispondere.
Hanno armi per colpire elicotteri, mine, e sono addestrati per missioni
suicide.
Mentre «Achilles» continua, gli scontri avvengono anche in altre zone. La
cattura di Mahmood è frutto delle operazioni parallele in corso a
Kandahar. Anche a Khost sono stati arrestati cinque presunti taleban che
avrebbero stretti legami con al Qaeda, mentre vicino a Qalat, capitale della
provincia di Zabul, i ribelli hanno assalito un posto di polizia. L’anno scorso
era stato il più sanguinoso in Afghanistan dall’invasione del 2001, con
circa 4.000 morti e un aumento degli attentati suicidi da
+ Il Sole 24 Ore 8-3-200 Fed: negli Usa crescita rallentata di
Riccardo Sorrentino
Nell'area di Boston mancano tecnici e
lavoratori del settore sanitario. Come nel distretto di Atlanta dove non
bastano anche i lavoratori disponibili nel settore turistico. Nelle regioni
centrali degli Stati Uniti, nelle regioni di Dallas e di Kansas City, si
cercano ingegneri, lavoratori del settore petrolifero e contabili. Nell'area di
Richmond, a sud di Washington, le agenzie interinali sono piene di domande
dalle aziende. A New York, infine, le imprese di servizi continuano ad assumere
a ritmi velocissimi. Si riduce l'occupazione solo nel settore dell'auto e, qua
e là nel Paese, in quello delle costruzioni.
Questa è l'economia degli Stati Uniti descritta dal Beige Book, uno dei
documenti consegnati ai Banchieri centrali per aiutarli a prendere le loro
decisioni il 20 e il 21 marzo. Tanto lavoro, innanzitutto, e quindi salari e
bonus in rialzo, anche se con moderazione. Consumi in crescita stabile con
qualche accelerazione nei servizi e con evidenti segni di debolezza nelle
vendite di auto, di immobili e di beni durevoli per la casa, per i quali si
è ridotta anche la produzione. Limitate (per ora?) pressioni sui prezzi,
soprattutto però grazie al calo del petrolio. Segnali contrastanti
infine per le quotazioni delle case mentre in alcune aree aumentano le
difficoltà per le famiglie indebitate.
Cosa penseranno i Banchieri centrali? Difficile da dire, questa volta
più delle altre. Il quadro presentato dal Beige book, però, non
sembra confermare almeno per ora la scommessa sui cui la Federal reserve ha
puntato: crescita rallentata e - quindi - bassi prezzi. Il rapporto non offre
numeri, definisce "moderata" l'espansione, notando alcuni ulteriori
rallentamenti in una minoranza dei dodici distretti in cui gli Stati Uniti sono
divisi dalla Fed, e segnala anche che l'occupazione aumenta, l'offerta di forza
lavoro comincia a scarseggiare, e i salari iniziano a salire in un Paese che
sembra aver esaurito quell'accelerazione della produttività che per
dieci anni ha permesso di tenere agevolmente sotto controllo il costo della
vita. Non a caso solo il petrolio - che è un prezzo in gran parte
insensibile alla politica monetaria - e alcune materie prime sembrano tenere
l'inflazione stabile.
Il "falco" Michael Moskow, il presidente della Federal Reserve di
Chicago molto rigido sull'inflazione, non ha perso l'occasione; e ha ricordato
a tutti come la pensa: occorrono altri rialzi dei tassi. «Mi aspetto - ha
spiegato - che l'economia continui a operare a un livello elevato rispetto a
quello potenziale (non inflazionistico, ndr) e questo potrebbe
effettivamente portare all'emergere di maggiori pressioni sui prezzi». I suoi
colleghi dovranno pensarci un po' su.
La Repubblica
7-3-2007 Rivoluzione sicurezza stradale. Arresto per ubriachi alla guida
l Consiglio dei ministri approva un
documento del ministro Bianchi
Inasprimento delle sanzioni, "punti anche per i motorini e le
minicar"
ROMA - Rivoluzione nel mondo dell'auto: il Consiglio dei ministro ha
approvato le indicazioni del ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, che
saranno definite in decreti legge, per migliorare la sicurezza stradale.
Previsti consistenti rafforzamenti delle sanzioni: fra queste, l'arresto fino a
sei mesi, e un'ammenda fino a 12 mila euro, per la guida "in stato di
ebbrezza alcolica o assunzione di sostanze stupefacenti".
Il ministro ha riferito di aver "presentato una serie di misure e un
rapporto che parte dall'esame della situazione della sicurezza stradale in
Italia con dei dati che dimostrano come ci sia un sostanziale rallentamento
nella diminuzione degli incidenti e delle vittime". Rapporto, ha aggiunto
Bianchi, che "testimonia un certo ritardo rispetto al resto d'Europa e
che l'obiettivo del dimezzamento degli incidenti e delle vittime entro il 2010
sembra ormai molto lontano". "Siamo di fronte ad una vera e propria
ecatombe con oltre 5.000 morti un costo di oltre 30 miliardi di costo stimato,
il 2,5% del Pil. E tutto questo ci ha fatto pensare che bisogna impostare una
serie di misure di carattere strutturale".
Ma cosa conterrà questo pacchetto di novità? Innanzitutto lo stravolgimento
della patente a punti con l'obiettivo di ridarle nuova efficacia. Per
questo, la perdita dei punti si focalizzerà sui comportamenti di guida
ad elevato rischio, sia al fine di ridefinire complessivamente il processo di
perdita e riacquisizione dei punti, con una procedura di riassegnazione
più rigorosa (basata su esami e valutazioni) e controlli più
severi per la riassegnazione dei punti.
Misure rapide anche in materia di formazione. L'atto di indirizzo parla di
progetti pilota per l'educazione alla sicurezza stradale in organica e
stretta collaborazione con le amministrazioni locali e con i principali
soggetti che contribuiscono attivamente a migliorare la sicurezza stradale a
livello locale. Inoltre si punta anche al miglioramento dell'accesso alle
patenti di guida sia attraverso il miglioramento dell'addestramento e degli
standard di preparazione necessari per superare l'esame di abilitazione alla
guida, sia attraverso la formazione di una maggiore consapevolezza del rischio
stradale sotto i diversi aspetti (condizioni di traffico, condizioni
climatiche, salute e livello di stanchezza del conducente, etc.).
In questo ambito verrà data piena applicazione al principio di
gradualità indicato nella direttiva comunitaria sulle patenti di
guida in modo da consentire l'uso dei mezzi di trasporto più potenti
e impegnativi attraverso patenti di guida alle quali si può accedere
solo attraverso esami progressivamente più impegnativi e dopo un
prefissato periodo di esperienza nel livello precedente. Inoltre, sono previsti
progetti pilota per la formazione di tecnici e decisori mentre verranno messe
in sicurezza delle dodici strade più pericolose. Questa "non solo
potrà determinare un consistente risparmio di vite e di feriti, ma
potrà anche consolidare e rendere disponibili metodologie, tecniche ed
esperienze concrete per la individuazione degli specifici fattori di rischio e,
soprattutto, per la individuazione delle forme di intervento più
efficaci per la loro rimozione".
"La mia opinione - spiega lo stesso Ministro - è che serva una patente
di guida per macchinette e motorini e che debbano essere soggetti anche
loro alla patente a punti, con un innalzamento dell'età per la guida
delle microcar da
Sul fronte della programmazione, il pacchetto di misure rapide prevede la
concertazione con Regioni e Province delle linee guida per la costruzione di
una rete di centri di monitoraggio provinciali e regionali, con la
eventuale partecipazione delle città maggiori, raccordati con il centro
di monitoraggio nazionale. Questo da un lato, avrà il compito di
coordinare e fornire supporti alla rete dei centri di monitoraggio provinciali
e regionali e, dall'altro, dovrà fornire al Governo nazionale e agli
operatori pubblici e privati che possono contribuire al miglioramento della
sicurezza stradale un quadro certo delle problematiche, delle azioni intraprese
e delle misure che hanno conseguito i risultati più soddisfacenti.
E sul versante della regolamentazione, si procederà a rafforzare
l'azione di contrasto dei comportamenti di guida ad alto rischio attraverso la riorganizzazione
delle sanzioni con l'obiettivo di distinguere le violazioni del codice
della strada in relazione alla pericolosità e graduare di conseguenza le
sanzioni. Si tratta di una misura che anticipa la riforma del codice della
strada e punta ad aumentare la durata del periodo di sospensione della patente
di guida in proporzione al rischio determinato dalla trasgressione, oltre a
prevedere, per i comportamenti ad alto rischio, la confisca del veicolo e forme
di pena alternative come l'obbligo a svolgere servizi di utilità
sociale, come fornire assistenza a vittime di incidenti stradali che siano
rimaste inabili.
Altre misure riguardano l'informazione e sensibilizzazione con la costituzione
della banca della comunicazione per la sicurezza stradale e
l'istituzione di un premio annuale per le amministrazioni locali che hanno
ottenuto i migliori risultati di sicurezza stradale.
Misure ad hoc anche per la mobilità su due ruote. Il Governo, per
migliorare la sicurezza dei conducenti dei veicoli a due ruote a motore, con il
contributo dei principali soggetti interessati a questo comparto di
mobilità, predisporrà un piano di azione dedicato in modo
specifico a questo comparto di incidentalità. E partirà anche un
progetto "città sicure". La maggior parte delle vittime (45%
dei morti e il 75% dei feriti) è determinata da incidenti in area urbana
e le città italiane sono quelle con la più alta quota di vittime
e con i più alti tassi di mortalità e ferimento.
Tra le misure strutturali, spicca la riforma del codice della strada "secondo
principi di semplificazione, delegificazione, rafforzamento degli aspetti
relativi alla sicurezza, diversificazione del sistema sanzionatorio, con
particolare attenzione ai comportamenti di guida ad alto rischio".
Inoltre, è previsto un aggiornamento del piano nazionale della sicurezza
stradale, approvato dal Cipe il 29 novembre del 2002, "con l'obiettivo di
ridefinire quegli aspetti che possono favorire un incremento dell'efficacia
degli interventi e una più ampia partecipazione degli enti locali e del
sistema delle imprese al processo di miglioramento della sicurezza
stradale".
Altro obiettivo è il rafforzamento della Consulta Nazionale sulla
Sicurezza Stradale volto a svilupparne ulteriormente le funzioni di promozione
della concertazione interistituzionale e del partenariato pubblico privato, di
analisi delle misure poste in essere e verifica della loro efficacia, di
valutazione generale dello stato e dell'evoluzione della incidentalità
rispetto agli obiettivi di sicurezza comunitari e nazionali.
Un 'pacchetto' di interventi interesserà la formazione a cominciare
dall'educazione stradale nelle scuole. Il ministero della Pubblica Istruzione
ha già individuato alcune linee di indirizzo per l'attuazione di
iniziative di educazione alla sicurezza stradale mirate ad assicurare una
formazione di base sulla mobilità sicura e sostenibile per la
popolazione in età scolare. Inoltre, è prevista la promozione di
master universitari e di altre iniziative formative in materia di sicurezza
stradale dedicate a tecnici e decisori delle amministrazioni nazionali, regionali
e locali per migliorare la capacità complessiva di governo della
sicurezza stradale.
(7 marzo 2007)
Italia Oggi
8-3-2007 Dopo due ore di discussione il consiglio dei ministri ha approvato il
ddl che riforma la magistratura. di Claudia Morelli
Giustizia, Mastella fa la sua mossa
Sì alla distinzione delle funzioni e verifiche di professionalità
Sull'ordinamento giudiziario pesa l'incognita parlamento (e maggioranza). Ieri
finalmente il consiglio dei ministri ha approvato lo schema di disegno di legge
che modifica la legge Castelli sull'accesso in magistratura, la progressione in
carriera e sostituisce alla rigida separazione di carriere una soft distinzione
delle funzioni tra giudici e pm. La parola adesso passa al parlamento, che ha
tempo fino al 31 luglio per approvare il poderoso provvedimento. Il 31 luglio
è una data capestro, perché è solo fino a quella data che
l'ordinamento Castelli è stato sospeso in attesa di questa riforma
che se non dovesse arrivare in tempo, farebbe rivivere la versione tanto
avversata dai magistrati. Il ministro della giustizia Clemente Mastella sa che
la posta in gioco è alta e ieri, in conferenza stampa, ha invitato la
opposizione a collaborare. Evenienza piuttosto difficile, visto che la
filosofia Mastella si scontra con quella che ha improntato la legge Castelli e
contro la quale i magistrati si sono schierati compatti. E ieri il
guardasigilli lo ha sottolineato. 'Ho deposto l'ascia di guerra della politica
nei confronti della magistratura. Non c'è stata nessuna incursione
piratesca. L'equilibrio tra magistrati, Csm e politica è intatto', ha
dichiarato ieri. Il testo, dopo una discussione di due ore in cdm in cui non
sono mancate osservazioni da parte dei colleghi Antonio Di Pietro, Emma Bonino
e altri, sarà modificato in alcuni passaggi. Le novità più
significative rispetto alla legge 150/2005 riguardano l'accesso in
magistratura, anche se nella ultima versione è scomparso il doppio
canale del corso concorso per i laureati più meritevoli sul quale si erano
attestate diverse critiche anche dei colleghi di governo. Il concorso è
di secondo grado e si riducono i tempi delle prove concorsuali. Scompare anche
la rigida distinzione tra le carriere, sostituita da quelle delle funzioni. Si
potrà transitare da quelle requirenti a quelle giudicanti e viceversa ma
sarà necessario cambiare distretto e superare una verifica delle
attitudini. Il passo indietro su questo punto, previsto dal programma
dell'Unione. è stato difeso da Mastella che in consiglio dei ministri ha
dovuto fare i conti con il dissenso del ministro per le politiche comunitarie.
Emma Bonino, che ha votato no al provvedimento, ha spiegato che ritiene il
testo insufficiente a garantire efficienza. 'è stata una giornata
difficile dal punto di vista politico, ma è chiaro che il problema della
giustizia, delle regole, dei tempi, sia centrale per noi radicali. E non mi
pare che il disegno di legge risolva questi problemi in modo accettabile'.
Modiche sono state introdotte anche con riferimento alla disciplina della
carriera e di valutazioni di professionalità. Queste avverranno ogni
quattro anni, ma la progressione economica è stata sganciata da quella
delle funzioni. La prima è condizionata al superamento delle valutazioni
di professionalità. In caso di inadeguatezza professionale è previsto
il blocco degli aumenti stipendiali. In ogni caso, il mancato superamento della
valutazione comporta che il magistrato non potrà ricoprire incarichi
extra giudiziari prima della successiva valutazione l'anno successivo. Anche la
scuola per la magistratura cambia perché perde la fase valutativa
originariamente voluta da Castelli. La formazione sarà obbligatoria: i
magistrati dovranno frequentare almeno un corso di formazione ogni quattro
anni. I componenti del Csm tornano ad essere trenta, venti togati e dieci laici
ma il sistema elettorale non cambia. La modifica del sistema
elettorale è demandata a un altro intervento. Il ddl apporta
alcune modifiche anche al decreto delegato sul decentramento. Entro il 30
giugno di ogni anno i titolari degli uffici giudiziari dovranno predisporre il
programma delle attività annuali su cui pianificare le risorse
finanziarie . Ieri Mastella ha garantito che l'intervento sulla ex- Cirielli,
arriverà presto ma Antonio Di Pietro ha fatto sapere di aver chiesto in
cdm un provvedimento in 15 giorni.
Il Sole 24 Ore 8-3-2007 Telefonia
mobile.Sullo"scatto"duello da 4 miliardi Il Governo: valutiamo lo
stop I gestori: investimenti a rischio Carmine Fotina
Per l'Esecutivo serve un
"approfondimento" sull'importo fisso alla risposta Anche l'abolizione dello scatto alla risposta
per le chiamate con il cellulare è ora allo studio del Governo, ma
stavolta gli operatori alzano da subito le barricate.La segnalazione giunta dal
presidente dell'Authority per le comunicazioni è stata accolta con
attenzione, dice il ministro dello Sviluppo economico Pierluigi Bersani:
"Stiamo studiando la cosa dal punto di vista normativo, c'è un
approfondimento da fare". Ma già ieri i gestori hanno valutato le
contromosse: da Londra, Pietro Guindani, a.d. di Vodafone e presidente di
Asstel, l'associazione confindustriale che rappresenta il settore, si è
consultato con i colleghiconcorrenti per definire la strategia difensiva che
verterà sui rischi industriali di un nuovo taglio dei costi fissi.
Secondo le compagnie è minacciata la stabilità dei conti
economici, peraltro floridi grazie a margini che nel caso di Tim e Vodafone
superano il 50%. A loro supporto è intervenuto anche il segretario
confederale della Cgil Nicoletta Rocchi invitando il Governo a valutare gli
impatti sul sistema delle imprese. In pericolo ci sarebbero investimenti e
piani di sviluppo. A meno ovviamente - ed è il grande rischio
sottolineato ancora una volta dai consumatori - di aumentare il traffico al
minuto, che alla fine potrebbe essere l'unica vera voce di prezzo lasciata alla
libertà del mercato. Il dialogo del Governo con l'Autorità
sull'importo alla risposta, comunque, potrebbe seguire la via parlamentare a
differenza dell'abolizione dei costi di ricarica stabilita con il decreto
Bersani. Andrea Lulli,relatore al dl sulle liberalizzazioni, ha aggiunto ieri
che sono in corso verifiche sulla "possibilità di inserire la norma
nel dl. Al massimo entro domani ci sarà una risposta". L'abolizione
dei contributi di ricarica inciderà sui ricavi tra 1,7 miliardi e 2
miliardi di euro. Ma, da una rapida elaborazione sui dati di traffico, emerge
che l'eliminazione dello scatto alla risposta peserebbe anche di più,
intorno ai 4 miliardi. Ogni anno gli operatori gestiscono complessivamente
circa 100 miliardi di minuti di traffico mobile; considerando una durata media
di 2,5 minuti si tratta di 40 miliardi di chiamate.Non a tutte tuttavia oggi si
applica lo "scatto " (i gestori infatti hanno già alcuni piani
senza importo fisso, seppure siano ancora pochi). Stimando una quota del 65%,
si ottengono 26 miliardi di chiamate cui va moltiplicato un importo minimo di
15 centesimi, per una cifra complessiva di 3,9 miliardi. Stretti d'assedio, gli
operatori provano intanto a recuperare almeno una parte degli introiti persi
sulle ricariche. La Fit, la federazione dei tabaccai, è pronta alla
serrata per opporsi alla riduzione delle provvigioni riconosciute per ogni
operazione di ricarica: "Tutti i gestori stanno per tagliare le
commissioni. Per una ricarica di 10 euro si scivola da una media di 30
centesimi a circa 25 cent". Trasparenza a rilento Due giornifa è
entrata in vigore la delibera dell'Authority che obbliga tutti i gestori, sia
del fisso sia del mobile, a pubblicare sui siti ea rendere disponibili nei
punti vendita tabelle confrontabili sui piani tariffari. Gli operatori si
adeguano con il contagocce: dopo Tim e 3, ieri è stata la volta di
Vodafone. Gli altri sono indietro, ma l'Autorità per ora non è
intervenuta. www.ilsole24ore.com REGOLE E RESISTENZE I tabaccai minacciano la
serrata: sulle ricariche provvigioni tagliate Sui piani tariffari va a rilento
l'operazione "trasparenza".
La
voceditalia.it (7-3-2007) Rossi: "I partiti condizionati dalle scelte
della finanza e dalla grande industria"
"Anche se io e Turigliatto avessimo
votato a favore, il Governo sarebbe ugualmente andato in minoranza"
Il senatore che ha provocato le dimissioni
del Governo sull'Afghanistan spiega le ragioni del suo dissenso
Dopo aver subito l’efficace, quanto falsa,
campagna mediatica sui due senatori della “sinistra radicale che hanno fatto
cadere Prodi”, ho cercato di capirne le ragioni e, al fine di sviluppare un
più ampio confronto, penso sia utile esporre alcuni elementi di
riflessione.
E’ vero che l’attuale Governo è spostato a sinistra?
Davvero la finanziaria avrebbe “fatto piangere i ricchi”?
Ogni persona sufficientemente informata, per quanto timorata dalle ancor vive
“ansie di giustizia sociale”, può ammettere che così non è
stato e che così non è.
Ma allora perché forti gruppi finanziari, Banca d’Italia in primis, forze
politiche non marginali e autorevoli cariche pubbliche lavorano da tempo ad una
sostanziale modifica moderata del quadro politico di cui sono già oggi i
principali gestori e/o beneficiari ?
Non certo per tornare a Berlusconi, di cui non hanno gradito l’eccessivo
rafforzamento finanziario, politico ed industriale (avvenuto anche a loro
spese, durante la sua permanenza al governo), e di cui hanno concorso a
decretare la fine, spostandosi con il centro sinistra, durante la campagna
elettorale.
Negli anni ’90, si è sviluppato un
duro scontro strategico-culturale tra Brezinsky e Wolfowitz, da un lato, che
teorizzavano la centralità degli strumenti bellico-militari per
conservare ed estendere il dominio degli USA sulle fonti energetiche e
sull’economia del pianeta e contenere la crescita economico-politica dell’India
e della Cina, e Kissinger, unitamente a numerosi personaggi della
politica e della cultura americana, dall’altro, che, prendendo atto della ormai
consumata vittoria, mediatico-militare (compreso il “cul de sac” afghano)
sull’URSS, indicavano la necessità di aprire una nuova fase dove
l’America avrebbe potuto primeggiare come principale fattore di sviluppo e
globalizzazione dei diritti sociali, civili e democratici.
Quanto è avvenuto in seguito: Indonesia, Africa, Palestina, Yugoslavia,
Nicaragua, Iraq, 11 settembre, Afghanistan, ecc., è la riprova del netto
prevalere della prima opzione strategica, materializzat asi sotto l’aberrante
teoria delle “guerre preventive”.
L’Onu con il “siamo tutti americani “ del dopo 11 settembre, ha accentuato la
propria crisi cedendo agli Stati Uniti ed ai loro interessi
economico-strategici, gran parte della propria autorità sovranazionale.
La stessa Europa, ed è qui la sua profonda crisi attuale (attivamente
preparata su input Usa da Inghilterra, Italia, Polonia e Ungheria e sancita dai
fallimenti dei referendum costituzionali e dall’ approvazione della direttiva
Bolkesten), ha avviato un processo di generale regresso rispetto all’idea di
poter assumere un grande ruolo internazionale (in una visione multilaterale) in
ragione dei suoi livelli di progresso sociale, scientifico e culturale, della
sua forza economica, demografica e, persino, militare.
Dopo l’11 settembre anche la grande finanza e la grande industria europea si
piegano agli interessi ed agli intrecci finanziari gestiti, nei vari scacchieri
mondiali, dalla Banca Mondiale e dalle grandi Corporations americane. Anche in
Italia, e molto più della Francia e della Germania, la “classe
imprenditoriale e/o dirigente” rinuncia ad arditi progetti e si acconcia a
salire sulla locomotiva statunitense, trainata dagli enormi profitti del
settore degli armamenti e delle guerre (con le sue attività produttive e
commerciali collaterali: soldi pubblici per distruggere, poi soldi pubblici per
ricostruire), dal controllo sull’approvvigionamento energetico, da quello sulle
informazioni e sui servizi segreti di tantissimi stati (accentuatosi con il
pretesto dell’antiterrorismo).
Anche i saperi, la scienza, l’arte e la cultura, sono stati piegati al businnes
ed alle strategie delle grandi Corporations, in grado di finanziare in proprio
o di farsi finanziare dai singoli Stati gran parte dei progetti di ricerca,
attraendo a sé gran parte della ricerca scientifica e dei ricercatori delle
più importanti università del pianeta.
I partiti, per scelta o per debolezza, si sono lasciati trainare (anche in
Italia) dalle scelte della finanza e dalla grande industria; riservandosi,
sempre più debolmente il ruolo, a decrescere, del “noi non siamo
d’accordo”, del “non sapevo” o del “sono le regole del mercato”; da noi
l’ultima ridotta è “Berlusconi avrebbe fatto peggio”.
Mi sono così ricordato che già sei mesi fa, in occasione del voto
sulle missioni militari all’estero, la grande stampa italiana (si fa per dire
visto che siamo il paese economicamente sviluppato con meno lettori di
giornali) enfatizzò, ed a più riprese distorse, le prese di
posizione del gruppo dei senatori contro la Guerra, non nascondendo la
delusione per la non sopraggiunta “crisi di governo”.
L’operazione allora fu sventata con due strumenti: il voto di fiducia, e
l’incontro tra il Governo, nella persona del Ministro per i rapporti con il
parlamento, i senatori “contro la guerra” ed i rispettivi capigruppo in Senato,
che si concluse con l’accordo che il Governo avrebbe accolto, quasi in toto, i
9 ordini del Giorno da noi proposti, facendo proprie le valutazioni e gli
impegni in essi contenute; va qui rimarcando il fatto, non certamente di
dettaglio, che da allora, nessuno di quegli impegni è stato mantenuto e
che si è giunti al voto sulla politica estera con tre nuovi e
peggiorativi elementi: la nuova base militare Usa di Vicenza; la fabbrica di
Cameri (Novara) dove, sulla base di un accordo firmato da D’Alema nel Natale
’98, verranno assemblati i nuovi aerei F35 (l’Italia si è già
impegnata ad ad acquistarne 131, ad un costo indicativo di 200 milioni di €,
l’uno); l’accordo militare con Israele, mentre al confine tra Libano e d
Israele i nostri militari dovrebbero essere arbitri neutrali.
Ma è proprio ragionando sull’esperienza di sei mesi fa che bisogna
chiedersi perché il Governo non ha posto la fiducia; e chiedersi anche perché,
dopo aver rinunciato a porre la fiducia, non si è cercata una libera
maggioranza in Senato.
D’Alema nella replica dice sostanzialmente: non voglio il voto di chi pensa
(Cdl) che ci sia continuità in politica estera con il precedente governo
e non voglio nemmeno il voto di chi non è d’accordo con le mie proposte
di politica estera (senatori “contro la guerra” e, teoricamente, partiti
dichiaratisi contrari alla base di Vicenza, alla guerra afgana ed alla
costruzione-acquisto degli F35); può essere stato tanto ingenuo da non
aver pensato che senza gli uni e senza gli altri, in Senato, non si sarebbe
raggiunta la necessaria maggioranza dei votanti?
Il fatto, politico-matematico, è che se anche io e Turigliatto avessimo
votato a favore, il Governo sarebbe ugualmente andato in minoranza.
Che si sia trattato di un casus belli per aprire una nuova fase politica
è ora dimostrato da altri due elementi:
- Nelle ore successive mancano
autorevoli dichiarazioni e prese di posizione sulla conferma di Prodi, anzi, si
legge di ipotesi di incarico ad Amato, Dini o altra personalità
(richiesta “stranamente” fatta da Casini); io e il Segretario del Partito
Consumatori Italiani siamo i primi a chiedere il rapido ritorno di Prodi alle
Camere, con impegno a sostenerlo con la Fiducia;
- il Governo ha ora dichiarato che
non metterà la fiducia sul rinnovo della nostra partecipazione alla
guerra afghana, e che si augura un’ampia convergenza in parlamento aprendo ai
voti dei parlamentari della CDL, notoriamente meno sensibile al ripudio della guerra
e attento nel guadagnarsi la riconoscenza ed il gradimento dell’attuale
amministrazione americana.
Ciò è “normale” in una democrazia parlamentare (forse qualcuno
non sa che anche in Inghilterra, Blair fa passare la sua politica di guerra con
la contrarietà di una significativa parte di laburisti ed il consenso
dei conservatori). Perché non lo si è fatto il 21 febbraio?
I “partigiani del 26 Aprile” scrivono e mi dicono che loro, hanno votato a
favore perché avevano già subodorato che si cercava il pretesto per
spostare a destra (gli irriducibili dicono ancora al centro) l’asse del
Governo; bisognava votare a favore così tutti avrebbero capito cosa
c’era sotto e non avrebbero potuto accusare la sinistra “pacifista” di aver
fatto cadere Prodi.
Tra questi ho anche dei cari amici, ma ciò non mi impedisce di partire
da tali sconcertanti argomentazioni (Bugio ed altri) per riproporre il problema
del ruolo dei comunisti e della sinistra, in parlamento e nel paese.
Quale cedimento culturale, si apre allorché passa l’idea che per contrastare
scelte conservatrici ed antipopolari …bisogna approvarle e sostenerle?
Agli appelli “spintanei” che vengono a go-go dagli or ganismi europei ed ai
disegni politici delle componenti moderate dell’Unione, tesi ad ottenere una
violazione del diritto costituzionale ad una pensione dignitosa, a ridurre i
diritti dei lavoratori, i servizi sociali ed il carattere pubblico e universale
di scuola e sanità, la sinistra come dovrebbe rispondere? Approvandole e
sostenendole?
Il rispetto del compromesso raggiunto con il programma comune è un
conto, applicarne solo le parti moderate e accettare sistematici arretramenti
sulle questioni messe in agenda dalle componenti più moderate, è
un altro!
La rotta monetarista, segnata dalla finanziaria, è sbagliata.
Se questo è il percorso, la sorte elettorale dell’Unione è
segnata; come segnata sarebbe la sorte di una sinistra che si lasciasse
coinvolgere nel naufragio annunciato.
In questi giorni ho avuto tantissimi contatti e incontri da cui emergono aspetti
ancor più inquietanti: su sinistra e lavoro, sinistra e ambiente,
sinistra e giustizia sociale, sinistra e diritti, sinistra e informazione,
sinistra e amministrazione locale, esce un mosaico desolante (pur facendovi la
necessaria tara, e cioè considerandole informazioni influenzate dalla
tensione del momento).
La questione è molto seria.
