HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli
Archivio 16/31 MARZO 2007 Piccola
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1/15 APRILE 2007
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FEBBRAIO 2007”
Archivio - 1/15 FEBBRAIO 2007”
INDICE ARCHIVIO 16/31 marzo 2007
Da Antitrust 30
marzo 2007 Comunicato stampa BANCOMAT: ANTITRUST AD ABI-COGEBAN,
La Repubblica 31-3-2007 Il Sabato Del Villaggio Le Vere
Colpe Di Vallettopoli Giovanni Valentini
L’Unità 31-3-2007 Partiti e finanziamenti, la
storia infinita Giuseppe Tamburano
Il Mattino di Padova 31-3-2007 Di Silvia Bergamin
Sanità per una popolazione che invecchia
Milano Finanza 31-3-2007. Banca del Sud Piccole banche
unitevi
L'arcivescovo di
Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana
«Se il criterio
dominante è l'opinione pubblica, è difficile dire "no".
Se cade l'etica, dopo i Dico saranno legalizzati incesto e pedofilia»
GENOVA -
«Quando si perde la concezione corretta autotrascendente della persona umana,
non vi è più un criterio per valutare il bene e il male. Quando
il criterio dominante è l'opinione pubblica o le maggioranze vestite di
democrazia - che possono diventare antidemocratiche o violente - allora
è difficile dire dei "no"». Lo ha spiegato mons. Bagnasco,
arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana,
venerdì sera in un intervento con gli animatori della comunicazione
della diocesi genovese.
INCESTO E PEDOFILIA
- «Perché quindi dire no a varie forme di convivenza stabile giuridicamente, di
diritto pubblico, riconosciute e quindi creare figure alternative alla
famiglia?», si domanda il prelato riferendosi ai Dico. «Perché
dire di no all'incesto, come in Inghilterra dove un fratello e sorella hanno
figli, vivono insieme e si vogliono bene? (in
realtà il caso è avvenuto in Germania, ndr). Perchè dire di no
al partito
dei pedofili in Olanda se ci sono due libertà che si incontrano? Bisogna
avere in mente queste aberrazioni secondo il senso comune e che sono già
presenti almeno come germogli iniziali».
IL BENE E IL MALE - «Oggi ci scandalizziamo»,
ha concluso il presidente della Cei, «ma se viene a cadere il criterio
dell'etica che riguarda la natura umana, che è anzitutto un dato di
natura e non di cultura, è difficile dire no. Se il criterio sommo del
bene e del male è la libertà di ciascuno, come
autodeterminazione, come scelta, allora se uno, due o più sono
consenzienti, fanno quello che vogliono perché non esiste più un
criterio oggettivo sul piano morale e questo criterio riguarda non più
l'uomo nella sua libertà di scelta, ma nel suo dato di natura».
31 marzo 2007
COMUNICATO STAMPA
BANCHE TENGANO CONTO, NEL PREZZO AI CONSUMATORI, DELLA RIDUZIONE DELLE
COMMISSIONI INTEBANCARIE.
PROVVEDIMENTO SU IMPEGNI INVIATO A BRUXELLES PER
PARERE
Le banche tengano conto, nella loro autonoma determinazione del prezzo finale
praticato ai consumatori per il bancomat, delle riduzioni delle commissioni
interbancarie attuate alla luce degli impegni presentati all’Antitrust da Abi e
Co.Ge.Ban.
E’ l’auspicio espresso dall’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato in una lettera alle due associazioni.
Gli impegni presentati dalle parti, nell’ambito dell’istruttoria avviata nel
novembre 2006 per intesa restrittiva della concorrenza, sono stati inviati alla
Commissione Europea, per il parere di competenza. Nello specifico le parti si
sono impegnate a ridurre del 10,67 per cento le commissioni interbancarie
(quelle applicate tra azienda ed azienda) per il prelievo bancomat da sportelli
di altre banche, già a partire dal primo gennaio 2007.
L’Autorità aveva deliberato l’avvio dell’istruttoria per accertare
l’esistenza di violazioni della normativa antitrust, consistenti nella
fissazione collettiva a livello associativo del valore massimo delle
commissioni interbancarie che governano l’offerta dei servizi per il prelievo
di contanti con il Bancomat presso sportelli di altre banche e per i servizi di
pagamento RID (Rapporti Interbancari Diretti) e Ri.Ba (Ricevuta Bancaria
Elettronica).
Il procedimento per la valutazione degli impegni si concluderà entro il
30 aprile 2007.
Roma, 30 marzo 2007
Washington
Post Rapporto Usa Stuart Levey Editoriale del 30 marzo Ambasciata degli Stati
Uniti a Roma Sottosegretario al Tesoro Usa ROMA Di affari ne faceva pochi, ma
era necessario bloccarla: un "atto dovuto" dopo la risoluzione 1747
del Consiglio di sicurezza Onu la settimana scorsa. La succursale italiana
della Sepah, la più antica delle banche iraniane, da ieri è in
"gestione provvisoria" agli ordini di due commissari straordinari
nominati dalla Banca d'Italia. Già nell'estate 2006
un'ispezione della Vigilanza bancaria era entrata nelle blindatissima sede al
secondo piano di un palazzo di via Barberini, per accertare che non fossero
compiute operazioni irregolari. Da tempo, alle banche italiane che
intrattenevano rapporti con la Sepah era stato consigliato di lasciar perdere.
L'ambasciata degli Stati Uniti il 9 gennaio aveva segnalato la Bank Sepah come
"chiave di volta finanziaria della rete di acquisizione di missili da
parte dell'Iran"; da allora, non le era stato più possibile operare
in dollari. Come grandezza, si tratta solo della quinta tra le grandi banche
iraniane pubbliche, che sono sette; ma è controllata dai militari e
secondo gli Usa è operatore di fiducia dell'Aio, la società
dipendente dal ministero della Difesa di Teheran che si occupa della produzione
di missili. La succursale italiana, insediata da oltre 25 anni, a quanto
risulta alla Banca d'Italia si occupava di crediti
all'import-export, senza effettuare alcuna raccolta di capitali. Imprenditori
italiani che esportavano in Iran l'hanno conosciuta come intermediaria dei
pagamenti. Ma per gli americani c'era qualcos'altro. In gennaio il
sottosegretario al Tesoro Stuart Levey, incaricato della lotta finanziaria al
terrorismo, aveva dichiarato che "la succursale di Roma risultava
implicata in modo significativo in transazioni finanziarie relative al
programma missilistico iraniano". Nessun mistero che con la Sepah i
militari c'entrino molto: l'hanno fondata nel 1925, e in lingua farsi
"sepah" significa esercito. All'ispezione compiuta dalla Banca
d'Italia l'estate scorsa, tuttavia, il giro di affari in Italia
era risultato modestissimo. Gli ispettori della Vigilanza avevano formulato dei
"richiami". Forse una parziale smobilitazione era già
avvenuta. L'attività era ancora diminuita; il sito internet era stato
disattivato. Già da tempo "le banche italiane non accettavano
avalli bancari degli istituti finanziari della Repubblica islamica ed eravamo
costretti a utilizzare banche di Paesi terzi" racconta Parwiz N., un
imprenditore iraniano in affari con l'Italia. Dietro le porte sempre
chiuse dell'appartamento di via Barberini, circa
Alla voce "valletta", nella
Garzantina sulla Televisione a cura di Aldo Grasso, si legge: "Giovane
ragazza che affianca il presentatore di uno spettacolo televisivo, con funzioni
ausiliarie (consegnare le buste, accompagnare i concorrenti ecc.) e
decorative". E più avanti: "L'immagine della valletta si
è andata negli anni modificando: se il prototipo della valletta della tv
delle origini era rappresentato da Edy Campagnoli (assistente di Mike Bongiorno
a Lascia o raddoppia?), che incarnava alla perfezione il tipo della
"valletta muta", in seguito le vallette - da Sabina Ciuffini ad
Antonella Elia - hanno avuto un ruolo più attivo ed è stata loro
concessa nonché sollecitata una certa loquacità". Non c'era bisogno
di compulsare questo testo per sapere che Vallettopoli esiste perché esistono
le vallette e, a loro volta, le vallette esistono perché esiste la televisione.
Ma da una tale autorevole fonte apprendiamo che la valletta, con funzioni
ausiliarie e decorative, in origine era muta, mentre adesso è più
attiva e loquace. E a giudicare dall'inchiesta che sta svolgendo l'ardito
pubblico ministero di Potenza, Henry John Woodcock, soprannominato "il
mastino", si direbbe che ormai le vallette sono diventate sempre
più attive e loquaci. Nella sua ansia di verità e di giustizia,
avrà pure commesso qualche errore o qualche abuso il magistrato
inquirente, come sostengono i difensori degli accusati. E vista la carriera politica
e ministeriale di altri ex colleghi, non è da escludere che prima o poi
anche Woodcock si guadagni un incarico governativo. Ma l'origine dello scandalo
non è certamente lui e neppure il suo presunto protagonismo: la vera
fonte di Vallettopoli sta in quell'infernale impasto di politica, di
denaro e di sesso, che modella il nostro sistema televisivo, intorno a cui
ruota una larga parte della vita pubblica nazionale. Per carità, non
vogliamo fare assolutamente i moralisti. Da che mondo è mondo, si sa che
il potere - politico ed economico - attiva un circuito più o meno
perverso di malcostume e malaffare, se non proprio di corruzione dei
costumi, degli uomini e anche delle donne. La televisione italiana, tuttavia,
sia quella pubblica sia quella privata, rappresenta un paradigma universale
d'indecenza e di degrado che forse non ha uguali al mondo. La Rai è
considerata, da sempre, una sorta di alcova di Stato: un'azienda (pubblica)
all'interno della quale le prestazioni professionali rischiano a volte di
confondersi con quelle personali. E dove sbocciano relazioni, flirt, amori in
cui s'intrecciano spesso passioni politiche e passioni più intime, a
spese del cittadino telespettatore e abbonato. Da parte sua, all'insegna del
"machismo" berlusconiano, Mediaset s'ispira - per così dire -
a una filosofia di vita su cui la signora Veronica Lario ha già
ampiamente manifestato la propria opinione, parlando del marito e delle sue abituali
inclinazioni alla galanteria. L'inchiesta del dottor Woodcock, dunque, sta
soltanto mettendo a nudo un "inquinamento ambientale" che era
già noto a tutti. Una commistione di politica e televisione,
sesso e denaro, droga e prostituzione, che è diventata tanto usuale da
apparire quasi naturale, scontata: si potrebbe anche dire fisiologica, se non
si corresse il rischio di cadere nell'equivoco e nella volgarità. E che
ovviamente danneggia tanti professionisti, giornalisti, conduttori e
conduttrici, presentatori e presentatrici, che fanno correttamente il proprio
lavoro. Vogliamo prendercela, allora, con il solerte pubblico ministero di
Potenza? Oppure con i fotografi e i giornalisti che, quando non compiono reati
come il ricatto, l'estorsione o la ricettazione, fanno semplicemente il loro
mestiere? O ancora, con i parlamentari della Repubblica - di destra, di centro
e di sinistra - che tra un dico e un non dico, un faccio e un non faccio, una
passeggiata nel Transatlantico e un'esplorazione notturna nei viali del
peccato, non hanno avuto ancora il tempo di approvare una nuova legge sulle
intercettazioni telefoniche? Ha ragione piuttosto un top manager di un grande
gruppo nazionale quando dice, alla luce della sua lunga esperienza di lavoro
all'estero, che in nessun altro Paese al mondo si vedono in televisione tante
fanciulle mezze vestite, o mezze nude, che portano le buste o accompagnano i
concorrenti come fossero nelle "case chiuse" a suo tempo dalla legge
Merlin. Un Paese in cui per la stragrande maggioranza delle adolescenti l'aspirazione
principale della vita è quella di fare la "velina". è
proprio la televisione, questa televisione, la vera origine di Vallettopoli, di
uno scandalo quotidiano che si consuma sotto i nostri occhi. La tv come
"fabbrica dei sogni": sogni di successo, di popolarità, di
arricchimento facile, a qualsiasi costo, magari anche a costo di impoverirsi
moralmente. Una tv che, come scrive il sociologo Franco Ferrarotti in un libro
sui cinquant'anni che hanno cambiato gli usi e costumi degli italiani, dal
Il
percorso delle illegalità è piuttosto variegato e ci si muove fra
veri e propri abusivismi, abusivismi legalizzati, ed edilizia semilegale o solo
formalmente legale. La legge 47/85 aveva stabilito il condono per tutti quegli
abusi realizzati sino al 31 ottobre 1983; la Legge finanziaria del 1995 aveva
creato un'analoga possibilità per gli abusi realizzati fino al 31
dicembre 1993; l'ultimo condono, invece, viene a sanare le opere ultimate entro
il 31 marzo 2003. Oltre mezzo secolo di abusivismo edilizio è stato
condonato progressivamente per prevenirne dell'altro. I dati del Cresme
forniscono una griglia eloquente sull'andamento crescente di tre distinti
picchi produttivi, coincidenti cronologicamente con i tre diversi condoni
edilizi. Tra il 1983 ed il 1984 si registra infatti una produzione di circa
737mila nuovi edifici ed un'attività di ristrutturazione che interessa
113mila strutture, per un totale di 850mila edifici (tra nuovi e
ristrutturati-ampliati); di questi 225mila sono edifici abusivi. La percentuale
di edilizia abusiva sul totale balza dal 15,8% nel 1982 al 25,3% nel 1983 per
arrivare al 28,7% nel 1984. Un analogo trend caratterizza il settore
immobiliare a cavallo del secondo (1994-1995) e terzo (2003-2004) condono, sebbene
con picchi meno elevati a causa della forte espansione del mercato immobiliare;
quel che è certo è che tutti questi picchi produttivi terminano
con una sanatoria. Dall'analisi del livello e delle tipologie delle richieste
di sanatoria presentate agli uffici comunali competenti nel 2003, emerge una
diminuzione generalizzata rispetto al secondo condono, pari ad un valore
nazionale del 30,9%. Nonostante tutto, il maggior numero di domande presentate
si concentra nel Nord (circa il 47% del totale del 2004), mentre i dati
relativi ai sequestri e alle infrazioni registrate dalle Forze dell'ordine
confermano che il fenomeno dell'abusivismo più preoccupante dilaga al
Sud. Nel Centro-Nord prevale un abusivismo più "leggero",
prevalentemente di trasformazione (ristrutturazioni e manutenzioni
straordinarie), mentre al Sud si concentra un abusivismo pesante da
costruzione. Diminuiscono sensibilmente le richieste di sanatoria per
abusivismo pesante al Nord (-33,1%) e al Centro (-10,6%), mentre queste
aumentano lievemente al Sud (+0,3%), e, di contro, crescono notevolmente le
richieste di condono per i fenomeni di abusivismo di trasformazione al
Centro-Nord. Quali i costi dell'ultimo condono? Secondo le elaborazioni
dell'Eurispes, dal quadro dei costi di oblazione, emerge chiaramente
come l'ultimo condono sia stato quello più oneroso per il cittadino: la
legge parte da un minimo di 516 euro per gli abusi di minor rilievo (contro le
200mila del condono del 1985), fino ad arrivare ai 150 euro per metro quadrato
(contro le 36 mila lire del condono 1985) per gli interventi abusivi più
gravi realizzati in assenza o difformità sostanziale dal titolo
abilitativo ed in difformità rispetto allo strumento urbanistico al
momento dell'esecuzione ed al momento dell'entrata in vigore della legge. Al
comune di Roma si è cercato di effettuare una stima dei costi
effettivi che ha sostenuto l'Amministrazione capitolina nei primi due condoni.
Secondo Legambiente, al 31 marzo 2004, le 314.347 concessioni in sanatoria
rispetto alle 506mila richieste totali presentate ai sensi del primo e secondo
condono, hanno portato allo Stato 440.197.539,80 euro, cifra articolata in euro
216.237.396,80 per il primo condono, mentre per il secondo la cifra è di
euro 223.960.143,00. Al 31 marzo, il comune di Roma ha incassato per gli oneri
concessi euro 514.592.243,27. Il Comune da quei
CATANZARO
Un terremoto giudiziario con pochi precedenti. Per capirlo basta fare due passi
nei corridoi: nella Procura di Catanzaro si respira un'aria tesa. Il pm Luigi
De Magistris sorride, ma non rilascia commenti, ed è chiaro che non
mollerà facilmente la sua preda. La preda in questione è
l'inchiesta "Poseidon", nata nel 2005 indagando sul settore della
depurazione e degli impianti per rifiuti. Un'inchiesta che il procuratore capo
di Catanzaro, Mariano Lombardi, gli ha sottratto da 48 ore. Le motivazioni,
ufficialmente, non sono ancora note. A quanto pare, però, riguardano le
modalità con cui De Magistris, solo pochi giorni fa, con l'accusa di
associazione a delinquere, finalizzata al riciclaggio, ha iscritto nel registro
degli indagati un senatore di Forza Italia: Giancarlo Pittelli. C'è un
particolare, però, che in Procura si fa largo strisciando. E getta ombre
che molti vorrebbero dissipare: Pittelli è socio di tale Pierpaolo
Greco. Entrambi, con una quota nominale di 2.500 euro, partecipano alla
società "Roma 9 s.r.l.", costituita nel
Parlare
di finanziamento pubblico dei partiti mi fa tornare giovane (e
ringrazio Sposetti di avermici indotto). Alla fine degli anni '60 nacque il
Movimento di opinione pubblica. Tra le varie iniziative - prese senza girotondi
ma studiando le questioni e promuovendo incontri - ci fu la proposta di finanziamento
pubblico ai partiti. I primi anni '50 era esploso lo scandalo Ingic
(Istituto nazionale gestione imposte di consumo) che aveva rivelato le tangenti
incassate da tutti i partiti (per non parlare dei tanti altri scandali
che coinvolsero soprattutto la Dc). Un grande penalista, il senatore
democristiano Bettiol, sostenne che i partiti versavano in "uno
stato di necessità" dovendo provvedere al loro mantenimento.
Irridendo all'enormità giuridica della tesi, il Movimento propose il finanziamento
pubblico per sollevare i partiti dal loro "stato di
necessità". Ma rimase inascoltato. Ai primi del 1974 esplose un
nuovo più grave scandalo, quello delle tangenti pagate dai petrolieri ai
politici attraverso l'Enel per ottenere che si optasse per la scelta
dell'energia prodotta da centrali termoelettriche invece che da quelle
nucleari. Produsse un certo scalpore l'affermazione del ministro
dell'Industria, De Mita, il quale in una intervista a Cesare Zappulli sul
"Corriere della Sera", disse: e dov'è lo scandalo? "Come
se non si sapesse che il finanziamento dei partiti è tra
gli obblighi sub-istituzionali dell'Enel". L'inchiesta partì da
giovani pretori di Genova, definiti "pretori d'assalto" (Almerighi,
Brusco, Sansa). I partiti si allarmarono: "Qui arrivano i
giudici!". In un battibaleno costituirono una commissione e in men che non
si dica dettero vita al finanziamento pubblico (Legge 2 maggio 1974). I
socialisti (ho elaborato io la bozza) proposero sovvenzioni controllate, ma
democristiani e comunisti si opposero ai controlli. E nacque un finanziamento
pubblico che doveva sostituire i finanziamenti occulti ed illegali ed invece -
mancando seri controlli - finì con l'aggiungersi, sommarsi a quelli
tradizionali. Nel 1978 un referendum spazzò via quella legge, ma non
l'inventiva del "genio giuridico" dei politici italiani, e le
pratiche del finanziamento illecito proseguirono in un contesto
collusorio. Tangentopoli ferì a morte la classe di governo ma non
sradicò il fenomeno. Sul piano legale fu deciso il finanziamento
con misure di carattere fiscale e soprattutto attraverso i rimborsi delle spese
elettorali. Oggi si è arrivati a cifre rilevanti, che scorrono verso i partiti
per numerosi rivoli. *** In Parlamento giacciono numerose proposte di legge di
varie parti politiche (la più organica è quella Del Pennino e
altri). Ma se si vuole concludere questa lunga vicenda con una soluzione seria
e duratura occorre affrontare alcuni punti. Il primo è la legge quadro
sui partiti. Dovrebbe essere superata l'ostilità verso la
regolamentazione dei partiti, che era forte nella Dc e soprattutto nel
Pci, timoroso questo di sguardi e di controlli da parte dello Stato
"borghese" sulla sua "democrazia" interna e sull' "oro
di Mosca". E dunque si deve accettare la legge sulla quale ha scritto
tanto il compianto Paolo Ungari, la quale deve prescrivere la pubblicità
dei bilanci, regolare le procedure democratiche interne, i diritti delle
minoranze compresa la partecipazione al finanziamento pubblico, e la
soglia minima d'accesso, il cosiddetto quorum, previsto eventualmente per le
elezioni politiche e il riparto dei fondi tra centro e periferia. Oltre al
conferimento della personalità giuridica che è il presupposto
della disciplina. Il finanziamento dovrà essere distinto in due
grandi voci: le sovvenzioni per il funzionamento (una parte uguale per tutti e
la restante in proporzione ai voti ottenuti alle elezioni politiche) e il
rimborso delle spese elettorali. Dovranno essere previsti rigorosi controlli o
attraverso la certificazione di un collegio di revisori dei conti o adottando
la normativa che riguarda le fondazioni culturali: conferimento della
personalità giuridica, contributi dallo Stato previsti in apposite
tabelle e rendiconto dettagliato sulle spese di questi contributi ordinari e di
quelli straordinari erogati dallo Stato o da enti pubblici. Dovranno essere
consentite anche elargizioni private che vanno annotate anche nei bilanci dei
benefattori e introdotte sanzioni gravi a carico sia di chi dà sia di
chi riceve in caso di irregolarità. Ci vorrà inoltre una
normativa seria per le spese dei singoli, specie quelle elettorali, e sulla
propaganda elettorale, specie televisiva, riformando in meglio l'esistente
disciplina. Ci sono delle norme etiche che non si possono stabilire con legge:
la riduzione delle spese politiche, in particolare quelle elettorali che
crescono in modo esponenziale. Ricordo che un giorno dissi a Bettino Craxi:
dovresti proporre l'adozione di severi controlli sul finanziamento
pubblico con l'aumento anche cospicuo dell'ammontare delle sovvenzioni: sarebbe
una grande iniziativa moralizzatrice che gioverebbe al partito, perché i
cittadini non sono contro il finanziamento pubblico ma non accettano che
i partiti prendano sia i soldi dello Stato che quelli sottobanco dei
privati. Mi rispose: perché tu credi che il finanziamento pubblico
potrebbe mai bastare con questi partiti?.
I
dati del direttore generale al convegno di Cittadella "Nel 2040 un terzo
degli italiani avrà più di 65 anni" CITTADELLA. La
sanità dell'Alta Padovana, e non solo: nel dibattito di giovedì
sera, in Villa Rina, le sorti degli ospedali di Cittadella e Camposampiero si
sono intrecciate con il progetto di un "Policlinico della Regione
Veneto", che dovrebbe sorgere a Padova Ovest. Il direttore del mattino di
Padova, Omar Monestier, ha moderato il dibattito, al quale sono intervenuti il
sindaco della città murata, Massimo Bitonci, il consigliere Udc, Silvano
Liviero, il senatore Antonio De Poli, il direttore generale dell'Usl 15, Pietro
Gonella, il presidente della commissione regionale Sanità, Raffaele
Bazzoni, Giancarlo Ruscitti, della segreteria regionale Sanità,
l'assessore provinciale Stefano Peraro. Gonella ha fornito alcuni dati,
sviluppando un ragionamento sulle linee guida per il futuro del sistema sanitario:
evoluzione demografica, progresso scientifico e tecnologico, aspettative di salute.
"L'Italia, nel 2040, sarà seconda solo al Giappone quanto a
vecchiaia: gli over 65 saranno il 33,7%, gli over 80 addirittura il 10%",
la premessa del direttore generale. Che poi ha messo in luce come la nuova
frontiera sia rappresentata dalla cosiddetta "Long Term Care":
"Il sistema - ha spiegato Gonella - dovrà soddisfare i
bisogni di una popolazione sempre più anziana, interessata
all'assistenza a lungo termine, in quanto affetta da malattie croniche e
degenerative. A questo proposito si impone un cambiamento radicale
dell'organizzazione, da sviluppare attraverso passaggi successivi: cure
domiciliari, ambulatoriali, residenziali extraospedaliere, residenziali
ospedaliere". Nel 2005, la sanità è costata 334.188.778
euro, pari a 1.426,29 euro per ciascuno dei 235.000 abitanti nei due distretti
sanitari dell'Usl 15. Di rilievo anche il dato sui posti letto: in ospedale, in
5 anni, i posti letto sono diminuiti di 85 unità (ora sono 810
complessivi fra i due presidi di Cittadella e Camposampiero); da registrare il
"sorpasso" dei posti letto nelle strutture di assistenza
extraospedaliera per anziani non autosufficienti: sono 839. Da questi dati, il
via al dibattito, con Bitonci e il sindaco di Camposampiero, Marcello Volpato,
allineati nella difesa degli ospedali dei rispettivi comuni, definiti
"modelli virtuosi". De Poli si è soffermato sulla
necessità di "valorizzare le eccellenze: non dobbiamo aver paura
del Policlinico della Regione a Padova, ma neppure di Vicenza, Castelfranco,
Bassano. Il nostro territorio era uno dei meno avanzati, ora ci siamo messi in
rete: i nostri due ospedali sono importanti, vanno implementati con nuove
risorse". L'ex sindaco, ora assessore del comune di Piazzola sul Brenta,
Dino Cavinato, a margine dell'incontro, ha tenuto a sottolineare
"l'inopportunità di una serata di questo tipo, in chiaro clima
elettorale; il tema della sanità non può essere utilizzato
strumentalmente dal senatore De Poli". "Nel merito - ha aggiunto
Cavinato - andavano approfondite maggiormente alcune tematiche (liste d'attesa,
il ruolo dei medici di base) e coinvolti gli amministratori locali, a partire
dal presidente della Conferenza dei sindaci".
Milano
Finanza MEZZOGIORNO L'a.d. della neonata Banca del Sud, Andreozzi, lancia un
appello agli istituti di credito locali per tentare di creare un'alternativa ai
grandi gruppi. Come prime mosse, una sgr comune e l'apertura di uffici
condivisi in Cina e India. 'Le piccole banche del Centrosud Italia devono unire
le loro forze se vogliono sopravvivere in un mercato concentrato ormai nelle
mani di pochi grandi gruppi. Le fusioni inseguono una logica di risparmio dei
costi, ma non producono aumenti di ricavi. Per i piccoli, quindi, si aprono
spazi di mercato, ma occorre proporsi come un interlocutore unico ed
efficiente'. A lanciare l'appello è Francesco Andreozzi, amministratore
delegato e vice presidente della neonata Banca del Sud. Quest'ultima nei giorni
scorsi ha ricevuto l'autorizzazione a operare dalla Banca d'Italia e
venerdì 30 marzo ha visto riunito il suo primo consiglio
d'amministrazione. Nata con 18 milioni di euro di capitale sociale, la Banca
del Sud ha come primo azionista la Fondazione Banco di Napoli e come secondo il
gruppo Fonsai. Tra i soci minori, inoltre, c'è la Pentar della famiglia
Romiti. Presto potrebbe esserci un nuovi aumento di capitale per soddisfare le
richieste di partecipazione provenienti da tutta l'Italia. Domanda. Quando
parla di unione delle banche del Centrosud ipotizza l'aggregazione di
più realtà in un unico soggetto?Risposta. Non ci sono le
condizioni per un progetto del genere, anche se a mio parere sarebbe
auspicabile. Mi riferisco, piuttosto, a una grande alleanza di tipo
commerciale.D. Cioé?R. In molte regioni dell'Italia centrale e meridionale le
grandi banche, pur disponendo della rete di sportelli, non sono radicate nel
territorio e spesso si rivelano poco sensibili alle esigenze delle piccole
imprese. Le banche locali possono rappresentare una valida alternativa, ma solo
se riescono a offrire prodotti e servizi validi e a prezzi competitivi.D. Ma di
preciso in che modo dovrebbero unirsi le piccole banche?R. Creando, per
esempio, delle sgr comuni oppure aprendo degli uffici di rappresentanza unici
in alcuni paesi esteri come Cina e India.D. Una sorta di fusione ma fuori dai
confini nazionali...R. è indispensabile. Oggi le piccole imprese del sud
investono tanto nei mercati emergenti ma non sempre trovano una banca italiana
disposta a seguirli. E i grandi istituti, quando ci sono, si rivelano troppo
cari.D. La Banca del Sud nasce come piccola realtà con appena due
sportelli. Come sarà domani?R. Mi auguro, naturalmente, che cresca con
l'apporto di nuovi soci oppure con ulteriori investimenti da parte degli
attuali azionisti. Ma resterà una realtà flessibile con una forte
attenzione ai costi. (riproduzione riservata) Milano Finanza Numero 065, pag.
23 del 31/3/2007 Autore: Mariarosaria Marchesano.
++ (Agi) – TAV: IN ITALIA COSTA OLTRE IL TRIPLO DI FRANCIA
E SPAGNA…
++ Il Corriere della sera 30-3-2007 Liberalizzazioni,
il decreto diventa legge
++ AgenParl 30-3-2007
BEPPE GRILLO: REFERENDUM PER IL MATRIMONIO DEGLI ECCLESIASTICI
Il Riformista 30-3-2007 Non esistono convivenze buone e
convivenze cattive di Claudia Mancina
Il Centro 30-3-2007 Di Davide Pace * Partito
democratico, la passione è finita
Il Riformista 30-3-2007 L'OPINIONE DI PETRUCCIOLI Finita la stagione dei reality?
I
Lo stesso studio delle Ferrovie evidenzia
come le modalita' di affidamento pesino tra i 4 e i 6 mln di euro per
chilometro di linea: "il ricorso ad una gara ad evidenza pubblica - si
legge nel documento - avrebbe sicuramente comportato una riduzione dell'ordine
del 14-20% dell'importo delle opere". Nel caso di negoziazione diretta tra
committente e general contractor, spiega il documento, "la congruita' del
prezzo che viene esperita prima dell'affidamento dal soggetto tecnico che
supporta la committenza, deve necessariamente tenere conto - oltre che dei
costi di costruzione diretti - anche degli oneri organizzativi e finanziari,
degli attrezzaggi e delle prestazioni previste dall'affidatario in termini ed
entita' difficilmente contestabili". "In un affidamento mediante
gara, invece, prosegue la spiegazione delle Ferrovie, tali oneri incidono
generalmente di meno, poiche' gli stessi concorrenti, per potersi aggiudicare
l'affidamento, operano nel proprio ambito imprenditoriale specifiche
ottimizzazioni organizzative e gestionali tenendo conto di capacita', risorse,
attrezzature gia' di loro proprieta', sinergie operative ed economiche
realizzabili nell'esecuzione delle opere".
TORINO
La moschea è in un cortile di via Cottolengo, a Torino, la stessa dove
predicava l’imam Bouchta espulso dall’Italia per sospetta attività
terroristica, è nel cuore di Porta Palazzo, dietro il grande mercato
dell’ortofrutta. L’altra è in via Saluzzo, quartiere San Salvario. Due
pezzi di città dove i cittadini extracomunitari si sono insediati in
modo massiccio nel corso degli anni. Sono stranieri. Arrivano da Marocco,
Tunisia, Egitto. Tutti di religione musulmana. In questi luoghi di culto
salafiti, almeno secondo le riprese di una telecamera nascosta di una troupe di
Annozero, si fa propaganda ad Al Qaeda e si chiamano alle armi i fedeli:
«Nessun compromesso con gli atei. Si uccidono e basta».
Il
filmato
Immagini che durano pochi minuti ma che a partire da oggi potrebbero essere
acquisite dalla squadra antiterrorismo di Torino. Il suo capo, Giuseppe
Petronzi, afferma di aver «guardato con molta attenzione il servizio
televisivo. Nessuno ci aveva informato delle riprese e adesso valuteremo in che
nodo acquisire la documentazione». Petronzi, però, non risponde a chi
gli chiede se ci siano indagini in corso sui terroristi islamici.
L’inchiesta giornalistica di Maria Grazia Mazzola partita per documentare la
violenza sulle donne perpetuate in nome del Corano si è servita di una
telecamera nascosta, grande come uno spillo, per fare le riprese all’interno
dei luoghi di culto. Mazzola racconta l’«ostilità e la diffidenza»
riscontrata in questo viaggio di due settimane in alcuni dei luoghi frequentati
da una parte dei fedeli musulmani torinesi. Poi l’inchiesta prende una piega
diversa e arriva a documentare come in quelle due moschee si faccia propaganda
in favore del terrorismo islamico. L’iman Kuhaila invita i credenti a non
integrarsi con gli infedeli perché l’Islam e l’unica via di salvezza. Poi la
microcamera riprende le fotocopie di fogli di propaganda del gruppo
terroristico. Per la giornalista si tratta del «giornale di Al Qaeda» e
lì si può leggere l’esaltazione della Jihad si parla di Al
Zarkawi, il capo della cellula irachena dell’organizzazione terroristica ucciso
dagli americani, e lo si porta come modello per il martirio. Tra quelle pagine
ci sono anche la descrizione di strategie militari. La stessa propaganda di
esaltazione della guerra santa contro gli infedeli, cioè ebrei e
cristiani, si ripete nella moschea di via Saluzzo. Qui le informazioni si
possono leggere su una bacheca dove sono stati affissi i fogli del giornale.
Fin qui il video. Che faranno gli inquirenti? Petronzi non si sbilancia. Nel
corso degli anni la Digos di Torino ha cercato di contrastare il terrorismo di
matrice islamica. La prima inchiesta è del 1997 contro la Gia algerina.
Poi nell’aprile del 2001 partono le indagini che portano ad accertare
l’esistenza di una campagna di arruolamento partita dalle moschee del
Nord-Ovest per i capi dell’Afghanistan. A Guantanamo sono detenuti quattro
combattenti catturati in battaglia dagli americani. Poi nel 2003 l’inchiesta
che portò all’espulsione di cinque marocchini accusati di star preparando
attentati in Italia. L’anno dopo toccherà all’imam della moschea di via
Cottolengo
La Lega protesta per
la Tav. La Cdl: svuotato il Parlamento
Via libera del Senato:
fiducia con 161 sì e 153 no. Assenti 4 senatori a vita. Andreotti
annuncia il sì ma poi esce dall'aula STRUMENTI
ROMA -
Il decreto sulle liberalizzazioni diventa legge. Dopo
il via libera della Camera la settimana scorsa,
il Senato ha votato la fiducia sul decreto Bersani con 161 favorevoli, 153
contrari e nessun astenuto. Quella di oggi è la diciassettesima fiducia
posta dal governo Prodi. L'esecutivo aveva deciso di blindare anche a Palazzo
Madama il provvedimento per evitare sorprese a pochi giorni dalla sua
decadenza, lunedì 2 aprile. Una prospettiva, questa, che il consiglio
dei ministri voleva decisamente scongiurare anche per evitare la scomparsa di
norme, come quella sui costi di ricarica dei telefonini (che
ha però portato alcune compagnie ad alzare le tariffe, scatenando le ire
delle associazioni di consumatori),
che avrebbero notevoli ricadute nella vita di tutti i giorni.
Il decreto sulle liberalizzazioni è diventato
legge: ecco le novità.
4 SENATORI ASSENTI -
Su un totale di 315 senatori votanti, spiccavano in aula le assenze di quattro
senatori a vita: Cossiga, Ciampi, Pininfarina e Andreotti. Sul comportamento di
quest'ultimo è giallo: Andreotti aveva infatti annunciato il suo
sì al decreto ma è sparito dall'Aula durante le due chiame per la
fiducia. Assente anche il presidente della commissione Difesa, Sergio De
Gregorio, per un impegno a Reggio Calabria dove premierà Silvio
Berlusconi con il riconoscimento degli Italiani nel mondo.
Hanno votato sì invece il senatore Marco Follini, leader dell'Italia di
mezzo, e il senatore indipendente eletto nelle circoscrizioni estere, Luigi
Pallaro.
PROTESTA DELLA LEGA PER LA TAV -
Prima del voto, l'atmosfera distesa dell'Aula è stata interrotta quando
il senatore Stefano Stefani stava per concludere il suo intervento annunciando
il voto contrario del suo gruppo. Stefani ha alzato la voce prendendosela con
il governo che ha revocato le concessioni alla Tav Spa per alcune tratte
dell'Alta Velocità sostenendo che «la Padania è penalizzata» e il
leghista Polledri ha mostrato uno striscione dove era scritto «meno tasse,
più ferrovie, più strade». Slogan gridato anche dai senatori leghisti
in un emiciclo semivuoto. La curiosità è che a presiedere l'aula
era Roberto Calderoli che ha dovuto invitare Polledri a ritirare lo striscione
pena l'espulsione dall'aula e ai compagni di partito di far silenzio. La Lega
Nord protesta per la revoca delle concessioni di tre tratte dell'Alta
velocità e il conferimento delle stesse tramite gara perché ritiene che
questo comporti il rinvio alle calende greche dei lavori per l'ammodernamento
del sistema ferroviario.
LA CDL: SVUOTATO
IL PARLAMENTO - Protesta
anche la Cdl per l'ulteriore ricorso alla fiducia del governo Prodi. E' «un
ulteriore e ancora più pesante schiaffo al Senato. Oggi siamo arrivati
al monocameralismo imperfetto» tuona il capogruppo di Forza Italia a Palazzo
Madama Vito Schifani. Secondo il senatore azzurro il decreto, che contiene la
revoca delle concessioni Tav, «blocca lo sviluppo del Paese. Domani nessun
investitore internazionale verrà, sapendo che i contratti possono essere
cancellati. Ma la cancellazione non danneggia nessuna Coop rossa» denuncia.
Accusa analoga da parte del presidente dei senatori di An, Altero Matteoli: il
decreto contiene «norme che rischiano di bloccare la realizzazione delle grandi
infrastrutture inerenti i trasporti del Paese. A parte la gravissima lesione del
ruolo legislativo del Senato - sottolinea Matteoli - queste liberalizzazioni,
propagandate dal governo come una panacea per i cittadini, sono finte
perchè non toccano i grandi monopoli». La Cdl accusa l'esecutivo di
avere adottato con il decreto Bersani provvedimenti punitivi nei confronti di
categorie, come tassisti o artigiani e piccoli commercianti, considerate, da un
punto di vista elettorale, in quota al centrodestra e di non essere stato
disponibile ad un confronto serio nel merito delle nuove norme.
LA MAGGIORANZA - Soddisfatta per l'esito
del voto la presidente dei senatori dell’Ulivo, Anna Finocchiaro, che ironizza
però sulla Cdl che vota contro la missione in Afghanistan e contro
misure di liberalizzazione. Per la Finocchiaro la prova di fiducia è
stata superata «brillantemente, anche se rimane l’amarezza dei soli 3 giorni
per discutere un decreto. Vorrei ricordare - ha aggiunto - che il provvedimento
è dovuto stazionare alla Camera per circa 45-50 giorni in ragione
dell’ostruzionismo che, non solo ha tolto al Senato la possibilità di
valutare il testo e intervenire, ma ha anche inspiegabilmente registrato
ostruzionismo e voto contrario di quelle che dovrebbero essere le forze
liberali di questo Paese».
Al voto si è infatti arrivati dopo contrasti e schermaglie tra
maggioranza e opposizione. «Io non avrei mai immaginato - ha commentato il
ministro per i Rapporti con il Parlamento, Vannino Chiti - che sulle
liberalizzazioni un governo di centrosinistra avrebbe dovuto mettere la fiducia
a causa di un'opposizione di centrodestra».
BEPPE GRILLO: REFERENDUM PER IL MATRIMONIO
DEGLI ECCLESIASTICI
Roma, 30 Marzo
2007 - AgenParl - Beppe Grillo propone un referendum
per consentire il matrimonio degli ecclesiastici, “così almeno sanno di
cosa parlare quando parlano di famiglia”.
Caustico e terribile come sempre, Grillo non ha risparmiato né il Vaticano, né
la stampa italiana.
Per la seconda, gli è bastato ricordare come “sarebbe bastato un
servizio di 30 secondi sul caso Parmalat
a salvare milioni di risparmiatori”.
Intanto, un wc accoglie le foto di
D’Alema, Berlusconi, Mastella, Fassino etc… ciascuna accompagnata dal suono
dello sciacquone.
La folla gremita ha ascoltato anche la voce di Gino Strada, in collegamento
video dall’Afghanistan, per parlare della sorte del manager di Emergency catturato dai servizi di
sicurezza di Kabul. A quel punto, Grillo ha fatto un riferimento all’apparente
inerzia del ministro degli Esteri D’Alema sul caso Hanefi “lo prendiamo e lo
mandiamo a calci in culo in Afghanistan per muoversi”.
Dopo le consuete informazioni sull’altra economia ecosostenibile e sui vantaggi
che i consumatori potrebbero trarre dall’accesso a servizi e beni non pubblicizzati,
si è conclusa la tappa romana del tour “Reset”.
Un tour promosso da Grillo per
portare nel mondo reale i contenuti del suo blog,
l’unico italiano in cima alle classifiche mondiali, per “resettare questa democrazia con il buco intorno che è
fallita”. (F.Mi.)
La Banca d'Italia ha invitato la filiale ad
adeguarsi alle sanzioni Onu
La Banca d’Italia ha commissariato la
succursale italiana della Bank Sepah e ha richiamato gli operatori finanziari a
rispettare le sanzioni decise dal Consiglio di sicurezza dell’Onu nei confronti
dell’Iran.
«Con provvedimento del 26 marzo 2007, la Banca d’Italia ha disposto, ai sensi
degli articoli 76 e 77 del Testo unico bancario - si legge in una nota di Via
Nazionale - la gestione provvisoria della succursale italiana della Bank Sepah,
con sede a Roma».
Bankitalia spiega anche che «a seguito delle misure restrittive assunte dal
Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite nei confronti dell’Iran», ha
«richiamato l’attenzione degli intermediari sui rischi reputazionali ed
operativi insiti nei rapporti con soggetti destinatari delle misure medesime,
tra i quali figura Bank Sepah».
Storie
personali diverse, ma non isolate e casuali: sono spie di un sistema
finanziario che ha ancora tanta strada da fare, quanto a trasparenza e rispetto
delle regole. Finanzieri disinvolti ce ne saranno sempre. Il problema sono le
banche che li finanziano, rischiando di perdere per aver concesso troppi
crediti, troppo generosamente, a clienti troppo amici. Banca Intermobiliare,
nel caso Coppola, è solo l'ultimo esempio dei danni della compiacente
vicinanza di una banca a un imprenditore. Intermobiliare è esposta nei
confronti di Coppola, che della banca è azionista rilevante, per 118
milioni: quasi un quarto del patrimonio netto; come se Intesa-Sanpaolo avesse
prestato 15 miliardi a Zaleski, suo azionista con circa il 2% (come Coppola in
Intermobiliare). Tanta concentrazione del rischio nei confronti di un proprio
azionista è difficile da giustificare. E la scelta della banca di non
considerarla come operazione con parti correlate è forse legittima, ma
poco trasparente. Il peggio è che l'amministratore delegato e un
consigliere di Intermobiliare (entrambi anche azionisti della holding che controlla
la banca) sedevano nel consiglio di Ipi, la società immobiliare quotata,
controllata da Coppola, sulla quale la magistratura indaga per
irregolarità di bilancio, e le cui azioni sono a garanzia dei crediti di
Banca Intermobiliare: un intreccio inaccettabile per un mercato finanziario
evoluto. Ma in Italia ci sono stati troppi i casi di banche compiacenti o
avventate (Bpi, Meliorbanca, Popolare Intra): forse c'è qualcosa da
rivedere nella Vigilanza della Banca d'Italia. Ben prima dell'intervento della
magistratura, la gestione Coppola dell'Ipi avrebbe dovuto allarmare,
soprattutto gli amministratori-banchieri. Dopo averla acquisita da Zunino nel
gennaio 2005, Coppola l'ha immediatamente gravata di 380 milioni di debiti e
lanciata in un vorticoso trading con parti correlate. L'Ipi di Coppola vende a
Coppola 104 milioni di immobili, il quale ne paga 48 con soldi presi a prestito
dall'Ipi stessa, che rimborsa parzialmente con dividendi Ipi, frutto degli
utili frutto di transazioni con i soci. Dal gruppo Zunino, che rimane azionista
rilevante, Ipi acquista immobili per 293 milioni, che finanzia in parte cedendo
immobili, partecipazioni e crediti allo stesso Zunino. Il valore di alcuni
immobili acquistati cresce in un baleno da
CESENA – I coniugi Mariani, titolari
dell'azienda Eurotecnica, hanno presentato mercoledì una denuncia nei
confronti degli ex coordinatori della Banca d'Italia e di altre dieci banche
colpevoli di aver applicato nei loro confronti tassi di interesse da usurai. Le
accuse sono di associazione a delinquere finalizzata all'omissione di atti
d'ufficio, al peculato, truffa, concussione, usura, turbativa di mercato, abuso
d'ufficio e interessi privati in atti d'ufficio.
L'atto di denuncia riguarda l'ex
governatore della Banca D'Italia, Antonio Fazio, il direttore generale Vincenzio
Desario e il vice direttore Antonio Finocchiaro, Aristide
Canosani (presidente Unicredit), Gianguido Sacchi Marsiani (presidente
Cassa di Risparmio di Bologna) e Alfredo Cariello (presidente
Banca Toscana).
I coniugi Giulio Mariani e Maria Grazia
Lucchi, che avevano chiesto in precedenza 12milioni di euro di risarcimento,
avevano denunciato le dieci banche implicate nella vicenda perchè avevano
applicato nei loro confronti dei tassi d'interesse usurai. Il Gip di
Forlì, Andrea Montagni, archiviò il caso per nove banche
ad eccezione del Banco Antoniano Veneto. Queste, infatti, furono tratte in
inganno da specifiche direttive imposte dalla Banca d'Italia. La
battaglia di titolari dell'azienda cesenate ''Eurotecnica'', gestita da
Giulio Mariani e Maria Grazia Lucchi, prosegue con il sostegno dei propri
legali Francesco Sessa e Maria Cozza.
La ditta tra il 1998 e il 2001 entrò
in crisi di liquidità e le banche, per rilanciare le attività,
applicarono tassi d'interessa definiti dal Pm Monica Galassi da usurai. La
difesa presentò documenti nel quale evidenziò i tassi tra il
17,11% e il 219,49%, quando la soglia d'usura è del 15,3%
Delle dieci banche denunciate, dalle
analisi dei periti, due risultarono con tassi sotto la soglia di usura. Nel
mirino finirono La Banca Nazionale dell'Agricoltura, Carisbo, la Cassa di
Risparmio di Forlì e Cesena, la Banca Popolare di Ancona, la Banca Popolare
dell'Emilia Romagna e la Banca di Toscana. I tassi furono calcolati tra il
20,83% e il 284,9%.
MF Il Consiglio dei Ministri ha approvato
in via definitiva il disegno di legge sul riordino delle Authority. Il
provvedimento composto di ventidue articoli fissa nuove regole per il corretto
funzionamento dei mercati nell'ambito di una completa informazione
concorrenziale. L'obiettivo è quello di rafforzare i poteri delle
autorità di regolazione dei servizi di pubblica utilità, a
partire da quella per le garanzie nelle comunicazioni, alla quale vengono
attribuite le funzioni di autorità nazionale di regolamentazione,
previste dalla disciplina comunitaria, fino all'istituzione di una nuova
Autorità per i trasporti. Per ciò che concerne i settori di
intervento, un esempio è dato dall'Autorità per l'energia
elettrica e il gas, la quale controllerà anche i servizi idrici. Nel
settore finanziario la Banca d'Italia, la Commissione Nazionale
per le Società e la Borsa (CONSOB) e il Comitato
interministeriale per il credito e il risparmio si ripartiranno le competenze
svolte finora dall'ISVAP, dalla COVIP e dall'Ufficio Cambi. In particolare, con
il nuovo disegno di legge la Banca d'Italia diventa l'unico
soggetto regolatore, nonché vigilante unico sulla stabilità degli
operatori bancari, assicurativi, e finanziari, mentre la CONSOB si
occuperà di trasparenza e informazione al mercato. Nelle modalità
di nomina la designazione spetta al Consiglio dei Ministri con il parere
vincolante espresso a maggioranza dei due terzi di un'apposita commissione
parlamentare bicamerale, previa audizione dei designati. La previsione non si
applica, tuttavia, alla Banca d'Italia, il cui statuto è
stato di recente modificato. Il mandato viene fissato in sette anni, non
rinnovabile nemmeno in altre Autorità. Ulteriori disposizioni di
carattere organizzativo sono state introdotte per assicurare la necessaria
funzionalità delle Autorità, con norme sui compiti del Segretario
generale e del Capo di gabinetto, l'ordinamento degli uffici e le clausole di
flessibilità sull'organizzazione interna e del personale. Diverse sono
le norme, quindi, che assicurano la massima trasparenza e partecipazione, oltre
ad un adeguato contraddittorio nei procedimenti contenziosi e sanzionatori. Il
Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (CICR) viene
soppresso, in linea con l'esperienza di altri ordinamenti europei, e sostituito
dalla costituzione presso il Ministero dell'economia e delle finanze di un
Comitato per la stabilità finanziaria, tutto questo al fine di
consentire una più stringente vigilanza del sistema finanziario.Come
bene messo in evidenza nella relazione illustrativa fornita dalla Presidenza
del Consiglio dei Ministri vengono regolati i rapporti istituzionali ed
è istituita la Commissione parlamentare bicamerale per le politiche
della concorrenza e la regolazione dei mercati e i rapporti con le
Autorità indipendenti, che esprime il parere sulla nomina dei componenti
delle autorità e cura il raccordo istituzionale tra il Parlamento e le
Autorità stesse con riguardo alle funzioni legislative e regolamentari
di rilevanza strategica sull'assetto concorrenziale dei mercati e sulla tutela
dei consumatori e degli utenti. Il disegno di legge in commento attraverso la
dizione, ”le disposizioni della presente legge stabiliscono principi
e norme in materia di funzioni, organizzazione e attività delle
Autorità indipendenti di regolazione, vigilanza e garanzia dei mercati,
al fine di rafforzarne e razionalizzarne i compiti di promozione della
concorrenza e dei diritti dei consumatori e degli utenti” è
soprattutto volto a confermare la tendenza di eliminare quelle distorsioni
esistenti nel campo della libera concorrenza, facilitando così un
più rapido processo di liberalizzazione dei mercati. Le disposizioni
della presente legge si inseriscono in un contesto dove viene assicurato l'esercizio
della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della
concorrenza, di tutela del risparmio e dei mercati finanziari, di garanzia dei
livelli essenziali dei diritti civili e sociali di consumatori e utenti, nonché
in materia di ordinamento degli enti pubblici nazionali, nel pieno rispetto
delle funzioni di indirizzo e di vigilanza del Governo e dei Ministri e delle
competenze di regioni ed enti locali. Il delicato equilibrio del mercato
può essere controllato solo da un minore intervento dello Stato
centrale, il quale può essere semplice spettatore e non controllore dei
continui mutamenti caratterizzanti il sistema socio-economico di un Paese. Ecco
che allora, l'obiettivo delle nuove Authority sarà non più quello
di regolatore, bensì di garante della trasparenza dei mercati e di
vigilanza prudenziale, della corretta evoluzione dei mercati nei casi in cui la
concorrenza non sia sufficiente, di tutela della concorrenza stessa. E' stato
fatto notare come informazioni imperfette possano provocare ostacoli
nell'accesso ai servizi, i quali se non conosciuti nel momento in cui vengono
usufruiti, forniscono una percezione negativa ai consumatori, in termini di
prezzi dei beni per loro rilevanti, ossia dei beni che acquisteranno nel corso del
periodo di applicazione dei servizi stessi. Tale considerazione può
essere trasposta nella nuova disciplina delle Authority, le quali hanno il
compito di aprire definitivamente le frontiere della liberalizzazione, al fine
di contenere i costi di transazione che gravano sulla
collettività.L'eliminazione di comportamenti discrezionali e di
asimmetrie informative rappresenta, allo stato attuale, la sola ricetta in
grado di rimediare alla perdita di benessere collettivo, in termini di
competitività e stabilità economica. MF - Dircredito - Fd Numero 064, pag. 23 del
30/3/2007 Autore: Andrea Miglionico.
Come la Camera, i
senatori chiedono alle truppe di andar via da Bagdad, ma in una data diversa:
dovranno mettersi d'accordo
WASHINGTON (USA) -
Un voto che non cambia nulla sul piano operativo per quanto riguarda la
situazione in Iraq, ma che acuisce lo scontro tra il Congresso (a maggioranza
democratica) e il presidente degli Stati Uniti (che è repubblicano).
IL VOTO -
A dispetto infatti del veto minacciato dal presidente George W. Bush, il Senato
americano ha infatti approvato la richiesta di fondi straordinari destinati per
la maggior parte alle missioni in Iraq e in Afghanistan, ma con il vincolo di
ritirare i soldati statunitensi dal territorio iracheno entro il
L'OPPOSIZIONE DEL PRESIDENTE -
A questo punto però non è chiaro cosa succederà. Quella
del Senato non è infatti la stessa lettura della legge approvata la
settimana scorsa dall’altro ramo del Congresso. Con una maggioranza più
robusta i democratici della Camera hanno varato un testo che, se tradotto in
legge, obbligherebbe Bush a definire un calendario certo per il ritiro nel
settembre del 2008. La formula scelta dalla Camera alta è più
timida e si limita a «suggerire» al presidente di impegnarsi per la fine delle
ostilità entro l’anno prossimo, senza imporre alcun vincolo concreto.
Per due volte i democratici avevano già provato in passato a approvare
una misura simile a quella di oggi, scontrandosi tuttavia con il muro
dell’ostruzionismo parlamentare repubblicano, che questa volta non è
scattato. Dietro, un calcolo politico preciso: i repubblicani preferiscono che
sia il presidente in persona, esercitando il suo diritto di veto, a bocciare la
legge. Per vanificare il veto, i democratici avrebbero bisogno dei consensi dei
due terzi di Camera e Senato, numeri di cui per ora non dispongono.
L'ESITO FINALE -
Ma ogni volta che si vota sulla guerra i voti critici sulla gestione Bush
sembrano aumentare" Bush resta fermo sulle sue posizione. Parlando al
termine di un incontro con i leader del suo partito e mentre il voto al Senato
era già in corso, il presidente ha ribadito che bloccherà sia il
testo del Senato che quello della Camera, qualora gli fossero sottoposti. «I
nostri soldati sono in pericolo, e vogliamo che loro arrivino i finanziamenti
necessari. I nostri generali sono alle prese con decisioni difficili e non
possiamo legare loro le mani. Le conseguenze di imporre una data precisa e
arbitraria per il ritiro - aveva aggiunto mercoledì il presidente -
sarebbero disastrose. I nostri nemici si segnerebbero semplicemente il giorno
sul calendario, passerebbero mesi a preparare il modo migliore per sfruttare il
loro nuovo santuario, quando ce ne saremo andati. Non ha senso per politici a Washington
dettare la strategia ai comandanti che operano in una zona di guerra a
30 marzo 2007
RIAD
Crisi, guerra civile, divisioni. Sono queste le parole pronunciate più
spesso ieri dai leader e sovrani arabi presenti al diciannovesimo vertice della
Lega Araba in corso a Riad, in Arabia Saudita, boicottato solo dal presidente
libico Muammar Gheddafi. «L’unità araba è un obiettivo oggi assai
più difficile da raggiungere di cinquant’anni fa, di quando venne
formata la Lega Araba», ha detto il padrone di casa, il sovrano saudita
Abdallah, aprendo la seduta inaugurale del vertice. Dopo aver elencato i tristi
scenari della Somalia, del Darfur, dell’Iraq, dei Territori palestinesi e del
Libano, l’anziano e malato re Abdallah ha ammesso: «Siamo prima di tutto noi,
leader arabi, ad esser responsabili di questa situazione». Non è un
segreto che Riad voglia tornare ad avere un ruolo guida nell’azione diplomatica
nella regione, e che in questi giorni si gioca una partita fondamentale per
tentare la via dell’accordo con Israele e dare una svolta storica al processo
di pace.
Il sovrano della più importante monarchia del Golfo principale alleato
regionale degli Stati Uniti ha poi dato voce a gran parte dell’opinione
pubblica araba, definendo «illegittima» l’occupazione dell’Iraq da parte di
«forze straniere» e chiedendo ai presidenti e ai sovrani arabi di «impegnarsi
perché venga tolto l’assedio politico ed economico a cui è sottoposto il
popolo palestinese». Parole analoghe erano state spese poco prima dal
presidente sudanese, Omar al-Bashir, rappresentante del paese dove si era
svolto l’ultimo vertice arabo. Sul palco degli oratori è poi salito il
segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, di recente accusato di
essere troppo vicino alle posizioni israeliane. Nel suo intervento ha
sapientemente evitato di menzionare lo Stato ebraico, ribadendo la
necessità di «metter fine all’occupazione di territori arabi» e di
creare lo «Stato palestinese».
Altre parole sono state pronunciate da altri ospiti invitati al vertice, mentre
la platea di leader arabi iniziava a dare segni di stanchezza: il presidente
iracheno, il curdo Jalal Talabani, ancora convalescente, veniva ripreso dalle
telecamere mentre in modo svogliato sceglieva alcune noccioline da un piatto
vicino. Poco dopo, il siriano Bashar al-Asad, solo martedì sera
riconciliatosi con i vertici sauditi dopo le tensioni seguite alla guerra in
Libano dell’estate scorsa, si allontanava dalla sala assieme ai membri della
delegazione iraniana dando vita a non poche speculazioni.
In cima all’agenda della sessione a porte chiuse c’è stato il rilancio
dell’«iniziativa di pace araba», proposta dalla stessa Arabia Saudita nel 2002,
centrata sull’equazione: ritiro israeliano dalle terre arabe occupate nel 1967
(Golan siriano incluso), soluzione equa per la questione dei profughi
palestinesi, in cambio di pace e riconoscimento dello Stato ebraico.
Da Tel Aviv avevano chiesto di modificare la proposta del
Si
scrive «separazione», ma si legge «coabitazione»; conflittuale, guardinga, e
giocata sul tentativo di delegittimare l'alleato. Ma l'opposizione appare
condannata a litigare furiosamente, senza però dividersi alle elezioni.
Quando Silvio Berlusconi accusa Pier Ferdinando Casini di voler fare il Bettino
Craxi del Duemila, l'«ago della bilancia», proietta un'ombra passatista
sull'Udc. E quando spiega che «il grande centro c'è già, è
FI», ha qualche ragione: nel sistema bipolare, il partito del Cavaliere
è un perno che riduce fin quasi ad azzerarli i margini per qualunque
manovra centrista.
Ma l'azzardo di Casini è di scommettere sullo sgretolamento dei due
schieramenti attuali; e di arrivare ad un altro governo e ad un'altra legge
elettorale, che renda possibile di qui a due anni quanto oggi appare
velleitario. Su questo sfondo, la metafora di Fini di un centrodestra composto
da FI, An e Lega che corre avanti come una lepre, e costringe l'Udc a
inseguire, rischia di essere fuorviante. Fotografa la frustrazione della Cdl, e
l'adesione ad uno schema monolitico, che mal sopporta ambiguità, scarti
e furbizie. Ma dà troppo per scontato che Casini sia la causa e non il
risultato della crisi berlusconiana.
Altrimenti, a risolvere i problemi basterebbe «fare a meno dell'Udc», come
suggerisce la «pancia» dell'opposizione; lasciarla andare «per la sua strada»,
nella prosa liquidatoria di Umberto Bossi. Ma l'idea di una Cdl «al 52 per
cento anche senza i centristi», come assicura il Cavaliere, per paradosso
contraddice l'imperativo del bipolarismo: «ricostruire l'alleanza» per vincere,
avverte lucidamente Roberto Formigoni. Il governatore della Lombardia dà
voce al partito degli amministratori, preoccupati per le amministrative di
maggio.
Il segnale è accolto a metà. Ciò che resta della Cdl
è incline ad attaccare l'Udc. E, in sintonia con gli umori del cuore
duro dell'elettorato, martella sull'inaffidabilità di Casini in nome di
una chiarezza che sarebbe stata inquinata dal voto sull'Afghanistan. Il
tentativo è di far passare l'idea che il governo di Romano Prodi si sia
salvato al Senato grazie all'Udc: sebbene non sia esattamente così. Ma
certo non dà smalto all'ex premier l'ammissione di non aver votato la
missione perché «sapevamo che comunque sarebbe stata approvata».
È la conferma di una scelta dettata da calcoli di politica interna.
Può darsi che il dettaglio sia poco avvertito dall'opinione pubblica; ma
gli avversari non mancano di segnalarlo. A rendere insidiosa la «separazione»
fra Cdl e Udc c'è anche il voto del 1996, quando la Lega si
presentò da sola e l'Ulivo vinse. Oltre tutto, le strategie del trio
FI-An-lumbard non sempre combaciano. Gli strali di Bossi contro Fini sulla
riforma e il referendum elettorali sono indizi di tensioni interne che esistono
e continueranno: con o senza l'Udc.
Che fanno i Ds sulla famiglia? Si può insieme sostenere i Dico e aderire
al Family day? Il dilemma è reale. Si capisce che una manifestazione del
genere, che si preannuncia molto partecipata, crei qualche malessere ai
dirigenti di un partito che, giustamente, ha sempre rivendicato di essere anche
un partito di cattolici. E si capisce che non ci si voglia identificare con una
posizione radicale o passare per nemici della famiglia. Ma qual è la
concezione della famiglia nella sinistra riformista? Qualche giorno fa sulla
Stampa Lucia Annunziata ha sostenuto che «il movimento operaio e i suoi
dirigenti hanno sempre abbracciato (fino al moralismo) un sistema di vita
personale e familiare di massima austerità, indicando in questa scelta
una intera scala di valori che si opponeva orgogliosamente alla
“libertà” con cui il mondo borghese viveva i suoi legami familiari». Le
cose in verità stanno un po’ diversamente. L’austerità familiare
è stata abbracciata dai dirigenti comunisti solo dopo la guerra, come
parte della rilegittimazione popolare del partito. Nella tradizione comunista
la famiglia era una sovrastruttura, destinata ad essere superata nella sua
forma giuridica: vedere il convegno dell’Istituto Gramsci ancora nel 1964.
Proprio per questo le questioni attinenti i diritti civili e la stessa
liberazione della donna erano ritenute secondarie rispetto alla questione sociale.
O vogliamo pensare che la tepidezza del Pci nei confronti del divorzio e in
genere delle istanze femministe fosse dovuta al suo attaccamento alla famiglia?
Sappiamo bene che era dovuta a una politica di prudenza nei confronti della
Chiesa e delle masse cattoliche, oltre che alla generale indifferenza ai temi
civili.
Questa svalutazione della libertà individuale - in primo luogo delle
donne - è durata sino alla fine del Pci. Soltanto l’implosione di quel
partito negli anni Ottanta ha consentito di superarla. E soltanto la fondazione
del Pds ha consentito che si potesse parlare, non solo di diritti individuali,
ma anche di famiglia e di politiche familiari. L’apertura alla libertà
è andata di pari passo con l’apertura alla famiglia, quando è
venuto meno il dogma della questione sociale. Perciò ha ragione Chiara
Saraceno, che invita a correggere «la contrapposizione tra diritti individuali
e difesa della famiglia». Questa contrapposizione è tipica di una
concezione conservatrice della famiglia; mentre fuori di essa c’è tutto
lo spazio per una concezione democratica, liberale, e anche realistica. Perché
la famiglia è un istituto importantissimo della società, e oggi
siamo tutti d’accordo su questo: oggi, non ieri. Vorrei ricordare le difficoltà
che si incontrarono per inserire nel programma del Pds un capitolo sulle
politiche per le famiglie. Difficoltà che venivano da destra e da
sinistra, da vecchi comunisti e da nuove femministe.
Ma una concezione realistica della famiglia comporta prendere atto che oggi nella
nostra società ci sono diversi tipi di convivenze che si propongono di
essere famiglie e ne svolgono la funzione, senza nulla togliere alla famiglia
tutelata dalla costituzione. Dunque non è l’importanza della famiglia
che divide una concezione riformista e liberale da quella che in questi mesi
una parte del mondo cattolico sta fortemente sostenendo. La linea di divisione
è un’altra: se si pretende che una sola di quelle diverse forme di
convivenza sia buona e giusta, o se si pensa che anche le altre abbiano una
funzione positiva e vadano valorizzate. In modi diversi e con strumenti
diversi. È ciò che stanno facendo tutti i paesi europei, spesso
con risultati ottimi, come in Francia, dove abbiamo insieme i Pacs, le
politiche per la famiglia, l’aumento dei matrimoni e della natalità.
Perciò sarà bene non andare al Family day: perché, tra una
visione radicale e una visione conservatrice, ambedue irrealistiche, i
riformisti dovrebbero tenere la loro posizione, senza temere di essere travolti.
Qui una rete di educatori e gente che
ascolta e aiuta
A Treviso una parrocchia con una strada
piena di persone separate. "Soffrono già, perché ignorarle?"
TREVISO -
Sul muro, dietro la scrivania, c'è un manifesto del 1948, firmato
Democrazia cristiana. Un sacerdote sullo sfondo annuncia: "Meglio un prete
oggi che un boia domani". In primo piano, un rosso bolscevico accanto a
una forca. Il messaggio è chiaro: se non obbedisci ai preti, sarai preda
dei comunisti. Don Adelino Bortoluzzi, parroco di Olmi-San Floriano, si mette a
ridere. "E' un manifesto originale, me l'hanno regalato, forse per
ricordarmi un passato non tanto lontano. E ricordare, anche in questi giorni,
fa solo bene". Non è facile trovare sacerdoti che abbiano voglia di
parlare del mega raduno annunciato a Roma. C'è chi dice che "la
sola protesta permessa è il silenzio", c'è chi sostiene che
"come sempre i parroci sono tagliati fuori da ogni decisione".
"Vadano a Roma, quelli che credono che per salvare la famiglia basti uno
slogan. Io non organizzerò certo dei pullman. Resterò qui, con le
famiglie vere, che ci parlano di figli da crescere e da educare, e non di Pacs
o Dico. Ma protestare non conta nulla. La gerarchia della Chiesa non ha certo
smesso di essere una gerarchia".
Don Bortoluzzi (per tutti Adelino e basta) accetta di parlare, ma solo della
sua parrocchia. "Io posso solo spiegare cosa succede qui, in questa
periferia di Treviso, che 15 anni fa, quando sono arrivato, era solo un
dormitorio costruito attorno a una strada. Posso raccontare cosa ho cercato di
fare in questa terra degli schei e del consumismo, dove i figli venivano
mandati a lavorare a 14 anni e la scuola era giudicata solo una perdita di
tempo. Parlo delle persone che abitano qui, persone vere, una diversa
dall'altra, che alla parrocchia chiedono di essere luogo di accoglienza.
L'incontro di Roma? Rischia di creare solo tensione e divisione. Nella mia
chiesa entrano coppie di fatto, separati, omosessuali che non possono ricevere
la Comunione ma che sono in comunione con gli altri fedeli. La chiesa è
l'unico posto dove queste persone possono entrare senza che nessuno chieda loro
un pass. Si sentono accolti da qualcuno più grande di tutti noi, dalle
braccia della misericordia di un Dio che vuole bene a tutti".
C'è una strana strada, nella parrocchia, che qualcuno
chiama "la via delle coppie di fatto". "Hanno costruito dei
monolocali che sono stati affittati o comprati da uomini e donne che si sono
separati ed hanno lasciato la casa in centro al coniuge e ai figli. Alcuni
hanno nuove compagne. Come prete, posso ignorare queste persone? Il matrimonio
è formato da coppie di diritto e da coppie di fatto, ma è anche
dono e mistero, ed io lavoro per il dono e il mistero. Ci sono anche persone
che si sentono sconfitte dalla vita. Non è bello separarsi, non è
bello vivere in conflitto con la stessa persona con la quale hai fatto dei
figli. Io cerco di trovare quello stile che Gesù aveva con le persone
sofferenti. Chi sta già pagando un alto prezzo, deve trovare nella
chiesa bontà e misericordia".
Anche qui i matrimoni in chiesa sono merce rara. L'anno scorso solo 4, contro
30 battesimi e 16 funerali. "Qualcuno si è sposato in altre
parrocchie, ma la crisi c'è. La mia preoccupazione di parroco è
comunque quella di fare sapere a chi si sposa che il matrimonio è una
vocazione, da vivere con quella pienezza che è frutto di libertà
di stare assieme ma anche grazia dello spirito. Dobbiamo poi ripensare anche
alla "penitenza". Io posso assolvere un aborto o un assassinio, non
una separazione. Su questo dramma aspetto un nuovo magistero dalla Chiesa. Se
non avremo il coraggio di affrontare questi temi, per tanti la liturgia e il
Vangelo saranno ridotti a norme e riti, facendo perdere la forza che hanno per
aiutare l'uomo a vivere bene".
Non è facile trovare preti come don Adelino. In quindici anni ha
costruito il centro sociale per gli anziani, con campi bocce al coperto, una
grande palestra, un centro incontri per le famiglie... "Non ho il male
della pietra. Ho cercato di trasformare un dormitorio in un paese. I soldi? Per
raccoglierli, organizziamo anche la sagra del toro allo spiedo. Ci sono
famiglie che si tassano, e poi ci sono i debiti. Ma adesso Olmi non è
più solo una strada fra i dormitori. Sono diventato prete nel
Cento ragazzi e ragazze, in questo pezzetto di nord est così refrattario
agli atenei, si sono già laureati. "Seguiamo i ragazzi delle
superiori, per completare un discorso culturale che la scuola non riesce a
dare. Gli universitari fanno comunità: organizziamo appartamenti a
Milano, Bologna, Padova. Dicono che "Adelino porta via i ragazzi dalle
famiglie". E' vero. Io dico che bisogna studiare davvero e trovare un
lavoro, fare un mutuo per uscire di casa subito dopo la laurea, farsi una
famiglia. Anche in questo campo voglio essere un manager che riunisce persone
competenti. Ragazzi in crisi trovano qui in parrocchia una risposta e
soprattutto un aiuto a individuare la strada giusta. E così abbiamo gli
anziani che gestiscono il bar portando orgogliosi il grembiule con scritto
"Noi di Olmi" ma anche psicologi, psicoterapisti, analisti con i
quali abbiamo costruito una rete di sostegno che serve tutta la
comunità. Una rete, questa, che ci ha aiutato ad esempio ad organizzare
famiglie che hanno deciso di andare ad abitare tutte nello stesso condominio,
per una solidarietà reciproca. Ma è una rete che, se necessario,
consiglia anche la separazione di una coppia, se questa appare come la
soluzione più opportuna. Può sembrare strano che certi consigli
arrivino da una parrocchia, ma la crisi arriva anche nelle famiglie sposate in
chiesa. Non puoi fare finta di nulla".
A Olmi (1.200 dei 3.500 abitanti partecipano alle messe della domenica, 25
mamme insegnano il catechismo e 180 volontari organizzano le attività
della parrocchia) l'altro giorno sono stati battezzati quattro bambini.
"C'erano due neonati, il figlio di un ricco industriale e il figlio di un
operaio. E c'erano due bambini più grandi, figli di una coppia di fatto.
Sono amici di bambini battezzati, anche loro hanno voluto il sacramento. I loro
genitori erano presenti ed hanno chiesto alla nostra comunità di farsi
carico dell'educazione cristiana dei loro figli. Sono cose che succedono, se
una parrocchia tiene davvero le porte aperte a tutti".
(2. continua)
(30 marzo 2007)
CITTÀ
DEL VATICANO
Il giorno dopo la «Nota» dei vescovi sui Dico la polemica si fa rovente. Sono
falangi le dichiarazioni e le prese di posizione; e fra queste spiccano
soprattutto le parole del ministro dell’Interno, Giuliano Amato, quelle del
segretario dei Ds, Piero Fassino, e del presidente della Commissione famiglia
della Cei, Giuseppe Anfossi, vescovo di Aosta, mentre la rivista MicroMega
lancia due appelli paralleli contro quella che definisce la «”crociata”
clericale» e per opporsi alla «subalternità e passività dello
Stato nelle sue istituzioni parlamentari e governative».
Il primo è firmato da atei, agnostici e comunque non credenti (Umberto
Eco, Margherita Hack, Vasco Rossi, Giorgio Bocca, Simone Cristicchi, Andrea
Camilleri, Dario Fo e Franca Rame, Ferzan Ozpetek e Mario Monicelli); il
secondo da personalità cattoliche, fra cui Giovanni Franzoni e Enzo
Mazzi. Entrambi gli appelli chiedono di devolvere l’otto per mille alla Chiesa
valdese.
Amato, senza citare i «Dico», si è espresso contro chi cerca di «imporre
la propria visione unilaterale, perché ciò viene fatto nelle
società che critichiamo in quanto islamizzate». Ha stigmatizzato «gli
estremismi che non permettono di individuare un bene comune» e
«l’unilateralismo etico e culturale». Ha poi detto: «Io sono tra coloro che
richiamano spesso elementi delle gerarchie ecclesiastiche al ricordo di
Maritain e quindi al principio che il bene comune di una società lo si
realizza se si tiene conto delle diverse visioni del bene comune di quella
società».
Più diretto Fassino sulla «Nota»: «È un documento che contiene
molte cose interessanti, ma su questo punto va al di là del giusto», ha
detto, aggiungendo che le politiche per la famiglia debbano andare di pari
passo con i Dico: «È giusto che chi convive abbia dei diritti. Anche i
gay? Certo, non c’è alcun dubbio». Dai microfoni di Radio vaticana parla
invece Giuseppe Anfossi, che interpreta la «Nota» come «un grosso appello alla
coerenza dei cristiani consapevoli della fede». Sostiene che i vescovi vogliono
«suscitare nella coscienza delle persone, comprese coloro che sono impegnate in
politica, un lavoro per illuminare tale coscienza, perché si intende che noi
non vogliamo fare pressioni indebite su di loro». I Dico possono essere votati
da «un legislatore che è un buon cristiano»? Il presule risponde che
«è una risposta che potremo dire anche quasi tecnica: il legislatore che
si sente parte della Chiesa non può».
Monsignor Anfossi sottolinea la volontà di parlare con «stile
evangelico», ma rivendica alla «Nota» un carattere peculiare: «Questa è
anche indirettamente una difesa dei semplici: si tratta di difenderli da
pressioni ideologiche, da lobby vere e proprie, a cominciare da quella che
è legata al mondo dell’omosessualità. Al limite, noi rispondiamo
che il nostro modo di intervenire difende una parte di popolazione da ingerenze
che sono altrettanto violente e non democratiche». Sul problema si è
espresso anche il Presidente della Camera, Bertinotti: «La religione è
un fenomeno pubblico, non più un fatto privato che propone la ricerca di
un interrogativo sul senso della nostra esistenza. La cosa importante è
che questa interrogazione non diventi un modo per mettere in discussione la
laicità dello Stato».
Cara
Europa, adesso che, per far folla e apparire al disopra delle parti politiche,
le gerarchie hanno scelto un’ex femminista pentita, Eugenia Roccella, e un
grande elettore di centrosinistra, Savino Pezzotta, come portavoce del family
day, vedremo anche la sinistra a piazza San Giovanni, come preannuncia la
Annunziata? E magari la Serafini, moglie del segretario dei Ds? Dico o non Dico
– m’interessano poco –, nonostante le legnate papali di Ruini e ora di
Bagnasco, i miei compagni restano sempre quelli del 1947, s’illudono di farsi
accettare mettendo il concordato fascista nella Costituzione. Ora vanno a
piazza San Giovanni?
COMPAGNOX, ROMA(AVENTINO)
Caro
compagno x, spero che sull’Aventino lei ci viva per l’aria buona e non per la
simbologia politica di quel colle: rifugio (sterile) di una classe politica che
per protestare contro abusi e prevaricazioni, rinuncia a combattere i nemici
della libertà e dei diritti del cittadino.
Premetto che anch’io sono poco interessato ai Dico, perché – come ho scritto
un’ altra volta – sono tremila anni che il diritto romano ha definito la
famiglia coniunctio maris et foeminae et quasi fundamentum rei publicae. Non mi
muovo da questa scultorea definizione, anche se le famiglie, come so per
esperienza personale, continuano a sfasciarsi a velocità crescente. Ma
allo sfascio si può riparare con politiche per la famiglia e con
riconoscimenti di diritto privato a singoli e a coppie di fatto eterosessuali
(di cui la Chiesa teme la concorrenza al “modello” familiare). Ciò
premesso, e ricordando che le famiglie uomo-donna-figli non sono né di destra
né di sinistra, né cattoliche né atee, né bianche né nere, ma soltanto
famiglie, al raduno di San Giovanni io non ci vado proprio per la ragione
appena detta, e cioè che nessuna agenzia o associazione, può
mettere sulla famiglia la targa “cosa nostra”. Tuttavia, non mi meravigliano i
richiami che lei fa alle sue compagne Serafini, Annunziata, e aggiungiamo il
ministro (valdese) della solidarietà Ferrero, prima di tutto perché non entro
mai nelle scelte di coscienza degli altri, secondo perché se dovessi dare un
giudizio politico di quelle partecipazioni, farei mia la replica di Chiara
Saraceno a Lucia Annunziata: «Non si può dialogare con chi delegittima a
priori ogni posizione diversa e spesso manca di rispetto per le vite e le
scelte altrui, specie quando non sono ipocrite ma alla luce del sole.
Attaccarsi al carro del family day non solo non porterà alcun beneficio
al centrosinistra ma rafforzerà la contrapposizione tra diritti individuali
e difesa della famiglia che invece occorrerebbe correggere».
Purtroppo per la laicità dello Stato e la libertà e
sovranità delle istituzioni repubblicane, questo vizietto della sinistra
comunista è antico come la nascita della repubblica. La quale, estratta
col forcipe da un popolo riluttante a rinunciare alle sue istituzioni
risorgimentali, fu «curata» da Togliatti con l’inserimento dell’art. 7 nella
Costituzione.
Sperava così di avere un appoggio clericale alla traballante istituzione
nata il 2 giugno 1946. Lo ricorda senza infingimenti su L’unità del 27
marzo Michele Prospero, per i sessant’anni da quel voto sciagurato: «La lezione
del referendum tormentava la sua coscienza di capo politico.
Non ci fu una sola regione del Sud in cui la repubblica avesse vinto». E
siccome Togliatti sapeva quanto l’opposizione della chiesa avesse minato la
monarchia negli ottant’anni del regno, sperò di evitare la stessa sorte
alla repubblica nata altrettanto avventurosamente; di salvare con essa anche il
Pci, che invece fu relegato nel ghetto per mezzo secolo. Dicono che la storia
è maestra di vita, ma i maestri sono in crisi e gli alunni distratti.
