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NE IRROGANTO di Mauro Novelli
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16-30 APRILE 2007 Piccola Rassegna
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16-30 APRILE 2007
Il Sole 24 Ore 28-4-2007
Indagini fiscali alla velocità dell'email. di Benedetto Santacroce
CorriereEconomia 30-4-2007
A proposito d'America L'Europa e Wolfowitz di Giulio Sapelli
Tronchetti: ma con Pirelli
continueremo ad investire in Italia. Raffaela Polato
Il Sole 24 Ore 28-4-2007 Indagini fiscali alla
velocità dell'email. di Benedetto Santacroce
Dalla settimana prossima, l'operatività dell'archivio dei rapporti con gli
operatori finanziari modificherà e semplificherà le strategie del Fisco per la
realizzazione dei controlli, riducendo notevolmente i tempi di esecuzione e offrendo
all'Erario uno strumento più efficace per verifiche mirate.
Il primo passo si avrà entro pochi giorni: il 30 aprile, infatti, scade il
primo termine per gli intermediari finanziari per segnalare all'anagrafe
tributaria l'esistenza e la natura dei rapporti intrattenuti con la clientela,
con l'indicazione dei dati anagrafici dei titolari compreso il codice fiscale.
L'obbligo, fissato dall'articolo 37 del Dl 223/06 e dal provvedimento del
direttore dell'agenzia delle Entrate del 19 gennaio 2007, riguarderà tutti i
rapporti esistenti al 1° gennaio 2005.
Le strategie operative
Allo stato attuale, in assenza dell'archivio dei rapporti, l'amministrazione,
per poter attivare le indagini finanziarie, è costretta a richiedere i dati
potenzialmente a tutti gli intermediari, per evitare che una richiesta parziale
consenta al contribuente di nascondere al Fisco alcune attività. Questo
comporta che le risposte — comunque obbligatorie — siano per lo più negative,
con solo aggravio dell'attività degli intermediari finanziari.
In realtà, i verificatori prima di rivolgersi agli intermediari finanziari
potrebbero richiedere direttamente al contribuente gli estremi identificativi
dei conti. Questa possibilità è stata, di fatto, scarsamente utilizzata dagli
uffici che, nella maggior parte dei casi,hanno preferito usare lo strumento
della richiesta generalizzata nei confronti di tutti gli intermediari.
Con l'entrata in vigore dell'archivio dei rapporti finanziari il problema
dovrebbe sostanzialmente venir meno, in quanto,almeno per tutti i rapporti
intestati al contribuente sarà possibile acquisire l'informazione direttamente
dall'archivio. In pratica, i verificatori potranno acquisire le informazioni
dall'archivio informatico e inoltreranno le richieste solo agli intermediari
che hanno rapporti finanziari con gli "indagati".
Una procedura più selettiva
Questa preselezione,auspicata da tutti gli intermediari che, in questi ultimi
mesi, sono stati interessati da innumerevoli richieste inutili, è confermata
dalle note metodologiche che l'agenzia delle Entrate ha emanato con la
circolare 22/E del 19 aprile. Nelle note è affermato che la banca dati
dell'archivio dei rapporti«deve essere considerata ai fini di un'attività di
selezione preventiva, affinché si possano dimensionare più precisamente le
indagini coinvolgendo almeno tendenzialmente solo gli operatori finanziari che
hanno intrattenuto i rapporti con i contribuenti».
Quindi, anche in forza della presa di posizione del Fisco, sembra plausibile
pensare che, almeno in linea di massima,questa dovrebbe essere la procedura
seguita dai verificatori nell'esecuzione delle indagini finanziarie.
La procedura preselettiva,però, proprio come sottolinea l'agenzia delle
Entrate, non soddisfa in pieno le finalità che lo strumento istruttorio deve,
secondo le intenzioni del legislatore, realizzare. Questo perché l'archivio dei
rapporti non contiene tutte le informazioni necessarie: sono esclusi dal
monitoraggio, per esempio,tutti i rapporti non intestati, ma delegatia terzi
ovvero le operazioni fuori conto realizzate dal contribuente direttamente allo
sportello di una banca.
Questa carenza dell'archivio, però, non deve spingere i verificatori a
realizzare anche nel futuro richieste generalizzate, ma dovrebbe stimolare
un'adeguata attività investigativa e di controllo sul contribuente diretta ad
accertare se questi è solito realizzare con scopi di evasione quella tipologia
di operazioni che coinvolge necessariamente l'attivazione di richieste
generalizzate.
Le garanzie per i contribuenti
Il sistema prevede,in ogni caso, una serie di tutele per il contribuente.
L'archivio, in primo luogo, non consente al Fisco di conoscere l'entità dei
movimenti realizzati dal contribuente sui singoli strumenti finanziari di cui
ha la disponibilità né tantomeno l'entità dei saldi. L'archivio si limita a
monitorare:
• i dati identificativi dei soggetti (persone fisiche o no) intestatari;
• gli elementi relativi a natura e tipologia;
• la data di apertura, modifica e chiusura.
Per poter ottenere dati e contenuti dei rapporti finanziari il Fisco deve
attivare un'indagine finanziaria vera e propria coinvolgendo direttamente gli
intermediari. I quali —e questa costituisce la prima forma di tutela dei
contribuenti — devono, al momento del ricevimento della richiesta,informare
immediatamente il cliente.
Inoltre, sempre sul piano delle tutele individuali, l'accesso
dell'amministrazione finanziaria ai dati contenuti nell'archivio non è libera.
L'amministrazione può accedere all'archivio solo dopo aver iniziato un
controllo nei confronti del contribuente e solo dopo aver ottenuto
un'autorizzazione che può essere emessa: per l'agenzia delle Entrate dal
direttore centrale dell'accertamento o dal direttore regionale; per la Guardia
di finanza dal Comandante regionale; per gli agenti della riscossione dai
rispettivi direttori generali.
L'archivio sarà accessibile anche da parte di altre autorità ( ministro
dell'Interno, giudici e forze di polizia). Per queste ultime, però, l'accesso
sarà possibile solo dopo che saranno siglate convenzioni tra Entrate e
autorità.
Cara Europa, mi ha sorpreso lo squallido episodio di
Rignano Flaminio, il centro di 9000 abitanti della nostra provincia, dove una
gang di maestre ed estranei avrebbe – secondo l’accusa – abusato di bambini e
bambine della scuola materna. Nello stordimento per l’ennesimo episodio
negativo della scuola italiana, nella solita commedia dei burocrati di mettere
innanzitutto in chiaro la propria posizione personale, mi conforta che per una
volta i genitori mostrino di volersi occupare attivamente dei loro figli,
spesso mandati a scuola con spirito di parcheggio. Ma l’alba mi sembra lontana
da intravedere, o no? MICHELE DE TOMMASI, ROMA
Lontanissima,
caro De Tommasi, anche perché l’atteggiamento “positivo” dei genitori che
stendono le ali protettive sui figli mi sembra appena appena normale: non
dimentichiamo che si tratta di bambini di tre o quattro anni. In questa vicenda
emerge di più, rispetto ad altre altrettanto pruriginose, il peso negativo del
comportamento dei docenti sospettati, alcuni dei quali addirittura nonne: per
le quali quindi non valgono le tempeste ormonali che possono sconvol- gere la
lucidità di giovanissime insegnanti e di studenti in pieno sviluppo, fra i
quali le barriere sociali d’un tempo sono meno forti del richiamo della
foresta. Se è sfasciato il rapporto tra alunni, docenti e genitori (il
triangolo), è perché è venuto meno il cerchio che racchiudeva quel triangolo,
la società, dove non c’è più responsabilità e sentire comuni e collettivi, ma,
al più, si pensa e si sente solo per il proprio stretto mondo atomistico. Più
che una cultura unilaterale dei diritti, come vorrebbero le giaculatorie dei
teocon, paghiamo la conseguenza di una civiltà vitalmente esplosa nel progresso
economico e nel benessere ma non sulle basi di una preesistente cultura civile:
che era fuggita, senza che alcuno la trattenesse, dopo la delusione del
fascismo e la disfatta militare. Credere di poter rimediare, sostituendo a una
cultura civile a priori un conformismo religioso a posteriori, è illusione da
ammiratori inconsapevoli dell’Islam.
Ma per tornare alla “religione civile” non bastano i pur utilissimi gesti di Ciampi
o di Napolitano, condannati all’episodicità fra i comportamenti ben più
costanti e condivisi delle classe dirigenti (politiche, intellettuali,
economiche, istituzionali, ecc.). Bisognerebbe tornare a insegnare agli adulti,
con atti e anche punizioni esemplari, il valore della parola e dei
comportamenti, perché a fianco ai bravi genitori di Rignano Flaminio ci sono i
cattivi genitori di Siracusa che aggrediscono gli insegnanti per brutti voti ai
figli, e ci sono – a conferma che la scuola è spesso soltanto il luogo dove si
manifesta la malattia che si contrae in famiglia – gli studenti dodicenni che,
sorpresi con l’hashish, urlano al docente «ti faccio massacrare, dagli
spacciatori». Noi ci auguriamo, ovviamente, che i bravi genitori che difendono
la castità dei figli nelle materne, vorranno continuare nella guardia alla
salute psichica dei ragazzi anche quando questi avranno 12 anni e si
prostituiranno in esibizioni da cubiste a letto, dentro o fuori la discoteca
del sabato sera: unico comportamento la vigilanza dei genitori, di qualche
capacità preventiva per dar senso alla scuola dei “campus” che Tullio De Mauro
ha auspicato, proponendo che gli undicimila edifici scolastici siano tenuti
aperti da mattina a sera undici ore al giorno, e non cinque come adesso.
Campus dove non entrino possibilmente i modelli di instupidimento consumistico
che producono bullismo negli alunni e la frustrazione nelle insegnanti a 1300
euro al mese. Forse è il caso di avviare, Fioroni in testa, un assiduo incontro
su questi temi nei “contenitori”tv, liberandoli dalle solite egemoniche vicende
della politica politicante.
CORRISPONDENTE
DA PARIGI "La mia Francia è quella che paga sempre per gli altri, per gli
errori dei politici, dei tecnocrati, dei manager, dei sindacalisti, per i
truffatori, i teppisti, per coloro che approfittano del sistema, di quelli che
chiedono sempre e che non vogliono mai dare niente, la Francia che soffre, che
non ne può più, la Francia esasperata". Eccolo il vero Sarkozy,
furente, implacabile, prestigiatore della parola. Ha individuato il piedestallo
dal quale fare il secondo balzo, quello decisivo verso l'Eliseo: è la Francia della
maggioranza silenziosa che lui intuisce affollata e vitaminica. Trovata la
chiave, lo slogan, la semplificazione fulminante per schiacciare i sorrisi di
Ségolène: io, ha proclamato Sarkozy, sono l'anti-Sessantotto.
Quarant'anni dopo per lui c'è una Francia che è ancora ostaggio di quella che
occupava la Sorbona e invocava l'immaginazione al potere. Ma non solo: perché
questo "gauchisme" ha infettato anche i 40 anni successivi, che hanno
accettato il quieto vivere, il compromesso, la ipocrisia codarda. Lui si pone
come il salvatore, che la guarirà con il ritorno all'autorità, al merito,
all'obbedienza. In una parola, ma lui non la dice mai, la sua
"rupture" si chiama: ordine. Il palazzetto dello sport di Bercy,
ultimo comizio nella capitale, 40 mila persone, è il posto giusto per saggiare
la salute del candidato obbligato a vincere. Da una settimana, da quando ha
dominato il primo turno con una percentuale di voti così alta che bisogna
risalire a de Gaulle, il quasi presidente con addosso già la porpora, sembrava
impacciato. Lui, che ha la regola di imporre sempre all'avversario il tema su
cui battersi si difendeva, il Rocky della destra guaiva per presunti colpi
bassi. Guardava, lamentandosi per lo sgarbo, lei, l'altra, Ségolène che occupa
gli schermi e le prime pagine conversando amabilmente con Bayrou. Per carità:
il sondaggio lo da sempre in vantaggio 52 a 48 ma anche qui un calo e
non di poco, due punti. Sarkozy non avrà per caso commesso il
più catastrofico errore dei campioni sportivi: realizzare il record del mondo,
una settimana prima delle Olimpiadi, e poi perderle? L'uomo che non ha
trascurato niente, che ha investito tutto, che ha mobilitato tutto il
mobilitabile, che controlla tutto il controllabile, che organizza, mette in
riga, dispiega tutti i talenti appariva fragile. Allora è il momento della
sorpresa, del colpo di scena, dalla parola d'ordine per rivitalizzare i sette
giorni decisivi. Il tutto calato in uno spettacolo di puro gigantismo
hollywodiano, star e ministri, Henri Salvador con Villepin, Hallyday a fianco
di Simone Veil, è il sarkosismo people, ma che mostra i muscoli soddisfatto
della propria forza. E poi sul palco: per l'ouverture con un tocco mistico, il
riferimento alla "comunione" con il popolo sovrano, qualche carezza
ai centristi. Ma il massicio centrale del discorso è l'anti-Sessantotto:
"Da allora non si può più parlare di morale in politica, ci ha imposto il
relativismo morale e intellettuale. Gli eredi del '68 ci hanno imposto che non
c'è alcuna differenza tra bene e male, tra bello e laido, tra vero e falso, che
l'allievo e il maestro si equivalgono, che non bisogna dare voti, che si può
vivere senza una gerarchia dei valori". Gli eredi di questo atonismo
morale "che sono nella politica, nei media, nell'amministrazione e nella
economia", Sarkozy li ha individuati soprattutto nella
Gauche segolenista descritta come contemporaneamente relativista e impotente,
ipocrita e meschina: "Difende i trasporti pubblici ma non li prende mai,
ama la scuola pubblica e non ci manda i suoi figli, adora le banlieues ma non
ci vive, parla di interesse generale ma si barrica nel clientelismo e nel
corporativismo, firma petizioni quando si espellono gli squatters ma non ne
ospiterebbe mai uno a casa sua". Sarkozy ha ripronunciato
la parola fatale "teppisti", quella che ha scatenato la rivolta delle
banlieues, ma per mettere con cura notarile sul gobbo dei suoi avversari accuse
pesantissime: "Guardate come l'eredità del '68 indebolisce l'autorità
dello Stato! Guardate come gli eredi di coloro che gridavano
:"CRS=SS" prendono sistematicamente le parti contro la polizia dei
teppisti, dei casseurs e dei truffatori". Sintesi: "Gli eredi del '68
fanno l'apologia del communitarismo, denigrano l'identità nazionale, attizzano
l'odio della famiglia, della società, dello Stato, della nazione, della
République". Il "Dio patria e famiglia" della Francia petainista
non è molto distante.Sarkozy è sicuro che su questa via la Francia
lo seguirà. Francois Bayrou potrebbe essere premier se Ségolène Royal vincerà
il ballottaggio per le presidenziali francesi. L'obiettivo della presidente
della Regione Poitou-Charentes è di soffiare al rivale Nicolas Sarkozy i
6,8 milioni di voti andati al presidente dell'Udf nella prima consultazione. La
Royal, ha affermato in un'intervista a Canal Plus di "non escludere"
alcuna ipotesi di governo. "Se sarò eletta, sono pronta ad accogliere
tutte le buone idee che saranno utili al Paese", ha aggiunto. Nella corsa
alla conquista dell'elettorato centrista, Royal è inseguita a stretto margine
dal rivale al ballottaggio, Nicolas Sarkozy, che a sua volta si è
detto "pronto ad avviare un dialogo con Bayrou". "Se Francois
vuole parlare non ci sono problemi".
ELEZIONI
ANTICIPATE LA CORTE SUPREMA MERCOLEDì IL NUOVO VOTO.
Il
candidato islamico: non mi ritiro "No alla Shariano al colpo di
Stato" L'enorme corteo di Istanbul trasmesso in tv Lungo il Bosforo l'immensa
folla chiede "un paese e un presidente laici" MARCO ANSALDO DAL
NOSTRO INVIATO ISTANBUL - "No alla legge islamica, no al colpo di Stato.
Vogliamo un paese democratico". Il mare rosso di bandiere con la mezzaluna
ha viaggiato per chilometri ieri, lambendo il Bosforo e coprendo Istanbul nella
più grande manifestazione della storia turca. Un milione di persone in piazza.
Rappresentano la Turchia laica e repubblicana, la società civile che si
richiama talvolta ai principi del fondatore Ataturk, padre della patria, e che
adesso è pronta a ribellarsi tanto alla possibilità di un golpe militare quanto
all'elezione di un capo di Stato di ispirazione religiosa. Si sono dati
appuntamento qui, sul selciato di Istanbul, riversatisi come per magia da tutto
il paese. Da Trebisonda e Malatya macchiate di sangue, fino al travagliato sud
est dell'Anatolia, i cittadini turchi più generosi hanno invaso e occupato la
grande piazza Caglayan, muovendosi compatti fino al quartiere di Besiktas che
tocca le acque blu dello Stretto. Hanno gridato slogan soprattutto contro il
governo islamico moderato. "Vogliamo una Turchia laica, vogliamo un
presidente della Repubblica laico". Un rimbombo assordante, fatto di urla,
voci e cori ha percorso i cinque chilometri che portano fino al mare.
"Basta, basta. La Turchia è democrazia". Salve colossali di fischi
hanno accolto i video con le immagini del premier Recep Tayyip Erdogan e del
suo vice Abdullah Gul, il candidato alla Presidenza la cui elezione è stata
bloccata la scorsa settimana dall'opposizione di destra e di sinistra. La
richiesta, portata alla Corte suprema, è di annullare il voto e di arrivare il
prima possibile a elezioni anticipate, mentre la gente guarda preoccupata al
comunicato dei generali, dichiaratisi pronti a "prendere posizione quando
sarà necessario". In piazza i gruppi rock si alternano sul palco
mischiando note e ironie. Canti e slogan irridenti sottolineano le parole dei
due leader dell'esecutivo, rimandate sullo schermo come una moviola. "Non
si può essere sia musulmani, sia laici. Uno o è laico o è musulmano. Le due
cose sono come i due poli di un magnete" (Erdogan, 1997). "La
democrazia non è un fine, ma un mezzo. E' come un tram che si prende fino a
destinazione e, una volta arrivati, si scende" (Erdogan, 1998).
"L'identità primaria dei turchi è quella musulmana, non quella
costituzionale e repubblicana" (Erdogan, 2005). "Ripetendo la frase
di Ataturk "felice chi si dice turco" la Turchia è diventata
primitiva" (Gul, 1995). Ieri Gul, che in ogni caso è l'esponente più
aperto e duttile del partito al potere, ha risposto ai manifestanti che non
intende affatto ritirare la sua candidatura. Nessun passo indietro. "Il
processo elettorale è iniziato e continuerà - ha detto ad Ankara con il volto
scuro e il sorriso diventato una smorfia - la questione di un mio ritiro non si
pone". I turchi sono scesi in piazza per la seconda volta in quindici
giorni. Già il 14 aprile centinaia di migliaia di persone si erano riunite
nella capitale Ankara. Ma allora non c'era stata né la prima tornata del voto
presidenziale (con Gul a mancare l'obiettivo per soli dieci voti), né il gelido
"comunicato di mezzanotte" dei generali. Ieri invece il mare di
bandiere di tutte le dimensioni, il numero di ritratti di Ataturk posti a sfida
del governo di ispirazione religiosa, hanno superato ogni record. La
dimostrazione è stata finalmente trasmessa in diretta da tutti i canali tv.
"Oggi entreremo nel Guinnes dei primati - commentavano i media - questa è
la più grande manifestazione della Turchia repubblicana". Tante le donne,
i giovani. "Come esponente della rappresentanza femminile - diceva Canan
Karatay, presidente dell'Università scientifica di Istanbul - dico che voglio
essere libera. Siamo venute in tante perché non vogliamo coprirci il capo. Le
forze armate sono con noi, pronte a difendere il secolarismo. Ma il golpe non è
la soluzione". "L'esercito - dice una ragazza, Ipek Hamzaoglu - ha
fatto la cosa giusta nell'opporsi a Gul. Ma non credo che torneranno a
schierare i carri armati come negli Anni ottanta". Ancora oggi però le
forze armate sono l'istituzione più rispettata in Turchia. Il partito islamico
moderato Akp, acronimo di Giustizia e sviluppo, e il cui simbolo è una
lampadina, a significare limpidezza e chiarezza, governa il paese con il 34,4
per cento dei voti grazie all'alto sbarramento per entrare alla Camera (10 per
cento). Ha tutti i ministeri e detiene i due terzi di seggi in Parlamento.
Nella marea di bandiere che rifluisce da Istanbul, si nota un cartello: porta
una lampadina spenta e la scritta "Edison si è pentito".
La
settimana scorsa il portavoce dell'istituzione di Bruxelles ha dovuto addirittura
smentire l'ipotesi di clamorose dimissioni del presidente, il portoghese Josè
Manuel Barroso, e del primo vicepresidente, la svedese Margot Wallstrom,
accusati di comportamenti politicamente scorretti. Barroso è scivolato sul suo
tentativo di organizzare un mini-summit a Sintra in Portogallo. Voleva
discutere del rilancio della Costituzione europea solo con alcuni premier. La
scontata irritazione degli esclusi lo ha costretto a una precipitosa
retromarcia e a scusarsi con numerosi governi nel vedersi costretto a ritirare
gli inviti. Il suo portavoce non ha saputo trovare spiegazioni convincenti
anche su un altro incidente. Il presidente del Partito popolare europeo (Ppe),
il belga Wilfried Martens, ha chiesto le dimissioni della socialdemocratica
Wallstrom contestandole di non aver rispettato l'indipendenza dei commissari Ue
augurando pubblicamente la vittoria nelle elezioni francesi alla socialista
Ségolène Royal, impegnata nel ballottaggio con l'esponente del centrodestra e
del Ppe Nicolas Sarkozy. Lo stesso Sarkozy ha
sollecitato di togliere al commissario britannico Peter Mandelson il
portafoglio del Commercio per la sua politica definita
"irresponsabile". La situazione è aggravata dalle inchieste in corso
sulla corruzione tra gli euroburocrati, che la Commissione ha cercato di
ridimensionare rischiando evidenti conseguenze se emergeranno responsabilità di
suoi dirigenti. Nel mirino è finito perfino il responsabile Ue della Giustizia,
il vicepresidente Franco Frattini. Il suo ex segretario e un suo consulente
risultano coinvolti in indagini in Italia. Inoltre Frattini è stato criticato
perché avrebbe trascurato il grave problema della corruzione in Bulgaria dopo
una vacanza sciistica con il ministro degli Interni bulgaro, Rumen Petkov,
offertagli nell'ambito di incontri con le autorità di Sofia. Il vicepresidente
responsabile per l'Industria, il tedesco Gunter Verheugen, è da mesi in
tensione per aver promosso come suo capo di gabinetto l'euroburocrate
connazionale Petra Erler, sua compagna di vacanze "mano nella mano".
Ora le polemiche possono essere rilanciate dall'esito dello scandalo analogo
che ha colpito il presidente statunitense della Banca Mondiale, Paul Wolfowitz,
invitato da vari Paesi Ue e dall'Europarlamento a dimettersi per aver raccomandato
la promozione e il trasferimento della dipendente Shaha Riza, sua fidanzata.
Ma, soprattutto, sta rivelandosi autolesionista la tendenza di Barroso a
sottovalutare i casi controversi nella sua istituzione e a non offrire la
massima trasparenza. Già all'insediamento, per esempio, l'Europarlamento lo
ammonì sui possibili conflitti d'interessi della ex donna d'affari olandese
Neelie Kroes, commissario per la Concorrenza. Adesso potrebbe vederla travolta
dall'acquisizione della Abn Amro di Amsterdam perché la Kroes è stata in
passato nel "libro paga" di una partecipata dello stesso gruppo
bancario: sia se l'olandese manterrà il silenzio con cui potrebbe aver
agevolato la fusione difensiva della banca di Amsterdam con la britannica
Barclays, sia se dovesse intervenire come arbitro su una offerta alternativa di
Rbs-Santander-Fortis.
La Stampa Obama si prepara al sorpasso Duello in pubblico in California gli applausi vanno
tutti a lui. Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE
DA NEW YORK Rassicurato dal successo nei sondaggi dopo il
dibattito tv fra gli otto candidati democratici, il senatore dell’Illinois
Barack Obama è in California con l’intento di rubare la scena a Hillary Clinton
sul fronte degli attacchi alla Casa bianca. Sebbene gli analisti non abbiano
designato un chiaro vincitore del dibattito di Orangeburg, i sondaggi hanno
assegnato a Obama il 31 per cento delle preferenze dei democratici del South
Carolina rispetto al 24 di Hillary. Un dato che conferma il recupero di Obama
su scala nazionale: secondo un’indagine Wall Street Journal sarebbe arrivato ad
appena 5 punti di distanza dall’ex First Lady rispetto ai 17 che aveva a metà
aprile.
«Il momento è favorevole a Obam» assicura il deputato James Clyburn, numero tre
dei democratici alla Camera. Tuttavia Hillary resta favorita, con un solido
margine di vantaggio in Stati decisivi come Pennsylvani, Ohio, Florida e New
York. Da qui l’importanza della gara per la California, dove sia Obama che
Hillary hanno scelto di passare il fine settimana alzando i toni contro Bush.
Hillary ha parlato di «uno dei punti di più bassi della leadership del Paese»;
Obama ha ribattuto ripetendo a più riprese il termine «disastro Iraq».
Il senatore dell’Illinois e l’ex First Lady sono intervenuti di fronte a
duemila delegati democratici riuniti in una conferenza del partito a San Diego,
tentando di presentarsi come i più determinati a risolvere la crisi irachena ma
facendo sempre attenzione a non criticarsi l’un l’altra. Hillary ha assicurato
che se diventerà presidente «la prima cosa che farò sarà di porre fine alla
guerra e di portare le truppe a casa» rifiutando però, ancora un volta, di
scusarsi per il voto che diede nel 2002 a favore dell’intervento
militare «perché all’epoca votammo su informazioni di intelligence rivelatesi
errate».
Le affermazioni di Hillary hanno offerto a Obama la possibilità di ricordare
che «sin dal 2002 fui contrario alla guerra», presentandosi alla platea come il
portatore di un «nuovo tipo di politica» tesa a «dimostrare al mondo che
l’America è ancora la migliore speranza dell’umanità» cancellando così
l’eredità di un presidente che «pur rimanendo per sei anni alla Casa Bianca ha
lasciato vacante il posto di leader del mondo libero». Alla fine
l’applausometro ha premiato il senatore dell’Illinois perché «capace di entrare
meglio in sintonia con il pubblico» come ha spiegato Sherry Bebitch Jeffe,
politologa dell’Università della California del Sud.
CorriereEconomia 30-4-2007 A proposito d'America L'Europa e Wolfowitz
di Giulio Sapelli
Paul
Wolfowitz è da circa due anni a capo di una delle più importanti e prestigiose
istituzioni del pianeta: la Banca Mondiale. Gran parte delle moderne teorie
della crescita e dello sviluppo, della lotta alla povertà e alla disuguaglianza
nascono tra le mura della Banca e il fior fiore degli economisti e degli
scienziati sociali hanno fatto parte del suo staff. Il predecessore di
Wolfowitz, James Wolfensohn, aveva già rinnovato profondamente la politica dell'istituto
e l'aveva più coraggiosamente indirizzata verso la lotta alla povertà
combattendo la corruzione. La corruzione infatti
dilaga nelle nazioni in cui la Banca agisce per favorire la crescita dal basso
dei sistemi sociali. L'arrivo di Wolfowitz, nominato e sostenuto fortemente da
Bush, è stato un fulmine a ciel sereno. Wolwofitz è un neo-con tra i più
lucidi, ossia è uno degli intellettuali che in questi ultimi anni hanno
profondamente rinnovato l'immagine che gli Usa hanno di sé nei confronti del
mondo e degli alleati storicamente al loro fianco, soprattutto dopo la caduta
del muro di Berlino, le guerre balcaniche e l'11 settembre. La loro convinzione
era ed è che l'Europa non può essere un partner affidabile dell'America
nell'immane compito di garantire l'ordine mondiale. Lo staff della Banca ha
reagito all'arrivo di Wolfowitz contestandone giorno dopo giorno stile
manageriale e approccio politico. Da un lato, infatti, il nuovo presidente
continuava la strategia di Wolfensohn incentivando la verifica dei risultati
raggiunti sul campo rispetto alla crescita e allo sviluppo. Dall'altro, si
impegnava in una lotta serrata alla corruzione in forma
diretta, ossia saltando a piè pari i vincoli posti dai classici interlocutori
istituzionali e diplomatici della Banca, sia europei, sia di gran parte dei
Paesi che definivamo un tempo in via di sviluppo, creando il timore di veder
crollare antiche rendite di posizione, soprattutto in Africa. Ed ecco che, in
questo contesto, la polemica assume un ben altro aspetto. Wolfowitz è ora
accusato, con un continuo intervento della stampa economica più qualificata
(solo il Wall Street Journal , di fatto, prende le sue difese con argomentate
inchieste), di aver favorito la promozione economica e gerarchica di una sua
antica partner. Il profeta della lotta contro la corruzione è
accusato di aver messo in discussione le rigide regole interne della Banca e di
aver agito calpestando ogni principio di responsabilità e di integrità
sprofondando nel nepotismo. La mia impressione, invece, è che la vicenda sia
ben diversa e che l'accusa sia gonfiata ad arte. Se esaminiamo le carte
scopriamo che la signora in questione - già dipendente della Banca - è stata
pregata da Wolwofitz stesso, appena nominato, di lasciare la Banca e di
trasferirsi ad un altro incarico presso la burocrazia Usa. E questo per
prevenire ogni accusa di favoritismo e pettegolezzo a riguardo. Kevin Kellmes,
sul New Yorker , la Bibbia dei liberal nord americani, ha spiegato chiaramente
come questo accordo sia stato stipulato con l' intero consiglio
d'amministrazione. Tutto alla luce del sole, dunque. E tutto disposto per
evitare di incorrere nella violazione del codice etico che regola i
comportamenti di tutto lo staff dell'istituto. Ciononostante, il martellamento
dei media continua e il nostro uomo è considerato colpevole. Anche i suoi più
diretti collaboratori, che avevano condiviso quella soluzione, lo abbandonano
via via. Solo i rappresentati canadesi, nordamericani e di alcuni stati
africani sostengono ancora l'innocenza del presidente e la sua buona fede.
Tutti i governi europei sono invece determinati a cacciare il presidente della
Banca Mondiale e a proporre una crisi istituzionale simile a quella che si aprì
nel 1993 quando Jacques Attali fu costretto a dimettersi da presidente della
Banca Europa di Ricostruzione e Sviluppo per aver speso cifre troppo elevate
per rinnovare la sede londinese della banca. Piccole cose, si dirà, viste
dall'ottica italica. Ma rimaniamo alla sostanza: la vicenda è assai grave.
Rischia di trasformare la lotta sacrosanta alla corruzione in
una guerra interna alla diplomazia economica internazionale senza esclusione di
colpi. E rischia di trasferire le polemiche, altrettanto sacrosante,
sull'orientamento prevalente nell'amministrazione nordamericana in merito alla
lotta al terrorismo e alle guerre preventive, in un gioco al massacro che può
incrinare gli equilibri esistenti non solo nella più prestigiosa istituzione
mondiale che lotta contro la povertà. Il solco tra America, Europa e taluni
stati africani e asiatici rischia di approfondirsi e di trasformarsi in una
guerriglia che non ha nulla a che vedere con l'etica e che può avere effetti
imprevedibili.
Tronchetti: ma con Pirelli continueremo ad investire
in Italia. Raffaela Polato
DAL
NOSTRO INVIATO
PORTOFINO — Il Kauris III è giù in rada. Ne è appena sceso e sì: la regata ha
scaricato stanchezza e tensioni. Però niente vento, e mare quasi piatto, e
insomma «non il massimo». La burrasca, chiaro, Marco Tronchetti Provera
l'avrebbe preferita qui a Portofino. E non avrebbe comunque mai potuto
uguagliare quella che si è appena lasciato — spera — alle spalle. Con qualche
rimpianto, alcune amarezze, l'ammissione di alcuni errori. Ma con una
convinzione, sul resto: aver retto il timone «con onestà e senza compromessi».
Avrebbe, volendo, molti "sassolini" da togliersi. Qualcuno in effetti
salta. Sceglie però di guardare quasi solo al futuro. Anche nell'analisi —
peraltro senza reticenze — dei ferocissimi mesi scivolati da settembre a sabato
sera, 28 aprile, firma dell'atto di addio dell'avventura Pirelli in
Telecom.
Più amarezza o più sollievo, dottor Tronchetti?
«Più consapevolezza. Di aver fatto quanto possibile, in questi sei anni, perché
Telecom Italia fosse una bella azienda, come tutti oggi confermano, e per
cercare di darle una prospettiva futura, come oggi si sta avverando». Senza di
lei, però. «Certo interrompere un cammino cui hai dedicato anni di passione e
con risultati da tutti riconosciuti non può che essere un dispiacere per me e
per chi con me ha lavorato. Tanto più che grazie a quei risultati si aprono
prospettive strategiche di grande interesse».
Si è detto l'esatto contrario, in questi mesi. Si è detto che la sua è stata
una gestione fallimentare. «Perché non guardano ai bilanci e alla realtà.
Abbiamo comprato un'azienda controllata attraverso scatole cinesi, indebitata
per 43 miliardi, che tecnologicamente era, per esempio, inesistente nella banda
larga. Abbiamo accorciato la catena di controllo, svalutato partecipazioni e
attività per 12 miliardi — una legge finanziaria o un punto di Pil, se vuole un
paragone — e ridotto i debiti a 29 miliardi prima dell'acquisto di Tim. La
banda larga, oggi, in Italia c'è e ce l'hanno 7 milioni di clienti. Perché
quest'azienda che secondo alcuni non investiva, in realtà tra il 2002 e il 2006
lo ha fatto mediamente per il 17% del suo fatturato. Il rapporto più alto
d'Europa».
Quell'azienda, però, lei l'ha pagata 4,2 euro per azione. Oggi... «...
Oggi la vendo a 2,82, sì, è vero. Anche se avevo avuto offerte oltre i
3». Telefonica? «Telefonica e non solo».
Ci torneremo. Ma quei 4,2 euro: non se li rimprovera, oggi? Qual è, nel suo
personale bilancio Telecom, l'errore che ammette? «Non ho valutato,
venendo da un'azienda come Pirelli con il 90% delle attività all'estero e in un
mercato aperto e competitivo, che in Italia era prematura una cosa: pensare che
anche le telecomunicazioni potessero essere valutate come un'attività normale,
in cui l'imprenditore si muove con autonomia».
Le famose «interferenze della politica»? È questo che ha
sottovalutato? «Ho sottovalutato l'ambiente, le conflittualità
regolatorie. Il che vale probabilmente per tutta l'Europa: in questo settore
non si vede di buon occhio l'imprenditore privato. Anche se noi, intendo
Telecom, evidentemente qualcosa di buono abbiamo fatto: se i commissari europei
hanno riconosciuto, in questi anni, la maggior apertura del mercato italiano,
forse anche noi vi abbiamo contribuito».
Però si è detto, dottor Tronchetti: all'«ambiente», alla politica, nemmeno
lei era estraneo. E si citano le date: governo Berlusconi, lei entra in
Telecom; governo Prodi, inizia la sua lenta uscita. «L'ho avuto, sì,
un vantaggio: sono entrato nelle telecomunicazioni avvisando il governo dopo
l'annuncio ufficiale, e ne sono uscito senza avvisare nessuno. Questo è un
altro... chiamiamolo difetto».
Si è parlato però anche, da settembre in poi, se non di una guerra di una
questione quasi personale con Romano Prodi. «Non ho mai, mai cercato
il conflitto con nessuno».
Di «interferenze» però è lei che ha parlato. «Ma non riguarda solo
me. Questo è un Paese che vede in modo anomalo l'imprenditore. O ne mette in
discussione il ruolo. Oppure lo concepisce come valido solo se subalterno.
Questo porta al rifiuto del confronto, alla confusione fra attività
imprenditoriale e poteri pubblici. Eppure la sua forza, il suo ruolo nella
crescita del Paese, la piccola e media impresa e non solo, li ha
abbondantemente dimostrati».
Quindi? «Quindi, per chi fa l'imprenditore da trent' anni questa
situazione semmai risveglia l'orgoglio imprenditoriale. È uno stimolo a far
valere la verità. La grande soddisfazione per me, oggi, è che tutti dicono:
Telecom è una grande azienda».
Era lei che non andava bene? «Che vuole che le dica... Non ero organico».
L'avrà visto, uno dei titoli di oggi: «Dividendi, debiti, spioni: finisce
l'era Tronchetti». «Volgarità di cui dovrebbero occuparsi gli
avvocati. Ne ho viste molte, in questi mesi. Volgarità, e falsità, e
superficialità».
Se le lascerà alle spalle? Ha detto: «Pirelli aveva il 90% delle proprie
attività all'estero». Tornerà a quel rapporto? Addio all'Italia, i 3,3 miliardi
che incasserà li investirà oltre confine? «Lo sviluppo degli
investimenti avverrà nei nostri settori e dove lo consentirà il mercato. Sono
certo anche in Italia. E comunque li potenzieremo, soprattutto nella
ricerca».
Quindi non dice: basta con questo Paese. «No, assolutamente. A
volte mostra il suo lato peggiore. E quando ci sono campagne, anche di stampa,
come quella che abbiamo subito e subiamo noi, anche chi lavora con te comincia
ad avere paure e dubbi. Ma la gente poi capisce. La verità poi torna. Io
continuo a fare il mio mestiere».
A chi deve chiedere scusa? «Anche alla gente comune. L'ho già fatto
dall'assemblea Pirelli. Lo ripeto adesso: ci sono fatti che hanno toccato anche
persone qualsiasi, c'è stato persino il dramma di una morte... Da presidente,
oltre che da uomo ovviamente, mi tocca profondamente che l'azienda ne sia stata
coinvolta da persone che per l'azienda lavoravano».
Proprio nessun rimprovero, su questo, da farsi? Proprio nessun sentore di
quello che stava capitando con i dossier illeciti? «Non ho mai avuto
nemmeno un debole segnale. Anzi, l'opposto: da tutti gli organismi
istituzionali, anche nei periodi di allarme terrorismo in Europa, avevo solo
riconoscimenti all'efficienza dell'azienda. Siamo stati poi noi, quando sono
emerse le prime irregolarità, a dare tutte le carte alla magistratura. Dopo di
che, se penso che nel 2004 mi ero rifiutato di far partecipare
l'azienda alla gara per fornire i servizi di intercettazione alle Procure...
Bello scherzo del destino».
«Interferenze interne ed esterne». «Campagne stampa». Si è sentito
accerchiato? «Ho visto che molti mostravano un anomalo interesse per
me».
Ora almeno la vicenda economica è chiusa. Ma ci ha messo mesi. Prima è
saltato l'accordo con Murdoch. Poi Telefonica. Poi At&t e América Móvil.
Poi si è tornati a Telefonica. Perché, intanto, ogni volta che un accordo
sembrava sul punto di chiudersi svaniva? «Forse perché, nella cultura
di questo Paese, non si concepisce che un'azienda come Telecom possa essere
gestita da un imprenditore privato in autonomia. E fuori da un sistema di
relazioni politiche».
Ora comunque Telefonica, in minoranza, c'è. Definirebbe l'accordo con
Mediobanca, Generali e Intesa un intervento «di sistema»? «Prima mi
lasci dire che Telefonica sarebbe stata in minoranza anche con noi. Ma
certamente, sì: quella individuata è una soluzione di sistema».
Che rapporto ha con le banche interessate? «Buono. Talvolta anche
di collaborazione e stima. Per esempio con i vertici di Intesa Sanpaolo e di
Capitalia».
Ma aveva definito «un insulto» la scissione proposta da Mediobanca. «Qualcuno
non si è reso conto di quanto fosse inaccettabile. Devo peraltro dare atto al
presidente di Mediobanca, Gabriele Galateri, di avere sempre avuto in questi
mesi, come me e insieme a me, un ottimo rapporto con César Alierta. Telecom e
Telefonica sono le due migliori aziende europee del settore e possono sviluppare
grandi sinergie».
Cos'è successo con Guido Rossi? L'ha voluto lei. È finita che le ha tirato
in ballo la Chicago anni '20. «Rossi era al mio fianco come consulente
durante la trattativa con Murdoch e ha vissuto da vicino quel che è accaduto in
settembre. Essendo l'azienda in un momento anomalo di attacco mediatico e
incomprensioni istituzionali, a me e a Gilberto Benetton era parso la persona
più adatta per normalizzare situazione, rapporti, un'atmosfera che alterava la
realtà aziendale. L'ha fatto egregiamente, e in poco tempo. Dopodiché, era
necessario qualcuno con un'esperienza industriale e una visione strategica:
Pasquale Pistorio ha una carriera ineccepibile».
Sabato Antoine Bernheim, dall'assemblea Generali, si è tolto un sassolino:
«Mi ha chiamato Tommaso Padoa-Schioppa». «Ho letto. A me, telefonate
non ne ha fatte nessuno...».
30
aprile 2007
Ci volevano le parole di un francese, candide e cartesiane, per far capire agli italiani
come può funzionare in concreto la difesa dell’italianità. Le dichiarazioni che
Antoine Bernheim, presidente delle Generali, ha fatto sabato all’assemblea del
gruppo sono state riportate dalle cronache. Ma meritano di essere «conservate»,
come raro esempio di squarcio su conversazioni che in genere si preferisce non
far risultare. «Quando mi ha telefonato ilministro Tommaso Padoa-Schioppa sulla
vicenda Telecom, gli ho detto che il nostro oggetto è fare assicurazioni e non
telefonia. Ma che se ci fosse stata un’azione collettiva con un intervento
generale a favore dell’italianità, noi ci saremmo stati in qualche modo. E
speravo che, se malauguratamente ce ne fosse bisogno, il governo sarebbe stato
pronto a intervenire per difendere l’italianità delle Generali».
Nella conferenza stampa successiva, Bernheim ha aggiunto: «Nessuna pressione. Il dottor
Padoa-Schioppa mi ha telefonato come ha fatto con tutte le società interessate
alla vicenda Telecom per sapere qual era la nostra posizione. Non ci sono state
pressioni per un nostro intervento. Quando ho sentito che c’era interesse che
Telecom rimanesse in mani italiane, ho detto di sperare che il governo avesse
lo stesso interesse che Generali restasse in mano italiana» (Corriere della
Sera, 29 aprile).
Pur interpretato da due personalità degne di grande rispetto, questo scambio di
informazioni e di auspici — anche se, come è stato detto, non di pressioni
—rivela la distanza che ancora ci separa da un sistema nel quale i pubblici
poteri stabiliscono con leggi le regole del mercato; la vigilanza sul rispetto
di quelle regole è esercitata dalle autorità indipendenti a ciò preposte e
dalla magistratura; ed, entro tale quadro, il governo non interviene nel
funzionamento del mercato. Il ministro telefona a tutte le società interessate
alla vicenda Telecom per sapere qual è la loro posizione. I suoi interlocutori
comprendono che c’è interesse che Telecom rimanga in mani italiane.
Viene delineata un’azione collettiva con un intervento generale a favore
dell’italianità. Il presidente delle Generali, l’unico che con candore
riferisce di queste conversazioni, ritiene — pur non avendo ricevuto nessuna
pressione — che ci sia spazio per unire alla promessa di intervento un auspicio
di ritorno. Con spirito cartesiano, lo enuncia così: che il governo sia pronto,
se necessario, a intervenire per difendere l’italianità delle Generali, come ha
fatto ora per quella di Telecom. C’è una sola smagliatura, nella logica di
Antoine Bernheim.
Egli non dovrebbe ritenere che, intervenendo su Telecom Italia, le Generali
escano dal proprio oggetto, che consiste nel fare assicurazioni e non
telefonia. No, con la buona volontà dimostrata ora al governo, e con le parole
con le quali ha accompagnato il gesto, Bernheim ha fatto un’operazione
assicurativa. Ha stipulato una polizza contro il rischio di perdita del
controllo delle Generali da parte di coloro che oggi le controllano. Sul
Corriere della Sera del 22 aprile, osservando i comportamenti della politica e
delle banche sul mercato, notavo i segni di un’involuzione, quasi di una
controriforma di struttura. I fatti più recenti non attenuano quella
percezione.
30
aprile 2007
INDICE 27-4-2007
+ Il Sole 24 Ore
27-4-2007 Zone franche al Sud, pronte le prime dieci di Nicoletta
Picchio
La Stampa 27-4-2007 E
Silvio convoca Umberto Accordo a cena per Verona UGO MAGRI
L’Unità 27-4-2007 Il
popolo sono me Marco Travaglio
Il Riformista 27-4-2007
Cari amici, su Bayrou e Pd non sono d’accordo. di Claudia Mancina
Il Tirreno 27-4-2007 Mi
piace la sinistra che assomiglia un po' alla destra Di David Fiesoli
+ Il Sole 24 Ore 27-4-2007 Zone franche al
Sud, pronte le prime dieci di Nicoletta Picchio
La
scelta delle aree dovrà avvenire entro il 15 maggio, data in cui è fissata la
prossima riunione. E non si potrà derogare se,come è intenzione del Governo, le
zone franche urbane dovranno partire entro giugno: il pacchetto dovrà infatti
ottenere il via libera di Bruxelles. Già individuate dalle Regioni interessate
una decina delle aree che beneficeranno del nuovo regime agevolativo per le
imprese: Napoli Est, Napoli Centro e Caserta per la Campania; Brindisi, Andria,
Taranto per la Puglia; Palermo, Catania e Gela per la Sicilia; Gioia Tauro per
la Calabria.
Le zone franche urbane, i nuovi incentivi che prenderanno il posto della 488 e
le infrastrutture sono stati i tre capitoli dell'incontro sul Mezzogiorno che
si è tenuto ieri a Palazzo Chigi, presenti il vice ministro per il Sud, Sergio
D'Antoni, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Enrico Letta, il
ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, le parti sociali e gli enti
locali.
È uno dei tasselli dei tavoli di concertazione tra Governo e parti sociali che
dovrebbero sfociare in un'intesa entro giugno, prima del Dpef.
Dal documento presentato da D'Antoni emerge un cambiamento rispetto al passato:
si punta sui automatismi, fiscalità di vantaggio e credito d'imposta,che
prendono il posto dei meccanismi di incentivazione a fondo perduto o con mutui
agevolati,legati ad una graduatoria, come è stata la 488. La scelta era già
emersa con la Finanziaria 2007, che ha introdotto le zone franche e che ha
riproposto il credito di imposta per gli investimenti (ci sono 2 miliardi di
euro circa per il 20072009). E questa strategia si rafforza nel documento di
ieri: credito d'imposta sui contributi legati a nuove assunzioni a tempo
indeterminato e sconti fiscali sono i pilastri sia delle zone franche sia
dell'impianto degli aiuti alle imprese. Fermo restando che la riforma degli
incentivi entrerà in vigore a gennaio 2008 e che nel 2007 la 488 avrà un nuovo
bando,per ovviare al vuoto che si creerebbe in quest'anno.
Per le zone franche la Finanziaria ha messo a disposizione 50 milioni di euro
per il 2008 e altrettanti per il 2009. Ma è previsto un cofinanziamento di
almeno un 50% da parte delle Regioni, che dovranno individuare le aree, insieme
agli enti locali. «Se non si rispettano i tempi, deciderà il tavolo di
concertazione», ha detto D'Antoni,che forse potrebbe concedere qualche giorno
in più per superare le amministrative. La scelta avverrà in base ad una serie
di indicatori (densità abitativa, disoccupazione, dimensione media d'impresa
ecc). Andranno privilegiate le zone con disagio sociale e potenzialità di
sviluppo: l'aspetto sociale va sottolineato per avere più facilmente il via
libera Ue.
Nelle ZFU le imprese avranno sotto il profilo contributivo, credito d'imposta
in cifra fissa sulla nuova occupazione; per il fisco, esonero per 5 anni dalle
imposte sul reddito d'impresa e dell'imposta sui fabbricati, agevolazioni allo
start up,menttre i Comuni potrebbero partecipare con l'abbattimento delle
aliquote Ici.
Se su questo punto c'è stato consenso, il sindacato è più scettico sulle
infrastrutture. Nel documento si parla di identificare poche grandi opere,
dando la priorità al Corridoio 1 e 8, ai porti e interporti. A seguire, arte e
recupero ambientale. Ma questa selezione non c'è ancora stata: «Di Pietro ha
presentato il suo piano, un programma troppo frammentato: bisogna indicare una
decina di opere, il corridoio tirrenico, quello adriatico e la logistica legata
ai porti», ha detto Giorgio Santini, della Cisl, una critica condivisa da Uil e
Cgil. Un problema di risorse, per Di Pietro, che ha indicato in 180 miliardi di
euro i soldi che servirebbero per le infrastrutture del Sud.Per definire le
priorità, comunque, è in funzione la Cabina di regia, a Palazzo Chigi. Ma i
sindacati sono preoccupati anche di un'altro aspetto: che le decisioni prese al
tavolo di concertazione siano vincolanti per tutto il Governo. La Babele di
voci in quest'ultimo periodo qualche sospetto l'ha fatto venire.
ROMA
- "Prodi ci ha garantito che sulla riforma elettorale si partirà subito.
Il premier ha condiviso che l'obiettivo deve essere quello di arrivare ad un
voto del Senato entro il 27 luglio, giorno in cui si chiude la raccolta delle
firme sul referendum. In questo modo la legge potrà andare alla Camera in
autunno ed essere votata entro al fine dell'anno". Lo afferma alla Padania
il vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli, che ha partecipato ieri con il
presidente del Consiglio Romano Prodi a Milano.
Ma, mentre si profila un dialogo, l'ex presidente della Camera Pierferdinando
Casini mette i suoi paletti. "O si arriva alla legge elettorale alla
tedesca o è meglio il referendum", dice Casini. "Piuttosto che finte
leggi 'papocchio', come quelle che il ministro Chiti ci sta profilando ogni
giorno - ha aggiunto il leader centrista - piccole leggi con piccoli trucchi e
inganni per evitare il referendum, meglio la strada maestra del
referendum". Il leader dell'udc spiega poi che il suo partito non contribuirà
al varo di nessuna legge che non sia quella proporzionale tedesca e che al
referendum si batterà per l'astensione: "ci sarà chi farà appello agli
elettori per andare a votare e chi, come me spiegherà che l'astensionismo è la
scelta migliore. Diamo la parola ai cittadini e andiamo nelle piazze a
spiegare".
(27 aprile 2007)
ROMA UN
INCONTRO da non sottovalutare, quello avvenuto ieri mattina a Milano tra Romano
Prodi e Umberto Bossi. E non solo in vista di una nuova legge elettorale.
Il capo del governo e il leader della Lega non si vedevano dai tempi della
malattia del "senatur". E, a detta di entrambi, l'appuntamento, in
agenda da un bel po', è andato molto bene. "Il referendum non
ci sarà. Abbiamo deciso di fare la legge elettorale. Mi
pare ci sia voglia di partire. Il modello è quello che ha presentato
Calderoli", annuncia il leader del Carroccio dopo un'ora e mezzo di
colloquio cui hanno partecipato anche Roberto Maroni e Roberto Calderoli. Ma
non è l'unico motivo che rende soddisfatti i leghisti e fa sorridere il capo
del governo. Per Prodi sarebbe comunque un passo avanti: Bossi è il primo
leader dell'opposizione che incontra nel suo tour esplorativo (finora aveva
visto i capigruppo), e dal quale recepisce la volontà di fare davvero una legge nuova
e non un adattamento di quella attuale, come sembra preferire Forza Italia. Ma
in più c'è che la Lega è disponibile ad aggiungere alla modifica del sistema di
voto anche un paio di riforme costituzionali, per le quali Berlusconi si è
finora dichiarato indisponibile perché richiedono tempi più lenti e di
conseguenza allungano la vita del governo. PRODI mette sul piatto della legge elettorale anche
il federalismo fiscale e il Senato delle regioni, e questo per la Lega è un
piatto d'argento. Il capo del governo conferma:"Abbiamo approfondito il
legame che la Lega fa tra legge elettorale e
rafforzamento delle autonomie locali. Linea che mi trova d'accordo da molto
tempo e su cui proseguiremo". Sono già previsti ulteriori contatti, per
arrivare, come dice Maroni, "se non a un testo, almeno a dei principi
comuni". Prodi verifica che il fronte dell'opposizione è tutt'altro che
compatto, con An che punta al referendum, Berlusconi a una veloce
ripulitura della legge attuale e l'Udc a una riforma che
lasci spazio a un terzo polo. Bossi a sua volta vede che le bozze di Chiti (per
la maggioranza) e quelle del suo Calderoli non sono poi così distanti, salvano
le rappresentanze regionali, come la sua o quella dell'Udeur e potrebbero inserirsi
in una cornice di federalismo più marcato. La Lega che certo non gode di ottima
salute, a questo punto se ne rivendicherebbe il merito, uscendo dal cono
d'ombra di Berlusconi. a proposito del quale Bossi assicura che "non si
arrabbierà". Però dice di non averlo informato preventivamente
dell'incontro con Bossi. E, SOPRATTUTTO, volendo assicurare che l'alleanza non
muta e i rapporti con il governo non cambiano, aggiunge: "Per adesso si
parla solo di legge elettorale". Il portavoce di
Berlusconi, Bonaiuti, mostra di non dar peso alla faccenda: "Nulla di
trascendentale, rientra negli incontri sulla legge elettorale".
Ma in questo momento tra Lega e Fi non corre buon sangue per la scelta dei
candidati alle amministrative, ed è evidente invece che l'Unione si attenda
quantomeno un atteggiamento più benevolo al Senato. Maroni mette le mani
avanti: "Prodi non ci ha chiesto nessuna contropartita", ma Speroni
chiosa: "Pur di arrivare allo scopo, cioè al federalismo, siamo pronti a
un'alleanza anche con il diavolo".
La Stampa 27-4-2007 E Silvio convoca Umberto Accordo a
cena per Verona UGO MAGRI
Alle
Comunali Tosi (Lega) sindaco e Meocci (Udc) vice. Nella Cdl ognuno per sé, e
Bonaiuti stoppa Fini: «Fare la legge elettorale è compito del Parlamento»
ROMA
Solo chi non conosce Bondi, e il suo sconfinato candore, può credere che il
coordinatore azzurro abbia voluto depistare i cronisti quando ha dichiarato
ieri: «Nell’incontro tra Prodi e Bossi noi di Forza Italia non vediamo nulla di
sospetto». Proprio così: nulla di sospetto. Una cosa normalissima che la Lega
tratti con il capo del governo. Anzi, positiva se favorisce un’intesa sulla
legge elettorale... Peccato che, mentre Bondi rilasciava i suoi commenti alla
vasellina, il Cavaliere stesse componendo nervosamente il numero telefonico di
Bossi per sapere cosa diavolo gli aveva proposto il Professore, e cosa avevano
risposto loro della Lega, e «Umberto, visto che da settimane non riusciamo a
vederci, parliamone direttamente noi due stasera, se vuoi vengo a trovarti dalle
tue parti così mi spieghi meglio». Fosse davvero tutto così chiaro e limpido,
come sostiene Bondi, che bisogno aveva Berlusconi di organizzare un chiarimento
segreto e notturno col leader della Lega?
Durante la cena i due si sono messi d’accordo su Verona: Tosi (LegA) farà il
sindaco, Meocci (Udc) il vice. Su Prodi, la risposta del Senatùr è facile da
immaginare: «Tranquillo, Silvio, restiamo tuoi alleati. Non sono io che ho
cercato Prodi, semmai il contrario. Maroni ha fatto da tramite, a quel punto
come potevamo dire al presidente del Consiglio: “No, con te non vogliamo
parlare?”». Nei confronti del premier, l’atteggiamento di Bossi è stato molto
pragmatico, negoziale, del tipo «vedere cammello, dare moneta». Prima di
garantire sostegni (il denaro) sulla riforma elettorale e sul resto, la Lega
vuole guardare in bocca al quadrupede, contare i denti, cercare le carie...
Sarà una cosa rapida, assicura l’altro protagonista degli incontri di ieri,
Roberto Calderoli: «Il 2 maggio prossimo la Commissione affari costituzionali
del Senato dovrà fissare il suo calendario. E da lì capiremo quanto Prodi è
credibile». Se l’esame delle proposte di riforma elettorale inizierà da subito,
Romano sarà giudicato una persona seria; «se invece in Commissione si menerà il
can per l’aia», avverte Calderoli, «vorrà dire che di lui non possiamo
fidarci».
Questo è quanto dal Carroccio hanno ripetuto ieri al Cavaliere. Scaricando su
Maroni, e sul suo frenetico attivismo, la responsabilità dell’incontro: il
solito Bobo che guarda a sinistra, che cerca visibilità mediatica, che si fa
guidare perfino troppo da Isabella, la sua graziosa consulente per l’immagine
che molti gli invidiano e con la quale hanno provato a trascinarlo nella nuova
Vallettopoli (addirittura gli rimproverano di infilarla negli incontri
ufficiali con Berlusconi, con Prodi...). Un modo forse per banalizzare il
problema, personalizzarlo e in definitiva circoscriverlo nell’ambito del
macchiettismo. Di vero c’è che «l’attivismo di Maroni, la sua voglia di
distinguersi e di cantare fuori del coro, cominciano a creare più d’un
problema». A dirlo sono i più stretti collaboratori del Cavaliere (Cicchitto,
giorni fa, ha frontalmente attaccato l’ex ministro del Lavoro). E pronunciare
davanti a Re Silvio il nome di Maroni ha lo stesso effetto che esercitano su di
lui le immagini pagliaccesche del Berlusconi-sosia trasmesse da Sky e Striscia
la notizia: quello di rovinargli l’umore. Chiedere, per conferma, ai commensali
della cena in casa Santanché, l’altra sera a Milano.
Ma c’è parecchio altro. La Lega si smarca anche perché (puntano l’indice in Via
Bellerio) il primo a «inciuciare» è stato proprio Berlusconi. Calderoli: «Se
lui comincia a trattare da solo, poi non deve stupirsi se ci muoviamo anche
noi, che a sinistra abbiamo qualche credenziale in più». Da quando Berlusconi è
andato al congresso Ds, e ha cominciato a scambiarsi segnali di fumo con
D’Alema, nel centro-destra è scattato il «rompete le righe». Ora ciascuno va
per i fatti suoi, incurante degli alleati. Casini traffica coi cugini
centristi. An dialoga fitto coi referendari alla Parisi. Ma Bonaiuti obietta
««La legge elettorale la deve fare il Parlamento, perchè se la lasciamo in mano
a questo Governo cercherà soltanto, attraverso la riforma della legge
elettorale, di prolungare la sua incerta esistenza». La Lega scavalca tutti e
tratta direttamente con Prodi. La spiegazione più benevola è quella che offriva
agli amici in privato Giulio Tremonti: «Con la confusione che regna nella
maggioranza, come si può pretendere che di qua ci muoviamo come una falange
compatta?». E Bonaiuti stoppa Fini.
L’Unità 27-4-2007 Il popolo sono me Marco Travaglio
Difficile
farsi un'opinione sul referendum elettorale. A giudicare dall'ostilità di
Mastella e Calderoli, parrebbe una cosa ottima. Poi si scopre che potrebbe
piacere a Bellachioma, e allora sopraggiungono seri dubbi. L'unico dato certo è
che un referendum non può mai essere "antidemocratico" (come sostiene
Tweed Berty), per la contraddizion che nol consente. Il referendum è la più
alta forma di "democrazia diretta", visto che chiama tutti i
cittadini a decidere su una questione sollevata da almeno 500 mila persone.
Senza contare che la Repubblica Italiana è nata da un referendum.
Antidemocratica, semmai, è la legge elettorale attuale, il Porcellum, che il
suo autorevole autore Roberto Calderoli definì "una porcata". Una
legge che ha consentito a 6 o 7 segretari di partito riuniti nelle segrete
stanze di nominare preventivamente 945 parlamentari, alle spalle dei cittadini
elettori, col trucco delle liste bloccate. Se il quesito referendario raccoglierà
mezzo milione di firme, se la Corte costituzionale e la Cassazione lo
riterranno legittimo, se il 50% degli italiani più uno andranno alle urne e
voteranno in maggioranza Sì, il Porcellum sarà sostituito da qualcosa che, con
tutti i limiti di questo mondo, sarà espressione della volontà degli italiani,
non di 6 o 7 segretari. Curiosamente, a sostenere l'antidemocraticità del
referendum è anche la Lega Nord, cioè il partito che da quindici anni ci rompe
le palle con "il popolo", la "sovranità popolare", "la
volontà popolare", di solito identificata con quella - piuttosto
ristretta, ultimamente - dei leghisti. Il cosiddetto ministro Castelli pretese
addirittura di sostituire nei tribunali la scritta "La legge è uguale per
tutti" con "La giustizia è amministrata in nome del popolo"
(sottinteso: se uno è eletto dal popolo,allora non va più processato perché il
popolo l'ha già assolto). Il popolo della scritta è per caso lo stesso che si
vuole consultare col referendum? Se sì, allora non si vede cosa ci sia da
temere. Né perché mai, come chiedono i lumbard insieme a quasi tutti i altri
partitini, si dovrebbe scongiurare a ogni costo il referendum. Può anche darsi
che il quesito faccia schifo, ma se la maggioranza dei cittadini dovesse votare
Sì, vorrebbe dire che il concetto di schifo è lievemente diverso per gli
elettori e per gli eletti. Del resto la legge-bavaglio di Mastella che abolisce
la cronaca giudiziaria è stata votata da 477 deputati su 484 (gli altri si sono
astenuti, nessuno ha votato contro), ed è altamente improbabile che il famoso
popolo la condivida, visto che è stata studiata proprio contro il popolo, per
non fargli più conoscere gli scandali del Potere. Sempre a proposito di
democrazia, sarebbe interessante sapere perché mai chi non condivide la politica
di Bertinotti, o di Diliberto, o della Moratti, o di Berlusconi, o di Fassino,
o di chi volete voi, non possa liberamente fischiarli e contestarli in piazza
(sempreché rimanga nei limiti del codice penale). Se il tenore stecca, il
loggione fischia: è la democrazia, bellezza. Se invece si fischia un politico,
saltano su eserciti di tromboni col ditino alzato. Forse che la libertà è stata
conquistata per garantire il diritto di applauso? Gli applausi al Potere sono
consentiti anche nelle dittature. Le democrazie si riconoscono dal diritto al
dissenso, e dunque ai fischi. Ancora a proposito di democrazia: è così normale
che Sky abbia pensato di bloccare la prima tv del "Caimano" di Nanni
Moretti per la par condicio? La par condicio riguarda la parità di accesso dei
politici nei programmi giornalistici durante le campagne elettorali. Che
c'entrano i film? Già l'anno scorso, quando il Caimano uscì nelle sale, ci fu
qualche volpone che propose di rinviarlo a dopo il voto per "non
demonizzare Berlusconi" e non fargli un favore. Ora Sky ha voleva rinviare
il film a dopo le elezioni amministrative (salvo ripensarci) per non
danneggiare Berlusconi. Sarebbe il caso di stabilire una volta per tutte se
descrivere Berlusconi per quello che è significa fargli un favore o un
dispetto. Altrimenti, se restano in piedi entrambe le tesi, peraltro
incompatibili, tutti continueranno a evitare di descrivere Berlusconi per
quello che è. E abbiamo come il sospetto che la cosa non gli dispiaccia affatto
Uliwood party.
Il Riformista 27-4-2007 Cari amici, su Bayrou e Pd non
sono d’accordo. di Claudia Mancina
Da tempo le presidenziali francesi non erano così interessanti. Lo sono oggi
non solo perché in campo c’è una donna, ma anche perché ambedue i candidati - e
con loro il terzo che il primo turno ha escluso ma non messo fuori gioco - sono
diversi dal passato, costituiscono con la loro stessa personalità una rottura
rispetto alle due tradizioni di provenienza. Ségolène, oltre a essere la prima
donna a candidarsi all’altissima carica (una delle più “monarchiche” e maschili
al mondo), è anche una candidata che ha sfidato l’apparato del partito e ha
sbaragliato i notabili grazie alle nuove adesioni, anche telematiche:
un’investitura assolutamente irrituale per il rigido e tradizionalista partito
socialista francese. Anche Sarkozy ha dovuto lottare per avere la candidatura,
contro Chirac se non contro il partito, e l’ha ottenuta per la sua popolarità
di uomo forte e deciso. E ha una personalità egualmente fuori dagli schemi:
come la sua rivale è esposta agli attacchi misogini, anche lui è esposto agli
attacchi xenofobi e antisemiti. Quanto a Bayrou, la sua novità è il segno più
evidente di queste elezioni, nonostante sia arrivato terzo. Può anche darsi che
sia un fenomeno transitorio, come auspica Tremonti in una interessante
intervista a Repubblica: si vedrà alle prossime politiche se riuscirà a
sopravvivere a un sistema elettorale ben poco compiacente verso le posizioni
terziste. Di sicuro intanto la sua presenza incombe a Parigi e anche da noi, a
quanto pare. È inevitabile che si rivolga dall’Italia grande attenzione alle
elezioni francesi; peccato però che si indulga sempre a una strumentalizzazione
polemica in chiave interna. Molti commentatori hanno rilevato con soddisfazione
la tendenziale divisione delle forze fondatrici del partito democratico. Questa
divisione però è meno significativa di quanto si dice. Prodi porterà, sia pure
in video, il suo sostegno alla candidata socialista; cosa che non avrebbe certo
fatto, se non ci fosse in campo il partito democratico. E, scontata l’amicizia
e l’attaccamento di Rutelli e dei suoi a Bayrou, il sostegno alla Royal da
parte del nuovo partito - se già ci fosse - non sarebbe certo in discussione.
Del resto lo stesso Bayrou, pur non avendo dato indicazione di voto ai suoi, ha
formulato giudizi molto diversi sui due candidati, e certamente più simpatetici
verso la Royal che verso Sarkozy. Resta da vedere come si muoveranno gli
elettori.
Ma il punto centrale è un altro. La novità portata dal partito democratico
nella politica francese, si dice, sarebbe simile a quella del suo omonimo
italiano. Ovvero, Bayrou come modello, o viceversa come spauracchio, di uno
spostamento al centro e di una perdita di identità della sinistra. È una
lettura che è stata avanzata anche sulle pagine di questo giornale. Io penso
invece, con Tremonti, che Bayrou riguarda la destra, non la sinistra. È da lì
che si è spostato al centro, ed è lì che competeranno i suoi candidati alle
politiche. Se poi c’è stato un flusso di voti su di lui anche da sinistra,
questo dipende dalla logica del sistema elettorale, che nel primo turno spinge
i candidati a polarizzare, mentre nel secondo li spinge ad aprire al centro.
Certo, prima il centro non aveva una sua voce e adesso forse l’ha trovata. Su
questo il partito socialista dovrà riflettere, anche se il fenomeno Bayrou non
dovesse durare, in vista di quella revisione culturale che inevitabilmente il
ciclone Ségolène porterà con sé. Il partito socialista francese, il più
statalista e leftist d’Europa, potrà sfuggire all’evoluzione che ha portato le
sinistre dei grandi paesi europei, dal Regno Unito alla Spagna, dalla Germania
all’Italia, ad essere e definirsi “centrosinistra”?
La vera lezione delle presidenziali francesi è dunque questa: che la sinistra
deve ridefinirsi, darsi un pensiero e una strategia per il mondo in cui
viviamo, per i suoi problemi che sono nuovi e diversi da quelli del novecento.
La formazione del Pd, nonostante i suoi evidenti limiti di esecuzione, è la
scelta giusta perché risponde a questo; mentre l’alternativa se restare
socialisti o andare “oltre” il socialismo è solo una disputa nominalistica.
Bayrou non c’entra nulla.
MOGADISCIO
Carri armati e bombe sulla parte nord di Mogadiscio. E' il nono giorno
consecutivo di combattimenti fra le truppe etiopi, sostenute da gruppi armati vicini
al governo di transizione somalo, e i ribelli integralisti delle Corti
islamiche, coadiuvati dai miliziani di altri clan. L'area settentrionale della
martoriata capitale sarebbe in mano ai militari.
I fatti
Dalle prime ore della mattinata, violenti scontri a fuoco scuotono la città.
Gli etiopi hanno sguinzagliato una lunga colonna di blindati in direzione di
alcuni quartieri nei pressi del vecchio stadio di calcio. “Oggi gli etiopi
hanno conquistato un punto strategico, riuscendo ad avere la meglio sulle
milizie e a prendere il controllo del mercato del bestiame”, ha riferito una
fonte locale all'agenzia di stampa Misna. L'intento è spazzare via i ribelli,
senza usare mezze misure. Bombardamenti senza sosta stanno distruggendo l'area
di Towfiq, tanto che gli integralisti stanno lentamente cedendo e abbandonando
alcune delle loro roccaforti del nord. Lo riferiscono diverse fonti locali. Per
saperne di più occorre attendere l'annuncio del primo ministro del governo
somalo, Ali Mohamed Gedi, che svelerà i progressi fatti contro le Corti.
Intanto, ancora la Misna riporta la voce insistente secondo la quale almeno un
aereo da ieri stia sorvolando la capitale, in quelli che appaiono voli di
ricognizione.
Dal canto loro
''Siamo sotto un pesante fuoco di artiglieria e di carri armati. Gli etiopi
stanno usando tutto quanto hanno a disposizione in forze e mezzi'', ha,
infatti, riferito un combattente appartenente agli Hawiye, clan che domina
Mogadiscio. ''Questo è l'attacco più pesante mai visto da quando è iniziata la
guerra'', ha aggiunto la fonte. Per rispondere alla pioggia di fuoco, i ribelli
stanno usando armi automatiche, missili e granate Rpg. Abitanti, autorità e
attivisti di organizzazioni umanitarie hanno detto che quasi 300 civili sono
stati uccisi in una settimana di combattimenti che si sono concentrati attorno
alla roccaforte degli integralisti islamici a Mogadiscio Nord.
Il canto delle vittime
Intanto, le Nazioni Unite lanciano l'allarme di un'imminente catastrofe
umanitaria. Da quando sono ripresi i combattimenti, almeno 340mila persone sono
fuggite dalla capitale, che una volta contava oltre un milione di abitanti. Per
quanto riguarda i morti degli ultimi mesi, invece, non ci sono cifre precise,
ma stando a quanto riferisce una fonte della Croce Rossa internazionale,
“diventano credibili le stime su alcune centinaia di vittime” per l'ultima
settimana, mentre si parla di almeno un migliaio da marzo. Il problema più
grave per chi si occupa di soccorrere e curare i feriti diventa recuperarli,
dato che le truppe etiopi hanno ordinato la chiusura dei quartieri
settentrionali, impedendo anche il trasferimento in centri di primo soccorso e
ospedali fuori dall'area. L'unica struttura del nord, originariamente un
ospedale pediatrico adesso trasformato in ospedale da guerra, è stato evacuato,
dato che i bombardamenti non guardano certo in faccia nessuno, com'è stato
dimostrato ieri quando alcuni missili sparati dai carri armati etiopi sono
piombati su uno dei reparti che ospitava venti feriti. Sconosciuto il
bilancio.
Avanti Tutta
Eppure, nonostante tutto, raccomandazioni Onu comprese, il governo di
transizione non ci sente e ripete che non ci sarà tregua nella battaglia finché
le Corti islamiche non saranno annientate. Il ministro degli Esteri somalo, Ismail
Mohamoud Hurre, ha precisato che morte e violenza sono il prezzo da pagare per
tornare alla normalità in un paese che non ha un governo nazionale funzionante
da 16 anni. “Le truppe etiopi, fermando gli elementi della Jihad, causa prima
dell'instabilità, stanno facendo grandi cose”, ha aggiunto.
QUOTA
Tra gli azionisti di Telecom potrebbe rimanere anche Marco
Tronchetti Provera. Non con Olimpia, piuttosto con Pirelli che del gruppo telefonico
possiede direttamente l'1,36% del capitale. "Rimanere? Sì, forse - ha
dichiarato il manager nel corso del- l'assemblea Camfin, la finanziaria con la
quale controlla Pirelli - con le azioni che abbiamo fuori da Olimpia". Ma
per il resto, e cioè il 18% detenuto attraverso la holding, "non c'è
rimasto che vendere. E quello che possiamo e vogliamo fare è cercare di vendere
al meglio". La partecipazione di Pirelli per ora non presuppone nessun
impegno per far parte della cordata italiana che Mediobanca e Intesa Sanpaolo
stanno cercando di mettere insieme. "L'ipotesi non ci è ancora stata messa
sul tavolo - ha chiarito Tronchetti -. Ora stiamo uscendo poi vediamo". E
poi ha aggiunto: "molti ostacoli sono nati perché eravamo dentro e non
vorremmo che si riproducessero". E ancora: "Il percorso era giusto,
la strategia era quella esatta ma ora dobbiamo prendere atto della situazione e
degli ostacoli che ci sono, che non ci permettono di fare quello che vorremmo
fare. Per questo siamo costretti ad uscire e cerchiamo di farlo nel modo
migliore possibile, valorizzando al massimo la partecipazione". "Con
Telefonica l'accordo era fatto - ha puntualizzato Tronchetti - poi sono
intervenuti ostacoli interni ed esterni: in futuro si saprà tutto. Bisogna prendere
atto della realtà, non sempre è possibile fare quello che si vorrebbe: ora
interesse degli azionisti Pirelli, e di conseguenza anche Camfin è cercare di
vendere alle migliori condizioni possibili. Tutto - ha concluso Tronchetti -
diventerà trasparente in futuro". La non nuova ricostruzione di Tronchetti
Provera, che addossa la responsabilità del fallimento nella sua gestione Telecom alla
politica e all'Authority, non collima però con quella fatta dall'ex presidente
Guido Rossi che, indirettamente, ha parlato di crisi nella società telefonica.
"Le aziende che mi hanno chiamato - ha detto Rossi, diventato consulenze
del comune di Sesto San Giovanni - erano già in crisi prima che
arrivassi". Quelle stesse aziende, ha aggiunto, che quando le crisi stavano
per essere risolte lo hanno "cacciato via". E tornerà in Telecom?
