HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli
Archivio Piccola Rassegna 16-31 Luglio 2007
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+ + Europa
31-7-2007 USA, scoppia la bolla immobiliare. La nuova frontiera? Le case
low-cost
+ La Nuova Sardegna 30-7-2007 La Sir, l’Imi e la storia di miliardi Giacomo Mameli
+ Aprileonline.it 30-7-2007 Sicilia, ricompare
l'opposizione? Agostino Spataro,
L’Unità 31-7-2007 Passerotto, non andare via
Marco Travaglio
Europa 31-7-2007 La “rupture” di Sarko e la Bce SANDRO GOZI
Il Riformista 31-7-2007 DIRITTI CIVILI Se il Parlamento
è assente la giustizia supplisce
L’Unità 31-7-2007 Tagli alla politica, andare
oltre i primi passi Vittorio Emiliani
Il Corriere delle Alpi 31-7-2007 Tra puttanieri e
quaqquaraqua'. Mino Fuccillo
Negli Stati uniti è scoppiata la bolla
immobiliare: i prezzi delle case sono in caduta e le famiglie americane, che da
decenni investono i loro risparmi nel mercato degli immobili, temono di perdere
gran parte del loro patrimonio. “E’ svanita ogni speranza che l’abbassamento
dei prezzi delle case possa essere contenuto, anzi questa tendenza del mercato
immobiliare sta contagiando altri beni di consumo come le automobili” afferma
il New York Times. Secondo il quotidiano di New York, la Federal Riserve (FED),
la banca centrale degli Stati Uniti, e il Ministero del Tesoro non riescono a
gestire l’emergenza.
“Infatti anche se la FED abbassasse i tassi di
interesse ci sarebbe bisogno della cooperazione a livello internazionale con
altre banche, altrimenti il dollaro sarebbe pericolosamente danneggiato e
l’inflazione schizzerebbe alle stelle. Ma l’amministrazione Bush ha
completamente trascurato la cooperazione finanziaria internazionale”.
Secondo il Seattle Post-Intelligencer “la crisi
del mercato immobiliare corrisponde in realtà ad un a crisi del sistema
creditizio. Gli Stati uniti sono un paese che ha preso in prestito soldi a
tutti i livelli: le famiglie si sono indebitate, ma anche le aziende e il
governo. L’unica maniera per calmierare questa situazione è quella di
accettare che i tassi dell’inflazione siano più alti.”
Il Washington Post si preoccupa invece dei
milioni di statunitensi che non possono permettersi una casa. “ Ci sono nove
milioni di famiglie che hanno entrate troppo basse per permettersi un affitto e
solo sei milioni di case che hanno dei prezzi d’affitto abbordabili. La Camera
dei rappresentanti ha votato da poco un progetto di legge per aiutare le
famiglie bisognose a pagare l’affitto e ora sta lavorando a una legge che
prevede la costruzione di più case a basso costo. L’obbiettivo è
quello di costruire 1,5 milioni di nuove case nei prossimi dieci anni”.
Anche a Los Angeles “ il Comune ha approvato la
costruzione di nuove unità abitative a basso costo” scrive il Los
Angeles Times.
Questo
in sintesi l'andamento del mercato immobiliare urbano del primo semestre,
che sta subendo in questi mesi una sorta di stallo. I dati sono stati forniti
dalla Federazione italiana agenti immobiliari professionali. Per quanto
riguarda i numeri, i prezzi degli appartamenti nel centro storico sono
arrivati a 3.500 euro al metro quadro per le case nuove o ristrutturate
(2.500 per le case in buono stato; 2 mila per quelle da ristrutturare).
"Anche se c'è poca disponibilità ed i costi sono elevati -
ha detto Sergio Adriani, presidente provinciale degli agenti immobiliari - i prezzi
tendono a salire, pure se solitamente c'è l'handicap del garage".
In generale comunque il confronto tra il primo semestre 2007 e il secondo del
2006 vede un aumento del 20% dell'offerta, stabile il numero delle transazioni
ed una diminuzione del 6% dei prezzi. Per i mutui, invece, c'è un
aumento vertiginoso (80% per una media di 25 anni). "C'è crisi
economica - ha aggiunto Adriani - e l'aumento dell'utilizzo dei mutui sta a
confermare questa tendenza. La gente vuole capitalizzare, gli affitti sono alti
ed i soldi non ci sono. Allora ci si rivolge al mutuo anche per importi
superiori al costo della casa". Per le zone, quelle più ambite sono
o Pettino (periferia) o località Sant'Antonio (media periferia) anche se
il mercato inizia ad essere saturo: tante offerte e pochi acquisti. Sulla
tipologia dell'immobile richiesto va alla grande la piccola abitazione con meno
di 60 metri quadri (50%); segue la media abitazione dai 60 ai 120mq (35%) e la
grande oltre i 120 mq (15%) "Ci sono sempre più single o coppie senza
figli - ha concluso Adriani - ed allora il grande appartamento oltre i 100
metri quadri non è più appetibile come accadeva fino a 15-20 anni
fa".
L’accordo tra Intesa-Sanpaolo
ed eredi Rovelli per la restituzione di una parte del maltolto
MILANO. Dopo 25 anni si conclude la rocambolesca
vicenda che ha visto come protagonisti, accanto agli uomini e alle donne delle
due fazioni, i mille miliardi di lire - o quasi - che nel 1994, intorno alla
metà di questa storia, l’Imi fu costretto a versare agli eredi di Nino
Rovelli, fino a qualche anno prima padrone della Sir, a titolo di risarcimento.
Quella montagna di soldi sparì immediatemente in un labirinto di conti
correnti e paradisi fiscali ricostruiti solo da poco dalla Procura di Monza. Ma
la sentenza che impose quel pagamento è stata da poco riconosciuta
illegittima dalla Cassazione perché frutto di quella corruzione per la quale
sono stati condannati Cesare Previti, allora avvocato della famiglia Rovelli, e
il giudice Vittorio Metta, estensore della sentenza che favorì la
famiglia dell’ex padrone della Sir. Nei giorni scorsi Intesa SanPaolo, che nel
frattempo ha assorbito l’Imi, ha raggiunto un accordo con gli eredi Rovelli che
chiude quella vicenda: la famiglia Rovelli verserà 200 milioni, oltre a
cedere i sostanzioai crediti vantati da Primarosa Battistella, vedova Rovelli,
verso l’amministrazione finanziaria, collegati all’imposta di successione sui
famosi mille miliardi.
E dire che dietro quel colossale imbroglio c’era il nobilissimo intento di
promuovere il «Piano di rinascita economica e sociale della Sardegna». Che
doveva essere liberata dal «brigantaggio», dalla vita scandita dal suono delle
campane a morto nei paesi dello scacchiere del «malessere» in Barbagia, dal
rosario rosso sangue dei sequestri di persona da Capo Pecora a Palau, da tassi
ancora elevati di analfabetismo, da una disoccupazione che superava il 25 per
cento dei sardi in grado di lavorare. La busta paga arrivava con le rimesse
degli emigrati. Fuggiti a centinaia di migliaia.
Spuntò così la petrolchimica, quella delle cattedrali nel deserto
della Media valle del Tirso, davanti al Golfo dell’Asinara al Nord e al Golfo
degli Angeli al Sud. Con l’industria la Sardegna cambiò pelle. Ma quasi
nessuno avrebbe immaginato che «la virtù dei benefattori» si sarebbe
presto trasformata in vizio da inferno dantesco che - scrivono i giudici - «non
ha l’uguale nella storia d’Italia e forse del mondo» alimentata da una combine
di toghe sporche e untuose con epicentro politico-giudiziario romano. Questa
torbida telenovela industrial-finanziaria con logistica nell’Isola dei Nuraghi
è giunta al suo epilogo con una pur piccola tempesta che giunge dopo la
Grande Quiete: gli eredi del petroliere morto a Zurigo nel 1990 (la vedova di
Nino Rovelli Battistella Primarosa, i figli Felice, Oscar, Anna Rita e Ursula
Angela) dovranno restituire 200 milioni di euro per mettere la parola fine alla
vicenda Imi-Sir sviluppatasi - hanno scritto i magistrati - con una «gigantesca
opera di corruzione».
Previti vince causa Di soldi i Rovelli-boys ne avevano avuto molti ma
molti di più. Nel 1990 la magnanima Corte d’Appello di Roma presieduta
da Vittorio Metta (lo stesso del lodo Mondadori) aveva deciso che l’Imi (la
grande merchant bank ora passata sotto il cappello di Intesa-SanPaolo) avrebbe
dovuto versare 972 miliardi di vecchie lire agli eredi dell’inventore della
petrolchimica del Meridione d’Italia. Trecento miliardi furono pagati come
tassa di successione. Il resto finì allegramente in tasche rovelliane. E
fu festa grande. Perché aveva «vinto causa» l’onorevole avvocato Cesare
Previti, candido e accanito difensore dei Rovelli. Prima era successo di tutto
e di più. Erano stati infangati i vertici della Banca d’Italia con gli
incolpevoli Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, c’era stata la manomissione di
prove e di processi, sono spuntate tante norme ad hoc, con falsi in bilancio
diventati giaculatorie francescane e rogatorie ad personam, con leggi Cirami.
Cirielli, eccetera, eccetera. E chi più ne ha più ne metta. Con
una maggioranza prona in Parlamento che diceva sì a pratiche di evidente
malaffare.
I paradisi fiscali Quei soldi avuti dall’Imi come «risarcimento» di
chissà che cosa erano finiti nell’universo mondo dei paradisi fiscali e
di conti correnti fantasma. Non è stato facile scovarli. Magistrati
segugi hanno dovuto lavorare sodo, dalla Procura di Monza li hanno ricercati
per tredici ininterrotti anni, dal Lussemburgo a Zurigo, da Georgetown delle
isole Cayman all’ex Honduras britannico di Belize, in Costarica e negli Stati
Uniti. Finalmente il tesoro-tesoretto è stato scovato, un po’ qua e un
po’ là. Gli eredi dell’impero Rovelli capiscono insomma che i giudici
hanno trovato tana, che la pacchia del nascondino è finita. Eccoli
dirigersi verso gli stessi caveaux da dove quella montagna di soldi era
partita. Per restituire parte del maltolto. Per evitare la beffa e ridare
dignità alla legge.
Al centro di questi traffici illeciti c’era proprio la Sardegna. Quella che
aspirava a una vita anche con l’industria, come succedeva in tutte le altre
parti del mondo occidentale. Perché era in Sardegna - oltre che nella piana
calabrese di Sant’Eufemia di Lamezia Terme - che il Clark Gable della Brianza
(così era chiamato Rovelli per la straordinaria somiglianza col
protagonista di Via col Vento) aveva deciso di «portare il lavoro». In Calabria
aveva gli stessi sponsor che avrebbe trovato in Sardegna. Basta guardare
vecchie foto d’archivio e incontrare i visi serafici di Giulio Andreotti per
l’ex Democrazia Cristiana o di Giacomo Mancini per il Partito Socialista. Il
primo progetto prevedeva spese in impianti pari a 45 miliardi. Alla fine
Rovelli e la sua Sir, solo in Calabria, ne portò a casa 230. Un po’
più della metà del Piano di Rinascita della Sardegna.
Petrolchimico e unzioni Da noi le cose andarono perfino peggio. Con il
consenso pressoché generale. Pietro Melis, professore di latino e greco con
radici nel Supramonte di Oliena, sardista della scuola di Camillo Bellieni,
straconvinto della necessità di «portare l’industria anche nell’Isola
dei pastori, dei commercianti e dell’emigrazione di massa», assessore regionale
proprio all’Industria a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, aveva detto
una volta che «pochi ringhiavano contro la petrolchimica. Perché il petrolio
è un olio e Dio sa quanto unge. E quanto certa gente ami essere unta».
Sì. Di unzioni petrolifere ce n’erano state a non finire anche in
Sardegna. Per catturare il consenso popolare, intanto. Fu una stagione d’oro
per lo sport, per il Cagliari rossoblu in serie A con Gigi Riva, Ricky
Albertosi e Ricciotti Greatti, per il Brill che incantava il Palasport di Monte
Mixi con John Sutter. Consenso da catturare con Sua Maestà l’Informazione.
Intanto con l’acquisto dei due quotidiani dell’Isola, prima La Nuova Sardegna e
qualche anno dopo l’Unione Sarda. Giornali scritti non con l’inchiostro delle
rotative ma col petrolio. Giornalisti che portavano nelle redazioni «la voce
del padrone». E incenso ai servitori politici di turno. Un presidente della
Regione diceva no a un nuovo impianto da far sorgere nella piana del Sologo e
nell’altipiano sotto la colonia penale di Isili? Ebbene. Dàgli
all’untore. Fino alle dimissioni di quel presidente e alla sua sostituzione con
uno più accondiscendente. Con crisi di giunta e cambio di leader anche
ogni otto mesi. Avveniva soprattutto nelle correnti della Dc e nel Psi. E anche
nel Pci dove esistevano dei consiglieri regionali «ad personam» di Rovelli con
i quali il Gran Capo e i politici contrattavano anche i nomi dei direttori dei
giornali. Ma soprattutto con carriere politiche interamente costruite insieme
alle ciminiere. Se arriva in Sardegna Flaminio Piccoli, segretario della
potentissima Dc, e da un balcone di Villagrande annuncia il suo «pacchetto» di
12 mila posti di lavoro ad Ottana, ecco i giornali far da megafono. E mai un
dubbio. E mai un-rigo-uno per il dissenso (contenuto), me neanche per il
dubbio. E il politico ritratto in foto col Segretario o a lui vicino sul palco
ottiene preferenze a profusione. Nel nome della democrazia. E del lavoro da
creare.
Progetti e miliardi Per costruire strade attorno a Portotorres e
Macchiareddu, attorno ad Ottana, per ampliare porti, per realizzare pipeline
tra Santa Gilla e Sarroch. Non solo. Non appena Ottana comincia a produrre - e
siamo agli inizi degli anni ’70 - la crisi della chimica è
già evidente. I manager - quelli statali dell’Eni e quelli privati della
Sir - sono già «i signori del declino», non capiscono come gira il mondo
industriale, non comprendono come sia necessaria la ricerca scientifica,
l’invenzione di nuovi materiali. Qualcuno invoca la chimica fine. Bollato come
visionario. Qualche altro esalta la farmaceutica. Niente. Solo polietilene,
solo acido acrilico, solo fibre di scadente qualità. C’è un
assessore all’Industria che confonde le fibre poliestere col polistirolo. «E
che differenza c’è?», domanda smarrito l’assessore della prima Autonomia
all’allora ministro dell’Industria Romano Prodi. Politici incapaci di
analizzare la metamorfosi epocale che gli sta avvenendo sotto i piedi. E
manager piccoli, piccolini, autentici nientini nell’industria in gran
mutamento. Vivono solo di raffinazione e di virgin nafta. Non si rendono conto
di quanto sta avvenendo in Cina, in Giappone, a Taiwan, a Singapore, negli
stessi mercati orientali e asiatici. Bussano ancora a quattrini. Propongono
addirittura di raddoppiare gli impianti. Con Ottana 1 in crisi si propone la
Siron 2, altre centinaia di miliardi buttati al vento. E se c’è un
sindacalista che definisce «follìa il raddoppio degli impianti» ecco che
sorgono i puri (anche nel giornalismo) che si scagliano contro «il sindacato
che è contro il progresso e il lavoro». E le giunte regionali prone,
pronte a dire di sì pur di ingrossare il portafogli della potentissima
Sir.
Così facendo si arriva al Grande Crack Siamo al 1978. Sono inutili
le conferenze delle Partecipazioni Statali, sono estenuanti le notti di
trattative al ministero (allora) del Tesoro di via XX Settembre a Roma, col
ministro Tommaso Morlino, col povero Governatore Paolo Baffi che dice no ai
salvataggi proposti dalle banche, dall’Imi in primo luogo. Cambiano le sigle.
La politica industriale italiana è nel pallone. Anzi, non c’è
proprio. L’Eni diventa Enoxy, la Montedison barcolla, la Montefibre va a
pallino, la Snia ha già chiuso baracche e burattini. Niente ricerca
scientifica e perdita dell’industria di base, acciaierie comprese. La quinta
potenza industriale all’interno del G7 merita la retrocessione. E in Sardegna?
I posti di lavoro calano a vista d’occhio. L’unica eccezione positiva è
la Saras che non licenzia e adegua gli impianti alle nuove tecnologie. Ma non
vengono rinnovati gli impianti di Stato. Ottana - modello per alcuni anni di tecnologia
- è sinonimo di ferrovecchio, Portotorres va in ruggine, Macchiareddu
pure, Villacidro lascerà lo spazio per grandi (anche troppo) centri
commerciali. A Isili? Ciminiere sì, ma come riparo per gatti selvatici,
pipistrelli e topini di campagna.
Ecco Tutto questi imbrogli, queste colossali prese in giro di operai e
amministratori locali, non erano da addebitare alle incapacità
dirigenziali dei vertici Sir. Settecento miliardi di crediti vengono convertiti
in azioni nel 1979, le banche si prendono la Sir. Gli eredi Rovelli si
lamentano. Accusano l’Imi di non rispettare i patti. Vogliono essere
«risarciti» loro, mica le migliaia di lavoratori rispediti a casa. Per questo
piano trovano le alleanze giuste. Nelle aule di giustizia e nelle aule
parlamentari. Con un avvocato, Cesare Previti, ministro della Difesa nel
governo guidato da Silvio Berlusconi. Con un deputato, Cesare Previti, che
«ringhiava» davanti alle contestazioni con carta-che-canta del pubblico
ministero Ilda Boccassini. Con un ex ministro&soci - hanno scritto i
giudici in 500 pagine di motivazione di sentenza - che volevano «conseguire nel
modo più facile, ma anche tra i più sordidi, quella ricchezza
materiale evidentemente mai sufficiente».
Alcune cifre, per finire Solo nel 1982 Rovelli perde 1400 miliardi, la
cordata delle banche «salvatrici» mille, lo Stato quattromila. In tutto 6.400
miliardi. La Sardegna perde contemporaneamente più di seimila buste paga
nella chimica. Sì, giustizia sarà anche stata fatta. Consolazione
magra pensare che davanti a 6.400 miliardi di vecchie lire oggi uno voglia
chiudere la partita restituendone appena 400, pari cioè ai 200 milioni
di euro con i quali si è raggiunto l’accordo fra i Rovelli e l’ex Imi
oggi Intesa-San Paolo. Forse è necessario un altro piano di Rinascita:
per sconfiggere un altro tipo di «brigantaggio».
(30
luglio 2007)
Regionamenti
Ieri in commissione Affari Istituzionali, nella discussione sulla legge
elettorale per gli enti locali, deputati del centrosinistra e di An hanno deciso
di mandare avanti la riforma, approvando la riduzione numerica e delle relative
spese degli organismi elettivi
All'Ars è ricomparsa l'opposizione.
Finalmente! Si potrebbe dire. Vedremo se si tratta di una buriana di mezza
estate o di un nuovo inizio. In ogni caso, trattasi di una buona notizia, dal
piglio nuovo, dopo anni di quieta routine parlamentare, di consociativismo
strisciante e/o palese che hanno consentito al centrodestra siciliano di fare e
disfare le cose a suo piacimento e di consolidare il suo enorme consenso
elettorale, condannando la Sicilia ad un inesorabile declino.
E' accaduto l'altro ieri, in commissione Affari Istituzionali nella discussione
sulla legge elettorale per gli enti locali: deputati del centrosinistra e di An
hanno deciso di mandare avanti la riforma, approvando la riduzione numerica e
delle relative spese degli organismi elettivi degli enti locali.
Per inciso, riteniamo più corretta questa definizione e non quella
ambigua di "costi della politica" che si presta alla subdola campagna
contro "la politica" genericamente intesa, scatenata da forze
potenti, economiche e mediatiche, che non sappiamo dove voglia andare a parare.
Ovviamente, non si vuol negare l'esigenza
di un contenimento delle spese e dell'eliminazione degli sprechi che si
registrano nelle istituzioni elettive, ma anche in tanti altri settori della
vita pubblica che certi Catoni ignorano intenzionalmente. L'importante è
che vi sia un segnale di sana reazione da parte dello stesso corpo
(istituzionale) interessato. E mi pare che, dopo Roma, qualcosa cominci a
muoversi anche a Palermo, proprio grazie al voto della prima commissione che ha
fatto esplodere le contraddizioni all'interno del blocco di potere dominante
alla Regione.
Per altro, c'è da rilevare che, in questo caso, l'opposizione non ha
espresso un no di principio, ma piuttosto un sì ad un'ipotesi
riformatrice largamente condivisa che i maggiorenti del centrodestra hanno
abbandonato a causa di pressioni ricattatorie provenienti da varie parti della
maggioranza. A questo punto, è obbligatorio proseguire su questa linea,
senza dimenticare che l'opinione pubblica attende anche un serio sforzo di
autoriforma che riequilibri gli appannaggi e i meccanismi di gestione dell'Ars,
del governo e degli enti regionali in sintonia con quanto si sta facendo a
livello nazionale.
Verificheremo nel prosieguo dell'andamento di questo travagliato disegno di
legge.
Tuttavia, ci è parso di vedere
un'opposizione che finalmente affonda il suo artiglio e scompiglia
inconfessabili trame di potere, quasi che volesse segnare un discrimine fra
passato e presente. E futuro.
Se una tale condotta dovesse essere sviluppato in futuro, sicuramente se ne
gioverebbe la democrazia dell'alternanza e l'opposizione di centrosinistra
ri-acquisterebbe credibilità e un ruolo alternativo visibile, capace di
delineare una nuova prospettiva politica per la Sicilia.
Ovviamente, i conti non si possono fare senza l'oste il quale- come già
si preannuncia- farà di tutto per vanificare questa importante decisione.
Usando tutti i mezzi disponibili, appellandosi alla compattezza del
centrodestra, minacciando ritorsioni a destra e a manca, soprattutto ai danni
del partito di Fini, sollecitando le proteste di sindaci e presidenti di
provincia e di circoscrizioni e le rispettive rappresentanze consiliari.
Si apre, dunque, una sfida difficile. Per
vincerla è necessario resistere, ma soprattutto contrattaccare portando
il confronto fuori dell'Ars e delle logiche compromissorie, fra la gente e
negli stessi organismi degli enti locali, e in tutti quei settori della
società siciliana che ancora sperano nel cambiamento.
L'occasione sembra propizia poiché, in contemporanea col voto sulla legge
elettorale, sono stati resi noti i dati allarmanti di un'indagine della Corte
dei conti secondo cui un terzo dei comuni e più della metà delle
province siciliane hanno oltrepassato (taluni di molto) i limiti della spesa
prevista nei bilanci adottati in ossequio del cosiddetto "patto di
stabilità".
Non sarà reato trasbordare, visto che tutto è stato sanato da una
norma della finanziaria, ma sicuramente è un grave errore politico,
soprattutto in tempi come quelli che stiamo vivendo.
Fra i tanti esiti negativi, colpisce il
risultato della provincia di Catania, retta saldamente dall'eterno scontento e
alleato elettorale della Lega di Bossi, on. Raffaele Lombardo, dove la
previsione di
spesa si è moltiplicata per 41, passando da 17 a 701 milioni di euro.
Un risultato a dir poco catastrofico che chiama in causa la
responsabilità politica di Lombardo e della sua giunta di centrodestra,
ma anche la capacità reattiva dell'opposizione di centro sinistra della
provincia etnea che, pur esprimendo prestigiose personalità della
politica nazionale, sembra rassegnata a subire una gestione dispendiosa dei
suoi più importanti enti locali. E' superfluo ricordare che, sovente,
l'incremento della spesa è finalizzato all'acquisizione del consenso e
quindi ad eternare il sistema di potere dominante che poi va a pesare anche
sugli equilibri regionali e nazionali.
Eppure, si parla sempre solo di Palermo. Di
Catania non si sa quasi nulla. Strano. In Italia e nel mondo si sa tutto delle
eruzioni dell'Etna, ma nulla sanno i cittadini siciliani, e forse anche
catanesi, di cosa stia facendo l'opposizione per controbattere lo strapotere
dei vari Lombardo e Scapagnini.
O sono vere le voci, sempre più insistenti, secondo le quali esiste un
feeling fra Lombardo e il nascente Partito democratico?
Oggi la Camera dovrebbe votare pro o contro
la proposta della giunta per le elezioni di mettere alla porta l'onorevole
pregiudicato e interdetto Cesare Previti. Il tutto con 14 mesi esatti di
ritardo, visto che la sentenza della Cassazione del 4 maggio 2006 aveva
già stabilito irrevocabilmente il da farsi. Per 420 giorni il deputato
abusivo ha percepito indebitamente lo stipendio (13-14 mila euro al mese netti)
e maturato i diritti alla pensione a spese dei contribuenti. Ed è
riuscito ad affermare il principio cardine della Repubblica dei Mandarini,
largamente e trasversalmente condiviso: quando c'è di mezzo un membro
della casta, o della cosca, anche le sentenze definitive diventano provvisorie.
Trattabili. Chiunque vinca le elezioni, la legge non è uguale per tutti,
perché in Parlamento vige il diritto d'asilo. Giunti a questo punto, è
vivamente sconsigliabile votare sì alla cacciata di Previti dal
Parlamento. Forse è meglio che resti dov'è, a imperitura memoria.
Gli terranno compagnia altri 24 onorevoli pregiudicati, più uno che, per
meglio difendere la famiglia e combattere la droga, organizzava coca-party con
due squillo a botta in un grand hotel (ieri s'è dimesso dall'Udc, ma non
dal Parlamento), e un altro che, per arrivare prima in uno studio tv,
usò un'ambulanza come taxi (s'era dimesso dal Parlamento, ma poi ci ha
ripensato e ha traslocato da An a Forza Italia: sempre in ambulanza, si
presume). La loro presenza a Montecitorio servirà ai Mandarini per
rivendicare lo status di legibus soluti e ai cittadini per rassegnarsi a quello
di sudditi. E poi, come rivela L'espresso, Previti ha già mostrato ampi
segni di ravvedimento: ora non corrompe più i giudici, ma affidato ai
servizi sociali grazie alla legge ex Cirielli che gli ha regalato i domiciliari
e all'indulto extralarge che gli ha restituito la libertà - rieduca
tossicodipendenti nella comunità Ceis di don Mario Picchi. In
particolare sovrintende al "Programma serale", che prevede
"colloqui individuali e di gruppo per strappare dalla cocaina, dal gioco
d'azzardo e da altre azioni compulsive (come lo shopping) professionisti,
dirigenti di aziende e giovani che hanno deciso di dare una sterzata alle loro
esistenze". Salvo i due mesi che gli tocca passare di nuovo in casa, a
causa della seconda condanna definitiva per aver comprato la sentenza Mondadori
(anche lui aveva problemi di shopping compulsivo, ma nel ramo giudici),
tornerà presto all'aria aperta dalle 7 alle 23(salvo qualche permesso
premio per ritemprarsi nella villa all' Argentario, dove un tempo veleggiava
sul mitico "Barbarossa" nelle acque dell'allusiva Cala Galera). Per
dedicarsi, tre giorni a settimana, ai ragazzi del Ceis: "colloqui
collettivi e individuali", precisa L'espresso, nei quali "nessuno lo
ha mai rifiutato come consulente". Previti, in particolare, segue
"l'evoluzione di due ex tossicodipendenti, due liberi professionisti"
entusiasti del loro nuovo rieducatore: "Previti ci ha sorpreso",
assicura don Musìo, braccio destro di Picchi: "È aperto,
franco, collaborativo, si è guadagnato la stima di tutto lo staff.
L'onorevole si sta mettendo in discussione e nei colloqui con i frequentatori
offre un grande contributo di pragmatismo". Come ai vecchi tempi, quando
smistava compulsivamente, ma pragmaticamente, miliardi su miliardi da un conto
svizzero all'altro senza pagare una lira di tasse. Qualche maligno temeva che,
vistolo in faccia, i ragazzi ricadessero negli antichi vizi e abbisognassero di
una rieducazione supplementare. Invece finora tutto è filato liscio come
un bonifico estero su estero. "Il bilancio - aggiunge il sacerdote -
è positivo: spero Previti che riversi questa nuova esperienza anche
negli ambienti che frequenta". Magari che rieduchi anche Berlusconi e
Dell'Utri, peraltro esperti in altri tipi di bilanci, perlopiù falsi.
Nel tempo libero, a parte qualche partitella al circolo Canottieri Lazio
("sempre più sporadiche, ma la passione resta nonostante
l'età", confida un amico) e "la ginnastica agli attrezzi di
cui si è dotato in casa", Cesare "riceve e conversa".
Pare che sia un po' in freddo con Pera e Tajani, mentre Silvio e Marcello sono
sempre affettuosissimi, e ci mancherebbe altro. Gli onorevoli che oggi hanno in
mano il suo destino si mettano una mano sul cuore e una sul portafogli. E ci
pensino bene, prima di privare le istituzioni democratiche di un apporto
così fondamentale. In fondo, al Parlamento, un educatore di tossici
può sempre tornare utile. Uliwood party.
ROMA -
Nell'estate del 2001, la cessione a Marco Tronchetti Provera del pacchetto
azionario di controllo di Telecom Italia ha sottratto al Fisco 600 milioni di
euro, (1.266 miliardi delle vecchie lire). E per l'amministrazione delle
Finanze, è arrivato il tempo che quel denaro rientri nelle casse
dell'Erario.
L'Agenzia delle entrate ha notificato un avviso di accertamento fiscale ai soci
e agli amministratori pro-tempore della società "Bell", la
cassaforte lussemburghese del finanziere bresciano Emilio Gnutti che di Telecom
aveva il controllo e attraverso cui ne venne perfezionata la vendita. Sei anni
fa, i soci di "Bell" raccolsero dalla transazione plusvalenze
esentasse per 2 miliardi di euro (3.500 miliardi delle vecchie lire). Dovranno
ora versare 600 milioni di euro a titolo di "maggiore imposta" evasa
e 1 miliardo di euro "a titolo di sanzioni". Quell'esenzione non gli
spettava, perché Bell era una società italiana a tutti gli effetti, e fu
ingiustamente favorita.
"Considerata l'entità del danno erariale, nonché la distrazione del
patrimonio sociale di "Bell" - scrive l'Agenzia delle entrate nel
provvedimento - si rende opportuna l'iscrizione di ipoteca sui beni dei
trasgressori e dei soggetti obbligati in solido, con conseguente sequestro dei
loro beni, compresa l'azienda".
Tali misure cautelari dovrebbero essere effettuate anche nei confronti dei soci
di Bell. In particolare, di "Hopa spa" e "GP Finanziaria
spa" (entrambe controllate da Gnutti ndr.), i maggiori ed effettivi
beneficiari della distrazione del patrimonio sociale".
Un miliardo e seicento milioni di euro (tremila miliardi, 292
milioni 371 mila 654 lire, nel computo dell'Agenzia delle Entrate) è un
fiume di denaro. Lo 0,1% del Pil del nostro Paese.
Eppure, per quattro anni, l'amministrazione finanziaria che rispondeva al
ministro dell'economia Giulio Tremonti ha rinunciato alla sua riscossione.
Perché? La risposta è in una storia che, con l'evidenza dei documenti di
cui "Repubblica" è in possesso, ricostruisce le mosse di un
network di professionisti, dirigenti pubblici, militari della Guardia di
Finanza di Milano che intorno a questo tesoro si è mosso, garantendone
l'immunità fiscale. Vi si rintracciano significativamente alcuni
protagonisti della partita mortale ingaggiata a partire dall'estate del 2006
con il viceministro Vincenzo Visco da un blocco di alti ufficiali della Guardia
di Finanza con l'appoggio del centrodestra.
I fatti, dunque.
2001. Tronchetti ha acquistato Telecom comprando da "Bell" il
22,5 per cento delle azioni Olivetti che ne garantiscono il controllo.
"Bell" è una holding con sede legale al 73 di Cote d'Eich,
Lussemburgo. La controlla "Hopa spa", la finanziaria di Gnutti, la
"bicamerale della finanza", in cui siedono tra gli altri il Montepaschi
di Siena, Fininvest e l'Unipol di Giovanni Consorte e Ivano Sacchetti. A quella
data, soci di "Bell" sono "Gpp International Sa" (a sua
volta controllata per il 100 per cento da Hopa), "Gp finanziaria spa"
(dello stesso Gnutti), "Interbanca spa", "Banca Antoniana
popolare veneta", Chase Manhattan International, "Oak fund",
"Financiere Gazzoni Frascara", "Finstahl", "Tellus
srl", "Pietel srl", "Autel srl.", Ettore, Fausto e
Tiberio Lonati, "Bc com" e gli stessi "Montepaschi" e
"Unipol".
"Bell" non è stata nulla di più che una cassaforte in
cui sono rimaste custodite le azioni di controllo Olivetti-Telecom. Esaurita la
sua funzione, può essere svuotata e abbandonata. Come documentano i
libri societari, nel novembre 2001, con la distribuzione ai soci dei 2 miliardi
di euro di plusvalenze Telecom, il patrimonio netto della società scende
a poco più di 34 milioni di euro, impiegati per "l'estinzione dei
debiti contratti".
Di fatto, è una messa in liquidazione. Di cui ha la sostanza, ma non la
forma. Perché, contabilmente, Bell deve continuare ad esistere. E' l'unico
modo, infatti, per far rientrare in Italia i capital gain in regime di
esenzione fiscale e aggirare le norme che vietano, anche in Lussemburgo, di
ridistribuire utili di una società in liquidazione. La mossa soddisfa
gli appetiti di tutti. Solleva soprattutto la cortina di fumo in cui Guardia di
Finanza prima e Agenzia delle entrate, poi, possano volontariamente smarrirsi.
E' ciò che accade di lì a breve.
Il 26 marzo del 2003, a Milano, dodici militari della Guardia di Finanza
bussano in via dei Giardini 7, studio legale "Freshfields Bruckhaus
Deringer", domicilio fiscale dichiarato dalla "Bell".
Appartengono alla "quarta sezione" del "Primo gruppo Verifiche
Speciali" del nucleo regionale di polizia tributaria della Lombardia.
Devono accertare se i 2 miliardi di euro di plusvalenze della vendita Telecom
non siano stati sottratti alla tassazione attraverso una
"esterovestizione", come, con termine tecnico, viene definita la
fittizia localizzazione all'estero della residenza fiscale di una
società che, al contrario, ha di fatto la sua attività e persegue
il suo oggetto sociale in Italia. L'accertamento su Bell è l'unica
opportunità rimasta al Fisco per ficcare il naso in quella transazione,
perché su "Hopa" (che controlla Bell) è sceso il buio del
"condono tombale" (2002) cui Gnutti ha immediatamente aderito.
Il lavoro dei finanzieri porta via quattro mesi. In un contesto significativo.
Nel 2003, lo spoil-system del centro-destra ha finito di ridisegnare la
macchina della lotta all'evasione. Giulio Tremonti, ministro dell'economia, si
è liberato del direttore generale dell'Agenzia delle entrate, Massimo
Romano, apprezzato civil servant e architetto della riforma fiscale. Al suo
posto ha voluto Raffaele Ferrara, un ex ufficiale della Guardia di Finanza
legato a doppio filo con Marco Milanese, altro ex ufficiale scoperto da
Tremonti a Milano e diventato capo della sua segreteria politica.
Ferrara (legato al direttore del Sismi Nicolò Pollari) arriva al vertice
dell'Agenzia delle Entrate dalle Ferrovie del dopo Necci, dove ha lavorato per
la società "Metropolis". Esattamente come Marco Di Capua, che
diventa direttore dell'Accertamento dell'Agenzia delle Entrate a spese di
William Rossi. Come e più di Ferrara, forse, Di Capua conta ancora molto
nella Guardia di Finanza. E non solo lì, visto che il fratello, Andrea,
altro ex ufficiale, è stato chiamato al Sismi da Nicolò Pollari
per dirigere l'ufficio del personale.
Nella sua direzione "Accertamento", Di Capua ha aggregato Graziano
Gallo, "dottore commercialista in Milano", cui è affidato
l'incarico di responsabile dei "controlli sulle imprese di grandi
dimensioni". Anche lui ha vestito l'uniforme della Guardia di Finanza,
come il padre: il colonnello Salvatore Gallo, annotato negli elenchi della
loggia P2 con tessera numero 933.
Le acque non si sono mosse soltanto a Roma. A Milano, è stato
avvicendato il vertice della Guardia di Finanza. Il nuovo comandante del nucleo
regionale di polizia tributaria è Stefano Grassi, che ha sin lì
lavorato nell'ufficio dell'aiutante di campo del ministro Tremonti. Mentre
nuovo comandante regionale è il generale Emilio Spaziante, altro
"pollariano" di ferro, già capo dell'intelligence delle Fiamme
Gialle, futuro capo di Stato maggiore e vicesegretario del Cesis, motore primo,
nell'estate del 2006, dell'affare Visco-Speciale.
Ma torniamo ai nostri dodici finanzieri e alla loro verifica su
"Bell". A scorrerne i nomi, ce n'è uno oggi più
conosciuto di altri. Guida la squadra. E' il tenente colonnello Virgilio
Pomponi. E' arrivato a Milano nel 2002 come "capo delle operazioni"
del Nucleo regionale di polizia tributaria, ufficio che risponde direttamente
al generale Spaziante, ed è destinato ad assumere presto il comando del
nucleo provinciale di polizia tributaria. Soprattutto, è destinato a
finire al centro dell'affare Visco-Speciale, perché nella lista degli ufficiali
di Milano di cui, nell'estate 2006, verrà chiesto l'avvicendamento. Di
Pomponi, alcune cronache diranno che il suo allontanamento da Milano avrebbe
prodotto "contraccolpi nelle indagini su Unipol e la lussemburghese Bell,
nemmeno valutabili" nella loro gravità. E' un fatto che se ad oggi
non è dato sapere quale contributo investigativo personale l'ufficiale
abbia dato alle due indagini, sono al contrario documentabili le conclusioni
che il primo agosto 2003, rassegna nel "verbale di constatazione" che
chiude appunto il primo accertamento su "Bell".
Il Fisco - osserva il tenente colonnello - non ha argomenti, né "evidenze
probatorie" per aggredire Bell. Che - scrive - "ad avviso di codesto
comando regionale" è e resta una "Societé de partecipation
financières" di diritto lussemburghese. La sede della sua
amministrazione e l'oggetto della sua attività sociale sono cioè
regolarmente radicate in Lussemburgo. Il che la rende soggetta alla locale
legislazione fiscale, che prevede l'esenzione sulle plusvalenze ottenute dalla
cessione di partecipazioni azionarie. Eppure, sembrano esistere ottime ragioni
per sostenere il contrario. Sulla scorta di 193 documenti acquisiti nello
studio "Freshfields Bruckhaus Deringer", l'ufficiale dà atto,
infatti, che "Bell appare essere sempre stata priva di proprio personale e
di propri beni strumentali in Lussemburgo". Che "la maggioranza dei
suoi soci ha residenza in Italia". Che lo studio legale "Freshfields
Bruckhaus Deringer" di Milano "non si è limitato all'esame
delle questioni legali riguardanti la società, ma ha predisposto le
assemblee sociali e le riunioni del cda, redigendone ordini del giorno e
verbali; ha steso contratti e accordi tra i soci; ha partecipato a riunioni
dell'assemblea Olivetti e alla sottoscrizione di atti" ha lavorato ad
operazioni cruciali in stretto contatto non con un ufficio in Lussemburgo, ma
con un telefono di Brescia: quello della "signora Maurizia Gallia",
segretaria di Gnutti.
Dunque? Le ragioni di "Bell" vengono argomentate dall'avvocato Dario
Romagnoli e da Claudio Zulli. Non sono due professionisti qualunque. Romagnoli
ha diviso il suo studio di diritto tributario ("Vitali-Romagnoli-Piccardi)
con Giulio Tremonti fino al giorno in cui non è stato nominato ministro
dell'economia. È anche lui un ex ufficiale della Guardia di Finanza ed
è stato compagno di corso di Marco Milanese, che di Tremonti è
capo della segreteria. Zulli è il commercialista di Gnutti, ma anche lui
ha ottimi rapporti con il ministro. Come, nell'estate del 2005, documenta
l'intercettazione telefonica di un suo colloquio con Consorte (nei giorni
chiave della scalata Bnl, il numero uno di Unipol lo chiama per chiedere un
incontro con Tremonti. "Devo ringraziarlo di due o tre cosette e gli devo
spiegare un po' di roba perché mi deve dare una mano su cose importanti").
Per il comando regionale della Guardia di Finanza, Romagnoli e Zulli hanno
argomenti irresistibili. In una memoria che diventa parte integrante del
verbale, i due professionisti scrivono: "Bell non ha, né ha mai avuto
residenza fiscale in Italia (...) il consiglio di amministrazione si è
sempre riunito in Lussemburgo. L'assemblea dei soci si è sempre riunita
all'estero (...) Nessuno dei soci ha mai esercitato il controllo della
società (...)". Conclude dunque Pomponi: "Gli elementi
raccolti hanno messo in luce, da un lato indici di collegamento diretto di Bell
con il territorio dello Stato italiano, dall'altro che l'intera attività
di amministrazione/gestione ordinaria e le principali decisioni straordinarie
appaiono formalmente essere state poste in essere all'estero. Pertanto, a
parere di questo Comando, non si ravvisa un quadro probatorio tale da far
ritenere che Bell debba ragionevolmente ritenersi residente in Italia sotto il
profilo fiscale".
Il 4 agosto 2003, il caso è chiuso. E, per quel che racconta alla
Procura di Milano l'ex numero uno della Banca Popolare, Giampiero Fiorani,
l'operazione costa ad Emilio Gnutti 25 milioni di euro. Li versa all'avvocato
Romagnoli a titolo di parcella professionale. Uno sproposito, che Romagnoli
nega negli importi (l'avvocato ha sempre sostenuto, di aver ricevuto "non
più di 5 milioni di euro") e che Fiorani imputa a complessivo saldo
del salvataggio fiscale di Bell, aggiungendo che per lui, come per Gnutti, dire
studio Romagnoli significava dire Tremonti. Che Fiorani affermi o meno il vero,
è un fatto che nel bilancio 2005 di Bell (l'anno, vedremo, è
significativo) compare nelle voci a debito un'annotazione per 31 milioni di
euro da saldare con Romagnoli e Zulli. Ed è un fatto che, esaurito il
capitolo Guardia di Finanza, la pratica soffochi nelle spire
dell'Amministrazione civile delle Finanze.
Il verbale di accertamento delle Fiamme Gialle su "Bell" viene
trasmesso all'ufficio 1 dell'Agenzia delle Entrate di Milano, dove verrebbe
dimenticato se non fosse per la notizia ricevuta il 25 febbraio 2004 dai pm di
Milano Mannella e Nocerino che su Bell esiste un'istruttoria per evasione
fiscale. Il 16 luglio 2004 - giorno in cui Domenico Siniscalco giura da
ministro dell'Economia (Giulio Tremonti di era dimesso il 3) - l'Ufficio 1 di
Milano scrive alla Procura: "Non sussistono prove sufficienti per
affermare che Bell possa essere considerata fiscalmente residente in Italia.
Pertanto, salvo che a seguito di più incisive attività
istruttorie di codesta procura, non emergano elementi tali da condurre a
soluzioni diverse, lo scrivente ufficio provvederà
all'archiviazione". La pratica muore. Finché, aprile 2005, la Procura, che
a sua volta sta per archiviare, torna a sollecitare.
L'ufficio 1 - è ormai giugno 2005 - interpella la Direzione regionale.
Che impiega cinque mesi per stabilire che è necessario se la sbrighino a
Roma, alla Direzione generale accertamento, quella di Marco Di Capua. La
risposta arriva il 23 dicembre del 2005, quando Tremonti è ormai tornato
a fare il ministro. La Direzione Accertamento informa di "essere
già stata interessata dalla Procura di Milano" e di aver provveduto
a individuare dei "consulenti" per i pm Mannella e Nocerino: il
"dottor Pasquale Cornio", capo dell'ufficio soggetti grandi
dimensioni area nord e il "dottor Graziano Gallo", capo settore
nazionale dell'accertamento sulle grandi imprese. Il 10 aprile 2006, i due
periti così concludono con la Procura: "I redigenti ritengono che
la Bell sia da considerarsi fiscalmente residente in Italia secondo le regole
di diritto interno". E tuttavia, "che difficilmente possa considerarsi
residente fiscalmente in Italia secondo le regole di diritto convenzionale,
prevalenti su quelle di diritto interno. Non essendo stati reperiti elementi
sufficienti a dimostrare che la direzione effettiva della società abbia
avuto sede in Italia".
Gnutti e soci sono salvi. Un'ultima volta. Ad aprile del 2006, al ministero
torna Visco. La Procura di Milano decide di proseguire la propria istruttoria.
All'agenzia delle entrare riacquistano i loro uffici Massimo Romano e William
Rossi. La pratica Bell esce dall'archivio. A Milano deflagra il "caso
Visco-Speciale".
(31 luglio 2007)
La
“rupture” di Sarkozy non si limita alla Francia. Il presidente protagonista ha
allargato ormai la sua tendenza anticonformista a tutta l’Europa. Tra i temi
preferiti del nuovo presidente francese, infatti, vi è senza dubbio
quello del ruolo della Banca centrale europea. Come spesso accade, le ragioni
all’origine di tale dibattito sono molto legate a esigenze politiche,
economiche e mediatiche nazionali.
Ma sarebbe sbagliato lasciarlo cadere.
È un dibattito che non può essere confinato alla Francia e alle
reazioni alle “provocazioni” francesi da parte degli inquilini dell’Eurotower,
ma che va allargato all’intera Unione. Non si tratta di mettere in dubbio
l’indipendenza della Bce, che deve rimanere un punto fermo della politica
monetaria europea, ma di affrontare esigenze reali di politica economica.
C’è effettivamente una questione irrisolta in Europa, anche dopo il
recente accordo sulla riforma dei Trattati: il governo economico e sociale
dell’euro. L’Europa di oggi è asimmetrica: una politica monetaria
centralizzata, una serie di politiche nazionali non integrate. Ed è
incompleta: esiste l’Europa della regulation, in cui le istituzioni europee
agiscono come delle autorità amministrative indipendenti, ma non
c’è quella della governance. Esiste un’integrazione “negativa”,
dell’abbattimento delle barriere, ma ne manca una “positiva” a causa
dell’assenza di un “governo europeo delle scelte”. Oggi la “non politica
economica” europea si sviluppa all’interno del triangolo Commissione-Banca
centrale-Patto di stabilità: un triangolo di regole, appunto, non di
governo.
I governi nazionali non hanno ancora saputo recuperare, collettivamente a
livello europeo, quei margini di manovra ormai perduti a livello nazionale. Il
re nazionale è nudo, ma nessuno ha il coraggio di trarne tutte le
conseguenze, recuperando in chiave europea una sovranità nazionale ormai
perduta. Finchè tale situazione perdurerà, è inevitabile
attenersi alle regole esistenti e al Patto di stabilità, unico punto di
riferimento condiviso.
Ma ciò vuol dire rinunciare alla politica: per quanto tempo potremo
permettercelo? Soprattutto, per quanto gli europei lo permetteranno? Per quanto
tempo potremo rimanere in una situazione in cui, attraverso i tassi di
interesse, la Banca centrale può imporre ai governi determinate scelte
politiche (e, di fatto, anche sanzionarli) mentre non è possibile il
contrario? La Banca centrale sinora si è comportata abbastanza bene, pur
concentrandosi unicamente sulla stabilità dei prezzi. Se le decisioni
fossero state diverse, quali meccanismi di accountability avremmo a
disposizione? Praticamente nessuno.
Occorre allora correggere tale asimmetria, fare uscire la Banca dal suo
“splendido isolamento” e rafforzare i meccanismi di dialogo e cooperazione con
l’Ecofin, l’Eurogruppo e il Parlamento europeo.
Come cominciare? Innanzitutto, spingendo i governi ad avvalersi di tutte le
prerogative offerte dai trattati, a partire dagli orientamenti generali in
materia di tassi di cambio. Inoltre, rafforzando il coordinamento delle
politiche economiche, anche mettendo in atto i procedimenti di bilancio
nazionali (noi italiani potremmo trovare un ulteriore incentivo per riformare
una finanziaria tanto farraginosa quanto inefficace). Un risultato concreto,
raggiungibile in tempi relativamente brevi, sarebbe una convergenza progressiva
delle principali scelte finanziarie. Quindi a medio termine sarebbe auspicabile
un ambizioso programma di convergenza delle politiche fiscali più
rilevanti. Infine, stabilendo una rappresentaza unificata dell’euro sulla scena
internazionale.
È urgente farlo: i cittadini sono delusi, l’Europa non si sta scrollando
di dosso un’immagine di dogmatismo e compromessi al ribasso.
Non illudiamoci che finti successi come quello dell’ultimo vertice europeo di
giugno possano veramente ridare entusiasmo. Occore ben altro. It’s politics,
stupid...: cosa aspettiamo?
Quando
la politica tace o, peggio, parla troppo e così facendo rinvia il
momento della decisione, capita che qualcun altro faccia sentire la propria
voce. E a fare ciò è la magistratura, che non può esimersi
dal pronunciarsi sui casi concreti che di volta in volta si presentano al suo
giudizio. È recentemente accaduto a proposito dei diritti civili e, in
particolare, di tre casi: la decisione del gup del Tribunale di Roma di non
procedere contro Mario Riccio, l'anestesista che sedò e staccò
dal respiratore Piergiorgio Welby; la decisione di ammettere nel processo come
parte civile il convivente omosessuale della vittima di un omicidio;
l'assoluzione, per molti versi sconcertante e apparentemente di senso opposto
alle prime due, di un camionista accusato di aver trascurato, nel corso della
malattia che l'ha portata alla morte, la donna con la quale aveva convissuto
per quindici anni.
Si tratta di casi molto diversi tra loro ma che hanno in comune la supplenza
della politica da parte della magistratura. Al di là del contenuto delle
decisioni, sul quale ognuno può legittimamente formarsi la propria
opinione, c'è da dire che questa sorta di via giudiziaria ai diritti
civili non è un fatto positivo, almeno per due ragioni. Innanzitutto, le
decisioni della magistratura di merito non costituiscono in Italia precedenti
vincolanti anche se formano la cosiddetta giurisprudenza. Significa che su casi
simili un altro giudice potrebbe decidere diversamente. Dunque, questo insieme
di decisioni - caso per caso - non ha rilevanza generale con il rischio di
esporre i cittadini ad “ingiustizie”. Ma quel che appare più grave
è proprio l'incapacità della politica di decidere su temi di tale
rilevanza e questa incapacità, che appunto si esprime di volta in volta
con il silenzio o con le troppe chiacchiere, rischia di diventare un problema
non da poco. Per questo occorre che il Parlamento torni a far sentire la
propria voce. In caso contrario, sarà difficile per i parlamentari
lamentarsi del protagonismo della magistratura che, quando c'è, riempie
semplicemente il vuoto lasciato nel Paese dall'arretramento della politica.
Dunque, il presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, si appresta a tagli incisivi alle spese del Quirinale. Le
Camere annunciano economie interne che riscuotono un primo apprezzamento.
Comuni e Province, invece, annunciano che diserteranno la riunione
Stato-Regioni-Enti locali di mercoledì prossimo per concordare riduzioni
al costo della politica, gonfiatissimo, e misure di federalismo fiscale.
ANCI e UPI sostengono che il governo non ha tagliato abbastanza a casa propria
e vuol tagliare troppo a casa loro (riduzione del 20 per cento nel numero dei
consiglieri; massimo di 12 assessori; niente circoscrizioni sotto i 250.000
abitanti; via le indennità di missione, ecc.). Tuttavia, se salta
l'incontro col governo, l'intera operazione rischia di impantanarsi.
Chissà per quanto tempo. In particolare, protestano le Comunità
Montane. Non gli va giù che le Regioni restringano il numero dei Comuni
attovagliati al banchetto dei finanziamenti previsti si riduca con il
ripristino del limite altimetrico dei 600 metri sul livello del mare. Per
essere classificati "di montagna" dovrebbero infatti avere almeno
l'80 per cento del territorio al di sopra di quella altitudine. Limite che
sarà pure schematico e però è quello statistico di sempre:
sopra i 600 metri è montagna, sotto di essi è collina e pianura.
Sopra hanno senso le Comunità Montane - in realtà create, a suo
tempo, per superare la polverizzazione dei Comuni e per concentrare alcuni
servizi essenziali, invano - sotto non ne hanno. Meno che mai sul mare dove
invece percepivano furbescamente i finanziamenti previsti alcuni Comuni
largamente marittimi e soltanto un po' collinari. Nell'Oltrepò pavese i
Comuni realmente montani sono appena 4, ma la Comunità Montana ne ha
finanziati fin qui ben 43. "Un po' per uno in braccio alla mamma",
recita un detto dell'Appennino povero. Solo che mamma Italia ha tenuto in
braccio e allattato troppi pargoli ingordi. Per ora è stata soprattutto
la Sardegna ad abolire tutta una serie di Comunità Montane (ben 24) e
numerosi altri posti in consigli vari, per un totale di oltre mille percettori
di prebende. La Regione Campania ha avuto mano meno risoluta visto che ha
ridotto le Comunità Montane da 27 a 25, restituendo 52 Comuni alla
condizione collinare, di pianura, o magari costiera. Ma l'Unione delle
Comunità Montane fa sapere di opporsi risolutamente al disegno di legge
Santagata, destinato a tagliare Comuni, Comunità e consiglieri incorporati.
Avanti pure. Anzi, indietro tutta. Dal canto loro, Camera e Senato hanno fatto
alcuni passi verso l'abbassamento dei costi, anche se, nell'immediato,
sono passi teorici. Difatti tali misure di riduzione dei vitalizi e di altre
spese avranno effetto soltanto dalla prossima legislatura. Siamo ancora alla politica
degli annunci. La quale fa più danni che altro. Era stato detto e
ridetto: non possiamo chiedere ai parlamentari in carica di tagliarsi l'erba
sotto i piedi. Siccome però quell'erba è cresciuta a bosco
soprattutto nell'ultimo decennio, in piena Seconda Repubblica - evidentemente
per volontà bipartisan - non era poi una moralistica bizzarria
attendersi qualche sforbiciata da subito. È tutta una mentalità
di autoconservazione che andrebbe intaccata. Sulle colonne de l'Unità
l'ex deputato Diego Novelli ha lanciato la proposta di una autoriduzione del
vitalizio in essere da parte dei colleghi che sono stati senatori o deputati.
Poteva essere un gesto di entità simbolica, tuttavia politicamente
importante, visto che gli "ex" ammontano a 2.703 (più altri
456 in attesa di maturare l'età, limite introdotto da qualche anno).
Invece si è beccato rampogne della categoria. Quale percettore di un
vitalizio parlamentare, io credo invece che si dovesse a Novelli una risposta,
cercando le forme per non dire unicamente di no. Allo stesso modo non capisco
perché consiglieri comunali e, ancor più, di circoscrizione debbano
venire remunerati in modo decisamente significativo: con questa cultura il
senso dell'impegno politico locale come servizio si volatilizza. Di annuncio in
annuncio, cosa rimane dunque di concreto nella bisaccia del povero cercatore di
tagli reali al costo della politica? Non ci sono tagli a ministeri e a
sottosegretariati dell'attuale governo che pure ne è ricco come nessun
altro in Europa. I ministri dovrebbe scendere a 12, figurarsi. Una misura del
genere la si potrà introdurre soltanto col prossimo governo e quindi
(con molta probabilità) nella prossima legislatura. Oggi sarebbe quanto
mai difficile trovare i giusti equilibri dovendosi dosare col bilancino
poltrone e poltroncine in numero tanto ridotto (quanto "europeo"). E
la riduzione di numero dei parlamentari, purtroppo inserito nella Costituzione
del 1948 e quindi modificabile col lungo iter delle leggi costituzionali? Non
potrebbe venire subito ribadita con ordini del giorno nelle due Camere, magari
mettendo rapidamente in calendario, tutti insieme, una misura che l'intera
opinione pubblica si augura prima di ogni altra? Per ora galleggiano in un
clima di bonaccia alcune meritevoli proposte di legge costituzionale in
materia. Del 6 aprile scorso è quella dei senatori Manzione e Bordon,
ulivisti scontenti: vi si parla di ridurre i deputati a 400 e i senatori a 200.
Il verde Boato, il 3 maggio, ha proposto 500 deputati e 250 senatori. I
deputati dell'Italia dei Valori, Borghesi, Donaldi, Mura e Palomba, l'11
maggio, oltre a ridimensionare gli scranni di Montecitorio e di Palazzo Madama
(a 400 e a 200, rispettivamente), si occupano dei Consigli Regionali che
dovrebbero oscillare fra i 30 e i 50 consiglieri al più, a seconda della
popolazione. Il 4 luglio, infine, l'ex presidente della Camera, Pier Ferdinando
Casini ha proposto misure analoghe a quelle dell'Italia dei Valori. Di recente
Walter Veltroni, primo candidato alla segreteria del futuro PD, ha detto di
ritenere sufficienti 400 deputati e 100 senatori. Cifre che sono collegate,
evidentemente, anche ad una riforma sia del sistema istituzionale (maggior
federalismo, per esempio), sia della legge elettorale (sistema tedesco, oppure
bipolarismo alla francese, ecc.). Con tutto quel che comporta. Si
muoverà qualcosa in queste acque strategiche? Intanto, dal momento che
le cifre non divergono troppo, si potrebbero unificare questi disegni di legge
e compiere così qualche passo concreto in avanti. Di politica
degli annunci non si campa più. Si può soltanto appassire e
magari deperire, accusando, nobilmente s'intende, l'anti-politica.
Troppo scontato, e pure un po' suicida.
In tempi di riduzione dei costi
della politica, a partire dalle assemblee parlamentari per arrivare agli
sperperi degli enti locali, si rimane sorpresi a constatare che per un
giornalino di propaganda amministrativa si spendano a Porto Mantovano i soldi
dei cittadini per almeno 8.500 euro ogni 40 giorni. Se poi qualcuno, come ha
fatto L'associazione ViverePorto confuta l'opera tipografica e rileva che il
periodico dell'amministrazione comunale ha contenuti scialbi con ripetute aree
dedicate alla iconografia degli assessori, lo si taccia come pretestuoso e
falso. Il costo per pagina informativa di 566 euro, con intere pagine dedicate
a qualche azienda locale (con quale criterio viene scelta?), sarebbe
giustificato solo in una prospettiva democratica di dibattito, di apertura dei
contenuti ad associazioni, siano queste di volontariato o di impegno politico.
Mentre i rappresentanti dei cittadini all'opposizione si finanziano autonomamente
e volontariamente le proprie comunicazioni stampate, il gruppo politico di
maggioranza non ha bisogno di crearsi un foglio di informazione perché se lo
trova belle pronto e confezionato con i soldi dei cittadini. Il vicesindaco di
Porto, nella sua lettera del 26 luglio, ci informa che il notiziario del comune
è utilizzato solo per riportare notizie su problemi o proposte
dell'attività comunale. Manzoli prosegue chiarendo che il giornalino non
è stato concepito come un contenitore di sole schermaglie o polemiche
politiche. Suggeriamo però all'assessore di andare a rileggere il numero
di giugno-luglio, in cui il sindaco attaccava la minoranza, rea di aver
promosso la mozione di sfiducia, oppure il numero di ottobre 2006, nel quale il
sindaco lanciava pesanti, quanto infondate, accuse alle opposizioni. E tutto
questo avviene sempre senza diritto di replica dato che il giornalino, come ci
ricorda Manzoli, serve solo per i problemi e le proposte concrete. Nello stesso
numero di ottobre una pagina intera era dedicata alla pubblicazione della
lettera di dimissioni dell'assessore Pezzali. I lettori avranno anche
apprezzato il doppio paginone centrale grazie al quale, nel numero di aprile
2007, i cittadini hanno appreso ché Rifondazione entra in maggioranza. Quale
è l'utilità di queste informazioni per i cittadini portuensi?
Sono da considerare informazioni di pubblica utilità anche le pagine che
pubblicizzano le attività commerciali di Asep spa? Nei numeri di marzo
2007, ottobre e luglio 2006, tanto per fare alcuni esempi, il giornalino
contiene una pagina di pubblicità del negozio di fiori gestito da Asep.
Ma questa non è concorrenza sleale verso tutti i negozi di fiori gestiti
dai privati? Per quanto riguarda le accuse mosse a Vivereporto ci sembra
veramente patetico appellarsi, come fa Manzoli, alle percentuali elettorali,
per di più sbagliate. Vivereporto, che rappresenta il 10,5% degli
elettori e non il 5 come dichiara il vicesindaco, ha sempre sollevato critiche
e proposte puntuali e documentate. Una saggia amministrazione, invece di
nascondersi dietro alle percentuali elettorali, dovrebbe quantomeno sapere
ascoltare le critiche che le vengono mosse, quand'anche a sollevarle fosse un
solo cittadino. Consigliamo pertanto al vicesindaco Manzoli l'arte di incassare
(non le imposte dove il comune di Porto è diventato campione!), e di
riconoscere a chi esprime un giudizio divergente e non fa parte del gregge il
diritto al controllo dell'attività amministrativa, alla critica
costruttiva e alla ricerca della verità. Associazione ViverePorto Porto
Mantovano.
Palermo "LE OTTO operazioni oggetto
della transazione? Roba ininfluente ai fini dell'accertamento dell'origine del
denaro, ho chiuso la partita giudiziaria per evitare di re- stare altri dieci
anni sotto la spada di Damocle di una richiesta risarcitoria". Parla il
consulente della Banca d'Italia Francesco Giuffrida e minaccia querele ai
giornali che hanno sparato per primi la notizia della transazione,
trasformandola, dice, in una "ritrattazione". Ieri mattina ha spiegato
al pm Antonio Ingroia i termini dell'intesa con Fininvest, la cui origine
misteriosa sta per entrare di nuovo nei riflettori investigativi dei pm di
Palermo. La procura, infatti, sta valutando se riaprire l'indagine sui flussi
finanziari che originarono il gruppo di Silvio Berlusconi a metà degli
anni '70. La notizia, confermata in ambienti giudiziari, segue la pronuncia
della corte di appello che giudica il senatore Dell'Utri, condannato in primo
grado a nove anni per concorso in associazione mafiosa: rigettando la richiesta
di nuove indagini dibattimentali sollecitata dai pm sulla provenienza del
denaro, la corte indicò la procura come la sede naturale dei nuovi
accertamenti. "Ho solo riconosciuto, e per qualcuna di quelle operazioni
l'avevo già fatto in aula - dice ora Giuffrida - che nessuna di quelle
otto immissioni di denaro era riconducibile a fonti esterne. Loro, la
Fininvest, hanno d'altro canto riconosciuto la mia professionalità. Ma
stiamo parlando di operazioni del 1978". E qui si ferma. Il pensiero va
alla data di costituzione della Fininvest, cioè nel 1975 e proprio due
anni dopo la consulenza di Giuffrida, che sul punto non ha subito alcuna
sconfessione, ricostruisce con sufficiente esattezza la cosiddetta lista Dal
Santo, un elenco di misteriosi soci finanziatori che versarono alla Fininvest
ben 16 miliardi di allora. Giuffrida oggi sostiene di aver solo diviso le
operazioni contabili in tre macroaree: la prima fa riferimento ad un periodo
antecedente al 1977, le altre due, oggetto della transazione, raggruppano le
operazioni Ponte, Palina e Fiduciaria Padana e altre manovre fatte negli anni
'80. E nessuna di queste è determinante ai fini dell'accertamento della
provenienza dei fondi. E se dopo l'incontro il procura Ingroia non commenta,
parla invece il maresciallo Giuseppe Ciuro, che con il perito della Banca
d'Italia è andato a scavare per anni nei segreti contabili delle holding
di Berlusconi. Coinvolto nel processo per le talpe in procura, condannato a 4
anni per favoreggiamento e assolto dal concorso in associazione mafiosa, Ciuro
ora dice: "Non entro nel merito della perizia redatta da Giuffrida. Rilevo
solo che gli anni origine dei segreti sono quelli attorno al 1975. Mi lascia
però perplesso che il dottor Giuffrida dica di essere stato coordinato
costantemente dai pm. Noi non abbiamo subito coordinamenti o
interferenze". Per Giuffrida quella consulenza sull'origine finanziaria
della Fininvest è oggi un capitolo chiuso. Il vice-direttore della Banca
d'Italia non dovrà più deporre in aula al processo Dell'Utri.
Resta agli atti, però, un'altra sua perizia che cita il gruppo
Fininvest, redatta nell'ambito del processo per l'omicidio Calvi e consegnata
ai pm di Roma. Il perito ha ricostruito una serie di movimenti finanziari
dell'Ambrosiano tra cui anche l'acquisizione di una partecipazione estera nella
Capitalfin International Ltd. Proprietaria al 100% di una società
denominata "Fininvest Limited Gran Cayman". Ora la procura vuole
sapere se Calvi, appartenente alla P2 e beneficiario nel corso degli anni di
ingenti finanziamenti da parte di ambienti mafiosi, finanziò la
Fininvest nella prima metà degli anni '70. Anni dei quali ha parlato
anche Carlo Calvi, il figlio del banchiere ucciso a Londra: "In una
circostanza, intorno agli anni 1973-74 - ha messo a verbale - mentre eravamo
nella casa alle Bahamas (.) mio padre fece dei riferimenti generici al fatto
che tra i beneficiari dei finanziamenti della Bnl di cui ho appena detto vi
erano anche società del gruppo Fininvest". Gli anni di cui non vuole
parlare il consulente di Berlusconi e in cui, dice Ciuro, c'è l'origine
dei segreti.
Tempi di attesa lunghissimi, scelte del
paziente ignorate, difficoltà di accesso alle cure La Carta europea dei
diritti dell'ammalato, nata cinque anni fa, vede l'Italia fanalino di coda
nella classifica stilata da Active Citizenship Network diffusa nel rapporto del
29 marzo. La prima Giornata europea dei diritti dell'ammalato è stata
l'occasione per una radiografia precisa della situazione negli ospedali del
Vecchio Continente: tempi di attesa lunghissimi; scelte del paziente ignorate;
difficoltà di accesso alle cure; terapia del dolore all'anno zero. I
Paesi Bassi e la Francia sono all'avanguardia: "Mentre la situazione del sistema
sanitario in Europa è ancora preoccupante in quasi tutti gli
altri Paesi". Rileva Teresa Petrangolini, segretario nazionale di Cittadinanzattiva,
una delle organizzazioni (presenti in 14 Stati europei) il cui programma
è orientato alla difesa dei diritti dei cittadini che entrano in
contatto con le strutture sanitarie. Recentemente sono stati presi in esame 42
ospedali delle varie capitali. Ne è emerso un quadro allarmante
nonostante in tutti i Paesi esistano leggi in difesa del diritto di accesso
alle cure. Molte sono le persone che vengono emarginate, che non riescono ad
utilizzare i vari Servizi nazionali e che non godono della copertura completa
per cure adeguate. In Austria, Danimarca, Finlandia, Germania, Gran Bretagna,
Grecia, Irlanda, Italia, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia più della
metà dei diritti, elencati dalla Carta (sono 14) vengono disattesi. Era
il 15 novembre del 2002 quando a Bruxelles venne presentato il documento
dell'Ue a tutela dei servizi previsti in favore dei cittadini nel quadro della
"Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea", sottoscritta a
Nizza il 7 dicembre 2000. La Carta mira a garantire un "alto livello di
protezione della salute umana", assicurando una vera qualità delle
prestazioni. Ma dalla Danimarca, dalla Grecia e dal Portogallo continuano a
formarsi in partenza schiere di ammalati che cercano in altri Paesi la copertura
totale sanitaria con cure adeguate; mentre in Germania, Irlanda, Portogallo e
Gran Bretagna spesso mancano terapie mirate alla cura di malattie rare. Lunghi
tempi di attesa si registrano, invece, in Italia, Spagna e Grecia: per la
sostituzione di una protesi dell'anca si possono aspettare anche 12 mesi e per
l'installazione di un bypass coronario 120 giorni. "Altro servizio
trascurato è la libera scelta della struttura dove essere curati e il
medico a cui affidarsi. Poi c'è il grande nodo del diritto a terapie del
dolore, come la mancanza di somministrazione di antidolorifici e morfina e in
sei Paesi la evitata prescrizione di analgesici prima e dopo cure dolorose. In
pratica in un Paese europeo si possono avere cure avanzate e in un altro
no". Commenta Alessandro Lamanna, esperto di sistemi sanitari di
Cittadinanzattiva.In Italia, dopo la pubblicazione del Rapporto, qualcosa si
è mossa: per iniziativa della vicepresidente della Commissione Affari
Sociali della Camera, Dorina Bianchi e di altri 20 parlamentari è stata
presentata una mozione per chiedere al Governo il rispetto della Carta europea
dei diritti dell'ammalato: "La mozione dice la Bianchi vuole richiamare
l'attenzione sui diritti dei pazienti a rischio a causa di alcune lacune del
nostro Servizio sanitario nazionale. Spesso la teoria viene
sommersa dalla pratica e ciò che compare nelle norme non trova
applicazione nella realtà. Questo non è ammissibile quando
c'è in gioco la salute. La Carta non può e non deve rimanere un
bell'enunciato di principi, ma diventare momento concreto di evoluzione
terapeutica e assistenziale in tutti i territori dell'Ue e in Italia in primo
luogo. Rispettare quei diritti significa dare ad ogni cittadino la
possibilità di curarsi vicino casa, senza costosissimi e traumatici viaggi
della speranza e assicurare una sanità senza mortificanti file, ma fatta
di medicine e umanità". Belle parole che si instaurano sui silenzi
spesso rotti dalle prime pagine dei giornali che vogliono comunque
rappresentare il senso del condiviso, profondo sentire. Il problema diviene
drammatico al Sud dove le strutture veramente efficienti (e ve ne sono)
rappresentano l'eccezione e dove ci si scontra con farraginose interpretazioni
del sistema orientato alla capillarizzazione dei presidi. Occorre, al di
là degli enunciati, attivare volontà di trasformazione delle
parole in atti per dare certezza del diritto anche ai più deboli, agli
indifesi, agli ultimi della scala sociale che non possono permettersi l'accesso
alle strutture private. (martedì 31 luglio 2007).
Il peggio, il vero peggio è venuto
dopo. "La ragazza, siccome era tardi, è rimasta a letto con
me". Ecco spiegato: la ragazza non se la sentiva di lasciare l'albergo a
tarda sera, le strade, si sa, sono insicure, i taxi costosi e quindi
l'onorevole le ha dato riparo e conforto. "Certo che mi riconosco nei
valori cristiani, ma che c'entrano questi con l'andare con una
prostituta?". Aboliti dunque, probabilmente con un paio di emendamenti
sfuggiti ai più, un paio dei vecchi dieci comandamenti e comunque il
papa con tutto il clero si aggiornino: sì, va bene, non si fa sesso con
il profilattico, non si fa fuori del matrimonio, ma, se lei prende i soldi, si
può fare, non è peccato, non vale, non conta. "Non l'ho
pagata, le ho dato un regalo in denaro". Sublime, signorile ed elegante
precisazione, si vede la differenza, lo stile che caratterizza l'uomo di mondo
dall'uomo di monta. "Faccio una riflessione a voce alta: quanti
parlamentari vanno a letto con le donnine?". Ecco come parla uno che si
assume delle responsabilità, che non si nasconde tra la folla, uno della
classe dirigente che, con senso delle istituzioni, prova a sputtanare un
Parlamento a suo dire pieno di puttanieri. "Ai miei elettori non importa
nulla, importa solo che risolva i problemi del loro territorio". Chiaro
no? Siamo tutti clienti, cambia solo il tipo di transazione e la merce
scambiata. Sono frasi autentiche di Cosimo Mele, parlamentare della Repubblica,
pronunciate dopo. Frasi di un "povero di spirito", il che non vuol
dire in questo caso frasi di uno privo di ironia. Ma il peggio, ancor peggio,
è venuto ancora dopo. Quel segretario di partito, lo stesso di Mele, che
non approva ma versa calde e copiose lacrime sulla "vita dura e sulla
solitudine" dei parlamentari e chiede per loro soldi per il
"ricongiungimento familiare". Cioè l'albergo o la casa pagati
a Roma anche per la moglie e i figli? E perchè non un'indennità
adulterio in caso di giornate d'aula troppo stressanti? E, per i single, una
fidanzata di Stato? E che dire dell'idea che la solitudine il maschio la
curi con due labbra femminili al lavoro per un paio d'ore? Cosa intende per
anima solitaria l'onorevole Cesa, quella tentata dalla melanconia o dall'onanismo?
Che spessore culturale misurare in questo concetto vaginale del "riposo
del guerriero"? E la nutrita pattuglia dei parlamentari di Forza Italia
che la butta in politica e che orgogliasamente rivendica: anche la destra
tromba? E Cossiga che, dall'alto della sua esperienza di statista, ci ricorda
che l'uomo non è di legno? E Diliberto che marca la cifra della sua
critica e del suo sdegno con l'elegante, democratica e femminista espressione:
"Uno che va per troie"? Quello che era accaduto prima era successo a
un deputato di un partito che si vuole cattolico e cristiano. Cristianamente,
ma anche solo civilmente, quello che era accaduto prima riguardava lui, la sua
famiglia e anche la sua credibilità di uomo pubblico. Un prima miserello
e squallidotto che comunque non legittimava pulpiti da cui dannare o prime
pietre da scagliare. Ma il dopo...Una ripassatina veloce ai vangeli, una
memoria sia pur labile di come vengono descritti e cosa sono e rappresentano i
sepolcri imbiancati avrebbe dovuto cucire le bocche con il doppio filo del
pudore intelligente. Così non è stato, così non
è. Ma non è questione di parlamentari o gente comune, cattolici
o laici. E' questione di uomini, della loro statura e del loro calibro,
sperando che in questi termini gli interessati non vedano sessuali allusioni.
Diceva un personaggio di un vecchio e grande film: "In ogni situazione ci
sono gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi e i quaqquaraqua". In
questa storia, nel dopo e non prima, l'unica categoria rappresentata in massa
è l'ultima.
Il Riformista 30-7-2007 Impasse. Per sopravvivere va
bene anche il doroteismo
Il Tirreno 30-7-2007 Prato Logli: "Abolire la
Provincia di Prato? E perché non Firenze e Pistoia?"
Libertà 30-7-2007 UE All'Italia 29 miliardi I
fondi sono suddivisi in quattro settori
La Stampa 26-7-2007 Il boom dei conti online
CATANIA
Catania sull’orlo della bancarotta. Gli ispettori, inviati nei mesi scorsi dal
Tesoro, hanno consegnato il loro rapporto: 700 milioni di euro di debiti con le
banche, 95 milioni di spese correnti «non soddisfatte» e 41 milioni di debiti
fuori bilancio. Insomma, il Comune è «chiaramente in stato di
insolvenza». «È un bilancio disastroso quello della giunta Scapagnini»
denuncia Orazio Licandro deputato del Pdci. L’amministrazione di centrodestra
guidata dal medico personale di Berlusconi contrattacca («nulla di nuovo,
è la situazione nota da tempo») e a sua volta cerca di scaricare una
parte di responsabilità sul centrosinistra che ha governato la
città dal 1993 al 2000.
Braccio di ferro A Catania il braccio di ferro sindaco-opposizione dura ormai
da mesi: il centrosinistra racconta di sprechi e regalie, di clientelismo e
cattiva gestione che negli ultimi sette anni avrebbero fatto lievitare a
dismisura debiti. «Sono cose da terzo mondo - denuncia l’ex sindaco Enzo Bianco
-. Una situazione da bancarotta, paragonabile a quella di Taranto - aggiunge -
frutto di entrate sistematicamente sovrastimate e di uscite sottostimate e di
una spesa del personale che arriva al 60-65% del bilancio comunale. In pratica
quasi tutti i dipendenti hanno beneficiato di uno o anche due scatti di
promozione». E per questo ora, conti alla mano, chiede a Scapagnini di
presentare subito un’idea per uscire dalla crisi oppure di passare la mano.
Fino ad oggi il primo cittadino e la sua giunta hanno respinto ogni attacco
(«basta infangare la città») arrivando più volte a minacciare
querele. Alcuni fatti, però, parlano da soli: i fornitori del Comune da
tempo vengano pagati sempre più in ritardo così come i 4000
dipendenti dell’ente. Ed anche i revisori del Comune, in una relazione inviata l’anno
scorso alla Corte dei conti, segnalavano una situazione di continua «tensione
finanziaria», di debiti fuori bilancio e spese che non vengono ridotte ma che
anzi continuano a correre come in passato. A distanza di un anno anche la
magistratura contabile si è mossa dando al Comune 90 giorni di tempo per
adottare interventi strutturali per evitare il crack. Licandro, intanto, ha
deciso di investire della questione la Procura: «quello degli ispettori del
Tesoro è un atto d’accusa durissimo - sostiene - la giunta ha
ripetutamente violato in modo formale e sostanziale leggi e principi
contabili». Per l’amministrazione invece la situazione «non appare
assolutamente catastrofica come invece l’opposizione vorrebbe far credere». E
partendo dalle stesse cifre certificate dal Tesoro la giunta avrebbe già
messo a punto un piano che sindaco e assessore al Bilancio illustreranno questa
sera al consiglio comunale.