*
Consigliere Ds al Comune di Pescara.
Scivoliamo
stancamente verso il congresso Ds, con esito già scritto. Enrico
Berlinguer diceva: "Quando i partiti non fanno più politica,
degenerano in macchine di potere e di clientela, ignorano la vita e i problemi
della società e della gente. Idee, ideali, programmi pochi o vaghi,
sentimenti e passione civile, zero. Per noi comunisti la passione non è
finita". Queste parole sono per me estremamente significative e
costituiscono il "vangelo" del mio modo di fare politica. Nel
dibattito sul nuovo partito democratico non riscontro riflessioni approfondite
né proposte di soluzione circa la degenerazione della politica, né tanto meno
trovo l'affermazione della necessità - irrinunciabile - di ripartire da
un codice etico. Si parla solo di "rigore etico e civile" e di
"sobrietà dei costi della politica". Poco, molto poco, solo
una piccolissima sollecitazione, non sufficiente per sradicare le cattive
abitudini già denunciate dal compagno Berlinguer. Sono invece necessarie
regole chiare e precise sia per i comportamenti da tenere nelle istituzioni che
per le linee da seguire negli enti di gestione. Se si fossero seguite le parole
di Berlinguer non avremmo le situazioni che sono sotto gli occhi di tutti (vedi
Montesilvano e Fira). Invece partiamo con la teorizzazione di qualcosa di
improponibile, "coniando" lo slogan del partito plurale. Partito
"plurale" significa forse rappresentare più parti
contemporaneamente? La nostra base resta quella proletaria oppure diventa una
macedonia? La tutela dei diritti resta un nostro obiettivo insostituibile? La
lotta per la pace, resta anch'essa di importanza fondamentale? La
laicità dello Stato e i diritti civili sono ancora nostri temi
fondamentali? La collocazione europea sarà nella famiglia socialista? Ci
impegneremo per risolvere: i costi della politica, gli incarichi negli enti di
gestione, l'efficienza della pubblica amministrazione? Siamo ancora per il
socialismo e per il superamento della logica del mercato, oppure ci stiamo
ripiegando in una corsa al centro, dove la difesa dei più deboli
scompare dai programmi? Sono domande retoriche: le risposte le conosciamo, ma
molti non si rassegnano. Anziché aprire un dibattito sui temi vitali di cui
sopra, ci apprestiamo al congresso per sancire la nascita del Partito
democratico. Il tempo fugge via ed è necessità impellente per la
sinistra impegnarsi a coagulare tutte le varie forze della sinistra, affronti
il tema dei diritti, del lavoro non precario e dei pensionati al minimo, della
giustizia e della pace in ogni parte del mondo. Urge mettere al centro lo
spirito di "servizio" teorizzando e applicando il volontariato
politico come missione. Tutto è andato oltre il limite. La sinistra
europea può assolvere al compito che ci attende. La democrazia deve
poggiare sui valori etici. Penso che valga la pena impegnarsi a fondo per
realizzarlo; anche per tutto ciò non sono interessati a costruire
aggregazioni plurali, senz'anima, senza cuore, con la conseguenza di un partito
leggerissimo, dal punto di vista della mediazione politica, dove la parte soccombente
è nota già in partenza. Deluso e amareggiato, ritengo conclusa la
mia esperienza all'interno dei Ds, non solo per il progetto del partito
democratico, e il congresso di base sarà l'ultimo impegno che
assolverò. E voglio tuttavia continuare a sperare.
Non
c’era momento più adatto per dare il segnale di una ristrutturazione
profonda dell’immaginario collettivo italiano, bombardato da foto e notizie di
grandi fratelli - e tanti piccoli porcellini al seguito - che ritraggono -
plausibilmente a fini di lucro ed estorsione - politici e cittadini nella loro
vita privata. Claudio Petruccioli ha anticipato ieri la decisione di proporre
al Cda una totale messa in discussione della presenza dei reality nel
palinsesto Rai, perché questi format rappresentano una «stagione finita», ha
detto. Forse non è vero, la stagione del reality non è finita, ma
certamente bisogna valutare che cosa ha prodotto per la Rai, che resta un
servizio pubblico, il cui compito più importante è informare,
formare e divertire. Non propinare al pubblico italiano, sulla Rai, luoghi di
recupero per ex tele-star, come l’Isola dei Famosi e simili. Il centro-destra,
da Paolo Bonaiuti a Mauro Landolfi, con qualche eccezione metodologica - Urbani
e Maugeri hanno criticato il fatto che Petruccioli abbia anticipato la
comunicazione - ha approvato la decisione del presidente Rai. Meno chiaro il
fronte del centro-sinistra, con i suoi consiglieri Sandro Curzi e Rizzo Nervo
che da Repubblica e Liberazione vengono dati per favorevoli alla proposta di
Petruccioli, con virgolettati poco chiari, mentre sul Corriere risultano
piuttosto critici. Per Curzi sarebbe «sbagliato bocciare i reality come genere,
ideologicamente. Si possono fare in maniera diversa». Per Nino Rizzo Nervo,
invece, «il reality è ormai un genere delle televisione moderna, li fa
anche la Bbc». E poi, buttando alle ortiche McLuhan, aggiunge: «Petruccioli
confonde il contenitore con il contenuto». Forse Curzi e soprattutto Rizzo
Nervo dovrebbero non confondere il contenitore della Rai con gli altri
contenitori. Privati, per esempio.
++ Il Sole 24 Ore 29-3-2007 Nota della Santa Sede
Israele rinvia l'incontro Gelo con il Vaticano
+ Il Sole 24 Ore 29-3-2007 Italia nelle retrovie d'Europa di Adriana
Cerretelli
La Stampa 29-3-2007 La Cei: no
ai Dico ma nessuna
"scomunica". Resta l'invito ai cattolici credenti: votate contro.
Bertinotti: lo stato difenda la propria laicità. Marco Tosatti
Il Riformista 29-3-2007 Una conferma di chiusure e
ingerenze intollerabili
L’Unità 29-3-2007 I partiti e l'articolo 49 una
storia italiana Elio Veltri Ugo
ROMA
I salari in Italia sono tra i più bassi in Europa, e in termini di
potere d’acquisto addirittura inferiori a quelli della Grecia e superiori, in
Europa, solo a quelli del Portogallo. È quanto emerge da una ricerca
dell’Eurispes intitolata «Povero lavoratore: l’inflazione ha prosciugato i
salari» che prende in considerazione il periodo 2000-2005.
I salari lordi in effetti, ossia quelli percepiti dal lavoratore dipendente ed
inclusivi dei contributi sociali a suo carico nonchè dell’imposta sul
reddito, hanno mostrato nel nostro Paese una dinamica poco pronunciata, come
viene evidenziato dal confronto con gli altri Paesi europei.
Laddove la crescita media del salario comunitario è stata del 18%, in
Italia i lavoratori dell’industria e dei servizi (con esclusione della Pubblica
amministrazione) hanno visto la propria busta paga crescere solo del 13,7%.
L’inflazione ha giocato un ruolo non trascurabile nel deprimere i salari dei nostri
lavoratori in termini di potere d’acquisto: essa infatti negli ultimi quattro
anni, e cioè dal
L’effetto congiunto dell’erosione del potere d’acquisto causata
dall’inflazione, dell’elevato peso del cuneo fiscale e della contenuta dinamica
salariale spiega perchè, pur essendo il costo del lavoro nel nostro
Paese ben più alto che in Spagna e Grecia ed è di poco inferiore
a quello britannico, il reddito che resta al lavoratore (salario netto a
parità di potere d’acquisto) sia sceso nel 2006 al di sotto di quello
degli spagnoli e dei greci e a poco più della metà (57%) di
quello del lavoratore del Regno Unito.
Ma da un punto di vista della competitività, la modesta dinamica
salariale, se confrontata con quella dei nostri partner europei, ci assicura un
discreto vantaggio in termini di costi. In Italia il costo medio in euro per
ora di lavoro, calcolato sui dati forniti dallo Yearbook dell’Eurostat,
è inferiore a quello di tutti i paesi europei ad eccezione della Spagna,
della Grecia e del Portogallo, che è anche il paese dove i costi del
lavoro sono minimi (9,5 euro all’ora) mentre Danimarca e Svezia fanno
registrare i valori massimi (30,7 e 30,4 euro per ora rispettivamente).
Inoltre, osserva l’Eurispes, la posizione del nostro lavoratore rispetto ai
suoi omologhi d’oltralpe è peggiorata nel corso degli anni a causa degli
oneri. Difatti mentre il costo del lavoro è da noi inferiore del 30,6%
(-9,4 euro) rispetto a quello della Danimarca (dove è il più
caro), se passiamo a confrontare il salario lordo, vediamo che al lavoratore
dipendente italiano medio spetta solo il 52% del salario lordo del lavoratore
medio danese: questo perchè i contributi sociali sono da noi più
gravosi che in Danimarca.
Il cuneo fiscale appare, se confrontato con quello degli altri paesi europei,
particolarmente gravoso nel nostro Paese. Mentre, infatti, nella classifica dei
diversi paesi europei, il lavoratore italiano dipendente ha un salario lordo
più leggero di quello degli altri paesi (ad eccezione di Spagna, Grecia
e Portogallo), il cuneo fiscale (comprensivo dei contributi, delle assicurazioni
e delle imposte dirette) che si inserisce fra il costo del lavoro così
come pesa sulle imprese ed il «netto» in busta del lavoratore, è fra i
più gravosi, tanto più punitivo in quanto, come abbiamo visto, la
base di partenza, ossia il salario lordo, è molto al di sotto della
media europea e poco più della metà di quello dei tedeschi, degli
inglesi e dei danesi.
Quanto al peso delle diverse politiche della famiglia sui salari l’Eurispes
mette a confronto il cuneo fiscale del lavoratore single, ossia senza persone a
carico, e quello del lavoratore con moglie e due figli a carico. Con due sole
eccezioni (Francia e Grecia) il cuneo fiscale è più lieve,
com’è giusto, nei confronti del lavoratore con carichi familiari, ma
alcuni paesi (Irlanda, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo, ad esempio) si
mostrano abbastanza insensibili alle necessità familiari, ed il cuneo
fiscale si riduce solo di poco per favorire la famiglia.
Germania e Olanda invece attuano decurtazioni del cuneo superiori al 14% del
costo complessivo del lavoro e quindi nella fiscalità complessiva sul
lavoro danno vita a una decisa politica «familiare». L’Italia, nell’ambito
della imposizione sul lavoro, attua una moderata politica «familiare». Infatti
il cuneo che si inserisce fra il costo complessivo del lavoro ed il salario
netto in busta è del 9% inferiore per il lavoratore con tre persone a
carico, rispetto a quello senza carichi familiari.
Diplomazia. CITTà DEL VATICANO Nuovo
stop nel negoziato tecnico sullo status dei beni cattolici in Israele e cala il
gelo diplomatico tra Santa Sede e Gerusalemme. Oggi in Vaticano si sarebbe
dovuta riunire la Commissione bilaterale di lavoro per discutere il contenzioso
ancora aperto tra i due Stati dopo l'accordo quadro del 1993. Ma la delegazione
israeliana, a sole 72 ore dall'appuntamento, ha invocato le "contingenze
politiche internazionali " (visita del segretario di Stato americano Rice
in Medio Oriente e vertice arabo di Riad) per non presentarsi all'appuntamento.
Immediata la reazione della Santa Sede che,"pur comprendendo le ragioni,
ha preso atto con rammarico della circostanza e attende di poter concordare al
più presto con la parte israelianala nuova data della convocazione della
plenaria". Era da cinque anni che la Commissione plenaria,ora presieduta
dal sottosegretario vaticano Pietro Parolin, non si riunisce. L'incontro di
oggi avrebbe dovuto portare alla firma di un "trattato globale"per la
conferma delle esenzioni fiscali sui beni ecclesiastici cattolici in Terra
Santa,principio acquisito dalla creazione dello Stato di Israele nel 1948,la
restituzione di alcune proprietà ecclesiastiche confiscate come la
Chiesa santuario di Cesarea e la definizione da parte dei tribunali di Israele
e non in sede politica delle proprietà della Chiesa finite in mano
israeliane. Nel '93 la Santa Sede aveva deciso di procedere alla firma
dell'Accordo fondamentale con lo Stato di Israele e di allacciare con esso, pochi
mesi dopo, i pieni rapporti diplomatici, affidando a successivi negoziati gli
accordi sulle singole materie. "In realtà precisa uno dei membri
vaticani del gruppo misto - il Governo di Gerusalemme non aveva nulla da
offrire di nuovo, soprattutto sulle proprietà della Chiesa. Capita che
cimiteri, chiese o terreni cattolici vengano occupati da privati israeliani.
Per riaverli non possiamo rivolgerci all'autorità giudiziaria israeliana
perché ci viene risposto che,in base a un vecchio decreto del protettorato britannico,
tali vertenze possono essere avocate a livello politico e tutto resta quindi
affidato alla discrezione del momento".
«Risultati scarsi, progressi insufficienti»: si riassume
in queste quattro parole il voto impietoso che incassa l'Italia in marcia verso
il traguardo di Lisbona, cioè verso le riforme strutturali destinate a
darle crescita e competitività globali in Europa e fuori. Sui 27 Paesi
dell'Unione a ottenere risultati così scadenti sono soltanto Portogallo
e Malta.
Il giudizio apre la ricerca "L'Italia vista dall'Europa", giunta
ormai alla quarta edizione, che Confindustria ha presentato ieri a Bruxelles.
Nel plotone dei migliori Irlanda, Danimarca e Olanda. Tra i Grandi risultati
eccellenti con progressi medi per la Gran Bretagna, mentre la Francia è
nella media però con notevoli progressi insieme alla Germania i cui
progressi però risultano scarsi.
Anche se per l'Italia qualche piccolo segnale di miglioramento c'è, per
esempio il numero di giorni per aprire un'impresa è sceso da
Le lacune più allarmanti comunque si riscontrano nella cosiddetta
economia della conoscenza, quella che possiede le chiavi dello sviluppo futuro
nel mondo globale. C'è soltanto la Spagna che fa peggio di noi in
ricerca e sviluppo. In cifre assolute spendiamo 18 miliardi di dollari
all'anno, contro i 40 della Francia, i 60 della Germania, gli oltre 100 di Cina
e Giappone, gli oltre 300 degli Stati Uniti. Ultimi in classifica poi per
numero di ricercatori: 72.000 contro quasi il quadruplo in Germania, i 930.000
della Cina e gli 1,3 milioni degli Usa.
Fanalino di coda anche per deposito di brevetti: 68 per milione di abitanti nel
2004 contro i 116 degli Stati Uniti, i 162 del Giappone, i 261 della Germania,
i 132 della Francia, i 137 dell'Ue a
Siamo messi piuttosto male anche in fatto di istruzione e formazione
permanente: nel primo caso siamo al terz'ultimo posto, seguiti da Germania e
Spagna, per conseguimento di titoli di studio di scuola secondaria superiore
nei giovani tra 20 e 24 anni. Dove la Francia è al primo posto. Siamo
all'ultimo, se il parametro è quello dell'aggiornamento professionale
permanente: in testa compare la Gran Bretagna, Germania e Francia sono in fondo
alla classifica.
Il sistema Italia si conferma, sottolinea il documento, una meta poco attraente
per gli investimenti diretti esteri: meno di 20 miliardi di dollari nel 2005,
cioè un terzo di quelli accolti dalla Francia, per non dire dei 160
miliardi degli inglesi. Le ragioni? Siamo all'82mo posto dell'indice
"Doing Business" 2006 della Banca mondiale, la Gran Bretagna sta al
sesto, la Germania al 21mo, la Francia al 35mo. Per il recupero crediti per via
giudiziale in Italia ci vogliono 1.210 giorni, contro i 229 dell'Inghilterra, i
331 della Francia, i 394 della Germania. Per non parlare dei prezzi
dell'energia per Kwh: 15,36 euro in Italia contro gli 11,86 della Germania, i
10,39 della media Ue e i 6,91 della vicina Francia.
Sono tutti numeri che in fondo si commentano da soli.
Priorità alta al pacchetto casa:
sgravi importanti sull'Ici prima casa (al limite dell'abolizione) e detrazione
Irpef sugli affitti, due provvedimenti inseriti nella riforma del catasto con
una speciale norma transitoria per anticipare a quest'anno la misura sulla base
della copertura finanziaria disponibile. Stralcio dell'aliquota unica al 20%
nella riforma della tassazione sulle rendite finanziarie: invariato il regime
suiredditi di capitale e redditi diversi, mantenute le due ritenute al 12,50% e
al 27 per cento. Avanti tutta, infine, sull'equiparazione dei fondi comuni
italiani con i fondi esteri per assicurare parità di condizioni
all'industria finanziaria italiana. Sono queste le tre colonne portanti
dell'accordo raggiunto ieri tra il Governo —rappresentato dal viceministro
Vincenzo Visco e i due sottosegretari Mario Lettieri e Alfiero Grandi — e i
capigruppo della Maggioranza in commissione Finanze alla Camera che ha
all'esame il ddl delega sulla riforma delle rendite finanziarie e del catasto.
Su richiesta della Maggioranza il pacchetto abitativo per agevolare fiscalmente
chi possiede la prima casa e chi è in affitto è riuscito a salire
sul treno in corsa della legge delega.I dettagli saranno definiti in fase di
stesura del ddl. Ieri intanto si è appreso che gli sgravi sull'Ici
potrebbero essere molto rilevanti: si è già discusso di
un'esenzione fino a
Le misure del pacchettocasa non saranno coperte con la riforma delle rendite
finanziarie perché lo stralcio dell'aliquota unica al 20% farà venir
meno i 2 miliardi di euro l'anno previsti dall'Esecutivo (1,1 nel 2007): e
l'equiparazione dei fondi italiani con i fondi esteri potrebbe tradursi in un
costo per l'Erario. La delega, che marcerà a passo spedito per approdare
in aula a Montecitorio agli inizi di maggio, conterrà una norma transitoria
indicando la copertura per applicare gli sgravi su Ici prima casa e affitti a
partire da quest'anno:i fondi saranno prelevati dal "tesoretto"
disponibile, ma solo dopo che Maggioranza e Governo abbiano individuato le
priorità, come ha puntualizzato ieri il viceministro Vincenzo Visco.
La strada dell'unificazione delle aliquote al 20% per contro si è
rivelata impraticabile: da un punto di vista tecnico non si è trovato
alcun meccanismo che consentisse di evitare l'aumento della ritenuta sui titoli
già in circolazione e al tempo stesso di escludere la segmentazione del
mercato; da un punto di vista politico nessuno se l'è sentita di
ritirare in ballo l'aumento della pressione fiscale sul risparmio degli
italiani in prossimità delle elezioni amministrative a fine maggio.
Così l'argomento è chiuso: chiuso fino a quando non saranno messe
a punto procedure che garantiscano l'aliquota al 12,50% sui titoli emessi prima
della riforma, senza segmentazioni.
Lo stralcio sulle rendite finanziarie non getta il bambino con l'acqua calda:
l'appello dei fondi comuni italiani tassati sul maturato, che lamentano per
questo un handicap fiscale nei confronti dei fondi esteri tassati sul
realizzato, è stato ascoltato. Gli investitori istituzionali italiani (i
fondi di sicuro, le gestioni patrimoniali da stabilirsi) saranno equiparati a
quelli stranieri, anche se sarà inevitabile introdurre un coefficiente
di correzione temporale (da non chiamarsi equalizzatore) che permetterà
all'Erario di recuperare il ritardo sul pagamento della ritenuta.
«Siamo andati nell'unica direzione possibile e ora ci sono tutte le condizioni
per procedere velocemente»,ha detto il deputato Alberto Fluvi (Ds/Ulivo) della
commissione Finanze alla Camera (si veda il Sole24 Ore del 10 marzo 2007). A
fine aprile, salvo imprevisti, il nuovo testo della ddl sarà licenziato
dalla commissione.
ROMA -
Cresce la protesta verso gli operatori della telefonia mobile. L'abolizione dei
costi di ricarica rischia di diventare una vittoria di Pirro per i consumatori,
perché è già in agguato l'aumento dei prezzi delle tariffe
telefoniche. La redazione di Repubblica.it, così come le
associazioni dei consumatori e vari siti Internet, sono stati sommersi dalle
proteste degli utenti che segnalano due casi: Wind dal primo giugno
aumenterà una tariffa già sottoscritta dagli utenti; Vodafone nei
giorni scorsi ha attivato a tappeto il servizio Sms Vocale, senza che i clienti
l'avessero richiesto. L'ha poi sospeso nel coro delle proteste.
A fare rumore è soprattutto la mossa di Wind anche perché sembra
destinata a scattare senza scampo. Dietro lo scudo delle norme.
I lettori di Repubblica.it segnalano di avere ricevuto un Sms da Wind
con l'annuncio lapidario: "Gentile Cliente, dal 01/05 il suo piano
tariffario Wind 10 diventerà Wind 12. Per info sulle nuove condizioni
chiami il 158". Il problema è che la nuova tariffa è
più cara: 12 centesimi di euro al minuto e uno scatto alla risposta di
16 centesimi (contro i precedenti 15 cent). Per ogni Sms, 15 centesimi (contro
i 10 cent di prima).
"Non era mai capitato che un operatore
mobile cambiasse una tariffa anche agli utenti che l'avevano già
sottoscritta", spiega Marco Pierani, responsabile settore hi-tech per
l'associazione dei consumatori Altroconsumo. "Ma è una
possibilità prevista dal Codice delle Comunicazioni Elettroniche, se
l'operatore dà 30 giorni di preavviso durante i quali l'utente
può decidere di rifiutare il cambio e quindi di passare a un'altra
tariffa o operatore".
Conferma, a Repubblica.it, Enzo Savarese, consigliere
dell'Autorità Garante delle Comunicazioni (Agcom): "In un libero
mercato il nostro potere è quello di assicurare la trasparenza dei
prezzi, non di imporli agli operatori. Certo, se tutti gli operatori
aumentassero di concerto le tariffe potrebbe scattare un'indagine
dell'Antitrust. Ma non è successo". Wind, nello specifico, è
infatti un caso isolato.
Ci sono anche voci contro. A dichiarare illegittima la mossa di Wind è
l'associazione Aduc, secondo cui la modifica è ottenuta grazie a
clausole di contratto vessatorie. Ci sono poi utenti secondo cui Wind potrebbe
essere accusata di pubblicità ingannevole, "perché ha reclamizzato
Wind 10 con frasi tipo "Parli e scrivi a 10 centesimi, per
sempre"", dice Alberto dal sito di Aduc.it.
Wind dice a Repubblica.it che "non ci saranno altri ritocchi di
tariffa"; e che "questa mossa è stata necessaria per attutire
almeno in parte la perdita dei costi di ricarica. Non potevamo fare altrimenti,
considerato che abbiamo appena raggiunto l'utile e che le nostre tariffe erano
e sono le più economiche sul mercato. Anche se purtroppo ora lo saranno
un po' di meno".
"Piuttosto - ribatte Pierani - bisognerebbe far notare che la
possibilità di cambiare operatore per opporsi alle modifiche volute da
Wind è una libertà azzoppata da vari problemi. La
portabilità del numero può prendere fino a sei mesi; inoltre non
è ancora chiaro se e come gli operatori si adegueranno alle
novità prescritte dal decreto Bersani, secondo cui il credito della Sim
prepagata deve sopravvivere al cambio operatore".
Ad oggi, solo Vodafone ha detto pubblicamente che si adeguerà a questa
norma; in un modo- tra l'altro- che ha sollevato ulteriori polemiche: dice che
sottrarrà otto euro dalla Sim degli utenti che abbandonano Vodafone, per
le spese di gestione del processo.
I clienti Vodafone sono già sul chi va là a causa della querelle
dell'Sms vocale. Funzionava solo tra utenti Vodafone. Quando si telefonava a un
numero non raggiungibile, scattava la possibilità di lasciargli un
messaggio, che veniva spedito al chiamato in forma di messaggio vocale. Gratis
per chi lo riceveva; a pagamento (29 cent) per chi lo mancava. Subito si
è messa a girare un'e-mail, a mo' di catena di Sant'Antonio, che metteva
in guardia contro questo nuovo servizio. L'e-mail sosteneva che i 29 centesimi
venivano addebitati immediatamente al chiamante. Vodafone ha replicato con una
nota, in cui annunciava di averlo sospeso e specificava che quell'e-mail diceva
cose errate. "Se il cliente non parla, o parla meno di 2 secondi, il
messaggio non parte e il cliente non paga", si legge nella nota. Un errore
che senza dubbio Vodafone ha fatto è stato di non aver comunicato subito
in modo completo agli utenti come funzionava il servizio. È così
che è nato il sospetto tra i clienti; secondo Paolo Attivissimo, massimo
esperto di bufale su internet, l'e-mail contro Vodafone è frutto della
paranoia di alcuni utenti, massima in questa fase, all'indomani della
sparizione dei costi di ricarica.
La paura degli utenti è in realtà giustificata dalle circostanze.
Gli operatori hanno già protestato contro le perdite che il decreto
Bersani porterà loro ed è quindi prevedibile che cercheranno
qualche modo per attutire i danni.
Il punto è che il decreto Bersani arriva come una mannaia che non
distingue tra operatori piccoli o grandi. Un distinguo che forse
l'Autorità Garante delle Comunicazioni avrebbe ritenuto opportuno fare,
in una delibera che stava preparando sui costi di ricarica. I piccoli operatori
soffrono di più per la perdita dei costi di ricarica. Avendo una minore
quota di mercato, è loro interesse, più che dei grandi, premere
su tariffe aggressive, per farsi spazio. Se i piccoli adesso sono incapaci di
abbassare le tariffe e anzi sono costrette ad aumentarle, non c'è
rischio che l'abolizione dei costi di ricarica abbia nel lungo periodo un
effetto svantaggioso per i consumatori? È il pericolo segnalato nei
giorni scorsi da Elserino Piol, uno dei padri delle telecomunicazioni italiane.
Il paradosso è che la battaglia della politica per fare risparmiare gli
utenti mobili non è finita ma comincia proprio ora.
(29 marzo 2007)
Cronaca Milano, qualcuno avrebbe utilizzato
informazioni riservate manipolando il traffico telefonico. Oggi i nuovi
interrogatori in carcere La trasferta dei magistrati siciliani Le carte
sequestrate durante le perquisizioni WALTER GALBIATI EMILIO RANDACIO M
È difficile contestare la tesi di
Fausto Bertinotti, secondo il quale «la maggioranza non è cambiata» dopo
il voto sull'Afghanistan. Naturalmente, il presidente della Camera lo dice
anche per azzerare in anticipo le manovre di chi nell'Unione vorrebbe
calamitare più spesso l'Udc nell'orbita governativa. Ma, numeri alla
mano, non si può dire che abbia torto. Semmai, la sensazione è
che si stia inasprendo il braccio di ferro nell'opposizione. Pier Ferdinando
Casini tende a dire che è cambiata fin dalle elezioni di un anno fa:
sarebbe stato quello il punto di non ritorno per la Cdl, la Casa delle
libertà. Silvio Berlusconi, invece, cerca di farla sopravvivere, se non
altro come finzione. Fino al voto al Senato di martedì, in qualche modo
l'ambiguità rimaneva. Ma adesso sembra caduto anche l'ultimo velo.
Rimane forte il sospetto che l'ex premier, e con lui Gianfranco Fini e Umberto
Bossi, abbiano commesso un errore.
Non si spiega altrimenti la decisione, presa ieri dai capi dell'opposizione, di
riunire i parlamentari del centrodestra (senza l'Udc) per spiegare
l'atteggiamento parlamentare sulla missione in Afghanistan. Nonostante i
commenti ufficiali, perfino dentro FI le idee sono tutt'altro che unanimi.
Esponenti come l'ex presidente del Senato, Marcello Pera, raffigurano un
sistema politico che esce dalla prova «con le spalle slogate»: Berlusconi
compreso. L'astensione, equivalente al «no», alla missione voluta dagli Stati
uniti, non è di immediata comprensione per uno schieramento fortemente atlantista
e filoamericano. I commenti positivi della Nato e del dipartimento di Stato Usa
sono sale sulle ferite del centrodestra.
Così, l'irritazione contro Casini non cancella del tutto il dubbio di
una scelta fatta troppo «a dispetto»; e dunque non del tutto calcolata. Si
indovina la tentazione di «fare senza l'Udc»; di perpetuare l'idea della Cdl
rimuovendo la scheggia centrista, o magari di frantumarla cercando di provocare
una scissione. Ma la manovra presenta più di un'incognita. E rischia di
compromettere l'immagine di un'opposizione che aggrega e non esclude. Anche
perché Casini insiste di volere la caduta di Prodi. E probabilmente la vuole
davvero: solo, con tempi sfasati rispetto a quelli berlusconiani. La visita
fatta ieri dai vertici dell'Udc al Quirinale è servita più per
difendersi dalle critiche alleate che per chiedere con convinzione un «governo
di salute pubblica»: anche perché Giorgio Napolitano non può nemmeno
prenderlo in considerazione se non cade Prodi.
«Non siamo interessati a maggioranze variabili o a forme di cooptazione»
nell'Unione, ha voluto insistere Casini dopo il colloquio col capo dello Stato:
quasi parlasse ai propri elettori. Come spiega il ministro della Giustizia
Clemente Mastella, dopo il voto al Senato «non siamo né più vicini né
più lontani». E allora «che cosa hanno avuto in cambio? Per ora l'unico
risultato è stato di spaccare noi», si sarebbe lamentato Berlusconi, che
sembra sperasse nella caduta di Prodi. La sensazione di FI è che esista
un interesse comune fra Unione e Udc, per allontanare le elezioni anticipate:
quelle che FI e Lega invocano tuttora come «strada maestra» ma sempre
più impervia; e che l'Udc e, secondo Umberto Bossi, anche An vogliono
evitare per non ritrovarsi Berlusconi candidato a palazzo Chigi.
La scommessa di Casini è che nel limbo fra Prodi e le urne maturino
nuove alleanze e si sgretoli l'Unione. Per ora, tuttavia, si tratta di scenari
acerbi. Il centrodestra è sicuramente scheggiato: benché le
amministrative di maggio costringeranno gli alleati- coltelli a ritrovare
un'intesa. L'Unione, invece, incassa la defezione dell'Udc. E sogna di inserire
un cuneo nelle file dell'opposizione, lasciando balenare riforme elettorali
gradite a Udc e Lega, senza dividersi. E va avanti coi suoi numeri striminziti,
felice del «grazie» che una volta tanto l'Amministrazione Usa trasmette, dopo
il voto sulla missione afghana: un apprezzamento rivendicato da Romano Prodi, e
che suona come critica implicita per Berlusconi. Anche se davanti al premier si
è già riaperto il fronte col Vaticano sulle coppie di fatto.
Prodi schiva lo scontro dicendo: «Non ho letto» la nota della Cei». Ma prima o
poi dovrà farlo.
29 marzo 2007
La politica è una attività
complicata e incerta e tutti commettono errori. Ma alcuni errori sono
così clamorosi da instillare dubbi negli osservatori sulla
lucidità di chi li compie. Scegliendo l'astensione (al Senato significa
voto contrario) sulla missione in Afghanistan, Forza Italia, Alleanza Nazionale
e Lega intendevano raggiungere, presumibilmente, tre obiettivi.
Intendevano colpire il «traditore» Pier Ferdinando Casini, stigmatizzare, di
fronte agli elettori, la sua «intelligenza» col nemico, col centrosinistra.
Intendevano poi dimostrare agli alleati dell'Italia la superiore
affidabilità, in politica estera, del centrodestra rispetto al
centrosinistra. Intendevano, infine, mettere a nudo le contraddizioni della
maggioranza e, eventualmente, dare al governo la spallata definitiva.
Hanno ottenuto l'opposto. Casini, come ha scritto Pierluigi Battista sul
Corriere di ieri, esce rafforzato dalla prova del Senato. I suoi voti si sono
solo aggiunti a quelli della maggioranza, egli non ha «salvato» il governo. In
compenso, ha mostrato una coerenza di comportamento sulle questioni
internazionali che il resto dell'opposizione, invece, non può più
vantare: è difficile spiegare perché al Senato si voti contro un
provvedimento che si è approvato solo pochi giorni prima alla Camera. Ed
è difficile spiegare perché si voti contro una missione pur essendo a
favore della missione.
Anche il secondo obiettivo è stato mancato. All'estero non ci sono molti
esperti dei bizantinismi della politica italiana. L'unica cosa che gli alleati
capiranno è che l'opposizione non si è espressa a favore del
mantenimento delle truppe italiane in Afghanistan.
Per quanto riguarda il terzo obiettivo, mettere a nudo le contraddizioni della
politica estera della maggioranza, è stato, anch'esso, largamente
mancato. Se, come la razionalità politica dettava, tutta l'opposizione
avesse votato a favore del provvedimento, la debolezza del governo, il fatto
che esso non abbia una maggioranza di eletti sulla politica estera, terrebbe
ora banco nei commenti. Prodi non sarebbe caduto ma si sarebbe ulteriormente
indebolito. Il comportamento suicida di Berlusconi e dei suoi alleati ha
consentito al governo di nascondere sotto il tappeto le sue contraddizioni.
Non sarà forse la grande svolta che dice Prodi ma una svolta c'è.
Nel senso che fino ad oggi era stato il centrosinistra a farsi del male. Se ne
era fatto tanto, per tanti mesi, al punto da provocare un crollo dei consensi
nel Paese. Ora è il centrodestra che ha cominciato a farsi seriamente
del male. È difficile, ad esempio, che le divisioni entro l'opposizione,
ufficializzate dal voto del Senato, non abbiano riflessi sulle prossime
amministrative. Come è difficile che ciò non comporti anche un
certo calo di consensi per il centrodestra nel Paese.
La politica estera e di sicurezza resta il più grande punto debole del
governo. Si pensi alle ripercussioni in sede Nato della vicenda Mastrogiacomo,
alle pressioni degli alleati, fin qui disattese, di cambiare le regole d'ingaggio
dei nostri soldati, o anche all'ennesimo incidente (l'ultimo di una serie
così lunga da apparire ormai imbarazzante) fra il nostro ministro degli
Esteri e gli Stati Uniti a proposito dei presunti sostegni americani ad Al
Qaeda. È sempre plausibile pensare che sulla politica estera, forse
proprio sull'Afghanistan, il governo vada incontro prima o poi alla sua crisi
definitiva. Da oggi però si può dubitare che quando quella crisi
arriverà sarà Berlusconi a intercettarla e a ricavarne i maggiori
benefici.
29 marzo 2007
CITTÀ DEL VATICANO
Attesa, e prevista, è uscita la nota pastorale della Cei sui «Dico» [vai];
che può essere sintetizzata in tre aggettivi: inaccettabile e pericoloso
il Ddl, e insuperabile la differenza uomo-donna. Nel documento di tre pagine
vengono posti paletti rigidi ai politici cattolici, ma in toni sufficientemente
morbidi da nascondere la durezza dei contenuti. Due sono i capoversi
sostanziali della «Nota». «Riteniamo la legalizzazione delle unioni di fatto
inaccettabile sul piano di principio - afferma il documento -, pericolosa sul
piano sociale ed educativo. Quale che sia l'intenzione di chi propone questa
scelta, l'effetto sarebbe inevitabilmente deleterio per la famiglia. Si
toglierebbe, infatti, al patto matrimoniale la sua unicità, che sola giustifica
i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a loro. Del
resto, la storia insegna che ogni legge crea mentalità e costume». E
subito dopo: «Un problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla
legalizzazione delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo
caso, si negherebbe la differenza sessuale, che è insuperabile».
Inaccettabile e pericoloso sono gli aggettivi che il neo-presidente della Cei
aveva usato nella sua prolusione lunedì. Ai capoversi di condanna, i
vescovi del Consiglio Permanente hanno fatto precedere un lungo prologo, per
illustrare il valore della famiglia, per richiamare le parole della
Costituzione su questo argomento e per difendere il loro diritto-dovere a
parlarne. «Non abbiamo interessi politici da affermare», scrivono; «solo
sentiamo il dovere di dare il nostro contributo al bene comune». E’ ribadito il
concetto di una via diversa per risolvere le situazioni concrete di disagio:
«Siamo però convinti che questo obiettivo sia perseguibile nell'ambito
dei diritti individuali, senza ipotizzare una nuova figura giuridica che
sarebbe alternativa al matrimonio e alla famiglia e produrrebbe più
guasti di quelli che vorrebbe sanare».
Sul ruolo dei politici i vescovi esprimono comprensione, e ribadiscono la
fermezza. «Sarebbe quindi incoerente quel cristiano che sostenesse la
legalizzazione delle unioni di fatto» è la prima affermazione chiave,
seguita dal ricordo del «dovere morale» di votare contro ogni legge che
riconosca le unioni omosessuali, e dall’avvertimento che su questi temi non ci
si può appellare «al principio del pluralismo e dell'autonomia dei
laici». Infine, un po’ di zucchero: «Comprendiamo la fatica e le tensioni
sperimentate dai cattolici impegnati in politica in un contesto culturale come
quello attuale, nel quale la visione autenticamente umana della persona
è contestata in modo radicale. Ma è anche per questo che i
cristiani sono chiamati a impegnarsi in politica».
Prevedibile la tempesta di reazioni. Prima di presenziare a una messa officiata
dal Segretario di Stato, il cardinale Bertone, Fausto Bertinotti ha detto che
«il tema della laicità dello Stato è un valore fondativo delle
nostre istituzioni». Certo, la Chiesa deve potersi esprimere, «ma resta fermo
il dovere delle istituzioni a difendere la propria laicità che
altrimenti farebbe aprire un vulnus dovendo ammettere che la Costituzione non
esprime valori capaci di fondare su di essi la facoltà autonoma del
legislatore divenendo elemento di fortissima delegittimazione». Il ministro
Rosy Bindi ha risposto soddisfatta con una nota a quella dei vescovi («è
un apporto a un clima di dialogo») difendendo il «suo» Ddl, che «non crea
alcuna nuova figura giuridica alternativa... e non dà alcun rilievo a
patti o accordi tra le persone conviventi, ma esclusivamente al fatto della
convivenza stabile, proprio al fine di non istituire, neanche alla lontana,
paralleli con la disciplina matrimoniale». Rosy Bindi rivendica l’autonomia dei
credenti: «Con una coscienza limpida, il cattolico è chiamato a muoversi
con discernimento di fronte alle sue responsabilità pubbliche».
Se per Grillini la «Nota» sancisce un «brutale razzismo antigay», per Boselli
«poco ci manca alla scomunica» e per Dario Franceschini «laicità dello
Stato e autonomia politica dei cattolici non sono materia disponibile»,
l’impressione è che i cattolici della Margherita abbiano apprezzato i
toni «morbidi» usati dalla Cei; comune (Fioroni, Ceccanti, Finocchiaro)
l’opinione secondo cui la «Nota» non sarebbe in contrasto con il Ddl
governativo. E la denuncia di Angius (Ds), su «un conflitto aperto» fra Chiesa
e Stato, trova una certa consonanza con la dichiarazione di Chiara Moroni (FI)
contro le «interferenze» della Chiesa in Parlamento.
La nota diffusa ieri dalla conferenza
episcopale italiana [vai] «a
riguardo della famiglia fondata sul matrimonio e di iniziative legislative in
materia di unioni di fatto» non contiene novità clamorose. Rispecchia,
più o meno, le indiscrezioni che circolavano da tempo e ribadisce
argomentazioni e toni cui la Cei ci aveva già abbondantemente abituato.
Crediamo non di meno utile, se non altro ai fini della chiarezza, sottolineare
alcuni aspetti che riguardano i princìpi: i nostri «non possumus», ci
verrebbe da dire se questa espressione non fosse, di per sé, una insostenibile
aporìa riguardo al nostro sentire di persone laiche, rispettose delle
idee e dei diritti altrui ed aperte al dialogo con tutti.
Ci sono tre punti, nella nota, che meritano a nostro avviso un commento. Il
primo è, per così dire, la concezione delle libertà che i
vescovi ritengono di poter (o non poter) riconoscere alle persone che decidono
di vivere in coppia. I vescovi ribadiscono che l'unica forma accettabile di
convivenza è la famiglia fondata sul matrimonio e che questa tale si
definisce «proprio per l'impegno che essa porta con sé: impegno di
fedeltà stabile tra i coniugi e impegno di amore ed educazione dei
figli». E' come dire che l'amore tra un uomo e una donna intanto esiste in
quanto è finalizzato alla procreazione dei figli: «Solo la famiglia
aperta alla vita - si legge infatti nella nota - può essere considerata
vera cellula della società perché garantisce la continuità e la
cura delle generazioni».
Ora, a parte l'assenza, in questa impostazione, dell'ipotesi di coppie che, pur
regolarmente sposate, non siano in grado di procreare, ciò che colpisce
in modo negativo è la scarsa considerazione che viene di fatto riservata
proprio all'amore, al sentimento disinteressato di volere il bene dell'altro
insieme con il bene comune che è tipico delle unioni tra persone che si
scelgono.
Questa mancanza di comprensione umana, questa aridità nella
considerazione del rapporto di amore diventa ancor più dura, addirittura
crudele, nei confronti delle coppie omosessuali. «Un problema ancor più
grave - si legge nella nota dei vescovi italiani - sarebbe rappresentato dalla
legalizzazione delle unioni dello stesso sesso». Ritenendo inaccettabile la
«negazione della differenza sessuale, che è insuperabile», il documento
dei vescovi italiani pronuncia a questo punto una condanna senza appello
dell'omosessualità, rendendo fastidiosamente ipocrita l'affermazione di
non voler pregiudicare «il riconoscimento della dignità di ogni
persona».
La terza considerazione riguarda la pretesa di proporre «una parola
impegnativa» che viene rivolta «specialmente ai cattolici che operano in ambito
politico». Appoggiandosi alle recenti esternazioni del papa, e particolarmente
alla Esortazione apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis in cui
Benedetto XVI sosteneva che «i politici e i legislatori cattolici, consapevoli
della loro grave responsabilità sociale, debbono sentirsi particolarmente
interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere
leggi ispirate ai valori fondamentali nella natura umana», la nota ribadisce i
toni pesanti e ultimativi che avevamo già sentito in passato,
soprattutto nei tempi più recenti. La pretesa che il «fedele cristiano»
non possa «appellarsi al principio del pluralismo e dell'autonomia dei laici in
politica» è non solo un'ingerenza molto pesante della chiesa sugli
affari dello stato, ma una pressione esercitata innanzitutto verso lo stesso
mondo cattolico, verso la parte che, cosciente dei suoi diritti, delle sue
prerogative e anche dei suoi doveri nei confronti della stessa comunità
cattolica oltre che della più vasta comunità nazionale, rivendica
la propria libertà di scelta. Un passo indietro, anche rispetto ai tempi
in cui l'unità politica dei cattolici c'era, incarnata nella Dc, che
metterà in difficoltà una parte grande dello stesso mondo
cattolico.
Ugo Sposetti, tesoriere nazionale dei Ds,
sull'Unità del 23 marzo pone il problema dell'attuazione dell'articolo
49 della Costituzione e del "riconoscimento giuridico dei partiti" e
cioè, della responsabilità dei partiti di fronte alla legge.
Sposetti ricorda il dibattito alla Costituente e l'opposizione di Togliatti e
Marchesi alla proposta di controllo dell'attività interna dei partiti.
Essa era sostenuta da Mortati e da altri Costituenti i quali chiesero con forza
di conferire anche "rilevanza interna" al metodo democratico
richiamato dall'articolo 49, attraverso il controllo delle attività
più significative della vita interna di partiti: rispetto degli Statuti,
trasparenza e provenienza dei finanziamenti, tutela delle minoranze, selezione
delle candidature, certificazione dei bilanci, che lo stesso Sposetti ritiene
necessarie per porre rimedio al degrado della politica e restituirle la
necessaria e urgente dignità. Le cose, purtroppo, sono andate
diversamente perché nella discussione prevalse infine il cosiddetto
"complesso del tiranno" e cioè la preoccupazione di Togliatti
e di chi ne condivideva le posizioni di dare un'arma in mano agli avversari dei
partiti con il rischio di controllarne e limitarne l'azione. Preoccupazione
giustificata dalla recente esperienza della dittatura fascista che aveva
sciolto i partiti e azzerato la vita democratica del paese. Il compromesso tra
le due scuole di pensiero fu la scrittura dell'articolo 49 della Costituzione
che fa riferimento solo alla "rilevanza esterna" del metodo
democratico senza alcun riferimento alla democrazia dell'organizzazione
interna. Togliatti, a giustificazione della sua posizione e di quella dei
comunisti affermò: "domani potrebbe svilupparsi un movimento nuovo,
anarchico, per esempio. Io mi domando su quali basi si dovrebbe combatterlo.
Sono del parere che bisognerebbe combatterlo sul terreno della competizione
democratica, convincendo gli aderenti al movimento delle falsità delle
loro idee. Ora non si può negargli il diritto di esistere e di svilupparsi,
solo perché rinuncia al metodo democratico". È evidente, che se era
difficile condividere gli argomenti a difesa della posizione del leader
comunista nel contesto di allora, oggi è del tutto inaccettabile perché
un movimento politico che rinuncia al suo interno al metodo democratico tende a
comportarsi nello stesso modo nelle istituzioni. L'onorevole Merlin, relatore
sull'argomento, nel concludere il dibattito disse che ognuno degli articoli
"esigeva una legge particolare". Invece, non se n'è fatto nulla
e davvero pochi parlamentari, negli anni, hanno riproposto il problema: Luigi
Sturzo al Senato nel 1958; la Commissione bicamerale presieduta dall'Onorevole
Bozzi e nella legislatura 1996-
PESCARA. La storia e il futuro dell'Unione
europea si sono toccati e intrecciati nelle riflessioni di quanti ieri sono
intervenuti al Consiglio provinciale straordinario, aperto ai sindaci del
Pescarese e alla società civile, convocato per celebrare i 50 anni della
firma dei Trattati di Roma da parte dei sei Paesi fondatori della
Comunità europea. Un confronto di idee e una lezione speciale per gli
studenti raccolti nella Sala dei Marmi, "cittadini europei più dei
loro padri". Ai ragazzi degli istituti per geometri Acerbo, magistrale
Marconi, alberghiero De Cecco e del liceo classico D'Annunzio di Pescara si
sono rivolti i relatori, quasi a stimolare un senso di appartenenza convinto
all'istituzione europea. La seduta è stata aperta dal presidente
dell'assemblea, Filippo Pasquali. "Oggi", ha esordito, "vogliamo
ricordare quell'accordo, ratificato in Campidoglio, che ha segnato la nascita
della nostra grande Europa costituita da 27 Paesi e 500milioni di
cittadini. Numeri che ci ricordano come la storia dell'integrazione europea non
sia fatta solo di successi, ma sia stata, è e sarà costellata di
difficoltà". I Trattati di Roma furono siglati il 25 marzo del 1957
nella Sala Oriazi e Curiazi dai rappresentanti di Belgio, Francia, Italia,
Lussemburgo, Olanda e Repubblica federale tedesca. "Guardando al passato
mi viene da ricordare quel 9 maggio del 1950", ha detto il presidente
della Provincia, Pino De Dominicis, "quando il ministro degli Esteri
francese Robert Schuman dichiarò che "un'Europa unita era
essenziale per la pace mondiale e che l'inimicizia tra Francia e Germania
doveva essere eliminata". E propose di porre la produzione franco-tedesca
di carbone e acciaio sotto il controllo di un'autorità unificata. La
dichiarazione condusse alla negoziazione del trattato istitutivo della
Comunità europea del carbone e dell'acciaio. Se guardo al presente vedo
tra le insoddisfazioni dell'Ue, la difficile congiuntura economica, la
mancanza di politiche unitarie sullo scacchiere internazionale, la faticosa
metabolizzazione dell'euro, il disamore collettivo verso le normative europee e
la loro logica omogeneizzante, la sfida dell'allargamento".
"L'obiettivo dei sei Stati fondatori fu chiaro fin dall'inizio", ha
sostenuto il prefetto Giuliano Lalli: "raggiungere l'unione politica, a
partire dalla decisione di mettere in comune la produzione di carbone e
acciaio. Questa prima impresa ebbe la straordinaria ispirazione e ambizione
politica di sottrarre alle sovranità nazionali risorse e capacità
produttive attorno alle quali si erano sviluppate rivalità e tensioni
tra Francia e Germania tali da sfociare in due terribili guerre nel XX
secolo". Bernardo Razzotti, preside della facoltà di Lingue della
D'Annunzio, ha ricordato che "solo nel 2006, sono stati 178 gli studenti
del nostro ateneo che grazie al progetto Erasmus hanno avuto scambi culturali
con altri Paesi dell'Unione. 70 i ragazzi stranieri che sono venuti a studiare
da noi".
La Mifid accende lo scontro tra le banche e
Tommaso Padoa-Schioppa. La bozza del decreto legislativo messa a punto dagli
esperti del ministero dell'Economia per recepire la direttiva Ue sui mercati
finanziari, infatti, non convince il mondo del credito. Anzi. Gli istituti sono
preoccupati per i super poteri che il Tesoro sarebbe orientato a concedere alle
autorità di vigilanza, Consob e Banca d'Italia in
particolare. Tutte le critiche delle aziende creditizie al testo della delega
sono contenute in un dossier, di cui Finanza & Mercati è in
possesso, spedito negli scorsi giorni a Via XX Settembre nell'ambito della
consultazione sulla Mifid. La bozza, secondo le banche, sarebbe troppo vaga,
limitandosi "a definire principi generici rinviando, per gli aspetti di
dettaglio, all'attività regolamentare di rango secondario". Una
scelta un po' azzardata, che potrebbe creare difficoltà addirittura sul
piano della concorrenza internazionale. "Un eccessivo ricorso" alle
norme di secondo livello, si legge ancora nel rapporto curato dagli esperti
degli istituti, corre il rischio "di dare origine a possibili
disallineamenti fra i singoli ordinamenti nazionali con disparità
competitive" per l'industria finanziaria del nostro Paese. Ma le banche
chiedono grosse modifiche pure su altri fronti. Nel mirino dei big del credito
sono finite anche le norme sui contratti, sui promotori finanziari, sulle
controversie tra investitori e collocatori. Non solo. Qualche ritocco,
suggeriscono gli istituti, sarebbe auspicabile pure in relazione ai sistemi
multilaterali di negoziazione, agli internalizzatori sistematici e alle
sanzioni. Insomma, tutto (o quasi) da rifare. La linea del Tesoro, in
realtà, sembra dettata da una precisa ragione. Il governo è in
forte ritardo sulla tabella di marcia fissata da Bruxelles e non poteva
permettersi di entrate nel dettaglio delle regole attuative. Di qui,
probabilmente, l'idea di lasciare a Bankitalia e alla commissione guidata da
Lamberto Cardia il compito di scrivere le norme secondarie. Del resto, il
termine per dare attuazione alle regole comunitarie - che da novembre
liberalizzeranno gli scambi sui mercati di tutta Europa - è già
scaduto il 31 gennaio scorso. Palazzo Chigi ha tentato di correre ai ripari con
un disegno di legge ad hoc per spostare la scadenza al 31 luglio. Il ddl non ha
ancora fatto il giro di boa in Parlamento ed è ancora sul tavolo della
commissione Finanze del Senato (dove è stato presentato un emendamento
per un ulteriore slittamento al 30 settembre).
Con 119 rapine nel 2006 la nostra provincia
è fra le prime sei in Italia per incursioni in filiali e agenzie
Più di mille i borseggi Agenzie e filiali bancarie della provincia di
Brescia sono spesso nel mirino dei banditi. A dimostrarlo ci sono i dati Abi
(Associazione bancaria italiana) che pongono il nostro territorio nella
"top ten" della specialissima classifica degli assalti agli
sportelli: nel 2005 sono state 134, ridotte a 119 nel 2006 con un bottino medio
di 13.751 euro. Numeri che vedono Brescia stare al passo con Milano, Roma,
Torino e Bologna. La questione è complessa e non può essere
liquidata con una brontolata qualunquista. Le Forze dell'ordine, nello
specifico Carabinieri e Polizia, fanno il loro dovere con puntualità, ma
si devono confrontare con un territorio complesso e con dinamiche altrettanto
intricate. Il rapporto popolazione/banche è elevatissimo, così
come incide anche la polverizzazione urbana che fra cittadine e minuscole
frazioni, crea difficoltà alla prevenzione e repressione del crimine. A
questo si deve aggiungere un'altra valutazione che riguarda gli organici.
L'ipotesi di un incremento nel Nord Italia (nel Meridione i numeri ci sono)
è più che giustificato a fronte di fenomeni complessi di macro e
microcriminalità, che forse non hanno eguali negli altri Paesi Ue. A
Brescia, in particolare, si aggiunge la questione relativa a quella quota di
extracomunitari, su un totale di 140mila, che sfugge al controllo perchè
non regolarizzate e diventa spesso manodopera della criminalità. Ma
torniamo ai dati. Occupiamoci dei crimini più diffusi, che sono quelli
contro la proprietà privata. Nel 2006 (città e provincia) il
totale reati è stato di 54.874 unità dai quali (in base ai dati
interforze) possiamo estrapolare 31mila furti. Di questi, quelli che creano
maggiore disagio (anche psicologico) sono i borseggi, che sono stati 1.364 (una
trentina meno dell'anno precedente) e i furti in casa che sono stati 3.202.
Purtroppo questa casistica è in aumento: nel 2005 i topi di appartamento
colpirono 320 volte in meno. Passiamo all'analisi dei furti che riguardano un
bene "caro" agli italiani ed ai bresciani in particolare:
l'automobile. Nel 2006 sono stare rubate 3.360 quattro ruote (il target
più gettonato riguarda le vetture di categoria medio/alta), mentre 6.106
automobilisti hanno dovuto sostituire un cristallo o le serrature forzate,
perchè i ladri hanno prelevato oggetti più o meno preziosi dagli
abitacoli. Attenzione: non commettete mai l'errore di dimenticare un telefono
cellulare in auto, perché è quasi impossibile ritrovarlo al suo posto.
Se le banche sono davvero "bersagli sensibili", anche gli uffici
postali fanno notizia: sono 31 le rapine denunciate nel 2006 (27 quelle del
2005). Sempre sul fronte delle rapine, ne dobbiamo aggiungere 110 ai danni di
esercizi commerciali e
+ Il Sole 24 Ore 28-3-2007 Sui tango bond l'ultima carta è di
Washington di Alessandro Merli
Noipress.it 27-3-2007 Bankitalia: rivedere soglie
usura, penalizzanti per clientela debole
Il Corriere della sera 28-3-2007 L'errore del Cavaliere
di Pierluigi Battista
Italia Oggi 28-3-2007 Ecofin, intesa sui servizi
pagamento McCreevy: buon compromesso.
L’Unità 28-3-2007 I soldi e i partiti un'odissea democratica
Sergio Boccadutri*
Gazzetta del Sud 28-3-2007 Corruzione Ue, coinvolto
l'assistente di un eurodeputato italiano
Il Corriere della Sera 28-3-2007 Iraq, il Senato Usa:
«Via le truppe dal 2008»
La Stampa 27-3-2007
Iran, gli Usa mostrano i muscoli
COSSIGA: IL
BELLO, IL BRUTTO E IL CATTIVO
Roma,
28 Marzo 2007 – AgenParl – D’Alema e Casini sono i due vincitori. Gli sconfitti
sono invece Berlusconi e Parisi. C’é poi un cretino: l’ambasciatore Usa,
Spogli. Questo, in sintesi, quanto afferma il senatore a vita Francesco
Cossiga.
L’ex Presidente della Repubblica spiega infatti che i due vincitori sono Massimo
D'Alema, che “è riuscito perfino ad accontentare la sinistra radicale e
si avvia per il momento ad apparire, e poi ad essere il vero leader politico
anche se non istituzionale della coalizione”; “il secondo vincitore – aggiunge
Cossiga – e' Pier Ferdinando Casini, che ormai marcia impavido verso l'ala
destra del centrosinistra sperando di poter costituire un centro''.
Inoltre il senatore a vita sentenzia: ''i due sconfitti sono Silvio Berlusconi,
che sembra sempre di più quel marito cornuto che lo sa, ma che cerca di
non esserlo facendo finta di non accorgersene, dove l'adultera sarebbe Pier
Ferdinando Casini”. “L'altro sconfitto – afferma – e' l'amico Arturo Parisi, al
quale il leader Massimo D'Alema ha tolto la responsabilità delle forze
armate riconoscendo che il loro vero capo e' il capo di Stato Maggiore della
Difesa. La differenza è che se in Afghanistan ci scappa il morto per
colpa dei talebani noi dopo un primo tentativo di dire, per compiacere la
sinistra radicale, che si e' trattato di fuoco amico americano, britannico o
canadese, l'amico Arturo Parisi va a casa mentre il capo di Stato Maggiore
della Difesa rimane. Chissa' che non ci scappi pure la nomina a successore di
Arturo...''.
Cossiga conclude affermando: ''fuori del Senato c’è invece un cretino:
il noto uomo d'affari Spogli, ambasciatore degli Stati Uniti, che non ha
compreso ciò che nella diplomazia e' più prezioso: tacere''.
UN’AZIONE
CONTRO L’IRAN SI AVVICINA E IL PREZZO DEL PETROLIO S’IMPENNA
Roma,
28 Marzo 2007 - Agenparl -”Sebbene la storia dei missili si sia dimostrata
falsa, quella del sequestro iraniano dei marinai britannici è ben reale
e deve ancora essere giocata”, ha detto Edward Meir, noto analista delle
materie prime presso la Man Financial ltd. (uno dei principali fornitori di
servizi di brokeraggio al mondo).
La dichiarazione è riportata con rilievo dal Financial Times, che spiega
il balzo del prezzo del petrolio (+5$ solo mercoledì) con la probabile
imminenza di uno scontro armato contro l’Iran.
Infatti, nel timore che la situazione relativa ai 15 Royal Marines non si
risolvesse diplomaticamente, il prezzo del WTI (il greggio statunitense; quello
europeo è il Brent) è cresciuto in una settimana del 13%.
I soldati inglesi sono stati catturati dai pasdaran iraniani dopo che avevano
abbordato un mercantile cinese, accusato dalla Royal Navy di contrabbandare in
Iraq “auto di seconda mano”. Il fatto,
avvenuto a ridosso del confine marittimo iraniano, può peraltro
ricordare l’èscamotage che gli Usa approntarono in un altro golfo,
quello del Tonchino, per muovere alla guerra.
Intanto, la Us Navy ha rafforzato la sua presenza di fronte alle coste
iraniane, mentre a poche miglia a Est dai confini terrestri di Teheran si
svolge l’offensiva della Nato in Afghanistan.
(F.Mi.)
E'
arrivato in Italia ed e' da oggi disponibile per tutte le donne l'atteso
vaccino contro il tumore del collo dell'utero. Il Gardasil e' il primo messo a
punto contro una forma tumorale che in Italia fa ammalare 10 donne al giorno,
una ogni 2 ore. L'introduzione del vaccino sul mercato italiano e' stato
possibile grazie alla sperimentazione avvenuta in 5 centri di ricerca italiana,
uno a Brescia, due a Roma, uno a Napoli ed uno a Palermo. L'annuncio
dell'arrivo del vaccino, prodotto dalla Sanofi Pasteur Msd, era arrivato nei
giorni scorsi dalla Commissione sanita' del Senato, per bocca del presidente
Ignazio Marino. "L'annuncio della disponibilita' di un vaccino per l'Hpv
e' una grande notizia per le donne, che per la prima volta, hanno la
possibilita' di proteggersi in modo quasi totale da quella che ancora oggi e'
una delle principali cause di tumore nel mondo femminile". Lo ha
dichiarato l'oncologo Umberto Veronesi nel corso della conferenza stampa che
accompagna il lancio in Italia del Gardasil, il primo vaccino contro il
papilloma virus e contro il tumore al collo dell'utero. "Si tratta di una
grande notizia anche per la ricerca oncologica che vede confermate le
intuizioni sulle cause del cancro - ha aggiunto Veronesi - e anche per la
sanita' pubblica che puo' offrire, con questo vaccino, uno strumento di
prevenzione oncologica che non lascia spazio ai dubbi sul rapporto
costo-beneficio. L'Istituto Europeo di Oncologia ha sempre orientato la sua
ricerca in questa direzione e contribuira' allo sviluppo delle conoscenze sul
vaccino contro l'Hpv con uno studio per aumentare la vaccinazione delle ragazze
di 18 anni, che verra' avviato prima dell'estate". (
La
fede cristiana è "unica e pubblica": destinata a tutte i
popoli, non è elitaria o intellettualistica, come hanno sostenuto
nei secoli varie eresie. Papa Benedetto XVI, nell'udienza generale di oggi
in piazza San Pietro, prende spunto dagli insegnamenti di Ireneo, teologo e
vescovo di Lione (II-III sec.), che combatté gli gnostici. Questi ultimi
sostenevano che la fede insegnata dalla chiesa non era altro che un simbolismo
destinato agli ingenui, mentre solo gli eruditi potevano comprendere l'essenza
di Dio.
La
fede - ha rimarcato il Papa citando Ireneo - "si basa sul credo degli
apostoli, trasmesso ai vescovi, attraverso una catena ininterrotta".
"Non esiste un cristianesimo superiore o intellettuale. La fede della
Chiesa viene da Gesu' e da Dio".
Il Papa, inoltre, ha esortato i fedeli della Sicilia, presenti oggi
in piazza San Pietro, ad essere "costruttori di pace nella legalità
e nell'amore, offrendo luce agli uomini del nostro tempo, i quali - ha detto il
Papa - pur presi dagli affanni della vita quotidiana, avvertono il richiamo
delle realtà eterne".
Rivolgendosi
ai vescovi, Benedetto XVI chiede loro di "sostenere con il vostro esempio
i sacerdoti, le persone consacrate e i fedeli laici di Sicilia, perché - ha
proseguito - continuino a testimoniare Cristo e il suo Vangelo, con rinnovato
slancio e fervore. Nessun timore vi sorprenda mai - ha concluso il Pontefice -
e agiti il cuore di tutti voi. Chi segue Cristo non si spaventa delle
difficoltà, chi confida in Lui va avanti sicuro".
Ai vescovi siciliani Benedetto XVI ha detto: "Annunziate integralmente la
parola di Dio, insistete in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonite,
rimproverate, esortate con ogni magnanimità e dottrina".
"Sostente
- ha aggiunto - con il vostro esempio i sacerdoti, le persone consacrate e i
fedeli laici di Sicilia, perché continuino a testimoniare il Vangelo, con
rinnovato slancio e fervor. Nessuno timore sorprenda mai e agiti il cuore di
tutti voi, cari fratelli e sorelle. Chi segue Cristo non si spaventa delle
difficoltà; chi confida in Lui va avanti sicuro".
I
politici cattolici che sostengono la legalizzazione delle unioni di fatto sono
incoerenti. Questo quanto scritto nella nota del Consiglio permanente della
Conferenza episcopale italiana sui Dico. La pubblicazione di un testo era stata
annunciata diverse settimane fa dall’ex presidente della Cei, Camillo Ruini.
"Una parola impegnativa ci sentiamo di rivolgere specialmente ai cattolici
che operano in ambito politico".
"Lo facciamo con l'insegnamento del Papa nella sua recente Esortazione
apostolica post-sinodale Sacramentum Caritatis: 'i politici e i legislatori
cattolici, consapevoli della loro grave responsabilità sociale, devono
sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata,
a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondati nella natura umana,
tra i
quali rientra la famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna' ".
"Sarebbe
quindi incoerente - si legge nella Nota della Cei - quel cristiano che
sostenesse la legalizzazione delle unioni di fatto".
La Cei ribadisce poi "la legalizzazione delle unioni di fatto"
è "inaccettabile sul piano di principio, pericolosa sul piano
sociale ed educativo".
Nella
nota si dice che il riconoscimento delle unioni fra gay negherebbe "la
differenza sessuale che è insuperabile".
Dunque
una legge sulle unioni di fatto avrebbe effetti deleteri sulla famiglia perché
toglierebbe "al patto matrimoniale la sua unicità, che sola
giustifica i diritti che sono propri dei coniugi e che appartengono soltanto a
loro".
"Un
problema ancor più grave sarebbe rappresentato dalla legalizzazione
delle unioni di persone dello stesso sesso, perché, in questo caso, si
negherebbe la differenza sessuale, che e' insuperabile".
Il
rilancio della diplomazia italiana in America latina con la visita del
presidente del Consiglio, Romano Prodi, in Brasile e Cile, due portabandiera
della sinistra sudamericana "pragmatica", e l'attivismo del ministero
degli Esteri nella regione sono certamente fatti positivi.
Non devono però far dimenticare una pesante partita ancora aperta, che
nessuno sembra aver voluto affrontare neanche in occasione della visita recente
del vicepresidente argentino in Italia: quella dei risparmiatori italiani
coinvolti nell'insolvenza della Repubblica argentina del dicembre 2001. Dei
circa 480mila che avevano investito in oltre 14 miliardi di dollari di titoli
argentini, gli ormai famigerati tango bond, quasi due terzi, che detengono ancora
obbligazioni per un valore di 8 miliardi di dollari, non hanno aderito due anni
fa alla ristrutturazione del debito proposta dal Paese sudamericano.
Contro le regole e la prassi della finanza internazionale, il Governo Kirchner
ne ignora le rivendicazioni e certamente farà di tutto per tacitarne le
richieste almeno fino alle elezioni presidenziali di ottobre, se non oltre.
Sorprende tuttavia l'acquiescenza delle altre controparti, a partire dal
Governo italiano e dal G7, per finire al Fondo monetario, marginalizzato prima
dalla sua insipienza, poi dal rimborso anticipato del debito argentino nei suoi
confronti, rimborso che ne ha spuntato le armi di pressione.
Buenos Aires ha sfruttato abilmente un vuoto di leadership nella
comunità internazionale, creato dall'incapacità del Tesoro Usa
nel gestire la situazione e dal tentativo dell'amministrazione Bush di attirare
l'Argentina dalla sua parte nel gioco geopolitico contro l'ala populista della
sinistra sudamericana, capeggiata dal presidente venezuelano Hugo Chavez.
Tentativo non riuscito, visto che Chavez, presentandosi alla porta di Kirchner
a libretto degli assegni spianato, lo ha compensato in petrodollari del ripudio
del mercato internazionale dei capitali. Se la chiave di volta è a
Washington, forse può servire la pressione che l'American Task Force
Argentina, capeggiata da due esponenti dell'amministrazione Clinton, sta
cercando di esercitare negli Stati Uniti e anche sul Club di Parigi, il gruppo
dei creditori ufficiali che l'Argentina vorrebbe rimborsare anche in questo
caso con modalità poco ortodosse.
Kirchner sa che la questione degli holdout, cioè dei debitori che non
hanno aderito allo scambio di titoli, resta un ostacolo alla normalizzazione
dei rapporti con la comunità finanziaria internazionale. Quindi vorrebbe
chiudere i conti anche con il Club di Parigi per mettere gli holdout
ulteriormente alle strette. Per questo, e anche per evitare che questo
pericoloso precedente trovi degli imitatori, l'Italia, il G7 e, per quel poco
d'influenza che gli è rimasta, anche l'Fmi dovrebbero usare invece
quest'ultima carta a difesa dei legittimi interessi dei risparmiatori.
BRUXELLES - Tre italiani, un funzionario della
Commissione Ue, l'assistente di un deputato europeo e un agente immobiliare,
sono stati incriminati e arrestati a Bruxelles nell'ambito dell'inchiesta per
presunta corruzione in appalti concessi dalla Commissione europea. Ne ha dato
notizia la procura di Bruxelles. L'inchiesta riguarda la gestione di gare
d'appalto europee per la ricerca d'immobili per alcune delegazioni della
Commissione e la realizzazione di impianti di sicurezza.
Non è stato reso pubblico il nome dei tre arrestati. Un'agenzia di
stampa belga ha però fatto sapere che i tre sono accusati di
falsificazione di documenti, corruzione e associazione a delinquere, e che il
funzionario della Commissione finito in manette ha 46 anni, l'assistente di un
deputato europeo 60 e l'agente immobiliare 39.
La procura belga ha avviato tre anni fa, in seguito ad una denuncia dell'Olaf,
l'ufficio europeo-antifrode, un'inchiesta a vasto raggio che coinvolge, a vari
livelli, un numero non precisato di funzionari europei. I principali reati
ipotizzati sono, oltre alla corruzione, associazione a delinquere, violazione
del segreto professionale e delle leggi sui mercati pubblici.
Nell'ambito dell'indagine ieri sono state eseguite perquisizioni in Italia,
Francia, Lussemburgo e Belgio. Il magistrato, titolare del dossier, Berta
Bernardo-Mendez, insieme al sostituto Pascale France, secondo quanto si
è appreso dalla procura, sta indagando in particolare sulle operazioni
di reperimento di immobili destinati ad ospitare le delegazioni della
Commissione europea all'estero e su appalti per l'installazione di sistemi
d'allarme degli stessi palazzi.
Le indagini dei magistrati di Bruxelles, in Italia, hanno portato fino a
Potenza e da qui è partita un'operazione, a più ampio raggio,
che, in collaborazione con i carabinieri, ha interessato Roma, Matera,
Frosinone, l'Aquila e Teramo. Dal lavoro degli investigatori della città
lucana sono giunti elementi ritenuti importanti per chiarire alcuni aspetti
della vicenda. L'assistente parlamentare, secondo quanto si è appreso a
Potenza, è il titolare di una società che avrebbe avuto un ruolo
nell'individuazione di edifici da destinare a sedi di rappresentanza dell'Ue,
probabilmente in India e in Albania.
I portavoce della Commissione e del Parlamento europeo, pur confermando
l'inchiesta, non hanno fornito ulteriori particolari, in attesa degli sviluppi
dell'azione della magistratura. "L'Olaf - ha detto il portavoce
dell'esecutivo Ue Johannes Laitenberger - collabora pienamente con
l'autorità giudiziaria per fare piena luce su alcuni sospetti. Fino a
quando non saranno accertate eventuali responsabilità i funzionari
resteranno al loro posto".
(28 marzo 2007)
ROMA
«Adesso quelli dell’Udc faranno prima a trattare con i talebani per il comune
di Kabul», dice sarcastico Francesco Storace attraversando il Transatlantico di
Palazzo Madama mentre in aula si discute del rifinanziamento della missione in
Afghanistan. «Noi - aggiunge - dovremo essere conseguenti e non votare i loro
candidati ma solo quelli della Casa delle libertà ormai abbandonata
definitivamente da Casini». Poco più in là il capogruppo della
Lega, Roberto Castelli, spiega che ora è più difficile trovare
una soluzione a Verona dove da mesi il centrodestra litiga sul candidato
sindaco perché i centristi vogliono imporre Alfredo Meocci, l’ex direttore
generale della Rai: «Se lo scordano adesso... Abbiamo un nostro candidato che
in quella città vince a mani basse».
«Forse non hanno capito - gli risponde a muso duro il segretario dell’Udc,
Lorenzo Cesa - che senza i nostri voti il centrodestra non vince da nessuna
parte. Ma dove vanno senza di noi...». «Berlusconi si è bossizzato -
avverte il senatore Francesco Pionati - e se in seguito al voto
sull’Afghanistan radicalizza lo scontro nei nostri confronti siamo pronti a
mettere in discussione anche gli accordi già chiusi». «E poi - aggiunge
Mario Baccini - mica possiamo barattare la politica estera per qualche comune
in più. Non vogliono Meocci a Verona? Perderanno, così come
perderebbero le Politiche. Noi siamo pronti a correre pure da soli. Mi auguro -
conclude l’ex ministro - che Berlusconi e Fini non vogliano commettere questo
errore madornale».
Forza Italia è preoccupata per quello che potrà accadere in
periferia. Silvio Berlusconi che vuole politicizzare le Amministrative di
primavera e farne un banco di prova sulla fiducia del governo Prodi, ha bisogno
di avere accanto Pier Ferdinando Casini. Ma è combattuto tra l’istinto
di rottura e la ragione politica. E’ al corrente della «guerriglia»
(così l’ha definita Mario Valducci l’altro giorno a Fiuggi al convegno
degli amministratori locali di Fi) che sta portando avanti l’Udc nelle
città dove si vota. Tuttavia nelle ultime ore gli è stato
consigliato di fare buon viso e cattivo gioco. «Calma, calma - dice infatti il
responsabile Enti locali Valducci - l’Udc non è passata con la
maggioranza, fa ancora parte dell’opposizione. Archiviata la vicenda Afghanistan,
ci siederemo attorno a un tavolo e troveremo una soluzione». «Speriamo di
raddrizzare la barca - commenta il capogruppo di An, Altero Matteoli - ma la
vedo dura».
Adesso che si è consumato lo strappo sull’Afghanistan tra Udc e il resto
del centrodestra, per quello che resta della Casa delle libertà
sarà difficile presentarsi alle Amministrative di primavera come una
coalizione credibilmente unita. «Ma alle Amministrative - osserva Osvaldo
Napoli di Fi - l’incidenza della politica nazionale non c’è. Perdi se
sbagli i candidati o hai amministrato male». Appunto. È infatti di
alcuni giorni fa l’ammissione dello stesso Berlusconi secondo il quale i giochi
dei partiti hanno portato a scegliere candidati perdenti.
Nel centrodestra, tra l’altro, rimangono poi ancora molti nodi aperti. A parte
Verona, la Cdl non riesce a trovare una candidatura comune a sindaco a
Frosinone, L’Aquila, Asti. In tutte queste città i centristi hanno
proposto un loro uomo e non vogliono sentir ragione. «In periferia - ha detto
ieri Casini dopo una riunione con i senatori - ognuno fa ciò che ritiene
opportuno». Certo, ha aggiunto, «sarebbe meglio presentare liste di
centrodestra: è nell’interesse comune». Ma a taccuini chiusi, l’ex
presidente della Camera ha precisato: «Se dopo il voto sull’Afghanistan Fi, An
e Lega volessero metterci in un angolo, avrebbero pane per i loro denti».
Per la verità nell’Udc più di qualche dubbio affiora sulla
conseguenze che potrà avere nelle urne di maggio quello che in Forza
Italia definiscono il «follinismo moderato» di Casini. A essere preoccupati
sono soprattutto quegli esponenti centristi impegnati nelle regioni rosse o in
quei comuni del Sud dove il centrosinistra è forte e gli elettori del
centrodestra non vogliono sentir parlare di divisioni. «Attenzione - ha detto
ieri alla riunione dei senatori Udc il toscano Medo Poli - che con gli elettori
possiamo pagarla la nostra presa di distanza da Forza Italia e An». Gli
è stato spiegato dallo stesso Casini che tra qualche giorno questa
divisione sarà dimentica: «Le Amministrative sono ancora lontane. In
mezzo c’è il nostro congresso. E poi dovranno essere Berlusconi e Fini a
spiegare ai nostri elettori perché hanno cambiato idea in 24 ore».
La
fissazione di soglie rigide, oltre le quali i tassi di interesse possono essere
definiti tassi usurari finisce per aiutare l’usura.
L’affermazione, apparentemente paradossale, è stata fatta oggi nel corso
di un’audizione al Senato da Giovanni Carosio, vicedirettore di Bankitalia.
“In
un quadro positivo per la disponibilità del credito – ha spiegato
Carosio- il meccanismo dei tassi di soglia”ha avuto effetti distorsivi fra
categorie di finanziamento e di intermediari e può aver ristretto
l’offerta di credito proprio alle fasce di clientela a maggior rischio,
più esposta all’usura”.
Di
qui la proposta di superare il meccanismo introdotto altre 10 anni fa dalle
legge sull’usura sostituendolo, come già avvenuto in quasi tutti i Paesi
sviluppati, con la discrezionalità delle banche.
Queste potranno selezionare meglio i clienti e fissare i prezzi del credito,
tenendo effettivamente conto del costo del rischio.
Insomma
la soglia rigida verrebbe sostituita dalla fissazione di tassi di interesse
commisurati al potenziale debitore.
Il 26 marzo del 1999 Silvio Berlusconi, nel discorso
parlamentare sulla guerra del Kosovo, dichiarò che non sarebbe mancato
il sostegno dell'opposizione al governo D'Alema, pur «privo di maggioranza in
politica estera», giacché questa scelta rappresentava il dovere inderogabile
«che spetta all'opposizione quando sono in gioco gli impegni non del governo ma
del Paese». Ma ieri il leader di Forza Italia, in circostanze analoghe se non
identiche, non ha voluto attenersi al principio proclamato con solennità
esattamente otto anni fa, e ha incassato con un solo gesto due risultati
negativi. Ha voltato le spalle a un decreto la cui approvazione era stata
richiesta addirittura dall'ambasciatore americano in Italia. E ha dimostrato
che in Senato, pur tra mille peripezie e acrobazie, il governo Prodi ha
conservato una maggioranza autosufficiente, anche prescindendo dall'apporto dei
venti senatori dell'Udc che hanno votato sì. Il mito della spallata,
galvanizzante e capace di mobilitare la piazza, ha abbagliato i leader del
centrodestra, inducendoli a pensare che la maggioranza, paralizzata dai suoi
contrasti interni, si sarebbe miracolosamente liquefatta. Solo così si
spiega la piroetta con cui la Casa delle Libertà ha rinnegato il voto
favorevole alla Camera accordato una manciata di giorni fa.
E si spiega la concitazione frettolosa con cui Silvio Berlusconi ha riposto quella
linea di condotta abbracciata otto anni orsono, e che sanciva la preminenza
degli interessi nazionali su quelli di uno schieramento. A lenire le ferite di
una sconfitta che non era scritta nel destino non provvederà nemmeno la
caccia al capro espiatorio, l'accusa a Pier Ferdinando Casini di aver
proditoriamente «salvato» il governo. I numeri dicono che le cose stanno
diversamente e Prodi esce paradossalmente rafforzato da un braccio di ferro che
l'opposizione ha affrontato senza calcolarne rischi e contraddizioni. Casini può
legittimamente obiettare che, rispetto al voto della Camera, a cambiare
posizione non è stato lui, ma il resto dell'opposizione, passato
inopinatamente da un voto favorevole all'astensione. Il governo può a
sua volta sostenere che l'accoglimento di un ordine del giorno del centrodestra
in cui si chiedeva un irrobustimento della sicurezza militare dei soldati in
Afghanistan dimostra il rifiuto di una logica di contrapposizione assoluta. La
comunità internazionale, in primo luogo gli Usa e la Gran Bretagna,
possono invece rammaricarsi perché la richiesta all'Italia di non lesinare
sforzi e risorse quando in Afghanistan si è alla vigilia di uno scontro
decisivo con i talebani non ha potuto contare su un'opposizione che aveva fatto
della solidarietà atlantica un tratto identitario. L'opposizione (o le
due opposizioni, come oramai appare incontestabile) avrà motivo di
riflettere su una scelta che non è stata in grado di ottenere nemmeno
uno dei risultati che si prefiggeva. Alla maggioranza di governo, passato lo
spavento, non converrà contemplarsi nella sensazione di
un'autosufficienza ritrovata, ma pur sempre gracile e vulnerabile. La seconda
guerra di Kabul imporrà ancora dilemmi drammatici, non esorcizzabili con
il ricorso a sofisticate tattiche parlamentari. Con la speranza che maggioranza
e opposizione riescano a capirlo prima che sia troppo tardi.