"Dipende da chi me lo chiede e da come me lo chiede". E comunque il
futuro di Telecom resta ancora appeso. Fra tre giorni scade il
termine per l'esclusiva data ai messicani di America Movil. Che, secondo
Tronchetti, non hanno ancora formulato offerte vincolanti. Né loro "né le
banche". Comunque Pirelli, ha detto Tronchetti, "non valuterà offerte
inferiori a 2,82 euro", che è la cifra proposta da America Movil e che è
molto superiore al valore di Borsa (2,25). Ieri la società messicana ha
ribadito il proprio interesse alla partita, anche se l'obiettivo è quello di
una partnership con il gruppo telefonico che "ha una forte presenza in
Europa" e non quello del controllo. Ma la fine del mese potrebbe anche portare
a una definizione della cordata italiana alla quale Mediobanca e Intesa
Sanpaolo stanno lavorando e che vede tra i protagonisti Mediaset e Roberto
Colaninno. E forse anche la famiglia Benetton. "Siamo disponibili
eventualmente a ridurre la nostra quota notevolmente e a partecipare a un nuovo
progetto" ha detto il presidente di Edizione Holding, Gilberto Benetton.
Intanto ieri il presidente di Telecom Pasquale Pistorio ha
incontrato il numero uno dell'Authority Corrado Calabrò per la questione rete. Un
faccia a faccia che potrebbe preludere a un accordo a breve.
Il Tirreno 27-4-2007 Mi piace la sinistra che assomiglia un po'
alla destra Di David Fiesoli
Con
il suo pamphlet "Per una sinistra reazionaria" Bruno Arpaia lancia la
provocazione e dice no al lassismo, all'individualismo, al mito del progresso
Confessa al Tirreno che ammira Zapatero, preferisce Mussi a Fassino, e al Partito
Democratico dice no. Ma la sinistra italiana così com'è, allo scrittore Bruno
Arpaia, non va proprio giù. Dopo il congresso dei Ds a Firenze, il tormentone
di Nanni Moretti che chiedeva di dire qualcosa di sinistra diventa più attuale
che mai. Cos'è la sinistra oggi, e cosa dovrebbe essere? Arpaia ci ha provato,
a rispondere, in un pamphlet edito da Guanda e provocatorio fin dal titolo:
"Per una sinistra reazionaria". Più sobria, meno attaccata al
benessere, meno indulgente, meno permissiva, meno buonista. Un libro
coraggioso, che piace poco sia alla sinistra liberale che a quella radicale.
Reazionaria non è un termine un po' forte? "Sembra un ossimoro, e in parte
è una provocazione. Cercando qualche risposta ai problemi della sinistra, mi
sono reso conto che proprio la sinistra ha regalato alla destra reazionaria,
non a quella conservatrice e cialtrona che abbiamo in Italia, ambiti di
pensiero legati alla condizione dell'uomo: spesso la critica più radicale a
certe degenerazioni della società liberale vengono dalla destra reazionaria.
Quindi, per reazionaria intendo attiva, che reagisce, e non conservatrice.
Vorrei una sinistra che non si adagiasse sul mercato, sul populismo, ma
reagisse alla banalità che la sovrasta. Certi punti di vista anche se vengono
da destra possono essere validi: Veneziani a volte mi fa venire l'orticaria, ma
se leggo i suoi libri vedo idee intelligenti, degne di essere prese in
coinsiderazione". Lei parla di una sinistra che ha introiettato la
mitologia del progresso e si è piegata alla dittatura del mercato, e invece
dovrebbe accettare la decrescita del benessere. Non le pare che sarebbe già
molto, e magari sufficiente, farsi carico di una redistribuzione più
equilibrata della ricchezza, che se non sbaglio è una cosa molto di sinistra?
"Si, ma c'è il problema che ormai dobbiamo ragionare in termini
globali:,così dovrebbe essere realizzata la redistribuzione della ricchezza.
Pensi che se i cinesi che si stanno arricchendo decidessero di vivere sugli
stardard nostri di consumo energetico, il mondo si accartoccerebbe su se
stesso. Bisogna quindi tracciare una strada nuova e capire che questo mito
dello sviluppo che accomuna tutti, sinistra e destra, è un portato culturale e
storico di una società consumista e schiava di una fraintesa idea di progresso.
Bisogna uscire dall'ideologia dello sviluppo a tutti i costi, e
riflettere invece se sia necessaria una decrescita del benessere". Alcuni
dicono che una sinistra che propugnasse quel che dice lei sarebbe votata alla
sconfitta... "In questo momento mi trovo a Milano, una delle città più
inquinate d'Italia. Sono convinto che per far fronte all'inquinamento ci
vorrebbero politiche radicali, altro che domeniche senz'auto. Siamo sicuri che
i milanesi sarebbero così contrari a una politica che li
aiutasse davvero a non avere una delle percentuali più alte di bambini malati
d'asma? I politici non hanno il coraggio di avere orizzonti ampi perchè pensano
alle amministrative vicine, ma la gente pensa al futuro dei figli". Lei
sottolinea anche che la sinistra dovrebbe recuperare il concetto di comunità,
riappropriarsi del pronome "noi" invece di insistere
sull'individualismo sfrenato. Non le pare che la questione stia in piedi se si
riferisce alla partecipazione e alla rinuncia di privilegi individuali per il
bene collettivo, ma zoppichi quando si parla di diritti civili? "No: i
diritti civili devono essere garantiti, ma non possiamo pensare come i teorici
dell'individualismo che oltre all'individuo non esista nulla. L'uomo è un
animale sociale e impara la sua identità attraverso gli altri. Pensare che non
ci debba essere nessuna idea e nessun bene superiore al diritto individuale è
un'aberrazione, perchè a questo punto chiunque si sente legittimato ad avanzare
qualunque desiderio individuale come diritto inalienabile. Invece si tratta di
armonizzare diritti collettivi". L'hanno criticata molto sui diritti dei
gay: lei arriva a dire che è bene non esagerare, perchè non sarà un caso se la
natura ha stabilito che per procreare ci vogliono un uomo e una donna. Allora
le chiedo: il matrimonio le sembra un diritto naturale o un'acquisizione
culturale? E la famiglia com'è strutturata nell'essere umano le pare
un'istituzione o un istinto? "Lo so, la famiglia è varia, non è naturale
ed è un'istituzione culturale. Non sono mica Ratzinger. Non sono favorevole al
diritto naturale, però a me pare che abbiamo completamente dimenticato che la
natura a volte ci pone dei limiti, come nel caso della riproduzione: almeno
fino ad adesso ci sono sempre voluti un uomo e una donna. Si pensi al diritto
di una coppia gay ma anche a quello del bambino che forse ha bisogno di una
figura materna e paterna. Poi non so, non sono sicuro, pongo semplicemente un
problema". Anche sulla fecondazione assistita ha sollevato critiche paventando
il pericolo di "consegnare le donne all'eugenetica al mercato". Ma
l'alternativa dev'essere quella di consegnarle a un calvario di burocrazia e
dolore, se vogliono provare ad avere un figlio? "Certo che no. Il mio
attacco è a quelli che sono convinti che l'embrione sia solo un grumo di
cellule, senza mai essere sfiorati dal dubbio, dal pensiero che nessuno ancora
sappia bene come funziona. E' tuttavia evidente che bisogna intervenire e
regolare bene la questione per evitare che chi abbia i soldi vada in Belgio o
in Spagna e chi non li ha si arrangi. Ma io voglio continuare a porre dubbi:
possibile che questa gente di sinistra sia senmpre senza se e senza ma? C'è un
limite? Se la signora di settantacinque anni vuole un figlio, glielo vogliamo
dare?". Un altro pilastro del suo discorso sulla sinistra reazionaria è la
rivalutazione dell'autorità. Non le pare che debba passare attraverso un
concetto che nel suo libro trova poco spazio, quello del merito? In altre
parole: più autorità significa lottare come si deve contro corruzione,
clientelismo, evasione fiscale, precariato, invece di piegarsi agli interessi
dei poteri forti? "Sì, significa anche questo. Il concetto di
"auctoritas" latino vuol dire assunzione di resposabilità: se io
governante non cerco di rispondere ai miei doveri, nessun altro lo farà. Se
ciascuno fosse abituato a rispondere a dei doveri oltre che ad avere dei
diritti, non ci troveremmo in questa situazione". Dica la verità: lei
crede che una sinistra come quella da lei auspicata abbia davvero posto in un
Paese che storicamente non ha granchè a cuore il bene collettivo, il senso
civico, la rinuncia ai privilegi? Non siamo mica in Svezia... "Non aspiro
a posizioni di maggioranza. Ci tocca in questo paese fare le minoranze
eticamente forti. E dire: ragazzi, ricordatevi che il bene collettivo è il bene
di tutti. Non oso sperare di più".
Ieri
il gruppo italiano a Piazza Affari ha ceduto l'1,6% a 6,83 euro, con quasi
477mila titoli passati di mano a fronte di una media giornaliera, calcolata sulla
base dell'ultimo mese, di 213mila azioni circa. Sullo sfondo, le voci sul
possibile imminente scoppio della bolla immobiliare nella
penisola iberica, che da un paio di sedute sta facendo tremare gli specialisti
del mattone anche in Italia, considerato uno dei mercati più affini a quello
spagnolo. Nel frattempo, l'assemblea degli azionisti del gruppo Aedes martedì
scorso ha approvato il bilancio d'esercizio 2006, che si è chiuso con ricavi
lordi in crescita del 36% a 298 milioni e un utile netto di 27,2 milioni, in
crescita del 63 per cento. Anche se l'indebitamento finanziario netto al 31
dicembre scorso è salito a 411,8 milioni dai 338,5 milioni di fine 2005. È così
stata approvata la distribuzione di un dividendo di 0,25 euro per azione, per
complessivi 23,7 milioni, in distribuzione a partire dal 10 maggio.
Annunciato
un richiamo che coinvolge migliaia di batterie di computer portatili difettose
WASHINGTON – Si
torna a parlare delle batterie difettose di casa Sony, e anche questa volta il co-protagonista
della vicenda è un grosso nome del settore dei computer portatili. Proprio
ieri, infatti, Acer ha annunciato il richiamo di circa 27 mila batterie
utilizzate in alcuni dei suoi laptop Pc: si tratta sempre delle batterie agli
ioni di litio contenenti celle prodotte da Sony Energy Devices Corporation.
L’ANNUNCIO – Come
si legge nel documento con cui il produttore avvisa la clientela, «sono
16 i casi segnalati di surriscaldamento di batterie per portatili. Le prime
segnalazioni hanno riportato danni minori agli oggetti e due casi di ustioni
non gravi. Nessuno di questi casi riguarda portatili Acer». Tuttavia segue
quindi l’invito ai possessori di portatili Acer a verificare il gruppo di
appartenenza delle batterie e a contattare il numero verde per richiedere la
sostituzione in caso vi sia corrispondenza con la serie incriminata.
I PRECEDENTI – I
primi problemi con le batterie Sony risalgono all’agosto dell’anno scorso,
quando l’azienda ha dovuto ritirare oltre 4 milioni di unità difettose in
seguito all’esplosione di un portatile
Dell . Anche in quel caso si trattava di
problemi di surriscaldamento che hanno causato danni non indifferenti. A pochi
giorni di distanza, poi, è stata la volta di Apple: il gigante della mela morsicata aveva deciso il
ritiro di 1,8 milioni di componenti dei suoi portatili, sempre per via del
rischio di surriscaldamento ed esplosione delle batterie al litio marchiate
Sony. Nel mese di ottobre, infine, le scintille fuoriuscite da un portatile
Fujitsu (anch’esso dotato di batteria Sony) mentre era spento e in carica hanno
causato il ferimento lieve del proprietario. In questa circostanza la stessa
Sony ha ammesso la propria responsabilità. Dal primo verificarsi del problema a
oggi, Sony ha già ritirato dal mercato più di 10 milioni di batterie.
26
aprile 2007
INDICE 26-4-2007
++ Wall Street Italia
26-4-2007 TASK FORCE EUROPEA PER EMERGENZA CLANDESTINI
++ Brescia Oggi 26-4-2007
BANCA MONDIALE. Troppo vicina a Bush L'Europa contesta la linea Wolfowitz
+ Il Sole 24 Ore 26-4-2007
L'euro ai massimi, crescita tedesca più forte di Riccardo Sorrentino
Il Giornale 26-4-2007
L'Umbria blocca da due anni il voto anti stipendi d'oro di Pierangelo Maurizio
Il Piccolo di Trieste
26-4-2007"La tradizione laica è una ricchezza" Trieste città laica.
Europa 26-4-2007 Federico
Orlando risponde
Il Riformista 26-4-2007
Darwin e Dico Lo stesso rifiuto di Orlando Franceschelli
++ Panorama 26-4-2007 Renzo Rosati – Penali Mutuin. Il
nuovo, e forse definitivo incontro, è fissato per domani, venerdì 27 aprile.
L'[2]
Banca d'Italia a stabilire la "giusta entità" delle penali. Le parti
sono abbastanza vicine ma non vicinissime. Oggi l'estinzione anticipata di un
[3] mutuo costa al cliente mediamente intorno al 1,5%, se il tasso è variabile,
e circa il doppio se il tasso è fisso. Queste percentuali scattano sulla quota
di capitale residua; o, nel caso di particolari mutui nei quali la rata è
costituita da soli interessi ed il capitale viene rimborsato a blocchi secondo
tabelle programmate, la penale si applica sulla parte eccedente la quota
massima di restituzione prevista ad una determinata data. L'abolizione delle
penali, assieme alla "portabilità" dei mutui, cioè alla possibilità
di trasferirli da una banca all'altra nel caso di condizioni più favorevoli,
con le relative spese a carico del nuovo istituto prescelto dal cliente,
costituiscono il fiore all'occhiello del decreto Bersani. Ma, appunto, non si
applicano ai contratti già in vigore. Nelle riunioni che si sono succedute per
tutto aprile Abi e associazioni dei consumatori ([4] Cncu-Consiglio Nazionale
dei Consumatori e degli Utenti), le banche erano partite da una proposta di
riduzione all'1% delle penali per il tasso variabile, mentre i consumatori
chiedevano lo 0,1. Poi l'Abi ha proposto lo 0,65%, ed i consumatori lo 0,30.
Alla fine un accordo sembrava raggiunto il 18 aprile (ed era in qualche modo
stato annunciato) intorno allo 0,5%, sempre per il tasso variabile, con uno
sconto di un altro 0,1% in caso di muti che già prevedevano condizioni più
vantaggiose. Ma proprio l'ipotesi di accordo ha messo zizzania tra una dozzina
di associazioni e le altre capeggiate dall'Adusbef. Scambi di accuse,
addirittura di tradimento. L'ipotesi attuale è che ci si accordi per una penale
tra lo 0,4 e lo 0,5% per i mutui a tasso variabile, e tra l'1,3 ed 1,8 per
quelli a tasso fisso; con una serie di ulteriori clausole a beneficio del
cliente (alcune già praticate dalle banche): per esempio, nessuna penale una
volta superata la restituzione della metà del capitale. In caso di mancato
accordo Bankitalia avrà 30 giorni di tempo per intervenire a partire dal 3
maggio.
++ Wall Street Italia 26-4-2007 TASK FORCE EUROPEA PER
EMERGENZA CLANDESTINI
-
Strasburgo, 26 apr - Il Parlamento europeo ha approvato a larga maggioranza il regolamento
che istituisce un meccanismo di assistenza rapida tra gli Stati membri per fare
fronte ad afflussi massicci di immigrati illegali alle proprie frontiere. Il
regolamento istituisce un meccanismo che possa garantire assistenza operativa
rapida "per un periodo limitato" allo Stato membro che ne faccia
richiesta e che si trovi a fare fronte a "sollecitazioni urgenti ed
eccezionali", specie in caso di afflusso massiccio alle frontiere esterne
di cittadini di paesi terzi che tentano di entrare illegalmente nel territorio
dello Stato membro, attraverso la creazione di squadre di intervento rapido
alle frontiere. E' anche precisato che il regolamento si applica "fatti
salvi i diritti dei rifugiati e delle persone che chiedono protezione
internazionale, in particolare per quanto riguarda il non respingimento".
In caso di necessità, quindi, gli Stati membri dovranno mettere a disposizione
del personale che possa essere mobilitato entro cinque giorni. I salari saranno
a carico dello Stato di origine della guardia di frontiera, ma gli altri costi
saranno sostenuti dall'Agenzia Ue. Ricerca archivio articoli e quotazioni Invia
questo articolo a un amico Che tu sia d'accordo o no, fai conoscere a tutti la
tua opinione. Per scriverci utilizza il link Scrivi a WSI Per continuare a
dibattere "dal vivo" questo tema iscriviti al Forum di Wall Street
Italia.
++ Brescia Oggi 26-4-2007 BANCA MONDIALE. Troppo
vicina a Bush L'Europa contesta la linea Wolfowitz
New
York. Si fa sempre più difficile la posizione di Paul Wolfowitz alla testa
della Bm Banca Mondiale: dopo le accuse di nepotismo per aver deciso un cospicuo
aumento di stipendio per la sua compagna Shaha Riza, dipendente della Bm, è
finita sotto attacco la sua politica, considerata troppo vicina alla Casa
Bianca, in particolare sotto il profilo morale. Che le scelte di Wolfowitz non
piacessero agli europei non è una novità. Ma ora, per la prima volta, sono
criticate, visto che il neo-con super-laico, architetto da ex numero due del
Pentagono della guerra in Iraq, pare aver sposato l'agenda teo-con di George W.
Bush. Secondo il Wall Street Journal, in una riunione a porte chiuse del board
Bm, rappresentanti di alcuni Paesi, tra cui Germania, Francia e Italia, si sono
opposti alla proposta di Washington di fornire assistenza nella pianificazione
familiare, tra cui la possibilità di abortire, solo alle maggiorenni. Per i
critici, una proposta di questo tipo non avrebbe senso nei paesi in via di
sviluppo, dove il numero di gravidanze è elevato tra le minorenni. Secondo il
New York Times, un'altra decisione di Wolfowitz, quella di sospendere un
programma all'India del valore di un miliardo di dollari, per ragioni analoghe
"ha mandato su tutte le furie l'entourage del premier Tony Blair, visto
che la Gran Bretagna partecipava al programma". In un primo tempo, le
critiche degli europei si erano limitate alla vicenda Riza. Era considerato
inaccettabile il fatto che Wolfowitz che ha fatto della lotta alla corruzione
una priorità finisse coinvolto in uno scandalo del genere. Wolfowitz si è
scusato, ma non dimesso, sostenendo di non avere fatto nulla di illegale. L'aumento
di stipendio è giustificato dal fatto che la Riza ha dovuto lasciare la Bm, pur
rimanendo in busta paga, rinunciando a una brillante carriera.
+
Il Sole 24 Ore 26-4-2007 L'euro ai massimi, crescita tedesca più forte di
Riccardo Sorrentino
Se
non è stato record, ci è mancato poco. L'euro, secondo la Reuters, ha toccato
ieri 1,3665 dollari, a un soffio dal massimo storico a quota 1,3667 segnato nel
dicembre 2004. Questa volta, però, nessuno sembra preoccuparsi, e il motivo
c'è. L'exploit era annunciato. È da settimane da mesi... che il valutario si
muove seguendo uno schema che prevede la flessione del dollaro e il
rafforzamento dell'euro. La valuta americana è "penalizzata" dal
rallentamento dell'economia del 2006, dalle attuali difficoltà del settore
immobiliare e dalla prospettiva di un prossimo taglio dei tassi; quella di
Eurolandia è invece sostenuta dalla continua ripresa e dalla quasi certezza che
la stretta monetaria continuerà. Anche ieri il mercato si è mosso seguendo
queste linee guida, malgrado le apparenze. L'indice Ifo sul sentiment delle
aziende salito a 108,6,a un passo dal massimo da quindici anni ha mostrato che
l'economia tedesca va bene, e questo ha portato in alto l'euro. Poi gli ordini
americani di beni durevoli hanno segnato a marzo un aumento del 3,4% mensile,
in accelerazione,dando qualche segnale negativo su come è andato il primo
trimestre e qualche buona prospettiva per il resto dell'anno; e il dollaro ha
potuto recuperare terreno. La fragilità dell'immobiliare, il calo delle vendite
americane di nuove case a marzo e le limitate richieste di permessi per aprile
hanno riportato l'euro verso l'alto, fino a un passo dal massimo. In serata il
beige book non proprio ottimistanon ha sostanzialmente modificato la
situazione. L'euro si è così avviato alla conclusione della seduta scambiato a
1,3640. La forza di Wall Street, invece, sembra non aver emozionato gli
investitori sul valutario. La Borsa si è mossa per motivi "interni",
la forza dei profitti aziendali americani, ed è stata in fondo sostenuta
daglistessi motivi che hanno animato i cambi: il buon andamento degli ordini
aziendali e la prospettiva di un taglio dei tassi. Nessuna sorpresa, dunque, e
nessuna contraddizione. Il trend di debolezza del dollaro dovrebbe ora
continuare, almeno fino a quando non sarà più chiara quale sarà la durata del
ciclo di strette della Banca centrale europea, la quale in occasione
dell'ultimo rialzo ha fatto capire che i tassi sono quasi arrivati al livello
neutrale e non sono ancora in territorio restrittivo.Il cambio,però, modifica
queste valutazioni: il rialzo della valuta si comporta quasi come un aumento
del costo del denaro e tende, sia pure attraverso un diverso canale, a
rallentare l'inflazione. Quello che può sorprendere, piuttosto, è l'assenza di
grandi proteste da parte del mondo politico e imprenditoriale. Ci sono stati
alcuni richiami, è vero, ma in termini molto tecnici: non è il livello del
cambio a suscitare preoccupazione, ma la rapidità del rialzo e la tendenza del
mercato a comportarsi come se non ci fossero alternative. Lo schema di politica
valutaria adottato dall'Unione monetaria puntaalmeno ufficialmente a
contrastare unicamente questi due fenomeni. Il ministro dell'economia tedesco
Michael Glos, ieri,ha così spiegato che «la Germania sta naturalmente
affrontando bene l'attuale cambio euro/dollaro. Se ci fossero ulteriori rialzi
potrebbe sorgere qualche rischio, ma attualmente la situazione è sostenibile
come mostra l'andamento delle esportazioni. D'altra parte alleggerisce il peso
di quanto dobbiamo pagare per le importazioni di energia». La ragione di questa
apparente tranquillità è semplice. L'euro è ai massimi sul dollaro e ha da poco
tempo segnato l'ennesimo record sullo yen; ma non esistono soltanto queste due
valute.Il cambio effettivo, che tiene conto di tutte le monete dei principali
partner dell'Unione non è ancora al record: ieri era a quota 107,31 mentre a
fine 2004 aveva raggiunto 108,27. Allora, inoltre, il rialzo fu decisamente più
rapido: in tre mesi il valore effettivo dell'euro salì del 6%,mentre nella
situazione attuale è salito del 6,7% in quattordici mesi. E la velocità conta.
+
La Repubblica 26-4-2007 Sì di Bruxelles a direttiva antipirateria. Niente
carcere per il download privato. Il Parlamento europeo approva la risoluzione
che introduce sanzioni penali per la contraffazione e la violazione della
proprietà intellettuale
Tolleranza
zero per chi agisce su larga scala e a scopo di lucro Non rischia chi scarica
da internet per utilizzo personale
BRUXELLES -
Fino a quattro anni di reclusione per i reati di pirateria e contraffazione se
vengono commessi nell'ambito di un'organizzazione criminale oppure comportano
un rischio per la salute o la sicurezza delle persone. Di fatto, tolleranza
zero per quel che riguarda la contraffazione su larga scala, ma niente carcere
per chi viola il diritto d'autore a titolo privato. Gli utenti del web possono
stare tranquilli. Il Parlamento europeo ha approvato - con 374 voti a favore,
278 contrari e 17 astenuti - la risoluzione di Nicola Zingaretti (Ds) che
introduce sanzioni penali per la contraffazione e la violazione della proprietà
intellettuale. Sono stati adottati vari emendamenti, che modificano la proposta
avanzata dalla Commissione Ue per escludere dal campo di applicazione della
direttiva "atti compiuti da un utilizzatore privato per fini personali e
non di lucro".
In sostanza, non rischiano fino a quattro anni di carcere e sanzioni da 100
mila a 300 mila euro i singoli che si scaricano qualcosa da internet, perché
l'obiettivo è colpire la contraffazione su larga scala e il crimine
organizzato, ovvero - come prevede la norma - "qualsiasi violazione
intenzionale del diritto di proprietà intellettuale commessa su scala
commerciale, la complicità e l'istigazione".
Secondo
l'analisi del relatore Zingaretti, negli ultimi 10 anni il volume delle merci
contraffatte è aumentato del 1600%: si tratta di giocattoli, abiti, scarpe,
alimenti, cosmetici, sostanze chimiche, prodotti gastronomici con denominazioni
false, occhiali, cd, dvd. Un fenomeno che ha portato a 125 mila nuovi
disoccupati in Europa. Le misure riguardano il rispetto dei diritti di
proprietà intellettuale "nel contesto della contraffazione e della
pirateria".
Per "diritti di proprietà intellettuale" si intendono: diritto
d'autore, diritti connessi al diritto d'autore, diritto sui generis del
costitutore di una banca di dati, diritti dei creatori di topografie di
prodotti semiconduttori, diritti relativi ai marchi (nella misura in cui l'estensione
a essi della protezione del diritto penale non sia in contravvenzione delle
norme sul libero mercato e sulle attività di ricerca), diritti relativi ai
disegni, indicazioni geografiche e denominazioni commerciali (nella misura in
cui sono protetti dal diritto nazionale in quanto diritti di proprietà
esclusivi).
Sono stati esclusi i brevetti e i diritti di proprietà industriale derivanti
dai brevetti. Data la complessità della maggior parte dei progetti di ricerca,
nello svolgere il proprio lavoro gli inventori, secondo l'Europarlamento,
rischiano continuamente di violare i diritti brevettuali. Prevedere sanzioni
penali per queste violazioni, pertanto, potrebbe distogliere inventori e
ricercatori dal compiere scelte innovative.
La parola ora passa al Consiglio dove già si prevedono le resistenze di Paesi,
come la Gran Bretagna, tradizionalmente ostili a modifiche del codice penale
attraverso una normativa europea. "Noi abbiamo fatto il nostro dovere.
Aspettiamo di vedere che cosa faranno Commissione e Consiglio" ha
commentato Zingaretti, secondo il quale "per la prima volta, il Parlamento
europeo dice sì all'armonizzazione degli ordinamenti penali nei 27 Stati
membri". "L'Europa utile è anche questa - ha aggiunto - perché non
c'è mercato unico senza regole comuni, e non c'è equità al di fuori di un
diritto mite: nessuna esitazione contro la criminalità organizzata ma tutela
dei consumatori e degli utenti della rete".
(26 aprile 2007)
Il
Corriere della Sera 26-4-2007 Ritiro dall'Iraq, sì dalla Camera
Usa. Ma Bush ribadisce: «Porrò il veto»
Approvata
la legge che fissa nell'aprile 2008 la scadenza della missione delle truppe.
Oggi il voto del Senato.
WASHINGTON (STATI UNITI) - La Camera dei rappresentanti Usa ha approvato, con
218 voti favorevoli e 208 contrari, una legge che indica nell'aprile 2008 la
scadenza della missione delle truppe americane in Iraq. Anche se la data,
inserita nella legge che stanzia i fondi per le missioni militari in Iraq e in
Afghanistan, è puramente indicativa, il presidente George W. Bush ha già fatto
sapere che metterà il veto al provvedimento, che sarà votato oggi (giovedì)
anche dal Senato.
INCONTRI A PORTE CHIUSE - Il presidente Bush aveva inviato
mercoledì il generale David Petraeus, comandante delle truppe americane in
Iraq, al Congresso per una serie di incontri a porte chiuse con i membri della
Camera e del Senato per convincerli a non approvare una legge con un termine
per la permanenza dei soldati statunitensi in Iraq. L'argomento principale del
generale è che la nuova strategia americana in Iraq, con il rafforzamento delle
truppe Usa e irachene a Bagdad e altrove, è giunta solo a metà strada. Soltanto
a settembre sarà possibile vedere se il piano funziona o meno. Secondo il
presidente Bush è già possibile vedere segni di progresso nella capitale, con
la diminuzione della violenza settaria; ma gli attentati di Al Qaeda con le
auto imbottite di esplosivo cercano di mascherare questa realtà proiettando una
immagine di caos e di anarchia. «Date al piano una possibilità di funzionare»,
ha detto l'inquilino della Casa Bianca, «finora sono giunti solo metà dei
rinforzi previsti».
STANZIATI FONDI - La legge approvata dalla Camera, che stanzia i
fondi per portare avanti le guerre in Iraq e in Afghanistan - nell'ambito di
uno stanziamento complessivo per le missioni militari all' estero di circa 124
miliardi di dollari - contiene clausole che prevedono una diminuzione delle
truppe americane a partire dal prossimo mese di ottobre ed il rimpatrio della
grande maggioranza di esse entro aprile 2008, quando i soldati americani non
dovranno essere più impegnati in missioni di combattimento ma solo di
addestramento delle forze di sicurezza irachene. Dopo tale scadenza i militari
potranno essere impiegati solo per proteggere i cittadini americani in Iraq e
per specifiche e mirate operazioni di contro-terrorismo. Il presidente Bush ha
spiegato che metterà il veto alla legge, dopo che sarà approvata anche dal Senato
e giungerà sulla sua scrivania, perché l'introduzione di «date arbitrarie» per
il rimpatrio delle truppe americane «lega le mani ai generali» e «avvantaggia
il nemico».
BUSH ALL'ATTACCO - La Casa Bianca accusa di «disfattismo» la
maggioranza democratica del Congresso e in particolare nel mirino della
amministrazione Bush è finito il leader dei senatori democratici Harry Reid,
che sostiene che la Guerra in Iraq «è ormai perduta». Reid ha cominciato negli
ultimi giorni a tracciare sempre più pungenti paralleli tra la Guerra del
Vietnam e quella in Iraq, e tra il presidente Lyndon B. Johnson e Bush.
26
aprile 2007
Roma
SCRUPOLI Sono sempre più ricchi e di riflesso sono sempre più potenti. Sono i
fondi di private equity, la nuova frontiera del capitalismo, un capitalismo senza
nome e volto ma che sta fagocitando tutto: compagnie aeree, farmaceutiche,
giornali, parchi, ospedali, aziende tessili. Tanto da mettere in allarme
politici e sindacati. In origine la funzione del private equity era leggermente
differente da quella attuale. Agli inizi degli anni '80 il private equity era
uno strumento di finanziamento mediante il quale un investitore, di solito più
di uno raccolto in un fondo, apportava nuovi capitali all'interno di una
società, generalmente non quotata in borsa, che presentava un'elevata capacità
di generare cassa in modo costante e prevedibile. L'investitore si proponeva di
disinvestire nel medio-lungo termine realizzando una plusvalenza dalla vendita
della partecipazione azionaria. Quella definizione oggi si è ormai persa, come
la capacità di rischio. Oggi, parlare di private equity significa citare i
grandi fondi d'investimento internazionali protagonisti assoluti del business
mondiale. Da Blackstone a Texas Pacific Group, da Permira a Providence Equity
da Kkr a Carlyle, società che complessivamente sul mercato americano l'anno
scorso hanno raccolto 159 miliardi di dollari. Una massa ingente di denaro, a
cui andrebbero aggiunti crediti bancari per una somma tre o quattro volte
superiore, con la quale i fondi si gettano in acquisizioni e cessioni
internazionali (come sa bene anche Alitalia dove in gara c'è anche Texas
Pacific Group Europe). Non tutte limpidissime a dir la verità. Alla fine del
2006 la Sec, l'organismo che vigila sulla Borsa di New York, ha sparato un'inchiesta
dalla quale emergeva manipolazioni di bilanci, ritorni gonfiati, corruzione e
che si è conclusa con la richiesta al Congresso di un intervento regolatorio.
Anche in Italia i fondi di private equity stanno prendendo piede. Rispetto
all'America da noi si vola un po' più basso. I fondi di private equity sono 113
(quelli registrati all'Aifi, associazione di categoria) e nel 2006 hanno
investito 3,7 miliardi su 292 operazioni e raccolto 2,3 miliardi con un
incremento sul 2006 del 70%. Si vola basso ma si cresce tanto. E si diventa
sempre più ricchi. Anche grazie all'aiuto delle banche tramite l'effetto leva.
L'esempio di Gardaland è indicativo. Nel 2004 Gardaland, società che gestisce
l'omonimo parco di divertimento, è acquistata per 320 milioni dal fondo
Investindustrial che per l'operazione spende solo 120 milioni. I restanti 200
sono reperiti grazie a linee di credito bancarie. Aperte senza garanzie se non
la bravura del gestore. Che tanto prima o poi il compratore lo trova. E se non
lo trova lo si fa arrivare. In Italia per i fondi di private è consuetudine
scambiarsi le aziende tra loro a prezzi gonfiati, cioè senza che le aziende
abbiano avuto incrementi di redditività. Gli esempi si sprecano: Gardaland,
passata da Investindustrial a Blackstone per 500 milioni quando due anni prima
era costato "solo" 320; Sisal, azienda di scommesse, ceduta da
Clessidra ad Apax e Permira a quasi il doppio del prezzo iniziale; Grandi Navi
Veloci, società di traghetti, comprata da Permira e girata a Investitori
associati nel2006 a un prezzo che superava un terzo del suo valore;
Ferretti, la griffe degli yacht, comprata dal fondo Permira per 675 milioni
ceduta nei mesi scorsi per circa 1,7 miliardi al fondo Candover. Insomma grandi
passaggi, molti guadagni, zero rischi. Proprio un capitalismo all'italiana.
MILANO
- Ieri hanno tirato il fiato, ma è davvero presto per dire che la grande paura per
la bolla immobiliare sia passata. Anzi, considerando che il giorno prima
l'indice della Borsa di Madrid aveva perso il 2,73% e che solo negli ultimi due
giorni le prime dieci società del settore avevano bruciato 1,7 miliardi di euro
di capitalizzazione, il rimbalzino di ieri è ben poca cosa: l'indice Ibex ha
guadagnato lo 0,29% mentre i titoli nella bufera hanno recuperato qualche
posizione in più, ma senza brillare. Insomma, il timore che la bolla stia per
esplodere è ancora tutto lì e anzi il nervosismo è pronto a dilagare, da una
sponda all'altra dell'Atlantico: basti pensare che due giorni fa l'indice delle
vendite delle abitazioni esistenti, negli Usa, è sceso ai livelli più bassi da
otto anni a questa parte, innescando diffusi nervosismi in Borsa, e che anche
ieri - nonostante una Wall Street da record - l'incremento minore del previsto
delle vendite delle nuove case per un attimo ha raffreddato gli entusiasmi. La
società nell'occhio del ciclone, Astroc Mediterraneo, ieri ha guadagnato
l'1,19%: un'inversione, quantomeno, ma ben poca cosa se si pensa che nelle
cinque sedute precedenti il titolo ha perso due terzi del suo valore. Una
discesa fulminea e disastrosa, per una società quotata solo da 11 mesi e che
nel frattempo aveva guadagnato circa il mille per cento: tassi di crescita da
bolla Internet, poi apparentemente senza ragioni specifiche il crollo a
precipizio, con un effetto domino che aveva coinvolto, a inizio settimana,
anche gli altri titoli del settore. Ieri le cose sono andate meglio un po' per
tutti: Inmobiliaria Colonial ha recuperato il 2,69% (ma il giorno prima aveva
perso oltre il 12%) il Grupo Inmocaral è risalito dell'1,15% (contro una
perdita precedente dell'11,3%) e Acciona - grandi opere ma parzialmente anche
società immobiliare, forse la più nota in Italia da quando, insieme all'Enel,
ha conquistato Endesa - ha recuperato il 2,05%. Le vendite nella penisola
iberica erano state innescate dai dati sui prezzi immobiliari, in via di
raffreddamento: in aprile sono aumentati in media del 7,2% rispetto ad un anno
prima, l'incremento più contenuto dal '99. Il copione, in Spagna come in tutta
Europa e non solo, è sempre lo stesso: prezzi del mattone in rallentamento,
tassi di interesse in tensione, primi segnali di difficoltà nei mutui ipotecari,
soprattutto quelli rivolti alle fasce più deboli di popolazione (un paio di
mesi fa l'americana New Century Financial ha attivato la procedura
fallimentare, gettando il panico sulle Borse di mezzo continente). Anche
stavolta l'allarme più acuto sembra rientrato, ma i timori per l'esplosione
della bolla immobiliare restano tutti.
Il Giornale 26-4-2007 L'Umbria blocca da due anni il voto anti stipendi
d'oro di Pierangelo Maurizio
- giovedì
26 aprile 2007, 07:00 Vota questo articolo: Vota 1 2 3 4 5 Risultato Il fatto è
che difficilmente il sistema delle forze politiche rinuncerà a quella sorta di
comoda retrovia, rappresentata dalle Regioni, per trombati, parcheggiati in
attesa del salto a deputati e senatori e con privilegi, a spese dei cittadini,
quasi pari a quelli di Montecitorio e di Palazzo Madama. Se il netto ora
incassato dai consiglieri regionali è di circa 12mila euro al mese, il lordo
può arrivare fino a 27mila mensili. Dovesse passare il referendum umbro, se mai
si svolgerà, ci sarebbero ripercussioni pesanti anche sui vitalizi: attualmente
dopo un mandato di 5 anni i consiglieri regionali, a partire dai 60 anni, hanno
una pensione di 3.600 euro al mese. "Comunque - accusa Claudio Abiuso
della Lista civica - in Umbria il diritto referendario incontra forti
limitazioni. Altri 7-8 referendum dopo la raccolta delle firme non hanno visto
la luce". E si riapre il dibattito, oltre che sui costi della politica,
sul tasso reale di democrazia in terra umbra. pierangelo.maurizio@alice.it
Il Piccolo di Trieste 26-4-2007"La tradizione
laica è una ricchezza" Trieste città laica.
Il
confronto sui grandi temi è favorito dalla consuetudine al rispetto
dell'altro Può sembrare un paradosso, ma il carattere laico della
città, storicamente riconosciuto, viene considerato una ricchezza e non un
ostacolo dalla chiesa triestina. "Proprio a Trieste dove c'è un'accentuata
tradizione laica - dice il vescovo Eugenio Ravignani - è meno forte lo scontro
fra laici e cattolici, e questo perché la cultura laica favorisce
una forma di rispetto e di dialogo; è anche per questo che il dialogo
interreligioso è così proficuo: quest'anno non abbiamo partecipato insieme alla
Pasqua solo perché coincideva lo stesso giorno per cattolici,
ortodossi ed ebrei; e con il rabbino Piperno avevo instaurato un vero e proprio
rapporto di amicizia, mi dispiace molto che se ne sia andato". "La
chiesa sta bene in una città laica come Trieste - interviene don Ettore Malnati
- perché il laico triestino non è un anticlericale, ma è un laico che cerca il
confronto con l'altro: questo è un portato della storia, da quando la città nel
Settecento ebbe le patenti di libero culto". "E per questo Trieste è
città pilota nel dialogo interreligioso", aggiunge don Dusan Jakomin,
mentre per don Silvano Latin "quella di Trieste è una specie di laicità
sacra, Trieste è laica da sempre". "L'ecumenismo e il dialogo
interreligioso a Trieste è qualcosa di pratico che si attua nella quotidianità
- afferma don Mario Vatta - e per la città tutta la laicità (non il laicismo)
rappresenta senza dubbio una marcia in più".
Europa 26-4-2007 Federico Orlando risponde
Cara Europa, leggo che il governo ha perso ancora
quattro punti nel mese di marzo in termini di consenso popolare.
Non credo perché abbia fatto cose cattive, che non riesco a vedere. Ma perché
credo non abbia fatto cose attinenti alle aspettative vere delle persone. Vedo
Prodi in giro per il mondo e mi chiedo perché non giri l’Italia; vedo partiti
riunirsi a congressi e discutere cose che noi lettori nemmeno al telegiornale
riusciamo a seguire, e non ci parlano del nostro pane quotidiano e delle
prospettive per il nostro futuro qui in terra.
Dobbiamo durare così cinque anni?
ADELE ROSSETTI, TORINO
Cara
Signora, immagino che lei mi scriva sotto l’effetto della lettura de La Stampa
di stamattina (ieri). Ha fatto benissimo il mio “vecchio” direttore Anselmi ad
aprire il giornale sugli abusi a danno di 15 o più bambini, a opera di
insegnanti e altri in una scuola materna di Rignano Flaminio, vicino Roma.
Altro che visita all’imperatore del Giappone o al re dell’Arabia Saudita o
messaggio (non visita) a Ségolène Royal. Ha fatto bene, inoltre, a pubblicare
come seconda notizia la legge che abolisce la Bossi- Fini, purché la nuova crei
davvero immigrati regolari: e mi chiedo se Amato, che quando non parla troppo
di fretta e non dice troppe cose insieme ha il pregio della chiarezza e della
comunicativa, andrà in tv, con imprenditori, sindaci, padri e madri di
famiglia, ufficiali di polizia, a spiegare la programmazione triennale dei
nuovi flussi d’immigrazione, il ritorno dello sponsor garante, le liste di
collocamento degli stranieri disposti a venire a lavorare da noi e non a fare i
papponi o, peggio, gli integralisti: insomma, convinca gli italiani che la
legge serve allo sviluppo economico del paese non meno dei viaggi di Prodi per
il mondo. Vedo poi che il suo giornale annuncia in prima pagina inchieste sul
Po che muore di caldo e per il disinteresse di troppi: e mi chiedo se non sia
arrivato il momento non solo di mandare l’esercito in Campania e altrove per
far costruire gli inceneritori prima che la gente muoia di colera sommersa dai
suoi rifiuti; ma anche di avocare allo Stato la scelta dei siti, “sentite” le
popolazioni, per costruire le centrali, i termoconvertitori, i degassificatori
e quant’altro serve a un popolo di 58 milioni di persone che non rinunciano al
termosifone d’inverno, al condizionatore d’estate, al frigorifero al televisore
al telefono allo scaldabagno alla lavatrice al mangiadischi e alle lampade ad
alto e basso consumo, infischiandosene di sapere se quell’energia che
consumiamo, e di cui lamentiamo la bolletta, la produciamo oppure la compriamo.
Mi piacerebbe che il presidente del consiglio, i ministri dell’agricoltura e
delle strutture, facessero lunghe passeggiate, anche in bicicletta, sugli
argini del Po e degli altri fiumi, con divieto assoluto di usare la maschera
affinché anche i loro polmoni si riempiano dei miasmi delle cloache che vi si
riversano; e chiedessero conto alle venti regioni e ai cinquemila enti
dell’acqua cos’hanno fatto per gli acquedotti che perdono da sempre il 40 per
cento del liquido che trasportano. Eccetera. E infine mi piacerebbe che
Padoa-Schioppa si domandasse perché è lui il ministro col più basso indice di
gradimento: se per caso, a parte costante destino dei risanatori, da Quintino
Sella in poi, non sarebbe meglio parlare alle famiglie e alle persone più da
ministri e meno da sacerdoti del bilancio.
Il Riformista 26-4-2007 Darwin e Dico Lo stesso
rifiuto di Orlando Franceschelli
«Mi sembra che sia stata la Provvidenza ad averti indotto, Eminenza, a scrivere
una chiosa (Glosse) sul New York Times». Così Benedetto XVI, rivolto al
cardinale di Vienna Schönborn, nel ringraziarlo della relazione conclusiva
dell’incontro su “Creazione ed evoluzione” svoltosi a Castel Gandolfo lo scorso
settembre. Una chiosa che merita davvero tanta considerazione: sebbene a colpi
d’accetta, come più tardi ha riconosciuto lo stesso cardinale, con essa, appena
scomparso Giovanni Paolo II, veniva riaperto l’attacco contro la teoria
dell’evoluzione. Chiosando, appunto, come «vaga e trascurabile» persino la
presa di posizione con cui nel 1996 papa Wojtyla aveva riconosciuto che ormai
la teoria dell’evoluzione non può essere considerata più «una mera ipotesi». Ne
seguirono polemiche in tutto il mondo. Con proteste anche da parte di eminenti
scienziati cattolici, che si appellarono direttamente allo stesso Benedetto
XVI. Oggi, grazie alla pubblicazione degli atti del convegno del 2006
(Schöpfung und Evolution, con prefazione del cardinale Schönborn), sappiamo che
il 7 agosto del 2005, sulle pagine del quotidiano newyorkese, era all’opera la
Provvidenza. E che forse l’alto presule viennese aveva previsto persino la
battaglia sui Dico.
Per l’attuale pontefice, anche il suo predecessore, «aveva le sue ragioni»
quando si espresse in quel modo nel 1996. Ma si tratta di «ragioni» che proprio
a Benedetto XVI, esattamente come al cardinale Schönborn, non costa poi molto
lasciar cadere. Anzi, a papa Ratzinger preme l’esatto opposto dell’apertura di
Giovanni Paolo II: presentare la teoria dell’evoluzione come non
scientificamente verificata (wissenschaftlich verifiziert). Di più: come non
provabile (nachweisbar) per via sperimentale in molti suoi aspetti. Al punto
che la comunità internazionale dei biologi non saprebbe neppure di cosa parla
quando si appella alla «natura» o all’«evoluzione» che avrebbero fatto questo o
quello: «Chi è propriamente la “natura” o l’“evoluzione” in quanto soggetto?»,
chiedono all’unisono il pontefice e il cardinale.
Il Riformista Il centrista superstar spacca
in tre il Pd di Stefano Cappellini
Francesco Rutelli è stato informato in dettaglio delle mosse di François Bayrou
- nessun sostegno ai due candidati rimasti in lizza per l’Eliseo, fondazione
del Partito democratico francese in vista delle imminenti legislative,
radicamento del progetto centrista (anche se Bayrou preferisce la dizione
«centrale») - ben prima che il leader dell’Udf le ufficializzasse ieri. Nelle
ultime ventiquattr’ore Bayrou e Rutelli, alleati a Strasburgo in un altro Pd,
quello europeo, si sono sentiti ripetutamente, segno di un’intesa profonda tra
i due leader. E il leader francese ha omaggiato di una citazione il vicepremier
margheritino (e il premier Romano Prodi) nel corso della sua conferenza stampa:
«Con Prodi e Rutelli avemmo un’idea, quattro anni fa, di quello che poteva
essere il futuro, e creammo il Partito democratico europeo».
Un’idea che è alla base della spaccatura del Pd italiano in tre fronti: uno
prodian-rutelliano, che pur auspicando un successo di Royal (con qualche
eccezione pro-Sarkozy) sposa in pieno la strategia terzista e neutralista di
Bayrou; un’area mediana, forte soprattutto tra i popolari della Margherita, che
sostiene il progetto del centrista francese ma confida in una convergenza coi
socialisti; infine un’area che si identifica quasi integralmente coi Ds, i soli
a invocare un tifo univoco e senza se per Ségolène. «Da Bayrou non ci
aspettavamo nulla di diverso», si minimizza al Botteghino. Dove si confidava
piuttosto in un altro atteggiamento da parte di Romano Prodi, che domani al
comizio di Royal a Lione sarà presente in videomessaggio (in chiave più
europeista e isituzionale che di endorsement, a quanto si apprende) e solo
perché il pressing di Piero Fassino ha portato l’altroieri a questa soluzione
dopo una giornata molto tesa tra il Prof e la Quercia. «Mi piace vedere il
bicchiere mezzo pieno - dice Luciano Vecchi, responsabile Esteri dei Ds - e
cioè che per la prima volta un candidato di centro non invita a votare al
secondo turno per quello della destra».
La Stampa 26-4-2007 IL CASO I soldati “verdi” del capitano Gore Il via da Nashville a una crociata in difesa del
clima. Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE
DA NEW YORK Nonni determinati a salvare il futuro dei nipoti, ex
concorrenti di Miss Oklahoma convinte di poter convertire i manager del
petrolio, giocatori di football appassionati di arti marziali e giovani sicuri
di avere di fronte la missione da compiere per proteggere il Pianeta. Si tratta
dei soldati di Al Gore, l’esercito di volontari che l’ex vicepresidente ha
riunito per 48 ore in un hotel di Nashville, nel suo Stato del Tennessee, per
trasformarli in missionari globali della difesa del clima.
Il programma delle «Nashville Training Sessions» vede Gore impegnato a
illustrare nei dettagli il film «An Inconvenient Truth» - vincitore di due
Oscar - affinché i volontari possano sentirlo come proprio, impossessandosi dei
contenuti quanto basta per essere poi loro a girare l’America e il mondo per
portarlo in scuole, club, congressi, conferenze, centri comunitari e religiosi
con il fine di far crescere dal basso la mobilitazione a favore della difesa
del clima e dell’impegno per la drastica limitazione delle emissioni nocive che
causano il surriscaldamento dell’atmosfera. «The Climate Project» (Il progetto
clima) è il nome dell’iniziativa intrapresa da Gore che assomiglia ad un
movimento politico ma su scala globale: prevede lo svolgimento a Sydney di
«Australian Training Sessions» parallele a quelle di Nashville, al fine di
sottolineare che l’impegno dei volontari non deve essere limitato a nessun
emisfero. I volontari americani in poche settimane hanno toccato quota mille -
l’obiettivo desiderato da Gore - e arrivano a Nashville a proprie spese per
gettarsi in sedute «full immersion» destinate a farne degli ambasciatori
itineranti del messaggio di allarme sugli eventi devastanti che possono colpire
il nostro Pianeta se i gas serra non saranno fermati.
Composta da democratici e repubblicani, laici e religiosi, conservatori e
liberal, bianchi, ispanici, asiatici e afroamericani, l’armata dei volontari si
presenta come uno spaccato della nazione: dal settantenne nonno texano Gary
Dunham determinato a portare il film nelle case di riposo per anziani d’America
a Pat Michaels, analista di questioni climatiche del Cato Institute di
Washington, dal giocatore dei Philadelphia Eagles Dhani Jones che vuole
«rappresentare il mondo dello sport in questa battaglia» fino alla giovane
universitaria Tiffany Legg intenzionata a presentare il film non solo nei licei
ma anche a chi inquina di più, come i manager del gigante petrolifero Conoco.
Ognuno è arrivato a conoscere «An Inconvenient Truth» a modo proprio: Jones lo
ha visto dopo una partita, la stessa sera in cui andò a vedere anche un film di
arti marziali, mentre Tiffany Legg, già in concorso per diventare Miss
Oklahoma, vi intravede l’opportunità di impegnarsi per una «buona causa».
Ai vertici del «Progetto Clima» c’è un direttore stakanovista, Jenny Clad, che
ha spiegato a «UsaToday» di considerare Nashville «solo un inizio» e crede che
la chiave del successo sia nel rapporto diretto fra Al Gore e i volontari. Non
a caso ogni gruppo che arriva per partecipare all’addestramento - può
comprendere da un minimo di 50 ad un massimo di 600 persone - non solo ha modo
di incontrare e ascoltare l’ex vicepresidente ma viene invitato a visitare la
sua fattoria del Tennessee, affinché possa sentirsi parte non solamente di una
missione ma anche di una grande famiglia. Una volta terminato il «training» i
volontari entrano a far parte di un network che organizza le proiezioni del
film per ogni tipo di pubblico in ogni angolo d’America e lo schema studiato
per gli eventi prevede che al termine dello spettacolo venga offerto agli
spettatori di aderire a una petizione al Congresso che contiene la richiesta
fatta da Gore di fronte al Senato lo scorso marzo: congelare subito il livello
di emissioni nocive per poi iniziare a ridurle. Così ha fatto due sere fa a
Wichita, Kansas, la volontaria Susan Pereverzoff proiettando il film nella sala
della Biblioteca e anche lanciando il sito Internet «Stepitup» (Fatti avanti)
che, secondo il tam tam di Washington, potrebbe trasformarsi facilmente nel
punto di riferimento online di una campagna presidenziale se Al Gore dovesse
decidere di rompere gli indugi e lanciarsi verso la Casa Bianca 2008.
Albert Arnold Gore, ex vicepresidente
Nato a Washington, D.C., il 31 marzo 1948, è un uomo politico statunitense.
E’ stato nella Casa Bianca dal 1993 al 2001 sotto la presidenza di Bill
Clinton.
INDICE 25-4-2007
Il Riformista 25-4-2007 È
rimorto il Pci. Da oggi siamo tutti più liberi di Peppino Caldarola
Il Riformista 25-4-2007
Angius: «Non lascio Mi lasciano loro» di Alessandro De Angelis
L’Unità 25-4-2007 L'Italia
incompatibile Furio Colombo
+
La Padania 24-4-2007 Maxitruffa
alla Ue, un bottino da 26 milioni di euro. Rimborsi
agricoli gonfiati, blitz in 4 regioni: 45 arresti e oltre 500 indagati
Una truffa ai danni dell’Unione Europea è stata scoperta dalla procura di Palmi
(Reggio Calabria) che, attraverso i carabinieri, ha eseguito in Calabria,
Lazio, Toscana e Piemonte 45 ordinanze di custodia cautelare in carcere.
L’operazione, denominata “Withdrawal” (ritiro), si è svolta nelle province di
Reggio Calabria, Catanzaro, Vibo Valentia, Roma e Prato. Gli illeciti sono
stati commessi tra il 2000 ed il 2006. Eseguiti anche sequestri patrimoniali
per un importo equivalente agli illeciti accertati (26 milioni di euro). Nel
mirino degli investigatori sono finiti dirigenti e funzionari regionali,
presidenti di cooperative, amministratori e soci di organizzazioni e unioni di
produttori del settore dell’ortofrutta, ritenuti responsabili a vario titolo
dei reati di associazione per delinquere finalizzata alla truffa aggravata
consumata e tentata ai danni della Ue, corruzione e falsità in atto pubblico
commesse da pubblici ufficiali e privati. L’indagine, sviluppata dal comando
dei carabinieri delle politiche agricole di Roma e dalla Guardia di Finanza di
Catanzaro e Reggio Calabria, è stata coordinata dalla Procura della Repubblica
di Palmi.
L’operazione, concentrata nelle campagne ortofrutticole dal 2000 al 2006,
ha permesso di scoprire l’utilizzo di documenti fiscali e amministrativi
falsi presentati all’Agenzia per le Erogazioni in agricoltura di Roma
finalizzati ad ottenere illecitamente 26.500.000 euro di contributi comunitari
per ritiro dal mercato, riconoscimenti e programmi operativi.
Nel corso delle stessa attività investigativa, iniziata nell’agosto del 2003, i
militari del Nucleo antifrodi di Roma hanno impedito l’erogazione di 13.000.000
e anche denunciato a piede libero 544 persone. L’inesistenza di alcune ditte,
importatrici di succo d’arancia in Francia e Spagna, e dunque la falsità delle
dichiarazioni presentate da alcune industrie di trasformazione calabresi, è
stata rivelata grazie all’accertamento dell’Ufficio europeo per la lotta
antifrode della Commissione europea. L’organizzazione sgominata dai carabinieri
del comando politiche agricole aveva base operativa a Rosarno (Rc) e
ramificazioni in tutta la Calabria per ottenere finanziamenti illeciti. I
personaggi finiti nel mirino degli investigatori si attribuivano terreni senza
averne titolo, con falsi contratti di affitto e comodato, dichiaravano
produzioni inesistenti, figuravano “venditori di partita iva” per avvallare acquisti
o operazioni commerciali inesistenti per circa 130 milioni di euro.
Operazioni che facendo aumentare il valore della produzione commerciale
permettevano alle organizzazioni di produttori di aumentare, proporzionalmente,
la percentuale di agrumi oggetto del ritiro dal mercato. La complessa indagine
è frutto di un lavoro di oltre 3 anni ed è stata coordinata dai sostituti
procuratori della Repubblica Antonio Vincenzo Lombardo, Francesco Tedesco e
Valeria Cerulli che hanno richiesto i provvedimenti restrittivi eseguiti con il
supporto del personale delle compagnie dei carabinieri di Gioia Tauro (Rc),
Vibo Valentia, Taurianova (Rc), Palmi (Rc), Catanzaro, Reggio Calabria,
Crotone, Lametia Terme (Vv), Soverato (Cz), Roccella Jonica (Rc), Roma Eur e
Prato.
La
Repubblica 25-4-2007 PARMALAT Ecco gli istituti che hanno venduto 200 milioni
di bond prima del crac A gennaio 2003 i grandi creditori di Tanzi avevano 229
milioni di titoli, a dicembre erano diventati 31 ETTORE LIVINI
I
big del credito hanno ridotto dell'87% gli investimenti sul gruppo
nel 2003, in un floppy Bankitalia i movimenti Intesa, Sanpaolo, Mps e
Unicredit Parmalat, la grande fuga delle banche
MILANO
- Sarà stato fiuto. Sarà stato un fenomeno di preveggenza collettiva. Ma
proprio alla vigilia del crac Parmalat di dicembre 2003 - mentre i risparmiatori
italiani facevano ancora incetta di titoli del gruppo - le banche di casa
nostra hanno venduto a mani basse azioni e obbligazioni della società emiliana,
riducendo dell'87% la loro esposizione nei 12 mesi precedenti il default e
uscendo quasi indenni dal disastro di casa Tanzi. La grande fuga dal capitale
di Collecchio degli istituti di credito (che hanno sempre sostenuto di non aver
mai avuto alcun sentore della reale situazione finanziaria della società) è
fotografata dai dati catalogati in un floppy disk spedito il 17 novembre 2005
dalla Banca d'Italia alla Procura emiliana e archiviato come atto 76 del
procedimento 2395/05 del processo. Il dischetto ricostruisce mese per mese i
movimenti in conto proprio del sistema creditizio nazionale su strumenti
finanziari del gruppo. E i risultati di questo lavoro certosino sono semplici:
a gennaio 2003 le maggiori banche italiane avevano in portafoglio quasi 230
milioni di titoli Parmalat. A fine dicembre, al momento del fallimento, nelle
loro tasche ne erano rimasti solo 31 milioni. Metà dei quali, oltretutto, di
proprietà della Bpi (allora guidata da Gianpiero Fiorani) che muovendosi
controtendenza si era imbottita di bond proprio alla vigilia del fallimento
arrivando ad accumularne fino a 114 milioni al 30 novembre. Il fuggi-fuggi è
generalizzato. Il Sanpaolo di Torino ha ridotto da 101 milioni a 126mila euro
la sua esposizione con Collecchio nei 12 mesi prima del crac. Unicredit (che
nel 2002 tramite Ubm aveva curato con Intesa un ampio piano di emissione di
bond Parmalat) ha fatto piazza pulita dei titoli del gruppo scendendo dagli 83
milioni di inizio gennaio ai 4 di dicembre. Lo stesso hanno fatto l'istituto di
Giovanni Bazoli (scesa da 13 a 2 milioni proprio mentre la sua
controllata Nextra varava nuove obbligazioni) e Monte Paschi Siena (da 23
a 6). Deutsche Bank, che a settembre 2003 aveva "illuso" il
mercato annunciando di aver rilevato il 5% del gruppo dei Tanzi, in realtà
nelle stesse settimane completava il suo disimpegno finanziario, vendendo i pochi
titoli che si ritrovava in portafoglio. Le cifre sono diverse ma il risultato è
identico: le banche sono uscite dall'avventura di Collecchio senza perdere
quasi niente. Anzi. Quelle di loro che si sono ritrovate esposte con le società
operative della galassia Tanzi, quelle che hanno rimborsato al 100% i creditori
dopo l'amministrazione controllata, hanno messo assieme da quel gelido (in
tutti i sensi) dicembre guadagni a tre cifre. I "saldi" collettivi di
titoli Parmalat del 2003 hanno attirato l'attenzione dei pm di Milano e del
capoluogo italiano. Le banche, sostengono i magistrati, avevano in teoria molti
strumenti per capire che le cose in casa Tanzi non andavano tanto bene. C'erano
i dati della centrale rischi di Banca d'Italia, dove i debiti del gruppo
risultavano diversi da quelli iscritti a bilancio. Le banche dati sulle
emissioni obbligazionarie segnalavano volumi di collocamenti diversi da quelli
denunciato. E molti dei comitati crediti interni da anni mettevano in guardia
sulla scarsa affidabilità finanziaria del socio di riferimento. Calisto Tanzi ?
come è emerso dal processo ? già a fine millennio era quasi sempre in cronico
ritardo persino sul pagamento delle rate per i mutui accesi a titolo personale.
Fatti che in fondo potrebbe aiutare a dare una lettura diversa alle mosse delle
banche alla vigilia del crac. Il cerino alla fine è rimasto in mano ai
risparmiatori, con 85mila italiani che si sono ritrovati a dicembre 2003 con 7
miliardi di bond che valevano poco più che carta straccia. Spesso clienti poco
fortunati (o mal consigliati) di quegli stessi istituti che quell'anno hanno
fatta piazza pulita di titoli Parmalat. Basta pensare ai 32mila correntisti del
Sanpaolo, travolti dal default mentre la loro banca nel 2003
ha ridotto del 99,9% la sua esposizione con Collecchio. Per loro fortuna
(si fa per dire) il concordato ha permesso di salvare la società e grazie alla
cura di Enrico Bondi (e alla corsa del titolo in Borsa) sono rientrati adesso
tra il 39 e il 57% dell'investimento iniziale. Ma se solo la banca avesse
curato i loro risparmi come ha tutelato i suoi, molti di loro forse non si
troverebbero oggi a piangere sul latte versato.
Il Riformista 25-4-2007 È rimorto il Pci. Da oggi
siamo tutti più liberi di Peppino Caldarola
Il Partito democratico c’è. Quello che sarà, è impossibile immaginarlo. I media
si sono innamorati come nella prima puntata del Grande Fratello. Le nomination
fanno notizia. Nel frattempo quegli arretrati dei francesi, che nulla sanno di
Curzio Maltese e Gad Lerner, si dividevano secondo l’antico schema
destra-sinistra. Antonio Polito è andato talmente oltre che preferisce Sarkozy.
Non c’è sorpresa più entusiasmante per un ex uomo di sinistra che scoprire la
destra. Una delle cose più azzeccate che ho scritto in questi mesi è che in
ogni ex comunista cova un Adornato. Così rendiamo l’onore delle armi a un
vecchio compagno che se n’è andato “oltre” alcuni anni fa.
I democratici di rito margheritico sono convinti che per battere Sarkozy era
meglio partire dal 18% di Bayrou piuttosto che dal 25% abbondante di Ségolène
Royal. Non sanno spiegare perché, ma loro hanno la fede che spiega quasi tutto.
I democratici di rito diessino erano pronti al successo dell’uno o dell’altra.
Se avesse vinto l’amico di Rutelli avrebbero avuto la prova provata del
fallimento della sinistra, ora che ha vinto Ségolène la iscrivono al Partito
democratico. Comunque la metti, hanno ragione loro come accade a quelli che
hanno sempre avuto torto. Tutti invitano all’alleanza, col trattino, fra
Ségolène e Bayrou per trovare la conferma che l’Italia ha imbroccato la strada
giusta. Bisognerà vietare l’alcol non solo negli stadi prima delle partite ma
anche nella politica dopo i congressi. La Francia, così scioccamente arretrata,
secondo i leader del Pd esalta l’ennesima eccezione italiana. È di qui,
proclama Prodi, che riparte la storia mondiale. Dopo Robespierre e Lenin, tocca
a un italiano. Fantasmi di tutto il mondo unitevi!
Il Riformista 25-4-2007 Angius: «Non lascio Mi lasciano
loro» di Alessandro De Angelis
Il dado è tratto. Anche per Angius, che comunica che non aderirà alla
costituente del Pd. Aveva annunciato con una mozione che il suo Pd doveva
essere «democratico e socialista», di nome e di fatto. Ovvero che non doveva
uscire dal campo del socialismo europeo: aperto, rinnovato, magari contaminato,
ma comunque delimitato. E che doveva essere dichiaratamente laico. Aveva
ribadito al congresso, in un ultimo appello a Piero Fassino che c’era ancora
tempo per invertire la rotta. Aveva chiesto un segnale, almeno uno, che
attestasse che lo sbocco della fase costituente non fosse predeterminato a
tavolino. Il segnale non è arrivato e, come si diceva nel vecchio Pci, Angius
ne ha «tratto le conseguenze». Con uno stile, appunto, quasi da vecchio Pci:
non una conferenza stampa, non una mail, non una lettera ai giornali ma una
missiva fatta recapitare ieri pomeriggio a Piero Fassino. Se ne va, Angius, e
la separazione, a parlarci, appare dolorosa come una scissione. Difficile dire
quanti dei suoi lo seguiranno. Tra i primi nomi sicuri ci sono quelli dei
deputati Grillini e Baratella, del senatore Montalbano, dell’assessore
all’Ambiente della Regione Abruzzo Caramanico, del consigliere regionale
emiliano Mezzetti, dell’ex portavoce della mozione Nigra. Altri, naturalmente,
seguiranno. Intanto, sono in corso contatti con Mussi, che, come noto, darà
vita a gruppi parlamentari autonomi, per definire possibili intese. È in corso,
soprattutto, un dialogo serrato con lo Sdi che ha aperto la costituente
socialista, per stabilire un possibile percorso comune per la costruzione di
«una autonoma forza democratica e socialista, laica, riformista, parte integrante
del Pse».
L’Unità 25-4-2007
L'Italia incompatibile Furio Colombo
Segue
dalla Prima Come ricorderete Enzo Biagi è il primo,
nella lista di alcuni protagonisti della televisione italiana (tra cui Michele Santoro,
Daniele Luttazzi) licenziati personalmente con un potere che non aveva - ma che
alla Rai, tramite personale subalterno, è diventato immediatamente esecutivo -
dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Molti di noi hanno
frequentemente citato con scandalo la motivazione di quel licenziamento:
"attività criminosa". Con queste parole Silvio Berlusconi che - ci
viene detto - non è nemico ma solo avversario, intendeva descrivere ogni
attività di opposizione. E a molti di noi è sembrato naturale definire
"regime" la situazione politica in cui un governante
vuole e può mettere a tacere chi non lo esalta. Ora, cambiato il tempo, il
governo - e, un pochino anche il Paese e la Rai - Enzo Biagi ritorna. E con la
sua trasmissione dedicata alla Resistenza, nel senso originale del 25 Aprile e
nel senso perenne del non piegarsi solo perché qualcuno è più ricco e potente e
ti può anche mettere al bando, racconta con la sua implacabile pacatezza che
esiste una Italia incompatibile con l'Italia libera e democratica evocata da
quel giorno e descritta nei dettagli dalla Costituzione. E che non è questione
di sentimenti (inimicizia o gentile confronto) ma di nessun punto di
corrispondenza fra un'Italia e l'altra. Dice che non bastano né le lacune della
memoria né la potenza dei media (tuttora in prevalenza orientati a non
offendere un grande editore che può comprare tutto, e può comprare molti) a
oscurare l'incompatibilità di un'Italia con l'altra. Credo che possa essere
utile confrontare il sommario della trasmissione con cui Biagi torna in Tv con
l'articolo di fondo de Il Giornale (autore Massimo Teodori) dello stesso
giorno. Quell'articolo celebra la buona accoglienza riservata a Berlusconi nei
due congressi fondanti del nascente PD, ma poi elenca le tappe, che per
l'autore sono esecrabili, della "delegittimazione di Berlusconi".
L'Italia di Biagi si apre con Roberto Saviano e la piovra della camorra con cui
non si può convivere, si chiude con Tina Anselmi, mai dimenticata
investigatrice della P2, passa attraverso la Resistenza come guerra partigiana
e lotta al fascismo. Ci fa riascoltare la voce limpida di Primo Levi che
descrive con la famosa chiarezza come si distrugge un essere umano. Ascolta
Vittorio Foa da giovane: si poteva non resistere? E colloca al centro il
magistrato Gherardo Colombo, verso cui molti italiani si considerano debitori
(come verso tutto il Pool di Mani pulite) per la coraggiosa, tenace,
difficilissima difesa della reputazione dell'Italia, mentre stava per essere
ricoperta da un blob di corruzione tra i più vasti e più
estesi al mondo. Dunque, lo stesso giorno in cui è andata in onda la
trasmissione-manifesto di Enzo Biagi, Massimo Teodori ha scritto: "La
storia (della delegittimazione e demonizzazione del "nemico"
politico, Ndr) cominciò dal colle più alto con Oscar Luigi Scalfaro che
distorse i poteri presidenziali contro il premier". Come è noto "li
distorse" per impedire che il plurinquisito Previti, ora condannato in via
definitiva, diventasse ministro della Giustizia, evitando dunque un grave
insulto alla Repubblica e all'immagine dell'Italia nel mondo. L'articolo di
Teodori continua: "La storia proseguì con l'accanimento giudiziario in
sintonia con l'ala giustizialista dei post-comunisti". Si capisce
l'intento. "Accanimento giudiziario" deve diventare il titolo di un
capitolo della storia italiana, quello dei processi a Silvio Berlusconi.
L'autore evidentemente conta sul fatto che a poco a poco smetteremo di
insistere nel raccontare ciò che è avvenuto davvero e finiremo per dire che,
sì, quelle gravissime imputazioni non erano che vaneggiamenti di giudici
comunisti. L'affermazione viene dalla casa che non ha esitato a dire e a
ripetere che "bisogna essere mentalmente tarati per fare i giudici".
Ma l'autore del fondo de Il Giornale implacabile continua: "Infine i
girotondi espressero, ai limiti del grottesco, quell'animus giacobino tanto
gradito ai piani alti dellapolitica illiberale e della gauche
caviar, la cui nobile aspirazione era vedere in manette il parvenu della politica".
Poiché i girotondi sono mobilitazione spontanea, diventa interessante
l'evocazione dei "piani alti della politica illiberale"
che vuol dire: è illiberale chi invoca "la legge uguale per tutti" e
denuncia le leggi ad personam che la rendono "legge di uno solo". La
frase è affetta da palese assurdità fattuale, logica e storica. Ma Teodori ha
un punto di forza su cui poggiare la sua costruzione orwelliana del
"ministero della verità". Dice infatti in conclusione: "Se il
Partito Democratico servirà a tenere a freno le pulsioni antidemocratiche tanto
radicate nei politici di sinistra (ovvero l'ostinazione a ripetere : "la
legge è uguale per tutti", Ndr) sarà un passo avanti per l'Italia civile e
liberale". Sembra chiaro che qui si sta accennando all'Italia di Previti,
Dell'Utri, Cuffaro, dei beneficiari di condono continuo, degli evasori lodati
perché "a un certo punto diventa legittimo frodare il fisco", degli
scrupolosi autori dei falsi in bilancio, di personaggi come il sindaco An di
Trieste che ha sempre rifiutato di recarsi alla risiera di San Sabba dove
fascisti e nazisti massacravano gli ebrei. Del resto il capo di tutta questa
gente mai si è fatto trovare - lui che è dappertutto - ad una celebrazione del
25 aprile durante i cinque anni del suo celebrato governo costellato di canzoni
e di allegre passeggiate a Villa Certosa. L'Italia di Tina Anselmi, di Oscar
Luigi Scalfaro, di Gherardo Colombo, dei girotondi ne ha fatto a meno. Come si
vede la questione - che è giusto ripetere nel giorno della Resistenza
incoraggiati dal libero ritorno in video di Enzo Biagi - non è di buona
educazione (anche se è bene mostrare buona educazione quando Silvio Berlusconi
si presenta al congresso di un partito che ha appena finito di considerare
autore di "delitti, morte e miseria"). È una questione di
incompatibilità. L'Italia della Liberazione e della Costituzione è
incompatibile con l'Italia della illegalità che ha cercato, senza successo, di
cancellare il 25 aprile e metà della Costituzione italiana nata dal 25 aprile.
La scelta fra queste due Italie è una decisione drammatica che tocca agli
elettori. A noi spetta il compito di rendere chiara l'alternativa. furiocolombo@unita.it.
L'amarezza
di George senior "L'America è stanca dei Bush" La confessione dell'ex
presidente al "Larry King show"
DAL
NOSTRO INVIATO WASHINGTON - Arrivato alla non trascurabile età di 83 anni,
quando l'anagrafe consente agli umani di dire verità altrimenti
impronunciabili, Giorgio I, il patriarca del clan Bush, l'ex presidente George
Herbert Walker, ammette quello che l'opinione pubblica americana sta gridando
da mesi nei sondaggi e nelle urne elettorali, che l'America comincia ad averne
le tasche piene dei Bush. "Si avverte nel Paese un fenomeno che si
potrebbe definire "Bush fatigue"", un affaticamento da overdose
di questa famiglia che da 300 anni, da quando il capostipite, Richard Bush,
sbarcò a Bristol nel New England produce più potere, ricchezza e, con l'ultimo
rampollo disastri, di quanti i Kennedy o i Rockefeller o i Roosevelt avrebbero
potuto sognare. Deve essere stato duro, e per ciò encomiabilmente onesto, per
il 41esimo presidente degli Stati Uniti, il cui nome è stato dato alla sede
della Cia, ad aeroporti, ad autostrade in Texas, ammettere che la casa regnante
ha stancato e per i suoi rampolli è arrivato il momento di sedersi per qualche
anno in panchina, soprattutto mentre uno dei suoi figli, George W., ha ancora
21 mesi di stanco regno davanti. Da quando era uscito, immeritatamente, dalle
scena del potere nel 1993, cedendo lo scettro a Clinton a causa di una
scissione dell'elettorato conservatore e repubblicano spaccato da un terzo
partito, "the old man", il grande vecchio della casata aveva sempre e
con grande classe evitato di dare giudizi pubblici o consigli ai suoi "boys"
ambiziosi. Gli deve essere costato molto caro, perciò, rispondere a Larry King
della Cnn che gli chiedeva se l'altro figlio, quello prediletto, il
secondogenito Jeb, avesse intenzioni presidenziali dopo avere governato la
Florida: "Spero di no, spero che, dopo avere fatto bene come governatore,
rimanga fuori per qualche tempo e pensi al suo futuro politico più lontano che
può essere molto importante". Come accade nella famiglie ben educate, il
patriarca manda quindi un doppio messaggio obliquo ai propri figli. Segnala a George
W. che la sua presidenza ha generato un certo senso di indigestione, un rigetto
per il nome della famiglia, che i sondaggi di popolarità confermano con indici
disastrosi, attorno al 34%. Ma ricorda che l'avventura di questa antica
dinastia di sangue irlandese non è finita con il fiasco del 43esimo presidente,
perché Jeb, smaltita la nausea da Bush, "è un uomo con un avvenire in
politica, perché è un uomo retto, un governatore che ha ben meritato e ha fatto
molto bene in Florida". Dunque "ha un avvenire", ma non per
questo giro elettorale del 2008, semmai per il prossimo, nel 2012. Non è mai
stato un mistero, né un pettegolezzo, il fatto che fosse Jeb il cocco di
famiglia, il ragazzo più brillante e serio sul quale la matrona dalla candida
aureola prematuramente imbiancata dalla morte per leucemia della figlia Pauline
a 4 anni, Barbara, e il padre, avevano puntato le loro speranze. Almeno fino a
quella presunta epifania religiosa che all'età di quarant'anni avrebbe
strappato George W., l'attuale presidente alla sua vita scioperata di bevute,
di arresti per guida in stato di ubriachezza e di notti bianche, era il
secondogenito Jeb, nato nel 1953 e più giovane di cinque anni rispetto a
George, il cavallo destinato a portare i colori della scuderia. Del primogenito,
di "Dubya", papà non si era mai fidato interamente, affidandogli
compiti ancillari nelle sue campagne elettorali e poi durante la presidenza. E
quando aveva manifestato ambizioni presidenziali, dopo avere vinto a sorpresa
il governatorato del Texas, era stato George il Vecchio a convocare d'urgenza i
propri ex consiglieri e l'ambasciatore saudita principe Bandar perché gli
spiegassero i fatti della vite ed erudissero il pupo nelle vicende del mondo e
della politica internazionale delle quali era digiuno. E non è un segreto di
stato neppure il fatto che l'ex presidente, abbia seguito con angoscia
l'avventura militare lanciata dal figlio lungo quella via di Bagdad che lui
aveva accuratamente evitato di imboccare dopo la prima guerra nel Golfo, prevedendo
che sarebbe accaduto esattamente quello che sta accadendo ora in Iraq.