Gioielli in vendita Da mesi l’opposizione denuncia le «manovre scorrette» di
Scapagnini e c. Al centro delle polemiche c’è la società «Catania
Risorse», oggetto di diverse interrogazioni parlamentari e dalla quale lo
scorso Capodanno la giunta catanese ha girato la bellezza di 65 milioni di euro
di immobili, «da valorizzare». Insomma da vendere. Nell’attesa la
società, una srl con un capitale di appena 30 mila euro, presieduta dal
segretario comunale, Armando Giacalone, è stata autorizzata a contrarre
mutui per un valore pari a quello degli immobili ricevuti in dote. In maniera
tale da consentire al Comune di poter contabilizzare in extremis, giusto
l’ultimo giorno dell’anno, un’entrata cospicua. Che ha riequilibrato i conti ed
evitato il commissariamento. «Hanno fatto tutto in pochissimo tempo -
raccontano i bene informati - con le posizioni giurate addirittura fatte in
un’unica giornata, neanche fosse la vendita di un tre vani».
La delibera è stata messa in piedi in fretta e furia. Le perizie degli
immobili sono state redatte e depositate nel giro di 24 ore a cura di un
semplice ragioniere del Comune alla vigilia dell’approvazione del progetto.
Passato nonostante il parere contrario del Collegio di difesa. Nella pancia di
«Catania Risorse» sono finiti così 14 immobili, tra cui l’ex monastero
di Sant’Agata, che ospita uffici comunali ed un centro sociale, gli edifici
barocchi di via Crociferi e via di San Giuliano, l’ex Caserma Malerba, l’ex
monastero di Santa Chiara, dove Giovanni Verga ambientò la clausura
della protagonista di «Storia di una capinera» e dove ora si trovano l’Anagrafe
e la sala matrimoni. E poi uffici, biblioteche, l’autoparco comunale e l’ex
mercato rionale di Nesima. «Vendita illegittima» sostengono Bianco e gli altri
parlamentari catanesi del centrosinistra. «Nessuna intenzione di vendere, ma
solo la necessità di utilizzare meglio questi immobili così come
consentono le leggi» ribattono dalla Giunta.
«Per otto beni immobili l’atto è nullo» ha fatto sapere a febbraio la
Sovrintendente ai beni culturali Grazia Branciforti che ha messo il veto sulla
loro cessione giocandosi il posto di lì a qualche settimana tra lo
sdegno di mezza città. A suo parere monasteri e conventi, tutti
risalenti al XVI e XVIII secolo, sono beni di «eccezionale interesse
storico-artistico», «opere mirabili» del periodo tardo-barocco inserite
dall’Unesco nella lista del patrimonio mondiale dell’umanità da tutelare
e non si possono cedere. «Si sono comportati come Totò con la Fontana di
Trevi» denuncia Saro D’Agata, capogruppo Ds a palazzo degli Elefanti. «Attacchi
strumentali» ribattono dallo staff di Scapagnini. Lo stop della Sovrintendenza
ha chiaramente messo in difficoltà la Giunta, ma il rimedio è
stato trovato rapidamente: a fine aprile la giunta ha deciso di trasferire a
«Catania risorse» altri beni per 108 milioni di euro, per lo più impianti
sportivi come la «cittadella» ed il campo sportivo di Nesima, il campo da
calcio di Zia Luisa ed il Duca d’Aosta.
Sprechi e regalie Secondo l’amministrazione di Catania non esiste un
problema-debiti perché il Comune, non solo ha un ricco patrimonio stimato
all’incirca 8-900 milioni di euro, ma vanta anche crediti per 220 milioni.
L’opposizione invece parla di tutt’altre cifre. Bianco agli 83 milioni di
perdite già acclarate aggiunge «40 milioni di euro fuori bilancio, le
perdite dell’azienda trasporti Amt, che non vengono mai considerate ma che sono
a loro volta ingenti, e quelle che potrebbero emergere dai bilanci del 2005 e
del 2006». E Licandro rilancia: «Veniamo da 7 anni di amministrazione
allegrissima: mutui da tutte le parti difficilmente giustificabili, ed una
quantità impressionante di consulenze, a cominciare dai 24 mila euro
spesi per ingaggiare una giovane 22enne, nota per essere stata Miss Eritrea,
come “consulente per lo sviluppo industriale della città”. Per non
parlare dei rimborsi dell’indennità “cenere lavica” (compresi tra 300 e
1000 euro) erogati a tutti e 4mila i dipendenti del Comune, senza alcuna
distinzione, tre giorni prima delle comunali del 2005». Una partita questa
già finita all’attenzione della magistratura: il processo a carico di
Scapagnini ed 8 assessori è tutt’ora in corso. Le accuse vanno da abuso
d’ufficio a violazione della legge elettorale.
NEW JERSEY, (Stati Uniti) –
La proteina in questione si chiama AC5 (5 adenilil ciclasi) e, secondo uno
studio pubblicato su Nature,
i topi mutanti privati di AC5 producono una maggior quantità di un'altra
proteina denominata ERK2, che regola i processi ossidativi e regala un'eterna
giovinezza (o quasi) e altri piacevoli effetti collaterali. Allo studio ha
collaborato anche il professore Stephen Vatner che, come spesso succede,
è inciampato in questa verità quasi per caso, nel corso di altri
studi sulle patologie cardiache.
SCOPERTA INCIDENTALE - Vatner,
collaborando con il professor Junichi Sadoshima e con altri colleghi alla
scuola medica del New Jersey, inizialmente era interessato a scoprire se
l'inibizione dell'AC5 conducesse a un cuore più sano. Ma nel corso
dell'esperimento ha constatato che i topi privi di questa proteina avevano una
longevità mediamente superiore del 30 per cento. L'AC5, come altri
betabloccanti (sostanze che inibiscono l'adrenalina), esercita notoriamente
un'azione positiva significativa sul cuore, ma le recenti scoperte dell'equipe
del professor Vatner aprono le porte a ipotesi sconfinate, quasi miracolose,
che vanno ben oltre i benefici cardiaci.
L'ESSERE UMANO - I
topi osservati infatti hanno rivelato un cambiamento significativo nel processo
di metabolismo: mangiano di più, pesano di meno e soprattutto vivono
molto più a lungo. Inoltre pare che questi topi mutanti siano anche
più resistenti al tumore, oltre a non essere interessati dal normale
deterioramento delle ossa che accompagna l'invecchiamento. Le ripercussioni
sull'essere umano potrebbero essere molte e con risvolti quasi inquietanti,
nonché misteriosi: potrebbe bastare una sostanza miracolosa per vivere quasi il
doppio e mettersi al riparo, tra l'altro, dall'incubo del soprappeso? Come al
solito rimane l'incognita «essere umano», non potendo prevedere gli effetti di
questa inibizione proteica sul nostro organismo e, non ultimo, ci sono da
considerare i risvolti mentali. Come fa notare il cardiologo
dell'Università della California H. Kirk Hammond, nell'articolo di
Nature, sono anche da considerare eventuali ripercussioni psichiche, al momento
sconosciute. E infine Hammond avverte che, per assicurarsi una buona
longevità, sarebbe sufficiente guidare con prudenza, smettere di fumare
e non mangiare cibo spazzatura.
Emanuela Di Pasqua
30 luglio 2007
Quale idea di mercato hanno queste persone?
Quale motivo politico li porta a nascondere sistematicamente l'irrazionalità
dei mercati? I futures sui Fed funds stimano al 65% la probabilità di un
taglio dei tassi d'interesse americani entro fine anno. Si tratta di una
straordinaria inversione di rotta rispetto a un mese fa. Tutti gli indicatori segnalano
una fuga verso la qualità e la fine del credito facile attraverso
garanzie collaterali. Doveva accadere, lo avevamo segnalato tante volte. Il
detonatore sono stati i prestiti subprime sull'immobiliare, ma il
problema viene da lontano. Bernanke aveva ragioni comprensibili per
nasconderle, ma la responsabilità è interamente dell'era
Greenspan. Non ci stancheremo mai abbastanza di ripetere che l'imbroglio del
Maestro doveva essere denunciato anziché celebrarne gli illusionismi. Ora
Washington deve ridurre i tassi dinteresse: solo così eviterà
gravi conseguenze sull'economia reale. Tante volte si critica la noiosa
politica monetaria della Bce senza pensare che con la sua politica stabile ha
evitato gli scompensi, le bolle e i buchi, che ancora, dopo l'hi-tech, le obbligazioni
e il real estate, stanno colpendo prima il mercato americano e poi tutto il
mondo. È assurdo predicare flessibilità dei prodotti e del lavoro
perché solo così si possono assorbire le incoerenze delle politiche
finanziarie. Mi preoccupano però le notizie che arrivano dall'Italia e
dalla vicenda Italease, che sembra ricopiare esattamente gli errori della
finanza americana sugli adjustable-rate mortgage. I banchieri hanno venduto a
debitori poco informati strumenti ipotecari che ora stanno dimostrandosi
insostenibili. Forse è ora di aprire gli occhi sulla finanza in stile
americano. Aleweb_mit@web.de.
ROMA
La pentola è stata scoperchiata, come spesso accade, dai Radicali per nobili
motivi e (va detto) anche per consumare una piccola vendetta. Anzitutto
volevano puntare i riflettori sul grande tema del rapporto tra elettori ed
eletti, denunciando la difficoltà di conoscere cosa combinano i nostri
onorevoli, una volta accasati in Parlamento. Una questione alta di trasparenza,
insomma. E poi, en passant, intendevano dimostrare che la perdita di Daniele
Capezzone, entrato in rotta con Marco Pannella, non è poi così
grave dal momento che l’ex segretario del partito in aula si vede solo ogni
tanto. Così nei giorni scorsi si sono fatti consegnare dagli uffici di
Montecitorio i tabulati sulle presenze e assenze al momento del voto, una
trentina di fogli che un comune mortale cercherebbe inutilmente sul sito
istituzionale www.camera.it. Spulciandoli, ne viene fuori uno spaccato di
qualche interesse.
Intanto le buone notizie. C’è chi, tra i rappresentanti del popolo,
sgobba come un matto. Autentici stakanovisti. Gente avvitata al proprio
scranno, che non si distrae nemmeno per fare pipì, che sulle 3116
votazioni elettroniche effettuate dal 28 aprile 2006 al 7 giugno 2007 (è
il periodo preso in esame) sono arrivati a sfiorare il 100 per cento delle
presenze. Da Guinness la performance di Massimo Zunino, diessino di Savona, già
recordman delle votazioni nella XIV legislatura, il quale ha pigiato il tasto
ben 3115 volte. Guarda un po’, nella speciale classifica tutti i primi dieci
appartengono all’Ulivo.
Per scovare finalmente un forzista occorre calare intorno al ventesimo posto
(Gaetano Fasolino, con un pur ragguardevole 98,23 per cento di centri). E’ la
prova di una diversità antropologica, una sinistra disciplinata e
compatta contro una destra pasticciona e assenteista? Può darsi. Certo
il Cavaliere non se ne può lamentare, in quanto è da lui per
primo che viene il cattivo esempio. Certo, Berlusconi è Berlusconi.
Oltre alla politica ha il Milan, le tivù, le ville, le canzoni
napoletane e tanto ancora. Però le sue incursioni alla Camera sono
così rare da costituire un evento: ha votato in un anno 70 volte,
faccenda che si sbriga in tre sedute. Peggio di lui hanno fatto solo Paolo
Cirino Pomicino e Cesare Previti: il primo perché malato (ha subito un
trapianto di cuore) il secondo in quanto detenuto.
Qualche maligno sostiene che il Cav. snobba le votazioni potendosi permettere
di rinunciare alla diaria mensile da 4.190 euro, accordata oltre
all’indennità di 7 mila euro a quanti non risultano mai assenti (ogni
forfait sono 200 euro in meno). Ma la ragione per cui Berlusconi si tiene al
largo dalla Camera è molto più seria. E affonda le sue radici
nell’ultima riforma elettorale.
Il cosiddetto «Porcellum» attribuisce a chi vince un premio su base nazionale.
Non a Palazzo Madama (dove difatti se la combattono sul filo di pochi voti e i
senatori sono stressatissimi) ma alla Camera. Qui, grazie ai contestatissimi 24
mila voti in più delle ultime elezioni, Romano Prodi può
usufruire di un margine garantito, 71 voti che rendono praticamente impossibili
i ribaltoni. Provarci, da parte dell’opposizione, sarebbe perfettamente
inutile: alla maggioranza è sufficiente tenere un «piantone» in aula per
sventare ogni possibile agguato. Ne discende un’organizzazione del lavoro dove
ad alcuni tocca fare la guardia al bidone. Mentre quelli che possono, cioè
i grandi capi e gli aspiranti tali, con una giustificazione o con l’altra si
sottraggono alla frustrazione dell’atto di presenza.
Ministri, vice-ministri e sottosegretari hanno una scusa eccellente: gli affari
di governo. Senza ipocrisie Giuliano Amato, ministro dell’Interno, ha votato 18
volte su 3116, fiducia compresa. Il premier, 115. D’Alema, giramondo in quanto
capo della diplomazia, 138. L’unico ministro che di tanto in tanto si incontra
alla Camera è Vannino Chiti (16,46 votazioni su cento), ma lui è
titolare dei Rapporti col Parlamento. Anche per i massimi leader si tende a
fare eccezione, in passato non è che i Moro, i Berlinguer, i Nenni
fossero sempre lì a votare.
Piero Fassino, anche per rispetto della tradizione, è risultato assente
nel 91 per cento dei casi. Ora, tutto si può dire a Fassino tranne che
sia un lavativo. Così come si offenderebbe Claudio Scajola se gli
rimproverassero l’assenza dall’aula (in 98 votazioni su cento): lui è
presidente del Comitato di controllo sui servizi segreti, di questi tempi un
vero tormento. Lo stesso Capezzone, uno che letteralmente vive di politica,
presiede la Commissione Attività produttive. Insomma, fanno dell’altro:
riunioni, incontri, conferenze spesso autorizzate. Dunque, prima di bollarli
come «imboscati» occorre controllare se fossero in missione o meno. Nel caso di
Capezzone, è accaduto 4 volte su 10. In quello di Giulio Tremonti,
vicepresidente della Camera e figura di spicco dell’opposizione, 7 su dieci.
Qualcuno esagera. Il comunista italiano Severino Galante risulta ufficialmente
in missione ben 93,7 volte ogni cento votazioni. Il che lo rende (paradosso del
Regolamento) uno dei deputati più presenti in assoluto. Laddove un
plotoncino di deputati del gruppo misto tranquillamente «bigia» le votazioni una
volta su due, tanto nessuno dice nulla.
Per i radicali Sergio D’Elia e Maurizio Turco, attivissimi sull’argomento,
è materia da riformare in profondità. Hanno già bussato
alla porta di Bertinotti (assai sensibile) perché si rendano pubbliche le
informazioni sull’attività di ogni deputato. Come avviene nei paesi di
più antica tradizione democratica, ogni cittadino elettore deve poter
cliccare sul sito della Camera e sapere come si comporta il proprio
rappresentante. Senza doversi rivolgere a «Chi l’ha visto».
CORTINA - "Gli statali fannulloni? Vanno
puniti, allontanati se necessario: sono una palese ingiustizia contro chi fa il
proprio lavoro". Il ministro dell'Economia a Cortina per presentare il suo
libro "Italia, un'ambizione timida", punta l'indice contro "chi
non fa il proprio dovere". "Tuttativa - aggiuge - è anche una
caricatura pensare che sia un problema di fannulloni e basta. La questione
della riforma della pubblica amministrazione è più ampia e
riguarda l'organizzazione della macchina della spesa". Bisogna introdurre
"maggiore legalità e maggiore riconoscimento del merito. Non solo
nella funzione pubblica ma anche nel mondo delle imprese. Cambiare i costumi
è difficile, ma si può fare".
"Non lavoro per un futuro da politico". Camicia di seta blu e
pantaloni chiari, inaspettatamente loquace, Padoa-Schioppa ha tratteggiato il
percorso del proprio lavoro e quello più generale dell'esecutivo
italiano ma ha temuto a precisare: "Non sto lavorando per costruirmi un
futuro da politico".
"Nel governo opinioni diverse". Secondo
Padoa-Schioppa "nel governo è naturale che ci siano opinioni
diverse. Bisogna essere consapevoli che chi ha il potere lo può
perdere". Pur rifiutandosi, con un sorriso e una battuta, di rispondere a
una domanda su quale sia il collante di questa maggioranza di governo, il
ministro ha sottolineato che "ogni soluzione ai problemi, si chiamino
Alitalia, si chiamino pensioni, lascia comunque dei dubbi. Ma una scelta va fatta.
Non spetta a me giudicare l'azione di governo. Non ho il distacco necessario
per farlo - ha proseguito - non ho mai firmato nulla di contrario a qualcosa di
utile al Paese e ai miei principi".
"Visco? Cambiate idea su di lui". Il ministro ha quindi
spaziato su la vasta attività relativa al proprio dicastero: ha reso
omaggio a Marco Biagi e alla sua legge ("Un grande uomo. Lo sarebbe stato
anche se non donava la sua vita"); ha difeso il vice ministro Vincenzo
Visco ("Parlategli e cambierete idea su di lui"), e sulle tasse ha
annunciato un probabile taglio: "Con la finanziaria di quest'anno non
c'è nessuna intenzione di aumentare le imposte. Vedremo anzi cosa
è possibile fare per ridurle: tutto ruota attorno alla possibilità
di contenere la spesa pubblica".
"L'Alitalia può essere risanata". La battuta finale, il
ministro dell'Economia l'ha riservata all'Alitalia: "L'azienda non
è in condizioni fallimentari. E' una società che ha capitali, che
può essere risanata ma non attraverso una trattativa privata: questo non
è possibile". La strada, sembra di capire, è quella di una
nuova gara.
(29 luglio 2007)
Sarkozy
e Ségolène non sono de Gaulle e Mitterrand. Ma le organizzazioni, che
essi hanno radicalmente rinnovato nello stile di direzione e nel tratto
organizzativo, oltre che nel processo di comunicazione e di ascolto nei
confronti della pubblica opinione, sono le medesime che, una volta, agivano con
lo stile e il tratto deciso dai vecchi leader. Questa continuità della
organizzazione, che non esclude il rinnovamento dei contenuti e delle
modalità con cui si realizza una politica, è un notevole vantaggio
per il loro paese. Si evitano molti costi finanziari e molti, ancora più
ingenti e pericolosi, costi frizionali di carattere operativo e sociale. Non
è facile convincere un elettore, o un militante attivo nel suo partito,
che si deve cambiare nome e comportamento a prescindere dalla linea politica.
È meglio cambiare la linea politica di un partito che resta tale e,
nell’ambito del quale si afferma una nuova leadership.
Ovviamente è meglio sotto un profilo tecnico gestionale: il rapporto tra
costi e benefici è preferibile. Ed è anche questo il modo con
cui, nel mercato politico rappresentato dal partito stesso, e nel rapporto che
quel partito stabilisce con il suo elettorato, si seleziona una nuova classe
dirigente che si afferma sulla vecchia. C’è più controllo di
mercato, tra domanda e offerta di politica, riferite a un comune sentire di una
parte della comunità sociale, che non azione dirigista, creazione di
nuove organizzazioni come fossero contenitori pensati a tavolino alle quali gli
elettori dovrebbero aderire, a prescindere. La “seconda” repubblica italiana,
soi disant, è tutta un germinare di nuove organizzazioni, più o
meno riconducibili alle vecchie, nell’ambito delle quali agiscono gruppi
dirigenti che vengono comunque dalle vecchie organizzazioni. Il tasso di innovazione
politica che si genera, lungo questa procedura operativa, è basso, come
notava su queste colonne Emanuele Macaluso e tende a premiare uno stile
doroteo, che rende compatibili le opinioni diverse nella misura in cui si
pongono quelle opinioni nel contesto di un comune disegno di potere. Questo non
è un giudizio negativo sul doroteismo storico, quello nato e cresciuto
dentro la Democrazia Cristiana.
Perché è evidente che proprio quella articolazione di idee e potere
condusse la Dc ad alcuni rilevanti traguardi. Anche in ragione del fatto che lo
stesso doroteismo doveva competere, nel mercato politico democristiano, con
altre correnti organizzate. Leader e idee si sottoponevano, insomma, al
giudizio del mercato per emergere. In questa seconda repubblica si afferma
invece una dinamica stravagante: leadership singolare e bipolarismo federato,
che rende sempre uguali i nuovi leader alla immagine sbiadita della propria
federazione, secondo una felice definizione di Giuseppe De Rita. Questa usura
della leadership si ribalta in un esaurimento del sistema politico e in una
minaccia di evaporazione del regime democratico. Non una fine traumatica del
governo, come capitò a Craxi, ma una fine per consunzione delle stesse
istituzioni repubblicane. Forse i più avvertiti tra i protagonisti della
scena hanno capito il senso ultimo di questa deriva. Si erano tagliati dietro i
ponti, abolendo i partiti e ricostruendone di nuovi, molti di stampo personale
per colpa del bipolarismo federale che premia il soggetto marginale della
federazione. Ora ritorna, seppure come second best, l’aspirazione a una legge
elettorale di stampo tedesco: proporzionale con il barrage. Che eviterebbe gli
effetti distorsivi del bipolarismo federato e consentirebbe la riapertura del
mercato politico. Ridando vitalità alle istituzioni democratiche. Un
salutare ritorno al passato.
PRATO. "La nostra Provincia non serve
a niente? E allora perché non abolire quelle di Firenze e di Pistoia e lasciare
Prato, che oltretutto è baricentrica rispetto alle altre due?".
Massimo Logli incassa e rilancia. Ci mette il carico, insomma, per replicare
all'idea di Matteo Renzi che giusto ieri, sulle pagine del nostro giornale,
ragionando sui costi della politica diceva: "Che senso ha la
Provincia di Prato, rappresentata da un grande Comune e da una Comunità
montana? Nessuno. Così come non avrebbe senso quella di Empoli".
Certo, Renzi è presidente della Provincia di Firenze e Logli di quella
di Prato, magari ognuno tira l'acqua al proprio mulino, ma un certo imbarazzo
le dichiarazioni di Renzi l'hanno provocato, non foss'altro perché i due
presidenti appartengono allo stesso schieramento e per di più sono
espressione dello stesso partito, la Margherita. "Meno male che non decide
lui - scherza, ma fino a un certo punto, Massimo Logli - Mi pare più che
altro una battuta estiva, ma non me la voglio certo cavare così". E
come, allora? "Mettiamola così - ragiona Logli - Ognuno dovrebbe
pensare a ridurre i costi dei propri enti, a renderli più
efficienti. Noi restituiamo al territorio il 75% dei soldi che riceviamo.
Significa che la macchina della Provincia (costi di personale e
amministratori, in gran parte, ndr) assorbe il 25% delle risorse".
Insomma, Logli è cosciente che il dibattito sui costi della politica
è una cosa seria, ma non ci sta a passare per quello che butta via i
soldi del cittadino o li utilizza solo per tenere in piedi un carrozzone.
"Figuriamoci, io vado volentieri in giro con la Lam e nessuno di noi ha
l'auto blu - spiega il presidente - Abbiamo un servizio di noleggio e paghiamo
le corse che facciamo, solo nelle occasioni strettamente necessarie. Abbiamo
ridotto i costi dei telefonini, siamo pronti a tagliare un assessore se
passerà la linea del taglio del 10% del ministro Lanzillotta". E
rincara: "Non mi piace il principio di chiudere gli enti piccoli,
guardiamo semmai all'efficienza. E comunque, le Province si possono anche
abolire, basta stabilire chi si occuperà delle funzioni di cui ci stiamo
occupando noi". Di una cosa Logli è sicuro. "Non siamo
disponibili a tornare indietro di 50 anni, la Provincia di Prato è stato
il frutto della pressione della nostra gente, che è pratese, non
è fiorentina". Ma allora questo duello a distanza tra Renzi e Logli
non sarà mica la solita guerra di campanile? "Sarà che loro
devono ancora darci 4 milioni di euro dopo la spartizione del patrimonio e non
ce li vogliono dare..." la butta là Logli. Scherza, ma non troppo.
P.N.
LONDRA - A Washington per ribadire a Bush
la solidità della "relazione speciale" tra Usa e Gran
Bretagna nonostante ora a Downing Street non ci sia più il fedelissimo
Blair: questa la missione di Gordon Brown, alla sua prima puntata da premier
Oltreoceano, preceduta dalle previsioni di "una presa di distanza"
rispetto alla sintonia perfetta dell'era Blair. Un viaggio per enfatizzare
un'amicizia che coincide però con la rivelazione, fatta dal Sunday
Times, secondo la quale il nuovo governo britannico starebbe sondando le posizioni
americane su un possibile ritiro dallo scacchiere iracheno, diventato per
Londra troppo pesante da sostenere accanto al conflitto sempre più
drammatico in Afghanistan. Il portavoce di Brown ha smentito seccamente questa
circostanza affermando che il consigliere del premier per gli Affari esteri,
Simon McDonald "ha chiaramente detto agli americani che la posizione
britannica sull'impegno in Iraq non è cambiata", e negando che il
premier abbia in tasca un piano per il ritiro britannico da illustrare a Bush.
Secondo il domenicale McDonald avrebbe sentito l'opinione della Casa Bianca su
un possibile ritiro anticipato delle truppe britanniche dall'Iraq. McDonald, ex
ambasciatore in Israele, avrebbe dato l'impressione a numerosi esperti
americani da lui consultati di "preparare il terreno" a Brown su
questo tema scottante in vista della visita in corso negli Usa. Dal suo
arrivo a Downing Street il successore di Blair ha riconosciuto che sono stati
commessi degli errori in Iraq dall'invasione del 2003, ma si è rifiutato
di fissare un calendario per il ritiro dei 5.500 soldati britannici. Brown,
poco prima di volare in Usa, ha voluto chiarire che l'Asse con
Washington non è in discussione. Gli Stati Uniti, ha affermato, restano
il Paese con cui la Gran Bretagna ha "il rapporto bilaterale più
importante", un rapporto fondato "sui valori comuni di
libertà, opportunità e dignità dell'individuo". Le
sue frasi sembrano contrastare dunque con la sensazione avuta da molti osservatori,
e confermata da frasi di esponenti governativi, per la quale i rapporti
Londra-Washington non sarebbero stati così stretti dopo la fine dell'era
Blair. Ad esempio, il nuovo sottosegretario agli Esteri Lord Malloch Brown
aveva detto nei giorni scorsi che i due Paesi "non sarebbero più
stati come dei gemelli siamesi" nella politica estera. Ma Brown ha
spiegato che, alla luce dei valori comuni tra Usa e Gb, "il
rapporto non è solamente forte, ma può diventare ancora
più forte negli anni a venire". I due leader toccheranno nei loro
colloqui a Camp David i più importanti temi internazionali: Iraq,
Afghanistan, Medio Oriente, Darfur, Kosovo, commercio internazionale,
cambiamenti climatici. E, ha assicurato Brown: "Il rapporto tra un
presidente Usa e un premier britannico sarà sempre forte, e io
sono ansioso di incontrare Bush per discutere come lavorare insieme per
affrontare le grandi sfide che abbiamo di fronte".
ROMA -
Scattano i primi ribassi per le telefonate all'estero. Tim, Vodafone e Wind
hanno deciso infatti di ridurre le tariffe di roaming anticipando l'entrata in
vigore dell'eurotariffa, il tetto di prezzo che un operatore può
applicare per le chiamate effettuate o ricevute all'estero in un Paese dell'Ue.
Per chi usa il cellulare all'estero, dunque, in arrivo telefonate meno care,
sempre che resti all'interno dell'Unione Europea.
TIM, WIND, VODAFONE E
3- Tim
si adeguerà all'eurotariffa dal 30 agosto: il costo delle chiamate
dall'estero potrebbero ridursi anche del 50%. Anche Wind si uniformerà alle direttive europee ed
il passaggio avverrà in modo automatico e su tutti i piani tariffari,
anche quelli promozionali o opzionali. Il risparmio sarà del 25%
rispetto alle tariffe attuali. Vodafone,
invece, già da domenica 29 luglio rende operativa la novità anche
se per l'attivazione del beneficio bisognerà chiamare il 42070 ed
eventualmente rinunciare all'offerta Passport lanciata nel giugno 2005.
Eurotariffa dopo il 30 agosto anche in casa 3:
fino ad allora l'operatore Umts lascerà in vigore 3 Like Home, che,
afferma 3 Italia, «nella maggior parte dei casi è più conveniente».
La proposta prevede infatti per chi si trova all'estero in un Paese dove il
Gruppo 3 è presente, la possibilità di chiamare allo stesso
prezzo della tariffa nazionale più lo scatto alla risposta.
BRUXELLES -
Secondo la direttiva di Bruxelles, a cui i gestori si uniformano, ogni
operatore non può far pagare più di 0,588 euro al minuto a chi
chiama da uno dei 26 paesi Ue verso un altro, e 0,288 euro a chi riceve la
telefonata. Valori, questi, che devono comprendere tutti gli elementi fissi e
per i quali non sono previsti costi di attivazione. Bruxelles ha inoltre
predisposto anche un preciso calendario per i tagli previsti nei prossimi anni:
il 30 agosto 2008 si scenderà a 0,552 euro e per le chiamate in uscita a
0,264 euro per quelle in entrata; il 30 agosto 2009 il tetto sarà posto
a 0,516 euro e 0,228 euro.
29 luglio 2007
Quasi ventinove miliardi di euro: è l'ammontare
dei fondi europei a disposizione dell'Italia di qui al 2013 per lo sviluppo
regionale. Ieri sono state definite le priorità della strategia
d'investimento, legate alla strategia europea per la crescita e l'occupazione,
conosciuta come "Agenda di Lisbona". Tra le priorità, hanno un
posto di particolare rilievo l'efficienza energetica, il ricorso alle fonti
rinnovabili e l'investimento nelle competenze del lavoro. I due fondi europei
che finanziano queste azioni sono il Fondo di Sviluppo Regionale (FESR) e il
Fondo Sociale (FSE). Per l'Emilia Romagna, questo si traduce in una
disponibilità di 296 milioni per il Fondo Sociale e 128 milioni per il
Fondo di Sviluppo Regionale, di cui rispettivamente 39 e 17 per l'anno in
corso. Tutti i programmi operativi delle regioni saranno approvati entro la
fine del 2007. La Commissaria europea per la politica regionale Danuta Hübner
si è congratulata "in particolare per l'impegno italiano a
investire una notevole parte delle risorse nell'efficienza energetica e nelle
fonti d'energia rinnovabili. Si tratta di un impegno molto importante perché
quello dell'energia è uno dei problemi centrali che l' Europa
dovrà affrontare nell'immediato futuro". L'altro grande cantiere
d'intervento è quello delle risorse umane e dell'investimento nelle
competenze, per "conseguire qualifiche più elevate e a trovare
posti di lavoro più gratificanti", come ha detto il Commissario
all'occupazione Spidla. I 28,8 miliardi di euro a disposizione nel periodo di
programmazione 2007 - 2013 sono suddivisi in quattro grandi settori: lo
sviluppo di circuiti di conoscenza; l'incremento del tenore di vita, associato
a una maggior sicurezza dei cittadini e all'integrazione sociale; infine, la
promozione dei distretti industriali, dei servizi e della concorrenza,
soprattutto attraverso l'internazionalizzazione e la modernizzazione
dell'economia. Tra le azioni che sarà possibile sostenere si va, ad
esempio, dall'aumento della qualità della vita e
dell'attrattività del territorio, attraverso il potenziamento delle
condizioni di sicurezza per la gente e gli investitori, al la diversificazione
del turismo e l'allungamento della stagione turistica. Ma anche il collegamento
con le reti transeuropee dei trasporti e dell'energia, o i regimi di ingegneria
finanziaria destinati alle piccole e medie imprese. Gli obiettivi verranno
raggiunti attraverso programmi operativi, i più importanti dei quali
sono fissati su base regionale. Le regioni dell'obiettivo
"Convergenza", cioè quelle che devono colmare un divario - purtroppo
crescente - negli indicatori di sviluppo economico sono Campania, Puglia,
Calabria, Sicilia e Basilicata, che saranno le principali beneficiarie.
L'obiettivo "Competitività regionale e occupazione" riguarda
un gruppo eterogeneo di regioni, formato da tutte le regioni settentrionali,
alcune delle quali hanno un Prodotto Interno Lordo (ovvero un livello
economico) pro-capite molto più alto della media UE e da regioni
meridionali che non rientrano più nell'obiettivo
"Convergenza". La mappa dei fondi italiani si trova nel sito:
http://www.ec.europa.eu/regional_policy/atlas2007/fiche/it_en.pdf.
Ulteriori informazioni sulla politica regionale europea sono reperibili presso:
http://ec.europa.eu/regional_policy/index_en.htm, mentre sull'occupazione,
gli affari sociali e le politiche di pari opportunità in Europa
si trova: http://ec.europa.eu/employment_social/index_en.html [.
MILANO
Gli italiani usano sempre di più la banca "on line", anche se
i conti "internet" in Italia continuano ad essere troppo cari,
nonostante una riduzione dei suoi costi negli ultimi anni. È la
fotografia del periodico rapporto di KPMG Advisory, giunto alla sua 14*
edizione, che analizza su base semestrale l’evoluzione della finanza
elettronica nel nostro Paese.
I risultati dello studio indicano che nel secondo semestre 2006 erano oltre 10
milioni i conti on line, di cui circa 3,4 milioni effettivamente utilizzati.
È quindi ancora elevato il numero di conti sottoscritti ma ancora
inattivi, ma allo stesso tempo tende ad ampliarsi la base dei nuovi clienti che
iniziano ad utilizzare l’e-Banking: nei primi sei mesi del 2006, infatti, sono
state circa 300.000 le persone che hanno «sperimentato» i servizi finanziari
via web per la prima volta.
L’incidenza dei conti "on line" sul totale dei conti correnti del
sistema bancario italiano (pari a circa 37 milioni di conti) si aggira intorno
al 27%. Nel secondo semestre dello scorso anno sono state portate a termine
circa 44 milioni di operazioni bancarie on line. Internet è sempre di
più un’alternativa rispetto allo sportello tradizionale: la clientela ha
realizzato on line circa 24 milioni di operazioni di tipo bancario, con un
incremento del 13% rispetto al periodo precedente.
Si tratta prevalentemente di pagamenti e bonifici (15 milioni), ricariche di
cellulari e carte pre-pagate (8,6 milioni) ma anche pagamenti di tasse e
imposte. La parte rimanente dell’operatività fa riferimento
all’attività di trading on line, che con circa 20 milioni di eseguiti
corrisponde ormai a più del 26% dell’intera attività di
intermediazione di Borsa Italiana. Per Anna Ponziani, responsabile Ufficio
Studi KPMG Advisory e curatrice del rapporto «In una fase caratterizzata da
operazioni di concentrazione e d’internazionalizzazione del sistema bancario
italiano sarà interessante capire quali leve saranno utilizzate dalle
banche per aumentare la penetrazione della finanza on line nel nostro Paese,
nella consapevolezza che questo canale permette di ridurre sensibilmente la
loro struttura di costo».
Lo studio confronta anche il costo medio di un canone annuo per il
conto/accesso on line in Italia rispetto ad altri paesi europei: nonostante nel
nostro Paese negli ultimi due anni si sia assistito ad una notevole riduzione
dell’importo medio del canone (sceso da 42 a circa 31 euro), in Italia il costo
medio di un conto on line, continua ad essere più elevato rispetto alla
Spagna (in media 21 euro), alla Francia (20 euro), al Regno Unito e all’Olanda,
dove l’uso del conto on line normalmente è addirittura gratuito. Lo
studio fornisce anche delle stime in merito ai risultati ottenuti
dall’e-Banking nella riduzione dell’operatività allo sportello: con il
progressivo utilizzo del canale internet l’operatività allo sportello
tradizionale per quanto concerne bonifici e altri pagamenti si è ridotta
del 30%; ancora più rilevante l’impatto nella compravendita di titoli,
in cui il coinvolgimento dello sportello è diminuito del 40%.
Secondo il rapporto, infine, i primi cinque gruppi bancari italiani
(BancoPosta, Capitalia, Intesa, SanPaolo e Unicredit) detengono quasi il 60%
delle quote di mercato dell’e-Banking nel nostro Paese.
Tgroseto.net 26-7-2007 Raccolta firme per indizione di
4 referendum abrogativi in Abruzzo.
Economia-oggi.it 26-7-2007 WALL STREET: DOMINA IL
ROSSO, PESA CRISI MERCATO IMMOBILIARE
Il Secolo XIX 27-7-2007 Soltanto se cala la spesa
si possono ridurre le tasse Massimo Baldini
L’Unità 27-7-2007 Mediobanda Marco Travaglio
La Stampa 27-7-2007 Raul Castro apre agli Usa, ma
soltanto nel dopo Bush.
Riceviamo e
Pubblichiamo - Per la prima volta
in Abruzzo è in atto in questi
giorni la raccolta delle firme per la indizione di 4 Referendum abrogativi per
la riduzione dei “costi” e degli “sprechi” della politica.
Si chiede ai Cittadini
abruzzesi di firmare per abrogare il vitalizio per i Consiglieri regionali cessati
dal mandato, la “indennità di funzione dei
Consiglieri Regionali”, che attualmente è pari a 8.082,31 euro
lordi mensili, eliminando quei “trattamenti economici” abnormi e confusi
attribuiti in modo esclusivo ad alcuni soggetti per il solo fatto di “ricoprire una carica” all’interno del Consiglio
Regionale, della Giunta, delle Commissioni e Gruppi o in organi di vertice di “nomina politica” degli enti strumentali
della Regione.
Tali “compensi” si sono consolidati e
moltiplicati negli anni a partire dalla Legge Regionale n. 22 del 30 maggio
1973 e vengono attribuiti mensilmente a tutti i Consiglieri Regionali, e con
una indennità aggiuntiva ad alcune
cariche istituzionali quali il Presidente della Giunta ed il Presidente del
Consiglio regionale, gli Assessori i Vice Presidenti del Consiglio, i
Presidenti delle Commissioni consiliari, dei Gruppi consiliari (anche se
composti da un solo Consigliere) ed i Segretari del Consiglio i Vice Presidenti
ed i Segretari delle Commissioni rispettive.
Con questi 4 referendum
anche i Cittadini abruzzesi si trasformano, per la prima volta dalla nascita
dell’istituto Regione, in
possibili “legislatori”.
Il Comitato promotore,
a quasi un mese dall’inizio della campagna
referendaria di raccolta delle firme specialmente presso le sedi istituzionali
dei Segretari Comunali, dei Cancellieri di Uffici Giudiziari, Giudici di pace e
Notai abruzzesi, prende atto con sconcerto del fatto, “sorprendente” sul piano democratico
e della funzione pubblica della informazione, che proprio alcuni (per fortuna
non tutti!) dei più importanti organi di
stampa regionale stiano praticando, nei fatti e forse con predeterminazione
studiata nelle stanze dei “poteri forti” e degli ancora
vincenti ed imperanti “potentati politici” e controllori di quei
pozzi di San Patrizio che sono gli “Enti Strumentali e le
Società partecipate” della Regione, delle
Province e dei Comuni e loro Consorzi, una pesantissima forma di censura e “killeraggio” nei confronti dell’enorme ed impari sforzo
che Comitati locali e singoli Cittadini abruzzesi stanno compiendo per la
raccolta delle firme per i 4 referendum regionali, in un periodo “durissimo”, di ferie estive ed in
presenza di un caldo torrido che blocca, scoraggia ed impedisce ogni forma di
informazione diretta nelle piazze e nei luoghi di aggregazione e rende
impraticabile la stessa “tradizionale forma” di propaganda sonora
in movimento ed i “giornali parlati”, il cosiddetto “spicheraggio” autogestito e
volontario attraverso un mezzo mobile che giri per l’Abruzzo.
Meraviglia che tali
organi di stampa, che tanto si effondono in proclami sui costi della politica,
non si pronuncino affatto, non informino e, come sarebbe logico, non sostengano
direttamente proprio i referendum regionali in Abruzzo i quali, allo stato
delle cose a livello nazionale, sono gli unici strumenti democratici che i
Cittadini hanno a disposizione per contribuire alla riduzione dei costi della
politica e delle “caste”. E’ possibile un
cambiamento di rotta? Oppure il Comitato dovrà acquistare delle
pagine o diffondere degli spoot a pagamento, contraddicendo lo spirito stesso
dei 4 referendum almeno per i quali le spese si dovrebbero ridurre al minimo?
Pio Rapagnà
Comitato Promotore dei Referendum
(AGI/REUTERS) - New
York, 26 lug. -Seduta all’insegna del rosso per
Wall Street in quello che potrebbe diventare il nuovo giovedi’ nero. Gli indici di
borsa americani perdono oltre il 2% colpiti dai timori per la crisi nel settore
immobiliare Usa e per il rialzo dei prezzi del petrolio. Le forti perdite hanno
spinto il Nyse a imporre tetti agli scambi per restringere le vendite in
blocco. A piu’ di due ore dal termine
della seduta Il Dow Jones perde il 2,08% a 13.499 punti e il Nasdaq retrocede
del 2,3% a quota 2.587.
A rafforzare i timori ha contributo il dato sulle vendite di nuove case negli
Stati Uniti che ha evidenziato una flessione del 6,6%. Anche il prezzo del
petrolio, salito sopra i 77 dollari, mette in allarme gli investitori. Ma la
preoccupazione maggiore e’ rappresenta dal ‘credit crunch’, una crisi
generalizzata di liquidita’. Il rischio e’ che la crisi dei mutui
subprime Usa, quelli elargiti alla clientela piu’ a rischio, possa
estendersi ad altre branche del credito. Finora il contagio ha colpito
soprattutto le obbligazioni garantite da mutui ipotecari, specie quelle come i
Cds (credit default obligation) e i Cdo (obbligazioni collaterali sul debito),
il cui abuso ha contribuito a spalmare la crisi dei mutui Usa sugli altri
mercati finanziari. (AGI)
Gio
Il governo Prodi è nato all'insegna
di tre parole d'ordine, che avrebbero dovuto segnarne l'azione: Sviluppo,
risanamento ed equità. Sullo sviluppo, malgrado il buon andamento della
congiuntura, continuiamo a crescere meno degli altri paesi europei per la
presenza di molti problemi strutturali, dall'invecchiamento demografico alla
carenza di infrastrutture, dal cattivo funzionamento della pubblica
amministrazione alla piccola dimensione media delle imprese. Tutti problemi
noti. Come sono stati affrontati? Un eventuale sondaggio che chiedesse agli
italiani quali sono state le scelte di politica economica più importanti
del governo vedrebbe emergere probabilmente tre punti: riduzione del cuneo fiscale,
liberalizzazioni e lotta all'evasione. L'obiettivo della riduzione del cuneo
fiscale, realizzata attraverso l'Irap, è il recupero di
competititività delle imprese. Una diminuzione del costo del lavoro ha
effetti simili alla svalutazione del tasso di cambio, ma si tratta di un
sollievo che viene ben presto meno se la competitività continua a
diminuire a causa di meccanismi strutturali. Le imprese hanno iniziato un
processo di ristrutturazione, obbligate dalla concorrenza internazionale. I
frutti si vedranno solo nel lungo periodo. L'altra importante scelta del
governo per favorire lo sviluppo consiste nelle liberalizzazioni. I risultati
concreti sono ancora molto modesti, ma la strada è giusta, perché
più del 70% del pil è prodotto dal settore dei servizi. Mentre
ampi settori dell'industria sono obbligati a modernizzarsi sotto la spinta
della concorrenza estera, molti servizi si rivolgono ad un mercato solo locale,
ed è quindi necessario che lo stimolo ad una maggiore concorrenza
provenga da interventi della politica. Sull'equità, nel centrosinistra
convivono due visioni molto distanti: da una parte una impostazione
meritocratica che vede nel mercato il luogo in cui gli individui possono
realizzare le proprie capacità, lasciando allo Stato il compito di
eguagliare le opportunità e di correggere le inefficienze e le
iniquità che il mercato produce. Da un'altra parte c'è una
visione risarcitoria, che vuole rimediare alle disuguaglianze redistribuendo il
reddito. Terza via contro socialdemocrazia, diciamo. Queste teorie hanno un
punto in comune: entrambe privilegiano i trasferimenti monetari come strumento
per realizzare una maggiore equità e ridurre le diseguaglianze.
Trasferimenti condizionati all'impegno individuale oppure sgravi fiscali
secondo l'impostazione meritocratica, trasferimenti subordinati solo ad un
basso livello di reddito secondo l'approccio risarcitorio. Il dibattito si
consuma così giorno per giorno alla ricerca di un piccolo aumento delle
pensioni basse, di un piccolo sgravio Irpef a favore dei redditi medi, di una
modesta riduzione dell'Ici. L'enfasi posta sulla redistribuzione monetaria
produce delusione nell'elettorato, perché i vincoli sulle risorse permettono
redistribuzioni molto limitate, come la vicenda dell'ultima riforma Irpef
insegna. Relega inoltre in secondo piano (nelle scelte concrete, più che
nelle dichiarazioni di intenti) i problemi strutturali, nonché il tema della
riqualificazione dei servizi pubblici, fondamentali per aumentare anche
l'efficienza della nostra economia. Venendo infine al risanamento, lo stesso
viceministro Visco ha riconosciuto, due giorni fa, che il miglioramento dei
conti pubblici è frutto del buon andamento delle entrate. La lotta
all'evasione, una bandiera del governo, è un obiettivo giusto, ma è
stata fatta spesso in modo rozzo, con la clava più che con il fioretto.
L'esito è stato un forte calo dei consensi. Gli obiettivi oggi
dovrebbero essere semplificare gli adempimenti e ridurre le aliquote sui
contribuenti onesti. Visco li condivide, ma essi si scontrano con il vero
limite di questo primo anno di governo: l'incapacità di controllare la
dinamica della spesa. Malgrado le buone intenzioni e le iniziative di
monitoraggio avviate, di fatto la spesa pubblica continua a seguire una
dinamica indipendente dalle scelte dell'esecutivo. La prossima Finaziaria
dovrà recuperare almeno 15 miliardi per coprire spese su cui il governo
si è già impegnato, come l'aumento degli stipendi pubblici o il
rifinanziamento di strade e ferrovie, fino al taglio dell'Ici. Se si vuole mantenere
la promessa di ridurre le tasse sugli onesti, bisognerà tagliare la
spesa pubblica, ma il recente dpef è assolutamente vago su come farlo.
È praticamente impossibile trovare tante risorse in così poco
tempo. Sarebbe ingeneroso giudicare dopo solo un anno una politica economica
impostata su un profilo più ampio. Dei primi passi del governo Prodi
restano, sul fronte economico, l'avvio delle liberalizzazioni e una nuova
attenzione all'equità. Ancora poco è stato fatto sul terreno dello
sviluppo, mentre i conti pubblici sono lontani dalla stabilità. Gli
obiettivi di lungo periodo sono condivisibili, ma la debolezza parlamentare e
le divisioni interne nelle priorità da perseguire non hanno contribuito
alla chiarezza nella scelta degli strumenti con cui perseguirli. 27/07/2007
vincenzo tagliasco Sul Secolo XIX di martedì scorso, Giovanni Mari usa
come incipit al suo articolo dedicato al fenomeno del nepotismo
all'Università la citazione di un brano dell'intervento di Alessandro
Repetto, presidente della Provincia di Genova (che riporto così come
l'ho letto sul giornale): "Basta con il nepotismo nell'Università.
Il futuro di Genova e della Liguria presenta problemi anche per una questione
generazionale: ai giovani, anche quelli bravi e dai grandi meriti, mancano
opportunità. E questo accade anche perché sono troppe le cattedre che
passano da padre a figlio, perché sono troppe le preferenze che premiano
ricercatori a danno di altri più preparati". Intervengo
perchéè un tema che mi ha sempre oppresso, da quando nel lontano ottobre
1959, mi ribellavo - anche e soprattutto fisicamente - a quegli anziani che
tiranneggiavano e taglieggiavano noi matricole al Politecnico di Milano,
scendendo da prestigiose Alfa Romeo SS rosse fiammanti, e di cui noi,
frequentatori della Casa dello Studente di Viale Romagna, conoscevamo
prestigiose ascendenze: figli di magistrati, di primari, di professori
universitari, di politici, di industriali e commercianti. Successivamente i
temi dell'eredità, dell'iniqua prassi di evadere le tasse,
dell'ingiustizia nella distribuzione di opportunità concesse ai giovani
ha forgiato le mie idee politiche impedendomi di condividere pienamente la
militanza in partiti vicini al mio modo di concepire la libertà, la
giustizia, la solidarietà proprio perché, in alcuni (anche se limitati)
casi, le prassi di vita e di comportamento non erano congrui con le idee
sacrosante professate e sancite in pagine stupende di comuni Maestri.
Appartengo a quella categoria di persone che non sono riuscite a evolvere, che
non sono state in grado di superare attraverso l'esperienza i sogni e i miti
dell'età giovanile. Sono pervicacemente rimasto ai tempi delle violente
discussioni di fronte al Politecnico, con rabbia immutata. Ho dedicato molte
pagine di alcuni miei libri al terribile tema di come rapportarsi ai propri
figli, senza cadere nella trappola di commettere ingiustizie nei riguardi dei
figli degli altri. Per questo ho apprezzato molto che Mari abbia sottolineato,
del convegno al quale ha partecipato Alessandro Repetto, proprio questo aspetto
che considero strategico nel momento attuale che sta vivendo la società
italiana. La rivista Il Mulino ha dedicato al tema della "generazione
immobile" il suo ultimo numero (3/2007) dove l'articolo di Ilvo Diamanti
è intitolato "Il Paese dove il tempo si è fermato". Un
altro articolo ha come titolo "Le prerogative perdute dei giovani":
ebbene, questa è l'analisi della realtà valida non per tutti i
giovani, ma solo per quei giovani che non hanno alle spalle la famiglia
importante in grado di progettare loro il futuro. E questo non avviene solo
all'Università. E questo, anche nel passato in Italia, avveniva non solo
all'Università ma in molti altri settori. Un mio grande maestro di
scienza, liberale convinto e aspro critico delle mie tendenze di sinistra,
amava sottolineare che mentre i suoi amici industriali o commercianti potevano
lasciare in eredità ai figli l'impresa, lui poteva investire solo in
cultura e, per questo motivo aveva mandato a studiare il figlio negli Usa, invitava
prestigiosi professori nella sua villa nel Levante genovese e con orgoglio,
citava tre lavori in collaborazione con tali scienziati, scritti dal figlio
prima che si laureasse. Il problema è grave. La societàè
immobile proprio perché i genitori di oggi sono molto più sofisticati di
quelli di un tempo. Nel passato, almeno c'era la soddisfazione da parte dei
perdenti di denunciare l'incapacità, se non la dabbenaggine, del figlio
del potente di turno; così come il figlio dell'industriale e del
commerciante erano palesemente inadeguati a gestire l'impresa di famiglia. Oggi
le cose non stanno più in questi termini. Il dolore è doppio: non
solo il vincente (in tutti i campi) è portatore di un nome, è
figlio d'arte, ma molto spesso ha un curriculum progettato a tavolino dalla
lungimiranza della famiglia che lo mette al riparo di molte critiche. Questo
non avviene solo all'Università; vale anche per gli attori del cinema e
del teatro (che spesso generano sceneggiatori e registi, ma sempre nel mondo
dello spettacolo), nel campo delle professioni (medici, notai, avvocati,
commercialisti?.); e che dire del settore ampio e variegato della comunicazione
(televisione, radio, giornali, agenzie di comunicazione)? E questo non avviene
solo in Italia. Anche negli Usa il Washington Post e il New York Times hanno
denunciato, recentemente, più volte l'aggiramento del sogno americano
(per cui tutti possono emergere sulla base del loro merito) proprio a causa
della diabolica abilità delle nuove generazioni di genitori abbienti e
acculturati. Qualche esempio. Professori di Boston - oltre ad allenare i loro
figli per tutto il corso delle high school alle tematiche di logica e di
matematica, pagando tutor privati, solo al fine del superamento dei test di
ammissione alle università più prestigiose - si consorziano per
riuscire a pagare i 100.000 dollari richiesti, annualmente, da sofisticate
cinesi in grado di insegnare lingua e cultura cinese ai loro pargoli; circa la
metà costa un'insegnante di lingua araba.Eppure tutto è fatto
alla luce del sole; nessun dubbio sul valore del figlio dei genitori avveduti.
Intellettuali e professionisti Usa sono terrorizzati che i loro figli possano
avere un tenore di vita, uno status sociale inferiore al loro di baby boomers:
investono nella preparazione dei loro figli nello stesso modo in cui un
imprenditore investe nella sua fabbrica al fine di garantire il futuro dei
figli. Su questo tema grandi pensatori dell'Ottocento hanno già scritto
quasi tutto; basterebbe andarseli a rileggere, proprio come fanno gli avveduti
professori di Harvard che progettano il futuro dei figli. Che fare? Sempre
trovando ispirazione nei pensatori di cui sopra la ricetta è
apparentemente semplice: far pagare a tutti le tasse e utilizzarle per
migliorare il sistema scolastico a partire dalle scuole materne affinché le
differenze di preparazione non siano così profonde come oggi. Le scuole
di recitazione e di cinema dovrebbero poter assumere insegnanti di grande
livello a disposizione anche dei non-figli d'arte; l'insegnamento delle lingue
(di tutte le lingue) dovrebbe avvenire dai primi anni; l'insegnamento della
matematica e della logica dovrebbe essere fatto da insegnanti talmente super
pagati da esprimere al meglio la loro fantasia e creatività; si dovrebbe
favorire lo studio all'estero; si dovrebbero creare opportunità di
lavoro di ricerca scientifica nelle imprese, soprattutto nelle imprese (e non
solo nelle Università e in altri Enti pubblici di ricerca). Ma tutto
questo costa un sacco di soldi e contravviene a quello che predicavano i
pensatori dell'Ottocento di cui sopra: la giustizia, la solidarietà
l'eguaglianza. In altre parole, tutti dovrebbero essere onesti e pagare le
tasse: ossia dare a Cesare quel che è di Cesare. Conosco e apprezzo
molto Alessandro Repetto: ha fatto molto bene a denunciare il problema. Spero
che non si fermi solo all'Università. Sono infinite le coorti di
giovani, nei più diversi contesti di lavoro professionale, che vivono il
dramma condensato nella frase: "Cari ragazzi, sfortunati figli di genitori
"normali", il futuro non abita più qui!". vincenzo
tagliasco è ordinario di Bioingegneria all'Università di Genova.
27/07/2007.
Cara
Europa, leggo su diversi giornali le lamentele di sindaci, governatori,
operatori turistici, cittadini per i “ritardi” con cui in alcune zone, vedi Gargano,
sarebbero arrivati i soccorsi della Protezione civile.
Ma di che cosa ci si meraviglia? Non è stato sempre così? A
Catanzaro i vigili del fuoco non hanno nemmeno un elicottero.
E chiamare presto i soccorsi, prima che l’incendio produca i suoi risultati,
non sta bene. La mafia potrebbe offendersi.
LETTORE CALABRESE
Caro
lettore calabrese, capisco. Un anno (oltre vent’anni fa) venni a villeggiare
nella vostra tragica regione, con grande godimento per le sue bellezze e grandi
incazzature per lo sfregio che ne fanno cittadini, amministratori,
imprenditori, governanti regionali, mafiosi e tutti i parassiti che vivono
sfruttando ciò che madre natura ha dato a tutti.
Denunciai sul mio giornale quel che avevo visto e, da allora, non ho più
avuto un invito in Calabria, neanche dagli amici. Ecco perché, dicevo, capisco
che lei si mimetizzi.
Naturalmente, lei a sua volta capirà che una terra fatta così
è condannata a restare ferma, a vivere di rendita finché c’è un
capitale (la natura) che la produce. E poi alla malora.
Vale per tutto il Mezzogiorno. Conosco, per esserci stato anch’io, i luoghi del
Gargano devastati dagli incendiari.
Perché ci andiamo? Perché sono belli. L’anno prossimo non ci andremo, perché
sono diventati brutti. Non per questo chi avrà perso clienti avrà
perso tutto. Si sa come vanno le cose degli incendi. Sono quasi tutti su
ordinazione.
C’è chi vuole deprezzare il valore degli impianti esistenti per
acquistarli a costo ridotto. A rimboschire e a ricostruire ci penseranno i
soldi degli italiani, che affluiranno generosi sotto forma di finanziamento al
rimboschimento, credito turistico, risanamento ambientale.
Capisce perché al nord vogliono il federalismo fiscale? Hanno ragione. Nel
frattempo, i vostri operai forestali, che hanno finito di lavorare nella scorsa
primavera, potranno essere riassunti nel prossimo autunno e garantirsi altri
sette otto mesi di salario. Gli speculatori edili potranno in una notte gettare
le fondamenta dei loro “rustici” e attendere poi l’immancabile condono per completare
l’opera: è sempre stato così, dice lei, si costruisce sul demanio
dello stato e si condona; si costruisce in riva ai fiumi o nelle aree
archeologiche e si condona; si costruisce sulle terre incendiate (precluse per
legge a destinazioni edilizie) e si condona.
È sempre stato così, centrodestra o centrosinistra non cambia
niente. Da un po’, quando votiamo, in certe zone noi elettori abbiamo solo
l’imbarazzo di scegliere se votare la mafia di destra o quella di sinistra, che
è sempre la stessa mafia, vestita una volta di rosso una volta d’azzurro
secondo come spira il vento. Vale per gli incendi, vale per l’edilizia, vale
perfino per gli stupri: il sindaco (ds) di Montalto di Castro, dopo dieci
giorni di richieste di dimissioni, ha scritto ieri (ieri) una lettera
all’Unità per chiedere scusa alla ragazza stuprata, che è di
Tarquinia.
Lui, il sindaco, i soldi delle spese processuali li ha anticipati ai compaesani
stupratori invece che alla forestiera stuprata. Figuriamoci quando daremo, come
vorremmo, il voto amministrativo ai sedicenni. Amen.
Nell'immortale "Mezzogiorno e mezzo di
fuoco"di Mel Brooks, il cattivo decide di arruolare una sporca dozzina con
"i peggiori criminali del West" per dare l'assalto a Rock Ridge e
mette su un banchetto, tipo raccolta firme, per il reclutamento. L'avviso parla
chiaro: "Help Wanted. Cercansi spietati delinquenti per distruzione di
Rock Ridge. 100$ al giorno. Precedenti penali indispensabili. Register
here". L'addetto alla selezione, di fronte alla lunga fila degli
aspiranti, è rigorosissimo. "Precedenti penali?", domanda al
primo. E quello: "Stupro, assassinio, incendio doloso, stupro".
"Hai detto stupro due volte". "Sì, ma mi piace tanto lo
stupro!". "Ottimo, firma qua. Avanti il prossimo. Precedenti
penali?". "Atti di libidine in luogo pubblico". "Non
è mica tanto grave". "Sì, ma in una chiesa
metodista!". "Ah, carino! Arruolato, firma qua!". Non che
c'entri qualcosa, ma quella scena m'è tornata in mente quando ho letto che
Luciano Moggi - per recitare con Lino Banfi nel remake del capolavoro
neorealista "L'allenatore nel pallone" - ha fatto il suo ingresso
nella scuderia di Lele Mora, già popolata di noti galantuomini del
calibro di Fabrizio Corona, Gianpiero Fiorani e, pare, anche dalla nuova fiamma
di Stefano Ricucci. Mancano all'appello Coppola e Vittorio Emanuele di Savoia,
ma arriveranno presto. Lì però la selezione è un po' meno
stringente che a Rock Ridge: tra i requisiti richiesti, i precedenti penali
(Mora a parte) non sono indispensabili; basta una richiesta di rinvio a
giudizio, o un mandato di cattura, o un avviso di garanzia. Un po' come per
entrare a Mediobanca e negli altri cosiddetti "salotti buoni" (resta
da capire quali siano quelli "cattivi"). Da questo punto di vista, la
recente promozione di Cesare Geronzi (7 processi a carico, una condanna in
primo grado per il crac Bagaglino, 2 interdizioni) a presidente di Piazzetta
Cuccia, dopo la celebrata fusione tra Capitalia e Unicredit, lascia ben
sperare. Non c'è nemmeno bisogno di aprire il reclutamento: basta
prendere i giornali di ieri, appuntarsi i nomi dei rinviati a giudizio per lo
scandalo Parmalat e di quelli per cui si chiede il giudizio per Antonveneta, e
compilare le tessere ad honorem. Lì c'è il Gotha del capitalismo
all'italiana, i furbetti del quartierino e i furbetti del quartierone. Si fa
quasi prima a dire chi non c'è. Formazione tipo dei crac Parmalat e
Ciappazzi: Tanzi, Geronzi, Arpe, Fiorani (lui c'è sempre), Armanini
(Deutsche Bank), Tonna e altri 50. Formazione tipo della scalata Antonveneta:
Fiorani (vedi sopra), Fazio, Grillo (Luigi, Forza Italia), Consorte, Sacchetti,
Grillo, Gnutti, Zulli (il commercialista di Consorte, già socio dello
studio Tremonti), Ricucci, Coppola, Zunino e altri 70 (il banchiere di
Unicredit e Mediobanca, Fabrizio Palenzona, resta indagato in uno stralcio).
Insomma, il fior fiore. Particolarmente interessanti le 17 pagine del rinvio a
giudizio dedicate dal gip a Geronzi, che avrebbe "dato appoggio a Tanzi al
di là delle regole", pur "a sicura conoscenza dello stato di
decozione delle attività turistiche di Collecchio e dell'insolvenza di
Parmalat", dunque diede "un consapevole contributo al dissesto"
che gettò sul lastrico decine di migliaia di famiglie. Il suo avvocato
non ha trovato di meglio che denunciare il gip di Parma alla Cassazione per
essersi "spinto a esprimere il suo convincimento, con una vera sentenza di
condanna". Ormai il precedente della Forleo fa scuola: se un gip fa il
gip, viene insultato e denunciato; del resto chi si credere di essere: un gip?
Geronzi è indagato anche per il crac Cirio: due anni fa il pm Orsi gli
chiese perchè Capitalia seguitò a piazzare bond nel 2000, dopo
che il comitato esecutivo era stato allertato col "semaforo giallo"
sulla decozione del gruppo: "Chi ha comprato i bond 20 giorni dopo sapeva
di questi semafori o andava al buio?". Geronzi rispose: "Le risulta
che in Italia sia mai stato emesso un bond nel cui lancio siano stati informati
i sottoscrittori dello stato di salute delle aziende?". In qualunque altro
paese difficilmente chi si esprime così farebbe ancora il banchiere. Da
noi viene promosso al vertice di Mediobanca. Se poi dovesse andare male,
c'è sempre la villa di Lele Mora. O, alla peggio, il Parlamento. Ma solo
in caso di condanna. Citofonare Cesare (l'altro). Uliwood party.
Dopo lo scandalo che ha travolto Italease
e i sospetti di posizioni in bilico che gravano su altre grandi banche, Mario
Draghi e Lamberto Cardia hanno deciso di rompere gli indugi e di indagare a
fondo su un elemento del sistema finanziario, la cui pericolosità
è già stata segnalata in più occasioni da entrambe le
autorità. Inoltre, non è escluso che siano stati aperti dossier
su alcune singole società. La decisione di Bankitalia e Consob non stupisce
vista la portata di quanto accaduto con Italease, un caso su cui sono
destinate, tra l'altro, a emergere ancora importanti novità. Infatti,
come emerso nei giorni scorsi, la Procura di Milano ha aperto un'indagine;
mentre diverse associazioni dei consumatori stanno mettendo assieme dossier
volti a dimostrare reati come la "truffa contrattuale",
l'"insider trading" e l'"aggiotaggio", anche da parte dei
broker che continuavano a consigliare di comprare il titolo Italease,
nonostante fosse ormai nota la sua esposizione sui derivati. Le associazioni,
inoltre, puntano il dito contro gli istituti che hanno fornito i derivati a Italease
(praticamente tutte le grandi banche italiane ed europee) e sollevano sospetti
sui "rapporti di interesse" intrattenuti fra alcuni membri del
management di Italease e altri istituti. Sono state le stesse
associazioni (l'Adusbef in particolare) ad allargare il tiro su altri gruppi,
come UniCredit, contribuendo ai timori in merito già diffusi sul
mercato. Negli ultimi mesi Draghi ha affrontato l'argomento derivati in
più occasioni, fra cui l'intervento all'Abi e le "Considerazioni
finali". Quando, dopo aver ricordato i benefici dei derivati, ha detto
che: "Essi possono tuttavia divenire fonte di instabilità se
utilizzati dagli intermediari non per coprire il rischio esistente,
bensì per accrescere la quantità dei rischi da assumere. I
derivati di credito possono modificare, inoltre, il modus operandi delle banche
che se ne servono: se chi eroga il prestito ne cede in parte il rischio ad
altri, l'incentivo a vagliare la qualità dei debitori può
ridursi". Cardia, invece, in occasione dell'incontro annuale con il
mercato finanziario, ha spiegato che "il ricorso agli strumenti derivati
rappresenta un fenomeno di crescente diffusione ed è oggetto di
attenzione da parte delle autorità di vigilanza per gli effetti sul
livello complessivo di rischio per il sistema e la distribuzione tra i singoli
utilizzatori". A fine 2006, il controvalore nozionale delle posizioni in
derivati era pari ad oltre 6.000 miliardi di euro, concentrato quasi
interamente sui primi dieci gruppi bancari italiani.
Nella
prima commemorazione senza Fidel, l'offerta di dialogo e ammissioni sulla
malattia del fratello: «Un duro colpo»
Pronto
a dialogare con gli Stati Uniti, se cambiano una politica «assurda» e
«illegale»: un’apertura a metà quella di Raul Castro, a capo del governo
della Cuba orfana di Fidel.
Oggi è stata la sua giornata. Davanti a 100mila cubani in piazza per
celebrare la «giornata della rivoluzione», la prima senza la presenza di Fidel,
ha parlato della malattia del fratello:«Un duro colpo». Poi l’appello agli
americani, per nulla gradito a Washington.
L’appuntamento era nella piazza centrale di Camaguey, a sud-est dell’Avana.
Raul ha fatto un discorso sobrio, rispetto ai comizi fiume di Fidel, appena
un'ora. E ha dato, a suo modo,un'indicazione di voto. La nuova
amministrazione degli Stati Uniti - ha detto, alludendo alle elezioni per la
Casa Bianca del 2008 - «dovrà decidere se perseverare in una politica
assurda, illegale e infruttuosa contro Cuba, oppure accettare il ramo d’ulivo
che le abbiamo teso».
Il riferimento è a un discorso pronunciato all’Avana lo scorso 2 dicembre,
nel quale lo stesso Raul aveva sottolineato «la disponibilità a
risolvere per via negoziale il contenzioso tra Cuba e gli Stati Uniti». «Se le
autorità americane metteranno da parte il proprio senso di onnipotenza e
decideranno di discutere in modo civile - ha concluso - saranno le
benvenute». Altre volte, in passato, Raul era sembrato esprimere un
atteggiamento di prudente apertura nei confronti dell’amministrazione
statunitense. Il discorso pronunciato oggi, però, ha un valore politico diverso.
In piazza, a ricordare l’assalto rivoluzionario alla caserma Moncada, non c’era
Fidel. L’ottanuntunenne lider maximo non compare in pubblico dal luglio scorso,
quando fu costretto a passare i peini poteri al fratello dopo un ricovero
d'urgenza in ospedale.
In questo anno Fidel è stato sottoposto a diversi interventi chirurgici
all’intestino, ma la natura della sua malattia, un cancro terminale secondo gli
Stati Uniti, resta misteriosa. Di recente ha ripreso in parte le sue
attività, pubblicando una serie di articoli e saggi. Le redini,
però, restano in mano al fratello. Che oggi lo ha evocato.
«Difficilmente avremmo potuto immaginare il duro colpo che ci attendeva. Sono
stati momenti davvero difficili, ma con conseguenze diametralmente opposte rispetto
a quelle che volevano i nostri nemici, speranzosi nel crollo del socialismo
cubano». A Camaguey, migliaia di magliette rosse e bandiere nazionali. «Fidel
sarà sempre il capo ma ora lo è anche Raul», ha detto Gilberto
Guerrero, un pensionato con alle spalle tanto lavoro nelle piantagioni di canna
da zucchero. «Fidel è in via di guarigione». Speranze non condivise
dalla Casa Bianca. Alle parole del presidente ad interim, il portavoce Sean
McCormack ha risposto gelido. «L’unico dialogo che serve è con il popolo
cubano. Aspettiamo il giorno in cui i cubani possano aver un dialogo libero e
aperto. Non deve avvenire negli Stati Uniti, ma a Cuba».
La Tall Ships Races
quest'anno si svolge nel Golfo ligure. Tra prestigiose imbarcazioni d'epoca ci
sono la Vespucci e la Palinuro
GENOVA
- Dopo
le gloriose edizioni del 1992 e del 2000, Genova ha l’onore dopo tanto tempo di
ospitare la Tall Ships’ Races 2007 Mediterranea, il grande evento
internazionale dedicato alle più alte e lunghe navi a vela al mondo. Ma
al contrario delle due occasioni precedenti, dove Genova era una tappa di
partenza, questa volta il capoluogo ligure ospita la conclusione di tutta la
regata, offrendo ai genovesi e ai turisti un’occasione ancora più
importante per accogliere queste «vecchie signore» del mare. Le imponenti navi
storiche, solitamente abituate a navigare nelle acque del Nord, si preparano
infatti a ricevere un’accoglienza principesca nel cuore della città, a
Porto Antico e anche nelle zone limitrofe, che coinvolgeranno il grande
pubblico di equipaggi e visitatori in una grande festa della durata di quattro
giorni. Sabato 28 luglio, a partire dalla prime luci della mattina, i 33
velieri che hanno affrontato l’ultima tappa della gara ormeggeranno nel
«salotto buono» del porto di Genova, occupando tutta l’area compresa fra i
Magazzini del Cotone e la Stazione Marittima. Ad aspettarli in porto c’è
già una delle più rappresentative tall ships contemporanee,
Shosholoza, arrivata appena due giorni fa da Valencia, che con l’evento
genovese condivide il main sponsor, MSC Crociere, e i comuni intenti di offrire
la possibilità ai giovani, anche ai meno abbienti, di amare la vela e il
mare, come il team sudafricano fa nel suo paese da anni grazie alla
Izivunguvungu MSC Foundation for Youth.
EVENTI -
Festeggiamenti, mostre, eventi culturali e manifestazioni sportive sono il
biglietto da visita del capoluogo ligure per le oltre 3000 le persone che, a
bordo delle navi, partecipano alla lunga veleggiata che è partita da
Alicante lo scorso 7 luglio e che si conclude sabato 28 luglio tagliando il
traguardo della Lanterna. Metà di queste persone, come vuole la
tradizione di questo evento, sono composte da ragazzi e ragazze fra i 16 e i 25
anni di oltre 30 differenti nazionalità, che hanno l’occasione di fare
un’esperienza straordinaria, al centro della quale prevale lo spirito di
fratellanza, di solidarietà e di rispetto per il mare anziché «il
solito» aspetto agonistico che si riscontra nelle competizioni veliche. Pur
avendo due regate da Alicante a Barcellona e da Tolone a Genova, congiunte da
una «crociera in società» fra il capoluogo catalano e la capitale del Var,
questa manifestazione è una gara «decoubertiana», dove si promuovono
amicizia e spirito di gruppo fra diverse nazioni e, nei porti ospitanti, ci si
confronta con le culture locali e con un folto pubblico attratto dalle navi e
da tutti gli eventi collaterali e sportivi fra i giovani.
SCAFI DIVERSI -
Poco importa quindi la grande differenza fra le navi presenti: ci sono grandi
navi a vela, brigantini, golette, schooner, ketch, yawl e altri tipi di armi
desueti: per concorrere insieme, tuttavia, queste navi sono state divise in
quattro classi proprio in base al tipo di vele a all’alberatura, e nonostante
questo non manca un meccanismo di handicap con correzione del tempo simile a
quello comunemente usato nella vela d’altura per offrire un risultato in «tempo
compensato» sufficientemente equo a dare un premio per il valore
dell’equipaggio e la bontà della navigazione effettuata.
PROGRAMMA -
Il programma degli eventi collaterali a partire da sabato prevede quindi tanti
eventi sportivi e anche «anomali» per la stagione, come una gara di sci di
fondo alla Calata Mandraccio organizzata dall’Esercito Italiano. Nel
pomeriggio, prenderanno vita esibizioni di nuoto sincronizzato e una
rappresentazione teatrale di «Pirate» della compagnia Raccontamiunastoria e,
dopo le 20, il culmine si avrà con la Tall Ships Night, che
offrirà musica, spettacoli e animazione in 17 location del Porto Antico
e del centro storico di Genova. Nei giorni seguenti ancora numerosi spettacoli
tematici, gare riservate ai ragazzi che compongono gli equipaggi e un grande
mercato d’Europa, con espositori di oltre 20 nazionalità. La
manifestazione è organizzata dalla Sta-Italia, un sodalizio fra la
Marina Militare e lo Yacht Club Italiano, sotto l’egida della Sail Training
International, un’associazione senza scopo di lucro che si occupa di questi
raduni fra grandi navi a vela sin dal 1956.
EVENTO STORICO -
Curiosamente, la prima edizione di cinquantuno anni fa negli intenti
dell’organizzatore avrebbe dovuto dare un «addio» alle superstiti navi a vela
dell’epoca, alcune mercantili e altre militari, ma la storia invece ha premiato
questo evento riuscendo a rendere possibile quasi ogni anno successivo una
nuova edizione, grazie alla rinascita di vecchie navi militare e mercantili e,
in molti casi, trovandone iscritte anche di nuove, costruite appositamente per
l’addestramento o il charter, sulla base dei progetti dei vascelli e delle
golette di un paio di secoli prima.
LE VELE ITALIANE - Imponente
la presenza di navi italiane: una su quattro, come nella scorsa Coppa America!
La Marina Militare ha iscritto all’evento Amerigo Vespucci, Italia e Palinuro
in classe A, Capricia (donata da Gianni Agnelli all’inizio degli anni '90) e la
Stella Polare nella classe D. Quelle non militari sono invece Pandora, classe
B, che è stata anche protagonista di un film angloamericano, Idea Due,
classe C, che ha vinto la prima tappa nella sua classe e in assoluto, e
Pamadica, classe D, un piccolo e veloce scafo di un armatore genovese. Nel
Porto Antico di Genova, ai velieri che hanno partecipato alla Tall Ships’ Races
2007 Mediterranea si affiancheranno anche altre importanti barche d’epoca che
non hanno potuto prendere parte all’evento, fra cui le militari Orsa Maggiore,
Caroly e il Corsaro II, il successore naturale della mitica Artica II che aveva
vinto la prima edizione di questa manifestazione nel 1956.
Alex D'Agosta
26 luglio 2007
+ La Stampa
26-7-2007 Presto online la pagella Ue
degli operatori tlc
L’Unità 26-7-2007 La supercàzzola
parlamentare Marco Travaglio
Il Riformista 26-7-2007
LE RICHIESTE DEL GUP I furbetti e i furboni del crack Parmalat
L’Unità 25-7-2007 Se la scuola «ministerializza»
i bambini Luigi Berlinguer
ROMA —
Un altro agosto, dopo quello del 2005, a doversi difendere, un giorno sì
e l'altro pure, dalle accuse su Bancopoli? Già dato: i Ds non vorrebbero
fare il bis. Per questa ragione stanno pensando a come evitare il massacro
mediatico estivo. Piero Fassino, Massimo D'Alema e Nicola Latorre meditano di
scrivere una lettera alle giunte per le autorizzazioni a procedere di Camera e
Senato per ribadire il loro via libera, ma anche le critiche a Clementina
Forleo. Tutto ciò nella speranza che, rinviando la "pratica" a
settembre, nel frattempo il "caso" si sgonfi, le giunte rinviino le
ordinanze alla procura di Milano giudicando irricevibile la documentazione, e,
magari, vengano avviati procedimenti disciplinari nei confronti della gip Forleo.
«Non possiamo non chiedere che si proceda — è stato il ragionamento di
Massimo D'Alema — altrimenti vedrete che chiunque si potrà alzare in
questi giorni e accusarci di chissà che cosa dalle colonne dei giornali,
magari anche di quelli di sinistra...». Il ministro degli Esteri non perde il
suo proverbiale sarcasmo e mostra un certo distacco da queste vicende. Non
altrettanto Fassino, che è fuori di sé. Al punto di arrivare ad
attaccare il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Il quale Bertinotti
è rimasto letteralmente basito dall'affondo del segretario ds: «Capisco
— ha detto ai compagni di partito — che Piero è sotto botta ed è
stressato, ma dovrebbe rendersi conto che certi atteggiamenti si ritorcono
contro di lui, diventando un boomerang». Il leader della Quercia, però,
non riesce a ostentare calma e tranquillità, soprattutto dopo aver letto
nero su bianco le parole di Clementina Forleo sui vertici diessini. La Quercia
è stata in riunione permanente dalla mattinata, via telefono o
attraverso incontri informali al Botteghino, come al Senato e alla Camera.
Tutti a sviscerare i problemi da affrontare, consultando ogni due per tre Guido
Calvi, senatore dei Ds nonché avvocato del partito. «Il via libera
all'autorizzazione— stato il ritornello di Fassino — è ovvio, ma non
possiamo neanche dire ai magistrati: prego fate di noi quello che volete, e
uscire a mani alzate, visto che ci vengono rivolte accuse infamanti. Questo
è inaccettabile». Calvi ha cercato di rassicurare i dirigenti ds che si
sono visti alle cinque del pomeriggio al Botteghino (D'Alema non c'era)
spiegando loro che il caso ha un «profilo giuridico complesso », ragion per cui
ci vorrà tempo per esaminare il tutto.