Sulla Nato siamo dietro ad Andreotti, sulle pensioni contro i sindacati,
sull’ambiente siamo spesso al fianco di chi lo depreda (dagli inceneritori,
alle turbogas, dai grandi costruttori che stanno dietro a tanti sindaci
“nostri”, grandi e piccoli, alla scomparsa della partecipazione popolare alle
scelte). Report, Travaglio e tanti altri giornalisti che onorano il loro
mestiere denunciano ingiustizie e ruberie di denaro pubblico da ogni parte, e
la sinistra che fa? Si stringe nelle spalle !?
Se possono impunemente raccontarci che una guerra è una pace, cosa ci
stanno raccontato sulle pensioni, sui salari, sulla scuola, sulla
sanità, sull’ambiente, sui diritti dei consumatori...
E invece eccolo lì il nostro ceto politico, a pensare a come unirsi tra
ex Dc ed ex Pci per fare un “partito democratico all’americana”, che abbia
tanti voti da essere sicuro di prendere tutto il potere, o a discutere di nuove
formazioni postcomuniste o neosocialiste però “aperte ai
movimenti”, mentre approvano un dodecalogo che è, punto per punto, teso
a delegittimare ed a tagliare alla radice gli obiettivi su cui i movimenti
stanno lavorando.
Nel teatrino della politica, con le famiglie indebitate dalla truffa del “tasso
Siamo giunti (come scrisse Pintor) alla fine della autonomia politica e culturale
della sinistra?
Quand’anche non fossimo al capolinea, prima di arrivarci, bisognerebbe porsi
con forza il compito di cambiare la politica, cominciando, da un ultimo, corale
ma fermissimo, tentativo di cambiare dall’interno i nostri partiti della sinistra,
battendoci per tirarli fuori dal “teatrino della politica” e dalle mani del
ristretto ceto politico che ora li usa come “cosa sua” e rimetterli al loro
posto, tra il popolo.
I nuovi dirigenti siano persone che hanno dato battaglia rispetto al degrado
lobbistico, che dicano ciò che fanno e facciano ciò che dicono,
che pratichino la democrazia interna ed il confronto delle idee, lasciando
prevalere quelle utili ad una positiva soluzione dei problemi. Non sarà
per nulla facile, ma prima di gettare i bambini con l’acqua sporca,
bisognerà provarci.
Fernando Rossi
senatore del Gruppo Misto - Consumatori
Data: 07/03/2007 10.57.00
Il Riformista
8-3-2007 CASA DELLA CULTURA A M
In questi casi, si sa, le parole, da parte
di chi ha una coscienza civile democratica (o basterebbe solo dire da parte di
chi ha una coscienza civile) sono sempre le stesse, ma evidentemente, e
purtroppo, vanno ripetute, con più forza e anche, perché no, con una
sana indignazione. A cosa ci riferiamo? Alla polemica sollevata da alcuni
esponenti del centrodestra milanese (di An e Lega) in relazione al
trasferimento della nota e prestigiosa Casa della Cultura islamica dall’attuale
sede in via Padova alla nuova sede che si trova ad un chilometro di distanza.
Motivazione? Problemi di concessioni edilizie, di traffico e viabilità,
artatamente sollevati. Risultato: un clima ostile nel quartiere non certamente
sul tema della concessione edilizia, ma nei confronti dell’islam. Sconcertante.
Ma quello che è ancor più sconcertante è che la
realtà in questione, attiva a Milano sin dal ’93, è espressione
di quello che comunemente viene chiamato islam moderato, come ha mostrato con
atti concreti e significativi: le posizioni critiche nei confronti dell’Ucoii,
l’appello sull’emittente araba Al Jazeera per la liberazione delle due Simone,
la ferma condanna dell’attentato terroristico a Londra. Insomma mai come in
questo caso l’equazione tra islam e terrorismo non regge proprio. Non solo si
tratta di una esperienza da valorizzare dal punto di vista strettamente
“politico” (almeno così dovrebbe fare chi ha a cuore le questioni
dell’integrazione ed è preoccupato da ben altri volti dell’islam) ma
anche dal punto di vista “culturale” (aspetto mai secondario) essendo un centro
molto attivo su questo piano, come emerge dalle relazioni positive che ha
instaurato con numerose realtà religiose cattoliche, o dalla semplice
frequentazione da parte di molti studenti.
La polemica sollevata dagli esponenti locali della Lega e di An appare dunque
incomprensibile (se non alla luce della più bieca strumentalizzazione
politica) ma soprattutto (questo temiamo) inquietante nei suoi possibili
risvolti, sia per le comunità islamiche meno moderate che alimentano il
proprio fanatismo con quello altrui, sia per il clima creato nella zona.
Insomma, a poche settimane dalla vicenda del campo rom di Opera, che mise in
luce un altrettanto cupo protagonismo delle stesse forze politiche, a fronte di
posizioni ben più responsabili dell’amministrazione Moratti, quello che
sta accadendo sulla Casa della cultura non comunica. Pessimi segnali.
Il Sole 24 Ore 7 marzo 2007
Via la pena di morte dalla Costituzione, anche in caso di guerra. di
Nicoletta Cottone
Con un voto bipartisan il Senato ha votato
in favore dell’abolizione della pena di morte anche nei casi previsti dalle
leggi militari di guerra. Di fatto una totale cancellazione dal comma 4
dell’articolo 27 della Carta Costituzionale della pena di morte. Il sì
è arrivato con 226 voti a favore e 12 astenuti. I disegni di legge
costituzionali, in base all’articolo 138 della Costituzione, sono adottati da
ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non inferiore a
tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta dai componenti di ciascuna
Camera nella seconda votazione. Ora, dunque, il provvedimento, dovrà ora
tornare alla Camera per una seconda lettura e quindi ricevere il via libera
definitivo da palazzo Madama.
Il provvedimento è costituito da un articolo unico che elimina dal
quarto comma dell’articolo 27 della Costituzione le parole che ammettevano la
pena di morte nei casi previsti dalle leggi militari di guerra. «Con il
provvedimento in esame - sottolinea il senatore Learco Saporito di Alleanza
Nazionale, relatore del disegno di legge costituzionale - si afferma che la
pena di morte non potrà essere più inclusa nel corpo delle leggi
penali ordinarie e si conferma la tradizione giuridica italiana contro la pena
di morte. È inutile ricordare che questo provvedimento rende più
credibile la richiesta del nostro Paese di ottenere una moratoria delle pene
capitali nel mondo e rafforza il Trattato di Amsterdam nel 1998».
nicoletta.cottone@ilsole24ore.com
Il Corriere
della sera 7-3-2007 La truffa dell'undici settembre Stock-option predatate per
approfittare del crollo post- attentato. Sarebbero 140 le aziende coinvolte. Lo
scopo era garantire maggiori guadagni ai manager. Alessandra Carboni
STATI UNITI - Si
torna a parlare di stock options e retrodatazione. Questa volta lo scandalo
interessa numerose società americane che, nel momento in cui l’economia
ha iniziato a riprendersi dalla crisi in cui il mercato è scivolato dopo
gli attentati dell’11 settembre 2001, hanno pensato bene di «ritoccare» la data
delle opzioni assegnate ai loro manager
L’INGANNO - I
dirigenti delle aziende coinvolte hanno in pratica ricevuto le opzioni a
ottobre e nei mesi successivi, come parte del pacchetto retributivo loro
spettante nel 2001. Per garantire ai top executive un guadagno, però,
tali stock options sono state retrodatate al momento in cui i titoli
interessati hanno raggiunto il valore minimo dell'anno, ovvero i giorni
immediatamente successivi l'11 settembre. In questo modo, quindi, in vista
della ripresa della Borsa, i detentori delle opzioni si sono assicurati un
maggior margine di guadagno tra il prezzo di acquisto delle azioni, fissato al
minimo storico tramite opzione (contraffatta), e quello di vendita, più
alto, dato dalla ripresa del mercato. Le aziende coinvolte sono 140, e la
scoperta della truffa da parte della Securities and Exchange Commission ha
già prodotto decine e decine di licenziamenti e dimissioni eccellenti.
KLA-Tencor, Affiliated Computer Services, Take-Two Interactive Software, Progress
Software, UnitedHealth Group e Broadcom sono tra coloro che hanno dovuto
ammettere di avere «erroneamente indicato la data sbagliata» sulle opzioni,
come riferisce il Wall Street
Journal.
LE OPZIONI - Una
stock option altro non è che un’opzione, offerta ai dipendenti di
un’azienda, sulla sottoscrizione di azioni a un prezzo determinato. Tale prezzo
è il prezzo d’esercizio, ovvero il valore che le azioni hanno nel
momento in cui l’opzione è stata assegnata. L’opzione può essere
esercitata entro una scadenza, prefissata. In pratica, chi riceve l’opzione ha
il diritto di acquistare un titolo a un dato prezzo, congelato. Il guadagno ci
sarà se nel momento della vendita il prezzo del titolo sarà
superiore a quello di acquisto. Da qui l’interesse a indicare sulle opzioni la
data in cui le azioni della società hanno toccato il valore più
basso.
07 marzo 2007
La Repubblica
7-3-2007 Assicurazioni. Rca per più vetture: nuovi contratti, ma stessa
classe. di Antonella Donati
Sono in vigore dal 2 febbraio le norme del
decreto Bersani che obbligano le compagnie a garantire le stesse condizioni
quando vengono assicurate più auto. E se non è così,
interviene l'Isvap
Un'altra classe? No grazie. Le norme del
decreto Bersani che impongono alle società di assicurazione di garantire
la stessa classe quando vengono assicurate più vetture, sono infatti
già in vigore dal 2 febbraio, e le compagnie hanno l'obbligo di
applicarle a tutti i nuovi contratti. Ma non tutte le società si sono
adeguate. E allora la via maestra per ottenere il trattamento giusto è
quella di rivolgersi all'Isvap, l'Istituto di vigilanza sulle assicurazioni
private che ha già avviato diverse procedure contro le società
che non si sono volute adeguare, ed è pronto ad intervenire sulla base
di una semplice segnalazione.
Stessa classe dal 2 febbraio in poi - Le disposizioni del decreto sono
molto chiare e difficilmente equivocabili: "L'impresa di assicurazione in
tutti i casi di stipulazione di un nuovo contratto, anche aggiuntivo al
precedente, a prescindere dalla contestuale vigenza di un'altra polizza, non
può assegnare al contraente una classe di merito più sfavorevole
rispetto a quella risultante dall'ultimo attestato di rischio conseguito".
Le norme scattano dalla data di entrata in vigore del decreto, il 2 febbraio, e
quindi valgono ovviamente solo per i contratti sottoscritti da quella data in
poi. Ma sicuramente da lunedì 5 febbraio è impossibile far finta
di niente. Eppure qualche compagnia ha parlato di formulazione equivoca e per
questo non ha voluto applicare le nuove regole. Per l'Isvap, però il
testo della legge non dà adito a dubbi, e così sono partite le
procedure di controllo e di richiamo.
Come presentare il reclamo - Chi si è trovato a dover fare i
conti con una società che si è rifiutata finora di rispettare la
legge ha, dunque, la possibilità di presentare alla propria
assicurazione e contestualmente all'Isvap un reclamo per il mancato rispetto
della legge. In questo caso, infatti, diversamente da quanto accade quando il
reclamo riguarda problemi contrattuali, l'Isvap può intervenire senza
attendere che la società risponda. E' obbligatorio avere prima la
risposta ufficiale dell'assicurazione solo quando il reclamo riguarda questioni
direttamente legate all'applicazione di norme contrattuali, quando invece si
tratta di un mancato rispetto di norme di legge l'Istituto può intervenire
in prima battuta. Per cui conviene comunque attivarsi anche con la
società, ma informando che il reclamo è diretto anche all'Isvap:
le società più accorte preferiranno adeguarsi immediatamente
piuttosto che rischiare l'intervento, e le sanzioni, dell'Istituto di
controllo. Presso l'Isvap è a disposizione un servizio telefonico di
informazioni agli utenti (numero 06-42133000) al quale rispondono in orario di
ufficio funzionari dell'Istituto. Il recapito per i reclami è: Isvap,
Servizio Tutela Utenti, Via del Quirinale, 21 00187 Roma oppure Fax
06-42133426/06-42133353
La Stampa 7-3-2007 I radical si
accorgono di andare alla guerra AUGUSTO MINZOLINI
Il Riformista 7-3-2007 LA LEZIONE DI
CACCIARI Marziani in laguna
La Stampa 7-3-2007 Scatta l'allarme
siccità, E Prodi mobilita le Prefetture GABRIELE BECCARIA
++ Da Il Sole 24 Ore 7-3-2007 Visco: «Possibile una riduzione delle tasse in tempi brevi»
di Nicoletta Cottone
Lo
ha detto il viceministro all’Economia Vincenzo Visco nel corso dell’audizione
dinanzi alle commissioni Finanze e Bilancio della Camera sull’andamento delle entrate
tributarie della Pubblica amministrazione. «È possibile una riduzione
della pressione fiscale - dice Visco - iniziativa che io ritengo prioritaria,
in tempi brevi a condizione che i tassi di crescita della spesa primaria
corrente siano ridotti e determinino i risparmi necessari al raggiungimento
degli obiettivi indicati nel patto di stabilità e crescita». Visco ha
ricordato che siamo impegnati con l'Unione europea a migliorare l'indebitamento
nel prossimo anno almeno dello 0,5 per cento. Il miglioramento del rapporto
deficit-Pil raggiunto nel 2006 (2,4%, al netto di oneri straordinari), dice il
viceministro, è interamente dovuto alle maggiori entrate erariali. Le
maggiori entrate rispetto alle stime di settembre non dipendono solo dal bilancio
dello Stato centrale, ma anche dagli enti locali. In valori assoluti la
crescita delle entrate è stata pari a 37,7 miliardi di euro: 29
già inclusi nelle stime e
Il maggior gettito fiscale strutturale realizzato nel 2006 dovrebbe generarsi
anche nel 2007. «Guardando al futuro - dice Visco - un maggior gettito
strutturale rispetto a quanto considerato nella Finanziaria dovrebbe generarsi
anche nel
Secondo Visco, senza la crescita delle entrate (1,6% del Pil) «l'indebitamento
sarebbe risultato in linea con le stime della Commissione Faini: 4,1% ossia il
risultato del 2005. Infatti, nel 2006, la spesa è rimasta invariata in
rapporto al Pil».
In particolare l’Ire è cresciuta del 6,4% e le ritenute da lavoro
dipendente privato dell’8,8%, più del doppio del Pil nominale. Dato che
si ritiene legato all’emersione del lavoro nero. L’Ires è cresciuta del
16,3%, l’Iva dell’8,8 per cento. «Anche se si depurano le entrate dei
provvedimenti one-off presi dal Governo precedente - spiega Visco - il gettito
erariale rimane molto più elevato di quanto era lecito attendersi in
base alla crescita del Pil».
+ Il Corriere del Veneto 7-3-2007 Glaxo, la difesa
" convoca " il ministero. Colpo di scena al maxi- processo. Chiesta
in aula un'integrazione d'indagine
Si
allungano i tempi dell'udienza preliminare. Ieri intanto sette ore di arringhe
dei legali che vogliono il " non luogo a procedere "
VERONA - La tesi della Glaxo è
chiarissima: nell'organizzare convegni e/ o congressi a invito per i medici, la
multinazionale di Verona non ha fatto " nulla di diverso da quanto sono
solite fare anche tutte le altre aziende farmaceutiche " . Non ha commesso
" nulla di illegale " , dunque, e " se anche dovesse risultare
che ha fatto qualcosa di sbagliato, l'avrebbe fatto in totale buona fede "
. Questa, in estrema sintesi, la posizione difensiva del colosso farmaceutico
nel mega- processo a 142 imputati per comparaggio, corruzione e
associazione a delinquere che ieri ha vissuto un'altra udienza - la terza,
finora - decisiva. Sette ore nell'aula solitamente riservata alla Corte
d'assise ( anche ieri le parti in causa erano davvero troppe per trovare spazio
nelle consuete sale al primo piano del palazzo di giustizia), che hanno visto
l'atto- clou nell'arringa dell'avvocato Vittorio Fasce. è stato
quest'ultimo, legale rappresentante di sei dirigenti Glaxo, a chiedere in aula
un'integrazione d'indagine: " è necessario sentire il responsabile
del Servizio congressi del ministero alla Salute su come la Glaxo agisse in
questo settore sia a livello di modalità che di quantità " .
Ovvia, la finalità a cui punta la difesa: dimostrare che la
multinazionale scaligera non faceva nulla di diverso rispetto alle altre
compagnie farmaceutiche. Un obiettivo, questo, che il legale mira a ottenere
anche attraverso la seconda richiesta avanzata ieri in aula: " Sentire un
rappresentante di Aifa ( l'agenzia italiana del farmaco, ndr ), a cui va il 5%
degli introiti incassati dalle aziende grazie alle promozioni " . Una
doppia integrazione d'indagine che comporterà, di fatto, un allungamento
dei tempi previsti per giungere alla conclusione di un'udienza preliminare
dominata ieri dalle arringhe dei legali allineati nella loro richiesta al
giudice Rita Caccamo di " non luogo a procedere " . Centoquarantadue
le persone ( in origine erano 143, ma una, Luigi Manzione, ha chiesto il rito
immediato scavalcando l'udienza preliminare) chiamate a vario titolo a
rispondere dei reati di comparaggio, corruzione e ( contestazione,
quest'ultima, mossa solo a una cinquantina di loro) associazione per
delinquere. Nei confronti di tutti loro, l'unico Tribunale deputato a decidere
sarà quello di Verona. è stato lo stesso gup Caccamo, durante la
scorsa udienza, a respingere la mega ( a sollevarla, era stata una trentina di
imputati) eccezione di incompetenza territoriale avanzata in aula dalle difese
di medici, informatori scientifici e dipendenti Glaxo sotto accusa. "
Questo procedimento deve proseguire lontano da Verona " , avevano scandito
a gran voce i legali che, a sostegno delle proprie richieste, hanno anche
depositato agli atti voluminosi faldoni di materiale: " Si tratta di
pronunciamenti della Corte di Cassazione che avvalorano la nostra domanda di
trasferimento del processo " , hanno spiegato per ore davanti al giudice.
Al termine dei loro discorsi, però, il gup Caccamo non si è
neppure ritirata in camera di consiglio per riflettere sul da farsi, preferendo
invece pronunciare un'ordinanza seduta stante. E il provvedimento di sposto dal
magistrato ha assunto la forma e il colore di un semaforo rosso nei confronti
delle difese: " Il procedimento resterà in questo tribunale "
, ha infatti sentenziato il magistrato argomentando la propria decisione sulla
base di una sentenza emessa dalla Cassazione nel 1990. " Una data
lontanissima nel tempo, un verdetto del tutto inattuale: da allora, infatti, la
stessa Cassazione si è più volte espressa in senso contrario,
avvalorando dunque la nostra richiesta " , hanno commentato i legali fuori
dall'aula. Di tutt'altro tenore, invece, la reazione del procuratore Guido
Papalia, titolare della maxi- inchiesta e rappresentante della pubblica accusa
in aula: " L'unica sede deputata a decidere sul caso Glaxo è quella
scaligera " , ha ribattuto in il magistrato prima di chiedere il rinvio a
giudizio di tutti e 142 gli imputati sotto accusa. L. T.
L'AVVOCATO FASCE Va sentita la responsabile
della sezione congressi del dicastero alla Salute.
+ La Repubblica 7-3-2007 Al Copaco l'allarme del Sismi
"Militari a rischio di attentati". Di Alberto
Custodero
L'ammiraglio
ha denunciato forti difficoltà di gestione a causa del taglio del 40 per
cento del budget destinato all'intelligence
ROMA - "I nostri militari a Kabul sono a
rischio di attentati". Palazzo San Macuto, ieri mattina. È in corso
al Copaco, il comitato parlamentare che "sorveglia" i servizi segreti,
l'audizione del capo del Sismi Bruno Branciforte. La notizia del sequestro del
giornalista Daniele Mastrogiacomo non è ancora stata diffusa. Ma
Branciforte descrive già a tinte fosche la situazione in Afghanistan. Ad
ascoltarlo ci sono gli otto componenti del Copaco.
"Le operazioni militari in corso delle truppe Usa ci preoccupano -
è la sintesi dell'intervento del direttore del Sismi - perché hanno
innestato un'escalation di violenza che non può non coinvolgere i nostri
soldati". Le dichiarazioni allarmistiche dell'ammiraglio, e i rapporti
riservati del Sismi che, già da tempo, hanno indicato tra le minacce cui
sono esposte le truppe italiane in missione all'estero gli attacchi kamikaze
con autobomba e i rapimenti, hanno trovato drammaticamente conferma nella
notizia del sequestro del giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo
catturato in Afghanistan dal mullah Dadullah.
Al Copaco il capo del Sismi ha poi annunciato un fatto che non può non
avere importanti risvolti di politica internazionale. "Sono fresco di
incontri - ha detto - con i responsabili dei maggiori servizi segreti esteri:
c'è voglia di collaborazione e di ristabilire l'operatività con
l'intelligence americana". "Proprio di recente - ha aggiunto Branciforte
- ho incontrato gli esponenti della Cia, la cui collaborazione aveva avuto
momenti di difficoltà a causa delle note vicende". Il riferimento
è alle tensioni dovute alle indagini sul sequestro Abu Omar e la
richiesta di estradizione (non ancora firmata dal ministro della Giustizia),
avanzata dalla procura di Milano nei confronti di una ventina di agenti Cia.
Subito dopo, però, l'ammiraglio ha gelato gli otto parlamentari che lo
hanno convocato denunciando forti difficoltà di gestione
dell'intelligence in seguito al taglio del 40 per cento del budget da parte del
governo, in parallelo con quanto dichiarato qualche giorno prima da Franco
Gabrielli, direttore del Sisde, che aveva lamentato una riduzione ancor
più drastica, del 60 per cento.
Questa notizia, in un momento così critico, ha portato il vicepresidente
del Senato, Milziade Caprili, membro del Copaco, a dire che "dopo
l'approvazione della legge di riforma dei servizi, e alla luce di quanto
è accaduto in Afghanistan, va rivisto in finanziamento all'intelligence".
Il sequestro di Mastrogiacomo, per il presidente del Copaco, Claudio Scajola,
"fa parte del complesso scenario afgano che ora si complica ulteriormente
perché è evidente che i taliban hanno guadagnato nuovi territori. La
situazione politica italiana, però, non cambia". "Ora - ha
aggiunto - siamo nelle mani della capacità dei servizi che io spero sia
alta. L'ammiraglio Branciforte ha definito la nostra presenza in Afghanistan
"qualificata". Ciò non toglie, tuttavia, che ci sia forte
preoccupazione per la vita del rapito".
Il Sismi, in Afghanistan, non è solo a lavorare per la liberazione del
giornalista di Repubblica Daniele Mastrogiacomo. A dare la caccia agli
uomini del mullah Dadullah s'è creato un pool di 007 internazionali.
Oltre alla nostra intelligence, infatti, la più presente nel territorio
che si trova fra la provincia di Kandahar e quella di Hellmand risulta essere
in questo momento quella inglese. Sono gli agenti dell'MI6 che in queste ore
stanno riversando ai nostri 007 tutte le informazioni in loro possesso
sull'organizzazione terroristica talibana che ha rivendicato il sequestro.
"Nessuna strada è stata tralasciata - ha assicurato il
sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti, con la delega ai Paesi asiatici,
fra cui l'Afghanistan - la nostra intelligence ha attivato tutti i canali
già sperimentati durante il sequestro del fotoreporter Gabriele
Torsello". "Abbiamo una notizia che ci conforta - ammette Vernetti -
che il sequestro è avvenuto senza feriti".
Per individuare il posto nel quale è tenuto nascosto il giornalista di Repubblica,
gli investigatori (sono presenti anche i carabinieri del Ros del generale
Ganzer) potrebbero chiedere anche la collaborazione dei servizi segreti
americani che, avendo in corso operazioni militari nella zona di Hellmand,
hanno tutto il territorio sotto il controllo elettronico: usano i droni (gli
aerei spia che volano senza equipaggio) e hanno il controllo di tutte le
conversazioni telefoniche.
(7 marzo 2007)
+ L’Opinione.it 6-3-2007 Coppola, dalle borgate romane
ai salotti buoni della finanza di Biagio Marzo
Edizione
54 del 06-03-2007
Che
Danilo Coppola non fosse uno stinco di santo era risaputo, come tutti gli
immobiliaristi visti in circolazione finora, ma il suo arresto, come sempre
succede nei casi di inchieste giudiziarie, lascia dietro di sé una scia di
dubbi. Non è la prima volta che quando ci sono appuntamenti importanti,
nella fattispecie il varo della governance di Mediobanca e il rinnovo del
vertice di Generali, che toccano gli assetti del salotto buono del capitalismo
italiano, accade di tutto, anche l’arresto dell’immobiliarista –raider Coppola.
Il quale Coppola è un azionista di Mediobanca sebbene a scalare: dal 5%
all’1% e di Generali. Si dice che nella sua finanziaria del Lussemburgo ci
sarebbe circa il 2% di capitale della compagnia del Leone di Trieste. Chi ha
azioni di Mediobanca e di Generali ha, di conseguenza, messo le mani sul gruppo
Rcs. Un altro immobiliarista, Stefano Ricucci, ha avuto l’ambizione sbagliata
di scalare il gruppo editoriale di Via Rizzoli e si è bruciato, finendo
pure lui a Regina Ceoli. Detto questo,Coppola, inoltre, possiede il 2% di una
banca d’affari torinese tanto piccola quanto sconosciuta, la Bim che fa capo
alle famiglie Giovannone, D’Aguì, Scanferlin e Segre. Nomi che non
dicono nulla al grande pubblico, ma quelli degli azionisti Carlo De Benedetti,
Salvatore Ligresti, Alcide Leali e Montezemolo dicono, viceversa, parecchio.
Coppola aveva fiutato l’aria, che si stava abbattendo su di lui una valanga
giudiziaria, e aveva chiesto ai Pm di essere sentito, dopo la fuga di notizie
relative alla sua iscrizione nel registro degli indagati per bancarotta, ma non
gli prestarono ascolto, preferendo, invece, di sentirlo in carcere. Uno dei
più noti “furbetti del quartierino” è stato arrestato e fra le
ipotesi di reato contestate vi sono associazione per delinquere, appropriazione
indebita, falso in bilancio, bancarotta fraudolenta, evasione fiscale,
riciclaggio e appropriazione indebita. A occhio e croce, i medesimi reati per i
quali fu arrestato il gangster italo - americano Al Capone. Per non andare
indietro nel tempo, basterebbe fermarsi al caso Sindona. Scherzi a parte,
l’inchiesta giudiziaria su Danilo Coppola dovrebbe allargarsi a macchia d’olio
per scoprire chi c’è veramente dietro all’immobiliarista romano. Non
è andata mai giù la leggenda metropolitana che lui è
l’artefice della grande ricchezza accumulata in poco tempo. Insomma, per i
molti lui non era altro che un prestanome.
Quand’anche ciò fosse vero, chi? Spetta alla magistratura, ora, scoprire
le verità del caso Coppola. Chi si mise di buzzo buono, sul versante
della carta stampata, per fare chiarezza sui tanti dubbi sull’origine delle
fortune di Coppola, fu “Il Sole24ore” tramite le inchieste di Claudio Gatti.
Nello stesso tempo, chi guardò l’entrata in campo dei new comers in modo
favorevole, fu Piero Fassino, e chi scrisse qualche riga pro Coppola, fu Gad
Lerner. Sulla rivista “Vanity Fair”, lo definì “lombrososamente discriminato”.
La discriminazione nasceva, talaltro, perché era un uomo povero che veniva
dalla periferia romana, Borgata Finocchio, che si era arricchito alla faccia
dei tanti borghesi che non ci sono riusciti. Vero è che Coppola e suoi
colleghi immobiliaristi sono stati presi di mira dal grande pubblico per
invidia e per la vita lussuosa da “parvenu” che conducevano senza freni
inibitori. In più, Coppola attirava l’attenzione, ma questo è un
dettaglio, perché aveva un taglio di capelli, “Carré francese”, e portava, in
modo vistoso, di volta in volta, al polso orologi di grandezza fuori del
comune.
Tra i colleghi di Coppola il più famoso, non per il fatto che è
convolato a nozze con l’attrice Anna Falchi, è stato Stefano Ricucci,
pure lui ha passato le pene dell’inferno, pardon del carcere di Regina Coeli,
per le sue scorribande finanziarie. Dopo le scalate all’AntonVeneta e alla Bnl,
aveva puntato dritto dritto sul gruppo editoriale Rcs Media Group, la holding
del Corriere della Sera, senza successo. Tentò l’assalto al cielo, ma ci
lasciò le penne. Suo è il copyright:”Furbetti del quartierino” e
di altre battute colorite irrepetibili. Ricucci aveva il pallino dell’editoria,
ma altrettanto lo aveva Coppola che acquistò il gruppo a cui fanno capo
il quotidiano economico “Finanza e Mercati” e il settimanale “Borsa e Finanza”.
I famosi e famigerati “furbetti” delle scalate bancarie dell’estate 2005 hanno
fatto, chi per un verso chi per l’altro, una brutta fine. I “furbetti”
portarono a segno il colpo della loro vita con l’operazione Bnl. Precisamente,
quando vendettero le loro quote a Giovanni Consorte, il Cuccia della finanza
rossa, di modo che questi fosse nelle condizioni di lanciare l’Opa Unipol sulla
banca di Via Veneto. Per dovere di cronaca, la compagnia di assicurazione
bolognese la strappò dagli spagnoli di Bbva, che dimostrarono di essere
ingenui e di avere mani inesperte nel gestire partite difficili e complicate
come fu, comunque, quella dell’Opa.