"Mio padre sa che il presidente ora sono io" disse petulante qualche
mese fa George W. a Brian Williams, che lo intervistava per la rete Nbc.
"E io non mi consulto con lui, mi consulto con un Padre più in alto",
spiegò a uno sbigottito Bob Woodward per il suo libro sulla guerra in Iraq. Ora
con garbo wasp molto sotto tono, con eleganza patrizia e indiretta, il vecchio
leader di questa casata trisecolare che ha prodotto un senatore, due
governatori, un vicepresidente e due presidenti oltre a una considerevole
quantità di ricchezza, gli restituisce la cortesia. Dicendo, a chi orecchie per
intendere come certamente ha il figlio, che l'America non è davvero stanca dei
Bush, ma di un Bush.
Finanza e Mercati 25-4-2007 L'onda lunga generata dallo tsunami che sta
investendo il real estate spagnolo si è abbattuta anche in Italia
. A
farne maggiormente le spese è stata Risanamento, che ieri ha chiuso in
flessione del 3,16% a 7,85 euro con oltre 767mila titoli passati di mano. È
comunque stata una giornata da dimenticare per tutte le altre quotate. Tra
queste Igd ha perso il 3,1%, Bastogi il 2,75%, Beni Stabili il 2,7%, Pirelli
Real Estate il 2,3% e Ipi l'1,2 per cento. Ad affondare il mattone di casa
nostra, sono state le voci di un possibile quanto imminente scoppio della bolla immobiliare in
Spagna dopo il boom registrato negli ultimi 12 anni (solo nel 2006 i prezzi
sono aumentati in media del 9,1%). Gli ultimi dati mostrano invece la crescita più
lenta dal1998 a questa parte. Mentre il numero di compravendite è sceso
nel primo trimestre del 7,2% in quella che si configura la performance peggiore
degli ultimi sette anni. Timori che hanno penalizzato le azioni dell'iberica
Astroc Mediterraneo. E che stanno tenendo col fiato in sospeso anche l'Italia,
considerato uno dei mercati europei più affini a quello spagnolo.
ROMA
Il governo ha presentato l’emendamento che riconosce maggiori poteri all’
Autorità per le Comunicazioni in tema di separazione della rete Telecom. Il
testo è stato trasmesso dal ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni, che
lo ha messo a punto, al ministro dei Rapporti con il Parlamento Vanino Chiti
che lo depositerà in commissione Attività Produttive della Camera, dove confluirà
nel ddl liberalizzazioni.
L’emendamento modifica l’articolo 45 del Codice delle Comunicazioni
elettroniche (in pratica il Testo unico delle tlc) e amplia i poteri dell’
Agcom che, nel caso la trattativa in atto con la società non si concluda con
un’ intesa condivisa, potrà imporre la separazione strutturale delle
infrastrutture tramite «un preciso iter procedimentale per raggiungere tale
scopo, nel rispetto delle indicazioni del quadro normativo comunitario e in
linea con i più recenti provvedimenti legislativi nazionali».
Per quanto riguarda l’oggetto, e cioè «la rete pubblica di accesso» la nozione
citata dal provvedimento «non è circoscritta al cosiddetto ultimo miglio» ma
riguarda una più elastica definizione finalistica, che comprende tutti gli apparati
e gli elementi che compongono la rete «ivi incluse le componenti necessarie
alla fornitura di servizi a banda larga». L’emedamento ribadisce però, che
questi poteri ’atipicì che vengono riconosciuti all’ Agcom, potranno essere
utilizzati solo nel caso che fallisca la trattativa, già incorso con la
Telecom, per arrivare ad un’intesa condivisa sulla separazione funzionale della
rete in modo da garantire «la piena paritàdi trattamento tra tutti gli
operatori».
INDICE 24-4-2007
++
AgenParl
24-4-2007 MAI DIRE MAI E IL PD AVVIA IL DIALOGO CON L’UDC
++ AgenParl
24-4-2007 PARISI CRITICA RUTELLI E CHIEDE A GRAN VOCE LA COSTITUENTE
DEL PD
+ Il Riformista 24-4-2007
La svolta anti-oligarchica che solo Scalfari vede di Emanuele Macaluso
Da vita.it 23/12/2004 Masciandaro,
nuovo presidente della Banca Popolare del Materano
Il Sole 24 Ore 6-4-2007 Antiriciclaggio
Partono i lavori per il testo unico
Marketpress.info 24-4-2007
RICERCA RIVELA L'EVOLUZIONE CONTINUA DELL'INFLUENZA AVIARIA IN EUROPA
++ AgenParl 24-4-2007 MAI DIRE MAI
E IL PD AVVIA IL DIALOGO CON L’UDC
Roma,
24 Aprile 2007 – AgenParl - Franco Marini, lasciando a Palazzo Madama la sua veste
di seconda autorità dello Stato, alla chiusura del congresso della Margherita
ha voluto dire la sua. La sua di navigato uomo politico deciso a cogliere tutte
le opportunità atte ad assicurargli un ruolo nel futuro assetto politico che si
fonderà, come ha lasciato chiaramente intendere, nella riedizione del
centrismo.
E, pertanto, ha preannunciato questo avvenire rimarcando la temporaneità della
coalizione di centrosinistra. “Le coalizioni – ha affermato – “non sono
eterne”, quasi prevedendo l’immaturo tramonto dell’Unione guidata da Romano
Prodi, come auspicato anche da Silvio Berlusconi.
Marini, dunque, si è allineato a Berlusconi desiderando anche le larghe intese?
Apparentemente, sembrerebbe di sì, anche se non si nasconde certamente quali e
quante sono le difficoltà per dare corpo ad un’operazione del genere. Ma la
gestione del nuovo centrismo, iniziata con lo scioglimento di Quercia e
Margherita, potrebbe compiersi anticipatamente con un parto settimino, visto
che, mentre crolla la popolarità del governo e del suo leader, il nuovo Ulivo
democratico si è posto quale interlocutore unico dell’UDC e …della Lega di
Umberto Bossi.
Il risultato del primo turno elettorale francese, poi, ha dato la stura a
significative considerazioni.
D’Alema per primo, e poi Prodi, hanno consigliato alla socialista Sègolène
Royale la formula vincente: l’alleanza con il centrista Bayrou. Lo stesso Prodi
ha detto che per l’Italia bisognerebbe fare altrettanto. Aprire, quindi, la
porta ai moderati centristi di Casini, incuranti pertanto delle proteste della
sinistra alternativa.
La prevedibile uscita di Prc, Pdci e Verdi dalla coalizione, allorché il PD
tenterà l’operazione centrista, non preoccupa i suoi promotori. Infatti, pur
non essendo compensativi i voti dell’UDC rispetto a quelli che verrebbero meno
con l’uscita della sinistra radicale, interverrebbe il fattivo supporto della
Lega, la quale consentirebbe la costituzione di una nuova maggioranza più
consistente, specie al Senato, di quella odierna.
Questo passaggio, in fondo auspicato da quanti desiderano l’isolamento
dell’irrequieta sinistra, avverrebbe attraverso la costituzione di un governo
istituzionale che, ovviamente, non potrebbe essere presieduto dal
rifondazionista Bertinotti e di cui non dovrebbero far parte i transfughi
diessini.
Il ministro ulivista Bersani, parlando con il suo amico udiccino Bruno Tabacci
di questa ipotesi, l’ha commentata positivamente e ai critici ha risposto: “mai
dire mai”, perché consapevole della disponibilità della Lega nei confronti della
quale il suo partito ha assunto impegni sulla legge elettorale e sul
federalismo fiscale. E, appunto in vista dell’articolazione legislativa di
questi provvedimenti, Bossi ha risposto con un netto ‘no’ all’invito ad entrare
nella federazione del centrodestra.
++ AgenParl 24-4-2007 PARISI
CRITICA RUTELLI E CHIEDE A GRAN VOCE LA COSTITUENTE DEL PD
Roma,
24 Aprile 2007 – AgenParl – “Al congresso dei Ds ho provato commozione, a
quello della Margherita rabbia”. A parlare non è il ministro dell’Università
Fabio Mussi ma il diellino Arturo Parisi.
In effetti il ministro della Difesa, già prima delle assise del suo partito,
aveva criticato non poco la fase di “gestazione” del Partito Democratico. Alla
fine del congresso ha ‘bacchettato’ soprattutto il ‘traghettatore’ Rutelli, reo
di aver trattato la forza unitaria in un’ottica di “definizione di quote e non
di partecipazione popolare”.
Parisi infatti ha da sempre sostenuto la nascita del Pd, ma se lo immaginava in
un altro modo, non come una mera sommatoria tra Ds e Margherita. Non a caso ora
chiede a gran voce la “convocazione” di un’assemblea costituente, nella quale
valga il principio di “una testa un voto”. Inoltre punta sulla partecipazione
popolare attraverso la convocazione delle primarie per eleggere il leader:
“sono gli elettori che devono decidere la guida”. (G.R.S.)
++ La Stampa 24-4-2007 «Nelle
prossime settimane le precipitazioni dovrebbero essere inferiori alla media e
questo potrebbe, in effetti, aggravare le cose. Ma non siamo ancora in
pericolo».Bertolaso: "Sono soltanto parole, manca un vero piano
operativo" DANIELA DANIELE
ROMA
Dall’emergenza rifiuti in Campania, a quella di una primavera vestita d’estate
che minaccia d’assetare il Paese nei prossimi due o tre mesi: Guido Bertolaso,
responsabile della Protezione Civile, ha il telefono caldissimo.
Siamo prossimi alla catastrofe o c’è speranza?
«Non esageriamo. La situazione è sotto controllo. Già da alcuni mesi stiamo
seguendo l’evolversi climatico e abbiamo lavorato con la nostra cabina di
regia, con i tecnici. La situazione è sì difficile, ma non siamo certo ancora
all’emergenza».
Le previsioni?
«Nelle prossime settimane le precipitazioni dovrebbero essere inferiori alla
media e questo potrebbe, in effetti, aggravare le cose. Ma non siamo ancora in
pericolo».
Per ora. Ma fra un mese o giù di lì, se le cose non saranno cambiate?...
«Allora si parlerà di emergenza».
Se la situazione non migliorerà, crede che si dovranno imporre limitazioni
all’uso dell’acqua per la popolazione?
«Lo dovrà valutare il governo. Lo stato di emergenza consente di prendere tutta
una serie di misure che, comunque, vanno concertate con le Regioni».
La società responsabile della trasmissione dell’energia elettrica, Terna, parla
di rischio blackout già a giugno. E’ così?
«Terna deve mettersi d’accordo, visto che un paio di settimane or sono, il suo
presidente aveva dichiarato: nessun rischio blackout per la prossima estate.
Evidentemente, qualcosa è cambiato nelle loro valutazioni. Mi sembra, più che
altro, un mettere le mani avanti... Dato quanto accadde...».
Gli ambientalisti dicono che, capricci climatici a parte, prima responsabile è
la cattiva gestione delle risorse idriche.
«E’ il solito ritornello. Le infrastrutture non sono adeguate, sono obsolete,
non si è fatto un piano e via di seguito».
Ma è vero.
«Sono d’accordo. Sarebbe bene, adesso, che a queste affermazioni seguisse un
piano operativo, un qualche intervento concreto che può fare solo il governo,
non certo la Protezione civile. Ci vuole, per esempio, come dice il ministro
delle Politiche agricole, un piano irriguo nazionale, già immaginato, ma che
deve diventare concreto».
A proposito del ministro De Castro: non è d’accordo con il suo collega,
Pecoraro Scanio, ministro dell’Ambiente, sulla necessità di dichiarare lo stato
d’emergenza. Lei che ne dice?
«Ritengo che questa decisione vada presa soltanto insieme con le Regioni.
Sicuramente, entrambi i ministri hanno buoni motivi per le proprie
affermazioni. Ma entrambi sanno perfettamente che per adottare un tale
provvedimento bisogna confrontarsi con le Regioni. E anche d’intesa con il
ministero della Salute che ha un ruolo importante quando si parla di siccità,
calore e rischio per gli anziani ».
Per ora, comunque, la task force che si è formata non ha ancora preso alcuna
decisione.
«No, e questo dimostra che non siamo ancora all’emergenza vera e propria.
L’importante, in questa fase, è studiare e valutare bene la situazione,
immaginare tutte le misure che si possono adottare: insomma, avere un piano
preciso. Così, di fronte all’emergenza, si dovrà soltanto diventare operativi».
+ Il
Corriere della Sera 24-4-2007 Drogavano e abusavano di bimbi a scuola Sei le persone arrestate. Si ipotizza che ci siano
filmati delle violenze
Rignano
Flaminio (Roma): insegnanti e collaboratori di una scuola materna ed elementare
narcotizzavano i piccoli tra i 5 e i 10 anni
ROMA -
Li narcotizzavano, e spesso anche drogavano, per costringerli poi a partecipare
a giochi erotici. Vittime di alcuni insegnanti e collaboratori di una scuola
materna ed elementare di Rignano Flaminio, vicino Roma, erano alcuni bambini
tra i 5 e i 10 anni. Sei le persone arrestate, tre maestre, il marito di una di
loro (un autore televisivo di un’emittente nazionale), una bidella e un addetto
a una pompa di benzina, questa mattina dai carabinieri di Bracciano su
disposizione della Procura di Tivoli, dopo un'indagine durata
oltre un anno e
partita a seguito della denuncia di alcuni genitori.
Le accuse ipotizzate per le sei persone arrestate, tutte residenti tra Morlupo e Rignano Flaminio, due
paesi alle porte della capitale, sono quelle di associazione a delinquere
finalizzata alla sottrazione di minore, sequestro di persona, violenza sessuale
di gruppo, violenze sessuali su minore di anni 10 e atti osceni in luogo
pubblico. Secondo quanto è emerso dalle indagini degli investigatori dell'Arma,
alcuni docenti e collaboratori della scuola comunale materna conducevano le
giovani vittime al di fuori del complesso scolastico e le costringevano a
giochi erotici narcotizzando e drogando spesso i bambini.
Se l'inchiesta dei carabinieri su un presunto giro di
pedofilia a Rignano Flaminio risale al luglio
scorso, lo scandalo nel paese è scoppiato la mattina del 13 ottobre 2006 quando
i carabinieri della compagnia di Bracciano eseguirono un blitz nella locale
scuola materna. Su disposizione della Procura di Tivoli due maestre e una
bidella furono portate in caserma dove furono interrogate a lungo. Nel registro
degli indagati furono iscritte sei persone. Comprensibile lo sconvolgimento nel
piccolo comune tra Roma e Viterbo dove vivono settemila abitanti. Le indagini
sarebbero cominciate in seguito a quattro denunce presentate da famiglie di
alunni che avevano notato - e fatto attestare da tanto di certificati medici -
strani arrossamenti o piccole escoriazioni nelle zone dei genitali dei bambini.
I piccoli coinvolti si disse che erano una quindicina. La vicenda spaccò il
paese tra accusatori e difensori. In mezzo, il sindaco, Ottavio Coletta, il
quale convocò una riunione pubblica in Comune esortando la magistratura a
chiarire al più presto la situazione. Già da allora circolò la voce in base
alla quale i carabinieri avevano accertato che in orario scolastico i bambini
venivano portati con un pulmino in un locale privato, dove venivano fatti
spogliare e ripresi mentre subivano abusi sessuali. Alcuni, per essere tenuti
calmi, sarebbero stati addirittura drogati.
Secondo la ricostruzione dei carabinieri, c'era un appartamento, messo a disposizione da
una delle maestre arrestate, dove le piccole vittime, tutte di tre o quattro
anni, venivano molestate e violentate. L'appartamento è stato scoperto dai
militari dell'Arma nel corso dell'indagine e secondo quanto si è appreso i
bimbi della materna coinvolti nel giro di pedofilia sarebbero circa 10-15.
24
aprile 2007
+
Il Riformista 24-4-2007 La svolta anti-oligarchica che solo Scalfari vede di
Emanuele Macaluso
Spenti i riflettori che hanno abbagliato i delegati del congresso Ds, la maggioranza
dei quali ha ascoltato discorsi generici e retorici e assistito a dolorose
separazioni, cosa resta come sostanza politica della prospettiva che era stata
indicata? La risposta sembra semplice: è stata confermata la volontà della
maggioranza di confluire nel Partito democratico. E, siccome anche il congresso
della Margherita ha dato la stessa indicazione, la nave del Pd, come scrive
Scalfari, è partita. Già, ma dove approderà? Ovvero quale sarà la base
politico-culturale di un partito su cui si è detto tutto e il contrario di
tutto: è nel Pse ma non c’è, è laico ma i confini della laicità li segnano i
cattolici della Margherita, è un partito del lavoro, ma anche dell’impresa e
delle banche, è di sinistra (come ha gridato Fassino) e di centrosinistra ma
anche di centro, è portatore di un riformismo radicale ma anche moderato, è
democratico e oligarchico, femminista e maschilista, giovane e vecchio, laico
ma con la radice cristiana.
Scalfari scrive che il congresso della Margherita sarebbe stato solo una
«registrazione di posizioni tra le varie correnti». Quello della Quercia invece
l’ha visto «dominato dal pathos di un popolo di militanti - che ha deciso di
rompere gli ormeggi per farsi protagonista del futuro - con una classe
dirigente che smantella l’oligarchia cui fino a ora si era affidata e decide di
uscire dal limbo dei post e degli ex per mettersi finalmente nel mare aperto
della democrazia senza aggettivi». Ma quale congresso ha visto il fondatore di
Repubblica per dire che è stata «smantellata l’oligarchia» se quell’assise è
stata dominata dalla recita a soggetto di coloro che lo stesso Scalfari
definisce oligarchi?
È il confronto tra i due congressi che non regge e meglio di Scalfari l’ha
capito un popolano di Testaccio (dove abito) che domenica, incontrandomi, mi ha
detto: «Siamo finiti nel ventre della Balena». Lasciamo stare le metafore, ma
stupisce il fatto che persone navigate non capiscano che cos’è e cosa sarà
domani, col Pd, il mondo che ruota attorno a quel nucleo di persone che esprimono,
anche nella Margherita, la continuità di un sistema di potere che ha le sue
radici nella Dc. Quale reciproca influenza ci sarà tra quel nucleo politico
cattolico e le gerarchie ecclesiastiche, i settori dell’associazionismo
moderato (industriale, commerciale, agricolo), le banche, l’Opus dei e la
massoneria laica, l’informazione (Rai in testa) e quell’insieme di poteri
locali che condizionano già oggi l’Ulivo? È questo aggregato politico economico
che avrà la golden share del Pd.
Sia chiaro si tratta di forze reali della società in cui viviamo che si
esprimono legittimamente in un gioco democratico ma che tenderanno a dare una
loro impronta al Pd. La separazione dal Pse, voluta e ottenuta da questo
gruppo, ha questo senso. E il cedimento dei Ds ha un significato
inequivocabile. Solo chi non conosce la duttilità e la durezza, la cautela e la
spregiudicatezza di un personale politico e parapolitico, abituato a trattare e
contrattare nella sfera della politica e degli affari non capisce che sarà
proprio quel personale a definire i confini di ciò che può essere e non essere
il Pd e ciò che esso potrà fare e non fare. Da ora in poi gli ex Ds si
troveranno nelle condizioni di dovere bere o affogare. Chi vivrà vedrà.
La Repubblica 24-4-2007 Popolare di Matera,
scandalo mutui "Una vera associazione a delinquere" La Finanza: tassi
stracciati e garanzie finte a giudici e industriali FRANCESCO VIVIANO. In
attesa che la pm di Matera decida se chiedere il rinvio a giudizio dei 35
indagati (tra questi il presidente Donato
Masciandaro, il direttore generale Giampiero Marruggi, il vice Antonio
Scalcione e l'amministratore delegato Guido Leoni)
Da
giovedì sono arrivati all'istituto anche gli ispettori della Banca d'Italia Due
Procure stanno indagando su una serie di prestiti. Coinvolti anche politici
locali Ecco il rapporto delle Fiamme Gialle sulla banca
DAL
NOSTRO INVIATO MATERA - E' tra due fuochi la Banca Popolare del Materano
(Gruppo Popolare Emilia Romagna). Da una parte gli ispettori della Banca
d'Italia giunti giovedì scorso a Matera per controllare l'allegra gestione
dell'istituto di credito; dall'altra le procure di Catanzaro e di quella
materana che stanno indagando su una serie di concessioni di mutui per milioni
e milioni di euro senza ipoteche né garanzie, concessi a politici, magistrati,
imprenditori e "amici degli amici". Gli inquirenti vogliono fare luce
su quello che ritengono un vero e proprio "comitato d'affari", una
"struttura parallela", che secondo la Guardia di Finanza, agirebbe
all'interno della Banca Popolare del Materano, i cui vertici sono indagati con
l'accusa di truffa aggravata e associazione a delinquere. "Sto ancora
lavorando - dice il pubblico ministero Annunziata Cazzetta - e non posso certo
parlare di un'inchiesta in corso". In attesa che la pm di Matera decida se
chiedere il rinvio a giudizio dei 35 indagati (tra questi il presidente Donato
Masciandaro, il direttore generale Giampiero Marruggi, il vice Antonio
Scalcione e l'amministratore delegato Guido Leoni) un altro magistrato, il
procuratore di Catanzaro Luigi de Magistris, sta intanto indagando sui giudici
di Matera che sarebbero stati "favoriti" dall'istituto di credito.
Proprio a lui la Guardia di Finanza ha consegnato in questi giorni un rapporto
esplosivo, secondo il quale all'interno della Banca Popolare del Materano opera
"una vera e propria associazione per delinquere". Ecco cosa scrivono
nel loro rapporto i militari delle Fiamme Gialle. "A commento delle
pratiche di mutuo esaminate (diverse centinaia ndr) è stata accertata la
presenza di un certo sodalizio, di un comitato d'affari che gestisce la banca
orientandone decisioni e strategie secondo indirizzi che non sempre appaiono
ispirati a regole di prudenza e contenimento del rischio, né tantomeno a tutela
dell'interesse principale della banca, rappresentato dal patrimonio
amministrato". Ed ancora: "Tale ristretto comitato d'affari, operante
in maniera occulta e parallela rispetto agli organi amministrativi, che
gestisce ed orienta, propone remunerative corsie preferenziale per i clienti
più privilegiati. Le condotte penalmente rilevanti appaiono ulteriormente
aggravate sia dalla loro sistematicità sia dal fatto che risultano poste in
essere da dirigenti della banca e da professionisti operanti all'interno
dell'istituto di credito in esclusivo vantaggio di certa selezionata clientela
che, di fatto, risulta finanziata ed in taluni casi sovvenzionata, in palese
contraddizione con le più elementari regole di mercato e di cautela gestionale
dell'istituto del credito". Il rapporto delle fiamme gialle, adesso
passato ai raggi x dalla Banca d'Italia e dalla procura di Catanzaro, si
conclude affermando che "a parere di questo Comando, si rilevano i
contorni di una vera e propria associazione per delinquere finalizzata al
mendacio bancario ed alla truffa in danno dei soci e della moltitudine di
clientela della banca". Tra i casi più eclatanti, viene ricordato un
finanziamento di un milione di euro, ottenuto e poi sequestrato, destinato alla
convivente di un ufficiale dei carabinieri, che a garanzia aveva dato un
terreno acquistato due settimane prima della concessione del mutuo per un
valore di soli 22 mila euro. Altro caso: quello di 620 mila euro concesso al
presidente del tribunale di Matera, Iside Granese (indagata a Catanzaro assieme
al procuratore capo Giuseppe Chieco ed a quello di Potenza, Giuseppe Galante):
si tratta di un mutuo ventennale al tasso fisso del 2,95 per cento. Seguono
tanti altri mutui milionari concessi ad imprenditori (anche quelli che avevano
ipoteche con altri istituti di credito) a familiari di politici e a magistrati,
molti dei quali sono finiti "in incaglio" e venduti dalla Banca alla
"Mutina" (la società di cartolarizzazione controllata dal Gruppo Banca
Popolare Emilia Romagna e di Matera) e che difficilmente potranno essere
portati a buon fine "perché - scrivono i finanzieri - privi di garanzie e
di ipoteche di qualunque genere".
MILANO. GIGANTI
bancari senza frontiere. Oggi da Londra ad Amsterdam con la maxi Opa di
Barclays su Abn. Domani, chissà, da Milano a Parigi via Monaco di Baviera con
Unicredito verso Societé Generale. La seconda ondata del consolidamento nel
settore creditizio ha fatto saltare ogni illusione di protezione nazionale.
Professore, perchè si è scatenata questa corsa a fusioni-kolossal? "Il
fatto nuovo è che sui mercati hanno fatto irruzione investitori istituzionali
sempre più forti e aggressivi" risponde Donato Masciandaro, docente di
economia monetaria all'Università Bocconi e studioso del sistema creditizio.
Chi sono questi soggetti ? "Con l'integrazione dei mercati si sono
sviluppati soggetti finanziari con enormi risorse finanziarie, dai fondi
pensioni fino ai più aggressivi fondi hedge. Hanno un peso rilevante e
rappresentano un fattore dinamico sulla struttura proprietaria, sia di aziende
industriali sia di banche. E chiedono conto dei loro investimenti" Eravamo
abituati ad azionariati più stabili.. "Questi si muovono con logiche di
mercato, padroni senza volto di cui spesso non sappiamo nulla, capitali che
attraversano tutte le frontiere" Si, ma perchè questi capitali inseguono
dimensioni internazionali sempre più grandi ? "Perchè il business di una
grande banca non è più l' intermediazione, cioè raccogliere e prestare denaro.
Le banche sempre più devono assumere posizioni di rischio. E lo possono fare
solo con grandi dimensioni e grandi competenze". Facciamo un esempio... "Se
un istituto di credito pensa di entrare in un gruppo internazionale di
telecomunicazioni deve avere la forza finanziaria ma anche le competenze per
farlo. Può farlo Mediobanca o Banca Intesa ma non la piccola banca
locale". Per Romano Prodi è "salutare e positiva" la tendenza
verso i maxi aggregati bancari ma occorre anche il rafforzamento delle banche
locali. C'è posto per le loro? "Certo, si va assestando un sistema duale.
Da una parte banche nazionali a vocazione europea, dall'altra un tessuto di banche
territoriali. Le piccole banche locali di credito cooperativo che si mettono in
rete fra di loro". In Italia i giganti internazionali sono due, Intesa e
Unicredito. Gli istituti medi che faranno? "Cercheranno dimensioni di
scala, o aderendo a uno dei due poli, come Carifirenze in Intesa-Sanpaolo, o
cercando maggiori spazi autonomi come con le recenti fusioni fra banche
popolari" Con quali vantaggi di efficienza per i clienti? I giganti non
dominaranno il mercato? "Il problema è la concorrenza. Tutti i soggetti bancari
si affronteranno sul territorio, sui costi e sui servizi. La competizione
dovrebbe trasferire a valle tutti i vantaggi della concorrenza".
Da
vita.it 23/12/2004 Masciandaro,
nuovo presidente della Banca Popolare del Materano
di Redazione (redazione@vita.it)
Subentra ad Attilio Caruso il quale, come annunciato a
giugno, ha lasciato ieri il suo incarico
Il Consiglio di amministrazione della Banca Popolare
del Materano (Gruppo Banca Popolare dell'Emilia Romagna) ha eletto nuovo
presidente dell'istituto, Donato Masciandaro. Il nuovo presidente, consigliere di
amministrazione della banca dal 1994, ricopriva già la carica di vice
presidente. Subentra ad Attilio Caruso il quale, come annunciato a giugno, ha
lasciato ieri il suo incarico. Donato Masciandaro, 43 anni,
sposato
e con due figli, è nato a Matera e risiede a Milano. E' professore di economia
monetaria all'Università Bocconi di Milano e presso l'Università degli Studi di
Lecce. Ricopre, inoltre, diversi incarichi in istituzioni finanziarie ed è
probiviro della Borsa italiana.
Il
Sole 24 Ore 6-4-2007 Antiriciclaggio
Partono i lavori per il testo unico
ROMA
Sarà insediata subito dopo le feste pasquali la commissione di studio
incaricata di raccogliere in un Testo unico tutte le disposizioni, legislative
e regolamentari, in tema di antiriciclaggio. L'obiettivo è quello di
"eliminare le duplicazioni,chiarire e riorganizzare gli interventi in
materia".Lo ha annunciato il sottosegretario all'Economia Mario Lettieri,
che presiederà la commissione. Insieme con Lettieri, a comporre l'organismo
sono stati chiamati Pier Luigi Vigna e Luigi Ciampoli, rispettivamente
procuratore generale onorario e sostituto procuratore onorario presso la Corte
di cassazione, Raniero Razzante, docente di Legislazione antiriciclaggio
all'Università di Macerata, Donato Masciandaro, professore di Economia
monetaria presso il centro"Paolo Baffi"dell'Università Bocconi di
Milano, Renato Righetti, capo servizio antiriciclaggio dell'Ufficio italiano
cambi, Giuseppe Vicanolo, capo del terzo reparto operazione della Guardia di
finanza, Glauco Zaccardi, magistrato dell'Ufficio legislativo finanze, Giuseppe
Maresca, capo della direzione Valutario, antiriciclaggio e antiusura del
dipartimento del Tesoro, ed Emanuele Fisicaro, docente universitario, cultore
di diritto penale commerciale all'Università di Bari."La delega alla
commissione è stata accordata fino a fine anno - ha spiegato Lettieri- ed entro
questa data cercheremo di ultimare i lavori". Intanto, la bozza definitiva
del decreto legislativo che recepisce la Terza direttiva antiriciclaggio
(2005/60/Ce) si avvicina al traguardo del Consiglio dei ministri. Il testo,
ritoccato in alcuni punti per accogliere i suggerimenti delle categorie
ascoltate nei mesi scorsi, dovrebbe infatti approdare a Palazzo Chigi entro
fine aprile. E proprio lo schema di decreto legislativo è "un ottimo punto
di partenza -ha assicurato Lettieri - per redigere il Testo unico antiriciclaggio,perché
abrogae sostituisce buona parte della normativa precedente". V.M.
Ma
chi ha liberato l'Italia? E' vero che furono gli angloamericani? Per l'on.
Virginio Rognoni - già ministro e vice presidente del Consiglio Superiore della
Magistratura - questo è un modo per misconoscere i meriti della Resistenza. E
non si può non essere d'accordo, se si pensa il perchè e quando è iniziata la
Resistenza. Fin dal primo giorno, fin dalle prime manifestazioni di violenza
delle camicie nere (olio di ricino, manganellate, incendi, assassini) contro
chi osava far valere i proprii diritti, contro il popolo, la resistenza
popolare fu la difesa della libertà e, per ciò stesso, dei vitali ed essenziali
interessi nazionali. La dittatura, con l'abolizione di tutte le libertà
democratiche, le leggi e i tribunali speciali, il carcere, il confino,
l'esilio, non riuscì a soffocare l'antifascismo. E l'antifascismo è l'albero
dal quale crebbero i vari rami delle formazioni partigiane, che nelle città e
nelle campagne, con varie forme di guerriglia (per esempio, il 15 giugno 1944
undici partigiani, sette in divisa tedesca e quattro ammanettati, finti
prigionieri, si presentarono dinanzi alle carceri di Belluno difese da numerose
sentinelle armate, di tutto punto e protette da filo elettrico ad alta
tensione. Richiusisi alle loro spalle le porte in ferro, i partigiani disarmano
rapidamente il presidio fascista, chiudono i carabinieri nelle celle e fanno
uscire 73 prigionieri politici. L'azione è durata venti minuti), combatterono
le 26 divisioni naziste e i fascisti di Salò, fino alla gloriosa insurrezione
nazionale, che liberò la città prima dell'arrivo degli Alleati. Alcuni dati:
patrioti e partigiani 340.000, di cui partigiani 240.000; caduti 55.000; feriti
33.000. Questo patrimonio diede la forza al presidente del Consiglio On. Alcide
Degasperi, alla Conferenza Internazionale di Pace, di rappresentare non un
Paese sconfitto ma l'Italia orgogliosa di aver contribuito alla sconfitta del
nazisfascismo. Contribuire significa che altre forze parteciparono alla
liberazione. In questo senso va il riconoscimento alle Forze Alleate. Le quali,
con a fianco il Corpo Italiano delle Forze Armate, diedero un determinante
aiuto in forze umane e di mezzi. Il riconoscimento di questo contributo, però
non può esimerci dal chiederci il perchè dei bombardamenti aerei alleati a
tappeto sulle nostre città, rase al suolo. Secondo punto da chiarire. E' vero
che la lotta di Liberazione è stata una guerra civile? E' ancora l'On. Rognoni
a precisare che non è stata nemmeno una guerra di classe. Ed è una osservazione
acuta quella dell'On. Rognoni, perchè c'è stata la partecipazione di tutte le
categorie sociali e di tutto l'antifascismo fino ai monarchici. E non si
capisce come mai quel famoso giornalista e scrittore - G.P. - possa sostenere
che fu "guerra civile" o anche "guerra interna" (intervista
di Piero Sansonetti). Ma c'era la Repubblica di Salò. Prima di tutto bisogna
ricordare come venivano reclutati i giovani. Per esempio, un giovane renitente
nascosto a casa dello scrivente, dovette presentarsi perchè avevano sequestrato
un familiare. Ma la Rsi fu uno strumento in mano ai nazisti (Hitler si fece
portare Mussolini a Monaco per questo scopo). E questo strumento lo usarono
ampiamente. Perciò, come si può parlare di guerra interna con il paese invaso
da 26 divisioni naziste? Ugo Barbero già partigiano della 168ª Brigata
Garibaldi San Genesio ed Uniti Richieste inutili fatte ai commercianti Sono una
cittadina di Pavia che è rimasta entusiasta dell'arrivo del Papa Benedetto
XVIº. Un Grande nuovo Papa. Però come dipendente di un'attività commerciale nel
centro città (via Volturno), ho l'amaro in bocca. Ho partecipato alla riunione
organizzativa tenutasi la settimana scorsa a Palazzo Mezzabarba con il primo
cittadino e le altre autorità, compreso il Comandante della Polizia Locale,
nella quale oltre alle informazioni riguardanti le disposizioni di sicurezza
abbiamo ascoltato le richieste dei nostri ammiministratori. Ci è stato consigliato
di abbellire le vetrine dei negozi, di aumentare i livelli di educazione e
accoglienza, aprire le attività con orari prolungati, ripulire muri e strade da
segni o graffiti... il tutto per offrire alle migliaia di pellegrini e turisti
che avrebbero raggiunto Pavia un'immagine di città viva e florida. Noi
commercianti tutto questo l'abbiamo messo in pratica, anzi di più. Con lo stile
che ci distingue abbiamo investito maggiormente per offrire molto di più.
Peccato che in questa fase delicata siamo rimasti soli. Allo sbaraglio! Sono
state due giornate di lavoro perso. I nostri Amministravengano tra noi e
chiedano come è andata... e cosa pensiamo di quanto hanno realizzano e hanno
realizzato per incentivare il commercio a Pavia. Laura Tabellini Pavia Qualche
domanda sulla visita del Papa Nel massimo rispetto per la storica visita di
Benedetto XVI a Pavia, mi pongo alcuni interrogativi. Sabato tutto il percorso
del corteo è stato transennato ed è stato impedito
dalle forze dell'ordine ai cittadini di attraversarlo anche a piedi, ben prima
che l'elicottero atterrasse a Pavia; alla mia richiesta se ci fossero varchi in
cui fosse possibile attraversare la strada nessuno ha saputo rispondere. Tutte
le strade extraurbane nei dintorni di Pavia, ben al di fuori dal percorso del
corteo, erano presidiate da numerosissimi mezzi di Polizia e Carabinieri.
Elicotteri volteggiavano bassi sulla città. Era tutto necessario? Ed infine, ma
è il quesito principale, quanto denaro pubblico è stato speso
complessivamente? Mauro Ghislandi Pri, Pavia Il lucido messaggio di Benedetto
XVI Ho letto con meraviglia la lettera inviata dal sig. Mauro Vanetti
pubblicata il 19 aprile: un pamphlet contro la Chiesa e contro il Papa, che si
accingeva a rendere visita alla Città di Pavia. Tale visita è evidentemente
l'occasione propizia per molti per scaricare il proprio livore contro la
Chiesa, che si oppone al riconoscimento dei diritti più elementari della povera
gente, e pensa solo a rafforzare i propri privilegi, ad esempio chiedendo
maggiori finanziamenti per le scuole private. Una Chiesa lontana dall'uomo,
arrogante e aggressiva, che vuole imporre il proprio pensiero non col
"sostegno di un ragionamento", bensì con la "prepotenza del
dogma" e la "minaccia della scomunica" (così si esprime il Sig.
Vanetti). Parole seducenti, specie per chi ha già deciso in cuor suo che la
Chiesa è un'istituzione vecchia e fastidiosa. Peccato che non si comprende come
una persona verosimilmente non cattolica possa avvertire una minaccia in un
dogma, che è una "verità di fede" solo per chi ha fede, o come possa
trovare pericolosa una scomunica che, consistendo nell'esclusione di un membro
dalla comunità ecclesiale, non può certo danneggiare chi si è già autoescluso.
Poi che la Chiesa non possa parlare di matrimonio perché gli ecclesiastici
dovrebbero "teoricamente" averne poca esperienza è affermazione tanto
sfrontata quanto immotivata: sono convinto che si fa esperienza anche senza
"provare", purchè non si rinunci a giudicare ciò che si ha di fronte.
Così non abbiamo bisogno di provare il furto, lo stupro, la calunnia, ecc. per
dire che sono cose ingiuste. Né di provare la povertà, la malattia e
l'abbandono per dire che la carità, la cura e l'assistenza sono cose buone. E
pure la Chiesa non ha bisogno di "provare" su di sè l'aborto e
l'eutanasia per esprimere il proprio giudizio. Né - noi che abbiamo avuto la
fortuna di avere avuto un padre ed una madre che ci hanno cresciuti
instancabilmente nell'unità e nel calore degli affetti familiari - abbiamo
bisogno di "provare" forme alternative per capire che corrisponde di
più alla natura dell'uomo la famiglia "tradizionale". Oppure anche
Gesù, che non risulta essersi sposato, è stato arrogante
quando si è messo a parlare di matrimonio? Ma, conclude il sig. Vanetti, gli
uomini politici che si ritengono laici ed autonomi dai diktat vaticani,
dovrebbero dare prova di coerenza non incontrando il Papa, che verrà a
"farsi un giro" (!) a Pavia. Quale coerenza? Forse censura, rifiuto a
priori del confronto e del dialogo, integralismo ateo, non certo coerenza.
Personalmente, da laico quale sono e ritenendomi autonomo dai predetti diktat
(dai quali pure mi lascio interrogare), vorrei in questo momento essere un uomo
politico pavese per avere la fortuna di incontrare Papa Benedetto XVI, un uomo
dalla straordinaria statura umana e lucidità intellettuale, che ha posto la sua
vita al servizio non solo della Chiesa, ma dell'uomo stesso, affermando
instancabilmente - con la forza della ragione (basta leggere i testi dei suoi
interventi, o il suo ultimo splendido libro per accorgersene) - ciò che rende
l'uomo libero. No, il Papa non viene a Pavia a farsi un giro, viene per portare
la Speranza a chi è disponibile ad accoglierla, ed io, come tanti di altra
parte della Città, vorrei essere tra quelli. Lorenzo R. Valli Pavia I volti
degli ipocriti portati allo scoperto L'ipocrisia è un guanto rovesciato, un
soprabito double-face, l'effigie di Giano Bifronte. Il vocabolo ipocrita deriva
dal tardo latino, che si rifà, a sua volta, al greco classico, hipokrités, che
significa, nella sua essenza, "attore", sostanzialmente "colui
che recita una parte", in altre parole chi fa della simulazione ragione di
vita, o, peggio, fonte di guadagno. La visita del Papa a Papia (Pavia) porta,
per così dire, allo scoperto, tutti coloro che appartengono alla suddetta
categoria. Mi è capitato ultimamente di ascoltare persone e, cosa più grave ancora,
di leggere, espressioni di attesa palpitante, di devoto fervore, di misticismo
zelante, provenire da individui che, fino a poco prima, avevano fatta loro la
frase di Louis Brunel: "Grazie a Dio, sono ateo", oggi rapidamente
convertita nei versi di un canto devoto che veniva intonato durante le
processioni del mese di maggio: "Anch'io festevole, corro ai tuoi
piè". Spinta propulsiva alla conversione, o scaltro, interessato
adeguamento alla circostanza? Quesito al quale, l'ammetto, mi è molto difficile
rispondere. Mi risulta facile, invece, citare un brano dai "Quaderni di
Malte Laurids Brigge", romanzo di Rainer Maria Rilke: "Non mi era mai
capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità
di uomini, ma i volti sono ancora più numerosi perchè ciascuno ne ha più di
uno. Vi sono persone che portano un volto per anni, naturalmente si logora,
diviene livido, si piega alle rughe, si sforma come i guanti portati in
viaggio. Queste sono persone econome, semplici; non mutano in volto, non lo
fanno pulire neppure una volta. Va bene così, sostengono, e chi gli può
dimostrare il contrario? Solo, viene da chiedersi: poichè hanno più volti, cosa
se ne fanno degli altri? Li mettono in serbo. Li porteranno i loro figli.
Capita anche, però, che li portino i loro cani. E perchè no? Una faccia è una
faccia. Altri si mettono un volto dopo l'altro con rapidità inquietante, e li
logorano. A tutta prima sembra loro di averne per sempre; ma sono appena sulla
quarantina, e già arriva l'ultimo. Questo naturalmente è una tragedia. Non sono
abituati a tenere da conto i volti, il loro ultimo se ne va in otto giorni, ha
dei buchi, in molti punti è sottile come la carta, e allora, a poco a poco vien
fuori il rovescio, il non volto. E vanno in giro con esso". Loris Dalla
Mariga Pavia Una grande pubblico per la Coppa Italia Qualche giorno fa Pavia ha
preso parte a un importante e bellissimo evento sportivo: le Final Four di
Coppa Italia A2 femminile. E le ragazze della Riso Scotti, nonostante la
sconfitta contro Busto Arsizio, hanno regalato delle bellissime emozioni. Un
pubblico così caloroso, numeroso e giovane non si era mai visto al Palaravizza.
Grida e applausi hanno scandito l'entrata in campo dello starter six e non
hanno smesso un minuto durante tutti e tre i set... e questo tifo, le ragazze
della Riso Scotti se lo meriterebbero sempre!!! Uno striscione accanto a me
diceva "Regalateci un sogno. Forza Scotti!", e il sogno lo avete
regalato perchè una emozione e una gioia così grande vi e ci ha accompagnato per
tutta la partita. Brave bimbe... grazie! Valentina Arena Pavia.
Ora
si scopre una dozzina di arbitri telecomandati via cavo da Moggi, che forniva
schede estere criptate per parlare in libertà. Ma sul Foglio, che sosteneva la
normalità del sistema Moggi e dava la colpa a Rossi e Borrelli, si parla
d'altro. Anche Ostellino, che sul Corriere definiva il processo alla Juventus
"un mostro giuridico", un "processo staliniano", è
piuttosto distratto. Ricordate i pompieri di Vallettopoli, quelli che "non
c'è reato", "le inchieste di Potenza sono bolle di sapone",
"Woodcock cerca solo le prime pagine", "il problema sono le
intercettazioni"? Bene. Ora si legge che Fabrizio Corona sta collaborando
con la giustizia, facendo i nomi di decine di vip che hanno pagato per non
veder pubblicate le loro foto compromettenti. E non solo i giudici di Potenza,
ma anche quelli di Roma, Torino e Milano emettono mandati di cattura. Ma chi un
mese fa delirava a reti ed edicole unificate, da Vespa a Mentana ai tre quarti
dei commentatori della carta stampata, ora si volta dall'altra parte. Nessuno
chiede scusa, nessuno fa pubblica ammenda delle fesserie dette e scritte. Ma,
se fosse soltanto un problema di giornali e tv, passi. Verba volant. Il fatto è
che, sulla base di quegli slogan bugiardi, si son presentati disegni di legge,
varate riforme, consacrate verità parlamentari. Il ddl Mastella, oltre a
imbavagliare la stampa su tutti gli atti d'indagine, anche quelli non segreti,
limita i centri d'ascolto delle Procure (da 163 a 26) e minaccia i
magistrati che "intercettano troppo" di risponderne di tasca propria
davanti alla Corte dei Conti. L'han votato tutti i partiti, dall'estrema destra
all'estrema sinistra. Sapevano quel che votavano? È lecito dubitarne. In vista
del voto del Senato, farebbero bene a leggersi il Corriere di domenica, che
riporta i dati del ministero della Giustizia sulle intercettazioni nelle 165
Procure italiane. La spesa totale è 250 milioni all'anno, 4 euro e 30 centesimi
per ciascun cittadino: visto che gran parte degli ascolti serve a individuare
narcotrafficanti, mafiosi e assassini, ogni persona di buonsenso è ben felice
di devolvere il costo di quattro caffè all'anno per vivere più sicura. Cos'è
questa storia delle "troppe intercettazioni", in un paese con tre
regioni e mezza in mano alla criminalità organizzata? Si dirà: ma "certe
procure" intercettano troppo. Per esempio quella di Potenza, come
autorevolmente dice a ogni inaugurazione dell'anno giudiziario il procuratore
generale Vincenzo Tufano. Ecco, dai dati del ministero emerge che sono balle:
la Procura di Potenza è solo trentesima in classifica. Preceduta da quelle di
Busto Arsizio, Latina, Nuoro, Trento, Monza, Varese, città non proprio
infestate dalla 'ndrangheta (sempre più presente, invece, in Basilicata). Nelle
prime dieci comunque ci sono Palermo, Reggio Calabria, Napoli, Catania e
Caltanissetta: le capitali della mafia, della camorra e della 'ndrangheta, a
riprova del fatto che i bersagli primari sono le mafie, non il povero principe
di Savoia, i poveri politici e i poveri ricattatori di vip. E allora di che
abbiamo parlato per tutti questi mesi, quando il pm Woodcock e il gip Iannuzzi
venivano additati come i primatisti mondiali dell'intercettazione facile?
Ultima bufala. L'11 luglio 2006 il ministro dell'Interno Amato, parlando delle
inchieste di Woodcock, denuncia in Parlamento un fatto gravissimo: "Sono
esterrefatto, mi dicono che esistono contratti tra giornalisti e chi fornisce
notizie e collegamenti fra Procure e giornalisti, per cui, al momento in cui un
atto viene comunicato agli indagati, viene fornita ai giornalisti la password
per entrare". Ora, dagli atti dell'inchiesta del pm De Magistris, emerge
che tutti i magistrati lucani ascoltati in merito alla "password" han
risposto con una grassa risata. Anche perché non c'è password che consenta l'accesso
ai computer della Procura. Pare che quella leggenda metropolitana sul conto di
Woodcock sia stata raccontata da Tufano al prefetto di Potenza, che la segnalò
al ministro Amato, che senz'alcun controllo la rilanciò in Parlamento. A nove
mesi di distanza, Amato potrebbe forse scusarsi, ed eventualmente consigliare
al collega Mastella di occuparsi di questo Tufano. Visto che gli ispettori
ministeriali sono sempre a Potenza per occuparsi di Woodcock, potrebbero dare
un'occhiata, già che ci sono, al procuratore generale. Pare che sia un tipo
interessante. Uliwood party.
Marketpress.info
24-4-2007 RICERCA RIVELA L'EVOLUZIONE CONTINUA DELL'INFLUENZA AVIARIA IN EUROPA
Studi
genetici dettagliati di campioni di influenza aviaria H5n1 raccolti in Europa,
Medio Oriente e Africa hanno rivelato l'esistenza di un specifico ceppo
euroafricano della malattia presente nella regione e hanno fornito nuove
spiegazioni sulla sua diffusione. Lo studio, finanziato in parte dall'Ue, è
stato pubblicato nella rivista "Emerging Infectious Diseases". I
ricercatori hanno sequenziato i genomi completi di 36 campioni di H5n1
prelevato da uccelli ritrovati in Europa, Medio Oriente, Africa (Ema) e
Vietnam. L'influenza aviaria è stata individuata per la prima volta nella
regione Ema tra la fine del 2005 e l'inizio del 2006. I ricercatori hanno
scoperto che i campioni dell'area Ema erano strettamente correlati, malgrado
provenissero da volatili trovati in paesi tra loro molto distanti, quali
Slovenia, Afghanistan e Sudan. Tutti i campioni rientravano in un ceppo
distinto euroafricano, diverso dalle altre tre principali famiglie virali di
H5n1 che circolano attualmente in Asia. Tale ceppo Ema è a sua volta suddiviso
in tre sottofamiglie. "è la prima volta che vengono esaminati tutti i
genomi H5n1 presenti in occidente", ha commentato Steven Salzberg
dell'Università del Maryland, l'autore principale dell'articolo. "Finora,
gli studi si sono concentrati principalmente sui campioni provenienti
dall'Estremo Oriente. Il nostro studio mostra che il virus si sta diffondendo a
occidente e che vi sono stati tre diversi momenti di penetrazione dell'H5n1 in
Europa, Medio Oriente e Africa. " "Il fatto che i virus appartengano
allo stesso ceppo indica una fonte genetica unica di introduzione
dell'influenza (H5n1) in Europa occidentale e in Africa settentrionale e
occidentale", scrivono i ricercatori, che individuano tale fonte in Russia
o nella provincia cinese di Qinghai. Inoltre, mentre le tre sottofamiglie si
stanno evolvendo in maniera indipendente, un campione del virus prelevato da un
pollo nigeriano ha evidenziato un genoma generato dall'unione di due delle
sottofamiglie Ema. Secondo i ricercatori, il fatto che tutte e tre le
sottofamiglie siano presenti nella stessa area geografica significa che vi sono
varie possibilità di "riassortimenti" del genere. "Occorreranno
misure di sorveglianza aggiuntive per determinare se tale ceppo frutto del
riassortimento si diffonderà ulteriormente nella popolazione aviaria e per
valutare la sua capacità di contagiare i mammiferi", osservano i
ricercatori. Lo studio ha inoltre rivelato che i ceppi Ema presentano una
mutazione che è associata alla virulenza nei topi e che si adatta agli ospiti
mammiferi. "La diffusione nell'Ema è coincisa con il rapido emergere di
contagi ai danni dei mammiferi, compresi gli umani in Turchia, Egitto, Iraq e
Gibuti, e i gatti in Germania, Austria e Iraq", fanno presente i
ricercatori, aggiungendo che i ceppi Ema del virus sembrano avere la medesima
virulenza dei ceppi asiatici, in quanto quasi la metà dei contagi umani ha
avuto esiti letali. Secondo i ricercatori, l'ampia diffusione della malattia
suggerisce inoltre che, responsabili del rapido contagio ad opera dell'H5n1sono
gli spostamenti degli umani e non le migrazioni degli uccelli selvatici.
"Le rotte migratorie degli uccelli selvatici non corrispondono agli spostamenti
dei genomi da noi sequenziati", ha spiegato il dottor Salzberg. "Gli
umani trasportano pollame attraverso molti dei paesi oggetto del nostro studio
e spesso coprono grandi distanze. Questo fattore, unito ai bassi standard di
biosicurezza presenti nella maggior parte delle aree rurali, indica i
trasferimenti di pollame vivo da parte degli umani come causa dell'introduzione
dell'H5n1 in alcuni paesi. " "Tali conclusioni dimostrano come
l'analisi genomica completa dei virus dell'influenza sia vitale per comprendere
meglio l'evoluzione e l'epidemiologia di tale infezione", concludono i
ricercatori. "Tale analisi e altri studi correlati, agevolati da
iniziative globali di condivisione dei dati sull'influenza, ci aiuteranno a
comprendere la dinamica delle infezioni tra popolazioni di uccelli selvatici e
domestici, una comprensione che a propria volta dovrebbe promuovere lo sviluppo
di strategie di controllo e prevenzione. " Lo studio ha riunito
ricercatori di molti paesi, tra cui Egitto, Costa d'Avorio, Iran e Afghanistan.
"Collaborazioni del genere sono essenziali se la comunità scientifica
vuole monitorare l'influenza aviaria, ma quasi tutti i ricercatori nell'ambito
di tale disciplina continuano a lavorare da soli", ha commentato il dottor
Salzberg. "Dobbiamo riconoscere che l'influenza non ha confini, e che
dobbiamo non solo collaborare intensamente, ma anche condividere reciprocamente
e liberamente i dati, come è successo in quest'occasione. "
Eliseo
determinante per le riforme Ue, Berlino attende l'esito con ansia
Il cancelliere Angela Merkel, presidente di turno dell'Ue BERLINO -
Angela Merkel, soprattutto nella sua veste di presidente di turno dell'Unione
europea, attende con ansia di sapere chi sarà il nuovo inquilino dell'Eliseo
destinato a diventare il nuovo partner di Berlino in questa fase cruciale della
presidenza europea. L'esito finale delle presidenziali francesi, con il
ballottaggio del 6 maggio fra il conservatore Nicolas Sarkozy e la socialista
Ségolène Royal, avrà infatti ripercussioni significative sulla presidenza
tedesca della Ue, condizionandone probabilmente il successo o
l'insuccesso. Al centro di tutto resta la soluzione della crisi costituzionale,
che la presidenza tedesca ha posto fra i temi prioritari del suo programma. Per
il vertice di fine giugno a Bruxelles, infatti, la Merkel ha fatto sapere di
voler non solo presentare una tabella di marcia ma indicare anche proposte di
contenuto per la soluzione del nodo costituzionale. E per questo ha bisogno
dell'assenso di Parigi e del successore di Jacques Chirac. La Cdu, il partito
cristianodemocratico presieduto dalla Merkel, ha detto ieri apertamente - per
bocca del segretario generale Ronald Pofalla - di auspicare un successo finale
di Sarkozy, cosa questa che avrebbe ripercussioni "positive" sul
difficile processo verso la definizione del Trattato costituzionale. Il
candidato conservatore all'Eliseo - leader di un partito alleato della Cdu/Csu
tedesca - sembra essere infatti più vicino alle posizioni della Merkel in fatto
di Costituzione europea. A differenza di Ségolène Royal - che auspica un nuovo
referendum sul testo costituzionale - Sarkozy non mira a una seconda
consultazione, puntando invece come la Merkel a salvare gli elementi essenziali
e basilari del Trattato. A indurre il cancelliere tedesco a preferire Sarkozy è
anche la posizione del leader conservatore francese contraria a una piena
adesione della Turchia alla Ue, a differenza del presidente uscente
Chirac che invece appoggia l'ingresso a pieno titolo di Ankara. Un nuovo
interlocutore a Parigi è essenziale per la politica europea della Merkel, ma
anche per il futuro dell'Unione europea, che nella seconda metà del 2008 sarà
guidata proprio dalla presidenza di turno francese. Il governo spagnolo di
Zapatero ha invece confermato, ieri, di puntare molto sulla Royal. Una vittoria
della candidata assicurerebbe infatti di nuovo al premier la sponda francese
costruita in Europa con Chirac e gli consentirebbe di
rilanciare quell'impulso riformatore che langue in Europa, ma ormai
anche in Spagna. L' opposizione di centrodestra vede invece nel successo al
primo turno del candidato dell'Ump il segno di un prossimo "asse
europeo" fra Nikolas Sarkozy, Angela Merkel e Mariano Rajoy leader del
Partito Popolare (Pp). "È questo il cuore dell'Europa", ha
detto Angel Acebes segretario generale del Pp parafrasando una frase coniata da
Zapatero quando insieme a Chirac e Gerhard Schroeder celebrò "il ritorno
della Spagna al cuore dell'Europa" dopo il filoamericanismo di
Aznar.
Timore
e disappunto per i siti che offrono segnali per il trading: il ministero del
Tesoro ha pubblicato le bozze del nuovo Testo unico sulla finanza, in vigore
dal prossimo novembre. Che potrebbe colpire non solo i fornitori di servizi di
supporto al trading, ma anche le migliaia di utenti che li prendono a
riferimento. In che modo? E' molto semplice: fino a oggi infatti chiunque
poteva offrire segnali operativi attraverso la rete, 'compra questo, vendi
quello' giusto per fare un esempio. Tutte raccomandazioni per lo più basate
sull'analisi tecnica, con solo qualche deviazione verso considerazioni di
carattere fondamentale. Un sistema che ha retto per anni, da quando nel 1991 il
legislatore fece sparire la consulenza in materia di investimenti dall'elenco
dei servizi possibili. Un colpo di spugna non da poco visto che per prestare
tali servizi occorrevano determinati requisiti soggettivi e patrimoniali.
Servizi però presto rimpiazzati da chi appunto forniva segnali.Indietro tutta.
E adesso? Ora si fa nuovamente marcia indietro, nel senso che la consulenza in
materia di investimenti torna a essere servizio possibile. La volontà è stata
espressa prima dal parlamento europeo e poi recepita dal governo italiano. Un
cambio di rotta che risente evidentemente della scia dei crac della finanza
mondiale: dall'Argentina, a Enron, passando per le vicende tricolore con Cirio,
Parmalat e Banca 121. Il ragionamento è semplice: per dare
consigli occorre disporre di un'adeguata professionalità e onorabilità. E stavolta
i requisiti non saranno solo annunciati genericamente, ma verranno stabiliti da
uno specifico decreto del Ministero delle Finanza di concerto con quello della
Giustizia, sentite Banca d'Italia eConsob.Il
nuovo consulente. Il problema, come accennato, è che in tutto questo tempo sono
nate una serie di iniziative, gratuite o meno, mirate a fornire indicazioni
operative. Alcune di queste offerte erano proposte sulla rete da vari soggetti,
altri da professionisti. Ed sono state proprio le proteste di questi ultimi a
far decidere per una modifica della regolamentazione. In futuro potranno
svolgere l'attività di consulenza non solo le sim, ma anche le singole persone
fisiche che non sono incorse in particolari pendenze giudiziarie e in possesso
di specifici titoli e conoscenze. Allo stesso tempo i consulenti di
investimento dovranno essere indipendenti, dimostrando di non incorrere in
conflitto di interessi, di non suggerire prodotti più per un tornaconto
personale che per la bontà dell'investimento. Questi professionisti dovranno
possedere inoltre un patrimonio in grado di risarcire i danni arrecati a terzi
nello svolgimento della loro attività. Su quest'ultimo punto gli aspiranti
consulenti si potranno attrezzare anche con una specifica assicurazione. 'Già
da molto tempo, in vista dell'approvazione della nuova normativa', ha
sottolineato Stefano Masullo, segretario di Assoconsulenza, 'abbiamo avviato
contatti con le compagnie assicurative per offrire coperture dai rischi'. Se i
siti web offrono una consulenza personalizzata, tagliata su misura per chi la
richiede, devono necessariamente chiedere l'iscrizione al costituendo albo.
Essere in questo elenco garantirà ai consulenti la possibilità di fregiarsi
della titolarità di tutti i requisiti prima indicati, ma li obbligherà a
proporre operazioni adeguate al profilo di rischio, agli obiettivi di
investimento e alla loro capacità di sostenere le perdite in termini di
patrimonio e reddito del cliente. Si tratta di incombenze non secondarie che
chiaramente delimitano poi le proposte di investimento che vengono offerte.
Quando l'analisi è un accessorio. E per chi non offre la consulenza
personalizzata cosa succedete? Sembrerebbe che tutto rimanga com'è. 'L'area
delle raccomandazioni di carattere generale non è sicuramente materia di
consulenza', ha precisato Guglielmo Gugliotta, avvocato e segretario generale
di Assosim. 'Ciò che preoccupa però è un altro comma della futuro Testo unico,
nel quale si stabilisce la definizione di servizio accessorio', ha aggiunto Emilio
Tommasini di lombardreport.com. Nella bozza di decreto legislativo la ricerca
in materia di investimenti, l'analisi finanziaria o altre forme di
raccomandazioni generale riguardanti operazioni relative a strumenti finanziari
sono riconosciute come servizio accessorio. Un successivo articolo precisa
inoltre che tale attività può essere svolta dalle sim. Gugliotta però si
richiama a un principio del diritto per cui se un'attività non è esplicitamente
vietata o riservata può essere svolta liberamente. Per cui mentre per i servizi
di investimento la legge precisa i soggetti chiamati a svolgerli, per quelli
accessori non esiste questa riserva. Un chiarimento in proposito da parte delle
autorità interessate forse sarà opportuno, visto che i rischi non mancano e
novembre incombe. L'esercizio abusivo della professione può comportare la
reclusione da sei mesi a quattro anni e una pena pecuniaria da 2 mila a 10 mila
euro. (riproduzione riservata) MFT Numero 081, pag. 1 del 24/4/2007 Autore:
Giuseppe Di Vittorio
INDICE 23-4-2007
+ Il Sole 24 Ore 23-4-2007
Paese che vai, paniere per calcolare il caro vita che trovi. Inflazione. I
prezzi calcolati con i valori indicati da 5 Paesi. Chiara Bussi. In base ai parametri
americani l'inflazione sarebbe così salita al 3,3%, con quelli inglesi al 3,2%
e con quelli tedeschi al 3,1 per cento.
+ Reuters 23-4-2007 Frode
agricola alla Ue, 45 arresti in Calabria
+ La Stampa 23-4-2007
Parigi reclama gli eroi Barbara Spinelli
Il Piccolo di Trieste
23-4-2007 IL PD E I COSTI DELLA POLITICA di Franco A. Grassini
Il Corriere della Sera
23-4-2007 La Francia e noi di Michele Salvati
La Repubblica 23-4-2007
Annunciata fusione Barclays-Abn Nasce la seconda banca europea
In base ai parametri americani
l'inflazione sarebbe così salita al 3,3%, con quelli inglesi al 3,2% e con
quelli tedeschi al 3,1 per cento.
Con
i panieri degli altri l'Italia è la più cara. Lo dimostra una simulazione
effettuata dal Sole24 Ore del Lunedì, applicando all'Italia i pesi che cinque
grandi Stati danno alle diverse voci. In base ai parametri americani
l'inflazione sarebbe così salita al 3,3%, con quelli inglesi al 3,2% e con
quelli tedeschi al 3,1 per cento. Ben oltre il 2,1%effettivamente registrato
con il paniere ufficiale. E spulciando tra le liste degli
altri Paesi si scoprono molte curiosità: in Gran Bretagna, per esempio,
quest'anno ha fatto il suo debutto addirittura il solitario di diamanti. Bussi
u pagina 3 l'articolo prosegue in altra pagina.
Brillanti
e lifting nei panieri del mondo La casa pesa di più in Germania e Usa Italia e
Spagna attente al costo di ristoranti e pizzerie Chiara Bussi Il solitario di
diamanti spodesta l'anello di gemme colorate. Succede in Gran Bretagna,dove il
19 marzo scorso il "re delle pietre" ha fatto il suo ingresso
nel paniere dei prezzi, diventando così a pieno titolo uno dei
650 prodotti sotto osservazione ogni mese per calcolare l'inflazione del Paese.
Il romanticismo qui non c'entra e prevale la fredda ragione della statistica:
il mercato dei diamanti è più trasparente e rilevare i prezzi è più semplice. I
nuovi arrivi al di là della Manica tratteggiano anche il profilo di un Paese
che ha aperto le porte alla cucina mediterranea. Così l'olio di oliva ha
sostituito quello vegetale e i broccoli hanno preso il posto dei cavolini di
Bruxelles. Il Sole24 Ore del Lunedì ha messo a confronto i panieri utilizzati
per calcolare gli indici di inflazione nazionali di sei Paesi per mettere a
fuoco la loro composizione, il peso assegnato ai singoli capitoli di spesa e
gli aggiornamenti più curiosi. Per meglio evidenziare le differenze, su
consiglio degli esperti, per Francia, Germania e Spagna è stato analizzato
quello del Cpie non dell'Hicp, l'indice armonizzato che viene trasmesso a
Eurostat, l'ufficio di statistica della Ue. Stesso criterio per la Gran
Bretagna con il paniere dell'indice Rpi, che misura i prezzi
al dettaglio. Per l'Italia è stato preso in esame il Nic, l'indice per l'intera
collettività, quello che l'Istat diffonde ogni mese. E provando a
calcolare l'inflazione italiana con i panieri degli altri si scopre che i
prezzi al consumo del nostro Paese dal 2001 al 2006 sarebbero più alti (vedi
grafico a fianco). Nella gara tra entrate e uscite nella Penisola le pantofole
da donna hanno ceduto il passo a un bene di consumo più glamour come i sandali,
mentre i ritmi frenetici della famiglia hanno imposto l'inserimento dei sughi
pronti. In Spagna tra i servizi paramedici spuntano le operazioni di chirurgia
estetica e gli interventi laser contro la miopia. In Germania solo nel 2003 è
stato creato un paniere unificato per la parte occidentale e
orientale del Paese. Per la prima volta hanno fatto il loro ingresso le voci di
spesa legate alla protezione sociale, dalla retta mensile per gli asili nido
all'assistenza degli anziani. Negli Usa la ponderazione avviene ogni due anni ,
ma il Department of Labor può inserire un prodotto in qualunque momento. è il
caso del Viagra,sul mercato dal 1998 ed entrato nella lista in tempi record
l'anno seguente. Il paniere si presenta dunque come una borsa
della spesa virtuale, una sorta di matrioska composta da capitoli di beni e
servizi con una rilevanza diversa a seconda dei consumi effettivi di un
Paese,in alcuni casifrutto di una precisa scelta metodologica. E, al loro
interno, singole voci di spesa che si scompongono successivamente in voci di
prodotto in numero diverso a seconda dei Paesi: dai mille per la Francia ai 180
per gli Usa per un numero complessivo di prezzi che vanno dagli 80mila negli
Usa a circa 400mila inItalia. Diversa anche la copertura del territorio: 85
Comuni in Italia (19 capoluoghi di regione e 66 capoluoghi di provincia), 190
Comuni sugli oltre 12mila in Germania, l'87% della popolazione negli Usa. La
casa pesa di più negli Stati Uniti,in Germania e in Gran Bretagna. A conferma
dei luoghi comuni, Italia e Spagna si distinguono invece per la rilevanza nel panieredelle
spese per cibie bevande analcoliche, ma anche di hotel, caffè e ristoranti. è
sull'abitazione che si scorge la differenza tra le due sponde dell'Oceano. Gli
Usa, oltre a monitorare le spese per gli affitti reali, si cimentano in un
esercizio teorico calcolando il valore della retta mensile se una dimora di
proprietà fosse messa in locazione. Una voce che pesa per il 23,8%e assegna al
capitolo "casa, acqua elettricità" la maggiore rilevanza tra i Paesi
considerati con il 35,4%. I tedeschi sono un popolo di affittuari: solo il 56%
secondo i dati Eurostat sceglie l'acquisto contro l'82% dell'Italia e l'89%
della Spagna. E si vede: se il capitolo "casa" vale il 30,2%,ben il
21,1%è rappresentato dagli affitti reali. In Gran Bretagna il capitolo vale il
27,7%. Qui, però, a differenza degli altri Paesi, il paniere preso
i considerazione tiene conto degli interessi sui mutui e del deprezzamento
dell'abitazione, ovvero dei costi da sostenere per mantenere costante la sua
qualità, esclusi gli interventi di manutenzione di routine. Ben diverso è il
caso dell'Italia, dove la casa pesa per il 9,79% e dove le locazione reali
rappresentano il 2,1% appena della borsa della spesa. Nel confronto con gli
altri cinque Paesi la Penisola si distingue per il capitolo "Mobili e
servizi per l'abitazione" (8,67%), ma la voce con maggiore rilevanza è
quella relativa a ristoranti e pizzerie ( 4,7%).Anche se poi va alla Spagna il
primato per questa categoria: la movida nei tapas bare nei caffè vale il10,6
per cento.
LA
COPERTURA L'Istat effettua le sue rilevazioni su 540 prodotti: in
Francia sono 1.000 e 180 negli Stati Uniti
LE
TIPOLOGIE Complessivamente sono registrate variazioni per un milione e mezzo di
beni e servizi.
+
Reuters 23-4-2007 Frode agricola alla Ue, 45 arresti in Calabria
ROMA
(Reuters) - Le forze dell'ordine hanno arrestato 45 persone e sequestrato beni per
circa 50 milioni di euro nell'ambito di un'inchiesta su contributi agricoli
europei ottenuti illegalmente da una serie di produttori calabresi, con il
presunto sostegno di alcuni funzionari regionali. Lo riferisce un portavoce del
Comando Carabinieri Politiche Agricole. L'operazione, denominata
"Withdrawal" (ritiro dal mercato), dice un comunicato dell'Arma, si è
svolta oltre che in Calabria anche in Lazio, Toscana e Piemonte. I mandati di
custodia cautelare -15 in carcere, gli altri 30 agli arresti domiciliari
- hanno riguardato "dirigenti e funzionari regionali, presidenti di
cooperative, amministratori e soci di organizzazioni e unioni di produttori del
settore dell'ortofrutta", accusati, secondo i casi, di associazione per
delinquere finalizzata alla truffa aggravata, "consumata e tentata",
ai danni dell'Unione europea, corruzione e falso in atto pubblico. L'operazione
è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Palmi, dopo le indagini
cominciate nel 2003, ha detto il portavoce dei Carabinieri. Oltre
all'Arma, al blitz di oggi hanno partecipato anche gli agenti della Guardia di
Finanza. Secondo le prime informazioni, gli inquirenti accusano gli arrestati
di aver procurato od ottenuto illegalmente i finanziamenti previsti per il
ritiro dal mercato (di qui il nome dato all'operazione) di prodotti
ortofrutticoli in eccedenza. In pratica, alcuni produttori avrebbero gonfiato
le cifre delle loro produzioni per ottenere rimborsi sui prodotti da ritirare
dal mercato.
+ La
Stampa 23-4-2007 Parigi reclama gli eroi Barbara Spinelli
Ségolène infine è riuscita a restituire l'onore
perduto al partito socialista. Non è stata eliminata al primo turno, come
cinque anni fa era accaduto a Lionel Jospin. La sinistra è riabilitata, la
candidata ottiene il 25 per cento e si colloca subito dopo il vincitore di
questa prima prova, che è il gollista Nicolas Sarkozy. Ma la destra esce
rafforzata dal voto, e non è più la destra di ieri: Sarkozy ha fatto una
campagna impostata sulla rincorsa di Le Pen, e ha ottenuto un consenso più
vasto del previsto: più del 30 per cento. Ha preso numerosi voti a Le Pen, che
nel 2002 aveva ottenuto il 16,8 per cento e oggi scende all'11. Il Fronte
nazionale comincia a essere assorbito, una parte della destra estrema dovrà
disimparare la violenza cui è abituata: è un progresso, e solo un uomo di
destra poteva conseguirlo. Ma l'elettorato di Sarkozy combinato con quello di
Le Pen dà vita a una grande e ambigua forza, e questo vuol dire che i
socialisti di Ségolène non potranno vincere con le vecchie coalizioni di sinistra.
Hanno bisogno a tutti i costi di François Bayrou, che non ha vinto la scommessa
- entrare nella gara finale - ma che resta determinante e che dà vita a una
terza forza assai potente (il 18 per cento circa), a un centro mai esistito
nella Francia presidenziale fondata da de Gaulle. Senza di lui Ségolène Royal
può difficilmente vincere, e Bayrou è dunque la vera novità di questo
scrutinio.
Ancora una volta, i francesi sono andati al voto con enorme passione:
l'affluenza alle urne è formidabile. Era già accaduto al referendum sulla
Costituzione europea, nel 2005, e la passione è sempre quella. I più diffidenti
lo chiamano entusiasmo dell'antipolitica, protesta contro le élite: nell'aprile
2002, quando al primo turno delle presidenziali fu eliminato Jospin, si parlò
addirittura di rivolta contro le istituzioni. In realtà la Francia è in
permanente stato di sofferenza, da quel giorno. Ha paura, ma questa paura la
spinge a usare l'antipolitica come arma di partecipazione più che di rigetto. È
una Francia che non ha precisamente una speranza, ma in cambio ha un'attesa e
dalla politica si aspetta moltissimo. Si aspetta che la persona eletta ai
vertici dello Stato la capisca, la riconosca, e non solo la protegga ma le
indichi la via del cambiamento con un certo eroico volontarismo. «Infelice il
paese che ha bisogno di eroi!», esclama Galileo nel dramma di Brecht. Quel che
hanno intuito tutti i candidati e che Sarkozy ha intuito più di tutti è che la
Francia ha invece bisogno proprio di questo: di eroi.
