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Archivio Piccola Rassegna
16-28 Febbraio 2007
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ALL’ARCHIVIO GENERALE DELLA RASSEGNA
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- 1/15 FEBBRAIO 2007”
INDICE 16/28 Febbraio 2007
+ Da Il Riformista 28-2-2007 UE ED ECONOMIA Se Bruxelles per una volta
pensa anche ai salari
+ La Repubblica 28-2-2007 L'acqua vale più del petrolio. La Russia
scopre l'Oro blu. Leonardo Coen
Il Corriere della Sera 28-2-2007 Correzione di rotta. di Dario Di Vico
La Repubblica 27-2-2007 Avviso di garanzia alla vedova Fortugno. "Truffa negli appalti della
sanità"
La Repubblica 27-2-2007 Il principe Carlo attacca McDonald's:
"Vietiamoli nel Regno Unito"
Il ddl sulle unioni di fatto in commissione
Giustizia
Asse Udc-Udeur contro il ddl. Mastella:
«Escano dall'agenda politica». Il Prc: «Disciplina non vale solo per l'Afghanistan»
ROMA - In attesa di strappare la fiducia,
la maggioranza si sfilaccia sui Dico (il disegno di legge sui conviventi).
L'argomento non è stato sfiorato dal premier Prodi durante il discorso a
Palazzo Madama, né d'altronde compare nel dodecalogo approvato da tutti i
leader del centrosinistra per rilanciare l'azione di governo.
Clemente Mastella, ritiene che il Ddl debba essere definitivamente accantonato
e che l'intera materia esca dall'agenda parlamentare dopo l'illustrazione delle
dodici priorità del governo fatta dal Prodi al Senato. Mastella se la
prende in particolare con il presidente della commissione Giustizia Salvi, di
Palazzo Madama, che in una intervista al Corriere della Sera ha detto che tutto
è pronto per esaminare i disegni di legge sulle unioni civili. «È
stato improvvido parlarne», sostiene il ministro della Giustizia. «I Dico in
questa Camera Alta - attacca il leader dell'Udeur - non hanno la
possibilità di avere una risoluzione positiva». Usano gli stessi accenti
nell'Udc. «Nel centrosinistra, sui Dico, ognuno dice la sua. Una ulteriore
conferma del caos in cui regna il centrosinistra. Il vero banco di prova
è il Senato, dove i Dico non passeranno mai» afferma il senatore
dell'Udc Francesco Pionati.
L'asse centrista mette in allerta la sinistra. Il presidente dei senatori di
Rifondazione comunista Giovanni Russo Spena invita il governo a non ritirare il
provvedimento sulle convivenze. «Sarebbe molto scorretto e costituirebbe un
brutto precedente se ritirasse un provvedimento già incardinato in
Parlamento», dice. E poi avvisa: «È intervenuto un problema sui Dico, e
come spesso accade i problemi a questa maggioranza vengono dal centro: da
Andreotti, da Pallaro, che si è scoperto anche lui vaticanista, e da
Mastella». Russo Spena si dice convinto che «Prodi dovrà parlare dei
dico in Aula nella replica». Da qui l'affondo: «Se c'è per noi un
richiamo alla disciplina sull'Afghanistan - dice ancora Spena - questo deve
avvenire anche per i Dico».
28 febbraio 2007
Una sorta di rivoluzione copernicana per la
politica scientifica europea. Niente più finanziamenti alla ricerca
pesati con il bilancino, per non scontentare nessun Paese membro dell'Unione.
Né condizionamenti da parte di eurocrati o politici vari. Unico arbitro,
invece,la comunità scientifica. E su una cifra grossa:7,5 miliardi di
euro su sette anni. Destinati innanzitutto ai giovani ricercatori, i più
brillanti, e nemmeno solo europei.Tramite una salva annuale di finanziamenti
sulle idee e i progetti ( grants quinquennali) insindacabilmente decisi dai
più autorevoli scienziati mondiali.
Questa è la scommessa dell'Erc, l'European Research Council, presentato
ieri a Berlino dal cancelliere tedesco Angela Merkel e da Janez Potocnik,
commissario alla Ricerca dell'Unione. Il nuovo organismo, una sorta di Royal
Society europea, si pone come il fiore all'occhiello del settimo programma quadro
per la ricerca dell'Unione, che decolla quest'anno, e muoverà in sette
anni finanziamenti complessivi per oltre 50 miliardi di euro.
«L'idea originaria risale al 2003. Un organismo di stimolo alla ricerca di
frontiera in Europa del tutto nuovo, fondato sulla sola comunità
scientifica e su criteri di merito e di qualità spiega Salvatore Settis,
direttore della Scuola Normale di Pisa e membro del consiglio scientifico
dell'Erc nel 2005 una commissione indipendente, presieduta dal rettore di Oxford,
ha selezionato i 22 nomi del Consiglio scientifico, tra 400 segnalazioni di
scienziati europei. Potocnik ha sottoscritto la rosa senza la minima
variazione. Da allora ci siamo messi al lavoro, e oggi partiamo con un primo
bando di 300 milioni euro per i giovani ricercatori. Potranno partecipare tutti
coloro che abbiano conseguito un Ph.D da almeno due anni e non più di
nove, abbiano un progetto scientifico di prim'ordine e possano appoggiarsi su
un ente di ricerca, come una università o un istituto riconosciuto, non
importa se pubblico o privato. Possono essere anche cervelli non europei, basta
che vengano a lavorare qui in Europa». «Ci aspettiamo almeno tremila domande,
che suddivideremo su venti comitati tematici, ciascuno composto da undici
scienziati di fama riconosciuta aggiunge Fotis Kafatos, biologo molecolare di
fama mondiale e presidente del Consiglio dei 22 contiamo di sviluppare la
selezione agevolmente entro quest'anno».
L'obiettivo è cambiare lastessa concezione della carriera scientifica in
Europa: «I giovani scienziati potranno proporre il progetto della loro vita
dice Claudio Bordignon, ematologo e altro membro italiano dei 22 competere solo
sull'idea e, in caso di successo, ottenere fondi sufficienti anche a mettere in
piedi un laboratorio completo ». E se l'Erc riuscirà nel suo "gioco
di cervelli" (magari con qualche nuovo Nobel basato in Europa) dopo i
primi sette anni le cifre raddoppieranno, a 15 miliardi, promette Potocnik
Se anche dall'Italia
dovesse giungere una richiesta, gli Stati Uniti non daranno il nulla osta al
processo contro 26 funzionari della Cia
MILANO
- Gli Stati Uniti non accoglieranno alcuna
richiesta di estradare i 26 americani rinviati a giudizio in Italia in merito
al sequestro dell'ex imam di Milano Abu Omar. Lo ha detto oggi un consulente
legale del Dipartimento di Stato.
«NON ESTRADIAMO» - «Non abbiamo ricevuto una richiesta di
estradizione dall'Italia - ha spiegato Bellinger nel corso di una conferenza
stampa a Bruxelles, dopo alcuni incontri con consulenti legali europei - E se
avremo una richiesta , comunque non concederemo l'estradizione dei funzionari
Usa in Italia». Una posizione prevedibile, visto che questa è la linea
da sempre tenuta dai vertici dell'amministrazione americana quando cittadini
statunitensi, soprattutto se funzionari legati al governo o militari dislocati
fuori dagli Usa, sono coinvolti in vicende giudiziarie all'estero. La decisione
non mancherà probabilmente di sollevare polemiche. Anche perché
già il ministro della Giustizia, Clemente
Mastella, aveva fatto sapere che il governo non è intenzionato a forzare
la mano con un atto che potrebbe creare ulteriori tensioni con la Casa Bianca.
RINVIO A GIUDIZIO - La decisione di rinviare a giudizio 32
persone - tra cui appuno i 26 statunitensi individuati come agenti della Cia e
l'ex numero uno del Sismi, Nicolò Pollari - era stata presa lo scorso 16 febbraio dal
gup di Milano, Caterina Interlandi. Tutti dovranno rispondere del sequestro
di Abu Omar che, dopo il rapimento, era stato trasferito in Egitto. Nelle
carceri egiziane, dove era stato rinchiuso, era stato, a suo dire, anche
torturato. Nelle scorse settimane era stato
però rilasciato.
28 febbraio 2007
Bruxelles -
È una vera e propria svolta: l'Ecofin ha affermato pubblicamente che ai
lavoratori dipendenti va riconosciuto il cosiddetto «dividendo» della crescita.
In sostanza, i ministri dell'economia hanno benedetto (pur senza formalizzarlo
in un documento) le rivendicazioni salariali che in diversi Paesi hanno
già preso o stanno prendendo forma per negoziati tra imprese e
sindacati. Purché siano «moderate».
Le parole usate dal presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker
(lussemburghese) e dal ministro delle Finanze tedesche Peer Steinbruek (tedesco
e presidente di turno dell'Ecofin) sono state completamente diverse da quelle
usate da anni nei circuiti politici europei.
Juncker ha chiesto apertamente di «far partecipare i lavoratori agli utili
delle imprese attraverso forme di partecipazione» (non meglio specificate). E
Steinbrueck si è rifatto alla classica esperienza socialdemocratica: «Se
negli anni per i bassi salari e le classi medie si registra una perdita netta
dei salari mentre esplodono i profitti delle imprese, arriveremmo a una crisi
di legittimità del modello dell'economia sociale di mercato».
Il commissario Ue agli Affari economici (spagnolo e socialista) ci è
andato a nozze visto che è stato proprio lui ad aver lanciato la palla
qualche mese fa dimostrando una buona dose di coraggio: «La parte dei salari
nel reddito globale degli Stati è oggi al livello più basso da
molti anni e questa è una situazione insostenibile».
Naturalmente il messaggio contiene un «ma» grande come una casa che non deve
essere sottovalutato: gli aumenti salariali «devono essere in linea con la
produttività». Se stanno entro tale limite «non ci saranno problemi», ha
detto Juncker. E la Bce non potrà dire nulla perché si tratterebbe di
una politica dei redditi di mercato controllata.
I dati che rendono possibile ai ministri delle finanze di parlare
tranquillamente di aumenti salariali sono sotto gli occhi di tutti.
L'inflazione è sotto il 2% (1,8% nel 2007 secondo la Commissione
europea) e a meno di scatti del prezzo del greggio dovrebbe restarvi per un
po’. Le parti sociali hanno dimostrato di aver incorporato saldamento la
virtù della moderazione fino all'eccesso come dimostra il caso tedesco:
l'industria si è ristrutturata proprio grazie alla moderazione
salariale.
La Germania è il solo paese in cui tra il 2002 e il 2006 i costi unitari
del lavoro sono diminuiti in media dello 0,2% contro la media eurozona dell'1,7
(Italia +3,1%) a fronte di un incremento di produttività per occupato
dell'1,6% (contro una media eurozona di 0,7%, in Italia +0,1%).
Inoltre, il fatto che l'inflazione sia rimasta bassa nonostante l'aumento del
barile di petrolio significa che il tradizionale effetto di secondo round,
cioè il trascinamento degli aumenti degli altri prezzi, si è
scaricato.
Il problema nasce dal fatto che la crescita risulta più solida, alcuni
ritengono abbia almeno in parte un carattere strutturale grazie alle riforme
varate (mercato del lavoro soprattutto). Mentre i governi chiedono di stringere
la corda sui sistemi previdenziali e sanità, qualche segno di
allentamento va dato.
«Gli aumenti salariali vanno considerati cosa normale», dice il commissario
Almunia, a patto che siano coerenti con le condizioni aziendali e del settore.
È un problema di giustizia: la quota salari sul pil nell'eurozona
declina ininterrottamente dal 1993 quando era a quota 69,4 per cento. Nel 2006
era a quota 64,2%, nel 2007 sarà a 63,9% e nel
Secondo le elaborazioni della Commissione europea, in Germania nel 1993 la
quota salari sul pil era al 68%, da allora è sempre calato per
raggiungere il 62,4% nel 2006, il 62,1% nel 2007 e il 62% nel 2008.
In Italia dal 67,1% del 1993 si è scesi al 61,6 del 2004 per poi
risalire al 62,4% nel 1006, scendere quest'anno al 62,2% e l'anno prossimo al
61,8 per cento.
Per Ecofin e Commissione europea si deve però procedere cautamente. Il
fattore produttività deve restare centrale nella contrattazione sulle
retribuzioni. Mentre in Germania ci sono più margini visti i forti
incrementi di produttività, meno spazio c'è in altri paesi,
là dove gli incrementi di produttività non dovrebbero essere
utilizzati che in parte dati i precedenti incrementi dei costi unitari del
lavoro.
Ma l'emergenza di una 'questione salariale’ ha anche un'altra ragione: mai come
in questo periodo le opinioni pubbliche sono allarmate perchè la
percezione dell'andamento dei prezzi è negativa (aumenta l'inflazione
percepita individualmente mentre si riduce quella misurata statisticamente),
l'euro raccoglie meno favore e anche le istituzioni europee non se la passano
molto bene.
Da mesi, sulla falsariga dei robusti
segnali di ripresa che consentiranno al vecchio continente di crescere
quest’anno a un ritmo addirittura superiore agli Stati Uniti, la Banca centrale
europea ha già alzato il dito per avvertire tutti che non è
proprio il caso di aumentare gli stipendi, di redistribuire un po’ di ricchezza
sotto forma di salari e stipendi. Perché circola ancora un sacco di moneta e
con il petrolio non si sa mai. E questi due fattori rappresentano, secondo
l’Eurotower, una serissima minaccia per la nostra inflazione, anche se a noi
comuni mortali sembra da tempo piuttosto addomesticata attorno al 2 per cento.
Tant’è che la stessa Bce alzerà i tassi altre due volte,
quest’anno, secondo il parere della maggior parte degli analisti, per tenerla a
bada. Il copione insomma è noto e l’insistenza della Bce è
diventata un po’ più marcata da quando i mitici metalmeccanici tedeschi,
dopo anni di sacrifici, di cogestione delle crisi, di orario allungato a
stipendio ridotto, hanno deciso di concedersi un aumento del 6,5 per cento.
Un po’ di freschezza di analisi è giunta invece ieri da un altro
autorevole organismo europeo, che sforna di solito analisi economiche severe e
convergenti con quelle di Trichet & co. Ebbene, secondo la Commissione
europea vanno attuate sì le riforme strutturali come le pensioni, va
tenuta dritta sì la barra sulla riduzione di deficit e debito pubblico,
va portato sì avanti il programma di liberalizzazioni. Ma è anche
ora, dice Bruxelles nero su bianco, di redistribuire un po’ di quella ricchezza
che il paese sta producendo attraverso aumenti salariali legati alla
produttività. Chapeau.
Mosca
prepara l'export dei suoi immensi patrimoni idrici
Ripescato un progetto per deviare i grandi fiumi siberiani
La Fao: nel 2050 quasi un terzo
dell'umanità senz'acqua potabile
Una rete di canali avvolgerà i paesi assetati dell'ex Unione Sovietica
dal nostro corrispondente
MOSCA - Non solo la Russia galleggia su immensi
giacimenti di petrolio e gas, al punto da averla trasformata in una
superpotenza energetica. Nel suo sterminato territorio c'è tanta acqua
dolce da dissetare due pianeti: 120mila fiumi, 2,3 milioni di laghi, paludi
vaste come Italia, Spagna e Francia messe assieme. Le risorse idriche superano
i 97mila chilometri cubi se ci aggiungiamo le acque del sottosuolo e i
ghiacciai: tradotto in vil moneta - o meglio, in denaro liquido - significa
poter disporre di scorte idriche il cui valore supera, già oggi, gli 800
miliardi di dollari l'anno. Siccome l'acqua sarà il petrolio del nuovo
millennio, i sogni di grandezza del Cremlino stanno diventando ancor più
ambiziosi, tanta ricchezza e tante prospettive aumentano l'influenza politica,
specie sui paesi confinanti dell'Asia Centrale, assediati dai deserti e dalla
siccità.
È bastato un rapporto della Fao, apparso lunedì, in cui si
rilancia l'allarme per l'emergenza acqua ("nel 2050 quasi due miliardi di
persone potranno restare senz'acqua potabile") e subito i russi hanno
fatto sapere che saranno pronti ad operare nel florido mercato dell'oro blu,
anche se preferiscono chiamarlo "oro trasparente" (così ha
scritto ieri il giornale Novye Izvestia): "La Russia ha buone chances,
bisogna però sfruttarle con intelligenza. Potremo occupare un buon posto
tra i fornitori d'acqua e tra gli esportatori di prodotti che richiedono grande
consumo d'acqua", spiega Viktor Danilov-Daniljan, direttore a Mosca
dell'Istituto Nazionale per i Problemi Idrici, "per esempio, l'Africa
settentrionale e il Medio Oriente importano una quantità tale di
frumento che per produrla ci vorrebbe l'acqua di due fiumi come il Nilo".
I numeri dello "stress idrico" sono da brivido. Per
ottenere un chilo di riso ci vogliono da
Quando l'acqua comincerà a scarseggiare, la Russia grazie alle sue
smisurate risorse diventerà leader della catena alimentare.
Basterà adeguare le infrastrutture, costruire acquedotti diretti a sud,
come succede per gli idrocarburi, avvolgere in una tela di ragno gli assetati
dell'Eurasia. Pensare che il regime sovietico aveva messo in piedi un progetto
per invertire il corso dei grandi fiumi siberiani che sfociano nell'Artico e
irrigare le repubbliche dell'Asia Centrale: un'impresa titanica ma
potenzialmente anche una catastrofe ambientale. Prevalse il buon senso, e tutto
rimase come prima. Era il 1986. Oggi, Nursultan Nazarbaev, presidente del
Kazakistan ha rispolverato quella vecchia idea, però da Mosca hanno
fatto finta di non capire. "Che comincino a eliminare gli sprechi",
suggerisce Tatiana Moisseenko, membro dell'Accademia delle Scienze. Ai Paesi
che dispongono di scarse risorse idriche lei consiglia di evitare
l'emancipazione totale ("l'indipendenza") dalle regioni del mondo che
invece ne dispongono in abbondanza: "In Asia Centrale l'acqua viene
sfruttata in maniera abbastanza irrazionale", osserva la Moissenko,
"devono introdurre tecnologie per risparmiarla, mettere in uso
nell'irrigazione le tecnologie a gocce".
I Paesi ex satelliti dell'Urss soffriranno pesanti danni se non correranno ai
ripari. E il riparo si chiama Grande Madre Russia. Dice Anatolij Barkovskij,
direttore del Centro per i rapporti esteri dell'Istituto di economia
dell'Accademia delle Scienze russa: "Bisogna risolvere in anticipo una
serie di problemi: come e quanta acqua può essere trasportata senza
creare danni ambientali. Dopodiché, potremmo dissetare fino a saziare".
Acqua come merce, fiumi di rubli, anzi, di dollari. Il business dell'oro blu
arricchirà ulteriormente la Russia, scrivono i giornali.
Il controllo dell'acqua è vitale, senza si muore. Senza non si produce.
L'acqua è un bene di consumo, lo ha stabilito l'Organizzazione mondiale
per il commercio, alla quale la Russia sta aderendo. L'industria globale
dell'acqua ha un giro d'affari di 400 miliardi di dollari. Un "asset"
fluido che garantisce profitti a go-go e sudditanze strategiche. Da annegarci.
(28 febbraio 2007)
Ieri
Romano Prodi si è prodotto in
uno scatto politico. Il premier ha detto chiaramente che non si limiterà
a ricoprire il ruolo di amministratore straordinario di una maggioranza in
crisi di vocazione e di consensi. Farà politica, cercherà di tessere
dagli scranni del governo la tela delle larghe intese per riformare la legge
elettorale. Non lascerà questo compito, gravoso e dall'esito tutt' altro
che scontato, ad altre personalità presenti nella coalizione. L'Unione,
almeno nelle intenzioni del suo leader, non mutuerà dal sistema bancario
lo schema di governance duale. Le strategie di lungo periodo e
l'operatività day by day saranno entrambe allocate a Palazzo Chigi. La
correzione di rotta operata dal premier avrà delle conseguenze positive
per il governo e servirà se non altro a segnalare al Paese la presenza
di uno spirito diverso, di un impegno maggiore che nel passato a capire le
ragioni degli altri, a superare la logica della demonizzazione. Determinato sul
futuro politico suo e dell'esecutivo, puntuale nel sottolineare che «manterremo
gli impegni presi in Afghanistan », Prodi però è apparso
rinunciatario sulle cose da fare. Nella buona sostanza non si è mosso
dal dodecalogo, fingendo di credere che i 12 punti costituiscano di per sé un
programma e non siano invece una lista della spesa, seppur in versione
accorciata.
Eppure
senza voler far riferimento
all'immancabile fortuna che assiste Romano Prodi, come già fu per il
primo governo dell'Ulivo anche questa volta il centro-sinistra gioca con il
vento a favore, può sfruttare i vantaggi della ripresa internazionale e
del completamento della ristrutturazione di una larga fetta del nostro sistema
industriale. E allora dal premier ieri ci si poteva aspettare che cogliesse
quest’occasione, che presentasse ai senatori e al Paese le scelte prioritarie
che intende attuare per sfruttare la congiuntura favorevole. In queste
settimane gli esperti discutono animatamente se quella in corso sia una ripresa
ciclica o abbia un carattere strutturale. Nemmeno per la Germania, che pure
appare come la locomotiva della ripartenza europea, ci sono dati così
certi da potersi sbilanciare in favore dell'ottimismo, tanto meno per noi che
di quel convoglio siamo un vagone, non tra i più lanciati.
Non
sappiamo quindi se nel
28
febbraio 2007
28/2/2007 (7:44) -
INTERVISTA
ROMA
Onorevole Violante, Romano Prodi in Senato ha rilanciato come assoluta
priorità la legge elettorale, precisando che il Parlamento «ha davanti a
sé un lungo lavoro, consolidare a razionalizzare la forma di governo e rendere
più equilibrata la forma di Stato». E che «sarà sempre il
Parlamento ad individuare al suo interno un luogo di elaborazione». Come ha
inteso lei, presidente di commissione Affari Costituzionali alla Camera, queste
parole? Prodi si riferiva a una nuova Bicamerale?
«Credo proprio di no, ne abbiamo viste tante, e purtroppo nessuna è
riuscita a compiere il percorso di riforma istituzionale. Né si può
pensare a una Costituente, o a una Convenzione, poiché il presidente del
Consiglio ha parlato di un luogo di elaborazione interno al Parlamento. Dunque,
restano soltanto le commissioni di Camera e Senato. Che usando l'articolo 138
possono approntare le necessarie riforme da sottoporre poi all'esame e al voto
dell'Aula. Però l'aspetto nuovo del discorso del presidente del
Consiglio è un altro: ha messo in connessione la legge elettorale e la
riforma costituzionale. Questa è la chiave per disincagliare la nave
della riforma».
Lei sottolinea il passaggio in cui Prodi dice che «occorre portare un
equilibrio virtuoso nel rapporto tra lo Stato e le Regioni, anche attraverso
una modifica della composizione stessa del Parlamento». Questa però non
è una novità assoluta: sono anni che centrosinistra e
centrodestra predicano l'uscita dal bicameralismo perfetto...
«Certo, perché l'Italia è l'unico Paese che ha due Camere che fanno
esattamente le stesse cose, ed entrambe danno o tolgono la fiducia al governo.
Dovremmo inventare una legge elettorale che dia la stessa maggioranza in due
rami diversi del Parlamento eletti da un elettorato diverso. Credo che la cosa
da fare sia differenziare le funzioni della Camera e del Senato, come in tutti
gli altri Paesi avanzati, attribuendo al Senato la funzione di governo dei
rapporti tra Stato, Regioni ed autonomie locali ed alla Camera il potere di
dare e togliere la fiducia ai governi. A questo punto si può pensare ad
una legge elettorale maggioritaria per la Camera, dove occorre una maggioranza
certa scelta dagli elettori e ad una legge elettorale rigorosamente
proporzionale per il Senato che dovendo invece rappresentare Regioni, e
autonomie locali ha bisogno di rispecchiare esattamente le forze presenti nel
Paese».
La quadratura del cerchio, mettendo d'accordo i molti favorevoli al
maggioritario, a cominciare dall'Ulivo, ai molti proporzionalisti che albergano
trasversalmente nei due schieramenti...
«Non è facile ma si accontenterebbero anche i piccoli partiti, che
potrebbero avere forte rappresentanza al Senato».
E alla Camera no?
«Il nesso che pone Prodi tra legge elettorale e riforma costituzionale è
una chiave realista, pragmatica. Non è più tempo di un
costituzionalismo palingenetico, creativo, come è stato nella scorsa
legislatura. Qui bisogna fare cose essenziali, quelle che servono: mettere a
punto l'articolo 117 della Costituzione sulla ripartizione delle competenze tra
Stato e Regione; differenziare le funzioni di Camera e Senato; dare al
presidente del Consiglio il potere di nomina e revoca dei ministri; e diminuire
il numero dei parlamentari. Su questi punti nella scorsa legislatura
concordavano entrambe le coalizioni. Ci differenziavamo sul modo di realizzare
questi obiettivi. Io penso a leggi distinte. Quattro semplici leggi costituzionali
che si possono approvare, anche entro l'anno».
Cosa la fa essere così ottimista?
«Il lavoro che abbiamo fatto finora in commissione, sia alla Camera che al
Senato: a Montecitorio si lavorerà tra l'altro alla riforma della
ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni, a Palazzo Madama tra l'altro
si lavorerà per la riforma del bicameralismo. E il lavoro fatto sinora,
aggiungo, è all'unanimità, nel perfetto accordo con
l'opposizione».
L'accusa: un ministro
e un capomilizia sudanesi responsabili delle stragi
Il procuratore chiede
un mandato di comparizione per Ahmed Haroun e il leader janjaweed Al-Rahman
DAL
NOSTRO INVIATO
LAGOS – I giudici della Corte Penale Internazionale l'avevano
promesso: «Stavolta facciamo sul serio» e infatti ieri hanno formalmente messo
sotto accusa per crimini contro l'umanità commessi in Darfur il ministro
sudanese per gli affari umanitari Ahmed Mohammed Haroun e uno dei leader delle
milizie janjaweed Ali Muhammad Ali Abd al-Rahman, più conosciuto come
Ali Kushayb.
Il procuratore della corte Louis Moreno-Ocampo ha
sciorinato ben 51 capi d’accusa, compresi omicidi di massa, stupri e
torture; crimini commessi nel 2003 e nel 2004, durante gli attacchi a quattro
villaggi, Kodoom, Bindisi, Mukjar and Aratala, abitati da civili inermi. Ha poi
rivelato che contro i due sospettati sono stati preparati i relativi mandati di
cattura internazionali.
Alle dichiarazioni del procuratore ha fatto
immediatamente eco il governo di Khartoum che ha rigettato le accuse
e, per bocca di un portavoce, ha dichiarato che non si sogna neppure
lontanamente di consegnare i due accusati al tribunale.
Un apprezzamento alla decisione di Moreno-Ocampo
è stato espresso da varie organizzazioni umanitarie internazionali,
Amnesty International, Human Right Watch, International Crisis Group, tra gli
altri, che vedono la richiesta di processare i due sudanesi come un primo passo
verso l’esigenza di rendere giustizia alle vittime di una sistematica pulizia
etnica. Sperano poi che la minaccia di un processo possa, se non bloccare,
quantomeno ridurre le violenze in Darfur, regione occidentale del più
grande Paese dell’Africa.
Il Sudan, assieme agli Stati Uniti, alla Cina e
ad altri 4 Paesi, a Roma, era il 1998, votò contro la
costituzione del tribunale penale internazionale. Secondo le stime
internazionali almeno 200 mila persone, sudanesi di origine africana,
musulmani, sono stati trucidati e oltre due milioni e mezzo costretti ad
abbandonare le loro case e a fuggire in Ciad e nei campi per gli sfollati in
Sudan.
Esam Elhag, portavoce della fazione del
Sudan Liberation Army (Sla), che si è rifiutata nel 2006 di firmare
gli accordi di pace con il governo (sottoscritti per altro solo da un gruppo
piccolissimo), raggiunto per telefono da Corriere, si è detto
soddisfatto della richiesta del tribunale: «È stato chiarito che i
crimini commessi in Darfur hanno un risvolto penale e non politico, come vuol
far credere il regime di Khartoum. Non si tratta di vendetta ma di giustizia. I
tribunali sudanesi non sono indipendenti e prendono ordini dal potere politico.
Per questo la corte de l'Aja può essere lo strumento adatto per
giudicare chi ha commesso o ordinato le atrocità nel mio Paese. Ora
costoro si rendono conto di essere nel mirino e hanno paura. Attenzione
però. La lista dei criminali è molto lunga e la giustizia
internazionale non si deve fermare a quei due nomi. Chiediamo che siano
giudicati tutti i politici compromessi con le violenze in Darfur».
Moreno-Ocampo, che ha illustrato il lavoro
della procura in una conferenza stampa, ha ricordato che le prove raccolte
contro i due sono chiarissime. Harun, che all’epoca era ministro degli interni,
secondo l'accusa, ha finanziato le milizia janjaweed, i famosi diavoli cavallo
che terrorizzavano le popolazioni civili bruciando i villaggi, ammazzando gli
uomini, violentando le donne e rapendo i bambini, con un budget illimitato che
sfuggiva a ogni controllo. Lui stesso personalmente riforniva di armi e
munizioni i miliziani
Per quel che riguarda Kushayb, testimoni hanno
raccontato alla Procura che ispezionava personalmente i janjaweed.
Una volta ha spiegato ai suoi uomini come sgozzare le donne catturate,
accertandosi bene che prima fossero violentate. Lui stesso ha poi partecipato
all’esecuzione di massa di almeno 32 uomini. A Khartoum il governo sostiene che
Kushayb è ora stato cacciato in galera «e che solo la giustizia sudanese
può giudicare i sudanesi». Harun, che ha poco più di quarant’anni
è un politico emergente e ambizioso e fa parte del circolo ristretto del
presidente Omar Al Bashir. Viene considerato uno dei più energici e
carismatici leader del National Congress Party, il partito islamico al potere
nel Paese
malberizzi@corriere.it
28 febbraio 2007
Presentato a Roma il I Rapporto Luiss sui
vertici della società italiana
I criteri di accesso si basano sulla cooptazione, e non sul merito. I giovani
profondamente sfiduciati
Due su tre pensano che avranno una posizione sociale simile o inferiore a
quella dei genitori
ROMA - Una classe
dirigente che non piace e che soprattutto non si piace, incapace di
identificarsi nel ruolo guida e di rappresentanza dell'interesse generale che
il Paese richiede. Dopo le molte analisi sulla crisi del ceto medio, la Luiss
ha pubblicato oggi il primo Rapporto 'Generare classe dirigente - Un percorso
da costruire', un censimento dei vertici della società che si propone
anche di esaminarne valori, modelli e obiettivi.
Per scoprire che, come ha spiegato uno degli autori del Rapporto, Massimo
Bergami, della Alma Mater Studiorum e Alma Graduate School Università di
Bologna, "I dirigenti italiani non si sentono classe dirigente". Nel
senso che descrivono la classe dirigente con "stereotipi negativi"
analoghi a quelli utilizzati dal resto della popolazione, a cominciare
dall'orientamento all'utilitarismo e dalla scarsa predisposizione verso le competenze
e i valori.
Ragion per cui, rileva il Rapporto, "i dirigenti non ritengono l'attuale
classe dirigente un gruppo attrattivo, nel quale riconoscersi e
identificarsi". E la mancanza di identificazione porta a una conseguenza
ovvia: "Se io non mi riconosco in quel gruppo - spiega Bergami - non
agisco come membro di quel gruppo. Per cui una cosa è fare
l'imprenditore, o l'ambasciatore, e un'altra è riconoscere la
responsabilità che questo comporta. Non riconoscersi come classe
dirigente diventa quindi un modo per dire che è sempre colpa degli
altri. E per non sentire come propri gli interessi della collettività,
ripiegando su quelli di parte".
La classe dirigente specchio dunque di un Paese disgregato, che
non riesce a identificarsi nell'interesse generale. Come invece dovrebbe fare,
a detta degli stessi dirigenti, che alla richiesta di tracciare un
"profilo ideale della classe dirigente italiana" hanno indicato come
competenze maggiormente rilevanti la "visione strategica",
"senso morale, legalità, etica", "capacità d'innovazione
e creatività", "capacità di attuare le decisioni"
e "credibilità internazionale".
Qualità non troppo diverse da quelle che il resto della popolazione
vorrebbe riscontrare nella propria classe dirigente: "La popolazione
vorrebbe una classe dirigente con maggiori competenze specifiche - spiega un
altro degli autori del Rapporto, Carlo Carboni, dell'Università
Politecnica delle Marche - e maggiore assunzione di responsabilità,
vorrebbe che fosse meno un'elite autoreferenziale. Il leader ideale del futuro
deve comportarsi come un buon padre di famiglia, avendo come registro
fondamentale il buon senso".
Se da un lato le attuali carenze della classe dirigente sono da attribuirsi,
rileva il Rapporto, a un eccessivo ricambio operato negli ultimi anni, anche in
modo piuttosto traumatico (si citano Mani Pulite, ma anche uno spoil system
'selvaggio'), dall'altro sono messi sotto accusa i 'meccanismi di
reclutamento', tutt'altro che meritocratici. Per arrivare ai vertici infatti
più che "la conoscenza" contano "le conoscenze", si
arriva per "cooptazione", non certo per "merito": infatti
ricchezza e relazioni importanti sembrano le due risorse che maggiormente
caratterizzano, secondo il giudizio generale, le classi dirigenti italiane.
Che, secondo la popolazione, sono carenti di visioni strategica (per il 42,7%
degli intervistati), di capacità decisionale (44,7%), innovazione e
creatività (46,3%) e, soprattutto, di senso della moralità e
della legalità (58%) e di responsabilità pubblica e sociale
(50,9%). Insomma, si legge nel rapporto, "la banalizzazione di questa
percezione popolare è che comandano "i ricchi e i
raccomandati" e non i migliori.
Il giudizio negativo investe soprattutto la classe politica, e in minor misura
gli altri settori dirigenti. Nella percezione generale si riconosce anzi un
rafforzamento, un maggiore prestigio alle professionalità economiche
(imprenditori, vertici bancari, finanziari e assicurativi). Tra i politici
mantengono un certo prestigio le principali cariche istituzionali dello Stato:
sono loro, nell'opinione comune, e in minor misura i politici nazionali ed
europei, che potrebbero "portare il Paese fuori dalle secche della
crisi".
Il Rapporto della Luiss si è anche preoccupato di effettuare un
'censimento' delle classi dirigenti, individuando tre gruppi: una prima mappa
ristretta che comprende circa 2000 unità, una intermedia di 6.000
unità, e una 'allargata' di 17.000 unità. L'elite è
sostanzialmente anziana: l'età media è passata da
Nell'opinione degli intervistati nei primi quattro posti si trovano i
magistrati, gli esponenti dei mass-media, i vertici sindacali e i vertici di
banche e di istituzioni finanziarie, seguite dai vertici istituzionali e
politici. Gli esponenti dei mass media hanno però un ruolo rilevante
solo nella percezione della classe dirigente, ma non in quella del resto della
popolazione, che manifesta anzi una certa insofferenza per il ruolo dei mass
media, soprattutto di quelli tradizionali.
L'elite appare chiusa, soprattutto ai giovani: i due terzi degli intervistati
tra i 20 e i 30 anni sono convinti che "avranno un lavoro e una posizione
sociale sostanzialmente simile oppure tendenzialmente inferiore a quella dei
genitori".
(27 febbraio 2007)
Nei
leader dalle doti eccezionali, come Stalin, stanno in agguato perversioni che i
popoli rischiano di pagare duramente: un’osservazione di Robert Walser che
torna d’attualità nel mondo d’oggi
Il
12 aprile 1953 Carl Seelig andò a far visita a Robert Walser
nell’ospedale psichiatrico di Herisa, nella regione svizzera di Appenzell.
Allora Walser stava per compiere 75 anni ed era autore di alcuni tra i più
sconvolgenti libri della prima metà del secolo, ma erano ormai decenni
che non scriveva, ricoverato in quel manicomio (prima era stato per quattro
anni in quello di Waldau, vicino a Berna), e non riceveva altre visite se non
quelle del giovane ammiratore che, con il passare del tempo, divenne il suo
unico amico e anche il suo mecenate. Come di consueto, la mattina, i due uomini
andarono a fare una passeggiata nei dintorni del sanatorio; nel pomeriggio
conversarono a lungo su Stalin che era appena morto: «Circondato da servi, alla
fine s’è trasformato in un idolo che, ormai, non poteva vivere come un
uomo normale», disse Walser a Seelig, come quest’ultimo racconta nel libro in
cui narra le passeggiate con l’amico. «Chissà che in lui non si celasse
della genialità, ma ai popoli conviene essere governati da gente
mediocre per natura. Nel genio quasi sempre stanno in agguato perversioni che i
popoli dovranno pagare a prezzo di sangue, dolore e vergogna».
Conviene che a governarci siano uomini di natura mediocre? O dobbiamo aspirare
a essere governati da esseri eccezionali in possesso d’un talento che confini
con la genialità? Ultimamente i politici ai quali spettano, in Spagna,
le maggiori responsabilità - e, in coda a loro, alcuni commentatori -
pare che abbiano incominciato a discuterne in modo più o meno
sotterraneo. Tutto è incominciato quando, in un’intervista, il
presidente del governo, Zapatero, ha confidato al direttore del País una frase
che, a quanto pare, gli aveva detto sua moglie: «Non immagini neppure quante
centinaia di migliaia di spagnoli potrebbero stare nel governo». Qualche giorno
dopo, durante il dibattito parlamentare seguito all’attentato dell’Eta, Mariano
Rajoy, il leader dell’opposizione, voleva probabilmente replicare a questa
frase quando disse: «Non è sufficiente essere maggiorenne e avere la
cittadinanza spagnola: serve qualche cosa di più per essere presidente».
La frase di Zapatero può essere interpretata come un’ulteriore
dimostrazione dell’incurabile buonismo che affligge il premier spagnolo; quella
di Rajoy come un insulto a Zapatero, ossia un’ulteriore dimostrazione del
cattivismo che affligge il leader dell’opposizione. Presa alla lettera, la
frase di Rajoy è una banalità: certo, per essere presidente del
governo occorre, quanto meno, dedicarsi alla politica, militare in un partito,
essere proposto come deputato da quello stesso partito, ottenere il consenso
degli elettori, ottenere il consenso della maggioranza dei deputati nel
Congresso; presa alla lettera, la frase di Zapatero è falsa per le
stesse ragioni. Ma se andiamo oltre l’interpretazione letterale, la cosa
cambia: anche se è poco probabile che Walser non avrebbe appoggiato
Rajoy, forse in questo caso avrebbe dato ragione a Zapatero.
Chiaramente l’idea che molti cittadini, se non proprio tutti, siano
personalmente e intellettualmente in grado di fare il presidente del governo
confligge con la nostra propensione a credere che certe cose siano
irrealizzabili e con il nostro romanticismo - entrambi incurabili proprio come
il buonismo di Zapatero e il cattivismo di Rajoy - e con la spropositata
importanza che, nei media, attribuiamo ai politici. Eppure non si tratta di
un’idea insensata in assoluto, proprio come non lo è il fatto che molta
gente abbia la capacità, se davvero se lo prefigge come obiettivo,
d’essere un buono scienziato o un buono scrittore. Ovviamente ci sono
qualità indispensabili per essere un buon politico, come per essere un
buono scienziato o un buono scrittore; non si tratta, però, di qualità
eccezionali, ma di quelle che chiunque di noi può possedere.
In poche parole: che il politico se ne stia lontano sia dal buonismo sia dal
cattivismo; che non abbia la vocazione di diventare né idolo, né eroe, né
martire e, quindi, non abbia la pretesa di passare alla storia; che lavori
duramente e non si inventi problemi (s’accontenti di risolvere quelli che
già esistono); che faccia bene di conto e non allunghi le mani nella
cassa; che non si circondi di servi (non è necessario che conduca una
vita normale - sarebbe una pretesa stupida - ma neppure che conduca una vita
completamente anormale, che è cosa molto peggiore); che non faccia
follie per apparire a ogni pie’ sospinto in tv o sui giornali (meno un politico
appare in tv o sui giornali, meglio è); che non si svegli ogni mattina
con un’idea geniale; che parli poco e, qualche volta, racconti una barzelletta;
che non insulti, non urli, non menta, pur senza dire sempre la verità.
Insomma: che sia pulito, ordinato e non faccia rumore, proprio come
un’efficiente domestica.
Qualcuno dirà che questo genere di persone non servono per risolvere
situazioni eccezionali. Forse è vero, ma la verità è che
qui non viviamo una situazione eccezionale e, oltre tutto, non è
dimostrato che i politici puliti, ordinati e silenziosi non servano per
risolvere situazioni eccezionali, mentre è dimostrato che i politici
eccezionali servono solo, quando servono, per le situazioni eccezionali, e per
il resto sono un disastro. Mi rendo conto di come questo sia un ideale prosaico
e noioso, ma io lascerei la poesia e il divertimento per altre cose e ridurrei
la politica a quello che dev’essere: l’arte di darci una vita buona, che
equivale, poi, all’arte di darci una bella vita.
© El País
Il vicepresidente
della Commissione Antimafia: "Sono esterrefatto"
Le
indagini coordinate dalla Dda di Reggio Calabria
su una fornitura di farmaci per la Asl
REGGIO CALABRIA - Un avviso di garanzia è stato
notificato a Maria Grazia Laganà, vedova del vicepresidente del
consiglio regionale Francesco Fortugno, ucciso a Locri nell'ottobre del 2005.
La donna è attualmente parlamentare dell'Ulivo. Non si conosce l'ordine
di imputazione, secondo indiscrezioni sarebbe "truffa aggravata ai danni
dello Stato" in relazione ad appalti nella sanità. L'onorevole
Laganà ha annunciato una conferenza stampa e ha detto che la notizia
"potrebbe essere veritiera".
L''indagine si riferisce ad una fornitura di farmaci all' azienda ospedaliera
di Locri, di cui Maria Grazia Laganà è stata vicedirettrice
sanitaria, che non avrebbe prodotto alcun esborso finanziario da parte dell'
azienda ospedaliera di Locri, che non avrebbe prima accettato i farmaci e
quindi non li avrebbe di conseguenza pagati. Maria Grazia Laganà, che in
auto sta tornando a Locri, non ha voluto fare alcun commento, non avendo tra
l'altro ancora letto il testo inviatole dalla Dda reggina.
Nei giorni scorsi la vedova di Fortugno ha criticato duramente la conduzione
dell' inchiesta sull' omicidio del marito, condotta sempre dalla Dda di Reggio,
arrivando a chiedere più volte l'intervento del procuratore nazionale
antimafia Grasso.
Solidarietà alla vedova è stata espressa dal vicepresidente della
Commissione Antimafia, Lumia. "Sono esterrefatto. Qualcosa non sta
funzionando in tutta la vicenda che riguarda le indagini sul delitto Fortugno e
sulla sanità calabrese. Ora si tratta di capire che cosa".
(27 febbraio 2007)
LONDRA - Il principe Carlo contro i McDonald's. In
una crociata per tutelare della salute dei bambini. Il reale inglese considera
la grande catena di fast food una delle principali responsabili della pessima
alimentazione dei più giovani, e vorrebbe vietarne l'accesso ai più
piccoli. Il duro attacco dell'erede al trono - lanciato da Abu Dhabi e ripreso
dalla stampa britannica - giunge in occasione dell'avvio di una campagna di
sensibilizzazione (Diabetes Knowledge Action), sostenuta dallo stesso principe,
per combattere il diabete negli Emirati Arabi, il secondo paese al mondo per
numero di diabetici (20% di malati nella fascia d'età tra i 20 e 79
anni).
Al cospetto di scienziati e ricercatori dell'Imperial College London Diabetes
Centre ad Abu Dhabi, che gli presentavano le nuove iniziative volte a
migliorare gli standard alimentari del paese, Carlo ha risposto suggerendo la
messa al bando della McDonald's. "Avete provato a vietare McDonald's?
Sarebbe fondamentale", ha spiegato alla nutrizionista Nadine Tayara. Da
sempre sostenitore dei cibi biologici e strenuo oppositore degli Ong, il
principe dal 1986 possiede un'azienda agricola nella sua tenuta di Highgrove
Estate dove sono banditi pesticidi e fertilizzanti chimici.
Le parole del principe - come prevedibile - non sono piaciute alla
multinazionale statunitense che attraverso una portavoce ha fatto sapere di
essere "estremamente dispiaciuta. Ci sembra un commento improvvisato, che
non riflette la qualità del nostro menù né quello che facciamo
come azienda". La portavoce ha aggiunto che il principe è
"chiaramente non informato" di alcune scelte fatte dalla
società, come le nuove e più complete etichette, la promozione
dell'agricoltura sostenibile, e i cambiamenti nei valori nutritivi del menu,
con più scelta e varietà. "Altri membri della famiglia reale
hanno visitato un McDonald's più di recente e hanno un'immagine di noi
più aggiornata", ha affermato.
Clarence House, l'ufficio di Carlo a Londra, ha diffuso successivamente un
comunicato in cui si sottolinea che "il principe di Galles da tempo
promuove l'importanza di una dieta bilanciata, in particolare per i bambini.
Nel visitare il centro contro il diabete, voleva enfatizzare la
necessità che i bambini mangino una gran varietà di alimenti,
nessuno dei quali in eccesso".
(27 febbraio 2007)
Da Agi 27-2-2007 MPS: CONDANNATO TONINI PER AGGIOTAGGIO
UNIPOL-LA REPLICA
Da La Repubblica 27-2-2007 "Italian connection" a Nuova Delhi.
L'India contro Sonia Gandhi: "Ladra"
Così l'ex governatore di Bankitalia
Antonio Fazio risponde il 22 marzo 2006 ai pubblici ministeri del'inchiesta
milanese sulla fallita scalata ad Antonveneta (Antonio Fusco, Francesco Greco e
Giulia Perrotti) che lo incalzano sui suoi rapporti con i vertici della
Popolare di Lodi e il mondo politico. Il verbale è nei 5 cd messi da
ieri a disposizione degli avvocati degli 84 indagati per consentire loro di depositare
memorie difensive prima delle eventuali richieste di rinvio a giudizio.La secca
smentita di Fazio, che nega di aver mai avuto da Gianpiero Fiorani informazioni
su sue acquisizioni occulte, arriva in particolare agli inquirenti che gli
contestano un appunto che Fiorani gli avrebbe mostrato nel 2005, finito poi
agli atti dell'inchiesta: "Ricordo che Fiorani ebbe a mostrarmi un
foglietto di colore giallo, compilato a mano, nel quale erano riportati alcuni
possessi azionari di suoi alleati, ma ciò avvenne solo dopo il lancio
dell'offerta pubblica di scambio (sospesa cautelativamente dalla Consob il 27
luglio 2005 per scarsa trasparenza, ndr). Pertanto ogni contraria dichiarazione
di Fiorani e Boni - aggiunge nell'interrogatorio l'ex governatore di Bankitalia
- è falsa e calunniosa. In particolare non è vero che Fiorani mi
abbia mai parlato dell'utilizzo di affidamenti bancari per acquistare azioni
indirettamente, né che io l'abbia convocato dopo il lancio dell'Opa da parte di
Abn Amro per avere il rendiconto esatto del controllo del capitale sociale da
parte di Bpl". Quanto ai nomi riportati sull'appunto mostrato da Fiorani,
Fazio dichiara di ricordare di aver letto il nome di Gnutti e quello di
Coppola. Non ricorda però se nello scritto fossero inseriti i nomi di
Ricucci, Gavio e Zunino, ma afferma che "non c'era
Unipol"."Prendo atto che Fiorani e Boni - conclude Fazio - hanno
dichiarato che io ebbi a suggerire anche l'allocazione di pacchetti Antonveneta
in fondi off shore: giudico tali affermazioni risibili e calunniose".È
però vero che al governatore sarebbe piaciuto che Antonveneta rimanesse
in mani italiane: già nel novembre-dicembre 2004 comunicò al
finanziere bresciano Emilio Gnutti che "trovava di suo gradimento" il
progetto di quest'ultimo di appoggiare l'allora amministratore delegato della
Popolare di Lodi Fiorani.I pm gli contestano una serie di incontri, in
particolare con Ennio Doris, Gilberto Benetton, Emilio Gnutti e Giovanni
Consorte, azionisti Antonveneta. "Doris - mette a verbale Fazio - ebbe a comunicarmi
la sua preferenza nei confronti di Fiorani e io mi limitai a prenderne atto.
Benetton mi disse che voleva vendere al miglior offrente. Io gli risposi che
ovviamente era legittimato a tutelare i propri interessi. Aggiunsi, su sua
richiesta, che non mi sarebbe dispiaciuto che ciò coincidesse con la
vendita a un italiano". Quanto a Consorte, aggiunge Fazio, "non
ricordo di averlo incontrato, anche se mi sembra che qualcuno parlò
della sua intenzione di acquistare un centinaio di sportelli Antonveneta".
Un altro capitolo sondato dai pm riguarda l'ipotesi di accordi per il
salvataggio della banca Credieuronord in cambio del favore della Lega nord
contro il disegno di legge sul risparmio che intendeva limitare i poteri del
governatore di Bankitalia, passando dal mandato a vita a uno a termine.Sarebbe
stato lo stesso Fiorani a descrivere un Fazio con "una rete politica a suo
sostegno" attiva, ipotizzano i magistrati, nell'ultimo semestre del 2004 e
nel primo del 2005: "Fiorani - mette a verbale Fazio - a questo proposito
non dice il vero. Non ricordo di una cena a casa mia con lo stesso Fiorani, con
Grillo e Tarolli anche se non lo posso escludere. Non è vero che Fiorani
mi abbia fatto incontrare Palenzona. Faccio presente - aggiunge l'ex governatore
- che il problema della bocciatura in commissione è del 20 gennaio 2005.
Non è vero che abbia incontrato Giorgetti per mettermi d'accordo con lui
su uno scambio circa il salvataggio di Credieuronord con il voto favorevole
della Lega". Fazio ha invece ricordato nell'interrogatorio di essersi
preoccupato quando, leggendo i giornali, si era convinto che Fiorani fosse
intercettato: "Chiesi al ministro degli Interni Pisanu - depone l'ex
governatore - se non ci fossero segnali di attività illecite nei miei
confronti".Non, quindi, sostiene Fazio, di essere informato delle
attività della magistratura, come invece ipotizzano i pubblici ministeri
milanesi: "La mia idea era che fossero illegali, dell'agenzia Kroll, che
collegai ad Abn Amro in quanto entrambe olandesi".C. C.
MILANO Ammette solo di aver espresso
gradimento al progetto di Fiorani e Gnutti di conquistare Antonveneta. Ma per
il resto nega. Nega accordi con la Lega per riceverne sostegno politico; nega
incontri con Consorte; nega di essere mai stato informato dall'ex
amministratore delegato della Banca Popolare Italiana di "acquisizioni
occulte" di titoli; nega di aver coordinato l'azione di ostacolo ad Abn
Amro che competeva contro i "furbetti del quartierino" per avere il
controllo dell'istituto padovano. Si difende così, l'ex governatore di
Banca d'Italia Antonio Fazio, davanti ai pubblici ministeri Greco, Perotti e
Fusco che il 22 marzo 2006 lo interrogano per l'inchiesta sulla scalata ad
Antonveneta. Respinge le accuse mossegli dall'ex pupillo Fiorani ("Ogni
cosa che ha fatto l'ha fatta di sua iniziativa"), bolla come
"affermazioni risibili e calunniose" quel che aveva dichiarato
Fiorani (con Boni) secondo cui addirittura egli avrebbe suggerito
"l'allocazione di pacchetti Antonveneta in fondi off-shore". Nei
verbali ora depositati, l'ex Governatore racconta di quando pensava di essere
oggetto di "intercettazioni illegali da parte della Kroll" (l'agenzia
investigativa specializzata in indagini finanziarie). Per questo ne aveva
parlato con l'allora ministro degli Interni, Pisanu, "al quale chiesi di
verificare se non ci fossero segnali di attività di controllo illecite
nei miei confronti". E ai pm che gli chiedono se fosse stato avvisato
delle intercettazioni disposte dai magistrati, Fazio risponde che "dalla
lettura dei giornali, in relazione ad alcune notizie pubblicate, mi ero fatto
la convinzione che Fiorani fosse intercettato...". Fazio spiega poi di non
ricordarsi "chi ebbe a parlarmi della Kroll, probabilmente qualche mio
collaboratore. Sta di fatto che li collegai all'Abn Amro. Ovviamente si
trattava di miei dubbi", dei quali parla con il ministro degli Interni in
un incontro del 10 maggio 2005. Fazio parla poi di un incontro della fine del
2004 con Emilio Gnutti, Ennio Doris e Gilberto Benetton per parlare di
Antonveneta e riferisce, a lungo, dei rapporti con il Carroccio. Non è
vero, dice, che ci sono stati incontri "su uno scambio salvataggio
Credieuronord-voto favorevole della Lega", come aveva rivelato Fiorani da
parte dell'ex numero uno di via Nazionale. Il passaggio dalle critiche agli
elogi da parte della Lega, lui neppure "se lo aspettava". Per quel
salvataggio, "fu Fiorani a farsi avanti prima con la Lega e poi con
noi". Nessun lobbismo politico in quel caso, così come negli altri
casi, da parte del governatore, anche se ha incontrato certo "persone che
sapevo essere miei sostenitori". Poi, ancora, l' ex Governatore torna a
rispondere alle accuse di Fiorani. Non fu mai informato "delle
acquisizioni occulte che aveva realizzato", nè tantomeno si
è mai sognato di suggerire allocazioni off-shore di quote azionarie.
Quindi, a suo giudizio, Fiorani "se ha fatto qualcosa, lo ha fatto di sua
iniziativa e non certo in quanto richiesto da me. Sono in grado di difendermi
da solo".
-
Siena, 26 feb. - Il gup di Milano Alessandra Cerreti ha emesso, in
rito abbreviato, un provvedimento di condanna a 8 mesi di reclusione nei
confronti di Emilio Tonini, ex direttore generale della Fondazione Monte dei
Paschi di Siena, ora presidente della Banca Agricola Mantovana (controllata
Mps), per l'accusa di aggiotaggio manipolativo su azioni privilegiate Unipol,
un fatto avvenuto nel marzo 2003. E' quanto si legge in una nota della
Fondazione MPS. La Fondazione Mps - prosegue la nota - e' stata invece
condannata alla pena pecuniaria di 10.300 euro, per violazione della legge 231
che riguarda la responsabilita' oggettiva delle societa' nel caso in cui non si
predispongano modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di reati,
modelli che proprio in questi mesi la Fondazione, prima in Italia, ha varato. A
fronte della decisione del giudice il dottor Emilio Tonini ribadisce di essersi
limitato, in qualita', all'epoca, di direttore generale (provveditore) della
Fondazione MPS ad autorizzare l'acquisto sul mercato dei blocchi in data 31
marzo 2003 di complessive 4.500.000 azioni Unipol privilegiate al prezzo
unitario proposto dalla controparte Finsoe, a seguito del positivo giudizio
tecnico prospettico sul titolo. Operazione condotta nella massima trasparenza.
Il successivo corso borsistico ha ampiamente giustificato siffatta previsione e
l'investimento effettuato si e' rivelato molto positivo per la Fondazione Mps.
Si attende ora il deposito della sentenza per comprendere in base a quali
argomentazioni possa essere sostenuto il suo concorso nel reato di
"manipolazione del mercato". Il dottor Tonini presentera' appello,
dicendosi fiducioso che la realta' storica della vicenda possa venire
pienamente ripristinata. Una fiducia a cui si unisce la stessa Fondazione Monte
dei Paschi di Siena che conferma di ritenere l'operazione in oggetto condotta
sul mercato borsistico all'insegna della massima trasparenza, ribadendo la
piena stima per l'operato del dottor Tonini durante il suo incarico presso la
Fondazione stessa, improntato sempre alla massima correttezza e volto a far si'
che il patrimonio dell'istituzione potesse essere salvaguardato ed accresciuto.
(AGI).
Il tempo dei grandi dibattiti sulla diaspora sembra finito. Infatti, anche
“grazie” alla nascita del Partito democratico, il variegato mondo dei
socialisti si sta dando da fare per la costruzione di una nuova svolta. Di una
rifondazione.
Nella cittadina romagnola di Bertinoro, sabato e domenica prossimi, il sempre
attivo Lanfranco Turci - oggi deputato della Rosa nel pugno - ha dato
appuntamento a un nutrito gruppo di socialisti per discutere della «costruzione
di una moderna forza laica liberalsocialista». Arriveranno in tanti. E tra
questi, Enrico Boselli, Peppino Caldarola, Bobo Craxi, Gianni De Michelis, Rino
Formica, Emanuele Macaluso, Valdo Spini e Saverio Zavettieri. L’obiettivo,
spiega Turci, «è avviare un percorso che possa portare alla nascita di
una forza politica a vocazione maggioritaria, in competizione con il Partito
democratico, collocata in Europa con il Pse». Tre clausole che possono
rappresentare un polo d’attrazione - e allo stesso tempo un massimo comun
denominatore - per neosocialisti oggi fuori dall’Unione, per la sinistra Ds,
per i boselliani e per coloro che «da socialisti» non condividono la mappa dei
valori del nascente Pd.
Guardando al futuro, da questi movimenti potrebbe avviarsi la costruzione di
una casa nella quale possano convivere Mussi e De Michelis. Senza per questo
porre limiti alla (laica) provvidenza. Come fa Peppino Caldarola, che immagina
nel futuro prossimo lo scenario di un centrosinistra con «un Partito
democratico a-identitario, la sinistra radicale di Verdi e Pdci, e un partito
della Rifondazione socialista». Senza escludere che quest’ultima forza,
aggiunge l’ex direttore dell’Unità, «possa dar vita a una strategia
dell’attenzione rispetto a quello che nel lungo periodo potrà succedere
dentro Rifondazione comunista, che a mio avviso rimarrà segnata
dall’esperienza di governo». Oltre che dall’accelerazione dei democrat sulla
strada dell’Ulivo-Pd, la nascita di un progetto «socialista doc» può
beneficiare dell’apertura al modello di legge elettorale tedesco di cui si sta
discutendo dopo il coming out che Massimo D’Alema ha annunciato nel corso del
forum con la redazione del Riformista. Il modello tedesco (proporzionale con
sbarramento al 5 per cento) è in cima ai desiderata della Sinistra
diessina. E poi, aggiunge Turci, «sarebbe il tipo di legge che favorirebbe la
nascita di una forza socialista a vocazione maggioritaria».
Gli occhi dei socialisti «no Pd» sono puntati sulle assise di Sdi e Ds. Il
primo - che dopo l’uscita di scena della Quercia rimarrà l’unico membro
italiano del Pse - andrà a congresso a Fiuggi.
Boselli vuol sviluppare «il confronto con tutte le famiglie socialiste, da
quella guidata da Gianni De Michelis a quella diretta da Bobo Craxi».
L’obiettivo è estendere la sfera di interesse alla sinistra ds, con la
consapevolezza che - come ricorda Villetti - «sono già molti i terreni
di confronto con l’area di Fabio Mussi». In opposizione a quella del
segretario, arriverà una mozione «pro Pd» che avrà in Cesare
Marini il primo firmatario.
Parallelamente, nella sinistra Ds, più d’uno guarda con attenzione a
quello che di qui a poco potrebbe accadere nello Sdi. «Rinnoviamo il nostro
invito a Boselli - ha detto Valdo Spini - perché si confronti con la nostra
proposta che Ds, Sdi, area socialista, clubs della sinistra partecipino a nuova
Epinay , una costituente per una grande forza del socialismo europeo in
Italia». E Boselli, nella sua relazione al comitato direttivo nazionale dello
Sdi, ha annotato nella sua relazione: «Di fronte a un Pd che si sta fondando,
ci si interroga sulla necessità di rifondare un nuovo partito socialista
ancorato al socialismo europeo. Lo fa un riformista, come Emanuele Macaluso,
con il quale abbiamo una grande convergenza di vedute. Lo fa Fabio Mussi che
è a capo della sinistra Ds e con il quale abbiamo forti punti di
divergenza, ma con il quale abbiamo anche in comune la difesa del principio di
laicità e la difesa della scuola pubblica e lo fa il leader dell’altra
mozione Angius. Ci si ricorda che noi resteremmo, come Sdi, l’unica forza che
fa parte a pieno titolo nel socialismo europeo, dopo che avverrà il
mezzo abbandono del Pse da parte dei DS, nel momento in cui si scioglieranno e
confluiranno nel nuovo partito democratico».
DA VENT'ANNI la stampa
indiana insegue le "italian connections" di Ottavio Quattrocchi, un
uomo d'affari siciliano ricercato dalla polizia di Nuova Delhi e legato alle
sorti della famiglia Gandhi e dei suoi governi. L'ultima puntata del caso
costato addirittura una sconfitta elettorale a Rajiv e molte ansie alla sua
vedova italiana Sonia, si è svolta ben lontano dai palazzi del potere
della capitale indiana, nella splendida cornice delle cascate Iguazù ai
confini tra Brasile e Argentina. Qui Ottavio Quattrocchi, classe 1938 da
Mascali nel Catanese, è stato arrestato il 6 febbraio mentre prendeva
l'aereo per Buenos Aires sulla base di una segnalazione dell'Interpol,
l'agenzia internazionale di polizia sollecitata dall'Ufficio investigavo
centrale di Delhi.
L'accusa è di essere stato negli anni '80 il mediatore in nome del
Congresso di un gigantesco appalto stile Tangentopoli da 13 milioni di dollari
vinto dalla ditta AB Bofors per fornire fucili all'esercito indiano.
L'imprenditore ha atteso in una cella argentina le decisioni sulla sua sorte
mentre la notizia restava strettamente riservata. E per uno dei tanti colpi di
scena di questo giallo politico finanziario che dura esattamente da 20 anni,
una corte di giustizia lo ha rilasciato su cauzione proprio nel giorno in cui
l'India avviava le pratiche per l'estradizione.
Ora un drappello di ufficiali si appresta a raggiungere
l'Argentina munito di documenti ancora da far tradurre in spagnolo, con i quali
intendono provare che su richiesta di Quattrocchi grosse tangenti furono
versate dalla svedese Bofors su conti svizzeri di alti personaggi indiani. Ma
non è solo lo scetticismo delle magistrature estere a rendere difficile
il trasferimento d'autorità di Quattrocchi in India. L'uomo del
più grande scandalo giudiziario nella storia moderna dell'India è
infatti cittadino italiano, e le possibilità di estradarlo in uno stato
terzo sono molto remote.
Le opposizioni politiche indiane hanno subito denunciato il silenzio delle
autorità, che avrebbero tenuto segreta la notizia dal 6 febbraio per
evitare il riemergere di uno scandalo nazionale alla vigilia dell'approvazione
del delicato bilancio dell'Unione federale e mentre si svolgono le elezioni in
tre Stati. Tra i critici più severi gli esponenti dell'ex partito di
governo, i religiosi ultraortodossi del Bjp che giocano sulla
nazionalità di Quattrocchi per dimostrare le "connessioni
italiane" della leader del Congresso Sonia Gandhi. Secondo il Bjp i legami
dell'uomo d'affari con la famiglia Nerhu-Gandhi sono provati da anni, e
spiegano con questi la rapida ascesa del giovane funzionario dell'Eni che
sbarcò in India nel 1964 (quando aveva appena 26 anni) per occuparsi di
fertilizzanti, per poi diventare in questo ramo il capo di un piccolo impero
finanziario, oltre a mediare altri appalti governativi per cifre superiori ai
60 milioni di dollari.