I TIMORI DEI DS -
Ma i vertici dei Ds temono anche la reazione del popolo della sinistra. Soprattutto
dopo l'abbraccio di Forza Italia, i cui dirigenti difendono a spada tratta gli
esponenti della Quercia e annunciano che voteranno contro l'autorizzazione a
procedere. Potrebbe diventare imbarazzante se, ad esempio, il senatore forzista
Maurizio Sacconi dicesse pubblicamente quel che l'altro ieri sera sussurrava
nei corridoi di palazzo Madama: «D'Alema dovrebbe reagire: ci vuole una sua
iniziativa». Ma c'è anche un altro motivo di disagio per il gruppo
dirigente della Quercia. Bobo Craxi, sulla "Stampa", ha ricordato
come con suo padre né Giorgio Napolitano (all'epoca presidente della Camera) né
Massimo D'Alema furono garantisti. Le parole di Craxi hanno colpito Napolitano,
tanto che il capo dello Stato ha chiamato il sottosegretario agli Esteri per chiarirgli
il suo comportamento del tempo. Certo, Craxi ha colpito nel segno: invocare il
garantismo ora che si è coinvolti in prima persona in una vicenda
giudiziaria, quando non lo si è fatto prima, in altre occasioni, diventa
difficile, e i Ds sono i primi a rendersene conto. Ma la vicecapogruppo
dell'Ulivo a Montecitorio Marina Sereni si oppone a questa lettura dei fatti:
«Se, e, ripeto, se — osserva — abbiamo commesso un errore in passato non
frenando in tempo e con fermezza gli eccessi di giustizialismo, non significa
che adesso dobbiamo ripetere quell'errore. Certo, noi daremo l'autorizzazione a
procedere a prescindere, mentre in genere ci regoliamo caso per caso, perché la
vicenda riguarda i nostri dirigenti, ma è anche ora che qualcuno dica quale
deve essere il giusto rapporto tra politica e magistratura, per evitare
sconfinamenti e scorrettezze ». E per evitare soprattutto quel che uno dei tre
dirigenti della Quercia coinvolti in questa storia sussurra a mezza bocca:
ossia che, «un secondo dopo che il Parlamento avrà dato l'autorizzazione
a procedere arriveranno gli avvisi di garanzia per noi...».
BRUXELLES
La Commissione europea lancerà ai primi di agosto un sito web in cui
verranno indicate tutte le compagnie di telefonia mobile che hanno applicato «l'eurotariffa
roaming entro i termini stabiliti dal regolamento Ue e quelle ancora
inadempienti».La Commissione pubblicherà ai primi di agosto un sito
internet con i nomi di tutti gli operatori europei per dire se ognuno di essi
ha o non ha applicato le eurotariffe, o se applica tariffe ancora meno care«,
ha riferito a Bruxelles Martyn Selmayr, portavoce del commissario europeo per
Informazione e Media, la lussemburghese Viviane Reding.
«Siamo contenti del fatto che molti operatori europei abbiano offerto l’eurotariffa
già dal primo luglio», ma questa iniziativa ha lo scopo di «motivare le
compagnie telefoniche a fare ancora meglio», ha insistito il portavoce
sottolineando che »insieme con tutte le altre istituzioni europee, la
Commissione incoraggia tutte le compagnie a offrire l’eurotariffa il più
presto possibile« e a «utilizzare questo regolamento come un vantaggio per
conquistare fette più ampie di mercato».
Lo scorso 29 giugno, nei Ventisette, è entrato in vigore un nuovo
regolamento che consente ai consumatori di godere già da quest’estate
della cosiddetta "eurotariffa" roaming, che fissa un tetto massimo
per le chiamate effettuate all’estero (0,49 euro iva esclusa) e ricevute
all’estero (0,24 euro, iva esclusa), equivalenti a una riduzione dei prezzi
fino al 75 per cento. Gli operatori, assicurano a Bruxelles, dovranno farsi
concorrenza al di sotto di questi tetti, che saranno ulteriormente ridotti nel
2008 e nel 2009. «C’è un regolamento che stabilisce la fase transitoria
verso l’eurotariffa, questo significa che gli operatori sono obbligati a luglio
ad offrire i nuovi prezzi e ad attivarli entro un mese dall’accettazione dei
clienti, altrimenti vi sarà infrazione del regolamento», ha concluso
Selmayr.
Il regolamento, che dovrà essere esteso automaticamente a tutti gli
utenti Ue a partire dal 30 settembre, si applicherà per tre anni,
durante i quali la Commissione e le autorità nazionali di
regolamentazione terranno sotto stretta sorveglianza la sua attuazione.
Bruxelles procederà inoltre a una valutazione delle nuove regole entro
18 mesi per stabilire se sia necessario prorogarne l’applicazione e intervenire
nuovamente per disciplinare anche le tariffe applicate alla trasmissione di sms
e dati in roaming.
Certe sedute parlamentari andrebbero
vietate ai minori. Non tanto quelle in cui si dicono le parolacce o si fanno
strani gesti. Ma piuttosto quelle in cui l'aulica Istituzione diventa una
specie di giardino d'infanzia, di parco giochi per dar modo agli annoiati
rappresentanti del popolo di svagarsi un po'. Prendiamo Roberto Calderoli: a
dispetto dell'aspetto, è un bambinone. Un tempo si divertiva a far
gironzolare un paio di leoncini nel suo giardino a Bergamo di Sopra, dove a tempo
perso fa il dentista. Poi una delle adorabili bestiole gli addentò una
coscia rischiando di renderlo monco. Lui sopportò il dolore con padana
virilità e tutto finì per il meglio (fuorché, si capisce, per la
bestiola). Sempre per celia, Calderoli insultò per anni Berlusconi,
chiamandolo ora "mafioso" ora "tangentista", cosine
così, salvo poi entrare nel suo governo. Un'altra volta distribuì
a Pontida la nuova moneta padana destinata a soppiantare la lira: il
"calderòlo", che spopolò per qualche minuto, finché il
primo leghista non tentò di rifilarlo a un barista per pagare il
caffè (il barista, noto terrone, reagì maluccio). Altra burla
memorabile: le nozze del sciur Roberto e della sciura Sabina con rito celtico,
in una radura della Val Brembana, con tanto di druido e calice di sidro;
senonché, quando la signora scoprì che non era una cosa seria, chiese il
divorzio. Da allora il nostro ha trasferito il parco divertimenti a Roma, tra
il governo Berlusconi e il Senato (di cui è addirittura vicepresidente).
È fatto così: organizza scherzi. Crede di vivere nel film
"Amici miei". La più nota delle sue supercàzzole
parlamentari fu la legge elettorale, da lui stesso ribattezzata
"porcata". Non male anche la t-shirt anti-Maometto esibita al Tg1 in
pieno scontro fra Europa e Islam, che provocò scontri all'ambasciata
italiana in Libia con morti e feriti. Morti e feriti con simpatia, però.
Le pazze risate. Da quando è tornato all'opposizione, l'aspirante conte
Mascetti si diverte un mondo a improvvisare mozioni e risoluzioni parlamentari
in cui dà ragione al governo, così la maggioranza va in
confusione: se le vota, si dà torto; se le boccia, si dà torto lo
stesso. L'altra sera ne ha presentate addirittura cinque sulla politica estera:
basta così poco, in fondo, per farlo contento. Ma lui almeno non si
prende sul serio ("su di me non avrei scommesso un euro", ammise
quando, con sua grande sorpresa, lo scambiarono per ministro delle Riforme).
Altri invece sono serissimi. Ieri, per esempio, al question time con Mastella,
s'è alzato il cosiddetto onorevole Lucio Barani del Nuovo Psi. Il
presidente Bertinotti gli ha dato la parola per un minuto. Lui l'ha usato tutto
per denunciare "l'omicidio di Craxi da parte dei giudici di Milano" e
rammentare che il comune di Aulla, quando lui ne era sindaco, fu proclamato
"dedipietrizzato" perché "Di Pietro ha fatto tanto male
all'Italia". Poi, nei pochi secondi residui, ha sostenuto che a Milano
c'è "uno scontro tra la gip Forleo e la Procura" e "la Forleo
ha le palle" ma è vergognoso che faccia così, dunque (notare
la logica sopraffina) "bisogna separare le carriere di giudici e pm".
C'era da attendersi che il presidente o il ministro gli facessero notare che
nessun giudice ha mai assassinato alcun politico: semmai molti giudici sono
stati assassinati per motivi politici. Invece Tweed Berty l'ha molto
"ringvaziato per la bvevità", evidentemente abituato ad
ascoltare ben di peggio. Poi il Guardasigilli ha letto un compitino molto
posato e burocratico, come se il Barani non avesse detto quelle cose. A quel
punto il presidente ha "vidato la pavola all'on. Bavani per due minuti di
veplica". Il Barani ne ha profittato per sostenere che la separazione
delle carriere è troppo poco: bisogna "controllare giorno per
giorno gli atti dei giudici, anche con test psicoattitudinali e tossicologici,
per accertare l'uso di sostanze psicotrope". Anziché domandargli di quali
sostanze faccia uso lui, il pvesidente l'ha di nuovo ringvaziato, passando
all'interrogazione seguente: "Acquisto di generi alimentari direttamente
presso i contadini". Per fortuna non c'erano in platea le solite
scolaresche. Altrimenti si sarebbero fatte una strana idea delle istituzioni
democratiche. Uliwood party.
Parmalat,
una storia italiana. O meglio, da Totò truffa, se non fosse che i
gabbati questa volta non sono attori e comparse di un film bensì
migliaia di piccoli risparmiatori svuotati dei risparmi di una vita. 23 rinvii
a giudizio nel procedimento principale sul crack Parmalat, 32 rinvii in quello
relativo al turismo, 8 nel filone processuale che riguarda le mitiche Acque
Ciappazzi. A deciderlo, ieri mattina, nell’ambito dell’atto conclusivo dell’udienza
preliminare per il crac del colosso di Collecchio, il gup di Parma, Domenico
Truppa. Oltre ai 23 imputati del filone principale (rinviati a vario titolo per
associazione a delinquere e concorso in bancarotta fraudolenta), tra i quali
l’ex patron Calisto Tanzi, Fausto Tonna, e diversi amministratori e sindaci
Parmalat, sono stati rinviati a giudizio anche i membri del board di Capitalia,
tra cui Cesare Geronzi (secondo quanto ritenuto dal gup, dietro la controversa
vendita dell’azienda di acque minerali da Ciarrapico a Tanzi, c’era Geronzi che
“obbligò” il patron Parmalat a comprarla, nonostante avesse seri
problemi) e l’ex ad, Matteo Arpe, il cui ruolo sarebbe però secondario,
sempre secondo il gup. A questo si aggiungono poi i 16 patteggiamenti e,
nell’ambito Parmatour, le due condanne di Alfredo Poldy Allay e Luca Baraldi.
Morale: dopo un biennio in cui si è spesso preferito almanaccare e
infierire su furbetti del quartierino e Ricucci vari semplicemente indagati,
eccoci squadernato dalla procura di Parma il più grave scandalo
finanziario del Belpaese (in plastica coincidenza con la vicenda Italease e
derivati). Certamente molto di più della scalata Antonveneta, per cui,
sempre ieri mattina, la procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per
l’ex ad di Bpi Giampiero Fiorani, l’ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio,
l’ex numero uno di Unipol Giovanni Consorte, il finanziere Emilio Gnutti e
un’altra settantina di indagati. Spiace solo che i grandi giornaloni, nei mesi
scorsi, si siano spesso dimenticati di dare conto, insieme alle fusioni, dei
frutti velenosi dell’italico bancocentrismo. Mescolando tutto senza colpo
ferire: furbetti & furboni. Anche se, volendo, c’è sempre tempo per
rimediare.
All'interno del dibattito sui costi
della politica molti ipotizzano l'abolizione della provincia. è
una vecchia questione che ritorna ciclicamente. Gian Antonio Stella dedica alla
provincia un capitolo del libro "La casta", in cui ricorda che
già la commissione dei 75 all'Assemblea costituente ne aveva deciso la
soppressione. La stessa cosa propose La Malfa negli anni Settanta. Ma nel 1977
il decreto 616 ne rilanciò il ruolo. Ruolo che la vigente Costituzione
italiana conferma. Nel frattempo le province da 92 sono diventate 110 e ci sono
proposte di legge per crearne altre 34 di cui almeno 2 possono interessare
parte del territorio della Provincia di Treviso: la Provincia del Veneto
Orientale e quella di Bassano. Sabato 14 luglio i sette Consigli provinciali
del Veneto si sono riuniti in seduta congiunta per affermare il proprio ruolo.
Contemporaneamente sui quotidiani veneti si leggeva la dichiarazione del
coordinatore di Forza Italia Bondi per l'abolizione delle province. Sulla
stessa linea, o quasi, il presidente Galan: "Le province possono essere
utili come strumenti sovracomunali. Allora facciamo un'elezione di secondo
grado, i sindaci e i consigli comunali eleggono la provincia e delegano alcune
delle loro competenze a questo ente per le funzioni". Le ultime proposte
di legge del Governo sembrano mirare a un ridimensionamento del ruolo delle
province spesso in forza di leggi nazionali o regionali. Il Veneto è una
regione con 4 milioni e mezzo di abitanti distribuiti in un territorio che si
estende dalle Alpi al mare con caratteristiche molto diverse; e la Provincia di
Treviso supera gli 800 mila abitanti e ha una lunga storia, come le altre
province del Veneto, per cui si sono organizzate a dimensione provinciale
tantissime organizzazioni e associazioni operanti nel nostro territorio:
commercianti, artigiani, industriali, ordini professionali... La regione
è nata come ente il cui compito è fare leggi e programmare lo
sviluppo del territorio, dando chiare indicazioni. Ma la gestione dei vari
servizi non è compito della regione, e i comuni (alcuni veramente
piccoli) non hanno le dimensioni per gestire servizi in termini di area vasta.
Il dibattito sugli sprechi della politica non è di oggi.
Qualche anno fa due senatori dei Democratici di Sinistra Cesare Salvi e Massimo
Villone pubblicarono sull'argomento un libro molto documentato, che non ebbe
neppure lontanamente il successo del libro "La casta". La gente oggi,
evidentemente, è più attenta ai costi (e agli sprechi)
della politica perché capisce che questa non dà più
risposte alle reali esigenze del Paese. Politici, o amministratori pubblici,
che intervengono nel dibattito, cercano e sottolineano gli sprechi
altrove, ed è un altrove molto affollato, che offre molti alibi. Non
c'è una soluzione unica al problema: ci sono tanti piccoli interventi da
fare, in vari settori, senza aspettare preannunciate soluzioni rivoluzionarie.
Mentre si discute sull'eliminazione delle province o sulla riduzione del loro
ruolo, continuano a nascere e prosperano, spesso in forza di leggi nazionali e
regionali, organismi sovracomunali di vario tipo (società, agenzie,
consorzi...), i quali, operando ognuno in settori specifici, in nome di una presunta
o auspicata efficienza consegnano la gestione di determinati servizi a tecnici
(veri o apparenti). Alcune considerazioni portano a concludere che, forse,
è meglio affidare la gestione o il coordinamento di questi servizi a un
ente unico. Anzitutto non si creerebbero nuovi enti. Inoltre le scelte relative
ai vari servizi, come la viabilità, i trasporti, l'urbanistica, la
salvaguardia del territorio e lo smaltimento dei rifiuti non sono mai puramente
tecniche, si condiz ionano a vicenda, e chiedono il coinvolgimento di chi abita
in un determinato territorio. Un ente unico, democraticamente eletto, ha i
mezzi e l'autorevolezza per trovare al suo interno la composizione dei vari
interessi. I vari consorzi e società operanti sul territorio, inoltre,
sono più condizionabili da parte della regione: si passa da un
centralismo statale a un neocentralismo regionale, ignorando qualsiasi discorso
sulla partecipazione e la sussidiarietà. Le Province, nel documento
approvato sabato 14 luglio hanno chiesto alla Regione che venga istituito il
Consiglio delle autonomie locali che definisca chiaramente le competenze della
Regione, dei Comuni e delle Province per assegnare anche le risorse adeguate
all'espletamento di queste funzioni. Nella prima stesura dell'ultima finanziaria
del governo Berlusconi era prevista l'eliminazione delle Comunità
montane. Ci fu una rivolta generale dall'estrema destra all'estrema sinistra,
dalle Alpi al mare. Il comma fu eliminato. Forse ha ragione quell'editorialista
del Sole 24 Ore che ha scritto che la minaccia dell'abolizione delle province
è solo ipotetica "perché in Italia non si riesce ad abolire
nulla". L'approvazione dello Statuto regionale, all'interno del quale,
secondo il dettato costituzionale, dovrà essere regolamentato il
Consiglio delle autonomie locali, potrebbe essere il primo atto di riordino
istituzionale anche in vista di una riduzione dei costi della politica.
"Sì, ci voleva coraggio",
ammette scendendo dal ring della riforma elettorale il capogruppo di An Salvino
Caputo. Lo strappo è compiuto: i finiani votano con il centrosinistra e
portano fuori dalle sabbie mobili della commissione Affari istituzionali la
legge. "è solo il primo sì, ma ha un valore politico enorme
che offre segnali precisi contro gli sprechi e per la modernizzazione di
questa regione", dice Nicola Cristaldi, il presidente della commissione, principale
volto della ribellione di Alleanza Nazionale. Ora sono pronte per l'aula le
norme che tagliano i costi della politica. Nel testo c'è
la riduzione dei compensi dei consiglieri provinciali e comunali, che non
potranno guadagnare più del 20 per cento del presidente o del sindaco
(oggi il tetto è fissato a un terzo). C'è il taglio del dieci per
cento del numero dei consiglieri comunali in Sicilia, c'è un colpo di
forbici anche per le giunte che a Palermo, solo per fare un esempio, non
potranno avere più di 14 (Comune) o 13 componenti (Provincia). è
questo, essenzialmente, il contenuto del testo della discordia approvato ieri
dalla commissione, perché le regole elettorali propriamente dette, come lo
sbarramento al 5 per cento e l'estensione del maggioritario e del turno unico
nei Comuni sino a 15 mila abitanti, erano state accantonate dopo le proteste
dell'Mpa (e dei piccoli partiti dell'Unione). Ma ce n'è abbastanza per
fare andare in tilt la Cdl. Martedì sera il governatore Cuffaro e i leader
di Forza Italia, Udc e Mpa avevano chiesto ad An un passo indietro, mettendo
per iscritto in una nota anche "l'impegno formale" a un rinvio a
settembre della legge da parte del presidente siciliano del partito di destra,
Giuseppe Scalia. Il pressing non ha sortito l'effetto sperato: in mattinata
Cristaldi e Caputo hanno prima chiamato Scalia esprimendo il loro disaccordo,
poi una telefonata direttamente con Fini e il via libera alla mossa di rottura.
Assenti gli esponenti dei tre maggiori partiti della maggioranza, con
l'assessore Paolo Colianni dell'Mpa protagonista di un abbandono anticipato dei
lavori, l'organismo guidato da Cristaldi ha alzato disco verde. Scalia, alla
fine, ha diramato un comunicato assieme ai due colleghi deputati per tentare di
stemperare il clima: "Spiace quello che è accaduto: siamo pronti a
riavviare il processo di collaborazione all'interno della Cdl, per un rilancio
dell'azione del governo e del parlamento". Ma, a quel punto, si era
già scatenata l'ira dei compagni di viaggio. "è stato un blitz
inopportuno e dannoso", commenta il capogruppo forzista Francesco Cascio,
che pure era stato il relatore della riforma. Cuffaro si è lamentato al
telefono con Scalia. Il segretario dell'Udc Saverio Romano ha lanciato i suoi
strali: "Subito un vertice di maggioranza, An ci dica se vuole proseguire
il percorso di governo insieme a noi". Un summit che il coordinatore
forzista, Angelino Alfano, sta già organizzando. I capigruppo di Forza
Italia, Udc e Mpa, intanto, hanno chiesto l'immediato ritorno in commissione
del disegno di legge, lamentando vizi procedurali. Ma l'opposizione ha
già messo in mora il presidente dell'Ars Gianfranco Micciché, affermando
che non può fare a meno di mandare in aula il provvedimento prima delle
ferie. "Dobbiamo varare entro la chiusura della sessione estiva dell'Ars
una riforma chiesta a gran voce dalla gente", dice Antonello Cracolici
(Ds). "La legge era già stata inserita nel calendario di Sala
d'Ercole, non si può tornare indietro", affermano i diellini
Barbagallo, Galvagno e Gucciardi. Il presidente dell'Ars, Gianfranco Micciché,
ha convocato in serata una riunione urgente di tutti i capigruppo.
"Abbiamo altri impegni", gli hanno risposto proprio i vertici del Pd.
La partita, ora, si gioca a colpi di regolamento.
(segue dalla prima di cronaca) Il
risultato? Anche chi violerà sicuramente il patto di stabilità
potrà comunque assumere, fare promozioni e aumentare i debiti fuori
bilancio. Per "punizione", non sarà premiato con nuovi fondi
derivati dall'aumento del gettito nazionale Irpef. Ma per il resto tutto
rimarrà come prima. Di certo c'è che i magistrati hanno
riscontrato la finanza allegra degli enti locali siciliani. Numeri alla mano,
nelle previsioni il 32 per cento dei Comuni dell'Isola supererà i tetti
di spesa, a fronte di una media nazionale del 26 per cento. "E
difficilmente gli enti riusciranno a raddrizzare i conti nel bilancio
definitivo del 2006", spiegano i funzionari della Corte dei conti. Quasi
nessuno dei Comuni ha rispettato la data del 30 giugno per l'approvazione dei
rendiconti, e comunque per il 2006 "il non rispetto del patto non
avrà alcuna conseguenza, e non scatteranno sanzioni". La
Finanziaria 2007 ha di fatto cancellato l'obbligo del rispetto del patto di
stabilità per lo scorso anno: "Questo perché nel 2006 è
stato introdotto per la prima volta il sistema dei controlli, che sono scattati
soltanto a settembre - spiegano gli uffici della Corte - gli amministratori e i
dirigenti dei Comuni sono stati convocati a novembre e dunque i margini di manovra
nei bilanci erano già troppo ridotti. Per evitare sanzioni eccessive si
è preferito eliminarle per il 2006, salvo introdurre una norma che
obbliga al rispetto del patto di stabilità per quest'anno già a
partire dal bilancio di previsione 2007". La cancellazione delle sanzioni
non invoglierà certo gli enti a mettere in atto correttivi per ridurre
la spesa. I controlli della Corte dei conti hanno comunque messo in luce la
finanza fuori controllo di Comuni e Province dell'Isola. A partire dal Comune
di Palermo. L'analisi fatta dai magistrati sul bilancio di previsione 2006
è impietosa: "Nella loro relazione annuale i revisori del comune di
Palermo hanno sostanzialmente messo in luce che l'impostazione del preventivo
per l'esercizio in corso non è tale da garantire il rispetto delle
regole previste dal patto di stabilità per il 2006, relativamente sia
alla spesa corrente sia alla spesa in conto capitale", scrivono i
magistrati, che aggiungono: "A fronte di un limite di spesa corrente netta
2006 calcolato in 353.419.000 euro è stata preventivata una spesa
corrente netta normativamente rilevante di 464.980.000,00 (più 31,5 per
cento, ndr)". Per la Corte dei conti, inoltre, Palazzo delle Aquile ha
sforato anche i limiti di spesa negli investimenti: "A fronte di un limite
di spesa in conto capitale pari ad 176.813.000 euro è stata preventivata
una spesa normativamente rilevante di 1.077.627.000 di euro". Questo porta
ad una conseguenza, comune a tutti gli enti che hanno sforato la spesa per
investimento: che per appianare i conti si faccia ricorso ai debiti fuori
bilancio. "Per questi ultimi è prevista una significativa spesa
pari ad 77.998.174 milioni di euro senza l'attivazione del completo controllo
interno di gestione", aggiungono i magistrati che sottolineano anche la
notevole perdita, nel bilancio comunale, per il "mantenimento di 3.300
precari lsu", che al momento sono stati finanziati con fondi nazionali ma
che "in mancanza di questi dovranno essere pagati con fondi
comunali". Nel palermitano hanno violato il patto di stabilità
anche i Comuni di Santa Flavia, Capaci, Balestrate, Montelepre, Borgetto,
Castelbuono, Altofonte, Gangi, Termini Imerese, Monreale, Bagheria, Bisacquino,
Terrasini, Carini e Corleone. Ma non solo. Nella lista nera della Corte dei Conti
è finito anche il comune di Cefalù: "L'impostazione del
preventivo per l'esercizio in corso non è tale da garantire il rispetto
delle regole previste dal patto di stabilità - scrivono i magistrati - A
fronte di un limite di spesa corrente netta 2006 calcolato in 9.775.731 euro,
è stata preventivata una spesa corrente netta normativamente rilevante
di 11.493.955,37 euro". Stessa tendenza per le spese in conto capitale:
"A fronte di un limite di spesa in conto capitale di 2.496.108 è
stata preventivata una spesa di 5.714.298 euro", dicono dalla Corte dei
conti. Non va meglio a San Giuseppe Jato, dove "a fronte di un limite di
spesa in conto capitale 2006 calcolato in 818.642 è stata preventivata
una spesa normativamente rilevante di 3.610.403 euro", cioè quattro
volte superiore. Tra i grandi Comuni hanno violato il patto di stabilità
anche Trapani, Messina, Agrigento, Siracusa e Caltanissetta. I magistrati
contabili hanno infine controllato i bilanci delle nove Province siciliane.
Scoprendo che a violare il patto di stabilità sono state sei. In
particolare quelle di Messina, Siracusa, Trapani, Enna, Palermo e Catania. Per
la provincia etnea la relazione della Corte dei Conti non ha usato giri di
parole: "A fronte di un obiettivo di spesa pari a 17 milioni di euro, le
spese previste ammontano a 701 milioni di euro", cioè 41 volte di
più. Chissà cosa ne penserà il presidente Raffaele
Lombardo, che ha bacchettato l'Ars per aver previsto il taglio dei costi
della politica senza aver dato "il buon esempio".
ROMA
Niente più finanziamenti a giornali di partiti che non esistono.
In tempi in cui si guarda ai costi della politica è questa
la novità che può fare colpo, nel disegno di legge sull'editoria
che il consiglio dei ministri discuterà domani. Ma nell'intenzione del
governo si tratta di molto di più: un riordino "di sistema"
del settore dell'editoria sul quale si spera di ottenere anche il consenso dell'opposizione.
Il sottosegretario alla presidenza Ricardo Franco Levi lo ha illustrato ieri
mattina al presidente della Repubblica. Per assicurare concorrenza, pluralismo,
trasparenza, l'Autorità per le Garanzie nelle comunicazioni e
l'Antitrust dovrebbero essere facilitate nel loro compito dalla nuova
definizione di impresa editoriale, che comprende anche le iniziative su
internet, e dall'obbligo di iscrivere tutte le imprese a un unico registro, il
Roc (registro degli operatori della comunicazione). Scomparirà l'altra
registrazione possibile, retaggio di vecchi tempi, delle pubblicazioni presso
il Tribunale. Sarà più facile sapere a chi fa capo una data
impresa. Scompaiono, come chiedeva l'Europa, le tariffe postali agevolate per i
periodici, sostituite da un credito di imposta. Gli editori potranno ottenerlo
a fronte dell'uso di aziende di distribuzione private, oltre alle Poste, oppure
di una diffusione agli abbonati effettuata attraverso le edicole. Si vietano le
vendite in blocco a prezzi inferiori al 50% di quello di copertina. Si elimina
un conflitto di interessi, e un costo per il sistema, stabilendo che gli
intermediari di pubblicità potranno riscuotere soltanto dagli
inserzionisti, non dagli editori. Vengono abbassati i finanziamenti ai giornali
di partito, dal 70 al 60%, e alle cooperative di giornalisti, dal 60 al 50%. Si
finanzierà come giornale di partito uno solo per ogni gruppo
parlamentare, con un problema anche per il nascente Partito democratico che ne
ha due,l'Unità ed Europa: uno dovrà trasformarsi in coop. Non
potranno più passare come giornali di partito quelli collegati a una
sigla di comodo inventata da parlamentari. Nel primo commento, l'Ordine dei
giornalisti vede "un'importante novità".
«Ho impiegato 70 anni di lavoro mentale per
capire che un uomo è un bambino andato a male». Questo vecchio detto
toscano sembra un paradosso ma è la verità. Se guardiamo alla
scuola, è proprio così. Pensate quanto è vecchio e noioso
il dibattito adulto sulla scuola oggi. Come mai? Perché non si è
riflettuto abbastanza su che cosa sia la scuola, che cosa significhi scuola.
Ebbene scuola significa appunto imparare. E chi è per eccellenza colui
che impara? Il bambino. La sua prima incalzante parola è «che
cos’è? Perché?» e cioè la premessa, la molla di ogni
apprendimento. Il bambino non ti da tregua: «perché?». Non è
immaginabile un bambino che cessa - anche per un attimo - di imparare. Ogni impulso,
ogni atto è in lui apprendimento, accrescimento. Il bambino è il
prototipo dell’apprendimento. Intelligenza velocissima, disponibile, aperta,
che assorbe subito e tanto? Che ricorda, consolida rapidamente ciò che
introita. Il bambino ragiona senza schemi, senza veli (pensate al contrario
all’ideologismo adulto, deformante e chiuso, mistificatore del reale, come
diceva Marx). Il bambino interroga, si interroga, senza limiti, «perché?»;
viene fuori con domande e considerazioni fulminanti, ragiona senza
rigidità o incrostazioni o pregiudizi. Impara, cioè. Gianni
Rodari diceva: «I bambini capiscono più di quello che noi sospettiamo.
Sono disponibili per ogni audacia, non soffrono di schematismi, ignorano i
regolamenti ufficiali dei generi letterari, apprezzano l’umorismo, adorano i giochi
di parole... ».
Il bambino è un vero laico, non è né «clericale» né «laicista»,
non è neanche fondamentalista, perché tutto vuole verificare. Ha un po’
dello scienziato, curioso di sperimentare e insieme portato a sistemare,
definire, con le sue fresche e irriverenti considerazioni. È
intellettualmente coraggioso. Impara, cioè.
Allora: vogliamo davvero svecchiare il nostro sistema di istruzione? Non
facciamo andare a male il bambino, non allontaniamoci da lui. E invece la
nostra scuola secondaria, piano piano, ha finito per sopprimere il bambino. Si
è ministerializzata, irrigidita, un po’ incallita. Badate che è
difficile ministerializzare i bambini. E di fatti le elementari sono in parte
riuscite a sottrarsi alla morsa del neoidealismo detuttivista. Merito degli
insegnanti, delle maestre, ma soprattutto della forza incontenibile del
bambino. Anche perché la sua anima allo stato naturale non differenzia l’anima
del ricco da quella del povero. E in una classe elementare si trovano bambini
ricchi e poveri. E questa mistura è stata essa stessa un arricchimento,
perché così l’ambiente diviene assai più adatto all’apprendimento
di un ambiente di apartheid. Educa alla democrazia, alla civiltà, ai
buoni sentimenti, e insieme - fondamentale - ci si impara di più un
ambiente bambino.
Ma nella scuola secondaria ministerializzazione, autoritarismo didattico (e,
diciamolo, inconfessata intenzione classista), sono riusciti ad allontanare il
bambino, e cioè allontanare l’apprendimento come centro vero
dell’istruzione. Sull’apprendimento ha prevalso l’insegnamento. Anche con
taluni successi, in qualche caso e per qualche tempo, ma sempre per percentuali
assai basse di alunni. Ma la centralità del solo insegnamento ha spento
la potenzialità e la potenza discente dei più.
Questa nostra istruzione ha reciso sapientemente le corde vibranti
dell’apprendimento che il bambino simboleggia, e cioè
l’espressività, l’emotività, la curiosità, la passione. Ha
escluso l’arte dalla scuola. Voi non ci crederete, ma è così: ha
escluso l’arte. Forse perché essa è pratica e quindi non fa parte della
cultura (!) non mi si fraintenda: non parlo della storia dell’arte (anche
quella) ma della espressività artistica vera e propria. Ha spento la
propria personale creatività artistica. Entrate in una scuola elementare
e guardate quei deliziosi disegni che ne tappezzano le pareti ridenti. Il
bambino vuole dipingere o cantare, e purtroppo non lo si sostiene abbastanza in
questo. Crescendo, però, queste emozioni vengono definitivamente spente.
Si spegne la passione, quella che Rodari definiva «capacità di
resistenza e rivolta, volontà di azione e dedizione, il coraggio di
sognare in grande». Si spegne così l’amore per il bello, per il ridere
insieme. Ancora Rodari (scusatemi l’abuso): «Nelle nostre scuole si ride poco.
L’idea che l’educazione della mente debba essere una cosa tetra e la più
difficile da combattere».
Questa stessa nostra vecchia istruzione ha anche escluso l’osservazione
scientifica, ha trasformato la natura e la scienza in carta, ha spento la
curiosità scientifica. Ha di nuovo allontanato il bambino. Ed ha
così indebolito anche un altro aspetto essenziale dell’istruzione,
l’educazione alla cittadinanza.
Più di chiunque il bambino, infatti, vive la comunità educante
come l’ambiente proprio, di essa è il sale e il pepe, l’anima.
Più di altri il bambino sente il bisogno di comunità, di
socializzazione, ne assorbe la regola. Ha bisogno di modernità.
Più di altri si avvantaggia della democrazia, delle cresciute
libertà dei giovani e dei bambini, e sono anche forza dissacrante
dell’autoritarismo adulto; è più moderno e divora e domina la
tecnologia ne scopre potenzialità creative e risorse ludiche. Si
avvantaggia dell’intreccio fra democrazia antiautoritaria e moderne
opportunità e potenzialità tecnologiche fino a prendersi una
rivincita storica: pretende di essere anche lui, almeno un po’, ad insegnare
agli adulti. E già, perché domina il mezzo assai più di loro.
Divertente: il bambino rischia di trasformare la gerarchia autoritaria e unidirezionale
«cattedra-banco» in un vero e proprio circuito apprendimento-insegnamento, in
un processo circolare (o quasi) un tantino dissacrante dell’autorità
docente. Obbliga gli adulti a svecchiarsi, darsi una mossa, pena la brutta
figura. Il suo coraggio spericolato e la maturazione di inedite abilità
cognitive sono le carte vincenti della riscossa del bambino.
Attenzione però. La nostra grande Italia gerontocratica, ove un
quarantenne ricercatore universitario è considerato un giovinetto;
l’Italia dell’amarezza e del tetro piagnisteo, che non vede altro che bulli
fricchettoni e rockettari, che pretende che tutto piova dall’alto e meno si
ingegna a risolvere un po’ da sé; la nostra vecchia Italia può ancora
uccidere il bambino. Può conservare un’istruzione scolastica deduttiva,
come ai bei tempi antichi.
Stia attenta però questa vecchia Italia popolata di amareggiati e
nostalgici, perché i bambini sono coraggiosi, testardi, curiosi ed
inguaribilmente ottimisti. A scuola vogliono giocare, ridere, provare gioie ed
emozioni, passione. Invocano il ricordo e il rispetto dell’insegnamento di
Bambini italiani assai grandi, anche loro messi da parte da adulti piccini,
neoidealisti tardogentiliani, fra i quali Maria Montessori, Gianni Rodari, Emma
Castelnuovo, Loris Malaguzzi e Don Milani. Ce la faranno i bambini a vincere la
partita? Mi pare che ci stiano provando, che si stiano mettendo in marcia. Vedo
qualche buon segnale nel governo, i contenuti e i metodi - che sono il 90 per
cento della scuola - possono tornare così al centro del dibattito e
delle politiche scolastiche.
Pubblicato il: 25.07.07
TORINO -
Un software per spiare il telefono cellulare di un'altra persona, leggendo gli
sms e controllando le chiamate. Sei persone sono indagate a Torino per aver
intercettato, illegalmente, moglie e mariti in cerca di prove di
infedeltà. Ma l'inchiesta della guardia di finanza di Vicenza potrebbe
andare ben oltre una questione di gelosia coniugale: in tutta Italia sono state
portate a termine 120 perquisizioni, per un totale di persone coinvolte che
potrebbe toccare quota cinquecento.
Nel mirino dell'indagine delle Fiamme Gialle c'è un programma prodotto
dall'azienda vicentina Access Group: un software in vendita a 500 euro che
permette di tenere sotto controllo qualsiasi cellulare. E di leggere i
messaggi, controllare la rubrica e gli ultimi numeri chiamati, ma anche di
ascoltare le telefonate se ci si trova a meno di 5 metri di distanza nonché di
localizzare la posizione dell'apparecchio.
Nel solo Piemonte sono state perquisite sei abitazioni: quella di un torinese,
per esempio, che ha ammesso di aver usato il programma per controllare una
moglie. Voci raccontano anche di un caso davvero incredibile: la guardia di
finanza si sarebbe imbattuta in una coppia in cui moglie e marito, una
all'insaputa dell'altro, si controllavano a vicenda. Per le sei persone
indagate si ipotizza il reato di "installazione di apparecchiature atte a
intercettare comunicazioni telefoniche", previsto dall'articolo 617-bis
del codice penale e punito con il carcere fino a quattro anni.
In tutta Italia, poi, le perquisizioni sono state ben 120: storie di corna,
certo, ma anche di spionaggio di altro tipo e più gravi. A questa prima
fase di inchiesta, ne dovrebbe seguire un'altra fino a coinvolgere 500 persone.
Il titolare dell'azienda che produce "la cimice" è stato
indagato, assieme ad altri, per l'ipotesi di associazione a delinquere.
(25 luglio 2007)
CORRISPONDENTE
A NEW YORK Hillary
Clinton vuole dimagrire, Barack Obama si fa beffa del proprio nome, Rudolph
Giuliani ammette di subire fulmini divini e Mitt Romney parla come un poligamo.
A sette mesi dall’inizio della campagna i candidati alla Casa Bianca
scommettono sull’humor per far colpo su un elettorato che non ha ancora scelto
i propri paladini. Con i sondaggi che descrivono gli americani divisi su tutto
tranne il valore dell’humor - importante per l’83% - la gara fra i contendenti
è a chi riesce a far ridere di più, soprattutto di se stessi.
L’ex First Lady ha guadagnato molti punti quando durante un forum sui temi
della fede alla domanda «per che cosa prega?» ha risposto «Oh Signore, perché
non mi aiuti a dimagrire?». Ma il repubblicano Mike Huckabee ha saputo esserle
all’altezza: alla domanda «Quanto tempo è servito a Dio per creare il
mondo?» ha replicato con un secco: «Non lo so, io non c’ero».
La scelta dei candidati è in genere di sfruttare i propri punti deboli,
per esorcizzare gli affondi degli avversari. Obama intrattiene il pubblico sui
guai causatigli dal proprio nome: «C’è chi mi chiama Alabama e chi
Yo-ma, storpiando il nome del noto musicista, e tutti vogliono sapere perché
porto questo nome, rispondo che è una via di mezzo fra mio padre, venuto
dal Kenya, e mia madre, del Kansas». Mitt Romney, repubblicano doc, sa di avere
il tallone di Achille nella fede mormone e ha pensato di riderci sopra: «Credo
fermamente nel fatto che il matrimonio debba essere fra un uomo e una donna,
...e una donna, ...e una donna».
Per Hillary il punto debole sono i tradimenti di Bill e lei se la cava con un
«mi trovo a mio agio con uomini cattivi e malefici». John Edwards ha
esorcizzato il conto da 400 dollari di un barbiere spiegando perché mangiava
fast food: «Se spendi in capelli ti resta poco per il cibo». In comune Obama e
Romney hanno l’humor sulle consorti. «Ogni volta che mi trovo a prendere
decisioni difficili prego, amen, e poi chiedo a mia moglie, amen, e dopo aver
consultato queste due grandi potenze...», ha detto il senatore dell’Illinois
rendendo omaggio al carattere della moglie Michelle. Romney ha messo in scena
un duetto con la moglie Ann: «Avresti mai pensato che potessi candidarmi
presidente?», «Mitt, non sei mai stato nei miei sogni migliori».
Per Rudolph Giuliani, candidato di punta dei repubblicani, il momento
dell’humor è arrivato in diretta tv: un fulmine ha fatto saltare l’audio
del suo microfono mentre spiegava i disaccordi con i vescovi sul diritto di
aborto e lui ha colto l’attimo dicendo «per chi come me è andato in
parrocchia tutta la vita quanto avvenuto mette davvero paura». Come dire: il
fulmine divino è stato un rimprovero. E Il gaffeur per eccellenza
è Joe Biden, senatore democratico, che ha detto al rivale Dennis
Kuchinich: «L’unica cosa che ti invidio è tua moglie», una britannica
alta 1 metro e 80, e 29 anni più giovane del marito.
Cara Europa, nel suo intervento di
martedì, Rosy Bindi rivendica un «bipolarismo governante», e per questo
«è necessario cambiare la legge elettorale [...] ma il consenso in
parlamento va cercato a partire da un accordo nel centrosinistra».
Perché «assi preferenziali tra una parte del centrosinistra e una parte del
centrodestra hanno più il sapore di sospettosi accordi politici che di
chiari e doverosi dialoghi istituzionali ». Ma l’atteggiamento per cui ogni patto
sulle regole è un “inciucio” non è il limite del bipolarismo? Non
c’è bisogno prima di tutto di una cultura politica? ROBERTO MAGURNO,
EMAIL
Caro Roberto, le dico la mia personale
opinione sul sistema elettorale.
Non sono un fanatico del bipolarismo coatto all’italiana e, men che meno, del
bipartitismo “perfetto” all’americana: due eccessi da immaturità o
senescenza, che notoriamente s’incontrano. Sono per un sistema che tenda al
bipolarismo – come in Inghilterra, Francia, Spagna, Germania, le grandi democrazie
liberali d’Europa – senza strangolare partiti, storie e idee, ma spingendoli
alla selezione naturale.
Sopravvivono i più validi, gli altri si adattano. Nel doppio turno
francese di poche settimane fa il partito “centrista” di Bayrou, che aveva avuto
oltre il 18 per cento al primo turno, è entrato nell’assemblea
nazionale, dopo il secondo turno, con quattro deputati. Si sono salvati,
così, sia il bipolarismo (gollisti e socialisti), sia il pluralismo
delle rappresentanze; sia la saldezza del governo in parlamento. In Gran
Bretagna (uninominale, o maggioritario secco) oltre a laburisti e conservatori,
anche liberali, scozzesi, socialdemocratici, ecc.
prendono qualche seggio ma non intralciano il meccanismo bipolare: né il
premier, come del resto in Spagna, viene eletto “direttamente dal popolo” ,
come si dice con formula sciocca: egli è il capo del partito che
direttamente dal popolo (se no da chi?) ottiene il maggior numero di voti.
Il sistema tedesco, al quale va oggi la mia preferenza, consente a tutti di
partecipare, ma taglia le gambe a chi non salta il 5 per cento. È
così che si sono selezionati, come organismi più idonei per
storia e modernità, i democristiani (nazionale e bavarese) e i
socialdemocratici, più i liberali, che a fatica saltavano l’asticella, e
poi i verdi. Socialdemocratici e dc hanno governato quasi sempre da soli, a
volte con un alleato minore, raramente insieme in regime di grande coalizione.
Tutto questo non ha mai tolto forza al governo del cancelliere (i cui poteri
non dipendono dai regolamenti parlamentari: ha visto lo sconcio di
martedì sera al senato sulla mozione di politica estera?). Insomma, mi
sembra che il sistema tedesco offre insieme il meglio della proporzionale (la
rappresentatività) e il meglio del maggioritario (la
governabilità).
Ma dev’essere, appunto, sbarrato, se no si finisce a Weimar o al “porcellum”
che ha ridotto l’Italia al governo di 13 partiti. Il referendum (che ho firmato
come assicurazione sulla vita) farebbe piazza pulita di questa immonda canizza,
ma poi la riprodurrebbe, perché le liste vincitrici sarebbero in realtà
superliste di partiti coatti, pronti a ridividersi dopo. Per evitare il
referendum, il parlamento deve fare una legge tendenzialmente bipolare, e si
pensa appunto al modello tedesco. Ma dev’essere vero modello tedesco, non una
truffa all’italiana che permetterebbe di entrare in parlamento superando lo
sbarramento in una o due regioni.
Imbroglio, stella polare della casta politica.
Roma ro.ro. Appena due mesi fa si erano
lasciati, in malo modo, ma un insolito destino li ha riuniti. Cesare Geronzi e
Matteo Arpe, rispettivamente presidente ed ex amministratore delegato, sono
stati entrambi rinviati a giudizio a Parma nell'ambito di un filone del
processo per il crack del gruppo Parmalat. Al primo vengono contestati il
concorso in bancarotta e usura, al secondo solo il concorso in bancarotta. La
storia è nota ed è quella della cessione delle Acque Ciappazzi
dal gruppo Ciarrapico a Parmalat. Secondo quanto hanno sostenuto Calisto Tanzi
e Fausto Tonna, l'ex patron e l'ex direttore finanziario della società
di Collecchio, Parmalat sarebbe stata costretta a comprare l'azienda, che aveva
un valore praticamente nullo, da Capitalia per continuare ad avere
finanziamenti da parte del gruppo romano. "La lettura dei verbali ... - si
legge nel decreto che dispone il rinvio a giudizio di Geronzi - convince questo
giudice dell'esistenza di uno strapotere decisionale di Geronzi che tutti
indicano senza nominare come colui che "ha deciso"". È
vero - va avanti il decreto recuperato da Radiocor - che "come afferma con
forza la difesa di Geronzi non vi è un documento, un atto, una lettera
che comprovi la decisione di concedere il finanziamento bridge (ponte,
ndr), ma ciò non fa che avvalorare la tesi dell'accusa secondo cui
bastava un colloquio informale a latere del consiglio di amministrazione per
dare l'input alle strutture bancarie di giustificare in qualche modo il
sostegno finanziario a Tanzi. Non si spiegherebbe in altro modo - continua il
decreto - tutta la fretta, la caoticità, le irregolarità che
connotano l'erogazione del bridge loan: bisognava far così sia perché
Tanzi ne aveva bisogno, sia perché soprattutto, ne aveva bisogno l'istituto
bancario per chiudere la vertenza ciarrapico". Quanto ad Arpe, il cui
ruolo è di fatto "secondario e subordinato", il suo
"contributo va sicuramente ridimensionato alla luce del chiaro
atteggiamento oppositivo mostrato in occasione della prospettiva di erogazione
del finanziamento alla Hit (la holding del turismo del gruppo Tanzi,
ndr), quando egli aveva ritenuto non sussistenti le condizioni
economico-patrimoniali sufficienti per l'erogazione". D'altro canto,
"anche Arpe si rendeva conto che il denaro erogato (a Parmalat, ndr) era
destinato alla Hit e che pertanto l'escamotage attuato era più prudente
per l'istituto di credito". Quindi, "l'atto di assenso" (al finanziamento,
ndr).... è sufficiente per poter sostenere l'accusa in giudizio".
Per Geronzi, che presenterà ricorso in Cassazione, è comunque una
bella tegola. Un rinvio a giudizio per il nuovo presidente di Mediobanca non
è un bel biglietto da vista da esibire alla comunita finanziaria. Anche
perché Geronzi ha già una condanna di primo grado, sempre per concorso
in bancarotta, per il caso Bagaglino - Italcase. All'estero, come in Italia,
poco conosciuto. Parmalat è però un'altra cosa.
+ Il Sole 24 Ore 25-7-2007 Processo Parmalat, rinvii a
giudizio per Tanzi, Tonna e Geronzi
L’Unità 25-7-2007 Totò antimafia Marco
Travaglio
MILANO -
La procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio per l'ex governatore della
Banca d'ItaliaAntonio Fazio,
Giampiero Fiorani, l’ex numero uno della Banca popolare italiana, l'ex numero uno
di Unipol Giovanni Consorte, per il finanziere Emilio Gnutti. In tutto circa
una settantina di persone e nove società nell’ambito dell’inchiesta sui
tentativi di scalata ad Antonveneta. La procura ha chiesto anche cinque
patteggiamenti mentre sono dieci le richieste di archiviazione. L’inchiesta
è condotta dai pubblici ministeri Fusco, Greco e Perrotti, che
constestano a vario titolo a gli indagati i reati di associazione a delinquere,
aggiotaggio manipolativo informativo, ostacolo all'attività di vigilanza,
riciclaggio e appropriazione indebita.
25 luglio 2007
L'ex patron Calisto Tanzi e Fausto Tonna,
ex numero uno e direttore finanziario della Parmalat, sono stati rinviati
giudizio nell'ambito del filone principale del processo sul crac da 14 miliardi
dell'azienda alimentare. Questo l'esito dell'ultima udienza preliminare, che si
è svolta a Parma. Rinvio a giudizio anche per Cesare Geronzi, neo
presidente del consiglia di serveglianza di Mediobanca e numero uno di
Capitalia, imputato per bancarotta e usura nel filone Ciappazzi del
procedimento. Nello stesso filone rinvio a giudizio anche per l'ex
amministratore delegato di Capitalia, Matteo Arpe.
Il gup Domenico Truppa ha mandato a giudizio altri 21 imputati, tra cui
Giovanni Tanzi, fratello di Calisto, Luciano Silingardi, ex presidente della
Fondazione Cariparma, Domenico Barili, ex direttore marketing di Parmalat.
Semaforo verde, quindi, al dibattimento. Di fronte al Gup Domenico Truppa si
sono ritrovati gli avvocati di 66 imputati che rischiavano di andare a processo
per le vicende legate al crack da 14 miliardi del gruppo alimentare di
Collecchio. Altri 16 imputati hanno chiesto di patteggiare la pena. Dalla
lettura dell'ordinanza, "sbilanciata" a favore delle tesi
dell'accusa, emerge che la tesi avvalorata è quella del «Non potevano
non sapere», riferito in primis all'entourage dell'ex patron Calisto Tanzi.
Danni morali, rimborsi per 40 milioni ai
risparmiatori. Il Gup ha anche stabilito in 40 milioni di euro il
rimborso per danno morale che andrà ai 32 mila risparmiatori del gruppo
bancario SanPaolo-Imi e ad altri 3 mila, per un totale di 35 mila
risparmiatori. Lo ha riferito l'avvocato difensore del Gruppo SanPaolo-Imi,
Carlo Federico Grosso. I 40 milioni, ha spiegato Grosso, sono il 10% di quanto
investito dai risparmiatori, ovvero 400 milioni di euro. Dovranno rimborsarli
ai risparmiatori Luciano Del Soldato, ex direttore finanziario di Parmalat,
Giampaolo Zini, inventore del Fondo Epicurum e Maurizio Bianchi, revisore tra
il '94 e il 2001 di Parmalat. L'avvocato ha fatto anche notare che si tratta di
un «precedente importante».
Il processo Parmalat è stato diviso in tre tronconi principali: Parmalat
(32 imputati che potrebbero essere rinviati a giudizio), Parmatour (33
imputati, di cui otto in comune
con il processo principale) e Ciappazzi (con Geronzi, presidente di Capitalia,
accusato di concorso in bancarotta e usura, più altri sette imputati).
Ma anche in due sottofiloni: il processo per riciclaggio e la presunta truffa
all'Emilia-Romagna Factor, una società di factoring bolognese
(complessivamente tre imputati). Il dibattimento ha coinvolto in diversi modi
108 persone, più due posizioni archiviate per morte dell'accusato: il
finanziere milanese Gian Mario Roveraro, rapito e ucciso per altre vicende un
anno fa, e Pier Giovanni Marzili, sindaco di due società della galassia
Parmalat, imputato solo di bancarotta.
Scontato il rinvio a giudizio dell'ex patron Calisto Tanzi, che nei mesi scorsi
ha provato a patteggiare cinque anni di reclusione, un terzo di quanto rischia
in caso di condanna. Tanzi è accusato di bancarotta fraudolenta e
associazione per delinquere. Da quest'ultima imputazione la sua difesa ha
chiesto il proscioglimento. Stesso discorso per l'altro protagonista del crack:
Fausto Tonna. L'ex direttore finanziario della Parmalat dai bilanci truccati e
dai conti correnti scoperti, con le sue rivelazioni ha svolto un ruolo
importante nelle indagini del pool di magistrati parmigiano. Senza Tonna
trovare il bandolo della matassa del buco di bilancio da 14 miliardi di euro
sarebbe stato molto più difficile. Anche Tonna ha chiesto di patteggiare
la pena, ma non gli è stato concesso.
Tanzi sarà presente al dibattimento. Uno
degli avvocati di Tanzi, Giampiero Biancolella, ha assicurato che l'ex numero
uno di Parmalat sarà sicuramente presente al processo dibattimentale.
«Di certo, non ci aspettavamo una sentenza di non luogo a procedere. Abbiamo
raggiunto già in questa fase l'obiettivo che ci eravamo prefissati
quello di un processo più unitario possibile. Al dibattimento
approfondiremo angoli ancora da scandagliare. Ossia tutto il periodo che va
dall'ottobre del 2002 al default, periodo che merita approfondimento.
Depositeremo anche una lista testimoni». A chi gli chiedeva perché Tanzi non
abbia voluto fare il rito abbreviato Biancolella ha risposto: «Vogliamo il
dibattimento, dobbiamo difenderci in Aula davanti a tutti».
ROMA - "Necessaria, ma non sufficiente
". Così Giulio Tremonti considera una nuova legge elettorale. Che
comunque, confida, "si farà". Anche perché il referendum,
ritiene il vicepresidente di Forza Italia, "non risolve i problemi" di
un Paese dove il potere è ormai, dice, in "dissoluzione". Al
seminario su politica e antipolitica organizzato domani dall'Aspen,
associazione tradizionalmente sede di confronto bipartisan sui tempi più
spinosi, il suo presidente, Tremonti, è pronto ad alzare l'asticella del
confronto con l'opposizione. Partendo dalla seguente affermazione: "In
questo principio di secolo nell'Europa continentale la questione del potere dei
governi è divenuta centrale. I popoli chiedono cose che i governi non
sono più in grado di garantire. Nell'altro secolo la democrazia serviva
per limitare il potere dei governi, per ridurre il rischio di eccessi. Adesso
è il contrario, non una questione di eccesso, bensì di deficit di
potere ". Anche in Italia? "Credo che l'Italia rappresenti un caso
particolare, ma in un contesto generale. Se uno guarda la carta geografica
dell'Europa continentale, vede che la meccanica politica si sviluppa e accelera
sulla questione del potere. La democrazia deve rimanere ma il potere dei
governi deve crescere proprio per conservare la democrazia con risposte
più efficaci alla domanda che viene dai popoli. Le dinamiche sono
essenzialmente due: o il potere viene concentrato orizzontalmente o viene
incrementato verticalmente ". Che differenza c'è? "La concentrazione
orizzontale del potere si ha con le grandi coalizioni. Da eccezione tedesca,
questa sta diventando la formula democratica prevalente in Europa. Dalla
Germania all'Austria, all'Olanda..." E qual è la sua spiegazione?
"Le crisi sociali ed economiche prodotte dai fenomeni straordinari che da
fuori investono l'Europa continentale, sempre più vecchia, sempre
più spiazzata, non possono essere risolte con formule ordinarie, con il
50 virgola zero qualcosa per cento. Se vuoi un governo che sia insieme democratico
ed efficiente metti insieme su un'agenda economico-sociale comune la
maggioranza e l'opposizione. La destra e la sinistra". Così la
grande coalizione non è solo la fine del bipolarismo, che inseguiamo da
più di dieci anni, ma anche della politica per come l'abbiamo sempre
intesa. O no? "No, affatto. In Europa la grande dividente tra destra e
sinistra non è più sul modello di economia, visto che più
o meno tutti convergono sull'economia di mercato, ma è sulle diverse
visioni della società. E qui la politica prosegue nella dialettica tra
destra e sinistra. La differenza è sui valori, sui principi, sulle
identità, sul concetto di progresso, sui limiti della ricerca. Non per
caso le grandi coalizioni mettono in comune i temi economici e sociali lasciando
fuori gli altri". Italia a parte, restano comunque in Europa significative
eccezioni dove questo modello non riesce ad attecchire. Per esempio la Francia.
"Dove si sta sviluppando un fenomeno nuovissimo: l'incremento verticale
del potere. Per Nicolas Sarkozy o per la sua politica non basta una vittoria al
53%, non bastano neppure i poteri del presidente della Repubblica francese, che
sono come i poteri del presidente della Repubblica italiana sommati a quelli
del capo del governo italiano. Se è permessa un'immagine, le prerogative
che ha Napolitano più quelle che aveva Berlusconi". Pura ingordigia
di potere? "No. Soltanto che per fare una politica efficace Sarkozy
pianifica il passaggio dalla Quinta alla Sesta repubblica, intesa questa come
sistema costituzionale capace di reggere la sfida della modernità. La
dinamica politica tedesca è orizzontale, quella francese è
verticale. Entrambe sono democratiche. Entrambe proprio per essere democratiche
aumentano il potere dei governi. Più potere ai governi a fronte di
più domanda di governo che viene dai cittadini ". E la dinamica
italiana, com'è, geometricamente parlando? "In Italia c'è la
dinamica opposta. Non la concentrazione, non l'integrazione, ma la dissoluzione
del potere. Le nostre istituzioni si stanno consumando per interazione
reciproca. La debolezza del governo si trasmette al Parlamento e la debolezza
del Parlamento si trasmette al Paese. Prodi mi sembra un disperato che guida un
autobus tenendo per ostaggio un pezzo della classe politica e quel che resta
delle ideologie del Novecento". Forse quell'autobus è anche
costretto a guidarlo, non crede? "è difficile dire dove si ferma il
patetico e dove inizia il tragico, perché in realtà sull'autobus non ci
sono soltanto i suoi compagni di viaggio destinati a restare senza ritorno: chi
sarà rieletto, quanti saranno rieletti? Sotto l'autobus ci sta finendo
tutta l'Italia". Difficile attribuire la dissoluzione del potere soltanto
a Prodi, che è al governo da poco più di un anno. Per cinque
anni, prima di lui, ci sono stati il governo di centrodestra e un'altra
maggioranza politica. Per inciso, la sua. "Concordo. All'intensità
di questa dinamica degenerativa non corrispondono certo solo causalità
uniche o solo causalità semplici. Ma c'è un punto essenziale, che
è una responsabilità personale morale di Prodi e del suo
governo". Che c'entra adesso la moralità? "Prodi non ha
indicato soluzioni precise, ma si è presentato agli elettori con un
programma fatto da un preciso elenco di grandi problemi. Non ha vinto, ha pareggiato,
ma ha preteso di governare lo stesso. Ha preteso di governare grandi problemi
con minimi numeri: lo zero virgola zero qualcosa. Questa è la profonda
amoralità politica, l'avventurismo che caratterizza il governo Prodi.
Questa è la causa della paralisi in atto. L'unica cosa che si muove
nella politica italiana è la dissoluzione". La legge elettorale
varata dal centrodestra viene indicata anche all'interno dell'opposizione come
la causa principale dell'ingovernabilità. Il referendum è un
rimedio? "La colpa non è della legge, ma della mancata vittoria. Se
hai più 24 mila voti alla Camera ma meno 200 mila voti al Senato non
c'è legge elettorale che trasformi un vuoto in un pieno. In
realtà, mentre negli altri Paesi all'intensità dei problemi
politici corrispondono proporzionalmente la novità e la serietà
delle soluzioni in campo, in Italia è l'opposto: i problemi sono
più gravi, ma le soluzioni più deboli. Il referendum stimola il
Parlamento, ma non risolve il problema dell'asimmetria di maggioranza fra
Camera e Senato e non elimina i partitini con la soglia di sbarramento. La
Costituzione garantisce agli eletti un mandato senza vincolo. è
così che i partitini prima si immergeranno nelle coalizioni più
grandi e poi riappariranno in Parlamento nella forma di gruppi-partito".
Per questo bisogna cambiare le regole. Non crede che a questo punto sia una
strada obbligata? "Credo che, referendum o no, la legge elettorale sia
necessaria e tuttavia non sufficiente. Per avere governabilità è
necessario che il voto politico si concentri su di una forza dandole una
vittoria molto marcata. Sono convinto che gli italiani siano intelligenti ed
esprimano con una buona legge elettorale un voto intelligente. In fondo
l'Italia è un Paese di centro che tende a destra e se uno legge i titoli
delle prime pagine dei quotidiani, tanto di politica quanto di cronaca, vede
che di fatto macinano voti per il centrodestra". Secondo il suo schema, un
Paese ideale per la grande coalizione. "Pur avendola proposta per primo
nel 2004 credo che per lungo tempo in Italia sia impossibile una grande
coalizione. Infatti la sinistra antagonista è troppo forte, troppo
attrattiva, troppo competitiva verso la sinistra governista ". Allora non
resta che imitare Sarkozy. "Difficile anche questo. E tuttavia basterebbe
una vittoria marcata per una delle coalizioni in campo. La Francia tenta il
passaggio dalla Quinta alla Sesta Repubblica, noi non siamo stati in grado di
cambiare la Costituzione della Prima. L'errore storico è stato
contrastare con il referendum del 2006 la nostra riforma costituzionale. Uomini
illuminati e disinteressati come Piero Ostellino, Sergio Romano e Angelo
Panebianco l'avevano invece sostenuta, pur prospettandone necessarie modifiche,
possibili a valle. Forse il punto di partenza e forse la speranza è
negli uomini di buona volontà". Auguri. Temo però che senza
una nuova legge elettorale si faccia comunque poca strada. "Nel 1998 ho
fatto una proposta di legge basata sul modello tedesco. Non per caso era
intitolata: "O il Cancelliere o il caos". Non era il modello tedesco
perfetto. Non lasciava spazio a ipotetiche maggioranze girevoli. Era fortemente
bipolare perché prevedeva il collegamento dei partiti a un candidato presidente
ed escludeva i ribaltoni togliendo ai ribaltonisti i finanziamenti pubblici e i
simboli elettorali". è applicabile ancora oggi? "Sì, in
teoria. In concreto, mi sembra più realizzabile la riforma cosiddetta
D'Alimonte, che elimina il rischio di maggioranze asimmetriche fra Camera e
Senato".
Il problema è tornato a Perugia dopo
che era emerso a Milano come a Parma. Quanto sia radicato il fenomeno tocca
alle forze dell'ordine indagare. Ovviamente, non vanno identificate le moschee,
i centri islamici con il terrorismo. Ciò nononostante la loro diffusione
per la natura della dottrina impartita, solleva non poche domande sia alla
nostra cultura occidentale e democratica come alla politica. Il presupposto per
l'apertura di una moschea secondo la visione occidentale è il diritto
alla libertà religiosa e di espressione. Per noi, questi due diritti
costituiscono il Dna dei nostri Stati democratici. Sono parte integrante della
laicità. Conseguenza? I nostri ordinamenti europei si fanno obbligo di
concedere e anche promuovere il diritto degli immigrati musulmani ad erigere i
loro luoghi di culto e di cultura islamica. È su questa linea che si muove
la Camera dei deputati nella proposta di "Norme circa la libertà
religiosa". Le norme cadono però in una inversione piuttosto
eccentrica in quanto pongono il principio della laicità a fondamento
delle libertà e non invece le diverse libertà quale costitutivo
della laicità. Ma non è questo il punto centrale della questione
delle moschee. Piuttosto l'errore dei nostri politici, degli amministratori
locali, della cultura e della mentalità comune sta nell'equiparare la
moschee ad un edificio di culto cristiano, cattolico o protestante oppure
ortodosso che sia. Anzi molti laici, tanto a destra e a sinistra, ritengono di
dover incrementare la presenza di altre religioni per equilibrare il peso della
religione cattolica in Italia. Ma il cristianesimo e la cultura occidentale, il
diritto europeo e i valori cristiani sostanzialmente, seppur non integralmente,
finiscono per coincidere sui diritti umani fondamentali. Di fatto la visione
della vita, della società civile, dello Stato non sono diametralmente opposti,
seppur in costante dialettica ed anche opposizione. Non è così
per l'Islam. Che significa concretamente? Che nelle mosche e centri islamici si
insegnerà ai fedeli, senza per questo essere terroristi o predicatori
violenti, una serie di principi sia teorici che pratici distanti e talvolta
opposti alla vita democratica del nostro Paese e dell'Occidente. Subito si
pensa alla sottomissione delle donne, ad alcune pratiche ancestrali interne al
matrimonio. In realtà sono spesso soltanto delle consuetudini, che
già alcuni stati islamici vanno modificando. Nella predicazione in
moschea invece è normale che un musulmano venga educato a considerare la
propria fede come l'ultima, la più completa, la più razionale.
Ovviamente quanti non la seguono, gli occidentali sia cristiani che non
credenti, sono su un piano di inferiorità. Diventare cristiano e non
credente per un musulmano è regredire ad uno stato inferiore. Ne deriva
l'obbligo di diffondere l'islam tra gli infedeli, se necessario, anche con la
forza. In queste condizioni chiedere la reciprocità in rapporto alla
libertà religiosa resta una pura utopia occidentale. La domanderà
un musulmano in un paese occidentale ma non è possibile l'inverso.
Inoltre per noi spogliarsi o attutire la propria identità, annullare i
simboli religiosi, è un atto - seppur maldestro - di tolleranza e
amicizia per non offendere chi ci sta davanti. In realtà viene colto
come un segno di capitolazione. Concretamente la libertà di coscienza
non esiste nell'Islam e l'esercizio di altre religioni è tollerato. Ora
se un iman insegna questo in una moschea, non fa predicazione di atti di
violenza fisica diretta, ma finisce per impartire una dottrina difforme dai
valori occidentali. Ecco la questione moschee e centri islamici.
Mentre ti sale lo sconforto e ti vien da
pensare che "questi sono come Berlusconi", una mano amica ti manda
un'intervista di Totò Cuffaro al Giornale di Sicilia. E ringrazi di
cuore Cuffaro, perché finché ci saranno lui e i suoi mandanti sarà
difficile per il centrosinistra, nonostante gli sforzi, diventare come
Berlusconi. Il governatore, fotografato senza la tradizionale coppola, annuncia
che la sua Regione "vuol entrare nella gestione dei beni confiscati alla
mafia, per accelerare il processo di assegnazione a enti o associazioni che li
sfruttino per promuovere sviluppo e legalità". E minaccia di
pubblicare ogni tre mesi "il bilancio trimestrale dell'attività
della Regione contro Cosa Nostra". È vero che, se Pomicino e Vito
fan parte dell'Antimafia, se Previti è onorevole, se Fiorani si propone
come difensore civico dei consumatori dalle truffe delle banche, se Pollari
è giudice del Consiglio di Stato e Pio Pompa dirigente della Difesa, se
Gianpaolo Nuvoli che voleva impiccare Borrelli in piazza è direttore
generale al ministero di Giustizia con delega ai diritti umani, manca solo
Fabrizio Corona garante della Privacy. Dunque anche Cuffaro, imputato per
favoreggiamento mafioso e indagato per concorso esterno in associazione mafiosa,
può partecipare alla lotta alla mafia. Non sarebbe la prima volta:
l'aveva già fatto il suo amico Francesco Campanella, il giovanotto a
mezzadria tra la politica (presidente dei giovani Udeur e del consiglio
comunale di Villabate sciolto 2 volte per mafia) e il clan Mandalà, che
fornì i documenti falsi a Provenzano per la trasferta ospedaliera a
Marsiglia e, quando si sposò, esibì come testimoni Cuffaro e
Mastella. Bene, Campanella era solito organizzare marce antimafia: premiò
pure Raul Bova per l'indimenticabile interpretazione del Capitano Ultimo.
Quindi non facciamo gli schizzinosi: se Cuffaro vuole lottare anche lui contro
la mafia, lo si lasci entrare. Tutto si potrà dire tranne che non si
tratti di un esperto del ramo. "Le procedure di assegnazione dei beni
confiscati alla mafia", sdottoreggia il governatore imputato, "sono
troppo lente. Ho chiesto al ministro degl'Interni di entrare nella
gestione". Così, fra l'altro, si garantirebbe la necessaria
continuità fra il prima e il dopo: l'assemblea regionale siciliana ha
sei deputati indagati per mafia e un vicepresidente arrestato. Se i beni
confiscati alle cosche passassero alla regione, nessuno noterebbe la differenza
e si eviterebbero pericolosi salti nel buio. Ma Totò Antimafia si spinge
oltre e promette "controlli preventivi nel sistema dei finanziamenti"
pubblici e dei fondi comunitari di Agenda 2007, "affinché le risorse siano
utilizzate al meglio evitando infiltrazioni mafiose". Anche perché
"ancora si incontrano difficoltà a ottenere, in sede di
assegnazione degli appalti, la certificazione antimafia". E meno male che
la certificazione non devono rilasciarla anche i politici, altrimenti lui
avrebbe qualche problemino. E così il suo spirito-guida Calogero
Mannino, imputato di mafia, adulterazione di vini e truffa allo Stato
finalizzata alla concessione di finanziamenti pubblici alla sua azienda
vinicola Abraxas, dunque senatore dell'Udc: ieri la Guardia di Finanza, su
ordine del gip di Marsala, ha sequestrato all'azienda beni per mezzo milione. Chissà
se Mannino aveva la certificazione antimafia: pare di no, visto che di recente
aveva dovuto dimettersi da presidente del Cerisdi, il centro studi palermitano
d'eccellenza, perché il prefetto gliel'aveva negata, tagliando fuori l'istituto
dai fondi pubblici. Mannino ottenne l'immediata solidarietà di
Buttiglione e Cesa, ma pure da Follini, ultimo acquisto del Pd: tutti sdegnati
contro il prefetto che osa negare il certificato antimafia agl'imputati di
mafia. Mannino, sobriamente, lo paragonò ai prefetti fascisti "che
mandavano al confino Gramsci e Pertini". Ora Totò illustrerà
i propri solidi meriti antimafia ("abbiamo finanziato la ristrutturazione
di un capannone da adibire a laboratorio di indagine chimica della polizia scientifica")
in un libro, ovviamente a spese della Regione: "Il nostro no alla
mafia". L'ultima volta che patrocinò un libro - un'enciclopedia
sulla Sicilia - incaricò Andreotti di compilare la voce "Salvo
Lima". Questa volta, per cambiare, potrebbe affidare la prefazione a
Dell'Utri. Uliwood Party.
Opinioni contrastanti tra i parlamentari
veronesi sull'accordo raggiunto tra Camera e Senato in merito ai tagli sui costi
della politica. L'iniziativa, presentata l'altro giorno a Montecitorio,
raccoglie gli applausi dei deputati e senatori del centrosinistra, mentre sono
critici i parlamentari del centrodestra. Il provvedimento prevede
l'innalzamento a 5 anni, anziché gli attuali 2 anni e sei mesi,
dell'anzianità minima per poter godere del vitalizio pensionistico.
Cancellata anche la possibilità di riscattare gli anni di lavoro
parlamentare mancanti in caso di scioglimento del Parlamento. Infine ai
deputati e senatori vengono tolti 3.100 euro utilizzabili per il rimborso di
viaggi studi all'estero. Cinzia Bonfrisco, senatrice di Forza Italia, spiega:
"È solo fumo negli occhi, sono nella commissione bilancio del
Senato e so che il costo dei parlamentari incide solo per il 12 percento
dell'intero bilancio. Ciò significa che le vere spese vanno ricercate
negli apparati, è lì che vanno fatti i tagli maggiori". La
senatrice appoggia la proposta del leghista Dario Fruscio che ritiene
necessario creare una commissione che identifichi in tempi rapidi gli sprechi
e le spese superflue. E fa un piccolo esempio: "Ogni parlamentare ha
diritto a ricevere una copia della Gazzetta Ufficiale, che costa 8 euro
più le spese di spedizione. E vi sembra indispensabile un barbiere
all'interno del Parlamento?". La Bonfrisco si dice "contraria al
privilegio previdenziale dei parlamentari, così come a tutte quelle
ingiustizie del tipo baby pensioni, ma se ci limitiamo a questi tagli significa
fare solamente della demagogia". Anche il deputato leghista, Federico
Bricolo, si dice critico, pur sostenendo che "tagli ai costi della politica
sono opportuni". Spiega infatti: "Più che altro sarebbe il
caso di tagliare il numero dei ministri, visto che questo governo detiene il
record di ministri e sottosegretari, ma anche, come già avevamo
proposto, ridurre il numero dei parlamentari eliminando il bicameralismo, che
è di per sè uno spreco". Bricolo è poi contrario
all'abolizione dei contributi figurativi perché sostiene che in questo modo
tutti sarebbero "attaccati alla poltrona per tutta la legislatura per non
perdere il vitalizio più che per il bene del paese". Lo ritiene
invece un buon accordo l'onorevole diessino Giampaolo Fogliardi che precisa:
"È un'ottima dimostrazione di sensibilità in un momento
difficile per la politica italiana". E aggiunge: "Voglio
pensare che sia un avvio a un risanamento laddove ci sono dispersioni e
ingiustizie senza andare a tagliare in modo strumentale". Fogliardi si
riferisce in particolare agli stipendi dei parlamentari che, si aggirano sui
13mila euro e che, tolti i contributi ai partiti, i costi per gli
alloggi romani e i compensi ai collaboratori, risultano essere non più
che "dei buoni stipendi, al pari di un direttore di banca". Accoglie
con favore l'iniziativa anche Tiziana Valpiana, di Rifondazione Comunista, che
però sottolinea: "Sono già diversi anni che si va verso i
tagli progressivi ai privilegi, poi sta anche alla coscienza del parlamentare
fare un uso etico dei rimborsi". L'accordo presentato l'altro giorno a
Montecitorio in una conferenza congiunta con il presidente del Senato, Franco
Marini, e della Camera, Fausto Bertinotti, prevede riduzioni alle pensioni e ai
rimborsi che porterà un risparmio annuo di decine di milioni di euro,
pari al 25 per cento dei bilanci attuali. Ammonterà a 40 milioni di euro
il risparmio alla Camera dovuto al taglio dei vitalizi, di cui 27 milioni
deriveranno dall'abolizione del riscatto della pensione in caso di scioglimento
anticipato delle Camere e due milioni di euro si recupereranno dai tagli ai
rimborsi per viaggi di studio all'estero. Attualmente sono 2.703 gli ex
parlamentari che godono di assegni vitalizi, 1.061 di essi ha corrisposto solo
5 anni di contributi. La spesa complessiva prevista dal bilancio 2007 per i
vitalizi della Camera supera i 129 milioni di euro e negli ultimi anni è
in costante crescita.G.C.
Si
tratta di capire in che modo. Per questo il Comune attende una riposta dalla
Prefettura, che interrogherà il ministero degli Interni per sapere come
applicarla. È, questo, l'esito della riunione, svoltasi ieri in
Prefettura, del Comitato provinciale per la Sicurezza, sull'applicazione del
Decreto legislativo 30 del 2007 che consente l'espulsione dall'Italia di
cittadini dell'Unione Europea che, 90 giorni dopo la loro prima
identificazione, non sono in grado di provvedere al sostentamento proprio e dei
propri familiari. Si tratta del decreto contro i "nullafacenti" che
tanto ha fatto discutere nei giorni scorsi in città. Uscendo dalla
riunione, a cui oltre al Prefetto Italia Fortunati hanno partecipato il
presidente della Provincia, Elio Mosele, il Questore Luigi Merolla, il
comandante provinciale dei carabinieri Georg Di Pauli, il comandante
provinciale della Guardia di Finanza Fabio Contini ed Eliano Pasini, della
Polizia municipale, Tosi ha dichiarato: "Il Prefetto formulerà al
ministero una richiesta di chiarimento per le modalità applicative del
decreto e in particolare per gli articoli che riguardano l'allontanamento per
ragioni di ordine pubblico, l'articolo 20, e per chi non dimostra
capacità di sostenersi, articolo 21. È una legge dello Stato e va
applicata". Tosi fa sapere che "ci sono diverse città italiane
che hanno chiesto alla prefetture come applicare questa legge in maniera
omogenea" e che ci sono casi recenti di cronaca che richiamano la
possibilità dell'applicazione. "Pensiamo", precisa il primo
cittadino, "al tentato furto alle cantine Bertani di Grezzana, compiuto da
tre persone straniere che in questo momento sono già a piede libero. Un
caso come questo potrebbe rientrare nella legge che noi chiediamo di applicare,
perché chi non lavora deve poter essere espulso. In riferimento all'articolo 21
potremmo anche avere una banca dati dei soggetti che non sono in grado di
sostenersi". Intanto, il Comune di Verona organizzerà presto un
incontro con alcuni Comuni della cintura extraurbana, con la partecipazione
della Provincia, per verificare la possibilità di coordinarsi nel far
applicare il decreto legislativo. Nella riunione il sindaco, oltre che sui
controlli ai phone center effettuati in questi giorni dalla Polizia municipale,
ha anche informato il Comitato per la sicurezza sull'intenzione di sgomberare
il Centro sociale La Chimica dall'ex scuola Perini, in Borgo Venezia.