Non stupisce l'immagine che ha dominato le ultime ore della campagna: Nicolas
Sarkozy su un cavallo bianco nelle campagne della Camargue, jeans e camicia a
scacchi, circondato da tori d'allevamento. In questa ferina ansia di divenire
leggenda Sarkozy ha superato se stesso, quasi esagerando. L'icona del cavaliere
senza paura è francese, sino in fondo. Volutamente il candidato ha copiato
l'immagine apparsa sulla copertina dell'Economist: travestito da Napoleone,
accigliato, Sarkozy inforca il cavallo bianco di conquistatore. «Un pragmatico
brutale più che un liberale convinto», scrive il settimanale. Chi conosce
Sarkozy ha più volte pensato a Napoleone, alla sua storia di illimitata
ambizione. Il cavallo montato da Sarkò in Camargue si chiama Univers. C'è una
dismisura evidente nel candidato che ha vinto il primo turno, che l'ha portato
a ignorare le elementari regole della dissimulazione. Ma questa dismisura per
ora lo premia. Mentre Sarkozy era sul bianco cavallo si vedeva sui telegiornali
Ségolène, prima del voto: passeggiava sull'allegra rue Montorgueil in una
Parigi assolata e si fermava a bere un kir col sindaco Delanoë. Era un'immagine
più calma, meno eroica-parossistica.
Ma in fondo ciascun candidato ha cavalcato destrieri salvifici in questa
campagna, proponendosi come uomo o donna provvidenziale che si costruisce un
destino personale contro le rigidità degli apparati partitici, delle
burocrazie, dei vecchi modi di far politica. Anche Ségolène ha voluto diventar
leggenda, scegliendo come icona una santa - Giovanna d'Arco - e vestendosi il
più delle volte di bianco. E salvifico ha voluto essere Bayrou, anche se fra i
candidati è apparso il più naturale, il meno nervoso e retorico. Proprio lui
tuttavia è stato accusato di essere populista, di distruggere il tradizionale
scontro fra blocchi. Le Monde lo ha descritto come figlio delle disillusioni,
dell'insurrezione contro la classe politica, come se Sarkozy e Royal fossero di
una stoffa più legittima perché appartenenti ai due campi di destra e sinistra.
Ma Bayrou non è solo figlio della disillusione. Ha raccolto consensi perché
propone una via diversa, una nuova separazione: non più fra destra e sinistra,
ma fra riformatori (di sinistra e destra) e non riformatori. Perché ha lanciato
un messaggio che la sinistra non potrà trascurare: in questa Francia dove
Sarkozy rincorre Le Pen, la sinistra deve abbandonare la tradizione
mitterrandiana e apprendere nuove forme di alleanza fra centro e sinistra
anziché fra socialisti e estrema sinistra. Bayrou non è riuscito a ottenere questa
rivoluzione subito. Ma la sua proposta alla lunga non è aggirabile. È quello
che nei giorni scorsi hanno voluto dire socialisti e riformatori come Michel
Rocard, Bernard Kouchner, Daniel Cohn-Bendit.
Bayrou ha avuto contro di sé i partiti classici e anche i giornali, e questa
cecità di stampa e televisione non è nuova, né in Francia né fuori. Già nel
2005 stampa e televisione non avevano visto la nascita di un enorme rigetto
dell'Europa. Sarkozy e Ségolène hanno invece capito: ambedue si sono proposti
come personaggi nuovi, di rottura. Sarkozy aveva rotto con Chirac, ed è giunto
sino a sposare alcune tesi di Le Pen. Ségolène aveva rotto con l'establishment
socialista, con i cosiddetti elefanti: «Sono una candidata della non
sottomissione», ha ripetuto più volte. Nelle prossime settimane capiremo la
vera natura delle loro rispettive novità.
Tra
i problemi del Partito democratico alla stato (quasi) nascente non c'è di sicuro,
almeno per il momento, quello di non godere di buona stampa. Tanto che, a voler
prendere sul serio tanti commenti entusiasti letti e sentiti in questi giorni,
bisognerebbe dire che Ds e Margherita, nei loro congressi d'addio, hanno posto
le basi non solo per un nuovo, grande soggetto post-ideologico, ma anche per
una rapida evoluzione, in senso inevitabilmente bipartitico, nuova legge
elettorale permettendo, del sistema. In sostanza: mentre molti, e noi tra
questi, nemmeno se ne accorgevano, persi come si era a baloccarci attorno a
questioni e questioncelle dall'insopportabile retrogusto novecentesco, stava
arrivando l'America. Secondo le previsioni (o le prescrizioni) formulate in
apertura delle assise della Quercia dal direttore del Corriere della sera. E
come in fondo si conviene, se vuole uscire dalla sua eterna condizione di
crisi, al paese per tanti aspetti più americanizzato dell'Europa continentale.
Sarà. Noi ci consentiamo di avere molti dubbi e molti interrogativi, che i
congressi non hanno sciolto, e nemmeno potevano sciogliere, ma ai quali il Pd,
quando di qui a qualche mese prenderà corpo, dovrà pure aver individuato delle
risposte. Insistiamo, e non solo per tigna, su una questione che notoriamente
ci sta a cuore, quella della collocazione internazionale del nuovo partito. Mai
nel Pse (tutt'al più, ci mancherebbe, con il Pse), come giura solennemente
Francesco Rutelli, e con lui tutti i margheritini di ogni specie e confessione?
O prima o poi, più prima che poi o più poi che prima, nel Pse, come continua ad
assicurare, ma con accenti più flebili e formulazioni non propriamente
chiarissime Piero Fassino? Può darsi che, a metterlo giù così, il dilemma non
sia interessantissimo. E però fa qualche impressione (torniamo per un attimo
agli osservatori entusiasti) leggere tante appassionate esortazioni a non farsi
riacchiappare dai «fantasmi socialisti», e soprattutto tante dotte spiegazioni
di come e perché il socialismo europeo abbia a dir poco il fiatone, e convenga
andar oltre, e anzi riscoprire le nostre italiche, connaturate virtù oltriste,
per cambiar le faccia della politica non solo qui da noi, ma in tutta Europa.
Anche se sta arrivando l'America, fa qualche impressione (e stimola anche
qualche riflessione) pure il modo in cui questi appelli sono ascoltati e
raccolti. Con aperta soddisfazione dalla Margherita, si capisce. Con
imperturbabile tranquillità da molti Ds, e questo si capisce un po' meno, visto
che qualche sofferenza in più di fronte alla prospettiva di ritrovarsi fuori, o
nel migliore dei casi solo nei paraggi, della casa socialista i Ds dovrebbero
pure provarla. In fondo, non è solo di un gruppo parlamentare a Bruxelles, ma
di una questione identitaria che si parla. O no? Al congresso di Firenze
sull'argomento si è in sostanza preferito glissare (anche per non suscitare
ancor più fieri “non possumus” da parte della Margherita). Tranne che in un
intervento, forse il più applaudito e di sicuro il più coerentemente democrat e
il più coerentemente “americano”, quello di Walter Veltroni. Che per motivare
l'assoluta irrilevanza, a suo giudizio, della questione non si è limitato a
rilevare che Gandhi e Luher King non erano socialisti, ma ha ricordato pure, e
giustamente, che non lo erano, e proprio non volevano esserlo, né Occhetto né i
ragazzi dell'89, tanto è vero che nel nome del nuovo partito non vollero, e non
solo per via di Craxi, alcun richiamo al socialismo, ma preferirono chiamarlo
democratico, seppure di sinistra.
Chi scrive non fu d'accordo allora con quella scelta, e tuttora ritiene a dir
poco sconsiderato considerare il socialismo un cane morto o un inutilmente
pesante bagaglio novecentesco. Ma non può non riconoscere alla posizione del
sindaco di Roma, che la pensava così fin da quando, poco più che ragazzo,
riusciva a tenere insieme Enrico Berlinguer e i Kennedy, una limpida coerenza.
È vero che i Ds ormai quasi non ci sono più, e da ieri, con l'esclusione di chi
non ci sta, «siamo tutti democratici», bipolari e bipartitici. Ma la domanda
rimane: gli altri, quelli che a Firenze hanno glissato, sulla storia e
sull'identità del partito che chiude i battenti (e quindi su quello che
intendono portare nel partito nuovo) la pensano come lui?
ROMA
È finita come da copione, ma la "guerra" delle diverse anime della
Margherita sulle quote dell'assemblea federale è andata avanti senza esclusione
di colpi per tutta la notte tra sabato e domenica. Al dunque, come era scritto,
Francesco Rutelli è stato confermato leader con un solo voto contrario (anche
se è stato rafforzato il ruolo del coordinatore, che spetterà agli ex Ppi). E
il ministro della Difesa, Arturo Parisi, è andato via prima di votare, sancendo
l'ultimo strappo rispetto alle logiche correntizie. Nella sala riunioni le
correnti trattavano sui 98 componenti del "parlamentino" da eleggere
(che si aggiungono ai 118 eletti dai congressi regionali). Le difficoltà sono
aumentate anche per le divisioni dell'area popolare, dove per la prima volta
Enrico Letta si è presentato autonomamente, con un proprio uomo: il consigliere
regionale campano Guglielmo Vaccaro, che si è aggiunto ai rutelliani Rino
Piscitello e Renzo Lusetti, al diniano Italo Tanoni e ai popolari Antonello
Giacomelli e Nicodemo Oliverio: il primo franceschiniano e il secondo mariniano
doc. Parisi ha fatto chiedere che si rispettasse il regolamento: con l'elezione
dei 98 a scrutinio segreto. Niente quote e niente liste bloccate
elette per acclamazione. Ma alla scadenza del termine per le candidature, alla
presidenza sono arrivati sei candidati di area Parisi: la quota che le altre
correnti gli attribuivano. Immediatamente sono arrivati gli altri 92 nomi
concordati dalle altre correnti (26 rutelliani, 6-8 diniani, il resto ex
popolari, 16 dei quali legati a Letta). Esattamente 98 candidati (con sole otto
donne dentro, però, una scoperta che ha creato scompiglio tra le delegate e
irritazione nei vertici). E si è passati alla votazione per alzata di mano o,
meglio di delega. Già prima, però, Parisi aveva voluto segnalare che non ci
stava, lasciando la sala. (lunedì 23 aprile 2007).
Il
Piccolo di Trieste 23-4-2007 IL PD E I COSTI DELLA POLITICA di Franco A.
Grassini
Con
i congressi appena conclusi il Partito democratico sta avvicinandosi alla
realtà e, quindi, alla necessità di affrontare i nodi del Paese se non vuole
essere destinato a una vita grama. Tra questi, quello del costo della politica è
certamente uno dei più sentiti dall'opinione pubblica anche se spesso in termini
piuttosto vaghi e spesso qualunquisti. In realtà i costi della politica sono
almeno di tre diverse categorie. Alla prima appartengono tutte quelle spese
sostenute dallo Stato o da altri enti pubblici che non sarebbero strettamente necessarie
per il raggiungimento delle finalità che si vogliono perseguire. Per fare solo
un esempio, se si desidera raggiungere livelli occupazionali elevati e si
ritiene che per conseguire tale obiettivo sia opportuno disporre di imprese
pubbliche che effettuino quegli investimenti che le aziende private non
vogliono o non possono compiere e le prime non sono efficienti nel realizzare i
propri obiettivi, siamo di fronte a un costo della politica pari
al divario tra i mezzi che si sono impiegati e quelli che si avrebbero avuti
scegliendo altri strumenti. È ovvio che questo tipo di costi non
sono agevolmente individuabili ed in larga misura sono considerati tali solo se
si dispone di soluzioni alternative. Il che molto spesso è funzione delle
ideologie o, se preferiamo, delle visioni del mondo che abbiamo. Alla seconda
categoria appartengono i costi della politica intesi
come costi per il funzionamento delle istituzioni. Si va dalle
spese per il Parlamento, a quelle del più piccolo comune, a quelle dei partiti
e delle altre organizzazioni parapolitiche che spesso sono il sale della
democrazia. Ed è questo il terreno dove l'Italia non è certamente
all'avanguardia. Abbiamo un sistema con due Camere, ambedue più numerose di
quelle degli Usa. I nostri parlamentari ricevono notevolmente più dei loro
colleghi europei: quasi il doppio dei francesi e il 95% maggiore dei tedeschi.
A una situazione del genere si è giunti soprattutto per una ragione: la politica è
diventata una professione; si comincia dal consiglio comunale per salire tutta
la scala. Rarissimi sono gli innesti dall'esterno. Appare, quindi, logico che
in una professione i livelli più alti (anche se di fatto gli assessori
siciliani guadagnano più di un ministro) abbia delle retribuzioni più che
discrete. Il perché della professionalizzazione della politica, a
sua volta, dipende dallo scarso ricambio della classe dirigente, dal fatto che
i partiti - in parte per ideologia in parte per necessità - raccolgono voti in
rapporto all'esistenza di un'organizzazione permanente, dalla necessità di
evitare che solo i benestanti possano dedicarvisi. Il guaio maggiore è che non
di rado la professione politica è scelta non per vocazione, ma
per mera convenienza economica: soprattutto nelle zone del Mezzogiorno dove non
ci sono molte alternative promettenti. La terza categoria dei costi della politica sono
le spese pubbliche compiute solo al fine di conquistare voti. Anche qui si va
dalla ferrovia con rari utenti mantenuta per non scontentare questo o quel
paese, alle assunzioni degli amici incompetenti in enti pubblici e così via.
L'eccesso di spesa pubblica ha spesso questa origine. È possibile ridurre
i costi della politica? Decisamente sì. Il Partito
democratico propone una modifica costituzionale per modificare le funzioni
delle Camere: occorre incidere anche sul numero dei componenti. Ma soprattutto
va combattuta la professionalizzazione dellapolitica. E il metodo non è
troppo difficile: basta iniziare annullando i compensi per tutti quegli
incarichi pubblici che non richiedono impegni a tempo pieno come i consigli
comunali, anche delle grandi città, che possono benissimo riunirsi di sera o
nelle vigilie festive. Si eviterebbe, in tal modo, che migliaia di persone
trovino nella politica e nella conquista di voti un vantaggio
economico. Sta scritto nel Manifesto del Partito democratico "Sappiamo che
la politica, soprattutto quando implica l'assunzione di
responsabilità istituzionali, richiede straordinarie doti di dedizione, talento
e competenza". Se queste belle e giuste parole saranno tradotte in
proposte concrete, non ostante le difficoltà da superare con i propri esistenti
apparati, la nascita del nuovo partito sarà veramente un passo avanti per il
taglio di almeno uno dei nodi che stringono, sino quasi a soffocarlo, il nostro
amato Paese.
Il Corriere
della Sera 23-4-2007 La Francia e noi di Michele Salvati
C'è non poco orgoglio gallico nell'articolo di Jacques
Attali che il Corriere ha pubblicato ieri.
Anche se alcuni degli esempi con i quali Attali giustifica il suo orgoglio non
sono proprio convincenti (le migliaia di inglesi che comprano case in Francia
contro i pochi francesi che fanno l'opposto: da quando il sole e la natura sono
un merito per il Paese che ne gode?), altri però lo sono. La Francia è un Paese
molto ricco, con una qualità della vita eccellente, complessivamente ben
amministrato. Le sue istituzioni sono solide e l'efficienza media del suo ampio
settore pubblico è elevata, specie se spostiamo il confronto all'Italia. Le sue
grandi imprese dominano molti mercati mondiali, la produttività oraria è molto
alta e la sua crescita robusta e continua. Naturalmente le élite, gli
economisti e gli intellettuali francesi si lamentano, e i timori di «declino»
ai quali periodicamente danno voce non sono secondi a quelli italiani. Ma si lamentano
a partire da obiettivi assai diversi dai nostri. Noi abbiamo paura di
sprofondare ancora nelle graduatorie di benessere, produttività, efficienza
istituzionale che ci relegano ai livelli più bassi tra i grandi Paesi europei.
Loro temono di non essere all'altezza di un ideale di primato, di grandeur, che
noi non ci siamo mai posti. Si lamenta anche la gente comune e qui le lamentele
sono più fondate. Fatte le debite proporzioni — il salario minimo legale è di
1250 euro e la signora Royal si propone di portarlo a 1500, un livello
superiore al salario medio italiano — i loro problemi sono molto simili a
quelli della gente comune del nostro Paese. La disoccupazione è elevata ed
elevatissima quella giovanile. La precarietà del lavoro diffusa. La scuola non funziona
come uno strumento di mobilità sociale, per selezionare i capaci e i meritevoli
quale che sia la condizione delle loro famiglie. Forte è la preoccupazione che
i regimi pensionistici — finanziariamente insostenibili — saranno ritoccati in
peggio. E ancor più forti sono quelle relative alle condizioni di vita nelle
città, alla violenza nelle periferie, al fallimento del disegno di integrazione
del gran numero di immigrati esistenti in Francia, dei loro figli e nipoti: e
in questi campi nevralgici per il consenso politico la situazione è peggiore
che in Italia. Di fronte a queste preoccupazioni, delle élite e della gente
comune, l'offerta politica è chiara solo ai lati estremi dello spettro
politico: la destra autoritaria e xenofoba di Le Pen e la sinistra radicale,
quella il cui successo costò il ballottaggio ai socialisti di Jospin nelle
presidenziali del 2002. Chiara, naturalmente, ma del tutto insostenibile come
proposta di governo, come programma effettivamente attuabile in un Paese
democratico e in un'economia di mercato. Le proposte di governo, in queste
elezioni, sono state tre e sono il frutto di una forte innovazione nei tre
partiti che si fronteggiano e nei candidati che essi esprimono. In due di essi,
i socialisti e i gollisti, si è trattato soprattutto di una rottura
generazionale.
Una rottura frutto di un lotta interna tra i dinosauri del passato e un candidato giovane e
mediaticamente allettante: Sarkozy non godeva certo del sostegno di Chirac e la
signora Royal ha affrontato e sconfitto i maggiorenti socialisti attraverso
elezioni primarie tra i membri del partito. L'innovazione programmatica è più
modesta, anche se per entrambi i candidati qualche passo in avanti è stato
fatto in direzione liberale. Liberal- conservatore, nel caso di Sarkozy, col
conseguente appoggio dei grandi poteri economici. Liberale di sinistra nel caso
della Royal, anche se il termine liberal resta ancora un insulto tra i
socialisti francesi. E tuttavia, dato il basso tasso di liberalismo sia dei
gollisti che dei socialisti, qualche progresso esiste, seppur frenato dalle
eredità ideologiche del passato e dalle domande di protezione che salgono dalla
società. Da un punto di vista programmatico l'innovazione maggiore è stata quella
del «democristiano» Bayrou, che ha spostato decisamente a sinistra la proposta
di un partito che in passato era alleato colla destra e parte dei governi di
questa: europeista convinto, difensore delle piccole imprese contro lo
strapotere delle grandi, nemico delle diseguaglianze regionali, accoppia rigore
di bilancio (si preoccupa perché il debito pubblico ha superato il... 60%) alla
lotta contro l'esclusione sociale. La campagna elettorale è stata la più
«americana» che si sia condotta in Francia e i programmi dei candidati hanno
avuto diverse accentuazioni più o meno opportunistiche, all'inseguimento di un
enorme numero di sondaggi. Ed è solo apparente il paradosso che vede insieme un
grandissimo interesse degli elettori e un'altrettanto grande incertezza:
l'elettore cerca ansiosamente risposte ai suoi problemi, ma è frastornato da
proposte programmatiche tra le quali fa fatica a trovare differenze di rilievo.
Sicché è probabile che, alla fine, saranno le immagini tradizionali di destra e
sinistra, del gollismo e del socialismo, quelle che risulteranno determinanti
nel voto, e non le innovazioni programmatiche che pur ci sono state. La destra
di Sarkozy probabilmente ha trovato una definizione più stabile e chiara, che
le consente di ricevere sia l'appoggio di intellettuali liberali, sia di
cittadini comuni che la votano perché dà una risposta più civile di quella di
Le Pen ai problemi che essi avvertono come dominanti. La sinistra una
definizione altrettanto chiara non l'ha ancora trovata e questo è uno dei pochi
campi in cui, forse, la Francia può accettare una lezione dalla sua più povera
cugina. I paragoni vanno sempre fatti con cautela, perché il Ps non è i Ds e
l'Udf di Bayrou non è la Margherita: ma la prossima formazione del Partito
democratico, l'integrazione in nome di un comune futuro di due eredità del
passato che in Italia sembrano ancor più difficili da integrare che in Francia,
forse qualcosa può insegnare.
23
aprile 2007
Strasburgo,
23 aprile 2007 - Oggi una relazione all'esame della Plenaria chiede che le
nuove adesioni non compromettano l'ammissibilità ai fondi regionali delle
attuali regioni beneficiarie. Allo stesso tempo i deputati propongono di
determinare un periodo di tempo massimo durante il quale sarebbe possibile
ottenere tali fondi e un aumento del tasso di cofinanziamento nazionale. Sanzioni
più severe solo sollecitate contro gli abusi (relazione Pieper). L'aula
esaminerà una proposta di direttiva che prevede sanzioni penali - come
reclusione e ammende pecuniarie - per i responsabili di atti di pirateria e
contraffazione. Accogliendo con favore il provvedimento, i deputati precisano i
diritti da esso tutelati e chiedono l'esclusione dei brevetti dal suo campo
d'applicazione. Nel chiarire poi i reati punibili, propongono un'eccezione per
giornalisti e insegnanti e chiedono di garantire la libera concorrenza, ma
anche i diritti degli imputati (relazione Zingaretti). Il Parlamento è chiamato
a pronunciarsi su una proposta di regolamento che intende armonizzare la
legislazione inerente alle terapie avanzate che ricorrono ad approcci genici e
cellulari per il trattamento di malattie e disfunzioni del corpo umano. Sono in
corso negoziati con il Consiglio volti a trovare un compromesso che permetta
l'adozione del provvedimento in prima lettura, ma la molto controversa
questione delle garanzie etiche complica la situazione (relazione Milolá?ik).
La Plenaria esaminerà una direttiva volta a eliminare le barriere che
intralciano i pagamenti transfrontalieri in Europa con
l'armonizzazione della normativa sui prodotti e l'integrazione dei servizi di
pagamento. Ciò consentirebbe di razionalizzare le infrastrutture, offrendo ai
consumatori una scelta più ampia e meno costosa e un livello di tutela elevato.
Gli emendamenti negoziati con il Consiglio, se fatti propri dalla Plenaria,
dovrebbero permettere l'adozione definitiva della direttiva. (relazione
Gauzes). Una concorrenza libera e non falsata è indispensabile per la vitalità
del mercato interno, l'eccellenza imprenditoriale, gli interessi dei
consumatori e gli obiettivi dell'Ue. E' quanto afferma una relazione
all'esame dell'Aula, sottolineando la necessità di misure volte ad agevolare i
ricorsi per il risarcimento dei danni provocati da comportamenti
anticoncorrenziali. I deputati chiedono inoltre di riconoscere alle vittime la
possibilità di avviare azioni legali comuni (relazione Sánchez Presedo).
Martedì 24 aprile 2007 - L'aula si esprimerà, in prima lettura, su cinque
proposte legislative relative al nuovo pacchetto sulla sicurezza marittima che
mira a una migliore prevenzione e a un più efficiente trattamento degli
incidenti e dell'inquinamento. Si tratta di testi riguardanti la responsabilità
in caso di incidente di navi-passeggeri, l'assistenza alle navi in pericolo, i
sistemi di controllo da parte dello Stato di approdo e le ispezioni delle navi
nonché il quadro europeo per le inchieste sugli incidenti (relazioni Sterckx,
Kohlicek, Costa, Vlasto e de Grandes Pascual). Il Parlamento esaminerà un
regolamento volto a rinnovare le disposizioni sulla sicurezza degli aeroporti e
dei voli adottate in urgenza dopo gli attentati dell'11 settembre. I deputati
sollecitano norme più severe nonché maggiore rigore sul trasporto di armi a
bordo e sulla presenza di "sceriffi del cielo". Insistono nel
definire regole sul finanziamento delle misure di sicurezza e chiedono che i
relativi costi siano indicati chiaramente sul biglietto. Ma l'accordo con il
Consiglio appare difficile (relazione Costa). L'aids non è stato sconfitto.
Anzi, vi è una tendenza a un aumento dei contagi. Una relazione all'esame della
Plenaria chiede pertanto la raccolta di dati affidabili e misure di prevenzione
indirizzate ai gruppi a rischio. Occorre anche sostenere campagne di
informazione e promuovere l'educazione sessuale nelle scuole, visto che la metà
dei nuovi contagi riguarda giovani con meno di 25 anni. E' poi necessario
aumentare gli sforzi finanziari nella ricerca di nuovi farmaci e ridurne il
prezzo. Una relazione all'esame della Plenaria concede il discarico per
l'esecuzione del bilancio 2005. Allo stesso tempo i deputati rilanciano l'idea
delle "dichiarazioni nazionali" e reclamano che gli Stati membri si
assumano la responsabilità della gestione dei fondi comunitari. Sollecitano
anche la razionalizzazione del rapporto costi/benefici dei controlli sulla
spesa comunitaria (relazione Garriga Polledo). Il Parlamento si pronuncerà
sulla direttiva relativa alla valutazione e alla gestione dei rischi di
alluvione. I deputati ripropongono numerosi emendamenti già avanzati in prima
lettura, e non accolti dal Consiglio, che sottolineano le responsabilità delle
attività umane nel verificarsi delle alluvioni e che chiedono di tenere
maggiormente conto del ruolo delle pianure alluvionali. Insistono anche sulla
necessità di un maggiore coordinamento tra gli Stati membri (relazione Seeber).
Mercoledì 25 aprile 2007 - In vista del Vertice che si terrà a Washington Dc il
prossimo 30 aprile, l'Aula terrà un dibattito sulle relazioni tra l'Unione
europea e gli Stati Uniti. La Cancelliera Merkel e la Commissaria
Ferrero-waldner considerano prioritario intensificare le relazioni
transatlantiche sia nel campo economico sia in quello politico. Il Parlamento
adotterà una risoluzione. L'aula esaminerà un'ampia relazione sulla situazione
dei diritti umani nel mondo nel 2006 che si prefigge l'obiettivo di esaminare e,
se del caso, criticare le attività dell'Ue in materia di diritti
dell'uomo nel 2006, formulando anche dei suggerimenti. I deputati ribadiscono
l'impegno a favore di una moratoria sulla pena di morte e chiedono una politica
dell'immigrazione rispettosa dei diritti umani. Denunciano anche le violazioni
realizzate in numerosi paesi, come Cina, Russia e Turchia (relazione Coveney).
A seguito delle discussioni al Consiglio affari esteri sull'iniziativa italiana
in sede Onu, si terrà un dibattito in Aula riguardo alla moratoria universale
sulla pena di morte. Il Parlamento adotterà anche una nuova risoluzione su
questo tema, dopo quella del gennaio di quest'anno con la quale ribadiva la sua
posizione contraria a questo tipo di pena "in tutti i casi e in tutte le circostanze".
Tale questione è anche affrontata nella relazione all'esame dell'Aula sui
diritti umani nel mondo. L'attualità ha riportato alla ribalta nuovi casi di
omofobia in Europa. I gruppi politici hanno quindi deciso di
inserire un dibattito in Plenaria su questo tema, cui parteciperanno Consiglio
e Commissione, e di adottare una risoluzione. Il Parlamento,
all'inizio del 2006, aveva già rivolto un appello a garantire ai partner dello
stesso sesso il rispetto, la dignità e la protezione riconosciuti al resto
della società, la libertà di circolazione e la non discriminazione in materia
di successione e fiscalità. Il Parlamento è chiamato ad approvare il
compromesso raggiunto con il Consiglio in merito al regolamento che istituisce
un meccanismo di assistenza rapida tra gli Stati membri per fare fronte ad
afflussi massicci di immigrati illegali alle proprie frontiere. Gli Stati
membri dovranno mettere a disposizione del personale che possa essere
mobilitato entro cinque giorni. I salari saranno a carico dello Stato di
origine della guardia di frontiera, ma gli altri costi saranno sostenuti
dall'Agenzia Ue (relazione Deprez). La Croazia va elogiata per
i progressi verso l'adesione all'Ue, ma occorrono ulteriori sforzi per
rispettare pienamente i criteri prefissati. E' quanto sostiene una relazione
all'esame dell'Aula ribadendo che senza la riforma dei Trattati non si potranno
realizzare altri ampliamenti. Alla Croazia è chiesto di procedere con le
riforme amministrativa e giudiziaria, di perseguire i criminali di guerra, di
tutelare le minoranze e di permettere l'acquisto di proprietà immobiliari ai
cittadini Ue (relazione Swoboda). Una relazione all'esame
dell'Aula sottolinea il ruolo del Patto di Stabilità e di Crescita riveduto e,
chiedendone un'applicazione coerente e vigorosa, sollecita gli Stati membri a
ridurre gli scarti in termini di disavanzo, debito e crescita per non arrecare
pregiudizio all'euro. I deputati insistono poi sulla necessità di riforme
strutturali che, beneficiando del favorevole ciclo economico, riducano il
debito pubblico e consentano di affrontare la sfida dell'invecchiamento della
popolazione (relazione Lauk). Il Parlamento europeo intende svolgere "un
ruolo chiave in materia di sensibilizzazione" sul cambiamento climatico e
inserire tale sfida "ai primi posti dell'agenda internazionale". E'
questo il senso della decisione presa il 19 aprile dalla Conferenza dei
Presidenti del Parlamento, che propone di creare una nuova commissione temporanea
sul cambiamento climatico. Tale proposta sarà sottoposta all'approvazione
dell'Aula. Giovedì 26 aprile 2007 - Nell'ambito dei dibattiti urgenti sulle
violazioni dei diritti umani nel mondo, il Parlamento adotterà una risoluzione
sulla recente repressione delle manifestazioni in Russia e un'altra sul
rapimento del giornalista Alan Johnston a Gaza.
Nel
primo trimestre dell'anno quotazioni stabili secondo l'indagine di Ubh Previsti
valori in calo a Firenze e Palermo. Roma e Milano trainate dalle zone di pregio
C ontinua, sia pure a ritmi blandi e a macchie di leopardo, la crescita delle
quotazioni immobiliari. Lo conferma il primo aggiornamento disponibile sul
2007, elaborato dall'Ufficio studi di Ubh, l'holding cui fanno capo i network
di agenzie Professione Casa e Grimaldi. I dati, aggiornati con tutto il primo
trimestre 2007, segnalano che, tra le grandi città del Paese, è Bari ad aver
messo a segno l'aumento più robusto, con un incremento medio dal
gennaio 2006 a fine marzo 2007 che sfiora il 10%. La classifica delle
performance vede appaiate al secondo posto Genova e Palermo ("7,5%),
mentre i due mercati principali, quello milanese e quello romano, registrano un
aumento rispettivamente del 4,5% e del 7%. Roma con i 20mila euro al metro di
Piazza di Spagna può vantare la location più cara d'Italia per gli immobili
residenziali; seguono, in questa particolare classifica, le zone top di Firenze
e Venezia, mentre Milano arranca, si fa per dire, al quarto posto con Via della
Spiga, dove si raggiungerebbero i 15mila euro al metro. Va però detto che gli
immobili di lusso nelle aree di reale prestigio delle grandi città sfuggono ai
criteri normali di valutazione: nella definizione del prezzo,ad esempio, di una
casa con grande terrazzo a Milano in via Montenapoleone (ammesso che un
immobile di questo tipo possa mai passare per le mani di un'agenzia) il numero
dei metri quadrati è solo uno dei fattori che vengono presi in considerazione e
non il più importante, perché la quotazione è determinata soprattutto
dall'esclusività dell'offerta. Fare il prezzo a metro di una casa di questo
tipo, dicono spesso gli agenti, sarebbe come valutare a centimetro un quadro di
Raffaello. Tornando all'analisi di Ubh, il responsabile dell'Ufficio Studi,
Alessandro Ghisolfi, sottolinea che "le performance registrate nelle
grandi città sono quasi tutte imputabili al 2006, mentre nell'80% delle zone il
primo trimestre 2007 non ha fatto registrare variazioni apprezzabili nei
valori. Oggi appaiono più vivaci le città medie, soprattutto per le abitazioni
di fascia alta e per le zone centrali. Nei centri maggiori il dato medio
complessivo è determinato soprattutto dal buon andamento dei prodotti di
maggior prestigio, contraddistinti da una offerta molto bassa, mentre se si
considerano gli immobili da ristrutturare nelle zone semicentrali e periferiche
si evidenziano anche alcuni segni meno, seppure compresi nell'intervallo tra -3
e -5%". Il rallentamento della domanda degli immobili di minor pregio è
dovuto anche, secondo Ghisolfi, al cambiamento delle scelte da parte degli
extracomunitari. "E' vero che si tratta di un target di crescente
importanza, ma la domanda si sta sempre più indirizzando verso gli hinterland e
si tratta di un fenomeno non solo economico, ma anche di portata sociologica: gli
immigrati che comprano hanno una stabilità lavorativa - necessaria oltretutto
per ottenere il mutuo - e soprattutto hanno tutta l'intenzione di restare in
Italia. Per questo comprano, a parità di prezzo, abitazioni più vivibili e di
maggiore dimensione rispetto a quello che, a parità di budget e di rata
mensile, potrebbero permettersi in città e si sobbarcano gli inconvenienti del
pendolarismo". Le previsioni formulate dall'ufficio studi di Ubh per i
prossimi mesi sono di piccoli spostamenti del mercato e solo in alcune città.
In particolare i prezzi sono pronosticati in leggera discesa a Palermo e
Firenze e in lieve salita a Venezia. A Milano e a Roma si stima un aumento
dell'offerta e una diminuzione delle transazioni a domanda costante. La
spiegazione che si ricava leggendo i grafici è che il peggioramento del
rapporto qualità/offerta finirà per costringere alcuni potenziali acquirenti a
rimanere in attesa. Sul mercato rimane l'incognita dell'andamento dei mutui. Il
costo del denaro è previsto in ulteriore ascesa almeno nel breve periodo (entro
l'estate viene data per scontata un'altra manovra da 25 centesimi di punto da
parte della Bce): a questo proposito Ubh ha fornito anche un'analisi sulle
preferenze dei clienti Rexfin (broker di intermediazione finanziaria che fa
capo alla holding) in fatto di finanziamento immobiliare. I dati di
sintesi evidenziano un fenomeno che anche altri osservatori hanno segnalato, e
cioè la grande crescita della domanda di finanziamenti a rata costante, che
secondo Rexfin oggi rappresentano quasi la metà delle richieste. I fissi sono
più amati al Sud (46,5% delle scelte) che al Nord (43,9%) e più a Roma (46%)
che a Milano. Quanto alle durate, si consolida il trend dell'allungamento del
debito, scelta necessaria per abbassare la rata. Nel 72% dei casi il
finanziamento prescelto è di durata compresa tra 25 e 40 anni. I finanziamenti
decennali ormai rappresentano solo il 5% delle richieste. Salita dei tassi
significa anche aumento dei rendimenti obbligazionari: la conseguenza ovvia è la
diminuzione dell'interesse per l'investimento immobiliare,
perlomeno nella sua forma classica, cioè l'acquisto finalizzato alla locazione
a terzi. La quota di chi compra casa a questo scopo è - conferma Ghisolfi - ai
minimi storici e il rendimento teorico (cioè la percentuale che si ottiene
confrontando il canone annuo di locazione con il valore di mercato della casa)
certo non è allettante: nelle principali città si situa al 4,4% lordo, con
oscillazioni che vanno dal 3,5% di Bologna al 5,5% di Roma. Se si considerano
le spese di gestione e le tasse queste performance vanno dimezzate e quindi si
pongono molto al di sotto del rendimento non solo dei Btp, ma anche dei Bot.
La
Repubblica 23-4-2007 Usa, la rivincita dell'italiano è boom di corsi all'università dal
nostro corrispondente MARIO CALABRES
In
dieci anni raddoppiati gli iscritti, nuove cattedre perfino in Alaska e Porto
Rico
Ottanta atenei americani hanno una sede anche a Firenze. "Merito di moda e
cibo"
INEW
YORK - "Quando il professore fece
l'appello, il primo giorno, tutti si voltarono a guardarmi: il mio cognome era
l'unico che non finisse con una vocale". Università della Pennsylvania,
anno 1956, Daniel Berger, ebreo newyorkese, è l'unico studente del corso di italiano
a non essere figlio di emigranti.
Gli americani fanno studiare ai loro figli il francese, la lingua dei viaggi,
della gastronomia raffinata e della cultura, l'italiano è identificato con il
dialetto che parlano i muratori, i giardinieri e i camerieri dei ristoranti.
Mezzo secolo dopo la nostra lingua si è presa la rivincita, in crescita
costante da dieci anni, ora è la quarta più studiata nelle università americane
e oltre 60mila ragazzi nel 2006 hanno scelto di seguire un corso di lingua e
cultura italiana.
"E' un momento magico, ci sono cattedre ovunque negli Stati Uniti perfino
in Alaska e alle Hawaii, ne sono appena state aperte due a Puerto Rico".
Massimo Ciavolella, che guida il dipartimento di italiano all'Università della
California a Los Angeles, ha studiato l'evoluzione del fenomeno: "Vedo tre
ragioni per questo boom: è sparita l'idea dell'italiano come emigrante, oggi la
nostra lingua si è liberata da quell'immaginario ed esprime un'idea di cultura
e di stile. Il successo dei prodotti italiani è servito da traino, penso alla
moda e al cibo. L'Italia ha cambiato il modo di vestire e di mangiare degli
americani e questo li ha conquistati. Infine è rinata la moda del Grand Tour:
Più di 80 università americane hanno una sede a Firenze. Per un giovane
studente oggi il viaggio in Italia rappresenta una tappa fondamentale di
formazione".
La summer school di Columbia University a Venezia, in cui si studiano lingua,
architettura e storia dell'arte, non ha più posti disponibili, come ci racconta
Francesco Benelli, che nell'ateneo di Manhattan tiene il corso di architettura
rinascimentale: "È nata da tre anni ma ha un successo clamoroso, i ragazzi
vogliono scoprire l'Italia e questo è estremamente positivo, ma
contemporaneamente va segnalata una crisi degli studi specialistici: a New York
c'era una tradizione incredibile di studi sul barocco e il rinascimento, ora
sono in forte declino".
Il suo collega Nelson Moe, che al Barnard College supervisiona i programmi di
chi per un periodo viene in Italia, conferma: "Prima l'italianistica era
lo studio approfondito della Divina Commedia, naturale che fosse per pochi,
oggi c'è un approccio interdisciplinare che ha conquistato molti studenti:
arte, letteratura, cinema, musica e anche la cultura del cibo procedono
insieme. L'italiano è vissuto come una lingua polisensoriale capace di aprire
le porte al "bello"". Moe non si spaventa, è convinto che il
successo figlio anche del boom dei ristoranti, degli stilisti, dei libri di
cucina e dei viaggi sia un utile primo passo: "La sfida è conquistare
questi studenti per poi portarli a corsi più avanzati".
Negli anni '60, secondo le statistiche della Modern Language Association,
11mila ragazzi studiavano italiano, nel 1970 erano saliti a 34mila, nel 1998 si
supera la soglia dei 40mila iscritti, nel 2004 dei 50mila e lo scorso anno dei
60mila. Tra il '98 e il 2002, c'è un balzo del 30%, straordinario se comparato
alle altre lingue europee, che negli ultimi cinque anni si è consolidato.
Ancora nel '70 il francese la fa da padrone, con 360mila iscritti, poi comincia
un declino che oggi ne fa ancora la seconda lingua studiata dietro lo spagnolo
(746.000 iscritti) ma a quota 200mila. Al terzo posto c'è il tedesco, che a
partire dagli anni '70 venne identificato come la lingua europea degli affari,
ma che oggi ha perso questa caratteristica di idioma indispensabile per il
business, lasciando il posto al cinese, che cresce insieme all'arabo.
"Storicamente - spiega Ciavolella, citando la ricerca pensata con Dino De
Poli e la Fondazione Cassamarca di Treviso - le cattedre di italiano erano
stati aperte soltanto in quelle aree degli Stati Uniti e del Canada dove
c'erano i figli degli emigranti, come necessità per lo studio degli
italo-americani, oggi non è più così, anche se la maggiore concentrazione resta
sulla costa Est". In crescita anche il numero degli iscritti ai master e
ai dottorati, si è passati da 925 del '98 a 1100 oggi, ma siamo sotto la
soglia dei 1200 iscritti sopra la quale un programma entra nella classifica
federale e ha diritto ad avere finanziamenti e borse di studio.
Oggi non siamo più emigranti, Renzo Piano sta per inaugurare il grattacielo
progettato come sede del New York Times, Bulgari lancia la sua sfida a Tiffany
con un negozio grande uguale che occupa l'angolo opposto della Quinta strada,
un italoamericano come Rudolph Giuliani corre per la presidenza e il vino
italiano è al primo posto tra quelli importati, davanti ad Australia e Francia.
Daniel Berger adesso lavora a Roma, al ministero dei Beni Culturali, è consulente
per il recupero delle opere d'arte trafugate all'estero. Se è in Italia il
merito è di quel professore che faceva l'appello cinquant'anni fa: "Si
chiamava Domenico Vittorini, al pomeriggio insegnava ai cantanti d'opera la
pronuncia e la fonetica, creò in me la passione per la lingua e per farmi
migliorare la grammatica ogni giorno nelle vacanze estive mi spediva una
lettera con un compito da rimandargli il giorno dopo. Allora ero solo, oggi
finalmente l'italiano in America è la lingua della cultura".
(23 aprile 2007)
La Repubblica
23-4-2007 Annunciata fusione Barclays-Abn Nasce la seconda banca europea
AMSTERDAM - La banca olandese Abn Amro e quella britannica Barclays
hanno annunciato stamani la loro fusione, dando così luogo al secondo gruppo bancario
europeo, il quinto mondiale, con 220.000 impiegati e 47 milioni di
clienti.
Il costo dell'operazione, hanno reso noto le due banche,è di 67 miliardi di
euro e darà luogo ad un nuovo gruppo denominato Barclays Plc e sarà controllata
al 52% dagli azionisti Barclays.
Abn Amro ha annunciato la contestuale vendita della banca statunitense LaSalle
alla Bank Of America per 21 miliardi di dollari (15,4 miliardi di euro
circa).
(23 aprile 2007)
Il
Corriere della Sera 23-4-2007 Mediatore di Emergency, accusa di
omicidio. Le autorità afghane: «Colpevole di un reato contro la sicurezza
nazionale» Fiorenza Sarzanini
Hanefi
accusato di concorso in omicidio: «Lasciò l'interprete di Mastrogiacomo ai
talebani»
ROMA —
È la contestazione che può pregiudicare definitivamente la soluzione della
vicenda. Il sospetto più pesante. Perché Rahmatullah Hanefi, il mediatore di
Emergency che ha negoziato il rilascio di Daniele Mastrogiacomo, adesso è
accusato di concorso in omicidio. Secondo i servizi segreti afghani, che lo
avevano arrestato per partecipazione al sequestro, sarebbe stato lui a
consegnare ai talebani guidati dal mullah Dadullah, Adjmal Nashkbandi,
l'interprete sgozzato dai terroristi venti giorni dopo la liberazione
dell'inviato di Repubblica. Invece di portarlo in salvo come era stato
stabilito, dicono, lo ha lasciato nelle mani della banda che alla fine lo ha
ammazzato. «Si tratta di un reato che mette a rischio la sicurezza nazionale —
hanno spiegato le autorità di Kabul alla nostra diplomazia — e per il nostro
ordinamento in questi casi non è prevista l'assistenza di un legale».
Hanefi rischia la pena di morte. La scorsa settimana i
responsabili dell'organizzazione guidata da Gino Strada hanno ribadito che
chiuderanno gli ospedali e lasceranno definitivamente il Paese, se non sarà
rilasciato. Ma anche loro sanno che di fronte a questo tipo di contestazioni
difficilmente le porte del carcere potranno aprirsi. E lo sa il governo
italiano che in queste settimane ha ribadito di aver fatto pressioni sul
governo dell'Afghanistan, ma senza ottenere alcun risultato. La fase finale del
sequestro Mastrogiacomo rimane un mistero. Il primo accordo siglato con i
sequestratori prevede che in cambio del giornalista e del suo interprete, il
governo scarcererà tre talebani. La consegna deve avvenire all'alba del 18
marzo. Ma poche ore prima accade qualcosa di imprevisto, i rapitori rilanciano
chiedendo altri due detenuti, minacciano di sgozzare gli ostaggi. Di quelle
istanze si fa portavoce proprio Hanefi che fino a quel momento ha tenuto i
contatti tra le parti. Il governo italiano convince il presidente Hamid Karzai
ad accettare le nuove condizioni. Quello stesso pomeriggio la Farnesina chiude
la partita con una nota: «Tutte le condizioni sono state rispettate».
I detenuti sono già a disposizione di Emergency. Il patto è chiaro:
cinque contro due. E i due sono Daniele e Adjmal. «Sul luogo dello scambio
andiamo da soli — impone Strada — senza gli uomini dell'intelligence o altri».
Va Hanefi, ma all'ospedale di Lashkar Gah riporta solo Daniele. «Anche
l'interprete è libero — assicura subito il giornalista — gli hanno tolto le
catene, l'ho visto andare via». In realtà due giorni dopo il mullah Dadullah fa
sapere che Adjmal è ancora nelle sue mani. E per rilasciarlo vuole la
scarcerazione di altri tre detenuti. «Non cederemo a nuovi ricatti», afferma
pubblicamente Karzai. L'8 aprile, il giorno di Pasqua, l'interprete viene
«giustiziato». Perché Hanefi non ha preteso la consegna di entrambi gli
ostaggi? A questa domanda, che le autorità italiane continuano a porsi, il
mediatore non ha mai potuto rispondere. Gli 007 di Kabul lo hanno arrestato la
mattina dopo il rilascio di Mastrogiacomo e da allora non hanno consentito a
nessuno, se non ad un funzionario della Croce Rossa che doveva verificare le
sue condizioni di salute, di poterlo incontrare. «Non lo ha fatto perché era
complice dei talebani», assicurano i servizi segreti afghani. In Italia a
quest'accusa non sembra credere nessuno. Il governo gli ha dato piena fiducia
concedendo ad Emergency totale autonomia e imponendo al Sismi e ai carabinieri
del Ros di tenersi fuori dalla trattativa. Ma gli stessi uomini
dell'intelligence non hanno mai espresso dubbi sul suo operato, spiegando che per
poter garantire la sicurezza in quella zona a sud dell'Afghanistan bisogna
essere in grado di dialogare con tutti anche con i talebani.
23
aprile 2007
INDICE 22-4-2007
+ Il Sole 24 Ore 21-4-2007
Al via l'era delle banche senza frontiere di Alessandro Graziani
La Repubblica 22-4-2007 La
nave in partenza verso il futuro Eugenio ScalfarI
Europa 21-4-2007 Un evento
forte che ha già cambiato la politica. di Stefano Menichini
Il Riformista 21-4-2007
FLOP DI PORTA A PORTA . l Pd, i sondaggi e l'Auditel
Il Giornale 22-4-2007
Lotta all’ultimo voto per conquistare l’Eliseo. di Marcello Foa
IL Secolo XIX 22-4-2007
Referendum elettorale
+ Il Corriere della sera 22-4-2007 Presidenziali, affluenza in forte crescita Alle 12 per eleggere il capo dello Stato francese ha
votato il 31,21% degli aventi diritto contro il 21,4% delle elezioni 2002
PARIGI -
Un'elezione che appassiona. E' infatti forte aumento la partecipazione alle
presidenziali francesi rispetto alla precedente consultazione del 2002, quando
peraltro fu particolarmente bassa: secondo quanto reso noto dal ministero
dell'Interno, a mezzogiorno di oggi nella Francia metropolitana avevano infatti
votato il 31,21% degli aventi diritto, cioè circa un terzo dei 44 milioni e
mezzo di iscritti nelle liste; cinque anni fa non si era andati oltre un
modesto 21,4%, con l'astensione che arrivò al 27% del totale.
Molto consistente la partecipazione attuale anche nei dipartimenti e nelle
collettività di oltremare, gli ex possedimenti coloniali, dove le operazioni di
voto si erano svolte sabato per ragioni di fuso orario. Un nuovo aggiornamento
della situazione è previsto alle 17, un'ora prima della chiusura dei seggi nel
70 per cento della circoscrizioni della madrepatria; nei centri medio-grandi si
voterà fino alle 19 mentre in quelli principali, Parigi compresa, si andrà
avanti fino alle 20. Soltanto dopo di allora cominceranno a essere resi noti i
risultati elettorali d'oltremare nonchè i primi exit poll metropolitani.
22
aprile 2007
+ Il Sole 24 Ore 21-4-2007 Al via l'era
delle banche senza frontiere di Alessandro Graziani
Sarà
un week end di gran lavoro per banchieri europei. I destini dell'olandese Abn
Amro potrebbero essere decisi già domani: il board si riunirà assieme a quello dell'inglese
Barclays. Ma su quel dossier-fusione è pronto a intervenire anche lo spagnolo
Santander, con la britannica Royal Bank of Scotland e la belga-olandese Fortis.
A fianco di Barclays, d'altra parte, sono pronti altri membri della top ten di
Eurolandia: l'iberico Bbva e la francese Bnp-Paribas. Che però sarebbe in
agguato anche altrove. Ieri la connazionale Société Générale, guidata da Daniel
Bouton, è volata in Borsa anche sull'ipotesi di un'offerta di Bnp - otto anni
dopo il primo tentativo - anticipando le mosse di UniCredit, che ieri ha
ammesso l'esistenza di «contatti esplorativi». Basterà a sopire le attese di
blitz immediati, sapere che Alessandro Profumo è in Portogallo, per un fine
settimana di relax?
n Italia, l'attesa per il risiko europeo è tutta concentrata proprio su
UniCredit, unico player in grado di giocare un ruolo attivo nel riassetto
continentale, ormai in fase di decollo. Intesa-Sanpaolo, prima banca italiana,
per sua stessa ammissione (ma anche per l'indole dei suoi grandi azionisti,
abituati a giocare in casa) esclude aggregazioni paneuropee. Mentre Capitalia
appare sempre più una «preda». A muovere con chance di successo, dunque, può
essere solo l'UniCredit. Facendo valere la sua capitalizzazione di 77 miliardi
di euro che la pone al secondo posto dell'area euro, dietro al Santander, e al
quinto posto nell'Europa «allargata» alle spalle di Hsbc, (156 miliardi), Ubs
(96), Rbs (94) e Sch (86). Un'eventuale aggregazione di UniCredit con Société
Générale (che vale circa 68 miliardi), creerebbe con 145 miliardi di
capitalizzazione il vero campione europeo, con posizioni di leadership in una
macroarea che unisce Francia, Nord Italia, Germania, Austria e Nuova
Europa.
>n disegno ambizioso che, malgrado le smentite degli ultimi giorni, sia
Profumo che Daniel Bouton avrebbero più volte esaminato negli ultimi anni. E
che sarebbe facilitato, anche se non è certo il motivo dominante, dall'avere
entrambi come socio il gruppo assicurativo britannico Aviva, più volte
candidato a una fusione con Generali.
Ma i tempi di una fusione UniCredit-SocGen, più volte evocata sul mercato anche
in passato, sono davvero maturi? Nelle ultime settimane un'accelerazione sembra
esserci stata («UniCredit parla di contatti esplorativi»), anche se ora i tempi
rischiano di allungarsi, se il titolo SocGen dovesse ancora «volare via»,
rendendo poco conveniente l'aggregazione agli occhi del management di
UniCredit. A sei anni di distanza, allora era il 2001, brucia ancora il
fallimento del tentativo con Commerzbank, saltato proprio per le anticipate
reazioni di mercato.
Dal vertice di Piazza Cordusio non filtrano né commenti né indiscrezioni. Ma da
una ricognizione all'interno dei soci italiani di UniCredit, l'attesa per una
nuova fase nel processo di crescita è forte. «Prima della fine dell'anno, ci
aspettiamo che Profumo ci porti una proposta concreta da esaminare — spiega uno
dei grandi azionisti — sappiamo che le opzioni sono più di una, in Italia e
all'estero». L'opzione Société Générale, forse la più adatta a completare quel
disegno paneuropeo caro a Profumo e già avviato con la tedesca HypoVereins
Bank, è a portata di mano. Ma potrà realizzarsi solo se, oltre alle condizioni
di mercato, non vi sarà l'opposizione di Bnp Paribas, prima banca francese con
una capitalizzazione analoga a quella di UniCredit. Bnp Paribas non ha mai
rinunciato all'idea di completare il disegno originario di maxi-polo francese
(all'epoca, il merger doveva essere a tre: Bnp, SocGen, Paribas). Chissà se per
aprire la strada a UniCredit in Francia, chiederà contropartite in Italia.
L'acquisizione di Bnl, avvenuta a prezzi tanto elevati da permettere una
ritirata senza danni a Unipol, è considerata insufficiente dai francesi che
vogliono ancora crescere in Italia.
La quasi certa sistemazione definitiva dell'olandese Abn Amro e le probabili
scelte della francese SocGen, ormai rinviate a dopo l'insediamento del nuovo
Governo a Parigi, aprono a tutti gli effetti il grande risiko europeo.
Difficile, malgrado i tanti rumors, che siano coinvolti i grandi campioni
nazionali. La Germania difficilmente «perderà» Deutsche Bank, al centro di un
interesse dell'americana Citigroup, né sono prevedibili scossoni — almeno
nell'immediato — sui due leader di Spagna (Santander e Bbva) e Francia (Credit
Agricole e Bnp Paribas). Ma dopo Abn Amro, tutti gli anelli deboli del sistema
europeo sono destinati a diventare possibili prede.
Chi non ha la taglia troppo grande per potersi difendere, né troppo piccola da
sconsigliare battaglie per la sua conquista, è a rischio. Vale per i francesi
di SocGen (che pur capitalizzando 67 miliardi hanno un'azionariato frammentato
e poco coeso), ma vale soprattutto per la tedesca Commerzbank, per la
franco-belga Dexia e per l'italiana Capitalia.
La Repubblica 22-4-2007 LA NAVE IN
PARTENZA VERSO IL FUTURO EUGENIO SCALFARI
NON
è un giudizio di valore ma una semplice evidenza: il congresso della Margherita
è stato una registrazione di posizioni tra le varie correnti che compongono
quel partito nel momento in cui decide di confluire nel nuovo Pd; quello della
Quercia è stato dominato dal "pathos" d'un popolo di militanti con
alle spalle una lunga storia che ha attraversato nel bene e nel male gli ultimi
ottant'anni della storia del Paese e ieri ha deciso di recidere tutti gli
ormeggi per farsi protagonista del futuro. Una classe dirigente che cessa,
incalzata dai mutamenti della società, di arroccarsi e chiudersi nella propria
identità, che smantella l'oligarchia cui fino ad ora si era affidata e decide
di uscire dal limbo dei "post" e degli "ex" per mettersi
finalmente nel mare aperto della democrazia senza aggettivi. Accade di rado che
un'oligarchia si sciolga di propria volontà: quella che Pareto e Mosca avevano
battezzato come la "persistenza degli aggregati" di solito la vince
su ogni altra considerazione e continua a mantenere in vita forme logore, gusci
vuoti, crisalidi sterili che hanno perduto ogni capacità di generare. La novità
vera del congresso della Quercia a Firenze è stata un atto di coraggio che
ancora fino alla vigilia sembrava in dubbio per i costi politici e sentimentali
che avrebbe comportato, i rischi inevitabili dell'uscita dal porto e della
navigazione nell'alto mare aperto. Quest'atto di coraggio è stato compiuto.
L'oligarchia si è azzerata consapevolmente e responsabilmente; non poteva
infatti ? quell'atto di coraggio ? esser compiuto solo da alcuni o addirittura
da un solo demiurgo capace di forzare gli altri suoi compagni a seguirlo. La
forza propulsiva del vecchio aggregato si era esaurita e tutti i suoi
componenti ne erano ormai persuasi. Ecco perché il sentimento dominante al
congresso di Firenze è stato il "pathos", l'addio, l'inizio del viaggio,
la "pietas" verso i Lari e i Penati, la separazione dolorosa e
rispettosa da chi aveva deciso di non partire. Ed ecco perché l'ultimo atto di
questa lunga marcia è avvenuto con nobiltà insolita nei consessi politici dove
signoreggiano soprattutto gli interessi e le brame di potere. Piero Fassino,
chiudendo il congresso, ha ricordato che il gruppo dirigente della Quercia
viene da una grande scuola politica abituata ad anteporre gli interessi
generali a quelli del partito. Non so quanto sia esatta questa affermazione,
anzi ho molti dubbi che corrisponda all'intera storia del Partito comunista
italiano e dei suoi derivati. Ma sicuramente essa coglie alcuni tratti
significativi di quella storia: l'ordine di Togliatti di rientrare nella
legalità dopo l'attentato da lui subito; il contributo dato alla nascita della
Costituzione repubblicana; la conquista dell'autonomia da Mosca effettuata da
Enrico Berlinguer, lo strappo di Occhetto alla Bolognina. Il congresso concluso
ieri a Firenze con lo scioglimento del partito della Quercia entra a pieno
titolo in questa galleria di memorie ed è di buon auspicio per la nuova
sinistra italiana e quindi per la democrazia del nostro paese. * * * Credo sia
doveroso riconoscere a Fassino una parte notevole del merito di quanto è
accaduto a Firenze. Lo scioglimento di una formazione politica che per gran
parte del Novecento ha avuto un ruolo rilevante nella società italiana ed ha
fortemente contribuito alla sua educazione civile non era un'impresa facile. Il
vero pericolo ? lo ha segnalato Mussi con intenti polemici ?
era che la sinistra evaporasse, cioè si disperdesse in un pulviscolo di piccoli
gruppi o di abbandono individuale d'ogni impegno civile. L'altro rischio ?
l'abbiamo già ricordato ? era di chiudersi in difesa senza capire che blindature
oligarchiche erano ormai divenute impossibili. Il merito di Fassino è d'aver
portato il partito compattamente allo scioglimento finale, indicandogli la
sponda sulla quale traghettare e dalla quale ripartire. E d'avere accettato le
sollecitazioni allo smantellamento dell'oligarchia della quale lui stesso
faceva parte. Ho molto apprezzato il finale del suo discorso e il suo
ringraziamento a tre figure di spicco della sinistra, tre vecchi che hanno
avuto in comune il pregio di guardare sempre verso il futuro: Giorgio
Napolitano, Vittorio Foa, Alfredo Reichlin. Non configurano un Pantheon di
memorie ma una presenza attiva e attuale, una sfida rivolta soprattutto ai
giovani da parte di tre testimoni del tempo. Ho visto giovedì scorso Fassino
nella trasmissione di "Porta a Porta" alle prese con giornalisti che
scambiano l'autonomia professionale con la sgarbatezza dei modi e con la
riduzione della politica ad una lotta selvaggia per la conquista del potere.
Debbo dire: ho apprezzato la sua civiltà e insieme la fermezza delle sue
risposte. Ma apprezzo soprattutto il fatto che, nonostante il 75 per cento che
la sua mozione ha ottenuto al congresso, Fassino resti per il breve periodo
transitorio al suo posto di lavoro ben sapendo che non avrà alcuna rete di protezione
in futuro ma solo la coscienza di avere meritato lode dalla carovana della sua
gente che ha condotto all'appuntamento con il futuro. * * * D'Alema, Veltroni,
Bersani, Finocchiaro e tanti altri, molti dei quali sono poco noti o noti
affatto all'infuori delle cerchie locali e settoriali: da questo mix di
individualità dovrà nascere il quadro dirigente del nuovo partito insieme alle
individualità provenienti dalla Margherita e a quelle espresse dalle
associazioni volontarie, e dai nuovi iscritti al nascituro partito. Il
congresso della Margherita, come si è già detto, non doveva sciogliere un
aggregato con quasi un secolo di storia alle spalle; ma anch'esso doveva
sfuggire ad alcune assai pericolose tentazioni. Per esempio a quella di
abbandonare il concetto di bipolarismo, una delle poche novità positive che
distinguono la Seconda Repubblica dalla Prima e che ? è onesto riconoscerlo ?
dobbiamo soprattutto all'irrompere di Silvio Berlusconi nella politica. Il
bipolarismo attuale è lungi dall'essere perfetto, ma resta un approdo fermo
anche se bisognoso di correzioni radicali. La tentazione di buttarlo a mare in
favore di un'opzione centrista è stata forte ? perché negarlo? ? in alcuni
settori della Margherita, ma è stata evitata con il contributo di tutto il
gruppo dirigente, da Rutelli a Franceschini, da Enrico Letta a Rosy Bindi, da
Marini a De Mita e a Parisi. Anche nella Margherita si era formata
un'oligarchia, sia pure di assai più fresca data. La tentazione di conservarla
non sembra interamente scartata nonostante l'appello ai giovani e ai moderati
lontani dalla politica. Probabilmente questo sarà il banco di prova più
significativo dei prossimi mesi se non addirittura delle prossime settimane.
Infine c'è il tema della laicità. Non vogliamo mitizzare il documento dei
famosi Sessanta, cioè della grande maggioranza dei parlamentari cattolici che,
nel momento più duro dello scontro tra l'episcopato ruiniano e gli ex Popolari
della Margherita, rivendicarono l'autonomia politica del laicato cattolico e si
schierarono a favore dei Dico e comunque per il riconoscimento dei diritti
delle convivenze di fatto. Questa posizione rappresenta il punto d'equilibrio e
la misura della laicità. Direi la soglia minima e quindi non disponibile che il
Partito democratico dovrà far propria. Proprio per questo anche l'oligarchia
della Margherita dovrà sciogliersi e confrontarsi con i nuovi aderenti del Pd.
Le modalità di formazione dell'Assemblea costituente e quelle, altrettanto
importanti, dell'elezione dei quadri intermedi del nuovo partito, costituiscono
uno strumento fondamentale per sottrarre le decisioni di fondo e la loro
esecuzione alle vecchie burocrazie delle tessere. I problemi che hanno
inchiodato i partiti ormai dissolti alla cultura del Novecento (mettiamo tra questi
anche l'appartenenza a questo o quel partito europeo) diventano irrilevanti per
un partito che nasce nel Duemila. Non perché le convinzioni profonde, politiche
e morali, debbano venir meno in favore d'un pragmatismo trasformista. Al
contrario: la moralità pubblica sarà invece uno dei punti fermi del Partito
democratico se vuole veramente che la politica colmi il fossato che oggi la
divide dai giovani, dalle donne, dalla società. Ma cambierà l'ottica,
salteranno le cristallizzazioni e le divisioni tribali. O almeno: questa è la
speranza. Altrimenti perché farlo? * * * Ci sarebbe molto da scrivere
sull'economia, il capitalismo, il mercato e la democrazia. Questo è un tema di
fondo e anche qui gli schieramenti ideologici hanno fatto (dovrebbero aver fatto)
il loro tempo. Sia da parte di chi attribuisce al mercato virtù salvifiche che
non ha e non ha mai avuto, sia da parte di chi gli addossa tutti i vizi e le
miserie del mondo. C'è poi ? e in Italia alligna più che altrove ? una terza
categoria di persone che predicano l'intangibilità del mercato e la sua
assoluta sovranità ma danno sistematicamente mano alla sua manipolazione. Si
vorrebbe che il nuovo partito abbia le idee chiare in proposito. Difenda il
mercato come meccanismo principe per l'allocazione delle risorse. Instauri una
regolamentazione coerente che impedisca le manipolazioni. Pretenda che
l'autorità politica non discrimini tra gli imprenditori, non favorisca né
scoraggi alcuno, ma non rinunci a tutelare i consumatori, i risparmiatori, le
maggioranze polverizzate degli azionisti senza voce né potere. Siamo
attualmente in una fase di ripresa economica in Europa e anche in Italia.
Auguriamoci che duri e facciamo dal canto nostro tutto il possibile perché il
governo contribuisca alla sua durata e ai suoi benefici effetti sul sistema
Italia. * * * Riservo a Romano Prodi la conclusione di questa mia analisi dopo
i due congressi di scioglimento. Il presidente del Consiglio è stato il primo e
il più tenace fautore della nascita dell'Ulivo e poi, conseguentemente, del
Partito democratico. L'appuntamento da lui voluto quando era ancora il solo a
parlarne si è finalmente verificato e potrà modificare radicalmente le modalità
della politica italiana, non solo nel centrosinistra ma anche nello
schieramento opposto. Bisogna dare atto a Prodi di questo suo contributo
determinante all'innovazione politica e istituzionale. Molti pensano che fino
alla fine della legislatura, se il governo avrà vita lunga, il leader del nuovo
partito e della Costituente debba essere Prodi, tanto più che il
"premier" ha ribadito ancora ieri che dopo questa legislatura lascerà
la politica. Può darsi che questa programmazione sia saggia. Personalmente non
lo credo. Credo che i compiti di governare un Paese come il nostro siano
assorbenti e non lascino spazio ad altri compiti altrettanto impegnativi. Credo
che il Partito democratico non possa esser tenuto per anni sotto una campana:
si riformerebbero oligarchie, rapporti clientelari, cooptazioni, cioè tutto ciò
che deve essere definitivamente abbattuto in favore della libera circolazione
delle classi dirigenti, nell'attesa della scelta del nuovo leader che
caratterizzi con la sua figura il ruolo del nuovo partito. Il Pd ha avuto una
lunghissima incubazione; non gli si può infliggere una gestazione ulteriore
sotto la campana di vetro di Romano Prodi. A lui spetta di governare il Paese,
al Partito democratico di scegliere il suo "reggente" in attesa che,
alle prossime elezioni politiche, gli schieramenti si confrontino di fronte al
corpo elettorale.
Europa
21-4-2007 Un evento forte che ha già cambiato la politica. di STEFANO MENICHINI
Niente
male, signori, queste prime quarantott’ore di vita del Partito democratico.
Freddo? Leggero? Burocratico? Oligarchico? Marginale? Trovate qualcos’altro,
voi che siete critici o che volete sempre qualcosa di più. Perché tra Firenze e
Roma s’è consumato un enorme fatto politico e umano. Dovrebbe averlo capito chi
ha affollato i congressi di Ds e Margherita, sicuramente l’hanno capito gli
avversari del centrodestra, se ne accorgeranno coloro che nel centrosinistra e tra
gli opinion makershanno sempre trattato con sufficienza questa vicenda.
Può darsi che non fossero così le premesse. Anzi, è sicuro. Ds e Margherita,
per essere i due principali partiti di governo, si erano presentati piuttosto
malconci all’appuntamento. Di nuovo tormentati su di sé e sulle proprie
ambizioni frustrate sotto la Quercia, colpiti nell’intimo da una rottura
interna poco motivata. Risucchiati i diellini da vizi antichi e inquietudini
recenti, tra la conta di tessere improbabili e le critiche politiche alla
conduzione rutelliana.
E come finisce? Limitandosi fino ad adesso a Firenze, è finita
ballando, tra lacrime di gioia e gli occhi di tutta l’Italia politica addosso.
Piero Fassino ha chiuso l’ultimo congresso della storia postcomunista con uno slancio
che tre giorni fa non aveva avuto, rimettendosi al passo con Rutelli, Veltroni
e D’Alema. L’allontanamento di una porzione della sinistra è stato molto
ridimensionato nei numeri, ma già nel dolore del commiato di Mussi c’è un primo
dato, una prima smentita: il Partito democratico nasce caldo, emozionato, con
un gesto sofferto.
La platea del Forum Mandela ha dovuto attingere a ogni argomento della ragion
politica, per contrastare l’istinto antico ad anteporre l’unità a tutto. Non
gli è stato agevole, sciogliersi nel Partito democratico: vuol dire che è una
cosa seria.
D’altronde, se solo ci si ferma un attimo a ri- flettere, al suo primo
passo il Pd ha già avuto un impatto potente sul sistema politico. Il presidente
del consiglio, leader del centrosinistra da dodici anni, ha annunciato che
lascerà la mano. Pare poco? Nel centrodestra se lo sognano, un passaggio di
consegne così dichiarato. Prodi l’aveva già detto? Sì, ma ripeterlo nella
giornata in cui Rutelli rialza la testa, Veltroni scende dal Campidoglio e
D’Alema ritorna dalemiano, fa tutt’altro effetto. Non suscita emozioni, suscita
conseguenze politiche. E, a proposito di centrodestra: in questi giorni non
sono forse stati Berlusconi e Fini i primi testimonial di un cambio di clima
politico? Non nella direzione dell’inciucio che tanto angusta i girotondini, ma
perché il Partito democratico torna a essere la locomotiva di trasformazioni
che riguardano anche loro.
Quanto alla leggerezza. Il dibattito fra Firenze e Roma è stato ricco, non
banale. Ieri a Cinecittà Rosy Bindi ha proposto la versione fin qui più
rotonda e convincente del ruolo che i cattolici vogliono giocare nel partito
nuovo. La sua è un’impostazione che sicuramente anche la sinistra può
accogliere in pieno.
Del tema, com’è noto potenzialmente divisivo, ha parlato con grande orgoglio
Fioroni, oggi toccherà a Marini e a Franceschini: piaccia o no, la linea teodem
in senso proprio è stata battuta, il confronto s’è trasferito sulla sostanza
delle politiche per la famiglia.
E siccome discussioni e polemiche non vertevano su astrattezze teologiche, ma
su scelte precise, come si farà a dire che il Partito democratico non prende di
petto i nodi più sostanziosi – “pesanti” – dell’agenda? Anzi, che è l’unico in
grado di affrontarli per scioglierli? Il Pd nasce oligarchico? Arturo Parisi
ieri non ha ritirato neanche uno dei suoi noti dubbi, ma non s’è attardato su
lamentazioni iperuliviste: per lui si apre ora il terzo tempo della battaglia,
quello finalizzato al bipartitismo e all’elezione diretta del premier, e
il Partito democratico è lo strumento da utilizzare. Oggi si richiude la
Margherita, sbocciata cinque anni fa. La vita dei fiori è breve. Ma le
spore viaggiano a migliaia, il vento democratico è forte. C’è già un’altra
inseminazione in corso.
Il
Riformista 21-4-2007 FLOP DI PORTA A PORTA . l Pd, i sondaggi e l'Auditel
Da
un lato i sondaggi che parlano di un interesse piuttosto moderato (per usare un
eufemismo) verso il Partito democratico in gestazione. Dall'altro la stanchezza
dei cittadini, segnalata in tanti modi, per una politica autoreferenziale,
molto propensa a parlarsi addosso. Mettete le due cose insieme e vi spiegherete
i dati “freddi”, molto “freddi” che nostra signora dell'Auditel ci ha messo
sotto il naso in occasione della puntata di Porta a Porta messa in piedi da
Bruno Vespa, giovedì sera, per la prima giornata del congresso dei Ds e la
vigilia di quello della Margherita. Per la circostanza, Vespa aveva trasferito
il suo salotto a Firenze, con l'obiettivo di fare tutta una trasmissione sulla
Quercia e sul socialismo europeo. Ospiti in studio, il segretario dei Ds Piero
Fassino e il presidente dell'Internazionale socialista Georges Papandreou. Una
puntata che Vespa ricorderà a lungo, visto che il 10,69% di share registrato è
senza dubbio uno dei peggiori risultati del suo Porta a Porta, molto, molto
lontano dalla media degli ascolti.
Si tratta di dati freddi, forniti da un organismo che non gode di universale
fiducia. E però quel 10,69% a noi pare meritevole di qualche domanda. Non tanto
e non solo sul consenso popolare intorno all'operazione Partito democratico -
ci mancherebbe che la nascita di un partito venisse valutata sulla base di sondaggi
e rilevamenti dell'audience - quanto anche sulla propensione
all'autoreferenzialità che caratterizza i nostri rappresentanti politici.
Questione alla quale dovrebbero, ci pare, dedicare qualche pensiero.
Genova.
Non è stata indolore la scissione di Firenze per i Ds, ma le parole del leader
del Correntone Fabio Mussi, quel "noi ci fermiamo qui", un
no senza appello al Partito democratico, rischiano di avere pesanti
ripercussioni in Liguria. Se i Ds si sono ricompattati alla Spezia dove si vota
per Comune e Provincia, tira aria di bufera invece a Genova e Imperia. Nel
primo caso le 24 candidature del Correntone tra Comune, Municipi e Provincia
sembrano essere sub iudice mentre ad Imperia Carla Nattero e Mario Torelli si
stanno attrezzando per dare l'addio ai Democratici di sinistra ed inforcare la
strada che Mussi comincerà a tracciare il prossimo cinque
maggio con la fondazione del suo movimento politico. Il caso più complicato è
quello genovese. Questa mattina i Ds vanno alla direzione provinciale per
chiudere le liste dell'Ulivo per le comunali e le provinciali del 27 maggio e,
forse, allo scontro con gli esponenti della minoranza interna. Il segretario
provinciale Alfonso Pittaluga chiede chiarezza. Niente piede in due scarpe,
insomma. O si disconosce la mozione Mussi oppure la presenza
nelle liste potrebbe essere ridiscussa. "Bisogna fare una riflessione -
avverte - e vedere se c'è una tenuta complessiva. Non possono esserci
ambiguità, la mozione Mussi è uscita dai Ds e nessuno dei
delegati è entrato a far parte della costituente. Bisogna sapere con chiarezza
chi e se condivide il nostro percorso verso il Partito democratico, conoscere
chi vuole stare con noi perché Mussi ha fissato la costituente
di un nuovo movimento il 5 maggio a Roma e per quella data le liste devono già
essere pronte". Ciò che resta del Correntone prima del congresso di Firenze
aveva concordato con la maggioranza fassiniana una rappresentanza nelle liste,
24 candidati in tutto. Poi c'è stato il congresso e lo stop di Mussi.