Stamattina la sessione del parlamento indiano è stata interrotta dalle
proteste dei partiti di opposizione che, al grido di "Sonia Gandhi
è una ladra", hanno chiesto al governo chiarimenti sulla vicenda.
L'opposizione sospetta che lei e il suo partito del Congresso abbiano voluto
nascondere la notizia del fermo di Quattrocchi, resa nota solo sabato scorso,
al fine di far trascorrere in silenzio i trenta giorni necessari per ottenere
l'estradizione.
(27 febbraio 2007)
Il mercato
immobiliare negli ultimi anni ha attirato l’interesse di un numero crescente di
investitori che hanno impiegato il loro capitale nell’acquisto di un’abitazione
non sempre destinata ad essere abitata.
Investire nel mattone conviene? O almeno, il mercato immobiliare garantisce la
tenuta del capitale nel tempo, e un minimo di ritorno dopo alcuni anni. Una
domanda a tinte forti, alla quale è difficile dare una risposta univoca.
Senza dubbio il mercato immobiliare sta vivndo una fase di rallentamento
graduale della crescita delle quotazioni, per questo diventa sempre più
importante "mirare" la scelta di investimento, da valutarsi in
un’ottica di medio lungo termine.
Per dare una risposta a questa domanda, l’Ufficio Studi Tecnocasa ha messo a
confronto le dinamiche di crescita delle quotazioni degli immobili, dei canoni
di locazione e dei rendimenti, nel periodo che va dagli inizi del 2001 fino al
primo semestre del 2006. L’andamento delle variazioni dei canoni di locazione
nel tempo è stato elaborato sul bilocale.
Dalle analisi risulta che il mercato delle locazioni è rimasto pressoché
invariato ed in alcuni casi ha segnalato dei ribassi. Infatti focalizzando
l'attenzione sulle dieci grandi città italiane delinea uno scenario di
sostanziale stabilità dei canoni di locazione dei bilocali (+0.3%) ed
una flessione per quelli dei trilocali (-0.2%). L'Ufficio studi Tecnocasa ha
poi effettuato per alcune città italiane, un’analisi dei rendimenti per
zone, e per ognuna di esse è risultato che i rendimenti maggiori si
spuntano nelle aree periferiche e semicentrali; nelle zone centrali l’immobile
sembra rendere meno.
A questo punto ponendosi dalla parte dell'investitore è necessario
effettuare alcune considerazioni. Secondo l'analisi effettuata da Tecnocasa, se
l'investitore ha una notevole disponibilità di spesa potrebbe pensare ad
un’operazione di frazionamento. Essa prevede l’acquisto di un immobile di
grande dimensione da ristrutturare, da suddividere in porzioni di abitazioni di
dimensione più piccola. Il numero di componenti per famiglia sta
diminuendo, aumentano sempre di più i single e le coppie. Il mercato
immobiliare si sta adeguando offrendo immobili, più piccoli e adatti
alle esigenze di questi potenziali acquirenti o affittuari. La stessa tipologia
di investitore potrebbe decidere di acquistare
Una ricerca dell'osservatorio inglese
Analysys evidenza questo fenomeno, chiamato Fixed-mobile substitution
SI
TELEFONA sempre più con il cellulare e meno con la rete fissa, che si
tende persino ad abbandonare: è un fenomeno marcato e in forte crescita,
soprattutto in Italia, come dimostrano i dati appena rilevati dall'osservatorio
di ricerca inglese Analysys e concessi per pubblicazione a Repubblica.it.
Gli esperti la chiamano "fixed-mobile substitution" (Fms) ed è
un'abitudine che si esplica in due modi: tendiamo a ridurre il numero di
telefonate fisse privilegiando il cellulare oppure (nel caso più
estremo) arriviamo a usarlo in modo esclusivo, distaccando la linea fissa.
In Europa Occidentale, dal 2004 al 2006, è passata dal 9 al 12 per cento
la percentuale di case che usa solo il cellulare. Il numero di minuti di
chiamate via cellulare è passato invece dal 28 al 35 per cento. In Europa
si va da un estremo all'altro. In Finlandia e in Portogallo è persino
una casa su tre a non avere linea fissa e lì il 60 e il 70 per cento di
minuti di chiamate (rispettivamente) avviene via cellulare. All'estremo
opposto, Svezia e Germania. L'Italia si trova nella parte alta della classifica
per quanto riguarda le case senza rete fissa: 16 per cento, contro il 13 per
cento del 2003.
Meno
diffusa in Italia invece, rispetto alla media europea, l'abitudine a telefonare
più con il cellulare che con il telefono normale. È il 33 per
cento, infatti, la quota di chiamate fatte via rete mobile, sul totale, il che
ci mette nella parte bassa della classifica.
Significa che c'è da noi soprattutto un nocciolo duro di persone che
vuole eliminare il canone di Telecom Italia. Chi conserva il telefono fisso,
invece, lo privilegia al cellulare nelle chiamate, per risparmiare. Analysys
nota infatti che in Italia le chiamate via cellulare costano ancora molto,
rispetto alla media europea, anche se il prezzo per minuto è calato del
24 per cento negli ultimi due anni.
Le cause della Fms sono molteplici: riflettono un mercato ma anche una
società che cambia. Da una parte, i cellulari e le telefonate mobili -
scrive Analysys - sono sempre più economici; dall'altra, in una società
che spinge sempre più la gente fuori di casa, per lavoro, e incentiva
l'individualismo, cresce il bisogno di una linea mobile e di un telefono
personale.
Gli operatori mobili europei, poi, hanno approfittato della tendenza e si sono
messi a incoraggiarla, con piani tariffari ad hoc. Devono farlo, andando a
pestare i piedi agli operatori fissi, per compensare il progressivo calo che
registrano sui margini di profitto delle chiamate voce. Visto però che
le persone hanno un crescente bisogno di internet, qualche operatore mobile ha
cominciato anche a differenziare i propri servizi e a offrire accesso banda
larga. Avanguardia di questa strategia, in Europa, è stata Vodafone. In
Italia ha un piano tariffario (Vodafone Casa) che incentiva l'abbandono di Telecom
e, come opzione, permette anche di avere l'accesso banda larga di Fastweb.
Secondo Analysys, è opportuno che gli operatori offrano accesso Adsl,
per sostituirsi meglio ai fissi; la banda larga via rete mobile Umts, infatti,
ancora non è all'altezza del confronto. L'offerta Vodafone Casa ha
raggiunto, a fine dicembre, 596.000 clienti attivi, con una crescita del 65 per
cento rispetto a fine settembre.
Gli operatori fissi non restano certo fermi a incassare colpi, e hanno
già cominciato una contro-strategia per riconquistare i clienti. Per
esempio, lanciando tariffe flat per fare chiamate illimitate a fronte di un
canone fisso; oppure introducendo offerte VoIP (Voice over IP) su Adsl, che ora
permettono sconti sulle telefonate e sempre più spesso in futuro
apriranno la porta a servizi evoluti.
Telecom ha appena lanciato, sul proprio VoIP, infatti, un Nuovo Videotelefono:
a differenza del precedente, permette di fare video chiamate su IP, molto
fluide (fino a 25 fotogrammi al secondo), a tariffe paragonabili a
un'interurbana. Le video chiamate via cellulare, invece, sono più
costose e a bassa qualità (non essendo su IP).
Un'altra freccia nell'arco degli operatori fissi, contro lo strapotere dei
cellulari, sono i servizi convergenti (fisso-mobile). Permettere cioè
all'utente di telefonare da casa e fuori sempre con uno stesso numero e
terminale, a tariffe a forfait. Funziona così l'offerta Unico, di
Telecom Italia: dovrebbe arrivare in commercio nei prossimi giorni, uscendo
dalla fase sperimentale. I servizi convergenti sono appena all'esordio e nei
prossimi mesi dovrebbero diventare più completi e comodi da usare.
Al 4° giorno dall’inaugurazione del portale
www.italia.it (ma l'era dei portali non si era chiusa
alla fine degli anni Novanta, con lo scoppio della bolla?), monta
l'indignazione in Rete.
Nel mirino i soldi stanziati dal governo - 45
milioni di euro, davvero tanti! ("che invidia!"
è il primo pensiero di tutti
i webmaster che sognano il ritorno della New Economy...) - e le aziende
che li avrebbero intascati per realizzarlo: in testa nei credits del sito risultano Sviluppo Italia (attraverso "Sì
Innovazione Italia") e la Ibm
Italia, le due società più
note che hanno vinto la commessa già ai tempi del governo
Berlusconi con l'allora ministro per l'innovazione Lucio Stanca, che dell'Ibm a suo
tempo è stato amministratore delegato.
A ben guardare, molti di quei milioni sarebbero andati alle Regioni
per sviluppare i contenuti e devono ancora essere spesi: così
scrive Punto Informatico e mi confermano
fonti Ibm.
Roberto Falavolti, amministratore delegato di "Sì Innovazione
Italia", qui citato, avrebbe comunicato che l’Italia ha
"investito" così
i 45 milioni di euro:
21
milioni alle Regioni per produrre contenuti
turistici;
4
milioni per l’aggregazioni delle informazioni
centralizzate (redazione);
8
milioni a Ibm & soci per la piattaforma
tecnologica;
mentre
12 milioni saranno impiegati per “completarlo”:
cioè chiudere il cantiere di sviluppo (verranno ad esempio portate ad 8
le lingue supportate, oggi sono 4) e promuovere il portale in rete.
Ma c'è già chi - come l'Adiconsum
-
vuole scuse pubbliche per la spesa di denaro pubblico, chi denuncia che non è sicuro , chi grida al solito scandalo
italiano, e chi propone di rifare così il sito perchè sia più bello,
più utile e soprattutto dimostrando che certe cose con le tecnologie di
oggi si possono fare a costi bassissimi...
Prometto di occuparmene, a puntate, sentendo tutte le parti in causa.
++ Da La Stampa 26-2-2007 Corruzione in Basilicata, indagati quattro
magistrati
+ Da La Nuova Ferrara 26-2-2007.
Senatore capro espiatorio di un incauto "ragioniere"
+ Da La Repubblica 26-2-2007 La dittatura della coscienza - Umberto
Galimberti
+ Da estense.com 26-2-2007 I due senatori dissidenti si incontrano a Ferrara
Il 2 marzo iniziativa contro la guerra in Afghanistan
++ Da La Stampa 26-2-2007 Corruzione in
Basilicata, indagati quattro magistrati
26/2/2007
(13:59) - INCHIESTA SUI MAGISTRATI LUCANI
CATANZARO
Sarebbero quattro i magistrati lucani sui quali sta indagando per competenza
territoriale la Procura della Repubblica di Catanzaro. L’inchiesta si
svilupperebbe su quattro filoni di indagini e riguarderebbe rapporti fra
esponenti del mondo giudiziario, politici, rappresentanti delle forze
dell’ordine e funzionari.
Le indagini sono coordinate dal sostituto procuratore Luigi de Magistris, lo
stesso che indaga su altre vicende che coinvolgono uomini politici calabresi e
di livello nazionale. La notizia è stata riportata oggi dal Corriere
della Sera. E in procura a Catanzaro viene mantenuto il massimo riserbo. Gli indagati,
nei confronti dei quali le ipotesi di reato vanno da abuso d’ufficio a
corruzione in atti giudiziari, ad appropriazione indebita e truffa, sarebbero
tredici in tutto. Tra loro i quattro magistrati: i procuratori della Repubblica
di Potenza, Giuseppe Galante, e Matera,Giuseppe Chieco; il sostituto
procuratore della Repubblica di Potenza Felicia Genovese ed il presidente del
Tribunale di Matera, Iside Granese.
Le indagini riguarderebbero una serie di illeciti che sarebbero stati commessi
nei settori bancario, turistico e sanitario. L’inchiesta farebbe riferimento a
rapporti tra esponenti della magistratura, del mondo politica della Basilicata
e della sanità.
Al centro dell’inchiesta l’Azienda ospedaliera S. Carlo di Potenza, il cui
direttore generale è Michele Cannizzaro, marito del magistrato Felicia
Genovese. Al vaglio degli inquirenti anche i legami di alcuni dei magistrati
indagati con i vertici della Banca popolare del Materano. Secondo quanto
emergerebbe, il procuratore Chieco avrebbe avuto interesse nella realizzazione
di un villaggio turistico, il Marinagri di Policoro (Matera). E all’attenzione
degli inquirenti sarebbero finite presunte omissioni di cui il magistrato si
sarebbe reso responsabile nell’ambito di un’inchiesta che era stata avviata
dalla Procura di Matera su presunti illeciti nell’operazione edilizia.
Il villaggio, in particolare, sarebbe stato costruito su un terreno del
demanio. Tra gli indagati anche un senatore. Uno dei filoni della inchiesta che
sta conducendo la Procura delle Repubblica di Catanzaro sui magistrati lucani,
sarebbe partita da una esposto presentato da un imprenditore, Nicola Piccenna,
contro il procuratore della Repubblica di Matera, Giuseppe Chieco, che aveva
chiesto di archiviare un procedimento penale contro i vertici della Banca
popolare del Materano. L’imprenditore presentò l’esposto in quanto si
ritenne si ritenne danneggiato dalla decisione del procuratore . L’esposto
è stato presentato da Piccenna alla Procura generale di Potenza che l’ha
trasmessa, per competenza funzionale, alla Procura della Repubblica di
Catanzaro.
Dopo avere svolto le indagini, la Procura di Catanzaro ha chiesto
l’archiviazione del procedimento a carico di Chieco. Richiesta che è
adesso all’esame del gip di Catanzaro, Antonio Giglio, che si è
riservato di decidere. Non è eluso, comunque, che nelle prossime.
+ Da La Nuova Ferrara 26-2-2007. Senatore capro espiatorio di un
incauto "ragioniere"
Agenda
e Lettere Senatore capro espiatorio di un incauto "ragioniere" Voglio
esprimere la mia piena solidarietà al Sen. Fernando Rossi vittima, in
questi giorni di un'assurda e inaudita campagna mediatica culminata con una
vera e propria aggressione fisica. Anche se non condivido a pieno la sua
decisione di non votare la politica estera del Governo, apprezzo la sua
coerenza di uomo di sinistra e di fedele servitore della Pace, merce assai rara
oggi. Il suo gesto di non partecipare alla votazione è stato la scelta
giusta per non danneggiare il Governo contribuendo, in questo modo, ad
abbassare il quorum ed ottenere più facilmente i voti necessari.
Comunque, anche votando, sarebbe sempre mancato un voto indispensabile per
l'approvazione: quindi le responsabilità vanno cercate altrove. E vero
però, ed è qui che io dissento, che con questo suo comportamento
ha creato un problema alla sinistra, ora più debole, accelerando
così il progetto del Partito Democratico. Non avrei mai scritto al
giornale esprimendo pubblicamente la mia solidarietà se non avessi letto
lo scritto di Baratelli tendente a mettere in cattiva luce la persona di Rossi
non solo sul piano politico, ma anche nella sfera personale. E' vero, forse
Rossi non avrà i titoli accademici, ma mi chiedo se per essere persone
coerenti con i propri princìpi c'è bisogno di avere una laurea. E
poi non mi risulta che Baratelli abbia mai ricoperto incarichi pubblici o di
rilievo nell'ambito politico cittadino pur avendo i titoli accademici,
evidentemente ciò che ha il Sen. Rossi a lui manca, pertanto prima di
giudicare gli altri bisognerebbe prima guardare a se stessi. Quantomeno
discutibile inoltre è stato anche il comportamento e le dichiarazioni politiche
di alcuni dirigenti nazionali del P.d.C.I. in merito all'aggressione subita da
Rossi sul treno che lo riportava a Ferrara dando il via, con le loro
affermazioni, ad un vero e proprio linciaggio morale da parte dei sui ex
compagni di partito. E' singolare il fatto che sabato 17 febbraio questi
dirigenti fossero a Vicenza a manifestare per la pace e contro la violenza poi
qualche giorno dopo giustificano l'aggressione fisica al loro ex senatore.
Evidentemente rode ancora il fatto che sia uscito dal partito restituendo la
tessera nelle mani del segretario nazionale e non buttato fuori come qualcuno
tenta di insinuare. La crisi di questo Governo era nell'aria già da un
po', era solo questione di tempo. Se non fosse inciampato sulla politica estera,
votata qualche giorno fa, sarebbe caduto nei prossimi mesi sui Dico o sulle
pensioni o su qualcosa d'altro ancora. Morale: quando non ci sono i numeri si
fa fatica a governare. Smettiamola quindi di incolpare Rossi. Rossi è
stato solo il capro espiatorio di qualche incauto "ragioniere" che in
Senato ha sbagliato i conti! Buon lavoro Senatore e lunga vita al Governo
Prodi! Daniele Ferraresi Sarebbe opportuno che i fantasmi del passato
tornassero nel silenzio. Le nostre posizioni rispetto a Rossi sono state di ferma
e chiara condanna e di assoluta tempestività. Il prossimo dibattito alla
Camera e al Senato e la conseguente fiducia a Prodi faranno cessare questa
inutile canea. La signora Bisi e la signora Marchesi dovrebbero fare a meno di
ascoltare le sirene che arrivano da Roma, poiché il ruolo di Diliberto e la
linea del PdCI sono fermi e chiari, di ampia prospettiva politica e di assoluta
fedeltà a Prodi e al centro-sinistra. Alexandra Storari Segretaria
provinciale PdCi di Ferrara.
+ Da La Repubblica 26-2-2007 La dittatura
della coscienza - Umberto Galimberti
C'è
una parola magica che, quando si è in procinto di fare disastri o a
disastri avvenuti, viene evocata per garantirsi l'impunità, quando non
addirittura il rispetto anche da parte di chi non ne condivide le posizioni e
soprattutto le conseguenze della azioni. Questa parola magica si chiama
"coscienza". L'abbiamo sentita evocare da Fernando Rossi e da Franco
Turigliatto, i due senatori che, con il loro voto, hanno determinato la caduta
del governo Prodi. Alla "coscienza" e a quella sua variante che sono
i "princìpi" era ricorso anche Clemente Mastella per
giustificare la sua opposizione ai Dico. Alla "coscienza" ricorrono
infine tutti quei medici che rifiutano l'interruzione di gravidanza anche nei
casi consentiti dalla legge o la sospensione delle cure come nel caso Welby e
in altri simili. Ma cos'è questa "coscienza"? E' la dittatura
del principio della soggettività che non si fa carico di alcuna
responsabilità collettiva e tanto meno delle conseguenze che ne
derivano. Il medico che, in nome dell'"obbiezione di coscienza",
rifiuta l'interruzione di gravidanza a chi nella miseria genera molti figli
nella più assoluta indigenza, a chi resta incinta in età
infantile, a chi porta in grembo feti affetti da malattie ereditarie, non si fa
carico delle condizioni della madre e dell'infelicità futura dei
nascituri, ma solo dell'osservanza dei suoi princìpi, che consente alla
sua coscienza di sentirsi "a posto", proprio perché rimuove, nega,
non vede o non vuol vedere le conseguenze della sua decisione. Questo tipo di
"coscienza" che non assume alcuna responsabilità sociale
è una coscienza troppo ristretta, troppo angusta per poter essere eretta
a principio della decisione. Se poi, alle sua spalle lavora l'obbedienza a
princìpi che qualche autorità, come ad esempio la chiesa, pone
come "vincolanti", allora si giunge a quell'autolimitazione della
responsabilità che abbiamo conosciuto in epoca nazista, dove tutti,
dalle più alte gerarchie ai semplici militari, si sentivano responsabili
solo di fronte ai superiori ("Ho obbedito agli ordini") e non
responsabili di fronte alle conseguenze delle loro azioni. Se la dittatura
della coscienza soggettiva, che in nome dei propri princìpi non si piega
alla mediazione e non si fa carico delle domande sociali (come possono essere quelle
delle coppie di fatto o dei malati terminali che chiedono l'interruzione delle
cure) diventa principio inappellabile in politica, che è il luogo dove
dovrebbe trovare compensazione il conflitto delle diverse posizioni, allora
bisogna dire chiaro e forte che coloro che si attengono alla dittatura della
coscienza non devono entrare in politica, perché la loro coscienza non prevede
alcuna responsabilità collettiva, ma solo l'osservanza dei propri
princìpi. E questo vale tanto per i medici, la cui responsabilità
oggi non è più solo tecnico-professionale ma anche sociale,
quanto per i politici che, per il solo fatto di aver deciso di entrare in
politica, non possono esonerarsi, in nome dei loro princìpi, di
ascoltare le domande, le richieste, i desideri di coloro che li hanno eletti.
Perché la politica è "mediazione", non
"testimonianza". Per la testimonianza ci sono altre sedi, come ad
esempio la condotta della propria vita. Se si attiene unicamente ai propri
princìpi, senza farsi carico delle mediazioni e soprattutto delle
conseguenze delle proprie azioni, una simile coscienza, che limita a tal punto
il "principio di responsabilità collettiva e sociale",
è troppo ristretta e troppo angusta per diventare il punto di
riferimento della decisione politica, che per sua natura deve farsi carico
della mediazione e delle conseguenze delle sue risoluzioni. Per cui la
dittatura della soggettività è in ogni suo aspetto incompatibile
con l'agire politico, e non salva neppure l'anima perché, come ci ricorda Kant:
"La morale è fatta per l'uomo, non l'uomo per la morale". E
questo monito vale anche, e forse a maggior ragione, per l'ideologia.
+ Da estense.com 26-2-2007 I due senatori
dissidenti si incontrano a Ferrara
Notizia
inserita il 26/2/2007
Il 2 marzo iniziativa contro la guerra in Afghanistan
I
due senatori dissidenti si incontreranno a Ferrara. Fernando Rossi
(indipendente) e Franco Turigliatto (Prc), parteciperanno il prossimo 2 marzo
all’incontro organizzato nella città estense da Officina comunista,
l’associazione fondata dal parlamentare ferrarese uscito dal Pdci.
Il
giorno prima è prevista la fiducia al Prodi bis. Anche se questa volta
non dovrebbero esserci sorprese, l’occasione sarà sicuramente “ghiotta”
per sentire dalla viva voce di due dei senatori più discussi del momento
la propria opinione per quanto successo quel "terribile
mercoledì".
Ieri
intanto Fernando Rossi, a Roma per l'assemblea nazionale sull'Afghanistan,
promossa dai movimenti pacifisti, ha voluto parlare e spiegare la propria
posizione a quanti, arrabbiati o delusi, non riuscivano a giustificare o
comprendere la scelta del non voto a Palazzo Madama. "Ho escluso gli
insulti e le minacce. Per il resto ho voluto parlare con chi esprimeva
preoccupazione per un eventuale ritorno di Berlusconi – ha detto Rossi -, e
sopratutto ho cercato di spiegare come il mio atteggiamento sia stato
ininfluente ai fini della caduta del Governo. La cosa che però ancora
non mi torna, è come possa essere accettata la prima versione (Rossi e
Turigliatto rei dell'affondo a Prodi), quando invece i numeri parlano chiaro”.
L’eventuale voto positivo dei due “dissidente” sarebbe stato ininfluente
secondo Rossi. “Non solo – continua -: si è trattato di un vero e
proprio linciaggio mediatico, sfociato nel mio caso addirittura in un'aggressione...".
I
colpevoli della crisi, secondo Rossi, vanno cercati altrove. "Vorrei
parlare con la gente, spiegare cos'è successo in aula, dimostrare come
non sia da imputare a me la crisi. Ma soprattutto mi piacerebbe potermi
confrontare con i politici che mi hanno accusato di essere inaffidabile, con
quelli che mi hanno demonizzato, con chi continua a chiedersi come sta la mia
coscienza".
Domande
e risposte che, si presume, saranno in molti ad attendere già
venerdì prossimo nell’incontro alla sala Estense.
Alle
20.30, infatti, per l’incontro dibattito organizzato da Officina comunista dal
titolo "Afghanista No War", sono attese le presenze del senatore dei
Verdi Mauro Bulgarelli, del parlamentare europeo Giulietto Chiesa, di don Fabio
Corazzina del coordinamento nazionale di Pax Christi, di Giorgio Cremaschi
segretario nazionale Fiom Cgil, del senatore Fosco Giannini capogruppo Prc, di
Nella Ginatempo del Movimento contro la guerra, di Walter Lorenzi di
Disarmiamoli, di Tiziano Tussi del comitato nazionale dell’Anpi, di Dario Fo e
della senatrice Franca Rame (in collegamento telefonico). Officina comunista
sarà rappresentata dallo stesso Fernando Rossi e da Monia Benini.
E
dal quel che è dato sapere, l'Officina di Rossi starebbe attendendo
anche la risposta di qualche altro importante ospite.
La
crisi di governo è rientrata. A meno di imprevedibili imprevisti il
governo Prodi otterrà la fiducia; e non sarà un Prodi bis, ma lo
stesso governo di prima che continua. Che continua come prima?
Offrendo dimissioni non dovute Prodi ha spiazzato tutti, ed è anche
riuscito a spaventare i suoi infidi di sinistra. L'inaspettato spavento li ha
indotti a nuovi giuramenti di fedeltà e a riconoscergli
l'autorità di «esprimere in maniera unitaria la posizione del governo».
Questa frase è un po' contorta (non si capisce come una posizione possa
essere espressa in maniera disunitaria), e anche piuttosto ovvia (descrive la
normale prerogativa di qualsiasi capo di governo). Ma diamogli pure il credito
di essere una promozione a «gran capo». Resta che quasi tutti i punti del
cosiddetto diktat prodiano sono blandi e evasivi. Sulle pensioni si tace
sull'aumento dell'età pensionabile; sulla famiglia si tace sui nodi dei
Dico. Salvo che sull'Afghanistan e forse sulla Tav, il resto è tutto
vago, vaghissimo. Anche sulla riforma elettorale che tutti dicono
indispensabile, perché altrimenti non ha senso tornare a votare.
Dico la mia. Il diktat prodiano è quasi tutto fumo e poco arrosto. La
faccia feroce in realtà nasconde un prudentissimo veleggiare tra le
mine. E il punto resta se la mossa di Prodi serva davvero a fornirgli una sia
pur piccolissima maggioranza certa e fidabile. Veniamo così ai numeri.
Incalzata dal Presidente Napolitano, l'Unione ha disperatamente cercato di
«comprare» qualche senatore in più. Ne ha catturato uno, forse tre. Un
magrissimo bottino, che tutt'al più assicura il prossimo voto di
fiducia. Ma dopo? Come andrà, dopo, la navigazione quotidiana? La
verità è che il centrosinistra sopravvive da sempre, al Senato,
su una maggioranza incerta e friabile. Incerta perché i senatori a vita sono
«indipendenti» e hanno il diritto di votare ogni volta come credono; e friabile
perché all'estrema sinistra esistono teste quadrate che non ragionano come le
teste rotonde, o che forse proprio non ragionano. Ma se cancelliamo dal
preventivo i sette senatori a vita e le teste quadrate, è sicuro che
Prodi va sotto. Domani come ieri. Allora di cosa consiste il «nuovo slancio»
del governo? Secondo Angelo Panebianco, Prodi dovrà «cambiare passo».
Finora la sua scelta strategica è stata, per assicurarsi la coesione dei
suoi, di mantenere un'«alta tensione» contro il centrodestra e di privilegiare
il suo rapporto con l'estrema sinistra. Ma ora, conclude Panebianco, «l'epoca
delle sberle quotidiane all'opposizione è finita». Magari. D'accordo. Ma
dubito che questo nuovo corso sia congeniale alla natura di Prodi. Prodi
è uomo di bunker. La sua strategia del muro contro muro, del polo puro e
duro, non è di questa legislatura; è una costante sin dal primo
governo Prodi, che si autoaffondò nel 1998 pur di non macchiare la sua
purezza «aprendosi» a Cossiga. La valutazione realistica della situazione
è, dunque, che a Prodi mancano, sin dal primo giorno, i numeri per «fare
bunker». Se ha tirato avanti per nove mesi è in forza della
cecità della volontà (che è una sua vera forza). Ma la
volontà ha ora sbattuto il naso nella realtà. Perché senza il
sostegno di numeri non si può trasformare un passino, o un colabrodo, in
un muro. Resta da vedere se Prodi saprà essere l'uomo per una diversa
stagione.
26
febbraio 2007
Intervista
al senatore a vita: il nuovo programma mi convince
non c'è alternativa, opportuno che ci sia continuità di governo
ROMA - Confessa di essere orientato a votare la
fiducia al governo Prodi. Sarà pure una sorpresa, ma per lui, per il
sette volte presidente del Consiglio che con la sua astensione mercoledì
ha fatto scivolare verso la crisi il governo Prodi, non lo è affatto,
assicura ora. La linea telefonica va e viene, dall'auto con la quale si sta
allontanando da Montecarlo. Si è intrattenuto nel Principato per
l'intero fine settimana. "Un convegno internazionale di politica estera
programmato da tempo", non una vacanza, sia chiaro. Comunque un'ottima
occasione per tenersi lontano dallo stress romano al quale in queste ore sono
inevitabilmente sottoposti i (quasi) determinanti senatori a vita.
Presidente Andreotti, Prodi torna alle Camere. Voterà la fiducia?
Cosa ha deciso dopo questi giorni di riflessione?
"Per la verità, a Montecarlo siamo stati impegnati in questo
convegno sull'Iran e sulla politica internazionale. Momento propizio per
prendere atto che la situazione, proprio sotto il profilo internazionale,
è assai preoccupante".
E dunque, presidente?
"E dunque occorre stabilità di governo in momenti come
questi".
Vuol dire che voterà la fiducia?
"Sono stato lontano ma ho seguito l'andamento dei fatti. Ho letto
soprattutto il nuovo programma al quale ha lavorato la maggioranza".
E qual è il suo giudizio?
"Positivo. Ho notato con piacere che certi punti non fanno più
parte degli obiettivi dell'esecutivo".
Si riferisce ai Dico, al riconoscimento delle unioni civili che lei non
aveva fatto mistero di non condividere affatto?
"Sì, ho visto che i matrimoni omosessuali, diciamo
così, saranno accantonati. E questo è condivisibile. Dunque penso
che non dovrebbero esserci difficoltà per il governo ad andare
avanti".
Presidente Andreotti, intende dire che potrebbe andare avanti anche con il
suo voto o no?
"Penso che non dovrebbero esserci difficoltà per il raggiungimento
del quorum necessario ad ottenere la fiducia. Mi ha convinto molto quel che ha
detto il presidente Napolitano".
A cosa si riferisce?
"Anche io penso, come ha giustamente sottolineato il Quirinale, che non ci
siano alternative a questo esecutivo. Che la situazione è tale che
risulta difficile trovare una soluzione diversa, almeno per adesso".
Insomma, obtorto collo, anche lei potrebbe decidere di sostenere
l'esecutivo.
"È opportuno che ci sia una continuità di governo, questo
è certo. La fase internazionale, ripeto, è assai delicata. E in
situazioni come queste, lo dico anche per esperienza personale, sono necessari
dei governi in carica che siano nel pieno dei loro poteri. E poi, ribadisco
anche qui, sono soddisfatto dell'accantonamento di quei matrimoni....".
Avrà saputo anche lei a Montecarlo dell'interpretazione maliziosa
circolata con insistenza a Roma a proposito della sua astensione di
mercoledì.
"No, quale?".
Nella sinistra radicale, ma non solo, il suo mancato voto in favore della
politica estera del governo al Senato è stato ricondotto proprio al
dissenso sui Dico. "Il Diario" ci ha costruito anche la
copertina, la sua foto e sullo sfondo la sagoma di Benedetto XVI: insomma,
l'astensione in aula come riflesso delle perplessità - chiamiamole
così - vaticane.
"No, guardi. Sono abbastanza maggiorenne per poter fare
delle valutazioni personali e decidere in autonomia come orientare il mio voto.
Certo, c'è stata una coincidenza obiettiva tra la mia posizione e quella
delle gerarchie ecclesiastiche in merito a quel provvedimento così contestato.
Una coincidenza dettata dalla non condivisione degli obiettivi fatti propri dal
governo col ddl sui Dico. Detto questo, ecco, non c'era bisogno che me lo
ricordasse il Sant'Uffizio come dovevo comportarmi".
(26 febbraio 2007)
Ma la Rice replica: "Schiacciate il bottone
dello stop"
NEW YORK
«Il programma nucleare è una locomotiva senza freni, impossibile da
fermare». E’ questo il monito al quale il presidente iraniano, Mahmud
Ahmadinejad, si affida per fare sapere alla comunità internazionale che
nessuna risoluzione o decisione dell’Onu potrà impedire a Teheran di
arrivare all’energia nucleare.
La scelta di tempo dell’uscita di Ahmadinejad non è casuale perché
proprio oggi a Londra si riuniscono gli alti diplomatici delle Sei potenze -
Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania - che a fine dicembre
fecero approvare al Consiglio di Sicurezza la risoluzione 1737 sulle sanzioni,
ed ora si avviano ad esaminare un testo che propone misure più rigide.
«Il treno è senza freni - ha detto Ahmadinejad ad un gruppo di esponenti
del clero iraniano - perché abbiamo smantellato i freni e lo abbiamo lanciato
in avanti qualche tempo fa». Come dire: il programma nucleare ha superato il
punto di non ritorno. La risposta di Washington non si è fatta attendere
ed il Segretario di Stato, Condoleezza Rice, ha affidato alla tv Fox una
contro-battuta: «Se il treno è in corsa, allora è arrivato il
momento di spingere il bottone dello stop».
Ma di fronte al duello verbale con l’amministrazione Bush gli ayatollah non si
tirano indietro: se 48 ore prima il vicepresidente Dick Cheney aveva ammonito
che «nessuna opzione è esclusa», a rispondergli è il viceministro
degli Esteri iraniano, Manuchehr Mohammadi, secondo cui «siamo pronti anche
alla guerra». Ad avvalorare lo scenario dell’incombente conflitto è
l’articolo del «New Yorker» firmato da Seymour Hersh - in genere ben informato
sulle questioni di intelligence - secondo cui il Pentagono sta pianificando un
«attacco da lanciare in meno di 24 ore», oltre ad aver inviato in territorio
iraniano unità di intelligence «molto aggressive», al di là del
confine iracheno.
A questo bisogna aggiungere l’avvenuto lancio del primo «razzo spaziale»
iraniano. Il capo del programma spaziale, Mohsen Bahrami, ha spiegato alla tv
locale che il test è stato «coronato da successo» rendendo possibile la
prossima messa in orbita di satelliti per telecomunicazioni. In realtà
il test ha un valore militare in quanto testimonia che lo sviluppo della
tecnologia missilistica iraniana è a tal punto avanzato da rendere
possibile la costruzione di un vettore intercontinentale - forse simile a
quello lanciato senza successo dai nordcoreani questa estate - capace
potenzialmente di minacciare il territorio degli Stati Uniti.
L’ipotesi di un confronto militare fra Usa ed Iran è avvalorata da altri
segnali: dall’addestramento da parte della Us Navy di delfini e leoni marini da
impiegare a protezione delle unità militari da attacchi terroristici
fino all’inizio dell’arrivo dei primi missili Patriot americani in Qatar,
Bahrein ed Emirati Arabi per proteggerli dal rischio di lanci balistici da
parte di Teheran.
Non tutti a Washington sarebbero però d’accordo con l’escalation - nella
quale rientra anche lo spostamento dal Pacifico all’Oceano Indiano della
portaerei Reagan - ed almeno cinque alti ufficiali del Pentagono avrebbero
minacciato di dimettersi in caso di guerra. A rivelarlo è stato il
britannico «Sunday Times» spiegando che si tratta di «generali ed ammiragli»,
secondo i quali vi sarebbero molti dubbi fra i comandi militari sull’«efficacia
ed anche sull’opportunità» di un’azione militare contro gli impianti nucleari
iraniani. «Per molti di loro si tratta di una questione di coscienza», scrive
il quotidiano londinese.
++ Da Il Riformista 24-2-2007 . Vescovo
ratzingeriano: asili nido? Non potestis
Corriere delle Alpi del
25/02/2007 Teheran verso l'atomica
Cheney non esclude l'attacco
Giornale di Brescia del 25/02/2007
Israele medita blitz aereo sull'Iran
Da La Stampa 24-2-2007 Nei deserti di
Gibuti i tumuli del mistero JEAN-PIERRE TUQUOI
Dal Corriere della Sera 24-2-2007
Cina, boom della religione contro il dio Denaro
I
piani del governo per costruire più asili-nido sono «micidiali per i
bambini e per le famiglie»; le donne vengono trasformate in «macchine da
riproduzione» e la politica del ministro della Famiglia non ha nulla a che
vedere con il bene dei bambini, ma è «volta innanzitutto a reclutare
giovani donne come forza lavoro di riserva per l’industria». Toni simili, da
parte di un vescovo cattolico, in Germania non si erano mai sentiti e un
attacco tanto pesante al governo non si era mai visto. La chiesa bavarese,
notoriamente assi vicina a papa Ratzinger, sembra intenzionata ad adottare i
metodi di un nuovo, micidiale Kulturkampf contro lo stato laico.
Si capisce, perciò, lo stupore (e la preoccupazione) con cui sono state accolte
le dichiarazioni esplosive del vescovo di Augusta Walter Mixa, uno dei massimi
esponenti delle gerarchie ecclesiastiche del meridione tedesco. Tanto
più che questa furia era indirizzata contro la pia Ursula von der Leyen,
la ministra più “cristiana” del gabinetto guidato dalla
cristiano-democratica Angela Merkel. La ministra che, sia detto per inciso,
meno può essere accusata di volere il male dei bambini, visto che ne ha
messi al mondo ben sette.
L’attacco del vescovo Mixa ha seguito a ruota una sequela di polemiche che si
erano già abbattute sul programma messo a punto dal ministero della
Leyen, che era stata accusata dalla destra più conservatrice di
insistere troppo nell’intenzione di sottrarre le madri al loro “dovere” di
educare i figli in casa. Una polemica decisamente reazionaria, la quale
riecheggia però certi scrupoli che sono presenti nello spirito pubblico
tedesco a causa del ricordo del nazismo, i cui piani educativi prevedevano
proprio la sottrazione dei minori alle famiglie e il loro affidamento a
strutture educative statuali. La povera von der Leyen, tuttavia, con la
sostanza di questi scrupoli non ha nulla a che vedere. Il suo piano per la
realizzazione degli asili-nido (attualmente del tutto insufficienti in molti
Länder tedeschi dell’ovest, proprio per il motivo accennato sopra) è
teso semplicemente a rendere più facile la vita alle tante donne che
lavorano e non sanno a chi affidare i figli. E tutto si aspettava meno che di
diventare il bersaglio di un furibondo tiro a segno che la considera strumento
del demonio.
Tanto è apparsa dura e immotivata la sortita del vescovo Mixa che lo
stesso capo del gruppo parlamentare della cattolicissima Csu nella dieta
bavarese, Joachim Hermann, ha sentito il bisogno di prenderne polemicamente le
distanze, richiamando oltretutto alla coerenza coloro i quali, a parole, si
dicono favorevoli a politiche che aiutino la famiglia. Con un po’ di malizia,
Hermann ha ricordato anche al vescovo Mixa che fra le donne che lavorano e che,
per farlo, hanno la necessità di affidare i figli alle strutture
pubbliche, ce ne sono moltissime le quali, specie in Baviera, sono al servizio
proprio della chiesa e delle organizzazioni cristiane come la Caritas. Assai
più duri i giudizi degli esponenti della Spd: il capo dei deputati
socialdemocratici bavaresi Florian Pronold ha accusato Mixa di usare toni da
«caccia mediatica alle streghe», mentre la responsabile federale per le
questioni ecclesiali Kerstin Griese ha invitato la chiesa bavarese a non
seguire le rudezze del vescovo di Augusta.
Al di là delle polemiche sollevate dall’incredibile presa di posizione
di Mixa, si coglie comunque una preoccupazione più generale della chiesa
cattolica tedesca (e un po’ anche di quella evangelica). I rapporti con Roma in
materia di politiche della famiglia e di morale sessuale non sono mai stati
facili, specialmente per quanto riguarda le comunità ecclesiali di base
e quelle, anche ufficiali, della Renania. L’insofferenza dei cattolici
più aperti per le chiusure che arrivavano dal Vaticano (per esempio
sulla somministrazione dei sacramenti ai divorziati) hanno indotto tensioni e
divisioni anche all’interno della Germania, con i bavaresi tradizionalmente
più “fedeli” alle direttive romane. Una accentuazione delle
intolleranze, come quella segnalata dalla sortita del vescovo di Augusta,
potrebbero aprire un conflitto davvero esplosivo.
I talebani pronti ad attaccare la zona
presidiata dagli italiani
Afghanistan, un rapporto lancia l’allarme:
il 2007 l’anno della rottura
WASHINGTON — La situazione in Afghanistan si sta
deteriorando a un punto tale che «se nelle prossime settimane non si verificheranno
cambiamenti drammatici il 2007 diverrà l’anno della rottura». C’è
il pericolo che dal sud i combattimenti si estendano ad altre parti del Paese,
innanzitutto a ovest, «la zona rischio A», dove si trovano le truppe italiane.
Lo afferma un rapporto del Csis o Centro di studi strategici e internazionali,
il serbatoio bipartisan di cervelli di Washington, ammonendo che le forze
americane e della Nato debbono operare per prevenire l’azione dei talebani, che
hanno predisposto una massiccia offensiva a primavera. Secondo un rapporto dei
servizi segreti spagnoli pubblicato ieri da El País, «i talebani cercheranno di
sfondare nelle aree di minore resistenza» a cominciare dalla più vicina,
quella di Herat, dove oltre all’Italia opera anche la Spagna.
I rapporti del Csis e dei servizi spagnoli
fanno capire perché il presidente Bush stia aumentando da
L’Istituto di studi strategici e
internazionali contesta tuttavia la linea di Bush e Blair. Sul piano militare,
sostiene, «servono non le grosse operazioni di terra e aria che fanno
più male che bene, e danneggiano soprattutto i civili, ma interventi
mirati di 15 minuti delle forze di rapida reazione con elicotteri e blindati».
Washington deve rendersi conto che i nemici non sono solo gli insorti ma anche
i signori della guerra e i trafficanti di oppio, «che fanno sempre più
reclute e riempiono il vuoto di potere». Sul piano politico, prosegue il
rapporto del Csis, basato su 1.000 interviste e centinaia di dossier realizzati
a Kabul e in provincia, occorrono riforme, mantenere la rotta come predica Bush
è un grave errore «perché i talebani stanno riconquistando le menti e i
cuori degli afghani». Il problema di fondo è «la perdita di fiducia
della popolazione negli Usa, negli alleati e nel governo Karzai dal
Il Pentagono ha obiettato al rapporto,
intitolato Il punto di rottura: misurare i progressi in Afghanistan, ribattendo
che lo scopo dei rinforzi americani e britannici è proprio quello di
conferire «più tempestività e agilità» alle azioni
militari. E la Casa Bianca ha ricordato che il presidente Bush è
consapevole che «dove finiscono le strade incominciano i talebani» e ha
stanziato 12 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese.Mail Congresso,
che a differenza di quella dell’Iraq appoggia la guerra dell’Afghanistan, pensa
che questi provvedimenti non bastino, e denuncia Paesi come l’Italia, la
Spagna, la Germania e la Francia che rifiutano di battersi sul campo. Se la
prevista offensiva dei talebani fosse anticipata o contenuta, però, i
democratici chiederebbero un riesame della strategia di Bush che in sei anni,
protestano, non ha condotto alla cattura del leader di Al Qaeda Bin Laden né
del leader talebano il mullah Omar, e opterebbero forse per una soluzione politica
della crisi nell’ambito dell’Onu.
Una soluzione politica è stata
proposta ieri da Ovais Ahmad Ghani, il governatore del Belucistan, la provincia
del Pakistan dove gli americani sospettano che si nasconda il mullah Omar. In
un’intervista all’agenzia Reuters, Ghani ha suggerito «un cessate il fuoco e
una presa di contatto per negoziati di pace». «Voi rischiate — ha detto — che
la guerra mossavi dai talebani diventi una guerra di popolo. Non li potrete
eliminare tutti».
25 febbraio 2007
"Tutte le opzioni sul tavolo".
Allarme in Israele Teheran verso l'atomica Cheney non esclude l'attacco SYDNEY.
Le pressioni Usa per contenere le ambizioni
nucleare di Teheran si fanno ogni giorni più forti e il vice-presidente
Dick Cheney si è rifiutato di escludere il ricorso alla forza per tenere
le mani degli ayatollah lontane dalla bomba. L'amministrazione Bush ha lanciato
un'offensiva diplomatica su più fronti per isolare Teheran. Il
sottosegretario di Stato Nicholas Burns incontra a Londra i vertici delle
diplomazie europee, mentre Condoleezza Rice ha espresso l'auspicio che Mosca
sostenga al Palazzo di vetro una seconda risoluzione del Consiglio di sicurezza
sul programma nucleare iraniano, come richiesto anche da Francia e Gran
Bretagna. "Sarebbe un grave errore permettere a una nazione come, l'Iran
di diventare una potenza nucleare" ha detto Cheney durante una conferenza
stampa con il premier australiano John Howard. "Tutte le opzioni" ha
sibillinamnete aggiunto, "sono ancora sul tavolo". Le parole del
numero due della Casa Bianca vengono all'indomani della presentazione di un
rapporto con cui l'Aiea ha denunciato l'impulso dato da Teheran al programma di
arricchimento del'uranio nonostante l'ultimatum imposto dal'Onu. "Abbiamo
lavorato con gli europei e con le Nazioni Unite per mettere in piedi politiche
in grado di convincere gli iraniani ad abbandonare le loro aspitrazioni"
ha aggiunto Cheney. Secondo il londinese Telegraph, Israele sarebbe in
trattativa con la coalizione Usa in Iraq per ottenere un corridoio aereo che
permetta ai suoi bombardieri di arrivare a colpire le installazioni nucleari
iraniane. Israele ha smentito seccamente.
LO AFFERMA IL DAILY TELEGRAPH DI LONDRA
"Israele medita blitz aereo sull'Iran"
LONDRA - In attesa di sanzioni più
severe contro l'Iran, ufficialmente tutte le parti coinvolte nella crisi
nucleare dicono di propendere per una soluzione diplomatica, ma i media
britannici insistono sulla possibilità non remota di un intervento
militare, un'opzione del resto mai scartata dagli Stati Uniti. Ierei è
stata la volta del "Daily Telegraph" a riferire di preparativi per un
attacco contro la Repubblica islamica. Il quotidiano conservatore, citando un
alto responsabile della difesa israeliana, afferma che negoziati sono in corso
perché gli Usa concedano una sorta di "corridoio aereo" in Iraq se lo
Stato ebraico dovesse decidere "attacchi aerei chirurgici" e
unilaterali contro i siti nucleari iraniani. "Ci stiamo preparando ad ogni
eventualità", ha dichiarato l'anonima fonte israeliana dopo che,
scaduto l'ultimatum per la sospensione delle attività di arricchimento
dell'uranio, il Consiglio di sicurezza dell'Onu si appresta ad inasprire le
sanzioni contro l'Iran. Un'altra fonte militare israeliana ha dichiarato al
"Telegraph" che "il solo modo di colpire l'Iran è
sorvolare lo spazio aereo iracheno controllato dagli Usa". Intervistato
dalla radio israeliana, il viceministro della Difesa Efraim Sneh si è
affrettato a smentire, denunciando un espediente "di coloro che non
vogliono agire politicamente, diplomaticamente ed economicamente contro
l'Iran". Ma, a rafforzare l'ipotesi di piani di attacco contro l'Iran sono
le affermazioni di un funzionario israeliano che collabora al comitato
strategico sulla minaccia nucleare iraniana voluto e presieduto dal premier
Ehud Olmert. La fonte, citata dallo stesso quotidiano, ha detto che "lo
sforzo profuso su questa questione è senza precedenti nella storia di
Israele". Di attacchi preventivi contro installazioni atomiche c'è
già il precedente del 1981, quando l'aviazione israeliana
bombardò il reattore nucleare iracheno di Osirak, dove si sospettava che
Saddam sviluppasse armi atomiche. Nei giorni scorsi la Bbc aveva dato conto
anche di piani per un intervento armato, statunitense, contro l'Iran.
ROMA - L'Estonia, uno dei più piccoli
paesi d'Europa, con un milione e 400mila abitanti, sarà la prima nazione
al mondo dove gli elettori potranno votare comodamente tramite internet anziché
recarsi di persona al seggio. Le consultazioni per il rinnovo del Parlamento si
terranno la prossima settimana e la decisione di consentire il voto via web
è vista da molti come un segno tangibile del forte interesse del Paese
nei confronti delle nuove tecnologie.
La procedura è apparentemente molto semplice e anche - assicurano dalla
commissione elettorale - molto sicura. Ogni votante, munito di carta
d'identità elettronica (con all'interno un microchip) deve inserire la
carta in un apposito lettore collegato al computer. A questo punto, prima di
procedere con la votazione, dovrà digitare la prima password; la
seconda, invece, verrà inserita subito dopo aver votato, per la
convalida della propria preferenza. Sul sito del governo è presente una
guida molto approfondita (in russo e inglese) che spiega passo passo tutta la
procedura. Da segnalare che il manuale, oltre a Windows, annovera anche i
sistemi operativi Mac Os e Linux. Il kit completo per le votazioni (lettore di
microchip e software) viene venduto da una catena specializzata in articoli
elettronici.
Chi non ha un computer a casa ma vuole evitare le file dei seggi tradizionali
può anche utilizzare delle postazioni pubbliche appositamente allestite
all'interno di uffici e banche. Le "urne virtuali" saranno aperte dal
26 al 28 febbraio, a differenza di quelle tradizionali che saranno aperte il 4
marzo.
In Estonia il voto elettronico era stato già sperimentato, anche se in
modo limitato, per le amministrative del 2005: lo utilizzarono con successo
oltre 10mila persone. Prima di prendere la decisione finale sull'apertura del
voto su internet, inoltre, la scorsa settimana il governo estone ha indetto
delle "finte" elezioni in cui i votanti erano chiamati a scegliere,
tra dieci animali candidati, chi fosse il re della foresta. "E' difficile
calcolare quanti elettori utilizzeranno la nuova procedura, noi abbiamo
previsto tra i 20mila e i 40mila votanti su un totale di 940mila", ha
spiegato Arne Koitmae, funzionario della commissione elettorale. "Per
adesso - continua - possiamo solamente dire che la scorsa settimana, durante le
elezioni di prova, hanno votato 3.925 persone"
Le elezioni tramite internet sono un segno dell'estrema modernità verso
la quale sta viaggiando un paese, l'Estonia, che dopo il crollo dell'Unione
Sovietica ha iniziato una fase molto veloce di sviluppo tecnologico. Basti
pensare che Skype, la società leader nel settore delle telefonate a
basso costo tramite internet, ha in Estonia una delle sue sedi principali.
(24 febbraio 2007)
24/2/2007
(8:52) - REPORTAGE
Sono
gli "aowelo", cumuli di pietre elevate fra le sabbie
GIBUTI
Il sito ha la bellezza austera dei deserti di pietra. Niente dune, ma
promontori sassosi cui si aggrappa una rada vegetazione. Niente acqua, ma il letto
di uno uadi disseccato. Il cielo è limpido, il sole di piombo e il filo
della vita esile. Nessun essere umano. A volte, uno struzzo o una coppia di
gazzelle entrano nello scenario. Sulla sommità di un monticello colpisce
un ammasso di pesanti pietre di basalto. Formano un cerchio perfetto di vari
metri di diametro che si eleva gradualmente fino ad altezza d’uomo. È un
aowelo, parola che, presso gli Afar che popolano questa regione dimenticata a
due ore di pista da Gibuti, significa «mucchio di pietre fatto dagli Antichi».
Gli aowelo pullulano in quest’area vicina all’Etiopia e all’Eritrea. Se ne
trovano centinaia, forse migliaia, di diverse dimensioni, tutti circolari e
tutti costruiti con le stesse pietre vulcaniche scure. «Nessuno conosce con
esattezza il loro numero», afferma Benoît Poisblaud, archeologo francese
specializzato in questa zona dell’Africa e che da quasi dieci anni cerca di
penetrarne i misteri. La ricerca si prospetta lunga. I mezzi dell’archeologo e
dalla sua piccola équipe sono limitati. Il Quai d’Orsay e l’ambasciata francese
concedono delle sovvenzioni, ma le autorità, come del resto la
popolazione, si disinteressano di questo pezzo di storia. «Nel Paese non
c’è nemmeno un archeologo. Inoltre Gibuti è uno dei pochissimi
Paesi a non aver firmato convenzioni con l’Unesco. Gli aowelo non possono
quindi essere dichiarati “patrimonio dell’umanità” ed essere tutelati»,
osserva Poisblaud. Risultato: i tumuli sono minacciati. Fungono da cava per gli
Afar che vogliono costruirsi una casa o un riparo per le bestie. «C’erano
altrettanti aowelo di cui si sono perse le tracce», si rammarica l’archeologo.
Fino a oggi l’équipe non ha scavato nemmeno una mezza dozzina di tumuli. Con
esiti diversi. Alcuni non contenevano nulla sotto la loro volta di pietre
basaltiche. «Forse erano solo alture per l’osservazione», azzarda il «boss»
dell’archeologia francese nel Corno d’Africa, Roger Joussaume, venuto a dar
manforte al suo ex allievo. In altri, il raccolto è stato più
ricco. Tra i ritrovamenti, alcuni utensili, frammenti di macine di pietra,
qualche oggetto di bronzo, resti di animali e ossa umane in posizione fetale,
di difficile datazione: «Le ossa si conservano male in un clima caldo e secco.
Tendono a sbriciolarsi», spiega il terzo componente dell’équipe, l’antropologo
Jean-Paul Cros.
A quando risale la costruzione? «I più antichi a circa mille anni prima
di Cristo - ipotizza Poisblaud -. Ma molto alla larga. Bisogna essere
prudenti». La civiltà all’origine dei tumuli è semisconosciuta.
La fauna selvatica, oggi scomparsa, raffigurata in modo realistico su
chilometri di rocce nel mezzo del nulla - elefanti, giraffe, ippopotami,
antilopi, rinoceronti - conferma che una volta il clima era più umido e
il suolo più fertile, con pascoli e foreste. Altre scene mostrano
guerrieri che si affrontano armati con archi di tipo diverso. Ma quel che
sorprende di più è un altro aspetto. «Gli aowelo rimandano a una
civiltà molto più antica, forse di tremila anni prima di Cristo.
Una civiltà sarebbe succeduta all’altra», si sbilancia Poisblaud.
Stabilire un legame tra le due ha rappresentato una sorta di indagine
poliziesca che ha mobilitato per molto tempo l’équipe francese. L’indagine si
è basata sulle scoperte di Teilhard de Chardin, che negli anni Trenta,
aveva trovato dei picconi di basalto lunghi una ventina di centimetri nella
regione tra il Ghoubbet e il lago Assal. Si è pensato che i picconi, per
la loro punta usurata, servissero a tagliare la stupefacente banchisa di sale
presente nelle vicinanze e ancor oggi sfruttata dalle carovane di dromedari
provenienti dalla vicina Etiopia. Ulteriori ricerche hanno poi consentito di
portare alla luce cocci di ceramiche finemente decorate, «a conchiglia», come
dicono gli specialisti. I picconi di basalto e le ceramiche appartengono alla
stessa cultura. Dove vivevano coloro che li utilizzavano? Mistero. Non è
stata infatti scoperta nessuna traccia di abitazione. «Quando sono arrivato qui
nel 2001 - spiega Poisblaud - ho cercato le residenze di quelle popolazioni
partendo dall’ipotesi che avessero frequentato i posti dove migliaia di anni
dopo sarebbero stati costruiti gli aowelo». L’intuizione era giusta.
A qualche decina di chilometri dal «vicolo cieco dell’inferno» (il nome del
Ghoubbet in lingua afar), il giovane archeologo non tarda a scoprire, sulla
cima di un poggio, un aowelo attorno al quale giacciono molti cocci di ceramica
finemente decorata. Gli stessi trovati nel Ghoubbet! «Qui vivevano delle
persone che andavano a pescare o a estrarre sale in riva al golfo». Restava da
trovare una prova inconfutabile di abitazione umana. La buona stella si profila
all’orizzonte un giorno d’autunno del 2004. Mentre sorseggia un caffè
Per Benoît Poisblaud il dubbio non è più permesso. L’abbondanza
di cocci dello stesso tipo, la presenza di tombe erette con lo stesso schema
provano che una civiltà ha prosperato a partire dal III millennio a. C.
in questa regione inospitale. Con la benedizione del suo padrino, Roger
Joussaume, ha scelto di chiamarla «civiltà asgoumhatiana», dal nome del
sito di Asgoumhati, dove sono state scoperte le prime due tombe. Ma da dove
veniva, questo popolo di pastori?
copyright Le Monde traduzione del Gruppo Logos
Si afferma la ricerca
di una nuova identità individuale e collettiva
L'agnosticismo maoista
espressione del dominio della politica assolutista e totalizzante, se non
proprio superato, è in declino
PECHINO – Nelle feste del Capodanno cinese appena
terminato, le moschee, i templi e le chiese si sono riempiti di fedeli.
L’ultimo segnale di un risveglio religioso che sta coinvolgendo tutte le fedi e
tutti i riti. L’ateismo dà qualche segno di cedimento dinanzi al bisogno
di una riflessione spirituale che prima il maoismo poi la crescita economica
disordinata e diseguale hanno soffocato o impedito. Il desiderio di un modello
di vita più meditato e più equilibrato si è diffuso nelle
campagne e da qualche tempo anche nelle città ricche della Cina. I
luoghi di culto uniscono uomini e donne, soprattutto giovani, che sono
protagonisti di un fenomeno interessante. L’agnosticismo maoista espressione
del dominio della politica assolutista e totalizzante, se non superato,
è in declino; con la religione si afferma la ricerca di una nuova
identità individuale e collettiva.
++ Da Il Riformista 24-2-2007 . Vescovo ratzingeriano: asili nido? Non
potestis
Corriere delle Alpi del 25/02/2007
Teheran verso l'atomica Cheney non esclude l'attacco
Giornale di Brescia del 25/02/2007 Israele medita blitz aereo sull'Iran
Da La Stampa 24-2-2007 Nei deserti di Gibuti i tumuli del mistero
JEAN-PIERRE TUQUOI
Dal Corriere della Sera 24-2-2007 Cina, boom della religione contro il dio
Denaro
I piani del governo per costruire più
asili-nido sono «micidiali per i bambini e per le famiglie»; le donne vengono
trasformate in «macchine da riproduzione» e la politica del ministro della
Famiglia non ha nulla a che vedere con il bene dei bambini, ma è «volta
innanzitutto a reclutare giovani donne come forza lavoro di riserva per
l’industria». Toni simili, da parte di un vescovo cattolico, in Germania non si
erano mai sentiti e un attacco tanto pesante al governo non si era mai visto.
La chiesa bavarese, notoriamente assi vicina a papa Ratzinger, sembra
intenzionata ad adottare i metodi di un nuovo, micidiale Kulturkampf contro lo
stato laico.
Si capisce, perciò, lo stupore (e la preoccupazione) con cui sono state
accolte le dichiarazioni esplosive del vescovo di Augusta Walter Mixa, uno dei
massimi esponenti delle gerarchie ecclesiastiche del meridione tedesco. Tanto
più che questa furia era indirizzata contro la pia Ursula von der Leyen,
la ministra più “cristiana” del gabinetto guidato dalla
cristiano-democratica Angela Merkel. La ministra che, sia detto per inciso,
meno può essere accusata di volere il male dei bambini, visto che ne ha
messi al mondo ben sette.
L’attacco del vescovo Mixa ha seguito a ruota una sequela di polemiche che si
erano già abbattute sul programma messo a punto dal ministero della
Leyen, che era stata accusata dalla destra più conservatrice di
insistere troppo nell’intenzione di sottrarre le madri al loro “dovere” di
educare i figli in casa. Una polemica decisamente reazionaria, la quale
riecheggia però certi scrupoli che sono presenti nello spirito pubblico
tedesco a causa del ricordo del nazismo, i cui piani educativi prevedevano proprio
la sottrazione dei minori alle famiglie e il loro affidamento a strutture
educative statuali. La povera von der Leyen, tuttavia, con la sostanza di
questi scrupoli non ha nulla a che vedere. Il suo piano per la realizzazione
degli asili-nido (attualmente del tutto insufficienti in molti Länder tedeschi
dell’ovest, proprio per il motivo accennato sopra) è teso semplicemente
a rendere più facile la vita alle tante donne che lavorano e non sanno a
chi affidare i figli. E tutto si aspettava meno che di diventare il bersaglio
di un furibondo tiro a segno che la considera strumento del demonio.
Tanto è apparsa dura e immotivata la sortita del vescovo Mixa che lo
stesso capo del gruppo parlamentare della cattolicissima Csu nella dieta
bavarese, Joachim Hermann, ha sentito il bisogno di prenderne polemicamente le
distanze, richiamando oltretutto alla coerenza coloro i quali, a parole, si
dicono favorevoli a politiche che aiutino la famiglia. Con un po’ di malizia,
Hermann ha ricordato anche al vescovo Mixa che fra le donne che lavorano e che,
per farlo, hanno la necessità di affidare i figli alle strutture
pubbliche, ce ne sono moltissime le quali, specie in Baviera, sono al servizio
proprio della chiesa e delle organizzazioni cristiane come la Caritas. Assai
più duri i giudizi degli esponenti della Spd: il capo dei deputati
socialdemocratici bavaresi Florian Pronold ha accusato Mixa di usare toni da
«caccia mediatica alle streghe», mentre la responsabile federale per le
questioni ecclesiali Kerstin Griese ha invitato la chiesa bavarese a non
seguire le rudezze del vescovo di Augusta.
Al di là delle polemiche sollevate dall’incredibile presa di posizione
di Mixa, si coglie comunque una preoccupazione più generale della chiesa
cattolica tedesca (e un po’ anche di quella evangelica). I rapporti con Roma in
materia di politiche della famiglia e di morale sessuale non sono mai stati
facili, specialmente per quanto riguarda le comunità ecclesiali di base
e quelle, anche ufficiali, della Renania. L’insofferenza dei cattolici
più aperti per le chiusure che arrivavano dal Vaticano (per esempio
sulla somministrazione dei sacramenti ai divorziati) hanno indotto tensioni e
divisioni anche all’interno della Germania, con i bavaresi tradizionalmente
più “fedeli” alle direttive romane. Una accentuazione delle
intolleranze, come quella segnalata dalla sortita del vescovo di Augusta,
potrebbero aprire un conflitto davvero esplosivo.
I
talebani pronti ad attaccare la zona presidiata dagli italiani
Afghanistan,
un rapporto lancia l’allarme: il 2007 l’anno della rottura
WASHINGTON —
La situazione in Afghanistan si sta deteriorando a un punto tale che «se nelle
prossime settimane non si verificheranno cambiamenti drammatici il 2007
diverrà l’anno della rottura». C’è il pericolo che dal sud i
combattimenti si estendano ad altre parti del Paese, innanzitutto a ovest, «la zona
rischio A», dove si trovano le truppe italiane. Lo afferma un rapporto del Csis
o Centro di studi strategici e internazionali, il serbatoio bipartisan di
cervelli di Washington, ammonendo che le forze americane e della Nato debbono
operare per prevenire l’azione dei talebani, che hanno predisposto una
massiccia offensiva a primavera. Secondo un rapporto dei servizi segreti
spagnoli pubblicato ieri da El País, «i talebani cercheranno di sfondare nelle
aree di minore resistenza» a cominciare dalla più vicina, quella di Herat,
dove oltre all’Italia opera anche la Spagna.