Per favorire l’Unipol di Consorte, la cordata degli immobiliaristi e
costruttori, ossia il “contropatto” con a capo Francesco Gaetano Caltagirone,
in contrapposizione al “patto” di Bbva, Abete e Diego Della Valle, cedette la
propria quota, che si aggirava a circa il 27%, facendosela pagare a peso d’oro.
Il “contropatto” incassò una montagna di plusvalenze e, in particolare,
gli ingordi immobiliaristi con in mano quella incredibile fortuna investirono
per creare nuove plusvalenze da investire ancora, e così di seguito. Il
gioco era questo e loro lo conoscevano a menadito. Chi, come Ricucci,
investì nella scalata Rcs, chi, come Coppola, acquistò, come
detto, quote di capitale di Mediobanca. In queste operazioni bancarie, la
Consob scoprì il concerto, in special modo, nella scalata dell’AntonVeneta.
Il regista era Giampiero Fiorani, ex numero uno di Bpi, ex Banca Popolare di
Lodi, che con l’avallo dell’ex governatore di Bankitalia, Antonio Fazio, si era
prefisso di cambiare la pelle al sistema bancario italiano, diventando il vero
dominus.
Per via di questa scalata Fazio ruppe la lunga amicizia con Geronzi che
sosteneva la banca olandese Abn Amro socia di Capitalia e di AntonVeneta.
Giampiero Fiorani vinse e Rijkman Groenink perse di brutto per poi rifarsi,
grazie alla magistratura e all’avvocato Guido Rossi, indicato al patron della
banca di Amsterdam proprio dal banchiere di Marino. Nelle maglie delle
inchieste giudiziarie incappò Danilo Coppola, accusato, assieme ai
concertisti, di aggiotaggio. Senza le plusvalenze Bnl, gli immobiliaristi non
avrebbero osato tanto, precisamente Coppola non avrebbe messo piede nel salotto
buono di Mediobanca. Mentre nel lancio dell’Opa di Bpl su AntonVeneta, gli
immobiliaristi dovettero impegnare le proprie risorse finanziarie,
nell’operazione Bnl, invece, con la cessione delle loro quote, incassarono
molto di più del previsto e ciò incoraggiò loro a
proseguire su questa strada. In ultima analisi, Consorte pagò
profumatamente il “contropatto” non calcolando, diciamo così, che stava
innescando una operazione che si rifletteva negativamente sull’economia di
mercato.
Di grazia, per i loro affari le risorse a disposizione non bastavano, ragion
per cui Ricucci e Coppola si rivolsero agli istituti di credito per essere
finanziati. Il raider di Zagarolo aveva una linea di credito privilegiata con
la Deutsche bank di Vincenzo De Bustis e il finanziere della Borgata Finocchio
con Unicredit di Alessandro Profuno. Come dire, pecunia non olet sia per il
creditore sia per il debitore. Naturalmente, le banche non finanziano gratis,
avendo l’assicurazione che, in casi spiacevoli di fallimento dei debitori,
abbiano sempre e comunque la possibilità di rientrare. E poi, gli affari
sono affari, Coppola è, in più, come visto, socio dell’ingegnere
De Benedetti e Luca Cordero di Montezemolo. Imprenditori blasonati che
sapevano, oltretutto, chi era il “parvenu” Coppola. Sul caso Coppola cosa si
potrebbe dire ancora tanto, ma noi sinceramente, da garantisti, auspichiamo che
l’immobiliarista ritorni in famiglia e gli inquirenti facciano il loro lavoro e
arrivino alla verità tanto desiderata, senza subire alcuna influenza e
in piena indipendenza.
I democratici
all’attacco sull’Iraq, nuove critiche al vicepresidente
WASHINGTON — Colpevole di ostruzione della
giustizia, spergiuro e falsa testimonianza: questo il
verdetto della giuria del Ciagate (lo scandalo delle false prove sulle atomiche
di Saddam), contro Lewis «Scooter » Libby, l’ex capo di gabinetto e consigliere
della sicurezza nazionale del vicepresidente Cheney. La sentenza è
attesa il 5 giugno e sarà probabilmente molto inferiore al massimo della
pena prevista, 40 anni di carcere. Ma per l’amministrazione, già scossa
da numerosi scandali, potrebbe essere l’inizio di una crisi: i democratici non
escludono che Cheney, in cura dall’altro ieri per una trombosi a una gamba, si
dimetta entro qualche mese, adducendo ragioni di salute.
Ieri sera il vicepresidente si è
detto «molto deluso» e «rattristato» dal verdetto di
colpevolezza. Libby è la vittima più illustre degli intrighi
politici della Casa Bianca dall’Irangate, lo scandalo dell’86 delle vendite
segrete di armi all’Iran per finanziare gli anticomunisti in Nicaragua che
costò le teste di due consiglieri del presidente Reagan. Il Ciagate
scoppiò nel luglio del 2003, dopo che l’ex ambasciatore Joseph Wilson
svelò al New York Times di avere stabilito che Saddam non aveva cercato
uranio per l’atomica in Niger, al contrario di quanto sostenuto
dall’amministrazione. Per screditare Wilson, la Casa Bianca riferì ai
media che l’ex ambasciatore era sposato a una agente della Cia, Valerie Plame.
Ma questa era una agente sotto copertura, e a termini di legge farne il nome
costituiva reato. Il presidente Bush dovette nominare un procuratore speciale,
Patrick Fitzgerald, che dopo un’inchiesta di tre anni sul misterioso
informatore dei media incriminò Libby.
La giuria ieri è stata unanime:
Libby mentì sul proprio ruolo. Con sollievo dell’amministrazione,
Fitzgerald ha annunciato che «il caso è chiuso, non ci saranno altre
incriminazioni», mettendo così al riparo dalla legge Karl Rove, il
braccio destro di Bush, a lungo sospettato di complicità nello scandalo.
Mentre Cheney ha rifiutato commenti, la portavoce della Casa Bianca Dana Perino
ha dichiarato che il presidente ha seguito in diretta tv il verdetto «e pur nel
rispetto della giuria, ha manifestato tristezza per la condanna di Libby». La
Perino ha negato che il Ciagate abbia danneggiato l’amministrazione, glissando
sull’eventualità che Bush conceda la grazia a Libby. I democratici hanno
diffidato il presidente dall’intervenire nello scandalo. Secondo la speaker
della Camera Nancy Pelosi «Libby ha pagato per tutti una condotta spietata e
disonesta».
Il Ciagate rimane comunque una mina vagante
per la Casa Bianca perché il processo non ha sciolto importanti interrogativi.
Uno dei giurati, David Collins, ex giornalista del Washington Post, si è
chiesto perché non siano stati chiamati a testimoniare Cheney e Rove, che
avevano discusso con Libby della Palme. Lo scandalo spingerà i
democratici ad a p r i r e un’udienza al Congresso sui veri moventi della
guerra all’Iraq. I più liberal parlano di «impeachment » o
incriminazione dell’ex ministro della Difesa Donald Rumsfeld e di Cheney. La
posizione del vicepresidente, l’ultimo dei falchi, rischia di farsi precaria,
sebbene Bush lo difenda con fermezza.Al Congresso corre voce che se Cheney se
ne andasse il presidente lo sostituirebbe con la segretaria di Stato
Condoleezza Rice, che sarebbe così in pole position per le elezioni del
2008 alla Casa Bianca.
07 marzo 2007
Il Corriere della Sera 7-3-2007
Tutti i rischi per la Nato e l’Italia. Kabul, finale di partita di Franco Venturini
Sarà il riscaldamento globale,
sarà la fretta di sparare per primi, sta di fatto che in Afghanistan la
primavera è già cominciata. E mentre la Nato parte all’offensiva
battendo sul tempo i talebani, un cambio di stagione si verifica anche nella
politica italiana: in vista del voto a Palazzo Madama sul rifinanziamento della
nostra missione a Kabul, il governo è pronto a considerare normale un
eventuale apporto decisivo dell’opposizione. La sorte del collega di Repubblica
Daniele Mastrogiacomo monopolizza in queste ore le nostre inquietudini e
soprattutto le nostre speranze.
Ma non ci impedisce di vedere che
dietro il singolo sequestro ad opera dei talebani, esattamente come dietro il
singolo tormento politico italiano, la vicenda afghana si è ormai
trasformata in una duplice bomba a orologeria assai difficile da disinnescare:
dalle parti di Kabul perché il tentativo di vittoria militare è
all’ultima spiaggia e la conquista del consenso popolare appare lontana; a Roma
perché l’alchimia delle maggioranze variabili non reggerà per molto alle
alternative radicali che l’Afghanistan promette di porre all’Italia.
L’Operazione Achille lanciata dalla Nato ha obiettivi ambiziosi. Si tratta di
prevenire le annunciate mosse dei talebani e di colpire in anticipo i loro
raggruppamenti di forze, di spezzare i collegamenti tra guerriglia,
narcotraffico e coltivazioni di oppio, di consentire la riparazione della diga
di Kajaki per ripristinare le forniture di elettricità in una vasta
regione.
Ma gli uomini impiegati
sono soltanto 5.500 (di cui mille afghani), e il ruolo essenziale affidato alla
poco attenta aviazione statunitense moltiplica i rischi di nuove stragi di
civili come quelle dei giorni scorsi. Accanto alla scontata reazione dei talebani,
è proprio questo della crescente ostilità popolare il punto
debole dell’offensiva Nato. Nessuna guerra è mai stata vinta «contro»
gli afghani. E per conquistarne il consenso servono tutti quei complementi
civili (negoziati politici, aiuti economici effettivamente distribuiti,
infrastrutture, sostituzione del reddito da oppio) che la comunità
internazionale non è stata finora in grado di produrre.
L’Italia, eccoci a noi,
litiga ma potrà fare poco se il barometro afghano volgerà al
peggio. Perché le ambiguità di impostazione nella maggioranza di governo
restano forti. Perché una conferenza di pace come quella che il governo insegue
crea problemi con i Paesi vicini (il cruciale e fragile Pakistan, l’Iran che
forse dialogherà con gli Usa ma soltanto in Iraq) e, come se non
bastasse, insospettisce lo stesso presidente Hamid Karzai. Perché, non
partecipando ai combattimenti più duri, noi come la Germania, la Spagna
e la Francia abbiamo meno voce in capitolo.
Perché, infine, se
la patata bollente passasse all’attuale opposizione le scelte strategiche non
potrebbero mutare di molto. Se l’Alleanza atlantica non otterrà una
vittoria definitiva (e questa sarebbe una sorpresa) si troverà essa
stessa in crisi di identità. E l’Italia, con o senza il governo di Romano
Prodi, si scoprirà stretta tra un ritiro impossibile e una missione di
pace inattuabile.
07 marzo 2007
La Stampa 7-3-2007 I radical si
accorgono di andare alla guerra AUGUSTO MINZOLINI
E il
premier Prodi confida ai suoi: speriamo che la fortuna ci aiuti
ROMA
Nel transatlantico di Montecitorio Angelo Bonelli, capogruppo dei Verdi, sfoga
la sua impotenza verso quella guerra sempre negata in Afghanistan e che oggi
bussa prepotentemente alla porta del governo e della maggioranza con il
rapimento dell’inviato di Repubblica, Daniele Mastrogiacomo. «Comincia lo
stillicidio - si lamenta - e noi non resisteremo. Se arriveranno le prime bare
nessuno riuscirà a controllare l’impatto sul Paese. Neppure Fini. La
verità è che in Afghanistan c’è una guerra e i nostri
soldati la stanno combattendo. Con una strategia militare per di più
sbagliata. Il comando americano ha fatto solo errori. I bombardamenti hanno
saldato i contadini con i talebani. I contadini sono diventati dei vietcong:
lavorano i campi di giorno e usano il mitra di notte. In più sono
tornati i reduci di Al Qaeda dall’Iraq. E come se non bastasse il governo
afghano è corrotto: a Kabul le ville si sono moltiplicate. Il problema
è che noi non possiamo appoggiare una guerra. Né in Parlamento né nel
Paese».
Di questo si parla fuori mentre nell’aula di Montecitorio si svolge un
dibattito sul rifinanziamento della nostra missione militare che sembra lontano
anni luce dallo scenario tragico di queste ore. Mentre è in corso
l’offensiva più imponente lanciata dalla Nato verso il Sud del Paese,
alla Camera si discute dell’oppio che si potrebbe comprare dai contadini
afghani per dirottarlo nell’industria farmaceutica. Di drogato, però,
c’è soprattutto il dibattito con cui una sinistra di governo va alla
guerra facendo finta di niente, nascondendo la realtà sotto una spessa
coltre di ipocrisia. Era tutto scritto ma nessuno ne ha tenuto conto e, quando
il capogruppo dei Verdi al Senato, Manuela Palermi, sull’onda delle notizie da
Kabul ieri ha chiesto il ritiro dei nostri soldati e della Nato, si è
compreso in tutta la sua drammaticità quanto la soluzione data alla
crisi non sia all’altezza della situazione. Ad uno scenario di guerra si
è voluto rispondere con il bizantinismo delle «maggioranze variabili».
E, adesso, per correre ai ripari, Romano Prodi sta tentando di dare una
verniciata istituzionale al suo governo occupandosi in prima persona di legge
elettorale. Operazione vana. Nell’opposizione Fini e Casini esigono dalla
maggioranza l’ «autosufficienza» sull’Afghanistan mentre il leader dell’Udc ha
parole di fuoco verso l’ex-compagno di strada Marco Follini, che ha puntellato
un governo inadeguato: «Non possono prendermi in giro - sostiene l’ex
presidente della Camera -. Io non sono Follini. C’è chi lo è e
chi li ha».
Appunto, la sinistra va alla guerra e ci va nel modo peggiore. E’ successo
già in passato, in Kosovo dove un governo di centro-sinistra negò
sempre una partecipazione alle operazioni militari, fino ad ammetterla in
extremis. Qui si è tentata la stessa operazione in circostanze assai
più pericolose. E, adesso, dopo aver ubriacato per settimane il Paese
con una lunga serie di «no», il governo conferma, sia pure sottovoce, che ci
siamo dentro fino al collo. Le notizie che filtrano non lasciano dubbi: abbiamo
sul territorio servizi di intelligence affiancati da «incursori»; il grado di
allerta è al massimo livello; i nostri soldati saranno impegnati in
operazioni di pattugliamento a piedi e dati i rischi svolgono corsi di
«training» psicologico; e si ricomincia con i rapimenti stile Iraq, magari
seguiti dai video con i talebani che chiedono al nostro governo di ritirare i
soldati. «Ormai la provincia di Herat dove si trova il nostro contingente -
ammette il sottosegretario alla Difesa Marco Verzaschi - è zona
pericolosa. I nostri si stanno attrezzando. Certo non si può pretendere
che non sparino. Certe polemiche non hanno senso. In Afghanistan dobbiamo
restare visto che non possiamo uscire dalla Nato, il mondo ci prenderebbe a
pernacchie. E’ uno dei motivi per cui D’Alema non voleva più fare il
ministro degli Esteri».
Quest’evoluzione era nelle cose tant’è che i ministri più
impegnati, D’Alema e Parisi, avevano tentato nelle scorse settimane di
drammatizzare e di responsabilizzare governo, maggioranza e Paese. Con scarsi
risultati visto che questa coalizione, per sua natura, può andare in
guerra solo adottando la politica dello struzzo, cioè nascondendoselo.
Altrimenti non regge, non tanto nel Palazzo quanto nel Paese: alle Europee del
’99, dopo aver fatto parte del governo D’Alema impegnato nella guerra in
Kosovo, i Verdi toccarono il loro minimo storico. Ora il rischio è lo
stesso. «Non possiamo - ammette Marco Rizzo del Pdci - gestire una fase del
genere per molto tempo. Per ora è Rifondazione sotto schiaffo e ci copre
tutti. Ma se in Afghanistan la situazione si complica, un devastante tsunami
potrebbe investire tutto l’arcipelago della sinistra massimalista, arrivando a
toccare anche la sinistra ds. Se poi c’è il combinato disposto con le
questioni sociali, finisce male. Io mi chiedo come faceva il governo italiano a
non sapere che era in preparazione un’offensiva Nato». «Finora teniamo - si
rincuora il capogruppo di Rifondazione,Gennaro Migliore - ma se c’è
un’escalation nasce un grosso problema per noi, per i ds e per il governo».
Appunto, il centro-sinistra non è strutturato per la guerra.
«Il “no” alla guerra sempre e comunque - spiega Lanfranco Turci - è nel
dna di una certa sinistra». «Sono le contraddizioni della politica estera di
questa maggioranza - osserva il diessino Giuseppe Caldarola - e l’ipocrisia con
cui vengono coperte è sinonimo di irresponsabilità». Sì,
perché il nemico può inserirsi in queste contraddizioni. Come in Iraq.
«Causa il dibattito politico - è l’analisi di Rocco Buttiglione - l’Italia
è considerata l’anello debole della Nato e c’è il rischio che
vengano colpiti preferenzialmente i nostri soldati per forzarci al ritiro».
Solo che il dilemma «ritiro» o «non ritiro» è insito in questa
maggioranza di governo. E’ un problema che per sua natura non si può
risolvere. E allora bisogna affidarsi come Prodi a qualcosa che esula
dall’azione politica: «Speriamo - è la frase con cui si è fatto
forza ieri sera - che la fortuna ci aiuti».
Il Giornale di Brescia 7-3-2007 Dico:
Salvi (Correntone Ds) boccia il Ddl del Governo, scontro con la Bindi
MAGGIORANZA
DIVISA SULLE UNIONI CIVILI
L'esponente
dei Ds, Cesare Salvi ROMA - "Per tutto il tempo della relazione nella
quale Salvi ha demolito il disegno di legge del governo punto per punto, il
ministro per la Famiglia Rosy Bindi ha sempre scosso la testa in segno di
dissenso. Ma Salvi non le ha mai concesso la parola per esprimere la sua
contrarietà...". La scena, raccontata dal capogruppo della Lega al
Senato Roberto Castelli al termine della seduta della commissione Giustizia di
Palazzo Madama dedicata ai Dico, è forse quella che rende meglio l'idea
del livello di tensione che c'è nella maggioranza sui Dico. Ma anche lo
scambio di battute fuori dall'Aula tra i diretti interessati, Cesare Salvi e
Rosy Bindi, non delude le aspettative. Il senatore Ds dichiara che il ddl del
governo "è privo di un impianto giuridico valido per poter essere
adottato come testo base". E la ministra replica: "Evidentemente nella
lettura di questo testo lui non è riuscito a capire fino in fondo il
senso di equilibrio e la giustezza che contiene...". Il governo,
sottolinea, è aperto alle modifiche a patto però che non si
cerchi di introdurre "forme di paramatrimonio". Nella maggioranza,
insomma, lo scontro sui Dico è più che mai aperto. A cominciare
dai Ds che non nascondono il malcontento per come Salvi sta gestendo la
questione. La "sua bocciatura" del ddl governativo, dichiara il
senatore della Quercia Giorgio Tonini, risponde in realtà "a un
intento ideologico" per dimostrare "che nel Partito Democratico non
ci può essere un'intesa tra laici e cattolici su temi eticamente
sensibili". È vero, aggiungono sempre tra i Ds, che alla fine il
testo del governo è diventato un "mostro giuridico" visto che
toglie l'aspetto della volontarietà e che prevede procedure discutibili
come quella dell'invio della raccomandata al partner che non ha fatto la
dichiarazione di convivenza, ma è anche vero che su questa storia sono
stati fatti "troppi errori" come quello di togliere la questione alla
Camera per affidarla al Senato. In particolare, si punta il dito contro il
famoso ordine del giorno alla finanziaria che impegnava il governo a legiferare
in materia pur di coprire "la gaffe" del ritiro dell'emendamento che
estendeva ai conviventi benefici fiscali. Il dibattito sui Dico comunque,
assicurano Salvi e la capogruppo dell'Ulivo Anna Finocchiaro, "non
sarà insabbiato" e avrà "un suo tempo
fisiologico". Intanto però oggi prima battuta d'arresto: si
riunirà solo l'ufficio di presidenza della commissione per definire
tempi ed eventuali audizioni. Nell'attesa, mentre il 64% degli italiani
considera l'omosessualità una condizione naturale, la maggioranza
continua a dividersi organizzando due diverse manifestazioni: una a sostegno
dei Dico il 10 marzo a Roma e un'altra a maggio già battezzata come
"family day". La Cdl, intanto, esulta e chiede a gran voce, dopo la
bocciatura di Salvi, il ritiro del ddl del governo.
Il Riformista 7-3-2007 LA LEZIONE
DI CACCIARI Marziani in laguna
Ai
ministri che hanno maturato la decisione di manifestare pro (Pecoraro Scanio) o
contro (Fioroni) i Dico, è toccata ieri la tiratina di orecchi del
professor Massimo Cacciari. In un’intervista al Corriere della Sera - intitolata:
«Cacciari: politici in piazza? Mai è un segno di crisi» - il sindaco di
Venezia ha agitato la bacchetta. Sottolineando che «un politico che va in
piazza non sa fare il suo mestiere» e rilevando che partecipare alla
manifestazione dell’Arcigay o al family day «è un segno di crisi».
Ai più distratti, Cacciari ricorda che «la democrazia si basa sulla
dialettica della rappresentanza: ascolto ciò che dice la gente e su
quella base decido. È chiaro - continua il ragionamento del sindaco
lagunare - che non ci potrà mai essere una perfetta identità. Il
rappresentate, cioè il politico, fa sintesi di coloro che rappresenta.
Se il “rappresentante si fa identico al “rappresentato”, se ne diventa la copia
e “partecipa” anche lui, allora si elimina l’idea stessa di rappresentanza e
cessa la democrazia».
L’argomentazione è chiara, semplice, lucida. Talmente chiara, semplice e
lucida che Pecoraro e Fioroni dovrebbero da soli mettersi idealmente dietro la
lavagna, in punizione.
Peccato che Cacciari abbia però dimenticato quando lui stesso, che in
quanto sindaco fa il “rappresentante”, circa cinque mesi fa (mesi, non anni)
scese in piazza al fianco degli artigiani e dei commercianti da lui
“rappresentati” per protestare con loro contro la finanziaria. Cosa dobbiamo
pensare? Che Cacciari all’epoca volesse cancellare l’idea stessa di
rappresentanza o far cessare la democrazia? Tutt’altro. In quei giorni, a chi
lo attaccava per la sua presenza alla manifestazione anti-governo, il sindaco
di Venezia rispondeva che nel centrosinistra «ci sono problemi di ordine
psicologico». E aggiungeva: «Certe reazioni ai miei comportamenti sono cose da
marziani». Ora il marziano sta in laguna, e per la precisione a Ca’ Farsetti.
Sembra quasi il titolo di un film. Forse degno del Leone d’Oro.
La Repubblica 6-3-2007 Tlc, nel
mirino lo scatto alla risposta L'Agcom: "E' una anomalia, va abolito"
L'Autorità annuncia anche "una
drastica riduzione" delle tariffe di roaming. E avverte: "Possibili
multe fino a 2,5 milioni di euro in caso di infrazione"
ROMA - Dopo il taglio dei costi di ricarica, l'Agcom, l'autorità
garante per le telecomunicazioni, prende di mira lo scatto alla risposta e le
tariffe del roaming internazionale. Il primo è il costo extra che paga
chi chiama quando inizia la conversazione. Il roaming, invece, è il
servizio utilizzato dagli operatori telefonici di telefoni cellulari per
permettere agli utenti all'estero di collegarsi utilizzando una rete non di
loro proprietà.
"Lo scatto alla risposta è un'anomalia", spiega il presidente
Corrado Calabro, che ne propone l'abolizione in tempi brevi, inserendolo
direttamente del decreto Bersani sulle liberalizzazione, la cui conversione in
legge è già all'esame delle Camere. Per una "drastica
riduzione" delle tariffe di roaming internazionale, invece, avverte
Calabrò, bisognerà aspettare luglio.
La notizia arriva proprio mentre infuriano le
polemiche
tra operatori telefonici e l'autorità sul taglio dei costi di ricarica.
Il giorno dopo il debutto delle ricariche senza extra-costi, infatti, sono
state segnalate molte irregolatità nell'attuazione delle direttive da
parte delle associazioni dei consumatori. All'Agcom fanno sapere che sono in
corso gli accertamenti. "Stiamo indagando - spiega Calabrò - e in
caso di infrazioni, abbiamo la possibilità di comminare multe fino a 2,5
milioni di euro".
(6 marzo 2007)
La Stampa 7-3-2007 Scatta
l'allarme siccità, E Prodi mobilita le Prefetture GABRIELE BECCARIA
Il
piano del governo: riduzioni dell'eso dell'acqua per motivi non essenziali
ROMA
Siccità: ora si allarma Romano Prodi. Se gli ultimi dati hanno fatto
piazza pulita di ogni dubbio (non c’è abbastanza acqua), si deve
scongiurare un’estate a secco, con «un piano di misure» e - ammonisce il
premier - «celermente». Tutti, pubblici e privati, sono invitati a dare il loro
contributo, collaborando per risparmiare le risorse idriche, troppo spesso
affidate a «una gestione irrazionale, inadeguata e conflittuale». Il monito
è in una circolare, che contiene «le indicazioni operative» per
fronteggiare un’eventuale crisi ed è rivolta a ministri, presidenti di
Regioni e prefetti.
Lo stato dei corsi d’acqua e dei bacini è più che preoccupante.
Ecco qualche numero: il deficit delle precipitazioni nel periodo
autunno-inverno - calcola il rapporto della Protezione Civile diffuso ieri - si
ferma su valori tra il 20 e il 40% inferiori a quelli medi, ma in alcune zone
del Nord-Est e del Centro si scende al 50-60% in meno. E non solo: la neve
ricopre un terzo del territorio che imbiancava l’anno scorso. Anche per questo
il Po, in tutte e cinque le stazioni di rilevamento, ha una portata di
Il premier, in particolare, raccomanda un più accurato scambio di
informazioni, che dovranno essere convogliate alla Protezione Civile: saranno
poi i suoi team a predisporre gli interventi in caso di necessità e uno
dei primi potrebbe essere il varo di una «cabina di regia», come avvenne nel
2003, per centralizzare le decisioni, evitando confusioni. Ma, se non si
riuscisse ad arginare l’emergenza, il premier non esclude «la riduzione o
l’interdizione delle erogazioni per consumi idrici destinati a usi non essenziali».
Sono in vista sacrifici, ricordando la nota polemica della lettera: «Le crisi
sono spesso originate da una gestione irrazionale, inadeguata e conflittuale
dell’acqua».
|
§
++ Il Corriere
della Sera 5-3-2007 Afghanistan, D'Alema: «Molto preoccupati»
§
La Repubblica
5-3-2007 Benzina, Tesoro in campo contro i rincari "Occorre razionalizzare
la rete" di ROBERTO MANIA. Nei dati del
ministero, l'Italia è più cara degli altri paesi ma non per il
peso del fisco. Troppi i distributori
§
La Repubblica
5-3-2007"I cattolici difendano la famiglia la Chiesa ha il dovere di
richiamarli" di FRANCO MANZITTI. L'arcivescovo
Bagnasco, candidato alla successione di Ruini: "Mostriamo la forza della
nostra identità"
§
Il Sole 24 Ore
5-3-2007 Bilanci, dalle imprese lmbarde un terzo delle imposte di
Emanuele Scarci
«Giusta la richiesta
di Karzai per un'inchiesta indipendente»
Il ministro degli
Esteri da Bruxelles: «Siamo molto turbati per la morte dei civili e per il
sentimento di ostilità verso i militari»
BRUXELLES - L'Italia è «molto
preoccupata» di quanto sta succedendo in Afghanistan, e gli ultimi incidenti
hanno provocato «grande turbamento, al di là degli aspetti giuridici».
Lo ha detto il ministro degli Esteri, Massimo D'Alema, che si trova a Bruxelles
per partecipare al Consiglio affari generali e relazioni esterne insieme ai colleghi
dell'Unione europea. La dichiarazione di D'Alema arriva all'indomani della morte
di numerosi civili a
Jalalabad in seguito a un'imboscata ai soldati americani (i marines avrebbero
aperto il fuoco sulle auto di passaggio dopo l'attacco) e poche ore dopo il nuovo
raid americano che ha provocato 9 morti (mentre, sul fronte della politica interna,
martedì è previsto alla Camera il
voto sul decreto di rifinanziamento delle missioni militari). Per chiarire come siano andate le cose,
ha aggiunto il responsabile della Farnesina, «è giusta la richiesta del
presidente Karzai per l'apertura di un'inchiesta indipendente».
CRESCITA DELLA VIOLENZA - «È una
situazione molto preoccupante che possa esserci una crescita della violenza e
che possa diffondersi tra i cittadini afghani un sentimento di ostilità
verso i militari della Nato: noi siamo lì per difenderli e ciò
sarebbe una sconfitta», ha detto D'Alema. Per il ministro degli Esteri, «tutto
questo richiede una riflessione molto seria perché le cose possano andare meglio.
Ad esempio - ha sottolineato D'Alema - non uccidere civili potrebbe contribuire
a far andare meglio le cose». Sulla responsabilità degli incidenti, se
debba essere attribuita alla Nato o a un comando Usa, D'Alema ha detto:
«Nessuno ha ordinato di sparare sui civili, né la Nato, né gli Usa. Non ci sono
comandi che ordinano queste cose».
CONFERENZA - Sempre sulla questione afgana,
D'Alema ha spiegato che nella relazione davanti al Consiglio di sicurezza
dell'Onu, affidata all'Italia, il ministro il 20 marzo ribadirà la
necessità di una conferenza internazionale di pace. «Noi - ha detto -
spiegheremo alle Nazioni Unite perché l'Italia ritiene essenziale che ci sia
una conferenza per la pace in Afghanistan che coinvolga tutti i paesi vicini e
l'intera comunità internazionale. Chiaramente quello è il momento
in cui è necessario spiegare le ragioni per cui riteniamo che sia
indispensabile che ci si dia un appuntamento di questo tipo». Il titolare della
Farnesina ha sottolineato che «la conferenza per la pace deve coinvolgere gli
stati interessati, poi si tratta di vedere chi intende parteciparvi».