28 marzo 2007
Semaforo verde dai ministri alla direttiva
che ora dovrà passare all'esame dell'Europarlamento. Accordo su fusioni
bancarie Il consiglio Ecofin ha raggiunto ieri un accordo politico sulla
direttiva servizi di pagamento che mira a regolamentare gli aspetti del mercato
dei servizi di pagamento, introducendo nuovi soggetti in grado di effettuarli.
I ministri dell'economia e delle finanze hanno infatti adottato
all'unanimità il testo di compromesso sulla direttiva che ha come
obiettivo di rendere i pagamenti transfrontalieri nell'Ue con carte di credito,
bancomat, trasferimenti elettronici e altri messi altrettanto facili e sicuri
dei pagamenti nazionali all'interno di uno stato membro, creando il fondamento
legale per rendere possibile l'area unica dei pagamenti, Sepa. Ora il testo
dovrà passare all'esame dell'Europarlamento. 'Si tratta', ha spiegato il
commissario al mercato interno Charlie McCreevy, 'di una pietra miliare
decisiva per fare dell'area unica dei pagamenti una realtà. è un
buon compromesso e contribuisce a realizzare gli obiettivi congiunti di un'apertura
del mercato e di una protezione dei consumatori. Avere pagamenti facili e
veloci porterà a grandi risparmi per l'economia europea e a benefici
pratici e concreti per i consumatori. L'introduzione dei primi strumenti del
Sepa giungerà tra meno di dieci mesi. Questo accordo unanime invia un
segnale positivo a tutti coloro, e sono molti, che credono nel Sepa e che hanno
già molto investito in essa. Aspetto con ansia le decisioni
dell'Europarlamento e spero che l'adozione finale della direttiva giunga il prima
possibile'. La direttiva sui servizi di pagamento, proposta dalla Commissione
nel dicembre del 2005, punta a garantire un accesso equo e libero al mercato
dei pagamenti e ad aumentare la protezione dei consumatori. Attualmente
ciascuno stato membro ha le sue proprie regole per i pagamenti, e i costi, in
questo sistema frammentato, sono tra il 2 e il 3% del pil. I fornitori di
servizi sono nella effettiva impossibilità di competere e offrire i loro
servizi in tutta Europa. Rimuovere queste barriere potrebbe portare a un
beneficio di 28 miliardi di euro all'anno. La direttiva garantirà che i
pagamenti elettronici vengano eseguiti entro un giorno al massimo, aprendo la
via a un calo dei prezzi e a un aumento della scelta grazie a un aumento della
concorrenza.Ieri i ministri dell'economia e delle finanze dell'Unione europea
hanno anche raggiunto un accordo politico sulla direttiva bancaria, che
dovrà ora passare all'esame del Parlamento europeo per poi essere
approvata definitivamente dal consiglio. Il testo, relativo alle fusioni nel
settore bancario, punta a far sì che politici e banche centrali non
abbiano troppo potere per bloccare le operazioni di fusione e acquisizione con
cui non sono d'accordo. Alcune banche centrali possono attualmente bloccare, o
quantomeno ritardare, le operazioni se ritengono che il nuovo acquirente di una
banca possa danneggiare la stabilità finanziaria del loro paese. Le
nuove regole servono ad arginare questa tendenza, stabilendo tempi più
brevi per le decisioni dei supervisori bancari sulle offerte e fissando
standard comuni per sondare la reputazione dell'acquirente e la sua
solidità finanziaria. Le modifiche sono state messe a punto dopo il
'caso Fazio' e le polemiche legate alle discriminazioni degli investitori
stranieri nelle banche italiane. Le prospettive dell'economia. Nel corso del
vertice è stato fatto anche il punto sull'andamento dell'economia. Alti
prezzi del petrolio e la debolezza del dollaro statunitense sono i rischi
più importanti secondo il ministro delle finanze olandese, Wouter Bos.
Più ottimista il ministro austriaco, Wilhelm Molterer, che ha descritto
i rischi come 'bilanciati', aggiungendo che l'economia europea non mostra alcun
segno di rallentamento. Molterer ha quindi spiegato che 'non ci sono problemi
reali con l'inflazione'. Jean-Claude Juncker, ministro del Lussemburgo, ha
detto che è ancora troppo presto per capire se il rallentamento del
mercato immobiliare Usa si rifletterà anche nella Ue.La situazione
italiana. Anche se le entrate finanziarie si sono rivelate maggiori del
previsto, l'Italia dovrà effettuare, con la prossima Finanziaria, dei
correttivi di bilancio pari allo 0,5%. Lo ha dichiarato il commissario europeo
all'economia, Joaquin Almunia, riferendosi alle regole ben precise previste in
questo senso dal patto di stabilità. Lunedì sera, in seno
all'Eurogruppo, è stato registrato un consenso nell'approfittare della
congiuntura economica favorevole per accelerare i tempi del risanamento delle
finanze pubbliche. Nel corso della conferenza stampa finale, il presidente di
turno, il tedesco Peer Steinbrueck, ha tenuto a precisare: 'Non è stata
presa alcuna decisione, è stato registrato un accordo ad approfittare di
questo periodo favorevole per fare maggiori progressi, ma nessuno sarà costretto
a fare di più dello 0,5% previsto'.
*Tesoriere nazionale Rifondazione
comunista.
Il Tesoriere nazionale dei Ds, Ugo
Sposetti, è intervenuto recentemente sulle colonne dell'Unità
interrogandosi sui partiti, sul loro ruolo e funzionamento. Ritengo la sua
riflessione utile ed importante, anche per il metodo col quale ripropone
questioni che da troppo tempo sono agitate con eccessiva demagogia, anziché
essere discusse con la necessaria cura e attenzione. A provocare la riflessione
di Sposetti è stata anche una recente iniziativa legislativa di
Pierluigi Castagnetti sull'attuazione dell'art 49 della nostra Costituzione e
la democrazia interna dei partiti, che ha il pregio di affrontare il tema anche
sul versante normativo. Credo che il merito della discussione sia rilevante non
solo relativamente all'oggetto specifico del progetto di legge, ma anche
rispetto alle vicende politiche che attraversano oggi la sinistra italiana.
Infatti gli interrogativi sul ruolo dei partiti e dei movimenti politici,
così come il delicato tema del finanziamento delle loro attività
sono, non solo attuali, ma utili a ritrovare il filo perduto del loro rapporto
coi cittadini e della partecipazione alla politica. E sono domande che cercano
una risposta nella capacità dei partiti di saper leggere e affrontare i
fenomeni e i problemi sociali fuori dall'autoreferenzialità, nel loro
ruolo nell'assicurare parità di accesso alle istituzioni alle donne e nel
formare i propri gruppi dirigenti. Insomma se è vero che l'articolo 49
della nostra Costituzione interpreta ancora un'importante e fondamentale
modalità di partecipazione nella democrazia, nel contempo è
altrettanto vero che i partiti vivono da anni una profonda crisi, di partecipazione
e di ruolo. Proprio per questo, proprio per mettere i partiti nella condizione
di discutere di sé, di affrontare con franchezza la propria crisi, di produrre
innovativi strumenti e regole di partecipazione, soprattutto nella definizione
delle proprie scelte, che condivido l'idea che a 60 anni dalla Costituente, sia
oggi possibile affrontare anche con un intervento normativo il nodo che a quel
tempo si volle - consapevolmente - non disciplinare: il tema della loro
democrazia interna. Proprio la forza e il ruolo dei movimenti, la
molteplicità delle forze associative e di volontariato che aggregano
migliaia di giovani e la contemporanea diffidenza giovanile nei confronti della
politica, chiede che i partiti abbiano nuove regole trasparenti, certe, di
garanzia e di partecipazione. È ovvio che il tema del finanziamento dei
partiti nell'attuazione dell'art 49 è anch'esso argomento di discussione
centrale; discussione che non deve essere soltanto relegata ai tesorieri. La
politica costa, così come la democrazia, e assicurare ai cittadini la
possibilità di partecipare alla politica a prescindere dalle condizioni
economiche è ormai un dato che dovrebbe essere acquisito. Ma così
non è, e concordo con Sposetti che i continui attacchi alle forme di
sostegno pubblico ai partiti in realtà nascondano un'idea pericolosa,
un'idea per cui la politica si determina intorno a singoli individui o gruppi
di pressione capaci di muovere interessi e ingenti risorse fino a piegare
l'interesse pubblico a quello privato. E allora non è questo un tema che
deve affrontare tutta la politica e non soltanto chi, nei partiti, ne è
più direttamente coinvolto? E la politica deve farlo con chiarezza e
senza ipocrisie, affrontando quei problemi che definiti "costi della
politica" in realtà sono altro, piuttosto costi di "governo
della politica" o, nei casi peggiori, costruzione di clientele e filiere
di interessi privati. Insomma è necessario intervenire con
determinazione contro la moltiplicazione di consulenze e di incarichi
super-retribuiti, soprattutto a fronte di scadenti risultati, e le inutili
duplicazioni di funzioni a danno dell'efficienza dei servizi ai cittadini. Ma
anche evitando insopportabili pratiche come quella di non regolarizzare il
rapporto di lavoro dei collaboratori parlamentari. In questo caso mi chiedo
perché le Camere non adottino misure affinché le risorse inerenti al rapporto
eletto ed elettori siano erogate sulla base di spese documentate. Ad esempio
contratti di affitto (nel caso di un ufficio parlamentare nel collegio) o un
contratto di lavoro (nel caso di un collaboratore). Solo così la
discussione potrà essere riportata sul terreno più autentico,
quello della necessità di dotare i partiti e i movimenti politici
(luoghi di democrazia e partecipazione) degli strumenti necessari alla loro
attività oltre il periodo elettorale. È ovvio che al sostegno
economico dello Stato debbano corrispondere la trasparenza nei bilanci, nella
gestione delle risorse in campagna elettorale (nel rispetto delle leggi già
esistenti in materia), nella pubblicità dei contributi privati. Insomma,
è meglio avere partiti ben finanziati sulla base di regole chiare che
partiti "deboli" e poco trasparenti. E insieme si potrebbero prendere
alcune misure affinché i partiti possano autofinanziarsi con una strategia di
grandi cifre in piccole somme, aumentando la quota della detrazione dell'Irpef
per i contributi che in un anno non superino un determinato tetto. Infine,
sempre nel quadro di norme certe, la discussione sulle risorse deve affrontare
anche due esigenze: la partecipazione delle donne e dei giovani alla politica e
la formazione. Sulla partecipazione delle donne alla politica nel tempo si sono
compiuti alcuni passi importanti, ma è ancora tanta la strada da
percorrere; così come dare ai partiti strumenti specifici per la
formazione è oggi necessario, proprio nell'ottica di evitare
un'insopportabile riproduzione per cooptazione dei gruppi dirigenti. Forse da
qui, proprio da una maggiore capacità dei partiti di destinare risorse
alla formazione politica, intesa anche come libero confronto e finalizzata a
condividere competenze, che può nascere un rinnovato interesse nei loro
confronti e una nuova percezione degli stessi partiti quali strumenti di
partecipazione dei giovani alla politica come lo sono stati per un lungo
periodo, dopo la Liberazione nella storia del paese. Ma rimango convinto che,
sempre e comunque, resta centrale il principio che le sorti della politica e di
una maggiore partecipazione non possono essere affidate esclusivamente al finanziamento
dei partiti, quanto piuttosto alla capacità della politica e dei
partiti, in particolare oggi di quelli di sinistra, di suscitare interesse
attorno ad una rinnovata battaglia delle idee sui grandi temi del lavoro e
della precarietà (soprattutto dei giovani), dell'inquinamento e del
clima, dei diritti e dell'accesso ai diritti, una battaglia insomma per
contrastare le sempre più evidenti disparità sociali e affrontare
efficacemente la questione ambientale che non può essere più
relegata ai dibattiti tra specialisti. Insomma i partiti devono anche fare i
conti, oltre che con le proprie risorse, con la sostanza delle loro proposte, e
di quanto esse possano essere realmente percepite come migliorative delle
condizioni di vita delle donne e degli uomini. Trasparenza nei bilanci e
visibilità dei finanziamenti dunque, ma soprattutto recuperare il valore
della politica come partecipazione dei giovani, donne e uomini, come battaglia
delle idee, perché è illusorio ritenere che la certezza delle risorse finanziarie
possa sostituire la ricchezza dell'agire politico sui grandi temi dell'Italia
di oggi.
BRUXELLES Corruzione, associazione a
delinquere, violazione del segreto professionale e delle leggi sui mercati
pubblici: questi i principali reati ipotizzati dalla procura belga che, in
seguito ad una denuncia dell'Olaf, l'ufficio europeo-antifrode, ha avviato
un'inchiesta a vasto raggio che coinvolge, a vari livelli, un numero non
precisato di funzionari europei, ma anche imprenditori e l'assistente di un
eurodeputato italiano. L'indagine, avviata tre anni fa, ieri ha portato ad
un'operazione di polizia con perquisizioni in Italia, Francia, Lussemburgo e
Belgio. Il magistrato, titolare del dossier, Berta Bernardo-Mendez, insieme al
sostituto Pascale France, secondo quanto si è appreso dalla procura, sta
indagando in particolare sulle operazioni di reperimento di immobili destinati
ad ospitare le delegazioni della Commissione europea all'estero e su appalti
per l'installazione di sistemi d'allarme degli stessi palazzi. La procura ha
precisato che le presunte frodi coinvolgerebbero "funzionari europei della
Commissione, così come i dirigenti di società interessate a
questi mercati". Le indagini dei magistrati di Bruxelles, in Italia, hanno
portato fino a Potenza e da qui è partita un'operazione, a più
ampio raggio, che, in collaborazione con i carabinieri, ha interessato Roma,
Matera, Frosinone, l'Aquila e Teramo. Perquisizioni in tutte le città
coinvolte. Dal lavoro degli investigatori della città lucana sono giunti
elementi ritenuti importanti per chiarire alcuni aspetti della vicenda.
L'assistente parlamentare, secondo quanto si è appreso a Potenza,
è il titolare di una società che avrebbe avuto un ruolo
nell'individuazione di edifici da destinare a sedi di rappresentanza dell'Ue,
probabilmente in India e in Albania. Anche a Bruxelles è stato
perquisito l'ufficio al Parlamento europeo dell'assistente indagato, oltre a
non meglio precisate sedi della Commissione europea. (mercoledì 28 marzo
2007).
ROMA È durata poco più di tre
mesi la latitanza di Gina Spallone, l'imprenditrice romana appartenente ad una
famiglia nota nell'ambito della sanità e più volte finita, nel
corso degli anni, al centro di alcune inchieste. Per Gina Spallone,
amministratore unico della clinica Annunziatella di Roma, i giudici avevano
emesso due ordinanze di custodia cautelare nell'ambito dell'inchiesta della
Procura romana sugli ammanchi della sanità laziale. I carabinieri del
nucleo operativo di Roma hanno arrestato l'imprenditrice nella tarda serata di
avant'ieri a Borgo Sabotino, in provincia di Latina. Gina Spallone era entrata
nell'inchiesta conosciuta come quella di "Lady Asl", nel mese di
dicembre e le accuse rivolte all'amministratore unico della clinica
Annunziatella furono quelle di concorso in corruzione, truffa e falsità
materiale in atti pubblici. Con Gina Spallone, latitante fino a lunedì
sera, furono coinvolti ed arrestati il responsabile dell'ufficio affari legali
della Asl Rm C, Sergio Aiello, la convivente, Sofia Jessuf Mohammed, e Maurizio
Porcari, amministratore delegato della società Sacli, che gestisce
alcune cliniche della capitale. Gli arresti eseguiti a dicembre su disposizione
del gip Luisanna Figliolia facevano riferimento alla tranche delle indagini dei
pm Giancarlo Capaldo e Giovanni Bombardieri sulle tangenti che sarebbero state
versate da imprenditori a funzionari di Asl romane. Filone che ha fatto
registrare decine di arresti e nel quale risultano coinvolti il parlamentare di
Forza Italia Giorgio Simeoni, rinviato a giudizio lo scorso 13 febbraio, e l'ex
assessore regionale del Lazio Giulio Gargano, condannato a quattro anni e
quattro mesi. Secondo l'accusa, Aiello avrebbe "gonfiato" facendoli
pagare in alcuni casi due volte, e avallato nella sua veste di capo di ufficio
legale dell'Asl Rm/c mandati di pagamento in favore dei due imprenditori
arrestati. (mercoledì 28 marzo 2007).
M
La
Casa Bianca ha già preannunciato il veto a iniziative del genere
La Camera alta del Congresso vota per il rientro
dei soldati a partire dall'anno prossimo. «Deluso» il presidente
WASHINGTON
(USA) - Il Senato degli Stati Uniti ha votato 50-
IL PRONUNCIAMENTO DELLA CAMERA - Il voto è una sconfitta comunque
per i repubblicani, che in precedenti occasioni in Senato erano riusciti a far
naufragare tentativi di far passare indicazioni di date per un ritiro. La
Camera nei giorni scorsi ha varato un testo che indicava l'obbligo di avere le
truppe a casa entro il settembre 2008. Il Congresso controllato dai democratici
ha così inviato un forte segnale di sfida all'amministrazione Bush su
una guerra costata già 3.200 vittime americane. Il leader della
maggioranza in Senato, il democratico Hanry Reid, ha definito il voto «un
messaggio al presidente» aggiungendo che «è arrivato il momento di
indicare un nuovo cammino in questa guerra ingestibile». Il voto ha sconfitto
un emendamento repubblicano che mirava a rimuovere qualsiasi calendario per il
ritiro delle truppe dal voto sul rifinanziamento da 122 miliardi di dollari
delle missioni in Iraq e Afghanistan, un provvedimento che dovrebbe venir
votato nella sua interezza entro la settimana.
BUSH E IL VETO - La scadenza del 31 marzo 2008 per il ritiro delle
truppe, prevista dal testo del Senato, è un «obiettivo» e non un
vincolo, come invece è quella del primo settembre 2008 indicata dalla
Camera, ma la Casa Bianca ha comunque ripetuto che scatterà il veto
contro qualsiasi testo di legge che indichi date per la fine delle operazioni
militari.
Il Pentagono invia nel Golfo Persico la
task force più imponente dall'invasione dell'Iraq del 2003
NEW YORK
Gli Stati Uniti hanno iniziato oggi nel Golfo Persico le più imponenti
esercitazioni della marina militare americana dall’invasione dell’Iraq, nel
2003. Alle manovre partecipano due portaerei, 15 navi da guerra e oltre cento
velivoli da combattimento.
«Queste esercitazioni dimostrano la nostra flessibilità e la
capacità di far fronte alle minacce poste alla sicurezza marittima» ha
affermato il colonnello di marina John Perkins, a bordo della portaerei
Stennis. La nave si trova in queste ore a largo della costa degli Emirati Arabi
Uniti. «In questo modo - ha aggiunto l’ufficiale - dimostriamo di poter
mantenere la sicurezza del mare e proteggere gli scambi con l’economia
mondiale».
Dalla Stennis si sono levati in volo oggi più di dieci caccia F7A-18,
che hanno simulato attacchi contro convogli navali e aerei nemici. Le manovre
della marina statunitense seguono di alcuni giorni l’arresto a largo della foce
dello Shatt El Arab, nel Golfo Persico, di 15 marinai della Royal Navy
britannica. I militari erano stati arrestati da Guardie della rivoluzione
iraniane, con l’accusa di essere entrati nelle acque territoriali della
Repubblica islamica. L’Iran ha più volte espresso contrarietà per
la presenza militare degli Stati Uniti nel Golfo Persico.
+ AGI 27-3-2007 Gina Spallone, proprietaria di una
clinica privata romana, e' stata arrestata
+ Il Riformista 27-3-2007 L’America tratta e se ne
vanta pure di Anna Momigliano
Il Corriere della Sera 27-3-2007 LA FORZA VIRTUALE di ALBERTO
RONCHEY
La Repubblica 27-3-2007"Bollette e mutui al
supermarket" di ALBERTO D'ARGENIO
Il Corriere della Sera 26-3-2007 Bagnasco: «Dico
inaccettabili e pericolosi»
Il Corriere della sera 26-3-2007 Appalti truccati in
Toscana: 33 arresti
(
Trilli di telefoni e chiacchiere tra colleghi sono le
sorgenti di rumore che disturbano di più. E sempre più spesso si
è distratti. I risultati di uno studio del Politecnico di Bari negli
ambienti di lavoro di impiegati amministrativi, programmatori informatici e
ricercatori.
Senza
privacy, continuamente distratti, in attesa di un silenzio che non arriva mai.
Si sta negli uffici, come passeri sullo stesso ramo di un albero. Vicini gli
uni agli altri. Troppo vicini. Ciascuno può guardare nello schermo dell’altro,
ciascuno può ascoltare quello che l’altro dice al telefono. Di privacy
non se ne parla neppure più. Se qualcuno prova a dire qualcosa per
difendere la propria privacy uditiva o visuale è come discutere di
fresca brezza nel deserto. Si pensa quasi che ci si voglia nascondere per non
fare nulla. Le cose però sono ben diverse. In questi hangar moderni, in
questi meravigliosi open space, quello che non si riesce proprio a fare
è concentrarsi. C’è sempre qualcuno che dice qualcosa, una
telefonata che arriva per qualcuno o un cellulare che squilla o trema con il
suo piccolo corpo ansimante sulla scrivania del collega. Senza dire
dell’insidioso contagio emotivo che, secondo recenti studi statunitensi,
caratterizza questi luoghi aperti.
Ma
quali sono le fonti maggiori di disturbo? Telefonate e discussioni. Sono queste
le sorgenti di rumore che più di altre danneggiano le attività
quotidiane nei moderni ambienti di lavoro. A dirlo è la ricerca
realizzata dal dipartimento di Fisica tecnica del Politecnico di Bari,
pubblicata sulla rivista "La Medicina del Lavoro", che ha preso in
esame 85 luoghi di lavoro e ne ha analizzato il rumore e il grado di disturbo
arrecato sugli occupanti e sulle attività svolte. Tra le tipologie di
lavoratori coinvolti ci sono soprattutto persone che svolgono attività
amministrative (il 69 per cento), programmazione informatica (il 16 per cento)
e attività di ricerca (il 15 per cento). Insomma una buona parte dei
lavoratori del mondo dei servizi.
Ebbene,
nel 31 per cento dei casi la principale causa di disturbo arriva proprio dalle
parole pronunciate con noncuranza o a volume troppo elevato (vedi
tabella). Si tratta di colloqui di lavoro, di
scambi di idee, o anche di discussioni agitate. Tutte cose che tolgono
concentrazione a chi a quella discussione non ha alcuna necessità di
partecipare.
Altrettanto
invasivo si presenta il telefono. Più di un quarto (il 27 per cento) dei
lavoratori ha detto di venire disturbato dal mezzo di comunicazione per
eccellenza. Tanto più che ora l’invasione di suonerie personalizzate e
rumorini originali rende le scrivanie un vero e proprio pullulare di rumori,
vibrazioni e suoni che non fanno che privarci di quell’attimo di silenzio che
precede sempre una buona idea o un pensiero che sia almeno sensato.
Più
confortevoli invece i dati relativi agli impianti di condizionamento che
sembrano essere piuttosto silenziosi. Solo il 15 per cento li ha indicati come
fonte di disturbo. Seguono le macchine da ufficio (il 13 per cento) e i rumori
provenienti dall’esterno (13 per cento).
“Per
difendersi dalle parole pronunciate spesso ad alta voce – ci ha detto Ettore
Cirillo, docente del Politecnico di Bari e autore dell'indagine (leggi
l'intervista integrale) – molti arrivano ad alzare i rumori di
fondo. Musica o qualsiasi altro si tratti”. Lo studio ha individuato anche i
parametri oggettivi più idonei a caratterizzare il disturbo soggettivo
provocato dal rumore.
“Esistono
dei rumori particolarmente intensi – prosegue Cirillo - che si riscontano negli
ambienti industriali, presi in considerazione dal legislatore che li ha
sottoposti a normativa dal 1991. Sono rumori che producono un danno specifico a
danno dell’udito. Ma ci sono anche tutta una serie di rumori di livello più
basso che rientrano nei nostri ambienti di ufficio che danno fastidio e
producono effetti di stress e riducono l’efficienza del lavoro.” Effetti che
spesso vengono sottovalutati.
In
una recente indagine realizzata dalla Gallup un impiegato su tre ha detto che
il rumore disturba frequentemente il lavoro ed è tra chi è
infastidito dal rumore che c’è la minore percentuale di persone
soddisfatte di quello che fa. Anche perché molti di loro dicono che la loro
opinione, ai fini organizzativi, non conta per nulla.
E
allora? Si ripropone forse il dilemma che divide i lavoratori tra quelli che
preferiscono gli open space e quelli che prediligono gli uffici mono-stanza o
cubicolari? Forse no. Tanto che secondo molte indagini oltre otto impiegati su
dieci dicono di avere bisogno di potere vedere oltre il proprio ufficio e che
le quattro mura non gli fanno affatto piacere. Allora, forse il vero dilemma
non è tra open space e closed office, ma piuttosto tra un open space
efficace e un open space inefficace. Si tratta quindi di capire se le imprese
quando predispongono i nuovi spazi a pianta aperta fanno davvero tutto per fare
sì che i pregi di queste modalità logistiche siano davvero
sfruttate al meglio.
Che
possa bastare poco lo conferma un recente studio ("The effects of window
proximity, partition height, and gender on perceptions of open-plan
offices") che verrà pubblicato sul numero della rivista
specializzata Journal of Enviromental Psychology. Gli autori
dell’indagine hanno misurato la soddisfazione dei lavoratori di due diverse
aziende con sede nello stesso edificio e si sono accorti che, seppure chi
lavora negli open space lamenta un assenza di privacy acustica e visuale che
causa un elevato numero di distrazioni e interruzioni indesiderate, chi lavora
vicino a una finestra risente meno degli aspetti negativi dell’open space.
Ancor più soddisfatti quegli impiegati che, oltre a una finestra, hanno
anche un separatore mobile alto circa un metro e quaranta centimetri. In questo
modo infatti hanno un buon livello di privacy acustica e visiva e minimizzano
le distrazioni e le interruzioni. Alle volte, per lavorare meglio può
bastare anche una finestra da cui guardare. E' troppo?
La
Ue di fronte alla crisi di mezza età Per i cinquant'anni dalla firma del
trattato di Roma, che associava i primi sei Stati della Comunità
europea, poco prima della Dichiarazione di Berlino il Financial Times ha
pubblicato un sondaggio d'opinione dal quale risulta che 44 europei su 100
sarebbero delusi dall'Ue. Non è mai facile valutare il grado
d'attendibilità di simili sondaggi, mentre il giudizio sull'Ue sembra
specialmente opinabile. Ma oltre il 50 per cento a favore dopo tutto non
è poco, anche se l'insularismo britannico estraneo all'euro lo reputa
scarso. Volendo prestare ascolto alle opinioni espresse dai lettori che
scrivono ai giornali, il comune giudizio è assai articolato. Nessuno
trascura di ricordare, come premessa, che la convivenza pacifica pattuita cinquant'anni
fa superava secoli di conflitti e odi atavici. Sui risultati raggiunti finora
dal mercato interno, si riconosce che la circolazione di merci, servizi,
capitali e cittadini comunitari ha funzionato in larga misura. Si lamenta
però che l'eurocrazia voglia disporre troppe norme, anche se risponde
spesso a sollecitazioni d'interessi economici e sociali da ogni nazione. A
Bruxelles risultano accumulate 80 mila pagine di normative, davvero troppe.
Sull'euro prevalgono giudizi variabili, secondo i casi. Nel caso italiano,
è inutile negare che il cambio della lira in euro ha consentito false
percezioni e alterazioni dei prezzi. Ma con l'euro l'economia monetaria
italiana è stata costretta, finalmente, a non reggersi più sulle
tradizionali e periodiche svalutazioni. Gli effetti del confronto tra tante
lingue non sembrano babelici, o troppo gravosi. Le traduzioni scritte o
simultanee, secondo dati ufficiali, costano circa l'uno per cento del bilancio
Ue. D'altra parte, il basic language angloatlantico assolve ormai compiti
estesi di comunicazione sulle reti nazionali e internazionali. Quello strumento
è indispensabile, anzi molto apprezzabile, purché non arrivi a
sommergere o alterare il patrimonio delle storiche lingue d'Europa con perdite
irrimediabili. La massima perplessità sulle prossime sorti dell'Ue
deriva dall'elusione di quel progetto costituzionale, che dopo alcuni
referendum contrari è accantonato. L'Ue appare pressoché assente poi,
senza voce unitaria, nella politica internazionale. Eppure, con la sua lunga
storia, carica d'esperienze disparate ma preziose, non può rassegnarsi
all'emarginazione. Secondo gli eurottimisti è solo questione di tempo,
ma si farà sentire. Sarà così? Eccoci tutti edificati.
"Soprassalti d'autostima", commenta Enzo Bettiza su La Stampa . Di
fatto, se l'Ue come fenomeno economico e commerciale non è trascurabile,
rimane priva d'ogni parvenza di autorità politica. Può reputarsi
grande, ma d'una grandezza virtuale e latente. Con la progressiva espansione
dai 6 Stati del
Ieri summit a Bruxelles tra i vertici delle
banche Ue e la Commissione Sullo spionaggio bancario, l'ente belga
"è l'unico responsabile" delle operazioni e dei movimenti di
dati, si legge in una lettera spedita al ministero dell'Economia dagli esperti
degli istituti di credito del nostro Paese, nell'ambito dell'inchiesta avviata
dalla Commissione Ue. Un colpo d'accusa decisamente improvviso che,
però, suscita qualche perplessità. Le aziende creditizie italiane
sostengono infatti di non essere nelle condizioni per poter dare spiegazioni
sui passaggi di informazioni tra i vari server del consorzio del Belgio sparsi
nel mondo. E che quando è esploso il caso sulle indagini terroristiche
estese al database Swift negli Usa - a giugno dello scorso anno - ne sarebbero
venute a conoscenza solo grazie alle notizie diffuse "dalla stampa"
internazionale. Una posizione un po' curiosa, insomma, visto che alcuni manager
del mondo bancario italiano sono alla guida della filiale di Swift nella
Penisola. La partita si va facendo sempre più delicata e proprio per
questa ragione le banche auspicano una "soluzione politica", secondo
quanto riportato in un documento che circola in ambienti finanziari. E in
questo senso, il commissario Ue alla Giustizia, Franco Frattini, ha avviato da
qualche settimana un contatto diretto con Washington. Obiettivo è
trovare un accordo diplomatico per mettere fine agli accessi senza limiti della
Cia ai server Swift americani, dove inspiegabilmente (pre ora) l'ente belga
copiava tutte le informazioni sulle transazioni eseguite a livello mondaile.
Bruxelles, comunque, auspica che le informazioni riguardanti i cittadini
dell'Unione europea transitino solo su sistemi informativi del Vecchio
continente. La questione è stata ieri pomeriggio al centro di un summit
a Bruxelles. Si è trattato del primo faccia a faccia tra i tecnici della
Commissione e i vertici della Fbe, la federazione bancaria che rappresenta
tutti gli istituti europei, chiamati a dare spiegazioni sul trattamento delle
norme sulla protezione dei dati personali.
NEW
YORK
Si chiama Tide, come la marea che alza tutte le barche, ma dietro questa sigla
poetica si cela il più grande archivio antiterroristico del mondo. Una
specie di «Grande Fratello» planetario, che ogni giorno aggiunge alle sue liste
nere circa 1500 persone. Il velo lo ha alzato il Washington Post, rilanciando
il dibattito che dall'11 settembre del 2001 obbliga i cittadini Usa ed europei
a riflettere: quanta privacy e libertà siamo disposti a perdere, in
cambio della sicurezza?
I nomi di alcuni terroristi a bordo degli aerei dirottati erano noti e
ricercati, ma non erano stati passati a chi avrebbe dovuto bloccarli
all'imbarco. Per evitare di ripetere questo errore è stato creato il
Terrorist Identities Datamart Environment (Tide), ossia la banca dati degli individui
sospettati di voler colpire gli Stati Uniti. Il problema è che la lista
è diventata così lunga da essere quasi ingestibile, mentre gli
sbagli d'identità e il sospetto di violazioni della privacy spingono i
critici a rimetterla in discussione.
Nel 2003 Tide aveva circa 100.000 files: oggi sono 435.000. Riguardano in
prevalenza stranieri, ma includono anche un 5% di americani con collegamenti
internazionali sospetti. Ogni giorno le agenzie Usa mandano informative al
National Counterterrorism Center di McLean, in Virginia, sede del progetto.
Ottanta analisti ricevono migliaia di messaggi, che spesso riportano solo voci.
Le verificano, per quanto possono, e alle 10 di sera riversano le informazioni
nel Terrorist Screening Center dell'Fbi. Il Bureau ci somma i nomi degli
americani senza connessioni internazionali che preoccupano lo stesso, e alla
fine di ogni giorno tra mille e millecinquecento persone vengono aggiunte
all'archivio dei soggetti pericolosi. Questi dati poi passano alle varie
agenzie competenti su settori specifici, tipo la Transportation Security
Administration, che li usa per aggiornare la sua lista di circa 30.000
individui a cui è vietato salire su un aereo.
I guai più frequenti sono legati agli errori di identità. Ad
esempio Catherine Stevens, moglie del senatore repubblicano dell'Alaska Ted,
è finita sulla lista nera perché il computer pensa che sia Cat Stevens.
Il famoso cantante non può volare negli Usa per motivi mai rivelati, e
questo è un altro problema serio: le modalità della proscrizione
sono segrete e i critici temono abusi della privacy. Per un errore simile,
provocato da informazioni sbagliate fornite dal Canada, il siriano Maher Arar
si è fatto un anno di prigione. Ottawa però ha riconosciuto la
colpa e lo ha risarcito con nove milioni di dollari. L'archivio, infine, sta
diventando così grande, che lo stesso direttore Russ Travers ammette di
avere difficoltà nell'usarlo.
Il dilemma fra libertà e sicurezza si è ingigantito dopo l'11
settembre, e lo aggravano anche notizie come quella pubblicata ieri dal New
York Times, secondo cui la polizia della città spiò migliaia di
persone in America ed Europa prima della Convention repubblicana del
Oggi giornata decisiva per le due direttive
comunitarie
sul sistema creditizio. Indicazioni anche per le regole sulle Opa
In
Italia il bancomat rincara
BRUXELLES - Tra due anni
sarà possibile pagare le bollette direttamente al supermercato o con il
cellulare. Lo prevede la direttiva Ue sui servizi di pagamento che, salvo
sorprese, sarà approvata oggi dai ministri dell'Economia dell'Unione
europea riuniti a Bruxelles per la riunione mensile dell'Ecofin. E sempre i
Ventisette sono chiamati a dare il via libera definitivo alla direttiva
bancaria messa in cantiere due anni fa dal commissario Ue al Mercato interno,
Charlie McCreevy, sull'onda del caso Fazio.
Scopo della prima direttiva è quello di creare un'area unica di
pagamento in cui valgano le stesse regole e le stesse modalità in tutta
l'Unione europea. Una delle novità principali è l'ingresso nel
mercato dei pagamenti di nuove istituzioni finanziarie. In pratica, per fare
un'operazione d'ordinaria amministrazione - come pagare una bolletta (gas,
luce, acqua o telefono) o l'affitto - non si dovrà più fare per
forza riferimento ad una banca o all'ufficio postale, ma sarà possibile
rivolgersi ad altri soggetti, come i supermercati (cosa già possibile in
Gran Bretagna). Naturalmente i nuovi operatori dovranno sottostare a regole ben
precise e potranno operare solo se dimostreranno di essere in grado di
rispettare una serie di criteri di affidabilità e di efficienza. I
pagamenti, poi, potranno essere effettuati anche con il cellulare.
La direttiva farà sparire le frontiere per i pagamenti
all'interno dell'Ue, con regole e modalità di lavoro uguali per tutti:
bollette e contravvenzioni potranno essere pagate anche dall'estero,
così come sarà possibile usare in tutta Europa la propria carta
di credito o il bancomat grazie all'introduzione obbligatoria di chip e codice
personale al posto della banda magnetica. I pagamenti transfrontalieri, poi,
dovrebbero essere soggetti a un tempo di esecuzione massimo di un giorno.
Insomma, una liberalizzazione che partirà dal novembre 2009 con
l'obiettivo di abbassare i costi dei pagamenti bancari che, per via della
mancanza di uno spazio unico europeo, bruciano ogni anno il 2-3% del Pil
europeo.
Il ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa ha sottolineato che le banche
italiane non dovrebbero avere contraccolpi in quanto "non si troveranno in
svantaggio perché il nostro sistema è uno dei più avanzati
d'Europa".
Sempre oggi i ministri Ue sono chiamati ad approvare in via definitiva la
controversa direttiva per rendere più chiare e trasparenti le regole su
scalate o fusioni bancarie tra un Paese e l'altro. Sono state soprattutto le
vicende italiane di due estati fa - le Opa straniere su Antonveneta e Bnl - ad
imprimere un'accelerazione verso la formulazione di nuove regole per mettere
fine alle tentazioni di protezionismo bancario. Per farlo si fissano regole
precise sui poteri di controllo e vigilanza delle banche centrali: viene
indicato un termine di massimo 60 giorni per la valutazione che
l'Autorità deve dare sulle operazioni di acquisizione; vengono
introdotti cinque criteri per valutare la posizione dell'acquirente (come
reputazione e solidità finanziaria); vengono dati più poteri alla
Commissione Ue per in modo da scoraggiare possibili interferenze politiche.
Ieri intanto l'Adusbef ha denunciato che in Italia "le banche, nonostante
gli impegni assunti con l'Antitrust, continuano ad aumentare i costi dei conti
correnti, i più alti del mondo, e le commissioni sui prelevamenti
bancomat da altra banca, che passano da 1,81 euro a 2,10 euro, con un rincaro
secco del 16%".
«La Nota sulle unioni di fatto»? Ci sarà e sarà serena e autorevole»
Duro affondo del neo
presidente della Cei contro il disegno legilativo del governo. «Pieno appoggio
al family day»
Mons. Angelo Bagnasco, presidente della Cei
(Emblema)
ROMA -
Il disegno legislativo sulle unioni di fatto è «inaccettabile sul piano
dei principi, ma anche pericoloso sul piano sociale ed educativo». Non usa
mezzi termini il nuovo presidente della Cei, mons. Angelo Bagnasco, per
rilevare «la convergente, accorata preoccupazione espressa dai Vescovi» in
materia di Dico. «Personalmente - ha detto Bagnasco al primo Consiglio
permanente della Cei da lui presieduto - posso solo dire che apprezzo quanto da
parte cattolica è stato fatto, impegnandomi ad assumerlo e a
svilupparlo». Quanto all'attesa Nota sui Dico, annunciata dal cardinal Camillo
Ruini prima di lasciare la guida Cei, Bagnasco promette che sarà di
«serena, autorevole illuminazione sulle circostanze odierne». «Nell'attuale
sessione del Consiglio Permanente - ha confermato Bagnasco aprendone i lavori -
metteremo a punto una Nota pastorale che, ponendosi sulla stessa linea di ciò
è stato fatto in passato in altre cruciali evenienze, possa essere di
serena, autorevole illuminazione sulle circostanze odierne».
MATRIMONIO -
Il Presidente della Cei ha poi ribadito con forza l'impegno della Chiesa per
sostenere la famiglia fondata sul «matrimonio sacramentale» che «si iscrive nel
disegno primigenio del Creatore: maschio e femmina li creò, disegno che
noi siamo parimenti impegnati ad annunciare e servire». Gli interventi dunque
della Chiesa cattolica per difendere la famiglia tradizionale non sono «un'invadenza
di campo», «un gesto indelicato» o «spropositato» né, tantomeno, «una ricerca
di potere temporale».
FAMILY
DAY -
Il presidente della Cei ha infine riconfermato l'appoggio dei vescovi italiani
alla manifestazione del prossimo 12 maggio in favore della famiglia, indetta
dalle associazioni cattoliche ed ecclesiali. Bagnasco ha osservato: «Si
tratterà di una festa della famiglia, come è successo anche in
altri Paesi. Come vescovi non possiamo che apprezzare questo dinamismo volto al
bene comune».
26 marzo 2007
Ipotesti di reato: associazione a delinquere, corruzione e abuso d'ufficio
In manette tecnici
degli uffici amministrativi e imprenditori: avrebbero manipolato decine di gare
pubbliche
FIRENZE - I
carabinieri di Firenze hanno eseguito, tra il capoluogo toscano e Prato, 33
misure cautelari in carcere, agli arresti domiciliari e dell'obbligo di firma
nei confronti di tecnici della pubblica amministrazione e di imprenditori. Per
l'accusa gli stessi sarebbero coinvolti in un' associazione a delinquere che
avrebbe manipolato decine di gare pubbliche di appalto e alterato il piano
regolatore di Campi Bisenzio, comune in provincia di Firenze. L'inchiesta
è condotta dalla procura di Firenze. Sempre secondo l'accusa gli
imprenditori avrebbero pilotato l'aggiudicazione delle gare pubbliche di
appalto con un sistema di offerte concordate. L'inchiesta che ha portato alle
33 misure cautelari, disposte dal gip di Firenze Silvio De Luca, è
coordinata dal procuratore capo Ubaldo Nannucci e dai pm Giuseppina Mione e
Leopoldo De Gregorio. A condurla i carabinieri del Ros di Firenze. Le indagini
avevano portato, lo scorso giugno, a una decina di avvisi di garanzia,
destinatari imprenditori edili, due dipendenti dell'ufficio appalti e un
collaboratore esterno del Comune di Campi Bisenzio.
LE IPOTESI DI REATO - Associazione
a delinquere, turbativa d'asta, corruzione e abuso d'ufficio le ipotesi di
reato contestate a vario titolo. I carabinieri avevano inoltre acquisito la
documentazione relativa agli appalti pubblici e il piano regolatore
dell'amministrazione campigiana. Due in sostanza i filoni di indagine. Uno
è relativo alle gare pubbliche con aggiudicazione al massimo ribasso mediato,
chiamato anche «sistema con la soglia di anomalia»: per l'accusa sarebbe
esistito un presunto cartello di imprese che avrebbe presentato offerte
concordate, riuscendo così a pilotare il risultato dell'appalto. Un
sistema di aggiudicazioni concordate analogo, per gli investigatori, a quello
scoperto la settimana scorsa in Sicilia con l'operazione «Montagna». L'altro
filone, relativo al piano regolatore comunale, riguarderebbe in particolare
sospette variazioni degli indici di edificabilità. Le imprese chiamate in
causa nelle indagini sono tutte ditte locali. Nell'inchiesta non risultano
coinvolti politici della giunta di Campi, retta da un'amministrazione di
centrosinistra.
26 marzo 2007
Storica intesa tra gli
indipendentisti del Sinn Fein e gli unionisti del Dup: dall'8 maggio
amministreranno insieme l'Irlanda del Nord STRUMENTI
BELFAST (Irlanda del Nord) - Cattolici
e protestanti governeranno assieme l'Irlanda del nord a partire dall'8 maggio.
L'accordo sulla data è stato raggiunto a Belfast durante un incontro
senza precedenti tra il cattolico Gerry Adams, leader del Sinn Fein, e il
reverendo protestante Ian Paisley, leader del partito unionista oltranzista
Dup. E' stato lo stesso Paisley a confermare l'avvenuta intesa tra le due
fazioni storicamente avversarie.
GOVERNO COMUNE - Sinn
Fein e Dup hanno deciso di lavorare assieme nelle prossime settimane per la
concreta messa a punto dell'amministrazione locale che incomincerà a
governare la provincia a partire dall'8 maggio. Questi contatti avverranno tra
Paisley (destinato a diventare primo ministro) e il suo futuro vice, Martin
McGuinness, numero due del Sinn Fein ed ex comandante militare dei guerriglieri
indipendentisti dell'Ira. Si tratta di un evento storico perché segna una
collaborazione concreta tra indipendentisti e unionisti, ovvero tra i fautori
di un progetto di Irlanda del Nord indipendente e i sostenitori dell'attuale
dipendenza dalla Gran Bretagna.
AIUTI DA LONDRA - Assieme,
Sinn Fein e Dup cercheranno di incontrare il cancelliere dello Scacchiere
britannico, Gordon Brown, per ottenere un sostanzioso pacchetto di aiuti per lo
sviluppo economico dell'Ulster. Pailsey ha sottolineato che l'accordo di oggi
garantisce «un futuro migliore ai nostri figli». Adams, seduto a fianco del
reverendo, ha da parte sua sottolineato che l'intesa «segna l'inizio di una
nuova era politica su quest'isola».
26 marzo 2007
++ ANSA 26-3-2007 SME: PG chiede cinque anni per
Berlusconi
+ Rainews24.rai.it 26-3-2007 Afghanistan, Bertinotti
contestato alla 'Sapienza': 'guerrafondaio'
+ Da
Rivistaonline.com 26-3-2007 Spagna, il
miracolo dei palazzi moltiplicati. di Daniele Porretta
La Stampa n26-3-2007 L'Unione riparte, piano piano
MARCO ZATTERIN
Il Tirreno 26-3-2007
UE. La Dichiarazione c'è, la Costituzione no
Europa 26-3-2007 L’Afghanistan nel giorno
dell’Europa di GUIDO MOLTEDO
Il Corriere della Sera 2-3-2007 Teheran riduce
cooperazione con Aiea
L’Unità 26-3-2007 Tavaroli: "Una lobby
massonica voleva farmi fuori"
Italia Oggi 26-3-2007 Abolizione delle penali dei mutui
per abitazioni e uffici
ROMA -
Gli italiani dicono no all'intervento "diretto" della Chiesa sulla politica:
l'idea del "partito cattolico" appare ormai del tutto archiviata,
mentre la maggioranza delle persone si esprime contro le indicazioni
"vincolanti" ai parlamentari. Ciò nondimeno, una quota
consistente (e crescente) della popolazione rivendica il diritto delle
istituzioni religiose di esprimersi sul dibattito politico e la formazione
delle leggi. Sono questi i principali risultati di un sondaggio condotto da
Demos-Eurisko per la Repubblica.
C'è grande attesa per l'annunciata "nota sui Dico": il documento
dovrebbe essere discusso dal Consiglio permanente della Cei, che prende avvio
nella giornata di oggi. Non è chiaro se l'esplicita contrarietà
dei vescovi al disegno di legge si tradurrà in una indicazione
"impegnativa" per i politici cattolici. (Certamente non
comporterà la scomunica per i parlamentari). Una soluzione di questo
tipo, tuttavia, non sarebbe accolta positivamente dall'opinione pubblica.
Più di sei persone su dieci, fra gli intervistati, ritiene sbagliato che
la Chiesa indichi ai parlamentari come votare in materia di coppie di fatto.
Anche fra i praticanti assidui, del resto, l'ipotesi di un imperativo alla
politica solleva delle critiche, e i contrari (44%) tendono a prevalere, seppur
di misura, sui favorevoli (40%).
Le divisioni sulle unioni civili attraversano la società italiana,
spaccandola quasi a metà: ad appoggiare l'istituzione dei Dico, oggi,
è il 50% della popolazione. Ma la stessa comunità dei fedeli non
mostra posizioni univoche: fra chi si reca in Chiesa tutte le domeniche, gli
oppositori delle unioni civili sono il 57%, e una porzione ancora minore
percepisce l'estensione di alcuni diritti alle coppie di fatto come una
minaccia per la famiglia (52%).
Da un lato, le posizioni assunte dalla Chiesa nel dibattito
pubblico hanno sollevato il dissenso di ampie componenti sociali. Dall'altro
lato, questi interventi hanno contribuito a rinsaldare il legame con una parte
della società, che si esprime a favore di un ruolo "attivo"
del Vaticano. Il 28% degli intervistati - contro il 16% di un anno fa - ritiene
giusto che la Chiesa manifesti sempre il suo punto di vista sulle leggi
presentate in Parlamento. Un altro 30% pensa che la Chiesa dovrebbe intervenire
esclusivamente sulle questioni che investono, direttamente, la dimensione religiosa.
Il 36%, infine, afferma che le gerarchie ecclesiali non dovrebbero mai cercare
di "piegare" il corso della politica.
Anche capovolgendo la prospettiva, tendono ad emergere valutazioni
contrastanti. Il 42% degli italiani accusa i politici di farsi troppo
influenzare dalle "pressioni" della Cei e del Vaticano. Una
percentuale di poco inferiore (37%) ritiene, per converso, che la classe
politica dovrebbe prestare maggiore attenzione alle prescrizioni della Chiesa:
questo secondo gruppo raccoglie oltre la metà dei praticanti assidui.
Anche l'unità politica dei cattolici appare ormai definitivamente
tramontata. Rimane confinata su percentuali molto basse la componente
favorevole alla (ri)costituzione di un partito cattolico (7%).
Minoritario, inoltre, è il segmento di quanti ritengono che i cattolici
debbano orientarsi verso quei partiti che rispondono maggiormente ai principi
della propria religione. La maggioranza relativa del campione interpellato
(41%) pensa, invece, che le scelte dei cattolici possano indirizzarsi verso
qualsiasi forza politica, senza particolari problemi di coscienza.
Le opinioni rilevate presso l'opinione pubblica sembrano
essere coerenti con l'azione svolta dalla Chiesa sui temi "eticamente
sensibili". Essa, infatti, si muove come una lobby, in modo indipendente
dai partiti. Fa pressione utilizzando risorse e opportunità diverse: i
media e l'associazionismo, la sua credibilità sociale e il cattolicesimo
diffuso tra gli italiani, ma anche la debolezza e le divisioni che caratterizzano
l'alleanza di governo.
(26 marzo 2007)
Roma, 26 Marzo
2007 – AgenParl – “Le regole d’ingaggio ora ci permettono di svolgere i compiti
che ci ha assegnato il governo, ma per altri progetti servono più
elicotteri e più uomini”.
Così il comandante del contingente italiano Antonio Satta interviene
sullo “spinoso” dibattito sul rifinanziamento della missione in Afghanistan che
sta per essere votato a Palazzo Madama. Infatti la Cdl e l’attuale governo si
stanno scontrando sulla natura della nostra missione. Berlusconi, sicuramente
più amico di Bush rispetto a Prodi, vuole il cambio delle regole
d’ingaggio in modo tale che le truppe siano “libere” di attuare pratiche non
solo difensive ma offensive.
Come viene fatto notare all’AgenParl, dietro la divisione del mondo politico
italiano sulla natura della missione sembra esserci la diversa concezione della
missione stessa tra Onu e Nato.
Il decreto del governo prevede che i soldati siano impegnati nella
ricostruzione del Paese così come prevede il mandato delle Nazioni
Unite, in base ad una strategia di peacekeeping.
Invece i filoatlantisti, presenti non solo nell’opposizione, tendono a sollecitare
un’attitudine della Nato diretta a trasformare la missione di “sicurezza” e
“vigilanza” in un’iniziativa diretta a sconfiggere i Talebani anche sul piano
militare.
Di questa attitudine si è fatto portavoce il generale Satta, che si dice
favorevole per un maggior impegno delle nostre forze armate.
Tale fatto ha alimentato le pressioni di Fi e An per il cambiamento delle
regole d’ingaggio che sono cosa diversa rispetto al potenziamento degli
equipaggiamenti del contingente italiano. (M.D.)
M
A
pagina 23 dell'edizione di sabato 24 marzo 2007 del Sole 24 Ore è stata
pubblicata un'informazione pubblicitaria insolita: un'inserzione a pagamento
del signor Mario Massai, azionista di Telecom «stufo» delle scelte di gestione
della società che hanno portato alla pesante situazione di indebitamento
attuale e alla riduzione dei dividendi.
Ecco
il testo del messaggio
INFORMAZIONE
PUBBLICITARIA
SONO UN AZIONISTA DI
TELECOM ITALIA E SONO STUFO
Sono un azionista di
Telecom Italia, mi chiamo Mario Massai. Lo sono da diversi anni e sono ormai
esasperato dal vedere che una "squadra" di persone, che possiedono
una ridotta minoranza (meno di un quinto) delle azioni della nostra
società continua a fare il bello e il brutto tempo a proprio uso e
consumo di quella che è stata una delle migliori società di
telecomunicazioni europea.
Nelle loro mani Telecom
Italia sta letteralmente evaporando, costretta a rinunciare a piani di sviluppo
perché deve essere spremuta allo scopo di consentire alla "squadra"
ed alla struttura finanziaria creata dagli stessi di rappezzare gli errori di
valutazione del passato.
Probabilmente a molti
azionisti va bene così. Del resto è grazie all'inerzia delle
persone che è possibile agire a loro danno. Ciascuno pensa di essere
troppo piccolo per contare e così "mugugna" ma non reagisce.
Tuttavia penso che molti altri la pensino come me e non vogliano vedere il loro
investimento evaporare per l'insipienza di chi dovrebbe indicare le strategie.
Io ho fiducia nel
management di Telecom Italia. Penso però che se l'azienda potesse
evitare di distribuire dividendi per due esercizi, riducendo drasticamente il
proprio indebitamento, l'incremento di valore sarebbe nettamente superiore ai
pochi centesimi per azione distribuiti come dividendo. La mia richiesta
è solo questa.
Vorrei potermi presentare
all'assemblea di bilancio con un po' di forza (superiore alle 130mila azioni
che ho) e per questo Vi chiedo di inviarmi le vostre deleghe. Sceglieremo un
legale che possa rappresentare adeguatamente le nostre richieste.
Non dimenticate che
mediamente alle assemblee di Telecom Italia risulta presente poco più
del 30 per cento del capitale, ma questi pochi prendono decisioni che ci
colpiscono tutti. La democrazia economica (e politica) è fatta anche - e
soprattutto - di conoscenza e di controllo.
Il mio indirizzo e.mail
è il seguente: mario.massai@alice.it
Se qualcuno vuol fare un
po' di strada insieme a me, si metta in contatto.
Troveremo il modo per
farci sentire.
Grazie per l'attenzione.
Bogogno (NO), 15 marzo
2007
Vedi anche Afghanistan.
Prodi: non sono preoccupato per il voto
Il Presidente della Camera Fausto
Bertinotti è stato contestato questa mattina, con fischi e cartelli
di protesta, nel corso della sua visita all'Università 'La Sapienza' di
Roma. Al suo ingresso in Aula, dove lo ha accolto il rettore Renato
Guarini, Bertinotti è stato salutato, invecem da un applauso.
Bertinotti, giunto questa mattina alla facoltà di lettere e filosofia
per l'inaugurazione della mostra "La rinascita delle favelas", ha
trovato ad accoglierlo circa 200 studenti che inalberavano striscioni
sarcastici come "Bertinotti: un impegno concreto contro la guerra,
spillette della pace per tutti!", e "8 marzo, la Camera vota la
guerra in Afghanistan: giorno inFausto". Al coro di "assassino,
assassino" e "buffone, buffone", Bertinotti, accompagnato dal
rettore Renato Guarini, è entrato in facolta', mentre nascevano
piccoli parapiglia, con spintoni e insulti reciproci, tra manifestanti e gli
addetti alla sicurezza, che sono riusciti dopo alcuni minuti a riportare
l'ordine.
La contestazione è stata organizzata da una cinquantina di studenti
del Coordinamento dei collettivi riuniti nella 'Rete per l'autoformazione'.
Innalzavano striscioni con scritto 'Bertinotti? No thank', contestando l'impegno
italiano nel conflitto afgano. Ad essere contestata anche la scelta di
Bertinotti di prendere parte all'incontro, organizzato dall'Asvi, una Ong
legata al Movimento ecclesiale di Comunione e liberazione.
Berlino, festa per i 50 anni della Ue, presenti capi di stato e di governo dei Paesi membri. Firmata tra gli applausi la Dichiarazione
BERLINO (Germania) -
L'Europa riparte da Berlino. Nella capitale tedesca si svolge il vertice che ha
celebrato i 50 anni dell'Unione con una grande kermesse popolare a fare da
sfondo al dibattito politico che vede i 27 alla ricerca di una difficile
mediazione sul nuovo Trattato costituzionale. Mentre il Papa
da Roma ammonisce
l'Ue a non dimenticare la propria identità cristiana e il presidente del
Consiglio Romano
Prodi
afferma che serve una «nuova laicità ».
Entusiasmo di facciata e dubbi irrisolti per
l'obiettivo della Costituzione nel 2008
Ahmadinejad: «Nucleare
non si fermerà»
«Le relazioni con gli
Stati che hanno premuto per le sanzioni Onu saranno riviste e corrette»
Il Corriere della sera 25-3-2007 Roma non divida di
MARIO MONTI
Da Europa 25-3-2007 L’Afghanistan nel giorno
dell’Europa di GUIDO MOLTEDO
La Repubblica 24-3-2007 Bergamo, il ladro è un
gentiluomo Ruba il portatile ma restituisce la tesi
Nella capitale tedesca il vertice con i
capi dell'Unione
BERLINO
Tra molti propositi di rilancio e sulla scia di qualche polemica, l’Unione
europea celebra oggi i suoi 50 anni nella capitale tedesca, dove i capi di
Stato e di governo dei Ventisette hanno adottato la Dichiarazione di Berlino,
testo sottoscritto nel Museo Storico Germanico dal cancelliere tedesco Angela
Merkel come presidente di turno del Consiglio europeo e rappresentante di tutti
i paesi, dal presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e dal
presidente dell’Europarlamento Hans-Gert Poettering.
La mattinata del ’compleanno europeò è stata occasione per molti
leader per esortare a riprendere con coraggio il disegno iniziato 50 anni fa.
Voce italiana al consesso dei 27, il presidente del Consiglio Romano Prodi, ha
chiesto «nuove regole» entro le europee del 2009, sostenendo che «il Trattato
firmato a Roma nell’ottobre 2004 costituisce una base solidissima su cui
edificare» il nuovo «patto fondamentale» dell’Unione europea. «Queste nuove
regole servono subito», ha detto Prodi, invitando l’Europa a ritrovare un poco
della sua follia creativa.
La padrona di casa e presidente di turno dell’Ue, Angela Merkel, nel suo
discorso davanti ha fatto anche un riferimento personale alle radici cristiane
alla base della storia e del patrimonio di valori del Vecchio Continente. Per
me - ha detto la cancelliera, all’indomani del monito di Bendetto XVI a non
dimenticare l’identità cristiana dell’Ue - poco dopo aver ricordato
l’importanza della dignità umana e della libertà - questa
concezione dell’uomo deriva anche dalle radici giudaico-cristiane dell’Europa».
E da Roma, dove ha partecipato alla cerimonia del 63.mo anniversario
dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, il presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano ha evidenziato come l’impegno per il progetto europeo debba «ancor
più nutrirsi della consapevolezza che per garantire la pace e la
libertà è indispensabile un’Europa unita, più forte e
più coesa». È proprio dal ricordo della strage delle Fosse
Ardeatine, in cui persero la vita 335 persone, Napolitano spiega, che bisogna
trarre «la memoria da una lezione storica»,sottolineando che è «uno dei
simboli più carichi di dolore».
E dopo le riflessioni sul passato e sul futuro, a Berlino si fa festa. Alle 12
si è aperto alla Porta di Brandeburgo, l’«Europafest», con un lungo
concerto che si prolungherà fino alle 22. Ad esibirsi ci sarà,
tra gli altri, anche Joe Cocker. In oltre 75 stand sarà possibile
conoscere più da vicino i 27, con la loro cultura e le loro
specialità gastronomiche, e le istituzioni europee. Il momento
culminante è fissato per le 20, con l’esecuzione dell’inno europeo e
dieci minuti di fuochi d’artificio.
L'Europa
e il ruolo della Chiesa La migliore prova di vitalità dell'Unione
europea, a cinquant'anni dalla sua nascita, è data dall'acceso
dibattito, che da Roma soprattutto promana, sui valori etici e sui fondamenti
religiosi. Non ci si batterebbe affinché vengano riconosciuti determinati
valori, capaci di orientarne lo sviluppo, se si considerasse quella costruzione
decadente, priva di futuro. È un dibattito essenziale per dare
più anima e più vigore all'Ue. Nobile nella preoccupazione
spirituale che lo muove e lo illumina, ma che potrebbe risultare nefasto se
fosse visto come occasione di protagonismo da personalità e partiti
attenti alle proprie convenienze, forse ancor più che
all'identità spirituale dell'Europa del futuro. Un convegno promosso a
Roma dalla Comece (Commissione delle Conferenze episcopali della
Comunità europea) conclusosi ieri con l'intervento del Papa, ha messo in
luce posizioni diverse. E ha determinato in me qualche riflessione personale.
Vedo un vuoto, pericoloso, tra un orgoglio legittimo, fondato su 2000 anni di
storia, e una richiesta pure legittima per orientare l'avvenire. L'orgoglio per
il ruolo avuto dalle radici religiose, in particolare cristiane, nella storia
d'Europa, e la richiesta che queste radici vengano formalmente,
costituzionalmente riconosciute. Il vuoto è ciò che sta in mezzo:
i tratti distintivi non tanto dell'Europa quanto dei cinquant'anni di
integrazione europea. È vero che i valori religiosi, e cristiani, permeano
da due millenni l'Europa e ne hanno plasmato la grandezza civile, culturale. Ma
in quei due millenni, malgrado quei valori - e purtroppo talora in nome di quei
valori - l'Europa ha fatto infinite guerre. È invece in pace,
eccezionalmente, da cinquant'anni. Questo per effetto dell'integrazione. Il
Trattato di Roma non ha dichiarato valori etici, ma ha indotto a praticarli. Di
solito non si fa lo sforzo di guardare se la Ue, come si sta realizzando, si
mostra o no coerente nei fatti con i principi etici. Per iniziativa della
Comece, questo esercizio è stato fatto (con il documento "Un'Europa
dei valori. La dimensione etica dell'Unione europea"). Si mostra come, in
tante aree diverse, ciò che la Ue sta realizzando, senza avere
proclamato valori, rispetta le esigenze etiche ben più di quanto sia
avvenuto con le politiche praticate in vari Stati membri, ricchi di
dichiarazioni etiche nelle loro costituzioni e nei loro programmi politici.
Solo due esempi: la solidarietà intergenerazionale (attraverso la
disciplina delle finanze pubbliche e la politica per l'ambiente), la
parità di trattamento tra Stati grandi e piccoli, grazie al metodo
comunitario. Moltissimo resta da fare, per avere un'Europa più efficace,
più capace di valorizzare la persona umana, meglio in grado di
promuovere nel mondo i suoi valori. Il Papa ha ieri offerto indicazioni ampie e
di grande rilievo. Sarebbe davvero riduttivo, a mio parere, concentrare
soverchia attenzione sulla richiesta dell'esplicito riconoscimento delle radici
cristiane. Se questo riconoscimento ci sarà, sia il benvenuto. Se non
dovesse raccogliere la necessaria unanimità degli Stati membri, si
cerchi di non sommare a questa delusione un danno di portata ben maggiore. Non
usino, quegli Stati e quelle forze politiche che da qualche tempo si sono dati
con forte visibilità questo obiettivo, non usino l'eventuale
insoddisfazione per screditare la Ue agli occhi dei loro cittadini, magari
presentandola come il "luogo del male". In una fase in cui molti
considerano non altissima la credibilità del mondo politico, certo
inferiore a quella della Chiesa, con un tale atteggiamento essi otterrebbero
forse qualche soddisfazione elettorale. Ma renderebbero ancora più
difficile la costruzione di quell'Unione europea migliore, che dicono di
volere.
L'INTERVISTA
Il politologo Sergio Romano invita a valutare i successi e non solo le
difficoltà sul cammino verso gli Stati Uniti d'Europa. Ma è
urgente adottare la nuova Costituzione ROMA Il 25 marzo 1957 Belgio, Francia,
Italia, Lussemburgo, Olanda e Repubblica Federale Tedesca, subito definiti
"i magnifici sei", siglarono i Trattati di Roma, compiendo
così il primo passo verso un'Europa unita e in pace dopo secoli di
guerre intestine, culminate nella carneficina del 1914-18, madre di tutti gli
altri drammi del Novecento. Cinquant'anni dopo l'istituzione della Cee
(Comunità economica europea) e dell'Euratom (Comunità europea
dell'energia atomica), cos'è rimasto in piedi di quel sogno iniziale? Ne
parliamo con l'europeista e storico Sergio Romano. "L'idea degli Stati
Uniti d'Europa, che era il progetto forte all'origine dei Trattati di Roma -
dice -, si è diluita, ma non è evaporata. Il progetto politico
resiste e si continua a parlare della necessità di una politica estera e
di una politica militare comuni, e di un ministro degli Esteri europeo com'era
previsto dalla Costituzione". - Lei vede più successi o più
insuccessi nella strada compiuta in questo mezzo secolo? "Solo il
pessimismo diffuso degli ultimi anni può nascondere l'importanza dei
traguardi raggiunti: una moneta unica, una politica agricola criticata ma
straordinariamente federale, molto più di quanto non lo fosse quella
degli Stati Uniti per buona parte dell'Ottocento. Gli stessi americani sono
arrivati alla moneta unica, ossia al dollaro con lo stesso valore per tutti gli
Stati della Federazione, soltanto agli inizi del Novecento". - Non
è preoccupante, dunque, che l'euro non sia stato adottato da tutti i
membri dell'Unione? "No, e fa bene sperare il fatto che si vada delineando
all'interno della Ue, soprattutto dopo l'allargamento, un gruppo di Stati che
si distinguono per la loro forte volontà unitaria. I nuovi arrivati come
la Polonia e la Repubblica Ceca non condividono minimamente il progetto ideale
originario e hanno un'altra storia, un'altra cultura, ma sono fortemente
motivati a integrarsi perché sanno che non si può avere una moneta
comune se non si realizza una maggiore integrazione
economico-finanziaria". - Come va valutato il rifiuto della Costituzione
europea da parte di alcuni Paesi? "Il dramma non è che la
Costituzione non sia amata da Paesi, come la Polonia, che non condividono i
principi originali dell'integrazione europea. Purtroppo il diniego è
venuto da due Paesi fondatori, Francia e Paesi Bassi, ed è qui la crisi
dell'Europa. Quel rifiuto è stato superficialmente interpretato come
euroscetticismo, che certamente c'era, ma c'erano anche tanti altri
ingredienti. Prima di tutto il timore che questa Europa fosse poco sociale. Per
una gran parte della società francese esso è stato anche una
reazione all'eccessivo allargamento dell'Unione, vissuto come una
libertà di circolazione per popoli estranei a noi per tradizione storica
e culturale". - I sei Paesi fondatori quale ruolo hanno in quest'Europa
allargata? "Attualmente un ruolo molto modesto. Sarei portato a dire che
non ne hanno alcuno. Perché questo gruppo non è tale se non esiste la
Francia che è il Paese fondatore per eccellenza ed è l'autore di
quasi tutte le maggiori iniziative europeiste varate dall'inizio degli anni
Cinquanta in poi. Senza la Francia, non saremmo quello che siamo e non avremmo
quello che abbiamo. E il fatto che in questo momento la Francia sia del tutto
irrilevante nel gruppo dei sei, rende il gruppo inesistente". - Perché
dice che la Francia in questo momento è irrilevante? "Perché
lì si è svolto il referendum che ha bocciato la Costituzione e
perché nella campagna elettorale in corso, siccome nessuno ha capito bene quale
sia la natura di quel ''no'', i candidati si tengono molto sulle generali ed
evitano di prendere una posizione netta sul tema dell'Europa. Chiunque sia
eletto all'Eliseo, però, dovrà prendere atto del ruolo della Francia
nell'Unione, per conservare il quale essa dovrà essere
propositiva". - La crisi dell'Europa si manifesta anche nella sua scarsa
incisività sulla scena internazionale... "L'Europa non ha nessun
peso nella politica internazionale, e non solo a causa dell'allargamento. Negli
ultimi tempi si è spaccata due volte su grandi temi internazionali,
rendendo impossibile l'adozione di una linea comune. Ci siamo spaccati sui
rapporti con gli Usa nel 2003 al momento dello scoppio della guerra irachena:
nessuno in Europa voleva la guerra, nemmeno la Gran Bretagna, l'Italia o la
Spagna che pure hanno mandato contingenti militari, e la spaccatura è
consistita nel rapporto che ogni Stato europeo riteneva utile avere con gli
Stati Uniti. Adesso c'è una spaccatura sui rapporti con la Russia, in
seguito al progetto americano di installare missili e antimissili in Polonia e
un radar nella Repubblica Ceca. Polacchi e cechi sono d'accordo, ma i tedeschi
no. Gli altri tacciono, perché stavolta oltre ai rapporti con gli Usa, sono in
gioco anche quelli con la Russia, con la quale noi europei occidentali sappiamo
bene quanto sia nostro interesse andare d'accordo, per motivi sia politici che
economici. Diverso è l'atteggiamento degli Stati europei orientali di
recente acquisizione, che hanno un forte sentimento anti-russo". - Ma
perché la Russia non entra a far parte dell'Europa? "Mosca non ha nessuna
intenzione di rinunciare alla propria sovranità, e sa bene che
l'adesione all'Europa comporta una progressiva perdita di sovranità:
ogni volta che passa una legge a Bruxelles, perdiamo un pezzetto di autonomia.
La Russia ha un'altra storia, una dimensione continentale, un altro sentimento
della sua identità, e non ha mai partecipato al progetto europeo. Quando
Berlusconi diceva ''Vogliamo i russi nell'Ue'', Putin sorrideva perché lo
prendeva come un complimento da salotto". - Riguardo all'Iran, invece,
c'è una maggiore coesione europea? "Sì, sull'Iran l'Europa
per un certo periodo ha avuto una linea diversa da quella degli Usa. Adesso,
però, le rispettive posizioni si sono avvicinate. Per molto tempo gli
americani sono stati del tutto contrari persino all'idea di rivolgere delle
proposte all'Iran, e pur di ottenere che Washington entrasse in quest'ordine di
idee, l'Ue si è avvicinata all'America adottando una linea più
rigorosa di quella precedente". - Quali sono le scadenze più
urgenti che aspettano l'Europa? "La più urgente è rimettere
la Costituzione in dirittura d'arrivo. Non il testo sottoposto a referendum in
Francia e in Olanda, ma uno nuovo che contempli maggiori poteri al Parlamento e
la modifica del sistema di voto rispetto al Trattato di Nizza". - Secondo
lei, è giusto festeggiare questo cinquantenario? "Certo. Il
pessimismo e l'euroscetticismo offuscano un po' la ricorrenza, ma un noto
settimanale Usa ha elencato tutti i vantaggi che la società europea ha
ricavato da questo processo di integrazione. Sono tanti, e tutti
importanti".
Poi
all'Ue: "Rischia il congedo dalla storia, salvaguardi il diritto
all'obiezione di coscienza" di Roberto Monteforte / Città del
Vaticano UN'EUROPA senza un'anima, che dimentica Dio e i valori del
cristianesimo, non ha futuro. "Rischia il congedo dalla storia".
Parole durissime quelle pronunciate ieri da Benedetto XVI ai vescovi europei
del Comece ricevuti in udienza in Vaticano. Un discorso teso e preoccupato sul
destino del vecchio continente. Proprio nei giorni in cui si celebrano i 50
anni dei Trattati di Roma è chiarissimo il messaggio che il Papa ha
voluto rivolgere ai leader europei riuniti oggi a Berlino. Dimenticando i
"valori" e il Cristianesimo, l'Europa rischia una "apostasia da
se stessa, prima ancora che da Dio". Se rinnega le sue radici cristiane,
insiste, può andare incontro a un degrado senza ritorno. Presenta un
quadro fosco. La nuova Europa è in affanno, in crisi di identità
e distante dai cittadini, incapace di far fronte alle sfide poste dalla domanda
di solidarietà, di trovare "un sano equilibrio tra dimensione
economica e sociale". Si fa sferzante Ratzinger. Richiama il dato
oggettivo della crisi demografica dell'Occidente che oltre a mettere in crisi
la crescita economica, "pone enormi difficoltà alla coesione
sociale, favorisce un pericoloso individualismo disattento verso il
futuro". Disegna un Continente stanco, che perde fiducia nel suo avvenire.
L'emergenza energia, quella ambientale,la domanda di solidarietà -
osserva - rischiano di non avere risposte adeguate. Risulterebbero così
ben fragili le fondamenta della "nuova casa comune europea" e debole
la sua identità storica, culturale e morale. Questo sarebbe l'effetto di
un appannamento di quei valori universali e assoluti che "il Cristianesimo
ha contribuito a forgiare" e che "devono restare come fondativi
dell'Europa" e che la rendono "fermento di civiltà".
Valori che oggi paiono essere messi in discussione. È così che
l'Europa negherebbe se stessa, la sua stessa identità: "È la
sua apostasia e non solo verso Dio", scandisce il pontefice. Una scelta
che avrebbe conseguenze concrete, inaccettabili per Ratzinger. "La
ponderazione dei beni" finisce per essere considerata come "l'unica
via del discernimento morale"; il "compromesso" è usato
come sinonimo di "bene comune". Lo è quando è un
legittimo bilanciamento di interessi particolari diversi, ma è "il
male comune" se comporta accordi lesivi della "natura
dell'uomo". E lancia il suo affondo: "Una comunità che si
costruisce senza rispettare l'autentica dignità dell'essere umano,
dimenticando che ogni persona è creata ad immagine di Dio, finisce per
non fare il bene di nessuno". Non vi sarebbe nulla di
"equilibrato" o realista" nel compromesso colpevole di
"negare ogni dimensione valoriale ed ideale" figlio di un pragmatismo
dilagate che è da contrastare, tanto più che sarebbe proprio il
terreno di cultura di quelle "correnti laicistiche e relativistiche"
che vorrebbero negare diritto di intervento pubblico ai cristiani. Il Papa
chiede all'Ue di riconoscere "l'esistenza certa di una natura umana
stabile fonte di diritti comuni a tutti gli individui" e quindi il diritto
all'obiezione di coscienza "ogni qualvolta fossero violati i diritti umani
fondamentali". Il Papa fissa così l'agenda politica dei cristiani
impegnati nelle istituzioni comunitarie, chiarendo che il dibattito europeo ha
un effetto anche sulle scelte delle singole nazioni. Subito dopo l'udienza con
i vescovi del Comece il Papa incontra il "popolo" di Comunione e
Liberazione che in settantamila ha "occupato" piazza san Pietro.
L'occasione è il 25mo del riconoscimento papale della Fraternità
di Comunione e Liberazione, fondata da don Giussani. Per i "
Ciellini" molti riconoscimenti da Ratzinger.
.
Prodi: "Serve una nuova laicità fondata sul dialogo" L'Europa
dopo 50 anni prova a ripartire I 27 firmano la Dichiarazione di Berlino
L'Europa dopo 50 anni prova a ripartire I 27 firmano la Dichiarazione di
Berlino"/> Il cancelliere tedesco Angela Merkel accanto al premier
Romano Prodi ROMA - L'Europa riparte da Berlino. Nella capitale tedesca, in
occasione dei 50 anni dell'Unione, i capi di stato e di governo dell'Unione
adotteranno una Dichiarazione destinata a sancire il rilancio della Ue e la
fine dell'impasse nella riforma istituzionale. Nella "Dichiarazione di
Berlino" si fa appello alla difesa delle conquiste dell'Unione e al tempo
stesso al "continuo rinnovamento dell'architettura dell'Europa in
conformità all'evolversi dei tempi". "Cinquant'anni dopo la
firma dei Trattati di Roma - è scritto nella Dichiarazione - noi siamo
uniti nell'obiettivo di porre l'Unione europea, fino alle elezioni del
parlamento europeo nel 2009, su una rinnovata base comune". Il documento -
sul quale è stato raggiunto un faticoso consenso sul testo proposto
dalla presidenza tedesca - sarà firmato dal cancelliere tedesco Angela
Merkel, unitamente al presidente della Commissione europea Jose Manuel Barroso
e a quello del parlamento europeo Hans-Gert Poettering. La vigilia della firma
è stata però caratterizzata da evidenti divisioni e
difficoltà. Come dimostrano i documenti finali dei due più grandi
gruppi politici europei diffusi al termine delle tradizionali riunioni del Pse
e del Ppe. Neanche una parola sulla Costituzione europea nel testo dei
popolari; grande enfasi sulla necessità di un nuovo Trattato in quella
dei socialisti. Monta intanto la polemica sulle "radici cristiane" dell'Europa.
Fa discutere il mondo politico italiano ed europeo il fermo richiamo del Papa
sulla necessità di tenere nella dovuta considerazione queste radici. Un
monito che ha investito prima Roma, aprendo un immediato dibattito politico, e
che ha raggiunto con la stessa forza Berlino, dove i 27 cercano faticosamente
di riallacciare le fila dell'integrazione proprio sulla base del Trattato
costituzionale. "Mi sono adoperato lungamente per introdurre il
riferimento alle radici cristiane nella Costituzione europea - ha affermato
Prodi - non esserci riuscito non vuol dire però che il testo le
disconosca. Ci sono momenti in cui bisogna chiudere con il passato. Ora serve
una nuova laicità fondata sul dialogo". Da parte sua, il segretario
dei Ds Piero Fassino, intervenuto alla riunione dei socialisti a Berlino, ha
detto che nella costruzione dell'Europa il contributo della cultura cristiana
è innegabile, ma si affianca a quello di altre tradizioni culturali.
Intanto, a poche ore dall'inizio del Consiglio straordinario, la gente si
affolla attorno alla Porta di Brandeburgo tra i tendoni bianchi che ospitano
mostre e offrono gastronomia rigorosamente europea, in attesa del grande
concerto rock che si concluderà con l'esibizione di Joe Cocker.
Nella
giornata dei festeggiamenti dei cinquant’anni dei Trattati di Roma non abbiamo
ascoltato solo discorsi retrospettivi e celebrativi, peraltro sobri,
interessanti e dagli accenti sinceri, specie da parte di chi ha maggiormente
contribuito alla costruzione della casa europea. Abbiamo anche sentito parole
“politiche”. Rivolte al futuro.
Il presidente Napolitano ha detto al Tg1 che «l’Europa deve uscire presto dal
punto morto in cui si trova».
In un convegno sull’europeismo di De Gasperi, il presidente Marini ha
dichiarato che «serve uno sforzo, che è difficile ma necessario, di
costruire una politica estera e di difesa comune ». Dalla Germania, alla
vigilia del s u m m i t straordinario europeo di Berlino, la cancelliera Merkel
è stata ancora più precisa e, alla Bild, ha detto che «occorre
avvicinarci a un esercito comune europeo», un’idea che in Italia più
volte è stata avanzata da Francesco Rutelli.