Passaggio che, secondo il coordinatore regionale del Correntone, Stefano
Quaranta, non porta indietro l'orologio dell'accordo cercando di tenere
separati il piano locale e quello nazionale: "Per noi non è cambiato
niente. Abbiamo condiviso tutte le tappe che ci hanno portato fino a questo
punto". La fedeltà degli uomini della minoranza Ds si ferma al partito "finché
esisterà" e ai gruppi dell'Ulivo che saranno formati in consiglio comunale
a Tursi e in Provincia. "Nessuno può giurare fedeltà al Pd, che è un
partito che non esiste ancora. E poi, comunque, sarei curioso di vedere quanti
fassiniani, terminato l'esperienza della costituente, transiteranno nel Partito
democratico, entità di cui oggi non si conosce ancora nulla". E, rivolto
al segretario provinciale Pittaluga: "Io mantengo le cose che ho detto e
che ho concordato. Non saremo noi a provocare la frattura, se poi qualcuno
vuole buttarci fuori per sistemare fatti interni alla maggioranza è un altro
fatto". Nel comitato di 300 che dovrà gestire il passaggio dai Democratici
di sinistra (che non hanno rinnovato gli organi statuari, ma formato una specie
di parlamentino) al Partito democratico c'è una larga fetta di Liguria. Sono
stati nominati il segretario regionale Mario Tullo, quello provinciale Alfonso
Pittaluga, il presidente della Regione Claudio Burlando, il sindaco uscente di
Genova Giuseppe Pericu e Marta Vincenzi, candidata ulivista a Palazzo Tursi e
per il momento in testa ai sondaggi.
Le
riforme strutturali sono la chiave per aumentare la competitività e la
crescita. L'Italia è in ritardo rispetto a molti Paesi europei. Le prime liberalizzazioni
introdotte dal governo, ad iniziativa dei ministri Bersani e Lanzillotta, sono
state salutate come un significativo passo avanti. Molti vorrebbero una marcia
più spedita ed incisiva, che approfittasse della buona congiuntura economica e del
fatto che le elezioni politiche sono ancora lontane. Intanto, però, emerge un
pericolo oscuro: la controriforma strutturale. A differenza delle riforme, essa
non viene annunciata. Forse non viene neppure deliberatamente perseguita. Ma in
Italia e all'estero è sempre più diffusa la percezione che il governo stia
provocando, o consentendo, un'involuzione nel rapporto tra Stato e mercato, tra
pubblici poteri e impresa. Un rapporto che solo con ritardo, con difficoltà e
spesso sotto la pressione dell'Unione Europea si stava avvicinando a quello che
caratterizza le moderne economie sociali di mercato: netta distinzione dei
ruoli; non interferenza del governo, e a maggior ragione dei partiti, con il
funzionamento del mercato; autorità di regolazione indipendenti ed efficaci.
Romano Prodi, da presidente della Commissione europea, ha contribuito a far
progredire nell'Unione questi princìpi e a far avanzare la loro realizzazione
negli Stati membri, spesso contro forti resistenze politiche. Sarebbe
paradossale se, tornato alla guida del suo Paese, promuovesse o tollerasse un
riflusso, che per lo sviluppo dell'Italia sarebbe particolarmente nocivo. I
casi Abertis/Autostrade e Telecom Italia sono rilevanti in sé - e su specifici
atti si pronunceranno le autorità comunitarie - ma sono soprattutto rivelatori
della grande confusione mentale, dell'incontrollata imagination au pouvoir ,
dell'impressione nel migliore dei casi di un'assenza di guida nel governo, nel
peggiore di uno spregiudicato disegno. Locuste vengono talora chiamati
spregiativamente i fondi di private equity , quando si accingono ad acquisire
imprese che ritengono bisognose di ristrutturazione. Assomigliano piuttosto a
cicale - per le loro stridule e disparate dichiarazioni, nonché per
l'imprevidenza di cui danno prova rispetto alla reputazione del Paese - i
numerosi politici che, ad esempio sul caso Telecom Italia, esprimono i loro
orientamenti, moniti o diffide: forme, spesso, di public inequity . L'Unione
Europea nel 2000 costrinse il governo italiano ad abbandonare la golden share
in Telecom Italia, potenzialmente in conflitto con il libero movimento dei
capitali, e continua a vigilare sulla materia. Attenzione, allora, a non
sostituire la golden share con un istituto innovativo ma equivalente negli
effetti, che si potrebbe chiamare golden shake : lo scuotimento delle regole
mentre è in corso un'importante operazione di mercato. Come è avvenuto in tema
di concessioni durante il caso Abertis/Autostrade. Come sta avvenendo, in
termini di vivaci discussioni sul tema delle reti, mentre è in corso il
travagliato caso Telecom Italia. Se il quadro normativo è malcerto, se viene
percepito il rischio che i politici possano modificarlo a discrezione per
tutelare l'italianità (o per favorire la degna intenzione di questo o quel
soggetto di tutelare esso l'italianità, magari aprendo ad investitori stranieri
sì, ma inclini ad accettare alcune caratteristiche dell'italianità), vi sono
due conseguenze. Si riduce la propensione delle imprese straniere, industriali
e finanziarie, a investire in Italia. Si accresce il valore che quanti operano
nel mercato, se vogliono affermarsi nel mercato italiano, devono annettere alle
buone relazioni con i politici. E aumenta anche il valore che i politici
annettono alle buone relazioni con coloro che, avendo rilevante potere di
mercato, possano aiutarli a realizzare disegni - ad esempio di politica
industriale, territoriale o infrastrutturale - che faticherebbero a realizzare
con i normali strumenti di public policy, dati i vincoli posti dalle regole
che, in Europa e in Italia, presidiano la concorrenza. Qui emerge un altro
profilo dell'involuzione in corso, insidioso perché, in apparenza, costituisce
un elemento positivo: il "banchiere senza mandato". Il
"capitalismo senza capitali", di cui spesso si parla, e i
"politici senza politica", di cui non mancano gli esempi, non
riscuotono ammirazione. La riscuotono invece quei banchieri che danno prova di
gestire con successo le banche a essi affidate - cosa difficile e in sé
altamente meritoria anche sul piano sociale - e in più sentono su di sé la
responsabilità di dover operare nell'interesse generale. C'è di peggio, certo,
nel capitalismo italiano! Ma destano qualche preoccupazione tre aspetti, non
pienamente in linea con una moderna economia sociale di mercato. Sarebbe
preferibile che l'identificazione dell'interesse generale avvenisse per intero
a opera degli organi a ciò preposti nel sistema democratico, quali il
Parlamento, il governo, gli enti territoriali. Sarebbe auspicabile che, nella misura
in cui comunque abbia luogo questo "servizio nell'interesse generale senza
mandato", i banchieri in ciò impegnati non dessero neppure l'impressione
di essere "vicini" o "amici" di particolari forze politiche
o personalità politiche. Sarebbe infine desiderabile che, con banche sottoposte
pienamente ai venti della concorrenza e in un sistema finanziario meno
"bancocentrico", le banche stesse non avessero i margini per
dedicarsi al perseguimento di altre finalità di interesse generale. Il Parlamento
e il governo quali istituzioni pubbliche, le famiglie e le imprese quali utenti
di servizi finanziari, gli azionisti delle banche sarebbero tutti avvantaggiati
da un minore ruolo dei "banchieri senza mandato". Il 23 agosto 1924
Luigi Einaudi scrisse su queste colonne un articolo dal titolo "Banche con
aggettivi". Il Corriere lo ripubblicò integralmente il 24
febbraio 1977. In entrambi quei momenti, i rischi presentati da
banche che erano o si sentivano vicine a partiti politici erano ben più gravi
di quanto potrebbe verificarsi oggi. Le riflessioni di Einaudi sull'esercizio
del "mestiere di banchiere" conservano però intatto il loro valore.
Il 13 settembre 1977 Beniamino Andreatta pubblicò, sempre su queste colonne, un
lungo articolo intitolato "Ristrutturazione finanziaria delle imprese:
ecco come devono comportarsi i banchieri". Metteva in luce alcuni
problemi, anch'essi da non dimenticare pur in un contesto molto migliorato,
anche per merito del ministro Andreatta e di nuove generazioni di banchieri.
Notava, riferendosi agli anni precedenti: "Garantita da questa rete di
protezione che il nostro sistema di economia mista le assicurava, la banca
italiana è stata in questi anni tradizionalmente riluttante a svolgere la sua
funzione di spinta all'intermediazione azionaria, sia imponendo alle imprese un
maggior ricorso ad aumenti di capitale, sia promuovendo presso la sua clientela
l'assorbimento di nuove azioni". Procedere oltre nel rendere moderno il
sistema finanziario italiano, e con esso il sistema delle imprese: resta questo
il migliore contributo che i banchieri possono dare, su un terreno proprio,
all'interesse generale. E forse anche quello di esercitare tutta la loro
influenza, nel dibattito politico, affinché non venga smarrito il sentiero da
poco intrapreso delle riforme strutturali. Senza involuzioni o controriforme.
E
se, una volta tanto, l'Italia provasse a stare davanti, in Europa? Piero
Fassino, nella sua relazione, ha citato Antonio Gramsci. Lo abbiamo applaudito
molto, anche in questo passaggio, perché la memoria di Gramsci ci è cara ed
ancora è forte la sua elaborazione culturale. Eppure, oggi, possiamo dire che
la scissione di Livorno fu un errore e non soltanto perché finì per indebolire
il fronte antifascista. Ma anche perché rappresentò una delle cause - seppure
non certamente la principale - che privarono il nostro Paese, dopo la devastazione
prodotta dal fascismo, di quell'esperienza straordinaria di governo che è stata
la socialdemocrazia europea e, con essa, della crescita nel senso comune
dell'etica della responsabilità individuale coniugata alla cultura dei diritti.
E' pur vero che, dalla Costituzione agli anni Novanta, l'Italia ha avuto in
alcune forze - comunisti e socialisti, laici riformisti, la sinistra
democristiana ed il cattolicesimo democratico, il movimento sindacale nel suo
complesso - il fulcro attraverso il quale furono costruiti una democrazia vera,
lo statuto dei diritti dei lavoratori, un welfare solido almeno in alcune
realtà del Paese e l'emancipazione femminile. Ma quanti limiti, quanti errori,
quanti ritardi ed inefficienze hanno segnato quel percorso! E quale sistema
Paese debole ci ha consegnato, corporativo e con una cultura troppo
assistenziale, soprattutto al Sud! Quali difficoltà, ancora oggi, incontriamo a
giocare ciascuno la propria parte al meglio, dalla politica alle altre
leadership economiche e sociali! Certo le ragioni di tutto ciò sono complesse,
hanno radici lontane in una storia fatta di troppe frammentazioni e di scarso
senso dello Stato. Ma non vi è dubbio che in quella storia anche la sinistra
abbia compiuto i propri errori. Vediamo oggi i nostri limiti e tocchiamo con
mano ciò che ci impedisce di essere primi in Europa. Un'Europa che si sta
misurando con cambiamenti epocali e che non può più trovare le risposte adatte
solo nella socialdemocrazia né nella tradizione popolare. Ambiente, migrazione,
conoscenza, rapporto individui-Stati, sicurezze hanno bisogno di un nuovo
pensiero politico, di rinnovati programmi ed atti di governo. In Germania solo
una Gro e Koalition ha potuto produrre un governo stabile. In Francia come non
vedere la necessità di un'alleanza tra Ségolène Royal e FraÑcois Bayrou? Anche
l'esperienza di Tony Blair, dopo anni di successi, dovrà essere rivisitata,
soprattutto in considerazione degli errori commessi in politica internazionale.
Ed i Paesi entrati recentemente, non portano forse esperienze e pensieri nuovi
rispetto all'Europa della guerra fredda? Insomma, l'Europa di cui avvertiamo
sempre più il valore e la necessità, ha essa stessa bisogno di una politica
rinnovata e chiara, che dia nuove opportunità, sicurezze, speranze. Perché non
può iniziare a soffiare dall'Italia un vento nuovo, quel vento che in questi
giorni ha portato il Partito democratico, non un partito in più, ma un partito
"nuovo" in grado di produrre un pensiero nuovo? Tante volte l'Italia
e la sinistra italiana hanno perso delle occasioni. Oggi, in un'Europa ormai
matura per voltare pagina, proprio l'Italia può tracciare il solco entro cui
seminare una nuova politica, che parta dalle tradizioni di ciascuno, ma compia
le dovute cesure e sappia davvero guardare al futuro. Una nuova politica che
sappia davvero guidare tutta l'Europa in questo percorso di rinnovamento che
porti la sinistra ad andare oltre se stessa e, dunque, non a creare un altro
partito della sinistra europea, ma una nuova forza democratica in grado di
ospitare ogni spinta riformatrice e restituire all'Europa un ruolo trainante
nel contesto internazionale. Non si tratta di rinnegare i valori, gli interessi
e la storia che la sinistra ha sempre difeso e che sempre difenderà, ma di
reinterpretarli coniugandoli con la modernità, con la necessità di assicurare
un futuro migliore a noi e ai nostri figli, con le mutate esigenze e le diverse
aspettative della società. Una società fatta di giovani, di tante persone e
tanti professionisti che anche attraverso nuovi lavori e nuove conoscenze ogni
giorno vivono il cambiamento e dimostrano di saperlo interpretare e governare.
Non per loro, ma con loro, le sinistre di ciascun Paese, la sinistra europea
nel suo complesso dovrà cogliere e vincere questa sfida. Se non lo farà,
concederà alle forze della destra di relegare l'Europa ad un ruolo ancora più
arretrato e sempre più subalterno sfruttando le ansie e le insicurezze che,
inevitabilmente, questa fase di mutamenti epocali produce in tanti di noi. E'
un'occasione nuova, tocca a noi non sprecarla ancora. Sonia Masini Presidente
della Provincia.
Roma.
La strada verso il Partito democratico non passa solo attraverso le
"forche caudine" della collocazione europea del nuovo soggetto
politico. Ieri, al Congresso della Margherita, è emerso il secondo nodo
irrisolto: la laicità del Pd. Una vera e propria battaglia, condotta a suon di
interventi e di documenti. Il ministro Bindi contro il ministro Fioroni; i
documenti dei "teodem" contrapposti a quelli dei "giovani dei
Dl". Difficile capire chi abbia vinto la sfida: al ministro sono stati
tributati 17 applausi in un quarto d'ora di intervento; dall'altra parte, il documento
di Bobba e Binetti ha raccolto la firma di quasi 170 delegati. Sarà Francesco
Rutelli, questa mattina, nella relazione conclusiva, a fissare con esattezza i
paletti attraverso i quali anche la Margherita confluirà nel Partito
Democratico. Ieri mattina, però, il vicepremier ha voluto togliersi subito un
sassolino dalla scarpa: "Ho letto sui giornali cose non vere. Io non ho
mai detto "mai con il Pse". Ho detto "mai nel Pse". E' una
cosa ben diversa", ha spiegato, prendendo il microfono, a sorpresa. Una
risposta concordata con Fassino: a nessuno dei due leader sono piaciute le
critiche contenute nei giornali del mattino. Il problema dei rapporti con il
mondo cattolico, invece, è diventato protagonista di prepotenza. Lo ha evocato,
per primo, l'ex Presidente del Consiglio Ciriaco De Mita, uno dei "grandi
padri" dell'ala democristiana del partito: "Se il partito dovesse
partire con una competizione sulla laicità del futuro soggetto, e sull'ingresso
o meno nel Pse, darebbe una risposta sbagliata ai problemi". Poi è toccato
a Luigi Bobba accendere i riflettori sulla questione della laicità del nuovo
partito: "Mica penserete che io sia uno scolaretto cui impartire lezioni
di laicità dello Stato a colazione, a pranzo o a cena!".
Bobba, del resto, era già corso ai ripari: sua la prima firma in calce ad un
documento nel quale si chiede che "le politiche della famiglia rientrino
tra gli obiettivi strategici" del partito democratico. Di lì a pochi
minuti, la federazione giovanile del partito, ha risposto, presentando un
proprio "ordine del giorno" in cui si chiede: "Il Pd assuma come
valore fondante la laicità della politica e delle istituzioni". Quando ha
preso la parola Rosy Bindi, la platea ha fatto silenzio d'improvviso, proprio
come si addice ad un big di un congresso: "Spetta a noi cattolicisuperale
un clericalismo che vuole imporre i propri valori. Basta con i "non
possumus" di fronte alle soluzioni più ardite. Altrimenti arriveremmo al
paradosso: noi siamo qui a fare il Partito democratico e l'Italia torna a dividersi
tra laici e cattolici". Mai, neppure una volta, durante il suo
intervento, il ministro ha pronunciato la parola "Dico", ma era
superfluo farlo. La risposta alla Bindi è arrivata dalla "teodem"
Paola Binetti: "Io non credo di essere intollerante, ma non mi piace
essere tollerata. Io chiedo di entrare nel partito democratico, ma con le mie
convinzioni. I valori irrinunciabili non vanno declinati". Pochi applausi
per lei. Poi è intervenuto il ministro dell'Istruzione, Beppe Fioroni: "A
chi ci accusa di sostenere certe opinioni solo perché lo dicono i vescovi, non
viene mai in mente che, forse, ci crediamo davvero?". Le questioni
politiche, in senso stretto, sono passate in secondo piano. A cominciare
dall'invito lanciato da Enrico Letta all'ex segretario dell'Udc, Marco Follini,
ad aderire al nuovo soggetto politico: "Lo chiedo a te - ha detto il
sottosegretario alla Presidenza - come lo chiedo a tutti quelli che vogliono
riprendere una militanza in una storia diversa". Per passare ad Arturo
Parisi che ha ricevuto, unico tra gli oratori, qualche fischio dalla platea. E'
accaduto quando si è pubblicamente rammaricato di aver ritirato la sua
"mozione filoulivista": "Uno sbaglio che ho compiuto per
malinteso spirito unitario. La degenerazione della vita interna del partito è
visibile a tutti. O almeno a chi vuole vedere" ha detto, in aperta critica
a Rutelli. E, a ben guardare, anche la presenza di Veltroni, in platea ma non
sul palco, è stata una scelta tutta politica. Il successo personale ottenuto,
dal sindaco di Roma, il giorno precedente al congresso Ds, se ripetuto ieri,
nello studio cinque di Cinecittà, avrebbe assunto il valore di una ricerca di
investitura alla successione di Prodi. Veltroni ha capito: ha raccolto gli
applausi, l'abbraccio di Rutelli ed una sola frase sussurrata al leader Dl.
"Alla fine ce l'abbiamo fatta" ha detto il sindaco di Roma.
22/04/2007.
Il
Giornale 22-4-2007 Lotta all’ultimo voto per conquistare l’Eliseo di Marcello Foa
nostro
inviato a Parigi
Dunque, in Francia si vota per il primo turno delle presidenziali. Certezze
nessuna. Paure tante, sempre di più. I pronostici ufficiali dei cinque istituti
autorizzati dalla Commissione dei sondaggi indicano Nicolas Sarkozy primo e
Ségolène Royal seconda. Ma venerdì sera il Nouvel Observateur e Le Monde hanno
scoperto il sesto incomodo, la società “3C Etudes”, regolarmente
autorizzata e di cui finora nessuno aveva sentito parlare, che ha contribuito a
rendere ancor più confusa la vigilia. Non solo perché, secondo le sue
rilevazioni, Ségolène sarebbe in testa, Sarkozy secondo, tallonato da
Jean-Marie Le Pen e da François Bayrou; il tutto nell’arco di pochi punti, tra
il 18 e il 26%, il che renderebbe possibile ogni combinazione, persino un
duello tra la Royal e il leader del Fronte nazionale.
“3C Etudes” ha fatto sensazione anche perché, oltre a fornire i dati
ponderati, ha pubblicato per la prima volta quelli grezzi, con esiti
sorprendenti. I quattro favoriti sono molto meno popolari di quanto si
supponga. Di prima intenzione la Royal ottiene il 14% dei consensi, Sarkozy il
13%, Bayrou l’8% e Le Pen il 5%. Gli indecisi sono tantissimi, oltre il 50%. Da
qui il dubbio: sono attendibili i sondaggi diffusi nelle scorse settimane e che
hanno condizionato la campagna elettorale? O a essere ingannevole è proprio
l’ultimo arrivato?
Recentemente si è saputo che cinque anni fa gli uomini vicini a Jacques Chirac
trovarono il modo di far pubblicare un sondaggio che volutamente dava Lionel
Jospin in testa, il presidente uscente in caduta, Le Pen in crescita. Lo scopo?
Disperdere il voto della sinistra e spingere alle urne gli indecisi di destra.
L’operazione, come noto, riuscì fin troppo bene. Ora qualcuno sospetta il bis.
Di certo i sondaggisti francesi non possono vantare una grande tradizione. Non
predissero il crollo dei comunisti nel 1981, né il primo posto di Jospin nel
1995, né il successo di Le Pen nel 2002. E nel 2005 sottovalutarono i «no» nel
referendum alla Costituzione europea. Proprio ieri uno dei massimi esperti,
Pascal Perrineau, direttore del centro di ricerca di Scienze politiche, ha
pronosticato «un’altra grande sorpresa». Per questo sia a destra che a sinistra
la parola d’ordine è: prudenza. Gli strateghi elettorali gollisti hanno
ridimensionato le attese trionfalistiche, ponendosi come obiettivo minimo il
20,84% ottenuto da Chirac dodici anni fa; quelli socialisti non hanno nemmeno
indicato cifre e si sono limitati ad auspicare l’accesso al secondo turno.
Ieri è stata una giornata di riflessione in cui è stata vietata qualunque forma
di propaganda, incluso l’aggiornamento dei siti ufficiali. Stamane la parola
passa, finalmente, ai 44,5 milioni di elettori; di cui circa un milione (i
residenti nei territori oltre Oceano) ha già iniziato a votare per ragioni di
fuso orario. Si attende una partecipazione molto più alta rispetto al 2002,
quando venne toccato il minimo storico al 71,6%. Ottantadue comuni useranno,
per la prima volta, il voto elettronico e come è già accaduto in altri Paesi
l’innovazione è stata accolta con scetticismo, soprattutto da parte dei partiti
di sinistra, che temono brogli e hanno imposto la sostituzione di 200 cabine
apparentemente non omologate.
Non è stata, questa, l’unica polemica. Due noti giornalisti radiofonici,
Jean-Marc Morandini e Guy Birenbaum, hanno annunciato di voler violare
l’embargo che vieta ai media di diffondere gli exit poll prima delle 20.00. Il
sistema francese contempla una particolarità: i seggi chiuderanno in tutto al
Paese alle 18, tranne a Parigi dove resteranno aperti due ore in più. E da
sempre nelle redazioni circolano confidenzialmente i risultati preliminari, che
stasera i due reporter intendono rendere pubblici diffondendoli tramite propri
blog.
L’iniziativa, come prevedibile, ha suscitato l’entusiasmo del “popolo di
internet” e al contempo l’ira della Commissione di controllo elettorale che ha
annunciato multe di 75mila euro e condanne fino a un anno di prigione. Le
autorità sono inflessibili e lo saranno ancor di più tra quindici giorni,
quando la Francia tornerà alle urne.
IL
Secolo XIX 22-4-2007 Referendum elettorale
Roma.
Martedì si mette in moto la macchina del referendum, mentre domani
il ministro Vannino Chiti, anche se non sembra imminente un accordo tra i partiti,
riferirà in commissione alla Camera e al Senato sulle consultazioni per
la riforma elettorale con le forze politiche di
maggioranza e opposizione. Intanto, Giovanni Guzzetta, il costituzionalista che
presiede il comitato promotore del referendum, conferma che dal 24
aprile partirà la raccolta delle firme a sostegno dei tre quesiti referendari
per l'abolizione delle coalizioni alla Camera e al Senato e delle candidature
plurime in diverse circoscrizioni. "Mi chiedo: è in grado il Parlamento di
fare una riforma? Io mi auguro di sì, ma anche se Prodi sostiene
che il cavallo ha cominciato a correre io sono un pò più pessimista di lui. La
situazione - sottolinea Guzzetta - è molto complessa, non ci sono accordi in
vista ". La raccolta delle firme per il referendum sulla legge elettorale dovranno
essere presentate in Cassazione entro il 30 settembre . 22/04/2007.
INDICE 21-4-2007
ANTITRUST, STABILITE
ULTERIORI RIDUZIONI PER I SERVIZI BANCARI
Borsa e Finanza 21-4-2007
La Mega Bolla del Mattone Cinese
ANTITRUST,
STABILITE ULTERIORI RIDUZIONI PER I SERVIZI BANCARI
Vai al testo del
provvedimento
COMUNICATO STAMPA
BANCHE: ANTITRUST, STABILITE ULTERIORI RIDUZIONI
DELLE COMMISSIONI INTERBANCARIE PER SERVIZI DI INCASSO, PAGAMENTO E BANCOMAT
CON TAGLI MINIMI TRA L’11 E IL 64%. ACCETTATI IMPEGNI DI ABI E CO.GE.BAN.
Una riduzione dell’entità di 5 commissioni
interbancarie - i prezzi corrisposti tra banche che fungono da base per i
prezzi finali alla clientela - che devono diminuire tra valori che oscillano,
come minimo, tra l’11% per il prelievo bancomat da sportelli di altre banche, e
il 64% per il Rid veloce. Lo ha deciso l’Autorità Garante della Concorrenza e
del Mercato che nella riunione del 19 Aprile 2007 ha accettato e reso
obbligatori gli impegni presentati da ABI e Co.Ge.Ban a seguito
dell’istruttoria per possibili intese restrittive della concorrenza.
L’Autorità, il 29 marzo 2006, aveva aperto
il procedimento per accertare l’esistenza di violazioni della normativa
antitrust, consistenti nella fissazione collettiva a livello associativo del
valore massimo delle commissioni interbancarie che governano l’offerta dei
servizi per il prelievo di contanti con il Bancomat presso sportelli di altre
banche e per i servizi di pagamento RID (Rapporti Interbancari Diretti) e Ri.Ba
(Ricevuta Bancaria Elettronica). Nella riunione del 23 novembre 2006 l’Autorità
aveva disposto la pubblicazione degli impegni allora presentati da ABI e
Co.Ge.Ban, permettendo ai terzi interessati di esprimere le loro osservazioni
entro 30 giorni. Ad esito di tale procedura di consultazione, ABI e Co.Ge.Ban
hanno presentato, il 26 febbraio 2007, nuovi impegni, che riducono ulteriormente
i valori delle commissioni interbancarie.
Gli impegni costituiscono una
rivisitazione della metodologia di calcolo delle commissioni interbancarie
rispetto ai criteri fissati da Banca d’Italia nella propria precedente
decisione relativa ad accordi aventi la medesima natura.
Nello specifico, le parti, a seguito della
prima versione degli impegni, hanno già eliminato la commissione per il
servizio ‘Ri.Ba. con tramite”, accorpato le commissioni ‘RID utenze’ e ‘RID
commerciale’ in una unica commissione e hanno ridotto i valori di quelle
restanti. Tali minori valori conseguono l’applicazione di una nuova metodologia
di calcolo che, rispetto al passato, prevede da subito l’orientamento ai soli
costi diretti attraverso, tra l’altro, l’esclusione della voce dei “costi
indiretti” e della voce del “mark up” (margine di profitto), oltre
all’inclusione di risparmi di costo derivanti da innovazioni di processo.
Il 26 febbraio 2007, le parti si sono
impegnate anche a fissare dei valori minimi, inferiori a quelli vigenti a
gennaio, per i futuri nuovi valori delle commissioni, che verranno calcolati
dal luglio 2007 ad esito di nuove rilevazioni di costi effettuate su campioni
di banche più rappresentativi di quelli attuali. Tali minori valori sono stati
calcolati sulla base di stringenti criteri di efficienza, escludendo il 50%
delle banche con i costi più elevati, con correttivi specifici per le singole
commissioni.
Infine, ogni due anni verrà verificata la
possibilità di ridurre ulteriormente le commissioni alla luce di eventuali
riduzioni di costo, fermo restando come tetto massimo il valore della
precedente rilevazione.
Nell’approvare gli impegni, l’Autorità ha
sottolineato che continuerà a monitorare l’andamento delle commissioni,
riservandosi di verificare se variazioni nel contesto europeo di riferimento,
nelle modalità di offerta dei servizi e nella struttura del sistema bancario
italiano, non richiedano ulteriori riduzioni delle commissioni.
L’Autorità ha emesso il provvedimento sul
presupposto che i risparmi conseguenti alla riduzione dei costi interbancari
derivanti dalla procedura si risolvano prevalentemente, se non in tutto, in una
riduzione del prezzo finale ai consumatori per il prelievo bancomat e alle
imprese per i servizi Ri.Ba e RID, come è giusto in un mercato basato sulla
correttezza dell’offerta commerciale. Se dal monitoraggio risulterà che il
vantaggio è rimasto solo a favore degli operatori economici, l’Autorità
adotterà i necessari provvedimenti.
L’Autorità confida inoltre che le imprese
che fanno largo uso dei servizi di incasso in esame, come quelle che si
avvalgono del servizio di domiciliazione delle bollette, trasferiscano ai
consumatori finali tali riduzioni dei prezzi bancari.
In tale ambito, la previsione negli
impegni di ABI e Co.Ge.Ban. di dare pubblicità sul proprio sito internet ai
valori delle commissioni interbancarie attuali e future, introdurrà una
trasparenza dei costi interbancari - alla base dei prezzi applicati alla
clientela - che consentirà un atteggiamento più attivo della clientela
bancaria.
Nella tabella i valori massimi delle
commissioni proposti da ABI e Co.Ge.Ban
Commissione
Interbancaria all’avvio del procedimento |
Valore
all’avvio del procedimento (euro) |
Commissione
interbancaria a seguito di impegni pubblicati |
Valore
applicati a seguito di impegni pubblicati , a partire dal gennaio 2007 |
Valore
massimo a seguito di ulteriori impegni (euro) |
Riduzione
percentuale minima dall’avvio |
RiBa disposizione di
incasso |
0,95 |
RiBa disposizione di
incasso |
0,71 |
0,66 |
31% |
RiBa disposizione di
incasso con tramite |
0,34 |
ELIMINATA |
|||
RiBa insoluto |
0,84 |
RiBa insoluto |
0,57 |
0,41 |
51% |
|
0,66 |
|
0,39 |
0,28 |
58% |
RID utenze incasso |
0,52 |
25% |
|||
RID veloce incasso |
2,5 |
RID veloce incasso |
1,08 |
0,90 |
64% |
Bancomat |
0,75 |
Bancomat |
0,67 |
0,67 |
11% |
Roma, 20 aprile 2007
PROCURA
DELLA REPUBBLICA Chiusa l'inchiesta sulla maxi truffa all'Erario, in ventisei sott'accusa
per un danno di 3 milioni CAGLIARI. Per la Procura della Repubblica non ci sono
dubbi: l'organizzazione capeggiata da Salvatore Dessì, appoggiato da alcuni
funzionari della Bipiesse Riscossioni, ha creato un danno allo Stato di circa 3
milioni di euro. Erogati ad imprenditori accusati di aver truffato l'Erario
ottenendo falsi rimborsi Iva, a suon di mazzette. Dopo gli arresti e i
sequestri dei primi di febbraio, arriva ora l'atto di chiusura dell'inchiesta
che il sostituto procuratore Giangiacomo Pilia ha fatto notificare ai 26
indagati, molti dei quali accusati a vario titolo di associazione a delinquere
finalizzata alla truffa, corruzione e falso. Stando agli atti,
che ora saranno depositati integralmente, l'ex titolare di un oleificio di
Narcao, Salvatore José Dessì, contattava imprenditori ai quali si proponeva
come curatore delle domande di rimborsi Iva non dovuti, da presentare tramite
la Bipiesse riscossioni all'Agenzia dell'entrate. Era suo compito - secondo
l'accusa - oleare l'ingranaggio corrompendo il funzionario Bipiesse Antonio
Carboni, che deve rispondere di associazione a delinquere, truffa, corruzione,
rivelazione di segreti d'ufficio, falso ideologico, concussione. Sotto accusa
anche Rosario Trusiano (difeso da Rodolfo Meloni), funzionario dell'Agenzia
delle entrate, indagato per associazione a delinquere, truffa e rivelazione di
segreti d'ufficio. I tre erano stati arrestati il 7 febbraio e poi rimessi in
libertà, mentre Trusiano è rimasto ai domiciliari. Indagini concluse anche per
il ragioniere commercialista Venanzio Pisu (difeso dall'avvocato Michele
Schirò), accusato di associazione a delinquere e truffa perché avrebbe messo a
disposizione della presunta organizzazione la sua professionalità e il suo
studio come base operativa; per l'impiegato dell'Agenzia delle entrate Enrico
Diomedi, indagato per associazione a delinquere; e la convivente di Dessì,
Candida Gianeri, titolare di una lavanderia, chiamata a difendersi dall'accusa
di ricettazione, versando sui suoi conti correnti gli assegni che le dava il
compagno. In fase di chiusura dell'inchiesta, alcune contestazioni potrebbero
essere state modificate, ma finora agli altri indagati erano mosse queste
accuse: Giancarlo Piga Raffo (truffa), Agostino Caso (truffa e ricettazione), Fabrizio
Cau (tentata truffa), Maria Teresa Fadda (truffa e ricettazione), Efisio Fadda
(truffa), Massimo Melis (tentata truffa), Marco Melis (truffa), Graziano Collu
(truffa), Massimiliano Cannas (tentata truffa), Elisabetta Cara (truffa),
Luigia Manca (corruzione e truffa), Walter Cadeddu (tentata
truffa), Laura Lai (corruzione e truffa), Alessandro Ombrello (corruzione e
truffa), Marco Palumo (truffa), Angelo Caso (truffa), Massimo Piludu
(concussione), Lara Stefania Iannuzzi (ricettazione), Roberto Diomedi (truffa e
falso ideologico). Dopo la discovery degli atti, gli avvocati hanno venti
giorni di tempo per presentarsi dal magistrato con i loro assistiti oppure
depositare memorie difensive. Poi, il pm Pilia chiederà il processo. Elena
Laudante.
Borsa
e Finanza 21-4-2007 La Mega Bolla del Mattone Cinese
ANALISI
TECNICA Nei prossimi 10 anni migreranno nelle città da 150 a 300
milioni di persone. Occorrerà costruire una Milano al mese. E le grandi banche
straniere saranno il volano dei mutui Il risultato sarà una corsa agli
acquisti, da cavalcare con le società quotate a Hong Kong di Redazione -
21-04-2007 Con ogni probabilità, ci troviamo alle soglie di un eccezionale boom
del mercato immobiliare cinese. A tempo debito temo che
diventerà la maggiore bolla speculativa della nostra epoca.
Basti dire che circa il 50% della forza lavoro è tuttora impiegato in campagna,
con un macroscopico spreco di risorse umane per il Paese. Con la migrazione di
massa verso le città saranno possibili progressi colossali. Nel 2004, il
salario medio in agricoltura era di 300 dollari l'anno, nei servizi di 900 e
nell'industria di 3.000. La robusta espansione dell'economia riflette in primo
luogo la migliore allocazione del capitale umano. Quali le cifre in ballo? In
base alle stime più accreditate, nei prossimi 10 anni l'afflusso di uomini e
donne verso i centri urbani dovrebbe collocarsi fra i 150 e i 300 milioni di
unità. Insomma, una folla oceanica per la quale occorrerà costruire una Milano
al mese o una Roma al mese. PROPRIETÀ PRIVATA. Non si tratta di iperboli,
tant'è vero che nel decennio appena trascorso l'ondata ha raggiunto i 100
milioni di individui e sono sorte 200 "nuove" città. Vale la pena di
notare che i prezzi attuali del mattone non sembrano esagerati: a Shanghai un
appartamento "impareggiabile" passa di mano fra i 2.500 e i 4.500
euro al metro quadro, ma le quotazioni medie supera con difficoltà i 750 euro.
In capoluoghi come Wuhan o Chongqinq, le abitazioni di lusso si vendono a
700-1.100 euro al metro quadro. Tengo particolarmente d'occhio anche il
nascente mercato dei mutui ipotecari. Avete fatto caso come le autorità cinesi
abbiano venduto quote rilevanti delle loro banche a istituti esteri? La
decisione potrebbe apparire bizzarra se uno pensa all'immane dimensione delle
riserve valutarie e all'attivo della bilancia commerciale per la quale non si
riesce a trovare uno sbocco proficuo. Di primo acchito la vendita alle varie
Citigroup, Goldman Sachs, Bank of America, Hsbc o Hang Seng Bank risulta un
controsenso. Eppure, la linea d'azione di Pechino va capita. Si vogliono porre
le basi per un vivace e moderno mercato dei mutui che eserciti un'influenza
positiva sulla diffusione della proprietà privata e la compravendita immobiliare.
Mancando le professionalità ed esperienze in casa, si è pensato di importarle
con l'ausilio di primari istituti di credito internazionali. Le quote cedute
equivalgono a un'iniezione di cento miliardi di dollari. E poichè il rapporto
tra prestiti e base di capitale supera non di rado il livello di 8
a 1, stiamo parlando di un potenziale che sfiora i mille miliardi. Persino
lo sfondo normativo beneficia di evidentissimi margini di miglioramento: il più
eloquente consiste nell'aver riconosciuto il diritto inviolabile alla proprietà.
Del resto lo stesso ex presidente Jiang Zemin, nel discorso di commiato al
Parlamento si era espresso in termini perentori: "Tutte le barriere
istituzionali e politiche all'urbanizzazione vanno rimosse". SVILUPPO
TUMULTUOSO. Ci sono altre considerazioni che entrano nel novero dei
fondamentali, tutte propizie al mercato residenziale. Per incominciare i tassi
d'interesse. Al netto dell'inflazione sono negativi, rendendo conveniente il
travaso della liquidità dal reddito fisso a quello immobiliari. Gli acquisti
sono poi supportati dalla vivacità della crescita economica combinata con
l'elevato saggio di risparmio dei cinesi. Infine l'impatto migratorio è il più
sensazionale che la storia ricordi. Le sfide non mancano, ovviamente. Il
Partito vuole evitare di creare nella Repubblica Popolare il proliferare di
città tipo Calcutta, archetipo di degrado e condizioni disperanti, e per ora
gli sforzi sono ricompensati da uno sviluppo tumultuoso, ma controllato. Per
concludere, non sarei stupito se nel giro di qualche anno si verificasse una
gigantesca corsa agli acquisti, capace di innescare la più fenomenale bolla speculativa
dei nostri giorni. Rimane l'ultima domanda: come partecipare? I ricchi possono
sottoscrivere dei fondi di private equity; i piccoli risparmiatori diano un'occhiata
alle società di costruzioni quotate sulla piazza di Hong Kong.
+ La Stampa 20-4-2007 Il
doppio strappo LUIGI LA SPINA
Il Corriere della Sera
20-4-2007 Fantasmi socialisti di Gian Antonio Stella
Il Secolo XIX 20-4-2007 E
dirà "Addio".
Europa
20-4-2007 Bene, Ds e Dl. Ora però ditelo agli italiani
Il Riformista 20-4-2007 LA
PARTITA TELECOM Fratelli d'Italia il Cavaliere s'è desto.
Gazzetta del Sud 20-4-2007
Sale operatorie Strumenti cinesi insicuri
++ AgenParl 20-4-2007 NEI NUOVI SCENARI:
CDL IN FRANTUMI E BIPOLARISMO AL TRAMONTO. DA FORZA ITALIA UN GRIDO D’ALLARME.
CALDEROLI DETTA E CHITI SCRIVE. MUSSI: UNA COSTITUENTE ALLA SINISTRA DEL PD.
ANGIUS: IL PD NON MI CONVINCE MA NON ESCO
Roma, 20 Aprile 2007 – AgenParl -L’on
Cesare Campa, esponente veneto di Forza Italia, conversando con un redattore
dell’AgenParl, non ha nascosto i suoi timori per la tenuta della Casa delle
Libertà e del bipolarismo come essi sono ancora concepiti. La minaccia proviene
dagli scenari che saranno frutto della costituzione del Partito Democratico e
dei conseguenti nuovi assetti politici.
Campa osserva infatti che: “Ormai non c’è più alcun dubbio. Il Partito
Democratico verrà costituito attraverso una serie di scissioni. La nascita del
nuovo partito e la ricollocazione di chi, appartenendo oggi alla Quercia o alla
Margherita, non aderirà alla nuova formazione politica, determineranno una
serie di reazioni a catena di questi sommovimenti le altre forze politiche, in
un modo o nell’altro, ne subiranno gli effetti. Prevedendoli di già,
Rifondazione Comunista ha aperto il cosiddetto cantiere della Sinistra Italiana
ed Europea, lo SDI ha avviato l’unificazione socialista offrendosi ai dissidenti
diessini e agli amici di Gianni De Michelis. Da parte sua l’UDC si è aperta ai
moderati dell’una e dell’altra sponda del nostro bipolarismo malato,avviando
dialoghi,oltre che con Mastella, con Di Pietro e Rotondi e lasciando attivo il
filo con Rutelli”.
“Si verificherà,quindi, un concatenamento di conseguenze, dirette ed indirette,
di cui – dice Campa – Forza Italia dovrà tener conto anche in relazione al
disegno, tuttora incompiuto, di dar vita, assieme alla sola AN, al Partito
delle Libertà. Partito questo che corre il pericolo di diventare la casa,non
del centro-destra,ma della sola destra. E’ inutile illudersi su quanto potrà
accadere, anche per noi, in questi nuovi scenari che comportano, ovviamente,
una profonda revisione non solo del nostro essere ma anche della nostra
collocazione nel contesto generale della politica italiana”.
“Tanto più che l’Udc – afferma Campa a denti stretti – dopo essersi
differenziata rispetto agli altri partiti della Cdl, potrebbe candidarsi come
punto di riferimento dei moderati dei due obsoleti poli politici, la cui
sopravvivenza è fortemente minacciata perché non hanno saputo cogliere le
istanze nuove e dare alla politica un’anima”.
C’è da aggiungere che, in questo contesto, la Lega di Bossi tende sempre di più
ad avere “le mani libere”, come sta oggi dimostrando nelle trattative per la
riforma della legge elettorale e per le modifiche costituzionali intese
all’introduzione del federalismo fiscale. “Calderoni detta e Chiti scrive”. Con
questa battuta ironica, il presidente del gruppo senatoriale delle Autonomie,
Oskar Peterlini, ha definito il clima di collaborazione tra l’esponente della
Lega e il ministro per i rapporti col Parlamento. E in questo contesto di
collaborazione la Lega sembra impegnata ad assicurare la sopravvivenza del
governo Prodi.
MUSSI:
UNA COSTITUENTE ALLA SINISTRA DEL PD
Roma, 20 Aprile 2007 – AgenParl – Com’era
previsto è arrivato l’addio di Fabio Mussi. Intervenendo al congresso Ds ha
ufficializzato il suo abbandono al partito: “questa non è la svolta della
Bolognina dell'89 ma è la svolta figlia di un fallimento”.
Inoltre il leader del Correntone critica il “traghettatore” Fassino: “caro
Piero precipitiamo verso il Partito democratico senza aver chiarito nulla, a
partire dalla collocazione europea”.
Comunque il ministro dell’Università ha già pronta l’alternativa alla futura
forza unitaria: “l’obiettivo è costruire un movimento politico autonomo, che si
propone di aprire un nuovo processo”. Insomma una fuga a sinistra del Pd.
(F.C.)
ANGIUS:
IL PD NON MI CONVINCE MA NON ESCO
Roma, 20 Aprile 2007 – AgenParl –
“Separarsi non è la soluzione. Ma confermo il mio dissenso al Partito
Democratico”. Intervenendo al congresso Ds Gavino Angius ha ribadito la linea
della sua mozione. Una “terza via“ tra quella di Piero Fassino e quella di
Fabio Mussi: la proposta di una federazione tra Quercia e Margherita e
l’ancoraggio al Pse. Non a caso Angius bacchetta entrambi: “si sta sbagliando
il percorso, anche se convengo con Fassino che separarsi non è la soluzione. Ma
non è sbagliato chiedersi su che cosa ci si unisce”.
Insomma la strada scelta è quella della “battaglia interna”: “non condivido il
progetto del Pd così com'è. Il manifesto va rifatto tutto, di sana pianta”.
Viene fatto notare all’AgenParl come però questa strategia sia quasi obbligata,
dal momento che sia il progetto del polo socialista di Enrico Boselli sia il
“cantiere della sinistra” di Fausto Bertinotti non rappresentano per Angius gli
approdi più adatti. (F.C.)
+
La Stampa 20-4-2007 Il doppio strappo LUIGI LA SPINA
Non
esageriamo. A Firenze, ieri, non è davvero cominciata una «nuova storia», come,
con la retorica tipica dei congressi, ha evocato la relazione di Fassino.
Forse, e sarebbe già tanto, si potrebbe sperare che sia cominciata almeno una
«nuova politica». Ecco perché l’avvio, faticoso e non certo esaltante, del
partito democratico dovrebbe interessare non solo militanti, elettori, tifosi,
più o meno convinti, del centrosinistra italiano, ma anche tutti i cittadini
del nostro Paese. Per la possibile nascita, dopo la prima Repubblica, finita
con la caduta del Muro di Berlino e Tangentopoli, e dopo la seconda,
caratterizzata dalla frantumazione del nostro sistema partitico, della terza
Repubblica, quella improntata a un normale bipolarismo all’europea.
Il significato del congresso che si è aperto a Firenze, del resto, è stato
manifestato chiaramente da due «segni» che hanno distinto la giornata di ieri,
uno psicologico e l’altro fisico. Il primo riguarda, in modo apparentemente
paradossale, il clima privo di drammaticità, esistenziale e politica, nel quale
si è dipanato il lungo discorso del segretario Ds. Il secondo si riferisce alla
presenza di Berlusconi che, con la sua solitaria, tra gli altri leader
dell’opposizione, comparsata congressuale ha come imposto anche il suo sigillo
all’avvio della «terza Repubblica italiana».
Perché se la composizione di due grandi partiti, uno progressista e l’altro
conservatore, è soprattutto «una necessità», come ha affermato Fassino, non si
possono ammettere lacrime e nostalgie, ma, come si è avvertito sia sulla
tribuna sia in platea, solo l’emergere di quel leggero turbamento che colpisce
chi si avvia su una strada nuova, ancorché obbligata. E che fosse «una
necessità», chi poteva confermarlo più autorevolmente se non il leader del
campo avverso?
C’è già stato, in Italia, il tempo di due grandi partiti: erano la Dc e il Pci,
cardini, appunto della prima Repubblica. Ma non era normale che l’uno fosse
condannato al governo e l’altro all’opposizione. Così come c’è stato e c’è
ancora il tempo di due schieramenti, nella seconda Repubblica. Ma non era e non
è normale che fossero e che siano in balia di piccole minoranze che, di fatto,
impediscono di cambiare quello che in Italia la stragrande maggioranza dei
cittadini ritiene urgente cambiare. Così è avvenuto per la mancata rivoluzione
liberale promessa da Berlusconi, così rischia di avvenire per quella che i
riformisti dell’Ulivo temono di non poter realizzare. Ora, sia pure con molto e
giustificato scetticismo, si è avviato un processo che potrebbe anche
risolversi in una catastrofe elettorale e politica, come fu l’unificazione
socialista di tanti anni fa, ma che è davvero interesse di tutti i cittadini
italiani si concluda, invece, con la raggiunta «normalità» europea della nostra
politica.
Senza pianti e senza drammi, si può affermare però che, ieri a Firenze e oggi a
Roma con il congresso della Margherita, si sono compiuti almeno due «strappi»,
come si diceva una volta nel gergo comunista, importanti e delicati. Il primo
riguarda una divisione, qui davvero storica, in Italia: quella tra laici e
cattolici. È vero che nella Margherita sono presenti anche, sparute, forze
laiche. Ma è incontestabile che l’impronta determinante di questo partito sia
data dalla tradizione popolar-cattolica. Ed è altrettanto vero che nel passato
comunista, e poi nel presente diessino, i cattolici hanno contato e contano,
sia pure molte volte utilizzati strumentalmente, ma è indubbio che il laicismo
con venature anticlericali abbia prevalso, soprattutto nella base dei militanti
e dei votanti. La scommessa, resa più ardua da una stagione di risorgenti
reciproche intolleranze anche nella società civile, è adesso quella di fondere
davvero, in un unico partito, i due filoni cultural-politici della storia
italiana. Un’impresa difficile, come testimonia non tanto la tormentata vicenda
dei «Dico», la legge sulle coppie di fatto, quanto la persistente
indisponibilità degli eredi Dc a ritrovarsi nella famiglia europea dei
socialdemocratici.
Il secondo «strappo» è, invece, del tutto involontario, ma pesantemente
obbligato. La costruzione di un nuovo partito, per fusione dei due più
importanti nello schieramento di centrosinistra, porterà inevitabilmente
all’accelerazione, meglio all’avvio, del famoso, sempre promesso e mai
intrapreso, rinnovamento di quella classe dirigente. Non foss’altro perché i
posti che contano si dimezzeranno e non è escluso che i meccanismi della
Costituente e delle primarie riescano a sfuggire, almeno in parte, dal
controllo della nomenclatura ex Ds e ex Margherita. Fassino ha promesso che il
partito democratico si farà per i giovani che avranno vent’anni nella prossima
decade del secolo. Chissà se ha pensato anche a quelli che hanno già vent’anni
o anche trenta e che il partito democratico ambirebbero a farselo pure un po’
da soli.
Il
Corriere della Sera 20-4-2007 Fantasmi socialisti di Gian
Antonio Stella
Non ha mai nominato, manco una volta, la parola operai, mai la parola fabbrica, mai la parola
masse. Temi che un tempo incendiavano i militanti di quello che si vantava di
essere il più grande partito comunista d’Occidente. Non ha mai citato, neppure
una volta, quel Silvio Berlusconi il cui solo nome per un decennio riusciva
magicamente a riaccendere anche le più ammaccate e tristi riunioni di piazza. E
dopo aver rimosso le arie dell’ «Internazionale» e «Bandiera Rossa» e perfino
della «Canzone Popolare» o dell’ironica «Il cielo è sempre più blu», ha
affidato la missione di scaldare i cuori al robusto inno di Mameli e a «Over
the Rainbow», come non ci fossero più canzoni capaci di riassumere con parole
italiane e comprensibili all’intera platea una fede buona per tutti.
Eppure nella sua appassionata relazione al quarto congresso dei Ds, così appassionata da
fargli venire infine un groppo in gola, Piero Fassino è stato chiamato a fare i
conti soprattutto con una parola antica: socialismo. E lì, ha dovuto tentare
più acrobazie del mitico Giovanni Palmiri il giorno in cui fermò il fiato ai
milanesi comparendo su un trapezio nel cielo di piazza Duomo.
Doveva infatti, lassù sul filo, reggere contemporaneamente in equilibrio quattro
socialismi differenti. Il primo, ovvio, era il richiamo al socialismo che
doveva rassicurare Fabio Mussi o almeno instillare qualche dubbio nei suoi
fedeli, con un continuo rimando alla lunga storia della sinistra e un monito
sulle scissioni del passato, «nessuna delle quali è stata foriera di maggiori
opportunità». Il secondo doveva confortare Poul Rasmussen, George Papandreou,
Kurt Beck e Martin Schultz, che certo non erano venuti a Firenze per essere
smentiti dopo aver detto più volte di aspettarsi che il «partito nuovo» entri
senz’altro nella grande famiglia socialista europea. Il terzo dovrebbe, se non
subito almeno in un futuro ravvicinato, convincere i socialisti della diaspora
a non vedere nel Partito democratico «una riedizione in scala minore del
compromesso storico » ma piuttosto «la casa anche dei socialisti». Operazione
complessa per l’erede di quell’Enrico Berlinguer che, al di là della
rivendicazione di una diversità morale, marchiò Bettino Craxi come «un pericolo
per la democrazia» e di quel Massimo D’Alema che ammiccava: «Diciamo che non
son mai stato un socialista italiano. Sono diventato direttamente un socialista
europeo».
L’esercizio più arduo, però, era il quarto: fare digerire questo continuo appello
al socialismo, nominato e invocato nelle sue varianti 31 volte, a chi nella
Margherita ha già detto e ridetto di non avere alcuna intenzione di entrare nel
Pse e men che meno nell’Internazionale Socialista. Anche se per il segretario
diessino «già oggi è costituita per quasi metà dei suoi 185 partiti da forze di
ispirazione culturale diversa dall’esperienza socialista». Esempio? Il Partito
del Congresso Indiano e il Partito dei Lavoratori di Lula. Due esempi, come
dire, esotici. Basteranno? Francesco Rutelli dice che risponderà oggi. Ma
potete scommettere che da qui all’appuntamento fondante della prossima
primavera, che appare lontana lontana, il tema sul tappeto resterà questo.
20
aprile 2007
Il
Secolo XIX 20-4-2007 E dirà "Addio".
Roma.
Questa mattina, Fabio Mussi salirà ancora una volta, sul palco di un congresso
del "suo partito" (che fu prima il Pci, poi si chiamò Pds e che ora è
Ds), leggerà la sua relazione. Dopo quarant'anni non avrà più una casa
politica: a 59 anni, il ministro dell'Università e della Ricerca, amico e
collega di studi di Massimo D'Alema fin dal liceo e dai tempi della Fgci,
collaboratore di Piero Fassino da almeno un decennio, scriverà la parola
"fine" ad un'esperienza politica. La decisione è stata presa,
all'unanimità, mercoledì sera, in una riunione di tutti i 250 delegati della
"seconda mozione", a Roma: nessun membro dell'ex correntone accetterà
di partecipare ai lavori congressuali, di fatto ponendosi fuori dal nuovo
Partito democratico. Tecnicamente si dovrebbe dire scissione: "Ma non è
così. Si sta fondando un nuovo partito - ha protestato ancora ieri pomeriggio,
Mussi, nella platea del congresso - che io non sento come mio ed in cui non
entrerò. Non sto rompendo un partito che già esiste". L'interrogativo di
queste ore, però, è: le parole di Piero Fassino, visibilmente commosso dal
palco ("Caro Mussi, spararsi non risolve i problemi") sono riuscite a
fare breccia? Non certo in Mussi: "Il segretario - ha spiegato - ha fatto
un appello toccando corde profonde che sono quelle dell'amicizia personale. Ma
non mi pare che ci siano le condizioni politiche per ripensarci. Il Pd
cancella, persino dal proprio simbolo e dal nome le insegne del socialismo e
della sinistra!". E quanti lo seguiranno? Tutti i 250? Ai rappresentanti
della sinistra dei Ds, Mussi, l'altra sera, ha spiegato che il discorso che
farà oggi sarà il più difficile della sua vita. "Già nel 2000 rispondemmo
di no a Parisi che ci invitava a scioglierci in una grande sinistra ed in un
grande Ulivo. Ora - ha spiegato il ministro dell'Università - l'Ulivo è molto
più piccolo di allora, e la sinistra è addirittura sparita. Nel 2001,
in effetti, vidi al congresso di Pesaro una china che puntava dritto verso
un approdo sbagliato. Non possiamo accettare che scompaia la sinistra dalla
geografia politica italiana". Quello che resta, invece, molto incerto è
l'approdo verso cui punta la "seconda mozione". Ieri, da Rifondazione
comunista, è arrivato un invito pressante: "A giugno ci sarà un'assemblea
di tutta la sinistra europea. Aspettiamo Mussi, perché rispettiamo le sue
scelte, e siamo pronti ad avviare un confronto con lui - ha fatto sapere il
segretario del Prc, Franco Giordano -. Anche noi abbiamo interesse a costruire un
soggetto pacifista ed antiliberista". "Per me oggi è una giornata
molto triste - concorda anche il segretario dei Comunisti italiani, Oliviero
Diliberto -. Finisce un tormentatissimo travaglio che ha
portato il pezzo più rilevante di quello che fu il Pci, ad uscire
definitivamente dalla sinistra". In realtà, l'idea cui si sta lavorando è
molto più complessa che una semplice migrazione di esponenti della sinistra
della Quercia verso gli altri partiti di sinistra, da Rifondazione al Pcdi. Il
progetto prevede la nascita di un vero e proprio nuovo soggetto politico: una
sorta di "superpartito" della sinistra che raccolga da Mussi a
Bertinotti, passando per Diliberto e, forse, anche per Boselli. Secondo alcune
indiscrezioni si sta lavorando ad una soluzione già sperimentata in Germania
dall'ex esponente socialdemocratico, Oskar Lafontaine. In tedesco il partito si
chiama semplicemente "Die Linke", ovvero "La sinistra", ed
ha raccolto non solo i socialisti tradizionali, ma anche gli ex comunisti della
Ddr. Una cosa simile, in Italia, potrebbe fare la stessa cosa. E Fabio Mussi,
secondo una sorta di minisondaggio interno, risulterebbe il più gradito alla
segreteria di questa "nuova cosa"; anche perché Fausto Bertinotti ha
fatto capire che, dopo l'esperienza di Presidente della camera, considera
chiusa la sua carriera parlamentare. Un altro prezioso indizio è la nascita di
due nuove testate. La prima ad apparire sarà"Alternative per il
socialismo": arriverà a maggio (appena prima dell'assemblea della sinistra
europea) e Bertinotti ne sarà il direttore. La seconda iniziativa editoriale è
ancora tutta da definire: di certo c'è solo l'intestazione, "Il
Progressista" che dovrebbe fare da contraltare a "Il
Riformista". Ma si tratta di tempi lunghi. E, in ogni caso, il governo
Prodi deve restare fuori da questo terremoto che si annuncia nel
centrosinistra: "La nascita del Pd e le conclusioni di questo congresso,
non devono spostare di una virgola la questione politica della stabilità del
governo. Si deve continuare a lavorare per trovare le intese all'interno di
questa coalizione"è l'ultima assicurazione che Mussi lascia, in eredità,
al suo ormai ex partito. Angelo BocconetTI 20/04/2007.
Europa
20-4-2007 Bene, Ds e Dl. Ora però ditelo agli italiani
Dunque
Piero Fassino ha mollato gli ormeggi. Mussi scuoteva la testa, Angius sorrideva
appena, i giornalisti cronometravano gli applausi per Finocchiaro o Bersani,
Schultz avrebbe tentato di far danni un’altra volta con quella fissazione
dell’obbligo di iscrizione al Pse.
Tutti si interrogavano – as usual – su cosa vuole fare D’Alema. Va bene: un po’
sono i riti prevedibili di un’assise di partito, un po’ è la politica che
scorre sempre e non si ferma a celebrare se stessa. Nello sminuzzamento della
cronaca congressuale, andando in giro a distinguere quercia da quercia, si
rischia però di perdere di vista la foresta. Di perdere di vista il Fatto, che
poi sarebbe un evento a suo modo storico.
Al termine dello stradone che taglia in due il PalaMandela c’è un segretario
piegato sul leggio che si conferma per quello che è: un ottimo mediano,
l’instancabile e indistruttibile lavoratore del centrocampo ulivista, l’uomo
che recupera palloni e tiene insieme i reparti.
Ma alla fine della strada c’è soprattutto il completamento di una
vicenda.
D’ora in poi non sarà più Pci- Pds-Ds, non potrà ripeterlo neanche quel
Berlusconi che a Firenze s’è preso applausi molto democratici.
Non era detto che andasse così.
Poteva esserci più continuismo, nella conduzione di questa transizione al Pd.
Poteva esserci – come fu nel ’90 – l’estenuante tentativo di non perdere
neanche un frammento, fino a smarrire il senso stesso di quello che si stava
facendo.
È chiaro ed è comprensibile: la platea di Firenze non vuole la scissione.
Ma perché non capisce «dove vogliono andare quei compagni », non perché avrebbe
preferito che Fassino rimanesse fermo. Lo sa bene anche D’Alema, che non
reciterà qui la parte molto sincera e un po’ perfida riservata a Occhetto
tanti anni fa. A modo suo, da oggi a Cinecittà anche alla Margherita tocca dare
una risposta di discontinuità. Certo, il bagaglio è meno ingombrante, il
partito da superare è leggero e già lo si sospettava transitorio. La platea fiorentina
però sta affrontando un passaggio difficile, dunque merita di vedere un analogo
sforzo dall’altra parte. Non solo o non tanto sui soliti temi sensibili – la
laicità, i rapporti internazionali – quanto sulla generosità di mettersi a
disposizione. Di riconoscere i limiti di ciò che si è fatto e di ciò che si è.
Di vincere quell’invincibile e indicibile sensazione di un’operazione fatta
solo perché si deve, non perché ci si creda davvero.
Perché se Firenze fin qui ha un limite, che Cinecittà può aiutare a
superare, è questo: si parla ancora agli iniziati e agli interessati, non si è
cominciato a “parlare” davvero agli italiani. È arrivato il momento di spiegare
a loro, e con parole adatte, ciò che Fassino ieri ha ripetuto ai suoi delegati:
questo partito nuovo serve all’Italia. D’accordo, non c’è dubbio. Ma l’Italia,
lo sa?
Dieci
fermati: "Abbiamo agito per la patria, è una lezione ai nemici
dell'Islam" di Marina Mastroluca DIECI PERSONE FERMATE, tutti giovani
intorno ai vent'anni. Qualcuno avrebbe anche fatto le prime ammissioni.
"La religione si sta perdendo. Che il nostro gesto sia una lezione ai
nemici della religione". Un brutto colpo per il governo turco, solo pochi
giorni fa Erdogan aveva sollecitato Angela Merkel ad indicare una data per
l'ingresso nella Ue. Oggi la preoccupazione di Ankara è palpabile,
lo stesso Erdogan teme ripercussioni, anche perché una delle vittime era un
tedesco. "Un crimine orrendo", l'Europa condanna e chiede
che i responsabili siano assicurati alla giustizia. Ma tende una mano alla
Turchia. "Non è un atto organizzato dal governo, ma un atto criminale che
è stato già duramente condannato dal premier Erdogan", fa sapere un portavoce.
Da Seul, il premier Romano Prodi sollecita Ankara ad una maggiore sorveglianza.
Ma è costretto ad ammettere che questo clima "certo non aiuta il
cammino" della Turchia verso l'Europa, anche se chiede di "non
farsi influenzare da tragedie come queste". "Bisogna vedere come
reagirà la società turca", aggiunge il presidente del Consiglio. Tre
cristiani sgozzati, colpevoli di lavorare nella casa editrice che stampa la
Bibbia. "L'incubo continua", titola il quotidiano turco Milliyet,
mentre diverse testate chiamano in causa il lassismo del governo nei confronti
del fondamentalismo islamico, ricordando l'omicidio di don Santoro e del
giornalista turco armeno Hrant Dink. La piccola comunità cristiana si
interroga, ha paura, qualcuno come il pastore Behnan Konutgan traccia un filo
conduttore tra l'insofferenza di certi leader politici islamici verso i
missionari cristiani e le violenze ripetute. Il governo di Ankara si confessa
"a disagio". "Eventi del genere si stanno ripetendo e danneggiano
l'immagine della Turchia nel mondo", dice il ministro degli esteri Gul,
annunciando che il governo "prenderà da ora in poi misure più vaste".
"Condanniamo con forza l'attacco che ha incrinato la tranquillità della
Turchia e la lunga tradizione di tolleranza e stabilità - afferma il ministro
-. Sull'eccidio sarà fatta piena luce". La pista più accreditata è quella
ultrafondamentalista islamica, venata di nazionalismo. Chimati in causa gli
Hezbollah turchi, un'organizzazione che non ha nulla a che vedere con quella libanese,
ma si indaga anche su altre sigle, finora sconosciute. "Siamo in cinque
legati da fratellanza. Andiamo alla morte. Forse non torneremo più. Pregate per
noi. Dio ci condoni i nostri debiti, l'abbiamo fatto per la patria": è il
messaggio trovato nelle tasche di alcuni dei giovani arrestati, probabilmente
indirizzato alle famiglie. Almeno cinque degli arrestati, studenti iscritti ad
un corso pre-universitario, alloggiavano in un ostello gestito da una
fondazione fondamentalista, "Ilhas". Uno del gruppo, probabilmente il
capo, Emre Gunaydin, era stato cacciato il mese scorso dall'ostello: sembra che
sia lui l'uomo trovato gravemente ferito sul selciato, dopo essersi buttato, o
forse caduto, da un cornicione subito dopo la strage, forse per sfuggire alla
cattura. L'eco della tragedia di Malatya è inevitabilmente arrivata in Europa,
rilanciando le perplessità di quanti già osteggiavano l'ingresso della Turchia
nella Ue. Voci polemiche in Italia e anche in Germania, dove la Cdu
non è mai andata oltre al riconoscimento di una partnership privilegiata con
Ankara, e nella Francia di Sarkozy. "È chiaro che tutti gli stati sono
tenuti a rispettare i diritti umani fondamentali, in particolare la libertà di
religione", ha voluto sottolineare la Ue, escludendo che la
strage possa chiudere definitivamente le porte dell'Europa alla
Turchia.
Da
Udine a Catania: non fanno ricevute e truffano la Asl». In una nota
dell'Agenzia delle Entrate trasmessa al Senato si legge: «La mancata emissione delle
fatture risulta mediamente intorno al 30- 40 per cento, con picchi superiori al
50 per cento». La notizia sarà pubblicata domani dal settimanale l'Espresso che
ha realizzato un servizio su camici bianchi e soldi neri. Finora le verifiche
hanno riguardato cento medici siciliani, settanta laziali, quindici liguri e,
nelle ultime settimane, 18 studi del Friuli Venezia Giulia. A breve partiranno
gli accertamenti in Campania e poi nelle altre regioni italiane.
«C'è il cardiochirurgo che dichiara 12 visite in un anno. - si legge
nell'anticipazione - C'è il ginecologo che in cassa dall'attività intramoenia
500 euro al mese, meno dell'affitto del suo studio. E non manca il primario con
il dono dell'ubiquità: risulta virtualmente in ospedale, ma contemporaneamente
visita nel suo centro privato. C'è tutto il nero sotto il camice bianco nelle
indagini sull'evasione fiscale dei medici nel settore dell'intramoenia». Su 250
verifiche eseguite in Sicilia, cento sono risultate «positive» per un totale di
un milione e 380 mila euro di imposte evase. E stiamo parlando di controlli
mirati su una percentuale minima di camici bianchi. In Liguria, per esempio,
otto medici su 15 sono risultati evasori.
Mentre l'Agenzia delle entrate avvia i controlli in Liguria, Friuli, Lazio e
Sicilia, anche la Guardia di Finanza completava una serie di verifiche su tutto
il territorio nazionale con esiti ancora più allarmanti: su 172 medici
controllati nel biennio 2005-2006, ben 104 non rilasciavano le ricevute.
L imposta evasa sull'attività intramoenia, da Macerata a Bari, da Battipaglia a
Torino, da Cosenza a Lucca, da Giulianova a Lecce, supera i 614 mila euro
Il
Riformista 20-4-2007 LA PARTITA TELECOM Fratelli d'Italia il Cavaliere s'è
desto.
«Noi
siamo stati semplicemente richiesti nel caso di una cordata italiana e il mio
gruppo ha detto che per mantenere l'italianità di un'azienda così importante
siamo disponibili a parità di intervento di altri imprenditori». L'azienda così
importante si chiama Telecom; il gruppo che si muove a compassione per il rischio
di perdere l'italianità è Fininvest-Mediaset; il dichiarante, naturalmente, è
Silvio Berlusconi.
Dopo giorni di voci e smentite, di ipotesi e suggestioni, è direttamente il
fondatore del Biscione a esporre la posizione del gruppo, scegliendo con cura platea
e parole. È stato un imprenditore esperto e un politico assai accorto, infatti,
il Silvio Berlusconi che così ha parlato, rispondendo alle domande dei
cronisti, prima di godersi lo spettacolo dell'ultimo congresso dei Ds dal posto
in prima fila riservatogli. L'interesse dell'imprenditore Berlusconi per un
pezzettino sinergico di Telecom è così arrivato forte e chiaro a una platea
diessina che, nei giorni scorsi, è riuscita ad agitarsi da subito, appena il
suo nome è stato accostato alla Telecom di domani. Naturalmente, quella stessa
platea, quello stesso mondo politico, di fronte all'ipotesi di un suo ingresso
- anche laterale o marginale - nel nocciolino italiano che potrebbe essere
domani, ha già mostrato, ieri, di potersi sgretolare in mille pezzi ancora una
volta. Come sempre quando c'è di mezzo il Cavaliere e il suo conflitto
d'interessi.
Ma il vero capolavoro tattico di Silvio sta tutto in una parola: italianità.
Basta raccogliere e antologizzare tutte le dichiarazioni di governo e
maggioranza, da Romano Prodi fino all'ultimo sottosegretario, da Massimo
D'Alema fino all'ultimo peones, per capire che il Cavaliere, come quasi sempre,
ha preso bene la mira. Telecom? Un'azienda strategica che deve restare
italiana. Telecom? Un patrimonio di questo paese che non possiamo permetterci
di perdere. Telecom? Una grande e redditizia azienda che non può non fare gola
alla nostra imprenditoria. Al netto del mercatismo internazionalista di Daniele
Capezzone, o dell'acuta osservazione sulla «italianità di Tavaroli» di Emma
Bonino, insomma, un coro a mille voci che canta Fratelli d'Italia sulle reti
telefoniche.
E così, carico dell'italianità di tutto il centrosinistra, e anche e
soprattutto di quella del premier, Silvio Berlusconi ha buttato sul tavolo una
fiche pesantissima. Perché dopo settimane di tam-tam tricolore, lungo
l'affaticata cinghia di trasmissione che ancora parte dai vertici per arrivare
alla base della sinistra italiana, l'argomento non si può smontare con due
parole veloci sul Cavaliere né, tantomeno, sul suo sempre verde e mai
affrontato - pesa quasi ripeterlo ancora una volta - conflitto d'interessi. A
contattare il gruppo nell'affannosa ricerca di costruire una filiera italiana
decente, peraltro, sarebbe stata direttamente Intesa-Sanpaolo, non certo una
banca antiprodiana.
Poi, naturalmente, c'è l'interesse di un gruppo, Mediaset, a mettere le mani su
nuovi asset strategici, a sviluppare concretamente sinergie positive per un
futuro industriale che altrimenti non sarebbe poi così roseo, magari a portarsi
a casa Alice per far correre su internet i suoi contenuti e, semmai tra poco,
quelli accresciuti dall'eventuale acquisto di Endemol per cui sta lavorando in
Spagna. Mosse strategiche importanti, per il più grande gruppo televisivo
italiano - sottolineiamo: italiano - che mira probabilmente a darsi un futuro
competitivo sulle tecnologie che decideranno domani, spendendo assai meno di
quanto costerebbe, sul mercato. E contribuendo in modo importante a lasciare in
mani italiane - italiane - la prima azienda di tlc, cioè la Telecom. Tutti
contenti, fratelli d'Italia?
Il
Corriere della Sera 19-4-2007 In Tibet
la prima neve artificiale Esperimento riuscito con successo nella regione cinese
Il
test dimostra che è possibile cambiare il clima attraverso l'intervento
dell'uomo
PECHINO - In
Tibet non è la prima volta che nevica fuori stagione, ma è la prima volta che
nevica a telecomando. Da Lhasa (Tibet) è giunta la notizia che nel Nord del
Tibet sono state create con successo precipitazioni artificiali di neve.
L'ESPERIMENTO - Il
10 aprile scorso il dipartimento meteorologico della Regione Autonoma del Tibet
ha effettuato un esperimento per creare artificialmente precipitazioni nevose.
La notizia del successo è stata comunicata solo oggi. Approfittando delle
condizioni meteo favorevoli con un anticipo di 6 ore rispetto alle previsioni,
sono state create le condizioni necessarie a far nevicare. Non è stato spiegato
quale metodo abbia portato all'incredibile risultato. La contea di Naqu, dove è
stato condotto l'esperimento, è stata coperta da un manto nevoso spesso 1
cm, risultato di una precipitazione moderata di 2.2 mm di neve.
I RISVOLTI - Yu
Zhongshui, ingegnere del dipartimento Meteo del Tibet, ha sottolineato la
difficoltà dell'esperimento nel creare una condensazione di vapore acqueo sufficiente
a far nevicare sull'altopiano più alto del mondo. Ha poi aggiunto: «Provocare
nel Nord del Tibet precipitazioni a carattere piovoso-nevoso può risolvere
favorevolmente le situazioni di siccità che si vengono a creare nei mesi
estivi». Questo fatto può dare un sostegno importante all'industria locale
legata all'allevamento del bestiame, che subisce notevoli danni dalla siccità
annuale che colpisce i terreni coltivati a erba in altura. I tecnici cinesi
hanno voluto spiegare come l'esperimento dimostri che l'intervento dell'uomo
può cambiare il clima sul Tetto del Mondo.
Vittorio
Patrucco
19
aprile 2007
Gazzetta
del Sud 20-4-2007 Sale operatorie Strumenti cinesi insicuri
ROMA Non
solo errori umani o di eventuale imperizia: in sala operatoria il pericolo può arrivare
anche da paesi emergenti come la Cina o la Corea. A causa della politica di
risparmio imposta dall'ultima Finanziaria, infatti, iniziano a diffondersi
strumenti chirurgici fabbricati nei Paesi asiatici e scelti solo perché meno
costosi, senza che il chirurgo abbia parola in merito. A lanciare l'allarme è
la Società italiana di chirurgia (Sic) in occasione della presentazione del VII
Convegno di Primavera, aperto ieri a Roma. Suturatrici, strumenti per la
laparoscopia, forbici, bisturi ma anche tecnologie come valvole cardiache e
pacemaker, ha affermato il presidente Sic Roberto Tersigni, "se scelti
solo in base al costo nell'ottica di un risparmio per il Servizio sanitario nazionale,
potrebbero non possedere i requisiti qualitativi necessari e rappresentare
quindi un fattore di rischio elevato per i pazienti". Questi strumenti
fabbricati in Paesi non tecnologicamente evoluti e il cui costo di produzione è
un terzo di quello degli analoghi dispositivi medicali prodotti in Paesi a
elevata tecnologia, ha infatti spiegato l'esperto, "è probabile che non
rispettino quei criteri di appropriatezza fondamentali per la gestione degli
interventi chirurgici". Il pericolo è dunque "scritto" nella
Finanziaria 2007, e il pericolo è concreto perché, mettono in allerta i
chirurghi, questi strumenti sono già in circolazione. (venerdì 20 aprile 2007).