PALESTINESI -
D'Alema ha parlato anche di Medio Oriente. «L'Italia ritiene che la formazione
di un governo di unità nazionale (quello palestinese, ndr) dopo l'accordo
tra Hamas e Fatah sia un indiscutibile passo in avanti: l'alternativa è
la guerra civile».
05 marzo 2007
ROMA -
Scatta da oggi il decreto Bersani che elimina i costi aggiuntivi nelle
ricariche dei cellulari e che e scatta subito il primo intervento
dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. L'Agcom, infatti, ha
chiesto chiarimenti a Wind e a Vodafone in materia tariffaria e in merito
all'applicazione dell'abolizione del costo della ricarica telefonica, in vigore
da oggi.
L'Agcom, in dettaglio, ha rivolto a Wind una richiesta di chiarimento 'urgente'
su alcune strategie commerciali che potrebbero essere in contrasto con quanto
previsto dal decreto Bersani, cioè l'obbligo di eliminare i contributi
di ricarica su tutte le schede prepagate. Wind, secondo quanto comunicato nei
giorni scorsi, ha infatti deciso che per le schede telefoniche inferiori ai 50
euro il costo di ricarica resta (viene abolito per i tagli superiori), ma non
viene applicato nel caso in cui il cliente decida di passare a nuovi piani
tariffari predisposti.
L'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha chiesto chiarimenti
urgenti anche a Vodafone in merito al cosiddetto 'contributo sul trasferimento
del credito residuo'. In pratica il gestore chiede un rimborso di 8 euro per
restituire il credito residuo al cliente, "ma gli 8 euro richiesti
all'utente - fanno sapere da Vodafone - sono inferiori ai costi vivi sostenuti
dall'azienda per l'operazione tecnica di trasferimento e sono coerenti con il
decreto Bersani che consente il rimborso dei costi sostenuti. Inoltre - dicono
ancora da Vodafone - noi siamo l'unica società ad effettuare questa
operazione di restituzione con soldi veri".
Ma per le associazioni dei consumatori l'abolizione dei costi aggiuntivi
previsti dal decreto Bersani si è svolta in modo regolare. Adusbef e
Federconsumatori hanno effettuato questa mattina un monitoraggio in un trentina
di negozi di telefonia mobile a Roma e Milano, per verificare sul campo il
rispetto del decreto. I rappresentanti delle due associazioni dei consumatori
hanno fatto le proprie verifiche mescolandosi alla clientela. Occhi puntanti
soprattutto su Wind, "che nei giorni scorsi aveva affermato di voler
continuare ad applicare i costi di ricarica per i tagli sotto i 50 euro e di
voler continuare a richiedere i costi di ricarica ai vecchi clienti che non
volesseso abbandonare i vecchi piani tariffari per accedere a nuovi".
"Ma nei negozi visitati dalle due associazioni - fa sapere la nota - non
erano disponibili, fino alle ore 12 di stamane, ricariche dell'egiziana Wind
sotto i 50 euro".
Intanto l'Unione europea solleva dei dubbi sull'indipendenza dell'agicom,
l'organismo di regolazione delle comunicazioni in italia. Lo ha ribadito il
portavoce della commissaria Ue alle Tlc Viviane Reding. "Siamo in contatto
e stiamo discutendo con le autorità italiane sull'abolizione dei costi
della ricarica dei cellulari", ha detto il portavoce. "Noi
condividiamo l'obiettivo di proteggere meglio i consumatori, ma abbiamo
sollevato delle questioni procedurali relative alla indipendenza dell'Agicom
nell'attuazione della legge".
(5 marzo 2007)
Maggioranze variabili, i
paletti di Bertinotti
ROMA -
Maggioranze variabili? Fausto Bertinotti, intervistato da Ferrara per Otto e mezzo, che andrà in onda lunedì sera
su La7, mette i paletti alla possibilità di dar vita a maggioranze
diverse dall' attuale su singoli temi. +
Il Corriere della Sera 5-3-2007 Amato «Maggioranze variabili sulle
singole misure» Aldo Cazzullo
«Le geometrie variabili - spiega Bertinotti - possono andar bene solo nel caso
in cui la maggioranza tutta ritenga che un certo argomento possa essere
affrontato in questo modo, senza mettere in discussione la maggioranza stessa.
Certo le geometrie variabili non possono essere usate come una clava. Se, per
esempio, per 10 volte viene fuori un'altra maggioranza, diciamo aperta al
centro, allora quella è un'altra maggioranza di governo».
MASTELLA - Disponibilità totale o quasi
arriva da Mastella. Visto che c'è «una quasi maggioranza al Senato», per
il Guardasigilli «soprattutto sui fatti istituzionali, è buona norma
applicarsi a chiedere consenso all'opposizione, tenendo conto che si tratta di
atti neutri». Disponibilità «che può essere data tenendo conto
che non c'è una alternativa, dato il sistema vigente».
FORZA ITALIA E AN - Sull'argomento Forza Italia fa
muro. Il vice coordinatore azzurro, Cicchitto non crede nella buona fede di
Amato perché «la sinistra cerca di fare i conti, ma solo sul terreno
dell'astuzia». Sandro Bondi, coordinatore nazionale del partito di Berlusconi,
rincara. La proposta del titolare del Viminale viene derubricata a «spericolata
formula politica» a «bizantismo». «Peccato - conclude Bondi - che la proverbiale
intelligenza politica del ministro conduca ad esiti tanto deludenti, visto che
la realtà ha già superato la sua pur fertile immaginazione».
Anche An sbarra la strada. «Proporre maggioranze variabili su singole misure
è un escamotage per salvare il governo» dice Altero Matteoli, presidente
dei senatori.
05 marzo 2007
Amato: «Sarà il Colle a impedire che
si superi il limite. I Dico? Testo migliorabile, ora serve una riflessione»
ROMA-
Racconta Giuliano Amato che in questi giorni ha riletto un saggio del suo
maestro di diritto costituzionale, Carlo Lavagna: «Maggioranza al governo e maggioranze
parlamentari», 1974.
«Ho ritrovato una vecchia copia, con i punti interrogativi che avevo annotato
allora. Ricordo che polemizzai con il mio maestro, là dove argomenta che
le maggioranze sulle singole misure non necessariamente coincidono con la
maggioranza della fiducia».
Ministro Amato, è quello che potrebbe accadere presto al governo
Prodi. Le maggioranze variabili non rischiano di riaprire la crisi?
«Non è così. Il mio maestro esagerava nello sminuire la
maggioranza della fiducia, ma diceva una cosa fondamentalmente giusta. Sono le
forze politiche a dover decidere se il sostegno di una maggioranza diversa a un
singolo provvedimento rappresenti una ragione per togliere la fiducia. Se non
lo fanno, vorrà dire che esse, pur non condividendo quella misura, hanno
ritenuto di non essere state "tradite"».
Sta dicendo che se la missione in Afghanistan passa con i voti della destra
il problema non è di Prodi ma della sinistra radicale?
«Il giudizio è effettivamente loro, e in ogni caso avviene sotto il
riflettore del capo dello Stato. E un capo dello Stato come Napolitano non
consentirà alle maggioranze variabili di andare oltre un certo limite.
Di sicuro la Costituzione non prevede che a ogni votazione si riproponga la
maggioranza della fiducia. Certo, qualunque costituzionalista le direbbe che,
se la legge di bilancio passasse con una maggioranza diversa, il governo si
dovrebbe dimettere».
Secondo lei come esce il governo dalla crisi?
«Questo scossone poteva anche non esserci; ma, visto che c’è stato, a
mio avviso può risultare utile. Perché ha fatto guadagnare al governo un
orizzonte più nitido, ponendo fine a quella bramosia che circolava nel
sistema di sostituire prima o poi questo governo con un altro che facesse la
legge elettorale ».
Si era parlato infatti di un governo istituzionale, guidato magari proprio
da lei.
«Non amo le autocitazioni, ma la mia uscita dei primi di gennaio, che parve
allora molto eterodossa, aveva proprio questo fine: affiancare al lavoro di
governo il lavoro per la futura legge elettorale e le riforme istituzionali
connesse ».
Lei propose allora lo strumento della Convenzione. E’ un’idea ancora valida?
«La battaglia sullo strumento rischia di diventare di principio e non intendo
parteciparvi. Decideranno i gruppi parlamentari. Quello che mi interessa
è che si sia tagliata l’erba sotto i piedi a chi pensava a un altro
governo per la legge elettorale. Ci siamo arrivati anche grazie al capo dello
Stato che ha avuto un ruolo molto positivo di stabilizzazione del sistema
politico. Napolitano ha messo in chiaro che noi avevamo la
responsabilità di garantire la governabilità, che con questa
legge è impossibile. E’ stato anche giusto chiedere al governo la
maggioranza dei senatori eletti, il fatidico 158 su 315. Questo non diminuisce
il valore del voto dei senatori a vita, ma fa valere il basilare principio
democratico per cui un governo deve avere la maggioranza degli eletti».
Scrive Scalfari su "Repubblica" che Prodi dovrà
"governare con il Parlamento", senza arroccarsi sulla sua
maggioranza. Ma l’apertura all’opposizione non porterà alla rottura con
la sinistra radicale?
«È dall’inizio della legislatura che Napolitano sostiene giustamente che
una cosa è il bipolarismo, un’altra è la guerra tra federali e
pellerossa e l’assedio di Fort Apache. Abbiamo creato la contrapposizione
bipolare per rafforzare i governi, ma l’abbiamo condotta a una tale
esasperazione da renderla inadeguata all’obiettivo. Ciò dipende da
almeno due ragioni. Gli odi e gli amori che suscita una personalità come
quella di Berlusconi. Berlusconi ha detto una cosa giusta: il suo nome ha
generato un sostantivo, un nuovo "ismo" — berlusconismo e
antiberlusconismo —, il che indica una forte peculiarità legata alla sua
persona. Quando tra cent’anni Berlusconi non ci sarà più, il
nostro bipolarismo cambierà. Poi c’è l’eterogeneità delle
nostre coalizioni: sia il centrodestra sia il centrosinistra hanno alle
rispettive estreme un peso forte, che aumenta l’attrito con l’altra coalizione.
Anche se in coscienza devo riconoscere che la Lega nella passata legislatura e
ora l’estrema sinistra hanno fatto uno sforzo per adeguarsi, per modificare le
loro istanze ai fini della responsabilità di governo. A me pare che lo
sforzo di Rifondazione stia dando frutti indiscutibili, anche se rimangono al
suo interno componenti che strutturalmente rifiutano quelle
responsabilità».
Non creeranno problemi neppure i 12 punti, con l’esclusione dei Dico? Non
sono una torsione verso il centro?
«I 12 punti non rappresentano una torsione. Sono un elenco di misure che il
governo deve ancora adottare. Sui Dico il governo ha già presentato un
disegno di legge».
Il cardinale Ruini, nel colloquio con Virginia Piccolillo del Corriere,
risponde al suo invito a non demonizzare le coppie di fatto e le definisce «una
libera scelta che va rispettata».
«Sono convinto da tempo che questo sia il pensiero del cardinale Ruini. Non a
caso, diversi mesi fa disse una cosa che io condivido: sarebbe grave attribuire
alle convivenze di fatto uno status giuridico più omeno analogo al
matrimonio. Mentre è giusto lenire le sofferenze ed eliminare le
ingiustizie che possono esserci a danno delle persone che fanno parte di queste
convivenze. Nell’elaborare il disegno di legge, il governo si èmantenuto
entro questo perimetro».
Ruini dice anche che i conviventi non sentono il bisogno di «una struttura
giuridica». Che cosa deve fare il governo ora? Disinteressarsi dei Dico? O
spingere per la loro approvazione?
«Sono convinto che quel testo, come qualsiasi altro, sia migliorabile. Se
è vero che può essere considerato da molti come non prioritario,
ciò non toglie che rifletta esigenze di giustizia e sia giusto
occuparsene. Ora, di tutto abbiamo bisogno fuorché di prove muscolari tra chi
lo vorrebbe votare subito e chi lo vorrebbe buttare dalla finestra. Ci si
rifletta. Se ne discuta, e si discuta sul merito».
Nessuna battaglia ideologica, nessuna guerra culturale quindi?
«Ciascun commento sia riferito alle proposte specifiche che sono sul tappeto.
Altrimenti si rischia di tornare alle pregiudiziali. Sono pronto a discuterne
ovunque, dalle aule parlamentari all’università Gregoriana, con
interlocutori disposti come me a non fermarsi alle pregiudiziali».
Lei crede che il bipolarismo italiano abbia un futuro? O sostiene, come
Follini e Casini, che vada superato, magari con una riforma elettorale alla
tedesca?
«Io resto un fautore del bipolarismo, anche se temo che il nostro abbia
bisogno di più tempo di quanto abbiamo sperato per "maturare".
Ma la sua maturazione è molto più legata alla forza della
politica che non agli espedienti dei sistemi elettorali. Sono un cultore della
vecchia lezione di Duverger, per cui la politica debole è plasmata dai
sistemi elettorali, mentre la politica forte li adatta a sé. Oggi lo
spartiacque sembra essere tra chi ama il bipolarismo e odia il modello tedesco,
e chi odiando il bipolarismo il modello tedesco lo vorrebbe sposare. Ma torno a
dire che imodelli sono il Santo Graal dei poveri di spirito, e chi considera
una cosa di per sé un modello vuol dire che non sa esattamente cosa vuole. Gli
effetti di cui si parla non sono mai effetti del sistema elettorale in quanto
tale, ma dell’interazione tra il sistema elettorale e il sistema politico».
Il problema è che in Italia la politica appare più debole che
forte. «Appunto. Se affrontassimo il sistema tedesco con partiti deboli,
poco strutturati, poco convinti di sé, è più che presumibile che
la logica proporzionale prevarrebbe sul bipolarismo. Se invece il centrodestra
darà vita a un nuovo partito, sia che lo comprenda tutto sia che ne
comprenda solo una parte, e se noi daremo vita al Partito democratico, la
logica proporzionale cederebbe a quella del collegio uninominale. Com’è
accaduto in Germania».
Ma la legge elettorale ha tempi più stretti della nascita dei nuovi
partiti.
«Questo è da vedere. Se si pensa di fare tutto di fretta e poi andare al
voto in pochi mesi, non sarà facile. La mia impressione è che
sarà molto complicato trovare il consenso sul modello tedesco, per via
della clausola dello sbarramento al 5%. I piccoli partiti possono anche
immettersi in un processo che li induca ad aggregarsi, ma non a suicidarsi. E
poi non si può affrontare la legge elettorale senza interessarsi alle
questioni costituzionali connesse: il superamento del bicameralismo perfetto e
la riduzione del numero dei deputati».
Quale potrebbe essere la legge più adatta al sistema politico
italiano?
«Lo si vedrà in relazione alle posizioni di ciascuno, con un minimo
essenziale: restituire ai cittadini la scelta degli eletti, oltre alla scelta
della coalizione di governo. È possibile che io non mi presenti
più alle prossime elezioni, ma è certo che non mi
presenterò mai più di fronte agli elettori sapendo già di
essere eletto, per una decisione non loro ma delle segreterie di partito. E
siccome non credo che la soluzione sia mantenere le liste introducendo le
preferenze, che infiniti addusse lutti agli Achei — di cui è bene
ricordarsi —, si potrebbe tornare a collegi uninominali, o in alternativa
introdurre collegi plurinominali purché piccoli, con due o tre nomi».
Ma senza il modello tedesco i riformisti possono dire addio alla prospettiva
dell’alleanza con l’Udc.
«Non è detto. I processi politici, come i processi chimici, sono fatti
dall’interazione tra fattori diversi: da una parte l’interazione tra l’Udc e il
centrosinistra, dall’altra l’interazione tra l’Udc e il centrodestra. Gli
effetti dipendono non solo dalla legge elettorale ma da molti fattori; non
ultimo il Partito democratico. Che dovrà nascere più rapidamente
di quanto pensassimo all’inizio. La scadenza delle europee 2009 è troppo
lontana: non tanto perché possano venire prima le politiche, quanto perché il
processo costituente che i due partiti maggiori apriranno tra due mesi non
potrà durare due anni senza che si perda la tensione necessaria».
05 marzo 2007
Si farà, il Partito democratico, e
tutto lascia pensare che si farà più in fretta di quanto avessero
messo in conto gli stati maggiori di Quercia e Margherita. Si farà, il
Partito democratico, e probabilmente nei Ds avrà dalla sua ancora
più consensi congressuali di quanto si potesse pensare all'inizio: anche
a giudicare dai risultati dei primi congressi delle sezioni, o come si chiamano
adesso, per le mozioni di Mussi e di Angius non sembra proprio tirare buon
vento. Tutto questo è (relativamente) chiaro già adesso. Ma
è altrettanto chiaro che la costituzione del Pd è destinata a
provocare un terremoto in quel che resta della sinistra italiana. E anche
all'interno dell'area cui questo giornale dichiaratamente si richiama, e
continuerà qualsiasi cosa avvenga a richiamarsi: in una parola, tra i
riformisti.
Già se ne avvertono, anche sul nostro giornale, o attorno al nostro
giornale, le prime avvisaglie, e magari anche qualcosa di più. È
il caso quindi di chiarire subito, in primo luogo ai nostri lettori,
comprensibilmente appassionati alla questione assai più di quanto lo sia
la grande maggioranza degli italiani, come intendiamo comportarci. I termini
della divisione appaiono sin troppo evidenti. Li richiamo sommariamente,
scusandomi con gli interessati per l'inevitabile schematicità. Da una
parte ci sono nostri amici e nostri autorevoli collaboratori (faccio per tutti
i nomi di Michele Salvati, Enrico Morando, Umberto Ranieri, Claudia Mancina)
sicuramente riformisti, sicuramente liberalsocialisti, ai quali non piace il
modo in cui il Pd sta prendendo forma, ma restano convinti che senza il Pd non
si va da nessuna parte; e proprio per questo fanno appello a tutti i
riformisti, a tutti i liberalsocialisti, perché facciano la loro parte perché
il Pd non sia solo il partito unico dei postcomunisti e dei postdemocristiani,
ma del riformismo di matrice liberalsocialista porti il più possibile il
segno: di questo hanno scritto e scriveranno ancora sul Riformista, di questo
hanno parlato venerdì, a Roma, al convegno dei liberal Ds, e parleranno
ancora. Dall'altra ci sono altrettanti (e anche più) nostri amici e
autorevoli collaboratori (faccio per tutti i nomi di Emanuele Macaluso, Rino
Formica, Massimo L.Salvadori, Peppino Caldarola, Lanfranco Turci), secondo i
quali è l'idea stessa del Pd a non stare in piedi se non come una
fusione a freddo dei ceti politici di Ds e Margherita. È inutile e
sbagliato, dunque, provarsi a correggerla dall'interno, è utile e
giusto, invece, giacché la questione socialista non è un fastidioso
ingombro lasciatoci in eredità dal Novecento, mettere all'ordine del
giorno non un'impossibile e impensabile resurrezione del Psi, o magari del
Psiup, ma la fase costituente di una nuova forza, laica e liberale, del
socialismo italiano, intenzionata a interloquire con tutto quel mondo laico e
liberale che nel Pd non si riconosce, e anche con la sinistra Ds, se e in
quanto questa fa del socialismo europeo il suo ancoraggio: è il tema
posto con grande passione, questo fine settimana, nell'affollato incontro di
Bertinoro, e sollevato anche dalle tesi dello Sdi.
Non intendo affatto nascondere le mie convinzioni, peraltro note ai lettori: il
socialismo non è un cane morto; assumerlo apertamente come punto di
riferimento non è un ritorno al passato, ma semmai un ritorno al futuro;
ed è proprio il Partito democratico, per come sta prendendo forma, a
riattualizzare, in Italia, quell'aspetto ineludibile della questione della
sinistra che è la questione socialista. Ma queste mie convinzioni non
impediranno certo al Riformista di continuare ad essere, e anzi di diventare
sempre di più, la tribuna per così dire naturale di tutte le
posizioni in campo. Siamo già nel vivo di una partita difficile e
complicata, destinata a concludersi con una separazione politica. Faremo la
nostra parte perché si tratti di una separazione il più possibile serena
e consensuale, non illividita da quello spirito di scissione che la sinistra si
porta appresso da una vita. Perché i riformisti restino amici e compagni - una
comunità di amici e di compagni - anche se le strade si divideranno.
ANCONA -
Quattrocento agenzie abusive del circuito 'Money transfer', che trasferivano
denaro all'estero soprattutto per conto di lavoratori immigrati, sono state
sequestrate in tutta Italia dalla Guardia di finanza di Ancona e dal Nucleo speciale
di polizia valutaria di Roma, nell'ambito di un'inchiesta della Procura
distrettuale antimafia anconetana. Le agenzie sono tutte riconducibili a tre
società mandatarie di Roma, Milano e Verona. Perquisizioni e sequestri
hanno interessato tutte le regioni, tranne la Sardegna e il Molise.
Oltre 280 mila le transazioni irregolari accertate dai finanzieri, per un
importo complessivo di circa 88 milioni di euro. Millecinquecento i finanzieri
impegnati nell'indagine - in codice "Easy money" - avviata nel 2004
dalla procura di Ancona coordinata dalla Direzione nazionale antimafia.
L'obiettivo era verificare il rispetto del Testo unico delle leggi bancarie e
la provenienza dei flussi di denaro movimentati nell'anconetano; ma ben presto
l'inchiesta si è estesa su scala nazionale.
(5 marzo 2007)
La prima ad adeguarsi
è stata «3 Italia»
ROMA -
Oggi è il giorno della sparizione del costo fisso per la ricarica dei
telefonini. Gli operatori hanno scelto diverse
strategie
per mettersi in regola con il decreto Bersani che ne ha decretato lo «stop».
TIM -Tim
trasformerà a partire tutti i costi di ricarica in traffico telefonico
pienamente utilizzabile. Per esempio, i clienti che acquisteranno una ricarica da
10 euro si vedranno avranno accreditati effettivamente 10 euro di traffico
telefonico. Le Ricaricard attualmente in commercio, che indicano ancora il
costo di ricarica separato dal traffico, attribuiranno comunque al cliente il
valore effettivo corrispondente al taglio della ricarica, senza alcun costo
aggiuntivo, e saranno utilizzate fino ad esaurimento delle scorte. Da aprile
2007 saranno in commercio le nuove ricariche che indicheranno solamente il
valore del traffico acquistato. Tim inoltre non farà scadere il traffico
acquistato al momento dello scadere della carta telefonica, secondo quanto
prevede il decreto.
Tim, per cercare di aumentare il traffico senza aumentare le tariffe
introdurrà nuove ricariche «flessibili» di pochi euro ciascuna (taglio minimo
5 euro) che potranno essere incrementate, in qualsiasi momento, anche con un
solo euro. Quasi un «usa e getta».
«3 Italia» -
La compagnia telefonica controllata da Hutchison Wampoa, dal canto suo, ha
giocato d'anticipo, tagliando da venerdì scorso i costi alle ricariche
delle carte telefoniche. Tutte le ricariche effettuate a partire da
venerdì erogano un credito (senza scadenza) pari all'importo speso per
l'acquisto. I piani tariffari rimangono gli stessi e non ci sono aumenti di
nessun tipo per spalmare su altre voci il mancato introito del costo da
ricarica. Non solo: i nuovi clienti che attiveranno fino al 30 aprile 2007 una
«Ricaricabile 3» da 20 euro riceveranno 30 euro di traffico. Il bonus di 10
euro sarà ricevuto in due tranche da 5 euro ad aprile e maggio. Tutti i
clienti 3 potranno continuare a utilizzare le ricariche 3 attualmente presenti
sul mercato e riceveranno un credito senza scadenza pari all'importo speso per
l'acquisto della ricarica. L'obiettivo è quello di tamponare il calo di
introiti con un aumento del traffico dei clienti. L'eliminazione dei costi di
ricarica è stata anticipata con una pagina di pubblicità sui
principali quotidiani nazionali: il claim (che evoca il ministro dello Sviluppo
economico Bersani che ha firmato il decreto) riecheggia lo spot tv con Paris
Hilton con «Caro Signor Ministro, meglio cambiare no?».
WIND -Wind
non dovrà tagliare il costo ai clienti che ricaricano per 50 euro
perchè già l'esborso fisso per la ricarica non era previsto; chi
ricarica per importi inferiori dovrà però migrare (gratuitamente)
a nuovi piani tariffari per non pagare il costo di ricarica. Wind da domani
lancia nuovi piani tariffari (Wind 12, Wind 5 New e Senza Scatto New) che non
prevedono i costi per la ricarica ma dove aumentano leggermente, a seconda del
piano scelto, le tariffe al secondo, al minuto o lo scatto alla risposta. La
migrazione ai nuovi piani per i vecchi clienti che non vogliono pagare il costo
fisso di ricarica è gratuita. Arriva anche la promozione «Raddoppi la
ricarica», che permette a tutti i nuovi clienti Wind che attivano una sim entro
il 1 aprile 2007 di ricevere in regalo per un anno, a ogni ricarica effettuata,
un ricarica del medesimo importo, fino a 50 euro al mese. Alla societá
telefonica sono sicuri di poter comunque continuare a proporre al pubblico le
tariffe più convenienti sul mercato.
VODAFONE -
Il gestore elimina i costi di ricarica sia per i vecchi che per i nuovi
clienti. Tuttavia i nuovi dovranno misurarsi con cinque nuovi piani tariffari;
in tre casi (Zero Limits, Zero Limits Lights e You&Vodafone) compare uno
scatto alla risposta a 19 centesimi (da 15 precedenti con un rincaro che,
secondo i calcoli del Movimento Difesa del Cittadino, è del 26%). Per
quanto riguarda poi la restituzione del credito rimanente sul cellulare quando
ad esempio un cliente passa a un nuovo operatore (secondo quanto disposto
sempre dal decreto Bersani), l'operatore che fa capo al gruppo britannico
chiede 8 euro di spese e l'invio di una raccomandata con ricevuta di ritorno.
ASSOCIAZIONI CONSUMATORI - Gli operatori sono comunque tenuti a fornire, in
formato cartaceo o elettronico, il prospetto tariffario in qualsiasi momento il
consumatore ne faccia richiesta.
Il Movimento dei Consumatori consiglia agli utenti di telefonini di aspettare
e, per il mese di marzo, di non cambiare piano tariffario, nè accettare
offerte di nuovi prodotti da parte del proprio operatore o di altri
concorrenti. «Prevediamo - ha commentato Lorenzo Miozzi, presidente del
Movimento Consumatori - che inizi una doppia offensiva degli uffici di
marketing, diretta sia nei confronti dei clienti sia dei possibili nuovi
clienti. Operazione che potrebbe tramutarsi in vantaggi per i consumatori.
Inoltre, aspettando qualche settimana l'Autorità e le associazioni dei
consumatori avranno modo di verificare il pieno rispetto del Decreto Bersani».
Per Federconsumatori e Adusbef «ora Agcom e Antitrust dovrebbero vigilare
affinchè le compagnie, costrette a rinunciare a questa rendita, non
cerchino di rientrare della stessa cifra, accordandosi naturalmente in un modo
tacito, per aumentare le tariffe telefoniche».
RESTITUZIONE COSTI -
Per il Codacons inoltre i gestori telefonici dovrebbero restituire agli utenti
le somme incassate per i costi di ricarica, relativamente al periodo che va
dall'entrata in vigore del Decreto Bersani (2 febbraio) al 5 marzo.
PREOCCUPAZIONE DEI SINDACATI - Preoccupati alcuni sindacati. La Uilcom
esprime «preoccupazione» e sottolinea che le decisioni del Governo «se pur
politicamente corrette, inserite in questo quadro di instabilità
rischiano di compromettere il futuro di alcuni operatori meno strutturati».
Sulla stessa linea la Slc-Cgil. Dice, infatti, Emilio Miceli, segretario
generale della Slc-Cgil: «Il taglio dei costi di ricarica è un atto
giusto, sacrosanto. Ma serve prudenza nei tempi di attuazione. Eliminare i
costi troppo in fretta può mettere in ginocchio un paio di operatori. E
a noi gli operatori servono tutti in buona salute».
05 marzo 2007
ROMA -
Offensiva del Tesoro contro le compagnie petrolifere. Un dossier elaborato dai
tecnici del sottosegretario Alfiero Grandi sostiene che nel settore della
distribuzione dei carburanti manca la concorrenza; che i prezzi della benzina e
del gasolio sono inspiegabilmente più alti a confronto con la media europea;
che, infine, il peso del fisco non è per nulla superiore rispetto ad
altri Paesi simili al nostro come la Francia e la Germania. "Ci sono
aumenti che non si giustificano e che talvolta sono addirittura
eclatanti", dice Grandi. Non lontano da sabato scorso sono scattati gli
ultimi incrementi, fino ad un picco di 1,249 euro al litro per alcuni marchi
(Api, Esso, Ip e Total).
Sotto tiro il processo di formazione dei prezzi. "I prezzi consigliati
alla pompa - si legge nel dossier - sono pressoché identici per tutte le
compagnie. Le quali - continua - giustificano il maggiore prezzo rispetto agli
altri Paesi con i più alti costi di distribuzione, attribuibili sia
all'orografia del nostro territorio, sia alla grande frammentazione della rete
distributiva. Ma omettono di dire che esso è anche dovuto ai più
alti margini che le compagnie realizzano sul mercato italiano i margini, ante
imposte, delle compagnie in Italia sono i più alti d'Europa".
