HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli
Archivio Piccola Rassegna - AGOSTO 2007
VAI
AGLI ARCHIVI PARZIALI:
Archivio - 16/30 APRILE 2007
Archivio – 16/28 FEBBRAIO 2007
ARCHIVIO – AGOSTO 2007
+ La
Repubblica 31-8-2007 "Case a politici e sindacalisti a prezzi
super-scontati" Un intero edificio per il Guardasigilli. Mastella: querelo
di SERENELLA MATTERA Inchiesta de
L'Espresso( Vedi: Dossier. I Costi della Politica) abitazioni a cifre
stracciate per vip, politici e sindacalisti. Trenta vani catastali acquisiti da
Casini. Affari anche per Cardia e Bonanni
+ La Stampa 31-8-2007 Allarme arsenico nelle acque
Milano Finanza
31-8-2007 MF Derivati, la Consob multa Unicredit. Sanzioni anche per
Ifil-Exor
L’Unità 31-8-2007 Più mafia per tutti
Marco Travaglio
La Stampa 31-8-2007
Giuliani d’Italia Di Maurizio
Molinari.
L’Unità 31-8-2007 A chi serve l'oppio afghano
Luigi Bonanate
ROMA
- Case a prezzi stracciati per vip, politici e sindacalisti. Lo rivela
un'inchiesta de L'Espresso in edicola oggi, dal titolo "Casa nostra".
Una squadra "vasta e assortita", è la denuncia del
settimanale, ha potuto comprare appartamenti a Roma a costi di molto inferiori
a quelli di mercato. Una squadra bipartisan che va dall'ex presidente della
Repubblica Francesco Cossiga, agli ex presidenti di Camera e Senato Luciano
Violante e Nicola Mancino. Dalla famiglia del leader Udc Pier Ferdinando Casini
a quelle del ministro della Giustizia Clemente Mastella e del primo cittadino
di Roma Walter Veltroni. Coinvolti nell'inchiesta anche altri potenti, come il
presidente della Consob Lamberto Cardia e il segretario della Cisl Raffaele
Bonanni.
Le prime anticipazioni, trapelate ieri, hanno sollevato la reazione di alcuni
dei politici chiamati in causa. Mastella ha annunciato una querela, mentre
Cossiga si è limitato a spiegare: "Ho comprato a prezzi scontati,
ma non ingiustamente". Duro il presidente del Senato, Franco Marini:
"Sono false le notizie che mi riguardano (due piani di un palazzo ai Parioli
pagati 1 milione di euro, ndr). Io non ho avuto nessuno sconto ma ho comprato a
prezzo di mercato la casa che avevo in affitto da circa 20 anni. Mi pare si
stia superando ogni limite con queste pseudo-denunce".
Nel 1996 l'inchiesta "Affittopoli" svelava come gli enti
previdenziali dessero in locazione ai politici appartamenti in pieno centro a
Roma a prezzi stracciati. Oggi L'Espresso parla di una "Svendopoli",
perché quelle stesse case "sono state svendute definitivamente e il privilegio
è stato reso eterno". Per fare un esempio, il presidente della
Consob Cardia pagava 1 milione e 100 mila lire di affitto nel 1996 e ha
comprato nel 2002 a 328 mila euro 10 vani e due posti auto vicino al Palaeur.
Mentre il sindaco Veltroni, che "è nato nelle case dell'ente
previdenziale dei dirigenti (Inpdai)", ha comprato dalla Scip, ex Inpdai,
190 metri quadri a via Velletri, zona Piazza Fiume, per 373mila euro. Un prezzo
basso "per effetto non di un'elargizione personale, ma degli sconti
collettivi".
Anche le società private Generali e Pirelli, secondo
L'Espresso, nella vendita di immobili hanno avuto un occhio di riguardo per
alcuni politici, come Casini e Mastella. A ex suocera, ex moglie e figlie del
leader Udc sono andati 30 vani catastali in via Clitunno (zona Trieste) a 1,8
milioni di euro (prezzo di mercato 5100-6900 euro al metro quadro). Mentre la
famiglia Mastella si è aggiudicata 26 vani (5 appartamenti) di un
edificio di Lungotevere Flaminio a 1,2 milioni di euro. "Non ho certo
approfittato di favori - ha replicato il Guardasigilli - tant'è che ho
dovuto fare un mutuo di ben 500mila euro".
(31 agosto 2007)
LONDRA La salute di quasi 140 milioni di persone in
70 Paesi del mondo è in pericolo a causa della contaminazione delle
acque: in particolare è l’arsenico a minacciare la popolazione mondiale,
nelle zone più povere del pianeta come in Occidente. L’allarme arriva
dal meeting annuale della Royal Geographical Society in corso a Londra, dove
esperti internazionali sono riuniti per analizzare la situazione.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha fissato il limite di
sicurezza per la presenza di arsenico nell’acqua in 10 microgrammi per litro,
ma in moltissimi Stati questo tetto viene superato. Il Paese più a
rischio sembra essere il Bangladesh, dove centinaia di migliaia di persone
potrebbero morire per avvelenamento, semplicemente bevendo acqua considerata
potabile o consumando prodotti agricoli coltivati con un’irrigazione
"alterata".
«L’estensione del problema - dice Pater Ravenscroft, ricercatore
dell’università di Cambridge (Gb) - è molto più ampia di
quanto si immagini. Solo ora gli scienziati si stanno rendendo conto del peso
della questione e c’è urgente bisogno di intraprendere misure di difesa
adeguate, prima di tutto incrementando i test sulle acque».
+ Il sito della Royal Geographical Society
Il raddoppio dei tassi d'interesse della
Bce in due anni non era una cosa facilmente prevedibile, naturalmente. Ma
è successo. E per le rate dei mutui a tasso variabile il risultato
è stato una salita lenta e costante, che in alcuni casi (basta scorrere
le lettere del forum di Corriere. it) sono diventate insostenibili. Non
è un mistero che l'anomalia italiana sia proprio questa: tanti mutui a
tasso variabile e pochi prestiti-casa a tasso fisso. Un'anomalia che ha portato
il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, a sottolineare che i
finanziamenti per l'acquisto della casa in Italia siano i più cari
d'Europa. Bene, adesso le banche hanno la loro grande occasione per dimostrare
che la concorrenza c'è davvero. Come? Sarà interessante vedere
quali istituti sapranno offrire condizioni migliori per rinegoziare i mutui,
magari convertendo i prestiti a tasso variabile con quelli a tasso fisso. Chi
farà la prima mossa?
La Consob ha comminato sanzioni per
511.200 euro complessivi a 34 tra dirigenti, consiglieri e sindaci di Unicredit
Banca d'Impresa "in relazione a carenze procedurali afferenti
l'operatività in prodotti derivati over the counter". La
commissione presieduta da Lamberto Cardia ha rilevato "l'inadeguatezza
delle procedure interne di Unicredit banca d'impresa" fra gennaio
2003 e luglio 2005 in quanto carenti sia in generale sia con riguardo agli
specifici profili oggetto di contestazione (selezione delle operazioni oggetto
dell'attività di negoziazione con la clientela, selezione della
clientela potenziale, pricing delle operazioni, vigilanza sulle attività
svolte dal personale). Con motivazioni analoghe, la Consob ha multato
per altri 268.500 euro complessivi anche 17 esponenti di Ubm. Fra gli altri,
hanno ricevuto una multa di 23.800 euro Alessandro Profumo, presidente di Ubm
tra il 2003 e il 2005, e di 16.200 euro Pietro Modiano (oggi dg di Intesa
Sanpaolo) per il suo incarico di ad. Sanzionato per 12.300 euro anche Fabrizio
Palenzona, consigliere della società. Sempre con lo stesso bollettino
pubblicato ieri, la Consob ha deciso l'applicazione di sanzioni nei
confronti di Gianluigi Gabetti e Tiberto Ruy Brandolini d'Adda, per 250 mila euro
a testa, nonché nei confronti di Exor group, in relazione alla vicenda del noto
equity swap della primavera 2005. Per la Consob "sono emersi
elementi che consentono di ritenere accertato che esisteva almeno a far data
dal 30 agosto 2005 un accordo tra Exor group e Merrill Lynch" sui titoli
Fiat non comunicato al mercato.
Irrecuperabili e mediocri, al punto che
andrebbero eliminati. Non fisicamente, beninteso, ma in primis con un netto
taglio delle troppe poltrone su cui sono seduti e con una legge elettorale, a
tutto collegio uninominale, che individui non più di 400 parlamentari. E
poi ci vorrebbero meccanismi di fortissima selezione nelle scuole e nelle
università, perché è anche lì che si annida in modo spaventoso
la mancanza di valore. Gianfranco Pasquino, politologo, ordinario di scienza
politica all'università di Bologna, usa toni perentori nel commentare la
qualità dei nostri politici. E si inserisce senza fare sconti
all'interno del dibattito sollevato dal lettore di ItaliaOggi sull'inefficienza
della casta oggi al potere in Italia. Non che la società civile
sia in condizioni migliori. Su questo Pasquino rifiuta la tesi secondo cui i
politici nostrani dovrebbero cedere metri ai cittadini organizzati per
consentire una partecipazione dal basso. Va bene la sussidiarietà,
è disposto ad ammettere il politologo, ma non sembra proprio che il
mondo dell'associazionismo sia meno bloccato o corporativo dei nostri
amministratori.Domanda. Professore, è così irrecuperabile la
classe politica italiana?Risposta. Non penso che si debba porre il problema
della sua recuperabilità, perché non vedo motivi per credere che i
nostri politici siano recuperabili.D. Andiamo bene_R. Il punto è che la
qualità è scarsa, le persone di valore non ci sono, a parte qualche
eccezione.D. Per esempio?R. Vedo esempi di valore al Quirinale e al ministero
degli affari esteri.D. Ok, si salvano Giorgio Napolitano e Massimo D'Alema. Non
è un po' poco?R. è piuttosto poco, sì, ma è
così. Piuttosto vorrei porre una questione.D. Prego...R. Iniziamo con il
farci una semplice domanda: le persone valide vengono in Italia
effettivamente valorizzate? Sono costrette o no ad andare prima all'estero e
poi eventualmente a tornare? Pensiamo al governatore della Banca d'Italia,
Mario Draghi. Il merito in Italia non esiste. D. Così è
buio pesto. Ci dia uno spiraglio di luce.R. Quando i mediocri sono troppo
numerosi, come oggi possiamo vedere, l'unica soluzione è ridurre la loro
quantità: ridurre i consiglieri regionali, provinciali e comunali, ridurre
i posti nei consigli di amministrazione, ridurre i parlamentari nazionali e
cercare di rendere tutto più competitivo.D. Sì, ma quale ricetta
ci può essere?R. Per esempio, quanto al parlamento nazionale, io
abolirei una camera lasciandone una con non più di 400 parlamentari. E
aggiungo che tutti dovrebbero essere eletti con un sistema basato su collegi
uninominali in cui solo chi vince ha il posto. D. E se i politici facessero un
passo indietro, lasciando più margini d'azione alla società
civile?R. Ma non mi sembra proprio che la società civile brilli per la
sua eccellenza. Non vedo tutto questo ricambio al vertice delle associazioni,
non vedo tutta questa apertura, tutta questa formazione.D. Professore, ancora
con il pessimismo cosmico.R. Guardi, qui piuttosto si dovrebbe pensare a
introdurre meccanismi di fortissima selezione nelle scuole e nelle
università. Non so se ci si rende effettivamente conto di quale livello
di chiusura abbiamo raggiunto.
Meno
male che ci sono i mafiosi a ricordarci, ogni tanto, che la mafia esiste.
Perché, se dipendesse dai politici, con giornali e tv al seguito, la Procura
nazionale antimafia sarebbe già stata riconvertita in Procura nazionale
antilavavetri. Ma Cosa Nostra è una cosa seria e non ci sta a farsi
scavalcare da un pugno di "vulavà" armati di spugnetta.
Così, di tanto in tanto, ci fa sapere che la mafia è viva e lotta
insieme a noi. Quasi a sollecitare lo Stato a combatterla almeno un po', per
rendere più competitiva la partita, ma anche per regalare ai picciotti
qualche emozione e un pizzico di allenamento. L'altro giorno i boss han fatto
l'ultimo tentativo per farsi notare dallo Stato, prima di mettersi a lavare i
parabrezza delle auto ai semafori: hanno spedito da Milano al carcere di Opera
due cartoline illustrate con la foto dello stadio San Siro e indirizzate a
Riina e Provenzano, con il recapito volutamente sbagliato ("via
Borsellino"), la data del 20 luglio (il giorno dopo la strage di via
d'Amelio) e un saluto inequivocabile: "La pace è finita".
Siccome la posta dei boss è controllata, l'autore delle missive sapeva
che sarebbero state intercettate dal Dap, cioè dal governo, cioè
dallo Stato che la mafia dovrebbe combatterla. Ma forse la scelta
dell'illustrazione - lo stadio di San Siro - è un pensierino anche per
il Cavaliere, che quello stadio calca a domeniche alterne con il suo Milan.
Già il 22 dicembre 2002 Cosa Nostra usò un altro stadio, quello
di Palermo, per issare uno striscione a caratteri cubitali con scritto:
"Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia". Un
inquietante promemoria di possibili promesse tradite. Tantopiù che
qualche mese prima, il 12 luglio 2002, in videoconferenza dal carcere
dell'Aquila, il boss Leoluca Bagarella, cognato di Riina, prese la parola
dinanzi alla Corte d'assise di Trapani e lanciò un messaggio ai politici
che non mantengono le promesse: "A nome di tutti i detenuti ristretti
all'Aquila, sottoposti all'articolo 41-bis,stanchi di essere strumentalizzati,
umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche,
informiamo la Corte che dal 1° luglio abbiamo iniziato una protesta civile e
pacifica con la riduzione dell'ora d'aria... Tutto ciò cesserà
quando le autorità preposte dedicheranno più approfondita
attenzione alle problematiche che questo regime carcerario impone... I medesimi
lamentano il modo in cui il ministro della Giustizia proroga di 6 mesi in 6
mesi il regime particolare del 41 bis... aggirando legge e l'art. 3 della
Costituzione.". Subito dopo, la protesta si estese al carcere di Ascoli,
quello di Riina. E qualcuno alla Procura di Palermo propose di imbottire di
cimici le celle dei boss coinvolti, per sapere dalla loro viva voce qualcosa di
più preciso sui politici che usano la mafia come merce di scambio e poi
tradiscono gli impegni. Ma l'allora procuratore Grasso non ritenne urgente la
misura e la dispose soltanto diversi mesi dopo, quando i boss ormai parlavano
d'altro. In compenso il governo si affrettò a stabilizzare con legge
ordinaria il 41-bis, gabellandolo per un colpo mortale alla mafia: in
realtà, si agevolava oggettivamente il compito dei boss al 41-bis, che
poterono chiedere (e spesso ottenere) la revoca dell'isolamento, prima
pressochè impossibile quando - come spiegava egregiamente Bagarella - la
misura era temporanea e veniva rinnovata di 6 mesi in 6 mesi. Ora Cosa Nostra
torna a farsi sotto. Con quali obiettivi? Il "papello" col programma
politico della mafia, consegnato da Riina nei primi anni 90 a misteriosi (?)
referenti politici, chiedeva sei cose. Quattro - depotenziare i pentiti,
addolcire il sequestro dei beni, chiudere le supercarceri di Pianosa e Asinara,
svuotare il 41-bis - sono cosa fatta. Ne restano due: la revisione delle
condanne definitive per i boss e l'abolizione dell' ergastolo. Della prima si
occupa un ddl dell'on.avv. Pecorella, che piace anche a parte dell'Unione; alla
seconda lavora la commissione per la revisione del Codice penale al ministero
della Giustizia. Forse sarebbe il caso che qualcuno dicesse qualcosa di
preciso. Senza, beninteso, distogliere un briciolo di tempo ed energie dalla
guerra ai terribili lavavetri. Uliwood party.
il modello non basta L’evocazione
da parte di Giuliano Amato dell’esempio di Rudolph Giuliani nella lotta alla
criminalità e il paragone tracciato da Walter Veltroni tra la nascita
del partito democratico e l’inizio dei cicli politici di Ronald Reagan e Bill
Clinton descrivono una crescente attenzione da parte dei leader del
centrosinistra per i modelli americani, non più solo di matrice liberal
ma anche di stampo conservatore.
Giuliani, sindaco di New York dal 1994 al 2001, sconfisse la criminalità
applicando la dottrina «Fixing Broken Windows», formulata da James Wilson e
George Kelling in un articolo del 1982 pubblicato da Atlantic Monthly, in base
alla quale riparando le finestre rotte di un edificio se ne impedisce la
trasformazione in un rifugio di sbandati così come mettendo in cella i
responsabili di piccoli reati - dai graffiti sulla metro agli scippi di pochi
dollari - si scongiura la possibilità che si macchino in futuro di
crimini ben più gravi, come stupri e omicidi.
Richiamarsi alla dottrina Wilson-Kelling da parte di Amato, ministro
dell’Interno, significa sottolineare un successo testimoniato dall’odierna rinascita
di Harlem come dal fatto che passeggiare di notte a Manhattan espone a rischi
minori rispetto a quanto avviene in altre metropoli, americane o europee. Anche
l’evocazione dei cicli di Reagan e Clinton da parte di Veltroni, candidato alla
guida del Partito Democratico, evoca i successi di due presidenti i cui ideali
di libertà e risultati economici continuano a ispirare generazioni di
americani di opposte fedi politiche.
I modelli di Giuliani, Reagan e Clinton non sono tuttavia eventi singoli o fenomeni
isolati bensì il frutto di una società americana accomunata da
pochi, fondamentali, valori: la tutela, il rafforzamento e lo sviluppo dei
diritti di libertà, politica ed economica, di tutti i cittadini.
Immaginare di ripetere in Italia, o altrove nell’Europa continentale, gli
esempi di Giuliani, Reagan e Clinton rischierebbe di provocare dirompenti
boomerang senza prima aver radicato un profondo rispetto per tali principi di
libertà. Gli arresti a valanga della polizia di Giuliani vennero sostenuti
da una cittadinanza secondo la quale è il principio «parità di
diritti in cambio di assoluto rispetto della legge» a dover regolare i rapporti
sociali, fra chi è nato in America come anche con gli immigrati.
Il braccio di ferro di Ronald Reagan con i controllori di volo fu vinto perché
nel Paese era forte il sostegno ad una drastica riduzione del freno sindacale
allo sviluppo economico. Bill Clinton fu in grado di bombardare Belgrado senza
il consenso dell’Onu perché la minaccia del genocidio che pesava sugli albanesi
del Kosovo fece scattare negli americani l’obbligo morale di difendere le
libertà dell’uomo anche fuori dai propri confini, come avvenuto in
Europa nella Seconda Guerra Mondiale contro i nazisti e durante la Guerra
Fredda contro i sovietici, e come avviene oggi nello scacchiere del Grande
Medio Oriente contro Al Qaeda e i suoi numerosi alleati jihadisti. Sono questi
principi liberali a costituire l’humus politico che ha consentito ai
repubblicani di avere Giuliani e Reagan così come ai democratici di
avere Clinton. Principi sulla cui esistenza, o assenza, sarebbe opportuno
interrogarsi in Italia da parte di quei leader del centrosinistra che volessero
davvero accelerare la resa dei conti con gli ostacoli che rallentano l’entrata
dell’Italia nel XXI Secolo: l’incertezza del diritto, la resistenza a
considerare il profitto privato positivo per la collettività, il rifiuto
pregiudiziale del ricorso alla forza anche se teso a difendere le
libertà nostre e altrui.
Trovando risposte proprie e rocksolid, solide come la roccia, su questi tre
fronti il centrosinistra potrebbe porre le basi per la genesi di un modello di
governo non mutuato da altrui esperienze ma tutto italiano, capace di avere da
noi lo stesso successo avuto da Giuliani, Reagan e Clinton negli Stati Uniti
d’America.
È conoscenza comune e condivisa
negli studi internazionalistici che la pace favorisca il l'operosità,
l'intraprendenza e la libera iniziativa: sono le condizioni dello sviluppo
economico che trovano nella precondizione pacifica il loro terreno più
efficace. Possiamo applicare questo principio alla notizia che c'è una
produzione in Afghanistan che si è incrementata di 44 volte? Immaginiamoci
che feste si farebbero a quell'impresa che in 7 anni (tra il 201 e il 2007)
avesse ottenuto un risultato tale: in Borsa i suoi titoli sarebbero schizzati
ai vertici dei listini e i dividendi avrebbero arricchito gli astuti azionisti.
Ma il prodotto di cui si parla oggi è l'oppio, il mercato a cui si
rivolge è quello delle droghe (pesanti), in un suo settore specifico,
quello di chi ha il denaro per procurarsele, e in una zona precisa del mondo,
l'Occidente genericamente inteso, con una prevalenza, come è noto,
statunitense. Insomma, da quando il mondo occidentale e democratico ha
proclamato la "guerra globale al terrorismo" e ha dato vita alla sua
prima fase ? Enduring freedom ? occupando militarmente l'Afghanistan dopo
averlo bombardato a lungo per colpire bin Laden e il Mullah Omar considerati
gli ideatori e i responsabili morali degli attentati dell'11 settembre, quel
povero paese ha visto la produzione di oppio crescere in questo modo assurdo. E
chi ha insegnato a quei rozzi e ignoranti talebani come si fa ad accrescere
tanto i raccolti? Come sappiamo, il commercio di stupefacenti è
fortemente redditizio e c'è chi di questo incremento produttivo si
è fatto una fonte di guadagni mirabolante. E con certezza aggiungeremo
che a goderne non saranno i contadini che si spezzano la schiena nel raccolto,
ma i boss della mafia internazionale che controllano i mercati
occidentali degli stupefacenti e ne reggono sapientemente i livelli dei prezzi.
Ora, si dice che tali entrate servono alla guerriglia per acquistare armi, ma
sembra un'ipotesi a dir vero scherzosa: con quei soldi potrebbero comprarsi
interi arsenali, ma a quel che vediamo il conflitto afghano non risulta proprio
essere gestito sulla punta di sofisticate e costose armi, bensì sulla base
di un'ignavia assoluta e inspiegabile nel controllo del territorio da parte di
truppe superarmate e addestrate ma che, per mille motivi, non riescono a
evitare i mille piccoli incidenti che costellano le loro kafkiane giornate
afghane. È a partire dalla qualità politico-morale del potere
politico incarnato da Karzai che dovremmo iniziare a riscrivere un bilancio,
estremamente passivo per l'immagine occidentale e perfettamente fallimentare
per quanto ci si era proposti di fare: non è in Afghanistan che si sta
giocando la sorte della democrazia del futuro, ma forse e piuttosto tra di noi,
nel mondo occidentale, che ha accettato di confondere cose tanto diverse come
il piano politico-internazionale, nel quale rientra legittimamente la
lotta per il potere, e quello della lotta al terrorismo che non può
essere sconfitto con le armi ma con la politica. Non si potrà
neppure dire che la popolazione afghana abbia visto migliorare il suo
benessere: anzi. A chi serve dunque tutto questo oppio? La risposta è
squallidamente facile da dare: serve a strati sociali di benestanti o comunque
danarosi elettori che nei paesi del mondo occidentale ricorrono alle droghe per
sfuggire (si direbbe) alla fortuna che hanno avuto nel nascervi. Quella che si
combatte in Afghanistan non è dunque una guerra (tanto meno al
terrorismo, che è poi subito dopo aumentato nel mondo) ma un'operazione
geograficamente ispirata a una sorta di nuova teoria del domino. Mentre nella
lotta contro il comunismo ci si valeva di una serie di pilastri o di punti di controllo
distribuiti in tutte le parti del mondo, qui si tratta ora, per gli Stati
Uniti, e al contrario, di far avanzare la sua penetrazione orientale, occupando
un avamposto qua e uno là, non sapendo ancora bene che sarà della
Cina, e se la Russia andrà iscritta nel registro degli amici o dei
concorrenti, e quanto petrolio resterà ancora disponibile. No, persino
la guerra (vera) ha una sua (tragica) dignità che ciò che succede
in Afghanistan non ha: le notizie che ci sono state periodicamente ammannite hanno
più volte superato la soglia del ridicolo, come quando si disse che il
mullah Omar era stato visto fuggire in motocicletta. Era tanto difficile
raggiungerlo? Nei giorni scorsi, la Cia ha diffuso la notizia che bin Laden
stava addirittura per essere ucciso dai suoi adepti per rispettare una loro
norma deontologica: non cadere vivi nelle mani del nemico, come pareva stesse
succedendo al loro capo ? ma poi, come tante altre volte, la notizia è
stata smentita. Tutto ciò conferma che il terrorismo è uno strumento
di lotta simbolica ben più che una strategia di conquista territoriale,
e che la legislazione prodotta ad hoc nel tempo ? cui ora si ricorre persino
nella lotta ai piromani e ai criminali della deforestazione ? sta aprendo una
pericolosa falla nel nostri sistemi democratici, incapaci di gestire
razionalmente le crisi e le difficoltà, restando abbarbicati invece agli
spettri della minaccia e della dissuasione. A sei anni dal terribile evento
delle Torri gemelle dobbiamo ammettere che l'Occidente non ha saputo ancora
elaborare l'indiscutibile lutto cui è stato sottoposto. Il fatto
è che non ci si può fermare a contemplare la propria sofferenza
affidandosi semplicemente alle armi della vendetta, che sono sterili come
mostra la serie di dimissioni o allontanamenti che il governo statunitense ha
subito nel tentativo di soddisfare un'opinione pubblica sconcertata, incerta e
insicura di tutto. Dovremmo invece ripensare tutti insieme a quale possa essere
la vera missione democratica dell'Occidente verso il resto del mondo: per
ispirarci non avremmo bisogno di riempirci di oppio.
Il problema è di tutta la politica,
al di là degli schieramenti. Anzi, dell'intera classe dirigente del
paese, che così miete insuccessi, e molte figuracce, in molti campi, da
quello industriale a quello universitario, a livello nazionale e internazionale.