INDICE 19-4-2007
+ AgenParl 19-4-2007
CONGRESSO DELLA MARGHERITA: IO RESTO, SONO LORO CHE SE NE VANNO
+ AgenParl 19-4-2007
CASINI SPINGE PER IL DDL LANZILOTTA. PUNTANDO AL GRANDE CENTRO
+ Il Sole 24 Ore
19-4-2007Sfida su Telecom tra Telefonica e AT&T di Michele Calcaterra
+ La Padania 19-4-2007
L’eccesso di potere. ROBERTO SCHENA
L’Unità 19-4-2007 Legge
intercettazioni. Al Cittadino non far Sapere Marco Travaglio
Il Corriere
della Sera 19-4-2007 La nuova formazione del centrosinistra Il partito
americano di Paolo Mieli
+ AgenParl 19-4-2007 CONGRESSO DELLA MARGHERITA:
IO RESTO, SONO LORO CHE SE NE VANNO
Roma,
19 Aprile 2007 – AgenParl – Come la Quercia, anche la Margherita, il cui
congresso inizia domani a Roma nello Studio 5 di Cinecittà, perderà radici e petali:
le radici per creare le fondamenta del Partito Democratico; i petali perché non
a tutti vanno bene queste fondamenta.
Infatti, diversi suoi esponenti, paventando un Anschluss e quindi un’annessione
piuttosto che una fusione, sono sul chi va là, in attesa degli eventi per
definire le loro decisioni.
In sostanza temono che la costituzione del nuovo partito si risolva con un
assorbimento della Margherita da parte della Quercia.
Ad esternare questi timori, è in primo luogo uno dei leader storici della ex
DC, Ciriaco De Mita. Il quale ci ha confermato che sarà presente al congresso e
aderirà al PD “provvisoriamente” in attesa di verificare se si riuscirà a
scongiurare il pericolo di un’egemonia dei DS.
Questi timori sono avvalorati dal fatto che mentre gli epigoni del Pci hanno
conservato una struttura solida e ben articolata, la Margherita ha una
conformazione partitica più moderna ma, come tale con una base più fragile.
Ma se De Mita ed altri sono tuttora indecisi e quindi in attesa di eventi,
categorico, avendo già definita la sua posizione, è Gerardo Bianco. L’ex
dirigente Dc, attualmente leader del Movimento Popolare che ha raccolto
l’eredità del Ppi, ha dichiarato all’AgenParl “io resto, sono loro che se ne
vanno”.“Tuttavia” – “ ha aggiunto –“ al congresso ci sarò, ma come
osservatore”.
Le motivazioni di Bianco condivise da altri ex Dc, si fondano soprattutto sulla
incompatibilità di convivere con quanti, anche se cattolici, accettano il
“relativismo” che porta a commistioni che in un modo o nell’altro allontanano
dalla dottrina cristiano-popolare.
+
AgenParl 19-4-2007 CASINI SPINGE PER IL DDL LANZILOTTA. PUNTANDO AL GRANDE
CENTRO
Roma,
19 Aprile 2007 – AgenParl – Pierferdinando Casini si
dice pronto a sostenere il disegno di legge del ministro Linda Lanzillotta sulla
privatizzazione dei servizi locali.
Così sembra che il leader dell’Udc getti nuovamente l’amo. Spera
che il suo invito sia accolto dai centristi dell’Unione, specie la Margherita.
Non poco tempo fa, infatti, anche Francesco Rutelli aveva
bacchettato il resto della coalizione per aver “accantonato” il ddl, invitando
il premier Prodi a smuovere le acque.
I provvedimenti richiesti dalla Lanzillotta – viene fatto notare all’AgenParl –
pare vadano in una precisa direzione: l’adozione di politiche liberiste, ben
oltre la “lenzuolata” di Bersani. Questo lo sa bene il capo
della Confindustria Montezemolo, il quale non a caso ha
“invogliato” il governo a portare avanti tali misure, sconfiggendo le
resistenze della “sinistra frenatrice”.
Casini si pone sulla stessa lunghezza d’onda del leader industriale. Attacca
frontalmente la sinistra alternativa, dando alla Margherita una facile sponda.
E la soluzione del problema: il suo appoggio sostitutivo a quello degli
“antiliberisti”.
Insomma continua la road map dell’Udc, che continua a cercare
intese programmatiche con i moderati dell’Unione in modo da approdare al suo
progetto: la creazione di un “grande centro” nel Paese con l’esclusione della
sinistra alternativa. Il ddl Lanzillotta porterebbe acqua al mulino.(G.R.S.)
+ Il Sole 24 Ore 19-4-2007Sfida su Telecom
tra Telefonica e AT&T di Michele Calcaterra
MADRID.
Dal nostro corrispondente
Telefonica torna in campo su Telecom Italia. E AT&T, che si era chiamata
fuori dalla partita, detta ora le condizioni per riesaminare il dossier: «Se la
politica deciderà di fare un passo indietro - ha detto ieri sera a Boston
Randall Stephenson, direttore operativo del colosso americano delle tlc -
potremmo tornare a valutare l’operazione: le resistenze politiche hanno
bloccato l’accordo e oggi c’è troppa incertezza per investire in Italia.
Telecom è una buona società con ottimi asset e grande capacità nel wireless: se
le interferenze politiche cesseranno e se ci sarà un’altra opportunità per
trattare, lo faremo».
Il caso Telecom Italia continua dunque a riservare colpi di scena. E i prossimi
giorni non saranno da meno. Al tavolo negoziale di Pirelli (i cui soci si
riuniranno lunedì in assemblea) potrebbe infatti tornare a sedersi non solo
AT&T, ma anche Telefonica, che proprio con la Bicocca aveva siglato un
memorandum of understanding a fine gennaio. L’accordo con gli spagnoli naufragò
per l’opposizione dell’allora presidente di Telecom Italia Guido Rossi. Ora lo
scenario è cambiato, in Telecom c’è un nuovo consiglio d’amministrazione e un
nuovo presidente e gli spagnoli sembrano intenzionati a tornare all’attacco.
Secondo il quotidiano madrileno «el Economista», infatti, Telefonica è sul
punto di formalizzare un’offerta per il 66% di Olimpia — la stessa quota cui
puntavano AT&T e America Mòvil — che valuterebbe Telecom Italia attorno ai
3 euro per azione contro i 2,92 proposti dalla cordata «Tex-Mex». L’offerta
sarebbe ancora al vaglio dei vertici del gruppo spagnolo e delle banche
coinvolte nella vicenda e una decisione potrebbe essere presa nel giro di pochi
giorni. Tra l’altro, secondo fonti interpellate da Il Sole 24 Ore, Telefonica
avrebbe preso anche in considerazione la possibilità di un’Opa su Telecom
Italia, operazione estremamente costosa — e forse improbabile — ma che avrebbe
un miglior impatto di immagine sul mercato (e sul Governo italiano) e
soprattutto sugli azionisti di minoranza, che nel caso di un’offerta sulle sole
quote di Olimpia sarebbero invece tagliati fuori.
Per saperne di più bisognerà dunque aspettare. E in ogni caso, gli ostacoli a
un accordo sono molti. Sempre secondo il quotidiano madrileno, Telefonica
avrebbe infatti posto paletti e cioè che le attività di Telecom Italia in
Argentina e in Brasile non vadano a Carlos Slim, l’imprenditore messicano
proprietario di America Mòvil e anch’egli interessato al gruppo italiano. In
cambio, Telefonica sarebbe intenzionata a lasciare in mano italiana la gestione
della società, diventando il solo partner industriale. Telefonica non ha
commentato le indiscrezioni. Fonti vicine al gruppo hanno però sottolineato che
i negoziati stanno avanzando e che da parte di Telefonica esiste un concreto
interesse a concludere positivamente l’operazione.
Difficile comunque dire a che punto stiano le cose. Se Telefonica sembra
intenzionata a non lasciarsi scappare la ghiotta occasione, Pirelli starebbe
valutando la situazione e le differenti opzioni sul tappeto: da quella
messicana (ieri il gruppo di Slim ha risposto con un «no comment» alle
indiscrezioni su un possibile ritiro dell’offerta) a quella tedesca e francese.
Senza contare il fatto che per dipanare la complicata matassa è necessario che
si pronuncino anche altri importanti attori, a cominciare da Mediobanca.
Inoltre, si attendono notizie sul futuro della rete e quindi di un asset che
non è certo secondario quando si valuta un’azienda tlc. Le schiarite su questi
fronti potrebbero comunque giungere in tempi brevi.
Di certo, per ora, c’è solo il nuovo quadro di riferimento. Il fatto che il
vertice di Telecom Italia sia stato rinnovato con l’arrivo di Pasquale
Pistorio, denota la volontà del principale socio del gruppo di arrivare a un
esito positivo della vicenda. Pistorio è un manager di cultura internazionale,
abile nelle trattative, che ha guidato con successo e portato ai vertici
mondiali Stmicroelectronics: conosce i valori in campo e sa qual è il miglior
futuro per Telecom Italia.
Per quanto riguarda infine Telefonica, va ricordato che il gruppo guidato da
Cesar Alierta, nonostante l’indebitamento di oltre 50 miliardi di euro è
un’azienda sana, con ottimi risultati e senza alcun problema nel reperire i
mezzi per l’investimento in Italia. Tenuto conto anche del fatto che in vendita
c’è il 75% della controllata Endemol ed eventualmente la partecipazione del 10%
in Portugal Telecom. Per un totale di circa 4 miliardi di euro.
IL CONFRONTO
Telefonica - Un colosso
internazionale
Telefonica è uno dei colossi mondiali del settore delle telecomunicazioni,
presente in Europa, Africa e America Latina. La compagnia è caratterizzata da
una marcata impronta internazionale: il 60% delle sue attività è infatti
generato al di fuori della Spagna.
Costituita nel 1924, Telefonica aveva a fine 2006 più di 44 milioni di clienti
in Spagna, in America Latina raggiunge 114,5 milioni di clienti. Ed è proprio
quest’ultimo mercato il più interessante in prospettiva: alla fine dello scorso
dicembre era l’operatore leader in Brasile, Argentina, Cile e Perù e fra i
principali protagonisti in Colombia, Ecuador, El Salvador, Guatemala, Messico,
Nicaragua, Panama, Portorico, Uruguay e Venezuela.
Con 83 miliardi di euro capitalizzazione di mercato, il gruppo raggiunge il
quinto posto al mondo nel settore delle tlc, ed è all’ottavo posto globale
nella classifica Eurostoxx 50.
I conti 2006 hanno evidenziato una crescita sostenuta di utili e ricavi: i
profitti hanno raggiunto 6,2 miliardi di euro (+40,2%) e il fatturato ha
sfiorato i 53 miliardi (+41,5%).
America Mòvil - Un
colosso in crescita
Nata alla fine del 2000, America Mòvil è oggi l’azienda di servizi di
telecomunicazioni wireless più grande dell’America Latina e il quinto provider
del settore nel mondo, con circa 125 milioni di abbonati. America Mòvil
possiede un totale di circa 128 milioni di linee, di cui 2,9 milioni di rete
fissa.
In questi anni il numero degli abbonati di America Mòvil è costantemente
cresciuto, con una media annua del 40%; parallelamente, le quote di mercato di
sono cresciute da quasi il 20% nel 2000 al 45% nel 2006.
Il numero di abbonati e l’utenza hanno guidato la grande crescita di fatturato,
di Ebitda e di profitti di America Mòvil. Il fatturato (21,4 miliardi di
dollari nel 2006) è aumentato in media - e in modo costante - di circa 37% ogni
anno dal 2000 al 2006, mentre l’Ebitda è aumentato di 11,5 volte nello stesso
periodo, fino ad arrivare a 7,8 miliardi di dollari nel 2006.
La capitalizzazione di mercato è di 88 miliardi di dollari.
+
La Padania 19-4-2007 L’eccesso di potere. ROBERTO SCHENA
I
sondaggi gli attribuiscono un magro 23 per cento; a parte i Ds che ci credono e
la Margherita, alla Camera e al Senato, come nelle segreterie dei partiti non
pensano che possa funzionare. Eppure, i poteri forti dell economia non stanno
scherzando: da anni puntano tutte le loro carte sul partito democratico e
finalmente ci sono riusciti a metterlo in piedi. Un progetto simile non può
fallire. Chiunque si muova al di fuori del Pd, corre il rischio di
sottovalutare la forza della nuova macchina , priva di precedenti. Quando si
dice che il Partito democratico sarà grande nei numeri forse non si ha davvero
idea di che cosa si sta parlando. L attuale coalizione di Governo non è che un
assaggio della più grande concentrazione di potere economico, sociale e
politico mai vista in Italia e probabilmente in Europa. Come nemmeno la Dc nei
suoi anni migliori si sognava. Sedi di partito, iscritti, amministratori
pubblici, municipalizzate, utilities, sindacalisti, cooperative, banche,
consigli di amministrazione: col partito democratico il centrosinistra può
moltiplicare la sua influenza, estendere esponenzialmente la rete di potere.
Intanto, la fusione dei due partiti, Ds e Margherita, comporta un radicamento
profondo della consistenza numerica. Sommati insieme, gli iscritti Ds e
Margherita raggiungono la considerevole somma di 816 mila (555 mila iscritti
Ds, più i 261 mila della Margherita). Tanto per dare un idea delle distanze,
Forza Italia conta circa 400 mila iscritti, Rifondazione 93 mila. Attualmente,
un solo partito ha più iscritti dei Ds in Europa: la tedesca Spd. Ma con la
fusione nel Pd, i socialdemocratici tedeschi sarebbero lasciati indietro di un
bel pezzo, nonostante la Germania conti 24 milioni e mezzo di abitanti in più
dell Italia. È pur vero che nei Ds una grossa fetta del partito non è
disponibile alla fusione con la Margherita ma al di là delle dichiarazioni e
dei buoni propositi anche a sinistra chiunque abbia una posizione da difendere
- gli amministratori pubblici in primis - si guarderà bene dal rischiare di
perderla iscrivendosi in altri partiti. Inoltre, la diminuzione degli iscritti
dovuta alle rinunce diessine (che quasi certamente saranno meno del previsto)
potrà essere compensata da nuove interessate adesioni esterne. In ciò che non
può l ideologia, riesce il potere. La fusione avrà come obiettivo conseguente
la cosiddetta ottimizzazione delle risorse . Ovunque, una segreteria al posto
di due, meno sedi, meno fatture da pagare, meno funzionari. Sarà anzi l
occasione di un repulisti interno. Per quanto riguarda i rimborsi elettorali,
Ds e Margherita si sono sempre aggiudicati i quattro quinti della somma
destinata all Ulivo: si tratta nel complesso di circa 15-17 milioni a botta,
amministrative o politiche che siano. Una montagna di soldi, considerato che l
Ulivo riesce a spendere molto meno della Cdl ottenendo lo stesso effetto
propagandistico. Secondo Francesco Forte, uno dei massimi esperti di finanza e
analisi economica, "i ds che contano su un ampia macchina editoriale
amica, costituita da giornali (anche tramite il sindacato dei giornalisti),
case editrici, librerie nel 2005 hanno speso solo 16 milioni di euro",
quando Forza Italia ha dovuto spenderne il doppio. Continua Forte: "E la
Margherita che è il beniamino del maggior complesso
editoriale-industriale-bancario italiano e può contare su uno stuolo d
intellettuali che la sostengono, nella pubblica opinione, coi media della
stampa, le informazioni internet, i sondaggi d opinione, i convegni (ripresi
dai media) e le opere librarie, in evidenza nelle librerie dei gruppi amici è
riuscita a cavarsela con 9,7 milioni". An, che ha le stesse percentuali
elettorali della Margherita ma non ha alcun sostegno di lobbies editoriali, ha
speso, per propaganda e servizi, 17,6 milioni, più dei ds e il doppio della
Margherita. Inoltre, ci sono i finanziamenti pubblici alle testate di partito:
in teoria, lo Stato dovrebbe fornirli a una sola testata quodidiana per
partito, quella considerata l organo ufficiale, e anche il Pd dovrebbe averne a
disposizione una sola (l Unità o Europa? Sarà curioso vedere che ne sarà della
testata fondata da Gramsci), ma in pratica ci sono giornali veri di partiti
veri e giornali veri di partiti falsi, quando non addirittura testate false per
partiti veri e testate false per partiti falsi. Chi egemonizzerà la base del
Pd? Sarà prevalentemente cattolica o laica? Un discorso a parte merita l
associazionismo dell Arci e delle Acli. Ramificate in ogni settore riguardante
lo sport, la cultura e il tempo libero, rappresentano in assoluto i maggiori
network culturali del Paese e da sempre sono un formidabile serbatoio
elettorale. Ai Ds e in parte a Rifondazione comunista è legato l Arci, alla
Margherita le Acli. Contano rispettivamente circa un milione di iscritti
ciascuna; l'Arci è la più grande forza organizzata, non sindacale, della sinistra
italiana e addirittura europea: 1.092.000 iscritti, 5.800 circoli territoriali.
Contando le filiazioni staccate, nel quadro della Federazione Arci, si arriva a
2 milioni e mezzo di iscritti, buona parte dei quali non è disposta ad aderire
al Pd. Ma la maggioranza sicuramente sì. Diverso è il discorso per le Acli, le
Associazioni cristiane lavoratori italiani, fino a ieri presiedute da Luigi
Bobba, deputato teodem della Margherita, messo lì apposta da Rutelli insieme
alla Binetti per sbarrare la strada ai sinistrorsi. Decisamente le Acli non
hanno un altro partito in cui inserirsi ed è anche vero che una delle attività
preminenti è fare concorrenza alle coop rosse per quanto riguarda l edilizia
convenzionata. E qui gli appoggi politici servono, eccome. (1 - Continua)
L’Unità 19-4-2007 Legge intercettazioni.
Al Cittadino non far Sapere Marco Travaglio
Cari
lettori, quando il Parlamento approva una legge all'unanimità, di solito bisogna
preoccuparsi. Indulto docet. Questa volta è anche peggio. L'altroieri, in poche
ore, con i voti della destra, del centro e della sinistra (447 sì e 7 astenuti,
tra cui Giulietti, Carra, De Zulueta, Zaccaria e Caldarola), la Camera ha dato
il via libera alla legge Mastella che di fatto cancella la cronaca giudiziaria.
Nessuno si lasci ingannare dall'uso furbetto delle parole: non è una legge
"in difesa della privacy" (che esiste da 15 anni) nè contro "la
gogna delle intercettazioni". Questa è una legge che, se passerà pure al
Senato, impedirà ai giornalisti di raccontare - e ai cittadini di conoscere -
le indagini della magistratura e in certi casi persino i processi di primo e
secondo grado. Non è una legge contro i giornalisti. È una legge contro i cittadini
ansiosi di essere informati sugli scandali del potere, ma anche sul vicino di
casa sospettato di pedofilia. Vediamo perché. Oggi gli atti d'indagine sono
coperti dal segreto investigativo finché diventano "conoscibili
dall'indagato". Da allora non sono più segreti e se ne può
parlare. Per chi li pubblica integralmente, c'è un blando divieto di
pubblicazione, la cui violazione è sanzionata con una multa da 51
a 258 euro, talmente lieve da essere sopportabile quando le carte
investono il diritto-dovere di cronaca. Dunque i verbali d'interrogatorio, le
ordinanze di custodia, i verbali di perquisizione e sequestro, che per
definizione vengono consegnati all'indagato e al difensore, non sono segreti e
si possono raccontare e, di fatto, citare testualmente (alla peggio si paga la
mini-multa). È per questo che, ai tempi di Mani Pulite, gli italiani han potuto
sapere in tempo reale i nomi dei politici e degli imprenditori indagati, e di
cosa erano accusati. È per questo che, di recente, abbiamo potuto conoscere
subito molti particolari di Bancopoli, Furbettopoli, Calciopoli, Vallettopoli,
dei crac Cirio e Parmalat, degli spionaggi di Telecom e Sismi. Fosse stata già
in vigore la legge Mastella, Fazio sarebbe ancora al suo posto, Moggi
seguiterebbe a truccare i campionati, Fiorani a derubare i correntisti Bpl,
Gnutti e Consorte ad accumulare fortune in barba alle regole, Pollari e Pompa a
spiare a destra e manca. Per la semplice ragione che, al momento, costoro non
sono stati arrestati né processati: dunque non sapremmo ancora nulla delle
accuse a loro carico. Lo stesso vale per i sospetti serial killer e pedofili,
che potrebbero agire indisturbati senza che i vicini di casa sappiano di cosa
sono sospettati. La nuova legge,infatti,da un lato aggrava a dismisura le
sanzioni per chi infrange il divieto di pubblicazione: arresto fino a 30 giorni
o, in alternativa, ammenda da 10 mila a 100 mila euro (cifre che nessun
cronista è disposto a pagare pur di dare una notizia). Dall'altro allarga à
gogò il novero degli atti non più pubblicabili.Anzitutto "è vietata la
pubblicazione, anche parziale o per riassunto, degli atti di indagine contenuti
nel fascicolo del pm o delle investigazioni difensive, anche se non più coperti
da segreto, fino alla conclusione delle indagini preliminari ovvero fino al
termine dell'udienza preliminare". La notizia è vera e non é segreta, ma è
vietato pubblicarla: i giornalisti la sapranno, ma non potranno più
raccontarla. A meno che non vogliano rovinarsi, sborsando decine di migliaia di
euro. È pure vietato pubblicare, anche solo nel contenuto, "la
documentazione e gli atti relativi a conversazioni, anche telefoniche, o a
comunicazioni informatiche o telematiche ovvero ai dati sul traffico telefonico
e telematico, anche se non più coperti da segreto". Le intercettazioni
che hanno il pregio di fotografare in diretta un comportamento illecito, o
comunque immorale, o deontologicamente grave sono sempre top secret. Bontà
loro, gli unanimi legislatori consentiranno ancora ai giornalisti di raccontare
che Tizio è stato arrestato (anche per evitare strani fenomeni di
desaparecidos, come nel vecchio Sudamerica o nella Russia e nell'Iraq di oggi).
Si potranno ancora riferire, ma solo nel contenuto e non nel testo, le misure
cautelari, eccetto "le parti che riproducono il contenuto di
intercettazioni". Troppo chiare per farle sapere alla gente. E i
dibattimenti? Almeno quelli sono pubblici, ma fino a un certo punto: "non
possono essere pubblicati gli atti del fascicolo del pm, se non dopo la
pronuncia della sentenza d'appello". Le accuse raccolte (esempio, nei
processi Tanzi, Wanna Marchi, Cuffaro, Cogne, Berlusconi etc.) si potranno
conoscere dopo una decina d'anni da quando sono state raccolte: alla fine
dell'appello. Non è meraviglioso? L'ultima parte della legge è una minaccia ai
magistrati che indagano e intercettano "troppo", come se
l'obbligatorietà dell' azione penale fosse compatibile con criteri quantitativi
o di convenienza economica: le spese delle Procure per intercettazioni (che
peraltro vengono poi pagate dagli imputati condannati, ma questo nessuno lo
ricorda mai) saranno vagliate dalla Corte dei Conti per eventuali
responsabilità contabili. Così, per non rischiare di risponderne di tasca
propria, nessun pm si spingerà troppo in là, soprattutto per gli indagati
eccellenti. A parte "Il Giornale", nessun quotidiano ha finora
compreso la gravità del provvedimento. L'Ordine dei giornalisti continua a
concentrarsi su un falso problema: quello del "carcere per i
giornalisti", che è un'ipotesi puramente teorica, in un paese in cui
bisogna totalizzare più di 3 anni di reclusione per rischiare di finire dentro.
Qui la questione non è il carcere: sono le multe. Molto meglio una o più
condanne (perlopiù virtuali) a qualche mese di galera, che una multa che nessun
giornalista sarà mai disposto a pagare. Se esistessero editori seri, sarebbero
in prima fila contro la legge Mastella. A costo di lanciare un referendum
abrogativo. Invece se ne infischiano: meno notizie "scomode" portano
i cronisti, meno grane e cause giudiziarie avrà l'azienda. Mastella,
comprensibilmente, esulta: "Un grande ed esaltante momento della nostra
attività parlamentare". Pecorella pure: "Una buona riforma, varata
col contributo fondamentale dell'opposizione". Vivi applausi da tutto l'emiciclo,
che è riuscito finalmente là dove persino Berlusconi aveva fallito:
imbavagliare i cronisti. Ma a stupire non è la cosiddetta Casa delle Libertà,
che facendo onore alla sua ragione sociale ha tentato fino all'ultimo di
aumentare le pene detentive e le multe (fino al 500 mila euro!) per i
giornalisti. È l'Unione, che nell'elefantiaco programma elettorale aveva
promesso di allargare la libertà di stampa. Invece l'ha allegramente limitata
con la gentile collaborazione del centrodestra. Ma chi sostiene che nell'ultimo
anno non è cambiato nulla, ha torto marcio. Quando le leggi-vergogna le faceva
Berlusconi, l'opposizione strillava e votava contro. Ora che le fa l'Unione,
l'opposizione non strilla, anzi le vota. In vista del passaggio al Senato, cari
lettori, facciamoci sentire almeno noi, giornalisti e cittadini.
Il
modo critico, talvolta ipercritico (giustamente ipercritico) con il quale un
po’ da tutti è stata seguita la gestazione del Partito democratico, va oggi
lasciato da parte per fermarci a riflettere in modi più appropriati su cosa
rappresentino e cosa siano le assise con cui di qui a domenica Ds e Margherita
si scioglieranno. Come prima cosa va osservato che, al di là degli esiti che
potrà avere l’operazione, siamo al cospetto di un evento di dimensioni
storiche. Quattro anni fa, quando il lungimirante Michele Salvati propose la
fondazione di questo partito, il suo isolamento fu pressoché totale. E ancora
pochi mesi fa lo scetticismo era prevalente. L’idea che l’esperienza
organizzativa del comunismo e del postcomunismo italiano nonché quella della
sinistra Dc e di parte dell’area laica intermedia potessero avere fine con lo
scioglimento dei due partiti in un unico contenitore, appariva ingenua o
eccessivamente ambiziosa. E invece ciò accade.
Non
ci sembra poi di scarso rilievo la circostanza che i fondatori della nuova
formazione politica, anziché ispirarsi a una delle denominazioni del
centrosinistra europeo, abbiano optato per quella del più antico partito
statunitense, il partito di Franklin Delano Roosevelt ma anche
dell’anticomunista Harry Truman, di John Kennedy ma anche del «guerrafondaio»
Lyndon Johnson e poi di Jimmy Carter e di Bill Clinton. Chi conosce la storia
americana sa quanto apparenti fossero le contrapposizioni tra questi presidenti
e quanto diverso da quello della nostra sinistra sia sempre stato il rapporto
del Democratic Party con parole come democrazia o guerra. Quel nome, Partito
democratico, implica la collocazione di radici importanti del nuovo albero
dall’altra parte dell’oceano. Implica in buona sostanza la scelta del modello
americano anche se ancora a lungo, per prudenza e dissimulazione, ciò verrà
negato. Quantomeno nel discorso pubblico.
Nella
storia di questo dopoguerra c’è un precedente dell’attuale matrimonio (sia pure
allargato) tra Ds eMargherita: l’unificazione socialista del 1966. Un
precedente sfortunato, che può essere portato a esempio solo di quel che non si
deve fare. La fusione di due apparati recalcitranti, socialista e
socialdemocratico, produsse scissioni, un flop elettorale (nel 1968) e la
rottura dell’anno successivo, quando Psi e Psdi ripresero ognuno la propria
strada. A onore dei contraenti del patto odierno va detto che, pur se gli
errori di quarant’anni fa possono essere commessi di nuovo tutti e in parte
sono già stati commessi, in caso di disfatta l’esito non potrà essere lo
stesso; nel senso che, se dovranno ridividersi, i due partiti non potranno mai
tornare ad essere quel che sono adesso. Ds e Margherita, a differenza dei
socialisti degli anni Sessanta, si muovono dunque senza rete. E questo nobilita
l’impresa.
Tale
condizione dovrebbe far sì che da adesso in poi chi deciderà di militare nel
partito democratico dovrà dimostrarsi all’altezza della prova. A cominciare dai
leader. Anzi dal leader. Oggi ancora non sappiamo chi possa capeggiare il nuovo
partito e candidarsi alla guida del governo (un’idea ce l’avremmo, ma non
spetta a noi dare questo genere di indicazione). Sappiamo in ogni caso che quel
leader deve essere una sola persona — sottolineiamo: una sola persona—e che
dovrà uscire allo scoperto nel giro di poche settimane. Solo se guidato fin dai
primi passi da un capo certo e carismatico il partito democratico potrà avere
successo. Un successo i cui effetti, riverberandosi anche nel campo opposto,
possono produrre una stabilizzazione dell’intero sistema. Del che c’è evidente
bisogno.
19
aprile 2007
Ma
l'At&T è pronta a ripensarci Mentre da Seul Prodi spiega che l'ambasciatore
Usa è stato frainteso ("il governo non è intervenuto") e l'At&T in
serata si dice pronta a riesaminare il dossier Telecom Italia se la politica
deciderà di fare un passo indietro, si registra un duro scontro tra il leader
degli industriali Montezemolo (foto) e Bertinotti. Intanto, per la Commissaria
Reding, la Ue deve "vigilare" su Telecom perché in Italia permangono
"pressioni protezionistiche" sulle telecomunicazioni. (a pagina 5) di
Alberto Pasolini Zanelli Il ritiro di una ditta americana dal mercato economico
italiano rischia di avere conseguenze maggiori di quelle dovute al recente
ritiro italiano dall'Iraq. Il ritiro dell'At&t è stato annunciato con poche
parole, pochissime delle quali di commento: "Incertezza sulle
regole". La glossa l'ha compilata quasi immediatamente, e anche questo non
accade certo tutti i giorni, l'ambasciatore Usa in Italia, Spogli. Non nella
forma di nota diplomatica di protesta né di malumore bensì in una forma
"curiale": una piccola lezione di economia nell'era della
globalizzazione. Il rappresentante di Bush a Roma si è limitato a far notare
che l'"affare Telecom" ha evidenziato il "ruolo differente che
il governo degli Stati Uniti e quello italiano hanno nella vita economica"
nei rispettivi Paesi. In America il potere legislativo, cioè il Congresso,
stabilisce regole "che possono essere anche dure" ma poi tutti sono
tenuti a rispettarle e a muoversi nella stessa logica. In Italia c'è una
"lunga tradizione" di senso opposto: una "presenza molto più
forte del governo nelle questioni economiche". A questo sistema italiano,
secondo Spogli, si deve se il nostro Paese attira molto meno di altri, gli
investimenti dall'estero. Questo perché gli stranieri, dice diplomaticamente
l'ambasciatore, "non capiscono esattamente se le regole sono uguali per
tutti o no". Cioè- traduce chi diplomatico non è- non si fidano. Questo è
il punto di vista non dell'amministrazione Bush, che pure Spogli rappresenta,
ma del Sistema americano, repubblicani e democratici, destra e sinistra che
possono differire e spesso differiscono nella formulazione di queste regole ma concordano
sul fatto che, una volta stipulate, vanno rispettate. Un richiamo
"ideologico"? O forse solo un resumé dei principi economici e
finanziari? Ad ogni modo un punto di vista chiaramente espresso, che per i
gusti di taluni sarà forse troppo esplicito, ma a cui è difficile rispondere.
Lo è in inglese, vale a dire in termini americani, perché rispondere di no
significherebbe sconfessare le pratiche realmente dominanti nella finanza
italiana, ovvero confessare che più o meno è vero quello che dice Spogli, cioè
che il potere politico espresso direttamente dal governo spesso favorisce o
addirittura impone soluzioni che alla logica politica rispondono, ma a quella
dei mercati no. Rispondere con un "sì", d'altra parte, porterebbe a
una contraddizione più diretta con i principi che abbiamo sottoscritto sulla
carta, sui determinati impegni internazionali, in sostanza sull'appartenenza
dell'Italia alla "Nato economica", che ormai con la globalizzazione
si è poi estesa a tre quarti del pianeta. L'unica cosa che il governo può fare
onestamente è ricordare che in queste cose "veniamo da lontano", che
nel nostro Paese vige da molti decenni la dicotomia tra soluzioni giuste e
soluzioni "politicamente possibili". Il ruolo dei sindacati è diverso
non perché i sindacati siano così potenti, ma perché la loro cultura politica
coincide con quella dei partiti che formano l'attuale governo, ma hanno guidato
in un modo o nell'altro l'azione di quasi tutti i governi dalla reinstaurazione
della democrazia ad oggi. Questo governo non ha creato la distonia tra i nostri
usi reali e i principi cui ci impegniamo in sede internazionale: la gestisce,
semmai, in modo più aperto, meno di altri curandosi che le parole cozzino
contro i fatti. In ogni caso, non ci facciamo una gran bella figura. E non
perché ce lo rimprovera l'ambasciatore americano, ma perché lo sappiamo anche
noi. Quello che non sappiamo è come agire diversamente.
L'ex
a.d. si sarebbe unito a chiunque pur di fermare la scalata ostile di Colaninno.
Ma allora non c'erano i fondi, oggi sì. 'Se a quei tempi i fondi di private
equity avessero avuto la potenza di fuoco che hanno oggi non avrei avuto dubbi.
Mi sarei rivolto a loro per contrastare l'opa. Ma non c'erano e quindi ho
pensato alla fusione con Deutsche telekom. Ma mi sarei fuso con chiunque, anche
con At&t, piuttosto che lasciar passare quell'offerta, perché ritenevo che
avrebbe danneggiato gli azionisti'. Lo ha detto senza mezzi termini Franco Bernabè,
ricordando i tempi in cui, nella primavera del 1999, da amministratore delegato
di Telecom cercava di opporsi all'opa di Roberto Colaninno. Parlando ieri in
occasione del primo di una serie di incontri organizzato dall'Associazione
italiana del private equity e venture capital, Bernabè ha aggiunto: 'Dato che
allora i fondi non erano ancora così presenti in Europa e in Italia come lo
sono oggi, ho fatto quello che ho potuto. Prima ho convocato l'assemblea di
Telecom per mettere a punto tutti i sistemi possibili di difesa, compresa la
fusione di Tim in Telecom. Ma poi, visto che a quell'assemblea né il Tesoro né
Banca d'Italia si sono presentati, facendo quindi mancare il numero legale, il
giorno dopo sono volato in Germania dall'a.d. di allora di Deutsche telekom,
Ron Sommers, per cercare un accordo per fondere le due società. Se la cosa
fosse andata in porto, sarebbe nata la compagnia telefonica più grande d'Europa
e allora sarebbe stata una vera fusione perché le dimensioni delle due
compagnie erano simili. Inoltre, lo stato tedesco ne avrebbe approfittato per
iniziare la privatizzazione di Deutsche telekom. E sarebbe nato qualcosa di
molto vicino a una vera public company. Ma la verità è che in Italia le public
company non le ha mai volute nessuno'. Sì, perché, secondo il manager ora
vicepresidente di Rothschild Europe, 'in Italia sono ancora in molti a pensare
che nelle public company i manager possano fare il bello e cattivo tempo, senza
dover rispondere a nessuno. Ma in realtà, i grandi manager di società quotate
devono rendere conto ai milioni di azionisti tutti i giorni. Eppure continua a
essere radicata questa idea che public company significhi ”manager
forti, proprietari deboli”, un concetto che è stato anche il titolo
di un noto libro di Mark Roe, la cui tesi, però, non era contro la public
company, come invece crede chi lo cita a sproposito. Anzi. Il libro sottolinea
il fatto che negli Usa si è fatta attenzione a che il sistema bancario non
diventasse padrone delle imprese come invece era accaduto in Germania ai tempi
della Seconda guerra mondiale. Negli Usa ci si è preoccupati del principio di
democrazia applicato alle aziende'. Il che significa, leggendo tra le righe,
che Bernabè non approva per nulla l'ipotesi di una soluzione bancaria
all'uscita di Tronchetti Provera da Telecom. La strada che lui prediligerebbe,
invece, è appunto quella di un intervento del private equity, che ritiene 'la
migliore soluzione per trasformare una grande azienda in public company. I
fondi di private equity sono quelli che si sono accorti negli Usa alla fine
degli anni 80 che in borsa c'erano dei colossi quotati dai quali era possibile
ricavare del valore nascosto'. Non solo. I private equity potrebbero preservare
l'italianità delle grandi aziende: 'A differenza dei soggetti industriali, i
capitali dei fondi sono apolidi, vengono da investitori internazionali'.
Il
Giornale di Brescia 19-4-2007 L'Europa resta ai margini del
dibattito politico LA CORSA PER L'ELISEO SARKOZY, ROYAL E BAYROU D'ACCORDO NEL
RILANCIARE LE TRATTATIVE PER LA COSTITUZIONE UE
PARIGI
- La parola Europa non è tra le più pronunciate nel corso della campagna
elettorale. In un paese dove l'attaccamento all'identità nazionale,
l'attaccamento allo Stato protettore e la paura dei cambiamenti si mescolano,
le percezioni del processo di integrazione europeo sono complesse e con mille
sfaccettature. Il tema Europa sembra comunque ancora un argomento che divide e
anche per questo i maggiori candidati sono restii ad affrontarlo di petto. Jean
Marie Le Pen vuole che la Francia recuperi la propria sovranità legislativa
limitata dall'Unione europea che impone ai francesi una norma su quattro.
L'Europa che vuole il presidente del Fronte nazionale deve andare da Brest a
Vladivostock, ma deve essere un'associazione di Paesi liberi e sovrani.
All'interno di una logica diversa le posizioni degli altri tre candidati di
vertice, Nicolas Sarkozy, Segolene Royal e Francois Bayrou. Se gli ultimi due
propongono un nuovo referendum, le basi non sono le stesse; per la Royal il
referendum dovrebbe riguardare un nuovo trattato negoziato con i partner che
tenga conto delle aspettative sociali dell'Unione. Il metodo di negoziazione
proposto dalla candidata socialista consiste nell'apertura sotto la presidenza
tedesca attuale di negoziati sulle riforme delle istituzioni con il lancio di
una vasta consultazione dei cittadini europei chiamati via internet a discutere
sugli obiettivi che si deve porre l'Europa, le sue politiche prioritarie e i
suoi confini. Sulla Turchia la Royal dice che attualmente non ci sono tutte le
condizioni per un'adesione ma che queste potrebbero esserci entro una decina
d'anni. Per Bayrou, che è contrario all'adesione della Turchia, il nuovo
referendum dovrebbe concentrasi su un testo corto e semplificato, ridotto alle
questioni istituzionali e di funzionamento dell'Unione. Nicolas Sarkozy infine
non propone un nuovo referendum: chiede un "mini" trattato,
semplificato e ridotto alle questioni istituzionali e alle riforme necessarie
perchè "l'Europa possa rimettersi in marcia". Un "mini
trattato" da sottomettere a ratifica parlamentare. Sull'adesione della
Turchia l'ostilità di Sarkozy è molto netta..
Cara Europa, ho letto con stupore le reazioni alla
lettera in cui, rispondendo al lettore Melli di Genova, il condirettore Orlando
si compiace che Mastrogiacomo non sia stato lasciato morire come Moro.
Non mi pare che, nel dir questo, Orlando abbia insinuato che a far morire il
leader dc siano stati Andreotti o Cossiga o Zaccagnini o La Malfa o Berlinguer,
o Malagodi, o Almirante, tutti schierati sulla linea della non trattativa coi
terroristi.
E dunque dov’è lo scandalo nella verità ricordata da Orlando? O è una colpa
ricordarla?
IGNAZIO MONACO, TARANTO
Caro
Ignazio, sono contento che a fare questo rilievo sia proprio tu, che nei giorni
tragici dal 14 marzo al 9 maggio 1978, cioè dalla cattura al martirio di Moro,
eri attivo sostenitore del nostro Giornale (quello di Montanelli, il quale
aveva ricevuto un anno prima, il 2 giugno 1977, il piombo brigatista nelle
gambe). Ricordi dunque che noi sposammo interamente la causa dell’intransigenza
nei confronti del terrorismo (e dell’ultrasinistra), compresa la legislazione
di emergenza (dal decreto del 21 marzo sul fermo generalizzato di polizia alla
Legge Reale), anche se non prendemmo in considerazione la proposta di pena di
morte per i sequestratori avanzata da Ugo La Malfa. Sostenemmo l’intransigenza
e le sue ragioni politiche affermate dal presidente del consiglio Andreotti,
dal ministro dell’interno Cossiga, e dai nostri partiti, che dal Pci di
Berlinguer al Pli di Malagodi, si schierarono per l’unità nazionale
antiterrorista e antipermissivista. A quella linea si sottrasse soltanto il Psi
di Craxi e Signorile, che al 51°congresso di Torino (29 marzo-2 aprile) adottò
la linea della trattativa con le Br. Il 29 marzo Moro aveva scritto dalla
“prigione del popolo” una lettera a Cossiga, proponendo uno scambio di
prigionieri.
Il 31 marzo l’Unità replicò che, quando la posta in gioco è la democrazia
stessa, non si può cedere all’eversione. Il 4 aprile il governo Andreotti
confermò formalmente alla Camera di essere contrario a trattare.
Non vedo dunque perché c’è ancora chi si adonta se qualche giornalista scrive
che “Moro fu fatto morire”. Fu fatto morire non per sadismo, ma perché non
c’era scelta. Perfino il papa Paolo VI ne era consapevole: e si rivolse agli
uomini delle Brigate rosse, nella sua suprema autorità morale, perché
rilasciassero Moro «senza condizioni ». Senza condizioni, cioè senza
trattativa. Dire oggi che nessuno era disposto ad accettare condizioni, dunque,
significa soltanto dire la verità: credo che tu ed io, nella nostra parte di
sostenitori dell’intransigenza montanelliana, che s’affiancava a quella dei
politici, potremmo rivendicare, se non fosse presumere troppo, e comunque con
doloroso orgoglio, un’infinitesima parte di quella responsabilità nella linea
della fermezza.
Ricordo, e chiudo, le parole che Montanelli scrisse la sera del 7 maggio, poche
ore prima del sacrificio di Moro, chiamandoci tutti alla guerra totale, e senza
assicurazioni sulla vita, contro il terrorismo: «I giochi sono fatti. E non
soltanto per Moro, cui va tutta la nostra più fraterna e rispettosa pietà. Sono
fatti anche per una politica da Belle Époque che la distruzione fisica e morale
di Moro chiude e conclude. La Storia sta riprendendo i suoi connotati di
tragedia e costringe ad adeguarsi al repertorio. Stiamo entrando in una di
quelle età di ferro in cui il potere si paga col ferro. Nessuno è obbligato a
sfidare questo rischio. Chi lo fa, sappia che oggi è toccato a Moro, domani può
toccare a lui». Ed è accettando questa amara verità che la classe dirigente
italiana ha trovato la forza, combattendo ancora dieci anni, di vincere ed
estirpare il terrorismo. O quasi. Molto quasi.
Il
Secolo XIX 19-4-2007 A TRE GIORNI DAL PRIMO TURNO
DELLE PRESIDENZIALI Milioni di elettori cambiano idea in continuazione o non
dicono il vero Parigi. Gabriele Parussini
A
tre giorni dal primo turno della presidenziale, la campagna elettorale francese
è in preda alle ultime convulsioni. Primo, i sondaggi, che restano la chiave di
volta che anche i candidati usano per calibrare il tiro dei loro interventi. La
novità dei due pubblicati ieri? La corsa, per il dispiacere dei socialisti,
resta una competizione a tre. In due inchieste la TNS Sofres e l'Ifop
identificano un trend chiaro: Francois Bayrou, il candidato del centro, è in
rimonta, di 2 e 1 punto percentuali rispettivamente. Nicolas Sarkozy resta
primo e Ségolène Royal seconda, ma entrambi sono in discesa. La classifica
degli ultimi sondaggi d'opinione prima del blackout imposto dalle regole
elettorali? Per TNS Sofres Sarkozy al 28.5%, Royal al 25%, Bayrou al 19%; per
l'Ifop Sarkozy al 28%, Royal al 22.5%, Bayrou al 19%. Il partito più grande
rimane quello degli incerti, con il 37% degli elettori che dichiarano alla
Sofres di poter ancora cambiare idea. Tutti si affannano a sottolineare nuovi
elementi di incertezza: il numero degli iscritti alle liste elettorali, che è
aumentato del 4.2% nel 2006, circa il doppio del normale, e il voto dei
residenti all'estero: quasi un milione di persone. Intanto su cosa si gioca la
campagna? Sugli estremi. Dopo l'appello dell'ex premier socialista Michel
Rocard perché Royal si allei con Bayrou fin dal primo turno, ieri é stato la
volta di Claude Allegré e di Bernard Kouchner, tutti e due ex ministri
socialisti, di schierarsi dalla parte della santa alleanza sotto lo stendardo
del "tutto salvo Sarkozy". Dominique Strauss-Kahn, visto da tutti
come una delle possibili teste di ponte di Bayrou in campo socialista, si è
affannato a smentire alla conferenza stampa in rue Solferino di ieri mattina
ogni contatto con il candidato del centro. "Tutto quanto è stato detto
sull'alleanza tra il PS e l'UDF è insensato: quando si è di sinistra si vota
socialista", ha detto Strauss-Kahn. Ma poi, ha ricordato, cartesiano, che
un primo ministro della Quinta Repubblica deve avere la fiducia del parlamento,
e ha escluso di prestarsi alla carica "in mancanza di una maggioranza
socialista all'Assemblee". Come dire: per ora, ciascuno al proprio posto.
Riparliamone la prossima settimana. Il nervosismo sembra di casa fra i
socialisti, con il segretario Francois Hollande a dire ieri a Bordeaux che
arrivare al secondo turno sarebbe "già una vittoria" per Ségolène. Da
parte sua Bayrou, come al solito, gioca ai margini della campagna
capitalizzando sugli errori degli avversari. Ammette di aver cenato con Rocard,
e dichiara di essere il solo a poter mettere insieme le parti moderate dei due
schieramenti. I francesi sembrano gradire, anche perché i due candidati in
testa si arroccano su posizioni estreme. Sempre secondo il candidato centrista
gli elettori francesi "preparano una di quelle sorprese di cui hanno il
segreto". Bayrou si è detto convinto che i sondaggi, che lo danno terzo
dietro Sarkozy e Royal, sottostimamo il suo punteggio, "perchéè difficile
indovinare i voti quando si tratta di un voto di cambiamento". Anche il
candidato no-global José Bovè si aspetta sorprese dal voto di domenica
prossima:"Sono sicuro che si assisterà a delle cose sbalorditive che
usciranno dalle urne". Sarkozy martedì sera a Metz, ha fatto un'apologia
della religione cattolica e ha ricordato le radici cristiane del Paese. Il
candidato di centrodestra ha ricordato Giovanni Paolo II esprimendo
l'ammirazione per il pontefice scomparso. In Wojtyla Sarkozy vede l'uomo che
"con la forza delle sue convinzioni ha fatto cadere il muro di
Berlino" e ancora l'uomo che "saputo incarnare apertura e fermezza.
Per un ex ministro di uno stato profondamente laico, un'uscita del genere
equivale ad ammiccare all'estrema destra. Ieri, Ségolène ha arringato le
cassiere di un supermercato parigino del gruppo Carrefour con toni da
pasionaria comunista: "Le lavoratrici sono il proletariato dei nostri
giorni, e le loro preoccupazioni non sono ascoltate da nessuno". Di che
far sognare i centristi.
INDICE
18-4-2007
TOC \o "1-3" \h \z
\u Il Corriere della Sera 18-4-2007
Credibilità zero Di Massimo Gaggi
L’Unità 18-4-2007 Paolo
Mieli ha un incubo: Massimo D'Alema. A. Padellaro
La Stampa 17-4-2007
Torino. Novantamila famiglie senza soldi per l'affitto Marina Cassi
Europa 18-4-2007 Il Pd
nasce senza Repubblica di (f.b.)
Il Riformista 18-4-2007
Sorpresa: niente Repubblica al gala del figlioccio di Fabrizio d’Esposito
+
Il Sole 24 Ore 18-4-2007 Processo Parmalat più leggero. Si allunga la lista dei
patteggiamenti accolti ieri dalla Procura di Parma di Giuseppe Oddo
Si
allunga la lista dei patteggiamenti accolti ieri dalla Procura di Parma
nell'ambito dell'udienza preliminare sulla Parmalat, mentre esce di scena dal
processo il banchiere Ettore Gotti Tedeschi per il quale i pubblici ministeri
hanno anticipato, nel corso della loro requisitoria, la richiesta di
proscioglimento. Gotti Tedeschi, oggi presidente del Banco Santander in Italia,
era stato ascoltato, su sua richiesta, dai magistrati di Parma durante la
precedente udienza, insieme all'avvocato Sergio Erede e all'imprenditore
italoamericano Luis Cayola, a loro volta accusati di concorso in bancarotta.
Egli aveva collaborato nel '90, tramite la Akros, al collocamento in Borsa
della Parmalat, ed era successivamente entrato, rimanendovi per circa un anno,
nel consiglio d'amministrazione del gruppo di Collecchio. Evidentemente i pm
hanno appurato la sua estraneità ai fatti, decidendo per il non luogo a
procedere. La richiesta dei sostituti Vincenzo Picciotti e Silvia Cavallari
dovrà essere comunque esaminata dal giudice per le udienze preliminari,
Domenico Truppa, al quale spetta la decisione finale. Lo stesso Gup dovrà
esprimersi sulle richieste di patteggiamento su cui vi è già stato l'assenso
della Procura, che ad oggi ammontano a 24. Alle diciassette di cui già si
sapeva (su cui si pronuncerà domani un altro giudice, Nicola Sinisi), se ne
sonno aggiunte infatti, ieri, altre sette: quelle di Antonio Bevilacqua (un
anno e 10 mesi), Eric Dailey (2 anni e 2 mesi), Franco Gorreri (4 anni e 10
mesi), Piero Mistrangelo (un anno e 10 mesi), Massimo Nuti (un anno, 5 mesi e
20 giorni), Andrea Petrucci (un anno e 8 mesi) e Andrea Ventura (un anno e 7
mesi). Respinti, invece, i patteggiamenti per Calisto Tanzi — per il quale i
suoi avvocati, nella sorpresa generale,avevano chiesto appena 5 anni — oltre che
per Claudio Baratta, Domenico Barili, Maurizio Bianchi, Ugo Bianchi, Guido
Gerboni, Fausto Tonna e Giovanni Tanzi. Resta sospesa la decisione su Paola
Visconti, che ha chiesto di poter patteggiare 3 anni e 9 mesi, mentre a
Gianpaolo Zini e Luciano Del Soldato è stato accordato il rito abbreviato,con
udienza già fissata per il 29 maggio. Chi sperava nel maxiprocesso della
Parmalat deve ora accontentarsi di un processo snello. Se i magistrati
accoglieranno tutti i patteggiamenti fin qui presentati, 36 dei 62 imputati
originariamente accusati di bancarotta saranno giudicati in sedi separate.
E,grazie all'indulto,nessuno di loro sconterà un giorno di carcere. La
requisitoria dei due pm è proseguita per l'intero pomeriggio di ieri con una
relazione in cinque punti: quotazione in Borsa della Parmalat, sistema delle
falsificazioni e analisi dei bilanci, distrazioni, fonti di finanziamento,
struttura e organizzazione societaria. I sostituti procuratori che hanno
condotto le indagini hanno insistito sul fatto che il solo Tanzi, senza il
concorso di soggetti esterni alla Parmalat, non avrebbe mai potuto attuare un
sistema di falsificazioni così ampio e articolato come quello che ha portato
alla bancarotta il gruppo di Collecchio. E alcuni di questi soggetti, a loro avviso,
vanno proprio ricercati tra le banche creditrici.
+
La Stampa 18/4/2007- Al convegno di Roma i
gruppi base si scagliano contro la Cgil. I fannulloni spaccano il
sindacato. Tavola rotonda alla scuola superiore della pubblica amministrazione.
Flavia Amabile
ROMA
La protesta arriva, puntuale, a metà convegno. Si parla di «fannulloni» nella
pubblica amministrazione, tema caldo, ancor di più per i sindacati. Nei giorni
scorsi, quando la parola incriminata, - quel «fannulloni» - era stata inserita
nel titolo del convegno della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione,
i rappresentanti dei lavoratori avevano affisso volantini all’interno della
sede della Scuola per chiedere le dimissioni del direttore, il prefetto Mauro
Zampini, reo di aver organizzato l’incontro e deciso il titolo, e di non aver
invitato alcun sindacalista a parlare alla tavola rotonda.
Ieri il sindacalista a parlare c’era, ed è stata proprio principalmente contro
di lui che la protesta si è scatenata. «Non vogliamo sentire questa persona!»
tuonano i sindacalisti sparsi tra il pubblico di giovani ed eleganti allievi e
futuri dirigenti della pubblica amministrazione, quando Paolo Nerozzi,
segretario confederale della Cgil prende la parola. «Non ci rappresenta! Parla
per sè stesso!», insistono i ribelli. «Alla camera vi avrebbero già espulsi!»
li avvertono. «Espelleteci, allora!»
La provocazione non viene raccolta. Nessuno viene mandato via. E, fra un
mugugno e l’altro, tra sindacalisti di base e anche qualche confederale,
Nerozzi prosegue nel suo intervento. Prima però, il direttore della Scuola non
manca di sottolineare la stranezza della protesta: «Prendo atto del fatto che
un dibattito che dovrebbe interessare tutti, ha ottenuto critiche dei
sindacati». Bruno Tabacci, deputato dell’Udc, anche lui al tavolo degli
oratori: «Quante persone vivono di politica e sindacato? Almeno
sette-ottocentomila! Quante sigle esistono? Un numero esagerato, senza che si
capisca perché sono nate nè gli obiettivi che difendono». Nerozzi, che il
direttore della Scuola definisce «la punta di diamante» del sindacalismo del
settore, chiarisce di non essere contro il licenziamento dei fannulloni. «Se un
infermiere viene trovato ubriaco in sala operatoria, va licenziato». Se però si
vuole rendere efficiente la pubblica amministrazione bisogna «investire»,
ricorda.
Luigi Nicolais, ministro della Funzione Pubblica, sottolinea i punti deboli del
settore, uno in particolare: la valutazione. «In Italia - avverte - non esiste
la cultura della valutazione», ma per il governo è una priorità e sta pensando
di affidare il compito al Cnel. «Può essere una buona occasione per il suo
rilancio», spiega. Il ministro però tiene a chiarire che «parliamo di
fannulloni solo perché non sappiamo valutare». E’ importante invece «restituire
dignità», fornire «incentivi», «semplificare le leggi», introdurre «trasparenza»,
come il governo sta facendo con i disegni di legge presentati che sono in
discussione in Parlamento. «I tempi della Camera e del Senato sono lunghi ma ce
la faremo», avverte. Infine, per aumentare l’efficienza della pubblica
amministrazione, il ministro ricorda che esiste la tecnologia: «entro il 2008
lo sportello potrebbe essere sotituito dal computer, dal televisore, dal
portatile. E con la creazione di banche dati a disposizione degli uffici, anche
le autocertificazioni dovrebbero essere superate: i dati di cui ha bisogno
l’impiegato sono già in suo possesso. Questo ridurrà di molto il lavoro, i
tempi, le attese».
Il
Corriere della Sera 17-4-2007 Italia, il popolo più infelice
d'Europa. Ai primi posti gli scandinavi, in coda i paesi «mediterranei»
Poca
fiducia nelle istituzioni e nell'avvenire: uno studio della Cambridge
University ribalta lo stereotipo del Belpaese. Francesco
Tortora
STRUMENTI
CAMBRIDGE (REGNO UNITO) - Un tempo era conosciuto come il paese della
«dolce vita» dove, nonostante l'instabilità politica e sociale, si viveva bene
e i suoi abitanti sapevano godersi la vita. Ma qualcosa sarà cambiato nel
Belpaese visto che secondo uno studio condotto nel 2004 da scienziati della
Cambridge University su un campione di 20.000 cittadini del Vecchio Continente
residenti nei 15 Stati che nel 2004 facevano parte dell'Unione Europea, gli
italiani sono il popolo più infelice (guarda la classifica).
STUDIO - Secondo lo studio il popolo italiano non è solo il popolo
più infelice, ma si classifica al quartultimo posto in una parallela classifica
che calcola il tasso di soddisfazione e di appagamento delle popolazioni
europee: gli italiani infatti sono più soddisfatti solo dei francesi, dei
portoghesi e dei greci. L'infelicità dei cittadini del Belpaese deriverebbe
dalla mancanza di fiducia nelle istituzioni, nel sistema sociale e
nell'avvenire. «L'idea che i popoli più felici siano quelli che vivono in
luoghi ameni come quelli che si trovano sul Mediterraneo è falsa» commenta
Luisa Corrado, la ricercatrice che ha guidato lo studio. «Italia, Portogallo e
Grecia sono costantemente agli ultimi posti in questi due classifiche che
segnalano il tasso di felicità e soddisfazione delle popolazioni
europee».
I PIU' FELICI - La classifica ribalta un altro stereotipo: è falso
che le popolazioni nordiche siano infelici, ma è vero il contrario. Il popolo
più felice infatti in Europa è quello danese seguito da quello finlandese e
dagli irlandesi. I danesi raggiungono un livello di felicità pari a 8,3 su un
massimo di 10, mentre finlandesi e irlandesi si fermano rispettivamente a 8,1 e
7,98. Gli Italiani invece, ultimi in classifica, raggiungono un magro 6,27. I
danesi si sentono felici perché hanno una grande fiducia nelle istituzioni e
nel loro sistema sociale. Nonostante la politica danese sia considerata dai
cittadini qualcosa di molto «noioso» essa è apprezzata perché riesce a
mantenere una bassissima disoccupazione e perché al suo vertici vi è la
famiglia Reale, molto amata dai sudditi danesi.
FIDUCIA - L'elemento centrale per essere felici, secondo Luisa
Corrado, non è la ricchezza, ma la fiducia: «Lo studio mostra che avere fiducia
nella società in cui si vive è veramente importante. I paesi che ottengono i
migliori risultati in questa classifica della felicità sono anche quei paesi
che credono nelle proprie istituzioni, nelle leggi e in tutto ciò che
rappresenta il proprio paese». Un altro elemento interessante che si recupera
da questo studio è che le donne europee si dichiarano molto più felici e
soddisfatte della propria vita rispetto agli uomini che vivono nel Vecchio
Continente.
17
aprile 2007
Il Corriere della Sera 18-4-2007
Credibilità zero Di MASSIMO GAGGI
La
British Aerospace ha comprato alcune aziende americane della difesa, ma manager
e ingegneri inglesi non possono avere accesso alle loro tecnologie ritenute dal
Pentagono "strategiche" per la sicurezza nazionale e perciò rese
inaccessibili a qualunque soggetto straniero.
Una
vecchia legge in vigore negli Stati Uniti vieta al capitale estero di
acquistare una compagnia aerea americana. Il magnate australiano Rupert Murdoch
si è dovuto fare cittadino americano per poter costruire un impero mediatico
negli Usa (la rete nazionale Fox, varie "cable tv" e giornali come il
New York Post ). Il liberismo economico che caratterizza il sistema americano
non è assoluto: in alcune aree il possesso di aziende è sottoposto a vincoli
anche più stretti di quelli in vigore in Italia. La vicenda At&t-Telecom,
con la repentina decisione del gigante Usa di ritirare l'offerta per il
controllo della società italiana, danneggia la credibilità del Paese come
possibile partner industriale e finanziario non perché è stato rivendicato il
ruolo strategico di un settore o di un'impresa, ma perché, ancora una volta,
tutto ciò è avvenuto non al momento di fissare regole "uguali per
tutti", ma solo dopo l'offerta lanciata da americani e messicani. Come al
solito la politica italiana scopre l'interesse nazionale - una protezione che,
con modalità e livelli di intensità diversi, c'è in ogni Paese - quando è
troppo tardi. E si considera in diritto di rimettere indietro le lancette
dell'orologio. E' un grosso errore. Nel merito perché, intervenendo "a
posteriori", si finisce sempre per creare un'interferenza politica nelle
dinamiche di mercato: oggi tra gli analisti Usa si parla di ritorno al vecchio
dirigismo italiano e anche di uno sgradevole aroma di antiamericanismo diffuso
da questa vicenda. Ma l'errore è anche nel metodo perché, osservato
dall'esterno, lo spettacolo di esponenti politici che si azzuffano
quotidianamente e di ministri che dichiarano a getto continuo pro e contro
l'affare, è francamente desolante. Probabilmente l'offerta dell'At&t non
sarebbe andata comunque a buon fine, ma chi oggi gioisce per il
"salvataggio della Patria telefonica", dovrebbe riflettere su un
dato: At&t non stava cercando subdolamente il colpo gobbo. E' solo la più
grande società di telecomunicazioni del mondo (vale 242 miliardi di dollari)
che, volendo crescere anche all'estero, aveva individuato la possibilità di
acquisire un importante "asset" europeo con un investimento
abbastanza limitato (2 miliardi di euro). Davanti alla levata di scudi, ha deciso
di rivolgere altrove il suo interesse. A noi rimane la proprietà nazionale
di Telecom e l'immagine di un Paese nel quale è difficile
investire. Incertezza delle regole, scarsa trasparenza, problemi di corruzione
e illegalità dilagante li hanno anche altri Paesi. In genere sono quelli
emergenti, come la Cina. Che riescono comunque ad attirare investimenti: le
imprese rischiano perché lì il costo del lavoro è bassissimo e i mercati locali
stanno crescendo molto rapidamente. L'Italia dovrebbe far parte di un altro mondo:
quello delle democrazie industriali avanzate, che non crescono come l'Asia, ma
hanno l'appeal della tecnologia, della stabilità e della credibilità.
Roma
DOVEROSO Sperare che "almeno un'impresa di telecomunicazioni rimanga
italiana mi sembra un augurio doveroso, poi vinca il migliore". Così Romano
Prodi apre la giornata delle polemiche intorno a Telecom. La
ritirata degli americani dà la stura a un tor- nado di commenti. In campo
politici e le corazzate dell'informazione, mentre riesplode il conflitto di interessi
di Berlusconi che punta sulle telecomunicazioni. Massimo D'Alema - chiamato in
causa nonostante il quasi totale silenzio sulla vicenda - definisce
"deprimenti" le ricostruzioni lette sui giornali. "Vorrei non
aggiungere parole - ha dichiarato il vicepremier - Avendo io detto che ritengo
che non si debba fare ora una legge sulle scatole cinesi e non bisogna dare l'
impressione di voler intervenire su una vicenda economica aperta, ma che,
semmai dopo, discutendone con gli operatori economici, si possa ragionare su
questo, un giornale (il Sole24Ore, ndr) ha scritto che voglio fare un blitz. Mi
astengo dal commentare, altrimenti dovrei dire delle parole sconvenienti".
Anche la sorte toccata a Prodi da parte degli osservatori non lascia molto spazio
all'ottimismo, per la verità. Le accuse di interventismo nel "recinto
sacro" del mercato si sprecano. Da Tokyo il premier misura le parole.
"La partita sarà ancora lunga; credo che avremo una pluralità di
protagonisti in futuro - dichiara - Quindi l'uscita di At&T la giudico nè
positiva nè negativa, ma solo un atto di una lunga commedia, o tragedia, o
film. Ma solo un episodio che non è certo conclusivo". Il premier non si
dice sorpreso del ritiro americano: sembrava un'offerta più messicana, con un
"appoggio esterno" americano. No comment di Prodi su un eventuale
intervento di Intesa, mentre il premier considera positiva la tendenza del
mercato di forte concentrazione nell'area europea. "Le fusioni che ci sono
state dimostrano che si va verso un mercato europeo e parteciparvi sarà
importante".Secondo alcuni osservatori bene informati, l'offerta Usa
serviva più per fare il prezzo che per comprare. E la reazione di Marco
Tronchetti Provera la dice lunga al riguardo ("Pirelli venderà al prezzo
giusto"). Ma il centro-destra cavalca la propaganda della fuga di fronte
alle interferenze politiche, mentre a sinistra tiene banco il "caso"
Mediaset. Scende in campo il presidente della Camera Fausto Bertinotti
"Non è che in Italia esista solo Berlusconi, ci sono altri imprenditori...-
fa notare - Bisogna approvare presto una legge sul conflitto d'interessi".
In appoggio si schiera Giovanna Melandri, che chiede di approvare subito una
legge sul conflitto di interessi. Voce fuori dal coro, quella di Clemente
Mastella: "Non vedo in maniera così disdicevole un ingresso di
Mediaset", ha detto il ministro della Giustizia. In difesa del Cavaliere è
sceso Sandro Bondi, definendo le parole di Bertinotti e del ministro Melandri
"strabilianti". Forza Italia è divisa tra chi si dice certo che
l'ipotesi di uno "sbarco" nei telefoni si esclude, e chi invece crede
che per farlo il leader sarebbe pronto a lasciare la politica. Mediaset non
nasconde che l'operazione sarebbe interessante. Una sorta di interferenza della
politica (straniera) nella vicenda per la verità c'è: è quella
dell'ambasciatore americano Ronald Spogli il quale sottolinea "la forte
presenza del governo negli affari dell'economia in Italia". Inutile
ribattere che ben tre compagnie di telecomunicazioni in Italia sono straniere.
"Alla politica spetta dettare le regole" dichiara in serata Vannino
Chiti, riportando in prima linea la questione della rete. Un tema niente
affatto nuovo: era aperto almeno dall'estate scorsa. Tutti ricordano il caso
Rovati.
L’Unità
18-4-2007 Paolo Mieli ha un incubo: Massimo D'Alema. A. Padellaro
Ci
duole rivelarlo ma davanti all'evidenza di una vera e propria sindrome dai
tratti ossessivi, come tacere? Mieli vede D'Alema dappertutto. O meglio ne
intravede ovunque l'ombra e il baffo ostile. E dietro l'ombra la macchinazione,
l'intrigo, il maneggio. E subito ne è tormentato, e più l'assillo cresce e più
la malinconia lo avvolge come un sudario. Per quale motivo non sapremmo dire,
ma un motivo ci sarà. Lunedì scorso, per esempio, quando il direttore del
Corriere della sera ha letto l'articolo de l'Unità dedicato alla cordata
Colaninno-Berlusconi per Telecom, subito (se lo conosciamo bene)
l'istinto giornalistico gli avrà suggerito apprezzamento per la notizia
esclusiva e ben argomentata; qualità che da buon direttore non ha mai smesso di
pretendere dai suoi redattori. Ma un momento dopo, immaginiamo, ecco che come
un chiodo puntuto il sospetto avrà preso a straziarlo. Cosa nasconde, in
realtà, quella notizia? Quale congiura? Quale comunista inciucio? Spettrale
l'ombra del baffo gli si è manifestata. E dunque bisognava indagare,
controllare, aguzzare la vista. Le linci dattilografe non mancano al Corriere.
Il più adatto sarebbe stato Battista. Ma, chissà, forse era impegnato a
disvelare i crimini di Menenio Agrippa e della sinistra della plebe. Così come
Ichino stava facendo con la sinistra fannullona. E Panebianco con la sinistra
talebana. Fu allora che Mieli chiamò Sergio Romano, e s'alzò alto un nitrito.
Era il baio che l'ambasciatore cavalcava, come ogni mattina, nella bruma prima
di dedicarsi all'epistolario intrattenuto con il barone Otto von Bismarck sulla
battaglia di Sadowa.
Scherziamo
naturalmente. Ma il resto è tutto vero e tutto stampato. Sotto il titolo
"La commistione", l'editoriale di prima pagina del
"Corriere" di ieri, martedì 17 aprile 2007, rappresenta un infondato,
pretestuoso, offensivo processo alle intenzioni contro un giornalista, Rinaldo
Gianola, e contro un giornale, il nostro. Periodo dopo periodo, frase dopo
frase si procede per insinuazioni, allusioni, malignità. Il tutto appeso ai
cattivi pensieri dell'estensore e del suo committente. Il commissario Romano è
insospettito dal "tono leggero del giornalista" e dal "pizzico
di distaccata ironia" con cui comunica le sue informazioni ai lettori. E
poi, eh eh, "il conflitto di interessi di Berlusconi e le possibili
ricadute politiche di tale operazione, trattati con levità e garbo". Prove
schiaccianti, diciamolo, del complotto tra "finanza rossa e finanza
azzurra", ordito dal duo Colaninno-Berlusconi, lanciato
dall'"Unità", benedetto da Massimo D'Alema. Quest'ultimo ritratto,
non a caso, accanto all'attuale presidente della Piaggio, che fu già
proprietario di Telecom nel '99 quando, guarda un po', lo
stesso D'Alema era presidente del Consiglio. A condire l'inesorabile
requisitoria di Romano alcuni stravaganti riferimenti ai modi bruschi con cui Putin
ha disperso i manifestanti di Mosca e San Pietroburgo con il sostegno di
Berlusconi, e al compromesso storico di Berlinguer. Infine, l'ambasciatore,
prima di tornare a colloquiare con il principe di Metternich e il sultano di
Costantinopoli si lascia cogliere da un attimo di commozione immaginando lo
sgomento e l'indignazione dei fedeli lettori de "l'Unità" davanti a
un simile scempio. A rileggerlo, un perfetto monologo da teatro dell'assurdo.
Da rappresentare con alcune comparse appese ai lampadari e l'irruzione
dell'apposito personale sanitario. E mentre cala il sipario immaginiamo Paolo
Mieli e Sergio Romano impegnati a discutere con l'azionista di riferimento
Marco Tronchetti Provera sul tema suggerito giorni fa da Guido Rossi: Chicago
anni Venti, la notte di san Valentino e l'etica del capitalismo. apadellaro@unita.it.
La
sorpresa è arrivata ieri dalla presentazione delle dichiarazioni dei redditi
dei membri del governo in carica. Antonio Di Pietro e Marco Tronchetti Provera sono
stati controparte in affari. Sì, proprio i due nemici acerrimi nel caso Telecom di
queste ore. E chissà se la trattativa precedente non abbia inciso
sull'atteggiamento di questi giorni. Il ministro delle Infrastrutture ha
infatti comprato casa proprio dall'azionista principale del gruppo telefonico.
Una lunga trattativa condotta fra la An.to.cri. srl interamente posseduta da Di
Pietro e la Iniziative immobiliari di Gavirano del gruppo Pirelli Real estate.
Che alla fine ha portato alla vendita di un appartamento in via Felice Casati
1/A a Milano., con garanzia di un mutuo Bnl (...) Quel mutuo per una casa di 9
vani ha 15 anni di durata, un valore di partenza di 300 mila euro da restituire
in rate semestrali di 12.580, 48 euro a tasso di interesse variabile: una quota
fissa pari a 0,90 punti per anno e una variabile costituita dal tasso Euribor
semestrale arrotondato allo 0,05% superiore. L'immobile è stato affittato da Di
Pietro al movimento politico da lui presieduto, l'Italia dei Valori, che di
affitto paga qualcosa in più delle rate del mutuo dovute. Stessa operazione Di
Pietro padrone di casa- Italia dei valori in affitto per somme appena superiori
è stata compiuta a Roma sempre dalla stessa società familiare del ministro, la
An.to.cri. srl (sono le iniziali dei tre figli, Anna, Toto e Cristiano).
L'appartamento acquistato è un po' più grande (10,5 vani), il mutuo è stato
erogato ancora una volta dalla Banca nazionale del lavoro, e l'inquilino
destinato con il suo affitto ad ammortizzare l'investimento del ministro è
proprio l'Italia dei valori. In tutto la società di Di Pietro, che peraltro è
amministrata dal tesoriere del movimento politico, Silvana Mura e dal marito,
Claudio Bellotti, ricava qualcosa in più di 60 mila euro all'anno. Per comprare
il primo e il secondo immobile e garantire la gestione della società Di Pietro
ha però dovuto aprire e non poco il borsellino di famiglia (i mutui sono
concessi alla società e non a lui), versando a titolo di finanziamento da parte
del socio unico la bellezza di un milione e 183 mila euro. Le finanze del
ministro delle infrastrutture non si sono dissanguate per questo. C'è stato
spazio infatti per un altro acquisto, addirittura in Bulgaria, dove Di Pietro
ha rilevato il 50% di una società di Varna, la Suco. Una discreta attività per
il rappresentante di un governo che per la sua prima uscita pubblica davanti al
fisco ha preferito tenere un profilo più che basso. Quasi tutti i ministri e i
sottosegretari hanno partecipazioni immobiliari e mobiliari di tutto rispetto,
ma da Romano Prodi in giù il reddito imponibile dichiarato all'esordio risulta
notevolmente più basso di quello dei predecessori (Silvio Berlusconi a parte,
con cui non c'era proprio gara...)
Bruxelles.
L'Italia resta al palo sul fronte della competitività. Lontana anni luce da
Stati Uniti e Giappone, si conferma ultima tra i Paesi più sviluppati dell'Ue.
Non solo: per capacità di attrarre investimenti si piazza al diciottesimo
posto, dopo Paesi come Ungheria, Grecia, Turchia, Polonia e Repubblica Ceca. La
fotografia è quella scattata da uno studio della fondazione Ambrosetti, dal
quale emerge un dato preoccupante: negli ultimi due anni l'Italia non ha fatto
significativi passi in avanti sul fronte del funzionamento del sistema-Paese,
mantenendo la stessa posizione in classifica del 2005. Anzi, allarma il fatto
che alcuni degli aspetti più penalizzanti per la competitività continuino ad
avere un andamento negativo. Un trend che ci allontana sempre più dai nostri
partner europei e dai nostri principali concorrenti extra-Ue: tasse e
costo del lavoro troppo elevati - a partire dal cuneo fiscale e contributivo - caro
energia che non ha eguali nel resto d'Europa, poche risorse pubbliche
per lo sviluppo di ricerca e innovazione. Ma sul banco degli imputati ci sono
anche le istituzioni finanziarie, la cui trasparenza appare minata dagli
scandali degli ultimi anni, soprattutto agli occhi degli investitori stranieri.