I
rapporti del Csis e dei servizi spagnoli fanno capire perché il presidente Bush
stia aumentando da
L’Istituto
di studi strategici e internazionali contesta tuttavia la linea di Bush e Blair.
Sul piano militare, sostiene, «servono non le grosse operazioni di terra e aria
che fanno più male che bene, e danneggiano soprattutto i civili, ma
interventi mirati di 15 minuti delle forze di rapida reazione con elicotteri e
blindati». Washington deve rendersi conto che i nemici non sono solo gli
insorti ma anche i signori della guerra e i trafficanti di oppio, «che fanno
sempre più reclute e riempiono il vuoto di potere». Sul piano politico,
prosegue il rapporto del Csis, basato su 1.000 interviste e centinaia di
dossier realizzati a Kabul e in provincia, occorrono riforme, mantenere la
rotta come predica Bush è un grave errore «perché i talebani stanno
riconquistando le menti e i cuori degli afghani». Il problema di fondo è
«la perdita di fiducia della popolazione negli Usa, negli alleati e nel governo
Karzai dal
Il
Pentagono ha obiettato al rapporto, intitolato Il punto di rottura: misurare i
progressi in Afghanistan, ribattendo che lo scopo dei rinforzi americani e
britannici è proprio quello di conferire «più tempestività
e agilità» alle azioni militari. E la Casa Bianca ha ricordato che il
presidente Bush è consapevole che «dove finiscono le strade incominciano
i talebani» e ha stanziato 12 miliardi di dollari per la ricostruzione del
Paese.Mail Congresso, che a differenza di quella dell’Iraq appoggia la guerra
dell’Afghanistan, pensa che questi provvedimenti non bastino, e denuncia Paesi
come l’Italia, la Spagna, la Germania e la Francia che rifiutano di battersi
sul campo. Se la prevista offensiva dei talebani fosse anticipata o contenuta,
però, i democratici chiederebbero un riesame della strategia di Bush che
in sei anni, protestano, non ha condotto alla cattura del leader di Al Qaeda
Bin Laden né del leader talebano il mullah Omar, e opterebbero forse per una
soluzione politica della crisi nell’ambito dell’Onu.
Una
soluzione politica è stata proposta ieri da Ovais Ahmad Ghani, il
governatore del Belucistan, la provincia del Pakistan dove gli americani
sospettano che si nasconda il mullah Omar. In un’intervista all’agenzia
Reuters, Ghani ha suggerito «un cessate il fuoco e una presa di contatto per
negoziati di pace». «Voi rischiate — ha detto — che la guerra mossavi dai
talebani diventi una guerra di popolo. Non li potrete eliminare tutti».
25
febbraio 2007
"Tutte
le opzioni sul tavolo". Allarme in Israele Teheran verso l'atomica Cheney
non esclude l'attacco SYDNEY.
Le
pressioni Usa per contenere le ambizioni nucleare di Teheran si fanno ogni
giorni più forti e il vice-presidente Dick Cheney si è rifiutato
di escludere il ricorso alla forza per tenere le mani degli ayatollah lontane
dalla bomba. L'amministrazione Bush ha lanciato un'offensiva diplomatica su
più fronti per isolare Teheran. Il sottosegretario di Stato Nicholas
Burns incontra a Londra i vertici delle diplomazie europee, mentre Condoleezza
Rice ha espresso l'auspicio che Mosca sostenga al Palazzo di vetro una seconda
risoluzione del Consiglio di sicurezza sul programma nucleare iraniano, come
richiesto anche da Francia e Gran Bretagna. "Sarebbe un grave errore
permettere a una nazione come, l'Iran di diventare una potenza nucleare"
ha detto Cheney durante una conferenza stampa con il premier australiano John
Howard. "Tutte le opzioni" ha sibillinamnete aggiunto, "sono
ancora sul tavolo". Le parole del numero due della Casa Bianca vengono
all'indomani della presentazione di un rapporto con cui l'Aiea ha denunciato
l'impulso dato da Teheran al programma di arricchimento del'uranio nonostante
l'ultimatum imposto dal'Onu. "Abbiamo lavorato con gli europei e con le
Nazioni Unite per mettere in piedi politiche in grado di convincere gli
iraniani ad abbandonare le loro aspitrazioni" ha aggiunto Cheney. Secondo
il londinese Telegraph, Israele sarebbe in trattativa con la coalizione Usa in
Iraq per ottenere un corridoio aereo che permetta ai suoi bombardieri di
arrivare a colpire le installazioni nucleari iraniane. Israele ha smentito
seccamente.
LO
AFFERMA IL DAILY TELEGRAPH DI LONDRA "Israele medita blitz aereo
sull'Iran"
LONDRA
- In attesa di sanzioni più severe contro l'Iran, ufficialmente tutte le
parti coinvolte nella crisi nucleare dicono di propendere per una soluzione
diplomatica, ma i media britannici insistono sulla possibilità non
remota di un intervento militare, un'opzione del resto mai scartata dagli Stati
Uniti. Ierei è stata la volta del "Daily Telegraph" a riferire
di preparativi per un attacco contro la Repubblica islamica. Il quotidiano
conservatore, citando un alto responsabile della difesa israeliana, afferma che
negoziati sono in corso perché gli Usa concedano una sorta di "corridoio
aereo" in Iraq se lo Stato ebraico dovesse decidere "attacchi aerei
chirurgici" e unilaterali contro i siti nucleari iraniani. "Ci stiamo
preparando ad ogni eventualità", ha dichiarato l'anonima fonte
israeliana dopo che, scaduto l'ultimatum per la sospensione delle
attività di arricchimento dell'uranio, il Consiglio di sicurezza
dell'Onu si appresta ad inasprire le sanzioni contro l'Iran. Un'altra fonte
militare israeliana ha dichiarato al "Telegraph" che "il solo
modo di colpire l'Iran è sorvolare lo spazio aereo iracheno controllato
dagli Usa". Intervistato dalla radio israeliana, il viceministro della
Difesa Efraim Sneh si è affrettato a smentire, denunciando un espediente
"di coloro che non vogliono agire politicamente, diplomaticamente ed
economicamente contro l'Iran". Ma, a rafforzare l'ipotesi di piani di
attacco contro l'Iran sono le affermazioni di un funzionario israeliano che
collabora al comitato strategico sulla minaccia nucleare iraniana voluto e
presieduto dal premier Ehud Olmert. La fonte, citata dallo stesso quotidiano,
ha detto che "lo sforzo profuso su questa questione è senza
precedenti nella storia di Israele". Di attacchi preventivi contro
installazioni atomiche c'è già il precedente del 1981, quando
l'aviazione israeliana bombardò il reattore nucleare iracheno di Osirak,
dove si sospettava che Saddam sviluppasse armi atomiche. Nei giorni scorsi la
Bbc aveva dato conto anche di piani per un intervento armato, statunitense,
contro l'Iran.
ROMA -
L'Estonia, uno dei più piccoli paesi d'Europa, con un milione e 400mila
abitanti, sarà la prima nazione al mondo dove gli elettori potranno
votare comodamente tramite internet anziché recarsi di persona al seggio. Le
consultazioni per il rinnovo del Parlamento si terranno la prossima settimana e
la decisione di consentire il voto via web è vista da molti come un
segno tangibile del forte interesse del Paese nei confronti delle nuove
tecnologie.
La procedura è apparentemente molto semplice e anche - assicurano dalla
commissione elettorale - molto sicura. Ogni votante, munito di carta
d'identità elettronica (con all'interno un microchip) deve inserire la
carta in un apposito lettore collegato al computer. A questo punto, prima di
procedere con la votazione, dovrà digitare la prima password; la
seconda, invece, verrà inserita subito dopo aver votato, per la
convalida della propria preferenza. Sul sito del governo è presente una
guida molto approfondita (in russo e inglese) che spiega passo passo tutta la
procedura. Da segnalare che il manuale, oltre a Windows, annovera anche i
sistemi operativi Mac Os e Linux. Il kit completo per le votazioni (lettore di
microchip e software) viene venduto da una catena specializzata in articoli
elettronici.
Chi non ha un computer a casa ma vuole evitare le file dei seggi tradizionali
può anche utilizzare delle postazioni pubbliche appositamente allestite
all'interno di uffici e banche. Le "urne virtuali" saranno aperte dal
26 al 28 febbraio, a differenza di quelle tradizionali che saranno aperte il 4
marzo.
In Estonia il voto elettronico era stato già sperimentato, anche se in
modo limitato, per le amministrative del 2005: lo utilizzarono con successo
oltre 10mila persone. Prima di prendere la decisione finale sull'apertura del
voto su internet, inoltre, la scorsa settimana il governo estone ha indetto
delle "finte" elezioni in cui i votanti erano chiamati a scegliere,
tra dieci animali candidati, chi fosse il re della foresta. "E' difficile
calcolare quanti elettori utilizzeranno la nuova procedura, noi abbiamo
previsto tra i 20mila e i 40mila votanti su un totale di 940mila", ha
spiegato Arne Koitmae, funzionario della commissione elettorale. "Per
adesso - continua - possiamo solamente dire che la scorsa settimana, durante le
elezioni di prova, hanno votato 3.925 persone"
Le elezioni tramite internet sono un segno dell'estrema modernità verso
la quale sta viaggiando un paese, l'Estonia, che dopo il crollo dell'Unione
Sovietica ha iniziato una fase molto veloce di sviluppo tecnologico. Basti
pensare che Skype, la società leader nel settore delle telefonate a
basso costo tramite internet, ha in Estonia una delle sue sedi principali.
(24 febbraio 2007)
24/2/2007 (8:52) - REPORTAGE
Sono gli "aowelo", cumuli di pietre
elevate fra le sabbie
GIBUTI
Il sito ha la bellezza austera dei deserti di pietra. Niente dune, ma
promontori sassosi cui si aggrappa una rada vegetazione. Niente acqua, ma il
letto di uno uadi disseccato. Il cielo è limpido, il sole di piombo e il
filo della vita esile. Nessun essere umano. A volte, uno struzzo o una coppia
di gazzelle entrano nello scenario. Sulla sommità di un monticello
colpisce un ammasso di pesanti pietre di basalto. Formano un cerchio perfetto
di vari metri di diametro che si eleva gradualmente fino ad altezza d’uomo.
È un aowelo, parola che, presso gli Afar che popolano questa regione
dimenticata a due ore di pista da Gibuti, significa «mucchio di pietre fatto
dagli Antichi».
Gli aowelo pullulano in quest’area vicina all’Etiopia e all’Eritrea. Se ne
trovano centinaia, forse migliaia, di diverse dimensioni, tutti circolari e
tutti costruiti con le stesse pietre vulcaniche scure. «Nessuno conosce con
esattezza il loro numero», afferma Benoît Poisblaud, archeologo francese
specializzato in questa zona dell’Africa e che da quasi dieci anni cerca di
penetrarne i misteri. La ricerca si prospetta lunga. I mezzi dell’archeologo e
dalla sua piccola équipe sono limitati. Il Quai d’Orsay e l’ambasciata francese
concedono delle sovvenzioni, ma le autorità, come del resto la
popolazione, si disinteressano di questo pezzo di storia. «Nel Paese non
c’è nemmeno un archeologo. Inoltre Gibuti è uno dei pochissimi
Paesi a non aver firmato convenzioni con l’Unesco. Gli aowelo non possono
quindi essere dichiarati “patrimonio dell’umanità” ed essere tutelati»,
osserva Poisblaud. Risultato: i tumuli sono minacciati. Fungono da cava per gli
Afar che vogliono costruirsi una casa o un riparo per le bestie. «C’erano
altrettanti aowelo di cui si sono perse le tracce», si rammarica l’archeologo.
Fino a oggi l’équipe non ha scavato nemmeno una mezza dozzina di tumuli. Con
esiti diversi. Alcuni non contenevano nulla sotto la loro volta di pietre
basaltiche. «Forse erano solo alture per l’osservazione», azzarda il «boss»
dell’archeologia francese nel Corno d’Africa, Roger Joussaume, venuto a dar
manforte al suo ex allievo. In altri, il raccolto è stato più
ricco. Tra i ritrovamenti, alcuni utensili, frammenti di macine di pietra,
qualche oggetto di bronzo, resti di animali e ossa umane in posizione fetale,
di difficile datazione: «Le ossa si conservano male in un clima caldo e secco.
Tendono a sbriciolarsi», spiega il terzo componente dell’équipe, l’antropologo
Jean-Paul Cros.
A quando risale la costruzione? «I più antichi a circa mille anni prima
di Cristo - ipotizza Poisblaud -. Ma molto alla larga. Bisogna essere
prudenti». La civiltà all’origine dei tumuli è semisconosciuta.
La fauna selvatica, oggi scomparsa, raffigurata in modo realistico su
chilometri di rocce nel mezzo del nulla - elefanti, giraffe, ippopotami,
antilopi, rinoceronti - conferma che una volta il clima era più umido e
il suolo più fertile, con pascoli e foreste. Altre scene mostrano
guerrieri che si affrontano armati con archi di tipo diverso. Ma quel che
sorprende di più è un altro aspetto. «Gli aowelo rimandano a una
civiltà molto più antica, forse di tremila anni prima di Cristo.
Una civiltà sarebbe succeduta all’altra», si sbilancia Poisblaud.
Stabilire un legame tra le due ha rappresentato una sorta di indagine
poliziesca che ha mobilitato per molto tempo l’équipe francese. L’indagine si
è basata sulle scoperte di Teilhard de Chardin, che negli anni Trenta,
aveva trovato dei picconi di basalto lunghi una ventina di centimetri nella
regione tra il Ghoubbet e il lago Assal. Si è pensato che i picconi, per
la loro punta usurata, servissero a tagliare la stupefacente banchisa di sale
presente nelle vicinanze e ancor oggi sfruttata dalle carovane di dromedari
provenienti dalla vicina Etiopia. Ulteriori ricerche hanno poi consentito di
portare alla luce cocci di ceramiche finemente decorate, «a conchiglia», come
dicono gli specialisti. I picconi di basalto e le ceramiche appartengono alla
stessa cultura. Dove vivevano coloro che li utilizzavano? Mistero. Non è
stata infatti scoperta nessuna traccia di abitazione. «Quando sono arrivato qui
nel 2001 - spiega Poisblaud - ho cercato le residenze di quelle popolazioni
partendo dall’ipotesi che avessero frequentato i posti dove migliaia di anni
dopo sarebbero stati costruiti gli aowelo». L’intuizione era giusta.
A qualche decina di chilometri dal «vicolo cieco dell’inferno» (il nome del
Ghoubbet in lingua afar), il giovane archeologo non tarda a scoprire, sulla
cima di un poggio, un aowelo attorno al quale giacciono molti cocci di ceramica
finemente decorata. Gli stessi trovati nel Ghoubbet! «Qui vivevano delle
persone che andavano a pescare o a estrarre sale in riva al golfo». Restava da
trovare una prova inconfutabile di abitazione umana. La buona stella si profila
all’orizzonte un giorno d’autunno del 2004. Mentre sorseggia un caffè
Per Benoît Poisblaud il dubbio non è più permesso. L’abbondanza
di cocci dello stesso tipo, la presenza di tombe erette con lo stesso schema
provano che una civiltà ha prosperato a partire dal III millennio a. C.
in questa regione inospitale. Con la benedizione del suo padrino, Roger
Joussaume, ha scelto di chiamarla «civiltà asgoumhatiana», dal nome del
sito di Asgoumhati, dove sono state scoperte le prime due tombe. Ma da dove
veniva, questo popolo di pastori?
copyright Le Monde traduzione del Gruppo Logos
Si afferma la ricerca di una nuova
identità individuale e collettiva
L'agnosticismo maoista espressione del dominio della
politica assolutista e totalizzante, se non proprio superato, è in
declino
PECHINO
– Nelle feste del Capodanno cinese appena
terminato, le moschee, i templi e le chiese si sono riempiti di fedeli.
L’ultimo segnale di un risveglio religioso che sta coinvolgendo tutte le fedi e
tutti i riti. L’ateismo dà qualche segno di cedimento dinanzi al bisogno
di una riflessione spirituale che prima il maoismo poi la crescita economica
disordinata e diseguale hanno soffocato o impedito. Il desiderio di un modello
di vita più meditato e più equilibrato si è diffuso nelle
campagne e da qualche tempo anche nelle città ricche della Cina. I
luoghi di culto uniscono uomini e donne, soprattutto giovani, che sono
protagonisti di un fenomeno interessante. L’agnosticismo maoista espressione
del dominio della politica assolutista e totalizzante, se non superato,
è in declino; con la religione si afferma la ricerca di una nuova
identità individuale e collettiva.
+ Da La Stampa 24-2-2007 Napolitano rimanda Prodi al Senato- Paolo Passarini
Sul rifinanziamento della missione in Afghanistan non verrà posta
la fiducia
La Stampa, del 24/02/2007 Torna l'Italietta esclusa dal gran gioco
dell'Onu
La Provincia Pavese del
24/02/2007 Follini e Pallaro per essere
autosufficienti - Alessandro Cecioni
La Stampa, del 24/02/2007 Blair a
Bush: "Sull'Iran non ti seguo". Paolo Mastrolilli
Il Piccolo di Trieste, del
24/02/2007 I cinesi, in competizione sin
da piccoli
"Bush
pronto a attaccare l'Iran nel 2008" L'allarme da Londra. Al Congresso,
nuova sfida dei Democratici sull'Iraq Il Senato Usa potrebbe ridurre il mandato
delle truppe a Bagdad ALBERTO FLORES D'ARCAIS dal nostro corrispondente NEW
YORK - I senatori democratici affilano le armi, la Casa Bianca annuncia che
andrà avanti per la sua strada: sull'Iraq tutto è pronto per un
nuovo round tra amministrazione e Congresso. La giornata cruciale sarà
martedì, quando Carl Levin, (presidente della commissione Forze armate)
e Joseph Biden (presidente della commissione Esteri e candidato alla Casa
Bianca 2008) presenteranno al Senato la loro proposta: una riscrittura
dell'autorizzazione data dal Congresso alla guerra in Iraq (nel 2002) in modo
da costringere la Casa Bianca ad iniziare un ritiro parziale delle truppe
americane da Bagdad. La sconfitta subita in Senato solo pochi giorni fa, quando
i repubblicani riuscirono a bloccare una risoluzione (sia pure non vincolante)
contro il piano Bush, che prevede l'invio in Iraq di oltre 20mila nuovi
soldati, non sembra preoccupare i leader democratici. Biden e Levin sono
convinti di avere i numeri per revocare l'autorizzazione data alla Casa Bianca
nel 2002, sostituendola con una nuova che limiti la missione dei soldati
americani in Iraq. Allora il Congresso diede a Bush poteri molto ampi,
autorizzandolo ad usare l'esercito americano "nel modo necessario e
appropriato per difendere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti contro le
continue minacce messe in atto dall'Iraq". Pochi mesi dopo la Casa Bianca
decise l'invasione dell'Iraq e il regime di Saddam Hussein venne rovesciato. Da
allora le truppe americane (che sono attualmente circa 140mila) sono state
quotidianamente impegnate sul piano militare, e negli scontri contro le milizie
sciite, sunnite e i terroristi di Al Qaeda (più gli incidenti vari)
hanno avuto oltre tremila morti. La nuova proposta democratica prevede di
limitare il ruolo dei soldati Usa in Iraq: impedire ai terroristi di avere una
base sicura in Iraq, addestrare l'esercito iracheno e aiutare gli iracheni a
proteggere i propri confini. Una proposta che, nelle intenzioni di Levin e
Biden deve essere vincolante, e che prevede il rientro nei primi mesi del 2008
di tutti i soldati Usa non impegnati in quei tre punti; un numero da concordare
con i comandanti militari sul terreno. Nel caso passasse al Senato - dove i
democratici hanno una maggioranza risicata (
L'Unione:
abbiamo i numeri per ottenere la fiducia
ROMA
La decisione è attesa per oggi, tarda mattinata, e, salvo colpi di
scena, si tratterà di un rinvio del governo in carica alle Camere.
Preoccupato, perplesso e sovraccaricato di una responsabilità enorme,
Giorgio Napolitano si prenderà oggi qualche ora per compiere le ultime
verifiche. Poi, dopo aver «riordinato le idee», come ha annunciato,
renderà nota la sua decisione con una formula «fredda», che gli lasci
qualche spazio di manovra per il futuro. Un rinvio alle Camere come atto
dovuto. Romano Prodi dovrebbe salire prima di pranzo al Quirinale, mentre
già si parla di un dibattito sulla fiducia che potrebbe iniziare
martedì al Senato e concludersi mercoledì sera o giovedì.
Il Presidente della Repubblica ha chiesto ripetutamente ai suoi interlocutori
del centrosinistra precise assicurazioni sulla solidità del sostegno al
governo, in particolare al Senato. Dal suo punto di vista, le ha avute e non le
ha avute. Ma, di fronte alle ripetute rassicurazioni di tutta la maggioranza,
questa volta disperatamente unita, non ha potuto spingersi oltre il processo
alle intenzioni. La sua preoccupazione è doppia: che un nuovo capitombolo
a breve termine del governo Prodi metta a repentaglio la credibilità sua
e dell’istituzione che rappresenta; e che, di conseguenza, si determini la fine
precocissima della legislatura. Per questo Napolitano ha cercato di ottenere
qualche elemento utile per una alternativa futura.
Ieri sera, al termine della seconda e ultima giornata di consultazioni, il
Presidente aveva raccolto tre elementi fondamentali. Il primo gli è
stato offerto dal centrosinistra, che compattamente (eccettuata la lieve
preferenza della Rosa nel Pugno per un Prodi-bis) si è espresso a favore
di un rinvio alle Camere. A nome dell’Ulivo, il segretario ds Piero Fassino ha
addirittura parlato di «un immediato rinvio» e ha accennato a una «piena
operatività» del governo già ben prima dell’«imminente
celebrazione del Consiglio Ue», fissato per il 13 marzo.
Dai rappresentanti del centrosinistra, incalzati dalle sue domande, il
Presidente ha appreso che la conquista di «quota 158» (cioè di una
maggioranza al Palazzo Madama al netto dei senatori a vita) è stata
coronata da successo e più tardi Fassino ha giurato che il
centrosinistra «ha entrambe le maggioranze». Napolitano ha osservato che una
cosa è la fiducia e un’altra il voto su importanti questioni di politica
estera, come, per esempio, l’Afghanistan. Fassino e Francesco Rutelli hanno
risposto che le comunicazioni sulle quali il governo chiederà la fiducia
conterranno precise indicazioni sui punti caldi. A Napolitano non è
restato altro che prenderne atto.
Il secondo elemento è stato fornito dalla Casa delle Libertà,
che, a differenza del centrosinistra, si è presentata con tre posizioni
diverse, anzi quasi quattro. La Lega, con Roberto Castelli, ha chiesto di
tornare subito «davanti al popolo». L’Udc, con Lorenzo Cesa, ha lanciato un
«governo di responsabilità nazionale» presieduto da «un’alta
personalità». E Gianfranco Fini, per An, si è limitato a chiedere
un altro governo, con una maggioranza solida di «soli senatori eletti». Silvio
Berlusconi, a sorpresa, non ha posto il problema di uno scioglimento delle
Camere e si è allineato a Fini: a casa il governo Prodi.
Il terzo elemento è arrivato proprio dall’Udc e dalla sua proposta,
dalla quale si evince che un parte dell’ex-Casa delle Libertà sarebbe
disponibile ad appoggiare, in qualche forma, un governo istituzionale per
rifare la legge elettorale, presieduto da Franco Marini. Buono a sapersi per
Napolitano, il quale, essendo dall’inizio convinto che questa sia una
legislatura a rischio, vuole riservarsi la possibilità di rianimarla un po’
con un governo di larghe intese, almeno per il tempo necessario a riformare la
legge elettorale. Quest’ultimo argomento è stato al centro dei colloqui
tra Napolitano e i suoi tre predecessori.
ROMA -
"Ma siete sicuri che il governo avrà la fiducia?". Che fosse
preoccupato lo si era capito da tempo. Dopo il capitombolo del governo al
Senato, il suo allarme ha subito un'impennata. Così, ieri, negli
incontri con i gruppi della maggioranza, ha rivolto a tutti la stessa domanda.
Eh già, perché stavolta Giorgio Napolitano non vuole correre pericoli.
Considera questo passaggio istituzionale totalmente sotto la sua
responsabilità. Ha preteso dalla coalizione prodiana le massime assicurazioni.
Per fornirle nello stesso tempo alla Casa delle libertà.
Per tutta la giornata, infatti, ha tenuto i "big" dell'Unione sulla
corda. Alternative all'ipotesi del rinvio alle Camere non sono state vagliate.
Il Quirinale, però, non ha esitato a manifestare tutte le sue
perplessità. Al di là delle consultazioni ufficiali, i contatti
con Palazzo Chigi e con i leader dell'Unione, a cominciare da Massimo D'Alema,
sono stati continui. Anche con loro non ha nascosto i suoi dubbi sulla tenuta
dell'esecutivo.
Sulla sua agenda ogni singolo senatore, allora, è stato
"verificato" e segnato con un colpo di penna. I conti li ha tenuti in
prima persona. A volte parlando direttamente con gli indecisi. Alcuni dei quali
sono rimasti tali, come l'indipendente Luigi Pallaro. "Temo che sia una
soluzione fragile", ha ribadito a ogni piè sospinto a molti dei
suoi interlocutori. Pur accompagnando le sue considerazioni dall'ammissione che
alternative praticabili al momento non esistono.
A Silvio Berlusconi, ad esempio, lo ha detto con la massima schiettezza:
"Per me è una strada obbligata, non posso fare altrimenti".
Tant'è che il Cavaliere dopo il faccia a faccia con il presidente della
Repubblica, ha subito avvisato i "colonnelli" del suo partito e gli
alleati: "Vogliono tenere in vita Prodi artificialmente. Ma se ricade, si
va al voto". Un'interpretazione che in effetti non va molto lontano da
quanto Napolitano ha spiegato ieri nei suoi incontri. "Se il voto di
mercoledì scorso al Senato, è stato l'appello per il governo. Un
eventuale prossimo incidente sarebbe la cassazione". Un modo per dire che
questa è l'ultima chance per il Professore. Poi, basta.
Basti pensare che ha reclamato assicurazioni esplicite non solo sulla fiducia
ma anche sul decreto che rifinanzia la missione in Afghanistan. Tema su cui
l'Unione si è già messa all'opera ieri. Sul decreto non
verrà posta la fiducia. Obiettivo: ottenere i consensi anche della Casa
delle libertà. Ma la strada dell'autosufficienza verrà comunque
tentata. Non a caso i capigruppo hanno già concordato di far slittare di
qualche giorno l'esame del decreto arrivando a Palazzo Madama a ridosso della
scadenza. Rendendo di fatto impossibile qualsiasi modifica. Gli emendamenti
verranno concordati solo alla Camera e sono già stati contattati tutti i
"dissidenti" (Rossi, Turigliatto e Bulgarelli) per concordare fin da
ora le modifiche. Sta di fatto, che dalla prossima settimana la maggioranza
proverà sempre ad "allargarsi".
Anche il documento presentato da Prodi agli alleati è stato nella
sostanza reclamato dal Colle. Che ha preteso un "atto politico" che
certificasse la permanenza in vita della coalizione prima di avviare la pratica
del "rinvio". Non per niente anche il punto che rilanciava il
completamento della Tav è stato mantenuto, nonostante le proteste dei
Verdi, perché Marco Follini l'aveva posto come condizione per la sua adesione
alla maggioranza: "Non ha davvero sentito ragioni", ha raccontato
Pecoraro Scanio. Insomma, tutti passaggi che il centrosinistra ha dovuto
consumare per saltare i paletti piazzati dal Quirinale.
Anche perché il timore principale di Napolitano riguardail futuro dell'Unione.
La paura che il "dopo-Prodi" e la costruzione di un nuovo
centrosinistra sia già iniziato. Le insistenze Ds, ad esempio, per
tentare la via delle larghe intese sono state abbandonate solo ieri mattina. E
chi sa se una prima prova generale dell'Unione che sarà, non ci sia
già stamattina in occasione della presentazione al Teatro Brancaccio
della "mozione 1" per il congresso Ds. Massimo D'Alema e Walter Veltroni
si troveranno dopo tanto tempo uno fianco all'altro.
(24 febbraio 2007)
L'ex udc Follini: voglio partecipare alla costruzione di un
nuovo centrosinistra.
ROMA
— L'ex leader dell'Udc, Marco Follini, spiega al Corriere della Sera la sua
decisione di sostenere Romano Prodi: «Votare con Oliviero Diliberto non mi
imbarazza più che non votare con Roberto Calderoli. Pier Ferdinando
Casini, com'è già accaduto, mi seguirà tra qualche mese,
se non tra qualche giorno. Silvio Berlusconi? In passato i colpi li ho presi
io».
«Cerchiamo
di non guardare la crisi dal buco della serratura, non giocare con il
pallottoliere ma provare a capire di cosa ha bisogno il Paese in questo
passaggio difficile».
Di cosa, senatore Follini?
«Il Paese ha bisogno di ritrovare l'equilibrio che ha perso lungo i tornanti di
questa alternanza piuttosto nevrotica. In questi anni ho sempre lavorato, con
le mie deboli forze, alla prospettiva di un rinnovamento, per uscire da quella
foresta pietrificata che è oggi la politica italiana, per non perdere il
senso di civiltà della politica. Nella mia memoria e nella tradizione in
cui mi riconosco c'è il centro: vale a dire, la stabilità, la
ragionevolezza, il respiro che va oltre la contingenza. Oggi qualche segnale di
novità si comincia a vedere».
Quindi lei voterà la fiducia al governo Prodi?
«È probabile, se il discorso del presidente del Consiglio
confermerà questi segnali».
Si rende conto di cosa le accadrà? Il centrodestra ha accolto il voto
di Ciampi e di altri senatori a vita con fischi e insulti. A lei potrebbe
andare peggio.
«Non provo angoscia per me, ma per lo spettacolo che talora ha ridotto le Aule
parlamentari a spalti di uno stadio di calcio. Comunque, se deve accadere,
preferisco essere tra gli aggrediti che tra gli aggressori».
Non è questione solo di incolumità fisica. Riceverà
attacchi politici molto duri. Diranno che lei è diventato la stampella
di Prodi.
«Io non faccio da stampella. Non milito da quella parte. Indico obiettivi che
dovrebbero appartenere al senso comune degli uni e degli altri. Il mio è
il tentativo di sottrarre il governo, e quindi la politica, alle pressioni
delle minoranze più laterali. Mi propongo di partecipare, se ci riesco,
alla costruzione di un nuovo centrosinistra, e di ancorare questa costruzione
più vicino al centro. Il voto di mercoledì scorso ha sancito che
il vecchio centrosinistra è al capolinea. Mi adopero per contribuire a
tracciare una rotta diversa da quella seguita fin qui, a recuperare una cultura
e una prassi di governo meno aspre e conflittuali di quelle sperimentate con
Berlusconi come con Prodi».
Le rimprovereranno di essere stato eletto nel centrodestra e di essere
passato dall'altra parte.
«Ho il vezzo di dire sempre le stesse cose, a costo di una certa monotonia.
Pratico la pazienza, il ragionamento; non i salti logici, tantomeno il salto
della quaglia. Concorro alla ricerca della salvezza politica ma soprattutto
all'evoluzione del centrosinistra quando è al massimo della
difficoltà. Il governo è andato oltre il ciglio del burrone; io
tento di aiutarlo a risalire. Chi volesse stare sul sicuro, sceglierebbe un percorso
diverso».
Se Prodi le offrisse un posto da ministro?
«Grazie, no. Il tema del mio ingresso nel governo non appartiene all'oggi e
neppure al domani. Questa operazione non si fa per tentare di accumulare un
vantaggio, si fa accettando di correre un rischio. È un'operazione che
si annuncia costosa, ma ho già un discreto curriculum di prezzi costosi
da pagare».
Si riferisce alle dimissioni dalla segreteria dell'Udc?
«Ho molti difetti, ma l'attaccamento alla poltrona non è tra questi».
Quali sono le ragioni della sua scelta? I 12 punti, con la Tav e la riforma
delle pensioni, rappresentano una svolta centrista?
«Rappresentano un passo. L'inizio di un cammino. Il segno che si è
imboccato un senso. Ho detto molte volte che Prodi doveva sottrarsi alla sacralità
e agli automatismi della campagna elettorale che l'ha portato a Palazzo Chigi,
e liberare se stesso dall'idea muscolare del bipolarismo prevalsa in questi
anni. Abbiamo interpretato il bipolarismo come il passaggio più breve
dalla democrazia parlamentare al presidenzialismo di fatto, e ci siamo
incatenati alla retorica del programma elettorale, dai 5 punti del contratto di
Berlusconi con gli italiani alle 281 pagine dell'Unione. Mi permetto di dire
che questa rigidità non funziona, non appartiene alla logica della
democrazia parlamentare. Che è per sua natura flessibile, capace di
aggiornamenti; non richiede il pilota automatico ma una guida consapevole. A
lungo ci siamo chiesti: come se ne esce? Con il mio voto cerco di dare una
risposta».
Non la imbarazza votare con Diliberto?
«Non più di quanto mi abbia imbarazzato votare con Calderoli. Il mio
progetto è di poter votare senza essere aggrappato al filo di Diliberto
o di Calderoli».
Avevamo creduto che per lei i cattolici liberali dovessero stare dall'altra
parte rispetto alla sinistra.
«Non voglio fare il cultore della memoria, ma quando parlo di visione e respiro
penso alla prima edizione del centrosinistra, quella degli anni Sessanta, che
mette insieme forze moderate e riformiste, che disegna un campo largo
delimitato però da confini ben precisi. Quand'ero giovane, si parlava di
delimitazione della maggioranza».
Qui siamo a Moro.
«Appunto. Nei confronti del Pci ci fu attenzione, dialogo, anche un po' di
consociativismo, ma la delimitazione non venne mai meno. Ricordo un
centrosinistra che non conteneva tutta la sinistra, ed era cosa diversa dalla
destra».
Le rimprovereranno di aver tradito Berlusconi. O di essere stato l'unico,
dopo lo Scalfaro del '
«Nella mia onorata carriera, ho subito molti più colpi di quanti mi sia
capitato di dare. Fatico a vedermi nei panni dell'aggressore. E poi la mia
uscita dal centrodestra è avvenuta da tempo, non è uno scoop di
queste ore».
E a Casini, partito per la montagna, chi glielo dice?
«Con Casini ci uniscono molte cose. Ci separa, talora, il tempo. Talora, la mia
ragione viene riconosciuta, sia pure postuma, dopo qualche mese o qualche
giorno. È possibile che tra qualche mese, o tra qualche giorno,
ritroverò Casini nei paraggi; e al pensiero mi sento sollevato».
La prima occasione potrebbe essere il voto sull'Afghanistan?
«Quello mi pare un voto obbligato. Trovo paradossale ci sia incertezza su un
risultato condiviso da quasi tutte le forze presenti in Parlamento».
La prospettiva è che l'Udc sostituisca la sinistra radicale nella
maggioranza?
«Non so se è il tema di questa legislatura. Ma è il tema del futuro;
prima o poi va aperto. Anche perché prima o poi si andrà a votare:
dall'aria che tira, non troppo poi. Quando verrà il momento, ci si
potrà presentare agli elettori con una diversa capacità di
coesione. Occorre un lungo esercizio di tessitura; qualcuno lo deve pur
cominciare. Altrimenti precipitiamo all'indietro, ci facciamo di nuovo
rinchiudere in due caravanserragli: come nel gioco dell'oca, quando si torna
alla casella di partenza».
E se il suo passo non si rivelasse determinante? Se Rifondazione, Verdi e
comunisti si chiamassero fuori, o più facilmente perdessero qualche
altro senatore?
«La mediazione oggi non dev'essere tra gli spezzoni della vecchia maggioranza;
si è già visto che la somma finale è sempre zero. La
mediazione dev'essere concreta, deve riguardare i temi veri del Paese. Ora
assistiamo a un giochino di Palazzo, ma il problema non è come comporre
i dissidi interni di una coalizione che vada da De Gregorio a Turigliatto; il
problema è capire che una classe dirigente con sale in zucca non si
ritira dall'Afghanistan. Non ha paura della Tav, perché è parte
essenziale del nostro europeismo. Non combatte guerre di religione sull'etica e
sulla famiglia, e neppure guerre contro la religione».
Lei si limiterà a votare la fiducia e poi a decidere di volta in
volta? O entrerà a far parte della maggioranza?
«Sono un parlamentare non troppo attempato, ma conosco le regole. Non ho
un'idea sacrale di maggioranza e opposizione, non credo esistano due recinti:
più si allentano le morse, meglio è. Il senso di una legislatura
costruttiva, di movimento, sta nel non restare imprigionati in uno dei due
blocchi. Non scelgo un blocco contro l'altro; voterò sul filo del
ragionamento».
Voterà i Dico?
«Non ho magnificato i Dico. Non li demonizzo. Non li considero il primo
problema nell'agenda del Paese. Sono affidati alla dialettica parlamentare».
Quale legge elettorale voterà?
«La nuova legge elettorale o parla francese o parla tedesco».
Non è la stessa cosa. Il doppio turno alla francese implica il
bipolarismo. Il modello tedesco, per metà proporzionale, non esclude una
terza forza.
«Dipendesse da me, sceglierei il modello tedesco. L'importante è evitare
un pasticcio casalingo. Anche il modello francese consente di bruciare scorie,
di ridimensionare la pressione delle estreme. Rende più agevole
all'elettore evitare la rocca di Radicofani».
Ha ricevuto pressioni in questi giorni? Porterà altri senatori con
sé?
«Ho parlato con molte persone, in particolare con gli amici che hanno condiviso
le mie vicissitudini di questi mesi. Ma nei passaggi decisivi si è soli.
Non sono un capobastone. Rispondo di me stesso e della mia coscienza».
Se il suo voto non dovesse bastare, si andrà a un governo
istituzionale?
«Una volta che si comincia a mischiare le carte, non è detto che ci si
fermi. Ma una cosa per volta».
24
febbraio 2007
Retroscena La crisi di governo rimbalza sui
tavoli della politica estera Torna l'Italietta esclusa dal gran gioco dell'Onu
CORRISPONDENTE DA NEW YORK Lunedì inizia a Londra il negoziato
sull'inasprimento delle sanzioni Onu all'Iran ma l'Italia, primo partner
commerciale europeo di Teheran, non sarà intorno al tavolo. A
partecipare alla riunione saranno i direttori politici dei ministeri degli
Esteri delle sei potenze che dal 2003 si occupano del caso-Iran - Usa, Russia,
Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania - e che lo scorso 23 dicembre hanno
accompagnato il Consiglio di Sicurezza a votare all'unanimità la
risoluzione 1737 sulle sanzioni contro 23 individui ed aziende legate al
programma nucleare di Teheran. Le indiscrezioni trapelate dal Dipartimento di
Stato e dalla missione francese all'Onu suggeriscono che la seconda risoluzione
si propone di accrescere la pressione economica sugli ayatollah e ciò
chiama in causa gli interessi di quei Paesi che hanno forti legami con Teheran,
a cominciare dal nostro, soprattutto a causa degli investimenti energetici. L'assenza
dell'Italia a Londra si deve alla decisione presa dall'ex ministro degli Esteri
Franco Frattini di non fare parte del gruppo dei Sei e al fallimento dei
tentativi della Farnesina di Massimo D'Alema di esservi inclusi. In settembre
D'Alema partecipò ad una cena con i colleghi delle Sei potenze a New
York, ma l'Italia non venne poi coinvolta nella redazione della 1737. Adesso lo
scenario si ripete, ma con due novità: la presenza dell'Italia nel
Consiglio di Sicurezza ci mette, sulla carta, nelle condizioni di avere piena
voce in capitolo disponendo di uno dei 15 voti necessari a mantenere
l'unanimità registrata sulla 1737, mentre la crisi di governo a Roma fa
discutere nei corridoi dell'Onu sul ritorno a quella che il "New York
Times" ha definito "la vecchia instabilità politica
italiana". La sovrapposizione fra maggiore ruolo italiano - per i rapporti
commerciali bilaterali ed il seggio all'Onu - e incertezza su come verrà
svolto induce i portavoce delle rappresentanze di Francia, Gran Bretagna e
Stati Uniti ad un misto di cautela e sarcasmo. "Non sappiamo proprio cosa
pensano gli italiani sull'idea di redigere una seconda risoluzione, ma
c'è un governo a Roma?" si domanda un diplomatico europeo chiedendo
l'anonimato "per evitare complicazioni bilaterali". A confermare le
incertezze dell'Italia a proposito degli incombenti sviluppi sul caso Iran vi
è una posizione che negli ambienti della Farnesina viene riassunta
così: parlare ora del nuovo testo di risoluzione è
"difficile" ed "astratto" perché prima bisogna "esaminare
a fondo il rapporto" presentato dal direttore dell'Agenzia atomica Onu
Mohamed El Baradei e comunque la posizione di Roma verte attorno ad una
"forte coesione europea", richiamandosi all'articolo 19 dei Trattati
e puntando dunque a definire una posizione comune con tutti i cinque europei
del Consiglio di Sicurezza, non solo Francia e Gran Bretagna, titolari del
diritto di veto, ma anche il Belgio e la Slovacchia. La prudenza italiana
stride con l'accelerazione dovuta all'appuntamento fissato a Londra -
l'americano Nick Burns è già partito - e solleva in ambienti
diplomatici a Washington l'interrogativo su "come si comporterà
Roma in seno al Consiglio di Sicurezza" nelle prossime settimane, ovvero
quando inizieranno le consultazioni fra capitali sulle bozze di risoluzione.
Nell'assenza di segnali chiari da Roma sono tre gli scenari che vengono
ipotizzati: nel primo l'Italia potrebbe tentare di giocare un ruolo
indipendente di mediazione con Teheran, facendo leva sui buoni rapporti
testimoniati dalle tre recenti visite romane di Ali Larijani ma rischiando di
entrare in collisione con i Sei; nel secondo Palazzo Chigi potrebbe sfruttare
la presenza nel Consiglio di Sicurezza per rinnovare la richiesta di essere
ammessa al tavolo dei Sei; nel terzo l'Italia potrebbe fare un passo indietro e
limitarsi a riconoscersi nell'operato di Javier Solana, Alto rappresentante Ue
per la politica estera, che da tre anni affianca i Sei.
sabato 24 febbraio 2007, 07:00 da Roma
Fiducia sì, ma Afghanistan no. Se Romano
Prodi dovesse ricevere un reincarico e ottenere la fiducia, all'orizzonte si
profila un rischio disfatta a meno di un mese da questa crisi. Perché Prodi potrebbe
non essere bocciato al Senato, ma il pericolo di un naufragio fatale è
dietro l'angolo e ha un termine di tempo: trentatré giorni. Si potranno
congelare i Dico, partorire nuovi provvedimenti per la Tav, ma c'è uno
scoglio che né le piroette per la sopravvivenza, né quelle imposte al
calendario delle Camere, possono aggirare: il rifinanziamento della missione in
Afghanistan. L'impegno nelle missioni internazionali è stato inserito al
primo posto nel nuovo programma vincolante in 12 punti di Prodi. Ma la
"guerra" per alcuni senatori non è proponibile in nessun modo,
a costo di tutto. Il decreto sul rifinanziamento delle missioni deve essere
approvato entro l'1 aprile, trentacinque giorni da oggi, trentatré da
lunedì. Eccoli, i senatori che fanno paura al governo. Perché
sull'Afghanistan si giocano il loro passato, la loro coscienza, e i loro
elettori. Al primo posto occorre citare i due dissidenti della sconfitta al
Senato. Franco Turigliatto, ormai ex di Rifondazione, allontanato dal partito e
ora nel Gruppo Misto, annuncia: "Non voterò mai e poi mai
sì. Non posso rivotare una guerra". Ci sono poi le
"riserve", di ben tre senatori. Riserve che in alcuni casi sono
più vicine al "no" che al "sì", perché i
dissidenti chiedono un segnale forte della maggioranza per un ritiro, quando il
manifesto di Prodi prevede tutt'altro. Il secondo "killer" del
Professore al Senato, Fernando Rossi, ex Pdci, maltrattato dai suoi vecchi
compagni, messo all'angolo come un lebbroso e minacciato, fa sapere: "Sull'Afghanistan
voglio un segnale di speranza e chiarezza e poi deciderò. Dicono che io
sono matto e irresponsabile, ma è perché gli ho bruciato la coda,
smascherando la loro mancata chiarezza con gli elettori". Non dà un
sì incondizionato nemmeno il Verde Mauro Bulgarelli: "Prima di
votare sì alla missione, devo vedere il decreto legge". E farebbe
stare Prodi sulle spine anche il pacifista di Rifondazione Fosco Giannini.
Nonostante la forca Pagina successiva >>.
Il centro-sinistra punta a raggiungere quota
161, senza i senatori a vita.
Ma le
difficoltà vengono ancora dai dissidenti di sinistra
ROMA.
I nomi nuovi del centrosinistra, quelli decisivi
per fare restare Prodi in sella sarebbero Marco Follini e Luigi Pallaro. Si
potrebbero aggiungere Giuseppe Saro e Giovanni Pistorio (Movimento per le
Autonomie). Con loro il governo potrebbe contare su una maggioranza di 161
senatori eletti, maggioranza quindi autosufficiente e non bisognosa
dell'apporto dei senatori a vita. Gli interessati per ora smentiscono o non
confermano, l'unico che si dice possibilista è Luigi Pallaro. A lui del
resto è dedicato un passaggio specifico nei "Punti
programmatici" approvati dal vertice di maggioranza di giovedì
notte: "Una incisiva valorizzazione per il sostegno e la valorizzazione
del patrimonio rappresentato dalle comunità italiane all'estero".
161 voti al netto dei senatori a vita è quanto chiede Giorgio Napolitano
al centrosinistra per il rinvio del governo Prodi alle Camere. Il
centrosinistra è convinto di aver ottenuto la certezza di poter contare
sui numeri giusti. E questo anche se Gianfranco Fini aveva parlato di
"necessità che avesse almeno la maggioranza degli eletti, al netto
dei senatori a vita". Panorama complesso quello del Senato, proprio per la
presenza dei sette senatori di nomina presidenziale o di diritto (gli ex
presidenti della Repubblica). Così da una parte ci sono i senatori
eletti, 315, dall'altra i senatori a vita, 7. Se si sommano la maggioranza
necessaria per avere la fiducia sale a 161 voti, altrimenti la maggioranza
è 158. Così c'è una maggioranza politica (con gli eletti)
e una reale (del plenum). Il centrosinistra rassicura il presidente Napolitano
dicendo di averle entrambe. Ma se quella sui senatori a vita è palese
(sono per il sì 4 su 7, Rita Levi Montalcini, Emilio Colombo, Oscar
Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi), per quella "politica" le cose
si fanno più complicate. Dopo le elezioni il centrosinistra aveva al
Senato 159 voti. Con l'elezione di Franco Marini a presidente del Senato i voti
a disposizione (per prassi parlamentare il presidente non vota) sono scesi a
158, con la defezione di Sergio De Gregorio sono diventati 157. 157 che tornano
maggioranza assoluta solo con i 4 senatori a vita. Il problema da risolvere, in
vista del rinvio di Prodi alle Camere, era tornare comunque a 158. Ovvero
sostituire o reintegrare De Gregorio, meglio se con più senatori dato
che nel centrosinistra potrebbero riaprirsi falle al momento del voto
sull'Afghanistan. Franco Turigliatto, il trotzkista di Rifondazione in via di
espulsione dal partito, ha già detto che voterà no, Fosco
Giannini, altro senatore del Prc, si è detto pronto a votare sì
sull'Afghanistan solo per disciplina di partito, mentre Fernando Rossi, ex Pdci
ora con i Consumatori, dice che voterà la fiducia, ma sull'Afghanistan
ci deve pensare. Tanto per capirci: con 156 senatori anche con i 4 senatori a
vita è sconfitta sicura. E le condizioni di partenza del governo Prodi,
con la fiducia ottenuta
TEHERAN SFIDA LA COMUNITÀ INTERNAZIONALE:
"NON CI LASCIAMO INTIMIDIRE DAI RAPPORTI DELL'AIEA"
NEW YORK L'Iran torna a sfidare la
comunità internazionale, dicendo che non si lascerà intimidire dai
rapporti dell'Aiea sul suo programma nucleare o dalle sanzioni Onu. Eppure
mentre il vice presidente Cheney afferma che Washington non ha tolto alcuna
opzione dal tavolo, e sui media continuano a filtrare indiscrezioni relative ai
piani di attacco Usa, il premier britannico Blair esclude l'uso della forza e
ospita a Londra il vertice per definire le nuove sanzioni contro Teheran. In
sostanza la diplomazia internazionale, secondo varie indiscrezioni, pensa che
la pressione applicata negli ultimi mesi sulla Repubblica Islamica stia
muovendo qualcosa, e quindi vuole insistere su questa strada nella speranza di
aprire un vero negoziato come quello nordcoreano. La parola ieri è
tornata al presidente Ahmadinejad, che ha ripreso la linea dura per commentare
il rapporto dell'Aiea: "L'Iran - ha detto durante un discorso - ha
resistito ai bulli e alle potenze corrotte, e difenderà pienamente tutti
i suoi diritti". Nello stesso tempo, però, ha parlato anche l'ex
presidente Rafsanjani, che ha inviato un doppio messaggio. Da una parte, ha
lanciato un avvertimento: "Dopo il rapporto dell'Aiea, i nostri avversari
hanno ripreso le iniziative dure e le minacce, pensando ad una nuova
risoluzione. Ma se continuerete ad agire con prepotenza, provocherete di sicuro
molti problemi per voi, per il mondo e per la regione". Dall'altra parte,
però, Rafsanjani ha fatto un'apertura: "Io consiglio alle altre
potenze di tornare al tavolo del negoziato. Noi siamo pronti a dare tutte le
garanzie necessarie". In giro si sentono ancora voci bellicose, come
quella del vice presidente Cheney, che durante un'intervista alla Abc ha
ribadito: "Stiamo seguendo la strada diplomatica, ma non abbiamo tolto
alcuna opzione dal tavolo". Stavolta è toccato alla rivista Defense
News spiegare cosa intendesse: un'operazione militare guidata dalle portaerei
Eisenhower, Stennis e Reagan, che prenderebbe di mira le basi missilistiche
iraniane, accecherebbe i radar, e poi distruggerebbe i siti nucleari, con i
vettori lanciati dai sottomarini, i bombardieri B52 e le navi appostate nel
Golfo Persico. Eppure il premier britannico Blair, prendendo ancora le distanze
da Washington dopo l'annuncio del ritiro dall'Iraq, ha escluso l'uso della
forza: "Non riesco a pensare che potrebbe essere giusto intraprendere un'azione
militare contro l'Iran. Ciò che è importante è perseguire
il canale politico e diplomatico". Non a caso proprio Londra
ospiterà lunedì il vertice fra i cinque membri permanenti del
Consiglio di Sicurezza, per cominciare a discutere la seconda risoluzione Onu
contro l'Iran. Le resistenze di Russia e Cina restano, ma i diplomatici
britannici, francesi e americani pensano di poter convincere Mosca e Pechino ad
adottare sanzioni più dure, in particolare contro l'apparato che
finanzia e rifornisce la Guardia Repubblicana, ossia lo zoccolo duro militare
del regime di Teheran. Il sottosegretario americano Burns ha detto al
Washington Post che "continuo a ricevere offerte di dialogo dall'Iran.
L'unica cosa che manca è la parola magica: sospensione dell'arricchimento
dell'uranio". La diplomazia dunque pensa che sta facendo progressi.
Nell'amministrazione americana i falchi, guidati da Cheney, insistono
sull'opzione militare, ma tanto il capo del Pentagono Gates, quanto il
segretario di Stato Rice, sarebbero contrari. Perciò si tornerà a
discutere di sanzioni, nella speranza di convincere Teheran ad imitare
Pyongyang.
Renzo Isler, direttore di Generali China Life,
al collegio universitario "Famiglia auxilium"
In pochi anni la Cina è diventata tra i
paesi più competitivi dll'economia mondiale, a ridosso della Germania,
terza dopo Usa e Giappone. "Lo sviluppo del Paese di Mezzo nel 21°
secolo" è stato il tema della relazione che Renzo Isler, direttore
di Generali China Life, ha tenuto giovedì sera a Palazzo Vivante,
nell'ambito del ciclo di conferenze per gli studenti del collegio universitario
"Famiglia auxilium". Generali China Life è la joint venture
italo-cinese tra il Leone e China National Petroleum Corporation (Cnpc),
colosso petrolifero nel nord della Cina, che ha 1 milione 300 mila dipendenti e
che ha chiuso l'esercizio 2005 con un utile di 17 miliardi di euro. Generali
China Life ha stabilito la sede nel
Da La Repubblica 22-2-2007 Dalla politica estera alle pensioni
"Sì" dell'Unione ai 12 punti di Prodi
Dal Corriere della sera 22-2-2007 Il pressing su Follini e l'ipotesi
«centrista»
Dal Corriere della Sera 22-2-2007 Nell'Unione spunta la tesi della
congiura
Da La Stampa 22-2-2007 Blogger egiziano condannato per critiche al governo
La pena si aggiunge ai 6 anni per il caso
Imi-Sir. Stessa sorte per gli altri imputati Pacifico e Acampora. Il deputato
di FI: decisione scorretta
MILANO - Cesare Previti è stato
condannato per corruzione a un anno e sei mesi per il caso Lodo Mondadori. Il
verdetto arriva nel secondo processo d'appello a Milano, dopo 5 ore di camera
di consiglio.
La pena si aggiunge ai 6 anni di reclusione avuti per il caso Imi-Sir. Lo
stesso aumento di pena, sempre collegato alla sentenza Imi-Sir, è stato
deciso per gli avvocati Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, condannati
rispettivamente dalla Cassazione a 6 anni e a 3 anni e 8 mesi. Più
severa la pena inflitta all'ex giudice romano, Vittorio Metta, condannato a 2,9
anni di aumento di pena che si aggiungono ai 6 anni di Imi-Sir.
L'assoluzione dei quattro imputati dal parte della Corte d'appello di Milano
era stata annullata dalla Cassazione che aveva disposto un nuovo processo.
LA DIFESA: «SENTENZA NON CONDIVISIBILE» - «Si tratta di una sentenza che non
condividiamo assolutamente, non c’è prova di nulla». E’ questo il
commento di Giorgio Perroni, uno dei legali di Cesare Previti. Previti è
«sorpreso per una decisione scorretta» ha aggiunto Perroni.
23 febbraio 2007
+ Da La Repubblica
23-2-2007 Tra pochi mesi gli Usa saranno in possesso dell'SSHCL Un laser da
guerre spaziali contro missili e carri armati Di Luigi Bignami
un'arma mobile che sprigiona la potenza di 100Kw
LA
GUERRA combattuta con armi silenziose ma micidiali è sempre più
vicina. Un laser messo a punto solo per scopi militari sta per scendere in
campo con l'energia necessaria per distruggere un qualunque mezzo. L'SSHCL
(Solid State Heat Capacity Laser) ha raggiunto in questi giorni i 67 kW
(kilowatt) di potenza, in laboratorio. Stando ai tecnici ci vorranno ancora 6-8
mesi per raggiungere i fatidici 100 kW necessari per dar modo al laser di
diventare un'arma da campo di battaglia. Laser di tale potenza sono in grado di
abbattere missili, carri armati e qualunque mezzo militare gli si trovi di
fronte.
E' da molti anni che i militari americani stanno cercando di mettere a punto un
laser di questa potenza, ma fino ad oggi l'SSHCL era in grado di produrre una
energia molto inferiore ai 100 kW. "Nel marzo del 2005, si riusciva a
costruire laser in grado di produrre un raggio di potenza di soli 45 Kw, ma ora
che abbiamo toccato i 67 kW, possiamo dire che non è lontano il
traguardo dei 100 kW", ha spiegato Bob Yamamoto del Lawrence Livermore
National Laboratory della California (Usa). L'annuncio è stato dato
durante una conferenza scientifica tenuta dai militari americani ad Orlando, in
Florida.
Il tentativo da parte degli Stati Uniti di costruire armi laser risale agli
anni Sessanta, ma fino ad oggi la tecnologia non è mai stata in grado di
raggiuingere questi obiettivi. In realtà i laser da laboratorio sono in
grado di arrivare a potenze da megawatt (un megawatt equivale ad un milione di
watt), ma tali macchine sono pesanti e molto grandi e richiedono un continuo
rifornimento di materiale chimico per poter lavorare. Ciò che è
necessario per avere un'arma è un laser anche molto meno potente, ma che
sia facile da trasportare con un mezzo mobile.
"Con 45 kW di potenza e con un raggio di
Il laser che sta per essere realizzato, sparerà 200 volte al secondo un
raggio di luce la cui lunghezza d'onda sarà di un micron, anche se si
sta studiando la possibilità di sparare raggi con continuità
verso l'obiettivo da distruggere. "Con un laser da 100 kW - continua
Yamamoto- potremo rendere inoffensivo qualunque oggetto ad una distanza di
parecchi chilometri. E' difficile dare un valore assoluto della distanza a cui
può arrivare un raggio laser perché è influenzato dalle
condizioni atmosferiche, dall'umidità dell'aria, dalle nubi e ovviamente
dalla natura dell'oggetto da distruggere".
Secondo i tecnici un laser da 100 kW potrà essere trasportato da un
mezzo mobile non più lungo di una decina di metri. Nel futuro della
guerra-laser ci sono macchine molto più potenti che saranno montate su
aerei Boeing 747, le quali permetteranno non solo di essere estremamente
mobili, ma di poter affrontare e distruggere qualunque tipo di arma a distanze
di centinaia di chilometri.
(23 febbraio 2007)
«Bush vorrà risolvere la questione prima delle
elezioni». L'Aiea: «Teheran continua attività nucleari». Lunedì
la decisione sulle sanzioni
LONDRA
- Il governo britannico teme che l'amministrazione Usa voglia risolvere la
questione nucleare iraniana «con mezzi militari» il prossimo anno, prima della
fine del secondo mandato del Presidente George W. Bush. «Non vorrà
lasciare la questione in sospeso al suo successore», ha detto un alto
funzionario governativo al Times.
CONTRO L'INTERVENTO -
Giovedì il premier britannico, Tony Blair, ha espresso la sua
contrarierà all'ipotesi di un intervento armato contro Teheran,
definendolo un errore. In un'intervista alla Bbc, Blair ha dichiarato: «Non
credo sarebbe appropriato lanciare un intervento militare contro l'Iran. Quello
che è importante è proseguire lungo la via diplomatica e
politica. Credo sia l'unica via per arrivare a una soluzione della questione
iraniana».
RISOLUZIONE ONU - Lunedì prossimo, i
cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'Onu (Russia, Usa,
Regno Unito, Francia e Cina) e la Germania si riuniranno a Londra per redigere
una prima bozza di risoluzione contro Teheran. L'Agenzia internazionale per
l’energia atomica ha diffuso un rapporto in cui si afferma che l'Iran non ha
sospeso le attività di arricchimento dell'uranio, come richiesto
dall'Onu, e ha ignorato la scadenza posta dal Consiglio di Sicurezza. Lo stesso
Consiglio di Sicurezza valuterà quindi la possibilità di
inasprire le sanzioni già emesse contro Teheran con la risoluzione
votata lo scorso 23 dicembre.
INFORMAZIONI INATTENDIBILI -
Secondo un diplomatico dell'Aiea, però, gran parte delle informazioni di
intelligence raccolte dalle agenzie Usa sugli impianti nucleari iraniani e
trasmesse agli ispettori dell’Onu si sono rivelate inattendibili. «La maggior
parte delle soffiate si sono rivelate inesatte - dicono le fonti - ci hanno
trasmesso un documento con una lista di siti. Gli ispettori ne hanno verificati
alcuni. Erano siti militari e non c'era traccia di attività nucleari
vietate. Ora, gli ispettori non le seguono più alla cieca. Devono
superare un test di credibilità».
AHMADINEJAD - Nel
frattempo arriva la nuova minaccia del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad
: «Il popolo dell'Iran è vigile, e difenderà a ogni costo tutti i
suoi diritti», ha ammonito l'oltranzista presidente della Repubblica Islamica.
«Il grande popolo iraniano opporrà resistenza agli oppressori, e non
cederà di un millimetro», ha incalzato Ahmadinejad, citato dall'agenzia
di stampa ufficiale 'Irna', durante un discorso pronunciato in pubblico nella
provincia settentrionale di Gilan.
GLI SVILUPPI -
La risoluzione del Consiglio di sicurezza sull'Iran (la 1737) è stata
emanata il 23 dicembre scorso. Alla luce delle sue ripetute inadempienze,
imponeva un pacchetto di sanzioni e intimava al governo di Teheran di
sospendere ogni attività nucleare entro 60 giorni, pena il rischio di
nuove, più severe, sanzioni. Il termine è scaduto e da Teheran
non solo non sono giunti spiragli di cedimento ma al contrario solo
dichiarazioni, per bocca anche del presidente Mahmud Ahmadinejad, di voler
portare avanti il programma nucleare e non accettare condizioni dall'occidente.
La risoluzione 1737 prevede l'imposizione di nuove sanzioni in base
all'Articolo 41, Capitolo 7 della Carta dell'Onu in caso di mancato rispetto
delle richieste da parte dell'Iran. Per farlo è necessaria però
una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza. L'Art. 41 esclude tuttavia il
ricorso alla forza. La comunità internazionale, Stati Uniti in primis,
sospettano che dietro il mantello della ricerca nucleare, consentita a fini
civili dal Trattato di non proliferazione (Tnt), Teheran stia in realtà
lavorando alla bomba atomica. Nel rapporto di sei pagine inviato via mail da El
Baradei all'Onu a New York e ai 35 membri del 'board', il consiglio dei
governatori, dell'Aiea a Vienna, il direttore generale dell'Agenzia Onu certifica
che l'Iran «non ha sospeso le sue attività legate all'arricchimento» di
uranio e non ha ottemperato a «nessuna delle misure richieste di trasparenza».
Teheran ha proseguito l'attività di arricchimento all'impianto pilota di
Natanz con l'installazione di quattro cascate di 164 centrifughe (le macchine
per produzione di combustibile nucleare) e pianifica l'allaccio progressivo
«entro maggio 2007» di tutte le 3.000 centrifughe previste per arrivare a una
produzione di uranio arricchito su scala industriale. La svolta negativa ha
indotto il segretario generale del'Onu Ban Ki Moon, in visita a Vienna, a dirsi
«profondamente preoccupato».
23
febbraio 2007
Prodi minaccia il ritiro
L’Unione tutta col premier.
Giorgio Napolitano
è impegnato ad esplorare meticolosamente tutte le possibili soluzioni di
una crisi difficilissima, a partire dalla verifica della
possibilità che Romano Prodi possa riconquistare la fiducia di
palazzo Madama.Oggi seconda e ultima giornata di consultazioni ufficiali,
salgono al Colle le rappresentanze parlamentari dei partiti medi e grandi, prima
il centrodestra e poi quelli dell’Unione, con l’Ulivo a chiudere. Ieri, nella
prima giornata di consultazioni del capo dello stato, dopo Marini e Bertinotti,
sono stati protagonisti i partiti più piccoli, compresi gli one man
party come quello di Follini, gli autonomisti siciliani di Lombardo, le varie
rappresentanze delle minoranze linguistiche. Poche le notizie ufficiali,
dichiarazioni ancora vaghe e molta ambiguità. La sensazione, a sera, era
che i numeri al senato ancora non ci fosser e che il tentativo del
centrosinistra di sostenere Romano Prodi per un rinvio del suo governo alle
camere apparisse in salita. A chi gli ha parlato, il presidente del consiglio
è sembrato a molto amareggiato, tentato dal gettare la spugna, facendo
balenare l’ipotesi di un abbandono. In serata ha riunito tutti i leader della
coalizione per prospettare un programma nuovo, definito da palazzo Chigi
«non negoziabile», come base di un nuovo accordo di maggioranza.