Tutti propositi interessanti, purché ci sia un’Europa in grado di decidere
politicamente. Potrà farlo – pronunciamo una bestemmia – con un’Unione
«a due velocità»? Può essere anche questa la via maestra. D’altra
parte, in una conversazione con Le Monde Romano Prodi ha rotto il tabù,
non escludendo, seppure in teoria, una simile prospettiva, specie se lungo il
percorso verso la costituzione ci saranno nuovi intralci, come un nuovo
referendum in Francia dall’esito negativo.
Sarà pure una coincidenza, ma la “politicità” di queste
dichiarazioni si muove su un piano subliminale, anche se evidente:
l’Afghanistan. Lì, ancora una volta, si sta misurando – è una
litania, ma è così – l’assenza di un’Europa politica. Seppure in
una cornice Nato, gli otto paesi europei presenti si muovono secondo una logica
nazionale e – in rapporto agli Stati Uniti – ognuno individualmente, con pochi
o scarsi raccordi tra loro in quanto membri dell’Unione europea.
La vicenda Mastrogiacomo è un caso eclatante, emblematico, di questa
dimensione puramente nazionale e di una logica di relazione, nel bene e nel
male, con i soli Stati Uniti.
La missione afghana avrebbe dovuto tener conto della lezione irachena.
Nel caso della guerra in Iraq, l’Europa si spaccò in due, con riverberi
molto pericolosi sulla tenuta stessa di una Ue già insabbiata nella
crisi politica provocata dal doppio no nei referendum costituzionali in Francia
e in Olanda e nel difficile processo di ampliamento a est e verso la Turchia.
La missione in Afghanistan è stata “narrata” alle opinioni pubbliche,
innanzitutto, come un voltare pagina rispetto a quell’esperienza, come la prova
che l’Europa sente su di sé la responsabilità di agire, anche
militarmente, di fronte alle crisi internazionali, purché affrontate secondo
tutti i crismi del multilateralismo e sotto l’ombrello dell’Onu e della Nato.
Un messaggio rivolto anche all’America, come contrappunto rispetto
all’unilateralismo avventurista dell’Iraq.
C’è stato quasi un eccesso di zelo nel presentare virtuosamente
l’Afghanistan come l’opposto dell’Iraq, a partire da Zapatero. Poi ciascun
paese europeo, tolta la Gran Bretagna, ha vissuto più o meno lo stesso
psicodramma, ognuno nel chiuso del proprio confine parlamentare. In
Olanda, la formazione del nuovo governo di coalizione ha sfiorato il
fallimento proprio sulla spedizione in Afghanistan.
Al Bundestag, Merkel e Münteferring hanno dovuto fare acrobazie per limitare i
compiti del contingente tedesco e ottenere così luce verde.
Zapatero si è dovuto destreggiare tra i mal di pancia della sinistra e
le critiche del suo principale fiancheggiatore nei media, El Paìs.
E l’Italia è ancora alle prese con un passaggio parlamentare cruciale,
quello di martedì prossimo al senato.
Così, dalla spaccatura sull’Iraq si è passati alla frammentazione
sull’Afghanistan. Dal broncio con l’America alla condivisione di un’impresa
difficile, con molti se e ma. Non solo ogni paese si muove obbedendo
prevalentemente a logiche di politica interna e all’assillo di ricostruire –per
chi l’ha incrinato, come nel caso di Berlino – il rapporto con Washington, o di
non comprometterlo definitivamente, come ora il governo italiano. Ognuno
e tutti insieme mostrano di non avere una visione persuasiva del perché si
trovano in un paese remoto, il più inospitale e ostile della terra.
Washington ha una sua bussola, un suo obiettivo e, dopo il fallimento
dell’impresa mesopotamica, lo vuol rendere ancora più evidente, specie
di fronte all’opinione pubblica interna: la lotta al terrorismo internazionale,
nel paese che ne ospita le basi principali, e la tutela del governo di Karzai
dal possibile ritorno dei talebani. Ed è conseguente, politicamente e
militarmente, con questa visione. Tranne la Gran Bretagna, i paesi europei non
possono dire di averne una altrettanto forte. Dicono di condividere le ragioni
degli americani, ma poi fanno fatica a muoversi coerentemente sul terreno.
Tra alti e bassi, è prevedibile che il quadro non cambi sostanzialmente.
Ma nel lungo periodo, una situazione che pure si mantenga a questi livelli
senza peggiorare, è destinata a logorarsi, a entrare in una sorta di
stallo senza fine, punteggiato da momenti altamente drammatici.
Scongiurare uno scenario del genere è possibile.
In Libano, per esempio, l’Italia sta facendo bene. Anche nei Balcani. Ma sono
situazioni tutt’altro che transitorie. Impensabile che a farsene carico, nel
lungo periodo, sia un sistema paese, o una somma di sistemi paese, con il
retropensiero che il grosso spetterà comunque agli Usa. Per questo il
bisogno di Europa di cui tanto si è parlato ieri non è retorica,
e neppure un’istanza che interessa solo gli europei.
È una necessità per il mondo d’oggi e di domani.
Il Giornale 25-3-2007 UE: pagamenti via
telefono
Secondo
uno studio della Commissione Europea, la mancanza di uno spazio unico dei
pagamenti bancari comporta un costo pari al 2-3% del Pil. Attualmente dei passi
in avanti sono stati fatti attraverso l'autoregolementazione sulla quale le
banche lavorano dal 2002, per la creazione di uno spazio unico per i pagamenti
nell'Ue. Dall'Ecofin di martedì a Bruxelles dovrebbe venire, salvo
sorprese, il via libera a una direttiva che stabilisca un quadro legale
omogeneo. La Bce sostiene, in proposito, che l'accordo amplierebbe i benefici
della moneta unica incoraggiando la competizione tra i Paesi nei servizi per
aumentare la crescita. Con la nuova direttiva, i pagamenti nazionali e
transfrontalieri diventeranno la stessa cosa e avranno bisogno di 3 giorni al
massimo. Con un solo conto corrente potranno inoltre essere per esempio
domiciliate le bollette di una casa che si trova in un altro Paese europeo, e
si potrà fare ogni altro tipo di operazioni in caso di soggiorno
all'estero per un certo periodo. Ma ci saranno anche altre novità come
la possibilità di pagare con il cellulare, cosa che già è
possibile da qualche giorno a Bruxelles, di lasciare al proprio supermercato le
bollette affinché siano pagate, cosa che avviene già in Gran Bretagna.
Il tutto a partire dal primo gennaio 2008.
E' stato già soprannominato il ladro
gentiluomo e la ragazza derubata sta pensando di dedicargli la tesi di laurea.
La studentessa ventunenne, Paola Bernardi Locatelli, mercoledì sera
aveva lasciato il suo zainetto col computer nell'auto parcheggiata in centro a
Bergamo. Al suo ritorno però l'amara sopresa: dalla vettura era sparito
lo zaino. Da lì è comiciata la sua disperazione: il computer
infatti conteneva l'unica copia della tesi di laurea alla quale lavorava da un anno
e mezzo. Paola, che è laureanda in Archeologia all'università di
Milano, non si è persa d'animo: ha prima tappezzato il quartiere di
volantini con un appello al ladro e poi ha spedito comunicati a tutti i
giornali locali. E il suo spirito d'iniziativa è stato premiato: ieri
sera, finalmente. è arrivata la telefonata che aspettava. Un uomo,
dall'accento straniero, l'ha avvertita che avrebbe ritrovato la tesi insieme ad
altri documenti, in una busta di plastica blu accanto ai cassonetti
dell'immondizia. Paola si è precipitata all'indirizzo indicato prima che
il camion della nettezza urbana portasse via tutto.
Come se non bastasse il ladro ha lasciato nella busta anche una cassetta audio
con la registrazione di una conferenza di archeologia che la studentessa aveva
preso in prestito alla biblioteca dell'università. "Adesso
farò tantissime copie della tesi e la distribuirò tra gli
amici" racconta soddisfare. Tra un mese Paola discuterà a Milano la
sua tesi sul tema della "figura umana nella ceramica
etrusco-corinzia". Magari rivolgendo un pensiero a chi, malgrado tutto,
lei considera un benefattore.
+ La Stampa 24-3-2007 La retorica dell'Europa Enzo Bettiza
+ Il Riformista 24-3-2007 Irving va ad Auschwitz
come se fosse Disneyland di
Stefano Cappellini
La Repubblica 24-3-2007 I mari agitati del nuovo Pd.
Paolo Frascani
La Repubblica 24-3-2007
"Da Fininvest soldi al giudice Metta" Emilio Randacio Milano
Il Corriere della Sera 24-3-2007 La coerenza che manca
Di Angelo Panebianco
La Stampa 23-3-2007 La capitale festeggia l'Unione
Europea
Finanza e Mercati 24-3-2007 La finta bolla made in
Italy
Di
retorica se n’è sentita e letta tanta in questi giorni di festeggiamenti
in occasione del cinquantesimo anniversario del Trattato di Roma che, pur se preceduto
da primordi decisivi come la Comunità del carbone e dell’acciaio e
l’Euratom, è considerato storicamente l’atto fondativo dell’Europa
destinata a riunirsi con 27 Stati nell’attuale Unione Europea. Intendiamoci. La
retorica, in particolare la retorica europeista, non poteva non evocare ed
esaltare gli sforzi tesi da mezzo secolo alla creazione di un’entità
composta da nazioni civilissime, etnicamente divise ma legate da una comune
matrice culturale, che però si svenavano di continuo nel ricorso ciclico
delle più lunghe e terribili guerre fratricide che il mondo ricordi.
A giustificazione di tale autoretorica non sempre controllata, che talora
degenera in una sorta di compiaciuto narcisismo pedagogico, c’è comunque
un patrimonio di risultati positivi e incontrovertibili accumulati soprattutto
nei primi due decenni della Comunità che non si chiamava ancora Unione.
L’estirpazione dell’odio tra francesi e tedeschi durato dal 1870 al 1945, il
consolidamento di una pace e di una prosperità di massa finora inimmaginabili
nella storia europea, la riunificazione della Germania e poi del continente non
più diviso da muri e cortine di ferro: tutto questo è avvenuto,
è potuto avvenire, nell’ambito del lento ma inarrestabile processo
unitario che a Roma, nel marzo 1957, aveva avuto la sua base contrattuale o,
per dirla meglio, contrattualistica.
C’è però un punto critico essenziale, che neppure il più
blando esercizio retorico riesce a nascondere del tutto. Non basta dire che con
mezzo miliardo di cittadini l’Europa è diventata il terzo conglomerato
demografico dopo la Cina e dopo l’India.
Non basta nemmeno pavoneggiarsi per un prodotto lordo globale che supera quello
degli Stati Uniti, mentre sull’altro piatto della bilancia ritroviamo un tasso
di disoccupazione giovanile e di ritardo tecnologico che gli Stati Uniti non
conoscono. Quella che commemoriamo è una nobile signora di mezza
età che mostra il segno di disagi e di incertezze di un ciclo vitale
incompiuto ma, speriamo, non esaurito. Una signora certamente matura,
politicamente rinsaldata dall’euro, in possesso di molte terre continentali,
che però nel frattempo, in un alternarsi continuo di crescita e di
crisi, ha smarrito per strada i suoi documenti identitari, i suoi codici
normativi, il suo marchio di legittimità.
Noi ne celebriamo oggi l’anniversario, anniversario che dà l’impressione
di crogiolarsi in vuoti soprassalti d’autostima, giacché non s’è
concluso come avrebbe dovuto concludersi. Cioè nell’apoteosi della sua
Carta d’identità e di legittimazione transnazionale: il progetto
istituzionale, sottoscritto nel
Saremmo forse giunti, proprio nelle ore del memorabile genetliaco, ai nodi
della crisi più ostica in attesa che l’esito delle imminenti
presidenziali francesi ci dica se la Francia accetterà fino in fondo,
con tutte le conseguenze del caso, l’Europa di Roma e di Maastricht? Intanto la
cancelliera Merkel, guardata con diffidenza da Parigi e criticata da Londra, ha
deciso di porre domani a Berlino, al cospetto dei rappresentanti del vertice,
il problema della Costituzione che ella ha conficcato al centro della
presidenza tedesca dell’Ue: metterà sul tavolo la bozza di un
«giuramento» propedeutico in favore della ratifica unanime di una Carta
paneuropea.
Ma sono già tre gli Stati a cui la bozza della dichiarazione berlinese
non è piaciuta. Ai francesi non è andata giù la lode
dell'allargamento all'Est, inserita dalla Merkel nel primo paragrafo della
bozza. I separatisti britannici non hanno gradito un altro paragrafo in cui si
esalta l’euro e si sottolinea la «responsabilità sociale» dell'Unione. I
polacchi si sono dichiarati delusi e irritati dal mancato riferimento alle
radici cristiane dell'Europa. Tre Paesi di peso e di ostinata
suscettibilità che, sicuramente, faranno sentire con energia le loro
obiezioni domani. Come si vede, l’ormai remota luminosità dell'inizio
comunitario, che l’anniversario inevitabilmente deve commemorare, si mescola
alle inquietudini del presente e forse ai presagi di tempesta nel futuro. Non a
caso Romano Prodi, che ha parlato ieri con l'autorevolezza dell'ex presidente
della Commissione, ha ammonito che «il processo della costruzione europea non
ha ancora raggiunto il punto di non ritorno». Come dire: bisogna andare avanti,
costi quel che costi, per non cadere dalla crisi nel baratro del fallimento
anch'esso senza ritorno.
BERLINO - Un momento solenne di grande festa e di
riconoscimento del percorso compiuto in mezzo secolo. Il summit per il
cinquantenario della firma dei Trattati di Roma, che si tiene tra sabato e
domenica a Berlino, riunisce capi di stato, capi di governo e ministri dei
Paesi membri dell'Ue: un'occasione per l'Europa di riavviare un cammino
rallentato dai no venuti alla Carta fondamentale dell'Ue. Proprio quella Carta
ora criticata da Benedetto XVI per il mancato riferimento alle radici cristiane
dell'Europa.
IL PROGRAMMA -
Il summit, preceduto da due pre-vertici straordinari dei due partiti politici
maggiori dell’Ue (Ppe e Pse) comincia nel tardo pomeriggio di sabato con con un
ricevimento nella Philharmonie berlinese, dove i capi di Stato e di governo
saranno accolti dal cancelliere tedesco Angela Merkel. A seguire un concerto
dei Berliner Philharmoniker, che eseguono, sotto la direzione di Sir Simon
Rattle, le Folk Songs di Luciano Berio e la Quinta sinfonia di Beethoven. La
delegazione si sposterà alle 19 al castello di Bellevue, residenza del
presidente della Repubblica federale Horst Koehler. La cena (ufficialmente non
di lavoro) si tiene nel Gran Salone e viene introdotta da un discorso di
Koehler. La cerimonia ufficiale per il Cinquantenario dei Trattati si svolge
invece domenica al Museo di storia tedesca. I capi di Stato poseranno poi per
una foto di famiglia intorno a mezzogiorno davanti alla Porta di Brandeburgo,
dopodiché andranno al pranzo di lavoro, dove si discuterà della
dichiarazione messa a punto dalla presidenza di turno tedesca. Il testo
verrà firmato dal presidente del Consiglio europeo, Angela Merkel, dal
presidente della Commissione europea José Manuel Barroso e dal presidente del
Parlamento europeo Hans-Gert Poettering e le conclusioni verranno illustrate
durante la conferenza stampa della presidenza tedesca, alle 14,30.
24
marzo 2007
«Io ad Auschwitz sono costretto ad andarci di nascosto. Perché Auschwitz
è come un casinò di Las Vegas, quelli come me, quelli che
vincono, non li lasciano entrare». Sono le parole pronunciate dallo storico
inglese negazionista David Irving pochi minuti prima di visitare per la prima
volta il campo di sterminio nazista in Polonia. È successo venti giorni
fa, il 4 marzo 2007. Irving era accompagnato da un suo amico, da lui definito
«un esperto non revisionista». Con loro, il giornalista Andrea Casadio, che ha
filmato tutta la sequenza della visita, preparativi compresi, e ne ha tratto un
documentario - capace di fare più danni al negazionismo di qualunque
codice penale - che è andato in onda nella puntata di ieri sera di
Controcorrente, il programma di SkyTg24 condotto da Corrado Formigli.
Irving è uscito dalla prigione austriaca dove era recluso per apologia
di nazismo il 20 dicembre 2006, dopo essere stato condannato a tre anni senza
condizionale per avere tenuto nel 1989 due discorsi in cui negava l’esistenza
delle camere a gas a Auschwitz e metteva in dubbio l’Olocausto. Ha trascorso in
carcere 420 giorni. Ne è uscito ancor più illividito e pervaso di
odio razzista. La galera, sostiene, «è il mio Oscar alla carriera.
Marxisti ed ebrei hanno pensato di zittirmi in questo modo, ma io zitto non ci
sto». Una frase su due di Irving è un insulto razzista: «La Polonia fa
schifo, è un paese sudicio, primitivo», dice mentre percorre in macchina
la strada che da Cracovia lo conduce ad Auschwitz. Lungo la via si ferma per
acquistare otto tulipani gialli: «Sono il segno che vengo qui in pace».
Mentre si avvicina al famigerato ingresso del campo base, la torre attraversata
dal binario che percorrevano i treni della morte, il suo primo commento
tradisce delusione: «È più piccolo di quel che pensavo». Irving
si aggira nel lager come in un luna park truccato. Appena dentro, sbotta:
«Quelle torrette di guardia sono dei falsi da quattro soldi, falegnameria
polacca. Te lo immagini un Ss che passa l’inverno in quella torretta spoglia?
Sono falsi per turisti». Irving prosegue il percorso lungo il binario. Scatta
foto come un visitatore qualsiasi. Mentre costeggia un canale di scolo dice:
«Come facevano i tedeschi a scavare buche e bruciare i corpi con tutta
quest’acqua?». Si avvicina ai resti della prima a camera a gas, distrutta dai
nazisti quando la fine della guerra si avvicinava. «Mi domando cosa sia davvero
successo qui», dice con l’espressione di chi è convinto che tutto possa
essere accaduto tranne ciò che i resti intorno a lui raccontano. «Dove
sono i buchi sul tetto da cui sarebbero state inserite le capsule di cianuro?
Nessuno ha veramente indagato sul perché i tedeschi abbiano distrutto questa
costruzione. Le invenzioni dei polacchi e degli ebrei hanno rovinato tutto».
Vede una piccola costruzione in muratura: «E qui stava il carbone che avrebbe
cremato mezzo milione di ebrei?». Gli compare alla vista il memoriale alle
vittime costruito nel dopoguerra. Lo guarda con aria di schifo. Poi quasi
soddisfatto legge: «Ah, ora i morti sono già diminuiti a un milione e
mezzo? Auschwitz è un documento falsificato, è un tour stile
Disneyland».
Nel settore 2, Auschwitz-Birkenau, la prima preoccupazione di Irving è
cercare la scritta che sovrasta il cancello di ingresso: «Arbeit Macht Frei».
La vede. Si capisce che gli dà gusto. Si dispiace solo che sia
«minuscola». La soddisfazione dura poco. Ha appuntamento con la troupe di una
televisione russa che ha portato con sé un sopravvissuto del campo. Quando
Irving lo viene a sapere, tracima odio. Dell’anziano dice che è «un
vecchio, un lupo mannaro, uno cui mi aspetto che si stacchi un braccio da un
momento all’altro». Anche l’accompagnatrice della troupe subisce il suo carico
di insulti: «Una polacca con una faccia cadente da alcolizzata». Solo
l’ingresso nel primo edificio gli ridà il buonumore: «Questa costruzione
del 1943 era un installazione all’avanguardia per pulire e disinfettare i
prigionieri». La visita si sposta al blocco 11, il blocco della morte. Qui
Irving sembra uno scienziato che abbia visto materializzarsi davanti agli occhi
la reazione chimica attesa: «Come avevo immaginato. Tutto falso, i forni sono
ricostruiti. È come una banconota da 50 dollari rimessa insieme a pezzi.
Eppoi che ci fanno buchi di toilette in una camera a gas? E queste? Fessure da
tre centimetri sotto le porte di una camera a gas?». Prima di tornarsene a
Londra, dove si è stabilito dopo la carcerazione, Irving lascia al “muro
della morte”, dove le Ss uccidevano i prigionieri a due a due con un colpo alla
nuca, i suoi otto tulipani gialli.
In studio, a commentare il documentario, c’è ospite lo storico Marcello
Pezzetti, uno dei massimi esperti di Auschwitz, che ha dedicato alcuni dei suoi
studi a smontare le tesi negazioniste di Irving. Ma stavolta non ha voglia di
argomentare. Dice solo: «Irving è un uomo di merda».
Se
il futuro dipende dai giovani di oggi in Italia non c'è da stare molto
allegri. La popolazione invecchia e i ragazzi sono sempre meno. Nel secondo
millennio usano poco internet e hanno scarse competenze informatiche. Il
livello di scolarizzazione è basso e sono ancora troppi coloro che a 24
anni si ritrovano all'affannosa ricerca di un posto di lavoro. Un quadro -
quello illustrato da Eurostat in occasione del Forum dei giovani del 24 e 25
marzo, organizzato nell'ambito dei festeggiamenti per il 50° anniversario della
firma dei Trattati di Roma - che dovrebbe fare riflettere tutti: politici,
amministratori locali e cittadini comuni. I numeri, ancora una volta, non
lasciano spazio a dubbi: l'Italia è indietro e il futuro secondo gli
esperti europei è decisamente in salita.
La popolazione "giovane". Se per giovani intendiamo quelli al
di sotto dei 24 anni, in Italia, siamo messi male e se consideriamo gli under
15 siamo gli ultimi. E' il prezzo di genitori con sempre meno figli e di una
famiglia che stenta a decollare: con benessere e difficoltà economiche
probabilmente facce della stessa medaglia. Oggi, nel nostro paese , solo un
abitante su quattro ha meno di 24 anni. La media dei paesi dell'Unione Europea
è del 28,6 per cento. Tra le nazioni che possono contare su un capitale
umano giovane in testa c'è l'Irlanda (35,7 per cento) seguita dal
Francia, col 31,2 per cento, Regno Unito e Danimarca. E se nel frattempo non
interverranno novità, nel 2050 le cose peggioreranno ulteriormente: il
numero dei giovani, si calcola, scenderà al 19,6 per cento.
Il livello di scolarizzazione e il lavoro. E' uno dei parametri presi in
considerazione dalle organizzazioni internazionali per prevedere i margini di
crescita di uno stato. Rispetto alla media Ue (77,4 per cento) i ragazzi
italiani tra i 20 e i 24 anni di età in possesso di un diploma sono
appena 73 su 100. La Svezia con 87 giovani diplomati su 100 ci surclassa.
Finlandia e Grecia ci danno oltre 10 lunghezze. Ma il dato che salta all'occhio
è quello dei paesi appartenuti all'ex blocco sovietico che in molti casi
superano il 90 per cento. Brutte notizie per i giovani italiani anche sul
versante del lavoro. La disoccupazione in Italia colpisce più di un
giovane su 5 (il 20,1 per cento) con una media europea più bassa di
quasi 3 punti e mezzo. Ma non è tutto. Perché nelle statistiche Eurostat
figura la percentuale di giovani che lavora: il resto è disoccupato o
continua gli studi. In Italia, ultima in assoluto, può contare su uno
stipendio appena un ragazzo su 4. Nel Regno Unito, in Finlandia, Austria e
Danimarca se ne contano quasi il doppio.
Le competenze informatiche. In un mondo sempre "più
virtuale" sapere utilizzare il computer e la Rete è di fondamentale
importanza. Fra qualche anno, coloro che non sapranno inviare una email non
saranno in grado di "chattare" o "navigare e acquistare in
rete" saranno considerati neoanalfabeti. Tra i paesi europei più
sviluppati i giovani italiani figurano all'ultimo posto: appena 55 su 100
(16/24 anni) utilizzano internet almeno una volta alla settimana. Gli unici
paesi dell'Ue che ci seguono sono la Bulgaria, la Grecia e Malta. Anche in
Lituania e Lettonia l'utilizzo di internet da parte dei giovani è parecchio
più diffuso che nel belpaese. Stessa cosa per le competenze informatiche
di alto livello. Solo un giovane italiano su tre può considerarsi
davvero esperto alle prese con "file, account" e altre diavolerie e
solo 8 su 100 si sono cimentati in "acquisti elettronici". In Europa,
i ragazzi fra 16 e 24 anni che comprano beni e servizi su internet sono almeno
il triplo
(24 marzo 2007)
Napoli (segue dalla prima di cronaca)
L'idea di edificare una comune casa dei laici e dei cattolici democratici
è ormai condivisa dagli elettori dell'Ulivo, ma sembra non scaldare i
loro cuori. Non si è allargato, infatti, il consenso di aree politiche
più vaste di quelle presidiate dall'elettorato militante, né si è
attenuata l'indifferenza di larghi settori dell'opinione pubblica di sinistra
verso i contenuti programmatici della "cosa nuova" che sta per
nascere. è mancata, in altre parole, un'elaborazione intellettuale che
mirasse a integrare e superare le culture politiche, cattolica, ex comunista e
socialista, che si apprestano a incontrarsi. Sembrerebbero almeno in parte
giustificate le critiche di quanti, all'interno e fuori dei Democratici di
sinistra, denunciano la perdita di identità culturale saldamente radicata
nell'immaginario collettivo del popolo della sinistra, per navigare su mari
agitati e sconosciuti con compagni poco fidati. E dunque saremmo portati a
interpretare simili perplessità come una prova ulteriore della crisi
della politica e della sua incapacità di coinvolgere e mobilitare, se
non dovessimo anche riconoscere che la costruzione del Partito democratico si
rivela più complessa e tormentata per la difficoltà di
comprendere e pilotare i rapidi cambiamenti che il nostro tempo impone a una
vasta area della sinistra italiana e delle sue forze intellettuali. Viene
perciò da chiedersi se l'esitazione nell'approfondire i contenuti
programmatici della nuova "cosa" da parte di operatori della cultura,
ricercatori, scienziati e semplici cittadini, sia solo determinata dalla
mancata apertura di adeguati canali di partecipazione politica o testimoni
piuttosto della reticenza a pronunciarsi, da "sinistra", sulla
complessa riconversione dei valori e dei punti di riferimento culturale di
oggi. è questo un punto nodale su cui impostare una riflessione. Un
argomento su cui richiamare l'attenzione per approfondire i temi centrali della
discussione. è certo che una società smarrita e indifesa nei
confronti dei segnali che costantemente denunciano la rapida mutazione dei
fondamenti del vivere quotidiano - ambiente, famiglia, scuola, salute - resta
in attesa di risposte che il laboratorio di idee costruito per tradizione dalla
politica della sinistra non fornisce più. Come è vero che, a
fronte di questa inadeguatezza, si avverte più chiara e forte la voce di
una gerarchia cattolica che ammonisce con "comandi" che destano anche
l'attenzione dei non credenti. Questi ammonimenti toccano, secondo quanto ha
osservato su queste pagine Ilvo Diamanti, "questioni legate all'etica:
centrali per la società" e "rispondono all'inquietudine
diffusa di fronte ai cambiamenti che investono la vita e l'integrazione
sociale". Sull'altro fronte, non meno combattuto, della modernizzazione
del sistema economico e del mondo del lavoro, un insieme di interessi e
sedimentate convinzioni ha finora tenuto con successo in pugno la bandiera
dell'identità socialista a scapito di una vocazione riformista,
più avanzata perché liberale in economia e garantista nelle relazioni di
lavoro. Questioni di questo calibro richiedono un'immediata mobilitazione
intellettuale e politica. Una mobilitazione che se finora non è stata
certo incoraggiata dalla politica, non è stata nemmeno fatta propria né
sollecitata da una società civile poco consapevole, nelle sue componenti
culturali e scientifiche, del ruolo che dovrebbe invece svolgere. Se riduciamo
questo quadro d'insieme all'angolazione più periferica di un Mezzogiorno
apparentemente meno toccato dai cambiamenti che attraversano larghi settori
della società italiana, l'esplorazione dei nuovi orizzonti di una
moderna sinistra democratica diventa ancora più critica e urgente. Qui
il processo di costruzione del Partito democratico viene percepito
dall'opinione pubblica come mera trasposizione dei rapporti di forza che
regolano la governabilità locale, più che occasione di radicali
trasformazioni culturali e politiche. E, d'altro canto, per quanto attiene alla
cosiddetta società civile si continua a intravedere una scarsa
propensione a ragionare su una via meridionale al riformismo, individuando i
più pressanti obiettivi da far perseguire, da questa parte del paese,
alla nuova compagine politica. Niente di simile, per intenderci, a quanto
è avvenuto, nei giorni scorsi, in Piemonte dove la componente fassiniana
dei Democratici di sinistra ha rivendicato con decisione, nel dibattito
precongressuale, la priorità della "questione settentrionale".
Non si tratta, però, di conquistare solo maggiore attenzione nei
riguardi dei mali endemici del Mezzogiorno a livello nazionale, ma di proporsi
di interpretare la società meridionale con strumenti più
aggiornati di quelli con cui si cerca di venire a capo della sua insuperabile
emergenza. Se distogliamo per un attimo lo sguardo dalla colmata di Bagnoli per
misurare l'eventuale emergere di visioni, costumi e sensibilità
condivise da altre grandi realtà urbane del paese, riconosceremo che
anche gli scenari del nostro caos urbano nascondono le irrequietezze e i
fremiti di una società non statica, anzi, vitale.
Nel processo di appello bis, con l'ex
magistrato e il senatore di Forza Italia, sono stati condannati Acampora e
PacificoLodo Mondadori, le motivazioni della sentenza: il regista fu Previti
"Emerso un quadro allarmante della gestione del tribunale di Roma" -
Stefania Ariosto ha solo tracciato la strada. Ma "sullo sfondo, davvero
sullo sfondo". Perché, scrivono i giudici di Milano, la voce delle
supertestimone del caso "toghe sporche" "che dà conto
della lobby giudiziaria organizzata da Cesare Previti", è superata,
riscontrata in maniera univoca dai fatti emersi nel dibattimento. E' stato
provato dalle carte processuali, che il giudice romano Vittorio Metta che si
occupò nel 1990 della sentenza sul lodo Mondadori, sia stato pagato nel
1992 con "soldi che discendano direttamente dalle provviste del gruppo
Fininvest". Quello che emerge dalle motivazioni con cui lo scorso 23
febbraio sono stati condannati per concorso in corruzione a 1 anno e mezzo di
carcere Cesaree Previti e gli avvocati Giovanni Acampora e Attilio Pacifico e a
2 anni e 9 mesi l'ex giudice Metta, svela, a tanti anni di distanza, i
meccanismi del "porto delle nebbie". Un tribunale, quello di Roma,
dove venivano "riservatamente intessuti rapporti, se non illeciti,
quantomeno deontologicamente discutibili". Sintomatico di "un
allarmante quadro d'insieme di un certo ambiente romano". La Corte
d'appello è convinta di aver raggiunto la prova della "intervenuta
corruzione del giudice Metta da parte degli avvocati Pacifico, Previti e
Acampora, intermediari di Berlusconi, per ottenere l'annullamento del lodo
Mondadori". Ma non solo il lodo. Per lui c'è anche un precedente:
la condanna per la causa Imi-Sir (a sei anni e divenuta definitiva). Stesso
canovaccio. Previti il tramite della corruzione giudiziaria. Questa volta per
conto della famiglia del petroliere Nino Rovelli. Ora, la sentenza milanese
stabilisce che questa lobby coordinata da Previti, ha pilotato la sentenza con
la quale, il 24 gennaio del 1991, "la Corte d'appello di Roma annullava il
lodo Mondadori", respingendo la richiesta del gruppo Cir di Carlo De
Benedetti, affidando il controllo del primo gruppo editoriale italiano alla
Fininvest e sfilandolo alla Cir. Che si siano pagate tangenti, per i giudici,
è indubbio, "stante la valenza indiziaria di un fatto certo (il
passaggio di denaro, ndr), grave e preciso". Per le toghe di Milano
è univoca la conseguenza probatoria "della certezza del fatto che
la somma bonificata costituisca provvista pagata dalla Fininvest di Silvio
Berlusconi per la corruzione del giudice Metta nella causa del lodo
Mondadori". Silvio Berlusconi era uscito da questo processo nel 2001,
quando la Cassazione aveva riconosciuto le attenuanti generiche al leader di Forza
Italia, dando così il là alla prescrizione del reato. E loro, gli
imputati, non hanno mai fornito una valida giustificazione sui passaggi di
denaro all'estero. Per la Corte d'Appello di Milano il prezzo della corruzione
è rappresentato da quei 425 milioni di vecchie lire, che fanno parte di
un bonifico che Cesare Previti ricevette sul suo conto svizzero
"Mercier" da All Iberian, società off shore in orbita
Fininvest. A dimostrare la causalità del bonifico, anche la conseguenza
temporale. A gennaio la sentenza scritta dal giudice Metta. Un mese dopo il
versamento, estero su estero senza un apparente motivazione, da una
società controllata Fininvest al conto Mercier, quindi i successivi
passaggi ad Acampora e Pacifico e poi i 425 milioni consegnati in Italia al
giudice Metta. Eccola, dunque la prova della corruzione giudiziaria. Per
scrivere l'ultimo tassello di questa vicenda, ora, manca la Cassazione. I
legali dei 4 imputati, gli avvocati Sammarco, Quattrocchi, Andreoli e
Pettinari, hanno già annunciato il ricorso.
I tatticismi della nostra politica estera
Comunque vada il voto di martedì sul rifinanziamento della missione in
Afghanistan si è ormai capito che la politica estera dell'attuale
maggioranza, tanto più dopo la vicenda Mastrogiacomo, sia un tale
groviglio di contraddizioni da rendere improbabile che il governo possa durare
ancora a lungo. Sembra che l'Italia sia condannata a esasperare, talvolta fino
al parossismo, tendenze cui, per la verità, non sono estranei gli altri
grandi Paesi dell'Europa occidentale. In Afghanistan si era ormai delineata una
spaccatura evidente fra le democrazie anglosassoni, coadiuvate da alcuni
piccoli Paesi europei, le quali per intero portavano, e tuttora portano, sulle
proprie spalle il peso della guerra contro i talebani e le grandi democrazie
dell'Europa continentale (non solo l'Italia, ma anche la Francia, la Germania,
la Spagna) che invece preferivano stare a guardare: segno evidente che nelle
opinioni pubbliche europeo-continentali è assente una generale e solida
condivisione degli scopi della guerra al terrorismo che là si combatte,
e un giudizio condiviso sulla importanza della posta in gioco. Per quella
abitudine all'esasperazione di tendenze comuni che ci caratterizza, l'Italia
è però riuscita a fare scelte e ad assumere atteggiamenti e
posizioni che ci hanno isolato persino in Europa occidentale, come ha mostrato
la presa di posizione contro di noi di Angela Merkel e, più in generale,
l'assenza di solidarietà verso l'Italia, nella vicenda dell'ostaggio, di
tutte le capitali europee. È anche possibile che agli altri
europeo-continentali non sia parso vero di poter indicare noi italiani come gli
unici reprobi, i veri campioni dell'ambiguità, quelli che legittimano i
talebani e indeboliscono la credibilità del governo Karzai, per coprire
in questo modo le "loro" magagne e le loro ambiguità. Resta da
capire perché noi calchiamo la scena internazionale in questo modo. Secondo
alcuni, è un vizio antico: risale a quando, dopo l'unità
d'Italia, non fu chiaro né a noi né agli altri se fossimo la più grande
delle medie potenze o la più piccola delle grandi potenze. Questa
ambiguità, questa difficoltà di (auto)collocarci nel mondo, ha
sempre condizionato, a volte anche molto negativamente, il nostro comportamento
internazionale. Forse, anche da questa insicurezza di fondo deriva quel certo
atteggiamento sbruffone e all'apparenza dilettantesco che talvolta ci
caratterizza. Sostanzialmente, si tratta di una nostra incapacità di
stare "nei nostri stracci", di adottare uno stile sobrio e ponderato
adatto al nostro reale (non elevato) peso politico internazionale. Il
precedente governo Berlusconi e l'attuale governo Prodi hanno fatto politiche
diversissime ma con un punto in comune: la tendenza a spettacolarizzare la
politica estera per fini esclusivi di consenso interno. Berlusconi si
presentava come quello capace di fare dialogare Bush e Putin, di mettere
insieme Occidente e Oriente. Si muoveva come se il peso internazionale di un
leader non sia condizionato dalla potenza che egli ha dietro di sé. Il governo
Prodi non è da meno. Prendiamo il caso della Conferenza di pace. Anche
lasciando da parte (come si deve fare, per carità di patria) l'estemporanea
idea di allargarla ai talebani, sappiamo tutti che è una proposta nata
solo per dare un contentino alla sinistra estrema. Una volta portata sulla
scena internazionale diventa però non solo una proposta politicamente
inopportuna in questa fase della guerra, ma anche un'altra delle tante
velleitarie iniziative di un Paese che non ha la potenza né la statura per
sostenerle. Zigzagando fra piccoli opportunismi, tatticismi esasperati,
doppiezze e manie di grandezza non si fa una politica estera capace di servire
al meglio l'interesse nazionale. Nulla, infatti, aiuta di più
l'interesse nazionale di una media potenza quale noi siamo di una solida
reputazione di affidabilità, di capacità di mantenere gli impegni
assunti. E, anche, di sobrietà. Il fatto che esista oggi la
possibilità, come ha osservato Stefano Folli sul Sole 24 Ore , che
l'Italia conceda in Afghanistan ciò che finora non aveva mai concesso
agli Stati Uniti e alla Nato, ossia il rafforzamento delle nostre truppe e
nuove regole di ingaggio, è un'ulteriore riprova di quanto sia difficile
per noi tenere posizioni internazionali coerenti. Poiché ciò accadrebbe
per rattoppare le lacerate relazioni con gli Stati Uniti e non per una nostra
meditata e convinta volontà di fare quanto va fatto in quella guerra. E
l'Afghanistan è solo il più importante dei nodi di politica
estera che, al momento, non sappiamo sbrogliare. Nell'elenco andrebbero messi,
per lo meno, anche i nostri ambigui rapporti con Hamas in Palestina e quelli
con l'Iran. Il bilancio della nostra politica estera è dunque poco
entusiasmante (per dirla con un eufemismo). Il governo Berlusconi aveva
rapporti freddi e quasi ostili con i principali governi dell'Europa
continentale ma coltivava almeno un saldo legame con gli Stati Uniti. Con il
governo Prodi, le tensioni con gli Stati Uniti sono giunte al loro massimo
storico senza la compensazione di un solido e aperto sostegno degli altri
europeo-continentali. Nessuno aveva previsto quest'ultima circostanza.
La senatrice dell'Idv ieri in visita nella
nostra città su invito dello Spi-Cgil REGGIO. Tra le iniziative organizzate
per la festa delle donne dal sindacato dei pensionati della Cgil - lo Spi,
appunto - in calendario c'è anche la visita della senatrice dipietrista
Franca Rame, giunta ieri alla Camera del lavoro di Reggio accompagnata dal
marito, Dario Fo. Molto partecipata e incentrata su diversi argomenti, la
mattinata scorre veloce, e i temi trattati si spostano, con intensità di
argomentazione, dalla condizione femminile alla politica di governo nei suoi
aspetti più critici. Si parla a una platea variegata, di giovani,
studenti, uomini, donne e di pensionati. Le domande sono tante, tante le
risposte che si vorrebbero, perché un'esperienza a Palazzo Madama come quella
di Franca Rame agli occhi dei cittadini si fa condizione attiva per agire, ma
è "un'esperienza che mi ha sconvolto - dice invece la senatrice -
per la freddezza dei rapporti che si instaurano, perché non c'è ascolto
reciproco e ognuno pensa ai fatti suoi. Questo è un governo che ha messo
insieme tredici anime diverse da far andare d'accordo, e allora si è
fatto il cuneo fiscale per le imprese, ma bisogna dare una svolta e fare
finalmente qualcosa di concreto per la gente, come lavorare sulle pensioni e
sullo stato della precarietà del lavoro". Sulla condizione della
donna: "Siamo vulnerabili da troppo tempo - racconta - ma ora stiamo
riprendendo coraggio, anche dopo la legge sulla violenza sessuale che
finalmente la considera come un reato contro la persona, ma le
difficoltà persistono e sappiamo che le donne sono pagate di meno e
devono rendere di più nel lavoro e nella vita quotidiana, c'è
troppa competizione e questo è un peccato". Ma si arriva anche ai
temi caldi, quali il rifinanziamento della missione in Afghanistan o agli
inauditi costi della politica, che passano per gli stipendi esorbitanti dei
parlamentari. "Io sono in crisi - spiega - perché alla fiducia non si dice
no, i voti sono risicati e non si può rischiare di far ricadere il
governo, così in un primo tempo avevo detto: voto sì contro
coscienza e mi dimetto; poi sul mio blog ho fatto un sondaggio dove in 298
hanno detto "sarebbe meglio che tu ti dimettessi in segno di
protesta" e in 1.895 "sarebbe meglio che tu restassi cercando di
agire per il raggiungimento della pace". Credo allora che con il sangue
agli occhi voterò sì e andrò avanti". Parla poi di
uranio impoverito Franca Rame, tema scomodo, direttamente connesso alla guerra
che però compare e scompare dagli organi d'informazione, e di come chi
ne è vittima sia oggi lasciato a se stesso. Si va avanti con le domande,
e sui compensi dei parlamentari risponde a sua volta ponendo un interrogativo
"Il mio stipendio è legale? - dice la senatrice dell'Italia dei
valori - E' legale che io prenda 16mila euro al mese netti e che ne costi allo
Stato 21mila, così come gli altri mille deputati e senatori senza
contare i consiglieri regionali, le Province, i Comuni e gli assessori?".
A Palazzo Madama "si lavora dal martedì al giovedì anche se
devi prepararti, ma rimane un costo eccessivo perché spendere questi soldi per
altre ragioni non sarebbe una cosa difficile". Si conferma così la
difficoltà di diminuire i privilegi del potere, e si parla degli
emendamenti proposti dai senatori Salvi e Villone per mettere un tetto agli
stipendi dei manager e per coordinare in maniera più democratica i costi
della politica, emendamenti che sono stati bocciati dal governo attuale. Poi ci
sono i temi che invadono l'informazione degli ultimi giorni come
"vallettopoli" e il nuovo provvedimento sulla privacy. "La legge
sulla privacy - dice la Rame - ha due pesi e due misure: per giorni hanno fatto
nomi di persone, poi è uscito il nome di Sircana ed ecco che c'è
la legge" mentre sulle starlette "hanno libero arbitrio, quindi un
conto è se ti mettono una pistola alla tempia, ma in questo caso la tv
è uno specchietto per le allodole, e loro fanno una scelta".
Si celebrano i cinquant’anni della firma
dei trattati di Roma che, il 25 marzo
ROMA
Cinquant’anni portati bene con qualche acciacco, molti risultati raggiunti ma
anche numerosi nodi ancora irrisolti, a cominciare dalla Costituzione: sono
alcuni degli aspetti che verranno affrontati in questi giorni a Roma, in una
miriade di incontri e cerimonie per festeggiare il 50° della firma, proprio
nella capitale italiana, dei Trattati che nel 1957 diedero il via
all’integrazione europea.
I festeggiamenti di Roma anticipano quello che sarà l’incontro
politicamente chiave delle celebrazioni, e cioè la "dichiarazione
di Berlino" con la quale questo fine settimana i leader dei 27 cercheranno
di gettare le basi per rilanciare l’Europa.
Per spegnere le 50 "candeline" del compleanno Ue, a Roma si trovano
Josè Manuel Durao Barroso e Hans Gert Poettering, i presidenti di due
delle tre istituzioni di Bruxelles (Commissione ed Europarlamento), che in
queste ore incontreranno, fra gli altri, il presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, il premier Romano Prodi ed il ministro degli Esteri,
Massimo D’Alema.
E proprio D’Alema ha messo a fuoco alcuni dei problemi chiave dell’Ue. Fonti
della Farnesina hanno infatti ricordato come il ministro ha più volte
rilevato che dopo la battuta d’arresto provocata dallo stallo del processo
costituzionale, i Ventisette hanno di fronte a sè delle significative
opportunità: a condizione però - precisa il ministro - che l’Ue
sappia cogliere i grandi cambiamenti strategici in atto, che impongono
all’Europa di diventare un vero e proprio attore globale.
Anche Napolitano ha affrontato il tema Ue, ricordando tra l’altro che l’Europa
non può accogliere nuovi Paesi membri «se prima non si modificano le
istituzioni» per mettere l’Ue in condizione di «fare le politiche necessarie».
È però fondamentale - ha precisato il capo dello Stato - che
l’integrazione europea non venga «diluita».
In vista della loro prima plenaria a Roma, anche il Comitato delle Regioni
europee ha fatto sentire la sua voce, ricordando il proprio pieno sostegno agli
sforzi perchè si giunga ad una rapida conclusione del processo
costituzionale e di riforma dei Trattati. Fatto però - ha precisato il
Comitato - che non deve rimettere in discussione i risultati già
ottenuti degli enti che rappresentato le realtà locali dell’Unione.
Fino a sabato s’intrecceranno a Roma diverse incontri ufficiali, oltre a
seminari e iniziative organizzati dall’Ue per festeggiare i 50 anni dell’Europa
integrata, ma anche per cercare di avvicinare l’Unione ai cittadini, visto -
come sostiene il ministro agli Affari Europei Emma Bonino - che, ormai da
qualche anno, l’Europa risente di un deficit d’amore, e non è più
un oggetto di desiderio.
Oltre all’incontro del Consiglio delle Regioni, sul fronte politico, l’altro
appuntamento chiave per "festeggiare" i Ventisette si svolgerà
al Senato. Ma non mancheranno certo le iniziative popolari e di colore: si va
da "L’Europa dei saperi", appuntamento organizzato da sei
università romane che apriranno le porte al pubblico durante la notte di
venerdì con teatro, musica, cinema, incontri di lettura, al "Gioco
dell’Europa" (sempre venerdì), giornata dedicata alla comunicazione
e rivolta ai bambini delle scuole elementari, e a un "Villaggio Ue"
lungo i Fori imperiali. Senza dimenticare la grande mostra organizzata al
Quirinale su una serie di capolavori dell’arte europea.
Quando si parla di borse, la Cina è
vicina. Ma l'America è lontana? Mi riferisco alla crisi del mercato
immobiliare americano alla base della tempesta borsistica che sta investendo tutto
il mondo. Cosa stia succedendo in America su questo versante è
abbastanza noto: la crescita dei valori immobiliari in questi ultimi anni ha
portato i proprietari delle case di abitazione a spingere l'indebitamento per
alimentare i consumi attraverso un aumento del proprio mutuo. Negli Usa,
infatti, le banche sono disponibili ad aumentare un mutuo già esistente
se il valore del bene ipotecato è cresciuto; inoltre, a differenza dai
sistemi civilistici europei, il mutuatario risponde solo con l'immobile in
garanzia. Quindi se non paga, le banche possono portargli via la casa, ma a
quel punto lui è libero da ogni obbligazione presente e futura verso
l'istituto mutuante. Queste regole hanno spinto all'inverosimile
l'indebitamento della popolazione rendendo il mutuo non già uno
strumento (come da noi) per comperarsi la casa, bensì un mezzo per
alimentare un tenore di vita elevato. Poiché i redditi familiari non consentono
poi il pagamento regolare delle rate del debito, le famiglie fanno crescere
ulteriormente il mutuo per disporre della liquidità necessaria. Il gioco
funziona sino a quando i valori immobiliari salgono, ma se il trend si inverte
i debitori (più o meno tutto il ceto medio statunitense) non trovano
più credito a causa della incapienza dei loro beni e non possono
più far fronte agli impegni. Da tempo gli economisti prevedevano
arrivasse la resa dei conti e parlavano in questo senso di bolla immobiliare:
ora, dopo oltre un anno di stasi nei valori, il pericolo si è
concreitizzano minacciando di innescare un effetto recessivo nell'intera
economia americana. Ma i contraccolpi sulle borse internazionali sollevano
interrogativi ovvi anche su altri mercati immobiliari, ivi compreso quello
italiano. Personalmente ritengo per una serie di motivi che la bolla
immobiliare da noi non esista: 1) i prezzi medi in termini reali non superano
quelli del 1991; 2) è almeno un anno e mezzo che i valori hanno smesso
di crescere; 3) il bisogno di nuove abitazioni supera ancora largamente la
disponibilità di appartamenti sul mercato; 4) siamo tra i paesi europei
dove i prezzi sono mediamente più bassi e non siamo tra i paesi dove
sono cresciuti di più negli ultimi 8 anni. Nessun rischio bolla, quindi,
ma certo il pericolo di una prolungata stagnazione determinata dai provvedimenti
governativi del 2006/2007. E le conseguenze potrebbero essere altrettanto gravi
di quelle americane.In Italia il tasso delle famiglie proprietarie della prima
casa è molto più alto, uno dei più alti al mondo: quindi
un calo dei valori interesserebbe praticamente tutta la popolazione. Migliaia
di immobili in sofferenza bancaria verrebbero immessi contemporaneamente sul
mercato innescando un effetto domino; le attività costruttive
rallenterebbero a causa della scarsa remuneratività dei nuovi investimenti,
con gravi effetti negativi su PIL e occupazione. Interrogativi questi che il
Governo dovrebbe porsi finchè è in tempo; una crisi
dell'immobiliare non troverebbe da noi adeguate casse di compensazione in altri
comparti economici e produttivi
L’ Argentina è in vendita: l’allarme
viene lanciato a Buenos Aires da economisti e ambientalisti, ma anche dalla
chiesa cattolica. Il maggior proprietario terriero del Paese è un gruppo
italiano: i fratelli Benetton, sbarcati in Patagonia negli anni ‘90. Oggi
possiedono 900 mila ettari e sono i maggiori allevatori di pecore e produttori
di lana dell’Argentina. Si dedicano anche alla reforestazione, con una grande
varietà di alberi il cui legno viene utilizzato nella costruzione di
mobili. Nel settembre 2006 la chiesa ha pubblicato il documento «Una terra per
tutti», che criticava la vendita massiccia di terreni produttivi e risorse
naturali agli stranieri. «Abbiamo troppa terra», diceva negli anni ‘90 il
presidente Carlos Menem, invitando corporazioni e privati dall’estero a
investire. Dal 2002 la svalutazione del peso ha accelerato la vendita frenetica
e incontrollata. «Nel Nord, un ettaro costa quanto un hamburger», denunciano
Andres Klipphan e Daniel Enz, che dopo tre anni di indagini hanno pubblicato
«Tierras S.A.». Sostengono che ci sono almeno «trenta progetti per regolare la
vendita dei terreni, ma restano tutti nel cassetto». Circa 300 mila chilometri quadrati
(il 10% del territorio) sono in mano a stranieri. Può sembrare poco
rispetto alle dimensioni del Paese (
++ AgenParl 23-3-2007
DOCCIA FREDDA SULLA CONFERENZA
La Repubblica 23-23-2007 D'Alema: meglio la polemica
che perdere una vita umana Antonella Rampino
Il Corriere della Sera 22-3-2007 Bersani bis, ecco le
novità La fase due delle liberalizzazioni
La Repubblica 22-3-2007 Senato Usa: "Ritiro
dall'Iraq entro il 31 marzo del 2008"
La Repubblica 22-3-2007 Coppola, una valigetta sotto terra
Le due sostanze legali
tra le dieci più nocive per l’individuo e la società
LONDRA -
Alcol e tabacco tra le dieci sostanze più nocive. Più nocive di
cannabis, Lsd ed ecstasy. Almeno così conclude uno studio condotto dal
professor David Nutt dell’Università di Bristol e pubblicato sulla
prestigiosa rivista scientifica The
Lancet.
Il risultato, per alcuni versi sorprendente, che sconvolge le classifiche
governative sulle sostanze più pericolose e proibite, è frutto di
un nuovo sistema di classificazione che tiene conto oltre che della
pericolosità della sostanza per l’individuo, anche della dipendenza che
la sostanza genera e della pericolosità sociale di chi la assume. Si
tratta in realtà più che di uno studio sulle sostanze in sé, di
un’inchiesta tra intervistati qualificati: psichiatri specializzati in
dipendenza da sostanze e ufficiali giudiziari o di polizia con comprovata
preparazione scientifica.
■ L'esperto:
Giusto, ma non sottovalutare le altre
ARBITRIO –
«L’attuale concezione delle droghe è mal concepita e arbitraria»
dichiara Nutt commentando le tabelle del governo britannico (non molto
dissimile, per i criteri adottati e per la lista di sostanze considerate
illegali, da quello italiano) «l’esclusione di alcol e tabacco è dal
punto di vista scientifico arbitraria». Il tabacco è infatti causa del
40 per cento di tutti i ricoveri ospedalieri – ne è quantomeno una
concausa – e all’alcol viene attribuita oltre la metà delle emergenze da
pronto soccorso. Inoltre l’alcol ha un alto tasso di pericolosità
sociale (
I PRIMI DIECI – Eroina
e cocaina sono le sostanze più nocive in base anche a questa nuova
classificazione. A seguire i barbiturici (inventati nel 1903 come sedativi e
ipnotici), poi il metadone e quindi l’alcol. Il tabacco è la nona
sostanza per pericolosità preceduta da ketamina (un anestetico per uso
veterinario che ha conosciuto una discreta e dannosissima moda tra le nuove
generazioni come droga «da sballo»), benzodiazepine (una evoluzione raffinata
dei barbiturici) e anfetamina. Fuori dalla top ten cannabis (11°) Lsd (l’acido
lisergico scoperto per caso da Albert Hoffman mentre cercava di creare un
cardiotonico, che si piazza in quattordicesima posizione) e l’ecstasy, solo
diciottesima.
CUM GRANO SALIS - I risultati dello studio di Nutt vanno letti con attenzione
per evitare facili mistificazioni e pericolosi fraintendimenti. Si riferiscono
infatti non alla sostanza in sé, ma al suo uso tipico. Assumere Lsd non
è meno nocivo di fumare una sigaretta, soprattutto se se ne fumano venti
al giorno. Tuttavia questi nuovi dati sono importanti e i ricercatori che li
hanno aggregati sperano che contribuiscano a riaprire il dibattito sulle
sostanze illegali. Anche chi non ha partecipato direttamente all'indagine
concorda sull'importanza della tabella. Lesile Iversen, professore di
farmacologia a Oxford, definisce quella pubblicata su Lancet «il primo passo
per una classificazione delle droghe basata sulle prove» e non solo sul
retaggio culturale – per cui in occidente l'alcol è ampiamente accettato
a differenza di altre culture che lo considerano veleno – e sui pregiudizi. La
pubblicazione dei risultati ha acceso un dibattito nella comunità
scientifica, sebbene non ancora un dibattito governativo. Ignorare The Lancet
non sarà facile per chiunque d'ora innanzi voglia occuparsi della
pericolosità – e quindi della legalità – di droghe leggere e
pesanti.
Gabriele De Palma
23 marzo 2007
Roma, 23 marzo 2007 – Agenparl – Forse, se
l’aspettavano, ma non così presto. Bertinotti aveva plaudito all’idea
che alla Conferenza di Pace per l’Afghanistan potessero partecipare anche le
controparti in guerra. E, cioè, le varie fazioni afgane che combattono
contro le forze occidentali, che - dal loro punto di vista - occupano il Paese.
Quest’ipotesi, certamente gradita alla sinistra alternativa, era stata
ventilata pure per far rientrare, in vista del voto al senato, i tre
dissidenti, che hanno, invece, continuato a minacciare la loro
contrarietà al rifinanziamento delle missioni militari.
Inopportunamente, la Farnesina ha annunciato il “carattere internazionalistico
e quindi con attori statali” della prospettata Conferenza sull’Afghanistan.
Questo annuncio è stato definito intempestivo perché rinfocola le
polemiche e, soprattutto, perché atto a motivare le dissidenze che rischiano di
far cadere, ancora una volta, il centro-sinistra nella mancanza di
autosufficienza in politica estera, provocando così di nuovo
l’intervento del Capo dello Stato.
La notizia del ferimento di un militare italiano in Afghanistan è stata
un altro elemento destabilizzante per la maggioranza.
Un’altra “doccia fredda”. Infatti, lo scontro a fuoco è avvenuto nella
provincia di Farah poche ore dopo che D’Alema, ritornando da Washington, aveva
affermato che la Nato, in caso di necessità, poteva ridispiegare
unità italiane sul territorio afgano.
Così, dopo mesi di dibattito pubblico che voleva il contingente italiano
accasermato solo a Kabul e ad Herat, abbiamo scoperto con due docce fredde che
siamo molto più vicino alle zone “calde” dell’offensiva di quanto
credessimo. (F.Mi.)
Il Foreign Office protesta con l'ambasciatore iraniano
LONDRA-
Quindici marinai britannici sono stati catturati da uomini della Guardia
rivoluzionaria iraniana nel Golfo persico, al largo delle coste irachene. Lo ha
confermato il ministro della Difesa di Londra. Il governo britannico ha chiesto
l'immediato rilascio dei soldati.
I militari stavano svolgendo un pattugliamento di routine.
Secondo il ministero della Difesa britannico, i marinai si trovavano in acque
territoriale irachene quando sono stati bloccati da due navi iraniane. Il
ministro degli Esteri Margarett Beckett ha convocato al Foreign Office
l'ambasciatore di Teheran a Londra per protestare.
Prima della conferma ufficiale un portavoce britannico a Bassora, nell'Iraq
meridionale, si era limitato ad ammettere che vi era stato «un incidente da
qualche parte nel nord del Golfo persico».
Un pescatore iraniano aveva raccontato di aver visto sei o sette militari che
venivano arrestati a bordo di una nave di Teheran. I militari occidentali,
aveva riferito l'uomo, si trovavano su due piccole imbarcazioni che stavano
controllando le navi iraniane presso lo sbocco nel Golfo dello Shatt el Arab,
che segna il confine fra Iran e Iraq. Ma nel momento in cui i militari erano
saliti a bordo di una nave iraniana, erano apparsi almeno due vascelli di
Teheran e gli occidentali erano stati fatti prigionieri.
23 marzo 2007
ROMA - "Vogliamo portare a compimento
il più grande esperimento di pace e democrazia del mondo contemporaneo.
Senza cercare soluzioni al ribasso". Così Romano Prodi ha aperto,
nell'aula del Senato, la cerimonia celebrativa del cinquantesimo anniversario
dei Trattati di Roma. "I cittadini europei hanno capito che l'Europa
potrebbe venire meno" ha continuato Prodi. Che ha rilanciato la
necessità di portare a compimento la strada che porta ad un'Europa
unita. E di farlo prima delle elezioni europee del 2009 perché "sarebbe
impensabile votare senza aver prima costruito un quadro istituzionale chiaro e
funzionale".
"Vogliamo un' Europa forte, efficiente, adatta ad affrontare le sfide
globali - ha insistito Prodi - Perché di fronte al mondo che cambia l'Europa
non è più una scelta ma una necessità, un
imperativo". Ma oltre al tempo ci sono altri due elementi che il
presidente del Consiglio ha sottolineato: i giovani e il metodo "che ci ha
consentito di conciliare le esigenze nazionali di ciascuno di noi con le
ambizioni di un grande progetto europeo".
Una breve dichiarazione, ha concluso Prodi, "per mostrare che c'è
la volontà di portare a compimento il più grande esperimento di
pace, democrazia e prosperità del mondo contemporaneo".
Dopo Prodi ha preso la parola il presidente della Commissione Europea
Josè Manuel Durao Barroso che ha sottolineato come "questa
occasione serva per guardare avanti ed ispirare i cittadini con una nuova
visione europea". Barroso, inoltre, ha individuato nella promozione della
libertà e dello stato di diritto e nella promozione dei valori al di
là delle sue frontiere, la doppia missione dell'Europa.
E sulla necessità di un'Europa il cui futuro "è legato alla
sua unità" e che ha bisogno di "urgenti riforme
istituzionali" ha insistito anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano.
Che ha chiesto alla Chiesa di concorrere "al rilancio dell'Unione europea
testimoniando i più profondi valori posti a base della costruzione di
una Europa unita".
E sulla necessità di "riprendere il cammino" è tornato
anche l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: "Non è
pensabile che i cittadini europei che nel 2009 si recheranno alle urne per
eleggere il Parlamento europeo, non sappiamo quale sia il quadro istituzionale
in cui i loro rappresentanti si muoveranno".
In apertura di seduta, invece, il presidente del Senato Franco Marini aveva
ricordato quella "piccola Europa" nata 50 anni fa in Campidoglio, che
oggi è diventata "una grande Europa" con "un continente
quasi del tutto unificato".
Merkel: "Un esercito comune". "Sono favorevole alla creazione di
un esercito comune europeo in cui la Commissione avra' piu' margine di manovra,
con delle responsabilità definite chiaramente'' dice il cancelliere
conservatore tedesco in un'intervista al quotidiano Bild.
L’ idea era ingegnosa, anche se oggi
suonerebbe come un’eresia: vendere armi all’Iran, affinché convincesse
Hezbollah a liberare gli ostaggi americani in Libano. I soldi guadagnati, poi,
sarebbero stati girati ai guerriglieri Contras, che combattevano il governo
sandinista in Nicaragua. Da questo schema, ideato nel 1986 dai consiglieri
Oliver North e John Poindexter, era nato lo scandalo che aveva quasi distrutto
il presidente Reagan e il vice Bush. Una delle tante «relazioni pericolose»
intrecciate dagli Stati Uniti, per liberare i propri cittadini catturati nelle
zone calde del mondo o per curare l’interesse nazionale. Nel corso degli Anni
Ottanta almeno una trentina di occidentali erano scomparsi nei buchi neri del
Libano, la maggioranza americani.
Era un periodo terribile, anche secondo gli
standard di oggi. La guerra tra Iraq e Iran era in corso dal 1980 e Washington
sosteneva Baghdad, perché voleva abbattere il regime di Khomeini, al punto che
il 20 dicembre del 1983 Reagan aveva inviato Donald Rumsfeld a stringere la
mano di Saddam Hussein. L’ex capo del Pentagono sostiene che era andato a
metterlo in guardia contro l’uso delle armi chimiche, ma documenti di
intelligence pubblicati dalla George Washington University provano che era
partito per confermare l’appoggio americano all’Iraq. Intanto infuriava anche
la guerra civile in Libano, dove il 23 ottobre dello stesso anno un attentato
aveva ucciso 241 marines. Tre anni dopo, North e Poindexter avevano pensato lo
schema di quello che sarebbe diventato lo scandalo Iran-Contras. Nel febbraio
del 1986 avevano consegnato mille missili Tow a Teheran, e poi altre armi,
tramite il trafficante Manucher Ghorbanifar. I soldi ricavati erano finiti ai
Contras del Nicaragua, ma la maggior parte degli ostaggi era rimasta nelle mani
di Hezbollah. Nel novembre del 1986 il giornale libanese Ash Shiraa aveva
rivelato il traffico, obbligando Reagan a fare un umiliante «mea culpa»,
nonostante la smentita che l’obiettivo dell’operazione fosse liberare i
prigionieri americani. Nel 1989 era diventato presidente il suo vice, George
Bush padre, che durante il discorso inaugurale pronunciò queste parole:
«Oggi ci sono americani detenuti contro la loro volontà in terre
straniere, di cui non sappiamo nulla. Su questo problema può essere
offerta assistenza, e verrà ricordata a lungo. La buona volontà
genera buona volontà ». Il segretario generale dell’Onu, Perez de
Cuellar, intese quelle parole come un’apertura e decise di verificarla.
Nell’agosto del 1989 Brent Scowcroft, consigliere per la sicurezza nazionale di
Bush padre e mentore di Condoleezza Rice, andò a trovare Perez in una
villa sul mare degli Hamptons, per confermare che «il presidente era pronto ad
intraprendere una serie di gesti reciproci che avrebbero allentato le tensioni
e liberato gli ostaggi». Gli Usa, però, non potevano negoziare
direttamente con l’Iran, e quindi chiedevano aiuto all’Onu. Il segretario
generale affidò questo lavoro delicatissimo al suo braccio destro
italiano, Giandomenico Picco, che poco dopo si ritrovò nei meandri di
Beirut a trattare per la vita dei prigionieri.
Parlando a nome di Bush col nuovo leader
iraniano Rafsanjani, Picco aveva prospettato lo scongelamento dei fondi di
Teheran bloccati negli Usa, la pubblicazione di un rapporto Onu che addossasse
su Baghdad la colpa della guerra Iran-Iraq, e magari la liberazione di qualche
estremista islamico detenuto dagli israeliani. Tenendo Scowcroft sempre
informato della trattativa, il diplomatico italiano aveva ottenuto il rilascio
degli ostaggi, senza concedere tutte le contropartite offerte. Bush padre lo
ringraziò nella maniera più pubblica possibile, premiandolo col
Presidential Special Award for Exceptional Service, che sta ancora appeso
nell’ufficio newyorchese di Picco. Quella, però, non fu l’unica volta
che gli americani chiusero un occhio, pur di salvare i propri connazionali o
difendere il loro interesse nazionale. Fonti di stampa, ad esempio, sostengono
che nel 2003 Washington aveva proposto un accordo ai talebani più
moderati: scaricate il mullah Omar, cacciate gli stranieri arruolati per la
guerra santa, liberate i prigionieri occidentali, restituite i cadaveri dei
soldati morti e terminate gli attacchi contro i contingenti internazionali, e
in cambio avrete un ruolo nel nuovo governo afghano. La trattativa era fallita,
ma non era stata l’unica del genere. Il 2 maggio del 2003, infatti,
l’ambasciatore americano Zalmay Khalilzad aveva incontrato il collega iraniano
Javad Zarif a Ginevra, per discutere un altro scambio: Teheran offriva di
consegnare o individuare i membri di al Qaeda presenti nel suo territorio, se
Washington avesse ricambiato scaricando gli uomini del Mojahedin-e Khalq,
guerriglieri anti iraniani che Saddam aveva ospitato in Iraq. Il dipartimento
di Stato considerava il Mek come un’organizzazione terroristica, ma il baratto
era stato fermato dai falchi del Pentagono, che accettavano solo il cambio di
regime nella Repubblica islamica. Qualcosa, invece, deve essersi mosso nel
marzo del 2006, quando la giornalista americana del Christian Science Monitor
Jill Carroll è stata liberata in Iraq, dopo quasi tre mesi di prigionia.
In altre occasioni, come quella di Nicholas Berg, Washington non aveva ceduto,
e Abu Musab al Zarqawi aveva decapitato con le sue mani il giovane esperto di
telecomunicazioni della Pennsylvania. Il 2006, però, era un anno
elettorale e l’insoddisfazione dell’opinione pubblica americana per la guerra
continuava a crescere. I rapitori avevano chiesto il rilascio delle detenute
donne, in cambio della vita di Jill, e secondo la Cnn gli Usa avevano inviato a
Baghdad una squadra di negoziatori composta da uomini di Fbi, Cia, dipartimento
di Stato e Pentagono. Washington ha sempre negato di aver stretto la mano al
diavolo, ma cinque prigioniere furono rilasciate, prima che la Carroll potesse
tornare a casa.
I tempi delle addizionali comunali all'Irpef
e quelli dei Cud in rotta di collisione. E a farne le spese sono i pensionati
dell'Inps. Non tutti ovviamente, ma una buona fetta, visto che sono circa un
milione 600mila (su circa 15 milioni)i Cud che l'Istituto deve inviare di nuovo
per le somme corrisposte l'anno scorso. Ma anche senza arrivare a punte
così "drammatiche", un po' tutti,anche iprivati, quest'anno
hanno dovuto fare i conti con i tempi stretti che passano tra l'approvazione
delle addizionali comunali e quelli e quelli per l'invio dei Cud. Tempi che
potrebbero aver determinato più errori che in passato.
Il caso Inps
Per l'istituto di previdenza, che è
probabilmente il sostituto d'imposta che gestisce il maggior numero di
"sostituiti", i calcoli cominciano a novembre. E per corrispondere
nei tempi usuali — i primi di gennaio — i Cud ai pensionati l'invio è
stato fatto senza tener conto delle deliberazioni delle aliquote variate dai
comuni, visto anche che la pubblicazione delle decisioni degli enti locali
è cominciata proprio agli inizi del 2007 (e più precisamente a
partire dal 5 gennaio scorso). Ricordano all'Inps — nel comunicato stampa
pubblicato qui accanto — che «oltre 670 Comuni — tra cui Roma, Palermo,
Bologna, Udine,Ancona —hanno variato le addizionali entro il 15 Febbraio ». E
quindi la presenza di grandi comuni ha certamente comportato la
necessità di aggiornare i dati per un gran numero di contribuenti.
Per evitare che questo problema si ripeta
di nuovo l'Istituto si augura per «il futuro nuove forme di collaborazione fra
tutte le Istituzioni coinvolte al fine di individuare soluzioni anche normative
che armonizzino tempi e modalità e garantiscano informazioni certe ai
pensionati ».È da ricordare infatti che non è del tutto
indifferente per le casse pubbliche il secondo invio di milioni di documenti
certificativi da parte dell'istituto "principe" nella gestione della
previdenza pubblica. E tra le istituzioni coinvolte all'Inps ricordano che le
variazioni sulle regole della addizionali hanno riguardato anche alcune regioni,fatto
che ha ulteriormente complicato la situazione.
C'è da ricordarepoi che anche
l'Inpdap (si veda «Il Sole24 Ore» del 28 gennaio 2007) aveva dovuto procedere a
nuovi invii per i propri sostituiti, proprio per questioni legate alle
addizionali degli enti locali, con variazioni di cui tenere conto intervenute
in diverse situazioni regionali. Fatto questo che fa crescere il numero totale
di Cud errati.
I privati
Per i datori di lavoro del settore privato
— ma anche per molte pubbliche amministrazioni nelle quali alcuni altriritardi
vengono informalmente segnalati — il problema presenta minori
difficoltà, ma certamente si sono dovuti fare i conti con lo sblocco
delle addizionali voluto dalla Finanziaria 2007. La "tradizione"
voleva infatti che i Cud venissero elaborati a inizio anno, mentre quest'anno
si è dovuto aspettare la seconda metà di febbraio. L'anno
prossimo la scadenza per i Cud sarà ulteriormente anticipata al 28
febbraio. Se per le addizionali resterà ferma la scadenza del 15 febbraio,
è già facile prevedere un sistema in tilt. Anche perché febbraio
per i datori di lavoro prevede altri adempimenti come quello delle
autoliquidazioni Inail.
Senza dimenticare che, teoricamente, il
ritardo nell'invio delle certificazioni è sanzionabile dal punto di vista
tributario.In realtà si tratta di una possibilità al momento
remota visto che l'amministrazione finanziaria ha derubricato da tempo questo
ritardo a violazione formale ( non sanzionabile) quando non comporta
impedimenti agli adempimenti dei sostituiti o ai controlli del Fisco.
Stamane il presidente Napolitano inaugura
al Quirinale la mostra dei 27 capolavori provenienti dai paesi dell’Unione che
segna l’inizio delle celebrazioni italiane del cinquantesimo anniversario dei
Trattati di Roma. Per l’occasione, gli uffici della presidenza della Repubblica
hanno pubblicato in volume i discorsi e gli interventi che Giorgio Napolitano
ha pronunciato sui temi europei dalla sua elezione al mese scorso. Una scorsa
al volume rende conto di due fatti secondo noi molto significativi. Il primo
è l’attenzione puntuale, appassionata, che Napolitano continua a
dedicare alle questioni europee anche ora che le vicende della politica lo
hanno portato alla massima carica istituzionale dell’Italia. Il secondo
è il quanto e il come questa attenzione si traduce in giudizi, in prese
di posizione, in impulsi intellettuali che non si celano affatto dietro gli
obblighi (che certo pure esistono) della riservatezza diplomatica: il
presidente ha le sue idee, non le nasconde, le porge con il grande rispetto per
le opinioni e le ragioni degli altri che lo contraddistingue da sempre, ma le
sostiene con forza, senza paura di sostenere, quando gli pare necessario, anche
posizioni forti, radicali.
Vediamo qualche spunto, preso in modo un po’ disordinato dai tredici brani
pubblicati nel libro. Per esempio l’esaltazione del ruolo propulsivo del
Parlamento europeo pronunciata non solo nel discorso ufficiale tenuto dalla
tribuna dell’assemblea il 14 febbraio scorso, ma anche davanti agli studenti
dell’università di Tubinga, in cui ha affrontato i temi del
rafforzamento delle istituzioni e della necessità di una iniziativa politica
generale della Unione. Oppure, davanti agli accademici della scienza di
Budapest, la difesa della politica dell’allargamento ad est dell’Unione che,
lungi dal produrre un “annacquamento” della integrazione, realizza la pienezza
della sua missione unificante, il completamento di quella identità
culturale e civile evocata dal presidente nella lectio magistralis tenuta a
Madrid in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte
dell’Università Complutense. Una unità che non può essere
solo monetaria, ma dev’essere economica e politica, come il presidente
sottolinea in più occasioni, e in particolare nella sua conferenza
dell’ottobre scorso alla London School of Economics. Un richiamo che assume un
rilievo solenne, ma intessuto di ragionevolezza politica e di memorie
personali, nel discorso che Napolitano tiene a Ventotene, l’isola dell’esilio
di Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni e del loro Manifesto: «Un
omaggio, una riflessione e un appello» che Giorgio Napolitano ha rivolto agli
italiani e agli europei meno di una settimana dopo il suo giuramento davanti al
Parlamento in seduta comune. Testimonianza di un credo e di un’urgenza.
Quando si avvicinano le elezioni anche
ai riformisti tremano le gambe. A fine maggio si vota per le amministrative e i
dirigenti del centrosinistra assegnano grande importanza al risultato del test
elettorale. È questo il motivo che sta spingendo i segretari di partito
e i ministri più influenti a coltivare l'idea di una mini manovra
economica di primavera. In casa Margherita si punta sulla riduzione dell' Ici
sulla prima casa, una misura che il marketing politico nostrano considera un
passepartout. Se l’ha usato Silvio Berlusconi nell'ultimo confronto televisivo
con Romano Prodi, perché—si devono essere chiesti—non possiamo utilizzarlo
anche noi? In casa Ds c'è allarme per i rapporti con la Cgil e le
proposte di spesa, catalogabili sotto la voce «equità », riguardano
aumenti delle pensioni basse, stanziamenti per gli ammortizzatori sociali,
eliminazione dello scalone previsto dalla legge Maroni.
Ma basta mettere mano al portafoglio, creare
l'effetto- spesa ed eliminare così otto mesi di bassa credibilità
del governo Prodi? Non è affatto detto, anzi il pericolo è di
mandare in onda il replay della Finanziaria quando il governo giurava di aver
ridistribuito il reddito verso il basso ma gli stessi beneficiari non se ne
erano accorti. Oltre a presentare dubbi sul lato dell'efficacia, una manovra di
primavera- estate comporta per i riformisti del centrosinistra una
controindicazione ancora più grave: rischiano di perdere la stessa
ragione sociale e di attirarsi l'accusa di iper tatticismo che durante la
Finanziaria loro stessi avevano rivolto a Prodi. In autunno dentro la
coalizione di maggioranza si erano creati due assi: il primo, imperniato sulla
speciale relazione tra il presidente del Consiglio e Rifondazione, si giovava
della mediazione del ministro dell'Economia Tommaso Padoa-Schioppa; il secondo
aveva come riferimento i Fassino e i Rutelli, che di fronte alle contraddizioni
della legge di bilancio chiedevano di cambiar passo al più presto per
impostare invece un programma orientato alle riforme strutturali.
Non è assolutamente andata così,
la fase due si è esaurita nella lenzuolata di Pierluigi Bersani e oggi
assistiamo a un rimescolamento delle posizioni. È Padoa-Schioppa che
esclude di aprire i cordoni della borsa per far spesa elettorale e tenta di
mettere nell’agenda governativa previdenza, pubblico impiego e revisione del
processo di bilancio. Altra partita giocano i leader di partito, dalla
Margherita a Rifondazione, che chiedono — chi più chi meno — di non far
tante storie e spendere il tesoretto. I più spregiudicati giustificano
la spesa elettorale come un aiuto per rimettere in moto i consumi e consolidare
la ripresa. Di riforme strutturali nessuno a sinistra sembra più aver
voglia di parlare. La tattica prevede il silenzio. I leader riformisti in
pubblico non si spendono nemmeno più per l'aumento dell'età
pensionabile e Prodi si barcamena tra l'appoggio alle posizioni coerenti del
ministro dell' Economia sulla previdenza e l'attenzione verso le richieste dei
partiti.
Sull'Ici il premier prima ha accelerato e
poi ha tolto il piede. E intanto è ogni giorno più evidente come
i leader di Margherita e Ds abbiano diminuito il loro investimento nel governo
e pensino innanzitutto all’andamento dei congressi dei rispettivi partiti. In
quelle sedi si combatte duramente per occupare le posizioni chiave da cui
traghettare nel Partito democratico o per ridurre i danni di un'eventuale
scissione. Per vincere sull'uno o sull'altro fronte si sostiene che le
battaglie riformiste siano poco utili e sia invece più redditizio
mimetizzarsi. Così, nella confusione, tutti i riformisti sono bigi.
23 marzo 2007
Pentagono: siamo preoccupati, tornate
libere persone molto pericolose
Con gli Stati Uniti nessuna rottura,
l’Italia non ha trattato con nessun terrorista per la liberazione di
Mastrogiacomo, Condoleezza Rice non conosceva «i dettagli» della vicenda
Mastrogiacomo. E anzi, «siamo pronti a discutere con gli alleati una linea
comune della Nato in caso di nuovi sequestri», e in Afghanistan di fronte a
rischi, quali quelli crescenti nella provincia di Herat, «è del tutto
evidente che il governo fornirà alle forze armate tutti i mezzi che esse
riterranno necessari per la sicurezza loro e del territorio».
Insomma, pare voler dire Massimo D’Alema
dalla poltroncina bianca di «Porta a Porta», la crisi diplomatica con gli Stati
Uniti è rientrata. Quando «in tempo per i tiggì », come notano
alla Farnesina, esce il comunicato del Dipartimento di Stato le cui linee sono
state concordate nella telefonata di primo pomeriggio (inizio mattinata a
Washington) tra D’Alema e la Rice, il ministro degli Esteri tira un sospiro di
sollievo. E’ il primo segnale che la crisi nei rapporti tra Italia e Stati
Uniti sta rientrando, in una giornata sino a quel momento dominata dal
portavoce di Rice, Sean McCormak, che rilanciava le critiche all’Italia che
tratta coi talebani, e soprattutto precisava che la Rice «non era informata
delle modalità di liberazione dell’ostaggio ». D’Alema è negli
studi di «Porta a Porta», e la notizia gli viene data dal funzionario della
Farnesina che l’accompagna: coglie subito al volo l’occasione per sottolineare
che sì, «effettivamente nella cena con Condoleezza Rice lunedì 19
non c’è stata nessuna osservazione critica, tant’è vero che il
Dipartimento di Stato ha reso noto che al momento dell’incontro il Segretario
non era informata sulle modalità di quella vicenda ».
