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Archivio Piccola Rassegna 16-31
maggio 2007
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SANTORO: SCIACALLAGGIO
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31-5-2007 COSTI DELLA POLITICA: PARTE
INDAGINE CONOSCITIVA
La Repubblica 31-5-2007 BONSAI. PROVINCIALI. SEBASTIANO
MESSINA
Il Riformista
CHIAMPARINO E LA MUNNEZZA Iervolino e Sassolino quant’è lontana
Torino
Roma,
31 mag. (Apcom) - Andrà in onda questa sera, nel corso di 'Annozero', la
trasmisione di Santoro il discusso filmato 'Sex crimes and Vatican',
l'inchiesta della Bbc sui crimini sessuali commessi da alcuni preti, e a poche
ore dalla messa in onda si scatenano le critiche dei vescovi e non solo.
"Il battage pubblicitario che ha preceduto la messa in onda, questa sera
su Rai Due, del video 'Sex crimes and the Vatican' ha già fatto
chiarezza sulle reali intenzioni della trasmissione: fare sciacallaggio
mediatico contro la Chiesa e il Papa", sostiene Franco Mugerli, il
Copercom,il Coordinamento delle associazioni per la comunicazione di
ispirazione cattolica, in un commento pubblicato sul 'Sir', l'agenzia stampa
vicina alla Cei.
Noi
non abbiamo paura della verità", afferma il fondatore di 'Sat2000'.
"Riteniamo la pedofilia un grave crimine contro l'umanità e la
Chiesa, ma facciamo nostro quanto richiamato da papa Giovanni Paolo II ai
vescovi americani: 'Pur riconoscendo il diritto alla dovuta libertà
d'informazione, non bisogna consentire che il male morale divenga occasione di
sensazionalismo'. In questo modo non si aiuta la ricerca della verità,
ma al contrario si contribuisce alla perdita del senso morale della
società". Come è stato già ampiamente documentato in
questi giorni - conclude Mugerli - questo filmato della Bbc, più che
un'inchiesta, in realtà è un video a tesi, non credibile, con
grandi falsità, pretestuoso e pregiudizialmente ostile. E' troppo
chiedere al servizio pubblico di aiutare a ristabilire la verità?".
Cappon
si prepari alle dimissioni", così il capogruppo dei Popolari-UDEUR al
Senato, Tommaso Barbato, a proposito del documentario BBC "Sex crimes and
the Vatican" che sarà trasmesso questa sera da
"Annozero". "Quello di questa sera - afferma Barbato - è
un pretestuoso e volgare attacco contro la figura del Pontefice, sostenuto da
una vergognosa campagna della sinistra radicale condotta esclusivamente per
fini di bassa politica. Vergogna!".
Sex
crimes and vatican', l'inchiesta della Bbc sui crimini sessuali commessi da
alcuni preti, è stata trasmessa nel 2006 e acquistata da Viale Mazzini
su richiesta di Michele Santoro per una cifra tra i 20 e i 25mila euro. Come da
indicazione del dg Claudio Cappon, la trasmissione del filmato sarà
seguita da un dibattito tra ospiti 'autorevoli' che possano rappresentare le
diverse posizioni chiamate in causa. In studio con Santoro, ci saranno quindi
Mons. Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense,
Don Fortunato Di Noto, dell'associazione Meter che da anni lotta contro il
fenomeno della pedofilia su internet, il professor Piergiorgio Odifreddi,
matematico, autore di 'Perché non possiamo essere cristiani' e il giornalista
Colm O'Gorman, autore dell'inchiesta della Bbc.
Il
video, che era stato tradotto e sottotitolato da alcuni utenti del web,
"è stato il più cliccato su internet nelle ultime settimane.
Il reporter di 'Panorama-Bbc', Colm O'Gorman, egli stesso vittima da bambino di
abusi sessuali da parte di un prete, ha raccolto testimonianze in tutto il
mondo a partire dalla cattolicissima Irlanda, fino agli Stati Uniti, al Brasile
e in Inghilterra. Al centro dell'inchiesta un documento riservato del Vaticano,
chiamato 'Crimen Sollicitationis', del 1962, che diceva ai vescovi come
comportarsi con i preti che tentano approcci sessuali dal confessionale, nonché
come affrontare 'ogni atto osceno esterno con giovani di ambo i sessi'".
Bush
a Roma 1/ Allarme nell'Unione, il presidente Usa ospite in Parlamento. La
sinistra radicale pronta a contestarlo. Incidente diplomatico? Bush a Roma 2/
La Sinistra democratica sarà in di Piazza del Popolo il prossimo 9
giugno No all'assassino/ Rizzo (Pdci) ad Affari: sinistra unita contro Bush.
Dalle sue mani gronda il sangue. Ha sulla coscienza decine di migliaia di
civili morti Disdire ogni impegno e incontro bilaterale con il presidente degli
Stati Uniti, George W. Bush, "al fine di evitare incresciosi incidenti o
anche solo imbarazzanti situazioni, nonché tensioni all'interno della
maggioranza dannose ad essa ma anche al Paese". E' quanto sostiene l'ex
capo dello Stato, Francesco Cossiga, in un'interpellanza parlamentare rivolta
al presidente del Consiglio dei ministri e al ministro degli Esteri riguardante
la visita del presidente Usa a Roma il 9 giugno. Nel chiedere al governo
italiano se non intenda cancellare ogni appuntamento con Bush, Cossiga ricorda
che gli Stati Uniti sono "una potenza formalmente ancora nostra alleata
politica e militare plurilaterale e anche bilaterale" e che in occasione
dell'arrivo di Bush nella Capitale si terranno a Roma "manifestazioni contro
il presidente americano e contro gli Stati Uniti, cui parteciperanno partiti
politici che fanno parte della maggioranza che sostiene il governo e movimenti
popolari, laici e cattolici, antiamericani che hanno sostenuto nelle elezioni
l'Unione e oggi affiancano il governo nella vita civile, sociale e politica, e
anche che altissime personalità istituzionali hanno avuto espressioni
sprezzanti nei confronti del presidente George W. Bush".
Roma,
31 Maggio 2007 – AgenParl – La Commissione Affari Costituzionali della Camera, presieduta
dall’ On. Luciano Violante, ha avviato un indagine conoscitiva sui costi della
politica. I lavori, che si concluderanno a fine ottobre, saranno
prevalentemente finalizzati a disegnare una mappa degli sprechi della politica,
talmente ingenti da portare l’Italia al primo posto in Europa per il costi
delle attività istituzionali. L’attenzione della commissione si
concentrerà principalmente su alcuni settori focali come i vertici
istituzionali e la pubblica amministrazione, spingendosi però fino ai bilanci
degli enti locali ed ai consigli regionali. Nel frattempo le cifre rimangono
aberranti: La classe politica, mentre fa le ore piccole per concedere 100 euro
in più agli statali e assiste impassibile ad una nuova ondata di
scioperi , costa annualmente al cittadino un miliardo e trecento milioni di
euro. Il paese dei privilegi continua imperterrito a campare. (F.G.)
Ira
del ministro: si dimetta. Palazzo Chigi: non voleva offendere. E sulle
pressioni alla Guardia di Finanza il governo rischia in Senato
ROMA
— A complicare la situazione è arrivato anche un filmato di Striscia la
notizia che ha fatto litigare, e furiosamente, Vincenzo Visco e Clemente
Mastella. Un caso divampato velocemente, con il ministro della Giustizia che ha
minacciato: «O smentisce oppure al governo non c'è posto per tutti e
due». Poi, in serata, è arrivata una nota di Palazzo Chigi a stemperare
i toni dello scontro. E dire che la situazione già non era messa bene
per il governo perché se le firme si trasformeranno in voti, mercoledì
prossimo a Palazzo Madama la maggioranza andrà sotto proprio discutendo
di Visco. Sono infatti già otto i senatori della maggioranza che hanno
messo nero su bianco il loro dissenso firmando due ordini del giorno che
chiedono di sospendere la delega sulla Guardia di finanza al vice ministro per
l'Economia per le presunte pressioni sul comandante generale.
VISCO-MASTELLA
— Il video di Striscia la notizia è il fuori onda di una conferenza
stampa a Palazzo Chigi. Nel filmato si sente Visco che dice «Quel crumiro di
Mastella (assente, ndr) ha detto che non poteva» e poi «Ci ha fregato un sacco
di soldi». Poco dopo la trasmissione, è stato lo stesso Visco a chiamare
Mastella, scusandosi e aggiungendo di non ricordare il contesto in cui aveva
detto quelle parole. Ma al ministro della Giustizia non è bastato: «Deve
smentire, e la sua smentita deve andare in onda nella stessa trasmissione.
Altrimenti al governo non c'è posto per tutti e due». Poi la nota di
Palazzo Chigi che ha definito la battuta di Visco «offensiva nei toni ma non
certo nei contenuti, come ipotizzato ironicamente». E infatti a Striscia la
notizia avevano detto: «Che Mastella si sia fatto pagare per ogni voto alle
amministrative?». Fonti del governo invece hanno lasciato capire che Visco si
stava riferendo al fatto che Mastella era riuscito a ottenere risorse in
consiglio dei ministri. E per il Guardasigilli «l'incidente è chiuso se
Striscia trasmette la nota».
MOZIONI
— Sulla vicenda della Guardia di finanza il primo ordine del giorno è
quello dell'Italia dei valori. Chiede al governo di ritirare a Visco la delega
e al momento ha raccolto sei firme: i quattro senatori del gruppo e poi l'ex
Sergio De Gregorio, e Fernando Rossi, l'ex del Pdci passato ai consumatori.
Rifiutate le offerte di sostegno della Casa delle libertà. Il secondo
ordine del giorno è dei dissidenti della Margherita: Willer Bordon,
Roberto Manzione e Natale D'Amico che chiede a Visco di autosospendersi. E su
questa linea non è esclusa la convergenza, al momento del voto, di una
parte dei 12 senatori di Sinistra democratica, i fuoriusciti dai Ds guidati da
Salvi. Tutti e due i documenti, però, potrebbero essere votati dalla Cdl
mandando sotto la maggioranza. La preoccupazione c'è e ieri è
arrivata anche alla riunione del comitato promotore del Pd, dove ne hanno
discusso Fioroni, Rutelli e Veltroni. Visco lavora al documento che potrebbe
portare in Aula, dove sembra certa la presenza di Prodi. Anche se nella
maggioranza si spera che — se i contatti con i dissidenti non dovessero andare
a buon fine — sia Visco a mettere il centrosinistra al riparo dalla sconfitta,
autosospendendosi dalla delega ed evitando il voto.
CDL
— La Casa delle libertà ha presentato due mozioni. Oltre a quella per il
ritiro delle deleghe firmato da tutti i capigruppo è arrivato quello,
insidioso, di Calderoli. Si limita a ribadire la «fiducia nell'operato della
Guardia di finanza e del generale Roberto Speciale». Una trappola per far
votare l'Unione contro il vice ministro senza che se ne accorga.
31
maggio 2007
Una
"bella commissione d'inchiesta su tutti i privilegi che ci sono in Italia
in ogni direzione, imprese, editoria, banche e manager". A chiederla, ieri
da Benevento, il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, a margine
dell'incontro in Prefettura con il collega dell'Azerbaijan, Fikrat Mammadov.
"Vedo - dice Mastella - qualche atteggiamento crepuscolare in giro e molto
populista al tempo stesso anche in ordine a questo elemento di antipolitica,
sui criteri di moralizzazione, che sono giusti ed efficaci, ma ci sono sprechi
ovunque. Non si capisce ? aggiunge il Guardasigilli - per quale ragione, ad
esempio, i manager devono avere lo stipendio anche quando le loro imprese
falliscono. In realtà quando si pensa a un criterio di teologia morale
bisogna applicarlo in ogni campo e non vedere soltanto la trave che può essere
nell'occhio del vicino". 31-05-2007.
"S
i commenta da sé",è stata la stizzita battuta di Romano Prodi al
discorso di Luca Montezemolo all'assemblea di Confidustria. "Non
m'interessa un'effimera popolarità ",quella con cui ha commentato i
risultati del voto di domenica. Uniti nelle critiche a Governo e classe
politica, i messaggi che vengono dagli industriali e dagli elettori sono,
com'è logico attendersi, diversinella sostanza.Roma 2007 presenta una
Confidustria - dopo Vicenza 2006- di nuovo compatta, e - dopo Parma 2001- di
nuovo autonoma rispettoalla politica;i risultati elettorali presentano un Nord
disorientato, attraversato da pulsioni e timori diversi. Invece i commenti ai
due fatti hanno una caratteristica comune: anche quelli meno arcigni di Prodi
nel proposito di tener ferma la rotta, si articolano all'interno di un quadro
sostanzialmente dato, prendono per immutabili le coordinate del campo in cui si
muove la politica. Questo vale, a ben vedere, anche per gli scenari politici su
cui Montezemolo era più atteso. Immaginiamo di dare consistenza alla
più radicale delle eventualità, e cioè che Roma 2007
preluda alla sua entrata in politica, a capo di un grande centro: a parte
l'improbabilità nei numeri, a parte la "memoria corta" di chi
pensa che "un centro eternamente governante sia la soluzione ai mali
italiani "(Angelo Panebianco sul"Corriere della sera" di
domenica), sarebbe pur sempre una diversa sistemazione delle stesse pedine
sullo stesso scacchiere. Le denunce - lo scandalo immondizie, le miniIri
municipali, la scarsa qualità della produzione legislativa - sono tutte
sacrosante, ma interne da tempo al dibattito politico, tant'è che
possono essere invocate a supporto di progetti politici affatto diversi. La
riduzione delle tasse è stata innovazione quando Berlusconi l'ha posta
al centro del programma di governo; ora è un materia obbligatoria d'esame
per ogni governo. Il tema del costo della politica è anch'esso interno
alla classe dirigente, ne scrivono giornalisti del Corriere, non tribuni della
Lega, Salvi e Villone, non Grillo e la Gabanelli, è buono per D'Alema
che sta al Governo,e per Montezemolo o chi per lui pensi di starci un giorno.
Di fronte a un risultato come quello di lunedì, nell'Unione si discute
della data in cui disporre i gazebo per le primarie, se il capo del Pd si
chiamerà segretario o presidente, se a scendere inpista saràil
candidato veroo una volpe. E poi, sarebbero "innovazioni" i due temi
che la politica oggi mette sul tavolo, il Partito democratico e la legge
elettorale? Quanto al Partito democratico,a parte il modo deprimente in cui lo
stanno realizzando, è fin dall'inizio un progetto ben più modesto
delle ambizioni di cui è stato caricato. è assurdo far credere
che la fusione di due partiti che formano una coppia di fatto da 15 anni
(almeno)possa ridisegnare la geografia politica italiana. Assurdo sostenere
che,fermi restando gli incentivi che favoriscono i piccoli partiti, un neppur
tanto grande partito possa, con la sua mera apparizione, invertire la tendenza
alla proliferazione partitica. La riforma elettorale deve vedersela con due
contraddizioni. Una pratica, fare approvare dallacoalizione di governo una
riforma che ha proprio lo scopo di modificare i rapporti di forza che tengono
insieme la coalizione stessa. Una logica: i sistemi elettorali sono la
conseguenza di un progetto politico, non ne sono la causa.D'Alema e Fassino
possono continuare a ripetere che, stesse a loro, vorrebbero il doppio turno
alla francese: ma é solo perché tutti, loro per primi, sanno che si tratta di
una giaculatoria, che il ripeterla non fa cadere il governo. C'è un
fondo di antidemocratico nell'illudere armatori e marinai di trovare l'Oriente
navigando verso Occidente,pensare di ottenere cambiamenti istituzionali in modo
indiretto, calando addosso all'elettorato una legge elettorale che ne guidi le
scelte in una direzione che non è mai stata loro prospettata esplicitamente.La
teoria del referendum come " pistola puntata"ha poi una
contraddizione sua propria: chiedere agli elettori di firmare per ottenere un
risultato che i proponenti stessi dichiarano di non volere. "La difficile
partenza della raccolta delle firme per il referendum abrogativo dell'ultima
legge elettorale - scrive Marco Battaglini ("Se si vuole rafforzare
l'Esecutivo occorre farlo direttamente, il sistema partitico cambierà di
conseguenza", sul Sole24 Ore del 16 maggio) - suggerisce che i cittadini
sembrano percepire che le formule elettorali di per sé non risolvono il
problema della scarsa governabilità e della moltiplicazione dei
partiti"" Si invidia la Francia di Sarkozy: ma "la
stabilizzazione del sistema dei partiti in Francia è stata una conseguenza
del rafforzamento dell'Esecutivo piuttosto che la sua causa e il cambiamento
della legge elettorale è stato solo uno dei fattori in gioco".
Poteri e criteri di nomina del capo dello Stato,del presidente del Consiglio,
il Governo; e, soprattutto dopo il risultato di lunedì, l'attuazione del
federalismo, in primo luogo fiscale. Le riforme necessarie sono riforme
costituzionali. Ma è illusorio pensare di surrogarle con il Partito
democratico o con la legge elettorale che uscirebbe dal referendum,solo perché
il loro cammino appare più facile. Quella della Bicamerale è
stata la grande occasione perduta della Seconda Repubblica: sarebbe già
qualcosa se lo riconoscessero oggi anche quelli che l'hanno fatta
fallire.Riprendere quel percorso richiederebbe maggioranze e Governo diversi
dall'attuale, intese impossibili con le attuali leadership politiche:
certamente a sinistra,probabilmente anche a destra. Il tempo ancora a
disposizione in questa legislatura, la favorevole congiuntura economica, le
difficoltà che incontra a ogni passo questo Governo, di per sé fanno di
questa ipotesi qualcosa di più di una fantasia. In ogni caso, non
più fantasia, e certo più razionale, di alcune di cui si sente
parlare. Il Governo faditutto per blindarsi contro questa eventualità,
varando provvedimenti quali la legge sul conflitto d'interessi, quelle
sull'assetto del sistema televisivo una e due, e adesso spostando gli equilibri
all'interno del cda Rai.Ancora una volta,l'antiberlusconismo, e la questione
televisiva che ne è parente stretta, si rivelano il nodo della
transizione italiana. Quello della Bicamercale resta il fallimento peggiore
degli ultimi anni: per il momento sembra impossibile riprendere quel discorso
Giusto per essere concreti: perché non
aboliamo una buona volta le Province? Se l'era già chiesto Luca Cordero
di Montezemolo nella sua filippica contro i mali della politica. E l'altra
sera, a Ballarò, Gianfranco Fini ha raccolto la sfida: "Io sono
d'accordo, aboliamole" ha detto. Poi, rivolto al ministro Santagata, che
lo fronteggiava, ha domandato: "E' d'accordo anche il governo?". Era
un bel passaggio in area. Santagata, in cuor suo, è favorevolissimo:
"Risparmieremmo un fracco di soldi, abolendole" mi aveva detto
qualche giorno fa, in un'intervista. Rifondazione condivide. Di Pietro ci sta.
Salvi e Mussi lo ripetono da una vita. Per una frazione di secondo,
dunque, ho sperato che Santagata, il ministro che sta preparando il disegno di
legge sui tagli ai costi della politica, prendesse la palla al balzo e
rispondesse così: "Sì, anche il governo pensa che le
Province siano inutili, visto che nessun cittadino sa esattamente a cosa
servano, eppure ci costano una tombola. Qua la mano, presentiamo insieme una
proposta bipartisan per abolirle tutte". Ma in quell'attimo, prima ancora
che finissi di pensare questa frase, Santagata ha cambiato discorso.
Rassegniamoci: moriremo provinciali.
Dall’intervista di Prodi a la Repubblica
emerge un quadro impietoso della situazione politica italiana. La maggioranza
è divisa e litigiosa. Gli alleati sono inaffidabili. Il premier non ha
il potere di imporre la propria linea. Il Paese rifiuta di comprendere le
proprie reali esigenze e di accettare i sacrifici necessari al futuro della nazione.
L’opposizione, quando era al potere, ha fatto solo disastri e non ha il diritto
di proporsi come «alternativa di governo». Il presidente di Confindustria ha
dato prova di scarso equilibrio. I sindacati non hanno compreso che il Paese
deve cambiare. Si direbbe il messaggio d’addio di un uomo politico deluso,
amareggiato, incompreso, ormai convinto che i suoi connazionali non meritino il
suo impegno e la sua dedizione alla cosa pubblica.
Ma da questo quadro, così
drammaticamente negativo, Prodi trae conclusioni opposte. Sostiene che
«così non si può andare avanti», ma rifiuta di farsi da parte.
Quando dichiara che è pronto ad andarsene, lo fa con toni e argomenti da
cui emerge la convinzione che soltanto lui, Romano Prodi, sia l’uomo adatto a
salvare l’Italia. Non so se questa combinazione di pessimismo e fiducia in se
stesso possa servire a recuperare consenso. Forse sarebbe stato preferibile
prendere atto del voto, ammettere gli errori fatti, spiegare pacatamente al
Paese che i tempi esigono decisioni impopolari, chiamare gli alleati a un
maggiore senso di responsabilità. Dopo tutto Prodi non ha torto quando
sostiene che un voto amministrativo non può segnare la fine di un
governo espresso da una maggioranza parlamentare, sia pure modesta. Se i suoi
giorni sono contati è meglio che cada in Parlamento con un voto da cui
possano trarsi conclusioni utili per il futuro.
Se il presidente del Consiglio,
con la sua intervista, voleva dire che il governo ha il diritto di governare,
non rimane che prenderne atto e aspettare il seguito. Ma l’intervista non
concerne soltanto il governo e le condizioni del Paese. Nell’ultima parte Prodi
affronta il problema del Partito democratico e dell’uomo che dovrà
guidarlo. Non approva coloro che vogliono eleggere subito, insieme alla
costituente, anche il leader. Prodi sa che la scelta cadrebbe in questo momento
su un’altra persona e sostiene che «l’idea di scindere il leader dal premier
è assolutamente inaccettabile». E’ meglio quindi nominare un
coordinatore o un reggente, destinato a farsi da parte quando, in
prossimità delle prossime elezioni, i Democratici saranno chiamati a
scegliere una persona che sia contemporaneamente leader del partito e candidato
premier.
E’ probabile che Prodi
non voglia avere di fronte a sé, di qui ad allora, un interlocutore forte e
spesso scomodo. Ma sembra dimenticare che un partito nuovo ha bisogno, sin dal
primo giorno della sua esistenza, di una guida entusiasta ed energica. I
prossimi mesi saranno quelli in cui occorrerà disegnare gli apparati,
scegliere i segretari locali, conciliare ambizioni contrastanti, creare le
condizioni per una vita unitaria. E’ difficile immaginare che questo compito
possa essere svolto da un reggente privo di autorità e di futuro.
E, francamente, è
ancora più difficile comprendere perché le esigenze del partito debbano
essere sacrificate a quelle di un uomo politico imbronciato e deluso che
finirebbe per scaricare sulla formazione appena nata, insieme ai suoi personali
malumori, le difficoltà del governo. Prodi ha avuto grandi meriti nella
nascita del Partito democratico. Ne avrà ancora di più se
lascerà che cammini con le sue gambe.
31 maggio 2007
E'
il caso del programma dell'indagine conoscitiva 'sulle spese attinenti al
funzionamento della Repubblica' che la prima commissione affari costituzionali
della camera ha messo a punto. Già l'utilizzo della parola Repubblica
anzicchè Stato o politica fa sembrare che si voglia parlare di
altro. Ma che le idee siano poche e confuse lo si capisce dalle finalità
dei lavori: si deve arrivare alla stesura di una 'legge quadro recante principi
di trasparenza e criteri condivisi tra l'insieme delle istituzioni interessate,
che rendano evidente le finalità della spesa e i parametri a cui si
riferisce per dare conto della sua misura'. A ottobre il verdetto. Indagine
conoscitiva sulla spese attinenti al funzionamento della Repubblica e alla
garanzia delle sfere di autonomia costituzionale, funzionale e territoriale.
PROGRAMMA DELL'IND
In
fondo, chi non è mai entrato in una circoscrizione nella sua vita. Chi
per risolvere un problema della sua vita da cittadino - una buca, un passo
carrabile, i cassonetti dell'immondizia che si muovono come la pallina magica -
non ha mai chiesto un consiglio, un aiuto a un consigliere di circoscrizione.
Ecco, chi non lo ha mai fatto a leggere spese e indennità delle nove
circoscrizioni barese potrebbe prendere un coccolone. Un presidente di
quartiere guadagna, da regolamento, un terzo dello stipendio del sindaco.
Emiliano intasca ogni mese 9580 euro lordo, il presidente di circoscrizione 2874,
il doppio rispetto a un professore, quanto un medico ospedaliero di prima
nomina. Troppo? "Io guadagno netto in busta paga 1056 euro, la metà
di quello che mi spetterebbe perché sono un dipendente pubblico" spiega
Franco Polemio, medico e presidente di Poggiofranco. "Sommo così
l'indennità della carica al mio stipendio. E così faccio
risparmiare un sacco di soldi al Comune". Perché? "Se lavorassi per
un'azienda privata o un altro qualsiasi ente non sommerei le due indennità.
Non solo: il Comune avrebbe dovuto risarcire il mio datore di lavoro per ogni
giorno di assenza dal lavoro per motivi politici. Una follia. Per questo stiamo
proponendo un'indennità fissa per i consiglieri in modo tale da evitare
ogni problema". "Le circoscrizione, per quello che facciamo, sono
assolutamente uno sperpero di denaro" dice senza mezzi termini il
presidente di Murat, Mario Ferorelli, uomo di Alleanza Nazionale. "Oggi
come oggi le circoscrizioni non servono assolutamente a nulla: nasciamo per
alleggerire di responsabilità l'amministrazione, per dare più
servizi ai cittadini. E invece facciamo pochissimo per essere pagati
profumatamente. Presidente e consiglieri". Anche i consiglieri, certo.
Perché se un padre dovesse consigliare il figlio per il suo futuro, dovrebbe forse
spingere affinchè intraprenda una carriera politica piuttosto che
una accademica. Ogni circoscrizione ha dai
Cara
Europa, io e i miei amici elettori del centrosinistra siamo incazzati neri con
tutti: con Prodi che si sente anche lui “unto del signore”, coi ministri che
cantano ognuno per suo conto, con Bassolino che lascia la “monnezza” nelle
strade, con i dirigenti di Ds e Margherita che si accoltellano sul partito che
non c’è (il Pd). Ci servono strade, centrali, reti di comunicazione,
dighe, imprenditori che rischino, impiegati che lavorino. Nella paralisi,
prepariamo il ritorno del Cavaliere, che non ha fatto niente, ma sa
“fascinare”.
ELIO PANDOLFINI, PIACENZA
Caro
Pandolfini, lei è incazzato, sapesse chi le risponde; che per mestiere
deve leggere ogni giorno dell’anno tutte le str. sul “politicame”, che fanno
ingrassare la casta e deperire lo spirito pubblico. Oggi, per esempio, mentre
plaudo a Napolitano che prende in mano la mazza della scopa in Campania
(Bassolino, Jervolino, Mastella, Pecoraro, che ne dite?), e mentre grido “Viva
la Romania” che dice “le immondizie napoletane se le smaltiscano i napoletani”,
penso già al diluvio di proteste che dalla sinistra cavernicola di verdi
e rifondaroli si leverà contro il professor Veronesi: il quale ci spiega
che per ridurre le emissioni cancerogene che ci uccidono e per produrre energia
pulita occorre costruire in dieci anni 10 centrali nucleari dell’ultima
generazione: che hanno il pregio, fra l’altro, di autoeliminare le scorie. So,
come dice Rubbia, che da solo il nucleare non basta, lo sapevo anche trent’anni
fa quando con altri giornalisti mi battei contro l’uscita dal nucleare e al
referendum fui nel 20 per cento degli italiani che votarono no. Intanto,
abbiamo perso trent’anni: in Francia ci sono 58 centrali nucleari, in Germania
Fatevi sentire di più, voi del Nord: Chiamparino dice che vuol fare una
lista nordista (Cacciari, Bresso, Pericu, Penati, Illy, ecc.) per irrompere
nella costituente del Partito democratico.
Fosse vero. In ogni caso, quando leggo che il sindaco di Salerno De Luca,
deputato dell’Ulivo, chiede di farlo a Salerno il termovalorizzatore, con
tecniche studiate in Giappone, penso che potreste cooptare anche qualcuno al di
sotto del Po, non tantissimi, per vincere la vostra battaglia.
Che è anche la nostra di clandestini a Roma.
Ha
ragione Sergio Chiamparino. Se quello che è successo a Napoli coi
rifiuti fosse capitato sotto la Mole, lui e Mercedes Bresso non avrebbero avuto
probabilmente scelta. Le dimissioni sarebbero state l’unica, naturale via. «O
almeno - ha detto il sindaco torinese - l’opinione pubblica ci avrebbe
incalzato, e obbligato a dare delle spiegazioni credibili». Proprio nei giorni
in cui la sinistra del Nord, di cui Chiamparino è tra i più
autorevoli e visibili esponenti, e mentre Piero Fassino ha indicato nei cumuli
d’immondizia napoletana teletrasmessi in tutta Italia una delle ragioni di
perplessità del Nord rispetto a chi governa certo Sud, le parole di
Chiamparino invitano a una riflessione. A Rosa Russo Iervolino, ad esempio,
l’ipotesi di dare le dimissioni non dev’essere nemmeno mai passata per la
testa. Lo stesso, sicuramente, vale anche per il presidente Antonio Bassolino.
I due omologhi di Chiamparino e Bresso, insomma, non hanno ravvisato
nell’indecenza che, “distrattamente” come abbiamo già scritto sul
Riformista, va sommergendo una grande città come Napoli una ragione
sufficiente per discutere la propria posizione. O il perdurare del proprio
potere. Il quale, evidentemente, viene reputato impermeabile a fallimenti che
pure sono tanto evidenti, e fastidiosi, per quasi tutti e cinque i sensi.
Perché? Forse perché si ritiene che nulla può essere fatto, e si dice
che le responsabilità sono altrove, o che le questioni di fondo
trascendono dalle possibilità concrete di chi amministra città e
regione. O forse perché, a differenza di quanto dice Chiamparino col
riferimento al Piemonte, l’opinione pubblica non vigila e spinge abbastanza.
Anzi, a dirla tutta, sembra anche contenta, visto che la Campania è una
delle poche regioni in cui il centrosinistra è andato piuttosto bene
alle amministrative. Ma in ogni caso una domanda resta. Che gusto c’è a
governare se nulla si può fare per rendere appena decenti, appena
dignitosi, i territori amministrati? Come si può credere che sia la
passione alla politica, e non quella al potere, a muovere certe resistenze,
quando la politica sembra così inutile?
Il
tema della discussione verterà sui costi diventati insostenibili
della pubblica amministrazione e sullo spreco di denaro Un tifoso, deluso dalle
prestazioni della propria squadra di calcio, una bella domenica decise di
dedicare uno striscione ai giocatori, il cui stipendio era inversamente
proporzionale ai risultati ottenuti sul campo: "Non so più come
insultarvi". Leggendo il libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, La
casta (Rizzoli), verrebbe voglia di rispolverare quello striscione e andarlo a
esporre a Montecitorio, o davanti a un Consiglio regionale a scelta, o davanti
a una delle tanti società municipalizzate gestite col criterio
(s)partitocratico. Qualunquismo? Può darsi. Di sicuro di qualunquismo
non c'è la benché minima traccia nel documentato libro che verrà
presentato stasera alle 21 da uno degli autori, Gian Antonio Stella, al Centro
congressi dell'Associazione artigiani, in via Fermi. Un bel mix di cronaca,
matematica e statistica che, scecherato per bene, lascia nel lettore un
retrogusto amaro, una voglia di mandare tutti a quel paese, se non fosse che a
quel paese (l'Italia) ci siamo già. Un paese, per citare uno dei mille
esempi tragicamente documentati del libro, che spende 217 milioni di euro
all'anno per mantenere il Quirinale, contro i 56,8 milioni spesi dai
contribuenti del Regno Unito per la Corona britannica. - Intanto complimenti
per l'acutezza, la completezza e, grazie a queste, per lo straordinario
successo del libro. Ma non le dà fastidio che in questa campagna
elettorale molti abbiano sventolato La casta quasi fosse un programma per
acciuffare voti? "Cosa vuoi, io credo che un libro sia un po' come una
canzone, ognuno può cantarla come gli pare. Mi pare chiaro però
un concetto: non è un libro che fa piacere alla sinistra, non è
un libro che fa piacere alla destra, non è un libro che fa piacere al
centro. Più semplicemente, è una constatazione, assolutamente non
qualunquistica, dei privilegi assurdi di cui gode la classe politica e
degli insostenibili sprechi di denaro pubblico che ne derivano". -
Il fatto che a godere di questa condizione privilegiata siano i bramini della politica
non sembra indurre molte speranze di cambiamento. Secondo lei c'è la
possibilità che questi sprechi vengano almeno contenuti?
"Premesso il fatto che è più che giusto che i nostri
rappresentanti vengano pagati, e anche bene, per il compito che svolgono, credo
che i politici di oggi vivano fuori dalla realtà. Come altro si
può interpretare il fatto che, nel 2004, il presidente della Regione
Campania, Antonio Bassolino, abbia avuto un fondo spese per la rappresentanza
dodici volte più alto del presidente della Repubblica tedesca?". -
E non si possono proprio eliminare queste odiose storture? "Io credo che
l'unica possibilità si chiami trasparenza. Sì, ci vuole
trasparenza assoluta. Per capirci, vorrei che Camera e Senato mettessero su
internet con chiarezza gli emolumenti e le diarie distribuite ai vari
parlamentari. E accanto ai 4.100 euro destinati ai collaboratori, mettessero
pure i nomi dei percettori di tali somme. Così come non possiamo
accettare che il bilancio del Quirinale sia avvolto dalla segretezza. Se il
cittadino avesse modo di sapere con facilità quanti soldi vengono spesi
e in che modo nei vari enti, probabilmente i bramini ci penserebbero più
di una volta prima di deliberare nuove stravaganti spese". - Senta, ma lei
e Rizzo come li avete ottenuti i dati richiesti? Voglio dire, avete trovato
ostacoli o vi hanno aperto le porte facilmente? "Abbiamo ricevuto il
solito ostruzionismo all'italiana. Tipo: "Adesso prepariamo i documenti,
passi domani". E poi i documenti non arrivavano. Niente di nuovo sotto il
sole". - Com'è nata l'idea del libro e com'è nata l'idea di
scriverlo con Sergio Rizzo, suo collega al Corriere della sera?
"Già nel 1998 avevo scritto Lo spreco, una questione evidentemente
sempre presente in Italia. Poi abbiamo visto il buon lavoro svolto
"dall'interno" da parte di Cesare Salvi e Massimo Villone, che hanno
scritto Il costo della democrazia e ci siamo resi conto che bisognava far
uscire dal circuito degli addetti ai lavori questa tematica. Rizzo è un
fenomeno nel districarsi tra la grande mole di dati, tra i bilanci pubblici e
così, insieme, siamo arrivati in libreria con La casta". - Pochi
giorni fa Boris Biancheri, presidente della Fieg e dell'agenzia Ansa, ha detto
che anche i giornalisti sono una casta, che non c'è turnover
sufficiente, che sono privilegiati. Anche i giornalisti come i politici,
quindi? "Supponiamo che l'editore del Giornale di Vicenza decida di
assumere un somaro come Gian Antonio Stella e di pagarlo un miliardo di euro
all'anno. Sarebbe un chiaro esempio di spreco ma resta una piccola differenza
rispetto allo spreco che esiste nella politica: nel caso del giornale, i
soldi li mette l'editore, nel caso dei politici, i soldi li mettiamo noi
cittadini". - Montezemolo ha detto che il costo della politica
è insostenibile, Fini ha proposto di abolire le province. Caro Stella,
allora qualcosa si muove, magari grazie al suo libro... "Per
carità, benvenuti tutti, ma non sarei così sicuro che alle parole
seguiranno poi i fatti. Senza alcuna polemica, vorrei ricordare all'on. Fini
che è stato cinque anni al governo senza apprezzabili risultati su
questo fronte. Ed è ovvio che la stessa considerazione vale per i
politici di centrosinistra. In questo campo, la casta è davvero
bipartisan". - E del tentativo di adesione al Trentino Alto Adige da parte
dei comuni dell'Altopiano di Asiago cosa dice? "E lo chiede a un asiaghese
come me? Sì, sono nato ad Asolo, ma le mie radici affondano ad Asiago ed
è ovvio che la questione mi abbia toccato da vicino. Comunque, credo che
l'autonomia concessa al Trentino non abbia alcun senso. Renato Brunetta pensa
che dovrebbe essere tolta anche all'Alto Adige, ma io invece credo che a
Bolzano abbia un senso, per i motivi storici che sappiamo". - Da
più parti si invoca il federalismo fiscale per risolvere le
iniquità di paesi confinanti... "Va benissimo, per carità,
anche se mi permetto di dubitare che questa novità aiuti a fermare
l'evasione fiscale. Il solo fatto che i soldi vengano usati nel posto dove sono
prodotti non comporta che la gente li tiri fuori tutti volentieri". -
Restando ad Asiago, o comunque nella montagna veneta, sul suo libro ci sono
molte storie esilaranti su comunità montane tipo quella di Palagiano, a
Se
non sono stati costretti, poco ci manca. Le inchieste giornalistiche sui costi
della politica hanno messo le ali ai piedi dei deputati della
commissione affari costituzionali della camera, che ha approvato in tutta
fretta la proposta di avviare un'indagine conoscitiva sul tema più
delicato del momento. Ma tra scaricabarile, distinguo, timori, e qualche
passaggio surreale, il dibattito del quale sono stati protagonisti il
presidente della commissione, Luciano Violante (Ulivo), Domenico Benedetti
Valentini (An), Gabriele Boscetto (Forza Italia), Italo Bocchino (ancora An),
Marco Boato (Verdi), Roberto Zaccaria (Ulivo) e altri personaggi in ordine di
apparizione dà l'idea del clima di assedio che si percepisce nelle
stanze di Montecitorio. Violante, l'uomo di mille casi, l'ex magistrato che ne
ha viste di tutti i colori, ammette che il parlamento ha deciso di muoversi
solo perché 'il tema è costantemente all'attenzione di giornali e
televisioni, in particolar modo negli ultimi tempi', e perché 'il governo ha
annunciato proprie iniziative in materia, dal carattere peraltro ancora
incerto'. Per non farsi scippare l'iniziativa, insomma, le camere dovranno
'assumere adeguate iniziative al riguardo, affrontando il problema, che
certamente esiste, in tutti gli aspetti, per evitare distorsioni demagogiche e
per fare chiarezza'. Gli 007 di Montecitorio faranno emergere le
responsabilità di tutti nell'aumento dei costi della politica.
Che, ha spiegato Violante, sono costituiti da tre componenti, ciascuno con un
peso diverso: 'I costi delle istituzioni, o della democrazia, i costi
dei partiti politici e i costi della burocrazia'. Tanto per evitare che
il confronto con i parlamenti europei o di altri grandi paesi faccia emergere
grandi differenze di stipendio a vantaggio degli italiani, il presidente della
commissione affari costituzionali della camera ha invitato i colleghi a
'comparare i costi delle istituzioni italiane con quelli delle
corrispondenti istituzioni dei principali paesi europei'. E per fare capire
l'aria che tira, ha ricordato, 'a titolo di esempio, che la Commissione affari
giuridici del Bundestag tedesco, omologa della Commissione affari
costituzionali, si riunisce di media due volte al mese'. Come dire che la
produttività di Montecitorio, al confronto è roba da Cinesi o
Coreani del Sud. A forza di paragoni, del resto, si può andare avanti
per mesi, almeno fino a ottobre, quando dovrebbero essere resi noti i risultati
dell'indagine. Così Bocchino, già in notevole sintonia con
Violante, ne tira fuori una davvero bella: 'Per evitare sia il qualunquismo sia
la difesa del privilegio dei parlamentari, si tratterebbe di mettere a
confronto le retribuzioni orarie dei deputati e dei senatori italiani non solo
con quelle dei loro colleghi degli altri parlamenti, ma anche con le normali
categorie di lavoratori', è l'idea. 'Ritengo che la retribuzione di
parlamentare, per ora di lavoro e detratte le spese, non sia sproporzionata
rispetto a quella, per esempio, di un insegnante'. Chissà che ne pensano
gli interessati, che magari si scoprirebbero più ricchi, almeno per
un'ora, di deputati e senatori. Ma tant'è, l'idea è lanciata e
sembra anche piacere. In particolare a Boscetto, che per non smentire
l'autoreferenzialità della politica pensa di fare un po' di pubblicità
al libro sui costi della politica dei colleghi parlamentari
Cesare Salvi e Massimo Villone e di bollare come scandalistica l'inchiesta dei
giornalisti Sergio Rizzo e Gianantonio Stella. 'Il primo ha una sua
dignità politico-scientifica, il secondo ha piuttosto un carattere
semiscandalistico, il quale ne ha determinato il successo di pubblico',
è la sentenza del critico Boscetto. Apriti cielo, quindi, se l'indagine
conoscitiva fosse 'ispirata agli stessi criteri e intendesse avallare le accuse
che vi vengono mosse ai membri del parlamento, i quali ricevono, a suo avviso,
una retribuzione del tutto proporzionata all'impegno che profondono, in termini
di ore di lavoro e di applicazione, nonché alla delicatezza e alla
gravosità del compito che svolgono'. Mettere sotto inchiesta il
parlamento 'in modo becero' è quindi inaccettabile secondo Boscetto. Che
per vendetta un po' forzista suggerisce di 'prendere in considerazione anche il
fenomeno dei magistrati collocati, con incarichi a diverso titolo, presso il
governo, la pubblica amministrazione e le autorità indipendenti'. Perle
di saggezza si trovano anche tra le righe dell'intervento di Maurizio Ronconi,
Udc, che vuole scongiurare il rischio di 'derive demagogiche' e perciò
pone condizioni. Come quella di 'disancorare l'indagine dall'esame delle
proposte di legge C. 1942 e abbinate, che sono a dir poco radicali e che non
incontrano il consenso di tutti i gruppi'. Ronconi si preoccupa di 'difendere
l'autorevolezza e la rappresentatività del Parlamento contro le campagne
di aggressione degli organi di stampa'. E concorda sul resto, sul confronto
'dei costi delle istituzioni italiane con quelli delle corrispondenti
istituzioni europee, nonché sulla necessità di estendere l'indagine a
tutti i livelli di governo e all'intera pubblica amministrazione, comprendendo
anche gli organi costituzionali di più alta levatura'. e perchè
no, sugli enti inutili e sulle province, che forse dovrebbero essere abolite.
ma una cosa l'esponente dell'Udc pretende sia messa in chiaro: 'La commissione
non intraprende l'indagine perché a ciò costretta dalla pressione dei
mezzi di comunicazione di massa che alimentano la campagna di accuse, in quanto
questo sarebbe un immotivato segno di debolezza'. Un segno di non debolezza che
invece per Benedetti Valentini dovrebbe essere manifestato con una mossa
estrema: la rinuncia all'indennità parlamentare. Senza, però,
impegnare il suo gruppo e quindi i soldi degli altri. 'A titolo esclusivamente
personale e senza perciò impegnare il gruppo, dichiaro di essere in
linea di principio favorevole anche all'abolizione dell'indennità
parlamentare, ritenendo sufficiente, per chi si dedica alla rappresentanza politica,
il solo rimborso delle spese'. Zaccaria, però, lo ferma subito: 'Faccio
presente al deputato Benedetti Valentini che eliminare la retribuzione dei
parlamentari limiterebbe di fatto l'accesso alla rappresentanza ai soli
cittadini abbienti, ricostituendo di fatto quel sistema a base
censitaria che lo sviluppo storico ha opportunamente superato'. Finita la
lezione, dell'ex presidente della Rai, non sono finite le sorprese. Ma nella
lunga fila di distinguo e nella corsa allo scaricabarile, non mancano voci
più sommesse. Come quella di Franco Russo (Rifondazione
comunista-sinistra europea), che 'conferma il pieno favore del suo gruppo allo
svolgimento dell'indagine conoscitiva, per le ragioni evidenziate dal
presidente Violante, e dichiara di condividere la distinzione da quest'ultimo
prospettata in relazione alle diverse componenti dei costi della politica'.
Russo, d'accordo sul fatto che 'è necessario individuare le diverse
responsabilità dei diversi livelli di governo', aggiunge però che
bisognerà 'procedere in maniera collaborativa, nell'interesse del paese,
ed evitare di scaricare le responsabilità gli uni sugli altri'. Ma il
vero e più forte richiamo alla saggezza è quello di Oriano
Giovanelli (ex presidente di Legautonomie) che si rivolge a Bocchino per
invitarlo a paragoni meno arditi tra gli stipendi dei parlamentari e i non
ricchissimi emolumenti degli insegnanti. Caro Bocchino, dice Giovanelli, forse
dovresti ricordare che 'l'opinione pubblica ritiene ogni giorno di più
ingiustificato il divario tra la retribuzione di un parlamentare e quella di un
normale lavoratore'. Per spiegare al suo collega che non si tratta solo di
demagogia, Giovanelli sottolinea che 'tale divario potrebbe essere accettato se
le istituzioni funzionassero e il parlamento fosse capace di decidere in tempi
rapidi e secondo le esigenze della società contemporanea'. Purtroppo non
è così, nota ancora il parlamentare dell'Ulivo, che con la
memoria è tornato ai tempi in cui il suo lavoro era quello di
amministratore locale.'Per chi, come me, viene da esperienze amministrative,
l'esperienza parlamentare, con i suoi lunghi tempi morti di discussione
inconcludente, risulta imbarazzante. Serve pertanto uno sforzo, anche
attraverso modifiche ai regolamenti parlamentari, per rendere più
produttivo il lavoro parlamentare'. E basta parlare di regioni ed enti locali,
anche se in qualche caso 'sono un problema'. 'Bisogna evitare la logica dello
scarico di responsabilità tra i livelli di governo'. Giampiero Di Santo.
Eppure
non solo non è successo, visto che le Comunioni si sono celebrate senza
la presenza di Fabio, ma addirittura il Vicario monsignor Gaetano Britti
interviene per accusare di superficialità i genitori. Ma come si fa ad
essere così lontano dalla "sofferenza"? Ma qualcuno sa
cos'è l'autismo? Come può un parroco dire che chi soffre
d'autismo non è in grado di comprendere il significato dell'Eucarestia?
Nemmeno i medici conoscono il grado di comprensione che può avere un
soggetto autistico. Le famiglie che vivono questo problema hanno bisogno di
anni, e a volte non bastano, per ottenere risultati tramite diete particolari,
logopedia, analisi del comportamento, comunicazione facilitata, ippoterapia; ma
ci possono volere attimi per distruggere quanto conquistato con tanto
sacrificio. La cosa migliore da fare è quella di chiedere scusa a Fabio
e alla sua famiglia, abbandonando questo atteggiamento di "pseudo cieco
burocrativismo". Soprattutto è da spiegare perchè si
adottano due pesi e due misure. Il mio non vuole essere un attacco contro la
Chiesa, infatti voglio ringraziare quel parroco che ha capito la situazione
particolare in cui si trovava un ragazzino autistico come Fabio, D.P. di
Montesilvano, e ha intuito il suo desiderio e la sua necessità di
integrarsi e di sentirsi come gli altri bambini. Quel parroco ha avuto la
sensibilità di umanizzare le regole rendendo felice un bambino disabile,
mettendo in atto uno dei principi fondamentali dello spirito cattolico, quello
della solidarietà. Chi scrive è una persona che cerca di
combattere tutte le barriere culturali che ogni giorno si erigono e creano disuguaglianza
ed emarginazione. E' paradossale, ma questa volta le barriere sono state erette
in una chiesa di Pescara. Barriere che hanno offeso la dignità di molti.
Claudio Ferrante Cgil-Funzione pubblica Comune di Montesilvano L'etica perduta della
"casta" politica Signor direttore, la ormai non più
rinviabile necessità di ridurre i cosiddetti "costi della politica"
fa sempre più proseliti. Ne hanno parlato negli ultimi tempi,
autorevolmente, il presidente della Repubblica Napolitano, del Consiglio Prodi,
segretari di importanti partiti di governo come Fassino e Rutelli e
tanti altri. Dopo un libro dei senatori Salvi e Villone, che avevano denunciato
gli abnormi aumenti dei costi per il mantenimento del nostro ceto
politico, un altro libro "La Casta", scritto da due autorevoli
giornalisti, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, ha documentato con cifre e
dati difficilmente confutabili, l'ulteriore involuzione di questi costi.
Chi scrive ha sempre avuto un profondo rispetto per i partiti che sono
le colonne portanti della nostra democrazia. Solo che, negli anni 1980-2000, i partiti
hanno tentato di invadere tutti i campi della vita sociale; alcuni di essi
hanno ritenuto che tutto sarebbe stato possibile per i loro dirigenti e si
determinò una convinzione di impunità che solo il coraggio di un
gruppo di magistrati ha saputo momentaneamente sconfiggere con le inchieste e
le tante condanne inflitte ai potenti del periodo passato alla storia come
"Mani pulite". Ma, evidentemente, i guasti prodotti da un certo
sistema di potere erano più profondi ed estesi di quanto si potesse
immaginare per cui, dopo una breve battuta d'arresto, i partiti hanno
ripreso il loro cammino verso l'occupazione del potere in tutte le direzioni
dalla Rai alle Asl, dalle municipalizzate alle banche e tutti gli altri enti di
gestione della cosa pubblica. Oggi, grazie al libro di Gian Antonio Stella e
Sergio Rizzo, il tema degli eccessivi e ingiustificati "costi della
politica" è tornato al centro dell'attenzione di una
opinione pubblica che non ce la fa più a tollerare superstipendi di
manager che mandano in rovina le aziende loro affidate e condizioni vergognose
di privilegio per i suoi rappresentanti ai vari livelli istituzionali, dal Parlamento
al Senato, alle circoscrizioni. Rubriche radiofoniche di successo come
"Zapping" e televisive come "Ballarò" e "8 e
mezzo", e altre ancora, se ne stanno occupando giornalmente e vengono
avanti proposte di un certo interesse. L'ex sindaco di Torino, Diego Novelli,
ha proposto un'assemblea di tutti gli ex parlamentari al fine di decidere
l'autoriduzione del vitalizio. Il segretario nazionale di Rifondazione
comunista Franco Giordano, intervistato dal "Corriere della Sera" il
17 maggio, si è detto favorevole alla riduzione degli stipendi dei
parlamentari e di tutti gli altri che percepiscono soldi per il loro impegno
politico. Il Presidente della Camera dei Deputati, Fausto Bertinotti, ha
promosso una commissione di inchiesta su "costi della politica".
Il consigliere regionale della Sinistra democratica abruzzese, Gianni Melilla,
ha proposto una drastica cura dimagrante per le auto blu. Giustino Zulli Chieti
Spinello legalizzato in Olanda si fuma di più La Dea, la speciale
polizia antidroga degli Stati Uniti, la rilevato che in Olanda, dopo la
legalizzazione della marijuana, dal 1984 al 1996 il consumo tra i giovani é
passato dal 15 al 45 per cento. L'insostenibile leggerezza delle tesi degli
antiproibizionisti (indotta per alcuni dall'uso di droghe e per altri dal non
uso del cervello) é così scientificamente provata.
Roma
Gianfranco Fini aveva impartito l'ordine la sera prima a
"Ballarò": "il video della Bbc sui preti pedofili non
andrà in onda perché lo bloccherà il Cda". Detto fatto, ieri
sera i consiglieri del centrodestra a Viale Mazzini hanno fatto il diavolo a
quattro per bloccare la trasmissione del documentario sui preti pedofili
"Sex crimes and the Vatican" (già visto da migliaia di persone
su molti siti). Dopo un mese di polemiche il video andrà in onda questa
sera alle 21 ad Anno Zero, il programma di Michele Santoro. I cinque del
centrodestra non sono riusciti a bloccarlo, ma hanno cercato di incastrare il
direttore generale Cappon addossandogli tutta la responsabilità
"della corretta gestione della trasmissione, da lui atuorizzata" dal
momento che aveva dato il via libera all'acquisto (per circa 20mila euro). Sul
tavolo del Cda era arrivata pure la lista degli ospiti invitati da Santoro, un
certificato di garanzia per la Chiesa: Monsignor Rino Fisichella, rettore della
Pontificia Università Lateranense, Don Fortunato Di Noto
dell'associazione Meter (in lotta da anni contro la pedofilia su internet), il
professor Piergiorgio Odifreddi, matematico e autore di "Perché non
possiamo essere cristiani" e il giornalista Colm O'Gorman autore
dell'inchiesta della BBC. Per tutto il pomeriggio il Cda ha discusso il
bilancio e l'ha votato all'unanimità (con un buco di 79 milioni). Alle
nove di sera scoppia la bomba: il casiniano Marco Staderini si impunta per
censurare il video, seguito da Malgieri (An) imbarazzato dal dover dare conto
al diktat di Fini e dal forzista Urbani, pur perplesso; il presidente
Petruccioli ha tentato una mediazione con un ordine del giorno che vincolava la
trasmissione al rispetto dei principi del servizio pubblico (già
garantiti da Santoro al Dg). Ma la destra insiste, Curzi si arrabbia
"contro la censura preventiva", sbatte la porta e se ne va.
Abbandonano la riunione anche il ds Rognoni e Nino Rizzo Nervo, poi Petruccioli
e Cappon. Rimasti soli al settimo piano i cinque del centrodestra si votano un
altro odg che in realtà ricalca quello di Petruccioli (ma non lo
dicono). E, soprattutto, "avvertono" il Dg, sul quale già
hanno appeso la Spada di Damocle di un voto di sfiducia. Nella redazione di
Anno Zero proseguiva la preparazione della puntata. L'autore del video, Colm
O'Gorman, come reporter di "Panorama-BBC" (e vittima da bambino di
abusi sessuali da parte di un prete) ha raccolto testimonianze in tutto il
mondo a partire dalla cattolicissima Irlanda, fino agli Stati Uniti, al Brasile
e in Inghilterra. Al centro dell'inchiesta un documento riservato del Vaticano
(e il ruolo del futuro Papa Ratzinger): il Crimen Sollicitationis, del 1962 che
diceva ai vescovi come comportarsi con i preti che tentano approcci sessuali
dal confessionale, nonché come affrontare "ogni atto osceno esterno. con
giovani di ambo i sessi". Gli ospiti avevano passato l'esame dei vertici
Rai e Travaglio spedirà in tempo utile per la risposta la sua
"posta prioritaria". A rispondere a Fini ieri mattina sono stati sia
Curzi che il presidente della Fnsi, Siddi: "Non spetta alla politica
decidere cosa andare in onda".
Prima
iniziativa ufficiale della Commissione europea in materia di rafforzamento
della protezione diplomatica e consolare dei cittadini dell'Unione nei paesi
terzi. L'Esecutivo di Bruxelles ha infatti presentato in settimana un libro
verde che anzitutto elenca gli interventi possibili degli stati membri e delle
autorità giudiziarie nazionali, in casi quali: arresto o detenzione,
incidente o malattia grave, atto di violenza subito dal cittadino, decesso del
cittadino, aiuto al cittadino in difficoltà e rimpatrio. L'elenco
inserito nel libro verde non è comunque completo, perché il testo
presentato indica che le rappresentanze diplomatiche o consolari degli stati
membri possono venire in aiuto anche in altri casi di richieste di aiuto,
purché specificamente competenti. La decisione della Commissione europea
prevede inoltre alcune procedure anche in relazione agli anticipi pecuniari che
possono essere concessi ai cittadini in difficoltà all'estero dagli
stati membri. Inoltre, al fine di organizzare scambi di informazioni sulle
buone pratiche nazionali, in seno al Consiglio dell'Ue è stato
istituito un gruppo di lavoro per la cooperazione consolare (Cocon), che ha
già elaborato le linee direttrici sulla tutela dei cittadini dell'Ue
nei paesi terzi. Queste ultime, sebbene non vincolanti, sottolineano comunque
l'importanza dello scambio di informazioni tra gli stati membri e le
autorità giudiziarie nazionali per una più stretta cooperazione.
Numerose ragioni portano la Commissione a presentare una serie di
percorsi di riflessione per rafforzare la protezione dei cittadini in tale settore.
Anzitutto l'articolo 46 della Carta dei diritti fondamentali, proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000, che ha sancito il diritto alla protezione consolare e
diplomatica come uno dei diritti fondamentali del cittadino europeo. Ma anche
la decisione 95/553/Ce che prevede che ne sia fatto un riesame a cinque anni
dalla sua entrata in vigore, avvenuta nel maggio 2002. Quest'anno la Commissione
presenterà la quinta relazione sulla cittadinanza dell'Unione, in cui
potrebbero essere annunciate iniziative relative al diritto alla protezione
diplomatica e consolare. Quest'ultima può comunque riguardare casi
individuali o collettivi. Per affrontare situazioni di crisi (catastrofi
naturali, atti di terrorismo, pandemie o conflitti militari) l'Unione europea
è comunque dotata già oggi di diversi strumenti: il meccanismo di
protezione civile, gli aiuti umanitari alle popolazioni civili colpite da
catastrofe nei paesi terzi, il meccanismo di reazione rapida, le missioni
civili di gestione delle crisi nel quadro della politica estera di sicurezza e
di difesa. Tutti strumenti che richiedono una stretta cooperazione tra
Consiglio e Commissione. Attualmente sono solo tre i paesi in cui gli
stati membri sono rappresentati: Repubblica popolare cinese, la Federazione
Russa e gli Stati Uniti d'America. Prima di intraprendere azioni necessarie per
rafforzare il diritto alla protezione diplomatica e consolare comunitarie, con
il libro verde la Commissione ha perciò aperto un vasto dibattito
pubblico, cui possono partecipare anche addetti al settore giustizia, inviando
contributi all'indirizzo: jls-diploconsulprotection@ec.europa.eu.
I contributi saranno pubblicati su La vostra voce in Europa, con
l'indicazione degli autori, a meno che questi non preferiscano conservare
l'anonimato o chiedano che l'intero contributo resti riservato. Il dibattito si
concluderà con l'organizzazione di un'audizione con la partecipazione di
tutti gli interessati.
+ + AgenParl 30.5.2007.
+ Consulenzalavoro.com 29-5-2007 In Spagna diminuisce
il precariato Flessione dell’1,6%
+ Il Sole 24 Ore 30-5-2007 Ora il centrosinistra mette
il Professore sotto pressione. Stefano
Folli
Audionews.it 30-5-2007
Previti, Giunta: si decadenza carica deputato
L’Unità 30-5-2007 Harakiri Marco Travaglio
L’Unità 30-5-2007 Sconfitta collettiva
Gianfranco Pasquino
SCENARI D’AUTUNNO
Roma, 30 Maggio 2007 - AgenParl -
Prevedendosi la bufera, in Parlamento si stanno elucubrando varie ipotesi in
vista dello “scivolone” di Prodi. Il presidente del Senato Franco Marini si
frega le mani. Si ventila la possibilità di dare vita ad un governo
istituzionale per impedire la morte prematura della corrente legislatura. E
proprio Marini, data la sua collocazione politica, viene indicato come
possibile presidente del consiglio. Anche perché difficilmente questo incarico
potrebbe essere conferito al presidente della Camera Fausto Bertinotti, la cui
qualificata collocazione politica non gli consentirebbe di raccogliere i
consensi necessari.
Da Arcore, si danno ancora “tre mesi” di vita all’attuale esecutivo. In
autunno, se un nuovo governo “pronto” e “deciso” non avrà varato la
riforma della legge elettorale, il referendum piomberà come una “clava”
sul governo “stremato”, aprendo la strada a nuove elezioni.
Però questa ipotesi, cara al Cavaliere, non trova il sostegno
necessario, nemmeno in tutto il centro-destra. (F.Mi.)
COFFERATI: LE INSICUREZZE DELLA SINISTRA
SULLA SICUREZZA
Roma, 30 Maggio 2007 – AgenParl – Anche il
sindaco di Bologna Sergio Cofferati cerca di trovare delle cause nella
sconfitta del centrosinistra alle amministrative.
“Siamo di fronte ad un retaggio di una vecchia cultura” sostiene Cofferati che
prosegue: “un retaggio che se non superato, ci destina ad altri insuccessi”.
Per il primo cittadino bolognese, la sconfitta non è assolutamente da
imputare ai singoli Prodi piuttosto che Padoa–Schioppa, bensì ad alla
mancata fiducia nel governo da parte dei cittadini. E a tal proposito, per
Cofferati, “il caso di Verona, dove ha stravinto il candidato leghista Flavio
Tosi, non è un caso particolare. La sinistra si è sempre limitata
a condannare le azioni repressive della destra, mostrando solo incertezze di
fronte al bisogno di azioni di contrasto”. (M. D.)
AMMINISTRATIVE: CALDEROLI (LEGA), GRAZIE A
PRODI LA SINISTRA DISERTA LE URNE
Roma, 30 Maggio 2007 – AgenParl – "E'
la prima volta che il popolo della sinistra sceglie di non andare a votare,
peraltro in una tornata amministrativa dove tradizionalmente il centrodestra
raccoglie meno consensi. Basta scorrere province e comuni dove si è
votato per verificare che lì dove mancano i voti al centrosinistra si è
alzato in maniera decisa l'astensionismo. Tra l'altro, è anche un dato
ben augurante". Lo ha dichiarato in un'intervista a 'Il Giornale' Roberto
Calderoli, vice presidente del Senato e coordinatore delle segreterie nazionali
della Lega Nord.
"Mi pare chiaro – ha affermato Calderoli – che questa maggioranza non
è in grado di affrontare la questione del federalismo fiscale, che nei
difficili equilibri che tengono in piedi il governo avrebbe degli effetti
devastanti. Eppure il nord ci ha appena fatto sapere di avere una gran voglia
di federalismo, altrimenti non si spiegherebbero questi numeri bulgari".
"Certo -ha commentato- o si va alle elezioni anticipate oppure ci si mette
a tavolino e si fa subito una nuova legge elettorale. Oggi i capigruppo del
Senato hanno detto sì ad accelerare l'iter del provvedimento, vedremo se
saranno capaci di andare avanti. Altrimenti resta solo il voto
anticipato".
"Penso che se ci mobilitiamo adesso – ha spiegato invece Calderoli in
un'intervista a 'Il Messaggero' – dopo qualche risultato,in piazza ci portiamo
tre, cinque volte la gente che c'e' andata la volta scorsa". "Ma li
ha visti - ha concluso - i voti che abbiamo preso, in termini assoluti?".
(LM.VS.)
Statistiche
Il Ministero del Lavoro e degli Affari
sociali spagnolo ha reso noto che nel primo trimestre del 2007 si è
verificata un’inversione di tendenza nell’ambito dell’occupazione e, dopo un
periodo di massiccio ricorso al precariato, si riscontra un deciso aumento dei
dipendenti a tempo indeterminato.
Su 13,5 milioni di lavoratori non agricoli, infatti, il 67,4% è assunto
in modo stabile e il 32,6% ha un impiego temporaneo e nei primi 3 mesi del 2007
sono stati creati 812.900 nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato (+9,8%).
Al contrario il lavoro flessibile ha visto un calo pari al -1,6%, con 69 mila
posti in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
A beneficiare dell’inversione di tendenza sono state soprattutto le donne, che
hanno ottenuto 428.600 posti in più rispetto al 2006 (+8,4%) e 100 mila
più dei colleghi maschi.
30 maggio 2007 Dopo il voto amministrativo
e la sconfitta al Nord, il centrosinistra si trova di fronte a un paradosso.
Chiede con forza al presidente del Consiglio di reagire e di mettere in campo
qualche idea e qualche iniziativa per recuperare il rapporto con gli elettori.
Al tempo stesso, si scontra con la tranquilla prudenza del premier. Che non si
scompone e ribatte:«Io non cerco la popolarità, io voglio guarire il
paese e ho bisogno di cinque anni per riuscirci». Le amministrative, a suo
avviso, sono un episodio minore, un incidente sulla via del risanamento; il
giudizio si potrà dare appunto fra cinque anni. E' un messaggio che
Prodi rivolge alla sua maggioranza: non provate a cogliere il pretesto del voto
per allontanarmi da Palazzo Chigi.
Tuttavia i partiti hanno fretta, molta fretta. Ecco il paradosso: l'orizzonte
della legislatura è troppo lungo per loro, non se la sentono di
aspettare. Hanno bisogno che il Governo sia reattivo davanti agli stati d'animo
espressi dall'opinione pubblica.Perché essere espulsi dal Nord equivale ad
essere delegittimati come classe politica dirigente.
Così i problemi s'intrecciano. Da un lato, il passo lento e solenne di
Prodi che cerca soprattutto di mettere in sicurezza la sua compagine.
Dall'altro, le inquietudini dei partiti,in qualche caso preda di vere crisi di panico.
Persino la sinistra radicale è sulle spine, ritiene che si faccia troppo
poco per curare il malessere sociale e «risarcire » i ceti deboli. E poi
naturalmente c'è il Partito Democratico, la cui prospettiva è
stata travolta dal risultato nordista e che oggi deve cambiare passo se vuole
salvare qualcosa della sua ragion d'essere.
Altro che serena marcia di avvicinamento alla data fatidica del 14 ottobre...
Gli architetti del Partito democratico devono escogitare subito un progetto per
il paese, una proposta comprensibile. Il tempo stringe. Alla "Stampa"
Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte,ha detto: «Il peso del
Governo o non si è visto, oppure ha avuto effetti negativi come per
l'alta Velocità. Il Nord non vuole riformismo verbale, vuole i fatti».
Riformismo verbale... Se questo è il limite dell'esecutivo, cosa hanno
fatto Ds e Margherita, i due partiti«riformisti»,per imporre il loro punto di
vista? Per un anno si è sentita la voce della sinistra radicale, molto
meno quella della sinistra moderata.Senza dubbio oggi c'è la
necessità di definire senza ritardi la leadership del nuovo partito
(proprio quello che il premier non vuole,timoroso degli effetti del dualismo).
Ma più urgenti ancora le battaglie politiche intorno a temi concreti. La
Bresso cita la Tav. Entro il 23 luglio l'Italia deve una risposta all'Unione
europea. Il rischio d'essere tagliati fuori dalle grandi opere è
incombente.
Massimo Cacciari parla di un centrosinistra «incapace di comprendere la
struttura sociale, economica e culturale delle regioni settentrionali». Qui
è il nodo che il binomio DsMargherita, cioè il Pd, avrebbe dovuto
sciogliere, soprattutto attraverso l'azione del Governo Prodi. Invece sono
state escluse proprio le voci più scomode, ma anche più
innovative.Cacciari,Chiamparino,Bresso, Illy:agli occhi dei partiti romani sono
degli eretici. Ma l'eresia del Nord è essenziale per un nuovo partito
che dovrebbe nascere su base federale. Vedremo nelle prossime settimane. Di
certo il Governo Prodi è già sotto pressione. La leadership del
professore sarà messa alla prova. A cominciare dalla Tav e dalle
pensioni.
06.32:
La
Giunta per le elezioni della Camera ha approvato la proposta di decadenza di
Cesare Previti dalla carica di deputato. L'ex ministro del governo Berlusconi,
condannato in via definitiva per il processo Imi-Sir, avrà 20 giorni di
tempo per presentarsi in audizione alla Camera. L'ultima parola spetterà
poi all'Aula per la decisione definitiva.
C'è
chi propone di tagliare le Province, chi le Comunità montane, chi i
consigli di quartiere, chi consiglieri e assessori. Tutti però parlano
degli altri. E' quanto affermano, in una nota congiunta, i segretari
provinciali di Cgil Cisl e Uil, Meris Soldati, Massimo Fossati e Giuseppina
Morolli. "Occorrerebbe che la politica ? affermano ? quella legata
all'amministrazione del potere, arretrasse di un passo ponendo fine alla
spartizione e all'occupazione di enti, società partecipate, consorzi e
quant'altro. In questo modo si favorirebbe il loro rinnovamento e la riduzione
degli incaricati da individuare soltanto su criteri di necessità,
competenza e professionalità e non sull'appartenenza a questo o quel
partito". Cgil Cisl e Uil puntano l'accento sul tema del lavoro:
"Rinnovare i contratti di lavoro (alcuni scaduti da anni) in questa fase
è molto difficile. Quando, anche se per pochi euro, siamo costretti a
chiamare i lavoratori allo sciopero, il tema dei costi della politica salta
subito in primo piano. Anche in occasione dell'ultima tornata di assemblee su
Finanziaria e confronto con il governo sulle rivendicazioni che Cgil Cisl Uil
hanno avanzato, relativamente a previdenza, pubblico impiego ecc., abbiamo
avvertito un malessere sociale crescente, i lavoratori e i pensionati hanno
posto con grande forza e nettezza la necessità di un sostanziale
cambiamento e di una maggiore equità". Ancora: "I costi della
politica, moltiplicano vertiginosamente; gli stipendi dei parlamentari sono i
più alti d'Europa. Di contro, rimanendo in ambito europeo, è
sempre da primato, questa volta però al ribasso, il livello degli
stipendi dei lavoratori italiani, per non parlare delle pensioni".
Pasquale Barone (An) sposa la proposta di Giovanni Benaglia (Ds): "Abolire
le Province". Ma difende i consigli di quartiere: "Un assessore costa
come un'intera assise di quartiere. Non concordo sull'eliminazione dei
quartieri, che avvicinano la politica al territorio. Verifichiamo gli sprechi
nelle partecipate. Riduciamo i membri dei vari cda: per fare una maggioranza ne
bastano 3, non ne servono 13. Quanti sono a Rimini i politici di professione
senza incarichi elettivi? Tra sindacati, cooperative e partecipate sono certo
tanti che si ritrovano stipendi e pensioni".
In
Giappone il ministro dell'Agricoltura Toshikatsu Matsuoka, coinvolto in uno
scandalo finanziario, s'è impiccato in pieno Parlamento. "Sono ben
cosciente ha lasciato detto delle mie responsabilità. È mio
dovere far sì che cose simili non si ripetano". Era accusato di
aver intascato fondi neri per 6.600 euro da una società edilizia che poi
aveva vinto appalti pubblici e di aver presentato note spese fasulle per 180
mila euro facendosele rimborsare dallo Stato. In Italia Paolo Scaroni,
quand'era manager della Techint, pagò tangenti al Psi per vincere appalti
all'Enel. Una volta scoperto, fortunatamente non si suicidò.
Patteggiò 1 anno e 4 mesi per corruzione e fu subito promosso dal
governo Berlusconi presidente dell'Enel (in veste d'intenditore) e poi
amministratore delegato dell'Eni: ora è di nuovo indagato dalla Procura
di Milano per aver truffato gli italiani taroccando i contatori di gas e
gonfiando le bollette di circa il 6%. Se avesse lasciato detto qualcosa,
avrebbe potuto dire: "Sono ben incosciente delle mie
responsabilità. Ed è mio dovere far sì che cose simili si
ripetano. Ora scusatemi, ma ho molto da fare". Matsuoka riteneva di aver
"perso la reputazione": il che, spiega Paolo Salom sul Corriere,
"è la tragedia più grande per un uomo dell'Estremo Oriente.
Negli ultimi 25 anni, altri 4 parlamentari han fatto harakiri". Tutti gli
Scaroni d'Italia della reputazione e dell'onore hanno un concetto un po'
elastico: non temono di perderli, non si sono mai posti il problema, e questo
li avvantaggia parecchio rispetto agli uomini dell'Estremo Oriente. Chi ha una
faccia, teme di perderla. Ma chi non ce l'ha, o più semplicemente vive
in Italia, non ha nulla da perdere. Vive meglio. E soprattutto vive. Mentre i
Matsuoka muoiono. Certo i Matsuoka esagerano: noi, più modestamente, ci
accontenteremmo che quelli nostrani vivessero cent'anni, ma a casa loro,
lontano dal denaro pubblico. Invece, se nel curriculum hanno almeno una
condanna da vantare, vi si avvicinano vieppiù. E dire che, solo 15 anni
fa, capitava anche in Italia che qualche personaggio coinvolto in Tangentopoli
si togliesse la vita per la vergogna, o per paura delle conseguenze. Ma oggi
vengono ricordati come vittime, non come colpevoli: colpevoli sono i giudici
che scoprirono i loro delitti e i giornali che li raccontarono. In Giappone a
nessuno salterebbe in mente di accusare giudici o giornali: se uno ruba, le
conseguenze dei suoi furti ricadono su di lui, non sugli altri. Il Corriere
aggiunge che "Matsuoka, facendo harakiri, ha riconquistato il suo onore di
fronte ai connazionali". Ecco, i connazionali. I cittadini. La
società civile. L'opinione pubblica. Nel '92-'93 ne avevamo una anche
noi. Scendeva in piazza contro i ladri e a favore delle guardie. Poi, a reti
unificate, le fu spiegato che i ladri erano le vittime e le guardie i
colpevoli. Il gioco di prestigio funzionò. L'altroieri gli elettori di
Asti hanno rieletto sindaco il forzista Giorgio Galvagno: lo era già nel
gennaio '94, quando era socialista e fu arrestato. Lo scandalo era quello della
discarica di Vallemanina e Valleandona, dove venivano smaltiti illegalmente
rifiuti tossici e nocivi in cambio di tangenti. Innocente? No, colpevole: nel
1996 Galvagno patteggiò 6 mesi e 26 giorni di carcere per inquinamento
delle falde acquifere, abuso e omissione di atti ufficio, falso ideologico,
delitti colposi contro la salute pubblica e omessa denuncia dei responsabili
della Tangentopoli astigiana. Meritava un premio: nel 2001 Forza Italia lo
preferì all'allora capogruppo, l'avvocato Alberto Pasta, che aveva un
handicap: al processo sulla discarica assisteva il comitato delle vittime,
parte civile contro Galvagno. Fra il condannato e la parte civile, il partito
di Berlusconi non ebbe esitazioni: scelse il condannato. Galvagno divenne
deputato. Ora è di nuovo sindaco,col 56,9%. A Taranto sfiora il ballottaggio
il figlio di Giancarlo Cito, che non poteva ripresentarsi per via di una
condanna per mafia (Sacra corona unita). A Monza vince il rappresentante della
Cdl, così finalmente Paolo Berlusconi potrà costruire un milione
di metri cubi alla Cascinazza. La politica è in crisi anche per questo:
a volte, come diceva un celebre titolo di Cuore, "l'uomo della strada
è una bella merda". Uliwood party.
Cara
Europa, perché il governo, presentato dalla destra come il governo delle tasse,
non dice anche quel che ha fatto per il paese e in particolare per il Nord?
Perché se ha pronto il contratto dei dipendenti pubblici (3 milioni), lo firma
solo la notte dopo la sconfitta elettorale e non il giorno prima? Perché avendo
un programma per la famiglia lo dice solo il sabato prima delle elezioni e non
un anno fa? Non sarò mai elettrice della destra, ma queste cose mi fanno
incavolare.
ANNA MARIA STELLA, GENOVA
Anche
a me, signora Stella. Purtroppo, i politici del centrosinistra, e anche del
Partito democratico, hanno una loro visuale delle cose che ci porta a
valutazioni divergenti.
Per esempio, perdiamo in una parte del Nord? C’è pronta la risposta di
Pezzotta: abbiamo deluso gli elettori cattolici. Ma per chi votano questi
cattolici, per i razzisti della Lega? Per i cammelli di Fi che non dovrebbero
entrare nella cruna dell’ago? E tutto questo per cristiano odio ai Dico?
Francamente mi sembra poco cristiano, così come poco saggio mi sembra
iniziare una politica della famiglia, da parte del governo, anticipando
questioni importanti ma marginali e impostando solo successivamente le
questioni generali. Come s’è fatto la settimana scorsa a Firenze. In
verità, io leggo in questi comportamenti la cultura residuale di
minoranze, di opposizioni vissute perennemente nelle nicchie, e che, trovatesi
all’improvviso a governare la società generale, continuano a vedere le
nicchie che qua e là vi si affacciano e pensano di dover partire da
quelle, trascurando (e offendendo) la generalità. Che è cosa del
tutto diversa dal principio liberale di difendere sempre il diritto delle
minoranze a manifestarsi e a proporsi.
Lei dice: l’accordo per il pubblico impiego. Ma ha letto le reazioni dei
sottosindacati autonomi o di base? Sono già sul sentiero di guerra. Ecco
la mancanza di sintonia con gli interessi di tutti: niente accordo, e dunque
scioperi. Altri voti alla destra. Pensare che ieri a Lecco – dov’è morto
50 anni fa – hanno ricordato Giuseppe Di Vittorio, l’umile bracciante pugliese
diventato il grande segretario della Cgil, che meritò, per la sua
moderazione e collaborazione col governo e con l’opposizione, coi lavoratori e
con gli imprenditori, il titolo di ricostruttore dell’Italia: insieme a De
Gasperi (politica), Valletta (industria) e Menichella (moneta). Io credo che se
avesse avuto dei Cobas fra le scatole Di Vittorio non avrebbe esitato a marcare
le distanze. Speriamo che altrettanto facciano Epifani e compagni. Insomma,
cara signora, il centrosinistra non solo non ha costruito un blocco sociale
alternativo a quello di centrodestra (e ciò è un bene, in una
società non più solcata da divisioni di classe, checché ne pensi
Giordano), ma non ha trovato né una voce unitaria per esprimersi né la sintonia
con gli avvenimenti, in modo da comunicare prima che il treno passi, non quando
è già passato. Rileggo un’intervista di Prodi al Messaggero di
dieci giorni fa, col titolo: “Ho fatto ripartire l’Italia anche a costo
dell’impopolarità”: Mi chiedo se non avrebbe fatto meglio a girare
l’Italia per spiegare le cause buone di quell’impopolarità, anziché
aspettare, per farlo, sabato prossimo, quando comincerà da Roma il
viaggio nel “popolo delle primarie”. Sperando che quel popolo ci sia ancora
ROMA.
Una sirena antiaerea, più che un campanello d'allarme. L'allarme che
è risuonato ieri nel centrosinistra si è sentito alto e forte.
Non ci saranno effetti immediati per il governo, ma certo tutti chiedono ora
nell'Unione di correre ai ripari. Anche perchè giugno si annuncia come
un vero percorso di guerra per il governo Prodi, disseminato di trappole e
insidie ad alto rischio. Il problema è che le ricette nella maggioranza
sono spesso diverse, se non opposte. La diagnosi ha però due nomi
chiari: questione settentrionale e primo flop del nascente Partito Democratico.
Piero Fassino, in una riunione del comitato politico Ds, avverte che serve ormai
uno "scatto nell'azione di governo e nella costruzione del Partito
Democratico". Ma ancora più esplicito è Francesco Rutelli,
che in un lungo discorso nella direzione della Margherita, chiede che sia
scelto subito, già in autunno, il leader del nuovo partito. Perché
"serve una guida e non si può stare nel bagnasciuga troppo a
lungo". Al governo Rutelli torna invece a chiedere di tagliare l'Ici e
critica che sia stato firmato il contratto con gli statali la notte dopo le
elezioni. C'è bisogno di "decidere" di più e di
"comunicare" meglio, avverte dunque il presidente della Margherita
che critica anche il "balletto" infinito sul cosiddetto tesoretto. In
molti chiedono di accelerare verso la costruzione del Pd. Ma Massimo Cacciari e
Barbara Pollastrini chiedono che si dia vita a un Partito Democratico del Nord
autonomo, anche se federato con il Pd. Walter Veltroni avverte che serve una
"riflessione molto seria", ma si riserva di dire la sua nella sede
opportuna, cioè nella prossima riunione del coordinamento dell'Ulivo.
Probabile che torni a chiedere anche lui di anticipare la scelta del leader.
Certo che il Partito Democratico non sembra nascere sotto i migliori auspici.
In quasi tutto il Nord la sola Forza Italia supera le liste comuni di Ds e
Margherita. Ma prendendo come riferimento le sette province in cui si è
votato con la proporzionale, l'Ulivo perde complessivamente ben l'8,4 per
cento, passando da una media del 30,8 per cento ottenuta nel 2002 da Ds e
Margherita separati, al 22,4 di queste elezioni. A Genova, ad esempio l'Ulivo
raggiunge il 30,2, ma cinque anni fa i soli Ds erano al 30,7 e la Margherita al
9,1. A La Spezia i due partiti separati erano al 42,7, l'Ulivo in queste
elezioni si è fermato al 32,7. A Varese l'Ulivo si ferma al 17 per cento
sotto Forza Italia, ma anche sotto la Lega, e a Vercelli non va oltre il 16,3.
Ma persino dove il centrosinistra vince, come a Frosinone, l'Ulivo ottiene solo
il 16,10 contro il 20,59 preso dalle liste separate di Ds e Margherita. Una
situazione in cui affondano il coltello i fuoriusciti dai Ds, Fabio Mussi
("una debacle per il Pd") e Gavino Angius ("Il Pd indebolisce
l'Unione"). Ma il giorno dopo il primo turno, e mentre resta ancora da
giocare la partita dei ballottaggi il 10 giugno, è tutto il
centrosinistra a non raccogliere l'invito di Prodi a restare unito. Clemente
Mastella (Udeur) e ora anche Enrico Boselli (Sdi) chiedono un
"tagliando" per il governo. Oliviero Diliberto avverte che il Pdci
non voterà il prossimo Pdef "a scatola chiusa" e il radicale
Capezzone protesta contro le troppe tasse. Per il governo Prodi si profila
oltretutto un mese ad alta tensione. Il 6 giugno al Senato si voterà la
mozione presentata dall'opposizione contro Visco e al momento il centrosinistra
non ha i voti sufficienti per mettere al riparo il suo vice ministro. E a
giugno bisognerà decidere sulle pensioni, sulla Tav, sulla riforma
elettorale (con il referendum come una mina innescata per il
governo), e infine sul Dpef.
ROMA
Ds e Margherita in rotta di collisione con Prodi. Il premier non minimizza i
risultati della Amministrative ma neanche ne fa un dramma. Gli alleati invece
si sono presi una grande paura. «Sarebbe sbagliato - ha spiegato Piero Fassino
al comitato politico della Quercia - sottovalutare il voto. Il governo e il
centrosinistra sono sollecitati a uno scatto. E’ necessario rispondere alle
attese di modernizzazione e riforme». Ma Ds e Margherita hanno un problema in
più che si chiama Partito Democratico che rischia di essere risucchiato
negativamente dall’immagine del premier e dai contrasti della coalizione che al
Nord è stata umiliata. «Sottovalutare il messaggio che viene da questa
parte del Paese sarebbe un grave errore», annota Dario Franceschini che
rilancia con forza la necessità di una leadership nuova e forte del Pd
in coincidenza con l’elezione dell’Assemblea costituente d’ottobre. Prodi
considera questa idea una sua deminutio e un ulteriore indebolimento
dell’esecutivo. Stasera, alla riunione del Comitato dei 45 si discuterà
anche di questo e di come reagire alla batosta elettorale.
Il punto centrale tuttavia rimane l’azione del governo, perché da questa passa
il vero recupero di consenso. Francesco Rutelli è stato il più
esplicito e il più critico. Chiedendo di eleggere già a ottobre
il leader del Pd: «Serve una leadership piena che non sia il frutto di
un’intesa tra i gruppi dirigenti dei partiti fondatori». Attaccando il ritardo
di certe decisioni, a cominciare dall’Ici: «E’ sacrosanta l’indicazione di
destinare l’extra-gettito nella direzione degli armonizzatori sociali e alle
pensioni più basse, ma è altrettanto importante che il governo
batta un colpo dando un primo segnale di riduzione della pressione fiscale.
Ecco perché sosteniamo l’intervento sulla casa che tocca i ceti medio-bassi e
che è subito percepita dalle famiglie». Per Rutelli poi è stato
«un errore» chiudere il contratto degli statali a urne chiuse: «Da tempo
avevamo chiesto di risolvere questa controversia prima delle elezioni». Le sue
accuse hanno un chiaro indirizzo: Prodi e Padoa-Schioppa.
Decidere e comunicare, cambiare passo, «altrimenti ne prenderemo atto», spiega
minaccioso il deputato veneto della Margherita Fistarol. «Tra qualche settimana
avremo le partite Iva del Nord - aggiunge Fistarol - inferocite per
l’adeguamento degli studi di settore. Ecco, dalle mie parti non capiscono
perché devono pagare più tasse se poi a Roma litighiamo sul tesoretto».
Insomma i due alleati maggiori di Prodi non ci stanno ad aspettare la fine
della legislatura, come ha detto ieri il premier, per fare un bilancio
dell’azione del governo. Per Ds e Margherita se il toro non viene preso subito
per le corna, travolgerà tutti e tutto. Anche il Partito democratico le
cui sorti Fassino e Rutelli vogliono distinguere da quelle dell’esecutivo. Nei
vertici della Quercia e dei Dl si è acceso l’allarme rosso: per questo
non è più possibile aspettare il 2008 per avere alla guida del Pd
un leader saldo in sella. «Scegliere subito il leader del Pd è ormai
l’orientamento prevalente», osserva Antonello Soro. Alla stessa conclusione
sono arrivati i big Ds. Veltroni, Bersani e D’Alema non hanno dubbi, più
prudente invece Fassino: non è convinto dell’opportunità di
aprire ora un dibattito sulla guida del Pd.
Resiste a questa ipotesi Prodi che vede come fumo negli occhi lo sdoppiamento
della leadership del partito da quello della premiership. «Credo - spiega
sempre Soro - che siamo maturi i tempi per una coabitazione tra leader del
partito e leader del governo. La situazione delicata ce lo impone». Nomi non ne
sono stati fatti alle riunioni dei Ds e dei Dl dove è chiara l’idea che
il leader del Pd non sarà il candidato a Palazzo Chigi. Questo
dovrà essere deciso nel 2010, un anno prima delle elezioni politiche,
sempre che a quella data il governo Prodi arrivi. Sì, perché a margine
degli incontri di ieri non veniva esclusa l’ipotesi di una crisi di governo.
«Anche perché - diceva un ministro della Margherita - Prodi purtroppo è
molto, molto debole». C’è un punto su cui i due partiti non sono
d’accordo. La Margherita vorrebbe che il segretario venga scelto con delle vere
e proprie primarie, mentre la Quercia sostiene che questo indebolirebbe troppo
Prodi e propone di far eleggere il leader dai delegati dell’assemblea
costituente. Ma di fare presto ormai parlano tutti, anche il nuovo arrivato
Marco Follini: «A questo punto l’accelerazione sul Pd ci sta tutta».
ROMA
- Una sirena antiarea, più che un campanello d'allarme. L'allarme che
è risuonato ieri nel centrosinistra si è sentito alto e forte.
Non ci saranno effetti immediati per il governo, ma certo tutti chiedono ora
nell'Unione di correre ai ripari. Anche perché giugno si annuncia come un vero
percorso di guerra per il governo Prodi, disseminato di trappole e insidie ad
alto rischio. Il problema è che le ricette nella maggioranza sono spesso
diverse, se non opposte. La diagnosi ha però due nomi chiari: questione
settentrionale e primo flop del nascente Partito Democratico.Piero Fassino, in
una riunione del comitato politico Ds, avverte che serve ormai uno "scatto
nell'azione di governo e nella costruzione del Partito Democratico". Ma
ancora più esplicito è Francesco Rutelli, che in un lungo
discorso nella direzione della Margherita, chiede che sia scelto subito,
già in autunno, il leader del nuovo partito. Perché "serve una
guida e non si può stare nel bagnasciuga troppo a lungo". Al
governo Rutelli torna invece a chiedere di tagliare l'Ici e critica che sia
stato firmato il contratto con gli statali la notte dopo le elezioni.
C'è bisogno di "decidere" di più e di
"comunicare" meglio, avverte dunque il presidente della Margherita
che critica anche il "balletto" infinito sul cosiddetto tesoretto. In
molti chiedono di accelerare verso la costruzione del Pd. Ma Massimo Cacciari e
Barbara Pollastrini chiedono che si dia vita a un Partito Democratico del Nord
autonomo, anche se federato con il Pd. Walter Veltroni avverte che serve una
"riflessione molto seria", ma si riserva di dire la sua nella sede
opportuna, cioè nella prossima riunione del coordinamento dell'Ulivo.
Probabile che torni a chiedere anche lui di anticipare la scelta del leader.
Certo che il Partito Democratico non sembra nascere sotto i migliori auspici.
In quasi tutto il Nord la sola Forza Italia supera le liste comuni di Ds e
Margherita. Ma prendendo come riferimento le sette province in cui si è
votato con la proporzionale, l'Ulivo perde complessivamente ben l'8,4 per
cento, passando da una media del 30,8 per cento ottenuta nel 2002 da Ds e
Margherita separati, al 22,4 di queste elezioni. A Genova, ad esempio l'Ulivo
raggiunge il 30,2, ma cinque anni fa i soli Ds erano al 30,7 e la Margherita al
9,1. A La Spezia i due partiti separati erano al 42,7, l'Ulivo in queste
elezioni si è fermato al 32,7. A Varese l'Ulivo si ferma al 17 per cento
sotto Forza Italia, ma anche sotto la Lega, e a Vercelli non va oltre il 16,3.
Ma persino dove il centrosinistra vince, come a Frosinone, l'Ulivo ottiene solo
il 16,10 contro il 20,59 preso dalle liste separate di Ds e Margherita. Una
situazione in cui affondano il coltello i fuoriusciti dai Ds, Fabio Mussi
("una debacle per il Pd") e Gavino Angius ("Il Pd indebolisce
l'Unione"). Ma il giorno dopo il primo turno, e mentre resta ancora da
giocare la partita dei ballottaggi il 10 giugno, è tutto il
centrosinistra a non raccogliere l'invito di Prodi a restare unito. Clemente
Mastella (Udeur) e ora anche Enrico Boselli (Sdi) chiedono un
"tagliando" per il governo. Oliviero Diliberto avverte che il Pdci
non voterà il prossimo Pdef "a scatola chiusa" e il radicale
Capezzone protesta contro le troppe tasse. Per il governo Prodi si profila
oltretutto un mese ad alta tensione. Il 6 giugno al Senato si voterà la
mozione presentata dall'opposizione contro Visco e al momento il centrosinistra
non ha i voti sufficienti per mettere al riparo il suo vice ministro. Lo stesso
giorno arriveranno nella giunta per le autorizzazioni a procedere la nuova
ondata di intercettazioni di cui si parla da settimane. E a giugno
bisognerà decidere sulle pensioni, sulla Tav, sulla riforma elettorale
(con il referendum come una mina innescata per il governo), e infine sul
Dpef. Andrea Palombi [.