Il centrodestra agita la bandiera della elezioni anticipate, ma nessuna ipotesi
è da escludere.
Prodi ancora senza numeri
ROMA
Ore 14,30 di ieri. Nello studio di Palazzo Chigi dove il premier riunisce solo
i fedelissimi va in scena l’autocoscienza di Romano Prodi con i prodiani. Ci
sono i collaboratori dei momenti particolari, quelli che se il governo
andrà a casa dovranno cercarsi un posto visto che non sono neppure
parlamentari. Spiega il Professore stremato da una pressione che dura
settimane: «Non mi va. O mi danno un mandato pieno e i numeri per governare o
io in Parlamento neppure ci torno. Non ho voglia di stare sulla graticola. E al
Senato a quest’ora abbiamo perso anche qualche voto rispetto a ieri. Per cui
preparatevi, si va a casa. Torno in Parlamento solo se tutti i segretari della
maggioranza mi daranno carta bianca, se saranno pronti a seguirmi su tutto,
anche sull’Afghanistan. Se mi dicono no, stiano attenti: senza di me sono
finiti per dieci anni».
Un passo indietro: mercoledì sera, in uno dei vertici della maggioranza
che si sono succeduti a ritmo incalzante dopo il «botto» del Senato. D’Alema
ancora accusa sul volto il voto che lo ha crocifisso nell’aula di Palazzo
Madama. Un’altra «via crucis» non gli va. Addirittura non vorrebbe tornare
neppure a fare il ministro degli Esteri, in un esecutivo pieno di
contraddizioni. Magari preferirebbe uno scambio di ruoli con Fassino. Ma il
personaggio è un soldato e se la patria - cioè il centro-sinistra
- lo chiamasse non saprebbe rifiutare. Detto questo lascia ai compagni di
partito una riflessione che è un programma: «Se facciamo un governo
raffazzonato, senza una linea chiara e numeri certi, rischiamo di cadere
un’altra volta tra qualche mese. E a quel punto Napolitano sarebbe obbligato a
sciogliere le Camere».
Ora un passo avanti: metà pomeriggio di ieri, quando allo Studio alla
vetrata il Capo dello Stato riceve i rappresentanti di uno dei piccoli partiti
del centro-destra. Osserva Napolitano: «I numeri per la fiducia al Senato al
momento Prodi non li ha. E’ fermo a 155 voti. Credo però che l’idea di
andare alle elezioni sia sbagliata e controproducente. Con questa legge elettorale
dal voto al massimo potrebbe venir fuori una situazione ribaltata: il
centro-destra potrebbe conquistare la Camera ma si dovrebbe accontentare di una
maggioranza risicata al Senato. Rischiamo di condannare il Paese
all’ingovernabilità». Un discorso che trova l’interlocutore attento.
Tant’è che l’alleato di Berlusconi risponde: «Vede, Presidente, io sono
per le elezioni, ma non per andarci subito. L’idea di cambiare la legge
elettorale prima, mi sembra più che ragionevole...». Passa mezz’ora e lo
stesso personaggio parla degli stessi argomenti nello studio di Berlusconi a
Palazzo Grazioli. Il circo Barnum che ruota attorno al Cavaliere sta già
andando in scena: gli intelettuali amici chiedono le elezioni a gran voce e il
popolo dei «fax» suona lo stesso spartito. L’ex premier, al solito, è
indeciso. Da una parte deve accontentare Bossi che vuole dare voce alla piazza.
Dall’altra ascolta il fido Letta che gli raccomanda di non chiedere le elezioni
a Napolitano. Per cui Berlusconi si prepara a ponderare le parole, ben sapendo
che se chiede le elezioni ora non le avrà mai, mentre con un minimo di
ragionevolezza potrebbe strapparle fra un anno. Risultato: salirà al
Colle con questo schema in testa: «Caro Presidente, io sono per il voto subito,
ma se lei ha un’altra proposta sono pronto ad ascoltarla». Insomma, la porta ad
un governo «istituzionale» o «tecnico» resta aperta.
Ecco perché, almeno a ieri sera, l’ipotesi di un ritorno di Prodi a molti
appariva improbabile, ridotta a un lumicino, mentre si faceva largo l’ipotesi
di un mandato esplorativo da affidare al presidente del Senato propedeutico a
un governo istituzionale affidato allo stesso Marini per lasciare la presidenza
del Senato a un esponente del centro-destra come Pisanu. Una situazione
scaturita, soprattutto, dalle difficoltà incontrate da Prodi e dal
centro-sinistra di arruolare senatori dell’opposizione e di riassorbire i
due-tre della sinistra radicale che sono orientati a non votare il
rifinanziamento della missione in Afghanistan. «Abbiamo fatto il possibile -
confidava nel pomeriggio il capogruppo di Rifondazione Russo Spena - ma con
Turigliatto non ci siamo riusciti. Come Diliberto difficilmente riuscirà
a convincere Rossi». Anche il «suk» sulla compravendita dei voti non ha avuto -
almeno a ieri sera - un esito migliore per il governo: Follini ha continuato a
tergiversare, mentre Lombardo ha chiesto in cambio la costruzione del ponte di
Messina. In più ieri il senatore Pallaro dopo aver annunciato il voto
contrario al Professore è salito sull’aereo per l’Argentina. Cossiga ha
detto che voterà contro una «riedizione» di Prodi e lo stesso Andreotti
ha fatto sapere di pensare ad altro. Stesso discorso vale per i corteggiamenti
all’Udc di Casini. «Ho detto a D’Alema - racconta Mastella che conosce bene
l’amico “Ferdi” - che era inutile quando ci ha provato. E ho ripetuto la stessa
cosa a Rutelli e Fassino. Casini con Diliberto non ci sta».
Un discorso che ripete pure l’interessato il quale, però, ha una sua
idea sulla crisi: «Noi - spiega il leader dell’Udc forse per schermirsi - non
siamo interessati a un allargamento della maggioranza. Vogliamo una fase nuova.
Ecco perché si arriverà alla replica di Prodi. Questa maggioranza non ha
intenzione di ammettere che non è autosufficiente né numericamente né
politicamente. Tenterà solo di strappare qualche voto qui e là.
Andrà ad una soluzione di basso profilo che farà comodo solo a
Prodi. Per ogni altra ipotesi manca la fiducia: D’Alema e gli altri si fidano
di me ma non di Berlusconi, pensano che la sua disponibilità ad un altro
governo nasconde il proposito di prenderli di infilata per andare alle
elezioni. E visto che non si fidano non hanno intenzione di imbarcarsi in un
drammatico regolamento di conti con Prodi. Tutto inutile. Io parto per la
montagna». Un’analisi che condivide lo stesso Fini: «Pier Ferdinando è
realista. Quelli minacceranno i dissidenti e riporteranno Prodi alla Camera per
una soluzione che durerà 15 giorni o sei mesi. Un governo fotocopia con
i Ds logorati: il voto del Senato è un altro sfregio a D’Alema».
Nessuno può oggi prevedere chi vincerebbe eventuali nuove elezioni. Sia perché lo
scenario attuale è caratterizzato, come in passato, da coalizioni che
hanno un seguito quantitativamente simile, sia, specialmente, perché l’esito
dipende, al solito, dagli argomenti e dagli slogan che verranno adottati per
convincere gli indecisi. Questi costituiscono oggi poco meno del 30 per cento
della popolazione. Tra essi, però, convivono gradi di incertezza assai
diversi. La quota limitata (grossomodo l’8 per cento dell’elettorato), i
«lontani dalla politica», non prende in considerazione nessun partito, dichiara
di volersi astenere e, probabilmente, lo farà davvero. Altri (9 per
cento circa), pur volendo (forse) votare, non sanno bene che fare e affermano
per ora di prendere in considerazione entrambe le coalizioni.
Altri ancora, pur non avendo a tutt’oggi un’idea precisa, sono genericamente orientati
verso l’uno o l’altro polo, con una esigua prevalenza dei simpatizzanti
(tiepidi) per il centrosinistra. Anche tra costoro, probabilmente, molti
finiranno con l’astenersi: l’esito della consultazione si baserà
soprattutto sulla capacità dei partiti di spingere a votare chi pencola
ancora tra l’astensione e un debole orientamento. Un secondo settore di
elettorato, assai più numeroso, esprime invece una intenzione di voto.
Tra costoro si riscontra, ormai da diverso tempo, una maggioranza di consensi
per il centrodestra. È l’effetto del progressivo calo di simpatia per il
governo: per motivi diversi esso ha finito col scontentare anche parte del suo
stesso elettorato.
Di conseguenza, una quota di elettori del centrosinistra alle ultime elezioni
dichiara oggi di volersi astenere o di essere comunque indecisa su cosa
scegliere. Ma anche tra chi manifesta una intenzione di voto, si riscontrano
diversi gradi di decisioni. Alcuni, in misura diversa tra le due coalizioni, si
dichiarano assolutamente certi della propria scelta. Si tratta del 31 per cento
dell’elettorato a favore della Cdl e poco più, il 35 per cento, a favore
del centrosinistra. Per stimare correttamente il seguito attuale delle
coalizioni occorre però considerare (e aggiungere nel computo) quanti
dichiarano un’opzione forte per l’uno o per l’altro polo, pur confessando, al
tempo stesso, di «prendere in considerazione », sebbene con meno convinzione,
anche una o più forze politiche appartenenti alla coalizione opposta o esterne
ad entrambe. Si tratta dei «potenzialmente infedeli »: la grande maggioranza
finirà col confermare il vo to alla propria coalizione di riferimento,
ma una parte, se pur minima, potrebbe spostarsi a seguito della campagna
elettorale.
Essa costituisce un possibile e appetitoso terreno di conquista, anche se,
rispetto ai totalmente indecisi, è talvolta assai più difficile
da persuadere. I «potenzialmente fedeli» sono presenti più nel
centrodestra che nel centrosinistra. Proprio questa circostanza determina il carattere
un po’ paradossale dell’attuale distribuzione delle intenzioni di voto. Sul
piano delle opzioni indicate, infatti, il centrodestra è in netto
vantaggio. Masu quello delle potenzialità, delle disponibilità
espresse è il centrosinistra a trovarsi favorito, sia tra gli indecisi,
sia tra i potenzialmente infedeli. Si tratta però di consensi da
conquistare attraverso la campagna elettorale: il che appare tutt’altro che
facile.
23 febbraio 2007
Un ex compagno del Pdci: l’ho preso col dorso
dell’indice. Il ribelle: non lo denuncio
ROMA — Uno parla di «cazzottone in faccia», l’altro di «manata sul naso, l’ho colpito con
il dorso dell’indice». Fatto sta che i e r i s e r a s u l l ’ E u r o s t a r
Roma—Milano è andato in scena il secondo round del match visto
mercoledì nell’Aula del Senato. Da una parte Fernando Rossi, il senatore
uscito dai Comunisti italiani ora indipendente dei Consumatori che non
partecipando al voto ha contribuito ad affondare il governo, attirandosi le ire
di Diliberto e del centrosinistra tutto. Dall’altra Nino Frosini, segretario
regionale del Pdci in Toscana. L’Eurostar delle 18 e 30 è appena partito
dalla stazione Termini. Il senatore Rossi è seduto da solo in prima
classe. Entrano altri passeggeri in cerca del loro posto. Dalla porta sbuca il
segretario del Pdci toscano, Frosini, accompagnato da un collaboratore e da una
donna. È il destino a volere l’incontro. Mentre Frosini cerca il numero
della sua poltrona si vede davanti i baffoni del senatore Rossi. I due, ex
compagni di partito, si riconoscono. Pochi secondi di silenzio. Poi Frosini rimette
il biglietto in tasca e dice ai suoi: «Andiamo via, che io con questo qui non
ci voglio stare». Rossi risponde: «Ma dai, vieni qui non fare il coglione. Che
ti sei bevuto il cervello anche tu?».
I due si avvicinano, a portata di sberla. «Non mi rivolgere la parola pezzo di merda, ti
dovresti vergognare, vuoi rimandare su Berlusconi?», urla il segretario del
Pdci. «Ma cosa cazzo dici, imbecille» risponde il senatore. È a questo
punto che arriva il pezzo forte. Ma qui le due versioni sono un po’ diverse.
Racconta Rossi: «Prima mi ha puntato il dito contro l’occhio, io mi sono girato
e lui me l’ha infilato nell’orecchio. Alla fine mi ha tirato un bel cazzottone
sulla testa. E si è allontanato dicendo che ero fortunato perchéme
l’aveva dato piano». Racconta Frosini, invece: «Macché cazzottone in faccia.
Sì, è vero: l’ho colpito.
Ma gli ho dato una manata e l’ho colpito al naso
con il dorso dell’indice. Tutto qua». Intanto corre voce che Frosini sia
un ex pugile dilettante. L’episodio rimbalza a Palazzo Chigi. All’uscita del
vertice di maggioranza davanti a Prodi, D’Alema e Fassino, ne parlano il
segretario del Pdci, Oliviero Diliberto, e Bruno De Vita, della Lista
consumatori, il nuovo partito di Rossi. Racconta Rossi: «Commentando l’episodio
Diliberto ha detto a De Vita che già avevano cominciato a farmi capire
la lezione. È un fatto gravissimo. Prodi deve pretendere dal segretario
del Pdci una presa di posizione». Diliberto smentisce: «Ho detto “purtroppo
è vero” ma non ho giustificato in alcun modo».
E poi aggiunge: «Deploro ogni forma di violenza ma
l’esasperazione alimentata dal comportamento di Rossi e dal tradimento del
mandato elettorale se non giustifica aiuta a comprendere l'arrabbiatura dei
nostri compagni». Dopo lo scontro sul treno i due contendenti si separano. Il
segretario del Pdci toscano cambia carrozza e poi scende come previsto a
Firenze. Rossi prosegue fino a Ferrara e resta seduto al suo posto. Parla di
aggressione anche se non vuole sporgere denuncia e dice di «non aver paura
perché posso camminare a testa alta». Frosini non chiede scusa: «Non sono
pentito di avergli detto che non voglio il suo saluto e non sono pentito di
averlo colpito perché non gli ho tirato un cazzotto. Non c’era violenza ».
Crede di aver interpretato la delusione di
milioni di elettori del centrosinistra? «Credo che molti italiani siano incavolati con
lui e prendo atto con soddisfazione che il loro sentimento è in linea
con il mio. Ma spero che questo sentimento popolare non si trasformi in gesti
violenti. Insomma non voglio che Rossi sia colpito da milioni di ditate al
naso. Ma forse, visto quello che ha combinato, una se la può tenere
senza brontolare».
23 febbraio 2007
In
poco più di un'ora, i leader del centrosinistra hanno approvato il
documento del premier per mettere in piedi il "Prodi bis"
Non
ci sono i Dico e si definisce anche il portavoce nella persona di Siriana Il
"sì" convinto di Fassino, la "soddisfazione" di Diliberto
ROMA -
Dodici punti non negoziabili. Approvati in poco più di un'ora da tutti i
leader del centrosinistra riuniti con Prodi a Palazzo Chigi. C'è la
politica estera con la missione in Afghanistan e la fedeltà alla Ue e
alla Nato; non ci sono i Dico (che diventano materia parlamentare) e c'è
la Tav; ci sono il riordino del sistema pensionistico e il rilancio di una
politica della famiglia. Manca quasi completamente un riferimento a politiche
sociali e del lavoro, ma è possibile che questi punti servissero
più a definire le cose controverse lasciando implicite tutte quelle su
cui non ci sono stati problemi nella maggioranza. Si arriva persino a definire
che Sircana sarà il portavoce unico del governo e che Prodi avrà
l'autorità di fare la sintesi della posizione del governo in tutti i
casi di disaccordo.
Ma la discussione sul "prendere o lasciare" del premier uscente, deve
essere stata ridotta al minimo. Con Prodi deciso a non negoziare più
nulla e a chiedere ai partiti un mandato chiaro e senza "ma". Con una
premessa piuttosto dura che suona critica nei confronti di ministri e partiti
di governo: "Il comportamento e le azioni dei singoli, ministri e forze
politiche, hanno costantemente provocato una litigiosità e una
strisciante contrapposizione di posizioni che ha oggettivamente logorato tutto
il governo" . Parole pesanti che, però, non sembrano aver offeso
nessuno. Tutti hanno sottoscritto. All'uscita da palazzo Chigi, Oliviero
Diliberto ha detto: "Proseguiamo insieme. Io sono molto soddisfatto".
Fassino ha parlato del pieno accordo della maggioranza a ribadire la fiducia a
Prodi e della necessità di "garantire il pieno sostegno a Prodi e
uscire rapidamente dall'impasse di questi giorni". D'Alema si è
detto convinto che, adesso, "c'è un mandato forte per rilanciare
l'azione del governo". Mastella ha fatto sapere che, stando alla sua
"personale contabilità, adesso i numeri ci sono".
C'è da pensare che Prodi e i suoi sapessero a chi altro, al di fuori dei
leader presenti, sono destinati questi punti che dovrebbero servire a
garantire, al Senato, i voti che sono mancati l'altro giorno. Non a caso, a
quanto si apprende, lo stesso Mastella, insieme a Enrico Letta, hanno
incontrato poco prima, Marco Follini, discutendo con il leader di "Italia
di mezzo" i punti di Prodi.
Una critica arriva da chi alla riunione non c'era, il ministro della
solidarietà Paolo Ferrero: "La cosa che mi colpisce di più
è quello che manca dal documento: il tema della precarietà, la
lotta all'evasione, la lotta alla povertà, punti qualificanti, mi sembra
non compaiano. Gli elementi di società non compaiono. Sembra uno schema
in cui i livelli di emergenza sociale restano sullo sfondo. Per un governo di
sinistra penso debbano avere un peso diverso".
Nella riunione di maggioranza, i numeri sarebbero rimasti sullo sfondo, ma si
parla di un "rientro" di Rossi e Turigliatto che avrebbero garantito
il voto di fiducia e di "qualche piccolo acquisto al centro".
Ed ecco i punti di Prodi:
1. Politica estera. "Rispetto degli impegni internazionali e di
pace. Sostegno costante alle iniziative di politica estera e di difesa
stabilite in ambito Onu ed ai nostri impegni internazionali, derivanti
dall'appartenenza all'Unione Europea e all'Alleanza Atlantica, con riferimento
anche al nostro attuale impegno nella missione in Afghanistan. Una incisiva
azione per il sostegno e la valorizzazione del patrimonio rappresentato dalle
comunità italiane all'estero".
2. Scuola e cultura. "Impegno forte per la cultura, scuola,
università, ricerca e innovazione".
3. Infrastrutture e Tav. "Rapida attuazione del piano infrastrutturale
e in particolare ai corridoi europei (compresa la Torino-Lione). Impegno sulla
mobilità sostenibile".
4. Fonti energetiche. "Programma per l'efficienza e la
diversificazione delle fonti energetiche: fonti rinnovabili e localizzazione e
realizzazione rigassificatori".
5. Liberalizzazioni. "Prosecuzione dell'azione di liberalizzazioni e
di tutela del cittadino consumatore nell'ambito dei servizi e delle
professioni".
6. Mezzogiorno. "Attenzione permanente e impegno concreto a favore del
Mezzogiorno, a partire dalla sicurezza".
7. Riduzione della spesa pubblica. "Azione concreta e immediata di
riduzione significativa della spesa pubblica e della spesa legata alle
attività politiche e istituzionali (costi della politica)".
8. Pensioni. "Riordino del sistema previdenziale con grande
attenzione alle compatibilità finanziarie e privilegiando le pensioni
basse e i giovani. Con l'impegno a reperire una quota delle risorse necessarie
attraverso una razionalizzazione della spesa che passa attraverso anche
l'unificazione degli enti previdenziali".
9. Politiche della famiglia. "Rilancio delle politiche a sostegno
della famiglia attraverso l'estensione universale di assegni familiari
più corposi e un piano concreto di aumento significativo degli asili
nido".
10. Incompatibilità. "Rapida soluzione della
incompatibilità tra incarichi, di governo e parlamentari, secondo le
modalità già concordate".
11. Portavoce. "Il portavoce del presidente, al fine di dare
maggiore coerenza alla comunicazione, assume il ruolo di portavoce
dell'esecutivo".
12. Autorità del premier. "In coerenza con tale principio,
per assicurare piena efficacia all'azione di governo, al presidente del
Consiglio è riconosciuta l'autorità di esprimere in maniera
unitaria la posizione del governo stesso in caso di contrasto".
(22 febbraio 2007)
«Si può discutere se c'è una
strategia nuova»
Per l'ex leader Udc un lungo colloquio telefonico con Prodi.
Contatti anche con D'Alema e Fini
ROMA
- Giornata ricca di colloqui e contatti per Marco Follini, prima
dell'appuntamento al Quirinale con il Capo dello Stato per le consultazioni
sulla crisi di governo in programma alle
DISPONIBILITA' - A tutti
Follini, racconta chi è vicino all'ex vicepremier, ha ripetuto lo stesso
ragionamento: disponibilità a discutere con il centrosinistra ma in
presenza di un programma e di una strategia nuova rispetto a quella attuale
dell'Unione, con una chiara «svolta centrista» nei contenuti. No, dunque, a
semplici forme di allargamento o sostegno all'attuale programma di governo, con
lui mai concordato e da lui mai sottoscritto oltreché spesso non condiviso.
ARRIVEDERCI - Sempre secondo quanto si è
potuto apprendere, tanto Prodi come D'Alema avrebbero ascoltato con molta
attenzione le parole e le richieste di Follini, congedandosi con una sorta di
«arrivederci», condizionato alla possibilità di essere nelle condizioni
di «ragionare sul percorso» prospettato da Follini, previsa consultazione con
il resto dell'Unione. Un «percorso», dunque, legato a «contenuti nuovi» del
governo Prodi che Follini naturalmente è intenzionato a prospettare
anche al Capo dello Stato, in modo che sia poi il Presidente, nella suo
delicato compito di verifica istituzionale al più alto livello, a
valutare se tanto si possa realizzare e possa eventualmente bastare per una
nuova fiducia parlamentare al governo Prodi.
22
febbraio 2007
D'Alema litiga con Mastella, Verdi e
Rifondazione: è anche colpa vostra
Trattative Fassino-Udc; Latorre: contro di noi un asse tra
Vaticano e Usa. Prodi vuole un «governo del premier», no degli alleati
ROMA
— È il giorno dei sospetti e dei
rancori. I sospetti di chi, come il dalemiano Latorre, osserva quel che si
è appena consumato nell'aula del Senato e a caldo dice che «questa
è un'operazione di vecchio stampo democristiano nella quale si
incrociano i voleri del Vaticano e di altri all'estero. Perché fino a un minuto
prima del voto, Andreotti aveva garantito il suo appoggio». Ma è come se
il vicepresidente dei senatori dell'Ulivo non sapesse o non sentisse i sussurri
provenienti dai banchi della maggioranza, dove alcuni suoi alleati ragionavano
più o meno come Berlusconi, secondo cui «a Prodi l'hanno fatta pagare
perché con le sue mosse di potere ha pestato i piedi a troppi. A partire da
D'Alema».
Ma
nessun leader ha il tempo e la voglia
di intrattenersi sulla questione, se cioè il voto di palazzo Madama sia
stato il frutto di una trappola, o se invece sia stata la semplice
dimostrazione che al Senato il centrosinistra non dispone di una maggioranza.
La crisi è al buio. E al buio si muovono tutti gli attori. Basti pensare
alle consultazioni riservate di Fassino, che subito dopo il crac del governo
chiama Casini per chiedergli una disponibilità ad allargare la maggioranza:
«Non se ne parla, a meno che non mettiate sul tavolo la testa di Prodi».
Fassino è lo stesso che qualche ora dopo annuncerà a Di Pietro la
volontà dei Ds di «finirla immediatamente con un inutile stillicidio.
Meglio sarebbero le elezioni anticipate».
E
intanto si avviano trattative parallele,
alcune di una certa consistenza, con Follini e Lombardo, per esempio. Prodi
vede nei due centristi una ciambella di salvataggio per il Senato: «O
c'è un fatto nuovo e riusciamo ad allargare la maggioranza — commentava
a tarda ora con alcuni ministri — o restano solo le elezioni anticipate».
D'altronde il quadro è chiaro, come ha spiegato ieri a muso duro la
Finocchiaro al vertice dell'Unione, «se ancora non ve ne siete resi conto, al
Senato non siamo più maggioranza».
Prodi
è imprigionato a questo schema,
anche se lo stesso Berlusconi misura l'impotenza di leader dell'opposizione,
perché Casini si muove per conto proprio e non gli offre la sponda, almeno non
al momento. E allora non ha senso giocarsi ora i nomi di Marini o Dini per un
eventuale governo di larghe intese. La palla sta nel campo avverso, dove al
buio si sentono cose strane. Una di queste Di Pietro l'ha raccontata ai suoi,
dopo la riunione di maggioranza e quella del governo: «C'è stato chi ha
proposto un esecutivo con i quattro maggiori partiti. E Prodi si è
infuriato. Casini no, non viene. Pare abbia chiesto per sé la presidenza del
Consiglio».
Non
esiste. Come non esistono le elezioni.
Anche perché Prodi non intende lasciare palazzo Chigi, anzi ha persino proposto
un «governo del presidente» con pochi ministri e un gruppetto di
sottosegretari. Proposta respinta al mittente, al pari di un'altra sua idea —
buttata lì in Consiglio dei ministri — quella cioè di «un grande partito
democratico dall'Udeur a Rifondazione». In questo caso il silenzio che è
seguito non era di assenso, ma di stupore generale. E mentre si susseguono voci
e proposte, Mastella cova il sospetto che qualcosa di vero ci sia nel
pissi-pissi di Palazzo, e che D'Alema stia «inciuciando per farci fuori» con il
Cavaliere.
È
dalla riunione di governo che non smette di pensarci,
da quando ha avuto un alterco con il titolare della Farnesina. «Non ci sono le
condizioni per andare avanti», ha detto D'Alema. E Mastella: «Scusa Massimo,
stai dicendo che non c'è più nulla da fare? Perché se qualcuno
pensa a un governo di larghe intese per fottere i partiti piccoli con una nuova
legge elettorale, siamo al liberi tutti».
Non
è stato l'unico scontro che il ministro degli Esteri
ha sostenuto. Già prima si era rivolto con durezza verso altri colleghi:
«Se Prodi andasse al Senato per chiedere la fiducia, sarebbe come giocare alla
roulette russa. E se sul decreto per le missioni militari mancasse la
maggioranza? Avremmo chiuso per sempre, ve ne rendete conto. Eppoi, diciamocelo
francamente, dov'è la maggioranza? Tu, Di Pietro, ti sei perso dei pezzi
per strada. E anche tu, Pecoraro Scanio. E voi di Rifondazione, caro Ferrero».
«Mica possiamo ammazzarli di botte i nostri», ha risposto il ministro del Prc.
«Il fatto è — ha ripreso D'Alema — che voi avete creato le condizioni di
questo sfilacciamento, alimentando un clima che non siete poi riusciti a
governare con quei pazzi...».
D'Alema
schierato al fianco di Prodi
ha destato sensazione a molti, anche a Rutelli, che certo aveva riconosciuto
«la crisi politica della maggioranza», ma proponeva di andare al Senato per
chiedere la fiducia, «per non dare la sensazione che l'alleanza si sia
già consumata»: «Credo sia meglio non passare per le dimissioni del
premier, perché non è con le consultazioni che si allarga il consenso».
Invece Prodi ha deciso, «così non posso andare avanti», e giù
lamentele «sui comportamenti di questi mesi che hanno indebolito il governo»:
«Ora è inutile fare appelli alla solidarietà, la verità
è che mentre io mi prodigavo a tenere in piedi la coalizione, non
c'è stato giorno senza un distinguo, senza un "non ci sto". Se
torno, non vorrò più vedere scene come quelle sull'indulto, o
esponenti di governo alle manifestazioni». Prodi tornerà, così
pare. Certo anche a lui ieri ha fatto sensazione vedere D'Alema così
solidale.
Francesco
Verderami
22
febbraio 2007
- venerdì 23 febbraio 2007, 07:00 da Roma
«L’avvento di banche
straniere non ha portato, per ora, alcun beneficio sul mercato perché non
c’è stato un aumento della concorrenza». Il presidente dell’Antitrust,
Antonio Catricalà, non ha utilizzato eufemismi e ha criticato il luogo
comune secondo il quale l’avvento di istituti di credito esteri in Italia
coincide con un miglioramento della qualità e del costo dei servizi.
La sortita di
Catricalà è giunta in un momento delicato per il settore nel
quale, oltre alle fibrillazioni interne a Capitalia, si stilano i primi bilanci
della Bnl francese e dell’Antonveneta olandese. Secondo il presidente
dell’Autorità, la prosecuzione del movimento di integrazione tra gli
operatori potrebbe migliorare la situazione. «Speriamo che ciò accada
con le aggregazioni - ha detto - ma il vero problema è che queste
integrazioni si fanno tra banche nelle quali ci sono intrecci azionari. Questo
è il tessuto del nostro capitalismo».
L’obiettivo principale,
quindi, è recidere i legami tra banche e banche e tra banche e imprese.
«Bisogna cercare di attenuare questi intrecci - ha aggiunto - e tutta la nostra
azione è volta soprattutto ad avere una competizione chiara. Per far
scendere il profitto di concorrenti forti ci vuole una forza politica molto
più grande dell’Antitrust». Tagliare i ponti con il passato non è
facile anche in ragione dell’eredità del criterio di «vigilanza
prudenziale» che, applicato fino all’entrata in vigore della legge sul
risparmio dalla Bankitalia pre-Draghi, ha prodotto la situazione attuale.
Le affermazioni di
Catricalà non hanno rappresentato un puro esercizio retorico, ma sono
state rivolte a una platea di soggetti interessati nel corso di un convegno
della Fondazione Einaudi. Come il commissario Ue alla Concorrenza, Neelie
Kroes, il presidente Abi, Corrado Faissola, e gli amministratori delegati di
Intesa Sanpaolo e Unicredit, Corrado Passera e Alessandro Profumo. Kroes ha
ricordato che «in Italia i costi dei conti correnti sono sei volte superiori
alle media dell’Ue-25» plaudendo all’iniziativa Abi di abolizione dei costi di
chiusura.
Passera ha messo in evidenza
altre particolarità dell’anomalia italiana come il «costo del lavoro, le
tasse più elevate e l’uso eccessivo del contante» che incidono sui
prezzi dei servizi. Gli intrecci non sono un problema. «Le nostre
partecipazioni sono lo 0,5% degli attivi e hanno consentito sostegno a grandi
operazioni».
Profumo, invece, ha toccato
un nervo scoperto: le aggregazioni devono essere condizionate alla creazione di
valore nel tempo. «Le operazioni ostili - ha sottolineato - nel nostro settore
sono impossibili. Se gli azionisti aderissero a un’Opa e il management se ne
andasse, non converrebbe comperare un asset il cui valore precipita». Una
supremazia dei manager? «No - ha spiegato al Giornale - perché anche senza un
azionariato stabile l’asset si deprezza». Allo stesso modo, «non è detto
che la proprietà sia allineata ai vantaggi della comunità» ha
detto riferendosi ai micromonopoli delle Sparkasse tedesche. Gli intrecci non
sono un problema. «Il rendimento di un investimento deve essere superiore al
costo del capitale. Punto».
ALESSANDRIA
D'EGITTO
Un tribunale di Alessandria d'Egitto ha condannato oggi un blogger egiziano per
aver criticato il presidente Egiziano Hosni Mubarak e la religione islamica. Il
giudice gli ha inflitto una pena di quattro anni di reclusione per il contenuto
dei suoi articoli pubblicati sulla Rete.
Abdel Karim Suleiman, un ex studente di legge, è stato il primo blogger
egiziano a essere citato in giudizio per il contenuto del suo blog. Si trova
sotto custodia da novembre, dopo aver scritto otto articoli sul suo blog dal
2004.
I movimenti per i diritti civili e i blogger vicini all'opposizione hanno
seguito con attenzione il caso Suleiman, preoccupati che una condanna possa
creare un precedente legale per limitare la libertà di espressione sulla
Rete in Egitto, il paese più popoloso del mondo arabo.
Internet è diventato il medium più utilizzato dagli egiziani che
vogliono criticare il loro governo, in un paese dove i mezzi di comunicazione
più importanti sono di proprietà dello Stato.
Suleiman, un musulmano liberale, non ha negato di essere l'autore degli
articoli, ma ha dichiarato di aver solamente espresso il suo punto di vista.
In uno degli articoli incriminati, il blogger sosteneva che nella sede del
Cairo di al-Azhar, uno dei principali enti educativi del paese, si promuovevano
idee estremiste. In un altro articolo, intitolato "La nuda verità
dell'islam, per quello che ho visto io", accusava i musulmani di aver
commesso una barbarie negli scontri tra islamici e cristiani di Alessandria nel
2005.
Suleiman aveva anche criticato Mubarak, paragonandolo a un faraone dell'antico
Egitto.
+ Da La Repubblica 22-2-2007 Crisi: Rossi, voglio creare una nuova forza politica
+ Da La Stampa 22-2-2007 Capitalia,
il giorno della resa dei conti Francesco Manacorda
Da La Repubblica 22-2-2007 La fiducia vuota della sinistra radicale di
Ezio Mauro
Dal Corriere della Se4ra 22-2-2007
Lezione di serietà di Ernesto Galli della Loggia
Da Panorama 22-2-2207 CHI HA
MANDATO A CASA IL GOVERNO. La cinquina che ha affossato Prodi
Da Repubblica 21-2-2007 SCHEDA
Chi sono gli astenuti Turigliatto e Rossi
Dal Mattino di Padova 22-2-2007
Rossi? un voto assurdo DICO e VICENZA cancellati - Albino Salmaso
Da Il Sole 24 Ore 21-2-2007
Politica estera, il dovere di scegliere
di Silvio Fagiolo
Da Reuters 21-2-2007 Telecom,
sequestrati 290.000 euro di Ghioni su conto a Lugano
Da Italia Oggi 22-2-2007 Alla banca
ora si dice addio gratis
Da La Stampa 21-2-2007 Allarme inglese per banche italiane Mario Deaglio
"Cerco di essere uno del popolo ma un po' di
politica ce l'ho anche io. Accetto quello che passa il convento. So che non si
puo' governare un paese senza compromessi con i poteri forti, diciamo pero' che
il compromesso con questi poteri, per il governo Prodi, e' andato troppo
avanti. Voglio creare quindi una nuova forza politica.
Vorrei una nuova forza di sinistra, che potrebbe svilupparsi intorno al
Movimento dei Consumatori , che dovrebbe ragionare di piu' su ambiente,
lavoratori, e consumatori. Parte del paese e' rappresentata elettoralmente ma
non in pratica: basta vedere come e' stato gestito il taglio del cuneo fiscale,
o come invece di aumentare le pensioni minime si volevano aumentare i minimi di
chi deve andare in pensione. Bisogna costruire una forza politica che lavora
per il paese con coerenza, non se ne puo' piu' dell''aum-aum' nei
salotti". Lo ha dichiarato il senatore Fernando Rossi in un'intervista
esclusiva realizzata da Pierluigi Diaco nel corso di 'Speciale Temporale'.
Il Quirinale
ROMA
— «Non mi hanno lasciato alternative, presidente»,
dice Romano Prodi, allargando le braccia davanti al capo dello Stato. Sono le
sette e mezzo di sera e, dopo un pomeriggio ad alta tensione, al premier non
resta che ufficializzare la sconfitta e dimettersi. Il colloquio sul Colle ha
toni «gravi e asciutti»: appena un quarto d’ora per sbrigare la pratica. A
questo punto, del resto, non c’è molto da dire e, si sa, in casi simili
anche la forma diventa sostanza. «Esaminerò la situazione... vedremo
cosa ne verrà fuori», è il congedo di Giorgio Napolitano, che
ormai da quattro ore sa della crisi imminente. «Domattina apriamo le
consultazioni», spiega allo staff. Ciò significa che, per l’assetto
bipolare del Parlamento, già domani sera o almassimo per sabato la
sfilata dei capipartito potrebbe chiudersi.
Ritmi
semplificati e veloci, dunque.
Ma nel rispetto delle prassi e senza forzature, come quelle che certi boatos
gli hanno attribuito («Napolitano voleva convincere Prodi a non passare la
mano»). Tanto che, per tutelare la neutralità del Quirinale, a notte
fonda si dirama una nota dove si precisa che il comportamento del presidente
è stato, e sarà, «lineare e trasparente». A questo punto della
crisi, per il capo dello Stato si aprono due percorsi paralleli. Uno politico e
uno istituzionale, con un’esplorazione che metterà anzitutto in chiaro
le chance del premier di continuare il suo lavoro. In questa prima fase, quindi,
Napolitano si limiterà a verbalizzarne l’orientamento dei capigruppo
che, dopo quanto accaduto, pretenderà sia «assolutamente impegnativo».
Basta
andare agli eventi delle ultime settimane,
per capire il perché di quest’esigenza. Il governo è andato sotto già
a gennaio sulla politica estera e, sollecitato dal Colle, ha svolto una
verifica interna conclusa con un proclama di «piena coesione». Poi, al momento
di ratificare l’intesa in Parlamento, il nuovo tonfo. Che, per il presidente
della Repubblica, non potrà essere sanato senza «la garanzia» che non si
registrino più «atteggiamenti difformi». I leader del centrosinistra
dovranno insomma dimostrare che a una maggioranza politica corrisponde una
maggioranza numerica. Solo con una simile assicurazione Prodi potrebbe essere
rinviato alle Camere, per farsi «fiduciare».
Su
tale sfondo si inserisce la variabile introdotta ieri da Casini,
con allusioni ancora non chiare. Il leader dell’Udc dovrà esplicitare
meglio la proposta. Precisarne il senso in rapporto al centrodestra, anzitutto,
perché se l’obiettivo fosse quello di allargare la maggioranza, allora i suoi
senatori avrebbero potuto votare la mozione di ieri, creando il fatto compiuto.
Per il momento sono questi gli scenari sui quali si riflette al Quirinale, che
è ormai la camera di compensazione della crisi e dove ancora non si
mettono nel conto ipotesi di governi tecnici o istituzionali. Che la partita
del Senato fosse sfociata in un big-bang del centrosinistra, Napolitano l’aveva
saputo in tempo reale, dopo pranzo, a Bologna. È un colpo difficilissimo
da riassorbire, ragionano i consiglieri. Infatti, anche ammettendo che questo
voto sia «non assimilabile» a un pronunciamento di sfiducia, non è
comunque possibile minimizzarlo come un incidente di percorso. E tantomeno si
può farlo dopo che il vicepremier D’Alema ha drammatizzato il confronto
con un avvertimento senza alternative: se manca la maggioranza, tutti a casa.
Ora,
porre un simile l’ultimatum ha ridotto i margini di manovra.
Per Prodi ma pure per il capo dello Stato. Il quale aveva lanciato un
contemporaneo avvertimento, su un’analoga lunghezza d’onda, riaffermando il
primato delle Camere. «Per quanto legittimi e importanti siano i canali del
conflitto sociale e delle manifestazioni di massa (vedi il caso Vicenza, ndr),
è fuorviante la tendenza a farne la forma suprema della partecipazione
e, retoricamente, il sale della democrazia... qualunque tema sia in questione,
è nel riconoscimento della rappresentatività delle istituzioni
elettive e delle relative sedi di decisione che ogni forma di partecipazione
deve trovare la sua misura». Era un monito alla responsabilità del
Parlamento. Rafforzato da un allarme: «Se si nega questo ancoraggio nelle
istituzioni, si può scivolare nella suggestione della violenza come
matrice delle decisioni invocate da aggregazioni e mobilitazioni minoritarie e
di lì si può compiere il passo verso la degenerazione estrema del
terrorismo».
22
febbraio 2007
Arpe e Geronzi: "Ho sempre rispettato le
regole. Mi cacciano senza motivo"
MILANO
A mezzogiorno il patto di sindacato di Capitalia. Alle cinque il consiglio. E
in serata – è la previsione unanime – Matteo Arpe senza più i
poteri di amministratore delegato. Senza poteri ma, a meno di nuovi colpi di
scena, ancora in consiglio. «Non farò la fine di Vittorio Colao» ha
detto Arpe ieri, in una delle tante telefonate fatte e ricevute, riferendosi
alla sorte dell’amministratore delegato della RcsMediagroup «sfiduciato» questa
estate dal patto (dove peraltro siede anche il presidente di Capitalia Cesare
Geronzi) e subito dopo dimessosi. E la linea spiegata ai collaboratori è
immutata: niente dimissioni, perché «la mia posizione è semplicemente
quella di salvaguardare la mia dignità. Che mi revochino le deleghe in
questo modo è una cosa mai accaduta nel sistema finanziario».
Questa la posizione di Arpe. Dall’altra parte c’è però il
presidente Cesare Geronzi, in queste ore impegnato a ritoccare il suo j’accuse
contro Arpe. Un documento scritto di suo pugno che presenterà oggi alla
riunione del patto, dove peraltro l’Ad non è stato invitato. Arpe ha
invece mandato una contromemoria allo stesso Geronzi e al presidente del collegio
sindacale, mettendola anche a disposizione di tutti i consiglieri. Vi si legge,
fra l’altro, che Ripa di Meana gli ha «chiesto di rassegnare le dimissioni
senza motivo, per incompatibilità con il presidente». Una mossa alla
quale l’Ad si dice «indisponibile», sottolineando di «aver sempre rispettato le
regole». Nessuno dei duellanti ha ovviamente interesse a far sapere in anticipo
su cosa baserà le proprie argomentazioni: ma tra i punti che Geronzi
solleverà davanti al patto potrebbero esserci, oltre alla vicenda
Capitalia-Intesa, alcuni incontri avuti da Arpe anche durante il periodo in cui
lo stesso presidente era interdetto, in particolare con il numero uno di
Citibank Charles Prince e con il patron del Santander Emilio Botin.
Ma se la battaglia è sostanzialmente tra Geronzi e Arpe, a decidere
ufficialmente oggi la sorte dell’Ad saranno i pattisti e i consiglieri di
Capitalia. I primi si trovano di fronte a un quesito non da poco: il patto
indica esplicitamente presidente e Ad nelle persone di Geronzi e Arpe. Per
revocare uno di loro serve o no l’unanimità? I legali interrogati ieri
dai pattisti propendono per il no e dicono essere sufficiente una maggioranza.
La questione potrebbe rivelarsi importante perché mentre il primo socio
sindacato – l’olandese Abn Amro – è decisamente dalla parte di Geronzi e
per l’uscita di Arpe, tra i membri del sindacato potrebbero levarsi voci
dissenzienti. Quali? Le incognite maggiori si concentrano sulla Fondazione
Manodori. E altri pattisti parlano della necessità di «ascoltare bene
quello che Geronzi ha da dire prima di decidere». Ma in ogni caso sarà
il consiglio – che in base al codice civile si pronuncia a maggioranza – a dire
l’ultima parola e a ritirare le deleghe all’Ad. E qui non paiono esserci grossi
dubbi. Nessuno, invece, potrà costringere Arpe a uscire dal consiglio:
se non deciderà di dimettersi ci vorrà un’assemblea dei soci. Una
situazione che ieri spinge il titolo in una frenetica altalena, con una perdita
finale dell’1,73% e scambi sul 4% del capitale, mentre Abn schizza del 5,5%
forse sull’onda di aspettative di un’Opa. Anche alla luce dell’andamento di
Borsa di Capitalia, ieri mattina Ripa di Meana ha bussato agli uffici della
Consob con una promessa: oggi il patto tirerà fuori un esauriente e
dettagliato comunicato per illustrare le sue decisioni.
Con Arpe probabilmente fuori dalla stanza dei bottoni, l’attesa è che i
suoi poteri passino al vicepresidente Paolo Cuccia, espresso dall’Abn. Ma la
sua sarà una guida temporanea. Dopo il rinnovo del patto di sindacato
Mediobanca, a fine marzo, e soprattutto dopo l’assemblea delle Generali – il 28
aprile – Geronzi intende ripartire e avrà bisogno di un Ad a tempo
pieno. I nomi che circolano sono sempre quelli, ma da ieri c’è da
registrare una smentita secca dell’Ad del Banco Popolare di Verona e Novara
Fabio Innocenzi e invece una frase sibillina del numero due di Intesa-Sanpaolo
Pietro Modiano riferita alle indiscrezioni sulla sua candidatura: «Se sono vere
appartengono alla sfera della discrezione. Se sono false, sono false». Urge
traduzione? Geronzi lo ha contattato, ma per ora non se ne fa nulla.
Tirata per mesi in parlamento e nelle piazze, la corda ideologica dell'estremismo
si è infine spezzata, facendo precipitare il governo Prodi e riaprendo a
Silvio Berlusconi - sconfitto soltanto un anno fa nelle urne - la prospettiva
ravvicinata di ritornare alla guida del Paese.
La crisi si apre sulla politica estera, dopo che D'Alema ha spiegato in Senato
l'impegno per la pace dell'Italia, il rifiuto della guerra, il valore
"politico e civile" della missione Onu in Afghanistan,
l'impossibilità di un ritiro che ci allontanerebbe dalla Ue, isolandoci.
Un discorso che sta pienamente nel programma dell'Unione, e che avrebbe potuto
pronunciare tra gli applausi qualsiasi ministro degli Esteri di qualunque
governo di sinistra di ogni Paese occidentale.
Ma in Italia, no. In Italia, dove il presidente del Consiglio è stato
presidente della Commissione europea, questo discorso divide la sinistra ed
è inaccettabile per la sua frangia più estrema, pronta a votare
contro il governo pur di salvarsi l'anima o almeno il pregiudizio. Il risultato
è la crisi dopo appena 281 giorni di Prodi a Palazzo Chigi, nemmeno un
anno. Una crisi inevitabile perché senza una maggioranza in politica estera non
si governa il Paese. Ma qui, secondo quanto rivela l'estremismo radicale, non
manca solo la maggioranza: manca un'idea stessa dell'Italia, per capire cos'è
e cosa dev'essere oggi, qual è il suo posto in quella parte del mondo
che si chiama Europa e Occidente, se non vogliamo abitarla per caso o per
sbaglio, da stranieri in patria, orfani di ideologie sconfitte e pericolose.
Ecco perché Romano Prodi ha fatto bene ad annunciare subito dopo il voto,
già al telefono, le sue dimissioni al Capo dello Stato, e a non chiedere
un rinvio automatico alle Camere per verificare meccanicamente se la
maggioranza di centrosinistra c'è ancora oppure no. In questo modo si
esce dai giochi interni alla coalizione, dove è possibile fare per mesi
i governativi al ministero e gli estremisti in piazza, e tutto ritorna nelle
mani del Capo dello Stato. Che dovrà e vorrà capire in forma
impegnativa non solo se c'è una teorica maggioranza numerica per
l'Unione, ma se c'è una concreta maggioranza politica, capace di
assicurare al Quirinale di essere pronta ad assumersi le responsabilità
di governo dei prossimi mesi, a partire proprio dagli impegni internazionali
dell'Italia.
Napolitano vuole infatti rompere il gioco dietro il quale si nasconde la
rendita di posizione dell'estremismo: il gioco della "fiducia vuota",
o irresponsabile, che porta i partiti e i gruppi più radicali della
coalizione a votare un assenso fiduciario generico al governo, pur di avere poi
le mani libere sui singoli temi specifici, con distinzioni, astensioni,
opposizioni che consentono ad ognuno (e ai piccoli gruppi soprattutto) di
inseguire la rappresentanza di interessi di parte incompatibili con la logica e
il programma di coalizione. Da oggi, dirà Napolitano al centrosinistra,
la "fiducia vuota" non basta più, perché non garantisce la
tenuta di un governo, anzi lo espone a quell'"umiliazione" di cui
parlava ieri la Cnn nel servizio sull'Italia: occorre un impegno preciso sui
passaggi qualificanti, qualcosa che dimostri la capacità per la sinistra
italiana di fare governo, di fare maggioranza. Solo così Prodi
potrà ripresentarsi alle Camere. Altrimenti, non ci sono le condizioni
per andare avanti e la sinistra dovrà passare la mano, gettando al vento
in pochi mesi la vittoria elettorale: e per sua esclusiva
responsabilità.
Questa responsabilità è già emersa ieri con evidenza in
Senato, con la defezione di due parlamentari, uno di Rifondazione e uno appena
uscito dal partito dei Comunisti italiani: per Prodi due voti in meno in un
equilibrio già fragilissimo, con Andreotti subito pronto - com'era
immaginabile - a stare con i desideri di Ruini piuttosto che con la politica
estera del governo. Le due defezioni "comuniste" sono il segno
concreto dell'ideologismo irriducibile, anche davanti alla crisi di governo, e
al rischio di riconsegnare il Paese a Berlusconi. Ma sarebbe ingiusto fermarsi
qui, e non vedere dietro i due senatori del no un mondo, un'organizzazione e
una cultura molto più ampia, in cui hanno camminato in questi mesi e
soprattutto in queste ultime settimane gli stessi leader dei partiti dei verdi,
di Rifondazione e dei Comunisti italiani che poi nelle ultime ore hanno parlato
a sostegno del governo: come se un voto parlamentare fosse separabile da una
cultura, da un comportamento diffuso e insistito, da un giudizio capitale sul
riformismo di sinistra, dall'anatema sulle alleanze occidentali. E soprattutto
dall'antiamericanismo che dopo la fine della guerra fredda in Italia è
l'ultima ideologia superstite, quasi un'identità eterna per un comunismo
minore e irriducibile, che continua a chiamarsi tale nonostante la democrazia
l'abbia sconfitto nella contesa europea del Novecento, rivelando non solo i
suoi errori ma la sua tragedia.
La crisi di governo certifica dunque con esattezza cos'è la sinistra
italiana oggi. Un gruppo maggioritario che si fa carico della
responsabilità del governare, scegliendo la cultura riformista nei suoi
valori e nelle sue obbligazioni. Un gruppo minoritario estremista, che ha
demonizzato Berlusconi come fascista ma è pronto a riconsegnargli
l'Italia, considera il governo del Paese un vincolo più che
un'opportunità, ritiene che la piazza debba prevalere sulle istituzioni.
Il dramma della sinistra sta alla fine in un paradosso: nelle condizioni
attuali senza l'ala radicale non si vince, ma con l'ala radicale non si
governa. E tuttavia si dovrà ad un certo punto parlar chiaro davanti ai
cittadini, spiegando qual è l'Italia del futuro, che Paese ha in mente
la sinistra, come lo vuole veder crescere. La lezione della crisi è
quella di costruire al più presto una forte piattaforma riformista , il
partito democratico, cioè una vera sinistra di governo con vocazione
maggioritaria capace di allearsi con i radicali sfidandoli per l'egemonia
culturale, costringendo i leader a uscire da ogni ambiguità: perché
anche in Italia non si può stare nello stesso tempo e per sempre in
piazza e al ministero.
Questo dovrebbe chiedere Prodi ai suoi alleati, perché solo se si coglie
l'occasione della crisi per fare chiarezza nell'identità della sinistra
(e dunque nell'identità della coalizione) vale la pena restare a Palazzo
Chigi. Non servono, com'è dimostrato, le firme sul programma. Serve una
politica condivisa, in pochi punti, che nasca da un'idea chiara dell'Italia e
della sinistra. Un'idea che può ancora, persino oggi, essere migliore di
quella della destra, e più utile al Paese. Ad esempio nella partita in
atto per la laicità dello Stato, che è la vera battaglia
culturale di questa fase per la sinistra. Anche se gli estremisti non lo sanno,
prigionieri dell'eterna sfida con gli Usa e con i riformisti: che combattono da
soli, come un'ossessione.
(22 febbraio 2007)
Nel
confuso dibattito sulla politica estera
delle ultime settimane, Massimo D'Alema ha mostrato la stoffa politica che
anche gli avversari gli riconoscono. Non ha mai mancato di rivendicare il
significato e la coerenza della sua azione alla Farnesina, ha sottolineato la
svolta che a suo giudizio quell'azione manifestava rispetto al governo
precedente, ha sempre cercato di difenderla dalle pressioni che miravano a
spostarla su un terreno più radicale, di rottura più o meno
palese con il quadro tradizionale delle nostre alleanze.
In
questo sforzo quotidiano il nostro ministro degli Esteri
ha fatto qualcosa che in Italia non è certo usuale: ha parlato con
nettezza, e lo ha fatto ripetutamente. Ha detto fuori dai denti, rivolto ai
turbolenti soci della sua coalizione militanti nella sinistra radicale, che un
governo che si rispetti deve potersi reggere su una propria maggioranza in
politica estera; che su un tema così decisivo non sono ammissibili
apporti dell'opposizione; che se non si sta su questa strada allora l'unica
alternativa è quella di abbandonare la partita. Non solo. D'Alema ha
fatto di più: su ciò che andava dicendo ha deciso di impegnare la
propria personale immagine di uomo di Stato. Dando una lezione di quella che si
chiama «responsabilità politica», e insieme una lezione altrettanto
importante di moralità politica, ha fatto chiaramente capire che in caso
di sfiducia al suo operato di sicuro egli non avrebbe potuto restare al suo
posto.
Ma
naturalmente, ascoltando il D'Alema dei giorni passati,
nessuno poteva dimenticare l'esistenza, accanto al D'Alema statista, di un
altro D'Alema: del D'Alema tattico consumato, esperto di assemblee e di giochi
d'aula, dell'oratore abile a radunare consensi. E' stato questo il D'Alema che
ha parlato ieri a Palazzo Madama. Alternando con avvedutezza impegni e
disimpegni, cautele e toni morbidi da un lato e affermazioni recise dall'altro,
usando insomma tutti gli strumenti offertigli dal lessico e dalla dialettica,
il ministro si è impegnato nel tentativo di convincere i recalcitranti
della maggioranza a non fargli mancare l’appoggio. Sfortunatamente, il suo si
è rivelato un tentativo disperato. Ha prevalso la coerenza ideologica di
un pugno di massimalisti, cocciuta sino all'accecamento, e l'appoggio richiesto
è mancato: il Senato non ha approvato la politica estera del governo.
Adesso
sappiamo che Prodi, dopo aver incontrato
il presidente Napolitano e averne ascoltato il consiglio, ha deciso saggiamente
di dimettersi. Ma al di là di questa decisione si può pensare — e
siamo sicuri che egli per primo in queste ore lo sta pensando — che esista uno
specifico caso D'Alema. Chiedergli perentoriamente di non partecipare al
prossimo governo ha un sapore maramaldesco che non ci piace; sarebbe quasi
rivestire i panni di Shylock. Una cosa sola pensiamo che l'opinione pubblica
possa chiedere in questo momento a Massimo D'Alema: una parola, un gesto, veda
lui quale, che comunque non dissipi la lezione di serietà, di impegno e di
coerenza, che le sue parole hanno offerto al Paese nelle settimane passate.
22
febbraio 2007
La
lunga e tormentata giornata di Prodi-D'Alema 21/2/2007 Massimo D'Alema durante
la relazione sulla politca estera in Senato Andreotti, Cossiga e Pininfarina
non votano la mozione dell'esecutivo. E contribuiscono alla sua sconfitta
" Forum Romano Prodi davvero non se lo aspettava quello che sarebbe
successo al Senato. Meglio: nessuno nel governo se lo aspettava. E, proprio di
fronte all'amara sorpresa di essere caduto, la reazione del premier è
stata durissima. Dopo lo 'scivolone' a palazzo Madama ha convocato subito un
vertice a Palazzo Chigi con vicepremier, ministri, leader di partito e, dicono,
il premier ne ha avute davvero per tutti. Furibondo con la sinistra radicale
("Sì, Prodi era molto, molto arrabbiato con noi", racconta
Gennaro Migliore), ma, a quanto pare, il presidente del Consiglio si sarebbe
sfogato anche sulla decisione di Massimo D'Alema di 'drammatizzare' il voto al
Senato con l'ultimatum da Ibiza e con alcune frasi pronunciate in aula. Ma da
palazzo Chigi si smentisce che il premier si sia mostrato irato verso il titolare
della Farnesina.A quanto trapela nelle ricostruzioni della convulsa giornata di
mercoledì 21, tra i fedelissimi del premier pare che il sospetto che il
presidente della Quercia abbia voluto far salire la tensione nella speranza che
il governo andasse sotto. Fantapolitica, probabilmente. Ma se così fosse
l'operazione sarebbe riuscita perfettamente. MORAL SUASION Tanto che il Prof.
ha resistito anche di fronte alla "moral suasion" del Quirinale per
invitarlo a non presentare la dimissioni. Notizia confermata da più
fonti del governo, ma il presidente del Consiglio si è mostrato convinto
ad andare fino in fondo, con la più ferma posizione di non accettare
alcun tipo di alternativa all'attuale maggioranza, la stessa che con un
programma condiviso ha vinto le elezioni lo scorso anno. Unica alternativa
è andare di nuovo alle urne. CHI SONO I CINQUE CONTRARI La curiosa
cinquina che ha fatto inciampare il governo a Palazzo Madama nella votazione
sulla politica estera è composta da tre senatori a vita e due
"irriducibili" della sinistra radicale. Senza il loro voto favorevole
alla risoluzione D'Alema, il centrosinistra si è fermato a quota 158
voti, due in meno del quorum richiesto di 160 sì. Giusto quelli dei
senatori a vita Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina che a sorpresa, hanno
deciso di astenersi. Da ricordare che al Senato l'astensione ai fini pratici
vale come un voto contrario, dunque i due voti dei senatori a vita hanno pesato
enormemente. Il terzo senatore a vita che ha dato un dispiacere alla maggioranza
è l'ex capo delo Stato Oscar Luigi Scalfaro: ma se questa volta non ha
votato con la maggioranza la colpa è di una fastidiosa influenza che lo
ha tento bloccato a letto. L'altro ex capo dello Stato Francesco Cossiga ha
votato contro la maggioranza, ma il suo no era stato ampiamente annunciato e
spiegato da molti giorni. A favore del centrosinistra hanno votato invece Rita
Levi Montalcini e Emilio Colombo. Nel voto sono mancati anche i due
"pasdaran" della sinistra radicale Ferdinando Rossi e Franco Turigliato:
entrambi hanno deciso di non prendere parte alla votazione. IL PRESSING SUI
DISSIDENTI Inutile, a questo punto, si è rivelato il pressing sugli
altri dissidenti, che in extremis hanno votato sì, sia pure obtorto
collo: il verde Mauro Bulgarelli, che si è autosospeso dal partito, il
leader della minoranza di Rifondazione Comunista Claudio Grassi, la senatrice
dell'Italia dei Valori Franca Rame. Altra sorpresa amara quella del presidente
della commissione Difesa Sergio De Gregorio che alla vigilia annunciava il suo
sì e poi ha votato no. Ma il vero colpo di teatro è stato
l'ingresso in aula di Sergio Pininfarina che mancava da mesi (dal giorno del
sì al governo Prodi) in aula. Appena arrivato, pochi minuti prima del
voto, si è seduto tra i banchi di Forza Italia. A nulla è valso
il tentativo di persuasione di Valerio Zanone, liberale come lui e suo vecchio
amico, oggi nelle fila dell'Ulivo. Al momento del voto, quando ha visto la luce
bianca sul suo scranno, è stato proprio Zanone ad avvicinarsi a
Pininfarina. Sono volati fogli di carta e parole grosse. Zanone ha perso il
proverbiale aplomb, ma Pininfarina ha resistito, votando per il no.
L'AMMISSIONE "Lo dico da tempo che non abbiamo più la maggioranza -
ha dichiarato il presidente dei senatori dell'Ulivo Anna Finocchiaro -
contavamo sul voto del presidente Andreotti e del senatore Pininfarina. Non
è andata così" .
Il governo va sotto sulla politica estera anche a causa dell'astensione di
Franco Turigliatto e Fernando Rossi, senatori eletti in conto Prc e Pdci. Ecco
due brevi schede sui due protagonisti della giornata.
Franco Turigliatto: senatore di Rifondazione Comunista. Ha cinquanta
anni, è piemontese di Rivara (To) e laureato in scienze politiche. Da
sempre sensibile ai problemi del mondo operaio torinese, aderisce alla Quarta
Internazionale e poi partecipa alla nascita di Rifondazione. Prima delle
elezioni del 9 aprile, faceva l'impiegato. In Parlamento è membro della
commissione permanente sul Lavoro e previdenza sociale e di quella sulle
Politiche dell'Unione Europea.
Fernando Rossi: eletto nelle Marche nella lista dei Verdi-Comunisti
italiani, Fernando Rossi è emiliano, nato a Portomaggiore (Fe), e
residente a Ferrara. Anche lui cinquantenne, è membro della commissione
Affari costituzionali, di quella su Finanze e Tesoro, segretario della
commissione per le questioni regionali. Cacciato sei mesi fa dal Pdci, è
coordinatore nazionale di Officina Comunista, associazione culturale di
posizioni spesso radicali in politica estera. Già in passato aveva fatto
tremare il governo Prodi annunciando un suo "no" alla legge
finanziaria.
(21 febbraio 2007)
Primo
Piano "Rossi? Un voto assurdo Dico e Vicenza cancellati" L'INTERVISTA
Severino Galante leader del PdCI ALBINO SALMASO PADOVA. "Siamo di fronte
ad una svolta storica, il governo eletto nell'aprile 2006 non esiste
più. Si apre una fase nuova con il centro che diventa determinante
mentre la sinistra sarà ridimensionata". Severino Galante, docente
di Storia dei partiti e vicecapogruppo del PdCI alla Camera dei deputati, non
ha dubbi: "Prodi ha chiuso per colpa di un paio di idioti, uno dei quali
lo conosco bene perché ha militato nel mio partito". E la sua mente vola a
quando nell'ottobre 1998, Oliviero Diliberto, Marco Rizzo, Katia Belillo,
Severino Galante e altri fedelissimi uscirono dal Prc dopo che Bertinotti aveva
affossato il governo Prodi, per cedere lo scettro a Massimo D'Alema. Difficile
che la storia si ripeta, ma Galante è infuriato. Onorevole, come mai la
sinistra finisce sempre per farsi del male da sola? "Purtroppo al Senato
siamo in netta difficoltà: solo i senatori a vita ci hanno permesso di
governare. E proprio per questo a nessuno è concessa una distrazione o
un'assenza. Qui invece siamo di fronte a due deputati del PdCI e di Rc che
hanno deliberatamente deciso di non votare la risoluzione di D'Alema". E
quindi? "E quindi siamo di fronte ad un atto politico scellerato. Ma quale
etica della responsabilità di weberiana memoria invocata da Fernando
Rossi, qui siamo alla follia. Voglio vedere ora chi approverà i Dico o i
Pacs: Casini e Follini?". Il senatore Fernando Rossi militava nel suo
partito fino a pochi mesi fa. L'avete eletto voi con una legge elettorale che
non consentiva la scelta del candidato: lista bloccata, un bel premio alla
fedeltà... "Lasciamo perdere. Rossi lo conoscono molto bene e si
è comportato da perfetto idiota, lui come del resto Turigliatto del Prc,
che ha annunciato di volersi dimettere. Mentre Rossi afferma di voler votare la
fiducia al governo Prodi. Voglio pensare che almeno in questo caso intenda
applicare l'etica della responsabilità, ma è tardi perché la
sinistra esce sconfitta, a pezzi". Lei ritiene che Prodi possa essere rinviato
alle Camere per un voto di fiducia? "Può essere una delle
soluzioni. Ma la maggioranza al Senato è molto risicata. Certo, possiamo
recuperare i voti di Scalfaro, non quelli di Andreotti e Pininfarina che hanno
deciso di affossare il governo". E' un po' difficile pensare di tenere in
piedi l'Italia con i senatori a vita: lei non crede? "Certo. Ma c'è
da riflettere sul voto contrario di Andreotti e Pininfarina: l'ex premier
rappresenta il Vaticano e quindi il suo è un no ai Dico, ai Pacs. Un
colpo mortale a Prodi, allo Stato laico. Pininfarina invece risponde a
Confindustria, che spinge da un anno per creare il Grande Centro sul modello
tedesco". La sinistra radicale e i movimenti che sabato hanno marciato a
Vicenza hanno quindi affossato Prodi e D'Alema proprio sull'opzione militare:
la fedeltà alla Nato e gli Usa. Lei non è contento della
vittoria? "Ma quale vittoria, siamo alla follia. Senza il governo Prodi,
Vicenza è più debole: nessuno difenderà la città
dall'impatto della base Usa. Ieri al Senato due idioti di sinistra hanno
cancellato la manifestazione di sabato".