Alla Farnesina si valuta infatti che le
prese di posizione del portavoce americano debbano essere lette in chiave
interna, in risposta pubblica al «New York Times» che ieri accusava Rice di
aver avallato la trattativa italiana con i talebani. Questo è un punto
al quale il nostro capo della diplomazia tiene: «Il governo italiano non ha
trattato », dice subito D’Alema, «è stato Karzai che nella sua autonomia
ha rilasciato cinque talebani: noi gli avevamo fornito una lista di 6, ci
risulta che ne siano stati rilasciati cinque». E comunque «di certo non sono
pentito di aver salvato Mastrogiacomo, preferisco avere polemiche e aver
salvato una vita». D’Alema sostiene di aver chiesto alla Rice, nei dieci minuti
al telefono (in viva voce, e con i più stretti collaboratori presenti,
come si usa in questi casi), perché le critiche non erano state espresse alla
cena di lunedì 19 marzo, e l’accusa di trattare con i terroristi
è stata invece affidata a una fonte anonima del Dipartimento di Stato.
Perché del resto, spiega il ministro degli Esteri, «la posizione degli Stati
Uniti rispetto ai rapimenti non è nuova, e anzi è sempre stata
ribadita, ma questa diversità di approccio non può essere
trasformata in una rottura tra l’Italia e gli Stati Uniti». Insomma, il
comunicato del Dipartimento di Stato, che inizialmente sembrava previsto come
una nota congiunta Usa-Italia, chiude il caso con l’onore delle armi per la
Farnesina. Anche se in quel testo si dice chiaro e tondo «in futuro, niente
più concessioni ai terroristi».
Della Valle sentito
per le foto. Lunedì sarà interrogato dal pm
POTENZA
- Ora è tutti contro tutti nel palazzo dei veleni. L'inchiesta su «Vallettopoli»
ha dato fuoco alle polveri. C'è l'accusa pesantissima pronunciata
lunedì scorso davanti al Csm dal procuratore generale Vincenzo Tufano:
«Da noi ci sono pubblici ministeri troppo disinvolti che non rispettano le
regole. Soprattutto quelle in materia di libertà e di privacy». E
c'è la pronta risposta, ieri, del procuratore Giuseppe Galante, che ha
già deciso, a sua volta, di denunciare il pg per certe definizioni
«mortificanti, arbitrarie e insultanti».
Il pm Vincenzo Montemurro, dal canto suo,
ha querelato Tufano per calunnia e diffamazione. E infine il gip, Alberto
Iannuzzi, offesissimo, dipinto nell'audizione come l'alter ego del pm Henry
John Woodcock, chiede ora di essere sentito con urgenza dal Csm. Insomma, il
palazzo è squassato da vecchi rancori e nuove polemiche, ma intanto
l'inchiesta su Vallettopoli va avanti. Dopo aver sentito Michele Cucuzza e il
calciatore della Roma Christian Panucci (ai quali il pm ha chiesto sempre la
stessa cosa: siete stati ricattati da qualcuno? Vi hanno scattato foto per
usarle contro di voi?), lunedì potrebbe essere la volta
dell'imprenditore Diego Della Valle: nell'archivio segreto di Corona gli
inquirenti avrebbero, infatti, trovato tracce di foto scattate al largo di
Capri l'estate scorsa. Il procuratore generale, Tufano, ieri mattina era
infuriato ma anche esterrefatto: «La mia audizione davanti al Csm era
secretata. Com'è possibile che sia finita sui giornali? Scriverò
al presidente Mancino...». Il pg ha sempre criticato le fughe di notizie dal
palazzo di Potenza: certo non s'aspettava un'identica sorpresa proprio da
Palazzo dei Marescialli. Anche perché proprio lui ha sempre combattuto
pubblicamente l'abbondante utilizzo delle intercettazioni nelle inchieste di
Potenza: 6 milioni e 400 mila euro spesi in tre anni, 7.500 euro al giorno, 109
anni la durata complessiva dei nastri. Uno spreco secondo lui inammissibile.
Ieri, però, si è offeso anche il gip Alberto Iannuzzi: «Tufano mi
accusa di aver deciso l'arresto di Vittorio Emanuele di Savoia a distanza di poche
ore dalla richiesta del pm. Non è vero. Lo decisi dopo 17 giorni passati
a studiare, compresi 5 giorni di ferie. La verità è che ci
attaccano sempre, solo perché queste inchieste puntano in alto».
Scatti e ricatti, toghe e veleni. E anche dubbi,
come quelli ipotizzati dal ministro della Giustizia Clemente Mastella, che ieri
ha commentato il caso Sircana ai microfoni di Repubblica tv: «La parola
complotto è sempre un po' esagerata, certo la dinamica è
singolare. Il fatto di seguire il portavoce del governo — ha aggiunto —
significa che c'è qualcuno che ha dato indicazioni precise. È
questa la cosa che più mi insospettisce: la manina che accompagna».
23 marzo 2007
La testimonianza raccolta dall'Osservatorio
militare
Gli interventi riguarderebbero il 70 per cento del personale. La notizia
durante la conferenza stampa della commissione parlamentare d'inchiesta
ROMA - Molti militari italiani reduci da missioni all'estero sono stati
operati alla tiroide in seguito alla presunta contaminazione da uranio
impoverito. A denunciarlo un giovane soldato tornato dal teatro bellico dei
Balcani e da tempo sotto controllo medico. La sua testimonianza è stata
affidata a Domenico Leggiero, dell'Osservatorio militare, un'associazione che
assiste gli appartenenti alle forze armate e i loro familiari.
Un'affermazione scioccante, ancora di più per le dimensioni del
fenomeno, che, secondo il militare, riguarderebbe il 70 per cento dei reduci,
costretti a sottoporsi da un intervento alla tiroide a titolo preventivo.
Secondo le informazioni raccolte dall'Osservatorio militare, le operazioni
verrebbero effettuate in un ospedale di Siena e in altre strutture
convenzionate con l'esercito.
"Noi non siamo in grado di confermare queste cifre" spiega Leggiero,
"ma ci aspettiamo che qualcosa si muova in Parlamento per fare chiarezza
sulla questione. Anche se si trattasse soltanto della metà, si tratta di
un dato comunque enorme ed è necessario poter avere accesso a queste
informazioni".
E questo è l'obiettivo della Commissione parlamentare d'inchiesta del
Senato sull'uranio impoverito, la cui presidente, Lidia Menapace (Prc) ha
illustrato questa mattina le linee guida che verranno seguite.
Uno dei primi compiti della Commissione riguarderà la raccolta e
l'analisi statistica dei dati, per le quali la Commissione intende rivolgersi
all'Istat, all'Istituto superiore di Sanità, alla Direzione generale
della sanità militare, ha detto la Menapace, "al fine di acquisire
elementi e valutazioni di tipo oggettivo ed ufficiale".
Ad oggi, infatti, non ci sono certezze sul
numero esatto delle vittime: secondo l'Osservatorio i morti sarebbero 45 e i
malati 515, affetti da patologie riconducibili all'esposizione all'uranio
impoverito, usato in modo massiccio negli armamenti della Nato soprattutto nei
Balcani. Altre associazioni hanno dati diversi, così come diversi sono
quelli forniti dalla Difesa.
Oggi non ci sono praticamente più dubbi sull'esistenza di un nesso fra i
decessi e le malattie dei reduci da missioni all'estero e l'esposizione
all'uranio impoverito, anche se il tema continua ad essere oggetto di forti
polemiche e indagini. La commissione Mandelli, in tre successive relazioni, ha
concluso che rispetto al numero statisticamente atteso le vittime nel gruppo di
riferimento (i militari che hanno preso parte a diverse operazioni nelle zone
"incriminate") sono quattro volte superiori, ma non è stata in
grado di collegare direttamente la presenza dell'uranio ai casi di tumore
registrati. E una successiva commissione di inchiesta ha sostenuto che i dati
della Mandelli erano probabilmente sbagliati e sottostimati.
(22 marzo 2007)
I prezzi delle case di vacanza in Spagna,
uno dei principali indicatori per l'andamento del mercato immobiliare europeo, potrebbero
subire una flessione più marcata di quella che sta vivendo il settore
immobiliare statunitense, stando almeno ai termini dei prestiti che le banche
europee impongono alle società edili.
Il madrileno Grupo Martinsa del magnate immobiliare Fernando Martin, ex
presidente del Real Madrid calcio, e Promociones Habitat SA di Barcellona
sborsano il quintuplo sui prestiti ricevuti rispetto ai loro omologhi
statunitensi, fra i quali Centex Corp. di Dallas, secondo dati compilati da
Bloomberg News. Anche United Airlines di UAL Corp., che l'anno scorso
dichiarò fallimento, paga un premio di rischio inferiore sui suoi
prestiti. "Le banche impongono dei termini sui mutui simili a quelli
riservati ai prestiti insoluti," ha detto David Malpica, che partecipa alla
gestione di $5,6 miliardi di debito immobiliare e sofferenze presso CarVal
Investor a Londra. "Riflette l'elevata volatilità degli asset
immobiliari."
Le agenzie immobiliari della Spagna, il mercato abitativo europeo più
dinamico del decennio, probabilmente taglieranno del 10 percento i prezzi delle
case di vacanza quest'anno, secondo RR de Acuna & Associates a Madrid.
Una frenata potrebbe avere ripercussioni "psicologiche" in tutta
Europa, ha affermato Tobias Just, analista presso Deutsche Bank AG a Francoforte.
Il prezzo medio di un'abitazione in Spagna era di circa 276.300 euro a
dicembre, secondo Sociedad de Tasacion, il doppio rispetto al 2000. Ed il
settore edilizio ha fatto della Spagna il maggiore motore di crescita economica
dell'area-euro questo decennio. I proprietari spagnoli di case potrebbero
essere più vulnerabili di quelli americani rispetto al rischio di
insolvenza, in quanto il 98 percento dei mutui in Spagna è a tasso
variabile, secondo la banca centrale spagnola, mentre negli Usa esiste un
numero maggiore di mutui a tasso fisso.
Re/Max International Inc., numero due Usa fra i broker immobiliari, ha indicato
di avere ridotto anche del 26 percento i prezzi di oltre 5.000 abitazioni in
Spagna a gennaio.
Il Grupo Martinsa versa a Morgan Stanley, Caja Madrid e Caja de Ahorros de
Barcelona interessi maggiorati di 2,5 punti percentuali rispetto al tasso
interbancario europeo, secondo l'informativa della società. Per contro,
United Airlines ha pagato 50 punti base meno di Martinsa su un prestito
ricevuto il mese scorso, appena un anno dopo essere emersa dalla procedura
fallimentare.Le banche, da parte loro, si stanno rivolgendo a gestori di fondi
per sottoscrivere prestiti, con l'obiettivo di ridurre il rischio.
È in quest'ottica che Santander Central Hispano SA e Caja Madrid si sono
rivolte alla londinese European Credit Management, per organizzare un prestito
da 3,8 miliardi di euro a favore di Construcciones Reyal SUA. European Credit
Management, che amministra 20 miliardi di euro di investimenti nel debito,
riceverà un margine di 195 punti base in più rispetto al tasso
Euribor, secondo dati Bloomberg. Un punto base corrisponde a 0,01 punti
percentuali.
22-03-2007
«Il mercato immobiliare è fuori
controllo, siamo destinati a diventare la città degli altri». Prezzi alle
stelle, avellinesi in fuga verso l’hinterland e capoluogo nelle mani dei
napoletani. Giovanni Nazzaro, coordinatore dell’osservatorio di settore della
Confcommercio, non sembra avere dubbi. «Quello dello spopolamento è un
fenomeno tutt’altro che recente. Tutto è iniziato dopo il terremoto ed
ora ne paghiamo le conseguenze». Secondo l’ultima indagine nazionale di
Tecnocasa Avellino è il capoluogo di provincia dove gli immobili hanno
registrato la rivalutazione più consistente. «Spesso si parla a sproposito
e senza una approfondita conoscenza del mercato, anche per questo - precisa -
come Confcommercio abbiamo deciso di istituzionalizzare il nostro osservatorio.
E’ arrivato il momento di fare chiarezza, di operare nel segno della
trasparenza».
Nazzaro, pochi giorni fa il presidente dei Costruttori Piano ha lanciato
l’ennesimo appello per una rapida approvazione del Puc. A sua detta
l’incontrollato aumento dei prezzi è da collegare alla mancanza di un
piano regolatore.
Non c’è dubbio che l’assenza del Puc abbia in qualche modo lasciato il
mercato allo sbando, senza limiti e regole. Ma pensare che, un attimo dopo
l’approvazione, i prezzi caleranno è un’illusione che non ha alcun
fondamento.
Non
immagina nessun effetto benefico dall’approvazione del piano urbanistico?
Sicuramente una maggiore vivacità, la partenza di diversi cantieri, la
ripresa delle costruzioni. Ma non basta, molto dipenderà da come si
ripartirà.
Che
intende?
Subito dopo il terremoto, quando c’era da rimettere in piedi un’intera
provincia, si è cominciato a costruire a macchia di leopardo, un
cantiere alla volta. Ogni imprenditore aspettava che l’altro realizzava le
villette e le vendeva per poi partire a sua volta. Sa perché?
Dica.
In questo modo si operava senza concorrenza, i cittadini non avevano la
possibilità di scegliere, di mettere a confronto soluzioni diverse.
Anche per questo la ricostruzione è durata tanto.
C’è il rischio che succeda la stessa anche all’indomani
dell’approvazione del Puc?
Purtroppo sì ed in più c’è il rischio che lavorino
soprattutto, se non esclusivamente, per i napoletani. Nessuna discriminazione,
ma la città è destinata a cambiare pelle.
Perché?
Ma perchè sono gli unici a poter essere ancora interessati alla nostra
provincia, a meno che non siano scoraggiati dall’ipotesi di doversi sistemare
in centro e quindi lontano dall’autostrada. A quel punto i tempi per
raggiungere Napoli si allungherebbero notevolmente.
E
gli avellinesi?
Il 75 per cento ha la casa di proprietà. La parte restante è
composta per lo più da giovani coppie che non hanno i mezzi per comprare
ed, il più delle volte, sono costrette al fitto. E poi non dimentichiamo
che gli avellinesi sono soprattutto impiegati. Ed oggi, per comprare una casa,
spesso non basta.
Ma
perchè i prezzi continuano a salire nonostante la domanda sia in
costante calo?
Perché il mercato è stato drogato da sopravvalutazioni in buona parte
legate all’effetto euro. E’ lo stesso fenomeno registrato per i beni di
consumo, solo che, come facilmente intuibile, smaltita la sbornia il prezzo di
una pizza torna più facilmente alla normalità di quello di una
casa.
Perchè
si è arrivati a questo punto?
Come le ho accennato bisogna tornare agli anni della ricostruzione del dopo
terremoto. Molte famiglie, per un comprensibilissimo bisogno di sicurezza, si
sono riversate tra Mercogliano e Monteforte dove era possibile costruirsi, a
costi sostanzialmente contenuti, una villetta a piano terra con un pò di
giardino. Dopo qualche anno, cresciuti i figli, hanno avvertito la
necessità di tornare in centro ed hanno cominciato a vendere,
soprattutto ai napoletani, storicamente attratti dalla pace e la
tranquillità della nostra provincia. Diversi anni fa, quando si
avviò il dibattito sul nuovo piano regolatore, intervistammo oltre
quattrocento cittadini. Un lavoraccio dal quale emerse proprio questa tendenza.
L’allora assessore al ramo ben pensò di cestinare le nostre indicazioni.
Ora, per motivi diversi, è ripresa quella migrazione verso l’hinterland.
Motivi
diversi?
Certo, i prezzi eccessivamente elevati hanno costretto molti avellinesi a
scegliere ancora Monteforte o Aiello e Cesinali. Si è rinunciato a
qualche servizio ma è stata una scelta obbligata anche perchè la
nostra città è cresciuta male, tra costruzioni, speculazioni e
pochissime strade.
Ed
ora che succederà?
Beh, anche nell’hinterland non c’è più tanta disponibilità
ed i prezzi sono in costante aumento. Con l’approvazione del Puc si
comincerà a costruire a contrada Chiare o a collina Pennini. Un’altra
area di sfogo può essere quella della variante che, con l’installazione
di tre rotatorie, diventerà una strada urbana molto più sicura e
vivibile. Ma, ripeto, non credo che ci saranno molti avellinesi pronti ad
investire.
Ma
lei da agente immobiliare cosa consiglia ai suoi clienti?
Dipende dai casi e dalle circostanze.
Ad
una giovane coppia?
Di andare per gradi, partendo magari da mini-appartamenti ed evitando comunque
il fitto.
Non
sarebbe meglio temporeggiare?
Non saprei quanto e poi i prezzi possono al massimo normalizzarsi, non certo
dimezzarsi.
Meglio
di niente.
Non c’è dubbio, ma certezze non ce ne sono anche perchè, a
differenza di quanto continuano a pensare in tanti, i prezzi non li facciamo
noi. Il mercato immobiliare non è nelle mani delle agenzie.
Dalle multe ai veicoli
truccati agli incentivi per le imprese che si quotano in borsa. Le misure del
dl approdato in Parlamento
Incentivi per le imprese che si quotano in
Borsa, agevolazioni per la diffusione del pagamento di pensioni e stipendi con
moneta elettronica, impulso alla liberalizzazione delle ferrovie, ma anche
multe per i veicoli «truccati», nuove misure per la rete distributiva dei
carburanti contro le quali i benzinai hanno già effettuato alcuni
scioperi. Ecco in sintesi le principali misure contenute nel dl sulle
liberalizzazioni, sul
quale il governo ha posto la fiducia alla Camera.
INCENTIVI PER LA BORSA - La quota di capitale di
nuova formazione sottoscritto da organismi di investimento collettivo
potrà usufruire di una riduzione dell'Ires, che potrà scendere
fino alla soglia del 20%.
STIPENDI E PENSIONI - Incentivi, anche fiscali,
per favorire i pagamenti elettronici da parte della Pa, istituti pensionistici,
banche, assicurazioni. E per stipendi e pensioni si introduce «una soglia oltre
la quale non debbano essere corrisposti in contanti o con assegni». Per le pensioni,
il ddl punta a far sì che gli enti previdenziali e assistenziali
distribuiscano ai propri iscritti, in convenzione con le Poste o le banche,
carte di pagamento per la riscossione presso sportelli automatici.
FERROVIE - Si stabilisce la «separazione fra
autorità regolatrice e gestore della rete» (con riferimento ai poteri
che potrebbero andare all'Authority dei Trasporti). Quanto alla gestione della
rete, si apre alla possibilità d'ingresso di soggetti terzi, fissando un
criterio di efficienza.
SERVIZI AEROPORTUALI - Il ministero dei
Trasporti avvierà un'indagine per verificare il grado di
liberalizzazione dei servizi a terra negli aeroporti civili.
BENZINAI - Niente più limiti, in materia
di distanze tra i vari impianti e di parametri numerici per la presenza dei
distributori. E, ancora, via libera alla vendita di prodotti 'non oil'.
CIRCHI - Le compagnie di giro, i circhi nonché
tutti gli altri «organismi dello spettacolo» dalle attività teatrali a
quelle musicali e di danza conquisteranno il titolo di piccole e medie imprese,
potendo così accedere alle agevolazioni.
MASSIMO SCOPERTO - Sono nulle le clausole
contrattuali in materia che prevedono una remunerazione a favore della banca
per la messa a disposizione di fondi a favore del cliente. -
INTERMEDIAZIONE D'AFFARI - Scompare l'obbligo di
iscrizione a ruoli o elenchi: sarà necessaria solamente la dichiarazione
di inizio di attività ed il possesso dei requisiti professionali
necessari.
AVVIO DI UN'IMPRESA - Tempi più celeri
per avviare un'attività produttiva: basterà una dichiarazione
unica che attesti i requisiti di conformità dell'impianto. Nella
relazione al ddl, il governo sottolinea l'auspicio di arrivare a un testo unico
che abbini le misure proposte dall'Esecutivo con quelle della cosiddetta pdl
Capezzone, alla quale la commissione Attività produttive della Camera ha
già dato il proprio via libera.
ISTITUTI TECNICI E PROFESSIONALI - Si punta al
potenziamento di questi istituti, quali istituzioni «strutturate organicamente
sul territorio attraverso collegamenti stabili con il mondo del lavoro».
TRASPORTI - Si tratta di interventi per il
trasporto pubblico innovativo e in materia di trasporto ferroviario, oltre che
al riordino degli incentivi per l'autotrasporto merci.
AUTO PERSONALIZZATE SENZA NULLA OSTA - Via
libera allo sviluppo per i settori specializzati in componenti delle auto,
finalizzati ad aumentare le performance, il comfort e la sicurezza del veicolo.
Per le modifiche, infatti, non servirà più il preventivo nulla
osta della casa costruttrice.
VEICOLI «TRUCCATI» - Si inaspriscono le norme
per chi circola su auto o moto alle quali siano state apportate modifiche
rispetto alle caratteristiche indicate nel certificato di omologazione e nella
carta di circolazione.
22 marzo 2007
Lo riporta l'ordinanza del gip. Il periodo è quello in cui venne pignorata la casa del leader della Lega Nord. Ghedini: fantasie
M
L'appunto di Sasinini
è riportato a pagina 303 dell'ordinanza
con la quale il giudice per le indagini preliminari Gennari ha disposto l'arresto
di tredici persone nell'ambito dell'inchiesta sui dossier illegali. A fianco
della presunta operazione appare anche il nome di Giulio Tremonti senza alcuna
ulteriore spiegazione. Negli appunti si dice che il periodo sarebbe stato
quello in cui venne «pignorata per debiti la casa di Bossi», quindi prima del
successo della Casa delle libertà nelle elezioni del 2001. Infine, nel
medesimo appunto, sotto l'indicazione pre-governo Berlusconi, si legge che
«sottosegretario Minniti... da ex Sisde ha saputo una...?».
GHEDINI: «FANTASIE» -
«Le notizie di presunti accordi tra Bossi e Berlusconi sono non soltanto
destituiti di ogni fondamento, ma frutto di un'assoluta fantasia che sarebbe
risibile se non apparisse connotata da scopi diffamatori o ancora peggio per
inquinare la vita politica del Paese», ha replicato il senatore di Forza Italia
Niccolò Ghedini, avvocato difensore di Silvio Berlusconi. «Agiremo in
tutte le sedi opportune al fine di far sì che simili falsità non
possano essere propagate».
Secondo Roberto Castelli, esponente della Lega Nord, si tratta «della bugia
più clamorosa dell'inchiesta».
UN MONDO DI MERDA» BOSSI: «È -
Molto più colorita e nel suo stile la replica del diretto interessato:
Umberto Bossi. «È un mondo di merda, a uno gli passa la voglia di far
politica», ha detto Bossi all'Ansa. «Io ho dato mandato di querelare questa
persona e mi domando come facciano a uscire simili cose. L'hanno fatto apposta
per fare danni politici. Berlusconi è uno che non tira fuori un soldo
nemmeno per pagare i manifesti elettorali, figurarsi se tira fuori dei soldi
per la Lega».
22 marzo 2007
Approvato in commissione anche lo
stanziamento di 121 milioni di dollari
per il sostegno alla missione militare. Prime partenze entro quattro mesi
Ma la Casa Bianca annuncia il veto.
Venerdì in programma il voto alla Camera dei rappresentanti
WASHINGTON -
Gli Stati Uniti dovrebbero ritirare la maggior parte delle loro truppe
dall'Iraq entro il 31 marzo 2008. Questo, almeno, stando al piano approvato
oggi dalla Commissione "Accrediti" del Senato. I senatori hanno dato
via libera a un documento proposto dai democratici (uno con gli stessi
contenuti era stato respinto dall'aula la scorsa settimana) che approva lo
stanziamento di 121,6 milioni di dollari per sostenere la missione militare in
Iraq e stabilisce la data (31 marzo 2008) per il ritiro della maggior parte
degli effettivi. Ritiro che, comunque, dovrebbe cominciare entro quattro mesi.
Immediata la reazione della Casa Bianca che ha fatto sapere di essere pronta ad
esercitare il veto presidenziale contro qualsiasi proposta di legge che leghi
il rifinanziamento delle operazioni militari in Iraq e Afghanistan ad una data
precisa per il ritiro.
Ancora una volta, quindi, cresce la tensione tra la maggioranza democratica al
Congresso e la Casa Bianca. La legge dovrà ora passare all'esame
dell'aula dove difficilmente otterrà l'appoggio di 60 senatori su 100,
indispensabili per superare il veto presidenziale che George W. Bush è
determinato a porre.
La Camera dei Rappresentanti ha iniziato il dibattito su una proposta di legge
per portare a casa le truppe dall'Iraq entro il primo settembre 2008, e il voto
è previsto per venerdì. Proprio durante il dibattito è
arrivata l'approvazione da parte della commissione bilancio del Senato del
documento che prevede il ritiro dall'Iraq già da quest'anno, con
l'obiettivo di completarlo entro il 31 marzo 2008.
Per il portavoce della Casa Bianca Tony Snow la proposta di legge non ha alcuna
possibilità di essere approvata. "E' una legge cattiva, il
presidente opporrà il veto ed il Congresso lo confermerà",
ha detto.
E se i democratici stanno lottando per mettere insieme i 218 voti necessari
alla Camera per far approvare la legge, i repubblicani hanno già
annunciato la loro opposizione e si preannunciano mesi di battaglia.
Era sepolta nella proprietà di un
parente dell'immobiliarista
Contiene documenti "interessanti" per gli inquirenti, che indagano
sul crac da 130 milioni di euro
L'archivio segreto su società in Lussemburgo
ROMA -
Era nascosta in un terreno dei Castelli romani, protetta da un involucro di
plastica e sepolta sotto assi di legno: una valigetta a combinazione, piena di
documenti interessanti e, secondo gli inquirenti, riconducibile a Danilo
Coppola, è stata scoperta nell'ambito dell'inchiesta della Procura di
Roma sul crac da 130 milioni di euro attribuito a società gestite
dall'immobiliarista.
L'hanno trovata gli uomini della guardia di Finanza e i carabinieri di
Frascati, sepolta in un terreno di proprietà di un parente di Coppola.
Nella valigetta, una "72 ore" in pelle nera, erano stati nascosti
documenti riferibili a società lussemburghesi di Coppola, alla
società Ipi e altra documentazione contabile che sarà esaminata
nei prossimi giorni dagli inquirenti.
Il ritrovamento della valigetta con i documenti del Gruppo Coppola presenta
diverse analogie con l'intercapedine scoperta, sempre dai militari della
Guardia di Finanza di Frascati e dal Nucleo Speciale di Polizia Valutaria, in
un garage di una proprietà dell'immobiliarista Stefano Ricucci, lo
scorso anno arrestato dalle Fiamme Gialle nell'inchiesta sulla scalata alla Bnl.
Anche in quel caso gli investigatori trovarono in alcuni scatoloni, in cui
erano custoditi anche calendari dell'attrice Anna Falchi, moglie di Ricucci,
una documentazione che consentì loro di accertare numerosi
irregolarità contabili attribuite a Ricucci.
Le Fiamme Gialle sono arrivate sul posto dopo aver acquisito elementi rilevanti
da nuove intercettazioni telefoniche seguite all'arresto di Coppola, in cui si
faceva riferimento a documenti interrati e murati.
++ AgenParl 22-3-2007 La carta americana per Silvio
++ La Padania 22-3-2007
L ira degli Usa per i talebani liberi La Lega: non cedemmo neanche per
Moro
++ Da Reuters Italia 22-3-2007 Telecom: altri 13
arresti, anche agente Cia in pensione
L’Unità 22-3-2007 Messaggi americani Luigi
Bonanate
Il Riformista 22-3-2007 Pubblicate pure le mie
telefonate sul caso Unipol di Francesco Cossiga
Italia Oggi 22-3-2007 Abi-Ania, sarà federazione
Sinergie tra associazioni a regime entro un anno
ROMA -
"L'Italia non ha agito da sola - e non avrebbe potuto - nello scambio di
prigionieri" che ha portato al rilascio di Daniele Mastrogiacomo e
"l'attenzione è concentrata su Afghanistan e Stati Uniti, che
esercitano un ampio controllo sul Paese". A sostenerlo è oggi il
New York Times, che interviene con un 'retroscena' nella bufera scatenata dalla
scarcerazione di cinque Talebani - criticata duramente da Stati Uniti, Gran
Bretagna, Olanda e Germania.
In una corrispondenza da Roma il quotidiano americano si interroga sul
"ruolo preciso" di Washington, che ha "relazioni tese con
l'Italia su molti fronti, tra cui il rinvio a giudizio di 26 americani per il
rapimento dell'imam egiziano" Abu Omar.
"Diplomaticamente - sottolinea il quotidiano americano, citando fonti
ufficiali - gli Stati Uniti non avrebbero potuto impedire lo scambio, dal
momento che i prigionieri Talebani erano detenuti dal governo afgano e non dai
militari americani o dalla Nato. Funzionari americani erano inoltre consapevoli
del rischio che montasse l'opposizione nell'opinione pubblica italiana contro
la presenza di truppe italiane in Afghanistan".
Il New York Times osserva quindi come "la politica interna sembra
aver avuto un ruolo nella decisione" sullo scambio, "in una nazione
in cui il debole sostegno agli interventi stranieri" aveva già
fatto venire fuori le accuse di pagamenti di riscatti per gli ostaggi.
Il quotidiano americano ricorda infatti come sia ampiamente noto che "l'ex
premier italiano, Silvio Berlusconi, pagò per la liberazione di almeno
tre ostaggi in Iraq nel 2004 e nel 2005". All'epoca la questione era
"umanitaria e politica: gli italiani erano largamente contrari alla
decisione di Berlusconi di mandare truppe in Iraq e gli oppositori sostenevano
che una vittima avrebbe potuto erodere il sostegno per lui mentre si
avvicinivano le elezioni", spiega il New York Times.
E il rapimento di Daniele Mastrogiacomo, rileva, "è
avvenuto ugualmente in un momento delicato per il già fragile governo
Prodi, caduto lo scorso mese, in parte a causa della mancanza di supporto
all'interno della coalizione per la presenza di quasi duemila soldati italiani
in Afghanistan". In più, nei prossimi giorni, chiosa il quotidiano,
"Prodi affronterà un voto cruciale per il finanziamento delle missioni
all'estero, un voto che avrebbe potuto essere più difficile se
Mastrogiacomo non fosse stato liberato".
(22 marzo 2007)
WASHINGTON (USA)
- Dopo il primo implicito via libera, arriva il dissenso. Dagli alleati di sempre, Stati Uniti e Gran Bretagna, ma anche dalla Germania, il partner fondamentale in Europa per il governo Prodi. Che esprimono disappunto e preoccupazione.Nel mirino Usa la liberazione dei 5
talebani per il rilascio di Mastrogiacomo: Washington teme che questo metodo
può condurre su una strada pericolosa. Il funzionario ha sottolineato
che uno dei talebani liberati è un familiare del capo talebano (il
mullah Dadullah) che appare essere l'organizzatore del rapimento di
Mastrogiacomo.
Dagli Stati Uniti non è arrivata alcuna «approvazione» allo scambio di
prigionieri afghani per il rilascio di Mastrogiacomo. «Non è vero che
abbiamo approvato lo scambio e le concessioni ci hanno colto di sorpresa» ha
concluso la fonte.
REGOLE D'INGAGGIO -
Gli Usa avrebbero anche lasciato trapelare al governo italiano come sia una
pessima idea organizzare una conferenza di pace sull'Afghanistan a cui invitare
anche i talebani e come le regole d'ingaggio dei nostri soldati nel Paese
asiatico siano troppo limitanti.
Un esempio di questi limiti, ha sottolineato la stessa fonte, è
testimoniato dal fatto che il trasferimento in aereo di Mastrogiacomo dal luogo
della liberazione a Lashkar Gah fino a Kabul, non è stato effettuato con
un velivolo messo a disposizione dalle autorità italiane, il che non sarebbe
consentito dalle regole di ingaggio, che proibirebbero a velivoli del nostro
governo di entrare in quella provincia, ma con un velivolo di una Ong (si
tratta di Emergency). Il governo americano ha sottolineato di avere
ripetutamente chiesto alle autorità italiane di modificare queste
regole, già dal 2003.
RAMANZINA PREVISTA
- A Roma, osserva una fonte, si attendeva una qualche ramanzina americana dopo
la complessa e riuscita operazione afghana che ha portato in Italia
Mastrogiacomo e alla libertà diversi prigionieri Taleban. Uno scambio
che lo stesso presidente Hamid Karzai ha definito un fatto «eccezionale ed
irripetibile». Forse non ci si aspettava un "j'accuse" così
completo e forse lo si aspettava 24 ore prima e non oggi.
LA FARNESINA: «NESSUN PASSO
UFFICIALE DA USA» - Quanto riportato dalla fonte Usa non
viene confermato dalla Farnesina che in una nota precisa: «Non risultano passi
ufficiali americani attraverso i consueti canali diplomatici nel senso indicato
dalla fonte anonima né a Washington né a Roma». Al ministero degli Esteri si
osserva che «nulla di quanto riferito nelle dichiarazioni della fonte anonima
è emerso» nel corso del colloquio avuto da Massimo D'alema due giorni fa
a Washington con Condoleezza Rice. E, anzi, conferma «il clima molto positivo»
di quella conversazione a quattr'occhi - rimasta in gran parte riservata -
svoltasi in un elegante ristorante con vista sul fiume Potomac. Per fare
chiarezza giovedì, riferisce la Farnesina, è in programma un
colloquio telefonico del ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, con il
segretario di Stato Usa Condoleezza Rice.
CRITICHE ANCHE DALLA GRAN BRETAGNA -
Poco dopo anche il ministero degli Esteri britannico ha espresso
«preoccupazione» per «le implicazioni della liberazione dei talebani» collegata
al rilascio di Mastrogiacomo: lo ha detto una portavoce del ministero degli
Esteri britannico, aggiungendo che della vicenda Londra sta «discutendo con il
governo italiano e con quello afgano». Secondo la portavoce, in particolare,
«c'è la preoccupazione che si possa dare il messaggio sbagliato a coloro
che pensano di prendere ostaggi».
GERMANIA: «ERRORE ENORME»
- Poco dopo anche Berlino si è unita a Londra e Washington nelle
critiche per il rilascio di cinque Talebani in cambio della liberazione di
Daniele Mastrogiacomo. Il sito
del settimanale tedesco Der
Spiegel cita fonti del
governo federale, che definiscono «un errore enorme» lo scambio. «L'Italia
è soddisfatta, il giornalista è soddisfatto, ma lo sono
soprattutto i Talebani», dice la fonte, secondo cui quello scambio ha
rappresentato «un segnale sbagliatissimo per tutti i gruppi radicali e
incoraggia nuovi rapimenti con obiettivi ancora più ambiziosi». Der Spiegel parla
quindi dell'arrivo del giornalista di «Repubblica» come quello di «una star»:
«Sembrava il vincitore, solo un po' più esausto, di un campionato del
mondo».
OLANDA: «NOI NON TRATTIAMO» -
Nel caso di eventuali rapimenti di connazionali, l'Olanda si oppone per
principio a negoziare con i sequestratori: lo ha detto durante una visita in
Afghanistan il ministro degli esteri dell'Aja, Maxime Verhagen.
22 marzo 2007
ROMA
- L'Italia sull'orlo di una crisi
diplomatica. È un prezzo imprevisto, quello che il governo rischia di
dover pagare in queste ore, per aver salvato la vita di Daniele Mastrogiacomo.
È un prezzo alto, quello che Prodi e D'Alema rischiano di dover
sostenere, sul conto profitti e perdite della politica internazionale e della
politica interna. L'attacco simultaneo partito ieri da Washington, da Londra e
addirittura da Berlino, è piovuto all'improvviso su Palazzo Chigi e
sulla Farnesina. "Un fulmine a ciel sereno", secondo la stupita
definizione di Massimo D'Alema.
"Preoccupazione per le modalità del rilascio" del giornalista
di Repubblica, manifestata attraverso una fonte del dipartimento di Stato.
Inquietudine "per le implicazioni della liberazione dei Taliban",
espressa dal Foreign Office. Irritazione della cancelleria tedesca "per il
segnale sbagliato che incoraggia nuovi rapimenti", fatta filtrare dalle
colonne dello Spiegel.
A Roma, dopo l'apparente buon esito dell'intervento del ministro degli Esteri
al Consiglio di sicurezza dell'Onu, nessuno se l'aspettava. Per questo, quando
le agenzie hanno messo in rete i primi lanci sulla "preoccupazione"
del Dipartimento di Stato, D'Alema ha telefonato subito alla Rice. Tentativo
fallito: Condoleezza è stata bloccata l'intero pomeriggio, al Senato
americano. Ma il chiarimento è solo rinviato: un appuntamento telefonico
è già fissato per oggi. Intanto, la macchina del governo italiano
non è rimasta ferma. D'Alema ha chiamato Prodi, a sua volta
"stupito" per le critiche arrivate da oltre Atlantico. E subito dopo
si è messo in contatto con Ronald Spogli.
"Caro ambasciatore, mi spiega cosa succede a
Washington?". Il capo della diplomazia italiana ha spiegato la sua
posizione: "Noi non abbiamo mai trattato con i talebani. Il nostro unico
interlocutore è stato Karzai, che nella sua piena autonomia ha deciso e
compiuto i passi che hanno portato al rilascio di Mastrogiacomo. Nell'incontro
con la Rice, a Washington, nessun cenno è stato fatto su questa vicenda.
E al termine del mio discorso alle Nazioni Unite, l'ambasciatore americano ha
espresso valutazioni molto positive sul nostro contributo, ha apprezzato la
proposta sulla Commissione di pace per l'Afghanistan. Quanto all'idea di far
sedere al tavolo anche i talebani, io non l'ho avanzata e il governo non l'ha
mai messa in campo. Insomma, in due giorni l'Italia ha ottenuto quasi un peana
dagli Stati Uniti. Perché adesso arrivano queste critiche?".
D'Alema ha smentito l'esistenza di proteste formali americani, arrivate in
questi giorni attraverso i canali diplomatici: "Noi non abbiamo ricevuto
niente". Spogli ha ridimensionato la portata dell'"offensiva"
americana contro l'Italia. E l'ambasciatore in persona, al telefono col
ministro degli Esteri, ha concordato punto per punto il comunicato ufficiale di
risposta della Farnesina. In quel comunicato si ricorda "il clima molto
positivo" registrato nel colloquio di tre giorni fa tra D'Alema e la Rice,
durante il quale non era emerso "nulla di quanto riferito nelle
dichiarazioni della fonte anonima" di ieri. Si ricordano gli apprezzamenti
della Rappresentante Usa in Consiglio di Sicurezza "per il ruolo svolto
dall'Italia in Afghanistan". "Noi italiani - ha concluso D'Alema al
telefono con Spogli - siamo fermi lì, e di lì vogliamo
ripartire".
Ma nessuno si illude. L'incidente non è chiuso. Nel governo si cerca di
capire cosa possa essere accaduto nelle ultime ore. Una prima ipotesi (la
più rassicurante ma anche la meno credibile) è che viste le
modalità irrituali con le quali si è manifestata, la
"preoccupazione americana" sia solo il frutto avvelenato della
divisione tra falchi e colombe all'interno dell'Amministrazione Usa. Una
seconda ipotesi (la più accreditata dalla nostra diplomazia) è
che invece tutto nasca dal rabbioso disappunto di Tony Blair: secondo voci che
circolavano ieri sera, uno dei cinque prigionieri talebani liberati sarebbe
accusato di aver ucciso un soldato britannico.
E questo avrebbe spinto il governo inglese a chiedere agli Usa una dura presa
di posizione contro l'Italia. Una terza ipotesi (la più cara ai
dietrologi di Palazzo Chigi) è che invece qualcuno, dall'Italia, abbia
"istigato" gli americani: la prova sarebbe nella "sentenza
definitiva" pronunciata a tarda sera da Berlusconi: "Ormai è
chiaro che per gli Stati Uniti non siamo più un alleato
affidabile".
Quale che sia l'ipotesi più realistica, la situazione resta molto
delicata. Anche D'Alema lo riconosce: "In quello che è accaduto
c'è qualcosa di molto strano...". Oggi cercherà di capire,
parlando con la Rice. Ma è difficile immaginare che gli Stati Uniti non
siano stati informati in tempo reale da Karzai delle diverse tappe che hanno
portato alla liberazione di Daniele. Per questo, dopo il faccia a faccia con
Condoleezza a Washington, D'Alema aveva parlato di "diversità di
vedute" che esistono su tante questioni, ma anche di "comprensione"
da parte americana per le ragioni dell'Italia.
Lo stesso ragionamento vale per i talebani liberati dal governo afgano:
difficile immaginare che gli anglo-americani non ne conoscessero nomi e
cognomi, visto che (come si ripete alla Farnesina) "non è certo
l'Italia che poteva stabilirne la pericolosità". E dunque, perché
l'Amministrazione americana non si è opposta subito a qualunque ipotesi
di rilascio di quei prigionieri? Nessuno lo dice espressamente. Ma non è
irragionevole pensare che Washington abbia fatto una scelta di realpolitik. Se
il rapimento di Mastrogiacomo fosse finito in tragedia, un centrosinistra
italiano già così in sofferenza non avrebbe potuto reggere
politicamente alla prosecuzione del suo impegno militare a Kabul.
E a questo esito tragico, fortunatamente scongiurato, si sarebbe potuto
aggiungere anche il disimpegno della Spagna di Zapatero (sempre più
scettica sulla missione afgana). Per un'America già debole sulla scena
internazionale, evidentemente, il valore irrinunciabile dell'integrità
della coalizione riunita in Afghanistan sotto l'egida della Nato ha fatto
premio su tutto il resto.
Ma questo, anche se spiega, non risolve. Le relazioni transatlantiche sono
sempre più tese. E l'impatto di queste difficoltà diplomatiche si
fa sempre più destabilizzante per la politica interna. È la
preoccupazione più forte, che D'Alema ha riferito a Prodi: "Non mi
preoccupa tanto la strumentalizzazione che farà il centrodestra, di
tutta questa vicenda. Ma che succede, se adesso si scatena la reazione della
sinistra radicale, che comincia a gridare allo scandalo per "l'indebita
intromissione americana"? Come ci presentiamo al voto in Senato, la
prossima settimana?". Una buona domanda. Può preludere a una
pessima risposta.
(22 marzo 2007)
KABUL
Siamo in guerra? Certo che sì, anche se appena appena. I soldati della
Brigata Taurinense che alla periferia della città sono di guardia a
«Camp Invicta» si comportano normalmente e ti perquisiscono mentre continuano a
mandar via i soliti ragazzini petulanti che domandano «uno euro pè
mangià». Tutto sembra scorrere come al solito però è
inutile nascondersi dietro a un dito, la situazione si sta facendo sempre
più seria, il nostro contingente in Afghanistan galleggia con rotta
sempre più incerta ai margini di un conflitto non dichiarato nè
ammesso che però continua a svilupparsi e circonda i nostri reparti.
Chiamamola guerra, controguerriglia o come vi pare però questa non
è più semplice operazione di pace. Il conflitto monta in maniera
strisciante, si sviluppa intorno ad azioni singole, i nostri soldati continuano
ad essere chiamati a titolo di emergenza e appoggio e certo non possono
rifiutarsi di farlo. In termini tecnici tutto questo si definisce «Cimic»,
cooperazione fra missioni civili e militari, però i contorni della
collaborazione sono sempre più labili, in altri casi bande misteriose ci
sparano addosso e bisogna reagire. Oramai comunque la natura dell'incarico
sembra cambiata.
«Apparteniamo a una missione Onu a comando Nato sostenuta anche da nazioni che
non appartengono all'Alleanza, come Macedonia o Albania», sintetizza con
qualche difficoltà uno dei nostri ufficiali. «Questo vuol dire essere
parte di un corpo con due teste, in questo momento nelle province del Sud
soldati americani, inglesi e canadesi continuano a combattere per la missione
Enduring Freedom mentre noi dovremmo occuparci di ospedali e scuole per la
missione Isaf. In teoria va tutto bene, ma se quegli altri soldati ci chiedono
aiuto dovremmo rifiutarci?». E' chiaro che no, e tutta la storia si racchiude
esattamente nella zona grigia fra passività e collaborazione, azione e
reazione, non siamo venuti qui per cercare la guerra però la guerra ci
sta inseguendo, saremo in grado di combatterla se vi fossimo costretti?
Non aspettatevi conferme o dichiarazioni formali, in attesa di tempi migliori
nel contingente italiano è scattata l'applicazione del «comma
Nassiriya», legge non scritta entrata in vigore dai tempi dell'attentato che in
Iraq uccise diciannove dei nostri. Si tratta dell'ordine silenzioso e
intelligente che rinserra i soldati negli acquartieramenti in attesa che giungano
tempi migliori. Da qui al 27 di marzo, data del dibattito al Senato sul
rifinanziamento della missione, se appena un militare della missione afghana
s'incrinasse un alluce si scatenerebbero polemiche senza fine. L'altro
pomeriggio a Herat è bastato il leggero ferimento del caporale degli
incursori Davide Bernardin da Padova per scatenare fra il «Camp Invicta» di
Kabul e il «Camp Arena» di Herat un affollamento di telecamere che non si
vedeva dai tempi dell'ultima visita ministeriale.
«Noi siamo perfettamente in grado di reagire a ogni genere di attacco -
continua la nostra fonte - anzi forse non siamo mai stati così bene
equipaggiati. Non parlo soltanto dei nuovi trasporti Puma, dei blindati leggeri
o degli elicotteri della Marina ma anche dell'armamento indivuale e di
attrezzature come i visori notturni o i nuovi giubbetti antiproiettile in grado
di resistere alla raffica di un Kalashnikov. Soprattutto però le due
brigate del nostro contingente - Taurinense a Kabul e Sassari ad Herat - questa
volta hanno potuto avere un addestramento lungo e intenso. Insomma, se scoppia
la guerra siamo in grado di combatterla anche se non la vogliamo».
Tanto per non eludere ancora la realtà delle cose sarà meglio non
nascondersi dietro le definizioni. Qualche tempo fa, prima della reprimenda
anglo-americana che ieri ci è caduta fra capo e collo, il Washington
Post aveva già ironizzato sulla «pacifica guerra degli italiani». Nella
provincia di Herat abbiano verniciato di bianco i nostri blindati sperando di
differenziarli da quelli del reparti aggressori, però la cosa sta
funzionando sempre meno: scacciati dall' «operazione Achilles» i talebani
cercano di riparare a Nord e rompono i provvisori equilibri dell' «isola
latina», provincia fino a ieri protetta dalle truppe italiane e spagnole.
Le disposizioni militari che tutti conosciamo affermano che «i nostri soldati
hanno il diritto di rispondere ad attacchi ingiustificati applicando il
principio della proporzionalità», ovvero evitando di reagire a cannonate
contro colpi di fucile. Le vere e proprie regole d'ingaggio però sono
«classificate», dunque segrete e l'ultima garanzia che ci separa da un formale
stato di guerra è il «caveat» che ci consente 72 ore di tempo prima di
decidere se partecipare o meno a un'offensiva. «Fra guerra formale e guerra
sostanziale le sfumature sono infinite - continua la nostra fonte - e dunque
non credete alle smentite del sottosegretario alla Difesa, qui ormai i nostri
soldati, sia pure episodicamente, combattono».
Segue
dalla Prima. Non scorderemo neppure che
già nel caso Sgrena-Calipari gli Stati Uniti ci rinfacciarono
l'eccessiva autonomia rispetto a regole concordate tra alleati sui limiti di
manovra nelle trattative: salvar le vite o l'onore? Strani messaggi, dunque.
Per capire i quali è bene partire da un dato ormai inequivocabile.
Comunque la si voglia chiamare, la guerra in Afghanistan dura da più di
cinque anni, tanti quanti ci vollero nella seconda guerra mondiale per sconfiggere
il nazifascismo. E visto che le capacità belliche delle parti in
conflitto sono oggi tanto più sbilanciate che allora, ne consegue
necessariamente che i più forti non sono nello stesso tempo anche i
più abili. Dobbiamo avere il coraggio di dirci chiaro e tondo che non
bastano i muscoli per saperli usare intelligentemente o abilmente, e che le
insistenti richieste del presidente americano ? più tempo, più
soldati ? sono intrinsecamente sbagliate, ingenue, perché non è quello
il livello al quale il problema si pone. Non staremo a ridirci che tutta questa
storia nasce dall'11 settembre e dalla astratta intenzione di colpire bin Laden
spianando l'intero Afghanistan. Quell'idea era tanto ingenua quanto quella di
chi oggi crede che il Paese sia sotto il controllo del "democratico"
governo Karzai o, alternativamente, delle truppe Isaf. Ma il potere politico in
Afghanistan è soltanto in parte, forse in minima parte, nelle mani del
governo, che non controlla comunque i livelli della violenza politica in atto. L'idea
che con delle elezioni si risolvesse tutto (ripetuta in Iraq con risultati non
migliori) e la democrazia elettorale potesse trasformarsi in pacificazione
generale (e neppure in Iraq è successo) è stata spazzata via in
poco tempo e oggi l'Afghanistan è, quanto meno, in preda a quella che i
nostri non ancora obsoleti manuali chiamano "guerra civile", visto
che il potere legale non controlla il territorio che condivide invece con i
talebani. La cosa è tanto più stupefacente perché il Paese
è poi occupato (stavo per dire: invaso) da circa 40000 soldati della
missione Nato mandata dall'Onu all'inizio del 2002. Con tutto il rispetto,
umano per i ragazzi che rischiano la pelle, e strategico per chi, con grande
esperienza e prudenza li guida, come non chiedersi: ma che cosa avete fatto
laggiù per tutto questo tempo? Come è noto, nel 2006 la
produzione di materia prima per la droga ha toccato il suo vertice massimo in
un Paese dilaniato dalla guerra civile a cui si è sovrapposta una specie
di guerra internazionale: è un bel paradosso, tale da imporre a tutti di
noi di lavorare con il massimo impegno a una soluzione. Non esiste soltanto
l'abbandono del campo con il ritiro delle truppe. A esser analitici, neppure
questa sarebbe una buona soluzione: non soltanto aver investito cinque anni di
storia politica internazionale per un ritiro ignominioso sarebbe triste e
demoralizzante, ma condannerebbe la società afghana a un'anarchia
violenta e insostenibile per chiunque. Molto meglio raggiunger prima le condizioni
minime, almeno, per l'avvio di un processo di pace. Prima ancora di discuterne,
un'osservazione a margine, ma significativa: l'invenzione di cammini del genere
è un'urgenza assoluta per il mondo contemporaneo: per l'Iraq come per la
questione israelo-palestinese e per quella libanese. È il nostro
più importante impegno internazionale. Per queste ragioni il governo
italiano ha lanciato (mi si lasci dire ancora una volta che l'attivismo del
nostro governo in politica estera è davvero un segno di
discontinuità non tanto e non soltanto con il precedente governo, ma con
la complessiva cultura di governo del nostro Paese) il progetto di una
conferenza internazionale. Per quel che sappiamo, sarà necessario
rifinirne il profilo: si parla di una cinquantina di Paesi partecipanti, che
sembrano francamente ingestibili; di progetti come la sicurezza interna, la
riconciliazione nazionale, il sostegno al buon vicinato. Compiti egregi, ma che
oggi come oggi rischierebbero di far fallire ogni iniziativa: il governo Karzai
non è democratico per diversi motivi, ma uno almeno surclassa tutti gli
altri, e riguarda il fatto che il Paese vive ancora in uno "stato
d'eccezione" che non lascia spazio ai meccanismi democratici e non
è aiutato, purtroppo, da vicini come il Pakistan, alleato degli Stati
Uniti e dunque formalmente impegnato al loro fianco, ma nello stesso tempo
protettore o distratto connivente delle forze talebane. E proprio nel momento
in cui, con una mano, la diplomazia americana sembra aprirsi alla logica del
dialogo e del compromesso, si direbbe che con l'altra l'insopprimibile senso di
superiorità che da diversi anni ha attanagliato il governo americano
imponga invece uno scarto di fronte all'ostacolo: non si invitino i talebani al
tavolo della pace. Ora, non credo che nessuno tra noi sia un entusiastico
sostenitore di questi ultimi. Ma sappiamo che ci sono e sono ben radicati.
È stato detto che la pace si può fare soltanto tra nemici:
è tanto vero che vorrei vedere tutti questi nemici intorno al tavolo
delle trattative.
Il
Riformista 22-3-2007 Pubblicate pure le mie telefonate sul caso Unipol di
Francesco Cossiga
Caro direttore, ho appreso da un importante quotidiano che la magistratura di
Milano si appresterebbe a depositare la trascrizione di alcune intercettazioni
telefoniche anche a carico di membri del Parlamento, nel filone delle indagini
sul tentativo di scalata della Banca nazionale del lavoro da parte dell’Unipol,
grande società di assicurazioni della Lega delle Cooperative, delle
cooperative così dette “cooperative rosse”. Si fa riferimento anche a
intercettazioni su mie utenze telefoniche, ma si precisa che la loro
trascrizione non sarà depositata…perché si tratterebbe di «conversazioni
di carattere privato».
Io sono stato decisamente a favore della scalata, come lo furono Massimo
D’Alema e Piero Fassino, e l’ho difesa e sostenuta con articoli, lettere ai
giornali e interventi orali in pubblico, anche contro amici alti esponenti
della Margherita alle cui iniziative in concorso con altri gruppi bancari e
editoriali si deve il fallimento dell’operazione e l’inizio di procedimenti
penali contro diessini amministratori e dirigenti dell’Unipol. Eppure debbono
essere state intercettate mie telefonate sull’argomento con l’ingegner
Consorte, con Massimo D’Alema, con Piero Fassino, mi sembra anche con Vannino
Chiti, e con l’allora Governatore della Banca d’Italia, l’amico dottore Antonio
Fazio, cui io raccomandavo e più volte, caldamente l’operazione e davo
assicurazioni agli amici Ds.
Per quanto mi riguarda, sarei lieto che le trascrizioni venissero rese
pubbliche, perché io, che non faccio parte né dei Ds né della Margherita, sono
fiero di avere fatto di tutto per appoggiare l’operazione. E perché intatta ho
mantenuto la mia amicizia per l’ingegner Consorte, che ho incontrato più
volte anche dopo che era “caduto in disgrazia”, “buttato a mare”, secondo una
vecchia prassi comunista, anche se senza costringerlo alla “confessione”, lui
vecchio militante comunista, dal suo partito, i Ds e dai “cooperativisti
rossi”. E senza che né lui né altri per conto suo mi abbiano mai dato un soldo,
né in Italia né all’estero.
L’alternativa era la morte di Daniele. E l’Italia, lo sappiamo, non ha voglia
né di martiri né di eroi. Per fortuna.
Mi auguro che non si ricavino da quanto accaduto conclusioni futili come quelle
relative al ruolo che oggi toccherebbe giocare alla cosiddetta “diplomazia dei
movimenti”. O l’idea che la funzione dei Servizi e dell’Intelligence, su fronti
difficili e aspri come l’Afghanistan, andrebbe ridimensionata. Futilità.
Futilità che nessuno dovrebbe permettersi. Abbiamo pagato un prezzo alto
per evitare a Daniele la stessa sorte toccata al suo autista. Un povero cristo
sgozzato e gettato in un fiume perché non c’era nulla da scambiare in cambio
della sua vita! C’è da sperare che la politica italiana si mostri
all’altezza di questa dura prova e non precipiti nella spirale delle polemiche
e delle ritorsioni. Abbia consapevolezza della drammaticità del ricatto
di fronte a cui la società italiana, non solo la politica, si è
trovata. E torniamo alla vicenda afgana. Oggi c’è da lavorare perché
quanto accaduto non indebolisca il presidente Karzai (le cui scelte sono state
decisive per la liberazione di Daniele) già alle prese con le critiche
di tagiki, uzbeki e altri gruppi etnici. Ma soprattutto occorre evitare che
quanto accaduto mini la credibilità del nostro paese sulla scena
internazionale e nel rapporto con gli alleati europei della Nato e con gli
Stati Uniti. Sentiamo che problemi del genere già si pongono in queste
ore. Ecco perché è necessario che l’Italia continui con determinazione e
serietà a fare la sua parte per contribuire alla stabilizzazione
dell’Afghanistan e alla sconfitta dei talebani: con l’iniziativa politica e
diplomatica per giungere alla Conferenza internazionale e con la presenza sul
terreno dei militari italiani. Dimostrando con i fatti di essere un grande
paese affidabile sulla scena internazionale e leale con i propri alleati.
PAVIA. In occasione del suo 80º
compleanno il cardinale Carlo Maria Martini ha ricevuto in dono dal cardinale
Dionigi Tettamanzi, che l'ha raggiunto a Betlemme, il volume
"Affinchè la parola corra. I verbi di Martini" edito dal
Centro Ambrosiano (pagine 287, 18 euro). Il libro, curato da Marco Vergottini,
docente alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale, contiene 17
interventi firmati da personalità religiose e da studiosi. C'è
anche quello del vescovo di Pavia, Giovanni Giudici, che di Martini è
stato vicario generale per dieci anni. Di questo suo intervento, dedicato alla
"vigilanza", pubblichiamo un estratto sul tema: "la vigilanza
nella società". di Giovanni Giudici (segue dalla prima pagina) In
particolare, ricordiamo l'esercizio quaresimale di penitenza per le strade
della città (Venerdì santo del 1984), quando insieme abbiamo
invocato il perdono per le nuove pesti che segnavano quel tempo della
società milanese. Così in quell'occasione Martini ricordando la
piaga del terrorismo, invoca il suo santo predecessore: San Carlo, che hai
saputo leggere la violenza del tuo tempo, partendo da quel punto di
osservazione che è è la croce, dona anche a me, dona a noi di
porgere l'orecchio al grido di dolore che sale dalle tante violenze che si
consumano nella nostra città. Vigilanza in quel caso ha voluto dire che
determinate avvisaglie di un malessere più profondo vengono colte dal
pastore che osservando i segni del tempo, collegando gli indizi, riesce infine
a individuare le cause di un male che poteva coglierci all'improvviso. E con
questa attenzione, per esempio, aiuta i credenti e le istituzioni civili a
passare attraverso le contraddittorie vicende di Tangentopoli con rispetto per
le leggi e con attenzione alle persone. Le avvisaglie di un cambiamento
culturale a proposito della lotta armata sono pure intuite dal Cardinale; i
suoi gesti di rigorosa ma prudente attenzione alle persone coinvolte in
gravissimi atti di terrorismo consentono a molti di abbandonare la violenza,
con un grado di convinzione interiore che certo spiana la strada a una stagione
nuova e più responsabile sul fronte del dibattito sociale. Il rapporto
con la cultura-ambiente ha trovato nel cardinale Martini un attento osservatore
e un coraggioso maestro. Egli insegna uno stile di attenzione vigile al
presente, da lui descritto con due sostantivi: discernimento e
responsabilità. Gli avvenimenti che compongono la cronaca sono, infatti,
spesso non coerenti tra loro; così avviene che vengano vissuti come
episodi chiusi in se stessi, senza ricercarne le cause oppure senza saper
immaginare gli effetti. Così le ragioni profonde di una disarmonia
appaiono con improvvisa violenza, o le conseguenze di disagi non individuati
diventano una cascata di malanni. La coscienza di chi vigila sostenuto dalla
fede è stimolata, invece, a cercare negli avvenimenti e nelle
sensibilità di una determinata situazione, i segni del Regno o il loro
opposto. Le tensioni vanno dunque affrontate con un giudizio che aiuti ad
operare quelle scelte e quelle attese, che alludono a beni già presenti
nelle proposte di Gesù e nelle promesse di profeti. L'arcivescovo
Martini ha insegnato che la vigilanza è attesa del futuro promesso dalla
rivelazione di Gesù; si tratta di operare per affrancarsi dalla
servitù del successo, del denaro, della fama, tutte realtà che
generano una mentalità distruttiva di ogni buona convivenza sociale. Nella
lettera Sto alla porta (1992), egli ha concretamente indicato come, nella vita
sociale, il vigilare da parte di un credente, comporta l'acquisire una
mentalità: [La vigilanza] è un atteggiamento di
responsabilità e di attenzione per la cura della cosa pubblica.
C'è da chiedersi in che modo un abituale disinteresse per la cosa
pubblica scoraggi i cittadini e i responsabili della cosa pubblica. Ci si
può pure domandare come sia possibile sottrarsi alla deriva
dell'interesse egoistico e della faziosità - che inducono a
disgregazione nel tessuto politico e sociale - quando la formazione del
consenso è sistematicamente perseguita attraverso la vischiosità
di legami clientelari o pressioni di carattere corporativo. Di anno in anno
Martini ha insegnato come si debba impegnare intelligenza, ascolto della Parola
e preghiera nell'impegno per proporre responsabilmente un ethos condiviso.
Quando una comunità umana è in veloce cambiamento, la
superficialità e l'individualismo divengono scelte più facili e
comuni: "non prendo posizione, mi ritiro nel privato", sembra dire la
maggioranza dei cittadini. Nei confronti di questo atteggiamento che nella
coscienza dei credenti può condurre a chiusure intimistiche o a derive
spiritualistiche, egli intende propiziare una figura integrale della fede, che
si apra alla testimonianza nei diversi ambiti del vivere umano, non escluso
l'impegno politico. Perché, com'è solito ricordare, l'Octogesima
adveniens (1971) insegna che "la politica è una maniera esigente
anche se non la sola di vivere l'impegno cristiano al servizio degli
altri". Scorrendo anche solo l'elenco dei temi trattati nei discorsi di
Sant'Ambrogio, si coglie la scelta di Martini di vivere la vigilanza come
proposta ragionata e responsabile di accedere insieme, credenti e non credenti,
cittadini tutti dunque, ad uno stile nuovo e diverso, recuperando le radici
morali e spirituali della convivenza nella città di tutti. Nel medesimo
stile di responsabile discernimento, si manifesta in Martini la vigilanza a
proposito di temi di grande impatto emotivo nella nostra società. Egli
prende la parola nel momento in cui si accende la prima guerra contro l'Iraq
(1991); dopo l'invasione del Kuwait, gridò la preghiera
di'intercessione, spiegando che intercedere significa mettersi in mezzo con le
mani appoggiate sulle spalle dei due contendenti. Altro esempio di attenzione
ad un difficile tema è il rapporto con l'Islam che egli affronta in un
discorso di Sant'Ambrogio. Anche in questo caso discernimento e
responsabilità, come realistica cifra della vigilanza, sono esercitate
proponendo quattro passi per la precisione, che devono istruire l'atteggiamento
della Chiesa nel confronto con l'Islam e che possono favorire un positivo
dialogo tra due culture diverse.
L'Agenzia delle entrate nel 2007
raddoppierà i controlli sugli studi di settore e annuncia rimborsi ai
contribuenti per 12,5 miliardi di euro: la previsione riguarda 2,5 milioni di
rimborsi sulle imposte dirette per 2,5 miliardi di euro e 10 miliardi di
rimborsi per l'Iva. Lo ha dichiarato il direttore dell'Agenzia Massimo Romano
nel corso di un'audizione in commissione Finanze al Senato sugli sviluppi della
politica fiscale. «Complessivamente - ha spiegato Massimo Romano ai senatori -
c'è un'azione importante. Già nelle prossime settimane sono
previste emissioni di rimborsi rilevanti». Un dato in crescita rispetto al
2006, anno nel quale i rimborsi erogati,
Sul fronte dei controlli sugli studi di settore il piano dell'Agenzia delle
entrate prevede 100mila controlli rispetto ai 52mila del 2006.«È anche
previsto un incremento, da 46 del
Dai dati forniti emerge che i controlli nel settore immobiliare nel 2006 sono
stati 12.453 e hanno accertato un'evasione di 954,7 milioni di euro. Entrando
nel dettaglio le verifiche nel settore delle costruzioni edili lo scorso anno
sono state 9.172 e la maggiore imposta accertata è stata di 702,8
milioni di euro. Nel settore della compravendita e dell'intermediazione
immobiliare i controlli sono stati 3.281 e l'evasione accertata è stata
di 251,8 milioni.
Previsto anche un incremento delle indagini finanziarie, che passeranno dai
1.400 del
A febbraio salgono gli impieghi (+11,6%) ma
cresce meno la raccolta bancaria. Nel giro di un anno nascerà la
federazione tra l'Abi, l'Associazione bancaria italiana, e l'Ania, organismo
che raggruppa le imprese di assicurazione. I rispettivi comitati esecutivi
hanno approvato all'unanimità un documento che prevede l'attivazione di
una serie di sinergie politico-organizzative, con l'obiettivo di arrivare alla
creazione di una federazione, alla luce del crescente grado di integrazione tra
il comparto bancario e quello assicurativo.Tali sinergie, hanno reso noto le
due associazioni, saranno stabilite in un apposito protocollo d'intesa.
è previsto l'avvio di un processo di consultazione reciproca che, nel
rispetto della sfera di intervento di ciascuno, consenta di definire
preventivamente strategie condivise e linee d'azione unitarie su temi di comune
interesse; inoltre, saranno attivate forme di interazione e collaborazione tra
gli organi di governance e le strutture operative. I principali temi di
interesse comune riguardano il piano d'azione per i servizi finanziari,
l'evoluzione degli assetti di vigilanza a livello nazionale ed europeo, la
better regulation, il mercato del lavoro e le relazioni con le organizzazioni
sindacali.Intanto, in febbraio, frena la crescita della raccolta bancaria e
aumentano gli impieghi. Il rapporto mensile dell'Abi precisa che, per la
raccolta, il tasso di incremento tendenziale è stato del 6,4%, mentre in
gennaio era stato del 7% e a febbraio 2006 del 7,9%; a fine febbraio la
raccolta ammontava a 1.169 miliardi di euro. Nell'ultimo anno lo stock è
cresciuto di circa 70,2 miliardi. Gli impieghi totali sono invece ammontati a
1.339 miliardi, con un tasso di crescita tendenziale dell'11,6% che si
raffronta al +11,3% di gennaio e al +8,2% di febbraio 2006. Il flusso netto di
nuovi impieghi è stato di quasi 136 miliardi rispetto a febbraio 2006.
Ieri il ministro dell'economia, Tommaso Padoa-Schioppa, rispondendo a una
domanda sull'attuale assetto proprietario della Banca d'Italia, in particolare
se il governo ritenga di dover aggiornare il ddl sulla riorganizzazione delle
authority all'esame del parlamento, ha affermato: 'Sì, lo abbiamo solo
menzionato. è un problema aperto e complesso. Tutti siamo convinti che
serva un aggiornamento, visto che la configurazione attuale si è molto
allontanata da quella originaria, anche per effetto delle aggregazioni'.
++ Reuters 21-3-2007. Sciopero generale paralizza Israele, chiuso aeroporto Tel Aviv
++ La Repubblica 21-3-2007 Cei, il primo atto di Bagnasco a fine mese discussione sui Dico
+ ISTAT Comunicato. Rilevazione sulle forze di lavoro
+ Finanza e Mercati 21-3-2007 Batosta della Consob
per due importanti società di gestione del risparmio.
[Vai ai testi delle delibere: contro BPM e contro Nextra]
L’Unità 21-3-2007 Il vero attacco alla famiglia?
"Trent'anni per metter su casa" di Oreste Pivetta.
La Stampa 1/3/2007 (7:3) Sede in Olanda e cda inglese
Barclays-Abn prende forma Gianluca Paolucci
La Repubblica 21-3-2007 Quando Lenin disse ai compagni
Usa: "L'America è un grande Paese".
GERUSALEMME (Reuters) - Il potente
sindacato israeliano Histadrut ha indetto oggi uno sciopero generale che ha
portato al blocco dei voli internazionali e alla chiusura dei servizi pubblici,
dopo il fallimento delle trattative con il governo.
Lo sciopero a oltranza è iniziato
alle nove di mattina locali, ma una corte del tribunale del Lavoro si è
già riunita per discutere la richiesta del governo di un intervento
della magistratura per riportare l'ordine e ripristinare i servizi. La radio
israeliana ha detto che il tribunale dovrebbe decidere in poche ore.
L'Histadrut ha comunicato che che lo
sciopero riguarda i servizi pubblici essenziali, come i trasporti pubblici, i
vigili del fuoco, le ferrovie, gli uffici governativi e l'aeroporto
internazionale Ben-Gurion di Tel Aviv, che ha fermato i voli in entrata e
uscita.
Il sindacato sostiene che migliaia di
dipendenti comunali che rappresenta non percepiscono lo stipendio da mesi. Il
governo risponde che la causa del mancato pagamento degli stipendi è da
ricondursi al rifiuto da parte delle autorità locali di aderire ai
programmi per il miglioramento dell'efficienza concordati nel 2004.
Il sindacato aveva programmato lo sciopero
per le sei di mattina, ma l'orario è stato cambiato per cercare di avere
più tempo per trattare con il governo. Le trattative tra l'esecutivo e i
rappresentanti sindacali sono andate avanti per tutta la notte, ma non hanno
portato alla risoluzione della vertenza.
Un consigliere del premier Ehud Olmert
aveva iniziato i negoziati con il leader di Histadrut Ofer eini ieri sera nel
tentativo di evitare la paralisi del paese. Qualche mese fa, un intervento
diretto del primo ministro aveva evitato uno sciopero simile.
© Reuters 2007. Tutti i diritti
assegna a Reuters.
CITTA'
DEL VATICANO - "Si discuterà di una nota
pastorale a riguardo della famiglia fondata sul matrimonio, e delle unioni di
fatto". Così un comunicato, diffuso dall'Ufficio comunicazioni
sociali della Cei, ribadisce quanto già anticipato poche settimane fa
dal cardinale Camillo Ruini: il Consiglio episcopale permenente, convocato a
Roma dal 26 al 29 marzo prossimi, vedrà all'ordine del giorno, tra i
vari argomenti, anche la nota sui Dico. Il Consiglio, il primo sotto la
presidenza di monsignor Angelo Bagnasco, si aprirà con la prolusione
dell'arcivescovo di Genova, scelto lo scorso 7 marzo da Papa Benedetto XVI a
succedere al cardinale Ruini alla guida dell'episcopato.
Ad anticipare i termini della discussione era stata una lettera, scritta da
monsignor Ruini, inviata circa dieci giorni fa a tutte le parrocchie di Roma e
Firenze insieme a una nota del cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, e parte,
di fatto, dell'offensiva del Vaticano contro il ddl sui Dico.
A ribadire i principi era stato lo stesso Bagnasco che, subito dopo
l'insediamento, ereditato da Ruini l'impegno a formulare una nota sui Dico,
aveva sottolineato che per i laici impegnati nel sociale e nella politica
"ci sono dei valori, delle colonne portanti che asseriscono alla persona
umana, dei confini che non sono assolutamente valicabili" perché
ciò significherebbe "andare contro l'uomo e non liberare
l'uomo".
In questo contesto - e dopo la presentazione del documento del Papa
sull'Eucarestia, che avevano colpito l'opinione pubblica soprattutto nel
paragrafo in cui si invitano politici e legislatori cattolici e non approvare
leggi che tocchino valori non negoziabili, come la famiglia fondata sul
matrimonio - erano giunte le parole del cardinale Dionigi Tettamanzi. Una
sollecitazione, di fatto, ad ampliare i margini della discussione: pur
riconoscendo che "i contenuti del Vangelo sono quelli, e sui principi non
si possono fare sconti", l'arcivescovo di Milano aveva osservato che
"anche lo stile è importante, dobbiamo saper parlare alle persone
che sono lontane dalla Chiesa, va fatto uno sforzo".
Parigi (Reuters) - Christophe De Margerie,
amministratore delegato del gruppo petrolifero francese Total è stato
arrestato dalla polizia per essere interrogato nell'ambito di un'inchiesta in
un caso di corruzione in Iran. Lo ha riferito oggi una fonte giudiziaria. Il
gruppo petrolifero ha però smentito che il suo numero uno sia stato
detenuto, ribadendo di avere fiducia che, al termine delle indagini, i magistrati
riconosceranno l'estraneità del gruppo francese ai reati contestati.
"(De Margerie) non è in stato di fermo. Lo stanno interrogando in
relazione a un'inchiesta aperta nel dicembre 2006 sullo sviluppo di un progetto
denominato South Pars in Iran", ha detto un portavoce dell'azienda.
"Total è fiduciosa che le indagini arriveranno a stabilire
l'assenza di qualsiasi attività illegale e spera che saranno condotte
con la massima serenità", si legge in un comunicato diffuso poco dopo
l'intervento del portavoce. Da diversi mesi De Margerie, promosso solo poche
settimane fa alla posizione di ad del gruppo petrolifero, era indagato dai
magistrati francesi per l'accusa di corruzione nel programma iracheno
"petrolio in cambio di cibo" e per un progetto in Iran legato al gas.
"Vorrei sottolineare il fatto che questa è solo un'inchiesta e non
si è ancora arrivati ad alcun risultato finale. Sto aspettando fiducioso
che si raggiunga una conclusione", ha detto De Margerie durante una
conferenza stampa tenuta lo scorso 14 febbraio in occasione della presentazione
dei risultati del 2006 tenuta il giorno dopo la sua nomina ad ad dell'azienda.
Le azioni della Total sono scese nella borsa di Parigi dello 0,3% a 49,69 euro
alle 09.53 ore italiane.
Periodo di riferimento: IV trimestre
2006
Diffuso il: 21 marzo 2007
Prossimo comunicato: 19 giugno 2007
L’Istituto
nazionale di statistica ha condotto, con riferimento al periodo che va dal 2
ottobre al 31 dicembre 2006, la rilevazione continua sulle forze di lavoro.
Nel quarto trimestre 2006 l’offerta di lavoro ha
registrato, rispetto allo stesso periodo del 2005, un incremento pari allo 0,2
per cento (+61.000 unità).
Nel quarto trimestre 2006 il numero di occupati è
risultato pari a 23.018.000 unità con una
crescita su base annua dello 1,5 per cento (+333.000 unità).
Il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni è
aumentato di sette decimi di punto rispetto al quarto trimestre 2005,
portandosi al 58,5 per cento.
Nel quarto trimestre 2006 il numero delle persone in cerca di occupazione è risultato pari a 1.709.000 unità,
in calo rispetto allo stesso periodo del 2005 (-13,7 per cento, pari a -272.000
unità). Il tasso di disoccupazione si è posizio-nato al 6,9 per cento (8,0 per cento nel
quarto trimestre 2005).
In allegato, nell'area download, sono disponibili:
- Il file "Testo integrale" che contiene il testo del comunicato
stampa.
- Il file "Serie storiche" con le serie storiche trimestrali dei
principali indicatori del mercato del lavoro per sesso oltre ai dati sulle
forze di lavoro per condizione, sesso, settore di attività
e ripartizione geografica. I dati sono grezzi e destagionalizzati.
- Il file "Note informative" che contiene una breve nota metodologica
dell'indagine e il glossario.
- Alla voce "Cartogrammi" sono presenti due file:
1."Cartogramma 1" con la partecipazione al mercato del lavoro della
popolazione residente.
2."Cartogramma 2" con le variazioni tendenziali della partecipazione
al mercato del lavoro della popolazione residente.
- Alla voce "Serie storiche regionali" sono presenti due file:
1."PopRegio" con i principali indicatori del mercato del lavoro e i
dati sulla popolazione per condizione professionale e sesso.
2."SetRegio" con gli occupati per settore di attività
economica e posizione nella professione.
- Alla voce "Dati provinciali Anno 2006" è
presente un file con i
principali indicatori del mercato del lavoro e i dati sulla
popolazione per condizione professionale e sesso.
Il file "Serie storiche ripartizionali" che presenta per ogni
ripartizione geografica la popolazione per condizione, sesso e classe di età.
Il file "Stranieri: serie storiche ripartizionali" che contiene per
ogni ripartizione geografica la popolazione straniera per condizione, sesso e
classe di età.
Ulteriori
dati sono disponibili sulla banca dati CONISTAT
M
Secondo quanto reso noto nell'ultimo bollettino
della commissione presieduta da Lamberto Cardia, i vertici della Nextra sgr
dovranno pagare complessivamente 419mila euro per una serie di "violazioni
inerenti l'attività di gestione collettiva". Consiglieri e sindaci
della sgr - che al tempo all'epoca dei fatti contestati apparteneva al gruppo
Banca Intesa, poi passata al Crédit Agricole e ora tornata a Intesa Sanpaolo -
non avrebbero adottato procedure idonee ad assicurare la corretta prestazione
dei servizi. Per ragioni simili, relative però a gestioni mobiliari
collettive e individuali, sono stati multati i vertici di Bipiemme Gestioni
(sgr della Bpm), che dovranno pagare in totale 210mila euro.
Il
gip Forleo deciderà poi se ammettere le 80 intercettazioni
M
«Aspettando sempre la sua rivoluzione impossibile, la sinistra italiana ha
finito per ridursi ai minimi termini, divisa tra un’ala troppo prudente e
un’ala troppo impaziente, lacerata per giunta nell’ultimo ventennio tra
l’annientamento giudiziario del Partito socialista e il tenace rifiuto dei
comunisti di ammettere la propria sconfitta storica e perfino di tentare di
spiegarsela»: per buona parte del Novecento, il cosiddetto secolo breve, la
vicenda politica di Antonio Ghirelli, giornalista e scrittore, si è
svolta tutta all’interno della sinistra italiana. Per questo motivo, l’analisi
spietata ma lucida e veritiera con cui Ghirelli, prima togliattiano poi
socialista convinto (ha lavorato con Pertini al Quirinale e con Craxi a Palazzo
Chigi) conclude la sua ultima fatica saggistica, appunto Aspettando la
rivoluzione (Mondadori, 250 pagine, 18 euro), assume un significato e un valore
ancora maggiori. Ghirelli è una voce di dentro e grazie alla sua
conoscenza di leader e fatti che hanno segnato le storie talora convergenti, più
spesso conflittuali, del Pci e del Psi, ripercorre una traiettoria fatta
sì di conquiste e successi ma in cui alla fine hanno pesato più
le sconfitte e le occasioni mancate. Altrimenti, osserva con amarezza l’ex
direttore del Tg2, oggi l’Italia non sarebbe l’unico grande paese europeo senza
una radicata tradizione socialdemocratica, senza quindi un robusto partito
socialista. Qui è Rodi, e qui bisogna saltare. Anche in vista del futuro
Partito democratico che alla luce del denso excursus storico di Ghirelli
presenta almeno due controindicazioni che dovrebbero far pensare quegli eredi
post-comunisti ansiosi di cambiare definitivamente pelle.