Segue
dalla Prima Ma fare spallucce dicendo
che il Nord rappresenta un problema "non da oggi" per il
centrosinistra non riduce le proporzioni della sconfitta e non avvia in nessun modo
a soluzione il problema. Neppure cercare i capri espiatori o, peggio, le
bacchette magiche serve a salvare le coscienze e ancora meno a recuperare i
voti. Tutti gli studiosi sanno, e persino qualche politico ha imparato, che nei
comportamenti elettorali, che includono anche la decisione di non andare a
votare, entrano una pluralità di motivazioni. Pertanto, qualcuno degli
elettori del centro-sinistra ha mostrato la sua disaffezione standosene a casa.
È recuperabile mostrando loro che il governo di centro-sinistra sa
prendere decisioni e attuare politiche. Qualcuno ha ritenuto che uno
schieramento come quello del centro-sinistra dovrebbe contenere e ridurre i
privilegi, ma, di fronte alla documentazione dei costi della politica, è
stato preso, non soltanto dallo sconforto, ma anche dall'irritazione e ha
deciso di dare una lezione ai troppi compiaciuti politici di mestiere che si
ergono a casta. Qualcuno, infine, fra i molti che, probabilmente, oscillano fra
centro-sinistra e centro-destra, ha deciso che su tematiche importanti, come la
sicurezza, l'immigrazione, le tasse (la distribuzione del cosiddetto
tesoretto), il centro-sinistra non ha le idee chiare e neppure le proposte
giuste. Per quanto l'assunto democratico che l'elettore ha sempre ragione debba
essere condiviso e tenuto fermo (altrimenti dovremmo affidarci, di volta in
volta, ai cardinali, ai generali e agli imprenditori, e non ai professori che
si fanno allegramente "prendere a prestito" dalla politica), questo
assunto non suggerisce affatto che gli elettori abbiano posizioni giuste in
tutte le materie né posseggano tutte le informazioni necessarie. Tuttavia, una
volta attribuita agli elettori una parte di responsabilità per la loro
carente informazione, tutta la rimanente e preponderante responsabilità
va assegnata ai politici, nel nostro caso ai politici e ai professori di
centro-sinistra che stanno governando e che non si sono curati abbastanza di
interagire con l'elettorato, tutto e non soltanto il "loro" poiché di
elettori "sicuri" ne sono rimasti piuttosto pochi. Non mi
soffermerò qui sul sufficientemente criticato atteggiamento complessivo
di saccenza che troppi politici e non-politici di centro-sinistra emanano,
abbastanza spesso senza accompagnarlo con reale competenza. Non c'è
dubbio, però, che molti elettori, anche di sinistra, si sentono
"snobbati" dai loro rappresentanti e, magari inconsciamente,
trasmettono la loro delusione a parenti, amici, colleghi che finiscono per
abbandonare ogni tentazione di, per dirla con Totò, "buttarsi a sinistra".
Il peggio viene quando, invece di ascoltare una riflessione seriamente
autocritica, gli elettori vengono messi di fronte a numerosissimi tentativi di
scaricabarile. Questi tentativi prendono forma di un abbondante flusso di
dichiarazioni che attribuiscono la sconfitta a qualche capro espiatorio che,
rovesciato, diventerebbe bacchetta magica. No, non credo che si possa provare
che se il centro-sinistra avesse spostato il suo asse più verso sinistra
le elezioni amministrative sarebbero andate meglio. Non penso neanche che
l'elettorato avrebbe votato per il centro-sinistra se già fosse esistito
il Partito Democratico e, ancora meno, che la soluzione consista
nell'accelerarlo. Credo, invece, che, finito il flusso delle dichiarazioni,
bisognerebbe ripensare come farlo il Partito Democratico. Con buona pace del
sindaco Sergio Chiamparino, che continua ad avere tutta la mia stima, non posso
credere che gli elettori di Verona, ma neppure quelli di Asti, Alessandria,
Vercelli, non hanno votato a sinistra per protesta contro la sua esclusione dal
Comitato Promotore del Pd, anche se il segnale mandato non includendolo
è stato molto negativo e sarebbe stato meglio che lui ci fosse. In
definitiva, sono colpevolista, anzi, giustizialista. Tutti i dirigenti dell'Unione,
del centro-sinistra, del Partito Democratico debbono essere considerati
collettivamente responsabili quando perdono le elezioni. Qualcuno un po' di
più, in particolare, tutti coloro che prendono opportunistiche distanze
dalle politiche del governo. Tuttavia, quello che, non soltanto, preoccupa, ma,
personalmente, mi irrita è che, superato questo tornante, dopo i
ballottaggi, l'Unione riprenderà a presentare il ventaglio delle sue
articolate e rissose posizioni. Invece, bisognerebbe tornare a fare politica,
esattamente quello che, nella maggioranza delle regioni del Nord, dopo le
promesse di qualche anno fa di Fassino (e Bersani, la Margherita sembra non
curarsene neppure), di insediare un organismo specifico a Milano, è
clamorosamente mancato. Se Filippo Penati vince nella provincia di Milano, se
Sergio Chiamparino vince e rivince a Torino, se Mercedes Bresso vince in
Piemonte, se Massimo Cacciari torna a vincere a Venezia, se Riccardo Illy vince
in Friuli, è soltanto per fattori occasionali, oppure perché sanno con
le loro promesse, con i loro comportamenti, con le loro politiche convincere e
conquistare consenso? Non sarebbe, dunque, opportuno che la Sinistra
Democratica (Mussi, Salvi, Angius) e il Partito Democratico
riflettessero, senza considerarsi né concorrenti né nemici, e suggerissero, con
ragionevole urgenza, qualche seria innovazione alla politica del
centro-sinistra?.
È
vero che l'assenteismo, al Nord in particolare, è stato soprattutto di
sinistra? Ecco, tra le centinaia di mail e di lettere arrivate, alcune delle
risposte. Caro centrosinistra ti è mancato il coraggio Nonostante io sia
andato a votare, credo che molti elettori "di sinistra" si siano
astenuti per i seguenti motivi: 1) Poco coraggio da parte del governo nel
difendere veramente i diritti dei più deboli. 2) Troppa riverenza nei
confronti dei poteri forti e alla chiesa (vedi i Dico). 3) Indulto: essere di
sinistra non vuol dire non avere il senso della giustizia 4) la nascita del
partito democratico. 5) Programma non rispettato 6) Ambiguità decisionale...
Roberto Storti Vi ha fatto male l'esibizionismo in tv Sta diventando
insopportabile il quotidiano esibizionismo e egoismo di chi ci rappresenta. Non
c'è giorno che un leader o l'altro appaia in quella maledetta tv per
distinguersi, contraddire e rilanciare e poi affondare quanto detto dal
compagno di viaggio. Per non parlare della rabbia che ci prende nel veder
distruggere ancora una volta l'orgoglio e l'entusiasmo che il congresso mi
aveva ridato. Siamo gli ultimi nostalgici? Giuliana Lasciate parlare Prodi e
smettetela di remare contro... Caro Prodi, quando il governo ha rischiato di
cadere, sei riuscito con fermezza a salvarlo. Ora dopo queste votazioni, che
dovevano essere lo sfacelo più completo, per via della ristrutturazione
che ti ha costretto a fare l'incapacità della destra berlusconiana, noto
comunque che alcune voci nel centrosinistra si permettono di dare delle
indicazioni sul come fare per ripianare il malcontento. Smettetela di pensare
di essere chissà chi, di remare contro. Se volete, parlatene tra di voi
e agli italiani lasciate che parli Prodi. Maurizio Fermiamoci a riflettere
anche sul Pd Caro Padellaro, come tu giustamente inviti a fare, io ho letto i
dati elettorali di ieri dell'Ulivo mettendoli in relazione a quanto da Ds e
Margherita separatamente hanno ottenuto nella passata tornata elettorale
amministrativa. Ebbene, credo che mediamente l'Ulivo oggi sia sotto del 10%
rispetto al 2002. È un dato che fa preoccupare. È, a mio avviso,
il vero pronunciamento della base Ds e Dl sul Partito Democratico, oltre i
congressi recentemente tenutisi, che certamente non incoraggia ad andare verso
dove la gente non ci seguirà mai. Spero solo in una cosa, dopo 35 anni
di militanza: che i dirigenti che hanno voluto una fusione a freddo si ravvedano
al più presto! Nicola Colombo, Pozzallo (Rg) Troppo indecisi
troppo litigiosi Cara Unità, il commento più diffuso degli
elettori di centrosinistra, qui nelle regioni del Nord, è
sostanzialmente questo: da come siamo messi in questo infausto periodo (siamo una
banda di indecisi, capaci solo di litigare...), il risultato ottenuto in queste
amministrative è fin troppo lusinghiero. Armando Ferrero Segreteria Ds
Sez. Alba È il grido d'allarme del popolo della sinistra Il saggio
popolo della sinistra unita è riuscito ad evitare il crollo e a lanciare
l'ultimo grido di allarme. Nevio Frontini È l'assurda rincorsa del voto
moderato Cara Unità, mi fanno venire i brividi certi commenti
consolatori per aver conquistato Agrigento o L'Aquila. Si dice che abbiamo
tenuto a Genova è vero un ottimo 51 % ma il famoso nuovo partito
democratico ha perso in città qualcosa come il 32% dei voti. Nel 2002 i
Ds presero 103.000 voti la Margherita 27.000 ora insieme 88.800. Ed ancora
più grave è il fatto che è accaduto in una città
dove la precedente amministrazione non aveva governato male. Tutti alla ricerca
affannosa del voto moderato e di quel riformismo di cui a parole sono tutti
prodighi e nei fatti concreti ancora non si è capito nulla cosa
significhi. Paolo Campana Ecco i nodi da sciogliere dalla tv al precariato Cara
Unità, mi auguro che si sia finalmente capito che: 1. non è vero
che con la tv non si vincono le elezioni; 2. il "buonismo" a tutto
campo non porta voti in Italia (dove si applaude sempre il più forte ed
il vincitore!); 3. non saper comunicare al grande pubblico è un handicap
disastroso. L'elettore di sinistra pretende: 1. Riforme strutturali serie ed
urgenti come quella elettorale che consenta la governabilità, quella sul
conflitto di interessi; 2. La drastica riduzione delle spese della politica; 3.
La risoluzione del grave problema del precariato e del costo della vita sempre
più alto. Lamberto Federici Subito la questione morale Cara
Unità, i leader di centro sinistra, i miei leader naturali, hanno i loro
problemi interni e lo capisco, e i loro motivi per riflettere come dice
Padellaro. Ma io come forse altri, sto in attesa. Se la questione morale non
sarà radicalmente, cioè seriamente risolta entro questa
legislatura (e non all'italiana con i suoi aggiramenti e trasformismi), a
partire dallo scandalo delle incompatibilità, per cui l'Italia è
tristemente rinomata in tutto il mondo democratico, io mi assento. Perché se
non lo fa un governo di centro sinistra non lo fa nessun governo. Giorgio
Riparbelli Basta con la ricerca del consenso a tutti i costi Cara Unità,
caro Padellaro, non serve dire come qualcuno ha detto, che il paese ha votato a
sinistra laddove sono state fatte scelte di sinistra. L'Italia ha bisogno
subito di un paio di cose: di uomini politici veri, e non di cercatori di
consenso a tutti i costi. Ostinarsi a dire che non è successo niente, o
vuol dire cecità e insensibilità politica, oppure, e questo
è peggio, malafede politica. Silviano Forte.
Finanzaonline.com
29-5-2007 Immobiliare Usa
in crisi conclamata, si sgonfiano anche i prezzi nelle città
Finanzaonline.com - 29.5.07/17:18
Cosa avviene
quando un certo bene interessa sempre meno al mercato? I venditori si trovano
costretti a ridurre il prezzo di quel bene per sostenerne la domanda. E’ quanto
sta avvenendo negli Stati Uniti per il mercato delle abitazioni, da oltre un
anno in conclamata impasse, e che da oggi deve fare i conti con un nuovo
segnale poco incoraggiante. L’indice S&P/Case-Shiller ha infatti registrato
una contrazione su base annua dei prezzi delle abitazioni pari all’1,4%. La
prima flessione anno su anno dal 1991. L’indice, creato da Standar & Poor’s
in collaborazione con due professori di economia di Yale, Karl Case e Robert
Shiller, registra l’andamento dei prezzi che hanno riguardato le transazioni
immobiliari nelle 20 maggiori aree metropolitane degli Stati Uniti. Un indice
utilizzato anche per la costruzione di futures sul mercato immobiliare.
Nelle pieghe dell’indice si nasconde però
anche un fattore psicologico. Non foss’altro per la presenza nella
denominazione dell’indice del nome di uno dei maggiori esperti di bolle. Nel
2000, ossia due mesi prima dello scoppio della bolla azionaria di fine
millennio, Robert Shiller aveva pubblicato un volume dal titolo “L’esuberanza
razionale”, una coincidenza che potrebbe essere sul punto di ripetersi. Risale
infatti al 2005 la previsione di un crollo del mattone formulata
dall’accademico.
Il -1,4%
registrato dall’indice è relativo al dato sulle prime 20 città.
Più pesante il passivo nelle 10 maggiori aree metropolitane, dove il
calo è stato dell’1,9%. Le città che hanno evidenziato i maggiori
cali nei prezzi delle abitazioni sono Detroit (-8,4%) e San Diego (-6%). In
netta controtendenza Seattle, con un incremento pari al 10%, e Charlotte
(+7,4%).
Il dato diffuso
oggi è l’ultimo di una serie di indicatori poco ottimistici. La scorsa
settimana la National Association of Realtors aveva reso noto che la media dei
prezzi delle case esistenti nel solo mese di aprile aveva registrato una
contrazione dello 0,8%. Ma anche i prezzi delle case nuove sono sottoposti a
pressioni. Sempre settimana scorsa il Dipartimento del Commercio ha annunciato
una contrazione dei prezzi medi dell’11% in aprile rispetto all’anno
precedente, la maggiore flessione dal 1970. Le tensioni sul mercato immobiliare
americano si registrano però anche a livello microeconomico. Non
più di 7 giorni fa Toll Borthers, il maggior costruttore di abitazioni
di lusso degli Usa, ha reso nota una diminuzione degli utili del 79 per cento
nel trimestre chiusosi a fine aprile.
C’è poi
un ulteriore fattore costituito dalla crisi dei prestiti subprime, che ha
già portato a una maggiore rigidità dei criteri per la
concessione di prestiti per l’acquisto di abitazioni ai creditori con minori
garanzie.
Questo,
secondo quanto risulta a F&M, l'impatto dello schema di regolamento (Dpr)
in materia di depositi dormienti, che sarebbe stato esaminato ieri nel
pre-consiglio e che, probabilmente, sbarcherà in consiglio dei ministri
questa settimana. Il provvedimento istituisce il fondo di garanzia destinato a
risarcire risparmiatori travolti da crack e frodi finanziarie. Primo fra tutti
il ciclone dei bond argentini, espressamente citato nella relazione
illustrativa. La bozza di decreto, che ha già acquisito parere
favorevole del Consiglio di Stato, attende ora il sì definitivo di
Palazzo Chigi. Il fondo, già previsto dalla legge finanziaria 2006
varata dal governo Berlusconi, sarà alimentato dai conti correnti e
dalle altre forme di deposito finanziario (titoli del debito pubblico, azioni,
quote di fondi di investimento) e assicurativo inutilizzati per almeno
10 anni. Si tratta di una massa consistente di depositi, il cui utilizzo ha
scatenato una vera e propria bagarre tra associazioni di categoria degli
operatori finanziari da un lato e rappresentanti dei consumatori dall'altro.
Favorita anche dalla lunga gestazione del decreto, che giunge al traguardo con
circa un anno di ritardo. Nodo dello scontro il concetto di
"dormienza" di conti e depositi e il loro ammontare minimo. La bozza
di regolamento esclude gli importi inferiori a 100 euro e vengono considerati dormienti
tutti i depositi sui quali il titolare non abbia effettuato alcuna operazione o
movimentazione per almeno un decennio. Per evitare confusioni il decreto
precisa che il deposito deve essere considerato inattivo anche se
l'intermediario ha nel frattempo accreditato interessi, distribuito dividendi o
semplicemente inviato comunicazioni e rendiconti. Il meccanismo di attivazione
del fondo, su cui vigilerà una commissione mista (ministero dell'Economia,
Banca d'Italia, Consob, Isvap oltre a un rappresentante dei consumatori), non
sarà però automatico. Per renderlo operativo e per consentire ai
risparmiatori truffati di essere risarciti serviranno, infatti, ulteriori
complessi passaggi normativi. Nel frattempo banche, assicurazioni e
intermediari finanziari dovranno attivare un massiccio invio di raccomandate
per segnalare la giacenza dei depositi ai titolari inerti che avranno sei mesi
di tempo per "farsi vivi". Dopo di che le somme saranno devolute al
fondo, previa pubblicazione dell'elenco dei prescritti sui giornali e sul sito
web del ministero dell'Economia.
Nel
bilancio società svalutata di 5,1 miliardi di euro, "per colpa del
decreto" ROMA. E' polemica tra Vodafone Italia e il ministero dello
Sviluppo economico. La società dei telefonini, chiudendo il bilancio
2006-2007 segnala una svalutazione di ben 5,1 miliardi di euro a causa del
decreto Bersani che ha vietato il costo di ricarica delle prepagate. E
il ministero subito ribatte: "E' assolutamente stupefacente e incredibile
attribuire al decreto Bersani, come invece fa l'ad di Vodafone Italia, Pietro
Guindani, la riduzione del valore dell'azienda di telefonia di 5,1 mld".
"Il decreto Bersani infatti si è solo occupato di ricariche
telefoniche". La polemica con Bersani occupa gran parte della nota dell'ad
Pietro Guindani che spiega come Vodafone Italia abbia aumentato i ricavi, ma
che il valore della società è stato ridotto dall'impatto del
decreto Bersani sulle ricariche, introdotto a marzo 2007. La revisione di
valore segue quella già resa nota a novembre 2006 di 2,08 miliardi di
euro dovuta al rialzo dei tassi di interesse. I ricavi da servizi - afferma la
nota della società - sono stati di 7.834 milioni di euro, con una
sostenuta crescita del 3,6% e ulteriore miglioramento nel 2º semestre,
+3,8%, "nonostante la perdita causata nell'ultimo mese dell'anno fiscale
dall'eliminazione dei contributi per la ricarica delle carte prepagate".
La riduzione delle tariffe di interconnessione, con la revisione del
trattamento contabile di alcune tipologie di ricavi ha portato a una riduzione
nominale dei ricavi da servizi dell'1.5% (+0.5% nel 2º semestre) e dei
ricavi totali del 2,2% (8.145 mln di euro). I clienti, 27.366.000, sono
cresciuti del 13,8% rispetto al 31 marzo 2006. Molto positive anche le
attivazioni nette, oltre 3.300.000. I clienti abbonati aumentano del 16,9%.
Forte la crescita registrata dal traffico dati e multimedia: i ricavi sono
aumentati dell'8.4% a 1.443 milioni di euro e la loro incidenza sui ricavi da
servizi è arrivata al 18,4% contro il 16,7% di marzo 2006, raggiungendo
il 20,4% nel trimestre a marzo
Uno
dei principali traguardi della politica energetica dell'Ue è
accelerare l'utilizzo di biocaburanti, ovvero qualsiasi combustibile generato
da biomasse (rifiuti vegetali e animali). Tra i candidati ideali per la produzione
di biocarburanti si annoverano materie prime quali zucchero, grano e frumento.
A differenza delle altre risorse naturali quali petrolio, carbone e
combustibili nucleari, i biocarburanti sono fonti di energia rinnovabili
rispettose dell'ambiente. Tuttavia, l'utilizzo di biomasse per la produzione di
carburanti da autotrazione, e in misura minore di energia, resta ancora
più oneroso dell'utilizzo di queste risorse tradizionali. Pertanto, il
progetto Biosynergy, della durata di quattro anni e finanziato dall'Ue
con 13 Mio Eur, si incentrerà sulla realizzazione di una bioraffineria
su vasta scala che possa produrre una serie di sostanze chimiche ad alto valore
e grandi quantitativi di carburanti da autotrazione liquidi e possa utilizzare
l'energia rimanente per riscaldare e alimentare l'impianto. In questo modo i
partner del progetto auspicano che le sostanze chimiche aumentino la
redditività e che i carburanti da autotrazione sostituiscano alcuni dei
combustibili fossili attualmente sul mercato. Riutilizzare il calore e
l'energia in eccesso ridurrebbe, inoltre, le emissioni di carbonio.
"Biosynergy mira a sviluppare un processo tecno-economico efficace di
produzione integrata di sostanze chimiche, carburanti da autotrazione ed
energia, dalla fase di laboratorio fino all'impianto pilota", dichiara
Hans Reith, coordinatore del progetto Biosynergy del Centro di ricerca
energetica olandese (Ecn). "Questo progetto avrà un ruolo decisivo
nella futura realizzazione di bioraffinerie in grado di produrre grandi quantità
di sostanze chimiche, combustibili ed energia a partire da un'ampia
varietà di fonti di biomassa", ha aggiunto Reith. I ricercatori si
avvarranno di procedimenti avanzati per il frazionamento e la conversione della
biomassa e assoceranno percorsi biochimici e termochimici al fine di sviluppare
le soluzioni meno onerose e più valide dal punto di vista ambientale per
la produzione di bioenergia su larga scala . "Siamo impegnati nello
sviluppo di concetti e in attività di ricerca di sostegno per fornire
dati utili all'attuazione di una futura bioraffineria" ha affermato Tony
Bridgwater, capo del gruppo di ricerca sulla bioenergia dell'Aston University,
un partner del progetto. Biosynergy installerà impianti pilota dotati
delle più promettenti tecnologie per una bioraffineria basata su
"miscele di bioetanolo", in stretta collaborazione con lo
stabilimento pilota per la conversione della lignocellulosa in bioetanolo,
attualmente in costruzione a Salamanca, (Spagna). L'aston University, inoltre,
coordinerà il lavoro al fine di individuare le migliori bioraffinerie
incentrate sulla conversione della biomassa in prodotto finale per una futura
bioeconomia europea, e si occuperà di testare e caratterizzare biomassa
e lignina nei suoi reattori di pirolisi rapida e organizzerà un
Biosynergy Road Show per comunicarne i risultati. Per ulteriori informazioni
consultare: http://www. Biosynergy. Eu/ .
RITORNA
la speranza per i possessori dei titoli di Stato argentini, i cosiddetti Tango
Bond, non onorati dal governo di Buenos Aires. A scendere in campo per
soddisfare le ragioni dei creditori beffati dalla bancarotta dichiarata nel
dicembre del 2001 dal Governo sudamericano potrebbero essere gli Stati Uniti.
Un paese in grado di esercitare una pressione tale da indurre l’esecutivo
argentino a riconsiderare la posizione dei creditori che non hanno aderito
all’offerta di conciliazione dello scorso anno. A far crescere le aspettative
dei risparmiatori, circa uno su quattro, che non è ancora rientrata
delle sommme prestate all’Argentina è stata ieri Nancy Sodenberg,
già ambasciatrice Usa all’Onu e parte dell’amministrazione Clinton, e
attualmente vicepresidente di un gruppo di crisi Usa per il recupero crediti
relativi ai bond argentini. La Sodenberg ha detto: «Per recuperare crediti dal
crac dei bond argentini è pronta una nuova trattativa con il Governo
argentino che probabilmente potrà essere avviata dopo le loro prossime
elezioni previste per ottobre». L’ex diplomatica, a margine del meeting
Italia-Usa che si tiene a Venezia, ha ricordato che il debito argentino
è di 100 miliardi di dollari e che il 25% degli investitori non ha accettato
le proposte del paese sudamericano per recuperare una minima parte del denaro
investito e perso nel default. L’obiettivo è di coinvolgere i paesi con
il maggior tasso di possessori di tango bond come Usa, Italia, Germania e
Giappone. L’azione comune farebbe leva sulle mutate condizioni dell’economia
argentina rispetto al tempo del dafault. «A fronte di un'economia ora solida e
in crescita, l'Argentina - ha sottolineato Soderberg - non può emettere
nuovi bond». Soderberg ha poi lanciato l'allarme sul fatto che altri Paesi del
centro e sud America, come Venezuela, Bolivia ed Ecuador, seguano l'Argentina
su questa strada. «Il problema è ben presente - ha detto Soderberg - e
lo abbiamo posto al Governo Usa, ma è fondamentale che la questione
degli investimenti sul mercato globale venga assunta dal G7 e dal G8». «La
questione comincia ad essere nota - ha aggiunto - ma ci vuole sempre più
attenzione, anche perché c’è chi era pronto ad un default pilotato e se
non lo ha fatto è perchè si è reso conto che avrebbe
perso, negli anni, investimenti oltre a credibilità».
f.caleri@iltempo.it
+ L’Unità 29-5-2007 La Finanza è una
danza. Marco Travaglio
+ La Stampa 29-5-2007 Pronto un piano per ridurre le
spese di Montecitorio e Palazzo Madama
+ Garante Privacy 28-5-2007 Intercettazioni telefoniche
legali: revocato il blocco a Eutelia
La Repubblica 29-5-2007 Dopo il voto il pericolo
immobilismo di MASSIMO GIANNINI
La Stampa 29-5-2007 La Batosta RICCARDO
BARENGHI
Il Riformista 29-5-2007 Si evocano complotti, ma la
maggioranza non c’è di Emanuele Macaluso
La Gazzetta di mantova 29-5-2007 Tra Guelfi e
Ghibellini
L’Arena di Verona 29-5-2007 Più trasparenza sui
conti correnti.
Cara Europa, abituato alla sessantotesca
cultura del disordine, impropriamente chiamata della tolleranza, ho fatto un
sussulto di gioia quando ho sentito che il ministro della salute Livia Turco
vuole mandare i carabinieri antidroga nelle scuole.
Mi chiedevo se sognavo o ero desto, poi, ascoltando i notiziari e leggendo i
giornali, mi sono accorto che sognavo. En attendant Godot, o Sarkozy che si
chiami.
LEO DE PASCALI, ANCONA
Caro De Pascali, ho sussultato anch’io per gli
stessi motivi, e poi mi sono svegliato. Ma siccome sono ottimista sulla natura
umana (se no che liberale sarei?), penso che da una cultura rivoluzionaria sia
possibile, con la maturità, eliminare gli eccessi inizialmente
necessari, e trovare gli equilibri. Senza i quali le società, come le
case, non stanno in piedi. Purtroppo sono subito cominciate le contestazioni
ideologiche (libertà di spinello) da parte della sinistra inidonea a
governare, come la definisce D’Alema: mi riferisco al sottosegretario verde
Cento, che crede d’avere sempre 18 anni. Poi sono venute le contestazioni
più raffinate, come quella di Michele Serra, che rileva il crescente
antipermissivismo di una parte della sinistra italiana (Amato vuole perfino
abolire la prostituzione, senza dirci chi poi ci salverà da un’alluvione
di delitti sessuali); ma ci spiega ragionevolmente come i carabinieri nelle
scuole costituirebbero un’intrusione assai grave, perché la scuola ha nella sua
“autonomia” il “fondamento” della propria “autorità”. Ho segnato tra
virgolette queste tre parole perché mi sembra che proprio autonomia, fondamento
e autorità manchino nella scuola, non da oggi. Perciò, a parte la
malattia cronica di questo governo, per cui basta che un ministro dica una
parola che altri dieci si levino a dirgli contro, trovo ragionevole, più
della dottrina di Serra, il pragmatismo dell’ex ministro Berlinguer e
dell’attuale Fioroni: il quale ricorda che fuori della scuola la polizia ha
già mano libera nella lotta allo spaccio, dentro la scuola è il
preside coi professori a dover decidere i provvedimenti. Naturalmente noi ci
auguriamo che quei presidi e professori decisionisti esistano e non si adeguino
troppo al “comitato dei genitori” preoccupati più del turbamento che la
visione dei carabinieri può provocare nei pupi che non della salute dei
figli. Se esistono e decidono, ci chiediamo quali protezioni quei presidi e
professori avranno nei confronti di familiari che a volte sembrano i residenti
del quartiere Mercato di Napoli: che domenica notte hanno assalito in duecento
gli agenti intervenuti a sequestrare droga (tre in infermeria, quattro volanti
danneggiate).
Tutte cosette, caro De Pascali, che la sinistra deve risolvere senza pendolare.
Da quando
Bellachioma è all'opposizione, è ancor più evidente
l'errore commesso dal centrosinistra quando una decina d'anni fa decise di
mettere la sordina sui suoi guai giudiziari in nome di un imprecisato
"dialogo" basato su un fantomatico "riconoscimento
reciproco". Che naturalmente è rimasto unilaterale. Prendiamo lo
scontro fra il generale Speciale e il viceministro Visco. Una brutta storia, da
qualunque parte la si guardi, ancora tutta da chiarire. Ma in un paese dotato
di un briciolo di memoria, o di qualcuno che la rinfreschi agli smemorati,
l'ultimo a poter nominare la Guardia di Finanza è proprio Bellachioma.
Il capo dei servizi fiscali della Fininvest, Salvatore Sciascia, è stato
definitivamente condannato per aver corrotto diversi ufficiali delle Fiamme
Gialle con tre mazzette da 100 milioni ciascuna, per ammorbidire altrettante
verifiche fiscali a Mediolanum, Mondadori e Videotime. Secondo la Cassazione,
"operava per il Gruppo. per l'illecito vantaggio del gruppo. non a titolo
personale", vista la "predisposizione della Fininvest a gestire in
modo programmato le situazioni oggetto di causa (le visite della Finanza, ndr),
anche con la formazione di fondi per pagamenti extra-bilancio e la designazione
di uno specifico soggetto delegato a tenere opportuni contatti" con i
finanzieri da corrompere. L'indagine preoccupava tanto i vertici del gruppo che
l'8 giugno '94 il superconsulente Massimo Maria Berruti, ex capitano della
Finanza ingaggiato dal Biscione dopo un controllo tributario, si recò a
Palazzo Chigi da Berlusconi e, appena uscito, depistò le indagini
inducendo al silenzio gli ufficiali corrotti: per questo è stato
condannato a 1 anno e 8 mesi per favoreggiamento, poi è stato promosso
deputato di FI. Totalmente smentita la tesi Fininvest della concussione: 4
marescialli non possono certo intimidire quel colosso di quel peso; e il
processo ha dimostrato che, a gentile richiesta, Craxi fece trasferire da
Milano dal ministro delle Finanze Formica alcuni ufficiali delle Fiamme Gialle
sgraditi al Cavaliere: il col. Vincenzo Tripodi e l'ispettore del Secit Carlo
Capitanucci, che avevano chiesto soldi alla Fininvest. Invece di denunciarli,
il Cavaliere chiamò Craxi che li fece spedire altrove. Poi nel gennaio
'92 Sciascia decise di premiare l'amico Ludovico Verzellesi, direttore generale
Imposte dirette alle Finanze, che si era prodigato per procurare alla Fininvest
un'aliquota Iva più favorevole per i canoni di abbonamento ai tre canali
di Telepiù. Inviò un fax al Cavaliere ad Arcore per farlo
promuovere, e come per incanto Verzellesi fu proposto dal ministro Formica come
consigliere della Corte dei Conti (la manovra andò poi a monte per la
crisi del VII governo Andreotti). Quando non riusciva a comprare o ad assumere
i finanzieri, il Cavaliere chiamava Bettino per sistemare tutto. Fin dal
lontano 1980: a quell'anno risale una lettera, pubblicata due anni fa dal
fotografo di fiducia di Craxi, Umberto Cicconi, nel libro di memorie Segreti e
misfatti (Ed. Sapere 2000): "Caro Bettino, come ti ho accennato
verbalmente, Radio Fante ha annunciato che dopo la visita a Torino, Guffanti e
Cabassi, la Polizia Tributaria si interesserà a me. Ti ringrazio per
quello che crederai sia giusto fare. Tuo Silvio". Dal '94 non ebbe bisogno
di chiedere. Fece tutto da solo. Condoni fiscali, depenalizzazione di falso in
bilancio e trasferimento di funzionari scomodi. Primo a saltare, nel 2001, fu
Massimo Romano, solerte direttore del dipartimento Entrate delle Finanze, che
s'era occupato dei presunti abusi commessi da Mediaset per accedere ai benefici
fiscali della legge Tremonti. Licenziato in tronco. Poi Berlusconi fece
pubblici elogi dell'evasione fiscale e in questa raffinata barzelletta:
"Un tizio entra in un ufficio e urla: "Fermi tutti, è una
rapina!". E i presenti: "Meno male, temevamo fosse la Guardia di
Finanza!"". Figurarsi se uno con questi precedenti può
difendere le Fiamme Gialle e chiedere le dimissioni di Visco perché "non
è lecito mentire". Parla uno che nel '90 si salvò per
amnistia da sicura condanna per falsa testimonianza. Qualcuno della maggioranza,
oltre a chiarire il caso Visco-Speciale, potrebbe ricordarlo. Ma nessuno lo fa,
o lo sa. Pare brutto, informarsi. Uliwood party.
ROMA Costo della
politica e tagli agli sprechi sono ormai in agenda tra le priorità. Il
Parlamento vuole dare il buon esempio: i questori di Camera e Senato lavorano a
un piano comune di riduzione delle spese che verrà presentato oggi e discusso
in uno dei prossimi uffici di presidenza di Montecitorio. Intanto la
commissione Affari costituzionali presieduta da Luciano Violante avvierà
un'indagine sui costi della politica. A sollecitare queste iniziative è
stato Fausto Bertinotti che in questa opera "moralizzatrice" procede
di concerto con il collega del Senato Franco Marini. "In previsione del
bilancio annuale - ha precisato Bertinotti - credo che i temi come la riduzione
dei vitalizi, del fondo sanità e di alcuni benefici dei parlamentari possono
essere fatti subito". Per la terza carica dello Stato è necessario
rispondere alle sollecitazione dell'opinione pubblica, dare "un segnale di
ascolto alla diffusa critica" che sale dalla società. Ma per
Bertinotti non basta incidere su quelli che vengono considerati dei privilegi
dei parlamentari. Occorre lavorare a una riforma costituzionale per eliminare
il bicameralismo perfetto, dare al Senato un ruolo diverso e "ridurre
drasticamente il numero dei parlamentari". Una vecchia storia questa delle
riforme di strutture che la classe politica non è riuscita finora a
concordare in maniera bipartisan ma che ritorna ad agitare il confronto ad ogni
nuova legislatura. Per cui anche adesso fioriscono proposte di tagli di quella
che Bertinotti chiama "la bulimia nella remunerazione dei livelli di
rappresentanza". Enzo Bianco, presidente della Commissione Affari
costituzionali del Senato parla di proliferazione di un ceto politico
parassitario e punta l'indice sulle Province. Sono gli enti locali soprattutto
nel mirino e il ministro Linda Lanzillotta ha preparato una circolare sui tetti
di spesa per la retribuzione dei manager delle amministrazioni periferiche. Ma
per tutte queste operazioni occorre un accordo tra maggioranza e opposizione
che molto spesso non c'è. Per Bertinotti però "è il
momento di fare più che di dire: ci vuole un consenso largo in modo di
vedere cose concrete, evitando proposte di bandiera, arrivando a determinazioni
unitarie".\.
Il Garante Privacy ha revocato
il blocco della
trasmissione dei dati personali da e verso gli uffici giudiziari con strumenti
di comunicazione non idonei nei confronti della società telefonica
Eutelia. Il blocco
era stato disposto nel gennaio di quest'anno dopo che l'Autorità
aveva verificato che la società non aveva adottato tutte le misure di
sicurezza nelle comunicazioni dei dati personali relativi alle intercettazioni
disposte dalla magistratura.
Eutelia risulta oggi invece aver adottato
le misure richieste dal Garante, avendo, in particolare, attivate caselle di
posta elettronica certificata (PEC) per comunicare con gli uffici giudiziari e
facendo uso di cifratura per garantire la necessaria sicurezza.
Nel dicembre
2005 il
Garante aveva assegnato centottanta giorni di tempo ai gestori telefonici per
adeguarsi a rigorose misure a protezione dei dati trattati. Il termine era
stato differito
per altri novanta giorni
per consentire ai gestori di ultimare l'adeguamento alle prescrizioni
senza pregiudicare le attività di intercettazione in corso. Ciò
nonostante, al momento della verifica da parte del Garante, Eutelia non
risultava aver adottato le misure prescritte con il provvedimento
dell'Autorità e non era quindi in regola con le misure richieste ai
gestori telefonici per poter comunicare con adeguata sicurezza i dati personali
relativi alle intercettazioni giudiziarie.
Eutelia potrà dunque riprendere a
comunicare per via elettronica i dati relatvi alle intercettazioni disposte
dalla magistratura.
L'Autorità si è comunque
riservata accertamenti nelle sedi Eutelia per verificare che le misure adottate
dalla società siano conformi a quanto richiesto a protezione dei dati
personali dei cittadini.
Di fronte ai dati inequivocabili di questa
bruciante sconfitta elettorale, la prima tentazione dell'Unione, si comprende,
è la minimizzazione autodifensiva, l'aggrapparsi autoconsolatorio alla
linea del Piave dei risultati di Genova, delle performances di Taranto e
L'Aquila, del ribaltone di Agrigento. Errore comprensibile, ma pur sempre un
errore. Come quello commesso dall'allora premier Berlusconi quando stentava a
prendere atto della riscossa del centrosinistra guidata da Rutelli e Fassino
nelle elezioni amministrative successive al 2001. Errore madornale, non solo
perché ridimensionerebbe per eccesso di autoindulgenza il significato
dirompente di questo voto. Ma perché non permette di capire come, proiettati
nei futuri confronti elettorali, i numeri di questi giorni prefigurano una
sicura disfatta della coalizione che attualmente ha in mano le redini del
governo.
Una sconfitta elettorale potrebbe essere addirittura una scossa salutare. Ma
solo ad alcune, tassative condizioni. Primo: capire che se il Nord abbandona la
sinistra in forme tanto massicce, non solo nel Lombardo-Veneto, ma con
dimensioni clamorose anche in Piemonte, e persino in Liguria, vuol dire che
è un'intera immagine del governo a essere bocciata. Dopo la sconfitta
siciliana, qualcuno ha accusato la linea «rigorista » del ministro Padoa- Schioppa
di esserne la causa. Ma, riferita al Nord, quella giustificazione appare
risibile. Nell'Italia settentrionale non si punisce forse il governo per la
ragione opposta? Chi non vota più per i partiti dell'Unione, o regala
percentuali del 70 per cento all'opposizione, o addirittura premia la Lega
davvero vuole punire il governo perché troppo moderato o «di destra»? O invece
non ha percepito in questo governo una curvatura troppo «di sinistra», ostile
alla libertà economica, arcigna e punitiva nei confronti dei ceti
produttivi del Paese?
Secondo: capire che il logoro refrain secondo il quale queste non sarebbero
elezioni a forte valenza politica rappresenta un rimedio illusorio, una formula
magica che procura più danni di quanti ne vorrebbe esorcizzare. Perdere
nelle elezioni amministrative per la sinistra è, semmai, ancora peggio
perché la partita ha avuto luogo proprio sul suo terreno preferito, con un
robusto radicamento territoriale e una qualità della classe dirigente
locale complessivamente più pregiata. Se perde rovinosamente anche qui,
nel territorio, la sinistra non dovrebbe ricavarne una lezione ancora
più amara? Terzo: capire che troppe linee divergenti e declinate in
forme persino rissose depotenziano l'immagine del governo fino a livelli oramai
preoccupanti. Il governo scelga una linea, la difenda, la porti fino in fondo.
Se Tommaso Padoa-Schioppa indica una linea di riforma economica, una proposta
moderna e innovativa sulle pensioni, la maggioranza lo sostenga, senza
aspettare di ridursi a entità elettoralmente sempre più esigua,
dalla Sicilia fino all'intera Italia del Nord.
Quarto: capire che il Partito democratico appare debole, asfittico, in taluni
casi (come a Taranto) perdente non solo con il centrodestra ma persino nella
competizione con la sinistra «radicale». Un partito che, invece di nascondersi
la verità, dovrebbe trovare coraggio e fantasia, e procedere (lo ha
meritoriamente sollecitato Dario Franceschini) più speditamente nella
scelta di un leader che dia identità e carattere a un nuovo soggetto
politico che non può restare acefalo e prigioniero dell'incantamento
oligarchico. Per troppo tempo. Quando il tempo, forse, sta già scadendo.
29 maggio 2007
DUE Italie. Una doppia frattura. Queste elezioni
amministrative riflettono un Paese sempre più spaccato a metà,
nella politica e nella geografia. Il centrodestra riconquista il Nord, e da
Verona a Monza, da Alessandria ad Asti, si riprende quasi tutti i più
importanti capoluoghi. Il centrosinistra resiste nel resto della Penisola, e si
accontenta di una modesta rivincita all'Aquila e Agrigento. Berlusconi grida
"ho vinto", e ha ragione. Alle comunali partiva da
La politica, per quanto delegittimata, ha ancora le sue regole. Ma se queste
elezioni di mid-term, come le ha giustamente definite Ilvo Diamanti, erano
comunque se non un referendum, almeno un sondaggio sul governo in carica,
allora si può dire che per l'Unione i segnali che arrivano dall'elettorato
sono tutt'altro che confortanti. Non convince l'idea che questa sia la cronaca
di una sconfitta annunciata. Sarebbe una versione troppo consolatoria. Il voto
è "locale". Ma ha chiamato alle urne oltre 10 milioni di
italiani. E dopo un anno di permanenza a Palazzo Chigi, non si può non
vedere che (al di là del premio o della sanzione per questo o quel
sindaco) il voto porta con sé anche un giudizio "nazionale", su Prodi
e sul suo governo.
E' vero che i leader dell'Unione erano consapevoli del probabile
insuccesso. Ma questo voto ripropone, in modo plastico e quasi drammatico per
il centrosinistra, l'esistenza di una "questione settentrionale"
ormai sempre più profonda, e dunque più grave. C'è una
parte del Paese, ancora una volta quella più ricca e dinamica, alla
quale il centrosinistra non sa o non vuole parlare. L'Unione, oltre la linea
del Po, sconta davvero "un vuoto di vocabolario politico", come
avrebbe detto Simone Weil. Non stupisce solo la delusione della sconfitta in
sé, subita non solo nei comuni-capoluogo, ma anche in province come Como e
Varese, Vicenza e Vercelli. Quello che colpisce, in quelle aree, è
soprattutto la dimensione della sconfitta. In tutti i luoghi in cui vince il
candidato del centrodestra lo scarto rispetto al suo competitore è pari
al doppio, se non addirittura al triplo dei consensi.
Le ragioni di questo risultato hanno radici quasi tutte interne al
centrosinistra. Il centrodestra, in questi mesi, si è limitato ad
assistere alle difficoltà e alle convulsioni dell'avversario. Ha
beneficiato di quella che Giulio Tremonti definisce opportunamente "la
rendita di opposizione". Il centrosinistra, al contrario, ha fatto di
tutto per farsi del male da solo. E forse non basta neanche la Finanziaria
"lacrime e sangue" (che ha comunque salvato i conti pubblici del
Paese) a spiegare il perché di una così acuta disaffezione degli
elettori insediati nell'"Italia che produce".
Quello che è mancato e che manca, in questo primo anno di governo,
è il "frame": cioè quello che George Lakoff, il guru
della politologia americana autore del bestseller "Non pensare
all'elefante", definisce come il "linguaggio chiaro" che
riflette una precisa "visione del mondo". Il centrosinistra è
mancato e manca proprio in questo. Parla tanti, troppi linguaggi. E molto
spesso antitetici tra loro.
Il paradosso di oggi, non a caso, è che per spiegare questo risultato
elettorale insoddisfacente l'ala riformista e quella radicale dell'alleanza
danno due spiegazioni uguali e contrarie, ma entrambe parzialmente fondate. I
soci del futuro Partito democratico pensano che le difficoltà nascano da
un'azione riformatrice troppo timida, da una politica fiscale a volte troppo
punitiva e dalla mancanza di una strategia dell'attenzione verso i ceti
produttivi. La galassia dei partiti comunisti-ambientalisti, viceversa, ritiene
che la sconfitta maturi a causa di una sottovalutazione della "questione
salariale", della difficoltà delle famiglie più povere, dei
disagi della quarta settimana.
Sono vere tutte e due le cose. Lo dimostra il voto oltre il Po, che continua a
risentire di una forte sindrome anti-tasse. Lo conferma l'aumento
dell'astensionismo, che verosimilmente ha riguardato soprattutto quella fascia
di elettori che avrebbe voluto un'azione di governo più marcata a sinistra.
A questo punto, se ancora fosse possibile, il quadro politico si fa ancora
più complicato. Nel centrosinistra scatta il consueto regolamento dei
conti, che ruota intorno all'analisi dei voti di lista. Se, come sembra dalle
prime indicazioni, l'asse riformista non si consolida, mentre si rafforza l'ala
massimalista della coalizione, il risultato può essere un paradosso. Il
governo Prodi si stabilizza. Ma la stabilizzazione avviene al ribasso.
Già dopo il voto siciliano di due settimane fa i due partiti estremisti
dell'alleanza avevano detto: "Padoa-Schioppa ci fa perdere le
elezioni".
Dopo questo voto, a maggior ragione, avranno argomenti per chiedere una brusca
virata a sinistra dell'azione di governo. L'effetto di una rivendicazione del
genere è scontato. Dal rinnovo dei contratti del pubblico impiego al
tavolo sulle pensioni, dall'uso del "tesoretto" alla stesura del
Dpef: da nessuna di queste partite è immaginabile uscire con una scelta
di modernizzazione utile per il Paese. Il Professore non molla. Ma non
può più ripetere quello che promise nel gennaio 2006: "Il
mio sarà un riformismo radicale". Può solo continuare a
resistere.
Nel centrodestra, nonostante le difficoltà e le incertezze di questi
mesi, si consolida ancora una volta la leadership inattaccabile di Berlusconi.
Dalle urne di ieri, a dispetto della logica neo-proporzionale della
"porcata" di calderoliana memoria, esce di nuovo un'Italia
rigidamente bipolarizzata. Le sicure ambizioni terzaforziste di Casini, o le
eventuali tentazioni tecnocratiche di Montezemolo, sono palesemente
ridimensionate. Ma la riaffermazione della sua natura personalistica e
plebiscitaria non consente alla Cdl di passare all'incasso definitivo. Il
Cavaliere resta l'"one man show" della coalizione. Ma non è più
in grado di garantire le straordinarie performance elettorali del 2001.
Può solo continuare a combattere.
Il combinato disposto di quella resistenza e di questo combattimento è
l'immobilismo. La maggioranza governa ma non dispone, l'opposizione urla ma non
propone. La stessa ipotesi di una riforma bipartisan della legge elettorale, in
queste condizioni, perde totalmente di senso, se mai ne ha avuto uno. Perché
Berlusconi dovrebbe scendere a patti, se è convinto che per l'Unione sia
suonata la campana dell'ultimo giro, e la sua caduta sia ormai solo questione
di pochi mesi?
In questa paralisi, com'è evidente, i danni più gravi li subisce
proprio il centrosinistra. Nella palude italiana, ha da perdere almeno due
cose, una più preziosa dell'altra. La prima è il governo: il suo
inerte galleggiamento rischia di diventare solo la logica premessa per
un'inevitabile disfatta futura. La seconda è il Partito democratico: il
suo lento logoramento rischia di far morire l'unico progetto politico innovativo
di quest'ultimo decennio. Se la risposta alla "questione
settentrionale" è il super-comitato dei 45 che ha tagliato fuori
proprio i rappresentanti del Nord, purtroppo c'è da temere una imminente
eutanasia.
(29 maggio 2007)
Non
è la spallata che invocava Berlusconi per abbattere il governo Prodi, e
neanche poteva esserci visto il tipo di voto e il numero di elettori chiamati
alle urne (un quinto del totale). Tuttavia la botta per il centrosinistra
c’è stata, eccome. Al Nord si può anche definire una batosta,
visto che, a parte Genova dove l’Unione ce la fa - ma di strettissima misura,
ed è pure costretta al ballottaggio in Provincia - il centrodestra vince
praticamente ovunque, strappando città come Verona, Monza, Alessandria,
Asti...
Il governo e la sua maggioranza possono consolarsi con i risultati del Sud,
anche se ad Agrigento vincono solo perché hanno candidato un esponente dell’Udc
che ha cambiato sponda. E a L’Aquila e Taranto arrivano primi grazie a due
candidati della sinistra radicale, il primo passato alle primarie (effetto
Vendola), imponendosi nella battaglia interna contro i riformisti dell’Unione.
In altre parole contro il Partito democratico in via di sviluppo,
autodefinitosi il timone del governo.
Il segnale politico che arriva dal voto di ieri e domenica è dunque
brutto per chi governa il Paese e che solo un anno fa ha vinto le elezioni
politiche (sul filo di lana). Se non si può parlare di generale sfiducia
popolare, che comporterebbe gesti seri e gravi - come fece D’Alema nel 2000
dimettendosi da premier e come non fece Berlusconi nonostante tutte le
sconfitte subite mentre governava - certamente gli elettori hanno voluto
lanciare un avvertimento pesante. Soprattutto quelli del Nord, zona del Paese
giudicata decisiva sotto tutti i punti di vista sia dalla destra che dalla
sinistra.
Ma non solo loro, non ci si può infatti dimenticare il risultato
siciliano di sole due settimane fa che non fu certo incoraggiante per la
maggioranza di governo. Così come sarebbe miope non valutare il calo
dell’affluenza, che seppur ridotto segnala comunque un ulteriore aumento della
disaffezione per la politica in crisi.
Che fare?, si chiederebbe Lenin se fosse vivo. Che abbiamo fatto?, dovrebbero
invece chiedersi gli attuali leader del centrosinistra. Parecchi errori,
dovrebbero rispondersi con onestà intellettuale senza nascondersi dietro
il patetico dito della comunicazione che non ha funzionato. Il governo in
realtà ha comunicato benissimo, ed è proprio per questo che
perde. Perde perché i cittadini hanno capito benissimo (sanno leggere la
busta-paga) che la legge finanziaria ha penalizzato più o meno tutti senza
premiare nessuno. Perde perché le liberalizzazioni, se ci sono state, nessuno
le ha ancora viste. Perde perché ha varato una misura impopolare come l’indulto
e non è stato capace nemmeno di difenderlo. Perde perché sulle unioni di
fatto ha innestato una clamorosa marcia indietro, dimostrandosi pavido di
fronte alle vigorose pressioni della Chiesa e cercando affannosamente un
recupero fuori tempo massimo sulla famiglia (Prodi sabato scorso). Perde perché
sulla sicurezza e sulla droga (i carabinieri di Livia Turco) si è mosso
tardi e male, inseguendo la linea del centrodestra: ma l’elettore preferisce
l’originale alle imitazioni.
Perde insomma perché ha promesso molto e ha mantenuto poco, spesso
rimangiandosi impegni presi in campagna elettorale. E non solo: perde perché
l’immagine che ha dato di sé, un’immagine molto sostanziosa, è quella di
una Babele in cui si parlano mille lingue e nessuno capisce quale sia la
principale. Se ce n’è una principale.
Fortunatamente per il centrosinistra, queste elezioni non sono la fine del
mondo, né la fine della storia. Sono però una sonora lezione di fronte
alla quale sarebbe suicida far finta di niente, liquidarla come un test locale,
alzare spallucce e andare avanti come se nulla fosse. In una direzione o nell’altra,
su tutte le questioni che gli si presentano di fronte, il governo deve ora
scegliere la sua strada. Meglio rischiare di cadere per aver scontentato
qualcuno, piuttosto che tirare avanti da una sconfitta all’altra, sempre
più deboli e logorati. Fino a quella definitiva.
Una
frase di D’Alema sulla crisi della politica in un’intervista al Corriere della
Sera ha scatenato una bagarre politico-mediatica che ricorda altri tempi. La frase
infatti richiamava i primi anni Novanta, la delegittimazione della classe
politica e anche Tangentopoli.
Il Corriere, che conduce una campagna giornalistica, come è giusto che
faccia un giornale, sui temi del costo e dell’inefficienza della politica, è
accusato di complottare per mettere in crisi la coalizione prodiana e
sostituirla con un governo di tecnici. L’accusa “ai poteri forti”, dei quali il
Corriere sarebbe una sorta di portavoce, viene soprattutto dalla sinistra
massimalista, la quale si sente emarginata dai partiti che si stanno unificando
nel Partito democratico: esso si configurerebbe come un partito moderato, su
cui punterebbero, appunto, proprio i poteri forti. Nello stesso giorno
(martedì 22 maggio) in cui sui giornali abbiamo letto la denuncia di
questo complotto, sull’Unità, Alfredo Reichlin, che vede nel nuovo
partito l’operazione politica che può salvare il Paese dal baratro in
cui l’ha buttato la destra berlusconiana, denunciava «una offensiva contro il
Pd che va dalla Chiesa post-conciliare a quel coacervo di corporazioni,
rendite, conservatorismo (comprese certe vecchie politiche della sinistra),
sostenuta nel modo più velenoso da quel potente complesso giornalistico
e mediatico il quale interpreta l’orientamento di fondo delle classi dirigenti
italiane».
Insomma, la maggioranza che deve governare il Paese è dilaniata anche
dal sospetto, fondato su analisi politiche, che il Pd, con il sostegno dei
poteri forti, voglia fare fuori la sinistra antagonista, e i sospettati,
invece, sospettano che “le vecchie culture della sinistra” diano una mano,
sempre ai poteri forti, per fare abortire il progetto rivoluzionario del
Partito democratico.
Ora un fatto è certo: la maggioranza non c’è, nel senso che non
governa. E noi, senza indagare sui complotti, vediamo che la maggioranza - nel
suo insieme e senza distinzioni - dopo le elezioni si prese la sbornia per una
vittoria che in effetti era molto meno trionfale di come veniva descritta. Noi,
restando sempre terra terra, letto il risultato elettorale scrivevamo con una
invidiabile sintesi (scusate la vanteria) che «Berlusconi aveva perso e Prodi
non aveva vinto». Era chiaro quindi che il presidente del Consiglio e i leader
dei partiti della maggioranza avrebbero dovuto cestinare il librone programmatico
scritto nei giorni in cui i sondaggi davano all’Unione un vantaggio di circa
dieci punti sulla casa berlusconiana, e aprire una riflessione. Da subito si
vide che al Senato la maggioranza era così risicata, incerta e minata da
ricattatori che non avrebbe potuto assicurare l’attuazione di un programma di
riforme incisive.
La situazione quindi imponeva di iniziare un discorso con l’opposizione, e in
particolare con quella parte (l’Udc di Casini) che tentava di rendersi autonoma
rispetto a Berlusconi. Invece i primi atti dell’Unione furono: eleggere (con
fatica significativa) un suo esponente presidente del Senato e un altro alla
Camera; costituire un governo in cui ministri, viceministri e sottosegretari
assommano a centodue, un primato da Guinness. E l’euforia della vittoria fu
trasmessa a tutte le strutture politiche periferiche (Regioni, Province,
Comuni) dove la moltiplicazione dei pani e dei pesci si è concretizzata
nel costo della politica di cui tanto si parla a proposito ma anche a sproposito.
In
molti hanno cercato di etichettare i partecipanti delle due manifestazioni a
Roma, per sminuire o farne proprio il numero. Ma in piazza San Giovanni non
c'era la gente di destra contro la sinistra di Piazza Navona, né Guelfi di qua
e Ghibellini di là, né santi contro peccatori. Questo è il solito
modello semplicistico di una politica marketing, che si vuole applicare anche
là dove poco si attaglia. Ma ciò che è avvenuto in piazza
San Giovanni non può certo essere archiviato come una semplice
manifestazione politica. Anzi ha fatto benissimo la politica a non sfilare con
loghi e bandiere, cercando di strumentalizzarne il senso. C'è un senso
molto più profondo della classica e noiosissima demarcazione
destra-sinistra. E' una caduta di stile, la solita polemica Berlusconi - Prodi
sul fatto che i cattolici possano o meno stare a sinistra. Anzi il tema
della divisione dei cattolici è da valutare con grande
attenzione. Nessuna contrapposizione tra laici e cattolici, ma una
piazza trasversale non aggressiva né oppositiva, con un comune denominatore: la
famiglia. Non siamo d'accordo col ministro Bindi che dichiara sull'Unità
'Il family day è contro il governo'. Non era certo una manifestazione
politica, ma culturale, un segnale di un cambiamento non tollerato dalla nostra
società. Ma la politica deve farsi interprete di quel segnale, non
lasciar cadere nel vuoto quella gente che ha chiesto a gran voce che la
politica si occupi di più della famiglia. Negli ultimi anni la politica
ha spesso dimostrato di aver perso il ruolo di cinghia di trasmissione fra la
società civile e le istituzioni. Inoltre in una trasmissione televisiva
il ministro Bindi affermava che la prima firmataria della legge è l'on.
Pollastrini, suscitando non poche perplessità nell'intervistatrice,
Ilaria D'Amico, quasi a voler chiedere le attenuanti. A questo punto la domanda
sorge spontanea: visto che nel Prodi bis i Dico non erano neanche nei 12 punti
del programma, gli amici della Margherita non hanno poi accettato un disegno di
legge fortemente in contrasto con quelli che dobbiamo considerare valori non
negoziabili? In base a quali considerazioni hanno aderito una proposta che si
pone in contrasto con i loro principi? Mi auguro che il programma di governo
non ci riservi altre sorprese: capisco che era lungo ma mi auguro sia stato
letto con attenzione prima di sottoscriverlo. Non vorremmo che il timore di un
ritorno di Berlusconi si sia tramutato prima in rabbia e poi in cecità
politica, al punto di sacrificare qualcosa, anzi troppo. Già perché uno stato
non può limitarsi ad asfaltare e punire chi delinque, ma deve fortemente
tendere ad un modello ideale, e seguirne un percorso di realizzazione. Se noi
abdichiamo a quei valori imbocchiamo una strada senza via d'uscita. Paolo
Pecoraro Segretario Provinciale Udc.
/
Milano È partita ieri mattina la trattativa tra Abi e sindacati per il
rinnovo del contratto di lavoro dei 316 mila bancari italiani scaduto da circa
due anni. Sul tavolo è subito finita la questione del cuneo fiscale e
della possibile introduzione della cassa integrazione guadagni nel settore. In
particolare, i banchieri hanno chiesto alle organizzazioni dei lavoratori di
arrivare alla predisposizione di un documento comune da presentare al Governo
prima di entrare nel merito delle questioni contrattuali. Il tema sarà
affrontato in una riunione fissata per l'8 giugno. Nei giorni scorsi i
sindacati hanno detto no all'estensione della Cig lamentando che il
provvedimento finirebbe per penalizzare i lavoratori, finora coperti da un
fondo esuberi finanziato dalle banche, che si vedrebbero inflitta un'aliquota
contributiva dello 0,30%. L'Abi ha anche chiesto ai sindacati di analizzare
insieme il cambiamento di scenario imposto dalla fusione tra Unicredit e
Capitalia. In questo caso il prossimo appuntamento è per il 20 giugno,
quando dovrebbe essere anche messo a punto il calendario della trattativa.
"Abi e sindacati hanno condiviso che l'intervento sul rapporto tra cuneo
fiscale e cassa integrazione - afferma il segretario generale della Fiba-Cisl,
Giuseppe Gallo - è del tutto improvvida. Scarica sui lavoratori la
compensazione del beneficio fiscale che sarà fruito dalle banche".
Infatti i lavoratori dovrebbero pagare per la cassa integrazione un contributo
dello 0,30% della retribuzione oltre allo 0,125% che pagano già per la
componente ordinaria del fondo di solidarietà nei casi di crisi
congiunturale, di riduzione di orario e di integrazione salariale (per la
componente straordinaria, ovvero per l'accompagnamento verso la pensione,
infatti il contributo è tutto a carico delle aziende di credito).
"Così di fatto si incentiva il superamento del fondo di
solidarietà - avverte - che in questi anni ha rappresentato uno
straordinario ammortizzatore sociale senza onere alcuno per il bilancio
pubblico". "Il sindacato - spiega il segretario generale della
Fisac-Cgil, Mimmo Moccia - ritiene impraticabile che l'estensione alle banche
del cuneo fiscale possa essere pagato anche dai lavoratori. Qualora fosse
estesa la cassa integrazione alle banche verrebbe meno per eccesso di onerosità
il fondo di settore che fino ad oggi ha consentito una radicale trasformazione
del settore senza oneri sociali nè a carico dello Stato".
Il
Garante in una segnalazione inviata al governo precisa anche che i bancomat
dovrebbero indicare i costi aggiuntivi "Più trasparenza nei conti
correnti" L'Antitrust: senza iniziative spontanee delle banche, necessario
un intervento normativo Roma. Serve più trasparenza nei conti correnti
bancari: senza iniziative spontanee del sistema è necessario un
intervento normativo. Lo afferma l'Autorità Garante per la Concorrenza e
il Mercato, in una segnalazione inviata al Governo, nella quale precisa che i
bancomat dovrebbero indicare i costi aggiuntivi. "Gli sportelli di
prelievo bancomat, all'avvio della procedura per il ritiro di denaro,
dovrebbero informare che l'operazione, in quanto non effettuata presso il
circuito della banca che ha emesso la carta, ha un costo aggiuntivo", si
legge in una nota dell'Antitrust. "Lo stesso sportello potrebbe inoltre
fornire altre informazioni di rilievo sulle condizioni di conto corrente alla
propria clientela". "Lo sviluppo della concorrenza nel sistema
bancario italiano deve determinare iniziative spontanee delle banche
finalizzate alla massima trasparenza informativa per il consumatore. In caso
contrario sarebbero necessari puntuali interventi normativi per promuovere una
scelta più consapevole da parte della clientela", spiega
l'Antitrust. Nella segnalazione, approvata nella riunione del 24 maggio 2007,
"l'Autorità ricorda che presupposto per un aumento della
concorrenza nel sistema bancario è la mobilità della clientela da
un istituto all'altro. Per facilitare questo processo occorre che il
consumatore possa avere il livello di informazione più ampio e
più diffuso possibile sui prezzi, qualità e condizioni di
fornitura dei servizi offerti. In questo modo potrà esercitare al meglio
la propria scelta fra offerte diverse, con effetti positivi sulla competizione
fra le imprese". "Per innescare questo processo virtuoso
l'Autorità suggerisce l'introduzione, al momento della scelta del conto
corrente, di un foglio informativo sintetico che indichi chiaramente tutte le
spese di tenuta conto e le condizioni economiche dei servizi maggiormente usati
(gestione assegni, domiciliazione o pagamento utenze, bonifici, bancomat,
prelievo Atm e carta di credito). Andrebbe inoltre predisposto - aggiunge il
Garante - un indicatore di spesa complessiva di c/c stimato dalla banca per
diversi profili di utilizzo del conto corrente stesso, che possa consentire
all'utente una maggiore comparabilità fra le diverse offerte sul mercato
in relazione al proprio profilo. I prezzi di ciascun servizio dovrebbero
inoltre comprendere eventuali spese di scrittura". "Nel corso del
rapporto contrattuale, inoltre, la banca dovrebbe inoltre informare il cliente,
almeno annualmente, della spesa complessiva di conto corrente, del numero e del
tipo di operazioni effettuate per l'anno in corso e per quello precedente, in
modo da permettere la comparazione delle condizioni con quelle offerte dalle
banche concorrenti", prosegue l'Antitrust, evidenziando "inoltre,
come gli sportelli per il prelievo Bancomat, all'avvio della procedura per il
ritiro del denaro, dovrebbero informare che l'operazione, in quanto non
effettuata presso il circuito della banca che ha emesso la carta, ha un costo
aggiuntivo. Lo stesso sportello potrebbe inoltre fornire altre informazioni di
rilievo sulle condizioni di conto corrente alla propria clientela". L'Abi
in serata, ha fatto sapere con una nota, che "valuterà con
attenzione la portata della comunicazione resa nota dall'Antitrust sui conti
correnti". L'Associazione bancaria italiana rileva che i contenuti erano
stati preannunciati nelle conclusioni dell'indagine il 5 febbraio e di aver
già concordato un incontro con l'autorità, per l'11 giugno, per
sottoporre alla sua attenzione il nuovo sistema di confronto fra prodotti di
conto corrente offerti.
Il Corriere della Sera 28-5-2007 Tokyo, ministro
suicida dopo scandalo. L'uomo era accusato di aver ricevuto finanziamenti
illeciti. Toshikatsu Matsuoka, responsabile dell'Agricoltura,
è stato trovato impiccato nel suo appartamento
Il Foglio 26-5-2007 E’ il
banchiere centrale il prossimo uomo-chiave nella rivolta dei borghesi
Il Corriere Economia 28-5-2007 Lo scontro in Europa
sull'inno e la bandiera a cura di Ivo Caizzi
Il Piccolo di Trieste 28-5-2007 La famiglia come
risorsa. Giampaolo Valdevit.
L'Eni ha deciso di querelare la
trasmissione Report in onda ieri su Rai 3 sul gas perché «avrebbe riportato i
fatti in modo distorto e scorretto». Lo rende noto un comunicato della stessa
azienda. Nel corso della mattinata di lunedì la compagnia petrolifera ha
anche reso pubblico che nell'ambito di un'indagine avviata lo scorso anno dalla
Procura della Repubblica di Milano, sugli strumenti di misura del trasporto e
della distribuzione del gas naturale utilizzati in Italia dalle imprese del
settore, il Nucleo della Guardia di Finanza ha operato lunedì mattina un
sequestro di documenti presso gli uffici di varie società operanti in
questo mercato, tra cui società del gruppo (Snam Rete Gas e Italgas,
ndr), con particolare riguardo a documentazione a partire dal 2003. La nota
parla anche di diversi manager sotto inchiesta, compreso l'amministratore
delegato Paolo Scaroni, in qualità di legale rappresentante della
capogruppo.
Gli strumenti sotto indagine, sono i cosiddetti misuratori venturimetrici, «da
sempre utilizzati in Italia e all'estero, e che non incidono sulle misurazioni
relative alla bolletta dei consumatori», sostiene il Cane a sei zampe. Quanto
alla puntata di Report «Eni - si legge nel comunicato precedente, che ha
annunciato l'avvio di azion i legali - nota con stupore le incorrettezze e le
distorsioni dei fatti illustrati nel corso della trasmissione in onda ieri,
domenica 27 maggio, su Rai3, nel servizio "Le vie del gas", a firma
di Giorgio Fornoni. Tutto ciò nonostante la piena e completa disponibilità,
aperta e trasparente, fornita da Eni nei mesi scorsi alla trasmissione della
rete di servizio pubblico della Rai, in termini di informazioni messe a
disposizione, accesso ai luoghi, e interviste al proprio management.
Evidentemente per questo tipo di programmi - prosegue la nota - la polemica e
le distorsioni della realtà costituiscono elemento fondante e quindi Eni
ha dato mandato ai propri legali, suo malgrado, di predisporre una querela che
ricostruisca la verità dei fatti, e che tuteli l'immagine dell'azienda e
l'onorabilità dei propri dipendenti».
L'amministratore delegato dell'Eni Scaroni è
tra gli indagati per l'inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza.
M
Lo rende noto la stessa Eni in una nota, sottolineando che gli strumenti sotto
indagine sono i cosiddetti misuratori venturimetrici, da sempre utilizzati in
Italia e all'estero, e che non incidono sulle misurazioni relative alla
bolletta dei consumatori. Per quanto riguarda il Gruppo Eni le società coinvolte
sono Snam Rete Gas e Italgas.
Tra gli indagati, oltre ad altri manager, c'è anche Paolo Scaroni, in
qualità di legale rappresentante della capogruppo Eni Spa.
Le accuse ipotizzate dai pm Sandro Raimondi e Maria Letizia Mannella sono a
vario titolo truffa, violazione della legge sulle accise, ostacolo
all'attività di vigilanza e l'uso o detenzione di misure o pesi con
falsa impronta (art 472 cp).
Tutte le società coinvolte nelle indagini sono anche state iscritte nel
registro degli indagati per la legge 231 del 2001 relativa alla
responsabilità amministrativa delle società.
(28 maggio 2007)
«Su Dico e testamento biologico Fassino ci ha capito, Amato
no»
M
Perché dice che il ministro della Famiglia, a Firenze, «ci ha provato»?
«Abbia pazienza: Prodi ha detto una cosa, Padoa- Schioppa un'altra, Visco
un'altra ancora, alcuni ministri manco c'erano. Problema: che farà il
governo domani? Spero che Rosy riesca a metterli d'accordo...».
Prodi ha assicurato che i due terzi del «tesoretto» andranno alle
famiglie...
«Bene, io stesso avevo chiesto si destinasse a loro. E sarebbe accettabile se i
due terzi, in effetti, lo fossero».
E non è così?
«Ahimè, no. Si parla di politiche sociali che certo hanno influenze
sulle famiglie, ma non sono interventi specifici sul tema. È un po' come
quando, da sindacalista, distinguevo tra spesa assistenziale e previdenziale.
Tra emergenza e prospettive. Il governo deve saper distinguere e avere il
coraggio di scegliere».
In che senso?
«La famiglia è un'altra cosa. Certo i poveri vanno aiutati e subito, si
figuri! Se Prodi dice che vuole farlo sono contentissimo, del resto ricordo
bene l'allarme lanciato dall'arcivescovo Bagnasco sulla povertà. Ma sono
due piani diversi: è un tema che terrei distinto dalle politiche
familiari, le quali hanno bisogno di continuità nel tempo, anche oltre
il "tesoretto". E pure le famiglie vanno aiutate da subito, ne va del
futuro del Paese».
Sì, ma come si fa?
«Con buona pace degli "altolà" di Padoa-Schioppa, il governo
dovrebbe definire nel Dpef e in Finanziaria tre priorità: debito
pubblico, famiglie e contrasto alla povertà. Punto. Parliamoci chiaro:
l'Italia destina alle famiglie l'uno per cento del pil, la metà della
media europea, un terzo di Francia e Germania, un quarto dei Paesi scandinavi.
È troppo chiedere che si arrivi almeno al livello dell'Europa? Quanto
agli altri, interessi e corporazioni varie, si mettano in fila».
La Cdl ha parlato di spot elettorale.
«Non so se fosse uno spot e non è un problema mio. Io aspetto il 7
gennaio 2008 per vedere se, nella Finanziaria, alle parole corrisponderanno i
fatti».
Qualcosa che ha apprezzato di Firenze?
«La proposta del ministro Bindi di creare un tavolo bipartisan per garantire
continuità alle politiche familiari. È un'idea di sostanza, un
metodo che dovrebbe coinvolgere anche le associazioni familiari e andrebbe
allargato alle questioni eticamente sensibili. La vita non può essere un
compito del governo, il parlamentare deve poter riconquistare la sua
libertà. Questo è stato l'errore sui Dico. E per questo ho trovato
sorprendenti gli interventi di Pollastrini e Amato».
Sorprendenti?
«Sui Dico o il testamento biologico la loro intransigenza è
inconcepibile. Un po' di prudenza, andiamo: perché affermare cose che turbano
la nostra coscienza? Significa non aver capito niente di quanto è
successo al Family Day. Non vedere che c'è un popolo che ha detto: fate
altre cose. Piero Fassino e, ogni tanto, Rosy Bindi lo hanno compreso».
C'è chi dice: con i principi «non negoziabili» addio democrazia.
«E perché? Per un laico democratico la libertà o la giustizia sono forse
principi negoziabili? Se uno mette in discussione i miei principi mi oppongo e
poi si vede, no? No: non si vuole che parliamo! E poi faccio una battaglia
laica, mica chiedo di sposarsi in Chiesa».
Già, ma a chi nel centrosinistra cerca un dialogo come risponde?
«C'è chi ha scelto di convivere? Per carità. Non li obbligo ad
andare in Comune né in Chiesa. E so che hanno dei bisogni da risolvere sul
piano della loro scelta individuale: attraverso il diritto comune, il codice
civile. Tutto qui. Ma la questione di fondo è un'altra».
Quale?
«La visione antropologica. C'è chi ritiene non si debba destrutturare la
società ma mantenere come punto costitutivo la famiglia e chi invece ha
un'idea di società individualista e libertaria. Due visioni del mondo
difficilmente conciliabili».
Eppure conciliare quelle visioni sarebbe l'ambizione del Partito
democratico, no?
«Io non so se ce la fanno. Ho già detto che non entrerò nel Pd e
sto a vedere che succede. Mi siedo sulla riva del fiume. Per carità, i
miei amici popolari possono rischiare...».
E ai «teodem» che direbbe?
«Li invito ad assumere la virtù della prudenza. È meglio
prendersi un po' di tempo in più e fare le cose per bene».
Ma non sta andando troppo per le lunghe?
«Mah, io avrei pensato al Pd come a un "partito area", un contenitore
nel quale le diverse tradizioni politiche avessero potuto mantenere la loro
identità e autonomia. Forme organizzate che si associano. Un luogo che garantisse
alla mia cultura di vivere. Ma non è avvenuto».
Quindi?
«Mi batto per i miei valori, per una cultura che in Italia deve mantenere la
capacità di esistere. Perché devo annullarmi, scomparire?».
Addio bipolarismo?
«Ma no, semmai sono per un bipolarismo mite. Non dico questo contro nessuno.
Nel sindacato ho sempre vissuto un rapporto sereno con i comunisti. Si
può vivere anche nella diversità. Certo, bisogna semplificare il
quadro politico, ma il pluralismo non è in contasto con il bipolarismo».
In un convegno su don Mazzolari ha detto a Veltroni: non mettetelo nel
Pantheon.
«Il Pantheon è l'inizio del declino dell'impero. Quando non si riusciva
più a governare hanno messo là tutti gli dèi perché in
realtà ce n'era uno solo: l'imperatore. Per questo detesto il
sincretismo».
Parlava del «popolo» del Family Day...
«Sono sommerso da e-mail che ci incitano ad andare avanti».
E ora?
«Non è che ce ne torniamo a casa. Ci sono altre questioni eticamente
sensibili: il testamento biologico, per dire. Questa è la svolta del
Family Day: il mondo cattolico non è più solo un serbatoio di
voti, ma una soggettività che può mettere in campo i propri
valori».
Dopo l'allarme scattato qualche giorno fa
per le dichiarazioni dell'amministratore delegato, Eric Schmidt, che ha
annunciato che l'obiettivo della società è quello di diventare
nei prossimi cinque anni il "Grande Fratello", il colosso del web
è di nuovo oggetto di timori in Europa. Secondo il Financial Times a
sollevare la questione è stato il gruppo di lavoro Articolo 29, un
gruppo di consulenza indipendente sulle politiche della privacy, che ha inviato
una lettera a Google la scorsa settimana chiedendo chiarimenti sulla
conservazione dei dati di ricerca Internet degli utenti fino a due anni. A
confermare la notizia è stato un portavoce di Google a Parigi. "La
preoccupazione riguarda la memorizzazione delle informazioni sulle ricerche
degli utenti per un periodo definito di tempo che va dai 18 ai 24 mesi - ha
detto - Loro credono che sia un periodo troppo lungo". I dati memorizzati
da Google includono oltre ai termini di ricerca, l'indirizzo del server e
informazioni personali contenute nei cookies o nei programmi identificativi dei
computer dell'utente. Il portavoce ha annunciato che la compagnia, di sua
iniziativa, ha deciso a marzo di limitare a due anni il periodo per la
conservazione dei dati. Il gruppo di lavoro teme che le informazioni possano
essere usate per identificare gli individui e creare profili delle loro
opinioni politiche, delle loro credenze religiose e delle loro preferenze
sessuali. A ottobre, riporta ancora Ft, l'ispettorato norvegese aveva avviato
un'indagine su Google e altri motori di ricerca arrivando alla conclusione che
un periodo di 18-24 mesi per la conservazione dei dati è troppo lungo.
La risposta del colosso di Internet all'avvertimento europeo non è
tardata ad arrivare. Il consulente della privacy, Peter Fleisher, ha detto che
la società ha bisogno di conservare i dati fino a due anni per ragioni
commerciali e di sicurezza . "Spiegherò ai consulenti europei che
Google ha bisogno di mantenere i dati per proteggere se stesso e il sistema da
attacchi e per raffinare e migliorare l'efficacia del nostro motore di
ricerca". Fleisher ha annunciato che la società risponderà
al gruppo di lavoro prima della sua prossima riunione a giugno ma ha anche
evidenziato che altre compagnie rivali come Yahoo e Microsoft non hanno limiti
di tempo alla memorizzazione dei dati. + Privacy: Google infrange le norme Ue.
TOKYO - Il ministro giapponese
dell'Agricoltura, Toshikatsu Matsuoka, si è tolto la vita. L'esponente
politico era finito al centro di una serie di scandali politici per aver
ricevuto finanziamenti illeciti. Matsuoka è stato trovato impiccato nel
suo appartamento in un alloggio per parlamentari.
CONDIZIONI DISPERATE - Il ministro, che aveva 62
anni, era stato trovato in condizioni disperate da un suo collaboratore ed era
stato ricoverato esanime all'ospedale dell'Università Keio. La
capacità respiratoria e quella cardiaca erano subito apparse gravemente
compromesse e poche ore dopo il ricovero è spirato. Il gesto viene a
poco meno di due mesi dal rinnovo della camera alta del Parlamento: un voto
vissuto come un banco di prova per il governo del premier Shinzo Abe.
28 maggio 2007
ROMA
—
Sinistra, addio. «In Italia la sinistra non c'è più. È
finita. Non lo dico io, lo dicono loro. Ci sono dieci sinistre, come riconosce
lo stesso Fassino. Sta franando il Palazzo: viene giù tutto quanto, e li
seppellirà. La Seconda Repubblica è morta. Comincia la Terza».
Giampaolo Pansa non ha mai risparmiato critiche a quella che considerava la sua
metà del campo. Ma lo faceva, appunto, da uomo di sinistra. «Ora non ci
credo più. Non parlo più di sinistra e di destra perché sono
categorie superate. Capisco i giovani, che non si riconoscono in un linguaggio
antico. Se dovessi misurarli con le vecchie regole, allora direi che è
di sinistra Montezemolo ed è di destra Bertinotti. Destra estrema,
destra conservatrice». «In passato ho creduto in Prodi. Ora ho perso anche l'ultima
illusione, e non per colpa sua. Prodi guida una coalizione spappolata. La sua
presunta alleanza è un baraccone. Conosco le fatiche del Professore per
arrivare in fondo a ogni giornata fatta di liti, ribellioni, piccoli ricatti:
una lotta che piegherebbe dieci Maciste. Prodi oggi è prigioniero di una
banda di folli. Un Gulliver legato da migliaia di lillipuziani. Non
scommetterei uno stipendio sul fatto che arrivi al 2011».
IL
CUOCO E IL MINISTRO DELL'AGRICOLTURA - Non è delle vicende personali che parla
Pansa, gli attacchi e le solidarietà negate dopo essere stato costretto
a interrompere le presentazioni dell'ultimo libro, La grande bugia. Di questo
scriverà nel prossimo saggio, atteso per l'autunno. È
l'attualità politica a indurre Pansa a questo passo. «Ho molta stima del
direttore di Repubblica, ma non sono d'accordo con il suo ultimo editoriale.
Ezio Mauro pensa che la politica e la sinistra possano ancora autoriformarsi.
Io no. Né mi pare che il Partito democratico potrà indurmi a cambiare
idea. Vedo che il mio Piemonte, la patria della sinistra italiana, la terra
dove sono nati o si sono formati Gobetti, Gramsci, Togliatti, Terracini,
Bobbio, è ora rappresentato da Carlin Petrini. Non da Chiamparino, uno
dei rari politici seri, forse l'unico che possa presentarsi ai cancelli di
Mirafiori senza essere subissato di fischi. Al suo posto ecco Carlin, che
già il cuoco rivale Vissani indica come ministro dell'Agricoltura. Mi
diranno che sono qualunquista. Mi viene da rispondere: evviva il qualunquismo. Evviva
l'antipolitica. La politica italiana si è coperta di discredito con le
sue stesse mani. Ha fabbricato la propria rovina».
ENTRAMBI
I BLOCCHI SONO ALLO SFACELO - Pansa non crede che la via d'uscita possa
essere il ritorno di Berlusconi. «Entrambi i blocchi sono in sfacelo. Il
centrodestra non è messo meglio, e i risultati delle amministrative di
oggi non cambieranno nulla. Quando sento Berlusconi indicare come capo del
centrodestra italiano una ragazza come la Brambilla, l'istinto è di
chiamare gli infermieri, che lo portino via. No, la destra no». Ad Antonello
Piroso di La7 Pansa aveva detto di non voler più votare. «Ma mi
riconoscerei in un governo di centro democratico — aggiunge ora —. Un sistema
in cui, se suonano al campanello alle 4 di mattina, penso sia il lattaio molto
in anticipo e non la polizia che mi viene a cercare». Allude a Visco? «Ma no.
Non ho alcun timore: le tasse le pago tutte. Però ha ragione Cesare
Salvi, quando dice al Corriere che il caso Visco è grave. O ha mentito
il comandante della guardia di finanza, e allora dev'essere radiato dalle forze
armate; o ha mentito Visco. E allora deve dimettersi»
MI ISCRIVEREI AL PARTITO DI MONTEZEMOLO - Sul Bestiario, uscito
venerdì scorso sull'Espresso, Pansa ha avuto parole di speranza su Luca
di Montezemolo. «Non sono tipo da folgorazioni. Ogni volta che lo vedo mi viene
in mente la vecchia battuta di Fortebraccio: "Arriva Agnelli, scortato da
Luca Cordero di Montezemolo, che non è un incrociatore".
Però il suo discorso all'assemblea di Confindustria l'ho seguito per
intero e mi è piaciuto. Il Bestiario l'avevo scritto prima; sono stato
contento di aver trovato conferme. La crisi del sistema, il costo impazzito
della politica, i mille impedimenti burocratici che avviluppano la vita dei
cittadini: condivido. E non mi è dispiaciuto neppure il titolo che
Sansonetti ha fatto su Liberazione: "Montez", come un conquistador.
Magari! Se Montezemolo fondasse un suo partito, mi iscriverei subito. Sarebbe
la prima tessera che prendo in vita mia. E penso proprio che "Montez"
voglia scendere in politica, anche lui giura il contrario. Ma i vecchi partiti
lo ammazzeranno. Tireranno fuori di tutto per usarlo contro di lui. Gli
metteranno non i bastoni, ma le spade tra le ruote. Non lo lasceranno campare,
né a destra né a sinistra». «Certo, l'ideale sarebbe che uno dei due blocchi,
più facilmente il centrodestra, riconoscesse in Montezemolo il leader. E
che Berlusconi si facesse da parte, o Prodi cercasse un'alleanza al centro. Ma
le prime reazioni non lasciano presagire nulla di buono. Prodi ha commesso un
errore clamoroso. Avrebbe dovuto fare propria la critica alla politica e ai
suoi costi. Invece se n'è uscito con un sussiegoso "si commenta da
solo". Ma come si fa! Da juventino, mi sono chiesto per tutta la stagione
perché Deschamps non facesse giocare Bojinov, un fuoriclasse. Allo stesso modo
mi chiedo: perché Mario Monti deve occuparsi solo dei convegni alla Bocconi?
Non sarebbe un ottimo ministro dell'Economia? E Mario Draghi, deve fare tutta
la vita il governatore della Banca d'Italia, o non potrebbe spendersi come
premier di un governo? Purtroppo la vecchia politica, e anche le tante vecchie
sinistre, sono pronte a tutto, pur di difendere il proprio potere residuo. Per
proteggere la loro stessa agonia».
UN
ADDIO ALLA SINISTRA NON DOLOROSO - È un addio, quello di Pansa alla
sinistra, che si immagina doloroso, sofferto. «Invece sono tranquillissimo.
Questi sono gli scabri pensieri di un signore che a ottobre compirà settantadue
anni. Faccio il giornalista da quasi mezzo secolo, dall'età di ventun
anni sono sempre andato a votare, e ho sempre votato o a sinistra o per il
centrosinistra. A volte penso che sono troppo anziano e capita anche a me di
cominciare ad avere idee che non condivido. Però, se devo fidarmi delle
reazioni di cui mi accorgo quando dico le mie cosacce, siamo davvero in tanti,
e anche molto più giovani di me, a pensarla nello stesso modo».
Aldo
Cazzullo
27
maggio 2007
I
questori di Camera e Senato lavorano a un piano di riduzione delle spese del
Parlamento Gli onorevoli avranno diritto alla pensione, pari al 50% dell'ultimo
stipendio, dopo 5 anni di mandato Circolare del ministro Lanzillotta: un tetto
ai compensi dei manager delle aziende pubbliche Da domani all'esame la riforma
degli enti locali: meno consiglieri e indennità ROMA - Il Parlamento
corre ai ripari col taglio a vitalizi, benefit e rimborsi dei suoi 952
onorevoli inquilini. Le commissioni Affari costituzionali di Camera e Senato da
queste settimana alle prese con le riforme che prenderanno di mira i conti
degli enti locali. Palazzo Madama passerà ai raggi x l'anomalia tutta
italiana delle circoscrizioni, 231, che danno lavoro, è il caso di dire,
a 3.938 consiglieri. Il presidente della commissione, Enzo Bianco, tra le altre
misure anticipate, proporrà di emendare il testo unico per prevedere la
cancellazione delle stesse circoscrizioni almeno nelle città al di sotto
dei 200 mila abitanti. Mentre il ministro degli Affari regionali Linda
Lanzillotta convoca per giovedì Comuni e Province e intanto firma una
circolare con cui fissa tetti agli stipendi dei manager delle società a
partecipazione pubblica. Insomma, per evitare che la "casta" sia
spazzata via da una crisi da anni '90, come pronosticato da D'Alema, Camere e
governo proveranno nella settimana appena iniziata a far seguire fatti (e
provvedimenti) alle tante parole di questi giorni sui costi della politica.
D'altronde l'argomento è caldissimo e lo conferma, tra l'altro, il boom
di voti espressi su Repubblica.it al decalogo di Mario Pirani, le dieci
proposte per uscire dalla crisi: oltre 80 mila. Cominceranno i collegi dei
questori di Montecitorio e Palazzo Madama. "Al ritorno dalla pausa per le
amministrative, martedì, programmeremo l'incontro con i colleghi della
Camera per mettere a punto il piano comune di riduzione delle spese del
Parlamento - spiega Helga Thaler, senatrice questore - Lavoriamo da mesi ed
è ora di adottare i provvedimenti. Le presidenze di Camera e Senato sono
costantemente informate e spingono per una soluzione rapida". Soluzione
che punterà soprattutto a incidere sui privilegi dei parlamentari, i
più invisi all'opinione pubblica. A cominciare dai vitalizi, che
dovrebbero scattare non più dopo due anni e 6 mesi di mandato ma dopo 5
anni e che non potrà superare il 50% dell'ultimo stipendio, a fronte
dell'attuale 85%. Comunque, da corrispondere a 65 anni e non come oggi anche a
60. Per proseguire con i rimborsi, finora forfettari, da corrispondere solo
dopo la presentazione delle fatture e con la stretta sui tremila euro erogati
pro capite per i "viaggi di studio". E ancora, l'affidamento
all'esterno dei servizi di ristorazione e pronto soccorso, la gestione comune
delle biblioteche di Camera e Senato, un giro di vite sugli affitti. A
Montecitorio la commissione Affari costituzionali presieduta da Luciano
Violante avvierà da domani l'indagine conoscitiva sui costi della
politica sollecitata dal presidente Bertinotti. "Sentiremo presto
il ministro per l'Attuazione del programma Giulio Santagata - spiega Violante -
poi partiremo con una radiografia su tre filoni: costi della
rappresentanza, della burocrazia e dei partiti, in cui confronteremo la nostra
situazione con quella di Francia, Germania e Spagna". In commissione
entrerà nel vivo anche l'esame del ddl di riforma costituzionale che,
sostiene il presidente, potrebbe affrontare anche il nodo della composizione
dei consigli degli enti locali. L'idea di Violante sarebbe quella di renderli
proporzionali al numero degli abitanti. Ma nel complesso, alla Camera giacciono
ben 8 ddl intestati alla "riduzione dei costi" della politica.
Chi può, intanto, accelera i tempi con strumenti più diretti.
è il caso del ministro Lanzillotta che rende operativi con una circolare
i tetti di spesa per i manager degli enti locali previsti dalla Finanziaria. Il
presidente di un cda non potrà percepire più dell'80% (i
consiglieri il 70%) delle indennità dei sindaci e dei presidenti delle
Province. (c.l.).
Per
l'ex capo dello Stato l'Italia di oggi è "infinitamente
migliore" di quella di Tangentopoli "Sì, la politica
deve riformarsi ma è sbagliato evocare il '92" L'aumento dell'80%
delle spese del Colle è stato contabile, non reale. Ecco il frutto delle
semplificazioni la supplenza dei tecnici La discesa in campo dei 'tecnici'
è frutto della debolezza della politica. Essi devono servire il
Paese senza farsi prendere dal desiderio di potere MASSIMO GIANNINI "Ma
sì, non c'è dubbio che la politica sia in
difficoltà, così come non c'è dubbio che nel Paese ci sia
un clima di scontento. Ma per favore, evitiamo di farci travolgere tutti da
un'ondata di qualunquismo". Come lo Scalfaro del decennio passato, Carlo
Azeglio Ciampi pronuncia il suo sommesso "non ci sto". E nel pieno di
una tornata di elezioni amministrative che misura l'indice di prossimità
tra gli elettori e gli eletti, e quindi il grado di fiducia del Paese nei
confronti di chi lo governa, l'ex presidente della Repubblica entra a modo suo
nel campo minato dei "costi della politica", per
parlare di quella che ormai si definisce la "crisi della politica".
Non la nega, ma la circoscrive: "Cerchiamo di non esagerare - dice - non
è vero che l'Italia del 2007 è come quella del '92. Pur con tutti
i suoi problemi e i suoi limiti, il Paese di oggi è infinitamente
migliore di quello di allora?". Da una parte caste chiuse che si
riproducono per partenogenesi e oligarchie autoreferenziali che confliggono tra
loro. Dall'altra corpi sociali in deficit di rappresentanza e cittadini
semplici spremuti dalle tasse. Di là privilegi, di qua sacrifici. In
mezzo, la marea montante dell'anti-politica, la voglia malsana di far
collassare un sistema che non si sa riformare. Lo spettro della gogna mediatica,
il fantasma delle monetine dell'Hotel Raphael. La liquidazione di un'intera
classe dirigente, la tentazione di uno sbocco tecnocratico. Ma è davvero
questa, l'orrenda rappresentazione dell'Italia di oggi, secondo la declinazione
un po' forzata costruita sulle parole di Massimo D'Alema? Ciampi, che non
è un politico ma ha vissuto suo malgrado nel Palazzo negli ultimi
quindici anni, non accede a questa visione, che parte dal pessimismo sulla
mala-politica ma rischia di sconfinare nel nichilismo dell'anti-politica:
"Sta succedendo qualcosa di strano. In pochissimo tempo, siamo passati da
un panorama sociale caratterizzato da cielo nuvoloso, a un clima da tempesta
imminente. Io, onestamente, questo clima non lo respiro. Vedo che c'è in
giro un'insoddisfazione diffusa. Dico con assoluta convinzione che non si
può non condividere un certo allarme, per i ritardi sulle riforme, per
le inefficienze del sistema e per i costi dell'apparato politico. Ma
insisto: non si può fare di tutta un'erba un fascio. E non si possono
fare paragoni azzardati con un passato che, per fortuna, è davvero alle
nostre spalle". L'ex Capo dello Stato se lo ricorda bene, quel passato.