Non a caso il dato più allarmante del rapporto Ambrosetti è quello che vede
l'Italia maglia nera in Europa proprio sul terreno della
capacità di attirare business. Ad allontanare i potenziali investitori è soprattutto
l'elevato livello della tassazione sulle imprese - da quelle sui profitti ai
contributi sociali e previdenziali - che pone il nostro Paese al primo posto
tra i Paesi industrializzati. A scoraggiare chi vorrebbe 'sbarcarè nel nostro
Paese sono poi la bolletta energetica pagata dalle industrie (più alta solo in
Turchia e in Giappone) e il costo della burocrazia, soprattutto per quel che
riguarda l'avvio di nuove attività. Ma a rendere poco appetibile il nostro
Paese è anche la cornice finanziaria, dai tassi di interesse a breve e lungo
termine alla trasparenza delle stesse istituzioni che dovrebbero regolare e
vigilare: l'Italia è al diciannovesimo posto, dopo il Portogallo e di poco
davanti a Slovenia, Turchia e Ungheria. Ma a frenare la competitività ci sono
altri fattori, che pure negli ultimi anni hanno fatto registrare dei
miglioramenti: la carenza di infrastrutture, la struttura demografica (basso
tasso di fertilità e popolazione anziana in aumento ci pongono al ventottesimo
posto tra i Paesi più sviluppati), legalità e sicurezza dei cittadini, un'età
pensionabile ancora troppo bassa rispetto alla media europea.
La Stampa 17-4-2007 Torino. Novantamila
famiglie senza soldi per l'affitto MARINA CASSI
Accanto
a chi fatica a trovare una casa decente a un prezzo non da incubo ci sono
migliaia di alloggi vuoti: 424 mila in Piemonte e 33.500 a Torino e
provincia
TORINO
Poveri inquilini. Che fatica pagare l’affitto e le spese della casa. Oltre 90
mila famiglie torinesi non ce la fanno e sono in condizioni di seria o grave
difficoltà. Lo sostiene la Cisl che ha analizzato - ieri in un convegno del suo
sindacato inquilini, il Sicet - una ricerca sul disagio abitativo realizzata
dal Cicsene.
Il quadro che viene fuori è bruttino: il 26% delle famiglie torinesi che abita
in locazione soffre di disagio economico; il che vuol dire che una su quattro
stenta a arrivare a fine mese, e di queste il 17,5 può essere considerata in
condizioni di povertà. Giovanni Baratta, segretario del Sicet, spiega che
questo piccolo esercito è composto «da anziani soli, da madri e padri single
con figli a carico, da giovani ai margini del mercato del lavoro, da
immigrati». E aggiunge: «Una società deve porsi l’obiettivo di dare una
abitazione adeguata a tutti e con un affitto che le persone siano in grado di
pagare».
Gli affitti, si sa, sono aumentati costantemente: nel 2001 il Comune con la sua
sezione statistica valutava che l’affitto medio per stanza fosse di 105 euro al
mese, già diventati 126 nel 2006. E poi questa è solo una media. La ricerca
della Cisl racconta una realtà variegata tra i vari quartieri, ma con una media
di 630 euro mensili. Il Centro Crocetta è la zona meno accessibile, con un
canone medio di circa 780 euro mensili. Santa Rita si attesta su 620 euro, San
Paolo sui 606 euro. Le circoscrizioni 4, 5, 6 e 7 che sono le più periferiche,
ovviamente costano meno. In Borgata Vittoria, Vallette e Madonna di Campagna un
canone medio è di poco inferiore ai 510 euro. Mentre a Lingotto e Mirafiori
Nord si oscilla tra 630 e i 575 euro. Prezzi che incentivano anche l’aumento
degli sfratti per morosità: 1.943 lo scorso anno.
Accanto a chi fatica a trovare una casa decente a un prezzo non da incubo ci
sono migliaia di alloggi vuoti: 424 mila in Piemonte e 33.500
a Torino e provincia. Un paradosso che si somma al paradosso di una città
che è tutta un fiorir di cantieri da cui però sono esclusi i più poveri. E
Baratta dice: «E’ vero che negli ultimi anni si sono edificati molti alloggi,
ma troppo pochi di edilizia pubblica. Con le Olimpiadi si è persa un’occasione
storica: il riutilizzo delle aree industriali dismesse doveva portare alla
costruzione di più case popolari. Se l’eredità olimpica ci avesse lasciato 2
mila appartamenti anziché 550 forse sarebbe finita l’emergenza abitativa».
Che la difficoltà economica si stia estendendo lo rileva da tempo anche l’Atc
che vede andare in crisi famiglie che prima riuscivano a pagare il canone
sociale che è peraltro rapportato al reddito. Crescono i morosi veri, quelli
che proprio non ce la fanno. E per queste persone il vicesindaco Tom
Dealessandri ipotizza interventi misti pubblico-privato per aiutare o chi va in
difficoltà momentanea e rischia di non riuscire a pagare il mutuo con la
possibilità di perdere la casa o chi ha dei buchi di reddito. E poi
naturalmente c’è la proposta - che è anche del Sicet - di estendere
l’esperienza di Locare, il contratto garantito dal Comune che incentiva il
proprietario a affittare la propria casa.
Europa
18-4-2007 Il Pd nasce senza Repubblica di (f.b.)
Sette
giorni consecutivi di sciopero dei giornalisti del quotidiano più letto
d’Italia nella settimana cruciale dei congressi in cui Ds e Margherita danno il
via al Partito democratico: a memoria, una contesa più aspra di questa si
ricorda solo negli anni ’70 alla Stampa, quando i poligrafici decisero 18
giorni di fermo.
A Repubblica i giornalisti hanno deciso di rispondere così a quella che
ritengono l’ennesima provocazione del loro editore, sedicente «tessera numero 1
del Pd», che, dicono agita convinzioni liberal fuori di casa per mostrare
invece il pugno di ferro fra le mura domestiche.
La vertenza fra i redattori di Repubblica e Carlo De Benedetti è datata e ruota
attorno alle questioni di sempre: l’organizzazione del lavoro a fronte
dell’espansione multimediale del gruppo, la defi- nizione del contratto
integrativo collegata al mancato rinnovo di quello nazionale. L’editore ha
negato sempre il confronto. Sicché, quando ha respinto l’ultima piattaforma
proposta dal cdr, specifi- cando che non sostituirà i giornalisti in
malattia per gravi motivi, la bomba è scoppiata. La redazione è compatta, lo
sciopero è stato votato da oltre 200 giornalisti che hanno annunciato che
domani saranno a Firenze, al congresso Ds, per leggere un documento in cui
chiederanno al governo di intervenire sul contratto nazionale. Chiara anche
l’intenzione di «coinvolgere» Ds e Dl nella contesa: in effetti, la notizia che
i due congressi non avranno la copertura proprio di Repubblicaè un problema per
i due partiti.
Ma il clima è esasperato anche da questioni legate alla vicenda Mastrogiacomo.
Dopo l’assassinio dell’autista e dell’interprete la redazione, con il forte
sostegno di Ezio Mauro, ha raccolto 80 mila euro per le famiglie, chiedendo
all’editore di partecipare.
È arrivato un altro niet «in nome della tutela dei giornalisti in Afghanistan».
Argomento che non convince i giornalisti, i quali temono che nasconda piuttosto
una sconfessione della linea del direttore. Qualcuno arriva a chiedersi se non
si stia per caso covando un cambio di vertice. Va detto che se c’è un risultato
che quel no ha prodotto, è stato proprio il ricompattamento della redazione con
la direzione: fatto non scontato.
De Benedetti tace. Alcune stime dicono che questi sette giorni gli costeranno
parecchio: fra mancate vendite e pubblicità, più di sette milioni di euro.
Probabilmente non parlerà nemmeno oggi, all’assemblea dei soci del gruppo
Espresso-Repubblica convocata presso la Fieg. Un silenzio che fa pensare che
voglia tirare dritto.
Il
Riformista 18-4-2007 Sorpresa: niente Repubblica al gala del figlioccio di
Fabrizio d’Esposito
La battuta più efficace arriva mentre sta parlando Paolo Serventi Longhi,
segretario della Fnsi, il sindacato unitario dei giornalisti. Serventi Longhi
sta rivolgendo un appello ai leader politici amici della tessera numero uno del
futuro Partito democratico. In pratica un messaggio diretto a Walter Veltroni e
Francesco Rutelli: «Perché non chiedono a Carlo De Benedetti e a suo figlio
Rodolfo se la situazione di Repubblica e dell’intero gruppo Espresso non vìola
e mortifica il manifesto del Pd laddove parla di democrazia nei luoghi di
lavoro, corrette relazioni sindacali e partecipazione attiva dei lavoratori?».
A quel punto dal fondo della saletta si alza una voce che corregge il
segretario della Fnsi: «Perché invece non gli chiedono di restituire la tessera
numero uno?». Piano meno uno della sede di Repubblica al civico novanta di via
Cristoforo Colombo. Il comitato di redazione del quotidiano di Ezio Mauro ha
convocato una conferenza stampa per spiegare le ragioni dello sciopero di sette
giorni indetto lunedì scorso. E cioè la decisione della proprietà, il gruppo
editoriale L’Espresso spa presieduto dall’Ingegnere, di non concedere
sostituzioni per malattie lunghe (infortuni, tumori e maternità a
rischio).
Al di là però del motivo specifico, così come già accaduto a dicembre quando
dalle tredicesime furono decurtati i giorni di sciopero per il contratto
nazionale, la protesta del principale giornale-partito italiano assume una
forte valenza politica. Primo perché lo sciopero cade in un grande momento di
svolta segnato dai congressi di Ds e Margherita che sanciranno la nascita del
Pd, di cui il quotidiano di via Cristoforo Colombo può considerarsi il padre
putativo. Poi perché lo scontro tra l’azienda della tessera numero uno del Pd e
le redazioni del suo gruppo (in difficoltà non ci sono solo i giornalisti di
Repubblica) è ormai così forte e visibile da essere diventato un caso
imbarazzante e delicato per i vertici di Quercia e Margherita.
Come riassume bene un autorevole deputato ds: «In questo scontro noi stiamo
dalla parte dei giornalisti, ma il problema è che non si può parlare male di De
Benedetti. Guai a farlo. Chi di noi si è esposto in tal senso si è preso una
bella ramanzina da Fassino». Dice, invece, a microfoni aperti, Roberto Cuillo,
responsabile informazione dei Ds e fedelissimo del segretario: «Noi abbiamo
solidarizzato più volte con la redazione di Repubblica, dove da tempo è in
corso una vertenza aspra e lunga con l’editore. Ma lo sciopero durante i due
congressi rischia di fare male più a noi che a De Benedetti». Sulla stessa
linea anche il rutelliano Renzo Lusetti, omologo di Cuillo nella Margherita:
«Questo sciopero ci mette in seria difficoltà nel corso di un passaggio
epocale, storico. Ai giornalisti, cui pure abbiamo manifestato la nostra
solidarietà, chiediamo di differire lo sciopero». Ma difficilmente la richiesta
dei due partiti fondatori della nuova creatura politica sarà accolta
dall’assemblea dei redattori del quotidiano di Mauro. Ieri, infatti, durante la
conferenza stampa i giornalisti di Repubblica non solo hanno confermato l’intenzione
di non mollare («Non cederemo mai sulla dignità del nostro lavoro») ma per la
prima volta hanno anche steso sotto gli occhi di tutti i panni sporchi di
famiglia. In questo senso, l’intervento più appassionato e chiaro è stato
quello di Mauro Piccoli, uno dei veterani del giornale.
Piccoli ha rivolto a Carlo De Benedetti tre domande devastanti. La prima sulle
voci che riferiscono di un scontro violento tra l’Ingegnere e suo figlio
Rodolfo, supportato dall’amministratore delegato Marco Benedetto, intorno alle
strategie editoriali della famiglia. In pratica l’asse RDB-Benedetto vorrebbe
tagliare e vendere per concentrarsi su altri interessi (Alitalia, energia
elettrica, autostrade). Ecco quindi Piccoli: «Questo giornale, negli ultimi due
anni, è tornato in testa alle classifiche di vendita, superando il Corriere
della Sera, e vanta un bilancio ampiamente in attivo. Tutto ciò è stato
raggiunto da questa direzione e da questa redazione. E allora mi chiedo se sia
giusto tenere così a stecchetto la redazione. O forse dobbiamo ritenere vero
quello che si sussurra nei corridoi e cioè che c’è un contrasto nella famiglia
De Benedetti dove c’è chi il giornale lo vuole vendere?». La seconda questione
è molto scivolosa, perché riguarda il rifiuto della proprietà di aderire alla
sottoscrizione lanciata da Mauro a favore delle famiglie dell’autista e
dell’interprete afghani di Daniele Mastrogiacomo, uccisi dai talebani durante e
dopo il sequestro dell’inviato di Repubblica: «Per la sottoscrizione l’azienda
non ha messo una lira. A precisa richiesta ha detto no, ufficialmente per
tutelare i giornalisti da possibili ritorsioni. Mi chiedo se dietro non ci sia
dell’altro come la sconfessione della linea tenuta da Ezio Mauro nella vicenda
Mastrogiacomo. Forse l’azienda vuole abbreviargli la proroga del mandato di
cinque anni, visto che Mauro non è un direttore da tagli e da multimedialità
selvaggia?». Infine una richiesta esplicita di dimissioni al falco Benedetto,
l’ad del gruppo: «Quando a dicembre facemmo due giorni di sciopero contro i
tagli alle tredicesime, vincemmo poi la battaglia e in quell’occasione si
vociferò di una minaccia di dimissioni da parte dell’amministratore delegato.
E, chiedo, se viene sconfessato ancora una volta, non riterrà opportuno doversi
dimettere?».
Insomma, un clima da guerra, in cui il direttore Mauro, dicono anonimamente
alcuni giornalisti, sarebbe schierato con la redazione (ma dall’azienda fanno
sapere in maniera ufficiosa che il direttore è «allineato perfettamente») e il
fondatore Scalfari con la proprietà. Come che sia, la tribù di Repubblica non
seguirà i due congressi storici di Ds e Margherita. Meglio, una pattuglia di
cronisti sarà presente. Ma per chiedere ai vertici del futuro Pd se il loro
editore è degno della tessera numero uno, non per scrivere.
INDICE 17-4-2007
++ Primadinoi.it
17-4-2007 Crack Finmek: Gdf sequestra beni per 15 mln euro
+ AgenParl 17-4-2007 VENGO
E ME NE VADO…AD APRIRE IL MIO CANTIERE
+ AgenParl 17-4-2007
CAMERA: BERLUSCONI E' PAPERONE, PRODI DEPUTATO PIU' 'POVERO'
Il Piccolo di Trieste
17-4-2007 L'ombra del Cavaliere. Alfredo Recanatesi.
Europa 17-4-2007 Il
dolcissimo Putin di Silvio di FEDERICO ORLANDO
L’Unità 17-4-2007
Democratico sì ma anche laico?
Il Riformista 17-4-2007
Reichlin, Scalfari e la sindrome da male inevitabile di Emanuele Macaluso
Primonumero.it 16-4-2007
Le case si moltiplicano ma i termolesi non le comprano di Daniela Fiorilli
++ Primadinoi.it 17-4-2007 Crack Finmek: Gdf sequestra beni per 15 mln euro
Inviato
da Redazione (113 letture)
VENEZIA.
Beni per 15 milioni di euro sono stati posti sotto sequestro dal Nucleo
Tributario della Guardia di Finanza di Venezia nell'ambito di un'inchiesta del
tribunale di Padova sul crack della Finmek, che vede tra gli indagati Carlo
Fulchir e Roberto Tronchetti Provera (fratello di Marco Tronchetti Provera). I
militari delle Fiamme gialle hanno messo i sigilli, tra l' Italia e l'Austria,
a due ville, una barca, conti correnti bancari e 22 partecipazioni societarie.
Quello di stamattina è un nuovo passo in avanti delle indagini, coordinate dal
pm Paola De Franceschi, iniziate nel 2005 dal pm Bruno Cherchi sul crack del
gruppo Finmek, l’azienda di ingegneria elettronica delle telecomunicazioni con
sede a Padova, a seguito dell'emissione di un bond per 150 milioni di euro.
Il sequestro dei beni di oggi, disposti dal gip padovano Cristina Cavaggion, si
accompagna a nuovi avvisi di garanzia per lo stesso Fulchir, 45 anni, di Buja
(Udine), Paolo Campagnolo, 43 anni, di Cittadella (Padova) e sua moglie Doris
Nicoloso, 45 anni, e Guido Sommella, 61 anni, di Roma, già coinvolti nella
prima tranche dell'inchiesta. Sono tutti accusati di malversazione, riciclaggio
e frode fiscale.
I finanzieri hanno potuto accertare che il Gruppo Finmek aveva nel tempo fatto
una serie di acquisizioni societarie, finalizzate allo sviluppo di grossi
progetti imprenditoriali, usufruendo anche di consistenti contributi pubblici,
senza provvedere al ripianamento delle situazioni di crisi esistenti.
Inoltre sarebbe stata creata una ragnatela di società, tra l' Italia e
l'estero, con l'obiettivo di svuotare le risorse, e quindi portando di fatto
all'inevitabile fallimento del gruppo. La Finmek aveva usufruito, e usufruisce
tuttora, dei benefici finalizzati al salvataggio delle grandi aziende in crisi,
già applicati alla Parmalat.
LE SOCIETA’ COINVOLTE
Le società coinvolte nel crack, facenti tutte parti del gruppo, sono dislocate
tra l’Abruzzo e la Campania, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria.
Tra le più note Telit, ex Olivetti, Italtel, Ixtant e Ixfin. Già due anni fa la
Guardia di finanza veneziana aveva accertato che il passivo della Finmek era di
circa un miliardo di euro, con oltre 11 mila istanze di creditori. Il crack
mise sulla strada quasi 4 mila dipendenti. Le indagini delle Fiamme gialle si
sono sviluppate anche attraverso rogatorie internazionali tra Lussemburgo,
Svizzera, Regno Unito, Madeira, Isola di Man, Gnernsey, Austria e
Romania.
DICHIARATA INSOLVENTE NEL 2004
La Finmek, , era stata dichiarata insolvente il 12 maggio 2004 e ha potuto
beneficiare del decreto del ministro Antonio Marzano. Il gruppo, presieduto
all' epoca da Roberto Tronchetti Provera, avrebbe acquistato e ceduto aziende,
disperdendo capitali che hanno portato la società al fallimento.
Le manovre societarie, nell'ipotesi dell'accusa, avrebbero fatto diventare
carta straccia i bond emessi dalla Finmek nel 2001 per un valore di quasi 150
milioni di euro. Nell'inchiesta furono indagate 14 persone tutte variamente
coinvolte nella gestione del gruppo Finmek, accusate di bancarotta fraudolenta.
Tra queste appunto Fulker, ex consigliere economico per l' innovazione
tecnologica nel governo d'Alema e nel contempo socio di Marcello dell'Utri
nella società editoriale "Il domenicale".
LE PREOCCUPAZIONI DELL’AZIENDA
Il ministero dello Sviluppo Economico é al lavoro per trovare «soluzioni
industriali credibili» per i siti produttivi della Finmek, tra cui quelli
dell'Aquila e di Sulmona. Presso la sede del dicastero si è infatti svolto oggi
un incontro con presenti Franco Raffaldini, per il Ministero, il Commissario
Vidal e i rappresentanti delle organizzazioni sindacali nazionali, territoriali
e aziendali di Fim, Fiom Uilm.
I delegati sindacali, si legge in una nota, hanno manifestato «forti
preoccupazioni sulle prospettive industriali e occupazionali, in particolare
per gli stabilimenti dell'Aquila, Sulmona, Santa Maria Capua Vetere e Pagani,
segnalando inoltre con fermezza il problema della scadenza dei termini previsti
dalla legge Marzano per la fine di Agosto 2007».
Raffaldini ha invece illustrato l'attività svolta «alla ricerca di soluzioni
industriali credibili nei diversi siti produttivi e ha ricordato le possibilità
offerte dall'utilizzo dei nuovi strumenti di protezione sociale previsti in
Finanziaria, quali la mobilità lunga e gli sgravi contributivi per gli assunti;
si è altresì impegnato a verificare nuove ipotesi che aiutino il completamento
positivo di processi d'industrializzazione».
Entro il 10 Maggio è prevista la convocazione di un nuovo incontro presso il
Ministero dello Sviluppo.
GUARDA L'INCHIESTA DI REPORT
17/04/2007 14.10
+ AgenParl 17-4-2007 VENGO E ME NE VADO…AD
APRIRE IL MIO CANTIERE
Roma, 17 Aprile 2007 – AgenParl – Mussi ha
deciso. Andrà a Firenze al Congresso della Quercia per salutare i vecchi
compagni e soprattutto per annunciare che lasciando “il partito che non c’è” lo
riaprirà per dare una casa alla sinistra italiana.
Il correntone quindi aprirà un nuovo cantiere che, secondo il progetto dei suoi
leader, dovrà convogliare in un unico contenitore di tutti i cespugli della
diaspora socialista e diessina che, in un modo o nell’altro, si riconoscono
nell’appartenenza al filone del Pse e cioè nel socialismo europeo di
intonazione social-democratica.
Su questa linea, Mussi pensa di raccogliere sia i socialisti dello SDI che
quelli che con De Michelis hanno abbandonato la Casa delle Libertà.
Questo progetto, naturalmente sconvolge i piani del cantiere bertinottiano che
era stato aperto proprio allo scopo di offrire al correntone una nuova
allocazione.
Allocazione che però comporterebbe l’uscita dal PSE per aderire al gruppo della
“Sinistra Europea” costituita a suo tempo da Rifondazione Comunista e dal
Partito Socialista tedesco di La Fontaine e di Gysi.
Quindi sulla nuova formazione che i “fuoriusciti” costituiranno, abbandonando
il Congresso di Firenze, dovrebbero confluire, come già accennato, oltre alle
schegge della diaspora socialista anche i Verdi il cui leader Pecoraro Scanio
ha precisato ancora una volta che il suo partito “non fa parte della sinistra
alternativa”.
Il che lascia ritenere che del cantiere di Bertinotti faranno parte soltanto il
PRC e il partito dei Comunisti Italiani.
+
AgenParl 17-4-2007 CAMERA: BERLUSCONI E' PAPERONE,
PRODI DEPUTATO PIU' 'POVERO'
Roma, 17 Aprile 2007 – AgenParl
– Anche quest'anno Silvio Berlusconi si conferma il piu' ricco tra i
leader politici alla Camera. Per il 2005 il presidente di Forza Italia ha
dichiarato 28.033.122 euro. Per il 2004 il suo reddito era di 3.550.391 euro.
Il leader piu' 'povero' e' invece il presidente del Consiglio Romano Prodi: ha
dichiarato 89.514 euro.
E' quanto si evince dalle dichiarazioni dei redditi per il 2005 dei deputati.
Fra i leader alla Camera, Berlusconi e' seguito da Francesco Nucara (Pri,
289.255), dall'ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini (Udc,
214.787), e da Gianfranco Fini (An, 200.677).
In fondo alla classifica, Prodi e' preceduto solo da Franco Giordano (Prc,
penultimo con 129.569 euro) e Francesco Rutelli (Dl, terzultimo con 132.500).
Ecco, di seguito, la classifica dei redditi per il 2005 dei leader di
partito eletti alla Camera dei deputati.
Il Sole 24 Ore 17-4-2007 Telecom: AT&T
si ritira, resta in corsa America Movil. Carlo Buora: sulla rete piena fiducia
nell'Authority. Grillo ai vertici: "Dimettetevi". Speciale assemblee:
il bilancio Telecom Il caso Telecom: cronaca, analisi e commenti del Sole
Ore
23,20 Buora: modello rete manterrà proprietà nel gruppo Il modello da adottare
per quanto riguarda il futuro della rete di Telecom punterà "a mantenere
ben salda la proprietà" in capo al gruppo di tlc. Lo ha riferito il
vicepresidente esecutivo di Telecom Italia Carlo Buora
replicando alle domande poste dagli azionisti nel corso dell'assemblea.
"Il modello che verrà raccomandato all'Autorità - ha spiegato Buora -
manterrà ben salda in Telecom Italia la proprietà della
rete" e prevederà "una modalità di accesso alla rete" che si
rifà al "cosiddetto modello inglese openreach". Nessuna indicazione
sul valore della rete "Non è una società a se stante oggi - ha proseguito
Buora - quindi non si possono fornire elementi qualitativi e quantitativi. Il
valore dell'asset rete non è pertanto individuabile". Ore 22,30 Buora: sul
riassetto non siamo parte in causa Carlo Buora, vice presidente esecutivo,
respinge con cortesia le domande sul riassetto di Olimpia dopo il ritiro di
At&T dalle trattative per l'acquisto di un terzo della holding che
controlla il 18% di Telecom. "Su Olimpia e sul suo riassetto non siamo
parte in causa" ha detto Buora rispondendo alle domande degli azionisti.
Ore 22,15 Buora a Grillo: non approvo le gravi contestazioni Beppe Grillo deve
assumersi la responsabilità di quello che ha detto oggi al suo intervento
all'assemblea di Telecom Italia "ad ogni effetto di
legge": infatti, secondo il vicepresidente esecutivo della società
telefonica Carlo Buora, "la sua stanchezza per aver passato, come ha detto
lui stesso, la notte fuori dai cancelli, non giustifica la gravità delle
contestazioni, che naturalmente non approvo". Dopo molte ore dal suo
intervento, è con queste parole che Buora ha replicato alle durissime critiche
del comico genovese, ribattendogli punto per punto. In particolare, sul tema
dell'inchiesta della procura di Milano sulla security della società, Buora ha
ricordato che si tratta di "comportamenti deviati di dipendenti infedeli:
non esistono controlli che non possano essere elusi. Non intendo sminuire la
gravità di quanto accaduto - ha proseguito Buora - e le procedure e i sistemi
di controllo sono stati ora ulteriormente arricchiti. Non mi sento affatto
colpevole di quanto accaduto - ha concluso il vicepresidente di Telecom - se no
non mi troverei qui, al contrario, mi ritengo a mia volta vittima di
raggiri". Ore 22 La replica di Buora: sulla rete piena fiducia
nell'Authority Telecom Italia conferma "piena fiducia
nell'Authory e auspica che le decisioni che prenderà in futuro tengano conto
della tutela degli investimenti della società". Così il vicepresidente
Carlo Buora ha risposto agli azionisti che gli hanno chiesto durante
l'assemblea chiarimenti a proposito del futuro della rete. "La società -
ha proseguito Buora - auspica parità di trattamento interno ed esterno per
accesso rete" confermandi che "il management interverrà per tutelare
il valore di un asset di cui è liberamente e totalmente proprietaria". Il
vicepresidente del gruppo di Tlc ha parlato della rete come di "asset
strategico del quale in futuro il consiglio di amministrazione si occuperà con
l'Authority" con la quale ha ricordato che "da novembre scorso sono
in corso contatti a questo fine". In particolare ha sottolineato
l'attività di una task force tecnica istituita nel dicembre 2006 "per
coordinare i lavori con Telecom per l'apertura della rete" Ore 21,45
Pirelli "prende atto" del ritiro di AT&T Pirelli & C. SpA
prende atto del ritiro dell'offerta presentata lo scorso 1 aprile da AT&T
per un terzo del capitale di Olimpia, motivato con le possibili difficoltà
regolatorie connesse all'operazione. La società prende altresì atto della
contestuale intenzione di América Móvil di continuare, congiuntamente a
Teléfonos de México S.A.B de C.V.("Telmex"), a considerare differenti
alternative per un potenziale investimento in Olimpia. Pirelli & C. SpA,
inoltre, ribadisce "l'intenzione di esplorare tutte le possibili opzioni
per la migliore valorizzazione strategica dell'asset nell'interesse di tutti
gli azionisti, e di continuare, nel frattempo, a operare affinché Olimpia
continui a esercitare pienamente i propri diritti e doveri di azionista di
Telecom Italia". Ore 20,25 AT&T ufficializza la rinuncia
At&T ha confermato di aver posto fine ai negoziati in vista della
potenziale acquisizione di un terzo del capitale di Olimpia, la holding che
controlla circa il 18% del capitale ordinario di Telecom Italia. In
una nota, la società statunitense afferma di aver apprezzato l'opportunità di
poter esplorare un possibile investimento in Olimpia e una partnership
strategica con Telecom Italia, ma di aver deciso di chiudere il
dossier. Ore 20,05 AT&T: l'abbandono per incertezze normative È stato il
"timore dell'incertezza normativa" che ha spinto AT&T a ritirarsi
dalla partita per Telecom Italia. È quanto trapela da fonti vicine
all'operazione, in assenza per ora di commenti ufficiali, da tutte le parti
coinvolte, sul ritiro del colosso americano. Il Wall Street Journal online
afferma che la decisione di AT&T è stata notificata oggi alla Pirelli. Ore 19,50
America Movil resta in corsa America Movil resta in corsa. Lo si apprende da
fonti vicine al gruppo americano dopo la notizia del ritiro di At&T.
"America Movil annuncia oggi che dopo il ritiro della statunitense
AT&T dai negoziati esclusivi con Pirelli & C per la potenziale
acquisizione di un interesse in Olimpia, continuerà, insieme a Telmex, a
considerare diverse alternative per un potenziale investimento in
Olimpia". Lo afferma una nota ufficiale dell'operatore sudamericano. Ore
19,30 Pirelli e Telecom pesanti nell'after-hours Pirelli e Telecom Italia pesanti
nelle contrattazioni dell'after-hours sulla notizia che gli americani di
AT&T si sono ritirati dalla corsa per rilevare il 33% di Olimpia, la
holding che controlla il gruppo telefonico e partecipata all'80% dalla società
della Bicocca. Il titolo Pirelli perde il 3,5% a quota 0,8705 euro, Telecom il
2,3% a 2,33 euro. Nella seduta diurna i titoli hanno chiuso deboli: Pirelli ha
guadagnato lo 0,1% a 0,9021 euro, Telecom ha ceduto lo 0,3% a 2,385 euro. Ore
19,10 Colaninno: Telecom? Società interessante "Ritengo la Telecom una
società interessante, ma non so se possa essere gestita con le caratteristiche
industriali che vogliamo noi". Lo ha detto Roberto Colaninno a una domanda
su un suo interesse per la società telefonica. Ore 18,50 AT&T annuncia il
ritiro dalla corsa per Telecom L'americana At&t ha ritirato l'offerta in
tandem con America Movil sul 66% di Olimpia, la holding che controlla
Telecom Italia. La notizia, anticipata da 'The Wall Street Journal
online, è stata confermata da fonti vicine all'operazione. L'offerta
"aveva sollevato proteste, in Italia, in merito alla
possibilità che una società straniera potesse acquisire il controllo"
della compagnia telefonica. Secondo "una persona vicina all'operazione",
non citata dal quotidiano newyorchese, At&t "ha notificato nella
mattinata a Pirelli" la propria decisione. Olimpia conferma. Ore 17,20
Gentiloni: tra un paio di giorni decisione su rete "Stiamo valutando
assieme al ministro Chiti. Nel giro di un paio di giorni decideremo". Così
Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni, risponde a una domanda su quale
Ddl potrà ospiterà l'emendamento sui poteri dell'Autorità per le Comunicazioni
per quanto riguardo la rete di Telecom. Il ministro, a margine di un convegno
alla Stampa estera, ha precisato che sul piatto esistono varie ipotesi: oltre
al Ddl Bersani e al Ddl sulle Authority su cui ha parlato la stampa di recente,
non è escluso neanche il Ddl comunitario. Ore 16,15 Bankitalia voterà lista istituzionale,
si astiene su stock option La Banca d'Italia "voterà
la lista di minoranza" presentata dagli investitori istituzionali",
come nella prassi ormai adottata con l'obiettivo "di favorire l'attività
di monitoraggio e controllo che questi possono esercitare", mentre
"si asterrà dalle deliberazioni sul piano di assegnazione gratuita"
di azioni ai manager, cioè il piano di stock option. Lo ha reso noto il
rappresentante dell'Istituto centrale, detentore dell'1,68% del capitale. Ore
16 Cusani propone il modello Fiat Sergio Cusani propone il modello Fiat per
Telecom Italia e suggerisce di ridurre la quota dell'utile
destinata ai dividendi, favorendo invece gli investimenti. Parlando
all'assemblea dei soci in corso a Rozzano l'ex protagonista di Mani Pulite, ora
consulente finanziario della Cgil, si è espresso con un intervento tecnico
analizzando e criticando le singole voci di bilancio tra cui la classificazione
dei ricavi e i rapporti con Pirelli. "Telecom ha realizzato operazioni
alchemiche distribuendo in questi anni dividendi superiori agli utili
massimizzando la remunerazione del capitale di rischio rispetto agli
investimenti" ha affermato. Cusani ha proposto quindi di seguire l'esempio
della Fiat e "destinare nel 2007 il 25% dell'utile a dividendi mentre per
il 2006 occorre fissare tale quota al 50%" contro oltre il 90% proposto
dal cda. Cusani ha quindi esortato i soci a respingere la proposta di
assegnazione di stock option ai dirigenti e ha criticato i rapporti del gruppo
con Pirelli che "sono incoerenti e stridenti con la gestione autonoma di
un grande gruppo come Telecom". "Chiedo al cda - ha spiegato - di
chiarire la durata, i costi, le penali dei contratti passivi con Pirelli e le
ricadute sull'organizzazione del gruppo". Ore 15,50 Cusani: no a piano
stock option e meno pay out Bocciatura della proposta del piano di stock option
per i dirigenti e maggiore riduzione del pay out. Queste le proposte avanzate
da Sergio Cusani, in qualità di presidente della Banca della
Solidarietà, all'assemblea degli azionisti di Telecom. Cusani ha anche avanzato
critiche su operazioni e contratti con il gruppo Pirelli e sulla
classificazione dei ricavi di Telecom. Ore 15,30 Dopo quattro ore 22 interventi
sui 60 previsti A quattro ore circa dall'avvio dell'assemblea Telecom si è
giunti al ventiduesimo intervento sul primo punto all'ordine del giorno,
l'approvazione del bilancio. In agenda, secondo l'aggiornamento appena
comunicato dal vicepresidente Carlo Buora, sono finora 60 gli interventi
previsti. Attualmente il capitale ordinario rappresentato è il 36,24% a fronte
del 36,06% in avvio. Ore 14,45 Prodi: non sono un "grillo presente"
"Non sono un grillo presente lì; non so dire niente, sono qui a Tokyo in
una atmosfera rarefatta, diversa dall'assemblea". Con questa battuta
Romano Prodi ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano con quale stato
d'animo seguisse l'assemblea degli azionisti Telecom in corso in Italia.
"Ma Beppe Grillo è lì, è stato un gioco di parole voluto?", gli è
stato chiesto. "Non casuale", si è limitato a replicare il presidente
del Consiglio sorridendo. Ore 14,28 Lannutti (Adusbef): nel nostro Paese
mancano i capitani coraggiosi "Nel nostro paese mancano capitani
coraggiosi che possano mettere dei soldi e prendere un'azienda comeTelecom".
Ad affermarlo è il presidente dell'Adusbef, Elio Lanutti, nel corso del suo
intervento all'assemblea Telecom in corso a Rozzano (Mi). Nei 15 minuti a
disposizione Lannutti ha prima commentato "la sfiducia rivolta al
professor Guido Rossi, l'unico che aveva cercato di portare una ventata di
trasparenza nella societá" sottolineando poi "l'importanza per il
Paese di Telecom". "Quando in un paese comici e 'gabibbì devono
difendere i diritti dei cittadini -ha poi proseguito Lannutti- vuol dire che in
quel paese c'è una malattia". Quindi il presidente di Adusbef ha
commentato "la vendita del patrimonio immobiliare della societá",
come un evidente "conflitto di interesse visto che si sono venduti palazzi
per poi riprenderli in affitto. Questo -ha concluso- significa impoverire il
parco buoi". Ore 13,47 Grillo: "A Dublino e in Estonia si telefona
già con il Wi-max". "Negli Stati Uniti questi dirigenti in mezz'ora
prenderebbero 20 anni di galera, perchè sono ancora qui?". Se lo è chiesto
ancora Grillo verso la conclusione del suo intervento durante l'assemblea di
Telecom Italia. Aggiungendo poi che "dall'analisi dei bilanci
fatta da un semplice ragioniere come me" è chiaro che "la
privatizzazione ha spogliato i ricavi" dell'azienda. Grillo è quindi
tornato a criticare il possibile ingresso della cordata At&T e America
Movil. "È chiaro che il messicano Carlos Slim (patron di America Movil,
ndr) vuole le attività in Brasile. Attività che rendono e questi dirigenti
subito la vogliono vendere, pensa un poco...". Infine il comico ha
affermato che "a Londra, Dublino e in Estonia si telefona usando la
tecnologia wi-max, loro sono indietro di 20 anni. Ora si apre la gara qui
in Italia, non lasciamogliela a loro. La dorsale deve essere
pubblica e lasciamo che le società si scannino sopra per i servizi che noi
potremo scegliere". Ore 13,28 Grillo ai vertici Telecom:
"Dimettetevi". "Vorrei chiudere con un appello alla vostra
dignità dimettetevi fate questo gesto ve lo chiede il Paese". Così Beppe
Grillo ha concluso il suo intervento all'assemblea dei soci azionisti in corso
a Rozzano. Poco prima aveva detto: "Guido Rossi ha parlato di una Chicago
degli anni '20 e vorrei proprio sapere chi è Al Capone". Battute e
frecciate anche al limite della denuncia. "Faccio il comico e qui non
dovrei esserci - ha detto Grillo - ma penso a quelle migliaia di piccoli
azionisti che mi hanno dato la delega e che non posso rappresentare perchè
la Consob ha fatto una legge perchè non potessero essere
rappresentati". Quanto al presidente Marco Tronchetti Provera, ha mandato
un avviso dicendo che non poteva esserci perché ammalato. "È proprio vero
- ha sottolineato il comico genovese - che il mondo si è rovesciato: Tronchetti
che manda un avviso invece che riceverlo". Ore 13,11 Vicenda
intercettazioni, Buora: "Grave danno d'immagine". La vicenda
giudiziaria che ha coinvolto la security di Telecom ha recato un grave danno
all'immagine dell'azienda e la societá ha fornito un leale supporto all'azione
della magistratura . A dirlo è il vice presidente esecutivo del gruppo Carlo
Buora che presiede l'assemblea di Telecom in corso nella sede di Rozzano, alle
porte di Milano. Le indagini, ha detto, hanno portato "un grave danno alla
societá e problemi anche rilevanti". Problemi che sono e sono stati un
spunto per "continuare a migliorare i meccanismi operativi del
gruppo". Telecom, che, ha sottolineato Buora, nell'inchiesta è parte lesa,
"ha fornito una completa e reale collaborazione e continuerà a
farlo". Una collaboraziona "senza reticenze e senza obliqui tentativi
di proteggere chicchesia". Ore 12,57 Bersani: mercoledì la proposta per la
rete. "Mercoledì o più avanti faremo una proposta sulla rete al
Parlamento, una proposta che va nella direzione di quanto accade negli altri
Paesi, noi siamo un Paese normale e non un paese speciale". Lo ha detto il
ministro per lo Sviluppo economico Pierluigi Bersani, riferendosi alla rete di
Telecom a margine di una riunione del tavolo per Milano. "Non ci sarà
nessuna sorpresa, tratteremo l'oggetto della rete come gli altri Paesi, pensando
cioè alla autonomia, alla possibilità di accesso e al radicamento nazionale e
alla possibilità di fare investimenti". Ore 12,48 Tre liste per il cda. Le
liste da votare per l'elezione dei membri del cda Telecom sono tre: quella
Olimpia, quella di Hopa e quella dei fondi. E' quanto confermato dal
vicepresidente esecutivo del gruppo Carlo Buora che presiede l'assemblea
Telecom. In particolare la lista Olimpia conta su 17 candidati: Carlo Puri
Negri, Claudio De Conto, Luciano Gobbi, Gilberto Benetton, Gianni Mion, Carlo
Buora, Riccardo Ruggiero, Aldo Minucci, Renato Pagliaro, Francesco Gori, Lucio
Pinto, e gli indipendenti Paolo Baratta, Diana Bracco, Domenico De Sole, Luigi
Fausti, Jean Paul Fitoussi e Pistorio. La lista Holinvest, controllata di Hopa
che detiene il 3,7% di Telecom, invece è composta dal presidente di Asm
Brescia, Renzo Capra, e dal presidente di Fingruppo Cesare Giovanni Vecchio.
Infine la lista dei fondi presentata da Arca prevede come candidati:
l'economista Luigi Zingales, il direttore generale dell'Eni Stefano Cao e il
giurista Guido Ferrarini. Buora ha poi ricordato che all'odg della parte
ordinaria dell'assemblea c'è la riduzione del numero di componenti del board
da 20 a 19 e della sua durata in carica, prevista in un solo
esercizio. Ore 12,47 Buora: "L'azienda è sana". Telecom è "tutto
fuorchè un malato da risanare. Non ha alcun bisogno di essere risanata".
Così il vice presidente Carlo Buora ha commentato il bilancio 2006 all'ordine
del giorno, sottolineando i risultati "ancora una volta eccellenti: una
chiara e incontestabile dimostrazione che la società è strutturalmente sana e
robusta, capace come è stata lo scorso anno di resistere ai contraccolpi che
hanno avuto la discontinuità del vertice e le indagini". Ore 12,45 Gli azionisti
ora sono 357 (36,24%) Dopo un'ora e mezza dall'inizio dell'assemblea, gli
azionisti presenti all'assemblea di Telecom, in corso a Rozzano, in sala
passano da 284 a 357, in rappresentanza di 931 azionisti, pari
al 36,24% del capitale. Ore 12,35 Buora: sulle intercettazioni leale
collaborazione con la magistratura Telecom ha contribuito alle indagini della
magistratura sulle intercettazioni illegali con una "completa e leale
collaborazione e continuerà a farlo". Lo ha detto il vice presidente Carlo
Buora sottolineando che la società ha fornito le informazioni "senza
reticenze e senza obliqui tentativi di proteggere chicchessia". Telecom,
ha ribadito Buora, è nell'indagine "persona offesa da reato e nessun
addebito le è stato fatto in sede giudiziaria". Ore 12,30 Grillo e Cusani
iscritti a parlare. Voto all'alba?. Il primo piccolo azionista di Telecom ha
preso la parola in assemblea poco dopo le 12.30 e dopo di lui sono già una
cinquantina gli iscritti a parlare per la parte ordinaria. Tra i primi a
parlare anche il comico Beppe Grillo e Sergio Cusani, ma ci sono anche ex
dipendenti e piccoli investitori e se tutti sfrutteranno i 15 minuti a loro
disposizione secondo il regolamento dell'assemblea non si inizierà a votare
prima dell'alba. Prende la parola, anche se non era iscritta a parlare, anche
una rappresentante della Cub, che con toni accesi esprime la propria
preoccupazione per l'occupazione dei lavoratori. Sei ore di interventi a cui
seguiranno le risposte e poi dovrebbero aver diritto ad ulteriori minuti per le
repliche. Si procederà quindi alle votazioni per i dieci punti all'ordine del
giorno della parte ordinaria. Ore 11,40 Passera: pronti a ingresso temporaneo
"Telecom è una società molto importante e con un potenziale non del tutto
emerso. Potremmo prendere in considerazione una partecipazione se questa è un
buona operazione e può contribuire allo sviluppo della società. Abbiamo già
fatto investimenti in un certo numero di società su base temporanea come
sostegno al management e a un cambiamento. Avremo la stesso
atteggiamento". Lo ha detto l'ad di Intesa SanPaolo Corrado Passera.
"Quello che abbiamo fatto in altri casi, nel chiaro interesse dei soci,
non c'è ragione di non farlo per una società importante come Telecom", ha
aggiunto. Ore 11,35 Troppa gente: Buora chiede l'intervento dei pompieri Troppa
gente sta assiepando l'auditorio Telecom di Rozzano dove è in corso l'assemblea
degli azionisti, tant'è che il vice presidente esecutivo, Carlo Buora, su
invito urgente dei vigili del fuoco, ha chiesto ai presenti di lasciare libere
le uscite di sicurezza. "In caso contrario - ha detto Buora - i vigili del
fuoco ci obbligheranno a lasciare la sala". Ore 11,30 Bankitalia deposita
l'1,68% La Banca d'Italia ha depositato le proprie
azioni, pari all'1,686%, per l'assemblea Telecom. Risulta dalle comunicazioni
di deposito rese note dalla società. Depositate anche le azioni di Olimpia,
Holinvest, Mediobanca, Generali e Pirelli (1,36%). La società ha inoltre reso
noti i maggiori soci, oltre a quelli sopra la soglia rilevante del 2%: dalle
risultanze a libro soci, aggiornate con le certificazioni assembleari, emergono
quindi Mediobanca (1,96%), Maple Bank con l'1,85%, Bnl con l'1,5%, Jp Morgan
con l'1,2% e, con l'1,91%, la Fincamuna di Romain Zaleski, che già aveva anticipato
che non sarebbe stato presente. Ore 11,10 Gli azionisti partecipanti sono 832
(36,06%) "Alle ore 11.10 gli azionisti partecipanti all' assemblea Telecom
- in proprio o per delega - sono 832, rappresentanti il 36,06% delle azioni
ordinarie". Così Carlo Buora, vice presidente esecutivo di Telecom,
avviando l'assemblea. Confermati i numeri appena aggiornati degli azionisti
sopra il 2%: Olimpia con il 17,99%, Hopa con il 3,7%, Brandes Investment con il
5,43%, Assicurazioni Generali con il 4,06%. Ore 11 Via all'assemblea in
perfetto orario Carlo Buora, il vicepresidente esecutivo di Telecom Italia ha
dichiarato aperta ai lavori l'assemblea, in perfetto orario sulla convocazione,
leggendo l'ordine del giorno. Tra i vari punti l'approvazione del bilancio e il
rinnovo del cda. Ore 11 Cusani: voglio capire le strategie "Non sono
preoccupato, bisogna capire dove l'azienda voglia andare, si chiamano
strategie". Così l'ex finanziere Sergio Cusani, oggi consulente della
Cgil, ha espresso il proprio stato d'animo all'ingresso dell'assemblea degli
azionisti di Telecom Italia. "Speriamo che sia utile e
proficuo", ha concluso correndo verso il banco di registrazione sfuggendo
alle domande dei cronisti. Ore 11 Beppe Grillo: dov'è Tronchetti? Piccolo show
del comico Beppe Grillo prima dell'avvio dei lavori assembleari di
Telecom Italia. Grillo, presente come azionista, ha incontrato la
stampa fuori dai cancelli della sede della Telecom a Rozzano. "Tronchetti
non c'è - ha spiegato -, non è venuto neanche questa volta, la prima fu due
anni fa a Siena in cui doveva parlare di etica dell' informazione con
Andreotti!". Grillo ha anticipato alcuni argomenti del suo intervento in
assemblea: "Chiederò - ha detto - dove sono finiti i 45 miliardi
espropriati ai piccoli azionisti e perchè questi non possono avere una
rappresentanza vera". Il comico ha quindi ricordato come la Consob "mi
ha mandato tre lettere dicendo che posso creare turbativa, con il presidente
della Consob Cardia ormai ho un rapporto di affetto".
Grillo ha quindi mostrato il bilancio Telecom giudicandolo come "una cosa
da neuropsichiatria, si sono venduti tutto". A chi gli chiedeva come
giudicasse la possibile offerta della cordata formata dagli americani di
At&T e dell'America Movil del miliardario messicano Carlos Slim, il comico
ha risposto: "Figurati se uno degli uomini più ricchi del mondo si compra
un cadavere simile, comunque con il 13% del capitale della società la
controllerebbe, una percentuale ancora inferiore a quella di cui disponeva
Tronchetti". Rivolto poi al presidio dei sindacati che stazionano davanti
ai cancelli Grillo ha spiegato: "Dovevate venire qui in 80 mila perchè se
arriva il messicano caccerà 30 mila di voi". Ore 9 L'Unità: cordata
Berlusconi-Colaninno SilvioBerlusconi e Roberto Colaninno entrano nella partita
Telecom. L'indiscrezione compare sulla prima pagina dell'Unità e fa seguito
alle anticipazioni della vigilia di 'Il Messaggerò, che aveva parlato di
"un nuovo piano Olimpia per mettere insieme Telefonica, Colaninno, la
Fininvest di Berlusconi, Benetton, Fondazioni, Mediobanca e Intesa Sanpaolo da
sole oppure unite. Il tutto mentre i legali di At&t e America Movil
potrebbero portare a termine la due diligence entro giovedì". Oggi L'Unità
"analizza in particolare la "soluzione tricolore tra Milano e
Mantova", sottolineando le differenze "per stile, formazione e
interessi" tra due imprenditori come Berlusconi e Colaninno, con
quest'ultimo che "può darsi che sogni di tornare a Telecom con le fanfare
e il tappeto rosso dopo esserne stato buttato fuori nell'estate del 2001.Il
quotidiano osserva inoltre che le strade di Mediobanca e Intesa "non si
sono ancora incontrate nell'operazione per dare una continuità italiana al
controllo di Telecom, che potrà realizzarsi, naturalmente, solo se Marco Tronchetti
Provera non cederà la maggioranza di Olimpia-Telecom alla coppia
At&t-America Movil". Sulle indiscrezioni da registrare il no comment
sia di Roberto Colaninno sia di Fininvest.
ROMA.
Prima del ritiro di At&t (notizia arrivata quando a Tokio era notte fonda)
il premier Romano Prodi, in visita in Giappone, su Telecom se
l'era cavata con una battuta: "Non c'ero, non ero un Grillo presente e
quindi non posso dirvi niente". Dopo il no degli americani i primi a
commentare sono i radicali, sia quelli della maggioranza, Capezzone, che
dell'opposizione, Della Vedova. "La politica - dice Daniele Capezzone,
presidente della Commissione Attività produttive - ha respinto una grande
invasione. Ma resta il fatto che i grandi investitori internazionali quando
vedono beghe politiche che possono avvelenare il clima e sabbie mobili che
possono inghiottire tutto, se ne vanno". "Se At&t rinuncia non si
potrà che registrare una sconfitta per l'economia italiana - commenta Benedetto
Della Vedova, Forza Italia - quali che siano le ragioni ufficiali del ritiro il
fatto che il governo si sia mosso in modo esplicito per ostacolare At&t
resterà come un macigno, che resterà anche sul futuro dell'azienda". Lanfranco
Turci, eletto come Capezzone nella Rosa nel pugno, ma di area socialista, dà
dell'accaduto un'interpretazione opposta: "Non so se At&t si ritirerà,
ma se gli investitori stranieri devono venire in Italia e ripetere i giochi dei
nostri capitalisti alla Tronchetti Provera, meglio perderli che trovarli".
Il ministro Antonio Di Pietro non si stupisce del ritiro di At&t: "Ho
sempre pensato che il vero interessato a quel pacchetto fosse quel messicano
strano strano (il miliardario Carlos Slim, ndr) con tutti quei suoi aiuti
politici strani strani. "Ho sempre sospettato - ha aggiunto Di Pietro -
che l'At&t servisse soltanto da parafulmine per un'operazione di
speculazione finanziaria. Mi auguro che la finanza e l'imprenditoria italiana
tirino fuori i polmoni affinché le reti italiane possano ancora essere
riferimento di credibilità e professionalità di cui il Paese ha bisogno".
Per Maurizio Gasparri, dell'esecutivo di An, "la sinistra italiana altera
la Borsa, mette in fuga investitori americani, spagnoli e di ogni altra parte
del mondo e mette in ginocchio le aziende italiane". Secondo il
vicepresidente dei senatori dell'Ulivo Luigi Zanda "la decisione di
At&T di ritirare l'offerta per l'acquisizione del 33% di Olimpia dovrebbe
indurre la Consob a guardare con ancor più attenzione alla vicenda Telecom.
Intanto sarebbe interessante saper perché AT&T ha cambiato opinione. Viene
da pensare che il vero interesse al controllo di Telecom fosse
in realtà quello del messicano Carlo Slim con l'idea di procedere a un
successivo 'spezzatino'. E' singolare che intorno aTelecom, nel giro di
pochi mesi, prima sia apparso l'australiano Murdoch, poi la spagnola
Telefonica, quindi sia arrivata la At&T, poi sia stato cacciato Guido Rossi
e alla fine é scomparsa la At&T. Mi chiedo quali effetti abbiano avuto
tutti questi movimenti sul valore dei titoli coinvolti".(a.g.).
Il Piccolo
di Trieste 17-4-2007 L'ombra del Cavaliere. Alfredo Recanatesi.
DALLA
PRIMA PAGINA Tutto quanto aveva focalizzato l'attenzione sulla giornata di ieri
è passato in secondo piano di fronte al consolidamento delle voci, circolate
fin da domenica, su una iniziativa di Berlusconi, appunto, alternativa a quella
della americana AT&T e della messicana Movil. Il Cavaliere aggiungerebbe
così un aggettivo al suo titolo per diventare il cavaliere bianco, difensore
della italianità della Telecom, un valore che le vestali del
liberismo disprezzano e deridono, ma che, magari senza dirlo, i più
condividono. Stando alle ipotesi che ieri hanno assunto consistenza, Berlusconi
si sarebbe messo a capo, insieme a Colaninno (quel Colaninno che vendette a
caro prezzo il controllo della Telecom a Tronchetti e che ora
se lo ricomprerebbe ad un prezzo almeno di un quarto più basso) di una
cosiddetta cordata della quale farebbero parte altri imprenditori (si parla di
Del Vecchio e dei Benetton), fondazioni bancarie e banche. Che questa
iniziativa si sia presa la scena è più che comprensibile. Essa, infatti, è una
summa di connotazioni tipiche del nostro Paese, della sua fisiologia
finanziaria, del suo capitalismo, dei suoi inveterati intrecci tra economia e
politica. Berlusconi imprenditore è in primo luogo Mediaset. Un suo ruolo
importante, e a maggior ragione se determinante, nella Telecom configurerebbe
ulteriori due conflitti di interesse: uno televisivo, perché la Telecom possiede
La7 ed MTv che si aggiungerebbero alle reti di Mediaset; ed uno giuridico,
perché alcune tra le principali attività di Telecom sono
svolte su concessione statale. I conflitti che si addensano sulla persona del
Cavaliere, quindi, non solo non si risolverebbero, ma aumenterebbero
ulteriormente. Altra tipicità italiana sarebbe l'intervento di imprenditori
industriali in iniziative lontane dalla loro attività primaria. Si tratterebbe,
dunque, di partecipazioni essenzialmente finanziarie che, fatte da industriali,
hanno quasi sempre tre sostanziali difetti: sono impieghi di risorse talvolta
distratte dallo sviluppo delle attività industriali; sono iniziative mirate più
al conseguimento di un profitto a breve termine, più che alle fortune di lungo
termine dell'azienda; e come tali sono transitorie, e dunque non coerenti con
l'esigenza che ogni grande azienda ha di una proprietà stabile che formuli
programmi strategici di ampio respiro da perseguire negli anni. La componente
più stabile della coalizione di controllo potrebbero essere le fondazioni
bancarie che, soprattutto in una utility come l'azienda telefonica, potrebbero
trovare un impiego ben sintonizzato con le loro esigenze patrimoniali e con le
loro finalità statutarie, ma tutto ovviamente dipenderà dal peso che avranno
nella proprietà di Telecom. Le banche, infine, interverrebbero come
supporto alla riuscita dell'operazione, con la prospettiva di un tornaconto
economico, certo, ma anche con un fine di supporto del sistema-Paese per il
quale l'italianità della Telecom, per la rilevanza che ha una importante
presenza nazionale in un settore cruciale per la circolazione delle
informazioni e per lo sviluppo di nuove tecnologie, non è certo di secondaria
rilevanza. Tutto bene, dunque? No. Non può essere considerato positivamente un
sistema nel quale, attraverso i regimi concessori, politica ed economia si
intrecciano; nel quale gli imprenditori rischiano denari soprattutto delle
banche e nel quale le banche effettuano investimenti azionari (e dunque di
rischio) con risorse derivanti dai depositi di imprese e famiglie; nel quale
siffatti problemi si pongono perché la legge ammette (ecco il mercato!) che
attraverso una catena di società finanziarie abilmente creata e dipanata un
signore che ha una infima quota di proprietà può fare il bello ed il cattivo
tempo di una azienda della dimensione e della rilevanza della Telecom.
Ma per quanto tutto questo non sia certamente positivo, ben venga comunque se
vale ad impedire che il controllo della azienda telefonica possa andare in mani
straniere in genere e, più in particolare, nelle mani di una AT&T che, a
dispetto del suo grande passato, ora è essenzialmente una finanziaria che
compra aziende telefoniche per rivenderle dopo tre o quattro anni, e di una
Movil messicana il cui interesse nella partita è, e non può che essere, quello
di mettere le mani su Tim-Brasile. Di problemi da risolvere, di leggi da
ammodernare, di norme da rivedere perché l'Italia si avvicini al paradigma
degli ordinamenti degli altri Paesi europei ce ne sono una moltitudine come
proprio la vicenda della Telecom in queste settimane ci ha
fatto toccare con mano. Ma in nessun caso questo può essere un motivo per
allargare le braccia ed, in ossequio al presunto primato delle leggi di
mercato, assistere passivamente alla conquista da parte straniera di una
azienda come la Telecom.
Europa
17-4-2007 Il dolcissimo Putin di Silvio di FEDERICO ORLANDO
Chiusi
temporaneamente i silos dei missili intercontinentali, «oggi non c’è più la
minaccia dell’arma nucleare, ma dell’arma energetica, soprattutto gas
naturale», ci spiega Lamberto Dini in un’intervista al Corriere della Sera,
parlando di Putin: «Davvero un grande leader» che ha evitato alla Russia di
scoppiare come una grande Jugoslavia. «Ma è chiaro che quando c’è una situazione
di oligopolio, sia esso privato o statale, è difficile che prevalgano i
meccanismi di mercato tout court». Forse è anche per la comune natura di
oligopolisti, l’uno dell’energia l’altro delle comunicazioni, che Putin e
Berlusconi marciano come due innamorati: al punto che il nostro definisce
“dolcissimo” il capo del Cremlino, parlando con un fanatico mullah di Forza
Italia che, dal dossier Mitrokhin in poi, ha sempre visto nel leader russo un
tenente colonnello del Kgb.
Le immagini ridenti del dolcissimo ex colonnello e dell’ex premier italiano, in
gruppo con robusti cultori di arti marziali e attori di western violenti, si
alternavano domenica nelle trasmissioni di tutte le tv del mondo, dalla Cnn a
al Jazeera, alle manganellate di migliaia di poliziotti di San Pietroburgo
contro gli oppositori dell’amico Vladimir: quattro gatti, ma proprio quattro,
al punto che l’amico Silvio ha tirato fuori dal cilindro un dvd con le immagini
dei 2 milioni di piazza San Giovanni: di questi dovresti aver paura, s’è gloriato,
senza aggiungere che nemmeno Prodi, che non è Putin, ne ha avuto paura.
Insomma, un quadretto idilliaco, di amici in vacanza, anche se nella sosta
russa non è mancato un incontro di lavoro, Iran, rapporti russo-europei,
aziende energetiche italiane (Eni e Enel) nel grande paese.
Forse qui cade l’asino. Perché il “dolcissimo” fa affari per la Russia (e forse
pensa anche per sé, nell’imminente “uscita” dalla politica); e dunque i partner
senza più potere, si chiamino Aznar o Berlusconi, già considerati al Cremino
“amici speciali”, ora debbono offrirgli nuove contropartite. Il nostro,
quand’era premier, pensò di entrare indirettamente nella partita energetica –
lo ricordava sabato su Europa il collega Del Vecchio –. Così, nel maggio 2005,
Eni e Gazprom stabilivano che i russi avrebbero piazzato due miliardi di metri
cubi in Italia appoggiandosi a una società milanese del signor Bruno Mentasti,
«da molti considerato un prestanome del Cavaliere». Ma il grande rilievo
mediatico fece saltare l’operazione, che il governo Prodi ha ripreso nello
scorso autunno addirittura per 3 miliardi di metri cubi, ma senza ancora
decidere quale sarà l’azienda italiana a cui i russi dovranno appoggiarsi. Ne
avranno parlato, magari riaprendo il vecchio dossier del 2005, Putin e Silvio
sulle rive del Baltico? Pura ipotesi, s’intende. Più certo, è che il ceruleo
umbratile Baltico diventerà sempre più azzurro e solare. Sapete com’è, il clima
cambia, e cambiano le zone climatiche, la fauna, la flora e anche il turismo e
l’edilizia connessa. Se si svuotano un po’ Rimini e il Forte, magari perché
diventano un po’ sahariani, dove vanno milioni di famigliole del sud e
centroeuropa? Magari sul Baltico. E perché non costruire sul Baltico una nuova
Milano 5 o 6 o 7? Abbiamo esperienza, il mondo si globalizza, l’edilizia è una
delle chiavi dello sviluppo, come proprio in questi giorni conferma la
depressione dell’economia americana per l’afflosciamento della bolla
speculativa sulle costruzioni. Fulmineo nei suoi riflessi, il capo di Forza Italia,
della televisione, dell’edilizia, della pubblicità, delle assicurazioni, lancia
subito una battuta spiritosa: organizzerà a San Pietroburgo il prossimo vertice
di Forza Italia, 19 palazzine per le regioni (che sono 20) e una per lui e il
suo stato maggiore. Il solito mullah barbuto di Forza Italia si tira fuori
pensando sempre a Mitrokhin, ma son cose che si dicono giusto per evitare che
il colore della barba da bianco ritorni rosso qual era. E del resto dove sta il
problema. Berlusconi è fra i 30 uomini più ricchi del mondo, può comprarsi
interi mari e cementificarli. Si tratta di diversificare gli investimenti.
Semmai, il problema è un altro, proprio quello sul quale non si sono esercitati
nel week end i nostri commentatori, intenti a strologare sulla durata del
governo Prodi, sulla spartizione del tesoretto, sulla mancata morte di
Mastrogiacomo che avrebbe fatto così comodo per rimandare a Bologna il
professore. È il problema degli ex politici che fanno affari, come Schröder o
Aznar o Clinton: ex politici, appunto, non politici in campo, come il
Cavaliere. È il problema delle dichiarazioni che il Cavaliere ha rilasciato su
Putin, debolmente contraddetto dalla ministra del commercio estero Bonino che,
dopo anni di battaglie radicali su Cecenia, Ossezia del Nord e altre vicende
caucasiche, si trova prigioniera del made in Italy, perché l’Ice espone ai
Grandi Magazzini Gum di Mosca, proprio in questi giorni, abbigliamento,
profumeria, pelletteria, calzature, enogastronomici, mobili, illuminazione,
automobili, motocicli. Quando si dice le combinazioni.
Come fa, la brava Emma, a fare la radicale nel momento in cui deve fare il
ministro del commercio estero? Nel momento in cui il Cavaliere – ignorando
Cecenia, Ossezia, Inghuscezia, bombardamento di Groznyj e stragi alla scuola di
Beslan o al teatro Dubrowka di Mosca, avvelenamenti col polonio e ammazzamenti
di giornalisti (dal radicale Russo alla russa Politkovskaja), fino alle cariche
in piazza contro gli oppositori – prevede sfracelli per il governo Prodi- Bonino
e dice che «la Russia ha avuto in Putin una guida molto positiva», che «crede
nella democrazia», che non si vedono i sintomi di quella democrazia minore di
cui si parla, che la repressione del dissenso è gonfiata dai giornali, che
«bisogna interpretare il passaggio dal totalitarismo alla democrazia alla luce
di quello che esiste»? Del resto, lo dice – con ben altro stile – anche il
nostro amico Dini: «Guai se avessero vinto le forze centrifughe», non è stato
facile governare un paese che abbraccia due continenti e vive la transizione
dal totalitarismo alla democrazia e dall’economia di stato all’economia di
mercato.
Ma nessuno di noi contesta queste realtà.
Tutt’al più, preferiamo altre democrazie.
E soprattutto contestiamo che satrapi, oligarchi e oligopolisti indigeni e
stranieri possano ancora essere modelli per l’Italia. Come invece piacerebbe
alla platea dell’Udc, che stringe in trionfo il Cavaliere proprio alla vigilia
della partenza per la Russia. Sempre con la speranza che gli cada qualche spicciolo
dalla tasca.
L’Unità
17-4-2007 Democratico sì ma anche laico?
Carlo
Flamigni In un articolo di qualche settimana fa su "Repubblica"
Vincenzo Cerami esponeva le molte ragioni che, a suo parere, dimostrano che del
Partito Democratico, in realtà, abbiamo tutti bisogno. Mi ha particolarmente
colpito, tra le varie motivazioni di Cerami, questa: "Il Partito
Democratico apre le porte che fino a ieri tenevano separati laici e cattolici,
democratici di De Gasperi e democratici di Berlinguer, democratici di Nenni e
democratici cristiani. Liberarsi di quei cancelli, mischiando le diversità
sotto la stessa bandiera, svuota di senso i vecchi conflitti... fa nascere un
nuovo senso di appartenenza... ben disposto agli scambi di esperienza e di
cultura". Nello stesso giornale si poteva leggere una dichiarazione di
Fassino che il giornalista riassumeva così: "Non ci sarà una scissione dei
Ds", affermazione ribadita da Romano Prodi che diceva: "Dissensi sì,
questa è la democrazia. Ma non credo che ci saranno scissioni nella
Quercia". Debbo riconoscere che queste letture hanno avuto effetto sul mio
prudente ottimismo, trasformandolo in ansiosa e confusa perplessità. Vedo di
spiegarmi. Ho firmato la mozione Mussi per molte ragioni, la più importante
delle quali dipende, debbo riconoscerlo, dalla mia identità di laico,
frequentemente in conflitto, soprattutto negli ultimi 20 anni, con una parte
influente del mondo cattolico, collocata (purtroppo) nell'una e nell'altra
parte dello schieramento politico; debbo anche ammettere che il fantasma più
fastidioso che visita i miei incubi notturni riguarda la possibilità di
ritrovarmi prima o poi a militare in una Democrazia Cristiana di sinistra, un
destino al quale vorrei disperatamente sfuggire. Debbo infatti ammettere di
sentirmi separato dai cattolici (non tutti) e dai
democristiani (tutti) non dai cancelli ai quali allude Cerami, ma da mura più
spesse di quelle dell'inespugnabile Troia. Se posso avanzare una timida critica
nei confronti delle previsioni di Cerami, mi sembra che il suo articolo
ipersemplificasse il problema: abbattiamo i cancelli, scriveva, mescoliamoci, e
op-là tutto è risolto: scopriremo dunque che le ragioni del dissenso che hanno
consumato i nostri nervi sono futili, banali, puerili, forse addirittura
inesistenti, destinate a dissolversi al primo abbraccio fraterno. In fondo
Cerami mi dà del cretino, ma questo non mi scuote: aumenta la mia perplessità.
Diventa però essenziale, a questo punto, interpretare le parole di Fassino.
Perché diceva, allora, che non ci sarà una scissione nel partito, cosa sa lui
che noi non sappiamo? Ci stava forse dicendo - il linguaggio della politica è
misterioso - "ci penso io, risolvo io problemi e dissensi, lasciatemi
fare"? Ho molta fiducia in Fassino ma, in tutta sincerità, non l'ho mai
creduto capace di miracoli, almeno fino ad oggi. A questo punto debbo
necessariamente chiamare in causa il massimo esponente dell'
"avanguardismo cattolico", che personalmente identifico nella persona
del Pontefice Benedetto XVI. Mi riferisco in specifico al suo discorso (marzo
2006, salvo errore) ai parlamentari del partito popolare europeo, intitolato
"Vita, famiglia, educazione: non negoziabili", dedicato alla tutela
della vita, dal concepimento alla morte naturale, al riconoscimento della
struttura naturale della famiglia (e alla sua difesa dai tentativi di
destabilizzazione), nonché alla tutela del diritto dei genitori di educare i
figli. Oltre tutto, Benedetto XVI non ritiene che questi principi siano verità
di fede, ma li considera iscritti nella natura umana e quindi comuni a tutta
l'umanità. Dunque, a chi chiede di iniziare un dialogo mediatorio su questi
principi, la Chiesa è costretta a rispondere "non possumus"; se la
richiesta riguardasse una verità di fede, la risposta non potrebbe essere che
una dichiarazione di guerra (di religione, le peggiori). Sic et simpliciter. Il
13 marzo di quest'anno lo stesso Pontefice ha ribadito questo concetto,
ricordando ai politici cattolici che "sui valori non si
negozia" ed esprimendo ancora una volta una severa condanna nei confronti
delle "leggi contro natura". Ho cercato sui giornali le reazioni dei
politici in particolare di quelli del centro- sinistra. Prevalente il silenzio,
soprattutto dei segretari e delle persone più rappresentative; qualche fremito
del cosiddetto gruppo dei 60; Rosy Bindi non ha niente da dire; i teodem sono
irritati (non sarà il cilicio?); Fassino, non pervenuto. Arrivo alle
necessarie, anche se sofferte, conclusioni. I temi sui quali i cattolici non
possono negoziare sono - guarda caso - proprio gli stessi dei quali i laici
vogliono discutere e, se non è troppo pretendere, cercare qualche possibile
tipo di mediazione. Li conoscete: lo statuto ontologico dell'embrione; la
disponibilità della vita personale; il confronto tra qualità e sacralità della
vita; il riconoscimento delle coppie di fatto; la scuola pubblica; l'aborto; la
contraccezione; la libertà della ricerca scientifica e i suoi possibili
vincoli; il rapporto tra le religioni e lo stato laico. Se ho
capito bene, la risposta alle nostre offerte di dialogo sarebbe sempre e
comunque la stessa: non possumus. Evviva l'etica delle verità, al diavolo la
compassione, la tolleranza, la laicità e i diritti civili. C'è poco da stare
allegri. Però, mi dirà qualcuno a questo punto, questo è il Pontefice, questa è
la Cei, questo è il cattolicesimo più integralista: cosa c'entra il Partito
Democratico? Parliamone. Una volta che saranno stati abbattuti i cancelli, non
ci troveremo faccia a faccia con nuovi e sconosciuti compagni (nel senso di
amici): i nostri prossimi interlocutori li conosciamo già, e bene. Non voglio
provocare premature crisi di pessimismo, ma il leader dei nostri nuovi compagni
(nel senso di amici) non è quel Rutelli che ha fatto approvare la legge 40 e ha
contribuito al fallimento del referendum? Lo stesso che non vuole più discutere
la legge sulle coppie di fatto? E la signora al suo fianco, non è per caso
quella senatrice che ha visto il buon Dio intervenire direttamente sui parlamentari
per far cadere il Governo? E non è forse a questi compagni (nel senso di amici)
che si rivolge in modo privilegiato il Vaticano quando esige che la coscienza
di un parlamentare cattolico prevalga comunque e sempre su sciocchezze come il
mandato che gli èstato affidato dai suoi elettori? Non saranno
state queste brave persone a impedire che nel documento di programmazione del
Partito Democratico non vengano neppure menzionati i molti temi
"eticamente sensibili" che stanno tanto a cuore a noi poveri laici
miscredenti? Non sarà che questa storia dei cancelli da abbattere è solo una
romantica metafora e che le mura di Troia sono altra cosa rispetto a quelle di
Gerico? A meno che. A meno che le assicurazioni di Fassino non abbiano quel
significato che in realtà mi è sembrato di poter intuire, e che cioè il
Segretario sia in grado di arrivare al congresso con una seria proposta di
soluzione di questo essenziale problema. A noi, diciamolo pure, basterebbe
poco: ad esempio, una dichiarazione nella quale i cattolici che
aderiranno al nuovo partito si impegnano a considerare tutti i temi eticamente
sensibili come negoziabili. Forse questa è l'ultima possibilità rimasta per
conservare, agli eredi della Quercia, un destino comune. Come è obbligatorio
tra compagni (nel senso di amici) noi ci fidiamo, ma qualche firma la vorremmo
pur trovare, in calce al documento. Fassino sa di quali firme parliamo.
Il
Riformista 17-4-2007 Reichlin, Scalfari e la sindrome da male inevitabile di
Emanuele Macaluso
Il Pantheon dei Pd (al plurale perché ognuno ha il suo) è solo un segno del pasticcio
politico che coinvolge più i Ds che i margheritini. Reichlin, liquidati i
«ripensamenti di Fassino sulla storia passata» insiste e ripete: «è finita
un’epoca». La nascita del Pd ha quindi un significato epocale. L’impresa,
scrive Alfredo, «è la sola alternativa a un processo di disgregazione del
sistema politico italiano che è già in atto e che può portare la crisi della
democrazia a esiti drammatici». E se fosse il contrario? Cioè che proprio
questa operazione accelera la crisi del sistema e della stessa democrazia? Un
grande partito - è un vecchio slogan di Reichlin - non si inventa.
E non basta mettere insieme quel che c’è o quel che residua di due grandi
partiti (Pci-Dc) per farne uno con la forza e la capacità di dare soluzione ai
problemi del Paese. Tutti i commentatori, da ultimo domenica scorsa Eugenio
Scalfari, hanno messo in evidenza come il processo di «unificazione» sia stato
solo una contrattazione tra il personale politico dei due partiti. Dice
Scalfari: «Sentiamo parlare con eccessiva frequenza ma con parole che non
rispondono, non chiariscono, non convincono, alle domande che il tema pone».
«Parole - continua l’editorialista di Repubblica - che non rinnovano né i
contenuti né il rito né colmano la distanza tra la classe politica e la società».
E allora? Se è così, contrariamente a quel che dice Reichlin, sono proprio
questi riti “unitari” a indebolire la democrazia.
Dopo aver raccontato come stanno le cose, Scalfari dice che «questo senso di
fusione fredda, questa marcata autoreferenzialità debbono essere superate».
Bene. Ma da chi? Dagli stessi protagonisti che hanno messo insieme il quadro
descritto dallo stesso Scalfari? Si invocano miracoli, ci vuole Padre Pio.
Infatti sempre Scalfari scrive: «Eppure - riconosciuta la carica negativa di
questa constatazione - resta il fatto che la nascita del Partito democratico
sulle spoglie dei Ds e della Margherita è un’assoluta necessità. La strada
separata di quei due partiti è arrivata al capolinea». Insomma, la somma di due
gruppi dirigenti falliti produrrà una forza vitale. Ma Scalfari ha abbastanza
esperienza per sapere che non sempre ciò che è necessario è anche possibile. E
quel che ha descritto non sarà certo superato da chi l’ha prodotto.