"Abbiamo sollecitato lo sgombero anzitutto per ragioni di sicurezza, visto
che l'edificio è in condizioni fatiscenti e con presenza di
amianto", precisa Tosi, "e visto quanto è successo a Borgo
Venezia, con la Chimica che si è opposta a uno sfratto, anche per una
questione di ripristino della legalità". Il sindaco ha poi
aggiornato sul Piano di chiusura del campo Rom di Boscomantico, previsto per
metà ottobre. Tosi lunedì prossimo incontrerà i dirigenti
del Centro Don Calabria, per verificare il piano operativo da questo presentato
per integrare alcune decine di nuclei familiari sinora ospiti al campo. Altro
punto toccato è la campagna di informazione avviata da Comune e
categorie economiche contro il commercio abusivo, che prevede multe da 1.000
euro ai clienti, in programma a partire da agosto come manifesti e spot
radiotelevisivi. Il Comune ha informato anche su una manifestazione culturale
in programma sabato e domenica al laboratorio anarchico-gelateria occupata in
via XX settembre 97/b.E.G. Due ore di comitato per l'ordine e la sicurezza.
Certo i temi di cui discutere erano molti, ma soprattutto c'era quel decreto
legislativo numero 30 del 2007 che tanto fa discutere in questi giorni.
"In astratto è applicabile", ha detto il prefetto Italia
Fortunati, al termine della riunione fiume. La prefetto s'è però
riservata di porre la questione al ministero. "Abbiamo esaminato il
decreto", ha detto la rappresentante di governo, "studiato
soprattutto l'articolo 21 che prevede l'allontanamento per cessazione delle
condizioni che determinano il diritto di soggiorno e l'articolo 20, che
riguarda le limitazioni al diritto di ingresso e di soggiorno per motivi di
ordine pubblico", ha continuato Fortunati, "ci siamo dati un mese di
tempo prima del prossimo incontro. Per allora predisporremo la scheda che
dovrebbe essere compilata per dare inizio ai controlli". La scheda, per
ora in via ipotetica, potrebbe essere data alle forze dell'ordine per i
controlli che verrebbero fatti a campione, e agli uffici anagrafe nel momento
in cui il cittadino comunitario facesse richiesta di iscrizione. Nella scheda
andrebbero inseriti i dati della persona controllata, che poi dovrà
dimostrare di avere un reddito, un alloggio e di essere in grado di mantenere
sè stesso e i suoi familiari, se ne ha. "La questione va valutata
in maniera approfondita", ha aggiunto Fortunati, "prenderemo contatti
anche con il Comune di Milano, per confrontarci". Anche il vicesindaco di
Milano, infatti, ha chiesto al suo prefetto di far applicare il decreto
legislativo 30, nato per dare attuazione alla direttiva 2004/38 Ce e che
riguarda il diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare,
soggiornare liberamente sul territorio degli Stati membri. Il decreto prevede
che l'allontanamento sia adottato dal prefetto, secondo la residenza o dimora
del destinatario che ha non meno di un mese di tempo per lasciare il territorio
nazionale. Se chi è stato allontanato ha il divieto di reingresso, ma
torna in Italia, è punibile con l'arresto da tre mesi a un anno e con
l'ammenda da 500 a 5mila euro, e viene allontanato con accompagnamento
immediato. La decisione del sindaco Flavio Tosi di far applicare il decreto
aveva suscitato proteste e perplessità nei giorni scorsi. Secondo il
sindacalista del Siulp, Silvano Filippi, segretario regionale del sindacato di
polizia, il decreto non era applicabile. Il sindacalista aveva pesantemente
criticato il sindaco e la sua volontà. A.V. L'assessore provinciale alla
Sicurezza, Giovanni Codognola, deve dimettersi. Lo dicono gli esponenti del
centrosinistra in Provincia, che presenteranno una mozione alla prossima
riunione del Consiglio. Vincenzo D'Arienzo (Ds), Sergio Ruzzenente (Margherita)
e Paolo Andreoli (Rc) ritengono che il suo assessorato rappresenti un inutile
costo della politica. "In tre anni si è limitato ad elargire
piccoli contributi, grazie ad appena 13 delibere in tre anni", spiegano.
"Dopo 24 mesi dall'approvazione di un ordine del giorno con cui si
stabilivano le linee d'indirizzo e le iniziative sulla sicurezza del
territorio, nulla è ancora stato fatto e ne abbiamo informato il
prefetto, chiedendole di indagare", proseguono. "Ma la
responsabilità non è da attribuire al solo Codognola: il
presidente Elio Mosele ha istituito l'assessorato e poi non l'ha reso
funzionante per mancanza di fondi". Secondo la minoranza l'ex rettore
"chiede maggiori deleghe dalla Regione e non riesce a far funzionare bene
nemmeno quelle che già ha sulle scuole, sul lavoro e
sull'ambiente". In tema di sicurezza, Andreoli giudica quello della Lega
"un atteggiamento da grida manzoniane, mentre serve seria opera di
prevenzione". L'assessore Codognola replica: "Ho dovuto partire da
zero, battendomi anche contro il patto di stabilità per costruire una
base su cui lavorare seriamente. Ora ci stiamo riuscendo ed il prossimo
investimento di un milione di euro sulla tele sorveglianza in città e in
provincia lascia ben sperare". Chiude il presidente Mosele, che garantisce
di avere un costante dialogo con il prefetto. "La Provincia ha sempre
risposto alle richieste di collaborazione delle forze dell'ordine e della
Protezione civile, attuando quanto richiesto dal tavolo che si riunisce davanti
al prefetto". R.C.
AOSTA
L'opinione pubblica e i costi crescenti hanno indotto il primo cittadino
del capoluogo a passare, per i consiglieri comunali, dal gettone di presenza
all'indennità: "Nel 2004 – spiega il sindaco di
Aosta,Guido Grimod – abbiamo cambiato le modalità di compenso
perché ci siamo accorti che so-prattutto, nelle commissioni consiliari, il numero
di riunioni si gonfiava a dismisura e con esso la spesa totale". Secondo
Grimod, il problema è superato con il sistema dell'indennità
"perché stabilisce uscite certe". Nel 2007 un consigliere semplice
riceve 940 euro lordi al mese, ma il Presidente dell'assemblea civica 2.350,
4.700 gli assessori, 5.483 il vice sindaco e poco più di 7.800 il
sindaco. I compensi vengono riparametrati ogni anno secondo quanto stabilito
dalla legge regionale 23 del 2001: così nel gennaio scorso il Consiglio ha
confermato anche per l'anno in corso la riduzione del 10% dell'indennità
di funzione del sindaco rispetto a quella massima attribuibile, pari a 8.700
euro circa. Un provvedimento che riduce a cascata i compensi di tutti gli altri
amministratori. "Nell'approvare un bilancio imperniato anche su misure che
richiedono un maggior sacrificio ai cittadini per favorire il rilancio di Aosta
– ha dichiarato Grimod – sono state confermate per l'anno
in corso le indennità stabilite nel mese di dicembre del 2005". Nel
rendiconto del 2006 si registrano uscite per compensi agli amministratori per
84mila euro circa, spese di rappresentanza per 32mila euro e rimborsi spese
agli amministratori per quasi 61mila euro. E allo scopo di razionalizzare e
contenere i costi della politica, in particolare per ciò
che riguarda le indennità degli amministratori di Comuni valdo-stani, la
Giunta regionale della Valle d'Aosta ha affidato lo studio di soluzioni
possibili a un gruppo di lavoro misto, recentemente costituito, composto da
funzionari regionali e rappresentanti degli enti locali. "La normativa in
vigore – spiega il presidente della Regione, Luciano Caveri
– nell'agganciare le indennità degli amministratori locali a
quelle dei Consiglieri regiona-li, lascia ampio margine di autonomia ai
Consigli comunali nella determinazione delle indennità di funzione e dei
gettoni di presenza ai propri amministratori, ponendo, esclusivamente, dei
limiti massimi d'importo che sono poco conciliabili con le recenti disposizioni
statali e regionali volte a contenere i costi della politica".
Il gruppo di lavoro avrà il compito di proporre delle modifiche alla
legge regionale 23 del 2001 e nello stesso tempo ipotizzare degli interventi
sulle leggi regionali che regolano l'elezione e il funzionamento dei consigli
comunali. Ma il dibattito sui costi dell'amministrazione pubblica ha
coinvolto anche i dirigenti comunali. Secondo Ettore Viérin, consigliere di
opposizione per Forza Italia, il costo del personale è cresciuto in due
anni di un milione di euro. "La Giunta – afferma Viérin
– ha deliberato recentemente di erogare ai dirigenti e al segretario
generale il salario di risultato a cui si aggiunge la retribuzione di
posizione, raggiungendo così la cifra di 283mila euro".
"Nell'aprile scorso – minimizza il sindaco – ci siamo
limitati ad applicare il contratto collettivo regionale di lavoro, attribuendo
ai dieci dirigenti un'indennità di risultato di 1.600 euro lordi
l'anno". SOTTO LA LENTE La Giunta regionale ha costituito da poco un
gruppo misto di lavoro per ridurre le uscite in tutte le amministrazioni.
Tanto che anche la Procura di Milano, dopo
l'esposto presentato dall'Adusbef, ha acceso un faro. Il dossier è
all'attenzione dei magistrati milanesi, che stanno decidendo la strada da
seguire. Ieri per la seconda volta nel giro di qualche giorno c'è stato
un consiglio di amministrazione straordinario della banca. All'ordine
del giorno l'ispezione fatta dalla Banca d'Italia che ha chiesto
un aumento di capitale, il rinnovo del consiglio di amministrazione in carica e
lo stop a nuove operazioni "strutturate" con la clientela. Per
l'istituto, che nello spazio di pochi mesi ha bruciato 3 miliardi di euro di
capitalizzazione per le operazioni condotte dall'ex-amministratore delegato
Massimo Faenza, l'ennesima tegola. Che ha fatto crollare di nuovo il titolo. In
Borsa ha perso il 9,7% a 16,016 euro. Volumi scambiati da capogiro, pari al
9,4% del capitale. La performance di Italease ha trascinato al ribasso anche le
azioni del Banco Popolare (-4,4%), primo azionista con una quota del 30,7%
circa. E il futuro non è proprio roseo. Per gli analisti resta ancora
incertezza sul'esposizione della banca verso i derivati. Per ora si parla
di 730 milioni ma la cifra potrebbe lievitare. Lo strumento del derivato
è usato dalle banche per garantire dai rischi che potrebbero venire
dalle oscillazioni negative dei tassi di interesse: uno swap sui tassi, per
esempio, consente ad un'impresa, dietro pagamento di premi e commissioni, di
assicurare che non vi siano perdite qualora i tassi aumentino o diminuiscano.
Il fatto è che il derivato va maneggiato con cura perché è uno
strumento con una elevata dose di rischio. Italease con qualche suo cliente ha
omesso questo aspetto. Come ha ricordato lo stesso governatore della Banca
d'Italia, Mario Draghi, lo scorso 11 luglio, nel suo intervento
all'assemblea annuale dell'Abi: "Spingere i clienti ad assumere
rischi finanziari anziché a coprirli accresce il rischio di controparte, con
possibili perdite cospicue, fa emergere rischi legali e di reputazione, che
minano le prospettive di sviluppo dell'intermediario, possono giungere a
metterne in discussione la stabilità". Venerdì scorso il
consiglio di Banca Italease ha deliberato un aumento di capitale per un
importo di 600 milioni, elevabile fino a 700 milioni. Mediobanca si è
impegnata a garantire il buon esito dell' operazione così come tutti i
membri del patto (Bpvn, Bper, Antonveneta, BP Sondrio, Reale Mutua e Bpm) hanno
confermato l'impegno a sottoscrivere la quota di propria spettanza.
Superpoteri
alla Consob sulle informazioni riguardanti i prodotti finanziari e
derivati collocati sui mercati regolamentati e nuovi obblighi di comunicazione
a carico di banche, sim e società di intermediazione mobiliare. Il
ministero dell'economia ha infatti messo a punto lo schema di dlgs per
l'attuazione della direttiva 2004/109/Ce sulla trasparenza delle comunicazioni
riguardanti emittenti di valori mobiliari all'interno dell'Unione europea. Il
provvedimento, oggi al vaglio del pre-consiglio, mette nuovamente mano alla legge
Draghi (dlgs n. 58/1998) e fissa a 120 giorni il termine entro cui le
società quotate in borsa dovranno approvare il bilancio dopo la chiusura
dell'esercizio. Fermi restando gli obblighi e la tempistica prefissati dal
codice civile (art. 2429 e 156, comma 5) il conto economico dovrà essere
diffuso al mercato unitamente alla relazione finanziaria annuale comprendente
oltre al bilancio d'esercizio anche il bilancio consolidato, nel caso in cui
debba essere redatto, e la relazione sulla gestione. Entro 60 giorni dalla
chiusura dell'esercizio dovrà poi essere predisposta una relazione
finanziaria semestrale che includa il bilancio semestrale abbreviato e una
relazione intermedia sulla gestione. La relazione sul bilancio semestrale
abbreviato della società di revisione, precisa il testo, dovrà
invece essere pubblicata integralmente insieme con la relazione finanziaria
semestrale che dovrà essere trasmessa almeno 15 giorni prima della
pubblicazione al collegio sindacale e alla società di revisione.
Disposizioni più stringenti anche sulle modalità e i criteri di
redazione del bilancio semestrale abbreviato che dovrà essere
predisposto nel rispetto dei principi contabili internazionali contenuti nel
regolamento Ce n. 1606/2002. La relazione intermedia sulla gestione dovrà
invece contenere i riferimenti agli eventi più importanti che si sono
verificati nei primi sei mesi dell'esercizio e una valutazione della loro
possibile incidenza sul bilancio semestrale abbreviato. All'interno del
documento dovrà essere poi inserita una descrizione dei principali
rischi e delle principali incertezze legate all'andamento dell'ulteriore
semestre d'esercizio. Entro 45 giorni dalla chiusura del primo e del terzo
trimestre le società dovranno poi predisporre un resoconto intermedio
contenente una descrizione generale della situazione patrimoniale e
dell'andamento economico della società quotata e delle imprese
controllate oltre a un'illustrazione compiuta degli eventi e delle operazioni
realizzate nel periodo di riferimento con una specifica valutazione degli
effetti destinati a incidere sul conto economico dell'emittente e delle imprese
controllate. Sarà la Consob a stabilire, con appositi
regolamenti, modalità ed eventuali deroghe agli obblighi di
comunicazione e di trasparenza appena descritti. Il dlgs detta inoltre
specifiche disposizioni per la conservazione (storage) di questi dati da parte
di un sistema centralizzato accessibile anche alla consultazione da parte del
pubblico e che in alcuni casi potrà essere collocato presso la commissione
presieduta da Lamberto Cardia. Lo stoccaggio e la diffusione sui mercati delle
informazioni regolamentate in generale dovrà però essere gestito
direttamente dalla società interessata che potrà affidarlo a un
soggetto esterno autorizzato dalla Consob attraverso la stipula di un
apposito contratto di servizi. La violazione delle nuove norme sulla
trasparenza che riguarderà anche l'acquisizione di partecipazioni
rilevanti riferite alla detenzione di strumenti finanziari derivati comporterà
l'applicazione di sanzioni più severe ed esporrà l'emittente
anche alla sospensione o al divieto di negoziare azioni e quote di fondi
chiusi. riproduzione riservata
BRUXELLES. Dal nostro inviato Attilio
Geroni PARIGI. Dal nostro corrispondente "Finalmente è possibile
aprire una nuova era nelle relazioni tra Unione europea e Libia, approdare a un
accordo di partenariato del tipo di quelli vigenti con tutti i Paesi della
regione ". Così il ministro degli Esteri portoghese Luis Amado,
accanto al commissario Ue alle Relazioni esterne Benita Ferrero Waldner,
ha commentato la fine,dopo ben otto anni, dell'incubo delle infermiere bulgare
condannate a morte dal regime di Tripoli e liberate poche ore prima a Sofia. A
quale prezzo? "Bisogna capire che era in gioco la vita di sei
persone" ha risposto, visibilmente emozionata, la Ferrero-Waldner. L'aereo
della salvezza li aveva riportati a Sofia all'alba, dopo otto anni di prigionia
in Libia. Aveva il tricolore blu, bianco e rosso della repubblica francese e a
bordo, ad attenderli, avevano trovato i volti sorridenti di Cécilia Sarkozy,
della Ferrero- Waldner, e quello rassicurante di Claude Guéant, segretario
generale dell'Eliseo. Queste sono state le prime sensazioni forti di
libertà delle cinque infermiere bulgare e del medico palestinese,
sfuggiti a un destino di morte o carcere a vita grazie all'azione combinata
della diplomazia europea e di quella altamente personalizzata di Nicolas
Sarkozy e di sua moglie. La liberazione dei sei, accusati di aver inoculato
consapevolmente il virus dell'Aids a 438 bambini ricoverati nell'ospedale di
Bengasi dove avevano prestato servizio durante gli anni Novanta,era nell'aria
da lunedì. Già domenica sera l'aereo presidenziale francese
stazionava all'aeroporto di Tripoli in attesa che i colloqui di Cécilia, Guéant
e dell'inviato europeo con il leader libico Muammar Gheddafi portassero
all'accordo e alla liberazione. Difficoltà dell'ultimo minuto - in
particolare ulteriori richieste di aiuti finanziari da parte libica subito definite
"inaccettabili" dal Governo bulgaro - sembravano aver compromesso le
possibilità di una soluzione positiva. Invece lo sforzo finale
dell'insolita trojka diplomatica ha dato i suoi frutti. Anche se il prezzo che
l'Europa ha pagato e pagherà per ora resta piuttosto (e
volutamente) nebuloso, di sicuro il colonnello Gheddafi sarà più
che profumatamente ricompensato per il rilascio dei suoi ostaggi. Non solo
infatti pare assodato che l'Unione, attraverso i suoi Governi, imprese e
organizzazioni non governative, verserà il grosso dei 461 milioni di
dollari destinati a compensare le famiglie (un milione ciascuna) dei bambini
infettati dall'Aids. Contribuirà inoltre alla cura dei malati e
all'ammodernamento dell'ospedale di Bengasi. Ma c'è dell'altro. Un memorandum
sulle relazioni bilaterali firmato dal commissario Uee dal ministro libico per
gli Affari europei Abdelati Al-Obeidi prevede che l'Unione europea
prenderà le misure per favorire l'accesso al proprio mercato dell'export
libico, in particolare di prodotti agricoli e della pesca, finanzierà e
fornirà aiuto tecnico nel settore dei restauri archeologici,
dispenserà agli studenti libici borse di studio e formazione nelle
università europee, allestirà un dispositivo di sorveglianza
delle frontiere terrestri e marittime della Libia per combattere l'emigrazione
clandestina, distribuirà infine ai suoi cittadini visti Schengen in
cambio della soppressione dei visti per quelli europei. Un pacchetto di
concessioni sicuramente appetibili, nel quale stranamente brilla per assenza il
settore dell'energia. Un pacchetto di proposte che ora dovrà essere
sottoposto all'esame dei ministri degli Esteri Ue, che dovranno decidere
se concedere a Bruxelles il mandato a negoziare appunto l'accordo di
partenariato. L'occasione non si presenterà però prima di
ottobre. "Avevamo sperato di poter sottoscrivere il memorandum in tempo
per sottoporlo al Consiglio Esteri dell'altro ieri", ha commentato Amado.
Ma, ha aggiunto, l'accordo è arrivato fuori tempo massimo. Più
rapida del previsto è arrivata invece per le infermiere l'ultima buona
notizia.Poco dopo l'arrivo nella capitale bulgara, i sei volontari sono stati
graziati immediatamente dal presidente Georgi Parvanov - la loro condanna a
morte era stata comminata in ergastolo a Tripoli. Mentre da Parigi, in
contemporanea con la conferenza stampa del presidente della Commissione Ue
José Manuel Barroso, Sarkozy spiegava all'Eliseole dinamiche che hanno portato
all'accordo e il ruolo giocato dalla first lady: "Non si tratta di una
nuova forma di diplomazia - ha detto Sarkozy, che già oggi sarà a
Tripoli per incontrare Gheddafi e avviare il processo di normalizzazione dei
rapporti tra Ue e Libia. C'era un problema da risolvere, l'abbiamo
risolto ed è l'unica cosa importante". Il presidente, tirato in
volto per aver passato la notte in contatto telefonico con gli emissari e con
lo stesso Barroso, ha tagliato corto sulle critiche rivolte dai socialisti
all'intervento della moglie ricordando di aver preso un impegno sulla
liberazione delle infermiere e del medico già il 6 maggio, giorno della
sua elezione, durante il suo primo discorso pubblico: "Non sono stato
eletto per guardar passare i treni", ha replicato, domandando
polemicamente che cosa avessero fatto negli anni passati i ministri degli Esteri
francesi per la liberazione dei prigionieri. IL PREZZO PATTUITO L'Unione si
è impegnata a versare la maggior parte dei 461 milioni di dollari
chiesti per compensare le famiglie dei bambini di Bengasi Finalmente a casa.
Grandi festeggiamenti ieri mattina all'aeroporto di Sofia per le cinque
infermiere bulgare e il medico bulgaro-palestinese che ancora non riuscivano a
capacitarsi di essere usciti da un incubo durato otto anni EPA.
Le
bolle non sono un fenomeno recente, e si ripercuotono in modo omogeneo nel
corso dei secoli, dalla "tulipanomania" olandese fino alle recenti
bolle immobiliari americane e cinesi. L'ultima vittima potrebbe essere uno
degli attuali motori europei, la Spagna. L'economia cresce al 4 per cento. Ma
per sostenere la crescita le aziende sono costrette a indebitarsi in modo
massiccio. La questione - come segnalato da un report di Dresdner Kleinwort -
non è "se" il Paese avrà problemi, ma
"quando". Non sono pochi i punti interrogativi. Il deficit delle
partite correnti è attorno al 10% del Pil. Le "corporate"
hanno accumulato un debito - nel primo trimestre dell'anno - pari al 105% del
Prodotto interno lordo, oltre qualsiasi altra grande economia europea, compresa
la Gran Bretagna. Mentre i debiti delle aziende verso l'estero ammontano a 600
miliardi dollari. Intanto, negli ultimi 10 anni il prezzo degli immobili è
triplicato, i mutui sono sestuplicati, le famiglie hanno debiti che sovrastano
il reddito, a tassi variabili. Tassi che adesso sono fermi al 4% , ma dei quali
ci si attende la crescita al 4,5% entro dicembre, e al 5% nel prossimo anno. Il
sistema bancario sovra-esposto con i mutui potrebbe risentirne. È un
fenomeno non solo spagnolo, ma anche francese. E italiano. Il Centro Studio
Sintesi di Venezia segnala che i prezzi delle case continuano a
crescere anche nel Belpaese, anche se meno che in passato. E come si è
visto, cresce il costo del denaro. Ma le famiglie sembrano essere più
prudenti: Unicredit - attraverso l'Osservatorio mututi di Banca per la Casa -
registra una diminuzione (-1,6%) nel primo trimestre del 2007 rispetto allo
stesso periodo dello scorso anno nella richiesta di mutui.
Primadanoi.it
23-7-2007 Costi della politica, «2mila euro per una firma poi me la squaglio»
La Stampa
24-7-2007 Fischi al ministro dalle Comunità
Italia Oggi 24-7-2007
Il Caso Il Senato si vendica con i media e prepara le forbici per i giornali
Il Giorno
24-7-2007 TANTO per cominciare, i provvedimenti si attueranno dalla prossima
legislatura.
L’Unità
24-7-2007 Clementina, sia Clemente Marco Travaglio
Il Giornale di
Brescia 24-7-2007 La Ue al lavoro sul nuovo Trattato
I
Paesi del Nord Europa e del Nord America dispongono di una quantità impressionante
di dati sulle vicende dei lavoratori nel mercato e nel tessuto produttivo: li
raccolgono in modo sistematico e li usano per affinare la comprensione di
ciò che realmente accade. In Italia, su questo terreno siamo enormemente
indietro rispetto a quei Paesi. Per esempio: mancano i dati individuali sulle
retribuzioni, sulla loro struttura, evoluzione e potere di acquisto zona per
zona; mancano i dati analitici su campioni rappresentativi di persone, che nei
Paesi più evoluti consentono di studiare con precisione le loro storie
di formazione e di lavoro o non lavoro.
L'arretratezza del nostro sistema di rilevazione dei dati sul funzionamento del
mercato del lavoro — troppo sovente difesa con una protezione della
privacy che qui non c'entra proprio nulla — si sposa benissimo con il carattere
fortemente ideologico dei nostri dibattiti politici in materia. Discutiamo
sventolando bandiere (articolo 18, e ora la legge Biagi) o cercando di
abbatterle, ma ci curiamo pochissimo di sapere quali sono gli effetti reali di
questo o quel provvedimento su cui discutiamo. Il nostro Paese ha, invece,
estremo bisogno di una politica fortemente ispirata al pragmatismo; di una
politica, dunque, che sappia avvalersi di tutto quanto possono offrirle la
statistica, l'economia, la sociologia del lavoro e delle relazioni industriali.
Queste scienze non forniscono quasi mai prescrizioni univoche circa la scelta
migliore da compiere — che resta compito proprio della politica — ma, quando
dispongono dei dati, sanno indicare, in riferimento a una determinata scelta,
chi ci guadagna e chi ci perde, come e quanto. Esse inoltre presentano
l'incalcolabile ricchezza di mettere in comunicazione studiosi di tutto il
mondo, di valutare comparativamente esperienze compiute in Paesi diversi; e
sono, proprio per questo, il solo mezzo che possa consentire alla nostra
politica del lavoro di uscire dal provincialismo che ha caratterizzato fin qui
i suoi dibattiti. Il primo passo da compiere è potenziare e affinare
decisamente le attività di raccolta dei dati, per metterci al passo con
la parte più evoluta del mondo; e ascoltare di più chi li sa
leggere ed elaborare. Ma la svolta — se ne trova un interessante preannuncio
nel discorso torinese di Walter Veltroni — dovrebbe consistere anche in questo:
smettere di concepire gli interventi legislativi come momenti di palingenesi,
di riforma epocale, e incominciare a concepirli come momenti di
sperimentazione, ispirata a quanto di meglio offre il panorama internazionale,
magari inizialmente limitata a determinate zone o aziende per consentire il
confronto con quanto accade in quelle «non trattate ». Per esempio: la legge
nazionale o un accordo interconfederale delinea e incentiva la sperimentazione
di una riforma in materia di ripartizione tra retribuzione fissa e variabile,
oppure di autocertificazione per le malattie di brevissima durata con riduzione
della retribuzione per i giorni di assenza e redistribuzione del risparmio
conseguito su tutti gli stipendi; e si lascia che siano le leggi o i contratti
regionali, oppure anche i contratti aziendali, a decidere se adottare o no
l'innovazione.
È il metodo del try and go: se i risultati sono buoni, si estende la
riforma; altrimenti ci si muove in altre direzioni. In campo medico questo
metodo è obbligatorio: nessuna terapia può essere praticata su
scala nazionale prima di essere stata testata sperimentalmente. Dobbiamo
incominciare a ragionare e operare così anche per curare le disfunzioni
del mercato del lavoro, per cercare senza pregiudizi — né di destra né di
sinistra — le soluzioni migliori.
24
luglio 2007
Dopo l'ultimatum di Bruxelles, che ha dato all'Italia
due mesi di tempo per correggere le distorsioni nella distribuzione delle
frequenze tv determinate dalla legge Gasparri, va accelerato l'iter del disegno
di legge Gentiloni di riassetto del sistema tv per consentire al nostro
ordinamento di mettersi in linea con l'Europa. Il monito rivolto al Parlamento
arriva dal presidente dell'Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni
Corrado Calabrò che questa mattina ha presentato alla Camera la
relazione sull'attività svolta dall'Authority nel 2006. Nel suo discorso
Calabrò ha denunciato la delusione sulle aspettative di trasparenza e di
qualità dell'offerta di servizi di telecomunicazione che genera un danno
ai consumatori e al sistema produttivo. «La valanga di segnalazioni di
disservizi, ritardi nella riparazione dei guasti, di attivazione di servizi non
richiesti e di addebiti telefonici impropri, che l'Autorità riceve -
dice Calabrò - assume le dimensioni di un primario problema sociale».
Nel primo semestre del 2007 le tariffe dei servizi di telecomunicazione, però,
anche grazie a interventi legislativi, sono ulteriormente calate di circa l'8%,
con un risparmio su base annua stimabile in circa due miliardi di euro. Il
presidente dell'Authority ha anche sottolineato che «l'abolizione della tassa
di concessione sulla telefonia mobile può contribuire a una maggiore
concorrenza e innovazione sul fronte delle tariffe mobili».
L'Authority ha rilevato che Telecom italia é «operatore dominante in tutti i
mercati che riguardano la rete fissa», quindi la separazione funzionale della
rete «é il rimedio più efficace per risolvere i problemi
concorrenziali», nell'interesse di tutti gli operatori e della stessa Telecom.
Per centrare l'obiettivo entro l'anno, l'Authority intende dialogare con tutti,
Telecom in primis.
L'Autorita' per le Comunicazioni compie quest'anno dieci anni e festeggia il
passaggio dell'Italia da maglia nera del settore delle telecomunicazioni in
Europa in fatto di
liberalizzazione del mercato, a una leadership che la vede salire come quinto
mercato al mondo in termini di fatturato pro capite e il secondo nei servizi
voce nella telefonia mobile con una penetrazione del 140% senza eguali.
Editoria
Per l'Authority è opportuno un riordino del settore dell'editoria, nel
segno della semplificazione amministrativa, dell'innovazione tecnologica e
dell'intervento sulle strozzature che ne condizionano la distribuzione'.
Calabrò è favorevole a una revisione della normativa che regola
il settore pur riconoscendo che «'la stampa appare caratterizzata da assetti di
mercato competitivi e da limiti ex ante, tuttora validi, che ne assicurano uno
svolgimento pluralistico» e afferma di non condividere '«le previsioni
apocalittiche» di quanti affermano che, con l'evoluzione del sistema dei media,
quelli tradizionali '«saranno soppiantati da nuove forme policentriche di
informazione intolleranti a qualsiasi forma di mediazione culturale».
Resterà centrale, secondo Calabrò, il ruolo della stampa e del
giornalismo professionale come «fondamentale presidio della vera liberta' di
informazione, intesa come comunicazione sostanziale».
Raccolta pubblicitaria in tv
Il duopolio Rai-Mediaset domina il mercato della raccolta pubblicitaria, ma Sky
tallona Mediaste. Nel 2006 Rai e mediaste si sono aggiudicate l'84% delle
risorse da spot, ma Sky, con il 91% degli introiti da tv a pagamento, superiori
al canone Rai, tallona Mediaset nei ricavi totali del settore tv: nel 2006 la
Rai ha occupato una quota del 34%, Mediaset del 29%, mentre la piattaforma
satellitare ha raggiunto il 28 per cento.
Rai
Indipendenza della Rai dalla politica, nel solco dei criteri dettati dalla
giurisprudenza della Corte costituzionale. Per Calabrò il disegno di
legge ha il compito di individuare «un modello di governance della
società che realizzi una netta separazione tra le attività di
servizio pubblico e le attività commerciali, secondo gli indirizzi
comunitari». L'attuale normativa ibrida, segnala nella relazione, rende
stentata l'operatività. Fare servizio pubblico, per la Rai, vuol dire
«qualità della programmazione e diffusione di stimoli culturali adatti
alla grande platea televisiva; completezza dell'informazione; utilizzazione
delle nuove tecnologie per rinnovate modalità di produzione e
distribuzione dei contenuti, con un rafforzamento delle possibilità di
accesso».
I numeri dell'Authority
Nel 2006 l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni si è
riunita 73 volte e ha deliberato 835 provvedimenti, 24 dei quali legati ad
analisi e regolamentazione dei mercati delle comunicazioni elettroniche. Ha
svolto circa 30 consultazioni pubbliche in materia regolamentare, con la
partecipazione di operatori, associazioni dei consumatori, università e
singoli cittadini e 4 indagini conoscitive su materie come le offerte integrate
fisso-mobile e i servizi a ricarica del credito.
Sono stati170 i pareri di pubblicità ingannevole, 106 di concorrenza su
provvedimenti dell'Antitrust; 16 operazioni di concentrazione nel Sistema
integrato delle comunicazioni; 30 provvedimenti sanzionatori in materia di
tutela dei minori; 15 interventi volti a salvaguardare la par condicio, 27
sugli obblighi di programmazione, 26 sulla pubblicità, 149 le
autorizzazioni e i trasferimenti di proprietà di aziende radiotelevisive
e la tutela dei diritti e degli utenti. Su quest'ultimo fronte, sono state analizzate
circa 5mila segnalazioni di consumatori (oltre 1.100 verificate direttamente
sul campo) e sono stati sanzionati gli operatori per oltre 2 milioni di euro
per le sole infrazioni nei confronti degli utenti. Infine sono 16 le
associazioni dei consumatori che da quest'anno siedono al neo istituito tavolo
permanente di consultazione. Nel 2006 sono al Tar del Lazio e al Consiglio di
Stato oltre 60 ricorsi e 44 istanze cautelari (nessuna è stata accolta),
mentre due terzi dei ricorsi è stato respinto nel merito (e dei ricorsi
accolti, la metà è stata ammessa solo in misura parziale).
PESCARA. Dopo la pubblicazione dei due
libri: "La casta" di Giannantonio Stella-Rizzo e " Senti chi
Parla" di Mario Giordano che mettono a nudo gli sprechi del denaro
pubblico da parte della politica, a Pescara Gianni Melilla, presidente del
Consiglio Comunale, ha proposto di ridurre i numeri degli assessori da
quattordici ad otto. «Bella proposta», commenta Antonio Gentile, segretario
provinciale Nuovo Psi, «ma certamente irrealizzabile, con la maggioranza di
oggi e con il sindaco attualmente bersagliato della magistratura e della stampa
nazionale e internazionale».Con il taglio ipotizzato da Melilla chi potrebbe
voler rinunciare alla sua posizione? Come procedere? Con un sorteggio? Chi
rinuncerà di sua sponte al succulento appannaggio?
«Melilla», continua Gentile, «se intende veramente portare una ventata di
moralità nell'amministrazione comunale (ne ha tutti i titoli per farlo)
non deve fermarsi solo al numero degli assessori. Bisogna ridurne anche
l'indennità e proseguire con i consiglieri comunali e circoscrizionali».
Gentile fa un po' di conti in tasca ai consiglieri del Comune e bolla come
«immorali» i compensi percepiti: «si arriva a guadagnare oltre 2mila euro fra
sedute consiliari e commissioni di lavoro dove ci si limita in maniera oscena e
truffaldina ad apporre la sola firma per poi squagliarsela».
Altro spreco «indecoroso», che pochi conoscono è, spiega ancora il
segretario provinciale dello Psi, «il distacco dagli uffici di personale che
viene utilizzato (si fa per dire) presso i gruppi consiliari per l'importante
lavoro di "enigmistica" anche durante le ore di straordinario». E
Gentile consiglia una cura dimagrante per «l'elefantiaca segreteria del primo
cittadino». «I rapporti con la base elettorale e con gli iscritti dei propri
partiti vanno curati fuori dalle istituzioni senza farne gravare i costi sulle
stesse».
Altro importante taglio su cui il segretario riflette è quella del city
manager: «Antonio Dandolo, assunto in comune quale city manager succhia ogni
anno 200mila euro. Questa figura, creata con la sciagurata riforma Bassanini,
non è obbligatoria. Il suo compito non si sa bene quale dovrebbe essere,
considerato che il ruolo di segretario comunale, questa si istituzionale,
esiste ancora». E Gentile chiude con la "perla dello spreco
d'alfonsiano" , «da far conoscere ai cittadini pescaresi e forse anche
alla Corte dei Conti:
Giorgio D'Amico, ex primario chirurgo dell'ospedale di Torre Maggiore in
provincia di Foggia ed ex assessore comunale, non si sa di quale raggruppamento
politico, da quando è stato rimosso dalla carica per far posto ad un
altro pseudo politico senza seguito elettorale, incassa mensilmente dal comune
1.300,00 €. A che titolo? Forse come consulente chirurgico del sindaco?»
23/07/2007 9.25
"Trattasi di un gruppo di svogliati
selezionati da un gruppo di incapaci per il disbrigo di qualcosa di
inutile".Ecco cos'è una "commissione" nella micidiale
definizione di un antico e caustico editorialista del New York Times . Un
giudizio forzato. Forse qualunquista. Ma che non può non tornare in
mente (facciamo gli scongiuri) davanti alla decisione presa dal Senato di
affrontare la questione incandescente dei costi della politica
istituendo una apposita commissione conoscitiva da mettere al lavoro dopo le
vacanze, la tintarella, i bagni. Il metodo più sicuro, spesso, per
guadagnare tempo. Si dirà: certe commissioni parlamentari hanno fatto un
buon lavoro. Verissimo. Ottimo. Si pensi a quella sulla condizione contadina
condotta alla fine dell'Ottocento da Stefano Jacini per denunciare la
disperazione di un mondo di tuguri "ove in un'unica camera affumicata e
priva di aria e di luce vivono insieme uomini, capre, maiali e pollame". O
quella sulla Questione Meridionale di Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino ed
Enea Cavalieri. O ancora, in tempi più recenti, quella sulla P2 sotto la
presidenza di Tina Anselmi. O quelle, soprattutto in certi anni durissimi,
sulla mafia. Sia pure concluse, a volte, purtroppo, con l'epilogo sconcertante
di relazioni di maggioranza e relazioni di minoranza. Neppure i più
accaniti teorici di questo strumento della democrazia, però, possono
negare quanto esso sia andato via via alla deriva. Fino ad assumere, troppo
spesso, altre funzioni. Non nobilissime. Di minaccia, di vendetta, di ricatto.
Di pressione politica. Basti ricordare l'Umberto Bossi nella sua
stagione di guerra al Cavaliere: "Parlare e discutere di par condicio
è troppo poco. Io propongo una commissione parlamentare d'inchiesta
sugli arricchimenti di Silvio Berlusconi. Da dove provengono i suoi soldi? Come
ha costruito il suo impero televisivo? Come utilizza la politica per
difendere gli affari personali?". O l'ambigua intimidazione di Luciano
Violante: "Se facessimo come Berlusconi nella prossima legislatura, a
elezioni vinte, potremmo istituire una commissione parlamentare su come
è diventato ricco. Ha detto che andava in comune a Milano con l'assegno
in bocca: a chi lo dava?". O ancora l'avvertimento dello stesso Cavaliere
reduce dall'aver deposto al processo di Milano: "Faremo una commissione
d'inchiesta sulla vendita della Sme". Per non dire dell'insistenza con cui
pezzi della sinistra hanno premuto per una commissione sul G8 di Genova, la cui
presidenza per Gigi Malabarba doveva andare alla madre di Carlo Giuliani. O
delle polemiche divampate intorno alle commissioni sull'affare Mitrochin, su
Telekom Serbia o perfino alle sole ipotesi di commissioni su Tangentopoli,
sull'uso della giustizia negli anni di Mani Pulite o sulle scalate bancarie del
2005. Non bastasse, si sono viste commissioni parlamentari, regionali o
comunali così pigre, assurde o traboccanti di poltrone da minare
gravemente la fiducia dei cittadini. Come quella costituita anni fa in Calabria
"per la qualità e la fattibilità delle leggi", i cui
risultati (zero) sono sotto gli occhi di tutti. O quella sui fondi neri Iri,
istituita nel gennaio 1987 e defunta senza mai riunirsi una sola volta. O
quella dedicata all'ambiente che, stando al rapporto Legambiente 2001, riuscì
in un anno a esaminare "solo gli emendamenti all'articolo 1" (su
dieci) della Legge Micheli contro l'abusivismo. O le due "commissioni
interministeriali sul latte microfiltrato" chiamate a pronunciarsi
(giudizio favorevole) sul via libera al latte "frescoblu" sul quale
Calisto Tanzi aveva scommesso decine di milioni di euro. E la "commissione
antisprechi" nella Sanità voluta dalla Regione Veneto nel 2003? Tre
anni dopo, la Corte dei Conti riassumeva che era costata 340 mila euro e aveva
prodotto (in tre anni!) due documenti, inutilizzati: che spreco! E le 24
commissioni permanenti o speciali (dalla "riforma della burocrazia"
alla "garanzia e tutela della riservatezza della sfera personale e della
privacy") del Lazio? E le 18 della Campania ridotte a 12 solo in seguito
alle polemiche e alle risate sulla decisione di fare una "Commissione sul
Mare" e una "Commissione sul Mediterraneo"? Fino al capolavoro,
serissimamente descritto da un'agenzia del maggio 2002: "Parte
operativamente da lunedì prossimo, con la prima riunione della speciale
commissione che si riunirà al ministero della salute, il "progetto
dentiera" voluto dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per dare
agli anziani "edentuli" e indigenti le protesi, cioè le dentiere,
che non si possono permettere". Tra quelle ordinarie, permanenti,
speciali, bicamerali, conoscitive o di inchiesta, le commissioni avviate da
Camera e Senato in questa solo legislatura risultano essere (dal ciclo dei
rifiuti al servizio sanitario nazionale, dagli infortuni sul
lavoro all'uranio impoverito) ben 56. C'è la commissione di vigilanza
sulla Cassa depositi e prestiti, la banca del Tesoro, la cui vita è
riassunta dal deputato Carmine Santo Patarino così: "Finora abbiamo
fatto due o tre incontri, ma ancora l'attività istituzionale non
è stata avviata". C'è la commissione mista per
"l'accesso ai documenti amministrativi". C'è quella
"consultiva per il riconoscimento di ricompense al valore e al merito
civile". Quella dell'anagrafe tributaria, che fino a oggi si è
riunita sei volte: poco più di una a trimestre. Quella per la
"semplificazione della legislazione" che in un anno e passa è
stata convocata 13 volte (totale: 10 ore) sotto la sapiente guida di Pietro
Fuda il quale, uomo giusto al posto giusto, è stato dirigente della
Cassa del Mezzogiorno e poi della Regione Calabria: due modelli di burocrazia
agile e scattante. E via così... Sperano davvero i senatori, con questi
precedenti, che i cittadini si entusiasmino alla nascita di questa nuova
commissione, che peraltro si aggiunge a quella già varata dalla Camera?
In bocca al lupo. Ammettano però che un po' di scetticismo... Sergio
Rizzo.
Polemica
Il ddl attende ancora il voto del Parlamento Fischi al ministro dalle
Comunità MAURIZIO TROPEANO Lido Riba, presidente piemontese dell'Unione
delle comunità Montane, a più riprese aveva invitato presidenti,
consiglieri e assessori del sistema degli enti locali montani ad
accogliere il ministro Linda Lanzillotta con fair play istituzionale. E
così quando il ministro si siede al tavolo di presidenza del convegno
sulla Governance nei territori montani i timidi applausi riescono a coprire i
timidi fischi. La contestazione arriverà alla fine quando nel suo
intervento il ministro difenderà la scelta di introdurre la soglia dei
600 metri d'altitudine come discriminante per definire l'appartenenza di un
comune alla comunità montana. Fischi, commenti critici espressi a voce
alta, plateali uscite dalla sala. Il ministro, però, non retrocede di un
millimetro. le contestazioni? "Non ho paura del confronto e credo che le
ragioni di merito del provvedimento siano state apprezzate dagli amministratori
dei comuni veramente montani". Dunque quota 600 resta per il governo un
limite insuperabile - "non è una nostra invenzione ma è
applicato nei principali paesi europei", spiega il ministro - e
sarà la base della discussione nella conferenza unificata Stato-regioni
e comuni dell'1 agosto. Aggiunge: "In questo modo siamo convinti di tutelare
i veri interessi della montagna". Gli amministratori in platea non la
pensano così. Se il ddl Santagata sulla riduzione dei costi della
politica sarà approvato verrebbero cancellate 7 delle 48
comunità montane e ben 247 comuni sugli attuali 558 sarebbero
declassati. Per questo il presidente Riba ha presentato quella che ha definito
una "risposta seria" ai costi della politica che
attraverso una ridefinizione del sistema elettorale "permetterebbe
di ridurre del 50% il numero dei consiglieri ed assessori". Più
dura la contestazione di presidenti e assessori preoccupati delle ricadute
economiche sui territori. Da Giampaolo De Dominici, presidente Valsesia a Mauro
Marucco, Valli di Lanzo, da Agostino Bonetto sindaco di Netro nell'Alta
Vall'Elvo a Roberto Vaglio, assessore nell'Alto Canavese il concetto è
lo stesso: i costi della politica sono altrove. Perché la spesa
di una comunità montana con 20 mila abitanti è nettamente
più bassa di una consulenza regionale per uno studio di
fattibilità. Il tentativo dell'Uncem è quello di cercare di
stralciare dal disegno di legge sulla riduzione dei costi della politica
qualsisi tentaivo di ridefinire la montagna. Il ministro Lanzillotta spiega che
la posizione del governo è diversa e che "comunque visto che il Ddl
dovrà essere approvato dal Parlamento l'ultima parola spetta a deputati
e senatori". La posizione dell'Uncem trova una sponda nella regione
Piemonte. Prima gli assessori Sibille e Deorsola hannon chiesto l'introduzione
di una distinzione più sottile dell'altitudine per difendere i piccoli
comuni. Spiega la presidente, Mercedes Bresso: "Per noi è
fondamentale non solo preservare ma anche far crescere la capacità
progettuale del territorio che si esprime con le comunità Montane perché
è fonte di sviluppo". Aggiunge Luciano Caveri, governatore della
Val d'Aosta: "La riforma va fatta nell'ambito della legge sulla
montagna".
L'ispirazione è di quelle
inconfessabili. Fatto sta che oltre al taglio dei vitalizi dei senatori, il
consiglio di presidenza del senato ha sfornato ieri un'altra idea. La
istituzione di un comitato con l'obiettivo di effettuare una ricognizione di
altre spese collegate, anche se non direttamente, alla politica. In cima
alla lista, e per ora unica, c'è quella a vantaggio di giornali e tv. Un
modo elegante "per farla pagare" a chi intorno ai costi della politica
ha alzato un polverone. La proposta di istituire all'interno del consiglio o di
presidenza un comitato controllore è stata del vicepresidente di palazzo
Madama Mario Baccini (Udc) ed è stata subito accolta con entusiasmo dai
componenti. "La Commissione dovrebbe essere varata nel prossimo settembre,
e dovrà raccogliere tutte le informazioni relative ai costi in
generale, nell'ambito non solo del Parlamento ma anche della amministrazioni
che gravano sul bilancio dello Stato. Per decidere bisogna conoscere", ha
spiegato Baccini. Presidente in pectore Gavino Angius (Ds), collega di Baccini.
Ma nel segreto della riunione, che è resocontata ma i cui bollettini
sono disponibili dopo mesi, è emerso il primo obiettivo: incidere sui
contributi all'editoria e sulle convenzioni che i due rami del parlamento
garantiscono alle agenzie. Insomma, una sorta di occhio per occhio, dente per
dente. Per adesso il comitato avrà solo un potere ricognitivo, ma
senz'altro potrà formulare proposte di intervento diretto, per esempio
al collegio dei questori. D'altra parte a palazzo Chigi, il sottosegretario
Ricardo Franco Levi ha già pronto un ddl per razionalizzare i contributi
dati ai giornali organo di partiti e alle testate come partecipazione
alle spese per la carta o quelle telefoniche. Ma questa ritorsione potrebbe
arrivare a toccare anche le convenzioni che annualmente camera e senato
stipulano con le agenzie di stampa per ottenere sulla maggior parte dei
computer i take sul tel-press. Per dire, l'Ansa ottiene dal senato 380 mila
euro, tutti gli altri a seguire. Almeno questa commissione non costerà.
A domanda diretta, il presidente del senato Franco Marini è sbottato:
"Immagino che almeno il caffè i suoi componenti lo potranno
prendere", ha risposto piccato sottolineando che "il tenore della
domanda è indicativo dello spirito sbagliato con cui la stampa si approccia
a questi temi. Su internet però ci si può documentare con grande
trasparenza", ha riferito il presidente di palazzo Madama. In ogni caso,
la sfida è lanciata. Il campanello d'allarme è già suonato
ai vertici delle organizzazioni sindacali della stampa. Proprio nei giorni
scorsi Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione nazionale della
stampa, ha sottolineato che "Sicuramente occorrerà distinguere in
maniera trasparente i finanziamenti pubblici ai giornali di partito dai finanziamenti
che vengono dati dallo Stato in genere al pluralismo dell'informazioni".
"I finanziamenti ai giornali di partito", ha fatto osservare,
"sono finanziamenti alla politica, non sono in qualche modo
interventi di sostegno all'editoria. Condivido l'intendimento del
sottosegretario Levi e del governo che puntano proprio su questo aspetto:
rafforzare il finanziamento pubblico e spostare sul finanziamento
pubblico l'onere per i giornali di partito. Bisogna naturalmente", ha
concluso Serventi Longhi, "fare una selezione precisa, sul numero delle
copie vendute, la qualità del prodotto, il lavoro giornalistico e non.
Occorre che siano rispettati tutti questi principi ma con una funzione
dichiaratamente di politica e non informativa".
In
secondo luogo, si prevedono cose ovvie come la possibilità di maturare
un vitalizio dopo che la legislatura è durata il tempo previsto e
cioè cinque anni, impedendo il riscatto del periodo non maturato. Per un
comune mortale, il diritto alla pensione coincide strettamente con il lavoro
svolto. E guai se manca un giorno. PER I PARLAMENTARI non era così.
Inoltre, a partire dal 2007 gli onorevoli non riceveranno circa 3 mila euro
all'anno per i viaggi internazionali e di aggiornamento. Infine, si vieta una
cosa che se non è illegale, è certamente indecente e cioè
il cumulo del vitalizio con altre indennità elettive. Per esempio,
nell'attuale governo in questa condizione sono in tanti. Di significativo,
oltre ad un lieve ritocco degli importi delle pensioni (sempre dalla prossima
legislatura in poi, non c'è neanche bisogno di scriverlo), mi sembra non
sia scaturito altro dall'incontro congiunto tra gli uffici di Presidenza della
Camera e del Senato per affrontare il tema dei costi della politica.
Argomento che è stato regolato dal Consiglio dei Ministri pochi giorni
fa con un provvedimento che dovrebbe essere studiato nelle scuole per
dimostrare come lasciare sostanzialmente le cose come stanno. INOLTRE, si
preannunciano indagini conoscitive, un modo come un altro per diluire la
questione, in modo da sfiancare gli italiani, banalizzando la questione.
Certamente loro sanno bene come fare. Eppure, nonostante la debolezza dei
provvedimenti annunciati, si cominciano a registrare i primi maldipancia degli
interessati. Se ne fa, coraggiosamente, portatore il capogruppo dell'Udeur a
Palazzo Madama, Tommaso Barbato, che dichiara: "E' giusto razionalizzare i
costi della politica, ma nel decidere non bisogna lasciarsi
influenzare dalle strumentalizzazioni qualunquistiche e demagogiche
dell'antipolitica". Arrivati a questo punto dobbiamo però chiarire
le cose. Chi è che rappresenta l'antipolitica? Chi non rinuncia ai
propri privilegi pagati da tutti gli altri o chi lo evidenzia? E siamo ancora
costretti a ricordare per l'ennesima volta su questo giornale che i trattamenti
pensionisti dei nostri parlamentari costano ogni anno 187 milioni. Vi ricordate
quanti ne versano? 14. Il resto lo paghiamo noi. www.blogquotidiani.net/caligiuri/
Siccome
in Italia, invece delle notizie, si preferisce commentare le fughe di notizie,
e non è importante il fatto ma evitare che la gente lo conosca, proviamo
a fare un po' d'ordine nel casino organizzato del "caso
intercettazioni". "Possibile domanda Violante - che una Procura in
grado di scoprire chi ha rapito Abu Omar non riesca a scoprire chi passa le
intercettazioni ai giornali?". La risposta è semplice: le due
ordinanze in cui il gip Clementina Forleo chiede al Parlamento il permesso di
utilizzare (e dunque riporta) le intercettazioni tra i furbetti e sei
parlamentari è stata depositata nella cancelleria del Tribunale
venerdì alle 12.30. Da quel momento avvocati e indagati han potuto
prenderne copia. Ed, essendo caduto il segreto, se qualche avvocato o indagato
passa le carte ai giornali, non è affare dei magistrati e soprattutto
non è reato né fuga di notizie. Lo stesso giorno in cui i politici
inscenavano il pianto greco, uscivano sui giornali le telefonate dei presunti
terroristi arrestati a Perugia: perché nessuno ha protestato per la "fuga
di notizie"? Perché le ordinanze erano pubbliche. Ecco: lo stesso vale
quando c'è di mezzo qualche politico. A questo punto, però, si
lamentano i presidenti Marini e Bertinotti: "È grave che
un'ordinanza destinata al Parlamento esca sui giornali prima di arrivare al
Parlamento". In realtà, non è grave: è fisiologico,
salvo che, depositata l'ordinanza, i giudici facciano pedinare gli avvocati per
sincerarsi che non la passino ai giornalisti (peraltro senza commettere alcun
reato). La terza obiezione è più seria. Non quella del ministro
Mastella (la Forleo avrebbe addirittura "violato la Costituzione": il
che, detto da un Guardasigilli che pretende di sindacare l'atto di un giudice
con lo strumento disciplinare dell'ispezione, fa dubitare che egli conosca la
Costituzione). Ma quella mossa da giuristi insigni come Grosso e Grevi e da ex
magistrati come D'Ambrosio e Casson: il gip non può "accusare"
parlamentari non indagati rubando il mestiere alla Procura. Grevi parla, sul
Corriere, di "anomala forzatura" e "abnorme invasione di
confini", perché "non è ammissibile che il gip prospetti
ipotesi accusatorie, o anche soltanto apprezzamenti di colpevolezza, a carico
di soggetti non sottoposti a indagine dal pm". In effetti, se fosse vero
che la Procura non ha mai considerato l'ipotesi che qualche parlamentare a
colloquio coi furbetti abbia commesso reati, si tratterebbe di un'invasione di
campo da parte del gip. Ma nella richiesta inoltrata dalla Procura al Gip sulle
telefonate da inviare al Parlamento, i pm han chiesto di poterle utilizzare a
carico sia degli indagati (i furbetti) sia di "altre persone da
identificare", cioè da indagare dopo l'eventuale autorizzazione. Ed
è evidente chi siano le "altre persone", visto che al telefono
si è sempre in due: i politici non (ancora?) indagati. La Forleo
potrà facilmente ribattere di aver semplicemente esplicitato il concetto
espresso dai pm, illustrando come la legge le impone - la rilevanza penale
che a suo avviso hanno le posizioni dei soggetti coinvolti (sugli aggettivi
usati, ciascuno può pensarla come crede). Così nessuno, al
momento del voto in Parlamento, potrà dire di non aver saputo che, in
caso di autorizzazione, le telefonate potrebbero essere usate contro qualche
politico. La qual cosa spetterà comunque alla Procura. Solo a fine
indagine il gip, se riterrà che i pm abbiano dimenticato qualcuno,
potrà ordinare l'"imputazione coatta". Che però il gip
preposto al controllo delle indagini - non possa "accusare" e debba
tenersi sulle generali, è discutibile: basta leggere le ordinanze
d'arresto, perquisizione, sequestro scritte dai gip per capire che i gip
"accusano" eccome. Solo che non lo fanno in veste di
"parte", ma di giudici "terzi", dunque le loro accuse sono
più gravi. È curioso che, dopo anni di polemiche sul presunto
"appiattimento" dei gip sui pm, ora si rimproveri a un gip di non
appiattirsi sui pm. Ancor più curioso che, dopo tante polemiche sullo
scarso garantismo dei giudici, si voglia negare alle difese l'accesso agli atti
per evitare che l'opinione pubblica sia tempestivamente informata. La prossima
volta, se un gip vuole vivere sereno, sa quel che deve fare. Mai intercettare
un Vip indagato, onde evitare il rischio che questi parli con politici. Se i
reati risalgono a due anni prima, bruciare tutto perché "comunque è
roba vecchia". E se la Procura chiede di inoltrare certe intercettazioni
al Parlamento, evitare di spiegare perché sono penalmente rilevanti o, meglio
ancora, dire che son tutte fesserie e invitare le Camere a negare
l'autorizzazione. In ogni caso, prima di prendere qualsiasi iniziativa,
chiedere il permesso a Clemente Mastella, noto giureconsulto di scuola
ceppalonica. Uliwood party.
MILANO
Sarà un vizio, sarà l'incapacità di tacere oppure, come
dice lei, "l'impossibilità di essere catalogata" ma il gip
Clementina Forleo non pensa affatto di aver riportato nella sua ordinanza sulle
intercettazioni dei parlamentari quelle "valutazioni non pertinenti"
di cui ieri l'ha accusata, sebbene in modo indiretto, il Presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano. Del resto questa "impertinenza" della
Forleo (in serata spiegherà: "Rimarrò soggetta, come sempre,
solo alla legge"), che irrita a seconda delle stagioni la destra come la
sinistra, non venne affatto rilevata quando emise la prima ordinanza di
sequestro delle azioni Antonveneta. Eppure anche allora non era stata tenera:
"Le indagini - scriveva - consentono di far luce su un sistema
istituzionale gravemente malato...". Era il primo agosto 2005.
"Nessuno disse che erano non pertinenti", conferma Clementina. Si
tratta pur sempre di ordinanze che comportano interpretazioni giuridiche prima
ancora che politiche, anche se spesso e volentieri questo principio viene
dimenticato e rovesciato a seconda delle convenienze. Per compilare quelle 60
pagine che hanno spaccato il mondo dei giuristi e fatto infuriare le massime
cariche istituzionali, il gip Forleo si è mossa in realtà su due
principi cardine, rilevabili dalla stessa lettura del documento e confermate,
anche se non ufficialmente, dai pm che si occupano delle inchieste sui
"furbetti del quartierino". Il primo si riferisce
all'utilizzabilità di quelle intercettazioni che riguardavano una
richiesta riferita al processo nel suo insieme e non relativa a qualche
indagato particolare, per esempio Consorte, aprendo così la strada, nei
fatti, ad eventuali futuri indagati. Circostanza che il gip Forleo coglie
interpretando la richiesta del pm Orsi che, nelle sue "note" del 10
luglio scorso, riportava minuziosamente tutti i principali passaggi telefonici
nei quali rilevava la commissione di possibili reati, dall'aggiotaggio all'insider
trading. Il secondo principio su cui si è mossa l'ordinanza
Forleo riguarda invece la stessa funzione del gip. Che, lei stessa lo ha
ricordato in questi giorni, "non è un semplice passacarte". Ma
appunto un giudice, e come tale con la facoltà di decidere in
un'inchiesta l'esistenza di eventuali ipotesi accusatorie "ulteriori"
anche se non espressamente segnalate dai pm. Lo scrive chiaramente a pagina 15:
"Come si dirà, alcune intercettazioni appaiono "ex se"
suscettibili di integrare ulteriori ipotesi di reato allo stato non emerse se
non appunto da tali conversazioni". Con il problema che queste intercettazioni
finché non verranno autorizzate sono allo stato inutilizzabili. Anche se con
l'evidente paradosso di essere a questo punto ben conosciute non solo dagli
indagati, o futuri tali, ma dall'opinione pubblica intera. Qualcuno ha
obiettato che il gip Forleo, ravvisando eventuali reati a carico dei
parlamentari, intercettati loro malgrado mentre parlavano sull'utenza dell'ex
presidente di Unipol, avrebbe dovuto restituire le carte al pm con i propri
rilievi lasciando alla Procura il compito di completare il quadro accusatorio.
Ma qui interviene il secondo paradosso, figlio come al solito di leggi nate per
eludersi vicendevolmente. Trattandosi di intercettazioni non ancora
autorizzate, e dunque allo stato nel "limbo"
dell'inutilizzabilità, la Procura non avrebbe avuto modo di trattare
queste carte né di avanzare perciò nuove contestazioni. E allora? Ecco
che il giudice ne deve dichiarare la "rilevanza processuale" e per
dichiararla deve nel contempo motivare questa sua convinzione scrivendo
chiaramente che l'eventuale utilizzabilità di queste telefonate
potrà rendere perseguibili anche i suoi protagonisti. Parole troppo
dure? Può darsi, dato che sono riferite a personaggi non ancora
indagati. Ma almeno hanno il pregio di essere contenute in un atto formale,
criticabile fin che si vuole, ma limpido. Ora, se la Camera voterà
l'autorizzazione, la Procura avrà modo di regolarsi al meglio. Se
viceversa il Parlamento riterrà di non autorizzare, le telefonate
andranno distrutte. E il rischio a questo punto è che i parlamentari
protagonisti delle conversazioni vengano comunque chiamati a deporre come
testimoni. Ma con l'avvocato fuori dalla porta, per il timore che vengano
indagati durante l'interrogatorio: alla fine, la procedura meno garantista.
Dopo
le indimenticabili performance di "Ball of Steel" (palle
d´acciaio-ndr), "Wild West" e, tocco padano-partenopeo tra tanto
english, "Votantonio", Antonio Marano, leghista varesotto, ex
deputato, ex sottosegretario nel primo governo Berlusconi e tuttora, per quegli
insondabili scherzi della sorte, direttore di Rai 2, conquista a mezza estate,
in memoria di Ennio Flaiano, il nostro personale premio "Italia alle
vongole" o "Vongolino d´oro". Se Gianpiero Fiorani non ha
mentito a Luca Pagni, che lo intervistava per "Repubblica", Marano
gli ha offerto di condurre "una trasmissione su Rai2 in difesa dei
diseredati, dei cittadini truffati dalle finanziarie e dalle banche".
Per chi non lo ricordasse, Fiorani è l´ex capo dei "Furbetti del
quartierino", quello che ha messo a ferro e fuoco la finanza italiana, che
tosava i correntisti "qualunque" della Banca Popolare di Lodi e che,
telefonicamente, baciava l´ex governatore della Banca d´Italia Antonio Fazio,
che da controllore trescava con un suo controllato diventato ormai un
"famiglio". Poi la galera e il "ravvedimento mediatico",
che, cooptato nella squadra ruffiana di Lele Mora, lo ha promosso a baciare non
più Fazio, ma la giovane figlia di Ornella Muti, Nike Rivelli, nei
pressi del Billionaire, luogo di culto dell´Italia "cafonal"
illustrata da Roberto D´Agostino.
Capite l´astuzia quasi partenopea del polentone Marano? Chi meglio di un
truffatore può spiegare le truffe ai truffati?
Ex gestore di Rete 55, una tivù privata del Varesotto, amico di Bobo
Maroni, appassionato del festival dei druidi, autore di indimenticabili
"speciali" su Pontida, all´atto del suo secondo insediamento alla
direzione del secondo canale della Rai, Marano aveva promesso "una rete
sexy". Sexy in che senso? Guardonismo per un colabrodo etico e
finanziario? Se si mettono insieme le "Palle d´acciaio", "Wild
West", "Votantonio", "Donne", "La sposa perfetta"
e altre insulsaggini varie, il presunto "servizio pubblico" ha
buttato dalla finestra circa 14 milioni e mezzo di euro per format idioti e
fallimentari, che Aldo Grasso non esita a definire "uno scandalo".
Pochi spiccioli, se volete, per gli standard di Gianpiero Fiorani, che di
milioni ne spese almeno 40, naturalmente non suoi, per cercare di salvare dalla
bancarotta Credieuronord, la banchetta, nata come suprema icona del
velleitarismo leghista e subito diventata un disastro, che fece imbufalire
alcune migliaia di leghisti della prima ora truffati come polli. Così
nessuno meglio di Fiorani, nella trasmissione che Marano graziosamente gli ha
offerto sul "servizio pubblico" e che si potrebbe intitolare
"Furbetti" o " Fanfulla da Lodi", potrà raccontare
che in questo paese basta pagare, come per l´appunto accadde con la banchetta
di Bossi, per lavare ogni peccato e ottenere magari dalla politica gratitudine
eterna per fare i propri affari. A quei tempi la Lega era la peggior nemica del
governatore Fazio. Bastarono poche ore, dopo l´intervento di Fiorani, perché Bobo
Maroni dichiarasse: "Fazio è bravissimo, non si tocca",
smentendo anche il ministro dell´Economia in carica Giulio Tremonti, che della
Lega era allora il principale supporter dentro Forza Italia e che aveva l´unico
scopo di far fuori il governatore. Chissà che con Marano, il Fiorani
versione petto nudo, danze, baci e Billionaire non abbia giocato ancora
spregiudicatamente quel credito, e magari altri meno noti, cui il direttore di
Rai2 non poteva negarsi.
Marano è giustamente famoso per l´"Isola dei famosi", un
saggio superbo sulla società di massa - per chi sappia leggerlo nella
sua nefandezza - e sull´Isola, buon sangue non mente, avrebbe voluto approdare
uno dei figli di Umberto Bossi, Riccardo, cui il papà, dopo un primo
avallo, ha promesso, nel caso, "calci nel sedere". Se è Marano
che ha dissuaso l´insipiente giovanotto, ha forse fatto l´ultimo favore al suo
boss.
Chi più di lui, che l´insipienza della politica mantiene ancora in quel
posto, merita a mezza estate il "Vongolino d´oro"?
a.staterarepubblica.it
L'opinione
Mentre s'andava a concludere il chilometrico confronto sulla riforma delle
pensioni e il paese si divideva e subdivideva in una miriade di partiti e
partitini e s'alzava un'onda larga e rutilante di sdegno invocante tagli
risparmi lavoro rigore eccetera eccetera, correvano sui nostri video alcune
notizie, regolarmente pubblicate, che annunciavano: come Cesare Geronzi,
lasciando Capitalia, fosse stato premiato su iniziativa del consigliere Massimo
Pini con un modesto omaggio a perenne riconoscenza per le sue imprese, in euro
venti milioni; come il suo amministratore delegato, Matteo Arpe, avesse
ricevuto tra liquidazioni (tfr) e stock options tra i cinquanta e i sessanta
milioni (sempre in euro); come l'amministratore delegato di BancaIntesa, neo
fusa con SanPaolo, abbia incassato tra una voce e l'altra trenta milioni di
euro (qualcuno azzardava cinquanta, ma qui i dati sono incerti). Siamo alla
solita: gli stipendi d'oro, con il corollario di liquidazioni e di stock
options, dei cosiddetti grandi manager o dei manager di successo. Nessuno dei
tre citati è a fine carriera. Arpe è giovane e si rifarà,
Passera continua a guidare le sue banche, Cesare Geronzi s'è addirittura
allargato: a settantrè anni, in aperta testimonianza dello scontro
generazionale invocato per mandare tutti in pensione dieci anni più
tardi, si dividerà, uno e trino, tra Unicredit, la presidenza del patto
di sindacato e quella del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, e avrebbe
pure voluto partecipare alla sedute del consiglio d'amministrazione. La solita
storia di controllori e controllati che fanno un mestiere e insieme l'altro. Al
punto che il governatore di Bankitalia s'è allarmato e ha messo in
allarme Lanfranco Cardia, presidente della Consob. Insieme hanno alzato
qualche diga alla moltiplicazione dei pani e dei pesci, cioè delle
poltrone e dei milioni, in virtù di quella che in linguaggio ostico al
prepensionato in mobilità s'è diffusa sui media sotto il nome di
governance duale. Che è poi un gioco da ragazzi: se si sommano due banche,
le teste che costano (e che, magari, contano) si lasciano al loro posto, tanto
per non dover decidere, per non scontentare nessuno, e i tagli cominciano in
basso (cinquemila esuberi tra Capitalia e Unicredit). Chiunque capisce che tra
"governo doppio", premi, liquidazioni, stock options, stipendi (che
ovviamente non sfuggono alle dinamiche del caro vita) il bilancio è
pesante e sfugge per di più al controllo degli azionisti (soprattutto
dei piccoli azionisti: non si tratta di banche, ma di Telecom dove i piccoli
azionisti si sentirono proporre all'ultima assemblea stock options clamorose
per tutti i dirigenti, quelli per intenderci del gruppo Tronchetti, che ebbero
avuto parte nelle imbarazzanti difficoltà del gruppo telefonico). La
domanda inevasa è sempre la stessa: chi paga? Draghi, di fronte ai
banchieri dell'Abi, denunciò i disservizi, i costi eccessivi per
chi si presenta allo sportello con il suo conto corrente, le lentezze delle
operazioni (sempre ai danni del nostro correntista). La questione è
morale (e sta nella distanza tra i sei milioni annui di un amministratore
delegato e i quindici/ ventimila euro di un impiegato qualsiasi), ma tocca
anche i bilanci e di conseguenza i nostri depositi. E quindi la domanda resta,
ma sembra retorica: chi paga (e quante tasse pagano, se non trovano anche le
"loro" tasse rifugio nei paradisi fiscali).
Da
ieri a Bruxelles la Conferenza intergovernativa che deve redigere il documento
di riforma delle istituzioni comunitarie La Ue al lavoro sul nuovo Trattato
Barroso: "C'è un chiaro consenso politico", il veto polacco
sarebbe risolto Il ministro portoghese Amado e il presidente della Commissione
Ue Barroso BRUXELLES Senza fanfare e squilli di trombe, i ministri degli Esteri
della Ue hanno lanciato ieri a Bruxelles i lavori della settima Conferenza
intergovernativa (Cig) della storia della Ue che dovrebbe dare in tempi rapidi
alla Ue un Trattato riformato, nonostante le smarcature riproposte dalla
Polonia e dalla Gran Bretagna. "La Cig è stata aperta. Il mandato
ricevuto dal Vertice è chiaro e preciso e ci consente di dare alla Ue un
nuovo Trattato quanto prima - ha annunciato il ministro degli Esteri, Luis
Amado, presidente di turno del Consiglio -. È ora importante creare le
condizioni politiche perché il nuovo testo sia pronto per il Vertice Ue di
metà ottobre e possa essere approvato entro la fine dell'anno". Il
presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Durao Barroso, che ha
partecipato alla breve cerimonia insieme ai tre rappresentanti nella Cig
nominati dal Parlamento europeo, ha assicurato che tra i 27 ministri
"c'è un chiaro consenso politico per rispettare il mandato definito
al Vertice". Con il lancio della Cig, la Ue crea le condizioni concrete
per uscire dallo stallo istituzionale in cui era precipitata dopo la bocciatura
franco-olandese della Costituzione. Con il Trattato riformato, la Ue
adeguerà il proprio funzionamento alla nuova reltà allargata a
27, lasciando aperta la possibilità di nuovi ingressi. Tutti gli occhi
restano però puntati sulla Polonia e le sue ambiguità. Al
Consiglio europeo di giugno Varsavia aveva minacciato il veto a causa del nuovo
sistema di voto previsto dalla riforma, ottenendo un rinvio della sua
applicazione (dal 2009 al 2014) e la possibilità di usare per altri tre
anni la cosiddetta clausola di Ioannina che facilita le minoranze di blocco.
Ieri, il ministro degli Esteri polacco Anna Fotyga ha parlato di
"chiarimenti" necessari ed ha informato i colleghi che il suo Paese
potrebbe esercitare, come fatto dalla Gran Bretagna, l'opzione di opt-out sulla
Carta dei diritti fondamentali. Con la Polonia, "ci sono piccoli
problemi", ha minimizzato Amado, riferendo che da oggi saranno affrontati
in sede tecnica. E anche il ministro degli Esteri Massimo D'Alema ha parlato di
"sottolineature da parte della Polonia che non sembrano riaprire il
dibattito politico". "L'Italia - ha proseguito il vice premier -
è favorevole ad una conclusione della Cig sulla base del compromesso
raggiunto al Vertice di giugno. Sarebbe grave ed irresponsabile riaprire il
negoziato politico: ma non sembra ci siano avvisaglie di questo tipo". Il
lavoro della Cig non si preannuncia facile. Ieri Amado ha distribuito ai
colleghi una bozza di nuovo testo che conta 275 pagine, inclusi protocolli e
annessi. Tra gli elementi di sostanza mantenuti, spiccano anche alcune le
novità. Innanzitutto si prevede il nuovo sistema di calcolo di voto: le
decisioni in seno all'Ue saranno prese, dal 2014, con il sistema della doppia
maggioranza (55% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della
popolazione complessiva). Ma fino al 2017 un qualsiasi Stato membro
potrà chiedere che sia utilizzato il sistema attuale. Un'altra
novità sarà la nomina di un ministro degli Esteri della Ue (che
continuerà a chiamarsi Alto rappresentante): avrà i poteri
previsti dalla Costituzione per il ministro degli Esteri e coordinerà la
politica internazionale, sarà vicepresidente della
Commissione Ue. Nel nuovo testo si prevede anche che dal 2009 sarà
eletto un presidente del Consiglio europeo permanente con un mandato di due
anni e mezzo (attualmente rotazione ogni sei mesi). Sarà inoltre
ridimensionato l'utilizzo del voto all'unanimità e in tal modo
l'applicazione della maggioranza qualificata sarà estesa ad altri 40
settori, inclusi quelli della cooperazione giudiziaria e poliziesca.
L'unanimità resta per fisco, politica sociale, politica
estera, risorse Ue e revisione dei trattati. L'opposizione di Gran Bretagna,
Repubblica ceca e Olanda hanno fatto invece cadere la menzione nel nuovo
trattato della bandiera e dell'inno europeo, inoltre non comparirà
più il termine Costituzione.
Cara Europa, proprio mentre a Roma il ministro
Amato lodava i veli islamici e qualificava pin up le donne italiane senza veli,
e mentre a Treviso l’ex sindaco leghista auspicava di cavar pietre dalle
Dolomiti per lapidare le donne trevigiane tutte pin up e adultere, la polizia
e, per una volta i magistrati, procedevano a Perugia all’arresto di un imam
marocchino, che esortava bambine e bambini della sua scuola a ferire a sangue i
loro compagni italiani, cristiani miscredenti. Posso dire: chi semina vento
raccoglie tempesta? NICOLA AMOROSO, AREZZO
No, caro Amoroso. Primo, perché l’on. Amato ama
stupire formulando paradossi, ma condivide i meriti della polizia parlando,
come per Perugia, di «rischi molto concreti» che stavano maturando ben al di
là di «una predicazione più o meno radicale». Secondo, perché non
andrebbero rilevate neanche in cronaca cittadina le sbruffonate di uno
pseudosceriffo ex tombeur de femmes, inacidito da improbabili compartecipazioni
a nuovi adulteri («però, ha il mio calendario sexy in casa», ha
raccontato al telegiornale di Italia 1 una pin up cittadina). Terzo, perché non
tutte le procure italiane sembrano preoccuparsi, come certi magistrati milanesi,
più del “sequestro” di Abu Omar, in nome dello stato di diritto, che non
di quel che il suddetto faceva o preparava contro la sicurezza dello stato di
diritto. Ecco perché lei non può far risalire la semina del terrorismo
(islamico e non) a battute e paradossi, peraltro inopportuni. Infatti, visto
che trattano temi etico-sociali che fanno vittime, come la pachistana uccisa
dai suoi parenti perché vestiva e viveva all’occidentale.
Io penso invece che abbia ragione Magdi Allam quando scrive che la prima causa della
diffusione della rete terroristica in Italia è che molti magistrati,
politici, giornalisti e intellettuali assolvono i predicatori di odio perché
giudicano tale predicazione “libertà di espressione”. Questo è il
cuore del problema.
Invano – secondo me – Renzo Guolo sulla Repubblica di domenica spiega che i
pedagoghi di terroristi e i loro accoliti sono gruppi autonomi da al Qaeda, ma
il dilagare del qaedismo come semplificatorio strumento di lettura del mondo
può innescare, in un qualsiasi punto di crisi, un’iniziativa di
terroristi-faida- te del tutto coerente con la guerra di al Qaeda.
Del resto, in misura casareccia ma non operettistica (ci scapparono centinaia
di morti) la nostra vicenda degli anni Settanta vide il medesimo schema: c’era
un partito clandestino combattente (Br, Nap, ecc.) che uccideva o gambizzava, e
poi una vasta platea palese, gli Autonomi, che condivideva in tutto o in parte
la cultura brigatista e, se del caso, oltre all’appoggio logistico esprimeva
suoi nuclei armati, o singoli combattenti.
Ma anche allora non pochi magistrati italiani spaccarono il capello in quattro
per non colpire i “rivoluzionari”; così come oggi i residui italiani
dell’“ antimperialismo” solidarizzano con l’imam di Perugia e i suoi “militanti
islamici antimperialisti”, che sarebbero dunque dei perseguitati.