La prima scaturisce da quella che l’autore definisce una vocazione genetica al
compromesso storico tra la vecchia Dc e il vecchio Pci: «Di certo nella cultura
politica e nella condotta tattica delle due grandi formazioni vi sono elementi
comuni: la diffidenza o il disinteresse per i valori laici, l’intolleranza
dogmatica per il dissenso, l’impegno sociale e organizzativo assolto con
serietà e con costanza». Insomma, quanto di più distante
dall’esperienza riformista e socialista, compresa la notazione positiva
sull’impegno organizzativo, considerato che lo stesso Ghirelli non manca di
notare che «la tragedia di fine secolo colpirà i socialisti tanto
più crudelmente quanto più fragile, diviso, disorganizzato
è arrivato il loro partito all’appuntamento con la storica,
indiscutibile vittoria riportata nella sfida con il gigante comunista». Infatti,
scrive ancora Ghirelli, «il forte talento di Craxi, la sua determinazione nel
rifiuto della supremazia berlingueriana, al di là degli errori tattici e
della mortale trappola di Tangentopoli, non hanno raggiunto l’obiettivo
dell’alternativa di sinistra, unica prospettiva seria per garantire la
governabilità del paese, soprattutto perché il partito, uscito dalla
clandestinità e dell’esilio, non si è radicato nella
società italiana come i democristiani e come i comunisti».
A questo punto, si arriva alla seconda controindicazione per l’ala sinistra del
Pd, che allo stesso tempo costituisce la causa della mancata egemonia
gradualista in Italia. E cioè il flop del fusionismo e della sua
variante elettoralistica, il frontismo. Perché, infatti, se da un lato è
vero che nella seconda metà dell’Ottocento ha inizio una storia fatta di
frazionismo e scissioni, prima tra marxisti e anarchici, poi tra massimalisti e
riformisti, infine tra comunisti e socialisti, con quest’ultimi divisi al loro
interno tra fusionisti e autonomisti, è pur vero che dall’altro lato i
tentativi unitari hanno avuto uno scarso appeal. Certo, oggi a voler andare
insieme sono per la gran parte post-comunisti e post-democristiani, mentre
all’epoca, nel fatidico 1948, furono Palmiro Togliatti e Pietro Nenni a fare il
Fronte popolare con la faccia di Garibaldi, ma è curioso notare
un’analogia: ora come allora la somma elettorale dei due partiti fu inferiore
alle attese. Nelle elezioni del 18 aprile, i frontisti arrivarono al 31,1 per
cento (altra coincidenza: più o meno la stessa percentuale del Pd),
quando invece appena due anni prima i socialisti raccolsero il 20,2 per cento
contro il 19,9 del Pci. Non solo. Scrive Ghirelli: «Il 18 aprile è il
giorno del giudizio. La Democrazia cristiana ottiene il 48 per cento dei voti
sfiorando così la maggioranza assoluta, mentre il Fronte democratico
popolare si ferma al 31,1 per cento, cedendo ai centristi il 7,1 della lista
saragattiana di Unità socialista (nel ’47 c’era stata la scissione di
Palazzo Barberini, ndr). La sola consolazione per il Pci è che, grazie
alla sua organizzazione più razionale e allo scontato gioco delle
preferenze, conquista 144 seggi sui 183 toccati al Fronte, diventando di gran
lunga il partito più forte della sinistra». E’ da lì, quindi, che
si ribaltano i rapporti di forza nella sinistra italiana. Anche perché, sino ad
allora, la tradizione riformista di Turati e Matteotti aveva resistito sul
piano dei numeri alla scissione di Livorno del ’21, senza dimenticare, inoltre,
che la decisione di cattolici e liberali di «fiancheggiare o tollerare
Mussolini anziché far causa comune» coi socialisti aveva aperto le porte al
«colpo di Stato più facile del mondo».
Ovviamente, Ghirelli nella sua versione di «cento anni di sinistra» non
dimentica, con padronanza e suggestione, di dare conto delle figure più
belle dell’avventura anarchica, socialista e comunista. In fin dei conti,
è benevolo anche il giudizio su Togliatti, inventore di un comunismo
patriottico che non perse mai la testa nei confronti della farneticazione
rivoluzionaria e che su Stalin si adeguò in nome del realismo
giustificazionista. Ma forse le pagine più belle sono quelle iniziali su
Andrea Costa e la sua profezia sul comunismo autoritario ancor prima del fatale
’17. La polemica è direttamente con Marx: «Nemmeno nel Costa convertito
al socialismo c’è ombra di pentimento o peggio di disprezzo per
l’esperienza anarchica, di cui egli continua a esaltare il valore educativo,
l’interesse sperimentale, l’efficacia propagandistica. (...) e semmai, se non
il disprezzo, l’opposizione più totale continua a concepirla per il
comunismo che forse, se ci sarà la rivoluzione, i lavoratori
conquisteranno: “Ma sarà il comunismo dello Stato, il comunismo
autoritario, quale comunismo tedesco” che egli come gli anarchici ha sempre combattuto».
E centoventi anni dopo queste parole si avverte ancora forte in Italia la
differenza tra chi è stato comunista e chi socialista. Non a caso,
Ghirelli ricorda maliziosamente una frase pronunciata da Massimo D’Alema sul
«blocco psicologico collettivo» che condizionò il Pci dopo la caduta del
Muro nei confronti di una riunificazione col Psi: «Anche noi, quando siamo
entrati nel Pse, abbiamo portato la nostra tradizione gramsciana e comunista,
non esattamente socialista». Un blocco che deve persistere ancora oggi, visto
che adesso la maggioranza dei resti di quel partito nato nel ’21 crede in un
approdo democratico coi cattolici della Margherita e non nella costituzione di
una grande forza socialista.
LE
MINACCE non vengono dai conviventi (che sono pochi) e neppure dalle coppie
omosessuali (che al matrimonio fortemente aspirano). I pericoli, come spiega
Pietro Boffi del centro studi di "Famiglia cristiana", arrivano dalle
pressioni della società (tra casa, lavoro, welfare) e dalla miseria
delle politiche di sostegno "A bbiamo fatto per quattro anni i
fidanzatini. Era tutto più semplice". "Tra i nostri amici
parlare di matrimonio è considerato prematuro. La nostra società
è portata a vedere questo passo più in là nel tempo... Noi
abbiamo ventiquattro anni. Perché dobbiamo aspettare?". "L'aiuto
viene dall'esempio degli altri, a cominciare dai genitori che nel matrimonio
hanno trovato la felicità. Ci sono tantissime coppie che hanno fallito.
Però ce ne sono tante che hanno trovato la felicità".
"I sono scoraggiati... chi te lo fa fare? Si lamentano. Guardano il
matrimonio più dal lato dei doveri che della gioia, i momenti di
pesantezza più che la bellezza dello stare insieme". "Perché
sposarsi? Per costruire qualche cosa di grosso, per condividere ogni cosa,
dalla più bella alla più faticosa". "Il matrimonio dura
per sempre e questa è una cosa che colpisce" "Voglio fare una
famiglia insieme con Paola e questo è il modo più forte per
dirlo, senza se e senza ma". Sono parole ascoltate durante un corso
prematrimoniale. Uno dei tanti (questo in provincia di Milano, in Brianza) che
le parrocchie organizzano: un parroco, una due coppie, mariti e mogli di
vecchia data, che fanno da tutor, i giovani che ascoltano e che cercano di
raccontare i loro pensieri, le loro speranze. Le loro attese. Nella diocesi di
Milano si conta che ogni anno quarantamila giovani, cioè ventimila
coppie, si sottopongano al rito. Il Cisf, cioè il centro internazionale
di studi sulla famiglia, nato a metà degli anni settanta per iniziativa
delle Edizioni Paoline e cioè di Famiglia Cristiana (a promuovere l'idea
fu uno dei direttori, don Giuseppe Zilli, alla cui memoria è dedicata la
Fondazione che "governa" il centro) tra le tante sue indagini, ne ha
promossa una anche sui "corsi prematrimoniali". "Ventimila
coppie - commenta Pietro Boffi, uno dei ricercatori - sono ancora tante.
Ancora, perché il trend vede in progresso i matrimoni civili, che in tutta
Italia sono saliti tra il 1981 e il 2003 dal 12,7 al 28,5 e a Milano un paio di
anni fa s'arrivò addirittura il sorpasso: più i civili dei
religiosi. Anche se tra i primi si sarebbero dovuti contare seconde nozze e
matrimoni tra stranieri. Quindi, se questa è la tendenza, ventimila
coppie sono una presenza rilevante e l'esperienza ha davvero il carattere
dell'unicità". "Si avvicinano all'appuntamento in parrocchia -
continua Boffi - con grande diffidenza, con molti pregiudizi Lo chiede di
più la ragazza in genere. E naturalmente per obbligo, dopo aver scelto
il matrimonio religioso, perché questo è il percorso previsto. In genere
ne escono contenti: hanno imparato qualcosa, hanno imparato a guardarsi in
faccia, a comunicare... Capita qualche vecchio parroco che racconta castronerie
immense, ma il messaggio non è mai troppo confessionale, è un
messaggio che dice della vita, nel senso dell'aprirsi alla vita... Molti di
quei giovani già convivono, molti sono cattolici come lo siamo tutti in
Italia ma senza particolare tensione spirituale, nel solco di un ricordo
più che di una pratica quotidiana. L'incontro prematrimoniale serve a
ritrovare o a ridestare un sentimento". Se la fede è appannata,
perché il matrimonio religioso? "Perché se ne intuisce la completezza,
naturalmente dal punto di vista di chi crede, o solo perché così indica
la tradizione e perché si sente il valore della cerimonia pubblica, dell'abito
bianco, della festa condivisa. Il matrimonio è un rito di passaggio. La
debolezza di questa società sta anche nell'esaurimento dei riti di
passaggio: il matrimonio, la cresima come il servizio militare. Gli atti con i
quali si cresce, assumendosi responsabilità. Siamo davanti a un
continuum, senza stacchi...". Anche questo però indica quanto la famiglia
cambi... "Sì e sarebbe sbagliato pensare che il cambiamento della
famiglia sia solo di questi anni. Sarebbe antistorico rimpiangere la
"famiglia di una volta", che non è mai esistita, perché
l'evoluzione è incessante. Persino la sua fragilità non è nuova,
solo che una volta a spezzarla erano le malattie, la guerra, l'emigrazione, ora
le cause della sua mortalità sono diverse. Ma come avrebbe reagito la
"famiglia di una volta" alle pressioni della società d'oggi?
La famiglia cambia pelle. Essere apocalittici non serve...". Lo dice anche
riferendosi al gran discutere di pacs e di dico, di coppie conviventi e di
coppie omosessuali? "Francamente credo che non si sia mai creata tanta
confusione. Ad esempio a proposito di coppie di fatto. Cerchiamo di dare una
dimensione al problema. Cominciamo con lo spiegare che non sono poi molte:
erano 227 mila nel 1993, erano 564 mila nel 2003, dall'1,6 per cento al 3,9 per
cento. Poi si scopre che trecentomila sono coppie di conviventi con precedenti
esperienze matrimoniali, solo 264 mila rappresentano libere unioni di celibi e
nubili. Di queste, secondo i dati dell'Istat, la metà nasce con la
prospettiva del matrimonio, un'altra parte al matrimonio ci pensa e non ci
pensa, solo il due per cento esclude categoricamente il matrimonio. Il due per
cento di 264 mila. Sono numeri che dovrebbero raffreddare le tensioni. Invece
qualche pensiero in più dovrebbe muoverlo la constatazione della
fragilità dell'istituito matrimoniale: sempre tra il 1981 e il 2003 le separazioni
sono salite da trentamila a ottantamila, i divorzi da dodicimila a
quarantamila. Fare somme non si può: i divorzi stanno già dentro
le separazioni. Dopo il divorzio ci si risposa poco e si risposano di
più gli uomini, per motivi pratici di conduzione della casa. Ma le
famiglie ricostituite, coniugate o non coniugate, non aumentano in percentuale.
Così crescono di numero le famiglie monogenitoriali... Perché? Forse per
considerazioni di natura economica. Non per la pensione, perché ci si separa da
giovani. Ma io credo soprattutto perché la rottura di un matrimonio è
ancora un trauma: il legame resta forte, non è stato un passo compiuto
così, alla garibaldina, perché in certi ambienti si ha quasi vergogna a
confessare il proprio stato, si ha paura di dirlo, i sensi di colpa
paralizzano. Aggiungerei un altro motivo: lo stretto rapporto che si mantiene
con la famiglia di origine, che si misura anche nei pochi metri di un
pianerottolo che separano un appartamento dall'altro". La lontananza si
misura attraverso l'indice di prossimità: quello italiano dice che
l'ottanta per cento resta dentro un cerchio che ha un raggio di cinque
chilometri e il centro in una delle due famiglie di origine, talvolta i cinque
chilometri sono addirittura la stessa casa e comunque il settanta per cento
delle nuove coppie ha contatti quotidiani con i genitori... Quando finalmente
si esce dalla famiglia, dunque si resta vicinissimi... "Anche per un
vantaggio banale: consentire lo scambio dei servizi. La famiglia è il
welfare all'italiana. Ovvero sulla famiglia si gioca a scaricabarile, per un
welfare che non c'è e che la famiglia deve inventarsi. I giovani restano
fino a tardi in famiglia, perché in famiglia trovano tutto, dalla protezione
agli abiti stirati, senza rischiare nulla. Tutto diverso rispetto all'Europa:
lì bastano vent'anni per mettere su casa, qui ce ne vogliono
trentaquattro. Attenzione: con una conseguenza anche per quanto riguarda la
natalità, la bassa natalità italiana, perchè sposandosi
tardi ovviamente si ha davanti a sè meno tempo per fare figli. Nasce
così la questione demografica del nostro paese, che nel giro di alcuni
decenni assomiglierà a una grossa pancia rotonda di settantenni poggiata
sulle esilissime gambe di pochi giovani. Sempre che l'immigrazione si
mantenga...". Già lo è una "pancia": tanti vecchi,
tanti vecchi nella solitudine... "Aumentano le persone che vivono da sole:
due milioni in più nel giro di quindici anni, da tre milioni e
ottocentomila nel
I
tempi biblici di pagamento della difesa d'ufficio e del patrocinio dei non
abbienti e' l'oggetto di una interrogazione a risposta scritta dell'on. Tommaso
Pellegrino, segretario della Commissione antimafia, al ministro della Giustizia
Clemente Mastella.
Gli
avvocati difensori sono spesso nominati dai tribunali in ottemperanza
all'impegno stabilito dalla Carta Costituzionale di assicurare ai non abbienti
"i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione» (articolo
24, comma 3° Cost.)". "Nella realtà dei tribunali, sia in sede
penale che (da pochi anni) in ambito civile - sottolinea Pellegrino - si
assiste ad un largo uso dell'istituto del patrocinio a spese dei non abbienti.
Ciò è dovuto a problemi congiunturali di natura economica, specie
nelle regioni del meridione d'Italia" ma anche al nord, dando fra l'altro
ai giovani avvocati l'occasione di fare esperienza concreta nei processi ed
ottenendo anche i primi guadagni mediante la liquidazione degli onorari da
parte dello Stato".
Ma
per ciò che attiene al settore penale - denuncia Pellegrino - i
pagamenti tardano fino ad un anno e mezzo, a partire dall'estate del 2006,
quando si è avuta una prima paralisi dei pagamenti a causa di alcuni
risvolti della legge Bersani e della sospensione della convenzione tra lo Stato
e l'ente Poste Italiane, da sempre il soggetto cui era materialmente devoluto
il pagamento delle liquidazioni mediante mandati di pagamento o accrediti postali.
Dopo una serie di incertezze, il nuovo soggetto delegato al pagamento delle
liquidazioni divenne la Banca d'Italia.
Tuttavia,
i pagamenti erano sostanzialmente sospesi fino alla fine dell'anno 2006 poiché il
servizio doveva essere attivato. Inoltre, dovevano essere riassegnate le
deleghe agli uffici preposti dal Ministero della Giustizia per i pagamenti
derivanti dal patrocinio a spese dello Stato e dalla difesa d'ufficio. Nel mese
di gennaio 2007, il meccanismo sembrava essersi riattivato, in quanto sembrava
giunta una risoluzione della questione. Tuttavia, nel mese di febbraio si
sarebbe appreso, afferma Pellegrino nella sua interrogazione "in via del
tutto ufficiosa, che i pagamenti dell'ufficio modello 12 del Tribunale di
Napoli erano stati sospesi in attesa «della nomina dei funzionari delegati
presso i Tribunali ordinari e le Procure della Repubblica» all'accreditamento
delle spese da liquidare, tra gli altri, anche agli avvocati".
Tali
situazioni "hanno interrotto il meccanismo che consentiva rapidamente il
pagamento delle liquidazioni agli avvocati che svolgono un ruolo fondamentale
all'interno dell'ordinamento giuridico dello Stato, così comprimendo e
pregiudicando il diritto di difesa dei cittadini e delle persone deboli e non
abbienti; questa situazione preoccupa molti giovani avvocati, che si sono presi
l'onere e la responsabilità di difendere persone che, altrimenti,
resterebbero senza una adeguata difesa nel processo penale". Pellegrino
cchiede quindi al guardasigilli se intenda verificare la situazione e - ove
confermata - se ritenga opportuno disporre quanto necessario alla risoluzione,
consentendo in tempi rapidi, il pagamento delle liquidazioni agli avvocati, in
maniera stabile e sicura.
Anche
la Giunta della Camera Penale di Napoli ha deciso di denunciare la vicenda al
fine di sollecitare il Ministero a voler riprendere i pagamenti sbloccando
così la situazione. In generale, l'Unione Camere Penali italiane la
Giunta ha recentemente chiesto a tutte le Camere Penali territoriali di
riferire sui relativi tempi di pagamento, e il quadro emerso "consente di
dire che la situazione è, più che grave, assolutamente
inaccettabile".
Percio'
l'UCPI appoggia la richiesta di Pellegrino, facendo notare che nel 2001 sono
stati introdotti a livello normativo "due principi cardine tendenti al
conseguimento di un duplice obiettivo: difesa d’ufficio effettiva e retribuita.
Per conseguire l’obiettivo della effettività occorre una difesa sempre
più specializzata. La specializzazione, meramente elettiva in caso di
scelta fiduciaria, dovrà costituire l’obbligo in ogni caso in cui sia lo
Stato a fornire un difensore a chi ne ha necessità nel processo
penale". Secondo i penalisti, "Non esiste una effettiva difesa a fronte
di una mancata retribuzione".
I
penalisti ricorderanno il tema da domani 21 marzo nelle tre giornate di
astensione gia' previste su diversi altri punti critici.
Almeno
sulla carta, considerando il costo dei prestiti che le banche europee concedono
alle società edili iberiche, con finanziamenti cinque volte più
cari rispetto a quelli concessi ai colleghi a stelle e strisce. È il
caso, per esempio, del gruppo Martinsa, guidato dall'ex presidente del Real
Madrid Calcio Fernando Martin, che versa interessi maggiorati del 2,5% rispetto
al tasso interbancario europeo. Senza contare che anche i proprietari di case
potrebbero essere più vulnerabili di quelli americani, in quanto il 98%
dei finanziamenti in Spagna sono a tassa variabile, mentre negli States il
tasso fisso gode di un maggior successo. Questo mix sta avendo serie
ripercussioni sul mercato spagnolo della seconda casa, da sempre considerato
uno dei termometri dello stato di salute del real estate europeo. "Quando
le vendite rallentano, le prime a soffrire sono le case di vacanza, poi tocca
alle prime case", spiega Dani Alvarez, un passato da responsabile per le
vendite internazionali presso il broker immobiliare Don Piso. I segni non sono
del resto incoraggianti. Re/Max International, secondo maggiore intermediario
statunitense, due mesi fa ha ridotto il valore di oltre 5mila abitazioni
spagnole. Con ribassi anche del 26 per cento. Mentre, secondo RR de Acuna &
Associates di Madrid, le agenzie immobiliari della Spagna quest'anno
taglieranno del 10% i prezzi delle case di vacanza, in quello che viene
considerato il mercato della casa più dinamico del decennio, con valori
medi pressoché raddoppiati negli ultimi sei anni. Gli operatori ora fanno gli
scongiuri. Il rischio è infatti che la frenata spagnola possa avere
ripercussioni psicologiche in tutto il Vecchio Continente. (riproduzione
riservata Bloomberg).
"Colpevoli
anche i leader che accompagnarono il presidente Usa" MADRID - Processare
Aznar? L'idea di portare l'ex premier spagnolo davanti alla Corte Penale
Internazionale parte dal supergiudice Baltasar GarzÓn, spauracchio dei tiranni
di tutto il mondo, ed è subito raccolta e appoggiata dal coordinatore
del Psoe José Blanco e dal leader di Izquierda Unida Gaspar Llamazares. A
quattro anni dall'invasione dell'Iraq - e proprio mentre Aznar, in una
conferenza a Sydney, difende l'intervento armato per deporre Saddam Hussein -
GarzÓn celebra la ricorrenza con un articolo su El PaÍs, titolato semplicemente
"Anniversario", in cui prospetta per la prima volta l'esigenza di
avviare un giudizio contro i responsabili di un conflitto che ha fatto 650mila
vittime. Una guerra voluta dall'amministrazione Usa ma, sostiene il magistrato,
"l'azione di coloro che accompagnarono il presidente degli Stati Uniti ha
altrettanta, o maggiore, responsabilità di questi, perché nonostante i
dubbi e pur avendo un'informazione parziale, si misero nelle mani
dell'aggressore per consumare un'ignobile azione di morte e distruzione".
Una riflessione che, probabilmente, tiene conto dell'oggettiva
difficoltà a far sedere sul banco degli imputati George W. Bush,
portando in primo piano le responsabilità di José MarÍa Aznar e del
premier britannico Tony Blair. L'analisi di GarzÓn ha tutto il sapore di un
preannuncio di una possibile azione legale. "Credo che sia arrivato il
momento di fare una riflessione seria sull'eventuale responsabilità
penale di coloro che sono o furono responsabili di questa guerra e se esistono
indizi sufficienti per metterli di fronte alle loro
responsabilità". Il giudice della Audiencia Nacional sembra molto
determinato: "Seicentocinquantamila morti sono un argomento sufficiente
perché questa investigazione o indagine si affronti senza ulteriori
rinvii". (a. o.).
- I RIFLESSI ITALIANI: CAPITALIA SOTTO
PRESSIONE, OCCHI SU MPS
Avviati i colloqui sulla fusione con le
autorità di controllo
Sede ad Amsterdam, quotazione principale a
Londra, presidente scelto dagli olandesi e Ad nominato dai londinesi. Ad appena
24 ore dalla conferma delle trattative procedono speditamente i colloqui per la
fusione tra Barclays e Abn Amro. Ieri, con un nuovo comunicato, la banca
londinese ha chiarito le linee guida delle trattative tra i due gruppi, pur
precisando che i contatti sono in una fase «preliminare e esplorativa» e che
non c’è certezza che possano condurre ad un accordo in qualunque forma.
Intanto però sono stati avviati i colloqui anche con le autorità
di controllo inglesi e olandesi volti a determinare l’autorità della
Banca centrale olandese come «regolatore principale» per la maxibanca che
nascerebbe dalla fusione. Per quanto riguarda la governance, il Board
avrà una struttura unitaria secondo la normativa britannica e una
«chiara» governance e struttura manageriale.
La Borsa comunque continua a scommetterci. E ieri gli acquisti hanno premiato
anche Barclays, cresciuta del 3,67% a Londra. Abn Amro, dopo il boom di ieri,
è invece cresciuta del 3,5%.
I riflessi della fusione che potrebbe veder nascere il quinto gruppo bancario
mondiale continuano a farsi sentire anche in Italia. Capitalia, dove Abn
è primo azionista e membro del patto di sindacato, è stato anche
ieri sotto i riflettori a piazza Affari. E dopo aver segnato un progresso
superiore ai 3,5 punti percentuali ha chiuso in territorio positivo - unico tra
i bancari - con un progresso dello 0,6% e il 2,8% del capitale passato di mano.
Proprio i riflessi della fusione anglo-olandese su via Minghetti hanno tenuto
banco ieri tra le speculazioni del mercato. Speculazioni rinvigorite anche da
un commento del Financial Times, secondo il quale con l’uscita di scena di «Mr
Groenink», che finora ha sostenuto il presidente Cesare Geronzi, cambia lo
scenario anche in via Minghetti con Barclays che adotterebbe, nell’ipotesi
migliore, una prospettiva «neutrale».
In ambienti finanziari milanesi, si rilevava ieri che la fusione «inglese»
taglierebbe comunque fuori Capitalia. Mentre nell’ipotesi che a lanciare un’opa
fosse stato il Santander, ipotesi pur circolata con insistenza nei mesi scorsi,
Geronzi avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo autonomo e solo italiano. In questa
chiave, ricordano oggi le fonti interpellate, l’ingresso dell’istituto spagnolo
nel capitale di via Minghetti, andava «inserito in una prospettiva più
ampia» (le mire spagnole su Abn) che adesso viene meno.
In realtà, ad incendiare le quotazioni di Abn Amro tra ieri e
lunedì ha contribuito anche l’attesa del mercato per un possibile
rilancio sulla banca della Regina d’Olanda, con una serie di istituti tra i
quali lo stesso Santander tra gli indiziati. Deboli gli istituti bancari
indicati negli scorsi mesi come possibili partner di Capitalia e principali
indiziati in vista di eventuali manovre difensive: Unicredit ha ceduto lo 0,09%
a 6,81 euro, Mps ha perso lo 0,63% a 4,72. In lieve rialzo invece Mediobanca,
in attesa dei conti Generali usciti a mercati chiusi. Singolare in questa vicenda
il silenzio del versante senese dopo l’annuncio del mandato esplorativo
assegnato dalla Fondazione Mps a Jp Morgan per valutare le opportunità
di crescita della banca. Mandato assengato a pochi giorni di distanza dalla
notizia della scelta del partner assicurativo, individuato nei francesi di Axa,
che avrebbe dovuto chiudere almeno per qualche mese ogni speculazione sulle
aggregazioni. Di certo, al di là dei rumors di borsa, c’è
«l’inconciliabilità», rilevata da più parti, tra i Ds toscani e
Geronzi. Altrettanto certo è però l’avvicinamento dei mesi scorsi
tra il presidente di Mps, Giuseppe Mussari, e il suo omologo romano. Avvenuto
grazie ai buoni uffici del vicepresidente della banca senese Francesco Gaetano
Caltagirone.
IL
TESTAMENTO di Joe Hill, cantautore, organizzatore del movimento operaio ed eroe
folk, è comparso insieme ad alcuni inimmaginabili preziosi documenti
storici in una vasta raccolta di carte e fotografie mai mostrate in pubblico
che il partito comunista statunitense ha donato all'Università di New
York.
Nella raccolta di cui finora non si sapeva nulla sono custoditi decenni interi
della storia del partito: parole in codice, pile di lettere personali,
direttive fatte pervenire di nascosto da Mosca, spillette con il volto di
Lenin, fotografie e inflessibili ordini su come dovevano comportarsi i membri
del partito (per esempio non dovevano fare la carità per non distrarsi
dai loro doveri rivoluzionari). Il lascito donato all'università
comprende ventimila tra libri, giornali e opuscoli, e un milione di fotografie
provenienti dagli archivi di The Daily Worker's.
"Si tratta di una delle opportunità più entusiasmanti alla
quale una raccolta abbia mai dato vita" ha detto Michael Nash, direttore
della New York University's Tamiment Library, che venerdì prossimo
annuncerà ufficialmente la donazione. Nessuno sa ancora con precisione
se tali carte saranno effettivamente in grado di dissolvere o risolvere le
dispute che da più lungo tempo riguardano i rapporti tra i sovversivi
americani e Mosca, in quanto come ha detto Nash, "occorreranno anni per
catalogare tutto il materiale".
C. E. Ruthenberg, il segretario del partito nel 1919, sottolinea "il modo
segreto col quale è gestito il partito". Il ramo di Los Angeles,
noto con il nome in codice di "XO1XO5", a un certo punto utilizza la
parola d'ordine "Kur. heiny" che significa "state facendo
progressi?" e la risposta è "Teip", che significa
"sì". Egli copia una lettera firmata dai russi Nikolai
Bukharin e Ian Berzin che dice essere stata nascosta nella fodera del cappotto
di un bolscevico, nella quale si spiega in che modo debbano agire gli
americani. I due ordinano al partito di incitare i soldati e i marinai a
ribellarsi contro gli ufficiali e ad armare gli operai. Li mettono in guardia
dal permettere ai membri di partito di impegnarsi in attività filantropiche
o educative, sostenendo che essi formano di fatto delle "Organizzazioni di
combattenti per prendere il controllo dello Stato, per rovesciare il governo e
l'establishment dei tiranni degli operai".
Di Robert Minor, un vignettista radicale che ha coperto la guerra
civile russa, c'è un resoconto lucido e lirico datato 1918 di
un'intervista a Vladimir Lenin effettuata a Mosca. Lenin era affascinato
dall'America, la chiamava "un grande Paese, per alcuni aspetti" e
poneva una domanda dopo l'altra a Minor: "Mi ha chiesto: "Quanto
impiegherà la rivoluzione ad arrivare in America?". Non mi ha
chiesto se sarebbe arrivata, ma quando". Minor, che non era ancora entrato
nel partito, rimase affascinato da Lenin. "Quando egli tuona un suo dogma,
si vede davvero il Lenin combattente. E di ferro. E un Calvino politico"
scrive Minor nei suoi appunti scritti a macchina. "Ma Calvino ha un'altra
faccia. Durante tutta la conversazione che abbiamo avuto ha sempre tenuto la
sua sedia agganciata alla mia. Mi sono sentito stranamente invaso dalla sua
personalità. Riempiva tutta la stanza".
Lasciando il Cremlino, Minor notò due uomini che stavano arrivando a
bordo di due limousine. "Fino a pochi mesi fa erano "tirapiedi
assetati del sangue del capitale rapace", mentre adesso sono "commissari
del popolo" e vanno in giro in splendide automobili come prima e vivono in
lussuose dimore. Governano sotto bandiere rosse di seta, per proteggersi da
ogni disordine. Hanno imparato che la rosa ha un profumo altrettanto dolce,
anche se ha un altro nome".
Copyright New York Times
(Traduzione di Anna Bissanti)
ROMA
Un nuovo ceppo di batteri mangiapetrolio, in grado cioè di nutrirsi dei
componenti del petrolio, degradandoli, è stato isolato da alcuni
ricercatori di diverse università cinesi, che ne hanno sequenziato il
Dna. Il batterio, descritto sulla rivista Proceedings of the National Academy
of Science (PNAS), per il momento ha soltanto una sigla, NG80-2, ed è il
dei microrganismi mangiapetrolio finora scoperti in grado di crescere
direttamente nel petrolio.
Secondo lo studio, condotto da un gruppo di centri di ricerca di Tlanjin, il
nuovo ceppo di batteri mangiapetrolio in futuro potrebbe avere diversi impieghi
in campo ambientale.
La caratteristica principale del batterio è di riuscire a degradare gli
alcani a catena lunga, cioè le lunghe molecole a base di carbonio che
sono i principali componenti del petrolio. Queste catene vengono trasformate in
molecole più piccole che poi l’NG80-2 utilizza come cibo.
Il microorganismo è stato isolato in un grande deposito di petrolio nel
Nord della Cina e ha mostrato di essere in grado di crescere anche a
temperature molto alte, comprese fra 45 e 73 gradi, utilizzando come unica
fonte di carbonio proprio gli alcani. Il primo passo della degradazione
è stato replicato in vitro dagli scienziati cinesi, e consiste nella
trasformazione delle lunghe catene di carbonio negli alcoli corrispondenti.
Secondo gli autori della ricerca, la mappatura del corredo genetico del
batterio ha permesso di comprenderne il funzionamento, basato su enzimi in
grado di sfruttare al meglio i composti organici. Ora i ricercatori testeranno
l’NG80-
++ La Repubblica GodTube, i video in nome di Dio
YouTube cristianamente corretto. Di Valerio Maccari
++ ANSA 20-3-2007 Coppola, sequestrati 91 milioni in
titoli
+ Il Tirreno 20-3-2007 Prato La lotta
all'illegalità si impara a scuola. Melania Mannelli.
Da ANSA
20-3-2007. Vicenda Mastrogiacomo. Arrestato il mediatore
Da Aprileonline.info 19-3-2007
Pd, c'è posto per tutti. O quasi Luca Sofri,
Un
servizio Web 2.0 di video-sharing per l'evangelizzazione degli internauti
E fra gli altri siti christian oriented spunta anche una wikipedia
creazionista
VI
PIACE YouTube ma lo ritenete immorale? Credete che la condivisione di video sul
web possa essere utilizzata per scopi più alti del semplice
"entertainment"? Per voi esiste un alternativa: GodTube, ovvero il
videosharing ispirato ai principi cristiani. Il suo motto è
"broadcast Him", e l'obiettivo è quello di "usare le
tecnologie del web per connettere i cristiani e incoraggiare la diffusione del
vangelo".
Non è la prima volta che succede. Si potrebbe dire, anzi, che
l'introduzione del Web
GodTube, adesso, segna l'evoluzione del web christian-oriented ai contenuti
multimediali. I video presenti sul sito sono per ora circa un migliaio. I
più gettonati sono parodie cristiane di canzoni e pubblicità e
reportage sul radicalismo islamico. Presi di mira soprattutto i famosi spot
"Get A Mac" della Apple, che vengono corretti in chiave religiosa.
Ovviamente, protagonisti dello spot non sono più un Pc e un Mac, ma un
cristiano e un rigido ateo.
La maggior parte dei video,
però, è molto seria. Cercando su GodTube si trovano soprattutto
dimostrazioni dell'esistenza di Dio e dell'inerranza delle posizioni
scientifiche cristiane. Non mancano filmati inquietanti: in una serie didattica,
un giovane predicatore spiega i misteri della fede. Ma per tutelare la propria
privacy, nel video si presenta incappucciato. E l'effetto non è
rassicurante.
Qualche video, inevitabilmente, ha suscitato polemiche. "Inside a
mosque", ad esempio, dovrebbe essere un documentario su quello che accade
dentro una moschea di Londra. Ma sono stati sollevati parecchi dubbi da parte
degli utenti sulla veridicità del filmato, nel quale si vede un imam
esortare i fedeli ad uccidere i cristiani. "Se fosse vero - si legge nei
commenti - sarebbe sulle prime pagine di tutti i giornali. Ma è
chiaramente doppiato. E anche male". Un altro utente si lamenta
dell'orientamento generale del sito. "Dovreste chiamarlo JesusTube -
scrive -. Sarebbe più chiaro a quale Dio fate riferimento"
I responsabili di GodTube, però, si chiamano fuori dalle polemiche. I
video sono tutti rigorosamente mandati dagli utenti, e sono sempre gli utenti a
stabilire - tramite un sistema di votazione - se il contenuto è
appropriato o no. E comunque era difficile che non arrivassero le critiche.
Tenendo presente che vengono discussi argomenti come l'immoralità
dell'omosessualità, l'aborto e il creazionismo.
Ne "L'ateo e la banana", che è anche il video più visto
in assoluto, viene dimostrato il disegno intelligente della natura. Dio,
sostengono, ha creato la frutta per essere mangiata dall'uomo, e la banana ne
è la prova. Sta perfettamente nel palmo di una mano, è di facile
apertura, e possiede anche un sistema di colori per stabilire se è commestibile:
verde (troppo presto), gialla (ok), nera (troppo tardi).
Vanno forte, ovviamente, anche i documentari ispirati alla
Bibbia. Centinaia di fedeli, muniti solo della loro webcam, ripercorrono e
reinterpretano le gesta degli eroi delle sacre scritture. Un fenomeno di dimensioni
tali da spingere GodTube a lanciare un concorso. L'autore del documentario
biblico migliore vincerà un viaggio. In Palestina, ovviamente.
(20 marzo 2007)
ROMA
- I militari del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza hanno effettuato un
sequestro preventivo di titoli - Mediobanca e Ipi - a Danilo Coppola per 91
milioni di euro. Circa 80 milioni sono in titoli Ipi, mentre 11 milioni di euro
in titoli Mediobanca.
L'iniziativa e' dei pubblici ministeri Rodolfo Sabelli, Giuseppe Cascini e
Lucia Lotti, titolari dell'inchiesta sul crac da 130 milioni di euro per il
quale furono emesse ordinanze di custodia cautelare nei confronti dello stesso
Coppola e di altre sette persone.
RESTA
IN CARCERE COMMERCIALISTA CANDELORO
Il Tribunale del Riesame di Roma, presieduto da Giuseppe D'Arma, ha respinto la
richiesta di scarcerazione di Daniela Candeloro, commercialista del gruppo che
fa capo a Danilo Coppola, arrestata il primo marzo scorso insieme con lo stesso
immobiliarista romano ed altre cinque persone nell'ambito dell'inchiesta della
procura di Roma su un crac da 130 milioni di euro.
Candeloro e' accusata di associazione per delinquere finalizzata alla
bancarotta.
Per i pm Giuseppe Cascini, Rodolfo Sabelli e Lucia Lotti, che indagano sul
gruppo che fa capo a Danilo Coppola, Daniela Candeloro avrebbe avuto un ruolo
fondamentale nell'attivita' dell'immobiliarista romano comparendo al posto di
quest'ultimo in numerose attivita' finanziarie. Circostanze, queste, comunque
sempre smentite dalla donna che rivendica, tra l'altro, un ruolo marginale
nella vicenda ed un'interruzione dei rapporti con l'immobiliarista dal 2005.
Per la commercialista, il suo legale, Giuseppe Marazzita, aveva chiesto ai giudici
del riesame la revoca della custodia cautelare o, in via subordinata, la
concessione degli arresti domiciliari. Nei prossimi giorni Danilo Coppola,
l'unico degli indagati a non aver ancora fatto ricorso al tribunale del
riesame, potrebbe decidere, per tramite dei suoi legali Fabio Lattanzi, Bruno
Assumma e Francesco Verri, di rivolgersi ai giudici competenti sulla
legittimita' della misura restrittiva emessa nei suoi confronti.
INDAGATO
PER AGGIOTAGGIO GIOVANNI ACAMPORA
L'avvocato Giovanni Acampora e' indagato per l'ipotesi di reato di aggiotaggio
dalla procura della Repubblica di Roma, nell'ambito dell'inchiesta sul gruppo
che fa capo all'immobiliarista Danilo Coppola. Acampora e' stato coinvolto in
passato nelle inchieste della procura di Milano su Imi-Sir e Lodo Mondadori.
Perquisizioni dei militari del Nucleo valutario della Guardia di Finanza sono
in corso nei locali nella disponibilita' di Acampora, che avrebbe avuto un
ruolo nella gestione di un fondo Lussemburghese nella disponibilita' di
Coppola. La Finanza, su disposizione dei pm Giuseppe Cascini, Rodolfo Sabelli e
Lucia Lotti, ha sequestrato 80 milioni di euro (in titoli Mediobanca e Ipi)
all'immobiliarista che, secondo l'accusa, sarebbero provento illecito della
speculazione sul titolo della societa' Ipi. Nei confronti di Giovanni Acampora,
il 23 febbraio scorso, la Corte di Appello di Milano aveva confermato la
condanna ad un anno e sei mesi di reclusione per la vicenda del Lodo Mondadori.
Aria peggiore, scarsa visibilità, danni all'ecosistema: così le megacities condizionano l'intero ambiente
Città
senza pioggia e megalopoli assetate per overdose di inquinamento. E’ una delle conseguenze di un fenomeno
che sta allarmando i climatologi. In particolare, ad agire direttamente saranno
le polveri sottili, sempre più presenti nelle città, e sempre
più temibili: condensando intorno a sé gocce di pioggia troppo «leggere»
per cadere a terra, porteranno nel giro di mezzo secolo a una quasi totale
inibizione della pioggia, che si concentrerà in pochi e violenti episodi
all’anno. Due studi recenti, il primo di Mario e Luisa Molina del Mit di
Cambridge (Usa), il secondo di un gruppo di ricercatori del Max Planck Institut
(Germania) e dell’Indian Institute of Technology, hanno confermato che
l’inquinamento prodotto dalle megacities contribuisce in maniera significativa
ai cambiamenti climatici in atto e hanno quindi un impatto globale: da Tokyo al
centro Europa — ossia lungo il tipico percorso che va dall’Asia all’ovest degli
Stati Uniti e di lì al Vecchio continente —vengono trasportati polveri
sottili e gas precursori di importanti inquinanti come l’ozono (proprio al
trasporto, tra l’altro, si deve quasi il 50% dei casi di inquinamento da ozono
in Europa). Ma c’è chi si sta attrezzando: è il caso di Londra,
che ha creato un’Agenzia per il clima che ha già prodotto buoni
risultati, contribuendo al calo dell’anidride carbonica da traffico. Potrebbe
essere un buon esempio per tutti. Oggi il 48% della popolazione mondiale (6
miliardi e 100 milioni) vive in agglomerati urbani: nel 2.030, su un totale di
8,1 miliardi, la quota sarà di 4,9 miliardi.
Crescerà
dunque anche il numero delle megalopoli (e le dimensioni delle stesse), secondo
una tendenza che ha portato la loro presenza da una nel 1950 (New York, con
12,3 milioni di abitanti), alle cinque del 1975, alle 20 di oggi. Megacity va
considerata anche l’area urbana della Valpadana, che sull’asse Torino- Milano
può contare circa 6 milioni di abitanti, non a caso (come dimostra anche
la tabella che pubblichiamo), risulta una delle zone più inquinate del
mondo. Ma quali sono, del dettaglio, le conseguenze di questa situazione?
Molina&Molina non hanno dubbi: «Non si parla più di clima locale ma
di effetti globali sul clima. Effetti sulla salute, innanzitutto. Le medie
mondiali parlano di un aumento del tasso di mortalità giornaliera dello
0,6% (con una punta dell’1% a Città delMessico) per un aumento di 10
microgrammi per metro cubo nel carico di particolato. Poi, la diminuzione della
visibilità anche del 50%, per l’effetto combinato di nebbie (è il
caso della Valle del Po) e presenza di particelle di Pm 2,5. Infine, i danni
all’ecosistema, con le piogge acide che si originano dagli ossidi di azoto e da
quelli di zolfo. Questo significa acidificazione di terreni, fiumi e laghi, che
comporta come prima conseguenza una riduzione della produttività
agricola: nell’Europa centrale, per esempio, è stata del 30 per cento».
Secondo i ricercatori, le emissioni delle megacities incideranno sempre
più pesantemente sul riscaldamento globale: anche se occupano appena lo
0,2% della superficie della Terra, le megalopoli già oggi producono
l’80% dei gas serra. Viverci, in un prossimo futuro, sarà sempre
più una corsa ad ostacoli: pioverà meno, si respirerà
malissimo e si morirà (maggiormente) di inquinamento.
20
marzo 2007
I suoi primi cinquant'anni
Basterebbe ricordare che da 62 anni in Europa
non ci si ammazza e farla finita qui. Troppo facile, la pace non pare essere
sufficiente. I cinquant’anni dell’Ue, che si celebrano per tutta la settimana e
che avranno la loro glorificazione domenica con la Dichiarazione di
Berlino, raccontano passi avanti e disfatte, intuizioni e cecità,
progressi e arretramenti.
Ecco i principali. Poi ognuno si faccia la sua idea.
Euratom, svanita. Introdotta già dal 1957, doveva garantire un
mercato unico del nucleare, governando la distribuzione dell’energia fra i
partecipanti. È mancata la disponibilità delle potenze a lavorare
insieme e il consenso fra i cittadini.
Mercato interno, funziona. Cittadini, merci, capitali e servizi, mai
stati così liberi di circolare. E l’accordo di Schengen ha abolito i
controlli alle frontiere.
Difesa comune, bocciata. Era partita male già nel 1954 con il no
francese alla Comunità europea della Difesa. Si è puntato
sull’Unione dell’Europa occidentale, a cui si è rinunciato per rientrare
sotto l’ala atlantica della Nato.
Politica estera, vuota. L’eccezione all’incapacità di agire
è stata il caso libanese della scorsa estate. Per il resto, una lunga
serie di fallimenti.
Aiuti regionali, efficaci. Spagna, Portogallo e Irlanda si sono fatte
nuove. Anche nel Mezzogiorno d'Italia si sono visti gli effetti.
Protocollo sociale, sospeso. Previsto a Maastricht (1992). Si è
realizzato molto meno di quanto promesso.
Energia, speriamo bene. Sulla Carta l’Ue ha il più ambizioso
programma del pianeta contro l’effetto serra.
Immigrazione, in ritardo. Grandi sforzi, pochi risultati, tutti negli
ultimi mesi.
Erasmus, fantastico. Dal 1987 1,5 milioni di studenti sono andati a
studiare all’estero.
Burocrazia, malissimo. Ottantamila pagine di norme, talvolta corrette,
altre incomprensibili. In cantiere un’azione per ridurre l’impianto del
25%.
Dialogo democratico, carente. Il Parlamento, nonostante qualche
progresso, resta lontano dai cittadini.
Euro, sugli scudi. Moneta forte, poca inflazione, crescita robusta. Male
l’inizio, adesso è ok.
Politica economica, assente. C’è l’euro ma non un coordinamento
reale delle singole strategie.
L’eurobrevetto, latitante. La mancanza di accordo fra le capitali ha
convinto Bruxelles a rinunciare alla proposta.
Opa europea, inutile. La direttiva sulle fusioni transfrontaliere ha
rafforzato la difesa del mercato mentre intendeva fare il contrario. Da
riscrivere.
Calcio, liberalizzato. Grazie alla sentenza Bosman (1995) l'Inter
può schierare undici stranieri.
Airbus e Galileo, in crisi. L’avventura aeronautica zoppica e il sistema
di navigazione satellitare è fermo.
Spiagge, pulite. A quanto pare si può fare il bagno lungo il 96%
degli arenili europei.
Agli
istituti non vanno giù gli sconti alle utility. Ma l'ok non è
sicuro. I dubbi di Profumo Dopo una valutazione lunga cinque mesi, le banche
rompono gli indugi e si preparano a presentare a Bruxelles il ricorso contro la
Finanziaria 2007 e contro le norme sul cuneo fiscale. Il via libera all'esposto
degli istituti di credito, salvo ripensamenti dell'ultim'ora, arriverà
domani dal comitato esecutivo dell'Abi. L'associazione bancari ha dunque deciso
di accodarsi all'Ania, che rappresenta invece le assicurazioni. Una riunione,
quella di domani mattina a Roma, cui parteciperà per la prima volta il
ministro dell'Economia. Tommaso Padoa-Schioppa farà il suo ingresso
nella sala rossa di Palazzo Altieri attorno alle 11 (poi si fermerà a
pranzo con i big del credito). E a quell'ora, probabilmente, i banchieri
avranno già dato mandato ai legali dell'associazione di Piazza del
Gesù per appellarsi alla commissione Ue. La scaletta del summit,
insomma, sembra disegnata proprio per poter dare "in diretta"
l'annuncio al ministro: per le banche i tagli selettivi per la riduzione della
base imponibile Irap sono illegittimi e inaccettabili. Quello che non sembra
andare giù al mondo bancario, in particolare, è l'ipotesi che il
premier Romano Prodi, nell'ambito di una trattativa con l'Unione europea
(è attesa a giorni la notifica della legge Finanziaria), decida di
riammettere solo le utility e la società di interesse pubblico (come
Telecom e Autostrade) tra i beneficiari delle riduzioni al costo del lavoro,
lasciando ancora fuori il credito e le compagnie. Non solo. Il documento che
domani sarà sul tavolo dei banchieri sottolinea pure "l'evidente
ulteriore discriminazione a danno del settore creditizio, già
penalizzato, sul fronte Irap (l'imposta regionale sulle attività
produttive), per quanto concerne la determinazione di aliquote e base
imponibile". Peraltro, si legge ancora nel rapporto dell'Abi, "tale
disparità di trattamento si aggiunge, a quelle già rappresentate
sia dall'applicazione, in alcune regioni, di aliquote Irap maggiorate a carico
delle banche rispetto ad altri settori produttivi, sia dall'introdotta non
deducibilità dalla base imponibile delle componenti reddituali (perdite,
svalutazioni e accantonamenti) relative alla gestione di crediti delle imprese
bancarie). Il semaforo verde al ricorso, comunque, non appare una
formalità. "Alcuni di noi - fa notare uno dei membri dell'esecutivo
- hanno già detto che tutto sommato l'esclusione delle banche dalle
misure sul cuneo può essere in qualche modo compresa". A scorrere
gli archivi si scopre, per esempio, che l'ad di Unicredit, Alessandro Profumo,
gettò acqua sul fuoco, a ottobre, quando le banche cominciarono a
parlare di ricorso Ue sulla Finanziaria.
Roma.
Si svolgerà il 12 maggio il raduno cattolico in difesa della famiglia.
La decisione è stata presa ieri, superati i contrasti sorti tra le varie
anime dell'associazionismo cattolico, dal Forum delle famiglie e dalla galassia
di associazioni, movimenti e di nuove realtà ecclesiali italiane.
L'annuncio arriva nel giorno in cui dalla Radio Vaticana un'insolita nota di
padre Federico Lombardi ha denunciato la crisi nell'etica della comunicazione e
invitato i media "a non strumentalizzare" la polemica sulle unioni di
fatto descrivendo una Chiesa oscurantista. Ma monsignor Angelo Bagnasco,
arcivescovo di Genova e neopresidente della Cei, avverte: "Al Family Day i
vescovi non ci saranno". Il Family Day, che si terrà a Piazza San
Giovanni, non sarà, come si era pensato in un primo momento, una
manifestazione di protesta contro il disegno di legge sui Dico e contro il
governo con cardinali, vescovi e preti a sfilare con i politici di opposizione,
sul modello di quella promossa dalla Chiesa nella Spagna di Zapatero. Né vuol
essere una risposta alla mobilitazione pro-Dico di piazza Farnese. Con il
passare dei giorni la protesta ha assunto toni meno duri, ha preso le distanze
dal dibattito in corso al Senato sui Diritti dei conviventi. "Non è
una questione politica, e il governo non c'entra niente", ha spiegato
Giovanni Giacobbe, presidente del Forum delle famiglie, "la nostra azione
propone la difesa della famiglia". Sarà, nelle intenzioni degli
organizzatori, una riunione "laica". Il manifesto approvato ieri,
elaborato da cinque "saggi" e intitolato "Più
famiglia" - "ha richiami espliciti agli articoli 29, 30 e 31 della
Costituzione e la nostra posizione", ha aggiunto Giacobbe, è laica,
di ancoraggio alla Costituzione". Non si tratta di una manifestazione
spettacolare, ma di un happening colorato dove sono attese 100 mila persone,
un'occasione per chiedere politiche a sostegno delle famiglie. Dal Vaticano nei
giorni scorsi avevano fatto filtrare che l'unica raccomandazione del Papa
è stata di evitare che i vescovi sfilino, al fianco di più di 40
associazioni. In un primo tempo invece era filtrata la notizia che sul palco ci
sarebbe stato addirittura al cardinale Ruini. La raccomandazione della
segreteria di Stato vaticana è stata seguita. E ieri Bagnasco ha
precisato: "Non ci saranno i vescovi al Family Day. Quella è una
iniziativa nata dal cuore dei laici, delle aggregazioni laicali, ha
naturalmente tutto l'appoggio e il consenso da parte dei vescovi, dei pastori.
Credo sia sufficiente questo, per non dare adito ad altre interpretazioni,
inutili". E il centrodestra punta a cavalcare il Family Day. La Lega ha
annunciato che sarà in piazza per difendere "la vera
famiglia". Riccardo Pedrizzi, An, ha già fatto sapere che
aderirà al "Family Pride". E Daniela Santanchè, An, ha
lanciato una provocazione: "Romano Prodi assieme ad alcuni dei suoi
ministri che pongono la famiglia al centro della loro politica, come Rosy Bindi
e Clemente Mastella, dovrebbero essere in prima fila assieme a tanti di noi,
cattolici e non cattolici". La ministra della Famiglia, che insieme alla
ds Pollastrini ha firmato la legge sui Dico, diserterà l'appuntamento.
Del resto non si era fatta vedere nemmeno alla manifestazione a Piazza Farnese.
Il leader dell'Udeur e ministro della Giustizia invece ha anticipato che
sarà in piazza, con il ministro dell'Istruzione Giuseppe
Fioroni,Margherita. Parteciperanno al corteo anche le associazioni Arcigay,
Arcilesbica, Lega italiana famiglie di fatto, "perché", hanno
spiegato, "anche le nostre sono famiglie italiane". "Saranno le
benvenute", ha fatto sapere Giacobbe. "Noi apriamo a tutti i
cittadini italiani, ovviamente la piazza non è proprietà privata
di nessuno e chiunque può intervenire".
Dopo
le campagne militari in Afghanistan e in Iraq, si sa, soffiano venti di guerra
tra Washington e Teheran. Cordesman e Al Rhodan del Center for Strategic and
International Studies hanno pubblicato un accurato e approfondito studio che ne
prevede i possibili scenari militari, con un interessante approfondimento sulle
eventuali ricadute economiche. Si parla di quattro scenari possibili. Se i
primi due si rivelano più che altro esercizi teorici, molto più
realistici appaiono gli altri due. Lo scenario 3 parla di una guerra lampo,
500-600 attacchi, principalmente su obiettivi militari, da eseguirsi su un
periodo di circa 10 giorni. L'opzione 4 prospetta invece un numero di attacchi
nettamente superiore, almeno 2500, da eseguirsi in parecchie settimane di
campagna. Lo studio contiene una fredda lista di tutti gli obiettivi possibili,
sia militari che civili. La macroeconomia. L'economista Menzie Chinn ha letto
il dettagliato studio strategico dalla prospettiva macroeconomica arrivando a
conclusioni che non fanno dormire sonni tranquilli. In sostanza, facendo un
confronto con i costi della guerra in Iraq, attaccare l'Iran secondo l'opzione
3 sembra avere tutti i connotati di un vantaggioso saldo di fine stagione:
costerebbe meno di un miliardo di dollari. La guerra in Iraq costa ai
contribuenti americani 9-10 miliardi di dollari al mese. Questi conti non
considerano quanto costa (o costerà) la guerra ai contribuenti iracheni
e iraniani. Neppure è chiaro quanti miliardi di dollari di danni possono
fare un miliardo di dollari di bombe. Il problema, comunque, non è
nemmeno questo. La storia ci insegna che chi comincia una guerra è
sempre sicuro di vincerla e anche di vincerla alla svelta. Ma la storia ci
insegna anche che molte sono state le amare delusioni in questo senso. Su
questo punto, sia Menzie Chinn che Cordesman e Al Rhodan sono piuttosto
preoccupati. L'Iran avrebbe dalla sua parte la possibilità di chiudere,
almeno in parte, lo stretto di Hormuz, bloccando di fatto il flusso di petrolio
dagli stati del Golfo all'Occidente. Le conseguenze per le economie occidentali
sarebbero devastanti. Tanto per incominciare mille miliardi di dollari. Quelli
che perderebbe l'economia statunitense subendo un crollo del proprio Pil di un
5%. Rubinetti chiusi. La fredda analisi macroeconomica non tiene certo in conto
del disastro umanitario di una guerra del genere e delle sue conseguenze.
Conseguenze sull'opinione pubblica, anche. Attribuire tutto il torto alla
politica nucleare dell'Iran significherebbe ripetere un errore, esattamente
come avvenne per la prima crisi del petrolio, negli anni 70. Allora si
addossò la colpa ai cosiddetti cattivi sceicchi dell'Opec, nascondendo
dietro a ragioni politiche ciò che invece aveva origini strutturali. Il
vero fulcro della crisi era infatti il picco produttivo degli Stati Uniti. Oggi
la vera causa della crisi è il picco di produzione globale, e additare
l'Iran come unico responsabile del conflitto non basterebbe a far digerire
all'opinione pubblica l'impennata a 250 dollari del costo del barile di
petrolio (stima di Chinn). Di errori, nella nostra storia di esseri umani ne
abbiamo fatti tanti, questo sarebbe uno dei peggiori, forse quello finale. Una
crisi internazionale di tali proporzioni spingerebbe gli stati a sprecare le
rimanenti risorse in spese e tecnologie militari, lasciando a secco il cruciale
settore delle energie alternative, unica reale soluzione per uscire dalla
dipendenza dal petrolio e, forse, dalle guerre.
IL
VERTICE Nel colloquio con la Rice, D'Alema ha affrontato anche i casi Calipari
e Abu Omar, ma il dipartimento di Stato frena sulle polemiche.
NEW
YORK. Dal nostro corrispondente
Il
segretario di Stato Condoleezza Rice e il nostro ministro degli Esteri Massimo
D'Alema si sono visti ieri sera a Washington, una cena privata al ristorante
Aquarelle del Watergate Hotel scelto dalla Rice, lontani dagli occhi indiscreti
della stampa. Questo per riprendere il filo dei loro discorsi fuori
dall'ufficialità, per ripercorrere la strada che ha portato alla
liberazione di Daniele Mastrogiacomo, ma anche per discutere delle tensioni che
negli ultimi mesi hanno caratterizzato i rapporti tra Italia e Stati Uniti.
Sull'episodio di cronaca più recente,la liberazione del giornalista di
Repubblica rapito dai talebani, la posizione della Rice e quella ufficiale del
dipartimento di Stato è chiara, cioè che non si può non
essere felici per questa liberazione:"Nessuno è più felice
dei suoi famigliari e dei suoi amici ha dichiarato Sean McCormick, il portavoce
della Rice e per questo siamo molto felici anche noi. Siamo anche molto tristi
per l'uccisione del collaboratore afghano di Mastrogiacomo, questa è la
dimostrazione che i talebani sono una forza oscura che vuole riportare indietro
nel tempo l'orologio dell'Afghanistan". Sono parole molto calibrate,
precise nel condividere la gioia dei famigliari per questa liberazione, una
gioia privata che viene condivisa anche dal dipartimento di Stato. Ma non
è chiarose ildipartimento di Stato è altrettanto felice per i
metodi scelti dal nostro Governo: la trattativa diretta per la liberazione di
un ostaggio è infatti esclusa dalle autorità americane, si teme
che si possano stabilire dei precedenti pericolosi e da più parti in
America vi sono state critiche anche pubbliche (per esempio sul Wall Street Journal)
per l'apertura di un negoziato che in un'altra occasione costerà la vita
di altre persone. E difatti McCormack evita anche di rispondere sulla questione
dei prigionieri talebani liberati dal Governo afghano a Kabul. è in
questo minuetto di parole che emerge il compromesso: gli Usa non hanno messo il
veto alla liberazione per "aiutare" l'alleato italiano.A Washington
non si può dimenticare che l'Italia è schierata sul fronte
libanese con 2mila uomini, su quello dei Balcani con 7.500 soldati (dove abbiamo
il contingente più importante, e forse ne arriveranno altri
Gli
studenti del Datini in "missione" a Strasburgo e Palermo PRATO.
Eurostudenti pratesi si sono calati, per un giorno, nei panni di
europarlamentari. I ragazzi delle classi IVec e IVbec dell'Istituto tecnico
Datini, nell'ambito del "Progetto educazione alla legalità",
hanno presentato il 24 febbraio, al Parlamento di Strasburgo, tre mozioni.
Ovvero tre testi, relativi ad altrettanti problemi, da sottoporre
all'attenzione dell'Assemblea. Ieri mattina, a scuola, si è concluso il
loro percorso, con l' incontro dell'europarlamentare Guido Sacconi, che quel
giorno a Strasburgo, causa impegni, non riuscì ad essere presente. E che
stavolta ha promesso loro una risposta da parte del Parlamento Europeo. Hanno
partecipato all'incontro anche il Provveditore Davide Biccari, l'ex preside
Matilde Griffo, il presidente del Consiglio Provinciale Juri Nannetti,
l'assessore comunale Andrea Mazzoni e l'assessore provinciale Irene Gorelli.
Protagonisti tra l'altro di alcune interviste realizzate dagli studenti per
mettere a punto la loro missione, raccolte e mostrate ieri in un video. Dopo un
lungo lavoro di preparazione, svolto in modo particolare con la coordinatrice
del progetto Anna Carpani, gli intraprendenti studenti hanno imparato a
scrivere una mozione. Scelti gli argomenti, hanno steso tre testi in diverse
lingue: inglese, tedesco e francese. E'nata quindi la mozione "Lo schiavismo
nello sport", che parla di quei piccoli calciatori, soprattutto stranieri,
che entrano a far parte di società anche dilettantistiche, senza aver
terminato gli studi, nell'illusione di poter sfondare nel mondo del calcio. Con
"Anno Zero", invece, l'attenzione si sposta sull'opportunità,
per gli studenti stranieri, di seguire per un anno un corso di lingua italiana
a tempo pieno e di essere solo successivamente inseriti in una classe. Infine
la mozione "La politica internazionale della U.E.", cerca di
sollecitare una maggiore coesione dei paesi aderenti alla U.E. in materia dei
conflitti internazionali. Le mozioni sono state presentate anche in due licei
stranieri, quello tedesco di Friburgo e quello francese di Colmar. Un confronto
che ha spalancato le porte al gemellaggio. Ma il "Progetto educazione alla
legalità" ha fatto ancora di più. Ha portato infatti un
gruppo di studenti del terzo anno dell'indirizzo turistico vicino a Palermo,
per visitare i terreni e le strutture confiscate ai mafiosi. Qui hanno potuto
fare la conoscenza di Salvo Vitale e Felicetta Impastato, così come di
Rita Borsellino. Quindi si sono incontrati con gli studenti del Liceo Basile
(edificio sequestrato ai mafiosi), con i quali è nato un bel
gemellaggio.
(
2007-03-20 07:35:00
La Cancelliera a Roma per i 50 anni dei
Trattati: "Che emozione vedere i luoghi delle radici della Ue" Merkel
e Prodi, asse per l'Europa "Rilanciamo insieme la Costituzione"
"Lo scudo missilistico va discusso dalla Nato e dal Consiglio consultivo
con Mosca" Prodi: "Sono felice che il summit sia a Berlino, città
simbolo di antiche divisioni e ora di unità" ANDREA TARQUINI ROMA -
"Grazie di cuore, Romano, per l'appoggio ai nostri sforzi di rilanciare
l'Europa". Angela Merkel sorride, nel consueto abito-pantalone nero, alla
conferenza stampa con il presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Ha stampata
sul volto la consapevolezza del suo nuovo prestigio internazionale. "Noi
ti siamo grati", replica Prodi, "per il tuo impegno per rimettere in
moto il processo europeo". Sorrisi, intesa quasi ostentata, unità
d'intenti. Nella sua breve ma intensa visita in Italia, in vista del solenne
vertice-celebrazione del week-end a Berlino per i 50 anni dei Trattati di Roma,
la "donna più potente del mondo" ha ritrovato un'Italia
europeista. In cui cerca una sponda e un alleato. Prodi è d'accordo,
appoggia il colpo d'acceleratore tedesco. Elogia "il grande sforzo che la
Germania sta facendo per far ripartire il cammino dell'Europa interrotto dai no
alla Costituzione in due referendum nazionali". Non sarà facile,
concordano i due governi, ma "il processo di ratifica e attuazione della
Costituzione deve ripartire. L'Unione ha bisogno di arrivare alle elezioni
europee del 2009 con istituzioni rafforzate, più efficienti".
Questa visita, ha sottolineato Merkel, "per me è stato anche un momento
di forte emozione: sono venuta a vedere i luoghi delle grandi radici della Ue.
L'emozione del ricordo ci deve spingere a decidere insieme dove l'Europa
può e deve andare nel futuro". L'avvenire della Ue è stato
tema centrale dei colloqui Merkel-Prodi. Al summit del week-end, la
Dichiarazione di Berlino proporrà le priorità per far ripartire
il processo costituzionale. Secondo molti, in realtà, sarebbe stato
più giusto tenere invece il summit a Roma, città della firma dei
Trattati. "Ma non c'è stato nessun disaccordo", ha
sottolineato Prodi. Così come non ci sono problemi bilaterali.
"Roma avrebbe potuto ospitare il summit, ma io sono felice che si tenga a
Berlino, città che fu simbolo dell'Europa divisa e oggi è simbolo
dell'Europa unita". Ma entusiasmi e celebrazioni non bastano. L'Europa, ha
insistito Angela Merkel, deve parlare unita e con voce forte sui grandi temi
internazionali, essere presente nelle grandi crisi. Deve favorire un approccio
multilaterale, battersi per un ruolo rafforzato delle Nazioni Unite. Proprio la
crisi iraniana "mostra che l'Europa può contare solo se agisce
insieme, unita". Il rilancio dell'Europa voluto da Merkel passa anche da
una politica energetica comune: Italia e Germania devono fare di più in
questo campo, e lavorare insieme nelle energie rinnovabili: sono tra i
principali importatori di energia del mondo. Da Prodi Merkel cerca anche un
appoggio in un difficile contenzioso con l'America di Bush: i piani americani
per costruire uno scudo antimissile contro la possibile futura minaccia dei
razzi atomici iraniani. Uno scudo con rampe di lancio e basi radar in due paesi
della Ue e della Nato, Polonia e Repubblica cèca. "Ne abbiamo
parlato", ha detto la cancelliera. "E abbiamo convenuto che se ne deve
discutere in sede Nato e nel Consiglio di consultazione tra l'Alleanza
atlantica e la Russia". E' una questione delicata, e non sono opportune
iniziative unilaterali. Il consiglio di consultazione Nato-Russia è
un'importante istituzione per creare fiducia. Berlino si mostra decisa a una
linea di fermezza unitaria dell'Europa contro i piani atomici di Ahmadinejad,
ma anche determinata a non creare dannose tensioni con la Russia e a non
spaccare il fronte tra Occidente, Mosca e Pechino alle Nazioni Unite.
/ Roma RIDARE SMALTO all'Europa.
"Proiettarla verso il futuro prima delle elezioni del 2009". Secondo
Romano Prodi il cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma, dovrà
rappresentare l'occasione per rilanciare il processo d'integrazione europea, di
qui a due anni, in vista del voto per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo.
Nelle ore concitate che hanno preceduto la liberazione di Daniele Mastrogiacomo
- e in quelle successive, e più serene, dell'incontro con Angela Merkel
- il premier ha voluto mettere l'accento sulla "necessità"
dell'unità europea e di "'nuove regole" che archivino
definitivamente il "lutto" provocato dal "no" referendario
di Francia e Olanda alla Costituzione europea. Voltare pagina e "guardare
avanti", quindi. Alla vigilia delle celebrazioni ufficiali che si
svolgeranno sabato prossimo a Berlino, il premier ha incontrato la stampa a
Palazzo Chigi. Per spiegare, tra l'altro, che la cerimonia alla quale
parteciperanno i capi di stato e di governo dei 27 paesi dell'Unione
dovrà rappresentare un contributo concreto "al rilancio del
processo di integrazione". A quell'appuntamento berlinese, però,
corrisponderanno in Italia "manifestazioni per festeggiare l'Europa della democrazia
e della partecipazione dei giovani" che per l'Italia dovrà
rappresentare "una porta verso il futuro e non una finestra sul
passato". Il 23 marzo Prodi, insieme al Capo dello Stato, Napolitano, con
600 rappresentanti delle regioni e degli enti locali, parteciperà ad una
cerimonia solenne che si terrà a Roma e alla quale interverrà
anche il Presidente della Commissione europea, Josè Manuel Barroso. Un
appuntamento questo che, con altre manifestazioni in programma per ricordare il
centenario della nascita di Altiero Spinelli e i primi 20 anni di Erasmus,
dovrà favorire l'impegno a "guardare avanti" e "aiutare
tutti a ritrovare la fiducia e gli stimoli necessari per portare a compimento
il più grande progetto di pace e benessere nel mondo contemporaneo"'.
Anche perché, come sottolinea il Presidente del Consiglio, l'assenza in questi
anni di una linea europea comune di politica estera ha rappresentato "un
danno oggettivo per la pace". Regole chiare per rilanciare il processo
d'integrazione, quindi. Ma nessun compromesso al ribasso, nessun
"mini-trattato" che surroghi quello bocciato da francesi e olandesi.
Da qui la conferma della necessità di un "documento comune che
diventi un punto di riferimento per mezzo miliardo di cittadini". Ma per
il leader Ds, Piero Fassino - che ieri ha partecipato a un convegno
dell'Istituto per gli studi di politica internazionale - "C'è un
deficit di legittimazione democratica del processo di integrazione europea ed
è il momento di affrontare questo nodo, perché la forza e l'autorevolezza
alla politica la dà il consenso dei cittadini". Secondo il leader
della Quercia "per fare passi in avanti" verso l'Europa, ci sono
decisioni che possono essere assunte "con misure stralcio senza richiedere
una Costituzione". Per Prodi, in ogni caso, l'idea di rilanciare da subito
l'Europa è condivisa anche da Angela Merkel, volata appositamente in
Italia - come presidente di turno del Consiglio europeo - per avviare da Roma
le manifestazioni del cinquantennale che si svolgeranno nei prossimi giorni in
tutta Europa. La Cancelliera tedesca è stata ricevuta anche dal
Presidente della Repubblica. Un "accordo solido" sull'Europa quello
che unisce Roma e Berlino. Insieme a Merkel e al sindaco Veltroni, Prodi, ha
visitato ieri sera la sala degli Oriazi e Curiazi del Campidoglio, dove 50 anni
furono firmati i Trattati e dove, per l'occasione vengono proiettate su cinque
schermi le immagini delle tappe salienti della costruzione dell'Unione europea.
Il
cancelliere tedesco, a colloquio con Romano Prodi, sottolinea la
necessità del multilateralismo
Roma 20
Mar.- Istituzioni europee, rapporti bilaterali tra Germania e Italia, energie
rinnovabili e politica estera. Sono stati questi gli argomenti affrontati
durante il faccia a faccia avvenuto ieri a Palazzo Chigi tra il presidente del
consiglio Romano Prodi e il cancelliere tedesco Angela Merkel, in visita nella
capitale in occasione del cinquantenario dei Trattati di Roma. Un incontro
cordiale, come ha sottolineato Romano Prodi, in cui sono affiorate le affinità
di vedute tra i due governi, su tutti gli aspetti affrontati.
Il premier
ha voluto elogiare lo sforzo che sta compiendo la Germania durante il suo
semestre di presidenza europea per rilanciare la nascita di una Costituzione
comune, dopo la brusca frenata seguita al fallimento del referendum a
favore della costituzione in Francia e Olanda, nel 2005. "Il nostro
obiettivo – ha dichiarato Prodi – è di arrivare all’importante
appuntamento delle elezioni del 2009 con le nuove istituzioni rafforzate".
Per quanto riguarda i problemi comuni ai due paesi, è emersa la
necessità di lavorare insieme soprattutto nel campo delle energie
rinnovabili. Italia e Germania sono infatti tra i più grandi
importatori al mondo di energia, ecco perché è necessaria secondo il
presidente del consiglio "una nuova politica di energie rinnovabili, di reti
comuni e di ricerche comuni". Anche a livello internazionale le posizioni
dei due governi sono molto vicine.
Entrambi
hanno infatti manifestato la necessità di un approccio multilaterale ai
grandi problemi di politica internazionale, su tutti quello della
proliferazione nucleare dell’Iran. "L’Europa esiste solo se si agisce
insieme", ha sottolineato Angela Merkel. Il cancelliere ha poi manifestato
tutto il suo appoggio alla conferenza sull’Afghanistan proposta da Massimo
d’Alema, ma ha poi raggirato l’argomento di un eventuale coinvolgimento dei
talebani, come proposto da Piero Fassino. La Merkel ha rilanciato la
necessità del multilateralismo anche in ambito Nato, per quanto
riguarda il progetto di installazione di uno scudo antimissile in Repubblica Ceca
da parte degli Usa, che ha provocato in questi giorni una forte frattura tra
Berlino e i governi polacco e ceco.
La
visita ufficiale della Merkel è iniziata ieri pomeriggio dalla sala
degli Orazi e dei Curiazi, nei musei capitolini, proprio dove cinquant’anni fa
vennero firmati i trattati costitutivi della CEE. Ad accogliere la Merkel sono
stati il sindaco di Roma Walter Veltroni e il presidente del consiglio Romano
Prodi, con i quali la leader tedesca si è soffermata ad ammirare la teca
che custodisce il libro contenente il testo originale dei Trattati.
"Desideravo particolarmente venire a Roma – ha dichiarato la Merkel - in
occasione del cinquantenario. Mi sono particolarmente emozionata nel venire
qui, questo è il modo migliore per percepire lo spirito delle radici
dell’UE e per manifestarne la fierezza di farne davvero parte oggi".
Il
fatto che le celebrazioni ufficiali del cinquantenario dell’Unione
Europea si svolgano a Berlino, e non a Roma ha avuto il pieno consenso del
presidente del consiglio, secondo cui è "giusto aderire ad una
amichevole e diretta richiesta del governo tedesco, proprio perché l’Europa
è fatta di aiuti e di una immediata comprensione reciproca. Sono
particolarmente felice – ha continuato Prodi - che si festeggi a Berlino, che
prima era l’esempio dell’Europa divisa, mentre ora è l’esempio
dell’Europa unita".
D'Alema e Condy Rice La cena delle spine Il
ministro: "Spero di superare le turbolenze" dall'inviato GIAMPAOLO
PIOLI ? NEW YORK ? UN INCONTRO all'ora di cena non nella sala da pranzo del
dipartimento di Stato ma in un luogo "privato" di Washington,
è indicato nei protocolli diplomatici come più amichevole e meno
ufficiale di un faccia a faccia vero e proprio fra i ministri degli esteri di
Stati Uniti e Italia. A volte però la sostanza del dialogo può
assumere un significato più importante proprio perché meno formale e
più libero. Condoleezza Rice e Massimo D'Alema si conoscono già
bene. Hanno avuto modo di frequentarsi spesso durante l'estate per la missione
in Libano e non sono mai arrivati a momenti di scontro. Questa visita lampo che
precede di poche ore la presentazione dell'idea italiana di una conferenza di
pace sull'Afganistan al Consiglio di Sicurezza dell'Onu, come minimo è
un gesto di cortesia verso l'alleato americano, ma al tempo stesso anche un
chiaro segnale di collaborazione che l'Italia di Romano Prodi manda a Bush
proprio alla vigilia del rifinanziamento della missione a Kabul. IL RAPIMENTO
di Abu Omar e il caso Calipari hanno visto contrapposte Roma e Washington. Ieri
poi la liberazione di Daniele Mastrogiacomo, negoziata direttamente dall'Italia
con i talebani e il governo afgano potrebbero aver accentuato le tensioni.
Anche se il dipartimento di Stato ha detto di essere felice per la
libertà del giornalista italiano è noto che gli Stati Uniti sui
sequestri sono intransigenti: non si tratta. "Sono molto onorato
dell'invito ? ha detto D'Alema partendo per Washington ?. Vado nella speranza
di superare queste turbolenze con gli Usa. Solleverò questi problemi con
la signora Rice con quale discuteremo di diversi temi internazionali. Credo che
ci sarebbero una serie di cose che gli Usa dovrebbero fare, più che l'Italia".
D'Alema non si è voluto spingere oltre prima della cena privata con la
Rice alla quale attribuiva comunque molta importanza anche per valutare
probabilmente la possibilità del primo summit di Bush col presidente del
consiglio Romano Prodi, che non si incontrano dal luglio del 2006, al G8 di San
Pietroburgo. Oltre alla questione palestinese, sulla quale la Rice si è
consultata con i paesi del quartetto ribadendo che gli Usa continueranno ad
avere contatti con membri del nuovo governo che non appartengono ad Hamas,
D'Alema presenterà in anteprima al segretario di Stato americano l'idea
italiana del "tavolo della pace". Ma la Farnesina non ha voluto
anticipare se il ministro degli esteri illustrerà alla collega americana
l'ipotesi lanciata da Fassino di estendere anche ai talebani l'invito al
negoziato. La posizione americana sui guerriglieri afgani che attaccano il
governo eletto di Kabul è arcinota e Bush non ha mai ipotizzato un loro
ritorno a un ruolo politico nel paese, nemmeno se deponessero immediatamente le
armi, anzi li ha sempre trattati come "nemici combattenti", a partire
dall'11 settembre e quasi sensa distinguerli dai terroristi di Al Qaeda, con i
più pericolosi ha sempre riempito le gabbie di Guantanamo e le carceri
segrete della Cia. Difficile immaginare una svolta radicale in questa direzione
anche davanti ad un piatto del Maryland. D'ALEMA però ha una fitta
agenda da discutere con la Rice e sicuramente i casi Abu Omar e Calipari,
"già chiusi" per gli americani, potrebbero diventare non elemento
di conflitto, ma parte di un pragmatico negoziato di "scambio" fra
Italia e Usa che dietro qualche accordo "top secret" possa soddisfare
e tacitare entrambi i governi. Ieri a Roma il cancelliere tedesco Merkel
premettendo che "la Germania non si fa ricattare" ha appoggiato il
linea di principio la conferenza sull'Afganistan proposta dall'Italia. Senza
rispondere esplicitamente all'idea di invitare i talebani ha aggiunto che
"l'importante è che punti a rafforzare il governo di Karzai".
M
La telefonata (già nota) che festeggia
la scalata Antonveneta tra il banchiere
Gianpiero Fiorani e Emilio Gnutti, con il cellulare del finanziere bresciano
che a un certo punto passa in mano all'allora presidente del Consiglio Silvio
Berlusconi; ma anche due inedite telefonate tra l'allora amministratore di
Unipol, Giovanni Consorte, e il leader dei Ds e attuale ministro degli Esteri,
Massimo D'Alema. Poi le tante telefonate del senatore forzista Luigi Grillo con
Fiorani e la moglie del governatore di Bankitalia, Antonio Fazio; ma anche alcune
conversazioni tra Consorte e il segretario dei Ds, Piero Fassino, e molte tra
il top manager Unipol e un dalemiano doc, Nicola Latorre. Il filo telefonico
diretto tra l'immobiliarista Stefano Ricucci e il senatore di Forza Italia
Romano Comincioli; ma anche qualche telefonata nella quale uno dei tanti
indagati si ritrova a parlare con Marcello Dell'Utri o Cesare Previti, con
l'Udc Ivo Tarolli o il leghista Giancarlo Giorgetti. Centocinquanta: tante sono
— fra le 14mila telefonate intercettate nell'estate 2005 nell'inchiesta
milanese sulle scalate bancarie che ha poi dato luogo a tre fascicoli
(Antonveneta, Bnl, e Rcs) — le conversazioni nelle quali è accaduto che
fosse un parlamentare l'interlocutore del soggetto di volta in volta sottoposto
a regolare intercettazione dai pm su autorizzazione del gip Clementina Forleo.