La
politica estera, osservava Bismarck, è il vero momento identitario di
una nazione. È l’immagine che un popolo ha di se stesso a determinarne
il comportamento esterno e non viceversa. Il confronto che si tiene oggi in
Parlamento è dunque decisivo per conoscere l’idea di sé che il Paese
vuole trasmettere al mondo. Se esso è così politicamente frammentato
da rendere impossibile la formulazione di un mandato di politica
internazionale. Se è attraversato da correnti pacifiste che lo obbligano
a rifiutare ogni responsabilità per la stabilità nella
comunità degli Stati. Se è inserito nel campo occidentale ma
intento a varcarne i limiti in senso antiamericano. Se è disposto a
conferire ai propri impegni una dimensione anche militare, ma pronto a prendere
le distanze dalle posizioni più dure che gli altri assumono di fronte a
minacce del tutto nuove. Se è capace di rendere l’Atlantico più
largo per conciliare il pacifismo dell’opinione pubblica, l’adesione allo
spirito delle Nazioni Unite, la condiscendenza verso la Chiesa cattolica, gli
interessi della nostra economia.
Il linguaggio di alcune forze politiche sembra inconsapevole della
realtà internazionale, dei radicali mutamenti dopo la fine della guerra
fredda e poi l’11 settembre. L’Italia di ieri sapeva calarsi nella condizione
di guerra improbabile e di pace impossibile del sistema bipolare. Poteva ridisegnare
il proprio atlantismo in modo confacente a una comunità nazionale che
ospitava il più forte partito comunista occidentale. Poteva atteggiarsi
nei confronti dell’Unione Sovietica come il più indulgente dei nemici.
L’Italia di oggi non può più, soprattutto di fronte al suo
principale alleato, giovarsi di una rendita di posizione semplicemente mettendo
a disposizione il proprio territorio in cambio di protezione. La
credibilità e l’affidabilità, anche militare, hanno sostituito il
territorio, si è passati da una guerra di posizione a una di movimento,
può essere necessario colpire bersagli impropri ma visibili (gli Stati
canaglia) come surrogato di bersagli appropriati ma invisibili (i terroristi).
È preferibile certo la lenta e paziente costruzione della democrazia
preventiva all’istantanea guerra preventiva, poiché la prima elimina le
condizioni che consentono al disordine e alla violenza di prosperare. Ma
l’esercizio più difficile è proprio quello di coniugare forza e
legittimità.
La soluzione non può essere trovata semplicisticamente cancellando la
forza, anche militare, dall’equazione e confinando la fonte della
legittimità alle sole Nazioni Unite. Non si tratta di stare con
l’America solo perché abbiamo molte ragioni per esserle grati e perché la sua
natura democratica può garantire una leadership lungimirante. L’uso
della forza può essere il presupposto indispensabile di una strategia di
stabilizzazione, anche violando l’altrui sovranità e ponendo in essere
interventi preventivi. La forza non può essere bandita interamente dalla
realtà internazionale. Una verità forse amara che minoranze
rumorose ed irresponsabili difficilmente possono conciliare con il loro
dogmatismo pacifista ed antiamericano ma che un Governo non può ignorare.
L’ombra delle armi ha sempre accompagnato ogni efficace diplomazia di pace. Non
si comprende quale stabilizzazione civile sarebbe possibile in Afghanistan
senza prima aver eliminato la minaccia dei talebani.
Sul fronte della legittimità, un multilateralismo che puntasse sulle
Nazioni Unite come unica istituzione in grado di autorizzare l’uso della forza
— e in tal senso spinge una parte della nostra cultura politica — escluderebbe
probabilmente l’Italia da molte delle azioni militari intese in futuro a creare
le condizioni per una migliore convivenza fra i popoli. Sta emergendo un mondo,
e l’Italia ha contribuito alla sua nascita, di molteplici istituzioni in
competizione fra loro e in parte in reciproca sovrapposizione. Il criterio di
legittimità non può non tenerne conto, in presenza di procedure
che nel Palazzo di Vetro possono rivelarsi lente o paralizzanti.
Le partite aperte sono molte, a cominciare da quella afghana, dove si tratta
non di creare protettorati bensì di trasformare uno Stato vassallo in un
partner affidabile. Proprio nell’arco mediorientale politiche nazionali
spregiudicate e ambiziose, ancor più se dotate di armi nucleari,
polveriere sociali e religiose, moltiplicano i fattori di rischio. Un
multilateralismo non correttamente inteso potrebbe sollecitare nei nostri
governi, di volta in volta, gli estremi del disimpegno e della rassegnata
impotenza oppure del protagonismo velleitario. Che le sfide della politica
estera vogliano mettere in moto la nostra ricorrente tentazione, secondo un
giudizio di Prezzolini, di tornare ad essere faziosi come nel ’300, retorici
come nel ’400, cortigiani come nel ’500, servili come nel ’600, astratti come
nel ’700?
MILANO
(Reuters) - La Procura di Milano ha disposto il sequestro di 290.000 euro
riconducibili a Fabio Ghioni, in carcere nell'ambito dell'inchiesta condotta
dalla procura milanese sulla raccolta illegale di informazioni riservate da
parte di ex dirigenti di Telecom.
Lo
hanno riferito fonti giudiziarie spiegando che il sequestro - avvenuto una
decina di giorni fa - è stato disposto dai pm della Procura di Milano,
perché ritengono che questi soldi siano frutto di attività di
hackeraggio.
La
somma posta sotto sequestro era depositata su un conto nella sede della banca
Ubs a Lugano.
Fabio
Ghioni verrà interrogato lunedì prossimo, nel carcere di Busto
Arsizio.
Il
mese scorso sono stati arrestati Ghioni, manager ed ex responsabile
dell'Information Security della società, il giornalista Guglielmo
Sasinini, il consulente Rocco Lucia e l'ex capo della sicurezza Telecom -- per
lui si è trattato del terzo ordine di custodia cautelare in carcere --
Giuliano Tavaroli.
ItaliaOggi
ItaliaOggi Numero 045, pag. 41 del 22/2/2007 Autore: di Luigi
Chiarello Visualizza la pagina in PDF Nota di Bersani
sulla legge 248/06. No a costi e penali sui servizi aggiuntivi. Ma le spese
vive si pagano. Alla banca ora si dice addio gratis Zero oneri per conti
correnti e titoli, depositi, bancomat e carte Chi chiude i conti con le banche
non paga. I clienti che decidono di recedere da ogni rapporto con la propria
banca potranno chiudere, a zero spese e senza penalità, conti correnti,
conti titoli, depositi, aperture di credito, bancomat e carte di credito. In
sostanza, tutti i contratti siglati a tempo indeterminato (o comunque
continuativo) con l'istituto di credito potranno essere chiusi a zero spese.
Restano, invece, penali e costi di chiusura, per i depositi vincolati e per i
certificati di deposito, perché entrambi si basano su contratti in cui è
stato fissato un termine di durata. Lo stop alle spese di chiusura
riguarderà, poi, sia le spese espressamente indicate nei contratti come
'costi di chiusura', sia le spese relative ai servizi aggiuntivi che i clienti
hanno richiesto alle banche, quando hanno deciso di estinguere il loro
rapporto. Per esempio, il trasferimento dei titoli presso un altro
intermediario.A chiarirlo, una volta per tutte, è una nota esplicativa
del ministero dello sviluppo economico del 21 febbraio 2007 (prot. 0005574), in
merito all'applicazione dell'articolo 10 della legge n. 248/2006, meglio
conosciuta come la 'Visco-Bersani'. L'impostazione ministeriale smentisce
quanto affermato dall'Abi nella circolare del 4 agosto 2006 (si veda ItaliaOggi
dell'8/8/2006) sospesa dall'Antitrust il 18 settembre scorso (si veda
ItaliaOggi del 19/9/2006) che, con impostazione restrittiva, limitava lo stop
dettato dalla 'Visco-Bersani' alle sole spese definite 'strettamente inerenti'
alla chiusura. Escludendo dallo sgravio gli oneri legati ai servizi accessori,
tra cui il trasferimento titoli, il bonifico del saldo, l'estinzione della
carta di credito.Ma i costi vivi restano. Attenzione, su questo punto; la nota
ministeriale spiega che resta praticabile per le banche 'la richiesta ai
clienti di un rimborso delle spese sostenute dall'intermediario in relazione a
un servizio aggiuntivo, qualora esso richieda l'intervento di un soggetto terzo
e a condizione che tali spese siano documentate e riportate dal contratto e
nella documentazione di trasparenza prevista dalla disciplina vigente'.
Ciò significa che il cliente in sede di chiusura di conto corrente
bancario e dei relativi contratti accessori dovrà comunque pagare i costi
vivi sostenuti dalla banca per disattivare i servizi accessori affidati a
terzi. Le banche vincono sui mutui. La nota interpretativa sottolinea, poi,
come l'ultimo decreto Bersani in fatto di liberalizzazioni, il n. 7/2007 in
questi giorni al vaglio delle camere per la conversione in legge, abbia sancito
lo stop alle penali legate all'estinzione anticipata dei mutui contratti per
l'acquisto di prima casa. Ciò significa, secondo il ministero, che le
clausole penali si applicano ancora per quei contratti di mutuo in cui la
variabile tempo sullo svolgimento del rapporto, concordata tra le parti,
costituisca per entrambi i contraenti (banca e cliente) un elemento essenziale
del rapporto stesso. In sostanza, si pagherà la penale per estinguere i
mutui i cui termini di ammortamento siano stati concordati tra banca e cliente,
sulla base di leggi speciali. Tra queste, per esempio, le operazioni di credito
fondiario e di credito al consumo. Ne deriva che se il cliente vorrà
estinguere anticipatamente un mutuo del genere non potrà invocare la
'Visco-Bersani', ma dovrà pagare la penale.Il consumatore vince sul
conto titoli. I rappresentanti dei consumatori avevano manifestato la
volontà di applicare lo stop alle spese di chiusura anche all'estinzione
e all'eventuale trasferimento del conto titoli. Per la circolare Abi, invece,
questo non era fattibile e, comunque, era necessario considerare e far pagare
al cliente le spese per le operazioni di trasferimento imposte dalla Monte
Titoli spa (peraltro, partecipata dalle stesse banche). La soluzione adottata
dal ministero è chiara: sul conto titoli non si pagano né spese di
chiusura né penali. Ma, si pagheranno le sole spese vive, i costi reali
dell'operazione che coinvolgono un soggetto terzo (Monte titoli, appunto). Un
costo, che un tavolo tecnico tra ministeriali, Abi e delegati del Cncu-
Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (riunitosi il 30 ottobre, il
22 novembre e il 5 dicembre 2006) ha fissato in 30 centesimi di euro per ogni
singola transazione di 'codice titoli'.
L’incubo dei banchieri sta diventando realtà. In
Gran Bretagna, ossia nel Paese dalla più antica cultura bancaria di
massa, dove da un secolo tutti sono titolari di un conto corrente, si profila
una vera e propria rivolta popolare, che potrebbe coinvolgere un milione di
correntisti, con tanto di comitati spontanei pronti a lanciare pesantissime
azioni legali. Non è probabilmente un caso che tutto ciò si verifichi
proprio quando molte banche inglesi pubblicano i bilanci migliori della loro
storia.
Il motivo tecnico del risentimento è piuttosto raro da noi (si tratta di
commissioni e penalità quando il conto «va in rosso», il che succede
spesso agli «spendaccioni» inglesi, molto meno ai prudenti e «risparmiatori»
italiani) ma questo non deve rassicurare le banche italiane. Recenti sondaggi
hanno mostrato che, mentre permane una fiducia di fondo del depositante nei
confronti della «sua» banca, si sta fortemente riducendo - non solo in Italia o
in Gran Bretagna ma un po’ in tutta Europa - la fiducia nelle banche,
complessivamente considerate; il che non è poi tanto strano visto che le
banche hanno scelto di non essere più istituzioni ma imprese come le
altre, con l’obiettivo di rendere massimi i profitti.
Per il passaggio da un ruolo istituzionale a un ruolo concorrenziale non basta
un semplice tratto di penna, si deve formare una cultura. Come ha sostenuto il
governatore della Banca d’Italia, parlando a Torino il 3 febbraio, il
consolidamento dell’industria bancaria può e deve produrre una maggiore
efficienza… non una minore concorrenza: deve tradursi in prezzi più
bassi e migliore qualità dei servizi.
I gruppi nati dalle concentrazioni devono dimostrare di essere in grado di ridurre
significativamente e rapidamente gli oneri per la clientela.
Non sono parole di un’associazione di difesa dei diritti dei consumatori, ma
del capo dell’organo che vigila sul corretto funzionamento del sistema bancario
e che, nella nuova situazione di mercato, allarga il proprio campo
d’osservazione dalla solidità delle banche alla loro
concorrenzialità.
Le banche non dovranno più confrontarsi soltanto con gli analisti
finanziari che basano i loro giudizi sul tasso di rendimento del capitale ma
anche con depositanti prontissimi a passare alla concorrenza in base alla
qualità e al prezzo dei servizi loro offerti. In una società che
non ama più il sacro, hanno perduto la loro aura di sacralità.
Forse ci sono motivi per rimpiangere i tempi passati - quando grazie
all’inflazione si aveva l’illusione che il conto corrente «rendesse» anziché
costare - ma in ogni caso gli affezionati depositanti di pochi anni fa si
stanno trasformando in attentissimi clienti pronti a rivolgersi altrove e ormai
abituati a controllare gli addebiti e le commissioni sul conto corrente con lo
stesso parsimonioso sguardo con cui si controlla il conto del supermercato.
Questo passaggio da istituzione a mercato coincide per le banche con l’ennesima
rivoluzione elettronica, destinata a modificarne profondamente non solo
l’operatività tecnica ma anche l’intera struttura dei costi e dei
ricavi. È facile immaginare, infatti, che entro pochissimi anni la
maggioranza dei conti correnti sarà di tipo elettronico, normalmente
accessibile solo mediante Internet e debba essere proposta a costo pressoché
nullo; proprio perché, per strapparsi il cliente, le banche abbasseranno i
prezzi e cercheranno di inventare nuovi servizi graditi sia ai depositanti sia
a chi chiede loro credito. Il personale delle aziende bancarie sarà in
buona parte diversamente utilizzato e diversamente qualificato. Gli attuali,
elevati tassi di profitto potrebbero rappresentare una fase transitoria e
dovremmo, proprio grazie alla concorrenza, attenderci una loro discesa a livelli
più prossimi ai valori medi.
Sono pronte le nostre banche a farsi concorrenza davvero, senza guanti? Il
settore bancario italiano ha messo in luce un’ottima capacità
progettuale, come dimostrano le fusioni che ne hanno modificato radicalmente il
panorama negli ultimi mesi, ed è così arrivato a metà del
guado. L’altra metà consiste precisamente nel dimostrare con i fatti che
nel nuovo mercato bancario il depositante è re. Se le nostre banche non
lo facessero, si troverebbero davanti la replica della situazione inglese.
mario.deaglio@unito.it
Secondo
la Commissione Bilancio le compagnie rivedranno le tariffe: ennesima beffa per
i cittadini
massimo
garavaglia*
Le
liberalizzazioni del Ministro Bersani arrivano in aula. Si passa così
dagli slogan e dalle anticipazioni ai primi dati di fatto. Il simbolo di queste
liberalizzazioni è, nel bene e nel male, l’abolizione della ricarica per
i telefonini, e qui iniziano i problemi…
Tutti d’accordo chiaramente sul principio: chi non malato di mente si
può opporre all’eliminazione di una gabella? Il punto è un altro.
Il provvedimento è efficace? Ci sarà davvero un risparmio per le
tasche dei consumatori? La risposta, semplice, è purtroppo no.
Lo aveva già spiegato autorevolmente Mario Monti, di cui ricordo ancora
con piacere le lezioni di Economia Politica alla Bocconi. Dice il Monti: le
compagnie telefoniche si fanno pagare il servizio in tre modi: con la ricarica,
con lo scatto alla risposta e con la tariffa a tempo; eliminando per legge una
componente i costi si spalmeranno sulle altre due. Non serve una laurea in
economia per capire che le compagnie non rinunceranno gratis a due miliardi di
euro l’anno di fatturato (tale è l’introito delle ricariche).
Cosa fanno: licenziano centinaia di persone per ridurre i costi? Rinunciano a
chiudere i bilanci in attivo causando il crollo dei titoli in borsa? Ovviamente
no, semplicemente rifaranno i conti usando due leve di prezzo anziché tre.
Nessuno della maggioranza di centrosinistra per ora ha voluto condividere
questa per noi banale considerazione, però, si sa, le bugie hanno le
gambe corte.
Così in Commissione Bilancio il sottosegretario Lettieri ha dovuto
ammettere l’evidenza. La Commissione Bilancio, infatti, è deputata a
dare i pareri di copertura finanziaria delle leggi: qual è l’impatto sui
conti dello stato dell’articolo 1 (quello che abolisce le ricariche) del
decreto Bersani 1 sulle liberalizzazioni? Il minore fatturato delle compagnie
telefoniche comporta un minor gettito fiscale, chiaramente. Per cui ho chiesto
lumi al Sottosegretario, per sapere a quanto ammonta secondo il Governo questo
minor gettito e come si pensa di coprirlo. Ebbene il Lettieri risponde
candidamente che non ci sarà minor gettito, poiché le compagnie
rivedranno i loro piani tariffari. Bene. Lo sapevamo già. Però fa
piacere che il Governo onestamente ammetta che non ci saranno benefici reali
per i consumatori.
Questo per quanto riguarda il primo decreto Bersani sulle liberalizzazioni, in
buona sostanza tutto fumo e una bella operazione di marketing. Attendiamo il
Bersani 2, dove pare che oltre al fumo ci sia un poco di arrosto, e nel frattempo
cerchiamo di migliorare il testo giunto alla Camera. Le liberalizzazioni, se
fatte davvero, comportano dei risparmi anche notevoli per i cittadini.
Così ad esempio ho proposto la liberalizzazione della gestione
dell’illuminazione pubblica dei Comuni, che oggi è gestita nella
stragrande maggioranza dei casi dall’Enel, tramite la sua società
EnelSole; peccato però che poi è la stessa Enel ha fornire la
corrente elettrica all’EnelSole. In questo modo chi fornisce l’energia è
lo stesso che poi gestisce la rete d’illuminazione, e che dovrebbe in teoria
fare di tutto per consumare meno energia, nell’interesse dei Comuni e quindi
dei cittadini. Il sospetto che non lo faccia è legittimo.
Liberando i Comuni dal vincolo con EnelSole e affidando il servizio ad un’altra
società si avrebbe la possibilità di fare tutto quanto è
opportuno per ridurre davvero la bolletta; ogni mille pali (numero medio di
pali per un comune di 5.000 abitanti) si spendono 120.000 euro l’anno, tra
consumo e manutenzione, con margini di risparmio uscendo dal monopolio Enel del
40%. Ovvero si potrebbero risparmiare 50.000 euro ogni 5.000 abitanti, mezzo
miliardo di euro l’anno a livello nazionale, semplicemente liberalizzando un
servizio. Questa è secondo noi una vera liberalizzazione e se ci saranno
proposte simili le accoglieremo con favore. Per ora non se ne vedono.
*Parlamentare Lega Nord
Aumentati dal 2001 i fondamentalisti e gli antiamericani
nella società musulmana. I più ricchi e istruiti sono i
più radicali
NEW YORK -
Da quando nell'ottobre del 2001 gli Stati Uniti hanno dichiarato la guerra al
terrorismo, il mondo musulmano si è radicalizzato ed è aumentato
a dismisura il numero dei fondamentalisti e degli antiamericani nella
società musulmana. E i più radicali appartengono alle classi
più ricche e istruite, e non alle masse povere. È ciò che
emerge dalla più grande ricerca
mai effettuata finora nel mondo musulmano, riportata sul sito online del
quotidiano britannico «Times».
Il centro studio musulmano dell'agenzia Gallup di New York ha intervistato
oltre 10 mila cittadini musulmani in dieci diversi Paesi a predominanza
islamica tra il 2005 e il 2006. Uno studio simile era stato effettuato dalla
Gallup già nel 2001, ma su un campione molto più modesto.
INTERVISTE -
Il 7% degli intervistati afferma che gli eventi dell'11 settembre 2001 sono
«pienamente giustificati». In Arabia Saudita il 79% ha «un'idea sfavorevole»
degli Usa. Inoltre si dichiarano antiamericani il 65% dei giordani, il 49% dei
marocchini, il 52% degli iraniani e il 65% dei pakistani. L'unica consolazione
per gli Usa è che in questi due ultimi Paesi rispetto al
DIVISIONI -
Lo studio mostra la netta divisione che vi è nella società
musulmana nel giudicare l'Occidente: una parte sembra ammirare alcuni valori
occidentali come la democrazia, la tecnologia, la libertà di parola e la
libertà, ma un'altra parte sembra detestarli aspramente. Per quanto
riguarda la religione, essa è fortemente presente sia tra i radicali sia
tra i moderati. La maggioranza dei musulmani intervistati condanna l'Occidente
per la promiscuità e per la sua decadenza morale. Su alcuni temi
religiosi si notano piccole differenze: mentre la sharia, la legge islamica,
gode di un ampio consenso, solo una minoranza vuole che i leader religiosi
siano anche i legislatori della società. Molte donne che vivono in Stati
in cui la religione musulmana è prevalente, dichiarano che la sharia
deve ispirare le leggi della nazione, ma allo stesso tempo affermano di credere
nell'eguaglianza dei diritti tra uomo e donna.
CONVERGENZE - «I fondamentalisti musulmani hanno
tante cose in comune con i loro fratelli moderati», dichiara il reportage della
Gallup. «Se l'Occidente vuole sconfiggere i radicali e rafforzare i moderati,
è bene che sappia riconoscere questo dato». Infatti non ci sarebbero
grandi differenze in molte interpretazioni della religione da parte dei
moderati e dei radicali: «Non ci sono grandi differenze nella
religiosità tra i moderati e radicali», dichiara Dalia Mogahed,
direttore dello studio del centro studi sui musulmani di New York. «Infatti non
è vero che i radicali praticano con più assiduità i
dettami religiosi rispetto ai moderati».
RICCHI E SCOLARIZZATI - Il direttore del centro
studi continua: «Non è un segreto che molti nel mondo musulmano soffrono
un'estrema povertà e una scarsa istruzione. Ma forse i radicali sono
più poveri degli altri musulmani? Noi abbiamo appurato l'opposto: nella
società musulmana i radicali sono coloro che guagnano di più e
coloro che trascorrono più anni nelle scuole». Infatti secondo lo
studio, i radicali sono coloro che si dichiarano maggiormente soddisfatti dei
loro guadagni e della loro qualità della vita.
21
febbraio 2007
·
Da e-gazette 21-2-2007 Così si fa! Il petrolio cala, e l'Air
France riduce i biglietti
·
Dal Corriere della Sera 21-2-2007 Il gioco delle parti tra Massimo e
Romano Massimo Franco
Alla fine la maggioranza non ce l'ha fatta: per due
voti il Senato non ha approvato la mozione dell'Unione sulla politica estera.
La mozione della maggioranza (Finocchiaro) ha raccolto 158 voti favorevoli, 136
contrari ma la maggioranza prevista era di 160 voti. Governo battuto, dunque,
per due voti rispetto al quorum richiesto.
In Aula l'opposizione immediatamente chiede le
dimissioni del governo. Romano Prodi convoca un vertice immediato a Palazzo
Chigi a cui partecipano anche il ministro della Difesa Parisi e Santagata, il
vicepremier Francesco Rutelli. E anche il ministro degli Esteri D'Alema che ha
raggiunto l'ufficio del premier dal Senato, seguito dal segretario dei Ds Piero
Fassino. Secondo indiscrezioni D'Alema potrebbe presentare le sue dimissioni.
Il Guardasigilli Mastella dell'Udeur propende per
un'altra soluzione: «Eventualmente le dimissioni non sarebbero solo di uno ma
di tutti. Ora bisogna vedere cosa succede, certo c'è da riflettere. Nel
frattempo abbiamo convocato d'urgenza l'ufficio politico dei Popolari-Udeur per
le 17». Per il momento l'unica cosa certa è che il capo dello Stato
Napolitano è rinetrato da Bologna per ricevere Prodi, alle 19 al
Quirinale. Nel frattempo il vertice si è ingrossato: vi partecipano
anche il segretario del Pdci Oliviero Diliberto e i capogruppo di Ds e
Margherita al Senato Dario Franceschini ed Anna Finocchiaro, insieme ai
vicepresidenti Marina Sereni e Nicola Latorre. E ancora: il ministro
della Giustizia Clemente Mastella, quello dell'Interno Giuliano Amato.
Ieri - e sembra passato un secolo - il vicepremier
D'Alema aveva ribadito che nel caso fosse venuta meno la maggioranza sulla
politica estera si sarebbe dovuti tornare alle urne, su una linea che è
sempre stata anche quella del premier Romano Prodi. L'altro vicepremier
Francesco Rutelli invece aveva detto: «Se il governo cade dovremmo ragionare
sul da farsi». E si era dichiarato contrario a tornare al voto dopo solo un
anno dalle ultime politiche: «Sarebbe il modo migliore per consegnare il paese
a Berlusconi».
Ovviemente in questo momento nel centrosinistra
tutti gli occhi sono puntati sui "dissidenti" della sinistra
radicale. La capogruppo dei senatori dei Verdi-Prci Emanuela Palermi ha parole
dure per il suo compagno di partito, il dissidente Ferdinando Rossi che si è
astenuto e Franco Turigliatto del Prc che si è rifiutato di partecipare
al voto: «Sono degli irresponsabili e stanno dando di nuovo il Paese in mano
alla destra. Nutro nei loro confronti il più profondo disprezzo», a
quanto si racconta anche confermato de visu ai diretti interessati, apostrofati
malamente anche dalla capogruppo verde Loredana De Petris.
Ma il Prc sostiene che la responsabilità di
quanto è accaduto non va ricercata nelle proprie fila, né più in
generale nella "sinistra radicale". «Si tratta di un risultato contro
noi del Prc, oltre che contro il governo - ha detto il sottosegretario Alfonso
Gianni - Non mi pare un incidente di percorso. Ora ragioniamoci sopra contando
fino a 10 prima di prendere ogni decisione definitiva». Sarebbero state decisive
le astensioni di Giulio Andreotti e Sergio Pininfarina, senatori a vita, che
alla fine si sono aggiunti alle astensioni dell'Udc. È lo stesso
Andreotti a spiegare la sua versione: «Io sarei stato anche disponibile a
votare a favore... ma poi, questa posizione di dover esprimere comunque una
discontinuità con il governo Berlusconi, di dover sempre ridurre tutto a
un "pro" o "contro" Berlusconi, mi sembra davvero
assurdo... io non ho votato a favore di Berlusconi... quindi ho deciso alla
fine di chiamarmi fuori».
Secondo una ricostruzione degli avvenimenti fatta
in Senato, nel corso della notte la Cdl sarebbe riuscita a convincere il
senatore Sergio De Gregorio, ex Italia dei Valori ora nel gruppo misto, che
ieri aveva annunciato il suo sì e invece oggi ha votato no. E anche il
senatore a vita Giulio Andreotti. Ma il vero colpo di teatro è stato
l'ingreso in aula dopo mesi di assensa di Sergio Pininfarina, altro senatore a
vita, che appena entrato si è seduto nei banchi di Forza Italia per
votare «secondo libertà e coscienza», respingendo i consigli del suo
amico Valerio Zanone, ex liberale ora nelle fila dell'Ulivo. E anche Schifani,
presidente dei Senatori di Forza Italia, conferma: «Pininfarina era la nostra
arma segreta».
Il premier
riferisce di una telefonata con il presidente Napolitano
ROMA - Maggioranza allo
sbando dopo la bocciatura al Senato sulla politica estera. A complicare le cose
le parole della vigilia pronunciate da D'Alema («Senza maggioranza non
c'è più governo») anche se oggi l'ex presidente Cossiga (l'unico
senatore a vita ad aver votato contro) ha ricordato che «per la Costituzione,
il governo non ha il dovere di dimettersi perché le dimissioni ci sono solo su
un voto di fiducia». Per una schiarita occorre attendere l'esito dell'incontro
al Colle tra Prodi e Napolitano previsto per le 19. Il presidente della
Repubblica ha infatti interrotto la sua visita a Bologna dopo la telefonata del
premier. «Ho sentito il presidente della Repubblica e gli ho comunicato
l'intenzione di recarmi al più presto al Quirinale per conferire e
informarlo della situazione alla luce del voto odierno al Senato» ha confermato
Prodi dopo che l'ufficio stampa del gruppo dell’Ulivo al Senato aveva fatto
sapere che sarà tutto il governo e non solo il ministro degli Esteri,
Massimo D’Alema, a recarsi appena possibile dal presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano.
VERTICE DI
MAGGIORANZA - Intanto nel pomeriggio, subito dopo il voto, si è svolto
un breve vertice di maggioranza a Palazzo Madama, seguito da un secondo vertice
a Palazzo Chigi a cui hanno preso parte i vicepremier D'Alema e Rutelli, i
ministri Parisi, Santagata e Fioroni. Presenti anche i vertici dell'Ulivo alla
Camera Dario Franceschini e Marina Sereni.
DILIBERTO: NECESSARIO VOTO DI FIDUCIA - «È necessario un
dibattito parlamentare e un rinnovato voto di fiducia per andare avanti» ha
detto il segretario del Pdci Oliviero Diliberto dopo il voto al Senato.
«È giusto convocare subito il Consiglio dei ministri- aggiunge- ed
è necessario rinsaldare la coalizione. Criminale sarebbe riconsegnare il
Paese alle destre o procedere verso ipotesi che tradirebbero il mandato
elettorale, tipo larghe intese o ipotesi neocentriste».
BINDI: «MALEDETTA LEGGE ELETTORALE» - «Maledetta legge elettorale...
questo è il primo pensiero che mi viene in mente». Il ministro per la
Famiglia Rosy Bindi non ha nascosto la delusione per il voto del Senato sulla
politica estera. «Non c'erano i motivi e le condizioni per votare così -
ha aggiunto la Bindi riferendosi ai senatori "dissidenti" della
maggioranza - si sono presi una gravissima responsabilità nei confronti
del Paese».
MASTELLA: LA
MAGGIORANZA C'E' - «Al Senato è successo uno scivolone, ma in quest'Aula il
governo la maggioranza ce l'ha». Lo ha ribadito nell'Aula della Camera il
ministro della Giustizia Clemente Mastella rispondendo alle contestazioni di An
che considerava il governo non legittimato a rispondere oggi al question time
dopo che è stato battuto a Palazzo Madama.
21 febbraio 2007
Parigi,
5 febbraio ? L'Air France ha annullato da sabato 3 febbraio l'ultimo rincaro
che era stato introdotto per far fronte all'aumento dei prezzi del petrolio,
cioè una sovrattassa di 7 euro sui voli a lungo raggio. La compagnia
francese ha precisato che la decisione è legata al passaggio del prezzo
del petrolio al di sotto dei 60 dollari per 30 giorni. E-GAZETTE - 21/02/2007
e-gazette.it -->.
Un primo contingente di 1.500 militari lascerà il
paese. Non è escluso un rallentamento della partenza se la situazione
peggiora
ROMA -
Il primo ministro britannico Tony Blair annuncia oggi l'inizio del ritiro,
nelle prossime settimane, di migliaia di soldati britannici dall'Iraq. Lo hanno
reso noto in nottata i media di Londra, e lo stesso Blair ha anticipato la
notizia con una telefonata a Bush, conversazione confermata dalla stessa Casa
Bianca. Fonti del ministero della difesa inglese non hanno tuttavia escluso un
rallentamento della partenza delle truppe se la situazione sul campo
peggiorerà. Blair, secondo
il quotidiano The Sune
la Bbc online, informerà il Parlamento
che un primo contingente di 1.500 militari lascerà l'Iraq e dovrebbe
rientrare in Gran Bretagna nel giro di qualche settimana, mentre un altro,
della stessa consistenza, verrebbe rimpatriato entro Natale. Attualmente la
Gran Bretagna ha 7.100 militari in Iraq, il contingente più numeroso
dopo quello statunitense.
CONFERMA USA - La
conferma dell'intenzione del premier inglese di avviare un primo ritiro delle
truppe è giunta anche da Washington. Il portavoce del Consiglio per la
Sicurezza Nazionale della Casa Bianca, Gordon Johndroe, ha riferito che - in
una conversazione telefonica - Blair ha informato il presidente Usa George W.
Bush. Nei giorni scorsi un portavoce del ministero della difesa britannico
aveva dichiarato che Londra intendeva restare «impegnata» in Iraq, finché
sarà necessario, mentre altre fonti del dicastero - citate in forma
anonima dalla Bbc online- ritengono che il ritiro sia «leggermente più
lento del previsto e che se le condizioni peggioreranno il processo potrebbe
essere ulteriormente rallentato«. Nel confermare che Blair ha informato Bush prima
di annunciare l'inizio del ritiro in Parlamento, il portavoce della Casa Bianca
ha confermato che gli Usa non hanno l'intenzione di fare una mossa analoga,
ricordando che il presidente ha recentemente deciso di inviare altri 21.500
militari in Iraq. «Gli Stati Uniti sono grati alla Gran Bretagna per il
contributo che ha dato in Iraq, e condividiamo con loro la volontà di
consegnare progressivamente alle forze armate irachene il controllo del
territorio«, ha dichiarato Johndroe.
21
febbraio 2007
La Nota Massimo Franco
Un residuo di incertezza ma la maggioranza
è fiduciosa
È
forte la sensazione che la sfida di Massimo D'Alema in Senato, oggi, sia
più facile di quanto si voglia far credere. Più che
l'opposizione, il ministro degli Esteri dovrà persuadere gli alleati
dell'estrema sinistra. Ma a sentire le dichiarazioni della vigilia,
sembrerebbero già convinti. D'Alema chiederà il voto su una
mozione che parla in generale della politica estera. Affronterà il
problema della missione in Afghanistan ma vorrebbe solo sfiorare quello della
base Usa a Vicenza. Ed è stato preceduto dalle parole distensive di
Romano Prodi che, dalla Spagna, ha rilanciato l'idea di una conferenza
internazionale di pace e «di uno sbocco politico e non solo militare al
problema afghano».
Sull'Afghanistan «Italia e Spagna sono fianco a fianco», ha detto il presidente
del Consiglio. Aveva accanto il premier Zapatero, icona dell'estrema sinistra
italiana sia per il ritiro unilaterale dall'Iraq che per il suo
anticlericalismo. E il messaggio implicito agli alleati era a non forzare la
mano, dal momento che lo stesso Zapatero condivide l'impostazione di Palazzo
Chigi. Pazienza se la proposta della conferenza di pace non è nuova, non
entusiasma la comunità internazionale, e viene accolta gelidamente dagli
Stati uniti.
Basta che piaccia ai pacifisti dell'Unione; che offra loro un appiglio tattico,
in grado di farli uscire dall'angolo. Politicamente, evocare la conferenza
dovrebbe bastare per ottenere il via libera dei pochi senatori dell'estrema
sinistra che si dicono tentati dal «no». L'Unione vuole dimostrare di avere una
propria maggioranza sulle scelte internazionali. Non per nulla ieri D'Alema ha
avvertito che, se mancano i numeri, stavolta il presidente del Consiglio
sarebbe costretto alle dimissioni. «È un principio costituzionale»,
spiega il titolare della Farnesina. La precisazione sembra dar voce alle
preoccupazioni del Quirinale, deciso a non soprassedere di fronte ad una nuova
bocciatura del governo.
Rimane, tuttavia, un margine residuo di incertezza. È legato ad
incognite di segno diverso. L'unica politica è la reazione che potrebbe
provocare fra i senatori «antagonisti» qualunque accenno di D'Alema
all'ampliamento della base di Vicenza. Le altre sono quelle legate ad un voto
parlamentare giocato sul filo di una manciata di seggi; e alla replica,
improbabile, di una gestione maldestra del voto sulle mozioni. Ma congiure non
se ne vedono. Nessuno, neppure l'opposizione, scommette sulla caduta di Prodi.
I contrasti delle ultime settimane fra Palazzo Chigi e Prc, Pdci e Verdi
sull'atteggiamento verso gli Stati Uniti rimangono intatti; e tuttavia vengono
tenuti il più possibile fuori dalla discussione odierna al Senato. Il
timore di una delegittimazione crescente del governo a livello internazionale
rende tutti cauti; e decisi a smentire l'imprevedibilità dell'Esecutivo
italiano. All'Unione il voto serve per dimostrare di avere «una maggioranza autosufficiente»,
proprio perché è mancata nel recente passato. Si tratta di una
verità politica, da verificare quando si dovrà votare il
rifinanziamento della missione afghana. Ma per ora basta a tamponare le
polemiche dopo la manifestazione a Vicenza; e per rinviare alla prossima
occasione la verifica dei rapporti di forza interni.
21
febbraio 2007
MILANO -
Visto che Formigoni ha aumentato i ticket sulla sanità, aggiungendo ai
suoi la quota indicata nella Finanziaria, le nuove Br pensavano di finanziarsi
rapinando non più le banche ma le casse degli ambulatori e dei
laboratori pubblici di analisi della Lombardia. Ma dalle intercettazioni
ambientali fatte dagli inquirenti e contenute in 34 faldoni emergono anche le
strategie per inserirsi negli scontri interni alla Fiom e i contatti con la
malavita comune.
LE RAPINE AI LABORATORI
L'11 gennaio alle 18,50, Claudio Latino e Bruno Ghirardi si incontrano nel bar
Mythos di via Legnano.
Latino dice a Ghirardi: "Sai cosa ho pensato? Sul discorso finanziario, i
ticket sanitari sono più che raddoppiati. E lì pagano quasi tutti
in contanti, sono vecchi principalmente, non usano il bancomat... consultori,
centri medici, laboratori di analisi. Pensa, è andata mia moglie l'altro
giorno, quaranta, cinquanta euro... Perché adesso, oltre a quelli di Formigoni
(i ticket sanitari, ndr)... cioè, Formigoni ha aumentato, in più
sono altri 10 o 15 euro che ce li ha messi il governo".
G.: "Eh, ha detto che non può accontentare tutti... quindi!".
L.: "Allora ho pensato: 200 prestazioni sono già 10mila!".
G.: "Beh, non è tantissimo".
L.: "Non è tantissimo, però 200 prestazioni qualsiasi
consultorio le fa la mattina... E poi lì non hai la struttura di una
banca, cioè non hai i vetri, le chiavi, c'è una porta
qualsiasi... un ufficietto con una porta normale".
G.: "Negli ospedali a volte c'è una guardia giurata".
L.: "Io ho visto quello in via Padova, don Orione, adesso lo stanno pure
ristrutturando... è tutto un macello... ".
Sempre nello stesso dialogo, i due pensano a altri sistemi per fare soldi, dopo
aver ricordato la tentata rapina al bancomat di Albignassego dieci giorni
prima.
G.: "Possiamo provare a vedere le casse dei discount... pagano tutti in
contanti, non c'è carta di credito, però bisogna vedere gli orari
del ritiro, è facile che ce ne sia più d'uno al giorno. Quando
vado al discount è pieno di gente che paga in contanti, è vero
che non spende grosse cifre, però sono sempre 40, 50 euro".
L.: "Bisognerebbe provare a oscurare qualche telecamera di qualche
bancomat in giro... senza farlo (la rapina, ndr). Solo andare lì,
oscurarlo e vedere cosa succede".
Parlano anche di rapine lette sui giornali, tipo quelle in farmacia
("hanno portato via il Viagra, è meglio del denaro, adesso",
scherzano) e Latino conclude: "comunque se servono dei soldi subito, in un
conto mio personale li trovo... due o tremila euro... ".
IL DIBATTITO NELLA FIOM
IL 15 ottobre, alle 14.20 Claudio Latino, Vincenzo Sisi e Davide Bortolato
parlano in un ristorante cinesi e parlano delle loro relazioni all'interno
delle fabbriche.
Sisi: "Sto facendo, stiamo facendo, in due o tre, questo esperimento di
mettere le mani nell'organizzazione del lavoro e, dunque, di... cercare anche
di condizionare certe scelte".
B: "Dibattito? auguri..."
S: "Cioè scelte organizzative... no, ma... è una situazione
di merda, è una situazione molto particolare (...) C'è un
gruppetto di giovani che sono entrati già nel momento in cui si
assumevano, che l'azienda si allargava... hanno cominciato a ricoprire ruoli
di... e adesso che si sono iscritti al sindacato, no?! Due capi reparto
iscritti alla Cgil..." (ride) i capoturni iscritti alla Cgil".
Più avanti è il padovano Bortolato a informare gli interlocutori:
"Negli ultimi direttivi della Fiom è venuto fuori un bel po' di contrasti
accesi. Beh, la Fiom, è la più critica però il discorso
è... non si può non ammettere che ci sia una discontinuità
con il governo precedente...". "Comunque - commenterà poi Sisi
- cominciano ad aprirsi contraddizioni".
I RAPPORTI CON LA MALAVITA
Il 24 gennaio Ghirardi e Salvatore Scivoli, il detenuto comune divenuto in
carcere un referente dei brigatisti, parlano in un bar di Milano.
S:"(...) C'ho ogni tanto qualche contatto con Graziano Mesina e... a
proposito mi ha detto Marcello però fai attenzione..." Più
avanti Scivoli aggiunge: "Io c'ho un aggancio... è uno qua di
Milano... un zanza... (...) questo, ti dico, è nel giro che c'ha (...)
il fratello di Renato... Vallanzasca (...)
(21 febbraio 2007)
Da
antitrust (www.agcm.it)
19-2-2007 ANTITRUST: OPERATIVO IL PROGRAMMA DI CLEMENZA
È operativo da oggi il programma di clemenza per le
imprese che intendano collaborare con l’Antitrust, aiutandola a individuare le
più gravi intese restrittive della concorrenza. L’Autorità, nella
riunione del 15 febbraio, ha infatti approvato le linee operative definitive,
disponibili sul sito www.agcm.it, al termine di un’ampia consultazione pubblica.
La possibilità per
l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato di ricorrere ai
programmi di clemenza, con sconti o addirittura esenzione totale delle sanzioni
per le imprese che collaborano, è stata introdotta nel nostro
ordinamento dalla legge n. 248 del 4 agosto 2006 (la cosiddetta Bersani-Visco).
Ecco, le principali
linee-guida del programma di clemenza.
I POTENZIALI INTERESSATI
La clemenza sarà limitata alle imprese che informano
l’Autorità dell’esistenza di cartelli segreti, le infrazioni più
gravi del diritto della concorrenza e soprattutto le violazioni che presentano
particolari difficoltà di accertamento.
GLI ‘SCONTI’ POSSIBILI
Il programma prevede una scalettatura degli sconti, graduata
sull’incisività della collaborazione offerta dalle imprese ‘pentite’. Si
parte dall’immunità totale per l’impresa che per prima fornisce
spontaneamente all’Autorità prove decisive sul cartello segreto, di cui
l’Autorità non dispone.
È comunque possibile per un’impresa che rafforzi
significativamente l’impianto probatorio a disposizione dell’Autorità
tramite la sua cooperazione ottenere uno sconto, di regola non superiore al 50%
della sanzione. Ovviamente si terrà conto della tempestività
della collaborazione dell’impresa e del valore del materiale probatorio
prodotto.
La piena cooperazione con l’Autorità è un
presupposto essenziale per accedere ai benefici del programma di clemenza.
Pertanto, a pena di esclusione, l’impresa deve rivelare tutte le informazioni
rilevanti disponibili e deve astenersi dal rendere nota ad altri la propria partecipazione
al programma di clemenza.
COME FARE LA DOMANDA
L’impresa che intenda aderire al programma di clemenza deve
presentare all’Autorità una domanda, corredata dalle informazioni e dai
documenti rilevanti. Tuttavia, è possibile che l’azienda non sia in
grado di produrre immediatamente gli elementi di prova necessari per ottenere
l’immunità, ma possa procurarseli in breve tempo. In tal caso,
può presentare una domanda incompleta e chiedere all’Autorità la
fissazione di un termine per il perfezionamento della domanda con la produzione
degli elementi informativi e documentali rilevanti.
Infine, per alleggerire gli oneri amministrativi gravanti
sulle imprese, è prevista la possibilità di presentare una
domanda di immunità in forma semplificata, nei casi in cui la Commissione
Europea sia nella posizione più idonea per condurre le indagini sul
cartello in questione.
Roma, 19 febbraio 2007
NEW
YORK - Almeno una volta è capitato a
tutti di rimanere interdetti di fronte al tono di un'email che suona un po'
troppo aggressiva o spinta. Frasi che non si avrebbe il coraggio di pronunciare
faccia a faccia, di fronte a un interlocutore in carne ed ossa. Per gli
scienziati è tutta colpa del cyberspazio, che toglie le inibizioni e spinge
a comportamenti esagerati, che diventano facilmente offensivi, imbarazzanti o
semplicemente maleducati.
E' uno dei nuovi problemi della comunicazione nell'era di internet che, come
riporta il New York Times, sta attirando sempre di più
l'attenzione degli psicologi. Una ricerca pubblicata sul CyberPsychology and
Behavior nel 2004 spiega il fenomeno con diverse motivazioni: l'anonimato
della rete, il fatto di non vedere gli altri direttamente, l'intervallo di
tempo che intercorre fra l'invio di un messaggio di posta elettronica e il
momento in cui il destinatario lo leggerà. Ma anche la esagerata
consapevolezza di sé favorita dal passare ore da soli online, o ancora la
mancanza di una figura di riferimento autorevole in rete. A volte l'effetto
disinibizione può essere positivo, come nel caso di qualcuno
eccessivamente timido, che invece su internet riesce a comunicare senza filtri
in modo più efficace. Ma il rovescio della medaglia è quella che
rischia di diventare maleducazione e rasenta la molestia.
Il problema è frequente fra gli adolescenti, ma non riguarda certo solo
loro. Ora ha iniziato ad occuparsene una specifica branca della neuroscienza,
quella "sociale", che studia cosa accade nel cervello di due persone
quando comunicano in carne ed ossa e cosa avviene invece in un dialogo
virtuale. In quest'ultimo caso vengono a mancare tutti quegli indicatori che
invece permettono, in un discorso faccia a faccia, di calibrare le risposte e
gli interventi successivi in base alle reazioni verbali e fisiche del nostro
interlocutore.
La centrale che raccoglie queste sensazioni, nel cervello, risiede nella
corteccia orbitofrontale, spiega sul New York Times Daniel Goleman,
esperto del campo ed autore di "Social Intelligence: The New Science of
Human Relationship". E' proprio in questa area cerebrale che gli
scienziati collocano la sede dell'empatia.
Una serie di ricerche condotte da Jennifer Beer, dell'università della
California a Davis, indica che è questo sistema di segnali fisici ed
emotivi, colti quando di parla dal vivo con una persona, che permette di
evitare azioni offensive per il nostro interlocutore.
Una riprova è fornita proprio dalla scienza: è stato dimostrato
che chi subisce danni neurologici alla corteccia orbitofrontale comincia a
collezionare una serie di gaffes sociali e adotta comportamenti impropri, come
ad esempio baciare ed abbracciare un perfetto sconosciuto, nel migliore dei
casi.
La corteccia sfrutta una serie di indicatori "sociali" - dal tono
della voce alle smorfie sul viso - per modulare gli interventi. Segnali che
invece sono assenti in un dialogo virtuale e favoriscono la nascita di
equivoci, che possono trasformarsi in qualcosa di spiacevole. Una email
aggressiva, dettata dalla fretta o dall'impulso del momento, sarebbe con ogni
probabilità ricacciata indietro ed evitata, guardando negli occhi la
persona cui è indirizzata. E allo stesso modo, una frase magari anche
innocua può essere interpretata in modo sbagliato, per la mancanza degli
stessi indicatori fisici.
E' un rischio insito nel mezzo virtuale. Chi dal vivo è gentile ed
educato, rischia di trasformarsi in un maleducato quando è protetto
dall'anonimato della rete. E' quello che sostiene uno studio pubblicato nel
2002 sul Journal of Language and Social Psychology. Nell'esperimento descritto
coppie di studenti universitari che non si conoscevano fra loro, si
comportavano in modo cortese ed impeccabile quando si trovavano ad interagire
di persona. Ma appena comunicavano tra loro in chat, diventavano aggressivi ed
eccessivamente spinti.
(20 febbraio 2007)
Il mercato immobiliare romano tira il fiato. Dopo
la galoppata del settore del real estate degli ultimi cinque anni, culminata
l'anno scorso con la cifra record di 41 mila compravendite, quest'anno le prime
analisi di mercato prevedono un andamento più sotto tono rispetto alle
performance degli ultimi anni, inferiore alle oltre 40 mila transazioni. In
sostanza secondo il rapporto elaborato dall'ufficio studi di "Grimaldi
immobiliare" il mercato capitolino ha vissuto un 2006 pigro. Dai dati
presentati è emerso che l'anno scorso il settore real estate della
capitale è entrato di fatto in una fase di stabilizzazione.
Le vendite del comparto residenziale l'anno passato
hanno segnato un leggero decremento, circa il 3,5% in meno, rispetto alle cifre
record del 2005 (41 mila abitazioni vendute). L'offerta di nuove abitazioni
invece ha fatto registrare nel 2005 un totale di quasi 9 mila nuove
unità. A beneficiare di questa crescita del mercato, sono state
soprattutto i costruttori romani, che hanno investito negli ultimi anni lungo
le direttrici est e sud ovest della capitale. Proprio in queste aree si sono
registrate il 54% in più di nuove costruzioni.
All'interno del grande raccordo anulare invece, il
numero delle nuove abitazioni (1.992 unità sul totale di 8.940) è
stato molto basso con la sola eccezione delle aree Aurelia (564) e Portuense
(416). Secondo il rapporto di Grimaldi, l'offerta è risultata stabile in
tutte le zone, con una crescita di cinque punti percentuali solo
nell'hinterland cittadino.
++ Da La Stampa 20-2-2007 20/2/2007 (8:19) - COSA NOSTRA Provenzano voleva
uccidere Lumia
+ Da Il Sole 24 Ore 20-2-2007 Iran,
pronto il piano di attacco Usa Di Riccardo Barlaam
+ Da Il Sole 24 Ore 20-2-2007 Guerra franco-tedesca per Airbus, rinviato
l'annuncio dei tagli
Da La Stampa 20-2-2007 L'inaffondabile "cardinale di ferro" al
passo d'addio
Da Panorama 20-2-2007 Pacs e Dico.
Chiesa e Stato - parla lo storico cattolico Alberto Melloni
Dal Giornale di Brescia 20-2-2007 Bush si paragona a George Washington:
uguali le nostre guerre
Da Finanza e mercati 20-2-2007 Banche-imprese, stretta Consob Nuove regole
sulla trasparenza
Da La Repubblica 19-2-2007 Ecco l'uomo più felice del mondo E' un
monaco buddista francese Nepal.
Un
piano per eliminare il vicepresidente della Commissione nazionale antimafia
PALERMO
Cosa nostra avrebbe voluto uccidere il vicepresidente della Commissione
nazionale antimafia Giuseppe Lumia (Ds), ma il progetto di morte dei boss
mafiosi è stato scoperto dalla Procura di Palermo, grazie anche alle
dichiarazioni di due pentiti, che ha chiesto e ottenuto due arresti. Le
ordinanze di custodia cautelare, firmate dal gip Donatella Puleo, che ha
accolto le richieste del Procuratore aggiunto di Palermo Sergio Lari e del pm
della Dda Michele Prestipino, riguardano Domenico Virga, 43 anni, capomafia di
Gangi (Palermo), già detenuto, e Salvatore Fileccia, di 42, sorvegliato
speciale con obbligo di soggiorno a Palermo, ritenuto uomo d’onore della
famiglia mafiosa di Palermo Villagrazia.
Il progetto di morte sarebbe stato deliberato da Cosa nostra, con in testa il
capomafia Bernardo Provenzano, agli inizi del
Si tratta di pensionati, nuclei in affitto, o con basso livello di
consumi
Ma, in generale,
le variazioni sono omogenee e le differenze sui dati cumulati quasi nulle
Una conclusione inaccettabile per le associazioni dei consumatori e i sindacati
di base
ROMA - Nel 2006 le famiglie con un più basso livello di consumi hanno
subito molto più della media le conseguenze degli aumenti dei prezzi:
nel mese di agosto per loro l'inflazione ha toccato il picco del 3,5 per cento,
con un dato superiore di oltre un punto alla media delle altre famiglie. E'
quanto risulta dai nuovi "indicatori della dinamica dei prezzi al consumo
per alcune tipologie di famiglia", pubblicati stamane dall'Istat: si
tratta di indici "su misura", elaborati per categorie disagiate di
famiglie (famiglie che vivono in affitto, famiglie di pensionati, famiglie con
basso livello di spesa e pensionati con basso livello di spesa).
Ma le differenze registrate del 2006 sono un'eccezione rispetto all'andamento
generale dell'inflazione, che invece, spiega il presidente dell'Istat Luigi
Biggeri, "nel medio lungo periodo non mostra sostanziali differenze".
Una conclusione destinata a sollevare ulteriori polemiche tra le associazioni
dei consumatori e i sindacati, che da tempo contestano i criteri di rilevazione
dell'Istat, affermando che non permettono di accertare l'inflazione
"vera", percepita dalle famiglie.
Infatti le medie annue calcolate dal 2001 al 2006 per ognuna delle quattro
categorie scelte dall'Istat perchè considerate "estreme" non
si discostano molto dalla media annua generale. Per il 2006, per esempio, che
pure è forse l'anno dove maggiormente sono risaltate le differenze, a
una media annua generale del 2,50 per cento corrisponde un +2,52 per cento per
le famiglie in affitto o subaffitto, un +2,51 per le famiglie di pensionati,
+2,85 per cento per le famiglie con un basso livello di spesa e +2,78 per cento
per le famiglie di pensionati con un basso livello di spesa.
Come sono stati calcolcati gli indici. Tali variazioni sono calcolate sulla
base dell'indice armonizzato (cioè quello utilizzato per la rilevazione
dell'indice dei prezzi europeo), partendo però da una diversa
"ponderazione" delle varie voci (per esempio gli alimentari pesano di
più, perché le famiglie disagiate riservano una quota maggiore del
proprio reddito a questo tipo di consumi).
Tenendo conto di queste differenze, nel
E' soprattutto dall'entrata in vigore dell'euro che è stato chiesto
all'Istat un calcolo "differenziato" dell'inflazione, che tenesse
presente l'incidenza del carovita sulle categorie più disagiate. Un
calcolo piuttosto difficile, ha spiegato Biggeri: "Ogni famiglia ha un
differente comportamento di consumo. E infatti sono solo tre, Australia,
Singapore e Canada i paesi che pubblicano periodicamente questo tipo di
statistiche".
Le variazioni anno per anno. In base alle rilevazioni differenziate pubblicate
oggi dall'Istat, nel 2002, anno di entrata in vigore dell'euro, non sono state
riscontrate grosse variazioni tra l'inflazione media per le famiglie e quella
per le quattro categorie considerate. Nel 2003 le famiglie di pensionati hanno
avuto un'inflazione vicina al 3 per cento. Tra il 2004 e il 2005 le differenze
maggiori sono state rilevate per le famiglie in affitto o subaffitto
(rispettivamente +2,54 e +2,34, contro una media del +2,43 per cento e +2,36 per
cento). Ma è infine nel 2006 che si sono riscontrate le variazioni
maggiori, con un +2,85 per cento per le famiglie più povere, rispetto al
+2,50 della media.
Il dato cumulato 2001-2006. Se si considera l'inflazione cumulata del periodo
2001-2006 i tassi delle varie categorie di famiglie sono molto vicini, rileva
l'Istat: quello medio è pari a +15,41 per cento, quello delle famiglie
con un livello più basso di consumi è pari a +15,76 per cento,
quello delle famiglie in affitto è pari al +15,56 per cento, +15,27 per
cento per le famiglie di pensionati e +15,25 per cento per le famiglie di
pensionati con basso livello di consumi.
Le obiezioni dei consumatori. Una conclusione inaccettabile per le associazioni
dei consumatori. "Sapevamo che sarebbe andata così, dal momento che
questi indici di categoria sono stati calcolati solo modificando i pesi del
paniere - obietta il segretario generale dell'Adiconsum Paolo Landi - quello
che invece andava modificato davvero è il ribasamento, oltre al
meccanismo di rilevazione. Quanto al primo, si tratta del modo di valutare i
prezzi dei nuovi prodotti. Faccio un esempio: se sul mercato viene immesso un
nuovo frigorifero più costoso dei precedenti, poichè si tratta di
un nuovo modello l'Istat non calcola l'aumento di prezzo rispetto al modello
precedente. Ormai il mercato è pieno di nuovi prodotti: questo
meccanismo falsa l'indice. Inoltre le rilevazioni non sono trasparenti: spesso
vengono effettuate per telefono o non vengono effettuate affatto".
Molto critici anche Adusbef e Federconsumatori, che parlano di "una vera e
propria scoperta dell'acqua calda della quale non si sentiva alcun bisogno e
che non attenua le dure critiche in merito ad un paniere che continua a non
rispecchiare i pesi reali di prodotti e servizi".
E quelle dei sindacati di base. Ancora più duro il sindacato di base
Usi/RdB-Ricerca, che parla di "colpo di mano dell'Istat":
"Nell'approfondimento diffuso oggi l'Istat si è limitato a derivare
strutture differenziate di peso dall'indagine campionaria sui consumi delle
famiglie e ad applicare, indistintamente per tutte le tipologie familiari, gli
stessi indici dei prezzi al consumo, ottenendo come risultato un
"ibrido" di scarso valore".
(20 febbraio 2007)
La Casa Bianca
ha già preparato un piano di attacco aereo contro l'Iran che prevede la
distruzione dei siti nucleari e della maggior parte delle infrastrutture
militari del Paese. Una fonte diplomatica Usa ha rivelato alla Bbc che il piano
di attacco è pronto. I generali americani avrebbero selezionato gli
obiettivi da colpire in una base militare della Florida. La lista include il
sito nucleare dove viene arricchito l'uranio a Natanz, le centrali di Isfahan,
Arak e Bushehr e infrastrutture militari della Repubblica islamica. L'attacco
aereo sarebbe effettuato con il B2 Stealth (invisibile), bombardiere aereo a
lungo raggio, che incorpora le ultime tecnologie di "bassa
osservabilità", presenta ai radar una superficie di soli 10 cmq, un
decimo di quella del B-1B e incorpora sistemi di riduzione delle emissioni
nello spettro dell’infrarosso. Caratteristiche che come è noto
permettono al B2 di penetrare di penetrare le difese avversarie senza essere
scoperto, anche a medie e alte quote. I generali americani avrebbero anche
pensato di usare le bombe speciali anti bunker per cercare di penetrare nel
sito di Natanz, costruito
Gli Stati Uniti
ufficialmente sostengono di non avere nessuna intenzione di attaccare
militarmente l'Iran e cercano di persuadere gli ayatollah con una lenta e
stanca diplomazia a rinunciare ai piani di arricchimento dell'uranio. Sulla
scia delle Nazioni Unite che minacciano da anni di imporre sanzioni economiche
all'Iran.
Sul balletto del
programma nucleare iraniano va registrata anche la posizione della Russia che
potrebbe ritardare la costruzione della sua prima centrale nucleare iraniana
per via dei ritardi nei pagamenti di Teheran. Il direttore generale
dell'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea), Mohammed Elbaradei in
un'intervista con il "Financial Times" ha precisato che Teheran
potrebbe disporre, tra sei mesi e un anno, di 3.000 centrifughe per arrichire
l'uranio su scala industriale. ElBaradei ha anche pronosticato che l'Iran molto
probabilmente non si adeguerà alla richiesta del Consiglio di sicurezza
di sospendere le attività di arricchimento dell'uranio. Il direttore
generale dell'Aiea incontrerà oggi a Vienna il principale negoziatore
iraniano per il nucleare, Ali Larijani, prima di consegnare, entro questa
settimana, un rapporto cruciale al Consiglio di sicurezza dell'Onu sul
programma nucleare iraniano.
Vertici Airbus in
piena turbolenza a causa del braccio di ferro tra i quattro paesi europei del
consorzio Eads che controlla il costruttore aeronautico, in particolare Francia
e Germania (gli altri due sono Regno Unito e Spagna), sul complesso piano di
rilancio che prevede la realizzazione del nuovo A350. Per oggi, martedì
20 febbraio, era atteso l'annuncio di un taglio di 10 mila posti di lavoro, un
quinto della forza lavoro del gruppo. La guerra franco-tedesca sul controllo
del doppio versante industriale e tecnologico, che arriva fino alla lite
sull'ordine del giorno degli incontri tra il presidente Chirac e il cancelliere
Merkel, ha portato a una rottura delle trattative domenica scorsa (al ripresa
del dialogo nel board, secondo Eads avverrà «nei prossimi giorni») e determinato
la necessità di un rinvio dell'appuntamento fissato dal ceo Louis
Gallois con sindacati e stampa sul suo programma di ristrutturazione Power8,
cosa che ha colto di sorpresa il mercato. I tagli previsti sono parte della
corsa ai ripari per fare fronte alle perdite plurimiliardarie del programma per
il nuovo A380. Martedì mattina il primo ministro francese Dominique de
Villepin ha dichiarato ai microfoni della radio transalpina Rtl che i tagli
saranno 10 mila ma senza alcun licenziamento. «A ogni dipendente coinvolto - ha
spiegato de Villepin - daremo una risposta cucita su misura»
SEMPRE IN SELLA Retroscena L'ultimo atto
del Presidente della Cei INTESA CON IL PAPA È l'architrave del suo
potere Per alcuni è dirigismo per altri abilità politica
L'inaffondabile "cardinale di ferro" al passo d'addio È ancora
lui a dettare la linea ora che i rapporti sono particolarmente tesi GIACOMO
GALEAZZI CITTA'DEL VATICANO Ha attraversato indenne tre scadenze di mandato da
presidente della Cei, la fine dell'unità politica dei cattolici, un
cambio di pontificato e cinque bypass al cuore. Dalla metà degli anni
Ottanta, l'ala "martiniana" è sembrata spesso sul punto di
metterlo fuori gioco, ma Camillo Ruini è sempre riuscito a restare in
sella. Stavolta, invece, la sua uscita di scena appare davvero imminente.