Né si può attribuire la colpa al fisco. Parlano i numeri: secondo lo studio
del Tesoro le tasse su un litro di benzina sono più pesanti del 4,1 per
cento in Francia e dell'11,5 per cento in Germania. Cambia solo di poco se si
guarda la tabella del gasolio per auto: meno 0,5 per cento in Francia e
più 7,8 per cento in Germania. E il prezzo industriale è
inferiore in entrambi i Paesi: meno 12 per cento in Francia e meno 11,8 per
cento in Germania, per la benzina; meno 11,8 per cento in Francia e meno 10 per
cento in Germania per il gasolio. E il peso dell'Iva è uguale in tutta
Europa.
Bene - secondo Grandi - lo sforzo del ministro dello Sviluppo, Pierluigi
Bersani per tentare di liberalizzare il mercato dei carburanti, ma forse non
sufficiente, nonostante la sollevazione dei gestori. Da qui la proposta di
coinvolgere ancor più l'intero esecutivo in una partita che tocca da
vicino la stragrande maggioranza dei consumatori. L'idea di Grandi è,
innanzitutto, di rafforzare i poteri dell'Antitrust, guidata da Antonio
Catricalà, seguendo ciò che già accade nei comparti
dell'energia elettrica e del gas. "L'Authority - sostiene il
sottosegretario - interviene solo ex post, per accertare eventuali violazioni
della concorrenza. È necessario, invece, agire prima, durante il
processo stesso di formazione dei prezzi. C'è un buco normativo che deve
essere colmato".
E le compagnie devono sentire il fiato sul collo dei "controllori". A
cominciare dall'Eni (utile record da 9,2 miliardi nel 2006), che per il 31 per
cento appartiene al Tesoro. "L'Agip (controllata al 100 per cento
dall'Eni, ndr) - dice ancora il sottosegretario - non può pensare solo
agli interessi aziendali. Prima vengono quelli della collettività,
cioè dei consumatori. E se non dovesse bastare una semplice moral
suasion, bisognerà far sentire la voce dell'azionista di
maggioranza".
Un aspetto viene poi indagato con attenzione dai tecnici di Via XX settembre:
quello relativo alla capacità di raffinazione delle compagnie, che
finisce per trasformarsi in un'aggravante dei loro comportamenti in materia di
prezzi. Oggi - secondo il Tesoro - le 17 raffinerie (gestite anche dalle
compagnie) presenti sul nostro territorio sono in grado di produrre 100 milioni
di tonnellate di petrolio a fronte di una domanda che sfiora le 95 tonnellate.
Chiosano i tecnici: "Risulta del tutto evidente che sono proprio le
compagnie che operano in Italia a "fare" il prezzo dei prodotti
raffinati". Ricetta: separare l'attività di raffinazione da quella
di distribuzione per ottenere trasparenza e concorrenza.
Infine la distribuzione. Sono ancora troppi gli impianti di distribuzione
(intorno ai 22 mila contro i 40 mila del 1970) mentre dovrebbe scendere a 15
mila, favorendo l'ingresso di nuovi operatori indipendenti e della grande
distribuzione commerciale.
(5 marzo 2007)
M
GENOVA -
I cattolici devono svegliarsi e battersi per difendere la famiglia, la loro
cultura e i loro valori, in uno Stato che vara leggi difficili da digerire.
Parola di Angelo Bagnasco, 63 anni, ex Ordinario militare, da soli sei mesi
sulla cattedra che fu di Giuseppe Siri, il cardinale mancato papa per due
Conclavi, di Dionigi Tettamanzi, oggi arcivescovo di Milano, e, da ultimo, di
Tarcisio Bertone, oggi segretario di Stato in Vaticano e indicato come il suo
grande sponsor per la successione a Ruini.
Già in settimana Bagnasco potrebbe diventare la nuova guida della Cei.
Tutti lo danno come il candidato in pole position, senza reali concorrenti. Ma
naturalmente Bagnasco, in una domenica da pastore del suo gregge di anime,
mentre visita una parrocchia nella profonda periferia genovese, tace e sorride
alla domanda se toccherà a lui prendere il posto di Camillo Ruini alla
presidenza della Conferenza episcopale.
Cita il suo impegno al silenzio. Parla da arcivescovo di Genova e quindi da
semplice membro della Conferenza che starebbe per essere chiamato a presiedere
dopo Ruini, Poletti, i vicari di Roma, dopo Ballestrero, come lui nato a
Genova. Ma condivide in pieno la linea sempre più insistentemente
tracciata da Ruini e aggiunge di suo una richiesta urgente allo Stato italiano
per una politica della famiglia più forte, descrivendo il terreno sul
quale i cattolici devono scendere in campo e il temperamento che devono
mostrare in una società sempre più laicizzata.
Monsignore, quella di Ruini sembra una chiamata alle armi dei cattolici
contro lo Stato laico. Condivide?
"E' chiaro che i cattolici devono
difendere la famiglia e che la Chiesa cattolica deve richiamarli a questo
compito. Non si vogliono fare guerre sante. I nostri valori vanno difesi con
serenità, moderazione, ma anche con fermezza di fronte allo Stato che fa
le sue leggi. Non siamo contro le famiglie di fatto, ma contro una
sovrastruttura che si aggiunga alla famiglia. Attenzione: questa è una
battaglia che tocca anche a chi non crede, a chi non ha la fede ma un senso di
responsabilità nell'organizzazione della nostra società:
difendere un istituto come la famiglia".
E lo Stato cosa dovrebbe fare di fronte alla discesa in campo della Chiesa:
modificare, rettificare i suoi progetti?
"Sono fiducioso che il buon senso sopravvenga. Ma dallo Stato ci
aspettiamo subito, direi con urgenza, per esempio, politiche forti in favore
della famiglia. Per ora nei programmi, nelle intenzioni di chi governa abbiamo
visto segni troppo piccoli, troppo deboli in questa direzione. Non possono
aspettarsi che la Chiesa dica sì e applauda le idee di riforma di
istituti chiave come la famiglia. La Chiesa deve battersi perché siano difesi i
valori fondamentali della nostra cultura".
Ma c'è qualche altro Stato che vara queste leggi ed è
più sensibile ai valori della vostra cultura? O questa è una
prerogativa italiana e dei rapporti tra l'Italia e il Vaticano?
"In Francia, per esempio, c'è una politica per la famiglia
più avanzata. Ci sono leggi più favorevoli, anche se è
chiaro che il peso dei cattolici è storicamente meno forte che in
Italia. Ci sono altri Stati in cui quelle politiche sono più flebili o
prendono altre direzioni, come la Spagna. Quello che noi ci aspettiamo sono
segnali forti: quella è la strada che indichiamo".
E' solo un problema di programmi di governo o c'è qualcosa di
più forte che divide la politica del governo dalle aspettative della
Chiesa?
"Cercano spesso di farci passare per degli intolleranti. Non è
così. Il problema è quello dell'identità culturale, in Italia
come in Francia, in Europa. In Europa siamo il cuore del mondo, ma fatichiamo a
definire la nostra identità a fronte delle altre culture religiose e
laiche che si impongono nel mondo moderno. Guardi gli Usa: lì hanno un
forte senso della loro identità. Noi stentiamo a imporre i segni forti
della nostra civiltà. La famiglia è tra questi. E se non la
difendiamo noi cattolici, chi deve farlo?".
E, quindi, qual è il richiamo che va fatto ai cattolici, oltre a
quello di scendere in campo con moderazione e fermezza?
"Il Novecento si è chiuso lasciando alle nostre coscienze un grande
problema: che cos'è oggi l'uomo? Tutto è entrato in discussione a
partire dal fatto che di un uomo si possono anche cambiare gli organi, decidere
il momento della morte, predeterminare il suo sviluppo, incidere geneticamente.
Sui principi dell'etica ci sono scontri sempre più forti: è
lì, appunto, che possiamo apparire intolleranti o che qualcuno
può aspettarsi al contrario il nostro applauso, la nostra resa. Ricordo
un commentatore qualche anno fa aveva posto retoricamente questa domanda: ma se
la Chiesa dicesse sempre di sì, accettasse la rivoluzione laica dei
valori? Ecco qual è il nostro ruolo di fronte a questo problema: essere
non solo presenti, risaltare, mobilitarci per far valere questi valori, non per
applaudire".
Insomma vuol dire che la linea di Ruini va condivisa e lei come vescovo si
sente perfettamente identificato nella sua mobilitazione?
"Ripeto: ai cattolici non basta essere presenti e dire semplicemente che
ci sono. Devono dimostrare tutta la forza della loro identità con grande
serenità".
(5 marzo 2007)
ROMA - Ruini dice "cattolici
svegliatevi". "Rischiamo di diventare subcultura", aggiunge.
Sembrano parole da mobilitazione. Che succede? "Può sembrarlo. Ma
non si tratta di un appello politico", risponde Marcello Pera, ex
presidente del Senato. "La dimensione resta religiosa, morale soprattutto.
E' anche la risposta a un risveglio delle coscienze che si coglie in Europa. E
a cui si vuole corrispondere. Si rafforza la reazione al relativismo, con un
appello alle coscienze e agli individui prima ancora che ai cattolici. Ruini
sembra rivolgersi al singolo uomo, affinché tutti possano recuperare il senso
della propria identità: religiosa, cattolica, culturale". "Se
non vi svegliate niente potrà salvarci", prosegue Ruini. Sono toni
quasi escatologici, la situazione è così grave? "Si fa riferimento
al rischio d'estinzione della nostra cultura. Non solo cattolica, occidentale
in senso più lato. Non a caso Ruini fa un parallelo fra Italia e Stati
Uniti, la prima considerata come fortezza in grado di arginare il laicismo
europeo. La diagnosi è grave, ma non è la marginalizzazione dei
cattolici, bensì di un'intera civiltà. Ed è in piena linea
con l'appello di Ratzinger, quando si rivolge a credenti e non credenti, e dice
siete a rischio, tutti quanti...". Avremo una Chiesa sempre più
interventista? "Sulla politica la Chiesa diventa meno interventista, in
qualche modo la bypassa. Mentre si rivolge direttamente ai laici come ai
cattolici, assume le forme di un magistero morale prima che religioso, diventa
uno dei simboli chiave di un'identità millenaria non solo
cattolica". "Meglio contestati che irrilevanti", dice ancora
Ruini. "Non da ora ma da alcuni millenni la Chiesa ha fatto i conti con la
contestazione. Accade ogni qual volta predica, si fa ecclesia, assume sino in
fondo il proprio magistero di evangelizzazione, di missione morale". Sui
Dico la Chiesa ha vinto? "Che la Chiesa abbia chiamato a raccolta singoli
senatori, da Andreotti alla Binetti, non ci credo. Credo invece sia riuscita
volutamente ad alzare il tono dello scontro ed a svegliare le coscienze. E qui
ha vinto. Anche con argomenti non propriamente religiosi come la difesa dei
figli. Con una predicazione più catechistica forse non avrebbe ottenuto
lo stesso successo". Cosa ha prodotto lo scontro? "Io credo che ci
sia stata un'eccessiva dose di arroganza da parte di Prodi, che fra l'altro
è un cattolico. Spesso è stato irriguardoso verso la Chiesa, in
alcuni casi nei confronti del Papa. C'è stato un eccesso di sicurezza
che Oltretevere ha sconcertato parecchie persone e che alla fine ha prodotto un
muro". I Dico sono un capitolo chiuso per il governo? "Non credo che
ci sarà una crisi sui Dico, ma la situazione per la maggioranza si
è aggravata. Alcuni, come Cesare Salvi, cominciano a considerare il
testo concordato come un mostro giuridico. Giustamente, dato che crea un numero
incontrollato di coppie di fatto". Omosessuali come deviati,
l'accostamento ai pedofili: alcune parole di Andreotti e della Binetti fanno
discutere. "Gratta gratta è uscito l'atteggiamento omofobico. Ma
dire di no al matrimonio omosessuale non ha nulla a che fare con l'omofobia
piuttosto con una proibizione di tipo morale. E questo è un elemento su
cui Ruini ha vinto: si è scoperto che il nostro Paese ritiene
minoritario il fondamento morale delle coppie di fatto. E prevalenti le ragioni
della nostra tradizione, che vuole la coppia fatta di uomo e donna". Il
rischio è la marginalizzazione di un'intera civiltà.
Utili delle aziende sull'ottovolante dal 1998 al
2005, ma grazie al boom prolungato della natalità imprenditoriale, ai
processi di ristrutturazione e ai mutamenti normativi i profitti netti sono
arrivati a superare le imposte versate: 56 miliardi contro 45,6 nel 2005. Il
colpo d'acceleratore ha riportato l'incidenza media dei profitti sui ricavi su
livelli fisiologici, intorno al 2,6 per cento. Un colpo di reni necessario,
perché nell'annus horribilis 2002 gli utili delle imprese si erano quasi
prosciugati, appena 7 miliardi, pari allo 0,4% dei ricavi. E solo dal 2003 le
aziende hanno ritrovato gradualmente la via della redditività e dello
sviluppo. In realtà il dato sul balzo degli utili è in parte
accentuato da un cambio normativo, ma che non muta la sostanza della sterzata
strutturale, smentendo la teoria del declino industriale.
Dal trend storico emerge che fatturato globale (che nel
L'indagine
L'analisi sui bilanci approvati e depositati dalle aziende, dal 1998 al 2005,
gli ultimi disponibili, è stata realizzata da Cerved e si riferisce alle
società di capitali, escluse banche, assicurazioni, Sim e finanziarie.
Dalla ricerca emerge nettamente la crescita delle imprese, mediamente 30mila in
più l'anno, balzate dalle circa 600mila del '98 alle 830mila del 2005.
Al balzo degli utili, dai 7 miliardi del 2002 ai 56 del
Anche le imposte pagate dalle imprese sono arrivate, in valore assoluto, a
livelli record: 45,6 miliardi nel 2005, quasi 11 miliardi in più
rispetto al '98 (+31%).
Secondo i dati Cerved, la crescita delle imposte pagate è risultata in
netta ripresa nel 2003 (+17,8%), ha frenato nel 2004 (+0,4%) e ha riaccelerato
nell'anno successivo. «Infatti - annota Cerved - secondo una proiezione
lineare, calcolata sul 96% dei bilanci, il tasso di crescita delle imposte
dovrebbe passare da 0,4 del
Le distanze
Ma in quale regione si trovano le aziende più generose con il
Fisco? Risposta facile: in Lombardia. Quello che sorprende, però,
è la distanza sulle "inseguitrici": le aziende lombarde
versano oltre un terzo del totale delle imposte raccolte in Italia, mentre al
secondo posto il Lazio contribuisce per il 16,9%, seguito da Veneto ed
Emilia-Romagna per l'8,8 per cento. Limitato il contributo di regioni popolose
e discretamente sviluppate come Marche (2%), Liguria (1,7%) e Puglia (1,4%).
Fanalini di coda nella classifica risultano Molise e Basilicata,
rispettivamente con lo 0,2 e lo 0,1% del totale nazionale.
Dal '98 al 2005 il contributo di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto è
rimasto pressoché costante, mentre il peso del Piemonte, forse soprattutto a
causa della crisi della Fiat e del suo indotto, si è dimezzato: dal 14,9
al 7,7% (nel
Tra i comparti che hanno contribuito di più ad alimentare il gettito
fiscale del 2005 spicca l'industria manifatturiera, con circa il 38% del totale
(45% nel '98), seguita dai servizi alle imprese, con il 14,9%, e il commercio,
con il 14,8 per cento.
5/3/2007 (8:25) -
L'Iran smentisce di aver detto sì al
piano saudita sulla pace tra Israele e palestinesi
MIMMO CANDITO
Non si può davvero dire che sia
stato un viaggio diplomatico di routine, questo che tra sabato e domenica
Ahmadinejad ha fatto a Ryad. Non lo è stato per il ruolo che Iran e
Arabia Saudita hanno nei destini del Medio Oriente - ruoli che li vedono schierati
su posizioni politiche e strategiche distinte - ma non lo è stato
neppure nei risultati, che la lettura dei comunicati ufficiali cerca in qualche
modo di mascherare e che però lasciano trasparire ugualmente come tra re
Abdallah e il presidente in visita i formalismi protocollari non sono stati
sufficienti a coprire le profonde diversità che separavano e, ancor
più, separano oggi i due interlocutori.
Il comunicato della visita mette in rilievo come si sia discusso del Golfo, del
Medio Oriente, dell'Islam e d'Israele - soggetti obbligati e ineludibili del
colloquio. Ma nella discussione, quello che è venuto poi alla luce
lascia tracce significative su due argomenti vitali. Il primo è la
relazione tra l'ortodossia sunnita (che riguarda l'85 percento del mondo
musulmano e della quale, comunque, i sauditi si ritengono gli interpreti
più legittimati) e lo sciismo, che ha nell'Iran il paese guida ma
è soltanto una delle tante minoranze mulsulmane, sebbene la più
forte. Il fatto che il comunicato finale sottolinei come i due paesi «hanno
deciso di operare congiuntamente per l'unità del mondo islamico» ha
piuttosto - nel linguaggio della diplomazia - il riconoscimento della
diversità e la conferma di come i sauditi non intendano affatto cedere
alla spinta movimentista che Teheran sta mettendo in campo, nel progetto di
Ahmadinejad d'assumere in qualche modo la leadership del «nazionalismo»
musulmano.
Non è poco. La strategia dell'Iran di Ahmadinejad (che non è
comunque detto che sia anche la strategia dell'ayatollah Khamenei) pare diretta
a mutare le relazioni di forza che reggono i 1.200 milioni di fedeli musulmani,
e crea dunque un processo di destabilizzazione che metterebbe in crisi tutte le
leadership politiche dei paesi dove si pratica la religione di Allah: gli
sciiti diventerebbero la bandiera del rivendicazionismo che traversa il mondo
nel nome dell'islam, in una sorta di rivoluzione permanente. L'Arabia Saudita
non appare certo disponibile a infilarsi in questo rischioso percorso.
Il secondo tema sul quale la visita ha rivelato d'essere tutt'altro che di
routine è il piano di pace nel conflitto tra Israele e palestinesi.
Mentre l'agenzia ufficiale saudita dice che di questo piano si è
discusso - e nel piano è previsto il riconoscimento dello Stato d'Israele
in cambio di alcune condizioni - l'agenzia ufficiale iraniana sostiene che su
questo piano i due interlocutori non hanno aperto bocca.
Già è assai inusuale una contraddizione tanto lacerante nei
comunicati delle agenzie ufficiali - che nei paesi a regime sono di fatto la
voce del governo, del potere politico comunque - ma il contrasto è
ancora più significativo, perchè tocca il punto di fondo della
crisi tra il mondo musulmano, l'intero mondo musulmano, e praticamente il resto
del pianeta. E poichè non è immaginabile che di questo tema non
si sia discusso, nemmeno per accenni vaghi, appare inevitabile pensare che il
contrasto ci sia, sia rimasto confermato, e non pssa essere sanato,
perchè l'intera strategia di Ahmadinejad si basa sulla cancellazione
dello Stato d'Isarele, secondo le sue ripetute, pubbliche, conclamazioni.
Alla luce di questa lettura, appare allora necessario tentare di comprendere
quale sia stato il senso di questa visita, e che cosa Teheran tentasse di
ottenerne. Una conclusione possibile è che Ahmadinejad volesse
rappresentare al mondo arabo le proprie intenzioni di continuare nel programma
nucleare, presentando questo proposito nei termini d'una visita ufficiale ma
proponendolo di fatto nel suo forte valore di politica di potenza, soprattutto
da quando Ryad e gli altri paesi del Golfo hanno manifestato la propria
intenzione d'avere anch'essi un progetto nucleare. Ancora, portare
l'espressione della forza militare e politica dello sciismo nel cuore della
realtà sunnita, significava voler manifestare pubblicamnente la
volontà del progetto di leadership nell'Islam tutto e trarne una sorta
di credibilità pubblica, se non di legittimazione. I risultati ufficiali
della visita smentirebbero questi due propositi, ma nei fatti i propositi trovano
conferma dallo stesso incontro tra i due leader. Ad Ahmadinejad interessava un
saldo politico, e questo saldo lo ha ottenuto.
+ Da Virgilio.it 3-3-2007 AUTHORITY: NOMINE MARINI E BERTINOTTI PER
CONCORRENZA E CONTRATTI PUBBL
Il Piccolo di Trieste 4-3-2007 Il partito di lotta e di governo non può
convivere a lungo
( Virgilio Notizie del 04/03/2007 )
03-03-2007
15:19 Articoli a tema | Tutte le news di Politica (ASCA) - Roma, 3 mar - Il Presidente
del Senato Franco Marini, e il Presidente della Camera dei deputati, Fausto
Bertinotti, con determinazione in data odierna, adottata d'intesa tra loro,
hanno nominato componenti dell'Autorita' garante della concorrenza e del
mercato il professore Piero Barucci e la professoressa Carla Rabitti Bedogni.
Sempre in data odierna, con determinazione adottata d'intesa tra loro, il
Presidente del Senato della Repubblica e il Presidente della Camera dei
deputati hanno nominato componenti dell'Autorita' per la vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture il professore Piero Calandra
e il professore Andrea Camanzi. * Il professore Piero Barucci e' nato a Firenze
il 29 giugno 1933. E' stato Professore di Economia Politica e Storia delle Dottrine
Economiche presso le Universita' di Siena e Firenze (1966-1990) nonche' Preside
della Facolta' di Economia e Commercio dell'Universita' di Firenze negli anni
1981-1983. E' stato Ministro del Tesoro e della Funzione Pubblica nel Governo
Amato (giugno 1992-aprile 1993) e Ministro del Tesoro nel Governo Ciampi
(aprile 1993-aprile 1994). Presidente e membro del Consiglio di amministrazione
di importanti Istituti bancari italiani ed esteri, di enti pubblici, di Case
editrici, Fondazioni e realta' associative operanti nei settori economici e
creditizi. E' autore di significativi e numerosi saggi in tema di politica
economica, sul pensiero e l'opera di economisti italiani dell'Ottocento e sul
dibattito di politica economica in Italia nel dopoguerra. * La professoressa
Carla Rabitti Bedogni e' nata a Modena il 26 novembre 1939. E'Avvocato
cassazionista e Professore ordinario di diritto del mercato finanziario alla
Facolta' di Economia e commercio presso l'Universita' degli Studi ''La
Sapienza'' di Roma. E' Direttore scientifico e coordinatore del corso di
perfezionamento in Diritto comunitario e interno degli intermediari bancari
finanziari e assicurativi presso l'Universita' degli Studi ''La Sapienza'' di
Roma. L'11 aprile 2002 e' stata nominata componente della Commissione nazionale
per le societa' e la borsa (CONSOB). E' autrice di numerose monografie e saggi
in tema di tutela della concorrenza, di diritto societario, diritto dei mercati
finanziari, economia, tutela dei risparmiatori, intermediazione finanziaria, e
ha coordinato e diretto opere collettanee sulle medesime materie. * Il
professore Piero Calandra e' nato a Roma il 23 maggio 1937. Consigliere della
Corte dei Conti ha svolto funzioni sia giurisdizionali che di controllo. Gia'
funzionario del Senato, con qualifica di direttore di Servizio, e' attualmente
esperto tributario presso il SECIT. Ha svolto, fuori ruolo, dal 1988 al 2001
diversi incarichi nell'Amministrazione dello Stato in qualita' di Capo di
Gabinetto di diversi dicasteri (Riforme istituzionali, Politiche comunitarie,
Lavoro). Docente, in varie Universita', di diritto amministrativo, di storia
dell'amministrazione e di diritto pubblico dell'economia, che attualmente
insegna, unitamente al diritto costituzionale, alla Link University of Malta in
Roma. E' autore di significative monografie e di molti saggi ed articoli su
temi concernenti la storia dell'Amministrazione pubblica, il diritto
costituzionale e parlamentare. * Il professore Andrea Camanzi e' nato ad
Alfonsine (provincia di Ravenna) il 2 febbraio 1949. Docente di Economia e
gestione delle imprese di comunicazione presso la Facolta' di Economia della
Libera Universita' degli Studi Guido Carli di Roma (LUISS), e' Presidente
dell'Information, Computer and Communication Committee (ICCP) del Business and
Industry Advisory Committee (BIAC) presso l'OCSE a Parigi. Board member
dell'Advisory board della Columbia University for Tele-Information a New York,
e' esperto di diritto comunitario e internazionale, di politiche pubbliche nei
settori industriali e di diritto antitrust. Ha maturato esperienza nel settore
della gestione aziendale in qualita' di membro di Consigli di Amministrazione e
di Comitati esecutivi di importanti gruppi societari (Telecom Italia, TIM,
Tecnost, Olivetti). E'autore di numerosi saggi in tema di strategia
regolamentare e promozione della concorrenza.
:
rischia di certificare l'impossibilità di un'esperienza comune alla
testa del Paese e disorienta l'opinione pubblica che vede esponenti della
maggioranza combattere il suo stesso governo, come a Vicenza. La crisi, quindi,
richiede un cambio di registro. Evoca la necessità di un riassetto del
centrosinistra che favorisca il trasferimento dell'egemonia culturale dai
massimalisti ai riformisti. E' questo il processo centrale: la nascita del
Partito democratico inteso come il nuovo campo di scelte politiche, di energie
culturali, e sociali capaci di costruire un solido orizzonte di governo e di
cambiamento per il Paese. I riformisti hanno l'onere di dimostrare che esiste
lo spazio politico per una forza moderata capace di esprimere un progetto
riformatore di governo credibile, che abbia un ruolo forte e incisivo. Questa
è l'idea che sfida Ds e Margherita: far decollare un nuovo soggetto che
possa superare i confini sociali, politici e i limiti storici delle diverse
tradizioni (cattolica laica socialista ex comunista), ma che abbia anche le
dimensioni per collocarsi come perno della coalizione. Un soggetto che oggi
è alleato con la sinistra radicale, domani potrebbe non esserlo o
esserlo ancora, come avviene nel resto d'Europa. In Germania la Spd non
è alleata dei radicali, in Francia invece sì. Il duello tra le
due sinistre, quindi, è destinato a continuare, oscillando tra
collaborazione e competizione. Ma è decisivo che Prodi non fondi la sua
leadership sull'asse privilegiato con i radicali per il timore di essere
disarcionato. Questa teoria è stata smentita dall'ultima crisi. Ora
Prodi può inaugurare un nuovo stile di governo facendo leva sul polo
riformista, restituendo i massimalisti al loro reale peso politico, e attuando
nello stesso tempo un contenimento dell'anima più conservatrice della
coalizione sui nodi della modernizzazione. Lo spazio politico è in
ristrutturazione anche sul versante del centrodestra. Il dopo Berlusconi
è ormai un problema aperto. L'Udc di Casini chiede un'interlocuzione con
l'Unione allo scopo di rompere il centrosinistra in chiave centrista e ragionare
su un'aggregazione con l'Udeur e parte della Margherita. E' un rischio che
l'Unione dovrebbe correre per agitare le acque stagnanti della politica
nazionale. Del resto, seguendo questa strategia, Casini ha destrutturato la Cdl
così come la conosciamo oggi, e già pensa alla leadership dopo
Berlusconi.. Fini segue un disegno diverso. Il leader di An forse immagina che
solo chi sta vicino al Cavaliere potrà raccoglierne legittimamente
l'eredità, ma ha il problema di distinguersi senza dividersi. Persino la
Lega, l'alleato più fedele di Berlusconi, avverte che una stagione della
Casa delle Libertà si sta chiudendo e che occorrono nuove idee e nuove
mosse. Forse il centrodestra dovrebbe riflettere sull'esito della sua
esperienza di governo se, oggi, persino loro discutono di come cambiare la
legge elettorale che hanno voluto con l'obiettivo, per la verità
raggiunto, di ostacolare il governo del centrosinistra. Lo stesso autore del
pasticcio, Calderoli, ha ammesso che il Polo potrebbe essere vittima della sua
stessa trappola. L'attuale legge elettorale, come ha osservato Fassino, spinge
i partiti a lavorare più per vincere le elezioni che per governare. Il
risultato è che la transizione non trova una meta. Il Paese non
definisce la sua identità. Nessuno riesce ad assumersi la responsabilità
di scelte difficili ma necessarie per modernizzare l'Italia. Scelte che
richiedono il coraggio di seguire vie nuove, ma anche un di più di
politica per una democrazia ancora troppo ingessata. Sergio Baraldi.
/
Roma L'IMM
Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa,
ottimista: ci stiamo lavorando. E sulle tasse: ridurle, ma non si può
dire quanto
NAPOLI
- Il premier Romano
Prodi lo aveva annunciato nell'aula della Camera nel giorno della fiducia al governo. E il ministro dell'Economia, Tommaso
Padoa-Schioppa lo conferma a distanza di 24 ore durante un intervento pubblico
a Napoli: «Stiamo lavorando. Secondo me siamo abbastanza vicini a trovare un
accordo». Non solo. Il ministro si dice addirittura «confortato», perché «un
mese e mezzo fa sembravamo molto lontani invece non è così. Se
questa legislatura attua il federalismo fiscale abbastanza rapidamente,
consegna alla prossima legislatura una fondamentale riforma del sistema del
governo del paese».
«SPENDERE
MEGLIO» - Padoa-Schioppa ha ricordato che
«all'inizio per quanto riguarda le cifre si è partiti dallo status quo,
però è la premessa per applicare anche qui il principio per cui
per poter spendere di più bisogna spendere meglio». Un concetto, questo,
strettamente legato anche al riordino dei conti pubblici. «Non credo che
possiamo nè dobbiamo avere una legge Finanziaria le dimensioni di questa
ultima - ha spiegato il ministro -. Abbiamo risolto l'emergenza dei conti ma
non abbiamo compiuti tutti i passi del risanamento». «L'Italia - ha poi
aggiunto - deve arrivare nell'arco della legislatura a un bilancio in pareggio
e portare il debito pubblico al di sotto del 100% del prodotto interno lordo,
cosa che si può avere solo con un avanzo primario, cioè con una
differenza tra spese e entrate, tolte le spese per interessi, dell'ordine del
3-4% che è quello della legislatura '96-2001 aveva lasciato in
eredità alla legislatura che ci ha preceduto».