Nel '93 fu proprio lui a camminare tra le macerie di quel terribile '92, quando
i giudici di Milano rasero al suolo Tangentopoli, il Paese sfiorò la
bancarotta finanziaria. Oggi Ciampi invita tutti a non fare accostamenti troppo
azzardati, che finirebbero solo per alimentare i focolai di qualunquismo.
Quelli non furono solo gli anni del simbolico linciaggio di piazza contro
Bettino Craxi. Ma anche quelli dell'avviso di garanzia quotidiano per i
ministri in carica. Anche quelli del contrattacco mafioso, con le stragi di
Falcone e Borsellino e poi gli attentati di Roma, Milano e Via dei Georgofili a
Firenze. Ciampi visse quella drammatica stagione prima da governatore della
Banca d'Italia, poi da premier. Per questo, oggi può dire: "Di
problemi ne abbiamo tanti, ancora. Ma quanta strada abbiamo fatto, da
allora?". Questo invito alla prudenza nei giudizi, tuttavia, non vuole
nascondere le convulsioni che la nomenklatura sta vivendo. E meno che mai vuole
occultare le persistenti aberrazioni della partitocrazia. "Anch'io ho
letto "La Casta", il libro che oggi sta avendo giustamente questo
grande successo. Anch'io resto colpito di fronte a certe storie di sperpero del
pubblico denaro. Del resto, la lotta agli sprechi e il risanamento delle
finanze dello Stato sono stati la missione della mia vita. L'obiettivo di
tagliare drasticamente certe spese inutili è giusto. Così come
è sacrosanta la necessità di dare risposte serie e immediate alla
sana indignazione dell'opinione pubblica. Tutti dobbiamo impegnarci di
più, per tentare di risolvere questo problema. Ma in questa fase
dobbiamo evitare di essere travolti in una campagna di discredito che investe
tutto il sistema politico. Questa non aiuta, anzi peggiora solo le cose".
Ciampi cita un esempio che lo riguarda da vicino, e che in queste settimane ha
finito per porre anche lui al centro di qualche velenosa polemica: le spese del
Quirinale. "Vede - osserva il presidente emerito - quello è un
tipico esempio di come un problema generale, se affrontato in modo
semplicistico, finisce per stravolgere il giudizio su un problema particolare.
Io non discuto la fondatezza dei dati sulle spese del Quirinale, riportati dal
libro di Stella e Rizzo e amplificati in questi giorni dai giornali. Ma io dico
che, per potere dare un giudizio obiettivo, bisogna distinguere tra dati
effettivi e dati contabili. E allora, se davvero negli ultimi anni i costi
del Colle sono aumentati dell'80%, questo è proprio il frutto di una
dinamica non effettiva, ma solo contabile. Tra il 2001 e il 2002 infatti
decidemmo che per ragioni di trasparenza i cosiddetti "comandati"
presso la Presidenza della Repubblica, che avevano lo stipendio base pagato
dalle Amministrazioni di competenza più un'integrazione finanziata dal
Quirinale, fosse interamente pagati dallo stesso Quirinale. Dal punto di vista
dei costi generali dello Stato, fu solo una partita di giro. Ma ecco che
se si scorpora questo importo dai costi del solo Quirinale, si scopre
che quel clamoroso aumento delle spese non c'è stato affatto". Il
ragionamento dell'ex capo dello Stato non serve a dimostrare che tutto va bene
così. Al contrario, Ciampi ripete: "Dobbiamo fare di
più". Ma proprio per questo aggiunge: "Io, nel mio settennato,
la mia parte l'ho fatta. Primo: il compenso del presidente della Repubblica,
sempre uguale dal '96, anno di inizio del grande risanamento, non è mai
aumentato ed anzi, d'accordo con il mio predecessore Scalfaro, decidemmo di
sottoporlo a tassazione piena, mentre prima era esentasse. Secondo: proprio
allo scopo di monitorare al meglio le spese, istituì un Comitato dei
revisori, composto da tre funzionari della Corte dei conti e della Ragioneria.
Insomma, su questo terreno non accetto lezioni proprio da nessuno. La mia
storia parla per me?". Ciampi ci tiene a ribadirlo, proprio nei giorni in
cui, soprattutto da una destra becera e populista, partono certe campagne avvelenate,
per esempio sui trattamenti pensionistici di politici, amministratori e grand
commis dello Stato. Anche su questo versante, il presidente emerito ha qualcosa
da dire: "La mia denuncia dei redditi è pubblica. Agli atti della
Presidenza del Consiglio. Basta consultarla, per vedere che il mio reddito
principale è una generosa pensione della Banca d'Italia, dove ho
lavorato per 47 anni. Credo di averla meritata, in tutta onestà".
Premesso questo, lui stesso conviene sulla necessità di intervenire su
certi privilegi, su certi trattamenti "speciali", che riguardano sia
i parlamentari, sia soprattutto gli amministratori locali. Ma anche qui,
"bisogna intervenire dove è necessario, senza mettere tutti nello
stesso calderone". Come se tutti fossero ladri, grassatori, disonesti. A
questa deriva Ciampi non vuole arrendersi. Teme che, per questa via, si arrivi
a soluzioni imprevedibili e nefaste per i destini della Repubblica. Registra
anche lui gli effetti del manifesto politico di Montezemolo. Riflette anche lui
sulle prese di posizione di Mario Monti, a proprosito delle differenze tra
"tecnici" e "politici". E da tecnico a sua volta prestato
alla politica commenta: "Vede, in Italia la discesa in campo dei
"tecnici" deriva indubbiamente da una certa debolezza della politica.
Io non colpevolizzo i tecnici, in assoluto. Ma c'è tecnico e tecnico.
Per me, come dimostra la mia vicenda, quando un tecnico è chiamato dalla
politica si deve mettere al servizio del Paese. E non deve farsi
prendere dal desiderio di potere. Deve limitarsi a compiere al meglio il suo
incarico, e poi ritirarsi in buon ordine. Io l'ho sempre fatto. Lo feci nel '93
da presidente del Consiglio, quando in molti volevano che il mio governo
diventasse 'sine die', e invece andai dal presidente della Repubblica a
rimettere il mio mandato. Lo feci nel '96 da ministro del Tesoro, prima col
governo Prodi e poi col governo D'Alema, a cui scrissi una lettera per dirgli
che restavo ancora al mio posto ma solo perché "l'euro è un
matrimonio celebrato, ma non ancora consumato", e per questo rimasi fino
all'avvenuta consumazione del rito. Lo feci nel 2006 da presidente della
Repubblica, quando resistetti alle sirene di chi mi chiedeva di restare al mio
posto, e invece risposi di no, perché avrei introdotto un precedente inedito
nella nostra storia, introducendo una forma di "monarchia
repubblicana" che mal si confà alla nostra democrazia e alla nostra
Costituzione". Anche oggi, quindi, per Ciampi dovrebbe valere la stessa
regola. Se la "crisi della politica" dovesse riprodurre
l'emergenza di una "supplenza" tecnica al governo, l'unico principio
che dovrebbe valere sarebbe questo: rendere il proprio servizio al Paese, e poi
fare un passo indietro. Ma questa, nella valutazione di Ciampi, è
un'emergenza che la politica non dovrebbe consentire. L'anomalia della
"surroga" è e deve restare un'eccezionalità. Nonostante
le contraddizioni in cui si dibatte, la politica di oggi ha i mezzi e
gli strumenti per dare le risposte che i cittadini si aspettano. E per
riaffermare il proprio "primato". A Ciampi è piaciuta molto,
la vecchia battuta che gli disse l'Avvocato Agnelli, ricordata su queste
colonne quattro giorni fa da Ezio Mauro: "Se fallisce lei, dopo c'è
solo un cardinale, o un generale?". Secondo il presidente emerito, quel
tempo è finito. E non deve mai più tornare.
Titolato
capo-macchina, il governatore è atteso al varco il 31 maggio per la
stoccata finale al prodismo neoirista
Roma.
Ora lo sbarco tocca a lui, al terzo uomo della scuderia borghese; dopo Mario
Monti, dopo Luca di Montezemolo, è il turno del governatore della Banca
d’Italia, Mario Draghi. Giovedì 31, terrà le considerazioni
finali di quest’anno, le seconde del suo mandato di governatore. Lo sbarco del
Mayflower dei volenterosi, dicono con ironia.
L’anno scorso Draghi cercò di innovare la complessa liturgia
bankitalista, fatta di paragrafi schematici e di una lingua un poco aulica ed
economicista. Parlò in modo semplice, per una mezz’ora. L’anno scorso,
alle prese con le sue prime considerazioni finali, la principale novità
era sè stesso, era la fine del governatorato di Antonio Fazio, la fine
dell’egemonia tomista sul sistema bancario nazionale, dopo lo scontro del 2005:
le opa bancarie su Bnl e Antonveneta concluse con la destituzione di Giovanni
Consorte e Ivano Sacchetti e l’arresto di Gianpiero Fiorani (con l’appendice
grottesca della scalata a Rcs da parte di un newcomer pasticcione, che era
diventato a un certo punto il simbolo del ricambio nel sistema economico e
finanziario reso asfittico e impenetrabile dalla logica dei patti di sindacato
e del capitalismo di relazioni). Dunque, l’anno scorso Draghi si presentava
come la fine di quella strana epopea – fatta di Carnegie all’italiana, di
aspiranti commodori Vanderbilt della contrada Finocchio – che aveva illuminato
la scena finanziaria a metà degli anni zero del secolo. Era Draghi il
rappresentante di una classe dirigente internazionale – egli ha un Phd al Mit
di Boston, preso l’anno prima di Francesco Giavazzi – e il capo psicologico di
una intera generazione di economisti (da Alberto Alesina a Roberto Perotti ad
Alberto Giovannini) molto liberale, molto orientata al mercato, cui presta la
sua solida esperienza di uomo di potere. Perché Draghi è l’unico di
questa rete di uomini di economia che può davvero considerarsi uomo di
macchina. E’ stato il direttore generale del ministero ai tempi di Carlo
Azeglio Ciampi, e non solo. E’ stato quello delle privatizzazioni (e della
crociera sul Britannia dirà qualcuno – ma, attenzione, come hanno
spiegato Barucci e Federico Pierobon in un bel libro sulle privatizzazioni
italiane, il ruolo delle banche d’affari straniere nelle privatizzazioni dei
primi anni Novanta è ampiamente sopravvalutato: le banche d’affari
internazionali fecero il loro business, le loro commesse, ma in quella fase
l’acquisto diretto di proprietà delle ex partecipazioni statali da parte
di imprese straniere fu irrilevante. E quanto alle commesse, a parte Mediobanca,
solo le grandi case estere avevano esperienza di banche d’affari). E’ stato
anche l’uomo dei Draghi boys, di quella infornata di ragazzi che veniva dalle
banche londinesi, dall’Ocse, dai PhD americani e che sono stati per dieci anni
un’avanguardia di tecnici e anche – a onor del vero – l’unico pezzo di nuova
classe dirigente selezionata da un sistema che non aveva più partiti.
Dunque, l’anno scorso Draghi, era questo: il leader di una comunità
tecnocratica che aveva qualità di comando e attitudine al potere.
Qualcosa di più, oggi
Oggi è anche qualche cosa di più. Nell’ultimo anno, è
stato molto abile. Ha lasciato fare ai player bancari nazionali e il processo
di consolidamento è proseguito. Intesa Sanpaolo è stato il primo
grande colpo, poi Banca Lombarda e Bpu, poi alcune altre integrazioni tra
popolari e infine il colpo grosso, la nascita di Unicredit Group, l’unione tra
la banca di Alessandro Profumo e quella di Cesare Geronzi, un’operazione che ha
dato vita al secondo gruppo europeo e sesto nel mondo. Ma sull’operazione
Unicredit Group, la maggior parte degli osservatori, degli analisti, dei
giornalisti che seguono il settore ha osservato che il ruolo di Draghi è
stato pro-attivo. Era favorevole a questa fusione. C’è chi vede in
questo orientamento lo sguardo d’insieme, la visione del generalista, dell’uomo
che sa come immaginare uno scenario. Unicredit Group è l’argine al
rischio di una egemonia creditizia Intesacentrica, ed è pure un fattore
di riequilibrio degli assetti del potere economico e finanziario, e delle
conseguenze sui rapporti di forza politici. Non bisogna dimenticare – notano
gli osservatori – che la grande Unicredit blocca Giovanni Bazoli su Generali, e
anche sul Corriere della Sera. E oggi il Corriere è il centro di una
pressione, ma anche della promozione di una élite che chiede spazi con voce
forte. Il professor Draghi è molto prudente, ma il 31 sapremo, dalle
reazione che susciterà, quale peso gli avversari della linea avviata da
Monti e Montezemolo gli attribuiscono.
L'Unione
europea resta ancora qualcosa di vago e misterioso per gran parte dei suoi 500
milioni di abitanti. Tra le rare entità recepite come simboli
dell'unità dei 27 Paesi membri spiccano la bandiera azzurra a 12 stelle
e l'inno (l'Inno alla gioia di Beethoven). Proprio per questo i premier
euroscettici di Gran Bretagna, Olanda, Polonia e Repubblica Ceca, impegnati a
bloccare il rilancio della Costituzione Ue e ogni tentativo di
sviluppare l'Europa politica, intendono eliminarli. Nel Consiglio dei
capi di Stato e di governo, in programma a Bruxelles il 21 e 22 giugno
prossimi, puntano a ridimensionare la Carta Ue in un mini-trattato
cancellando anche ogni riferimento alla bandiera e all'inno. La settimana
scorsa, quando il premier olandese Jan Peter Balkenende è intervenuto
nell'Europarlamento di Strasburgo, gli eurodeputati dei principali schieramenti
hanno messo polemicamente sui loro banchi tante bandierine a 12 stelle. Il
presidente dell'Europarlamento, il tedesco Hans-Gert Poettering, ha difeso la
bandiera e l'inno. A sorpresa proprio il premier Romano Prodi, dopo un
intervento nell'aula di Strasburgo a favore della Costituzione e contro il
mini-trattato, si è detto disponibile a rinunciarvi. Prodi ha
però aggiunto che "volere abolire i simboli che sono per i cittadini
lo strumento più elementare di identificazione, la bandiera e l'inno,
è una contraddizione enorme da parte di chi accusa l'Ue di essere
lontana dalla gente". Il Corriere gli ha così chiesto se davvero
non avrebbe più difeso la bandiera e l'inno. "Non ho
rinunciato", ha risposto Prodi, facendo intuire esigenze di tattica
negoziale. Il giorno di Gozi Doveva essere l'occasione per dimostrare la sua
abilità su un terreno particolarmente congeniale. Ma l'ex euroburocrate
trentanovenne Sandro Gozi, membro del gabinetto di Prodi quando a Bruxelles
presiedeva la Commissione europea e poi imposto come deputato prodiano,
è uscito male dalla visita a Strasburgo del premier, che da sempre
solleva dubbi nella scelta dei suoi più stretti collaboratori. Il
mancato inserimento di un incontro con gli eurodeputati della Casa delle
libertà (Cdl) ha infatti provocato un incidente politico. Forza Italia,
An e Lega hanno abbandonato la sala dove Prodi aveva convocato l'intera
delegazione italiana dell'Europarlamento protestando per essere stati
dimenticati negli appuntamenti con gli eurogruppi del capo del governo. Gozi si
è subito affannato a giustificare ai giornalisti quell'esclusione
effettivamente poco diplomatica. Ma non ha convinto. E le sue "scuse non richieste"
hanno fatto sospettare una responsabilità dell'ex euroburocrate in
questo pasticcio. Assenteismo Prodi ha riscosso consensi e applausi dagli
eurodeputati del centrosinistra e del centrodestra annunciando l'impegno
dell'Italia nel rilancio della Costituzione Ue. Il premier olandese
Balkenende ha fatto un discorso meno euroscettico del solito, probabilmente
temendo l'ostilità della larga maggioranza europeista. Ma è stato
proprio l'Europarlamento a dimostrare la gravità della crisi dell'Europa.
L'aula di Strasburgo appariva semi-vuota durante il discorso di Prodi e
praticamente vuota quando parlava Balkenende.
Ma
non c’è solo il contratto di lavoro! Il problema è che
l’informatizzazione deve comportare un cambiamento nel modo di lavorare degli
statali. Un’operazione complessa. La pubblica amministrazione è come un
aereo: prima era tutta di metallo. Poi piano piano abbiamo alleggerito il
materiale del motore, la fusoliera, gli alettoni. Alla fine Boeing ha
rivoluzionato tutto e non c’è più nessun riferimento con quel che
conoscevamo prima. Nell’amministrazione statale lavoriamo per parti, ma alla
fine della storia non potranno convivere la carta e il computer. Dovremo
arrivare a pensare informatico, cambiare atteggiamento. Chiaro che
servirà un downsizing: adesso il turn-over degli statali è
bloccato, ma sei persone possono fare quello per cui oggi ce ne sono dieci. Il
punto è che quei sei dovrebbero essere giovani: la tecnologia
dell’informazione per loro è semplice, difficilissima per le persone di
mezz’età. Lo dico sempre a Fioroni: smettiamo di insegnare l’information
technology a scuola: usiamola per insegnare il resto, invece». Bum. Chi parla
non è Pietro Ichino, il professore che ha fustigato l’inefficienza e
l’assenteismo degli statali. Chi sostenere che la pubblica amministrazione nei
prossimi anni deve essere investita da quel processo di downsizing (mandare a
casa i lavoratori) è il ministro della Funzione Pubblica. Un po’
professore alla Negroponte (Nicholas, per via della convinzione che «la
tecnologia serve a combattere la disoccupazione»), un po’ giardiniere alla
«Oltre il giardino», Luigi Nicolais guida un ministero che raccoglie in sé
Funzione Pubblica e Innovazione (quel che facevano nel precedente governo
Baccini più Stanca). Una specie di marziano che si aggira nel Palazzo a
Roma, anche perché quando si mette a parlare di spin-off e open-source durante
le riunioni di governo, non sono pochi quelli che strabuzzano gli occhi. Stesse
reazioni in piazza, quando fa i comizi a Torre Annunziata per la Quercia. Se
glielo fanno notare, lui che ha spirito napoletano, ride e con l’inequivocabile
inflessione aggiunge «è vero, io stavo all’Università, mai mi
sarei sognato di mettermi in politica. Fino sette anni fa non sapevo neppure
cosa fosse un’amministrazione pubblica...».
L’Università
è la Federico II, e Nicolais ne era l’anima, uno di quei personaggi come
ce ne sono a Napoli che hanno ottimi rapporti transatlantici e oltremanica, ma
scarsissimi con le italiche realtà. Infatti, il professore ha insegnato
in Connecticut e a Seattle: la sua materia sono i polimeri, le molecole che
servono per i computer come per i pezzi di ricambio umani. È
appassionato anche di biomateriali. Da buon italiano, Nicolais è un
inventore - 17 brevetti in curriculum - e ha congegnato un particolare tipo di
cellulosa che serve agli obesi per combattere la ciccia: un grammo è
capace di assorbire fino a mille volte il proprio peso. Da assessore regionale
ha cercato di portare a Napoli Boeing e Microsoft, da ministro ha scartato Bill
Gates e puntato sui programmi informatici liberi, e a costo zero. Laico,
sposato due volte, ha trovato il tempo per esaudire un desiderio del cardinal
Sepe, informatizzare e connettere tra loro venti parrocchie napoletane. E alla
politica deve averci preso gusto. Raccontano abbia un filo diretto con Prodi,
raccontano di rapporti personali con Giorgio Napolitano (spesso sale al Colle),
che sia molto apprezzato anche da Cesare Pistorio e Luca Montezemolo. Se ne
parla come del successore designato di Bassolino (e che quest’ultimo l’abbia
rifilato a Prodi proprio per evitare una successione precoce), così come
il margheritino Antonio Polito potrebbe raccogliere l’eredità di Rosa
Russo Jervolino.
Intanto
c’è da girare la boa del contratto degli statali. «Il Riformista» l’ha
bacchettato: «Troppe gaffe», perché aveva anticipato «l’aumento medio per gli
statali sarà di 101 euro». Nessun riferimento, per fortuna, a quel che
più allarma i sindacati: «gli statali debbono cambiare modo di
lavorare». Disturbato in un momento di relax trascorso a studiare nuovi innesti
di peperoncino nel giardino di Ercolano, ridacchia sornione: «forse è
vero, io sono un impolitico...». Gli amici di Roma, del resto, lo chiamano «il
giardiniere». Ma sono tutti fan di «Oltre il giardino».
L'hanno
intitolato Casta, indicando con ciò chi vive e, stando a quel che
raccontano, piuttosto bene di politica. A più d'uno il concetto è
sembrato esagerato, è sembrato far riaffiorare un vecchio male italiano:
il qualunquismo. Con maggior sofisticazione altri, soprattutto a sinistra,
hanno parlato di antipolitica, un concetto più recente, che si potrebbe
definire come la reincarnazione del qualunquismo in chiave moderna. Per costoro
l'antipolitica sarebbe l'atteggiamento del cittadino che si astrae dal pubblico
ed è soddisfatto di vivere nel privato fatto di famiglia, lavoro,
relazioni sociali e ovviamente anche interessi. Letta in chiave politica
l'antipolitica - mi si passi il bisticcio - sarebbe la riproposizione del
conservatorismo, non certo di quello bacchettone di una volta, tutto Dio casa e
famiglia, ma di un conservatorismo che si modernizza e che si lascia
conquistare dalla faccia sorridente e dal trasudante ottimismo di Berlusconi.
Ma si può anche pensare che Gian Antonio Stella abbia colto nel segno.
Fra l'altro non è certo da oggi una casta il mondo della politica: lo
è quanto meno dagli anni Ottanta, ma allora per comportarsi in quanto
tale si dovevano fare le porcherie che sono poi diventate note a tutti. Dopo lo
scandalo di Tangentopoli si è perciò dovuto provvedere
diversamente. Oggi ciò che si suole definire il costo della politica
è tutto in ordine, tutto stabilito da leggi, regolamenti, ecc., è
tutto trasparente, si potrebbe dire: ecco, la casta è diventata
trasparente. Ma cosa vuol dire casta? Come si sa, caste sono quegli organismi
sociali che fanno di tutto per distinguersi dalla massa, per non confondersi
con essa. Non può stupire che una simile definizione prima di tutto non
piaccia ai politici, visto che almeno una parte di loro afferma di essere
unicamente interessata al bene comune. Allora cosa fa la casta per dimostrare
che i politici sono avvertiti e sensibili di fronte ai problemi con i quali gli
italiani devono arrabattarsi ogni giorno? Da un lato organizza, con la
complicità di giornalisti contigui ad essa e dipingendosi la tristezza in
faccia, grandi dibattiti sulla recente povertà degli italiani, sul fatto
che sempre più sono coloro che non ce la fanno ad arrivare al 27 di ogni
mese; ne abbiamo visti e sentiti un sacco e una sporta, fino alla nausea,
è diventato quasi un genere televisivo. Dall'altro lato, più
recentemente, organizza i family day (o come altrimenti li chiamano). Le une e
le altre sono rappresentazioni teatrali; per inciso, anche Pezzotta,
l'organizzatore del family day cattolico, che sembra voler costituire il Pfi,
il Partito delle famiglie italiane, non dovrebbe dimenticare di appartenere
anche lui alla casta: sono mica pochi i sindacalisti, diciamo così,
prestati alla politica o entrati nei consigli di amministrazione di qualche
ente pubblico. Penso che chiunque di noi avrebbe più di un caso da
segnalare al riguardo. Ora questa famiglia, che chi sta sui palchi dei family
day rappresenta come qualcosa che sta sull'orlo del baratro e si propone
ovviamente di portare in salvo, non è invece così malridotta. È
ancora la più solida delle strutture sociali italiane. A differenza di
quel che si racconta il patto fra generazioni esiste ed è solido. Al di
là delle apparenze, esisteva anche ai tempi del mitico Sessantotto
quando si amava dire che padri e figli stavano sui lati opposti della
barricata. Nei termini in cui lo vediamo in atto ancor oggi, questo patto
esiste in sostanza dall'epoca del baby boom degli anni Cinquanta e Sessanta.
Quanto oggi conta è che attraverso questo patto passano prima di tutto
affetti (che fanno in ogni caso bene alla società nel suo complesso) ma
anche risorse: da chi ha di più a chi ha di meno, in modo che chi ha di
meno possa riuscire a stare al livello di chi ha di più e non cadere in
basso. Passano risorse, che permettono non a tutti, certo, ma a molti sì
di trovarsi ancora a proprio agio, giovani o vecchi che siano, nella
società dei consumi anche se hanno una paga o una pensione inferiore, o
ben inferiore ai mille euro. Sono travasi di risorse che nessuno quantifica, ma
si potrebbe farlo: basterebbe guardare di più ai consumi e di meno ai
redditi, come invece suol fare chi compila le statistiche sulla ricchezza degli
italiani. Ecco cos'è in definitiva la famiglia: è la sede del
più colossale esperimento di sussidiarietà. Se anche quest'idea
è nata nell'ambito pubblico, da tempo ormai è nel privato che
assume le sue forme più concrete. Dei family day, di destra o di
sinistra, laici o cattolici, e dei loro pomposi discorsi le famiglie
italiane non sanno che farsene. Perché? Perché nella vita di tutti i giorni
sono andate ben oltre e da tempo rispetto a questi discorsi. Come dire, sono
più avanti della politica. Ecco il curioso della nostra casta politica:
vorrebbero stare davanti, come tutte le caste amano fare, stanno invece
indietro, e ben indietro.
L'ora
di religione potrà anche contribuire a salvare le anime dall'inferno, ma
di sicuro non renderà esente chi la frequenta dalla graticola dell'esame
di Stato: niente crediti scolastici al 70% di 2 mila candidati provinciali.
Lo ha deciso il Tar del Lazio e la guerra di religione va ai supplementari. La
sentenza sospende la valutazione dell'ora di cattolicità che era stata
sdoganata dal ministro dell'Istruzione Fioroni. Ciò sul fronte dei
punteggi da assegnare in dote ai maturandi (norma del 14 marzo scorso).
Scrutini 2007 rigorosamente laici e il fronte dei cattolici è
pronto alla protesta. "Ci hanno scippato il diritto di voto negli scrutini
- hanno protestato alcuni docenti provinciali -. E la pari dignità della
nostra materia? Disattesa". Il tribunale la pensa diversamente. "La
norma configura l'insegnamento della religione come materia extracurricolare -
recita l'ordinanza 2408 pronunciata il 23 maggio dal Tar -, il giudizio per
coloro che se ne avvalgono non fa parte della pagella ma deve essere comunicato
con una separata, speciale nota". I giudici hanno deciso che per il
momento, non si può fare. "Includere l'insegnamento della religione
cattolica nei crediti scolastici è sbagliato - hanno commentato i sindacalisti
Flc-Cgil di Pordenone, con l'associazione Scuola della Repubblica ha presentato
il ricorso con gli studenti -. I docenti di religione non possono votare
nell'attribuzione del credito scolastico, perché sarebbe discriminante per
tutti gli studenti che non si avvalgono della disciplina. Che, va ricordato,
è opzionale". Vinta una battaglia, mica la guerra. Religione
"out", perché dalla maturità la valutazione si allarga a tutte
le classi? Gli azzeccagarbugli della scuola hanno il bel da fare, per capire se
il giudizio di cattolicità è determinante per bocciare o
promuovere e c'è da aspettarsi contenziosi. Sull'esame di Stato,
invece, un'altra schiarita. "Le insufficienza non compromettono
l'ammissione alle prove di maturità - hanno chiarito dal ministero di
viale Trastevere -. Fino al 2009, ammessi anche gli studenti con debiti se i
professori danno il nulla osta". Chiara Benotti.
Per
avere la macchina del caffè espresso De Longhi bisogna fare un mutuo:
con la Popolare di Milano. L'istituto guidato da Roberto Mazzotta ha da poco
lanciato il programma fedeltà "Punta su di te": più usi
i prodotti della banca, più punti per i premi accumuli. Il mutuo
vale un punto ogni 10 euro erogati, la macchina del caffè vale 28 mila
punti, et voilà: con un finanziamento da 280 mila euro l'espresso
è servito. Preferite il cavatappi professionale Brandani? Sono 2.300
punti con il programma GranPremio Mondo Bancoposta delle Poste Italiane: si
raggiungono sottoscrivendo una polizza. Il premio più ambito è la
bicicletta Stratos uomo Atala, ma in Unicredit ci vogliono 52.350 punti:
conquistabili in due anni spendendo 2 mila euro al mese con la carta di
credito. I programmi di fidelizzazione a punti per i correntisti, sull'esempio
dei supermarket o dei benzinai, sono l'ultima trovata delle banche italiane,
per due motivi. Primo, non perdere clienti: chiudono il conto due milioni di
correntisti all'anno, dice l'Abi. Secondo, spingere i clienti all'uso
dei prodotti che più rendono in commissioni: Pagobancomat e carte di
credito, prestiti e mutui, investimenti su titoli. I programmi a punti sono
partiti in sordina qualche anno fa, in testa Sanpaolo e Unicredit. Ma ora sono
dilagati. E mentre all'inizio l'adesione era automatica, ora è
perlopiù volontaria: "Per generare consapevolezza nel
cliente", dice Stefano Pedron, direttore generale di Jakala Promoplan,
agenzia di marketing relazionale guidata dall'amministratore delegato Matteo de
Brabant e dall'ex amministratore delegato dell'Autogrill, Paolo Prota Giurleo.
Jakala vede ormai le banche in testa alla lista dei committenti. "I
programmi di fidelizzazione per gli istituti di credito ? dice Pedron ? oggi
coprono, con 6 milioni di giro d'affari, il 20% del fatturato della nostra
divisione Marketing solution, che è di 30 milioni di euro. È un
business che può crescere del 30% l'anno. Oggi ci sono almeno una decina
di banche che propongono questi programmi". Solo per citarne alcune, oltre
alla Bpm e alle Poste: c'è Unicredit con il programma
"Millegenius" e Intesa Sanpaolo con "Executive", la Cassa
di risparmio di Asti con "A che punto sei? " e la Popolare di Vicenza
con "Operazione Gran Premio". Senza contare il settore delle carte di
credito, dove troviamo CartaSì e Bankamericard, American Express e
Prestitempo. "Premiamo l'utilizzo del conto in modo evoluto ? dice
Francesco Signoretti, responsabile marketing privati di Unicredit Banca
?. Spingiamo all'uso delle carte di pagamento perché vogliamo ridurre la
circolazione di contante, che aumenta i costi dei nostri servizi".
Funziona? Pare di sì. "Ogni anno l'uso delle carte da noi aumenta
del 15-20%", dice Signoretti. E Pedron di Jakala conferma: "I
programmi a punti possono spostare i comportamenti dei clienti in modo
significativo: si calcola aumentino del 20-30% l'utilizzo di carte di credito e
Bancomat, del 20% quello del canale online, del 30-50% le masse investite su
prodotti della banca". Non è poco per i margini delle
banche. C'è una precisa scala di valore nell'attribuzione dei punti
bancari. In testa ci sono risparmio gestito, polizze e prestiti. Alla Bpm, per
esempio, il compleanno del conto corrente vale 100 punti, usare il Pagobancomat
per una spesa mensile di 500 euro vale 131 punti, aprire un prestito di 9 mila
euro porta 3 mila punti e investire 20 mila euro in fondi comuni dà
diritto a 4 mila punti. Al Bancoposta, invece, svettano chiaramente per
"premio raggiungibile" i prestiti personali e i mutui, con 4.500
punti ciascuno; seguono la polizza vita e i titoli sul mercato primario
(2.500), quindi i fondi. "Ma il meccanismo è diverso rispetto ai
premi della grande distribuzione e dai benzinai ? dice Pedron ?. Qui i prodotti
sono di marca e tecnologici, inoltre vengono consegnati in 15-20 giorni, contro
i 180 consentiti dalla legge: è fondamentale che la customer experience
sia positiva, perché le banche ci chiedono questo, di aumentare il valore della
relazione col cliente". "Il nostro obiettivo è diventare la banca
principale, di riferimento, in una piazza multibancarizzata come Milano ? dice
Carlo Panella, responsabile Crm del gruppo Bpm, che ha visto 50 mila clienti
aderire in due mesi al programma, partito in aprile ?. E tenere a zero la
perdita di clienti". Questo è il punto. ALESSANDRA PUATO.
La Repubblica 27-5-2007 Montezemolo e il sogno della
nuova borghesia EUGENIO SCALFARI
L’Unità 27-5-2007 Lo specchio FURIO COLOMBO
La Repubblica 27-5-2007 Truffa sugli apparecchi
acustici - PAOLA CASCELLA
NELLA
vignetta di Altan pubblicata ieri dal nostro giornale uno dei due consueti
protagonisti dice fissando l'altro: "Confindustria all'attacco" e
l'altro con la mano in tasca e il basco di traverso risponde: "Speriamo in
una forte risposta della Conferenza episcopale". Ha ricordato Ezio Mauro
nel suo editoriale dell'altro giorno che molti anni fa, in analoghe circostanze,
l'avvocato Agnelli di fronte alle pressioni di chi auspicava una sua
"scesa in campo" nell'agone politico, commentò: "Ipotesi
ad alto rischio. Se fallisce non resta che ricorrere a un generale o a un
cardinale". I nostri generali sono leali alla Repubblica; i cardinali sono
extraterritoriali, la loro verità viene da un altrove. A quindici anni
di distanza uno dall'altro, Agnelli e Altan hanno colto perfettamente la
fragilità della democrazia italiana quando la politica si
infiacchisce e la società ripiega sui suoi "spiriti animali".
* * * Televisioni e giornali da qualche settimana sono pieni di dibattiti e
inchieste sul costo della politica. Il libro dei bravissimi Stella e
Rizzo ha dato la stura ad un Niagara di dati, testimonianze, invettive,
denunce, che documentano sprechi, arricchimenti illeciti, ruberie,
rendite di posizione, privilegi, tutti sulla pelle e con i soldi dei cittadini,
vittime designate, agnelli sacrificali di tanto malaffare. Tra i molti pezzi di
bravura nel proporre e in un certo senso imporre questa agenda all'opinione
pubblica si è distinto martedì scorso Enrico Mentana in due ore e
mezzo di dibattito nella sua trasmissione "Matrix". Merita di essere
segnalato perché il montaggio televisivo era di rara efficacia. Partiva documentando
che il costo complessivo dell'attività politica vera e propria ?
stipendi dei ministri, dei parlamentari, degli eletti nelle Regioni e negli
enti locali, dei loro portaborse, del finanziamento dei partiti e dei giornali
di partito ? ammonta a 4 e più miliardi (la stessa cifra è stata
ripresa da Montezemolo nella sua allocuzione all'assemblea della
Confindustria). Ma questo è solo l'inizio, l'antipasto, incalzava
Mentana dal video di Canale 5. E via una serie serrata di quadri, brevi
inchieste, tabelle sinottiche da lasciarti senza fiato, nelle quali si
avvicendavano le cifre del debito pubblico, gli stipendi pagati ai dipendenti
dello Stato e del parastato, il costo delle Ferrovie, il peso delle imposte e
infine l'intero ammontare della spesa pubblica, cioè la metà di
tutto il prodotto italiano, imputato in blocco al costo della politica.
In studio due o tre personaggi con volti gravi e occhi spiritati annuivano e
rilanciavano.
Quando
ho spento il televisore (era quasi l'una dopo mezzanotte) ero francamente
spaventato. A tal punto che lo stesso dibattito mi è ricomparso in sogno
con le sembianze dell'incubo e la sensazione di essere fisicamente stritolato
da una morsa che si stringeva su di me togliendomi l'aria e il respiro. Enrico
Mentana, quando ci si mette, è bravo, non c'è che dire. * * * Il
27 dicembre del 1944 Guglielmo Giannini fondò il settimanale
"L'Uomo qualunque", che ebbe come insegna un omino inerme schiacciato
da un torchio. Il primo numero tirò 25 mila copie ma appena cinque mesi
dopo, nel maggio del '45, era già arrivato a 850 mila. Lo scopo del
settimanale era di dar voce all'uomo della strada contro i partiti di qualunque
colore, contro lo Stato, contro il centralismo, ovviamente contro il comunismo
e contro "gli antifascisti di professione". Il 21 giugno di quello
stesso anno nasce il governo presieduto da Ferruccio Parri che per Giannini
diventò il bersaglio numero uno. Lo scontro aumentò il successo
del settimanale. Sotto la spinta d'un vento così favorevole Giannini
fondò il partito dell'Uomo qualunque; si aprirono sedi in tutta Italia,
il giornale superò il milione di copie, fu tenuto a Roma il congresso di
fondazione. Il programma approvato all'unanimità "concepisce lo
Stato come semplice ente amministrativo e non politico. Lo Stato deve essere
presente il meno possibile nella società. L'economia deve essere
lasciata totalmente ai privati in un sistema totalmente liberista". I
punti cardine del partito enumerati nel programma erano: Lotta al comunismo.
Lotta al capitalismo della grande industria. Propugnazione del liberismo
economico individuale. Limitazione del prelievo fiscale. Negazione della
presenza dello Stato nella vita sociale del Paese. Il 2 giugno del '46
"L'Uomo qualunque" si presentò alle elezioni per l'Assemblea
Costituente, ottenendo 1.211.956 voti, pari al 5,3 per cento, diventando il
quinto partito italiano dopo la Dc, i socialisti, il Pci e l'Unione Democratica
Nazionale di Croce, Orlando, Nitti. Ebbe 30 deputati. Nel '47, quando De
Gasperi ruppe con le sinistre, l'Uomo qualunque appoggiò il governo
centrista, ma questo fu l'inizio della sua fine. I qualunquisti finirono per
confluire nel Partito monarchico e nel neonato Movimento sociale. Fino al 1947
il giornale e il partito ricevettero sostegno finanziario dalle associazioni
agrarie meridionali e dalla Confindustria. * * * Qualunquismo, antipolitica,
populismo, demagogia: sono quattro parole che configurano modalità ed
esprimono modi di sentire abbastanza simili, pur non essendo termini sinonimi.
Nella vita pubblica italiana queste modalità e questi sentimenti
rappresentano una costante da molti anni, dalla fondazione dello Stato unitario
ma anche prima, soprattutto nelle province del Mezzogiorno. Una costante, ma
per fortuna non una dominante se non a tratti e per brevi periodi. Per diventare
dominante ci vogliono condizioni che esaltino quella costante e la propaghino
nella psicologia di massa. Una condizione è la debolezza
dell'autorità politica. Un'altra è la debolezza delle
organizzazioni dei lavoratori. Un'altra ancora è l'assenza d'una
borghesia forte e responsabile. E il proliferare delle corporazioni e dei
sindacati corporativi. L'ultima condizione infine è la presenza di
demagoghi e populisti capaci di cavalcare il qualunquismo e trasformarlo in una
forza d'urto che pervada le istituzioni e le offra al potere dei demagoghi di
turno. * * * Ho letto con molta attenzione l'omelia, o se volete la
"lectio magistralis" di Luca Cordero di Montezemolo e ne ho
sottolineato i passi salienti, i punti di consenso e quelli “ dal mio punto di
vista “ di dissenso. Poiché molti amici e lettori mi hanno chiesto di esprimere
un'opinione in proposito, dirò che i punti di consenso sono nettamente
superiori a quelli di dissenso, sicché ? sia pure con alcune note a margine ?
potrei concludere con un'approvazione finale. Le note a margine riguardano: 1.
Il mancato riconoscimento del risanamento finanziario come premessa
indispensabile della ripresa economica. 2. Il merito della ripresa attribuito
soltanto agli imprenditori e al mercato. 3. Il silenzio sulle
responsabilità di molti imprenditori in operazioni truffaldine che hanno
pesantemente colpito il risparmio e la fiducia. 4. Le leggi e le politiche
dissennate del quinquennio berlusconiano, per terminare con una legge
elettorale votata da tutto il centrodestra a cominciare dall'Udc di Casini, che
ha reso ingovernabile il Parlamento e il Paese. Non sono note a margine
trascurabili, ma le tralascio: sono state già segnalate e approfondite
nei giorni scorsi, sicché le do per note, lo stesso Montezemolo del resto mi
pare che le abbia riconosciute come valide e ne abbia fatto ammenda. Confermo
che, nonostante tali rilievi, la "lectio" confindustriale mi pare
meritevole di consenso. Però... * * *
Il punto in questione riguarda la nascita
d'una nuova borghesia. Montezemolo ha più volte insistito su questo
aspetto e c'è ritornato nelle dichiarazioni del giorno dopo: è
nata una nuova borghesia che sta facendo la sua parte. Lavora come e più
di tutti. Effettua investimenti. Innova i prodotti e i processi di produzione.
Accorcia lo svantaggio competitivo. Ha ridato slancio alle esportazioni. In
forza di questi meriti la nuova borghesia chiede, anzi pretende: meno tasse
sulle imprese, piena mobilità del lavoro, ammortizzatori sociali
adeguati, liberalizzazioni in tutti i settori, riforma delle pensioni in
armonia con gli andamenti demografici, riconoscimento del merito in tutti i
settori e a tutti i livelli. La nuova borghesia ha già fatto ciò
che il Paese si attendeva e continuerà a farlo, ma non può esser
lasciata sola. Il governo finora è stato inadeguato e indeciso. Partiti
e Parlamento altrettanto o peggio. Opposizione forse pure. Si mettano dunque al
passo. Gran parte di queste richieste sono condivisibili, anzi sacrosante. Per
quanto ci riguarda le sosteniamo da mesi, anzi da anni. Ma l'osservazione che
qui solleviamo riguarda la nuova borghesia, innovatrice, liberista e liberale,
corretta con le regole del mercato. E dunque meritevole. Con quel che segue.
è già nata questa nuova borghesia, amico Montezemolo? E quando?
Lei stesso fa datare il risveglio, la ripresa, l'innovazione a due-tre anni fa.
Più o meno dall'inizio della sua presidenza in Confindustria. Prima di
allora, è verissimo, l'innovazione era ridotta ai minimi termini, gli
investimenti languivano, il Pil aveva addirittura cessato di crescere. Crescita
zero. Non voglio discutere le sue capacità salvifiche ma chiedo: in tre
anni, in un paese dal quale la borghesia è scomparsa da almeno
vent'anni, ce la troviamo rinata all'improvviso come Minerva che uscì armata
di tutto punto dalla testa di Zeus? Non è credibile. Le esportazioni
sono aumentate. Verso quali aree del mondo e in quali settori della produzione?
Lei lo sa benissimo. Perché non lo ha detto? Gli investimenti. Quelli privati
la soddisfano perché sono aumentati di ben il 2,3 per cento. Ma più
oltre lei lamenta che quelli pubblici sono aumentati "soltanto" del 4
per cento. Quattro non è forse il doppio di due? C'è un punto
della sua relazione in cui lei, giustamente, lamenta l'evasione fiscale enorme e
il sommerso altrettanto enorme. Ha ragione. Ma chi evade? E chi si sommerge?
Che mestieri fanno i sommersi e gli evasori? Fanno molti e vari mestieri, ma
concederà che quelli che pagano con il sostituto d'imposta evadono
infinitamente meno di tutti gli altri. Ne dobbiamo dedurre che gli evasori sono
tutti e soltanto i liberi professionisti? Lei non ha parlato delle violazioni
delle regole di mercato. Uno dei suoi vicepresidenti seduto accanto a lei ne
rappresenta un luminoso modello: quello di aver controllato fino a ieri la
più grande società per azioni italiana rischiando in proprio l'1
per cento del capitale. Sono questi i meriti da imitare e riconoscere? * * *
Gentile
presidente di Confindustria, di Fiat, di Ferrari e di parecchie altre
iniziative certamente meritevoli, noi abbiamo la sensazione che la nuova
borghesia non sia ancora nata e ? purtroppo ? sia ancora sulle ginocchia di
Giove. Lei fa benissimo ad auspicarla. Fa benissimo a dedicare i tre quarti del
suo discorso ad una politica insufficiente e indecisa. Fa benissimo a parlare
più da cittadino che da capo della sua associazione. Ci ruba un po' il
mestiere, ma ben venga. Per fortuna per farci conoscere qualche cosa di
più approfondito sui problemi dell'industria italiana c'è stato,
dopo il suo, l'intervento del ministro Bersani. Se la platea dell'Auditorium
fosse stata popolata dalla nuova borghesia, Bersani avrebbe avuto applausi
appena appena inferiori a quelli avuti da lei. Non la pensa anche lei
così? Non l'ha un po' colpita constatare che l'ovazione più lunga
al suo discorso è venuta quando lei ha scandito che gli industriali non
pagheranno un solo euro di più di tasse? Dichiarazione ineccepibile. Da
sottoscrivere. L'aveva già detto Mario Monti. Non parliamo di Giavazzi.
Vedrà che il 31 maggio lo ripeterà Draghi e sarà
più d'una triade, sarà un quadrumvirato. Ci vogliamo aggiungere
anche Pezzotta e i cardinali? Per finanziare tutte le richieste che vengono i
soldi ci sono: basta cancellare il debito con un colpo di bacchetta, abolire la
spesa pubblica seguendo le indicazioni di Matrix, e oplà, non è
poi così difficile. I soldi si trovano sempre. Basta decidere da quali
tasche prenderli. Lei mi risponderà: dal sommerso e dall'evasione.
Perfetto, è il programma del governo Prodi. Visco ci sta provando e
qualche risultato è già arrivato. Forse è per questo che
stanno facendo il tiro a bersaglio su di lui. Le do una cifra, amico
Montezemolo: la vecchia borghesia ? la sola che l'Italia abbia avuto in 150
anni di storia unitaria, la cosiddetta destra storica ? pagò attraverso
l'imposta fondiaria il 52 per cento di tutte le entrate tributarie dello Stato
nel periodo in cui governò, tra il 1861 e il 1876. Il 52 per cento. Era
una borghesia composta interamente da proprietari fondiari. Le entrate extra tributarie
vennero dalla vendita dei beni ecclesiastici, avocati allo Stato e venduti da
Marco Minghetti. Purtroppo tarderà a nascere, se nasce, una borghesia di
quel conio, che nazionalizzò le ferrovie e le assicurazioni sulla vita.
Ciò
che più impressiona delle reazioni negative di tanti uomini politici
alla spietata e documentata analisi-denuncia del presidente di Confindustria
è che nessuno, dico nessuno, di quei critici è stato capace di
contestare nel merito anche una singola virgola di quanto Montezemolo ha
sostenuto. Nessuno, fra i professionisti della politica, è in
grado di negare che la politica, e il sistema pubblico che da essa
dipende, siano ormai un motore ingrippato, e la principale causa dei mali
italiani. In quella che alcuni chiamano "crisi della politica"
va distinto l'aspetto congiunturale da quello strutturale. C'è una crisi
specifica, contingente, legata alla natura della coalizione oggi al governo.
Una parte della paralisi decisionale che ci attanaglia dipende dalla debolezza
della maggioranza e, in particolare, dal suo vero fallimento:
l'incapacità di "costituzionalizzare le estreme". Nessuna
democrazia bipolare può funzionare se le estreme non vengono
addomesticate e controllate, se hanno un ruolo rilevante nelle politiche di
governo. È dalla nascita del governo Prodi che le estreme, non
addomesticate, hanno quel ruolo. Con effetti devastanti per i consensi
all'esecutivo. La mancata costituzionalizzazione delle estreme ha ricadute su
tutti gli aspetti delle politiche pubbliche, si tratti del blocco di
infrastrutture vitali, di tasse e spesa pubblica, della sicurezza, o della politica
internazionale del Paese. Si pensi a ciò che accadrà fra
pochi giorni: l'estrema sinistra riceverà, come componente del governo,
il presidente degli Stati Uniti, partecipando contemporaneamente a una
manifestazione contro di lui. L'aspetto congiunturale della crisi si incontra
con l'aspetto strutturale, perché una politica paralizzata dalla mancata
costituzionalizzazione delle estreme infligge un colpo mortale alla democrazia
bipolare, porta acqua alle tesi di coloro che (a loro volta sbagliando, a causa
di una memoria troppo corta) pensano che un sistema "bloccato al
centro", un sistema con un nuovo centro eternamente governante sia la
soluzione per i mali italiani. Aspetti congiunturali a parte, c'è dunque
una crisi di sistema: dipende dal fatto che la Seconda Repubblica non è
mai nata, è stata solo una promessa o un miraggio che ci ha accompagnato
dai primi anni Novanta, e adesso che la promessa è svanita ci ritroviamo
ancora a vagare fra le macerie della Prima Repubblica, senza che siano in vista
soluzioni. Gran parte dei mali attuali della politica sono segni di una
crisi di sistema a cui nemmeno un nuovo ricambio di governo, checché ne dicano
le opposizioni, potrà porre veri rimedi. Sappiamo qualcosa su come e
quando cambiano le democrazie. Sappiamo che esse non cambiano solo perché sono
in crisi: possono restare in quella condizione per decenni, immobili, mentre
trascinano lentamente alla rovina il Paese. Le democrazie cambiano solo quando
(di solito, a seguito di una crisi repentina e drammatica) si apre, per un
breve momento, una "finestra di opportunità", e appaiono
leader capaci di imporre una radicale ristrutturazione delle regole del gioco.
La fine del "primo sistema politico" della Repubblica avvenne per il
combinato disposto di un mutamento geo-politico (la fine della guerra fredda),
una crisi finanziaria, e l'intervento della magistratura. Avemmo una mezza
Algeria ma senza un de Gaulle, senza incontrare un leader davvero all'altezza
della situazione. Si aprì comunque una finestra di opportunità
che consentì alcune limitate innovazioni, come la legge maggioritaria
del 1993, le leggi sull'elezione diretta di sindaci e presidenti regionali e
l'alternanza al governo. Quella finestra di opportunità si è
chiusa da un pezzo. Non ne sortì quella riforma complessiva delle
istituzioni che avrebbe dovuto fare dell'Italia un'efficiente democrazia
bipolare. E quando i partiti ebbero modo di riorganizzarsi tornammo addirittura
indietro (con la riforma elettorale voluta dal governo Berlusconi). Berlusconi,
appunto. Di lui si deve parlare, essendo stato il vero dominus, nel bene e nel
male, della politica italiana dal '94 ad oggi e, ci dicono i sondaggi,
lo sarà ancora a lungo. Berlusconi non è l'uomo nero che molti si
ostinano a dipingere e ha fatto, insieme a cose sbagliate, e anche
sbagliatissime, anche diverse cose buone. Il suo vero grande limite è
che fece al Paese la promessa di una rivoluzione liberale e non l'ha mantenuta.
Credo che stia proprio in quel fallimento la causa della crisi di sistema.
Berlusconi ha avuto, per un momento, l'occasione di dare uno sbocco positivo
alla crisi della Prima Repubblica ma l'ha in grande misura sprecata. Non
è stato né de Gaulle (il costruttore di nuove istituzioni) né Thatcher
(l'artefice di una rivoluzione neo-liberale). Per questo ora ci ritroviamo,
dopo un lungo giro, di nuovo al punto di partenza, alla crisi di sistema
così come l'abbiamo conosciuta alla fine degli anni Ottanta. Né sembra
che Berlusconi ne abbia tratto insegnamento. È vero che è il
"popolo", e non la Confindustria o i tecnici, che deve scegliere i
governi, ma sono le élite che devono trovare le soluzioni politiche tecnicamente
valide per dare soddisfazione alle aspirazioni del popolo. Uno dei problemi del
governo Berlusconi fu che mancarono soluzioni tecnicamente adeguate per
realizzare, su diversi fronti, la promessa rivoluzione liberale. Non ci sono
buone notizie in vista (a parte il referendum, ma non basta). Non si vedono
all'orizzonte nuove "finestre di opportunità". Anche per
questo il tanto parlare che ancora si fa di riforme costituzionali sa di
imbroglio. Un Paese che discute da più di vent'anni di tali riforme e
non le fa è un Paese malato. E la sua è una malattia morale.
Nella classe politica, a sinistra e a destra, ci sono diverse
personalità di prim'ordine. Esse ingiustamente patiscono del discredito
in cui è caduta la politica. Nessuna di loro, singolarmente,
può fare nulla per risolvere la crisi. Ma è forse tempo che i
migliori delle due parti si siedano intorno a un tavolo per tentare di capire
che cosa è umanamente possibile fare al fine di bloccare il degrado
della democrazia italiana.
A
pagina 11 del libro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella La Casta ci sono
anch'io. Sono, benché non nominato, il direttore dell'unico giornale italiano
che aveva denunciato le allegre vacanze dell'allora ministro della Giustizia
Castelli. "Bed and breakfast" nella splendida località di Is
Arenas, in Sardegna (villaggio-vacanze ristrutturato per il personale della
polizia penitenziaria) con seguito di parenti e amici, tutti esenti da oneri. Il
libro racconta che il ministro, infuriato per la rivelazione, ha provveduto
(dopo aver letto il nostro articolo) a pagare il conto (euro 19,00 per
matrimoniale, euro 11,82 per stanza singola). Spiega il libro di Stella che
sono tariffe basse perché gli agenti di custodia pagano negli anni per quelle
vacanze con trattenute sui loro stipendi. Il ministro non paga. Se disturbato
da rompiscatole, paga dopo. Stella e Rizzo non possono sapere che c'è un
dopo del dopo. È un evento in tre atti che riassumo così. Primo:
il ministro Castelli intenta poderosa causa civile contro l'Unità e il
suo direttore per danno alla sua immagine. Secondo: il ministro della Giustizia
- benché abbia pagato dopo la denuncia di non pagamento - vince la causa
("Dopotutto ho pagato"). Terzo: il ministro della Giustizia,
diventato ex, ma trattato come un Calamandrei redivivo da molti miei colleghi
della sinistra in Senato (ma anche dal suo successore Clemente Mastella) si
presenta una mattina davanti al mio banco mostrando con sarcasmo da cartoni
animati la sua carta processuale di vittoria (temporanea, speriamo, c'è
sempre un appello). "Così impari", avrebbe detto un qualunque
realistico maestro di vita. Il fatto che vorrei far notare ai colleghi Stella e
Rizzo, il cui lavoro mi appare di una esemplare urgenza (questo libro è
in difesa della politica, non per aprire le porte dell'antipolitica, e tutto
ciò è dimostrato dall'esemplare "decalogo di salvezza"
di Mario Pirani apparso su la Repubblica del 24 maggio), è che c'è
una morale.
La
morale è questa: perché possa accadere un simile evento (ben più
lieve, dopo tutto, delle continue "ispezioni" ordinate dal ministro
contro giudici che avevano osato indagare percorsi che prima o poi avrebbero
portato al potere vero di Berlusconi) occorre che la Casta abbia di fronte a sé
uno "specchio del diavolo". Conoscete la leggenda: l'immagine del
diavolo (ovvero la prova che il diavolo è presente in un luogo o in un
gruppo) è che in uno specchio messo di fronte al diavolo, il diavolo non
si vede. Per il Maligno questo tranello è essenziale affinché possa
continuare a operare indisturbato. Ma lo è anche per la Casta. Se la
Casta non si vede nello specchio - ovvero se lettori e spettatori delle
comunicazioni di massa non vedono mai all'opera volti e personaggi della Casta
mentre sono in azione - allora di essi, anche dei protagonisti più
audaci della Casta, non restano che gli uffici stampa, le autocelebrazioni e i
"panini" di tutti (tutti) i telegiornali. In questo modo è
naturale che si fissi nelle menti degli italiani un'immagine benevola del
protagonista della Casta e, fatalmente, una immagine negativa di chi corre
scompostamente dietro la carrozza lanciando frasi che vorrebbero essere
messaggi e rivelazioni ma che vengono scambiate per comportamento disordinato,
disturbo, insulti. In altre parole, per avere una Casta ci vuole un grande
specchio dei media in cui non si vede mai l'immagine di ciò che accade
davvero. Se vi capita di farvi trovare soli e nel momento sbagliato a dire
certe cose, è naturale che chi è chiamato a decidere o giudicare
trovi "aggressiva" la voce solitaria, e accrediti in modo benevolo
l'immagine onnipresente in televisione, dei vari personaggi della Casta,
persino quando ordinano da un menu (detto "casting" nel mondo dello
spettacolo) la Velina del giorno, pronta consegna in ufficio ministeriale. ***
Sto dicendo questo: nessuno, da solo, è più forte di Bruno Vespa.
Se i colleghi di quel nessuno, nei giorni difficili, decidono di non farsi
trovare, fino al punto da creare il vuoto e il silenzio (che sono un beneficio
per la Casta come l'umido e la pioggia per i funghi) e se la Casta si accasa
presso Bruno Vespa, ogni avviso o denuncia cadrà nel vuoto. Perché - ho
detto - "cadrà nel vuoto"? Qui c'è una lezione
interessante per chi pratica e giudica questi tempi difficili. Sentite. Ai
nostri giorni potete leggere in una sentenza contro qualcuno di noi che si
doleva di sentir definire l'Unità "una testata omicida"
(dichiarazione riguardante questo giornale e tutti i suoi giornalisti, direttore,
condirettore, redattori e "firme" dichiarazione fatta e ripetuta
nella trasmissione a Porta Porta del 30 ottobre 2003) queste parole: "Il
personaggio Ferrara ha calore/colore graffiante che i querelanti ben
conoscevano e che è stato provocato da un altro ospite. Tutte le
trasmissioni da lui condotte si caratterizzano per serenità del
dibattito, per quanto con toni aspri". E anche "Chi era presente non
si adombra, non rivolge critiche a Ferrara se non in modo affettuoso e
colloquiale, chiamandolo addirittura per nome: Giuliano". Ecco una
situazione esemplare. Il disturbatore è solo, isolato, non citato mai da
altri giornali nella sua solitaria doglianza, che finisce perfino per apparire
patetica. Il personaggio della Casta (non solo il ministro Castelli è
Casta) può agire indisturbato perché la maggior parte del pubblico non
vedrà interventi, prepotenze, aggressioni, minacce. Ed è naturale
che - se qualcuno è chiamato a giudicare - giudichi secondo ciò
che ha visto nello specchio dei media: niente. *** Insisto su questo niente, su
questo vuoto, perché non siamo in Romania ai tempi di Ceausescu. Come fa a
formarsi e consolidarsi, agire e perpetuarsi una Casta senza la partecipazione
straordinaria dei media o meglio la loro assenza (forse prudente, forse
distratta, forse intimidita) per quasi tutto il tempo? Senza questo capitolo -
la simbiosi di giornali e telegiornali con i politici della Casta - il fenomeno
meritoriamente denunciato dal libro di Stella e Rizzo non si spiega. So
benissimo che è inelegante puntarsi il riflettore in faccia, anche
perché, come abbiamo imparato dai thriller, quel tipo di luce deforma
l'immagine. Però se restiamo nel mondo loquace, vanesio, ma anche
attivissimo della Casta, come fa uno a ignorare di essere stato spiato dai
servizi del suo Paese (l'ufficio speciale del Sismi diretto dal misterioso Pio
Pompa, appena promosso prefetto), di avere letto quella notizia lunga una riga
(non sottotitolo o occhiello, una riga di testo nel corpo di un articolo)
trovata dal cronista nelle carte processuali depositate dal giudice Spataro
("Tra le persone messe sotto sorveglianza dai servizi diretti da Pio Pompa
vi sono i nomi di Furio Colombo e Paolo Serventi Longhi") e di non
avere trovato mai più alcun commento, chiarimento o domanda? Il caso
è allarmante non per i nomi delle persone ma per quello che hanno fatto
o stanno facendo i "sorvegliati". Sono giornalisti senza potere (a
quel tempo non ero ancora parlamentare e non più direttore di giornale),
che non possono produrre eventi ma solo annotarli e - se mai - renderli noti.
Ma la Casta sa come rimuovere lo specchio. La riga dura un giorno. E non
ritorna mai più, benché Serventi Longhi significhi la rappresentanza di
tutti i giornalisti, persino di coloro che non sono in favore (perché non ama
le Caste) dell'ordine dei giornalisti. Se mi costituirò parte civile in
un eventuale processo contro il neo-promosso prefetto Pompa, il vuoto di
notizie, commenti, reazioni, inchieste (non su o a difesa di qualcuno ma sul
perché in Italia si mettono sotto sorveglianza dei servizi segreti i
giornalisti) non faciliterà le argomentazioni contro questo stranissimo
evento (che, oltre tutto, per restare con Stella e Rizzo, ha anche un suo
costo). Ci pensate? Mettere sotto la sorveglianza dei servizi segreti della
Repubblica un giornalista che rappresenta gli altri giornalisti e uno che
scrive ben chiaro ciò che pensa ogni ogni settimana. O è
intimidazione o è peggio. Ma l'imbottitura del silenzio degli altri
giornalisti fornirà l'alibi. "Vedete? Una sciocchezza". ***
Probabilmente è a causa della par condicio che nessun servizio, sportivo
o di costume, ha dato notizia delle frequenti, trionfali apparizioni di Silvio
Berlusconi, prima, durante e dopo la partita Liverpool-Milan, la sera del 23
maggio, in pieno periodo elettorale. Probabilmente è a causa della par
condicio che gran parte dei nostri colleghi non hanno voluto dire una sola
parola su Gli imbroglioni, il Dvd di Enrico Deaglio e Beppe Cremagnani
(compiegato con Il Diario ancora in edicola) già autori di Non uccidete
la democrazia altro Dvd-denuncia finita nel silenzio (salvo un'inchiesta
giudiziaria che si può sempre aprire nell'assenza disorientante di altre
testimonianze giornalistiche). Questa volta Gli imbroglioni porta la prova di
tre diversi "attacchi" di misteriosi "hackers" o pirati
informatici, che hanno fatto irruzione nel cervello del Viminale la notte delle
elezioni. Ricordate? Lunghe soste mai spiegate senza mai sapere né la ragione
né le conseguenze di quelle soste. La forza degli "imbroglioni" sta
nell'essere ombre leggere che attraversano - e forse ritoccano pesantemente -
la scena politica in momenti cruciali senza che lo specchio dei media registri
la loro presenza. Del resto di che cosa avrà voluto parlare Leoluca
Orlando quando, durante le elezioni comunali di Palermo, ha detto di avere
trovato migliaia di schede fotocopiate? Deaglio è stato trattato come un
disturbatore e Leoluca Orlando come un meschino che non sa perdere. Così
come vengono spinti via gli ultimi Radicali che insistono nel dire che sono loro
stati sottratti ingiustamente 8 seggi al Senato. Hanno ragione? Hanno torto? Il
fatto è che nessuno si è preso il disturbo di decidere oppure di
comunicarlo agli interessati. Ma chi di noi, nelle folte schiere della stampa
parlamentare, si sognerebbe di insistere con una sola fastidiosa domanda in
proposito? È urgente, è essenziale per la casta che non ci siano
giornalisti intorno con quel loro specchio fastidioso. Se ci sono, imparino a
lasciar perdere, ne va della carriera. Se insistono, bisognerà pregare
Pio Pompa di un occhio di riguardo. E se non basta, sta per arrivare la legge
Mastella sulle intercettazioni telefoniche che non si fida più del
silenzio-assenso finora offerto spontaneamente da tanti giornalisti. Adesso, se
quella legge passa, quella legge il silenzio dei giornalisti lo ordina, pena
pesanti sanzioni pecuniarie o la detenzione. Sarà una prova ardua e
difficile per quella parte di Ulivo e di eletti nell'Unione che non vuole
essere Casta. furiocolombo@unita.it.
Ritorna
l'antipolitica, dicono in molti sdegnati. Cominciamo però a chiarire in quale
contesto si dice. Nei giorni scorsi ho rilevato una serie di dichiarazioni che
ritengo educativo portare all'attenzione dei lettori. "Una campagna
studiata a freddo e decisamente strumentale", pontifica Clemente Mastella.
Infatti, convinto che "la politica resisterà", aveva
pensato bene da tempo di condividere l'esperienza al Senato con il cognato e
alla Presidenza del Consiglio Regionale della Campania, con l'affascinante
consorte. Ma chi lo dice che i valori della famiglia si stiano perdendo? La seconda
opinione che mi ha colpito è quella di Piero Fassino che propone di
intervenire oltre che sui politici anche sugli stipendi dei manager pubblici e
dei magistrati. Gradirei sapere dal Segretario dei Ds chi dovrebbe occuparsi di
ridurre questi stipendi. A quanto ne sappia, non discendono da norme che gli
stessi interessi si autoassegnano, ma dipendono direttamente ed indirettamente
da norme approvate dal Parlamento, cioè da parte di quello stesso organo
di cui lui, insieme alla gentile consorte, fa autorevolmente parte. Ed ho pure
letto con interesse la dichiarazione del Francesco Rutelli che si scandalizza
di fronte alla liquidazione milionaria dell'amministratore di Capitalia Matteo
Arpe, confrontandola con il costo del Senato. Il Vicepremier margheritino
dimentica però che le banche sono soggetti privati, mentre così
non è con i compensi di deputati e senatori che provengono dalle tasse
pagate dai cittadini. Sull'altro versante, chi la butta in polemica politica,
si dimentica o fa finta di dimenticare che sui costi del Palazzo le
distinzioni sono inesistenti, tanto che anche durante il governo di
centrodestra non sono certo diminuiti. Infine, ho riflettuto su quanto ha detto
ieri l'altro vice premier Massimo D'Alema, che ha innescato l'avvio di questo
dibattito politico. Però, quando si cominciava a parlare del problema
dei costi della politica, il medesimo D'Alema in un'intervista
televisiva dello scorso anno, minimizzò il problema e lo collocò
nell'oceano della spesa pubblica, ottundendo così il problema. Adesso si
è reso conto che la gente ha capito che non è esattamente come
lui diceva e ammette che i costi della politica sono un problema
vero. Ma conoscendo chi dovrebbe poi occuparsene, la prende alla larga,
confermando la proposta della riduzione del numero dei parlamentari, che,
com'è noto, richiede una modifica della Costituzione. In pratica il
percorso più strutturale ma certamente il più lungo. E per adesso
che facciamo? (domenica 27 maggio 2007).
PADOVA.
Energico e dolce, colto ma semplice, Padre Luciano Bertazzo risponde senza
insofferenze anche a domande che lui stesso definisce provocatorie ("Ma
non è un rimprovero", scherza, "è perché i temi che
toccano sono provocanti"). O che vengono banalizzate dai concerti
mediatici. Risponde con serenità e insieme apertura problematica, senza
impuntature di principio ma con attenzione evangelica all'inquietudine delle
persone qualunque. Proprio per questo vien voglia di moltiplicare le domande
stesse, che sono le domande eterne o quelle contingenti dei laici che
s'interrogano sui problemi ultimi, sul senso della vita, sui rapporti fra
scienza e fede, sul dolore e sul Male. E su come inserire questi interrogativi
nelle complesse dinamiche della società in mutamento nella quale
viviamo. Dopo la crisi o la morte delle ideologie politiche, si avverte un
rinnovato interesse per la religione, magari anche solo per contrastarla. Sto
pensando a libri come quello di Odifreddi "Perché non possiamo essere
cristiani (e meno che mai cattolici)". Il capufficio stampa di un
grande editore confessa che basta mettere in copertina il nome di Gesù
per assicurarsi il successo di un libro. Da che cosa dipende? "La domanda
di senso, nel bene e nel male, è insita nel Dna dell'uomo. Però,
proprio per la caduta di molte sicurezze, riemerge oggi come uno dei fili che
attanagliano o liberano questo bisogno eterno che l'uomo si porta dentro: e
quando l'attanaglia rischia di diventare fondamentalismo, quando lo libera
cerca il dialogo (anche con le altre religioni) tentando di riportare in luce
la dimensione della fede come valore che appartiene all'umanità. La
dialettica fra fede e ragione che attraversa prepotentemente il dibattito di
questi tempi sottolinea due percorsi che non sono antitetici ma possono
incontrarsi, pur nei loro codici diversi. Poi però è vero che
c'è una letteratura che volutamente si contrappone, e dentro la quale ci
sono, spesso, concetti superati. E ci sono casi che la stampa monta e
amplifica, il che sta a indicare un conflitto fra religione istituzionalizzata
e mercato delle religioni, dove uno prende quel che più gli aggrada.
Comunque, per citare scherzando una battuta di Woody Allen, "Dio è
morto, Marx pure e anch'io non mi sento tanto bene"". Nel suo film
"Centochiodi" Olmi immagina come potrebbe essere Cristo se tornasse
fra noi, e lo vede non come "l'uomo del libro", ma come l'uomo
dell'amore per le persone, ribelle a una religiosità sclerotizzata.
"Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con gli amici".
"Dio non parla coi libri, che servono qualunque padrone".
"Sarà Dio a dover rendere conto di tutta la sofferenza del
mondo". Cosa pensa di queste frasi, inserite nel contesto del film, e di
questo Gesù? "Non ho ancora visto il film, ma mi pare che riporti a
galla domande antiche, come quelle del dialogo fra Alioscia e Ivan nei
"Fratelli Karamazov", secondo me un grande trattato di teologia dove
si sottolinea la tensione continua fra l'istituzione e l'intuizione. Che credo
sia una ricchezza, anche se la sintesi perfetta non la si troverà mai
fra queste due dimensioni che giocano in modo dialettico e vanno colte proprio
per la provocazione che lanciano. Ma è vero che la fede si trova di
più nelle persone, nei rapporti, nell'amore. Penso a Madre Teresa che
diceva di essere "la matita di Dio", penso all'Abbé Pierre, a tutti
coloro che sono stati e sono a contatto con le sofferenze del villaggio (oggi
villaggio globale). D'altra parte il libro vale anch'esso: se "I fratelli
Karamazov" continuano a parlarci è proprio perché il libro ci ha
trasmesso quel messaggio. Perciò non dobbiamo diventare tanto
iconoclasti da voler inchiodare ogni libro, perché ricadremmo in un'altra forma
di fondamentalismo: possiamo tuttavia lasciarci incantare da questa
provocazione, da questo Gesù che se venisse fra noi non abiterebbe il
tempio ma girerebbe in modo anonimo per le strade. Credo che Olmi abbia
rilanciato un'idea che ha sempre percorso la storia della Chiesa: da
Sant'Agostino a San Francesco a Santa Teresa d'Avila, a Giovanni Bosco e altri:
che secondo me sono le punte emergenti di grandi iceberg. Figure che danno
risposte convincenti alle domande che continuano ad attraversare l'inquietudine
del cuore umano". Cristo è stato anche un grande
rivoluzionario? "Più che rivoluzionario, direi che resta dentro la
legge, ma le dà un'interpretazione che supera la sclerosi
dell'istituzione". Oggi, più che nella rassegnazione del passato,
è molto sentito il dramma del "silenzio di Dio" nella
sofferenza, specie in quella provocata dal male di cui i lager sono
incancellabile icona. Primo Levi ha detto: "C'è Auschwitz, dunque
non può esserci Dio". "Certamente non ci è tolto il
turbamento della domanda, anche se altri testimoni dello Sterminio, come Elie
Wiesel, sostengono che proprio lì Dio c'è: con le vittime. La
risposta più convincente che ho è che quando l'uomo dimentica
Dio, allora Auschwitz è possibile. Non è Dio a permettere
Auschwitz, è chi cancella Dio che lo rende possibile. Come uomo di
Chiesa, comunque, non ho mai assunto il ruolo di colui che impone delle
verità in cui si deve credere, ma di un uomo che fa compagnia
all'inquietudine di un altro. Posso dire che credo nelle risposte della fede
all'interno di un percorso; non posso importi nulla, ma ti sono vicino nella
tua domanda. E nel tuo cammino sai che ti sono amico e compagno". Come mai
la Chiesa, specie quando parla ufficialmente, non perde occasione di
sottolineare ossessivamente le "colpe" variamente legate al sesso?
Perché tanto accanimento contro la procreazione assistita, la legge
sull'interruzione di gravidanza, i Dico, l'omosessualità, e molto meno
sull'ingiustizia, l'evasione fiscale, il costume mafioso? E perché soprattutto
in Italia, che fra i Paesi cattolici sembra essere diventata la terra di
"riconquista"? "Qui distinguerei. Forse oggi, più che un
discorso sul sesso (che invece è meno ossessivo di una volta), si fa un
discorso legato al tipo di rapporti che vengono a determinarsi all'interno
delle società, col rischio di minare la struttura della società
stessa. Vedrei quindi, da parte della Chiesa, un discorso più sociologico
che strettamente morale". "Ma perché la Chiesa non ammette il
contraccettivo, neppure in terre di Aids, perché in qualche modo obbliga
all'obiezione i medici e i politici cattolici, perché rifiuta i funerali
religiosi a Welby? Son cose difficili da mandar giù. "Concordo. Ma
si tratta di cercar di illuminare il guado che stiamo attraversando, di dare
dei punti di riferimento, di non oscurare un sistema di valori molto radicato.
Poi ci sono le domande concrete, a cui occorre essere vicini". Non si
tratta anche di prove di forza da parte della Chiesa per misurare il proprio
potere di contrattazione con lo Stato? "C'è questo rischio,
certo. Non sono tanto idealista da pensare che si tratti sempre di affermazioni
di principio. Quanto ai paesi cattolici, a parte la Francia già da
tempo fortemente laicizzata, c'è stato qualcosa di analogo al
Family Day in Spagna. Forse bisogna chiedersi perché in Italia si debba
arrivare allo scontro, ed è legittimo quello che lei dice, cioè
che l'Italia, che ha una tradizione di valori cattolici forti, è
davvero un territorio adatto alla "riconquista". Però io penso
che siano legittime tanto la manifestazione di piazza S. Giovanni quanto quella
di piazza Navona. Mi sento vicino a quel che diceva il cardinale Martini: ascoltiamo
le domande della gente senza venir meno ai valori che proponiamo, anche se sono
di minoranza. Certi valori, come l'indissolubilità del matrimonio, sono
ideali da proporre, da conquistare, non da cui partire. Accompagnando l'uomo,
come dicevo, nella complessità del suo cammino, senza giudicare. Ma
vorrei aggiungere qualcosa. A sentire i media, pare che la Chiesa sia solo
Ruini, Bagnasco, Bertone. Pensiamo invece anche al gruppo Abele, o ai tanti
altri che lottano ogni giorno a contatto di chi soffre. Quanto alle altre colpe
individuali e sociali, ricordo che i francescani, fin dal 1200, si sono
inseriti nei grandi laboratori delle città, per esempio pronunciandosi
contro l'usura". Si parla spesso delle "due Chiese": per
semplificare, quella di Martini e quella di Ruini. Non è che la
verità sia in divenire, che cambi? "No, la verità è
qualcosa verso cui camminare: è diverso. Ma dialettiche opposte ci sono
sempre state. Ad Antiochia c'è stata la Chiesa di Pietro e quella di
Paolo, quella più legata all'istituzione e quella più aperta a
nuovi orizzonti. In queste dialettiche è difficile fare una sintesi, per
cui lo stesso cristiano sceglie le posizioni che gli sono più vicine.
Però in questo momento siamo insabbiati in orizzonti bassi, e anche
polarizzare la dicotomia fra Martini e Ruini è volare basso, mentre si
dovrebbe ossigenare la contrapposizione in una visione più alta".
Scienza e religione sono spesso state vissute come due opposti, e lo sono
tuttora: ma è possibile un rapporto non conflittuale? "Sì,
nella misura in cui ognuna riconosce i propri codici, le proprie sfere
d'azione. Come diceva Galileo: "La Bibbia mi insegna come si fa ad andare
in cielo, non come funziona il cielo"".
Cara Europa, non condivido la decisione isolata di Cinzia Dato ma sono
anch’io con le valige in mano, soprattutto perché non capisco a chi guarda il
Pd per l’Italia: Prodi, Napolitano,Ratzinger, Montezemolo, Berlusconi? Quel
ch’è successo giovedì tra Roma, Firenze e Milano è
allucinante. IGNAZIO MONACO, TARANTO
Caro
Ignazio, cerca ancora di resistere nonostante le delusioni per i comportamenti
del futuro Pd a Taranto (elezioni amministrative di domani): del resto, hai
visto che le dimissioni di Cinzia Dato non hanno commosso nessuno nella
Margherita. Il problema che tu poni è serio per un partito, il Pd, che
si candida a partito dello Stato. Giovedì abbiamo visto l’inesistenza e
l’inconsistenza dello Stato, della politica e della nazione italiani. Mentre il
presidente della repubblica indicava a Firenze le politiche per i “cittadini”
(in famiglia o no), da Roma il papa gli replicava indicando la politica per i
“cattolici” (solo famiglia) e quel prete dalla faccia un po’ così che si
chiama Betori faceva cadere l’anatema anche sul testamento biologico, pronto a
risfoderare la spada di latta di Pezzotta.
Dunque, proponiamo alla repubblica di sostituire il suo bruttissimo stemma
ciclistico con l’aquila bicipite dell’Austria-Ungheria e della Santa Russia: un
sola corona per due teste. L’aquila bicipite s’addice anche al conflitto tecnocrazia-politica,
col marchese Montezemolo a capo degli ottimati che criticano, come piace anche
agli elettori, i politici: problema già risolto da Berlusconi (il
“più ottimo” degli ottimi) che ha unito popolo e ottimati, salvo far
nulla o granché per l’uno e per gli altri, salvo il regalo finale della
coscialunga Brambilla, pseudocandidata ottima per pubblicizzare calze
femminili. E infine aquila bicipite per elettori e tifosi, uniti dall’interesse
nazionale per la coppa dei campioni: altro che sette milioni di italiani in
povertà, aiuti alla famiglia, laicità dello stato, scuola e
università, giovani lavoro e casa, più reddito e meno tasse.
Come vedi, ci sono argomenti e spazio per polemiche a 360 gradi. Inutile
smarrirsi in battaglie solitarie e personali. Ricordati che quando Montanelli
volle dare un segnale agli inquieti come te, fondò un giornale, che era
un partito.
Bologna
Oltre 200 le prescrizioni fittizie di protesi per una spesa di 280mila euro.
Così veniva beffata l'Ausl Truffa sugli apparecchi acustici Chiesto il
rinvio a giudizio per 17 persone: 6 sono medici PAOLA CASCELLA Soldi
naturalmente, ma anche frigoriferi, borse, vacanze, e persino un posto di
lavoro per il marito disoccupato: in cambio della prescrizione di apparecchi
acustici che non servivano, alcune tra le ditte più importanti del
settore ringraziavano così gli otorini convenzionati con l'Usl, che si
dimostravano disposti ad attestare il falso. E pazienza se il macheggio si
traduceva in uno spreco di danaro pubblico, circa 280mila euro negli ultimi
anni, e in una truffa a tutti gli effeti al Servizio sanitario nazionale (235 i
casi scoperti, sempre nella totale inconsapevolezza dei pazienti). E' il quadro
emerso da un'indagine dei pm Antonella Scandellari e Antonello Gustapane e del
Nas dei Carabinieri, che ha portato alla richiesta di rinvio a giudizio per
truffa aggravata ai danni del Servizio sanitario nazionale, falso ideologico e corruzione
di 17 persone, tra dirigenti di società e medici. Le ditte finite
nell'inchiesta sono il "Centro acustico italiano",
"l'Emilfon", un paio di filiali dell'Amplifon, "l'Audifon e
Drusiani". Sei gli otorini coinvolti. Richiesta di rinvio a giudizio anche
per il marito di una dottoressa che redigeva i moduli di prescrizione di
protesi acustiche fittizi. E, secondo la Procura, una delle spie più
chiare della corruzione, sarebbe stata proprio l'assunzione dell'uomo da
parte di una delle ditte. Il meccanismo messo in piedi dalle società
fornitrici di ausili protesici e dai otorini convenzionati, secondo i pm era
molto accurato. L'otorino C. L, per esempio non si tirava indietro neanche se
c'era da prescrivere, naturalmente su ricettario del Ssn, una semplice
riparazione della protesi acustica ad una signora, che per altro non era stata
neppure visitata. L'operazione non veniva fatta, ma la ditta, in questo caso il
Centro acustico italiano, non disdegnava di intascare i 617 euro previsti
dall'Ausl. Stesso copione per la sostituzione del vecchio apparecchio (e il
successivo collaudo) ad un altro paziente. L'otorino prescrive, la ditta
fornisce la protesi, l'Ausl paga: 1200 euro, stavolta. Peccato che, soldi a
parte, (quelli sì sono veri), tutto sia solo sulla carta. Il paziente
non è mai stato neppure contattato. Era stata l'Azienda Usl stessa a
mettere in moto le indagini con una segnalazione del 2004. Infatti il sistema
di controlli periodici aveva fatto emergere picchi anomali nella fornitura di
apparecchi acustici, e il dato era stato segnalato alla Procura e al Nas dei
Carabinieri. Il meccanismo avrebbe avuto vari passaggi: la falsa certificazione
di esecuzione di esami audiometrici, visite specialistiche e operazioni di
collaudo mai eseguite, che così portavano alla liquidazione da parte
dell'Ausl dei costi delle protesi fornite dai centri acustici.
+ La Stampa 26-5-2007 Iraq, Bush pensa ad un taglio
delle truppe
Europa 26-5-2007 Perché Silvio l’ha presa così
male
Corriere delle Alpi 26-5-2007 I FINANZIAMENTI UE Solo
due mesi di tempo per presentare i progetti
ROMA - Famiglie italiane sempre più con il fiato corto: nella
seconda metà dello scorso anno il volume di assegni scoperti emessi dai
singoli cittadini è salito del 16,6 per cento a 365 milioni di euro, una
differenza di oltre cinquanta milioni di euro rispetto al periodo
giugno-dicembre 2005, quando l'importo complessivo era risultato pari a 313
milioni di euro. I dati si ricavano elaborando le cifre contenute nel
Supplemento al Bollettino Statistico della Banca d'Italia, dedicato al sistema
dei pagamenti.
Dal rapporto di via Nazionale, si evince che il maggior numero di assegni in
bianco è stato emesso dalle famiglie del Mezzogiorno: 65.318 di
'cheque', ben il 14,4% in più rispetto al secondo semestre 2005.
Pelosi all'attacco, il Presidente sarebbe
disposto ad ascoltare l'opposizione
WASHINGTON
L’amministrazione di George Bush valuta un taglio del 50 per cento entro il
giugno 2008 del numero dei militari americani di stanza in Iraq. Lo scrive il
quotidiano New York Times. Il piano secondo le fonti prevede una
riduzione del contingente Usa fino a 100mila unità.
Di conseguenza, l’offensiva anti-guerriglia lanciata nei mesi scorsi a Baghdad
e nella provincia di al-Anbar potrebbe cambiare caratteristiche in modo
significativo: ai soldati Usa si chiederebbe soltanto di addestrare i militari
iracheni e di liquidare le cellule terroristiche di Al Qaida.
Se le indiscrezioni del Times rispondono a realtà, si
chiarisce meglio il risultato del braccio di ferro durato mesi fra la Casa
Bianca repubblicana e il Congresso, a maggioranza democratica, che ha cercato
di legare la legge sul rifinanziamento della missione irachena alla promessa di
un ritiro delle truppe.
Bush ha posto più volte il veto alle leggi approvate in proposito da
Camera e Senato. Infine, il Congresso ha ceduto giovedì con
l’approvazione di una legge senza scadenze per il ritiro e proprio ieri sera
Bush ha firmato il provvedimento nella residenza presidenziale di Camp David,
ben 109 giorni dopo l’invio al Congresso di una richiesta di finanziamenti
’urgentì.
Dopo il passaggio parlamentare, però, la battagliera presidente
democratica della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, aveva detto di attendersi
un «chiarimento» della politica presidenziale. «È evidente che in
autunno ci muoveremo in una direzione differente», aveva commentato invece il
leader della minoranza repubblicana al Senato, Mitch McConnell. «Mi aspetto che
il presidente ci guidi». E La Casa Bianca starebbe prendendo in conto le
esigenze di maggioranza e opposizione.
All’orizzonte del resto ci sono le presidenziali del novembre 2008. Se i
numerosi candidati democratici protestano per l’«eredità Iraq», il
lascito è altrettanto scomodo da gestire per qualunque candidato vinca
le primarie repubblicane, e il partito insiste con Bush (che è al
secondo mandato e non può ricandidarsi) affinché apra una via d’uscita
dal «pantano iracheno».
Prodi l’ha presa male, se l’è legata al
dito, e Montezemolo sa che cosa questo significa con il presidente del
consiglio. Prima o poi gliela farà pagare. Comunque, in generale, anche
lasciando stare l’orgoglio di classe rifondarolo e la suscettibilità del
premier, la sortita di giovedì è caduta male nel centrosinistra.
Niente però in confronto a come l’ha presa male Berlusconi.
Che da l’altroieri ha disseminato ogni apparizione pubblica e commento privato
di battute acide verso il presidente di Confindustria. C’è ruggine da
tempo, si sapeva. Aver avuto i vertici imprenditoriali all’opposizione – sia
pure per poco e non tutti, ma con l’apporto dei loro giornali – è stata
un’offesa per l’ex presidente del consiglio. Il feeling montezemoliano con
Casini peggiora ora le cose. Ma questo non spiega una reazione così
acre.
Berlusconi ha bisogno di rivendicare che l’unica creatura legittimata a
rappresentare la koiné populistico-liberale è, appunto, Berlusconi
medesimo. A Prodi piacciono poco le critiche, ma s’è visto tante volte
in passato che invece il capo della destra solo una cosa davvero non sopporta:
le invasioni di campo.
La linea di confine fra politica e antipolitica: campo suo. Le partite Iva:
campo suo. La cultura assistenzialista della sinistra: campo suo. La sicurezza
dei cittadini: campo suo. Gli sprechi dello stato: campo suo.
Considerato che Montezemolo non è portatore fin qui di alcun progetto
politico alternativo (e non lo sarà: parola di Paolo Mieli), la reazione
di Berlusconi deve interessare il centrosinistra. Perché da un lato testimonia
della cattiva coscienza di un leader che sa di aver tradito le aspettative
della sua gente. E dall’altro illumina la strada da battere: facciamoci passare
presto il fastidio per le prediche dell’Auditorium, e costruiamo invece su
tutti quei temi – fondati e, come si vede, nervi scoperti dell’avversario – la
risposta democratica più rapida e incisiva.
Democratica, appunto.
Non speriamo di poter dire qualcosa di
particolarmente nuovo; del resto, già i nostri leader nazionali, Fausto
Raciti e Pina Picierno, hanno bene espresso tutto il disagio dei tanti ragazzi
e ragazze che militano nelle nostre organizzazioni e che scoprono che nel Comitato
Nazionale non c'è una persona che sia under 40. Abbiamo deciso dunque di
non soffocare la nostra delusione. La passione profusa da noi, dalle nostre
iscritte e dai nostri iscritti è stata intensa e determinata ai
congressi dei rispettivi partiti. Ci siamo detti, ed abbiamo sentito ripetere
tante volte, che il Pd dovrà essere il partito di chi nel 2010
avrà venti anni. Ci sorge, solo un dubbio amaro: ma se è questo
l'obiettivo, siamo sicuri che affidarlo in esclusiva a chi aveva già
più di 20 anni nel 1990 sia il modo migliore per raggiungere questo
obiettivo? È il tanto auspicato rinnovamento che noi tutti vogliamo?
È chiaro che è grande la fatica nel cambiare, ma è
così ripida è la salita su cui stiamo camminando da impedirci di
trovare, su quarantacinque nomi, almeno uno rappresentativo del mondo dei
giovani, di coloro i quali hanno fatto la differenza alle ultime elezioni
politiche e di avere anche un po' di dinamismo giovanile? Appare chiaro anche a
noi che cambiare non è mai facile; costruire un "Partito Nuovo"
lo è ancora di meno. Ci aspettiamo che sul territorio si segua una
logica diversa. Se è vero che il Partito Nuovo ha un senso soprattutto
per chi non ha vissuto le divisioni del passato, sarebbe grottesco (e,
soprattutto, fortemente nocivo per il conseguimento del risultato finale) se
quanto detto finora non trovasse applicazione nella realtà. Se, poi, il
riformismo è la capacità di saper dialogare al fine di poter
realizzare e condividere le proprie convinzioni e se fra queste c'è
anche la necessità del rinnovamento, non possiamo non chiederci quanto
sia veramente riformista il criterio che è stato adottato, aspetteremo
di capirlo quando noi tutti voteremo la Costituente del Partito Democratico.
Salvatore Dore, Stefan Cok Giovani della Margherita e Sinistra Giovanile La
crisi della politica? Ascoltiamo Reichlin e Don Ciotti Cara Unità,
Massimo d'Alema lo ha detto a chiare lettere, dalle colonne del "Corriere
della sera"; "È in atto una crisi della
credibilitàdella politica che tornerà a travolgere i l paese con
sentimenti come quelli che negli anni '90 segnarono la fine della prima
repubblica". Così inizia l'articolo di Roberto Cotroneo
sull'Unità qualeche giorno fa. Alfredo Reichlin al Congresso della
Sinistra giovanile aveva fatto in un intervento una affermazione ancora
più dura e pesante. "La classe dirigente di questo paese è
praticamente scomparsa, è di una qualità infima, e non soltanto
guarda con gli occhi del passato... A me sembra sempre più il tema centrale
della riforma della politica". Eppure nessuno ne ha riferito, nemmeno
succintamente. E don Ciotti a Locri il 4 novembre "...Per dire ai giovani
che siete grandi, ma proprio grandi; ma state attenti, state attenti, io sono
stanco di sentire come anche in questi giorni è stato detto, che voi siete
il nostro futuro, Voi siete il nostro presente. O oggi si creano le condizioni
per un sano vostro protagonismo e per creare i percorsi di reale
partecipazione, o ci prendiamo in giro tutti! Ecco io credo che il discorsi di
Reichlin e di don Ciotti a Locri debbano essere pubblicati integralmente
dall'Unità... altrimenti poi dobbiamo inseguire gli argomenti di Bruno
Vespa. Francesco Spinelli Troppe manipolazioni: etica e informazione...
vogliamo parlarne? Cara Unità, etica e politica, è l'argomento
sui cui si stanno scatenando i nostri opinionisti. E di etica e informazione
nessuno parla? La berluscanizzazione di questo paese che ha contagiato non solo
le istituzioni ma anche la società civile la si deve prima di tutto alla
totale perdita di rigore morale dei giornalisti, non tutti naturalmente, che,
con la loro libido dello scandalo, nel migliore dei casi assumono posizioni di
perbenismo complice di fronte alle mascalzonate poniamo di Belpietro o di Guzzanti
o di Farina (già che fine ha fatto quel gentiluomo?) e nel peggiore le
mascalzonate le compiono sul serio facendo un uso politico della calunnia, che
rimbalza su tutti i giornali anche quando si tratta di un avvenimento lontano e
già chiarito (cfr. Visco). Tutti riferiscono "scrupolosamente"
il "fatto" invece di smontarlo con sdegno, se è solo un chiaro
siluro contro un uomo politico, chiunque esso sia. Poi, naturalmente, tutto si
sgonfia, ma intanto rimane il torbido, e rimane il senso di nausea dei
cittadini per la classe politica. I signori dell'informazione sono molto peggio
dei politici e non ne hanno il sospetto. Milli Martinelli Due parole a Rosy
Bindi a proposito di famiglia e Costituzione Cara Unità, l'Art. 29.
della Costituzione non è poi così lungo, e anche se mi rivolgo ad
una rubrica di lettere ad un giornale, credo si possa citare per intero.