E oggi ci vorrà l'Aula Magna del palazzo di giustizia per accogliere gli
avvocati (anche due per difesa) degli 84 indagati del procedimento Antonveneta,
convocati proprio dal giudice Forleo per cominciare a maneggiare formalmente
questo delicato e ibrido materiale: o meglio quella parte di esso che,
all'epoca, l'accusa ritenne nè penalmente rilevante per i parlamentari
indirettamente intercettati, nè necessaria per motivare i procedimenti (di
sequestro di beni o di arresto di persone) emessi contro gli indagati; ma che
ora sia l'accusa sia le difese hanno invece facoltà di ritenere comunque
utili nel futuro processo, come elementi a carico o a discarico degli indagati.
Il problema, infatti, sta nei paletti posti
dalla legge per le telefonate che abbiano parlamentari
come interlocutori: se le parti (pm o difensori) ritenessero che qualcuna di
queste telefonate possa giovare alle proprie tesi, le intercettazioni non
potrebbero essere utilizzate senza prima che a concedere l'autorizzazione fosse
l'organo di appartenenza (Camera o Senato) del parlamentare indirettamente
ascoltato sul telefono dell'indagato intercettato. Per questo oggi i pm e gli
indagati (tramite i loro difensori) potranno indicare al gip Forleo le
telefonate di loro interesse, e chiedere al giudice che inoltri al Parlamento
le relative richieste di autorizzazione. Allo stato è impossibile
immaginare quante e quali di quelle intercettazioni verranno proposte per
l'utilizzazione: le parti, infatti, potrebbero oggi chiederle tutte; non
chiederne alcuna (e allora verrebbero distrutte e nessuno le conoscerebbe mai
più); chiedere quelle di alcuni parlamentari e non di altri; chiedere di
un parlamentare alcune telefonate sì e altre no. Nel frattempo, per
continuare a proteggere fino all'eventuale autorizzazione delle Camere queste
telefonate (di cui appositamente non è sinora stata disposta neppure la
trascrizione), è stata adottata una macchinosa procedura. Quando un mese
fa la Procura ha chiuso l'indagine Antonveneta e depositato i relativi atti
agli 84 indagati, ha messo a disposizione degli avvocati anche tutte queste
telefonate con parlamentari (comprese quelle nel frattempo confluite nei
fascicoli Bnl e Rcs ancora in indagini coperte per il resto da segreto): ma ne
ha subordinato l'ascolto materiale a una trafila burocratica che individuasse
chi ascoltava quale telefonata, senza peraltro possibilità nè di
duplicarne il file audio nè di prendere appunti sul contenuto. Di
più: tra gli atti depositati e consegnati su dvd ai legali, l'elenco
delle telefonate (data, ora, chiamante, chiamato) è stato omissato, e
solo negli uffici dei pm gli avvocati hanno potuto visionare l'originale,
facendosi almeno un'idea dei nomi dei parlamentari in questione. Sarà
anche per questo, ma sta di fatto che nessun avvocato è andato ad
ascoltare sinora le telefonate dei parlamentari (salvo lo staff del senatore
Grillo che ha ascoltato quelle del proprio assistito).
20 marzo 2007
Dibattito
I grandi partiti dei regimi maggioritari e
bipolari non sono quella cosa di appartenenza e identità militante a cui
è abituata la nostra vecchia politica, ma dei contenitori di idee, appartenenze
e intenzioni molto diverse tra loro
È chiaro a tutti che l'eventuale
Partito Democratico avrà un tratto di disomogeneità assai
rilevante. È la ragione stessa delle sue difficoltà ante litteram:
a fare un partito che conti solo noi stessi siamo capaci tutti, ma già
dal secondo coinvolto nascono le prime divergenze.
Ora, l'idea alla base del Partito Democratico è un'idea discutibile, ma
senz'altro nuova: ed è non solo che si faccia un nuovo partito, ma che
d'ora in poi si intenda il partito come una cosa diversa da come lo si è
inteso in Italia finora. I grandi partiti dei regimi maggioritari e bipolari
non sono quella cosa di appartenenza e identità militante a cui è
abituata la nostra vecchia politica, ma dei contenitori di idee, appartenenze e
intenzioni molto diverse tra loro.
In questo - e si spera solo in questo - le persone che li votano assomigliano
ai tifosi di una squadra di calcio: c'è una cosa su cui siamo d'accordo,
e molte su cui siamo diversi, ma al momento di sostenere quella cosa ce ne
dimentichiamo. Non si equivochi: il paragone si limita all'avere pochi
obiettivi comuni (la Champions, lo scudetto, l'acquisto di Ronaldinho, i
diritti delle minoranze, la modernizzazione del paese, il funzionamento delle
scuole e degli ospedali) e molte differenze. Appartenere a un partito, o
votarlo, non è più un tratto somatico, o identitario: è un
mezzo, e non un fine.
Questo per dire che il nuovo Partito Democratico necessiterà di
un'evoluzione nell'atteggiamento che lo sostenga, e non un'impensabile
omologazione delle idee di chi vi appartenga. Quindi ognuno di noi che
decidesse di sostenerlo dovrà abbozzare rispetto alle proprie
insofferenze per questo o quello. Sarà un grande partito di
centrosinistra, e ci sarà dentro di tutto.
No, non proprio di tutto. Sarà un
grande partito di centrosinistra,
e questo qualcosa dovrà pur significare. Pur accettando le adesioni di
chiunque, non potrà avere tra i suoi rappresentanti eletti e tra i suoi
leader persone che con il centrosinistra non c'entrano affatto. E non parlo in
termini di storia: come ho detto, l'appartenenza si giocherà sulla
condivisione di valori e progetti, non sull'identità e la storia
personale.
Ma proprio per questo, sarà
inaccettabile che un simile partito porti in parlamento persone che continuino
a vedere il carcere solo come uno strumento punitivo e vendicativo, per fare un
esempio. O, per farne un altro, persone che sostengono pubblicamente che gli
omosessuali siano "contro natura", o cattivi genitori in quanto tali.
Questi sono esattamente gli argomenti per cui non ci si allea con i fascisti.
Insomma, è vero che dentro il Partito Democratico dovranno stare molti
modi di intendere la sinistra. Ma non quelli che la intendono di destra.
Altrimenti, se è solo questione di vincere le elezioni ad ogni costo e
assoldando ogni De Gregorio che passa, allora quello siamo riusciti a farlo
anche senza Partito Democratico.
+ La Stampa 19-3-2007
Un Garante da buttare Riccardo
Barenghi
La Repubblica 19-3-2007 L'alba dei catto-comunisti. Mario Pirani
Il Riformista 19-3-2007 Sarà un appello a
fermare i “compagni socialisti”?
La Stampa 19-3-2007 Sorry, lo spinello fa male MARIA
CHIARA BONAZZI
Ma c'è anche chi dice: dialogo possibile
Molti
dubbi, aspre critiche ma anche qualche interesse: è questa la reazione a
Washington di esperti di terrorismo e politologi alla proposta avanzata da
Piero Fassino di invitare i talebani a un’ipotetica conferenza di pace
sull’Afghanistan. A farsi portavoce dei dubbi è Patrick Clawson, direttore
del Washington Institute.
Secondo Clawson «i talebani politicamente sono molto deboli, divisi, non hanno
mai dimostrato capacità di amministrare governi e tantomeno di negoziare
accordi internazionali» e dunque «l’idea di Fassino rischia di essere
inefficace» in quanto rivolta «ad un insieme di guerriglieri, leader tribali e
terroristi che hanno poco in comune tranne la fedeltà al mullah Omar».
Da un centro studi vicino all’amministrazione Bush come l’Hudson Institute
arriva invece un commento più tagliente: «Trattare con i talebani
sull’Afghanistan equivale a sedersi al tavolo con Himmler sull’assetto della
Germania del dopoguerra o con i repubblichini di Salò per decidere il
futuro dell’Italia - osserva Laurent Murawiec, analista di terrorismo -. La pace
che cerca Fassino è quella dei cimiteri e ciò che mi sorprende di
più non è il cedimento all’estrema sinistra italiana quanto il
fatto di pensare di potersi sedere allo stesso tavolo con degli assassini
feroci. Dopo i talebani Fassino con chi altro vorrà parlare? Con Osama
bin Laden o Ayman Al Zawahiri?».
Interesse viene invece da Charlie Kupchan, titolare degli Studi Europei al
Council on Foreign Relations di New York, secondo cui «da un lato risponde alla
verità che la pace si fa con i nemici, e dall’altro gli Stati Uniti lo
stanno già facendo in Iraq con la Siria e l’Iran». E ancora: «E’
difficile non immaginare che siano in corso contatti segreti in Afghanistan fra
comandanti americani e leader tribali che hanno collegamenti con i talebani».
La perplessità di Kupchan non è sull’idea in sé quanto
sull’opportunità di lanciarla in coincidenza con le trattative per la
liberazione di Daniele Mastrogiacomo. «Il sequestro di un connazionale porta un
governo ad affrontare la questione di quanto sia lecito trattare, pagare in
denaro o versare altri prezzi politici per ottenerne la liberazione» sottolinea
Kupchan, e dunque «non è il momento giusto per avanzare una proposta
politica così complessa come una conferenza internazionale di pace»
senza contare che «il principale ostacolo a una simile conferenza non sarebbero
gli Usa ma la difficoltà di far discutere attorno a uno stesso tavolo il
presidente Karzai con il leader del Pakistan Musharraf, in quanto hanno avuto
forti dissapori» proprio sui temi della sicurezza, della lotta al terrorismo e
dei rapporti con i talebani.
Vincent Cannistraro, ex capo dell’antiterrorismo della Cia, è in
sintonia con Kupchan. Richiamandosi alla realpolitik «dimostrata da questa
amministrazione nel dialogare lontano dai riflettori con Siria, Iran, Moqtada
al Sadr e la Corea del Nord», Cannistraro ritiene che «non vi sarebbe nulla di
anomalo nell’esistenza di contatti diretti anche con i talebani», ma il
problema è un altro: «I talebani politicamente sono fratturati, non
esistono come unica entità politica, chiunque prendesse accordi
finirebbe per apparire non credibile in un negoziato». Anche per queste ragioni
Cannistraro ritiene che dietro la trattativa su Mastrogiacomo vi sia il mullah
Omar in persona: «Dadullah è un comandante che dà il proprio nome
a una trattativa complessa ed importante, nella quale i rapitori stanno
chiedendo al governo afghano prezzi politici in crescendo e ciò è
possibile solo a patto che chi tratta prenda direttamente gli ordini dal mullah
Omar» ovvero il super-ricercato leader dei talebani latitante dalla fine del
2001 che, secondo fonti governative afghane, si nasconderebbe nella
città pakistana di Quetta. C’è un altro punto sul quale
Cannistraro e Kupchan concordano: «Se D’Alema ha detto che non si può
trattare all’infinito con i talebani ha ragione, riaprire adesso la trattativa
sarebbe l’errore più grande». L’apertura di Fassino ai talebani è
stata registrata anche al Dipartimento di Stato dove però la portavoce
Nancy Beck afferma che «per avere un nostro commento ufficiale serve tempo».
Anche perché questa sera proprio D’Alema cenerà a Washington con il
segretario di Stato Condoleezza Rice.
In America si chiamano 'obbligazioni
collateralized', dove il 'collaterale' è la proprietà di un
immobile. Ma dato che le proprietà degli immobili stanno rapidamente
svalutandosi, come un castello di carte la complessa architettura finanziaria
costruita intorno ad esse si sta smantellando. Sembrava una storia secondaria,
da pagine interne nei giornali finanziari, invece ha aperto una sentina
illimitata, tutto intorno alla crisi del mercato delle case americano, che
travolge ora le più blasonate banche Usa. La crisi della New Century
Financial è il campanello d'allarme di una ben più profonda crisi
che molti paragonano alla bolla speculativa della new economy del 2000. Andiamo
con ordine. La New Century è stata sospesa d'ufficio dalle quotazioni
del New York Stock Exchange martedì scorso, dopo che il titolo aveva
perso l'80% in poche ore, e lo U.S.Attorney's Office for the Central District
of California, dove ha sede, le ha notificato una subpoena, una comunicazione
giudiziaria per informare di aver aperto un'inchiesta sulle pratiche da essa
usate. Anche la Sec ha annunciato che sta indagando sulla finanziaria. Insomma,
un disastro: sarebbe di 8,4 miliardi di dollari l'ammontare del 'buco' di
cassa, cioè della somma che dovrebbe pagare e non è in grado farlo
se si presentassero tutti insieme i creditori allo sportello. Il tribunale di
Los Angeles l'ha avviata d'ufficio alle procedure dal Chapter 11 del Federal
Bankruptcy Code, l'anteprima del fallimento. Perché quest'inferno? La New
Century è specializzata nella concessione di muti immobiliari subprime,
cioè ad un tasso d'interesse superiore a quello comunemente praticato ai
clienti 'normali'. Perché superiore? Perché i clienti della New Century sono
debitori in possesso di una scheda personale non propriamente immacolata.
Intendiamoci, nessun reato: però un passato di non perfetta
solvibilità, di rate di prestiti saltate, di tempi sulla restituzione
dei fondi sulla carta di credito con qualche proroga. Insomma, debitori a
rischio. Perciò pagano un tasso superiore agli altri, ma i soldi gli
vengono prestati lo stesso. L'anno scorso, il 13,5% dei mutui immobiliari in
America è rientrata in questa categoria, rende noto la Mortgage Bankers
Association, comparati con il 2,6 del 2000. Complessivamente, il 'subprime market'
era di 600 miliardi di dollari nel 2006, il 20% dei 3.000 miliardi di tutti i
mutui immobiliari esistenti in America: nel 2001 la percentuale era pari ad
appena il 5,6. In questo scenario, a fine 2006 le delinquency, cioè le
inadempienze contrattuali intese come ritardi superiori ai 60 giorni, sono
schizzate al 13% comparato con l'8% di un anno prima. Di conseguenza, le
foreclosure, appartamenti su cui le banche mettono le mani perché l'occupante
non ha pagato il mutuo, sono aumentate del 25%. Il quadro si sta rapidamente
deteriorando. Alla base c'è una doppia circostanza fatale: la crescita
dei tassi e la diminuzione delle quotazioni delle case. E' da tenere presente
un'abitudine inveterata negli Stati Uniti, quella di prendere in prestito
ulteriori soldi dando in garanzia la casa. E' il diabolico refinancing: le
banche, di fronte agli aumenti di valore delle case, prestano sempre nuovi
soldi all'intestatario di un mutuo. Di solito questi soldi vengono utilizzati
per finanziare i consumi: non a caso c'è ora in America una marcata
diminuzione dei consumi individuali. Ma questi fondi possono venire usati anche
per pagare le rate del mutuo precedentemente avuto sulla stessa casa. Un
circuito diabolico che evidentemente si spezza quando la casa non si rivaluta
più. Le finanziarie non possono più prestare soldi, e il
meccanismo s'interrompe. Qualcuno a quel punto pensa di vendere la casa, ma
sempre a causa della rapida svalutazione in corso, non è facile oggi
vendere un appartamento. Non è finita. I guai si sovrappongono. Un
agguerrito gruppo di banche sia commerciali che d'investimento, dalla Citigroup
alla Morgan Stanley, da Goldman Sachs a Lehman Brothers, ha chiesto alla New
Century di restituire i prestiti. È successo questo: le banche prestano
soldi alla New Century per aiutarla a prestare a sua volta soldi agli
acquirenti di case un po' malmessi. La New Century accorda il mutuo e poi cede
secondo i meccanismi della cartolarizzazione, interi stock di crediti alle
banche. Questi li 'impacchettattano', li trasformano in obbligazioni (il cui
rating di solito è AAA quindi tutt'altro che pessimo) e li piazzano sul
mercato. Ma ora che la New Century fa mancare la 'base' su cui si appoggiavano
queste obbligazioni, le banche hanno a disposizione alcune clausole per
recuperare parte degli ammanchi. La New Century però non ha a
disposizione i fondi per pagare le penali. E gli analisti dicono che le banche
d'investimento dovrebbero tener presente questa circostanza e tagliare
drasticamente i loro utili trimestrali.
La britannica Barclays Bank sarebbe in
trattativa per una fusione con la rivale olandese Abn Amro. Se l’accordo
andasse in porto nascerebbe un colosso mondiale con una capitalizzazione da 81
miliardi di sterline, pari a 155 miliardi di dollari, 47 milioni di clienti e
220mila dipendenti nel mondo. Un annuncio è atteso entro domattina,
secondo quanto ha detto un portavoce di Barclays a «Il Sole 24 Ore». Il
negoziato sarebbe in una fase preliminare e Barclays si sarebbe presentata
nella veste di “cavaliere bianco” per un’operazione di soccorso. Abn Amro
è infatti da tempo nel mirino degli investitori. In particolare, l’hedge
fund Tci di Chris Hohn accusa l’amministratore delegato di Abn Amro, Rijkman
Groenink, di avere creato poco valore per gli azionisti da quando si è
insediato nel 2000. E ciò malgrado una robusta campagna di investimenti
e acquisizioni di banche all’estero, compresa l’Italia dove oggi opera come
Banca Antonveneta Abn Amro.
John Varley, l’ambiziosissimo amministratore delegato di Barclays, pare
determinato a ridare lustro a un istituto che una volta era tra le 10 prime
banche del mondo e oggi è scivolata al 15° posto. Da quando è
giunto alla guida di Barclays, nel settembre 2004, Varley ha schiacciato
l’acceleratore sull’espansione all’estero. Non è la prima volta nella
storia di Barclays. Ma la banca in passato ha avuto cocenti delusioni e ha
dovuto procedere a umilianti ritirate, come accadde negli anni ’80 nel nostro
Paese.
Oggi Barclays in Italia opera con 20 sportelli al dettaglio di cui alcuni con
il marchio Banca Woolwich nei mutui ipotecari. Il progetto è di
raggiungere in totale quota 50 tra Milano e Roma entro fine anno.
Barclays non pare peraltro essere l’unica candidata all’acquisto di Abn Amro.
Le attività della banca olandese, distribuite in varie parti del mondo
fanno gola a rivali come la francese Bnp Paribas o la spagnola Bbva.
L’approccio di Barclays potrebbe, secondo gli analisti, scatenare una corsa
all’acquisto. Le grandi manovre sono appena cominciate.
Non si parla di mafia al British Museum. Si
rischia di identificare la Sicilia con Cosa Nostra e di enfatizzare tutti gli
stereotipi convenzionali relativi all'Italia. Per questo il film documentario
«Un'altra storia», che racconta la sfida siciliana di Rita Borsellino nei
confronti del governatore poi eletto Totò Cuffaro, portatori di due
concezioni opposte della politica in Sicilia, non va proiettato al festival
«Conversation in Film», in programma a Londra, organizzato dal dipartimento di
antropologia dello University College. Pena, il ritiro del sostegno finanziario
da parte dell'ambasciata italiana.
Contenuto in una lettera inviata al direttore del festival Patrick Hazard, il
diktat dell'istituto italiano di Cultura a Londra non ha lasciato spazio a ripensamenti
ma neanche ad obbedienze: il film prodotto da Playmaker produzioni è
stato proiettato regolarmente sabato sera al British Museum e il dibattito che
ne è seguito ha portato a galla un incomprensibile ed irrituale
atteggiamento censorio dell'istituto italiano di cultura condannato da tutti i
presenti, molti dei quali hanno annunciato mail di protesta nei confronti
dell'ambasciata.
Girato da quattro registi, Laura Schimmenti, Marco Battaglia, Gianluca Donati e
Andrea Zulini, il film ricostruisce la campagna elettorale delle regionali del
2006, dalle primarie in cui la Borsellino ha superato il concorrente della
Margherita Ferdinando Latteri fino alla sfida persa con Cuffaro. La pellicola
racconta due Sicilie, quella raccolta attorno al sistema di potere di
Totò Cuffaro e quella che, con la candidatura della sorella del
magistrato ucciso dalla mafia, ha sognato di scardinare questo sistema per
iniziare, appunto, «Un'altra storia». Ma all'istituto italiano di cultura della
capitale inglese il film non è piaciuto: «Non voglio entrare nel merito
di un dibattito sociologico sulle tendenze in Sicilia - scrive nella lettera il
prof. Pierluigi Ballotta, direttore dell'istituto - né voglio discutere la
vostra scelta dei documentari che ritenete più idonei per l'obiettivo
del festival. Ciò nonostante, non riusciamo a cogliere in questo
documentario un approccio antropologico, né tanto meno europeo, che riteniamo
sia uno degli obiettivi del festival». «Date le circostanze consideriamo
inappropriato che l'ambasciata italiana e l'istituto italiano appoggino tale
visione dell'Italia - conclude - siamo spiacenti di informarla che, stando
così le cose, dobbiamo ritirare il nostro supporto, e il nostro logo, da
questa iniziativa».
Al festival inglese hanno deciso di rinunciare ai soldi italiani, ma non alla
proiezione del film: «Sono molto orgoglioso di proiettare «Un'altra storia» al
LIDF - ha scritto il direttore del festival ai produttori - è il nostro
piccolo aiuto per sostenere voi e il messaggio che avete espresso nel film». E
la regista Laura Schimmenti commenta: «Sono molto sorpresa dalla decisione
dell'istituto italiano di Cultura. Ringrazio il direttore del festival per non
aver ceduto al tentativo di censura, che consideriamo un sopruso. Parlare di
mafia e di atteggiamento mafioso non significa solo raccontare la Sicilia e i
morti ammazzati, ma anche conservare la dignità e la coscienza che
gridare di fronte ai soprusi è il più importante dei modi per
combattere il sistema mafioso».
Silvio Sircana non sa cosa farà in
futuro, un futuro prossimo. Non sa se resterà al suo posto di portavoce
unico del governo oppure se si dimetterà. Lo dice a tutti coloro con i
quali parla in questi giorni amari, spiegando anche che sarebbe meglio se
quella famigerata foto fosse stata pubblicata. Dice anche che per ora è
rimasto al suo posto per seguire il sequestro di Daniele Mastrogiacomo, che
conosce da quando erano ragazzi e che, naturalmente, spera di rivedere presto
sano e salvo. Dopo di che, deciderà. Forse non reggerà a lungo in
una posizione tanto delicata, soprattutto quando tutti sanno che la foto che
ritrae la sua macchina accanto a una prostituta (transessuale o donna non si
sa, dall’immagine non si distingue e non è così fondamentale)
gira nelle redazioni dei giornali. E se anche non venisse pubblicata, lui e
tutti i giornalisti con i quali deve avere rapporti istituzionali sanno che
c’è. Sa soprattutto, Sircana, che si tratta di un’arma di ricatto tanto
implicita quanto micidiale. Ovviamente è una decisione che spetta a lui,
ma se alla fine decidesse di lasciare non gli si potrebbe dar torto: la sua
immagine, per come si valuta oggi l’immagine, non ne esce certamente più
limpida. E con la sua, quella del governo e del premier che rappresenta.
Ma per quanto ci riguarda, pensiamo che lui non abbia fatto nulla di tanto
grave. Come milioni e milioni di italiani, che magari di giorno si trasformano
in ipocriti moralisti, si è lasciato tentare da un’avventura notturna di
sesso a pagamento. C’è andato da solo, con la sua macchina privata, come
un uomo qualsiasi, non ha usato il suo potere per ottenere chissà quali
favori da chissà quale donna o uomo o trans bella e famosa. Sono insomma
fatti suoi, anzi sarebbero fatti suoi se qualcuno in cerca di soldi non lo
avesse sorpreso e fotografato e non fosse stato intercettato al telefono.
Così Sircana è finito in quell’inchiesta che, tra improprie fughe
di verbali, sta comunque svelando lo sporco gioco di una banda di ricattatori.
Si può discutere sull’opportunità che un uomo che ricopre un
ruolo pubblico e così delicato come quello di Sircana non resista a
queste tentazioni, e magari avrebbe fatto meglio a resistere. Si può
stigmatizzare il fatto che moltissimi uomini vadano a puttane. Ma non si
può sostenere che chi ci è andato non possa fare il portavoce, il
parlamentare, il ministro, il manager, il direttore di giornale. Altrimenti si
rischierebbe di decimare la nostra classe dirigente.
Dunque Sircana, per quanto ci riguarda, potrebbe restare al suo posto. Chi
invece al suo posto non dovrebbe restare è un personaggio che ricopre un
altro ruolo delicato, ossia il Garante per la privacy, Francesco Pizzetti. E
non a causa di qualche suo comportamento privato e moralmente disdicevole, di
cui nulla sappiamo e non ci interessa minimamente sapere. Ma proprio per i suoi
atti pubblici, anzi il suo atto pubblico. Quello con cui inasprisce le pene per
chi pubblica notizie irrilevanti (secondo lui) che riguardano la sfera privata
e sessuale delle persone (anzi personaggi). Se solo Pizzetti avesse emanato il
suo diktat quando sotto i riflettori e sui giornali finivano persone meno
importanti di Sircana, avremmo potuto discutere nel merito del provvedimento.
Se cioè fosse giusto o sbagliato, se le pene fossero troppo leggere o
pesanti.
Invece Pizzetti ha fatto finta di niente, lui che doveva garantire la privacy
non si curava della privacy di tanta gente. Molti di loro, come Sircana, non
colpevoli di nulla (se non di farsi gli affari loro, ovviamente sessuali, che
sennò non c’è notizia). Ma vittime, come Sircana, di un tentativo
di estorsione. Niente, il Garante non c’era e se c’era dormiva. Si è
svegliato solo al momento giusto (per lui), quando cioè sotto tiro era
finito il portavoce del presidente del Consiglio. Evidentemente Pizzetti ha
letto La fattoria degli animali di Orwell, cioè la parodia dello
stalinismo in cui «tutti gli animali sono uguali, ma i maiali sono più
uguali». Peccato solo che non ne abbia colto il sarcasmo.
Sessant'anni fa Togliatti si accordava con la Dc
sull'articolo 7 della Costituzione Il Pci accolse i Patti Lateranensi e
avviò una strategia di dialogo che sarebbe arrivata fino al compromesso
storico. Una lunga stagione politica di cui si discute in vista del Partito
democratico. Il partito democratico è davvero "l'idea forza per
galvanizzare il nostro popolo, l'unica chance che abbiamo per battere il
centrodestra", come esclama, con entusiasmo un po' disperato, Michele
Salvati, tra i principali estensori del Manifesto dei Democratici? Lasciando in
sospeso l'interrogativo c'è da augurarsi che l'Unione sappia presentarsi
con una panoplia più ricca di armi e di argomenti e con una
capacità unitaria capace di esprimersi oltre l'orizzonte del partito
democratico, qualora questo non avesse ancora superato le doglie del parto al
momento del voto, specie se anticipato. L'incertezza di questo appuntamento
spiega forse anche il carattere ultimativo imposto da Piero Fassino ("non
si può più tornare indietro") alla dialettica congressuale,
da cui dovrebbe scaturire la decisione dell'auto scioglimento ds, concepita
evidentemente come una strategia senza altre alternative. I sostenitori del Pd
avanzano in proposito due argomenti: alle ultime politiche si calcola che i ds
abbiano raccolto il 17,5 dei voti e la Margherita il 10,7. Non sono percentuali
paragonabili a quelle raccolte dagli schieramenti riformisti negli altri paesi
europei. L'altro argomento a favore è la parallela ispirazione
riformista sia dei post comunisti sia dei post dc, per cui, a quasi vent'anni
dalla caduta del muro di Berlino, essendo venute meno le ragioni storiche della
loro contrapposizione, non avrebbe più senso una separazione non
suffragata da una sostanziale differenziazione politica. Vi è, peraltro,
almeno a mio avviso, un altro elemento imponderabile e che potrebbe dare, come
nel gioco d'azzardo quando si becca l'en plein, una soddisfazione di gran lunga
più decisiva delle attese aritmetiche: l'esplodere propulsivo di un
sentimento di massa, scaturito dalla combinazione tra l'attesa sempre delusa,
ma sempre risorgente di unità e concordia del popolo di centro sinistra,
e la nascita del nuovo partito. Dipenderà dal modo e dal come si
presenterà, dalla sua apertura e trasparenza, dal grado di
sterilizzazione percepita delle dinamiche partitiche e di potere fino ad oggi
prevalenti e sempre più mal sopportate dall'opinione pubblica di
qualsivoglia tendenza, dalla formazione e dal profilo della leadership. Tutte
premesse per ora lontane, poiché allo stato dell'arte, purtroppo, la gestazione
in corso denota un appiattimento sul presente, quasi questo partito democratico
venisse proposto per una subitanea illuminazione o per un calcolo strumentale
di scarso respiro. Eppure credo che se si collocasse questa svolta nella ormai
lunga vicenda del rapporto tra mondo cattolico e sinistre e si uscisse dalle
questioni di breve momento, le incomprensioni e i dilemmi si collocherebbero in
una dimensione storica che consentirebbe di riconoscerli alla radice. E forse
di chiarire quale obbiettivo viene proposto, al di là del prossimo o
meno prossimo risultato elettorale. Tanto per fissare una periodizzazione
partirò da un giorno ormai lontano, l'11 marzo 1947, quando Palmiro
Togliatti illustrò su quale terreno di "compromesso" (compare
qui per la prima volta quella formulazione che, dice T., "non ha in sé un
senso deteriore" e che Berlinguer riprenderà molti anni dopo)
giudicasse possibile costruire una Costituzione che valesse ben oltre "gli
accordi politici contingenti dei partiti che possono costituire una
maggioranza". Suo interlocutore privilegiato è Giorgio La Pira, in
quella stagione il rappresentante più alto, assieme a Giuseppe Dossetti,
del pensiero cattolico. Le parole di La Pira che aveva parlato poco prima,
ascoltate con "appassionato interesse" dal capo del Pci hanno
indicato "la via per la quale siamo arrivati a quella unità che ci
ha permesso di dettare queste formulazioni (gli articoli basilari della
Costituzione, n.d.r.). Effettivamente c'è stata una confluenza di due
grandi correnti: da parte nostra un solidarismo - scusate il termine barbaro -
umano e sociale; dall'altra parte un solidarismo, di ispirazione ideologica e
di origine diversa, il quale però arrivava, nella impostazione e
soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a
risultati analoghi a quelli cui arriviamo noi. Questo è il caso dei
diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della
nuova concezione del mondo economico, né individualistica né atomistica, ma
fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del
lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di
proprietà. Né poteva far ostacolo a questo confluire di due correnti...
la concezione... della dignità della persona... vi era qui un altro
punto di confluenza della nostra corrente, socialista e comunista, colla
corrente solidaristica cristiana... Se questa confluenza di due diverse
concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come
"compromesso" fatelo pure". Solo pochi giorni dopo, il 27 marzo,
dc, comunisti (col voto contrario di Concetto Marchesi e Teresa Noce) e
qualunquisti faranno approvare l'art. 7 che sancisce l'inserimento dei Patti
Lateranensi nella Costituzione, malgrado l'opposizione dei socialisti e di
buona parte de partiti repubblicani e laici. Si apre in quel momento la lunga
stagione del catto-comunismo che segnerà tutta la storia della prima
Repubblica e non solo la Costituzione scritta ma altresì la Costituzione
materiale, quell'assieme di norme, leggi, regolamenti e prassi parlamentari,
suddivisione di poteri, riforme di vario segno, comportamenti consolidati che
hanno caratterizzato in modo permanente e vincolante l'operato di quello che fu
chiamato l'arco costituzionale. Assai meno lineare, già da allora, come
si è visto con l'art.7 ma non solo, il rapporto fra le due sinistre,
comunista e socialista. E se dal 1948 al 1956 la stagione della guerra fredda
rinsalderà il patto di unità d'azione e il comune impegno nei
sindacati, comuni e cooperative, la repressione prima a Poznan, poi in Ungheria
porterà ad un progressivo distacco e a una ripresa dell'autonomia
socialista. Chi poi, come Giorgio Amendola, tenterà di sostenere nel Pci
l'esigenza di un partito unico di sinistra di stampo riformista, uscirà
isolato e sconfitto. La partecipazione del Psi ai governi di centro sinistra
darà nuovi incentivi alla ostilità, ancor prima che compaia Craxi
all'orizzonte. Ma quel che qui preme sottolineare è la funzione che il
rapporto coi cattolici assume per impedire ogni possibile trasformazione del
Pci in un partito socialdemocratico. Nel settembre-ottobre 1973 Enrico
Berlinguer con due articoli su Rinascita prende le mosse dal colpo di Stato di
Pinochet in Cile per trarre la conclusione che, neppure con il 51 per cento dei
voti, le sinistre possano e debbano andare al governo. Di qui la proposta del
compromesso storico che corona un ragionamento esplicito: "Noi parliamo
non di una alternativa di sinistra ma di una alternativa democratica, e
cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa
delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze
popolari di ispirazione cattolica". Incardinando in questa nuova fase la
strategia consociativa inaugurata da Togliatti, Berlinguer, da un lato, approfondirà
il rapporto con la Dc che con Moro toccherà l'acme, proponendosi di
ottenere l'avallo cattolico per arrivare alla cancellazione della conventio ad
excludendum senza affrontare una profonda revisione della natura del partito,
dall'altra, taglierà ogni prospettiva all'autonomia socialista negando
alla radice la possibilità di un governo delle sinistre, persino nel
caso avessero ottenuto la maggioranza assoluta dei suffragi. Su questa premessa
sbagliata e conservatrice il Pci arriva al crollo del Muro e alla fine
dell'Urss. L'empito dell'anti socialismo, che si confonde con l'anti craxismo,
si riverbera anche nel neonato Pds. L'approdo al partito socialista europeo e
la patetica operazione della Cosa due avvengono per partenogenesi: vetero e
post comunisti si autobattezzano socialdemocratici, guardandosi bene dal
recuperare e far accedere alla stanza dei bottoni gli ex socialisti, anche
quando si chiamano Giuliano Amato e Giorgio Ruffolo. Contemporaneamente viene
respinta anche quell'ipotesi di "partito democratico" avanzata da
Walter Veltroni, come involucro di trasformazione radicale e di modernizzazione
dell'ex Pci. è guardando a questo storico retroterra, che ci accompagna
almeno da cinquant'anni, che il giudizio sul costituendo partito democratico si
fa più approfondito. Le varianti col passato sono senz'altro notevoli.
In primo luogo fino a ieri e certamente da Togliatti a Berlinguer il
catto-comunismo costituiva il terreno comune, sovente para istituzionale, di
compromesso politico e sociale, fra due partiti ben distinti, fieri della loro
identità e, almeno in alcuni periodi, aspramente contrapposti. Oggi
siamo di fronte ad un salto di qualità: la creazione di un partito
unificato tra post dc e post comunisti, un parto assai tardivo ma non
incestuoso del compromesso storico. Se così è appare anche
abbastanza naturale il distacco dal Pse, un impronta genetica troppo recente e,
dunque, eliminabile senza dolore per una buona parte dei post comunisti. Il
discorso, peraltro, non si chiude qui perché lascia aperto il quesito su quale
cultura risulterà egemonica nel nuovo partito. è lecito presumere
che i ds si presentino col bagaglio più leggero avendo fatto piazza
pulita del concetto stesso di ideologia, obbligati a una terapia di rigetto nei
confronti della socialdemocrazia, incerti su una identità slabbrata tra
liberismo e no global. Per contro le margherite post dc trovano nella
conciliazione tra fede cattolica e riformismo temperato l'humus su cui far
crescere una cultura capace di marcare il futuro partito. Lo si ricava dallo
stesso Manifesto dei Democratici, laddove si bolla come "presunta e
illusoria" la "neutralità" del laicismo e si rivendica,
per contro, il "riconoscimento della piena cittadinanza, dunque della
rilevanza nella sfera pubblica, non solo privata, delle religioni".
L'empito interventista impresso alla Chiesa dagli ultimi due pontificati -
dalla scienza all'etica, dalla scuola alla famiglia - si riverbera sulla
diaspora politica del cattolicesimo italiano con una dialettica destinata a
farsi sentire su ogni comparto partitico, ancorché separato. Da Togliatti a
Ruini il cammino è stato lungo. Le vie della Provvidenza sono infinite e
non è detto che il Partito democratico non possa contribuire alla
ricostruzione in forme nuove dell'unità politica dei cattolici. Non
è detto che sia un male.
Non
so quante speranze abbiano quei dirigenti dei Ds (ma anche Giuliano Amato) che,
con l’avvicinarsi dei congressi nazionali dello Sdi, della Quercia e della
Margherita, si appellano ai «compagni socialisti» perché ci ripensino, e
aderiscano al costituendo Partito democratico. Poche, direi, anche perché
fatico a capire quale straordinaria proposta possano mettere in campo per convincerli
in extremis. Ma gli appelli ci sono, e si moltiplicheranno nei prossimi giorni.
Ed è il caso di rifletterci su già adesso. Soprattutto, si
capisce, per un giornale come il nostro, che nel difficile confronto in corso
tra i riformisti del centrosinistra (in primissimo luogo quelli di ispirazione
laica, socialista, liberale e libertaria) sta con le proprie idee, certo, ma
con grande apertura verso tutte le posizioni in campo, e con spirito
tollerante.
Un punto già lo abbiamo segnato. Perché questi appelli testimoniano a
modo loro di quanto fossero fuori strada, con tutta la loro supponenza, quelle
eminenti personalità dei Ds, per non dire della Margherita. Che ancora
fino a poche settimane fa archiviavano la questione socialista come l’ultima,
fastidiosa eredità lasciataci dal Novecento, piombo nelle ali di cui
occorrerebbe liberarsi in fretta per spiccare il volo e, manco a dirlo, andar
oltre, verso la fusione di quel che resta delle due uniche tradizioni che
contano, quella (post) comunista e quella (un po’ meno post) democristiana. La
questione socialista c’è, e va oltre lo Sdi, i partitini della diaspora,
le speranze infondate, e a dire il vero rapidamente deposte da tutti, di
ricostituire il vecchio Psi, o qualcosa di simile. E non sta più solo
sullo sfondo, come è sempre stato nell’unico paese d’Europa che un
grande partito socialista non lo ha mai avuto. A restituirle attualità
in settori ben più ampi dell’opinione di sinistra è la marcia, a
questo punto a tappe quasi forzate, verso il Partito democratico. Se, come
sembra ineluttabile, nascerà, e soprattutto se nascerà con le
fattezze che i gruppi dirigenti della Quercia e della Margherita gli hanno,
almeno sin qui, assegnato, la sua costituzione, più che determinare
forti resistenze (perché sono pochi, immagino, a voler strenuamente difendere
l’esistenza di due partiti, Ds e Margherita, già da un pezzo alla fine
di una corsa che forse non hanno mai davvero iniziato), scompaginerà gli
assetti, precari e per molti aspetti anche fittizi, di quella parte non piccola
della sinistra italiana che non sarà della partita. Nel senso che i
riformisti che non aderiranno al Pd si ritroveranno a fungere da ala destra
della sinistra radicale, come suggeriscono gli estensori degli appelli ai
«compagni socialisti», ai sostenitori delle mozioni di minoranza del congresso
diessino, ai laici che temono di venir fagocitati in un nuovo partito molto
più attento alle ragioni dei clericali che alle loro?
Può anche darsi, ma non è scritto da nessuna parte che le cose
vadano così, e comunque non sembra proprio questa l’ambizione di chi in
questi giorni si sta chiamando fuori, si tratti di Peppino Caldarola o del
principale organizzatore della manifestazione per i Dico di dieci giorni fa, il
presidente dell’Arcigay veneto Alessandro Zan, e di chi lo farà nelle
prossime settimane. La situazione è semplice. La questione socialista
non è solo la questione dei socialisti. Sta diventando pure la metafora
di un mondo, non enorme, certo, ma più vasto di quel che spesso si
pensi, di sinistra e di centrosinistra, convinto che nel costituendo Pd non si
troverebbe in casa propria, e rafforzato in questa convinzione dall’andamento
di congressi che, se c’era ancora qualche passione in giro, hanno provveduto a
spegnerla. Senza questo mondo (oltre che senza lo Sdi, che di qui a poco
sarà l’unico partito italiano a far parte a pieno titolo non della
Sinistra Europea, ma del Pse), la sinistra nel Pd (o se preferite: i Ds nel Pd)
rischia di essere ancora più debole. Gli appelli ai «compagni
socialisti» hanno un senso anche perché sono motivati da questo timore, o da
questa consapevolezza. Sta a chi li lancia dimostrare che non sono fuori tempo
massimo, e che la rotta può ancora essere corretta, perché altrimenti la
nave è destinata ad incagliarsi. Non c’è che da aspettare qualche
giorno. Ma personalmente non mi faccio troppe illusioni.
Paolo Franchi
Pur
non chiedendo una normativa vincolante, i deputati hanno sottolineato i limiti
di un approccio esclusivamente volontario e chiedono di promuovere la
partecipazione delle piccole e medie imprese alla Rsi. Nel chiedere un
meccanismo di difesa per le vittime di illeciti da parte delle imprese, hanno
raccomandao anche di rafforzare le responsabilità dei dirigenti delle
aziende con più di 1. 000 dipendenti. Adottando la relazione di Richard
Howitt (Pse, Uk), il Parlamento si dice convinto che il potenziamento delle responsabilità
sociale e ambientale delle imprese, collegato al principio della
responsabilità imprenditoriale, "rappresenta un elemento essenziale
del modello sociale europeo e della strategia europea per lo sviluppo
sostenibile" ed è "la risposta alle sfide sociali della
globalizzazione economica". Apprezza quindi la comunicazione della
Commissione che imprime nuovo slancio al dibattito sulla responsabilità
sociale delle imprese, anche se esprime qualche perplessità quanto alla
trasparenza e all'equilibrio della consultazione svolta prima della
pubblicazione. Il Parlamento, inoltre, riconosce anzitutto la definizione
formulata dalla Commissione secondo cui la "responsabilità sociale
delle imprese" (Rsi) consiste nell'integrazione volontaria di
considerazioni ambientali e sociali nelle operazioni di impresa, al di
là delle prescrizioni legali e degli obblighi contrattuali. D'altra
parte, osservando che tra i diversi gruppi interessati rimane aperto il
dibattito su una definizione appropriata della Rsi, ritiene che attualmente
è possibile che talune imprese pretendano di sostenere la
responsabilità sociale, mentre nel contempo "violano leggi locali o
internazionali". Ma i deputati precisano comunque che le politiche in
materia di Rsi dovrebbero essere portate avanti valutando i pro e i contro,
"non in sostituzione di una regolamentazione appropriata in altri campi,
né come un approccio subdolo all'introduzione di tale legislazione". Nel
riconoscere peraltro che molte imprese effettuano già un intenso e
crescente sforzo per ottemperare alla propria responsabilità sociale, il
Parlamento rileva infatti che un metodo universale che cerchi di imporre alle
imprese un unico modello di comportamento "sia inopportuno e non
porterà ad una loro adesione significativa alla Rsi". D'altra
parte, il Parlamento osserva che la varietà di iniziative volontarie in
materia "rappresenti un ostacolo per molte imprese che adottano politiche
sulla Rsi, nonché "un disincentivo per le imprese a perseguire azioni più
credibili o politiche più ambiziose". Anche se riconosce che tale
varietà fornisce alle imprese "ulteriore ispirazione". La
credibilità delle iniziative volontarie in materia di Rsi, per il
Parlamento, continua inoltre a dipendere "dall'impegno a incorporare le
norme e i principi vigenti e concordati a livello internazionale e da un
approccio pluralistico", nonché dall'attuazione di un monitoraggio e di
una verifica indipendenti. La Commissione è quindi invitata a divulgare
le buone prassi, risultato di iniziative volontarie in materia di Rsi,
prendendo in considerazione la creazione di una lista di criteri che le imprese
devono rispettare se attuano responsabilità sociale. Secondo i deputati,
peraltro, è giunta l'ora in cui l'accento sia spostato dai
"processi" ai "risultati", "con un conseguente
contributo misurabile e trasparente da parte delle imprese alla lotta contro
l'esclusione sociale e il degrado ambientale in Europa e nel mondo".
Occorre poi porre l'accento sullo sviluppo della società civile, e in
particolare sulla consapevolezza dei consumatori circa una produzione
responsabile, in modo da promuovere la responsabilità sociale. La Rsi
deve inoltre affrontare nuovi ambiti come l'apprendimento lungo tutto l'arco
della vita, l'organizzazione del lavoro, le pari opportunità, l'inclusione
sociale, lo sviluppo sostenibile e l'etica, così da fungere da strumento
supplementare per la gestione del cambiamento industriale e delle
ristrutturazioni. Per i deputati un approccio "serio" alle Rsi da
parte delle imprese può contribuire ad aumentare l'occupazione, a
migliorare le condizioni di lavoro, a garantire il rispetto dei diritti dei
lavoratori e a promuovere la ricerca e lo sviluppo di innovazioni tecnologiche.
Per tale ragione apprezzano l'obiettivo della Comunicazione di legare la Rsi
agli obiettivi economici, sociali e ambientali dell'agenda di Lisbona.
Sostengono, inoltre, il principio della "competitività
responsabile" quale parte integrante del programma della Commissione a
favore dell'innovazione e della competitività. Riconoscono poi che la
Rsi "è un motore importante per le imprese" e chiedono
l'integrazione di politiche sociali (come il rispetto per i diritti dei
lavoratori, una politica salariale equa, il rifiuto della discriminazione, la
formazione permanente, ecc. ) e questioni ambientali incentrate sulla
promozione dello sviluppo sostenibile. Lo scopo dovrebbe essere di sostenere
sia nuovi prodotti e processi attraverso le politiche dell'Ue in materia di
innovazione e scambi commerciali sia l'elaborazione di strategie settoriali,
subregionali e urbane per la competitività. Il Parlamento, d'altra
parte, rileva la contraddizione tra le strategie competitive per
l'approvvigionamento delle imprese che mirano a migliorare costantemente
flessibilità e costi e gli impegni volontari a livello di Rsi, volti ad
evitare lo sfruttamento nei rapporti di lavoro e a promuovere relazioni stabili
con i fornitori. Suggerisce poi che le valutazioni e il controllo delle imprese
europee riconosciute responsabili "si estendano anche alle loro attività
e a quelle dei loro sub-contraenti al di fuori dell'Unione europea". La
Commissione è anche sollecitata a far sì che le imprese
transnazionali con sede nell'Ue e dotate di impianti di produzione in paesi
terzi rispettino e promuovano attivamente i patti sociali e ambientali nonché
gli accordi internazionali. Nel riconoscere poi gli attuali limiti del settore
della Rsi in relazione alla misurazione del comportamento imprenditoriale e
della revisione e certificazione sociale delle imprese, i deputati raccomandano
alla Commissione di rafforzare le responsabilità dei dirigenti delle
aziende con più di 1. 000 dipendenti, al fine di includere l'impegno per
i dirigenti stessi di minimizzare l'eventuale impatto dannoso, dal punto di
vista sociale ed ambientale, delle attività d'impresa. Ribadiscono
inoltre il sostegno al programma di ecogestione e audit dell'Ue, in particolare
il relativo obbligo di verifica esterna nonché l'obbligo per gli Stati membri
di promuovere il programma e ritengono che vi siano spazi per sviluppare
programmi analoghi in materia di tutela dei diritti del lavoro, sociali e
umani. D'altra parte, la Commissione dovrebbe promuovere la partecipazione
delle piccole e medie imprese alla Rsi, in collaborazione con organismi
intermediari, che offrono un sostegno specifico alla partecipazione di
cooperative/imprese dell'economia sociale, attraverso le loro associazioni
specifiche. Dovrebbe inoltre condurre un approfondito studio a livello europeo
sulle varie modalità con cui le Pmi possono partecipare alla Rsi e sugli
incentivi esistenti ai fini dell'adozione di principi Rsi su base volontaria
individuale. Il Parlamento chiede inoltre alla Commissione di attuare un
meccanismo che consenta alle vittime, compresi i cittadini di paesi terzi, di
ottenere giustizia contro imprese europee dinanzi ai tribunali nazionali degli
Stati membri. In proposito, apprezza il sostegno finanziario diretto della
Commissione alle iniziative in materia di Rsi, in particolare per assistere le
vittime potenziali in caso di presunti illeciti, "compresi gli omicidi
colposi provocati da imprese". Incoraggia inoltre la Commissione a
sviluppare, in particolare, meccanismi atti a garantire che le comunità
danneggiate dalle imprese europee abbiano diritto a un processo equo e accessibile.
Raccomanda poi che sia presa in considerazione la nomina di un ombudsman
dell'Ue per la Rsi che svolga indagini indipendenti su questioni relative alla
Rsi su richiesta di imprese o di qualsiasi gruppo di soggetti interessati. Il
Parlamento, inoltre, sostiene il codice di buona pratica dell'Alleanza
internazionale per l'accreditamento e l'etichettatura sociale e ambientale
"quale esempio saliente della promozione tra le attuali iniziative di
etichettatura, in alternativa alla creazione di nuove etichette sociali a
livello nazionale ed europeo". Tuttavia, accogliendo un emendamento del
Pse e del Ppe/de, ha soppresso il paragrafo che invitava l'Ue a adottare uno
standard europeo per l'etichettatura dei prodotti in merito all'osservanza dei
diritti umani e dei diritti fondamentali dei lavoratori. Attira infatti
l'attenzione sui costi considerevoli registrati dalle imprese per adeguarsi ai
diversi e numerosi requisiti e disposizioni nazionali e sottolinea che la
definizione di meccanismi di controllo volti alla supervisione
dell'etichettatura sociale è onerosa, segnatamente per i piccoli paesi.
Nel compiacersi della tendenza emersa negli ultimi anni che vede grandi imprese
pubblicare volontariamente relazioni sugli aspetti sociali e ambientali, i
deputati rilevano tuttavia che il numero di tali relazioni "è ormai
statico", mentre "solo una minoranza applica standard e principi
accettati a livello internazionale e riferisce in merito all'intera catena di
approvvigionamento dell'impresa o ricorre a monitoraggi e verifiche
indipendenti". Ricordano quindi alla Commissione l'invito del Parlamento a
presentare una proposta volta a introdurre requisiti in materia di informazioni
sociali e ambientali nella direttiva sui conti annuali di taluni tipi di società.
Reputano inoltre importante sensibilizzare maggiormente circa le disposizioni
al riguardo nel quadro della raccomandazione della Commissione del 2001 sulla
divulgazione ambientale, della direttiva del 2003 sulla modernizzazione
contabile e della direttiva del 2003 sui prospetti finanziari. Auspicano quindi
una loro trasposizione "tempestiva" in tutti gli Stati membri e
chiedono che vengano effettuati studi sulla loro effettiva attuazione. Per i
deputati, inoltre, la Commissione e gli Stati membri dovrebbero compiere
maggiori sforzi a livello nazionale, regionale e locale per avvalersi delle
opportunità offerte dalla revisione delle direttive sugli appalti
pubblici del 2004 per sostenere la Rsi. Andrebbero quindi promosse clausole
sociali e ambientali tra i potenziali fornitori, riconoscendo al contempo la
necessità di evitare di gravare le piccole e medie imprese di oneri
amministrativi aggiuntivi che potrebbero dissuaderle dal partecipare a gare
d'appalto e per escludere, se necessario, le imprese, anche in caso di
corruzione. La Banca europea per gli investimenti e la Banca europea per la
ricostruzione e lo sviluppo dovrebbero poi applicare severi criteri sociali ed
ambientali a tutti i prestiti e finanziamenti erogati a imprese private.
Ricordano poi che qualsiasi garanzia di credito all'esportazione deve essere
conforme ai criteri ambientali e sociali più rigorosi e non essere
utilizzata per progetti contrari agli obiettivi politici concordati dall'Ue.
Nel prendere atto della decisione della Commissione di istituire un'alleanza
europea in materia di responsabilità sociale delle imprese, la relazione
incoraggia tutte le imprese europee e quelle operanti in Europa a aderire a
tale iniziativa e a contribuire al rafforzamento dell'alleanza. Infine, il
Parlamento invita gli Stati membri e la Commissione a sostenere e a promuovere
il rispetto delle norme fondamentali dell'Organizzazione internazionale del
lavoro (Oil) in quanto componente della responsabilità sociale delle
imprese, ovunque esse esercitino le loro attività. Ritiene poi che la
dimensione internazionale della Rsi dovrebbe stimolare l'elaborazione di linee
guida atte a promuovere lo sviluppo di politiche analoghe in tutto il mondo.
Incoraggia quindi l'ulteriore sviluppo di iniziative internazionali per la completa
trasparenza delle entrate da parte delle imprese europee in merito alle loro
attività nei paesi terzi, "affinché esse rispettino integralmente i
diritti umani nelle loro operazioni in zone di conflitto e al fine di
respingere le attività di lobby, compresi gli accordi con i paesi ospiti
elaborati dalle imprese per compromettere o evadere gli obblighi regolamentari
vigenti in tali paesi". . . . .
<<BACK.
Le voci degli afghani che si sono battuti
contro talebani e signori della guerra e che oggi soffrono l'occupazione
occidentale. E la corruzione del governo Karzai. Che si nutre degli aiuti
internazionali per arricchirsi, abbandonado a se stesso il paese. Vittorio
Agnoletto di ritorno da Kabul "Possibile che non abbiate ancora capito che
l'alternativa è scegliere tra il popolo afgano, i talebani e il governo
Karzai e non solo tra gli ultimi due? Gli Usa dicono di sostenere gli afghani
ma sostengono un governo e un parlamento pieno di signori della guerra"
Incontro il dr. Bashardost Ramazan nel parco di Kabul dove da mesi ha montato
una tenda, passa qui intere giornate ad ascoltare le richieste e le proteste di
chiunque gli chieda un colloquio, e cerca di farsi portavoce delle esigenze dei
suoi concittadini in Parlamento, dove è stato eletto come indipendente.
Ha molte cose da denunciare e da chiedere a chi rappresenta un paese coinvolto
nell'alleanza militare: "Non molto tempo fa un incaricato d'affari
dell'ambasciata Usa ha dichiarato in un dibattito con Dostum su Aina Tv che
costui, famoso signore della guerra nonché proprietario della stessa
televisione, è 'una brava persona'. Due settimane fa Ronald Neumann, ambasciatore
USA, è stato ricevuto a casa sua da Rabbani, altro criminale di guerra e
dopo l'incontro ha dichiarato pubblicamente che il suo ospite 'ha fatto molte
cose buone per il popolo afgano'. L'ambasciatore tedesco l'aveva preceduto a
casa di Rabbani circa due mesi fa. Rabbani anche per Human Rights Watch
è un criminale. Gli ambasciatori Usa e dell'Ue sostengono i signori
della guerra. Gli afghani non capiscono qual'è la politica della
comunità internazionale". Bashardost è un fiume in piena:
"Inoltre, non è un mistero che le forze internazionali, soprattutto
inglesi e statunitensi, non rifiutano accordi con i talebani, quando lo
reputano vantaggioso per le loro strategie nazionali o per la sicurezza dei
loro uomini". Circa sei mesi fa il generale David Richards, dal 4 maggio
2006 comandante inglese delle truppe internazionali in Afghanistan, ha
consegnato senza combattere il distretto di Musa Qala, nella provincia di
Helmand ai talebani che l'hanno occupato senza sparare un colpo; Richards aveva
dichiarato che aver raggiunto un accordo coi capi tribali della zona, ma tutti
sanno che invece erano talebani. L'ambasciata Usa protestò ma le potenze
occidentali hanno anche strategie differenti fra di loro; l'Uk ha forti
rapporti con il Pakistan che discendono ancora dai tempi coloniali. Il
distretto di Musa Qala fu riconquistato con le armi quando le forze
internazionali sono passate sotto comando Usa. Non è nemmeno un mistero
che più di una volta gli Usa hanno pagato i talebani per evitare che
attaccassero i soldati americani". "Voi - continua Bashardost - con
le vostre tasse finanziate, attraverso gli aiuti, i signori della guerra che
sono oggi al governo e mentre gli impiegati ricevono 40 $ di stipendio al mese
questi personaggi girano con auto da 40.000 $ e hanno stipendi anche di
migliaia e migliaia di dollari spesso pagati loro direttamente da Ong
occidentali o da governi della coalizione militare". Giri finanziari Il
mio interlocutore mi fornisce della documentazione: una compagnia inglese, la
Crown Agent versa i soldi a una fondazione Usa, l'Open Society Institute che
formalmente ha lo scopo di promozione della governance, dei diritti umani e
delle riforme economiche e sociali. L'Osi li versa alla Banca Centrale Afghana
sul conto n.26097 che risulta essere un conto per lo sviluppo e da qui i soldi
vanno direttamente nelle tasche degli alti dirigenti ministeriali ad
aggiungersi ai loro "regolari" stipendi. Guardo la lista che
Bashardost ha in mano: sono coinvolti i ministeri delle Telecomunicazioni,
della Cultura, del Commercio, della Giustizia ecc. fino al gabinetto del
presidente Karzai. Dal luglio 2003 al gennaio 2005 sono transitati solo su quel
conto 814.821 $ i pagamenti mensili personali vanno da
Verona, aperitivo in piazza poi tutti
all'Alter Ego. Lo psichiatra Andreoli: "vogliono stordirsi subito"
Vino, birre e cocktail: sono queste le notti dei ragazzini del nord-est
DAL NOSTRO INVIATO
VERONA -
A mezzanotte sono già ubriachi ma la notte non è ancora cominciata.
Ridono, piangono, cadono per terra. E' "l'effetto bomba", dice lo
psichiatra Vittorino Andreoli, alterare i propri sensi velocemente e subito,
con la testa che va in fiamme e le gambe che diventano molli, i ragazzini la
chiamano "happy hour drug", fa saltare gli ostacoli, cancella
complessi e timidezze, spinge a camminare aggrappati l'uno all'altro, a
sentirsi, toccarsi, stretti forte ai propri compagni di bevute.
Sono adolescenti, o poco più. In fila con il bicchiere in mano davanti
ai caffè storici di Verona, tra i marmi antichi di Piazza delle Erbe,
bevono birra, rum e coca, vodka-lemon, l'aperitivo della casa, l'aperitivo
bum-bum, quello che fa volare subito e ubriacare in un colpo. Hanno dai 14 ai
20 anni, buoni studi, buone paghette in tasca, e un unico comune denominatore:
sono baby alcolisti, ultima, nuova emergenza nazionale che ha portato l'Italia
ad essere il paese europeo dove i giovani cominciano a bere in età
più acerba, il primo sorso a 12 anni.
Altrove l'iniziazione avviene a 14, ma il risultato è identico: vite
drogate dall'alcol, in un allarme globale che accomuna ormai la gran parte dei
paesi occidentali. In Italia, dicono le ultime statistiche, il 15% dei
giovanissimi si ubriaca abitualmente, "in una corsa al binge drinking, il
bere compulsivo, che sta portando decine di giovani nelle comunità
terapeutiche per disintossicarsi, con modalità di consumo sconosciute
fino a pochi anni fa", rivela Eugenio Scafato che dirige l'Osservatorio su
alcol, droga e fumo dell'Istituto superiore di sanità.
Basta passare una serata nel cuore di una città della
ricca provincia del Nordest, dove il tasso alcolico pro-capite è tra i
più alti d'Italia, per capire quali siano le parole d'ordine di questa
eurogenerazione che ha importato dai paesi anglossassoni il rito della sbornia
da weekend, e dove anche il vino viene consumato ormai con le regole del binge
drinking. Il Governo ha dichiarato guerra all'alcol contro le stragi del sabato
sera, ha lanciato il codice etico tra gestori e consumatori, ma alle otto di
sera Teresa, Samantha, Piero e Giovanni, sedici anni a testa, insieme ad
un'altra trentina di coetanei, bevono un aperitivo orlato di una fetta
d'arancio davanti ad un piccolo bar in Corso Portoni Borsari, poco lontano da
Piazza delle Erbe. Sono già al secondo bicchiere, il mix è
fresco, dolce, piacevole, mentre gli snack d'accompagnamento, patatine,
polpettine, pizzette, vengono divorate con la velocità della luce.
"Sì, picchia, ma è solo l'inizio - confessa Piero con
qualche remora e la garanzia dell'anonimato a causa genitori già in
allarme per i suoi sabati sballati - qui tiriamo tardi, è normale, poi
ci spostiamo all'Alter Ego, la nostra serata va così. Beviamo tutti,
anche le ragazze, una volta alla settimana si può fare, alle dieci
andiamo cena, altrimenti ti sbronzi subito, con la pizza sono meglio birra e
vino, prima della discoteca facciamo un altro giro dei bar, fino a mezzanotte
nei locali non c'è nessuno, dopo cena ci tocca lo shottino, è uno
sparo, superalcolico puro". Uno shot e via, in motorino verso il cuore
della notte, con un'alterazione dei sensi che di certo avrebbe già
bruciato gli alcolimetri della polizia. In discoteca infatti i ragazzini
arrivano che sono gruppetti barcollanti, e il serpentone davanti all'Alter Ego
è fatto di teenager gonfi di birre e cocktail, con alle spalle
già quattro, cinque ore trascorse di bicchiere in bicchiere, di pub in
pub. E Verona è come Bologna, come Milano, Roma, le serate sono simili,
alcoliche, trasgressive.
Per questo il binge drinking è un tipo di ritualità giovanile che
lo psichiatra Vittorino Andreoli ha deciso di studiare e indagare.
"L'alcol è una droga che dà modificazioni lente, i ragazzi
invece, con questa modalità del bere compulsivo, hanno trovato il modo
per ubriacarsi velocemente e subito. E sono riusciti addirittura a rendere
immediata la sbornia da vino, perché lo consumano attaccandosi alla bottiglia,
buttandolo giù finché hanno fiato... L'adolescenza - spiega Andreoli -
è l'età della metamorfosi, gli adolescenti non si piacciono, si
sentono travolti da se stessi e cercano in tutti i modi di governare questa
metamorfosi. L'alcol è l'ingrediente più vicino, ce l'hanno in
casa, l'alcol è ovunque, agisce subito e fa sentire disinibiti. I loro
stessi genitori non avvertono, a torto, il bere come pericolo, ne ho sentiti
tanti dire meglio una sbronza che la droga... Un errore, gravissimo, oggi
questo modo di bere dei giovanissimi ha tutte le caratteristiche della
tossicodipendenza". Ma Andreoli va più in là: "Questa
campagna di nuove regole è ipocrita. Il messaggio che ai giovani arriva
è: bevi ma non guidare, bevi ma non metterti in pericolo. Mentre ad ogni
ora del giorno e della notte su ogni canale televisivo la testa dei giovani
è martellata di spot pubblicitari che invitano a consumare birra, vino,
whisky...".
Per capire infatti bisogna andare al di là della notte, al di là
del weekend, oltre i gruppi di ragazze e ragazzi che quando ormai la serata sta
per finire vomitano agli angoli delle strade, mentre piazze e centri storici si
trasformano in cimiteri di vetri rotti e lattine schiacciate. "Esiste una
strategia commerciale che ha puntato ai giovanissimi - dice Eugenio Scafato -
inondando il mercato di bevande alcoliche dolci e colorate, i breezer, gli
alcolpop, pensate per sedurre i più giovani, alcune addirittura hanno le
etichette con i caratteri dei cartoon. Costano pochi euro e gli adolescenti le
consumano quotidianamente, ma il loro metabolismo è ancora acerbo
è questo può creare danni gravissimi".
E' duro infatti ritrovarsi a 20 anni ubriachi e senza pace. Come Mauro che
è entrato nei gruppi AA, alcolisti anonimi, e oggi combatte contro la
schiavitù della bottiglia. "Ho iniziato a 14 anni con i cocktail e
sono finito a bere l'alcol puro. Però non sono il più giovane
lì dentro: ogni tanto arrivano dei ragazzini. Hanno gli occhi spenti.
Sono i baby alcolisti".
(19 marzo 2007)
19/3/2007
(7:47)
La
nuova cannabis, 25 volte più forte, danneggia il cervello. E così
l'Indipendent, che aveva guidato la campagna per la liberalizzazione, fa
retromarcia
LONDRA
Una ritrattazione in piena regola, con tante scuse. L'«Independent on Sunday»,
il giornale che dieci anni fa aveva condotto una campagna in grande stile in favore
della decriminalizzazione della cannabis, ieri ha fatto marcia indietro a tutto
gas in prima pagina. «Se solo avessimo saputo allora quello che possiamo
rivelare oggi», recita basito il titolone. Il punto è che la droga
già prediletta dagli hippies non è più quella di una
volta: oggi viene coltivata in casa sotto lampade a raggi ultravioletti che la
rendono fino a 25 volte più forte, in gergo si chiama «skunk» e sta
causando un'ecatombe di casi di psicosi, paranoia anche violenta e
schizofrenia.
Il giornale, che nel 1997 riuscì a mobilitare una marcia in Hyde Park e
a smuovere il governo di Blair a declassare la cannabis a stupefacente di
categoria C, il cui consumo personale non era cioé più un reato punibile
con l'arresto, ha deciso di cambiare radicalmente posizione proprio nella
settimana in cui la rivista medica «The Lancet» argomenterà che ormai
questa versione amplificata della cannabis è più pericolosa
dell'LSD e dell'ecstasy. Una quantità record di giovanissimi è in
cura per abuso di «skunk» e il numero di ricoveri è alle stelle.
I danni arrecati dall'odierna «iper-cannabis» alla salute mentale di chi ne fa
uso sono potenzialmente irreparabili. Il problema più acuto rischia di
manifestarsi fra gli adolescenti, il cui cervello in fase di sviluppo è
molto più vulnerabile. Anche il professor Colin Blakemore, capo del
Medical Research Council, che nel 1997 aveva appoggiato la campagna originaria
dell'«Independent on Sunday», oggi dice: «Il legame tra la cannabis e la
psicosi oggi è ben chiaro; dieci anni fa non lo era». In retrospettiva,
l'«Independent on Sunday» tiene molto a precisare che «lo "skunk"
fumato dalla maggioranza dei giovani in questo Paese non assomiglia neppure
lontanamente alla tradizionale resina della cannabis tipicamente in uso fino ai
primi anni Novanta. La sostanza di oggi contiene fino a 25 volte più
tetraidrocannabinolo (THC)», ovvero l'ingrediente psicoattivo. Dieci anni fa
soltanto 1600 persone erano in cura per abuso di cannabis; oggi sono 22 mila,
la metà dei quali ha meno di diciott'anni: «Una bomba a orologeria per
la salute mentale», ammette il giornale.
Altri specialisti concordano sul fatto che il dibattito scientifico è
cambiato. Il professor Robin Murray del London Institute of Psychiatry ritiene
che almeno 25 mila dei 250 mila schizofrenici negl Regno Unito, pari a un
decimo del totale, avrebbero evitato di ammalarsi se non avessero fatto uso di
cannabis: «Può darsi che i numeri di chi fa uso di cannabis non siano
aumentati, ma la sostanza è molto più potente, quindi si tratta
di vedere se tra qualche anno avremo conseguentemente più ammalati. Chi
comincia oggi, lo fa con lo "skunk"». E sempre più giovane:
oggi si vedono ragazzini di dodici o tredici anni con lo spinello in mano.
Con le conseguenze che si vedono sulle strade del Regno: negli ultimi anni
l'abuso di «skunk», con la paranoia estrema a cui è associato, è
stato additato come una concausa di una serie di omicidi e aggressioni brutali.
Dice Marjorie Wallace, direttore dell'organizzazione per la salute mentale
«Sane»: «Ogni giorno arrivano nuove conferme del legame tra l'uso di cannabis e
le malattie mentali. Uno studio recente dimostra che 8 persone su 10 tra quelle
che hanno avuto un primo episodio di schizofrenia facevano un forte uso di
questa droga. Secondo un altro studio, corrono un rischio quadruplo di
ammalarsi di schizofrenia». Anche il professor Neil McKeganey, del Centre for
Drug Misuse dell'Università di Glasgow, è preoccupatissimo: «La
società ha gravemente sottovalutato la pericolosità della cannabis».
Visto e considerato tutto ciò, si chiede l'«Independent on Sunday»,
«eravamo fuori di testa quando chiedevamo la legalizzazione della cannabis? No,
ma poi è arrivato lo "skunk"». Rosie Boycott, l'allora
direttore del giornale e responsabile della campagna, nel ricordare il suo
primo spinello datato 1968 sull'erba di Hyde Park, scrive: «Nel 1997 ero
convinta che la cannabis fosse pressoché innocua. Ma io parlavo della
varietà che proveniva dai campi del Libano, Marocco e Afghanistan, che
adesso è una rarità. Lo “skunk” invece rende aggressive le
persone». Conclude un editoriale: «Non crediamo sul serio che allora ci fossimo
sbagliati. Ma la minaccia alla salute mentale oggi deve avere la precedenza
sugli istinti liberali di allora».
La Repubblica 17-3-2007 Nelle parrocchie una lettera
contro i Dico "Famiglia privatizzata, senza rilevanza sociale". Distribuita da
stasera a Roma e Firenze, ha una presentazione del cardinal Ruini Nel testo:
non confondere "le altre forme di convivenza" con il matrimonio
"La questione Dal Molin è sintomatica
di una democrazia che ha smesso di essere sinonimo di rappresentanza e di
partecipazione. È la democrazia della delega, una democrazia solo
formale e senza qualità, sempre più lontana dall'aula
parlamentare e dai valori costituzionali. La speranza di una svolta, come
s'è visto a Vicenza, può e deve venire dai movimenti".
Parola di Giovanni Palombarini, magistrato, autore del libro "La variabile
indipendente. Quale giustizia per gli anni 2000", ospite-mattatore dell'incontro
di ieri al teatro dei Carmini, voluto da Cisl-scuola, Rete Lilliput, Più
democrazia, Famiglie per la pace e dal coordinamento dei comitati No Dal Molin.
L'incontro, che ha richiamato oltre un centinaio di persone attorno al tema dei
"limiti del potere in una democrazia d'investitura. Il caso Dal
Molin", si è presto trasformato in una riflessione ad ampio respiro
sullo stato della politica e della società. "Questa è
una democrazia autoreferenziale - attacca Palombarini - in cui le differenze
tra gli schieramenti sono sempre più tenui". Applausi dalla platea
del No al Dal Molin che, mai come in questi giorni, si sente
"tradita" dai propri rappresentanti. Dal governo Berlusconi e dalla
Giunta Hüllweck, che "hanno gestito la questione in gran segreto". E
dal governo Prodi che non ha fatto nulla per cambiare rotta, salvo prendere
tempo prima di manifestarla il 16 gennaio scorso. Ma perché l'accordo Italia-Usa
è rimasto per molto tempo segreto? "L'assessore Claudio Cicero ha
rivelato di aver saputo della volontà americana alla fine del
2004", ricordano gli organizzatori. E soprattutto, perché tutto è
rimasto lontano dal Parlamento? "La Costituzione - spiega il magistrato -
afferma la ratifica dei trattati internazionali che hanno valenza politica
deve passare dalle Camere e dal Capo dello Stato, nella logica della
trasparenza e del bilanciamento dei poteri. Ma sono valori che, di fatto, la
nostra democrazia sta perdendo giorno per giorno". Non c'è dubbio,
aggiunge, che costruire una base militare sia "fatto politico".
Eppure, molti accordi militari "sono stati gestiti solo dall'esecutivo
perché li si ritiene accordi attuativi di un trattato "quadro" votato
dal Parlamento, quello Nato". E questa prassi vale anche per il Dal Molin,
che con la Nato non c'entra nulla. A chi gli chiede se anche l'articolo 11
della Costituzione (l'Italia ripudia la guerra) non sia in discussione,
Palombarini risponde secco: "Il realismo mi dice che, nel quadro di un
abbandono dei valori costituzionali, questo è tra quelli perduti. La
guerra, in questi anni e anche prima dell'11 settembre, l'Italia l'ha fatta
più volte". Incalzato dal pubblico, il magistrato lo ribadisce a
più riprese: "Ora è difficile tornare indietro", e si
riferisce sia al Dal Molin sia alla "deriva dei valori
costituzionali". Ma conclude incitando a lottare per i diritti.
"È dura affrontare la battaglia sul piano giuridico, la questione
è politica. E solo la mobilitazione sociale può portare
all'ordine del giorno temi come la pace e l'ambiente, come qui a Vicenza, che
sono tra l'altro diritti e valori costituzionali".
In
vigore la convenzione Unesco sulle diversità culturali I
"pupi" siciliani, promossi dall'Unesco PARIGI - La convenzione
promossa dall'Unesco su protezione e promozione della diversità delle
espressioni culturali entra in vigore oggi, meno di un anno e mezzo dopo la sua
adozione. La prossima tappa sarà la prima conferenza delle parti che si
terrà tra il 18 ed il 20 giugno. In quell'occasione "saranno
definiti i grandi orientamenti e la messa in opera del testo", ha detto il
portavoce del ministero degli Esteri francese, Jean-Baptiste Mattei. Ad oggi il
testo è stato ratificato da 53 Paesi tra i quali 19 stati membri
dell'Unione europea e 27 stati membri associati all'area della francofonia.
Lanciata nel 2002 e promossa da Francia e Canada la convenzione è stata
approvata dall'Unesco il 20 ottobre
L'iniquo
funzionamento della giustizia allarma sempre di più i cittadini.
Il sospetto dei cittadini comuni sull'iniquo
funzionamento della giustizia prende corpo anche dal non indifferente
atteggiamento di questo magistrato che certamente non è stato l'ultimo
della classe. La disillusione dei cittadini è diventata la sua; in
più lui ha tutte le carte in regola per esplicitarla: dal 1977, nel
palazzo di giustizia di Milano, si è occupato della loggia P2, del lodo
Mondadori, dei fondi neri dell'Iri, di tangentopoli, ha scovato suoi colleghi
magistrati con le mani nel sacco, si è occupato, insomma, di tutte le
corruzioni possibili e immaginabili, eppure: "I risultati di questo lavoro
quali sono stati? Tra prescrizioni, leggi abrogate o modificate, si è
arrivati sostanzialmente a una riabilitazione di tutti coloro che avevano commesso
quei reati, con una diffusione del senso di impunità a un livello di corruzione
non modificato". Sono parole che pesano, sono macigni che si abbattono sul
sistema sociale allo sbando, che non garantisce più nulla, neppure la
"legalità". Il paese che vede Colombo è quello delle
corporazioni, ciascuna delle quali trova la sintesi del proprio esprimersi
nella furbizia e nel privilegio. Ebbene, anche se diversi giudici nella sagra
del bel paese hanno spesso imboccato anche loro le cattive strade della corresponsabilità,
è altrettanto vero che la stragrande maggioranza si è attenuta
con scrupolo all'attuazione dei principi sacrosanti sanciti dai codici. Ma,
insiste il giudice Colombo, il problema non può essere solo quello dei
palazzi giustizia quando fuori da essi tutto è contro la giustizia
attraverso una illegalità spalmata fino ad esaurimento sul tessuto di
una società dove, a favore di questi o quest'altro, di volta in volta
della giustizia si fa carta straccia. Leggiamo le dichiarazioni di Gherardo
Colombo e le confrontiamo col recente caso Previti, ex ministro condannato a
duri anni di carcere, tra un cavillo e l'altro, prima "recluso" in
casa, poi con permesso d'aria di lunghe ore, ora affidato a servizi sociali, di
pena vera e propria non ne sconta. Vi ravvisiamo, esattamente, la furbizia e il
privilegio corporativo attaccati da Colombo, con l'aggiunta scusate! che un
povero Cristo senza corporazione, e quindi fuori dai privilegi, i cinque anni
di carcere se li sarebbe fatti per intero. Ecco perché, sostiene il magistrato,
se non cambia nulla all'esterno dei palazzi di giustizia non può neppure
cambiare il tasso dell'illegalità. Il caso di Gherardo Colombo è
il numero due. Anni fa assistemmo alla plateale dismissione della toga da parte
di Antonio Di Pietro sulla scena di tangentopoli. Ma sono rimaste dimissioni
sospette: prima l'offerta di quel seggio elettorale sicuro in Toscana, quindi
l'ulteriore e potenziata ambizione della primazia politica all'interno
di una classe che al suo ex collega (e non solo a lui) non piace. Di contro,
che farà Colombo? Indirizzerà ogni sua attività a parlare
ai giovani e a farli riflettere sul senso della giustizia. Il nostro Paese
è diventato irrimediabilmente quello delle corporazioni, ciascuna delle
quali trova la sintesi del proprio esprimersi nella furbizia e nel privilegio
(domenica 18 marzo 2007).
PISA. Incontro all'insegna dalla passione politica
quello con il senatore Ferdinando Rossi, organizzato dalle associazioni
"Il pianeta futuro" e "Unità comunista", due
entità politico-culturali da tempo attive a Pisa. Un incontro che
rientra nel tentativo di compattare a livello locale un'area sociale e sindacale
che vorrebbe in qualche modo arginare l'assenza di iniziative forti a favore
delle classi più povere da parte della sinistra di governo. Quello che
si è svolto nella sede del circolo Utopia è il primo di due
incontri organizzati con i senatori dissidenti del centro-sinistra, finiti
nell'occhio del ciclone dopo la recente crisi del governo Prodi. Il prossimo,
venerdì, vedrà come protagonista proprio il senatore Turigliatto.
"E necessario organizzare queste iniziative per far conoscere alla gente
la connessione fra politiche militariste e l'economia del paese - hanno detto
Giovanni Bruno, di Pianeta futuro, e Dorigo Ervin, di Unità Comunista -
perché le scelte di politica estera hanno sempre una ricaduta nazionale
che condiziona anche le altre scelte di politica economica".
"è così - aggiunge il senatore Rossi - la guerra in
Afghanistan costa al nostro Stato 350-400 milioni di euro l'anno, di cui,
secondo fonti afghane accreditate, il novanta per cento si perde nei canali
della corruzione dei vari signori della guerra e di scuole, asili e
ospedali per la popolazione civile non c'è neppure l'ombra. E la nuova
base Usa di Vicenza quanto costerà ai cittadini italiani? Ha ragione
Travaglio, che certo non sarà comunista, ma ha mille ragioni quando
denuncia nei suoi libri e nei suoi articoli lo sperpero di denaro
pubblico". "La crisi di governo - conclude il senatore emiliano - era
già all'ordine del giorno da tempo. Il nostro dissenso è stato
solo un pretesto per accelerare la costituzione del Pd. Ma finché non si danno
risposte a quei milioni di persone che continuano a non arrivare alla fine del
mese perché questo sistema è marcio e va cambiato radicalmente ci
sarà sempre la necessità di una visione diversa del mondo.
Bisogna rimettere il bene comune al centro della politica e smettere di
ricattare le persone con il babau "o voti questo o torna
Berlusconi"". Marcello Cella.
CITTA' DEL VATICANO -
Il Vaticano continua la sua offensiva contro il ddl sui Dico. Da stasera
infatti, in tutte le parrocchie di Roma e Firenze verranno distribuiti ai
fedeli volantini che riproducono una letteradel cardinale di Firenze, Ennio
Antonelli, a difesa dell'istituto familiare. La lettera è accompagnata
da una breve presentazione del cardinale vicario Camillo Ruini.