Euforia
alla Borsa di Istanbul. Gli Usa e il Vaticano soddisfatti della vittoria elettorale
degli islamici moderati Una telefonata di Prodi al primo ministro di Ankara per
congratularsi con lui Turchia, Erdogan rassicura l'Occidente: "Il cammino
verso l'Europa continua" ANKARA Euforia alla Borsa di Istanbul e
soddisfazione praticamente universale, negli ambienti politici e finanziari
internazionali. Sono queste le reazioni "a 360 gradi" all'indomani
della netta vittoria di domenica del partito di radici islamiche Akp del
premier Tayyip Erdogan, che ieri, dopo che domenica aveva già giurato
fedeltà alla laicità, ha ulteriormente rassicurato tutti
dichiarando, che il suo governo "proseguirà nel cammino delle
riforme sulla via dell'Unione europea" e che "il nuovo presidente
sarà eletto dal Parlamento col metodo della concertazione"; lasciando
quindi intendere di essersi già diposto a sacrificare, per la pace
sociale, il suo amico-candidato Abdullah Gul. Il nuovo record di Borsa (un
balzo complessivo del 5,08% su base giornaliera) mostra che gli ambienti
finanziari turchi ed internazionali hanno tifato e tifano per Erdogan. La
stessa Confindustria turca (Tusiad) ha riconosciuto "i grandi successi
economici" del governo Erdogan negli ultimi anni, ma gli ha raccomandato
la concertazione per il nuovo presidente, come ha fatto pure stamane la stampa
turca. Erdogan sta rispondendo cioè positivamente alle attese di tutti e
cioè gli è valso ieri le congratulazioni ed il plauso di vari
leader mondiali ed europei, tra cui quelli dell'Ue - tra questi Sarkozy,
la Merkel e il premier italiano Prodi, che gli ha telefonato personalmente, e
del ministro degli esteri Massimo D'Alema; quelle di Atene, di Israele e di
vari altri paesi. Vi è anche stata una dichiarazione di plauso da parte
del Vaticano: "Sono islamici, ma moderati e rispettano le altre
religioni", ha commentato il portavoce della conferenza episcopale turca,
mons. Georges Marovitch. Si è felicitata anche la Casa Bianca
ammericana. Persino gli arcigni militari turchi, mantenutisi nella campagna
elettorale rigorosamente neutrali e silenti, vengono descritti come
"soddisfatti" della situazione emersa ieri alle elezioni. La
soddisfazione universale richiede spiegazioni articolate. Gli uomini d'affari
turchi vogliono tre cose: stabilità politico-economica, stabilità
istituzionale e adesione all'Ue. La vittoria di domenica dell'Akp gliele
garantisce tutte perchè con i suoi 340 seggi in Parlamento Erdogan
potrà formare un governo monocolore, ma non potrà eleggere da
solo un presidente islamico, nè cambiare la costituzione, come l'Akp
voleva fare in aprile, sostenendo Gul, la qual cosa generò la crisi
culminata nel comunicato in Internet dei militari turchi che lo accusarono di
"mettere in pericolo la laicità". I circoli politici e
finanziari europei vogliono soprattutto, oltre alla stabilità in
Turchia, la continuazione del negoziato di adesione della Turchia all'Ue,
(cominciato nel 2005, ed oggi semibloccato per via del rifiuto di Ankara di
aprirsi alle merci greco-cipriote) anche se esso prenderà un tempo
più lungo dei 7-10 anni previsti; e, forse, un tempo indefinito, dati
gli attuali orientamenti di Parigi e Berlino e di altri paesi Ue, che
propongono ad Ankara un "partenariato speciale" invece dell'adesione
a pieno titolo, come ha confermato ieri Parigi, mentre il presidente della Commissione
dell'Ue, Josè Barroso, che aveva dichiarato ad un giornale greco
che "la Turchia non è pronta per entrare nell'Ue", ha
auspicato la continuazione delle riforme turche. L'Ue è molto
rassicurata poi dall"'equilibrio" uscito dalle elezioni di ieri tra i
maggiori poteri turchi (Akp e militari, ndr.), come hanno affermato all'unisono
il Commissario Ue, Franco Frattini ed il ministro degli esteri inglese
David Miliband. "L'Akp ha vinto, ma non stravinto. È il miglior
risultato possibile", ha sintetizzato il presidente della Commissione
esteri della Camera, Umberto Ranieri. Gli americani, d'altra parte, vedono
nella vittoria del partito filoislamico anche una conferma della
credibilità del loro "modello" di "islam moderato"
da diffondere in tutto il "Grande Medio Oriente", ivi compresa la
Turchia. Viceversa, un governo di coalizione tra il Partito Repubblicano (Chp,
laico e patriottico di sinistra) ed il nazionalista Mhp non sarebbe piaciuto
quasi a nessuno, perchè rischiava di portare la Turchia verso una fase
di quasi-isolazionismo. Lo lasciavano presagire le critiche di quei due partiti
laici verso le aperture del governo Erdogan agli investimenti esteri e le
accuse di avere "svenduto la patria agli stranieri" con le sue
massicce privatizzazioni. Essi avevano accusato Erdogan anche di avere
"ceduto" ai punti di vista europei sulla questione cipriota e curda e
di avere negato ai militari l'autorizzazione per compiere un intervento
militare contro le basi del Pkk in Nord Irak. Un'ipotesi quest'ultima, che
complicherebbe la situazione irachena, e che sarebbe divenuta realtà
immediata in caso di sconfitta di Erdogan. Il quale non la esclude, ma la
rinvia a tempi migliori
L’ISVAP ha inviato una segnalazione ai presidenti di Camera
e Senato e al Ministro dello Sviluppo Economico per l’abolizione,
nell’interesse degli utenti, dell’istituto del tacito rinnovo in materia di
contratti Rc auto.
Nel proporre questo intervento normativo l’Autorità
sottolinea che l’abolizione, evitando l’automatismo connesso al rinnovo tacito,
stimolerebbe la ricerca del consumatore verso prodotti a lui più
confacenti in termini di qualità e di prezzo e nello stesso tempo accrescerebbe
la concorrenza tra le imprese per conservare o incrementare quote di mercato.
La misura - oltre che essere coerente con i principi alla
base della recente attribuzione della facoltà di recesso annuale ai
detentori di contratti poliennali di altro ramo (contenuta nel così
detto pacchetto Bersani bis) - aggiungerebbe a giudizio dell’Autorità un
altro fondamentale tassello al mosaico degli interventi del Ministero e della
stessa ISVAP per favorire, nella prospettiva di un calo delle tariffe, scelte
più libere e consapevoli da parte degli utenti assicurativi, ivi
compreso l’intervento in corso per la realizzazione di un portale web e di un
software in grado di fornire all’utente i migliori preventivi Rc auto in tempo
reale (preventivatore).
Panorama
23-7-2007 IL NOSTRO TEMPO Sindacati, le mani sul 5 per mille CARLO PUCA
Il Riformista
23-7-2007 Scontro nell’Unione sulla
risoluzione sul Dpef di Tonia Mastrobuoni
Italia Oggi
27-7-2007 E il Palazzo tuona contro i giudici.
Italia Oggi
23-7-2007 La casta degli intoccabili Franco Bechis.
La Stampa
22-7-2007 La più grande gaffe del Belgio
FINANZA
CREATIVA Dietro il grande potere sindacale c'è anche un'enorme
disponibilità economica. Ora ancor più cospicua con l'introduzione
del contributo alle onlus. Dove, nonostante una legge del 1997... A Trapani, in
piazza Ciaccio Montalto 27, c'è il Centro elaborazione studi europei e
territoriali. Altrimenti detto Ceset, si dichiara ufficialmente una onlus, cioè
una "organizzazione non lucrativa di utilità sociale".
Insomma, una di quelle meritevoli associazioni che producono volontariato o
ricerca scientifica senza fini di lucro. Il Ceset ha ottenuto un clamoroso
exploit nelle dichiarazioni dei redditi per il 2005: 7.304 persone lo hanno
scelto per devolvere il 5 per mille dalla propria dichiarazione dei redditi. Se
si considera che la città ha 70 mila abitanti, circa il 30 per cento dei
contribuenti trapanesi ha premiato il Ceset per le sue ricerche europee e territoriali,
purtroppo sconosciute a internet. Il Centro ha invece un presidente conosciuto:
si chiama Mario Tessitore e di mestiere fa il sindacalista. Più
precisamente è segretario cittadino della Cisl. E guarda caso la sede
trapanese del Caf, il centro di assistenza fiscale cislino, è sempre in
piazza Montalto 27, negli stessi uffici del Ceset (o viceversa).
Psicologicamente, si tratta di un classico caso di sdoppiamento della
personalità (giuridica). Penalmente, sia chiaro, non c'è nulla di
rilevante. Amministrativamente, il caso è invece al vaglio dell'Agenzia
per le entrate, che ha inserito il Ceset tra le onlus "non validate",
cioè prive per il momento di tutti i requisiti richiesti. Forse
basterà un'autocertificazione, forse no, a risolvere il problema di
Tessitore. Certo è che non si tratta di spiccioli. Da un primo calcolo
di Carlo Mazzini, grande esperto di legislazione non-profit, sarebbe
"intorno ai 25 euro il valore di ogni preferenza espressa con il 5 per
mille". Un tesoro che sindacati e sindacalisti hanno puntato. D'altronde
parliamo di una Triplice sindacale che fa la cresta con le organizzazioni
europee, dichiarando circa 3 milioni di associati in meno rispetto ai 10,5
milioni dell'Italia. Il motivo? Risparmiare sulle quote d'iscrizione alla Ces,
la Confederazione europea dei sindacati, parametrate al numero degli iscritti.
Non bastavano poi gli introiti già noti, tra convenzioni con i Caf (85
milioni di euro l'anno, 14,33 euro per dichiarazione dei redditi), i
finanziamenti ai patronati (lo 0,226 per cento dei contributi versati dai
lavoratori), la gestione dei fondi pensione, le società di servizi. Non
bastava il privilegio di poter secretare i bilanci (i sindacati non hanno
l'obbligo di pubblicazione). Non bastano, infine, i denari che i confederali fanno
spendere allo Stato per difendere le loro minoranze, pensionati e dipendenti
pubblici, come ha denunciato per ultima il ministro Emma Bonino. Ci volevano
pure i denari del volontariato. Eppure, la legge parla chiaro: i sindacati non
sono onlus. Il decreto 460 del 1997 li esclude tassativamente dalle
agevolazioni fiscali previste per ong, associazioni e ricerca scientifica. E la
Finanziaria 2005 li esclude ugualmente dalla possibilità di godere del 5
per mille. Ma usciti dalla porta della legge, Cgil e Cisl sono rientrate per la
finestra delle associazioni a loro collegate, utilizzando uno straordinario
mezzo di propaganda e pressione come i Caf. D'altra parte, tranne la Uil di
Luigi Angeletti, tutti i gestori di Caf hanno capitalizzato. Le Acli di Andrea
Oliviero hanno raggiunto quota 228.829 preferenze, il Movimento cristiano
lavoratori di Carlo Costalli è arrivato a 109.748. E nei centri di
assistenza fiscale la percentuale di italiani che versano il 5 per mille sale
fino all'80 per cento, rispetto alla media nazionale del 60. L'Arci, che ha 1
milione di iscritti ma non ha Caf, ha raccolto la miseria di 10.500
indicazioni. Per il presidente Paolo Beni la causa è evidente: "La
competizione con chi conta su Caf e patronati è squilibrata". Ma
Acli e Mcl non sono sindacati, quindi non sono esclusi dal decreto del 1997, a
differenza di Cgil e Cisl, scese in campo utilizzando metodi perlomeno
discutibili. Come quelli segnalati dal settimanale Vita, la bibbia del
non-profit. Il suo direttore Riccardo Bonacina è il padre
"giornalistico" del 5 per mille. Pur difendendo la legge, ha
pubblicato le lettere di chi si è scontrato con l'ostilità dei
Caf. I metodi utilizzati sono diversi. Il più denunciato è
l'esclusione selettiva, e va spiegato. Per la donazione diretta del 5 per
mille, deve tassativamente essere indicato il codice fiscale dell'associazione.
Ma il sistema informatico dei Caf sindacali ne "riconosce" soltanto
alcuni: quelli delle loro onlus di riferimento e, per evitare problemi
"politici", quelli di grandi associazioni come per esempio Airc e
Unicef. Così vengono automaticamente tagliate fuori migliaia di piccole
associazioni territoriali o, secondo le accuse, realtà sgradite.
È capitato anche all'associazione Luca Coscioni: "Il software dei
Caf non accetta il nostro codice fiscale" hanno lamentato gli amici di
Emma Bonino, casualmente avversaria dei sindacati. Per i quali non valgono
soltanto i casi limite delle associazioni fai-da-te come il Ceset. Basta
guardare alle classifiche ufficiali del 5 per mille. L'Auser (associazione per
l'autogestione dei servizi e la solidarietà), costola del sindacato
pensionati Spi-Cgil, ha ottenuto 184.143 preferenze, il secondo posto (dietro
l'Anpas) nel settore del volontariato e il quinto in assoluto, comprese ong e
ricerca. Per il presidente Michele Mangano il risultato è buono ma non
eccezionale: nel 2007 l'obiettivo è di 200 mila preferenze, considerato
che "in molte regioni i nostri associati hanno preferito devolvere il 5
per mille ai servizi sociali dei comuni". Un'opzione esercitata
soprattutto nelle regioni rosse. Ma siccome da quest'anno la scelta a favore
dei municipi è abolita, e le regioni rosse sono fortemente
sindacalizzate, c'è da scommettere che il tetto di 200 mila verrà
ampiamente superato. Sempre di area Cgil è la Federconsumatori promossa
dal sindacato di Guglielmo Epifani: è fuori dalla top ten, ma pure ha
ottenuto 13.638 adesioni. Al nono posto nel volontariato, con 22.037
devoluzioni accertate, c'è l'Anolf, associazione di immigrati cislina.
Meglio ancora è andato l'Iscos, l'istituto sindacale per la cooperazione
allo sviluppo, arrivato a quota 25.948. Di diretta emanazione della Cisl sono
anche l'Ente turistico sociale italiano (1.625 preferenze) e l'Adiconsum, i cui
15.766 fan dovranno attendere: l'associazione di consumatori cislina è
temporaneamente parcheggiata tra i "non validati". Poco male per il
sindacato di Raffaele Bonanni. La campagna pressante sul 5 per mille, lanciata
tra aprile e maggio del 2006, ha trovato sfogo soprattutto nell'Anteas, associazione
nazionale terza età attiva per la solidarietà, classificatasi
quinta nel volontariato con 70.439 preferenze. Sul sito, l'Anteas si descrive
come "associazione ispirata dalla Fnp-Cisl", i pensionati del
sindacato cattolico. Poi, sempre online, c'è un po' di storia:
"Anteas è nata nel 1996. Nel 2003 è stato varato il nuovo
statuto associativo per consolidarne la crescita, all'insegna della
solidarietà". Crescita e solidarietà: ma proprio nel 2003,
quando si è cominciato seriamente a parlare di 5 per mille. Un'ennesima
casualità. Ora però il fato vuole che Stefano Zamagni, presidente
prodiano dell'Agenzia per le onlus, stia mettendo mano al regolamento
d'attuazione del 5 per mille. Dice Zamagni: "Il mercato delle donazioni è
oligopolistico. Serve più equilibrio tra piccoli e grandi. E ci vuole il
rating etico". Sì, ci vuole. Alla faccia del destino cinico e
(soprattutto) baro.
IL
NOSTRO TEMPO Sindacati, le mani sul 5 per mille CARLO PUCA FINANZA CREATIVA
Dietro il grande potere sindacale c'è anche un'enorme
disponibilità economica. Ora ancor più cospicua con
l'introduzione del contributo alle onlus. Dove, nonostante una legge del
1997... A Trapani, in piazza Ciaccio Montalto 27, c'è il Centro
elaborazione studi europei e territoriali. Altrimenti detto Ceset, si dichiara
ufficialmente una onlus, cioè una "organizzazione non lucrativa di
utilità sociale". Insomma, una di quelle meritevoli associazioni
che producono volontariato o ricerca scientifica senza fini di lucro. Il Ceset
ha ottenuto un clamoroso exploit nelle dichiarazioni dei redditi per il 2005:
7.304 persone lo hanno scelto per devolvere il 5 per mille dalla propria
dichiarazione dei redditi. Se si considera che la città ha 70 mila
abitanti, circa il 30 per cento dei contribuenti trapanesi ha premiato il Ceset
per le sue ricerche europee e territoriali, purtroppo sconosciute a internet.
Il Centro ha invece un presidente conosciuto: si chiama Mario Tessitore e di
mestiere fa il sindacalista. Più precisamente è segretario
cittadino della Cisl. E guarda caso la sede trapanese del Caf, il centro di
assistenza fiscale cislino, è sempre in piazza Montalto 27, negli stessi
uffici del Ceset (o viceversa). Psicologicamente, si tratta di un classico caso
di sdoppiamento della personalità (giuridica). Penalmente, sia chiaro,
non c'è nulla di rilevante. Amministrativamente, il caso è invece
al vaglio dell'Agenzia per le entrate, che ha inserito il Ceset tra le onlus
"non validate", cioè prive per il momento di tutti i requisiti
richiesti. Forse basterà un'autocertificazione, forse no, a risolvere il
problema di Tessitore. Certo è che non si tratta di spiccioli. Da un
primo calcolo di Carlo Mazzini, grande esperto di legislazione non-profit,
sarebbe "intorno ai 25 euro il valore di ogni preferenza espressa con il 5
per mille". Un tesoro che sindacati e sindacalisti hanno puntato.
D'altronde parliamo di una Triplice sindacale che fa la cresta con le
organizzazioni europee, dichiarando circa 3 milioni di associati in meno
rispetto ai 10,5 milioni dell'Italia. Il motivo? Risparmiare sulle quote
d'iscrizione alla Ces, la Confederazione europea dei sindacati, parametrate al
numero degli iscritti. Non bastavano poi gli introiti già noti, tra
convenzioni con i Caf (85 milioni di euro l'anno, 14,33 euro per dichiarazione
dei redditi), i finanziamenti ai patronati (lo 0,226 per cento dei contributi
versati dai lavoratori), la gestione dei fondi pensione, le società di
servizi. Non bastava il privilegio di poter secretare i bilanci (i sindacati
non hanno l'obbligo di pubblicazione). Non bastano, infine, i denari che i
confederali fanno spendere allo Stato per difendere le loro minoranze,
pensionati e dipendenti pubblici, come ha denunciato per ultima il ministro
Emma Bonino. Ci volevano pure i denari del volontariato. Eppure, la legge parla
chiaro: i sindacati non sono onlus. Il decreto 460 del 1997 li esclude
tassativamente dalle agevolazioni fiscali previste per ong, associazioni e
ricerca scientifica. E la Finanziaria 2005 li esclude ugualmente dalla
possibilità di godere del 5 per mille. Ma usciti dalla porta della
legge, Cgil e Cisl sono rientrate per la finestra delle associazioni a loro
collegate, utilizzando uno straordinario mezzo di propaganda e pressione come i
Caf. D'altra parte, tranne la Uil di Luigi Angeletti, tutti i gestori di Caf
hanno capitalizzato. Le Acli di Andrea Oliviero hanno raggiunto quota 228.829
preferenze, il Movimento cristiano lavoratori di Carlo Costalli è
arrivato a 109.748. E nei centri di assistenza fiscale la percentuale di
italiani che versano il 5 per mille sale fino all'80 per cento, rispetto alla
media nazionale del
Il referendum può essere stimolo in quanto capace di
«provocare una reazione dell'organismo » malato, cioè del Parlamento
Sin
dall'inizio in molti hanno definito il referendum uno «stimolo ». Pur con
qualche perplessità abbiamo accettato questa definizione. Ma ora che la
prima parte della campagna sta per concludersi, ci siamo interrogati sulla
questione e abbiamo esaminato le definizioni date dal dizionario. Sono tre: «Atto
o effetto dello stimolare, ovvero ciò che stimola»; «Qualunque sostanza
o fattore capace di provocare una reazione dell'organismo»; «Bastone acuminato
che serve a pungolare buoi e bestie da soma». Poiché lo stimolo referendario
è rivolto al Parlamento, scartiamo subito la terza definizione, che
sarebbe gravemente irriguardosa. Restano le altre due, e soprattutto la
seconda, la più adatta alla situazione: il referendum può essere
stimolo in quanto capace di «provocare una reazione dell'organismo » malato,
cioè del Parlamento.
Ci sembra difficile immaginare qualcosa di più forte, di più adatto a provocare una
reazione. E difatti, sin dal momento in cui è stato annunciato, di
reazioni verbali, attacchi e insulti il referendum ne ha provocato a bizzeffe.
Ma la domanda è un'altra: un Parlamento di 24 o 25 partiti (abbiamo
perso il conto) è capace di reagire con i fatti oltre che con le parole?
Quello che è stato fatto sinora lascia molto perplessi. Ecco perché la
definizione di stimolo non ci convince. Non perché manchi la buona
volontà degli stimolatori, ma perché è molto dubbia la
capacità di reazione dello stimolato. Per fortuna il referendum pone un
termine. Per cui, se la reazione non avverrà entro la primavera, saranno
gli elettori a curare la malattia.
23
luglio 2007
Il Riformista
23-7-2007 Scontro nell’Unione sulla
risoluzione sul Dpef di Tonia Mastrobuoni
Il sospetto che la richiesta di Lamberto Dini e Natale D’Amico di recepire
nella risoluzione sul Dpef un obiettivo esplicito e ambizioso di riduzione della
spesa corrente possa rappresentare un nuovo paletto dei moderati, probabilmente
non è infondato. La lettera dei due senatori, pubblicata giovedì
scorso sul Sole24Ore, in piena bufera sulle pensioni, ha immediatamente
provocato la levata di scudi di Rifondazione, che ha già fatto sapere di
essere contraria. Soprattutto la prima delle due firme, quella di Dini, ex
presidente del Consiglio e padre della riforma del ’95, attivissimo nelle
ultime settimane sul fronte della difesa a ogni costo dei saldi di bilancio
dello scalone, non poteva che essere percepita come un nuovo guanto di sfida,
da parte dell’ala massimalista dell’Unione: un segnale lanciato nelle ore
decisive della vertenza sullo scalone soprattutto in previsione di due
settimane che non si annunciano facilissime a Palazzo Madama. Rimandata la
battaglia sulle pensioni a settembre, mancano all’appello due provvedimenti
prima della pausa estiva. Entrambi da discutere al Senato.
Da martedì, in commissione Bilancio, proseguirà la discussione
sul Dpef e sulla risoluzione che accompagnerà il testo in Aula.
Successivamente, dopo il voto finale alla Camera, è atteso nella stessa
commissione il decreto sul tesoretto con probabile voto di fiducia.
Il sottosegretario scioglierà la riserva martedì: «Firmo per il referendum, il voto va cambiato»
Il
sottosegretario Enrico Letta (Ap)
ROMA — Enrico
Letta ha vissuto un mese intenso. Durante la settimana, la
trattativa sulle pensioni. Nei weekend, l’ascolto in giro per il Paese. Oggi
firmerà il referendum: «Penso sia lo stimolo giusto perché il Parlamento
approvi una legge elettorale sul modello tedesco, quello vero, con una soglia
di sbarramento non fittizia». Dopodomani annuncerà la sua decisione
sulla candidatura alla guida del partito democratico. Il sottosegretario alla
presidenza del Consiglio ha davanti a sé le ultime 48 ore di riflessione, ma
è evidente che ormai non potrà sottrarsi.
«È stato davvero un mese importante,
decisivo — racconta dalla sua Pisa, di ritorno da Torino e
Genova e in partenza per l’Abruzzo —. Non ho viaggiato solo nel Nord-Est, in
Veneto e nel Trentino di Lorenzo Dellai, una delle persone con cui mi trovo
più in sintonia; sono stato anche nel Mezzogiorno, a Bari e a Napoli. E
poi in Lombardia, Emilia Romagna, Toscana. Devo dire che dappertutto, sia dagli
imprenditori, sia dagli amministratori, e anche dai presidenti della Sardegna
Soru, delle Marche Spacca e della Basilicata De Filippo, sia dai giovani
è arrivata un’indicazione univoca: la richiesta di primarie vere. Dai
miei interlocutori è venuta una spinta molto forte a decidere per il
sì. Le primarie sono belle quando non c’è un leader designato, ma
tante candidature. Certo: sarebbe faticoso. Si tratterebbe di trovare 2500
candidati in tutta Italia; se ho atteso a lungo, è anche perché ci sono
grandi difficoltà organizzative da superare». Ma non è soltanto
questo. «L’incertezza, il dubbio, sono una delle categorie umane più
importanti e positive. Questo mese mi è servito anche a riflettere sulle
attuali difficoltà del centrosinistra e su come dovrà essere il
partito che nascerà il 14 ottobre». A chiedergli cosa lo divida da Veltroni,
dalla Bindi, da Colombo, Letta risponde in due modi. Evitando la
contrapposizione diretta. Ma distinguendosi, con un’idea del partito
democratico legata alla propria formazione e anche alla propria generazione.
«Walter, Rosy, Furio hanno fatto benissimo.
Sono loro grato. Decidendo di candidarsi hanno deciso di
rischiare, e quindi ci hanno dato una lezione perché il rischio è il
seme della politica. Sono tre personalità che stimo, pur avendo con loro
rapporti e consuetudini diverse. Ma la logica delle primarie impone a chi pensa
di aver qualcosa da dire in più, di avere qualcosa di positivo da
portare, di farlo con la candidatura». Una lista con il proprio nome in
appoggio a un altro può non essere sufficiente: «La via maestra è
metterci la propria faccia. Prendiamo le primarie negli Stati Uniti. Se due
anni fa i dirigenti del partito democratico americano si fossero riuniti e
avessero designato, ad esempio, Hillary Clinton, convincendo gli altri
candidati a ritirarsi, le primarie sarebbero state molto meno coinvolgenti di
quanto non siano con Obama ed Edwards in campo».
Senza considerare che in Italia esiste una
questione specifica, quella generazionale. «C’è una
generazione tra i trenta e i quarant’anni che nella politica è poco
rappresentata, come denuncia Adinolfi. Certo non mi rivolgo soltanto ai miei
coetanei. Ma non mi chiamo fuori: di quella generazione faccio parte; e credo
che abbia molto da dare, soprattutto al partito democratico. Perché il Pd
è il primo partito postideologico. E noi siamo la prima generazione postideologica.
Ci siamo formati negli anni Ottanta; anni bistrattati, che in realtà
sono stati straordinari. E non soltanto per la musica, la tv, il cinema, il
design. Non è vero che siano stati soltanto gli anni del riflusso; la
formazione di chi era ragazzo allora è stata forse più
equilibrata di quella della generazione precedente. Questo ci rende per certi
aspetti più liberi». Gli esempi che si potrebbero fare sono molti. «Aver
cominciato a seguire la vita pubblica dopo la crisi delle ideologie ci ha
avvantaggiati. Non essendoci mai illusi, non abbiamo vissuto la fase della
disillusione». Da qui un atteggiamento più equilibrato, anche nei
confronti dell’America: «Prima di noi è cresciuta una generazione
critica, e anche giustamente: erano gli anni del Vietnam. Qualcosa di simile
sta accadendo ora con l’America di Bush che scatena la guerra in Iraq. Per noi
l’America era il grande avversario dell’Unione sovietica, un Paese che davvero
non esercitava su di noi alcuna attrattiva, così come la Cina
postmaoista. Abbiamo amato gli Stati Uniti, fin da subito; e questo ci rende
liberi, quando occorre, di criticarli». Letta si guarda dall’impostare il suo
progetto sulla contrapposizione generazionale, tanto meno di ergersi a
portabandiera di trentenni e quarantenni.
L’obiettivo è prendere il meglio di
un’esperienza e di una formazione, e portarlo nel Pd. «Vorrei
fare in modo che il nuovo partito sia costruito un po’ come l’enciclopedia
Wikipedia, un po’ come un quadro di Van Gogh. Come accade con Wikipedia, anche
nel Pd ognuno delle centinaia di migliaia di partecipanti deve portare il
proprio contributo, le proprie competenze, che in certi campi sono di sicuro
maggiori delle mie e di quelle dei leader del centrosinistra. E, come i quadri
di Van Gogh, il nuovo partito deve avere tinte forti: un giallo che sia giallo,
un blu che sia blu. Non deve porsi per prima la questione della mediazione, che
è importante, ma dovrà seguire; il Pd deve innanzitutto dire la
sua». Letta dirà la sua già oggi sul referendum. «Firmo». A
ricordargli che in molti nel Pd hanno esitato a sostenere il referendum nel
timore di destabilizzare il governo, risponde che «l’unico modo per indurre il
Parlamento ad approvare una nuova legge elettorale è creare un vincolo
esterno. Come accadde all’inizio del decennio scorso, quando il referendum
costrinse le Camere a varare la legge Mattarella, di cui solo ora si comprende
il valore. Magari la si potesse ripristinare. Purtroppo la legge Calderoli ha
creato un sistema, con il Parlamento nominato dai capi partito anziché eletto
dal popolo, che va assolutamente smantellato». E siccome la nuova legge
avrà bisogno di un vasto consenso, «l’unico modello che può avere
una larga maggioranza e nello stesso tempo combattere la frammentazione e
difendere la governabilità è il sistema tedesco. Credo anche sia
il modello che meglio si adatta alle esigenze del partito democratico». A
chiedergli se la nuova leadership del Pd non indebolirà il governo in
carica, Letta ha uno scatto: «L’accordo sulle pensioni dimostra che il governo
Prodi c’è, eccome».
Letta ne è molto soddisfatto, anche
pensando alla propria generazione: «È stata una prova
di riformismo dei fatti, non delle parole. Certo, tutto è perfettibile.
Ma abbiamo raggiunto tre obiettivi. Tutelare i giovani e i precari, con il
riscatto della laurea, la totalizzazione dei contributi per evitare che un solo
euro versato vada sprecato, e i contributi figurativi per garantire i
collaboratori a progetto. Aumentare le pensioni più basse. E assicurare
la tenuta del sistema previdenziale nel modo imposto dalla demografia,
innalzando l’età pensionabile». Letta però non intende intestarsi
il merito, pur rivendicando di non «aver mai mollato, non essermi mai alzato
dal tavolo e aver sempre invitato gli altri a restarci».
È stato un lavoro di squadra, con i
ministri Padoa Schioppa e Damiano. Ma il protagonista
è stato il vituperatissimo Romano Prodi. «Parliamoci chiaro: la palla
l’ha messa in porta lui. Anche nella notte finale, il ruolo decisivo è
stato suo. Spero che la cosa sia chiara, e che se ne rendano conto tutti».
22
luglio 2007
La
Forleo scatena la bufera tra i politici. Una bufera bipartisan. Le ordinanze
del giudice delle indagini preliminari, Clementina Forleo, con le quali si
chiede l'autorizzazione a utilizzare nei procedimenti per le scalate
Antonveneta, Bnl ed Rcs le conversazioni telefoniche di sei politici tra cui i
diessini Massimo D'Alema e Piero Fassino, si sono conquistate le critiche di
tutti. Immediata la controffensiva dei Ds ma anche del ministro della
giustizia, Clemente Mastella, che parla di possibile lesione di diritti da
parte del magistrato milanese. Il Guardasigilli, che ha dato mandato ai suoi
uffici di acquisire la richiesta inoltrata dal Gip alle camere ravvisando delle
"singolarità", non è l'unico a prendere le distanze dai
provvedimenti di Clementina Forleo. Nella Quercia l'alzata di scudi è
totale. Fassino, D'Alema e Nicola Latorre dichiarano in tre note distinte di
essere estranei "a qualsiasi illecito". Mentre altri esponenti del
partito, tra cui il capogruppo dell'Ulivo al senato Anna Finocchiaro, parlano
di "interpretazione forzata" da parte del Gip. Il vice coordinatore
di Forza Italia Fabrizio Cicchitto si dichiara "preoccupato" per
"l'invasione di campo" da parte della Forleo. Nell'inchiesta sono
coinvolti anche due parlamentari azzurri: Salvatore Cicu e Romano Comincioli.
"Il reiterato richiamo alle regole da parte del Gip di Milano nella
vicenda delle scalate bancarie andrebbe applicato anzitutto alla gestione delle
intercettazioni telefoniche. Contrariamente allo spirito della legge le
conversazioni dei parlamentari sono state sbattute in prima pagina su tutti i
quotidiani nazionali in spregio delle loro prerogative costituzionali, della
privacy e del segreto istruttorio", ha attaccato il vice segretario
nazionale dell'Udc, Michele Vietti. "Quando poi finalmente si chiede al
Parlamento l'autorizzazione di utilizzarle", conclude Vietti, "lo si
fa anticipando un giudizio che dà per scontata la colpevolezza e tende a
mettere la Camera di fronte ad un fatto compiuto". Intanto, nel
centrosinistra, mentre i Ds insorgono e alcuni nella Margherita solidarizzano,
come il capogruppo dell'Ulivo alla cCamera Dario Franceschini che dichiara di
"condividere le valutazioni di Anna Finocchiaro", il ministro delle
Infrastrutture Antonio Di Pietro avverte: l'Idv voterà a favore delle
richieste di autorizzazione. Anche se è pronto a mettere "la mano
sul fuoco" per quanto riguarda l'integrità morale di Fassino. E
mentre Verdi e Pdci, con i capigruppo di Montecitorio Angelo Bonelli e del
Senato Manuela Palermi, sono compatti nel chiedere che sulla vicenda
Unipol-Bnl-Antonveneta-Rcs si faccia finalmente luce e che venga data ai
magistrati tutta la "libertà di agire" di cui hanno bisogno,
il presidente dei deputati della Rosa nel Pugno Roberto Villetti definisce le
ordinanze del Gip una "sentenza fuori processo". Esattamente come il
vice capogruppo dell'Ulivo di palazzo Madama Luigi Zanda che accusa Clementina Forleo
di avere già emanato una sentenza. Ma non sono convinti della iniziativa
della Forleo neanche i tecnici. Per Vittorio Grevi, ordinario di diritto
processuale penale, "in linea di principio il giudice tutte le volte in
cui incontra una notizia di reato deve la trasmettere al pm". Per Mario
Chiavario, ordinario a Torino, "la normativa (la legge 140, ndr) è
sbilanciata verso una tutela eccessiva dei parlamentari", premette,
"visto che a loro stessi è demandato il potere di
autorizzazione". Però poi avanza l'ipotesi che "una invasione
di campo da parte della Forleo ci sia stata. "L'articolo 8 comma due della
legge 140 stabilisce che solo su istanza di parte il giudice può
chiedere l'autorizzazione". E qui l'istanza del pm non sembra proprio
esserci.
MILANO - "Ma cosa avrebbero dovuto fare due
uomini politici del livello di D'Alema e Fassino? Non avrebbero dovuto
interessarsi a quanto accadeva in un settore fondamentale come quello bancario?
La verità, per paradosso, è che non hanno fatto abbastanza".
Gianpiero Fiorani li manda già assolti. Per l'ex numero della Popolare
Lodi, il manager che sperava di creare il più grande polo del credito in
Italia scalando prima Antonveneta e poi Capitalia, i vertici diessini non hanno
compiuto nessun reato. Altro che insider trading e aggiotaggio: a suo dire,
nelle telefonate tra Giovanni Consorte e i politici della Quercia non emerge
nessuna responsabilità. Fiorani ripete, così, quanto ha
già sostenuto davanti ai giudici. E anche in questa intervista non svela
nessun retroscena. Salvo uno: nei mesi del tentativo di scalata ad Antoveneta
ha avuto tra i suoi sostenitori Vincenzo Maranghi, il successore di Enrico
Cuccia alla guida di Mediobanca, morto pochi giorni fa.
Fiorani, non è reato, secondo lei, diffondere notizie su operazioni
finanziaria di cui non è stata avvisata ancora la Consob?
"Ma non ne hanno tratto vantaggi personali. Quando leggo che esclamavano
"abbiamo una grande banca" ci vedo entusiasmo e partecipazione. E la soddisfazione
per aver mantenuto una società importante in mani italiane. Lo stesso
can can andrebbe allora montato nei confronti di Silvio Berlusconi perché aveva
dichiarato che vedeva bene la nostra operazione".
Ma non esistono telefonate di Berlusconi che la chiama per sapere a che
punto è il tentativo di scalata ad Antonveneta.
"È
vero, ma se uno invece di telefonare si adopera per creare il contatto è
la stessa cosa. Ma, lo ripeto, non ci vedo nulla di sconvolgente. Qual è
il paese in cui il politico ad alto livello non si interessa di quanto accade
nella finanza e nell'economia? Non so quanto ci vorrà perché emerga la
verità, ma quel giorno vedremo che la scalata ad Antonveneta è
stata ostacolata da Cesare Geronzi, perché aveva capito che puntavamo a
Capitalia, e dalla massoneria, soprattutto olandese".
E chi ha ostacolato Unipol nel suo tentativo di conquista a Bnl?
"L'allora presidente Luigi Abete con la cordata guidata da Diego Della
Valle e Luca Montezemolo che si sono schierati contro il mondo delle
cooperative".
Quindi Berlusconi si è interessato, ma non l'ha aiutata.
"Come sempre è stato il più furbo. Se l'operazione fosse
andata in porto stia certo che si sarebbe preso la sua parte di merito. In caso
contrario, si sarebbe detto completamente estraneo".
Il pm Clementina Forleo sostiene invece di avere "prove
granitiche" sulle "complicità istituzionali" e chiede di
poter usare nella sua indagine anche telefonate come quelle tra lei e l'ex
senatore Luigi Grillo.
"La dottoressa Forleo è magistrato molto preparato ma è
anche conosciuta per essere un'intemperante: quando si mette in testa una
verità non c'è verso di farle cambiare idea. Fa bene a indagare
se lo ritiene opportuno, ma non dovrebbe dare giudizi di questo tipo prima del
processo. Anche per evitare che si crei un inutile caso mediatico. Eppure la
dottoressa Forleo ha provato sulla sua pelle cosa significa essere nel
tritacarne delle polemiche quando definì guerrigliero un
terrorista".
Non verrà negare l'interessamento del senatore Grillo, un vero tifoso
della scalata ad Antonveneta. Telefonava anche alla moglie del governatore
Antonio Fazio pur di avere notizie da riferirle.
"Ma sono cose da manuale delle Giovani Marmotte. Grillo si comportava come
Sofia Loren nella Ciociara, che tenta di vendicare la figlia violentata".
Ma lei lo sentiva quasi tutti i giorni.
"Voleva ritagliarsi un ruolo, ma non ha portato nessun vantaggio il suo
interessamento. In quei giorni ero sventrato da attacchi che arrivavano da ogni
parte: ammetto che sentire qualcuno che stava dalla mia mi dava un po' di
conforto".
Alla fine non le telefonava più nessuno?
"Non l'ho mai raccontato, ma chi mi ha seguito e
consigliato in tutti quei mesi è stato Vincenzo Maranghi. Ci sentivano
spesso e mi ha seguito in tutte le nostre operazioni di quei giorni. Ho dei
bigliettini bellissimi in cui mi rincuora e mi incoraggia. Sono orgoglioso di
aver ricreato il rapporto tra lui e Antonio Fazio. Maranghi era convinto che il
Governatore avesse tramato contro di lui. L'ho fatto ricredere e li ho fatti
incontrare a Roma. È stato sempre Maranghi a farmi capire che era
finita: la sera in cui ha saputo che la Consob ci aveva denunciato per il
concerto con Ricucci mi ha detto "Fiorani, sono passati dall'altra parte,
ora la vedo molto male..."".
(23 luglio 2007)
Unipol,
il gip Forleo accusa D'Alema, Fassino & c. E finisce sul rogo Il giudice
delle indagini preliminari del tribunale di Milano, Clementina Forleo, ha
inviato in parlamento un'ordinanza con cui chiede di potere utilizzare il testo
delle intercettazioni fra Giovanni Consorte (ex Unipol) e i ds Piero Fassino,
Massimo D'Alema e Nicola Latorre. Analoga richiesta per le telefonate fra
Stefano Ricucci, Gianpiero Fiorani e tre forzisti: Romano Comincioli, Luigi
Grillo e Salvatore Cicu. La richiesta è fatta anche per "rendere
possibile la procedibilità penale" nei confronti dei parlamentari
pizzicati al telefono per ipotesi di reato molto gravi, come l'aggiotaggio e
l'insider trading. Per la richiesta, la Forleo è stata travolta da
polemiche e messa sul rogo (...) Il gip milanese, in passato già finito
nel mirino di parlamentari del centro-destra, viene accusato di avere
oltrepassato i limiti istituzionali anticipando una sentenza di colpevolezza
nei confronti di D'Alema & c. quando nemmeno è iniziata l'azione
penale. Centro-sinistra e centro-destra sono insorti contro chi ha osato ipotizzare
reati così gravi nei confronti di potenti uomini politici, con difese
apodittiche dei parlamentari nel mirino: "Sono così onesti",
"persone per bene", "metterei la mano sul fuoco sulla loro
onestà". Può essere, come in qualsiasi procedimento penale,
che una tesi di accusa si riveli infondata alla prova dei fatti. Ed è un
diritto di chiunque proclamare la propria innocenza. Ma la reazione avuta ieri
trasversalmente da buona parte del parlamento è qualcosa di ben diverso
e inaccettabile. Le circa 140 pagine delle due ordinanze Forleo contengono
nuove intercettazioni, e frasi che non erano note di intercettazioni
telefoniche fra Latorre, D'Alema, Fassino e Consorte che lasciano più di
un dubbio sulla liceità della loro condotta. Il gip Forleo le illustra
motivandone con ampiezza le ipotesi di reato. Lasciamo ai giuristi se questo
avvenga con un eccesso di procedura o meno. Mi sembra molto più
interessante la sostanza, vale a dire la verità sulla scalata Unipol a
Bnl e sulla regia dei Ds in quella operazione. Dico di più: dalle nuove
intercettazioni è evidente che Fassino, D'Alema e Latorre fossero
più che consci dei trucchi e dei sotterfugi utilizzati da Consorte per
aggirare la legge sull'opa obbligatoria. Invece di preoccuparsi del rispetto della
legge e della tutela dei piccoli risparmiatori, hanno avuto a cuore la
protezione degli interessi dei loro amici cooperatori e la costituzione di un
assetto di potere. Spasmodicamente attenti agli amichetti e agli interessi di
parte, nemmeno un secondo a quelli generali. Può essere che questo non
configuri un reato (la Forleo è di parere opposto). Ma certo è
elemento rilevante per giudicare del senso dello stato e della giustizia tipico
di questa casta di intoccabili.Franco Bechis.
Prosegue
l'allarme di una possibile "bolla" immobiliare. I prezzi degli
immobili residenziali crescono senza sosta e i tassi di interesse applicati sui
mutui sono aumentati; dove si e' verificata un'inversione di marcia si e'
trattato di una tendenza effimera di breve periodo.
L'allarme
sui prezzi e sui tassi di interesse si trasferisce presto sui mutui che negli
ultimi otto anni sono piu' che quadruplicati. Questi i principali risultati di
una ricerca del Centro Studi Sintesi di Venezia, che ha quantificando anche i
finanziamenti concessi alle famiglie per l'acquisto di abitazioni.
Duecentotto
miliardi di euro di mutui erogati nel 2006, con una variazione rispetto
all'anno precedente del +13,3%, secondo stime elaborate su dati di Banca
d'Italia: gia' questi numeri preliminari indicano che la tendenza alla crescita
si e' consolidata e non accenna a rallentare. Negli ultimi otto anni le
famiglie italiane hanno piu' che quadruplicato (+326%) il loro indebitamento
nei confronti del sistema creditizio per l'acquisto di immobili, in particolare
nelle province del sud Italia (Vibo-Valentia +992,4%, Crotone +824,2%, Cosenza
+604,2%, Pescara +563,7%)
Gli
italiani si indebitano sempre di piu' per comprarsi la casa. L'aumento della
consistenza dei mutui e' stato certamente favorito dal livello estremamente
basso dei tassi di interesse, successivo all'entrata in vigore dell'Euro, ma
ora si potrebbe arrivare ad una situazione insostenibile per le famiglie.
Accendere un mutuo costa oggi in media il 5,5% di tasso d'interesse annuo. Il
rischio, pero', e' che i tassi continuino a salire, visto che la BCE vorrebbe
nuovamente aumentare il tasso di riferimento di ulteriori 0,25 punti
percentuali nel prossimo autunno.
Tenuto
conto che nel solo anno 2006 il rincaro e' stato di oltre un punto percentuale
(+1,25%), il Centro Studi Sintesi ha stimato il peso di questi incrementi
all'interno del bilancio familiare, informazione particolarmente preziosa visto
che le rate stanno assumendo dimensioni sempre piu' insostenibili per i redditi
piu' bassi. I dati appaiono alquanto preoccupanti: nel territorio nazionale si
prevede una crescita media annuale di 844 euro, che si tradurrebbe in un
incremento mensile della rata di 70 euro. L'impatto maggiore si verificherebbe
nelle regioni centrali, dove il rincaro annuale potrebbe raggiungere i 1.068
euro. Sono 12 le province italiane in cui l'incremento dovrebbe superare i
1.000 euro nel corso dell'anno; fra queste spiccano la capitale, Roma, con un
rincaro di 1.512 euro, Pescara (+1.264 euro), Firenze (+1.213 euro) e Siena
(+1.206 euro). Ai lati bassi della graduatoria, al di sotto dei 500 euro di
aumento si osservano 22 province italiane; da segnalare i rincari contenuti
previsti per le famiglie di Potenza, Vibo Valentia (+324 euro), Frosinone (+358
euro), Reggio Calabria (+361 euro), Enna (+372 euro), Agrigento (+374 euro) e
Sondrio (+388 euro).
La Stampa 22-7-2007 La
più grande gaffe del Belgio Il candidato premier canta
la Marsigliese al posto dell'inno nazionale. Di Marco Zatterin
Si chiama Yves Leterme. E' l'uomo che da settimane sta cercando di
formare la coalizione di governo in Belgio. La notizia è che non
è riuscito nemmeno a cantare l'inno nazionale nazionale. Anzi peggio, su
richiesta ha cantato quello francese, la Marsigliese.
Il fatto è diventata globale in poche ore grazie a Youtube. Il leader
del partito fiammingo cristiano democratico, trionfatore alle elezioni,
è stato approcciato ieri da un giornalista del canale francofono.
Il fastidioso reporter gli ha chiesto perché il 21 luglio fosse festa
nazionale in Belgio e lui non lo sapeva (il giuramento del primo re
Leopoldo, lo scrico per chi non vuole diventare premier nel paese piatto)
.
Spubblicato a vita. E' come se il presidente del consiglio italiano non
sapesse perché si celebra i 2 giugno (il referendumo per la repubblica, 1946,
lo dico per chi vuore diventare premier...).
Per il numero uno della regione fiamminga non è una gaffe isolata. In
un'intervista al giornale francese "Libération" nel 2006 sul
bilinguismo in Belgio, Leterme aveva definito i francesi
"intellettualmente incapaci di imparare l'olandese".
Attualmente il politico fiammingo sta cercando di porre fine alla crisi
politica che dura da cinque mesi, da quando il suo partito di centro destra ha
vinto la maggior parte dei seggi in parlamento. Leterme guiderà
comunque il governo. E' una carica per cui non chiedono storia e
geografia ma voti. E questi li ha avuti.
ps. se volete vedere il filmato è qui, in francese ahimè:
http://www.youtube.com/watch?v=cG5x30_pYME
Il Giornale
21-7-2007 LA PRIMA REPUBBLICA FINÌ PER MOLTO MENO di Maurizio Belpietro –
Europa
21-7-2007 SCALATE «GIUDIZIO ANTICIPATO», POLEMICHE Il gip: «Politici complici»
L’Unità
21-7-2007 Mediare non basta più Gianfranco Pasquino
Il massimo
esperto dei processi berlusconiani torna in libreria con un'analisi spietata
del mondo dell'informazione in Italia. Ne emerge un quadro disperato:
giornalisti corrotti e mercenari, notizie inventate ad arte e falsi scoop,
dibattiti televisivi programmaticamente svuotati di contenuto. In una parola un
efficientissimo “bufalificio”. Il peccato originale, padre
di tutte le degenerazioni dell'informazione, è la scomparsa dei fatti
stessi. E se i fatti vengono sostituiti dalle opinioni, allora tutti possono
dire tutto e il contrario di tutto mentre il giornalista si riduce a megafono
delle idee del politico di turno. Altro che cane da guardia dell'informazione,
al massimo può diventare un “cane da compagnia o da
riporto”. Ma perché un giornalista dovrebbe abdicare al suo ruolo e
nascondere i fatti? Le ragioni sono le più disparate: c'è chi
nasconde i fatti perché semplicemente non li conosce, chi per paura di querele,
chi per non perdere i favori di qualcuno, chi per non contraddire la linea del
giornale e, soprattutto, chi li nasconde perché “è nato
servo”. Leo Longanesi l'aveva capito benissimo: “Non
è la libertà che manca. Mancano gli uomini liberi”. Travaglio
ripercorre i maggiori scandali che hanno attraversato il Paese, da Tangentopoli
fino ad arrivare ai recenti Vallettopoli e Calciopoli, passando per la guerra
in Iraq con annesse “armi di distrazione di massa” e per la
“più grande bufala del nuovo millennio”, la
temutissima e perlopiù sconosciuta influenza aviaria. Periodi
caratterizzati da un alternarsi di indignazione collettiva, revisionismi di
comodo e momenti di totale oblio informativo. Tra gli infiniti esempi di quella
sindrome che il giornalista definisce “Giornalistopoli”
spicca l'evergreen Bruno Vespa. L'inventore della saga di Cogne, con tanto di
plastico modello 'casa di Barbie', viene descritto come un maestro del
“parlar d'altro”. Un episodio più che
esemplificativo: “Quando Previti viene condannato definitivamente in
Cassazione a sei anni, l'amico Bruno opta per un tema ben più attuale:
la dieta mediterranea”. Molti sono i giornalisti che guardano al
professionista d'indiscussa fama come a un modello da imitare. Il simbolo dei
“Vespa boys” è impersonificato, secondo Travaglio,
da Stefano Mensurati, coraggioso conduttore di 'Radio anch'io'. Il suo segreto
sta in una formula semplice e gettonatissima: “Io faccio parlare, ho
un modo di pormi che accoglie le richieste dell'ospite… Che diritto
ho di contestare quel che il politico dice?”. Lo scatenato Travaglio
ne ha per tutti, a destra e a sinistra. Da Giuliano Ferrara ad Ritanna Armeni,
da Cesara Buoamici a Lamberto Sposini, da Enrico Mentana a Giovanni Floris, e
ancora Vittorio Feltri, Lucia Annunziata, Vittorio Sgarbi, fino al quasi
simpatico Emilio Fede. Ma al top della hit parade c'è il
“giornalista-spia”, il leggendario agente Betulla, alias
Renato Farina. Il vicedirettore di 'Libero' “ha confessato di aver
preso migliaia di euro dal Sismi e per conto del Sismi ha pubblicato una serie
di fandonie da competizione”. Il personaggio in questione è
stato sospeso per dodici mesi dall'Ordine dei giornalisti. E Travaglio
si chiede sbigottito: “Ma che deve fare, di grazia, un giornalista
per essere radiato dalla professione. Forse afferrare un computer e sfasciare
il cranio a dei colleghi in redazione?”. In un Paese affetto da mali
ormai incancreniti, dove perfino la matematica è diventata un'opinione e
i giornalisti mutanti “trasgenici” che tutto fanno anziché
il loro dovere, c'è ancora speranza per sviluppare gli anticorpi? Non
tutte le mele sono marce, ci sono ancora i giornalisti con la schiena diritta
che fanno inchieste a dispetto delle querele e delle difficoltà. E il
libro di Travaglio è come uno schiaffo in pieno volto, fa
indignare, lascia l'amaro in bocca, ma non è una resa. E' un grido di
battaglia per ricordare che la missione del giornalista è una sola:
“Raccontare i fatti. Possibilmente tutti. Possibilmente
veri”. Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti, Il saggiatore,
pp. 316, 15 euro.
Ve lo ricordate?
Era il 31 dicembre del 2005. In attesa dei botti di capodanno alcuni onorevoli
membri del centrosinistra diedero un’occhiata distratta ai quotidiani,
immaginando di leggervi le solite cronache prefestive: il bilancio dell’anno
appena concluso, le nuove mete delle vacanze, gli acquisti per il cenone. Anche
se la mente era un po’ distratta dall’imminente veglione, quando presero tra le
mani Il Giornale gli autorevoli esponenti di Ds e Margherita furono scossi.
Sulla prima pagina campeggiava il sunto di una telefonata tra Piero Fassino e
Giovanni Consorte, il capo di Unipol. «Siamo padroni di una banca?», chiedeva
trepidante il segretario della Quercia informandosi sulla scalata che le
assicurazioni delle Coop stavano per lanciare. Dall’intercettazione emergevano
le mosse segrete dell’Opa, ma anche le trame del gruppo dirigente del maggior
partito di sinistra. Subito si alzò la cortina fumogena di ciò
che resta di Botteghe oscure. Fassino e compagni gridarono al complotto.
D’Alema sprezzante parlò di immondizia. In pratica, grazie anche al
fiancheggiamento dei giornali amici, i Ds evitarono di render conto delle loro
scorribande nel mondo bancario e delle relazioni intrattenute con Consorte: con
lui al telefono ho parlato di vacanze, mentì il presidente della
Quercia, e molti fecero finta di crederci.
La telefonata rivelata dal Giornale in realtà
alzò il velo sulla madre di tutti i traffici diessini.
Quell’intercettazione è infatti la base di tutto quello che è accaduto
dopo. Il tentativo di rimuovere quattro ufficiali della Guardia di Finanza, le
pressioni e le minacce che porteranno alla destituzione dello stesso comandante
delle Fiamme gialle, il primo tentativo di vietare la pubblicazione delle
intercettazioni telefoniche.
Da quel 31 dicembre 2005 partì una campagna
politica che puntò a seppellire, ma anche a minimizzare il contenuto
delle conversazioni tra i vertici dei Ds e quelli di Unipol. «Nulla di
penalmente rilevante», seguitarono a dire Fassino e D’Alema. «Chiacchiere tra
compagni». «Innocenti richieste di informazioni». Che quelli non fossero
semplici scambi di opinioni a noi è sempre stato chiaro. Che la versione
minimalista fosse un’autoassoluzione che faceva perno sul porto delle nebbie
milanese, ossia sull’«incapacità» della Procura lombarda di trovare
prove a carico dei postcomunisti, noi non lo abbiamo mai dubitato. I bottegai
oscuri contavano sul solito insabbiamento, ma stavolta una serie di fatti non
sono andati per il verso giusto. Il generale Roberto Speciale si è messo
di traverso e non ha trasferito gli ufficiali della Finanza che avrebbe voluto
rimuovere Vincenzo Visco. La Procura, di solito molto sollecita quando si
tratta di indagare sul Cavaliere, aveva fatto sapere che quelle telefonate non
erano niente di che, ma il giudice Clementina Forleo, nel richiedere l’utilizzo
delle intercettazioni, sostiene – pur senza nominarli - che i vertici dei Ds
«non furono passivi ricettori di informazioni penalmente rilevanti» e neppure
tifosi del disegno di Unipol, ma «consapevoli complici di un disegno criminoso
di ampia portata».
Il giudizio della Forleo, che è
certamente un magistrato fuori dagli schemi, non è una sentenza
definitiva. Un gip si può sbagliare. Tocca ai vari gradi del processo
accertare i fatti ed emettere condanne o assoluzioni. Una cosa però
è certa. Da oggi in poi i vertici Ds non possono più raccontare
che quelle erano conversazioni prive di interesse. Soprattutto non possono
sperare che il Parlamento blocchi l’uso delle telefonate. Certo, proveranno a
stoppare la Forleo e le indagini. Ma ricordino: la prima Repubblica finì
quando la Camera negò l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi.
Per la fine dei Ds servirebbe molto meno.
Due
ordinanze per 35 telefonate scuotono il parlamento al quale il gip milanese,
Clementina Forleo, chiede l’utilizzo delle intercettazioni relative alle
scalate su Antonveneta, Bnl-Unipol e Rcs.
Sono sei i politici coinvolti: i ds D’Alema, Fassino, Latorre e Grillo,
Comincioli e Cicu di Forza Italia. A far discutere e “preoccupare” – tanto che
il ministro Mastella ha disposto l’acquisizione dell’atto definito «singolare »
– sono le considerazioni svolte dal gip, laddove sembra già concludere
che i politici, pur estranei al procedimento, «erano consapevoli partecipanti
di un disegno criminoso di ampia portata». Le reazioni non si sono fatte
attendere. Fassino rivendica la sua «assoluta estraneità a qualsiasi
condotta illecita» così come Latorre. D’Alema si rifà alle
intercettazioni già rese pubbliche: «Tutti possono constatare l’infondatezza
di quanto sembra mi venga contestato» dice. Per Zanda (Ulivo) quella della
Forleo più che un’ordinanza sembra «una sentenza».
Troppo
spesso appiattiti sulla, peraltro significativa, cronaca quotidiana,
dimentichiamo gli elementi strutturali che segnano la politica italiana.
È vero: l’attuale coalizione di governo è attraversata da molte,
eccessive, linee di divisione politica che, qualche volta, portano a paralisi
decisionale, qualche volta a compromessi al ribasso. Criticare tutto questo
è doveroso; potrebbe addirittura essere utile.
È altrettanto vero che negli anni sessanta le coalizioni di governo
erano spesso destabilizzate dalle correnti interne ai due maggiori partiti,
Democrazia cristiana e Socialista, mentre negli anni ottanta il pentapartito fu
scosso dalle prese di posizione, spesso del tutto particolaristiche, dei
socialdemocratici, dei liberali, dei repubblicani, senza contare gli scontri,
solo apparentemente epocali, fra la strategia di Craxi e quella di De Mita.
Tuttavia, da allora sono cambiati alcuni elementi che rendono gli attuali
scossoni dentro il governo dell’Unione più forti e più
pericolosi.
Il primo elemento è che la coalizione di centro-sinistra è,
proprio perché rappresentativa del suo variegato elettorato, molto, qualcuno
direbbe fin troppo, composita. Quindi, ciascuna delle componenti, sapendo di
essere necessaria e, al tempo stesso, avendo bisogno politico di differenziarsi
da tutte le altre, tira la corda dalla sua parte. Il secondo elemento è
che nella cosiddetta Prima Repubblica era quasi dato per scontato che, in
assenza di qualsiasi possibilità di alternanza, le crisi di governo
potessero essere risolte da rimpasti ministeriali e persino da uscite e
ingressi degli stessi partiti (esemplare, in negativo, il decennio del
pentapartito) non soltanto senza andare ad elezioni anticipate, ma anche senza
essere accusati di violare un eventuale mandato elettorale. Il mandato non lo
aveva comunque ricevuto il governo, ma era stato ottenuto dai segretari di
partito che, entro limiti abbastanza chiaramente definiti, se lo “giocavano”
nella formazione delle coalizioni e nella nomina dei ministri. In questa lunga
e irrisolta, si ha addirittura l’impressione che qualcuno non intenda
sostanzialmente più affrontare il problema, transizione
politico-istituzionale, il modello di governo è stato, più o meno
consapevolmente irrigidito. Pur rimanendo l’Italia una democrazia parlamentare,
nella quale, lo sottolineo, i governi si fanno, si disfano, si sostituiscono in
Parlamento, si è fatta strada l’interpretazione, peraltro contraddetta
dalla pratica, che i governi debbano durare “intatti” tutta la legislatura,
oppure che si debba passare ad un’altra legislatura. Certo, la competizione
bipolare dà un minimo (per l’appunto, minimo) sostegno a questa
interpretazione. Inoltre, la stabilità dei governi, a condizione che sia
la premessa dell’efficacia decisionale, è sicuramente un bene da
acquisire e da preservare, ma, per l’appunto, non al prezzo della paralisi. Pur
tenendo conto delle diversità nella coalizione di centro-sinistra e, a
scanso di equivoci, lo sottolineerò con nettezza, della
pericolosità dell’alternativa tuttora guidata da Berlusconi, con le sue
pulsioni anti-politiche e populiste e con il suo incomprimibile conflitto di
interessi, nonché con la sua voglia di rivalsa/vendetta, chi governa la
coalizione non può, preferirei scrivere non deve, mai cercare soltanto
un punto di equilibrio statico, che non scontenti nessuno.
Esagera Prodi quando sostiene che se sono scontenti tutti, questo significa che
la decisione è buona, ma è certo che una buona decisione produce
anche, almeno nel breve periodo, scontento più o meno diffuso. Questo
significa che le cosiddette fibrillazioni nei governi di coalizione sono inevitabili.
Suggerisce anche che debbono essere governate e spostate in avanti quando le
buone decisioni, se si dimostreranno davvero tali, produrranno conseguenze
positive.
La soluzione, secondo alcuni, sta nella costruzione del Partito Democratico.
Quindi, sarebbe sufficiente aspettare (sopravvivere?) finora al 14 ottobre.
Secondo altri, fra i quali mi colloco, la soluzione sta, invece, da un lato, in
alcune riforme elettorali e istituzionali, dall’altro, nello stile e nella
qualità della leadership di governo. Ho l’impressione che un po’ tutte
le componenti del centro-sinistra siano entrate in una strana competizione
interna fatta di manifesti e di contro-manifesti, di posizionamenti e di veti
(alle riforme, in particolare, quella elettorale) e che la leadership di
governo venga costretto ad esercitarsi ed esaurirsi non nel decidere, ma nel
mediare.
La mediazione democristiana fu, spesso, non sempre, una raffinata, ma per il
paese costosa, arte di governo. Temo che oggi, in un sistema bipolare, non soltanto
non sia più possibile, ma non sia nemmeno auspicabile. Dunque, prendendo
atto delle intrinseche difficoltà dei governi di coalizione e delle
più improbabili e più rischiose, ma non tanto rigide come, pur
comprensibilmente, vorrebbe Arturo Parisi (“nuove alleanze, nuove elezioni”)
modalità di sostituzione dell’attuale compagine governativa, chi voglia
cambiare in meglio ha il dovere di essere lungimirante e “sistemico”. Quelle
riforme che giovano al sistema politico e socio-economico possono consentire
alla coalizione di centro-sinistra di rilanciarsi. Tutto il resto, ahinoi,
gioca nelle mani del, pur diviso, centro-destra che, comunque, “sistemico”,
ovvero interessato a migliorare qualità e rendimento della democrazia
italiana, proprio non è stato e non sarà.
Otto anni di alti e bassi, sotto l'influsso di eventi politici e scelte
economiche
Il
palazzo della Bce a Francoforte
ROMA - Ormai lo chiamano tutti
supereuro, come se fosse un superoe, perché oggi ha raggiunto la quota di
1,3843 sul dollaro: è il record assoluto, un livello mai raggiunto
finora. Quando nacque la moneta unica europea aveva due ambizioni. La prima,
far compiere al Vecchio Continente un altro passo sulla strada
dell'integrazione. La seconda, sfidare il biglietto verde come moneta principe
degli scambi internazionali. Quello tra euro e dollaro è stato una
relazione fatta di alti e bassi, e a dettare i rapporti di forza sono stati gli
eventi politici, oltre alle scelte dei responsabili dell'economia.
Per la gente comune la data di nascita dell'euro è il primo gennaio
2002, quando i cittadini ebbero la possibilità di toccare con mano la
moneta e utilizzarla nella vita di ogni giorno. In realtà, all'epoca
aveva già 3 anni di vita, perché gli operatori finanziari avevano
cominciato a scambiarla sui mercati il primo gennaio 1999. A quella data un
euro valeva 1,1667 dollari. Il 4 gennaio, primo giorno di contrattazioni, la
moneta europea salì immediatamente, per poi cominciare un'inesorabile
discesa. La parità venne raggiunta il 2 dicembre 1999, per arrivare al
minimo storico di 82,30 cents il 26 ottobre del 2000.
Il 2001 fu ovviamente un anno di svolta. Gli attacchi alle Twin
Towers, l'offensiva Nato in Afghanistan, e più in generale il senso di
incertezza geopolitica non poterono non influenzare i mercati. L'euro
cominciò una lenta risalita. 90 centesimi il 1 gennaio 2002, e una nuova
parità raggiunta il 15 luglio dello stesso anno.
L'attacco americano all'Iraq, l'incubo terrorismo, le incerte prospettive di
ripresa dell'economia statunitense, la politica del dollaro debole favorita dal
segretario al Tesoro, John Snow, portarono l'euro a rafforzarsi sempre di
puiù . Il 19 maggio del 2003 superò la quotazione della nascita,
salendo a 1,17 dollari. Il 30 dicembre 2004 fu toccato un record di 1,3666
dollari per un euro.
La moneta unica scese in concomitanza con gli eventi politici e le lotte
sociali che turbarono la quiete del Vecchio Continente, come la bocciatura
della Costituzione europea e la rivolta delle periferie di Parigi. Poi, una
nuova risalita. Fino al record odierno.
(20 luglio 2007)
Loro, democratici e socialisti lo sono di nome e di fatto. E oggi stanno con
Veltroni. Stiamo parlando dell’area della sinistra Ds nata dopo il congresso di
Firenze sulla scia della terza mozione, quella Angius-Zani per intenderci, che
raccolse il 10% circa di consensi. Ebbene, oggi, l’area dal nome Dls
(Democratici, laici e socialisti, appunto) terrà la sua prima assemblea
nazionale per stabilire modi e forme della propria partecipazione alla fase
costituente del Pd. E - non è un dettaglio - per ufficializzare il
sostegno alla candidatura Veltroni. Saranno presenti, ma solo come osservatori,
Vita e forse Cuperlo. Loro (il grosso della ex terza mozione), che democratici
e socialisti lo sono di nome e di fatto, presenteranno un documento lungo e
articolato: «Il nostro impegno (si legge nel documento) sarà dedicato ad
unire, per realizzare un nuovo soggetto politico popolare, laico, pluralista,
di sinistra, radicato nel mondo dei lavori, della ricerca, dei ceti medi e
produttivi, in grado di svolgere la funzione sociale e di governo dei grandi
partiti socialisti e socialdemocratici europei». Con questo documento, loro
manifesteranno oggi la volontà di stare a pieno titolo, anche se con il
proprio programma, dentro il processo costituente. E di sostenere la
candidatura di Veltroni.
L’“effetto V” (nel senso di Veltroni) ha fatto cadere una ad una le principali
riserve che gli ex terza mozione avevano sollevato al congresso di Firenze.
Spiega Marco Pacciotti, portavoce di Dsl: «Veltroni è un elemento di
novità politica. Ci ha convinto con l’intervento di Torino su molti temi
come la laicità, il welfare, e il fatto che abbia tolto di mezzo quel Manifesto
di Orvieto su cui avevamo avanzato critiche al congresso. Se queste sono le
premesse l’orientamento verso Veltroni è forte». Dello stesso parere
Massimo Brutti: «La nostra critica era che tutto si risolvesse tra i gruppi
dirigenti dei Ds e della Margherita. Sulla necessità di allargare il
percorso con Veltroni c’è un punto di convergenza». E aggiunge Sergio
Gentili: «Veltroni ha messo l’accento sui temi ambientali, della sicurezza,
della precarietà del lavoro, della cultura e dell’istruzione. Un vero
discorso da premier».
È ancora presto per dire se Dls farà una propria lista di
appoggio, oppure se confluirà nel listone riformista che
appoggerà il sindaco. Sul piano generale, per Brutti, l’obiettivo
è «allargare il campo». In questo senso, spiega il senatore dell’Ulivo:
«una pluralità di liste può essere utile». Ma non sarà
questo l’argomento di oggi. Per ora i democratici e socialisti del Pd sono
impegnati a fissare le coordinate di fondo della propria partecipazione alla
costituente. E vedono proprio nell’abbandono del Manifesto di Orvieto spazi per
condizionare l’agenda dei contenuti del futuro partito: welfare, diritti,
sviluppo sostenibile ambiente, laicità (dai Dico al testamento
biologico), dal punto di vista, ovviamente, democratico e socialista.
A Roma il gruppo dirigente sembra non avere dubbi sull’appoggio a Veltroni. Il
ragionamento che viene fatto suona più o meno così: «Spazi per
una candidatura autonoma non ce ne sono, quindi appoggiamo Walter e trattiamo
il più possibile sui contenuti». Ma è proprio sul «trattare» che
qualcuno esprime qualche perplessità, e vorrebbe una linea più
dura sulla base di un ragionamento che suona più o meno in quest’altro
modo: «Partiamo dai contenuti della mozione e magari anche da un candidato di
bandiera, per appoggiare Veltroni in un secondo momento». Tra i responsabili
regionali non ha dubbi il coordinatore del Lazio Giovanni Carapella: «Daremo un
forte sostegno a Veltroni sull’asse della piattaforma di Torino, chiaramente
arricchendola con i nostri contenuti». Più trattativista quello del
Veneto, Walter Vanni, che spiega: «Invece di partire dal candidato vediamo le
dichiarazioni di intenti di tutti i candidati e confrontiamoli con la nostra
mozione. Poi decidiamo». Uno schema, questo, che vorrebbe dire appoggiare, in
alternativa a Veltroni, Furio Colombo, visto che sugli altri vale la
pregiudiziale Pse. Parte invece dal metodo la coordinatrice dell’Emilia
Romagna, Gabriella Ercolini: «Veltroni è una novità forte ed
è la candidatura cui guardiamo con interesse. Ma dobbiamo approfondire
sui contenuti. E serve anche un incontro chiarificatore». Nei fatti: dai Dls
partirà oggi un via libera a Veltroni.
+ La
Repubblica 20-7-2007 Il ritorno dei laureati al lavoro. le imprese li assumono
di nuovo.
Il Riformista
20-7-2007 La candidata Rosy Bindi: voti una, prendi tre di Claudia Mancina
La Repubblica
20-7-2007 Firme sui costi della politica preso d'assalto il banchetto la
raccolta
L’Unità
20-7-2007 Occhio agli hamburger americani di Alberto Crespi
ROMA
I politici intercettati nell’ambito dell’inchiesta in
corso a milano sui tentativi di scalata ad antonveneta, bnl e rcs «all’evidenza
appaiono non passivi ricettori di informazioni pur penalemnte rilevanti,
nè personaggi animati da sana tifoseria per opposte forze in campo, ma
consapevoli complici di un disegno criminoso di ampia portata».
E' quanto scrive
il gip di milano, Clementina Forleo, nell’ordinanza
inviata al parlamento per chiedere alle camere il via libera all’utilizzazione
delle conversazioni intercettate nel procedimento penale. Per il magistrato
milanese «sarà proprio il
placet del parlamento a rendere possibile la procedibilità penale nei
confronti dei suoi membri», definiti dal gip «inquietanti interlocuri di
numerose di dette intercettazioni».
Il «disegno
criminoso di ampia portata» evidenziato dalla Forleo nell’ordinanza, a
giudizio del magistrato milanese «si stava consumando proprio ai danni dei
piccoli e medi risparmiatori in una logica di manipolazione e lottizzazione del
sistema bancario e finanziario nazionale». Quanto al ruolo rivestito nella
vicenda dagli uomini politici, per il gip «è evidente come,
risultando a carico di tali soggetti solo le granitiche risultanze di cui al
tenore delle conversazioni in questione, non si saresbe potuto procedere alla
relativa iscrizione degli stessi nel registro degli indagati data appunto l’attuale
inutilizzabilità».
La
partita delle pensioni non è solo una sfida per i conti pubblici in
tutta Europa, è anche e soprattutto una sfida che implica profonde ripercussioni
nel mercato del lavoro e chiama in causa il ritmo di crescita dell'economia.
Non solo: le conseguenze dell'invecchiamento della popolazione non sono uno
"tsunami" che provocherà improvvisamente dei problemi, ma il
frutto di un processo lento. Bisogna sapere però che la "finestra
di opportunità" per intervenire nelle condizioni più
favorevoli aperta nel 2004 si chiuderà piuttosto in fretta, nel 2011.
Fra quattro anni. E' su questo scenario che si fonda la Commissione europea
quando chiede ai governi maggiore coraggio. Vediamo come stanno le cose. La
popolazione europea invecchia rapidamente: fino al 2050 i tassi di
natalità resteranno al di sotto del tasso di rimpiazzo naturale della
popolazione; calo delle nascite e imminente pensionamento dei ‘baby boomers'
(nati tra il 1946 e il 1964) faranno raddoppiare al 54% il cosiddetto ‘tasso di
dipendenza', cioè il numero di anziani di 65 anni e oltre rapportato al
numero di 15-64enni. In pratica, mentre oggi lavorano quattro europei per
anziano, in futuro ne lavoreranno soltanto due. L'invecchiamento progressivo
della popolazione è spinto da altri due fattori: l'aumento
dell'aspettativa di vita, già aumentata di otto anni dal 1960 e stimata
aumentare entro il 2050 di sei anni per i maschi e cinque per le donne; la
maggiore immigrazione pari a 40 milioni di persone. Risultato: la popolazione
europea passerà da 457 milioni nel 2004 a 471 milioni nel 2027 per
scendere a 454 milioni nel 2050. E sarà più vecchia: la
popolazione in età di lavoro tra i 15 e 64 anni perderà 48
milioni di effettivi pari al 16% del totale; i 65enni e oltre aumenteranno di
58 milioni (+77%). Per il mercato del lavoro non sarà il migliore dei
mondi possibili. Anzi. Dopo uno studio sui limiti alla crescita e al miglioramento
degli standard di vita gli economisti della Dg affari economici della
Commissione Ue Giuseppe Carone e Declan Costello (1) concludono che
"nonostante il dibattito sull'invecchiamento della popolazione riguardi i
costi di bilancio, l'impatto più immediato e drammatico sarà
avvertito proprio nel mercato del lavoro". Nella Ue a 25 membri fino al
2011 sia la popolazione in età di lavoro che il tasso di occupazione
(63% nel 2004, 70% nel 2020) aumenteranno: ecco la cosiddetta ‘finestra di
opportunità' per avviare riforme strutturali. Si tratta di una
condizione favorevole perché sia l'andamento demografico sia quello della
forzalavoro sosterranno la crescita economica. Poi la musica cambierà.
Tra il 2012 e il 2017 l'aumento dei tassi di occupazione ammortizzerà il
calo della popolazione in età di lavoro dovuto al ritiro della
generazione dei ‘baby boomers'. Dopo il 2018 non ci sarà più un
fattore che compenserà l'invecchiamento della popolazione una volta
esaurita la spinta propulsiva degli ingressi femminili nel mercato del lavoro.
Inoltre, in assenza di riforme che prolunghino l'età lavorativa, il
tasso di occupazione degli anziani è previsto ristagnare. Risultato: sia
la dimensione della popolazione in età di lavoro che il numero di
occupati caleranno. Dopo essere aumentati di circa 20 milioni tra il 2004 e il
2017, l'occupazione è prevista ridursi di circa 30 milioni di
unità. Ciò indica chiaramente che i motori della crescita
economica cambieranno regime: l'occupazione fornirà un contributo
positivo fin verso il 2010, che diventerà neutrale tra il 2011 e il 2030
per poi diventare negativo. Riducendosi l'offerta di lavoro, il fattore
determinante per mantenere un adeguato livello di crescita sarà la
produttività. Tenendo conto che le proiezioni sull'andamento della
produttività per addetto indicano una crescita media dell'1,7% per tutto
il periodo fino al 2050 nella Ue a quindici membri (è più elevata
nei dieci paesi entrati nel 2004), il tasso di crescita potenziale annuo
dovrebbe calare dal 2,2% del periodo 2004-2010 all'1,8% tra il 2011 e il 2030 e
all'1,3% tra il 2031 e il 2050. La proiezione per gli altri dieci paesi
è peggiore dato l'andamento demografico ancora meno favorevole (dal 4,7%
al 3% allo 0,9%). Se questo è lo scenario ipotizzabile l'allungamento
dell'età lavorativa deve far parte di una strategia europea se si vuole
mantenere un livello di crescita in grado di mantenere l'attuale standard di
benessere.
MESSINA - Il referendum sulla legge elettorale con
ogni probabilità si farà, a meno di una nuova legge o di una fine
anticipata della legislatura. «Abbiamo le 500 mila firme» ha dichiarato infatti
il presidente del Comitato promotore dei referendum elettorali, Giovanni
Guzzetta, che si trova a Messina, sua città natale, per concludere il
tour referendario. Guzzetta ha anche sottolineato che ora si tratta di
raggiungere quota sicurezza di 570 mila firme.
SOGLIA DI SICUREZZA - «Mi sono sempre imposto serietà
nell'informazione ai cittadini sull'andamento della raccolta e quindi ho atteso
questo giorno - ha affermato - per potere dare una notizia certa e
circostanziata che faccia un po' piazza pulita delle tante asserzioni e fuga di
notizie non accreditate. Oggi posso dire che presso il Comitato Nazionale di
Roma sono presenti già 500 mila firme. Ciò ci dà molta
soddisfazione, ma ribadisco che, come abbiamo sempre detto, la soglia di
sicurezza è di 570 mila firme e questa soglia non è stata ancora
raggiunta. Faccio pertanto appello al rientro delle firme». «Siamo ottimisti -
ha proseguito Guzzetta - sul fatto che ce la faremo e colgo l'occasione, dopo
aver ringraziato tutti i comitati locali, per esprimere un elogio e un
ringraziamento per tutti quei volontari che a decine in queste ore lavorano
senza interruzione presso il Comitato per controllare tutte le firme. È
merito anche loro, e del nostro coordinatore organizzativo, Antonio Funiciello,
se stiamo conseguendo il risultato sperato».
20
luglio 2007
A fine 2007 quasi un nuovo
assunto su dieci sarà uscito dall’università. Una percentuale
mai raggiunta dal 2003. Dalle imprese posti per 75 mila. Nel pubblico 43 mila.
La richiesta soprattutto nei servizi avanzati. Ma è
ancora forte lo squilibrio tra le scelte dei giovani e i titoli richiesti dal
Sistema Italia. I risultati di un'indagine di Unioncamere. TABELLA: le Top 20
province. ASSUNZIONI: dal 2003 a
oggi. TITOLI: gli indirizzi
più richiesti
di FEDERICO PACE
Torna a tirare una leggerissima brezza nelle vele dei
laureati alla ricerca di un impiego. Perduti da un bel po’
di tempo, come le navi delle storie di Conrad, nel bel mezzo di una bonaccia.