E, intanto, va a rotoli, tra un'emergenza e un'altra, che si tratti della
microdelinquenza o degli incendi non fa differenza. Ne parlano oggi, su queste
colonne, Piero Laporta, nostro opinionista, e il politologo Gianfranco
Pasquino. Prosegue così, dopo l'intervento di ieri di Giovanni Sartori,
il dibattito sull'incompetenza dei politici italiani che IO sta ospitando dopo
aver pubblicato, il 29 agosto scorso, la lettera shock di Marco Gianni, un
avvocato italiano che vive tra l'Italia e Londra, dove lavora. Una missiva
ironica e amara che nei fatti si traduce in un disarmante ed esplosivo atto
d'accusa alla classe politica italiana. "Purtroppo, nella situazione
attuale, non credo che i politici italiani siano in grado di fare nulla per
fornire risposte convincenti ai cittadini", diceva ieri da queste colonne
Sartori, "l'unica sarebbe quella di cacciarli o sostituirli". Gianni
fa partire le sue riflessioni da una intervista rilasciata dal presidente del
consiglio, Romano Prodi, all'emittente televisiva americana Cnbc. Intervista
consegnata alla storia grazie all'amplificazione di You Tube, uno dei siti tra
i più seguiti in Internet. Scrive Gianni: "Di fronte ad espressioni
del tipo leaders do not speak each other, I always speak clear... la
professionalità anglosassone non si scompone anzi annuisce
garbatamente". Frasi alle quali i colleghi americani del lettore
reagiscono con fragorose risate. Anche Gianni guarda e ride, anzi, ride
"più forte degli altri" perché così spera "di
rendere chiara a tutti la mia non appartenenza, l'assoluta non comunanza con il
politico ed il mondo che rappresenta, con quel fare goffo e crasso da provincia
politica italiana assolutamente incapace di leggere ed interpretare gli
ambienti nei quali si muove". La lettera rincara la dose, perché oltre a
Prodi c'è pure il vicepremier, nonché ministro della cultura, Francesco
Rutelli. Come dimenticare "i 44 secondi di video di Rutelli che dal
portale del turismo italiano unito con fare da begger implora in modo stentato,
ridicolo, penoso e patetico il mondo intero di venirci a visitare ...
“buttt pleeezz comme to visitt Ittaly”". Per Gianni
"non c'è nemmeno bisogno di arrivare all'analisi dei contenuti.
Basta la tragicità della forma per capire che i contenuti andranno di
pari passo. Eh si perché non avere alcun barlume dello stato disgraziato della
forma con la quale ci si presenta, con la quale si ha il coraggio di andare in
giro a rappresentare un paese la dice lunga, lunghissima, sullo stato
culturale, morale e civico dei soggetti che ciò fanno". Riflessione
buona per dire che "il sentimento dell'antipolitica, la visione populista
che fa coincidere la politica con il male si manifesta e ruggisce in
concomitanza di, e contro vessazioni di Stato come quella fiscale che oggi
tiene banco, ma trova le sue radici vere in un comune denominatore che giace
più a fondo. La consapevolezza della pochezza, dell'inettitudine,
dell'inadeguatezza di chi ci rappresenta e di chi si propone di farlo. Tanto a
destra quanto a sinistra". La lettera è ancora lunga così
come è ancora lungo l'atto d'accusa alla classe politica:"
il disprezzo per la politica, per la casta in quanto tale, il formarsi
di un pregiudizio che poi diventa sentenza non appellabile da parte del
cittadino passa, prima e molto prima che dalle problematiche fiscali che oggi
campeggiano sui giornali, dalle male figure di Prodi e Rutelli con l'inglese,
dagli sperperi sulle auto blu, dalle incredibili dichiarazioni di Cosimo
Mele". E allora, che fare? "Fino a tempi migliori dimenticare lo
Stato se si può e chiedere alla politica, fino a quando provi di
aver superato i dovuti corsi di aggiornamento e la idoneità a sfornare
uomini e donne o transgenders capaci ed abili, di non intralciare", scrive
il lettore, "ecco, almeno questo chiedo all'establishment. Non ti
immischiare. Keep out. Se non sei capace almeno stai zitto. Stai fermo. Stai fuori. If you cannot
deliver stay put and shut up". (riproduzione
riservata)di Alessandra RicciardiItaliaOggi ha dedicato mercoledì scorso
due pagine alla lettera di Marco Gianni, un lettore che ha fatto un quadro
impietoso - e vero - dell'Italia. Un altro quotidiano, Libero, diretto da
Vittorio Feltri, ha pubblicato la medesima lettera di Marco Gianni. Un fatto
è certo: sta montando l'indignazione nel paese reale. Da qualche tempo,
del resto, se ne sono accorti anche i politici. Immediatamente è
scattato il consueto copione. Le tasse sono troppe? Sì, però adesso
guarda come ti trattiamo gli evasori. Hai visto Valentino Rossi e quell'altro
lì come li mettiamo al muro? I Vip, quelli che ti tormentano dallo
schermo, te li tritiamo. Come? Grazie alle foto sui giornali scandalistici.
Hanno la barca? Gliela tassiamo. Hanno la villa al mare? Gliela tassiamo. Hanno
dato una festa milionaria? Gliela tassiamo. Sei ancora irrequieto? Risposta: mi
sento solo preso più in giro di prima. Quelli non sono vip. I vip siete
voi che con la forza mi prendete il denaro dalle tasche. Quelli non contano
nulla. Sono solo cicisbei di regime. Sono finti ricchi, finti potenti, finti
atleti, finti uomini e finte donne e finti omosessuali, ai quali di volta in
volta è richiesto di apparire e scomparire, vociare e tacere, ridere e
piangere, pur di creare consenso. Sono, in un certo senso, l'equivalente da
boudoir dei partiti, dei sindacati, della "stampa democratica" o,
com'è accaduto in taluni momenti storici, persino delle brigate rosse o
dei no global. L'intento è chiaro: li maltratteranno un po', solo un
po', perché tutto torni come prima. Tomasi di Lampedusa non l'hanno letto, ma
credono d'averlo capito. Persino alla Chiesa faremo pagare tutte le tasse! Il
Concordato? Un dettaglio. Intanto un po' di vaselina non guasta. Ecco il
messaggio finale: tranquilli, la prossima Finanziaria sarà una
"tregua fiscale", certificando così che prima ci avevano fatto
la guerra. Adesso, dicono, manterremo costante la pressione del torchio. Questa
è la tregua: la garrota lascerà il condannato con un filo d'aria
invece di strozzarlo del tutto. Siate felici nella casa del rantolo in
libertà! La delinquenza dilaga? Fermiamo i lavavetri, ha detto il
ministro dell'Interno. Il problema dell'Italia? I lavavetri. Sussiegosi e
importanti quotidiani hanno fatto il titolo di apertura a nove colonne sui
lavavetri. Ma in che paese viviamo? Un ministro dell'interno che parla
così bisognerebbe restituirlo subito all'università da cui
proviene come professore, per dargli una seconda gioventù da studente. E
questo è il "dottor sottile", figurarsi gli altri. Veltroni
Valter ha vaticinato che bisogna perseguire gli organizzatori dei lavavetri.
Nella destra subito hanno abboccato, come capita loro usualmente, accodandosi
alle finte polemiche della sinistra, con l'aggravante di farle proprie e di
farle sul serio. E noi ci domandiamo, ci fanno o ci sono? Che cosa andiamo a
dire a Gorgo al Monticano, nella Bergamasca, nelle innumerevoli case violate da
rapinatori e violentatori, che cosa andiamo a dire, che il problema è
dei lavavetri e dei loro organizzatori? Le risposte surreali sgomentano. Le
idiozie dell'onorevole Cosimo Mele, l'indennità da solitudine lambiccata
da Lorenzo Cesa, le alzate d'ingegno di Giuliano Amato, il buonismo petecchiale
del Veltroni, le molotov al lambrusco del duo Bertinotti-Caruso sono
l'equivalente delle brioches che Maria Antonietta voleva distribuire alla folla
tumultuante davanti ai mulini parigini, con l'aggravante che quella attribuita
alla sovrana francese: "Vogliono pane? Date loro brioches_" è
apocrifa, invece le stupidaggini dei nostri politici sono lì, consegnate
alla memoria storica di questo disgraziato paese. Giocano con le parole,
confidando che il sistema massmediatico muti in realtà le loro
illusioni. Non è una malattia esclusiva della sinistra. Questo è
l'unico punto di dissenso che ho con Marco Gianni. Il provincialismo affligge
pure la destra come conseguenza d'una concezione del potere ristretta
all'orticello e scarsamente vocata alle riforme incisive. La frettolosa e
incompleta riforma della magistratura, le regalie milionarie agli inutili
quando non dannosi alti dirigenti statali, le riforme fiscali azzoppate, la
riforma elettorale grottesca, l'incremento senza innovazione delle forze di
polizia, l'ambiguità del triangolo Berlusconi-Bush-Putin, con un'altra
brioche, ricordate? Il mio amico Vladimir Putin, disse Silvio Berlusconi mentre
la polizia russa manganellava i dissidenti e Sasha Litvinenko raggiungeva Anjia
Politovskaia, il mio amico Putin, disse Berluskoni, è un campione di
democrazia. Una brioche grande quanto una cella alla Lubianka.Giocano con le
parole, ma non regge più perché quelli come me e voi, che si sbattono da
mattina a sera per lavorare e dare qualcosa ai figli senza rubare, quelli che
ogni giorno fanno la spesa nel supermercato conveniente, che si consentono
vacanze sempre più brevi, che le tasse le pagano fino all'ultimo
centesimo, senza speranza di residenze in paradisi fiscali, che non andranno
mai al Billionaire di Flavio Briatore, che pure ci sta simpatico, quelli come
noi sanno che il sistema non regge più. Il paese sta andando a rotoli
perché la classe politica non comprende un fatto molto semplice: essa ha
un rendimento di gran lunga inadeguato ai costi che impone al paese reale. I
boschi non bruciano perché gli italiani sono un popolo di piromani. Ed è
inutile far serpeggiare dietrologie di bande mussulmane. Dietrologia per
dietrologia è più facile che gli incendi li abbiano appiccati
quanti interessati a togliere dalle cronache e lasciare sulle strade,
dov'è ancora, l'immondizia partenopea. I boschi bruciano perché non
abbiamo il sistema di prevenzione che hanno l'India o il Pakistan, senza
scomodare il Canada e gli Usa. E abbiamo nominato commissario
straordinario uno che dovrebbe risponderne. Abbiamo delle banche che sono dei
centri di usura. Abbiamo 120 società private che intercettano per conto
dei magistrati, si dividono una brioche da 3 miliardi e mezzo di euro e non
c'è nessuno che chieda: c'è mica un magistrato in queste
società? Abbiamo moltitudini che andranno in pensione con buste da
30.000 euro al mese e oltre e non hanno lavorato un giorno. Possiamo continuare
per altre duecento pagine e ognuno dei nostri lettori può aggiungere un
rigo di suo. Il paese va a rotoli perché la classe politica non vuole
comprendere che chi ha l'autorità per governare, governi. Chi ha il
dovere di fare opposizione, lo onori. Ma governo, opposizione, parlamento,
magistratura e presidente della repubblica sono sotto la sovranità del
popolo. A questa sovranità deve darsi effetto reale, altrimenti le leggi
sono inique, oltraggiose ed economicamente insostenibili, perché indirizzate a
proteggere l'abuso e non il diritto. Non mai è lecito arricchirsi con la
politica e con il lavoro al servizio dello stato. Punto.
Altiero Spinelli racconta nella sua
autobiografia (Come ho tentato di diventare saggio) di essere nato il 31 agosto
1907 - 100 anni fa - in una casa a due passi da Montecitorio, dove sarebbe
tornato 69 anni dopo essendo stato eletto alla Camera nel giugno 1976. Spinelli
ha pensato e agito durante 45 anni per realizzare l'obiettivo principale del
"Manifesto" scritto a Ventotene nel 1941 con Ernesto Rossi: gli Stati
Uniti d'Europa. "Se si rilegge oggi il Manifesto di Ventotene -
afferma Giorgio Napolitano nell'introduzione alla raccolta di suoi discorsi su
Spinelli, pubblicata ora da "Il Mulino" (Altiero Spinelli e l'Europa)
- lo si trova di una modernità straordinaria". Spinelli è
stato "uomo politico di una sola causa", il costruttore tenace di un'Europa
politica nata nel radicalismo democratico che serpeggiava nella resistenza al
nazi-fascismo e proiettata verso il futuro di un continente non più
diviso. Ha costruito la parte più importante della sua opera, dopo la
fondazione del Movimento Federalista Europeo (1943), prima come membro della Commissione
europea (1970-1976) gettando le basi delle più importanti politiche
comuni europee e poi come deputato europeo (1976-1986) contibuendo alla
costruzione dell'ordine politico con il progetto di Trattato sull'Unione
approvato dal Parlamento europeo nel 1984. Esso ha aperto una proficua stagione
di revisione del sistema politico europeo che è durata per oltre
vent'anni, fino alla firma del Trattato-costituzionale nell'ottobre 2004. Pezzo
dopo pezzo, il progetto Spinelli è stato innestato nei trattati
comunitari dalle conferenze intergovernative che si sono succedute dal 1985 al
2004 e lo sarà ancora nella conferenza intergovernativa chiamata ora a
riformare il Trattato di Nizza. Ma gli innesti non hanno risolto e non
risolveranno il problema di fondo del trasferimento ad un governo europeo delle
materie che hanno dimensione europea. Il controverso esito del Consiglio
europeo di giugno ha riproposto la questione dell'Europa a due
velocità per consentire ai Paesi che lo vorranno di riprendere il
cammino dell'integrazione politica e dunque del governo dell'Europa.
Sarebbe un miracolo se tutti i ventisette governi nazionali decidessero di
affidare al Parlamento europeo che sarà eletto nel 2009 il compito di
rilanciare l'integrazione politica elaborando un nuovo progetto di Costituzione
europea come nel 1952 fu affidato dai governi un mandato quasi costituente
all'Assemblea della Ceca. Ma tale miracolo non si realizzerà lasciando
il progetto europeo incompiuto e l'Ue incapace di agire nei settori in
cui gli Stati nazionali appaiono impotenti di fronte alle sfide del 21mo
secolo. Solo eleggendo un'assemblea costituente nei Paesi che lo vorranno i
partiti si sentiranno impegnati a spiegare agli elettori le loro visioni sul
futuro dell'Europa, contrariamente a quel che è avvenuto nelle
campagne europee dal 1979 al 2004. Per raggiungere quest'obiettivo, ci
suggerirebbe Spinelli, serve una vasta coalizione di forze europeiste le quali,
superando linee di divisione tradizionali, creino una "volonté
générale" alla condizione naturalmente che in tale coalizione siano
presenti le volontà decise a riformare ed innovare più che a
conservare.
*già assistente parlamentare di
Altiero Spinelli Dir. della Rappresentanza in Italia della Com. europea.
PARIGI - La riforma dello Stato contro
"i freni" che impediscono la crescita economica non ha colore, afferma
il presidente Nicolas Sarkozy. Per questo, pur essendo Sarkozy il leader della
destra francese, ha incaricato il socialista Jacques Attali, ex consigliere di
Francois Mitterrand, di mettere in piedi una commissione di esperti,
anche stranieri, affinché su tale questione non si abbia solo "uno sguardo
francese". Fra i quaranta membri della commissione, convinti di
questa impostazione, ci sono due italiani, Franco Bassanini e Mario Monti: l'ex
ministro diessino della funzione pubblica definisce gli obiettivi della commissione
"comuni alla destra e alla sinistra". Secondo l'ex commissario
europeo alla concorrenza Monti "occorre spiegare perché le riforme sono
necessarie. Questo non è stato fatto finora in Francia e non è
stato fatto abbastanza neppure in Italia". Cioè da due governi di
colore diverso. Sarkozy ha chiesto ad Attali di definire "soluzioni
concrete per far muovere le cose" su tre piste: "liberazione del
lavoro, rendere dinamico il mercato dei beni e dei servizi, accrescere la
competitività delle imprese". Il presidente francese si aspetta
risultati "entro la fine di dicembre", ma è impaziente e vuole
"entro un mese, le prime proposte". "Questo - ha osservato - ci
permetterà di attuare quello che voi proponete, e capirete che non vi
abbiamo riunito semplicemente per parlare". Fra i quaranta membri della commissione,
ci sono economisti - pochi - scrittori, politici, imprenditori, ed anche uno
psichiatra, Boris Cyrulnik. Attali ha spiegato così questa presenza in
una commissione che ha il compito di "liberare la crescita
francese": "forse uno dei principali freni alla crescita francese
è che la Francia non è allegra. E uno psichiatra, meglio di
altri, può spiegarci perché la Francia non è più allegra".
Salutando i membri della commissione all'Eliseo, Sarkozy si è
fermato qualche secondo in più, sorridente, a parlare con Monti. All'ex
commissario europeo alla concorrenza ha presentato anche il premier Francois
Fillon, che lo seguiva. Il presidente è stato "molto gentile e caloroso",
ha poi detto Monti ai giornalisti, che gli avevano ricordato i duri contrasti
di qualche anno fa sul dossier Alstom fra lui e Sarkozy, allora ministro
dell'Economia. "Ci sono problemi simili fra Italia e Francia", ha
detto Monti.
(segue dalla prima di cronaca) "Vi ha
l'arganello serracapo, cerchio di ferro compresso da una vite che fa sortire e
quasi schizzar gli occhi". Questi e altri sistemi di tortura venivano
descritti dal grande Victor Hugo nel giugno 1860, in un discorso tenuto a
Jersey, nelle Isole Normanne, da dove diffondeva la triste fama di Salvatore
Maniscalco, capo della polizia borbonica in Sicilia. E proprio in quei giorni ?
a un mese dall'ingresso di Garibaldi e a due settimane dalla fuga di Maniscalco
? in una Palermo affamata e devastata dai bombardamenti, un gruppetto di
teatranti, con straordinaria tempestività, faceva rivivere sulla scena
le infamie della polizia borbonica, i martiri palermitani del risorgimento e,
soprattutto, l'arbitrio poliziesco del Maniscalco. Al grido di "Viva l'Italia!
Viva Garibaldi!", ora in teatro si poteva liberamente sfogare, anche se
solo nell'illusione della finzione, il desiderio per tanto tempo represso di
accoltellare a morte il capo in testa degli sbirri di Ferdinando e di Francesco.
Le cronache dell'epoca e gli storici riferiscono del grande successo di
pubblico ottenuto dallo spettacolo e dalla forza recitativa di quegli attori
popolari, in quel clima di generale esaltazione. "Salvatore
Maniscalco" era il titolo del "drama", che tanto invogliante e
liberatorio doveva apparire in quel momento ai palermitani. E tanto più
appetitoso era il titolo perché, tra gli altri personaggi in cartellone, si
scorgevano nomi come Carlo Pontillo e De Simone, altrettanto familiari alla
coscienza popolare per la loro temuta fama di sbirri torturatori; ed anche nomi
come Francesco Riso, entrato da appena due mesi nella mitologia
rivoluzionaria. L'autore - di cui ci restano soltanto le iniziali del nome: F.
A. ? forte del successo ottenuto, fece pure stampare il copione in un volumetto
di 48 pagine per i tipi della Stamperia di Pagano, con questa premessa:
"Per tramandare ai posteri l'abbozzo di cotesto mostro, che cotante
lacrime e cotanto sangue ha fatto spargere alla Sicilia". Lo spettacolo fu
rappresentato dal 24 giugno al 16 luglio 1860 al Teatro Nazionale San
Ferdinando, che prima dell'impresa garibaldina si chiamava soltanto San
Ferdinando. Alla sua riapertura ? autorizzata la ripresa degli spettacoli in
città ? il 13 giugno, con un ballo intitolato "Risorgimento",
al locale fu aggiunto il nome di Nazionale. Successivamente si chiamò
Teatro Principe Umberto e, nel 1878, Real Teatro Umberto I. Venne distrutto
durante la seconda guerra mondiale da una bomba, che lasciò in piedi
solo l'ingresso, in Via Merlo 8. Il giornale "La Luce" del 21
giugno, nel pubblicare con molto rilievo il manifesto dello spettacolo,
sottolineava con partecipazione: "Noi non sapremmo abbastanza raccomandare
un numeroso concorso, sì per l'importanza del soggetto, come pure perché
ci è stato assicurato l'introito esser devoluto a totale beneficio dei
poveri attori, i quali da lunga pezza soffrono il digiuno e le vigilie". I
"poveri attori" dalla condizione così grama erano quelli della
compagnia di Giuseppe Balsamo, detto Pasquino, continuatore in un certo senso di
quel filone di teatro popolare sviluppatosi nel Settecento. Giuseppe Balsamo
infatti aveva sposato la figlia del più famoso Giuseppe Colombo che fu
il primo ad incarnare a Palermo la maschera di Pasquino, aggiornando al gusto
corrente il Nofrio delle settecentesche "Vastasate". Ma torniamo alla
rappresentazione, che ? come scrive lo storico Raffaele De Cesare - "era
tutta una sfuriata contro l'ex direttore di polizia, la cui persona, al
comparire sulla scena, era salutata da un uragano di fischi e da un coro
selvaggio di imprecazioni". Insomma, peggio di un mitico Gano di Maganza
dell'opera dei pupi. Il dramma, diviso in tre "epoche" quanti sono
gli atti, si snoda attraverso la folgorante carriera del Maniscalco, dal crollo
della repubblica del '48 all'arrivo di Garibaldi in Sicilia. Nel primo atto
vediamo il trentacinquenne capitano di gendarmeria Salvatore Maniscalco alle
prese con la riorganizzazione delle forze di polizia, dopo quei sedici mesi di
sogno rivoluzionario. Compito principale ripristinare "l'ordine",
anche attraverso infiltrati mercenari nei circoli liberali. Segue l'arresto di
sette carbonari e i preparativi per la loro esecuzione, con una scena molto
patriottica con il giovane Nicolò Garzilli. Nel secondo atto ?
ambientato nel 1854 ? i personaggi hanno fatto tutti un notevole balzo di
carriera: Maniscalco è direttore di polizia (realmente l'uomo più
potente della Sicilia); De Simone capitano di gendarmeria; Calabrò
giudice di gran corte; e Carlo Pontillo ispettore, il più diabolico dei
torturatori. La vicenda si dipana fra le "suppliche" di povera gente
che ha parenti in carcere senza giustificati motivi, fra atti di corruzione e
concussione perpetrati dal Direttore, e arresti e torture di detentori di
stampa liberale. Ma eccoci finalmente al terzo atto, alla nemesi. Lo
spettatore, che negli atti precedenti ha inghiottito amaro di fronte alla
rappresentazione dello strapotere e dei soprusi del Maniscalco e dei suoi
uomini, adesso vede finalmente costoro in difficoltà per l'imminente arrivo
dei Mille. Siamo nel fuoco del 1860. La polizia è rappresentata
nell'atto di reprimere la rivolta della Gancia, mentre un corriere da Trapani
annuncia l'avvenuto sbarco di Garibaldi a Marsala. è l'ultima scena del
dramma ? affollata sintesi di tutti i miti più popolari del risorgimento
siciliano ? nella quale il giovane maestro fontaniere Francesco Riso,
ferito nel fuoco della Gancia, ascolta l'entusiasmante notizia e muore
"contento". E nella quale, con un clamoroso falso storico, un
patriota si avventa sul direttore di polizia e lo accoltella a morte gridando
"Viva l'Italia! Viva Garibaldi!". Il pubblico balza in piedi
galvanizzato e, tra gli applausi, ripete e amplifica quel grido che diventa un
boato: "Viva l'Italia, viva Garibaldi!". Maniscalco, invece, nella
realtà, morirà per i fatti suoi a Marsiglia nel 1864, dov'era in
esilio, lasciando la moglie e sette figli, che subito rientreranno a Napoli. E,
come spesso accade, un certo revisionismo storico, già all'indomani
dell'unità italiana, ha voluto rivalutare in Maniscalco "il
funzionario coraggioso e fedele". In effetti, un attentato Maniscalco
l'aveva subito nell'ottobre del '59 per mano di un pregiudicato, Vito Farina,
soprannominato Farinella, pescato nei bassifondi della malavita. Questi accettò
l'incarico per un compenso di seicento ducati e aggredito alle spalle il
direttore lo pugnalò ai reni. Il Maniscalco guarì in pochi giorni
e divenne implacabile contro i supposti cospiratori, anche se su Farinella,
arrestato e torturato, non si poté provare nulla. In virtù di
quell'attentato il potere del direttore divenne immenso, e il re gli concesse
onorificenze ed un aumento di assegno. Ma anche Farinella, alla caduta del
governo borbonico, ne sarà avvantaggiato, riuscendo ad ottenere un sussidio
da Garibaldi. "E fu vergogna", commenta il De Cesare nella sua
"Fine di un regno".
++ La Repubblica 30-8-2007 AUTO: RUBBIA, PASSARE
AL PIU' PRESTO DA BENZINA A ETANOLO
L’Unità 30-8-2007 Lasciamoli lavorare Marco
Travaglio
Il Riformista 30-8-2007 POLITICA E DIRITTI CIVILI Il
Pd, se c’è,batta un colpo etico
"Etanolo al posto della benzina, al
piu' presto". Cosi' il premio Nobel Carlo Rubbia, in un'intervista al
mensile 'Quattroruote', pone l'accento sull'emergenza di investire sui
carburanti vegetali e esorta l'Italia a promuoverli come gia' stanno facendo
altri Paesi. "L'obiettivo che ci dobbiamo dare e' ridurre del 30% la
nostra dipendenza dal petrolio nei prossimi dieci anni - sostiene il premio
Nobel - e questi carburanti possono essere fondamentali, perche' hanno una resa
energetica alta con emissioni nocive molto contenute". Rubbia, che ha fatto
parte di due commissioni a livello europeo per lo sviluppo dell'idrogeno, non
crede ad applicazioni concrete nel breve periodo e critica severamente
l'industria dell'auto, perche' "non si e' riusciti a produrre auto piu'
leggere e meno assetate di benzina e questa e' una responsabilita' delle
Case".