"Questione di settimane", spiegano in Vaticano. Già al Convegno
ecclesiale di Palermo nel '95 il suo "progetto culturale" finì
nel mirino di quell'episcopato progressista che vedeva nell'arcivescovo di
Milano Carlo Maria Martini la vera guida della Chiesa italiana. Da allora una
sequela di critiche più o meno paludate, attacchi espliciti o imboscate
curiali. Sia che la minaccia arrivasse dall'interno della Chiesa o attraverso
le trappole dei laici "alleati" dei cattolici di sinistra, il
porporato emiliano è puntualmente uscito indenne per l'abilità
"politica" e la specificità della Conferenza episcopale
italiana, l'unica al mondo che non elegge il suo presidente. E l'intesa di
ferro con il Pontefice è stata l'architrave del "Ruini power",
sinonimo per alcuni di dirigismo accentratore per altri di abilità nel
rapporto con le istituzioni. A propiziare l'avvicendamento al vertice della
Conferenza episcopale, un anno fa, ci ha provato persino il segretario di Stato
Angelo Sodano, ispiratore di un'inedita consultazione scritta tra i vescovi
attraverso il nunzio in Italia Paolo Romeo. Però anche in quella
circostanza il "Cardinal Sottile" ha sventato l'insidia ottenendo una
proroga a tempo indefinito da Benedetto XVI. Dunque, ancora Ruini. Tante volte
è stato dato in uscita ma è ancora il Cardinale Vicario a dettare
la linea "interventista", anche ora che i rapporti fra le due sponde
del Tevere, fra il potere spirituale e quello temporale, sono particolarmente
tesi. Anzi è stato proprio lui, uomo forte della Chiesa italiana
prorogato nel suo incarico dal Papa, a tenere banco ai colloqui per commemorare
la firma dei Patti lateranensi. Ieri, giorno del suo 76° compleanno, il passo
d'addio di Ruini si è trasformato nel trionfo del suo "non
possumus" sui Dico, rilanciato in pieno dal Vaticano nell'incontro con il governo
italiano. Il mese prossimo, al consiglio permanente della Cei, la "nota
vincolante" contro la regolamentazione delle coppie di fatto sarà
l'ultimo atto ufficiale del leader dei vescovi, ma già ieri Palazzo
Borromeo ha ospitato il commiato del porporato emiliano dai riflettori della
scena politica. Sul probabile successore Angelo Bagnasco tutto il peso
dell'eredità di un ventennio da plenipotenziario della Chiesa in Italia.
E nella vita pubblica il solco tracciato per una battaglia, fuori e dentro il
Parlamento, a difesa della famiglia tradizionale. È significativo che il
"canto del cigno" del ventennio ruiniano sia stato il braccio di
ferro con l'amico e conterraneo Romano Prodi. Ruini è stato a lungo il
confessore del premier e ne ha celebrato le nozze con Flavia, salvo poi,
decenni dopo, ingaggiare uno scontro pubblico durissimo, corredato di freddezza
privata. Ieri Prodi e Ruini si sono trovati faccia a faccia. Un sorriso, una
stretta di mano. Una conversazione dai toni formali, dopo che il segretario di
Stato Tarcisio Bertone aveva detto parole chiare che riecheggiavano esattamente
l'impostazione del Cardinal Vicario. E, in fondo, che si parli di eutanasia,
parità scolastica, bioetica o famiglia, Ruini aveva fatto conoscere per
tempo il suo severo avvertimento. Ai "cattolici adulti" come all'ala
"liberal" dell'episcopato. "Ovunque sia e con chiunque si
incontri, il credente cristiano non può derogare al suo compito di
testimone della propria fede, fino a sperimentare il martirio dell'incomprensione
e del disprezzo e, talvolta, della sofferenza e della morte". Un monito
per la politica. e per il suo successore. Senza trascurare il pulpito dei mass
media: "Occorre interloquire con la cultura plasmata dai media, coltivando
una presenza discreta e autorevole all'interno delle varie realtà
mediatiche". Il suo interventismo nella sfera politica ha suscitato
reazioni di segno opposto. Secondo gli ambienti cattolici di orientamento
moderato e conservatore, Ruini si è dimostrato una figura autorevole e
un coraggioso combattente per i valori cristiani. Al contrario secondo altri,
prevalentemente di impostazione progressista si è speso con coraggio in
prima persona per surrogare la fine della Dc ma così facendo ha esposto
eccessivamente la Chiesa italiana nelle battaglie a difesa della persona umana,
della famiglia e della vita.
Caro Ruini, le spiego perché sta sbagliando
di Ignazio Ingrao 19/2/2007 Manifestanti a favore dei Pacs Con la sua crociata
contro i Dico il capo della Cei mette in discussione la sovranità dello
Stato. E rischia di rilanciare l'anticlericalismo. Parola di un allievo di
Giuseppe Dossetti " Che ne pensate? Forum I Dico sono l'ultima frontiera.
La sfida all'Ok Corral del cardinale Camillo Ruini, giunto alla fine della sua
ventennale parabola ai vertici della Chiesa italiana. Un epilogo travagliato,
segnato prima dallo scontro con il segretario di Stato, Angelo Sodano, poi
dalle incomprensioni con il successore, Tarcisio Bertone. L'ultimo tradimento
arriva dall'amico di un tempo, Romano Prodi, aiutato dagli ex di Azione cattolica
e della Fuci (Rosy Bindi, Stefano Ceccanti e altri ancora), due organismi che
proprio Ruini ha voluto rivitalizzare. Ecco come si spiega la veemenza nello
scontro tra il governo e la presidenza della Cei sulle unioni di fatto, che non
ha precedenti nemmeno nella battaglia contro il divorzio. Questa la tesi di
Alberto Melloni, ordinario di storia contemporanea all'Università di
Modena-Reggio Emilia e membro di quella "officina bolognese" fondata
da Giuseppe Dossetti e Giuseppe Alberigo, che ha fatto del rinnovamento
impresso alla Chiesa dal Concilio Vaticano II una ragione di studio e di vita.
Il cardinale Ruini ha annunciato una nota "ufficiale, impegnativa e
chiarificatrice" sulle unioni civili. Non c'è più spazio per
la mediazione? Rullano i tamburi di guerra ma gli eserciti devono ancora
scendere in campo. Aspettiamo di vedere il testo della nota e attendiamo gli
sviluppi del dibattito parlamentare. Certo siamo di fronte a uno scontro senza
precedenti nella storia dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato italiano. Anche
contro aborto e divorzio la Chiesa schierò tutte le sue forze. È
vero. Ma in quei casi si trattava di battaglie "contro", per
cancellare leggi che i cattolici non accettavano. Oggi invece assistiamo a una
battaglia che tocca l'autonomia del potere legislativo, perché punta a impedire
che una norma venga promulgata. È una questione delicata non solo
rispetto al problema della laicità dello Stato ma anche riguardo al tema
centrale del ruolo del laico nella Chiesa. Il cattolico impegnato in politica
non è un terminale della gerarchia, mantiene intatta la sfera della sua
libertà di coscienza. Perciò temo che in questo scontro vengano
sacrificati due principi costituzionali: i parlamentari sono eletti senza
vincolo di mandato; lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio
ordine, indipendenti e sovrani. In cosa gli interventi della Cei sarebbero
lesivi della sovranità dello Stato? Se allo Stato non compete il
giudizio sulle materie che riguardano il diritto naturale, come ho sentito affermare
da autorevoli esponenti della gerarchia ecclesiastica, vuol dire che gli si
riconosce solo una sovranità limitata. Inoltre, nella posizione dei
vertici della Chiesa colgo anche una profonda contraddizione: se davvero le
convivenze sono una pericolosa minaccia per la società, allora
andrebbero proibite. Se vengono tollerate, perché non legiferare per dare loro
un assetto chiaro che definisca diritti e doveri? Mi viene il sospetto che
dietro la posizione così rigida del presidente della Cei vi possa essere
invece un'altra ragione. Quale potrebbe essere? Il cardinale forse ritiene che
se il governo Prodi non riesce a superare lo scoglio delle unioni civili
rischia seriamente di cadere. Non penso che Ruini abbia intrapreso la battaglia
contro i Dico perché vuol far cadere il governo, ma sa bene che questa potrebbe
essere una conseguenza non troppo remota. C'è persino chi ascrive a
Ruini il disegno di volersi opporre alla nascita del Partito democratico.
Sarebbe ancora più grave poiché non è compito della Chiesa
pronunciarsi su quale partito debba nascere. Certo anche questa potrebbe essere
una conseguenza dell'azione della presidenza della Cei. Ma c'è un
pericolo, che forse le gerarchie ecclesiastiche non hanno debitamente messo in
conto: così facendo si annaffia giorno per giorno la pianta
dell'anticlericalismo. È una pianta carnivora, che oggi appare
insignificante ma cresce silenziosamente e domani potrebbe divorare tutto, come
è accaduto in Spagna. In realtà non solo il capo dei vescovi
italiani, ma anche il Papa e gli episcopati di altri Paesi si sono pronunciati
contro le unioni di fatto. Sono tutti contro Prodi? Certamente no. Ma invito a
cogliere importanti sfumature di accenti e di tono. Il Papa parla della
funzione pedagogica della legge e del pericolo che questa incoraggi le giovani
coppie a non seguire la strada del matrimonio. A differenza di Ruini, Benedetto
XVI non si è rivolto ai parlamentari, non ha mai cercato di condizionare
l'atto positivo di approvazione di una legge. Anche nel suo recente viaggio in
Spagna ha sempre parlato a favore della famiglia mai contro il governo
Zapatero. Così gli episcopati di altri paesi del mondo, Canada, Francia,
Germania, hanno criticato il riconoscimento delle unioni civili ma si sono
anzitutto concentrati sulla richiesta di azioni concrete a tutela della
famiglia tradizionale. Mi sembra che questo sia anche l'atteggiamento di una
fetta consistente dell'episcopato italiano, che non condivide i toni da
battaglia finale della presidenza della Cei, ma per ora è ridotto al
silenzio. Lo scontro è condizionato anche dalla fine del mandato del
presidente della Cei? In questi mesi Ruini ha cominciato a fare i conti con la
prospettiva della fine del suo mandato ai vertici della Chiesa italiana. Sa
che, chiunque sarà il suo successore, non avrà mai il suo stesso
carisma, la sua stessa lucidità, la sua stessa passione nel misurarsi
con la politica italiana. Perciò è possibile che viva la
battaglia sulle unioni di fatto come l'ultima spiaggia, l'eredità
spirituale che lascia al Cattolicesimo italiano. Qual è invece il
progetto del cardinale Tarcisio Bertone sulla Cei? Negli ultimi vent'anni con
Ruini i vertici della Chiesa italiana sono stati interlocutori dei partiti
prima che della società. Probabilmente il cardinale Bertone, fedele alla
visione di Benedetto XVI, per il futuro pensa a una Chiesa italiana capace di
farsi interlocutrice della società prima che della politica. Questo
potrebbe significare che la Segreteria di Stato riprenderà in mano a
poco a poco i rapporti con la politica italiana, che Wojtyla aveva delegato a
Ruini, lasciando alla Cei più libertà ed energie per la missione
pastorale, cioè annunciare il Vangelo. AVVENIRE: "MINACCE SUL
CONCORDATO, PER FAR TACERE LA CHIESA" "Certi settori laici sviluppano
un ragionamento strumentale per mettere in crisi le relazioni tra Chiesa e
Stato". L'Avvenire rileva con preoccupazione che dopo il referendum sulla
procreazione medicalmente assistita ed ora il ddl sui Dico alcuni gruppi
politici chiedono con grande insistenza di rivedere il Concordato per abolire
"le forme di finanziamento delle confessioni". Alla vigilia
dell'annuale ricevimento all'ambasciata italiana presso la Santa Sede per
l'anniversario dei Patti Lateranensi, il quotidiano dei vescovi affida al
professor Carlo Cardia un editoriale di prima pagina intitolato: "Il
Concordato non può comprare il silenzio". "Chiunque vede che
siamo di fronte ad una specie di ritorsione censoria che chiama in causa
questioni che non hanno alcun rapporto tra di loro. Quasi che il Concordato e
le Intese possano comprare il silenzio delle chiese. Un salto indietro - si
legge - verso l'Ottocento in controtendenza nei confronti dell'Europa". La
libertà della Chiesa così come quella di altri culti, ha aggiunto
Cardia, "non è oggetto di concessione da parte di alcuno, ma ha
fondamento nella Costituzione elaborata col contributo di tutti e
nell'ispirazione giusnaturalistica della democrazia politica". Morale:
"Forse l'agitarsi di alcuni gruppi vuole raggiunger un risultato obliquo,
quello di sventolare la bandiera della laicità per non doversi
confrontare nel merito con le idee e le proposte dei cattolici".
La NotaMassimo Franco
Più che un pretesto per dire no, l'estrema sinistra ne sta cercando uno
per avallare la politica estera del governo: sulla missione in Afghanistan e
sulla base di Vicenza. Pochi, ormai, ritengono che, dopo la manifestazione
pacifista di sabato scorso, la coalizione di Romano Prodi corra rischi
immediati. Ci spera l'opposizione, ed è comprensibile: al punto che
qualcuno immagina un congegno parlamentare per votare con l'Unione e metterla
in difficoltà. La speranza è di replicare la bocciatura recente
del governo al Senato. Ma non si vedono margini per la crisi. Almeno in teoria,
la disponibilità americana a modificare il progetto toglie argomenti
agli irriducibili. E l'idea di una conferenza per la pace in Afghanistan
potrebbe placare i partiti della sinistra radicale. La proposta forse
sarà annunciata domani al Senato dal ministro degli Esteri, Massimo
D'Alema. Ed eviterebbe che l'«effetto Vicenza» possa allungarsi sul
rifinanziamento della missione afghana: magari sull'onda della concorrenza
strisciante fra il Prc e il Pdci.
Ma i primi a puntualizzare che sono questioni diverse sono proprio i
capi dell'«antagonismo». Vogliono rassicurare Prodi e gli alleati. E per farlo
usano due linguaggi diversi. Su Vicenza, inviti perentori al premier perché
ascolti la voce dei movimenti pacifisti; e perché avalli l'ipotesi, sebbene
impraticabile dal punto di vista costituzionale, di un referendum sulla base
militare. Sull'Afghanistan, invece, i commenti appaiono meno perentori: come se
l'estrema sinistra sapesse che non sono possibili deragliamenti. D'altronde, il
resto dell'Unione assedia Prc, Pdci e Verdi. Li accusa di screditare l'Italia
con l'antiamericanismo. E chiede loro di garantire il proprio voto in
Parlamento. Per paradosso, è il ministro Di Pietro a ipotizzare una
revisione dei trattati Italia-Usa. Ma si tratta di schiuma, sotto la quale
Palazzo Chigi intravede la possibilità del «via libera». Al solito,
rimane il brivido di uno scarto risicatissimo al Senato. Quando però il
ministro della Difesa, Arturo Parisi, afferma che il governo è
«fiducioso», riflette un'impressione diffusa; e condivisa a denti stretti dal
fronte berlusconiano. Ambiguamente, l'Unione scommette sulla propria
sopravvivenza, convinta che l'ultrasinistra non possa rompere neppure sulla
politica estera.
20 febbraio 2007
Il Congresso insiste: meno truppe in Iraq.
WASHINGTON Il presidente Bush, rendendo
omaggio ieri "all'altro George W.", cioè George Washington, ha
paragonato la sua guerra al terrorismo alla grande battaglia per la
libertà del primo presidente degli Stati Uniti. "Oggi stiamo
combattendo un'altra guerra per difendere la nostra libertà e il nostro
popolo e il nostro modo di vivere - ha detto Bush in un discorso a Mount
Vernon, l'antica residenza di George Washington - mentre lavoriamo per portare
avanti la causa della libertà nel mondo non dobbiamo mai dimenticare che
il padre della nostra nazione era convinto che le libertà conquistate
con la nostra rivoluzione non fosse destinata solo agli americani".
L'inquilino della Casa Bianca, parlando in una cerimonia tenuta per la Festa
Nazionale dedicata a George Washington (nacque il 22 febbraio 1732), ha detto
sorridendo di "sentirsi a casa qui" a Mount Vernon: "Dopo tutto
questa era la abitazione del primo George W.". La prossima guerra di Bush
appare comunque quella con il Congresso dove i democratici, esaurita l'opzione
più facile di una risoluzione contro la strategia del presidente
sull'Iraq (passata alla Camera, bloccata da stratagemmi procedurali al Senato)
devono decidere adesso la prossima mossa. La battaglia più difficile
appare per entrambe le parti quella per i fondi aggiuntivi chiesti da Bush per
portare avanti la guerra in Iraq e in Afghanistan: un conto di quasi 100
miliardi di dollari che il Congresso ha il potere di respingere. Ma tagliare i
fondi per le truppe americane che stanno rischiando la pelle in prima linea non
sarebbe una mossa troppo popolare da parte dei democratici che appaiono divisi
su cosa fare. Un orientamento è quello di modificare il mandato senza
limiti dato a suo tempo nel 2002 dal Congresso a Bush per condurre la guerra in
Iraq: una nuova legge dovrebbe definire il raggio di operazioni delle truppe
Usa in modo specifico limitandole alle operazioni antiterrorismo contro i
membri di Al Qaeda, ai compiti di addestramento e di sostegno dell'esercito
iracheno, alla protezione del personale (diplomatico e non) americano nel
paese. La proposta, avanzata dal deputato democratico Carl Levin, presidente
della Commissione Difesa, dovrebbe trovare corpo in una misura di legge che sta
preparando il senatore John Biden, uno dei numerosi candidati democratici alla
presidenza. I parlamentari democratici, impegnati in un intenso dibattito
interno sul prossimo passo da fare, stanno presentando diverse proposte al
Congresso. Giovedì il deputato John Murtha, uno stretto collaboratore
della leader democratica Nancy Pelosi e un rispettato veterano di guerra, ha
annunciato la sua intenzione di presentare una proposta di legge che richieda
severi standard di preparazione ed equipaggiamento per le truppe destinate in
futuro alle zone di guerra (congegnata in modo tale da impedire a Bush di
inviare nuove truppe in Iraq).
La Consob prepara la stretta sulla
trasparenza nelle relazioni tra banche e imprese. È in arrivo, infatti,
un pacchetto di regole per costringere istituti di credito e società per
azioni quotate a svelare con maggiore chiarezza gli incroci azionari e, in
particolare, i rapporti di finanziamento bancari. Le nuove norme - che secondo
quanto appreso da F&M dovrebbero arrivare entro marzo - sono state ieri al
centro di un summit tra i vertici di Abi e Assonime con gli esperti della Commissione
guidata da Lamberto Cardia. I dettagli del regolamento di Via Martini non si
conoscono ancora (non è stata messa a punto nemmeno la prima bozza), ma
la Consob dovrebbe intervenire almeno su due fronti: delibere dei cda e
bilanci. Sul primo punto è probabile che Cardia fissi qualche paletto in
più in relazione agli obblighi di comunicazione sulle decisioni dei
consigli di amministrazione che riguardano operazioni con le cosiddette parti
correlate (in sostanza i soggetti con cui si hanno intrecci azionari e i top
manager degli istituti creditizi). Le note informative destinate al mercato
dovrebbero diventare più chiare e, soprattutto, più tempestive.
Ciò con l'obiettivo di fornire immediatamente a risparmiatori e
investitori dati sensibili sulle scelte di acquisto in Borsa. E maggiore
chiarezza ed evidenza dovrà essere data a queste informazioni anche nei
libri contabili. Una misura, quest'ultima, sulla quale c'è una certa
attesa a Piazza Affari, vista l'imminente stagione assembleare dedicata all'approvazione
dei bilanci annuali e l'impatto sul lavoro degli analisti interni e dei
revisori dei conti. Frattanto, continua il pressing delle aziende creditizie
sul viceministro dell'Economia, Roberto Pinza. Con il decreto correttivo di
gennaio, l'esponente della Margherita ha solo in parte accolto le richieste
degli istituti: per ora è stata cancellata dalla stretta l'ipotesi di
rapporti tra banche dello stesso gruppo. Ma gli istituti vorrebbero almeno un
altro paio di passi indietro: la depenalizzazione (la legge 262 prevede un
reato in caso di violazione) e la possibilità di affidare a un comitato
ristretto, invece che ai cda, le delibere sul credito alle imprese collegate.
E le major, alla prese con gli scambi illegali in
rete, applaudono
nuova arma contro la pirateria web
SAN FRANCISCO - Una nuova arma contro la pirateria in
aiuto dell'industria dell'intrattenimento nell'era della condivisione globale
di file. E' un software che permette di riconoscere il materiale coperto da
copyright, anche se rilavorato, catturandone il "dna digitale". La
nuova tecnologia - riferisce il New York Times - è stata
presentata nei giorni scorsi da Vance Ikezoye della Audible Magic, la compagnia
che lo ha prodotto. Davanti ad una platea di utenti assai interessati, il
software è riuscito a riconoscere un frammento da "Kill Bill:
volume 2" ben nascosto all'interno di una clip di due minuti, mossa e di
cattiva qualità, quasi priva di colore e con dialoghi in cinese,
scaricata da YouTube.
Ma come funziona? Il sistema sviluppato dalla Audible Magic - ma ne esistono
anche altri simili, come quello di Gracenotes - prende le "impronte
digitali" del file, confrontando il materiale audio e video con enormi
banche dati. In sostanza riconosce la firma digitale audio in un file video. E
l'allarme scatta per quei filmati le cui tracce audio corrispondono a quelle presenti
nell'archivio del software. Quando si prova a mettere online un file su un sito
che adotta questo filtro, il materiale viene controllato e se risulta protetto
da copyright viene bloccato o messo online, a seconda che il sito in oggetto
abbia o meno un accordo con chi detiene i diritti per la pubblicazione.
L'annuncio fa tirare un sospiro di sollievo alle major di tv, cinema e musica,
messe in ginocchio dalla pirateria. L'industria dell'entertainment preme
da tempo perché un sistema di riconoscimento di materiale protetto da diritto
d'autore venga adottato dai siti di file sharing e di social
networking dove si trova praticamente di tutto. Il primo a rispondere
all'appello è stato MySpace. Il sito si è detto pronto ad adottare
il sistema di filtraggio della Audible Magic. Lo utilizzerà per
identificare materiale della Universal Music, Nbc Universal e Fox, per
ottenerne poi l'autorizzazione alla pubblicazione.
Una mossa che lascia sempre più solo YouTube, il più grande sito
di video online. Le major sono stanche di imporre la rimozione quotidiana di
materiale protetto dal sito, per poi vederlo ripubblicato immediatamente da
qualche altro utente. E le richieste perché si arrivi ad una soluzione del
problema aumentano di giorno in giorno.
La rete però fa resistenza: il caso di Guba insegna. Appena è
stato adottato un sistema di filtraggio sul fratello minore di YouTube, gli
utenti sono scappati migrando verso altri siti non protetti. Eppure, per gli
esperti, il futuro è questo. Anche se per ora la tecnologia di
riconoscimento è più efficace sul fronte audio, molto meno per il
video: tante sono le informazioni da immagazzinare, e molto più
complesse per identificarne il dna digitale, rispetto ad un file di musica.
(19
febbraio 2007)
Il titolo è stato attribuito da
alcuni scienziati del Wisconsin
La sua ricetta? "Arrabbiatevi il meno possibile"
E' stato monitorato con 256 sensori.
Analizzate le reazioni cerebrali
LONDRA - La felicità non è di questo mondo?
Almeno a giudicare il caso di Matthieu Ricard, monaco buddhista parigino, il
vecchio motto deve essere assolutamente rivisto. Parola di scienziati. In
particolare, di quelli dell'università del Wisconsin che ha sottoposto
il monaco a una serie di test scientifici arrivando a un responso
inequivocabile: Monsieur Ricard può essere considerato "Mr
Happy", l'uomo più felice del mondo.
Come è stato attribuito il titolo? Il gruppo di neuroscienziati
dell'ateneo americano, guidati dal professor Richard K. Davidson, ha monitorato
l'attività cerebrale del monaco con 256 sensori e una serie di scanning
in profondità. La tecnica messa a punto dal professor Davidson - una
delle massima autorità nel campo della neuroplasticità, la
disciplina che studia la strabiliante capacità evolutiva e di
adattamento del cervello - misura l'attività della corteccia
pre-frontale, perché più alta è l'attività di quella
regione della testa e più l'individuo osservato è ritenuto in
pace con se stesso e con la realtà. Se i volontari sottoposti a questo
esperimento hanno riportato in genere valori tra +0,3 (disperazione) e -0,3
(beatitudine), "Mr. Happy" è arrivato ad uno strabiliante
-0,45.
Ma visto che lui è riuscito a raggiungerla, qual è la ricetta per
la felicità suggerita dal monaco?
Secondo quanto scritto in un libro pubblicato di recente a Londra, Matthieu
Richard - sessanta anni, figlio di una delle più grandi penne del
giornalismo d'oltralpe (il defunto Jean-Francois Revel), una brillante carriere
di biologo abbandonata per abbracciare il buddismo e ritirarsi in Nepal - la
felicità è soprattuto una questione di igiene mentale. L'uomo,
infatti, è una creatura malleabile, capace di grandi trasformazioni. Per
questo, se riesce a modificare in modo positivo e altruistico il treno dei
pensieri, può migliorare la percezione e l'interpretazione del mondo.
Felici, insomma, si può diventare. Ma molti non lo sanno: "Molti
essere umani - spiega Ricard - vivono come clochard, inconsapevoli del tesoro
sepolto sotto la loro baracca".
Come fare, dunque, per essere felici? La ricetta del monaco è, a
sorpresa, molto british: autocontrollo. Mr Happy non crede infatti
assolutamente che dar libero corso alle proprie emozioni intime sia una
salutare valvola di sfogo. "Un attimo di rabbia - ammonisce - può
distruggere anni di pazienza".
(19
febbraio 2007)
++ Da La Stampa 19-2-2007 (13:27)
Imi-Sir, Previti ai servizi sociali
+ Da La Stampa 19-2-2007 Accordo sulla soluzione di due Stati indipendenti
Da Aprileonline.it 19-2-2007 I
riformisti della politica estera
Da Italia Oggi SETTE 19-2-2007Agcm, conti correnti sotto accusa
Il pacchetto appena approvato dal Governo per il
risparmio energetico prevede fino a 2,5 miliardi di incentivi in tre anni. «Un
miliardo sul lato dell'offerta, con il progetto di innovazione industriale per
la nascita di una ecoindustria, un miliardo, un miliardo e mezzo sul lato della
domanda», ha detto il ministro dello Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani,
commentando l'emanazione dei decreti attuativi dei benefici previsti dalla
Finanziaria.
La prima misura prevista dai decreti attuativi della Finanziaria riguarda la
riqualificazione degli edifici, con l'innalzamento dal 36% al 55% della
detrazione fiscale per interventi che consentono di ridurre le dispersioni
termiche; per l'installazione di pannelli solari e per la sostituzione di
vecchie caldaie con nuove ad alta efficienza.
La seconda misura intende promuovere l'efficienza nell'industria con al
detrazione fiscale del 20% per l'acquisto e l'installazione di motori elettrici
trifase in bassa tensione ad elevata efficienza con potenza compresa tra 5 e 90
kW sia per nuova installazione sia per la sostituzione di vecchi. Stessa
detrazione per l'acquisto e l'installazione di variatori di velocità di
motori elettrici con potenze da
Si punta poi a incentivare la mobilità sostenibile attraverso la
riduzione fiscale per il Gpl (-20%) e incentivi per creare un parco auto
ecologico e diminuire l'inquinamento. Chi, per esempio, sostituisce autovetture
Euro 0 ed Euro 1 con altre di categoria Euro 4 ed Euro
I decreti attuativi prevedono poi incentivi al sistema agroenergetico
stabilendo obiettivi di miscelazione obbligatoria di biocarburanti in crescita
fino al 2010; riduzione della tassazione sul biodiesel e sul bioetanolo.
Con il Fondo Kyoto, inoltre, 600 milioni di euro per il triennio 2007-2009 sono
stati assegnati in favore di misure di riduzione delle emissioni di gas ad
effetto serra.
L'azione del Governo, infine prevede anche l'incentivazione del fotovoltaico,
il potenziamento dei certificati bianchi (risparmio energetico), il
rafforzamento e la revisione del meccanismo di incentivazione delle fonti
rinnovabili, oggi basato sui certificati verdi, l'incentivazione della
cogenerazione ad alto rendimento. (Radiocor)
L'ex
ministro delle Difesa, condannato a sei anni di reclusione, lavorerà
presso la Ceis di don Picchi
ROMA
L’ex ministro della Difesa Cesare Previti, condannato a 6 anni di reclusione
per la vicenda Imi Sir ,ha ottenuto l’affidamento al servizio sociale. Secondo
le prime notizie dovrebbe trovare impiego presso la Ceis, una struttura che fa
capo a don Picchi.
Il provvedimento è stato firmato da Laura Longo, lo stesso magistrato
che lo scorso anno, quando diventò definitiva la condanna a sei anni di
reclusione inflitta a Previti per la vicenda Imi-Sir e l’ex ministro della
Difesa si costituì in carcere, gli concesse provvisoriamente gli arresti
domiciliari riconoscendogli la possibilità di uscire per due ore la
mattina dalle 11 alle 13 per sbrigare i suoi impegni. Ora con il nuovo
provvedimento è stato stabilito, ma per il momento non se ne conoscono
ancora i termini esatti, per quanto tempo potrà lasciare la sua
abitazione per recarsi a svolgere i compiti che gli verranno affidati.
Normalmente comunque il periodo va dalle 7 del mattino alle 21.
Analogo provvedimento tempo fa fu preso per Attilio Pacifico condannato per la
stessa vicenda e il periodo a lui concesso va dalle 7 alle 23. Dei sei anni
inflittigli, Previti deve scontare ancora un anno e sette mesi. Infatti dei sei
anni ai quali è stato definitivamente condannato tre sono stati coperti
dal recente indulto e una parte in base a ’scontì a cui ha diritto determinano
il periodo residuo appunto in un anno e sette mesi.Il provvedimento è
stato firmato da Laura Longo, lo stesso magistrato che lo scorso anno, quando
diventò definitiva la condanna a sei anni di reclusione inflitta a
Previti per la vicenda Imi-Sir e l’ex ministro della Difesa si costituì
in carcere, gli concesse provvisoriamente gli arresti domiciliari
riconoscendogli la possibilità di uscire per due ore la mattina dalle 11
alle 13 per sbrigare i suoi impegni.
Ora con il nuovo provvedimento è stato stabilito, ma per il momento non
se ne conoscono ancora i termini esatti, per quanto tempo potrà lasciare
la sua abitazione per recarsi a svolgere i compiti che gli verranno affidati.
Normalmente comunque il periodo va dalle 7 del mattino alle 21. Analogo provvedimento
tempo fa fu preso per Attilio Pacifico condannato per la stessa vicenda e il
periodo a lui concesso va dalle 7 alle 23.
Dei sei anni inflittigli, Previti deve scontare ancora un anno e sette mesi.
Infatti dei sei anni ai quali è stato definitivamente condannato tre
sono stati coperti dal recente indulto e una parte in base a ’scontì a
cui ha diritto determinano il periodo residuo appunto in un anno e sette mesi.
Il premier ai suoi:
«Incontro importante». E l'Avvenire sui Dico: «non si strumentalizzino i Patti
per ottenere il nostro silenzio»
ROMA — L'incontro è una cerimonia dal protocollo rigido e
particolarmente formale. Eppure nel pomeriggio di oggi il premier Romano Prodi
sembra deciso a non lasciarsi sfuggire l'occasione della celebrazione del
Concordato tra Stato e Chiesa, quei Patti Lateranensi firmati l'11 febbraio di
78 anni fa. Per la prima volta, da quando è esplosa la bufera sulle
coppie di fatto, vedrà negli occhi il cardinal Camillo Ruini, il
presidente della Cei. «È un incontro molto importante», ha detto a cena
con il suo staff, dopo aver incontrato nel pomeriggio il sottosegretario Enrico
Letta. Prodi vorrebbe trovare il modo di raffreddare quel clima che tra Chiesa
e governo si è andato arroventando nelle ultime settimane per via del
disegno di legge sulle coppie di fatto, i Dico. Però è proprio
alla Cei che di Dico non vogliono sentire parlare. Il Concordato non c'entra
con le coppie di fatto, ha infatti scritto ieri in prima pagina l'Avvenire, il
quotidiano dei vescovi. E lo ha fatto scrivere a Carlo Cardia, uno dei coautori
della revisione concordataria del 1984. «Certi settori laici sviluppano un
ragionamento strumentale per mettere in crisi le relazioni tra Stato e
Chiesa...», ha vergato Cardia nell'editoriale. E ha rilanciato: «Chiunque vede
che siamo di fronte ad una specie di ritorsione censoria che chiama in causa
questioni che non hanno alcun rapporto tra di loro». Con queste premesse,
Romano Prodi varcherà alle 17 la soglia di Villa Borromeo, sede
dell'ambasciata italiana presso la Santa Sede, e con lui ci saranno i due
vicepremier, Francesco Rutelli e Massimo D'Alema. Come da protocollo.
E come da protocollo la delegazione di governo rimarrà mezz'ora faccia a
faccia con la delegazione vaticana, guidata dal cardinale Tarcisio Bertone,
segretario di Stato, accompagnato, appunto, dal cardinal Ruini.
«Le conversazioni verteranno sulle
questioni politiche generali,
sulle problematiche concordatarie e su altri temi bilaterali di
attualità», ha mandato a dire una generica nota della Farnesina qualche
giorno fa. E non ha aggiunto altro. Altro non ha voluto aggiungere nemmeno il
presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che mezz'ora dopo, alle 17.45,
raggiungerà la delegazione di governo, «scortato» dai presidenti dei due
rami del Parlamento, Franco Marini e Fausto Bertinotti. Il loro incontro durerà
in tutto una ventina di minuti, sempre secondo le ferree regole del protocollo.
Il capo dello Stato non sembra aver alcuna intenzione di affrontare con i
vertici ecclesiastici argomenti di stretta attualità, e soprattutto i
Dico. Del resto Napolitano si era già spinto fin troppo da Madrid a
parlare di coppie di fatto, suggerendo al governo di ascoltare le ragioni della
Chiesa. E ora il confronto sembra rimanere tutto nelle mani di Prodi. Anche se
da fuori ci pensano il ministro Emma Bonino ed Enrico Boselli, presidente dello
Sdi, a far sentire le voci dissonanti. «Il disegno di legge sui Dico risente
dei diktat della Chiesa», ha detto la Bonino. E Boselli: «Il Concordato
è superato nei fatti».
19 febbraio 2007
19/2/2007
(11:55) - VERTICE
Il
premier israeliano e il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese
si sono trovati concordi sulla soluzione di due Stati, indipendenti, sovrani e
in grado di convivere pacificamente l’uno accanto all’altro
GERUSALEMME
Il segretario di Stato Usa Condoleezza Rice ha precisato tornerà presto
in Medio Oriente per nuovi negoziati con i leader israeliani e palestinesi. Al
termine del vertice a tre come Ehud Olmert e Abu Mazen, Rice ha letto una
dichiarazione ed ha lasciato la sala stampa, evitando le domande dei
giornalisti.
«Il presidente (Abu Mazen, ndr) e il primo ministro (Ehud Olmert, ndr) sono
d’accordo su un nuovo, prossimo, incontro. Hanno ribadito il loro desiderio di
una partecipazione americana e di una leadership per superare gli ostacoli,
raccogliere il consenso regionale e internazionale e far progredire il processo
di pace», ha detto Rice.
Per questa ragione, ha aggiunto il capo della diplomazia di Washington, «credo
di ritornare presto nella regione».
Tutti e tre hanno riaffermato oggi a Gerusalemme il loro impegno per la
soluzione dei due Stati, palestinese e israeliano, che possano vivere in pace
l’uno a fianco dell’altro. «Abbiamo affermato il nostro impegno per la
soluzione dei due Stati e siamo d’accordo sul fatto che uno stato palestinese
non può vedere la luce nel terrore e nelle violenze», ha detto Rice dopo
l’incontro con i due leader mediorientali.
+
Da La Repubblica 19-2-2007 IL RETROSCENA.D'Alema al lavoro sul testo da portare
al Senato. "Più Onu in Afghanistan" Di Massimo Giannini
"Dobbiamo salvare la maggioranza da se stessa"
Il governo ridisegna la missione
L'ORDINE è già partito:
"Salvate il soldato Prodi". Per il governo comincia la settimana
più lunga. Passato l'incubo di Vicenza, esorcizzata nel rito festoso
della testimonianza la paura di un altro G8, il centrosinistra attraversa il
suo cerchio di fuoco. Oggi l'anniversario dei Patti lateranensi, e l'incontro
con le alte gerarchie vaticane nel pieno della crociata neo-cattolica contro la
legge sulle unioni civili. Martedì il vertice bilaterale con la Spagna
di Zapatero, modello controverso di Stato laicamente a-confessionale e discusso
prototipo del disimpegno unilaterale dal pantano iracheno. Mercoledì la
madre di tutte le battaglie: Massimo D'Alema in Parlamento, a illustrare le
linee della politica estera italiana alla vigilia del voto sul rifinanziamento
della missione in Afghanistan.
Esposto agli attacchi scontati dell'opposizione, e soprattutto al fuoco amico
di una maggioranza di responsabili tenuta in ostaggio da una minoranza di
irriducibili.
In queste ore, il ministro degli Esteri lavora al testo che leggerà
dopodomani mattina al Senato. Chi ha avuto occasione di parlargli, ha toccato
con mano l'inquietudine che circola tra Palazzo Chigi e dintorni.
"Dobbiamo salvare il governo, e dobbiamo salvare la maggioranza da se
stessa", è la linea. Il corteo vicentino, colorito e non violento,
ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai riformisti dell'Ulivo. Ma ha anche
rafforzato le pretese dei massimalisti dell'Unione.
Prc, Verdi e Pdci chiedono al premier di ascoltare "il popolo della
pace". Parlano della base americana Dal Molin, ma pensano ad altro. Prodi
lo sa, e infatti ripete che "la decisione non si cambia". D'Alema lo
conferma, e infatti probabilmente non farà cenni al caso Vicenza nel suo
discorso, anche se a suo giudizio "l'unica cosa che si può fare
è provare a concordare lo spostamento di qualche chilometro dal centro
città". La vera posta in palio è molto più alta.
Riguarda la nostra politica della difesa e della sicurezza, che in assenza di
un quadro concreto di scelte condivise "non permette a nessun governo di
reggere nel tempo", come sostiene giustamente il ministro Parisi.
Il ministro per le Riforme Vannino Chiti ha domandato al comitato promotore di non
avviare, posticipandola di due anni, la raccolta delle firme, il cui inizio
è previsto fra due mesi (il 24 aprile), per la richiesta di referendum
abrogativo dell'attuale legge elettorale. Il presidente del comitato promotore,
Giovanni Guzzetta, ha risposto subito negativamente. Man mano che si avvicina
la data di inizio della raccolta delle firme il nervosismo si fa palpabile
nella classe politica e la richiesta di Chiti ne è un segnale. Il
ministro l'ha motivata sostenendo che se la raccolta slittasse di due anni
(alla primavera del 2009) ci sarebbe il tempo per approntare con
serenità una nuova legge elettorale.
Ma le cose non stanno così. Se la raccolta delle firme slittasse di
due anni, la riforma elettorale uscirebbe immediatamente, rimanendone fuori per
tutto quell'arco di tempo, dall'agenda politica. In più, il comitato
promotore sarebbe costretto a smobilitare e ricostituirlo in seguito
diventerebbe problematico. Ma l'incombere minaccioso del referendum è
l'unica ragione che costringe la classe politica ad occuparsi di riforma
elettorale. Per giunta, la richiesta di Chiti si fonda su un ottimismo
eccessivo sulle possibilità di durata della legislatura. È
giusto, e lo ha fatto anche chi scrive, mettere in guardia contro le continue
profezie di caduta imminente del governo.
Ma resta il fatto che la maggioranza deve fronteggiare (al Senato) quotidiani
problemi di sopravvivenza e in qualunque momento un incidente può far
svanire la capacità fino ad oggi dimostrata dal governo Prodi di sfidare
con successo la legge di gravità. Se il governo cadesse e non risultasse
sostituibile per via parlamentare si andrebbe al voto anticipato. E si
voterebbe, sciaguratamente, con la legge elettorale attualmente in vigore.
D'altra parte, non pare proprio che abbia fondamento costituzionale la tesi secondo
cui se si cambia la legge elettorale si è poi obbligati a votare subito
dopo. Alla luce della Costituzione vigente la legge elettorale può
essere cambiata anche ora senza che ciò possa impedire alla legislatura
di arrivare alla sua scadenza naturale. Il fatto che senza referendum
incombente sia quasi impossibile cambiare le regole elettorali sembra provato
dalle difficoltà che lo stesso Chiti incontra nel tentativo di trovare
una soluzione legislativa.
Benché ne parli da tempo, Chiti non ha ancora formalizzato alcun
progetto di riforma (ma sembra che verrà presentato la settimana
prossima). È lecito sospettare che il ritardo dipenda dalla
difficoltà di trovare una soluzione che metta d'accordo maggioranza e
opposizione. Va aggiunto che le indiscrezioni (non si sa quanto fedeli)
filtrate sul progetto Chiti non lasciano ben sperare. Per esempio, si è
parlato di una riforma che dovrebbe cambiare (o solo ritoccare?) la legge
elettorale ma anche intervenire sulla Costituzione (sui poteri del premier e
sul bicameralismo). Ma ormai dovremmo sapere tutti che la Costituzione,
soprattutto in queste materie, è praticamente irriformabile (dovrebbero
avercelo insegnato venticinque e passa anni di tentativi falliti).
Una proposta di riforma elettorale che prevedesse anche interventi sulla
Costituzione sarebbe, in partenza, destituita di credibilità.
Trasformerebbe in certezza il sospetto dei maligni secondo cui il vero scopo
del ventilato «progetto di riforma» non è riformare davvero la legge
elettorale ma solo fare fuoco di sbarramento contro il referendum. Insomma,
siamo alle solite: niente referendum, niente riforma elettorale.
19 febbraio 2007
Con Skype ha portato la rivoluzione
nell'industria delle telecomunicazioni. Tanto che oggi non c'è grande
gruppo europeo o americano, da Telecom Italia a Deutsche Telekom o France
Telecom, che non sia stato costretto a offrire le telefonate via internet
all'interno dei propri pacchetti di servizi a banda larga venduti agli
abbonati. E adesso, con Joost, minaccia di fare altrettanto nei confronti
dell'industria televisiva. Un assalto soprattutto alle tradizionali emittenti
«generaliste», basato su connessioni internet veloci, contenuti on demand,
immagini in alta definizione. Tutto gratis, finanziato dagli introiti
pubblicitari.
Niklas Zennström è uno dei grandi innovatori del decennio. Lui e Janus
Friis, suo inseparabile compagno d'avventure tecnologico-imprenditoriali, hanno
cominciato con KaZaa, il software (e l'azienda) di scambio peer- to-peer di
file musicali che ha ripreso il discorso avviato da Napster(naufragato sotto il
peso delle cause legali per violazione di copyright) e che ha fatto da
apripista a fenomeni come quello di iPod-iTunes della Apple. Poi, appunto,
è arrivato Skype: un'autostrada internet per telefonare in tutto il
mondo. Senza pagare pedaggio, o quasi.
Era consapevole di aver piazzato una bomba a orologeria sotto le compagnie
di telecomunicazioni, mister Zennström?
«In realtà la diffusione di Skype è stata molto graduale, almeno
all'inizio. Solo quando abbiamo raggiunto il milione di utenti ci siamo resi
conto dell'impatto che avrebbe potuto avere sui tradizionali operatori di
telecomunicazioni: una rivoluzione che permette alle persone di comunicare
quasi gratis. Oggi Skype ha 171 milioni di utenti nel mondo, che crescono al
ritmo di 200 mila ogni giorno».
Nel settembre 2005, quando eBay ha pagato 2,6 miliardi di dollari per
acquistare Skype, molti analisti sono rimasti sconcertati. L'hanno definita una
follia. E ancora oggi, se si guarda ai 66 milioni di dollari di fatturato
dell'ultimo trimestre 2006, non le sembra che il modello di business basato
solo sulla pubblicità mostri i suoi limiti?
«Stiamo investendo in più direzioni. Da un lato vogliamo continuare a
far crescere il numero degli utenti del servizio gratuito, dall'altro puntiamo
ad avere sempre più clienti per "Skype in" e "Skype out",
che permettono di comunicare a pagamento attraverso le reti di
telecomunicazioni degli operatori tradizionali. E già oggi il traffico a
pagamento cresce più di quello gratuito. In più, continuiamo a
rafforzare le attività di e-commerce. Siamo una società che vende
software: anche avatar, suonerie e molto altro».
Il prossimo passo è quello racchiuso nello slogan «Skype everywhere»,
«Skype dappertutto»?
«Esattamente. L'obiettivo è quello di permettere alle persone di
comunicare anche quando non sono davanti a un computer. Per questo nel dicembre
scorso abbiamo lanciato i telefoni Skype. Si tratta di cordless che si
connettono alla rete internet, anche con lo standard wi-fi. L'altro filone
è invece quello dei cellulari: utilizzare le reti mobili per l'accesso
internet, sia per telefonare o fare videoconferenze, sia per comunicare con
l'instant messaging o navigare sul web. E a costi molto inferiori rispetto alle
normali tariffe degli operatori wireless. Come primo passo abbiamo siglato un
accordo con «3» che ci consente di portare i nostri servizi sui loro telefonini
in quattro mercati europei, compresa l'Italia».
E adesso l'avventura televisiva. Joost sembra molto simile a Babelgum, la
nuova piattaforma che un italiano, il presidente di FastWeb Silvio Scaglia, si
prepara a lanciare l'anno prossimo. A quando il vostro debutto?
«In questo momento ci sono 20-25 mila spettatori- campione che stanno testando
la versione beta. Il via al servizio commerciale è questione di mesi.
Quanto al modello di business, sarà basato sugli introiti pubblicitari,
con una suddivisione dei ricavi fra Joost e i fornitori di contenuti».
Quali contenuti? E per quale pubblico?
«Innanzitutto, una piattaforma televisiva via internet rappresenta il
superamento di concetti tradizionali come il palinsesto. Ciascuno potrà
vedere quello che vuole esattamente nel momento in cui lo vuole. Puntiamo
soprattutto su programmi di alta qualità professionale. Produzioni
indipendenti, in primo luogo, che non si trovano sulle tradizionali tv. E
niente a che vedere con You- Tube: i loro video sono il prodotto della
generazione degli spot televisivi».
Cinema? Sport? Farete concorrenza ai grandi network?
«Avremo anche quello, attraverso accordi commerciali con le major. Ma avremo
soprattutto contenuti che non si trovano altrove».
Prodotti per piccole nicchie di pubblico specializzato?
«Qui bisogna intendersi. Faccio un esempio: è vero che un grande film
hollywoodiano attira milioni di persone, il cosiddetto pubblico di massa, ma
è vero anche che altrettanti milioni di persone nel mondo, divise per
gusti e interessi, desiderano poter vedere programmi che coincidono con i loro
gusti e interessi. Ci sono infiniti film di culto, o di nuovi registi
indipendenti, che non passano mai per i tradizionali circuiti commerciali. Lo
stesso vale, altro esempio, per un avvenimento sportivo: i mondiali di calcio
piacciono a tutti, certo, ma ci sono ogni giorno anche migliaia di partite fra
squadre locali che migliaia e migliaia di persone che abitano in quelle località
vorrebbero poter seguire in tv».
19 febbraio 2007
Giuliano Garavini, 18 febbraio
( AprileOnline.info del 19/02/2007 )
Esistono dei segnali deboli e dei segnali
forti in economia che giungono dalle trasformazioni in atto nella
società e nelle istituzioni e che troppo spesso non udiamo. Gli Usa sono
ancora destinati a segnare il ritmo dei passi sui sentieri della crescita.
Ebbene, essi iniziano a essere cadenzati da un altro ritmo. Val la pena essere
accorti. Sentite con me questo segnale debole. È mesi che l'American
Public Gas Association, che raggruppa 950 utilities di tutti gli stati
federali, alimenta una campagna contro i derivati, ossia contro quegli
strumenti finanziari ormai diffusi in tutto il mondo che possono essere
accortamente usati per coprire i rischi degli investimenti finanziari,
collegando i rendimenti ai prezzi di alcune materie prime o di alcune monete o
di qualche altro indice ancora. Lobby in azione Strumento formidabile di
mobilitazione della liquidità e del valore sono ora in disgrazia per
l'uso spregiudicato che in tutto il mondo se ne è fatto, abusando della
credulità di compratori poco esperti grazie alla spregiudicatezza di
venditori incentivati non eticamente. Ebbene, l'associazione sopra ricordata,
che controlla anche le risorse elettorali di migliaia di uomini politici in
gran maggioranza democratici - pochi sono i repubblicani - accusa codesti derivati
di essere la causa principale, grazie alle speculazioni che essi favoriscono,
dell'aumento dei prezzi del gas, aumento che si scarica dalle borse alle
pipeline di distribuzione, giù già sino ai consumatori passando
anche per le municipalità che posseggono molte di queste imprese. E
questa campagna non è un segnale di razionalità e di comprensione
di quali siano state le trasformazioni della globalizzazione: è un
cedimento a un vecchio luogo comune del populismo anticapitalista. Ecco ora un
segnale forte, molto più forte. Si tratta dei programmi sulla cui base
sono stati eletti gran parte dei nuovi esponenti democratici che siedono sugli
scranni del Congresso. Sappiamo tutti che la sconfitta di Bush è stata
determinata sì dalla sua incapacità di vincere la guerra, ma
anche e soprattutto dall'ondata di scandali e di corruzione che si è
resa visibile tanto sui mercati finanziari quanto nel sistema di lobbies del
Congresso medesimo, e contro la quale si è proceduto con leggi e
provvedimenti che non possiamo discutere qui. Rimane la sostanza. I neo eletti
democratici, che riflettono la reazione spontanea dinanzi a questi fenomeni, o
ltre che alla guerra e alla paura della competizione, sono un amalgama di
credenze religiose e di posizioni conservatrici - in merito al possesso delle
armi per esempio - che si saldano con quelle, corposissime e potenti, di
ostilità nei confronti del libero commercio. Ciò rivela una
ennesima trasformazione del Partito Democratico americano. Il prevalere di una
mescolanza tra la storica ala sinistra, sempre poco simpatetica con il big
business, pro labor e quindi contro il libero commercio e una nuova tendenza
neo conservatrice che scaturisce dalla reazione alla corruzione e
dall'irruzione sulla scena politica dei temi religiosi. De l resto, le spinte
in questo senso promanano dal seno stesso della società. Basta guardare
agli andamenti occupazionali: i posti di lavoro negli Usa crescono
nell'edilizia residenziale, nell'educazione, nelle professioni di servizio
domestico, nella finanza, mentre diminuiscono radicalmente nella manifattura,
sia nella old, sia nella new economy. Tutto diverso era il panorama quando
vinsero i centristi di Clinton, che diedero un formidabile impulso alla
globalizzazione con l'apertura del commercio mondiale attraverso il Wto e non
tramite i trattati bilaterali. Emerse una profonda inversione di tendenza, che
fu alla base della crescita mondiale dell'economia, unitamente alle innovazioni
tecnologiche. Robber barons Bush sul libero commercio è stato indeciso e
ondivago e ha assecondato le spinte isolazioniste, ma non ha abbandonato
nettamente la via intrapresa da Clinton. Ha adottato un ritmo più lento
del passo. Ora i neo eletti democratici, che dominano il Congresso, cambiamo
addirittura il ritmo e minacciano di favorire un protezionismo molto accentuato
che mette in mora addirittura alcuni trattati bilaterali in corso. Se a queste
posizioni aggiungiamo quelle che gli stessi eletti rendono manifeste in merito
ai temi del welfare state, vediamo stagliarsi il profilo di una sorta di neo
populismo che ricorda molto quello di fine Ottocento, con le sue polemiche
contro i robbers barons e gli attacchi alla plutocrazia. Se così fosse,
soprattutto in merito ai temi relativi al commercio mondiale, i rischi per la crescita
e per la mondializzazione della società potrebbero essere molto negativi
e segnare un vero e proprio cambiamento su scala planetaria.
( Corriere
Economia del 19/02/2007 )
ItaliaOggi Sette ItaliaOggi
Sette - liberalizzazioni allo sportello Numero 042, pag. 10 del
19/2/2007 Autore: di Gabriele Frontoni Visualizza la pagina in PDF
L'indagine conoscitiva dell'Autorità garante della
concorrenza e del mercato nel settore bancario. Agcm, conti correnti sotto
accusa Nel mirino qualità dell'informazione e costi di uscita
Qualità dell'informazione, costi di uscita, politiche di tying. Ecco i
nomi dei responsabili degli ostacoli alla scelta ottimale e alla
mobilità della clientela per i titolari di un conto corrente bancario in
Italia. Sono queste le conclusioni dell'indagine condotta dall'Antitrust che ha
fatto le pulci al sistema del credito italiano attraverso un lavoro di indagine
durato più di un anno che ha coinvolto 72 istituti di credito che
coprono circa il 68% degli sportelli bancari in Italia. Secondo l'Authority
guidata da Antonio Catricalà, il costo medio di gestione di un conto
corrente nel Belpaese si aggira sui 182 euro all'anno, che possono arrivare a
toccare punte di ben 252 euro. E questo a fronte dei 223 registrati come limite
massimo da CapGemini in Germania, dei 108 della Spagna, 99 della Francia, 63
del Belgio, 64 del Regno Unito e 34 dell'Olanda. Secondo l'Antitrust, tuttavia,
il problema del 'caro-conti' italiano non starebbe tanto nella mancanza di
concorrenza tra le banche, quanto, appunto, nella scarsa quantità e
qualità dell'informazione disponibile sia nella fase di prima scelta
dell'istituto bancario sia in quella eventuale di cambiamento, nell'esistenza
di vincoli al trasferimento (switching costs) derivanti da costi monetari e non
di uscita, e nella presenza di offerte che legano conto corrente e altri
servizi (pratiche di tying), rendendo estremamente oneroso per il consumatore,
se non impossibile, effettuare una scelta razionale imperniata unicamente sulle
caratteristiche di qualità e prezzo. Entrando nello specifico,
l'Authority ha individuato due differenti tipologie di conto corrente praticato
dalle banche: quelli a consumo e quelli a canone. I primi sono caratterizzati
da un gruppo di spese fisse (ossia non legate alla movimentazione del conto
corrente e addebitate periodicamente anche nel caso di conto inutilizzato)
oltre a un gruppo di spese 'variabili', cioè connesse alla
movimentazione del conto. I conti a canone sono invece tutti quei conti che
presentano una spesa fissa annua (canone), la quale, a seconda della struttura,
può comprendere o escludere diverse voci di spesa. Il caso più
frequente è quello dei conti 'a operazioni illimitate', per i quali il
canone ricomprende un numero illimitato di spese di scrittura, mentre risultano
escluse le commissioni sulle singole operazioni di movimentazione del conto
come bonifici e assegni. 'I conti a canone stanno diventando un elemento sempre
più centrale nella strategia commerciale delle banche in quanto è
l'unica categoria di conti in crescita sul periodo analizzato', si legge nel
rapporto. 'La propensione delle banche a collocare i conti a canone può
trovare una spiegazione nel più alto livello di spesa che essi
comportano per il correntista e quindi nei maggiori ricavi ottenibili per le
banche rispetto ai conti a consumo'. Esiste poi un problema di mobilità
della clientela legato ai costi di chiusura di alcuni servizi bancari o
finanziari, come per esempio il conto corrente, il conto titoli e il mutuo.
Secondo l'Antitrust, le spese di chiusura del c/c possono arrivare fino a 150
euro e quelle di trasferimento titoli a 80 euro a codice titolo. 'A seguito
dell'entrata in vigore della legge 4 agosto 2006 n. 248 (legge di conversione
del cosiddetto decreto Bersani), alcune banche, ma non tutte, hanno azzerato le
spese di chiusura di alcuni servizi', avvertono dall'Authority. Oltre ai costi
monetari di uscita dal c/c o dai servizi a esso collegati, un ulteriore
ostacolo alla mobilità dei consumatori è rappresentato da una
tempistica piuttosto lunga e incerta che comporta il cambiamento della banca
per il cliente-correntista. Quello della chiusura del conto corrente non
rappresenta l'unico ostacolo alla mobilità della clientela. Esistono
anche i vincoli connessi alla presenza di legami tra più servizi di
natura bancaria o finanziaria. 'In caso di chiusura del conto corrente, tutte
le banche richiedono la cessazione del servizio di domiciliazione automatica
delle utenze, la restituzione della carta Bancomat e della carta di credito.
Tutto ciò può essere fonte di numerose difficoltà per il correntista,
disincentivandolo a cambiare banca. A questo si aggiunga che il 63,6% delle
banche non consente il mantenimento del risparmio amministrato presso la banca,
più del 18% non permette di mantenere il mutuo (che deve essere
rimborsato pagando una penale), il 21% i prestiti personali e più del 4%
la polizza vita. E questo crea il cosiddetto 'effetto legami tra prodotti' che
si traduce in un forte incremento dei costi di uscita.
Da Virgilio notizie 18-2-2007 Vicenza: gia' in corso in base lavori per
accogliere paracadutisti
Da Il Piccolo di Trieste 18-2-2007
La politica tradita. Di Paolo Segatti.
Astronauti Nasa a capo di
progetto di difesa della Terra da impatti cosmici
Chiesto l'intervento dell'Onu
SAN FRANCISCO - La minaccia di Apophis, l'asteroide che
potrebbe colpire la Terra il 13 aprile 2036, sta diventando così
concreta che le Nazioni Unite saranno invitate ad assumere il coordinamento di
una missione spaziale internazionale basata sul progetto innovativo di un
«trattore gravitazionale» per deviare il corpo ed evitare il possibile impatto
con il nostro pianeta. L’annuncio del coinvolgimento della massima
rappresentanza dei governi mondiali nel caso Apophis è stato dato
dall’astrofisico Russel Schweickart, capo di un gruppo di ex astronauti della
Nasa ora impegnati a tempo pieno nei programmi di monitoraggio degli oggetti
cosmici e difesa dai rischi di collisione con la Terra.
APOPHIS - «La settimana prossima ci sarà un
incontro con il Comitato per gli usi pacifici dello Spazio delle Nazioni Unite,
a cui presenteremo un rapporto aggiornato sugli asteroidi che costituiscono una
minaccia potenziale per il nostro pianeta – ha riferito Schweickart ai membri
dell’American Association for the Advancement of Science di San Francisco –.
Parleremo di Apophis, ma non solo. Abbiamo bisogno di mettere a punto dei piani
per difenderci nel migliore dei modi dalle centinaia, se non migliaia, di piccoli corpi celesti le cui
orbite si avvicinano pericolosamente al nostro pianeta. Per quanto basse, le probabilità di impatto con uno
di questi corpi non sono nulle. In caso di collisione, tutti i Paesi del mondo,
nessuno escluso, sono a rischio».
PATATA ORBITANTE - Scoperto nel 2004, Apophis è un piccolo asteroide a
forma di patata, con un asse maggiore di circa 400 metri e un peso di 46
miliardi di chili. La sua caratteristica
più preoccupante è che, mentre compie un giro completo attorno al
Sole ogni 323 giorni, incrocia l’orbita della Terra due volte l’anno,
esponendoci a una serie di «incontri ravvicinati» che, a causa della potente
forza di attrazione terrestre, prima o poi potrebbero farlo precipitare su di
noi. Per l’incontro del 13 aprile 2036 le probabilità di caduta sono
attualmente molto basse, circa una su 45 mila, ma poiché l’orbita di Apophis
è conosciuta con una certa approssimazione, gli scienziati non possono
esprimere certezze.
IMPATTO - Di sicuro si sa che, se l’impatto si verificasse, sarebbe catastrofico e
solleverebbe polveri e gas fino alla stratosfera, oscurando per lungo tempo la luce del Sole e decimando la
vita sulla Terra, come già è accaduto altre volte nella storia
geologica. Oltre a un rafforzamento della rete internazionale di monitoraggio
degli asteroidi, Schweickart e collaboratori chiederanno alle Nazioni Unite il
supporto per progettare e realizzare una missione di salvataggio assolutamente innovativa rispetto
a quelle finora prese in considerazione,
come l’esplosione di un ordigno nucleare accanto all’asteroide, col proposito
di allontanarlo per effetto dell’onda d’urto, oppure l’impianto di un motore a razzo sulla sua superficie per portarlo lontano
dalla Terra. Entrambe le soluzioni si
potrebbero rivelare catastrofiche, hanno spiegato a San Francisco Schweckart e
il suo collega Ed Lu.
TRATTORE GRAVITAZIONALE - Infatti, dalle ultime
ricerche, è emerso che gli asteroidi possono essere formati da materiale
incoerente, facile a disgregarsi in tanti piccoli frammenti. La bomba o il
motore potrebbero trasformarli in uno sciame che, invece di un singolo colpo,
esporrebbe la Terra a una micidiale grandinata di proiettili spaziali. Il
progetto del «trattore gravitazionale», sviluppato principalmente da Ed Lu e
descritto nei particolari in una articolo sulla rivista «Nature», consiste in
una grande astronave teleguidata che si dovrebbe avvicinare ad Apophis senza
toccarlo, in modo da legarsi ad esso con l’invisibile filo della forza
gravitazionale. Quindi l’astronave azionerebbe esili ma efficaci getti propulsori
che trascinerebbero gentilmente l’asteroide lontano dalla Terra, in una
posizione definitivamente sicura. «La durata della missione di salvataggio
sarebbe di circa 12 giorni – ha precisato Ed Lu –, il suo costo complessivo di
circa 300 milioni di dollari».
18 febbraio 2007
I complimenti di Amato ai manifestanti e
alla polizia È stato un evento pacifico e di massa, con gli stessi
pacifisti americani in corteo applauditi dai no global, il vecchio e vagamente
minaccioso "Yankee Go Home"trasformato dal dialetto veneto in un
innocuo e scherzoso "Yankee Go in mona". Intorno alle 18,30 con una
canzone di Dario Fo ironicamente dedicata dal premio nobel al vescovo di
Vicenza favorevole all'allargamento della base Usa, si è conclusa la manifestazione
contro la concessione agli Stati Uniti dell'aeroporto Dal Molin. Alla vigilia
della manifestazione di Vicenza, erano in molti - e non solo nelle fila
dell'opposizione - a temere che le proteste contro l'ampliamento della base Usa
potessero sfociare in disordini e violenze. Un timore in questo senso, infatti,
era stato espresso mercoledì scorso, nell'aula della Camera, sia dal
ministro dell'Interno, Giuliano Amato, che dal vice premier e ministro per i
Beni Culturali, Francesco Rutelli. Il presidente del Consiglio, Romano Prodi, a
poche ore dalla partenza dei cortei, aveva auspicato dai microfoni di 'Radio24'
che la manifestazione "sia pacifica, serena e senza violenze"
chiedendo ai partecipanti "di giudicare il governo per quello che fa"
e "per quello che ha fatto per la pace e che ci é riconosciuto da
tutti". Appello indubbiamente accolto dai 120 mila (fonti organizzatori)
od 80 mila (polizia) manifestanti che hanno invaso pacificamente Vicenza ed
hanno saputo isolare i soliti e pochi che hanno provato ad innescare incidenti
(un petardo contro la Questura) ed a solidarizzare con i brigatisti arrestati.