Fermi al palo, non per colpa loro, da troppo tempo, sembrano infine poter
ritrovare un poco di spinta per provare a muovere i primi passi nel mercato del
lavoro. Sì perché da
quest’anno, dopo un tempo che è
parso infinito, le cose stanno tornando a girare per il verso giusto.
Veniamo ai numeri. Nel 2007 i laureati che troveranno
un impiego, secondo il rapporto Excelsior di Unioncamere, saranno 187 mila e cinquecento.
Di questi poco più di 75 mila entreranno in un’impresa privata e 43 mila andranno a rinfoltire le file
della pubblica amministrazione. Per il resto circa 68 mila troveranno la strada
come lavoratori autonomi. Numeri che se non fanno sorridere a tutti denti, di
certo fanno smettere la maschera di pessimismo che siamo stati costretti a
indossare in questi anni. Quel che desta più
sorpresa è che proprio le imprese, che fino all’anno scorso, quelle che dei laureati proprio sembrava non ne
volessero sentire parlare, proprio loro sono tornate a cercarli. Tanto che a
fine 2007 quasi un nuovo assunto su dieci arriverà
da una facoltà. Una percentuale mai toccata dal
2003 a oggi (vedi tabella ).
Ma quali sono le ragioni di questa tanto attesa
inversione di tendenza? “Il settore manifatturiero – ci ha detto Claudio Gagliardi, direttore del centro
studi di Unioncamere (leggi l'intervista
integrale) - sembra avere ora la necessità
di procedere a un recupero dell’efficienza della
macchina organizzativa, fatto che si traduce nell’acquisizione
di figure professionali di livello elevato da impiegare nella gestione, ovvero
che possano rafforzare le aree dedicate al marketing commerciale.”
A incidere è anche il
crescente peso del settore dei servizi all’interno del
Sistema Italia che tende a favorire una maggiore richiesta di figure con una
formazione più elevata. “L’aumento progressivo dell’incidenza
del settore terziario – prosegue Gagliardi - spiega il
fatto che proprio da questo segmento provenga il nuovo slancio della domanda di
dirigenti, impiegati con elevata specializzazione e tecnici. Ma anche l’evoluzione “sociale e culturale” che anche il nostro Paese sta avendo si traduce in una
maggiore domanda delle imprese di tre “filiere” professionali: quella legata al mondo della scuola e dell’istruzione; quella socio-sanitaria (infermieri,
fisioterapisti, assistenti sociali, ecc.); quella espressa da molte professioni
legate alle arti, allo spettacolo e ai media”.
Le grandi imprese. A dargli un’opportunità saranno soprattutto le imprese di grandi dimensioni.
Quelle con più di 250 addetti. Nel loro caso il
17 per cento dei nuovi assunti saranno proprio laureati. Sempre molto difficile
invece la strada verso le piccolissime imprese (quelle con meno di dieci
dipendenti) dove solo il 3,8 per cento dei nuovi assunti sarà
uscito da una facoltà universitaria. Un problema
questo che sarà bene non prendere sotto gamba
visto il peso sulla dinamica occupazionale di queste imprese (quattro
assunzioni su dieci in Italia vengono da qui). Da un punto di vista
territoriale è nel Nord Ovest a offrire maggiori
opportunità seguito dal Centro. Meno
interessante il Nord Est. Mentre ai minimi ancora la proporzione di laureati
ricercati dalle imprese del Mezzogiorno (solo 5 su cento).
Milano capitale dei laureati. Quasi un quinto di loro troverà
un impiego a Milano dove verranno assunti entro la fine del 2007 più di 14 mila laureati, ovvero il 20,3 per cento dei
nuovi assunti (vedi tabella). Subito dietro il capoluogo lombardo c’è Roma con un numero di assunzioni supererà le 10 mila unità. Le
cose andranno bene anche a Parma, dove il 16,5 per cento delle nuove assunzioni
riguarderà i laureati, Torino (il 14,9 per
cento) e Pescara (10,9). Nella parte alta della classifica si trovano anche
altre città del Sud come Catania, Palermo,
Napoli, Catanzaro e Reggio Calabria. Tuttavia però
la gran parte delle città meridionali occupa le
posizioni di retrovia. La maglia nera spetta a Isernia con nuove assunzioni per
laureati che interesseranno solo l’1,4 per cento delle
assunzioni, Grosseto (1,9 per cento), Pistoia (2,1 per cento), Teramo e
Oristano (vedi tabella).
Soprattutto economia. In termini assoluti i più
ricercati saranno quelli che hanno un titolo conseguito nell’indirizzo
economico, seguiti dagli ingegneri, i sanitari e paramedici e i
chimici-farmaceutici (vedi tabella).
Credito e servizi finanziari. I settori che si dimostreranno più
interessati a loro sono quelli del credito, assicurazioni e servizi finanziari
dove il 44,8 per cento delle nuove assunzioni del 2007 coinvolgeranno figure in
possesso di una laurea. Buone le opportunità
anche nei servizi avanzati alle imprese (il 29,6 per cento) e nelle
telecomunicazioni (il 33,2 per cento).
Ma non ci sono solo notizie positive. Continua infatti
a esserci un marcato squilibrio tra le scelte dei giovani nei percorsi
universitari e le richieste del "Sistema Italia". Troppo pochi
laureati in economia. Troppi invece quelli che scelgono studi nell'area
politico-sociale e in quella giuridica. Un mancato allineamento tra domanda e
offerta che nel 2006 interessava quasi 88 mila laureati (vedi tabella).
Inoltre i direttori del personale, secondo i dati del
rapporto di Unioncamere, fanno sempre più
difficoltà a fare entrare un giovane in azienda.
Tanto che nel 2007 si assiste a un ulteriore peggioramento della quota di
"under 30" che entreranno in impresa. A fine anno saranno solo il
37,7 per cento dei nuovi assunti, insomma un ulteriore scivolone rispetto all’anno scorso quando erano il 39,5 per cento e sempre più lontani dal 43,3 per cento del 2004.
In un recente sondaggio somministrato a 19 mila giovani
europei con un’età
compresa tra 15 e 29 anni, molti di loro hanno confermato ancora una volta, di
fronte all’impossibilità
di trovare un lavoro remunerato, di essere pronti a seguire un corso di
formazione o ad accettare uno stage pure non remunerato. Insomma la
disponibilità a sacrificarsi, almeno per un po’, ce l’hanno. Resta che questo tipo
di situazione non può essere condotta a lungo
tempo a meno di penalizzare tutte le prospettive di vita. Basti pensare che un
terzo di loro ha detto che la fonte di principale reddito gli arriva ancora dai
genitori. E in Italia questa percentuale raggiunge l’impressionante
quota del 49,8 per cento. La più alta di tutti e
27 i paesi dell’Unione europea. Date un lavoro a questi
giovani e fateli uscire di casa. Fate in modo che anche loro abbiano un futuro.
TABELLA:
Le 20 province
con maggiori opportunità
Le 20 province
con minori opportunità
ASSUNZIONI:
Dal 2003 a
oggi
TITOLI:
Gli indirizzi
più richiesti Lo squilibrio
domanda-offerta
CITTA'
DEL VATICANO
Magari all’inizio qualche sacerdote non vedeva di buon occhio un movimento
fondato da una donna. Ma il carisma dell’unità è stato capito dai
papi e oggi sono centinaia i cardinali e vescovi legati ai Focolari. Dal
rifugio svizzero di Montana, dove è in vacanza, Chiara Lubich (classe
1920, come Giovanni Paolo II), leader dei Focolarini, definita la «donna
più potente della Chiesa mondiale», commenta la svolta del segretario di
Stato Tarcisio Bertone che annuncia più ruoli di responsabilità
al femminile.
Karol Wojtyla le ha donato la sala delle udienze di Castelgandolfo e,
scherzando sui pochi mesi che li separava, la chiamava «sorella maggiore».
Joseph Ratzinger, da prefetto dell’ex Sant’Uffizio, permise all’episcopato di
aderire al movimento e da papa ne ha approvato la «regola». Eppure dalla Trento
dei primi anni ’40 non sono mancate ombre di misoginia sul cammino di una
multinazionale della spiritualità che al primo punto dello statuto cita
il testamento di Cristo: «Che tutti siano uno». Oggi il volto di Chiara Lubich
è con quello di Madre Teresa nel santuario brasiliano di Aparecida. Per
«comporre in unità la famiglia umana», Lubich ha dovuto vincere le
resistenze di un universo al maschile.
«Nella Seconda guerra mondiale ero terziaria francescana, 500 persone mi
seguivano finché il vescovo di Trento, Carlo De Ferrari, m’impose di separare
il Terz’Ordine dal Movimento dell’Unità che avevo creato dicendo: “Qui
c’è il dito di Dio” - racconta Lubich-. In sei decenni, più che
il maschilismo, nella Chiesa ho avvertito la grazia della comprensione.
Giovanni XXIII ha dato l’approvazione al movimento, Paolo VI è stato un
padre e ha riconosciuto la struttura organizzativa». Ora i Focolari sono in
tutto il mondo e in Italia sono sostenuti soprattutto dai cardinali di Firenze,
Milano e Napoli, Antonelli, Tettamanzi e Sepe; il vicario papale Ruini ha
istituito con Lubich il coordinamento del laicato (in prima linea al “Family
day”), il vescovo di Benevento, Mugione, ha donato l’ex seminario diocesano, i
cardinali di Curia, Poupard e Mayer, come il ministro dei Laici, l’arcivescovo
Rylko, hanno favorito la crescita del movimento.
Giulio Andreotti partecipa alla loro messa, Prodi («ci unisce stima e una
vecchia frequentazione») partecipa ai loro raduni ecumenici a Stoccarda, mentre
il Movimento per l’unità, il loro braccio politico, raccoglie adesioni
trasversali in Parlamento. «In ogni partito c’è qualcosa di vero e di
buono da far emergere e valorizzare per il bene comune», precisa. Più
potere al femminile, però, non significa ordinazione sacerdotale delle
donne: «Il valore della donna è altro, il suo contributo non è
necessariamente il sacerdozio, ma la vita, l’amore, la realtà umana in
cui la donna può entrare più facilmente». Hanno avuto qualche
difficoltà con sacerdoti per cui le cose di Chiesa erano cose da uomini.
Poi il Concilio e la conoscenza del movimento hanno aiutato a chiarire. Uno dei
principali supporter è stato l’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla.
«Quando è stato eletto Papa, è stato facile il contatto con lui,
così attento al “genio delle donne”. Ho avuto tante conversazioni e
pranzi con lui. Mi sono sempre sentita considerata, quasi come una sorella. Nel
’98 ha riunito i movimenti e da allora replichiamo l’incontro».
Quando poi esponenti dell’episcopato vogliono entrare nel movimento, Lubich
chiede il permesso al cardinale Ratzinger e lui acconsente. La formula da lui
ideata è il “legame spirituale” tra Focolarini e vescovi (come il
porporato di Praga, Miloslav Vlk). «Del gruppo oggi fanno parte circa 700
presuli di ogni paese, inclusi protestanti, anglicani e ortodossi - afferma -.
Siamo amici di Azione cattolica e facciamo iniziative con altri movimenti. Ora
la Chiesa ci ha chiesto di scrivere ciò che siamo per ottenere un
riconoscimento, così abbiamo presentato gli statuti generali aggiornati
e ottenuto l’approvazione. L’opera è completa».
Abbiamo un governo moribondo che si ostina a vivere.
Così Eugenio Scalfari, che si chiede se questo durare in agonia sia
meglio che decedere subito. Un bel problema. Che ha radici antiche nel senso
che risale al bipolarismo che abbiamo inventato alla caduta del regime democristiano.
Inventato perché è un unicum molto diverso dagli altri bipolarismi.
Il nostro è un
bipolarismo rigido, ingessato, nel quale ogni polo è
un fortilizio chiuso in se stesso. In tutte le altre democrazie, invece, il
bipolarismo è flessibile e aperto; il che vuol dire che ogni polo si
adatta alle circostanze e si apre, occorrendo, a soluzioni «allargate».
Imperocché il nostro è un bipolarismo disfunzionale che si può
inceppare senza rimedio, mentre il bipolarismo flessibile può funzionare
comunque vadano le elezioni. Già, le elezioni. Il bipolarismo
all'italiana si fonda sull'originalissima idea che le elezioni lo devono
servire producendo ogni volta una maggioranza largamente autosufficiente. E se
non lo fanno? E se producono dei pareggi? In tal caso sbagliano gli elettori,
ed è il sistema elettorale che li deve costringere al bipolarismo.
Questo è stato l'intento primario del Mattarellum; ed è sempre lo
stesso intento di «salvare il bipolarismo» che giustifica l'attuale premio di
maggioranza. Forse tutto bene, se non fosse per il fatto che il bipolarismo che
sarebbe da salvare è soltanto la sua deformazione italica, soltanto il
bipolarismo alla Prodi.
La verità è che a livello elettorale una distribuzione dualizzata
tipo «destra- o-sinistra» è normale, è fisiologica, in tutte le
democrazie. Anche il «bipartitismo imperfetto» teorizzato da Giorgio Galli
negli anni Sessanta descriveva una struttura di voto bipolare tra Pc e Dc (che
non era imperfetta in chiave dualistica, ma perché non comportava alternanze).
E la riprova del fatto che il bipolarismo sia fisiologico è data dalla
constatazione che tutte le democrazie occidentali sono bipolari quale che sia
il sistema elettorale.
Il punto è, allora, che
il bipolarismo all'italiana è una costruzione del tutto artificiale,
artificiosa e innecessaria che si ascrive soprattutto alla formidabile
ostinazione di Prodi. Ma oramai i nodi stanno venendo al pettine. Dopo un anno
di governo paralizzato dalla sua non-maggioranza, e anche (come tutti, salvo
Prodi, avevano previsto) da un'insanabile conflittualità interna, lo
scenario sta cambiando. Il quadro non è più quello di un Prodi
«insostituibile», ma di un Veltroni che lo andrà a sostituire.
Così l'ala riformista che Prodi sacrifica da sempre alle istanze del
massimalismo che si è messo in casa, riacquista forza e voce.
Rutelli dichiara che il
nascente Partito democratico «dovrà proporre un'alleanza di
centrosinistra di nuovo conio»; Fassino suggerisce che «tutto il centrosinistra
dovrebbe cercare convergenze più ampie»; e l'ex premier Lamberto Dini
bolla la sinistra bertinottiana come «una minoranza » sconfitta dalla storia, e
si chiede perché non si dovrebbero cercare nuove alleanze. Sì, questo
è il metodo del bipolarismo flessibile. Ma Prodi resta chiuso nel suo
bunker, e il suo fido Parisi controbatte che «questi vogliono solo un ritorno
al passato». Il che sottintende che finché Prodi resta in sella il bipolarismo
che funziona non vedrà mai la luce.
Non so quando sia bene, per il Paese, che Prodi cada. Ma certo Prodi non
è la soluzione del problema: oramai è il problema. Il suo
bipolarismo non è né immaturo né maturo; è puramente e
semplicemente sbagliato.
20
luglio 2007
Cara Europa, dopo aver
letto tutto quello che il Financial Times ha scritto contro la
pubblicità italiana che sfrutta la bellezza dei corpi femminili, apro i
nostri giornali, leggo quelle critiche, ma trovo tutto come prima: cioè
anche loro stampano la suddetta pubblicità e altre immagini. Ma allora
perché i giornali danno rilievo alle critiche moralizzatrici? ANDREA SABATINI,
ROMA
E meno male, caro Sabatini, che ritrova
tutto come prima. Pensi che mortorio se i giornali fossero casti lenzuoli
grigi, tipo Pravda o Popolo d’Italia d’altri tempi; o come certi giornali
stranieri non popolari che leggiamo per dovere, ma ci ricordano l’editoria
depressa del dopoguerra. Ci sarebbe da spararsi, non le pare? Pensi che
l’Italia fascista aveva scelto per suo colore il nero, che è la
negazione della luce, cioè del colore, cioè della bellezza.
Vestivano in camicia nera, come gli ayatollah la cui moda per donne ora piace,
anche al ministro Amato, nel suo quotidiano pendolare. Eppure, già in
quei lontani decenni, dalle copertine dei settimanali (Domenica del corriere,
Tribuna illustrata, ecc.) erompevano formidabili seni, glutei e gambe disegnate
da Boccasile, tutte Elisabette Canalis ante litteram. Anche allora facevano
pubblicità ai telefoni, alle radio, ai primi elettrodomestici. O magari
al flit.
Del resto, per molti secoli, dal Rinascimento italiano, migliaia di artisti e
modelle/i avevano riempito di nudi le magioni di principi, cardinali, mercanti,
i musei: non c’è genio della pittura e della scultura che non abbia
espresso nel corpo – riportato alla luce dopo i burka e i sai medievali – , la
gloria della bellezza, ch’era stata il cuore della civiltà greca e
romana insieme alla politica, alla filosofia, al diritto e all’ordinamento
sociale. Non è vero che la bellezza, specialmente femminile, sia
diventata negli ultimi decenni strumento di carrierismo e di pubblicità:
la pubblicità degli oggetti ha sempre cercato di un corpo per
valorizzare, magari arbitrariamente, la propria bellezza; e quanto al successo
sociale legato al fascino, non abbiamo aspettato la società consumista e
permissiva per costruire addirittura l’Italia anche con l’avvenenza della
contessa di Castiglione e dell’ambasciatore Nigra, l’uno per la gioia
dell’imperatore francese l’altro dell’imperatrice. Solo che certe
libertà e privilegi, che erano riservate alle Dame e ai Cavalieri nelle
società chiuse, nella società aperta sono diventate diritto o
almeno aspirazione di tutti. Contro questa realtà hanno sbattuto il
muso, negli ultimi trent’anni, le prime femministe, i moralisti e ora anche i
giornaloni stranieri (a proposito, qual è lo stato di salute di milioni
di pubblicazioni pornografiche, che dai paesi puritani arrivano fino alle
nostre edicole?). Se in Italia il nudo femminile sui manifesti ci piace (meglio
senza pose da ranocchia ,come l’ultima Elisabetta Canalis), se uomini e donne
non faranno un altro ’77 per proibire i manifesti urticanti, è anche
perché – come ha scritto ieri Joaquin Navarro-Valls, che non dev’essere un
mostro di laicismo – la donna (come l’uomo) è tante cose nella
società italiana, non solo bellezza esibita: e sbagliano i giornalisti
del Financial Times a scambiare il manifesto per la società, “la parte
per il tutto”.
La candidatura di Rosy Bindi non è soltanto utile, come molti hanno
detto, perché allarga il campo del dibattito e vivacizza le primarie. È
una candidatura particolarmente significativa, perché non è
l’espressione di una singola identità (per esempio, quella
cattolico-democratica), ma intreccia varie identità: un tratto che ha in
comune con la candidatura di Veltroni, che non può certo essere
considerata soltanto espressione dei Ds.
Le identità di Rosy sono almeno tre: quella di sinistra, quella
cattolica, quella femminile. È un mix molto significativo, che
può avere un peso nel percorso di costruzione del Pd, al di là
delle motivazioni soggettive - non sempre prive di tatticismi e retropensieri -
di chi nel suo partito l’ha incoraggiata. L’adesione di Franca Chiaromonte,
presidente di Emily, è emblematica. Molte donne probabilmente la
seguiranno. E molti cattolici, o molti che trovano Veltroni non abbastanza di
sinistra. Questa candidatura quindi potrà aumentare l’attrattiva delle
primarie e portare più gente al voto del 14 ottobre; potrà
perfino - se i risultati, com’è possibile, saranno veramente molto buoni
- riaprire la questione del ticket.
Ma potrà anche aprire qualche pista nuova nel Pd. Il bello della figura
di Rosy è che le sue tre identità si modificano l’una con
l’altra. Essere di sinistra da cattolici non è la stessa cosa che
esserlo da ex comunisti. Essere cattolici da donne non è la stessa cosa
che esserlo da uomini. Per la prima volta in Italia una donna si candida alla
segreteria di un grande partito. Non è una cosa da poco. Le donne non acquistano
forza politica chiedendo quote o posti in nome della differenza di genere, ma
mettendosi in gioco direttamente e giocando le loro carte come leader politici.
Il gesto di Rosy da questo punto di vista è molto poco italiano:
somiglia a quello di Ségolène Royal, che ha sfidato il partito e ha
costretto gli altri a schierarsi. Potrebbe segnare l’inizio di una nuova fase
nella presenza politica delle donne italiane, se da parte di queste ci
sarà la capacità di avviare una riflessione nuova.
E tuttavia forse in questo momento l’aspetto più interessante e
stimolante è quello che riguarda l’identità cattolica. Come
spiegava ieri Paola Binetti su queste pagine, i cattolici oggi si trovano
davanti varie opzioni riguardo alla loro presenza in politica, e quindi al
rapporto tra fede e politica. Tra la tentazione di rifare un partito dei
cattolici, e il timore di perdere completamente la propria identità, si
celebra ancora il lungo lutto per la scomparsa del cattolicesimo politico. La
Binetti esclude la via di un partito dei cattolici, e infatti sarà nel
Pd. Ma sappiamo che molti non si fidano di questa prospettiva, e temono uno
spostamento dei cattolici - che finora, com’è noto, si sono equamente
distribuiti nei due schieramenti - nel centrodestra. A questo rischio
rispondono varie riflessioni e ipotesi di aggregazione in vista del Pd, che
qualche volta sembrano adombrare l’idea di una corrente cattolica.
Da non cattolica - quindi con tutto il rispetto per un travaglio che non
è il mio - credo che sarebbe da evitare la formazione di una corrente
così definita nel nuovo partito; che forse sarebbe perfino impossibile
da realizzare, perché tra i cattolici non c’è unità di vedute,
come non c’è tra gli ex comunisti, né tra le donne. È per questo
che la contaminazione delle identità non è solo un auspicio, ma
una necessità non eludibile. Mi sembra che la candidatura di Rosy Bindi
anticipi già in sé tale contaminazione. È difficile pensarla a
capo di una corrente cattolica. Piuttosto, come candidata alla segreteria, dovrà
forse declinare meglio la sua laicità e insieme la sua
cattolicità. Nella difficile vicenda dei Dico, la Bindi ha scontentato i
cattolici ma non ha soddisfatto i laici. La quadratura del cerchio non è
facile, se non ci si decide a uscire da un conflitto di valori che è
indecidibile e che non dovrebbe avere spazio in politica. Se la candidatura di
una cattolica favorirà una riflessione più avanzata su questi
temi, sarà un’ottima cosa, per il Pd e per il paese.
CORRISPONDENTE
DA NEW YORK Capitol
Hill è stata costruita sul modello del colle Palatino, le forze armate
americane hanno il punto di forza nella logistica come i legionari di Cesare,
l’incubo dei confini porosi lungo il Rio Bravo ricorda i problemi del Vallo di
Adriano e la multietnicità accomuna la società degli Stati Uniti
all’antica Roma: sono numerosi i paralleli fra l’unica superpotenza del XXI
secolo e l’impero romano tracciati da Cullen Murphy in Are We Rome?
(«Siamo come Roma?») per domandarsi se «la caduta dell’impero dei Cesari»
coinciderà con «l’inevitabile destino dell’America».
Il libro di 262 pagine firmato dal giornalista che ha diretto per due decadi il
magazine Atlantic
Monthly - ora è a Vanity Fair - è una via di
mezzo fra un testo di storia comparata, una guida attraverso la
«romanità» urbanistica di Washington e un saggio polemico sui costumi
politici di chi è stato eletto al Congresso o alla Casa Bianca.
Ciò che ne emerge sono sei paralleli al vetriolo fra i due imperi
più potenti che la storia abbia conosciuto: Washington condivide con
Roma il fatto di considerarsi senza rivali, l’imponenza arrogante dell’apparato
militare, la dilagante corruzione del potere politico da parte dei privati, la
presunzione di poter ignorare cosa avviene altrove nel mondo, la
difficoltà di gestire i propri confini, l’impossibilità oggettiva
di esercitare un potere enorme. Malcostume politico e imbattibilità
militare costituiscono la miscela con la quale Murphy accompagna il lettore
dentro strade e palazzi di Washington descrivendone le caratteristiche - e i
marmi bianchi - come se fossero gli edifici del Foro.
Ciò che più colpisce l’autore è come, a quasi duemila anni
di distanza, Washington ripeta il modello militare dei Cesari: logistica e
addestramento consentono di prevalere su ogni nemico, le terre lontane (com’era
il limes ed è oggi l’Afghanistan) vengono gestite con isolati avamposti
militari, il teatro globale di operazioni è diviso in un limitato numero
di comandi (cinque per l’Us Army, sette per Tiberio) e appena possibile si
ricorre ai mercenari per fare fronte alla carenza di soldati (gli Usa in Iraq,
i romani in Pannonia). Anche lo scenario della lotta al terrorismo ricorda il
pericolo delle invasioni barbariche, quando Roma dovette ammettere di non
essere in grado di difendere tutti i confini e assegnò alle città
il compito di difendersi dalle scorribande con una decisione che ricorda da
vicino la scelta dell’amministrazione Bush di versare fondi federali a piccoli
e grandi centri per migliorare la capacità di proteggersi da attacchi
come quelli dell’11 settembre.
L’argomento che divide storici e politici: se i neoconservatori Charles
Krauthammer, Bill Kristol e Max Boot credono nella «Pax americana» come
riedizione della «Pax romana», ci sono invece storici come Chalmers Johnson e
Paul Kennedy che ritengono inesorabile il delino americano e altri ancora, da
Niall Ferguson e Victor Davis Hanson, secondo cui la sorte parallela dei due
imperi non è scontata.
Fino alla penultima pagina di Are We Rome? Murphy accompagna il
lettore in un crescendo di paragoni e similitudini che sembrano preannunciare
l’inesorabile dissoluzione dell’attuale egemonia americana nel mondo se non
degli stessi Stati Uniti, destinati a lasciare il posto a secoli di incertezza
e instabilità prima dell’emergere di un possibile successore. Ma
arrivato a trenta righe dalla fine Murphy pone fine al pathos soffermandosi
sull’unica qualità che «l’America possiede e Roma non aveva» ovvero il
fatto che «la classe dirigente romana era scontenta, cinica, pessimista,
credendo nel motto "Nihil potest ultra"» mentre nel dna degli Stati
Uniti c’è la costante volontà di «rendere il mondo un luogo
migliore», grazie a «una profonda fede nelle invenzioni» testimoniata dal fatto
che in duecento anni gli americani hanno attraversato più trasformazioni
scientifiche, economiche e sociali di quanto avvenuto a Roma nel corso di un
intero millennio. Se Catone si lamentava sull’«aver perduto da tempo il nome
vero delle cose», l’americano medio continua a ritenere possibili miglioramenti
di ogni sorta, personali e collettivi, esprimendo una fiducia e una
volontà di creare che fa degli Stati Uniti una costante «fabbrica del
futuro», capace di rigenerare il dna che mancò all’antica Roma. Come
dire: l’America ha una via d’uscita per evitare il crollo imperiale ma deve
avere il coraggio di intraprenderla cercando soluzioni ai problemi che la
affliggono, a cominciare dalla corruzione della vita pubblica e dall’ignoranza
del mondo degli altri.
ROMA
- Al governo è bastato sbirciare tra i conti dell'amministrazione per
scoprire che nell'anno 2007 dell'era Internet, dai ministeri e dagli uffici pubblici
dello Stato vengono spediti per posta 80 milioni di documenti e 20 milioni di
raccomandate. Da un ufficio all'altro, ben inteso. I primi a 1,80 euro
ciascuno, le seconde a 2,80. Spesa complessiva: 168 milioni di euro. Quando e
se il disegno di legge appena varato dal governo Prodi per abbattere i
cosiddetti costi della politica entrerà in vigore, le
scartoffie dovrebbe lasciare il posto al web, alla posta elettronica, quella
che usano ormai più di 20 milioni di italiani. E la spesa di 168 milioni
sarà quasi azzerata: ridotta a 1 milione 823 mila euro. Si scoprono
questi e altri piccoli arcani (ma a sei zeri) della spesa pubblica dal
monitoraggio preparatorio confluito poi nella relazione tecnica e nelle tabelle
del ddl approvato in Consiglio dei ministri e che ora gli uffici hanno
completato. La montagna di posta in transito a caro prezzo costituisce solo uno
dei paradossi emersi dal controllo sullo stato di salute della burocrazia.
Perché si fa presto a parlare di costi della politica, di
privilegi del Parlamento, ma l'amministrazione centrale dello Stato su quel
fronte, a quanto sembra, non teme paragoni. Si prenda l'esempio dei telefonini,
ancora status symbol se concessi in dotazione da ministeri e società
pubbliche ai loro sherpa, ai funzionari, ai componenti degli uffici di
gabinetto. Ebbene, l'indagine condotta dal governo è giunta a una prima
stima di massima. In circolazione ve ne sono 150 mila. E il dato si riferisce
solo agli apparecchi in dotazione ai dipendenti e ai funzionari dello Stato. Impossibile
finora stimare quanti ve ne siano ad appannaggio di Comuni, Province e Regioni.
Nessuno si stupirebbe se fossero altrettanti. La spesa? Varia da gestore, dal
tipo di contratto stipulato e dall'uso. Ma calcoli, anche questi
approssimativi, parlano di 50-100 euro l'anno per ciascun apparecchio. Per un
totale che va dai 10 e ai 15 milioni di euro. Il provvedimento presentato sette
giorni fa dai ministri Santagata e Lanzillotta conta di ridurre l'assegnazione
a chi ha "esigenze di pronta e costante reperibilità", come si
legge nella relazione. Ma il grosso del risparmio il governo spera di
strapparlo sotto un'altra voce, che ha rivelato costi stratosferici,
superiori e non di poco alle previsioni. Si tratta della telefonia fissa. Nella
scheda "Stato attuale della fonia nella pubblica amministrazione" si
calcola qualcosa come 1,5 milioni di postazioni telefoniche. Che nel 2006 sono
costate di 200 milioni di euro per il traffico, di 100 milioni per soli canoni
di utenza e 50 milioni per le spese di manutenzione dei centralini. Il totale
fa 350 milioni di euro. "Quei costi li abbatteremo col passaggio al
Voip, alle comunicazioni telefoniche via Internet, che ci consentirà di
ridurli di almeno 120 milioni di euro" spiega il sottosegretario
all'Innovazione Beatrice Magnolfi, artefice del pacchetto di misure che passa
attraverso l'uso del web. "Come avvieremo la rivoluzione? Tagliando gli
stanziamenti per la telefonia come per la posta del 30 per cento a quei rami
dell'amministrazione, degli enti e delle società pubbliche che non si
saranno adeguati ai nuovi strumenti telematici. Come pure dovranno ridurre le
consulenze e informare i cittadini sulle indennità corrisposte
attraverso i siti web, tanto più che abbiamo scoperto che le amministrazioni
ne hanno aperti ben 1.025: è il momento di farli funzionare e non di
utilizzarli come vetrine". Il deterrente ideato per costringere a tagliare
l'hanno battezzato "ghigliottina automatica" (meno ti adegui,
più ti tagliamo). Lo stesso accadrà con le auto blu. Il governo
ne vuole introdurre di cumulative, riducendone il numero. Ma prima di
intervenire dovrà scoprire quante ve ne sono in circolazione. Perché del
parco macchine, il monitoraggio compiuto non è riuscito ancora a venire
a capo.
-
Bari Centinaia di firme raccolte contro i costi della politica:
è il risultato che ha raggiunto il Comitato contro sprechi e privilegi,
nella sola giornata di ieri. I banchetti, allestiti in corso Vittorio Emanuele,
erano presidiati da Maria Cipresso e Pino Gadaleta, fondatori del comitato, e
dal consigliere comunale Donato Cippone. Nel pomeriggio la raccolta è
continuata in via Sparano. L'iniziativa, partita dalla rete civica "La
repubblica dei cittadini.com", cui il comitato ha subito aderito, ha
incontrato l'adesione forte e spontanea della gente. La petizione, strumento
previsto dall'articolo 50 della Costituzione, vuole sensibilizzare l'opinione
pubblica e i politici su una serie di problematiche che stanno infiammando i
dibattiti di questi giorni: i costi eccessivi della politica, la
responsabilità dei partiti di fronte alla legge, i conflitti di
interessi nelle istituzioni, nell'economia e nella società. A questo si
aggiungono richieste più urgenti e sentite dalla gente, quali la
salvaguardia dell'ambiente e soprattutto la salute che deve essere accessibile
a tutti i cittadini e in tempi brevi. La raccolta delle firme proseguirà
nei prossimi giorni. (m. mor.).
?
MILANO ? E, QUESTA è la novità, i medici saranno obbligati ad
utilzzarla. "Ora come ora, però, sono numerosi i cittadini che la
custodiscono nel cassetto. Gli uffici postali o le Asl, poi, non sono in grado
di rilasciare il pin", denuncia la consigliera regionale (Ulivo)Ardemia
Oriani. "Di fatto - prosegue la consigliera che è membro della
Commissione sanità - la Regione ha speso tanti soldi per varare uno
strumento, la Carta Siss, che non viene utilizzato perchè molti medici
non vi hanno aderito". In altre realtà lombarde, come a Bergamo e
Brescia i cittadini usano il tesserino per pagare bollette, prenotare esami,
richiedere certificati di residenza. Ma su Milano "ci sono
criticità" che dipendono in parte anche dal Comune di Milano che ha
pochi servizi online. Delle future applicazioni della carta sanitaria (progetto
di legge 244 con assestamento di bilancio, ndr) si è discusso ampiamente
nei giorni scorsi in Terza Commissione e il pacchetto sanità approderà
martedì in Consiglio regionale. "Sul tavolo - dice la consigliera
dell'Ulivo - c'è la proposta della Regione di obbligare i medici, i
farmacisti e i pediatri ad utilizzare la carta. La mancata adesione al sistema
informativo socio sanitario comporterà delle sanzioni. Ma questa
sembra l'ennesima decisione della giunta Formigoni che non ha le gambe per
camminare da sola". Pronta la risposta dell'assessore alla Sanità,
Luciano Bresciani: "Il 70% dei medici usa la carta ma stiamo studiando un sistema
che preveda l'obbligo per tutti gli altri. D'altronde la categoria ha pure
siglato un accordo che prevede anche riconoscimenti economici legati ai
risultati di utilizzo". Sulle multe, invece, l'assessore glissa
perchè "è tutto da decidere e ci sarà un periodo di
sperimentazione a partire dal momento in cui verrà approvata la
legge". L'assessore, invece, ammette i ritardi dell'applicazione della
carta sanitaria su Milano ma che saranno pienamente superati quando "si
consoliderà la diffusione su tutto il territorio lombardo". INTANTO,
annuncia Bruno Pastore, direttore di Lisit, la società che per conto di
Lombardia informatica ha realizzato la rete della Carta Siss, "entro fine
luglio in 46 farmacie milanesi si potranno prenotare prime visite
specialistiche per gli ospedali Sacco, Niguarda, San Paolo e Policlinico".
Una bella comodità, soprattutto per gli utenti più anziani che
potranno recarsi nella propria farmacia di riferimento. Il progetto, infatti,
dopo un primo avvio sperimentale, coinvolgerà "tutte le 422
farmacie milanesi e i medici di base pubblicizzeranno il nuovo servizio".
/
Milano PIENO BOOM "Ci avevano accusati di un eccessivo ottimismo sulle
previsioni di crescita dell'economia mondiale e ora possiamo dire che siamo
lieti di essere sta- ti tanto ottimisti, l'economia globale è difatti in
pieno boom". A sostenerlo - riferendosi alle ultime stime di primavera
dell'Fmi e anticipando nuovi dati che verranno resi pubblici la prossima
settimana - è stato Simon Johnson, capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale
nel corso di un incontro con la stampa a Washington. "A parte segnali di
debolezza provenienti dall'economia statunitense legati anche alle ricadute
della crisi dei mutui subprime che avevamo peraltro anticipato, il quadro
è buono - ha precisato Johnson - l' economia europea è andata
molto bene anche grazie all'ottimo lavoro fatto dalla Banca centrale europea
nel contenere le aspettative inflazionistiche, la Germania ha fornito un'ottima
performance così come l'economia di Paesi emergenti quali Cina ed
India". Il responsabile economico del Fondo ha sottolineato i positivi
effetti dei "notevoli cambiamenti strutturali" attuati in Europa e si
è soffermato sull'unico fattore emerso da aprile ad oggi non previsto
nell' ultimo 'World economic outlook' dell'Fmi: "Siamo in presenza di
un'impennata-shock nel prezzo del cibo a livello globale, la cui entità
ci ha preso di sorpresa". I due fattori che hanno contribuito maggiormente
al balzo dei prezzi alimentari sono stati l'imprevista crescita della domanda
di cibo da parte dei Paesi emergenti specialmente dell'Africa, e l'esplodere
della questione etanolo negli Stati Uniti che ha avuto pesanti ricadute sui
prezzi del mais in Messico e in America Latina. Rispondendo ad una domanda
sull' euro, Johnson ha osservato come vi sia "una percezione errata della
valutazione dell'euro che in termini effettivi, ossia nel confronto con l'intero
paniere degli altri Paesi, è salito dall'inzio dell'anno solo del
2%". Il capoeconomista ha infine citato tra le preoccupazioni esistenti
quella di un risorgere di sentimenti protezionistici sia negli Usa che
in Europa, in particolare nei confronti della politica monetaria di
Pechino.
ROMA
- Nuova giornata tesa nella Cdl sulla riforma della legge elettorale.
Dopo il pesante botta e risposta di giovedì tra Silvio Berlusconi e
Gianfranco Fini sul tema del bipolarismo, ieri è stato Pier Ferdinando
Casini ad andare all'attacco del partito di via della Scrofa. "Fini - ha
sottolineato il leader dell'Udc parlando dell'appoggio di An al referendum
- difende le sue convenienze. È legittimo che lo faccia, ma non vorrei
che dimenticasse che ha sostenuto il proporzionale nella legge elettorale".
E ancora: "Chi difende il bipolarismo ritiene di avere pochi numeri e
cerca di godere di una rendita di posizione". Fini ha glissato
("rispetto le opinioni di Casini ma non le condivido") e ha lasciato
la replica più dura al portavoce del suo partito, Andrea Ronchi, che
dice: "Mi dispiace che Casini faccia torto all'intelligenza di Fini che ha
sempre dimostrato di non agire per convenienza". L'obiettivo principale di
An, però, sembra sempre Berlusconi. L'ex-premier, che ieri non ha avuto
contatti con il leader di An, si sarebbe speso con i suoi sulla
necessità di "non buttar via 14 anni di lavoro" archiviando il
bipolarismo, ma, dall'altra parte, non avrebbe nemmeno ancora maturato una
decisione sul sistema elettorale migliore verso il quale orientare la riforma
in discussione in Parlamento. Starebbe quindi temporeggiando in attesa anche
della proposta della maggioranza, con una parte del partito, in particolare gli
ex-Dc, che caldeggia il modello tedesco. Da qui, forse, anche il pressing di
Gianfranco Fini che in un editoriale per il "Secolo d'Italia" di oggi
chiederà che sulla legge elettorale "Berlusconi si
spieghi meglio". Mentre Ignazio La Russa ha avvertito: "Senza
bipolarismo addio alla Cdl". Intanto il ministro delle Politiche Agricole,
Paolo De Castro, si aggiunge alla lista dei membri dell'esecutivo che hanno
firmato per il referendum. E ieri è stata la giornata anche della
firma dell'ex-consigliere economico di Romano Prodi, Angelo Rovati. Il
componente del "Comitato dei 45" spiega di aver deciso di dare il suo
appoggio alla consultazione popolare dopo le ultime "virate" di molti
esponenti dell'Ulivo sul modello tedesco che consentirà di mettere in
campo la vecchia Dc. Le firme stanno rientrando gradualmente a Roma, ma si apre
un altro fronte che è quello della costituzionalità dei quesiti.
È il vice presidente del Senato Roberto Calderoli ad andare all'attacco:
"Appaiono evidenti a tutti i vizi di costituzionalità" del referendum.
E come già ieri aveva fatto il Guardasigilli Clemente Mastella,
Calderoli chiede "un'attenta verifica delle firme vista l'improvvisa e
sospetta impennata numerica che a un certo punto hanno fatto registrare".
A replicare a quanti avanzano dubbi di costituzionalità sui quesiti
è direttamente il presidente del comitato referendario Giovanni
Guzzetta, che lo fa con una battuta: "Sembra di essere ai mondiali di
calcio, quando tutti diventano Ct: siamo improvvisamente diventati un Paese di
56 milioni di costituzionalisti".
Anche
i sindaci della Banca Popolare di Lodi coinvolti nella predisposizione
dei bilanci 2003 e 2004 sono tra i 25 indagati dell'inchiesta conclusa
settimana scorsa dal sostituto procuratore di Lodi Alessandra Simion per
l'ipotesi di false comunicazioni ai soci, ossia "falso in bilancio".
Ieri l'avviso di conclusione indagini è stato notificato anche al
professor Gianandrea Goisis, che è stato l'ultimo presidente del
collegio dei sindaci della Popolare "indipendente", in carica fino
alla fusione scattata l'1 luglio. L'essere "sotto indagine" ha
sorpreso non poco i sindaci, alcuni dei quali erano convinti, almeno fino a
marzo, di essere estranei a ogni ipotesi accusatoria: "Questo tipo di
responsabilità si ha in realtà che non si avvalgono di una
società di revisione - spiega uno dei sindaci Bpl dell'epoca -,
riteniamo, anche alla luce di pareri illustri, che nel nostro caso le verifiche
spettassero appunto alla società esterna". E proprio sulla
Deloitte&Touche potrebbe ora puntare uno stralcio di questa indagine, affidata
dal pm al nucleo di polizia tributaria della guardia di finanza di Milano,
guidato dal capitano Alberto Nastasia. A portare la procura a guardare nei
bilanci 2003 e 2004 della Popolare di Lodi era stata la segnalazione della Consob
datata 23 dicembre 2005, dieci giorni dopo l'arresto di Gianpiero Fiorani,
anch'egli tra i destinatari dell'avviso per questa ipotesi di doppio falso in
bilancio. Successivamente la procura ha anche acquisito documentazione della Banca
d'Italia. Titolare del procedimento è sempre stata la Simion.
Primi a finire sul registro degli indagati sono stati i componenti del
consiglio di amministrazione dell'epoca: oltre a Fiorani, Giovanni Benevento,
Desiderio Zoncada, Giorgio Olmo, Luca Barilla, Giorgio Chiaravalle, Francesco
Ferrari, Carlo Gattoni, Domenico Lanzoni, Erich Mayr, Amato Luigi Molinari,
Carlo Pavesi, Antonio Premoli, Osvaldo Savoldi, Enrico Tessera, Gianmaria
Visconti di Modrone e Domenico Zucchetti, oltre al consigliere che
subentrò a Barilla. "Avvisati" anche i dirigenti dell'epoca
Attilio Savarè e Giovanni Vismara, l'allora direttore finanziario
Gianfranco Boni e l'istituto che ha "ereditato" la
responsabilità amministrativa di Bpl - Bpi, che in caso di condanna
sarà chiamato a pagare una sanzione. Il reato contestato si dovrebbe
estinguere in sette anni e mezzo. La natura del "falso" ipotizzato
deriverebbe dalla mancata segnalazione di obblighi di riacquisto di titoli (ad
esempio nei confronti di Deutsche Bank e del fondo Victoria&Eagle, non
riconducibile a persone fisiche del Lodigiano), da titoli strutturati
"nascosti" e dall'omessa segnalazione di perdite su titoli. Mancate
registrazioni contabili che avrebbero influito in misura del 65 per cento sui
risultati dei due bilanci, che furono di 123 milioni di euro per il 2003 e di
168 per il 2004, mascherando perdite per 200 milioni di euro e facendo mostrare
alla Bpl una solidità patrimoniale ben maggiore di quella effettiva.
C'è chi, a fronte di contestazioni della Banca d'Italia,
ha ammesso di non aver trascritto nel 2005 ben sette opzioni "put", e
la convinzione tra chi conosceva bene la Bpl di quegli anni è che
"neppure gli ispettori di Bankitalia in 9 mesi siano riusciti a
ricostruire tutto". Fiorani, dal canto suo, interrogato a inizio giugno
dalla Simion, avrebbe spiegato di essersi fidato della società di
revisione e che non era compito suo occuparsi del bilancio. Goisis dall'inizio
del mese è tornato a fare il docente universitario a tempo pieno:
"Avremo modo di difenderci - taglia corto -, comunque non farò mai
più il consigliere o il sindaco di una banca: ci sono troppe
pressioni, dell'opinione pubblica e della magistratura. E si rischia di dover
far fronte a enormi spese per difendersi e a grandi danni
d'immagine".Carlo Catena.
Fast
Food Nation è la prova provata che l'America è un grande paese.
Non è una frase ironica: una democrazia che ha mille difetti, ma che
crea da sé anticorpi come Michael Moore, come Al Gore, come il Morgan Spurlock
di Super Size Me. e come il Richard Linklater di questo film; ovvero, cineasti
che possono urlare ai quattro venti le storture del proprio paese senza essere
zittiti, è un paese malato, sì, ma con la speranza di guarire.
Fast Food Nation è, fin dal titolo, un manifesto su una nazione che sta
morendo per cattiva alimentazione. Se aveva ragione Feuerbach, il filosofo
secondo il quale "l'uomo è ciò che mangia", allora gli
americani sono letteralmente, a stragrande maggioranza, dei sacchi di merda:
perché la scena forse più agghiacciante di Fast Food Nation è
quella in cui ci viene spiegato, con il tono asettico delle formule
scientifiche, come sia perfettamente logico che negli hamburger dei fast food
ci siano microframmenti di sterco bovino. Le condizioni in cui i bovini vengono
macellati sono tali, e talmente frettolose, che accade sovente che le parti
della bestia non vengano ben separate, e gli intestini finiscano nello stesso
tritacarne che prepara i suddetti hamburger. Pensateci, la prossima volta che
entrate in un McDonald's. A differenza di quasi tutti gli altri titoli citati,
però, Fast Food Nation non è (solo) un documentario. Potremmo
definirlo un film-dossier, perché Linklater (cineasta molto eclettico, autore
anche di film sperimentali come Waking Life) l'ha basato su un libro omonimo,
di Eric Schlosser, che è un'inchiesta feroce e documentata
sull'industria alimentare americana. Da questa inchiesta, il film parte per
raccontare la storia di Don Henderson, un esperto di marketing della catena di
fast food Mickey's che deve affrontare un'emergenza di comunicazione: nei suoi
hamburger, come si diceva, sono stati rilevate tracce di carne contaminata. nel
modo che dicevamo. Si parte dunque per un viaggio nel mondo del "cibo
veloce", che riesce a narrare anche le storie di chi ci lavora
(soprattutto immigrati), di chi li contesta (ambientalisti e animalisti
assortiti), e di chi ne è vittima (i poveri animali macellati in
condizioni atroci: preparatevi, la sequenza del macello è terribile,
potreste diventare vegetariani). L'abilità di Linklater è tutta
nell'equilibrare denuncia e narrazione, documento e fiction: gli aspetti
narrativi della trama sono talmente efficaci e, a tratti, persino divertenti
che il film è riuscito ad attrarre attori di gran calibro. Henderson
è interpretato da Greg Kinnear, nel cast ci sono anche Patricia
Arquette, Ethan Hawke, Catalina Moreno (la straordinaria attrice ispanica di
Maria Full of Grace). e Bruce Willis, che nonostante la sua immagine di
repubblicano macho non è nuovo a comparsate semi-gratuite in film
indipendenti (basterà ricordare la sua partecipazione, non accreditato
nei titoli, a Pulp Fiction). Fast Food Nation è un film forte e
divertente, un ottimo modo per avere conferme sulla follia dell'America - ma
anche per riconciliarsi con la sua capacità di raccontarle e
denunciarle. Peccato l'uscita quasi agostana, a distanza di oltre un anno dalla
presentazione a Cannes 2006: questo era un film in cui credere di più,
ma forse è già una fortuna che abbia trovata la via delle sale.
CINEMA & CICCIA Esce "Fast Food Nation" film forte e divertente
che mette sotto accusa i colossi del "cibo veloce": negli hamburger
accade sovente che ci finiscano anche gli escrementi delle vacche.
+ L’Espresso
18-7-2007 Chi terrà insieme le due
sinistre? di Edmondo Berselli
+ Il Sole 24
Ore 18-7-2007 Rallenta il mercato immobiliare delle grandi città di
Claudio Tucci
L’Unità
18-7-2007 Il direttore coraggioso Furio
Colombo
Il Riformista
19-7-2007 LE POLITICHE DI BROWN Gordon,
non ci deludere
L’Unità19-7-2007
Dolce stil novo Marco Travaglio
Gazzetta del
Sud 19-7-2007 Scudo spaziale, Mosca vuole rivedere altri trattati Claudio
Salvataggio
Gazzetta del
Sud 19-7-2007 Termovalorizzatori Italia condannata per colpa della Sicilia
PALERMO
Oggi è il giorno della memoria nel ricordo di Paolo Borsellino,
procuratore aggiunto a Palermo, e degli agenti della polizia di Stato che gli
facevano da scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Cusina, Claudio
Traina e Vincenzo Limuli, massacrati nella strage di via Mariano D’Amelio il 19
luglio 1992 e di cui quest’anno ricorre il quindicesimo anniversario.
La
giornata a Palermo si snoderà tra manifestazioni, spettacoli, dibattiti,
messe e commemorazioni e vedrà la partecipazione del presidente del
Senato Franco Marini, del leader di An Gianfranco Fini, del sindaco di Roma
Walter Veltroni e del governatore della Puglia Nichi Vendola. Ma il magistrato
sarà ricordato con diverse cerimonie in tutta la Sicilia e anche in altre
città d’ Italia.
Marini
alle 10,30 circa, appena giunto in città, deporrà una corona
d’alloro sul cippo che ricorda la strage in via D’Amelio davanti l’abitazione
della madre del magistrato dove lui si stava recando quando è stato
fatto brillare l’ esplosivo che lo ha ucciso. I magistrati ricorderanno il loro
collega nell’aula magna del palazzo di Giustizia, alle 11, ma molti altri
saranno i momenti di ricordo che culmineranno in serata con la fiaccolata
organizzata da Azione giovani cui parteciperà anche Fini.
Questo
anniversario è segnato dalle notizie sulla continuazione dell’inchiesta
nissena sui mandanti occulti della strage e dall’accorato appello del fratello
di Borsellino, Salvatore, che chiede risposte alle tante domande sulla strage
che presenta tuttora lati oscuri.
ROMA
Il Tesoro ha vinto un'importante battaglia quest'anno contro il cattivo uso
degli strumenti derivati nella finanza locale. Nel primo semestre del 2007,
infatti, un centinaio di Comuni ha inviato al dipartimento del debito pubblico
al ministero dell'Economia e delle Finanze comunicazioni dettagliate su oltre 200
contratti derivati: due terzi stipulati quest'anno, un terzo chiusi in passato.
Di questi solo una dozzina finora sono risultati irregolari rispetto ai
requisiti imposti dal Mef nella Finanziaria 2007. Una decina di posizioni sono
state segnalate alla Corte dei Conti e al servizio ispettivo della Ragioneria
generale dello Stato che ha già avviato ispezioni sul luogo. Se questi
risultati, che confermano un uso diffuso e virtuoso dei derivati, dovessero
essere confermati a fine anno allora si potrà dire che il Tesoro ha
vinto la sua guerra contro swap e opzioni complessi che nascondono la
speculazione sotto i vestiti buoni della copertura. In anni di dure battaglie
del Tesoro, il dilagare dei derivati ad alto rischio per i conti pubblici
è stato messo in evidenza prima dall'ex-ministro dell'Economia Giulio
Tremonti durante il suo braccio di ferro con il Governatore della Banca
d'Italia Antonio Fazio, poi dalla Consob e da un'indagine parlamentare del
2005, infine da ripetuti allarmi della Corte dei Conti (si veda da ultimo il
Sole 24 Ore dello scorso 6 luglio). Adesso al dipartimento del debito pubblico
in via XX Settembre si inizia ad intonare il canto della vittoria. Quel che sta
funzionando, stando a giudicare dalle comunicazioni giunte al Mef negli ultimi
mesi, è l'ultimo giro di vite sul mercato voluto dal ministro Tommaso
Padoa- Schioppa. Dopo una raffica di interventi restrittivi, dalla legge sui
Boc del 1996, svariati decreti, regolamenti e circolari, la Finanziaria 2007 ha
rafforzato il principio della corrispondenza fra passività e derivato e
dell'uso dei derivati per la sola copertura dei rischi e ha imposto l'obbligo
di trasmettere al Mef il testo del contratto prima del suo perfezionamento:
questa comunicazione è indispensabile per la validità stessa del
contratto. In assenza dell'invio dei termini del derivato al Tesoro, il
contratto è nullo. "La norma, a differenza del passato, sembra
essere particolarmente incisiva: il flusso di comunicazioni non era mai stato
così intenso - ha commentato Maria Cannata, capo del Dipartimento del
Tesoro per la gestione del debito -. Anche il sistema bancario ora sembra
maggiormente sensibilizzato, non volendo rischiare di veder compromessa
l'efficacia del contratto". Se le operazioni comunicate o poste in essere
violano le disposizioni in materia di derivati, la legge velocizza l'intervento
punitivo di Corte dei Conti e Ragioneria. La casistica del passato invita
però alla prudenza. Il Tesoro è intervenuto più volte,
tramite leggi, regolamenti attuativi e circolari esplicative, con l'obiettivo
di scoraggiare, frenare, arginare il cattivo uso dei derivati da parte degli
enti locali. Ma il fenomeno è sempre apparso fuori controllo: i Comuni,
soprattutto di dimensioni mediopiccole e con problemi di bilancio, ricorrono
alla finanza creativa per tamponare crisi di liquidità finanziaria, per
sfruttare fonti di gettito alternative fuoribilancio. Invece di tagliare spese
primarie già ridotte all'osso e offrire meno servizi ai cittadini,
alcuni Comuni tentano la fortuna con i derivati: e ottengono tramite swap con
upfront il pagamento immediato di flussi di cassa futuri, rinviando il conto
alle giunte degli anni a venire. Il fatto che una squadra di volenterosi
tecnici del Tesoro, in verità non più di una decina, controlli a
tempo pieno i derivati degli enti locali ha acceso un faro sulle
irregolarità. Il monitoraggio ex-post non aveva dato finora i risultati
attesi: quello exante è decisamente più efficace. Il
comportamento del Tesoro getta infine una luce sul problema annoso e irrisolto
dei derivati complessi e speculativi venduti dalle banche alle imprese,
soprattutto medio-piccole. Molte Pmi, e non solo i clienti di Banca Italease,
lamentano di questi tempi una crescita preoccupante delle perdite a causa di
derivati che non hanno ridotto l'esposizione dell'azienda contro i rischi di
mercato (e rialzo dei tassi) bensì l'hanno addirittura moltiplicata. Le
banche sono accusate di scarsa trasparenza o di scorrettezza. Il comportamento
del Mef a questo riguardo è illuminante per come risolvere in parte il
problema in attesa di un'offerta più trasparente. Il ministro
dell'Economia ha agito nei confronti degli assessori al bilancio come dovrebbe
fare l'amministratore delegato di un'azienda nei confronti del suo direttore
finanziario: paletti chiari e incisivi su cosa fare e non fare con i derivati,
procedure ferree di controllo interno e interventi punitivi e sanzionatori per
chi si comporta male. isabella.bufacchi@ilsole24ore.com.
ROMA —
Nessuno, adesso, è autorizzato a pensare che il governo possa fare
marcia indietro. I partiti, che sotto sotto la decisione di
vendere ai privati l'Alitalia non l'hanno mai digerita, sono avvertiti. E sono
avvertiti anche i sindacati, che qualche bastone, e nemmeno troppo piccolo, fra
le ruote della gara l'hanno messo eccome. «Oltre la vendita, c'è soltanto
la liquidazione», chiarisce Tommaso Padoa-Schioppa. «Liquidazione », una parola
che pesa come un macigno, e che il ministro dell'Economia per la prima volta
pronuncia pubblicamente, parlando solo ora, a gara chiusa, dopo aver osservato
sull'argomento un'assoluta riservatezza. «Liquidazione», finora uno spauracchio
che nessuno aveva preso seriamente in considerazione. Forse neppure chi, come
l'ex ministro Roberto Maroni, aveva proclamato, non più tardi di un anno
e mezzo fa: «Il governo non può e non deve dare più un centesimo
all'Alitalia. Se non ha la forza per competere porti i libri in tribunale».
Padoa-Schioppa sottolinea l'evidenza dei fatti: «È una società in
perdita, nella quale lo Stato non può più mettere capitali »,
anche perché l'Unione Europea non lo consentirebbe. Ma il ministro afferma di
non credere «che la notizia di ieri (il ritiro dell'AirOne dalla gara, ndr)
significhi che l'opzione della vendita sia stata esplorata fino in fondo». Il
Tesoro, insomma, non ha ancora gettato la spugna: «In queste ore stiamo
esplorando le alternative, per capire quali altre modalità ci siano per
procedere alla cessione del controllo della compagnia, dopo che quella scelta
ha dato l'esito che ha dato». Cioè, è miseramente fallita. Come
nessuno, a via XX settembre, si poteva aspettare. Eppure Padoa-Schioppa dice di
non essersi mai pentito di aver preso la decisione di indire la gara: «Se pure
fossi stato consapevole del rischio che potesse andare a finire così,
l'avrei fatto lo stesso. L'Alitalia era come la nazionale di calcio, che ha 58
milioni di commissari tecnici. Ognuno aveva la sua formazione e il suo
compratore preferito: chi voleva puntare sull'hub di Malpensa, chi rafforzare
Fiumicino, chi venderla ai cinesi, chi agli arabi, chi ancora ad AirOne». Per
questo sostiene che una gara era necessaria. «Dovevamo porre condizioni precise
e trasparenti. E non escludere alcun potenziale acquirente. Il fatto è
che il privato può scegliere a chi vendere, ma lo Stato, se vuole essere
un buon venditore, deve seguire le procedure. In più c'erano molte
condizioni da rispettare. Ecco, la gara è stata il modo per esplorare
questa via». Nonostante alla fine, di compratori, ne sia rimasto soltanto uno.
«E fortemente interessato», aggiunge il ministro dell'Economia. Precisando che la
procedura di per sé non fissava particolari paletti né sull'occupazione, né sul
prezzo e che «le uniche due condizioni poste dall'interlocutore come dirimenti,
e cioè che l'eventuale giudizio negativo dell'Antitrust o il cattivo
esito dei negoziati sindacali fossero causa di sospensione dell'operazione, le
avevamo accettate». Ragion per cui, confessa il ministro dell'Economia, «la
decisione di ieri è stata per noi una sorpresa. Ma dai contatti con gli
advisor abbiamo anche dedotto che era una conclusione non maturata in modo
visibile neppure dall'altra parte». Cosa è successo, allora?
«Evidentemente il complesso delle caratteristiche nelle quali opera questa
società ha fatto ritenere che il rischio non andava corso», ipotizza
Padoa-Schioppa. Che, comunque, insiste: «Per noi sarebbe stato meglio se
l'operazione fosse andata in porto. Ma in ogni caso l'opzione della vendita non
ha esaurito tutte le sue possibilità. E ora abbiamo le mani
completamente libere nei confronti di chiunque».
Anche, perché no, di Carlo Toto: che è
sempre parso il candidato preferito di parte della maggioranza.
«È vero, ho avuto anch'io questa impressione», dice il ministro. «Ma
tenga presente», aggiunge, «che se una preferenza del genere ci fosse stata, il
fatto che l'operazione con AirOne avrebbe prodotto un soggetto nazionale di
dimensioni più robuste era argomento non di natura politica che poteva
indurre un giudizio più favorevole rispetto alle altre opzioni». Come
per esempio la cessione ad Aeroflot o ai fondi americani. Continua
Padoa-Schioppa: «Posso capire che ognuno abbia le sue preferenze, anche se per
quanto mi riguarda non ne ho mai avute. Per me una compagnia di bandiera resta
tale anche se cessa di essere pubblica. In Lufthansa e Air France la
partecipazione dello Stato non è certamente maggioritaria. La
proprietà pubblica è soltanto strumentale, nel bene e nel male.
Purtroppo per l'Alitalia, in questi vent'anni, nel male ». Per questo chi si
illude che il fallimento della gara possa spianare la strada a un ritorno al passato,
sbaglia di grosso. «Il punto non è se lo Stato debba o meno mantenere
una quota, ma chi deve avere il controllo della compagnia. E su questo»,
avverte il ministro dell'Economia, «non ci possono essere ambiguità.
D'altra parte, se l'Alitalia è giunta a questo punto, quando soltanto
vent'anni fa poteva fare una fusione alla pari con British airways, è
perché noi Paese, noi governo, abbiamo gestito molto male il ruolo di
proprietario, il ruolo di politico, il ruolo di titolare delle infrastrutture.
Di proprietario, perché abbiamo scelto ogni volta di uscire dalle
difficoltà cambiando il management. Di politico, per aver fatto
regolarmente da sponda al sindacato sulle spalle dell'azienda. Di titolare
delle infrastrutture, per non aver gestito il sistema degli aeroporti in modo
friendly rispetto alla compagnia di bandiera, come invece hanno fatto i nostri
concorrenti esteri». Se un merito rivendica di avere, Padoa-Schioppa, è
quello di aver «posto fine a questa cosa, confermando Giancarlo Cimoli». Una
decisione, a quanto pare, niente affatto facile. «Se lei sapesse quante
pressioni ho avuto per sostituire Cimoli, anche dall'interno del governo.... Ma
se lo avessi fatto avremmo percorso un altro girone infernale e chissà
quando ci saremmo fermati. E adesso non saremmo arrivati alla cessione della
società».
Anche se la fermata è stata piuttosto
brusca. «Abbiamo affrontato una situazione che ha mostrato di
essere molto più critica di quello che immaginavamo. E la procedura di
vendita ha semmai rivelato, e non certo creato, questa criticità.
Rendere l'Alitalia attraente per un investitore sembra più difficile di
quanto pensassimo», ammette il ministro dell'Economia. Senza tuttavia mostrarsi
particolarmente abbattuto dall'esito della gara: «Un Paese di 58 milioni di
abitanti con la nostra conformazione geografica e una tale quantità di
aeroporti è il paradiso di una compagnia di bandiera». Ottimismo di
circostanza? A chi gli chiedesse se fra dieci anni l'Italia avrà ancora
la sua compagnia di bandiera, lui risponderebbe: «Certamente ». Ma il problema
è vedere come ci si arriverà a quel giorno. E per ora la nebbia
è tornata a essere impenetrabile.
19
luglio 2007
Se il Partito democratico, come dice Veltroni,
dovrà essere a 'vocazione maggioritaria' la leadership dovrà
essere conquistata sul terreno di una competizione interna all'alleanza
Di qui al 14 ottobre, data di fondazione del
Partito democratico, ci sarà la possibilità di analizzare le
prospettive del 'partito nuovo', e di capirne le potenzialità. Ma
c'è un problema che finora è stato solo sfiorato, e che è
a suo modo un problema eterno, cioè strutturale, per il centrosinistra.
Vale a dire la convivenza fra le due sinistre, quella liberal-riformista e
quella 'alternativa'.
A essere meticolosi le sinistre sono ben più di due, dal momento che
andrebbero considerate le componenti ambientaliste e neosocialiste. Ma se il
Pd, secondo la formula più volte espressa da Walter Veltroni,
dovrà essere un partito "a vocazione maggioritaria", la linea
di confine del conflitto possibile, all'interno del centrosinistra, corre nei
pressi dei Comunisti italiani e di Rifondazione comunista.
Quindi oltre a marcare una piattaforma esplicitamente riformista, come Veltroni
ha fatto nel discorso al Lingotto di Torino, occorrerà anche provare a
immaginare come dovrà svilupparsi il rapporto con l'altra sinistra.
Finora infatti si è assistito a un incepparsi dell'azione di governo (esemplare,
e preoccupante, nel caso delle pensioni), in cui le resistenze dell'ala
oltranzista si sono intrecciate con la posizione della Cgil, che non può
farsi scavalcare dai partiti, con la conseguenza di una impasse assai negativa
per l'immagine dell'esecutivo.
La situazione è stata riassunta con lucidità lievemente sadica da
Giulio Tremonti, il quale ha dichiarato: Prodi non è uno qualsiasi; ha
governato il Paese; è stato, bene o male, alla presidenza della
Commissione europea. Se si è piantato in un anno, vuol dire che nessun
altro, nel centrosinistra, può illudersi di farcela. In altre parole: il
problema del centrosinistra è irrisolvibile.
In realtà, Prodi ha tentato di risolvere la questione attraverso il suo
voluminoso programma, le famose 281 pagine di super-mediazione. Ma il totem del
programma rischia di diventare un vincolo, se non è sottoposto al vaglio
della realtà e del contesto economico in evoluzione. Ad esempio: il
taglio del cuneo fiscale alle imprese era stato pensato in una fase in cui
c'era la sensazione di una perdita di competitività da tamponare a ogni
costo. Per rispettare la promessa alle imprese, si sono impegnate risorse
mentre l'apparato produttivo italiano stava riprendendo a fare profitti. Ne
è venuta fuori una misura 'pro-ciclica', di quelle che il centrosinistra
aveva spesso rimproverato al centrodestra (come nel caso della detassazione
degli utili reinvestiti nel primo governo Berlusconi).
In sostanza, il programma è uno strumento che può diventare un
vincolo ulteriore, come prova anche la discussione infinita sullo scalone. E
allora, se non basta un accordo di programma, qual è la risorsa chiave
che può garantire la gestione di un rapporto non paralizzante con la
sinistra alternativa?
Non c'è una risposta unica. È possibile che a dispetto delle
apparenze (e agli appelli di Fassino a Pier Luigi Bersani a non infrangere
"l'unità riformista") a Veltroni possa far comodo una
candidatura alle primarie che si dislochi alla sua 'destra': nel senso che la presenza
di una piattaforma industrial-liberalizzatrice (come quella di Enrico Letta,
per intenderci), potrebbe assicurargli una posizione di maggiore
centralità nel Pd e nell'intera coalizione, e quindi un ruolo più
dinamico nella trattativa con la sinistra meno riformisticamente malleabile.
Ma a prendere sul serio l'etichetta di "partito a vocazione
maggioritaria", viene da dire che non si diventa partiti maggioritari
senza sistema maggioritario. Per il centrosinistra, le future elezioni
politiche avranno due fronti, non uno solo: il primo sarà quello del
confronto, durissimo, con il centrodestra; il secondo sarà quello che
designerà i rapporti di forza interni all'Unione.
Non è pensabile in questo momento che il Pd possa diventare
maggioritario semplicemente in base alla propria condizione di partito dei
riformisti più volonterosi. La leadership di coalizione dovrà
essere conquistata sul terreno di una competizione interna all'alleanza. E
allora è inutile illudersi che riforme elettorali all'acqua di rose
possano rendere centrale il futuro partito di Veltroni. Se c'è una
strada, per il Pd, è quella segnata dal referendum di Guzzetta e Segni.
Che imporrebbe regole severissime e una torsione formidabile del sistema
politico: ma poiché l'alternativa è la vittoria semiautomatica della
destra, e simmetricamente una grande palude a sinistra, vale la pena di correre
l'avventura. Anche perché un partito nuovo non nasce nella bambagia,
bensì nell'asprezza del confronto. E allora, se il Pd vuole vincere,
innanzitutto non deve avere paura di giocarsi la partita senza riserve mentali.
(18
luglio 2007)
Rallenta, nel biennio 2005-2006, l'andamento del mercato
immobiliare nelle grandi città. Il calo, trasversale su tutto il territorio nazionale, dipeso
essenzialmente da una diminuzione negli acquisti e nell'offerta di locazioni
nei grandi Comuni, ha riguardato tutte le tipologie di transazioni, con
impennate più consistenti nella domanda piuttosto che nell'offerta. I prezzi
troppo alti rimangono la causa principale del mancato acquisto di un bene. E
così, a Torino, Milano e Napoli il calo è stato più sensibile per gli immobili acquistati, mentre Palermo e il
capoluogo piemontese sono, invece, le città che evidenziano la flessione maggiore per il venduto. Roma
registra il picco più elevato nel calo della domanda delle locazioni, a fronte di
Palermo che, invece, è rimasta sostanzialmente stabile anche dal lato dell'offerta,
versante nel quale Milano, Genova e Napoli indicano flessioni maggiori del
doppio o del triplo rispetto questa, in sintesi, la fotografia scattata alla media delle sei grandi città. È dall'indagine 2007, presentata a Roma da Tecnoborsa,
che analizza, a distanza di due anni, il mercato immobiliare nelle sei grandi
città italiane con più di 500mila residenti: Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e
Genova.
Dal rapporto emerge che, anche se le transazioni medie annue sono passate da
104.142 a 106.620, i maggiori comuni italiani rappresentano il 12,7% del numero
delle transazioni, contro il 13,3% registrato nel biennio precedente. Questo,
secondo Tecnoborsa, dimostra, in particolare, come la crescita delle
compravendite in Italia sia dipesa essenzialmente dalle città di medie dimensioni e dalle località a vocazione turistica. Il mercato abitativo nelle grandi città è caratterizzato da prezzi più elevati rispetto alla media nazionale e da una cospicua
componente di immobili di pregio. Cresce la richiesta di edilizia ordinaria
(1,5%), ma inferiore alla media nazionale che si attesta al 6,9 per cento. Il
fenomeno, spiegano a Tecnoborsa, è da mettere in stretta relazione con l'elevato livello dei prezzi
raggiunti nelle grandi città e il raddoppio dei tassi di interesse che si è verificato in tutta Europa da dicembre 2005 a giugno 2007.
Spariscono i piccoli prestiti a fronte di una continua salita della quota di
chi accende un mutuo per acquistare un'abitazione, specialmente quelli compresi
tra il 41% e il 60% del prezzo pagato per l'immobile.
Si acquista un immobile soprattutto per abitazione principale, e tra le
caratteristiche che pesano maggiormente nella scelta, ai primi due posti si
trovano la dimensione e il prezzo. Rispetto al 2005, si è quasi invertita la tendenza tra la richiesta delle case in
periferia, che è aumentata del 5,4%, rispetto a quella in centro, diminuita del
6,8 per cento. Una famiglia è spinta a vendere per acquistare un'abitazione principale (anche
se la quota è scesa rispetto al biennio precedente), per liquidità e per fare altri investimenti finanziari. Al contrario, sale la
quota di coloro che hanno venduto per acquistare una seconda casa per parenti
prossimi e per le vacanze.
Sul versante, infine, del mercato delle locazioni, sia a livello nazionale sia
nelle grandi città, sono in calo i rendimenti locativi dovuti a una crescita dei
canoni inferiore rispetto ai prezzi, anche se nelle grandi città non accenna a diminuire l'acquisto di immobili per investimento.
«Si
affolla la gara per le primarie». Così inizia il suo articolo Stefano
Menichini, direttore di Europa, organo dei “coraggiosi” che suggeriscono di
smontare il palco dell’attuale centrosinistra per rimontarlo un po’ più
vicino a Berlusconi.
Curiosa apertura di un articolo dedicato da un quotidiano politico non a una
“gara” ma alle elezioni primarie per la carica di segretario del nascente
Partito democratico. Ancora più curiosa l’immagine che il direttore
evoca per i suoi lettori. Si “affolla” una “gara” che sabato 14 luglio era di
uno (Walter Veltroni), il 15 luglio era di due (Walter Veltroni e io) e
lunedì 16 era di tre (quando si è aggiunta felicemente Rosy
Bindi).
Dopo un’apertura così poco giornalistica (a lui tre persone che
vorrebbero confrontare idee e progetti per un nuovo grande partito sembrano una
folla), segue un elaborato in cui Menichini perde il filo forse perché
cautamente assente dagli anni di Berlusconi in cui Padellaro e io, solo per
l’ostinazione di dirigere un giornale antiberlusconiano, venivamo definiti
terroristi, omicidi (”testata omicida” era la definizione che ci spettava,
mentre Menichini era probabilmente a Lugano) querelati quasi una volta al
giorno (mai sui fatti), citati a giudizio in cause civili milionarie dalla batteria
di avvocati di casa Berlusconi-Previti- Dell’Utri.
Se il direttore di Europa, invece che in un dorato esilio (così si deve
immaginare a causa della sua memoria totalmente sgombra da persone e fatti
realmente accaduti dal 2001 al 2006) si fosse trovato a vivere in Italia
avrebbe notato che questo giornale - si è accorto delle violenze cilene
accadute al G8 di Genova (un ragazzo ucciso e centinaia di feriti nel modo
più brutale) come debutto democratico del duo Fini-Berlusconi, molto prima
delle rivelazioni giudiziarie e delle drammatiche confessioni di parti in
causa;
- si è schierato con il Palavobis prima di sapere che invece di 400 o
4.000 partecipanti ci sarebbero stati 40.000 protagonisti di libertà
(quella sì era una folla);
- ha lavorato a sostenere tutti gli eventi liberi e tutti i girotondi fino
all’autoconvocazione, senza cestini pranzo e autobus pagati, di un milione di
cittadini in Piazza San Giovanni;
- si è occupato giorno per giorno di ogni legge vergogna e di ogni Tv
vergogna (direttori di grandi quotidiani che sedevano due ore in silenzio
attorno al facondo monologante Berlusconi, sostenuto dal sorriso di Bruno
Vespa, senza interromperlo mai);
- si è meritato sia ripetute minacce di morte (il giornale ha dato
notizia solo di quelle pubbliche, le altre le ha girate alla Digos) sia lo
spionaggio personale e quotidiano per cinque anni, pedinamenti inclusi, di
quella parte o gruppo dirigente del Sismi che è adesso al centro di una
vasta inchiesta giudiziaria.
Menichini mi accusa di «presunzione di superiorità morale». Diciamo che,
con Padellaro e tutti i miei colleghi de l’Unità, abbiamo lavorato per
la fine della clamorosa e vergognosa illegalità che dominava sotto
Berlusconi. E Menichini no. Nessuno si sarebbe sognato di rimproverargli la sua
prudente assenza dalla scena. Dopotutto Berlusconi, senza il Palavobis, senza
Piazza San Giovanni, senza centinaia di girotondi, senza la mobilitazione di
tanti cittadini altrimenti estranei ai partiti e alla politica, e senza l’Unità
(il solo giornale politico europeo con 70mila copie vendute) avrebbe potuto
durare dieci anni e anche più, continuare il massacro delle nostre
libertà, il controllo totale delle televisioni e la immagine ridicola e
penosa dell’Italia, nata il giorno del non dimenticato scontro con
l’eurodeputato Schultz, che Berlusconi ha chiamato kapò.
Ma adesso è Menichini che un po’ bizzarramente fa l’elenco di ciò
che noi, secondo lui, non avremmo fatto. Ci vuole coraggio, ma dopotutto
Menichini fa parte dei “coraggiosi”. Sentite. Avremmo dovuto (noi, l’Unità
e il suo direttore) in piena epoca berlusconiana tener testa a Prodi, sfidarlo
a quelle primarie; avremmo dovuto andarci piano con Berlusconi. Dopotutto
è stato scelto da metà del Paese. Pensate alla fortuna dei
cittadini americani che nessuno ha ammonito ad andarci piano con Bush, neppure
quando aveva il 70 per cento di gradimento. E infatti adesso il suo gradimento
è al 34 per cento. Si chiama democrazia.
Io, personalmente, dovrei essere molto prudente nelle primarie, mi ammonisce Menichini.
Vedessi mai che le vinco. «Berlusconi - dice lui con una gentile affermazione
di stima nei miei confronti - lo affosserebbe in tre giorni». Con il Sismi dei
tempi di Berlusconi e tutta la televisione ferreamente sotto controllo, pena il
licenziamento immediato, è possibile. Ma se la vita italiana fosse
normale, Menichini pensa davvero che l’uomo rifatto di Arcore sia così
irresistibile? Se lo immagina Berlusconi eletto a plebiscito in Francia o anche
solo in Costarica? Senza Vespa, senza Confalonieri, senza i ragazzi a gettone
di Dell’Utri e la folla napoletana che, sono certo, non si lascerà
umiliare una seconda volta da quelle domande tipo spot dei telefonini a cui
bisogna rispondere in coro “siiii” e “noooo” come non si vede neppure in “Fascisti
su Marte”?
Menichini si domanda perplesso come Padellaro, Travaglio, Flores, e io (per
dire i peggiori) ce la faremmo mai a battere Berlusconi.
Semplice, Menichini: prima di tutto smettere di venerarlo, smettere di pensare
che sia astuto, good looking, affascinante, moderno e invincibile.
Chiamiamo a testimone Veronica Lario. Lei - che lo ha visto da vicino - ha
voluto farci sapere che, a differenza di ciò che credono alcuni della
Margherita (e anche alcuni Ds) l’uomo rifatto di Arcore viene dal più
profondo e umiliante passato italiano.