LONDRA -
Da anni viviamo con l'incubo del riscaldamento globale. Ma un'altra minaccia,
ancora più immediata, potrebbe essere la fame globale: sempre meno
prodotti alimentari disponibili, sempre più cari, contesi da una
popolazione terrestre sempre più grande, in un periodo già reso
critico da risorse idriche sempre più scarse e da un clima sempre
più imprevedibile. "La fine del cibo", riassume il titolo del
Guardian di Londra, puntando il dito contro un fenomeno che sta accelerando il
deficit alimentare: sempre più terre, in America e in Occidente ma anche
nel resto del pianeta, finora utilizzate per coltivare prodotti agricoli,
adesso vengono adibite alla coltivazione di biocarburi, come l'etanolo e altri
carburanti "puliti", sia per ridurre l'inquinamento atmosferico, sia
per ridurre la dipendenza dall'energia petrolifera di un esplosivo e instabile
Medio Oriente. E' questo, sostengono gli esperti, il fattore scatenante
dell'aumento dei prezzi del cibo. Aggiungendovi il declino delle acque, i
disastri naturali e la crescita della popolazione, ammonisce il quotidiano
londinese, si arriva a "una ricetta per il disastro".
Lester Brown, presidente della think-tank Worldwatch Institute e autore del
best-seller "Chi sfamerà la Cina?", presenta così la
questione: "Siamo di fronte a un'epica competizione per le granaglie tra
gli 800 milioni di automobilisti del pianeta e i due miliardi di poveri della
terra". Come in quasi tutte le sfide tra ricchi e poveri, non è
difficile immaginare chi la stia vincendo.
Esortati dal presidente Bush a produrre entro dieci anni un
quarto dei carburanti non fossili di cui necessitano gli Stati Uniti, migliaia
di agricoltori americani stanno trasformando il "granaio d'America"
in una immensa tanica di biocarburi. L'anno scorso già il 20 per cento
del raccolto di granoturco Usa è stato usato per la produzione di
etanolo, i cui stabilimenti raddoppiano di anno in anno. Una politica analoga
è in corso un po' ovunque, dall'Europa all'India, dal Sud Africa al
Brasile. Diminuendo la terra destinata alla coltivazione di grano, il prezzo
del frumento è aumentato del 100 per cento dal 2006, e ciò sta
portando ad aumenti da record dei prezzi dei generi di prima necessità:
pane, pollo, uova, latte, carne.
Ad accrescere le preoccupazioni del dottor Brown c'è il boom demografico
ed economico di Cina e India, i due giganti in cui vive il 40 per cento della
popolazione mondiale: anche perché cinesi ed indiani stanno abbandonando la
loro tradizionale dieta ricca di verdure a favore di un'alimentazione
più "americana", che contiene più carne e latticini.
Non tutti condividono gli scenari catastrofici. "Il Brasile ha 3 milioni
di chilometri quadrati di terra arabile, di cui solo un quinto è
attualmente coltivato e di cui solo il 4 per cento produce etanolo", dice
il presidente brasiliano Lula. Ma le Nazioni Unite calcolano che la richiesta
di biocarburi aumenterà del 170 per cento solo nei prossimi tre anni. Ci
sarà abbastanza cibo per tutti? O presto verrà il giorno in cui
dovremo scegliere tra una pagnotta e un pieno di biocarburi per la nostra auto?
(30 agosto 2007)
BRUXELLES Non siamo naïf e non
possiamo permetterci di esserlo. La Commissione è convinta che la
migliore risposta ai problemi dell’economia europea sia un vero mercato unico
senza barriere, ma questo non toglie che se qualcuno arriva con intenzioni
differenti che possono danneggiarne il funzionamento, allora dobbiamo essere in
grado di intervenire per ripristinare i corretti equilibri interni».
Sul tavolo dell’esecutivo comunitario, e del suo presidente José Manuel Durao
Barroso, spunta un nuovo dossier, quello delle misure per tutelarsi contro la
possibile invasione di capitali stranieri, segnatamente russi e cinesi,
pilotati dalla politica e non dall’economia. È un capitolo insidioso che
rischia di scatenare l’ennesima polemica sulla Fortezza Europa. Il portoghese,
abbronzato, appena rientrato dalle vacanze, dimostra di esserne consapevole
mentre con cinque giornali europei, fra cui La Stampa, scorre l’agenda dell’autunno
caldo che l’attende.
Di qui a dicembre Bruxelles vuole riscrivere le regole nei settori di energia e
Tlc nel nome dell’unbundling, separando la rete dalle aziende che offrono i
servizi. Interverrà per punire chi impiega gli immigrati clandestini, fisserà
i limiti per le emissioni di anidride carbonica, cercherà di rilanciare
la strategia di Lisbona per la crescita, e tenterà di normalizzare le
relazioni con gli interlocutori più ostici, soprattutto Russia e
Turchia. Senza dimenticare l’appuntamento clou, la conferenza intergovernativa
che a ottobre dovrà riscrivere i trattati dell’Unione. Punto cruciale,
questo, da cui ha preso il via il colloquio con il numero uno di Palazzo
Berlaymont.
Presidente, il vertice di Bruxelles è stato duro. Crede che i
problemi siano definitivamente risolti?
«Io spero in una soluzione rapida della conferenza istituzionale, mi piacerebbe
che ci fosse un "Trattato di Lisbona". Dopo tutti gli sforzi che
abbiamo fatto per rendere il mandato compatibile con le esigenze di tutti, gli
ostacoli dovrebbero essere superati».
Non teme che i polacchi, che potrebbero votare in ottobre, si mettano
di traverso?
«C’è un mandato preciso come mai. Il ministro degli Esteri polacco
ha espresso qualche perplessità in luglio, però ha ribadito il
sostegno alle riforme. Dobbiamo fidarci. Ci saranno delle discussioni. Ma
vedrà che troveremo una via d’uscita».
E se a Varsavia in novembre ci fosse un nuovo governo?
«L’accordo di Bruxelles è stato fatto con il presidente polacco che non
mi risulta sia destinato a cambiare».
La Polonia pensa di unirsi a Londra nella pattuglia degli «opt out»
chiamandosi fuori sul sociale.
«Non mi piacciono gli "opt out", eppure bisogna essere realisti. Non
siamo più una Comunità a sei. Occorre un grado di flessibilità,
allora è meglio un "opt out" che un’Unione bloccata».
Dai trattati rivisti dipende il futuro ampliamento Ue. Il pensiero va
alla Turchia e al presidente islamico Gul. Intravede nuove difficoltà?
«Conosco bene Gul. So che è votato al rispetto dei valori
democratici. Il fatto che uno abbia una profonda convinzione religiosa non
è per forza di cose un ostacolo per la democrazia. Perché, come
presidente, non dovrebbe mantenere le posizioni riformiste che aveva quando era
ministro?».
Sarkozy, pur dichiarandosi disposto ad accettare solo un’intesa di
associazione, è favorevole a proseguire il negoziato. Buon segno?
«È bene che la Francia non chiuda la porta alla Turchia, soprattutto
perché non decidiamo oggi se diventerà membro dell’Ue. Abbiamo aperto
una trattativa e dobbiamo tener fede agli impegni. Il cambiamento di governo Ue
non può mettere in dubbio una delibera unanime. È una questione
di credibilità. Il negoziato deve andare avanti. Diamoci tempo. Non
deludiamo i democratici turchi, islamici o laici che siano. Andiamo a vedere se
è possibile che un paese per lo più musulmano possa accogliere
gli ideali della democrazia e della società moderna».
Un altro problema è la Russia di Putin, cliente imprevedibile
con cui non si riesce a siglare il patto di associazione.
«L’interesse di tutti sono relazioni costruttive e interdipendenza positiva con
Mosca, non un clima teso di confronto. Questo non vuol dire però che si
debba rinunciare ai nostri valori e a difendere le nostre posizioni di
principio. Per esempio, trovo strano che tanti giornalisti siano uccisi e che
uno Stato con un apparato di sicurezza così efficiente non trovi mai i
colpevoli. È una cosa che abbiamo condannato in più occasioni».
Va bene. Però le cose stanno peggiorando. Non è il caso
di rivedere l’approccio?
«Noi europei tendiamo a farci prendere dall’ansia da risultato. Non dobbiamo
cambiare strategia. È chiara, e s’è dimostrata valida: vogliamo
che Mosca sia un interlocutore stabile e forte, ma la qualità dei nostri
rapporti con la Russia dipende dalla qualità della sua democrazia. La
nostra azione deve essere costante e attendibile. Guai a farsi tentare dal
mutare rotta in un passaggio difficile. Magari la colpa non è nostra, ma
dell’interlocutore».
Molti trovano faticoso fidarsi di Putin e la signora Merkel invoca
barriere per i capitali dei paesi terzi. Cosa che, a quanto pare, sta facendo
anche la Commissione.
«Se c’è un mercato, ed è un vero mercato, non dobbiamo temere gli
investitori stranieri: la concorrenza e gli interessi degli operatori sono una
ottima tutela nei confronti di chi ha obiettivi diversi. Il problema è
che il nostro mercato interno è frammentato, si vede bene nell’Energia,
per la quale presenteremo in settembre un progetto di totale apertura».
Con gli scudi difensivi?
«La nostra proposta per l’energia ruota intorno all’unbundling prevedendo, se
necessario, la possibilità di difesa se sentiamo che il comportamento di
alcune compagnie straniere non è in sintonia con le regole».
Vi daranno dei protezionisti.
«Non credo. È difficile accettare che un gruppo di un paese terzo possa
venire in Europa e comprare una società che possiede una rete di
distribuzione mentre le nostre aziende non possono fare altrettanto. Non
proteggiamo l’economia; ne garantiamo il funzionamento. È un problema
serio. E scivoloso».
Come mai?
«Talvolta ci pare che l’allarme per gli investitori esteri sia sollevato con
l’intenzione di creare barriere interne all’Ue. Noi siamo contro ogni
protezionismo. Nazionale o europeo».
A proposito. Il discorso sulla finanza pubblica ha acceso la disputa
sulle entrate non previste. L’Italia usa il suo tesoretto per tagliare le
tasse.
«L’evoluzione del vostro bilancio è incoraggiante. Ciò non toglie
che lo sforzo debba continuare perché la tendenza sia confermata. Questo esige
un impegno persistente. Non voglio parlare di misure specifiche, soprattutto se
fiscali. Va sottolineato però che quando il vento è favorevole
dovrebbe esser sfruttato per continuare nel consolidamento. State andando nella
giusta direzione e contiamo di poter chiudere la procedura di deficit eccessivo
in tempi brevi. Allo stesso tempo, riteniamo che in Italia - alla luce del
debito pesante - alcuni sforzi supplementari siano opportuni. Per il suo paese,
come altri, l'invito è a mantenere alta la guardia sulle riforme
strutturali e sul riequilibrio della spesa pubblica».
dalla
prima pagina
«Per il 2006, secondo i dati dei Monopoli, a fronte di un volume di affari
(ovvero la "raccolta di gioco") pari a circa 15,4 miliardi di euro
(di cui la quasi totalità derivante da apparecchi con vincite di denaro)
vi è stato un gettito fiscale pari a 2 miliardi e 72 milioni di euro con
circa 200mila apparecchi attivati», scrive il rapporto della commissione d'inchiesta.
E aggiunge: «L'effettiva raccolta di gioco sarebbe stata di molto superiore
alla cifra citata. Secondo stime della Finanza, la predetta raccolta di gioco
ammonterebbe a 43,5 miliardi di euro». Insomma, i due terzi del gioco sarebbero
in nero. Due macchinette su tre non sarebbero collegate alla rete. Quindi il 70
per cento del "preu" - il prelievo fiscale su ogni singola giocata
che dovrebbe finire nella casse dei Monopoli, e quindi dello Stato - è
stato evaso.
«Abbiamo calcolato - raccontano gli investigatori - che tra imposte non pagate
e multe non riscosse lo Stato ha perso circa 98 miliardi di euro».
L'equivalente di tre Finanziarie che invece di andare allo Stato è
rimasto nelle tasche di alcune concessionarie. E non basta, perché secondo gli
uomini della Finanza e alcuni componenti della commissione d'inchiesta «in
alcune delle società in questione siederebbero uomini vicini a Cosa
Nostra, in particolare al clan di Nitto Santapaola». Altre invece sarebbero
guidate da persone vicine a esponenti di primissimo piano di partiti politici
(soprattutto Alleanza Nazionale).
Così l'indagine della Corte dei Conti sfocia in quello che sarebbe il
più clamoroso caso di evasione fiscale della storia della Repubblica.
Non solo. «Nel corso delle indagini sono sorti alcuni interrogativi su
specifici comportamenti tenuti dai Monopoli in particolari occasioni», è
scritto nel rapporto della commissione che da settimane è sulla
scrivania del vice-ministro dell'Economia, Vincenzo Visco. Una critica pesante
nei confronti dei Monopoli che non si sarebbero accorti di un'evasione di
dimensioni colossali o che non avrebbero richiesto alle società
concessionarie il pagamento delle somme dovute. «Zero. I Monopoli dello Stato
non hanno fatto pagare un centesimo di sanzione alle società concessionarie
che non avevano versato miliardi di euro di imposte», raccontano gli
investigatori.
Dal ministero e dai Monopoli non è finora arrivato nessun commento.
Ieri ecco la notizia del «danno erariale» a sei zeri che la Corte dei Conti ha
richiesto alle concessionarie. In particolare emergono le cifre indicate nella
notifica di Lottomatica e Snai. E immediatamente le quotazioni in borsa delle
due società precipitano. Lottomatica lascia sul campo il 4,02 per cento,
mentre il titolo Snai perde addirittura l'11,27 per cento e viene sospeso per
eccesso di ribasso. I volumi di scambi sono altissimi, con 4,18 milioni di
pezzi passati di mano da una media giornaliera di 640.000. Alla fine Snai
decide di diffondere un comunicato in cui afferma di aver ricevuto una notifica
dalla Procura regionale della Corte dei conti del Lazio che la invita a
presentare le sue deduzioni su un'ipotesi di danno erariale nel settore «new
slot» valutato intorno ai 4,8 miliardi di euro. Snai sottolinea che «da tali
procedure non potranno emergere responsabilità di sorta a suo carico
nè derivarle conseguenze negative di carattere patrimoniale».
Ma il caso slot-machine è soltanto all'inizio e nelle prossime settimane
potrebbe riservare clamorose sorprese. La Procura di Roma - che ha ricevuto gli
atti dal pm di Potenza, John Henry Woodcock - ha intenzione di sentire i
vertici dei Monopoli. Il magistrato Giancarlo Amato vuole ricostruire il
meccanismo che ha portato ad attribuire le concessioni alle società che
gestiscono le slot-machine. Non solo: si sta cercando di capire se vi siano
state degli illeciti nei controlli compiuti dai Monopoli. Un'ipotesi che
troverebbe conferma nel rapporto della Commissione d'inchiesta: non risulta, si
dice nel documento, che siano stati compiuti controlli sui precedenti penali
delle concessionarie. Non solo: alcuni degli ispettori incaricati dei controlli
risultavano indagati proprio per presunti episodi di corruzione.
La Procura di Roma, però, vuole anche capire chi ci sia davvero dietro
le società che gestivano il "tesoro" delle slot-machine.
Alcune società, fa notare un membro della commissione d'inchiesta, hanno
spostato la sede all'estero nonostante siano titolari di concessioni con lo
Stato italiano.
Non solo. Secondo gli investigatori, il mondo del gioco d'azzardo legale
sarebbe diventato un fondamentale strumento di finanziamento dei partiti di
entrambi gli schieramenti.
29/06/2007
La Commissione d'inchiesta presieduta dal sottosegretario Alfiero Grandi e
composta, tra gli altri, dal generale della Finanza Castore Palmerini produce
un rapporto che finisce sul tavolo del vice-ministro, Vincenzo Visco. Si parla
di imposte non riscosse e di multe non pagate per quasi cento miliardi di euro.
La commissione accusa pesantamente i Monopoli dello Stato.
29/06/2007
SCOPPIA
IL GRANDE SCANDALO
29/06/2007
L'INCHIESTA DELLA
CORTE DEI CONTI
La Finanza e la Corte dei Conti avviano un'indagine sul mondo delle
slot-machine: all'appello mancano 98 miliardi di euro. Anche la commissione
d'inchiesta presieduta dal sottosegretario Grandi giunge alle stesse
conclusioni.
29/06/2007
L'INCHIESTA DEL SECOLO XIX
Viene pubblicato il rapporto della commissione Grandi. Scoppia lo scandalo
delle imposte che non sarebbero state pagate e delle multe non riscosse.
L'evasione più consistente della storia della Repubblica
29/06/2007
IL CROLLO IN BORSA
La Procura della Corte dei Conti notifica a dieci società concessionarie
un provvedimento per il «danno erariale» subìto dallo Stato. Snai e
Lottomatica - che sarebbero debitrici di circa 4 miliardi ciascuna - crollano
in Borsa.
Bologna, 12 agosto 2007 - Riprendiamo
un contributo da www.beppegrillo.it
Due giornalisti del Secolo XIX di Genova,
Menduini e Sansa, denunciano da tempo le imposte non pagate dai Monopoli di
Stato. Tenetevi forte, sono 98 MILIARDI DI EURO. Dove sono finiti questi soldi?
Ai partiti, alle Mafie, a privati cittadini? Tangentopoli in confronto sembra
una barzelletta e Valentino Rossi un bambino che ha rubato le caramelle. Visco
se ci sei batti un colpo, dato che le federazioni dei Ds sono proprietarie di
sale Bingo. Fini e Alemanno, così impegnati sui costi della politica,
chiedete informazioni ai vostri consiglieri delle società concessionarie
delle slot machine. Di seguito la lettera di Menduini e Sansa al signor Tino,
direttore dei Monopoli di Stato.
“Gentile dottor Giorgio Tino,
ci piacerebbe porgerle queste domande a voce, ma parlarLe sembra essere
impossibile. Da mesi La cerchiamo inutilmente, cominciamo quasi a dubitare che
Lei esista davvero. E dire che Lei avrebbe interesse a rispondere (oltre che il
dovere). Secondo il rapporto di una commissione di inchiesta parlamentare e
secondo gli uomini della Guardia di Finanza infatti, tra imposte non pagate e
multe non riscosse le società concessionarie delle slot machine devono
allo Stato 98 miliardi di euro.
Sarebbe una delle più grandi evasioni
della storia d’Italia. Secondo la commissione e gli investigatori, questo tesoro
sarebbe stato regalato alle società che gestiscono il gioco d’azzardo
legalizzato. Di più: nei consigli di amministrazione di alcune di queste
società siedono uomini appartenenti a famiglie legate alla Mafia.
Insomma, lo Stato italiano invece di combattere Cosa Nostra le avrebbe regalato
decine di miliardi di euro.
Con quel denaro si potrebbero costruire metropolitane
in tutte le principali città d’Italia. Si potrebbero comprare 1.000
Canadair per spegnere gli incendi. Potremmo ammodernare cinquecento ospedali
oppure organizzare quattro olimpiadi. Si potrebbero realizzare impianti
fotovoltaici capaci di fornire energia elettrica a milioni di persone oppure si
potrebbe costruire la migliore rete di ferroviaria del mondo.
Da mesi noi abbiamo riportato sul nostro giornale,
Il Secolo XIX, i risultati dell’indagine. Decine di pagine di cronaca che non
sono mai state smentite. Secondo la commissione d’inchiesta, i Monopoli di
Stato hanno gravi responsabilità nella vicenda. Non solo: la Corte dei
Conti ha chiesto alle società concessionarie di pagare decine di
miliardi di euro per il risarcimento del danno ingiusto patito dallo Stato. E
nei Suoi confronti, signor Tino, i magistrati hanno aperto un procedimento per
chiedere il pagamento di 1,2 miliardi di euro di danni.
Ma Lei che cosa fa? Tace e rimane al suo posto, come tutti i responsabili dei
Monopoli, dalla dottoressa Barbarito alla dottoressa Alemanno (sorella dell’ex
ministro di Alleanza Nazionale).
E, cosa ancora più incredibile,
tace il vice-ministro dell’Economia, Vincenzo Visco (che da mesi ha ricevuto il
rapporto della commissione di inchiesta), da cui Lei dipende. Può
spiegarci per filo e per segno che fine hanno fatto quei 98 miliardi di euro
che secondo la Finanza sono stati sottratti alle casse dello Stato?
Finora Lei non ci ha mai voluto rispondere.
Forse conta sul sostegno del mondo politico. Del resto la Sua poltrona è
una delle più ambite d’Italia. Pochi lo sanno, ma i Monopoli gestiscono
il commercio del tabacco e del gioco d’azzardo legalizzato. Insomma, un tesoro,
su cui i partiti si sono lanciati da anni: An ha suoi rappresentanti proprio
nei consigli di amministrazione delle società concessionarie delle slot
machine, mentre le federazioni dei Ds sono proprietarie di molte sale Bingo.
Così Lei può permettersi di tacere. Ma chissà che cosa
farebbe se a ripeterLe queste domande fossero decine di migliaia di visitatori
di questo blog (l’indirizzo dell’ufficio stampa è: ufficiostampa@aams.it )?”
Marco Menduni e Ferruccio Sansa
Che
Dio ci perdoni per averlo anche soltanto pensato, ma questa volta ha ragione il
ministro Mastella: "Bisognerebbe fare meno pressioni sugli inquirenti
impegnati a Garlasco. Lasciamo lavorare la Procura. Se ognuno parlasse meno
delle indagini, sarebbe meglio". Il Guardasigilli ha talmente ragione che
ci permettiamo una modesta proposta: tutti i politici imparino a memoria questa
semplice frase "bisognerebbe fare meno pressioni sugli inquirenti,
lasciamo lavorare la Procura, se ognuno parlasse meno delle indagini sarebbe
meglio" e la ripetano tale e quale, se proprio non riescono a stare
zitti, ogni qual volta un'indagine giudiziaria finisce sui giornali. Purtroppo
finora è sempre accaduto l'esatto contrario. Quest'estate è stata
tutto un florilegio di pressioni dei politici sugli inquirenti, dal caso delle
scalate bancarie a quelli di don Gelmini e degli altri presunti preti pedofili,
dalle inchieste del pm De Magistris a Catanzaro a quelle sui cosiddetti
piromani, per non parlare della vicenda di Luca Delfino, il balordo di Sanremo
che ha ucciso l'ex fidanzata Maria Antonietta Multari ed è sospettato di
aver fatto altrettanto in passato con Luciana Biggi. A questo proposito, due
giorni fa il pm genovese Enrico Zucca è finito sotto scorta dopo che una
gran quantità di presunti onorevoli, col contorno di giornali e tv al
seguito, e financo l'ineffabile capo della squadra mobile l'hanno accusato di
aver dato una mano all'assassino lasciandolo libero. Minacciato con decine di
lettere minatorie, l'ultima contenente un proiettile, Zucca è in
pericolo di vita: eppure la notizia è finita fra le "brevi",
molto meno evidente di Briatore & Gregoraci promessi sposi. Quando minacce
molto più blande (rivelatesi infine una bufala)toccarono il
neopresidente della Cei cardinal Bagnasco, i giornali le spararono in prima
pagina per giorni e giorni. Eppure il dottor Zucca guardacaso impegnato nelle
indagini sulle deviazioni della polizia durante il G8 di Genova vivrebbe
tranquillo e senza scorta, se non fosse stato linciato da tutta quella bella
gente. E che dire della Procura di Terni? Appena s'è saputo dopo oltre
un anno di lavoro segretissimo - che indaga su don Gelmini, s'è aperto
il solito fuoco di attacchi, insulti e ridicole polemiche sull'
"anticlericalismo della magistratura": purtroppo vi ha partecipato
attivamente il ministro Mastella, assicurando la sua "massima
vigilanza" sull'inchiesta, senza peraltro spiegare quale legge preveda la
vigilanza del Guardasigilli sulle indagini in corso. Se, anziché perdere
un'altra occasione per tacere, avesse dichiarato anche per don Gelmini che
"bisognerebbe fare meno pressioni sugli inquirenti, lasciamo lavorare la
Procura, se ognuno parlasse meno delle indagini sarebbe meglio", avrebbe
dato un piccolo contributo al ritorno del diritto nella patria del rovescio. Se
poi Mastella avesse evitato di sguinzagliare i suoi ubiqui ispettori a Potenza
(due o tre volte), a Catanzaro,a Milano contro la Forleo e così via,
avrebbe dissipato il sospetto che le ispezioni ministeriali siano riservate in
esclusiva a quegli uffici giudiziari che osano sfiorare il potere. E se tanti
politici la piantassero di invocare "pene esemplari" per piromani,
pirati della strada e ultimamente anche lavavetri (massima emergenza criminale
in quel paradiso della legalità che è l'Italia), limitandosi a
osservare che le pene devono essere giuste secondo le leggi vigenti, tante
brave persone eviterebbero di farsi l'idea che, se in Italia c'è tanta
criminalità, è colpa dei giudici. E magari capirebbero che la
prima responsabilità della criminalità è dei criminali,
oltrechè di chi li mette fuori con l'indulto o approva o non abolisce
norme fatte su misura per Berlusconi o per Previti che poi, essendo la legge
uguale per tutti, vengono usate anche dai cosiddetti "delinquenti
comuni". Tra qualche giorno riaprirà il Parlamento e le giunte per
le elezioni di Camera e Senato dovranno finalmente votare sì o no
all'autorizzazione all'uso giudiziario delle intercettazioni ai furbetti del
quartierino e ai politici loro amici. Siamo certi, dopo le parole del ministro
Mastella, che lui e i suoi colleghi di destra e di sinistra si asterranno da
indebite interferenze nell'attività della magistratura e voteranno
unanimi per il sì. Commentando, se proprio non possono farne a meno, che
"bisognerebbe fare meno pressioni sugl'inquirenti: lasciamoli lavorare. Se
ognuno parlasse meno delle indagini sarebbe meglio". O no? Uliwood party.
In
autunno non ci sarà soltanto la Finanziaria sul tavolo della
maggioranza. Una lunga serie di dossier aspettano aperti da tempo che il
centrosinistra, magari con l’accordo di parte della opposizione, dia le
risposte che in molti attendono. Stiamo parlando dei temi “eticamente
sensibili” come qualcuno li definisce, ovvero aborto, unioni di fatto e
testamento biologico, che rischiano di formare alla ripresa autunnale
dell’attività politica un vero e proprio ingorgo. Se la politica ha i suoi
tempi, la realtà spesso ne ha altri, e molto più rapidi.
Così, dopo il caso dell’aborto delle due gemelline avvenuto a Milano,
è riesploso il dibattito sulla legge 194. «La 194 ha ormai trent’anni, e
li dimostra; forse le servirebbe un tagliando», si leggeva ieri sull’Avvenire,
che al tema ha dedicato l’editoriale di apertura del giornale. Poi,
rivolgendosi a Livia Turco, il giornale dei vescovi aggiungeva: «Le nuove
tecniche mediche, e le scelte che implicano, tendono a svuotarla di senso,
approfittando delle incertezze interpretative. Il ministero potrebbe fornire
indirizzi e regole, stilando delle linee guida, senza toccare la legge».