La verità è che si continua a discutere in astratto evitando di rispondere a
domande inquietanti: cosa sono oggi i due partiti che si fondono? Perché - come
dice Scalfari - sono al capolinea? Insomma, trovandosi in uno «stato di
necessità», i Ds si separano dalla famiglia del socialismo europeo non per «andare
oltre», come si usa dire, ma perché non sono stati in grado di tenere il passo
con gli sviluppi politico-culturali che hanno caratterizzato l’attività dei
partiti socialisti. Unendosi con la Margherita, nel Pd, queste inadeguatezze
non saranno superate, ma accentuate, soprattutto sul terreno della laicità e
dei diritti individuali. È questa insufficienza di risposte ai processi di
modernizzazione che caratterizzano le società europee che potrà accentuare la
crisi della democrazia italiana. Ecco perché oggi chi si oppone a questo
ripiego dei Ds in nome del socialismo europeo non lo fa solo per fedeltà a una
tradizione, a una storia che pure ci appartiene, ma per il domani della
sinistra e della democrazia italiana.
Dopo quasi quindici anni dalla convulsa fine della prima repubblica e dallo
sgretolarsi del sistema dei partiti che l’aveva caratterizzata, si può, oggi più
che mai, affermare, parafrasando il Marx del “Manifesto”, che lo “spettro”
dell’identità torna ad aggirarsi attraverso il dibattito politico italiano,
come emerge anche dal vivace dibattito sul Riformista.
E’ un problema che riemerge con forza, sia per l’area del centrodestra che per
quella del centrosinistra. Per quanto riguarda il centrosinistra, con forza
ancora maggiore, in ragione della imminente nascita del Partito democratico e
della fine dell’esperienza storica iniziata con la scissione di Livorno. La
“contaminazione di riformismi” da cui il Pd dovrebbe nascere, non può, infatti,
che passare attraverso la sostanziale dismissione dell’identità caratterizzante
della cultura politica della sinistra italiana: quella socialista (il comunismo
italiano nacque, pur sempre, da una scissione socialista!). Non a caso i dodici
saggi che hanno lavorato alla stesura del manifesto del partito, hanno trovato
il modo di inserirvi un ossimoro alquanto opinabile e bizzarro scrivendo che i
valori del Pd affondano «le loro radici più profonde nel Cristianesimo,
nell’illuminismo e nel loro complesso e sofferto rapporto» ma non sembra
abbiano trovato il modo, almeno a quanto ho letto, di formulare analogo
riferimento per il socialismo.
In realtà, il pervicace progetto di reductio ad unum di tutte le forze
politiche del centrosinistra e del centrodestra secondo lo schema di un
“bipolarismo ideologico” che vuole tutti “o riformisti o conservatori”, come
auspicava recentemente Romano Prodi intervistato da Gad Lerner (ma che è anche
la filosofia del partito unico del centrodestra!), non rende giustizia alla
complessità ed alla ricchezza del tessuto politico, culturale, storico e
sociale del nostro Paese, non lo rispecchia e non ne tiene conto.
Mortifica quelle che, veramente, sono le fondamentali identità
politico-culturali che hanno guidato la crescita democratica dell’Italia e la
sua modernizzazione: quella popolare e quella socialista. Identità che, invece,
sono a tutt’oggi indispensabili per un saldo ancoraggio, non solo formale,
all’Europa, per un’ulteriore crescita sociale ed economica, per una ripresa di
partecipazione democratica nella società superando la deriva plebiscitaria ed
oligarchica cui è stata ridotta la politica. Identità, quella popolare e quella
socialista, che, paradossalmente, sono l’unico oggettivo riferimento per
realizzare, anche in Italia, quello che oggi si usa definire “bipolarismo mite”
o maturo.
La tradizione popolare e quella socialdemocratica condividono, seppur in
ottiche differenziate, valori fondamentali: la partecipazione, la solidarietà,
il rispetto della persona, la tutela dei più deboli. L’insieme di questi valori
condivisi consente di poter immaginare il consolidarsi di un bipolarismo non
conflittuale. Cioè di un bipolarismo consolidato, sul modello del sistema
tedesco. Mi spingo ad ipotizzare che in un simile contesto di solido
bipolarismo - senza essere sottoposti al ricatto di lobbies, minoritarie ma
potenti, che pretendono d’imporre a tutta la società una loro impostazione
ideologica - si sarebbero potuti discutere con ben diversa pacatezza anche i
problemi delle persone che vivono in una coppia di fatto per una loro libera
scelta che va rispettata.
Era questa a mio avviso, l’evoluzione naturale verso cui si sarebbe avviato il
sistema politico italiano dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la fine della
guerra fredda. Ma questa evoluzione non c’è stata: “l’invasione di campo” dei
primi anni ’90 ha interrotto bruscamente questo processo e ha dato all’Italia
quasi 15 anni di interminabile transizione e di eclissi della politica.
Per convinzione, ruolo e storia personale - il Movimento di cui attualmente ho
la responsabilità, e in cui milito dalla fondazione, nacque, innanzitutto, per
rivendicare e difendere la specifica identità popolare di radice cristiana del
movimento operaio - sono molto perplesso e preoccupato di fronte ad ogni
prospettiva di smantellamento delle identità, sia nel centrodestra che nel
centrosinistra, e sono convinto che ognuno deve difendere e riaffermare la
propria identità con orgoglio, seppur senza integralismo.
Non posso nascondere che il progetto di partito unico del centrosinistra (come
anche, per altri versi, del centrodestra, anche se in questa direzione il
recente Congresso Udc è stato uno “stop” non secondario) mi sembra
rappresentare il tentativo di dar vita ad una nuova artificiale identità
politica, coltivata “in vitro” - Parisi ha, addirittura, parlato di “mostro” -
profondamente estranea alla nostra storia, alla nostra cultura ed alla nostra
realtà, ispirato al mito del “bipolarismo ideologico” statunitense
dell’asinello e dell’elefante, ma in realtà dominata, come ha dichiarato
Tremonti a questo giornale, dal “meccano mentale” della tradizione comunista,
depurato dell’identità socialista. Tuttavia, in Italia non ci sono asinelli ed
elefanti. C’è invece un robusto tessuto sociale fatto di movimenti, di
associazioni, di sindacati, di cooperative, di gente comune che ancora si
identifica, alternativamente, nei valori di fondo del popolarismo o del
socialismo democratico europeo. Per questo sono convinto che, malgrado tutto,
non sarà così facile sradicare dalla nostra cultura politica e dalla nostra
storia, identità che hanno radici tanto profonde.
Primonumero.it
16-4-2007 Le case si moltiplicano ma i termolesi non le comprano di Daniela
Fiorilli
Il paradosso del mercato immobiliare cittadino: le imprese di costruzione
aprono nuovi cantieri, i prezzi lievitano, ma le agenzie immobiliari denunciano
uno stato di crisi. “Il ceto medio non ha soldi per comprare un appartamento in
città”. Aumenta il numero degli acquirenti ‘forestieri’ che vogliono la seconda
casa al mare. Gli affitti sono tra i piщ alti del centro sud.
|
Da un lato la redditizia speculazione e dall’altra la
crisi: è la doppia faccia del mercato immobiliare termolese. Inaccessibile alle famiglie di ceto medio e spesso
ai giovani, e fruttuosissimo per gli investitori di professione, quelli che dal
mattone ricavano milioni di euro l’anno e che continuano a costruire
malgrado il mercato locale venga considerato saturo e molti appartamenti
rimangano sfitti. Un mistero.
Digitando le parole “agenzia immobiliare” sul sito delle Pagine Gialle e
inserendo nello spazio riservato alla città il nome “Termoli”, si scopre che
nella cittadina adriatica esistono 46 punti vendita e affitto di appartamenti.
Se si ripete la stessa ricerca per Campobasso o Isernia ne saltano fuori solo
27. Il mercato immobiliare della cittadina adriatica doppia quasi
quello del capoluogo regionale. Troppa abbondanza, verrebbe da
dire. Eppure, guardando i cantieri aperti e quelli che continuano ad
aprirsi, le decine di gru in movimento e il via vai di muratori, sembra
che la case sulla costa non bastino mai. Secondo i costruttori del posto,
che negli ultimi cinque anni hanno moltiplicato a dismisura il numero dei nuovi
edifici nelle zone di periferia e in quelle a ridosso del centro, ci sarebbero
centinaia di richieste non soddisfatte e gli appartamenti che sono sul mercato
sono oggetto di furibonde contese tra i ‘money man’ del Molise, ma anche di altre
regioni. Se invece si va a fare un piccolo sondaggio fra le agenzie immobiliari
termolesi, sembra che la corsa al mattone sia in forte rallentamento.
Una spiegazione – ma solo parziale – di questa contraddizione viene dal recente
rinato interesse degli acquirenti “di fuori”. Pugliesi, campani,
sammartinesi e bassomolisani in genere acquistano casa nelle cittadina
adriatica: «Le famiglie residenti nei paesi dell’hinterland lo fanno
perché magari hanno i figli che vengono a scuola in città e hanno qui i loro
amici e quindi i genitori valutano di trasferirsi, o comunque di comprare una
seconda casa a Termoli anche per l’estate o per trasferirsi solo nel fine
settimana» dice un costruttore «Poi ci sono i pugliesi e
talvolta i campani, che investono in seconda o terza casa per poi affittarla.
Termoli in fondo ha il mare e ha tutti i servizi di una città, dunque in Molise
è forse il centro di maggior attrazione».
Lo è evidentemente anche piщ di Campobasso che, benché il capoluogo
ospiti l’università da piщ anni e sia sede del tribunale e dei piщ
importanti uffici amministrativi e politici della regione.
Eppure i prezzi degli appartamenti non sono poi così vantaggiosi a Termoli
dove si può andare dai 1.100 euro al metro quadro della estrema
periferia, quella dispersa nella campagna dove scarseggiano anche i servizi
basilari, ai 1.800 della prima periferia - cioè quella meglio
servita e piщ vicina al cuore urbano - , fino ai 2.300/3000 euro
al metro quadro per un’abitazione da ‘vip’ nelle vie centrali, dove trovare
un alloggio è ormai cosa difficilissima. Ma le richieste schizzano alle
stelle, anche a 4000 euro al metro quadro, quando si tratta di casette
particolari, ad esempio con vista mare o con disponibilità di accedere a un
pezzetto di giardino, oppure se si trovano nel Borgo Antico e sono già
ristrutturate.
In centro, del resto, perfino un garage da 18 metri quadri può
raggiungere il valore di 33mila euro, cioè quasi 2mila al metro quadro, e
in generale un box auto – bene per altro introvabile – può costare piщ di
un monolocale di periferia. Non sono da meno gli affitti che
possono raggiungere i 700 euro al mese per un monolocale ammobiliato,
climatizzato e ristrutturato: prezzo, s’intende, per chi affitta tutto l’anno
visto che le locazioni limitate ai soli mesi estivi fanno lievitare le cifre
sotto l’effetto del solleone.
Tanto per dare un’idea: lo studio condotto a livello nazionale da una delle
tante associazioni di inquilini individua, per un appartamento di piccole
dimensioni - 60/70 metri quadri -, un prezzo medio nelle regioni del centro sud
a 376 euro al mese. A Termoli si va oltre i 400 euro.
I prezzi da capogiro rendono difficile per le famiglie del ceto medio
comprare oppure affittare un’abitazione, e conseguentemente molti giovani
non abbandonano il tetto dei genitori. «Malgrado ci siano molti edifici in
costruzione, qui a Termoli si lavora poco, c’è molta crisi» dicono i
proprietari di numerose agenzie immobiliari della città. Alcuni affermano
addirittura di essere stati costretti a ridurre il personale negli ultimi
tempi. Perché? «In città non ci sono soldi. I costruttori
hanno risposto bene alle richieste degli anni passati realizzando abitazioni a
rotta di collo, ma i prezzi continuano a salire. Quelli che se li possono
permettere devono disporre di un reddito molto alto. Gli operai, i dipendenti
in generale, e le famiglie monoreddito non possono né accendere un mutuo né
pagare gli affitti che vengono richiesti». Cosa fanno? «Qualcuno si sposta a
San Giacomo, ma anche lì ormai i costi stanno lievitando. I giovani restano a
casa con papà e mamma».
Si va lentamente diffondendo anche un fenomeno assai in voga nelle
grandi città, e che sta prendendo piede pure a Termoli: la casa
condivisa, vale a dire quando tre o quattro giovani lavoratori decidono di
convivere, pur non conoscendosi, per dividere le spese. Questo nuovo tipo di
“nucleo” a Roma o a Milano permette di far fronte ad affitti che raggiungono
anche i 1.600 euro al mese per abitazioni da 80 metriquadri.
Ma quante abitazioni ci sono a Termoli? Un colpo d’occhio sul
quartiere di Difesa Grande e su quello di Porticone farebbe pensare che siano
almeno il doppio dei 15mila nuclei familiari di Termoli: all’ufficio del
catasto tuttavia non dispongono di questo dato.
(Pubblicato
il 16/04/2007)
INDICE 16-4-2007
++ L’intervento di Beppe
Grillo all’assemblea Telecom
++ AgenParl 16-4-2007
SANITA’: FERRERO (PRC), PROPOSTA DI LEGGE PER LIMITARE L’ABUSO DI ALCOL
++ AgenParl 16-4-2007 PD:
DO UT DES
+ Il Giornale di Vicenza
16-4-2007 DRAGHI "Combattere la povertà nel mondo"
Il Manifesto 16-4-2007
Un'Europa da fame e senza diritti? No, grazie Silvia Barbatella
La Stampa 16-4-2007
DEMOCRATICO NON VUOL DIRE CONFUSO Riccardo Barenghi
Il Riformista
16-4-2007Partito democratico e questione socialista. Paolo Franchi
La Repubblica 16-4-2007
LINEA DI CONFINE MARIO PIRANI
Corriere economia
16-4-2007 Offshore Medicine false, allarme Ue a cura di Ivo Caizzi
Da Antitrust
14-4-2007 COMUNICATO
STAMPA
++ L’intervento di Beppe Grillo all’assemblea
Telecom
++ AgenParl 16-4-2007 SANITA’: FERRERO (PRC),
PROPOSTA DI LEGGE PER LIMITARE L’ABUSO DI ALCOL
Roma,
16 aprile 2007 – AgenParl – Ogni anno in Italia si registrano dati allarmanti
associati all’uso di alcol. I numeri parlano chiaro: 25000 i decessi, più di 17000
uomini e circa 7000 donne. In particolare il binge drinking (bere per
ubriacarsi 6 o più bicchieri in un’unica occasione) è sempre più diffuso tra i
ragazzi italiani. La conferma arriva da uno studio dell’Oms che rivela come il
67% dei 13-15enni e il 74% di giovani fino ai 35 anni, dichiara di bere ogni
sabato per ubriacarsi. Sono “700 mila tra ragazzi e ragazze al di sotto dei 16
anni a consumare alcol nel nostro Paese e il trend è in forte crescita”
dichiara Emanuele Scafato, direttore del Centro Oms e dell’ISS per la ricerca
sull’alcol. Nella nostra società dove prevale l’incomunicabilità, l’alcol,
infatti, ha assunto la funzione di fluidificante dei rapporti sociali,
producendo un’alterazione della personalità o meglio “lo sballo”.
“E’ necessaria una grande campagna di informazioni sui pericoli dell’alcol e
sul danno che ne determina l’abuso, – sostiene Paolo Ferrero, ministro della
Solidarietà sociale – presenterò a breve al Consiglio dei Ministri un decreto
di legge che limiti la pubblicità degli alcolici in TV e sui giornali, e
prevedo per gli alcolici la vendita con etichette che avvertono sulla
pericolosità dell’uso di alcol”. (P.M.)
++
AgenParl 16-4-2007 PD: DO UT DES
Roma,
16 Aprile 2007 - AgenParl - “Il numero uno per ora è Prodi”. Così il vice-presidente
del Consiglio Massimo D’Alema è intervenuto sulla questione della leadership
futura del Partito Democratico.
A pochi giorni dai congressi che porteranno Ds e Dl, rispettivamente, a
sciogliersi nella prospettata formazione “moderata”, è in corso uno scambio più
o meno aspro di battute tra gli esponenti delle diverse componenti dei due
partiti.
L’eterogeneità dei percorsi, delle idee e degli interessi che lo caratterizza
corrisponde alla probabilità che, chiusa con i congressi la cosiddetta fase
uno, la seconda fase verso la costituzione del Pd possa scontare tentativi di
rivalsa, sgambetti e trappole.
In attesa dell’avvio della “terza fase” (quella che fra un paio d’anni dovrebbe
inaugurare i nuovi tesseramenti), gli alfieri del Pd sembrano voler scongiurare
il rischio di una lotta intestina. Si rincorrono, ora, voci sulla leadership e
sulle modalità di nomina dei candidati, mentre pare scivolare in secondo piano
la questione della collocazione in Europa del nuovo partito.
Per restituire ai cittadini-elettori la possibilità di scegliere i candidati da
eleggere sembra che i vertici del Pd indiranno delle “primarie”. Tante quante i
collegi.
Per dare ai leader la possibilità di sopravvivere alle reciproche ambizioni,
invece, pare che si voglia battere una strada, che nuova non è. Rispunta,
infatti, il sistema di controassicurazione fra le parti che vigeva nella Dc del
tempo che fu.
La soluzione prospettata potrebbe essere quella di garantire ad una delle due
componenti originarie la guida del partito e di assicurare all’altra la
Presidenza del Consiglio. (F.Mi.)
REDAZIONALE
ASSENTEISMO Quei 6,8 milioni di giornate da recuperare SEGUE DALLA PRIMA Se il
costo complessivo medio di una giornata di lavoro è di 150 euro, quei 6,8
milioni di giornate di malattia in più - stabilizzatesi nel 2006 - stanno
costando alle aziende italiane oltre un miliardo di euro l'anno: quasi un terzo
di quanto il governo ha destinato alle aziende stesse con l'ultima legge
finanziaria per ridurre, con il "cuneo fiscale", il costo del lavoro.
Data l'enorme entità di questa perdita, vale davvero la pena di investire
risorse e attenzione sullo studio dei meccanismi socio-culturali che la
producono; e dei possibili rimedi. Il basso livello relativo delle retribuzioni
italiane non può spiegare un aumento improvviso dell'assenteismo di questa
entità. In un sistema che consente a quasi tutti i lavoratori di "mettersi
in malattia" con grande facilità e senza perdita di retribuzione, ciò che
induce ad andare ogni giorno al lavoro è, certo, l'attaccamento al lavoro
stesso, sul quale il buon compenso certo influisce; ma conta anche il senso del
dovere, il senso di responsabilità verso i colleghi e l'intera collettività. E
questo senso di responsabilità è alimentato dalla percezione che esso sia
condiviso dalla generalità dei consociati; se invece la coesione sociale e il
clima di fiducia reciproca tra i membri della comunità si deteriorano, se
prevalgono i messaggi di egoismo e svalutazione del bene pubblico, si innesca
il circolo vizioso che tende a collocare il sistema a un livello più basso di
efficienza ed equità. Occorre rendersi conto che la cultura delle regole, il
senso civico e l'attaccamento al bene comune, alla res publica, non
costituiscono soltanto risorse morali essenziali di un Paese, ma costituiscono
anche un fattore produttivo indispensabile, di cui per certi aspetti (come
questo di cui stiamo discutendo) è misurabile con precisione l'enorme valore
economico. Coltivare e alimentare questo delicatissimo "gioco a somma
positiva" è compito precipuo del governo nazionale, ma anche di tutte le
altre istituzioni e formazioni sociali intermedie, ivi compresi gli ordini professionali,
i sindacati dei lavoratori, i giudici penali e del lavoro (i quali - come
mostra anche l'impressionante articolo di ieri di Gian Antonio Stella - proprio
sul terreno dell'assenteismo abusivo solitamente dimenticano il rigore
applicato in altri campi). Riattivare il gioco a somma positiva è possibile
soltanto con un'iniziativa a 360 gradi, che coinvolga tutti questi soggetti e
faccia leva al tempo stesso sulla campagna di opinione e sugli incentivi
giusti, dando a tutte le parti sociali interessate la percezione che si sta
voltando pagina. Pensiamo, per esempio, a un governo che - mediante un accordo
con i sindacati, gli imprenditori, l'Inps e possibilmente anche gli Ordini dei
medici - lanci l'obbiettivo del recupero, nell'arco del prossimo anno, di quei
6,8 milioni di giornate di astensione dal lavoro sicuramente evitabili; e
magari - perché no? - negli anni successivi l'obbiettivo di allineare il nostro
tasso di assenze per malattia a quello dei Paesi europei più virtuosi. Come?
Richiamando tutti, i medici per primi, a un maggior rigore e senso di
responsabilità; attivando quella rilevazione telematica di tutte le
certificazioni e le prescrizioni terapeutiche (già prevista fin dalla
Finanziaria 2005, articolo 1, comma 149Ë?, ma ancora inattuata per ritardi del
ministero della Salute) che consentirebbe un controllo molto efficace
sull'operato dei medici e su alcune forme di assenteismo abusivo; richiamando i
dirigenti pubblici alla necessità di un riallineamento dei tassi di assenza nel
loro settore a quelli delle aziende private; ma anche adottando un'opportuna
riduzione della retribuzione per i primi tre giorni di malattia, eventualmente
compensata dalla possibilità di autocertificazione per quei giorni, ma,
soprattutto, da un aumento generale delle retribuzioni corrispondente al
risparmio conseguito dalle aziende, in modo che tutti i lavoratori percepiscano
immediatamente il vantaggio della riforma. L'obiezione di rito, a questo punto,
è che i veri problemi del mondo del lavoro sono "ben altri": il
lavoro nero, le "morti bianche", e anche le retribuzioni troppo
basse. Ma se andiamo alla radice del fenomeno del lavoro nero e di quello
connesso degli infortuni nei cantieri troviamo ancora l'illegalità diffusa, il
difetto generale di cultura delle regole che affligge il nostro Paese: qui la
battaglia, in ultima analisi, è ancora la stessa. Quanto alle retribuzioni
troppo basse, perché non incominciamo col restituire a chi lavora quel miliardo
indebitamente distribuito ogni anno a chi sta a casa senza vera necessità?.
10:45
Articoli a tema | Tutte le news di Economia Rozzano (Milano), 16 apr. (Apcom) -
A meno di un'ora dall'inizio dell'assemblea degli azionisti di Telecom Italia il
comico Beppe Grillo anticipa i bersagli della propria arringa in un comizio
volante al presidio dei sindacati all'ingresso degli azionisti: l'ex presidente
Marco Tronchetti Provera, il presidente della Consob Lamberto Cardia,
l'aspirante azionista di controllo messicano Carlos Slim e gli stessi sindacati
presenti all'ingresso dell'auditorium. "Guido Rossi - ha detto Grillo - se
ne è andato dicendo che il capitalismo italiano è come la Borsa di Chicago. Sto
cercando Al Capone, ma ha la salute cagionevole", ha detto. Il comico si è
detto dispiaciuto di non poter rappresentare i piccoli azionisti in quanto
impossibilitato a farlo dalla legge Draghi, che a suo dire rende difficile la
raccolta delle deleghe. "Cardia mi dice - ha affermato Grillo riferendosi
al presidente della Consob - che creo turbativa. Gli ho risposto con una
lettera nella quale gli chiedo come mai non abbiano avuto la stessa attenzione
su Parmalat e Bpi". Secondo il comico, che ha simbolicamente consegnato
una copia del bilancio di Telecom Italia ai sindacati, il documento contabile è
"un trattato di psichiatria dal qualche si deduce che l'unica cosa certa è
che i piccoli azionisti hanno investito dieci e ora hanno cinque".
"Il governo 'auspica' - ha detto ironizzando sul ruolo a suo giudizio poco
incisivo dell'esecutivo - molti cercano di svendere una cosa che hanno
depredato e un comico parla da ragioniere-azionista. Non voglio essere il
paladino di nessuno, ma farò un discorso preciso per evitare problemi".
Grillo ha poi lasciato il presidio dei sindacati all'ingresso dell'assemblea
aggiungendo che se dovesse avere la meglio la cordata 'Tex-Mex' i dipendenti
del gruppo di telecomunicazioni subirebbero un taglio di 30mila unità.
"Dovevate essere qui in 80mila - ha detto riferendosi ai sindacalisti - ma
ormai i sindacati vogliono quotarsi in Borsa". Asa/Sar.
(ASCA)
- Rozzano, 16 apr - Beppe Grillo, azionista di Telecom, e oggi
presente a Rozzano sintetizza cosi' quali saranno le linee guida del suo
intervento in assemblea dei soci. Il comico genovese ha spiegato di aver piu'
volte fatto pressioni per avere piu' chiarezza sullo stato del gruppo di tlc,
''ma la Consob - ha lamentato - mi ha mandato tre lettere dicendo che potevo
creare turbativa. Ormai - ha ironizzato il comico - con Cardia ho un rapporto
affettivo''. Dito puntato anche sul bilancio Telecom, a giudizio di Grillo
''roba da neuropsichiatria. Ormai - ha insistito - si sono venduti tutto''.
Quanto alla possibilita' di un intervento da parte di Carlos Slim, il messicano
a capo del gruppo American Movil, Grillo ha commentato: ''Figuratevi se uno
degli uomini piu' ricchi del mondo si compra un cadavere simile. Comunque - ha
puntualizzato - con il 13% controllerebbe la societa'''. E rivolto ai
lavoratori delle tlc presenti di fronte all'ingresso a manifestare, Grillo ha
aggiunto: ''Dovevate venire in 80.000 a manifestare perche' se arriva
il messicano vi manda a casa in 30.000''. Infine, un affondo nei confronti di
Marco Tronchetti Provera: ''Non si e' visto neanche questa volta. E' la seconda
volta che mi sfugge. La prima era in un convegno a Siena dove doveva parlare di
etica dell'informazione con Andreotti''. fcz/mac/sr.
+
Il Giornale di Vicenza 16-4-2007 DRAGHI "Combattere la povertà nel
mondo"
DRAGHI
"Combattere la povertà nel mondo"   Washington. Donne ed
energia per combattere la povertà. La ricetta è del governatore della Banca
d'Italia, Mario Draghi, secondo il quale gli obiettivi del Millenium
Development Goal, il protocollo fissato dall'Onu per dimezzare la povertà
mondiale entro il 2015, "non saranno raggiunti senza un più coerente
ordine nella struttura degli aiuti globali". "Non centreremo gli
obiettivi se alle donne non saranno date la stessa libertà e le stesse
opportunità degli uomini", ha spiegato Draghi intervenendo al Development
Committee della Banca Mondiale, sottolineando che "cruciale" è anche
l'accesso alle fonti energetiche perché "senza energia i Paesi e le
persone non possono raggiungere il loro potenziale di sviluppo e ridurre la
povertà". L'Italia "sta attualmente rivedendo i suoi sistemi di aiuto
puntando sul rafforzamento delle sinergie fra i canali di cooperazione
bilaterali e multilaterali", ha aggiunto, mettendo in evidenza come che la
Banca Mondiale, "nel nuovo panorama globale dello sviluppo", ha un
ruolo "cruciale di coordinamento degli sforzi per rivedere l'architettura
degli aiuti e renderli più efficaci". Secondo il Governatore, la
proliferazione degli attori sulla scena "per quanto benvenuta, richiede
sforzi molto più forti per armonizzare le nostre azioni e raggiungere il
Millenium Goal". Secondo la Banca Mondiale, il numero dei poveri è sceso
sotto quota un miliardo: la quota delle persone che vivono con meno di 1
dollaro al giorno è scesa al 18,4% nel 2004, ultimi dati disponibili. A fare da
contraltare all'intervento sulla povertà di Draghi, è stato quello sugli hedge
fund organizzato dalla Banca di Francia ed al quale il governatore ha
partecipato in qualità di presidente del Financial Stability Forum, l'organismo
al quale il G7 ha incaricato la stesura di un rapporto sui fondi speculativi.
Il rapporto, ha osservato Draghi, dovrebbe arrivare entro la fine dell'anno,
mentre a maggio ci sarà un report. L'industria degli hedge fund ha vissuto e
sta vivendo "uno straordinario sviluppo" ed è quindi ovvi che
"le autorità nazionali si chiedano quali siano le implicazioni per la
stabilità finanziaria internazionale e per la tutela degli investitori".
Negli ultimi anni è stato intensificato il monitoraggi, ha constato Draghi, sul
rapporto fra gli hedge fund e le loro controparti (cinque o sei grandi banche),
e soprattutto l'esposizione di queste ultime verso i fondi.  .
Se
il governo fa sul serio tagli i fondi ai giornali di partito IL MERCATO deve
valere per tutti, non solo per i tassisti. Ha quindi fatto benissimo il nostro
direttore Giancarlo Mazzuca a riportare in evidenza il tema del finanziamento
pubblico ai giornali di partito. Tanto per cominciare si tratta di due
categorie: quelli che danno voce ad un movimento davvero esistente e quelli che
invece si servono della norma utilizzando sigle fantasma. Come tutti sanno, a
cominciare da chi assegna i soldi. In tutto assorbono 550 milioni di euro, una
cifra di tutto rispetto. Durante l'ultima finanziaria si era paventata una pur
minima riduzione di questo importo così sproporzionato. E' successo il
finimondo e il governo ha fatto marcia indietro, preferendo prevedere i ticket
per le medicine e le visite mediche. NEL DODECALOGO con cui Prodi ha
rabberciato l'ultima crisi, ha opportunamente previsto la riduzione dei costi dello
Stato. Sabato scorso il Ministro Santagata ha indicato le linee di fondo di un disegno
di legge da emanare a maggio sul contenimento dei costi dellapolitica.
Da quanto si legge, con la consueta saggezza invece di dare l'esempio
dall'alto, si preferisce partire dal basso, dagli enti locali, che invece sono
l'istituzione maggiormente controllata ed utile per i cittadini. A prescindere
che invece di un disegno di legge, andrebbe emanato un decreto legge, per avere
effetti immediati, invece di infognare la proposta nei rami del Parlamento che
già immaginiamo con quale entusiasmo si occuperanno di questi temi che
rischiano di lambire un qualche pur minimo privilegio che è stato generosamente
elargito ai propri membri. E quale migliore occasione di questo provvedimento
sui costi dellapolitica per abolire i
finanziamenti pubblici all'editoria di partito? Con i circa 200 milioni di euro
che ci costano i gruppi politici di Camera e Senato, i loro giornali se li
possono comodamente pagare, senza gravare ulteriormente sulle casse
dell'erario. Inoltre, va da se che questi finanziamenti non vadano più
assegnati a chi non ne ha titolo. C'è poi un'altra straordinaria ragione per
evitare di foraggiare questi giornali, quasi tutti semiclandestini, che fanno
capo ai partiti. Ed è la circostanza che in tutti i telegiornali, in tutte le
trasmissioni (dalle più leggere alle più impegnate), su tutti gli argomenti
(dalla letteratura alla calvizie), quotidianamente vediamo spuntare politici a
tutto spiano che ci forniscono il loro pensiero. Inoltre, i quotidiani non di
partito tutti i giorni che il Signore manda in terra hanno come piatto centrale
del loro menù i politici in tutte le salse. Tutto si può dire, ma non certo che
in Italia gli onorevoli rappresentanti del popolo siano oscurati. APPUNTO per
questo la stampa di partito non può assolutamente essere assistita dai soldi
dei cittadini. I contribuenti già pagano profumatamente parlamentari,
consiglieri regionali e gruppi politici. E sarebbe ora di cominciare a dare
segnali di serietà. Uno dei primi sarebbe proprio l'abolizione del
finanziamento all'editoria di partito. Se non si farà nulla in questa
direzione, significherebbe ancora una volta continuare a menare il can per
l'aia. Solo che stavolta, rispetto alle altre, c'è una lieve differenza: gli
italiani se ne stanno accorgendo.
Il
Manifesto 16-4-2007 Un'Europa da fame e senza diritti? No, grazie Silvia
Barbatella
Ormai
si sprecano i rapporti statistici che danno i salari degli italiani come i più
bassi dell'Ue, insieme a quelli di greci e portoghesi. E visto che si
sprecano anche le ricerche che danno le nostre industrie e i nostri prodotti come
i meno competitivi sul mercato europeo e internazionale, questo almeno dovrebbe
dimostrare che l'economia di un paese non si salva affatto comprimendo il costo
del lavoro: non si salva neppure la competitività... Ma tant'è. Secondo la nota
regola per cui le condizioni peggiori a livello di diritti, salari, libertà
servono da base per un peggioramento generalizzato, ecco che il disagio
salariale dell'Europameridionale si estende anche a paesi non sospetti,
ai "motori" della Ue: dalla Francia arriva infatti un
grido d'allarme. Negli ultimi anni in Francia, lo Smic - ovvero il salario
minimo intercategoriale sotto cui nessun contratto collettivo può scendere per
legge - si è attestato sulla cifra di 1.254,28 euro lordi mensili, che al netto
delle imposte fanno 984 euro netti in busta paga. E sempre di più sono le
lavoratrici e i lavoratori i cui salari sono schiacciati senza prospettive
d'aumento su questa cifra che, ormai, non basta più nemmeno a sopravvivere. È
da oltre un mese che in Francia sono in corso scioperi a oltranza di gruppi di
lavoratrici e lavoratori per aumenti salariali consistenti e per l'assunzione a
tempo indeterminato dei precari e delle precarie. A Aulny-sous-Bois,
dipartimento di Seine-Saint-Denis nell'hinterland parigino, 400 operai dello
stabilimento Psa Peugeot-Citroën sono in sciopero dal 28 febbraio con la
richiesta di un aumento minimo di 300 euro mensili uguale per tutte/i (contro
la concessione di soli 26 euro lordi mensili al rinnovo del contratto!),
l'aumento del salario lordo d'ingresso a 1.525 euro mensili netti, il
prepensionamento a 55 anni di chi lavora in catena di montaggio e l'assunzione
con contratto a tempo indeterminato delle lavoratrici e dei lavoratori
interinali già presenti in azienda. L'impresa pubblicitaria Clear Channel,
gruppo multinazionale statunitense che ha in appalto la campagna presidenziale
francese 2007, a sua volta vede lo sciopero del personale addetto
all'affissione dei manifesti, che il 5 aprile ha manifestato davanti alla
stazione Saint-Lazare di Parigi al grido di "Aumentate il salario, siamo
stufi di andare in rosso!" e di "Niente tregua elettorale!". La
vertenza non è stata costruita in funzione della scadenza elettorale, è nata
naturalmente quando a fine contrattazione, sul modello della peggiore procedura
di concertazione all'italiana (anche questa è contagiosa?), la controparte ha
proposto ai sindacati la sottoscrizione di un aumento irrisorio o la firma di
un verbale di mancato raggiungimento di accordo. Contemporaneamente, 173
dipendenti di Trans-Service-International, impresa incaricata della pulizia dei
treni di notte in transito dalla stazione parigina di Austerlitz, stanno
scioperando da circa la metà di marzo mentre la loro direzione aziendale li ha
trascinati in giudizio; e negli ultimi giorni è stato avviato un altro sciopero
nel dipartimento Haut-de-Seine, a La Garenne-Colombes, presso un supermercato
della catena Monoprix, che ha visto il coinvolgimento della metà di un organico
di circa 120 persone. I conflitti, insomma, si estendono e l'insufficienza dei
salari è la base comune di tutti. Non a caso anche le candidate e i candidati
alle presidenziali hanno dovuto fare i conti con le lotte in corso e cinque
candidate e candidati della sinistra, fra cui Ségolène Royal, si sono recati allo
stabilimento Psa Peugeot-Citroën per esprimere la loro solidarietà con gli
scioperanti. Vedremo se questa solidarietà avrà corso anche dopo l'eventuale
elezione della candidata socialista. Resta il fatto che l'Europa che
si sta costruendo diventa ogni giorno di più una terra di cittadinanza ridotta,
di salari bassi e di ingiustizia sociale: le lotte che in queste settimane
stanno diffondendosi a macchie di leopardo in Francia sono il segnale che per
lavoratrici e lavoratori le condizioni di vita si stanno facendo sempre più
insostenibili, ma sono anche uno spiraglio di luce che lascia intravedere
un'alternativa: un'Europa di diritti, di occupazioni in condizioni
decenti e a salari dignitosi, di cittadinanza per chi ci vive e ci lavora. L'Europa per
cui anche noi lottiamo, esprimendo la nostra solidarietà alle lavoratrici e ai
lavoratori francesi. * Ufficio internazionale SdL intercategoriale.
La
Stampa 16-4-2007 DEMOCRATICO NON VUOL DIRE CONFUSO
Riccardo Barenghi
Tra
una settimana il dado sarà tratto, i congressi dei due principali partiti del
centrosinistra avranno deciso che il loro futuro politico sarà uno solo. Tra
qualche mese nascerà la Costituente del Partito democratico dopo di che, l'anno
prossimo, il Partito stesso celebrerà il suo congresso di fondazione. La
decisione è importante, qualcuno dice epocale, in ogni caso è certo che si
tratta di un fatto che cambierà lo scenario politico del nostro Paese. E non
solo per i protagonisti della nuova avventura, i militanti, gli iscritti, gli
elettori, ma anche per i loro attuali alleati, per quelli che decideranno di
separarsi, per chi sta più a sinistra e perfino per gli avversari del
centrodestra, che magari saranno sollecitati a dar vita a una sorta di Partito
unico. È ovvio che la strada della nuova forza politica non sarà semplice, i
problemi e gli incidenti di percorso non mancheranno, anzi già non mancano. È e
sarà un cammino travagliato, pieno di ostacoli, di polemiche, di scissioni, di
lotte di potere, di scontri su chi sarà il leader. Dopo di che è molto
probabile che il progetto andrà in porto, con quali risultati è difficile dirlo
oggi, ma certamente sarà un Partito che potrà aspirare a raccogliere almeno il
30% degli elettori, anche se i sondaggi di oggi sono molto meno generosi e lo
accreditano tra il 23 e il 25. La base di partenza comunque c'è, il compito dei
vari dirigenti dei Ds e della Margherita sarà quello di rendere sempre più
credibile e appetibile la loro nuova creatura. Dandole una fisionomia politica,
tematica, ideologica (brutta parola ma efficace), di valori, di obiettivi che
oggi sono ancora piuttosto vaghi. Una vaghezza che non è una dimenticanza,
bensì una precisa strategia volta a raccogliere più forze possibili, più
consenso, più voti. Ma è una strategia sbagliata, proprio perché rende il
progetto fumoso, poco chiaro, indeterminato nei suoi confini. I quali
dovrebbero essere dichiarati urbi et orbi invece di continuare a ripetere, come
fanno più o meno tutti i leader in campo, che il Partito democratico è aperto a
tutti, che c'è posto per tutti, che tutti devono entrarci perché quello è il
grande contenitore, la Casa di tutti i riformisti italiani, come ha ripetuto lo
stesso Prodi l'altro ieri. Ma in Italia tutti ormai sono riformisti, di
rivoluzionari se ne vedono ben pochi in giro: anche la cosiddetta sinistra
radicale non pensa più alla presa del Palazzo d'Inverno. Dunque si tratta di
farci sapere, anzi di far sapere al Paese quale sarà il riformismo del Partito
democratico. Sulla politica economica, sulla politica estera, su quella
sociale, sulle questioni eticamente sensibili. Lasciando perdere i Pantheon dei
padri fondatori, che lasciano il tempo che trovano, e stabilendo appunto dei
confini, a destra e a sinistra, e anche rispetto alla tanto evocata e agognata
società civile, che non è un magma indistinto ma si divide anch'essa per valori
e opinioni politiche. Insomma, invece di continuare a rivolgere generici
appelli affinché tutti entrino nella grande Casa, socialisti e democratici,
laici e cattolici, rossi, rosa e bianchi, sarebbe un'operazione di
onestà intellettuale e di coraggio se i vari Prodi, Fassino, D'Alema, Veltroni,
Rutelli, Marini dicessero una cosa più semplice: siamo questi qui, vogliamo
fare queste cose qui e le vogliamo fare in questo modo. E chi condivide è
benvenuto, gli altri è meglio se restano fuori. Poi discutano con tutti,
ovviamente, ma sulla base di un progetto definito, chiaro, alla fine anche
chiuso entro i suoi limiti, senza la paura di perdere pezzi per strada. Perché
tenere insieme tutto e il contrario di tutto non ha mai funzionato, in
politica. Anche la Dc, che pure èstato il partito più onnivoro
della nostra storia, i suoi confini li aveva ben precisi. E così i suoi
elettori, che proprio per questo la facevano vincere.
Il
Riformista 16-4-2007Partito democratico e questione socialista. Paolo Franchi
Chissà
se è il caso di dire: finalmente. Ma in ogni caso ci siamo. Questo fine
settimana Quercia e Margherita celebreranno i loro ultimi congressi, e poi
prenderà il via la fase costituente del Partito democratico. Un solo augurio -
sincero, sincerissimo - ci sentiamo di esprimere non solo ai diretti
interessati ma a tutto il centrosinistra e in primo luogo a tutti i riformisti:
l'augurio che, archiviati i congressi, si archivi pure lo scemenzaio di queste
settimane e di questi giorni, e si cominci, sempre che non sia ormai troppo
tardi, a fare sul serio. Onestamente non sapremmo dire se il nuovo partito
troverà la risposta giusta da dare al ragazzo (leggiamo su Repubblica) che a
Piero Fassino ha chiesto come si regoleranno i democrats di fronte al fatto che
da qualche anno d'inverno non c'è più il freddo di una volta: a pensarci bene,
ci verrebbe da dire di no. Sarebbe già qualcosa, comunque, se si smettesse di
immettere ed espellere a giorni alterni nobili antenati, che oltretutto sono
impossibilitati a pronunciarsi in materia, dall'ipotetico Pantheon del Pd, e di
tirare il sasso e nascondere la mano sulle leadership passate, presenti e
future, per concentrarsi piuttosto su quello che un tempo veniva chiamato il
«che fare». Prendere atto che Ds e Margherita sono palesemente a fine corsa, e
sbrigarsi a mettere insieme le loro due debolezze nella speranza che,
sommandole, venga fuori qualcosa di non troppo dissimile da una forza, non
basta a dar vita a un nuovo partito (anzi, a un partito nuovo) a vocazione
maggioritaria. Che però non nasce neppure facendo affidamento sulle virtù
salvifiche del popolo delle primarie, attualmente in sonno ma sempre pronte a
manifestarsi di nuovo purché qualcuno (chi?) riesca a spezzare, o almeno ad
allentare, la cappa delle oligarchie partitocratiche.
Vedremo. Vedremo con spirito critico, non aprioristicamente ostile, intendiamo
dire. Con rispetto. E con disincanto. Lo stesso spirito, lo stesso rispetto, e
pure, perché no, lo stesso disincanto con cui guardiamo ai processi nuovi che
la stessa nascita del Pd (o meglio il modo davvero non esaltante in cui il Pd
sta cominciando a prendere forma) ha messo in movimento a sinistra. A Fiuggi,
per cominciare, è successo qualcosa di importante, qualcosa di letteralmente
impensabile appena fino a pochi mesi fa, qualcosa di più significativo della
ricomposizione di alcuni pezzi e pezzetti della diaspora socialista. Anche qui
si è inaugurata una stagione costituente. Se dovessimo prendere alla lettera le
parole di Enrico Boselli, e pensare che in fondo al percorso ci sia la
resurrezione di un partito denominato Partito socialista italiano, sezione
italiana (perdonate il linguaggio d'epoca) del Partito del Socialismo europeo e
dell'Internazionale, diremmo subito che nella ridente cittadina termale si è
dato (legittimo) sfogo all'orgoglio, ma si è fatta pure della demagogia, e
soprattutto si è perso del tempo. Ma a noi pare che dal congresso dello Sdi sia
uscita soprattutto l'indicazione, molto meno nostalgica, di scommettere
sull'esistenza e sul futuro di una sinistra “larga”, che nel Partito
democratico, o almeno in questo Partito democratico che sta per nascere, non si
riconosce. Offrendo almeno a una parte di questa sinistra l'ancoraggio al
socialismo democratico e liberale, in Italia e in Europa, come prospettiva e
come collante, senza perdere di vista, ma a distanza, quanto va capitando in
Rifondazione e nella sinistra radicale Che si tratti di un cammino difficile, e
zeppo di incognite, è fuor di dubbio. Ma la questione socialista, adesso, è sul
tappeto. E non si può liberarsene facendo spallucce.
Può darsi che la separazione sia definitiva e irreversibile, e può darsi pure
(anche se ci sembra difficile) di no. In tutti e due i casi, e non lo diciamo
per un buonismo che non ci appartiene, è importante che sia il più possibile
consensuale. Non ci sono traditori, non ci sono venduti, non ci sono
scissionisti, non ci sono secessionisti. C'è gente che ha molto in comune, e
però avverte che è giunto il momento di prendere strade diverse.
La
Repubblica 16-4-2007 LINEA DI CONFINE MARIO PIRANI
Per
più di mezzo secolo la Banca d'Italia fu
l'eccezione positiva della pubblica amministrazione, un modello unico di
competenza, serietà, indipendenza. Le "considerazioni" che una volta
l'anno, il 31 maggio, il Governatore pronunciava nell'areopago di via Nazionale
erano attese, ascoltate, distillate in attente analisi come nessun discorso
politico o messaggio presidenziale. Poi anche in quelle mura apparvero inattese
crepe e qualche rovinoso smottamento. Ora gli addetti al restauro ? il
governatore, Mario Draghi, e il direttore generale, Fabrizio Saccomanni, uno
degli ultimi testimoni di primo piano di quella che chiamerei l'età di Pericle,
si sono messi all'opera con perizia e ottime intenzioni. Più per nostalgia che
per esigenza di lavoro dopo anni ho rimesso piede in quei saloni dove i
damaschi di seta gialla fanno da sfondo ai computer. Per innumerevoli stagioni
vi ero quasi di casa per farmi spiegare, con l'impegno sempre osservato della
assoluta riservatezza, gli arcani della politica monetaria. Carli, Baffi,
Ciampi, Ossola, Dini, Padoa-Schioppa, Ciocca e anche altri, allora giovani
collaboratori, come Ignazio Visco e Bini Smaghi mi chiarivano con generosità di
tempo argomenti ed eventi che avrei cercato di raccontare con parole mie ai
lettori. Questa volta, però, la mia sosta era quasi quella di un anziano
turista che ripercorre le stanze di una dimora storica visitata in gioventù,
accorgendosi da molti dettagli che le cose sono mutate. Ma, riflettendoci su,
mi sono reso conto che il cambiamento è nelle cose ed anzi che forse l'errore
più serio di Antonio Fazio non vada individuato soltanto nelle incaute
intrinsichezze con un Fiorani, ma nel rifiuto psicologico ? e per converso ?
politico, di accettare davvero l'avvento dell'euro. Così una banca centrale
che si era distinta da tutte le altre per il suo impegnatissimo europeismo,
vissuto anche come felice vincolo esterno per avviare il risanamento delle
finanze pubbliche, si trovò trasformata in ridotta difensiva di una
"italianità" asfittica e perdente. Di qui una perdita di ruolo, un
impoverimento culturale, una degenerazione della "moral suasion"
trasformata in una forma d'improprio interventismo, quasi a compensare quello
che veniva considerato come uno "scippo" della politica monetaria ad
opera della Banca centrale europea. Oggi i nuovi
"restauratori" non stanno certo operando per riportare la Banca sugli
antichi binari ma proprio per metterla a norma con una situazione oggettiva
profondamente trasformata. Eppure le resistenze non mancano e i nostalgici si
mostrano agguerriti. Le "nostalgie", peraltro, non sono ispirate
all'antica nobiltà dell'istituzione ma sollevate a difesa delle vecchie
strutture, diramazioni e, di conseguenza, organici quasi si trattasse ancora di
governare la lira, regolarne flussi e quantità, esercitare capillari controlli
sulle gestioni bancarie, con un esercizio della vigilanza periferica da epoca
pretelematica. Per di più in un'Italia precedente alle Regioni e
suddivisa solo in Province. Di qui l'ostilità dei sindacati, campioni assoluti
della conservazione, al progetto di riassetto organizzativo dell'Istituto
imperniato sulla chiusura di 59 sedi provinciali e sulla creazione di 21 filiali
nei capoluoghi regionali (una nella provincia autonoma di Bolzano), più 18
succursali specializzate, laddove la domanda di servizi istituzionali e privati
è maggiore oppure si concentrano i compiti di vigilanza, le attività connesse
al contante, i rapporti con la Tesoreria dello Stato. La revisione
organizzativa riguarda anche l'amministrazione centrale della Banca,
dove vengono privilegiate e meglio coordinate le aree della ricerca economica.
Sono esclusi licenziamenti ma è prevista in tre-quattro anni, grazie ai
pensionamenti in fieri, una diminuzione dell'organico da 9500 a 7500
addetti. Insomma una riforma in linea con quella generale della Pubblica
amministrazione, con il passaggio al federalismo regionale e, soprattutto, con
la nascita dell'euro e della Banca centrale europea. Eppure
assistiamo alla solita chiamata alle armi contro le "ristrutturazioni
selvagge", alla mobilitazione dei sindacati e dei politici
"amici" di trasversale appartenenza, alle alzate d'ingegno come
quella dell'Assemblea siciliana che rivendica i suoi poteri autonomi anche nei
confronti della Banca d'Italia. Ma la più stupefacente
iniziativa è quella presa da alcuni prefetti che si sono fatti megafono delle
proteste delle Province "offese" con corredo di volantini e odg di
sdegnata condanna contro la Banca d'Italia. Aveva
proprio ragione Luigi Einaudi che voleva abolirli.
La
Repubblica 16-4-2007 Cambia la tariffa e l'aumento è servito Tutte le
manovre che Wind, Tim, Tre e Vodafone stanno realizzando per rifarsi dopo
l'addio al caro-ricarica. di ALESSANDRO LONGO
Rincarati
i portali Internet. Addio vecchie offerte, meno bonus: così i big recuperano i
profitti perduti
SONO scomparsi i costi di ricarica, ma ora i consumatori di telefonia mobile
sono confusi: lo scenario delle tariffe telefoniche, come un campo in seguito a
un temporale, è mutato di colpo dopo il decreto Bersani. Gli operatori hanno
cambiato alcune tariffe, altre le hanno cancellate e ne hanno introdotte nuove.
Agli utenti che intendono cambiare operatore o attivare una nuova sim tocca
quindi adesso districarsi in una selva di tariffe resa irriconoscibile dalle
ultime novità. Il succo della storia è che "gli operatori recupereranno
parte dei costi di ricarica perduti, attuando varie manovre", spiega Luca
Berardi, analista esperto di telecomunicazioni presso il gruppo di ricerca Idc.
"In linea di massima, consigliamo agli utenti di conservare le vecchie
tariffe, perché le nuove sono in media più care", aggiunge Marco Pierani,
responsabile settore hi-tech per l'associazione dei consumatori Altroconsumo.
Le novità infatti non vanno a toccare i vecchi contratti. Con un'eccezione:
Wind.
Wind. Non solo ha eliminato le vecchie tariffe, a tappeto, e le ha
sostituite con altre che sono smaccatamente più care; ma è stato anche il solo
operatore a imporre le novità pure ai vecchi utenti: a quelli del piano Wind 10
e a quelli di Sempre Light. Da maggio saranno migrati ai piani (più cari) Wind
12 e Wind Senza Scatto New. Hanno 30 giorni per decidere: accettare o scegliere
un altro piano (o cambiare operatore). Quanto fatto da Wind è previsto dalle
norme, ma comunque adesso l'Autorità Garante delle Comunicazioni sta indagando
per vedere se è stato tutto regolare. In più, dal 16 aprile cambiano i costi
per navigare sul cellulare (triplicano, per il traffico fuori dal portale
mobile di Wind). Va detto però che nonostante i rincari "Wind resta
l'operatore low cost italiano, in linea di massima", dice Marco Bulfon,
responsabile inchieste di Altroconsumo. "Abbiamo fatto confronti tariffare
in base a tre profili d'uso- aggiunge: con circa 15 euro di spesa al mese, la
tariffa più economica è Tim Club; ma per una fascia più alta, 40 euro al mese,
risulta vincitore Wind 5 New. È la più economica una tariffa Wind anche nel
caso di chi manda molti Sms: Senza Scatto New con Opzione Wind 6 Sms (circa 35
euro al mese)".
Tim. La tariffa Tim ad oggi più apprezzata dalle associazioni
consumatori è appunto Tim Club, lanciata però prima del decreto Bersani. Costa
19 cent al minuto (9 cent verso tre numeri a scelta, Tim o di rete fissa),
senza scatto. Le nuove tariffe sono le Tutto Compreso, contraddistinte da un
canone (30, 60 o 90 euro al mese) che include il cellulare e una certa quantità
di traffico. In Italia, è una formula ancora poco diffusa. Per esempio, in
Tutto Compreso 30 ci sono 250 minuti di chiamate verso tutti i numeri
nazionali. Le Tutto Compreso nella versione per abbonati hanno la particolarità
di essere prive di tassa di concessione governativa (5,16 euro al mese). Tim
però ha aumentato i prezzi per accedere al portale mobile: lo scatto è passato
da 20 a 28 cent. Vale la pena ricordare quanto ha detto Telecom
Italia, presentando a marzo il nuovo piano industriale: l'impatto del decreto
Bersani sul mercato in teoria è 1,400 miliardi di euro nel 2007; nella pratica-
stima Telecom- sarà di 800-900 milioni, grazie ad alcune mosse degli operatori.
Per esempio: già hanno ridotto la commissione offerta ai tabaccai, per le
ricariche. Un altro modo è invogliare gli utenti a fare più traffico: è lo
scopo delle tariffe con canone. E delle "ricariche personalizzate",
lanciate da Tim ad aprile. Sono tagli di ricarica più flessibili (anche da 8,
9, 13 euro per esempio).
Vodafone. Rivoluzione nei piani tariffari: dei vecchi (pre-Bersani)
sopravvivono solo due su cinque. I tre nuovi sono You&Vodafone, Zero Limits
e (appena lanciato) Vodafone Tutti. La settimana scorsa è sparita Happy
Ricarica, che secondo Altroconsumo era la tariffa Vodafone più economica.
Vodafone Tutti concede una tariffa scontata (12 cent al minuto, con scatto di
16 cent) a chi fa almeno 15 euro di ricarica al mese. You&Vodafone ha uno
scatto di 19 cent e costa 1, 7 o 30 cent al minuto a seconda del numero
chiamato. ZeroLimits include in 6 euro al mese mille minuti di chiamate verso
numeri Vodafone, per le quali si paga solo il primo minuto; più 100 Sms e 100
Mms verso Vodafone. Il prezzo al minuto è 19 cent; 19 cent di scatto alla
risposta.
3 Italia. Al contrario, 3 è l'operatore che ha fatto meno
modifiche. Non ha cambiato le tariffe. Ha eliminato però le ricariche Power
(che, ai tempi pre-Bersani, davano bonus di traffico) e ha aumentato, da 6
a 9 euro, il costo per cambiare il piano tariffario.
(16 aprile 2007)
Poeti,
santi e navigatori. Di scienziati, invece, sempre meno. Non si può piangere
sulla ricerca perduta e allo stesso tempo assetarla: il denaro disponibile è
sempre meno, i criteri per spenderlo più misteriosi e intanto gli istituti più
prestigiosi faticano a pagare il riscaldamento e la bolletta della luce. Al
Consiglio nazionale delle ricerche, forse il nome che ha dato più lustro alla
ricerca italiana, tira aria di sbaraccamento dal 2002. Prima la riforma di
Letizia Moratti e l’introduzione del criterio «manageriale» nella gestione, poi
le leggi Finanziarie lo stanno disgregando. E così la ricerca è sempre più
legata ai privati che, in cambio di qualche soldo, ottengono di poter
indirizzare la ricerca, usano le strutture del Cnr, la conoscenza dei
ricercatori e alla fine si prendono il brevetto.
I manager al potere
L’effetto della riforma Moratti, diligentemente applicata dal discusso
presidente del Cnr Fabio Pistella, è stato quello di gonfiare la burocrazia a
dismisura. Se prima gli istituti si cercavano i fondi privati da soli e in
autonomia, oggi fanno lo stesso ma devono rispondere a una catena gerarchica
spaventosa: il Cda del Cnr delibera le linee guida, i singoli direttori di
dipartimento (ne sono nati 12) «formulano le linee programmatiche». Gli
istituti passano al dipartimento le proposte di attività di ricerca. Queste
vengono confrontate fra ciascun dipartimento e fra gli istituti. Si concordano
le commesse, quindi il consiglio dei direttori di dipartimento verifica la
congruenza delle proposte e predispone una proposta coordinata. Poi la
trasmette al direttore generale. A quel punto una persona normale si sarebbe
arresa. Al Cnr invece vanno avanti: il direttore generale integra la proposta
coordinata con le esigenze gestionali e predispone un piano preliminare poi
inviato al Presidente. Quest’ultimo, acquisito il parere del Consiglio
scientifico generale, mette giù il piano definito, che viene infine sottoposto
al vaglio del Cda e inviato al ministro. Isaac Newton, con un sistema del
genere, poteva soffocare sepolto dalle mele prima di poter proferire anche solo
una parola sulla Legge di Gravità.
Rivoluzione copernicana
Grazie a questo sistema, tutto ruota intorno alla presidenza. Con effetti
davvero curiosi. Se la Finanziaria 2007 ha imposto un taglio dei
fondi del 5%, la presidenza Pistella ha interpretato la sforbiciata con criteri
quanto meno originali. Mentre alcuni istituti si son visti ridurre il
finanziamento ordinario di oltre l’80% - quelli dove ci si chiede come pagare
il telefono - e chi ha avuto 340mila euro nel 2006 «necessari giusto per
sopravvivere» quest’anno deve contentarsi di 70mila, le cifre stanziate per
consorzi, convenzioni e relazioni esterne sono cresciute del 60%.
I laboratori a stecchetto
Il sistema delle scatole cinesi costa, in termini di stipendi al personale,
moltissimo. E i costi per il personale sono proprio quelli di cui il Cnr sembra
aver meno bisogno. L’ultima relazione della Corte dei conti spiega che nel 2005
il 94,9% del fondo del ministero se n’è andato da solo per pagare gli stipendi.
E la cifra è in aumento. Tra il 2003 e il 2005 il personale è diminuito del 10%
(-753 unità), eppure i costi sono cresciuti del 5% (+22 milioni di euro). Colpa
delle buonuscite e degli scatti automatici. La politica di spingere verso il
pensionamento non paga: ogni persona che si ritira costa quell’anno all’ente
come tre persone del suo stesso livello. E gli scatti economici, tra il 2002 e
il 2005, hanno incrementato di un quarto i costi per il personale. Ovvio poi
che, di fronte al taglio della finanziaria, il presidente Pistella faccia
compilare un’elegante circolare in cui spiega: «Tutte le spese sono
incomprimibili, tranne il fondo di dotazione degli istituti». Gli stipendi non
si possono ridurre. Ma questo vuol dire: se si taglia, si taglia in
laboratorio. E dire che già nel 2005 il valore di macchine e strumenti
scientifici erano in netto calo: -35,48%. Importa poco che il numero di
pubblicazioni scientifiche firmate dal Cnr sia in calo. Il contributo dell’ente
alla ricerca propositiva - dice sempre la Corte dei Conti - è diminuito del
25%.
Il terzo riordino
A queste condizioni, mentre l’atmosfera si fa sempre più pesante e l’attività di
ricerca sempre più rada, ai più è chiaro che il promesso (dal ministro della
Ricerca scientifica Fabio Mussi) «riordino degli enti di ricerca» si farà solo
a condizione di trovare una cura da cavallo. Il fatto che il Cnr proceda dritto
per la sua strada non tragga in inganno: il declino è ben presente agli occhi
di tutti, di chi protesta e di chi tace. E nel frattempo s’è apparecchiata
l’ultima tavola buona prima della revisione governativa: un bel concorsone.
Scienziati in 10 secondi
In Italia funziona così: per anni c’è il blocco delle assunzioni. Poi ci si
accorge che l’età media avanza (49 anni) e allora si appronta una sanatoria.
L’ultima, al Cnr, è partita il 9 giugno 2004 per 475 posti. Doveva servire per
far progredire i cosiddetti «anomali permanenti», ricercatori che per più di 12
anni erano rimasti al palo. Alla fine, come spesso succede, è stato aperto a
tutti. Il 53,7% della comunità scientifica del Cnr ha subito una sonora
bocciatura (tra cui anche l’intero gruppo di ricerca del Nobel Rita Levi
Montalcini). Vuol dire che fino a ora gli scienziati che lavoravano ci hanno
preso in giro?
Nient’affatto. «Colpa dei criteri - spiega l’Usi-Rdb Ricerca - sindacato che ha
raccolto centinaia di ricorsi e che ha pubblicato un libro bianco sugli orrori
del concorsone di cui si sta interessando anche la magistratura -. Per ottenere
i punteggi di anzianità era necessario superare quello per titoli, ma
calcolando il tempo dedicato alle commissioni alla verifica di pubblicazioni
scientifiche, brevetti, rapporti tecnici e incarichi, si scopre che ogni
commissione ha dedicato a ciascuno una decina di secondi. E dire che si tratta
di studi spesso innovativi in campo internazionale, mica dei test per la
patente». La domanda dunque è: quali criteri sono stati utilizzati? La disamina
concede scorci spassosissimi: c’è la commissione che, per par condicio, assegna
a ogni lavoro lo stesso punteggio; c’è il candidato che si vede valutata
persino la dicitura «elenco pubblicazioni»; c’è quello che salta due livelli
perché risulta vincitore ed è appena entrato di ruolo in quello inferiore; c’è
la prima autrice di una ricerca che ottiene 2 punti per il suo lavoro e la
coautrice che, per la stessa ricerca, ne ottiene 3,8; e c’è il candidato che
«si giudica da sé». Vive in simbiosi con uno dei commissari: insieme hanno
collaborato a 41 pubblicazioni su 43 esibite, 17 congressi internazionali su 19
e 48 congressi nazionali su 64. La commissione, alla fine, scriverà che è stato
valutato l’apporto del candidato «tenendo conto della continuità della
produzione scientifica e della notorietà del candidato nel settore di
appartenenza». Di sicuro era noto al commissario.
(la
società, con sede in Belgio, di cui si servono da decenni le banche ed i
soggetti operanti nel settore finanziario di tutti i Paesi europei per i
trasferimenti internazionali di valuta, anche in Paesi al di fuori dell'Ue come
gli Stati Uniti), i Garanti hanno continuato a seguire gli sviluppi del caso.
In particolare, il Gruppo di lavoro ha contribuito ad un seminario pubblico che
il Parlamento europeo ha organizzato nel pomeriggio del 26 marzo, per fare il
punto della situazione complessiva e valutare iniziative future. Durante il
seminario sono stati affrontati tutti i temi attualmente sul tappeto rispetto
ai flussi di dati fra Ue ed Usa: oltre a Swift, il trasferimento
dei dati Pnr (i dati dei passeggeri che le compagnie aeree sono tenute a
comunicare alle autorità Usa prima della partenza di voli
diretti o in transito verso gli Stati Uniti) e l'accordo di Safe Harbor (che
consente di trasferire dati personali dall'Ue agli Usa per specifiche
finalità). L'obiettivo era disporre di un quadro informativo completo per
individuare possibili soluzioni condivise, anche sulla base dei contributi
forniti dalle Autorità di protezione dati. Gli interventi hanno visto, fra gli
altri, quelli di Stefano Rodotà e di Yves Poulet. Per quanto riguarda il
"caso" Swift, segnaliamo inoltre che, all'inizio di marzo, il Gruppo
di lavoro ha inviato una lettera al Vicepresidente della Commissione europea,
Franco Frattini, al Presidente del Parlamento Europeo ed al Presidente del
Consiglio dell'Unione Europea. La lettera è intesa anche a fornire elementi di
valutazione al Vicepresidente Frattini nel quadro dei negoziati condotti da
quest'ultimo con le autorità Usa per conto della Commissione
relativamente ad una possibile soluzione paneuropea. Tale soluzione, hanno
sottolineato i Garanti, non potrà semplicemente limitarsi a
"legalizzare" l'esistente, ma dovrà individuare tutte le necessarie
garanzie, affinché lo scambio di informazioni sia conforme alla disciplina in
tema di protezione dei dati. Ad ogni modo, il Gruppo manifesta alcune
perplessità in merito ai risultati conseguiti nei mesi successivi all'adozione
del parere sopra descritto. Per quanto concerne le banche, ad esempio, si
constata che queste non hanno ancora provveduto ad informare la clientela in
merito al trasferimento dati verso gli Usa; né Swift sembra avere
adottato un programma preciso di misure di medio-lungo termine tese a favorire
il rispetto delle prescrizioni indicate dal Gruppo di lavoro e dall'Autorità
belga per la protezione dei dati (competente territorialmente rispetto alle
attività di Swift). La questione sembra complicarsi ulteriormente alla luce del
ruolo che Swift sarà chiamato a svolgere nell'ambito del nuovo sistema unico
europeo dei pagamenti (Sepa) - in particolare perché l'utilizzo di Swift anche
in tale ambito potrebbe comportare, in prospettiva, la possibilità per le
autorità Usa di accedere ad informazioni su trasferimenti
interbancari effettuati all'interno del territorio Ue o del territorio dei
singoli Stati Membri. Naturalmente i Garanti intendono contribuire ai negoziati
in corso e supportare la Commissione nell'individuazione delle opportune
soluzioni. Oltre al seminario pomeridiano, il Gruppo di lavoro ha affrontato le
questioni, anche tecniche, connesse specificamente ai dati Pnr attraverso un
seminario organizzato nella mattinata del 26 marzo, sempre presso il Parlamento
europeo. Sono stati invitati anche rappresentanti delle associazioni di
categoria (compagnie aeree), rappresentanti dei ministeri competenti, dei
Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo. Al seminario ha partecipato
l'on. Sandro Gozi, presidente del Comitato parlamentare di controllo
sull'applicazione dell'Accordo di Schengen e della Convenzione Europol e in
materia di immigrazione, il quale ha sottolineato la necessità di un maggiore
coinvolgimento dei parlamenti nazionali nel processo decisionale che riguarda
l'accordo Pnr. Il Gruppo di lavoro ha pubblicato un comunicato stampa il cui
testo è disponibile sul sito del Garante (www. Garanteprivacy. It).
<<BACK.
Corriere
economia 16-4-2007 Offshore Medicine false, allarme Ue a cura di Ivo Caizzi
L' Europarlamento
ha lanciato l'allarme sulla preoccupante diffusione di medicine false.
L'obiettivo è di arrivare a una convenzione internazionale, che consenta di
introdurre pesanti sanzioni penali in grado di frenare un business in crescita
orchestrato da pericolose organizzazioni criminali. Il giro di denaro
risulterebbe particolarmente ingente. Attualmente le stime parlano di farmaci
contraffatti pari a circa l'1% di quelli in commercio. Ma si arriverebbe
addirittura al 10% del totale nei Paesi del Terzo Mondo, dove i controlli sono
facili da eludere o praticamente inesistenti sia nella commercializzazione dei
prodotti, sia sulle conseguenze per le popolazioni locali. Il caso Tamiflu
L'anno scorso il farmaco anti-virale Tamiflu esplose commercialmente grazie
all'allarme internazionale su una possibile trasmissione all'uomo
dell'influenza aviaria. Numerosi governi ne hanno fatto incetta nonostante
l'incertezza sulla sua effettiva efficacia. Ma ora è finito sotto
l'osservazione della Commissione europea per possibili gravi
effetti collaterali di tipo neurologico. I primi dubbi sono emersi negli Stati
Uniti e, soprattutto, in Giappone. Sono stati individuati addirittura casi di
suicidio di bambini giapponesi successivi all'uso del Tamiflu come anti-influenzale.
I responsabili della svizzera Roche, produttrice del farmaco, hanno negato
possibili collegamenti tra queste morti e l'uso del Tamiflu. Ma le autorità
giapponesi hanno bloccato la commercializzazione. Il vicepresidente della Commissione europea,
il tedesco Gunter Verheugen, che è considerato molto pro-imprese, ha preferito
una linea attendista. Dopo le analisi dell'Agenzia Ue per la
valutazione delle medicine (Emea) è stato richiesto alla Roche di inserire tra
le informazioni sugli effetti collaterali del farmaco che "convulsioni,
riduzione del livello di consapevolezza, comportamento anormale, allucinazioni
e delirio sono stati segnalati durante la somministrazione di Tamiflu,
conducendo in rari casi ad ferimenti accidentali" e che "i pazienti,
specialmente bambini e adolescenti, dovrebbero essere attentamente monitorati e
i loro medici immediatamente consultati se mostrano segni di comportamento
insolito". L'Emea continua comunque a tenere sotto controllo l'evoluzione
del caso. Fede & fisco Si sta sviluppando sul versante economico la guerra
scatenata a livello Ue dal partito radicale contro il Vaticano
di Papa Ratzinger. L'eurodeputato radicale Marco Cappato ha fatto sapere che il
commissario per la Concorrenza, l'olandese Neelie Kroes, ha accolto una
specifica denuncia, presentata insieme al collega comunista Willy Meyer, e che
intende chiedere chiarimenti alle autorità spagnole sulle esenzioni fiscali
concesse alla Chiesa cattolica. Sotto osservazione c'è l'imposta municipale
spagnola Icio (simile all'italiana Ici). Sta emergendo che le esenzioni non
sarebbero limitate alle attività strettamente religiose, come riteneva la Commissione,
ma estese a settori dove si entra in concorrenza con imprese private. Qualora
queste concessioni venissero giudicate distorsive del libero mercato il
contenzioso potrebbe svilupparsi ben oltre la Spagna. I radicali annunciano di
aver già iniziato un'analoga iniziativa per le attività della Chiesa cattolica
in Italia, che attuerebbero una concorrenza sleale nei confronti dei normali
operatori commerciali. Altre azioni potrebbero partire nei Paesi dove esistono
alberghi, scuole, ospedali o società di servizi riconducibili ad organismi
religiosi, che utilizzano il particolare status per godere di esenzioni
fiscali. icaizzi@corriere.it.
Da Antitrust 14-4-2007 COMUNICATO STAMPA
TLC:
ANTITRUST, NEL SETTORE TROPPA PUBBLICITÀ INGANNEVOLE. IN DUE ANNI MULTE PER 1,6
MILIONI DI EURO.
È
UN FENOMENO GRAVE CHE DISORIENTA I CONSUMATORI.
GLI
OPERATORI DEVONO PREDISPORRE MESSAGGI CHIARI E COMPLETI
Troppe
pubblicità ingannevoli nel settore della telefonia fissa e mobile. In due anni,
dall’entrata in vigore della legge Giulietti, l’Autorità Garante della
Concorrenza e del Mercato ha comminato sanzioni per 1,6 milioni di euro, quasi
il 25% del totale delle multe decise.
È
il bilancio che emerge dall’analisi sulle decisioni di pubblicità ingannevole
relative a beni e servizi di telefonia fissa, mobile, integrata fissa/mobile,
di accesso e navigazione in Internet e integrati voce/dati o
voce/dati/televisione. Per l’Autorità si tratta di un fenomeno che risulta
particolarmente grave, vista l’estrema varietà ed evoluzione delle offerte
commerciali che generano disorientamento nel consumatore. L’Autorità, che
continuerà a vigilare con particolare attenzione sul settore, ritiene essenziale
che gli operatori predispongano messaggi che siano completi e chiari, anche
alla luce dell’analisi degli interventi effettuati.
Sotto
osservazione, in particolare, gli spot televisivi, che sono risultati carenti
quanto a completezza e chiarezza informativa, con l’utilizzo di scritte
scorrevoli o in sovrimpressione insufficienti a specificare la portata reale
delle offerte.
Anche
a tutela dei consumatori l’analisi dell’Autorità ha individuato, sulla base dei
15 anni di applicazione della legge sulla pubblicità ingannevole, le maggiori
lacune informative che generano l’ingannevolezza.
I
COSTI ‘MIMETIZZATI’
Spesso
la pubblicità omette di indicare l’importo dello scatto alla risposta, i costi
di attivazione o l’esistenza di canoni mensili dei costi del noleggio degli
apparati necessari all’utilizzazione del servizio. Alcune modalità di
tariffazione sono legate a scatti anticipati o agli effettivi secondi di
utilizzo del servizio senza che la pubblicità lo chiarisca. Ugualmente si sono
riscontrate omissioni di informazioni quando vengono applicati costi allo
scadere del periodo di validità dell’opzione tariffaria reclamizzata o vengono
omesse le condizioni alle quali è subordinata la possibilità, chiamando o
ricevendo telefonate, di ricaricare il proprio credito telefonico. Quando la
pubblicità enfatizza la possibilità di utilizzare il servizio a quella tariffa
spesso non indica che non tutti i numeri possono essere chiamati al costo
reclamizzato. In altri casi è stato omesso di indicare che, per avere quella tariffa,
bisogna comunque raggiungere un determinato monte traffico in uscita e/o in
entrata. Alcune pubblicità non chiariscono che la tariffa vale solo fino al
raggiungimento di un certo numero di chiamate mentre oltre si applicano tariffe
meno vantaggiose.
SE
LA TECNOLOGIA NON C’È
Spesso
le offerte commerciali non chiariscono la necessità di verificare la copertura
del segnale trasmissivo del servizio offerto, come nel caso dei servizi UMTS o
per la visione della tv sul proprio cellulare. Mancano spesso le informazioni
relative alle effettive velocità di connessione e navigazione in Internet, alle
cause che possono incidere sulla qualità del servizio, o alla necessità di
verificare l’idoneità degli apparati dell’utente a sopportare il servizio
offerto.
LE
OFFERTE ‘PER SEMPRE’ E GLI OBBLIGHI NASCOSTI
Lo
slogan ‘per sempre’ è ingannevole quando in realtà è previsto un termine entro
il quale il servizio, a quel prezzo, va utilizzato. A volte non viene indicato
il periodo di validità dell’offerta e le condizioni alle quali l’offerta stessa
è legata.
La
pubblicità è ingannevole anche quando non chiarisce che per poter
effettivamente disporre di cellulari alle condizioni reclamizzate c’è l’obbligo
di aderire a determinati piani tariffari e per un determinato periodo, o non
spiega che ci sono limiti alle modalità di pagamento (solo con carta di credito
o domiciliazione bancaria). A volte è stato omesso di indicare l’esistenza di
una penale in caso di recesso anticipato.
Roma,
14 aprile 2007