Bello però il titolo di Menichini: «Con quelli non vinceremo mai». Ce lo
avevano già detto, a cominciare dal 2001 e nei giorni della rinascita de
l’Unità,
molti suoi colleghi, quando lui era a Lugano. Noi testardamente siamo andati
avanti. Pazienza, Menichini. Per il momento Berlusconi non governa. Nonostante
lo spionaggio, le accuse, le calunnie, le querele milionarie, non ci ha
spaventato, non ci ha affascinato e non ha vinto. Per il futuro, perché non
augurare buona fortuna a chi non smette di provare, e di dare il suo contributo
per un po’ più di dignità e di libertà in Italia, sempre
che Europa
sia, oltre all’ Unità, l’altro giornale del
Partito democratico?
furiocolombo@unita.it
Il
Governo accelera sul tesoretto, ma manda in soffitta le riforme finanziarie. A
cominciare da quelle sulle scatole cinesi e sulle banche popolari, che
rischiano di restare insabbiate nelle paludi del Parlamento almeno fino al
2008. La tabella di marcia di Camera e Senato appare lunga e tortuosa. C'è
l'esame del Dpef, il decreto sull'extra-gettito (Montecitorio voterà
oggi la fiducia) e le liberalizzazioni. Poi la pausa estiva. E, dulcis in
fundo, la nuova Finanziaria, che sarà il vero banco di prova del
centrosinistra. Un cerchio difficilissimo da quadrare di fronte ai veti
incrociati nella maggioranza. Sulle pensioni, ad esempio, si preannuncia una
riunione infuocata al Consiglio dei ministri di domani. Scatole cinesi. Se
alcune riforme rischiano di tardare, quella delle cosiddette scatole cinesi
potrebbe non vedere mai la luce. Un timore che si legge nelle parole stesse del
relatore Luigi Zanda. "Il disegno di legge - spiega a F&M il senatore
dell'Ulivo - non risulta neanche all'ordine del giorno delle commissioni
competenti". Senza contare i recenti interventi di Tommaso Padoa-Schioppa
e del presidente Consob, Lamberto Cardia, secondo cui il fenomeno è
ormai passato di moda. Banche popolari. Fallito il tentativo di un accordo
bipartisan, dopo due mesi di iter parlamentare la riforma degli istituti cooperativi
messa a punto da Giorgio Benvenuto è ancora al palo. La riunione in
Senato prevista per questa settimana è slittata e lo stesso potrebbe
accadere a per la convocazione di martedì prossimo. "Si va avanti
compatibilmente con gli impegni in aula - spiega il presidente della commissione
Finanze - e il Parlamento è alle prese con ben altre questioni".
Sul ddl pesano soprattutto le forti resistenze provenienti dalla lobby delle
popolari. E il muro dell'opposizione: "Niente sconti alla
maggioranza", avverte il vicepresidente di FI al Senato, Gianpiero
Cantoni. Opa. L'Italia deve ancora recepire la direttiva Ue sulle Opa,
che a detta di molti sconta pericolosi vizi relativi alla cosiddetta passivity
rule e alle difese preventive. Anche su questi punti, però, Padoa-Schioppa
ha già avvertito: non ci saranno interventi.
Gordon Brown ci piace: nelle sue prime settimane
a Downing street, ha dato prova di fermezza e coerenza sul fronte interno,
mentre in politica estera ha già dimostrato di avere una linea molto
più indipendente e progressista del suo predecessore. Mentre Londra e
Glasgow erano scosse dall’allarme terrorismo, per esempio, Brown ha mantenuto
la promessa di concedere più poteri al Parlamento, e mentre Bush tuonava
a favore della guerra in Iraq, il premier inglese gli ha mandato uno dei membri
più fidati del suo cabinet a parlare di pace e di multilateralismo. Lo
ripetiamo, insomma, Gordon Brown ci piace. Eppure, ieri a Downing street sono
accadute due cose che ci sono piaciute un po’ meno. Primo: il ministro della
Difesa ha criticato gli amici e alleati Nato, chiedendo un maggiore impegno
militare in Afghanistan, e da Brown non è arrivata neppure una parola in
proposito. Secondo: il premier ha annunciato, con uno zelo che poteva sembrare
eccessivo, di prendere in considerazione l’idea di inasprire le penalità
sul consumo di cannabis.
Cominciamo dall’Afghanistan. In un’intervista alla Bbc, il ministro della
Difesa britannico Des Browne si è detto «profondamente preoccupato»
perché alcuni paesi membri dell’Alleanza atlantica sarebbero restii a
contribuire con mezzi e uomini. Dell’impegno europeo in Afghanistan abbiamo
già discusso quando fu Bush a lamentarsene: non si può trattare i
partner europei come alleati di seconda scelta, come l’amministrazione Bush ha
fatto per più di sei anni, e poi aspettarsi chissà quale grande
impegno. Certo Gordon Brown non avrebbe potuto metterla in questi termini, ma
il suo silenzio davanti alle dichiarazioni del ministro della Difesa stupisce
ugualmente. Poi c’è la questione della cannabis: Gordon Brown non si
è mai spacciato per un fervente antiproibizionista, e non ci aspettavamo
certo che proponesse la depenalizzazione della marijuana. Eppure quando Brown,
ieri, ha fatto sapere di stare seriamente valutato di cambiare la legge sulla
cannabis siamo rimasti un po’ stupiti. Non è una misura simbolica: si
tratterebbe di promuovere la canapa indiana dal grado C al grado B nel catalogo
delle droghe in mano al governo britannico, e questa promozione, come ha subito
scritto il Guardian, implicherebbe pene molto più severe per chi di
queste sostanze fa uso. Non sappiamo perché Brown abbia preso tanto a cuore la
questione, ma di certo sbattere in galera qualche ragazzino che si fa le canne
in più non ci sembra di pubblica utilità.
?
PERUGIA ? SONO giornate decisamente nere per la sanità umbra. Come se
non bastasse lo scandalo assenteismo a gettare discredito ci si è messa
anche la Corte dei Conti che ha valutato la spesa del Servizio sanitario
nazionale elaborando i dati del ministero della salute. La nostra
regione risulta essere la peggiore nella spesa sanitaria tra quelle del centro
nord. In Umbria, infatti, è stato registrato il record del deficit
pro-capite: quota 50 euro, contro 23 e 21 euro di Emilia Romagna e Toscana. Nel
2006 il costo del Servizio sanitario nazionale nel centro nord
è complessivamente aumentato ed ha registrato un saldo negativo pari a
243 milioni di euro, quando nell'anno precedente il deficit si era attestato a
quota 57 milioni di euro. La spesa totale nazionale ha sforato la
fatidica soglia dei 100 miliardi di euro. A questa quota l'Umbria ha
contribuito con 1,49 miliardi di euro di cui 550 milioni utilizzati per coprire
le esigenze del personale sanitario. Complessivamente la regione ha
speso meno rispetto ad Emilia Romagna (7,48 miliardi), Toscana (6,25) e Marche
(2,48). Il dato però va ripartito sul numero degli abitanti, ecco
perchè ha conquistato la maglia nera. Il debito verrà in parte
risanato grazie ai fondi stanziati con la finanziaria 2006 che prevede per
l'Umbria un contributo di 53 milioni di euro, mentre per il 2007 le è
stato riconosciuto un fabbisogno di spesa sanitaria pari ad 1,44 miliardi di
euro. E. B.
Tre
notizie alla rinfusa. 1) Il senatore Gustavo Selva, quello che usa le ambulanze
come taxi per arrivare prima in tv, ritira le dimissioni da senatore perché
"i cittadini mi invitano a restare", insomma "lo faccio per
rispetto vostro". 2) Fabrizio Corona pubblica le sue prigioni, manco fosse
Silvio Pellico, e molti giornali dedicano paginoni alle sue decisive
"rivelazioni" (tipo quante volte si masturbava in cella). 3) Maurizio
Costanzo, essendo praticamente disoccupato visto che lavora solo per Rai,
Mediaset, Sky, Messaggero, Libero, Riformista, Panorama, Telecom, ministero
delle Comunicazioni, una dozzina di enti locali e P2, ha assunto la direzione
del teatro romano Brancaccio (in aggiunta al Parioli e alla Sala Umberto)
sfrattandone Gigi Proietti: ora prepara un cartellone a base di Maria de
Filippi con tronisti e squinzie al seguito, senza dimenticare Platinette,
perché a lui Pirandello gli fa un baffo. Se, come dice Massimo Fini,
"volgare non è chi dice parolacce, ma chi non sta al proprio
posto", allora le tre notizie hanno un comune denominatore: la
irredimibile volgarità di un paese finito, dove nessuno sta più
al suo posto. L'altro giorno il quotidiano che si fa chiamare
"Libero" pubblicava un "racconto" di tal Francesco
Borgonuovo, dal titolo "Arriva l'estate, fioriscono le stagiste",
illustrato da una pregnante foto di Monica Lewinsky. L'incipit è pura
poesia: "Senti il fiato caldo dell'estate e sai che arriveranno,
sarà una migrazione in grande stile. Come uccelletti leggiadri le
stagiste planeranno, faranno il nido per un po', giusto il tempo di svernare, e
poi se ne torneranno via così com' eran venute". Il seguito
è ancor più lirico: "Le uniche degne di titolo, quelle
purissime e illibate, vengono direttamente dalle scuole, da dove s'attinge la
linfa più dolce e saporita". Che stia parlando di amori minorenni?
Niente paura: "A fine giugno spiega il vate ebraico-cristiano in piena
tempesta ormonale - le porte delle Università si spalancano e ne esce
una folla di canottiere aderenti, unghie dipinte in ciabattine infradito,
shorts, minigonne, perizomi e cosce robuste pronte a riversarsi in agenzie di
pubblicità, negli uffici stampa dei festival musicali, nelle case di
moda e nelle redazioni dei giornali". Dove Lui vedrà di farsi
trovare pronto. Segue una citazione evangelica, per far contento Betulla, in
endecasillabi sciolti e rime baciate: "Vi manderò come agnelli in
mezzo ai lupi, disse il Signore, e loro si faranno mandare negli open space e
dietro le finestre coi doppi vetri, dove le attendono le fauci spalancate di
capi cinquantenni disillusi e famelici, di giovani leoni incravattati golosi
d'avventure,di veterani che adagiano gli occhi sui glutei ben fatti e fra le
camicette coi bottoni innocenti e lascivi. Le stagiste sono caramelline
già sbucciate della carta che i professionisti si contenderanno col
coltello fra i denti e la sigaretta da accendere 'dopo' già pronta
sull'orecchio". Il nuovo Balzac prosegue in dolce stilnovo fra "mani
pronte a scivolare sempre più giù fino alla fine dell'esperienza
formativa", "pance retrattili che fibrillano in attesa di scattare
all'indietro" e "tette che scendono inesorabilmente". Non manca
un accenno all'"idea marxiana che il lavoro le renderà donne",
così i comunisti sono sistemati; una pennellata di sociale su
"quelle precarie lagnose che mugugnano perché si chiamano Roberta, hanno
40 anni e guadagnano 400 euro"; e un tocco di neorealismo, con sapide
classificazioni di "culi di piombo" e "culi sodi". Poi,
pagato il dazio all'impegno, si torna alla vita vissuta: "I colleghi si
becchettano fra di loro: 'Questa te la trombi tu', 'no tu', e va a finire che
non se la tromba nessuno... Le stagiste abitano spesso insieme con altre
amiche, che magari ancora preparano gli esami e succede che parti per trombarti
la stagista e ti trombi pure loro". Il finale è da pelle d'oca:
"Amori da spiaggia consumati in ufficio, con i maschi a tramutarsi in dei
(sic) Massimo Ciavarro qualsiasi in un Sapore di sale come un altro e le
fragoline a prendersi gioco di loro". Ora, "Libero" è lo
stesso giornale che s'è schierato con il Family Day, che fucila
qualunque pallida critica al Vaticano, che ospita le lenzuolate del
pompo-ciellino Renato Farina e che ha pubblicato qualunque scritto dell'ultima
Fallaci, anche la lista della spesa, in difesa della "civiltà
ebraico- cristiana" insidiata dai vucumprà. Infatti il pregevole
scampolo di prosa compariva nella sezione "Cultura". Sarà poco
poetico, ma una domanda in generale s'impone: quando arriva la Buoncostume?
Uliwood party.
A
mostrare le nuove carte del gioco del Cremlino è stato ieri il generale
Buzhinski MOSCA Lo spettro dello scudo spaziale Usa nell'Europa
orientale sta spingendo Mosca a rivedere tutta l'architettura della sicurezza internazionale.
Dopo aver dichiarato la moratoria sul trattato per le armi convenzionali in
Europa (Cfe), ora la Russia punta a sostituirlo con un nuovo accordo e a
rivedere anche altri due trattati siglati con gli Usa: lo Start-1 (per
la riduzione delle armi strategiche) e l'Inf (sulle forze nucleari a raggio
intermedio). A mostrare le nuove carte del gioco del Cremlino, mentre prosegue
il suo silenzio sulla vicenda Litvinenko, è stato ieri il generale
Ievgheni Buzhinski, capo del dipartimento del ministero della difesa russa per
gli accordi internazionali. È sua la bocciatura della proposta Nato di
una conferenza straordinaria sui problemi del Cfe, dopo quella fallita a Vienna
il 12/15 giugno. "Non vedo molto senso in tale conferenza, perché la
posizione della Nato non è mutata", ha spiegato. Il presidente
russo Vladimir Putin aveva annunciato sabato scorso la sospensione della
partecipazione al Cfe per la mancata ratifica da parte dei paesi della Nato
della versione definitiva del 1999. Ratifica che l'Alleanza Atlantica subordina
al ritiro al ritiro delle truppe russe da Georgia e Moldavia. Ma per Buzhinski
anche l'accordo del 1999, che tiene conto del crollo dell'Urss e del
dissolvimento del Patto di Varsavia, "è obsoleto e non corrisponde
alla realtà odierna". A suo avviso, è meglio sviluppare un
nuovo documento che corrisponda alla nuova realtà e questo
"potrebbe essere fatto in due modi: o tutte le parti adeguano il trattato
Cfe dopo averlo ratificato o si dimostra la volontà politica e si
cominciano consultazioni per definire un nuovo accordo". Nonostante la
bocciatura della proposta Nato, il ministro degli esteri russo Serghei Lavrov,
in una conversazione telefonica con il segretario di Stato Usa
Condoleezza Rice, si è detto pronto a proseguire le discussioni con la
parte americana sul Cfe". Ma Buzhinski ha fatto capire che la Russia vuole
alzare il tiro, modificando anche i due trattati che la legano agli Usa.
(giovedì 19 luglio 2007).
ROMA L'Unione europea boccia la legge
Gasparri, cioè la legge che era stata fatta dal precedente governo e che
avrebbe dovuto riorganizzare il complesso mondo della tv. A mostrare il pollice
verso è la commisssione sulla concorrenza secondo la quale la legge
Gasparri mantiene una situazione di duopolio nel sistema radiotelevisivo
italiano e rischia di estenderlo anche al digitale. Dunque, la legge che
avrebbe dovuto aprire il mercato alla concorrenzza, di fatto, secondo
Bruxelles, lasciava che a farla da padrone fosse il duopolio Rai-Mediaset. Non
solo, ma con il rischio che questo duopolio si estendesse, in ugual misura,
anche al digitale. Adesso la Commissione dà tempo due mesi
all'Italia "per porre rimedio alle discriminazioni". Roma
dovrà adeguare la propria legislazione alle norme comunitarie,
altrimenti Bruxelles potrà decidere il deferimento alla Corte di
giustizia europea. "La Commissione - si legge in un comunicato -
ritiene che la legislazione italiana che regolamenta il passaggio della
televisione analogica alla televisione digitale terrestre, imponga restrizioni
ingiustificate alla fornitura di servizi e conceda vantaggi ingiustificati agli
operatori analogici esistenti". Stando così le cose, per Bruxelles,
il passaggio dall'analogico al digitale non cambierebbe le cose e
"lascerebbe i consumatori italiani di fronte a una scelta limitata".
La procedura d'ingrazione contro il nostro Paese era stata aperta dopo una
denuncia di Altroconsumo e una prima lettera di "messa in mora" era
stata mandata dall'Ue all'Italia il 19 luglio 2006. Bruxelles ricoda
che, a distanza di un anno, l'Italia ha elaborato la cosidetta "legge
Gentiloni" che mira a modificare la legge esistente, ma che questo
"progetto" non è ancora stato adottato. In pratica la
"Legge Gentiloni" vieterà il trading, cioè la
compravendita di frequenze, per gli operatori che possiedono più di due
reti analogiche nazionali e la redistribuzione di quelle liberate con il
progressivo passaggio al digitale terrestre. Al momento è la Rai a
possere il maggior numero di impianti analogici (5.871), seguita da Mediaset
(4.523) e Telecom Italia Media (1.115). Mediaset la fa invece da padrona negli
impianti digitali (975) mentre Telecom Italia Broadcasting ne ha 236 e la Rai
solo 143. Immediate le repliche e le polemiche politiche in Italia. "Il
richiamo dell'Unione europea - dice il ministro Gentiloni - è
sacrosanto: la legge Gasparri è incompatibile con l'ordinamento europeo.
Il disegno di legge del governo cancella la Gasparri e reintroduce i principi
fondamentali di pluralismo e concorrenza. Ora mi aspetto una decisa
accelerazione del suo iter, come ci chiede esplicitamente l'Europa".
"La bocciatura della legge Gasparri sta a dimostrare che questa normativa
è stata concepita per tutelare i più forti e accontentare il
padrone - dice il verde Marco Lion -. Ora il Parlamento inizi a discutere della
questione e ci liberi dalla Gasparri". "Resta opinabile la decisione Ue
- replica lo stesso Gasparri - perchè l'Italia vanta un alto numero di
operatori ed un'ampia possibilità di acecsso al mercato. Forse ha
ragione Sarkosy quando critica certi meccanismi europei".
BRUXELLES
- Torna l'incertezza sul futuro di Alitalia e, puntuale come un orologio
svizzero, l'Europa torna a far sentire la propria voce chiedendo a Roma
di rispettare le regole Ue sugli aiuti di Stato. Per Bruxelles, dunque,
il governo non potrà assicurare un futuro alla compagnia di bandiera
mettendo in campo l'ennesimo piano di salvataggio che preveda l'iniezione di
soldi pubblici. Una posizione subito accolta dal presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, secondo cui bisogna rispettare le regole comunitarie visto
che l'Italia non vuole strappi con l'Unione europea. A dettare la linea di Bruxelles
è stato Michele Cercone, portavoce del commissario europeo ai Trasporti
Jacques Barrot: "Un'operazione analoga è stata già
autorizzata secondo il principio "one time, last time" - ovvero una
volta, ultima volta ? il che impedisce alla Commissione Ue di
autorizzare nuovi interventi" con denaro pubblico. Quanto al futuro della
compagnia, ha aggiunto, noi rimaniamo "agnostici" purché la gestione
della crisi sia in linea con le regole comunitarie. Insomma, per la Ue
è indifferente se Alitalia verrà affidata ad una gestione
pubblica o privata, quel che conta, invece, è che non ci sia una
ricapitalizzazione con denaro dello Stato per evitarne il fallimento. Il tutto
in linea con il principio cardine della politica Ue sugli aiuti di Stato
secondo cui chi subentra in un'azienda in crisi deve comportarsi come "un
investitore privato", ovvero pagandola il valore di mercato. Un modo per
evitare che un governo paghi una cifra spropositata per aumentare la
liquidità di chi è sull'orlo del precipizio. Pertanto, ha spiegato
il portavoce, "se il processo di privatizzazione sarà fatto in
linea con il normale comportamento di un investitore privato non ci sarà
nessun problema di aiuti di Stato". La posizione Bruxelles, che la Commissione
ha tutti i poteri per difendere, è stata subito accolta da Giorgio
Napolitano. Da Lisbona il capo dello Stato ha affermato: "Quello degli
aiuti di Stato è un problema delicato che non riguarda solo l'Italia ma
tutti i paesi europei. Sulla concorrenza ? ha aggiunto - in questo momento ci
sono polemiche, in particolare per le prese di posizione del nuovo presidente
francese, e la nostra esperienza ci dice che non possiamo fare strappi".
Il che significa, ha concluso, "collaborare con le istituzioni
europee" attenendosi alle loro regole. Norme che nel caso di Alitalia
vietano nuovi aiuti pubblici, visto che nel 1997, esattamente dieci anni fa,
Bruxelles aveva già autorizzato un'erogazione di soldi dello Stato per
salvare la compagnia di bandiera. Nel 2004-2005, poi, l'ormai storico dossier
della compagnia di bandiera era stato oggetto di un durissimo negoziato tra il
governo e la Commissione. Alla fine Bruxelles aveva dato il proprio via
libera al piano di salvataggio perché Roma aveva tolto dal miliardo e duecento
milioni di euro di ricapitalizzazione ogni traccia di aiuto di Stato. E non
bisogna sottovalutare che, nonostante la lunghissima analisi del dossier, la
decisione Ue era stata aspramente contestata da tutte le compagnie
europee, British Airways in testa. Come dire, anche con tutta la buona
volontà del mondo Bruxelles non può fare sconti.
BRUXELLES
La Corte di giustizia europea ha condannato l'Italia per il mancato rispetto in
Sicilia delle norme Ue sugli appalti. Il caso, esaminato dai giudici
europei, si riferisce alla procedura per la stipula di convenzioni per
l'utilizzo della frazione residua dei rifiuti urbani, al netto della raccolta
differenziata, prodotta nei comuni della Regione Siciliana. Con queste
convenzioni, sottolinea la Corte nella sua sentenza, non sono state applicate
le procedure per gli appalti pubblici di servizi previste dalla norme
comunitarie. "Accogliamo con favore e senza sorpresa l'odierna sentenza
con cui la Corte di giustizia europea ha accolto il ricorso della Commissione
Ue e ha condannato l'Italia per violazione della direttiva comunitaria
sugli appalti in relazione alla costruzione di quattro megainceneritori in
Sicilia", ha affermato il deputato Dl Franco Piro. "Come noi
sosteniamo fin dal principio di questa vicenda ha aggiunte -, le convenzioni
con le quali sono stati affidati i lavori ai quattro raggruppamenti di imprese
per gli inceneritori di Bellolampo, Augusta, Paternò, Casteltermini,
sono illegittime. Emergono nettamente le responsabilità che si è
assunto il commissario straordinario per l'emergenza rifiuti e presidente della
Regione Cuffaro". (giovedì 19 luglio 2007).
?
LATINA ? "LA SENSAZIONE che provo lavorando con questi due scansafatiche
è che ci divertiamo più noi del pubblico" diceva Dean Martin
parlando delle sue complicità artistiche con Frank Sinatra e Sammy Davis
jr. Ed è proprio con lo spirito gaudente del Rat Pack che alcuni grandi
nomi del pop si sono ritrovati attorno alle canzoni dell'interprete di
"That's amore", trasformandole con l'ausilio dell'elettronica nei
duetti virtuali di "Forever cool". Nei negozi il 24 agosto,
"Forever cool" è l'album con cui il mondo della musica
festeggia quei novant'anni che Dino Paul Crocetti, scomparso il giorno di
Natale del '95, avrebbe compiuto il 7 giugno scorso; Robbie Williams fa sua
"Please don't talk about me when I'm gone", Joss Stone se la vede con
"I can't believe that you're in love with me", Martina McBride con
"Baby, it's cold outside" e Charles Aznavour con "Everybody
loves somebody", mentre il trombettista Chris Botti arricchisce col suo
prezioso afflato strumentale "I've grown accustomed to her face". Ma
c'è pure Tiziano Ferro, che condivide col divo di origini abruzzesi
l'universo romantico di "Arrivederci Roma". E quel pezzo di Renato
Rascel affiora pure tra le pieghe dello spettacolo che Ferro porta al debutto
domani sera nella sua Latina, per poi proseguire alla volta di altre 14
città, fra cui Carpi il 22 luglio, Marina di Massa il 25, San Benedetto
il 27, Mugello il 29, Cattolica il 18 agosto. SE MARTIN, rivangando i suoi
controversi esordi da boxeur, si vantava di aver combattuto venti incontri
"tutti vinti, tranne diciannove", Ferro per ora le sue sfide se le
è messe in tasca una dopo l'altra. Ma questa gli ha cambiato la vita.
"In "Arrivederci Roma" ho cantato in maniera diversa dalle
altre, spingendomi verso orizzonti finora inesplorati" spiega. "E'
una questione di timbro, di tensione, di atteggiamento, che penso avrà
ripercussioni anche sul mio modo di cantare futuro". Cosa ammira
maggiormente in Dean Martin? "Le smisurate capacità di entertainer.
Nonostante la sua grandezza d'artista, nessuno ancora l'aveva mai omaggiato,
così quando la Capitol ha messo in cantiere questo progetto la famiglia
è stata felicissima di concedere il proprio placet". Perché lei ha
scelto "Arrivederci Roma"? "Anche se nella versione di Mario
Lanza o di Perry Como, quel pezzo è fra i quindici-venti della mia vita.
Così quando mi è stato proposto di duettarlo in "Forever
cool" ho accettato senza esitazioni". E' stato difficile per lei
cantare su una base pre registrata? "No, mi sono bastate un paio di
registrazioni. Un po' come accade quando incido le mie canzoni". Sulla
tomba di Martin, al cimitero di Westwood, c'è incisa la frase
"Tutti amano qualcuno", titolo della canzone riletta nel disco da
Aznavour. D'accordo? "Assolutamente. Ho chiamato il mio ultimo disco
"Nessuno è solo" non a caso, l'uomo trova il suo equilibrio
nel confronto con gli altri specie se, e quando, ama". Quali brani di
questo cd le sono piaciuti di più? "I
due interpretati da Kevin Spacey, "Ain't that a kick in the head" e
"King of the road". Come aveva già lasciato intendere
nel film "Beyond the sea", Spacey è un cantante pazzesco, che
ti lascia a bocca aperta". Quello al cantante e attore di Steubenville non
è il solo omaggio del suo nuovo spettacolo. "Oltre ad
"Arrivederci Roma", rileggo alla mia maniera "Centro di
gravità permanente" di Franco Battiato, il mio cantante preferito
assieme a Vasco Rossi. Uno dei pochisimi a non essersi mai svenduto e ad aver mantenuto
intatta la sua integrità". - -->.
+ + AgenParl 18-7-2007 SENATO: COSSIGA A MARINI,
NON VOTERO' PIU' A PALAZZO MADAMA
(memo) +
+ Il Sole 24 Ore 13-6-2007 Le
liberalizzazioni “frenate”.
+ Il Sole 24
Ore 18-7-2007 Nuovo record storico per l'euro sul dollaro
+ Il Sole 24 Ore AirOne si ritira dall'asta Alitalia di Laura Serafini
Il Sole 24 Ore
17-7-2007 Selva ritira le dimissioni da senatore
Il Riformista
18-7-2007 PENSIONI La dimissioni di Bonino e i diktat della sinistra pari sono
Il Sole 24 Ore
17-7-2007 Ice-Istat: il made in Italy ritrova l'Europa di Michele De Gaspari
Roma, 18 Luglio 2007 – AgenParl – Francesco Cossiga non parteciperà
più alle votazioni in Senato. Il senatore a vita lo ha comunicato con una
lettera al presidente del Senato Franco Marini di cui ha reso noto il testo.
“Le recenti votazioni, nelle quali determinanti sono stati per la maggioranza
elettiva e per il Governo i voti di senatori a vita e le polemiche che ne sono
derivate in un clima politico e parlamentare sempre più pericolosamente
confuso – scrive Cossiga a Marini – mi hanno fatto maturare la decisione di non
partecipare più in questa legislatura alle votazioni, né in Commissione
né in Aula né nelle sedute del Parlamento a Camere riunite, salvo che non si
tratti di provvedimenti sulla cui approvazione concordino maggioranza di
Governo e opposizione”.
“Mi riservo – precisa Cossiga – di partecipare al dibattito, di presentare
emendamenti, e di firmare ordini del giorno e mozioni che abbiano già
raggiunto il prescritto numero di firme e di fare dichiarazioni di voto,
ancorché poi al voto non partecipi. Naturalmente, poiché continuo ad essere
membro del Senato, voterò se richiesto per la nomina dei suoi organi,
per le questioni regolamentari e per le deliberazioni che riguardino la sua
vita interna”.
”Con questa mia personale decisione non intendo assolutamente giudicare gli
egregi colleghi senatori a vita”, ribadisce l'ex Capo dello Stato pregando
Marini di comunicare la sua decisione al consiglio di Presidenza per le
eventuali decisioni che riterrà di voler adottare “in materia di mio
complessivo trattamento economico”. E aggiunge: “La mia decisione è
dovuta ad una mia considerazione sull'evoluzione e lo stato delle istituzioni e
del nostro regime rappresentativo, e al pericoloso stato confusionale nel quale
esse versano”.
ROMA - Tpg, Matlin Patterson e Mediobanca abbandonano l'ipotesi di acquisto
dell'Alitalia. La gara per la privatizzazione della compagnia aerea è
sostanzialmente fallita. Anche l'ultimo consorzio ha lasciato e il titolo della compagnia di bandiera ha subito una forte flessione in Borsa. Fonti di Palazzo Chigi
diffondono però commenti ispirati ad un cauto ottimismo: "Nulla è
ancora chiuso. Valutiamo tutte le ipotesi", dicono a margine della visita
del presidente del Consiglio in Slovacchia. "D'altronde c'è tempo
fino al 23 per la scadenza della presentazione di offerte vincolanti". E,
mentre l'Ue avverte: "Niente aiuti di Stato", Fassino ritiene
necessaria "un'iniziativa del governo per il rilancio di proposte per un
assetto stabile e definitivo".
Ue: "Non aiuti di Stato". La Commissione Europea dice no a nuovi
aiuti di stato per un eventuale salvataggio dell'Alitalia. "Un'operazione
analoga è stata già autorizzata nel 2004 sul principio 'una
volta, ultima volta' e ciò impedisce che vengano autorizzati nuovi
interventi", ha detto il portavoce del commissario ai Trasporti Jacques
Barrot rispondendo ad una domanda sulla possibilità che il Tesoro
ricapitalizzi la compagnia per far fronte alle sue esigenze finanziarie ed
evitare un eventuale fallimento.
La palla torna al Tesoro. A questo punto la palla torna al
Tesoro, che già nel comunicato di stamani si era riservato "come
previsto dalla lettera di procedura, ogni decisione circa il proseguimento
della procedura di privatizzazione". "C'è un ventaglio di
possibilità", ha spiegato a questo proposito il ministro dei
Trasporti Alessandro Bianchi, aggiungendo però che la liquidazione è
"l'ultima tra le ipotesi sul tavolo". Dalla partita, intanto, torna a
chiamarsi fuori Air France, che ribadisce di non essere interessata "alle
condizioni attuali", mentre Air One e Aeroflot si dicono pronte a
ritornare sui loro passi se il bando cambiasse. Preoccupati i sindacati che
chiedono un immediato confronto con il governo.
Le preoccupazioni di Fassino e l'iniziativa di governo. Il leader della Quercia
Piero Fassino ha espresso apprensione per "il rischio gravissimo" che
vada disperso "un patrimonio economico, di professionalità e
competenza di cui l'Italia non può privarsi". Allo stesso tempo
Fassino si è detto sicuro che nelle prossime ore ci sarà
"un'iniziativa del governo per rilanciare proposte che consentano di
approdare ad un assetto stabile e definitivo".
Il titolo crolla in Borsa, poi riprende. Come previsto, i mercati hanno accolto
negativamente gli ultimi sviluppi della gara. Ieri, prima
dell'ufficializzazione della rinuncia di Air One, il titolo Alitalia aveva
chiuso in Borsa con un +0,31%. Oggi, in apertura, il valore delle azioni della
compagnia era in calo di oltre l'8%. Poi, nelle ore successive, ha avuto una
leggera ripresa e la flessione si è ridotta al 3,16%.
(18 luglio 2007)
Taxi
Gli enti locali possono (non più "devono")
rilasciare Licenze per trasporto
innovativo a taxi e noleggio con conducente. Escluso il trasporto pubblico
locale
Pra
Saltata l’abolizione del Pubblico registro automobilistico.Gli
articoli 51-54 saranno stralciati e spediti in un nuovo Ddl alla commissione
Trasporti
Componenti auto
Perso anche l’articolo 5 sui ricambi delle auto che eliminava il
nulla osta della casa costruttrice del veicolo: il governo è andato
sotto in Aula su un emendamento di Fi
Acqua
Stop alle gare future e in corso per l’affidamento dei servizi
idrici locali sino ad una riforma complessiva del settore. La norma inserita
durante il voto in Aula
Banche
Versione più soft per la nullità della clausola di
massimo scoperto per i conti correnti.
Possibile «un corrispettivo per il servizio di messa a disposizione delle
somme»
Notai
Non passa l’emendamento che sottraeva ai notai l’esclusiva sulla
compravendita di immobili al di sotto di 100mila euro di valore catastale
Gas
Caduta la misura che superava le omologazioni tecniche dei
contatori, affidando i controlli a nuove norme stabilite da ministero dello
Sviluppo e Authority energia
ROMA
Via, per sempre, i politici corrotti: chi riveste una carica pubblica e viene
condannato in via definitiva per «cattiva amministrazione», non deve avere la
possibilità di candidarsi di nuovo. A sorpresa, la Corte dei Conti si
dichiara d’accordo con la proposta, che definisce «un pò forte,
clamorosa», come quella di Beppe Grillo che recentemente ha depositato alla
Cassazione una richiesta di legge popolare per un «Parlamento pulito».
Il procuratore generale della magistratura contabile Claudio De Rose, in
occasione di una riflessione sui risultati raggiunti dalla Procura generale in
vista del suo prossimo collocamento a riposo, si spinge ancora più in
là: «Chi è condannato in via definitiva deve essere destituito
dalla carica che riveste». L’ineleggibilità e la revoca del mandato
dovrebbe riguardare in particolare chi si macchia di corruzione in tema di
appalti o di frodi comunitarie, fenomeno questo che «non accenna a diminuire».
Sulla stessa linea, il viceprocuratore generale aggiunto Mario Ristuccia:
«C’è una domanda nel paese di corretto uso delle risorse pubbliche. Se
c’è un amministratore che le usa in modo distorto, una sanzione
accessoria di questo tipo sarebbe la garanzia di cui la Nazione avrebbe
bisogno».
Per De Rose, quella di garantire la non rieleggibilità per i politici
corrotti può essere «un buon sistema». Ad esempio, ha spiegato, «in
altri paesi europei, come la Gran Bretagna, si suggerisce questo tipo di
sanzioni accessorio». L’alto magistrato non ritiene che stia per tornare in
auge Tangentopoli ma sottolinea comunque il potere di associazioni a delinquere
dietro le procedure di appalti e anche dietro l’assegnazione dei fondi comunitari.
«Preoccupa poi il fatto che le società pubbliche non producano mai
utili...», aggiunge De Rose. Da parte della Procura generale, «non è che
abbiamo le armi spuntate - sottolinea l’alto magistrato - i numeri e i mezzi
sono numericamente inadeguati». E questo comporta anche che molti reati vadano
prescritti, proprio per la lentezza dei controlli. Infine, tornando sempre al
tema dei parlamentari, De Rose fa presente «un’altra delle cose che mi danno
fastidio»: «Non è un’irregolarità - conclude - ma è una
legge sbagliata mandare i parlamentari in pensione dopo due anni e mezzo».
L'euro sale al nuovo record storico a 1,3834 dollari e apre
sui mercati del Vecchio Continente in rialzo a 1,3818 contro 1,3771 delle
quotazioni indicative della Bce. Anche la sterlina avanza al nuovo massimo da
26 anni a 2,0548 dollari.
L'euro è invece stabile nei confronti dello yen, a 168,18, contro 168,07
della quotazione Bce di ieri.
Il biglietto verde scivola ancora per i timori per la crisi dei subprime e per
un previsto nuovo aumento dei tassi di interesse. La crisi dei mutui subprime
si riaccende dopo che il colosso Bear Stearns fa sapere che due suoi hedge
fund, colpiti dalla crisi dei mutui ad alto rischio, valgono ora «molto poco».
Anche
l'ultimo candidato rimasto in lizza per comprare Alitalia – quello che fino ad
ora è stato dato come favorito - si ritira dalla competizione. La Ap
Holding di Carlo Toto, che controlla la compagnia AirOne, ha comunicato ieri
sera il ritiro ufficiale dalla gara e la decisione di non presentare alcuna
offerta vincolante in vista della scadenza del 23 luglio.
La notizia non giunge come un fulmine a ciel sereno e in verità era
nell'aria già da alcuni giorni. Lunedì Ap Holding aveva fatto
trapelare la notizia che le osservazioni del ministero dell'Economia sulle
modifiche al contratto di vendita proposte dal gruppo guidato da Toto tardavano
ad arrivare. Ieri l'annuncio che la bozza di contratto era arrivata, ma che le
condizioni poste dall'azionista pubblico di Alitalia sono così rigide da
aver comportato il ritiro dalla gara.
Fonti autorevoli del ministero dell'Economia e dei consulenti che lo stanno
assistendo nella gara (Merrill Lynch, lo studio Chiomenti e Bain Company)
accreditano però un'altra versione: Ap Holding non sarebbe riuscita a
chiudere con le banche (in particolare con Intesa SanPaolo, suo partner
principale) il progetto di finanziamento dell'operazione e per questo motivo
avrebbe colto l'occasione della consegna delle osservazioni al contratto di
vendita per fare marcia indietro.
Inevitabile che ieri sulle diverse interpretazioni della vicenda si scatenasse
la bufera. Fonti bancarie hanno assicurato che invece le questioni finanziarie
non c'entrano e che addirittura Intesa SanPaolo era pronta a portare all'esame
del consiglio di sorveglianza il piano finanziario per sostenere Ap Holding nel
progetto di acquisto di Alitalia.
Il motivo per cui Toto avrebbe deciso di gettare la spugna, secondo questa
versione, sarebbe da ricercare nella decisione del Tesoro di non allentare
alcune condizioni previste nel contratto di vendita e considerate dal
potenziale compratore troppo rigide e tali da rendere economicamente non
conveniente l'operazione. Il passaggio cruciale riguarda Az Servizi, la
società che gestisce in outsourcing i servizi informatici e di handling,
controllata da Fintecna con un 49% più un 2% ricevuto in usufrutto da
Alitalia e per il restante al 49% da Alitalia. Il bando di gara nei fatti
lasciava intendere ai compratori che sarebbe stata gradita un'offerta per il
49% di Fintecna: ma alla cordata composta da Ap Holding questa opzione non
interessava.
Piuttosto era stata chiesta la possibilità di rinegoziare i contratti,
che sarebbero a condizioni non di mercato. O in alternativa di tornare in
possesso del 2% di Az Service per andare in maggioranza e poi rinnovare i
contratti. Ma il Tesoro ha detto no, così come non ha voluto saperne di
cancellare la previsione di fideiussioni a garanzia di forti penali che
sarebbero scattate se una parte del piano non fosse stata realizzabile anche
per cause non dipendenti dall'acquirente. E ancora: nessun impegno è
stato assunto dal ministero dell'Economia per derogare alla normativa antitrust
(come consentito dalla normativa) affinché non fosse imposto ad Ap Holding di
dover cedere gli slot più redditizi. Infine era stato chiesto al
ministero di togliere la clausola che prevedeva di chiudere la trattativa con i
sindacati sugli esuberi entro un paio di mesi dall'acquisizione.
La posizione del dicastero di fronte a queste richieste, in verità, era
abbastanza chiara sin dall'inizio della procedura di gara: poche regole chiare,
trasparenti e niente cambiamenti in corsa per evitare di dare l'appiglio ai
concorrenti già uscita dalla competizione di fare un ricorso al Tar
rischiando di sospendere tutta l'operazione.
In questa escalation di eventi, comunque, ieri il ministero dell'Economia dava
l'impressione di aver già messo in conto l'epilogo della vicenda: un
comunicato è atteso in cui via XX Settembre dichiarerà che
l'unico concorrente rimasto in corsa ora è il fondo di private equity
Matlin Patterson e che bisognerà attendere che questo si pronunci sulla
propria decisione se presentare o meno un'offerta vincolante prima di poter
dichiarare la gara chiusa per mancanza di concorrenti e poi decidere cosa fare
. In verità questo fondo Mattlin sembra sempre più una foglia di
fico più che un candidato vero che serve forse a prendere tempo per
trovare una soluzione.
Cosa accadrà ora è difficile dirlo. «Viene meno l'ipotesi di
privatizzazione dell'Alitalia, ora si profila un avvenire certamente fosco. Per
Alitalia si rischia di portare i libri in tribunale», ha dichiarato ieri il
leader di An, Gianfranco Fini, profilando uno dei percorsi che appare come il
più probabile per la compagnia nazionale. Oggi ci sarà il banco
di prova di piazza Affari: per il titolo in Borsa si prepara una giornata molto
difficile.
In un lungo comunicato diffuso ieri per spiegare le sue ragioni, Ap Holding
(che ieri aveva fatto trapelare l'interesse per la compagnia serba Jat) ha
rivelato che il suo piano industriale prevedeva un aumento delle rotte
nazionali e internazionali del 14% in 5 anni, una crescita di 1,5 milioni dei
passeggeri intercontinentali e di sette destinazioni transoceaniche, oltre
all'intenzione di mantenere gli hub di Fiumicino e Malpensa.
Per ora resta un sogno, soprattutto per i passeggeri di Alitalia. Che ieri ha
diffuso i dati sul traffico passeggeri a giugno 2007, in aumento dell'1,5%
rispetto a giugno 2006, a fronte di un rialzo della capacità offerta
dello 0,9%.
COMUNICATO STAMPA
L’Autorità
Garante della Concorrenza e del mercato, nella riunione del 17 luglio 2007, ha
deliberato l’avvio di una istruttoria relativamente alla operazione di
concentrazione UniCredito Italiano SpA e Capitalia SpA.
La
fusione tra il gruppo Unicredit e il gruppo Capitalia determinerà la
costituzione di uno dei principali gruppi bancari italiani e dell’area euro,
con una capitalizzazione di mercato di quasi 100 miliardi di euro e una rete
distributiva in Italia costituita da oltre 5.000 sportelli e da più di
3.000 promotori finanziari.
La
fusione comporterà, alla luce delle peculiarità della struttura
dei gruppi interessati all’operazione, vari effetti che l’Autorità ha
ritenuto meritevoli di approfondimento. Si tratta, in successione, di un
considerevole ampliamento della rete distributiva, di un incremento del potere
di mercato nell’attività a monte della produzione/gestione di vari
mercati e di un arricchimento della gamma e tipologia di servizi offerti.
Più
in particolare, la decisione di avvio istruttoria da parte dell’Autorità
deriva dalla necessità di accertare i rischi di creazione di una
posizione dominante, tale da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole
la concorrenza, su diversi mercati relativi al settore bancario tradizionale,
al settore del risparmio gestito, al settore dell’investment banking, al
settore assicurativo, nonché ad altri mercati collegati non strettamente
bancari.
L’Autorità
ha ravvisato, infatti, rischi di eccessivo potere di mercato nel settore della
raccolta e degli impieghi bancari in diverse province italiane, molte delle
quali localizzate in Sicilia e nel Lazio. Ulteriori settori oggetto di analisi
nella fase istruttoria saranno quello dei prodotti assicurativi vita e dell’investment
banking, dove entrambe le parti sono attive e nel quale il contesto
competitivo potrebbe risultare allentato per i legami che caratterizzano la
nuova entità.
L’Autorità
analizzerà parimenti i legami azionari e personali post fusione con
altri primari operatori nei mercati rilevanti, i quali, allo stato, appaiono
difficilmente qualificabili come concorrenti effettivi, attuali e potenziali.
Si
tratta del gruppo Generali e del gruppo Mediobanca che - alla luce delle nuove
partecipazioni detenute dalle parti, tanto nella compagine azionaria che nei
patti parasociali, nonché nella governance e in considerazione dei
legami incrociati - opereranno in un contesto che rischia di essere
caratterizzato da una forte riduzione delle pressioni competitive con la nuova
banca nei rami dell’assicurazione vita e nel settore dell’investment banking.
Il
procedimento si chiuderà entro il 7 ottobre 2007.
Roma,
17 luglio 2007
Nel
conto annuale della Ragioneria la classifica del non-lavoro, tra ferie,
malattia, permessi e scioperi
Le donne mancano otto giorni in più rispetto alla media. I più
virtuosi magistrati e diplomatici
ROMA - Sette settimane lontano dalla scrivania.
Le statistiche confermano il luogo comune del dipendente pubblico meno presente
al lavoro rispetto ai colleghi del settore privato: i dati annuali della
Ragioneria dello Stato, aggiornati al 2005, dicono che per gli uomini l'assenza
media è di 47 giorni e per le donne di 52. Cifra complessiva che comprende
ferie, malattie e permessi vari. Visto che la quota delle vacanze può
essere considerata identica sia nel settore pubblico che nel privato, la
differenza è consistente: quasi il 50% in più. Nella Pubblica
Amministrazione il 20% del periodo lavorativo lo si passa da assenti più
o meno o giustificati contro il 16% registrato nell'industria e il 12,3% dei
servizi.
La tendenza è al peggioramento: nel 2000 i giorni di lavoro
complessivamente persi per malattia e permessi erano 65.209.385, cinque anni dopo
sono saliti a 66.368.095 con l'aggravante che nel quel monte assenze è
diviso tra un totale di impiegati più basso di 29 mila unità. Se
si guarda alla malattia, in cinque anni ogni dipendente pubblico in media ha
chiesto un giorno in più di riposo, facendo pagare allo Stato 3 milioni
di giorni lavorati in meno. Confermata inoltre che sono le dipendenti donne a
chiedere mediamente più tempo per rimanere lontano dall'ufficio.
Ministeri e Pa. Nel dettaglio il confronto può non essere
omogeneo per l'enorme differenza di dimensione tra i vari enti, comunque tra i
più "cagionevoli" spiccano gli oltre 2400 addetti alla
presidenza del consiglio con quasi 16 giorni di malattia a testa. Nei ministeri
si passa dai 22,5 giorni di media per i dipendenti della difesa fino ai soli
4,6 del ministero degli Interni e i 6,8 degli Esteri.
Nelle altre istituzioni si segnalano gli alti tassi di
assenza delle Agenzie fiscali e degli Enti pubblici non economici (Aci, Inail,
Inps, Inpdap), una tendenza storica per queste istituzioni che peggiora anziché
migliorare.
Infine la palma di stakanovisti invece va a diplomatici e magistrati, i primi
stanno lontano dal lavoro solo 25 giorni all'anno, i secondi addirittura 13,
ferie comprese. La toga inoltre sembra garantire una salute di ferro visto che
i certificati di malattia coprono appena 3,4 giorni per addetto.
Enti locali. Tra comuni, province e regioni emergono differenze Nord-Sud
solo sulle motivazioni dell'assenza dall'ufficio. Nella provincia di Treviso
per esempio l'addetto medio è lontano dalla scrivania per 35 giorni
l'anno escluse le ferie, nel comune di Bolzano per 38,9 giorni. In entrambi i
casi pesano i permessi retribuiti (i giorni di malattia a Treviso sono appena
8), negli stessi uffici di Reggio Calabria i motivi di salute rendono inabile
gli addetti per 26 giorni di media. L'uso smodato dei permessi malattia non
è solo meridionale: ai primi posti spicca Alessandria (22 giorni),
mentre tra i più virtuosi ci sono le province di Catanzaro e gli impiegati
comunali di Avellino.
Oltre le rilevazioni statistiche, per scoprire i reali abusi servono dati
puntuali, fino al caso singolo. La Ragioneria ha promesso già dal 2006
dati più dettagliati, e le stesse amministrazioni hanno aumentato i
controlli. E quando non basta, come a Perugia, interviene la magistratura.
(18 luglio 2007)
Il
senatore di An Gustavo Selva ha deciso di ritirare le dimissioni che aveva
presentato dopo essere stato criticato dal ministro della Sanità Livia
Turco e da altri esponenti politici per avere utilizzato un'ambulanza per
partecipare ad una trasmissione televisiva. Il senatore aveva giustificato
l'accaduto con la paura di non poter essere in tempo negli studi televisivi di
La7 a causa del traffico causato da manifestazioni anti americane durante la
visita di Bush a Roma.
Cara
Europa, vi segnalo lo sdegnato articolo di Elena Loewenthal, “Tra urla e
condoni”, sulla Stampa dell’altroieri, lunedì: un grido contro una classe
politica che consente a giovani e non giovani (ma soprattutto ai primi) di
uccidersi con droga e alcool e di uccidere; e un elogio per qualche magistrato
che decide di muoversi da solo, modificando il reato di omicidio colposo in
quello di omicidio volontario.
Sto coi più deboli, e quindi condivido ciò che scrive la
Loewenthal.
E voi? SALVATORE CHIARIZIA, PESCARA
Parlo
per me, caro Chiarizia, e le dico che ci sto anch’io, benché da quindici anni
almeno l’Italia sia soggetta a una nuova “cultura della resa”: la resa ai
prepotenti, dove costoro hanno sempre ragione in quanto, al peggio, imputati
“da garantire”, mentre le vittime hanno sempre torto, in quanto, al meglio,
affamate di “giustizialismo”. Parola che nel dizionario della mafia
politico-giornalistica sostituisce la parole “giustizia”, e si affianca a
“liberale” per liberista, “radicale” per comunista, “cattolico” per clericale,
“nazionale” per fascista, “imprenditore” per evasore, eccetera.
Mentre il ministro Amato preannuncia di voler aggiungere al ddl del Senato il
“sequestro della macchina” per chi guida ubriaco, e il ministro dei trasporti
Bianchi di voler addirittura proporre l’arresto obbligatorio – segno che se
n’erano dimenticati quando scrissero quel ddl: mentre 5500 ragazzi, giovani e
adulti lasciavano la vita sulle strade dal l gennaio 2007 – la Loewenthal
scrive: «Occorre prendere con urgenza misure pratiche, come quella, talmente
ovvia da sembrare sorprendente, di tenere davvero in carcere chi ammazza in
stato di ebbrezza […] Poco importa se per omicidio “colposo” o “volontario”,
l’importante è che sia qualcosa da scontare attraverso una pena e dentro
le mura di una cella, senza condoni di sorta…».
Proprio così, ma ci vorrebbero governanti con le palle.
Che non sia il caso di rivolgersi a una donna? Ma poi penso all’instancabile
Livia Turco, che propone di opporsi alla strage scrivendo sulle bottiglie
“Vietato guidare in stato di ebbrezza”, come dire vietato portare i cani a fare
popò sulla aiuole. D’altra parte, anche i maschietti non scherzano, se
penso che il procuratore capo di Torino Maddalena, di gran lunga uno dei
migliori magistrati d’Italia, teme che contestare all’assassino l’“omicidio
volontario” potrebbe rivelarsi non efficace; tant’è che la decisione del
pm bolognese Giovannini, che di omicidio volontario ha parlato per primo, viene
riguardata dai sacerdoti del diritto come una audace innovazione. E allora
parlate di omicidio doloso, e che chi sta in regola con la coscienza non teme
la severità delle leggi; e sfidate i commercianti, introducendo divieti
di vendita degli alcolici ai giovani: come gli svedesi cominciarono a fare
trent’anni fa. Noi nel frattempo abbiamo marciato all’incontrario: le
studentesse a 12 anni fanno le cubiste di pomeriggio (vedi l’agghiacciante
libro di Marida Lombardo Pijola), e si vendono a tariffa; mentre ci proponiamo
di estendere ai quattordicenni il diritto di voto, magari con spinello
raddoppiato.
Insomma, largo ai giovani, verso il cimitero.
La
decisione di Emma Bonino di rimettere il suo mandato di ministro in vista di un
possibile accordo sullo scalone è motivata dalla richiesta che il
premier chiarisca «se è compatibile il nostro sostegno al governo o se
lo siano, invece, le posizioni conservatrici e reazionarie della sinistra
comunista e di alcuni leader sindacali». La mossa di Bonino è motivo per
essere ancor più pessimisti sul destino del governo e al tempo stesso
per solidarizzare con il Prof. Sul primo punto, è chiaro che il gesto di
Bonino - che a quanto si capisce può ancora rientrare - non va
sottovalutato. E non solo perché lo Sdi ha subito annunciato di essere pronto,
nel caso, a passare all’appoggio esterno, ma perché è evidente che
dietro la mossa del ministro radicale c’è un humus politico forte anche
dentro il Pd e il suo gesto non è un’isolata alzata di capo, ma il
sintomo che le fibrillazioni provocate dal manifesto dei “coraggiosi” non sono
un mero dibattito accademico. Al contrario, la trattativa sullo scalone
dimostra che Prodi sarà sempre sul filo. Se copre a sinistra, si scopre
dall’altra parte. E viceversa.
D’altronde, però, c’è di che simpatizzare per il Professore, a
dispetto dei suoi alleati di destra e di sinistra. Perché lo scenario politico
italiano ci ha abituato a tutto. Ma le dimissioni preventive di un ministro,
che rimette il mandato prima ancora di aver potuto valutare la proposta
definitiva del governo, per giunta delegando al premier l’ultima parola sulla
propria uscita di scena, sono una singolare novità. Non sappiamo se a
scatenare la reazione di Bonino siano bastate le dichiarazioni di Franco
Giordano, fiducioso su un accordo, e non ci sentiamo di escludere che la mediazione
del Prof, di cui si sa molto ma non tutto, risulti meritevole di cotanto gesto
di protesta. Ma non si può rimproverare alla sinistra di procedere per
diktat senza rendersi conto che le dimissioni preventive appartengono in pieno
a quel medesimo repertorio che si vorrebbe biasimare.
Nei
primi quattro mesi del 2007 i dati
complessivi del commercio estero italiano mettono
in evidenza una crescita delle esportazioni di merci pari al 13,3%
nei valori correnti rispetto al corrispondente quadrimestre di un anno prima.
Nell'ambito dei 27 paesi dell'Unione europea,
che incidono per oltre il 60% sul totale dell'interscambio, l'aumento delle
nostre vendite è del 14,6% nello stesso periodo, mentre
con i paesi extra Ue la dinamica
dell'export in valore ha toccato il +10,1% nei primi cinque mesi,
risultando nettamente superiore a quella delle importazioni (+5,1%, su cui
hanno pesato l'apprezzamento dell'euro
e il temporaneo calo del prezzo del petrolio
nella parte iniziale dell'anno). I conti
economici nazionali del primo trimestre 2007 registrano, per contro,
una frenata delle esportazioni di beni e servizi a prezzi costanti, sia nei
confronti del periodo precedente (+0,4%) che dello stesso trimestre del
2006 (+4,1% tendenziale).
Le esportazioni di beni e servizi
hanno concluso il 2006 in forte accelerazione
nella gran parte dei settori, con un effetto di trascinamento molto consistente
sul 2007. Dopo questo sprint, i dati di contabilità
nazionale del commercio estero segnalano una minore vivacità
dell'export nel primo trimestre dell'anno. Ma superata la pausa, le vendite
all'estero dovrebbero confermare la migliore
capacità di tenuta del made in Italy sui mercati internazionali,
già messa in evidenza nel corso del 2006. Le esportazioni nel loro
complesso sono previste in aumento di un 4-5% in termini reali nel 2007, grazie
anche al maggiore dinamismo del ciclo
congiunturale europeo, che compensa il rallentamento della domanda americana.
Nella media del 2006 le esportazioni
italiane di beni e servizi, secondo i conti economici nazionali, sono aumentate
del 5,3% nei valori reali,
il migliore risultato dopo il picco ciclico (+9%) del 2000. I dati del
commercio estero mostrano una crescita per le sole merci pari al 3,6% in
volume, a fronte di un calo dello 0,9% nel 2005. Le nostre vendite all'estero
hanno beneficiato, in particolare, della ripresa
in atto nell'area dell'euro, che
assorbe il 45% dell'export italiano. Il principale contributo è venuto
dalla Germania, storico primo mercato
di sbocco del made in Italy; un forte aumento delle esportazioni si è,
poi, registrato nei dodici nuovi paesi
membri della Ue e, tra i mercati
extraeuropei, in Russia e Cina. Sono in calo, invece, gli Stati Uniti a causa soprattutto della sensibile
rivalutazione dell'euro (oltre l'11%) nei confronti del dollaro.
I settori esportatori più dinamici sono stati quelli dei beni strumentali, a cominciare dalle macchine e apparecchi meccanici, seguiti dai
prodotti in metallo e dai mezzi di trasporto. Nei tradizionali settori del made in Italy (tessile-abbigliamento-moda e
arredo-casa) l'andamento dell'export è risultato, per contro,
complessivamente debole, pur in presenza di una forte crescita dei valori medi
unitari. In questi comparti, dove ancora si concentra una quota rilevante
dell'industria manifatturiera nazionale, si registra da tempo un intenso
processo di delocalizzazione
internazionale dell'attività produttiva. A fronte della sostenuta
espansione del commercio globale (+15% in valore e +8% in volume), accompagnata
dall'apprezzamento del tasso di cambio effettivo, la quota delle esportazioni italiane sui mercati
mondiali si è ulteriormente ridotta,
sia a prezzi correnti (dal 3,6% al 3,4%) che a prezzi costanti (dal 2,7% al
2,5% circa).
Le importazioni di beni e servizi,
sempre nella media del 2006 e secondo i dati di contabilità nazionale,
sono aumentate del 4,3% in termini reali,
sull'onda della ripresa della domanda interna e delle stesse esportazioni, con
un risultante contributo positivo del
commercio estero alla crescita del Pil. L'aumento è in buona parte
dovuto agli acquisti all'estero di beni intermedi,
destinati alla trasformazione industriale, in linea con le fasi di ripresa
ciclica e la nostra crescente apertura
al commercio internazionale, legata anche alla delocalizzazione delle
produzioni di semilavorati. Accelera, poi, il flusso di merci provenienti dalla
Cina, a cominciare dal tessile-abbigliamento e calzature, dove si registra un
forte spiazzamento delle produzioni
nazionali. Le importazioni di prodotti manufatti
cinesi superano ormai il 5% del totale dei nostri acquisti
dall'estero, pari al triplo delle vendite in Cina; una quota che raggiunge il
20% nei comparti tipici del made in Italy. Nel 2007
le importazioni sono previste in aumento di circa il 4%, con una dinamica un po' inferiore a quella
delle esportazioni, che conferma il positivo apporto della domanda estera netta alla crescita del Pil.
Ice
e Istat in collaborazione
La collaborazione tra Ice
e Istat nell'ambito del Sistema statistico nazionale ha dato luogo, per il nono
anno a partire dal 1999, alla presentazione congiunta delle due principali
pubblicazioni statistiche sul commercio estero e l'internazionalizzazione delle
imprese italiane: L'Italia nell'economia internazionale-Rapporto Ice
2006-2007 e l'Annuario
statistico del commercio estero e attività internazionali delle imprese
Istat-Ice 2006.
La base informativa così resa disponibile è, quindi, molto ampia
e articolata, in grado di meglio soddisfare le esigenze conoscitive degli
operatori pubblici e privati. Una più approfondita utilizzazione dei
dati sugli scambi con l'estero delle merci e
dei servizi e di quelli relativi agli investimenti
diretti esteri consente, infatti, un'analisi puntuale del
sistema produttivo e commerciale dell'azienda Italia nel contesto
dell'integrazione europea e della globalizzazione dei mercati. Il Rapporto e
l'Annuario rappresentano, in particolare, il principale strumento di informazione
e analisi sul posizionamento competitivo
dell'Italia nell'economia internazionale.
+ La Repubblica 17-7-2007 Perugia, assenteisti in
ospedale Arrestati dieci medici e infermieri
L’Unità 17-7-2007 Mitridate, re d'Italia Marco
Travaglio
La Repubblica 16-7-2007 LINEA DI CONFINE MARIO PIRANI
Italia Oggi 17-7-2007 All'appello dei risparmi mancano
ben 24 milioni di euro di Stefano Sansonetti
Europa 17-7-2007 Leader con i quali non vinceremo mai
STEFANO MENICHINI
Il Riformista 17-7-2007 Il governo non regge
più, il Pd non sa che fare di Emanuele Macaluso
La decisione delle Camere slitta. Il Senato
non era pronto: tutto rinviato a causa dell'intenso lavoro della scorsa
settimana sull'ordinamento giudiziario. Voci di corridoio sostenevano che
qualcuno a Palazzo Madama si fosse impuntato sull'assegno vitalizio, che
secondo il documento non deve essere superiore del 60% dello stipendio. Voci,
appunto. Che ieri hanno fatto infuriare il presidente della Camera Fausto
Bertinotti, il quale in mattinata si era sfogato col collega Marini per
telefono. Quelle indiscrezioni facevano apparire la Camera come il ramo
"lassista" del Parlamento. Poi ha precisato: "Se l'incontro
è stato rimandato è per gli impegni rilevanti che il Senato ha
dovuto far fronte - spiega Bertinotti - E non esiste discrepanza tra le due
proposte. Il rinvio è per arrivare a una deliberazione congiunta,
già maturata. Delibereremo prima dell'inizio della pausa estiva".
Nel pomeriggio, poi, ci ha pensato il questore Gabriele Albonetti a chiarire
tutti i punti. Innanzitutto: gli effetti dei tagli sui vitalizi non li vedremo
in questa legislatura, ma alla fine della prossima. Poi difende i parlamentari.
Una difesa strenua e orgogliosa dei costi "strutturali" della
politica come baluardo di democrazia. E ha fatto riferimento a "una
campagna che tende a produrre una forte delegittimazione dell'attività
politica". Anche se, ha aggiunto, che a essa vanno comunque affiancate
"risposte concrete nella lotta agli sprechi". albonetti spiega che un
parlamentare alla fine dei conti resta con 5-6.000 euro al mese. Albonetti ha
però voluto ricordare sia quello che si è già fatto che
quello che ci si propone di fare. Così ecco specificato che la Camera,
nella propria autonomia, ha concretamente applicato alle spese correnti dal
2005 il limite di incremento del 2% stabilito dalla legge finanziaria dello
stesso anno; come pure ha recepito e attuato le norme stabilite dalle leggi
finanziarie a partire da quella per il 2005 in materia di contenimento delle
spese per consulenze. Ed ecco sottolineato subito dopo che negli ultimi anni,
il tasso di crescita delle spese effettive della Camera si è
progressivamente ridotto: era superiore al 7% nel 2000 ed è del 2,94%
nel 2007. E ancora che la percentuale di crescita effettiva delle retribuzioni
del personale di Montecitorio nel periodo 2001-2006 è in linea con la
dinamica dello stesso periodo nei settori principali della pubblica
amministrazione. Inoltre, i costo del Palazzo secondo il questore sono con le
altre democrazie Ue. Si può comunque fare ancora molto per risparmiare e
in questo senso Albonetti è stato prodigo di esempi su come si intende
procedere. Ha citato l'imminente esternalizzazione del ristorante dei deputati,
che produrrà una riduzione dei costi di circa 3,7 milioni di euro su
base annua. Ha confermato interventi sull'informatica che determineranno
contenimenti di spesa nell'ordine di 2,5 milioni di euro sempre su base annua.
E ha poi accennato alla "razionalizzazione dei costi per locazioni di immobili"
anche attraverso la "sostituzione progressiva degli immobili in locazione
con edifici nella diretta disponibilità della Camera". In questo
modo, sempre secondo Albonetti, sarà possibile operare risparmi a regime
di 2,6 milioni di euro all'anno. Già decisa poi una riduzione delle
tirature degli atti parlamentari con significativi vantaggi gestionali in
termini di minori spazi occupati e di abbattimento del rischio di incendio. E
inoltre: fine della stampa cartacea della rassegna stampa e convocazioni degli
organi della Camera tramite posta elettronica e sms. Sulla fatidica questione
dei vitalizi invece tutto rimane temporaneamente sospeso in attesa di una
concertazione assoluta col Senato. "Con le leggi vigenti stiamo facendo il
massimo. È chiaro che se riuscissimo a diminuire il numero dei
parlamentari e a eliminare il bicameralismo, possiamo rendere più
efficiente la democrazia e abbiamo dimezzato i costi della politica".
martedì 17 luglio 2007
ROMA -
La procura della Repubblica di Caltanissetta indaga sul probabile
coinvolgimento di apparati deviati dei servizi segreti nella strage di via
d'Amelio in cui morì il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e cinque
agenti della scorta. La notizia è stata confermata all'agenzia di stampa
ANSA da ambienti qualificati.
Il procuratore aggiunto, Renato Di Natale, coordina l'inchiesta sui mandanti
occulti della strage avvenuta il 19 luglio 1992. Secondo l'ipotesi degli
inquirenti ci potrebbe essere la mano di qualcuno degli apparati deviati dei
servizi segreti che ha forse avuto un ruolo nell'attentato.
Questa pista di indagine, che in un primo momento era stata accantonata ed
archiviata, è stata ripresa nei mesi scorsi dagli investigatori in
seguito a nuovi input d'indagine.
I magistrati stanno valutando una serie di documenti acquisiti dalla procura di
Palermo e che riguardano il telecomando che potrebbe essere stato utilizzato
dagli attentatori. A questo apparecchio è collegato un imprenditore
palermitano. I processi che si sono svolti in passato hanno solo condannato gli
esecutori materiali della strage, ma nulla si è mai saputo su chi ha
premuto il pulsante che ha fatto saltare in aria Borsellino e gli agenti di
scorta.
Un altro elemento sul quale è puntata l'attenzione degli inquirenti,
è "la presenza anomala" di un agente di polizia in via
d'Amelio subito dopo l'esplosione. Si tratta di un poliziotto - già
identificato dai magistrati - che prima della strage era in servizio a Palermo,
ma venne trasferito a Firenze alcuni mesi prima di luglio dopo che i colleghi
avevano scoperto da una intercettazione che aveva riferito
"all'esterno" i nomi dei poliziotti di una squadra investigativa che
indagava a San Lorenzo su un traffico di droga.
(17 luglio 2007)
PERUGIA - Dieci
arresti per assenteismo all'ospedale Santa Maria della Misericordia a Perugia.
Sono finiti in carcere o agli arresti domiciliari medici, docenti, infermieri e
personale tecnico amministrativo. Secondo quanto si legge in una nota della
Procura gli arrestati si allontanavano dal lavoro facendo timbrare il
cartellino o il badge marcatempo da amici compiacenti. Tra gli arrestati,
dipendenti dell'Azienda ospedaliera, un ex dipendente della stessa struttura e
tre impiegati dell'Università degli studi di Perugia, tutti operanti
presso l'ospedale perugino. Sono accusati di falso in atto pubblico e truffa
aggravata. Gli arresti sono stati eseguiti stamani dai carabinieri del Nas.
(17-07-2007)
Da una scuola
all'altra di Milano, manda certificati medici da una località a 1.110
chilometri. Ha un secondo mestiere: insegnare per me è un passatempo
MILANO — I peccati, e non il peccatore.
Storia breve e protetta dall'anonimato del professor M. Occorre prima riportare
la laconica dichiarazione dell'interessato, molto compreso nel suo ruolo: «Un
pubblico ufficiale come me ha il dovere di non intrattenere rapporti con la
stampa».
Clic.
Il professor M. e le sue pratiche non sono rappresentativi dei docenti
italiani. Fosse così, avremmo già chiuso baracca e burattini. La
sua storia è importante di riflesso, offre la misura di come
l'Amministrazione sia inerte ed inerme davanti a un caso di menefreghismo
così smaccato da avere aspetti comici. Anche se gli studenti che si sono
imbattuti in questo docente avrebbero da ridire sull'aggettivo «comico».
Sul Corriere della Sera di lunedì,
l'editoriale di Pietro Ichino dava conto del cursus honorum del professor M.
Passato indenne attraverso due indagini interne che prendevano atto del suo assenteismo
e della scarsa voglia di insegnare, è stato trasferito ad altro
istituto, dove attualmente esercita, o dovrebbe. I suoi vecchi alunni, che lui
ha lasciato nel febbraio 2007, pochi giorni fa hanno sostenuto la
maturità, con esiti paragonabili a Caporetto. Pare di capire che ci
saranno altri studenti caduti sul fronte del professor M.
All'inizio di giugno, la sua nuova scuola
ha chiesto con urgenza l'invio di un ispettore. L'arrivo del docente non
è stato indolore. Il trasferimento era stato deciso al termine dell'anno
scolastico 2005/2006. Ma un professore di ruolo non può essere scambiato
con un suo simile. Per fargli spazio, viene rimosso un supplente con contratto
annuale. Uno bravo, scrupoloso. I suoi studenti inscenano una manifestazione di
protesta sotto le finestre dell'Ufficio scolastico provinciale. Non si cambia
ad anno iniziato, è il loro ragionamento.
Con grande abnegazione, il professor M.
esordisce il 19 febbraio con una settimana consecutiva di lavoro, durante la
quale fa domanda al preside per ottenere l'autorizzazione a svolgere una
seconda attività. Visti i precedenti, permesso negato. Il professor M.
comincia a non farsi più vedere. Il primo certificato di malattia è
del 26 febbraio. Ne fioccano altri, tutti con la curiosa caratteristica di
essere stilati in una località distante 1.110 chilometri da Milano, suo
luogo di residenza. I periodi di malattia cominciano sempre di lunedì,
come se vi fosse la volontà di non rientrare a scuola dopo il weekend.
Quando c'è, è peggio. Ai suoi
studenti di quarta dice chiaramente che per lui la scuola è un
passatempo, nella vita ha un altro lavoro. All' ennesimo certificato di
malattia, fine aprile 2007, il preside nomina un supplente, nonostante la
situazione economica non florida della scuola, per accontentare gli studenti e
i loro genitori inferociti.
Il quale, va detto, ha una sua coerenza.
Avendo capito dalle precedenti esperienze che nulla gli può capitare,
applica alla nuova scuola i comportamenti tenuti in quella vecchia. La prima
indagine alla quale venne sottoposto, maggio 2005, era stata chiamata a gran
voce proprio da quegli studenti che pochi giorni fa sono stati infilzati alla
maturità. L'ispettore scoprì che il professor M. era già
stato segnalato nel 1996 dal preside di allora dopo i risultati disastrosi
ottenuti dai suoi alunni all'esame finale.
Tre anni dopo era stata proposta una ispezione sul suo conto, mai avvenuta.
Entrando nel merito, l'ispettore rileva «il numero elevatissimo di assenze e la
loro collocazione strategica soprattutto in determinati periodi dell'anno
scolastico e le gravi difficoltà e carenze di apprendimento lamentate
dagli studenti». Nel 2002-2003 le assenze sono state pari al 72 per cento del
suo orario di servizio; nel 2003-2004 si scende al 61%. Il sospetto di tutti
è che il suo secondo lavoro si svolga tra Milano e la sua terra di
origine, alquanto lontana. L'ispettore parla con gli alunni. «Quando non ha
voglia di fare lezione si mette a parlare di cucina o dei suoi viaggi». «Quasi
sempre dice che è stanco, e quindi si mette a leggere il giornale
pretendendo silenzio».
Gli studenti si dichiarano scoraggiati. Per
l'atteggiamento dell'insegnante, che al ritorno dai suoi periodi di malattia
gli rifila una media di 70-90 pagine al giorno da studiare con relativi
esercizi, senza averle prima spiegate in classe. Assegna 30 problemi (la sua
è una materia scientifica) alla volta e il giorno dopo, prima di aprire
il giornale, fornisce solo i risultati senza motivarne logica e passaggi. Poi,
ogni tanto, li interroga in massa e li bastona. Nel colloquio con l'ispettore
non ritiene di dover fare di più, sostenendo che la colpa è dello
scarso materiale umano che compone le classi in questione. Va notato che i suoi
alunni avevano ottimi voti in ogni materia tranne una, la sua. Al termine
dell'indagine, l'ispettore proponeva di assegnare il prof M. «ad incarico
diverso da quello dell'insegnamento, che lo veda impegnato (sempre che di
impegno egli sia capace) in attività che non comportino l'assunzione
delle responsabilità connesse con l'esercizio della funzione docente, da
lui del tutto negletta».
I pareri degli ispettori però non
sono vincolanti. Se l'interessato fa ricorso, e lo fa quasi sempre, si riparte
da capo. Nel 2005 la pratica finì a Roma, alla Sezione disciplinare del
Consiglio nazionale della Pubblica Istruzione, organo anche di tutela sindacale
e quindi per sua natura portato a sopire. Per il professor M. si decise di non
decidere. Venne mandato un altro ispettore, che salomonicamente suggerì
il trasferimento per incompatibilità ambientale. I nuovi studenti del
professor M. ringraziano, commossi e preoccupati.
17 luglio 2007
CORRISPONDENTE DA NEW YORK Una
conferenza internazionale per accelerare la pace e isolare Hamas. È
questo il nuovo passo della Casa Bianca, annunciato dal presidente George W.
Bush nella cornice di un appello ai palestinesi affinché «scelgano fra la
speranza e la morte, fra la pace e il terrore». Bush punta a rafforzare il
presidente Abu Mazen e il premier Salam Fayyad contro i fondamentalisti di
Hamas.
Bush è il primo presidente americano ad aver sostenuto la nascita di uno
Stato di Palestina indipendente e, a cinque anni da quel momento, fa capire che
solo Abu Mazen può riuscirvi. «Chi sceglie Hamas sceglie gli attentati,
gli omicidi, il terrore sostenuto da Siria e Iran, mentre chi sceglie Abu Mazen
punta a realizzare una democrazia moderna basata sullo Stato di Diritto» dice
Bush, ribadendo l’impegno preso nel 2002: «Lo Stato di Palestina non
nascerà mai con il terrorismo».
L’intenzione della Casa Bianca è di far capire ai palestinesi che,
optando per Abu Mazen, si avrà «il sostegno dell’America». E per dimostrarlo
con i fatti, Bush snocciola una serie di decisioni: la fine delle sanzioni
economiche all’Autorità nazionale palestinese (Anp); 190 milioni di
dollari di aiuti economici, 80 dei quali destinati alle forze di sicurezza; 228
milioni di dollari in prestiti; l’impegno diplomatico per far continuare gli
incontri bilaterali Ehud Olmert-Abu Mazen; la convocazione in autunno di una
conferenza internazionale a sostegno della visione di «due Stati in pace e
sicurezza uno a fianco dell’altro». A presiedere la conferenza sarà il
segretario di Stato, Condoleezza Rice, mettendo attorno al tavolo israeliani,
palestinesi e i Paesi arabi che vorranno unirsi a Giordania ed Egitto
nell’impegno per una composizione del conflitto. Washington ritiene possibile
la presenza di Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi, mentre più dubbi
vi sono su Libano, Iraq e Siria.
Bush vede nella conferenza un punto di incontro fra la «Road Map» del Quartetto
(Usa, Ue, Onu e Russia) e l’iniziativa di pace saudita del 2002. Da qui le
richieste ad ogni parte in causa: i palestinesi devono «porre fine agli
attentati e liberare i soldati israeliani rapiti», gli israeliani «cessare di
allargare gli insediamenti e smantellare gli avamposti illegali» e gli Stati
arabi «porre fine alla finzione della non esistenza di Israele e inviare dei
rappresentanti» nello Stato ebraico.
A meno di 18 mesi dalla fine della presidenza, Bush sembra convinto della
possibilità di arrivare alla nascita dello Stato di Palestina grazie ad
un sostegno per Abu Mazen tanto marcato quanto è l’isolamento delle
milizie islamiche. «Hamas deve riconoscere Israele, rinunciare al terrorismo,
fare propri gli accordi di pace e riconoscere l’autorità di Abu Mazen»
dice il presidente, enumerando le condizioni che il Quartetto ribadirà
nel summit di Lisbona. Israele ha plaudito alla proposta di Bush, mentre Hamas
la ritiene «un tentativo di dividere il popolo palestinese».
Poche ore prima del passo della Casa Bianca era stato il premier israeliano,
Ehud Olmert, a muoversi in sintonia con Washington incontrando Abu Mazen in un
bilaterale a Gerusalemme segnato da un duplice passo: la promessa del rilascio
di 250 detenuti palestinesi, in gran parte di Al Fatah, e l’amnistia per altri
180, sempre di Al Fatah. Si tratta di combattenti che andranno a rafforzare le
forze dell’Anp, per scongiurare colpi di mano di Hamas in Cisgiordania. Abu
Mazen ha chiesto l’inclusione della lista degli scarcerati anche di Marwan
Barghouti, il leader dei Tanzim considerato un possibile successore alla
presidenza.