Linee guida, dunque, lo stesso argomento toccato sempre ieri proprio da Livia
Turco che sulle colonne del Corriere della Sera annunciava l’arrivo entro fine
anno di linee guida per stabilire i tempi della interruzione di gravidanza.
Analoga situazione si è registrata poco prima della pausa estiva quando,
sempre il ministro della Salute, aveva invitato i parlamentari a riflettere «con
rigore e sobrietà» sul tema della fecondazione assistita per evitare che
i principi alla base della legge 40 corrano il rischio di essere traditi.
L’invito era arrivato in occasione della presentazione al parlamento della
relazione sullo stato della attuazione di quella legge a tre anni dalla sua
entrata in vigore, ed era stato interpretato dal mondo cattolico come
l’annuncio di una revisione delle linee guida in scadenza. Naturalmente, in
breve tempo le truppe erano schierate nei rispettivi campi.
Se tutto ciò non bastasse, proprio in questi giorni si è tornati
a parlare di unioni civili, dopo il pronunciamento del Tar del Veneto sui
cosiddetti Pacs alla Padovana, mentre in Parlamento, sempre a ridosso della
pausa estiva, è stato presentato l’ultimo testo normativo della serie,
quello sui Cus. Infine, sempre alla ripresa dell’attività politica, in
Senato si dovrebbe tornare a parlare di testamento biologico dopo che, in
primavera, il lavoro della commissione Sanità aveva dovuto fare i conti
con le spaccature nella maggioranza che avevano portato all’accantonamento di
tutti i testi sino ad allora presentati in commissione e al tentativo di
redigerne uno nuovo e maggiormente condiviso.
Detto tutto ciò, è facile capire come, se a ciò si
aggiungono le fibrillazioni che inevitabilmente l’arrivo della Finanziaria
innescherà tra le forze politiche, tra settembre e dicembre si rischia
un vero e proprio ingorgo che qualcuno dovrà assumersi l’incarico di
evitare. Quel qualcuno potrebbe essere il Partito democratico che potrebbe
decidere di caratterizzarsi proprio su questi temi ma, allo stato, questa
sembra una possibilità molto remota. Un intervento del Parlamento, e per
ciò che è nelle proprie competenze anche del governo, però
è urgente. Altrimenti, come già su questo giornale avevamo
denunciato, sarà la magistratura a decidere perché la realtà non
sempre si ferma ad aspettare i tempi della politica. E la supplenza della
magistratura non è mai qualcosa da augurarsi perché espone i cittadini al
pericolo di decisioni caso per caso senza valore generale e, soprattutto,
perché diventa un vero e proprio manifesto della incapacità della
politica di prendere decisioni.
ROMA - "Basta con le
polemiche e i sospetti. Qui non c'è nessuna trama segreta. Non sono in
vista né cambi di maggioranza né elezioni anticipate. Veltroni sta facendo bene
il suo lavoro e il Partito democratico è la vera polizza vita di questo
governo, che a questo punto durerà fino alla fine della
legislatura". Reduce dalla sua solita vacanza in barca, Massimo D'Alema
torna in campo per rassicurare Prodi, spronare Veltroni, rimproverare gli altri
candidati leader del Pd, e rilanciare la sfida d'autunno, a partire dalla legge
elettorale: "Il modello tedesco va bene - dice il ministro degli Esteri,
raccogliendo un dubbio di Veltroni - e lo si può anche rafforzare
introducendo l'obbligo di indicare le alleanze prima del voto, e non
dopo".
Ministro D'Alema, ci risiamo. A un mese e mezzo dalla costituente del Pd avete
già ricominciato tutti a litigare come le comari di Windsor.
"Io ho preferito star fuori dalle polemiche. Mi dà fastidio il
chiacchiericcio estivo, questo è il periodo in cui la politica dà
il peggio di sé. Il caldo spinge i politici a dire cose improbabili, talvolta
insensate. I giornali, in assenza di notizie, le enfatizzano. Tutto questo
produce dibattiti sudaticci. Buona regola è starne fuori... ".
Ma ora qualcosa dovrà pur dirla. Il quadro d'insieme del paese non le
sembra alquanto sconfortante?
"Il quadro d'insieme dimostra soprattutto una cosa: non c'è una
maggioranza in crisi e un'opposizione che incalza. Quella era un'immagine
propagandistica, che oggi dimostra in modo clamoroso la sua insussistenza. La
verità è che c'è un paese in difficoltà, non solo
la sua politica. L'ondata "anti", molto cavalcata dai media e da
parte della borghesia italiana, va mostrando la sua inconsistenza. Ma ci sono
anche segnali di ripresa e volontà di rinascita. Sul piano politico, il
Pd si conferma come la vera grande novità italiana, che riapre il
dibattito sui nodi di fondo del nostro paese. Emerge con forza il grande valore
di questo progetto, man mano che si avvicina il 14 ottobre. La costituente,
rafforzata dalla discesa in campo di Veltroni, ha innescato reazioni a catena
in tutto il sistema. La destra spinge verso un confronto sul suo rinnovamento,
o addirittura sulla nascita di un nuovo partito. E anche la sinistra radicale
si pone domande su possibili future aggregazioni".
Ma questa campagna per la leadership non le sembra una rissa
tra correnti, tipo vecchia Democrazia cristiana?
"Io auspico che di qui al 14 ottobre il confronto, anziché inasprirsi con
cadute di tono e sospetti, ritrovi lo spessore di un progetto per il futuro del
paese e per il destino del riformismo in Europa. C'è stata una
esasperazione eccessiva del conflitto. Io capisco che i competitori che si
confrontano con Walter abbiano un di più di aggressività, per
cercare di conquistare il campo, magari anche per l'eccesso di zelo di qualche sostenitore...
".
Ce l'ha con Rosy Bindi?
"Non scendo nei dettagli. Mi limito a constatare che è preferibile
concentrarsi più sui progetti futuri e meno sulle polemiche spicciole. A
tutti i candidati, comunque, io ricordo che non stiamo facendo una campagna
elettorale per le elezioni politiche. Eleggiamo il leader di un partito in cui
saremo tutti insieme. Un partito che avrà certamente un carattere
pluralistico. Io non apprezzo gli aspetti deteriori del correntismo, ma come
tutti i partiti coalizionali del mondo anche il Partito democratico avrà
una pluralità di protagonisti e di voci. Qui nessuno ha in mente il
modello del vecchio Partito comunista italiano, con il centralismo democratico
e tutto il resto, questo sia chiaro".
Su quali temi di fondo si dovrebbe allora concentrare il dibattito, secondo
lei?
"Intanto io vedo un fronte internazionale che ci sollecita riflessioni e
risposte. In Europa c'è il riemergere degli Stati-nazione, e soprattutto
torna forte la Francia, che in rapporto con la Gran Bretagna e la Germania
rischia di costituire una sorta di direttorio europeo... ".
Magari questa è colpa della sua politica estera?
"No, al contrario. Dal Libano in poi, l'Italia è tornata ad essere
protagonista su molti scenari. Semmai il problema è un altro: qui si
riflette la debolezza oggettiva del paese e la fragile coesione nazionale
persino sulle grandi scelte di politica estera. Dal Medio Oriente ai Balcani,
il Partito democratico deve dare un suo contributo. Poi c'è
l'allargamento del campo riformista europeo. Qui il tema non è cercare i
nostri amici in giro per l'Europa, ma come questo progetto italiano
interferisce con il campo socialista, quello liberaldemocratico e quello
ambientalista. Per noi non è importante avere il "club
ulivista" in Europa, di questo i candidati al Pd devono tener conto. La
via maestra resta la collocazione in un rinnovato fronte riformista, che si
può reinventare solo coinvolgendo il campo del socialismo europeo".
A parte l'Europa, non le sembrano più urgenti le tante emergenze
italiane?
"Per sciogliere i nodi della crisi italiana urgono scelte coraggiose. La
prima urgenza mi sembra la legge elettorale. Spero che il dibattito sia
liberato da logiche strumentali. Non è vero che chi vuole il sistema
tedesco vuole anche cambiare alleanze".
Qualche sospetto c'è, visto che avete sostenuto per anni il modello
francese.
"Vede, il tema vero è come dare più forza al sistema
politico-istituzionale, liberandolo dal giogo dei ricatti e dei veti
incrociati, e poi come dare più forza e più stabilità ai
governi".
Questo ormai lo sostengono tutti...
"Non sarei così sicuro. C'è una corrente forte della
società e dell'economia italiana che, al di là delle chiacchiere
sulla cultura liberale, vuole in realtà un politica debole e sotto
ricatto, per manovrarla a proprio piacimento. Comunque, in campo ci sono due
proposte ragionevoli. La prima è il sistema tedesco, la forza del
cancellierato, i grandi partiti, la riduzione della frammentazione, le soglie
di sbarramento. Volendo, nulla impedisce di rafforzarlo ancora di più
con l'obbligo di apparentamenti preventivi e non successivi al voto politico.
La seconda proposta è il modello francese, che vuol dire
semi-presidenzialismo, doppio turno uninominale e maggioranze fortemente
coese".
E qual è il migliore?
"Stabiliamolo insieme. Ma quello che dobbiamo evitare, è di
imbarcarci nei soliti pasticci, nei soliti compromessi all'italiana. Ci vuole
coraggio. Che c'è di male se il Partito democratico diventa il motore di
un rinnovamento del sistema politico che riduce la frammentazione e stabilizza
una volta per tutte il bipolarismo?".
Niente di male. Ma bisogna vedere se questo si traduce in cambi di
maggioranza...
"La scelta delle alleanze non dipende dalla legge elettorale, ma dalla
capacità di costruire un accordo politico e programmatico. Anche col
sistema tedesco si può fare un accordo con Rifondazione comunista. Io
non voglio ribaltare certo le alleanze. Ma questo paese deve essere governato.
Il Pd ha giustamente questa vocazione maggioritaria. A questo punto anche la
sinistra radicale deve vivere il Pd come una sfida, e spero che Rifondazione si
dimostri all'altezza. La cosa riguarda loro, e non c'entrano niente le presunte
"intenzioni malevole" di Rutelli, Veltroni o altri".
Lei non vede rischi di nuova instabilità per il governo?
"No. Come avevo previsto, si viene chiarendo che la costituente del Pd
è fattore di stabilizzazione del governo, e non certo il suo contrario.
Il resto sono alchimie da retrobottega".
Quindi durerete fino a fine legislatura?
"Direi proprio di sì. Ma per questo dobbiamo concentrarci sul
prosieguo della legislatura, che è lunga. Dopo aver affrontato con
successo l'emergenze ereditate, ora dobbiamo superare l'angoscia del momento:
non si procede pensando che tra un mese il governo va a casa perché c'è
una crisi. Serve un pensiero lungo, non la nevrosi dei prossimi quindici
giorni".
D'accordo. Ma ora che deve fare il governo, di qui alla fine della legislatura?
"Prima di tutto, dobbiamo impostare riduzioni fiscali a vantaggio del
lavoro e della competitività. Ma per farlo dobbiamo portare avanti anche
la lotta all'evasione fiscale. Ed è mortificante per il paese che,
mentre noi diciamo questo, la destra discute invece su come organizzare l'eversione".
E le richieste di Confindustria? E Montezemolo, che continua a parlare di
fisco come emergenza nazionale?
"Lo scambio proposto da Confindustria mi pare ragionevole: meno incentivi,
meno fisco. Poi c'è la questione della semplificazione dei processi
decisionali. E su questo Montezemolo ha perfettamente ragione: la
capacità di decisione del sistema politico è intollerabilmente
farraginosa, troppo imperniata intorno al processo legislativo. Qui siamo al
paradosso che dobbiamo fare una legge anche per far cominciare l'anno
scolastico. Insomma, quello che io chiedo al Pd e ai suoi leader è di
tornare ad un dibattito sulle grandi questioni di fondo ".
Eppure Rifondazione comunista resta in allerta. Davvero non c'è un
progetto per sostituirli con l'Udc?
"Senta, ho il cattivo vizio di considerare i numeri, innanzitutto. Con
l'Udc e senza Rifondazione comunista non c'è un cambio di maggioranza,
semplicemente non c'è più maggioranza. E poi vorrei ricordare che
noi governiamo con un vincolo sottoscritto con gli elettori. Persino più
forte di quello che avevamo in passato. Poi che dalla crisi del centrodestra
possa venir fuori dal centrodestra una forza moderata che guarda al campo
politico in modo più libero, questo è un altro discorso. Ma non
c'entra niente con operazioni fatte alle spalle degli elettori".
Perché Veltroni ha sentito il bisogno di dire che non andrà a Palazzo
Chigi senza il sigillo di un voto popolare? Perché è dovuto andare da
Prodi a rassicurarlo?
"Veltroni ha pronunciato parole estremamente giuste e sensate. Il suo
discorso sgombra il campo dalle interpretazioni che legano il Partito
democratico a operazioni di caduta del governo".
Ma non tutti gli hanno creduto. Guardi Parisi... Non è che avete in
mente un altro ribaltone tipo 1998?
"Il 1998 fu tutta un'altra storia. Intanto non facemmo certo noi cadere il
governo ma fu Bertinotti. E poi allora non si potevano fare le elezioni
anticipate, anche perché eravamo alla vigilia della guerra in Kosovo. Le parole
di Veltroni non significano poi che se cade il governo non se ne possa fare un
altro. E comunque io insisto: in questo momento il contributo forte del Pd
è alla stabilità del governo. Questo mi sembra l'aspetto
più importante che anche le frasi di Walter hanno confermato".
A un passo dalla costituente di ottobre, non resta alta l'impressione di una
costruzione verticistica?
"E' un rischio dal quale ci si deve guardare. Il Pd deve rinnovare la
classe dirigente, ma non è una palingenesi, né un'occasione per fare
piazza pulita della politica italiana. Non si tratta di spazzare via qualcosa,
ma di costruire un nuovo soggetto, a partire da quella generazione di trentenni
e quarantenni che hanno voluto il partito democratico e che in gran parte del
Paese sono già protagonisti della vita politica. Avranno il diritto di
costruirlo, il nuovo partito, o si devono far da parte perché lo dice un
anziano professore che crede di parlare a nome della società
civile?".
Finora secondo lei Veltroni ha lavorato bene come prossimo leader del
Partito democratico?
"Ero e sono sempre più convinto che Walter fosse
la personalità che meglio era in grado di fare innovazione senza
invenzione. Di rinnovare il nostro sistema politico senza snaturarci e
sradicarci dalle nostre tradizioni culturali. E' una sfida anche per lui. Deve
fare la sua partita politica, e a me pare che la stia giocando molto
bene".
(30 agosto 2007)
Un
coro di proteste tra medici e politici Emanuele Cammaroto Taormina Clamoroso
richiamo dell'assessorato regionale alla Sanità all'Ausl 5. È
stata infatti recapitata all'Azienda una nota relativa all'unità di
Emodinamica del reparto di Cardiochirurgia pediatrica all'Ospedale "S.
Vincenzo" di Taormina. C'è un monito che promette di avere riflessi
non indifferenti sulla funzionalità e la tempistica del servizio
medico-assistenziale nell'intero comprensorio. "Praticate interventi
esclusivamente per bambini e non anche per adulti" è l'invito
rivolto ed il senso esatto della lettera recapitata da Palermo all'Azienda 5.
La contestazione mossa dalla Regione attraverso una sorta di diffida è
di aver praticato in Cardiochirurgia pediatrica, a supporto e in raccordo con
Cardiologia, interventi al cuore - peraltro, va sottolineato, sempre eseguiti
in modo impeccabile e con moderne tecniche - senza limitazioni d'età in
assenza di relative "autorizzazioni" a farlo. È un problema di
pura "forma": ma che rischia di avere serie conseguenze sull'utenza,
perché al S. Vincenzo l'attività a 360 gradi della Cardiochirurgia
pediatrica, insieme alla Cardiologia, ha salvato sin qui tante vite. Stando
così le cose invece da adesso non sarebbe più possibile eseguire,
per gli adulti, in cardiochirurgia pediatrica delle coronarografie o
apposizioni di Stent. Il paziente, per alcune operazioni che nemmeno la Cardiologia
è nelle condizioni logistiche di poter attuare, dovrebbe addirittura
andare al "Papardo" o al Policlinico di Messina. L'emodinamica,
ricordiamo, è quella branca della medicina cardiovascolare che si occupa
del comportamento del sangue in movimento nei vasi, permettendo così di
ridurre il pericolo dell'instaurarsi di gravi patologie legate alla
circolazione sanguigna. Il "S. Vincenzo" negli ultimi 5 anni ha
praticato ben 3mila coronarografie, ad una media di 600 l'anno: e di queste ben
400 interventistiche. Oltre 100 invece gli studi periferici annui attuati su
altre arterie. In questo caso il "S. Vincenzo" viene ritenuto l'unico
centro in Italia a praticare il trattamento di shock cardiogeno avanzato al
cospetto delle insufficienze cardiache. A Taormina viene già criticato
il provvedimento dell'Assessorato. "L'infartuato ha spiegato Mauro
Passalacqua, primario del Pronto Soccorso e coordinatore comunale dell'Mpa non
potrà più essere curato a Taormina ma andrà trasferito a
Messina o Catania. Arriverà qui in ospedale, poi sarà appunto
disposto il trasferimento e nel mentre cosa accadrà? Il paziente
morirà in ambulanza? Il campo dell'urgenza cardiologica oggi fa un salto
all'indietro di 20 anni. Ho chiamato ieri stesso il presidente Cuffaro, e gli
ho chiesto un incontro urgente tra il Governo regionale e i medici. Non
dimentichiamo, infine, un piccolo grande aspetto: pure i tour operator in
ambito turistico ci chiedono servizi sanitari d'avanguardia". Il
vicesindaco Eligio Giardina, già confrontatosi in tema anche col sindaco
Carmelantonio D'Agostino, ha lanciato un segnale altrettanto chiaro.
"L'Amministrazione comunale ha dichiarato Giardina, che tra l'altro
è anch'egli medico , vuole un incontro urgente con la Regione e chiede
chiarezza. Ci siamo subito attivati perché non si può pensare sempre di
depotenziare, e solo per problemi burocratici, Taormina e un ospedale ormai
punto assoluto di riferimento nell'intera Provincia. Il S. Vincenzo ha un
bacino d'utenza che abbraccia in pratica tutta l'isola e limitarlo significa
dare uno schiaffo alla Sicilia. Taormina e il suo presidio ospedaliero hanno
una valenza globalmente fondamentale per l'intero sistema sanitario.
Non si può limitare un servizio all'avanguardia come quello del S.
Vincenzo". E nelle prossime ore viene già preannunciata una presa
di posizione dei vertici dell'Ausl sulla "contestata" lettera
arrivata da Palermo. (giovedì 30 agosto 2007).
Criminali.
Gli “usurai” che negli ultimi anni hanno condotto sul lastrico migliaia di
famiglie a basso reddito come tali vanno trattati. Barack Obama entra a testa
bassa nel dibattito sulla crisi dei mutui subprime e punta dritto ai colpevoli.
Se si è arrivati al punto di mettere in pericolo l’intera economia,
sostiene il candidato alle primarie democratiche, è perché Washington ha
peccato di omesso controllo. Nonostante tutte le condanne e le promesse di
riforma, la politica della capitale continua a essere «indirizzata dai gruppi
di pressione». Come quelli di dieci tra i più grandi fondi immobiliari
americani, che hanno speso «più di 185 milioni di dollari per fare
lobbying a Washington e continuare ad agire indisturbati». Serve, ma non basta,
quindi, rispondere all’emergenza stanziando fondi per le famiglie sul lastrico,
come ha proposto Hillary Clinton. Il governo deve punire i colpevoli, e usare i
soldi delle multe per aiutare chi oggi rischia di vedersi pignorata la casa.
Soprattutto, Washington «deve smettere di comportarsi come un rappresentante
delle industrie e cominciare a difendere l’interesse pubblico». Il Financial
Times, che ha pubblicato ieri l’intervento di Obama, l’ha definito una delle
proposte più radicali sentite finora per rispondere alla crisi. Al
senatore serve a riguadagnare terreno su Hillary, sempre un po’ troppo timida
quando c’è da attaccare le corporation, e a tenere lontano Edwards, il
quale su questa storia ha molto poco da dire, avendo lavorato, e investito,
proprio in un fondo immobiliare di mutui subprime.
.
I prezzi delle case scesi del 3,2% NEW YORK. La crisi dei
subprime, i mutui concessi alla clientela a rischio da cui si registrano
crescenti insolvenze, contagia il settore della carte di credito, colonna
portante del sistema economico americano. Di riflesso, torna il malessere su
Wall Street e sulle Borse europee in correzione di oltre l'1%, anche perché il
mercato immobiliare Usa, all'origine delle turbolenze finanziarie, segna
ribassi record dei prezzi. La Federal Reserve, nei verbali della
riunione del Board di politica monetaria del 7 agosto, valuta ancora
l'inflazione come il rischio principale per l'economia. Ma sottolinea anche che
"la crisi del credito potrebbe richiedere risposte" avendo il
potenziale di frenare la crescita. La nuova minaccia alla stabilità del
sistema arriva dalla carte di credito, strumento fondamentale per sostenere i
consumi che valgono i due terzi del prodotto interno lordo: le banche, scrive
il Financial Times, stanno registrando crediti incagliati nel comparto a un
tasso molto più alto dell'anno scorso. Le società che emettono le
stesse carte sono state costrette a cancellare nel primo semestre 2007 il 4,58%
dei crediti in quanto irrecuperabili, con un rialzo di quasi il 30% rispetto
allo stesso periodo del 2006. Di pari passo, aumentano i ritardi sui pagamenti
e il tasso trimestrale di pagamento, l'indicatore che misura la
solvibilità dei titolari di carte di credito, è sceso per la
prima volta in oltre quattro anni. Il deterioramento del credito sembra quindi
prendere peso sui mercati, dove anche ieri la Federal Reserve è
intervenuta immettendo altri due miliardi di dollari di liquidità, con
una nuova asta a un giorno, soddisfacendo una minima parte delle richieste pari
a 62,3 miliardi di dollari. Merrill Lynch taglia i rating (da buy a neutral) di
alcune delle più importanti banche Usa, come Bear Stearns, Lehman
Brothers e Citigroup sulle prevedibili perdite legate ai bond strutturati
legati ai subprime e all'atteso calo delle attività di buyout. State
Street, gestore di fondi di Boston tra i più grandi negli Stati Uniti,
avrebbe un'esposizione per 22 miliardi di dollari verso i conduit, veicoli
finanziari extra-bilancio su cui sono inciampate diverse società
finanziarie nelle scorse settimane. Secondo il Times di Londra, la compagnia
avrebbe dato linee di credito ad almeno sei di questi veicoli finanziari, che
impacchettano prestiti commerciali e personali finanziati con debito a breve
raccolto nel mercato dei commercial paper (debito a breve termine emesso dalle
aziende e non garantito). I finanziamenti sarebbero pari al 17% delle
attività totali di State Street. I prezzi delle case Usa,
tanto per aggiungere altro allarme, sono scesi del 3,2% nel secondo trimestre
rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, indicando una decisa
accelerazione della frenata nell'immobiliare. L'indice, elaborato da
S&P/Case-Shiller, segnala pure che su base annua, a giugno, si
è avuto un calo del 3,5%. Intanto, in Europa, il presidente della Bce,
Jean-Claude Trichet, dovrà recarsi al Parlamento europeo l'11 settembre,
5 giorni dopo la riunione del board monetario, per fare il punto sulle
turbolenze che hanno colpito i mercati finanziari su scala globale. La
convocazione, voluta dal presidente della Commissione per gli Affari economici
e monetari, Pervenche Beres, è "una audizione straordinaria",
in aggiunta alle "normali audizioni programmate ogni tre mesi".
Eppure
i subprime rappresentano il sintomo dell'affacciarsi sul mercato del credito di
sempre più estese fasce di popolazione che non hanno i normali requisiti
di "bancabilità", ma non per questo possono rimanere escluse
dai circuiti finanziari. La crisi, i mutui e la casa I principali protagonisti
dell'ultima crisi sui mercati internazionali sono gli ormai tristemente noti
subprime loan per l'acquisto di abitazioni a persone non in grado di offrire
adeguate garanzie, e che ai primi segnali di difficoltà del mercato
immobiliare non sono state in grado di restituire le rate. La maggior parte
delle analisi di questi giorni è concentrata sulle conseguenze della
"finanza facile" e cioè della concessione di mutui senza una
reale verifica del merito di credito del prenditore, con la possibilità
di spalmare i relativi rischi sul mercato attraverso le cartolarizzazioni, che
possono rappresentare un incentivo ad abbassare la qualità del monitoraggio
sul comportamento dei debitori. Le conclusioni sono che non tutti i mali
vengono per nuocere: i dolorosi salassi estivi, per le tasche degli
investitori, rappresentano un salutare scossone per riportare le banche
d'oltreoceano all'antico mestiere, disperso nei meandri della sofisticazione
finanziaria, di attente, prudenti e corrette politiche di selezione del
credito. In realtà, guardando da vicino il fenomeno, i termini del
problema non sono affatto così semplici, e investono alcuni aspetti
fondamentali del mestiere di banche e società finanziarie che di fronte
ai radicali mutamenti del tessuto sociale (appunto l'emersione del popolo dei
subprime) hanno in realtà continuato a muoversi secondo criteri
consolidati senza avere la lungimiranza di modificare le proprie
modalità operative. Le trappole I destinatari dei subprime hanno
rappresentato un preda ambita e ricercata sul mercato con insistenti e
aggressive campagne pubblicitarie: si tratta di soggetti caratterizzati da una,
eufemisticamente definita, "imperfect credit history" spesso
accertata tramite questionari messi a disposizione su internet, e che non
riescono ad accedere ai normali canali di finanziamento. I prodotti per
loro confezionati riflettono la tradizionale impostazione, con tassi di interesse
elevati rispetto a quelli praticati agli altri clienti (più alto
è il rischio, più alto è il prezzo) e contengono clausole,
relative ad esempio ai rimborsi anticipati, decisamente penalizzanti. Ci sono
poi alcuni meccanismi come i 2/28 Arm (adjustable rate mortgage) che hanno
avuto effetti micidiali per molte persone. Si tratta di pagare una rata fissa
per i primi due anni, successivamente la rata diventa variabile e agganciata al
tasso di interesse rilevato in quel periodo più un determinato margine.