Il governo può dunque tirare un respiro di sollievo perché anche questa
prova é stata superata. Il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, ha espresso
grande soddisfazione per lo svolgimento pacifico e senza incidenti del corteo
di Vicenza. "Il ministro - dice un comunicato - ha rivolto i suoi
complimenti alle forze dell'ordine per l'intelligente e discreta vigilanza
operata in queste ore e in questi giorni. E si é felicitato con tutti coloro
che hanno sfilato pacificamente contribuendo a sventare il rischio di
infiltrazioni e contaminazioni". "Penso che un governo debba tener
conto di tante cose, di una manifestazione ma anche dell'opinione di tanti che
a quella manifestazione non c'erano oppure come gli impegni internazionali che
un Paese ha contratto" ha commentato il segretario dei Ds Piero Fassino.
"La disfida di Vicenza, tutta interna alla sinistra, ha visto prevalere
ancora una volta il movimentismo estremista che si riconosce in Bertinotti, che
non esita a sfilare con chi inneggia alle Brigate Rosse e che da oggi
condizionerá sempre più pesantemente l'azione del governo in senso
massimalista e antiamericano" ha invece commentato il coordinatore nazionale
di Forza Italia, Sandro Bondi. 16.20 "Sono molto triste perché mentre voi
giovani siete lì a Napoli a discutere dei temi della libertà,
migliaia di manifestanti stanno sfilando a Vicenza contro gli Stati
Uniti". Queste le parole del leader dell'opposizione Silvio Berlusconi,
pronunciate in collegamento telefonico nel corso di un convegno di giovani di
Forza Italia a Napoli, per commentare la manifestazione in corso oggi a
Vicenza, contro l'ampliamento della base statunitense. 15.45 La testa del corteo
é arrivata al termine del percorso raggiungendo Campo Marzo. Qui dovranno poi
confluire i manifestanti che compongono i due tronconi del corteo: quello dei
partiti e dei sindacati, e quello dei Centri sociali e delle associazioni,
partiti da punti diversi della città. Fra poco l'inizio degli interventi
e poi lo spettacolo di Dario Fo. 15.40 Balletto di cifre sulla partecipazione
alla manifestazione in corso a Vicenza contro l'allargamento della base Usa. A
fornire i primi numeri è stata la questura di Vicenza, che alle ore 14
parlava di circa 25mila persone in piazza, numero corretto un'ora dopo a
40mila. Secondo il comitato organizzatore della manifestazione, invece, sono
state "ampiamente superate le 100mila persone". Più
ottimistica la stima di Rifondazione che tramite Michele De Palma, responsabile
del partito per l'organizzazione, ha indicato in 200mila le presenze. 15.10
Hanno superato il numero di quarantamila i manifestanti che in ordine e
pacificamente stanno percorrendo l'anello attorno alle mura di Vicenza. Il dato
è stato reso noto dalla questura. Il numero potrebbe salire
ulteriormente, visto che ci sono numerosissimi manifestanti ancora fermi
davanti alla stazione ferroviaria. Lì il corteo deve ancora partire,
mentre quelli in testa sono ormai a due terzi del percorso. 13.50 Il corteo
della manifestazione è partito con mezz'ora di anticipo sulla tabella di
marcia: in testa, da viale Milano nei pressi della stazione ferroviaria della
città berica, l'assemblea permanente del No Dal Molin, i comitati dei
cittadini di Vicenza, a seguire i centri sociali, i sindacati ed esponenti
della politica locale. Tra gli striscioni molti contro il Governo. Tra bandiere
arcobaleno inneggianti alla pace e dei Verdi ci sono anche gli striscioni del
Carc, Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo. Enorme il lenzuolo
portato a mano dai giovani del centro sociale "Pedro" di Padova con
scritto "Ribellarsi è giusto". Presente anche il Movimento
antagonista toscano e i Collettivi universitari. 13.18 Il Governo è
consapevole del peso rilevante che ha messo sulle spalle dei vicentini con la
presenza militare statunitense". Lo ha detto il ministro della Difesa
Arturo Parisi, al termine della cerimonia di giuramento del 121mo Corso allievi
Carabinieri. Parisi ha sottolineato che il Governo ha fatto scelte che portano
a sintesi problematiche che "hanno alla base esclusivamente gli interessi
del Paese". Il ministro ha spiegato che il Governo riconosce assolutamente
legittime le rappresentazioni dei problemi posti dalla presenza della base
statunitense. "Oggi a Vicenza manifestano persone a nome della
città e altre persone per problematiche che non possono essere
condivise. Non ci riconosciamo in una mancanza di consapevolezza degli impegni
presi dal nostro Paese". 12.52 Da mezzogiorno il centro di Vicenza
è interdetto al traffico automobilistico, gruppi di manifestanti si
avvicinano a piedi al luogo del concentramento nei pressi della stazione. Ci si
prepara a manifestare contro il raddoppio della caserma Ederle. I pullman dei
manifestanti, che si stanno avvicinando alla città, vengono fermati e
controllati ai caselli autostradali. Sono moltissimi quelli che si stanno
avvicinando a Vicenza. Uno dei pullman è stato notato dalle forze
dell'ordine perché esponeva il cartello "Gita terroristica". All'alt
delle forze dell'ordine la comitiva ha provveduto immediatamente a far sparire
il cartello. 12.47 "Come fa Prodi a dire che il dissenso della sinistra
radicale, presente con i suoi leader a Vicenza chepartecipano con enfasi alla
manifestazione contro la base Usa, non rompe la solidarietà di Governo?
Se lo afferma è perché conta sul fatto che la sinistra radicale voglia
mantenere il potere ad ogni costo". Così il presidente dei senatori
di AlleanzaNazionale Altero Matteoli, commenta le dichiarazioni rilasciate a
Radio24 dal presidente del Consiglio Prodi. 12.43 "Questa di oggi a
Vicenza non è una manifestazione contro il Governo. Ci mancherebbe che
il Governo sia a rischio per questa manifestazione perché, altrimenti, saremmo in
una strana democrazia". Lo ha detto il senatore dei Ds Cesare Salvi che
è arrivato poco fa a Vicenza."Questa è una manifestazione -
dice Salvi per chiedere al governo di rivedere una decisione presa in maniera
affrettata e precipitosa. È una protesta di popolo". Il senatore Ds
si è detto, inoltre, convinto che sarà una manifestazione
pacifica e tranquilla. 12.42 "La strategia scelta dal governo è
quella di incutere paura". Luca Casarini, leader deidisobbedienti, ha rimarcato
che il clima di tensione che si è venuto a creare intorno alla
manifestazione contro la base americana di Vicenza, che partirà tra un
paio d'ore qui aVicenza, è stato voluto dal Governo. "Èun
allarme preparato dai ministri che serve a incutere paura per non far
partecipare la gente". Casarini ha escluso che ci possano essere incidenti
durante la manifestazione. 12.38 "Sarà un'enorme passeggiata.
Enorme e serena, a meno che non ci sia la volontà di creare il
polverone, chiaramente organizzato". Lo sottolinea il premio Nobel per la
letteratura Dario Fo, poco prima dell'inizio del corteo di Vicenza. Fo ha fatto
un parallelo tra Vicenza e Genova sostenendo che tutto sarà sereno, a
meno che non accada "quanto avvenuto con i black block che passavano
tranquillamente tra i cordoni di polizia e poi entravano dentro, dove c'era la
gente normale, proprio per avere il pretesto per creare il polverone,
chiaramente organizzato". Ore 12 "Io sto al mio posto e ritengo che
le persone che stanno al governo, finchè ritengono di interpretare quel
ruolo, non possono poi andare per strada a manifestare contro se stessi. Avrei
qualche problema, il che non significa che io non condivida i temi della
manifestazione". Lo ha detto il ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi,
impegnato a Forlì in una cerimonia per il 25/o anno di attività
dell'Enav, parlando della manifestazione di Vicenza. "Non ci sono segnali
particolari di violenza anche se certo non può mancare qualche
provocazione singola - sottolinea Bianchi - io mi auguro di no e se tutto
rimane così sarà una imponente manifestazione di dissenso di cui
da domani bisognerà tenere conto". Ore 10.55 "Mi auguro che
quella di Vicenza sarà una manifestazione pacifica. Ci sarà
probabilmente tanta gente, e credo che si debba fare di tutto perchè
questa manifestazione si svolga in modo sereno, pacato". Lo ha detto il
segretario dei Ds, Piero Fassino, a margine della Conferenza programmatica del
suo partito a Matera. Fassino ha auspicato che a Vicenza "non ci sia
nessuno che voglia inquinare la manifestazione. Se qualcuno tentasse, che sia
immediatamente isolato". Ore 10,30 Dai microfoni di Radio 24 appello del
presidente del Consiglio dei ministri Romano Prodi ai manifestanti che si
stanno raccogliendo a Vicenza per protestare contro l'ampliamento della Base
Usa. "Le manifestazioni sono il sale della democrazia - dice il premier -
ma devono essere pacifiche, serene e senza violenza". Nel corso della
trasmissione "Una poltrona per due", rispondendo a una domanda sulla
presenza di segretari politici come Oliviero Diliberto alla manifestazione di
Vicenza, Prodi ha precisato che "La libertà di manifestazione
politica c'è, quello che ho detto è non ci devono essere membri
del Governo". Il premier ha sottolineato che era scontato "che alcuni
partiti abbiamo un'opinione diversa dalla mia sulla base americana: non mi fa
piacere, ma non rompe la solidarietà di Governo". Ore 9.30 Giornata
di sole a Vicenza, dove sono già arrivati i manifestanti per partecipare
al corteo contro l'allargamento della base Usa all'aeroporto Dal Molin: arrivati
con i treni speciali, hanno lasciato la stazione, da dove partirà alle
14:30 la manifestazione, e si sono diretti nel centro cittadino. Già
schierato il dispositivo di sicurezza: gli elicotteri della polizia sono in
volo e lungo il percorso del corteo hanno preso posto i poliziotti e i
carabinieri. Il primo appuntamento della giornata è previsto per le ore
10, quando dal presidio fisso nei pressi dell'aeroporto Dal Molin
partirà un primo corteo che confluirà poi in quello principale
alla stazione. Ore 8.00 Iniziano ad arrivare, a Vicenza, i partecipanti alla
manifestazione di oggi pomeriggio contro l'amplimento della base Usa. Alle 7:55
il treno charter, partito da Roma all'una di questa notte, è arrivato a
destinazione con oltre un migliaio di aderenti al Movimento romano. La citta
è blindata, con la presenza di oltre 1.300 poliziotti, cui si aggiungono
2000 tra vigili urbani, medici e addetti di supporto per garantire un corretto
svolgimento della manifestazione. Nel cielo di Vicenza, dove per oggi è
stato vietato il sorvolo, cinque elicotteri seguiranno tutte le fasi della
giornata. Le più importanti
17-02-2007 13:11 Articoli a tema | Tutte le
news di Politica (ASCA) - Vicenza, 17 feb - Il progetto al centro della
manifestazione di contestazione di oggi prevede la costruzione di un nuovo
villaggio per la 173ma brigata aviotrasportata lungo le piste dell'aeroporto
dal Molin, alla periferia di Vicenza, ma a soli due chilometri dal centro di
Vicenza. Gli appalti ed i primi contratti con le imprese dovranno essere
definiti entro il mese di settembre, come ha fatto sapere il console generale a
Milano Deborah Graze. Ma per accogliere i paracadutisti provenienti anche dalle
basi tedesche di Bamberg e Schweinfurt sono gia' in corso lavori di
manutenzione straordinaria nei 5 siti americani gia' operativi a Vicenza, in
particolare all'Hausing, vicino al casello autostradale di Vicenza Est, dove si
stanno costruendo infermeria, centro benessere ed altri servizi. 'Lavori in
corso' anche a Longare, sotto la montagna. 'Pluto': cosi' si chiamava la
riservatissima postazione statunitense, dove, ai tempi della 'guerra fredda',
venivano custodite armi convenzionali e no, forse anche pezzi di testata
nucleare. La montagna e' tutta una galleria. Dopo anni di inutilizzazione, operai
sono all'opera per ricostruire le reti essenziali dei servizi. Il Sento
americano ha gia' stanziato una prima tranche di 160 milioni di dollari, gran
parte dei quali verranno impegnati nel nuovo sito al 'Dal Molin', che si
sviluppa su 450-480 mila metri quadrati, in un terreno agricolo parallelo alle
piste. Si tratta di un rettangolo lungo un chilometro e mezzo e largo
Attualità La politica tradita
DALLA PRIMA PAGINA Per di più in modo affrettato e senza una visione di
ricambio. Una classe politica non può fare questo perché equivarrebbe al
suo suicidio politico. Allora cosa è andato in scena a Vicenza?
Nonostante le apparenze non una manifestazione per chiedere un cambio di rotta
al governo perché nessun governo può accogliere questo tipo di richieste.
Eppure è molto probabile che così l'abbiano intesa le migliaia di
cittadini che a Vicenza sono scesi in piazza. Cattolici per la pace. Comuni
cittadini. Elettori di centrodestra e movimenti noglobal. Il primo dato di
riflessione è proprio questo, l'enorme divario tra il significato che a
questa manifestazione attribuiscono le migliaia di partecipanti e le sue
conseguenze sulla decisione politica finale. Questa non cambierà. Invece
per i partecipanti la base non va fatta. A loro non interessano le beghe spicciole
della politica. Semplicemente si aspettano che il governo, il loro governo,
accolga le loro richieste e venga incontro ai valori che stanno dietro a quella
domanda. Democrazia è anche questo. Ma è anche senso di
responsabilità, tener conto di ragioni che si vorrebbe forse non
accettare, ma che sarebbe costoso per tutti respingere. Invece a Vicenza sono
scesi in piazza politici che dicono che la base non va fatta comunque in nome
dei valori della pace. Altri, uomini di governo e delle istituzioni, sono
rimasti a Roma e hanno dichiarato che a Vicenza vorrebbero essere andati per
chiedere un ripensamento del governo di cui fanno parte. Ma per rispetto alle
istituzioni dicono che non ci sono andati. Gli uni e gli altri appartengono
alla specie di politici per i quali l'unica ragione della politica è
l'affermazione dei propri valori. Per costoro solo a causa di ragioni
contingenti, lo stare al governo per esempio, talvolta può capitare che
l'azione politica non possa rispondere, come dovrebbe, ai valori. Così
chi a Vicenza ci va e chi a Vicenza non ci va, ma vorrebbe andarci, sembra
dirci che le decisioni politiche debbano uniformarsi ai valori. Se non si
uniformano, non sono decisioni politiche serie. Sono un tradimento dei propri
valori. Il guaio è che la decisione politica spesso non è in
grado di tradurre in azione i valori che professa chi la prende. Vi sono
ragioni di opportunità che condizionano la decisione politica. Vi sono
ragioni che restringono drasticamente il margine delle decisioni politiche.
Ragioni di cui si deve tener conto, anche se cozzano contro i nostri valori. Ma
per i politici della sinistra radicale tutto ciò ha poca importanza.
Essi sanno bene che il governo non può cambiare idea sulla base. A loro
interessa un'altra cosa. Devono esserci nella manifestazione perché in eventi
di questo tipo vi vedono un rito religioso. Nelle funzioni religiose non si
arriva di solito ad una decisione né si esprime una domanda di azione.
L'importante è condividere un'identità. Il che ci porta a due interrogativi.
Se la politica viene intesa come il braccio secolare di identità
valoriali, non si allarga sempre più il fossato tra ciò che la
politica è di fatto e ciò che viene detto dovrebbe essere? Forse
il disgusto che la quasi totalità degli italiani prova per la politica
nasce anche dal fatto che spesso i politici si mostrano mossi da irrinunciabili
convinzioni senza che queste condizionino più che tanto la loro azione.
Del resto sarebbe un guaio se ciò accadesse. Ma è una guaio anche
il fatto che i politici non si assumano la responsabilità pubblica di
aver agito talvolta non seguendo i propri valori. Invece spesso i nostri
politici fanno quello che fanno, dicono, perché altri li hanno costretti ad
agire contro le proprie convinzioni. Sono peccatori che accusano del proprio
peccato gli altri o le circostanze. Ma se la coscienza impone loro di agire in
un certo modo, e non ci riescono, ci sono sempre le dimissioni. Ne
guadagnerebbe la moralità pubblica. Seconda domanda. Se chi agisce in
politica si comporta a parole come un prete perché meravigliarci che ci sia
qualche prete vero che pretenda di vincolare al rispetto dei suoi valori le
decisioni politiche dei politici che condividono quei valori?
+ Da La Repubblica 17-2-2007 Nuovo appello del Papa per la famiglia
"Cede sotto la pressione delle lobby". "Basta con la
leggenda 'nera' sui missionari"
Da Il Secolo XIX 17-2-2007 Unioni
di fatto, il governo incontra il Vaticano. Di
Michele Lombardi
Da L’Unità 17-2-2007 La
Chiesa ha diritto di parola. Ma non torni al non expedit
Da AgenParl 16-2-2007 IL FULMINE VATICANO COLPISCE ROSY BINDI
Da La Nazione 17-2-2007 FIRENZE -
GLI ENTI PUBBLICI della Toscana sono troppo spendaccioni
ZAGABRIA - L'incidente diplomatico scoppiato dopo il discorso del
presidente Napolitano sulle foibe, sembra essere definitavamente chiuso. Il
presidente croato Stipe Mesic ha diffuso un comunicato nel quale fa marcia indietro
rispetto alla dura critica pronunciata pochi giorni fa, e precisa: "Nelle
parole del presidente Giorgio Napolitano non c'era alcun riferimento polemico
alla Croazia. I rapporti tra i due paesi restano amichevoli". La Farnesina
si dice soddisfatta e porge la mano allo Stato vicino con parole di amicizia.
Nella nota diffusa dal ministero degli Esteri è scritto che in futuro
"l'Italia non farà mancare il suo appoggio all'integrazione della
Croazia nell'Unione Europea".
Le parole di Napolitano. Sei giorni di bufera poi ritorna la bonaccia
tra Italia e Croazia. Erano state le parole pronunciate al Quirinale da Giorgio
Napolitano ad accendere le polveri. Nel "giorno del ricordo", il
presidente aveva pronunciato un'autocritica politica, senza indulgenze, sulla
tragedia delle foibe, il massacro organizzato dai seguici di Tito nel
dopoguerra in Venezia Giulia. Un "dramma negato per ideologia", un
"orrore dell'umanità" che la "cecità
politica" ha trasformato in "odio sanguinario" contro il poppolo
giuliano-dalmata. Migliaia di desasparecidos gettati ancora vivi nei profondi
crepacci carsici dette foibe.
Mesic inviperito: "E' razzismo". "Un moto di odio e furia
sanguinaria che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947 e che
assunse i sinistri contoni di una pulizia etnica". Parole che hanno
inviperito il presidente serbo Mesic capace di recapitare al Quirinale una
dichiarazione di fuoco: "Nelle parole di Napolitano è impossibile
non intravedere elementi di aperto razzismo, revisionismo erevanscismo
politico". Secondo Mesic, Napolitano avrebbe messo in discussione il
Trattato del '47, "fatto potenzialmente molto pericoloso".
Marcia indietro. Oggi però le cose si sono chiarite. Dopo l'incontro
tra il ministro degli esteri Massimo D'Alema e l'ambasciatore croato Tomislav
Vidosevic, il presidente Mesic sventola la bandiera della pace e diffonde un
comunicato in cui riconosce che nelle parole di Napolitano "non vi era
alcuna intenzione di mettere in questione il Trattato di pace del 1947 e gli
Accordi di Osimo e di Roma, e nemmeno contenevano ispirazioni revansciste e
storico-revisionistiche". I chiarimenti dati dal ministero D'Alema
"sono stati accolti con comprensione - dal presidente croato - ed hanno
contribuito a superare le incomprensioni". Quindi, conclude Mesic,
"è stata confermata la base per la costruzione di rapporti
amichevoli nell'interesse dei buoni rapporti tra i due paesi".
Farnesina soddisfatta. Soddisfazione per la precisazione del presidente
croato è stata espressa dalla Farnesina. "Nelle parole del
presidente Napolitano - si ribadisce in una nota del ministero degli Esteri - non
vi era alcun riferimento polemico nei confronti della Croazia, nè
tantomeno una ispirazione revanscista o storico-revisionista. Il presidente
Napolitano - spiega il ministero degli Esteri - ha accolto favorevolmente le
espressioni del presidente Mesic. Da parte sua l'Italia non farà mancare
il suo appoggio, come per il passato, al tragitto di integrazione della Croazia
nell'Unione Europea". Pace è fatta.
(17 febbraio 2007)
CITTA' DEL VATICANO - Benedetto XVI torna a chiedere una
maggiore tutela della famiglia. "La famiglia mostra segni di cedimento
sotto la pressione di lobby che hanno la capacità di incidere sui
processi legislativi", ha detto il Papa parlando ai nunzi apostolici dei
paesi dell'America Latina.
"La famiglia - ha continuato - merita la nostra attenzione prioritaria:
essa può nascere solo dal matrimonio, che è l'unione stabile e
fedele tra un uomo e una donna". Secondo il Papa, però, "non
spetta agli ecclesiastici capeggiare aggregazioni politiche ma ai laici
cristianamente maturi".
"Divorzi e unioni libere - ha rilevato il Papa - sono in aumento mentre
l'adulterio è guardato con ingiustificabile tolleranza. Occorre ribadire
che matrimonio e famiglia hanno il loro fondamento nel nucleo più intimo
della verità sull'uomo e sul suo destino. Solo sulla roccia dell'amore
coniugale, fedele e stabile si può edificare una comunità degna
dell'essere umano".
Papa Ratzinger, inoltre, ha parlato di quella che ha definito la "leggenda
nera" degli abusi che sarebbero stati compiuti da missionari nell'opera di
evangelizzazione dell'America Latina. Davanti ai nunzi apostolici, Benedetto
XVI ha denunciato un uso strumentale delle ricostruzioni storiche che porta a
conclusioni, per lui, del tutto erronee. "Ambienti culturali - ha spiegato
- affermano che c'è contrasto tra le cultura precolombiane e la fede
cristiana, presentata come alienazione per il popolo che ha accolto il Vangelo.
Al contrario l'incontro tra queste culture e la fede in Gesù Cristo fu
una risposta ulteriormente aspettata dalle cultura preesistenti".
(17 febbraio 2007)
Non
si può dire che il centro-sinistra arrivi al giorno di Vicenza in buone
condizioni di salute.Il fatto che la coalizione sia così lacerata non su
un problema di coscienza, ma sul cardine della politica estera (il rapporto con
gli Stati Uniti), lascia sconcertati. Oggi la base americana,domani la missione
in Afghanistan: nei fatti non esiste una maggioranza autonoma sui temi di
politica internazionale, con grande soddisfazione di Silvio Berlusconi.
Come uscirne, quale nuova «sintesi» individuare per far da collante
all'alleanza, è ancora tutto da scoprire. Ma nel frattempo
l'attualità preme.E in primo luogo interessa capire come andranno oggi
le cose a Vicenza. Perché è vero che la manifestazione si è
caricata di significati politici sempre più pesanti. È diventata
la prova del fuoco per proseguire l'intesa di governo fra le due sinistre,
quella moderata-riformista e quella radical-massimalista.
Finora le due sinistre hanno convissuto più o meno decentemente. Ma oggi
è come se una parte dell'alleanza, quella appunto moderata e centrista
(e si pensa a certi ambienti della Margherita), non reggesse più il
rapporto con Rifondazione, Verdi e Comunisti italiani. Il caso Vicenza è
poco più che un pretesto per un malessere già diffuso e
crescente. Ma è un ottimo pretesto: perché investe proprio il nocciolo
della politica estera.
Quindi chi vuole difendere la logica e la sopravvivenza dell'equilibrio di
governo ha una sola via:battersi con ogni mezzo perché il corteo sia pacifico e
tollerante. Lasciamo stare le contraddizioni politiche, che sono gravi. Non
capita certo tutti i giorni vedere un pezzo della maggioranza in piazza a
protestare contro scelte che dovrebbero essere collegiali e condivise. La
questione è al limite del grottesco e offre efficaci argomenti alla
propaganda del centrodestra.
Ma il punto adesso riguarda il carattere non violento della
manifestazione.L'appello di Fausto Bertinotti serve a questo e rivela la grande
preoccupazione che attanaglia in queste ore l'area della sinistra radicale. Si
fa presto a ironizzare sulle ambiguità che anche le parole del
presidente della Camera non nascondono,anzi esaltano («Vorrei essere a Vicenza,
ma non posso a causa della mia carica istituzionale»). Tuttavia va pur detto
che tale ambiguità è un elemento secondario, sia pure importante,
rispetto all'esigenza di evitare che la situazione in piazzas fugga di mano.
Vicenza non può diventare una seconda Genova.
Ci sarà tempo poi, una volta superato l'ostacolo, per riflettere sugli
assetti di governo. Ad esempio, non c'è dubbio che la "convivenza
concorrenziale"fra le due sinistre, a lungo enunciata dallo stesso
Bertinotti, comincia a mostrare lacorda. C'è un pezzo della maggioranza
che non tollera più la sinistraradicale, giudicando che essa ha
accumulato un'eccesso di influenza sulle scelte di governo.
Vero, esagerato? È difficile dire. Quel che è certo, esistono
ragioni interne e internazionali per non consentire che questa influenza si
estenda al campo della politica estera.E in ogni caso è arduo immaginare
che il disagio della maggioranza, provocato dall'instabilità permanente
delle due sinistre,possa durare ancora a lungo,finendo per condizionare il
resto della legislatura. Peraltro i numeri non lo permettono, quanto meno al
Senato.Spetta dunque a Romano Prodi prendere un'iniziativa ed esercitare una
leadership più incisiva fra le diverse anime della sua coalizione.
Vertice con il cardinale bertone Napolitano
firma il ddl, ma sono ancora distanti le posizioni fra i vescovi e l'esecutivo.
Berlusconi: "Attacco alla famiglia" 17/02/2007 Roma. Stato e Chiesa
si guarderanno per la prima volta negli occhi, dopo la bufera che si è
scatenata sui Dico. Proprio ieri il presidente Napolitano ha firmato il ddl,
demandando al governo il compito di decidere in quale dei due rami del
parlamento inviare il provvedimento. Lunedì Romano Prodi andrà in
Vaticano, accompagnato dai vice premier Massimo D'Alema e Francesco Rutelli. Ad
accogliere i vertici del governo ci sarà una delegazione vaticana al
massimo livello guidata dal cardinale di Stato Tarcisio Bertone. E fra i
porporati è scontata la presenza di Camillo Ruini. L'occasione per un
chiarimento ravvicinato è offerta dalla tradizionale celebrazione dei
Patti Lateranensi e del nuovo Concordato, che si svolgeranno presso
l'ambasciata italiana in Vaticano. Un incontro importante ma che si potrebbe
definire di rito se nel frattempo non fosse scoppiata la buriana sui Dico, con
il mondo cattolico spaccato, la legge del governo a rischio di bocciatura al
Senato e Ruini pronto a emettere una nota vincolante per i cattolici,
parlamentari in testa. Dopo l'assalto della prima ora, fra i vescovi si nota
qualche incrinatura. Il vescovo di Pisa Alessandro Plotti ha invitato Ruini
alla prudenza: "Mi auguro che la nota non la faccia la presidenza ma venga
discussa fra tutti", ha detto, raccogliendo il plauso di chi nella
maggioranza non intende subire un diktat della Chiesa. "Le parole pacate
di monsignor Plotti pongono le premesse per un dialogo proficuo", osserva
il dl Franco Monaco, un prodiano di ferro. Ma non tutti i vescovi la pensano
come Plotti. E anzi la Sir, l'agenzia di informazione dei vescovi, torna a
picchiare duro sulle legge del governo, ospitando un intervento del vescovo di
Palermo, Paolo Romeo, che definisce come "fondamentale e inderogabile
dovere" della Chiesa quello di "opporsi a tutte le iniziative
legislative che pretendono di svuotare il matrimonio e la famiglia". Due
istituti, che la Chiesa è pronta difendere "contro ogni possibile
prevaricazione". Del resto, anche l'Osservatore Romano l'altro giorno non
ha usato giri di parole: "La Chiesa ha il dovere di parlare", ha
scritto il giornale del Vaticano di fronte all'appello degli intellettuali
cattolici preoccupati per le incursioni dei vescovi. Non basta. Quale sarà
il clima che Prodi troverà in Vaticano si potrà forse capire oggi
quando il Papa farà visita la Seminario Romano Maggiore a San Giovanni
in Laterano per festeggiare la Madonna della fiducia. Ci sarà Ruini che
in mattinata dirà una messa. Ma il passaggio più atteso ci
sarà nel pomeriggio quando Benedetto XVI risponderà alle domande
dei seminaristi. E, sollecitato dai futuri sacerdoti, i fulmini del Papa si
potrebbero di nuovo abbattere sui Dico. In ogni caso, lo scontro sulle unioni
di fatto non resterà fuori dalla porta quando lunedì Prodi,
D'Alema e Rutelli resteranno per mezz'ora a colloquio con i vertici di
Oltretevere. Che, subito dopo, incontreranno il Capo dello Stato e i presidenti
dei due rami del Parlamento, Marini e Bertinotti. La Farnesina annuncia:
"Le conversazioni verteranno su questioni politiche generali". E
quindi sarà molto difficile non parlare dei Dico. Tanto più che
gli intellettuali cattolici insistono: "Il concordato è a
rischio", dice Giuseppe Alberigo, studioso di cose vaticane e amico di
Prodi. Una tesi condivisa dalla sinistra radicale: "I vescovi stanno
eccedendo nel loro ruolo", osserva il Prc Franco Giordano. Da
martedì, la commissione Giustizia del Senato si metterà al lavoro
sui Dico e sugli altri testi di legge. La Cdl annuncia battaglia: "I Dico
sono un pessimo compromesso, sono un manifesto ideologico contro la
famiglia", tuona Silvio Berlusconi. Al Senato la maggioranza non ha i
numeri per far passare i Dico: prevalgono i no (163) rispetto ai sì
(155) calcolando i voti contrari dei tre senatori dell'Udeur, degli
indipendenti De Gregorio e Pallaro, di due senatori vita (Cossiga e Andreotti).
Non bastano neanche i voti degli altri quattro senatori a vita, che voterebbero
a favore. 17/02/2007.
Stai consultando l'edizione del RANIERO LA
VALLE Parla l'intellettuale cattolico: "L'annuncio di una Nota della Cei
è una novità. Se avesse un carattere disciplinare sarebbe un
salto all'indietro" "La Chiesa ha diritto di parola. Ma non torni al
non expedit" di Roberto Monteforte / Roma Il sasso è stato
lanciato. Giuseppe Alberigo ed altri intellettuali cattolici, con il loro
appello a cui si sono aggiunte in poche ore oltre 1.800 firme, tra cui quelle
di Scoppola e Zagrebelski, hanno scosso le acque del mondo cattolico. Quel
invito ai vescovi perché riflettano sulle conseguenze di un richiamo vincolante
sui "Di.co" ai parlamentari cattolici ha colpito. Anche se è
subito scattata l'accusa di voler imbavagliare la Chiesa. Con il vostro appello
volete tappare la bocca ai vescovi? "Negli ultimi anni non sono mancate
delle ragioni e delle occasioni perché dei cattolici vigili e coinvolti nella
vita della Chiesa avessero da dire qualcosa. Ci sono stati molti momenti di
tensione e di crisi. Però non c'è mai stato un intervento come
questo perché non si era mai arrivati ad un punto così grave. Mentre
sinora si era trattato di esternazioni delle autorità della Chiesa
questa volta invece, viene annunciato - non sappiamo se poi ci sarà - un
vero e proprio suo atto autoritativo. Quindi non si è più nel
campo della libertà di opinione, della formazione delle coscienze . Si
tratterebbe di un vero e proprio atto di giurisdizione, che a norma del diritto
canonico, comporterebbe conseguenze anche pratiche. Non era mai successo in tutte
le grandi crisi del rapporto tra la Chiesa, la legislazione e i cattolici in
Parlamento. Sarebbe una novità che potrebbe avere una portata
sconvolgente e rappresentare un precedente molto grave. Questa preoccupazione
ha spinto i cattolici firmatari l'appello a chiedere ai vescovi a valutare la
portata di questa decisione". Vi preoccupa la possibile natura politica
della Nota annunciata dal cardinale Ruini, che potrebbe portare ad una
delegittimazione, ad una insignificanza dei cattolici impegnati in politica?
"Se si stabilisce un vincolo di carattere disciplinare è evidente
che l'alternativa sarebbe o l'insignificanza, cioè il semplice
trasferimento nell'attività parlamentare delle indicazioni della Chiesa,
cosa che va contro l'articolo 67 della Costituzione il quale afferma che ogni
parlamentare esercita le sue funzioni senza alcun vincolo di mandato, compreso
quello di un'autorità come la Chiesa, oppure la disobbedienza.
Così il cristiano, parlamentare o non, che fosse solidale con questa
legge si troverebbe nella condizione o di essere puro strumento di un dettato
autoritativo, o di disubbidire alle gerarchie. È un'alternativa che lo
metterebbe in una condizione di lacerazione perché nessun cristiano
disubbidisce a cuor leggero, anche se ritiene questa disubbidienza necessaria
per la sua coscienza". È pronunciamento in linea con
l'interventismo politico di Ruini? "No, sarebbe una novità. Non si
era mai verificato prima. Bisogna andare al "non expedit" con il
quale ai cattolici fu imposto dalla Santa Sede con intervento autoritativo di
non partecipare alla vita dello Stato liberale. Creò un conflitto
devastante nella coscienza dei cristiani, nella vita dello Stato e della
Chiesa: è da lì che derivano gran parte dell'ateismo e del laicismo
oggi presenti in Italia". Lei ha vissuto direttamente alcuni passaggi
difficili del rapporto tra cattolicesimo politico e gerarchia... "Ci sono
state diverse occasioni di difficoltà. Però i vecchi conflitti, e
mi riferisco al referendum sul divorzio, a quello sull'aborto e alla
partecipazione di cristiani a liste "non cristiane", si sono avuti in
un sistema politico non perverso come quello attuale. Quando la Chiesa prendeva
le sue posizioni su divorzio o sull'aborto nessuno poteva pensare che lo
facesse pensando ad un sovvertimento del governo. Con il sistema proporzionale
non si poteva pensare che un turbamento della maggioranza potesse portare ad un
ribaltamento del quadro politico. Invece, oggi siamo in un sistema politico
perverso, dove l'influenza della Chiesa, spostando pur minime frazioni
dell'elettorato, può determinare il passaggio da un regime politico a un
altro". Questo a cosa deve far riflettere? "Al pericolo di un ritorno
di Berlusconi che ritengo abbia rappresentato in questi anni un principio di
corruzione molto grave della coscienza politica e degli atteggiamenti culturali
e sociali di questo Paese. Questo la Chiesa non può non metterlo in
conto. O non le importa che si torni ad un clima dove la cultura, il principio
di solidarietà, la convivenza, il rispetto reciproco incorrano in un
degrado sempre più rapido? Ma se questo importa, allora non può
non tener conto delle conseguenze anche politiche dei suoi gesti. Tutto questo,
poi, per una battaglia dai contenuti molto più opinabili di quella sul
divorzio o sull'aborto. Nessuno sta distruggendo la famiglia. Si sta
legiferando su cose diverse dalla famiglia. Siamo molto alla periferia di
quello che ha a che fare con le verità di fede. E su questo si vogliono
far scontare conseguenze così drammatiche al Paese e alla Chiesa?".
Quali altre differenze tra questa crisi e quelle per il divorzio o l'aborto?
"In quei casi tutta la Chiesa parlava. Non accadeva che si vivesse sotto
il peso di una "Chiesa del silenzio", dove lo Spirito sembra spento e
dove una sola persona parla per tutti: clero, vescovi, popolo. Sul referendum
sul divorzio tutta la Chiesa parlava: le parrocchie, le associazioni
cattoliche, le comunità cristiane di base, le riviste. Tutta la Chiesa
era coinvolta in una grande riflessione. Questo faceva si che anche i contenuti
del confronto fossero molto più ricchi. Oggi, invece, mentre lo scontro
è così duro, i suoi contenuti paiono veramente poco rilevanti.
Quando si fece la grande battaglia sul divorzio il problema non era solo quello
dell'ingerenza della Chiesa, ci si interrogava sui contenuti che la Chiesa
"ingerendosi" portava nella società. Chi tra i cattolici
difendeva la legge sul divorzio si interrogava se veramente il Vangelo
chiedesse di imporre vincoli che le persone non potevano sopportare. Si richiamava
il principio della misericordia, della consolazione degli afflitti, della
tutela del debole. Erano delle grandi controversie nelle quali i cristiani
erano sollecitati a ripensare alla loro fede. Una Chiesa che annuncia la
misericordia e il perdono di Dio, dovrebbe capire che le leggi umane non
traducono in alcun modo la giustizia di Dio, e dovrebbe recuperare lo spazio
per la dialettica tra umano e divino, non separati e non confusi, vero fulcro
del cristianesimo". Tutto ciò le pare distante dalla sensibilità
espressa dalla Cei? "Non sappiamo niente dei vescovi italiani. È da
troppo tempo che tacciono. Questa non è una Chiesa che parla, che, si
interroga. Sta perdendo la parola. Ma una cosa è la Chiesa che cerca di
persuadere le coscienze, che dica la sua sulla famiglia. Rientra nel suo
magistero. Chi mai chiede che la Chiesa non parli? Affermarlo è un falso
artificio polemico. Diverso, invece, è che questo parlare prenda le
forme di una pronunzia "canonica". Cercare di dirimere con un atto
autoritativo una questione largamente opinabile e controversa, non può
non turbare l'opinione pubblica anche cattolica. Spero che si capisca quanto
sia pericoloso oltrepassare un certo limite. Come spero che i vescovi
riprendano la parola. Noi non abbiamo bisogno del silenzio della Chiesa. Ma che
parli come parlava al Concilio, educandoci alla libertà della fede e
alla responsabilità".
Caro Presidente,
nella Sua cortese lettera di domenica chiede ai Cristiano sociali chi sono e se
decidono di votare il Ddl del Governo sulle convivenze. Siamo anzitutto persone
abituate ad assumersi le proprie responsabilità, e sappiamo distinguere
tra il rigore e la coerenza nelle scelte personali che dipendono da noi e le
leggi dello Stato, in cui le nostre decisioni ricadono sugli altri, a
differenza di altre persone che preferiscono essere molto leggere per le scelte
proprie e imporre la coerenza per legge. Queste cose le abbiamo apprese nella
Chiesa, non altrove, e nella storia plurale dei cattolici impegnati in
politica. Noi pensiamo che nel mondo i laici cristiani hanno il compito di
testimoniare il Vangelo ma anche il compito di leggere i segni dei tempi.
Questo imprime alla loro missione un doppio movimento: dal Vangelo e dalla
Chiesa verso il mondo e dal mondo verso la Chiesa e la rilettura costante del
Vangelo. Ed ogni volta che i cristiani irrigidiscono solo uno di questi
versanti, quello che dalla Chiesa va verso il mondo, corrono il rischio di
smarrire la capacità di comprendere quel che il disegno di Dio sta
compiendo nella storia, ben oltre i confini e le capacità di testimonianza
della Chiesa e dei cristiani. Sta qui la radice più profonda della
nostra laicità. La radice che ci spinge all'ascolto e all'incontro con
ciascun essere umano. Il diritto della Chiesa, di tutte le Chiese, di
esprimersi nella sfera pubblica è fuori discussione. Scegliere la
libertà religiosa come valore vuol dire riconoscere il rilievo che le
fedi religiose hanno nella vita delle persone e delle comunità, il loro
contributo alla soluzione di problemi importanti per la convivenza civile. Il
problema nasce su altri versanti: quando dalla verità di fede si passa
ai valori che la Chiesa promuove e alle culture (plurale d'obbligo) che essa
ispira. Anche in questo caso, naturalmente, la Chiesa ha diritto di affermarli
nell'agorà pubblica oltre che di chiedere ai fedeli cattolici di essere
coerenti, nella vita sociale e politica, con questi valori e con il magistero
sociale che storicamente ne deriva. Non può dunque esserci alcuno
scandalo sul fatto che i vescovi chiedano alla politica, e non solo ai
cattolici, di promuovere i valori di cui si sentono portatori. Quel che in un
stato democratico la Chiesa non può fare è diventare essa stessa
un soggetto politico. Perché se lo facesse, dovrebbe accettare fino in fondo lo
statuto di una parte politica tra le altre, di un partito tra gli altri. Con
quale beneficio per la credibilità e l'efficacia del suo annuncio di
fede è la storia a dircelo: perché ogni volta che la Chiesa ha preteso
di farsi potere nel mondo e di sacralizzare il potere politico i risultati sono
stati tutt'altro che positivi per la stessa Chiesa. Per questo restiamo
convinti che la Chiesa, tutte le Chiese, sono tenute a riconoscere e a
rispettare la laicità e l'autonomia della politica, la sua preminente
responsabilità nel decidere e determinare gli indirizzi ed il contenuto
della legislazione. Mi permetto, caro Presidente, di richiamare a questo
proposito un passo della relazione di Aldo Moro al Consiglio Nazionale della DC
del 20 novembre 1968, che forse Lei ricorderà. In essa Moro dice, tra
l'altro, «Un indirizzo politico che si voglia disegnato sul rigore di un
principio religioso, è una pretesa inammissibile. Esso urta, tra
l'altro, con l'esigenza di piena autonomia delle determinazioni politiche
nell'ordine che è ad esse proprio, specie in un momento nel quale il
magistero della Chiesa si applica nell'esercizio del suo alto compito
spirituale, in valutazioni ed indicazione che, giustificate sul terreno
religioso, non potrebbero essere trasferite sul terreno civile, nella
concretezza cioè della situazione politica italiana con tutte le sue
esigenze. Ad esse non è lecito piegare un organismo universale e
spirituale qual'è la Chiesa. Ma neppure esse possono essere sacrificate
nell'ambito di un ordinamento autonomo qual'è lo Stato». Rachele Acquaviva,
che ha lavorato nella segreteria di De Gasperi, ci ha scritto in questi giorni
dicendo: «Mi sembra di rivivere il giorno in cui ascoltai la telefonata di De
Gasperi al Vaticano per l'operazione Gedda, e dopo parlò con noi che gli
stavamo intorno, tutti giovani, della sua amarezza ma con una sicurezza nella
sua decisione che ancora ricordo e almeno per me quelle parole furono e sono
ancora la certezza del mio essere cristiana e laica. Se l'ha fatto lui che
forse sarà proclamato santo possiamo farlo anche noi, ti pare?» Siamo
anche fedeli alla Costituzione repubblicana e al suo impegno contenuto
nell'articolo 2 di tutelare i diritti delle persone anche nelle formazioni
sociali, tra cui la Corte costituzionale ha ricompreso le unioni di fatto. Per
di più, caro Presidente, proprio Lei firmò come Capo dello Stato
il regolamento anagrafico del 1989 che si basa sulle nozioni di «famiglia
anagrafica» e di «vincoli affettivi» che la legge si limita a perfezionare. Il
nostro fondatore Ermanno Gorrieri, che apprezzò molto quel regolamento,
aveva indicato più volte in esso la strada per risolvere il problema
delle unioni di fatto. Come si può ricavare dal suo volume «Parti uguali
fra diseguali», edito dal Mulino, è esattamente questa la direzione
indicata, prefigurando con esattezza l'articolo 1 della legge sui Dico. Quando
il professor Stefano Ceccanti (aderente ai Cristiano sociali) ha contribuito a
scrivere il testo sui Dico si basava esattamente anche su questa autorevole
indicazione. Per questo, noi voteremo per il DDL del Governo sulle convivenze e
non come male minore, ma perché vi riconosciamo la nostra ispirazione di
cristiano sociali e in particolare quella del nostro fondatore. Questi siamo.
Mimmo Lucà Coordinatore Nazionale dei Cristiano Sociali
Roma, 16 Febbraio 2007 – AgenParl – Ufficialmente non è
una scomunica, ma per lei, Rosy Bindi,
è come se lo fosse. La cattolicissima ministra è stata oggetto di
un forte richiamo, da parte del Magistero, in materia di fede.
L’Osservatore Romano, organo della
Santa Sede, ha pubblicato una nota nella quale è scritto: “forse
bisognerebbe riconoscere che le cose di Dio e le cose degli uomini coincidono
più di quanto si sia disposti a conoscere”. Questa è la risposta al
ministro della Famiglia, coautrice
del ddl sui Dico, la quale, il giorno precedente, aveva detto di “amare
più la Chiesa quando parla di Dio”. Questa espressione è stata
intesa in Vaticano come un malcelato invito, rivolto alle gerarchie
ecclesiastiche, ad occuparsi di fede e non delle cose terrene come la politica.
E’ evidente che la Chiesa, messa dinanzi a tale ingiunzione, proveniente tra
l’altro da un’autorità diventata tale grazie al suo essere
rappresentante del mondo cattolico italiano, è stata costretta a
richiamarla e a rivendicare il proprio ruolo, non ammettendo alcuna usurpazione
soprattutto in materia di fede e comportamenti.
Secondo il quotidiano della Santa Sede, “non si comprende perchè la
Chiesa, il Papa e i vescovi non possano intervenire su un tema tanto delicato
quanto cruciale come quello della famiglia”. “La Chiesa – si legge – non
adempie ad una posizione politica, ma adempie semplicemente al suo mandato”.
“Negare ciò – conclude la nota – significa negare un diritto-dovere”.
Il richiamo del giornale Vaticano, comunque, non sembra rivolto anche all’ex
presidente Scalfaro. Egli, nella sua
intervista alla Repubblica, pur
riconoscendo il diritto della Cei a
pronunciarsi, aveva in sostanza chiesto ai vescovi di comprendere la
realtà politica italiana e, quindi, lasciare ai parlamentari cattolici
margini di dialogo con i loro colleghi laici”.
Abbiamo estrapolato dal fascicolo predisposto
dalla magistratura milanese i brani riferiti alle persone (note e meno note)
che sono accusate di aver avuto un ruolo nel progetto
Sono ben 28 gli esponenti del nostro
territorio chiamati in causa nel documento che riassume il lungo lavoro di
inchiesta dei pm Come abbiamo anticipato sul Cittadino di ieri, la procura di
Milano ha depositato giovedì 15 febbraio l'"Avviso di conclusione
delle indagini" sulla fallita scalata della Banca Popolare Italiana alla
Antonveneta. Sono indagate 84 persone fisiche e nove società, a cui
l'avviso di chiusura indagini è stato notificato. Ricordiamo ai nostri
lettori che per tutti quanti, finché non saranno celebrati i processi e non
saranno state emesse le definitive sentenze, permane la presunzione di non
colpevolezza. "Il Cittadino" in tutti questi mesi ha dedicato a
questa vicenda centinaia di articoli, sollevando un enorme interesse tra i
lettori. Ai fini di assicurare una doverosa informazione, pubblichiamo - senza
commenti - alcuni stralci del documento emesso dalla Procura della Repubblica
di Milano, in particolare quelle parti che coinvolgono le personalità
del Lodigiano. "Il Pubblico Ministero, visti gli atti del procedimento
penale in epigrafe nei confronti di (seguono i nomi di nove società e di
84persone fisiche a cui è stato notificato l'avviso di conclusione delle
indagini: Roberto Araldi (Milano), Carlo Baietta (Carpiano), Giampiero Beccaria
(Brescia), Giovanni Benevento (Lodi), Antonio Cesare Bersani (Borgonovo Val
Tidone), Bruno Bertagnoli (Milano), Antonio Bertoli (Brescia), Evaristo Bertoli
(Lumezzane), Fabio Antonio Bertoli (Lumezzane), Fiorenzo Bertoli (Lumezzane),
Sandro Ridolfo Bertoli (Lumezzane), Giuseppe Besozzi (Vizzolo Predabissi),
Paolo Giacinto Bonazzi (Milano), Gianfranco Boni (Lodi), Leonardo Bossini
(Molinetto di Mazzano), Guido Castellotti (Lodi), Giorgio Chiaravalle
(Gallarate), Luigi Enrico Colnago (Cambiago), Massimo Conca (Tribiano), Enrico
Consoli (Brescia), Giovanni Consorte (Bologna), Fabio Massimo Conti (Milano),
Danilo Coppola (Roma), Giovanni Corbini (Siena), Roberto Corrada (Lodi),
Gennaro D'Amico (Roma), Mario Dora (Brescia), Marcello Angelo Dordoni
(Bescapè), Antonio Fazio (Alvito), Giuseppe Ferrari Aggradi (Lodi),
Francesco Ferrari (Lodi), Marino Ferrari (Lodi), Gianpiero Fiorani (Lodi),
Guglielmo Fransoni (Roma), Francesco Maria Frasca (Roma), Eraldo Galetti
(Como), Luigi Gallotta (Sant'Angelo Lodigiano), Carlo Gattoni (Meleti),
Francesco Ghioldi (Casale Monferrato), Emilio Gnutti (Brescia), Gianandrea
Goisis (Lodi), Luigi Grillo (La Spezia), Domenico Lanzoni (Imola), Ettore
Lonati (Botticino Mattina), Fausto Lonati (Brescia), Tiberio Lonati (Brescia),
Pierluigi Lucchini (Codogno), Bruno Marinelli (Cellatica), Luciano Marinelli
(Iseo), Valerio Marinelli (Brescia), Gianpiero Marini (Lodi), Paolo Umberto
Giulio Marmont Du Haut Champ (Lugano), Giuseppe Romano Marniga (Lumezzane),
Erich Mayr (Bolzano), Fabio Merusi (Calci), Luigi Amato Molinari (Rapallo),
Claudio Moreschi (Brescia), Sergio Moreschi (Brescia), Giorgio Olmo (Crema),
Francesco Orsini (Montanaso), Luigi Pacchiarini (Borgo San Giovanni), Marco
Palazzani (Brescia), Marino Pasotti (Carpenedolo), Carlo Pavesi (Lodi Vecchio),
Antonio Premoli (Lodi), Aldino Quartieri (Lodi), Paolo Secondo Raimondi
(Ospedaletto), Stefano Ricucci (Roma), Gaudenzio Roveda (Milano), Andrea
Rovelli (Milano), Ivano Sacchetti (Reggio Emilia), Attilio Savarè
(Lodi), Osvaldo Savoldi (Ghedi), Marco Sechi (Milano), Silvano Spinelli (Lodi),
Sergio Tamagni (Zelo Buon Persico), Enrico Tessera (Lodi), Francesco Vesce
(Torino), Gianmaria Visconti di Modrone (Grazzano Visconti), Giovanni Vismara
(Milano), Desiderio Zoncada (Lodi), Domenico Zucchetti (Lodi), Claudio Agostino
Zulli (Brescia), Luigi Zunino (Nizza Monferrato), informa le persone fisiche e
giuridiche sopraindicate che questo Ufficio sta procedendo ad indagini in
ordine ai reati ed agli illeciti amministrativi da reato di seguito
indicati.***Fiorani, Spinelli, Boni, Quartieri, Ferrari Marino, Marmont Du Haut
Champ, Conti, GhioldiA. del reato di cui all''art 416, commi 1, 2 e 3 c.p., per
essersi associati fra di loro, allo scopo di commettere, continuativamente nel
tempo: - attività di manipolazione del mercato (art. 185 t.u.f) e di
ostacolo all'esercizio delle funzioni di vigilanza (art 2638 c.c.), poste in
essere, già, con riferimento all'acquisizione della Banca Popolare di
Crema e, da ultimo, alla scalata della Banca Antonveneta, finalizzate, con il
concorso di soggetti esterni all'associazione, a conseguire illecitamente il
controllo degli istituti di credito ed il profitto derivante da plusvalenze
occulte; - appropriazioni indebite pluriaggravate (art. 646, 61 n.. 7 e n. 11
c.p.) in danno della Banca Popolare Italiana (già Banca Popolare di
Lodi), consistite nell'appropriarsi di una parte del prezzo stabilito per
l'acquisto/vendita di asset di pertinenza della banca e nel far conseguire
utili e/o altri proventi ad un gruppo di clienti selezionati con alcuni dei
quali esistevano accordi di spartizione del profitto; - violazioni dell'art.
136 t.u.b. per erogare finanziamenti (anche a tassi particolarmente agevolati e
senza garanzie) a società di cui Fiorani era socio occulto e/o a persone
fisiche che dello stesso Fiorani erano prestanome e/o soci; - atti di infedeltà
anche a seguito della dazione e promessa di utilità (artt. 2634 c.c.)
consistiti, in particolare, nel compiere atti di disposizione dei beni sociali
in conflitto di interessi ed a danno della banca; - operazioni di riciclaggio
(art. 648-bis, c.p.), mediante le quali ostacolare l'identificazione della
provenienza del denaro illecitamente conseguito. In particolare:Fiorani
Gianpiero - amministratore delegato di Bpi fino al 2 agosto 2005 - costituiva,
promuoveva, organizzava e dirigeva l'associazione criminosa: - individuando le
operazioni immobiliari e finanziarie dalle quali trarre illeciti profitti, tra
cui la scalata alla Banca Antonveneta (condotta con modalità
manipolative ed ostacolando l'esercizio delle funzioni delle autorità
pubbliche di vigilanza); - occupandosi, personalmente o per il tramite di
soggetti di sua fiducia, delle trattative, anche occulte, relative
all'acquisizione della Banca Adamas ed alla dismissione degli asset immobiliari
del Gruppo Bipielle (operazione "Mizar-Casse del Tirreno"), trattative
dalle quali conseguiva, per sé e per alti, ingenti profitti illeciti; - creando
strutture estere off-shore con conti presso banche svizzere, monegasche, del
Jersey e di Singapore per occultare il provento delle operazioni di cui al
precedente punto e delle cifre descritte ai successivi; - seguendo di persona -
sia in comitato esecutivo che in consiglio di amministrazione e comunque
valendosi della sua posizione apicale all'interno del Gruppo Bipielle le
procedure per la concessione di linee di credito (anche a tassi agevolati e
senza prestazione di garanzie) con le quali finanziare operazioni mobiliari ed
immobiliari di interesse per l'organizzazione; - favorendo l'apertura di conti
correnti e dossier titoli e l'erogazione di finanziamenti a "clienti privilegiati",
i cui conti venivano gestiti direttamente dall'area finanza della banca; Boni
Gianfranco - direttore finanziario di Bpi - promuoveva ed organizzava
l'associazione criminosa: - adoperandosi per l'apertura di conti correnti e
dossier titoli e curando personalmente i "clienti privilegiati", con
i quali erano stati raggiunti preventivi accordi per la spartizione dei
profitti delle operazioni di trading mobiliare (anche "costruite ad
hoc"); - disponendo ingiustificati trasferimenti di denaro di pertinenza
della banca a favore dei conti dei predetti clienti; - curando materialmente la
spartizione degli utili con prelievi in contanti ed assegni circolari; -
creando strutture estere off-shore con conti presso banche svizzere e
monegasche per occultare profitti illeciti; - essendo, sostanzialmente, l'alter
ego dell'amministratore delegato nell'attività dell'associazione
all'interno della banca;Spinelli Silvano - consulente esterno, ex dirigente di
Bpi - promuoveva ed organizzava l'associazione criminosa: - individuando
operazioni immobiliari e finanziarie dalle quali trarre illeciti profitti; -
creando strutture societarie, sia italiane che estere, per
"schermare" la partecipazione di Boni e Fiorani (del quale fungeva
anche da prestanome) in operazioni mobiliari ed immobiliari finanziate da Bpi
(a tassi agevolati - e, quasi sempre, senza prestazione di garanzie);- curando
l'apertura di conti esteri e la costituzione di società off-shore, da
utilizzarsi per occultare il provento delle operazioni mobiliari ed
immobiliari; - individuando, tra la clientela "storica" della banca
Popolare di Lodi, una serie di clienti "privilegiati" cui far aprire
conti correnti e dossier titoli e far ottenere finanziamenti, per operare sul
mercato mobi1iare, con l'accordo che i profitti dell'attività di
trading, svolta in modo illegittimo (anche sfruttando informazioni
privilegiate) dall'area finanza della banca, venivano spartiti in percentuali
variabili fra i sodali e l'intestatario della relazione; - curando materialmente
la spartizione degli utili con prelievi in contanti ed assegni
circolari;Marmont, Conti, Ghioldi, i primi due consiglieri in Bipille Suisse e
Conti anche in diverse società del Gruppo Bipielle, il terzo consulente
legale nonché fiduciario svizzero - partecipavano all'associazione: -
predisponendo e gestendo le strutture societarie ed i relativi rapporti bancari
(accesi, soprattutto, presso Bdl - Jersey, Singapore e Lugano), in particolare
mettendo a disposizione dell'organizzazione le società: Yol Tradtng Corporation,
Zachs Engeneering corp, Marina Invest Sa, Celleck Financial Services Inc,
Hinton Research Sa, Canterbury Global Sa, Borgo Nobile Sa, Victoria &
Eagle, utilizzate per depositare i proventi delle attività illecite
dell'associazione e per "schermare" la riconducibilità
all'associazione delle società immobiliari/finanziarie italiane
capitalizzate e/o finanziate con i proventi generati dalle illecite
attività; - gestendo i conti esteri in Bdl riferibili a Fiorani,
Spinelli e Boni, tra i quali il conto Targum ed i conti Brunner 1e 2; - Ghioldi
altresì agendo quale procuratore di diverse società off-shore,
fiducianti della Compagnia Fiduciaria Nazionale spa, con sede a Milano,
utilizzata per intestazioni fiduciarie di società riconducibili a
Fiorani e Spinelli;Quartieri Aldino - sindaco di Bpi - partecipava
all'associazione criminosa: - costituendo o figurando nella compagine
sociale/domiciliando/rappresentando (pure per procura)/amministrando anche di
fatto le società italiane ed estere di cui Fiorani era socio occulto, ed
in particolare: Giorni Sereni srl, Marinai d'Italia srl, Perca srl, Liberty
srl, Pmg srl, Frontemare srl, Arcene Immobili srl, Arcene Infra srl, Edilchiara
srl, Patrimoniale Degli Orsi srl, Borgo Nobile srl, Borgo Centrale spa, Yol
Trading, Zachs Engeneerng, società utilizzate in operazioni mobiliari ed
immobiliari fra le quali la cessione degli immobili già delle Casse del
Tirreno; Ferrari Marino partecipava all'associazione criminosa: - svolgendo il
ruolo di prestanome di Fiorani in varie operazioni immobiliari tra le quali
quella realizzata con la Liberty srl (relativa ad una villa a Cap Martin, in
Costa Azzurra) e con Giorni Sereni srl (relativa ad un'altra villa in
località Cala di Volpe, Sardegna) nonché in operazioni di trading mobiliare
realizzate con Borgo Centrale spa. Con le circostanze aggravanti
specificatamente contestate in relazione ai ruoli.Associazione operante in
Milano ed altrove dal 1997 al 13 dicembre 2005 [data dell'arresto di Fiorani,
Boni, Spinelli e Conti].***Fiorani, Boni, Benevento, Zoncada, Savarè,
Vismara, Lucchini, Rovelli, Spinelli, Fazio, Frasca, Grillo, Gnutti, Ricucci,
Coppola, Consorte, Sacchetti, Lonati Ettore, Lonati Tiberio, Lonati Fausto,
Moreschi Claudio. Moreschi Sergio, Marinelli Luciano, Marniga, Bertoldi
Fiorenzo, Pasotti, Bossini, Marinelli Bruno, Palazzani Marco, Bertoli Fabio,
Antonio, Bertoli Evaristo, Bertoli Antonio, Bertoli Sandro Ridolfo, Consoli,
Besozzi, Marinelli Valerio, Baietta, Bersani, Conca, Corrada, Dora, Dordoni,
Ferrari Aggradi, Gallotta, Marini, Orsini, Pacchiarini, Raimondi, Roveda,
Tamagni, Colnago B. del reato di cui agli artt. 110, 112, comma 1, n. 1) e n.
2), 81 cpv c.p., 185 t.u.f. (come mod.to dalla legge 62/2005 e dalla Legge n.