RIDUZIONE
FISCALE - Padoa-Schioppa ha anche ribadito l'impegno
dell'esecutivo ad attivarsi per la riduzione della pressione fiscale. Tuttavia,
ha precisato, non si può dire «adesso quando e quanto». «Come ha detto
il presidente Prodi - ha affermato il ministro - questo aspetto va visto con
estrema attenzione. Non si possono fare passi tali dai quali poi dover tornare
indietro».
03
marzo 2007
Quando
voi lavorate per la vostra azienda siete sacerdoti di Dio» proclama spavaldo il
pastore Kenneth Ulmer alla folla, che gli risponde con amen e alleluja che
hanno il fragore del tuono. Ulmer è in missione: che significa una
predica oggi a Randburg, banlieue di Johannesburg in Sud Africa e poi via,
domani in Uganda, in Kenya, in Nigeria. Folle vibranti nel continente
più povero del pianeta, che vive con un dollaro al giorno, sono pronte a
farsi convertire dai suoi capitalistici sermoni: «Ascoltatemi, il Businnes
può essere un destino e condurre al regno di Dio». E infatti la setta
evangelica di cui Ulmer è un tenore, a Los Angeles ha creato una florida
azienda «per fare soldi senza vergognarsene».
Qui
ha trentamila fedeli, la più grande congregazione dell'ex paese
dell'apartheid. Fa arrivare dagli Usa uomini di affari che investono nei paesi
africani, soprattutto quelli ricchi di materie prime e petrolio, e porta in
America ragazzi che frequentano il «seminario». Che però assomiglia sl
centro di formazione di una multinazionale e cura soprattutto il corso di
leadership. Nel
Curiosa
contraddizione in un paese dove alla gente manca la luce elettrica. I neri
d'Africa possono vedere i loro fratelli afro americani ballare e cantare i
versetti della Bibbia a tempo di rap. Teologi americani hanno curato un
commentario della Bibbia in 1600 pagine adattato ai problemi africani,
dall'aids alla corruzione alle mutilazioni genitali. I riti sono frementi, fino
all'estasi. A Benin city, in Nigeria, decine di fedeli sono rimasti calpestati
durante la messa, mentre cercavano di toccare un pastore evangelico tedesco.
Perchè l'esorcismo, la magia rialzano facilmente la testa. Come a
Kisangani, nel Congo seviziato, dove un pastore protestante ha guidato una
marcia di migliaia di persone scandita dai gospel per scacciare i demoni della
guerra tra Kabila e i ribelli. I fedeli africani cercano una fede utile nella
vita di tutti i giorni, si volgono a un Dio perchè nel loro medioevo
privo di tutto credere è una fuga. Basta ascoltare le canzoni che
cantano, come questa della chiesa evangelica della Buona Novella: «Noi andiamo
in paradiso, che ci importa se le guerre e il dolore dominano su questa
terra?». Così in Kenya l'87 per cento dei pentecostali giurano di essere
stati beneficiari o testimoni di un miracolo. Il mimetismo accorto con le
culture locali serve spesso a far passare un ambiguo messaggio conservatore.
A
Nairobi gli evangelici hanno duramente lottato contro una mostra che
illustrava, con ossa di ominidi, l'evoluzione. In Zimbabwe sono a, fianco a
Mugabe nella sua ossessione senile di perseguitare gli omosessuali. In Uganda
scoraggiano la diffusione dei preservativi per limitare l'aids , invocando la
pratica della astinenza. Li guida una convertita di spicco, la moglie del
presidente-padrone Museweni, il grande amico africano di Bush. Appunto.
+ La Repubblica 3-3-2007 D'Alema: "Sul caso Calipari occasione
perduta per gli Usa"
Ministro
Bindi, come ci si sente dopo esser finiti al rogo per colpa dei Dico?
«Le peggiori ustioni non me le ha date il giudizio della Chiesa. Dalla quale,
personalmente, non mi sono sentita processata».
Che cosa l'ha scottata? «L'enorme mistificazione che si è
consumata durante questa crisi. A un certo punto sembrava che l'avessi causata
io...».
Lei?
«Sì. Tutti sanno che la turbolenza è nata dalla politica estera e
dalla base di Vicenza. Invece è stato fatto credere che il motivo vero
per cui il governo era caduto dipendeva dal disegno di legge sui Dico. Non
solo».
Che altro?
«La stessa soluzione della crisi. Anziché attribuirne il merito ai 12 punti
presentati da Prodi e al senso di responsabilità dell'Ulivo e della
sinistra radicale, qualcuno l'ha collegata all'assenza dei Dico dal programma».
In effetti mancano. Tanto che lei, ministro, con una battuta li ha
ribattezzati «Direi»...
«Li ho messi al condizionale perché il Parlamento ci lavorerà sopra.
Però i Dico non deraglieranno. Sono sui binari giusti».
Insiste?
«Il governo ha fatto niente più del proprio dovere. Su richiesta di due
mozioni parlamentari ha recepito con grande equilibrio le famose 7 righe del
programma dell'Unione sulle coppie di fatto. E ha affidato il testo alle Camere
dichiarando che mai avrebbe messo la fiducia, perché non vogliamo un
bipolarismo etico. Ne è testimone il senatore Andreotti».
Belzebù?
«Sono andata da lui dopo il voto di fiducia, e gli ho chiesto:
"Presidente, quando posso parlare con lei?". Ritengo possibile
ragionare e spiegarsi con tutti. Ecco perché mi brucia questa
strumentalità».
Di chi?
«Di quanti hanno provato a fare del male a questo governo e al Partito
democratico servendosi di un'arma impropria».
Con quale obiettivo?
«Speravano di far cadere Prodi per passare a maggioranze diverse».
Mastella?
«No, lui non ha mai pensato di far cascare il governo. Semmai vorrebbe far
passare come merito suo quella disponibilità al dialogo che era
già nelle cose».
A chi si riferisce, allora?
«Via, s'è capito: ai cosiddetti teo-dem».
Volevano affossare Prodi?
«Si sono prestati. Dopo le dimissioni del governo la prima dichiarazione
della senatrice Binetti è stata: "Ritiriamo i Dico e cambiamo
maggioranza”».
I teo-dem contro i Dico non sono una sorpresa...
«No, guardi: quando il disegno di legge ha visto la luce, i loro commenti erano
positivi. Parlavano di testo migliorabile. E' stato dopo, a crisi aperta, che
hanno detto: se ne esce solo se si ritira il ddl. Un comportamento che mi
addolora e mi indigna».
Al rogo mandiamo la Binetti?
«Per formazione io non mando tra le fiamme nessuno. Semmai aspetto al varco
coloro che parlano di colpo inflitto alla famiglia. A parte che, da questo
punto di vista, i Dico andrebbero benedetti...».
Addirittura.
«Non si è mai parlato così tanto di famiglia. Se dai 12 punti
di Prodi una politica esce rafforzata, è proprio quella per la famiglia:
asili nido, assegni familiari, casa. Ma ora che i "Dico" sono
diventati "Direi", li voglio proprio vedere i critici quanto si
impegneranno a superare la crisi della famiglia. Domando: questa cultura che
idolatra soldi e ha l'ossessione del corpo, svalutando la gioia e il sacrificio
di un legame stabile e di crescere i figli, è frutto del nostro ddl, o
di un modello di società?».
La Chiesa vi contesta di aver riconosciuto dei diritti gay...
«Esiste una realtà umana che si chiama omosessualità. Sono sicura
che la Chiesa non pensa di avere risolto il problema predicando la
castità, valore che io personalmente apprezzo. Di certo, alla
castità non può affidarsi lo Stato. E anche per questo vogliamo
una legge giusta che sui diritti e i doveri non discrimini le persone».
Difende lo Stato laico?
«Da cattolica, assolutamente sì. Chi pensa di rinchiudere Dio nel
recinto di una religione civile, o di affidare la forza del Vangelo a una legge
dello Stato, corre un rischio grave. Di alimentare la reazione laicista che
mira a estromettere la religione dalla dimensione pubblica. Come se la nostra
democrazia non avesse un cemento spirituale, e la dignità della persona
non si fondasse sulla sua trascendenza».
Consiglia ai vescovi di cucirsi la bocca?
«Tutt'altro. Ma il contributo di cui abbiamo più bisogno è di
tipo pastorale. Di educazione all'amore responsabile, alla fedeltà
coniugale, all'uso corretto della sessualità... Se siamo in queste
condizioni, forse la stessa comunità cristiana dovrebbe fare un po' di
autocritica. E rimboccarsi le maniche».
ROMA -
"Un'occasione perduta per gli Stati Uniti" e una mancata risposta
"alla domanda di giustizia" che nasce dal caso Calipari. Massimo
D'Alema critica le logiche dell'amministrazione Bush sulla vicenda della morte
del funzionario del Sismi ucciso dai soldati americani a un check point vicino
a Bagdad il 4 marzo del 2005 mentre tornava dall'aver salvato e recuperato la
giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena sequestrata da un gruppo terrorista.
D'Alema lo fa nel giorno in cui viene annunciato il suo prossimo viaggio a New
York (20 marzo) per presentare all'Onu le proposte italiane "sul rinnovo
della missione civile e umana in Afghanistan". E in questo contesto, le
sue parole a margine della tavola rotonda su "Nicola Calipari, una vita
per gli altri", suonano come un'ulteriore sottolineatura della politica
estera italiana basata sull'amicizia con gli Stati Uniti, ma anche e
soprattutto sull'autonomia di giudizio e il multilateralismo intesi come strade
alternative a quelle americane per la pace nel mondo.
Il ministro degli Esteri, si diceva, ha parlato di occasione perduta per gli
americani: "E' conosciuto il nome del militare che avrebbe sparato. Al di
là della verità ci sarebbe bisogno di giustizia. Il governo si
è già impegnato, ma non dipende dal governo italiano tradurre in
giudizio l'imputato". E D'Alema ha paragonato la storia di Calipari alla tragica
vicenda del Cermis: "Quando il militare imputato della
responsabilità colposa dell'incidente della funivia del Cermis fu
assolto, il governo degli Stati Uniti si assunse la responsabilità con
un atto che ebbe, al di là degli aspetti risarcitori, un grande valore
di carattere morale e politico. Un'assunzione di responsabilità che in
questo caso non c'è stata".
(3 marzo 2007)
Leggendo in queste settimane della ritrovata vitalità nell’area
socialista e di progetti di Rifondazione socialista credo possa tornare utile
al dibattito in corso rammentare, parafrasando un antico detto popolare, che
«le idee camminano con le gambe dell’organizzazione».
Intendiamoci, partiti di sinistra senza un coerente patrimonio ideale non hanno
alcun significato, ma attenzione a non commettere l’errore fatale di
dimenticarsi dell’importanza del radicamento territoriale, insomma, in una
parola dell’organizzazione. La storia italiana, infatti, ci ha fornito
più di un esempio di soggetti politici dotati di un bagaglio culturale e
di idee di prim’ordine, che hanno clamorosamente fallito, proprio per aver
sottovalutato gli aspetti materiali della propaganda (oggi si direbbe della
comunicazione politica), delle sezioni e delle risorse economiche necessarie.
Un esempio di questo genere è stato il Partito d’Azione, erede del
movimento di Giustizia e Liberta, uscito dall’esperienza resistenziale come uno
dei maggiori protagonisti della lotta contro il nazifascismo. Forti
dell’immagine di coraggio e di determinazione di molti dei suoi comandanti
partigiani, gli azionisti ebbero un brutto risveglio all’indomani delle
elezioni del 2 giugno 1946. Nonostante i commentatori dell’epoca (i sondaggi
per nostra fortuna non esistevano ancora) gli attribuissero nelle previsioni un
buon 10%, il Partito d’Azione raccolse un modesto 2,5%, con un piccolo
drappello di deputati nell’Assemblea Costituente. Un partito che durò
poco più di due anni dopo la Liberazione, mentre l’azionismo
continuò a essere nella cultura della sinistra italiana un filone tanto
nobile quanto minoritario.
Anche l’esperienza della socialdemocrazia italiana (Psli, poi Psdi) è
lì a testimoniare quanto sia importante il radicamento organizzativo sul
territorio, nelle grandi realtà associative di massa (sindacato,
cooperative). Tutti oggi riconoscono che a Palazzo Barberini (gennaio 1947)
Saragat aveva ragione nel difendere l’autonomia del socialismo democratico
dall’abbraccio fusionista e nelle scelte di politica internazionale, eppure il
responso delle elezioni del 1948 (7,1%) segnò la fine dell’illusione di
poter creare in Italia un grande partito socialista democratico di massa, sul
modello di altri paesi europei: un soggetto in grado di vincere la competizione
con i comunisti per la leadership della sinistra. In verità a pochi mesi
dalla fondazione del Psli, al primo congresso della Cgil unitaria, si era
già manifestata una debolezza strutturale, destinata a pesare
inesorabilmente a condizionare in negativo lo sviluppo del nuovo partito. In
quella occasione la lista dei sindacalisti vicini al Psli e al Pri ottenne uno
striminzito 5%. Una presenza marginale e insufficiente per sviluppare una
qualsivoglia azione di contrasto alla maggioranza socialcomunista.
Insomma, un partito socialdemocratico o è un grande partito oppure non
è in grado di svolgere il ruolo di guida della sinistra di governo che
gli è proprio.
Riportato alla politica di oggi e alla questione socialista, il problema della
dimensione critica di un soggetto d’ispirazione socialista democratica non
può essere eluso, pena risvegliarsi malamente all’indomani della prima
elezione. L’entusiasmo riunificatore che pervade l’articolato arcipelago
socialista, rischia di sottovalutare i fattori materiali dell’organizzazione
partitica e di gettare il cuore oltre l’ostacolo, senza riflettere
adeguatamente proprio sui caratteri tipici dei partiti del socialismo europeo.
L’altra faccia della medaglia di un simile atteggiamento è la
costituzione di un partito di reduci del socialismo, con la testa rivolta a un
passato glorioso, ma estraneo alle dinamiche sociali e alle nuove domande della
società, pur essendo in possesso di un bagaglio ideale e culturale di
prim’ordine. Il riformismo per dare gambe alla sua azione di cambiamento ha
bisogno di una rete organizzativa in grado di sostenere questo sforzo
rivoluzionario, se si pensa alle resistenze corporative diffuse nella
società e nell’economia italiana.
Anche per questa ragione, sono tra quelli che ritengono che la questione
socialista possa trovare una risposta migliore nella partecipazione attiva e
critica al processo costituente del Partito democratico. Un cantiere aperto che
ha bisogno di essere innervato dalla cultura del riformismo socialista, per
evitare di diventare una “fusione fredda” tra Ds e Margherita.
A riguardo vi sono molte obiezioni e comprensibili riserve tra i socialisti, ma
l’obiettivo di unire in un unico, grande partito, i filoni del riformismo
italiano del Novecento è una risposta ambiziosa, ma indispensabile per
uscire dalla crisi del sistema politico italiano e ridare centralità
riformista all’attuale alleanza di governo. Sta nelle cose naturali, infine,
che l’approdo finale del Pd nella politica internazionale sia la famiglia
socialista democratica del Pse e l’Internazionale socialista. Ci sono legittime
resistenze nella Margherita su questa soluzione, ma alternative concrete non ci
sono e alla fine non potrà che vincere un approccio ragionevolmente
pragmatico prima ancora che sterilmente ideologico.
In definitiva la questione socialista è giunta a un bivio: tentare una
improbabile Rifondazione socialista, tra gruppi, associazioni e partiti
distanti tra loro su molti aspetti, correndo il rischio di ripercorrere l’esito
elettoralmente fallimentare della Rosa nel pugno e di costruire un rifugio di
reduci più che un moderno partito socialista democratico (mi si perdoni
la brutale franchezza), oppure essere protagonisti e non comprimari della sfida
del Partito democratico, che può diventare quel grande partito
riformista plurale che l’Italia non ha mai avuto.
In questo quadro il fattore O (organizzazione) non può essere
accantonato e su questo aspetto nel dibattito in corso nell’area socialista mi
pare di osservare un imbarazzato silenzio, preoccupante per chi vorrebbe
partecipare alla competizione elettorale con ambizioni da partito a vocazione
maggioritaria. Di un nuovo Psiup gli italiani non sentono alcun bisogno.
(
Affari
Italiani
del 03/03/2007 )
Venerdí
02.03.2007 17:43 CUSANI SUI 10 B
WASHINGTON
- Dopo un parziale consenso da parte del Dipartimento per l'Agricoltura degli
Stati Uniti, verrà coltivato su suolo americano il primo raccolto che
mescolerà un vegetale - il riso - a dei geni umani. Lo scopo del progetto
è curativo e le polemiche sono già scoppiate, feroci, e
scientificamente motivate. Perché l'azienda che ha intenzione di produrlo, la
Ventria Bioscience, società biotech statunitense, avrebbe sperimentato
su dei bambini peruviani un siero di riso con l'aggiunta delle proteine umane
coinvolte nello strabiliante progetto agricolo. Per sondare le reazioni umane
all'alimento.
Secondo la ong canadese Action Group on Erosion, Technology and Concentration,
gli esiti sarebbero stati decisamente negativi: la maggior parte dei piccoli -
si trattava di neonati - si sono ammalti. La notizia è rimbalzata sulle
pagine di una serie di giornali sudamericani tra cui il messicano La
Jornada,
che ha polemizzato sull'opportunità di sperimentare su bambini
dell'America del Sud un alimento transgenico ancora vietato negli Stati Uniti.
E
anche il Washington Post scrive della ricerca condotta in Perù, ma senza
fornire particolari. Il quotidiano invece si sofferma su un altro tipo di
pericolo che allarma molti coltivatori, ovvero quello che i raccolti di riso
modificato "infettino" anche i loro campi, cosa già successa
con del grano a cui si era accidentalmente mescolato un vaccino anti-diarrea
per maiali.
E proprio la lotta alla diarrea, umana questa volta, sarebbe l'obiettivo del
riso che la Ventria ha in cantiere, perché quello che può sembrare un
malessere passeggero, è causa di almeno due milioni di decessi infantili
tra i bambini del Terzo Mondo.
I semi in fase di sperimentazione sono tre e dovrebbero portare l'organismo
alla produzione di altrettante proteine: due di loro, la lactoferrina e il
lisozima, contengono sostanze che combattono i batteri e si trovano normalmente
nella saliva, nelle lacrime e nel latte materno. Una terza qualità di
riso produrrebbe sieroalbumina, una proteina del sangue usata dalla medicina in
diversi tipi di terapia. L'idea portante di tutta la faccenda è che una
volta alterati i semi, per ottenere una medicina efficace contro il disturbo
mortale, sia sufficiente un terreno, dell'acqua e molto sole. E si pensa anche
alla possibilità di aggiungere i chicchi a prodotti come yogurt e
barrette di cereali.
Il riso geneticamente modificato verrà coltivato dalla Ventria su
un'area di circa
Ma molti ambientalisti non sembrano convinti perché - come riporta il
Washington Post - lo stesso Dipartimento sarebbe stato più volte condannato
dai tribunali americani per una serie di errori di valutazione commessi proprio
nei confronti delle biotecnologie.
(2 marzo 2007)
+ Il Sole 24 Ore 2-3-2007 Usa,
incriminati 13 manager per insider trading
La Stampa 2-3-2007 2/3/2007 Ossigeno per Prodi. Mario Deaglio
Il Riformista 2-3-2007 DIMENTICANZE . Riforma tv e conflitto d’interessi
Prodi cerca di rallentare la riforma, il leader
azzurro vuole accelerare
Seduto su uno dei divani del corridoio dei passi
perduti di Montecitorio, con l’orecchio perennemente attaccato alla cornetta
del telefono, l’ex-dc Giampaolo D’Andrea, sottosegretario di quel ministro
Vannino Chiti che conduce le danze sulla nuova legge elettorale, fa il punto
sull’argomento che è diventato il nuovo ombelico della politica
italiana: «La legge elettorale? Ma mica si fa mo’... Vediamo. Aspettiamo di
vedere cosa esce fuori». Insomma, per il nostro c’è bisogno di tempo
perché nella logica minimale che ha fatto la fortuna dei democristiani
più dura il confronto sul tema e più questo governo malridotto
guadagna mesi o anni di vita. Una filosofia che riappare anche sulla bocca del
ministro per l’attuazione del programma, il prodiano doc Giulio Santagata: «Non
credo - spiega - che il governo si presenterà da subito con un suo
progetto. Bisogna trovare prima tutte le convergenze possibili». E nel
Transatlantico di Montecitorio un altro sottosegretario che passa la sua vita a
Palazzo Chigi, Paolo Naccarato, si unisce al coro anche se ha l’accortezza di
lanciare qualche segnale a Silvio Berlusconi ben sapendo che è difficile
fare la nuova legge elettorale senza il Cavaliere. «Un tentativo serio -
racconta - lo faremo. Certo manterremo l’impianto dell’attuale legge con una
serie di accorgimenti che potrebbero poi dar vita a tre-quattro interventi
sulla Costituzione. Se questo governo dura? In fondo è interesse di
tutti fare una nuova legge elettorale per mettersi a riparo dagli
imprevisti...».
Nelle parole di Naccarato, appunto, c’è un’esca per il Cavaliere. Anche
Berlusconi, infatti, segue lo schema dei piccoli aggiustamenti: per lui, nei
fatti, basterebbe rendere omogenea la legge tra Camera e Senato. Una riformetta
per non avere problemi con gli alleati della coalizione e, soprattutto, da fare
in quattro e quattr’otto per aprire la strada alle elezioni. «La legge
elettorale è un falso problema - fa presente -, basta trasformare il
premio del Senato da regionale a nazionale». Prodi sarebbe anche disposto a
fare piccoli aggiustamenti ma vuole impiegarci molto tempo. Berlusconi li vuole
piccoli, invece, solo per farli presto. Tutti e due, quindi, quando parlano di
legge elettorale pensano ad altro: alla durata del governo. Per dirla con le
parole del Cavaliere l’argomento «è solo un diversivo per guadagnare
tempo». Sarà, ma anche in questa vicenda il Cavaliere rischia di
sbattere la testa contro il muro, come nella crisi che si è chiusa.
E il motivo è sempre lo stesso: perseguendo il sogno delle elezioni
subito, senza munirsi di una strategia alternativa, Berlusconi rischia di
restare fuori dai giochi. Se nella crisi è riuscito a mettere insieme,
facendo insorgere in molti la paura delle urne, i 158 voti che hanno ridato
fiato al governo, sulla legge elettorale rischia di non guidare ma di essere in
balia dei giochi. I segnali già ci sono: mentre lui considera la riforma
elettorale «un falso problema», Casini la considera «un problema» e Fini «il
problema principale». E anche la fedelissima Lega che ha l’ossessione della
legge elettorale ha cominciato ad andare in giro per dire la sua. Lui, il
Cavaliere, ovviamente, alza la voce. In fondo nella sua testa la politica si
riduce solo al rapporto con i cittadini, alla campagna elettorale e, se si
vince, al governo. Non è avvezzo alle tattiche di Palazzo, alle strategie
parlamentari, alle sottigliezze dei piani. Anzi, le rifiuta. Ieri, ad esempio,
ha criticato gli alleati perché non hanno seguito il suo esempio nella crisi,
non hanno chiesto le elezioni: «Loro temevano che chiedendo le elezioni ed
essendo certi che non sarebbero state concesse, avremmo dissuaso quei senatori
della sinistra che avrebbero potuto votare insieme a noi contro il governo.
Questa ipotesi è stata smentita dei fatti e credo che per questa
operazione di politica politicante abbiamo dato l’impressione di non essere
decisi nella direzione unica delle elezioni».
Appunto, nella sua mente tutto quello che «non è semplice» è
«politicante». Lui sa guidare la macchina solo sul rettilineo, non sopporta le
curve. Finché non vede l’orizzonte si ferma sul ciglio della strada, mette in
folle e resta immobile. E pensare che in questo momento l’unico che potrebbe
permettersi due politiche è proprio lui: con Forza Italia che nei
sondaggi è data dal 29 al 33% può essere l’asse di uno dei due
poli del maggioritario, o diventare il partito di maggioranza relativa nel
sistema tedesco; può puntare alle elezioni ma anche essere uno dei
contraenti più influenti nel governo delle larghe intese. Insomma, gli
basterebbe muoversi per togliere spazio agli altri. Potrebbe tranquillamente
far proprio il ragionamento del suo ex-ministro dell’Interno aggiungendo un
piccolo corollario alla sua proposta di riforma elettorale: «La maggioranza di
governo deve essere uguale a quella che approva la nuova legge elettorale,
altrimenti non si va da nessuna parte. Per questo ci vuole un altro governo».
Invece, visto che le «larghe intese» gli fanno venire l’orticaria, il Cavaliere
liquida l’argomento come «un falso problema». E alla fine rischia di essere
come Follini un «puntello» per Prodi: se il primo lo vota direttamente, il
Cavaliere non aprendo a nessuna ipotesi alternativa alle elezioni in caso di
crisi, lo sostiene indirettamente per difendere lo «status quo» nei due poli.
Tutto per un eccesso di prudenza, per la voglia di non osare: «Non navigo verso
l’ignoto - è il suo alibi - senza sapere quali sono i miei compagni e
cosa vogliono».
La vicenda delle intrusioni informatiche
nell'anagrafe della Capitale
ROMA-
Il gup di Roma Enrico Imprudente ha rinviato a giudizio l' ex ministro ed ex
presidente della Regione Lazio Francesco Storace (An) per il cosiddetto
«Laziogate», vicenda relativa ad intrusioni informatiche nell' anagrafe della
Capitale al fine di danneggiare la lista di Alessandra Mussolini in occasione
delle elezioni regionali del 2005.
Il processo inizierà il prossimo 15
maggio davanti al giudice monocratico. Il consigliere comunale romano di An
Fabio Sabbatani Schiuma, inizialmente indagato, è stato invece
prosciolto dalle accuse. Secondo la Procura, uomini di Storace - indagati con
lui per accesso abusivo a sistema informatico - e investigatori privati
avrebbero violato l'anagrafe del Comune di Roma per verificare i dati degli
apparenti sottoscrittori della lista Alternativa sociale (As) di Alessandra
Mussolini, che era in concorrenza con An, accertando diverse
irregolarità e utilizzandole per non far partecipare la lista alle elezioni
amministrative del 2005. Storace ha sempre respinto le accuse.
In precedenza due degli imputati - Gaspare
Gallo, uno dei due detective privati che avrebbe partecipato allo spionaggio, e
Dario Pettinelli, ex addetto all'ufficio comunicazioni esterne della Regione
Lazio - avevano già chiesto il patteggiamento. Nicolò Accame, ex
portavoce di Storace, e Pierpaolo Pasqua, un altro detective implicato nel
presunto spionaggio, avevano chiesto nelle settimane scorse che il caso venisse
trasferito al tribunale di Milano per incompetenza territoriale, ma la
richiesta è stata respinta dal Giudice per le indagini preliminari.
Pasqua e Accame sono infatti imputati anche nel
processo parallelo sullo spionagggio a danni del presidente della Regione Lazio
Antonio Marrazzo e di Mussolini, e hanno dunque chiesto di essere trasferiti
per essere giudicati da un solo tribunale, ma il Gup ha respinto la richiesta
perché i due processi si trovano in due fasi diverse non possono essere
accorpati.
02
marzo 2007
Wall
Street torna nel mirino delle autorità di regolamentazione dei mercati.
Nella giornata di ieri, infatti, 13 manager sono stati incriminati dalla Sec
(la Consob americana) a causa di un vasto giro di insider trading. Sotto i
riflettori, con l'accusa di frode e di false dichiarazioni, alcuni dirigenti
delle note banche d'affari Morgan Stanley, Ubs, Bear Stearns, Bank of America,
oltre ai dipendenti di diversi fondi speculativi. L’ammontare delle operazioni
illegali, secondo le autorità Usa, supererebbe i 15 milioni di dollari.
Quattro delle quattordici persone fermate starebbero già collaborando.
Tra i protagonisti di questo massiccio giro di attività di insider trading,
si sono messi in evidenza il legale di Morgan Stanley Randi Collotta, 30 anni,
e suo marito Christopher, 34 anni; colpiti dall'incriminazione, inoltre,
Mitchel Guttenberg, manager della divisione clienti istituzionali di Ubs, e
Robert Babcok e Ken Okada, impiegati di Bear Stearns.
Secondo l'accusa, le frodi sarebbero partite, nel caso di Morgan Stanley, da
Collotta, che avrebbe avuto accesso a informazioni strettamente riservate
relative a società oggetto di operazioni di fusione e acquisizione;
queste informazioni sarebbero state poi messe a disposizione di alcuni
dirigenti di Bear Stearns e di una società di brokeraggio (il cui nome
non è stato ancora appreso), situata a Boca Raton, in Florida.
Guttenberg, invece, avrebbe informato un altro dirigente incriminato, David
Tavdy, di imminenti revisioni al rialzo e al ribasso operate da Ubs sui rating
di alcuni titoli, prima che i cambiamenti sulle valutazioni divenissero
pubblici. Si sarebbe trattato in particolare di alcuni titoli detenuti da
Tavdy, quali Caterpillar, Goldman Sachs e U.S. Steel. Le informazioni riservate
venivano passate in spesso in incontri apparentemente causali al ristorante o
alla stazione dei treni. La Sec chiederà la restituzione dei profitti
illegalmente accumulati e altre sanzioni. Il Procuratore distrettuale di New
York, invece, intende procedere penalmente con un nutrito pacchetto di accuse,
che vanno dall'insider trading alla frode e cospirazione, fino alle false
comunicazioni.