La trappola sta tutta nel margine che, anche in presenza di bassi tassi di
interesse, può generare comunque rate più elevate rispetto a
quelle di partenza. A questo punto molti mutuatari programmano di rifinanziare
il muto originario, ma dovendosi accollare, appunto, salatissime
penalità, non ce la fanno e vanno incontro all'inevitabile default. Il
popolo dei subprime Il popolo dei subprime è variamente composto: da chi
si sbaglia a riempire i questionari sui siti internet e diventa un subprime
anche se il suo scoring reale non lo è, a chi li utilizza per la seconda
casa. Ma è innegabile che una fetta consistente è rappresentata
da chi ha visto in questi strumenti l'unica possibilità di comprarsi,
finalmente, una casa di proprietà o di rifinanziare un mutuo, sempre per
l'acquisto della casa, acceso in precedenza. Purtroppo è la parte di
popolazione più povera, meno istruita e più esposta ai rischi
sociali dei foreclosures (i pignoramenti). Recenti studi mettono in evidenza
come i mutui a più alto tasso di interesse investano le fasce a
più basso reddito e come in questo insieme assumano grande rilevanza le
minoranze etniche. E si calcola in 2,2 milioni le persone che negli Stati Uniti
a causa dei subprime corrono il pericolo di perdere la propria abitazione. (1)
Le autorità di vigilanza stanno cercando di correre ai ripari
richiedendo agli intermediari il rispetto di più rigorosi criteri di
correttezza e trasparenza (ad esempio presentando ai clienti una semplice
tabella dove a destra c'è scritto quanto si paga con le rata fissa e a
sinistra quanto si corre il rischio di pagare con il sistema dell'Arm) e
più attente analisi del rischio di solvibilità della clientela.
(2) Il credito anche a chi non lo merita: la vera sfida Sono sicuramente interventi
importanti, ma non bastano. I subprime rappresentano il sintomo di una fenomeno
più generale: l'affacciarsi sul mercato del credito di sempre più
estese fasce di popolazione che non presentano i normali requisiti di
"bancabilità", ma non possono rimanere escluse dai circuiti
finanziari, sia per fin troppo ovvie ragioni sociali, sia per la loro rilevanza
nel sostenere lo sviluppo economico anche nelle società avanzate. Senza
tener conto del pericolo che finiscano nelle mani di circuiti informali e
illegali. Ed è evidente che finanziare questa clientela seguendo solo e
soltanto i criteri tradizionali (tasso di interesse e garanzie), oppure
utilizzando gli automatismi di scoring tipici del credito al consumo, non
contribuisce a spostarla dalla sua marginalità. L'anno scorso è
stato assegnato il premio Nobel per la pace a Muhammad Yunus fondatore della
banca di microcredito GrameenBank. Il successo di questa iniziativa non
risiede, come molti erroneamente hanno creduto e continuano a credere, nelle
ridotte quantità di denaro prestato a persone povere, ma nel fatto che
vengono utilizzate particolari tecniche di valutazione e successiva gestione
del finanziamento che consentono, tramite la presenza di operatori
specializzati, di rinunciare alle normali, e inesistenti, garanzie, di
monitorare costantemente i flussi di rimborso e di ottenere bassissime
percentuali di insolvenza. (3) Sono tecniche non certo esenti da dubbi sulla
loro esportabilità in contesti diversi da quelli dei paesi in via di
sviluppo (dubbi, in parte, smentiti da alcune significative esperienze
nell'occidente avanzato), ma rappresentano un importante terreno di
sperimentazione di nuove modalità di fare credito a chi al credito non
potrebbe mai accedere. Per intermediari ormai abituati a offrire prodotti altamente
standardizzati con procedure automatizzate, sarebbero necessarie profonde
modifiche organizzative con elevati costi operativi, ma proprio nel
settore dei mutui immobiliari negli Usa vi sono ricerche che rilevano la
possibile incidenza sui tassi di default non solo di una più alta
alfabetizzazione finanziaria, ma anche della attività di assistenza e
consulenza nei confronti dei mutuatari. (4) È questa, in altri termini,
un prospettiva che coniuga inclusione sociale e profitto perché, non bisogna
dimenticarlo, un soggetto "accompagnato" verso un equo, corretto e
consapevole utilizzo dello strumento creditizio è destinato a diventare
in futuro il miglior cliente.
L’Unità 29-8-2007 Padre Pijo Marco Travaglio
Il Corriere della sera 29-8-2007 Ma la Vera Emergenza
e' il Fisco Di LUCA CORDERO DI MONTEZEMOLO
Il Giornale di Brescia 29-8-2007 Immobiliare Usa: calo
record
ROMA -
Il mobbing non è reato: il lavoratore, per difendersi dalle vessazioni
del datore o dei colleghi, può chiedere il risarcimento del danno in un
processo civile o fare una denuncia per maltrattamenti in sede penale. In
quest’ultimo caso, tuttavia, dovrà provare la reiterazione della
persecuzione e della discriminazione, altrimenti niente condanna. Insomma, nel
nostro Codice penale, non esiste una precisa figura incriminatrice per punire
il cosiddetto mobbing. È quanto affermato dalla quinta sezione penale
della Corte di cassazione che, con la sentenza 33624, ha respinto il ricorso
della Procura di Santa Maria Capua Vetere e di un insegnante che aveva
denunciato il presidente per mobbing contro la sentenza di non luogo a
procedere emessa dal Gup.
FIGURA ASSENTE NEL CODICE - Sia
la professoressa sia la pubblica accusa avevano parlato negli atti processuali
di mobbing, figura però assente nel nostro Codice penale. Infatti, hanno
chiarito i giudici di legittimità, «la difficoltà di inquadrare
la fattispecie in una precisa figura incriminatrice, mancando in seno al Codice
penale questa tipicizzazione, deriva dalla erronea contestazione del reato da
parte del pubblico ministero. Infatti, l’atto di incolpazione è
assolutamente incapace di descrivere i tratti dell’azione censurata. La
condotta di mobbing - spiega ancora il Collegio - suppone non tanto un singolo
atto lesivo, ma una mirata reiterazione di una pluralità di
atteggiamenti, anche se non singolarmente connotati da rilevanza penale,
convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la
vittima sia nell’efficace capacità di mortificare e di isolare il
dipendente nell’ambiente di lavoro».
MALTRATTAMENTI -
Al più il preside avrebbe potuto essere condannato per maltrattamenti,
ma l’insegnante non è riuscita a provare la continuità nel tempo
delle vessazioni subite e la correlazione con la patologia lamentata. Infatti,
«la figura di reato maggiormente prossima ai connotati caratterizzanti il cosiddetto
mobbing è quella descritta dall’articolo 572 c.p. (maltrattamenti, ndr)
commessa da persona dotata di autorità per l’esercizio di una
professione».
29 agosto 2007
ROMA
In 11 anni, dal 1995 al 2006, le entrate fiscali degli enti locali
(Comuni, Province, Comunità montane, etc.) sono passate da 37.699,04
milioni di euro sino a toccare la quota di 95.911 milioni di euro pari ad un
aumento percentuale del + 111%. Il nuovo allarme sull’aumento della tassazione
a livello locale arriva dall’Ufficio Studi della Cgia di Mestre.
L’amministrazione centrale, invece, sempre negli stessi anni ha incrementato le
entrate «solo» del +12,1% passando dai 303.990, 24 milioni di euro agli attuali
339.162 milioni. Il Pil, sempre nello stesso periodo è cresciuto nel
nostro Paese del 20%. Dati, ricordano dalla Cgia, che sono a prezzi costanti
2006, ovvero al netto dell’inflazione.
Le ragioni di questa crescita, spiega Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia
di Mestre, «sono dovute sicuramente a molte amministrazioni locali che hanno
calcato la mano e non sempre alle imposte pagate sono stati corrisposti dei
servizi alla cittadinanza qualitativamente e quantitativamente accettabili.
Tuttavia, va ricordato che negli ultimi anni soprattutto i Comuni -prosegue
Bortolussi- hanno assunto un gran numero di nuove competenze e di nuove
funzioni senza ricevere, in cambio, un corrispondente aumento dei
trasferimenti. Anzi. La situazione dei nostri conti pubblici ha costretto lo
Stato centrale a ridurli progressivamente creando non pochi problemi di
bilancio a tante piccole realtà amministrative locali che si sono
»difese« aumentando le imposte locali».
«Non ci sono dubbi -conclude Giuseppe Bortolussi- accelerare il più
possibili verso la direzione di un vero federalismo fiscale che da un lato
responsabilizzi maggiormente gli enti locali e dall’altro consenta a questi
ultimi di trattenere sul loro territorio la gran parte delle risorse prodotte
dalle economie locali».
La notizia che Luciano Moggi, imputato per
associazione a delinquere, frode sportiva, minacce e violenza privata, è
in pellegrinaggio al santuario di Lourdes, proprio mentre Salvatore Cuffaro,
imputato per favoreggiamento mafioso e indagato per concorso esterno in
associazione mafiosa, è in marcia verso Santiago de Compostela, si
presta a svariate interpretazioni. La più pessimistica è che i
due, disperando nella giustizia terrena, si affidino a quella divina. La
più ottimistica è che sentano finalmente di aver qualcosa da
farsi perdonare. La più maligna è che, dopo aver preso in giro
milioni di - rispettivamente - tifosi ed elettori, tentino ora di prendersi
gioco anche dei santi. Gli elementi a suffragio della terza sono, diciamo
così, preponderanti. Lucianone, informava ieri il Corriere, s'è
imbarcato a bordo di uno dei sei charter della nuova linea aerea vaticana,
gestita dalla Mistral Air delle Poste Italiane, che punta a traghettare 150
mila pellegrini all'anno nelle mete spirituali. Sull'aereo-ammiraglia col
poggiatesta personalizzato dalla scritta "Cerco il tuo volto,
Signore!", viaggiava il cardinal Camillo Ruini. Al suo arrivo, anziché trovare
il volto del Signore, ha trovato quelli di Moggi, di Paola Saluzzi e del
presidente del Coni Gianni Petrucci. I quali hanno preso parte in basilica alla
santa messa officiata dall'ex capo della Cei, ricevendone l'apostolica
benedizione. Mentre il presule chiedeva al Signore di "convertire i cuori
anche di chi è lontano", Lucianone si proclamava "credente da
sempre". Agli atti del processo di Calciopoli c'è traccia di un
altro celebre pellegrinaggio: al santuario del Divino Amore, dove l'allora
direttore generale della Juventus si appartò con la segretaria dei
designatori arbitrali, Maria Grazia Fazi, per parlare al riparo da occhi
indiscreti e soprattutto dalle microspie dei carabinieri. Ora una fonte
confidenziale dei pm insinua addirittura che il Nostro tenga parcheggiato un
tesoretto di 150 milioni presso lo Ior: circostanza da lui smentita
sdegnosamente, tra una visita a Lele Mora e una scrittura per una comparsata
nel prossimo film di Lino Banfi. È nota, poi, la sua intimità con
i frati di San Giovanni Rotondo, che alcuni anni fa, subito dopo il processo
per favoreggiamento della prostituzione (Moggi, quando dirigeva il Torino
Calcio, era solito procurare terne di squillo ad arbitri e guardalinee di coppa
Uefa), lo insignirono dell'ambìto premio "Padre Pio", anche se
qualcuno, a Roma, lo riteneva più meritevole del "Padre Pijo".
Il governatore di Sicilia, profittando della chiusura estiva dei tribunali, era
segnalato giorni fa in Galizia, in marcia da Leon a Santiago con sandali
benedettini ai piedi, bastone in mano e coppola d'ordinanza in capo. Tutto a
piedi, assicurano gli agiografi: 344 km. in dieci tappe, anche se accanto al
rubicondo statista siculo viaggia un pulmino di soccorso pronto a ogni
evenienza, con i sali, il Gatorade e le carrucole. "Sono qui per
consolidare la fede, ma anche per smaltire qualche chilo di troppo", ha
spiegato Totò ansimante, alla guida della carovana dell'Udc che lo
assiste anche in questa prova. Pare che della delegazione non faccia parte
l'on. Cosimo Mele, quello con due mogli e due squillo, in tutt'altre faccende
affaccendato. 10 ore di cammino al giorno sotto il sole cocente, 40 gradi
all'ombra, ma senza mai separarsi dalla celebre coppola, già esibita con
successo da Santoro: "Certo, l'ho sempre con me, anzi ne ho fatte comprare
3 mila da una cooperativa antimafia di S.Giuseppe Jato per regalarne ai
pellegrini per smitizzare la mafia". Un po' come se un'associazione
antiterrorismo regalasse passamontagna con la stella a cinque punte per
smitizzare le Br. Sia Totò sia Lucianone tengono a precisare, scanso di
equivoci, di non avere nulla da farsi perdonare. Cuffaro ricorda commosso il
proprio "calvario", colpa di quegli aguzzini dei magistrati, che
"solo la fede" ha potuto lenire. E anche il devoto Moggi batte la
mano sul petto altrui: "Altri più famosi di me non vengono a
Lourdes e magari ne avrebbero bisogno più di me. Qualcuno non ci viene
perché ha qualche problema.". In pratica, non vanno ai santuari nella
speranza di un'apparizione della Vergine: sono loro che, quanto prima, contano
di apparire alla Madonna. Uliwood party.
Il cittadino paghi il conto degli stipendi
dei suoi politici La buttiamo lì: "E se la sua idea entrasse nella
Finanziaria per il 2008"? Nicola Rossi, deputato già dei
Democratici di sinistra uscito dal partito in polemica con i vertici del
Botteghino, se la ride. "L'istituzione di una tassa di scopo per la politica
nella manovra di bilancio?_ Guardi, francamente non so quanto sarebbe condivisa
nel governo e nel parlamento. Certo, l'urgenza ci sarebbe, anzi, ci sarebbe
un'urgenza straordinaria, ma dubito che un progetto del genere avrebbe
l'entusiastica adesione del mondo politico". Discorsi di fine agosto, alla
vigilia del primo vertice sulla Finanziaria per l'anno prossimo convocato per
oggi dal ministro dell'economia, Tommaso Padoa-Schioppa. Discorsi estivi ma non
troppo perché quando il parlamento riaprirà i battenti, questione di
giorni, Rossi depositerà la sua proposta di legge alla camera. Semplice
semplice, dice a ItaliaOggi, un solo articolo per fare finalmente chiarezza sui
costi della politica e dare uno strumento in più al
cittadini contribuente per controllare da vicino come vengono spesi i suoi
soldi. "è semplice, un articolo solo, non servono molte parole per
stabilire che la politica ha dei costi che vanno resi noti ai
cittadini che devono finanziarli", spiega l'economista già
consigliere economico di Massimo D'Alema ai tempi in cui era il numero uno di
palazzo Chigi. Rossi, però, tira il freno quando gli si ricorda che la
sua proposta, resa nota attraverso il suo blog personale, non ha sollevato
nessun polverone e alcun intervento, al contrario dell'idea lanciata dal
tesoriere della Quercia, Ugo Sposetti di ripristinare il finanziamento
pubblico ai partiti. "Sono due cose molto diverse_.Sposetti ha
parlato di finanziamento pubblico ai partiti. Io propongo che
ogni anno lo stato, il comune, la regione, la provincia, inviino al cittadino
un pezzo di carta che dice: per finanziare i costi della politica,
e per costi della politica intendo stipendi dei parlamentari e
del governo, dei consiglieri regionali, provinciali e comunali, degli
assessori, i gettoni degli amministratori delle società controllate, gli
stipendi dei dirigenti eccetera, il contribuente mi deve questa somma".
Già, è l'obiezione più naturale, ma così si mette
un'altra tassa a carico dei cittadini. Rossi, però, non è di
questo avviso. Anzi, l'idea, dice, è proprio quella di pagare una tassa
che sostituirebbe la parte delle imposte sui redditi di persone fisiche e
imprese che attualmente e senza alcun tipo di rendiconto viene richiesta ai
contribuenti allo scopo di finanziare la politica. "In questo modo
c'è una completa trasparenza, perché ogni anno il cittadino potrebbe
conoscere le variazioni della spesa per finanziare i costi della politica",
spiega ancora Rossi. "E potrebbe anche paragonare i servizi resi con il
loro costo". Il classico uovo di Colombo, insomma, che per ora sembra
destinato a restare nel frigorifero delle buone idee non troppo gradite.
"Sicuramente la mia proposta è stata letta, ma non credo che siano
stati molti quelli che ne hanno colto il senso", commenta Rossi.
"Posso però dire che ne ho illustrato il contenuto a molti
giuristi. Tutti mi hanno assicurato che una misura del genere sarebbe
infinitamente più incisiva che porre tetti, sempre facilmente
aggirabili, al numero dei parlamentari e dei consiglieri regionali, comunali e
provinciali, o ai loro stipendi". Così come sarebbe difficilmente
aggirabile, ma questa è un'idea targata ItaliaOggi e lanciata la scorsa
settimana, una norma che agganciasse le retribuzioni dei politici ai risparmi
di spesa pubblica ottenuti, secondo la formula "più tagli,
più guadagni". In ogni caso, tanto per mantenere il suo copyright
sulla tassa di scopo per finanziare la politica, Rossi precisa che
"una cosa del genere non esiste in nessuna parte del mondo, almeno per
quanto ne so io. C'è qualcosa di simile, però, nei paesi nei
quali è previsto il finanziamento esplicito e dichiarato della politica.
Misure che si avvicinano alla mia ipotesi, ma che non sono comunque la stessa
cosa", conclude. La brevetti pure, onorevole Rossi.
Zitti zitti quasi tutti i consiglieri
regionali d'Italia (ma c'è chi ha saputo dire basta) stanno per
incassare un ulteriore aumento allo stipendio. Si tratta di un bottino
aggiuntivo di 1,5 milioni di euro che i 1200 consiglieri regionali italiani
intascheranno per effetto dell'adeguamento automatico del loro assegno mensile
a quello dei parlamentari nazionali. Il meccanismo è sempre lo stesso:
aumenta il trattamento economico dei magistrati e a cascata, visto che sono
agganciate fra loro, salgono anche le indennità degli inquilini dei
palazzi romani e infine quelle dei colleghi regionali. Quest'anno, con effetto
rigorosamente retroattivo al gennaio 2007 affinché nulla vada perduto,
l'impennata sarà del 2,5%. Mancano soltanto ancora alcuni passaggi
formali, ma il risultato è deciso. E dal momento che praticamente tutte
le regioni hanno leggi che, nel regolare la materia delle indennità,
prevedono il loro collegamento automatico all'andamento dei trattamenti dei
parlamentari nazionali, ecco che l'impennata è garantita per tutti.
Determinarne l'entità del nuovo colpaccio è semplice. Basta
aumentare del 2,5% le indennità di base dei consiglieri regionali
italiani, prendendo come punto di partenza i trattamenti base previsti dalle
varie regioni e raccolti sul sito della Conferenza dei presidenti delle
assemblee legislative. La cifra che ne viene fuori è quella di 1 milione
e 464 mila euro, che i nostri consiglieri percepiranno già nel 2007,
dato che l'aumento dei magistrati reca quella data. Il che vuol dire
complessivamente 122 mila euro in più al mese di spesa pubblica. Bisogna
però precisare che si tratta di stime effettuate per difetto, dal
momento che il calcolo qui proposto è stato effettuato solo
sull'indennità base di un singolo consigliere regionale. Non sono
considerate, dunque, tutte quelle maggiori indennità che un parlamentare
locale prende se ha una particolare qualifica (segretario e presidente di
commissione, vicepresidente di commissione, vicepresidente di giunta e
consiglio, presidente di giunta e consiglio). In questi casi, naturalmente, un
2,5% in più porta a incrementi maggiori. Fatta questa premessa, si
scopre che gli aumenti mensili vanno da un massimo di 212 euro per un
consigliere calabrese, che così arriverà a un'indennità
mensile di 8.720 euro (più rimborsi per 2.808 euro) a un minimo di 78
euro per un collega delle Marche che arriverà a 3.205 euro (più
un rimborso che può variare da 2.992 euro a 3.682). Comunque nulla a che
vedere con le cifre che circolano durante i rinnovi contrattuali. Va detto che
qualcuno che vuole porre un freno a questo automatismo c'è. è il
caso dell'Abruzzo che sta facendo scuola anche in alcune regioni più
importanti. Come il Piemonte, dove il presidente Mercedes Bresso sta lottando
per abbassare l'asticella. L'Abruzzo ha approvato una legge che congela fino
alla fine della legislatura l'automatismo. Stessa scelta è stata portata
avanti in Umbria, dove un referendum popolare sui costi della politica
regionale ha portato consiglio e giunta a correre ai ripari e a escogitare una
soluzione che conduca grosso modo agli stessi risultati dell'Abruzzo. Per il
resto, però, le resistenze sembrano prevalere. Tra le altre cose bisogna
ricordare che le indennità di base dei consiglieri regionali variano da
un minimo del 65% a un massimo del 100% delle indennità dei loro
colleghi nazionali. I quali percepiscono ogni mese un'indennità lorda di
11.704 euro, a cui si applicano le tasse, più una diaria mensile di
4.003,11 euro e un assegno di 4.190 euro a titolo di rimborso spese relative al
rapporto tra eletto ed elettore. Queste due ultime voci sono totalmente
esentasse. Anche a livello regionale ci sono i rimborsi, sempre al di fuori
della morsa del fisco, molto spesso agganciati in misura percentuale alle
corrispondenti voci del parlamento nazionale. Nel frattempo ancora non si hanno
notizie precise sul futuro del ddl Santagata di abbattimento dei costi
della politica che prevede, tra le altre cose, un taglio del 10% delle
indennità. Il provvedimento, frutto dell'accordo tra il ministro per
l'attuazione del programma, Giulio Santagata, il collega agli affari regionali,
Linda Lanzillotta, e il presidente della Conferenza delle regioni, Vasco
Errani, ha provocato le vibrate proteste da parte di province, comuni e
comunità montane.
Caro direttore, l'intervista a Walter
Veltroni pubblicata ieri sul vostro giornale è una tappa importante in
una fase di grande dibattito politico, che vede protagonisti partiti e
coalizioni. In questo dibattito penso meriterebbero maggiore attenzione le
grandi questioni da cui può dipendere il futuro economico del Paese.
Appare peraltro ormai chiaro che il tema fisco dominerà il confronto
sulla finanziaria 2008 e che è finalmente sotto i riflettori il problema
della pressione fiscale sulle imprese. È l'obiettivo che Confindustria
si è posta all'assemblea di maggio, quando richiamai l'attenzione sul
divario che si sta creando tra il peso delle tasse sulla produzione in Italia e
quanto sta avvenendo nella vecchia Europa. Il termine emergenza non è
fuori luogo, perché i Paesi che sono i nostri più diretti concorrenti si
stanno muovendo con grande rapidità e decisione verso tagli
significativi e nei paesi dell'ex Europa dell'Est ? così vicina e
così competitiva per la localizzazione di attività produttive ?
si sta consolidando la politica della flat tax. Gli investimenti esteri
in Italia sono ormai ridotti al lumicino: attiriamo solo il 2,2% contro l'8%
del Regno Unito, il 5,9 della Francia e il 5 della Germania. In questa
condizione la logica della "tregua fiscale" è da considerare
in generale un impegno minimo e per le imprese si deve accompagnare a una
riduzione delle imposte in cambio di meno incentivi. Stare fermi mentre gli
altri rendono le loro aziende più competitive e i loro territori
più attraenti significa andare indietro, perdere posizioni. E questo
l'Italia non può accettarlo. Cresciamo meno degli altri, questo è
chiaro. È colpa del destino o di qualche sortilegio? Quest'anno dovremo
impegnarci per crescere non più al 2% ma all'1,7%: meno della media
europea, quasi due punti in meno di un Paese dinamico come la Spagna. Un punto
in meno della Germania, che crescerà al 2,6%, che non discute di come
cambiare lo staff leasing o rendere più difficili i contratti a termine
come qualcuno vorrebbe ancora fare da noi, e che da gennaio abbasserà le
tasse sulle imprese di ben nove punti. Abbiamo dunque pochi mesi di tempo per
compiere scelte responsabili. Sono solo le imprese che possono creare maggiore
crescita e più benefici per tutti, a cominciare da chi nelle aziende
lavora. Per questo non c'è nulla di più demagogico e falso che
spacciare la riduzione delle tasse sulle imprese come un regalo ai
"ricchi", così come non si è trattato di una
concessione ma di un investimento in competitività il taglio del cuneo
fiscale. Regole fiscali e contributive che consentano alle aziende di essere
più concorrenziali, a cominciare da quella straordinaria realtà
che è il nostro sistema di piccole e medie imprese, vuol dire investire
nell'interesse del Paese, delle famiglie, dei giovani. Certo, la questione
fiscale ha più sfaccettature. Primo: la lotta all'evasione, una pratica
ignobile che scarica sulle imprese e sui cittadini onesti l'insopportabile
fardello dei furbi. È dal 2004 che ribadisco l'impegno di Confindustria
contro evasione e sommerso. E sono convinto che la lotta all'evasione sarebbe
certamente favorita se si alleggerisse un peso fiscale eccessivo. Penso a un
patto, esplicito e formale: ogni euro recuperato all'evasione sia destinato a
una equivalente riduzione della pressione fiscale su imprese e cittadini. Si
attuerebbe così la formula forse semplicistica ma vera del "pagare
tutti per pagare un po' meno" e si sottrarrebbe alla politica lo
stucchevole esercizio di fantasia a cui assistiamo ogni volta che le notizie
sulle entrate lasciano intravedere delle disponibilità aggiuntive, vere
o presunte. Secondo: dove vanno a finire le nostre tasse. Paghiamo più
degli altri Paesi in cambio di servizi inferiori alla media europea e si alimenta
una spesa pubblica che gli ultimi governi non sono riusciti a ridurre. La politica
del "tassa e spendi" praticata negli anni a livello centrale e
locale, è ormai inaccettabile. Penso alle faraoniche spese per
consulenti di ogni genere e tipo che si consentono le amministrazioni centrali
e soprattutto quelle locali; ai 17.500 consiglieri d'amministrazione,
lautamente retribuiti, di quelle società pubbliche che soprattutto a
livello locale sono diventate delle discariche di politici trombati; alle
180.000 persone elette e remunerate che in Italia vivono di politica.