È composto di soli due commi, due frasi, le seguenti: "La
Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale
fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull'eguaglianza morale
e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia
dell'unità familiare". Ebbene, il ministro Rosy Bindi, cui tanti
meriti e tanto equilibrio viene riconosciuto, a Firenze, ha parlato di
"famiglia disegnata dalla Costituzione". Pensiero che in tutta
evidenza presuppone: finché la Costituzione è questa (e il Popolo
sovrano ha per nostra fortuna da poco detto che questa deve rimanere) la
famiglia è quella disegnata dalla Costituzione. Posso esprimere il mio
dissenso? Posso sostenere che la Costituzione non disegna (per giunta una volta
per tutte), nessuna famiglia, ma semmai "riconosce i diritti" di
qualcosa, che da secoli evolve nelle sue forme, e che appunto richiede che
siano leggi ordinarie, a stabilirne di volta in volta i limiti? Possibile che
questa banalissima realtà debba sottostare alle "voglie" di
una gerarchia, che in nessun caso ha titolo per metterci becco; anche avendo ed
esercitando ampiamente il diritto di dire la propria, non certo quello di
condizionare il Parlamento Italiano? Vittorio Melandri, Piacenza Montezemolo:
ancora una "discesa in campo"? Mi ricorda qualcosa... Cara
Unità, leggendo le cronache della "discesa in campo" di
Montezemolo mi confortavo da solo, pensando: "ma chi può pensare
che questo personaggio rappresenti davvero novità e cambiamento, con
tutti i soldi che la collettività da anni investe per salvare le sue
aziende, con sovvenzioni, cassa integrazione, incentivi, ecc.?". Poi mi
sono ricordato che le medesime cose le pensavo 13 anni fa, all'epoca di ben altra
discesa in campo. E mi sono preoccupato. Perché temo che la voglia di
cambiamento sincera che viene dalla società italiana venga ancora una
volta convogliata verso tutt'altri obiettivi. Alberto Antonetti, Roma.
Sul tema “gli sprechi della politica” è cominciata la crociata
tecno-populista contro la politica. Io sono per gli sprechi. Da tempo chiunque
si occupi di scienza della politica sa che la democrazia, con le sue
istituzioni dal basso, con i partiti, con i sindacati quasi obbligatori, con le
elezioni, è il regime più costoso che esista. E, nonostante
quello che ha scritto il grande sociologo Weber, è il regime degli
“incompetenti” e cioè dei politici. Mi ritorna alla mente quel che
diceva Winston Churchill, cui la libertà deve molto meno che a un
competente della City: «Mi si deve spiegare perché sia una professione
amministrare dei condomini e non governare un Impero!» E lui si vantava di
nulla capire né di economia né di finanza. Io sono per la democrazia, anche a
costo degli sprechi. E io ho rinunciato a tutti i “privilegi” che le normative
del Quirinale, non essendovi in Italia come negli altri Paesi, una legge al
riguardo, assegnano agli ex-capi dello Stato. E avevo rinunciato anche alla
scorta, ma mi hanno dimostrato che qui la legge c’è, e me l’hanno
prescritta. Tra i senatori ho uno dei più bassi redditi. Ma io sono per
le comunità montane, per le circoscrizioni, per le province e per tutto
ciò che significa partecipazione popolare, anche se non... azionaria.
Sono perché tutte le cariche pubbliche siano retribuite. Non arrivo a sostenere
che il capo dello Stato debba essere retribuito come il presidente di una
banca, o che il sindaco di Roma debba avere la retribuzione del direttore della
filiale romana di una cassa di risparmio.
Purtroppo ha cominciato, certo per delicatezza morale, il presidente della
Repubblica, censurando praticamente quegli “spendaccioni” dei suoi
predecessori, da Einaudi in poi… Ma di questo parlerò un’altra volta. E
ora lo segue il presidente del Senato. E pensare che io accettai la richiesta
del governo Craxi di accettare una diminuzione del trenta per cento della
indennità presidenziale e Scalfaro rinunziò all’esenzione fiscale
che è applicata per tutti i capi dello Stato del mondo. E Ciampi non si
fece applicare gli aumenti previsti dalla legge. Scialacquatori. Ma perché non
agevolare le piccole e medie industrie riducendo a cinque i ministri, a trenta
i deputati e a quindici i senatori? E le elezioni teniamole ogni dieci-quindici
anni: che sprechi si eviterebbero. E poi, facciamo fare gli esami per ammettere
i candidati a qualunque tipo di elezioni, salvo che non abbiano un certo
reddito. Ché non si ripeta lo scandalo della Gran Bretagna dove uno scaricatore
del porto come il sindacalista Bevin divenne addirittura ministro degli Esteri.
E ora parte la magistratura, sentendo il vento che spira anche dal Colle, e
comincerà a inquisire i politici spendaccioni. Comunque io tra la parca
tecno o plutocrazia e la democrazia spendacciona, preferisco sempre la
democrazia.
La Cgil contro il Forum delle sinistre:
"Proclami elettorali" Il segretario della Funzione Pubblica:
"Abbiamo imboccato la strada del confronto" GIUSEPPE FILETTO Uno
SCONTRO inatteso e quasi imbarazzante, che avviene a mezzo di comunicati stampa
ed a meno di 24 ore dal voto. Con un documento a sorpresa ieri la Cgil-Funzione
Pubblica ha preso le distanze dal Forum delle Sinistre, dai sei consiglieri
regionali di Rifondazione, Pdci e Unione a Sinistra che il giorno prima da una
parte avevano chiesto alla giunta regionale un'inchiesta sull'ospedale San
Martino, dall'altra di stoppare la nascente Agenzia Regionale della
Sanità. "L'iniziativa dei consiglieri regionali, fatta in questo
momento, ha il chiaro sapore pre-elettorale", scrive Eugenio Leri,
segretario della Funzione Pubblica-Cgil di Genova. Uno strappo pesante, quello
di ieri, tutto interno alla sinistra, tanto che la risposta (anzi, le risposte)
non si è fatta attendere. "è quantomeno stravagante il
comportamento della Cgil - sentenzia però Tirreno Bianchi, capogruppo
dei Comunisti Italiani in Regione - prima denunciano, presentano atti e
documenti, poi si tirano indietro e non si rendono responsabili di quanto
detto". Lo scorso novembre una delegazione di operatori sanitari del San
Martino, capeggiata dai sindacalisti della Cgil, aveva chiesto un'audizione
alla Terza Commissione Sanità. "Con tanto di denunce ai
carabinieri, finora mai confutate da nessuno - precisa Marco Nesci di
Rifondazione - ci hanno descritto una situazione disastrosa. Ciò che
valeva ieri, vale ancora oggi: è tutto registrato". I consiglieri
di Via Fieschi partono da questo per chiedere al presidente Claudio Burlando e
all'assessore alla Sanità, Claudio Montaldo, "una svolta nella politica
sanitaria". "L'Agenzia Regionale della Sanità non è una
priorità, così come si sta delineando rischia di sovrapporsi al sistema
sanitario esistente e dunque chiediamo di bloccare la nomina del
direttore generale, individuato in Franco Bonanini, attuale direttore generale
della Asl savonese", dicono i rappresentanti del Forum. Criticano la
scelta del direttore dell'Agenzia, "avvenuta senza consultare la
maggioranza, ma decisa tra Ds e Margherita". Montaldo da parte sua fa
sapere che la creazione dell'organismo non si può fermare: "Per il
buon funzionamento della sanità pubblica". L'iniziativa di Franco
Bonello (Unione a Sinistra), Nesci, Bianchi e degli altri svela però
"il grave problema politico" all'interno del centrosinistra, tanto
che giovedì prossimo dovrebbe esserci un incontro di verifica. "Ma
riprendere oggi le denunce di sei mesi fa, dopo che la commissione (della quale
fanno parte tanti di questi consiglieri) non ha prodotto alcun risultato,
appare quantomeno strumentale, è un passaggio di chiara campagna
elettorale - dice Leri - . Nel frattempo, noi abbiamo imboccato un'altra
strada: il confronto con la direzione ospedaliera". Il sindacato
più rappresentato al "San Martino" considera quegli esposti
pressoché superati, scegliendo invece la via della concertazione.
INCHIESTA Quei milioni dello Stato alla
raffineria di Moratti Sul mare di Sarroch,
I
regali dello Stato ai Moratti 200 milioni alla loro raffineria Ogni
posto in più è costato fino a un milione di euro gli aiuti alle
imprese Ecco come sono finiti i tre contratti di programmi concessi alla Saras
L'insuccesso dei progetti alternativi in ricerca, biotecnologia, informatica
investimenti La società realizza complessivamente investimenti nel suo
core business per 508 milioni di euro per i quali riceve dalla mano pubblica
197 milioni altre attività Nelle attività collaterali (che non
sarebbero mai nate senza gli aiuti), si investono 83,8 milioni e si ricevono
58,2 come agevolazioni. Spesa netta: 25,6 milioni (SEGUE DALLA PRIMA P
Il
gruppo: i posti creati durano tuttora "Tutto concordato e alla luce del
sole" la difesa La Saras risponde così all'inchiesta di Repubblica:
"La società ha utilizzato in modo trasparente i soldi dello Stato,
usufruendo di uno strumento per incentivare gli investimenti e creare nuovi
posti di lavoro. E parecchi. A Macchiareddu non c'era nulla. Ora ci sono
centinaia di persone che lavorano. Il Contratto di programma ammette che un
grande gruppo riceva finanziamenti da indirizzare su un suo asset, come la
raffineria, e in cambio crei nuova occupazione in altri settori. I contratti
poi sono minuziosamente codificati e la Saras li ha sempre rispettati alla
lettera. Per questo motivo il gruppo dei Moratti è riuscito ad
averne ben tre. Del resto il primo contratto si è chiuso bene e da poco
è arrivato in Saras un parere positivo per il secondo Cdp, che lascia
presagire un'altra chiusura favorevole. Le variazioni subite dai contratti sono
state concordate con lo Stato e a fronte di alcune revisioni sono state fatte
le corrispondenti rinunce alle agevolazioni. In ogni caso i posti di lavoro
creati durano tuttora, a dimostrazione del fatto che la scelta di finanziare i
grandi gruppi è stata cruciale. Solo gruppi come Saras sono in grado di
ricapitalizzare le start up, sostenere le perdite e mantenerle in vita fino al
loro consolidamento. La spesa massima per occupato poi è stabilita per
legge. Esistono parametri europei che variano a seconda della regione
geografica. Insomma pesa il "cosa fai" e "dove lo
fai"".
Due magistrati avrebbero
acquisito documenti che ne dimostrano l'esistenza. Ne ha parlato anche l'ex
capo dell'intelligence di Parigi STRUMENTI
PARIGI -
Jacques Chirac avrebbe un conto segreto in Giappone su cui sono stati
depositati nel corso degli anni oltre 45 milioni di euro. Due magistrati
francesi, Jean-Marie d'Huy et Henri Pons avrebbero acquisito documenti
giudicati «esplosivi» che dimostrerebbero l'esistenza del tesoro. I giudici
sarebbero in possesso di rendiconti bancari e di alcune note firmate dall'ex
capo dell'intelligence francese, Gen Rondot, carte che non era possibile
consultare fino a quando Chirac è stato presidente in carica.
TRE DOSSIER - La notizia della possibile esistenza del conto segreto
è stata diffusa dal settimanale satirico francese Le Canard Enchaîné:
i dossier che riguardano Chirac in mano ai magistrati sono tre e s'intitolano
«Japanese Affair», «Affair of PR1» a «Affair of PR2». A parlarne la prima volta
sarebbe stato proprio Gen Rondot, a marzo dello scorso anno durante un
interrogatorio: secondo il generale alcuni agenti segreti avrebbero scoperto
per caso questo conto alla Tokyo Sowa Bank nel 1996 mentre stavano investigando
sulle credenziali finanziarie di un uomo d'affari giapponese amico di Chirac
che voleva fare degli investimenti in Francia.
ACCUSE RITIRATE - Secca la smentita dell'entourage dell'ex presidente:
«Chirac non ha mai posseduto conti esteri in Giappone». Secondo le agenzie
d'informazione francesi l'ex presidente francese potrebbe essere ascoltato dai
due magistrati il 17 giugno: il giorno prima scadrà la sua
immunità presidenziale, esattamente un mese dopo che ha lasciato
l'incarico all'Eliseo. Nell'ultimo interrogatorio, martedi scorso, il generale
Rondot avrebbe parlato con i giudici per oltre 9 ore. Nel corso della deposizione
avrebbe ritirato le accuse nei confronti di Chirac, ma secondo quanto riferito
a Le Canard Enchaîné da un anonimo giudice vicino ai due magistrati che
stanno seguendo il caso «i dossier avrebbero persuaso i giudici dell'esistenza
di questo conto segreto di Chirac».
VERIFICA - Ora dunque bisognerà aspettare che i documenti siano
verificati e poi i giudici potranno procedere: «Se le accuse fossero
confermate, c'è abbastanza materiale per incriminare l'ex presidente di
corruzione e di abuso d'ufficio» continua il giudice anonimo intervistato dal
settimanale satirico. L'indagine cercherà di fare luce su chi ha offerto
queste somme di denaro all'ex presidente e per quale motivo questi soldi siano
stati versati su un conto giapponese.
VENEZIA.
Sarà l'estate decisiva per il Corridoio 5, che in mancanza di decisioni
rischia di passare nel già corposo elenco delle incompiute.
L'accelerazione è venuta dal voto dell'altro ieri dell'Europarlamento, che
ha approvato la ripartizione dei finanziamenti delle reti di trasporto
continentali: 8 miliardi di euro per una rete che richiede investimenti
complessivi sui 600 miliardi. A questo punto si mettono in moto di fatto le
gare di appalto: i singoli governi nazionali hanno due mesi per presentare
progetti e domande di co-finanziamento; poi si passerà all'assegnazione
dei fondi (30% la quota Ue per quelli transfrontalieri); infine, quelli
in ritardo di realizzazione verranno cancellati dopo quattro anni. Siamo sul
filo, avverte Paolo Costa, veneziano, presidente della commissione
trasporti dell'Europarlamento, che parla di un vero e proprio meccanismo
tritacarne europeo: "Sulla base dei criteri prioritari di accettazione,
per quanto ci riguarda rientrano la Lione-Torino, il Brennero e la
Trieste-Divaccia; ma perché la Ue accolga i progetti, bisogna dimostrare
che entro il 2020 si faranno anche le relative tratte interne, mentre nella
finanziaria rientra solo la Torino-Napoli. Quindi già nel prossimo Dpef
bisognerà inserire la Milano-Trieste, la Milano-Genova e la
Napoli-Palermo. E occorre anche decidere cosa fare per le tratte per cui sono
state revocate le concessioni, inclusa la parte a Nordest tra Milano e
Padova". Per non parlare poi della linea tra Mestre, Trieste e Divaccia,
dove non c'è progetto del tutto. A ottobre la resa dei conti.
CHIESA
FIRENZE
È contenta Rosy Bindi. Giovedì ha incassato l'apprezzamento del
cardinale Ennio Antonelli, arcivescovo di Firenze, ieri ha portato a casa
l'articolata apertura di monsignor Angelo Bagnasco, presidente della Cei.
Chiudendo l'assemblea dei vescovi, Bagnasco ha detto un paio di cose
fondamentali. Primo, i diritti individuali non si toccano. Secondo, il
"desiderio di trovare elementi di convergenza e di incontro" fra
laici e cattolici già espresso anche dal presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. Il dialogo, insomma, è riaperto. La
conferenza sulla famiglia, in attesa del gran finale di stamattina con Romano
Prodi intervistato da una decina di nuclei familiari comuni, elabora proposte a
spron battuto. Con alcuni minimi comuni denominatori: soldi, incentivi, lavoro.
Su questo sono tutti d'accordo.Rosy Bindi vorrebbe mettere le mani sul
"tesoretto" e lo rivendica in modo esplicito. Il segno del successo
vero, però, sta nelle notizie in arrivo da Roma. Monsignor Angelo
Bagnasco ribadisce con forza le proprie posizioni e con altrettanta chiarezza
apre le porte a soluzioni laiche. Risponde al presidente della Repubblica
Napolitano: "Ci unisce la grande passione per il bene comune del Paese e
della gente". "Il valore cui ci riferiamo - dice ancora - è
quello della famiglia fondata sul matrimonio. Altrettanto chiaramente crediamo
e vogliamo promuovere, là dove ci sono, veri diritti e indirizzi a cui
venire incontro. Penso che questo sia volontà comune a tutti". Via
libera ai Dico da parte della Chiesa cattolica? Neanche per sogno. La soluzione
alla quale pensano i vescovi, già rappresentata in questi mesi, è
quella del diritto privato, dove le esigenze dei singoli sono già
affrontate.
"Dopo
la cessione delle azioni Antonveneta, la Banca Popolare Italiana si
collocava tra le aziende di credito più liquide del sistema, senza alcun
bisogno di rinforzi patrimoniali e la promozione di un'operazione sul capitale
di quella portata, soprattutto in quel momento, non poteva che creare i
presupposti per una successiva operazione di vendita o di aggregazione, a
seconda dei casi e delle parti coinvolte".Parola di Gianpiero Fiorani.
L'ex amministratore delegato della Banca Popolare lo ha scritto in una
lettera, datata 23 maggio, e indirizzata a chi lo ha sostituito alla guida
della banca, Divo Gronchi.La lettera, che in questi giorni sta circolando
anche nei corridoi della Popolare, sorprende per i suoi contenuti. Fiorani,
infatti, contrattacca e punta il dito: l'aumento di capitale sarebbe avvenuto
"con il terreno fertile che molti hanno sfruttato". E sempre l'ex
amministratore delegato denuncia, a tale proposito, "speculazioni senza
precedenti sul titolo "Lodi-Italiana", sia direttamente, sia
attraverso strumenti derivati e con quantitativi enormi di titoli acquistati,
in pendenza dell'aumento di capitale, da mani ignote. Sarebbe interessante conoscere
chi ha beneficiato di queste plusvalenze, soprattutto grazie ad un'operazione
di aumento finalizzata a restare autonomi e alla quasi contestuale, ma
inusuale, ricerca di un partner, offrendo così il "destro" per
speculazioni da parte di traders e segnando, nei fatti, la fine dell'autonomia
dell'Istituto".Fiorani si appella a tale proposito alla magistratura,
scrivendo all'attuale amministratore delegato che "la speculazione ha
riguardato quantitativi "enormi" di azioni della Banca
Popolare Italiana. Basti pensare alla quota di capitale che è transitata
in mani sconosciute e che è possibile ricostruire attraverso l'analisi
dei dati (volumi e prezzi) relativi a quel periodo. Penso che la Magistratura
saprà intervenire con la consueta solerzia nell'approfondire sia le
responsabilità che i fatti accaduti".Un riferimento, nella lunga
lettera, è fatto anche all'avvenuta, recente fusione. Secondo Fiorani
"si tratta più o meno dell'operazione che noi avevamo a suo tempo
pensato per Antonveneta, solo con meno esborso in contanti e,
comprensibilmente, con ruoli ribaltati. Senza retorica, penso sia, fra le
Banche Popolari, quella che meglio si prestasse ad un'operazione industriale di
così vaste dimensioni, oltre che quella meglio condotta, sia sotto il profilo
manageriale ed umano, che di "governance", grazie alla statura dei
suoi massimi esponenti. Sono altresì convinto che sia quella che
saprà, meglio di altre soluzioni, salvaguardare quel territorio che a
tanti, tra cui il sottoscritto, è sempre stato molto caro, oltre che
valorizzare quelle straordinarie risorse professionali di cui è sempre
stata dotata la Banca Popolare Italiana".Fiorani ricorda a Gronchi
gli anni nei quali tra i due erano intercorsi rapporti professionali nel
settore delle banche popolari: "Nel passato ho avuto con Lei numerosi
incontri professionali e svariate intese sulla gestione di partecipazioni
comuni. Le ricordo, solo come accenno, i suoi interventi a sostegno della Banca
Popolare di Lodi per arginare l'allora atteggiamento ritenuto da più
parti di "ingerenza", così sembrava, della Banca
Popolare di Verona nelle società consortili partecipate da altre Banche
Popolari. Il fine era di realizzare, per alcune di queste, un accordo di
Governance che includesse il nostro Istituto. Ma Le ricordo anche altre
iniziative sulle quali abbiamo collaborato, con l'ausilio di consulenti e
uomini di fiducia, capaci di condurre a buon fine il mandato ricevuto, con
estrema riservatezza e professionalità".A tale proposito Fiorani
ribadisce la sua disponibilità a voler chiudere la partita con la Banca
Popolare Italiana: "Non mi spiego un accanimento del genere e più
ancora - scrive sempre a Gronchi - non mi dò ragione del silenzio e
della indisponibilità dei Suoi legali a voler accettare un serio e
sereno confronto sulle eventuali ragioni di credito nei miei confronti da parte
dell'Istituto da Lei guidato". E aggiunge di non ritrovare
"motivazioni plausibili nel rifiuto dell'atteggiamento da me più
volte proposto di sedersi attorno ad un tavolo per discutere, secondo una
prassi consolidata di un collegio arbitrale, sul merito delle richieste e sulla
loro fondatezza, fermo restando le ragioni di ciascuno".L'ex banchiere
lodigiano sembra intenzionato a levarsi più di un sassolino dalla
scarpa, e lo fa con il suo vecchio piglio. Non esita, infatti a ricordare allo
stesso Gronchi le assicurazioni date da quest'ultimo circa la volontà di
mantenere autonoma la Popolare: "Quando Lei ha assunto le redini della
"Lodi" - scrive Fiorani a Gronchi - si impegnò pubblicamente a
difendere le sorti dell'istituto, travolto da un'ondata mediatica senza
precedenti e per ragioni che, finalmente, a distanza di un anno e mezzo,
emergono in tutta la loro strumentalità. Dichiarò pubblicamente e
dinanzi a tutto il personale oltre che alla base sociale ed ai media, che
avrebbe continuato nell'azione di consolidamento organizzativo dell'Istituto e
che avrebbe promosso un aumento di capitale, come poi è avvenuto, per
continuare nel cammino intrapreso per conferire stabilità all'Istituto".Questo
improvviso dietrofront compiuto dall'attuale consiglio d'amministrazione della Banca
Popolare è stato più volte sottolineato, sia dalla stampa che
dagli stessi soci. E i vertici della Popolare hanno sempre risposto citando le
pressioni ricevute dalla Banca d'Italia affinché si addivenisse a
tempi brevi a una fusione.Quella stessa Banca d'Italia che mesi
addietro non aveva avuto nulla da che dire sulle dichiarazioni di autonomia
sbandierate ripetutamente dall'attuale consiglio d'amministrazione.
Il Corriere della sera 25-5-2007 Editoriale La nuova borghesia di Dario Di Vico
Il Riformista 25-5-2007 Il problema è la
debolezza della politica, non i costi di Claudia Mancina
L’Unità 25-5-2007 Famiglia, Rosy Bindi:
Seguiremo la Costituzione
La Stampa 25-5-2007
"Non saranno le bombe di Bush a portare libertà a
Teheran" CLAUDIO GALLO
Puntoinformatico 25-5-2007 USA, il Congresso verso il via libera a certi
spyware
IL PRESIDENTE USA
ANNUNCIA: TEMO UN AGOSTO DI SANGUE
NEW YORK
Alla fine, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush ha ottenuto quello
che voleva: una legge di spesa del Congresso per finanziare le operazioni
militari in Iraq, senza alcuna data di scadenza per il ritiro. E così
è stato. La Camera dei Rappresentanti Usa ha approvato la legge con 280
voti favorevoli e 142 contrari. L’iter prevede il passaggio al Senato, che
potrebbe votare stanotte. Una vera e propria vittoria per la Casa Bianca, che
ha posto fine al braccio di ferro durato mesi tra la maggioranza democratica e
l’amministrazione Bush.
Pelosi: "Il dibattito continua"
A denti stretti, il presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi si
è limitata a promettere che «questo dibattito continuerà ad andare
avanti». Eppure quella dei democratici è stata una vera e propria resa,
costretta dal diritto di veto che il presidente Bush ha minacciato più
volte di esercitare e che ha di fatto esercitato lo scorso primo maggio.
Nancy Pelosi e colleghi si sono dovuti insomma piegare alla volontà di
Bush; e segnali evidenti della loro decisione di fare dietrofront rispetto agli
obiettivi su cui fino a qualche mese fa non avevano battuto ciglio sono
arrivati tre giorni fa, lo scorso 22 maggio, quando i democratici hanno deciso
di cancellare la richiesta di un ritiro delle truppe americane entro il 2008.
È stata proprio la fissazione di una data per il ritiro delle truppe
americane dall’Iraq il pomo della discordia tra la Casa Bianca e la maggioranza
democratica, con un braccio di ferro che è durato appunto mesi.
Bush: battuta l'iniziativa dei democratici
Già prima della notizia dell’esito del voto, Bush cantava vittoria. Nel
corso di una conferenza stampa con i giornalisti che si è tenuta nel
Giardino delle Rose della Casa Bianca, il presidente si era mostrato sicuro di
aver avuto la meglio sui democratici. «Oggi la Camera dei Rappresentanti
voterà una legge di spesa per finanziare le operazioni militari
dall’Iraq nella quale non si fa alcun riferimento a un calendario fittizio per
il ritiro delle nostre truppe e dal quale sono state cancellate voci di spesa
inutili. Erano posizioni che alcuni democratici volevano a tutti i costi». E
tutto è andato quasi secondo copione, con una più o meno visibile
frustrazione da parte della maggioranza democratica.
Roma
Di casata in casata: il Policlinico di Tor
Vergata ha al suo interno un feudo, quello di medicina e chirurgia, dove si va
avanti non solo di padre in figlio ma anche per parentele trasversali. E tra le
dinastie accademiche romane ci sono quelle che da decenni hanno un potere
indiscusso e quelle piщ recenti, fatto sta che il risultato и
sempre lo stesso: le cattedre si moltiplicano per gli esponenti della stessa
famiglia.
Prendi ad esempio Patrizio Bollero
professore associato di odontoiatria figlio di Enrico Bollero direttore
generale del policlinico Tor Vergata e Alessandro Dolci professore associato di
odontoiatria, figlio di Giovanni Dolci, professore ordinario, docente di
Clinica odontoiatrica e potente direttore del Dipartimento in Scienze
odontostomatologiche alla Sapienza.
Solo qualche anno prima, quando i due
rampolli stavano per diventare ricercatori, le loro strade si sono incrociate:
al regolare concorso con due soli posti disponibili l’altro vincitore insieme
ad Alessandro Dolci era proprio Patrizio Bollero.
Rimanendo nello stesso corso di laurea si
trova Valerio Cervelli professore associato di chirurgia, primario al
policlinico Casilino, nipote del professor Carlo Alberto Casciani, professore
ordinario di chirurgia.
Carriera lґha fatta anche Anna
Micaela Ciarrapico, figlia di Giuseppe Ciarrapico e moglie di Giovanni
Simonetti professore ordinario di Radiologia. Laureata in economia, master alla
London School of Economics, dopo una lunga esperienza da ricercatore a
Campobasso, и diventata prima professore associato e poi ordinaria alla
facoltа di medicina: forma i manager della sanitа.
E torniamo alle discendenze dirette:
Raffaella Docimo, da ricercatore a professore ordinario di odontoiatria in tre
anni: figlia di Rocco Docimo presidente dei chirurghi italiani e moglie di
Luigi Chiariello professore ordinario di cardiochirurgia a Tor Vergata.
Cambiando dipartimento sґincontra la
famiglia Di Girolamo: Alberto Di Girolamo professore ordinario a otorinolarigoiatria
ha a Tor Vergata due figli, uno con lui, Stefano Di Girolamo, professore
associato a otorinolaringoiatria, e lґaltro ricercatore ad odontoiatria
Michele Di Girolamo.
E ancora un "figlio di", Massimo
Federici professore associato di medicina interna figlio di Giogio Federici,
professore ordinario di Biochimica.
Per non parlare di Enrico Finazzi
Agrт professore associato di urologia figlio di Alessandro Finazzi
Agrт, ordinario di Biochimica e rettore dellґuniversitа di
Tor Vergata.
Nessuno mette in dubbio che, pur con
parenti eccellenti, i rampolli si siano fatti strada da soli. Il dubbio di
nepotismo forse puт sorgere quando padre e figlio sono proprio nella
stessa cattedra come nel caso di Giovanni Fraiese ricercatore presso la
cattedra di endocrinologia, figlio di Gaetano Fraiese professor ordinario di
endocrinologia. Poi cґи il caso di Francesco Garaci, ricercatore a
Radiologia, figlio di Enrico, professore ordinario di Microbiologia e
presidente dellґIstituto Superiore di Sanitа.
La parentela stretta, quella tra padre e
figlio nello stesso dipartimento, in questo caso Medicina Interna, viene a
galla con Davide Lauro professore ordinario a Endocrinologia, figlio di Renato
professor ordinario di Medicina Interna e preside della facoltа di
medicina. E ancora Giovanni Leonardis, professore ordinario di Anestesiologia,
ha accanto a lui i due suoi rampolli Carlo Leonardis, ricercatore di Chirurgia,
e Francesca Leonardis, ricercatrice di Chirurgia.
Si puт continuare con Steven
Nisticт, ricercatore in Medicina interna, figlio di Giuseppe
Nisticт, professore ordinario di farmacologia. Chiude la classifica
Chiara Pistoiese, ricercatore in radiologia, figlia di Raimondo Pistolese
professor ordinario di chirurgia vascolare
Cara
Europa, anni fa uno scienziato calcolò la ricchezza di Parigi sulla base
dei rifiuti. Se questo scienziato verrà a Napoli, si accorgerà
che Napoli è la città più ricca del mondo. Vorrei poi
ricordare a chi di dovere che Napoli fu culla dell’Illuminismo, dei primi moti
risorgimentali, e che c’è sempre un Masaniello di turno che, salito su
un cumulo di tonnellate di spazzatura, trascinerà un popolo stanco,
avvilito, ma sdegnato. Sempreché non apparirà prima il vibrione.
NICOLA GALLUCCIO, SCAFATI (SA)
Caro
professore, sono molto arrabbiato con la sua regione e coi napoletani in genere
(“napoletano” ero anch’io, quando con questo nome si designavano in Italia
tutti i nati nell’ex reame, poi sostituito dalla parola “terrone”, oggi temo
con espressioni più grevi, metti “camorrista”). Le cose che mi
colpiscono nell’immonda vicenda sono diverse: 1) perché queste cose succedono
solo a Napoli e in Campania; 2) perché tra poltrone di sindaci e governatori ci
si ritrovi sempre gli stessi personaggi e ci si ritrovi pure la stessa
immondizia; 3) perché napoletani e campani corrano il rischio di vedere se
stessi e i propri figli travolti da colera e pestilenze (lei ricorda l’inquinamento
del golfo, il “vibrione”, l’ospedale Cotugno? Come inviato speciale, fui
pregato dai medici di mangiare più volte pesce del golfo da Peppone a
Mergellina, per dimostrare all’allibito popolo che il colera non stava nei
pesci, che si poteva mangiarli e far ripartire il mercato ittico ormai
languente).
Ma soprattutto mi fanno incavolare uomini e donne di Napoli, Frattamaggiore
ecc. che, intervistati dai tg, si limitano a dire banalità indecorose
(“avete sentito che puzza”, “avete visto che schifo”) ma nessuno che dica
mandateci l’esercito, fate una discarica per camorristi e sindaci loro
complici, costruite un inceneritore o un convertitore in ogni provincia, nei
luoghi scelti dal commissario governativo.
Perché la democrazia non è bordello, come invece pensano a Napoli. Rosa
Jervolino dice giustamente: io non sono collusa, fate i nomi. Ma chi, i
giornalisti? Semmai gli inerti procuratori della Repubblica; o magari lo stesso
Bassolino, che potrebbe riscattarsi dicendo qualcosa di più sul tema cui
accennava nell’intervista di mercoledì a Repubblica: «Da sindaco, la
fascia tricolore la misi solo quando rappresentavo l’interesse generale… Oggi
soffro quando vedo sindaci che la indossano per impedire ai rifiuti di arrivare
nei loro comuni». Bassolino è riuscito a costruire 7 impianti di cdr
(combustibile da rifiuti), ma non i 2 termoconvertitori dove le balle di cdr
verrebbero trasformate in energia. La camorra non vuole impianti, per
continuare a trasferire in treno quelle balle in Germania e farci tanti soldi:
ottiene il consenso dei gonzi, dicendo che a Napoli i termoconvertitori, gli
inceneritori, le discariche inquinerebbero; e trova cittadini, ministri e
sindaci che sottoscrivono.
E i 4 milioni di campani che dovrebbero difendere se stessi e i figli? E dov’è
un governo (un Sarkozy di sinistra, va di moda) che al risveglio faccia trovare
i paesi camorristi coi blindati in piazza e i bulldozer all’opera e soldati
dappertutto, tipo “Vespri siciliani”? O pretendete questo, caro Galluccio, o vi
tenete munnezza e chiaviche e a Maronna v’accumpagna. In nome dell’Illuminismo.
Nel
commentare la relazione del presidente della Confindustria, il
segretario dei Ds Piero Fassino e il sindaco di Roma Walter Veltroni hanno
usato pressoché le stesse parole. Sarebbe sbagliato, hanno detto, non cogliere
«la sollecitazione» che è venuta da Luca di Montezemolo perché essa
esprime le domande e le aspettative del Paese. E' questo lo spirito giusto — lo
stesso di cui ha dato buona prova il ministro Pierluigi Bersani nel suo
applaudito intervento — per cercare di capire cosa sia successo ieri in un
auditorium di Roma gremito di imprenditori arrivati da tutta Italia e mai come
questa volta in perfetta sintonia con il loro capo. Piccoli e grandi
industriali hanno maturato di nuovo — e confidiamo non sia solo per lo spazio
di un mattino — la coscienza di riscoprirsi «nuova borghesia», classe dirigente
che ha il dovere, ancor più che il diritto, di mettere in guardia la
politica dalla crisi sistemica nella quale rischia di precipitare. Ridurre
tutto ciò al toto-Montezemolo, ai tempi e alla modalità di una
presunta discesa in campo del presidente della Confindustria è
un'operazione di cortissimo respiro.
Sta succedendo molto, molto di più. Quegli imprenditori che sono
stati capaci in regime di moneta unica (senza le generose svalutazioni di una
volta) di riconquistare palmo a palmo decisive quote di export, ora si chiedono
perché debbano essere finanziate comunità montane a pochi metri di
altezza sul livello del mare, perché i consiglieri della regione Veneto abbiano
diritto ai funerali gratis e perché si dilapidi denaro pubblico per tenere in
piedi istituzioni quasi inutili come le province. Chiedono se la politica abbia
scelto come missione quella di perpetuare se stessa e il suo ricco indotto o
piuttosto non debba dedicarsi a costruire l'Italia del 2015. E stavolta i nuovi
borghesi non parlano solo per sé, non hanno stilato il solito
cahier de doléances un po' gretto e corporativo, esprimono invece un sentimento
largamente presente nell'intera società civile. Più
libertà, apertura e mobilità sono diventate in tutti i grandi
Paesi industrializzati parole d'ordine interclassiste e l'Italia non fa
eccezione. Se una società demoscopica volesse provare a sottoporre i
punti salienti della relazione di Montezemolo persino a un largo campione di
iscritti al sindacato potremmo trovarci di fronte a qualche sorpresa. Purtroppo
davanti a queste novità la politica si mostra sorda. Chiunque evidenzi
con onestà intellettuale l'incapacità di dare soluzione ai
problemi di fondo del Paese, sia esso il professor Mario Monti, sia il
governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, sia Montezemolo, alla fine viene
attaccato per concorrenza sleale. Fa politica senza aver preso i voti, è
il frusto refrain a cui ricorre la nomenklatura. Conta poco che abbia
un'esperienza pluriennale nella costruzione dell'Europa, che nel giro di
pochissimo tempo abbia creato i presupposti per il consolidamento e la
modernizzazione del sistema bancario o che, come Montezemolo, sia espressione
di un grande gruppo ritornato protagonista della scena mondiale. Il successo,
la competenza da noi non sono ancora un documento sufficiente per accedere al
diritto di critica.
Eppure
la nuova borghesia non aspira a usurpare il mestiere dei politici,
non coltiva l'infausta idea di fabbricare nuovi partitini. Rivendica solo il
diritto-dovere di far sentire la sua voce, chiede che parole come merito,
rischio e concorrenza entrino a far parte stabilmente del vocabolario politico.
Ieri dopo la relazione confindustriale, per la prima volta si è
intravisto tra i destinatari delle critiche chi, come Fassino e Veltroni,
invece di irrigidirsi si è aperto al confronto. Può essere — lo
speriamo — l'inizio di una stagione diversa nei rapporti tra politica e
società civile.
25
maggio 2007
C’è qualcosa di inquietante nel dibattito sulla crisi della politica.
È inquietante che l’evocazione del 1992 diventi un luogo comune. Ma il
1992 non è stata una qualsiasi crisi della politica: è stata una
tragedia nazionale; una vicenda che non è stata del tutto superata, e
ancora condiziona lo scenario politico. Nei molti articoli letti in questi
giorni si percepisce quasi una retorica della ripetizione, senza che ci si
chieda davvero se quella stagione potrebbe ripresentarsi. Anche indicare nei
costi il principale peccato della politica, sulla scorta di un paio di libri
fortunati, è segno di una pigrizia mentale che non aiuta affatto a
capire che cosa stia succedendo, ma è parte del problema. Costi e
privilegi, infatti, ci sono e devono essere ridimensionati; ma chi pensa di
cominciare da lì la riforma della politica, o si illude o è in
mala fede. Il problema essenziale della politica italiana, quello da cui
dipendono tutti gli altri, è la sua debolezza, e quindi la sua
incapacità di decidere. Se la sfiducia aumenta non è per i costi,
e neanche per i privilegi. La polemica su questi aspetti certo è un
condimento piccante; ma non scherziamo, in tutti i paesi democratici esiste la
rabbia verso la politica e il disprezzo verso i politici. In tutti i paesi
democratici i politici sono considerati, nella vox populi, interessati e
disonesti. È un tratto ineliminabile della politica contemporanea, da
quando ha abbandonato l’originario carattere elitario e si è pienamente
democratizzata. La democrazia non è certo priva di aspetti negativi: tra
questi sono sia la corruttibilità dei politici, sia il populismo
moralistico delle opinioni pubbliche. Di solito queste sono tendenze presenti,
ma tenute sullo sfondo dal sistema di controlli reciproci che è proprio
del processo democratico.
La differenza specifica, nel nostro paese, è che la politica appare
inefficiente e inutile. Imprigionata da decenni nelle stesse eterne discussioni
sugli stessi problemi: la riforma delle pensioni, l’aggiornamento della
costituzione, la razionalizzazione dell’amministrazione pubblica, le quote rosa
(e non parliamo di alta velocità, ponti, strade, rifiuti). La politica
in questo paese - di destra o di sinistra - non riesce ad assolvere una
funzione di governo. Questa è la ragione della sfiducia, della
disaffezione, dei venti populistici che increspano la superficie. Per questo
è vero che la formazione del Partito democratico può essere una
risposta, dato che dovrebbe avere l’effetto di rafforzare la capacità di
governo dello schieramento di centrosinistra. Ma ciò potrà
avvenire solo se i fondatori del Pd, da Prodi in giù, si renderanno
conto che non basterà qualche taglio di auto blu a recuperare la
fiducia. Bisognerebbe invece agire - con decisione, con chiarezza, con
volontà ferma e disponibilità a correre qualche rischio - in due
direzioni. La prima è quella della legge elettorale, che è la
causa prossima e tutt’altro che secondaria dell’aggravamento della situazione.
La dannosità della legge in vigore è ormai chiara a tutti:
evitare che si torni a votare con lo stesso sistema, ritornare a un sistema che
assicuri non solo il bipolarismo, ma anche un corretto rapporto
elettori-eletti, è un imperativo superiore a qualunque altra esigenza,
anche quella della durata del governo. Il tema non può più essere
affrontato con i tatticismi e le furbizie. La seconda direzione è quella
dei comportamenti soggettivi. Se si vuole riconquistare la fiducia, si deve
smettere di inseguire il consenso del momento con promesse e dichiarazioni
puntualmente disattese. Non si può parlare di diminuzione dei parlamentari,
o di abbassamento dei costi della politica, se non si è disposti ad
affrontare una battaglia all’ultimo sangue per realizzarla. Non si può
continuare a parlare di donne e poi presentare un comitato promotore (o,
peggio, un governo) in cui le donne sono largamente al di sotto delle attese.
È il tema della credibilità, giustamente sollevato da D’Alema. Ma
per essere credibili ci vuole un minimo di respiro: guardare al domani e non
solo all’oggi. Guardare alla sostanza dei problemi e non solo alle posizioni
reciproche. Avere degli obiettivi, non degli slogan.
Non credo che ci sarà un nuovo 1992. È abbastanza certo
però che se il centrosinistra fallirà la prova di questa
legislatura non solo il Pd, ma anche i suoi soci fondatori saranno spazzati
via.
Si parla di famiglia a Firenze. E ogni
tanto anche dei Dico, i diritti per le coppie di fatto. Alla conferenza
nazionale della Famiglia, il ministro Rosy Bindi spiega come l'«orizzonte
comune» dell'azione del governo è l'articolo 29 della Costituzione che
nella sua «formulazione letterale non implica alcuna contrapposizione tra diritti
della famiglia e diritti dei singoli». E sul ddl che riguarda i Dico, di cui
è titolare insieme a Barbara Pollastrini,spiega: «Il governo non ha mai
voluto intaccare il plusvalore della famiglia fondata sul matrimonio, ma al
tempo stesso non ha voluto discriminare i diritti delle persone in base alle
scelte di vita, né creare una nuova situazione giuridica paragonabile a un
matrimonio di serie B. Non siamo comunque sordi alle preoccupazioni - ha
concluso - e anche al dissenso che si è manifestato verso questa
proposta».
Il centrosinistra si presenta con l'astensione di almeno quattro o cinque
partiti. «Non c'è nessuna proposta concreta sulla famiglia». Proprio su
questo è critico con gli alleati Dario Franceschini (Ulivo): «Hanno
sbagliato i ministri e i capigruppo parlamentari della maggioranza che, in modo
sinceramente incomprensibile, hanno deciso di non venire qui a Firenze. Se
fossero stati presenti avrebbero ascoltato la relazione equilibrata e
intelligente del ministro Rosy Bindi e le parole sagge del presidente della
Repubblica».
Tanti applausi e pochissimi fischi per il ministro delle pari
opportunità Barbara Pollastrini che dal palco della conferenza nazionale
della famiglia difende il suo progetto di legge sui Dico affermando che «nulla
levano alla famiglia». Anzi, «sono un'idea di responsabilità», poi, tra
gli applausi della platea, aggiunge che nella società «dobbiamo starci
tutti».
«Da una Conferenza nazionale come quella che si è aperta a Firenze ci
aspettiamo che prima di tutto si parli di politiche familiari - dice Gianna
Savaris, del Consiglio direttivo del Forum delle associazioni familiari - e non
di politiche per la denatalità, per il lavoro, per la povertà,
che vanno bene, ma sono impostate sull'individuo piuttosto che sulla famiglia
come vero e principale soggetto di tali politiche». «Dopo aver ascoltato i
primi discorsi - spiega - occorre valutare l'impostazione che prenderà
questa Conferenza, se terrà nel debito conto ad esempio il concetto di
sussidiarietà, facendo sì che sia riconosciuta e promossa la
capacità della famiglia di essere un soggetto sociale in grado di
rispondere ai propri bisogni». L'esponente del Forum delle associazioni
familiari nota ancora che «è emersa una impostazione per persone, per
categorie, per età, mentre il soggetto-famiglia è rimasto in
ombra».
Diverso il giudizio di Gayleft. «Con le parole coraggiose pronunciate a Firenze
il Presidente della Repubblica Napolitano ha clamorosamente smentito
l'impostazione palesemente discriminatoria della Conferenza di Firenze data dal
Ministro per la Famiglia Bindi - dicono i portavoce nazionali, Andrea Benedino
e Anna Paola Concia -, che aveva escluso dalla lista degli invitati i
rappresentanti delle associazioni famigliari degli omosessuali e delle coppie
conviventi». «Il Presidente Napolitano - affermano gli esponenti di Gayleft -
ha infatti affermato che "è parte del discorso pubblico sulla
famiglia la soluzione, che comunque non può essere elusa, dei problemi
per quanto delicati di un riconoscimento formale dei diritti e dei doveri di
unioni che non sono confondibili o equiparabili rispetto alla famiglia fondata
sul matrimonio". Concordiamo con Napolitano: seppur distinti dalla
famiglia fondata sul matrimonio, i problemi delle coppie di fatto fanno parte
del discorso pubblico della famiglia e le istituzioni hanno il dovere di non
eludere un loro riconoscimento formale».
ROMA
- Colpevoli di non aver protetto i loro uomini a Nassiriya. Il procuratore
militare di Roma Antonino Intelisano, è convinto che i tre ufficiali
responsabili della base militare non adottarono tutte le precauzioni per
difendere la "Maestrale" dall'attacco di kamikaze terroristi. La
Procura ha chiesto il rinvio a giudizio di due generali e un colonnello dei
Carabinieri con l'accusa di "aver colposamente omesso di approntare una
serie di misure idonee alla difesa della base".
In serata il ministro della Difesa Arturo Parisi esprime "fiducia e
rispetto" per l'operato della magistratura, ma anche "personale
vicinanza" alle vittime della strage di Nassiriya, ai loro familiari e a
coloro che "pur in posizioni diverse, ne sono stati coinvolti". Una
solidarietà, quindi, anche per gli alti ufficiali per cui è stato
chiesto il giudizio.
Gli ufficiali coinvolti. Quattro anni dopo la strage del 12 novembre 2003 costata la vita a 19 italiani, i
magistrati militari chiedono di processare i generali dell'esercito Vincenzo
Lops e Bruno Stano, che si sono avvicendati al comando del contingente, e il
colonnello dei carabinieri Georg Di Pauli, comandante della Msu, l'unità
specializzata multinazionale dell'Arma che aveva il suo quartier generale
proprio nella Base Maestrale.
"Omissione di precauzioni". I tre ufficiali devono tutti rispondere
del reato previsto dall'articolo 98 del Codice penale militare di guerra
(omissione di provvedimenti per la difesa militare), che punisce "il
comandante che, per colpa, omette di provvedere ai mezzi necessari alla difesa
dell'opera di cui ha il comando, ovvero trascura di porli in stato di resistere
al nemico".
Le accuse agli ufficiali. In particolare, sempre secondo quanto si è
appreso, al colonnello Di Pauli la Procura contesterebbe di non aver
adeguatamente protetto l'ingresso della base con posti di sbarramento,
escobastian (grandi contenitori pieni di ghiaia) e altre predisposizioni.
Per quanto riguarda invece i generali Lops e Stano, l'aspetto specifico
dell'accusa riguarda la mancata predisposizione di un dispositivo di difesa
idoneo nel suo complesso, anche in relazione a una serie di warning,
cioè allarmi relativi a possibili attacchi.
Un'indagine durata quattro anni. Il procuratore Intelisano ha aperto
l'inchiesta all'indomani della strage. In questi anni ha acquisito molte
testimonianze e una mole enorme di documenti, a cominciare dalle due relazioni
tecniche sull'episodio redatte da un generale dell'Esercito, Antonio Quintana,
e da uno dei carabinieri, Virgilio Chirieleison.
Due perizie contrastanti. Secondo quanto trapelato, entrambe sottolineano il
comportamento esemplare dei militari all'interno della base: risposero
prontamente al fuoco proveniente dal camion-bomba, scongiurando probabilmente
conseguenze ancora più gravi. Ma le due relazioni sarebbero arrivate a
conclusioni diverse rispetto al quesito fondamentale: la base della Msu era
sufficientemente protetta?
"Un facile obiettivo". In uno dei rapporti, verrebbe sottolineata
l'adeguatezza complessiva del dispositivo di protezione; l'altro evidenzierebbe
invece alcune carenze. Lo stesso Abu Omar al Kurdi, un terrorista legato ad Al Qaeda
arrestato dagli americani a Falluja e reo confesso di aver organizzato sia la
strage di Nassiriya sia altre decine di attentati in tutto l'Iraq, ha
dichiarato in almeno due diversi interrogatori agli investigatori italiani che
venne deciso di colpire il comando dell'Arma perché facile obiettivo di
un'autobomba.
Il figlio di una vittima: "Ho fiducia". "Se gli ufficiali
responsabili della base militare hanno sbagliato, allora è giusto che
paghino". Così Marco Intravaia, figlio dell'appuntato Domenico Intravaia, morto nell'attentato, commenta la
richiesta di rinvio a giudizio per i tre ufficiali. "Prima di arrivare
alla decisione della richiesta di rinvio a giudizio - dice il giovane che aveva
15 anni quando rimase orfano - i magistrati militari avranno fatto le loro
valutazioni, ma ritengo che se si poteva fare qualcosa per evitare quella
strage, allora è giusto che i responsabili paghino. Resto comunque
fiducioso nella magistratura. Saranno i giudici a decidere se davvero i tre
ufficiali vanno rinviati a giudizio o no".
(24 maggio 2007)
INVIATO A TEHERAN
La flotta più potente del mondo sta gonfiando i suoi muscoli a stelle e
strisce nello stretto di Hormuz, ma la formicolante vita di Teheran procede
ignara: si cerca di metter insieme il pranzo con la cena facendo due o tre
lavori mentre l’inflazione corrode i risparmi, come i 10 milioni di tubi di
scappamento corrodono i polmoni.
Sta pensando all’affitto, al mutuo da pagare, al costo dei figli quel tizio
allampanato con la barba sfatta che cammina in fretta con una vecchia borsa di
pelle in mano. Che in un prossimo futuro possano piovere bombe atomiche
tattiche americane sui siti nucleari iraniani è un pensiero remoto, la
maggioranza crede che alla fine si arriverà a un qualche tipo di
dialogo. I giornali danno la notizia delle manovre con tutti i particolari ma
senza enfasi. Non si nasconde la sincronia con la storia dell’uranio ma il
dispaccio dell’UsNavy citato vuole rassicurare: «Le manovre non sono dirette
contro alcun Paese». Il termometro della paura sale però quando si
ascoltano gli intellettuali, specialmente i più critici: la democrazia,
sì certo la vorrebbero ma non al seguito dei missili Cruise. Il governo
invece lancia di tanto in tanto messaggi bellicosi per rispondere alle minacce
americane, esercizio di retorica diretto più al pubblico internazionale
che a quello interno.
Lo scorso venerdì a guidare la preghiera sulla spianata davanti al
cancelli dell'università da cui prese avvio la Rivoluzione islamica nel
1979, c’era Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, il 72enne intramontabile Talleyrand
iraniano, la cui popolarità è grande quasi quanto la sua fama di
faccendiere: Akbar Shah lo chiamano i maligni. Tra salve di «Hashemi che Dio ti
protegga» e altre più di maniera «Morte all’America», «Abbasso Israele»,
ha ricordato «la brillante storia di autodifesa del nostro Paese». Certo, si
riferiva alla guerra con Saddam, ma chi voleva capire capiva. «Se gli americani
mettono da parte l’arroganza, potremo costruire un Iraq più sicuro».
Dunque trattare si può ma «il nucleare è diritto di ogni Stato e
non accetteremo precondizioni». Poi la condanna dell’atomica, già
espressa dalla Guida suprema l’ayatollah Khamenei: «Un danno per
l’umanità». Sembrava che il disincantato Rafsanjani pensasse a come
uscire dallo stallo salvando la faccia all’Iran.
Nella stessa città, ma su un altro pianeta, in un appartamento affollato
di sindacalisti semiclandestini, il pessimismo del 50enne Moshen Hakimi, membro
dell’associazione degli scrittori, «attivista anti-capitalista», buon
conoscitore delle prigioni, è profondo. «Qui c’è gente che lavora
da due anni senza paga, fabbriche che chiudono, contratti che durano 15 giorni.
Come si fa a vivere così? Sì, Bush è capace di attaccare
ma sarebbe solo un gesto di aggressione imperialista. Non ci aspettiamo niente
di buono».
Su un pianeta ancora diverso, nel centro della capitale, incontriamo Emadeddin
Baghi, 45 anni, campione della lotta contro la pena di morte (se gli iraniani
avessero potuto scegliere il Nobel l’avrebbero dato a lui e non alla Ebadi). Alto,
ieratico, barba curata a tratti bianca, completo grigio chiaro, colletto
all’occidentale, presiede l’associazione per i diritti dei detenuti («tutti,
non solo quelli politici»). Un uomo corpulento con la bocca piegata da una
cicatrice gli parla di suo fratello scomparso in prigione. Appena libero, si
getta nella discussione: «Solo Dio sa se gli americani ci attaccheranno.
Ahmadinejad e Bush sono due lame di una forbice che distrugge la
libertà. Il Congresso Usa ha stanziato un centinaio di milioni di dollari
per la democrazia in Iran, grazie tante ma non li vogliamo. Adesso il regime ha
un altro pretesto per arrestare gli oppositori: per loro siamo tutti sul libro
paga della Cia. Ho proposto invano che gli americani scrivessero chiaramente a
chi vanno i soldi. Dobbiamo avere la forza di opporci all’uso strumentale dei
diritti umani».
A Nord di Teheran, un signore distinto con i baffi, blazer blu e cravatta scura
di Valentino apre la porta di un’elegante casa a due piani. E’ il professor
Davoud Hermidas Bavand, 66 anni, esperto di geopolitica, già consulente
del ministero degli Esteri dello Shah e dell’Onu, oggi pungente critico
liberale del regime. Anche lui crede che il cambiamento debba venire
dall’interno e non dall’esterno. «Quando il Congresso Usa dice che la decisione
di attaccare l’Iran deve passare attraverso il suo voto riconosce che è
già nell’agenda. Da De Gaulle in Algeria a Nixon in Vietnam abbiamo
esempi di come i grandi Paesi spesso alzino il livello dello scontro per arrivare
in posizione vantaggiosa al dialogo. Ma talvolta ci si trova in un vicolo cieco
e allora l’unica via d’uscita dalla crisi è aprire una crisi più
ampia». Insomma un altro piano B di Bush, che Dio ce la mandi buona.
La
Camera dei Rappresentanti del Congresso statunitense ha approvato la proposta
di legge presentata dalla democratica Zoe Lofgren che prevede un
inasprimento delle pene per i reati collegati all'uso di malware al fine di
ottenere informazioni riservate sui privati cittadini. La norma dovrà
ora passare al vaglio del Senato, dove si era arenata già in tre diverse
occasioni durante la passata legislatura: il testo attuale tuttavia include
delle modifiche sostanziali, che vanno nella direzione delle obiezioni sollevate
dai senatori che l'avevano respinto in precedenza. In sostanza la legge
denominata SPY Act equipara ad un reato federale l'ottenimento illecito,
attraverso un sistema informatico fraudolento, di informazioni personali, quali
dati di accesso o numero di carta di credito: l'ordinamento USA prevede in
questo caso pene molto severe, come multe fino a tre milioni di dollari per
ogni infrazione e pene detentive fino a cinque anni. Lo SPY Act presenterebbe
tuttavia dei punti controversi. Suscita qualche perplessità il criterio
di "eccezione relativa alla sicurezza" che questa legge
introdurrebbe per garantire alcuni produttori di tecnologie collegate alla
diagnosi a distanza, supporto tecnico e verifica delle licenze. In pratica la
norma prevede una scappatoia per permettere a strumenti come DRM di continuare
a funzionare, ma consentirebbe anche la sopravvivenza delle forme meno invasive
di spyware: i produttori verrebbero sollevati dall'obbligo di chiedere il
permesso al proprietario del computer per installare le proprie applicazioni.
"Concentrarsi sui cattivi soggetti e le condotte criminali è
preferibile ad un approccio che criminalizzi la tecnologia o imponga notifiche
e moduli di consenso obbligatori", si è giustificata il deputato
Lofgren: "(Il provvedimento, ndR) prende di mira le forme peggiori di
spyware senza penalizzare eccessivamente l'innovazione tecnologica". Tra i
principali critici dello SPY Act c'è la Electronic Frontier Foundation:
la Commissione Federale del Commercio e il Dipartimento di Giustizia avrebbero
già pieni poteri per perseguire questo tipo di infrazioni, e la nuova
norma restringerebbe il numero di reati che queste due istituzioni avrebbero la
possibilità di perseguire. I cittadini verrebbero inoltre privati del
diritto di intentare una causa (singola o collettiva - la cosiddetta Class
Action) contro le aziende responsabili delle violazioni: tale
possibilità sarebbe riservata unicamente al Procuratore Generale dello
stato in cui il crimine ha avuto luogo. Una situazione in cui in pratica i
cittadini non potrebbero difendersi legalmente dallo spyware. La EFF cita come
esempio il celebre caso del rootkit Sony-BMG: se questa norma fosse esistita
allora, le cause intentate in California contro il colosso asiatico, che
diedero ragione ai consumatori, probabilmente non avrebbero avuto luogo. La
nuova legge poi non garantirebbe alcun aumento significativo nei fondi
stanziati a favore delle istituzioni federali deputate a combattere i malware:
le procure federali e la Commissione sarebbero quindi impossibilitate a
perseguire tutti i presunti responsabili, diminuendo l'efficacia della lotta a
questo tipo di reati.
L’Unità 24-5-2007 Guzzantosky contro i Quattro
Marco Travaglio
ANSA 23-5-2007 Sono 45 i membri del comitato promotore
nazionale per il Partito Democratico
Il Riformista 24-5-2007 COMITATO PD: I NOMI Non capiamo
la ratio E Parisi ci conforta
La Stampa 23-5-2007 "Troppi debiti? Niente
maturità" Fioroni: “Gli
studenti devono saldare tutte le lacune accumulate negli anni” RAFFAELLO
MASCI
Il Riformista 24-5-2007 La finanza islamica cresce
troppo e fa paura alla City di Mauro Bottarelli
Nella
sua prima uscita pubblica da quando si è insediato come alto commissario
per la lotta alla corruzione nella p.a., Bruno Ferrante lancia un
avvertimento shock. E non usa mezzi termini o espressioni paludate. 'La corruzione
non è affatto sconfitta perché dopo Tangentopoli non si sono fatte le
riforme giuste. Il risultato è un sistema pubblico più
farraginoso, fragile e aggredibile dalla corruzione', ha spiegato l'ex
prefetto di Milano alla platea del Forum p.a. in corso a Roma. Dopo aver
ascoltato i dati sull'attività della guardia di finanza, che parlano di
espansione geometrica dei reati contro la p.a., Ferrante si è detto
d'accordo con l'allarme di D'Alema sui costi della politica. Una
delle peggiori falle del sistema secondo Ferrante è stata una riforma
federalista 'imperfetta', che ha avuto per effetto 'l'abolizione dei controlli
su leggi e atti delle regioni e degli enti locali, e un sistema in cui
l'illecito è accertato solo su azione della magistratura ordinaria e
contabile'. Trasparenza, efficienza del sistema pubblico e semplificazione
delle procedure sarebbero le riforme necessarie a evitare che la corruzione
dilaghi. 'Ma si dovrebbe puntare alla trasparenza. Invece l'anagrafe dei
dirigenti pubblici, varata per legge, non è stata mai pienamente
attuata', ha insistito Ferrante, citando la tesi esposta al convegno da Piercamillo
Davigo, ex pm del pool di Mani pulite e ora magistrato di Cassazione. Nei
prossimi giorni, intanto, il commissario firmerà un protocollo di intesa
con Francesco Forgione, presidente della commissione parlamentare antimafia,
per rafforzare la cooperazione tra i due organismi.
ROMA
- Un provvedimento entro metà giugno per tagliare i "costi
della politica". Il governo interviene così nella querelle
sulle spese dei "palazzi" del potere, annunciando misure decise dal
tavolo interministeriale guidato da ministro Giulio Santagata. Un modo per
rispondere anche all'ultima sollecitazione, quella di Franco Marini che chiede
anche la riduzione dei parlamentari: "Credo si debba partire con un gesto
forte, emblematico. Perché è un problema reale, sentito dai nostri
cittadini. Chiederò al presidente Bertinotti di metterci subito al
lavoro insieme per dare un segnale da cui tutti capiscano che siamo veramente
decisi a voltare pagina". Ma la polemica non si placa. Il centrodestra
accusa la maggioranza di parlare di "crisi della politica" per
coprire il fallimento del governo Prodi, rilevando una strategia comune nelle
interviste di Massimo D'Alema sabato e del presidente del Senato ieri: mettere
la mani avanti in vista di una sconfitta elettorale. L'aumento dei costi,
aggiunge l'opposizione, dipende anche dal record di ministri e sottosegretari
detenuto da questo governo. "Con tutti questi interventi - accusa Ignazio
La Russa (An) - l'Unione punta a una grande operazione mediatica alla vigilia
delle amministrative facendo di tutta l'erba un fascio". La maggioranza
evita la polemica e insiste su un punto: la ricetta per riavvicinare i
cittadini alla politica prevede la riduzione dei costi assieme a
una seria azione riformatrice. "Il Pd - sottolinea Romano Prodi - nasce
come risposta alla crisi della politica, e con la corrispondente
ambizione ad incidere e a guidare i processi di cambiamento della
società contemporanea". L'indagine sui costi della politica
prenderà il via dunque in commissione Affari Costituzionali alla Camera
il 31 maggio. Per quella data infatti verrà convocato l'ufficio di
presidenza dell'organismo parlamentare presieduto da Luciano Violante (Ds) al
quale prenderanno parte anche i vertici delle associazioni di Comuni e Province
e una rappresentanza di presidenti delle Regioni per stabilire il metodo che
dovrà essere seguito per fare il punto su quanto costa la politica
in Italia, anche a livello locale. Il 31 dovranno essere decisi modi e metodi
dell'analisi che verrà condotta dalla prima commissione. A favore
dell'indagine si era espresso soprattutto Marco Boato (Verdi) che aveva
invitato ad esaminare in questa sede (quella delle pdl sui costi della politica)
un'altra questione piuttosto complessa, quella della Fondazioni dei partiti
per la cui istituzione si erano battuti i tesorieri delle varie forze politiche
(a cominciare da quello dei Ds Ugo Sposetti). E che era stata messa da parte
per la polemica che ne era nata visto che sarebbe stato un modo un po' troppo
spiccio per ottenere finanziamenti pubblici. Nella Cdl invece non sono tutti
d'accordo con l'indagine conoscitiva. Il capogruppo della Lega in commissione
Roberto Cota, ad esempio, la boccia senza appello. "Una maggioranza che
conta su più di 100, tra ministri e sottosegretari - dichiara - e che fa
un'indagine per capire a quanto ammontano i costi della politica,
mi fa ridere". Tra i costi della politica però ci
sono anche i livelli locali, non solo il Parlamento. Diciannove presidenti di
Regione e due presidenti di Province autonome (Trento e Bolzano). Alle loro
spalle un esercito di 233 assessori, 1118 consiglieri e diverse migliaia di
addetti, capi di gabinetto, assistenti, segretarie, esperti in comunicazione. I
costi minimi stimati per le indennità di presidenti, assessori e
consiglieri sono intorno ai 220 milioni di euro all'anno: cifra che comprende
le indennità di carica e di funzione, al netto quindi delle altre voci
accessorie e ulteriori indennità di carica che variano da Regione a
Regione. E le cifre non comprendono altre voci che variano, e anche di molto,
da Regione a Regione: per esempio, il rimborso dei chilometri percorsi per
raggiungere la sede della giunta dalla propria abitazione. È una voce
che in qualche caso arriva a pesare per oltre 2000 euro al mese. 24/05/2007.
ROMA
- Accelerare, dare subito il segnale che l'opinione pubblica si attende e che
ormai un coro trasversale invoca. La linea dettata in queste ore dal premier
Romano Prodi ai ministri che stanno lavorando alla riduzione dei costi
della politica è stata netta. Il Consiglio dei ministri
adotterà un disegno di legge organico in tempi rapidi, entro il 15
giugno, annuncia il responsabile dell'Attuazione del programma, Giulio
Santagata, al termine della seconda riunione del "tavolo" istituito a
Palazzo Chigi e composto da rappresentanti di cinque ministeri. Un incontro che
è servito per lavorare alle prime linee guida del pacchetto. Quelle che
riguardano intanto gli enti locali. Si è parlato di riduzione del numero
dei consiglieri e dei componenti delle giunte comunali e provinciali e delle
relative indennità. Un taglio sarebbe in arrivo, sia nella composizione
che nei costi, anche per le circoscrizioni, soprattutto quelle delle
città che esattamente delle metropoli non sono. Drastica cura dimagrante
pure per le ormai famigerate comunità montane. Tra le ipotesi allo
studio, rigide incompatibilità che evitino il proliferare di doppie
cariche elettive. Quindi, il capitolo ministeri. Il taglio del 30 per cento dei
costi passato in Finanziaria non viene ritenuto sufficiente e il nuovo
ddl dovrebbe prevedere ulteriori misure ancora all'esame. Il "tavolo"
non ha affrontato invece uno dei nodi più delicati, quello che attiene
ai costi del Parlamento. La materia è di competenza delle due
Camere e il presidente Bertinotti ha appena annunciato che i deputati questori
di Montecitorio hanno già attivato un canale di confronto con i colleghi
del Senato. Una delle misure già adottate ieri attiene invece alla
trasparenza: tutti i bilanci interni e le spese degli organi costituzionali e
degli enti locali andranno sul web. "Il costo della politica
è solo uno degli aspetti della crisi, ma dobbiamo riconoscere che la
classe politica produce poco e non ha alle spalle una legittimazione
adeguata" ha spiegato intervenendo nel dibattito il ministro della Difesa,
Arturo Parisi. Ma sul tema ieri è tornato anche il presidente della
Camera Bertinotti per ribadire che "ora servono i fatti": la cura per
la "malattia deve essere immediata e consensuale", passando
attraverso la riduzione del numero dei parlamentari, dei ministri e dei
sottosegretari, oltre che del personale politico retribuito. Condivide dunque
la ricetta dettata con l'intervista a "Repubblica" dal presidente del
Senato Marini. Ricetta che ha raccolto consensi trasversali. "Bene
l'invito al dialogo" dice l'Udc Cesa, An con Matteoli plaude e dà
la sua disponibilità a ridurre i benefit, come pure la Lega con
Calderoli. Ma di ricette in questi giorni ne vengono dettate parecchie. Tra gli
ultimi, Cesare Salvi della Sinistra democratica che chiede tagli al governo,
"bastano 15 ministri", raccogliendo il sostegno di Antonio Di Pietro.
E Daniela Santanché di An che, al grido "stop al partito unico dei
privilegi", avvia con i suoi circoli D-Donna una raccolta di firme per
proporre abrogazione delle Province e riduzione di ministri e assessori.
No
Tav: 2 mesi di resistenza 'Il governo Prodi ha 60 giorni per presentare i
progetti riguardanti la Torino-Lione, il Brennero ed il Ponte di Messina e
partecipare alla ripartizione degli 8,013 miliardi sbloccati ieri dalla Ue
per le Reti Trans-europee di trasporto'. Così Mario Mauro, vice
presidente del Parlamento europeo, ha commenta il voto con il quale l'assemblea
plenaria di Strasburgo ha approvato il nuovo regolamento per il finanziamento
delle reti transeuropee di infrastrutture per i trasporti e l'energia (Ten) nel
periodo 2007-2013, del quale è relatore. 'Entro pochi giorni', ha
continuato Mauro, 'la Commissione aprirà i bandi di gara, ai cui
i governi europei dovranno rispondere presentando i propri progetti entro la
fine di luglio. Due mesi che rappresentano l'ultima chiamata per il governo
Prodi, obbligato a decidere se muoversi con la stessa responsabilità
dimostrata dal Parlamento europeo o se perdere il miliardo di finanziamenti
comunitari in gioco per l'Italia in questa prima tranche e condannare il nostro
Paese a diventare un isolata appendice dell'Europa'. Due mesi di
resistenza per far fallire il progetto, secondo quanto hanno annnunciato i
comitati Non Tav. Secondo Mauro, il governo deve muoversi anche perchè i
corridoi concorrenti a nord delle Alpi hanno gia' tutte le carte in regola. E
si annunciano nuove scintille. I finanziamenti Ue potranno coprire fino
al 20% dei costi dei Ten nel settore trasporti, fino al 30% dei costi per i 30
progetti già dichiarati di interesse prioritario per l'Ue
(compresa la Torino-Lione), e fino al 10% dei progetti Ten nel settore energia.
I progetti per i quali la realizzazione sia in ritardo potranno essere
cancellati dalla lista dei beneficiari dei co-finanziamenti comunitari dopo
quattro anni, invece dei due anni che chiedeva il Consiglio Ue. In
più, la Banca europea per gli investimenti (Bei) offrirà nuove
garanzie di credito per un massimo di 500 milioni di euro.Il presidente della commissione
trasporti del Parlamento europeo, Paolo Costa ha indicato la necessità
di affrontare in maniera coordinata il problema del finanziamento complessivo
dei 30 progetti prioritari, altrimenti, ha detto 'l'intero programma Ten-T
rischia di impantanarsi come il primo programma, quello definito a Essen nel
1994'. Realizzare l'intera rete dei Tens richiederà investimenti per 600
miliardi circa, e secondo i programmi le opere infrastrutturali dovrebbero
essere completate entro il
Cara
Europa, ho letto le due lettere sul documentario della Bbc relativo ai preti
pedofili, da voi pubblicate ieri.
Ne condivido il buon senso ma, siccome si dichiaravano entrambe a favore della
trasmissione del documentario, mi chiedo come mai, pluralisti come siete, non
ne abbiate pubblicata anche una di parere contrario. Non sarebbe stato
più “completo e obbiettivo”?
CECCO DE GREGORI, NAPOLI
Certamente,
caro De Gregori. Sarebbe bastato averne una. E invece niente. Neanche la sua.
Infatti lei lamenta l’unilateralismo delle posizioni favorevoli dei nostri
lettori, ma non prende la posizione contraria.
Perché non ci ha scritto una lettera contraria ma altrettanto vigorosa come
quella del signor del signor Pedica (Italia dei Valori) contro i baciapile
dell’Udeur, abituati a inciuciare nelle sagrestie di Ceppaloni. Intanto, mentre
noi pubblicavamo, il direttore generale della Rai autorizzava l’acquisto e
raccomandava a Santoro, data la delicatezza dell’argomento, di assicurare in
trasmissione «una presenza equilibrata e autorevole delle parti» Speriamo nella
prematura autorevolezza anche di ragazzi e ragazze vittime di abusi.
Noi non amiamo i toni talvolta aggressivi di Santoro, perché riteniamo che
l’efficacia delle denuncie stia nel fatto denunciato.
La chirurgica freddezza di Report, per citare, lo dimostra.
Ma va detto che nella sua risposta al consigliere d’amministrazione Staderini
(polo dei censori) che gli aveva chiesto di «rispettare quelle elementari
regole che ha sempre trasgredito», Santoro ha giganteggiato, chiedendosi «chi
paga per queste sue prese di posizione». Infatti, è a quel consigliere e
ad altri quattro della destra che si deve «la nomina illegittima di Alfredo
Meocci a direttore generale della Rai. Per questa decisione l’azienda è
stata condannata a pagare una multa di 14,3 milioni di euro e i consiglieri
sono stati rinviati a giudizio per abuso d’ufficio». Quanto alla “violazione
delle regole elementari”, la magistratura ha cancellato i provvedimenti disciplinari
che il consigliere e i suoi soci avevano preteso per il conduttore, condannando
la Rai a risarcire i danni.
Bella gente, la destra. Che si comporta così ma va a intingere il dito
nell’acquasantiera, col compiaciuto sorriso (per fortuna non sempre) dei guardiani
della fede e dell’etica. Quanto a noi, ci riconosciamo in un passo del saggio
La sfida della televisione di Jean-Noël Dibie, docente alla Sorbona: «Un paese
senza televisione del servizio pubblico è una società senza
riflesso»: parafrasi di quel che aveva detto il regista spagnolo Fernando
Solara: «Un paese senza cinema è come una casa senza specchio». Dunque,
se vogliamo specchiarci nella nostra società e migliorarla, ben vengano
inchieste come quella della Bbc e conduttori come Santoro, che la tv privata
non manderebbe in onda (dice Berlusconi).
I
loro nomi non dicono niente a nessuno. Perché nessuno sì è mai
occupato di loro. Sono quattro cittadini ucraini arrestati a Teramo dalla
polizia napoletana nella notte del 16 ottobre 2005 su un furgone proveniente da
Leopoli e diretto a Napoli, per importazione di armi da guerra: nell'automezzo
furono ritrovate, tra una gran quantità di chincaglieria per mercatini
rionali, due bibbie scavate con dentro due granate anticarro arrugginite. A
farli catturare era stato Mario Scaramella, il superconsulente del presidente
della commissione Mitrokhin, Paolo Guzzanti. Informatissimo sui loro spostamenti,
il peracottaro napoletano, che da anni truffava enti pubblici e
università con curriculum farlocchi, indicò agl'investigatori
modello, targa, colore del furgone, la scritta sulla carrozzeria e i nomi di
due trasportatori. Peraltro il furgone indicato da Mario non era il Mercerdes
su cui erano partiti da Leopoli. Quello si guastò a Udine, dove i
quattro furono prelevati da un amico partito da Teramo su un altro mezzo. E, in
Abruzzo, trasferirono la merce su un terzo camion: quello descritto da Scaramella,
evidentemente in contatto con uno della brigata. Citando l'ex spione Aleksandr
Litvinenko, il noto bufalaro raccontò che i quattro preparavano
"una strage per conto del Kgb, della mafia e dei servizi ucraini" per
eliminare lui e il suo spirito guida: il senatore Guzzanti. Il quale
avallò subito la tesi del complotto, per le scottanti verità che
stavano emergendo alla Mitrokhin sul ruolo decisivo di Prodi nel Kgb e nel
delitto Moro. Nell'ottobre 2006 si presentò al Tribunale di Teramo come
testimone dell'accusa. E, sotto giuramento, dichiarò con aria grave:
"Ho il ragionevole sospetto, confortato da notizie di stampa, che si
trattasse di un attentato nei miei confronti". Intanto i quattro - Stefan
Kovpac, operaio di 55 anni, Vitaliy Mykhalciuck, mezzadro di 27, Volodymyr
Stakhurky, apprendista meccanico di 35, Oleh Havrushsko, dentista di 31 -
marciscono in galera per 1 anno e 2 mesi. Ripetono disperati d non saper nulla
di quelle bombe, di Scaramella e di Guzzanti, ma non vengono creduti. Guzzanti
e Scaramella s'inventavano un altro complotto: quello che collegherebbe la loro
imminente dipartita (per fortuna mai avvenuta) con quelle di Anna Politkovskaja
e Litvinenko (purtroppo morti per davvero). Poi, alla vigilia di Natale, i
giudici di Roma pongono fine alla brillante carriera del cazzaro: Scaramella
finisce a Regina Coeli, dove tuttora risiede, per traffico d'armi e calunnia
(anche ai danni di un certo Talik, ex Kgb, indicato come il destinatario delle
granate). I quattro ucraini vengono scarcerati e spediti ai domiciliari per
altri 6 mesi. Ormai è chiaro che, col traffico d'armi e la strage
anti-Guzzanti, non c'entrano nulla: qualcuno, in contatto con Scaramella, ha
fabbricato a tavolino la montatura, infilando nel camion, forse durante il travaso
della merce a Teramo, le due bibbie con le granate (gli unici due pacchi non
scritti in cirillico di tutto il carico). Due giorni fa, ultimo atto: i quattro
malcapitati vengono assolti dal Tribunale di Teramo dopo 20 mesi di custodia
cautelare: formula piena, "non aver commesso il fatto". Come scrive
Carlo Bonini di Repubblica, l'unico a dare spazio alla notizia, Guzzanti e
Scaramella hanno calunniato e rovinato la vita a quattro innocenti.
Curiosamente i giornali "garantisti", così attenti alle
assoluzioni eccellenti ("nuovo caso Tortora", "manette
facili","teoremi politici","chi paga?"),l'hanno
ignorata. Se le false accuse le avesse lanciate un pentito di mafia a un
politico avremmo i giornali,i tg e le tasche piene di dichiarazioni sdegnate
contro la malagiustizia. Invece le false accuse le ha lanciate un politico a
quattro poveracci, per giunta stranieri. Dunque zitti e Mosca. Guzzanti aveva
un "ragionevole sospetto, confortato da notizie di stampa",
probabilmente scritte da lui. E tanto bastava. Il senatore, si sa, è un
garantista doc. L'altroieri ha intervistato sul Giornale l'ex dissidente
Vladimir Bukovski, che ha definito La Repubblica "portavoce del Kgb".
E, quanto a Prodi, "non ho mai avuto le prove che fosse agente della
Russia, ma non ne sarei sorpreso". Dal "non poteva non sapere"
(mai usato dai giudici milanesi per condannare), siamo passati al "non mi
stupirei". Ora non vorremmo che alla fine, come in ogni giallo che si
rispetti, si scoprisse che il vero agente del Kgb era il più
insospettabile: Guzzanti. O meglio: non ci stupiremmo. Uliwood party.
.
Teheran ha avvertito di essere pronta a "far fronte a ogni minaccia",
poche ore dopo che una squadra navale degli Stati Uniti, di cui fanno parte due
portaerei, era entrata nel Golfo. E a gettare benzina sul fuoco sono anche i
nuovi progressi in campo nucleare dell'Iran, che continua a ignorare gli inviti
dell'Onu a sospendere l'arricchimento dell'uranio. Gli Stati Uniti affermano di
essere pronti ad aumentare la pressione sulla Repubblica islamica attraverso
consultazioni con le altre potenze, in particolare gli alleati occidentali. E
in questo ha trovato immediatamente la sponda del nuovo presidente francese,
Nicolas Sarkozy, che in una intervista ad una rivista tedesca ha detto
di essere d'accordo a "rafforzare le sanzioni" già in atto
contro Teheran per il suo rifiuto alla sospensione. Parigi ha anche fatto
sapere di appoggiare un'iniziativa di Washington che intende protestare con
Mohammed el Baradei, il direttore generale dell'Agenzia internazionale per
l'energia atomica (Aiea), per affermazioni fatte da quest'ultimo nei giorni
scorsi, in cui ha invitato la comunità internazionale a prendere atto
dello stato di avanzamento del programma iraniano. Scontata la difesa di el
Baradei da parte di Teheran. Ma le pressioni di cui si parla da Washington non
si limitano a proteste formali e iniziative diplomatiche nell'ambito del
Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Una squadra di nove unità navali e
17.000 membri d'equipaggio, comprese due portaerei che trasportano 140 velivoli
in tutto, ha varcato lo Stretto di Hormuz ed è entrata nel Golfo,
realizzando il più grande spiegamento di forze in queste acque dalla
guerra con l'Iraq nel 2003.
(Ansa) -
Sono 45 i membri del comitato promotore nazionale per il Partito Democratico,
insediatosi oggi nella sede dell'Ulivo a piazza Santi Apostoli. La lista e'
stata diffusa al termine della riunione con la precisazione da parte dei tre
coordinatori, Maurizio Migliavacca, Antonello Soro e Mario Barbi, che qualche
nome dell'associazionismo dell'Ulivo potra' essere aggiunto nei prossimi
giorni.
Ecco la lista: Giuliano Amato; Mario Barbi; Antonio Bassolino; Pierluigi
Bersani; Rosi Bindi; Paola Caporossi; Sergio Cofferati; Massimo D'Alema; Marcello
De Cecco; Letizia De Torre; Ottaviano Del Turco; Lamberto Dini; Leonardo
Domenici; Vasco Errani; Piero Fassino; Anna Finocchiaro; Giuseppe Fioroni; Marco
Follini; Dario Franceschini; Vittoria Franco; Paolo Gentiloni; Donata
Gottardi; Rosa Iervolino; Linda Lanzillotta; Gad Lerner; Enrico Letta; Agazio
Loiero; Marina Magistrelli; Lella Massari; Wilma Mazzocco; Maurizio
Migliavacca; Enrico Morando; Arturo Parisi; Carlo Petrini; Barbara Pollastrini;
Romano Prodi; Angelo Rovati; Francesco Rutelli; Luciana Sbarbati; Marina
Sereni; Antonello Soro; Renato Soru; Patrizia Toia; Walter Veltroni; Tullia
Zevi.
La
sintesi più efficace è firmata Arturo Parisi: «Il comitato
promotore del Pd? Un comitato di vecchi, speriamo almeno che siano saggi». Un
pensiero che il ministro della Difesa, ormai ex prodiano di stretta osservanza,
chiarisce così: «Un comitato di vecchi, di quelli che lo sono veramente,
di cinquantenni avanzati che si propongono oggi come giovani, e poi c’è
un gruppo di saggi. Comunque, giovani e vecchu sono tutti chiamati a dare prova
della loro saggezza». Per poi concludere: «Sono soddisfatto, le polemiche ce le
riserviamo nei prossimi giorni».
A noi, che nei confronti del Partito democratico abbiamo un approccio
certamente meno emotivo di Parisi, riesce difficile elaborare un commento
più o meno serio sui 45 nomi che da ieri fanno ufficialmente del
«comitato 14 ottobre», come l’ha definito il presidente del consiglio Romano
Prodi. Che dire? Avevamo appena terminato la lettura dell’editoriale di Ezio
Mauro sulla sinistra e la crisi della politica, e ci è venuto da
sorridere associando la parola magica alla presenza di Antonio Bassolino e Rosa
Russo Iervolino, proprio nel giorno in cui la munnezza della loro Napoli ha
fatto il giro del mondo. E lo scetticismo si è via via rafforzato
notando che tra i 45 non ce n’è uno che abbia meno di quarant’anni, che
un posto per il sindaco di Torino Sergio Chiamparino - che pure da queste
colonne abbiamo criticato per la sua posizione sui tossicodipendenti - non si
è riuscito a trovare; che invece uno scranno per Angelo Rovati - il
prodiano sacrificato sull’altare del caso Telecom - è stato assicurato.
Gli esclusi eccellenti non mancano - Nicola Latorre e Nicola Zingaretti, tanto
per non fare due nomi a caso - d’altronde in questi casi è fisiologico.
Quel che, almeno ai nostri modesti occhi, non è chiara, è la
ratio seguita in queste nomine. Chissà, forse sarà solo perché
non abbiamo ancora compreso la ratio principale.
ROMA. Niente esame di maturità se
prima non si sono sanati tutti i debiti formativi maturati negli ultimi tre
anni. Lo diceva già la legge di riforma dell’esame di Stato, varata nel
dicembre scorso, ma la materia è stata ora definita da un decreto
attuativo del ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni.
I ragazzi rischiavano di accumulare lacune, anche consistenti e mai sanate, e
di presentarsi con queste all’esame conclusivo. Il ministro ha stabilito che
negli ultimi tre anni di scuola prima della maturità, ci debba essere un
severo bilancio dei debiti: nel corso del quarto anno si debbono saldare quelli
del terzo, nel quinto quelli del quarto e, entro il 15 marzo antecedente la
maturità, qualunque tipo di debito accumulato. Il decreto va dunque
applicato da subito a quelli che oggi frequentano il terzo anno, così
che la riforma arrivi a regime nel 2008-09.
Affinché la contabilità dei debiti non resti aleatoria, è
previsto che dopo lo scrutinio finale del terzo e del quarto anno, le famiglie
vengano informate dettagliatamente sui debiti accumulati dall’allievo. Dopo di
che il Consiglio d’Istituto (che comprende docenti, famiglie e allievi) deve
varare all’inizio di ogni anno un piano dettagliato su come e quando approntare
dei corsi di recupero. Il corso deve prevedere poi un momento di verifica
dell’avvenuto recupero del debito formativo.
L’idea del ministro Fioroni è quella di valorizzare l’intero percorso
scolastico e di considerare l’esame di Stato solo come un ultimo, definitivo,
step di valutazione. Per questo motivo, i crediti scolastici (cioè quel
patrimonio con il quale lo studente si presenta a fare l’esame di
maturità e che deve essere considerato al momento del voto) sono stati
riequilibrati a vantaggio della carriera scolastica che viene valorizzata non
più 20 punti (al massimo) ma 25, mentre la prova orale d’esame -
considerata la meno oggettiva ai fini della valutazione - scende da
«Il decreto - ha commentato Fioroni - vuole mandare tre messaggi. Il primo agli
studenti: ragazzi, basta con gli sconti e i condoni per il "sei
rosso": i debiti, nella vita, vanno saldati e onorati sempre, dovete farlo
anche a scuola perché chi vi fa sconti sulla vostra preparazione non vi aiuta a
costruirvi un futuro degno. Il secondo messaggio è alle famiglie: siete
i nostri principali alleati nel mestiere di istruire educando, serve la vostra
corresponsabilità: le scuole vi terranno informati con trasparenza e nel
dettaglio sul "sei rosso" dei quadri per capire insieme le strategie
di recupero». Conclude Fioroni: «Il terzo messaggio è alle scuole: siete
i principali attori del sostegno durante l'anno e del recupero, avrete
più autonomia nell'utilizzo del capitolo di spesa per il recupero, nella
scelta dei corsi, potrete avvalervi di collaborazioni esterne, se lo riterrete
opportuno. Infine la parola d'ordine sarà "merito"».
Londra. Il 30 gennaio scorso il sottosegretario all’Economia britannico, Ed
Balls, dichiarava all’Associated Presse che occorreva assicurarsi che «il
sistema fiscale e i regolamenti incoraggino lo sviluppo di prodotti conformi
alla sharia e di fare del Regno Unito un centro mondiale della finanza
islamica». Una dichiarazione che non ha stupito più di tanto né il mondo
politico né la comunità finanziaria londinese visto l’enorme sviluppo di
questo settore e il volume d’affari raggiunto, tramutatosi da una nicchia a mainstream
globale. D’altronde la politica non faceva altro che muoversi a traino del
mercato. Negli anni molte banche, tra cui appunto la britannica Hsbc ma anche
l’americana Citigroup, la svizzera Ubs e la francese Bnp Paribas, si sono
attrezzate per lanciare l’assalto a una torta da 200 miliardi di dollari
attraverso l’immissione sul mercato di fondi che rispettano i principi della
Sharia e quindi non investano in società che siano in qualche modo
legate al business dell’alcol o delle armi oppure ancora del gioco d’azzardo,
dell’ingegneria genetica, del tabacco o attraverso società fortemente
indebitate.
L’esempio dell’Islamic Bank of Britain, che ha visto la luce lo scorso novembre
a Londra, è emblematico: l’80 per cento del capitale iniziale, pari a
100 milioni di dollari, è stato raccolto nel Golfo, mentre l’80 per
cento degli investitori soggiornano in Gran Bretagna. Se poi si passano in
rassegna i nomi dei dirigenti si scopre che l’80 per cento è composto da
affermati banchieri britannici che nulla hanno a che fare con l’islam. Da
quando i magnati della finanza internazionale hanno fiutato l’affare, si sono
affrettati ad aprire sportelli islamici prima nei paesi musulmani, poi nei
paesi occidentali dove il peso economico delle comunità musulmane
è crescente. Con un tasso di crescita annuo del 15 per cento è un
business che fa gola a molti. D’altronde per aggirare le norme imposte dalla
sharia rispetto ai tassi di interesse - peraltro è un’interpretazione
perché nel Corano si parla di condanna dell’usura, non dell’interesse e
l’attività dell’usuraio è condannata anche dal cattolicesimo -
basta applicarsi un po’ alla materia. La maggiore controindicazione è
costituita dal tempo, variabile che per i musulmani non può essere considerata
un parametro di denaro: da qui il divieto verso i tassi di interesse. Quelli di
Bnp Paribas, ad esempio, hanno aggirato l’ostacolo predeterminando dei profitti
che nella pratica vanno a sostituire la mancata previsione degli stessi
interessi.
Esistono anche degli indici di finanza islamica: l’Ftse Global Islamic Index
Series International è stato costituito nel 1999 come la prima vera
serie globale di indici islamici, allo scopo di analizzare i rendimenti delle
principali compagnie le cui attività aderiscono ai principi della sharia
islamica. Mentre un secondo indice è il Dow Jones Islamic Market Indexes
creato per investitori che vogliono investire conformemente ai principi della
finanza islamica.
Ora però a lanciare un grido di allarme verso la necessità di
maggiore trasparenza e controlli sul settore è l’autorevole Financial
Times che all’argomento ha dedicato un inserto speciale di sei pagine
nell’edizione in edicola ieri. Ovvio, chiaramente, il riferimento al fatto che
un mercato del genere possa essere utilizzato come veicolo di finanziamento del
terrorismo internazionale ma anche la preoccupazione per una possibile
destabilizzazione del mercato, a causa di prodotti sui generis supportati da
quantità di soldi imponenti garantite dal petrolio del Golfo e dalla
sempre crescente presenza di musulmani nelle nostre società. «Quanto
è accaduto ha dello straordinario - ha dichiarato al quotidiano della
City Sheikh Hussein Hassan, uno dei padri fondatori dell’industria con la Dubai
Islamic Bank - Nessuno avrebbe potuto nemmeno crederlo soltanto dieci o
quindici anni fa».