262/2005), perché, in concorso tra loro, in numero superiore a dieci, con
più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, realizzate
operando con modalità, commissive ed omissive, volte ad eludere le
prescrizioni di cui all'art. 106 t.u.f. e gli obblighi di informazione al mercato
previsti dagli artt. 114, 120, 121, 122. t.u.f., ponevano in essere operazioni
simulate ed altri artifici e diffondevano notizie false, condotte concretamente
idonee, anche singolarmente, a provocare una sensibile alterazione del prezzo
dell'azione ordinaria Antonveneta;in particolare:Fiorani (amministratore
delegato di Bpi) e Boni (direttore finanzairio di Bpi) organizzando e dirigendo
l'attività, Benevento (presidente del consiglio di amministrazione di
Bpi) conoscendola ed avallandola, Zoncada (presidente del cda di Bipielle
Suisse, consigliere di amministrazione e membro del comitato esecutivo di Bpi),
deliberando i finanziamenti erogati da Bipielle Suisse e le fidejussioni
rilasciate da Bpi (controllante di Bipielle Suisse) proprio a garanzia di tali
finanziamenti, Savarè (direttore centrale amministrativo di Bpi),
Vismara (direttore centrale corporate management di Bpi) dando alla stessa
copertura attraverso le rispettive strutture, Lucchini (responsabile divisione
mercati finanziari di Bpi) operando in sotto ordine rispetto a Boni, Spinelli
(già dirigente Bpi e, all'epoca dei fatti, consulente esterno della
banca) e, Gnutti (principale alleato di Fiorani nella "scalata" a
Banca Antonveneta) operando come anche Fiorani e Boni per la ricerca degli
interposti, in concorso tra loro e con i soggetti di seguito indicati,
compivano operazioni simulate ed artifici, concretamente idonei a provocare una
sensibile alterazione del prezzo dell'azione ordinaria Antonveneta,
consistiti:- nell'acquistare, sul mercato telematico, azioni ordinarie
Antonveneta con l'interposizione fittizia delle persone fisiche che fornivano
il loro contributo accettando di interporsi e ottenendo, per tale contributo,
la promessa di un utile di seguito elencate: Moreschi Claudio, Moreschi Sergio,
Marinelli Luciano, Marinelli Bruno, Marinelli Valerio, Marniga Romano Giuesppe,
Pasotti, Bossini, Palazzani, Bertoli Fiorenzo, Bertoli Evaristo, Bertoli Fabio
Antonio, Bertoli Sandro Ridolfo, Bertoli Antonio, Consoli (c.d. bresciani
"procurati" da Gnutti), Baietta, Bersani, Besozzi, Conca, Corrada,
Dora, Dordoni, Ferrari Aggradi, Gallotta, Marini, Orsini, Pacchiarini,
Raimondi, Roveda, Tamagni (c.d. lodigiani "procurati" da Spinelli,
Fiorani e Boni), cui venivano aperti ed intestati, presso Bpl e Bipielle Suisse,
conti correnti con abbinati dossier titoli, sui quali di fatto operava la banca
stessa (i finanziamenti per l'acquisto dei titoli erano erogati in assenza di
istruttoria e di garanzie e con motivazioni difformi da quelle reali),
così occultando l'attività di rastrellamento in corso e
l'entità della partecipazione (indiretta) di Bpi nel capitale di Bapv
(da fine novembre ad aprile 2005);inoltre,Fiorani (amministratore delegato di
Bpi) e Boni (direttore finanziario di Bpi) organizzando e dirigendo l'attività,
Benevento (presidente del consiglio di amministrazione di Bpi) conoscendola ed
avallandola, Zoncada (presidente del cda di Bipielle Suisse, consigliere di
amministrazione e membro del comitato esecutivo di Bpi), deliberando i
finanziamenti erogati da Bipielle Suisse e le fideiussioni rilasciate da Bpi
(controllante di Bipielle Suisse) proprio a garanzia di tali finanziamenti,
Savarè (direttore centrale amministrativo di Bpi), Vismara (direttore
centrale corporate management di Bpi) dando alla stessa copertura attraverso le
rispettive strutture, Lucchini (responsabile divisione mercati finanziari di
Bpi) operando in sotto ordine rispetto a Boni, Gnutti, Lonati Ettore, Lonati
Tiberio, Lonati Fausto, Consorte, Sacchetti, Ricucci, Coppola, in concorso tra loro,
ponevano in essere operazioni simulate ed altri artifici, concretamente idonei
a provocare una sensibile alterazione del prezzo dell'azione ordinaria
Antonveneta, consistiti nell'acquistare, sul mercato telematico, azioni
ordinarie Antonveneta, in modo concertato sulla base di patti parasociali non
dichiarati stretti per l'esercizio anche congiunto di un'influenza dominante
sulla banca Antonveneta tali da occultare la "scalata" in corso ed
eludere gli obblighi di legge, segnatamente quello di Opa totalitaria (da
gennaio ad aprile 2005);precisamente:- gli esponenti bancari di Bpi sopra
indicati fornivano, in relazione ai rispettivi ruoli e alle diverse funzioni
svolte, il necessario contributo per realizzare, anche tecnicamente, gli
acquisti concertati, in particolare: ricercando le azioni Bapv sul mercato,
"parcheggiandole" su dossier presso Bpi e Bpl Suisse, trasferendole,
ugualmente attraverso operazioni sul "telematico", ad entità
riferibili ai pattisti occulti;(...)inoltre,Fiorani (amministratore delegato di
Bpi), e Boni (direttore finanziario di Bpi), organizzando e dirigendo
l'attività, Benevento (presidente del consiglio di amministrazione di
Bpi) conoscendola ed avallandola, Zoncada (presidente del cda di Bipielle
Suisse, consigliere di amministrazione e membro del comitato esecutivo di Bpi),
deliberando i finanziamenti erogati da Bipielle Suisse e le fideiussioni
rilasciate da Bpi (controllante di Bipielle Suisse) proprio a garanzia di tal
finanziamenti, Savarè (direttore centrale amministrativo di Bpi),
Vismara (direttore centrale corporate management di Bpi) dando alla stessa
copertura attraverso le rispettive strutture, Lucchini (responsabile divisione
mercati finanziari di Bpi) operando in sotto ordine rispetto a Boni e Colnago,
in concorso tra loro, compivano operazioni simulate ed artifici, concretamente
idonei a provocare una sensibile alterazione del prezzo dell'azione ordinaria
Antonveneta, consistiti:- nell'acquistare, sul mercato telematico, azioni
ordinarie Antonveneta con l'interposizione fittizia degli hedge fund: Active
Fund, Generation Fund e Momentum Fund (tutti domiciliati alle Isole Cayman e
gestiti da Money Bond Investiment S.a., di Lugano), riconducibili a Colnago, il
quale vendeva quote di tal ifondi a Bpi, con l'accordo di impiegarne il
corrispettivo esclusivamente nell'acquisto del titolo "azione ordinaria
Antonveneta", agendo, pertanto, da "fiduciario" della banca,
così occultando l'attività di rastrellamento in corso e
l'entità della partecipazione (indiretta) di Bpi nel capitale di Bapv
(da febbraio a maggio 2005);inoltre,a fronte delle operazioni simulate e degli
artifici su indicati, condotte già concretamente idonee, anche
singolarmente, a provocare una sensibile alterazione del prezzo dell'azione
ordinaria Antonveneta, Fiorani (amministratore delegato di Bpi) intervenendo
direttamente sulla formulazione dei comunicati-stampa, Benevento (presidente
del consiglio di amministrazione di Bpi) e Zoncada (presidente del cda di
Bipielle Suisse, consigliere di amministrazione e membro del comitato esecutivo
di Bpi) conoscendola, avallandola e favorendone l'approvazione in sede di cda,
Boni (direttore finanziario di Bpi), Savarè (direttore centrale
amministrativo di Bpi) e Vismara (direttore centrale corporate management di Bpi),
Lucchini (responsabile divisione mercati finanziari di Bpi) operando in sotto
ordine rispetto a Boni e Rovelli (responsabile funzioni afferenti reperimento
fondi, emissione obbligazioni, cartolarizzazione ed operazioni strutturate)
predisponendo la documentazione di supporto ai comunicati stampa, in concorso
tra loro e con Gnutti, Lonati Ettore, Lonati Tiberio, Lonati Fausto, Consorte,
Sacchetti, Ricucci, Coppola, nella loro qualità di "pattisti
occulti" nella scalata all'Antonveneta, diffondevano al mercato, le
seguenti false notizie, anch'esse concretamente idonee, anche singolarmente, a
provocare una sensibile alterazione del prezzo dell'azione ordinaria
Antonveneta:- che Bpi non possedeva "né direttamente né indirettamente
altre partecipazioni nel capitale sociale di Banca Antonveneta" oltre a
quelle specificatamente indicate alle Autorità ed al mercato (comunicati
Bpl del 9 e 16 marzo e del 6 aprile 2005);- che da parte di Bpi "...(la)
determinazione (di collocarsi tra gli azionisti stabili di Banca Antonveneta)
sarà assunta previa valutazione dei prezzi e delle quantità,
compatibili con l'esigenza di non creare turbative di mercato. Tutto
ciò, ovviamente nell'ambito delle prescritte autorizzazioni, che si
situano sotto la soglia fissata nell'art. 106 del decreto legislativo n.
58/1998" (comunicato Bpl del 12 aprile 2005);- che "l'attività
di intermediazione per conto terzi sul titolo Banca Antonveneta, svolta da Bpl
nel rispetto formale e sostanziale delle vigenti disposizioni, non ha alcun
nesso con la partecipazione detenuta né tantomeno con pretesi accordi con gli
attuali azionisti di Banca Antonveneta" (comunicati Bpl del 16 marzo e del
6 aprile 2005);- che non sono stati "stipulati accordi (opzioni, contratti
preliminari, a termine o condizionati, accordi per gli acquisti o per il voto)
aventi per oggetto le azioni di Banca Antonveneta e di non aver concluso in
forma scritta o in altra forma patti parasociali con azionisti della medesima
banca" (comunicati Bpl del 16 marzo e del 6 aprile 2005);- che, secondo
quanto deliberato dal cda di Bpl, "l'eventuale acquisto... non
dovrà comunque comportare il superamento della soglia del 30%"
(comunicato Bpl del 15 aprile);- che il gruppo, facente capo all'imprenditore
Stefano Ricucci, definiva come destituita di ogni fondamento la notizia di
stampa secondo cui il Gruppo avrebbe ricevuto da istituti bancari un
finanziamento finalizzato all'acquisto di azioni Antonveneta, ribadendo che
l'acquisto era stato eseguito con mezzi propri (comunicati stampa del 19 aprile
su varie agenzie),così ingenerando, nel mercato, la convinzione che Bpl
non avesse acquistato titoli (direttamente o per interposta persona), in
quantità superiore a quella di volta in volta comunicata, che non
intendesse superare la soglia di cui all'art. 106 tuf e che non esistesse un
"concerto occulto" come poi accertato da Consob con delibere del
10.5.2005 e del 22.7.2005;condotte tutte poste in essere con il concorso morale
del Governatore Fazio e del capo Vigilanza Frasca della Banca d'Italia e del
Sen. Grillo, i quali suscitavano e rafforzavano il progetto criminoso;in
particolareFazio, anche in violazione dei doveri e degli obblighi inerenti la
carica di Governatore della Banca d'Italia,- assumeva, con Fiorani, dapprima
l'impegno di ostacolare Abn-Amro nell'eventuale incremento della partecipazione
in Antonveneta (garantendogli che comunque mai l'avrebbe autorizzata a salire
oltre il 12-13%) e, successivamente al lancio dell'Opa, da parte della stessa
Abn, ritardava il rilascio delle necessarie autorizzazioni, per consentire a
Bpi di proseguire nel rastrellamento occulto di azioni Bapv;- esortava Fiorani
e Boni, nel corso di periodici incontri riservati, a superare, con le
acquisizioni indirette di partecipazioni e la costituzione dei patti occulti
sopra indicati, le soglie autorizzazioni da Banca d'Italia, rispettivamente, in
data 14 febbraio 2005 (fino al 14,9%) ed in data 7 aprile 2005 (fino al 29.9%),
istigando, gli stessi Fiorani e Boni, a proseguire nella scalata occulta;-
approvava, la sera prima dell'assemblea ordinaria di Antonveneta per il rinnovo
delle cariche sociali (30 aprile 2005), le strategie di voto concordate dai
pattisti occulti;- incitava Fiorani e Boni ad "andare avanti" anche
dopo l'atto di accertamento del 10 maggio 2005 pur sapendo che del
"concerto" facevano parte altri soggetti (tra cui Ricucci) non ancora
inseriti dalla Consob tra i concertisti;Frasca, anche in violazione dei doveri
e degli obblighi inerenti la carica di Capo del Servizio di Vigilanza della
Banca d'Itlaia,- partecipava agli incontri riservati nei quali il Governatore
veniva informato da Fiorani e Boni, delle acquisizioni di partecipazioni
indirette e dei patti, manifestando, con la stessa presenza e l'esplicito
assenso alla linea del Governatore Fazio, il suo atteggiamento di favore a Bpi,
specialmente quale a Capo della Vigilanza della Banca d'Italia;-si metteva,
altresì, a disposizione per fronteggiare l'eventuale insorgenza di
problematiche tra Bpi ed il Servizio di Vigilanza, nel corso
dell'"operazione Antonveneta".Grillo - contribuiva a trasferire, da
Fazio a Fiorani, informazioni riservate riguardanti l'iter dei procedimenti di
autorizzazione e le iniziative del servizio di vigilanza della Banca d'Italia
nei confronti di Bpi;- nello svolgimento dell'attività descritta al
precedente punto, forniva ai suoi interlocutori consigli e incoraggiamenti,
specialmente a Fiorani, esortandolo a proseguire nella "scalata
occulta" all'Antonveneta anche in presenza delle
"difficoltà" che nel frattempo erano intervenute (accertamento
del concerto in data 10 maggio 2005, iniziative della Magistratura).Con le
circostanze aggravanti di aver commesso il reato con il concorso di un numero
di persone superiore a cinque nonché, per Fiorani e Fazio, per aver promosso la
cooperazione nel reato, per Fiorani per aver promosso e organizzato la
cooperazione nel reato oltre che diretto l'attività delle persone che
sono concorse nel reato medesimo e, per Gnutti, per aver diretto, d'intesa con
Fiorani, l'attività di Marinelli Luciano e Marinelli Bruno, Marinelli
Valerio, Marniga Romano Giuseppe, Pasotti, Bossini, Palazzani, Bertoli
Fiorenzo, Bertoli Evaristo, Bertoli Fabio Antonio, Bertoli Sandro Ridolfo,
Bertoli Antonio, Consoli (gruppo dei c.d. brestiani) oltre che dei pattisti
occulti Lonati Ettore, Lonati Tiberio, Lonati Fausto.In Milano dall'inizio di
novembre 2004 sino al 22 luglio 2005.***Fiorani, Benevento, Boni,
Savarè, Vismara, Lucchini, Gnutti, Marinelli Luciano, Marniga, Lonati
Ettore, Lonati Tiberio, Lonati Fausto, Ricucci, Fransioni, Consorte, Sacchetti,
Coppola, Sunino, ColnagoC. del delitto di cui agli artt. 81 cpv, 110, 112,
comma 1, n. 2), 61 n. 2 c.p., 2638, commi 1 e 2 c.c., perché in esecuzione di
un medesimo disegno criminoso e in continuazione con i fatti di cui al capo
B,Fiorani quale amministratore delegato e Benevento quale presidente del
consiglio di amministrazione di Bpi, in concorso tra loro e con Boni, Lucchini,
Savarè, Vismara, esponenti bancari di Bpi con funzioni dirigenziali e
preposti alla redazione dei documenti contabili societari per le rispettive
aree di competenza, segnatamente: Boni e Lucchini per l'area finanza,
Savarè per l'area amministrazione e Vismara per l'area corporate, in
concorso tra loro (...),consapevolmente ostacolavano le funzioni di vigilanza
della Consob con le seguenti condotte:- a seguito di richiesta ex art. 115 tuf,
di comunicare se gli acquisti di azioni Antonveneta effettuati da Moreschi
Claudio, Moreschi Sergio, Marinelli Luciano, Marinelli Bruno, Marinelli
Valerio, Marniga Romano Giuseppe, Pasotti, Bossini, Palazzani, Bertoli
Fiorenzo, Bertoli Evaristo, Bertoli Fabio Antonio, Bertoli Sandro Ridolfo,
Bertoli Antonio, Consoli, Lonati Ettore, Lonati Tiberio, Lonati Fausto (pari al
15,23% del capitale di Antonveneta) erano stati finanziati dalla banca
rispondevano: "Bipielle non ha deliberato linee di credito finalizzate
all'acquisto di azioni di banca Antonveneta di 18 committenti finali. Costoro
godono di ordinarie facilitazioni creditizie concesse da questa banca
nell'ambito della consueta valutazione del merito creditizio, della
solvibilità e della capacità di rimborso dei clienti" (in
data 7.3.2005), versione confermata, in sede di audizione, da Fiorani e Boni
(in data 9.3.2005) e, successivamente, ribadita con il comunicato stampa del
16.3.2005 (riportato al capo B), così occultando che i finanziamenti
erano stati erogati e gestiti dalla stessa banca esclusivamente per l'acquisto
delle azioni di Antonveneta;- omettevano di dichiarare alla Consob, in
violazione dell'art. 122 tuf e della disciplina concernente l'offerta pubblica
di acquisto obbligatoria (art. 102 e ss tuf), l'avvenuta stipulazione di un
patto parasociale avente ad oggetto l'acquisto concertato di azioni ordinarie
della banca Antonveneta e l'esercizio anche congiunto di un'influenza dominante
sulla banca stessa, nei termini accertati da Consob con delibera n. 15029 del
10.5.2005, negandone l'esistenza in sede di audizione;- omettevano, anche dopo
l'atto di accertamento del 10.5.2005 (delibera n. 15029) e sempre in violazione
dell'art. 122 tuf e della disciplina concernente l'offerta pubblica di acquisto
obbligatoria (art. 102 ss. Tuf), di dichiarare alla Consob, la partecipazione
al patto della Magiste International S.a.;in particolare:- veniva occultata la
riconducibilità al "Gruppo Ricucci" di Garlsson Real Estate
S.a. Ltd, che aveva acquistato azioni Antonveneta con finanziamenti di Bpl
Suisse, garantiti da fideiussione di Bpl;- Ricucci e Fransoni, sia rispondendo
a richieste scritte della Consob sia in sede di audizione fornivano false
informazioni anche in violazione dell'art. 120 tuf in materia di comunicazione
di partecipazioni rilevanti riguardo all'effettiva partecipazione in
Antonveneta, riferibile al "Gruppo Ricucci", e negavano l'esistenza
di patti occulti;- Ricucci e Fiorani, previo accordo, nel corso delle
rispettive audizioni (in data 8 e 12 luglio 2005) e con successiva nota
congiunta (pervenuta alla Consob in data 15 luglio 2005), negavano che la bozza
manoscritta dell'intervento di Fransoni quale rappresentante del "Gruppo
Ricucci" all'assemblea ordinaria di Antonveneta (30 aprile 2005), fosse
stata tra loro stessi concordata, così ulteriormente occultando
l'esistenza del concerto poi accertato da Consob con la delibera n. 15115 del
22 luglio 2005;- omettevano, nelle comunicazioni concernenti le partecipazioni
detenute da Bpi in Antonveneta, dovute ai sensi dell'art. 120 tuf e della
normativa secondatia (Regolamento emittenti approvato con delibera Consob n.
11971/99), nonché in riscontro a specifiche richieste formulate da Consob ai
sensi dell'art. 115 tuf, di dichiarare le azioni Antonveneta, detenute dalla
stessa Bpi, per il tramite di Generation Fund, Active Fund e Momentum Fund,
riconducibili a Colnago e che agivano, quali interposti della banca (come
accertato da Consob con delibera n. 15116 del 22 luglio 2005).Con le
circostanze aggravanti di aver commesso il reato con il concorso di un numero
di persone superiore a cinque e per eseguire ed occultare il reato di
manipolazione dell'azione ordinaria Antonveneta (contestato sub B.).In Roma da
novembre 2004 sino al 22 luglio 2005.***Fiorani, Benevento, Boni, Gnutti,
Marinelli Luciano, Marniga, Lonati Ettore, Lonati Tiberio, Lonati Fausto,
Ricucci, Fransoni, Consorte, Sacchetti Coppola, Zunino, ColnagoD. del delitto di
cui agli artt. 81 cpv, 110, 112, comma 1, n. 1), 61 n. 2 c.p., 2638, commi 1 e
2 c.c. perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ed in
continuazione con i fatti di cui al capo B.,Fiorani quale amministratore
delegato e Benevento quale presidente del consiglio di amministrazione di Bpi,
in concorso tra loro e con Boni, che agiva in stretta collaborazione con
l'amministratore delegato, in concorso tra loro, (...)consapevolmente
ostacolavano le funzioni di vigilanza della Banca d'Italia omettendo, in
violazione delle disposizioni di cui all'art. 20, comma 2 tub, di comunicare
l'esistenza di un patto parasociale del quale derivava, in particolare,
l'esercizio concertato del voto nell'assemblea ordinaria per il rinnovo delle
cariche sociali di Antonveneta (30 aprile 2005), con la nomina di tutti i
rappresentanti della lista di Bpl.Con le circostanze aggravanti di aver
commesso il reato con il concorso di un numero di persone superiore a cinque e
per eseguire ed occultare il reato di manipolazione dell'azione ordinaria
Antonveneta (contestato sub B.).In Roma da novembre 2004 sino al 22 luglio
2005.***Fiorani, Benevento, Zoncada, Olmo, Savoldi, Visconti di Mondrone,
Premoli, Gattoni, Mayr, Molinari, Chiaravalle, Pavesi, Tessera, Castellotti,
Ferrari Francesco, Lanzoni, Zucchetti, Goisis, Vesce, Bonazzi, Araldi,
Quartieri, Boni, Lucchini, Rovelli, Savarè, Vismara, D'Amico, GnuttiE.
del delitto di cui agli artt. 81 cpv, 110, 113, comma 1, n. 1), 61 n. 2 c.p.,
2638, commi 1 e 2 c.c., perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso
e in continuazione con i fatti di cui al capo B.,Fiorani (quale amministratore
delegato), Benevento (quale presidente del consiglio di amministrazione),
Zoncada, Olmo, Savoldi, Visconti di Modrone, Premoli, Gattoni, Mayr, Molinari,
Chiaravalle, Pavesi, Tessera, Castellotti, Ferrari, Lanzoni, Zucchetti (quali
consiglieri di amministrazione di Bpi), in concorso tra loro,ed, inoltre, con
Goisis, Vesce, Bonazzi, Araldi, Quartieri membri del collegio sindacale di Bpi,
e con Boni, Lucchini, Rovelli, Savarè, Vismara, D'Amico esponenti
bancari di Bpi con funzioni dirigenziali e preposti alla redazione dei
documenti contabili societari per le rispettive aree di competenza,
segnatamente: Boni, Lucchini e Rovelli per l'area finanza, Savarè per
l'area amministrazione, Vismara per l'area corporate, D'Amico, responsabile
della direzione centrale organizzazione, incaricato dall'amministratore
delegato di curare le relazioni con le autorità di vigilanza,nonché in
concorso con Gnutti, quale amministratore di Gp Finanziaria spa (il cui apporto
causale e consistito nel contribuire, con la propria condotta materiale, a
retrodatare il contratto di cessione di partecipazioni di minoranza dal gruppo
Bpi a Gp Finanziaria),consapevolmente ostacolavano le funzioni di vigilanza
della Banca d'Italia (...).***FioraniF. del delitto di cui all'art. 2638, commi
1 e 2 c.c., perché, quale amministratore delegato della Bipielle (ora Bpi),
sentito dagli ispettori della Consob in data 27 giugno 2002, relativamente alla
procedura aperta dalla Commissione sulla acquisizione da parte di Bpi della
Banca Popolare di Crema, al fine di occultare il "portage" effettuato
da Beccaria sui titoli della banca "scalata", falsamente
dichiarava:"All'epoca del rilascio delle fideiussioni, Beccaria era uno
dei principali soci della Bpl nonché uno dei clienti di riferimento della banca
(che era esposta per circa 250 miliardi di lire nei confronti del gruppo
Beccaria). Beccaria operava spesso sia in titoli che nell'investimento di aziende;
aveva rapporti molto stretti sia con Mazza sia con il Consiglio di
Amministrazione. Dopo la morte di Mazza decisi di alleggerire l'esposizione
della Bpl nei confronti di Beccaria suggerendogli di razionalizzare le sue
partecipazioni per ridurre il grado di rischio. La banca non era a conoscenza
delle modalità di impiego, da parte del Beccaria, delle somme ottenute;
comunque non si può escludere che le abbia utilizzate per acquistare
azioni Banca Popolare di Crema, così come del resto per qualsiasi altro titolo".Circostanze
tutte non vere in quanto Beccaria aveva svolto il ruolo di mero prestanome
della Bpl, schermandola quale beneficiario e procuratore dei conti svizzeri
presso Bdl-Lugano, Sbs-Lugano e Ubs-Londra, intestati a società off-shore
ma garantiti da collateral finanziati dalla stesssa Bpl e utilizzati per
"parcheggiare" i titoli della Banca Popolare di Crema, ceduti dalla
Summa s.a. al gruppo Bipielle, con contratto stipulato in Lugano il 26 febbraio
1996 tra la predetta fiduciaria elvetica e lo stesso Fiorani, che sottoscriveva
quale direttore generale della Banca Mercantile Italiana.In Roma il 27 giugno
2002.***Fiorani, Spinelli, Quartieri, Ferrari MarinoG. del reato di cui agli
artt. 110, 81 cpv c.p., 136, commi 1 e 2 d. leg.vo 385/1993 e successive
modifiche (t.u.b.), perché Fiorani amministratore delegato della Bpi, Quartieri
quale sindaco di Bpi in concorso tra loro, con più azioni in esecuzione
di un medesimo disegno criminoso, contraevano obbligazioni con la Bpi, erogando
(Fiorani anche direttamente) finanziamenti a numerose società
immobiliari agli stessi riconducibili, tra le quali: Arcene Immobili srl,
Arcene Infra srl, Borgo Centrale spa, Borgo Nobile srl, Edilchiara Immobiliare
srl, Frontemare srl, Giorni Sereni srl, Immobiliare Marinai d'Italia srl,
Liberty srl, Patrimoniale degli Orsi srl, Perca srl, Pmg.In assenza sia delle
previe deliberazioni dei competenti organi di amministrazione sia del voto
favorevole di tutti i componenti dei competenti organi di controllo, non
essendo stata neanche segnalata la situazione di conflitto.In Lodi fino al
2.8.2005.***Fiorani, Marmont, ContiH. del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv,
646, 61 n. 7 e n. 11 c.p., perché Fiorani in qualità di amministratore
delegato di Bpl, Marmont e Conti, quali fiduciari dei venditori (Gruppo
Bassani) e, da questi, delegati a trattare l'operazione in concorso tra loro,
con più azioni in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, per
procurarsi un ingiusto profitto, si appropriavano di una parte del prezzo pagato
da Bpl ai proprietari della Banca Adamas, il cui pacchetto azionario veniva
interamente acquisito in tre tempi con il contemporaneo pagamento dei
corrispettivi (per le singole tranche), maggiorati della quota stimabile, come
non inferiore a 5-6 milioni di euro, retrocessa da parte venditrice, per il
tramite di Conti e Marmont, su conti esteri (presso Bdl-Lugano e Pkb-Lugano),
riconducibili a Fiorani; ed, in particolare, in data 26 settembre 2002,
trasferivano dal conto Basinco Nv (società del Gruppo Bassani) presso
Bipielle Suisse al conto Strozzi presso Pk-Lugano, riferibile a Fiorani, la
somma di euro 3.450.000.Con le circostanze aggravanti di aver commesso il fatto
cagionando alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante
gravità nonché di aver commesso il fatto con abuso di prestazione di
opera.In Milano ed in Lugano dal 2000 al 2003.***Fiorani, Zoncada, Marmont,
Conti, Corbini, Quartieri, GhioldiI. del reato di cui agli artt. 110, 646, 61
n. 7 e n. 11 c.p. perché, in concorso tra loro, Fiorani (in qualità di
amministratore delegato di Bpl e con incarico, da parte del cda di Bpl re, di
alienare la società Mizar, proprietaria degli asset immobiliari
già appartenenti alle casse del Tirreno); Zoncada (quale Presidente di
Bipielle Suisse e consigliere di amministrazione di Bpl); Conti e Marmont anche
quali consiglieri del cda di Bpl Suisse; Corbini (quale amministratore delegato
della Cassa di Risparmio di Livorno); Quartieri (che agiva quale prestanome di
Fiorani, che lo aveva delegato a curare), Ghioldi (quale consulente e
fiduciario svizzero),al fine di trarne profitto, si appropriavano di una parte
del corrispettivo pagato da Castrucci Riccardo per acquisire, tramite Cre Sen
srl, le quote, possedute dai soci Yol Trading Ltd (di cui Conti e Marmont figuravano
quali soci e Fiorani era "socio occulto"), Conti e Marmont, di Mizar
srl, società-veicolo costituita da Basileus spa, a sua volta controllata
al 100% da Bpl Real Estate, e nella quale erano stati conferiti gli asset
immobiliari già appartenenti alle casse del Tirreno ed iscritto il
debito verso Efibanca, dell'importo di circa 50.000.000 di euro, utilizzati dal
Gruppo Bpl per rilevarli;in particolare:- subordinavano un significativo sconto
sul prezzo delle quote di Mizar al pagamento di una quota parte "in
nero" ed all'estero;- Quartieri, su delega di Yol Trading Ltd e di Conti e
Marmont perfezionava il contratto e riceveva da Castrucci un milione di euro
quale corrispettivo (puramente formale) da iscrivere nel rogito per la cessione
delle quote di Mizar srl e Cre.Sen srl;- Bipielle Suisse, concedeva, con la
garanzia fideiussoria della Cassa di Risparmio di Livorno, finanziamenti alle
società Coconuts e Ben.Ben (riferibili a Castrucci, anche per il tramite
di Floriani Eliano), rispettivamente per euro 11.000.000 e per euro 3.640.000;-
Ghioldi riceveva due assegni circolari, tratti sul conto Coconuts (uno di tre e
l'altro di otto milioni di euro) entrambi a lui intestati, per essere poi
spartiti, all'estero, con Fiorani, Conti, Marmont, Quartieri e Zoncada;-
Corbini (per il tramite di Floriani) riceveva euro
( Cittadino,
Il del 17/02/2007 )
? FIRENZE ? GLI ENTI PUBBLICI della Toscana
sono troppo spendaccioni, soprattutto quando affidano consulenze o incarichi
esterni senza che ce ne sia un'effettiva necessità con u'utilità
"irrilevante o scarsa" per l'ente stesso. E' uno dei passaggi
principali del'interventi del procuratore regionale Claudio Galtieri alla cerimonia
di apertura dell'anno giudiziario della Corte dei conti della Toscana, che si
è svolta ieri a Firenze. IN GENERALE, riassumendo l'attività
della magistratura contabile regionale nell'anno appena trascorso e i dati in
materia di responsabilità amministrativa e contabile, il presidente
della sezione giurisdizionale per la Toscana, Giancarlo Guasparri, ha
sottolineato che "l'ammontare complessivo delle condanne per danni
erariali è di un milione e seicentomila euro", con un consistente
aumento dei procedimenti arrivati a sentenza (134) del 285 per cento rispetto
al 2005. Nello specifico dettaglio, le spese a carico del settore pubblico
passate nel 2006 sotto l'esame della Corte toscana si riferivano soprattutto a
incidenti stradali con mezzi delle amministrazioni pubbliche, a furti e truffe
in ambienti militari e scolastici, all'uso arbitrario di cellulari e carte di
credito degli uffici, a rimborsi non dovuti da parte delle Asl e a dipendenti
retribuiti anche se assenti dal servizio. "Particolare considerazione
meritano ? ha aggiunto il procuratore Galtieri ?, per la loro frequenza, le
fattispecie relative al mancato tempestivo versamento di somme incassate da
parte di ricevitorie Lotto e quelle relative a incarichi e consulenze conferiti
in assenza di presupposti ovvero con irrilevante o scarsa utilità per
l'ente locale", aggiungendo che la frequenza di questo tipo di
procedimenti "costituisce sintomo evidente di marcata diffusione del
fenomeno". SULLA MEDESIMA questione si è soffermato anche Guasparri
che, citando un disegno di legge nazionale contro gli sprechi, ne ha
sottolineato l'importanza specie "laddove si stabilisce un tetto agli
emolumenti e al numero dei componenti del consiglio di amministrazione nelle
società a totale o prevalente partecipazione pubblica, numero che, nella
realtà, viene in genere determinato non da una equilibrata valutazione
delle esigenze della società, bensì dalla necessità di
distribuire i posti disponibili tra gli sponsor politici in modo tale da
acquisire il consenso necessario alla costituzione della società",
determinando così anche l'utilizzo delle società "per
soddisfare le pressioni clientelari". Infine, parlando della
"proliferazione delle società miste", Guasparri ha anche
ricordato che la norma anti sprechi "con riguardo a Regioni ed enti
locali, tocca anche la questione del turismo istituzionale e delle
rappresentanze all'estero".
ROMA - Badanti addio. Arriva l'assistente familiare o 'l'addetta alla
cura della persona': nel nuovo contratto delle colf viene eliminata la parola
badante ancora usata nel linguaggio comune e sui permessi di soggiorno e si
chiariscono i profili delle collaboratrici domestiche. L'intesa per il rinnovo
del contratto nazionale del settore lavoro Domestico, è stata ratificata
oggi da Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs Uil, alla presenza del ministro
del Lavoro, Cesare Damiano, chiudendo, così, una trattativa durata circa
2 anni.
"Ci auguriamo - spiega Laudina Zonca numero uno di Federcolf - che la
parola badante sparisca dalle carte d'identità, dai permessi di
soggiorno e dalle dichiarazioni all'Inps: nel contratto abbiamo definito per i
diversi livelli di cura della casa e di assistenza alle persone diversi livelli
retributivi".
Così, se per un collaboratore familiare fisso in casa con meno di 12
mesi di esperienza non addetto all'assistenza di persone lo stipendio base
mensile è di 550 euro, per un lavoratore che fa assistenza a persone
autosufficienti (anziani e bambini) lo stipendio base mensile passa a 750 euro.
Se la mansione di vigilanza di bambini è occasionale ed esclude
"qualsiasi prestazione di cura" lo stipendio base è di 650
euro.
Nel contratto si chiarisce che, nel caso di assistenza a persone non
autosufficienti (livello C super), per il lavoratore che conviva con l'anziano
o la persona non autosufficiente lo stipendio base è di 850 euro. E se
la badante è una parola che tenderà a scomparire (non è
mai citata nel contratto), l'accordo riporta invece termini che rimandano a
tempi passati.
Nel livello D, e con stipendi base superiori a 1.000 euro, è previsto
l'amministratore dei beni di famiglia che "svolge mansioni connesse
all'amministrazione del patrimonio familiare", il "maggiordomo"
con "mansioni di gestione e di coordinamento relative a tutte le esigenze
connesse ai servizi rivolti alla vita familiare", ma anche la
"governante" con "mansioni di coordinamento relative alle
attività ci cameriere di camera, di stireria, di lavanderia, guardaroba
e simili", il "capocuoco" e l'istitutore" per le mansioni
di "istruzione e/o educazione dei componenti il nucleo familiare".
Il livello D super, con uno stipendio base superiore ai 1.050 euro è
previsto per il lavoratore assistente a persone non autosufficienti
"formato" e il "direttore di casa" che svolge mansioni di
coordinamento relative a tutte le esigenze connesse all'andamento della casa.
Per i lavoratori non conviventi, è prevista una tabella oraria collegata
alle diverse mansioni (da un minimo di 4 euro per i collaboratori domestici
senza esperienza ai 7,1 per gli assistenti formati per la cura delle persone
non autosufficienti).
Complessivamente, il contratto riguarda circa 1,2 milioni di persone per una
platea potenziale di circa cinque milioni di nuclei familiari datori di lavoro
(molte collaboratrici domestiche lavorano in più famiglie). "Siamo
orgogliosi - ha detto il ministro del Lavoro Cesare Damiano - di aver
contribuito a risolvere il problema del contratto. Ma se le parti non avessero
voluto risolverlo il nostro lavoro sarebbe stato vano".
(16 febbraio 2007)
INDICE 16-2-2007
·
+ Da La Stampa 16-2-2007 16/2/2007
(12:23) - CASO ABU OMAR Pollari rinviato a giudizio
·
Da Milano Finanza
16-2-2007 Così funzionava la rete dei furbetti
·
Da
canali.libero.it/affariitaliani Brancher, l'uomo chiave. E anche la sinistra...
Il
processo è fissato per l’ 8 giugno
MILANO
Saranno tutti processati l’ex capo del sismi, Nicolò Pollari, il suo
vice, Marco Mancini, e i 26 agenti della Cia coinvolti nel rapimento dell’ex
imam di viale jenner, Abu Omar, effettuato in territorio italiano il 17
febbraio 2003, per loro l’accusa è di concorso in sequestro di persona.
Il rinvio a giudizio è stato deciso dal Gup di Milano, Caterina
Interlandi, al termine di una camera di Consiglio durata poco più di
un’ora. il processo prenderà il via il prossimo 8 giugno davanti ai
giudici della quarta sezione penale di Milano.
ROMA - "La prende il manager, l'emarginato e il bel ciclista, ma
è solo per l'onorevole che la narcotici ha la svista". A
quattordici anni di distanza dalla canzone-denuncia di Paolo Rossi, le cose
potrebbero cambiare in Parlamento se andasse in porto la proposta di legge
anti-doping di Pier Ferdinando Casini. L'ex presidente della Camera aveva
annunciato l'iniziativa tre mesi fa, all'indomani dello scoop delle Iene -
bloccato dal garante per la Privacy - che aveva dimostrato come un quinto dei
deputati "testati" avesse fatto uso di stupefacenti. Da lì
l'idea di prevedere un test obbligatorio per tutti i parlamentari,
immediatamente subissata di critiche da destra e da sinistra.
Casini tuttavia è andato avanti lo stesso e due giorni fa, in sordina,
ha inviato a molti deputati la sua proposta di legge. "Caro collega - si
legge nella lettera di accompagnamento - considerata la delicatezza del tema ti
sottopongo il testo della proposta ancor prima del suo deposito, con preghiera,
qualora fossi interessato, di farmi pervenire con sollecitudine la tua
adesione. E' un atto di trasparenza il cui significato simbolico non ti
sfuggirà".
E quindi, per eliminare quella sgradevole sensazione di doppio standard che
circonda spesso la vita del parlamentare, Casini suggerisce una misura
draconiana: il test obbligatorio periodico. "All'atto dell'assunzione
della carica - recita l'articolo 2 del ddl - i deputati e i senatori sono
sottoposti ad accertamenti sull'uso di sostanze stupefacenti a cura di
strutture pubbliche". Certo, i parlamentari "possono rifiutarsi di
sottoporsi all'accertamento". Ma in quel caso scatterebbe la gogna
mediatica, visto che i presidenti delle Camere "provvederanno a rendere
pubblici i dati relativi agli accertamenti, insieme all'elenco dei parlamentari
che si sono rifiutati di sottoporsi all'accertamento". Nella relazione
Casini prova a superare le prevedibili obiezioni. Facendo il paragone con
alcuni professionisti - come il pilota d'aerei - che già oggi "sono
sottoposti a verifiche obbligatorie", sostiene che "a maggior ragione
si deve ritenere possibile prevedere analoghi controlli su chi ha la
responsabilità di assumere decisioni di interesse generale".
Occorre chiarire, prosegue infatti, "se chi detta regole, anche per la
repressione dei reati connessi al commercio di sostanze stupefacenti, possa
essere un consumatore". E se qualcuno avesse da ridire sulla privacy, l'ex
presidente della Camera ricorda che già ora la legge impone che deputati
e senatori debbano rendere note "informazioni personali su beni e redditi
posseduti, nonché sulle obbligazioni assunte per la campagna elettorale".
Dunque via ai controlli anti-doping. Con un solo dubbio. L'accertamento sarebbe
"ripetuto annualmente in una data stabilita dai presidenti delle
Camere". Facile prevedere che il fatidico giorno X sarebbe noto a tutti
gli interessati, che avrebbero così un ampio margine di tempo per far
sparire ogni traccia. Agli sportivi invece i controlli antidoping vengono fatti
a sorpresa. Magari di notte, senza troppi complimenti.
(16 febbraio 2007)
ROMA
Alcuni sindaci, come Sergio Cofferati e Valter Veltroni, hanno deciso di
affrontare l’impopolaritа, costi quel che costi. Altri, come la milanese
Letizia Moratti o il veneziano Massimo Cacciari, per ora coprono gli aggravi
con gli utili delle societа controllate dal Comune. Poi si vedrа.
Come molti temevano, gli effetti della Finanziaria 2007 sugli enti locali
cominciano a produrre i loro risultati. E in alcuni casi mostrano giа
come gli sgravi Irpef sul reddito saranno ampiamente superati dagli aggravi
delle imposte comunali. Ieri и scaduto il termine per far scattare sin
dal prossimo acconto l’addizionale comunale sul reddito. La manovra, che ha
tagliato in parte i trasferimenti, permette ai sindaci di applicare l’aliquota
al rialzo fino al limite dello 0,8%. All’appello dell’«aggiornamento» sul sito
del Dipartimento delle politiche fiscali si sono presentati piщ di 850
Comuni, uno su dieci. Il cosiddetto campione si и diviso: metа ha
alzato l’aliquota, metа l’ha lasciata invariata. Fra le «grandi» che
aumentano la tassa ci sono Aosta (da zero a 0,3%), Bologna (da
Calcolare un saldo positivo o negativo и tutt’altro che semplice. Ma
senza dubbio in alcuni casi l’effetto verrа moltiplicato dal ritocco di
altre imposte locali. In alcune cittа si pagherа di piщ non
solo per l’addizionale comunale, ma и in vista anche l’aumento di quella
regionale o dell’Ici. L’Irpef regionale salirа ad esempio in Umbria,
Emilia-Romagna e Lazio. Quindi a Perugia, Bologna e Roma i vantaggi fiscali
della manovra saranno in gran parte assorbiti dagli aumenti locali. A Bologna -
calcolava lunedм il Sole 24 Ore - l’aumento delle due addizionali
costerа a un single con 37mila euro di reddito annuo, 350 euro di tasse
in piщ. Chi ne guadagna 30mila, invece di risparmiare 83 euro
pagherа
La soglia oltre la quale i vantaggi si trasformano in aggravi cambia da
cittа a cittа. Se con moglie e due figli a carico il ministero
delle Finanze calcola sconti per chi guadagna 43mila euro l’anno, a Roma la
soglia si fermerа a circa 32mila euro, a Torino a 38mila. Per avere un
bilancio piщ chiaro bisognerа comunque aspettare. Perchй ci
sono Comuni nei quali ad esempio sta crollando l’appeal dell’Ici sull’immobile
di abitazione, una tassa considerata poco progressiva e penalizzante per le
famiglie. Quest’anno scenderа a Milano, Roma, Bari e L’Aquila. Il calo
sta pesando inoltre sulla nuova «tassa di scopo», nata con la manovra 2007 per
finanziare le infrastrutture come addizionale all’imposta sulla casa.
( Gazzetta
del Sud del 16/02/2007 )
"Anche gli ex vertici Unipol nel patto
occulto" Secondo la Procura di Milano Antonio Fazio si assunse l'impegno
di ostacolare Abn Amro MILANO Richiesta di rinvio a giudizio in vista per l'ex
governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio. Nell'avviso di chiusura delle
indagini sulla tentata scalata ad Antonveneta depositato ieri dai sostituti
procuratori della Repubblica di Milano Greco, Fusco e Perrotti Fazio non
è più accusato d'abuso d'ufficio bensì per concorso in
aggiotaggio. Per Gianpiero Fiorani, l'ad di Bpi-Banca popolare italiana (l'ex
Lodi) in lotta con gli olandesi di Abn Amro per il controllo dell'istituto
padovano, si ipotizza invece l'associazione per delinquere finalizzata
all'appropriazione indebita e all'aggiotaggio. Diverse le imputazioni per gli
84 indagati e 9 società, i pattisti occulti che diedero un sostegno
interessato allo scalatore. Nell'elenco, oltre ai nomi noti (il finanziere
bresciano Emilio Gnutti, l'immobiliarista Stefano Ricucci, i frateli Lonati, il
presidente di Bpi, Benevento, i tre manager della banca Boni, Savarè,
Lucchini) compaiono a sorpresa i due ex leader di Unipol, gli allora presidente
Giovanni Consorte e ad Ivano Sacchetti, chiamati a rispondere di appropriazione
indebita per una parte dei soldi incassati; di riciclagio per il resto.
Dall'inchiesta, iniziata nel 2005, escono 3 politici (il leghista Giorgetti e i
forzisti Dell'Utri e Previti) restano invece Calderoli (Lega) Tarolli (Udc) e
Brancher (Forza Italia) iscritti nel registro degli indagati con l'ipotesi di
appropriazone indebita. E resta anche Luigi Grillo, l'ex senatore di Forza
Italia che veniva ritenuto il leader del partito pro Fazio. Grillo, sostengono
i tre pm, "contribuiva a trasferire da Fazio a Fiorani informazioni
riservate riguardanti gli iter e i procedimenti di autorizzazione e le
iniziative del servizio di vigilanza della Banca d'Italia nei confronti di
Bpi". Si arriva così al punto fondamentale di tutta la vicenda: il
ruolo del governatore Fazio e del suo capo del servizio di vigilanza, Francesco
Frasca che, partecipando "agli incontri riservati nei quali il governatore
veniva informato da Fiorani e Boni di acqisizioni e patti, manifestava
l'esplicito assenso alla linea di Fazio". Capo con poteri assoluti della
banca centrale, l'ex governatore era il vero dominus della situazione, il
garante degli interessi del Paese e del rispetto delle regole. Dovere al quale
sostiene la Procura di Milano si è sottratto, fino ad assumere un
"concorso morale" con scalatori e pattisti occulti. Fazio, si legge
nel lungo testo (43 pagine) del provvedimento, "anche in violazione dei
doveri e degli obblighi inerenti la carica di governatore della Banca d'Italia,
assumeva con Fiorani, dapprima l'impegno di ostacolare Abn-Amro nell'eventuale
incremento della partecipazione in Antonveneta; successivamente al lancio
dell'Opa da parte della stessa Abn, ritardava il rilascio delle necessarie
autorizzazioni, per consentire a Bpi di proseguire nel rastrellamento occulto
di azioni". Non solo, Fazio "esortava Fiorani e Boni, nel corso di
periodici incontri riservati, a superare, con le acquisizioni indirette di
partecipazioni e la costituzione dei patti occulti, le soglie autorizzate da
Banca d'Italia, istigando gli stessi Fiorani e Boni, a proseguire nella scalata
occulta; approvava, la sera prima dell'assemblea di Antonveneta per il rinnovo
delle cariche (30 aprile 2005), le strategie di voto concordate dai pattisti
occulti; incitava Fiorani e Boni ad andare avanti anche dopo l'atto di
accertamento del 10 maggio 2005 pur sapendo che del concerto facevano parte
altri soggetti (tra cui Ricucci) non ancora inseriti dalla Consob tra i concertisti".
(r.m.)
Per
Fiorani si ipotizza l'associazione per delinquere finalizzata all'aggiotaggio
(venerdì 16 febbraio 2007).
( Milano Finanza del
16/02/2007 )
MF Così funzionava la rete dei
furbetti Documento tutte le accuse dei pm contenute nell'avviso di chiusura
delle indagini. Fiorani dirigeva l'associazione per delinquere assieme a Marmont,
Conti, Ghioldi, Quartieri, Ferrari, Spinelli. Da Roma arrivava il sostegno di
Bankitalia. E Consorte e Sacchetti incassavano milioni da Gnutti Ecco alcuni
estratti dell'avviso di chiusura delle indagini notificato ieri dalla procura
di Milano agli 84 indagati dell'inchiesta sulla scalata Antonveneta.Gianpiero
Fiorani, a.d. della Popolare italiana fino al 2 agosto 2005. 'Costituiva,
promuoveva, organizzava e dirigeva l'associazione criminosa: a) 'Individuando
le operazioni immobiliari e finanziarie dalle quali trarre illeciti profitti,
tra cui la scalata alla Banca Antonveneta (condotta con modalità
manipolative e ostacolando l'esercizio delle funzioni delle autorità
pubbliche di vigilanza)'; b) 'Occupandosi, personalmente o per il tramite di
soggetti di sua fiducia, delle trattative, anche occulte, relative
all'acquisizione della Banca Adamas ed alla dismissione degli asset immobiliari
del gruppo Bipielle (operazione 'Mizar-Casse del Tirreno'), trattative dalle
quali conseguiva, per sé e per altri, ingenti profitti illeciti; c) 'Creando
strutture estere off-shore con conti presso banche svizzere, monegasche, del
Jersey e di Singapore per occultare il provento delle operazioni di cui al
precedente punto e delle altre descritte ai successivi; d) 'Seguendo di
persona, sia in comitato esecutivo che in consiglio di amministrazione e
comunque avvalendosi della sua posizione apicale all'interno del gruppo
Bipielle, le procedure per la concessione di linee ai credito (anche a tassi
agevolati e senza prestazione di garanzie) con le quali finanziare operazioni
mobiliari ed immobiliari di interesse per l'organizzazione; e) 'Favorendo
l'apertura di conti correnti e dossier titoli e l'erogazione di finanziamenti a
'clienti privilegiati', i cui conti venivano gestiti direttamente dall'area
finanza della banca.Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia. 'Anche
in violazione dei doveri e degli obblighi inerenti la carica di governatore
della Banca d'Italia': a) 'Assumeva, con Fiorani, dapprima l'impegno di ostacolare
Abn Amro nell'eventuale incremento della partecipazione in Antonveneta
(garantendogli che comunque mai l'avrebbe autorizzata a salire oltre il 12-13%)
e, successivamente al lancio dell'opa, da parte della stessa Abn, ritardava il
rilascio delle necessarie autorizzazioni, per consentire a Bpi di proseguire
nel rastrellamento occulto di azioni Bapv';b) 'Esortava Fiorani e Boni, nel
corso di periodici incontri riservati, a superare, con le acquisizioni
indirette di partecipazioni e la costituzione dei patti occulti sopra indicati,
le soglie autorizzate da Banca d'Italia, rispettivamente, in data 14/02/2005
(fino al 14,9%) ed in data 7/04/2005 ( fino al 29,9%), istigando, gli stessi
Fiorani e Boni, a proseguire la scalata occulta';c) 'Approvava la sera prima dell'assemblea
ordinaria di Antonveneta per il rinnovo delle cariche sociali (30/04/2005), le
strategie di voto concordate dai patti occulti';d) 'Incitava Fiorani e Boni ad
andare avanti anche dopo l'atto di accertamento del 10/5/2005 pur sapendo che
del 'concerto' facevano parte altri soggetti (tra cui Ricucci) non ancora
inseriti dalla Consob tra i concertisti'.Francesco Frasca: 'Anche in violazione
dei doveri e degli obblighi inerenti la carica di capo del servizio di
vigilanza della Banca d'Italia':a) 'Partecipava agli incontri riservati nei
quali il governatore veniva informato da Fiorani e Boni, delle acquisizioni di
partecipazioni indirette e dei patti, manifestando, con la stessa presenza e
l'esplicito assenso alla linea del governatore Fazio, il suo atteggiamento di
favore a Bpi, specialmente quale capo della vigilanza della Banca d'Italia';b)
'Si metteva, altresì, a disposizione per fronteggiare l'eventuale
insorgenza di problematiche tra Bpi e il servizio di vigilanza, nel corso
dell'operazione Antonveneta'.Luigi Grillo, senatore di Forza Italia.
'Contribuiva a trasferire, da Fazio a Fiorani, informazioni riservate
riguardanti l'iter dei procedimenti di autorizzazione e le iniziative del
servizio di vigilanza della Banca d'Italia nei confronti di Bpi:a) 'Nello
svolgimento dell'attività descritta al precedente punto, forniva ai suoi
interlocutori consigli e incoraggiamenti, specialmente a Fiorani, esortandolo a
proseguire nella scalata occulta all'Antonveneta anche in presenza delle
difficoltà che nel frattempo erano intervenute (accertamento del
concetto in data 10/5/2005, iniziative della magistratura)'.Giovanni Consorte,
Ivano Sacchetti, Emilio Gnutti, Gianpiero Fiorani, Gianfranco Boni. Indagati
per 'il delitto di cui agli art. 110,81 cpv, 646, 61 n°7 e n°11 c.p., perché,
in concorso tra loro ed in esecuzione di un unico disegno criminoso, dovendo
Gnutti, presidente Hopa spa, C+G spa (ora Holinvest spa), Holinvest spa e di Gp
Finanziaria spa, erogare somme di denaro a Consorte e Sacchetti, versava, agli
stessi, la complessiva somma di circa 40 milioni di euro, facendo acquistare,
dalle predette società, ai blocchi e con operazioni costruite ad hoc,
titoli venduti dai predetti Consorte e Sacchetti, a prezzi superiori a quelli
di mercato. Fiorani e Boni mettevano a disposizione di Consorte e Sacchetti':a)
'I conti correnti 046/1009/08 (in data 29/10/2001), affidandoli nella misura
necessaria per effettuare un'operazione di trading immobiliare, curati da Boni
d'intesa con Fiorani, dalla quale conseguiva una plusvalenza di 2.587.449,00 su
ciascun conto, realizzata per mezzo dell'acquisto di azioni Olivetti, sul
mercato, e alla contestuale cessione delle stesse a un prezzo del 95% circa
superiore a quello di mercato, rivendute in blocco, su disposizione di Gnutti
Emilio, ai figli Thomas Arianna Gnutti, i quali, a loro volta, le rivendevano
al medesimo prezzo (quello maggiorato del 95% rispetto al prezzo del mercato) a
C+G spa';b) 'Quindi mettevano a disposizione di Consorte e Sacchetti gli altri
due conti 046/1039/38 e 046/1038/37 (in data 19/11/2001), sui quali, venivano
bonificate le plusvalenze realizzate (con l'operazione sui titoli Olivetti su
indicata) e concessi affidamenti nella misura necessaria per effettuare
ulteriori operazioni di trading mobiliare, curate da Boni d'intesa con Fiorani,
dalle quali conseguiva una complessiva plusvalenza di 34.600 mila euro,
realizzata per mezzo dell'acquisto dei titoli a prezzi di mercato da parte di
Consorte e Sacchetti e la contestuale rivendita degli stessi alle società
e con le modalità di seguito indicate, che li acquistavano, su
disposizione di Gnutti, ai blocchi, a prezzi notevolmente superiori' (con
plusvalenze totali pari a 34,6 milioni di euro, ndr). 'Plusvalenze in gran
parte trasferite su mandati fiduciari intestati a Consorte e Sacchetti
segnatamente per euro 23.800 mila presso la Unione Fiduciaria di Milano e per
euro 9.600 mila presso la Gabriel Fiduciaria di Torino'.Paolo Marmont, Fabio
Massimo Conti, Francesco Ghioldi,' i primi consiglieri in Bipielle suisse e
Conti anche in diverse società del gruppo Bipielle, il terzo consulente
legale nonché fiduciario svizzero partecipava all'associazione':a)
'Predisponendo e gestendo le strutture societarie ed i relativi rapporti
bancari (accesi, soprattutto presso Bdl-Jersey, Singapore e Lugano), in
particolare mettendo a disposizione dell'organizzazione le società: Yol
trading corporation, Zachs engineering corp. Marina invest sa, Celleck
financial services inc, Hinton research sa, Canterbury global sa, Borgo Nobile
sa, Victoria & Eagle, utilizzate per depositare i proventi delle
attività illecite dell'associazione e per 'schermare' la
riconducibilità all'associazione delle società
immobiliari/finanziarie italiane capitalizzate e/o finanziate con i proventi
generali dalle illecite attività';b) 'Gestendo i conti esteri in Bpl
riferibili a Fiorani, Spinelli e Boni, tra i quali il conto Targum e i conti
Brunner 1 e 2';c) 'Ghioldi altresì agendo quale procuratore di diverse
società off-shore, fiducianti della Compagnia fiduciaria nazionale spa,
con sede a Milano, utilizzata per intestazioni fiduciarie di società
riconducibili al Fiorani e Spinelli (Silvano, ndr)'.Aldino Quartieri, 'sindaco
di Bpi, partecipava all'associazione criminosa: costituendo o figurando nella
compagine sociale/domiciliando/rappresentando (pure per procura)/amministrando
anche di fatto le società italiane ed estere di cui Fiorani era socio
occulto' (...) Marino Ferrari. 'Partecipava all'associazione criminosa
svolgendo il ruolo di prestanome di Fiorani in varie operazioni immobiliari tra
le quali quella realizzata con la Liberty srl (relativa a una villa a Cap
Martin, in Costa Azzurra) e con Giorni Sereni srl (relativa a un'altra villa in
località Cala di Volpe, Sardegna) nonché in operazioni di trading
mobiliare realizzate con Borgo Centrale spa'. MF -
Giovedí 15.02.2007 18:00
Una delle figure più importanti per
cercare di avvicinarsi al grande intrigo che è la galassia Fiorani,
è indubbiamente Aldo Brancher, nato a Trichiana (Belluno) il 30 maggio
1943. E' lui l'artefice dell'accordo Polo-Lega dopo il 2001. Ma non solo. E'
l'artefice - secondo Fiorani - anche di ben altro. "Con lui ho avuto
diversi rapporti economici ed in particolare l'erogazione di una somma nel 2003
sul conto della Luana Maniezzo derivante da "partita viaggiante"
organizzata da Boni; nel 2004 ho erogato 100mila euro che ho consegnato in
ufficio a Lodi per ringraziarlo per l'attività svolta in Parlamento per
aiutare Fazio; 100mila euro nel
Ma come si sono conosciuti Brancher e
Fiorani? "Nel 2001, prima delle elezioni, Brancher mi chiamò
dicendomi che aveva bisogno di soldi per le sue attività politiche ed io
approfittai dell'occasione per chiedere che nel collegio elettorale di Lodi
fosse condidata una persona di nostro gradimento al posto dell'onorevole Di
Giovine. Ed infatti Brancher riuscì ad inserire nel collegio di Lodi
Falsitta, che trovammo di nostro gradimento. Brancher era sia un esponente di
rilievo di Forza Italia che l'uomo di collegamento tra Forza Italia e la Lega.
E' stato da noi finanziato proprio perchè ricopriva questo doppio
ruolo".
LA SINISTRA - Fiorani non si rivolse solo a
Forza Italia, Lega Nord e Udc. Cercò anche di coinvolgere la sinistra,
non si sa con quale successo. "Autonomamente decisi di prendere contatti
anche con alcuni esponenti della sinistra che già conoscevo, tra i quali
Bersani, Benvenuto e Violante. Constatai che a sinistra c'era una situazione di
spaccatura. Preciso che quando parlavo del ddl Risparmio cercavo sempre di
collegare il discorso all'operazione Antonveneta - spiega Fiorani - Ricordo
ancora che Bersani mi aveva suggerito di convincere il Governatore che il
progetto di autoriforma della Banca d'Italia era l'unica soluzione praticabile
per difendere il Governatore stesso". Nel verbale dell'interrogatorio
dell'8 febbraio 2006, Fiorani dà altri dettagli. "Non mi sembra di
aver mai chiesto a Consorte di organizzare degli incontri con i leader dei Ds.
Infatti, quanto a D'Alema, stavo utilizzando il canale De Bustis, che si era
offerto di organizzare un incontro con D'Alema. Bersani, che ho poi incontrato,
lo conoscevo direttamente e non avevo bisogno di intermediari mentre Violante
me lo ha fatto conoscere una persona di cui ora non ricordo il nome ma che era
un funzionario della Coldiretti. Peraltro, l'accordo con Unipol costituiva
già una garanzia, almeno nella mia testa, di un sostanziale appoggio a
sinistra".
ABRUZZO. Il deputato dell'Ulivo Nicola
Crisci ha presentato alla Legge di Conversione del Decreto Legge n. 7 del
31/01/2007 "misure urgenti per la tutela dei consumatori" tre emendamenti.
Il primo prevede che «i tassi d'interesse delle Carte di Credito a pagamento
differito non possono essere superiori al prime-rate ABI aumentato di tre
punti» (Apprezzabile, ma il prime rate ABI non è più rilevato
dal dicembre 2004. Nota di M. Novelli), in un altro è previsto che
«nei contratti di fideiussione relativi ad aperture di credito a tempo
indeterminato deve essere indicata una scadenza definita non superiore a cinque
anni dalla stipula», infine un emendamento rivolto sempre ai risparmiatori, che
prevede che le banche «all'atto dell'apertura di contratti di deposito a
risparmio nominativo e di conto corrente, nonché di contratti di deposito
titoli richiedano all'intestatario le generalità delle persone a cui
comunicare le coordinate del deposito nel caso in cui per due anni consecutivi
dalla libera disponibilità delle somme e dei titoli non siano state
compiute operazioni dal depositante o da suo delegato».
«Ritengo che questi emendamenti possano contribuire a meglio tutelare i diritti
dei cittadini clienti delle banche italiane ed abruzzesi », ha commentato il
deputato Crisci della Commissione Finanze. «Se approvati durante la discussione
che si è avviata in questi giorni questi emendamenti contribuiranno a
ridurre i costi bancari ed a migliorare la trasparenza e la concorrenza nel
mercato creditizio».
15/02/2007 10.30
Coppie di fatto, il quotidiano della Santa
Sede replica all'appello dei cattolici che hanno definito la strategia dei
vescovi "di inaudita gravità"
Attacco alla Bindi, che ha detto "amo
di più la Chiesa quando parla di Dio" "Bisognerebbe
riconoscere che le cose di Dio e quelle degli uomini coincidono".
CITTA' DEL VATICANO - "La Chiesa sulla famiglia ha il
dovere di parlare. Chi vuole, ascolta. Ma non le si chieda di tacere". Lo
scrive l'Osservatore Romano che definisce oggi "quanto meno
inopportune quelle voci che in questi giorni, anche con appelli pubblici,
vorrebbero far tacere questa voce tanto autorevole quanto scomoda. Tanto
scomoda - spiega la nota - da essere definita da alcuni impropriamente
un'ingerenza".
"Sulla famiglia, sul matrimonio, esiste una verità che la Chiesa
non può tacere e che i credenti sono chiamati a preservare, oltre che a
vivere e a testimoniare", ricorda l'Osservatore Romano rispondendo
al "manifesto" che chiede
alla Cei di astenersi da un pronunciamento pubblico, per il quale si raccolgono
firme a Bologna. La verità sulla famiglia è "patrimonio di
tutti, dell'intera società, una verità che non possiede un
carattere peculiarmente religioso e, per questo, l'impegno in difesa della
famiglia dovrebbe riguardare tutti".
"Forse - afferma ancora la nota dell'Osservatore con trasparente
riferimento alle dichiarazioni del ministro della famiglia Rosy Bindi che ha
detto di amare di più la Chiesa quando parla di Dio - bisognerebbe
riconoscere che le cose di Dio e le cose degli uomini coincidono più di
quanto si sia disposti a riconoscere".
"In tempi di acrobazie verbali, oltre che giuridiche, forse vale la pena
sottolineare qualche punto fermo, che non si presti a fraintendimenti - si
legge ancora - una Chiesa che si occupa delle cose di Dio non può non
occuparsi delle cose degli uomini perché l'uomo è cosa di Dio". Per
questo, continua la nota, "tutto ciò che riguarda l'uomo riguarda la
Chiesa. E nulla più della famiglia riguarda l'uomo".
Secondo il quotidiano della Santa Sede non si comprende, quindi, "perché
la Chiesa, il Papa e i vescovi non possano intervenire su un tema tanto
delicato quanto cruciale come quello della famiglia. La Chiesa non difende una
posizione politica ma semplicemente adempie al suo mandato, che è anche
un suo diritto: predicare con libertà la fede e insegnare la sua
dottrina sociale, dando un giudizio morale anche su cose che riguardano
l'ordine politico se in gioco ci sono l'uomo e la sua dignità".
"Negare ciò - conclude la nota esprimendo ancora una volta la piena
sintonia della Santa Sede e dell'Episcopato italiano - significa negare un
diritto-dovere, e Benedetto XVI è stato chiaro: 'se ci si dice che la
Chiesa non dovrebbe ingerirsi in questi affari, allora noi possiamo solo
rispondere: forse che l'uomo non ci interessa?'".
(15 febbraio 2007)
Sui natanti pirata
anche missili. Nel 2001 il Giappone ne catturò uno
MILANO - I progressi sul negoziato nucleare con
la Corea del Nord hanno portato un po’ di ottimismo, ma non ha spazzato via i
sospetti. Americani e giapponesi sono inquieti per i corsari nordcoreani. Si
muovono su mercantili di proprietà del regime o su cargo con la bandiera
di Tonga o della Cambogia. Trasportano armi - dai mitra ai missili - venduti ai
paesi del Terzo Mondo, droga, dollari falsi. Un traffico alimentato da
Pyongyang per riempire le casse dello stato: partono con casse di materiale
proibito e tornano con i generi di lusso destinati alla nomenklatura. Liquori,
elettronica, vestiti, generi alimentari particolari in sfida all'embargo Onu.
L’ultime nave è
stata intercettata a Cipro, in estate. A bordo, sotto un carico di tubi, armamenti destinati alla
Siria. Un’altra è stata fermata e poi lasciata ripartire ad Hong Kong,
una terza controllata al largo delle coste occidentali dell’Africa. I
più inquieti sono i giapponesi. Tokio chiede con forza che il regime
della Nord Corea fornisca informazioni sui cittadini nipponici rapiti dagli 007
di Pyongyang negli anni ’70 e ’80. Giovani donne, ragazzi fatti sparire e
trasferiti a bordo delle navi-spia nel Nord. Il regime comunista li ha usati
per addestrare il personale dell’intelligence alle abitudini del Sol Levante.
Esistono prove
inconfutabili dell’attività clandestina. Nel 2001 un mercantile corsaro è stato
intercettato dalla Marina giapponese e affondato dopo una battaglia in alto
mare. Riportato in superficie, il cargo si è rivelato una sorpresa:
all’interno una stiva contenente una imbarcazione veloce modificata per
missioni di spionaggio. Il battello era dotato di cariche esplosive e anche di
attrezzature per i subacquei. La nave-madre aveva un portellone posteriore
apribile dal quale veniva fatto uscire il motoscafo una volta raggiunte le
coste del paese nemico. Sempre sul cargo sono state scoperte mitragliatrici,
fucili e lanciagranate, usati per impedire l’abbordaggio giapponese. Secondo
l’intelligence Usa sono circa una ventina le navi pirata legate al regime, alle
quali si aggiungono unità noleggiate anche in Occidente. In seguito alla
crisi nucleare, i capitani hanno mantenuto un atteggiamento più
prudente, ma non possono rinunciare ai traffici.
15 febbraio 2007