Terzo: il disagio crescente della parte sana del Paese, quei cittadini che
vedono infrastrutture importanti rinviate sine die, cantieri aperti e bloccati
da diritti di veto di ogni tipo che moltiplicano i costi, i tempi e le
dissipazioni. Così non ci sono risorse per gli investimenti pubblici in
infrastrutture, scuola, servizi sociali, ricerca, persino per la sicurezza. E
si consolida l'immagine di uno Stato "predatore" che negli ultimi
anni, soprattutto a livello locale, ha aumentato a dismisura il peso del
pubblico in economia, ha alimentato privilegi e attività improduttive
mangiando risorse che andrebbero investite sul futuro. A cominciare dalla
riduzione del debito pubblico che ogni anno costa agli italiani quasi 70
miliardi di euro e che negli ultimi anni, a livello di amministrazioni locali
è addirittura cresciuto. E sono cresciute quelle tasse occulte che
gravano con extracosti sulle imprese italiane che a causa di una concorrenza
scarsa o inesistente pagano molti servizi più cari e versano centinaia
di miliardi di euro per i costi della burocrazia. È venuto il
momento di innescare il circuito virtuoso meno tasse, meno spesa pubblica,
più investimenti. Quando richiamo i costi della politica
non penso solo ai piccoli privilegi di un numero di parlamentari o di
rappresentanti locali certamente spropositato. Penso alla scarsa qualità
dei servizi, al baloccarsi del dibattito politico su temi lontani dai problemi
della gente, alla scarsa capacità di assumere decisioni che guardino non
al consenso di breve periodo ma al bene collettivo. Per questo da tempo abbiamo
indicato come prioritaria una riforma della macchina dello Stato che riduca la
burocrazia, semplifichi e renda più efficiente l'amministrazione, razionalizzi
i livelli decisionali, attui il federalismo fiscale. Una riforma che metta in
condizione chi vince le elezioni di governare davvero, superando una situazione
dove i voti, anche quando le maggioranze sono nette, non bastano per imprimere
cambiamenti sostanziali. Serve anche una riforma elettorale che ripristini il
confronto tra candidati ed eviti ai cittadini di dover semplicemente ratificare
le scelte degli apparati di partito. Il merito e la concorrenza sono due temi
che da tempo abbiamo voluto porre in modo importante al centro dell'attenzione.
È curioso che il licenziamento di qualche presunto fannullone occupi le
prime pagine dei giornali, come fosse qualcosa di incredibile. Ma è il
segno che forse qualcosa si muove. Noi vogliamo che ovunque siano premiati i
migliori, quelli che si impegnano e fanno bene il loro mestiere. Per questo
abbiamo insistito per quote crescenti di salario legato ai risultati e per
rendere più conveniente lo straordinario alle imprese e ai lavoratori.
Pensiamo che liberalizzare e smontare i monopoli pubblici locali vada
nell'interesse dei cittadini, soprattutto dei meno abbienti: grazie alla
concorrenza pagheranno meno molti servizi essenziali. Vogliamo insomma
realizzare un grande disegno di modernità. Per questo la politica,
quella vera, deve tornare al potere, coinvolgere i cittadini, essere vicina ai
problemi e soprattutto decidere. Bisogna ripristinare l'azione dello Stato e
della politica mettendo al centro principi forti: lavoro, merito,
autorità, ordine, rispetto, mercato, concorrenza, education, spirito di
sacrificio e ricompensa. Bisogna spezzare la spirale dell'impotenza politica
e del fatalismo che da troppi anni vede l'Italia prigioniera di una transizione
che non accenna a finire. Serve una politica alta, capace di indicare al
Paese non la somma delle tutele corporative ma un progetto Paese di bene
comune. Luca Cordero di Montezemolo Presidente di Confindustria.
NEW YORK. Dal nostro inviato Finita sul banco
degli imputati con accuse di " collaborazionismo" e violazione della
privacy a favore della Cina, Yahoo cerca di uscire da un vicolo cieco che
rischia di trascinare il motore di ricerca in un caso politico internazionale.
Un caso che, ancora una volta, ripropone il nodo, sempre più critico,
della censura di internet nel Paese comunista e soprattutto quello dei rapporti
tra le aziende americane che operano online - accusate di eccessiva
accondiscendenza verso la censura di Pechino - e la repubblica popolare
asiatica. Ieri la società creata da David Filo e Jerry Yang ha fatto
ricorso contro la causa intentata da due giornalisti, condannatia dieci anni di
prigione, per colpa, secondo loro, di presunte delazioni di Yahoo. La vicenda
inizia lo scorso aprile, quando i due, attivisti a sostegno della democrazia in
Cina, hanno fatto causa a Yahoo, presentando un documento al distretto della
Carlonia del Nord. Shi Tao e Wang Xiaoning, più la moglie di
quest'ultimo Yu Ling, hanno accusato Yahoo e la sua filiale di Hong Kong di
aver presumibilmente divulgato alle autorità cinesi informazioni sulle
loro attività e sulle loro pubblicazioni politiche. Ora il motore di
ricerca ha depositato una richiesta di archiviazione della causa: 51 pagine in
cui Yahoo dice di aver solamente obbedito alle leggi cinesi e sostiene che il
caso non ha legittimità sul suolo americano. "Questa è una
causa intentata da cittadini cinesi imprigionati per aver usato internet nel
loro Paese con lo scopo di diffondere le loro opinioni politiche, in violazione
delle leggi del Governo cinese", ha argomentato l'azienda. La causa non
può avere merito nelle aule dei tribunali americani, è la difesa
di Yahoo, ma seppur tecnicamente corretto, il ricorso non risolve alla radice
un problema che si trascina da tempo: l'ormai annosa disputa sulle
responsabilità delle aziende americane nella protezione della privacy
dei clienti in Paesi stranieri dove sono presenti. Nel caso di Yahoo, poi, la
questione è resa ancora più complicata dal fatto che, all'epoca
dell'attività dei due giornalisti, la filiale di Hong Kong era al 100%
di proprietà della compagnia californiana, ma ora la maggioranza fa capo
alla società cinese Alibaba. Una simile accusa di collaborazionismo era
sta rivolta nei mesi scorsi anche ad altre mega corporation americane:
Microsoft e Google. L'anno scorso alla conferenza mondiale sulla governance di
internet organizzata dall'Onu ad Atene, vari gruppi di attivisti avevano
criticato le due aziende con l'accusa di assecondare la censura in Cina. Volendo
fare affari nel mercato più importante del mondo in questo momento,
molte compagnie hanno accettato di adattare le loro tecnologie alle richieste
di Pechino di limitare la libertà di espressione. Ma il confine tra
libertà, business e politica è sempre più fragile.
simone.filippetti@ilsole24ore.com IL RICORSO La società, denunciata da
due giornalisti, dice di aver solo obbedito alle leggi cinesi e sostiene che il
caso non può essere giudicato negli Usa.
Effettivamente, a ben pensarci, sarebbe
l'unica soluzione.Così, tanto per dirne una, non ci sarebbe alcun
problema a far entrare nell'Ue gli islamici turchi che tanto ci tengono.
Nella disputa sui bollettini dell'Ici abbuonati alla Chiesa ieri si sono
tuffati tutti. In tempi estivi, un tuffo non se lo nega nessuno. Calderoli sostiene,
e come dargli torto, che le tasse ricordano i beni materiali e chi vuole
imporre balzelli a chi si occupa dello spirito va decisamente comminata la
scomunica. Pensate a Valentino Rossi come si deve sentire in questo momento.
Poi c'è Francesco Storace che ha proposto, con la proverbiale
delicatezza di cui è capace, di replicare a "muso duro" a
quelli di Bruxelles, ma con una variante antiBossi: altro che sciopero del
Lotto, piuttosto tutti gli italiani versino Lotto per Mille. Chiesa ricca mi ci
ficco. E ancora: l'ex ministro Gasparri ha ammonito l'Europa
dall'interferire (ma che vorrà dì?) e l'ha invitata, forse
pensando all'inerte commissario europeo e suo ex compagno di governo Franco
Frattini, di "preoccuparsi dell'offensiva del terrorismo fordamentalista".
Il vicepresidente del Parlamento europeo, Mario Mauro (Forza Italia) ha
dichiarato che ormai siamo all'Inferno (fiscale) e che Prodi, sobillato dal
"braccio anticattolico e antisociale della Bonino", è
all'ennesimo tentativo di "scatenare una guerra civile" perchè
in Italia mancano le "più elementari libertà
economiche" (Berlusconi, infatti, ha portato Mediaset all'estero) e
"manca la libertà per la Chiesa di esprimersi". Ma su tutti,
Mauro non ce ne voglia, alla fine si è eretto Rocco Buttiglione. Uno
che, in spirito, ha più titoli per intervenire. Ha sostenuto che
c'è in ballo il Concordato ed è stato subito smentito dalla sala
stampa vaticana. Poi, lui sì che se ne intende, dopo aver messo in
dubbio la competenza dell'Ue ha invitato la Commissione (dei suoi
amici Barroso e Frattini) a "non avallare i sospetti di un'Ue
anticristiana, sospetti che hanno portato alla sconfitta del Trattato
costituzionale in Francia e in Olanda". Questa ci era sfuggita: dunque i
francesi hanno bocciato la Costituzione perchè era anticristiana? Noi
ricordavamo che, durante il negoziato sulla stesura del trattato, il presidente
francese Chirac (il quale non risulta essere mai stato un ateo fondamentalista)
avesse ammonito a non inserire il richiamo alle "radici cristiane"
altrimenti il testo non sarebbe passato. Le "radici" non sono state
citate ma la Costituzione è stata impallinata. Professor Buttiglione,
spieghi lei prima che arrivi una seconda nota della sala stampa della Santa
Sede Il Corsivo.
DAL NOSTRO INVIATO
PECHINO — Uno due. Il Partito comunista ha fatto la sua mossa. I democratici la
loro. Nel giorno il cui il Pc cinese ha finalmente annunciato la data del suo
Congresso (15 ottobre), 1.060 personalità del mondo accademico,
scrittori, intellettuali, artisti, si sono rivolti direttamente al leader Hu
Jintao. In una lettera chiedono libertà per chi, magari attraverso
Internet, hanno esposto punti di vista critici nei confronti del regime. Le
parole scelte nella «lettera dei mille » rivelano che i firmatari sanno
benissimo di muoversi su un terreno minato, e con accorta diplomazia, hanno
sottolineato proprio il dettato costituzionale dove menziona la tutela dei
«diritti umani»: sulla base di quanto proclama la Costituzione — hanno scritto
i Mille — il Partito «si è impegnato solennemente nella promessa di
governare la nazione secondo la legge e proteggendo i diritti umani», mentre
invece «polizia e autorità giudiziaria, sotto la guida del Partito,
negli ultimi tre anni hanno arrestato scrittori, giornalisti, giuristi e
attivisti per reati politici e d'opinione». Il testo cita l'approssimarsi dei
Giochi olimpici del 2008, evocando l'intensificarsi dell'attenzione dei governi
e dell'opinione pubblica internazionale. La lettera aperta fa nomi. Casi
recenti, come la detenzione del cyber- attivista Shi Tao o l'arresto avvenuto
venerdì 24 nello Zhejiang di Lu Gengsong, per «incitamento alla sovversione»
e «manovre illegali per ottenere segreti di Stato». Il documento invita i
partecipanti al Congresso del Partito a liberarlo «per mostrare una nuova
immagine di sé».
Sono almeno diverse decine, secondo
Reporters sans Frontières, gli intellettuali in carcere o ai
domiciliari. E spesso, per loro, pagano anche le mogli. La compagna di Lu
è stata minacciata di licenziamento se avesse deciso di perorare a
Pechino la causa del marito; e la settimana scorsa è stata messa agli
arresti domici-liari, prima che volasse nelle Filippine a ritirare un premio a
nome del consorte, la moglie di Chen Chuangcheng, un attivista cieco che si era
speso per denunciare una serie di aborti coatti.
Se 1.060 scrivono, in quattro
hanno parlato. La cancelliera tedesca Angela Merkel a Pechino
ha incontrato un drappello di esponenti della società civile. Tra loro
Li Datong, ex caporedattore del Quotidiano della gioventù, licenziato
nel 2007 per le sue opinioni politiche eterodosse: una voce critica, più
che un dissidente.
Il fatto che, in margine a
incontri con il presidente della Repubblica (e segretario del
partito) Hu Jintao, sia stato consentito all'ospite uno scambio di vedute con i
quattro va interpretato come un gesto di buona volontà e di riguardo per
la cancelliera. La quale, all'Accademia delle scienze sociali, non ha aggirato
il nodo dei diritti, «per noi una questione vitale». «Sa di che cosa parla, lei
sa come funziona un regime autocratico », dal momento che è cresciuta in
Germania Est, ha commentato Li Datong.
Nell'agenda del Congresso,
il 17˚dalla fondazione del Pcc nel 1921, ci sarà anche questo
groviglio complicato fra la vigilanza del regime sul dissenso, fattasi
più stringente di mese in mese, e la necessità di salvare la
decenza con l'Olimpiade che si avvicina. Sarà il momento di «decisioni
strategiche per le riforme, l'apertura, la modernizzazione socialista cinese »,
ha scandito la tv di Stato, ponendo fine a un silenzio sulla data custodito con
segretezza.
L'appuntamento, però, sarà
soprattutto decisivo per saggiare la presa di Hu Jintao, 64 anni, su gerarchie
e apparato: scontata la sua proclamazione alla guida del Pc per il secondo
quinquennio di fila, meno ovvio è se riuscirà a scegliere uomini
fidati nel Politburo e nel Comitato centrale e garantirsi adesione compatta fra
i 2.217 delegati (su 70 milioni di iscritti). Dal 15 ottobre, per una settimana
all'incirca, la battaglia di Hu sarà questa. Poi verranno l'economia, la
diplomazia, le cifre del boom. E l'inquinamento, la corruzione, la sicurezza
dei prodotti: le crepe nel trionfo.
Gli ostelli e le pensioni gestite da
religiosi garantiscono 250 mila posti letto, 40 milioni di presenze e un giro
d'affari di 5 miliardi Nel corso degli anni si è assistito a un braccio
di ferro tra i sindaci e gli enti religiosi che tentavano di allargare le
esenzioni ROMA - L'Europa sospetta che l'Italia abbia un occhio di
riguardo per "l'azienda Chiesa" e le conceda un regime fiscale
agevolato rispetto ai concorrenti laici. La commissione Ue non
mette in dubbio le prerogative temporali concesse alla Chiesa cattolica come la
totale esenzione Irpef per i dipendenti del Vaticano. Il problema nasce per le
attività economiche collegate a quella pastorale e in almeno quattro i settori
la Chiesa è leader nazionale: immobiliare, turismo, sanità ed
educazione privata. Visti gli sgravi su Ici, Ires, Irap il dubbio dell'aiuto di
Stato assume consistenza. Ici. Tutto nasce dall'immenso patrimonio immobiliare:
impossibile definirlo con certezza, le stime dicono 100 mila fabbricati per 8-9
miliardi di euro di valore. Riducendo l'analisi a realtà più
piccole, ma rappresentative, come Roma, l'elenco è impressionante: 550
tra istituti e conventi, 500 chiese, 250 scuole, 200 case generalizie 65 case
di cura, 50 missioni, 43 collegi, 30 monasteri, 25 case di riposo e ospizi, 18
ospedali. Sono quasi 2 mila gli enti religiosi residenti e risultano
proprietari di circa 20 mila terreni e fabbricati. Va ricordato la legge
istitutiva dell'Ici esentava i luoghi di culto e le loro pertinenze per cui
alcune non sono mai state nemmeno segnalate ai comuni. Nel corso degli anni si
è assistito a un braccio di ferro tra i sindaci e gli enti religiosi che
tentavano di allargare a dismisura il perimetro delle esenzioni (alloggi di
religiosi, sedi di fondazioni, opere pie, ospedali, università). Nei
contenziosi i Comuni avevano avuto il sostegno della corte di Cassazione che
dal 2004 ha chiarito che se in un fabbricato si svolgeva un'attività
commerciale doveva pagare l'imposta. Il governo Berlusconi aveva esentato tutti
gli immobili posseduti da enti religiosi no profit scatenando le proteste (e un
primo interesse dell'Ue). Ora la legge colpisce solo locali utilizzati
"esclusivamente" per attività commerciali. Una formulazione
che lascia molto spazio al proprietario che autocertifica l'uso ai fini
dell'Ici. La nuova formula secondo l'Ares fa perdere ai comuni 2,2 miliardi di
euro. "Per Roma è meno di 20 milioni - stima Marco Causi assessore
al Bilancio del comune - e conteranno molto gli accertamenti f caso per caso, i
contenziosi non sono molti e con questo tipo di contribuenti cerchiamo
soluzioni condivise". Anche se il direttore di Roma Entrate Andrea Ferri
spiega: "La normativa non aiuta ad evitare i contenziosi, ci sono casi di
uso "promiscuo" commerciale e no-profit in cui l'attività a
scopo di lucro è evidentemente preponderante". Ires. Conventi,
palazzi e condomini sono diventati sedi di cliniche, scuole e soprattutto
alberghi. Se l'attività è svolta da enti di assistenza e
beneficenza l'Ires scende del 50% (esenzione totale se il reddito è
generato da un immobile di proprietà diretta del Vaticano). Un bel
vantaggio per chi opera nel turismo. E anche in questo caso Roma si è
trasformata l'epicentro di un impero: il turismo religioso genera un fatturato
di 5 miliardi l'anno con 40 milioni di presenze. In tutta Italia preti e suore
gestiscono 250 mila posti letto. L'attività è considerata
meritoria tanto che il governo ha stanziato 10 milioni di euro per la promozione
degli itinerari della fede. Con un ulteriore facilitazione: le organizzazioni
no-profit collegate a entità religiose mantengono la qualifica a vita
senza dover ogni anno presentare bilanci certificati e senza correre il rischio
di vedersi negata dallo Stato la qualifica per inadempimenti formali o
sostanziali (come appunto la generazione di profitti). Irap. Infine sul fronte
del costo del personale le retribuzioni corrisposte ai sacerdoti dalla Chiesa
cattolica, non costituiscono base imponibile ai fini dell'Irap, ma per ognuno
di loro le associazioni possono dedurre una quota nella determinazione del
reddito d'impresa.
I prezzi delle case negli
Stati Uniti sono calati nel secondo trimestre del 3,2% rispetto a un anno fa.
Si tratta del maggior ribasso di sempre. Nel periodo sono calati i prezzi
in 15 città campione su 20 con ribassi dell'11% a Detroit.
NEW YORK Scatta l'allarme carte di credito
negli Stati Uniti: nella prima metà del 2007 i consumatori che non hanno
onorato i debiti sono aumentati di quasi un terzo rispetto allo stesso periodo
dell'anno scorso. Il pericolo è che la crisi del mercato
"subprime", ovvero dei mutui ad alto rischio, possa avere pericolose
ricadute sul settore del credito rivolto ai consumi. Da gennaio a giugno le
società che gestiscono carte di credito hanno dichiarato inesigibili il
4,58% dei pagamenti, il 30% in più rispetto al primo semestre del 2006.
Anche i ritardi nei versamenti hanno registrato un netto rialzo, mentre il tasso
di pagamento trimestrale, misura indicativa per valutare la capacità a
onorare i debiti, è diminuito per la prima volta in oltre quattro anni.
Gli esperti di Moody's ritengono che l'aumento delle insolvenze sia legato alla
crisi dei mutui facili, al rallentamento del mercato immobiliare e
quindi al calo delle operazioni di finanziamento sul valore delle abitazioni,
considerato negli Usa uno dei principali strumenti per sostenere il consumo.
"La combinazione di tassi di interesse più elevati e del
ridimensionamento del mercato immobiliare rende meno attraente
rifinanziare i mutui e ottenere prestiti sugli immobili, con ricadute
inevitabili sul livello dei consumi", spiega Moody's. Le perdite rimangono
ancora al di sotto del 6,29%, livello record registrato nel 2004, ovvero un
anno prima della riforma sulla legge della bancarotta personale, istituto
(assente nella normativa italiana) che prevede il condono dei debiti nei
confronti del consumatore che non è in grado di ripagarli. Grazie alla
revisione della legge, avvenuta nel 2005, il numero di casi di bancarotta
personale si è però ridotto notevolmente e così anche le
perdite per le società che gestiscono le carte di credito. Tuttavia il
pericolo è che si ritorni vicini a quei livelli, spiega Scott Hoyt,
economista di Moody's: "La qualità del credito sui consumi
continuerà a peggiorare a causa delle maggiori difficoltà legate
all'indebitamento, al calo dei prezzi delle case, alla
contrazione del mercato del lavoro e al rincaro dei prezzi
energetici". La conferma è giunta ieri con la pubblicazione
dell'indice sulla fiducia dei consumatori Usa, che ad agosto si è
attestato al livello più basso dal 2006. L'indicatore è sceso a
105 punti dai 111,9 precedenti: un quadro preoccupante per gli Stati Uniti la
cui economia dipende per circa due terzi dai consumi interni.
In un’intervista al Corriere del 14 agosto
scorso Raffaele Bonanni ha posto con vigore la questione salariale; le
retribuzioni italiane — dice il segretario generale della Cisl— sono inferiori
a quelle dei maggiori Paesi europei: vanno dunque aumentate. Già, ma
come? In un’economia aperta e concorrenziale, quale vuol essere la nostra, lo
spazio per la contesa marxiana tra salari e profitti c’è pur sempre, ma
è assai limitato. Una prima indicazione Bonanni la dà: aumentare
la produttività del lavoro. Una leva utilizzabile sono gli incentivi: si
può aumentare la parte della retribuzione che varia in relazione ai
risultati individuali, di gruppo, aziendali. Questa scelta può
effettivamente consentire un aumento medio rilevante dei redditi dei
lavoratori, non solo perché stimola l’impegno individuale e collettivo, ma
anche perché riduce il contenuto assicurativo del contratto, quindi anche il «premio
assicurativo » pagato dal lavoratore, in Italia più alto che altrove.
Un contratto di lavoro dipendente funziona
sempre, in qualche misura, come una polizza assicurativa, ponendo a carico
dell’azienda il rischio che le cose vadano male; più è alta la
«copertura», più è bassa la retribuzione, perché i lavoratori
pagano all’impresa un «premio » implicito proporzionale alla copertura.
L’entità non trascurabile del «premio assicurativo» pagato dai
lavoratori italiani è stimata in uno studio recente della Banca d’Italia
curato da Piero Cipollone e Anita Guelfi. Il problema è che mutare la
struttura della retribuzione implica un modello di sindacato diverso da quello
predominante da decenni in Italia. Il nostro modello tradizionale è
quello di un sindacato che privilegia la sicurezza e l’uniformità del
trattamento dei lavoratori sul piano nazionale, riducendo al minimo la parte
della retribuzione suscettibile di variare in relazione al risultato: un
sindacato interessato essenzialmente a garantire ai lavoratori dei «diritti »,
cioè dei trattamenti sui quali la performance individuale e collettiva
non ha alcuna influenza.
Il modello opposto è quello del
sindacato che attribuisce maggiore spazio alla
remunerazione dell’impegno individuale e alla «scommessa comune» tra lavoratori
e imprenditore sull’innovazione: disposto quindi ad ampliare notevolmente la
parte della retribuzione che varia in relazione ai risultati, sulla base di una
valutazione positiva circa la qualità del management e del piano industriale,
per dare ai propri rappresentati maggiori prospettive di guadagno. In altre
parole, il primo è il sindacato che preferisce un contratto-polizza
assicurativa ad alta copertura, dove la maggior sicurezza è pagata dai
lavoratori con un minor livello di reddito; il secondo è il sindacato
che si propone di guidare i lavoratori in una scommessa redditizia sulle
capacità proprie e del management, anche al costo di una minor sicurezza
e uniformità di trattamenti.
Quale dei due modelli dia risultati
complessivamente migliori per i lavoratori non si può dire in
astratto. Ma i lavoratori avrebbero un forte interesse a poter confrontare i
risultati conseguiti, in aziende diverse, con sistemi di relazioni sindacali,
quindi di retribuzione, ispirati all’uno o all’altro modello; e a poter
scegliere liberamente come proprio agente contrattuale, secondo le circostanze,
il sindacato dell’un tipo o dell’altro. Invece proprio questa scelta oggi
è impedita, in Italia, da un sistema incapace di selezionare l’agente
contrattuale: un sistema nel quale, dunque, se i sindacati maggiori non sono
tutti d’accordo, e non stipulano unitariamente il contratto, scelte incisive
come quella di sperimentare una nuova struttura della retribuzione non si
possono compiere.
28 agosto 2007
Un
senatore repubblicano, Larry Craig, che fa sesso, con un uomo, nel bagno
dell’Union station di Washington. Neanche fosse George Michael. E invece
è un grigio sessantaduenne omofobo, strenuo oppositore delle unioni gay,
sposato con tre figli. La storia della stazione, come quella
dell’omosessualità di Craig, corre da mesi sui giornali dell’Idaho, suo
stato d’elezione, ma è pettegolezzo non provato, e i giornali nazionali
lo ignorano. Fino a qualche giorno fa, quando, la storia dell’arresto del senatore
per comportamenti “disordinati” all’aeroporto di Minneapolis comincia a
prendere piede. Ed esplode ieri, quando salta fuori cosa si nasconde dietro
l’ambiguo aggettivo: Craig avrebbe cercato di abbordare un poliziotto in
borghese. Ancora una volta, il luogo del “delitto” è la toilette. Quando
il poliziotto, cui il senatore faceva piedino tra una cabina e l’altra del
bagno, ha tirato fuori il tesserino, Craig ha risposto con il biglietto da
visita. Ma non è servito.
Ieri il senatore si è dimesso dallo staff di Mitt Romney, il candidato
repubblicano mormone bandiera della destra religiosa. Sembra che i vertici del
partito repubblicano non abbiano ancora chiesto un’indennità per il
ricongiungimento familiare.
Può un libro scadere come uno yogurt? Nel
dibattito sul caro-libri, denunciato dalle associazioni dei consumatori (e
minimizzato da quelle degli editori), un capitolo controverso è quello
delle nuove edizioni. Cosa ci sarà mai da aggiornare in un libro di
prima media sulla preistoria? Aggiungere qualche altra età oltre quella
della pietra? Un problema che si intreccia con un altro, quello dello sforamento
dei tetti di spesa previsti dal ministero, a cui le scuole dell’obbligo
dovrebbero attenersi nella scelta dei libri.