A offrire alla platea internazionale numeri ancora più impressionanti ci
ha pensato Alexander Lis, direttore operativo dell’agenzia di consultancy
Oliver Wyman, secondo il quale attualmente «ci sono 300 milioni di dollari di
assets gestiti in base ai principi coranici e più di 280 istituzioni -
banche commerciali e di investimento ma anche fondi - che offrono prodotti
islamici. Questo tipo di finanza, oramai, va considerata a tutti gli effetti
mainstream». Numeri al ribasso, questi, per la Financial Services Authority del
Regno Unito secondo cui il volume globale sfonderebbe i 500 miliardi di
dollari. Stando alle analisi di Standard & Poor’s il mercato dei sukuks, i
bond islamici, ha raggiunto i 70 miliardi di dollari ed entro il 2010
toccherà quota 160 miliardi.
Chi intende gettare acqua sul fuoco ricorda che quello islamico rappresenta
soltanto l’1 per cento del totale di asset bancario al mondo ma i molti critici
pongono l’accento sulla sua crescita sfrenata e tutt’altro che in fase
recessiva. «Questa industria sta emergendo dalla sua fase nascente e non ha
ancora raggiunto il suo massimo potenziale - dichiara Nabeel Shoaib, capo del
braccio finanziario islamico della Hsbc - visto che entro otto, dieci anni
potrebbe intercettare i risparmi di 1 miliardo e 600 milioni di islamici nel
mondo». A spaventare, inoltre, è il fatto che il maggior dinamismo per
il settore giunge in questo momento dal Medio Oriente, un’area dove la
trasparenza delle istituzioni non è certamente proverbiale. Business as
usual, il motto della City, forse non sempre è vero.
Banche,
utili da conto corrente Il 63% degli impieghi alle imprese, cresce il Roe ma
anche il costo del lavoro Laura Serafini ROMA Il sistema bancario continua a
godere di buona salute. Gli utili vanno a gonfie vele, la redditività
cresce anche se meno che nel resto d'Europa ma non accennano a diminuire i
costi, trainati da quelli per il personale. è la fotografia scattata dal
centro studi dell'Abi nel suo rapporto 2007 sul sistema bancario e sui
risultati conseguiti a fine 2006 da un campione di 38 gruppi bancari. L'effetto
del processo di consolidamento del settore si è fatto sentire solo in
parte lo scorso anno,visto che la nascita di Intesa SanPaolo è stata
formalizzata il 31 dicembre mentre Unicredit Capitalia risale ai giorni scorsi
In ogni caso, a fine 2006 i primi tre gruppi (Unicredit, Intesa e SanPaolo)
concentravano il 50% degli impieghi nazionali, aumentati del 12,4% e pari
all'82,8% del Pil. L'utile dell'attività corrente al netto delle
imposte, che ammontano a 8,4 miliardi, si è attestato a 18 miliardi con
un incremento del 24%. E questo fronte di un margine di intermediazione (in
sostanza i ricavi) in aumento dell'8%, a 79 miliardi, e di un margine di
interesse che corre alla stessa velocità, a quota 44 miliardi, per l'aumento
dei volumi intermediati e non solo per l'effetto dei tassi di interesse. Le
commissioni nette salgono dello 0,8 per cento. Certo,leggendo questi numeri, il
pensiero non può non tornare alle recenti indagini sui prezzi dei
prodotti bancari in Italia che, secondo un rapporto dell'Antitrust,sono
ben al di sopra della media europea: un conto corrente,ha messo in evidenza
quello studio, costa in media 182 euro, il 17% in più rispetto alla
Germania e l'84% in più dell'Olanda. "In Italia c'è
un'opinione pubblica che ritiene che le nostre banche guadagnino moltissimo e
alcune addirittura troppo - ha replicato ieri alle accuse il direttore generale
dell'Abi, Giuseppe Zadra - ma il confronto con l'Europa dice che stiamo
guadagnando molto meno ". A riprova di ciò c'è l'andamento
dell'indice di redditività, il Roe, che migliora dal 12,1 al 12,6% ma
che secondo Zadra è sempre ampiamente al di sotto del 18,7% della media
europea. Ma c'è anche la dinamica dei costi: il costo medio unitario del
lavoro è del 18% più alto rispetto a quello medio europeo, pari a
62mila contro una media nazionale di 73mila. Restando su questa voce, i bilanci
delle banche evidenziano un aumento degli oneri per il personale del 6% (28
miliardi). Durante lo scorso anno le spese per gli esuberi sono state di 2
miliardi, il 112%in più rispetto al 2005,mentre le stock option hanno
pesato per 274 milioni, 12% in più rispetto al 2005. Le sofferenze
segnano il passo: il rapporto di quelle nuove su uno stock complessivo di 21
miliardi è fermo allo 0,9% (solo nel Mezzogiorno sono all'1,5%) mentre
l'incidenza sui crediti totali è scesa all'1,4%.Il totale degli attivi
è in aumento del 6,6%, a 2.478 miliardi, mentre il 63% dei finanziamenti
è destinato alle imprese, contro una media europea del 46 per cento. La
provvista bancaria restituisce un altro spaccato sul rapporto che il Paese ha
con il risparmio e, di conseguenza,il sostanziale oligopolio che gli istituti
di credito detengono di questo mercato. "Il livello basso dei tassi e la
perdurante elevata avversione al rischio dei risparmiatori - si legge nel
rapporto - hanno alimentato un aumento dei depositi su conti correnti (+6,4%) e
delle obbligazioni (+ 11,4%).Queste due voci detengono l' 85%della provvista
bancaria". I traguardi raggiunti con la ristrutturazione e il
consolidamento raccolgono ampi consensi. "Il sistema bancario attuale
è migliore del precedente - ha detto il viceministro dell'Economia,
Roberto Pinza -quella delle banche è una storia di successo. Il sistema
bancario è più equilibrato e sintonico con le
assicurazioni". Gli fa eco Corrado Faissola, presidente dell'Abi.
"La competitività in Italia è in crescita, con le
ultime aggregazioni si dà un'ulteriore spinta alla concorrenza ".
Pinza si è inoltre soffermato sulla riforma delle Popolari, affermando
di condividere il principio su cui si basa la riforma al vaglio del
Parlamento.I capisaldi del progetto in fase di elaborazione dalla commissione
Finanza del Senato si basano sul presupposto di "mantenere
l'unicità del sistema" delle Popolari e, allo stesso, tempo dare
autonomia statutaria perché "chi ha 500 soci non può avere le
stesse regole di chi ne ha 200mila". PRESIDENTE SODDISFATTO Faissola:
"La competitività aumenta e le aggregazioni hanno creato le condizioni
per un ulteriore incremento della concorrenza" IL CONFRONTO Il
viceministro dell'Economia Roberto Pinza: "Il settore è migliorato
rispetto al passato, è più equilibrato: è una storia di
successo".
+ La Stampa 23-5-2007 Istat: in Italia ci sono 2,5
milioni di famiglie povere
Il link del servizio della BBC che Santoro
manderà in onda
Il Riformista 23-5-2007 Quel silenzio dopo le parole di
Craxi alla Camera di Paolo Franchi
Il Sole 24 Ore 23-5-2007 L'eterno slalom del Governo
fra il rigore e il consenso di Stefano Folli
L’Unità 23-5-2007 Capaci e gli incapaci Marco
Travaglio
Il Tirreno Piombino - Elba Si fanno avanti i mussiani
che non lasceranno i Ds
Molti gli elementi che caratterizzano l’identikit
della famiglia povera: un elevato numero di componenti, soprattutto figli
minori e anziani
ROMA
Istat lancia l’allarme povertà in Italia. Nel 2005 quasi una famiglia su
sei ha dichiarato di arrivare alla fine del mese con molta difficoltà,
mentre quasi uno su 3 non è riuscita a far fronte a una spesa imprevista
anche se di importo inferiore a 600 euro. Le famiglie con spesa per consumi
inferiore alla soglia di povertà, cioè povere in termini
relativi, sono 2 milioni 585 mila per un totale di poco più di 7 milioni
e mezzo di persone. È la situazione della popolazione italiana descritta
nel Rapporto annuale 2006 dell’Istat.
Quasi la metà (1 milione 158 mila) delle famiglie povere hanno al
proprio interno almeno un componente di 65 anni. Il Mezzogiorno è l’area
geografica a essere più in difficoltà. Al Sud, infatti, il 5%
degli individui intervistati nel 2004 e nel
Nel 2004 le famiglie residenti in Italia hanno percepito in media un reddito
netto, inclusi i fitti imputati delle abitazioni, di circa 2.750 euro mensili.
Metà delle famiglie ha guadagnato tuttavia meno di 2.300 euro mensili
(1.800 euro al mese al netto dei fitti imputati). Le famiglie per le quali il
lavoro autonomo costituisce il reddito principale dispongono, in media, di un
reddito maggiore rispetto alle altre. Se il reddito prevalente è una
pensione o un altro trasferimento pubblico i redditi netti medio e mediano sono
più bassi. Le famiglie costituite da anziani soli percepiscono il
reddito medio meno elevato; anche in presenza di figli minori il reddito
familiare risulta più basso, in particolare per le famiglie in cui
è presente un solo genitore.
Le famiglie appartenenti al 20% più povero della distribuzione percepiscono
soltanto il 7,8% del reddito totale, mentre la quota del quinto più
ricco risulta cinque volte maggiore (39,1%). Il reddito delle famiglie che
abitano nel Mezzogiorno è pari a circa tre quarti del reddito delle
famiglie residenti al Nord. La Lombardia presenta il reddito medio più
alto (oltre 32 mila euro); il reddito medio familiare più basso si
osserva invece in Sicilia (quasi 21 mila euro).
Il 57,1% degli individui alla fine del 2004 non ha subito alcun cambiamento
della propria condizione di reddito rispetto all’anno precedente. Soltanto il
10,0 per cento della popolazione registra forti variazioni dal 2003: il 4,7%
della popolazione segna un forte miglioramento della propria condizione
(superiore di due quinti di reddito equivalente) e il 5,3% un forte slittamento
verso il basso (di due quinti di reddito).
L’apporto dei trasferimenti pubblici risulta particolarmente rilevante per le
coppie anziane senza figli, le coppie e i monogenitore con figli adulti e le
persone sole con più di 65 anni. È invece basso nel caso delle
coppie e dei monogenitori con almeno un figlio minore e delle persone sole con
meno di 65 anni. Nel 2004 dopo una separazione o un divorzio un individuo su
quattro si trova in una condizione di basso reddito. Peggiora in genere anche
la situazione economica della famiglia quando cambia il principale percettore
di reddito nella famiglia, in particolare quando la donna diventa la principale
fonte di sostentamento (12,9%).
Le famiglie formate da un solo genitore con figli minori a carico sono
più disagiate rispetto alle altre tipologie, con l’unica eccezione delle
spese mediche, che provocano più frequentemente problemi nelle famiglie
di anziani soli. Tutti gli indicatori di disagio soggettivo e di deprivazione
oggettiva sono maggiori per le coppie con figli rispetto alle coppie senza
figli non anziane, in cui la persona di riferimento ha meno di 65 anni.
Secondo il presidente dell’Istat, Luigi Biggeri, la tenuta della ripresa si
gioca sulla possibilità che il reddito delle famiglie torni a crescere.
«Dal punto di vista dell’andamento del sistema economico - ha detto Biggeri -
la tenuta dello sviluppo della ripresa in atto si giocano immediatamente sugli
investimenti e sui consumi privati e, in particolare, sulla possibilità
che il reddito disponibile delle famiglie torni a crescere». Secondo Biggeri
«permane la vulnerabilità connessa alla condizione della finanza
pubblica, pur migliorata, e in particolare al consistente stock di debito».
ROMA -
Sono i partiti politici le istituzioni in cui gli italiani credono di meno.
Solo uno su dieci ha infatti fiducia in loro. E non ci sono significative
differenze tra i due poli. Tra gli elettori del centro sinistra la sfiducia
è meno marcata ma di un solo punto percentuale: 14 per cento per chi
vota per il centro sinistra contro il 13 per cento degli elettori del centro destra.
Solo il 2 per cento tra gli indecisi. Sono questi i dati più
significativi del sondaggio Ipr Marketing per Repubblica.it sulla
fiducia nelle istituzioni.
La crisi della politica sembra trovare conferme. Anche perché nel fondo della
classifica si trovano anche i due altri luoghi della politica per eccellenza.
Al penultimo posto troviamo il Parlamento in cui credono solo il 23 per cento
degli intervistati e solo poco sopra il Governo con il 24 per cento della
fiducia.
Marcate però le differenze, nel caso di queste due istituzioni, tra gli
elettori dei due schieramenti politici. Il 38 per cento degli italiani che
votano per l'attuale maggioranza ha fiducia nel Parlamento mentre succede la
stessa cosa solo al 17 per cento degli elettori del centro destra. Quanto al
governo, ci fa affidamento il 34 per cento degli elettori del centro sinistra
contro un misero 14 per cento degli elettori dell'opposizione.
Sono invece le Forze dell'ordine ed il presidente della Repubblica a
raccogliere la maggiore fiducia rispettivamente con il 70 per cento e il 64 per
cento. Nella carica oggi ricoperta da Napolitano credono il 96 per cento degli
elettori del centro sinistra. Fa lo stesso solo il 44 per cento di chi vota per
l'attuale opposizione.
(23 maggio 2007)
Cara
Europa, leggo nel chiarissimo articolo di Aldo Maria Valli di ieri, “La prima
di Bagnasco”, che ora la Cei, «più che al paese legale, vuole rivolgersi
a quello reale, alla gente di tutti i giorni, cioè della vita semplice,
quotidiana, spesso dura», perché questa gente sa che le nostre porte sono
sempre aperte per chiunque, che accogliamo tutti, che non portiamo rancore».
L’operazione Bagnasco è incominciata…, conclude Valli.
Ma è veramente un’operazione nuova? ANNA MARIA SENSI, ROMA
Per
me no, cara signora, ma la speranza è l’ultima a morire, anche se
l’attacco della relazione del nuovo presidente, cioè la descrizione
trionfalistica e girotondina di piazza San Giovanni come voce della
società civile, mi è parso più che politico. O, meglio,
populista. Capisco che la gerarchia non è più abituata, da
decenni, alle piazze politiche dei cattolici (le adunate dei papa boys furono
più grandi, ma tutt’altro che politiche). Io invece quelle piazze le
ricordo sia pure nelle nebbie dell’adolescenza, le centinaia di migliaia di
“coldiretti” di Paolo Bonomi a Massenzio e a San Pietro, le adunate dei giovani
di azione cattolica a Bologna e degli universitari cattolici a Roma nel l947,
le folle dei 18 mila comitati civici di Gedda nel ‘48, quasi quanto le 26 mila
parrocchie mobilitate per San Giovanni l’altro sabato. Poi, con la
secolarizzazione della società e l’intermediazione Dc, calò un
velo su quelle piazze, mentre la crisi della politica scatenò tra il
2001 e il 2003 la piazza “laica”: il primo milione di oppositori a Berlusconi
in piazza San Giovanni (autunno 2001), i tre milioni di Cofferati sull’articolo
18 al Circo Massimo (marzo 2002), il milione di girotondini il 14 settembre
2002 ancora a piazza San Giovanni… Fu contestato a noi “girotondini” il diritto
di definirci “società civile”, non vedo perché si dovrebbe dare tale
riconoscimento al Family Day, come se le altre manifestazioni, ad esempio quella
che dovremo purtroppo sorbirci a giugno dai gay, fossero società
incivile.
Ciò chiarito, debbo anche dirle che il passaggio di Bagnasco dalla
perscrutazione nei grembi materni ai problemi della povertà, mi fa molto
piacere, nonostante che essa arrivi in ritardo (sono dieci anni che corre in
sociologia e nel giornalismo l’espressione “nuove povertà”); e che in
uno Stato non abituato a combattere in prima persona la “guerra alla
povertà” (in Usa ci provò Johnson nel quadro della politica di
Grande Società negli anni 60, ma sprofondò nelle paludi del
Vietnam), il rischio sia quello di trasformare la dialettica sociale in rivolta
antipolitica: come accadde nell’Italia di fine Ottocento tra i poverissimi
contadini del Lombardo Veneto (mai sentito parlare di don Albertario?) e lo
Stato “liberale”.
Altri tempi, altro miscuglio clericale di socialismo bianco e revanchismo
antiliberale, altra fiacchezza dello Stato, povero a sua volta e classista
borghese. Ma è sempre bene stare sull’allerta: sì alla
collaborazione di tutti nella guerra alla povertà (e speriamo che Prodi
e Padoa-Schioppa si sveglino), no a inframmettenze ulteriori in uno Stato che
purtroppo ha smarrito il senso della sua autonomia e il primato della politica.
(23/05/2007) -
Michele Santoro, 56 anni, salernitano, una laurea in filosofia con 110 e lode,
una vita intera nella sinistra, giornalista di "Servire il popolo" e
de "l'Unita' " (e di altre testate), ex euparlamentare per l'Ulivo,
e' il conduttore televiso di ANNOZERO, trasmissione che va in onda su Rai 2 e
per la quale, a suo dire, viene pagato solo 250 mila euro all'anno. Anche se il
ministro della Giustizia il senatore Clemente Mastella (Udeur) afferma che
invece i compensi di Santoro sono ben altri "quasi un milione di
euro". Attendiamo il 740 di Santoro o il suo contratto RAI per sapere chi
dice il vero. In fondo, si tratta di soldi pubblici, ed è un nostro
sacrosanto diritto di conoscere quanto il Santoro percepisce al di la' della
causa civile intentata al Guardasigilli Mastella per danni all'immagine.
Santoro, in questi giorni, dopo anni nell' oscurita' in cui la sua immagine era
appannata gravemente (del resto anche Anno zero non decolla e lo share e'
sempre molto basso: non si arriva a 4 milioni di telespettatori), e' ritornato
alla ribalta. Si e' irrigidito per fare una puntata su clero e pedofilia e
trasmettere un filmato spazzatura (pagato dalla Rai 20 mila euro) della Bbc che
dimostrerebbe presunte responsabilita' della Curia Romana degli anni 60.
Qualcuno ha ipotizzato vergognosamente che il responsabile di un documento
vaticano intitolato "Crimen sollicitationis" firmato dal cardinale
Alfredo Ottaviani nel 1962, cioe 45 anni anni or sono , fosse il cardinale Joseph
Ratzinger che invece nel 1962 era un semplice teologo in Germania e soltanto 19
anni dopo Joseph Ratzinger diventera' Prefetto della Congregazione della Fede.
Il segretario della CEI monsignor Giuseppe Betori ha spiegato poi che i
processi contro i sacerdoti pedofili fatti dalla Congregazione della Fede nel
99% dei casi si chiudono sempre con la riduzione allo stato laicale. Quindi
mandare in onda un filmato che riguarda la Chiesa di 45 anni fa e presentare il
documento Crimen sollicitatonis come un documento atto a difendere i pedofili
da parte della Chiesa di Benedetto XVI o di Giovanni Paolo II e' un offesa
contro tutti i cristiani e una manovra che ha come obiettivo la
delegittimazione del Papa e della Chiesa. Io consiglierei agli avvocati della Curia
Romana di guardare bene il programma e poi chiedere i danni all'immagine e
devolverli ai poveri. Proprio come fara' Santoro con Mastella. Non solo, tutti
ricordano che Papa Benedetto XVI lo scorso anno ha punito il potentissimo
leader dei Legionari di Cristo, il messicano padre Marcial Maciel Degollado,
accusato di pedofilia da otto ex seminaristi, proibendogli di dire la Messa e
di fare vita ritirata chiuso in convento nonostante i suoi 87 anni. Ma
evidentemente tutti sono come lo smemorato di Collegno. E chi non ricorda un
mese prima che Giovanni Paolo II morisse, il cardinale Ratzinger che, durante
la Via Crucis al Colosseo, disse testualmente che nella "Chiesa c'e'
arrivismo, potere, sporcizia e zizzania". Davvero Santoro pensa che Ratzinger
si riferisse alla pulizia delle canoniche o delle Chiese? O piuttosto parlasse
di sporcizia morale? quella sporcizia morale che colpisce certamente anche i
figli della Chiesa, che si rivelano in questo modo di essere indegni di fare i
sacerdoti e di essere degli "alter Christus" o dei "ministri di
Dio". Ma che con il loro operato assolutamente non colpiscono la Chiesa
che e' Corpo Mistico di Cristo (Pio XII) e quindi "santa e immacolata,
senza macchia e ruga" (San Paolo). Tutti vogliamo dei sacerdoti e dei
Vescovi che siano di esempio per le loro comunita', che rispettino i voti della
poverta' , castita' e obbedienza. Che siano vicini alla gente, che si occupino
dei poveri, degli ultimi, degli ammalati. In Italia, dottor Santoro, ci sono 33
mila sacerdoti che non fanno notizia, ma fanno del bene negli ospedali, nelle
scuole, nelle parrocchie, nelle carceri, nelle Charitas, nelle case di riposo
per anziani, tra i tossicodipendenti, gli alcolisti, gli extracomunitari, e i
minori e le donne abbandonate. E nel mondo sono invece 400 mila. Perche' , se
lei e' davvero in buona fede, non fa un servizio ad Annozero in cui si parla di
questi sacerdoti, dei missionari, di quelli che vivono nelle favelas, o accanto
ai malati di lebbra, e accanto ai malati di Aids. Perche' vi ostinate ad
accostare la pedofilia al clero, qusi che 400 mila preti e 4800 vescovi nel
mondo siano tutti in odore di pedofilia. Ma neanche i miei studenti liceali
fanno questa generalizzazione che in realta' bisognerebbe chiamare
criminalizzazione! Pensavamo che l'anticlericalismo e il laicismo fossero ormai
lontani. Invece constatiamo con amarezza che ritornano quando si tratta di
mettere in difficolta' il successore di Pietro, il Vicario di Cristo in terra.
Non gli perdonate che Egli abbia detto che vita, famiglia e liberta' di
educazione sono valori non negoziabili. Non gli perdonate la sua granitica
fermezza su questi valori fondamentali. Pensavate a un Pastore che sui temi
etici, sull'eutanasia, sulla famiglia , sulle unioni di fatto, chiudesse non un
occhio, ma tutti e due gli occhi. Volevate un Pastore che non parlasse di Dio e
dei comandamenti, di Gesu', di morale e di divieti, ma che tollerasse un
indifferentismo religioso che in pratica induce a vivere come se Dio non
esistesse. Dottor Santoro, ho letto la sua biografia. Lei, a parte il suo
curriculum politico tutto rigorosamente di sinistra, e' un uomo preparato e
intelligente. E se lei insiste sull'accostamento arbitrario pedofilia uguale
clero, significa che e' un uomo fazioso ma con una intelligenza rivolta al male
e che ha ragione l 'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni quando
ha richiamato la RAI per il programma Sciuscià Edizione Straordinaria
evidenziando come, nelle dodici puntate comprese nel periodo tra l'11 gennaio
2002 e il 3 maggio 2002: «si rilevano gravi violazioni del principio del
pluralismo informativo, consistenti nel costante disequilibrio tra le
contrapposte posizioni politiche espresse, sia in termini di numero degli
ospiti in studio, sia in termini di durata degli interventi a cui si aggiungono
il comportamento fazioso del conduttore e la presenza del pubblico schierato
per una delle posizioni».
Ecco, questa nota negativa del Garante che riguarda il suo lavoro di
giornalista lei se la porta appiccicata addosso nel suo mestiere, e' una
gravissima onta che lei deve cancellare. Le assicuro che le accuse che le ha
mosso il Garante gliele muovono tutti e in tutti gli ambienti (non conosco le
ex celleule del PCI o sezioni). Nessuno se non e' in sintonia con lei verrebbe
mai in una sua trasmissione per le imboscate, la faziosita' e il pericolo di
uscirne a pezzettini e con le ossa rotte. Dimostri Santoro a noi cittadini, al
Garante, alla Chiesa e a Mastella che non corrisponde al vero questa
annotazione negativa nella sua carriera. Dimostri che e' cambiato e che per
fare audience per il suo programma in crisi non ha bisogno del Papa, della
Chiesa e dei pedofili. E soprattutto, lei che e' campano denunci ad Anno zero
lo schifo, le epidemie e l'emergenza che ci sono a Napoli e provincia (anche se
sono tutti politici di sinistra, sia coraggioso una volta tanto nella vita!).
Dica agli italiani che ci sono 2.600 tonnellate di rifiuti in mezzo alla strada
(c'e' anche chi parla di 15 mila) e 131 roghi, che la situazione e' esplosiva
per bambini e anziani. Mandi il suo fedelissimo Ruotolo in provincia di Napoli
e gli faccia fare un servizio su la camorra e il business dei rifiuti e
politica. Io le faro' da consulente (gratis), non voglio che lei ci rimetta i
pochi quattrini che Mamma Rai le dà.
http://video.google.it/videoplay?docid=3237027119714361315
SEMBRA una
storia limpida, "il caso Visco". Non lo è. Perché monca e
sapientemente manipolata. E, come in tutte le storie manipolate, i fatti ne
nascondono un'altra. Che racconta le mosse oblique del vertice della Guardia di
Finanza e ne svela le ragioni velenose. È notizia di ieri. Il
"Giornale", di proprietà della famiglia Berlusconi,
"documenta" un brutto affare. In un verbale del 17 luglio 2006, il
comandante generale della Finanza, Roberto Speciale, riferisce all'Avvocatura
dello Stato di essere stato oggetto di indebite, insistite e minacciose
pressioni da parte del viceministro per l'Economia Vincenzo Visco per
trasferire quattro alti ufficiali in servizio a Milano.
Quattro ufficiali che, in quel momento "lavorano all'inchiesta" che
ha tolto serenità ai Ds, "il caso Unipol". La richiesta di
trasferimento non ha nessuna apparente motivazione se non quella,
"inconfessabile" di punire servitori dello Stato considerati
politicamente inaffidabili dai nuovi inquilini di Palazzo Chigi. Il comandante
Speciale resiste coraggiosamente all'arroganza del viceministro e la spunta. I
quattro ufficiali restano al loro posto. Il fatto non è nuovo (le
cronache del luglio 2006 riferirono diffusamente del conflitto tra comandante
generale e viceministro), ma il verbale di Speciale offre pathos, sollecita
indignazione. Tra il 13 e il 17 luglio 2006, sembra di vederlo, il generale
mentre, assediato nel suo ufficio di viale XXI aprile, prova a spiegare a Visco
che non può dare corso immediato a trasferimenti imposti del ministro
senza violare la legge. Che esistono delle procedure da rispettare e che a
quelle lui starà. Sembra di vederlo ancora, ventilare stoicamente le
dimissioni il 17 luglio 2006, quando dall'ufficio del viceministro arrivano
arroganti minacce.
La cronaca del "Giornale" porta la firma di Gianluigi Nuzzi. E il
dettaglio non è neutro. Serve a entrare nella storia del "caso
Visco", a ricostruirne con esattezza i passaggi. A illuminarne i
protagonisti. Nuzzi ha ottime fonti nella Guardia di Finanza. Ha tenuto dei
corsi alla scuola della Guardia di Finanza. Nella Guardia di Finanza ha
raccolto il brogliaccio di un'intercettazione mai trascritta che, nel gennaio
2006, documenta la ormai celebre conversazione telefonica tra Piero Fassino e
Giovanni Consorte ("Abbiamo una banca...") che sprofonda i Ds in uno
psicodramma. Ma, soprattutto, Gianluigi Nuzzi ha un amico importante nelle
Fiamme Gialle: il generale Emilio Spaziante, che della Guardia di Finanza
è stato capo di Stato Maggiore dal luglio 2005 al marzo scorso, quando
viene nominato vicedirettore del Cesis (organo di coordinamento dei nosti
servizi segreti). Nuzzi e Spaziante si conoscono da tempo e insieme, nel 2004,
inciampano in una fuga di notizie per un'indagine sui bilanci dell'Impregilo.
Vicenda che appare dimenticata, ma che, nel gennaio 2006, quando si consuma la
fuga di notizie su Fassino e Consorte, a molti sembra utile ricordare.
Estate 2006, dunque. Visco è appena arrivato all'Economia, il generale
Emilio Spaziante è a Roma ormai da un anno quale capo di Stato maggiore.
Fino all'anno prima, ha comandato la Regione Lombardia. E la Lombardia e Milano
sono da sempre il suo "collegio". Non c'è foglia che si muova
nei comandi territoriali che lui non sappia. Quando dunque lascia per il
comando a Roma, Spaziante impone quale suo successore un amico fraterno, un
compagno di corso: il generale Mario Forchetti. Per Spaziante è una
garanzia doppia. Non solo per l'amicizia, ma per il network che li lega.
Entrambi sono stati ufficiali del "II Reparto", l'intelligence della
Guardia di Finanza, l'occhio e l'orecchio che lavora in perfetta osmosi con il
Sismi dell'ex generale di corpo d'armata della Fiamme Gialle Nicolò
Pollari e da cui Pollari pesca decine e decine di suoi ex ufficiali.
Il Sismi di Pollari - la Guardia di Finanza della Lombardia - il capo di Stato
Maggiore Emilio Spaziante. E' un triangolo d'acciaio che ha il suo baricentro a
Milano dove, in quei mesi, molto bolle in pentola. Non solo le inchieste sulle
scalate bancarie e sul caso Unipol, ma anche le vicende di Telecom, le
singolari intrusioni nelle anagrafi tributarie alla ricerca di qualche buona
notizia sullo stato dei patrimoni dei leader del centro-sinistra.
Epperò, ecco che nel luglio del 2006, il network sembra doversi
improvvisamente spezzare. In giugno, il comandante generale della Guardia di
Finanza, Roberto Speciale, sollecita il viceministro Visco a dare corso a una
cinquantina di avvicendamenti di alti ufficiali stilata nei mesi precedenti.
Visco prende tempo e chiede di poter prima compiere un giro di orizzonte.
Riunisce i direttori generali delle amministrazioni civili dello Stato, i
vertici della Guardia di Finanza, chiedendo che su quella lista di
trasferimenti faccia le loro osservazioni non solo il generale Spaziante, ma
anche l'allora comandante in seconda Italo Pappa e l'ufficiale che dovrà
succedergli, il generale Sergio Favaro. Per quel che ne riferiscono oggi fonti
qualificate al ministero dell'Economia, Visco raccoglie da Favaro e Pappa
un'opinione condivisa che a Milano e nella Lombradia esista "una
criticità". Nessuno aggiunge di più. Ma il network che fa
capo a Spaziante non è un segreto per nessuno.
Visco chiede dunque al Comandante generale di integrare la lista di
trasferimenti già pronta con quattro nomi: il comandante regionale della
Lombardia, generale Forchetti; il comandante del Nucleo provinciale Regionale
della Lombardia, colonnello Lorusso; il comandante del Nucleo provinciale della
polizia tributaria di Milano, colonnello Pomponi; il gruppo dei servizi di polizia
giudiziaria, Tomei.
I quattro ufficiali da trasferire diventano presto tre (Tomei scompare
dall'orizzonte). E il 13 luglio
Passano i giorni e al ministero monta l'irritazione perché non si ha alcun
segno che quel che Speciale ha scritto nella sua nota avrà un seguito.
Ma lo stallo ha una ragione. Consente di manovrare a chi deve impedire che il
triangolo Sismi-Spaziante-Milano si spezzi. Viene costruito un primo falso. Che
i tre ufficiali da trasferire paghino il loro coinvolgimento nell'indagine
Unipol. In realtà, nessuno di loro vi ha mai messo mano. All'inchiesta
(e alle sue intercettazioni) hanno lavorato, a Milano, gli uomini del nucleo di
polizia valutaria di Roma. Piuttosto è vero che il brogliaccio
dell'intercettazione Consorte (di cui si è avuta "fuga di
notizie") è stato redatto nella caserma milanese di via Filzi, sede
del nucleo di polizia tributaria (quello comandato da Pomponi). Il resto
è un gioco da ragazzi. La notizia dei trasferimenti contesi obbliga
l'Avvocatura generale dello Stato ad aprire un fascicolo per conoscere
"eventuali addebiti disciplinari" sul conto degli ufficiali in
predicato di trasferimento. E il caso viene affidato a Manuela Romei Pasetti,
amica di famiglia del generale Spaziante. Che, insieme a Speciale, viene
sentito ad horas negli uffici della caserma di via Filzi a Milano. I generali
Pappa e Favaro, che pure avrebbero qualcosa da dire, e di diverso, dovranno
aspettare settembre e saranno sentiti in Procura.
A fine luglio 2006, la partita è chiusa. Spaziante e Speciale hanno
vinto. Gli ufficiali da trasferire restano al loro posto. Come i veleni di
quella storia. Buoni per essere riproposti ora, che si ricomincia a parlare di
un nuovo comandante generale della Guardia di Finanza.
(23 maggio 2007)
[ZEUS News - www.zeusnews.it -
22-05-2007]
Bruno
Tabacci, parlamentare dell'Udc, uomo del centrodestra ma considerato da
Berlusconi "una spina nel fianco", soprattutto reduce della
Prima Repubblica in cui è stato presidente della Regione Lombardia,
parlamentare ed uno dei "colonnelli" della Dc di De Mita, rilegge le
vicende economiche, politiche e finanziarie degli ultimi anni in Italia, a
partire dal caso Telecom, in un libro-intervista al giornalista
economico del Corriere della Sera Sergio Rizzo, appena uscito presso Laterza.
Tabacci è un politico di professione, meglio di
razza, pieno di passione per la politica e un "conservatore
illuminato", come si diceva una volta, e non ha tanti complessi di inferiorità nei confronti del capitalismo all'italiana
di cui critica limiti ed insufficienze senza pietà.
Per
questo parte dalla considerazione che nella Prima Repubblica, prima di Mani
Pulite, le cose non andavano tanto bene perché i banchieri si facevano dare ordini dalla
politica: c'era troppa politica negli affari mentre, oggi, il problema è che c'è troppo poca politica, troppi affari nella
politica e sono i banchieri a comandare i politici e a fare il bello e il
cattivo tempo nella società italiana.
E' un
giudizio tremendamente d'attualità, se pensiamo che in pochi mesi sono nati
in Italia almeno tre colossi bancari tra i più grandi del mondo: Intesa-SanPaolo,
Unicredit-Capitalia, Banca Popolare Verona-Novara-Lodi, i cui i manager
controllano in gran parte l'industria e i servizi del nostro Paese e hanno
disponibilità finanziarie superiori a tutte le altre
aziende.
Non a
caso, con malizia, Tabacci ci ricorda che quando Tronchetti Provera si volle
lamentare dell'atteggiamento di Prodi con lui e Telecom, non ne parlò con Prodi stesso o un altro politico ma
con Giovanni Bazoli, presidente-padrone di Intesa-San Paolo e sponsor di Prodi.
Tabacci,
mantovano come l'ex manager e azionista di controllo Roberto Colaninno, ricorda
come nacque l'Opa su Telecom. Cominciò con l'Opa del Monte dei Paschi di Siena,
banca vicina ai Ds perché governata dagli stessi amministratori
locali diessini di Siena, sulla Banca Popolare di Mantova in cui era presente
Colaninno.
Dall'alleanza
Mps-Colaninno-D'Alema, con l'appoggio di Fazio, governatore di Bankitalia,
nasce l'Opa su Telecom fatta in spregio alle regole di non intervento nelle
aziende che, oggi, tutti dichiarano di voler rispettare. Poi Colaninno esce e
passa la mano a Tronchetti perché, ricorda Tabacci, i furbetti del
quartierino come Gnutti, Ricucci e consorte di Unipol devono realizzare e non
sono interessati a un progetto industriale.
Alla
fine in Telecom
Italia a comandare rimangono solo le banche; ma
il problema, ci dice Tabacci, (e non gli si può dare torto) è che sulla politica e sui giornali italiani
sono le banche e i banchieri italiani a comandare e non gli elettori: in
sostanza la classe politica italiana è un apparato costoso e inutile.
Filippo Facci mi annovera sul Giornale tra «i maggiori traduttori italiani di
Massimo D’Alema»: troppa grazia. E di conseguenza mi rimprovera per aver
scritto che D’Alema, evocando il rischio che il sistema politico attuale venga
travolto come accadde quindici anni fa alla Prima Repubblica, ha probabilmente
voluto segnalare che non intende comportarsi come Bettino Craxi. Il quale, dando
a Mario Chiesa del mariuolo, provò a nascondere (io per la verità
avevo aggiunto: “in primo luogo a se stesso”) che quella che si stava aprendo
era una crisi di sistema. Queste cose, sostiene Facci, Craxi le disse
sì, ma nelle settimane immediatamente successive all’arresto di Chiesa
(17 febbraio 1992), quando sembrava possibile (lui dice anche ai magistrati, io
penso proprio di no) che l’inchiesta milanese si chiudesse con un processo per
direttissima. Poi, quando fu chiaro che era partita la grande slavina, Craxi
disse (già il 3 luglio, alla Camera) cose assai diverse. Mettendo
l’accento sul carattere generalizzato del finanziamento illecito ai partiti e
alla politica e della corruttela. Esortando pubblicamente chi se la fosse
sentita (senza spergiurare) di dirsene estraneo a farlo pubblicamente. E
facendo appello a uno sforzo comune per il risanamento del sistema. Di un
sistema, conclude Facci, che per D’Alema e i Ds non era particolarmente in
crisi, giacché a loro giudizio tutti i guai derivavano dall’irrefrenabile
inclinazione al furto dei socialisti.
Vorrei anzitutto rassicurare Facci. Se ho scritto sciocchezze, si tratta di
farina del sacco mio, non certo del sacco di D’Alema. E se c’è una
memoria in crisi è la mia, non quella, di cui non posso rispondere, del
ministro degli Esteri. Però quelle settimane e quei mesi - li vissi al
Corriere, come capo del servizio politico a Roma, nemmeno troppo implicitamente
sospettato di filosocialismo - a me sembra di ricordarli bene. Ricordo
benissimo, per esempio, quando alla vigilia delle elezioni politiche andai, con
Guido Gentili, a intervistare in via del Corso Bettino. Che ci disse (e noi
ovviamente lo scrivemmo) di aver chiaro, chiarissimo che cosa fossero diventati
i partiti, compreso il suo. Ma di aver altrettanto chiaro anche che, ove mai
l’impresa fosse stata ancora possibile, e ne era certo, a riformare il Psi
avrebbero dovuto essere dei giovani (dei «giovani veri», precisò), non
certo lui, che non aveva più a disposizione né il tempo né le energie
sufficienti. Il suo obiettivo era Palazzo Chigi, i sondaggi (se ne rigirava tra
le mani uno che lo dava al sedici e passa per cento) lo confortavano. In poche
parole: la crisi la intuiva perfettamente, ma sperava di fare in tempo ad
aggirarla in extremis. Dall’alto, non dal basso. Dal governo, come se fosse
possibile rinverdire i fasti del quadriennio ’83-’87, non più da quella
società di cui più e meglio di tutti i politici italiani aveva
intuito, negli anni precedenti, i cambiamenti.
Si trattava di una speranza infondata. Niente Palazzo Chigi, niente Quirinale,
ma l’inizio di una falsa rivoluzione destinata a portarsi via (e per un lungo
periodo anche a condannare alla damnatio memoriae) i suoi innegabili meriti
assieme ai suoi errori. Ricordo benissimo anche il suo discorso alla Camera, in
luglio. E ricordo ancora meglio il silenzio che lo accolse, per spirito di
vendetta e nell’illusione che potesse fungere lui solo da capro espiatorio.
Tante volte mi sono chiesto se il corso delle vicende italiane sarebbe cambiato
se un politico autorevole, meglio se un avversario, un De Mita, o un Occhetto,
avesse avuto il coraggio di prendere la parola per rispondergli.
Penso di sì, ma in ogni caso non avvenne: le classi dirigenti avvertono
il dovere di affrontare una crisi di sistema, del loro sistema, quelle
evidentemente non erano più classi dirigenti.
Sono passati quasi quindici anni. Classi dirigenti nuove non se ne sono viste
(di tutte le «rivoluzioni», quella italiana è l’unica a non averne
prodotte). Ma (non lo dice solo D’Alema, e però lui lo ha detto
più chiaramente di altri) ci risiamo con il pericolo della crisi di
sistema, come se in questo quindicennio si fosse davvero formato un sistema, e
non una partitocrazia senza partiti, o una poltigliocrazia. Non saprei dire se
dalle vicende di allora si possano trarre degli ammaestramenti per l’oggi.
Forse no, ma magari non è inutile continuare a ragionarne.
Il
presidente del Consiglio: "Decisione incredibile" Il presidente del
Consiglio, Romano Prodi, durante il suo intervento ieri al Parlamento europeo a
Strasburgo STRASBURGO La visita di Prodi alle istituzioni europee si è
trasformata in una nuova occasione di scontro politico. Il premier è
intervenuto a Strasburgo parlando di Costituzione europea in un'aula semivuota
abbandonata sia dalla destra che dagli euroscettici. Poi, quando nel pomeriggio
ha incontrato i parlamentari italiani, la protesta si è formalizzata
davanti al documento consegnato dall'europarlamentare Antonio Tajani (FI): ce
ne andiamo, abbandoniamo l'incontro perchè Prodi "é il leader di
una parte politica". Immediata la replica del premier: "Tutto
ciò è incredibile". Prodi ha raccolto però applausi,
nel suo intervento, quando ha detto che l'Italia è pronta ad assumere la
leadership dei paesi europei che vogliono avanzare verso un'Europa
più unita e, se non ci sarà un accordo a 27 sulla nuova
Costituzione, non esclude l'ipotesi di procedere a due velocità nel
processo di integrazione. Meglio procedere con un'avanguardia di paesi,
piuttosto che avere un compromesso al ribasso, così come già
sperimentato con alcune delle scelte politiche più significative dell'Europa,
come l'Euro e lo spazio Schengen, "realizzate ricorda Prodi - solo da
alcuni Stati membri", ma non contro qualcuno e senza escludere gli altri. Tenendo,
al contrario, "la porta aperta". Una scelta "rispettata da
quanti a suo tempo non si sentirono ancora pronti perandare verso una certa
direzione. Ecco, io auspico rileva il premier - che in futuro prevalga questo
approccio costruttivo e che abbia la meglio su ogni tentazione di veto".
Il presidente dell'Europarlamento Hans-Gert Poettering riconosce a Prodi il
ruolo europeista dell'Italia, ma sulla doppia velocità è
scettico. "Non siamo ancora arrivati a questo punto, speriamo che tutti i
27 Stati vadano nella stessa direzione". E Prodi, al suo fianco in un
incontro stampa, precisa: "La doppia velocità è una second
best, una seconda opzione, rispetto alla prima scelta di un'intesa a 27 che
resta la priorità". L'ex presidente della Commissione Ue
non si nasconde la difficoltà di procedere a velocità diverse
sulle riforme istituzionali. Impossibile farlo, riconosce, senza la Francia. Da
Nicolas Sarkozy - auspica - "mi attendo una politica europea forte".
Ma se l'intesa a 27 si rivelasse alla fine impossibile, l'impasse potrebbe
essere superata solo richiamando quel principio fondamentale della Ue
che impone che nessun Stato comprima troppo e per troppo tempo le aspirazioni
degli altri. Del resto, sul Trattato costituzionale non si parte da zero. A
Strasburgo, Prodi ha parlato davanti ad un'aula parlamentare vuota per almeno
la metà. Le assenze più evidenti si sono notate nei banchi della
destra europea e delle forze euroscettiche. Il discorso di Prodi è stato
comunque costellato da diversi applausi: in quattro occasioni i parlamentari lo
hanno applaudito e anche la fine del discorso è stata accolta con
consensi. "Finora c'è stata attenzione verso coloro che si
allontanano dall'Europa", dice al suo arrivo, accolto dai tre vice
presidenti italiani dell'Europarlamento. "Adesso è il momento di
prestare attenzione ai 18 paesi che hanno ratificato la Costituzione e che
rappresentano la maggioranza assoluta". Su questo tasto martella Prodi e
avverte che l'Italia "non accetterà stravolgimenti" del
Trattato firmato a Roma. E Prodi indica anche alcuni paletti: il ministro degli
esteri comune ("chiamatelo se volete segretario di Stato", dice agli
euroscettici che lo contestano), una presidenza del Consiglio stabile, la
personalità giuridica della Ue, la Carta dei diritti. Pronto a
rinunciare, anche se a malincuore, a simboli come l'inno e la bandiera.
/
Roma SCEGLIERE "Una politica che non sceglie e che non motiva":
questa è la causa della disaffezione. "Una classe dirigente vissuta
come casta", che non si seleziona più nel confronto con i bisogni
reali della gente. Giovanni De Luna, storico autorevole dell'Italia
contemporanea, dà la sua lettura sull'allarme di D'Alema. E dà
una sua ricetta: un "conflitto" sano, senza scontro, basato sulla
nettezza delle scelte. Professore, condivide l'analisi di D'Alema? "Do per
scontato che sia vero il dato della disaffezione dalla politica. Non so se il
riferimento alla crisi di Tangentopoli è calzante, ma l'importante
è interrogarsi sul perché di questo scollamento". Ecco, perché?
"Se si analizza andando dal particolare al generale, il primo anello
è rappresentato da questa nefasta legge elettorale, che ha sequestrato
la possibilità dei cittadini di incidere sulle scelte dei partiti. Il
secondo anello, più ampio, è quello che io definirei l'ingerenza
del mercato. C'è una frase cara a Giuliano Ferrara: il mercato decide, i
tecnici governano e i politici vanno in televisione. Un po' rozzo, ma
plausibile. Si ha l'impressione che ormai una serie di meccanismi decisionali
sfuggano alla politica. C'è un mercato sempre più invasivo e una
parallela ritirata dello Stato da una serie di ambiti occupati nel
Novecento. È un ridimensionamento verso il basso (nei confronti delle
comunità locali, di appetiti corporativi), e verso l'altro, la
dimensione globalizzata e sovranazionale". Però questo non è
un fenomeno solo italiano. "Ma in Italia rimbalza in modo peculiare e
drammatico. Ha ragione D'Alema, da noi si stanno manifestando in maniera
parossistica fenomeni nati nella seconda metà degli anni 80. I partiti
sono diventati aggregati di detentori di cariche pubbliche, contribuendo
all'immagine di classe politica come casta. Prevale la cooptazione, mentre si
è spezzato quel meccanismo che legava la selezione delle classi
dirigenti al confronto coi bisogni reali". Che era un merito dei grandi
partiti di massa. "In Italia si è usciti in modo tumultuoso dal
Novecento scaraventando fuori dalla finestra i partiti di massa e tutte le
vecchie appartenenze ideologiche, ma rischiando di buttare il bambino con
l'acqua sporca. La marea ha lasciato a riva tronconi di partiti. Uno degli
aspetti più significativi è l'affievolirsi delle distinzioni
identitarie e sui valori. Questo non è di per sé un male perché
ideologie, identità e valori nel Novecento ci hanno regalato tragedie.
Ma smarrendo i tratti del conflitto identitario la politica non è
più stata in grado di intercettare le passioni e i tumulti della gente,
si è presentata come una distinzione tra opzioni molto simili, legate
alla gestione della cosa pubblica". Si direbbe che non ci sono più
le differenze di una volta... "Da questo punto di vista, con grande
cautela, forse la riproposizione più netta del conflitto potrebbe
persino essere una soluzione. Anche in D'Alema c'è stata spesso questa
paura del conflitto, questa ansia del paese normale, pacificato, che dialoga.
Perché pesa ancora il ricordo di quando i conflitti spaccavano il paese. Invece
io avrei oggi più fiducia". Nel bipolarismo maturo? "Oggi si
può riproporre una nozione di conflitto che non porti sull'orlo della
guerra civile. La disaffezione è legata alla mancanza di scelte nette.
Sulle emergenze del nostro tempo la gente non può non schierarsi, e
può farlo senza per questo avere un nemico da combattere". Esempi?
"Ad esempio i problemi sollevati dalle comunità locali, come Serre,
la Val di Susa, come si affrontano? Rinviando la scelta, dando ragione una
volta all'uno o all'altro? Per la sinistra storicamente il territorio non
è stato sempre una variabile decisiva, anzi veniva interpretato
come un freno al dispiegarsi del protagonismo collettivo, delle grandi masse.
Adesso queste comunità locali diventano di colpo il sale della
democrazia? Qui bisogna darsi una misura e un criterio di giudizio. Togliatti
criticava il mito del buon governo. La questione meridionale, diceva, si
può risolvere con bravi agronomi? O ci vuole qualcosa di più?
Insomma servono scelte più chiare e possibilità di
schierarsi". Anche sul tema della laicità? "Non possiamo
pensare che oggi la frattura laici cattolici possa riproporsi nella
dimensione scismatica dell'Ottocento. Entrambi si confrontano all'insegna della
stessa regressione, perché in realtà il mercato sta erodendo la politica
dei laici e la leadership dei cattolici. Diciamo la verità: i
valori che si affermano nel mercato non sono quelli del Family Day. Questo
confronto non deve essere risolto sul piano del compromesso, ma della chiarezza
delle opzioni". Ma nella destra e nella sinistra, oggi, vede
consapevolezza della profondità del male, oppure ognuno punta a
convivere a modo suo con questa disaffezione? "Il problema è
comune. La destra ha una scorciatoia che è Berlusconi. Il suo elettorato
è fisiologicamente più lontano dalla politica, ma è
più ricettivo al richiamo del populismo. Il centrosinistra non ha questi
strumenti, deve nutrirsi di un altro humus culturale, che è appunto la
nettezza delle scelte. Solo che non vedo, nella sinistra, grande
consapevolezza, per questo il richiamo di D'Alema è utile". Secondo
lei il partito democratico è una risposta alla disaffezione? "Il
partito democratico rischia di essere schiacciato nella sua nascita dal
problema della governabilità. Il processo ha assunto una direzione a
senso unico, di tipo centripeto, da sinistra verso il centro, e il rischio di
un'egemonia moderata c'è. Questa sofferenza dell'area di sinistra verso
il Pd la vediamo nella costruzione del Pantheon. Per chi è della
Margherita non c'è nessuna difficoltà a metterci De Gasperi, per
la sinistra si tratta di far convivere Berlinguer e Craxi. Ma il progetto pone
problemi enormi anche nella sinistra radicale, perché fa perdere rendite di
posizione e obbliga al cambiamento. Come si rompe questo schema? Non
lasciandosi invischiare dalla dimensione della governabilità. Quella
è un "prius", ma non può bastare, bisogna riattivare il
meccanismo delle opzioni e delle scelte. Serve una classe dirigente nuova,
giovane, non selezionata sul sopire e lenire". Ai protagonisti del mercato
conviene una politica debole? "Sì. Lo spazio pubblico lasciato
libero dalla politica viene man mano occupato dal mercato, con le sue regole e
i suoi comportamenti collettivi. Non va demonizzato questo fenomeno, tutta la
storia contemporanea è legata alla dialettica tra politica e mercato. Ci
sono fasi in cui la politica si espande nello spazio pubblico, come dopo il
'29, e fasi, come questa, in cui il dominio si rattrappisce. Il mercato ci
sguazza, costruisce un senso comune in cui prevale l'insofferenza verso regole,
lacci e lacciuoli. La sua è una vittoria culturale prima di tutto".
E la politica non reagisce. "L'errore della politica è modellarsi
alla tendenza, restando subalterna".
22 maggio 2007 Alla ricerca del consenso
elettorale, lo slalom del governo è comprensibile, ma poco convincente.
L'altra sera il presidente del Consiglio, dopo il vertice di Palazzo Chigi,
è ricorso alla tattica di indicare cinque priorità. Eppure cinque
sono un po' troppe se si vuole mandare un messaggio efficace, e non solo
superficiale, alla pubblica opinione. Ma tant'è. In questa fase
prevalgono le ragioni legittime della propaganda, il che non esclude che
l'esecutivo debba guardarsi dalle fratture interne. Se la riunione di domenica
(con D'Alema, Rutelli e Padoa-Schioppa) voleva dare il senso di una
"regìa" nel governo, affidata a due esponenti del futuro
Partito Democratico e al ministro paladino del rigore, l'operazione è
riuscita a metà.
Prima di tutto perché i temi insidiosi sono stati rinviati al Dpef e nel
frattempo l'unica cosa certa sono le risorse destinate al contratto degli
statali. E in secondo luogo perché questo ruolo direttivo del Partito
Democratico non è ovviamente accettato dagli altri partner, cioè
dai partiti dell'ala radicale. L'argomento dei Giordano, Diliberto e Pecoraro
Scanio è nella sostanza piuttosto semplice: l'area Ds-Margherita non
dispone da sola dei voti per fare maggioranza in Parlamento; dunque deve
trattare con loro. L'idea che l'asse del governo si sposti piano piano verso il
centro non è accettabile per la sinistra, che finora si è sempre
sforzata di ottenere il risultato opposto.
Comunque l'aspetto politico, cioè la solita spaccatura nell'Unione, non
è così rilevante in questo momento. Tutti sono in campagna
elettorale e ciascuno tira l'acqua al suo mulino. Prodi, con i Ds e la
Margherita, ha interesse a marcare il profilo "riformista" del
governo. Gli altri hanno bisogno di recuperare in fretta un po' di
visibilità. Dopo le elezioni si farà il punto. Nel frattempo la
riforma delle pensioni, chiesta da Padoa-Schioppa, sembra scomparsa nel nulla.
La promessa di adeguare le pensioni minime (una delle cinque priorità
prodiane) è utile sul piano sociale, ma non ha nulla a che vedere con i
correttivi chiesti dal ministro dell'Economia. Il quale aveva posto la fine di
giugno come data-limite per un'intesa.
Così il governo appare diviso una volta di più fra il rigore del
ministro che guarda all'Europa e l'impianto tradizionale dei partiti. Quelli
dell'estrema sinistra, ma anche i due maggiori (Ds e Margherita): tutti attenti
a sottolineare le loro ragioni pratiche. Forse scoprendo per questa via che la
" crisi della politica" è anche la loro crisi come
organizzazioni stanche e piuttosto autoreferenziali. Il risultato è la
consueta paralisi dell'esecutivo.
Vale la pena di segnalare, del resto, che proprio ieri il presidente della
Camera ha chiesto una riforma della politica. Operando però una
distinzione. Gli strati a reddito medio-alto chiedono una riforma delle
istituzioni, compresa la legge elettorale; mentre i ceti a reddito medio-basso
si distaccano dalla politica «per la mancata corrispondenza della medesima alle
condizioni sociali». In parole povere, la politica non è in grado di
frenare il crescente impoverimento dei ceti deboli. È certo un caso, ma
l'analisi di Bertinotti non è del tutto dissimile da quella di monsignor
Bagnasco. Il presidente della Cei ha indicato proprio nella povertà di
un numero sempre crescente di famiglie il problema numero uno del Paese. La
vera priorità. E c'è da star sicuri che la denuncia del prelato
accentuerà il malessere che agita il centrosinistra.
Nel
XV anniversario della strage di Capaci, c'è una cosa molto utile che
potrebbero fare i politici italiani: tacere. Risparmiarci la solita grandinata
di dichiarazioni, esortazioni, rassicurazioni, omelie, giaculatorie con lacrima
incorporata. Disertare, una volta tanto, le celebrazioni ufficiali, sempre
più rituali e retoriche, nelle quali le parole sono inversamente
proporzionali ai contenuti e le promesse ai fatti concreti. E ritirarsi a
riflettere in silenzio sul fallimento di questi dieci anni di lotta alla mafia,
del quale tutti, pro quota, sono responsabili, visto che tutti hanno governato.
Casomai qualcuno volesse anche informarsi, ci sono ottime letture. Saverio
Lodato ha ripubblicato negli Oscar Mondadori la sua memorabile intervista del '
PORTOFERRAIO.
Hanno sostenuto la mozione Mussi al congresso Ds di Firenze, ma non sono
intenzionati a seguire il ministro piombinese nella costruzione di Sinistra
democratica; la loro battaglia, insomma, vogliono continuare a farla
dall'interno del futuro Partito democratico. è questa la posizione
assunta da un gruppo di iscritti ai Ds, sia elbani che piombinesi, affidata a
un comunicato i cui primi firmatari sono Ringo Anselmi, Luciano Gabrielli,
Giovanni Fratini, Michele Di Perna, Dino Grilli, Mario Guelfi, Oris Meini e Leo
Muti. "Abbiamo sostenuto convintamene la mozione Mussi - scrivono -
condividendone i contenuti e soprattutto nella convinzione che il cammino
indicato da Fassino fosse troppo affrettato e lasciasse troppi nodi da
sciogliere che per noi sono fondamentali. Il Pd lo vogliamo progressista,
perciò dovrà collocarsi nel campo di tutte le principali forze
progressiste d'Europa e del mondo cioè il Pse e l'Internazionale socialista.
Se il Pd è un partito progressista - si legge ancora - dovrà
essere laico per poter giocare un ruolo nella società moderna anche di
fronte all'offensiva conservatrice di parte del mondo cattolico che è in
atto, soprattutto nel nostro Paese. Se il Pd è un partito progressista
dovrà essere fortemente radicato nel mondo del lavoro, della cui
rappresentanza deve innanzitutto farsi carico quello che aspira ad essere il
primo partito della sinistra italiana, per voti e dimensioni. Questi sono
alcuni dei punti su cui siamo pronti a discutere, ma sui quali non
arretreremo". Battaglia dall'interno dunque, senza seguire gli
scissionisti mussiani. "Rispettiamo la posizione di quei compagni - si
legge infatti - che hanno scelto di abbandonare i Ds dando vita ad un nuovo
raggruppamento politico e pensiamo di poter continuare a vedere in loro
interlocutori affidabili ed alleati leali anche in virtù della storia
che ci unisce e delle battaglie che abbiamo condiviso; e tuttavia noi ci
sentiamo di dire che non condividiamo quella scelta e non intendiamo seguirli.
Non vogliamo aggiungere un nuovo elemento di frammentazione a sinistra,
già troppi in questi anni ve ne sono stati, ed hanno rappresentato il
limite più grande del nostro schieramento. Resteremo nei Ds, certamente
finché questo partito resterà tale, ma ci impegneremo anche nella
cosiddetta "fase costituente" del Partito democratico e ci batteremo
affinché nel nuovo soggetto politico restino vivi quei valori irrinunciabili
che provengono dalla nostra storia. Soltanto al termine di quella fase
decideremo la nostra collocazione".
++ Da
Miaeconomia.leonardo.it 22-5-2007 Nuova
direttiva Ue sul credito al consumo
++ La Stampa
22-5-2007 D'Alema, Berlusconi e la Superbanca AUGUSTO MINZOLINI
Il
meridiano.info 19-5-2007 Libro-denuncia: Milano da Morire di Luigi Offeddu e
Ferruccio Sansa
L’Unità
22-5-2007 Emergenza semafori Marco Travaglio
Il Riformista
22-5-2007 Prodi, perché non dimezzi il governo? Di Valdo Spini
(22/05/2007)
Il Consiglio dei ministri per la
competitività dell’Unione europea ha approvato a Bruxelles la nuova
direttiva per il credito al consumo, vale a dire i prestiti per l’acquisto
dell’auto, del frigo, della macchinetta fotografica o del viaggio. Così
dopo cinque anni di negoziati, è stato raggiunto un accordo che
armonizza le regole sui crediti al di sotto dei 50.000 euro a tasso fisso al
fine di mettere il settore al passo dell’integrazione del mercato europeo dei
servizi finanziari. Rimangano invece fuori i mutui ipotecari e i contratti di
finanziamento per l’acquisto di titoli e azioni per i quali sono previste
regole ad hoc.
La direttiva dovrebbe servire ai
consumatori per comparare meglio le diverse offerte proposte nei vari paesi
dell’Ue, aumentando la concorrenza interna su un mercato molto grande:
complessivamente, i consumatori dei 27 paesi Ue sono creditori per un totale di
800 miliardi di euro, un decimo del prodotto interno lordo dell’Unione. Un
mercato che cresce dell’8% l’anno.
Finora le differenze tra i paesi membri
sono state molto marcate: i tassi variano da un massimo del 12% in Portogallo a
un minimo del 6% in Finlandia. In media, i meno indebitati sono lituani e
slovacchi, che devono meno di 100 euro alle banche, all’opposto di britannici e
irlandesi che invece devono oltre 3.000 euro in media.
Sciolto anche il nodo sulla soglia minima
per l’estinzione anticipata del prestito: è stata alzata da 5.000 euro a
10mila euro. Tra gli obiettivi del testo, riduzione dei costi ed una maggiore
protezione dei consumatori, possibilità di allargare la propria
clientela in tutta l’Ue grazie alla certezza del quadro giuridico che prevede
lo stesso livello di protezione in tutti gli stati membri.
Il ricorso al credito al consumo in Italia
negli ultimi anni è aumentato in modo esponenziale. Le cause di questo
fenomeno sono da ricercare nel minor potere di acquisto, nelle proposte commerciali
sempre più aggressive, nei profondi mutamenti culturali in merito
all’uso del denaro.
La legislazione italiana già prevede
norme analoghe a quelle previste dalla direttiva sulla trasparenza informativa
e sul diritto di estinzione anticipata del prestito da parte del consumatore.
Dovranno invece essere rafforzate le norme
che riguardano gli obblighi informativi ed introducono il diritto ad
un’assistenza da parte del finanziatore. Dovrà essere infine previsto un
regime di recesso secondo modalità fissate dalla direttiva ed entro 14
giorni dalla conclusione del contratto di credito.
Il varo della nuova direttiva sul credito
al consumo “è un tassello importante” per la “creazione di un mercato
unico dei servizi finanziari al dettaglio”, ha commentato l’Associazione
bancaria italiana. Vi sono tuttavia ancora dei problemi, avverte
l’Associazione, secondo cui “alcune delle norme proposte presentano ancora
criticità rispetto al raggiungimento dell’obiettivo di aumentare il
livello di attività transfrontaliera, in quanto possono indurre fenomeni
di contrazione dell’offerta di credito o di aumento di alcuni costi legati alla
sua erogazione, anche in connessione con le maggiori responsabilità e la
funzione di garanzia complessiva del sistema demandata al finanziatore”.
La maxi fusione
rafforza il ministro degli Esteri che gioca due partite: contro Veltroni nel
Pd, con Silvio per le larghe intese
ROMA
Nel Transatlantico di Montecitorio un amico di Giorgio Napolitano dai tempi del
Pci e ancora adesso ascoltato consigliere del Capo dello Stato, Gianni
Cervetti, ragiona sulla distanza che separa il Paese dal Palazzo. «Il problema
- osserva - non è di costume, ma è politico. Queste coalizioni
non garantiscono la governabilità. Questo bipolarismo non regge. Come
pure questi partiti. C’è una crisi di rappresentanza. Pensate: una volta
il 98% degli iscritti al sindacato erano anche iscritti ai partiti, ora non
superano il 25%...».
Già, crisi di sistema o, per dirla con le parole di Massimo D’Alema,
un’«emergenza». In un paese come il nostro, che per bocca di tutti è
sull’orlo di un vero e proprio cataclisma, può succedere la qualunque:
c’è una politica che versa in uno stato di estrema impotenza sul piano
della governabilità, ma partecipa attivamente all’elaborazione delle
nuove geografie di potere. Sembra una contraddizione ma in realtà
è solo un paradosso: giovedì scorso su «il Giornale» viene
pubblicata l’intercettazione di una telefonata del
Ovviamente il rapporto non è diretto. E’ il mercato, com’è
giusto, che decide le grandi fusioni: «Sono i politici - rimarca Bruno Tabacci
- che pavoneggiano un potere che non hanno». Ma è difficile non vedere
quel sottile legame che unisce le fasi politiche alle grandi partite di potere.
La fusione tra Intesa e Sanpaolo, il cosiddetto «polo prodiano» nel sistema
bancario italiano, è avvenuta a pochi mesi dalle ultime elezioni, quando
il Professore toccò il suo apogeo: e fu accolta freddamente da D’Alema e
da Berlusconi. La fusione tra Unicredit e Capitalia è maturata invece
ora, quando l’influenza di Prodi è al suo minimo storico e, non per
nulla, l’operazione è considerata un tentativo di “riequilibrare”
l’altro polo. Di più: non si è tirata dietro le polemiche che si
tirò dietro l’altra. Sui “media” D’Alema - amico sia del presidente di
Unicredit, Profumo, sia del patron di Capitalia, Cesare Geronzi, da sempre
considerato il banchiere del Palazzo - ci ha quasi messo la sua targa sopra e
Berlusconi, che dando retta al suo gran visir Gianni Letta ha difeso Geronzi
anche nei momenti peggiori, non ha fiatato in pubblico ma l’ha benedetta in
privato. E l’operazione è andata in porto qualche settimana dopo che
Roberto Colannino, fan di D’Alema, e Mediaset, cioè la società di
Berlusconi, non sono riusciti ad entrare nell’affare Telecom per il «no»,
inutile dirlo, di Prodi.
Questo non significa che la fusione Unicredit-Capitalia prefiguri un nuovo
equilibrio politico, le «grandi intese», o altro. Ma di fatto concorre a creare
un «humus» favorevole. O almeno molti la pensano così. «L’attuale quadro
politico - ammette a mezza bocca uno dei fedeli del ministro degli Esteri -
è logorato, va rilanciato o...». Mentre uno degli strateghi del
Cavaliere, Fabrizio Cicchitto, fa questa analisi della situazione: «Se
c’è stata un’inluenza politica sulla fusione Unicredit-Capitalia
è stata di stampo dalemiano. Berlusconi al massimo ha dato il suo
beneplacito. Certo riequilibra il potere di Prodi nel mondo finanziario e
segnala un forte movimentismo sotto traccia di D’Alema. Dove può portare
non si sa: lui pensa solo ai suoi interessi. Se alle amministrative l’Unione
perde ci potrebbe essere un cataclisma politico e nuovi equilibri politici
dietro l’angolo. Se resta tutto così com’è, Prodi si stabilizza e
D’Alema investirà tutto sul partito democratico. Veltroni dovrà
vedersela con lui». Insomma, lo schema è chiaro e nel caso ci fosse il
«terremoto», la «nuova emergenza», il distacco tra Paese e Politica, quella
crisi di cui parla D’Alema e che Cervetti collega a quella del bipolarismo,
potrebbe essere il terreno su cui trovare un accordo più largo.
«Quando parla di queste cose - osserva l’ex-dalemiano Giuseppe Caldarola -
D’Alema pensa al governo con Berlusconi. La realtà è che siamo
alla vigilia del big bang. Tanto più che il 12 giugno arriveranno nuove
intercettazioni alla Camera e non sarà stata ancora approvata la legge
che ne impedisce l’uso: e ognuno pensa a difendersi». Se Caldarola parla ormai
da eretico, le analisi che si fanno nei quartieri generali di Veltroni e di
Prodi non sono poi così diverse: al sindaco di Roma non sono sfuggite le
tentazioni del ministro degli Esteri a favore del sistema elettorale tedesco,
il più adatto ad un governo di larghe intese. Mentre Prodi liquida il
tutto con una punta di sarcasmo: «L’altra volta, nel ‘96, dopo un anno di
governo, D’Alema fece un’intervista per dire: “Caro Romano così non
va...”. E’ passato un anno e ora ha detto: “Cara politica così non
va...”. Meno male che questa volta se l’è presa con qualcun altro...».
Sarà, ma intanto la situazione sta precipitando. Ieri in Transatlantico
Franco Giordano, segretario di Rifondazione Comunista, commentava così
il vertice a Palazzo Chigi riservato ai soli rappresentanti del Partito
Democratico: «Mi sento già all’opposizione. Non possono pensare di
decidere tutto loro. Se ne assumeranno la responsabilità».«Il mandato
che ho appena incominciato sarà certamente l’ultimo. Nel 2010,
avrò passato 12 anni alla guida del gruppo, di cui sono amministratore
da 34 anni. Sarà allora il momento di farmi da parte. è peraltro
previsto che, durante il terzo anno del mio mandato, organizzi la mia
successione». Lo ha detto presidente delle Generali, Antoine Bernheim, classe
  Strasburgo. Il negoziato condotto
dalla presidenza tedesca dell'Ue per sbloccare lo stallo sulla Costituzione
entra nella fase decisiva. Dopo aver lasciato spazio e voce ai pochi Paesi che
bocciano il testo - firmato da tutti i 27 Stati dell'Ue - la maggioranza di
quelli favorevoli, fin qui molto silenziosa, tenta di farsi sentire. Il fatto
può essere considerato importante da tutti coloro che temono un
eccessivo annacquamento del Trattato, ma non significa che la via per un
compromesso diventi in discesa. Dopo il lungo periodo di riflessione, il tema
ha riconquistato spazio nell'agenda dei Paesi dell'Unione. Commissione e
Parlamento sono già a metà mandato, l'avvicinarsi delle elezioni
del 2009 rappresenta una spada di Damocle. E il record al ribasso battuto
domenica dalla Bulgaria, con un'affluenza alle urne sotto il 30 per cento,
è un forte campanello d'allarme. C'è consenso sul fatto che, con
i trattati esistenti l'Ue non può funzionare.   Finora hanno
imperato Regno Unito, Polonia e Repubblica Ceca, fautori di un testo purgato da
simboli e contenuti. La Danimarca è pronta ad accordarsi, Olanda e
Francia premono per una soluzione che eviti loro un nuovo referendum. Sarkozy
sostiene il mini-trattato, rimandando una riforma più ampia. Un numero
crescente di Paesi che hanno ratificato il Trattato hanno ora timidamente tentato
di bloccarne una profonda revisione utilizzando l'arma delle cooperazioni
rafforzate, anche perché c'è chi ritiene che un'Ue a 27 può
funzionare solo a due velocità. In questa prospettiva crescono i
consensi perché siano i Paesi che hanno adottato l'euro - che da gennaio
saranno 15 - a costituire il nocciolo del gruppo. Il cancelliere tedesco Angela
Merkel vuole presentare al vertice di fine giugno la proposta per una
Conferenza intergovernativa per ratificare un compromesso, ma per evitare di
ammettere il fallimento potrebbe anche lei sostenere una soluzione al ribasso,
puntando sul fatto che i tempi sono stretti. Alcuni Paesi, tra i quali Italia,
Belgio, Lussemburgo, non vogliono fare solo concessioni. Oggi Prodi ne
parlerà al Parlamento europeo, dove c'è un'ampia maggioranza a
favore dell'attuale Trattato.  .
ROMA "Oggi i partiti devono guardare
oltre se stessi, abbandonare la politica del ricatto che serve a mantenere la
propria nicchia. Il referendum elettorale è l'unico antidoto alla
malattia dell'Italia che resta la partitocrazia. Il referendum è l'unico
strumento democratico, come nel '93, per dare una spallata al sistema politico".
Antonio Di Pietro, leader dell'Italia dei valori, usa accenti forti per
scendere in campo in favore del referendum elettorale. Lo fa con una
riflessione sui dilaganti sentimenti di ostilità alla politica. E con un
parallelo fra lo scollamento di oggi e quello degli anni '90, quando lui era il
pm di Mani Pulite, l'artefice numero uno del crollo della politica. "La
via giudiziaria - dice - stavolta non ci sarà: Tangentopoli si consuma
tutti i giorni, peggio di prima, ma non ci sarà una nuova Mani pulite
perché domina l'indifferenza. Il ruolo di spallata al sistema della politica
che ebbe la magistratura quindici anni fa potrebbe averlo ora soltanto la Rete.
Ci sono blog dove si ritrovano a parlare di politica centinaia di migliaia di
persone che un politico non riuscirebbe mai a portare in una piazza".
Ministro Di Pietro,il male italiano è la legge elettorale, il ritorno al
proporzionale? Sì, ma non illudiamoci che sarà mai cambiata da
questa classe politica. La legge elettorale questo Parlamento non potrà
che farla a propria immagine e somiglianza. Non puoi chiedere a un rapinatore
di costituirsi per andare in carcere, il pentimento biblico in politica non si
è mai visto. Dice Massimo D'Alema che spira il vento del 1992 e il ceto
politico rischia di andare tutto a casa. Lei che ne pensa? è
un'osservazione fondata, ma in questi quindici anni la politica aveva tutto il
tempo di rigenerarsi sul piano del personale politico, riconvertirsi sul piano
dell'etica, rivitalizzarsi sul fronte dell'azione politica.Io sono al Governo
da pochi mesi e mi sto occupando del partito del fare, ma tutti quelli che in
questi quindici anni hanno fatto politica a destra e a sinistra si lamentano
che la politica ha perso il contatto con i cittadini, quando sono gli arteficiprincipali
dello scollamento. C'è ancora la questione morale? Più grave di
prima. Quando scoppiò Mani pulite, fece notizia che tanti politici
rimasero invischiati con le mani nella marmellata e creò indignazione.
Oggi ci sono ancora i politici con le mani nella marmellata, ma non fa
più notizia. A chi si riferisce? Alla Camera ci sono una ventina di
persone condannate con sentenza penale passata in giudicato che non dovrebbero
essere candidati né da destra né da sinistra. C'è qualcuno che è
stato condannato e dichiarato decaduto dal Parlamento, che si chiamerà
pure Previti, ma il presidente della Camera dei deputati, che si chiama
Bertinotti, non riesce a trovare un minuto di tempo per dirgli "si
accomodi fuori"? Qui c'è una politica trasversale. Pensa a qualche
provvedimento in particolare? Mi sto sgolando su questo conflitto di interessi
che l'Italia dei valori non voterà. Voteremo no, non c'è voto di
fiducia, non saremo costretti a ingoiare i rospi. Il primo articolo di questo
disegno di legge dovrebbe prevedere l'ineleggibilità delle persone
condannate con sentenza penale in giudicato. Il secondo articolo
l'ineleggibilità di chi utilizza beni pubblici come gestori di servizi o
concessionari. è una gara truccata se qualcuno partecipa potendo
utilizzare i beni pubblici. è pessimista? Sì.Chi commette
reati,resta impunito. Da parte dei cittadini c'è scoramento,
scollamento, apatia, indifferenza, disprezzo. A tutto questo non ci può
essere che una via d'uscita democratica. Quale? Il referendum elettorale.
Cambia le carte in tavola. è un'arma democratica. L'Italia dei valori,
pur essendo una delle forze politiche che quel referendum farà
scomparire, è favorevole a quella soluzione perché in unmomento
così delicato non si può più fare una lotta di
retroguardia per salvaguardare partiti e partitelli. Bisogna scrollarsi di
dosso questo disprezzo per la politica che non è colpa della politica ma
dei politici che hanno predicato bene e razzolato male. Io sono l'unico bastian
contrario. Qui vogliono far passare cose scandalose. Esempi? L'altro giorno
stava passando in preconsiglio dei ministri una legge che riduce le pene per la
bancarotta e manda in prescrizione tutti i reati commessi dai furbetti del
quartierino. Stiamo parlando di riduzione degli sprechie stava passando una
legge sulla fondazioni politiche che, se non fosse stato per noi dell'Italia
dei valori, sarebbe stata un'altra enorme cassa per mungere soldi allo Stato, e
quindi ai cittadini, da parte dei partiti. Ci sarà una nuova
tangentopoli? La nuova tangentopoli c'è già tutta, ma non ci
sarà la nuova Mani pulite. Perché prima c'era un'indignazione popolare
che ha accompagnato le indagini della magistratura, mentre oggi c'è
rassegnazione e indifferenza da parte dei cittadini perché tanto non cambia
nulla. La via giudiziaria alla riforma della politica stavolta è
preclusa? La via giudiziaria c'è tutti i giorni, i magistrati lavorano,
ma non fa più notizia. Mi risulta che Geronzi abbia qualche problema di
giustizia. Ma non mi pare che questo gli impedisca di stare oggi su tutti i
giornali con le fusioni bancarie. Questo vale per la classe politica, la classe
imprenditoriale, l'informazione. Crescono i costi della politica. La politica
è sempre più un mestiere. Anche questa è
un'assurdità, far diventare la politica un mestiere. Un
consiglierecircoscrizionale di Palermo prende 34mila euro al mese, la politica
è diventata un concorso per un posto di lavoro. E questi sono i costi
delle istituzioni. Poi ci sono i costi spaventosi della politica, a partire dal
finanziamento dei partiti. Prima c'erano le tangenti, ora si è fatta una
legge che permette di prendere gli stessi soldi esorbitanti di allora. Basta
che uno fa gruppo in consiglio regionale e prende un sacco di soldi. Ovunque si
è creata una giustificazione legislativa per rendere lecito ciò
che è sostanzialmente immorale. è diventato un sistema? è
questa la metamorfosi della tangentopoli di un tempo, l'ingegnerizzazione del
sistema. Prima si commettevano reati per raggiungere fini immorali, oggi si
commettono atti che reati non sono ma restano sempre immorali. IlPartito
democratico aiuta il rinnovamento della politica? Il Partito democratico
è come il bisturi di un medico. Può servire a rimettere in
contatto i cittadini con la politica e soprattutto a sostituire l'attuale
classe politica. Se serve solo a legittimare l'attuale classe politica,
invece,è il bisturi che il medico usa quando vuole ammazzare la moglie.
Lei ha creato una formazione politica nuova. Ha avuto difficoltà a
reclutare personale politico all'altezza. L'Idv insieme alla Lega è uno
dei pochi partiti nati in via spontanea fra i cittadini che passano dalla
protesta alla responsabilità, si mettono insieme e vanno nelle
istituzioni.Noi e la Lega avevamo un obiettivo comune: il ricambio generazionale
in politica. Per una forza politica nuova la criticità è evitare
i riciclati e gli opportunisti. Fino alle ultime elezioni l'Idv ha dovuto
subire questo ricatto, ma da allora a oggi ci siamo inseriti nel mondo di
internetin un rapporto one to one con tutti i cittadini. Il nostro obiettivo
è andare oltre il partito tradizionale per arrivare all'agorà
virtuale della Rete che ci permetterà di dialogare direttamente e di
reclutare direttamente il personale politico. Internet avrà un ruolo nel
rinnovamento della politica? Sarà la condanna del sistema dei partiti.
Più internet va avanti più il sistema dei partiti diventa una
scatola vuota. Oggi il cittadino vuole dialogare direttamente ogni giorno con
quello che considera un proprio dipendente, il politico. La Rete sarà la
livella della cattiva informazione e risolverà tutti i conflitti di
interessi. "Possibile che il presidente della Camera non abbia mai un
minuto per dire a Previti "si accomodi fuori"?" "Il Partito
democratico è utile se rinnova la classe politica, è dannoso se
serve a conservarla"
Milano Inefficienza,
conflitti di interesse, corruzione e malcostume ammorbano Milano, che da
modello di operosità e pragmatismo, si è trasformata nella
capitale del vizio e dell’immoralità. I sintomi di questa malattia
destinata a incancrenirsi e a radicalizzarsi sono descritti con dovizia di
particolari nelle 600 pagine del libro di Luigi Offeddu e Ferruccio Sansa
“Milano da Morire” uscito in libreria. Gli autori, entrambi giornalisti
(Offeddu del Corriere della Sera, Sansa del Secolo XIX), hanno consultato per
oltre un anno documenti, verbali, ordini del giorno, interrogato cittadini,
riannodato i fili di una trama che potrebbe assomigliare a quella di una spy
story.
Gli ingredienti ci sono tutti, a partire da un morto deceduto in circostanze
sospette. Si tratta di D.Z. un ingegnere incaricato, nel 2006, dal tribunale
civile di Milano di effettuare una perizia sui danni provocati dai lavori di
costruzione del parcheggio di Via Ampere-Compagni. Nella relazione D.Z.
evidenzia le conseguenze generate dal cantiere, in modo particolare
l’alterazione di stabilità degli edifici limitrofi e raccomanda
all’Ufficio dei parcheggi del Comune di prendere provvedimenti. Poche ore dopo
aver depositato la perizie, D.Z. però muore. Il referto parla di
suicidio, ma i familiari e gli amici giurano che non aveva alcun motivo per
uccidersi. Quello dei parcheggi a Milano è ancora un tema di grande
attualità, un business (da 4 miliardi di euro) che non smette di
macinare soldi. Solo interessi economici possono spingere, secondo gli autori,
la giunta comunale a deturpare con un’autorimessa sotterranea uno degli edifici
romanici più importanti d’Europa: la basilica di Sant’Ambrogio. Solo
logiche di potere, che prevedono una spartizione di incarichi che accontentino
tutti i partiti giustifica invece, per Offedu e Sansa, l’assunzione da parte
del Comune, nell’ottobre scorso, di dirigenti esterni (per un costo complessivo
di quasi 8 milioni di euro) con curricula a dir poco lacunosi. Tra le
motivazioni che ne spiegano l’arruolamento c’è anche “la
profondità di pensiero strategico” o la militanza come capitano dei
bersaglieri. Il degrado morale della città è speculare al
malessere dei suoi cittadini. I numeri lo confermano: 190 mila persone fuggono
dalla città nel week-end, mentre oltre 80 mila, sono i milanesi che
chiedono assistenza perché depressi o colti da crisi di panico. Senza
dimenticare che nella città meneghina i suicidi delle donne sono il
doppio che nel resto d’Italia. Ma a soffrire sono anche i bambini, vittime di
malattie respiratorie (il 22% in più rispetto alla media nazionale) e
delle mancanza di spazi verdi.
«Questo libro» ha continuato Luigi Offeddu «è un grido di dolore, un
atto di denuncia ma anche una testimonianza d’amore nei confronti di una
città che non si è ancora arresa». Un filo di speranza si
intravvede anche nell’ultimo capitolo del libro, in cui accanto ai vizi
emergono anche le virtù di una città che è in prima fila
per il volontariato sociale, che unica in Italia, ha affrontato il problema dei
Rom, che investe più di tutte le altre per ogni cittadino (610 euro
circa). E allora accanto alla città “nerissima, quella dello smog, del traffico
esiste una città drammatica e meravigliosa”.
Ire.Luc.
(SEGUE
DALLA PRIMA P
Un
intreccio camminante di esseri umani di razza giornalistica, microfoni,
telecamere, guardie del corpo con occhiali neri e cavetti alle orecchie tipo
G-men, si muove nelle piazze travolgendo passanti, tavolini da bar, fioriere, e
imbozzolando il politico di turno fino quando questi non si decida a farsi
separare dai cronisti da ostacoli fisici tipo scale, palchi, porte e
quant'altro. La scena in genere accade anche all'estero, alle riunioni
internazionali, e quando arrivano i politici italiani con tutta quella corte i
commenti degli stranieri sono ovviamente irriferibili. Ma pazienza. In patria,
quando si osserva la gente che assiste a questi assalti, non si sa se assegnare
la palma dell'impopolarità ai giornalisti assaltatori o ai politici
assaliti. Probabilmente i cittadini estranei al teatrino si chiedono perché
tanta agitazione, dal momento che tutti sanno che il politico circondato non ha
alcun desiderio di sottrarsi all'abbraccio dei media e anzi si adonterebbe se
nessuno lo prendesse in considerazione. E invece la scena prevede proprio che
tutto accada come se si stesse inseguendo una preda riottosa. Il che aumenta lo
sconcerto dei passanti. La scenetta dell'assalto rende bene il senso di quello
di cui si ricomincia a parlare in questi tempi, e cioè della distanza
che separa il mondo della politica da quello della cittadinanza che
maltollera la "casta" come oramai viene definito l'insieme di
nomenklature che da Montecitorio in giù governano il Paese. E l'ultimo
che ha parlato di questa separatezza lanciando un allarme è stato
Massimo D'Alema, secondo il quale se non si porrà rimedio, si rischia di
tornare al clima che accompagnò la caduta della cosiddetta Prima
Repubblica attraverso la gogna pubblica di Tangentopoli, dall'arresto del
"mariuolo" Mario Chiesa alle monetine lanciate contro Craxi davanti
all'hotel Raphael. Vero? Non vero? Di sicuro la politica si coglie essa
stessa come separata dalla società civile ed è portata a cercare
di includere quest'ultima nel proprio recinto, riuscendo però in genere
soltanto a riprodursi sotto diverse spoglie. Tanto è vero che proprio
D'Alema una volta si lasciò sfuggire: "Quando sento parlare di
società civile mi viene da mettere mano alla pistola". È di
moda, inoltre, parlare dei costi della politica, proprio quelli
di cui parla il fortunato libro "La Casta" di Gian Antonio Stella e
Sergio Rizzo che documenta un bilancio del Quirinale ben più esoso di
quello di Buckingam Palace e alcuni tra i più noti intrecci tra politica
e mondo degli affari. Dove però il rapporto di forza si è
invertito rispetto a quello che era negli anni '80. Quando un famoso
imprenditore milanese dell'edilizia e successivamente delle televisioni
chiedeva di essere ricevuto dal potentissimo segretario della Dc, gli capitava
anche di fare anticamera per ore al primo piano del palazzo Cenci-Bolognetti di
piazza del Gesù, indimenticata sede del partito scudocrociato. Oggi si
ha viceversa l'impressione che i protagonisti del mondo dell'economia e della
finanza usino la politica come semplice rappresentazione istituzionale
della propria potenza, come nemmeno la Fiat degli Agnelli aveva mai osato nei
decenni di storia dal Senatore all'Avvocato. Politica debole rispetto
all'economia, lontana dai cittadini, sempre più costosa (senza voler
affrontare la questione della corruzione): è probabilmente a
causa di questo pasticcio che si verificherà il declino della Seconda
Repubblica. Come sarà la Terza è naturalmente un enigma. Andrea
Ferrari.
22/05/2007
Roma. Tra i Democratici di sinistra c'è già chi l'ha ribattezzata
bozza Domenici: si tratta di alcune proposte avanzate dal presidente dell'Anci
(l'Associazione dei comuni italiani) e sindaco di Firenze, Leonardo Domenici,
diessino, per ridurre i costi della politica all'indomani
dell'allarme sulle derive da antipolitica lanciato da Massimo D'Alema che teme
"la crisi di fiducia dei cittadini verso una classe dirigente diventata
troppo autoreferenziale". La soluzione Domenici si articola in quattro
punti: "Primo, limitare a non più di due mandati consecutivi la
durata di ogni carica istituzionale elettiva, non solo per i sindaci, ma anche
per le assemblee parlamentari, le presidenze e i consigli regionali. Secondo,
ridurre di un quarto il numero di consiglieri e assessori comunali; terzo, dare
vita a un patto tra tutti i livelli istituzionali, per fissare un tetto alle
indennità dei politici. Quarto, lavorare per la semplificazione dei
livelli intermedi (come gli Ato ed i Consorzi di bonifica) con la nomina negli
organi di gestione di chi ha già un incarico istituzionale a livello
locale". La proposta, che ha già diviso i Ds, Domenici vorrebbe che
diventasse materia di discussione in Parlamento. Ieri la senatrice dell'Ulivo
Anna Maria Carloni, moglie del presidente della regione Campania Antonio
Bassolino, diessina, ha provato a smuovere le acque: "Le critiche - ha
notato - sollevate sui costi della politica possono costituire
una risorsa democratica se si risponde con la dovuta chiarezza e magari facendo
dare il buon esempio ai parlamentari. Per questo insieme ad altre senatrici e
senatori presenteremo un piano con alcune linee di intervento. Ritengo infatti
- ha aggiunto - che vi siano privilegi sui quali si può facilmente
intervenire". In particolare la senatrice Carloni pensa a tre diversi
livelli. Primo: anziché aumentare le indennità (come avviene ogni anno)
prevedere più servizi per i parlamentari. Secondo: ridurre o cancellare
le percentuali di finanziamenti che i partiti, al momento della
candidatura, chiedono sulle indennità future dei candidati. Terzo:
abolire la prassi del cumulo tra vitalizi dei parlamentari e pensioni pubbliche
che finiscono col distorcere il sistema previdenziale. La proposta Carloni,
oltre a scontrarsi con le difficoltà di autoriforma della politica,
pone un problema che riguarda soprattutto i piccoli partiti. Per le
formazioni minori, infatti, il ruolo elastico che li tiene insieme punta anche
sul finanziamento pubblico che deriva dalla cessione di parte
dell'indennità dei loro parlamentari eletti. Paolo Bonaiuti, senatore di
Forza Italia e portavoce dell'ex premier Silvio Berlusconi, ieri, dopo l'sos
lanciato da Massimo D'Alema, ha fatto conoscere la posizione di Fi. "Sono
d'accordo con D'Alema - ha detto - ma affermo che la demagogia sui costi
e i privilegi della politica è una scusa avanzata dalla sinistra
che non ha il coraggio di ridurre le tasse". A Palazzo Chigi, mentre le
agenzie battevano le parole di Bonaiuti, i collaboratori del premier Romano
Prodi si dicevano convinti che, almeno stavolta, il Presidente avrebbe
ascoltato suo fratello, Paolo Prodi, docente di storia a Bologna che, alcuni
mesi fa, aveva gridato contro il caro-politica: "I veri
riformatori, non i riformisti - faceva notare - non possono sopravvivere
difendendo i privilegi di un ceto legato alla politica mentre il costo
di questa sta crescendo in modo patologico per la stessa economia del
Paese". Più chiaro di così? Massimiliano Lenzi 22/05/2007.
Mentre
rullano i tamburi e suonano le grancasse per l'ultima fusione bancaria tra
Unicredit e Capitalia, dal Tribunale di Milano si leva una flebile voce: quella
del pm Francesco Greco, alle prese con i patteggiamenti chiesti dagl'imputati
del crac Parmalat. "Non è colpa nostra - dice Greco, replicando
alle proteste dei risparmiatori derubati - se il legislatore ha introdotto la
Cirielli che ha dimezzato i tempi della prescrizione. I titolari di
obbligazioni Parmalat sono stati derubati anche di 7 anni e mezzo di processo.
Poi l'indulto ha svuotato il contenuto del processo". Prima il governo
Berlusconi, poi l'Unione e la Cdl (meno Idv, Pdci, Lega e An) hanno mandato in
fumo anche il processo per il più grave crac della storia d'Europa, nel
quale sono imputate - ricorda Greco - "le principali banche del
mondo": Deutsche Bank, Ubs, Citigroup, Morgan Stanley, ma anche le
italianissime Capitalia e Intesa. Ciononostante, o forse per questo, "le
istituzioni - denuncia Greco - ci hanno fornito scarsa collaborazione". E
la scorsa settimana il ministro Di Pietro e uno scoop del "Corriere"
hanno sventato l'ultimo assalto in Consiglio dei ministri: una
"riforma" della bancarotta approntata da una manina (o manona)
misteriosa per dimezzare le pene e i termini di prescrizione per il reato
finanziario più grave. Ora, per carità, sarà anche giusto
compiacersi per la nascita delle "superbanche". Ma c'è come la
sensazione che la notizia lasci i risparmiatori, tosati e/o derubati per anni,
piuttosto freddini. Negli Stati Uniti, protagonisti e comprimari dei crac Enron
e Worldcom sono tutti in galera. Nessuno potrà mai più sedersi in
un Cda. Arthur Andersen, complice dei conti truccati, non esiste più. In
Italia, a parte Tanzi e Cragnotti, sono tutti al loro posto. La giustizia
è stata disarmata e, anche quando ha tentato qualche mossa, s'è
trovato il modo di eluderla: Geronzi ha avuto una sospensione cautelare dai
giudici di Parma per l'affaire Ciappazzi-Parmatour, ma il Cda di Capitalia
(compresi i noti legalitari olandesi dell'Abn Amro) l'ha confermato al suo
posto; e una sospensione disposta dal Tribunale di Brescia per lui e per
Roberto Colaninno, condannati rispettivamante a 1 anno e 8 mesi e a 4 anni per
bancarotta preferenziale nel crac Bagaglino-Italcase. Ricordava ieri Roberto
Rossi che Geronzi ha collezionato un rinvio a giudizio a Parma per il crac
Parmalat (bancarotta e usura nell'affaire Eurolat), una richiesta di rinvio a
giudizio a Roma per il crac Cirio e un processo in corso a Palmi per usura.