Ogni
giorno che passa ci viene scippato un pezzettino di libertà e non ci
facciamo nemmeno più caso. E' una mitridatizzazione per sottrazione:
Mitridate VI, re del Ponto, sorbiva un sorso di veleno al giorno per
immunizzarsi contro eventuali avvelenatori. A noi viene tolto, un po' alla
volta, il diritto all'informazione. Sabato la notizia, enorme, della condanna
definitiva di Previti e del giudice Metta sulla sentenza comprata che regalò
la Mondadori a Berlusconi stazionava a pagina 20 del Corriere, a pagina 16 del
Messaggero, addirittura fra le brevi a pagina 13 della Stampa. Per vedere il
processo Mondadori in prima pagina, la Cassazione avrebbe dovuto assolvere
tutti. Allora sì l'avrebbero saputo tutti. L'altro giorno Piero Ricca,
il barbuto rompipalle che va a contestare, carte alla mano, i politici di
destra e di sinistra, s'è visto notificare dalla Guardia di finanza il
sequestro preventivo del suo blog www.pieroricca.org su disposizione del pm
romano Giuseppe Saieva e del gip Cecilia Demma. Che faceva, Ricca, sul blog ora
bloccato? Organizzava truffe telematiche? No, altrimenti l'avrebbero già
invitato in tv o l'avrebbero già candidato al Parlamento. Lui invece
pubblicava notizie scomode e videoclip delle sue scorribande alle calcagna dei
politici in fuga. Lesa maestà. Il sequestro nasce dalla querela sporta
contro di lui da Emilio Fede (Fede che querela qualcuno: un ossimoro), per
avergli osato chiedere notizie sulle sentenze della Corte costituzionale che
impongono il trasloco su satellite di una rete Fininvest-Mediaset, anche perché
nel 1999 Rete4 ha perso la concessione per trasmettere su terrestre e Europa 7
l'ha vinta ma attende da allora che Rete4 liberi le frequenze su cui trasmette
in proroga, cioè fuorilegge rispetto ai dettami della Consulta. Fede,
comprensibilmente sgomento alle parole "legge", "sentenza"
e "Costituzione", ha dato a Piero dell'imbecille. Poi, mancandogli la
parola, gli ha sputato contro (il video è disponibile su youtube). In un
paese serio, dovendo proprio sequestrare qualcosa, non si procederebbe contro
il blog di Ricca, ma contro Rete4 (o magari contro la Mondadori, che da
venerdì è ufficialmente provento di reato). E, visto che Fede usa
da sempre il Tg4 per insultare i nemici del padrone, se il blog di Ricca va
sequestrato per evitare la reiterazione del presunto reato di diffamazione,
figuratevi un po' che dovrebbe esserne del Tg4. In tutto l'orbe terracqueo, il
sequestro di un sito internet susciterebbe enorme scandalo. Da noi la notizia
è, al massimo, una "breve", una curiosità affogata fra
mille altre. Chi non ha padrini politici, e peggio ancora si comporta da
cittadino esercitando fino in fondo i propri diritti, non esiste. A proposito
di cittadini: Daniele Luttazzi torna finalmente in tv. Ma non sulla Rai, dalla
quale era stato cacciato sei anni fa per ordine di Bellachioma, anzi
prim'ancora che questi l'ordinasse. Torna su La7. Alla Rai non riesce a tornare
nemmeno Oliviero Beha, che ha dalla sua un contratto a tempo indeterminato
(sistematicamente violato dall'azienda) e una sentenza ormai esecutiva del
Tribunale del lavoro (regolarmente calpestata dall'azienda). Ora perciò
porterà in tribunale il Cda per i reati di inottemperanza a provvedimento
del giudice e abuso d'ufficio. L'altro giorno, da un'intervista mai smentita di
Gianpiero Fiorani, ha appreso che costui sarebbe in trattative col cosiddetto
"servizio pubblico"per un programma su Rai2 "dalla parte dei
consumatori". Il banchiere ladro, già detenuto nonché indagato in
una mezza dozzina di Procure della Repubblica, diventerebbe una sorta di
difensore civico contro le truffe bancarie, dall'alto della sua formidabile
esperienza nel ramo. Beha, che prima dell' epurazione conduceva un seguitissimo
programma radiofonico, si propone di affiancarlo: "Pur avendo due
biografie molto diverse, non essendo per esempio io mai stato in galera almeno
finora, credo potremmo integrarci benissimo nella conduzione. Non mi sfugge
neppure la grande valenza televisiva di uno come Fiorani che, stando a cronache
nere e rosa, bacia da Dio, dall'ex governatore Fazio alla figlia di Ornella
Muti. Le premesse per un bel sevizio al pubblico ci sarebbero tutte". Pur
con tutto l'affetto che portiamo a Oliviero, ci permettiamo di dubitare della
fattibilità dell'operazione: in un paese dove si fa carriera per meriti
penali e dove San Vittore è meglio della Scuola di Atene, Beha è
privo di curriculum. Vada a rubare come tutti gli altri, poi se ne riparla.
Uliwood party.
"C'è una rottura acuta tra la
società e la politica. Ma c'è una spaccatura ancora più
profonda tra la società e il centrosinistra": parola di Bersani, il
più "nordista" dei ds. Come è potuto accadere,
però, nessuno lo dice. Al più si addossano le
responsabilità al governo, quasi in esso la sinistra non fosse presente
con tutto il suo peso. Ma è una presenza che, appunto, non pesa perché
il suo pensiero è rachitico. Abrogate le ideologie, anche la
capacità di elaborare idee appare dispersa. Un tempo non era
così. Pur stando all'opposizione la sinistra proponeva una sua visione
dell'Italia, esprimeva analisi sociali ed economiche in base alle quali
disegnava una strategia a lungo termine ed anche iniziative di raggio
più immediato. Non mancavano naturalmente errori, alcuni correggibili,
altri tetragoni, insiti nella natura stessa del Pci. Il tutto, però, ad
un ben altro livello di capacità concettuale. Osservazione che mi
è suggerita dalla lettura incrociata dell'intervista di Bersani
("Repubblica" 11/7) e di un libro edito dal Mulino, "Distretti
industriali e sviluppo locale" (a cura di Anna Natali, Margherita Russi e
Giovanni Solinas), che ripropone una serie di saggi di un economista di
straordinario acume, purtroppo scomparso prematuramente, Salvatore Brusco,
noto, fra l'altro, per aver aperto il dibattito internazionale sul nesso tra
coesione sociale e sviluppo locale nei sistemi di piccola impresa, con il
saggio "The Emilian Model", pubblicato nel 1982 sul "Cambridge Journal
of Economics". Fra l'altro mi è sembrato di notevole interesse
comparativo con la situazione attuale un saggio (in collaborazione con Mario
Pezzini) su "La piccola impresa nell'ideologia della sinistra
italiana" che affronta l'influenza delle misure di politica economica
promosse dai due partiti dominanti (Dc e Pci) dalla fine degli anni Sessanta in
poi nei confronti di quel tipico sistema (i distretti) di piccole imprese
concentrate su territori relativamente ristretti. Le localizzazione dei distretti
era concentrata, allora come oggi, in regioni come l'Emilia Romagna, la
Toscana, l'Umbria a prevalenza Pci e il Veneto, il Friuli, le Marche a larga
influenza Dc. Visto che la odierna perdita di consensi è sofferta
dall'Unione proprio in queste regioni l'analisi del passato non è
pleonastica. Lo studio prende il via dalle posizioni della socialdemocrazia,
ispirate dal marxismo, a cavallo tra Ottocento e Novecento, dominate da un idea
di superiorità assoluta della grande impresa a cui la piccola era destinata
a fare da supporto. Solo con Togliatti questa linea viene radicalmente
abbandonata. Il giudizio sul fascismo, definito "un movimento reazionario
a base di massa", muove Togliatti a riflettere sugli errori commessi nelle
lotte sostenute negli anni Venti, difendendo solo gli interessi operai e
bracciantili e spingendo così i ceti medi verso il Regime. La svolta che
assegna un ruolo cruciale alla politica delle alleanze con "i ceti medi
produttivi", cioè con i contadini, i commercianti, gli artigiani e
i piccoli imprenditori industriali, venne fissata in un celebre discorso a
Reggio Emilia nel 1946 ("Ceto medio e Emilia rossa") in cui T.
affermava: "Non vi è nessun contrasto tra gli interessi che noi
difendiamo e quelli dei gruppi sociali intermedi". Su questa base si
prefigurò una "politica di scambio" politico ed economico che
costituì il fulcro di una influenza larga e stabile nelle cosiddette
regioni rosse. Dopo il '68 le correnti operaiste nel sindacato e nel partito
cominciano a contestare la linea togliattiana, affermando che le piccole
imprese erano soprattutto dei "reparti" distaccati delle grandi per
la lavorazione dei prodotti intermedi. Di qui l'esigenza di avanzare le stesse
rivendicazioni sindacali nelle piccole e nelle grandi imprese. Amendola, Lama e
la maggioranza centrista si mostrarono, peraltro, ancora convinti che "vi
era uno scontro per la conquista dei mercati tra grandi e piccole
imprese". Si accentuò anzi una legislazione di sostegno e, malgrado
gli estremismi delle ali radicali, una politica sindacale differenziata per le
imprese fino a 15 e a 35 dipendenti. In questo arco la politica consociativa
ebbe modo di esplicitarsi e influire sulla costituzione materiale del Paese.
Tutto ciò si accompagnò nell'arco di un trentennio ad una elaborazione
culturale ed economica ricca di spunti innovativi, anche se contraddittori.
Oggi di tutto ciò non vi è più traccia. Paradossalmente
solo Berlusconi sembra aver sempre presente il concetto di blocco sociale, di
alleanza di interessi di classe, di valore del ceto medio. Forza Italia, ultimo
rifugio del marxismo?.
ROMA. Tgliare i costi della politica,
dicono in comune Camera e Senato. Fausto Bertinotti sostiene che bisogna
decidere subito, prima della pausa estiva, perché la decisione "è
del tutto matura", ma bisogna arrivare a "soluzioni condivise",
anche sul taglio dei vitalizi, le pensioni di deputati e senatori. Ma su questo
c'è una differenza: il presidente della Camera vuole cominciare dagli ex
parlamentari, mentre Franco Marini appare più deciso: vuole abbassare le
pensioni dei senatori in carica. Bertinotti ha letto questa notizia sui
giornali e si è sentito scavalcato. Ha protestato per telefono con
Marini, che, come dice il suo ufficio stampa, considera la questione "un
punto di rilievo marginale". Ma il presidente della Camera obietta che
posizioni come quelle uscite sui giornali non servono a creare un clima adatto
per arrivare a decisioni comuni. Bertinotti ha insistito per una sinergia anche
con il governo e ha detto che la questione dei tagli va affrontata tenendo
conto di un costo fisiologico che va comunque difeso. Per il futuro, il
vitalizio va comunque ridotto, fino al 60 per cento della indennità
parlamentare. La Camera ha già "lavorato di lima" per ridurre
le spese, secondo uno "stile di sobrietà al quale teniamo
molto". Prime misure: per i viaggi in Europa, i presidenti di commissione
prendono i posti di classe turistica; la presidenza non farà regali per
Natale, neppure ai deputati; niente fondi per iniziative che possono essere
coperte senza spese. Dopo aver parlato con Marini, Bertinotti ha potuto dire
che tra Senato e Camera non c'è contrasto, c'è anzi "totale
sintonia". Ma non ha rinunciato a una frecciata: questa sintonia non
può essere oscurata da qualche incursione "inelegante e sbagliata".
Il presidente di riferisce forse anche all'intesa di Antonio Di Pietro con
Gianfranco Fini per un "intergruppo" che non produca "acqua
fresca", come il consiglio dei ministri, ma una legge severa. Misure sono
state annunciate in aula dal questore della Camera Gabriele Albonetti. Non
sarà chiesto nessun aumento della dotazione del governo, mentre il Dpef
prevede crescita. Fino al 2010, significa risparmio di 100 milioni di euro,
pari al 10 per cento. Circa 2,6 milioni di euro all'anno saranno risparmiati
con una diversa utilizzazione degli immobili, evitando le tante sedi di
palazzo, che costano molto di affitto e colpiscono negativamente l'opinione
pubblica. Albonetti ha contestato che i costi della Camera italiana
siano superiori a quelli dei parlamenti francese, tedesco e britannico. Dopo
"accertamento approfondito", si è visto che "il costo
unitario per giorno e per ora" dei lavori di aula e commissioni, è
inferiore agli altri parlamenti, per la "diversa intensità"
dei lavori. Nei calcoli di Albonetti, l'indennità netta complessiva di
14.500 euro al mese per ogni deputato, tolte le spese per Roma e il territorio,
si riduce a 5.000-6.000 euro "effettivamente disponibili". Risparmi
sulla carta: niente più rassegna stampa su foglio, ma solo Internet; 25
milioni in meno di pagine per gli atti parlamentari. Spesa ridotta di 350 mila
euro l'anno. E che la buvette costi come i bar del centro. Renato
Venditti.
Con un Palazzo Madama più rigorista,
pronto a spingere sull'acceleratore dei tagli e concorde nel dare una
sforbiciata a indennità e vitalizi dei senatori sin da questa
legislatura ("si deve dare un segnale incisivo", ha dichiarato il
presidente, Franco Marini). E con, al contrario, i colleghi di Montecitorio (e
il presidente dell'Assemblea, Fausto Bertinotti) più cauti e inclini a
rimandare tutto alla prossima legislatura, nel 2011. Una diversità di
vedute della quale si è accennato nell'incontro al Quirinale che i
presidenti delle due Camere hanno avuto separatamente col presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano. Di certo c'è che Bertinotti (che i ben
informati descrivono irritatissimo con Marini) ieri in mattinata ha convocato i
giornalisti per spiegare che "non esistono contrasti tra le due
Camere". Anzi, sui tagli agli sprechi - dicevano ieri nell'Ufficio
di Presidenza della Camera - eravamo pronti a intervenire da dieci giorni,
abbiamo aspettato per sincronizzarci con il Senato. "Sulle scelte che
faremo per tagliare i costi della politica - assicura Bertinotti
- non c'è una posizione della Camera e una del Senato. Non c'è
contrasto tra le due Istituzioni". Ma per ora i segnali che arrivano
dall'Ufficio dei questori (i deputati che sovrintendono all'amministrazione
della Camera) sono tutt'altro che incoraggianti. Le proposte sul tavolo a
fronte di qualche taglio (il vitalizio passerebbe dal 25 al 20 per cento dello
"stipendio" in caso di una sola legislatura), prevede anche
sostanziosi aumenti: in caso di due legislature la pensione dei deputati
passerebbe dal 38 al 40 per cento dell'indennità, e alla terza
esperienza da parlamentare dal 53 al 60. E se è vero che con la riforma
il diritto al vitalizio scatterebbe soltanto nel caso in cui il deputato abbia
al suo attivo tutti e cinque gli anni della legislatura (adesso basta la
metà), la maggior parte degli onorevoli ha già un paio di
legislature alle spalle. Circostanza questa che solleva più di un dubbio
sul risparmio effettivo che si potrebbe realizzare. E per rendersi conto che
per i tagli al "costo della politica" a Montecitorio tiri una
brutta aria bastava ascoltare ieri pomeriggio la relazione al bilancio, fatta
dal questore, Gabriele Albonetti. "La retribuzione di un parlamentare - ha
spiegato il deputato ulivista - si pone nella fascia bassa nella classifica
della classe dirigente". Infatti è vero che fra diarie, rimborsi, e
indennità un parlamentare riceve circa 14 mila 500 euro al mese, ma
"se vuol far bene il suo lavoro, fra alloggio a Roma, uno nel territorio,
e i collaboratori, non gliene rimangono che 5-6 mila". E tutti i privilegi
di cui godono i parlamentari? "Idola fori (leggende). La buvette della
Camera - ha precisato - costa come un qualsiasi bar del centro di Roma".
Non è così. E' vero invece che, come ha spiegato Bertinotti,
qualche economia la si è realizzata su altri fronti: niente regali di
Natale agli onorevoli, e i presidenti di commissione hanno accettato biglietti
aerei non business class. Ora volano in turistica.
Il dl Bersani stimava in 42 mln la minore
spesa per le commissioni. Ma la realtà è ben diversa. Tagli alla
pa, la cronaca di un fiasco Il ministro per lo sviluppo economico, Pier Luigi
Bersani, ci aveva provato giusto un anno fa. Il tentativo, però,
è miseramente naufragato. La polemica sui costi della politica
non era ancora divampata, ma c'era pur sempre il programma con cui l'Unione si
era presentata alle elezioni. Al suo interno, tra i tanti obiettivi, quello del
contenimento degli sprechi pubblici sembrava veramente godere della
condivisione di tutte le anime della coalizione di centro-sinistra. E
così il ministro diessino, insieme alla prima lenzuolata
liberalizzatrice, presentò anche un programma di riduzione dei costi
della macchina dello stato. Il provvedimento era il decreto legge 223 del
luglio del 2006 e intendeva abbattere del 30% rispetto al 2005 la spesa
complessiva sostenuta dalla pubblica amministrazione per commissioni e comitati
vari. La relazione tecnica allegata all'articolo 29 del decreto diceva che a
regime, nel 2007, i risparmi sarebbero stati di 42 milioni di euro. Quando il
ministro per l'attuazione del programma, Giulio Santagata, qualche mese fa ha
fatto il bilancio di quell'operazione, ha comunicato con grande soddisfazione
che gli obiettivi erano stati raggiunti. Peccato, però, che dalle
tabelle fornite in quell'occasione dal ministro prodiano, risulta che le
economie per il 2007 sono calcolate in circa 18 milioni di euro (per la
precisione 17.989.879). Ovvero meno della metà di quello che era stato
stimato dal suo collega diessino. La conclusione, in sostanza, è che
l'unico vero tentativo di compressione dei costi compiuto dal governo
fino a questo momento, sulla base di un decreto immediatamente esecutivo,
è stato ampiamente fallito. Adesso Santagata, insieme al ministro per
gli affari regionali, Linda Lanzillotta, si ritrova a gestire una situazione
molto più esplosiva, dal momento che quello sui costi abnormi
della politica è ormai un caso completamente deflagrato. Al
quale, però, la risposta è stata molto più blanda rispetto
a un anno fa. La contromisura presa dall'esecutivo la scorsa settimana, con
l'approvazione di un disegno di legge ad hoc, sembra destinata a scontare tempi
troppo lunghi per conseguire una reale attuazione (vedi ItaliaOggi del 14
luglio scorso). E certo il precedente del decreto legge Bersani del 2006 non
depone molto bene. I risultati dell'operazione dell'anno scorso erano stati
presentati in pompa magna. A subire quelli che sembravano i tagli più
consistenti è stato in primis il ministero dell'ambiente di Alfonso
Pecoraro Scanio, che con 14 organi riordinati e 4 soppressi ha fornito per
quest'anno un risparmio di 5 milioni e 800 mila euro. A seguire il ministero
dei trasporti, guidato da Alessandro Bianchi, che attraverso la
razionalizzazione di 19 strutture preesistenti ha garantito 2 milioni e 600
mila euro di economie. A scendere il dicastero dell'Agricoltura del prodiano
Paolo De Castro, che ha provveduto ha riordinare 57 organismi e a sopprimerne
6, per un risparmio totale di poco più di un milione di euro. Insomma,
tutti i dicasteri, chi più chi meno, hanno contribuito a mettere insieme
economie complessive per quasi 18 milioni di euro. Che in ogni caso sono ben
lontani dai 42 milioni che erano stati stimati da Bersani. Le cose non sembrano
mettersi meglio alla luce del ddl Santagata. Si pensi, a titolo di esempio,
all'elenco di enti potenzialmente sopprimibli che è stato allegato al
testo messo a punto dal ministro per l'attuazione del programma. Dei 130
segnalati, il governo ha proposto la soppressione soltanto per due organismi:
l'Unione nazionale del tiro a segno e l'Istituto nazionale per la lotta
all'analfabetismo. Per non parlare di come il pacchetto di misure varate un
anno fa da Bersani sia in buona parte replicato nell'attuale impalcatura del
ddl Santagata. In effetti le disposizioni che quest'ultimo ddl dedica
all'abbattimento specifico dei costi della politica sono ben
poche. E quasi tutte concentrate su comuni e province, i cui consiglieri sono
destinati a diminuire di un 20% medio, anche se soltanto a partire dalle
prossimo consiliature. Il resto del testo risulta più che altro composto
da norme che perseguono risparmi di spesa esattamente come aveva cercato di
fare il dl Bersani dell'anno scorso e come hanno tentato di fare negli anni
scorsi almeno cinque o sei Finanziarie. Con risultati, però, che non
sempre hanno soddisfatto.
ROMA -
Rosy Bindi si candida alla segreteria del Pd alle primarie del 14 ottobre e
giovedì presenterà a Roma (Residence di Ripetta ore 12) il suo
programma. Lo ha annunciato lo stesso ministro della Famiglia attraverso una
nota: «L'appuntamento del 14 ottobre ha risvegliato nel popolo dell'Ulivo nuove
attese e una grande speranza nel Partito democratico - è scritto nel comunicato
-. Queste attese e queste speranze non possono andare deluse. Anch'io, come
tanti, sento la responsabilità di un impegno in prima persona. Ho
riflettuto a lungo sul contributo che avrei potuto dare a questa straordinaria
opportunità per la politica e il paese. Sono ormai convinta che la
scelta più giusta e più utile sia quella di presentare la mia
autonoma candidatura alla segreteria del nuovo partito». Al momento, oltre alla
Bindi, i candidati sono Walter Veltroni e Furio Colombo. Il ministro Bersani
aveva al contrario annunciato la propria rinuncia alla segreteria del Pd pochi
giorni fa.
CONTRO IL REGOLAMENTO -
Il ministro Bindi ha poi spiegato: «Il Comitato dei 45 ha approvato un
regolamento elettorale che favorisce chi può contare su una forte organizzazione.
Ds e Margherita, attraverso i loro più autorevoli esponenti, hanno
già dichiarato di appoggiare la candidatura di Walter Veltroni».
«Nonostante questi limiti - ha continuato - sono convinta che in tantissimi,
donne e uomini e soprattutto giovani e giovanissimi, che già si sentono
democratici pur non militando nei partiti esistenti o sentendosi estranei ai
loro apparati organizzativi, si aspettano e vogliono essere protagonisti di
questa nuova stagione».
«LASCERO' ALTRI INCARICHI» -
La scelta delle segreteria del Pd obbligherebbe ovviamente il ministro della
Famiglia a rinunciare agli altri incarichi. Onere che la Bindi accetta senza
problemi: «Se sarò eletta rinuncerò a qualunque altro incarico.
Consapevole del rilievo di questo impegno per la nostra democrazia e il futuro
del Paese, mi dedicherò esclusivamente a questo compito entusiasmante
che corrisponde ad una grande domanda di cambiamento della politica».
LE REAZIONI -
La notizia della candidatura di Rosy Bindi ha raccolto consensi all'interno
della maggioranza. Per D'Alema «è
un contributo sicuramente utile; una personalità come lei, certa mente.... Ho già visto che anche Furio
Colombo si è candidato - ha detto D’Alema - era ragionevole
attendersi che ci fosse una pluralità di candidati: forse ce ne saranno
anche degli altri, sarà un confronto di idee e di persone». Sulla stessa
lunghezza d'onda del vicepremier si sintonizza anche Dario Franceschini: «Sono contento - ha detto
- siamo dentro a un meccanismo nuovo e la candidatura di Rosi sarà utile
al confronto». «Mi auguro - ha proseguito - che Rosy faccia come abbiamo fatto
noi del ticket e non si candidi a rappresentare solo un pezzo della Margherita,
ma si incroci con i Ds e la società civile». Per il ministro della Pubblica
Istruzione, Giuseppe Fioroni «è
un bene per tutti che chiunque ha dei progetti e delle proposte diverse da
quelle del ticket si candidi. Rosi ritiene di averle, quindi ha fatto una
scelta corretta che rappresenta un'opportunità». «Dobbiamo perdere i
vecchi vizi - ha aggiunto - e quindi dobbiamo salutare positivamente il
confronto dialettico il 14 ottobre e anche dopo, nella chiarezza dei
risultati». Favorevole alla candidatura della Bindi è anche Walter Veltroni: «Mi
fa piacere che Rosy abbia deciso di candidarsi. È una donna che stimo,
alla quale mi lega da anni una sincera amicizia e sintonia politica. Come
quella di Furio Colombo, la candidatura del ministro Bindi arricchisce e
qualifica la grande e inedita pagina di democrazia politica rappresentata dalle
elezioni primarie del prossimo 14 ottobre». Per Bersani, invece, «queste candidature
arricchiscono il percorso».
16 luglio 2007
Si
affolla la gara per le primarie.
Rosy Bindi ha sciolto ieri le riserve con un testo che chiede soprattutto
chance per le donne e fedeltà di coalizione, e pare voler qualificare il
ministro della famiglia come la candidata degli esclusi dalle logiche di
partito.
Con lei, aumentano gli outsider. Ce ne sono di quelli che possono arricchire il
confronto – la Bindi, sicuramente – e quelli che invece possono pericolosamente
spostarlo.
Uno è Furio Colombo, presentatosi sull’Unità con un lungo
articolo che vale la pena commentare. Perché contiene il nucleo dell’errore
storico del centrosinistra. La cosa essenziale che Colombo sbaglia è la
data. Le primarie ideali per lui e per chi la pensa come lui si sono svolte nel
2005. L’ex direttore dell’Unità doveva sfidare Prodi allora, non
Veltroni oggi.
Se la politica, anzi la vita di questo paese si riduce tutta allo scontro con
Berlusconi, bisognava forse fare i coraggiosi quando Berlusconi era al governo.
Tra chi spinge Colombo all’errore c’è il suo successore
all’Unità. Il quale sostiene, in polemica con Rutelli, che
l’antiberlusconismo deve restare il perno di qualsiasi politica e alleanza,
perché il potere del Cavaliere è intatto e i rischi del suo ritorno sono
tuttora altissimi.
Già in questa analisi c’è un buco.
Una voragine. Nella quale precipitano i 19 milioni di italiani che un anno fa
hanno ancora votato per il centrodestra.
La metà di loro, direttamente per Berlusconi.
Presi come sono a scongiurare il neocentrista Rutelli, Padellaro e gli altri
non si pongono affatto il problema di questi italiani. Del perché sono
irriducibili alle proposte del centrosinistra, perché insistono a votare
Berlusconi dopo anni di malgoverno, e oggi cambierebbero subito Prodi con lui.
Eppure sono italiani come gli altri: operai, casalinghe, giovani, piccoli
artigiani. Padellaro lo sa. Essendo più riflessivo, non li liquiderebbe
come fa Colombo quando afferma che Berlusconi «è il nemico degli
italiani per bene»: se ne deduce che gli amici suoi sono gli italiani per male.
Metà del paese (ora anzi, a quanto pare, più della metà).
Presunzione di superiorità morale, analisi sbagliata, grave errore
politico. Colombo corre, immaginiamo, pensando di vincere le primarie. Ora, non
insistiamo sul particolare che un centrosinistra guidato da lui verrebbe
asfaltato da Berlusconi in tre giorni, e già questo in un paese serio –
che so, l’America – chiuderebbe ogni discorso su torti e ragioni.
Il problema è che prima ancora di essere messi nelle condizioni di regalare
alla destra vent’anni di governo, Colombo, Padellaro, Marco Travaglio, Paolo
Flores e compagnia danneggiano il centrosinistra già solo rilanciando
l’antiberlusconismo come priorità.
Giustamente, ha chiesto loro Sandra Bonsanti: sì, il Cavaliere è
ancora un pericolo, ma come lo si batte? Loro risponderebbero: con una bella
campagna sui suoi reati, lo strapotere televisivo, la concezione
antidemocratica, l’editto di Sofia, le leggi ad personam… Cioè
Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi, Berlusconi… Non s’accorgono – qui lo
sbaglio di data – che il centrosinistra trae qualche speranza solo dalla
rottura di questo schema, che ha fatto felice Berlusconi dal ’94 a oggi.
È questo che chiede, ci pare, il Manifesto dei cosidetti Coraggiosi.
È questo che vuole e ora può fare solo Veltroni: rompere lo
schema che regala puntualmente a Berlusconi la centralità nel suo campo
e la simpatia del popolo di centrodestra.
A Colombo, Padellaro e gli altri verrebbe da dire: per una volta, se ci
riuscite, non allarmatevi per cambi di alleanza, neanche possibili tra l’altro
ammesso che qualcuno li voglia. Non concentratevi sull’Udc, la Lega o An:
concentratevi sul loro elettorato.
Veltroni (Rutelli vi sta pregiudizialmente antipatico, lasciamolo stare) vuole
parlare a quella gente lì. Provare a convincerla. Com’è riuscito
a fare da sindaco insieme, guarda caso, a gente come Chiamparino, Cacciari,
Bassolino. Rutelli… Se dovessero cominciare a pensare che può farcela,
che può parlare alla loro gente, Fini, Bossi, Casini non rimarrebbero a
cuccia come adesso.
L’hanno già fatto capire: per loro l’arrivo di Veltroni vuol dire che
cambia il gioco.
Come del resto cambia per tutti. Più che strillare perché lo vogliono
scaricare dalla maggioranza, Bertinotti brucia i tempi della Cosa rossa. Fa
bene: sa che fra poco le alleanze si costruiranno sulla rispettiva forza e su
accordi politici veri, non sulla perenne emergenza democratica.
Se davvero vi preme liberarvi di Berlusconi, se pensate che potete divertirvi
anche senza di lui, dopo che vi siete tanto divertiti contro di lui, la strada
è questa, non altre. In un certo senso, non ce ne voglia l’interessato,
di tutti quelli che possono candidarsi alle primarie Colombo è il
più dannoso, il più pericoloso.
Un politico di quelli, come disse un tale, con i quali non vinceremo mai.
Cara
Europa, cosa ci succede? A Larino una giudice monocratica assolve gli imputati
di San Giuliano perché il fatto «non sussiste».
Negli ospedali si muore come mosche. Sulle strade adulti ubriachi o minorenni
drogati e no, uccidono il sabato sera; poi la domenica mattina, sono al mare,
già liberi. È stato sempre così in Italia o sono gli
effetti della predicazione berlusconiana? Liliana Carfagnini, Larino (CB)
Cara
signora, è dai giorni del terremoto che non ci rivediamo nelle nostre
plaghe molisane, ma i sentimenti non sono cambiati: primo fra tutti la
pietà per i bambini, compresa la figlia dell’ex sindaco, accusato di
mancanza di controlli e collaudo della scuola. Ma perché distruggere i fiori
sulla tomba di quella bambina? Il rancore per il padre non deve sfogarsi in
vendetta contro una innocente, pianta dai suoi genitori come tutte le altre
vittime.
Così affondiamo sempre più nelle sabbie mobili della generale
barbarie. La generale barbarie ha un nome molto preciso, la fuga degli italiani
dalla responsabilità; e anche la fuga ha una causa precisa, un millennio
e mezzo di “remissione dei peccati”, col risultato che nessuno si sente
peccatore. Tutt’al più prescritto, come l’ex premier, o “semplice”
evasore fiscale, come il suo ex ministro della difesa, che 630 mangiapane in
parlamento non fanno decadere dall’incarico: perché «oggi a lui domani a noi»,
sicché è meglio non creare precedenti.
Tutti peccatori, tutti assolti, nessun peccatore.
Come ha detto il procuratore generale di Larino, questa è «l’Italia
peggiore, in cui nessuno è mai responsabile di niente». E se qualcuno,
metti D’Ambrosio, s’assume la responsabilità di indagare sui reati di
chi ne è sospettato, ecco che in Senato viene aggredito come «Assassino
» da una senatrice craxi-berlusconiana, e nessuno la caccia dall’aula.
Peccatrice, infatti, ma con certezza di assoluzione. E di fronte
all’assoluzione che verrà, chi si assume la responsabilità di
applicare la norma? Gli italiani hanno il culto dell’incompetenza oltre
all’orrore della responsabilità. Di fronte a un tale abisso psicologico,
arriva dalle sue remote culture Gad Lerner e propone che, per migliorare il
generale contesto, è bene dare il voto ai sedicenni, anzi ai
quattordicenni. Dice: se all’ottantenne che provoca incidenti di macchina (vedi
investimento della signora Napolitano) si dà la patente, perché non dare
la scheda elettorale al quattordicenne? Insomma, se volete conservare i vecchi,
fate largo ai giovani. I quali però, quanto a stragi in automobile,
stanno in rapporto ai vecchi 100 a 1. Cara signora, in Italia ci divertiamo
così: eludendo i problemi e meravigliando con le parole, il voto a 14
anni e «il fatto non sussiste», come dice delle responsabilità di San
Giuliano il giudice di Larino. Ilvo Diamanti spiega che perciò gli
italiani aspettano «l’uomo forte». Sciocchezza. Ogni italiano lo vuole per gli
altri, non per sé. E siccome siamo 60 milioni di anarchici, continueremo
così. Anche uccidendo i più indifesi (ragazzi, bambini, vecchi)
per favorire il decremento demografico.
Ha ragione Paolo Franchi: i «coraggiosi» non hanno coraggio. Ed è forse
questa una delle ragioni per cui il centrosinistra di nuovo conio, coniato da
Francesco Rutelli e da altri della Margherita, è destinato a provocare
nuove lacerazioni nell’Unione. Non solo per le prevedibili reazioni di Rifondazione
comunista identificato come partito di vecchio conio, moneta fuori corso, ma
per le contrastanti reazioni che si sono verificate tra i costruttori del Pd.
L’Unità, con Padellaro prima e Colombo dopo, l’ha severamente
disapprovato anche perché nel manifesto rutelliano si afferma che «è
finita la lunga stagione in cui la coesione del centrosinistra è stata
garantita dall’antagonismo verso Berlusconi». L’Unità ricorda a Rutelli
che il Cavaliere è in campo e con la spada sguainata pronto a tornare a
Palazzo Chigi e quindi non è finito nulla: la «coesione»
antiberlusconiana deve essere operante. Anche se i fatti dicono che non basta
per governare e le contraddizioni sono tali per cui la destra è
più forte di prima e alle porte del governo.
A Veltroni il manifesto sembra, dico sembra, che non dispiaccia, ma chiedere un
chiarimento è inutile. A Scalfari piace Veltroni ma non il «nuovo conio»
rutelliano. Fassino in un’ampia intervista all’Unità di mercoledì
11 luglio affermava: «Dobbiamo guardare con attenzione al mutamento di
posizione dell’Udc e dobbiamo pensare a una legge elettorale che tenga conto di
una diversa articolazione del sistema politico». Era una chiara apertura a
Casini e si prefigurava il sistema elettorale tedesco. Fassino, però,
sapeva che l’Udc ha sempre detto che non è disponibile ad aggregarsi
all’attuale maggioranza e tenere in piedi il governo Prodi. In un’intervista
ancora più ampia, sempre sull’Unità, il 13 luglio (due giorni
dopo), Fassino parlava di convergenze più ampie «con la Lega per il
federalismo fiscale». E aggiungeva: «Intorno alla legge elettorale di tipo
tedesco sembrano possibili ampie convergenze». L’Udc è sparita e osserva
che «non è chiaro che cosa voglia dire l’espressione centrosinistra di
nuovo conio, dato che per la governabilità basta guardare oltre gli
orizzonti dell’Unione». Cosa significa? Niente, proprio niente.
La verità è che ci si rende conto - chi più chiaramente,
chi confusamente e chi equivocamente - che il governo non regge più e
non sanno cosa fare. Non lo sanno quelli del Pd e non lo sanno quelli di
Rifondazione che pensano di stare al governo ed essere alternativi al sistema.
In un mio articolo sul Riformista indirizzato a Fabio Mussi avevo detto che la
situazione che si era creata nel governo imponeva scelte nette e rapide. Lo
stesso ragionamento ho fatto a Bertinotti nella conversazione pubblicata su
questo giornale. Il tema è questo: l’attuale equilibrio non regge: o si
costituisce una consistente area socialista riformista e di governo nell’ambito
del Pse per condizionare e competere virtuosamente col Pd, oppure questo
partito sarà spinto a convergenze di tipo centrista. Non c’è una
“terza via" d’uscita”. Chi si illude che questa scelta lasci più
spazio a sinistra puntando sul “tanto peggio, tanto meglio” compie un errore
che pagherà non solo la sinistra. L’avvio di una Costituente socialista
aperta ha questo senso. Oggi questa appare l’area più debole rispetto al
Pd e agli alternativisti. Ma è quella che ha la posizione politica
più rispondente all’avvenire della sinistra e agli interessi del Paese.
Anche perché le due cose coincidono.
Che dovranno indicare autori e metodologie
di analisi, e non potranno operare sugli strumenti trattati "Cambiare
tutto per non cambiare nulla", recita la celebre frase del Gattopardo. E
per la regolamentazione della consulenza finanziaria è un po' quello che
è stato fatto: si sono mosse istituzioni di ogni ordine e grado, il
parlamento europeo, quello italiano, le associazioni di categoria, tutti
più volte coinvolti nel dibattito di preparazione della normativa. Nel
frattempo, tanto allarmismo, soprattutto da parte dei siti web che della
consulenza, attraverso l'invio di segnali operativi, hanno fatto la loro ragion
d'essere. Ma alla fine la consulenza è ancora libera, senza grandi limitazioni.
Per essere più precisi, fornire un'indicazione generica su uno strumento
finanziario (per esempio compra il titolo x a questo prezzo, con target a quota
y e stop a z) non è consulenza ma, secondo il legislatore, una semplice
raccomandazione. A patto però che risponda a due precisi requisiti: non
deve partire dalla richiesta del cliente e deve essere inoltrata attraverso uno
strumento di comunicazione di massa, per esempio via internet. "Si rientra
nell'area della consulenza quindi solo se l'indicazione è personalizzata
sulla base delle necessità del cliente", ha sottolineato Gianluigi
Gugliotta, segretario generale di Assosim. In definitiva, secondo il punto di
vista della Ue, e da venerdì scorso anche italiano dopo che il governo
ha approvato la prima bozza del decreto legislativo, i segnali operativi non
costituiscono un servizio di consulenza agli investimenti ma un semplice
accessorio. Il che vuol dire che "mentre i servizi di investimento devono
essere svolti da soggetti ben precisi, nel secondo caso l'attività
è completamente libera", ha spiegato Luca Zitiello, avvocato in
Milano e autore proprio di un testo sulla Mifid. La questione non riguarda un
numero ristretto di soggetti, ma più di un centinaio fra siti web, blog
e soprattutto comunità virtuali che ogni giorno, gratis o a pagamento,
forniscono e si scambiano suggerimenti operativi. Attenzione però perché
più ci si attribuisce una precisa etichetta, più gli spazi di
libertà si riducono. Per fare un esempio, se a diffondere analisi e alert
è una testata giornalistica, oppure un consulente di investimento o
anche una sim, gli obblighi crescono. Autori e metodi più chiari. Molti
siti, pur limitando l'attività alla diffusione di segnali operativi e di
qualche commento a corollario, hanno deciso in passato di registrarsi come
testata giornalistica: accrescevano così il proprio prestigio e
legittimavano alcuni contributi editoriali. La novità è che a
partire dal mese di giugno (e da novembre ancora di più con la Mifid)
questi soggetti sono tenuti a una serie di obblighi. Il redattore, giornalista
o collaboratore che sia, non potrà comprare o vendere i titoli di cui si
sta occupando la testata. Con non pochi problemi. A scrivere sui siti molto
spesso sono infatti gli stessi trader o gestori, a cui invece d'ora in avanti
è proibito operare sui titoli citati nelle loro pagine web. è
chiaro che l'interpretazione delle norme in questo caso è un po'
restrittiva e letterale: la finalità della normativa è di evitare
abusi, raggiri e comportamenti dolosi in genere a danno degli utenti, non di
evitare a qualcuno di svolgere la propria professione. Ma ugualmente tra gli
operatori non mancano i timori: "C'è il rischio che dove non
è arrivata a fare chiarezza la normativa possa arrivare la giurisprudenza",
ha osservato Emilio Tommasini di Lombardreport.com. Con danno e fastidi
evidenti per chi opera nel settore anche in caso di vittoria in sede
giudiziale. In secondo luogo, sulle testate giornalistiche on-line dev'essere
esplicitato l'autore dell'analisi e la metodologia utilizzata per arrivare alla
previsione e agli obiettivi di prezzo. Infine dev'essere indicata la Carta dei
doveri dell'informazione economica. Risultato: ai siti web a questo punto non
resta che spogliarsi della veste di testata giornalistica o adeguarsi alle
norme stringenti della Consob.Gli obblighi del consulente. Dal prossimo
novembre, chi si attribuisce la qualifica di consulente, anche se fornisce
semplici raccomandazioni generiche, dovrà iscriversi a un albo.
L'attestazione è subordinata al possesso di requisiti di
onorabilità e professionalità, che verranno precisati in futuro
da specifici provvedimenti del Ministero dell'economia di concerto con altri
soggetti pubblici come Banca d'Italia, Consob e ministero
di grazia e giustizia.Il consulente dev'essere in possesso poi di requisiti
patrimoniali capaci di sostenere i rischi operativi, cioè eventuali
denunce di risarcimento di danni. In alternativa le norme secondarie prevedono,
sul modello anglosassone, la stipula di specifiche assicurazioni per la
responsabilità civile, sull'esempio di quelle sottoscritte da avvocati e
medici. Ancora più stringente sono gli obblighi per le sim. Le
società di investimento dovranno dotarsi di un capitale sociale
consistente e essere soggette a una serie di controlli da parte dalle
autorità di vigilanza. Occhio alla propensione al rischio. Come
accennato, una cosa è la raccomandazione generica fatta a una
pluralità indistinta di utenti, altra è la consulenza ad
personam. Quando il suggerimento operativo su un titolo è
specificatamente tarato su un singolo investitore, esiste una relazione tra
investitore e consulente e quindi scattano una serie di incombenze. "Una
delle più importanti è la verifica dell'adeguatezza
dell'operazione proposta", ha confermato Giuseppe D'Orta, consulente
finanziario e socio dell'associazione a difesa dei consumatori Aduc. In pratica
dovranno essere raccolte una serie di informazioni relative al cliente:
conoscenza ed esperienza in materia di investimenti finanziari, situazione reddituale
(stipendi ed entrate diverse), finanziaria (mutui, leasing ecc.) e patrimoniale
(immobili, partecipazioni ecc). Vanno infine analizzate anche la sua
volontà/capacità di sopportare perdite e i suoi obiettivi di
investimento. (riproduzione riservata) MFT
- Trading Online Numero 141, pag. 1 del 17/7/2007 Autore: Giuseppe Di
Vittorio Visualizza la pagina in PDF
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TORINO Un'anticamera della sconfitta.
Questo rischia di essere il voto che ieri, a Bruxelles, ha stoppato la
coltivazione di "Emphlora", una patata Ogm che, nelle intenzioni
della Commissione europea, dovrebbe essere usata per produrre grandi
quantità di amido destinato alle industrie. Il Consiglio Agricoltura Ue
si è spaccato: undici ministri si sono dichiarati contrari (Austria,
Malta, Lussemburgo, Lettonia, Italia, Grecia, Irlanda, Cipro, Danimarca,
Polonia e Ungheria), dieci favorevoli (Finlandia, Estonia, Gran Bretagna,
Slovacchia, Olanda, Lituania, Belgio, Svezia, Repubblica ceca, Germania) e sei
si sono astenuti (Portogallo, Slovenia, Spagna, Bulgaria, Romania, Francia).
Ma, visto che, per il sistema ponderato in vigore, ogni Stato membro ha una
caratura diversa, dovuta all'entità numerica della sua popolazione, la
proposta di autorizzazione ha in realtà raccolto 130 voti a favore, 119
contrari e 96 astensioni. La conclusione è che, poiché non è
stata raggiunta la soglia della "maggioranza qualificata", posta a
156 voti, l'ingresso della "superpatata" creata dalla Basf nei campi
dell'Unione europea è stato negato, ma, contemporaneamente, la decisione
sul "sì" o il "no" adesso passa alla Commissione,
che potrà decidere autonomamente. Ma il pensiero della Commissione
lo si conosce già. A comunicarlo è stata, prima della votazione
la portavoce di Stavros Dimas, Commissario Ue all'ambiente: "La
patata transgenica "Emphlora" è sicura", spiegava ieri la
portavoce, sottolineando che, comunque, il suo uso sarebbe unicamente
industriale "e non ha niente a che fare con la catena alimentare" e
aggiungendo che l'Efsa, l'agenzia europea per la sicurezza alimentare, ha dato
il suo via libera. A quanto pare, però, la richiesta d'autorizzazione
riguarda sì la coltivazione di "Emphlora" per uso industriale,
ma anche la possibilità di utilizzare le parti vegetative del tubero
come mangimi per animali e quindi il transgenico entrerebbe comunque nella
catena alimentare. Insomma, dopo la vicenda della soglia di contaminazione nel
biologico portata allo 0,9% c'è chi, come l'associazione italiana Copagri,
comincia ad avere seri dubbi su alcuni orientamenti nell'Unione europea in
fatto di coltivazioni transgeniche. "Faremo pressioni sulla Commissione
perché prenda in considerazione le preoccupazioni dei Paesi contrari alla
patata Ogm, sollecitando l'Esecutivo Ue a chiedere una nuova opinione
all'Agenzia dei farmaci o ad altri organismi indipendenti", ha detto dopo
il risultato del voto il ministro Paolo De Castro, tra i primi sostenitori del
"no". "Emphlora" contiene, infatti, un gene di resistenza
all'antibiotico kanamicina, mentre la normativa europea prevede dal 2004 che
non vengano commercializzati nell'Unione Ogm contenenti geni di resistenza agli
antibiotici che possano comportare rischi per la salute umana. Se la
superpatata avesse il via libera dalla Commissione sarebbe la prima
autorizzazione a coltivare un nuovo Ogm sul suolo europeo dall'autunno 1998,
facendo saltare il "principio di precauzione". E la Coldiretti
commenta: "Rischia di passare un orientamento contrario alla
volontà dei consumatori in Europa e in Italia, dove secondo
l'indagine Coldiretti Ispo tre cittadini su quattro sono convinti che i
prodotti contenenti Organismi geneticamente modificati siano nocivi".
+ + AgenParl 16-7-2007 ARRIVANO I NOSTRI E RUTELLI
PUNTA A PALAZZO CHIGI
Le nuove norme prevedono soltanto multe fino a 100 mila
euro. Mario Pappagallo
Il Corriere della Sera 16-7-2007 Giappone: incendio a
centrale nucleare dopo terremoto
Notizie.alice.it 16-7-2007 MESSICO/ TERREMOTO DI 6,1
GRADI RICHTER IN CHIAPAS
Se le amministrazioni pubbliche fossero
virtuose si potrebbe risparmiare un punto e mezzo di Pil, pari a circa 20
miliardi di euro l'anno.
Luigi Giampaolino, presidente
dell'Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi
e fornitura, nella sua relazione annuale per il 2006, ha sottolineato che
questa cifra potrebbe essere tagliata se le amministrazioni spendessero meglio.
Giampaolino ha sottolineato che solo per beni e servizi la Pubblica
amministrazione in Italia spende ogni anno una cifra pari a circa 117 miliardi
di euro, che corrisponde all'8% del Pil. «I conti - spiega Giampaolino - sono
presto fatti. Studi a campione riferiti al periodo 2000-2005 rilevando
variazioni significativi nei prezzi pagati dalle diverse Pubbliche
amministrazioni hanno calcolato che se tutte le amministrazioni pagassero lo
stesso prezzo, portando le meno virtuose a livello delle più virtuose,
si potrebbe ottenere un risparmio di circa il 20%: vale a dire un punto e mezzo
circa del Pil. Una cifra comunque sottostimata alla quale vanno aggiunte le
spese per il lavori pubblici».
Secondo Giampaolino «è di tutta evidenza non solo l'opportunità,
ma l'indispensabilità di un'azione di vigilanza e la missione quindi
dell'autorità preposta istituzionalmente a tale azione, volta a
garantire, attraverso la libera concorrenza nei mercati di riferimento, anche
la qualificazione e il contenimento della spesa pubblica».
Confermata la tendenza delle amministrazioni a bandire gare di piccoli importi.
«Il mercato è molto frammentato - si legge nel rapporto - sia sul versante
dell'offerta che su quello della domanda», con il risultato che le imprese
italiane difficilmente hanno interesse a stutturarsi «per competere fuori del
nostro Paese dove la concorrenza ha come protagonisti gruppi di grandi
dimensioni». Riscontrata anche «la ricorrenza di non trascurabili indici di
accordo tacito tra le imprese partecipanti alle gare diretto a pilotare
l'aggiudicazione e acquisire il controllo delle commesse».
Giampaolino ha anche denunciato gli scarsi investimenti in infrastrutture di
Autostrade. Nel corso del quinquennio 2000-2005, ha detto Giampaolino, «si
è avuto un incremento tariffario molto superiore all'inflazione, in
assenza di tutti gli investimenti previsti nei piani», con «un aumento dei
ricavi a causa della sottovalutazione dei volumi di traffico all'atto della
sottoscrizione delle convenzioni di concessione». Il presidente Giampaolino ha
ricordato l'indagine condotta dalla sua Autorità di vigilanza con la
quale si rilevò «che le sub concessionarie non hanno rispettato la percentuale
massima prevista dalla legge per quanto riguarda gli affidamenti a imprese
proprie e/o controllate, con grave lesioni degli obblighi di legge e del bene
della concorrenza e del mercato in questo importante settore».
Altissime le spese per gli arbitrati, che sono costati oltre 291 milioni di
euro, escluse le spese relative allo svolgimento del giudizio. «Un business
smodato per i cosiddetti arbitri - commenta il ministro delle Infrastrutture
Antonio Di Pietro - per pagare i quali si sono spesi circa 300 milioni di euro,
una somma che da sola sarebbe sufficiente per far funzionare l'autorità
giudiziaria ordinaria». Soldi che, secondo Di Pietro, andrebbero dati al
«ministero della Giustizia per far funzionare i tribunali ordinari, anziché darli
agli arbitri che si autoliquidano le proprie parcelle».
Questa mattina il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha ricevuto al
Quirinale i componenti dell'Authority per la vigilanza sui contratti pubblici.
Oltre al presidente Luigi Giampaolino, anche i componenti, Alessandro Botto,
Giuseppe Brienza, Piero Calandra, Andrea Camanzi, Guido Moutier, Alfonso Maria
Rossi Brigante. (N.Co.)
MILANO - Innanzitutto, la salute dei
cittadini. Dopo il vino al metanolo, il maiale alla diossina del Belgio e il
latte per neonati con l'inchiostro, occorrono pene più severe per chi
danneggia i consumatori e le imprese agricole. Così il presidente della
Coldiretti, Sergio Marini, commenta la bozza del codice della sicurezza
alimentare che cancella l'azione penale per chi commercializza alimenti
adulterati. «Di fronte alle emergenze sanitarie che si ripetono - afferma
Marini - la scandalosa proposta di depenalizzare il reato di vendita di cibi
adulterati conferma il nostro allarme sul tentativo di mettere le mani sulla
qualità alimentare italiana, a danno delle imprese agricole e dei
consumatori».
L'attuale proposta, sottolinea il presidente della Coldiretti, «prevede che chi
commetterà questi reati non andrà più in carcere se non
saranno provocate gravi intossicazioni o casi di morte, in aperta
contraddizione con il bisogno di garantire la sicurezza alimentare dei
cittadini». La richiesta, dice una nota, è già stata inoltrata
dalla Camera dei Rappresentanti allo Usda, l'organismo responsabile della
sicurezza alimentare negli Stati Uniti. Ora, chiede l'Associazione italiana,
è necessario «accelerare anche in Italia e in Europa il percorso
intrapreso a livello comunitario», estendendo l'obbligo di etichettatura a
tutti i prodotti alimentari.
Secondo il rapporto annuale Rassf della Commissione europea, nel nostro
continente «quasi la metà delle notifiche di rischio per la sicurezza
alimentare» sono relativi a prodotti importati da Paesi extracomunitari e
respinti alle frontiere. Un rischio vero e proprio per l'economia del nostro Paese
che con l'agroalimentare ricava il 15% del Prodotto interno lordo.
16 luglio 2007
Roma, 16 Luglio 2007 – AgenParl – Ormai
è sulla bocca di tutti. Francesco Rutelli torna alla carica per lo
scranno più alto di Palazzo Chigi e pertanto apre decisamente all’Udc
mentre il suo alleato Piero Fassino fa qualcosa di simile verso la Lega.
L’obiettivo è quello, più che mai proclamato, di dar vita a una
nuova maggioranza parlamentare di intonazione moderata e centrista, potabile
per il partito di Pier Ferdinando Casini e per la Lega di Bobo Maroni,
arruolando la sinistra riformista e scaricando quegli spezzoni della sinistra
che vogliono continuare ad essere alternativi. Anzi con il sostegno di Udc e
Lega anche la sinistra riformista non è più indispensabile. Per
cui se c’è bene, se non c’è va bene lo stesso.
Di qui l’offensiva dei prodiani, i quali hanno ben compreso che Rutelli e
Fassino si preparano a disarcionare Prodi e quindi ad avere il controllo e del
governo e del Partito Democratico, secondo, si fa per dire, la dottrina
montesquieuriana della “divisione” dei poteri come peraltro avveniva ai tempi
della Prima Repubblica.
In questo gioco si sono inseriti Giuliano Amato e Lamberto Dini. I quali,
illudendosi di poter diventare eredi di Prodi, stanno dando una mano, anzi
tutte e due, all’abbattimento non dello scalone pensionistico ma della
credibilità della coalizione di centrosinistra. In questo senso vengono
giudicate le critiche che i due uomini politici infliggono particolarmente a
quella che definiscono, forse non correttamente, la sinistra massimalista,
chiedendone l’espulsione dall’Unione. Una sinistra la quale, specie in questo momento,
tende a caratterizzarsi sempre di più come riformista e ciononostante
viene posta all’indice.
ROMA - Furio Colombo, l'ex direttore
dell'Unità, ha ieri annunciato sull'Unità la sua intenzione di
partecipare alla corsa per la guida del partito democratico. L'Unità ne
farà le spese. "Ho voluto annunciare per tempo ad Antonio Padellaro
che avevo intenzione di fare questo passo e, nell'articolo, ho specificato che
la presa di posizione è personale. Il giornale unicamente la ospita".
Lei milita da senatore in un gruppo politico che ha molti, forse troppi punti
di vista differenti dal suo. "Diciamo che mi sento come uno Staterello che
sui banchi del Senato a sud confina con Ignazio Marino, eccellente ed
equilibrato senatore, a nord con Gerardo D'Ambrosio, al quale confido tutti i
miei dubbi quando si tratta di affrontare aspetti giuridici importanti, ad
ovest con Franca Rame ed Heidi Giuliani, donne dolcissime e di qualità,
ad ovest con Andrea Manzella, maestro del diritto costituzionale".
Staterello, appunto. "Non avverto una solitudine tale da non permettermi
di ritenere che siano condivise da molti prese di posizione che erroneamente
vengono definite estreme. Il rigore estremo è nei confronti del
berlusconismo, nella convinzione della necessità di una ferma, convinta
e rapida battaglia per l'affermazione di una legge sul conflitto di interessi.
Non ritengo, come leggo nel manifesto dei "coraggiosi": gruppo che va
da Rutelli a Chiamparino, che la stagione dell'antiberlusconismo sia da
seppellire. Voltare pagina, dicono. Anzi, oggi più che mai serve una
posizione dura, ferma. Sono i fatti, la cronaca di queste ultime ore, che
dicono quanto sia attuale la straordinaria pericolosità di questo
personaggio". Già l'accusano e da oggi ancora di più che lei
alimenta solo l'antipolitica. "Sono un liberal, la mia vita pubblica l'ho
svolta essenzialmente negli Stati Uniti. Desidero, per esempio, che se si
è deciso di approvare una legge sui Dico, si vada avanti malgrado la
rispettabilissima presa di posizione di una autorevole organizzazione. Chiedo
troppo?" Si guardi intorno. "Rutelli è stato uno straordinario
sindaco di Roma e ho stima delle sue posizioni. Ma vorrei che valutasse la
legittimità della richiesta di ritenere, per esempio, la posizione dei
laici almeno pari a quella dei cattolici e delle gerarchie dei cattolici e non
come un corsivo a piè di pagina". Se avanza la sua candidatura
ritiene inadeguata quella che già c'è. Perché Veltroni non va
bene? "Veltroni va benissimo, mi piace e ho ascoltato il suo discorso plaudendo
molti passaggi. La mia non è infatti una candidatura alternativa. Ma
come? Stiamo facendo il partito democratico, scrutiamo il mondo americano e non
ci accorgiamo che negli Usa ci sono mille esempi di personalità che
pongono una serie di istanze per arricchire il dibattito politico, completare
la piattaforma, concorrere a formare un'opinione più larga".
Colombo: ha capito quante firme le servirebbero per poter affrontare la
battaglia? "Niente di niente. Non so quante firme servano e non so neppure
se è concesso a chi non possiede una scorta di governo (per scorta
intendo la strumentazione necessaria, le relazioni organizzate) di avanzare una
autonoma candidatura". Avrà presto documentato il conto. "Devo
dirle che sebbene venga considerato isolato, e alcune volte lo sono davvero, mi
è stata sempre concessa la più ampia libertà di movimento
e di parola. Se sono al Senato è perché i dirigenti dei Ds, Fassino e
Veltroni in testa, hanno voluto che io fossi candidato in una posizione
eccellente. Non bisogna dimenticarlo". C'è Furio Colombo: largo ai
giovani. "Ecco, l'età. E' un problema, lo so. Avrei voluto tanto
che si potesse dire: do un contributo di innovazione, segno un ricambio
generazionale. Ma non è così purtroppo. Però a me tocca
fare quel che sento e devo fare". Succeda quel che può.
"Vediamo quante mail arrivano, il movimento che si crea. Poi
decideremo".
MILANO —
Le cozze infettate dal virus dell'epatite o, peggio, dal vibrione del colera
potrebbero «costare» solo una multa a chi le alleva, pesca e offre in vendita
ai consumatori. Da 10mila a 80mila euro al massimo, una volta provata la buona
o cattiva fede dell'«inquinatore». Nessun reato penale, nessuna sanzione come
il carcere, previsto dalla legge 283 del 1962 attualmente in vigore. La
depenalizzazione è inserita nel nuovo Codice della sicurezza alimentare
predisposto dal Dipartimento per la sanità pubblica veterinaria, la
nutrizione e la sicurezza degli alimenti del ministero della Salute. La bozza
del Codice (un decreto legislativo) è stata sottoposta all'esame delle
Regioni e dovrà essere discussa al tavolo Stato-Regioni.
Verrebbero abrogate tutte le leggi in
materia, accorpate e semplificate. Ma, sorpresa, al
Capo VI, quello relativo alle sanzioni, sparisce l'azione penale. In soldoni
niente più magistratura di mezzo, fatto salvo in caso di gravi
intossicazioni o in caso di morte del malcapitato consumatore di cibo
inquinato, adulterato, con un'etichetta non veritiera, e così via. Addio
ai sequestri preventivi che scattano per ordine dei pm, come avvenuto nel caso
di mucca pazza o delle acque minerali al cloroformio, del pane o della
mortadella agli escrementi, dei tiramisù al botulino, del tè
cinese al piombo o del miele agli antibiotici. E i famosi blitz dei carabinieri
del Nas scatterebbero solo su richiesta di Asl o enti amministrativi.
Un alleggerimento per la magistratura? Senz'altro,
ma anche un'arma in meno di prevenzione, perché la sanzione penale è un
fortissimo deterrente. Un produttore di vino al metanolo non rischierebbe
più il carcere ma una multa che, anche se alta (da mille a 100 mila euro
in base al tipo d'illecito), potrebbe anche convenirgli rispetto al guadagno
già fatto in modo fraudolento. E se ci scappa il morto? Allora subentra
la magistratura (per reati come l'omicidio), ma una vittima non è certo
prevenzione. Anzi è la prova di un fallimento nel campo della sicurezza
alimentare. Senza contare che, senza informazione o sequestri, mentre si indaga
di decessi potrebbero essercene altri.
Di che cosa si occupa la legge 283 destinata
all'abrogazione? Solo nella prima metà del 2007, sono state oltre 150 le
sentenze della Cassazione relative a reati contemplati proprio dalla 283. Ecco
un drammatico elenco-esempio che riguarda reati da 283 commessi o finiti in
giudicato negli ultimi 12 mesi: prodotti ayurvedici con troppo piombo o
mercurio, tè cinese al piombo, miele agli antibiotici, bevande
analcoliche ( soft drink) al benzene, acque minerali con cloroformio o con
tetracloroetilene, molluschi e crostacei dell'Est «infetti», pesce fresco ricco
di un parassita (anisakis) causa di gravi enterocoliti, animali allevati con
ormoni, maiali alimentati con il cromo per renderne le carni più rosse
(in apparenza più magre), salmone con additivi per renderlo più
arancione, frutta e verdura ai pesticidi. Senza contare frodi come la vendita
di prodotti surgelati spacciati per freschi o di cibi contenenti sostanze non
indicate in etichetta, se non scaduti e riciclati.
Coinvolti nei reati produttori,
importatori, venditori, ristoratori, mense e distributori. Soltanto
sabato la procura di Torino ha aperto due inchieste: una su tonno fresco che
presenta elevati tassi di istamina (potrebbe scatenarsi una crisi allergica
anche in chi allergico non è), l'altra su 67 chili di pane fresco
(sfornati da una panetteria di Torino) con escrementi di insetti e roditori.
Un'ultima annotazione: il
punto 3 dell'articolo 64 del Capo VI del Codice punisce con una multa da 10mila
a 100mila euro (la sanzione più alta prevista dal Codice) «chi comunica
o diffonde anche a mezzo stampa informazioni suscettibili di creare panico o
allarmismo tra i consumatori». Attenzione: non notizie false, ma solo
suscettibili di creare allarmismo. Suona come un «bavaglio» all'informazione
che, come è noto, è base della prevenzione e della capacità
del consumatore di sapersi autotutelare.
16 luglio 2007
Da tempo Comincia l'Italia, primo tra i media,
ha iniziato un 'opera di sensibilizzazione presso i cittadini sui grandi temi
del futuro sui quali ci vogliamo incamminare. Tra essi, oltre alle politiche,
ci sono le questioni scientifiche. Che non riguardano i partiti, neppure tanto
gli Stati, ma le comunità internazionali. Una grande sfida per guardare
al futuro.
Pubblichiamo qui un articolo di particolare interesse di Roberto De Giorgi. Il
quale non solo traccia un percorso su ciò che si muove, ma indica anche
questioni di sistema. Per questo ringraziamo l'articolista del suo impegno e
del pregio del suo lavoro.
Redazione di Comincia l'Italia
Nel convegno svoltosi recentemente sul “ritorno
di Archimede” si è parlato di solare termodinamico a concentrazione.
Questa l’idea su cui punta il premio Nobel Rubbia che è convinto che
questa è la via del futuro: l’energia solare. Il futuro è la
sostituzione del petrolio con l’energia dal sole. Ma la vera novità
presentata al convegno è che il Ministero dell’Ambiente promuove uno
sviluppo compatibile nel nostro Paese. Seguendo questa strada, l’Italia deve
avviare la costruzione di centrali solari, come già sta facendo la
Spagna. Su questa strada, il primo a mettersi è il Presidente della
Regione Calabria. Si passa da Archimede a Pitagora, perché una delle possibili
zone identificate per la localizzazione della centrale è Crotone, dove
potrebbe essere costruita al posto di Europaradiso – una operazione di
cementificazione dissennata – in una delle aree compatibili come “zona di
interesse comunitario”.
Già nell’attuale Conto Energia ci sono
gli incentivi per la costruzione di impianti fino a 100 Mw, già
utilizzabili anche per il solare termodinamico, ma l’obiettivo finale è dotarci
di una serie di centrali con questa tecnologia. Per questo il Ministro
dell’ambiente lavora insieme al ministero per lo Sviluppo Economico per dotarsi
di uno strumento legislativo – identico a quello spagnolo – che consenta alle
nostre imprese di investire anche in Italia sul solare termodinamico, sapendo
che godono delle medesime possibilità che hanno in Spagna.
Ecco cosa ha detto Rubbia: “Ho fatto vedere che
effettivamente Archimede aveva ragione, queste navi romane se avesse voluto le
avrebbe bruciate, e questo è il primo passo di uno sviluppo tecnologico
che ha più di 2000 anni. In realtà questa storia di utilizzare il
sole per concentrare la luce è un esercizio che già i ragazzini
fanno, quando prendono una lente e cercano di accendere con questa una fiamma.
E’ una evidenza assolutamente ovvia che si conosce da migliaia di anni. Si
tratta di sfruttare questa caratteristica in un progetto concreto. Un progetto
economicamente valido, che abbia le dimensioni necessarie alla grande
industria".
"Il solare termodinamico - prosegue lo
scienziato - oggi costa 10/11 centesimi al Kwh e si prevede che entro il 2020
si riduca a 6 centesimi al Kwh. Questo non lo dico io, lo dicono la World Bank,
il Department of Energy americano e la IEA (International Energy Agency):
gruppi estremamente seri, che fanno degli studi di mercato, concludono che
effettivamente stiamo avvicinandoci ad una situazione dove il costo del solare
termodinamico sarà, senza sussidi, uguale o confrontabile a quello dei
fossili.
L’Italia è in una posizione particolarmente difficile per quanto
riguarda l’approvvigionamento di energia, compriamo dall’estero il petrolio, il
gas naturale e tutto quello che ci serve. Mentre l’energia dal sole è
una produzione totalmente indigena, quindi non utilizzando il sole buttiamo via
una delle risorse naturali del nostro Paese.
Rubbia indica le capacità energetiche:
"La quantità di energia solare disponibile è circa 10.000
volte superiore a quella di cui il Pianeta avrebbe bisogno se marciasse sul
principio dell’energia solare a concentrazione. Quindi abbiamo una dote
naturale straordinaria, che spesso non abbiamo utilizzato, che mettono
l’Italia, la Spagna ed i paesi del Mediterraneo assolutamente in primo piano.
Sarebbe un errore grave dimenticare le differenze che fanno sì che i
paesi del sud dell’Europa possono diventare una vera e propria sorgente di
energia.
Il solare termodinamico ha l’accumulo, come l’idroelettrico. Nell’idroelettrico
c’è la diga, nel termodinamico c’è il liquido caldo ed ambedue
hanno la stessa funzione, quella di separare il momento in cui esiste la
pioggia (nel caso dell’idroelettrico) o la luce solare (nel caso del
termodinamico) con il momento in cui c’è il bisogno di consumo da parte
dell’utilizzatore. Noi siamo abituati a premere l’interruttori anche alle 4 del
mattino e c’è la corrente, questo lo si può fare soltanto con un
accumulo. Il solare termodinamico quindi è in una situazione analoga a
quella dell’idroelettrico. Nell’idroelettrico c’è la diga, l’acqua e la
turbina, nel caso nostro c’è lo specchio, il liquido e la turbina".
Prendiamo un esempio tipico: l’Arabia Saudita.
"E’ un luogo dove il solare marcia bene - spiega Rubbia -. Però
è anche un luogo dove c’è molto combustibile, c’è un sacco
di petrolio e gas naturale. Ebbene la quantità di energia che l’Arabia
Saudita riceve sotto forma di sole è mille volte la quantità di
energia che lo stesso paese produce oggi con combustibili fossili.
Un millesimo della superfice dell’Arabia Saudita con specchi, permetterebbe di
produrre, indefinitivamente, la stessa energia primaria totale che oggi si
realizza nel paese che ha la più grande produttività mondiale di
petrolio e gas naturale".
Parliamoci chiaro, se non ci fossero alternative
ai fossili, il futuro della nostra umanità sarebbe in grave pericolo.
Cosa faremo all’ultima goccia di petrolio, se non ci fosse un’alternativa
coerente? "Noi, come scienziati, oggi stiamo lavorando per prepararci a
questo nuovo passo che è fondamentale: non ci sarà pace, non ci
sarà felicità, non ci saranno soluzioni possibili se non ci
sarà energia abbondante ed a basso costo. Noi abbiamo un orologio che
ogni giorno sta contando il count down; i fossili prodotti naturalmente dalla
natura in un milione di anni oggi si bruciano in un anno.”
In Italia si sa una poltrona non si nega a
nessuno, tanto che quelle piccole e grandi di origine politica, secondo calcoli
prudenziali hanno ormai superato le 400 mila, accrescendo smisuratamente i
vituperati "costi della politica". Ma il vizio non è soltanto
della politica. Se i costi politici sono addebitati a tutti noi, i costi
dell'impresa, sono sul conto dei piccoli azionisti risparmiatori, a cominciare
dalle cifre stratosferiche delle stockoption assegnate, (autoassegnate) a
manager spesso largamente sopravvalutati. Quanti sono, ad esempio, e quanto
costano agli azionisti i consiglieri d'amministrazione delle società
quotate in borsa? Pare che nessuno sappia dirlo con precisione, ma è
certo che la tendenza è all'aumento del numero e delle prebende,
complice, tra l'altro, il nuovo sistema della cosiddetta "governance
duale", che raddoppia le torri di comando accentuando i rischi "Babele".
Come avviene, ad esempio, in Mediobanca con due presidenti, uno non qualunque
(si chiama Cesare Geronzi) al vertice del Consiglio di sorveglianza, che
rappresenta gli azionisti, e l'altro, affiancato da un consigliere delegato,
alla guida del Consiglio di gestione fatto di manager. Il governatore della
Banca d'Italia Mario Draghi ha denunciato all'assemblea dell' Abi il rischio
che la moltiplicazione delle poltrone di vertice faccia smarrire
"chiarezza di obiettivi, razionalità nella divisione delle responsabilità"
a danno dell' "orientamento nelle scelte aziendali". Il presidente
della Consob Lamberto Cardia ha segnalato le "dimensioni
ipertrofiche" dei consigli d'amministrazione e ha avvertito che l'adozione
del sistema dualistico rischia di peggiorare l'ipertrofia, aumentando i costi e
riducendo la responsabilizzazione dei consiglieri. I dati forniti da Cardia
sono significativi: nelle grandi società italiane quotate in borsa il
numero medio dei consiglieri d'amministrazione è 14,3, contro i 10,8 delle
maggiori società inglesi; il 60 per cento delle società
britanniche ha meno di 12 consiglieri, mentre in Italia, al contrario, il 70
per cento ne ha più di 12. Quanto ai consiglieri cosiddetti
"indipendenti", in Inghilterra sono la quasi totalità, con l'esclusione
di quelli con incarichi esecutivi, mentre da noi sono solo il 60 per cento. E'
il modello di controllo delle società che determina le dimensioni dei
consigli d'amministrazione, come dimostra il fatto che le società
controllate attraverso patti di sindacato hanno in media tre consiglieri in
più rispetto alle società controllate di diritto, e due in
più rispetto a quelle controllate di fatto. La moltiplicazione delle
poltrone, accentuata dalla governance duale applicata in caso di fusioni che
sommano gli eserciti di consiglieri d'amministrazione invece di sfrondarli,
è più intensa nella banche e , soprattutto, nelle assicurazioni.
Il 90 per cento delle imprese assicurative ha un consiglio d'amministrazione
composto da più di dieci persone, contro il 70 per cento delle banche e
poco più del 30 per cento delle società industriali. Riguarda
tutti, invece, l' "interlocking", cioè il fenomeno dei
"pluriconsiglieri", quelli che fanno parte di vari consigli d'amministrazione,
talvolta in conflitto d'interessi tra loro, con il rischio di danneggiare gli
azionisti di minoranza. Su 162 società, più del 50 per cento dei
consiglieri ha cariche in altre società quotate in borsa. Gli effetti
"Babele" della governance duale, di cui uno dei padri è
considerato il notaio Piergaetano Marchetti, si sono già manifestati in
Mediobanca e in altri casi meno noti, come quello delle ex municipalizzate di
Milano e Brescia, Aem e Asm, dove per mettere d'accordo gli azionisti si sono
fatti non solo due presidenti, ma anche due direttori generali con gli stessi
poteri. Quale nefandezza non si compirebbe e non solo in politica per
moltiplicare le poltrone, nel paese della poltronite ? a.statera@repubblica.it.
Tokyo, 16 lug. (Ap) - Dopo il tifone
Man-Yi, il terremoto. Finita l'allerta per il ciclone che ha provocato 3 morti,
decine di feriti e migliaia di sfollati nel fine settimana, il Giappone si
è svegliato con una scossa di terremoto di magnitudo 6,8 della scala
Richter, con epicentro nel mare a 10 metri di profondità, al largo di
Niigata, sull'isola di Honshu.
Secondo un primo bilancio provvisorio, ci
sarebbero almeno 160 feriti. Decine di case in legno sarebbero crollate nei
pressi dell'epicentro. Danni a strade costiere e ponti. Lanciato l'allarme
tsunami dall'agenzia meteorologica giapponese lungo le coste della prefettura
di Niigata, per onde comunque rimaste sotto i 50 centimetri.
L'agenzia meteorologica giapponese ha
rilevato la scossa alle 10.13 ora locale (le 3.13 in Italia), avvertita anche a
Tokyo, distante 256 chilometri dall'epicentro.
Dopo la scossa più forte, ne sono
state avvertite altre di assestamento, nessuna superiore ai 4,2 gradi della
scala Richter.
A Tokyo, sospeso il servizio dei treni
superveloci che collegano la capitale alle città del nord. Fermati i tre
reattori nucleari presenti nelle zone dove la scossa è stata avvertita.
Un incendio si e' sviluppato all'impianto di trasformazione dell'elettricita'
nella centrale di Kashiwazaki, a pochi chilometri dall'epicentro. I tecnici
hanno assicurato che non c'è alcun rischio nucleare. Sempre a
Kashiwazaki, 35.000 abitazioni sono rimaste senza gas.
Il primo ministro Shinzo Abe, che si
trovava nel sud del Paese per la campagna elettorale in vista delle prossime
elezioni politiche, sta tornando a Tokyo e predisporrà una "task
force", stando alle ultime indiscrezioni diffuse dalle televisioni
giapponesi.
Il 23 ottobre del 2004, un altro terremoto
di magnitudo 6,8 colpì Niigata, provocando 67 vittime e 3.000 feriti.
TOKIO
- Un incendio si e' sviluppato a un impianto di trasformazione
dell'elettricita' in una centrale nucleare nel nord ovest del Giappone, dopo
che la zona e' stata colpita da un forte terremoto di magnitudo 6.6. Lo
riferisce la tv Asahi, che trasmette immagini con del fumo nero che si innalza
dall'impianto alla centrale nucleare di Kashiwazaki Kariwa, nella provincia di
Niigata, circa 250 km a nord ovest di Tokyo. (Agr)
Non ci sarebbero né feriti né danni
Città del Messico (Ap) - Una scossa
di magnitudo 6,1 sulla scala Richter ha colpito nella notte il Chiapas, in
Messico. Non ci sarebbero né feriti né danni.
L'epicentro è stato localizzato nei
pressi della capitale dello stato, Tuxtla Gutierrez, 690 chilometri a sud-est
di Città del Messico. La città sarebbe rimasta senza
elettricità.
Tra le tante informazioni, sfogliando la
documentazione inerente al consuntivo 2006, si può scoprire a quanto
ammonta lo stipendio di sindaco e assessori e dei consiglieri e quanto sborsa
ogni cittadino per questa spesa. Il costo della giunta è stato pari a
169.220,32 euro nel 2006 mentre nel 2005 era stato di 183.986,39 mentre il
gettone di presenza per i consiglieri comunali complessivamente è stato,
per l'anno passato, di 14.379,19 euro a fronte dei 22.296,02 del 2005.
Complessivamente l'assise comunale è costata alla collettività
183.599,51 euro. Ogni abitante ha dovuto spendere procapite per gli assessori
5,96 euro nel 2006 (6,49 nel 2005) e 0,51 per i consiglieri comunali. "Il
bilancio sociale- dice l'assessore alle finanze Germano Marubbi- ha l'obiettivo
di rendere maggiormente leggibili e confrontabili le informazioni relative alla
macchina comunale". Da quest'anno il bilancio sociale ha un'altra
novità ovvero il bilancio di Genere o delle pari opportunità: una
innovazione fortemente voluta dalle donne dell'ufficio ragioneria. Curiosando
in questo paragrafo si scopre che la popolazione novese ha una forte componente
femminile, le donne sono 14820, gli uomini 13550. Alle urne, nelle ultime
consultazioni elettorali, si sono recate 12491 donne e 11240 uomini. Marzia
Persi 16/07/2007.
BAGHDAD Mentre il premier iracheno Nouri al
Maliki comunica alla Casa Bianca che gli americani se ne possono andare
"in qualsiasi momento", gli Stati Uniti perdono la voglia di vincere
in Iraq. Per due americani su tre l'escalation decisa in gennaio dal presidente
George W. Bush è stata un fiasco, rivela un sondaggio di Newsweek da cui
emerge anche che sette americani su dieci bocciano il modo con cui Bush sta
conducendo la guerra. I militari Usa morti in Iraq hanno superato quota
3.600 e, se anche una vittoria fosse tatticamente raggiungibile sul terreno, la
guerra sembra ormai perduta in patria. La settimana scorsa, tuttavia, Bush ha
annunciato che metterà il veto a qualsiasi progetto legislativo sulla
condotta della guerra che venga approvato prima di settembre quando è
atteso il rapporto del generale David Petraeus e dell'ambasciatore a Baghdad
Ryan Crocker. Il dibattito sulla guerra tornerà di prepotenza in Senato
nei prossimi giorni: tra le proposte sul tappeto c'è quella dei senatori
repubblicani Richard Lugar e John Warner per una nuova autorizzazione della
guerra. Un'altra repubblicana, Susan Collins, ha presentato un testo per un
ritiro graduale fin da ora delle truppe da combattimento. Nella serata di ieri,
intanto,Yassin Majid, un collaboratore del primo ministro iracheno Nouri al
Maliki ha riferito che il premier è stato frainteso quando ha affermato
che le forze irachene sono in grado di rilevare la gestione della sicurezza dagli
Stati Uniti e che le truppe Usa potrebbero andar via quando vogliono. Al
Maliki aveva detto ai giornalisti che esercito e polizia iracheni sono in grado
di mantenere la sicurezza quando le truppe Usa se ne andranno, "in
ogni momento che vogliono". "Affermiamo che siamo in grado di
assumerci la responsabilità nella gestione del dossier sicurezza se le
forze internazionali si ritirassero, in qualunque momento volessero", le
parole del primo ministro. IL PREMIER AL MALIKI, Il capo del governo ha fatto sapere
di essere stato frainteso, Baghdad "in qualunque momento può
assumersi la responsabilità nella gestione della sicurezza se le forze
militari internazionali si dovessero ritirare".