Secondo Altroconsumo, in 2 mila classi (il 7% del totale) se ne fregano del
decreto ministeriale che alle scuole medie impone una spesa di 280 euro (con una
tolleranza del 10% si arriva a un massimo di 308 euro). Le scuole superiori,
invece, non hanno più un tetto, perché è stato rimosso nell’anno
2004/2005 dall’allora ministro dell’Istruzione, Letizia Moratti. Per
l’associazione dei consumatori non si è trattato della prima
rilevazione. Già nel 2005 la campagna sullo sforamento dei tetti era
culminata con la denuncia al Tar di una scuola di Milano, la Martinengo-Alvaro,
costretta dal tribunale ad annullare il provvedimento di adozione dei libri. I controlli
del ministero, secondo Altroconsumo, non sono incisivi e non esistono sanzioni
in caso di mancato rispetto della legge. A tutto svantaggio delle tasche dei
genitori, che non riescono neanche a compiere una banale operazione di
risparmio: passare i libri dei figli maggiori ai più piccoli.
Il nemico si chiama «nuova edizione aggiornata». Un pericolo che rende i libri
carta da macero. Anche ai mercatini dell’usato non si riescono più a
vendere i vecchi testi superati da una nuova edizione. Il sospetto è che
gli aggiornamenti siano minimi. Nei forum su Internet le rimostranze si
sprecano. «La boiata è che quasi ogni anno escono con la “nuova
edizione”. In pratica due pagine in più, tanto per farti spendere soldi
- scrive lo pseudonimo Recoil -. Basterebbe avere libri che durano qualche anno
e così si può andare di usato e il ricambio
"generazionale" non deve avvenire tutti gli anni». Altri, poi,
invocano una modernizzazione, che permetta di scaricare i libri on-line: «Non
dovrebbero più esserci i libri, ma dispense elettroniche».
L’Aie (Associazione italiana editori) nel 2000 aveva predisposto un «codice di
autoregolamentazione del settore scolastico». Si scopre che la nuova edizione
di un libro «deve caratterizzarsi per sostanziali aggiornamenti scientifici o didattici
e comunque deve differire dalla precedente per almeno il 20% del testo e delle
illustrazioni». Allora basta cambiare qualche foto per essere in regola? Nel
forum «ChristinaAemiliana» ha le idee chiare: «La differenza tra le varie
edizioni era praticamente inesistente, malgrado la scritta "edizione
riveduta e ampliata". L'unico problema lo ebbi con un libro di versioni
latine: per invogliare all'acquisto del volume fresco di stampa a ogni
successiva uscita le versioni venivano mischiate così da rendere
difficoltoso il lavoro dell'allievo che, trovandosi di fronte al compito
"fate le versioni da 3 a 5 di pagina 46", doveva controllare quali
fossero sul libro (nuovo) di un amico e cercarle nel proprio».
Un professore, che chiede l’anonimato, fa notare come «i libri sono
omnicomprensivi. Raggiungono anche le mille pagine per una materia. Nessuno
studente li leggerà mai. Servono agli insegnanti pigri, che trovano in
quel tipo di testo tutto quello che serve. Io, invece, uso un testo di storia uguale
dagli Anni 70».
D’altra parte, in Paesi come Usa e Svezia è normale utilizzare i libri
in formato elettronico. Non a caso, la ricetta la fornisce un altro
frequentatore del forum, «Clasprea»: «Meglio comprare un portatile e gli stessi
libri in formato elettronico». L’Italia, invece, è prigioniera di una
procedura farraginosa. I libri vengono proposti dall’insegnante nel consiglio
di classe (di cui fanno parte i genitori, che sulla scelta però non
mettono becco) e adottati dal collegio dei docenti. Ma di fatto è il
prof a decidere.
++ Da
bangkokpost.com Febbre aviaria in Germania
L’Unità 28-8-2007 Fucili e pistola Marco Travaglio
Il Riformista del 28-8-2007 Mussi continua ad aspettare
Godot-Bertinotti di Emanuele Macaluso
La Repubblica 28-8-2007 Napoli Un assessore ritira
incarichi per 5 milioni
Nella città tedesca di Erlangen sono
state abbattute circa 160mila anatre dopo la scoperta di 400 animali morti in
un allevamento della zona. Cinque volatili sono risultati positivi al test
della febbre aviaria, H5N1.
ROMA -
La richiesta
della Commissione europea di ulteriori chiarimenti all'Italia sul provvedimento
della Finanziaria 2006 (l'ultima del governo Berlusconi) che concede esenzioni
dell'Ici agli edifici delle religioni riconosciute dallo Stato anche se non
destinti al culto
(principalmente quelli della Chiesa cattolica), ha scatenato una nuova serie di
polemiche tra il centrodestra, che parla di «spirito anticristiano dell'Ue», e
il centrosinistra, che dice «no ai privilegi». Per il ministro della Giustizia,
Clemente Mastella (Udeur),
«è evidente il carattere pretestuoso della presunta violazione delle
norme della libera concorrenza cui porterebbe l'esenzione dell'Ici per gli enti
ecclesiastici. Gli immobili oggetto dell'esenzione non sono solo ecclesiastici,
ma di tutti gli enti no profit, mentre pagano integralmente l'Ici le strutture
alberghiere, i ristoranti e i negozi di proprietà di enti ecclesiastici.
Spero che non si alzi il solito polverone anticlericale a fronte di una
semplice e legittima richiesta di approfondimento dell'Ue».
CENTRODESTRA -
«Non è una novità che dall'Unione europea spiri talvolta un vento
anticristiano», ha commentato il segretario della Dc per le autonomie,
Gianfranco Rotondi.
«C'è lo zampino del governo dietro la minaccia Ue contro la Chiesa.
È bene che si risponda a muso duro contro un'irricevibile ingerenza
comunitaria», ha affermato Francesco Storace, leader della Destra. «Il
dossier dell'Ue su falsi benefici fiscali dell'Italia alla Chiesa cattolica
è frutto del lavoro fatto dai radicali italiani e coadiuvato dal ministro
Emma Bonino», accusa Luca Volontè,
capogruppo dell'Udc alla Camera. «Prodi prenda le distanze dagli anticlericali
che si agitano nella sua coalizione e difenda il ruolo sociale insostituibile
che ha la Chiesa in Italia», ha affermato Maurizio Lupi (Forza Italia). «Anche solo pensare
di aprire una procedura contro l'Italia per presunte, e di fatto inesistenti,
agevolazioni fiscali è a dir poco stupefacente», ha dichiarato il vice
presidente dei senatori di FI, Giuseppe Vegas. ««È incredibile
l'offensiva, anche sul piano fiscale, che il governo muove contro la Chiesa.
Vanno respinti gli attacchi morali e materiali che offendono tradizioni e
valori profondamente radicati nella realtà italiana. La Ue eviti gravi
interferenze che non sarebbero tollerabili», secondo Maurizio Gasparri (An). ««Nell'Ue prevalgono
nuovamente i circoli radical-massonici», è convinto Maurizio Ronconi, vice
presidente dei deputati Udc alla Camera. «Invito la Commissione Ue a essere
più prudente e a non avallare i sospetti di un'Ue anticristiana che
hanno portato alla sconfitta nei referendum sul trattato in Francia e Olanda»,
ammonisce Rocco Buttiglione,
presidente dell'Udc. «È sconcertante l'intenzione dell'Ue che dimostra
di non conoscere la situazione italiana e di cedere alle idee più
oltranziste e false che circolano sui rapporti tra Stato e Chiesa in Italia»,
ha detto il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni.
CENTROSINISTRA -
«È assurda la levata di scudi del centrodestra contro l'Ue. Se lo Stato
è laico, deve esserlo anche nell'applicare le norme», ha replicato Marco
Rizzo, capo
delegazione dei Comunisti italiani all'Europarlamento. «Bisogna augurarsi che
la posizione del nostro Paese, decisamente europeista, sappia orientarsi per
superare questo privilegio, che rimane in capo agli enti ecclesiastici», ha
aggiunto Natale Ripamonti,
vice presidente del gruppo Verdi-Pdci del Senato. «C'è un solo metodo
per appurare cos'è un privilegio fiscale: se a parità di
attività vi è un differente trattamento, c'è
discriminazione», sostiene Maurizio Turco, deputato della Rosa nel pugno. «Quando
avevo sollevato questo tema non era per anticlericalismo, che non mi
appartiene, ma per la necessità di armonizzare le regole fiscali anche
per gli istituti religiosi», ha precisato il sottosegretario all'Economia,
Paolo Cento (Verdi).
«Le informazioni richieste dalla Commissione europea al governo italiano sulle
esenzioni fiscali concesse al Vaticano non sono il frutto di un'azione
diabolica della Bonino, ma dal fatto che esistono privilegi», ha affermato
Roberto Villetti,
vice segretario dello Sdi e capogruppo della Rosa nel pugno alla Camera.
28 agosto 2007
Si ipotizzano aiuti di Stato illegali su
esenzione Ici. Il governo italiano ha già risposto a una prima richiesta
di informazioni
BRUXELLES -
La Commissione Ue chiederà al governo italiano «informazioni
supplementari» su «certi vantaggi fiscali delle Chiese italiane», ma non ha ancora
deciso se aprire un'indagine. Lo ha detto Jonathad Todd, portavoce della
commissaria Ue alla Concorrenza, Neelie Kroes, precisando che, nel caso, si
tratterebbe di un'inchiesta per aiuti di Stato illegali. «Ma non abbiamo ancora
preso la decisione se aprire o no l'inchiesta», ha detto Todd, rilevando che il
governo italiano ha già risposto a una prima lettera di richiesta di
informazioni. Bruxelles ritiene però necessari ulteriori
approfondimenti. Todd ha riferito che le informazioni sono state chieste dopo
avere ricevuto segnalazioni nel 2006 da parte di soggetti italiani, di cui non
però ha riferito l'identità.
ESENZIONE ICI -
A quanto si è appreso, la richiesta supplementare di informazioni
riguarderebbe la norma contenuta nella Finanziaria 2006, l'ultima del governo
Berlusconi, che prevede l'esenzione
dall'Ici degli immobili di proprietà della Chiesa cattolica adibiti a
finalità commerciali (*). L'esenzione è riconosciuta
anche alle altre religioni che hanno un accordo con lo Stato italiano e alle
attività no-profit. Bruxelles intenderebbe chiarire inoltre anche le
riduzioni di imposta (al 50%) concesse alle imprese commerciali della Chiesa.
ANTITRUST -
Todd ha sottolineato che, se avviata, si tratterebbe della prima volta che
l'antitrust europeo apre un'indagine sulla Chiesa cattolica, anche se in Belgio
c'è stato un contenzioso tra il governo e la Chiesa per una questione di
Iva e anche in Spagna c'è un'indagine in corso che riguarda
facilitazioni fiscali.
«NESSUN PRIVILEGIO» -
«Chiesa, fisco, esenzioni: il 'privilegio' che non c'è». Titola
così «Avvenire», il quotidiano dei vescovi italiani, un intervento dello
segretario della Cei, mons. Giuseppe Betori. «Non possiamo fare a meno di
precisare che l'esenzione dall'Ici è materia del tutto estranea agli
accordi concordati, che nulla prevedono al riguardo, e ricordare ancora una
volta che essa si applica alle sole attività religiose e di rilevanza sociale,
che deriva dalla legislazione ordinaria ed è del tutto uguale a quella
di cui si giovano gli altri enti non commerciali, in particolare il terzo
settore», scrive mons. Betori. «Chi contesta un tale atteggiamento dello Stato
verso soggetti senza fine di lucro operanti per la promozione sociale in campo
esistenziale, sanitario, culturale, educativo, ricreativo e sportivo, manifesta
una sostanziale sfiducia nei confronti di molteplici soggetti sociali di
diversa ispirazione, particolarmente attivi nel contestare il disagio e la
povertà. Sarebbe incongruo che lo Stato gravasse quelle realtà,
ecclesiali e non, che perseguono fini di interesse collettivo».
28 agosto 2007
Cento: «Troppi privilegi. Non
sarebbe sbagliato aprire una discussione su questo». Vittadini: le associazioni
pagano già
ROMA - «Anche la
Chiesa paghi tasse giuste. Il sottosegretario al ministero dell'Economia, il
verde Paolo Cento, afferma che «nel corso degli anni la Chiesa ha accumulato
dei privilegi. Non sarebbe sbagliato aprire una discussione su questo. A
partire dalla prossima Finanziaria». Cento, nel ricordare che ci sono dei
principi concordatari che regolano il rapporto con lo Stato, rileva che anche
le attività commerciali dovrebbero essere sottoposte a un trattamento
fiscale «al pari di quello a cui vengono sottoposti gli altri contribuenti nel
nostro paese».
DISCUSSIONE -
Per il sottosegretario occorre da una parte «riconoscere le funzioni che
vengono svolte dalle attività religiose» e mantenere il particolare
regime fiscale per quelle attività che sono strettamente connesse.
Dall'altra parte, però, bisogna «rivedere le forme di agevolazioni di
attività che hanno un contenuto economico e commerciale. In questo caso
è legittimo che queste vengano sottoposte a un rapporto fiscale alla
pari di tutti gli altri contribuenti». Il discorso era già stato
affrontato in passato, ricorda Cento. In particolare nella scorsa finanziaria.
«Non è un tabù riprendere la discussione sull'Ici e sugli
immobili della Chiesa».
LA REPLICA - A
rispondere alla proposta del sottosegretario Cento è il presidente della
Fondazione per la sussidiarietà Giorgio Vittadini, raggiunto al Meeting
di Rimini: quella del sottosegretario all'Economia Paolo Cento «è una
proposta da 1860, quindi un po' fuori secolo. La Chiesa fa un enorme lavoro di
tipo sociale e le sue associazioni pagano tutte le tasse. Quindi se vogliamo
addirittura distruggere quello che viene fatto fuori dallo Stato facciamolo,
poi sará l'onorevole Cento a rispondere ai bisogni sociali a cui non risponderá
più la Chiesa e si prenderá le sue responsabilitá».
FISICHELLA - «La Chiesa
non ha privilegi: si muove sulle linee del concordato tra la Santa Sede e
l'Italia». Questo è invece il commento di Rino Fisichella, rettore della
Pontificia Università lateranense rispondendo, indirettamente, alla
proposta lanciata dal sottosegretario all'Economia, Paolo Cento, secondo il
quale sarebbe necessario rivedere «privilegi» a favore della chiesa cattolica.
CRITICHE DALL'UDEUR - Critiche a
Cento arrivano dalla stessa maggioranza: «Troviamo paradossale che un sottosegretario
all'Economia se ne esca attaccando la Chiesa, proponendo un inasprimento della
fiscalità nei suoi confronti. Cento farebbe meglio ad avanzare proposte
efficaci per ridurre l'imposizione fiscale», ha affermato il capogruppo
dell'Udeur alla Camera, Mauro Fabris. «Già nella scorsa finanziaria,
l'Udeur ha bloccato proposte che miravano a colpire il ruolo assistenziale e
caritativo della Chiesa. Come scritto nel Dpef - aggiunge Fabris - la prossima
Finanziaria dovrà ridurre la fiscalità a partire
dall'abbattimento dell'Ici sulla prima casa».
22 agosto 2007]
La
chiamano 'La Torre di Babele' della finanza americana, ed in effetti è
un mercato sì ingarbugliato che fa spesso pensare alla confusione
dell'edificio narrato nel libro biblico della Genesi; si tratta dell'ambito dei
mutui immobiliari americani, un affare che fa muovere 10000 miliardi dollari e
che comprende circa il 14% dell'intero mercato ipotecario a stelle e strisce.
Un'imponente costruzione che, però, poggia le sue fondamenta su un
terreno sabbioso, quello delle comunità meno abbienti: dietro il
miraggio dei tassi di interesse supervantaggiosi si nasconde infatti, per
moltissime famiglie, l’impossibilità di estinguere il mutuo.
Dopo aver convinto gli americani a passare dagli investimenti a tasso
fisso a quelli a tasso variabile, con una massiccia campagna pubblicitaria,
arrivano i subprime (i crediti immobiliari a costo elevato per i soggetti a
rischio di insolvenza) e la definizione all’un per cento dei tassi nel 2001; si
tratta di uno sfruttamento creditizio di massa delle classi popolari, non
accompagnato da un'adeguata protezione monetaria. Il risultato è quello
di una relativa e redditizia operazione finanziaria che regge fino a quando il
computo dei milioni di dollari di guadagno degli speculatori si equilibra con
quello dei milioni di insolventi.
Con questa strategia, milioni di americani si sono trovati in condizioni
di insolvenza, gettando a piene mani il panico nel mercato azionario il quale
utilizza i soldi dei mutui per permettere a banche e finanziarie di creare
titoli. Giusto per rendere chiara l’idea a noi che stiamo dall’altra parte
dell’oceano: un investitore, fino a gennaio, doveva sborsare 389 mila dollari
per assicurare, per un anno, un investimento in obbligazioni del valore di 10
milioni di dollari; da febbraio, lo stesso investitore è costretto a
pagare 1,1 milioni: questo accade in quanto proprio a febbraio (il 22),
l’indice ABX dei derivati creditizi ha perso il 30%, come conseguenza dl crollo
dei subprime.
Che accade, dunque, quando l’equilibrio salta? Esattamente quello che sta
succedendo da alcuni mesi a questa parte, con quasi 30 società del
settore subprime costrette a chiudere i battenti, da novembre ad oggi, e con la
Federal Reserve (la Banca Centrale degli U.S.A.) costretta a continue iniezioni
di capitale liquido (17,25 miliardi di dollari nel giro degli ultimi giorni)
per mantenere stabile il mercato ed allontanare il rischio di una “bolla”
finanziaria, l‘ennesima, dalle conseguenze catastrofiche. Secondo l'economista
Nuriel Rubini, la crisi è estesa a tutto il settore immobiliare in
quanto anche il comparto commerciale ovvero uffici e quant'altro che aveva
mostrato lo scorso anno una crescita del 20 % verso la metà dell'anno, era
già caduto al 14 % nel terzo trimestre per rivelarsi negativo a meno 3 %
nell'ultimo trimestre dell'anno.
Conseguenze: secondo alcuni analisti, saranno i fondi pensionistici a
risentire della bolla esplosa grazie ai subprime, così come accadde nel
biennio 87/88; il mercato internazionale, invece, già mostra, a livello
europeo, le sue perplessità sulla capacità della Federal Riserve
di coprire il buco economico e stabilizzare la situazione azionaria.
Proprio all’ombra della Babele finanziaria ci sono le migliaia di famiglie
meno abbienti, che non volevano questa malferma costruzione nonostante, a loro
insaputa, abbiano contribuito a crearla; adesso sperano che non gli crolli
addosso.
Era
la notte del 16 novembre 1992. Dopo una puntata di "Milano Italia"
con Gad Lerner in un teatro di Torino, un gruppo di cronisti tra cui il
sottoscritto inseguono Umberto Bossi in una pizzeria. Lui e la sua compagnia di
leghisti piemontesi li accolgono al loro tavolo. I giornalisti estraggono i
taccuini e, tra una portata e l'altra, appuntano a una a una le pirotecniche
sparate del Senatur, particolarmente in forma senza nemmeno il bisogno di vino
(lui beve, almeno quella sera, acqua gassata). Dice che la Corte costituzionale
è una cupola di malfattori, pronta a bocciare i referendum per
espropriare il popolo, ovviamente padano. Aggiunge che, se i partiti di Roma
ladrona travolti da Tangentopoli tentano il golpe, lui è già
pronto. Testuale: "Il golpe? Perso per perso, la Dc lo farebbe pure. Ma
non sa che c'è una signora Lega che è pronta a impedirglielo, con
un blocco d'ordine. Se tentassero il golpe, il loro generaletto glielo
spazzeremmo via in tre giorni: non ci vuole niente a far venire qualche camion
di armi dalla Slovenia o dalla Croazia". I cronisti prendono nota,
allibiti. Due giorni dopo la sparata è su vari giornali, ma l'unico che
la mette in prima pagina è Il Giornale di Montanelli, dove a quel tempo
lavoravo. Bossi, assediato dagli altri partiti che gli chiedono di smentire,
smentisce. Dice che è tutto un complotto di Montanelli, servo di Roma
ladrona eccetera. Annuncia pure che li trascinerà in tribunale, lui e il
suo cronista. Al quale Montanelli telefona per dirgli di stare tranquillo e di
farsi una risata. Poi rilascia una dichiarazione ai tg in cui conferma parola
per parola l'intervista di Bossi. Da quel giorno sono trascorsi 15 anni. E il
Senatur c'è ricascato con i fucili. Ogni tanto - sarà la prostata
- gli scappano. Le pallottole da 300 lire per raddrizzare la schiena al giudice
varesino Abate, poliomielitico, reo di indagare su alcuni leghisti (1993). I
300 mila bergamaschi pronti a imbracciare le armi negli anni 80 per la
secessione (1994). La violenza come unica arma per difendere l'onore del Nord
(1995). La rivolta del Nord modello Bravehart (1996). L'aut aut fra referendum
secessionista e guerra civile, "io comunque metto mano alla fondina"
(1997). Stessa sparata, stesse parole, stesso copione, mezza smentita il giorno
dopo che non smentisce nulla. Sono 15 anni che la Lega vive e si alimenta dei
bluff del suo condottiero: la rivoluzione, la secessione, il Parlamento della
Padania, i kalashnikov, i fucili, le pistole e soprattutto tanti pistola. In
questi 15 anni tutti han fatto o cercato accordi con la Lega: da Bellachioma al
centrosinistra (un anno di governo Dini insieme). Tutti ci hanno dialogato:
D'Alema la definì "una costola della sinistra" (e aveva
ragione: una bella fetta di elettorato leghista dei tempi d'oro veniva da
sinistra) e ancora l'altro giorno Violante elogiava Maroni (che peraltro, vista
la compagnia, è stato un ministro decoroso). È cambiata la Lega?
No, la Lega è sempre la stessa: l'ultimo partito leninista del secolo
scorso. Sempre appresso al suo leader carismatico, pronto a seguirlo in capo al
mondo, a giustificare i suoi stop and go, le sue avanzate e le sue ritirate, le
discese ardite e le risalite. C'è persino chi sostiene che, con la sua
violenza verbale, Bossi ha catalizzato pulsioni pericolose che, senza di lui,
avrebbero davvero potuto sfociare nella violenza fisica. Chi ha visto una volta
nella vita le Guardie Padane in camicia verde sa bene che altro non sono se non
vecchi e tremebondi democristiani o socialdemocratici con qualche problema col
fisco e qualcuno con la dentiera, che al primo "buh" scappano dalla mamma.
Era quasi scontato che, nella sua fase crepuscolare, la Lega si arroccasse
sulle truculenze delle origini, nel tentativo disperato di risorgere un'altra
volta dalle sue ceneri. Prima di far finta di indignarsi, bisognerebbe
rispondere a una domanda: vi preoccupa di più l'Umberto che ritira fuori
il fuciletto a tappo, o James Bondi che dedica una lirica a Elio Vito promesso
sposo? Recita il carme del vate: "Fra le tue braccia magico silenzio / Fra
le tue braccia intenerito ardore / Fra le tue braccia campo di girasoli / Fra
le tue braccia sole dell'allegria". Il tutto firmato dal coordinatore
nazionale del partito di maggioranza relativa. Ecco, siamo molto preoccupati
per Bondi. Non vorremmo stesse poco bene. Uliwood party.
Non
volendo contribuire (come invece sospetta Emanuele) a costruire un nuovo
partito «a prescindere dalla storia da cui proviene la mia generazione» trovo utile
il confronto sugli anni ottanta. Decennio cruciale per le sorti della sinistra
italiana. Socialisti e comunisti attraversarono quegli anni duellando tra di
loro. Alla fine, in un groviglio inestricabile di responsabilità, le
conseguenze furono pagate da entrambi i contendenti: la storia del Psi giunse a
un esito traumatico; il Pci fu incapace di trarre le conseguenze delle dure
repliche della storia e di anticipare la svolta cui giunse solo nel 1989.
Sbagliarono entrambi. E molto. Ai gruppi dirigenti del Pci sfuggì che il
senso più profondo della politica socialista dalla fine degli anni '70
era consistito in uno sforzo teso a recuperare al Psi una propria fisionomia
originaria e autonoma. L'ambizione del Psi a non rassegnarsi a un ruolo minore
determinò nuove tensioni all'interno della sinistra e condusse il Pci ad
affermare che era ormai in atto una mutazione genetica del Psi. Un giudizio
sommario che rese incandescente il clima tra i due partiti.
Mancò alla maggioranza del gruppo dirigente del Pci di quegli anni il
coraggio di riconoscere che la sinistra avrebbe potuto governare il Paese solo
in presenza di un Psi capace di una propria originale caratterizzazione. Quando
il Psi assunse, per la prima volta nella storia d'Italia, quasi a metà degli
anni ottanta, la presidenza del Consiglio, il Pci, invece di incalzarlo sul
terreno delle riforme, condusse una sorta di opposizione etica al craxismo. Fu
un errore. I governi guidati da Craxi registrarono alcuni significativi
risultati in diversi settori: da una radicale modifica del Concordato del 1929
reso più coerente con il dettato costituzionale a una decisa riduzione
dell'inflazione e ad una ripresa di dinamismo dell'economia italiana favorita
dalla congiuntura internazionale. Il limite del governo Craxi fu l'opposto di
quello denunciato dal Pci che lo accusò di liberismo selvaggio. In
realtà, mentre la conflittualità sociale cadeva, il debito
pubblico si avvitava raggiungendo nel 1987 il 92% del Pil. L'entità
astronomica del debito era diventata ormai una ipoteca che incombeva non solo
sull'economia ma sullo stesso futuro del paese. Trasformava gli italiani e i
loro figli in altrettanti debitori a tempo indeterminato. In quella situazione
il Pci avrebbe dovuto puntare su una grande politica di riduzione del debito
che stabilizzasse i conti pubblici. Una personalità come Giorgio
Amendola probabilmente avrebbe orientato la politica del partito in questa
direzione. Con la battaglia sulla scala mobile si scelse un'altra strada. Una
strada che avrebbe segnato la sconfitta e l'inizio del declino per il Pci.