Iperqualificati,
con qualche sogno in testa e sempre meno pagati. Destinati a emigrare, pur di
evitare la disfatta. I laureati mostrano sul loro volto i segni delle sempre
più acute contraddizioni di un intero paese dove il merito e le
qualifiche non vanno quasi mai di pari passo con le opportunità e i
compensi. Sul loro volto sono sempre più evidenti i segni del disagio
provato di fronte a quella porta, quasi sempre socchiusa, che dovrebbe portarli
al lavoro e alla maturità.
Quando una ragazza o un ragazzo con in tasca la laurea cerca un posto, pare di
vedere un gigante che prova ad entrare attraverso la piccola porticina di una
minuscola casa di lillipuziani. Loro sono tanti mentre sembrano sempre
più inadeguati i posti di lavoro che il sistema economico e il mondo
delle aziende italiane mette a disposizione. Addetti per i call center o
cassieri di negozio che siano. Con il paradosso, che a questo punto pare quasi
logico, che sono proprio i più preparati, quelli che prendono i voti
più alti di tutti a ritrovarsi con il più basso tasso di
occupazione. Tanto che a un anno dalla laurea, trovano lavoro solo quattro su
dieci di quelli che hanno preso 110 e lode. Con la triste constatazione che nel
2006 un laureato guadagna al mese, in termini reali, meno di quanto percepiva
cinque anni fa il fratello maggiore.
Fenomeni conosciuti si dirà, ma il fatto è che quest'anno le cose
sono andate ancora peggio. Tanto che per trovare un impiego non è
neppure sufficiente aspettare un anno. I dati del triste record dicono che dopo
la fatidica laurea, a un anno dal giorno della discussione della tesi, dai
festeggiamenti e dai sorrisi e dalle congratulazioni, trova lavoro solo il 45
per cento dei laureati "triennali" (erano il 52 per cento l'anno
scorso) e il 52,4 per cento dei laureati pre-riforma, ovvero il dato più
basso dal 1999 (vedi
tabella).
I dati sono quelli della nona indagine sulla "Condizione Occupazionale dei
laureati italiani" presentata (vedi
la diretta)
a Bologna da AlmaLaurea, il consorzio interuniversitario a cui aderiscono 49
università italiane. Ed è forse utile sapere che il convegno
prevede per la mattina di sabato (3 marzo) anche una tavola rotonda (la
presentazione e la tavola rotonda possono essere seguite in diretta sul sito di
Almalaurea) che dibatterà su questi temi e a cui parteciperanno anche
Fabio Mussi, il ministro dell'Università, e Cesare Damiano, il ministro
del Lavoro, insieme ad Andrea Cammelli, il direttore di Almalaurea, e il
presidente Crui Guido Trombetti.
Secondo l'indagine, l'instabilità che caratterizzava già molti
degli impieghi degli anni scorsi si è fatta ancora più acuta. Sia
per i laureati "triennali" che per quegli ultimi che stanno uscendo
dal percorso previsto dal vecchio ordinamento. Solo un giovane su tre che ha
conseguito una laurea breve - e ha trovato un impiego - è riuscito a
siglare un contratto a tempo indeterminato. L'anno scorso l'impresa era
riuscita al 40 per cento di loro. Stessa storia per i giovani che hanno
ultimato il percorso di laurea del "vecchio ordinamento", la quota di
chi è riuscito ad avere un contratto stabile è scesa al 38,4 per
cento. Il lavoro atipico dal
C'è poi lo stipendio. Quel sostegno
che dovrebbe permettere alle nuove generazioni di prendere iniziative e
decisioni, di mettere su famiglia, di provare a superare la sindrome di Peter
Pan. Quel sostegno, è sempre più esile. I giovani laureati del
post-riforma si ritrovano in tasca a fine mese solo 969 euro. Meno di quanto
non fosse l'anno scorso (vedi
tabella).
Prendono qualcosa in più i laureati pre-riforma che a fine mese arrivano
fino a 1.042 euro. Poco più dell'anno scorso ma, al netto del costo
della vita, ancora meno di quanto un neolaureato guadagnava cinque anni fa.
Senza dire che l'Italia vanta il minor numero di laureati che lavora a cinque
anni dalla laurea (l'86,4 per cento contro una media europea pari all'89 per
cento). Scorrendo i dati dell'indagine di AlmaLaurea si ricava la triste
conferma che nel cuore delle nuove generazioni, anche lì dove è
opportuno che l'Italia sia più moderna e vicina all'Europa, covano e
crescono le stesse antiche contraddizioni e disparità che gravano da
tempo infinito sul corpo del malato Italia.
Le donne sono meno favorite rispetto agli uomini, hanno un tasso di occupazione
più basso, sono più precarie e guadagnano meno dei loro colleghi
uomini (vedi
tabella).
A un anno dalla laurea lavora il 49,2 per cento delle laureate pre-riforma
contro il 57,1 per cento degli uomini. E il gap salariale nel tempo non fa che
crescere, tanto che a cinque anni dalla laurea le donne guadagnano un terzo
meno di quanto non prendono gli uomini. Quanto alla precarietà a un anno
dalla laurea il 52 per cento delle donne ha un contratto atipico contro il 41,5
per cento degli uomini. E la disparità è ancora più acuta
per le laureate "triennali", visto che solo il 34 per cento delle
donne ha un impiego stabile contro il 48 per cento dei loro colleghi uomini.
Stesso discorso per le disparità territoriali. Nel 2006 sei laureati del
Nord su dieci trova lavoro dopo un anno mentre per le regioni del Sud le cifre
si fermano al 40 per cento. Ovvero le stesse quote nel lontano 1999. Senza dire
che a cinque anni dalla laurea, i giovani del Mezzogiorno prendono 1.167 euro
al mese mentre i ragazzi del Nord arrivano a 1.355 euro al mese.
Non c'è da stupirsi se allora molti di loro non si sentono valorizzati
per quello che valgono e, seppure a malincuore, decidono di muoversi oltre
confine per trovare migliori occasioni. All'estero, lì dove sembrano
trovare rifugio e compenso. I laureati italiani che lavorano fuori dai confini
nazionali, a cinque anni dalla laurea, arrivano a guadagnare quasi 2 mila euro,
ovvero il 50 per cento in più di quanto non accada alla media
complessiva dei laureati. Se non si mette mano a questo problema, se non si
trova un articolato piano per valorizzare i talenti che escono dalle nostre
facoltà, poco si potrà fare per dare slancio al nostro paese.
(2 marzo 2007)
Dalla
borgata Finocchio, via della Bolognetta, periferia degradata a sud di Roma, a
piazzetta Cuccia, nel palazzo secentesco di Mediobanca, tempio milanese
dell'alta finanza italica; dall'istituto privato per scolari un po' testoni
"Pio XII" di Torpignattara, al Lingotto, santuario torinese della
Fiat, accanto ai Canaletto e ai Gustav Klimt collezionati in una vita da Gianni
e Marella Agnelli.
Dalle palazzine giallonerastre della Tuscolana e della Romanina, al felliniano
Grand Hotel di Rimini. Breve ma intenso, assai poco felliniano, è
l'Amarcord di Danilo Coppola, azionista di Mediobanca, proprietario, tra
l'altro, di un pezzo di Lingotto e del Grand Hotel riminese, detto "Er
Cash" per lo smodato uso di contanti, o "Palazzinaro con la
pistola" per il disinvolto maneggiare delle armi da fuoco, da quando
sparò per spaventare degli zingari che lo disturbavano in un ghetto di
periferia.
Danilo, dagli altari, è finito ieri in una cella di Regina Coeli - forse
nei pressi di quella che ha ospitato a lungo il suo collega furbetto Stefano
Ricucci - con l'accusa di bancarotta, associazione per delinquere e
riciclaggio. Sic transeat gloria mundi, per dirla con San Paolo. Così la
gloria, scema per un ragazzo di borgata neanche quarantenne,
"tricologicamente scorretto", come è stato definito, peccato
francamente alquanto veniale rispetto a quelli più seri che gli vengono
addebitati per la criniera lunga e liscia che gli copre le spalle.
Il giovanotto è riuscito per un po' a far credere alle banche, della cui
ingenuità fortissimamente dubitiamo, e a questa Italia abituata in ogni
dove alle scorrerie dei lanzichenecchi della finanza, della politica, della
cultura e anche dello spettacolo, di essere diventato in un battibaleno uno
degli uomini più ricchi d'Italia, con un patrimonio di tre miliardi e
mezzo di euro, diconsi settemila miliardi di vecchie lire. Può un figlio
di borgata, col papà Paolo impiegato morto di ictus poco più che
sessantenne e con la mamma Francesca che non più di vent'anni fa vicino
al bar "Billi" inscatolava le alici per arrotondare il bilancio di
casa, aver scalato la ricchezza e il potere nell'arco di tempo in cui i figli
della borghesia benestante impiegano a studiare e a trovare, forse, un posto da
1500 euro al mese ?
Può darsi che per realizzare il "sogno americano" serva
nascere intelligenti e determinati alla borgata Finocchio. Ma, se vogliamo,
è più probabile che in borgata si trovino con meno
difficoltà le "pudenda" di un capitalismo prima asfittico e un
po' ottuso, oggi, per molti versi, di speculazione, d'avventura, di collusione,
quando non di di riciclaggio. Niente di nuovo, per la verità. Trent'anni
fa a salvare l'Italia dal disastro sindoniano, che era cominciato con la
Generale Immobiliare, fu chiamato dal potere democristiano incarnato allora da
Ferdinando Ventriglia, un manipolo di palazzinari romani di cui oggi neanche si
ricordano i nomi.
E Salvatore Ligresti, che mai incarnò la lucentezza di un capitalismo
delle regole e delle responsabilità, fu per anni la sponda di Enrico
Cuccia, che familiarmente chiamava il suo corregionale siciliano "don
Salvatore". Nel caso Ambrosiano-Calvi, che finì con l'impiccagione
del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, erano coinvolti insieme
il Vaticano, lo Ior, e la banda della Magliana, con faccendieri che sono ancora
attivamente sulla piazza.
Con "Er Cash" è stato arrestato Luca Necci, ex cognato di
Ricucci, un dettaglio che "ad abundantiam" ricongiunge i fili del
capitalismo delinquenziale che negli anni del berlusconismo - per
carità, non che anche prima non fosse capitato - ha spadroneggiato,
nella convinzione di poter violare tutti i santuari del potere, compresa la
"magnifica preda" del Corriere della Sera. Ma tra i "bad
boys" di borgata che hanno messo a ferro e fuoco la finanza negli ultimi
anni non sono state sempre rose e fiori.
Chi ha assistito o avuto eco diretta di qualche riunione dei
"concertisti" durante la scalata fallita dei furbetti alla Banca
Nazionale del Lavoro, racconta del crinierato della borgata Finocchio che
attacca il collega ex odontotecnico di Zagarolo definendolo - pensate un po' -
"inaffidabile", mentre quello inveiva contro chi voleva "fa'er
frocio col culo degli altri".
A Danilo Coppola, che pare nulla abbia a che fare col parzialmente omonimo
Frank Coppola detto "Tre dita", il mafioso che per anni fu in
soggiorno obbligato a Pomezia e che di lì pilotò molti affari
immobiliari a Roma e nel Lazio, di carattere non ne manca. Quando compra 170
milioni di azioni della Bnl, Diego Della Valle lo invita a prendere un
tè all'Hotel Eden di Roma e più o meno gli dice: caro signore,
quello che lei ha speso per la Bnl oggi vale il doppio, per cui si è
fatto un bel gruzzolo, perciò lo monetizzi, per favore, se ne vada,
perché uno come lei nel consiglio d'amministrazione della banca non
entrerà mai.
"E che sono io, uno straccione ? Lei è sicuro di essere più
ricco di me ?", gli risponde il crinierato e, preso dall'indignazione del
parvenu rifiutato, un sentimento che tanti guai ha procurato a questo paese
determinando persino la "scesa" in politica di Silvio Berlusconi, si
compra il 4 per cento di Mediobanca, di cui nei giorni scorsi ha ceduto la metà
per 50 milioni di euro. Il suo faro di vita, come spesso confida, è
Francesco Gaetano Caltagirone, che nelle stanze del potere è entrato,
eccome, per ricchezza, per abilità e per parentele politiche acquisite.
Ma soprattutto per gli investimenti nei giornali: Il Messaggero, Il Mattino, Il
Gazzettino. Quello è il modo per rifarsi una verginità. Ma il
"Corriere" è il boccone impossibile di quel velleitario
spaccone di Ricucci e di tutti quelli che lo proteggevano nel giro stretto
berlusconiano e della Casa della libertà, che dal banchiere di Lodi
Gianpiero Fiorani hanno succhiato, a quanto pare ai magistrati, tangenti per
una cinquantina di milioni di euro: non solo il povero Luigi Grillo, l'ex
democristiano ligure organizzatore della lobby pro Antonio Fazio durante la
partita Antonveneta, ma anche i ruspanti leghisti e il ricco bibliofilo siculo
Marcello Dell'Utri, l'inventore di Forza Italia, che nelle vicende dei
"bad boys" del capitalismo straccione ha un suo ruolo non di secondo
piano.
I figli non hanno le colpe dei padri, per carità. Ma sapete chi
distribuì il film da Oscar della signora Ricucci, alias Anna Falchi ? Un
certo Jacopo Dell'Utri, figlio del sullodato. Allora - si dice Coppola - se il
"Corriere" è impossibile cominciamo dal basso: da quell'accrocco
editoriale messo insieme da Osvaldo De Paolini, giornalista noto soprattutto
per la personale esperienza borsistica, e dai suoi soci, compreso il direttore
editoriale Gianni Locatelli, ex direttore del "Sole 24 Ore" ed ex
direttore generale della Rai, incorso qualche anno fa, con alcuni suoi
colleghi, nell'increscioso incidente Lombardfin. Così "Er
Cash" sborsa 12 milioni o giù di lì per acquisire il 18 per
cento di un'impresa editoriale semiclandestina. Licenzia i commercialisti di
borgata e si affida al superstudio torinese dei Segre.
Ma non bastano i Segre, il Lingotto, Mediobanca, la Roma Calcio, il piccolo
scudo di stampa con i giornaletti finanziari, il palazzo affittato
all'Antitrust, a esorcizzare il turbillon inquietante di società nazionali
o esterovestite governate spesso da baristi e studenti ignari, la
contiguità antica con il commercialista della cosca Piromalli, Roberto
Repaci, i trascorsi affari con Giampaolo Lucarelli, l'ombra di Enrico
Nicoletti, boss della banda della Magliana.
L'impero di cartone forse è al capolinea. Chissà se lo è
pure il giocarello del clan dei neopalazzinari, ribattezzati immobiliaristi - i
Coppola, i Ricucci, gli Statuto, i Zunino, ma anche altri, come lo stampatore
Vittorio Farina, assistito da personaggi che troviamo già tre lustri fa
nelle cronache di Tangentopoli - che con un vorticoso giro di vendite,
acquisti, riacquisti, rivendite, di scambi e controscambi, drogano il mercato
immobiliare in una bolla gonfia di nulla, creando i fondi virtuali per l'assalto
al cielo del capitalismo. Il tutto fiorente sulle fumanti "macerie della
politica", come diciamo non noi, ma il ministro dell'Interno Giuliano
Amato.
(2 marzo 2007)
Mentre gli italiani dividevano la loro
attenzione tra le aule parlamentari, dove si svolgeva il dibattito sulla
fiducia al governo, e il Festival di Sanremo, una tempesta finanziaria si
abbatteva sull’economia mondiale. Una correzione del piccolo mercato
finanziario di Shanghai, del tutto naturale dopo un lunghissimo rialzo, ha
innescato una caduta, ben più allarmante, delle borse americane ed
europee. Il che costituisce un possibile preludio a un rallentamento più
forte del previsto del «motore americano» dell’economia globale, mette fine a
un’atmosfera di eccessivo ottimismo economico sul 2007 e conferisce maggiori
responsabilità all’Unione Europea e ai governi dei Paesi che ne fanno
parte nel contrastare le tendenze di instabilità che stanno venendo dal
resto del mondo.
Sopravvissuti al dibattito sulla fiducia e al Festival di Sanremo, il governo e
gli italiani dovranno fare i conti con questa situazione mutata in cui,
però, l’economia italiana sta andando un po’ meglio di quanto
generalmente ci si aspettava. Le cifre rese note ieri mostrano risultati
soddisfacenti per il deficit pubblico (al netto di elementi negativi che,
essendo una tantum, non si ripeteranno nel 2007); la ripresa produttiva, pur
modesta - e gonfiata anch’essa da qualche elemento occasionale, come
l’anticipazione degli ordini dalla Germania prima dell’aumento dell’Iva tedesca
il primo di gennaio -, si è irrobustita; l’inflazione si mantiene sotto
il livello di guardia del 2 per cento, anche se molti italiani continuano a
essere convinti che si collochi a livelli più alti.
Se le cose continuano così, e se la congiuntura mondiale non peggiora
troppo, questo governo a maggioranza debole potrebbe disporre di possibilità
concrete di incidere sull’economia maggiori di quelle di tutti i governi degli
ultimi dieci-quindici anni, assai più forti in termini di maggioranza,
la cui progettualità è stata schiacciata da un deficit pubblico
paralizzante. Le possibilità di scelta riguardano non solo la politica
economica ma anche la politica industriale.
Al di là dei problemi pensionistici, sui quali permane molta incertezza,
le possibili opzioni di politica economica sono già in parte emerse nei
dibattiti dei giorni scorsi. Sarebbe meglio restituire qualcosa ai contribuenti
italiani, soprattutto quelli con minor reddito, infilando qualche «soldino»
addizionale nelle buste paga più leggere, oppure utilizzare queste
risorse per avviare o accelerare qualche grande progetto che sta andando al
rallentatore per carenza di fondi? È facile immaginare che l’ala
sinistra della maggioranza eserciterà pressioni per la prima
alternativa, che, tra l’altro, può produrre qualche effetto di stimolo
immediato sull’economia nel breve periodo mentre dall’altra parte verrà
manifestata una predilezione per progetti di più lunga durata che ne
migliorino la competitività futura. Naturalmente non esiste una
decisione «giusta», una formula perfetta, ma da queste scelte sotto incertezza
può dipendere gran parte dello sviluppo futuro del Paese. Nelle scelte
di politica industriale il governo si trova al centro di un crocevia di
decisioni che riguardano in primo luogo le grandi imprese di cui lo Stato
detiene ancora, direttamente o indirettamente, il controllo o che può
influenzare, anche se private, con i suoi poteri di determinare tariffe e norme
di vario tipo. La sorte ha fatto sì che si tratti di alcune delle
decisioni più importanti che un governo italiano ha dovuto prendere in
tempi recenti.
Toccherà al governo stabilire, in primo luogo, la sorte di Alitalia dove
le alternative sembrano essere l’ingresso in un gruppo estero in posizione
subordinata oppure un futuro indipendente ma con una rete di voli dimagrita.
Sul tavolo del governo ci sono poi il miglioramento dei rapporti con la Spagna
che hanno visto l’Enel acquistare in questi giorni un quarto della consorella
spagnola Endesa, apparentemente per aiutarla a difendersi dalle non gradite
proposte di acquisizione della tedesca E.On, e che potrebbero indurre il
governo a rivedere l’opposizione alla fusione tra Autostrade e la spagnola
Abertis; e qualche voce in capitolo il governo sicuramente avrà sulle
possibili intese tra Telecom e la spagnola Telefónica. Vi è infine il
capitolo Eni, e l’applicazione delle intese con la russa Gazprom che potrebbe
portare ad acquisizioni petrolifere in Russia.
Il rinnovo della fiducia ottenuto dal Parlamento significa la conferma a Prodi
e ai suoi ministri del pieno mandato di occuparsi e in molti casi di decidere
autonomamente su tutte queste questioni. Il governo con la maggioranza
più piccola dei tempi recenti si troverà a prendere alcune delle
decisioni più grandi.
mario.deaglio@unito.it
Non
si possono ridurre le tasse solo per alcuni settori, Prodi ne prenda atto
"Assicurazioni e banche discriminate Bruxelles porrà fine a
un'ingiustizia" ROMA - "Il problema andava risolto subito, in ottobre
quando lo sollevammo. Ma siamo ancora in tempo. Non solo. Non ci risulta che la
Commissione stia considerando in modo differenziato banche e assicurazioni
rispetto agli altri settori". Giampaolo Galli, direttore generale
dell'Ania, la Confindustria della assicurazioni, non aveva dubbi che
sull'esclusione di compagnie e banche dai benefici della riduzione del cuneo
fiscale (la differenza tra il costo del lavoro e quanto entra in busta paga
n.d.r.), la Commissione europea avrebbe bacchettato l'esecutivo Prodi. Perché
il governo vi ha lasciato fuori? Vi ha dato una motivazione? "Non ce la
diede in ottobre e ancora oggi non abbiamo chiarimenti. Certo si può
comprendere quale sia stato il ragionamento, basta leggere le dichiarazioni di
alcuni esponenti del centrosinistra: dare una mano alle imprese manifatturiere,
quelle più in difficoltà soprattutto sui mercati esteri. Ma
è una motivazione che non sta in piedi. Un paese può ridurre le
tasse, ma non può decidere di diminuirle solo per alcuni settori o per
alcune regioni, si trasformerebbero in aiuto di stato, in violazione articolo
87 del trattato comunitario. Mario Monti quando era commissario alla
Concorrenza fece una battaglia durissima contro gli aiuti di Stato e non mi
sembra che l'attuale presidente della Ue, Barroso e i Commissari alla
Concorrenza e al Mercato interno abbiano posizioni diverse, anzi". Il
ministro Bersani ieri ha difeso la selettività dell'intervento, ma ha
anche aggiunto che si tratta di problemi tecnici, risolvibili. "Il solo
modo di risolvere il problema è estendere i benefici a tutte le imprese.
Non c'è altra via. L'intervento sul cuneo fiscale è una misura
sacrosanta: la differenza tra il costo del lavoro italiano e quello degli altri
paesi è elevato. Ma anche noi, come gli altri, competiamo sui mercati
internazionali. Non solo. Come compagnie siamo sottoposte alle pressioni dei
consumatori che chiedono giustamente premi inferiori. Non si capisce perché
dovremmo venire escluse". Avete fatto dei conti per capire quale potrebbe
essere il risparmio? "No, ma per noi è una ragione di principio. Le
nostre imprese vanno riga per riga sui bilanci per non pesare sui consumatori.
Il costo dei premi è diventato un problema sociale, ci stupisce dunque
che quando si affaccia la possibilità di intervenire per ridurre i costi
e dunque i premi le imprese assicurative vengano tagliate fuori".
Nei tumultuosi giorni della prima crisi del
governo Prodi, e anche dopo, con il rinvio alle Camere e il decisivo voto di
fiducia al Senato, i dodici punti fissati dal premier come condizione
necessaria per il rilancio del governo hanno fatto discutere più per le
omissioni che per il contenuto stesso del cosiddetto dodecalogo. L’attenzione
maggiore è stata rivolta alla mancanza dei Dico, vista anche la tensione
nei rapporti tra Stato e Chiesa, ma questo non vuol dire perdere di vista gli
altri punti salienti del programmone di 281 pagine presentato agli elettori.
Per questo motivo, allora, ci auguriamo che la maggioranza porti avanti quanto
previsto sulla riforma del sistema radio-tv (che significa innanzitutto
abrogare la Gasparri) e sulla soluzione del conflitto d’interessi del
Cavaliere. Il timore, infatti, è che l’esclusione di questi due temi dai
dodici punti prodiani (che prefigurerebbero secondo qualcuno una dittatura del
premier) lascino in sospeso questioni essenziali per la vita democratica del
paese.
A onore del vero, ieri il ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, sollecitato
in merito, ha dichiarato che il suo ddl su pubblicità e digitale
andrà tranquillamente avanti in Parlamento, con o senza la citazione nel
dodecalogo. In questo caso, però, valgono le stesse preoccupazioni che
abbiamo per i Dico: c’è una volontà reale della maggioranza di
chiudere queste pratiche aperte? Certo, sullo sfondo, rimane sempre il pericolo
dei numeri di Palazzo Madama, ma questo non significa abbandonare l’ambizione
di cambiare un po’ questo paese stravolto dal berlusconismo. Anche perché, come
si sente dire in molti ambienti dell’Unione, in primis dalla Quercia, sarebbe
arduo ripresentarsi agli elettori senza aver messo mano alla riforma del
sistema radiotelevisivo e al fatidico conflitto d’interessi che questo paese si
trascina avanti da quasi tre lustri. Se lo ricordi, Prodi.
Il costruttore azionista anche di Mediobanca in manette con l'ex cognato di Ricucci e altri 6 collaboratori. Sequestrati 70 milioni in titoli e azioni
M
INCHIESTA ROMANA - Le misure chieste dai
pm della Procura di Roma, Giuseppe Casini e Lucia Lotti, sono emesse dal gip
Caivano. L'indagine avrebbe messo in luce il fallimento di alcune
società del Gruppo che poi sarebbero state abbandonate creando un «buco»
contabile che si aggira sui 130 milioni di euro. A questa somma vanno aggiunti
altri 72 milioni di mancato versamento di imposte, di cui 40 relativi all'Iva e
il resto alle imposte dirette. Le Fiamme Gialle stamani hanno sequestrato 70
milioni di euro in titoli e azioni riconducibili alle società della
galassia di Coppola. Fra le azioni sequestrate ci sono anche lo 0,10% di azioni
Mediobanca e una quota azionaria della Roma Calcio e della società Ipi
di Torino. Si tratta di un sequestro preventivo.
ARRESTI - Oltre all'immobiliarista romano, al
cognato Necci e all'ex cognato di Ricucci, Bellocchi, sono stati arrestati,
sempre per le medesime accuse, Andrea Raccis, Giancarlo Tumino, Gaetano
Bolognese, Daniela Candeloro e il suo legale di fiducia Alfonso Ciccaglione: tutti
collaboratori o intestatari di società di Coppola.
AFFAIRE BNL- Coppola aveva acquisito
notorietà per essere stato citato come uno degli immobiliaristi romani
che hanno beneficiato di plusvalenze notevolmente elevate dalla cessione di
azioni Bnl alla Unipol (fino al 25% del valore iniziale). Da quella cessione il
Gruppo Coppola aveva incassato una plusvalenza molto rilevante che ha
reinvestito nell'acquisto della maggioranza dell'Ipi, società quotata
dalla fiorente attività («400 milioni di utili previsti per il 2008»
aveva pronosticato al Corriere) il cui titolo oggi è stato sospeso in
Borsa.
INDAGATO ANCHE A TORINO-
Proprio per la vendita di alcuni edifici della società Ipi, vendite
dalle quali sarebbero state ricavate cospicue plusvalenze, nei giorni scorsi
Coppola è stato indagato anche dalla procura di Torino. L'ipotesi di
reato è aggiotaggio informativo. Coppola è noto a Torino
soprattutto per le sue acquisizioni immobiliari, in particolare quelle del
Business center e del polo alberghiero sorti sull' area dell' ex stabilimento
del Lingotto. L'immobiliarista romano, nei giorni scorsi ha ridotto la sua
partecipazione in Mediobanca dal 4,57% a poco più del 2% ottenendo
plusvalenze che sarebbero state calcolate nell'ordine di 50 milioni di euro.
INDAGATO A M
IL FURBETTO NEI SALOTTI DELLA FINANZA - La
carriera di Copppola e la sua scalata ai salotti buoni è partita nel
2003. Dopo essersi comprato il 3% della banca Bnl,Coppola chiedeva un posto nel
consiglio di amministrazione di via Veneto per sentirsi rispondere: «Non ci
sono posti liberi». Da quel giorno l'oggi quarantenne romano non ha più
smesso di far parlare di sé. In pochi mesi infatti, Coppola è diventato
uno dei protagonisti del risiko bancario, del mondo italiano della finanza. Ma
anche dell'editoria con le voci di una scalta a Rcs che hanno tenuto banca
nell'estate 2005 e l'ingresso con il 18% nel capitale di «Editori per la
Finanza», il gruppo a cui fa capo Finanza e Mercati. Una fortuna costruita sul
mattone, se si pensa che dei 3.500 milioni di euro dichiarati nel 2005 dal suo
gruppo 2.378 consistono in beni immobiliari che ha visto Coppola faremo molta
strada, a partire da Via Bolognetta, nella borgata Finocchio, periferia sud-est
di Roma in cui è nato nel 1967. Quel 3% di Bnl è diventato un
4,9%.
Poi è arrivata la partecipazione, attraverso 2 società
controllate dalla holding lussemburghese Sfinge (capogruppo italiana è
la Dacop), in Interimmobiliare. Poi, ancora, l'ingresso nella AS Roma di Franco
Sensi, di cui Coppola detiene il 2,5% ma che, soprattutto, ha contribuito a
salvare comprando dallo stesso Sensi il famoso Hotel Cicerone.