Più un altro processo a Parma per truffa alla Emilia Romagna Factory. Ma
tra patteggiamenti, prescrizioni per legge e indulto bipartisan, è
prevedibile che - anche se, per disgrazia, dovesse risultare colpevole - non
finirà in carcere. Anzi, potrebbe persino coronare il sogno di diventare
presidente di Mediobanca, nel cui consiglio siede, così come nei patti
di sindacato di Rcs e di Generali, come se nulla fosse accaduto. Resta un
piccolo dettaglio: i risparmiatori, che rischiano di non vedere una lira delle
migliaia di milioni bruciati in bond-carta straccia, piazzati da banchieri
preoccupati solo di non restare col cerino in mano. In attesa delle sentenze,
queste pecore da tosare restano senza fiato nel leggere le dichiarazioni di
Geronzi al processo di Palmi, quello per usura: "Io - dice il banchiere a
un avvocato di parte civile - di tassi non so nulla: io comando!". Per non
parlare del verbale pubblicato dal Corriere sulla truffa dei bond Cirio. Il pm
Luigi Orsi domanda perché Capitalia seguitò a piazzare quei bond nel
2000, dopo che il comitato esecutivo era stato allertato col "semaforo
giallo" sul gruppo e chiedeva a Cragnotti di rientrare subito dei crediti:
"Chi ha comprato i bond 20 giorni dopo sapeva di questi semafori o andava
al buio e senza fari?". Geronzi risponde: "Le risulta che nel mondo
italiano sia mai stato emesso un bond nel cui lancio siano stati informati i
sottoscrittori dello stato di salute delle aziende?". Viva la
sincerità. Forse ora i sottoscrittori vorrebbero sapere se anche la
Superbanca si regolerà così. O se, prima di comprare bond-carta
straccia, il semaforo giallo potranno vederlo anche a loro. Uliwood party.
Cara Europa, Massimo D’Alema lancia
l’allarme “rischiamo di essere travolti come la prima Repubblica”, ma non dice
come evitarlo; Giuseppe De Rita, sociologo cattolico, dice che il malessere si
tradurrà in uno sciopero fiscale dei cittadini. Intanto Ilvo Diamanti,
sociologo laico, ci dà sondaggi sulla felicità degli italiani
(“mai stati tanto felici”) e l’americano Michael Moore presenta a Cannes un
film di denuncia sulla sanità americana e scioglie inni e lodi alla
sanità italiana. Qual è la vera Italia? ANNA SOLDINI, GENOVA
L’Italia
vera è tutto questo, cara signora. Lamentarsi e spassarsela è
stata sempre un’attitudine italiana, figurarsi adesso che una parte notevole
del paese affoga nei soldi: altrimenti non si spiegherebbe come mai non ci sia
più un chilometro di costa (e sui laghi è lo stesso, come
denunciava da Lecco un’ascoltatrice qualche giorni fa) che sia libero
dall’edilizia, in un paese dove l’85 per cento delle famiglie abita in casa di
proprietà. Mi dicono le agenzie immobiliari della cittadina balneare
dove vivo che arrivano signori con le tasche gonfie di soldi e comprano 5, 6
dieci appartamenti per volta, come fossero noccioline. Da dove vengono tanti
soldi? Vengono dal sommerso, dalla malavita, ma anche dalle tasse non pagate, e
a non pagarle è soprattutto chi ha avuto per anni il potere di fare la
parità liraeuro a suo piacere, raddoppiando il costo della vita per noi
che viviamo di redditi fissi e paghiamo le tasse fino all’ultimo centesimo.
Alle suddette categorie variamente imprenditoriali aggiunga gli artigiani, che
fanno le tariffe a loro piacere, ti chiedono 100 euro per un filo a una presa
di corrente, e via senza ricevuta. Costoro, insieme al management, ai
professionisti, ai finanzieri, agli intermediari, ai banchieri, solo per
restare all’economia legale, non faranno nessuno sciopero fiscale – stia
tranquillo De Rita – perché già lo fanno tutta la vita. Gli altri, i
percettori di redditi fissi, sono bloccati dalle ritenute alla fonte. Mi chiedo
piuttosto come si faccia a protestare contro sindacati e governo se si
arriverà a concedere 100 euro lordi in più al pubblico impiego, i
cui redditi sono stati dimezzati da chi ha fatto carne di porco del valore
dell’euro e ha licenza di non rilasciare ricevute.
Quanto alla rivolta morale degli italiani per i costi della politica, io ci
credo poco, nonostante i bei libri di Stella e le denunce dei politici stessi.
Ci credo poco perché chi avrebbe motivo di protestare, la gente umile, non ne
ha la forza; chi ne avrebbe la forza, teme che la cosa finisca come a
Tangentopoli, prima si torchiano i politici (applausi generali) poi si
torchiano imprenditori, professionisti e cosiddetta società civile e
allora tutti contro i manettari giustizialisti.
Non si può contare su un popolo la cui maggioranza vive bene e senza
problemi ideali (soddisfatti, dice Diamanti).
L’unica speranza di correggere il marciume sta nella secessione di una parte
della classe politica di riformare se stessa; e nella vigilanza occhiuta della
stampa, almeno finché le sarà consentito esercitarla, visto che editori,
direttori, manager ecc. hanno più privilegi dei politici.
Il
Riformista 22-5-2007 Prodi, perché non dimezzi il governo? Di Valdo Spini
Siamo al 1992? In un certo senso sì, nel senso che quando c’è una
battaglia per la redistribuzione del reddito e, magari per la distribuzione dei
sacrifici, il tema dell’autorevolezza e della legittimità della classe
politica che a tale redistribuzione deve procedere, si pone e si pone con
forza. Allora, nel 1992, era Maastricht che, mettendo fine a una politica di
raccolta del consenso mediante la dilatazione della spesa pubblica ai danni
dell’equilibrio dei conti dello stato, costringeva a una politica di
austerità e rendeva insostenibile il peso della corruzione. Oggi
è il “tesoretto”, dieci (o dodici?) miliardi di euro che devono andare
in gran parte a colmare il disavanzo, invece che a essere redistribuiti, a
rendere intollerabili i costi della politica, i privilegi e gli sprechi che,
alla luce di quanto sopra, sono oggetto di una protesta sempre più diffusa
dell’opinione pubblica.
Alla fine degli anni ottanta sono stato tra quelli che avvertirono l’arrivo
della tempesta e che cercarono una risposta riformista a tangentopoli, prima
del suo esplodere, sia con proposte legislative, sia con i fatti, conducendo
campagne elettorali provocatoriamente diverse da quelle allora prevalenti,
almeno tra i partiti politici di governo. Sono grato all’allora presidente
della Camera Giorgio Napolitano che, quando scoppiò tangentopoli, me lo
riconobbe. Ma, tra difesa statica del sistema alla Craxi e affermazione della
diversità comunista alla Berlinguer, i pochi riformisti che avvertirono
la gravità della crisi non ebbero fortuna. Oggi siamo quindi nelle
condizioni di allora? Da un certo punto di vista sì, come abbiamo detto,
ma da un altro punto di vista no. Nel 1993 cadeva un sistema che aveva retto
l’Italia per quasi cinquant’anni, cambiando radicalmente la condizione di un
paese uscito sconfitto e distrutto dalla guerra.
Collecchio
(grazie al boom in Borsa) batte Enron nella classifica dei risarcimenti Negli
Stati Uniti già dietro le sbarre (con condanne fino a 25 anni) i
principali responsabili degli scandali ETTORE LIVINI M
ROMA
"Così non va, serve collegialità. Non può decidere
prima il Pd, che poi ci fa perdere". Non lo dicono solo Rifondazione e il
Pdci. E' tutta la sinistra radicale ad essere furibonda per il vertice di
domenica convocato da Prodi con Padoa-Schioppa per discutere l'uso del
"tesoretto". Non importa che Antonello Soro si affanni a spiegare che
Massimo D'Alema e Francesco Rutelli erano lì in quanto vicepremier
("e Diliberto non lo è ancora", aggiunge il coordinatore della
Margherita rispondendo al segretario del Pdci). L'umore è nero, e lo
segnala la battuta lapidaria di Fausto Bertinotti. "Non sono in grado di
pronunciarmi, non mi hanno invitato", ironizza il presidente della Camera
con chi gli chiede di commentare l'accordo in 5 punti esposto da Prodi. Il
premier cerca di spegnere le polemiche: "E' ovvio che la decisione
sarà presa in maniera collegiale, ma in questa fase era indispensabile
una riflessione preventiva". La sinistra non ci sta. Minaccia di non
approvare alcuna decisione. Mette paletti e aggiunge richieste. E accelera il
progetto di coordinarsi in un' "azione comune di governo" che rischia
di rendere anche più forte il suo potere di interdizione. Il 30 è
fissata la prima riunione collettiva e Prc le attribuisce "grande
importanza". "I vertici valgono per chi li fa. Se c'è qualche
parte politica che non è coinvolta vuol dire che si discuterà in
altra sede", avvisa il ministro del Welfare Paolo Ferrero (Prc), che
avrebbe avuto titolo per partecipare, così come il ministro
dell'Università & Ricerca Fabio Mussi, fanno notare nella
neonata Sinistra democratica. Ferrero ricorda che per il suo partito il
"tesoretto" va usato a vantaggio delle politiche sociali e delle
fasce più povere, sottolinea che di "priorità ce ne sono
anche altre", come gli anziani non autosufficienti. E poi, vuol sapere
cosa si fa sull'abolizione dello scalone. Le sue parole echeggiano quelle di
Diliberto, che ha già minacciato di non votare il Dpef e ora ribadisce
che "il risanamento lo abbiamo già fatto con la Finanziaria, quei
soldi devono andare ai salari, alle pensioni, agli stipendi. Adesso si deve
redistribuire". Anche i Verdi hanno da ridire e pretendono risorse per la
lotta ai cambiamenti climatici "che incidono sulla vita e la salute dei
cittadini". Ma il capogruppo Angelo Bonelli insiste sul
"metodo": "In una coalizione non si decide in tre". Cesare
Salvi, capogruppo al Senato della Sd, ne fa una questione di principio
("Il Pd con 100 senatori scarsi su 150, dato al 23% e oltre a tutto
diviso, non può decidere da solo") ma anche di merito, perché
"il Pd decide male e ci fa perdere, come è già successo in
Sicilia". Gennaro Migliore, capogruppo del Prc alla Camera, ricorda come
il suo partito sia da sempre contrario alle "cabine di regia":
"Non siamo offesi per essere stati esclusi. Il punto è la
collegialità. Non è una gara a tappe, prima ci si vede col Pd,
poi con gli altri, ma un partire tutti insieme. Per garantire l'efficienza
stessa del governo". A mettere in imbarazzo il governo si aggiungono altri
due temi caldi, la prossima conferenza romana sullo Stato di diritto in
Afghanistan e la visita di George W. Bush a Prodi. In ballo c'è la
richiesta al governo di premere su Karzai per liberare Ratmatullah Hanefi, il
mediatore del rapimento di Mastrogiacomo, tutt'ora incarcerato. "La
presenza di Karzai a Roma sarebbe fuori luogo senza Hanefi libero", mette
le mani avanti il verde Bulgarelli. Quanto a Bush, la sinistra scenderà
in piazza con le organizzazioni pacifiste. Parallelamente a un corteo convocato
dai Disobbedienti.
Segue
dalla prima SEI COMMISSARI (Improta, Rastrelli, Losco, Bassolino, Catenacci,
Bertolaso): tre presidenti di Regione, equamente divisi fra destra, centro e
sinistra, e tre alti funzionari di Stato. Tutti generali sconfitti nella
"Stalingrado della monnezza". L'ultimo , Guido Bertolaso, capo della
Protezione civile, per quattro giorni ha sventolato bandiera bianca. Ma a
Napoli e in Campania un esercito che ha vinto la guerra della monnezza
c'è. "La camorra", dicono quelli di Legambiente. "I boss
sono i veri imprenditori del settore, il loro giro d'affari annuo è di
600 milioni di euro. Sono i padroni della Campania, dove solo negli ultimi due
anni hanno sversato qualcosa come 10 milioni di tonnellate di veleni". E
non è finita qui, perché la camorra spa si sta trasformando ed è
già pronta a gestire - questa volta con società
"pulite" - la prossima riorganizzazione del ciclo dei rifiuti, un
business da 4,5 milioni di euro. Per strada i cumuli di monnezza che bruciano,
nelle aree industriali gli impianti di Cdr (che avrebbero dovuto trasformare i
rifiuti in materiale da incenerire) che ormai producono solo ecoballe inutili e
costose da smaltire. E due inceneritori, dei quali ancora non si vede traccia.
Eppure sono passati tredici anni dalla prima emergenza. Era l'11 febbraio 1994.
Dopo due anni di gestione del prefetto Improta, lo scettro del comando passa al
presidente della Regione. Rastrelli, di An. Che "ridimensionò
drasticamente il numero dei termovalorizzatori previsti nel piano originario da
CORRISPONDENTE DA NEW YORK Richiesta
agli alleati di una maggiore condivisione della missione Nato in Afghanistan e
appoggio al governo di Beirut impegnato a sconfiggere le milizie islamiche nei
campi profughi palestinesi di Tripoli: sono questi i due messaggi usciti dal
ranch presidenziale di Crawford, in Texas, dopo 48 ore di colloqui fra George
W. Bush e il segretario generale della Nato, l’olandese Jaap de Hoop Scheffer.
Il fine settimana passato nella «Casa Bianca del West» è servito a Bush
e Scheffer per esaminare l’agenda dell’Alleanza atlantica e le crisi regionali
in vista del summit del G8 che si terrà a inizio giugno in Germania. A
tenere banco in primo luogo l’Afghanistan, dove 15 mila soldati Usa operano a
fianco di un contingente Nato di 21 mila unità. «Ho promesso al
segretario generale che lavoreremo con gli alleati per convincerli a
condividere di più responsabilità e rischi dell’operazione in
Afghanistan al fine di poter centrare i nostri obiettivi», ha detto il
presidente americano al termine dei colloqui, sottolineando come «l’Afghanistan
ha bisogno non solo di azioni militari ma di una strategia di lungo termine per
rafforzare le istituzioni democratiche, per aiutare a creare le
opportunità che consentano a questa giovane democrazia di sopravvivere e
fiorire».
Ciò significa che Washington si appresta a chiedere agli alleati
maggiori impegni, militari e civili, tanto per combattere i taleban che per
consolidare il governo di Hamid Karzai. Il riferimento è a Paesi che,
come l’Italia, hanno sottoscritto regole di ingaggio che non consentono
l’impiego nelle zone calde, dove l’insurrezione filo-talebana è
più violenta. Da qui l’imminente missione in Europa del Segretario di
Stato, Condoleezza Rice, che farà tappa a Berlino, Vienna e Madrid.
Sebbene Bush non abbia fatto riferimento a nessun alleato in particolare in
ambienti diplomatici a Washington si ritiene che il messaggio sia in primo
luogo indirizzato al neo-presidente francese Nicolas Sarkozy, dal quale ci si
attendono i primi segnali di convergenza proprio sull’impegno in Afghanistan.
«Gli italiani fanno già la loro parte» in difesa della sicurezza e della
pace, in Afghanistan e non solo». Così il ministro della Difesa, Arturo
Parisi, ha risposto in serata all’Ansa che gli chiedeva un commento.
Scheffer ha dato manforte a Bush nell’appello agli alleati, aggiungendo il
rammarico per il numero di vittime civili - oltre 1600 nel 2006 - causato dagli
attacchi della Nato. «La linea del fronte non deve diventare il luogo dove si
commettono errori», ha detto, sottolineando tuttavia che «noi e i taleban non
apparteniamo alla stessa categoria morale». «Noi non decapitiamo la gente, non
bruciamo le scuole, non uccidiamo gli insegnanti, non deponiamo bombe lungo le
strade e non mandiamo kamikaze», e dunque le morti causate dai taleban non
possono essere «moralmente» equiparate a quelle provocate dalla Nato. «La
tattica dei taleban è circondarsi di civili al momento di lanciare un
attacco», ha aggiunto il presidente Usa.
Il summit di Crawford ha coinciso con gli scontri in atto nel Nord Libano e
Bush ha dettato al portavoce Tony Fratto un comunicato di sostegno al premier
di Beirut, Fouad Siniora: «Crediamo nella democrazia e la sovranità del
Libano, sosteniamo gli sforzi del premier nell’occuparsi dei combattimenti in
corso». Poco dopo il Dipartimento di Stato è andato oltre: «Le truppe
libanesi sono intervenute in maniera legittima contro le provocazioni messe in
atto da violenti estremisti che operano dai campi profughi».
L’intelligence americana ritiene il gruppo Al Fatah Islam, coinvolto negli
scontri con l’esercito libanese, sia una ramificazione palestinese di Al Qaeda.
Ma il portavoce McCormack ieri non si è spinto fino a condividere le
accuse libanesi di un coinvolgimento diretto di Damasco.
Non
sono le tv, severamente proibite, a illuminare d'azzurro le finestre I matrimoni
tra parenti in questa comunità chiusa minano la salute (SEGUE DALLA
PRIMA P
Non è iniziata bene l'annata agraria per
l'agricoltura modenese. I prezzi delle produzioni animali sono in picchiata:
calano quotazioni di suini, bovini, avicoli; nelle ultime settimane è
calato anche il prezzo del Parmigiano. Anche l'ortofutta all'origine vive un
momento difficile. Ai bassi prezzi riconosciuti alla produzione corrispondono
però alti prezzi al consumo e i conti non tornano. La situazione si
ripete e diventa ormai la norma. Nonostante i prezzi alla produzione siano
bassi e in calo, il consumatore si trova ad affrontare rincari ingiustificati,
determinando una "forbice" tra prezzo all'origine e prezzo finale
è sempre più ampia. Non c'è comparto che sfugga a questa
situazione. Dai dagli Istat forniti nell'ulimo quadrimestre si scopre infatti
che i prezzi sono in media di un 3,5% in meno rispetto al primo quadrimestre
dello scorso anno. Per gli ortaggi il crollo è verticale (meno 16%),
meno per la frutta (6% in meno). "Dal campo alla tavola - dicono alla Cia
- ci sono incrementi assurdi: il prezzo aumenta anche di otto - nove volte. E
questo conferma tutte le inefficienze e i comportamenti speculativi che si
registrano nella filiera che, nel caso specifico dell'ortofrutta, è
sempre più lunga e complicata. Nell'ipotesi ottimale abbiamo il
passaggio dal produttore, alla cooperativa o all'organizzazione dei produttori,
alla grande distribuzione. Nell'ipotesi "normale" il percorso è
dal produttore all'intermediario, al grossista, al mercato generale, al
dettaglio". Ed ogni passaggio ha un ricarico. L'agricoltura modenese non
sfugge a questo contesto generale e nelle sue produzioni tipiche segna il
passo. Solo le ciliegie, la cui produzione è iniziata da pochi giorni
con almeno due settimane di anticipo, si "barcamenano" in un mercato
difficile, dove le ciliegie di Vignola devono fare i conti con le
contraffazioni del marchio e possono, almeno per quest'anno, trarre beneficio
dalle "disgrazie meteorologiche" dei competitori. Così il
Bigarreaux di prima categoria, al mercato di Vignola quota in media 3,50 euro
il chilo, mentre l'Early riesce a raggiungere i 4,5 euro. Al mercato è
arrivata anche la moretta con un 2,80 euro in media al chilo. Ma poi ci saranno
le susine, la produzione è abbondante e le prospettive di prezzi,
già da ora, non sono rassicuranti. (miria burani).
++ La Stampa
Cei, oggi il summit dei vescovi. La prima assemblea dell'era Bagnasco
+ AGI
21-5-2007 TEST GENETICI: STOP AL FAR WEST, LE NUOVE LINEE GUIDA DELL'OCSE
ANSA 19-5-2007
GIUSTIZIA:DI PIETRO,IN CDM BLOCCATO DDL MASTELLA BANCAROTTA
Il Riformista
21-5-2007 Perché si materializzano i
fantasmi del ’92
Il Corriere
della Sera 21-5-2007 E i politici assediano il ministro "rigido" di
SERGIO RIZZO
La Stampa
20-5-2007 Dittature dell'Est contro l'Europa BARBARA SPINELLI
Il Sole 24 Ore
20-5-2007 Risparmi per 1,2 miliardi, discesa in Mediobanca al 9,39% entro il
2007
Il Corriere
della Sera 21-5-2007 Concorrenza alla prova di Dario Di Vico
ROMA
Al via oggi pomeriggio la prima assemblea generale della Conferenza episcopale
italiana dell’era Bagnasco, l’arcivescovo di Genova oggetto di contestazioni in
alcune città italiane per l’acceso dibattito sul tema delle coppie di
fatto. Il summit dei vescovi si aprirà nel pomeriggio, in Vaticano, con
la prolusione del neo-presidente.
Temi principali della cinquantasettesima assemblea sono la missione della
Chiesa italiana (e in particolare i sacerdoti detti ’fidei donum’, donati,
cioè, dalle diocesi italiane alle missioni all’estero) e le conseguenze
del convegno decennale che si è svolto ad ottobre a Verona. I vescovi
approveranno la nota «pastorale» che tradurrà in termini operativi i
cinque ’ambitì affrontati nella città scaligera (vita affettiva,
lavoro e festa, fragilità umana, tradizione e comunicazione, cittadinanza).
Non sono all’ordine del giorno, invece, temi di più stretta
attualità come le questioni della famiglia, della bioetica e della
tutela della vita umana (e del connesso nodo del ’testamento biologicò).
Il dibattito su questi argomenti è acceso, nel Parlamento e nel paese, e
i ripetuti interventi dei vescovi in materia si sono inseriti in un clima teso.
Lo dimostrano le recenti scritte ingiuriose contro il Papa e monsignor Bagnasco
comparse sui muri di varie città italiane così come le polemiche
tra l«Osservatore romanò e il comico Andrea Rivera dopo il concerto del
primo maggio a Roma.
Sul tema della famiglia, in particolar modo, è il calendario stesso a
fare da cornice all’incontro dei vescovi. L’assemblea avviene, infatti, a poco
più di una settimana dal Family day e a ridosso della conferenza
nazionale sulla famiglia organizzata dal governo a Firenze (24-26 maggio).
Anche sul testamento biologico, il dibattito parlamentare inizierà
prossimamente dalla commissione Igiene e salute del Senato. Si tratta di un
altro tema su cui l’episcopato già in passato ha espresso
preoccupazioni. Anche l’associazionismo cattolico intende inserirsi nel
dibattito. »La battaglia di piazza continuerà anche su altri fronti come
quello del testamento biologico«, ha detto di recente Domenico delle Foglie,
coordinatore del Family day e portavoce del comitato Scienza e vita.
Dopo la prolusione dell’arcivescovo di Genova Bagnasco, il nunzio apostolico in
Italia, monsignor Giuseppe Bertello, porterà i suoi saluti. Tra i
momenti più significativi dell’assemblea della Cei, che si
concluderà venerdì, spicca il concerto offerto in onore del Papa
che si svolgerà, in sua presenza, giovedì pomeriggio nell’Aula
Paolo VI.
Soddisfazione
di tutti, ma prima una battaglia di potere La compagnia delle Coop doveva
acquisire il controllo della banca di Profumo
Poteri
forti contro poteri morti? La forza del Capitale contro la debolezza del
Palazzo? Sarebbe sbagliato pesare l'operazione Unicapitalia con il solito
bilancino dei partiti. Come se fossimo ancora nel "Vietnam" prodiano
degli anni 80, quando i boiardi delle tre "banche di interesse
nazionale" (le "bin" dell'Iri, Comit, Credit e Banco di Roma) prendevano
ordini dalle segreterie della Dc o del Psi. Ma sarebbe altrettanto
"naif" pensare che la nascita della superbanca di Profumo e Geronzi
sia stata concepita nel vuoto pneumatico della politica.
Una politica che, per quanto delegittimata, continua a intervenire (e
interferire) in tutte le grandi partite del potere economico. Non ti
spiegheresti altrimenti le parole compiaciute di uno dei pochi
"dalemiani" autorizzati a definirsi tali, mentre si gusta una spigola
al sale in un noto ristorante romano: "Ormai siamo nel partito democratico,
giusto? E allora lo possiamo dire: finalmente adesso abbiamo due banche.
".
La fusione tra Unicredit e Capitalia nasce per esplicite ragioni di mercato.
Nella finanza globalizzata, anche nella piccola Italia, le concentrazioni
bancarie hanno una dinamica inerziale fisiologica, che Mario Draghi ha avuto il
merito di assecondare, guarendo il sistema dalle patologie autarchiche e
provinciali cui lo aveva costretto il sistema-Fazio. Per quanto proiettato sui
mercati esteri, Unicredit non poteva sottovalutare la necessità di
consolidarsi anche come "campione nazionale": Capitalia è la
soluzione più logica, efficiente e funzionale. Ma il "merger"
tra i due istituti nasce anche con un'implicita impronta politica.
Soddisfa
l'esigenza di tutti quelli che, dentro e fuori dall'Ulivo, si proponevano di
arginare la straripante forza d'urto dell'altra superbanca, Intesa-San Paolo, e
quindi di bilanciare lo strapotere del buon "parroco" bolognese che
ha benedetto le nozze tra Giovanni Bazoli ed Enrico Salza: cioè Romano
Prodi.
In apparenza, la piattaforma politica favorevole al matrimonio tra Profumo e
Geronzi è trasversale. Parte dal centrosinistra, ruota intorno ai Ds
(attraverso la corrente dalemiana), incrocia diversi petali della Margherita
(attraverso l'ala non prodiana che va dal presidente del Senato Franco Marini
al capogruppo Dario Franceschini) e gode di un "appoggio esterno" del
centrodestra (che inizia da Berlusconi e arriva fino a Gianni Letta). Basta
questo a spiegare perché, stavolta, non si sentono in giro reazioni esagerate o
irrituali. Non si sente Fassino ripetere "finalmente abbiamo una
banca", l'improvvido endorsement che pronunciò al telefono con
Giovanni Consorte, ai tempi della scalata di Unipol su Bnl. Non si sente un velenoso
Parisi invocare una "nuova questione morale", né un contundente
Rutelli accusare la Quercia di "collateralismo", come fecero nella
torrida estate del 2005, quando i Ds flirtarono pericolosamente coi
"furbetti del quartierino".
E non si sente nemmeno il Cavaliere gridare allo scandalo per "i rapporti
oscuri tra i comunisti e le coop", come fece in quello stesso luglio di
due anni fa.
L'unico che dubita (a paradossale conferma della tesi del dirigente dalemiano
sulla "seconda banca" per il Pd) è Walter Veltroni. Teme una
"perdita di peso" di Roma: "Il sindaco parla della città,
o allude a se stesso?".
In sostanza, Unicapitalia ha avuto in questi mesi uno "sponsor"
più convinto degli altri: Massimo D'Alema. Definirlo "regista"
dell'accordo sarebbe ridicolo. Per anagrafe e formazione, Profumo non è
banchiere al quale si possa imporre alcunché. Sta seduto su una tale montagna
di denaro che non si mette sull'attenti davanti al leader di un partito
(figuriamoci della Quercia, che viaggia al 17% dei voti). Ma è D'Alema
che, in questi mesi, con Profumo ha stretto rapporti di amicizia, anche
personale. E' D'Alema che ha dato voce più volte all'insofferenza di
chi, dentro la maggioranza, ha visto crescere l'influenza di Prodi in tutti i
gangli del potere. A dispetto di una gestione sfuggente sulle grandi questioni
politiche (dai Dico alla legge elettorale) il premier ha invece sfoderato i
suoi famosi "artigli che grondano bontà" per regolare gli
affari di governo e sottogoverno. Ha imposto Riotta al Tg1. Ha piazzato
all'Anas Pietro Ciucci, suo manager ai tempi dell'Iri. Ha voluto al Cesis
Giuseppe Cucchi, generale anconetano di sua fiducia. Ha sistemato nel cda di
Finmeccanica Filippo Andreatta. Ha gestito in assoluta autonomia la
privatizzazione Alitalia e le nomine alle Ferrovie, finendo per far infuriare
persino Rifondazione comunista.
Ma come dice il solito plenopotenziario dalemiano, "i suoi capolavori sono
stati due. Il primo è Telecom dove, metabolizzato in fretta il caso
Rovati, ha fatto fallire l'accordo con Telefonica quando lo voleva concludere
Tronchetti, e poi l'ha propiziato lui stesso insieme a Zapatero dopo che
Tronchetti se n'è andato. Il secondo è la fusione Intesa-San
Paolo, che da sola vale più di un ministero delle Attività produttive".
Come tutti sanno, all'indomani dello smacco patito sull'affare Bnl è
stata proprio la fusione prodian-bazoliana a innescare la voglia di rivincita
del Botteghino. Un partito che, per incultura o imperizia, nei rapporti con
l'establishment non riesce a guarire dalla sindrome gregaria denunciata dal
Togliatti di "Ceti medi e Emilia rossa", e alterna atteggiamenti
ancillari ad anatemi di classe. Quello che invece nessuno sa, è che
questa voglia di rivincita doveva passare per un altro piano segreto, che
voleva Unicredit in posizione di "preda", e non di
"cacciatore".
Secondo il progetto messo a punto circa un anno fa dall'inner circle dalemiano,
la banca di Piazza Cordusio sarebbe finita addirittura nella pancia di Unipol.
La compagnia di Via Stalingrado era pur sempre uscita dalla Caporetto su Bnl
con 3 miliardi di euro di free capital. Avrebbe quindi conferito a Unicredit le
sue attività bancarie (una rete di quasi 300 sportelli, per una raccolta
di quasi 40 miliardi di euro). Al tempo stesso, d'accordo con gli altri azionisti
di Unicredit, avrebbe rilevato sul mercato, o attraverso un aumento di
capitale, una quota tra il 5 e il 7% della banca di Piazza Cordusio,
diventandone così l'azionista di riferimento.
Il progetto sembrava pronto al decollo, l'estate scorsa. Lo stesso D'Alema ne
aveva parlato con Profumo, che non si era affatto tirato indietro. I vertici di
Unipol, da Stefanini a Salvatori, studiavano la fattibilità
dell'operazione. Per la Quercia sarebbe stato la grande "riscossa",
dopo le umiliazioni subite su Consorte. Basta con lo sberleffo sui "figli
di un dio minore".
Basta con le frasi irriverenti di Montezemolo, che diceva "le coop non
hanno mai prodotto un bottone". La "finanza rossa" tornava in
campo, conquistando la banca più internazionalizzata del Paese, e allungando
addirittura una mano sul gioiello carissimo a Enrico Cuccia, le Generali.
Sarebbe stato un terremoto. Ma forse proprio per l'alto impatto
dell'operazione, alla fine i manager delle coop hanno gettato la spugna: non se
la sono sentita di riportare Unipol al centro del ring politico, con tutti i
rischi del caso.
Per i Ds è stata una delusione. Ma in quel momento, nello scorso
autunno, D'Alema e i suoi hanno capito che l'unica "subordinata"
possibile, per creare un polo alternativo a quello prodian-bazoliano, era
proprio incentivare l'accordo tra Unicredit e Capitalia. Esattamente a questo
è servita, negli ultimi mesi, la diplomazia dalemiana. A Profumo ha
assegnato il ruolo di mattatore, al grande convegno milanese della Fondazione
Italianieuropei del dicembre scorso, che Giuliano Ferrara sul
"Foglio" commentava con un profetico "Profumo d'Intesa".
Mentre Berlusconi riuniva a Piazza San Giovanni il suo popolo per protestare
contro il governo Prodi, D'Alema riuniva a Sesto San Giovanni l'elite economica-finanziaria
per ricucire la tela strappata dai Ds con la "borghesia produttiva".
E mentre Corrado Passera illustrava la filosofia "universale" di
Super-Intesa, come "banca al servizio dell'economia reale e delle
infrastrutture di tutto il Paese", Profumo spiegava al pensatoio dalemiano
che "noi non siamo enti pubblici, il nostro dovere è quello di
creare valore per i nostri azionisti".
Coniugare l'algida filosofia mercatista e mitteleuropea di Profumo con la
pratica politicista e capitolina di Geronzi. La sfida complessa della nuova
Superbanca sta tutta qui. C'è una convenienza creditizia (che il
banchiere milanese non può non cogliere) e un'opportunità
politica (che il banchiere romano non può non garantire). Il leader diessino,
com'è evidente, non poteva obbligare nessuno. Ma cavalcando un'onda
crescente di consenso bipartisan, ci ha aggiunto un carico discreto di
"moral suasion".
Proprio lui, dieci giorni fa a Milano, ha voluto spiegare a Bazoli davanti a un
buon caffè che l'operazione Uni-Capitalia non è targata Ds, e
comunque non è "nemica" di Intesa-San Paolo. Bazoli ha
sorriso, facendo buon viso a cattivo gioco. Ma dicono che non gli abbia
creduto. Come si fa a dargli torto?
(21 maggio 2007)
(
M
ichael Moore ha tutte le ragioni nel rivendicare la libertà di dire la
sua. La piena, totale, incondizionata libertà di dire tutte le
sciocchezze di cui è eventualmente capace e che, malgrado la loro
enormità, gli consentiranno di diventare l'eroe del coraggio conculcato
e il fiero smascheratore delle bugie del potere. E dunque c'è solo da
sperare che nessuno tocchi Michael Moore e che Bush receda dall'improvvida
scelta di incriminare il regista reo di aver infranto la legge americana con il
suo viaggio a Cuba per girare "Sicko", il docu-film presentato a
Cannes con il solito contorno di applausi e ovazioni. Perché impedire a un artista
eccelso di recarsi a Cuba per adulare il dittatore dell'Avana? Non è
Michael Moore solo l'ultimo dei "pellegrini politici" mirabilmente
descritti da Paul Hollander, quegli intellettuali devoti (poeti, scrittori,
registi, giornalisti) che si recavano in processione in qualche paradiso del
"socialismo reale" per tornarne commossi e incantati, e sempre
più agguerriti nella denuncia delle malefatte capitalistiche? E infatti
a Cannes sono caduti in deliquio per il regista che, dopo "Fahrenheit
9/11", nel suo nuovo film accusa l'America criminale di non aver tutelato
la salute dei soccorritori di Ground Zero. E che immagina di portare quei
disgraziati a Guantanamo per usufruire della stessa assistenza gratuita dei
detenuti di Al Qaeda, anche se lo sforzo sarà vano. E che dunque
trasferisce i poveri malati nella Cuba di Castro, dove un magnifico servizio
sanitario, sorretto dalla dedizione di magnifici medici, coadiuvato
dall'impegno di un magnifico personale infermieristico, provvidenzialmente
sotto la guida di un magnifico Partito (unico), provvederà alle cure
delle vittime dell'arroganza yankee. Perché a Cuba i malati vengono curati,
mentre negli Stati Uniti ricchi e terribili se non hai i soldi sei abbandonato
a te stesso. Perché la Cuba di Castro è molto, ma molto meglio della
Cuba di Guantanamo in mano agli americani. Straordinaria alterazione del
principio di realtà, poetico fantasticare attorno al nulla e alla
menzogna. Perché è reale che il sistema sanitario degli Stati Uniti
soffre di spaventose iniquità, ma che la Cuba del dispotismo castrista
sia il luogo della cura e della civiltà, dell'altruismo e del
disinteressato sacrificio di sé, questa è una pura invenzione, come
testimoniano tutte, ma proprio tutte le organizzazioni umanitarie che
denunciano lo stato miserevole dei diritti umani sotto il regime dell'Avana, la
soppressione di ogni più elementare libertà, la caccia al dollaro
che ha fatto di Cuba un bordello ancor più funzionante di quelli che
sfolgoravano nel regno di Fulgencio Batista. "Sicko" di Moore appare
per ciò la rappresentazione artisticamente compiuta di quella
"tirannia della penitenza" di cui ha scritto Pascal Bruckner a
proposito delle società occidentali, un accecante odio di sé che
smarrisce ogni misura nella denuncia delle "nostre" malefatte e
cancella fino ad azzerarle quelle, ben altrimenti mostruose, di chi si erge a
paladino dell'anti-Occidente, o dell'anti-America (che è più o
meno la stessa cosa). Moore riceverà applausi e osanna, molti tesseranno
elogi per la temerarietà visionaria della sua poetica, l'azione
giudiziaria promossa dal governo americano illuminerà sul capo del
grande regista l'aureola della santità e del martirio. I cubani non
ignari del fatto che di funzionante a Cuba si segnala non tanto il sistema
sanitario, ma quello carcerario, assisteranno increduli all'apoteosi
hollywoodiana di un regime oppressivo e asfissiante. Complimenti a Michael
Moore, genio della comunicazione. E della mistificazione. Gli osanna di Cannes
per il film "Sicko" testimoniano l'odio di sé che affligge
l'Occidente.
2007-05-19
20:09
ROMA
(
è singolare che, mentre sulla
contrapposizione tra famiglia regolare e Dico il dibattito dilaghi nelle piazze
e sui mass-media, su altre questioni, altresì di profilo ideale e,
magari, di natura più generale, il disinteresse regni sovrano. Eppure
anche su queste si scontrano visioni opposte. Nell'ignoranza e nel silenzio dei
più, anche se ? tra genitori, alunni e insegnanti ? concernono milioni
di italiani. è, infatti, alla scuola che sto alludendo. Ne ho parlato la
settimana scorsa ("La carica dei
Probabilmente si tratta solo di una coincidenza.
Ma di certo colpisce che ieri, domenica 20 maggio, Corriere e Repubblica
abbiano voluto dare tanto rilievo all’antipolitica che sta crescendo nel paese.
Intesa, nella versione di Sergio Romano, come una (fondatissima) collera
montante verso i privilegi e l’intoccabilità di un ceto politico diffuso
che, a Roma come in periferia, è votato pressoché solo
all’autoconservazione: una collera così forte da richiamare «la marea
del ’92». E letta invece, nell’analisi più rassicurante di Ilvo
Diamanti, soprattutto come distacco, scetticismo e stanchezza di un’Italia
sempre più indifferente alla politica e sempre più votata alla
ricerca di una felicità personale e familiare che può essere
perseguita nonostante l’inconcludenza, per non dire di peggio, della politica.
Non si tratta solo del giudizio di autorevoli commentatori sull’onda del
notevole (ed emblematico) successo editoriale del libro di Gian Antonio Stella
e Sergio Rizzo, La casta, di recente pubblicato da Rizzoli. A denunciare il
rischio incombente che l’Italia politica attuale finisca travolta come quella
della Prima Repubblica è Massimo D’Alema. Un leader politico. Anzi, il
politico per antonomasia: non c’è dubbio che il piatto forte della
giornata, in materia, sia la sua intervista al Corrierone. Perché D’Alema non
segnala soltanto che certi sinistri scricchiolii li avverte nitidamente: sembra
anche voler dire che non intende comportarsi come Bettino Craxi nel ’92, quando
parlò di Mario Chiesa agli arresti come di un mariuolo e provò a
nascondere (prima di tutto a se stesso) che quella che si stava aprendo era una
crisi di sistema. Anzi, la crisi del sistema.
Non ha grandi risposte, D’Alema. Ma almeno ha il merito di vedere il problema.
Si potrebbe discutere a lungo, e proficuamente, sulle differenze e le analogie
tra la nostra crisi attuale e quella del ’92, magari anche tenendo in conto un
aspetto decisivo della questione, il rapporto tra politica e affari, e tra
politici e affari, più di quanto non si sia fatto nei commenti e nelle
interviste di ieri. Lo faremo. Ma intanto, che cosa fa la politica di destra,
di centro e di sinistra per restituirsi quel minimo di credibilità
necessario per non farsi travolgere? Di sicuro non autoriduce i propri costi e
i propri privilegi di casta, intollerabili sempre, e tanto più quando la
politica (di governo e di opposizione, certo: ma è chiaro che i guai
maggiori sono quelli di chi governa) non riforma, non decide, non prova nemmeno
ad alimentare speranze, e anzi fatica, eccome, anche solo a gestire e a
organizzare. E non si mette in discussione e in ascolto, non si apre, non si
allarga, anzi considera ogni potenziale nuovo protagonista come un concorrente
cui va sbarrato subito il passo.
E’ in crisi dappertutto la politica, sono in crisi dappertutto i partiti. Non
quanto da noi. Non come da noi. Perché solo da noi, credo, ci si può entusiasmare
per Sarkozy, e intanto interrogarsi sempre più seri e sempre meno faceti
sulle magnifiche sorti di Michela Brambilla. Solo da noi, credo, si può
lanciare l’idea di un partito tutto nuovo, il Partito democratico, e mettersi
pure a costruirlo a tappe forzate, rinviando però alla vigilia delle
elezioni politiche (nella speranza chissà quanto fondata che siano
lontane) la scelta democratica di chi ne debba assumere la guida, quasi che la
competizione tra diversi candidati leader, diverse idee e diversi programmi
fosse un pericolo e non una potenzialità. E solo da noi, temo, ci si
può stupire perché cresce esponenzialmente il numero degli italiani che,
comunque votino, i costi di una simile politica li trovano intollerabili.
/ Roma LA CRISI DELLA POLITICA
denunciata da D'Alema sul "Corriere della Sera"? È sotto gli
occhi di tutti, e dunque il punto ad oggi è trovare un modo per
affrontarla. Sono un po' di questo tenore i commenti - alcuni anche molto duri
- all'intervista del Ministro degli Esteri. A cominciare da quello del
politologo Edmondo Berselli. "La riflessione su una crisi della politica
come quella degli anni 90 nasce dal libro di Stella e Rizzo, che denuncia costi
e privilegi della politica, e che sta avendo un grande effetto
nell'ambiente politico italiano. Altro che Re nudo, è scorticato, e
messo in piazza. Su quello specifico punto D'Alema ha ragione. La politica
è talmente screditata, che si rischia di avere dei contraccolpi
importanti", spiega Berselli. E va oltre: "C'è un'ondata di
insofferenza per la politica che qualcuno userà. Se ci
sarà qualche imprenditore dell'insofferenza assisteremo a un'ondata
demagogica che Dio solo sa come finirà". Dunque, "sarà
opportuno che anche il governo guardi in modo non manieristico ai problemi che
si stanno sollevando. Altrimenti la gente si fa la convinzione che Tangentopoli
si sia rifugiata dentro il meccanismo stesso della politica".
Berselli non discute sul giudizio di litigiosità del governo che
dà D'Alema, ma spiega: "Il punto è se questo giudizio si
traduce in qualcosa. Il governo è in una condizione invidiabile per quel
che riguarda l'andamento dell'economia. Si tratta allora di definire le
priorità, e di argomentarle di fronte all'opinione pubblica in modo
convincente. Insomma, uno sforzo per portare l'attività di governo al livello
della vita dei cittadini". Non interviene direttamente sulle parole di
D'Alema, ma un'indicazione chiarissima la dà Fabio Mussi: "Dovremmo
provare a fare le riforme possibili, come quella elettorale. E poi ridurre i costi
della politica e ridurre quella che due importanti giornalisti italiani
hanno chiamato La Casta". Dà un giudizio sfaccettato l'economista
Nicola Rossi: "Sono lieto che si arrivi a conclusoni cui noi eravamo
arrivati da tempo, ma osservo che la politica che dice che c'è un
problema e non fa nulla per risolverlo è proprio il problema".
Sottolinea: "A monte c'è un problema di credibilità della politica
in sé. Si tratta del modo di essere della politica, prima ancora che
delle norme che ne regolano l'attività: il modo con cui si affrontano i
nodi determinanti, come si fa il Pd, il fatto che abbiamo una classe dirigente
figlia degli anni 70 e 80 che è incapace di rinnovarsi". Dunque,
"la prima soluzione dovrebbe essere quella che la politica deve
usare il linguaggio della verità con il Paese". Di una "strana
intervista" parla Cesare Salvi. Perché, dice, D'Alema "sembra uno
arrivato da Marte. La valutazione è giusta, ma non ha nulla da dire
sulle cause. La delusione che ha suscitato il governo per lui non conta niente
nell'idea che si sono fatti gli italiani sui partiti? Ma lui dov'era
quando si sono fatti 102 tra Ministri e sottosegretari? E che cosa ritiene
giusto fare?". Poi avverte: "Ci vuole una sterzata forte nell'azione
di governo: un'azione immediata ed effettiva sugli sprechi della politica,
un rinnovamento soprattutto del Mezzogiorno, poche e chiare scelte dell' azione
di governo, senza questa litigiosità continua. In sintesi, l'opposto di
quel che si è fatto finora". Ne fa un problema trasversale Villetti:
"La crisi c'è, ed è profonda, ma è trasversale,
riguarda tutte le classi dirigenti. L'antipolitica nasce sostanzialmente
dall'allargamento delle diseguaglianze". Durissimo Pancho Pardi:
"D'Alema è poco tempestivo, è da parecchi anni che il
protagonismo civile si è accorto della crisi della politica. Da
quel che dice sembra che se fosse funzionata la Bicamerale sarebbe andato tutto
benissimo. Per noi è stata un disastro". Poi dà un giudizio
impietoso sul governo, definendo "deludente" la legge sul conflitto
d'interesse, "molto difficile" quella sulla tv, a forte rischio di
non funzionamento quella che si deve fare sulla legge elettorale."La cosa
principale - avverte allora - è ridare voce ai cittadini". Replica,
infine, con la consueta vis polemica Mastella all'accusa da parte di D'Alema di
una sua "agitazione immotivata e strumentale" sulla legge elettorale:
"Le leggi elettorali si fanno a seconda delle convenienze. Non capisco
perché se sono quelle referendarie o dei partiti grandi va bene, se
quelle dei partiti più piccoli non va bene. Se accetti le
convenienze dei partiti più grandi sei un grande statista, se no
sei un retrogrado, che vuol difendere le sue piccole cose". E ancora:
"D'Alema e altri hanno spiegato in passato che il maggioritario avrebbe risolto
il problema. Ora cambia tutto. Io vado per la mia strada". Insomma,
"si tratta di una lezione moralisteggiante. D'Alema se la poteva pure
risparmiare".
ROMA - Il telefonino di Raffaele Bonanni ha
squillato a Siviglia, mentre il segretario della Cisl stava per mettersi a
tavola: "Sono Romano. Troveremo la soluzione. Adesso dobbiamo chiudere il
contratto degli statali prima possibile". Quando è prima possibile?
Mercoledì, se non addirittura martedì. "Il modo",
avrebbero convenuto i due, "si troverà": poco importa se i
sindacalisti sono in Spagna per il congresso della Confederazione europea dei
sindacati. Ma quella telefonata arrivata dal premier, anche a Guglielmo Epifani
e Luigi Angeletti, subito dopo che a Roma era appena finito il vertice su come
impiegare i soldi del tesoretto e come risolvere la grana del pubblico impiego,
contiene anche un'altra notizia. In questa faccenda, ormai, non c'è
più nulla di "tecnico": ogni cosa è nelle mani della
politica. Quasi tutti, nel governo, lo auspicavano. Il ministro dell'Economia
forse lo temeva. Tommaso Padoa-Schioppa anche ieri ha ripetuto ai suoi colleghi
il principio che gli è sempre stato a cuore fin da quando ha accettato
l'incarico: "Guardate che se sbragano i conti pubblici sono guai per
tutti". Sottolineando che il tesoretto va usato con estrema oculatezza.
Perché Bruxelles ha i fari puntati. Perché è inutile disperdere una
cifra così esigua in mille rivoli. Ma soprattutto per evitare di fare la
manovra di fine anno. Ed è questo che Padoa-Schioppa considera il vero
successo dei suoi primi dodici mesi da ministro, come molte volte ha detto:
"Chi avrebbe mai pensato, un anno fa, che ciò sarebbe stato
possibile?" Concetti, purtroppo, che talvolta cozzano brutalmente con le
esigenze della politica. Soprattutto in campagna elettorale. Così quel
Rutelli che ieri, al vertice, batteva i pugni sul tavolo, insistendo sul taglio
dell'Ici "perché l'82% degli italiani vive in casa di proprietà e
questo sì che sarebbe un segnale chiaro" per l'elettorato, e poco
importa se il suo collega Massimo D'Alema ieri abbia ripetuto quello che
già aveva dichiarato al Corriere ("non possiamo togliere soldi ai
comuni e basta"), è lo stesso Rutelli convinto che il tesoretto
derivante dall'extragettito sia in realtà ben maggiore di quello che
Padoa-Schioppa dice. Tre, forse cinque miliardi in più. Ma è
anche lo stesso Rutelli che in questi giorni ha tessuto la rete con i sindacati
per individuare il punto di caduta della trattativa sugli statali. I contatti
sono stati costanti e continui. Fino ad arrivare alla definizione di una
soluzione digeribile: chiudere adesso il contratto degli statali mettendo sul
tavolo 180, 200 milioni al massimo, per poi fare subito un altro contratto non
per due anni come al solito, ma per i prossimi tre. Perché, come dice un
ministro diessino esperto di questioni sindacali, "prima si fanno gli
accordi e poi le trattative". Proprio così: fare prima le
trattative e poi gli accordi è una stranezza. Al punto che nessuno si
è sorpreso quando i sindacati hanno rimesso in discussione l'intesa del
5 aprile sugli statali. Questa è la politica. Almeno, la politica come si
fa in Italia. Ha un bel dire, Padoa-Schioppa, che l'intesa firmata dal
sottosegretario Nicola Sartor e dai sindacati, è quella che fa fede. Che
nessuno può far finta di aver letto male quello che c'era scritto,
perché sono appena sette righe, e scritte belle grosse proprio per evitare
equivoci. E che in quelle sette righe si dice chiaro e tondo, che più
chiaro e più tondo non si può, che i soldi stanziati saranno
sì sufficienti "per erogare incrementi retributivi medi pro-capite
non inferiori a 101 euro", ma "per il comparto Ministeri".
Cioè, non 3,3 milioni di persone, ma appena 193.588. Tanti, secondo il
Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato, sono i dipendenti dei
ministeri, delle agenzie e della presidenza del consiglio. Ma i sindacati, ovviamente,
sanno leggere. E mentre c'era chi chiedeva altri 400, altri 600, e persino
altri 800 milioni, facendo la gara a chi la sparava più grossa, qualcuno
ammetteva, sotto sotto, che i soldi c'erano, ed erano abbastanza. Un
sindacalista, Carlo Podda della Cgil, lo aveva anche scritto in una lettera ai
ministri nella quale sosteneva che il numero reale dei beneficiari dell'aumento
era inferiore a quello ufficiale, a causa del blocco del turnover. Sentendosi
rispondere che quel calo numerico sarebbe stato compensato dalla
regolarizzazione dei precari. E allora perché tutto questo? C'è chi lo
imputa a questioni caratteriali. Ma è sicuro che non c'entrino nulla i
segnali di rigore che il ministro dell'Economia aveva indirettamente spedito ai
sindacati? Prima di presentarsi al tavolo con gli statali, Padoa-Schioppa aveva
deciso di tagliare le sedi provinciali del Tesoro. Di ridurre i premi al
personale. Soprattutto, di distribuirli con criteri selettivi e non più
a pioggia. Sicuro che non sia partito tutto da qui? Quei 180 milioni che il
governo tirerà fuori salveranno la forma e il nuovo accordo
eviterà uno sciopero generale che per la maggioranza sarebbe stato
disastroso. Le scorie che questa vicenda lascerà, anche dentro la
maggioranza, sono invece ancora tutte da valutare. A cominciare da un rapporto
con la sinistra radicale che minaccia di diventare sempre più
complicato. Ieri dai Comunisti italiani, il partito di Oliviero Diliberto,
arrivava un commento ustionante: "Abbiamo a che fare con un gruppo dirigente
che più maleducato non si può. Quando c'era il governo Berlusconi
il sottosegretario Gianni Letta telefonava per avvertirci di qualunque cosa
succedesse, mentre qui fanno un vertice a palazzo Chigi e nessuno ci
chiama". Sergio Rizzo.
E’importante
quel che accade lungo la frontiera Est dell’Unione, nel momento in cui a Parigi
c’è un nuovo Presidente che promette di metter fine all’inedia che
affligge l’Europa dal 2005, quando la costituzione fu bocciata in Francia e
Olanda. È una frontiera dove stanno mettendo radice nazionalismi
autoritari, che avvalendosi del diritto di veto insidiano mortalmente il farsi
dell’Europa e il suo guarire. Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner
dicono che Parigi cambierà politica, difendendo i diritti dell’uomo nel
mondo e combattendo le dittature. Ma la vera battaglia inizia in casa, se
davvero la si vuol fare: il male è dentro l’Europa, ed è letale e
contagioso. Le periferie dell’Est sono le nostre marche di confine, da quando
la comunità s’è allargata, e questa loro condizione - l’esser
baluardi orientali dell’Unione, come la Germania occidentale nella guerra
fredda - le rende determinanti in politica estera e militare. Sono i governi
dell’Est a decidere come e se l’Europa comincia a negoziare con il retroterra russo.
Sono loro a influire sui rapporti con Washington, a meno d’un tempestivo
chiarimento.
Chi vive nel cuore dell’Unione ha meno preoccupazioni politiche e strategiche
di chi presidia le frontiere: questo è il dato da cui conviene partire
quando si esamina quel che succede a Varsavia, Bratislava, Budapest, Bucarest,
nei Baltici. I governi dell’Est hanno utilizzato questa carta (l’acuta
coscienza delle marche di confine) ma col tempo il ragionamento strategico
è divenuto un pretesto per insediare nazionalismi intolleranti che con
le regole e la storia dell’Unione sono incompatibili. Il bisogno d’America che
essi esprimono - su Iraq, sullo scudo anti-missili Usa, su ulteriori
allargamenti a Est auspicati da Washington - è un mezzo per impantanare
l’Europa con tre armi: il nazionalismo, l’appello al cristianesimo, la politica
dei valori.
Il caso Polonia è il più significativo, ma il suo esempio fa
scuola attorno a sé. Da quando i gemelli Kaczynski sono al potere, dopo le
legislative e presidenziali del settembre-ottobre 2005, Varsavia è
precipitata in un nazionalismo prevaricatore e religioso. Quel che conta per i
due fratelli (Lech presidente, Jaroslaw premier) è opporre la democrazia
al liberalismo, non solo economico ma istituzionale e dei diritti cittadini.
Solo due idoli contano per loro - la legittimità popolare, i Valori - e
su essi nulla deve prevalere: né le norme né la Costituzione, né le istituzioni
né la divisione dei poteri. Una dopo l’altra, le istituzioni indipendenti sono
state politicamente asservite (Banca Centrale, Corte costituzionale,Vigilanza
sull’audiovisivo). Uno svuotamento democratico accentuato dal regolamento dei
conti con la generazione dissidente, che nell’89 liberalizzò economia e
politica negoziando con i comunisti (un metodo rischioso, che garantì
alle nomenclature impunità e oblio del passato). Il regolamento dei
conti secerne oggi la più vendicativa delle epurazioni.
La legge entrata in vigore a marzo si propone di epurare ben 700 mila persone.
Secondo i calcoli fatti da Aleksandr Smolar, presidente della Fondazione Batory
a Varsavia (filiale della fondazione Soros), sono 3 milioni i cittadini messi
in pericolo dalla lustrazione, se si includono le famiglie dei 700 mila. Ha
fatto impressione la ribellione di Geremek, leader di Solidarnosc negli Anni 80
e ministro degli Esteri fra il ’97 e il 2000: il deputato europeo si è
rifiutato di firmare un’umiliante dichiarazione in cui negava d’aver
collaborato con i servizi comunisti. Ma tanti si son rifiutati, perché
l’epurazione non minacciava di licenziamento solo politici o giudici (come la
legge del ’97) ma studenti, professori, giornalisti. La Corte costituzionale ha
invalidato la legge, l’11 maggio, affermando che i governi «non regnano sulla
Costituzione» e i diritti individuali. Di fatto sono forme neo-fasciste che
s’installano a Est. Un neofascismo che usa la politica dei valori per imporre
società chiuse, ostili alle diversità: per colpire chi difende
gli omosessuali, chi avversa la pena di morte, chi si schiera per un’Europa che
i Kaczynski considerano atea, permissiva, materialista, decadente moralmente.
È in nome delle radici cristiane che i gemelli si ergono contro
un’Unione sovrannazionale, e legittimano l’arbitrio nazionalista: chi in Europa
occidentale inalbera bellicosamente i Valori, ha interesse a vedere quel che
succede qui. I grandi nemici dei Kaczynski sono la Russia ma anche la Germania
accusata di furia egemonica: le due nazioni sono messe sullo stesso piano, la
battaglia per i diritti umani violati da Putin è contaminata. Ambedue le
potenze si spartirebbero l’Europa centrale e minaccerebbero, come in passato,
la sopravvivenza polacca. Paralizzata com’è, l’Europa di oggi non ha
tuttavia strumenti d’intervento: né istituzionali né culturali. Non ha neppure
volontà di capire. È tormentata dal falso dibattito sulle radici
cristiane, non osa difendere una laicità vitale per la democrazia
polacca. Fu vigilante nel 2000, quando Haider in Austria s’avvicinò al
potere, ma quei tempi son tramontati e oggi, in una situazione ben più
deteriore (un’estrema destra ai vertici del potere), impensabili. La vigilanza
d’allora fu ingiustamente criticata, ritenuta inefficace. In realtà
l’Unione influì grandemente su Vienna. Il cancelliere democristiano
Schüssel fu abile, nell’assorbire Haider invece di demonizzarlo. Ma mai sarebbe
riuscito nell’impresa, senza il vigile occhio esterno dell’Unione. Oggi
l’occhio è cieco.
A bloccare l’Europa è la stasi istituzionale, ingovernabile da quando
l’Unione è composta di 27 Stati: sulle decisioni cruciali occorre
l’unanimità, e al veto gli orientali s’aggrappano rabbiosamente, perché
il diritto di nuocere e interdire dà loro lo smalto di mini-potenze.
Smalto fittizio, ma pur sempre smalto. Senza che l’Unione possa impedirlo, ci
sono deputati polacchi nel Parlamento europeo che impunemente elogiano Franco
(uno «statista cattolico eccezionale») o Salazar. Il deputato europeo Maciej
Gyertich ha pubblicato un pamphlet antisemita, edito dal Parlamento europeo
(Guerra delle civiltà in Europa: gli ebrei, «biologicamente differenti»,
avrebbero scelto volontariamente i ghetti). Maciej è padre di Roman
Gyertich, il ministro dell’Educazione che vorrebbe escludere Darwin
dall’insegnamento, che avversa gli omosessuali e appartiene alla Lega della
Famiglie Polacche, una formazione che governa con i Kaczynski e l’estrema
destra di Lepper (partito dell’Autodifesa).
La Carta dei Diritti potrebbe essere uno strumento europeo: ma non è
vincolante senza approvazione della Costituzione. È sperabile che
Kouchner si batta per non estrometterla dal mini-trattato che sarà
presentato in Parlamento. L’Unione è inerme: ha contato molto durante la
presidenza Prodi, quando Bruxelles impose una democrazia fondata sulla
separazione dei poteri in cambio dell’adesione. Ma appena ottenuto l’ingresso,
i dirigenti che l’avevano voluto sono caduti: a Varsavia, Praga, Budapest,
Bucarest. Lo slogan s’è fatto nichilista: adesso che siamo entrati,
tutto è permesso. Jacques Rupnik, storico della Cecoslovacchia, parla di
sindrome da decompressione. «Ora possiamo far loro vedere chi siamo veramente»,
avrebbero detto i Kaczynski. Quasi nessuno di questi Paesi entrerebbe oggi
nell’Unione: né la Polonia né l’Estonia, che critica non senza motivi Putin ma
che smantella provocatoriamente monumenti ai morti dell’ultima guerra e vieta
alle consistenti minoranze russe (40 per cento della popolazione) una
cittadinanza che dovrebbe esser normale (lo stesso accade in Lettonia).
L’Europa ha oggi bisogno di istituzioni forti, ma per edificarle dovrà
capire l’emergenza veto creatasi a Est. Ha bisogno di laicità, per
arrestare le proprie derive autoritarie-religiose. Ha bisogno di trattare
seriamente con Mosca, e di avere una politica energetica comune anziché molte
politiche e sterili veti alla trattativa. Uno straordinario articolo di Piero
Sinatti, sul Sole-24 Ore, spiega bene come la Polonia rischi, bloccando il
negoziato euro-russo, d’impedire che una risoluta politica comune nasca.
L’emergenza veto dovrebbe ricordare qualcosa ai polacchi. Quando introdusse il
liberum veto, nel XVII secolo, la Polonia preparò la propria rovina:
ogni deputato della Dieta poteva interrompere sessioni e decisioni con le
parole «Non permetto». Nel secolo successivo sarebbe scomparsa dal continente.
È grave che oggi Varsavia usi la stessa carta per far scomparire
l’Europa, nell’illusione di salvarsi come finta nazione sovrana.
ROMA - La Rai è divisa, ma Mario
Landolfi, presidente della commissione di Vigilanza, non ha dubbi: bloccare
l'inchiesta della Bbc sui preti pedofili. "Apprendo che, su richiesta di
Michele Santoro" scrive Landolfi "la direzione generale della Rai si
accingerebbe a esaminare la proposta di acquisto di "Sex crimes and the
Vatican", una vecchia inchiesta sul coinvolgimento di sacerdoti in vicende
di pedofilia in cui viene chiamato in causa anche l'allora cardinale Ratzinger,
presentato come colui che avrebbe coperto i responsabili di tali nefandezze.
Un'evidente ragione di opportunità dovrebbe consigliare a Cappon di non
aderire alla richiesta del conduttore di "Annozero". Lasci pure a
Santoro la palma del martirio, ma eviti di trasformare il servizio pubblico in
un plotone mediatico di esecuzione pronto a fare fuoco sulla Chiesa e sul
Papa". Un invito alla censura che scatena dure reazioni, mentre il caso
Bbc finirà oggi sulla scrivania del direttore generale della Rai Claudio
Cappon. La polemica sull'inchiesta (in rete su Google) che denuncia gli abusi
sessuali subiti dai minori da parte dei sacerdoti in Irlanda, Stati Uniti e
Brasile, crea imbarazzo. Sono giorni delicati a Viale Mazzini, col Cda in
bilico, uno scontro col Vaticano fa paura. L'Avvenire ha bollato il documentario,
già trasmesso sulla Bbc nel 2006, come "infame calunnia via
Internet". Santoro, il filmato andrà in onda giovedì?
"Non ho avuto alcuna notizia ufficiale in senso contrario, per cui,
essendo a posto dal punto di vista dell'iter burocratico aziendale, mi aspetto
che tutto si risolva" dice il giornalista. "Se dovesse emergere
qualcosa in contrario, vedremo. Gli ok di prammatica per questo tipo di
acquisto ci sono tutti e, dal mio punto di vista, non c'è nulla che
possa impedirlo". Ma la richiesta è ancora senza firma: dalla
scrivania del direttore di RaiDue Antonio Marano è finita sul tavolo di
Lorenza Lei, responsabile delle Risorse televisive. Santoro è direttore
(ad personam), responsabile editoriale di "Annozero", potrebbe quindi
procedere all'acquisto (sui 20mila euro) autonomamente. Antonio Di Bella,
direttore del Tg3, sovrintende sulla trasmissione di RaiDue solo per la par
condicio: il suo nulla osta è legato agli equilibri politici, non ai
contenuti della puntata. La valutazione editoriale spetta solo al direttore
generale: Cappon deve ancora pronunciarsi e già viene tirato per la
giacchetta. Giovanni Russo Spena e Gennaro Migliore, componenti (Prc) della
Commissione di Vigilanza, denunciano Landolfi. "Riteniamo inaccettabile
l'esortazione a Cappon, è un invito alla censura preventiva. Se
dovessimo accettare imposizioni dalle gerarchie ecclesiastiche sarebbe
gravissimo". Concorda Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21:
"Non spetta né a Landolfi e neanche ai singoli partiti chiedere qualsiasi
forma di censura preventiva. Non esistono argomenti che non si possono
trattare". Giorgio Lainati, capogruppo di Forza Italia nella Commissione,
attacca: "La sinistra comunista ha da tempo scatenato nei programmi dei
suoi fiancheggiatori in Rai un'offensiva anticlericale. Evidentemente l'enorme
successo del Family day ha scatenato la sete di vendetta". "Non
vorrei che attorno a una trasmissione di Santoro ripartisse un tormentone"
osserva Giorgio Merlo, vice presidente della Vigilanza Rai. "Nel
servizio pubblico non è prevista la censura preventiva ma neanche la
continua delegittimazione".
Per legge devono ottimizzare i profitti e
l'unico modo per riuscirci è negare i servizi Mariuccia Ciotta Cannes La
verità non si può documentare, neppure "sul campo"
dondolando l'ingombrante corpo di Michael Moore. È un concetto
sfuggente, fuori fuoco. Eppure Fahrenheit 9/11 diceva che la guerra in Iraq era
fondata sulle bugie. Flint che la General Motors era al collasso. Bowling for
Columbine che il mercato delle armi era all'origine delle stragi nei college...
ma neppure dopo la sconfitta, la bancarotta e il Virginia Tech è caduto
il sospetto. Cinema di propaganda. Così il comico, iperbolico, situazionista
Michael Moore si è tirato indietro, ha abbandonato l'"io" ed
è passato al "noi" nel suo ultimo capolavoro sull'America
perduta, Sicko. Visita al sistema sanitario statunitense
attraverso le testimonianze dei malati respinti dalle assicurazioni private, e
niente più, o quasi, oltraggi in prima persona di Michael, il performer
"manipolatore". L'effetto è stato dirompente. È la
prima volta infatti che la Casa Bianca reagisce e minaccia il sequestro del
film e la galera per il regista. Dieci giorni fa, infatti, poco prima della
prima mondiale di Cannes, Michael Moore ha ricevuto una lettera
dall'amministrazione Bush che lo accusa di aver agito nell'illegalità.
Il materiale fuorilegge, però, non sta nelle sobrie interviste alle
vittime delle feroci compagnie di assicurazioni che, in nome del profitto,
respingono le richieste di assistenza medica, ma nello spettacolare viaggio del
nostro eroe verso le coste cubane. Il massimo dell'artificio, una messa in
scena degna di Jerry Lewis a bordo di tre piccoli yacht. Michael Moore è
accusato di aver violato l'embargo, di essere sceso all'Havana per girare il
suo film, che rischia di essere mutilato delle scene incriminate. La
verità, appunto, non si può documentare, ma si sente, è come
il suono di un violino, e si vede come le sfumature di un quadro. L'opera
d'arte è Michael Moore, "io" e "noi"
contemporaneamente, che solca l'Atlantico col suo berretto di traverso alla
volta del più assurdo presidio sanitario, Guantanamo. L'idea
nasce dalla confessioni di alcuni pompieri dell'11 settembre, che, dopo gli
onori e la gloria, sono stati abbandonati ai loro enfisemi polmonari, cancro e
malattie respiratorie varie. Molti erano volontari e le assicurazioni si sono
rifiutate di coprire le spese per le cure. Così Michael Moore decide per
la pittoresca avventura dopo aver appreso da un filmato del Pentagono che i
prigionieri di Al Qaeda non solo non vengono torturati ma godono di assistenza
sanitaria gratuita. Perché non gli eroi dell'11 settembre? Intimati di
allontanarsi dalla barriera militare del carcere, le tre navicelle di Sicko
fanno rotta verso Cuba, dove uno spray anti asma, che in Usa costa 120 dollari,
nelle farmacie castriste è venduto a 5 cents. Dove l'ospedale è
gratuito, e i medici non chiedono le carte di credito agli yankees. Dove i
vigili del fuoco si mettono sull'attenti di fronte ai malridotti ex pompieri
delle Twin Towers, che piangono tra le braccia dei colleghi comunisti. Tanto
basta. "Che cosa siamo diventati?" si chiede Michael Moore, che fine
hanno fatto gli americani, il popolo dal buon cuore? Perché accettiamo che i
più deboli siano lasciati morire per arricchire gli azionisti? Hillary
Clinton è stata battuta con il suo piano di assistenza sanitaria nazionale
agitando lo spauracchio dell'assistenzialismo sovietico, mancanza di
libertà nella scelta del medico, burocrazia, lunghe file d'attesa,
arretratezza tecnologica... Le lobby farmaceutiche pagano i congressisti e
incassano la legge che condanna una bambina a morire perché l'ospedale la respinge,
non ha la copertura richiesta, un operaio a farsi rincollare un solo dito dei
due tranciati da una sega elettrica. L'indice costa 12.000 dollari, il medio
60.000, quale sceglie? ... I medici americani, lo rivela davanti a un tribunale
un'ex consulente pentita di una assicurazione privata, vengono premiati
(carriera e stipendi) se fanno morire i pazienti e risparmiare la
società. Basta trovare un "errore" nella scheda per il
rimborso, per esempio, una malattia non dichiarata, anzi un "sintomo".
Parla un "cacciatore di teste", anche lui pentito, che ha sulla
coscienza una marea di "terminati". E a suon della marcia di Guerre
stellari, sullo schermo sfilano le formazioni delle malattie che escludono
l'iscrizione all'assistenza. A pagamento. Gli americani hanno paura di
dimostrare contro il governo, sostiene Michael Moore, perciò non
scendono in piazza come fanno i francesi, gli inglesi, gli italiani. Il
maccartismo ha indotto al silenzio patriottico, all'accettazione del sistema
così com'è, quello dell'1% che detiene la ricchezza del paese.
Disillusi e depressi, gli americani vedranno cosa succede ai loro connazionali
di stanza a Parigi nella tavolata allegra con Michael che li interroga sui loro
diritti di malati. Gratis, gratis, gratis. Neppure il presidente anti-welfare
Sarkozy si sogna di togliere la sanità pubblica, non osò neppure
la signora Thatcher. "Scoppierebbe la rivoluzione" gli dice ridendo
un deputato inglese, perché la democrazia consiste nel principio che i
più forti aiutano i più deboli. Ecco qual è il tema di
Sicko. Tutta l'America è malata, le serve un big sistema sanitario,
un immaginario libero, una rivolta contro l'associazione a delinquere seduta
alla Casa Bianca (Nancy Pelosi e i democratici hanno già chiesto il
diritto alla salute per tutti). Serve all'America Michael Moore, che in
conferenza stampa ha già chiesto asilo politico all'Europa, scherzando
ma non troppo. La prima dimostrazione di libertà d'espressione l'ha data
proprio lui inviando un assegno di 12.000 dollari in forma anonima al suo
accanito avversario politico che ogni giorno gli dice Fuck you dal suo sito,
che avrebbe dovuto chiudere per curare la moglie malata. Il regista un-american
- Palma d'oro per Fahrenheit 9/11 - il suo sito d'amore per l'America lo chiude
invece con un sorriso: digitate www... per sapere come sposare un canadese e
vivere felici se vi viene l'influenza.
Unicredit
Group si piazza al sesto posto nel mondo (al primo posto c'è l'americana
Citigroup) per valore di Borsa con 100 miliardi di euro subito davanti alla
svizzera Ubs (93) e alle spalle della britannica Hsbc (136). Ma è prima
banca dell'area Euro, con ben 40 milioni di clienti. La sede legale sarà
tasferita a Roma, Genova la perde dopo ben 137 anni. Il concambio deciso dai
Cda di Unicredit e Capitalia è stato fissato, come ampiamente anticipato
da indiscrezioni nei giorni scorsi, a 1,12 azioni Unicredit per ogni titolo di
Capitalia, un rapporto che valorizza le azioni Capitalia che dovrebbero
così salire da
Sinergie
per 1,2 miliardi. L'aggregazione fra Unicredit e Capitalia consentirà, come si
legge nella nota ufficiale, creerà un gruppo da 9200 sportelli (5 mila in
Italia) e 170 mila dipendenti. Il mix geografico e di business è ben
bilanciato, con il 53% dei ricavi generati all'estero. Unicredit Group
resterà radicato in Italia, ma è già leader nell'Est
Europa, in Austria ed è la terza banca in Turchia, il che significa
più di qualcosa anche per il sostegno alle Pmi impegnate in un turbinoso
processo di internazionalizzazione. Potranno essere realizzare sinergie lorde
stimate in circa 1,2 miliardi (sinergie nette di circa 800 milioni) dal 2010,
circa il 68% delle quali deriverà da risparmi di costi e il 32% da
ricavi «ottenibili anche grazie al trasferimento di best practice». Tra
le altre previsioni, un acrescita media annua composta degli utili per azione
proforma pari a circa il 17% nel periodo 2007-2009, un dividendo per azione in
progressiva crescita nei prossimi anni, Core Tier I ratio confermato al 6,8%
entro il 2008.
Al 9,39% in Mediobanca entro il 2007.Unicredit Group ridurrà la
propria partecipazione in Mediobanca al 9,39% entro la fine del 2007. È
quanto si legge nel comunicato congiunto delle due banche per l'approvazione
dell'operazione. Attualmente la quota complessiva che Unicredit e Capitalia
detengono in Mediobanca supera il 18%. In relazione alla partecipazione
ordinaria in Mediobanca, si legge sul comunicato, l'obiettivo è di
scendere, entro la fine del 2007, al 9,39%, dando mandato a Mediobanca di
collocare l'eccedenza risultante a seguito dell'operazione nell'ambito del
patto di sindacato di Mediobanca «anche in favore di nuovi investitori che non
conducano attività che possano determinare conflitti di interesse con
Mediobanca».
Quota Generali ceduta nel 2008. La quota detenuta da Unicredit in
Generali sarà ceduta alla scadenza del prestito convertibile nel 2008.
È quanto è scritto nella nota congiunta di Unicredit e Capitalia
dopo il via libera al progetto di integrazione fra le due banche. L'operazione,
si legge, potrà generare «un ulteriore potenzialmente miglioramento del
capitale tramite la cessione della partecipazione di Unicredit in Generali alla
scadenza dell'exchangeable nel 2008».
Cariverona primo azionista. Fondazione Cariverona resterà il
primo azionista della nuova Unicredit, anche dopo l'acquisizione di Capitalia.
Il peso dell'ente guidato da Paolo Biasi, primo socio di piazza Cordusio con il
4,99%, dovrebbe ridursi al 3,9%. Seguono il gruppo tedesco di riassicurazione
Munich Re e la Fondazione Crt presieduta da Andrea Comba con il 3,7%, la
modenese Carimonte Holding con il 3,4%, il colosso assicurativo tedesco Allianz
con il 2,4%, l'olandese Abn Amro con l'1,9%, il gruppo assicurativo inglese
Aviva (il quinto al mondo) con l'1,5%, la Fondazione Cassa di Risparmio di Roma
con l'1,1%, la Fondazione Manodori di Reggio Emilia con lo 0,9%, il gruppo
assicurativo Fonsai con lo 0,8%, la Regione Sicilia con lo 0,6%, la libica
Lafico e la Fondazione Banco di Sicilia con lo 0,6%.
Partecipazioni, leadership in Piazza Affari. Non solo il 6,35% delle
Generali, ma anche il 22,12% della Banca d'Italia (con Intesa Sanpaolo al 42%),
il 19,84% di Borsa Italiana (superata Intesa Sanpaolo, ferma al 18,74%) e una
rentrée in Rcs Mediagroup. Il gruppo Unicredit, dopo la fusione con Capitalia,
si troverà in dotazione un ricco portafoglio di partecipazioni, alcune
delle quali situate in snodi strategici della finanza italiana.
STRUMENTI
Con
il varo di Unicredit- Capitalia si avvia al termine la lunga e accidentata
stagione del risiko italiano. Vedremo nelle prossime settimane se l'offerta
ufficializzata ieri da Alessandro Profumo reggerà davanti a possibili
contromosse— come è accaduto di recente nel caso Abn— di concorrenti
stranieri o italiani. Solo allora avremo la prova provata che il prezzo
proposto agli azionisti di Capitalia è il migliore possibile e che si
tratta quindi di un’operazione di mercato. In ogni caso, appena un anno fa la
prima banca italiana occupava sì e no la decima posizione delle
graduatorie continentali, oggi ne troviamo ben due tra le prime e una di esse
può vantare un terzo degli attivi fuori dei confini nazionali. Il
processo di consolidamento è durato almeno 15 anni e ci ha tenuto tutti
con il fiato sospeso. Si sono avuti nel frattempo avvicendamenti a palazzo Koch,
si sono alternati al potere governi tecnici e coalizioni di opposto segno
politico, c'è stato l'avvento della moneta comune ed è avanzata
l'unificazione dei mercati finanziari europei e, soprattutto, è stato
implementato un quadro normativo e regolatorio di standard internazionale. In
molti temevano la colonizzazione del sistema bancario italiano e la
proiettavano a metafora di una più ampia retrocessione del Paese, ora
non solo ci troviamo al top con Intesa Sanpaolo e Unicredit-Capitalia ma entrambi
i poli aspirano a crescere ulteriormente in Europa. È un'ottima notizia
per il sistema Italia, di valore pari se non superiore allo spettacolare
turnaround della Fiat. Nell'uno e nell'altro caso si era dato per scontato il
peggio e invece il sistema ha dimostrato grande vitalità, gli attori
hanno dato prova di sicura razionalità e il processo di rafforzamento
dei maggiori marchi nazionali è avvenuto grazie all'affermarsi di una
moderna cultura industriale orientata all'efficienza e alla competizione. In
itinere è emersa una nuova classe dirigente di caratura internazionale
che ha già contribuito al rinnovamento delle élite italiane e promette
ancor di più.
Se
non ci fossero stati gli equivoci e le contraddizioni dell'era Fazio tutto si
sarebbe potuto svolgere prima e meglio (le Opa bloccate del '99), si sarebbe
evitata la costruzione di improbabili cordate nazionali, la magistratura non
sarebbe stata costretta a invadere il campo e la politica avrebbe collezionato
qualche figuraccia in meno. L'autarchia non si è dimostrata una ricetta
vincente, anzi il valore del consolidamento delle banche italiane è
ancor più apprezzabile perché avvenuto in parallelo con l'ingresso di
nuovi soggetti stranieri. L'apertura dei mercati non equivale dunque al
suicidio, bisognerebbe tenerlo a mente così come non andrebbe
dimenticato che il settore bancario rappresenta un caso di successo del
processo di privatizzazione iniziato negli anni 90.
Ricordare
questi elementi, guardare la luna e non il solito dito, non è un invito
al relax. Il risiko proseguirà a livello continentale e le due
superbanche dovranno anche guardarsi le spalle. Se c'è stato un netto
miglioramento della qualità dei servizi forniti alle imprese, il credito
non è ancora riuscito ad esprimere il meglio nel rapporto con le
famiglie.
In
materia di tutela della concorrenza e rispetto dei consumatori c'è
ancora molto da fare e al proposito sarà interessante ascoltare quanto
dirà il governatore Draghi il prossimo 31 maggio. La nuova Banca
d'Italia ha il grande merito di aver rimosso gli ostacoli alla concentrazione
delle proprietà, ora vedremo se insisterà nel richiedere
comportamenti pro concorrenza più coerenti e la separazione tra banche e
fondi di investimento. Le nozze tra Unicredit e Capitalia non avviano a
chiusura solo la stagione delle grandi aggregazioni nazionali, chiamano anche
in causa il futuro di Mediobanca e Generali, il nocciolo duro del capitalismo
italiano. L'istituto di piazzetta Cuccia negli ultimi tempi ha accentuato la
discontinuità con il passato, si èmosso sul mercato senza contare
sulle vecchie rendite di posizione e i risultati ne hanno premiato il coraggio.
È auspicabile che questa traversata in mare aperto prosegua, fino a fare
di Mediobanca una grande investment bank continentale stemperando via via
l'originario carattere di cassaforte di partecipazioni incrociate. Quanto alle
Generali, a Trieste si coltiva la giusta ambizione di crescere
significativamente di taglia e diventare un big player del settore. Non resta
che aspettare alla prova il suo gruppo dirigente. Da un assetto poliarchico e
competitivo dell'alta finanza l'economia di un Paese aperto ha solo da
guadagnare.
21
maggio 2007
La Repubblica
20-5-2007 LE BANCHE E LA NUOVA RAZZA PADRONA EUGENIO SCALFARI
NEL REPARTO FRATELLI & SORELLE, Angela
Buttiglione, Nicola Cariglia, Sandro Marini, Antonio Sottile (nel senso di Salvo,
quello del caso Gregoraci), Maria Zanda. Nel settore mogli & mariti:
Roberta Carlotto (consorte di Alfredo Reichlin), Simona Ercolani (di Fabrizio
Rondolino), Ginevra Giannetti (di Altero Matteoli), Giuseppe Grandinetti
(marito della senatrice verde Loredana De Petris), Anna Scalfati (moglie di
Giuseppe Sangiorgi, membro demitiano dell'Agcom). Segue il resto del parentado:
Ferdinando Andreatta (nipote di Nino), Adriana Giannuzzi (cognata dell'ex
senatore Ernesto Stajano), Alfonso Marrazzo (cugino di Piero), Marco Ravaglioli
(genero di Andreotti), Tommaso Ricci (cognato di Buttiglione), Luigi Rocchi
(genero di Biagio Agnes). Poi ci sono i fuoriclasse della Grande Famiglia Rai:
il turbo-berlusconiano Agostino Saccà, direttore della Fiction, s'è
portato la nuora spagnola, Sandra Steinert Jorge Santos, e il figlio Enrico
Silvestrin, attore nelle fiction; il capo del Personale Gianfranco Comanducci,
intimo di Previti, ha la moglie Anna Maria Callini dirigente alla segreteria di
Raidue e la cognata Ida Callini responsabile Risorse umane Corporate. Quanto ai
raccomandati, il Cavaliere portò in viale Mazzini la sua bionda
segretaria Deborah Bergamini, ora direttore Marketing; l'ex dirigente Fininvest
e poi di Forza Italia Alessio Gorla, capo dei palinsesti da poco in pensione
(la cui moglie si occupava dei casting); l'ex addetto stampa forzista Riccardo
Berti, promosso conduttore di "Batti e ribatti" al posto di Biagi; e
poi Marcello Ciarnò, che prima si occupava degli spostamenti di
Berlusconi e ora vicedirige il Centro di produzione Rai. Senza dimenticare
Mario Bianchi, passato direttamente da Publitalia ad amministratore della
Sipra, cioè della diretta concorrente. E l'ex deputato forzista Fabrizio
Del Noce, direttore di Rai1, che poi ha fatto assumere come funzionario
Gianluca Ciardelli, figlio della segretaria di Licio Gelli. E l'ex
vicedirettore del Tg5 Clemente J. Mimun, passato a dirigere il Tg1: ora,
compiuta la missione, torna al Tg5 da direttore. Naturalmente l'essere parenti
non esclude l'esser bravi. Anzi, ce ne sono parecchi, di bravi. Ma l'aspetto
curioso dell'intemerata berlusconica è che a casa sua, se possibile,
è anche peggio. Nel '95,quando il Cavaliere fece una sparata simile su
"Parentopoli", il settimanale "Cuore" si divertì a
elencare i parenti nelle sue aziende: il fratello-prestanome Paolo al Giornale
(con figlia Alessia al seguito) e all'Edilnord; i figli Marina e Piersilvio
detto Dudi a Mondadori e a Mediaset; Guido Dall'Oglio, fratello della prima
moglie, "coordinatore dei jingle" della Fininvest; lo zio Luigi
Foscale e signora al teatro Manzoni; il cugino Giancarlo Foscale alla Standa e
sua moglie Candia Camaggi alla finanza estera in Svizzera; Yives Confalonieri,
figlio di Fedele, dirigente a Publitalia insieme al cugino Guido; Lella, nipote
di Confalonieri, giornalista al Tg5, col marito Carlo M. Lomartire a Studio
Aperto; poi la famiglia Dell'Utri, con Marcello e il gemello Alberto a
Publitalia (e dunque a Forza Italia), e un nipote al Giornale. Poi i figli
degli amici: quello di Malgara, re dei pubblicitari e dell'Auditel, a
Publitalia; quello del giudice corrotto Diego Curtò, inviato del Tg4;
quella di Roberto Gervaso, che reclutò il Cavaliere nella P2, al Tg5; e
la sorella dell'avvocato Dotti al Tg4. Ora, 12 anni dopo, la lista va aggiornata.
Alla Camera siede Mariella Bocciardo, prima moglie di Paolo Berlusconi. Al
Giornale ha una rubrica fissa l'ex fidanzata dello stesso Paolo, Katia Noventa,
mentre Silvia Toffanin, compagna di Dudi, conduce "Verissimo" su
Canale5 e ha una rubrica su Libero. Ma il meglio è il Tg5: più
che un telegiornale, un Family Day, pieno com'è - direbbe il padrone -
"di fratelli, sorelle, cugini, parenti e affini dei protagonisti della
vecchia e nuova politica". Lucrezia Agnes, figlia del dc Biagio. Chiara
Geronzi, figlia del banchiere Cesare e cofondatrice della Gea con i figli di
Moggi, Tanzi, Cragnotti, Lippi, Calleri e De Mita. Giancarlo Mazzucchelli,
figlio della moglie di Petruccioli. Fabio Tricoli, nipote dell'avvocato di
Dell'Utri. Valentina Loiero, figlia del governatore Agazio. La vaticanista
Marina Ricci, sorella di Rocco e Angela Buttiglione. Giulio De Gennaro, figlio
del capo della Polizia Gianni. Sebastiano Sterpa, figlio del forzista Egidio.
Elena Caputo, figlia del giornalista e poi sottosegretario forzista Livio.
Silvia Reviglio, figlia dell'ex ministro socialista Franco. Giuliano
Torlontano, figlio del ds Glauco. Ultimo arrivo: Barbara Palombelli in Rutelli.
A Studio Aperto lavora Alessandro Del Turco, figlio del più noto
Ottaviano, e da pochi giorni Alfredo Vaccarella, figlio del giudice
costituzionale uscente Romano. Il figlio dell'ex presidente della Consulta
Vincenzo Caianiello invece si chiama Guido e lavora per Rete4. Poi ci sono
Martelli e Pivetti. Non sono parenti dell'ex ministro pregiudicato e dell'ex
presidente della Camera. Sono proprio loro.
Obiettivo a lui caro da oltre un ventennio.
Perché il presidente della Provincia di Cuneo ? già ministro,
sottosegretario e membro di commissioni parlamentari in diverse legislature ?
è soprattutto uno storico fustigatore di lussi e sperperi della classe
dirigente del Bel Paese. "L'Italia degli sprechi" e "L'Italia
dei privilegi" i due saggi in cui, anni fa, Costa denunciava vizi e cifre
preoccupanti. Pagine che fecero scalpore, ma sortirono un effetto minimo.
"Si evitò, ma solo per un periodo, che alcuni eccessi progredissero
ulteriormente", ricorda l'autore. Per il resto, non cambiò niente.
Anzi. "Allora venivo dileggiato per le mie proposte di legge
che derivavano dalla riflessione che tutta la macchina pubblica costasse
troppo". Oggi, invece, assistiamo a un revival delle accuse sugli eccessi di
spesa. Con Prodi in prima linea, che annuncia un disegno di legge in
questo senso. "Prendo atto dell'impegno di parte del mondo politico e mi
auguro sia sostanziale e non demagogico. Un tempo, tra i miei pochissimi
alleati c'era Stella, che adesso è uscito con un volume molto
interessante. Oggi il tema sembra essere tornato di moda. Cosa che mi fa
piacere, ma va detto che, oggi, ridurre i costi della politica è
più difficile di vent'anni fa". Perché? "Certe constatazioni
sugli sprechi arrivano in ritardo. Spese che si sono protratte per anni, e che
si sono diffuse dal Quirinale al Comune e alle Province, non saranno facilmente
cancellabili. Il privilegio nasce magari stentatamente ma, una volta che si
è radicato, è molto difficile da estirpare". Ma qual
è lo spreco principe? "Nessuno in particolare. A costare è
la struttura burocratica. La burocrazia pesa anzitutto perché comporta spese,
tra oneri e uffici. A differenza di Prodi, non sono preoccupato perché non si
fanno abbastanza leggi. Anzi, meno se ne fanno e meglio è". Dunque,
bisogna delegificare? "È importantissimo. Il governo Berlusconi
aveva cominciato e spero che si vada avanti per questa strada. Ogni legge
comporta un ufficio, una scrivania, un telefono, una persona che vi lavora.
Tutto, moltiplicato per ogni legge nel corso degli anni, appesantisce la
macchina burocratica. Che rallenta l'impresa e alla fine anche gli enti
pubblici". Assieme alla delegificazione che cosa farebbe? "Una serie
di ulteriori liberalizzazioni. Per fare perdere al motore pubblico delle
rotelle e quindi dei costi. Ma alla base di tutto deve consolidarsi un
atteggiamento: ragionare con il denaro pubblico come se fosse il proprio".
Passiamo agli stipendi dei politici. "Parrà strano, ma penso che un
parlamentare non guadagni in modo strepitoso rispetto magari a un dirigente
d'azienda. Il problema è il numero dei parlamentari. Fino al 1970
potevano anche essere 1000. Ma da quando esistono le regioni, ne basterebbero
500 tra Camera e Senato". E le pensioni degli onorevoli e dei senatori?
"Qualche anno fa bastava fare il parlamentare per un minuto per avere
diritto alla pensione. Adesso siamo già a due anni e mezzo. Si
può fare di più. 5 anni o l'intera legislatura". Infine un
'dettaglio': le auto blu. "L'auto viene messa a disposizione di una
persona, e il problema è l'esclusività della macchina. Che
comporta il pagamento da parte dell'ente di un autista che fa solo quello.
Magari per la stessa persona diventano anche 2 o 3. Con costi nel complesso
improponibili".