"La famiglia - si legge nel testo Ruini - è da tempo al centro
dell'attenzione pastorale della diocesi di Roma oltre che di un ampio confronto
sociale e culturale. Ho ritenuto perciò di fare cosa utile offrendo alle
famiglie romane, tramite i sacerdoti impegnati nelle benedizioni pasquali, un
testo scritto dal cardinale Ennio Antonelli per la diocesi di Firenze".
Nella lettera, scritta da Antonelli per i suoi parrocchiani, si legge che
"la famiglia sta venendo privatizzata, ridotta a un semplice rapporto
affettivo, senza rilevanza sociale, come se si trattasse soltanto di una forma
di amicizia".
E ancora: "La famiglia fondata sul matrimonio è non solo una
comunità di affetti, ma anche un'istituzione di interesse pubblico; e
come tale va riconosciuta, tutelata, sostenuta e valorizzata dalle pubbliche
autorità che hanno la responsabilità specifica di promuovere il
bene comune. Non vanno confuse con la famiglia altre forme di convivenza, che
non comportano l'assunzione degli stessi impegni e doveri nei confronti della
società e si configurano piuttosto come un rapporto privato tra
individui, analogo al rapporto di amicizia, per il quale nessuno si sogna di
chiedere un riconoscimento giuridico. Le esigenze private possono trovare
risposta nei diritti riconosciuti alle singole persone".
Il prossimo Consiglio permanente della Cei programmato per il 26
marzo discuterà la Nota "impegnativa" per i cattolici italiani
sull'atteggiamento da tenere nei confronti del ddl sui Dico.
(17 marzo 2007)
Prevista una riduzione del 2,8% per l'elettricità e del 3,3% per il metano. Risparmio per le famiglie italiane di circa 43 euro annui
M
Secondo le prime previsioni, che anticipano l'aggiornamento atteso
dall'Authority per l'energia entro fine mese, la bolletta della luce delle
famiglie dovrebbe ridursi - spiega Davide Tabarelli, esperto tariffario di
Nomisma Energia - di circa 11,8 euro su base annua mentre quella del metano
è attesa scendere di 31,6 euro annui. Nel trimestre scorso l'Authority
aveva ritoccato al ribasso la tariffa elettrica media nazionale, riducendola
dell'1,6%, ma il beneficio non aveva riguardato le bollette delle famiglie.
Queste erano rimaste ferme per la necessità di recuperare alcune voci
legate agli extracosti che gravano sulle utenze (gli oneri di sistema). Dopo i
forti aumenti registrati l'anno scorso per il prossimo trimestre per gli utenti
domestici è atteso così il primo calo dopo quasi tre anni (era
dal secondo trimestre del 2004 che le tariffe elettriche per le famiglie non
segnavano una flessione). Dal primo aprile - spiega Tabarelli - per la luce
è atteso un calo del prezzo del chilowattora di circa 0,44 centesimi a
15,16 centesimi a Kwh. Una riduzione che per una famiglia tipo - con 3 kw di
potenza impegnati e consumi mensile per 225 chilowattora - dovrebbe tradursi in
un alleggerimento della spesa annuale per l'elettricità intorno ai 12 euro
(11,8 per l'esattezza). Sul fronte delle tariffe del metano, invece, il
prossimo trimestre dovrebbe registrare una riduzione dei prezzi ancora
più sostanziosa: circa 2,25 centesimi di euro in meno cioè al
metro cubo che per la stessa famiglia tipo (con
17 marzo 2007
++ La Stampa 17-3-2007
Come scegliere i nuovi immigrati
Tito Boeri
+ La Stampa 17-3-2007
Il kibbutz sconfitto dal mercato Sabino Acquaviva
Il Corriere della sera 17-3-2007 L’Unione teme l’asse
tra Chiesa e destra. La Nota Massimo Franco
La copertina sembra proprio quella di Cioè: teenager sorridenti con
jeans a vita bassa e dose spropositata di gloss sulle labbra, fotine di
bellimbusti famosi, strilli in slang pseudo-adolescenziale evidentemente
scritti da qualche over-25 (leggi: matusa). Ma, a differenza di Cioè,
all’interno non c’è nessun demenziale vademecum per le prime esperienze
sessuali. Solo qualche (altrettanto demenziale, riferiscono i detrattori della
rivista) tiratona sul successo del multiculturalismo americano, tra il ritratto
di una cantante di successo (per esempio l’indo-texana Norah Jones, così
il cerchio si chiude) e le lodi della vita nei campus americani (sesso, birra e
droga a parte, che valgono i due terzi dell’esperienza collegiale). Questo, e
non molto altro, è Hi-Magazine, rivista patinata in lingua araba il cui
progetto editoriale è “dare un assaggio del sogno americano ai teenager
arabi”. Anzi, lo era. Già perché il progetto di Hi-Magazine, finanziato
direttamente dal Dipartimento di Stato Usa per un totale di 4 milioni di
dollari l’anno, si è rivelato fallimentare. Certo non deve avere aiutato
il fatto che il Dipartimento di Stato abbia dichiarato fino all’inizio che il
progetto era di sua competenza, gelando altri gruppi di pressione mediatica
(ogni riferimento a Soros è puramente casuale). Ma le ragioni del
fallimento di Hi-Magazine, lanciato durante la guerra in Iraq, sono altre.
Tanto per cominciare, non è che il sogno americano di questi tempi
attragga molti giovani in Medio Oriente. Poi, quel settore della popolazione
araba under-20 che è già felicemente occidentalizzato... sa che
in giro c’è di molto meglio. In poche parole, Hi-Magazine è
proprio moscio. Molto meglio comperare una copia di Seventeen, con incidenza di
sex symbol molto più elevata, e poi uno impara pure l’inglese.
Insomma il magazine patinato del Dipartimento di Stato non se l’è filato
nessuno. Le vendite in edicola sono state chiuse l’anno scorso. Molto
più recentemente, è cessata la distribuzione su internet. Se ne
discute, in questi giorni, su Saudi Jeans, forse il più letto blog
saudita che, come suggerisce il titolo-ossimoro, è tutto un programma.
«Gli americani hanno perso la guerra nel cuore dei ragazzi arabi», scrive
l’autore del blog, eroe dei giovanotti sauditi che dell’aparthaid culturale e
sessuale non ne possono più, incubo della buoncostume di Riad.
Francamente, commenta il noto blogger, ben gli sta: «Hanno dimostrato di non
essere credibili, fino al punto che qualsiasi cosa con il marchio made in Usa
è diventato insopportabile». E questo è un commento viene da uno
che si fa chiamare Jeans. Al Dipartimento di Stato dovrebbero davvero
preoccuparsi.
Quando un governo di centro-sinistra mette
mano alle politiche dell’immigrazione, lo fa quasi sempre per ridurre le
restrizioni introdotte da un governo di centro-destra. Negli ultimi vent’anni
in Europa ci sono state 37 riforme delle leggi nazionali sull’immigrazione. Il
60 per cento di quelle varate dai governi di centro-destra hanno cercato di
erigere nuove barriere contro l’arrivo degli immigrati, mentre 4 riforme su 5
targate centro-sinistra sono andate in senso opposto. L’accordo trovato in
questi giorni fra i ministri Amato e Ferrero per una nuova legge
sull’immigrazione non è dunque un’eccezione.
Molte di queste leggi sono dettate principalmente dall’ideologia, sono come dei
trofei da esibire in campagna elettorale più che qualcosa da mettere
davvero in pratica. Non a caso i decreti attuativi della legge Bossi-Fini non
erano ancora stati varati tre anni dopo la sua approvazione in Parlamento. E di
simili ipocrisie, di leggi inapplicate, è costellato il paesaggio delle
normative sull’immigrazione anche in altri Paesi europei.
Questo spiega perché anche coalizioni che hanno molti elettori fra i lavoratori
manuali, quelli che hanno più da temere dalla concorrenza di immigrati
poco qualificati, aprano le frontiere. E perché coalizioni che rappresentano di
più gli interessi dei datori di lavoro, quelli che hanno solo da
guadagnare dall’arrivo degli immigrati, adottino spesso normative restrittive.
Il fatto è che le leggi-trofei rispondono per lo più a
motivazioni e identificazioni di natura ideologica. C’è però un
fatto nuovo nelle proposte elaborate dai ministri Amato e Ferrero.
Per la prima volta il nostro Paese sceglie la strada dell’immigrazione
selettiva, favorendo soprattutto l’arrivo di immigrati con un più alto
livello di istruzione. È una strada ideologicamente forse meno
digeribile dell’apertura delle porte a tutti. Ma è una strada fondata su
solide ragioni economiche in un Paese come il nostro che ha sin qui attratto
soprattutto immigrati con basso livello di istruzione. Solo il 12% dei nostri
immigrati ha ricevuto un’istruzione terziaria, contro il 22% degli altri Paesi
Ue. Anche dai nuovi Stati membri abbiamo attratto una quota relativamente bassa
di lavoratori altamente istruiti (il 15% contro il 28% altrove). Ci sono anche
ragioni di equità per privilegiare l’arrivo di immigrati qualificati. Se
l’immigrazione coinvolge soprattutto persone poco qualificate, le
disuguaglianze nel Paese che li accoglie tendono ad aumentare perché sono
soprattutto i lavoratori meno istruiti a subire la concorrenza dei nuovi
arrivati. Se, invece, l'immigrazione è di forza lavoro qualificata, le
disuguaglianze nel Paese di destinazione diminuiscono.
Sembra anche esserci più pragmatismo che nelle leggi precedenti. Ci sono
le quote, con programmazione triennale ed eventuali adeguamenti annuali per
evitare ai datori di lavoro di aspettare magari fino a maggio il decreto flussi
per quell'anno. Ma c’è anche l’immigrazione fuori quota dei talenti, di
cui si è detto, o delle badanti che permettono a molte famiglie di
assicurare assistenza a domicilio ad anziani autosufficienti pagando da un
quarto a metà di meno di quanto costerebbero le case di cura. Non si
aboliscono i Centri di Permanenza Temporanea, ma li si rendono qualcosa di
diverso da una estensione della detenzione in condizioni igieniche e di salute
ancora peggiori di quelle già precarie delle nostre carceri.
Non si pretende più che si possano gestire flussi di 300 mila persone
all’anno con le «chiamate per conoscenza diretta» della Bossi-Fini, ma si
creano delle liste cui il lavoratore straniero che vuole lavorare da noi
può iscriversi prima di venire in Italia. Un modo per gestire in modo
efficace queste liste, per stabilire a chi permettere di avere il permesso di
soggiorno e a chi no, sarebbe quello di introdurre un vero e proprio sistema a
punti. Come in Canada e Nuova Zelanda, Paesi in cui c’è maggiore
accettazione sociale per l’immigrazione e dove gli immigrati sono non meno
istruiti del Paese che li accoglie, si favorirebbe chi parla già la
nostra lingua, è altamente istruito o va a coprire mansioni che nessun
italiano vuole più svolgere. Sarebbe anche un modo per rendere
più trasparente il principio dell’immigrazione selettiva sancito da
quest'accordo. Vedremo se nel tradurre questo accordo in disegno di legge, ci
sarà il coraggio di andare fino in fondo sulla strada dell’immigrazione
selettiva.
Forse
non sono "finti liberali figli di Ceausescu", come sbottò un
giorno Giuliano Urbani esasperato per quegli amici berlusconiani che "di
liberale non hanno niente", ma gli ostruzionisti che battagliano alla
Camera contro il decreto Bersani faranno sbarrare gli occhi non solo ai
"Chicago boys" e agli ultràs del libero mercato. Dove mai si
sono visti dei sedicenti "liberisti" scatenati contro le
liberalizzazioni? Le conosciamo tutte, le obiezioni. C'è chi dice che
"sono troppo poche" e chi obietta che "ci vuole ben altro!"
e chi sottolinea che "manca la volontà di colpire i grandi
interessi" e chi discetta sulla "carenza di
gradualità"... E via così, potremmo andare avanti ore. Di
più: diamo per legittime tutte le osservazioni su tutti i punti: dalla
giornata libera dei barbieri alla benzina solo nei distributori, dai tagli alle
ricariche dei cellulari all'estinzione anticipata dei mutui. Ma il tema resta:
ammesso il pieno diritto di ciascuno di essere contrario alle rotture di vecchi
equilibri corporativi, possono esserlo dei liberisti? Perché questo dicono di
essere, da anni, a destra. Silvio Berlusconi lo disse perfino tre mesi prima di
entrare in politica, proponendo di "privatizzare la Rai" e liquidando
i sorrisetti perplessi così: "Io sono liberista, quindi non credo
che occasioni contingenti possano farmi cambiare atteggiamento. Io sono
favorevole al "meno Stato e più privato", sempre e dovunque.
È vero, aumenterebbe la concorrenza ai network Fininvest. Ma io amo la
concorrenza. Ci vivo come un bambino nel liquido amniotico". Da allora,
non ha fatto altro che ripeterlo. Nel discorso della "discesa in
campo" invocando "un'amministrazione pubblica liberale in politica e
liberista in economia". Contro gli alleati: "Forza Italia è un
partito assolutamente liberista. Ma molte difficoltà ci sono state nella
Cdl con altri partiti...". Alla vigilia delle ultime politiche: "Gli
elettori devono scegliere tra liberismo e comunismo, liberismo e statalismo".
Fino all'ultima intervista alla Padania : "L'alleanza con la Lega è
naturale, abbiamo programmi simili e un elettorato che parla lo stesso
linguaggio. Siamo liberisti e nemici dello statalismo". Certo, dentro
partiti come l'Udc c'è sempre stata un'anima liberale come quella di
Bruno Tabacci e un'altra più cauta come quella di Pier Ferdinando
Casini. Il quale, prima di svoltare e definire ieri "infantilismo
politico" l'ostruzionismo destrorso e benedire l'idea di Linda Lanzillotta
di metter mano al sistema dei servizi pubblici locali come
"ineludibile", mandava a dire al Cavaliere che "non sarebbe
giusto dar fiato solo alle trombe del liberismo se contemporaneamente, nello
stesso concerto, non si sentisse con la stessa intensità il suono dei
violini della solidarietà". Per anni, però, a parte
eccezioni come Gianni Alemanno (promotore di una "cultura
comunitaria" che "si fa carico delle questioni sociali, difende
l'ambiente, si oppone al liberismo"), è sembrata una corsa a chi
era il liberale più liberale di tutti. Maurizio Gasparri, per difendere
quella riforma televisiva che secondo il camerata Francesco Storace non solo
non aveva scritta "ma manco letta", diceva ridendo che "di
liberali in Italia conosco Antonio Martino e me stesso. Anche se io sono in
prova" e sentenziava che "il governo Berlusconi è basato sui
capisaldi del presidenzialismo, del federalismo, del liberismo". Giuliano
Urbani, coerentemente con i giudizi dati sui compagni di viaggio ("Stiamo
giocando al gioco dei liberali senza avere liberali") teorizzava da
ministro dei Beni culturali la privatizzazione perfino dei musei: "Lo
Stato è inadeguato. Pensiamo solo alle migliaia di opere che giacciono
negli scantinati e alle risorse insufficienti. I privati ci daranno risorse e
più occupazione". Marcello Pera, non ancora ratzingerato, se la
prendeva con le perplessità del cardinale Carlo Maria Martini sulle
deviazioni del liberismo definendole un "assurdo concettuale perché non si
possono accostare ambiti così distanti come i modelli di comportamento
sessuale e il tasso di maggiore o minore liberismo nelle politiche economiche
dei governi". E Umberto Bossi? Non solo affermava che la Lega Nord
è "una forza federalista e liberista" ma che in nome di questi
principi, nei suoi anni bollenti, arrivò ad attaccare il cattolicesimo,
"quella setta bassa del cristianesimo" che aveva "sempre fatto
politica sulle spalle del Nord" e che aveva "paura della vittoria
delle idee laiche che nella parte celtica del Paese ha dato vita a una grande
classe dirigente imprenditoriale, mentre nell'altra parte del Paese sono
cresciuti l'antiliberalismo, l'assistenzialismo...". Per non dire di
Antonio Martino, che dall'alto della presidenza della Mont Pelerin Society (un
club iperliberista fondato nel 1947), si definiva "liberale in politica,
liberista in economia e libertario" e marchiava la Thatcher come "una
statalista moderata" e si lagnava che il tasso di liberismo in Forza
Italia fosse in caduta libera "sia nella capacità propositiva sia
nel personale politico, ormai sono con noi troppi ex dc, che notoriamente col
liberismo non hanno mai avuto a che spartire". Addio, partito liberale di
massa: "A me più che di massa pare un partito di Carrara",
rise un giorno Alfredo Biondi, "nel senso del marmo: è un partito
marmorizzato". Quanto all'ostruzionismo e alle sue contraddizioni, valgano
per tutte le parole dette qualche tempo fa: "L'opposizione, vedete anche
voi, è quello che è. Non guarda agli interessi del Paese".
Erano parole, contro il filiburstering della sinistra che pure era molto
più debole in aula, di Silvio Berlusconi. Quei Liberisti anti
Liberalizzazioni.
Degania,
la prima comune agricola nata in Palestina nel 1910, diventa una banale
cooperativa. Ma il simbolo dei pionieri d’Israele è ancora un modello da
studiare
Quasi
una tragedia per i fondatori di Israele: il primo kibbutz, con una decisione a
maggioranza dei suoi soci, diventa una banale cooperativa con stipendi
differenti e la proprietà privata delle case e di altri beni. Significa
la fine dei grandi ideali che spinsero a creare i kibbutzim? La prima comune
dell’età moderna, allora soltanto agricola, era stata fondata in Israele
nel 1910, si era chiamata Degania e aveva dodici abitanti, dieci uomini e due
donne. Era il risultato della fusione politica e culturale del Sionismo,
dell’anarchismo, di un socialismo più o meno marxista. I fondatori
affermarono: «Noi compagni (...) abbiamo fondato un insediamento indipendente
di lavoratori ebrei. Una cooperativa senza sfruttatori e senza sfruttati».
Il
consumismo più forte degli ideali
Nel tumulto politico dell’ultimo secolo queste comuni si diffusero in Israele,
ma non furono considerate un fatto molto positivo in Europa, dove il socialismo
sovietico preferì corteggiare politicamente le centinaia di milioni di
musulmani che i pochi ebrei di Palestina. Inoltre, lo Stato ebraico nacque nel
Oggi che accade? Molti sostengono che il mercato sostituisce gli ideali, ma
è vero entro certi limiti anche se Degania si è inchinata alle
sue leggi. Questo significa il fallimento dell’unico vero tentativo al mondo di
progettare una società socialista? Qualcuno, demoralizzato, dopo le
recenti decisioni ha detto: «La tradizione non esiste più, la mensa
comune è vuota, le feste non sono più quelle di una volta».
Perché tutto questo? Il consumismo ha spianato valori e ideali della nostra
civiltà. Quasi ovunque ha vinto. Persino la Cina, la patria della
Rivoluzione Culturale e del maoismo, ha capitolato di fronte alle leggi ferree
del consumismo, ritenendo che lo sviluppo economico sia impossibile senza
rinunciare ad alcuni ideali di eguaglianza.
Tra
fratellanza e competizione
I kibbutzim sono soltanto espressione della cultura e della filosofia socialista
del secolo passato? Non lo penso, rappresentano un tentativo di arginare il
consumismo, di dialogare con il mercato, il grande schiacciasassi di culture,
filosofie e religioni della nostra società. In Israele, minacciato di
distruzione dall’ennesimo fondamentalismo, è in corso la battaglia per
la sopravvivenza di un’istituzione economica, sociale, lasciataci in
eredità da una cultura che, per il resto, all’alba di questa nuova
civiltà, sembra quasi in agonia. Nelle comuni israeliane si
contrappongono caratteristiche diverse della natura umana. Da un lato gli
esseri umani cercano fratellanza, cooperazione, fraterna convivenza, dall’altro
competizione e sfruttamento. Le due anime sono presenti anche nei kibbutz che
però continuano a rappresentare il solo esempio concreto di eguaglianza
e fratellanza. Dovremmo studiare e capire i kibbutzim e insieme domandarci se
possono essere un modello per riorganizzare la società nel suo
complesso, in una parola per progettare il nostro futuro.
acquaviva.sab@tin.it
A fine marzo, nella discussione di Palazzo
Madama
sul rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan, a quanto pare alcuni
senatori della sinistra governativa esprimeranno tenaci dissensi. Ma non si
vede come possano sottostimare la drammaticità dei pericoli che
incombono su Kabul, mentre la guerriglia sequestra e uccide ostaggi, o
dimenticare la storia dei conflitti che da quasi trent’anni si ripetono in
quello scenario strategico. Le guerre afghane del nostro tempo risalgono a una
precisa data d’origine, 24 dicembre 1979, l’invasione dall’Urss che l’Onu
deprecava con il voto di 104 nazioni. L’Afghanistan veniva sul momento
sottomesso, proprio mentre conquistava l’indipendenza in Africa lo Zimbabwe,
già Rhodesia, ultima delle colonie britanniche.
Seguiva in Afghanistan l’occupazione
militare sovietica,
prolungata per dieci anni, poi fallita dinanzi al propagarsi d’una strenua e
inestinguibile guerriglia. Perché l’impero bicontinentale di Breznev,
già superesteso, doveva spingersi oltre l’Amu Darja? Mosca temeva il
contagio d’un islamismo eversivo in Uzbekistan, Tagikistan, Turkmenistan.
Invece gli occidentali temevano un espansionismo ulteriore dell’Urss, dopo la
satellizzazione di Aden e del Sud Yemen. Dunque gli Stati Uniti fornirono
soccorsi e armi come i missili antiaerei ai guerriglieri, compresi quelli poi
chiamati talebani. Allora non fu previsto che la Jihad islamica si sarebbe
ramificata e convertita in terrorismo internazionale. Nell’89, dopo il
ripiegamento dei marescialli sovietici, l’Afghanistan era devastato e sconvolto
da carestie, tribalismi, xenofobie. Prevalse la forsennata oligarchia dei
talebani.
La rete di Al Qaeda, sotto la guida di
Osama Bin Laden,
fu costituita in quelle circostanze, per estendersi con i primi attentati alle
ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam. Fino alla massima impresa,
l’aggressione fulminea contro gli Stati Uniti l’11 settembre 2001. Contro
quell’aggressione reagì l’intervento militare legittimato dall’Onu,
giacché i talebani ospitavano Bin Laden e le basi del terrorismo. Il conflitto
iniziale fu vinto dagli Stati Uniti e dai loro alleati con la rapida conquista
di Kabul. I talebani ripiegarono verso i loro «santuari», lungo la frontiera
con il Pakistan. Ma pure quella guerra doveva cronicizzarsi, come già
quella dell’Urss. I marescialli sovietici, dal ’79 all’89, avevano preso atto che
non era sufficiente occupare Kabul, Herat, Kandahar o Jalalabad per debellare
la guerriglia in quelle impervie regioni, con un’aspra orografia intessuta di
caverne d’alta quota.
A Kabul venne insediato il governo di Hamid
Karzai,
sorretto in qualche misura dalla Loya Jirga o assemblea intertribale, ma non
difeso da una concentrazione di forze internazionali sufficienti al presidio
del t e r r i t o r i o , mentre Washington con discutibili motivazioni apriva
un altro fronte in Iraq. Fu l’avventura irachena una causa ulteriore
dell’insufficienza di forze, che ha consentito il riaccendersi del focolaio
talebano in Afghanistan. Eppure, anche senza ignorare azzardi o errori commessi
nel misurare l’impegno primario in Afghanistan, ci si può rassegnare al
ritorno dei talebani a Kabul? Per chiudere il ciclo delle guerre afghane
sarebbe almeno da tentare, come viene proposto, una conferenza internazionale
con la pressante mediazione dell’Onu.
17 marzo 2007
Il pm della P2 e di Mani pulite: il Paese non crede nella
legalità, mi dedicherò ai giovani
M
La
scelta di dedicarsi a questo obiettivo nasce da «un
rammarico: il verificare come la giustizia sia l'unica sede nella quale si
pensa che debbano essere accertate le responsabilità. Oggi, chiunque
dica al mattino una cosa e la sera il contrario, è irresponsabile di
entrambe le dichiarazioni. Ma lo strumento del processo penale è
inadeguato a riaffermare la legalità quando l'illegalità sia
particolarmente diffusa e non esistano interventi che in altri campi vadano
nella stessa direzione. Diventa una spirale, crea sfiducia e disillusione». «E'
incredibile vedere quanto le persone siano coinvolte da questi contatti, da
fuori è davvero inimmaginabile», si infervora Colombo raccontando di
incontri «programmati per due ore e dove invece devo fermarmi per tre»; di centinaia
di persone che magari vengono in un teatro o in una biblioteca all'antivigilia
di Natale e quindi non certo perché non sanno cosa fare»; di «ragazzi che
succede spessissimo restino con la bocca aperta» a sentire eventi della vita
del loro Paese fondamentali, ma che nessuno mai gli aveva raccontato. «Bisogna
dar loro due cose: metodi e informazioni», ritiene Colombo, che, sostenuto
anche dall'esperienza di tanti incontri in tema di corruzione, tecniche
investigative, assistenza giudiziaria internazionale, ai quali è
chiamato particolarmente all'estero, si propone ora di impegnarsi in questa
direzione «sia attraverso contatti diretti, sia scrivendo che occupandomi di
editoria: va comunicato il profondo perché delle regole e il come farle funzionare;
occorre colmare la carenza di informazione non solo sui fatti, ma anche sulla
concatenazione dei fatti e del pensiero; è necessario individuare le
premesse e rendere evidenti le loro conseguenze, sottolineando la
necessità di coerenza, in modo da dare risposte stimolanti alla tanta
voglia di approfondire questi temi».
E
si intuisce che, rapportata a sé, è proprio questa esigenza di
"coerenza" a spingere ora Colombo a lasciare
l'amministrazione della giustizia. Non ci crede più, non crede che si
possa aumentare il tasso di legalità attraverso l'uso dello strumento
giudiziario, quando nulla cambia all' esterno. Da fuori forse sì, gli
sembra possibile: «A questo punto della vita mi sono convinto che può
esistere giustizia funzionante soltanto se esiste un pensiero collettivo che in
primo luogo individui il senso della giustizia nel rispetto degli altri; che
poi ci rifletta; e che infine, se ne viene convinto, arrivi a condividerlo. Si
tratta di confrontarsi con i fondamenti della nostra Costituzione, il riconoscimento
e la tutela dei diritti fondamentali e l'uguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge». Mentre l'amministrazione reale della giustizia, quella che oggi a
suo avviso arranca «senza una cultura condivisa delle regole, diventa qualcosa
di estremamente difficoltoso, addirittura per certi versi eventuale, fonte essa
stessa di giustizia casuale e quindi paradossalmente di ingiustizia», nel
marasma di «una grande disorganizzazione e con scarsi mezzi». Da questo punto
di vista, per paradosso, «l'esperienza in Cassazione è stata per certi
versi inaspettatamente confermativa: un impressionante numero di cause da
trattare in poco tempo, scarsi mezzi, mancanza di stanze». Il tutto
accompagnato da una sensazione di «ineluttabilità» alla quale «si
rassegna» chi pure lamenta «le cose che non funzionano», ultima goccia del
cocktail che ora a Colombo fa dire: «Dare così poca cura a
un'attività cruciale per l'amministrazione della giustizia è
stata, per me, la definitiva conferma che c'è anche altro da fare».
Altro rispetto ai processi. E prima dei processi: la condivisione delle regole.
E qui sembra affiorare l'eco di una sconfitta, l'unica forse avvertita come
davvero bruciante dall'ex pm di Mani pulite: corrotti e corruttori rientrati
nella vita pubblica, o direttamente (votati) o indirettamente (nominati),
comunque legittimati dai cittadini. Colombo si sente "tradito" dal
"popolo" nel cui nome ha amministrato giustizia? «Piuttosto, sono
contrariato nel vedere come la legalità, per questo Paese, sia ancora
qualcosa che ha poche chances». Tra le concause, dice, « ha pesato il mutato
atteggiamento dei media, le falsità dette contro le nostre indagini e
talora contro di noi. Ma credo ci sia stato anche un altro elemento importante.
All'inizio le indagini hanno coinvolto i livelli più alti della politica
e dell'imprenditoria, perché nei loro confronti erano allora emersi gli indizi:
persone lontane anni luce dal cittadino comune.
Poi,
però, man mano che le indagini progredivano, sono
comparsi anche fatti attribuibili a persone comuni: al maresciallo della
Finanza, al vigile dell'Annonaria, al primario dell'ospedale, all'ispettore
dell'Inps, al medico e ai genitori dei figli alla visita di leva, alla
cooperativa di pulizie. E qui, ecco che l'atteggiamento della cittadinanza
è cambiato». E voi magistrati siete finiti fuori mercato perché offrite
un prodotto (la legalità) per il quale non c'è domanda? «Anche
qui la misura della legalità è il rispetto dei principi
costituzionali. Di legalità non c'è n'è abbastanza. Sono
molti, per fortuna, coloro ai quali interessa la legalità, che vuol dire
piena attuazione dei principi costituzionali della tutela dei diritti
fondamentali e dell'uguaglianza di fronte alla legge. Ma non sono ancora abbastanza.
E soprattutto, hanno una scarsissima rappresentanza, non trovano voce
sufficiente. In alcuno dei due schieramenti». Colombo lo ricava «dal fatto che,
altrimenti, sulla legalità sarebbero state fatte delle battaglie. E dico
sulla legalità, non sul fatto che il signor Tizio o il dottor Caio siano
colpevoli o innocenti: ad esempio sulla modifica delle regole del processo, per
renderlo più agile e rapido; sulla dotazione di strumenti che consentano
ai giudici di svolgere meglio la propria funzione; sulla cura della
preparazione professionale». E' questo il fronte che ora sembra prioritario a
Colombo. Il quale, a sorpresa, non ha tanta voglia di voltarsi per toccare con
mano l'esito delle sue inchieste: «Vogliamo essere spietati? Sono magistrato
dal 1974, per 3 anni giudice, poi da inquirente mi è capitato di
occuparmi della loggia P2, dei fondi neri dell'Iri, di Tangentopoli, della
corruzione di qualche magistrato. Alla fine — a parte la dovuta definizione
giudiziaria delle singole posizioni —, i risultati complessivi di questo lavoro
quali sono stati? Tra prescrizioni, leggi modificate o abrogate, si è
sostanzialmente arrivati a una riabilitazione complessiva di tutti coloro che
avevano commesso quei reati. Con un livello di corruzione percepita che non si
è modificato. E, soprattutto, con una rinnovata diffusione del senso di
impunità prima imperante».
Cambiare
dall'interno, no? «Dovrebbe davvero cambiare tutto». E
invece, «possibile che per selezionare i capi di uffici giudiziari di
dimensioni pari a una grande azienda, continuiamo a fare le scelte, quando va
bene, sulla base della capacità di condurre indagini o scrivere belle
sentenze, qualità che nulla hanno comunque a che fare con la
capacità di organizzare un ufficio? Anche a proposito delle questioni
disciplinari, siamo sicuri che, nonostante tutti gli sforzi, pur fatti, non si
potesse fare ancora di più per evitare che qualche magistrato fosse
avvertito come arrogante o non sufficientemente dedicato alla sua funzione?».
Per Colombo «l'Italia è un paese di corporazioni che per prima cosa si
difendono autotutelandosi (ha presente l'espressione "cane non mangia
cane"?)». E pur se «la magistratura mi sembra, tutto sommato, la migliore»
di queste corporazioni, «anche al suo interno si avverte la tentazione di
cedere alla stessa logica: la difesa della categoria, prima che
dell'organizzazione, della disciplina, della laboriosità; con il rischio
di isolamento per chi pensa il contrario». La decisione di guardare alle regole
da una posizione diversa — confessa Colombo, ieri in Procura a salutare alcuni
colleghi — «non è stata facile e continua ad essere molto sofferta. Non
soltanto perché questo lavoro ha assorbito buona parte della mia vita, ha
accompagnato la nascita dei miei figli, la morte dei miei genitori, è
stato intriso di eventi di dolore squarciante (come gli assassinii, proprio qui
a Milano, di Guido Galli e Emilio Alessandrini, e dei colleghi eliminati da
terrorismo e mafia); ma anche perché tanti sono i colleghi, dai quali mi
separo, che con cura, attenzione e direi ostinazione non hanno fatto altro che
cercare di rendere giustizia. Ma a mio parere, perché non sia un compito
immane, occorre anche altro: che l'atteggiamento verso le regole cambi anche
fuori dai palazzi di giustizia».
17
marzo 2007
Il governo loda Martini ma resta l’ostacolo
della legge sulle coppie di fatto
È
probabile che non inciderà né sulla strategia di Benedetto XVI, né sulla
«nota» che la Cei sta preparando sulle coppie di fatto. Ma politicamente,
l’approccio morbido del cardinale Carlo Maria Martini ha rotto l’immagine
monolitica della Chiesa; e offerto al centrosinistra un appiglio prestigioso al
quale aggrapparsi per contestare la tesi di una collisione inevitabile con il
Vaticano. Difendere il provvedimento sulle coppie di fatto, adesso, viene
presentato come un atto che non può comportare mezze scomuniche. I
commenti dell’Unione tradiscono il sollievo, anche se non è scontato che
la legge passerà in Parlamento.
La
novità è un’altra: per la prima volta, sui Dico la maggioranza si
sente meno sola di fronte alle gerarchie. E usa il cardinale Martini come
testimonial di un dialogo che il Vaticano di Benedetto XVI si ostinerebbe a
rifiutare. Si nota un’inversione dei ruoli curiosa. Il disappunto del fronte
berlusconiano contro l’ex arcivescovo di Milano, accusato di «cedere alla
modernità», somiglia a quello che esprimeva nei giorni scorsi la
maggioranza contro la rigidità dottrinale del Papa. Insomma, ogni
schieramento usa le gerarchie per legittimare le proprie posizioni e screditare
quelle avversarie.
Ma
per l’Unione è un esercizio complicato dai segnali che continuano ad
arrivare dalla Santa Sede. La «Pontificia accademia per la vita» che invoca
l’obiezione di coscienza di medici e politici conferma le pressioni sui
parlamentari chiamati a pronunciarsi sui Dico. Cresce l’impressione che la
scelta sarà compiuta secondo logiche di schieramento che il sindaco di
Roma, Walter Veltroni, vede come una vittoria dell’«integralismo » e del
«laicismo esasperato». Fausto Bertinotti teme una sconfitta del governo al
Senato. Per questo, da presidente della Camera e dirigente del Prc, esalta la
«laicità dello Stato e del legislatore» contro i «vincoli confessionali
».
Ma
le tensioni col Vaticano ormai vanno oltre le unioni civili. Mimmo Lucà,
dei Cristiano-sociali, evoca ed esorcizza «la saldatura tra integralismo
cristiano e destra conservatrice». Nega la cittadinanza alla «Chiesa soggetto
politico». Ed assegna al Partito democratico il compito di «evitare che
quell’alleanza si saldi». È un allarme indirizzato anche all’interno
dell’Unione: ai settori che pensano di ridurre la «strategia vaticana» del
centrosinistra all’anticlericalismo. Lo stesso Prodi cerca di abbozzare una
risposta di compromesso. Invita a conciliare «l’ispirazione religiosa e la
fedeltà ai propri convincimenti di fede» con «l’esercizio della
responsabilità politica ». Il premier sembra rivendicare la legge sui
Dico quando spiega che occorrono «spirito aperto e disponibilità
all’ascolto delle domande nuove che vengono dalla società». Ma è
improbabile che si tratti di un’analisi accettata e condivisa oltre Tevere.
Massimo
Franco
17
marzo 2007
Incontro
promosso dal Segretariato per il partito democratico. Segatti: "Sui temi
etici la politica non dà risposte" Le opinioni degli italiani sulle
questioni eticamente sensibili sono varie, frastagliate, ma tutt'altro che
polarizzate. Lo ha dichiarato ieri Paolo Segatti, docente di Sociologia
politica all'Università di Milano, a margine di un incontro sui temi
eticamente sensibili e sugli orientamenti dell'elettorato, organizzato alla
Libreria Minerva dal Segretariato per il Partito democratico e moderato dal
direttore del "Piccolo" Sergio Baraldi. "La polarizzazione
esiste solo per le elite, perché l'opinione pubblica non si divide per andare
agli estremi", ha spiegato Segatti. "La nuova propensione dei
cattolici a votare centrodestra, registrata nel 2006 - ha continuato - non
è la conseguenza di una domanda polarizzata di valori che c'è
nella società, ma piuttosto la conseguenza di un discorso che rispecchia
i codici morali e l'agenda tematica di minoranze attive". In altre parole,
neanche sulle questioni eticamente sensibili l'Italia è divisa a
metà. Il Paese si presenta alla ricerca di soluzioni
"ragionevoli", che contrastino le posizioni estreme, a cominciare da
temi come la regolazione delle convivenze di fatto tra gli omosessuali.
"La realtà è che la maggior parte della popolazione
italiana, sia laici che cattolici, dichiara di avere qualche riserva di fronte
ai cosiddetti Dico tra le persone dello stesso sesso", aggiunge Segatti.
Secondo il docente, l'aspettativa è che la legge rifletta i valori di
ognuno, dimenticando che in realtà il contesto legale debba essere
vincolante per tutti. "L'interrogazione sui valori può diventare lo
spunto giusto per fare una domanda più ampia sul ruolo della nuova
sinistra - ha osservato il direttore del Piccolo, Sergio Baraldi - visto che
soprattutto dopo gli attentati alle Torri gemelle dell'11 settembre 2001 la
nostra società guarda a una modernità che si confronta con nuove
esigenze e priorità". Naturalmente, uno dei punti di partenza
è il nodo dei temi eticamente sensibili, visto che "sulla politica
la pressione cresce in maniera smisurata su questo versante". Mai come
oggi l'aspetto dell'etica è importante, perché molte volte sembra che
più la domanda cresce meno la politica è in grado di rispondere
in maniera coerente. Tutto questo fa sì che alcuni politici portino
avanti discorsi sulla polarizzazione etica, sulle "differenze valoriali"
tra gli elettorati delle due coalizioni, o su una tendenza
"costruita" verso un conflitto tra cattolici e laici. In tutto questo
come subentra però il ruolo della stampa? Secondo il direttore del
Piccolo, i giornalisti hanno una responsabilità maggiore nella
società visto che le notizie che vengono riportate dai giornali
rispecchiano la realtà. "Nello stesso tempo però non penso
che gli italiani decidano a chi votare solo sulla base di quello che leggono
sul giornale". g.p.
Vai allo
studio del Ministero delle Finanze
Più
di un italiano su dieci vive con meno di mille euro al mese e la stragrande
maggioranza, oltre l'80%, dichiara al fisco un reddito inferiore ai 35mila euro
l'anno. Pochi, pochissimi, i ricconi, quelli che dichiarano oltre 100mila euro
l'anno, l'ultima delle soglie nelle statistiche fiscali. Teoricamente a
permettersi una vita un po’ più agiata del normale sono meno di 2
italiani su 100. Sono alcuni delle informazioni che si possono ricavare dalle
oltre 8mila tabelle, una per ciascun comune italiano, sulle dichiarazioni dei
redditi 2005 (anno di imposta 2004) pubblicate oggi sul sito del ministero
delle Finanze. «Sono dati - spiega una nota - destinati ai Comuni al fine delle
decisioni locali sull'addizionale Irpef, ma che si rendono disponibili alla
consultazione libera», considerato anche che l'ultima Finanziaria stabilisce
appunto al possibilità di rendere noti i dati salvaguardando la privacy
dei contribuenti. Partendo dalle 10 più grandi città
metropolitane, dove comunque vive la maggior parte dei contribuenti, si può
calcolare che l'82% delle dichiarazioni prese in considerazione riporta redditi
sotto i 35mila euro (la soglia, cioè, che nel dibattito politico viene
normalmente considerato medio-bassa). Poco meno del 2% supera, appunto, i
100mila euro mentre la percentuale raddoppia (4,3%) se si sommano anche quelli
che nel 730 o Unico scrivono 70mila euro. Molti i “poveri”, quelli appena poco
sopra la cosiddetta “no tax area” perchè guadagnano 10mila euro l'anno:
si tratta di circa il 12 per cento dei contribuenti.
In base ai dati sul reddito imponibile è Roma, seguita da Milano, la
città più ricca d'Italia. A Roma spetta anche il primato dei
“paperoni”, con 30.960 persone che hanno dichiarato un reddito di oltre 100mila
euro contro 27.408 milanesi. A Roma però ci sono anche più
poveri. Il capoluogo con l'imponibile complessivo più basso risulta
Aosta, dove 279 persone hanno dichiarato un reddito superiore a 100mila euro e
200 lo hanno denunciato inferiore a mille euro. Tra le altre grandi
città, Torino figura al terzo posto, seguita da Genova, Napoli, Bologna
e Firenze.
Tra i piccoli comuni, spicca il concentrato di “paperoni” a Montebelluna, in
provincia di Treviso, quartier generale della Geox: ben 223 persone, su circa
27mila abitanti, hanno denunciato un reddito superiore a 100mila euro. Ben
1.037 pratesi su 185mila abitanti hanno dichiarato oltre 100mila euro, mentre
ad Arcore, residenza dell'ex premier Silvio Berlusconi, solo in cinque mostrano
di avere un reddito superiore ai 100mila euro così come a Villar Perosa,
regno degli Agnelli. Nei luoghi dorati della villeggiatura italiana - Capri,
Cortina, Forte dei Marmi, Poro Cervo (Olbia), Sestriere e Portofino - il fisco
non vede portafogli gonfi. La classe di reddito con il maggior numero di
contribuenti va dai 10mila ai 15mila euro l'anno. A Capri solo l'1,8% dei
contribuenti dichiara redditi da oltre 100mila euro. Il 61% è per il
fisco sotto i 20mila euro l'anno. Analogo il quadro delle tasse a Cortina dove
il rapporto dei più abbienti scende all'1,7 per cento.
+ L’Espresso
16-3-2007 Doppio gioco alla pakistana di Gianni Perrelli
+ La
Repubblica 16-3-2007 Codice contro le
stragi del sabato sera "Vietati gli
alcolici a chi guida"
+ La Repubblica 16-3-2007 Cina,
torna la proprietà privata Ma la terra resta dello Stato
Il Riformista 16-3-2007 Il rebus dell’italianità
nel Belpaese prodiano
Milano Finanza 16-3-2007 Lo spettro della recessione
Usa spaventa anche l'Opec
Il Tirreno 16-3-2007 Pistoia Traffico di notizie
riservate, 5 indagati
Il Corriere della Sera 15-3-2007 Ma il tuo pc
può navigare a Vista? Federico Cella
Roma,
16 Marzo 2007 – AgenParl – “Vado al congresso per mandarli al diavolo”. Lo
dichiara stizzito Nicola Rossi, deputato ex-Ds, riferendosi al prossimo
congresso primaverile della Quercia, nel quale si prevede verrà sancito
l’ingresso nel Partito Democratico.
Forti venti di scissione soffiano infatti sulla vicina assise dei Ds. Oltre
alle ormai già confermate defezioni di esponenti parlamentari quali
Giuseppe Caldarola e lo stesso Rossi, i campanelli d’allarme suonano per i
contrasti sul Pd con le aree interne al partito capeggiate da Gavino Angius e
da Fabio Mussi.
Mentre nella segreteria Ds si pensa di poter far rientrare la mozione Angius,
sembra che con il Correntone la frattura sia ormai insanabile. Mussi, alla
ricerca di una nuova collocazione nello scacchiere politico, ha infatti da
tempo avviato un dialogo aperto con il “cantiere della sinistra”, promosso da
Fausto Bertinotti per riorganizzare le forze della sinistra alternativa di
fronte ai nuovi scenari che si apriranno con la creazione del Pd. (F.F.)
Roma,
16 Marzo 2007 – AgenParl – Ha formalizzato il divorzio da Romano Prodi. Arturo
Parisi è entrato in rotta di collisione con il suo mentore. La
spaccatura è stata determinata dall’insanabile contrasto sulla riforma
della legge elettorale. L’attuale ministro della Difesa sostiene che il capo
dell’esecutivo, per restare alla testa del governo e per assicurarsi la
leadership del Partito Democratico, si sia accodato alla scia di quanti, non
solo nella Margherita, ma anche nell’intera coalizione di centrosinistra,
vogliono annacquare il bipolarismo, o ciò che ne resta.
Parisi, dopo essersi rifiutato di abbandonare il comitato promotore del
referendum, è passato all’attacco ed ha esplicitamente sbarrato la porta
a Prodi, affermando che con la conferma del bipolarismo occorre cambiare il
leader. Testualmente ha dichiarato che “il paese ha bisogno di rinnovamento”.
E, riferendosi agli attuali leader di Unione e Cdl, ha aggiunto che “se dovesse
riproporsi per la terza volta la stessa situazione, vuol dire che non avremo
fatto troppa strada”, ovvero che il Professore e il Cavaliere non possono
ancora rappresentare i rispettivi poli. Naturalmente “il Pd non è un
partito per Prodi, semmai per il dopo Prodi”.
Pertanto questa rottura del vecchio sodalizio appare, come viene detto
all’AgenParl, come il preludio di un dramma che, simile a quello maturato nella
Quercia, porterà al rovesciarsi di alleanze e a fratture all’interno
della Margherita e, successivamente, nel Pd.
Di ciò ne ha dato l’annuncio lo stesso Parisi, il quale ha affermato che
“l’idea del Pd a cui ho lavorato per anni non è esattamente coincidente
con quella di Massimo D’Alema e Franco Marini”.
PRIMO
PIANO Il premier Pervez Musharraf cavalca l'ambiguità.
Ufficialmente
combatte i terroristi. Di fatto il suo paese è il rifugio dei talebani e
di Al Qaeda La transumanza scorre ininterrottamente dall'alba al tramonto lungo
i tratturi e le sassaie di alta montagna che fendono il confine fra il Pakistan
e l'Afghanistan. Ai due lati della frontiera vivono tribù dell'etnia
pashtun. Hanno gli stessi costumi, parlano la stessa lingua, infischiandosene
delle divisioni fra i due Stati si ritengono semplicemente membri di una stessa
comunità. è in queste carovane di viandanti che si mescolano i
guerrieri talebani nei loro andirivieni fra le retrovie nelle aree tribali
pachistane e le basi d'assalto nelle province meridionali afgane. Più a
Ovest, nella regione del Baluchistan, i talebani si indottrinano nelle scuole
coraniche di Quetta, la città pachistana dove avrebbe trovato rifugio il
mullah Omar e dove negli ultimi mesi sono affluiti centinaia di combattenti
arabi dall'Iraq. è dal quartier generale in esilio, nascosto nel
labirinto di meandri della città vecchia, e certamente non sconosciuto
al Jui (Jamiat Ulema Islam, il partito fondamentalista che ha una forte
influenza in tutta l'area), che sarebbe stata coordinata l'offensiva di fine
inverno contro il governo afgano di Hamid Karzai. Una penetrazione militare
affidata nei distretti di Helmand, Khost, Paktia e Nangharar al mullah Dadullah
e al capo tribale Jalaluddin Haqqani. Il Pakistan formalmente alleato degli
Stati Uniti soffre di schizofrenia. Ha ricevuto miliardi di dollari da
Washington per arginare, a volte con successo, il terrorismo, ma nello stesso
tempo lo alimenta clandestinamente con i rami deviati dei suoi servizi segreti
(l'Isi) che sostengono le azioni dei talebani. "è nostro partner
nella guerra contro Al Qaeda", ha fotografato recentemente la situazione
John Negroponte, ex capo dell'intelligence Usa e ora braccio destro di
Condoleezza Rice al dipartimento di Stato, "ha catturato alcuni dei
responsabili militari di Bin Laden, però è anche la fonte
principale dell'estremismo islamico". Pervez Musharraf, il generale dal
'99 al potere dopo aver detronizzato Nawaz Sharif con un colpo di Stato
incruento, si barcamena con l'abilità di un equilibrista in un paese di
quasi 170 milioni di abitanti in bilico fra il Medio Evo e la globalizzazione.
Il Pakistan è l'unica nazione islamica che possiede ufficialmente la
bomba atomica. Ha università e centri scientifici di livello internazionale.
Una crescita economica annua del 6 per cento. Un tenore di vita nella borghesia
delle grandi città che non si discosta troppo dagli standard
occidentali. Ma nei piccoli centri e nelle campagne dominano ancora
arretratezza, ignoranza, povertà. Appena l'anno scorso è stato
abolito il kudud, un istituto giuridico primitivo che consentiva alla donna
stuprata di avere giustizia solo comprovando la sua denuncia con l'avallo di
quattro testimoni maschi. Con un colpo al cerchio, Musharraf ha mostrato
volontà di riformatore nella lotta contro la corruzione e nell'epurazione
dei vertici dell'intelligence. Con uno alla botte ha chiuso un occhio sull'odio
antioccidentale che matura nelle madrasse e sul doppio gioco di una branca dei
servizi militari che tramite l'avanzata dei talebani vogliono riprendere il
controllo dell'Afghanistan. "Nelle campagne", si giustifica il
presidente, "le scuole coraniche sono le uniche istituzioni educative.
Sarebbe impossibile chiuderle". Non altrettanto complicato sarebbe
rimettere in riga le madrasse più permeate dal fanatismo, come la Jamiya
Islamica di Quetta, dove si inneggia al mullah Omar e all'azione dei martiri
suicidi. Musharaff, che è già sopravvissuto a tre attentati, si
sforza in realtà di non mostrarsi insensibile ai voleri di Washington.
Anche perché è stato strigliato dal vicepresidente americano Dick Cheney
nel loro ultimo incontro a Islamabad. Avrebbe così autorizzato la
costruzione di una base segreta americana nel cuore del Baluchistan. A fine
febbraio non ha esitato a far arrestare il mullah Obaidullah Akhund, ministro
talebano della Difesa, che dopo soli due giorni era però già
libero. Ma non ha mai dato la caccia ai santuari dei talebani che raccolgono
forti simpatie in quel territorio, né ha permesso che lo facessero i marines,
per evitare il rischio di una guerra civile. L'ambiguità lo ha messo da
tempo in rotta di collisione con Karzai, che lo accusa di complicità
occulta con i talebani. Lo proverebbe la confessione di Mohammed Hanif, il
portavoce degli studenti coranici catturato l'anno scorso dai servizi di Kabul.
Secondo i verbali del suo interrogatorio, il mullah Omar si nasconderebbe a
Quetta, dietro le manovre di destabilizzazione dell'Afghanistan ci sarebbe la
mano dell'Isi, e i campi di addestramento sarebbero concentrati nell'area
tribale del Nord Waziristan. In una recente conferenza stampa Musharraf si
è difeso sostenendo che l'offensiva degli studenti coranici era scattata
all'interno dell'Afghanistan e che, tutt'al più, aveva ricevuto dal
Pakistan solo il supporto di qualche apparato fuori controllo. A dimostrazione della
sua buona fede ha poi ricordato di aver esteso per
La sfida sulle materie prime tra Stati
uniti e russia Le agende di politici ed istituzioni negli ultimi mesi hanno un
tema sottolineato in rosso: l energia, le sue fonti primarie, la sicurezza e la
certezza dei suoi sistemi di approvvigionamento e produzione. Le politiche
estere ed economiche di nazioni o macroregioni sono e saranno sempre più
influenzate nei prossimi anni da scelte strategiche che risulteranno essere il
prodotto di un analisi, in un contesto globale, di eventi geopolitici
strettamente legati alle scelte energetiche. Nella valutazione della sicurezza
energetica spiccano elementi distinti ed a volte distanti, che sono
riassumibili nella percezione degli stessi da parte delle popolazioni, e quindi
dei contesti politici di riferimento, e condizionanti poi nelle scelte
politiche dei singoli Stati. Certamente la contestualizzazione non risulta
facile, viziata com è da stimoli di valutazione diversi e da punti di
vista settoriali, ma certamente riassumibili in due macropercezioni come la
ricerca di sicurezza oggettiva e la ricerca di sicurezza soggettiva. In questo
contesto vasto non si possono tralasciare le valutazioni interne di una grande
potenza come gli Stati Uniti, che inevitabilmente condizionano attraverso
attori diversi e su vari piani i riti della contrattualità nelle macro
strategie economiche e militari. Gli Stati Uniti partono da alcuni dati interni
per proiettare sullo scenario mondiale le loro aspettative e, come risulta
evidente, per mettere sul piatto della diplomazia ufficiale e ufficiosa la loro
collaborazione specifica in cambio di consenso strategico. Con il loro 5% di
popolazione mondiale consumano di fatto il 25% di petrolio prodotto a livello
mondiale, e questo dato principale induce la loro classe politica a
immaginare come contrattare risorse certe per i prossimi anni. Va detto anche
che siano sicuramente molto restii ad utilizzare completamente le loro risorse,
che considerano riserve strategiche trattenute in modo naturale, costringendoli
a guardare all estero per garantirsi approvvigionamenti sicuri. Secondo fonti Usa
un duro colpo alla loro autonomia energetica è venuto dai danni
provocati dai due uragani che si sono succeduti negli scorsi anni e che
avrebbero compromesso il 27% della capacità estrattiva interna e il 21%
della raffinazione, peraltro in gran parte già ripristinata. Questi
elementi legati al grande consumo e al danneggiamento della
produzione/trasformazione interna, sembra portino gli Usa a giustificare
politiche di ricerca, anche invasive, di siti estrattivi certi ed una forte
ricerca di consenso nel consolidare le posizione strategiche detenute in paesi
terzi, anche attraverso le loro multinazionali. Dalla Casa Bianca partono tre
messaggi per condizionare le politiche internazionali ed in particolare le
scelte strategiche in campo mondiale: 1. Occorre una nuova politica energetica
che riconsideri fonti alternative. Messaggio questo indirizzato soprattutto al
mercato interno con il duplice fine di preoccupare e compattare i cittadini. 2.
È opportuno considerare che gli Usa sono gli unici con una
potenza navale che garantisce il presidio delle vie principali dell
approvvigionamento democratico di materie prime (per es. Suez, Golfo Persico,
ingresso del Mar Nero, ecc.).
Il magistrato: atto criminale e illegale l'episodio di
fuoco amico in cui un caccia americano uccise a Bassora il caporale Hull
LONDRA (GRAN BRETAGNA)
- Un magistrato britannico ha dichiarato al termine dell'inchiesta sulla morte
di un soldato britannico, ucciso
in Iraq dal fuoco amico di un caccia americano nel 2003, che la sua morte non solo era
interamente evitabile, ma che l'attacco dell'aereo militare Usa contro il tank
in cui si trovava il caporale Matty Hull, la vittima, è stato un atto
criminale non rispettoso delle legge. Dell'attacco il tabloid britannico Sun
aveva anche pubblicato un video.
Il magistrato, Andrew Walker, ha anche
criticato la politica dello stato maggiore Usa, che ha evitato di cooperare in
qualsiasi modo con la giustizia britannica.
«L’attacco al convoglio è equivalso a un agguato», ha spiegato Walker.
«E’ stato illegale perché non c’era alcuna ragione legale per compierlo e, in
questo senso, fu criminale». Le conclusioni del coroner britannico non hanno
alcuna conseguenza vincolante per gli Stati uniti che non sono sottoposti alla
giurisdizione britannica. Giovedì la vedova di Hull, Susan, aveva
rivolto un appello al presidente americano George W. Bush affinché rendesse
possibile la lettura completa del rapporto militare sull’incidente. «Undici
righe del rapporto sono state cancellate» ha affermato la vedova, quelle
relative all’interrogatorio del controllore di terra, nome in codice Manila
Hotel, che controllava i due caccia che attaccarono il convoglio di Hull. Gli
inquirenti, così come il governo britannico, hanno più volte
criticato le forze militari Usa per non aver cooperato con le indagini. Dagli
Usa è anche arrivato un no alla richiesta di una testimonianza dei piloti
americani coinvolti nell’incidente e il rifiuto a consegnare una registrazione
di cabina dell’attacco.
16
marzo 2007
ROMA -
Un codice etico per evitare le stragi del sabato sera. Il Governo e le
associazioni di categoria hanno firmato un codice di autoregolamentazione per
individuare all'ingresso delle discoteche chi sia il guidatore, per il quale
saranno vietati gli alcolici.
Il ministro dell'Interno, Giuliano Amato, nel presentare insieme a Giovanna
Melandri il codice etico, ha annunciato che aumenteranno di 5 volte i controlli
e che questi controlli "riguarderanno sia gli alcolici sia le
droghe". Le discoteche non faranno inoltre sconti sulla vendita degli
alcolici.
"Noi non diciamo ai giovani di non divertirsi e di non bere un bicchiere
di vino - ha detto il ministro dello Sport e delle politiche giovanili Giovanna
Melandri - ma che una persona del gruppo, quella che guida, si deve assumere la
responsabilità".
Oltre al Codice etico, il governo ha varato una serie di provvedimenti
repressivi per ridurre il numero di incidenti stradali. Tra le misure adottate,
maggiori controlli sulla strada: "Puntiamo entro l'anno al milione di
controlli su strada rispetto ai 200mila che si effettuano attualmente", ha
detto il ministro all'Interno Giuliano Amato. "Verifiche sullo stato del
guidatore tese a stabilire la piena efficienza di chi è al volante sia
sotto l'aspetto della non assunzione di bevande alcoliche che delle sostanze
stupefacenti. Nessuno vuole imporre ai giovani di andare all'oratorio il sabato
sera o bere l'acqua minerale - ha spiegato Amato - ma di imparare che chi
guida, quella sera, non deve bere''.
(16-03-2007)
PECHINO - Via libera del Parlamento cinese alla
proprietà privata. L'Assemblea nazionale del Popolo, dopo sette anni, ha
approvato con 2.799 voti a favore, 52 contrari e 37 astenuti una legge che
riconosce il diritto alla proprietà privata, salvo che per la terra che
resta sotto il controllo dello Stato.
Ed era proprio questo uno dei punti controversi. E sulla possibilità di
possedere la terra che si coltiva si erano concentrate molte proteste
contadine. Inultilmente, però. E così mentre i risparmiatori sono
già liberi di comprare azioni in Borsa, gli imprenditori possono
acquistare e vendere aziende, i terreni agricoli restano ancora sotto il
controllo delle autorità locali. Con conseguente cacciata di una
famiglia contadina, che da anni coltiva la stessa terra, se i dirigenti locali
del partito decidono di cederla per un insediamento industriale o edilizio.
Il Parlamento, inoltre, ha approvato una legge che elimina gli sgravi fiscali
di cui godono gli investitori stranieri unificando l'aliquota fiscale per tutte
le imprese al 25% dei profitti. Un provvedimento che mette fine a decenni di
privilegi fiscali e a quella che è stata sempre vissuta dalle imprese
domestiche come una chiara discriminazione: le aziende straniere fino ad oggi
erano tassate infatti al 10% mentre quelle cinesi al 33%. La legge entrerà
in vigore dal 2008 e secondo le stime del governo consentirà allo Stato
di incassare circa 41 miliardi di yuan in più, pari a 5,3 miliardi di
dollari.
(16 marzo 2007)
ROMA
Il decreto sulle liberalizzazioni va avanti a rilento. Il centrodestra ha
scelto di fare ostruzionismo, tra i deputati volano spintoni, in due giorni
sono stati votati poco meno della metà dei 270 emendamenti. Il tempo
stringe, ma ieri sera s’è trovato modo di sospendere il voto causa una
lite scoppiata sul numero legale: il deputato segretario, Teodoro Buontempo
(An) ed Erminio Quartiani, (Ulivo), sono venuti alle mani al banco della
presidenza. Anche Emanuele Fiano, (Ulivo), ha cercato di scagliarsi contro
Buontempo: l’hanno bloccato colleghi e commessi.
Il due aprile scade il termine per la conversione in legge del provvedimento,
che deve ancora passare al Senato. Non a caso la Camera lavora anche in
notturna. E l’Unione va all’attacco: la Cdl non solo blocca i lavori, ma ha
deciso di fare un ostruzionismo pregiudiziale puntando a sabotare il decreto.
Quindi, se è vero, afferma la maggioranza, che la fiducia resta
l’extrema ratio è anche vero che la decisione «dipende dai tempi».
È insomma possibile che oggi il Consiglio dei ministri possa valutare il
via libera al voto blindato (al Senato, a questo punto, rischia di essere
inevitabile).
Rallentamenti che non intimoriscono però il ministro papà delle
liberalizzazioni, Pierluigi Bersani: «Abbiamo reagito e dovremo reagire»,
avverte, anche se sottolinea di non riferirsi esplicitamente al voto di
fiducia, piuttosto a «questa opposizione di sedicenti liberali», il cui «palese
ostruzionismo» è «inaccettabile e incomprensibile». «Gli italiani
rischiano di dover tornare a pagare i costi di ricariche delle schede prepagate
dei telefonini», accusa il capogruppo dell’Ulivo a Montecitorio Dario
Franceschini, mentre Bersani ironizza: «non vorrei - dice - che il Cavaliere sguainasse
la sciabola e comandasse la “ricarica”». Comunque sia, il ministro promette che
«gli italiani aspettano queste misure e le avranno». Fiducia in vista. Dalla
parte del governo, compatti, i consumatori: Adusbef e Federconsumatori
insistono nel loro pressing a favore delle liberalizzazioni e parlano di
«sintonia» con l’Esecutivo. Nonostante i lavori procedano a singhiozzi, a
Montecitorio qualcosa s’è fatto. Le novità principali sui mutui:
l’abolizione delle penali viene estesa dai finanziamenti richiesti per
l’acquisto della prima casa ai mutui accesi per acquistare immobili ad uso non
abitativo e per l’esercizio di attività economico professionale, come
per quelli legati alle ristrutturazioni (emendamento di Forza Italia).
Dell’opposizione (An) anche un’altra proposta di modifica, approvata: allarga
le maglie sulle scadenze dei prodotti alimentari. Ancora, con 60 giorni di
preavviso si potranno disdire i contratti assicurativi pluriennali (subito
quelli di nuova stipula, dopo tre anni quelli già in essere). Altra
micro-novità, dopo lo stop ai costi fissi delle ricariche, per il mondo
della telefonia: il servizio «conosci-operatore», che tradotto vuol dire
offrire agli utenti la possibilità di conoscere l’operatore del numero
che si vuole chiamare.
Intervista al
cardinale Martini dopo la messa per i pellegrini milanesi a Gerusalemme
"Bisogna parlare di cose che la gente capisce e ascoltare le sue
sofferenze"
GERUSALEMME - "Credo che la chiesa italiana
debba dire cose che la gente capisce, non tanto come un comando ricevuto
dall'alto, al quale bisogna obbedire perché si è comandati. Ma cose che si capiscono perché hanno una
ragione, un senso. Prego molto per questo". Raramente, il cardinale Carlo
Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, 80 anni compiuti da poco, ha
fatto un accenno così diretto, così esplicito, durante un'omelia pronunciata in
chiesa, a temi che agitano anche il dibattito politico nazionale. Ma non
lasciavano molti dubbi di interpretazione, le frasi pronunciate ieri sera,
durante la messa celebrata nella basilica della Natività di Betlemme,
davanti a 1300 pellegrini arrivati al seguito del suo successore, l'arcivescovo
Dionigi Tettamanzi. Il cardinal Martini, parlando a braccio, fra gli applausi
dei fedeli, ha sollecitato la chiesa italiana a credere nel dialogo "fra
chi è religioso e chi è non religioso, fra credenti e non credenti"
aggiungendo di pregare "perché si raggiunga quel livello di verità delle parole
per cui tutti si sentano coinvolti".
Eminenza, a cosa si riferiva quando parlava della necessità di usare un
linguaggio che la gente possa intendere non come un comando ma come una verità quotidiana?
"Credo che la chiesa debba farsi comprendere, innanzitutto ascoltando la
gente, le sue sofferenze, le sue necessità, i problemi, lasciando che le parole rimbalzino
nel cuore, lasciando che queste sofferenze della gente risuonino nelle nostre
parole. In questo modo le nostre parole non sembreranno cadute dall'alto, o da
una teoria, ma saranno prese per quel quello che la gente vive. E porteranno la
luce del Vangelo, che non porta parole strane, incomprensibili, ma parla in
modo che tutti possono intendere. Anche chi non pratica la religione, o chi ha
un'altra religione".
Lei ha sempre auspicato la nascita di una pubblica opinione nella chiesa,
con la possibilità di discutere, anche di non essere d'accordo.
"Venendo a vivere qui a Gerusalemme io mi sono posto come se fossi in
pensione, fuori dai doveri pubblici. Mi sono posto l'impegno di osservare
rigorosamente il precetto del vangelo di Matteo, quello che dice non giudicare
e non sarai giudicato. Quindi io non giudico, perché con quella
misura sarei giudicato. Ma il mio auspicio va in quella direzione".
Molti pensano che la Chiesa sia in difficoltà di fronte ai
cambiamenti imposti dalla modernità.
"La modernità non è una cosa astratta. In verità ci siamo
dentro, ciascuno di noi è moderno se vive autenticamente ciò che vive. Non è questione di
tempi. Il problema è essere realmente presenti alle situazioni in cui
si vive, essere in ascolto, lasciare risuonare le parole degli altri dentro di
sé e valutarle
alla luce del Vangelo".
Lei ha parlato recentemente della necessità di promuovere la famiglia, un compito che ha
definito "più urgente" rispetto alla difesa della famiglia.
Con quali azioni si può raggiungere lo scopo?
"Promuovere la famiglia significa sottolineare che si tratta di
un'istituzione che ha una forza intrinseca, che non è data
dall'esterno, o da chissà dove. La famiglia ha una sua forza e bisogna che
questa forza sia messa in rilievo, che quindi appaia la bellezza, la nobiltà, l'utilità, la ricchezza,
la pienezza di soddisfazioni di una vera vita di famiglia. Bisognerà che la gente la
desideri, la gusti, la ami e faccia sacrifici per essa".
Invece, in questa fase del dibattito politico, della famiglia attuale
vengono più facilmente lamentati i modi in cui essa si
discosta rispetto al modello ideale.
"Durante l'omelia ho parlato delle comunità che troppo
spesso rimangono prigioniere della lamentosità. Il Signore
vuole che noi guardiamo alla vita con gratitudine, riconoscenza, fiducia,
vedendo le vie che si aprono davanti a noi. Quando andavo nelle parrocchie a Milano,
trovavo sempre chi si lamentava delle mancanze, del fatto che non ci sono
giovani. E io dicevo di cui ringraziare Dio per i beni che ci ha concesso, non
per quelli che mancano. Dicevo che la fede, in una situazione così secolarizzata, è già un miracolo.
Bisogna partire dalle cose belle che abbiamo e ampliarle. L'elenco delle cose
che mancano è senza fine. E i piani pastorali che partono
dall'elenco delle lacune sono destinati a dare frustrazioni e non
speranze".
(16 marzo 2007)
Quando uno storico dell’economia, nei decenni a
venire, deciderà di applicarsi al capitalismo italiano d’inizio
millennio, avrà di che lavorare per capire cos’ha rappresentato, lungo
la transizione rapida e complicata di questi anni, il concetto di «difesa
dell’italianità». L’italianità delle banche, dell’energia, delle
reti, dell’industria delle telecomunicazioni. A proclamarla, a corrente
alternata e con diversi gradi d’intensità, o a bollarla come marchio
d’infamia del provincialismo del Belpaese, più o meno le stesse voci. E
se il 2005 è stato l’anno dell’italianità perdente e furbetta,
quella difesa da Antonio Fazio da Alvito, con le manovalanze ben note e
già irreversibilmente consegnate agli atti, nel biennio 2006-2007 il
nostro storico dovrà registrare una brusca inversione di tendenza.
Infatti, con riferimento all’anno rovente 2005, quando il raid lodigiano di
Fiorani su Antonveneta, esplicitamente benedetto da Bankitalia, lo storico
dovrà annotare la sufficienza con cui tutte le persone per bene erano in
grado di dire il proprio sdegno. E di declinare il proprio fervido europeismo.
Ancora, dovrà tenere in conto che la troppa passione per l’Europa del
mercato unico fece prendere a più d’uno dei cocenti abbagli, di cui solo
la sicura buonafede attenuava l’impatto, peraltro ridotto da un’informazione
troppo europeista per essere obiettiva. Così, insieme
all’italianità esaltata dall’asse padano Lodi-Padova, e poi sigillata su
quello che correva tra Alvito e Palazzo Koch, finì coperta di snobismo
europeista anche la mossa di Unipol verso Bnl. E pensare che il grande tutore
dell’italianità furbetta, per l’appunto Antonio Fazio, fece attendere
lunghissimamente un’autorizzazione che non arrivò mai.
Tant’è, quella sorpassata ideologia dell’italianità fu spazzata
via con i suoi profeti, consapevoli o meno, e le banche oggetto della difesa
finirono sotto l’ombrello di capitali stranieri. Com’era giusto, probabilmente,
in un caso; com’era invero solo possibile, nell’altro. Di entrambe le vicende,
tuttavia, si disse che raffiguravano plasticamente la naturale caduta di
sclerosi ereditate dal passato, e spazzate via dalla contemporaneità di
un mondo senza confini cui tutti ci si doveva rassegnare. Una contemporaneità
transnazionale la cui percezione diffusa, al nostro storico, dovrà
apparire ben attenuata, muovendo appena un passo più avanti, e arrivando
per esempio al biennio successivo, il 2006-2007, di cui tentiamo di immortalare
il presente in attesa che il futuro lo consegni alla storia.
Già, perché neanche il tempo di celebrare l’abbattimento delle barriere
e il superamento delle bandiere nel risiko bancario, ed ecco che è tempo
di distinguo. E di celebrazioni, al contrario, per operazioni in grado di
salvaguardare il pedigree italiano del nostro patrimonio industriale e
finanziario. In rapida serie, vale ricordare la pronta ed efficace reazione di
un governo Prodi appena insediato a tutela dell’asfalto italiano di Autostrade,
tentato da una fusione-cessione con la gli spagnoli di Abertis. E poi, la madre
di tutte le fusioni bancarie, quella tra Intesa e Sanpaolo, e tutti i figli e i
figlioletti che sono venuti dopo, nel risiko delle popolari: da Bpu-Lombarda a
Popolare di Verona-Popolare Lodi, fino ad arrivare alla prossima chiusura tra
Bpm e Bper. Dal grande al piccolo, la ratio di tutte queste aggregazioni, e la
ragione per cui il governo ha caldeggiato e Bankitalia ha accondisceso, sta
anzitutto nella capacità di garantire la conservazione di un cuore italiano
in anni di capitalismo europeo aggressivo, esuberante e assai liquido. Tutte
operazioni a italianità garantita, insomma, che non hanno suscitato
scandali o accuse di provincialismo, né in politica, né sui mezzi
d’informazione. Un rinculo di anti-europeismo o assetti proprietari
diversamente posizionati? O forse si era stati un po’ faciloni prima, quando si
predicava l’Europa con l’Italia degli altri?
Lo storico risponderà, noi intanto raggruppiamo nella new wave
dell’italianità anche operazioni future o futuribili, ma certamente
propiziate dalla volontà politica e appoggiata da un notevole dispiego
di entusiasmo informativo. Caso quasi di scuola, ormai, la tormentata fusione
di Aem Milano con Asm Brescia, sempre promessa ma non ancora mantenuta, su cui
incombe però l’ombra dei capitali freschi di chi, in Europa, fa shopping
energetico come fosse un arricchito russo lungo via Montenapoleone. Tutto porta
alle recenti vicende di Telecom, che si chiuderà con banche e
superbanche italiane a garantire il tricolore, o alla prossima partita di
Alitalia che - siamo pronti a scommettere - conoscerà un finale analogo.
E così, poco o tanto che durerà ancora, questo governo Prodi
resterà negli annali come un tempo di consolidamento di un capitale
italiano assai meno predabile. Niente di male, anzi: ma bisogna dirlo.
MF
Il rischio di una recessione negli Usa e la volatilità delle borse sono
saliti alla ribalta del vertice dell'Opec. I ministri del cartello petrolifero,
come nelle attese, nella riunione di ieri a Vienna non hanno toccato le attuali
quote di produzione. E questo ha portato a un calo dell'1% del prezzo dell'oro
nero, che a New York ha chiuso a 57,56 dollari al barile. Se i prezzi dovessero
scendere troppo nei prossimi mesi, l'Opec non starà a guardare: i membri
del cartello hanno stabilito che il presidente di turno dell'Organizzazione dei
paesi esportatori e ministro del petrolio degli Emirati Arabi, Mohammed bin
Dhaen al-Hamli, potrà infatti convocare gli altri membri per un meeting
straordinario a giugno. Un'opzione che va letta alla luce della delicata fase
in cui sta passando l'economia internazionale. Di fatto, al meeting di Vienna
è balzato in primo piano lo spettro di una recessione negli Usa, che
restano il primo paese consumatore di petrolio al mondo. L'ipotesi, sommata ai
segnali di inversione di marcia dei mercati azionari, fa temere al cartello
petrolifero effetti negativi sulla domanda globale di petrolio. 'Siamo molto
preoccupati per un rischio recessione negli Stati Uniti', ha detto il ministro
del petrolio del Qatar, Adbullah bin Hamad al-Attiyah. Gli ha fatto eco
al-Hamli, spiegando che 'stiamo osservando attentamente gli sviluppi delle
borse, per valutare le possibili conseguenze sulla domanda di energia.
Continuiamo poi a essere preoccupati per la debolezza del dollaro contro le
altre maggiori valute'. MF Numero 054, pag. 6 del 16/3/2007
Perquisita anche la sede della Velox
Investigazioni nel viale Montegrappa L'inchiesta è nata dal caso Telecom
Sequestrati computer e agende telefoniche PRATO. Carabinieri e guardia di
finanza si sono mossi all'apertura degli uffici e sono tornati in sede a
metà pomeriggio, portando a casa un bottino fatto di 10 computer,
centinaia di files e numerose agende telefoniche. E' l'inatteso sviluppo delle
indagini nate da una costola dell'inchiesta milanese sulle intercettazioni
illegali che ha coinvolto Telecom e l'agenzia fiorentina Polis d'Istinto. Il
nuovo filone riguarda tre agenzie investigative con sede a Firenze, una delle
quali ha uffici anche a Prato ed Empoli. I cinque tra soci e titolari delle
agenzie (Panzani, L'Investigativa e Velox) sono indagati per accesso abusivo a
banche dati riservate, corruzione e violazione del segreto d'ufficio. Tutti
reati che si possono commettere solo in concorso con pubblici ufficiali, ma
questi ultimi per ora rimangono nell'ombra. Sarebbero due appartenenti alle
forze dell'ordine che hanno fornito informazioni riservate alle agenzie
investigative in cambio di soldi. Il sistema è lo stesso ipotizzato
nell'inchiesta milanese, ma i protagonisti sono altri. Lo farebbe pensare la
circostanza che i fatti contestati risalgono al dicembre 2006, cioè dopo
l'arresto di 21 tra poliziotti, finanzieri, carabinieri e investigatori privati
(tra cui Alessia Cocomello, agente in servizio alla Questura di Prato, e
Giovanni Nuzzi, brigadiere dei carabinieri in pensione, anche lui residente a
Prato) ordinato a settembre dalla Procura ambrosiana. Il sostituto procuratore
Ettore Squillace, dopo aver incassato la scarcerazione dei sei indagati finiti
nel filone toscano, ha voluto approfondire la materia e già a gennaio,
ma fino a ieri non lo si è saputo, aveva ordinato perquisizioni in
alcune agenzie investigative private. Ieri mattina i carabinieri e la guardia
di finanza hanno ricominciato gli accertamenti dividendosi tra cinque uffici.
Mentre gli investigatori visitavano le sedi fiorentine di Panzani,
L'Investigativa e Velox, i colleghi bussavano alle sedi della Velox di Prato e
di Empoli. Al numero 220 di viale Montegrappa i carabinieri sono rimasti alcune
ore, fino al primo pomeriggio, portando via computer e altro materiale che
sarà analizzato nei prossimi giorni. Nessun commento da parte dei tre
soci della Velox Investigazioni, i fratelli Francesco, Maurizio e Giuseppe
Spazzoni (quest'ultimo anche responsabile della sicurezza dello stadio Castellani
di Empoli). "Ci sono indagini in corso - si limita a spiegare uno dei tre
- Meglio aspettare gli sviluppi". Prudente anche l'avvocato del titolare
dell'Agenzia Panzani, Maurizio Folli, che professa fiducia nella magistratura.
Il suo cliente è in India e tornerà presto per rendersi conto
della situazione. Dal riserbo degli inquirenti filtra quasi niente: ci sarebbe
un testimone che ha indirizzato le indagini nella direzione giusta. In
sostanza, non era solo Emanuele Cipriani, titolare della Polis d'Istinto, ad avvalersi
dei favori di pubblici ufficiali. Il sistema era molto più diffuso e
potrebbero esserci altre agenzie investigative private coinvolte
nell'inchiesta, oltre alle tre di cui si è saputo ieri. P.N.
Piccola guida (con qualche cautela) per chi vuol passare al
neo-sistema operativo targato Bill Gates
Se
avete intenzione di cambiare il vostro computerdi casa,
è arrivato il momento giusto per farlo. Non tanto per sfiziose
novità tecniche legate all’hardware – di veri avanzamenti al momento ce
ne sono pochi –, quanto perché anche in Italia è arrivata la versione
Home del nuovo sistema operativo di Microsoft, oltre cinque anni dopo il
precedente, il celebrato Xp. Windows Vista infatti propone all’utente dei pc
non molte novità funzionali – il nuovo software è più
un’evoluzione che una rivoluzione –, ma in compenso offre notevoli incrementi
dal punto di vista grafico, con gli effetti di trasparenze e tridimensionali
dell’interfaccia Aero. Novità che però richiedono un hardware
potente non solo per poter sfruttare appieno le caratteristiche di Vista, ma
anche solo per poter usare il proprio pc senza dover subire irritanti
rallentamenti in ogni fase di utilizzo, che si tratti semplicemente di navigare
in rete oppure se si vogliono utilizzare programmi di un certo «peso».
Dunque
all’atto di comprare o «costruire» il vostro nuovo pc,
come prima cosa fate attenzione all’incompatibilità del sistema
operativo con alcune periferiche e quindi... ignorate i requisiti minimi per
Vista snocciolati da Microsoft: seguendoli, otterrete solo una macchina
bloccata. Iniziate dunque puntando subito sulle caratteristiche consigliate. E
quindi: cpu da almeno 1 GHz, 1 Gb di ram, disco fisso da 40 Gb (con almeno 15
liberi), scheda video con supporto DirectX 9 (driver Wddm, 128 Mb di memoria
video, supporto a Pixel Shader 2.0, 32 bit per pixel), unità Dvd-Rom,
scheda audio, accesso ad Internet. Detto questo, prendete il dato sulla Ram e
raddoppiatelo: come consigliato da molti produttori di pc, senza 2 giga di Ram
il vostro computer – con Vista – rischia di essere solo un bel quadro da
ammirare.
15
marzo 2007