ALBERGHI - Quella degli alberghi, comunque,
appare una vera e propria passione del giovane immobiliarista-finanziere: il
fiore all'occhiello del suo impero (stimato in un volume d'affari vicino ai 300
milioni di euro e ad un portafoglio immobili di oltre 500) è il Daniel's
di via Frattina, a due passi da Piazza di Spagna. Ma anche quel pezzo di
Amarcord italiano, conquistato l'anno scorso: il Grand Hotel di Rimini, albergo
simbolo di una città, di una delle capitali delle vacanze italiane, caro
a Federico Fellini. A Milano il gruppo Coppola ha in corso un mega-progetto di
riqualificazione immobiliare dell'area di Porta Vittoria. Gli ultimi passi, in
ordine di tempo, di Coppola verso la consacrazione nel mondo dell'economia e
della finanza che contano riguardano l'acquisizione, dal gruppo Zunino, del 65%
di Ipi (valore dell'operazione 185 milioni di euro) e della Lingotto Spa, di
cui è diventato il primo azionista con oltre l'80% del capitale. E,
ancora, la tentata scalata a Rcs all'inizio dell'estate del 2006 quando
l'immobiliarista dichiarò l'interesse a un ingresso, poi smentito dai
fatti dopo mesi di voci, a fine estate. Il ruolo di Coppola, passato alle
cronache come appartenente a quei 'furbetti del quartierinò che hanno
tenuto banco negli ultimi anni, è anche legato al Tempio della Finanza
italiana: Mediobanca dove l'immobiliarista romano è arrivato a sfiorare
il 5% (4,68%) - asserendo comunque di non avere interesse ad entrare nel cda -
per poi scendere, la comunicazione è proprio di ieri, al 2,17%. La mappa
delle società riconducibili a Coppola è piuttosto fitta. La
regia, in mano a tre fiduciarie lussemburghesi, Keope, Sfinge e Tikal Plaza
mentre la società capogruppo in Italia si chiama Pacop, amministrata
dalla cognata, Lucia Necci, cui si accompagnano tre S.p.a., Gruppo Coppola, Tikal
e Ipi.
01 marzo 2007
Lo scienziato continua a immaginare come sarà il
nostro prossimo futuro. Nel 2090, per esempio...
Dal
prossimo numero in edicola di Newton
Sir
Arthur C. Clarke, inglese del Somerset, 90 anni a dicembre, vive dal
Lei
è universalmente famoso per tre motivi: 1) È stato l’inventore
nel 1945 della famosa Orbita di Clarke che ha reso possibili i satelliti per
telecomunicazioni; 2) Ha progettato l’ascensore spaziale, con cui in futuro i
razzi potranno decollare dall’orbita terrestre e non più dal nostro
Pianeta; 3) È l’autore di 2001, il film più visionario,
più bello, più complesso e più metafisico dedicato
all’evoluzione dell’umanità, al suo passato e al suo futuro, immediato e
lontanissimo. Quale delle tre qualifiche le piace di più?
Sono felice e riconoscente all’umanità che mi considera l’inventore dei
satelliti per telecomunicazioni e il principale proponente dell’ascensore
spaziale. Ma preferirei essere ricordato come un bravo scrittore.
In
una delle scene più famose di «2001» la scimmia, guardando la Luna,
scaglia un osso per aria. Cosa rappresenta per lei quell’osso: un simbolo di
potere, uno strumento di comunicazione o la nascita della tecnologia?
Può essere visto in tutti e tre i modi. Sono ormai passati 40 anni da
quanto Stanley Kubrick e io realizzammo «il proverbiale buon film di
fantascienza» e non ricordo più tutto ciò che era alla base di
ogni nostra decisione creativa. La sequenza dell’osso è rimasta famosa
anche per essere il flash–forward più lungo del cinema, circa tre
milioni di anni, tra la scimmia, chiamata «Moonwatcher» [l’osservatore della
Luna] e l’anno 2001. Daniel Richter, il mimo che interpretava la scimmia, ha
scritto un libro di memorie su questa sequenza.
A
proposito di evoluzione. Oggi attraverso la scienza e la tecnologia possiamo
guidare quella delle specie terrestri, compresa la nostra. Ciò si
può ancora considerare un percorso naturale, dato che la scienza
è comunque un prodotto dell’evoluzione della specie umana?
La colonizzazione dello spazio è il prossimo passo logico nella nostra
evoluzione come specie. È il grande passo successivo a quello che
portò i nostri antenati, quando erano pesci, a trasferirsi dal mare
sulla terraferma. Immagini un pesce tradizionalista che, un miliardo di anni
fa, diceva ai suoi parenti divenuti anfibi: «La vita sulla terraferma non
è paragonabile a quella marina. Noi stiamo bene quaggiù dove ci
troviamo». E così fecero i pesci, e sono rimasti pesci. I nostri
discendenti che vivranno sulla Luna e su Marte certamente visiteranno la Terra
ogni tanto, indossando degli esoscheletri per far fronte alla sua schiacciante
gravità, e maschere antigas per filtrare gli innumerevoli cattivi odori
che il nostro Pianeta ha imparato a generare nel corso della sua storia di milioni
di anni. Ma non credo che desidereranno vivere qui permanentemente.
Cosa
troverebbe più eccitante, scoprire una civiltà aliena
nell’universo oppure l’evidenza che in tutto il cosmo non ci sono altre forme
di vita, lasciando così ai soli terrestri il ruolo di «sentinelle dello
spazio»? Concordo con quanto disse l’astrofisico
Carl Sagan: «Siamo soli nell’universo o non lo siamo: in entrambi i casi la
nostra mente resta confusa». Personalmente non ho dubbi che l’universo brulichi
di vita. Una delle mie speranze segrete è trovare un segno, qualsiasi
segno, di alieni nel corso della mia vita. Preferirei un segno di vita
intelligente, ma metterei la firma anche per trovare un segno di vita
batterica. D’altra parte, può anche darsi che una civiltà
intelligente abbia deciso di evitare qualsiasi contatto con noi, viste le
condizioni disperate in cui abbiamo ridotto il nostro mondo. Chi lo sa, noi
terrestri potremmo anche essere stati messi in una «quarantena galattica»!
Pensa
davvero che l’umanità alla fine del suo cammino possa trasformarsi in
pura energia, come accade nel suo 2001?
Trasformarsi in pura energia è un modo per sottrarsi alla tirannia della
materia e io mi figuro tranquillamente degli esseri realmente avanzati che
stanno valutando i pro e i contro di una loro trasformazione in energia. Certo,
non saranno più in grado di godere di alcuni piaceri del mondo
materiale, ma quando tutto diventa uno stato mentale a chi importa più?
Tornando
alla nostra condizione di terrestri degli anni appena successivi al 2001, dopo
la radio, i satelliti e i telefoni cellulari quale potrà essere il
prossimo passo nelle telecomunicazioni?
Credo molto nei sistemi di riconoscimento vocale per i computer e altri
dispositivi, anche per il loro valore sociale perché potrebbero essere usati
pure dagli analfabeti. Oggi esistono però ancora delle limitazioni:
vanno bene se ci si trova da soli, ma pensi al caos di un ufficio in cui tutti
parlano alle macchine. Inoltre il software dovrà far fronte all’enorme
differenza di accenti con cui una stessa lingua viene parlata. Non posso fare a
meno di citare un episodio accaduto qualche anno fa, mentre tentavo di
insegnare a un computer a riconoscere la mia voce. La frase «bisogna andare in
aiuto del partito» [the party in inglese] diventò «bisogna andare in
aiuto dell’apartheid», un esempio lampante del «politicamente scorretto».
Pensa
realmente, come ha previsto in 3001: L’odissea finale, che in futuro saremo in
grado di immettere o scaricare direttamente le informazioni nel nostro cervello
collegandolo a un dispositivo esterno? Sì, il
traguardo ultimo dei dispositivi input–output sarà la possibilità
di scavalcare tutti i sensi dell’organismo umano e inviare segnali direttamente
nel cervello. Come ciò si possa fare con esattezza lo lascio ai biotecnologi;
per parte mia in 3001 ho descritto il braincap [una calotta da collocare sulla
testa che fa appunto da interfaccia tra il cervello e un computer, ndr].
L’adozione diffusa del dispositivo potrà essere ritardata dal fatto che
per indossarlo bisognerà probabilmente raparsi a zero. Così, la
produzione di parrucche potrà diventare un grande business tra pochi
decenni.
Quando
uscì 2001, comunque, il computer HAL [che alla fine si impadronisce
dell’astronave e uccide tutti gli astronauti tranne il protagonista Bowman, il
quale riesce a disinnescarlo dopo una battaglia psicotecnologica] divenne il
simbolo della macchina che supera l’uomo e domina il mondo. Questo timore,
molto diffuso all’epoca, oggi non esiste più. Perché secondo lei?
Dobbiamo ringraziare per questo un po’ di persone, come Steve Jobs e Bill
Gates. Da quando i computer sono diventati più facili da usare e
più accessibili, paure del genere sono svanite. I computer hanno poi
introdotto nel nostro linguaggio parole e frasi che sarebbero state assolutamente
prive di senso solo pochi decenni fa. I suoi nonni avrebbero mai capito un
grido di dolore del tipo: «Il mio laptop si è crashato»? E che avrebbero
pensato ascoltando termini come «megabyte», «hard drive» e «Googling»?
C’è poi un altro esempio di una frase familiare che ha cambiato
completamente il suo significato: cosa avrebbe pensato una donna dei primi anni
del ’900 se le avessimo detto che suo nipote avrebbe trascorso la maggior parte
della giornata, a casa e al lavoro, «fondling a mouse » cioè
«maneggiando un topo»?
Ma
l’informazione elettronica finirà per uccidere la stampa?
Non lo credo. La scomparsa della stampa venne già predetta con l’arrivo
della radio e della televisione, ma ciascuno dei nuovi mezzi di comunicazione ha
trovato un suo posto e noi stessi non abbiamo buttato i nostri libri. Questo
mezzo vecchio–stile ha infatti ancora spazio in mezzo ai siti Web, i
videogiochi, le comunicazioni mobili e altre tentazioni. Senza dubbio, la sfida
è cercare di attrarre quanti si sono abituati alla gratificazione
istantanea derivante dai mezzi di comunicazione interattivi, ma la lettura di
un libro resta insostituibile. L’industria editoriale dovrà cercare
nuove direzioni ma non credo proprio che la stampa scomparirà.
Come
vede il futuro della Terra? Lei è stato l’unico a considerare uno
tsunami come una delle minacce naturali più gravi per il nostro Pianeta.
In 2010: Odissea due lei previde per il 2005 un gigantesco tsunami nel
Pacifico. Si sbagliò solo di cinque giorni e qualche migliaio di
chilometri rispetto a quello reale. Perché questo tipo di catastrofe è
stato sempre così poco considerato da scienziati e scrittori? I
Paesi del Pacifico hanno sempre convissuto con gli tsunami, ma solo quello
dell’Oceano Indiano nel
01
marzo 2007
Il Riformista 1-3-2007 Bush apre
alla Siria, il Mossad ringrazia di Anna Momigliano
Il Secolo XIX 1-3-2007
"Città partecipata" contro i politici che mentono
Dubbi
della sul taglio selettivo dell'Irap, il governo studia le modifiche. Secondo
la Ue aziende come Eni, Enel, Autostrade, non dovrebbero restare fuori
I
benefici potrebbero essere estesi ma escludendo il fatturato in regime
tariffario. Ma il costo sarebbe alto: un miliardo solo nel 2008
BRUXELLES - Il cuneo fiscale potrebbe cambiare volto. Dopo un primo round di
contatti informali con il governo, la Commissione europea non è del
tutto convinta dalla misura contenuta in Finanziaria: al centro dei dubbi di
Bruxelles la selettività degli sgravi fiscali che, escludendo alcune
aziende, potrebbe costituire un aiuto di stato illegittimo. E se il
provvedimento non è certo a rischio cancellazione, nella sua versione definitiva
potrebbe essere modificato premiando parte delle imprese ad oggi escluse, come
i giganti dell'energia e delle telecomunicazioni.
Il confronto sull'asse Roma-Bruxelles ha avuto inizio con la cosidetta
pre-notifica da parte del governo alla commissaria Ue alla Concorrenza, Neelie
Kroes. Dopo un primo studio informale delle carte, i tecnici europei hanno
chiesto una serie di chiarimenti all'Italia, non convinti dalla
selettività dell'intervento che esclude banche, assicurazioni, imprese
che operano su concessione o su tariffa nei settori dell'energia, acqua,
trasporti, infrastrutture, poste, telecomunicazioni, raccolta e depurazione
acque e rifiuti. Se per motivi di coerenza con la fiscalità generale
l'esclusione di banche ed assicurazioni non ha suscitato perplessità, a
non convincere l'Ue è invece l'aver lasciato fuori dal perimetro degli
sgravi Irap grandi aziende come Autostrade, Eni, Enel e Telecom.
Una serie di dubbi che i tecnici della Commissione europea hanno sollevato ai
colleghi italiani in due incontri informali e che la stessa Kroes, sebbene in
modo sfumato, ha comunicato al premier Romano Prodi nel loro incontro di otto
giorni fa a Roma ("stiamo studiando le carte, aspettiamo dei
chiarimenti", è la sintesi di quanto detto dalla commissaria
olandese a Palazzo Chigi). E proprio i chiarimenti - termine soft usato finora
per esprimere i dubbi - dovrebbero arrivare martedì prossimo a Bruxelles
in occasione di un nuovo incontro tecnico ad alto livello tra i rappresentanti
della Commissione e un team formato dagli uomini della presidenza del
Consiglio, del ministero dell'Economia, del Lavoro e delle Politiche
comunitarie. Occasione in cui il governo potrebbe presentare anche una
soluzione per cancellare la selettività dal provvedimento.
Estendere il cuneo fiscale alle aziende di pubblica utilità escluse,
solo nel 2008 potrebbe costare quasi un miliardo di euro (20% rispetto ai soldi
originariamente stanziati). Un costo non proibitivo, ma che i ministeri
interessati vorrebbero evitare, o per lo meno ridurre. E una delle ipotesi al
momento più quotate per venire incontro alle richieste di Bruxelles e
risparmiare qualche centinaio di milioni, prevede di estendere il cuneo alle
imprese in questione, ma escludendone la parte del fatturato che deriva dal
business condotto in regime tariffario. Una sorta di compromesso che potrebbe
venire messo sul tavolo martedì dai tecnici italiani, al momento al
lavoro per definire i criteri in base ai quali calcolare le parti di fatturato
a cui non concedere gli sgravi.
Fonti del ministero dell'Economia hanno confermato che il dossier è
molto complicato e che è necessario svolgere un confronto con l'Ue a 360
gradi, in particolare sul punto della selettività su cui a Bruxelles
"hanno chiesto informazioni". Una parziale ammissione delle
difficoltà incontrate in sede europea che però non scalfisce la
convinzione di riuscire ad ottenere l'autorizzazione "in tempi brevi"
e senza modificare il provvedimento: se poi ci saranno problemi, aggiungono le stesse
fonti, "dovremmo essere in grado di risolverli con qualche
intervento" marginale. Parole rassicuranti che però non nascondono
il fatto che il cuneo non entrerà in vigore a marzo, come
originariamente previsto, e in attesa di un accordo con l'Ue potrebbe slittare
ulteriormente.
(1 marzo 2007)
"Incalziamo sui Dico, in futuro Pallaro e
Andreotti vacilleranno"
In un angolo della buvette di Palazzo Madama Rocco
Buttiglione decritta quello strano gioco italiano che è la «crisi
irrisolta», cioè una crisi di governo che si chiude esattamente allo
stesso modo di come è stata aperta senza risolvere i problemi che
l’hanno provocata. Il personaggio è adatto: è un esperto di
Chiesa, cioè di quell’istituzione che ha dimostrato ancora una volta di
poter disfare governi; ed è un cultore di complotti e ribaltoni (il
pranzo di Gallipoli con Massimo D’Alema che preparò la crisi del primo
governo Berlusconi fu farina del suo sacco). «Follini è andato di
là - esordisce - certo, ma se noi avessimo voluto molti di loro
sarebbero venuti di qua. Solo che Berlusconi non era convinto dell’ipotesi di
un governo di larghe intese. E quando ha parlato di elezioni anticipate e poi
ha smentito con poca convinzione, ha ricompattato gli altri. La vera crisi ci
sarà a luglio quando sarà impossibile andare alle urne. E una
cosa ve la posso dire: anche D’Alema e Rutelli saranno contenti quando
verrà fuori una soluzione diversa dal governo Prodi. Per cui questa
è una crisi “aggiornata”. Lo dimostra il «bis-pensiero» di Prodi su ogni
problema: pensa una cosa e il suo esatto contrario».
L’analisi di Buttiglione va tarata visto che è svolta da un esponente
dell’opposizione, ma, a parte questo, una sua fondatezza ce l’ha. Ieri bastava
lanciare un’occhiata all’aula del Senato, o aggirarsi tra i sontuosi saloni di
Palazzo Madama per comprendere che la crisi, al di là dell’esito del
voto di fiducia di oggi, è ancora irrisolta. Sui banchi della sinistra
massimalista due senatori, Franco Turigliatto e Fosco Giannini, seguiti da
altre due senatrici, hanno evitato ostentatamente di applaudire Romano Prodi.
Domenico Fisichella, il presidente di An passato nelle ultime elezioni alla
Margherita, sembra aver intrapreso un cammino a ritroso: «Il discorso di Prodi?
Non mi faccia parlare. Domani voto la fiducia ma poi vediamo...». Il
vicepresidente del Senato, l’irrequieto ds Gavino Angius, ha così
descritto il futuro del governo: «Un terno al lotto ma lo sapevamo anche
prima». Mentre uno dei padri nobili del centro-sinistra, Antonio Maccanico,
già sogna equilibri diversi: «Il quadro è fragile. Il voto sulla
fiducia potrebbe anche andare bene, ma il problema è dopo. E’ il momento
della capacità politica e della fantasia. Sul piano tecnico le larghe
intese già ci sarebbero...». E anche D’Alema ieri si affidava più
alla filosofia che non all’entusiasmo: «Se va bene? Beh, diciamo di
sì... ogni giorno ha la sua pena».
Altro che il «nuovo slancio» di cui parla Romano Prodi. Tutto sembra essere
tornato al punto di partenza, alla settimana scorsa, quando la crisi si
è aperta. Le incongruenze sono tutte lì, non ne manca una. Due
dibattiti al Senato (sulla mozione Parisi e sulla mozione D’Alema) e una
«crisi» di governo non sono riusciti ad evitare il rischio delle «maggioranze
variabili» sull’Afghanistan. Se poi laggiù, in quello scenario che
sembra sempre più critico, i nostri soldati fossero vittime di un
tragico episodio, l’attuale maggioranza non reggerebbe un minuto: «Il problema
- ammette il capogruppo di Rifondazione Russo Spena - è questo fattore
esterno: perché toccherebbe il Dna pacifista della sinistra radicale». Ed
ancora. Il segretario di Rifondazione, Franco Giordano giudica il discorso di
Prodi «equilibrato», il braccio destro di Mastella Stefano Cusumano ne loda,
invece, «lo schema centrista, democristiano». Non parliamo poi di Tav, pensioni
e liberalizzazioni: nella maggioranza c’è una babele di linguaggi. E i
Dico? Ieri il Professore non ne ha parlato proprio, «ma oggi - osserva il
portavoce, Silvio Sircana - l’opposizione ce lo metterà tra i piedi e
noi diremo: “quello che dovevamo fare lo abbiamo fatto. Lo abbiamo spedito con
il francobollo in Parlamento”».
Insomma, il quadro è fragile e la crisi, nei fatti, «irrisolta». Se ne
è accorto anche Silvio Berlusconi. «Prodi - ha spiegato ai suoi -
è una povera anima. E’ stato commissariato, non può essere chiaro
su nessun argomento. Appena si muove cade. E anche se supera il voto di domani
uno, due, quattro mesi va in crisi di nuovo. Nel dibattito dovete incalzarlo
sui Dico perché Andreotti e Pallaro (ieri Berlusconi ha avuto un lungo
colloquio con il senatore argentino, ndr) potrebbero restare insoddisfatti
della sua posizione incerta sull’argomento. E comunque mettiamoci in testa una
cosa: se cade oggi oppure tra un mese non possiamo chiedere le elezioni perché
Napolitano non ce le darebbe».
Già, anche per il Cavaliere la «crisi» è irrisolta. L’unico che
tenta di tenere tutto insieme è il Professore, con encomiabile testardaggine.
«Noi vogliamo andare avanti - diceva ancora ieri - se qualcuno non lo vuole lo
dica». Appunto, il Professore non demorde. Anche se i segretari dell’Unione nel
vertice di qualche giorno fa non hanno voluto firmare il documento con i dodici
punti, lui non demorde. Non si fa intimidire, semmai intimidisce. «Nel
centrosinistra - spiega da giorni Pier Ferdinando Casini che è in
contatto con tutti - sono tutti prigionieri di Prodi: da D’Alema, a Rutelli, a
Fassino. Tutti hanno paura di lui». Questo, però, non toglie nulla alla
fragilità del suo governo e della sua maggioranza: «Se al Senato -
promette Gianfranco Fini - la maggioranza non potrà contare su 158 voti
di senatori eletti, Prodi avrà i suoi guai».
Così sotto sotto continua la guerra dei numeri. Il centro-destra spera
in un ravvedimento di Pallaro. L’uomo dei numeri di Mastella, il senatore
Tommaso Barbato, confida invece in qualche altra sorpresa: «Il centro-destra
non avrà De Gregorio che è all’ospedale, ma mancherà anche
su un senatore dell’Udc, il folliniano “coperto”, che si darà malato».
Quindi siamo al governo aggrappato a Pallaro e al cambio di casacca di Follini.
«Era una cosa che proprio non mi aspettavo - spiega con delusione Fini -: per
anni ci ha raccontato che voleva mettere in crisi questo bipolarismo muscolare
e invece ora ne è diventato l’ultimo puntello. Inspiegabile».
Inspiegabile sì, almeno con le categorie della politica. «Ormai -
osserva l’azzurro Osvaldo Napoli - è un caso umano: dietro alla sua scelta
ci saranno problemi di collegio o di famiglia».
La notizia è
stata data in pompa magna dalla Casa Bianca: alla conferenza di pace per
l’Iraq, che si terrà questo a Baghdad, parteciperanno rappresentanti di
Washington, Damasco e Teheran. Gli Stati Uniti, insomma, siederanno allo stesso
tavolo con Siria e Iran, pronti ad aprire il negoziato con gli “Stati
canaglia”. Con Siria e Iran, si sa, prima o poi si doveva trattare: lo diceva
Henry Kissinger («In Medio Oriente non si può fare la pace senza i
siriani e non si può fare la guerra senza gli egiziani») e lo ha
ripetuto James Baker (vedi il famoso dossier dell’Iraq Study Group, a lungo
ignorato dal presidente Bush). Per non parlare delle pressioni delle diplomazie
europee, in testa il ministro degli esteri D’Alema e l’omologo tedesco
Steinmeier, favorevoli ai negoziati con Teheran e Damasco.
Non tutti sanno, però, che prima dell’apertura annunciata due giorni fa
da Washington, si è consumato per mesi un estenuante braccio di ferro
tra Stati Uniti e Israele. Anzi, per volere essere più precisi, tra il
Dipartimento di Stato Usa e il Mossad, il leggendario servizio segreto dello
Stato ebraico. Da tempo, le menti pensanti dei servizi israeliani (non solo
all’interno del Mossad, a dire il vero, ma anche dello Shin Bet, organizzazione
forse meno celebre ma altrettanto importante) sostenevano la necessità
di aprire un processo di pace con Damasco, considerato dagli 007 l’unico modo
di archiviare una volta per tutte il conflitto con Hezbollah. La posizione del
governo israeliano in materia, invece, era meno definita: qualche timida
apertura era giunta dal ministro della sicurezza Avi Dichter, ex capo dello
Shin Bet e tuttora legatissimo ai servizi, mentre il primo ministro Ehud Olmert
ha ripetutamente smentito le voci che circolavano su presunte trattative
segrete. Fatto sta che sulla stampa israeliana sono apparsi, qualche settimana
fa, alcuni articoli che puntavano il dito contro Washington: Bush sta obbligando
il governo israeliano a non trattare con Assad. Questa era la tesi accreditata
dalle due penne più prestigiose di Haaretz, Aluf Benn e Amos Harel.
Il Dipartimento di Stato non l’ha presa molto bene. A sentire loro, quelle di
Haaretz sarebbero state tutte veline lanciate dal Mossad per fare pressione sul
governo Olmert. «Tanto per cominciare, noi non abbiamo mai impedito al governo
israeliano di trattare con nessuno», racconta un senior official del
Dipartimento di Stato. Non risulta, del resto, che Olmert sia così
smanioso di aprire a Damasco. «Il dibattito sui negoziati siriani è
molto vivace sia negli States che in Israele», racconta l’official. «Alcuni
elementi dell’intelligence israeliana stanno premendo molto per i negoziati. Nel
Mossad, poi, è rimasta una certa simpatia per la leadership di Assad
padre, che era visto come un uomo forte ideale per mantenere gli equilibri» e
che si riflette in parte sull’attuale presidente, Assad junior. «E’ da un po’
che circola questa vulgata secondo cui noi staremmo frenando Olmert sui
negoziati, ma non è vero». Tesi giudicata dal Dipartimento di Stato
falsa e, soprattutto, tendenziosa: «Se vogliamo parlare di quello che scrive
Amos Harel, poi, bisogna anche ricordare che tutte le sue fonti sono nei servizi».
Certo, alla Casa Bianca non credono all’utilità di negoziati tra Siria e
Israele perché «la priorità di Bashir Assad è riavere il Libano,
non le alture del Golan», quindi non è nel suo interesse intavolare un
dialogo con Gerusalemme. Gli israeliani, insomma, farebbero bene a non fidarsi.
Un consiglio che, a sentire il Dipartimento di Stato, di cui avrebbero bisogno
Shin Bet e Mossad, molto più di Ehud Olmert. Nonostante questo tira e
molla, tuttavia, alla fine Washington ha accettato di negoziare con Assad,
almeno sulla questione irachena. Sarà tutto merito del Mossad?
Liste
indipendenti Alleanza fra Il Cantiere e il Partito Umanista: Stefano Budria,
operaio, candidato sindaco. Naufraga la lista unitaria Pdci-Prc-Us 01/03/2007
PARTECIPAZIONE, utilizzo di energie alternative, lotta al lavoro nero,
cancellazione dei privilegi per i politici e voto agli immigrati residenti. E
lotta a "un ceto politico che mente su ogni cosa, dall'inceneritore al
Terzo Valico e che tiene fuori dalle istituzioni i cittadini". Questo, in
sintesi, il programma della lista "Città partecipata" che
correrà alle elezioni amministrative di Genova, candidando alla carica
di sindaco Stefano Budria. La lista unisce "Il Cantiere" e il
Partito Umanista. Budria, 38 anni, operaio, da sempre è impeganto in
politica e nell'associazionismo, specie sul tema dell'integrazione degli
extracomunitari. Con lui correranno il capolista Pino Cosentino, già
militante nel Pci, Davide Cervi candidato alla presidenza del municipio
Centro-Ovest, Patrizia Sassanelli, candidata presidente nel municipio
Centro-Est e Laura Tamiro, candidata al municipio del Medio Ponente. E' una
lista che si ispira a valori di sinistra, ma che dall'Unione prende le
distanze su ogni punto, come ha spiegato ieri mattina il portavoce Fabrizio
Tringali. Il programma è stato sintetizzato in questi punti: bilancio
partecipativo, uso del dibattito e del referendum per le scelte strategiche,
trasparenza, limitazione dei costi della politica e legalità,
solidarietà, lavoro e ambiente. Gli eventuali eletti di
"Città partecipata" rinunceranno a emolumenti e benefit e
prenderanno le loro decisioni solo sulla base di assemblee aperte alla
cittadinanza. Sul fronte dell'Unione, invece, ieri c'è stato un vertice
del Forum delle sinistre, con i segretari del Pdci, di Rifondazione e Unione a
sinistra e con il candidato alle primarie Edoardo Sanguineti. La lista
unitaria alle prossime elezioni comunali non ci sarà, anche se ieri gli
ex Ds di Unione a sinistra hanno ribadito la loro proposta. Resta in ogni caso
la collaborazione fra le tre sigle e dopo quella che Sanguineti ha chiamato
"pausa di riflessione" (il voto) il progetto del Forum unitario
proverà a riavviare la marcia "verso un nuovo laboratorio della
politica". 01/03/2007.
Per salvarsi gli sarebbe bastata una
visita dal dentista, ma sua madre non aveva nessuna assicurazione sanitaria
Di mal di denti, a volte, si muore.
È accaduto a Deamonte Driver, un bimbo di dodici anni del Maryland, a
cui per salvarsi sarebbe bastata una visita dal dentista del costo di 80
dollari, se solo sua madre Alyce avesse avuto un'assicurazione sanitaria.
Quando il dolore di Deamonte si è fatto insopportabile era ormai troppo
tardi: i batteri proliferati con l'ascesso avevano raggiunto il cervello, ha
raccontato oggi l'incredibile vicenda a cavallo tra miseria, ignoranza e
caro-sanità il Washington Post.
Alla fine, dopo due interventi e oltre sei settimane di
vane terapie presso l'ospedale della contea di Prince George, nel
Maryland, il ragazzo è morto. «Mi auguro che lo Stato faccia qualcosa
per assicurare adeguate cure dentistiche a questi bambini, affinchè
Deamonte non sia morto invano», ha affermato Laurie Norris, avvocato del
Centro Pubblico di Giustizia di Baltimora, che ha assistito la famiglia
Driver.
La morte inutile di Deamonte e il costo finale delle sue
cure - che ammontano adesso a circa 250 mila dollari - hanno
riacceso il dibattito sul sistema sanitario degli Stati Uniti. Molte famiglie
non hanno alcuna copertura per quanto riguarda i problemi dentali, che negli
Stati Uniti sono la prima causa di disagi dell'infanzia e colpiscono i bambini
meno abbienti due volte di più dei loro coetanei benestanti. Per i
cittadini al di sotto della soglia di povertà è previsto il
Medicaid, un programma federale che garantisce un livello base di copertura
sanitaria. Ma gli studi dentistici convenzionati sono pochissimi - 900 su
5.500 nel solo Maryland - e costringono chi ha bisogno di un dentista a
viaggiare per ore prima di raggiungerne uno.
28
febbraio 2007