Che belle, le donne degli altri. I
compiaciuti applausi bipartisan alla scelta di Nicolas Sar- kozy di varare in
Francia un esecutivo composto per metà di ministre tra cui perfino una
maghrebina che il gentleman Roberto Calderoli definirebbe "molto
abbronzata", grondano d'ipocrisia come i cachi d'autunno. Non c'è
Paese al mondo, infatti, che abbia assistito negli ultimi anni a un tormentone
sfacciatamente bugiardo sulla donna in politica quanto il nostro. Ricordate
cosa giurò Romano Prodi, prima delle elezioni che l'avrebbero riportato
a Palazzo Chigi? "Nel mio governo ci saranno molte donne e avranno portafogli
pesanti". Sì, ciao: 6 ministre su 26 (meno di un quarto, quasi
tutte senza portafogli) e 14 sottosegretarie su 76, compresi i vice-ministri.
"Mi aspettavo di più", fu il suo indimenticabile commento,
dopo aver dato vita a un gabinetto cinque volte più obeso (11 ministri e
72 sottosegretari in più) di quello appena nato in Francia. E da chi se
lo aspettava quel "qualcosa di più", se la Costituzione dava a
lui la facoltà (spesso rivendicata) di scegliere i membri del governo?
Risposta: "I partiti non mi hanno proposto un numero di donne da poter
arrivare a otto". Alla faccia delle promesse di Piero Fassino ("Il
nostro progetto riformista intende mettere al centro le donne, le loro
aspirazioni, la loro libertà"), dei mea culpa di Francesco Rutelli
("I partiti italiani che non danno spazio alle donne, Margherita compresa,
fanno schifo"), delle lettere pubbliche di Fausto Bertinotti sul sogno di
"un governo dell'Unione che vedesse la metà delle donne tra i suoi
ministri e viceministri". Con Silvio Berlusconi, del resto,
all'"altra metà del cielo" era andata anche peggio. Dice oggi
il Cavaliere, con un occhio alla trionfale cavalcata sarkoziana, che alle
prossime politiche ha "intenzione di portare in Parlamento molti
più giovani, ma soprattutto il 50% saranno donne". Evviva. Ma nel
'94, nonostante corteggiasse le casalinghe raccontando amabili storielle
("Anch'io sono stato un po' donnina di casa, perché quando studiavo ed ero
un ragazzo di famiglia, buttavo giù la polvere e ogni tanto facevo la
spesa. So quanta fatica ci vuole per lavorare a casa e creare un clima di
serenità quando il marito torna dal lavoro...") nel suo primo
governo c'era una donna sola, Adriana Poli Bortone, impostagli da Gianfranco
Fini. Come da Umberto Bossi gli era stata imposta Irene Pivetti. E le cose
erano appena appena migliorate con il suo secondo e il terzo esecutivo: una
donna alla Istruzione (Letizia Moratti) e una (Stefania Prestigiacomo) alle
pari opportunità. Fine. Conosciamo l'obiezione: il peso della storia, le
stratificazioni culturali... Giusto. Da noi le donne poterono votare solo nel
1946 e cioè 66 anni dopo la concessione del diritto di voto delle
inglesi alle amministrative e 52 dopo il voto universale in Nuova Zelanda. E
sempre quel 1946 le prime deputate si sedettero in Parlamento 39 anni dopo le
finlandesi. La prima sottosegretaria, Angela Cingolani Guidi, lo diventò
nel 1951 dopo 186 maschi nel solo dopoguerra e a distanza di 33 anni dalla
nomina della prima sottosegretaria al mondo, la polacca Irena Kosmowska.
Così come Tina Anselmi arrivò a giurare come ministra, nel 1976,
nel III governo Andreotti, solo dopo 115 anni di unità d'Italia e 836
ministri. Tutto vero. Ma un quarto di secolo fa il resto dell'Europa non era
poi così diverso da noi. Un'inchiesta di Maria Antonietta Macciocchi
spiegava che era "appena del 7,17% la presenza delle donne nei governi e
nei centri decisionali, nella magistratura, nella diplomazia, nei grandi centri
culturali e nelle università" del vecchio continente. E che su 187
ministri dei vari governi, c'erano solo 16 donne. E ancora 16 erano le donne
"tra i 222 segretari o sottosegretari di Stato". Insomma, eravamo
ultimi, con una sola ministra e una sola sottosegretaria, ma tutta la politica
continentale era marcata ancora da una forte impronta maschile. Da allora,
però, è cambiato tutto: noi siamo rimasti fermi, gli altri hanno
no. Già nella primavera 2004 c'erano 5 donne su 21 ministri in Gran
Bretagna, 4 su
NASCE oggi a Milano la sesta banca mondiale
e la prima italiana per quanto riguarda la capitalizzazione, superando la
concentrazione Intesa-Sanpaolo, con 100 miliardi di euro contro 77, novemila
sportelli contro settemila, 40 miliardi di ricavi contro 18. Ma queste cifre,
di per sé eloquenti, non dicono ancora tutto. L'Unicredito di Profumo e Geronzi
avrà il 9 per cento di partecipazione in Mediobanca mentre Intesa ha
acquistato di recente il 2,5 della maggiore banca d'affari italiana ma fuori
sindacato. Nelle Generali la stessa Mediobanca detiene il 14 per cento e la
nuova Unicredito il 6 per cento contro il 2,3 di Intesa. Impressionante
è la mappa delle partecipazioni industriali del nuovo colosso, presente
nei sindacati di Pirelli, Camfin, Gemina, Investimenti Infrastrutture,
Rizzoli-Corsera, Parmalat, Borsa Italiana, Autostrade, Fiat. Senza contare le
posizioni di sostegno finanziario consolidato in molte altre imprese. In
sostanza la fusione tra Unicredit e Capitalia oltre a costituire una
concentrazione bancaria perfettamente complementare quanto a distribuzione di
sportelli dal Piemonte fino alla Sicilia, è anche una grande holding
presente con dimensioni importanti nei punti nodali dell'economia industriale
italiana. Un "monstrum" quale ancora non si era mai visto in Italia
dagli anni Trenta del secolo scorso, quando la crisi mondiale tagliò le
gambe all'altro "monstrum" dell'epoca che faceva capo alla Banca
Commerciale di Toeplitz e finì poi nelle braccia dell'Iri appositamente
creato per salvare dal collasso l'intera economia italiana. Il
"monstrum" di oggi è profondamente diverso da quello di allora
che aveva immobilizzato le banche con investimenti rischiosissimi
nell'industria pesante. Oggi non è così. La finanza domina
l'industria ma l'impegno diretto delle banche e quindi l'immobilizzazione del
capitale e i rischi che ne conseguono sono infinitamente minori. Inoltre il
mercato bancario conta molti operatori, sia italiani che europei, la vigilanza
delle banche centrali è notevolmente aumentata e gli istituti di credito
sono tutti contendibili. Insomma la concorrenza è rilevante e obbliga i
vari operatori ad una continua attenzione e ad un continuo ammodernamento del
quale i clienti non possono che beneficiare. Sta di fatto però che la
rete degli incroci tra banche e imprese e i conflitti d'interesse che ne
derivano è enorme. La nascita del nuovo Unicredito non solo non li
elimina ma li moltiplica e questo non è certo un bene.
Aggiungo anche che l'Unicredit che fin qui
abbiamo conosciuto soltanto come "predatore" può diventare una
preda per i "private equity" e per le grandi banche americane. Pur
non essendo tra i difensori per principio dell'italianità delle aziende
e delle banche, suscita preoccupazione pensare che eventuali operazioni di
conquista del nuovo Unicredito metterebbero le mani su una parte rilevante
dell'economia del nostro paese. Per non parlare del dislivello di potere tra i
colossi banco - finanziari e l'autorità politica che, dopo queste
operazioni (ma già da prima) diventa incommensurabile. * * * Trent'anni
fa il problema degli incroci azionari tra banche e imprese provocò un
dibattito molto acceso. La legge bancaria, redatta quasi contemporaneamente
alla nascita dell'Iri, poneva un divieto assoluto che per molti anni restò
invalicabile. Proprio per ovviare ad una separazione così rigida fu
creata Mediobanca (e con minori dimensioni l'Imi): istituzioni di
proprietà pubblica che non potevano raccogliere depositi ma soltanto
emettere obbligazioni, collocate tra i risparmiatori dalle banche di credito
ordinario. La particolarità di Mediobanca (quella fondata e diretta per
tre decadi da Cuccia) fu proprio questa: le sue azioni erano in mano all'Iri il
quale tuttavia non aveva poteri di indirizzo sulle operazioni e neppure di
vigilanza: quest'ultima era esercitata dalla Banca d'Italia,
quanto alle erogazioni del credito a lungo termine, cioè di
finanziamento delle imprese, era Mediobanca a decidere in piena autonomia.
L'Iri in sostanza funzionava come una cassaforte nella quale erano chiuse a doppio
mandato e congelate le azioni di Mediobanca. Per dire che Mediobanca non era
scalabile e per certi aspetti simile ad una fondazione. Il sostegno finanziario
alla Fiat, alla Pirelli, alla Montecatini, alla Orlando, all'industria tessile,
alla Ferruzzi, a De Benedetti, insomma all'industria italiana di grandi
dimensioni, faceva capo a Mediobanca. Le fusioni facevano anch'esse capo a
Cuccia, lo sviluppo dell'economia privata era insomma finanziato da una
società pubblica. Da allora fu chiamata il salotto buono. Buono per chi
ci stava dentro, nient'affatto buono per chi ne era fuori.
L'internazionalizzazione dell'economia e i progressi tecnologici, insieme alla
crisi del modello familiare sempre più inadatto a gestire imprese di
grandi dimensioni, mandarono a gambe all'aria questo modello. Le banche
ordinarie cominciarono ad eludere il divieto della legge bancaria; prese piede
il modello della banca totale, diversificata, che accanto all'esercizio
del credito di funzionamento cominciò ad erogare crediti finanziari a
medio e lungo termine. I rischi assunti crearono sofferenze sempre più
ampie e nuove immobilizzazioni, anche se in misura molto minore di quanto era
avvenuto nei primi trent'anni del Novecento. La legge bancaria fu modificata,
l'ingresso delle banche nel capitale industriale fu di nuovo consentito sia
pure con rigidi limiti. Gli incroci presero nuovo slancio. La legge Draghi
cercò di dare una sistemazione a tutta questa materia. Fu introdotta
l'Opa obbligatoria al di sopra del 30 per cento. Gli incroci azionari furono
limitatamente legalizzati. Fu creata la Consob e altre autorità
di regolamentazione a cominciare dall'antitrust. Perché rievoco questo
(recente) passato? Perché da allora, com'era facile prevedere, la rete degli
incroci è diventata una foresta vergine. Oggi l'attualità ci
suggerisce di rivisitare questa foresta almeno per quanto riguarda l'operazione
Unicredito - Capitalia. Ho sotto gli occhi un grafico pubblicato su "24
ore" di venerdì. Queste sono le reciproche presenze tra di loro dei
vari soggetti coinvolti: Unicredit detiene il 3,7 per cento di Generali;
Generali il 2,3 di Capitalia; Capitalia il 2,6 di Generali; Intesa il 2 per
cento di Capitalia; Capitalia il 9 per cento di Mediobanca (ma Profumo si
è impegnato a venderlo agli azionisti di quella banca); Generali
hanno il 2,1 di Mediobanca ma quest'ultima detiene il 14 di Generali; ancora
Generali hanno il 5 per cento di Intesa; Intesa ha il 2,2 di Generali e il 2,5
di Unicredit. Infine Unicredit ha il 9 di Mediobanca. Che ne dite, voi lettori,
di questa rete? Anzi di questo gomitolo che a districarne i capi ci vorrebbero
anni? Non vi ingannino le percentuali di partecipazione apparentemente modeste:
alle spalle di esse esistono patti di sindacato tra i vari soggetti che raggiungono
quote di controllo assai consistenti e si basano sul rispetto dei reciproci
interessi. Non a caso il 9 per cento di Capitalia in Mediobanca, che insieme
alla nascita del nuovo Unicredito sarà venduto, non andrà sul
mercato ma verrà offerto in prelazione agli attuali membri del sindacato
e ad altri graditi ai predetti. Tra questi spuntano le Casse di risparmio di
Torino e di Verona e la società Perseo. Le due Casse fanno parte del
sindacato che controlla Unicredit. Perseo è invece una società
con un azionariato molto interessante; ne fanno infatti parte la Cassa di
risparmio di Torino, le Generali, Mediobanca, Aviva: controllori e controllati
tutti insieme come la Sacra Famiglia. Ancora una volta incroci, incroci,
incroci. La nebulosa del conflitto di interessi avvolge ormai l'intera economia
del pianeta, globalizzata e - specie in Occidente - finanziarizzata. Lo stesso
Guido Rossi, che negli ultimi vent'anni ne è stato il principale
studioso e il più tenace avversario, sembra ormai essersi rassegnato di
fronte alla vastità del fenomeno. Questa ormai è la più
aggiornata edizione del capitalismo di fronte alla quale sia l'autorità
politica, sia le sempre più deboli organizzazioni sindacali si
dimostrano impotenti. La politica resiste nel suo ruolo di guida soltanto nei
regimi strutturalmente dittatoriali: in Cina, in Russia e in pochi altri luoghi
di incerta fisionomia sociale. Nuove disuguaglianze esplodono, nuove
ingiustizie agitano la società. Ma questo è un discorso
più vasto e non riguarda soltanto la piccola Italia. * * *
Personalmente sono favorevole all'operazione Profumo di fusione tra Unicredit e
Capitalia. E' perfetta dal punto di vista strettamente bancario, crea un
"campione" italiano nel settore del "banking" con una
proiezione all'estero robusta; non affievolisce la concorrenza sul mercato
italiano e l'accentua su quello europeo. Infine si compie nel rispetto di tutti
gli azionisti dei due istituti promotori. Naturalmente crea molto potere
aggiuntivo al management in carica. Accresce la densità degli incroci.
Raccoglie in un solo punto la concentrazione e la guida d'una parte rilevante
del sistema economico-finanziario italiano. Questi sono gli aspetti negativi o
quanto meno inquietanti dell'operazione. Si dice che Profumo voglia correggere
tali aspetti ma non sarà certo un'impresa facile. Dubito molto che i
suoi potenti azionisti lo lasceranno procedere autonomamente su questa strada.
Certo ha dimezzato la partecipazione del nuovo Unicredito in Mediobanca dal 18
per cento al 9, ma questa "virtuosa" iniziativa è avvenuta per
evitare una guerra senza esclusione di colpi con gli azionisti francesi guidati
da Bolloré e per venire incontro alla "moral suasion" di Draghi, al
broncio di Bazoli, all'opposizione della stessa Mediobanca e delle Generali.
Vedremo il seguito, per ora siamo agli inizi. Il governo non ha influito in
nessun modo sull'operazione. Chi parla di ingerenze e di alleanze politiche non
sa quel che dice per la semplice ragione che la politica - l'abbiamo già
detto - non è in grado di influire in nessun modo sul potere bancario.
Quanto al potere bancario, esso è neutrale rispetto al mondo della
politica, lo considera irrilevante dal suo punto di vista ed ha perfettamente
ragione. Però c'è un però. Non riguarda le singole
operazioni ma l'erogazione del credito nel suo complesso. Può
quell'erogazione obbedire semplicemente alla creazione di valore per gli
azionisti? La moralità aziendale esaurisce e soddisfa la moralità
pubblica complessiva? E quella individuale dei protagonisti? L'erogazione del
credito è lo strumento di potere più efficace che esista perché
crea e distrugge ricchezze e destini di individui, regioni, nazioni. Non
è affatto neutrale sulla felicità delle persone e delle
comunità, nel presente e nel futuro delle generazioni. Credo che questi
pensieri ci siano nella mente dei protagonisti dell'operazione Unicredito o
almeno nel suo primo attore. Sarebbe interessante se volesse dirci come la
pensa in proposito.
La fiorentina Accademia della Crusca, nata
nel Cinquecento per promuovere la tradizione e l'eccellenza della lingua
italiana - cioè della discendente del toscano letterario del Trecento -
non è più, nel Duemila, un consesso di accigliati puristi
bensì un organismo formato dai massimi studiosi della storia
dell'italiano, ma anche delle sue molteplici tradizioni dialettali. Il suo
attuale presidente, Francesco Sabatini ( 75 anni, abruzzese, professore alla
Terza università di Roma) ha fatto della difesa dell'italiano -
soprattutto a livello internazionale, e in particolare in seno alle istituzioni
comunitarie europee - la sua missione. Ma non dimentica, ovviamente,
l'importanza che le " piccole patrie " hanno avuto nella storia
linguistica d'Italia. E non considera i dialetti nemici, ma alleati nella
battaglia in difesa della nostra lingua. Lingua e dialetti non devono
considerarsi, dunque, come rivali, almeno oggi? " Premetto che giusto la
grande forza, la tradizione, la storia gloriosa dei dialetti in Italia - e in
particolare in alcune regioni, come appunto il Veneto - vanno riconosciute
proprio da chi crede nell'italiano e nella sua dignità: perché se
ammettiamo che l'italiano è la lingua che è stata capace di
imporsi, come modello unitario, su dialetti così illustri, il valore di
entrambi ne risulta aumentato grandemente. Ciò detto, non ha senso parlare
oggi di rapporto tra italiano e dialetto come di una guerra di sterminio
reciproco: la lingua e il dialetto non sono in competizione purché si riconosca
quali sono le funzioni che svolgono di fatto nella società. La lingua,
l'italiano, è ciò di cui abbiamo bisogno per la comunicazione
culturale e per lo scambio con le altre nazioni, insomma per il nostro ruolo
internazionale. I dialetti possono invece rivendicare una funzione
complementare, che è espressiva ( penso al loro uso in canzoni, proverbi,
espressioni della nostra antica saggezza) e comunicativa: grande è la
loro utilità nella conversazione quotidiana, e nello svolgimento di
attività tipicamente legate a contesti locali " . Per quanto
riguarda il Veneto, poi, si potrebbe dire che la nostra regione ha con
l'italiano - e col toscano letterario - un conto aperto molto antico. Tanto da
poter considerare Venezia, dopo Firenze, seconda patria della lingua nazionale.
è così? " Certamente. Venezia ha avuto la funzione di culla
dell'italiano in alcune fasi della nostra storia. A parte il suo poderoso e
ininterrotto ruolo nella storia della letteratura e in generale della cultura
italiana, la grande vitalità del Veneto nell'età della nascita
dell'industria tipografica gli attribuì un ruo lo decisivo. Non si
può capire Bembo ( il veneziano autore della prima grande grammatica
dell'italiano, nel 1525, ndr) senza Manuzio, il suo editore, attivo a Venezia.
Ma, non dimentichiamolo, di origine laziale " . In effetti, la visione
fiorentino- centrica dell'italiano ha precise ragioni storiche, ma va
integrata, forse, con il concetto di policentrismo della nostra cultura. Ai
fatti che lei ha citato si potrebbe aggiungere che la prima edizione del
Vocabolario della Crusca fu stampata, nel
- Il consigliere di amministrazione della
Rai Sandro Curzi promette che si batterà perché vada in onda.
"Dobbiamo imitare la Bbc, la citiamo sempre come un modello? Quale
migliore occasione trasmettere l'inchiesta inglese sul Vaticano e i preti
pedofili. D'altronde, è dimostrato, la cosa che va meglio sono proprio
le inchieste". La Rai si prepara ad affrontare il caso Bbc: Michele
Santoro ha chiesto di acquistare il reportage "Sex crimes and the Vatican"
l'inchiesta sul coinvolgimento di sacerdoti cattolici in alcune vicende di
abusi sessuali, in cui viene citato anche Papa Benedetto XVI, all'epoca ancora
cardinale, quale garante dei preti accusati. Vuole proporre l'inchiesta ad
"Annozero", giovedì su RaiDue nella puntata dedicata alla
pedofilia. Realizzato dalla Bbc, il filmato è finito su Internet il 5
maggio diventando il video più visto su Google, da oltre 100 mila
persone. Trattativa con la tv pubblica inglese chiusa (costo sui 25mila euro,
nel rispetto del budget della trasmissione di RaiDue), finora nessun
"no" ufficiale alla messa in onda, ma l'operazione Bbc, di fatto, non
è chiusa. L'atto formale d'acquisto è passato su diverse
scrivanie. Tra scuse e intoppi burocratici, sembra che in Rai nessuno voglia
assumersi la responsabilità di firmarlo. Adesso più che mai, alla
luce della durissima presa di posizione dell'Avvenire che definisce il video
"infame calunnia via Internet" ai danni "della Chiesa e di
Ratzinger". Il documentario crea imbarazzo a Viale Mazzini, preoccupa i
vertici per le ripercussioni che può avere nei rapporti col Vaticano.
L'Avvenire respinge l'accusa "rivolta a Joseph Ratzinger di essere stato
niente meno che il responsabile massimo della copertura di crimini pedofili
commessi da sacerdoti in varie parti del globo, in quanto "garante"
per 20 anni - da quando fu nominato prefetto vaticano - del testo Crimen
sollicitationis, che è un'istruzione emanata in realtà dal
Sant'Uffizio il 16 marzo 1962". Secondo Avvenire, "quel documento
veniva presentato dalla Bbc come un marchingegno furbesco, escogitato dal
Vaticano per coprire reati di pedofilia, quando invece si trattava di
un'importante istruzione atta ad "istruire" i casi canonici e portare
alla riduzione allo stato laicale i presbiteri coinvolti in nefandezze
pedofile". "Insomma" ribadisce il quotidiano della Cei "un
insieme di norme rigorose, che nulla aveva a che fare con la volontà di
insabbiare potenziali scandali". Domani il caso verrà discusso in
Rai. Mentre Curzi promette di battersi perché vada in onda, la trappola
burocratica potrebbe fermare Santoro (anche se gli amici scommettono che
sarebbe pronto a fare la puntata lo stesso, denunciando la censura).
"Annozero" è un programma d'informazione, dipende solo
formalmente dal direttore di RaiDue Antonio Marano. In periodo elettorale,
quindi durante la par condicio, è ricondotto alla testata giornalistica,
non il Tg2 ma il Tg3 (da cui dipendono ben 13 trasmissioni, tra cui una sola
della seconda rete, appunto "Annozero"). Il direttore del Tg3 Antonio
Di Bella è tenuto a sovrintendere sulla presenza di soggetti politici
(la lista degli ospiti viene consegnata 48 ore prima della puntata). Ma la par
condicio stavolta non c'entra. A questo punto l'ultima parola spetta al
direttore generale della Rai Claudio Cappon.
L’Unità 19-5-2007 Raipolitik di Marco Travaglio
Il Riformista 19-5-2007 E' capogruppo socialista, ma
non parla del Pse
Milano Finanza 19-5-2007 Che gran business la CO2.
Stefania Peveraro.
IL DOCUMENTO. Pubblicate le motivazioni
della sentenza che ha condannato i Dalle Carbonare e 33 dirigenti del credito
Dal fallimento Trevitex spunta un codice salva-grandi banche Accordi per
garantire i maggiori istituti ed evitare abusi da parte dell'imprenditore
M
Pensioni,
domani vertice a Palazzo Chigi con Padoa-Schioppa ROMA - "Così non
si può andare avanti". Il rischio di un corto circuito
istituzionale, il pericolo di una paralisi parlamentare. Per Giorgio Napolitano
lo scontro di ieri mattina tra il presidente del consiglio e il presidente
della Camera è stata solo l'ennesima prova che qualcosa non va nel
rapporto tra l'esecutivo e il Parlamento. Così ha preso carta e penna
per bacchettare Palazzo Chigi, ma anche per richiamare l'opposizione ad una
maggiore collaborazione almeno sulle procedure. Uno degli obiettivi centrali
del Quirinale resta la riforma elettorale. A ognuno, però, ha ricordato
anche che i "costi della politica" rappresentano uno
dei temi più sentiti dall'opinione pubblica. Un argomento troppo
"sensibile" per essere preso sotto gamba. E che richiede almeno una
risposta iniziale: quella di assicurare una "produttività"
decisamente maggiore rispetto a quella messa in mostra in questo primo anno di
legislatura. "Vi siete fatti eleggere - è il ragionamento del Colle
- e allora adesso impegnatevi". Il capo dello Stato ha fatto sentire la
sua voce sia con i leader dell'Unione che con quelli della Cdl e in serata ha
avuto una lunga telefonata con Romano Prodi. Il premier, appunto. Il monito del
Quirinale è arrivato poco dopo l'affondo di Fausto Bertinotti. Uno
schiaffo con un valore non solo istituzionale. Ma anche politico. "Il
governo - si è lamentato l'inquilino di Montecitorio - farebbe bene a
rispondere sulle grandi questioni sociali, sulle pensioni, sugli stipendi
piuttosto che occuparsi del suo rapporto con il Parlamento. E comunque il
Parlamento non può essere mortificato in questo modo". Parole
durissime. Che fanno riferimento al delicato passaggio che la maggioranza sta
attraversando in questi giorni. Alla riforma previdenziale, alla battaglia con
i sindacati sulle rinnovo del contratto degli statali, alle critiche che
diversi settori del centrosinistra stanno muovendo al ministro dell'Economia,
Tommaso Padoa-Schioppa. E all'accoglienza riservata nei giorni scorsi a Franco
Giordano e Paolo Ferrero dagli operai milanesi di Mirafiori. Anche a Palazzo
Chigi, dunque, dopo il botta e risposta con Bertinotti, è scattato
l'allarme. Il Professore ha convocato per domenica prossima un vertice con i
due vicepremier, Massimo D'Alema e Francesco Rutelli, e il titolare del Tesoro
per dare un segno definitivo alla proposta del governo sulla riforma delle
pensioni. Un modo per tendere la mano alla sinistra radicale e provare ad
ammorbidire la posizione di Cgil Cisl e Uil sul pubblico impiego.
"è evidente - ripete in queste ore il presidente del consiglio -
che noi puntiamo a evitare lo sciopero generale, ma nemmeno ci possiamo piegare
davanti a qualsiasi richiesta pur di ottenere una revoca". Del resto le direttive
di Tps a questo proposito sono nette. "Io non posso mettere la firma su un
accordo con cifre sproporzionate. Eppure su questo c'è una grossa sponda
dentro la maggioranza", ha avvertito il capo dell'Economia. Parole che
hanno messo in subbuglio Palazzo Chigi e che ha qualcuno hanno fatto temere il
peggio. Tant'è che per tutto il giorno, il Professore ha fatto in modo
che il ruolo del suo ministro non venisse sminuito o commissariato. Nemmeno sul
contratto per il pubblico impiego. L'immediata opera di ricucitura con Bertinotti
ha risposto anche a questa esigenza. "Forse mi sono espresso male",
si è spiegato al telefono con il presidente della Camera. Un messaggio
rivolto anche a Palazzo Madama. Anche al Senato non hanno preso bene l'uscita
prodiana. Franco Marini, all'estero per un impegno privato, non ha parlato
direttamente con il premier ma gli ha fatto recapitare il suo pensiero senza
nascondere un certo "fastidio": valutazioni "poco accorte"
soprattutto in considerazione del fatto che nella Camera Alta l'opposizione
potrebbe bloccare tutto in ogni momento. Il cerchio, poi, si è chiuso
proprio con l'altolà di Napolitano. Che, però, a Palazzo Chigi
interpretano "positivamente". La bacchettata sull'uso eccessivo della
decretazione d'urgenza, infatti, non è nuovo. Ma l'invito alla
collaborazione tra i due poli e alla "funzionalità" del
parlamento costituisce "un tema che va discusso davvero". Anzi, per
il Professore rappresenterebbe per il suo governo una vera e propria
"svolta".
Meno
soldi per i manager delle società partecipate dal Comune, con criteri di
rigore e merito: ad annunciarlo ieri il sindaco Walter Veltroni.
Mercoledì la giunta comunale esaminerà la delibera con i nuovi
parametri. "Secondo una prima stima, il costo delle aziende comunali si
ridurrà progressivamente di circa 500 mila euro l'anno", spiega il
sindaco. La vera novità è la divisione dei compensi dei manager
in due parti: una fissa - che non potrà essere superiore al 70, al 75 o
all'80% delle indennità del sindaco, a seconda che il fatturato
dell'azienda annuo sia fino a 100 milioni, da
Immaginate
la scena e dite se non vi piacerebbe: Romano Prodi e Paolo Gentiloni si
affacciano in conferenza stampa e annunciano: "Da domani la Rai non
sarà più governata dai partiti. Il Cda lo nomina una fondazione
dove i rappresentanti della politica sono in minoranza, e per concorrere
bisogna esibire un curriculum professionale di prim'ordine. Comandano i
dipendenti e gli utenti. Abolita la commissione parlamentare di Vigilanza,
perché è la tv che deve vigilare sul Parlamento e non viceversa. Riforma
totale delle Authority, con divieto assoluto di farne parte per gli iscritti ai
partiti e per chiunque abbia ricoperto cariche elettive o di governo locale o
nazionale. Le norme hanno effetto immediato perché contenute in un decreto -
motivato da ragioni di urgenza visibili a tutti - che manda a casa l'attuale
Cda della Rai: tutte brave persone, per carità, ma da oggi si volta
pagina. Il fatto che Mastella minacci la crisi di governo significa che siamo
sulla strada giusta. E ora, al lavoro". Purtroppo è un sogno, un
bellissimo sogno che i 60 cittadini che avevano firmato la proposta di legge di
iniziativa popolare "Perunaltratv" promossa da Tana de Zulueta,
Sabina Guzzanti e tanti altri s'erano impegnati a tradurre in realtà.
Quella proposta, intendiamoci, non è stata inutile: ha, almeno
inizialmente, costretto l'Unione a porsi il problema della departitizzazione
della Rai. E a partorire un disegno di legge, quello varato l'altroieri dal
Consiglio dei ministri ritoccando un po' il testo portato da Gentiloni, che le
somiglia parecchio. Fuorché in due punti, purtroppo decisivi: la mancata
abrogazione della Vigilanza; e il rapporto di forze stanza dei bottoni, dove la
legge Perunaltratv dava la maggioranza ai rappresentanti della società
civile e della cultura esterni al Palazzo, mentre la Gentiloni garantisce la
preponderanza dei partiti (6 contro 5 "esterni", che poi tutti
esterni non sono). Ecco perché, nonostante le apparenze e alcune apprezzabili
novità rispetto all'indecenza del sistema attuale, è troppo
ottimistico il titolo de l'Unità di ieri: "Riforma Rai, messa fuori
la politica". Magari fosse così. Com'è noto, il ddl varato
dal governo, e da oggi sottoposto al prevedibile mercato delle vacche
partitocratico tra Camera e Senato, trasferisce la proprietà azionaria
della Rai dal Tesoro a una Fondazione pubblica governata da 11 consiglieri con
mandato di 6 anni non rinnovabile. Chi li nomina? I seguenti soggetti: 4 la
Vigilanza, 2 la Conferenza delle Regioni, 1 i dipendenti Rai, 1 il Cnel, 1 il
Consiglio nazionale utenti e consumatori,
L’esordio, forse in quanto un po’ digiuna di politica, non è stato dei
migliori. Nella prima intervista concessa ieri, al quotidiano del Prc
Liberazione (scelta che è già tutta un programma) si è
dilungata su molti argomenti, dalla globalizzazione neoliberista all’agenda del
cantiere bertinottiano che verrà, ma non ha speso neanche una parola che
fosse una, sul socialismo europeo, tema che - in teoria - dovrebbe essere uno
dei core business del gruppo alla Camera di cui è a capo da tre giorni.
Titti Di Salvo - 55 anni a giugno, nativa di Gonzaga, una figlia (Marta), una
laurea (in Scienza bancarie) e una vita passata a Torino, la sua città
d’adozione - ha però anche diversi meriti. E’, per dire, seria,
preparata, perbene. Ma, a detta di amici e avversari, gode pure di una
indubitabile fortuna: «quella di trovarsi sempre al posto giusto nel momento
giusto». La sua recentissima nomina, formalizzata l’altra sera
all’unanimità ma dopo molte e complicate discussioni, a capogruppo dei
24 deputati del nuovo gruppo nato alla Camera dei deputati, quello di Sinistra
democratica, è stata infatti il frutto di una serie di veti e controveti
incrociati che, alla fine, hanno fatto uscire dal cilindro il suo nome. Nome
che ha accontentato (quasi) tutti. Cesare Salvi, capogruppo di Sd al Senato e
Gavino Angius premevano perché l’incarico andasse al socialista Valdo Spini,
l’ala sinistra del gruppo e in particolare gli ex comunisti democratici,
capeggiati da Marco Fumagalli, volevano fosse assegnato a Fulvia Bandoli o, in
subordine, a Gloria Buffo. Mussi e i suoi, alla fine, hanno optato per una
soluzione salomonica che ha, in parte, salvato capra e cavoli: una donna (come
volevano molti, dentro Sd), la Titti, capogruppo, e Spini, che ha dovuto fare
buon viso a cattivo gioco, vice.
Si è formata a Torino, la Di Salvo, dove ha cominciato come impiegata
nella Cassa di risparmio della città e, soprattutto, dalla Cgil.
Sindacato all’interno del quale ha svolto per intero il suo cursus honorum e al
quale è, ancora oggi, legatissima. All’ultimo congresso della Cgil, il
XV, quello svoltosi ai primi di marzo a Rimini, annunciò la decisione di
lasciare il sindacato per candidarsi con i Ds, in quota “Correntone”, con un
discorso teso ed emozionato. «Questa resterà sempre la mia casa», disse.
Il rapporto con la Cgil, per la Di Salvo, è sempre stato centrale, al
punto che - in un primo momento - aveva rinunciato alla candidatura che gli era
stata offerta ma che per lei non era certo un ripiego visto che, diventata
segretaria confederale nel 2002, era al primo mandato. Morale, avrebbe potuto
restare lì a lungo. «Poi morì mio padre - spiega al Riformista -
e pensai che era il momento di dare una svolta alla mia vita. Così,
quando tornarono alla carica per offrirmi un posto in lista nel mio Piemonte,
accettai». Prima di entrare in segreteria confederale, dove si è
occupata di rapporti internazionali e cooperazione allo sviluppo («Con lei la
Cgil era diventata una succursale dei movimenti no-global e pacifisti», dicono
i suoi detrattori) la Di Salvo fu la prima segretaria donna di una federazione
regionale della Cgil, quella piemontese. Vi era entrata “portata” dal mitico
leader dei metalmeccanici Claudio Sabattini. Cofferatiana di ferro ieri,
epifaniana poi, Di Salvo è sempre stata dall’altra parte della
barricata, dentro la Cgil, rispetto all’attuale ministro del Lavoro Cesare
Damiano, riformista doc e ai suoi tempi segretario generale aggiunto dei
metalmeccanici della Cgil ma «i rapporti tra noi - precisa lei - sono sempre
stati buoni». Del resto, quando il Pci si sciolse e nacque il Pds, la Di Salvo
aderì convinta alla “svolta”, che giudicò «una scelta giusta per
dare un futuro alla sinistra». Poi cambiò idea ed entrò nella
minoranza Ds per costruire il “Correntone” cui aderì mentre era in pieno
dispiegamento l’offensiva cofferatiana nel Paese contro il governo Berlusconi e
nel partito contro D’Alema. «Quella Cgil ha avuto il grande merito di aver
tenuto aperta una battaglia a difesa della qualità della democrazia»,
sostiene Titti, che in Parlamento vuole lanciare «un Forum», aperto a tutta la
sinistra, «contro la precarietà».
Di certo, il rapporto della Di Salvo - che in Parlamento ha scelto di
continuare a occuparsi di problemi del lavoro - con il sindacato resterà
forte anche ora che è diventata capogruppo di Sd. Non a caso, la sua
critica alle parole e alle posizioni di Padoa-Schioppa, in merito alla
redistribuzione del “tesoretto” e alla riforma delle pensioni, è netta
almeno quanto le sue posizioni a difesa della laicità e dei diritti. In
testa a tutti, naturalmente, quelli delle donne. Poi c’è la questione
pace e guerra, che la Di Salvo ha seguito a lungo, per la Cgil: «quando ci fu
la guerra in Iraq la Cgil contribuì, con tante associazioni e movimenti,
a lanciare una forte mobilitazione pacifista. Dobbiamo rilanciare quel
movimento». Per ora, Mussi e i suoi intendono lanciare, nella loro nuova
sinistra, la Di Salvo. In quanto donna, certo, e soprattutto in quanto ex
cigiellina. Non a caso, Titti scommette che nel dopo Epifani «c’è una donna».
(e. co.)
A
sconfiggerlo è stata la decisione di concedere un aumento a dir poco
eccessivo dello stipendio alla sua compagna Shaha Riza, dipendente della Banca
Mondiale. L'uscita di scena, effettiva dal 30 giugno, è accettata
"con riluttanza" da George W. Bush. Il presidente Usa avrebbe
preferito che l'ex sottosegretario alla Difesa, sotto tiro da diverse
settimane, rimanesse al suo posto. Bush proporrà un suo successore nei
prossimi giorni, senza perdere tempo. Secondo quanto reso noto dal portavoce
della Casa Bianca Tony Fratto, il presidente degli Stati Uniti George W. Bush
"annuncerà presto un nuovo candidato, aprendo così la strada
a una transizione che consentirà alla Banca Mondiale di focalizzare di
nuovo l'attenzione sulla propria missione". La scelta di Bush sarà
poi sottoposta all'approvazione del consiglio di amministrazione
dell'istituzione. Non è al momento possibile dire su chi potrebbe essere
la persona indicata dal presidente. Fra i candidati più papabili vi sono
l'ex caponegoziatore commerciale ed ex vicesegretario di stato Robert Zoellick
e il vice segretario del tesoro Robert Kimmitt. In lizza anche l'ex capogruppo
repubblicano al Senato Bill Frist. Ieri è rimbalzata dall'Europa anche
la voce che Bush sarebbe pronto ad appoggiare la candidatura dell'ex premier
inglese, Tony Blair. Una soluzione alquanto anomala, dato che sarebbe il primo
presidente non americano della Banca Mondiale. Le dimissioni di Wolfowitz
potrebbero essere classificate come la noiosa appendice di un romanzetto rosa,
o lo scontato epilogo di una liaison dangereuse. Di mezzo c'è una, per
nulla avvenente, assistente che Wolfowitz ha portato con sé dal Pentagono e,
promozione dopo promozione, l'ha beneficata di un salario, netto ed esentasse,
che supera persino quello del segretario di Stato americano: 193.000 dollari
l'anno. La privacy da noi avrebbe richiesto di sorvolare sul fatto che la
signora fosse un'assistente latu sensu. Quando la contestata nomina di
Wolfowitz fu imposta da George W. Bush, l'ex vice del capo del Pentagono e
artefice della guerra all'Iraq, , Donald Ramsfeld, si presentò al
Consiglio della Banca con un rigoroso programma di "lotta alla corruzione
e al nepotismo; innovazione, efficienza e trasparenza". Non proprio le
caratteristiche della carriera del personaggio. Nel turbine delle tensioni fra
le due sponde dell'Atlantico, che la seconda Guerra del Golfo aveva scatenato,
gli europei fecero buon viso a cattivo gioco. Chiusero anche gli occhi sulle
qualifiche del personaggio, considerato dai neoconservatori americani e da Bush
un brillante stratega, anche se privo di requisiti di bank management e
pianificazione dello sviluppo, che sarebbero, poi, le competenze richieste da
un presidente della World Bank. Il tutto potrebbe considerarsi banale
amministrazione. Chi ben conosce il reale funzionamento delle organizzazioni
internazionali, dall'Onu in giù, e delle loro faraoniche missioni nel
mondo sa che nepotismo, corruzione e liaison dangereuse d'ogni tipo e gusto
abbondano. Spesso fra una coltre di ovattata complicità, discrezione e
silenzio. In Kosovo - per citare una piaga ancora aperta della politica internazionale
- l'Amministrazione delle Nazioni Unite resistette quanto più poté alle
richieste della magistratura di Berlino, prima di concedere "la
sospensione dell'immunità diplomatica" a un solerte funzionario
tedesco che dai bilanci della Compagnia elettrica aveva trasferito a Gibilterra
su di un conto personale 4,6 milioni di euro. Uno degli ultimi amministratori
Onu della martoriata regione aveva anch'egli delle liaison dangereuse: per
l'esattezza due! Una delle assistenti latu sensu fu nominata direttrice della
tv pubblica kosovare; per l'altra, invece, si creò uno speciale ufficio
che gestiva la sommetta di 17 milioni di euro l'anno. Il caso di Wolfowitz
potrebbe, però, ben presto uscire dal gossip per diventare un caso
politico. L'istituzione di Washington, creata dagli accordi di Bretton Woods
nel 1944, è - per così dire - una banca d'affari privata. I suoi
soci sono gli Stati. Le sue regole quelle di una banca. I suoi scopi:
promuovere lo sviluppo nelle aree più arretrate del pianeta. Infine, i
capitali di base provengono - come al solito - dalle tasche dei contribuenti
dei Paesi più sviluppati. I Paesi europei ne detengono il 36 per cento;
gli Usa meno del 16. Dal 1944 ad oggi, tuttavia, un tacito accordo
lascia al leader della Casa Bianca l'indiscussa facoltà di nominare il
capo della Banca mondiale. Il caso Wolfowitz potrebbe aprire un delicato
dossier politico. Anzittutto, perché l'affaire scuote un'istituzione già
fortemente criticata per le sue politiche di sviluppo. Infine, perché Wolfowitz
discreditando ulteriormente l'Amministrazione Bush, rischia di provocare ancora
l'Europa. I soci di maggioranza - gli europei, appunto - potrebbero voler
modificare quel tacito accordo che fa dell'inquilino della Casa Bianca il deus
ex machina della Banca.
TRATTATO
DI KYOTO I diritti di emissione di anidride carbonica sono scambiati in mercati
dedicati sui quali dominano le grandi banche d'investimento Per fare trading
proprietario, ma anche per strutturare prodotti per i retail. La lotta
all'inquinamento non interessa soltanto gli ecologisti e le aziende che
costruiscono impianti di produzione di energia pulita. Interessa sempre
più anche il mondo della finanza, con le banche d'investimento
protagoniste fisse dei mercati dei diritti di emissione di anidride carbonica
(CO2) con l'obiettivo di fare profitti per i loro bilanci con il trading, ma
anche di coprire posizioni quando vanno a strutturare prodotti derivati
dedicati alla clientela. E quindi alle aziende e agli investitori
istituzionali, ma anche ai privati. Insomma, 'le banche si stanno concentrando
su quella che è una vera e propria nuova commodity, appunto la CO2',
spiega a Milano Finanza Andrea Selvaggi, responsabile del commodity origination
per Italia e Svizzera di Barclays capital, che aggiunge: 'I nostri trader
lavorano sul mercato delle emissioni con i loro libri e spesso sono le
controparti dei nostri clienti istituzionali per operazioni in derivati otc'.Il
prezzo dei diritti di emissione in Europa dipende in prima battuta da
quanto stabilito a livello di Unione europea nell'ambito dell'Emission trading
scheme (Ets), lanciato nel 2005 come parte integrante del protocollo di Kyoto
per il taglio delle emissioni di CO2 responsabili dei mutamenti climatici.
L'Ets assegna dei diritti di emissione ai vari paesi Ue e poi a cascata
il governo di ogni paese stabilisce quanti diritti vanno a ogni settore e
quindi a ogni azienda: chiunque, interi paesi compresi, voglia produrre
più CO2 di quanto ha diritto, può acquistare altri diritti sul
mercato da altri che si ritrovino ad averne in eccesso. 'Sulla nostra
piattaforma abbiamo ospitato per esempio l'asta dell'Ungheria', spiega Pietro
Valaguzza, country manager di Sendeco2 in Italia, società spagnola che
gestisce il mercato secondario spot dei diritti di emissione di CO2 in Spagna,
Portogallo e Italia, permettendo alle medie e piccole aziende di accedere alla
piattaforma paneuropea di negoziazione della Climex alliance. I mercati
più importanti a livello europeo, però, sono l'European climate
exchange (Ecx), mercato dei derivati di Londra e Powernext, mercato spot di
Parigi. 'I nostri trader lavorano sull'Ecx di Londra, che è il mercato
più importante in Europa sul quale Abn svolge anche la funzione
di clearing member', spiega Gerhard Mulder, vice president commodities
derivatives marketer di Abn Amro, che aggiunge: 'Fanno trading proprietario e
sono spesso controparte della clientela istituzionale in operazioni otc. E non
solo. Perché Abn ha anche strutturato una serie di prodotti che hanno come
sottostante i diritti di emissione di CO2 e che sono destinati alla clientela
retail'. Molto attiva sul settore è anche Dresdner Kleinwort, che
è stata la prima banca nel
Grazie
a una capitalizzazione di borsa di oltre 100 miliardi di euro, più di 9 mila
sportelli in Europa, di cui oltre 5 mila in Italia, ma soprattutto
grazie a un rischio di esecuzione minore rispetto alla fusione tra Banca
Intesa e Sanpaolo Imi (almeno sotto il profilo delle sovrapposizioni), dalle
nozze tra Unicredit e Capitalia nascerà una superbanca a tutto tondo,
pronta a giocare da protagonista sia sul mercato interno sia su quello
internazionale, dove invece Intesa Sanpaolo sconta ancora qualche ritardo.Nel
piano di integrazione, messo a punto da Alessandro Profumo e Cesare Geronzi,
presentato venerdì 18 maggio a Banca d'Italia, Consob
e Antitrust e che sarà ratificato dai cda dei due istituti di credito
nella mattina di domenica 20, è già stata individuata gran parte
delle soluzioni organizzative necessarie a chiudere il cantiere della fusione
in tempi brevi. Al di là degli aspetti finanziari, sintetizzati nel
concambio di 1,12 titoli UniCredit ogni azione Capitalia (valorizzata attorno a
8,5 euro) e accolti con favore dai grandi soci di via Minghetti, è sotto
il profilo organizzativo che Profumo è riuscito a ottenere di
più.Anche dopo l'incorporazione di Capitalia, infatti, il gruppo
UniCredit (che non cambierà nome) continuerà a operare in base al
modello divisionale. Un modello organizzativo che in questi anni è stata
la carta vincente del banchiere genovese e grazie al quale Profumo è
riuscito a digerire, a tempo di record, due bocconi delle dimensioni di Hvb e
Bank Austria e le loro controllate nell'Europa centro orientale.
Un'integrazione a marce forzate che Profumo intende replicare anche con
Capitalia. La soluzione proposta dai milanesi e condivisa dai romani prevede
dunque il passaggio sotto la divisione retail di UniCredit, guidata da Roberto
Nicastro, delle tre banche commerciali attualmente controllate al 100% da Capitalia.In
particolare Bipop Carire sarà integrata in UniCredit banca,
mentre Banca di Roma e Banco di Sicilia continueranno a operare con i
loro marchi e saranno banche di riferimento del nuovo gruppo rispettivamente
nel Centro e nel Sud. Ma se la Banca di Roma non sarà molto di
più che una semplice rete di sportelli, per il Banco di Sicilia, anche
per ragioni di opportunità politica, sarebbe stata pensata una soluzione
più strutturata, tanto che sarebbe possibile anche un investimento
diretto nella banca da parte della Fondazione Bds e della stessa Regione
Sicilia, attualmente azioniste di Capitalia.Definito anche il destino delle
banche specializzate e delle società prodotto del gruppo Capitalia. In
particolare Mcc, attualmente specializzata nel credito industriale, leasing,
factoring e finanza strutturata, diventerà la banca per le
infrastrutture e per la pubblica amministrazione del nuovo gruppo. Le
attività di leasing verranno conferite invece a Locat, attualmente
già il secondo player nel settore in Italia.Un ruolo di primo
piano dovrebbe averlo anche Fineco, la controllata di via Minghetti attiva nel
canale online e nei mutui, che potrebbe essere utilizzata come la piattaforma
nella quale integrare le varie fabbriche prodotto dei due gruppi, a partire da
UniCredit banca per la casa a Clarima, la società di Piazza
Cordusio che gestisce le carte dei credito.Diverso il destino di altre due
contollate dell'istituto romano. Capitalia merchant, l'istituto specializzato
nell'assunzione di partecipazione nel capitale di rischio delle imprese,
dovrebbe finire nella divisione corporate di UniCredit. Il suo destino
verrà deciso in un secondo tempo, ma è probabile che il
portafoglio partecipazioni possa essere sfoltito, considerando che Piazza
Cordusio vanta un'attività di merchant banking estremamente limitata.Lo
scrigno del tesoro è invece Capitalia Partecipazioni. La società,
(costituita nel giugno 2006) che custodisce le partecipazioni di via Minghetti
in Mediobanca, Generali e Rcs, dovrebbe finire sotto il controllo della holding
Unicredito Italiano e affidata alle cure di Cesare Geronzi. L'attuale numero
uno di Capitalia si accinge infatti a essere nominato vicepresidente del nuovo
gruppo con delega sulle partecipazioni. Una delega che Geronzi dovrebbe
rimettere al momento della sua nomina a presidente del consiglio di
sorveglianza di Mediobanca. Non entrerà a far parte del nuovo gruppo,
invece, Matteo Arpe. Venerdì 18 il giovane manager ha infatti rassegnato
le dimissioni dalle cariche di a.d. e direttore generale (vedere box a pagina
12) e non parteciperà dunque al consiglio di amministrazione di via
Minghetti che darà il via libera alla fusione. A guidare l'istituto
romano nei mesi caldi dell'integrazione con UniCredit, oltre a Geronzi ci
saranno dunque il direttore generale Carmine Lamanda e il condirettore generale
Alberto Giordano. Entrambi continueranno a essere affiancati dal
superconsulente Claudio Costamagna.Ormai varato il merger, l'ultimo tassello da
sistemare riguarda la cessione di parte della quota in Mediobanca. Profumo e
Geronzi si sono impegnati infatti a vendere circa l'8% di Piazzetta Cuccia per
non pesare troppo nell'azionariato della merchant bank. Ma chi rileverà
il pacchetto messo in vendita dalla nuova superbanca? Le fondazioni azioniste
di Unicredit si sono dette disponibili a rilevare parte delle azioni, ma sia
Geronzi sia il management di Mediobanca punterebbero a una ripartizione
più equilibrata. Tra gli interessati ad accrescere la propria quota
potrebbe esserci Ennio Doris. 'Siamo favorevoli a intensificare i rapporti con
Mediobanca', ha dichiarato venerdì 18 il patron di Mediolanum. Una
promessa? (riproduzione riservata) Milano Finanza Numero 099, pag. 12 del
19/5/2007
+ La
Repubblica 18-5-2007 Il premier Fillon presenta il governo. Sette ministri su
15 sono donne
+ La Stampa 18-5-2007 "E' l'ora di tagliare i
costi". Degli altri Paolo Baroni
Europa 18-5-2007 Crisi Rai, colpa anche del Tesoro Nino Rizzo Nervo
Il Riformista Il
deficit del Pd è di cultura politica, non di laicità. di
Claudia Mancina
Il Riformista 18-5-2007 TERRORISMO Ci spiega di che
cosa parla viceministro Minniti?
Il Sole 24 Ore 17-5-2007 Bernanke (Fed) sui mutui casa:
«in aumento fino al 2008 i pignoramenti»
Il Sole 24 Ore 17-5-2007 Liberalizzazioni, un successo
di Dino Pesole
MF Dow Jones 17-5-2007 Telecom I.: Catricala',
italianita' rete non e' problema reale
PARIGI -
Il premier francese Francois Fillon ha nominato il suo governo. Sette dei
quindici ministeri sono stati affidati a donne e come si prevedeva gli Esteri
sono stati affidati al socialista Bernard Kouchner. Numero due dell'esecutivo
è l'ex premier Alain Juppè, 61 anni, alla guida dello Sviluppo
sostenibile, un maxi ministero che raggruppa anche Trasporti ed Energia.
Il presidente Nicolas Sarkozy aveva promesso un governo 'snello' e ha mantenuto
la parola, con quindici ministri in tutto. Rispettato anche l'impegno
all'apertura verso altre forze politiche. Oltre al socialista Kouchner della
squadra fa parte il centrista Hervè Morin, cui è stata affidata
la Difesa. Il nuovo esecutivo terrà la sua prima riunione alle 16:30 di
oggi.
Ecco l'elenco dei ministri:
- Jean-Louis Borloo, 56 anni, ministro dell'Economia
- Michele Alliot-Marie, 60 anni, Interni
- Bernard Kouchner, 66 anni, Esteri
- Hervè Morin, 46 anni, Difesa
- Rachida Dati, 41 anni, Giustizia
- Brice Hortefeux, 48 anni, Immigrazione e Identità nazionale
- Xavier Bertrand, 42 anni, Lavoro e affari sociali
- Eric Woerth, 50 anni, Contabilità e finanze
- Xavier Darcos, 59 anni, Educatione nazionale
- Roselyne Bachelot, 60 anni, Sanità e Sport
- Christine Boutin, 63 anni, Coesione sociale
- Christine Albanel, 52 anni, Cultura
- Valerie Pecresse, 39 anni, Università e Ricerca
- Christine Lagarde, 51 anni, Agricoltura
ROMA - Da una ventina di giorni i siti
internet delle banche, del Parlamento, dei ministeri, dei giornali, in sostanza
di tutte le istituzioni politiche, amministrative e informative, sono oggetto
di continue aggressioni telematiche che ne rendono impossibile l'utilizzo. La
gravità della situazione estone è tale che la Nato ha inviato a
Tallin i suoi migliori tecnici informatici per cercare di controbattere questa
ondata di attacchi cibernetici. Ma da dove vengono questi nemici che marciano
sul web? Il dito è puntato su Mosca che da qualche tempo è in
aperta crisi con Tallin, da quando il governo estone ha deciso di rimuovere dal
centro della capitale il monumento bronzeo al soldato sovietico della seconda
guerra mondiale. Per Mosca la statua simboleggia il sacrificio dei militari
russi morti combattendo il nazismo, per Tallin è invece l'emblema del
dominio sovietico. La Russia ha reagito duramente a questa iniziativa, tanto
che, sull'onda della protesta, l'ambasciatore estone a Mosca, Marina Kaljurand,
è stata aggredita da un gruppo di giovani. Tutto questo ha provocato
un'altra reazione, quella dell'Unione europea, solidale con l'Estonia e la
controreazione russa che ha contestato alla Ue di non aver mosso un dito per la
brutale repressione della polizia estone nei confronti dei manifestanti filo
russi che protestavano per la rimozione della statua e dell'uccisione di uno di
loro. Ed è in questo contesto che si apre oggi in Russia, a Samara,
sulle rive del Volga, il vertice Mosca-Ue. Il clima non è certo dei
migliori in quanto, oltre al problema della crisi con l'Estonia, aleggiano
altre situazione critiche che dividono profondamente la Russia dai membri
dell'Unione. In testa la questione polacca che in queste ore ha assunto toni
pesanti dopo il rifiuto del ministro degli esteri di Varsavia, Anna Fotyga, di
un invito per una visita di lavoro a Mosca, circostanza che ha creato
"stupore", per dirla con un termine diplomatico, al Cremlino. Nel
novembre del 2005 Mosca ha deciso un embargo sui prodotti animali e vegetali
della Polonia e Varsavia, di conseguenza, sta bloccando alla Ue l'approvazione
del mandato per aprire i negoziati sul Pca, un accordo di cooperazione
Ue-Russia. C'è anche il problema del petrolio lituano: Vilnius si
è schierata con Varsavia per protestare contro l'interruzione delle
forniture che, secondo la Russia, derivano da un guasto tecnico. In realtà
il sospetto è che Mosca lo faccia per rappresaglia contro la Lituania
che, nella privatizzazione della raffineria di Mazeikiu ha preferito una
società polacca, mettendo fuori gioco la Russia. Sul vertice aleggia
anche indirettamente (la questione riguarda infatti la Nato) il problema della
scudo antimissile Usa che Washington vuole installare in Polonia e nella
Repubblica ceca. E c'è il Kosovo e il suo status. Indipendenza o
semplicemente una forte autonomia continuando a far parte della Serbia? La Russia
è schierata con Belgrado, contro Pristina, su questa seconda posizione,
non così la Ue che spinge per una risoluzione Onu che affermi una sorta
di indipendenza controllata.Sul tavolo della conferenza Ue-Russia ci
sarà anche l'Iran con il suo nucleare e l'eterna crisi
Israele-Palestina. Se il vertice si apre nel vento della discordia, il
presidente della Commissione europea, José Manuel Barroso getta acqua sul
fuoco. "la Russia e l'Ue sono dei partner strategici. È nel nostro
comune interesse avere una relazione buona e costruttiva", ha detto al suo
arrivo a Samara.
ROMA "Se ci fosse un accordo ve lo
avrei annunciato". Prodi ci crede e continua a spingere perché si arrivi in
tempi rapidi ad un taglio dei costi della politica: il suo desiderio è
quello di varare già nelle prossime settimane "provvedimenti
concreti". Però il premier deve fare i conti con gli interessi dei
partiti, le burocrazie dei ministeri e la suscettibilità di Comuni e
Regioni. Mettere in campo "un discorso molto esteso e completo" come
vuole lui, e evitare al tempo stesso di scadere nella demagogia, non è
cosa facile. "A parole sono sempre tutti d'accordo, ma purché i tagli riguardino
gli altri - spiega il responsabile economico della Margherita, Tiziano Treu -.
Mentre intervenire in maniera seria sulla miriade di enti e società
pubbliche, su comuni, province o comunità montane non è per
niente facile. E' evidente che gli ostacoli ci sono anche all'interno della
nostra maggioranza". I comuni per bocca del presidente dell'Anci Leonardo
Domenici si sono già detti disposti a discutere di tagli, ma come
contropartita, pretendono che governo, ministeri e Parlamento facciano
altrettanto. "Non pensino di scaricare tutto sulle nostre spalle" ha
dichiarato sabato a "la Stampa". A palazzo Chigi, dove questa
settimana si è insediata la commissione guidata dal ministro per
l'Attuazione del programma Giulio Santagata, stanno studiando la questione.
"Il consiglio di Stato ha bocciato il taglio del 10% delle
indennità degli amministratori locali perché lede l'autonomia degli
enti? D'accordo, ma questo non esclude che si possano ridurre i trasferimenti,
poi decidano loro come fare". Quattro i filoni di intervento individuati
dalla task force composta dai rappresentanti dei principali ministeri: enti
locali, società pubbliche, organizzazione dei dicasteri, organi
costituzionali. Si parla di risparmi è ovvio, ma soprattutto in una
logica di maggiore efficienza. E si cerca di seguire tre distinti principi
ispiratori: comunicazione, trasparenza ed etica. Santagata, incoraggiato da
Prodi, marcia spedito: già mercoledì prossimo si dovrebbe tenere
un nuovo incontro che servirà ad effettuare una prima scrematura delle
proposte per comporre un vero e proprio "libro bianco" sui costi
della politica. Che poi, Parlamento permettendo, dovrà essere tradotto
in interventi concreti, da inserire già nel prossimo Documento di
programmazione economico-finanziaria (e quindi in Finanziaria), oppure in un
apposito disegno di legge. "Santagata assieme alla commissione sta facendo
un lavoro serio e imparziale" ha spiegato ieri il premier durante la
conferenza stampa tenuta a palazzo Chigi. Dal canto suo Treu è convinto
che Prodi andrà avanti: "Ridurre le pensioni dei parlamentari,
oltre che rappresentare un intervento simbolico, è sacrosanto. Ma poi
bisognerebbe andare giù molto più duri su tutto il resto, io
questo a Prodi l'ho detto chiaramente. E lui concorda". Intanto, per
mettere le cose in chiaro, Comuni, Province e Comunità montane hanno
diffuso i loro conti: il costo annuo dei nostri 205 mila amministratori locali
è pari ad 890 milioni di euro, 702 milioni vanno ai comuni, 115 alle
Province e 71,9 alle Comunità montane. Sempre ieri l'ufficio di presidenza
della Commissione Affari costituzionali della Camera ha deciso di avviare una
indagine conoscitiva con l'obiettivo di arrivare ad elaborare una proposta di
legge quadro. Ma anche qui non sono mancate le polemiche. "Più che
un'indagine - ha commentato caustico Giorgio La Malfa - servirebbe una
commissione d'inchiesta".
Una testa, un voto. Certo. Ma anche una
testa, 180 euro di debiti. Se il partito democratico nascesse oggi, sommando i
tesserati di Ds e Margherita, avrebbe circa un milione di iscritti e 180
milioni di euro di debiti. Tutti di origine diessina. Non accadrà,
naturalmente, perché al partito di Rutelli e Marini non sono nati ieri. E poi
perché non sarebbe una bella trovata d'immagine partire con una zavorra simile.
La cruda cifra dei debiti, però, aiuta a capire che cosa bolle nelle
cucine del Pd. Ovvero nelle stanze dei tesorieri. Dove il problema non è
chi mettere nel Pantheon ideale del grande nascituro, ma dove parcheggiare
debiti, contributi, rimborsi elettorali, immobili, contratti di locazione,
giornali, fondazioni, i marchi delle feste e possedimenti vari. Dove
l'imbarazzo sui Dico non è da che parte stare e in quale piazza andare,
ma su come metterne a punto uno che regoli in modo equo e civile la futura
convivenza tra Ds e Margherita. E su come limitare al massimo il danno
economico della separazione a sinistra con Mussi, Angius e Salvi. Uno
scherzetto rosso che rischia di costare almeno 16 milioni di euro di qui alla
fine della legislatura, solo a calcolare i rimborsi elettorali che spettano ai
36 deputati che lasciano i gruppi dell'Ulivo. "I compagni non fanno che
chiedermi dove ci compriamo la sede...", butta lì Ugo Sposetti,
tesoriere della Quercia, quando incontra il suo omologo della Margherita, Luigi
Lusi. Pare che un bel palazzone di proprietà, magari nel centro
più centro di Roma, rassicurerebbe la base diessina sul fatto che il Pd
non sia l'ennesima roulotte politica dalla quale entrare e uscire ogni cinque
anni. C'è chi ancora rimpiange il mitico Bottegone, venduto nel 1997 sotto
il peso di un debito che allora sfiorava i mille miliardi di lire e che
Sposetti ha pazientemente portato dai 580 milioni di euro del 2001 agli odierni
180. E c'è chi non vede l'ora di mollare il triste Botteghino affittato
in via Nazionale. La Margherita, invece, la sede se l'è appena comprata
e ristrutturata a Sant'Andrea delle Fratte, contraendo un mutuo quinquennale da
3,75 milioni di euro che è anche l'unico debito a lunga scadenza del
partito. è bellissima, ma non ha le dimensioni necessarie per ospitare
la futura direzione del Pd. "La sede del nuovo partito? L'affitteremo e
basta", taglia corto Lusi, che ha in mente una struttura snella e con i
conti sempre in equilibrio. Non sarà facile, ma il primo problema
sarà proprio farli, i conti. Intanto, nei prossimi mesi dovrebbe nascere
la classica 'newco', una società priva di debiti che farà da
veicolo verso il Pd. Potrà contare su un cospicuo attivo da sventolare
con banche e fornitori, ovvero la titolarità di quei contributi pubblici
che con i deputati di oggi varrebbero almeno quaranta milioni l'anno. Debiti e
rapporti economici dei vecchi partiti, invece, rimarrebbero parcheggiati in
entità giuridiche rigorosamente separate. E qui la partita delicata si
gioca in Parlamento, dove la Quercia (ma anche Forza Italia) ha bisogno come il
pane di far approvare un emendamento alla legge sul finanziamento pubblico che
consenta alle fondazioni di ricevere cespiti patrimoniali e attività
economiche dei partiti. Si tratterebbe di recepire l'intesa già trovata a
gennaio tra Giulio Tremonti e Sposetti, sulla quale però ci sono la
netta contrarietà delle formazioni minori e i dubbi di coscienza di vari
deputati, preoccupati che il costo dei partiti lieviti ancora e divenga meno
trasparente. Il giochetto sulle fondazioni 'di area', però, è
fondamentale per una nascita serena del Pd perché permetterebbe di trasferire
in capo a una fondazione le poste che non si vogliono o non si possono portare
nella nascente casa comune. Per fare un esempio, i Ds potrebbero metterci gran
parte dei debiti e farvi confluire anche finanziamenti di soggetti privati,
immobili attualmente parcheggiati in società vicine al Botteghino,
oppure le quote della tv satellitare e perfino il marchio delle feste di
partito. Ma se è vero che il sistema Feste dell'Unità è un
gioiello con un giro d'affari da 300 milioni di euro, pochi sanno però
che a guadagnarci sono esclusivamente le piccole sezioni locali. Il che rende
complicatissimo fare i conti, sia in previsione di una futuribile festa del Pd
(tanto l'obiettivo vero sono le Europee del 2009), sia alla vigilia della
separazione economica con l'ex Correntone. L'altro fronte che occupa i
'ragionieri' del Pd è quello delle strutture territoriali. La Margherita
ha 460 mila iscritti e oltre 15 mila circoli, in gran parte affittati. La
Quercia pre-scissione può invece contare su 615 mila iscritti e quasi 7
mila sezioni. Una vera trattativa tra Sposetti e Gianni Zagato, coordinatore
organizzativo di Sinistra democratica, non è ancora iniziata. Per ora
siamo solo alle schermaglie. E ogni volta che i mussiani hanno fatto capire che
vorrebbero almeno le sezioni dove la mozione Fassino è minoritaria
(specie a Roma, Milano, Genova, Torino), Sposetti ha mandato a dire che allora
si devono dividere pro-quota anche i famosi debiti. La realtà è
che qualunque conteggio con il bilancino è praticamente impossibile. A
Lamezia Terme, per fare un esempio, quattro sezioni su quattro sarebbero in
mano a Mussi. In alcune zone, invece, le sezioni sono state comprate dai compagni
con l'autotassazione (e vai a capire di chi sono le quote), oppure sono
ospitate dal locale circolo Arci. Poi vi sono regioni come il Piemonte dove
sono quasi tutte in affitto. Anzi, secondo una stima ufficiosa, sarebbero di
proprietà del partito non più del 40 per cento delle sezioni. Che
fare? Zagato lancia messaggi di pace: "Evitiamo di far lavorare i fabbri e
sediamoci intorno a un tavolo per venire a capo della questione entro l'estate,
anche perché noi abbiamo bisogno di fare attività politica subito".
Sinistra democratica, però, sembra più che altro orientata agli
affitti. 'Sobrietà e rigore' sono le due parole d'ordine di Zagato, e
c'è da credergli. Ma sotto sotto c'è anche una buona dose di
prudenza, visto che i cantieri della nuova Cosa Rossa sono appena cominciati e
alla fine non è detto che servano poi tutte queste nuove 'case del
popolo'. La sola Rifondazione ha già la bellezza di 2.500 circoli per 93
mila iscritti (con bilanci in attivo e pochi debiti). Basta che Mussi non si faccia
appioppare i debiti della Quercia, e anche qui tutto si può fare. n.
La Commissione Affari costituzionali della
Camera dei deputati, nella odierna riunione dell'Ufficio di presidenza, ha
deciso di avviare una indagine conoscitiva sui "costi della
politica", nell'ambito dell'esame di alcune proposte di legge presentate
in materia da rappresentanti di diversi gruppi parlamentari. L'indagine
è finalizzata a raccogliere ogni elemento di conoscenza utile per
individuare i criteri di migliore regolazione e di massima trasparenza dei
costi connessi in maniera diretta all'esercizio delle funzioni istituzionali
degli organi rappresentativi ed esecutivi dei diversi livelli territoriali di
governo, e di taluni organismi amministrativi di particolare rilevanza,
compresi i vertici dei ministeri e delle società a partecipazione
pubblica.
La Commissione opererà secondo un metodo di consultazione tra le diverse
istituzioni, chiamate a collaborare sulla base del generale principio di
accountability che impone alle istituzioni di rendere conto ai cittadini delle
loro spese. La trasparenza è, infatti, nel mondo occidentale il piú
importante fattore di legittimazione per chi spende il denaro pubblico.
L'indagine coinvolgerà un'ampia platea di rappresentanti degli organismi
interessati, nonché giuristi, economisti, sociologi, addetti al sistema della
comunicazione ed altri esperti della materia. La Commissione procederà
anche ad una raccolta di dati sulla esperienza di altri paesi comparabili con
il nostro, a partire dai costi connessi all'esercizio delle funzioni parlamentari,
in correlazione con una valutazione anche quantitativa dell'attività
svolta dalle istituzioni parlamentari nei diversi paesi.
Al termine del percorso conoscitivo la Commissione intende elaborare una
proposta di legge quadro volta a contenere, razionalizzare e rendere
trasparente la spesa nel settore e al tempo stesso a tutelare la fondamentale
esigenza del migliore e piú efficiente funzionamento delle istituzioni
democratiche, nel rispetto delle sfere di autonomia riconosciute agli organi
costituzionali e ai diversi livelli territoriali (red).
I tecnici si sa sono diversi dai politici:
hanno competenze specifiche, sono concreti, parlano chiaro, come quando tengono
lezioni magistrali nelle università o partecipano a workshop o seminari,
usano studiare i dossier e per questo vanno subito al cuore del problema.
Ecco perché non posso non essere grato al professor Tommaso Padoa-Schioppa che
mercoledì ha spiegato alla commissione parlamentare di vigilanza perché
ha deciso di rimuovere il suo rappresentante nel consiglio di amministrazione
della Rai.
Tra quelle pronunciate dal ministro dell’economia c’è una frase chiave e
rivelatrice che vale la pena di segnalare: «La responsabilità
però non è di uno solo». Ha ragione signor ministro. C’è
un altro grande responsabile delle gravi difficoltà in cui versano la
Rai e il suo consiglio di amministrazione da più di un anno:
l’Azionista, a causa della sua r e i t e r a t a inerzia di fronte alla crisi
evidente dell’azienda di sua proprietà.
Ogni volta che accadeva un fatto che in qualsiasi altra spa avrebbe messo in
allarme i soci proprietari, il quasi unico azionista della Rai preferiva girare
la testa dall’altro lato per non vedere. Così è avvenuto nel
maggio dello scorso anno quando l’incompatibile Meocci si vide costretto a
mettersi in aspettativa ed il consiglio di amministrazione, con mossa ardita ma
dettata dalla necessità di non chiudere la baracca, si autodelegò
per circa due mesi i poteri del direttore generale conferendoli al presidente.
Così si è ripetuto il 21 luglio del 2006 quando il Tar
confermò la sanzione plurimilionaria dell’Agcom per aver dato il
consiglio, con una maggioranza risicata di
Altrimenti quello della Rai almeno si sarebbe accorto che sin dall’insediamento
del consiglio il suo rappresentante era stato sempre indicato come uno dei
cinque membri della Casa delle libertà. Poi ci fu l’8 marzo di quest’anno
quando il nuovo direttore generale si vide bocciare autorevolissime proposte
per il rilancio e la riqualificazione dell’offerta editoriale che è il
core business dell’azienda.
Quella volta l’Azionista oltre a non leggere i giornali non vide neanche la tv.
Peccato, si sarebbe accorto che il suo presidente del consiglio a Matrix aveva
detto: «A me il consiglio di amministrazione della Rai sembra paralizzato »,
aggiungendo che «quando un direttore generale si vede bloccate alcune proposte
fondamentali, si può andare avanti un po’, poi bisogna trovare una
soluzione». Dalle mie parti, in Sicilia, si dice: «Io non c’ero e se c’ero
dormivo». Eppure nel settore in cui opera la Rai, quello della televisione,
come dice spesso uno che se ne intende, Rupert Murdoch, a causa delle continue
innovazioni tecnologiche e delle opportunità del mercato, più che
le decisioni conta la velocità con cui esse si prendono.
Adesso che comunque l’Azionista ha battuto un colpo, anzi come spesso accade,
per strafare ne ha sferrati maldestramente più di uno, conviene guardare
avanti. Un goal, infatti, finalmente il governo lo sta per segnare: il disegno
di legge sulla governance della Rai per cancellare la Gasparri, vera
responsabile delle difficoltà di oggi.
Diciamo subito che ci piace: perché attenua fortemente il legame perverso con i
partiti, perché nel rispetto delle sentenze della Corte costituzionale toglie
il servizio pubblico dall’influenza del governo, perché rende finalmente la Rai
un’azienda normale dove gli amministratori dovranno rispondere soltanto al
codice civile e potranno prendere decisioni tempestive in relazione
all’evoluzione del mercato, perché con la creazione di più
società operative consentirà ai cittadini di controllare da soli
se il canone di abbonamento è utilizzato per fini di servizio pubblico o
commerciali, ma soprattutto perché nei momenti difficili non sarà
più il ministro dell’economia a doversene occupare.
La questione cattolica agita sempre di più il dibattito sul Partito
democratico. Le divisioni tra i Ds e la Margherita, le evidenti
difficoltà dei Ds, lacerati da tensioni opposte, fanno apparire
difficile la realizzazione del Pd. Il cui primo obiettivo, nelle parole di
Prodi, dovrebbe essere il superamento degli storici steccati tra laici e
cattolici. C’è chi dispera, e pensa che il nuovo partito nascerà
sotto l’ala della Chiesa, e metterà fuori gioco la cultura politica
della sinistra e il suo tradizionale impegno sul fronte della laicità.
Ma un esito di questo tipo equivarrebbe al fallimento sostanziale del progetto.
Anche pensare a una componente laica del Pd non rappresenta una soluzione, anzi
non sarebbe che un altro modo di dichiarare fallimento. La laicità dev’essere
nel Dna del Pd, non può essere solo una componente.
È presumibile però che la laicità riuscirà
più facile al Pd che alla Margherita e perfino ai Ds, se si
tratterà di un soggetto forte e capace di svolgere un ruolo autonomo
nella politica nazionale. Se sarà così, è naturalmente
l’interrogativo. Ma l’ottica dev’essere rovesciata: non è che il Pd
sarà debole perché c’è un conflitto tra laici e cattolici; ci
sarà questo conflitto se il Pd sarà debole. E dunque la questione
fondamentale è sempre quella del modo in cui si costruisce questo
partito: se si riuscirà a radicarlo nelle motivazioni politiche degli
italiani, se si riuscirà a farne quella cosa nuova che è stata
promessa. La scelta di un coordinamento puramente organizzativo per la fase
costituente determina uno stato di transizione tra i vecchi partiti che non ci
sono più e il nuovo che non c’è ancora, non riempito da una guida
politica. Così si rischia di prolungare un vuoto di politica. Da questo
derivano i problemi sul fronte della laicità, un fronte oggi particolarmente
delicato, che richiederebbe una guida forte e unitaria.
Quello che si dovrebbe fare oggi nei Ds, e tra i Ds e la Margherita, è
un chiarimento di cultura politica, una riflessione che vada oltre la
quotidianità delle dichiarazioni, che spesso si contraddicono tra di
loro. Non è un problema che i Ds siano per la famiglia e aderiscano al
Gay pride, è un problema che non riescano a fare emergere il filo che
lega queste opzioni, che altri reputano incompatibili, ma che, in una cultura
politica laica e liberale, sono perfettamente compatibili. Non è un
problema che i Ds non siano andati né a piazza Navona né a San Giovanni,
è un problema che non abbiano un discorso, delle categorie, per dire che
non si trattava di neutralità o peggio di imbarazzo, ma di una scelta
che guarda più avanti. Non è un problema che nella Margherita
qualcuno sia andato al Family Day, è un problema che su questo si
facciano dei giochi politici e si ricatti il governo. Insomma, il difetto del
futuro Pd non è un deficit di laicità, ma un deficit di cultura
politica, che determina un eccesso di tatticismo e di piccolo cabotaggio.
La questione cattolica è una questione troppo seria per essere
affrontata in questo modo. Ha ragione Caldarola a dire che una Chiesa
preoccupata dalla secolarizzazione, timorosa di una sconfitta epocale, sta
tentando una Reconquista in Europa, a partire dall’Italia, non casualmente
identificata come il ventre molle del continente, per la debolezza del suo
sistema di partiti e la conseguente difficoltà di governare le spinte
dell’opinione pubblica. Proprio per questo però ci vorrebbe una
riflessione più avanzata, che sappia vedere le novità (positive e
negative) del fenomeno religioso e il modo in cui esso si intreccia con le
difficoltà della democrazia. La riproposizione automatica di vecchi
schemi della laicità novecentesca non serve a capire; non consente di
vedere le divisioni in seno al mondo cattolico, tanto meno di approntare
politiche all’altezza dei problemi di una società multireligiosa,
attraversata dai rischi del fanatismo e dell’intolleranza. Senza questo
approfondimento, ci si illude di offrire resistenza all’influenza aggressiva
della Chiesa, ma si finisce invece per legittimarla ulteriormente.
Non è escluso che quando leggerete
questo giornale vi cada un mattone in testa, anche se al momento non c’è
alcun indizio che spinga a pensare che ciò possa accadere. Che cosa
pensereste di qualcuno che vi facesse un discorso simile? È quello che
pensiamo noi delle dichiarazioni rese, ieri alla Camera, dal viceministro
dell’Interno Marco Minniti sulla vicenda dell’autobus dirottato in Piemonte.
Stando alle agenzie, il viceministro ha detto esattamente quanto segue: «Al
momento e fermo restando che le indagini procedono per accertare tutti gli
aspetti di questo gravissimo episodio e pure non emergendo alcun indizio che
possa far ricondurre l’episodio ad atti di terrorismo, la valutazione dei fatti
e delle circostanze non consente di escludere alcuna finalità dell’atto
criminoso». Ci scusi, signor viceministro, ma che logica è mai la sua?
Che senso ha evocare il fantasma del terrorismo se, come dice lei, non emerge
«alcun indizio» che di terrorismo si sia trattato?
Fatto sta che un effetto il flatus vocis viceministeriale lo ha avuto: per
tutto il pomeriggio e fino a sera agenzie di stampa, radio e televisioni hanno
parlato di un allarme terrorismo che, dobbiamo pensare (e speriamo vivamente),
non è mai esistito. Oppure, signor viceministro, lei non ha parlato per
così dire sul nulla ed è a conoscenza di qualcosa che la spinge a
pensare che quell’ipotesi abbia un qualche fondamento. Nel qual caso, se
può, potrebbe farlo sapere anche a noi? Non vogliamo che ci racconti
segreti (se ci sono), ma abbiamo il diritto, come cittadini, di non essere
trattati come cretini che da un lato vengono rassicurati dicendo che indizi non
ci sono e dall’altro invitati ad avere paura.
NEW YORK. I gestori internazionali dei
fondi comuni hanno confermato di avere fiducia nella forza attuale
dell'economia globale e nelle prospettive degli investimenti azionari, e le
loro previsioni positive sul miglioramento dei profitti delle aziende stanno
superando, per ora, i timori di una ripresa dell'inflazione e di una
conseguente stretta monetaria. Per i circa 200 money manager, che amministrano
586 miliardi di dollari di risparmio mondiale e che hanno partecipato al
sondaggio di maggio organizzato dalla Merrill Lynch, l'Indicatore Composto delle
Aspettative di Crescita Globale Merrill Lynch è cresciuto di 10 punti in
un mese, da
glauco.maggi@lastampa.it
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VOCI DIZIONARIO
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EURO, è la moneta usata dagli Stati della Unione Europea Monetaria, per
ora 13 (Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia,
Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna), e da altri 6 Stati
minori in virtù di accordi con l'Unione o che hanno assunto l'euro
unilateralemente (Andorra, Kosovo, Monaco, Montenegro, San Marino, Vaticano).
La Banca emittente è la Banca Centrale Europea e l'euro è in
circolazione materiale dal 01/01/2002, sebbene sia entrato in vigore il primo
gennaio 1999, con la fissazione delle parità immodificabili tra le
vecchie valute e l'euro. La parità fissata per la lira, per esempio, fu
di 1936,27 lire per 1 Euro.
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EUROZONA, è l'area geografica e valutaria dei Paesi che hanno adottato
l'euro; per ora sono tredici Stati, che fanno parte dell'Unione Economica e
Monetaria europea (UEM): Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia,
Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia e Spagna. Nel
suo complesso l'Eurozona conta (inizio 2007) oltre 317 milioni di abitanti.
L'eurozona è termine molto usato, nel mercato obbligazionario e
azionario, per indicare bond e azioni espressi in euro. Gli indici europei,
infatti, si dividono in indici "europei" o "euro" a seconda
se comprendono titoli di tutta Europa o solo titoli dell'Eurozona.
La crisi in atto nel mercato dei mutui
«subprime» - mutui erogati a clienti con basso merito creditizio,
caratterizzati pertanto da elevati rischi e rendimenti - non produrrà un
sostanziale effetto domino sull'economia degli Stati Uniti; tuttavia, i casi di
inadempienza e anche di pignoramento aumenteranno fino al 2008. È quanto
ha detto, nel corso di una conferenza organizzata dalla Chicago Fed,il
presidente della Federal Reserve Ben Bernanke.
«Il rallentamento delle attività dei prestiti subprime frenerà
l'acquisto di case e gli investimenti in immobili residenziali nei trimestri a
venire - ha detto Bernanke - In più, è probabile che assisteremo
a ulteriori casi di inadempienze e di pignoramento sia nel corso di quest'anno
che nel prossimo, dal momento che molti prestiti a tasso variabile faranno
fronte all'aggiustamento dei tassi di interesse». Grazie alle condizioni
favorevoli del mercato del lavoro, le conseguenze della crisi del mercato
subrpime sull'intero comparto immobiliare saranno però «probabilmente
limitate, e non ci aspettiamo effetti significativi sul resto dell'economia o
sul sistema finanziario», ha aggiunto il presidente della Fed. Riguardo al modo
in cui il problema dovrebbe essere risolto, Bernanke ha spiegato che Fedaral
Reserve farà il possibile per limitare il ricorso troppo facile al
credito che ha provocato i numerosi casi di default (mancato ripagamento del
debito). Tuttavia non ha fatto alcun riferimento specifico alla
necessità di regole più severe nel mercato del credito.
Per dare regole alla situazione dei
portaborse al Senato è in arrivo un disegno di legge ad hoc ed è allo
studio il varo di un contratto nazionale collettivo di lavoro, mentre alla
Camera, dove da oggi scattava il divieto di ingresso ai portaborse senza
contratto, è stata scelta la linea morbida, senza controlli
all'ingresso. Su questo fronte dall'Ufficio di presidenza potrebbe arrivare
già mercoledì mattina una proroga in risposta al pressing di quei
deputati che hanno avviato le pratiche per regolarizzare i collaboratori.
Nonostante, però, sia scaduto l'ultimatum del presidente della Camera
Fausto Bertinotti per la regolarizzazione dei portaborse in nero, i tempi di
risoluzione del problema si annunciano lunghi. La denuncia del marzo scorso da
parte del programma di Italia Uno «Le iene», aveva nuovamente portato alla
ribalta l'annoso problema, che prima si era consumato solo nelle aule di Camera
e Senato, di legislatura in legislatura. L'inchiesta condotta dalle Iene aveva
messo in luce che a Montecitorio su 683 collaboratori degli onorevoli deputati
solo 54 erano in regola.
Percorsi a due vie per Camera e Senato.
Oggi a distanza di due mesi non è cambiato molto, anche se alla Camera
l'Ufficio di presidenza ha adottato una delibera con precisi paletti. «Tutti
gli assistenti accreditati - spiega l'onorevole Francesco Piro (Ulivo) -
dovranno avere un regolare contratto di lavoro. Scompariranno, dunque, i
cosiddetti volontari». Dentro i locali, precisa il questore della Camera
Gabriele Albonetti (Ulivo) «potranno entrare solo i collaboratori per i quali i
parlamentari abbiano depositato copia del contratto vistato da esperti della
materia». È stato anche presentato un disegno di legge nel quale
l'onorevole Luciano D'Ulizia (Italia dei valori) invitava i parlamentari a
costituire enti o cooperative per assumere gli assistenti, con una
maggiorazione del 50% della quota mensile di rimborso forfetario per le spese
di rapporto con l'elettorato. Proposta che peserebbe ben 22 milioni di euro sui
bilanci di Camera e Senato. A Palazzo Madama, invece, è stato nominato
il comitato ristretto, costituito da due senatori della maggioranza e due
dell'opposizione, che sta elaborando un disegno di legge ad hoc e sta studiando
l'opportunità di un contratto collettivo nazionale per i collaboratori
dei parlamentari.
In questa legislatura a sollevare il velo
sulla controversa vicenda dei portaborse in nero aveva contribuito lo scorso
anno il senatore Antonio Paravia (An) che appena eletto si era visto invadere
la casella di posta di Palazzo Madama da lettere di persone che si offrivano
come collaboratori. Una piccola indagine svolta ascoltando i precari che si
erano proposti aveva messo in luce che moltissimi collaboratori, precari anche
da oltre dieci anni, guadagnavano dai 500 ai 1.500 euro, a seconda dell'impegno
profuso, lavorando senza alcun tipo di contratto. Complice, al Senato, come
spiega in una lettera del 28 luglio 2006, il segretario generale di Palazzo
Madama, il fatto che «il contributo per il supporto di attività e
compiti degli onorevoli senatori connessi con lo svolgimento del mandato
parlamentare - erogato mensilmente - non ha alcun vincolo di destinazione
rispetto a eventuali prestazioni lavorative svolte da terzi, o a possibili
configurazioni contrattuali, né in particolare, può essere messa in
relazione con la facoltà, concessa ai senatori, di accreditare due
collaboratori esterni». La soluzione pilatesca adottata dal Senato consente,
infatti, un rimborso forfetario per tutte le attività di supporto utili
a mantenere il contatto del senatore con l'elettorato del collegio di
riferimento (attualmente si tratta di circa 4.600 euro). Diversa la soluzione
adottata alla Camera, dove gli onorevoli deputati ottengono un rimborso per
l'ausilio di due collaboratori, attualmente pari a 4.180 euro, che molti,
però, incassano lo stesso. «Il problema - sottolinea Paravia - è
che chi non ha collaboratori o li ha in nero non dovrebbe percepire nulla». Ora
il Comitato nominato a Palazzo Madama, spiega Paravia, «sta raccogliendo le
delibere sul trattamento dei collaboratori adottate a Bruxelles, in altri Paesi
dell'Unione e nelle Regioni italiane per studiarne analogie e diversità
e giungere all'elaborazione di un testo condivisibile».
La roulette degli stipendi. Per gli
assistenti dei parlamentari, dunque, che hanno risposto alle domande del Sole
24 Ore.com, ma che preferiscono non essere citati, lunghi anni di lavoro nero
malpagato, sperando nella fortuna del parlamentare, con due opzioni finali:
l'oblio se l'onorevole a fine legislatura non veniva rieletto o l'inquadramento
con un contratto a termine se il parlamentare aveva la fortuna di ottenere un
incarico nel corso della Legislatura, per esempio, come questore,
vicepresidente o segretario di presidenza. In questo caso per il portaborse
è come vincere un terno al lotto: l'inquadramento a termine, legato al
mantenimento della carica dell'onorevole, è a carico
dell'amministrazione e lo stipendio può variare, in base
all'inquadramento, da un minimo di 2mila euro fino a 6mila, con quindici
mensilità, tredicesima e Tfr. Alla Camera, infatti. esistono decreti di
nomina per gli assistenti che prevedono un trattamento economico parificato ai
livelli funzionali dei dipendenti della Camera.
Già nella fase di elaborazione della Finanziaria per il 2007 era stato
studiato un emendamento che prevedeva che in caso di cariche pubbliche elettive
il contratto a tempo determinato avesse la durata del singolo mandato. I
deputati questori della Camera avevano, però, respinto l'emendamento,
rilevando profili di inammissibilità.
La necessità di trovare una soluzione era stata messa in luce da una
serie di ordini del giorno firmati dagli onorevoli Rino Piscitello (Ulivo) e
Francesco Piro (Ulivo) e dal senatore Antonio Paravia (An) che, senza entrare
nel merito del rapporto fiduciario fra parlamentare e collaboratore,
assicurasse però un rapporto rispettoso della legislazione vigente,
evitando che proprio in Parlamento si registrassero episodi di evasione
fiscale, contributiva e assicurativa.
Per gli assistenti parlamentari il ministero del Lavoro, in una lettera
dell'agosto dello scorso anno, aveva lasciato ampia discrezionalità
nell'inquadramento: subordinazione, autonomia o collaborazione a progetto. Sul
fronte dell'inquadramento, sempre secondo il ministero, non sussistono ostacoli
alla commisurazione economica della retribuzione dei lavoratori a quella dei collaboratori
degli studi professionali. L'associazione dei portaborse ritiene la soluzione
«un palliativo per salvare la faccia, tralasciando il fatto che ognuno deve
lottare individualmente per avere uno stipendio dignitoso». I portaborse
raccontano di lavoro in nero anche per 4 legislature di fila, di ferie non
pagate, anche se l'onorevole incassava l'indennità, di maternità
senza alcun riconoscimento. Per ora molto è affidato alla fortuna, visto
che lo stipendio è lasciato alla discrezionalità del parlamentare
e un portaborse può trovarsi a guadagnare da
nicoletta.cottone@ilsole24ore.com
Contro il sommerso uno sforzo insufficiente
Riforma pensioni ma senza fretta
Giudizio largamente positivo sulle
liberalizzazioni, che si estende, se pur con percentuali diverse, alla politica
di bilancio e all'azione di risanamento dei conti pubblici messa in atto dal
Governo. Non va altrettanto bene per le tasse e la politica fiscale. Dal
sondaggio Ipsos per il Sole 24 Ore, il bilancio del primo anno del Governo
Prodi sul versante chiave della politica economica premia senza ombra di dubbio
le misure attuate sul fronte dell'apertura al mercato dei settori coinvolti
dalle liberalizzazioni.
La domanda, al riguardo, è
circostanziata, e investe le norme relative a taxi, farmacie, l'indennizzo diretto
per le assicurazioni, i costi di ricarica dei telefonini. Il giudizio positivo è del 70% del campione, con una
scomposizione sostanzialmente "bipartisan": 85% di elettori
dell'Unione, 61% della Cdl, e 60% di elettori di altre liste. Il giudizio
negativo è del 23% degli intervistati: 13% di
elettori dell'Unione, 35% della Cdl, 17% di altre liste. Il 7% non ha indicato
una preferenza per l'una o l'altra risposta.
Se ne può dedurre che, pur con i limiti più volte evidenziati (misure ancora
insufficienti che non toccano i grandi monopoli) il pacchetto Bersani, nelle
sue due edizioni (la prima è
nel decreto del 4 luglio 2006), piace. Investe da vicino la vita dei cittadini,
e dunque è ad alto tasso di popolarità, anche se poi, nella scomposizione
del giudizio sulle singole misure il gradimento si presenta molto più articolato. La maggioranza del
campione (48%) ritiene ad esempio che vi siano stati dei
"miglioramenti" per quel che riguarda il prezzo dei farmaci generici,
mentre per i taxi la percezione va in altra direzione: il 57% del campione «non
sa», il 19% ritiene che non via stato alcun miglioramento, il 18% qualche novità positiva e solo l'1% ritiene che si
possa parlare di«molti miglioramenti ».
Interessante notare come nel 57% di «non so» la percentuale di elettori dei due
schieramenti sia simile: 55% per l'Unione, 59% per la Cdl.
Passi in avanti evidenti, invece, per i telefoni cellulari, con il 49% del
campione che ritiene vi sia stato «qualche miglioramento », mentre per il 23%
la situazione non è mutata. Sui costi bancari, non si
rileva per il 36% del campione un grande cambiamento rispetto alla situazione
precedente al varo delle liberalizzazioni targate Bersani, mentre si osserva un
«qualche miglioramento» (34%) per quel che riguarda i costi del passaggio di
proprietà dell'auto. Percentuale che sale al
40% se si includono anche coloro che hanno riscontrato «molti miglioramenti».
Sul versante della politica di bilancio, la risposta è incoraggiante per il Governo, poiché il 45% del campione esprime un
giudizio positivo (68% di elettori dell'Unione, 25% della Cdl), mentre il
giudizio negativo è pari al 35% (25% di elettori
dell'Unione, 47% Cdl). Per l'11% del campione il giudizio è «molto negativo». Evidentemente,
stando al sondaggio,la maximanovra varata dal Governo tra luglio e settembre
dello scorso anno è servita a ricollocare la finanza
pubblica in un sentiero di maggiore stabilità, in linea con gli impegni assunti in
sede europea. Come accadde per l'euro, il Paese sembra rispondere positivamente
quando in gioco vi è lo stato di salute dei conti
pubblici, con il «vincolo esterno» imposto dall'Europa.
Sulle grandi opere, per il 49% del campione la Tav fa fatta «ma bisogna trovare
un accordo con i residenti della Val di Susa», mentre il 39% ritiene che la
scelta di rinunciare alla costruzione del Ponte sullo Stretto sia giusta. Sulla
politica fiscale, la strada per un giudizio positivo dell'operato del Governo
appare impervia: il 63%del campione esprime un giudizio tra il negativo e il
molto negativo,con una larghissima maggioranza di elettori della Cdl. Nella
percentuale di risposte positive (28%), il 53% proviene da elettori
dell'Unione.
ROMA (MF-DJ)--Quello dell'italianita'
della rete non e' un problema reale. Lo ha affermato il presidente
dell'Antitrust, Antonio Catricala', parlando della rete Telecom Italia. Secondo
Catricala' si tratta di un problema "di know-how e investimenti. Siamo
indietro sull'alta velocita' di connessione. Chi lo sa fare, che sia spagnolo o
messicano, ben venga". "Wind - ha ricordato - non e' italiana, come
Vodafone. Wind ha la gestione della telefonia mobile dello Stato italiano. Se
questo e' possibile, non credo che il problema dell'italianita' della rete sia reale".
pev/ren
(END)
Dow Jones Newswires
+ Il Sole 24 Ore
17-5-2007 SONDAGGIO Il fisco fa perdere
consensi a Prodi
L’Unità
17-5-2007 Silenzio, si mafia Marco Travaglio
Tutte le tabelle del sondaggio divise per argomento
Voto negativo per il primo anno a Palazzo Chigi di Romano Prodi.
Nel sondaggio realizzato da Ipsos per «Il Sole 24 Ore»,il 55% degli intervistati
boccia l'azione di Governo, mentre il 42% dà un
voto positivo. A pesare sul giudizio globale la politica fiscale, l'indulto, la
riforma dell'immigrazione e le politiche per la sicurezza. Gradimento netto e
bipartisan, invece, per i provvedimenti di Bersani, che secondo la maggioranza
hanno ridotto i prezzi dei farmaci da banco e le tariffe dei cellulari. Netto
consenso (65%) anche per i Dico, purché non estesi alle coppie
gay. Sul sistema elettorale il 52% del campione s'è
detto favorevole a un sistema bipartitico.
PARIGI
Francois Fillon, ex ministro, è stato ufficialmente nominato primo
ministro dal presidente Nicolas Sarkozy che lo ha incaricato di formare un
nuovo governo. Lo ha annunciato l’Eliseo.
Il senatore dell’Ump e consigliere politico del nuovo presidente francese,
stamattina aveva incontrato per circa un’ora Nicolas Sarkozy all’Eliseo.
Alle 11 è già prevista la cerimonia del passaggio dei poteri fra
il dimissionario primo ministro Dominique de Villepin e il suo successore a
Matignon.
È la prima nomina fatta da Sarkozy dall’insediamento,
avvenuto ieri; il resto della composizione dell’esecutivo
sarà
annunciato domani. Fillon, 53 anni, conservatore moderato, succede a Dominique
de Villepin. Già ministro per gli Affari Sociali fra il 2002 e il 2004, è
anche senatore dell’Ump, l’Unione per un Movimento Popolare, il partito conservatore fondato
dall’ex
presidente Jacques Chirac e di cui l’attuale capo dello Stato
ha ormai assunto la guida. Nel proprio discorso inaugurale Sarkozy, che del
premier è più giovane di un anno, aveva confermato l’intenzione
di introdurre profonde riforme in campo economico, compito che in concreto
spetterà al capo del governo espletare.
Non solo per gli stretti rapporti che lo legano al nuovo inquilino
dell’Eliseo,
è
stato direttore della sua campagna elettorale durante le recenti presidenziali
vinte al ballottaggio il 6 maggio scorso dall’esponente
del centro-destra sulla socialista Segolene Royal, Fillon è
considerato dagli analisti la persona ideale per tale obiettivo: da ministro ha
già
realizzato ampie modifiche al sistema pensionistico, e ha una lunga esperienza
di trattative con i sindacati, che dovrebbe essergli utile nel porre mano anche
alla normativa sul lavoro.
Il 2006 è stato il primo anno in cui il tasso di incremento
dei prezzi degli immobili è calato. Anche per l'aumento dei tassi
d'interesse
BRUXELLES
- Il caro mattone rallenta
la corsa. Nel
Nel 2006 il tasso di crescita dei prezzi degli immobili in Eurolandia è stato
del 6,4%, rispetto al 7,9% del 2005. Come detto, in Italia, Belgio e Francia si
tratta del primo anno di frenata. In Spagna, invece, è proseguita la
decelerazione iniziata nel
STRUMENTI
«Cara Unione, così
non va», è il titolo dell'Unità all'indomani della sconfitta
delle elezioni siciliane. Perché «l'Unione e il suo governo sono in
difficoltà» e perché, come spiega il direttore Antonio Padellaro,
«adesso occorre una spinta in più». Adesso, cioè a un anno esatto
dalla nascita del governo Prodi. Adesso, ossia quando la maggioranza di
centro-sinistra sembra scricchiolare una volta ancora: vulnerabile, esposta a
infinite tensioni, preda di una sindrome ossessiva del litigio e della ripicca,
depressa e sfiduciata. Evidentemente quel «così non va» non è
solo lo sfogo di un giornale-sismografo intelligente e sensibile degli umori e
malumori che attraversano la sinistra.
Si tratta di un brutto segno, proprio nei giorni in cui si celebra (senza
brindisi) il primo compleanno del governo. E se è vero che il governo
Prodi è passato indenne attraverso le più fosche profezie che
regolarmente ne hanno pronosticato il collasso (sull'indulto, sul primo
rifinanziamento della missione in Afghanistan, sulla Finanziaria), è altrettanto
vero che tante e multiformi voci di «così non va» si erano addensate
anche alla vigilia del trauma di una non dimenticata disfatta in Senato, nel
febbraio scorso. Quel colpo dagli effetti micidiali procurò nell'Unione
un sussulto di orgoglio, o almeno il ridestarsi di un sopito istinto di
sopravvivenza. Si stilarono in fretta «dodecaloghi», si decretò con
imperio che il governo comunicasse con una sola voce, si ascoltarono promesse
di concordia perpetua, si siglarono patti che sancissero la difesa della
stabilità come prima missione della maggioranza.
E invece, dopo pochi giorni, e incassato il voto salvifico sull'Afghanistan,
tutto è ricominciato come prima. Se non peggio di prima. Se si scorre
l'elenco delle controversie che hanno tempestato il percorso della maggioranza
in questi mesi, se ne ricava l'impressione di una guerriglia logorante e
infinita. Si comincia con lo psicodramma dei Dico, che esplode e si placa per
poi riesplodere con più fragore. Si prosegue con le defatiganti dispute
sull'uso del «tesoretto». Con i contrasti sulla riduzione dell'Ici (addirittura
interpretati da Europa, l'organo della Margherita, come il sintomo di uno
scontro tra «due diverse idee dell'Italia»). Con le tensioni sulla legge
elettorale e sul referendum. Con il palesarsi di visioni contrapposte («due
diverse idee dell'Italia» anche qui?)sul rapporto tra Stato e mercato nei
dossier economico- finanziari. Con le accuse della sinistra massimalista alla
linea del ministro dell'Economia sulla riforma delle pensioni. Con le divisioni
sulla Rai. Con il divaricarsi sempre più accentuato sulla frontiera
della nuova legge sul conflitto di interessi. Con il deflagrare della questione
cattolica. Una lunga e debordante lista di querelles da cui, e non è un
paradosso, resta fuori il tema della politica estera, proprio quello su cui la
maggioranza si era dissolta.
Litigi e scontri destinati a non sfociare automaticamente in una crisi
catastrofica della coalizione. Ma non è detto che questa certezza — il
vero punto di forza di un governo che non conosce alternative che non siano il
suicidio dell'intera maggioranza — non possa trasformarsi alla lunga in un
handicap paralizzante e nella premessa di una stagione di immobilismo rissoso.
Se poi i risultati delle prossime elezioni amministrative dovessero risultare
severi per la maggioranza, i lamenti sul «così non va» potrebbero
moltiplicarsi a dismisura.
Due giorni fa la Corte d'appello di Milano ha confermato la
condanna di Marcello Dell'Utri e del boss mafioso Vincenzo Virga a 2 anni di reclusione
per tentata estorsione aggravata ai danni dell'imprenditore Vincenzo Garraffa.
Nessun telegiornale ha dato la notizia. Così come nessun quotidiano, a
parte un paio di trafiletti sul Corriere e su l'Unità. Il che è
comprensibile: visti i suoi rapporti con la mafia, Dell'Utri fa paura. E i
giornalisti italiani, come pure i loro editori, tengono famiglia. Si sarebbero
scatenati con fior di articoli, commenti e interviste se fosse stato assolto,
come la settimana scorsa quando la stessa Corte ha dichiarato innocente
Berlusconi per la tangente che, con i suoi soldi, il suo avvocato pagò a
un giudice. Ecco: per sapere che Dell'Utri è sotto processo per
estorsione, bisogna sperare che lo assolvano. Se lo condannano, nessuno ne
parla e nessuno lo sa. Ma forse è meglio così: stiamo parlando
del braccio destro di Berlusconi, ideatore di Forza Italia, senatore della
Repubblica, membro del Consiglio d'Europa, già condannato in via
definitiva a 2 anni per false fatture e a 9 anni in primo grado per concorso
esterno in associazione mafiosa. Per molto meno si sciolgono i consigli
comunali, qui bisognerebbe sciogliere il Parlamento. La tentata estorsione
riguarda un fatto del 1992, quando Publitalia intermediò una
sponsorizzazione della Heinecken sulle magliette della Pallacanestro Trapani
per 1,5 miliardi di lire. Ricevuto il denaro, il presidente del club Vincenzo
Garraffa (medico e senatore del Pri) si vide chiedere indietro da Publitalia
750 milioni, cioè metà dell'incasso, ovviamente in nero. Rispose
di non avere fondi neri e chiese la fattura. Niet. A quel punto - l'ha
denunciato lui stesso ai giudici - Dell'utri lo minacciò: "Le
consiglio di ripensarci, abbiamo uomini e mezzi che possono convincerla a
cambiare opinione". Di lì a poco, invitato al "Maurizio Costanzo
Show" con tutta la squadra, ricevette la disdetta senz'alcuna spiegazione.
Poi, un bel mattino, al pronto soccorso dove lavorava, andò a trovarlo
Vincenzo Virga, capomafia di Trapani: gli disse di essere lì per quel
"debito" con gli "amici" milanesi. Garraffa resistette e
denunciò tutto alla Procura di Palermo, che trasmise il fascicolo a
Milano. Di lì il processo e la doppia condanna. Che, se confermata in
Cassazione, si aggiungerebbe a quella definitiva per false fatture, porterebbe il
totale a 4 anni e Dell'Utri in carcere (l'indulto, almeno per i reati con
aggravante mafiosa, non dovrebbe scattare). Una notizia gravissima e
importantissima. Invece, silenzio. Onde evitare che qualche giornale, magari
per sbaglio, ne parlasse, l'Ansa l'ha nascosta sotto un titolo depistante:
"Sponsorizzazioni: confermata in appello condanna Dell'Utri". Come se
il pover' uomo fosse stato condannato perché sponsorizzava. Il testo, poi,
è ancor meglio del titolo: "Dell'Utri era accusato, insieme a
Vincenzo Virga, di tentata estorsione, in relazione alle modalità di
sponsorizzazione della Pallacanestro Trapani.". Roba da bocciatura
immediata all'asilo del giornalismo: non si dice che Vincenzo Virga è un
capomafia arrestato dopo lunga latitanza per vari omicidi; e si fa credere che
il processo riguardi "le modalità di sponsorizzazione", mentre
si riferisce a un caso di vero e proprio racket mafioso, con un manager che, da
Milano, manda il boss di Trapani a riscuotere un credito non dovuto, per giunta
in nero, a un imprenditore siciliano. Del resto, se si sapesse in giro che un
senatore della Repubblica è condannato per racket, sarebbe più
difficile interpellarlo su qualunque cosa accada nella politica, nella cultura,
nell'arte e nello spettacolo, come fa il fior fiore della stampa italiota
dipingendolo come un vecchio saggio e un sopraffino bibliofilo (infatti ha
preso per buona persino la patacca dei diari del Duce). Martedì, giorno
dell'ennesima condanna, il Corriere pubblicava un'intervista a Dell'Utri sulla
sconfitta di Leoluca Orlando, definito dal senatore pregiudicato "un
cadavere che cammina". Lo chiamavano così anche i mafiosi, tra gli
anni 80 e i 90, quando lo volevano accoppare per le sue battaglie antimafia.
L'ultima volta ci provarono i narcos, tre anni fa, in Sudamerica. Purtroppo
fallirono il bersaglio, e il cadavere di Olando ancora cammina. Altri, invece,
hanno smesso di camminare nel 1992-'93. Avevano il grave torto di non
frequentare Vittorio Mangano, Vincenzo Virga e Marcello Dell'Utri. Gentaglia.
Uliwood party.
Cara Europa, sono rimasto sgomento di quel che ha scritto il 15
maggio per Repubblica Antonello Caporale, che denuncia – con indicazione di
identikit, sezioni elettorali, leggi violate, ecc. – il potere mafioso della
destra siciliana, che riesce con la violenza e l’intimidazione a sfondare
perfino nei quartieri popolari come lo Zen, vicini a Leoluca Orlando. Nulla di
nuovo, certo, ma che dire dei finanzieri che accorrono quando un “omone” intima
agli scrutatori di riammettere come valida una scheda dichiarata nulla, e del
presidente che si limita a dire “Vattene e sarai servito anche meglio di quel
che credi”? ALFIO SIRACUSANO, BARI Caro Siracusano, la cosa
più triste è che, temo, non ci sarà alcuna indagine giudiziaria
a carico dell’“omone” e del presidente della sezione. Il potere antistatuale
coinvolge tanti, anche nelle istituzioni più delicate (magistratura,
forze dell’ordine) e presso di loro trovano complicità e amicizia
corrotti, violenti, mafiosi, sepolcri imbiaccati, persone dalla doppia e
triplice morale, spesso padroni della società e della democrazia.
Ma non sempre. Lo stesso giorno in cui Repubblica rendeva note le vicende
siciliane, l’Unità pubblicava una pagina di Massimo Solani sotto un
titolo da sgomento: «Molise, in manette agenti e carabinieri. Arrestavano le
inchieste». Avevano costituito da anni, secondo la procura di Larino,
«un’associazione a delinquere che occultava le prove dell’indagine Black Hole
sulla malasanità » nel Molise. Il caso era diventato nazionale oltre un
anno fa, quando si scoprì che la signora Patrizia De Palma, primaria
ginecologa dell’ospedale di Termoli e moglie del sindaco di quella città
Remo di Giandomenico, deputato dell’Udc, praticava in un suo studio aborti che
rifiutava in ospedale come “obbiettrice di coscienza”. Arrestata e trasferita
nelle carceri di Larino, la devota vi fu raggiunta poche settimane dopo dal
marito, che l’on.Casini, scoppiato lo scandalo, non aveva potuto riproporre
agli elettori molisani, e perciò rimasto privo dell’immunità
parlamentare. Insieme a carabinieri,poliziotti e vigili urbani, il sindaco e la
signora avevano costituito – sempre secondo la procura – una vera lobby, capace
di far propri interi «comparti istituzionali» (Asl, Comune, appalti,
assunzioni). In galera è finito lo stesso comandante dei carabinieri
della provincia di Campobasso, accusato d’aver infiltrato nella stazione di
Termoli un militare dell’Arma perché avvertisse per tempo gli indagati e
indagasse sugli inquirenti.
Ma il peggio, caro Siracusano, l’ha raccontato Bianca Berlinguer nel
telegiornale di martedì 15 maggio, e cioè che alte gerarchie
dell’Arma avrebbero trasferito in Kosovo il capitano Fabio Muscatelli,
attivissimo collaboratore della procura di Larino nell’inchiesta Black Hole.
Tornato dal Kosovo e ripreso testardamente il suo lavoro, il capitano
Muscatelli è di nuovo sotto trasferimento in Calabria. È vero?
È vera la storia raccontata martedì dall’Unità e dal Tg3?
Dai ministri Amato e Parisi aspettiamo risposte, che avremmo voluto leggere
già nei giornali di ieri.
GENOVA Mentre da Roma il senatore Graziano Mazzarello (Ulivo)
annuncia che il Senato dà il via libera al decreto che elimina, da
subito e completamente, il ticket di 10 euro sulla diagnostica, Rifondazione
comunista ottiene l'unanimità sulla sua proposta di legge per
ridurre la durata dei brevetti sui farmaci a 36 mesi. Intanto, però, si
accendono le polemiche dopo l'annuncio fatto martedì scorso
dall'assessore alla sanità Claudio Montaldo sul S. Corona di Pietra
Ligure, destinato ad essere "deaziendalizzato". come Villa Scassi a
Genova. Ieri la Sanità l'ha di nuova fatta da padrona. TICKET
"Grazie ad un fondo di 511 milioni di euro, il ticket di 10 euro per il
2007 verrà interamente coperto. Non è più prevista la
compartecipazione delle Regioni". L'annuncio di Mazzarello chiude
definitivamente, dunque, il capitolo relativo alla quota fissa che, dall'inizio
dell'anno, è prevista sugli esami e le visite specialistiche. Un
balzello che ha creato non pochi problemi (spesso il ticket è finito col
costare più dell'esame stesso), andando ad incidere anche sulla
prevenzione. "Non appena il provvedimento verrà pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale - precisa il senatore diessino - il ticket sarà
ufficialmente abolito". Questione di pochi giorni, assicura. FARMACI
Sedici milioni di euro dalla riduzione automatica del 20% dei prezzi dei
farmaci sotto brevetto. E' il risparmio per la Liguria quantificato da Marco
Nesci, capogruppo di Rifondazione comunista grazia alla proposta di legge
presentata dal suo gruppo e approvata all'unanimità. Si tratta della
richiesta di anticipare a 36 mesi la durata dei brevetti per i farmaci. La legge
ora dovrà essere portata all'esame del Parlamento per l'approvazione
definitiva. Oggi in Italia la durata del brevetto non è specificata con
precisione. "Il provvedimento - ha aggiunto Nesci - consentirà
inoltre di fare iniziare le produzioni di farmaci generici equivalenti a quelli
brevettati e di fare crescere così ulteriormente la concorrenza a
vantaggio dei malati". FERROVIA Fuori dai temi sanitari, ma sempre
l'unanimità ha incontrato l'ordine del giorno che impegna la giunta
affinché definisca il contenzioso aperto, la ripresa dei lavori, il
completamento dell'opera e la tutela dei 240 lavoratori impegnati per il
raddoppio e lo spostamento a monte della ferrovia nel tratto San
Lorenzo-Andora. DEMANIO Approvato, e sempre all'unanimità, anche il
disegno di legge sulla conservazione, gestione e valorizzazione del
demanio e del patrimonio regionale. Forza Italia, ha spiegato in aula il
capogruppo Luigi Morgillo, ha votato a favore dopo avere ottenuto chiarimenti e
modifiche su alcuni punti. DIFENSORE CIVICO L'aula, infine, ha preso atto della
relazione annuale del difensore civico, Annamaria Faganelli che, nel suo
bilancio, ha puntato il dito soprattutto contro Arte, definendo "poco
equa" la vendita dei suoi alloggi popolari, per i quali vengono fissati
prezzi di mercato, soprattutto in zone come la Riviera. Nel documento si spiega
anche che molte lamentele giunte al difensore civico riguardano la scarsa
manutenzione degli immobili e danni ai singoli alloggi "mai riparati
nonostante formali e reiterate richieste di intervento".
L'INIZIATIVA Al vaglio le indennità di parlamentari,
assessori e manager pubblici. Progetto di legge dell'Idv: al massimo 12
ministri Di Pietro mette sotto accusa un suo deputato per avere partecipato
alla ripartizione della "legge mancia" Nel mirino anche auto blu e
giunte locali. Il presidente della Camera: vanno corrette alcune distorsioni
CARMELO LOPAPA ROMA - Un'indagine conoscitiva cercherà di fare luce
sulla proliferazione ormai incontrollabile dei costi della politica.
Lo ha deciso il presidente della Camera Fausto Bertinotti, che ha affidato alla
commissione Affari costituzionali, presieduta da Luciano Violante, il compito
di gestire l'inchiesta. Sarà la prima del genere, ma il problema
è talmente avvertito che la terza carica dello Stato intende lanciare un
segnale concreto, ora che anche il governo lavora alla stesura di un libro
bianco sugli sprechi. Il lavoro, spiegano dalla Presidenza della Camera,
servirà da base per eventuali iniziative parlamentari. "Si sa che
la democrazia ha un costo - spiega Bertinotti - ma non c'è ragione che
questo costo sia abnorme. Ci sono elementi distorti che vanno corretti". E
il presidente della Camera fa riferimento alla proliferazione di cariche elettive
retribuite, fino ai più piccoli comitati pubblici compresi. Il suo
parere è che "c'è una parte della rappresentanza politica
che deve essere gratuita". Favorevoli con l'iniziativa tutti i capigruppo,
opposizione compresa. Pur con qualche distinguo. "L'indagine va fatta -
secondo il capogruppo di An Ignazio La Russa - Ma proporrò con un
emendamento che sia anche comparativa, che le indennità parlamentari
siano cioè confrontate con quelle di chi ricopre analoghi ruoli di responsabilità,
dai manager pubblici a certe star del giornalismo tv". Il vicecapogruppo
forzista Antonio Leone plaude anche lui ma invita a partire dalle
"poltrone e strapuntini con cui questo governo ha battuto ogni
record". Un primo segnale sarà dato oggi dalla stessa commissione Affari
costituzionali della Camera, che inserirà in calendario per essere
discusso entro fine mese l'unico disegno di legge sulla "riduzione dei costi
della politica", quello presentato dai dipietristi Donadi, Mura e
Borghesi. E basta scorrere i 18 articoli che lo compongono per comprendere
quanto sarà arduo il cammino del testo. Che parte con l'abolizione di
tutte le indennità accessorie dei parlamentari da sostituire con
rimborsi spese per proseguire con il riconoscimento della pensione ai soli ex
deputati che hanno maturato due legislature. E poi, un tetto di 12 ministri per
il governo, il dimezzamento degli assessori provinciali, l'abolizione delle
comunità montane e delle circoscrizioni nelle città sotto i 250
mila abitanti. "Se passasse tutto questo - spiegano i tre proponenti - si
avrebbe un risparmio stimato in tre miliardi di euro l'anno". Tra i costi
sostenuti dal Parlamento ci sono anche quelli ad appannaggio dei deputati per
pagare i collaboratori. Il giro di vite per vincolare il rilascio dei badge ai
soli portaborse con contratto ha fatto flop. Ieri l'Ufficio di presidenza della
Camera ha prorogato di un mese la scadenza del 13 maggio. Si è scoperto
che su 688 collaboratori esistenti, i contratti sono stati regolarizzati per
176. Ma per 108 il pagamento era a carico della Camera per i deputati che
ricoprono ruoli di vertice (presidenti di commissione e altro). Dunque, solo 68
sarebbero i neo contrattualizzati effettivi. Ieri sera invece il gruppo di
Italia dei valori si è trasformato in una sorta di minitribunale per
giudicare, alla presenza di Di Pietro, il deputato Salvatore Raiti, accusato di
aver partecipato alla ripartizione dei 17 milioni di euro della cosiddetta
"legge mancia". La sua "colpa", aver dirottato sul suo comune
di Linguaglossa 100 mila euro. "Non li ho regalati a un'associazione
amica, ma al Comune per mettere a norma antisismica la scuola Luigi Pirandello.
Sono orgoglioso di quel che ho fatto e se possibile lo rifaccio pure",
è stata la sua arringa davanti ai colleghi. Che non hanno apprezzato:
"Non ne sapevamo nulla, hai agito da solo in commissione Bilancio e
valuteremo se trasferirti in altra commissione" ha attaccato il capogruppo
Donadi. E il ministro Di Pietro: "Sono deluso, le tue ragioni non sono in
linea con i principi etici del partito".
Riteniamo con forza che il Partito Democratico sia la giusta
risposta alle molte domande che la politica italiana ci pone. Ci preme
l'unità della coalizione e la capacità di governare secondo
efficacia, efficienza e giustizia. La capacità di governare si
costruisce con un sistema più semplice e non con 14 partiti del 5%
arroccati a difendere identità che sono spesso solo strumentali difese
di orticelli o posizione di poteri o di condizionamento. Il grande Ulivo si
sfalda proprio perchè è facile tirarsene fuori (vedi crisi
governo Prodi) essendo solamente una coalizione di governo. Entrare nel PD
è un legarsi le mani per un progetto che guarda al futuro. In Europa non
è necessario fondere partiti: l'Italia è l'unica democrazia
moderna (Europa Occidentale, Usa, Canada, Australia, Giappone) in cui ci
sono 14 gruppi parlamentari. Essendo pochi i partiti delle democrazie
occidentali, sono grossi ed essendo grossi sono percorsi al loro interno da
forte dialettica culturale e politica (per fortuna) che non ha mai
portato a scissioni infinite e improduttive. Nelle moderne democrazie i partiti
politici di grosse dimensioni hanno grandi vizi ma i grandi partiti
garantiscono presenza di donne e ricambio generazionale, formazione alle nuove
classi politiche ed elaborazione culturale. Analizziamo brevemente alcuni
partiti che aderiscono al Pse che dovrebbe fare a loro da collante.
Inghilterra. I Laburisti hanno varie correnti a volte anche molto conflittuali
che convivono e decidono poi di seguire la linea che prevale (la famosa
democrazia in cui si decide a maggioranza, senza che ciò porti a
scissioni, ovviamente). Nel caso della politica internazionale
hanno deciso l'adesione alla guerra di Bush contro L'Iraq al di fuori di ogni
legittimazione Onu, un'aggressione unilaterale. Germania. Spd, i
socialdemocratici tedeschi nella consapevolezza dei valori della
socialdemocrazia, rifiutano ogni forma di collaborazione con i comunisti
tedeschi tanto da allearsi con la Democrazia cristiana per poter metter mano
alle riforme. Francia. Socialisti francesi: con Ségolène Royal, dopo la
tragedia dell'esclusione dal ballottaggio delle scorse presidenziali, hanno
cercato di seguire il modello inglese (in piccole dosi). In parte hanno votato
No nel referendum sulla costituzione europea. Spagna. I socialisti spagnoli con
il giovane Zapatero stanno seguendo la strada dell'emancipazione dei diritti
personali, strada del tutto ostica per gran parte del socialismo europeo. La
visione forte è quella di una società e di una democrazia che
esce da ogni idea dei sacri testi, liberali o marxisti, in cui i protagonisti
non sono le classi o i gruppi sociali, ma gli individui che costruiscono fra
loro forme di dialogo, di alleanza. Zapatero non ama più definirsi
socialdemocratico, ma democratico sociale. Da questa breve carrellata risulta
evidente che sotto un nome comune (Pse) vi sono posizioni molto diverse. Ma
allora basta evocare un nome? D'altra parte risulta del tutto evidente che il
Partito Popolare Europeo appare come un partito conservatore a tutti gli
effetti. I processi politici richiedono tempo, ma non è difficile
immaginare che anche in Europa si andrà verso un blocco conservatore e
un blocco democratico (che piaccia o no). Con un gruppo di sinistra radicale
conservatore. Il Partito Democratico trova la sua ideale collocazione nel
blocco democratico-socialista europeo. Noi vogliamo costruire un grande
partito, radicato sul territorio, aperto, pluralista, in grado di proporre una
sintesi fra le varie identità del centro-sinistra, senza annularne
alcuna, ma arricchendosi con il contributo democratico di ognuna. Un partito in
cui queste identità coinfluiscono trovando una nuova sintesi che dia
risposte a problemi nuovi come quelli posti dalla globalizzazione, dal
progresso scientifico e tecnologico, dall'ambiente. Abbiamo quindi bisogno di
nuovi riferimenti e profonde analisi. L'auspicio è che anche la sinistra
conservatrice si unisca nel soggetto unitario della sinistra europea che
avrà, come il Partito Democratico, al suo interno tante, ma tante
correnti e idee diverse (forse, come dice Diliberto, come simbolo la falce e il
martello) che sono una ricchezza, poiché non tutti gli uomini, per fortuna, la
pensano allo stesso modo. Mattia Barosi Alessandro Fabbri Guido Ascari Guido
Giuliani Stefano Ramat e Simonetta Coldesina associazione per il Partito
Democratico della provincia di Pavia A difesa della famiglia anche qui a Pavia
La grande manifestazione di popolo a cui abbiamo partecipato sabato, insieme ad
altri 200 pavesi, non può essere letta in termini riduttivi di
appartenenza religiosa. Il Family Day è stato piuttosto la testimonianza
di laici, credenti e non credenti, convinti dell'importanza della famiglia per
il bene presente e futuro del nostro Paese. Tra i cartelli esposti, uno ci ha
colpito particolarmente: "Non sono credente, ma sono felice di essere
padre". A Piazza San Giovanni abbiamo assistito al miracolo di un popolo,
fatto di bambini, ragazzi, uomini e donne di ogni età e ceto sociale,
radunato in massa non per protestare in modo becero contro qualcosa, ma per
affermare che l'unica speranza per l'Italia è quella di aiutare e
sostenere la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna. L'esperienza
vissuta a Roma non può però restare isolata. Nella nostra
città e nella nostra provincia c'è bisogno di un impegno
quotidiano, civile o politico che sia, in cui la famiglia - intesa come principale
ambito per l'educazione della persona - sia messa al centro di ogni azione.
Dopo il Family Day vigileremo con un'attenzione ancora più grande
affinché tutto ciò accada. A questo proposito, vorremmo invitare tutti
coloro che fossero interessati a coinvolgersi in modo stabile in iniziative a
favore della famiglia, a contattarci a: paviaperlafamiglia@hotmail.it Sandro
Assanelli e Filippo Cavazza Pavia La Chiesa cattolica il Family Day e l'Italia
La Chiesa Cattolica è contraddittoria: sostiene la famiglia fondata sul
matrimonio ma impedisce ai suoi preti di farsene una. Inoltre, la ferma
convinzione di rappresentare genuinamente il pensiero di Dio, la rende restia
ad accettare che un sistema democratico e multiculturale non possa avere
modelli unici. Avendo la propria sede centrale in Italia, la Chiesa avversa
l'ipotesi di uno Stato pienamente indipendente perchè teme che il suo
proselitismo e la sua influenza vengano inficiati. La classe politica
italiana, poco coesa e molto litigiosa, preferisce evitare un aperto confronto
con la Chiesa anche quando si tratta di temi in cui la valenza politica
è almeno pari a quella religiosa. Ne consegue che attualmente gli unici
aiuti che possono venire all'Italia laica sono la legislazione del Parlamento
Europeo e la giurisprudenza della Corte Costituzionale. Fabrizio Anselmi
Voghera Asp di Pavia, troppi giochi sul direttore generale Scriviamo come
rappresentanti sindacali della Rsu (componente Cgil) dell'Azienda dei Servizi
alla Persona II.AA.RR. di Pavia in merito all'articolo intitolato "Risiko
della Sanità pavese". Noi, che quotidianamente operiamo all'interno
dell'Asp (Pertusati, Santa Margherita e Gerolamo Emiliani), siamo quasi
stupefatti dai "balletti" e dai "retroscena" che interessano
la nomina del direttore generale. Perchè nessuno si è preoccupato
di accenare alle politiche riguardanti l'utenza (i nostri ospiti e ricoverati)
o gli operatori (medici, infermieri, tecnici, impiegati)? E' mai possibile che
tutto si riduca ad un "gioco", ad un risiko che passa sopra le teste
di tutti? Certo, non siamo "nati ieri" e comprendiamo le ragioni
della politica, ma le domande che sorgono in questo momento sono
numerose; riguardano soprattutto la professionalità e la capacità
dei pretendenti. E qui ci rivolgiamo espressamente a coloro i quali sono
incaricati per legge alla scelta del futuro direttore generale ed alla nomina
dell'eventuale nuovo consigliere d'amministrazione. Allora, se è vero
che un'era è finita, quando inizierà quella nuova? Che senso ha il
"tandem" a cui si accenna nell'articolo? Sarà, forse, solo il
direttore sanitario che collaborerà con il direttore generale? E tutti
gli altri operatori che faranno? "Remeranno contro"? Non verranno
chiamati alla collaborazione? Siamo veramente preoccupati! Tante sono le cose,
iniziate nell'"era precedente", da condurre a termine in maniera
fattiva e collaborativa, come è stato finora. Ci penserà il
"tandem"? Ci si augura che i giochi politici non prevalgano sul buon
senso, sull'interesse degli utenti e degli operatori, e che pesi di più
la preparazione e l'esperienza di coloro che sono chiamati ad occuparsi della
cosa pubblica, a scapito, questo sì, dei pacchetti di voti. I
rappresentanti sindacali Cgil della Rsu Asp II.AA.RR. di Pavia Questo il mio
ricordo di Giancarlo Magenta La morte di una persona conosciuta, non
può, non deve lasciarci indifferenti. Tanto più se si tratta di
un personaggio politico - e quindi discutibile - il quale, già
giornalista, ebbe mandati, incarichi a livello sia locale che regionale.
Conobbi Giancarlo Magenta tanti anni fa nella sede di questo giornale (curava
l'Oltrepo) e poi nell'Avis e nel Psi e così via. Di lui - affabile e
disponibile, estroverso - forse si potrebbe dire ricordando i versi del
Leopardi: "Virtù viva sprezziam / lodiamo estinta". Si era
salvato da "tangentopoli" ma le chiacchiere denigranti a volte sono
dure a morire... La morte di un personaggio come Giancalo Magenta, oggi almeno,
suscita il pensiero di questo transeunte vivere che, senza la fede,
s'intristisce talvolta e ricorda che, se il sale diventa scipito, senza sapore,
diviene inutile. Io cerco ora di esprimermi nel modo che posso, ma rimango
consapevole dei miei limiti. Buon Dio, accogli nel tuo seno l'anima di chi ci
ha lasciato e che seguiremo nel termine da te stabilito. Grazie per avercelo
dato, insieme ad altri doni. Perdona la ingratitudine... Aiutaci ad amare e
servire per la vita che ci rimane. Che non si dica con il Foscolo, disperato
per la morte del fratello: "Questo di tanta speme oggi mi resta". Sauro
Razzano Pavia Binasco, la classe di ferro è quella del 1933 Non saremo
più tanto di ferro come si suol dire, ma non siamo poi tanto da buttar
via. Siamo degli arzilli 74enni che ogni anno agli inizi di maggio si ritrovano
per passare una giornata in qualche bella località e, perché no, fare
una buona mangiata. Quest'anno Lucia, la nostra organizzatrice, ha scelto Bocca
di Magra e Lerici. A Bocca di Magra abbiamo pranzato in una caratteristica
terrazza coperta, proprio sul fiume, così che quando a metà
pranzo è venuto un acquazzone, non ci siamo per niente preoccupati.
Pranzo a base di pesce squisito e poi via a Lerici per una passeggiata sul
lungomare con un sole splendido. Alle 19 si riparte per il ritorno e guardando
dai finestrini vediamo, oltre agli splendidi paesaggi della Liguria, un
grandissimo arcobaleno dove prevale il colore rosso. E, dai miei ricordi di
ragazzina sentivo dire dai contadini che il "rosso" prevedeva una
buona annata per il vino, il "verde" per i foraggi e il "giallo"
per il frumento. Ciao a tutti e all'anno prossimo! Un pensiero affettuoso a
tutti quelli che non hanno potuto venire. Luciana Pezzini Beoni Binasco Area
ex-Snia, il coraggio di fare proprio bene Destinazione dell'area ex Snia a
Pavia. Se ne parla da anni con obiettivi sempre diversi e non sempre razionali.
Sembra si sia giunti ad un progetto ancora fumoso ma vicino alla realtà
conclusiva. Trattandosi di un nuovo quartiere senza vincoli storici,
paesaggistici, o di opere già esistenti che obbligano a soluzioni irrazionali,
si auspica che proprietà, progettisti ed assessori all'Urbanistica,
Lavori pubblici, Ecologia ed Ambiente e Politiche culturali, dimostrino
realmente la loro competenza e non si sottomettano come è sempre
avvenuto in passato ed ancora sta avvenendo nel presente, alla sudditanza di
interessi privati o politici..
CORRISPONDENTE DA NEW YORK L’esercito del Giappone «è uno dei
più avanzati del mondo e può avere un ruolo cruciale nel
mantenimento della pace in Asia». Le parole di Richard Haass, presidente del
«Council on Foreign Relation di New York», riassumono i due motivi all’origine
dell’impegno della Casa Bianca per il riarmo di Tokyo a 62 anni di distanza dal
lancio delle atomiche su Hiroshima a Nagasaki. Primo: le forze di difesa
giapponesi sono fra le più tecnologicamente avanzate sebbene non
dispongono di bombardieri, missili e carri armati. Secondo: rafforzarle
significa aumentare la capacità di neutralizzazione di attacchi
provenienti dalla Corea del Nord, che la scorsa estate lanciò una salva
di missili verso il Mar del Giappone, e anche bilanciare il riarmo della Cina,
la cui spesa militare nel 2006 è cresciuta del 14,7 per cento.
Per riuscire a trasformare il Giappone in una sentinella della stabilità
del Pacifico l’amministrazione Bush deve però superare un ostacolo
ereditato dal generale Douglas McArthur: l’articolo 9 della Costituzione
giapponese del 1947 scritta sotto l’influenza degli Stati Uniti, che vedevano
nel pacifismo il miglior antitodo contro possibili ritorni del militarismo
imperiale che aveva provocato l’attacco a Pearl Harbor nel dicembre 1941.
L’articolo 9 impedisce al Giappone tanto di adoperare la forza delle armi per
regolare dispute internazionali quanto di avere delle forze armate di tipo
tradizionale. Se è vero che lo spirito pacifista della Costituzione
è stato già indebolito dalla decisione del precedente premier
Jonuchiro Koizumi di inviare truppe «non combattenti» in Iraq, senza modificare
l’articolo 9 Tokyo non potrà avere un ruolo da protagonista negli
equilibri militari del Pacifico né dotarsi della difesa antimissile nazionale
della quale in questi giorni sta discutendo con i vertici del Pentagono.
Da qui l’importanza dell’annuncio del nuovo premier, Shinzo Abe, che pochi
giorni dopo essere tornato da Washington ha fatto sapere di essere a favore di
un referendum nazonale, da tenersi non più tardi del 2010, per approvare
la revisione dell’articolo 9. La sfida politica per Abe si presenta al momento
tutta in salita perché i sondaggi attestano che ben oltre la metà dei
nipponici restano fedeli alla Costituzione pacifista «made in Usa». Ma la
variabile che potrebbe giovare ad Abe è la minaccia portata dalla Corea
del Nord. Il regime di Kim Jong Il nel 1998 sorprese il Giappone lanciando il
primo missile in grado di raggiungerne il territorio e negli anni seguenti ha
continuato una corsa militare culminata la scorsa estate nel primo test
nucleare (anche se non tutti credono che abbia avuto successo) e nel lancio
verso Est di vettori di diverse dimensioni.
La somma di prossimità geografica e imprevidibilità politica fa
della Corea del Nord una potenziale minaccia per la sicurezza nazionale
giapponese, consentendo ad Abe di aprire la campagna referendaria mentre la
macchina militare è in gran fermento. Fonti diplomatiche americane a
Washington assicurano che Stati Uniti e Giappone hanno già provato con
successo il dispiegamento a largo della Corea del Nord delle navi antimissile
«Aegis», dotate di tecnologia e armamenti in grado di abbattere missili a corto
o medio raggio. Il vulnus potrebbe però essere costituito da missili
intercontinentali, capaci di colpire a lunga distanza dopo aver percorso una
traiettoria a quote molto alte e dunque in grado di evadere lo scudo delle
unità «Aegis».
Washington scommette sulla possibilità di Abe di vincere il referendum
sull’abolizione dell’articolo 9 perché, indipendentemente dal nome del
successore di Bush, l’interesse dell’America è quello descritto dal
politologo Chris Hughes nel recente libro «Il ritorno del Giappone come potenza
militare "normale"»: «Una solida alleanza nippo-americana
consentirebbe agli Stati Uniti di mobilitare con più efficacia gli altri
partner». Ovvero, se il Giappone diventerà la Gran Bretagna del Pacifico
sarà più facile costruirgli attorno un’alleanza militare
regionale capace di vegliare su Taiwan e nella quale potrebbero entrare India,
Australia e Corea del Sud.
+ Il Sole 24 Ore Allarme furto di
identità per una falsa mail della polizia
Avanti!
15-5-2007 I TANTI ACCIACCHI DELLA DEMOCRAZIA ITALIANA Un Paese in ritardo. Giulio Scarrone
L’Unità
16-5-2007 Conflitto d'interessi, il sorriso di Berlusconi Elio Veltri Francesco
Paola
L’Arena
di Verona 16-5-2007 Cambiano le regole
in farmacia. Alessandra Galetto.
Il
Giornale di Brescia 16-5-2007 Accordo a Bruxelles per ridurre le tariffe di
roaming
Milano
Finanza 16-5-2007 America attenta, l'Europa delle banche scalpita Alberto
Caruso.
Una mail che
sembra provenire dalla Polizia di Stato nasconde un pericolo, il furto
d'identità Virtuale e dunque problemi di phishing o per l'integrità
dei dati memorizzati su pc e server. A lanciare l'allarme è la polizia
postale che denuncia come da questa mattina migliaia di mail con la falsa
intestazione "Prisco Mazzi Polizia" hanno cominciato a girare sulla
rete web.
Nella mail un
sedicente capitano di polizia avverte che dal computer del destinatario della
mail sono stati scaricati illegalmente file musicali mp3. Per sottrarsi alla
punizione è necessario impegnarsi a non visitare più i siti
illegali: necessario quindi leggere e memorizzare una lettera sul computer,
contenuta in un file zippato. Molti dei destinatari della mail si sono rivolti
alla polizia tramite il «commissariato o line», un 113 virtuale. La polizia
postale, che sta indagando per risalire ai responsabili, mette comunque sull'avviso.
È una mail completamente falsa che installa un trojan sul computer per
carpire l'identità destinatario della mail.
Ecco il testo
della mail, peraltro scritto in modo approssimativo
Da: Prisco Mazzi /
Polizia [mailto:prima@poliziadistato.it]
Inviato:
mercoledì 16 maggio 2007 10.32
A:
xxxx.xxx@xxxx.xx
Oggetto: Polizia -
Avviso
Avviso
Sono capitano
della polizia Prisco Mazzi. I rusultati dell'ultima verifica hanno rivelato che
dal Suo computer sono stati visitati i siti che trasgrediscono i diritti
d'autore e sono stati scaricati i file pirati nel formato mp3. Quindi Lei e un
complice del reato e puo avere la responsabilita amministrativa.
Il suo numero nel
nostro registro e 00098361420.
Non si puo essere
errore, abbiamo confrontato l'ora dell'entrata al sito nel registro del
server e l'ora del
Suo collegamento al Suo provider. Come e l'unico fatto, puo sottrarsi
alla punizione se
si impegna a non visitare piu i siti illegali e non trasgredire i diritti
d'autore.
Per questo per
favore conservate l'archivio (avviso_98361420.zip parola d'accesso: 1605)
allegato alla lettera al Suo computer, desarchiviatelo in una cartella e
leggete l'accordo che si trova dentro.
La vostra parola
d'accesso personale per l'archivio: 1605
E obbligatorio.
Grazie per la
collaborazione
Parigi Ieri sera, per l'ultima volta, Jacques Chirac si è
rivolto ai francesi, in un breve messaggio di addio a reti unificate. Stile
sobrio e solenne, ha equiparato la Francia a una " famiglia ", con un
messaggio di " unione ", di " fierezza " e di "
fiducia " nell'avvenire, ma rendendo un servizio minimo al suo successore
Sarkozy. Un successore citato, mai per nome, senza alcun affetto e al quale
manda un avvertimento subliminale: attenzione alla questione
dell'identità, in una società del " dialogo " e della
" concordia ", la cui tradizione deve essere rispettata. Nessun
riferimento alle minacce rivolte ieri contro la Francia dalla brigate Abu Haps
al-Masri, filiale di Al Quaeda che aveva rivendicato gli attentati di Londra e
Madrid. Nel pomeriggio, un parlamentare Ump ha organizzato l'invio di sms a
pagamento per congratulare Jacques Chirac : 1,50 euro per ogni messaggino di
felicitazioni al presidente uscente (soldi destinati, in linea di principio,
alla nuova fondazione per l'ambiente di Chirac). Oggi, regolato nei minimi
dettagli dal protocollo repubblicano, ci sarà il passaggio dei poteri a
Nicolas Sarkozy all'Eliseo. Malgrado appartengano allo stesso campo politico,
tra i due presidenti le differenze non potrebbero essere più grandi. Per
Chirac, Sarkozy è " liberista, atlantista, comunitarista" e,
per di più "populista". Sarkozy ha promesso la
"rottura" con l'era Chirac. Ieri nel tardo pomeriggio, il primo
ministro Dominique de Villepin ha rassegnato le dimissioni, assieme al suo
governo. Rimarrà in carica fino a venerdì, quando avverrà
la nomina del suo successore, molto probabilmente François Fillon. Villepin
dovrebbe ritirarsi dalla vita politica. Cosa resterà nella storia di
Jacques Chirac? E' in politica da 40 anni, ha iniziato nel '68, all'epoca di De
Gaulle, ha fatto e disfatto maggioranze, ha eliminato i suoi nemici senza
pietà, è stato l'uomo di un clan più che di un partito. Ma
ora, a 74 anni, lascia un ricordo quasi affettuoso anche se, secondo un
sondaggio, la maggioranza dei francesi giudica " negativo " il
bilancio dei 12 anni di presidenza. La sua permanenza all'Eliseo si riassume in
due decisioni, che passeranno alla storia: il rifiuto di partecipare alla
guerra americana in Iraq nel 2003 - con il famoso discorso all'Onu di Dominique
de Villepin, allora ministro degli esteri - e l'abolizione del servizio di leva
obbligatorio. Si ricorderà di lui anche il lavoro sulla memoria della
Francia, l'ammissione dei crimini antisemiti di Vichy, il pentimento sulla
schiavitù e il colonialismo. Resterà negli annali della
repubblica come il presidente meglio eletto (82% nel 2002 contro Le Pen) al
secondo turno, dopo aver preso il minimo dei voti al primo. Aveva promesso,
nella penultima campagna (nel '95), di lottare contro la " frattura
sociale ", ma lascia una Francia dove la differenza tra ricchi e poveri
è più forte di prima. Appena eletto, nel '
Angelo Piazza (Sdi): "Sarebbe un segnale importante" ?
ROMA ? "SI PARLA TANTO di costi della politica: credo che
ripensare il sistema di finanziamento alla stampa di partito sia una
prima risposta". È la convinzione del deputato dello Sdi, Angelo
Piazza, già ministro della Funzione pubblica nel governo D'Alema,
secondo il quale il progetto di riforma dell'editoria deve fissare "regole
certe", valorizzando anche le nuove tecnologie. La comunicazione politica
del futuro è sul web? "Per il nostro partito, Internet è
già una realtà. Lo dimostra la scelta di interrompere la
pubblicazione cartacea de "L'Avanti della domenica", disponibile oggi
solo su Internet. Le spese sono minori e la diffusione effettiva è più
ampia, specie tra i giovani che devono essere avvicinati alla politica".
E' un modello generalizzabile? "In assoluto no. Il fascino di un giornale
di carta non verrà messo in discussione, però per quanto riguarda
la comunicazione politica il discorso è diverso. Oggi, la stampa
di partito ha enormi difficoltà a stare sul mercato tradizionale e dato
che non vive di mezzi propri, è ragionevole che percorra strade
alternative più economiche per lo Stato". E per chi decide di non andare
in rete, come deve cambiare il sistema di finanziamento? "Credo che
si debba alzare la soglia di rappresentatività, verificando che le
testate siano collegate a forze politiche effettivamente presenti nel Paese. La
libertà di stampa è assoluta e non viene messa in discussione, ma
il finanziamento pubblico deve riguardare solo chi è radicato nel
territorio". Non basta quindi avere un gruppo parlamentare di riferimento?
"Non è un criterio valido al cento per cento. Noi per esempio,
siamo un partito rappresentativo, presente però in un gruppo
parlamentare più grande ? la Rosa nel Pugno ?, mentre magari ci sono
altri gruppi, di per sé legittimi, che tuttavia non hanno
rappresentatività". Insomma, dovrebbero essere considerate anche la
formazione delle liste o il numero di voti? "Sì, tenendo conto
anche dei risultati delle amministrative che rendono bene l'idea della
rappresentanza effettiva dei partiti". Lo stesso ragionamento vale anche
per le testate edite da cooperative, già organi di movimenti politici di
due parlamentari? "La regola dei due parlamentari non esiste più e
oggi è difficile ragionare in termini retroattivi. Per il futuro,
però, bisogna tenere alta la guardia". Venendo al disegno di legge
di riforma, atteso per la fine di giugno, sarà approvato entro fine
legislatura? "Ci credo e lo auspico. Viviamo in un momento difficile e si
parla spesso dei costi della politica. Cominciare a risparmiare
in un settore che comunque impegna lo Stato in modo consistente, sarebbe un
segnale molto positivo".
Se ricordiamo bene, è stato Winston Churchill a dire che la
democrazia è un sistema imperfetto, ma non ne esiste uno migliore. Per
cui ce la dobbiamo tenere, anche quando fa acqua da tutte le parti. Per
esempio, come quella italiana. Esageriamo? Vediamo. Siamo l’unico Paese al
mondo che continua ad avere un vero e proprio doppione tra Camera e Senato, con
sprechi economici e di tempo senza eguali. Tra un rimpallo e l’altro delle
leggi dall’uno all’altro ramo del Parlamento, molto spesso, quando alla fine le
leggi vengono approvate, non servono più a niente, perchè nel
frattempo le cose sono cambiate per loro conto. Buon senso vorrebbe che si
arrivasse a una diversificazione dei ruoli tra i due rami del Parlamento, con
una Camera che facesse le leggi e un Senato delle regioni che si occupasse,
invece, della realtà degli enti locali. Ma proprio perchè si
tratta di una ragione di buon senso, chissà quando questa riforma
verrà realizzata. Abbiamo il più alto numero di parlamentari.
Nemmeno gli Stati Uniti e la Russia ne hanno tanti. E sono anche i più
pagati: a Roma, in Europa, ma anche gli eletti nelle Regioni, nelle Province e
nei Comuni. Per non parlare delle Comunità montane (anche dove non ci
sono alture al di sopra dei cento metri), dei Consigli circoscrizionali, dei
vari enti e delle varie consulenze, per un totale che si avvicina al mezzo
milione di persone che “vivono” di politica. In media, negli altri Paesi i
parlamentari sono la metà di quelli italiani e sono pagati la
metà di quanto non lo siano i nostri. Se si riducesse il loro numero e i
loro emolumenti venissero adeguati allo standard europeo e si abolissero i
troppi enti inutili, i miliardi risparmiati potrebbero essere spesi, per
esempio, per aumentare gli stipendi dei ricercatori ed evitare così la
fuga dei cervelli, di coloro, cioè, che appena possono vanno a lavorare
all’estero, dove guadagnano il doppio o il triplo rispetto all’Italia. Tra
tutti gli enti superati dall’evolversi del tempo, ce n’è uno che ormai
ha dimostrato chiaramente la sua inutilità, ed è la Provincia,
soprattutto dopo l’avvento dell’istituto regionale. Eppure ce la teniamo ben
stretta, non solo: ma non passa giorno senza che venga presentata l’ennesima
richiesta per la costituzione di una nuova provincia, vale a dire di un nuovo
carrozzone burocratico e clientelare. Se pensiamo che il costo annuo per le
casse dello Stato dei presidenti di Provincia, assessori e consiglieri è
di 115 milioni di euro, si ha un’idea di come potrebbe essere impiegati per
scopi più produttivi una somma del genere. Abbiamo una frammentazione
politica unica al mondo. Qualcosa come venticinque formazioni politiche sono
rappresentate in Parlamento. Nessuna istituzione parlamentare al mondo potrebbe
funzionare in condizioni del genere. In tutte le altre democrazie si è
provveduto a sventare questo pericolo con appropriate leggi elettorali che
stabiliscono una soglia elettorale, al di sotto della quale non si entra in
Parlamento. Sono decenni che in Italia si sta discutendo di una legge
elettorale del genere e coloro che la sostengono vengono più o meno
indicati come nemici della democrazia, che da noi viene scambiata con la
confusione, quando i suoi nemici sono proprio coloro che con i loro arzigogoli
non consentono alla democrazia di funzionare. Altro discorso riguarda i
sindacati che sono ormai diventati strumenti di conservazione, dal momento che
la maggioranza dei loro iscritti o sono pensionati o rappresentanti di
categorie che difendono a denti stretti i loro privilegi. In queste condizioni,
la tanto invocata “concertazione” tra governo e parti sociali si riduce a poco
più di una formalità protocollare, essendo ben lontana dallo
stabilire un rapporto con la vera realtà sociale del Paese, e
soprattutto con le nuove realtà sociali emergenti da una organizzazione
della produzione e del lavoro che non ha più nulla a che vedere con la
situazione anche soltanto di qualche anno fa. Avrà pure un senso che a
fare della “concertazione” una “conditio sine qua non” sia proprio la sinistra
radicale, che è, sotto questo profilo, la più strenua alleata del
sindacato. Prendiamo, al riguardo, l’esempio della riforma delle pensioni.
Negli ultimi decenni, la vita media degli italiani è aumentata di almeno
dieci anni. di conseguenza si pone il problema di elevare l’età pensionabile,
se non si vuole, da una parte, avere un popolo di pensionati al quale nessuno
sarebbe più in grado di assicurare il pagamento di una pensione decente,
pena la bancarotta delle casse dello Stato, e, dall’altra parte, non poter
più consentire alle giovani generazioni l’accesso al mercato del lavoro.
Chiaro, no? Ebbene non si riesce a trasformare queste ovvietà in
riforme, per le insormontabili difese corporative dei sindacati, cui si
accompagna la cieca intransigenza della sinistra radicale, con il bel risultato
che aumenta a dismisura (fino a quando?) la spesa pubblica e il diritto di veto
è la sola e unica regola che determina negoziati infiniti e
inconcludenti. Se c’è una lezione, valida anche per l’Italia, da
ricavare dalle recenti elezioni presidenziali che si sono svolte in Francia,
riguarda la rottura che sia Ségolène Royal, sia Nicola Sarkozy hanno
compiuto nei confronti degli stereotipi ottocenteschi della politica, che nel
mondo globalizzato di oggi non portano più da nessuna parte. Sia l’una che
l’altro si sono lasciati alle spalle i condizionamenti clientelari dei
rispettivi partiti e hanno parlato direttamente alla gente: ciò che ci
interessa, hanno detto, è trovare risposte per i problemi che riguardano
il “tuo” lavoro, la “tua” famiglia, la scuola per i “tuoi” figli, la “tua”
pensione, un’Europa che sia degli europei e quindi parta da una realtà
che è anche quella francese piuttosto che dagli scartafacci dei
burocrati. Su questo piano, Sarkozy è stato più convincente e ha
vinto. Diritti, ma anche doveri, riassunti nell’immagine che da sola è
un programma: quando il professore entra in classe, gli studenti si alzano in
piedi. In Inghilterra, Tony Blair ha annunciato di lasciare il governo del suo
Paese, dopo dieci anni di potere. Gli viene riconosciuto il merito di aver
portato i laburisti fuori da un passato dominato da nazionalizzazioni,
sindacati e categorie che stavano uscendo dalla produzione del nostro tempo,
proseguendo quel cammino (perchè non riconoscerlo?) iniziato da Margaret
Thatcher che aveva già eliminato molte incrostazioni della vecchia
Inghilterra. Da questo punto di vista, va detto che non è stato il
Partito laburista a cambiare le sue valutazioni sul mondo, ma è stato il
mondo a cambiare e a chiedere al partito di prenderne atto. Una rottura
culturale necessaria, come è stato riconosciuto da più parti,
davanti alle resistenze di chi, vivendo le ideologie, non vede i fatti, e
scambia il cambiamento, rispetto ai principi ideologici precedenti, come
“revisionismo”. “Revisionista” non è stato il Partito laburista, ma il
mondo, che è passato dal fordismo al lavoro individuale, dall’industria
ai servizi. In Italia, anziché prendere atto di questa realtà e
comportarci di conseguenza, siamo ancora seduti attorno al caminetto, a raccontarci
la favola di Cappuccetto Rosso.
Giulio
Scarrone
Poniamo che un rapinatore venga ripreso a volto scoperto dalla
telecamera di una banca mentre la svaligia. E che i giudici lo assolvano, con
formula dubitativa, con questa argomentazione: ma vi pare possibile che un
rapinatore sia cosi cretino da farsi riprendere dalla telecamera senza coprirsi
il volto? Con un ragionamento (si fa per dire) analogo, Silvio Berlusconi
è stato assolto dalla II Corte d'appello di Milano dall'accusa di aver
corrotto il giudice Renato Squillante con il bonifico di 434.404 dollari (500
milioni di lire) partito il 6 marzo 1991 dal conto svizzero
"Ferrido", alimentato con suoi fondi privati, approdato al conto
svizzero "Mercier" del suo avvocato Cesare Previti, e di lì al
conto svizzero "Rowena" di Squillante. "Perché mai - domanda la
Corte - un imprenditore avveduto come Berlusconi, dotato di immense disponibilità
finanziarie, avrebbe dovuto effettuare (o meglio far effettuare) un pagamento
corruttivo attraverso una modalità (bonifico bancario) destinata a
lasciare traccia, anziché con denaro contante? E per quale ragione il pagamento
avrebbe dovuto essere eseguito attraverso il transito sul conto di Previti
anziché direttamente al destinatario? (.). Lo stesso risultato pratico sarebbe
stato perseguibile più prudentemente con versamenti, sia pure
all'estero, per contanti". Detto ciò, è
"ragionevole" che quel pagamento "avesse funzione corruttiva".
È pura "fantasia" la versione Previti. Ed è
"macroscopica l'inverosimiglianza che Berlusconi fosse del tutto
all'oscuro dei pagamenti esteri compiuti dai suoi dipendenti e che costoro
avessero mano libera per movimentazioni bancarie illecite (effettuate in nero
su conti esteri)". Ma pagare un giudice non equivale a corromperlo, anche
perché poi Squillante "non fece nulla" per Berlusconi. Ergo
"questo complesso di elementi indiziari, tra loro contrastanti, non
permettono di sostenere la incrollabile convinzione che Silvio Berlusconi, al
di là di ogni ragionevole dubbio, sia colpevole, (.) indipendentemente
dalla ben diversa consistenza che le prove possono assumere nei confronti di
terzi". Cioè di Previti. Squillante era a libro paga di Previti
("propenso a pratiche corruttive di magistrati"), ma non è
sufficientemente provato che Berlusconi lo sapesse. È la "prova
impossibile": se l'imputato non lascia tracce, è innocente perché
manca la prova; se invece lascia tracce, è impossibile che le abbia lasciate,
così la prova a carico diventa prova a discarico e lui è
innocente lo stesso. A prescindere. I giudici non devono credere neppure ai
propri occhi. Una sentenza a dir poco sorprendente, che ignora montagne di
prove e di indizi contenuti nei 200 faldoni di atti, liquidando 12 anni di
processo e 160 pagine di ricorsi in appello in una quindicina di paginette
striminzite di motivazioni, scritte in appena cinque giorni. Ora il Pg
ricorrerà in Cassazione, contestando la sentenza d'appello sia in punto
di diritto, sia di fatto. In diritto la tesi della Corte è smentita
dalla Cassazione su Imi-Sir: la "corruzione propria antecedente",
cioè le mazzette al giudice perché "venda la sua funzione" una
volta per tutte e si tenga a disposizione del corruttore per ogni esigenza
futura, non richiede la prova della successiva controprestazione: basta il
pagamento preventivo. Quanto ai fatti, i giudici domandano: perché mai
Berlusconi avrebbe dovuto pagare Squillante via bonifico, tramite Previti,
quando poteva portargli le mazzette cash senza lasciare traccia? Domanda
assurda, visto che è documentalmente provato che negli stessi mesi del
'91 Berlusconi bonificò in Svizzera 23 miliardi di lire a Craxi
(sentenza definitiva All Iberian) e 1 miliardo e mezzo a Previti per ricompensare
lui e il giudice Vittorio Metta dell'annullamento del lodo Mondadori (condanna
in appello di Previti e Metta, Berlusconi salvo per prescrizione). Sarà
pure strano che Berlusconi usi i bonifici, ma quei bonifici risultano dagli
atti. E non è forse più strano immaginarlo mentre valica la
frontiera di Chiasso con una borsa piena di contanti, per consegnarli brevi
manu ai giudici amici? Perché mai uno dovrebbe pagare cash, quando dispone di
64 società off-shore, di decine di conti esteri e di tre avvocati
(Previti, Pacifico e Acampora) dotati conti esteri comunicanti con quelli di
alcuni giudici? Perché questa bella gente apriva conti in Svizzera, se poi non
li usava? Oggi quei conti sono noti grazie alle rogatorie. Ma 20 anni fa
nessuno immaginava che sarebbero stati scoperti: se l'Ariosto non avesse
parlato, nessuno li avrebbe cercati. Tanto le mazzette a Craxi quanto quelle ai
giudici passarono per la Svizzera. Anche quelle del caso Imi-Sir, che seguono
lo stesso percorso di quelle targate Fininvest: i Rovelli bonificano in
Svizzera 68 miliardi ai tre avvocati, che ne girano una parte ai giudici. La
domanda della Corte va dunque ribaltata: perché Berlusconi NON avrebbe dovuto
pagare con bonifici svizzeri? Che il denaro usato da Previti per pagare Squillante
provenisse "dal patrimonio personale di Berlusconi" lo dicono, al
processo All Iberian, gli stessi suoi difensori. E risulta dalle carte. Il 1°
marzo '91 uno spallone porta 316,8 milioni di lire dalla sede Fininvest di
Palazzo Donatello alla Diba Cambi di Lugano. Diba li versa sul conto Polifemo
(All Iberian), gestito dal cassiere del Cavaliere, Giuseppino Scabini.Grazie a
quei fondi Polifemo può bonificare 5 giorni dopo i 434.404 dollari a
Previti, che li gira a Squillante. Polifemo va in rosso,ma in 2 giorni viene
rabboccato con 6 miliardi da All Iberian. Subito dopo Polifemo gira altri 2
miliardi a Previti e 10 miliardi a Craxi, che con la Mammì ha appena
salvato le tv Fininvest. Polifemo finanzia esclusivamente Craxi e Previti (non
come avvocato: come corruttore di giudici), nell'interesse di Berlusconi e con
fondi del suo "patrimonio personale". Ma Berlusconi, per la Corte,
non c'entra. Previti sostiene che quei fondi erano "normalissime
parcelle". Ma, anche per la Corte, mente. Il direttore finanziario
Fininvest, Livio Gironi, dice di aver concordato con lui una mega-parcella di
10 miliardi in nero, che Previti doveva farsi liquidare da Scabini. Ma Previti
dice di non conoscere Scabini. In compenso conosce Berlusconi. Pure Squillante
conosce Berlusconi. Anche Barilla conosce Berlusconi, ma non Previti, né
Squillante: eppure Barilla, alleato di Berlusconi nella causa Sme, appena la
vince nel 1988 bonifica 1 miliardo a Previti che gira 100 milioni a Squillante.
Anche di questo, per la Corte, Berlusconi non sa nulla. Ci sarebbe poi la
testimonianza dell'Ariosto: Previti le disse che i soldi per pagare i giudici
glieli dava Berlusconi. Cinque pm, un gip, una trentina di giudici l'han
ritenuta attendibile, più tutti quelli che l'hanno assolta dall'accusa
di aver diffamato e han condannato decine di persone per averla diffamata,
più lo stesso Previti che le ha chiesto scusa. Ma, per la Corte, la
Teste Omega è un po' credibile e un po' no. Il suo racconto
"suscita ovvie perplessità laddove accredita la tesi, deviante
rispetto all'esperienza, che persone accorte e professionalmente qualificate
come Previti e Squillante si spartissero mazzette coram populo". È
la prova impossibile rovesciata. Triplo salto mortale carpiato: se Berlusconi
lascia tracce su un bonifico, è impossibile che abbia lasciato tracce su
un bonifico; se Previti viene visto spartire mazzette, è impossibile che
l'abbiano visto spartire mazzette. La corruzione c'è soltanto se nessuno
la scopre. Ma, se nessuno la scopre, non è mai punibile. Non è
meraviglioso?.
Nel giorno in cui la Camera dei deputati inizia la discussione
della proposta di legge del centro sinistra sul conflitto di interessi,
Berlusconi annuncia l'acquisto di Endemol e dice che la televisione, tutta la
televisione, è sua. Anzi, che Lui è la Televisione. Berlusconi,
come diceva Indro Montanelli che lo conosceva bene, chiagne e fotte. Lo fa da
una vita e gli è andata sempre bene. Lui (così
"americano") rifiuta di consegnare il suo patrimonio, "frutto di
una vita di lavoro" a uno sconosciuto, fondo cieco, che la proposta di legge,
per di più, gli consente di scegliersi. Operazione che i Presidenti
degli Stati Uniti, appena eletti, compiono da sempre e spontaneamente,
così come i rappresentanti delle altre cariche elettive. Berlusconi sa
che la proposta Franceschini e il testo base della commissione Affari
Costituzionali non modificano nella sostanza la situazione attuale prevista
dalla legge Frattini e sa anche che per un'azienda come la sua il Blind
Trust inefficace, perché, come ha scritto Giovanni Sartori: "Un conflitto
di interessi non sparisce se viene camuffato. Se c'è, c'è. E
aiutare a camuffarlo è aiutare ad aggravarlo". Eppure, grida allo
scandalo e al golpe perché, se proprio dovesse ingoiare il piccolo rospo,
vorrebbe che a dirigere il Blind Trust fosse Confalonieri. E dal suo punto di
vista è comprensibile perché con la tecnica collaudata del "chiagne
e fotte" è riuscito a farsi approvare dal Parlamento, con il voto
degli avversari o sedicenti tali, tutte le leggi che ha voluto; a farsi
dichiarare eleggibile alla unanimità per ben due volte dalla Giunta
delle elezioni in barba alla legge del 1957; a vanificare tutte le
sentenze della Corte Costituzionale; ad avere un aiutino nella scrittura della legge
Gasparri dal prof Pilati, membro dell'Autorità per le comunicazioni e,
poi, una volta assolto il compito, nominato dal governo Berlusconi
all'Antitrust, dalla cui postazione, come ha ironizzato Paolo Mieli, avrebbe
dovuto controllare se Berlusconi da Palazzo Chigi avesse favorito o no le sue
aziende. Geniale il Cavaliere: mentre trattava l'acquisto di Endemol, si
è anche fatto pregare dagli (inconsapevoli?) esponenti del centro
sinistra per entrare nel capitale di Telecom, incassando politicamente le
ricadute positive della richiesta, ben sapendo dall'inizio che Telecom non gli
interessava minimamente perché in modo diverso e impegnando meno soldi
può ottenere molto di più, ferma restando la intangibilità
delle sue tre reti, la dominanza sul mercato tv e sulle nuove tecnologie dei
prossimi anni. Il Cavaliere, qualora diventasse capo del governo, non sarebbe
minimamente preoccupato di essere danneggiato da una gestione di un Blind
Trust, ma gioca la carta del perseguitato che fa sempre presa e, forse, non
vuole che occhi men che fedeli, guardino nelle sue aziende. Perciò,
inventando uno scontro inesistente, che il segretario Udc con perfidia tutta
democristiana considera addirittura un gioco delle parti con Prodi,
cercherà di bloccare la proposta di legge del centro sinistra,
chiamando alle armi tutta la Casa delle libertà e poi tratterà
perché tutto rimanga come prima: reti e tetti pubblicitari e, magari, nel nome
della difesa della italianità proporrà anche una collaborazione
con la Rai per mettere insieme strutture e impianti e rafforzare il duopolio a
parole, ma nei fatti, sempre e solo Mediaset. E il centro sinistra? Al governo
sembra che manchino i fondamentali. Esso infatti ignora che il conflitto di
interessi è "epidemico" e sistemico e come tale ferisce a
morte valori costituzionali espliciti come l'uguaglianza dei cittadini di
fronte alla legge e impliciti come la concorrenza sul mercato e la
competitività delle imprese. Tanto è vero che nella classifica
della Banca Mondiale sulla competitività l'Italia viaggia tra il 60° e
70° posto. Pertanto, non riguarda solo i membri dei governi delle istituzioni,
ma imperversa nelle università, nella sanità, nel calcio, nella
finanza e nelle banche, nell' industria, nelle società di servizi
pubblici, nella Rai e, soprattutto, nei partiti e nella politica. Quindi una legge,
ammesso che sia approvata, che si occupa solo dei membri del governo è
non solo inutile, ma anche dannosa per la semplice ragione che non scalfisce il
problema e fornisce alibi al Cavaliere. Diverso sarebbe stato il discorso se
governo e maggioranza avessero informato i cittadini sulle caratteristiche e
sulla diffusione dei conflitti di interessi nelle istituzioni, nell'economia e
nella società e avessero proposto una Legge Costituzionale, di
sistema, evitando, peraltro, l'Istituzione dell'ennesima Autorità e
affidando ad apposito servizio della Presidenza della Repubblica, la
valutazione costituzionale degli atti del governo e dei comportamenti dei suoi
componenti.
Sta per entrare in vigore un decreto legge che modifica le norme
per l'acquisto dei medicinali con prescrizione medica Cambiano le regole in farmacia
Insieme alla ricetta sarà obbligatorio presentare anche la nuova tessera
sanitaria Pochi lo sanno: ancora per poco sarà possibile richiedere
farmaci per i quali è necessaria la ricetta senza mostrare al farmacista
la nuova tessera sanitaria. Sta infatti per entrare in vigore anche in Veneto
un decreto legge del 2003 che prescrive l'obbligo di presentare al farmacista,
al momento dell'acquisto dei farmaci prescritti dal medico di base e a carico
del servizio sanitario nazionale, della nuova tessera sanitaria a
fianco della ricetta rossa. Proprio per questo Federfarma Verona sta conducendo
una campagna informativa in modo che tutti gli utenti siano aggiornati su
questa normativa che avrebbe dovuto entrare definitivamente in vigore
già col mese di aprile ma di cui proprio l'associazione dei farmacisti
è riuscita a posticipare l'inizio, al fine di testare nel frattempo il sistema
e di spiegarlo ai clienti. "Questa fase di sperimentazione è molto
importante", ha ribadito ieri la presidente di Federfarma Verona Daniela
Veneri. "Gli utenti della farmacia devono comprendere grazie anche
all'aiuto dei mezzi di informazione per evitare in un futuro molto prossimo
disguidi e problemi a carica del paziente stesso che necessita di farmaci. In
pratica chi deve ritirare per sé o per altri un medicinale prescritto dal
medico e a carico del servizio sanitario nazionale deve
presentare anche la tessera del paziente stesso. Questo vuol dire che un
figlio, un parente o per esempio la badante devono ricordare di portare al
farmacista anche la tessera sanitaria legata a quella prescrizione, a quel
paziente". "E' chiaro che ciò comporta anche qualche disagio:
per questo noi farmacisti eravamo contrari. Speriamo comunque nella
collaborazione dei medici di base, che devono apporre sulle ricette il codice
fiscale a barre, che verrà poi confrontato in farmacia, tramite il
visore ottico, con quello della tessera sanitaria per l'esatta identificazione
del paziente". I dati della ricetta fino ad oggi erano comunicati dal
farmacista al ministero della Sanità, adesso invece dovrà essere
comunicato al ministero delle Finanze il codice fiscale del paziente: il senso
di questa iniziativa sta nella necessità di monitorare la spesa
sanitaria, ma la procedura rischia di creare parecchi disagi, almeno fino a
quando non diventerà più abituale. "E' solo a Federfarma che
anche in questo caso si deve un servizio fondamentale di informazione",
interviene Flavio Magarini, responsabile per il Veneto del Tribunale del Malato
- Cittadinanza attiva. "Del problema di informazione per il cittadino non
si è fatto carico nessun altro organismo: davvero dobbiamo dire che
ormai gli unici informati sono i farmacisti. Nel merito della legge poi credo
che ci saranno molti disagi: intanto il 30-40 per cento dei medici di base non
dispone nemmeno di un computer, e poi mettere in rete dati così
personali può creare serie preoccupazioni". Su questo punto
interviene anche l'Unione nazionale consumatori. Marina Fracasso,
responsabile per Verona, afferma: "Già nella nostra vita quotidiana
siamo spesso spiati, questo ci pare davvero un colpo ulteriore alla privacy,
oltre che un nuovo disagio ai danni delle persone anziane, soprattutto quanti
vivono con badanti. Non solo: il numero verde delle tessera sanitaria non
risponde praticamente mai".
L'Europa taglia i costi del cellulare all'estero BRUXELLES
Accordo in extremis a Bruxelles per il taglio delle tariffe di roaming: i
rappresentanti di Commissione, Consiglio e Parlamento Ue, dopo
una lunga e dura tornata di negoziati, hanno raggiunto un compromesso proprio
nell'ultimo giorno utile, passato il quale non sarebbe più stato
possibile varare il regolamento prima dell'estate. Già dalle prossime
vacanze, dunque, usare il telefonino cellulare mentre si è in viaggio o
in villeggiatura in un altro Pese dell'Ue potrebbe costare di meno. Le
nuove tariffe. L'accordo - che è ancora preliminare ed andrà
approvato definitivamente sia dal Parlamento che dal Consiglio Ue -
è comunque un successo per il commissario Ue alle Tlc, l'olandese
Viviane Reding, la cui proposta iniziale - dello scorso luglio - prevedeva in media
un abbattimento delle tariffe di roaming del 70%. Il compromesso raggiunto
fissa tetti un po' meno ambiziosi, ma che danno un taglio netto - circa il 50%
- ai costi sostenuti da chi viaggia all'estero. Nel dettaglio, l'accordo
prevede una riduzione graduale delle tariffe di roaming, spalmata in tre anni.
Tre i tetti fissati e che, dal momento dell'entrata in vigore del nuovo
regolamento, non potranno in alcun modo essere superati: uno per le chiamate
effettuate (49 centesimi al minuto), uno per quelle ricevute (24 centesimi),
uno per le tariffe all'ingrosso praticate da un operatore all'altro (30
centesimi). Nel 2008 questi tetti scenderanno rispettivamente a 46 centesimi,
22 centesimi e 28 centesimi al minuto. Nel
"Il 45% mi sembra perfino tanto!" disse Romano Prodi
commentando il disegno di legge del ministro Gentiloni, ove si stabilisce che
nel mercato della pubblicità televisiva nessuna azienda possa superare
la soglia del 45% (oggi Mediaset ha circa il 65%). Ciò che vale per la
pubblicità evidentemente non vale nel mercato del trasporto aereo. Nella
gara per Alitalia sono rimasti tre concorrenti: Texas Pacific Group - il fondo
che ha risanato Continental e che, con British Airways, vorrebbe acquistare
Iberia - Aeroflot e Air One. Per i primi due concorrenti non si pone un
problema di antitrust . Se invece vincesse Air One, la nuova linea aerea
avrebbe oltre il 90% del mercato sulla nostra rotta più ricca, Linate-Fiumicino
(e anche su Catania-Fiumicino). Domani, quando riferirà in Parlamento
sullo stato della privatizzazione, il ministro dell'Economia, Tommaso
Padoa-Schioppa, spiegherà che il governo non offre alcuna garanzia e che
chi comprerà Alitalia dovrà farsi carico del "rischio
antitrust ". Cioè, Air One dovrebbe prima acquistare e poi
verificare con l'Antitrust quale percentuale degli slot Linate-Fiumicino
dovrà cedere ad altri. La concorrenza, dirà il ministro, non
è questione che riguardi il governo. Purtroppo non è così.
Il ministero dell'Economia chiede che chi partecipa alla gara presenti un piano
industriale: vuol sapere quanti dipendenti prevede di licenziare, di quanto
taglierà gli stipendi, quanto investirà, quali rotte abbandonerà.
E' facile prevedere che per accontentare i sindacati e la sinistra massimalista
il governo guarderà con favore ai progetti che prevedono pochi tagli. Ma
i piani industriali sono costruiti sulla base delle ipotesi di traffico sulle
varie rotte e in particolare sulla più redditizia, Linate-Fiumicino. Nel
momento in cui accettasse il piano proposto da Air One, il governo
implicitamente ne approverebbe anche le ipotesi, inclusa quella relativa alla
quota di mercato sulla rotta più importante. A quel punto la palla
passerà all'Antitrust che si troverà in una posizione molto
scomoda. Dovrà valutare un piano approvato dal governo ma costruito su
un'ipotesi monopolista inaccettabile per un'autorità preposta alla
difesa di concorrenza e consumatori. E per di più sotto la minaccia di
una spada di Damocle: il governo, per evitare che la privatizzazione fallisca,
o che Air One modifichi il suo piano, con costi "inaccettabili" per i
sindacati (in Alitalia hostess e steward guadagnano circa il doppio dei loro
colleghi negli Usa, dove i piloti raggiungono l'aeroporto in metropolitana, non
con l'autista) potrebbe ricorrere all'articolo 25 della legge che
istituì l'Antitrust. La norma consente al governo di autorizzare
"per rilevanti interessi dell'economia nazionale" operazioni di concentrazione
altrimenti vietate. L'obiezione che il governo tedesco usò una clausola
analoga per consentire la fusione tra due imprese elettriche vietata
dall'Antitrust, e che in Francia gli aeroporti di Parigi favoriscono Air
France, non concedendo slot ad altri concorrenti, è debole. Se Francia e
Germania difendono le imprese nazionali a scapito dei consumatori non si vede
perché se ne debba seguire il cattivo esempio. Padoa-Schioppa non può
far finta di non vedere. Se venderà Alitalia ad Air One dovrà
prima chiedere all'Antitrust se il piano industriale che si appresta ad
accettare è compatibile con la concorrenza. Non si può un giorno
criticare la privatizzazione di Telecom sostenendo che avrebbe regalato ai
privati il monopolio dei telefoni, e il giorno dopo consentire che Air One
acquisisca il monopolio della rotta aerea più ricca solo per far
contenti i sindacati.
Gettone ricco anche in Valle D'Aosta, con ben 270 mila €.
Un difensore civico da 400 mila € In Veneto il garante dei cittadini
è più ricco di un consigliere Il compito che è chiamato a
svolgere è di assoluta delicatezza. La difesa di ultima istanza del
cittadino, alle prese con i meandri della burocrazia regionale, è
infatti una funzione di tutto rispetto. Sarà soprattutto per questo che
in Veneto, sbaragliando la concorrenza degli altri colleghi, l'ufficio del
difensore civico costa la bellezza di 406 mila euro all'anno. E di queste
risorse, attenzione, la fetta più consistente, ovvero 231 mila euro, se
ne va via come indennità di carica e di missione del garante dei
cittadini. Roba da far invidia a un qualsiasi consigliere regionale, che certo
non può lamentarsi del volume complessivo del suo stipendio (vedi in
proposito l'inchiesta di ItaliaOggi del 10 maggio scorso).Fatto sta che per
dotare gli utenti di un valido interlocutore regionale non si bada a spese. La
regione governata da Giancarlo Galan, in questo senso, non è la sola a
coprire d'oro il suo ombudsman cittadino. A seguire, tra le regioni che mettono
in evidenza una voce di spesa ad hoc, si trova la Valle D'Aosta, realtà
tanto piccola quanto attenta alle esigenze della cittadinanza. Forse anche un
po' troppo, se si considera che il suo difensore civico raccoglie un gettone di
270 mila euro. Insomma, la questione del buon andamento della pubblica
amministrazione, richiamato persino all'interno della Carta costituzionale,
deve essere preso sul serio. Anche la Toscana se l'è ripetuto diverse
volte, giungendo alla conclusione che il garante nel 2007 meritava 207.350
euro. E poi c'è chi se la prende con i consiglieri, additati come una
specie di colonna infame degli sprechi regionali e degli elevati costi
della politica. In realtà, ma l'ufficio del difensore civico
è soltanto uno dei vari casi che si possono citare, sono in molti a
spremere il limone. Non mancano, naturalmente, i contesti che cercano di essere
quanto più possibile virtuosi. Tra le regioni che contabilizzano in
bilancio le spese per il garante dei cittadini, per esempio, la Basilicata
prevede uno stanziamento di 63 mila euro, che peraltro andranno divisi in due,
dal momento che lì i difensori civici regionali sono due. Ognuno di loro
è chiamato a scendere in campo a fianco dei cittadini con una dote di
poco più di 30 mila euro. Naturalmente ogni raptus d'invidia che si
dovessero scatenare nei confronti del collega veneto è più che
comprensibile. Ci sono poi regioni, come la Campania e l'Umbria, le cui
assemblee legislative mettono in conto la voce 'difensore civico', ma lasciano
la casella delle cifre completamente vuota. E questo vuol dire che, tra i mille
rivoli della spesa, quello relativo al garante dei cittadini non è stato
in cima alla lista dei pensieri. Un'altra regione che invece ha posto grande
attenzione all'argomento, peraltro a poca distanza dal Veneto di Galan,
è il Friuli Venezia Giulia di Riccardo Illy. Anche in questo caso il
bonus che il difensore civico si porta a casa è particolarmente
profumato, con i suoi 155 mila euro. Dopo tutto la cittadinanza ha bisogno di
sentirsi protetta. E pazienza se per far questo bisogna svuotarsi le tasche per
finanziare chi poi è il tuo paladino, il tuo angelo custode di fronte ai
soprusi della burocrazia locale. Certo è che che se un difensore civico
si accontentasse di un po' meno di 400 mila euro, forse i suoi protetti non si
sentirebbero troppo abbandonati.
MF Il processo di consolidamento del settore bancario europeo
è solo all'inizio, considerato anche che nei 21 mega-merger realizzati
nel vecchio continente dal 1998 al 2005 solo due hanno coinvolto istituti
basati in paesi diversi (Santander-Abbey nel 2004 e Unicredit-Hvb nel 2005).
Nonostante ciò, come emerge dall'indagine sulle maggiori banche
internazionali realizzata da R&S-Mediobanca, gli istituti europei, pur in
un mercato ancora scarsamente concentrato, primeggiano in termini di 'totale
attivo' sui loro concorrenti americani e giapponesi. E non è escluso che
al termine del nuovo risiko europeo, inaugurato dalla sfida per il controllo di
Abn Amro tra Barclays e il consorzio composto da Royal bank of Scotland, Fortis
e Santander, le banche del vecchio continente possano essere le vere padrone
della scena. Basti considerare che, secondo i dati rielaborati da R&S, la
prima banca al mondo in termini di attivo nel 2005 risulta essere l'inglese
Barclays con 1,35 miliardi di euro, davanti alla nipponica Mitubishi Ufj (1,34
miliardi) e all'americana Citigroup (1,26 miliardi). Ma se negli Stati Uniti e
in Giappone il sistema è già concentrato attorno a tre soli
player, in Europa, vuoi anche per le tendenze protezionistiche che hanno fin
qui caratterizzato i diversi sistemi nazionali, sono ben sette le banche con
attivi totali superiori al miliardo di euro. E alcune di queste, come appunto
Barclays e Rbos, sono tra le protagoniste della nuova ondata di fusioni e
acquisizioni.Dobbiamo dunque aspettarci che in futuro siano le banche europee
ad essere potenzialmente aggressive verso i concorrenti americani? Il gap in
termini di capitalizzazione che ancora oggi separa i colossi Usa dai
principali istituti europei non sembra lasciare spazio a questa ipotesi. In
qualche ufficio studi però si annida qualcuno che non considera
così remota tale ipotesi, perlomeno relativamente al medio periodo,
quando anche nel vecchio continente il sistema bancario avrà raggiunto
un grado di concentrazione pari a quello delle altre due macroaree.Sempre
stando ai dati rielaborati da R&S-Mediobanca, anche guardando al conto
economico le banche europee hanno messo a segno performance migliori rispetto a
quelle degli istituti americani. Sul fronte dei ricavi, nel
Da giovedì 17 maggio, infatti, inizia in aula al Senato la discussione
del disegno di legge che consentirà di adeguare la normativa in materia
di trasmissione o acquisizione del cognome e di cancellare dal vocabolario i
residui negativi della condizione di figlio nato al di fuori del matrimonio.
Dall'entrata in vigore della legge ci saranno solo figli nati nel matrimonio o
fuori del matrimonio, scomparirà per le donne l'obbligo di aggiungere il
proprio cognome a quello del marito, sarà eliminata ogni discriminazione
basata sul sesso nella scelta del cognome familiare. Il Legislatore, dunque,
risponde all'invito della Corte costituzionale, che con la sentenza 12 febbraio
2006 n.
Dopo un lungo dibattito la commissione Giustizia del Senato ha elaborato un
testo che ha assunto come base quello presentato dalla senatrice Vittoria
Franco (Ulivo), assorbendo i disegni di legge presentati dai senatori Roberto
Manzione (Ulivo) e Milziade Caprili (Rifondazione comunista). «Le nuove
disposizioni - spiega la senatrice Vittoria Franco - adeguano le norme alle
risoluzioni e alle raccomandazioni del Consiglio d'Europa e alla convenzione di
New York sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti
della donna».
Il cognome nel matrimonio. In otto articoli viene
stabilito che con il matrimonio il coniuge conserva il proprio cognome, che al
figlio di genitori coniugati è attribuito il cognome del padre o della
madre o di entrambi i genitori, nell'ordine da questi concordato. La scelta,
revocabile, si effettua all'atto del matrimonio o all'atto della nascita del
primo figlio. In caso di mancato accordo o in caso di morte,
irreperibilità o incapacità di entrambi, sono attribuiti al
figlio i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico, limitatamente al
primo cognome di ciascuno. Ai figli comuni successivi al primo, anche se nato
prima del matrimonio, è attribuito lo stesso cognome del primo. Il
figlio al quale viene trasmesso il cognome di entrambi i genitori può
trasmetterne solo uno, a sua scelta.
Figli dentro il matrimonio, o fuori. Scompaiono
dalle disposizioni normative le espressioni «figlio legittimo» e «figlio
naturale», sostituite da «figlio nato nel matrimonio» e «figlio nato fuori dal
matrimonio». Al figlio nato fuori dal matrimonio, riconosciuto
contemporaneamente dai genitori, il cognome è attribuito secondo la
volontà dei genitori (o quello della madre, o quello del padre o
entrambi, nell'ordine concordato dai genitori). Se il figlio è
riconosciuto da un solo genitore ne assume il cognome. Se la filiazione viene
accertata o riconosciuta dopo il riconoscimento dell'altro genitore, al primo
cognome del genitore che ha effettuato il riconoscimento si aggiunge il primo
cognome dell'altro genitore, con il consenso dell'altro genitore. È
necessario il consenso espresso del minore che abbia compiuto 14 anni.
Adozioni. Regole anche per il cognome
dell'adottato, che assume quello dell'adottante e lo antepone al proprio. Se il
cognome dell'adottato è doppio egli indica quale conservare. Se il cognome
di chi adotta è doppio si deve indicare quale assegnare all'adottato. Se
l'adozione è compiuta da coniugi essi dichiarano congiuntamente quale
dei loro cognomi intendono assegnare. In caso di mancato accordo si attribuisce
all'adottando uno solo tra i primi cognomi degli adottanti. Per effetto
dell'adozione l'adottato acquista lo stato di figlio nato nel matrimonio e
cessa i rapporti con la famiglia d'origine, fatti salvi i divieti matrimoniali.
Figli legittimati. Il figlio legittimato assume il
cognome che i genitori stabiliscono, tuttavia, se è maggiorenne alla
data della legittimazione, può scegliere, entro un anno da quando ne
viene a conoscenza, di mantenere il cognome portato in precedenza o, se
diverso, di aggiungere o anteporre il primo cognome di uno dei genitori che lo
hanno legittimato. Identica facoltà spetta al figlio maggiorenne che
subisce il cambiamento o la modifica del proprio cognome a seguito della
variazione di quello dei genitori o al figlio di ignoti riconosciuto, dopo la
maggiore età, da uno o da entrambi i genitori.
Nomi. È vietato imporre al figlio lo
stesso nome del padre, della madre, di un fratello o di una sorella viventi se
ne deriva l'omonimia con il congiunto. No anche all'attribuzione di un cognome
come nome, o di nomi ridicoli o vergognosi. Le disposizioni non sono
retroattive, ma si applicano a tutti i nati dopo l'entrata in vigore delle
nuove disposizioni che non abbiano fratelli nati dagli stessi genitori. I
cognomi che alla data di entrata in vigore della legge siano composti da
più parole di considerano come cognome unico. Il disegno di legge detta
le regole anche per la dimostrazione di filiazione e di parentela fra una
persona e la famiglia alla quale reclama di appartenere.