La verità è che il Pci degli anni ottanta temette Craxi. Per la
prima volta nella sua storia, la sfida non veniva da minoranze velleitarie alla
propria sinistra o alla propria destra intorno alla questione dei legami con
l'Unione Sovietica. La sfida era di altra portata. In discussione era la
capacità del Pci di essere all'altezza del compito di governare il
Paese. Ai comunisti restava una sola via per affrontare l'offensiva socialista:
realizzare un'innovazione politica ideale tale da collocare il Pci
esplicitamente nel campo del socialismo democratico. Era possibile una simile
svolta? Una forte sollecitazione in questa direzione venne nel corso degli anni
'80 dalle componenti riformiste interne al Pci che consideravano ormai esaurite
le ragioni delle divisioni nella sinistra italiana. E tuttavia esse restarono
prigioniere di una visione tradizionale dell'unità del partito e del suo
gruppo dirigente. Solo il crollo del Muro di Berlino impose la svolta. Ma il tempo
perduto era stato enorme.
Il Psi, che aveva avuto il merito di porre per primo il tema della riforma
dell'assetto politico-istituzionale del Paese, già dalla fine degli anni
ottanta si attestò sul mantenimento dello status quo fino ad
identificarsi con esso precludendosi così la possibilità di
intercettare l'onda crescente di dissenso che proprio contro quel sistema
andava montando e che lo avrebbe travolto. Il che, per un partito che aveva
lanciato l'idea della “grande riforma”, suonerà amaro e beffardo. Il
Pci, d'altro lato, avrebbe coltivato ancora l'illusione di potere affrontare le
sfide di un mondo che cambiava senza giungere ad una esplicita fuoriuscita
dalla tradizione comunista. Questi furono gli anni ottanta per la sinistra
italiana! Anni in cui si esaurirà la vicenda della sinistra così
come si era manifestata nel corso del '900 in Italia. Non a caso, da allora in
poi, i tentativi di ricostruire un partito socialista sarebbero stati vani. E
non solo per la debolezza dei promotori. Ma per ragioni più di fondo che
attengono alla storia politico sociale italiana e che meriterebbero di essere
approfondite. Da questo punto di vista l'avvio della ricerca intorno
all'unità dei riformisti non è stata una scelta artificiosa. È
stato il tentativo di dare una risposta al problema irrisolto della storia
politica italiana: costruire un grande partito di centro sinistra di stampo
europeo collocato saldamente nel campo delle riforme. Quello che non poteva
essere il Pci e non ebbe la forza di essere il Psi. Che il modo in cui procede
questo progetto non convinca comporterebbe una più intensa battaglia
politica e culturale per rimetterlo sui giusti binari piuttosto che lasciarlo
andare alla malora. Anche perché, in verità, alternative convincenti non
mi pare che ce ne siano in giro. Almeno a me così pare.
In politica contano sia la qualità
dei leader che la natura delle istituzioni. Le
«imprese» del Presidente Sarkozy che tanto ammirato stupore suscitano in Italia
dipendono certamente dalle sue qualità personali ma anche dalle
caratteristiche delle istituzioni politiche francesi. Questa nostra generale
ammirazione è sospetta. Perché, ad esempio, Sarkozy si può
permettere di nominare una Commissione con il compito di fare proposte per
rilanciare lo sviluppo economico francese chiamandovi a farne parte anche
personalità come Mario Monti e Franco Bassanini? E, soprattutto, perché
ci sono ragionevoli probabilità che quella Commissione non butti via il
suo tempo? Ciò può accadere perché le istituzioni politiche
francesi sono centralizzate al massimo grado, perché il Presidente francese
è (quasi) tutto e tutto il resto è (quasi) niente. Perché, in
Francia, un Parlamento con una maggioranza politicamente omogenea al Presidente
conta meno di zero. Perché Sarkozy può dire l'Etat c'est moi. Perché,
quando decide, deve «mediare » quasi solo con se stesso. Il sospetto per tanta
ammirazione da parte degli italiani nasce dal fatto che tutte le volte che da
noi si è tentato, non certo di concentrare il potere istituzionale a
livelli francesi, ma solo, più modestamente, di rafforzare un poco i
poteri dell'esecutivo e di ridurre (un poco) quelli del Parlamento, anche molti
di coloro che oggi ammirano il decisionismo di Sarkozy si sono stracciati le
vesti chiamando le folle a raccolta a difesa della «centralità del Parlamento»,
gridando al «fascismo», alla «Costituzione tradita», alla «Resistenza
oltraggiata », e continuando così ad alimentare quel fiume di bolsa
retorica che un giorno potrebbe uccidere, soffocandola, la nostra malmessa
democrazia acefala e «indecisionista ».
Però, le istituzioni sono solo una
parte, anche se importantissima,
imprescindibile, della storia. Poi contano anche le culture politiche e la
qualità dei leader. Non c'è solo, nella vicenda della Commissione
Attali, una tradizione francese (l' Ena, le Grandi Scuole amministrative), che
va indietro nel tempo ben al di là di De Gaulle, la quale dà un
grande spazio al «sapere tecnico» nelle decisioni politiche. C'è anche
il fatto che Sarkozy sa che il successo della sua presidenza si giocherà
sulla sua capacità di rilanciare lo sviluppo e ha necessità di
vedere presto affluire sul suo tavolo proposte tecnicamente all'altezza. Oltre
che per le istituzioni, siamo attualmente diversi dai francesi anche per la
qualità dei leader. I nostri preferiscono l'improvvisazione e
l'improvvisazione si porta sempre dietro una scia di errori, approssimazioni,
pasticci «tecnici». Si noti che il problema riguarda assai più il
centrodestra che il centrosinistra. Quest'ultimo non ha infatti mai promesso ai
suoi elettori vere rivoluzioni ma solo la continuazione, tramite alte tasse e
alta spesa pubblica, delle politiche ridistributive di sempre. Lo ha fatto
male, disgustando anche molti suoi elettori, ma questo è un altro
discorso.
E' il centrodestra, invece, quello che ha
sempre promesso sfracelli,
«rivoluzioni». Come mai siamo quasi tutti convinti che se Berlusconi
tornerà al governo, non riuscirà a fare (esattamente come l'altra
volta) nessuna «rivoluzione liberale »? Una volta concesso che le istituzioni
italiane sono diverse da quelle francesi e che qui da noi la decisione politica
necessita di mille mediazioni, resta anche il fatto che le politiche davvero
innovative non si improvvisano. Le politiche innovative necessitano di seria
preparazione. Altrimenti si fa come si fece con la riforma Castelli, la riforma
dell'ordinamento giudiziario del centrodestra: un brutto progetto malconcepito
e malscritto anche a detta di coloro che non apprezzano l'attuale
configurazione di quell'ordinamento. In Italia, per esempio, non dico una
rivoluzione liberale ma anche solo una modesta spinta in quella direzione,
richiederebbe una drastica contrazione della spesa pubblica (senza la quale
anche la promessa di bassa tassazione rimane irrealizzabile). Ma tagliare
davvero la spesa pubblica è difficilissimo. Necessita di progetti
tecnicamente complessi abbinati alla capacità politica di imporli contro
tutte le resistenze. Dove sono allora gli staff di esperti al lavoro per dare
al centrodestra una proposta credibile di riduzione della spesa pubblica con
cui fare la campagna elettorale e andare al governo? Non credo di sbagliarmi se
sospetto che, inventiva e intelligenza personali di Giulio Tremonti a parte, ci
siano, nel centrodestra, ben pochi cervelli attualmente al lavoro su questi
temi. In un precedente articolo ( Corriere della Sera del 7 agosto), constatato
che l'Italia, anche dopo cinque anni di governo Berlusconi, era rimasta il
fanalino di coda fra le democrazie occidentali quanto a libertà
economiche, ho chiesto ai leader del centrodestra di spiegarci cosa intendano
fare, una volta tornati al governo, per portare l'Italia ai piani alti della
classifica. Non hanno risposto. Forse perché non ne hanno la più pallida
idea.
27 agosto 2007
L'estate della lotta all'evasione fiscale, degli
sportivi ricchi e un po' leggeri, come Valentino Rossi e Giancarlo Fisichella,
e dei nuovi tesoretti “scoperti” quasi per caso dal governo, non convince il
presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, Antonio
Tamborrino. "Ma di quale tesoretto stanno parlando? Il fisco enfatizza i
dati delle entrate perché vuol far credere che la lotta all'evasione sta
funzionando, ma questo non è altro che il normale risultato derivante
dai comuni adempimenti fiscali degli italiani e da un accenno di ripresa
economica", dice a ItaliaOggi il presidente dei professionisti contabili.
"Insomma, non mi pare proprio che sia possibile avere a disposizione dei
dati che possano far legare questa crescita a una lotta all'evasione più
efficace. Piuttosto, mi pare che sia più facile che il governo abbia
sbagliato le sue previsioni d'entrata, e sarebbe la terza volta in un anno. A
meno che, come ha detto anche l'economista Tito Boeri in un intervento su La
Stampa, siano state fatte circolare delle notizie in maniera un po' artata per
sottostimare il gettito e non consentire al partito delle spese di avventarsi
sulle maggiori entrate".Domanda: Insomma, il problema del fisco italiano
è sempre lo stesso: due pesi e due misure?Risposta. La lotta all'evasione
fiscale deve essere seria, non può essere fatta sempre nei confronti dei
piccoli e medi imprenditori, che sono già oberati dagli adempimenti.
Piuttosto va fatta su quelli grandi e sconosciuti, e finora non mi pare che il
nostro fisco si sia mosso in questo senso.D. Eppure i soliti noti, come gli
sportivi, pare riescano in qualche modo sempre a chiudere le loro vicende con
il fisco, magari ottenendo grandi sconti sul dovuto, come Fisichella, grazie
all'accertamento con adesione. Che ne pensa?R. Che questo sistema rappresenta
una sorta di condono surrettizio, un modo ipocrita per chiudere con il fisco.
Tutti i condoni, però, fanno schifo e vanno condannati sia quando sono
palesi che quando sono nascosti. D. Per evitare il fisco italiano però
molti scelgono la via dell'estero, cambiando residenza, se persone fisiche, o
aprendo una sede fuori Italia, se società. Non si tratta, in fondo,
della stessa situazione? R. No, c'è differenza tra i due casi. Per una
persona fisica, questa deve trascorrere gran parte del suo tempo e della sua
vita lavorativa nel paese in cui ha messo residenza. Diverso è invece il
caso delle società, il cui reddito viene assoggettato alla tassazione
all'estero. Però a questo proposito, io mi domando, e domando ai
politici: se fossero degli imprenditori, se sapessero di dover dare oltre il
50% del loro reddito a un socio occulto che si chiama Stato, deciderebbero
comunque di aprire uno stabilimento in italia oppure andrebbero all'estero? Ma
lei lo sa che ci sono molti paesi dell'Europa dell'Est, come per esempio la
Repubblica Ceca o la Slovacchia o la Bulgaria, dove, per attrarre investimenti
dall'estero, sono stati fissati livelli di tassazione tra il 10 e il 15%? Come
si può pensare che, in un'economia globalizzata, le imprese non siano
tentate ad andare fuori dall'Italia? Anzi, io prevedo che ci sarà una
migrazione molto forte delle imprese italiane all'estero. di Roberto Miliacca.
Il
Riformista del 28-8-2007 Mussi continua ad aspettare Godot-Bertinotti di Emanuele Macaluso
La campagna per le primarie del Pd mette in evidenza un quadro politico su cui
è bene cominciare a ragionare. Innanzitutto emerge la lotta sorda tra
notabili locali per il controllo del futuro partito e di quel sistema di potere
imperniato su enti locali e Regioni, usati come strumenti di organizzazione del
consenso. La guerriglia rivela lo stato reale dei due partiti che vanno a
fondersi e l’uso strumentale delle istituzioni a servizio dei candidati. Un
secondo punto di osservazione attiene all’incerta identità del Pd. La
polemica sulle feste dell’Unità ne è solo un sintomo. Una parte
dei militanti dei Ds, non solo quelli che provengono dal Pci, vedono il
transito nel Pd come quello che si verificò nel 1989 con la nascita del
Pds e poi con i Ds: un cambiamento nella continuità che ha come
riferimento i dirigenti di sempre (D’Alema, Veltroni, Fassino, Bersani, Turco
ecc.) e la fedeltà ai valori di appartenenza alla sinistra storica. I
prodiani doc, invece, pensano che la nascita del Pd segnerà la
liquidazione di ciò che resta della sinistra storica e di chi la
rappresenta. Un segno evidente di questa impostazione l’abbiamo avuto con
l’intervista sul Corriere di un intellettuale di punta del prodismo, il
professor Filippo Andreatta. Il quale nota che «sono ancora i diessini a
imporre un loro uomo (Veltroni) e la loro legge» mentre «il Pd rischia di
diventare la Cosa 3». E aggiunge: «Gran parte della società civile si
è tenuta fuori dalle primarie, e nelle liste ci sarà a malapena
qualche foglia di fico, del tutto aggiuntiva rispetto alle quote di
professionisti». Insomma un fallimento. Ma perché il gruppo prodiano, che
dispone del presidente del Consiglio, di ministri, consulenti, giornalisti di
grido, manager, professori emeriti e di tante altre cose non mobilita la
“società civile” e alle primarie scalza “i professionisti” della
politica? Oppure dovrebbero essere questi a suicidarsi sull’altare della
«società civile» invocata da Andreatta, Vassallo e altri? Misteri
italiani.
Un colossale inganno
architettato da una parte dell'establishment degli Stati Uniti, per indurre
Bush a decretare una guerra infinita
Dunque, ecco la verità:
l'11 settembre del 2001 non furono Al Qaeda e Bin Laden a seppellire 2801
innocenti sotto le macerie delle Torri Gemelle, nonché a provocare la caduta di
un aereo sul Pentagono. Si trattò di un colossale inganno, architettato
dagli stessi Stati Uniti, o da una parte del loro establishment, per indurre
Bush (o per consentirgli, o per costringerlo, secondo i punti di vista) a
decretare l'inizio di una guerra infinita contro i terroristi. Con i relativi
poteri speciali che si conferiscono soltanto a un comandante in capo, e il
conseguente avvio di una strategia imperiale per la conquista del mondo.
E così, quello che soltanto pochi,
incalliti antiamericani finora avevano osato
sussurrare, diventa un vero e proprio atto d'accusa collettivo, un
rapporto-pamphlet di 400 pagine in cui un'équipe internazionale di scrittori,
giornalisti, storici, filosofi, politici, professori d'università,
scienziati, economisti e teologi annuncia al mondo l'inaudita novella: «la
versione ufficiale sull'11/9 è un falso». Titolo dell'opera, allusivo al
centro simbolico dell'ecatombe: Zero.
Fra i coautori, coordinati
dal noto giornalista Giulietto Chiesa, il medievalista Franco Cardini e il
filosofo Gianni Vattimo, Gore Vidal e Lidia Ravera, l'ex ministro
socialdemocratico di Helmut Schmidt, Andreas von Bülow, e il filosofo
californiano David Ray Griffin, il giornalista tedesco Jürgen Elsässer e
l'economista canadese Michel Chossudovsky, più molti altri, riuniti in
una compagnia ideologicamente e professionalmente eterogenea, benché solidale
nello sforzo di smascherare il «complotto».
Arrivati sin qui, e superato l'effetto
sorpresa, subentra la legittima aspettativa di
conoscere il nome del vero colpevole. Chi è stato, dunque, se non Bin
Laden? Ebbene, la risposta non è di quelle che si leggono tutte d'un
fiato, bianca o nera. Occorre interpretare, valutare e dedurre. Più che
una presentazione di prove, Zero si rivela infatti un complesso di ragionamenti
e deduzioni che gli avvocati definirebbero «castello di indizi». Egualmente la
lettura appassiona, perché aggredisce il cuore oscuro dell'affaire da
molteplici punti di vista. Così Ray Griffin smonta il rapporto della
commissione d'inchiesta sull'11 settembre puntando sui conflitti d'interesse e
sui legami personali dei suoi membri con l'amministrazione Bush; Claudio
Fracassi denuncia le contraddizioni e le montature dell'informazione globale
nel riferire sull'episodio (una per tutte: l'assenza completa di immagini al
momento dell'impatto del gigantesco Boeing contro il Pentagono, considerato «il
luogo più sorvegliato del mondo»). Ancora: l'ipotesi che si sia trattato
di una «false flag operation», un'operazione congegnata in modo da sacrificare
diciannove patsie, gli islamisti trasformati in capri espiatori inconsapevoli,
e in seguito scatenare una psyop, o psicosi di massa (dietrologia e gergo da
intelligence sono illustrati da Andreas von Bülow).
Suggestive anche le coincidenze messe
in rilievo da Jürgen Elsässer: gli jihadisti combatterono in Jugoslavia con
l'appoggio degli Usa e della Nato, mentre Osama Bin Laden entrava e usciva dal
palazzo di Izetbegovic, il presidente musulmano e filo-occidentale della
Bosnia. Ancora, Giulietto Chiesa identifica il «cosiddetto terrorismo
internazionale», teorizzato dai neocon americani, in primo luogo con «un'azione
diretta e indiretta dei servizi segreti americani e israeliani». Steven Jones,
un fisico dello Utah, certo «che la collisione dei jet con due degli edifici
non basti a spiegare il totale e rapido crollo di entrambe le Torri»,
così conclude: «Esistono prove convincenti che la distruzione degli
edifici prevedesse il piazzamento di cariche esplosive e incendiarie». Franco
Cardini punta il dito contro i neocon e il modo in cui sono stati raffigurati i
terroristi: «Che cosa c'è di meglio di un movimento che non ha struttura
centrale o leader, se non morti, per addossargli ogni colpa o comportamento,
per quanto assurdo esso sia?».
Quanto allo storico Webster Griffin Tarpley,
parla del «mito dell'11 settembre come
strumento per legittimare le tendenze razziste, militariste e fasciste del
nostro tempo». E così avanti, con Michel Chossudovsky a dichiarare senza
mezzi termini: «Questi nemici dell'America, i presunti architetti degli
attacchi dell'11 settembre, sono stati creati dalla Cia». O forse, aggiunge
l'economista Enzo Modugno, si è trattato di un modo per «bloccare il
precipitare della Borsa che stava per crollare, ridando vigore alla domanda e
avviando la ripresa dell'economia».
E poi ecco il regista Barrie Zwicker, autore
del documentario 9/11, The Great Conspiracy, mentre si diverte a complicare le
cose, parlando di «complotto della teoria del complotto»; intanto Lidia Ravera
trasforma il tutto in un racconto, dove le inquietudini coniugali di una coppia
si intrecciano al lento emergere del dubbio sui veri mandanti della strage.
Curiosamente, l'unico a sottrarsi decisamente
a queste ipotesi è l'altre volte irriverente Gore Vidal, intervistato in
coda al volume: Bush e Cheney non sono responsabili dell'attentato, dichiara,
«perché incompetenti ». Disorientati quanto si vuole, dopo questa lettura si
è colpiti da un particolare. Tutti gli interventi di Zero partono da una
certezza (la strage è avvenuta, ma i colpevoli sono nell'amministrazione
Usa) e da qui passano a raccogliere elementi, coincidenze, allusioni,
sensazioni, citazioni volte a dimostrare l'assunto. Di fronte all'evidenza dei
fatti — la strage, i nomi dei responsabili, le rivendicazioni di Bin Laden — si
punta a corrodere le certezze accumulando particolari e statistiche, benché
nessuna di esse sia decisiva. Direi che tutta l'operazione può essere
vista come un caso di «negazionismo colto», che ricorda non troppo alla lontana
quello famoso sulla Shoah, e che rispetto a quello può essere letto in
parallelo. Si isolano cioè le testimonianze dal loro contesto immediato,
si gettano dubbi sulla credibilità dei testimoni, si studiano le loro
dichiarazioni alla ricerca del minimo errore, usandolo poi per inficiare il tutto
(è la tecnica nota agli studiosi del negazionismo, denominata falsus in
uno, falsus in omnibus). Giunti a questo punto, si sferra l'attacco finale: si
afferma che «errori» e «sbavature» non sono certo casuali, ma fanno capo a una
precisa volontà di manipolazione a opera... non del sionismo
internazionale, in questo caso, ma dei neocon, della Cia, dell'operazione
Condor, di un misterioso gruppo di estremisti statunitensi intenzionati a far
scoppiare una guerra nucleare (il «Gruppo dell'Angelo»). E sullo sfondo
l'accusa finale, quella di voler creare, al posto dell'Ordine mondiale sionista
di cui parlano i negazionisti, l'Impero americano planetario. Ma per ora,
fortunatamente, l'effetto di tutto questo si ferma a Zero.
• Il libro: «Zero. Perché la versione
ufficiale sull' 11/9 è un falso», Piemme, pp. 412, € 17,50
Ma
la manovra dovrà avere costo zero Il governo studia il piano-imprese
tagli alle tasse per cinque miliardi Confindustria chiede che il taglio sia
finanziato anche dal recupero dell'evasione L'obiettivo di una riduzione della
tassazione dovrebbe essere raggiunto già a partire dall'anno di imposta
2008 Ma gli ostacoli non mancano, a cominciare dagli incentivi destinati al Mezzogiorno,
che il governo non vorrebbe toccare
ROMA
- Cinque miliardi in meno di imposte per le imprese. è l'intervento allo
studio del governo per ridare competitività al sistema produttivo
italiano. A conti fatti sono 4-5 punti di Ires in meno. L'obiettivo dovrebbe
essere raggiunto già dal periodo d'imposta 2008. Al lavoro c'è
una commissione che sta studiando le possibili soluzioni. Il principio attorno
a cui ruota l'operazione è uno "scambio" tra imprese a
governo. Le prime sono disposte a rinunciare a parte degli incentivi a loro
favore in cambio di una riduzione delle imposte. Il problema però
è trovare la quadra. Perché una cosa è chiara: l'intervento,
nelle intenzioni del governo, non dovrà costare nulla. Lo Stato con una
mano toglie e con l'altra dà. Una scambio alla pari. Far quadrare il
cerchio però è un lavoro da certosino. Tanto perché il governo
non vuole toccare gli incentivi a favore del Mezzogiorno, che sono una bella
fetta (e dunque non verranno tagliati), poi perché negli incentivi ci sono
soldi che arrivano dall'Unione europea. Se si tagliano si perdono, dunque
eliminarli non avrebbe molto senso. Poi perché si lavora su una cifra che non
è a troppi zeri. Le imprese ricevono sotto forma di incentivi 9 miliardi
di euro l'anno, 7 arrivano direttamente dallo Stato, 2 sono invece di
competenze regionale e dunque toccarli è difficile. Si arriva dunque a
circa 7 miliardi. Tagliarne cinque, anche con tutte le razionalizzazioni
possibili, diventa un rebus. Non a caso gli industriali continuano a battere il
ferro per una riduzione tout court delle aliquote forse perché sospettano che
qualunque taglio o razionalizzazione del sistema degli incentivi non basti a
raggiungere l'obiettivo: cinque punti di Ires in meno. è l'obiettivo del
"costo zero" per lo Stato che non li convince. Chiedono anche, gli
industriali, che parte del recupero dell'evasione fiscale vada a finanziare un
taglio delle imposte alle imprese. Una strada che però il governo
esclude, almeno in questa operazione di "scambio". Non una lira
recuperata dal fisco andrà a finanziare un alleggerimento fiscale a un
settore che, come ha ricordato ieri Tommaso Padoa-Schioppa, ha già
avuto. Da Telese, dove partecipava alla festa dell'Udeur, il ministro
dell'Economia ha detto che con il taglio del cuneo fiscale "c'è
stata una riduzione del carico tributario sulle imprese che non ha
precedenti". Dunque, ha ammonito, ricordiamoci di questo, "prima di
mettere in cantiere altre cose". I tecnici di Visco e Bersani sono
però al lavoro e la strada per arrivare all'obiettivo la stanno
disegnando. Via gli interventi a pioggia, via la valutazione discrezionale alla
concessione degli incentivi; via libera invece agli incentivi automatici che
fanno risparmiare sui costi di intermediazione. Eliminazione di quegli incentivi
che favoriscono la delocalizzazione delle imprese e la fuga degli investimenti.
E soldi solo su programmi specifici. Un altro pezzo di strada potrà
essere compiuto invece attraverso l'allargamento della base imponibile. E fa
scuola la Germania, che ha introdotto la deducibilità degli interessi
passivi e degli ammortamenti. Perché è la Germania lo spettro che
avanza. Il cancelliere Angela Merkel ha operato una svolta netta, abbassando la
tassazione sulle imprese al 30 per cento. In Italia siamo al 37,25, una forbice
troppo elevata per competere sugli stessi mercati. è questo che
continuano a ripetere gli industriali.
TELESE
(BN). "Un governo pletorico: 102 persone sono davvero troppe". Parte
da qui l'autocritica che il capogruppo di Sinistra Democratica al Senato Cesare
Salvi auspica per tutto il centrosinistra. "Il dibattito sull'eccessiva
pressione fiscale deve indurre a un'ampia riflessione su alcune scelte della
maggioranza e sul tema dei costi della politica" ha detto il
senatore intervenendo alla Festa dell'Udeur. A partire da Palazzo Chigi, dove,
a suo dire, "è il Partito democratico a fare la parte del leone tra
ministri e sottosegretari". Alcune osservazioni sono state fatte anche sull'operato
della Giunta regionale di Napoli. "In Campania, per esempio, governiamo
noi del centrosinistra - ha affermato Salvi - ma dobbiamo fare autocritica. La
Regione ha addirittura un'ambasciata a New York, mentre a Roma non ci sono le
ambasciate degli stati federali, della California o della Baviera: non gli
passo nemmeno per la testa". Lo spunto gli è arrivato dalla lettera
di Francesco Rutelli pubblicata oggi da "Repubblica", in cui si
auspica una legge che tagli il numero dei parlamentari e degli eletti. "In
paesi come la Francia - ha osservato Salvi - c'è un governo con 15
ministri. Non c' è bisogno di fare leggi o di scrivere lettere,
basterebbero dei fatti concreti". "La gente le tasse le paga - ha
proseguito l'esponente di Sinistra Democratica - se vede che vanno per i
servizi ai cittadini. Se vedono che i soldi sono usati per consulenze o per
apparati paralleli, allora non può che essere scontenta. Su questo piano
dobbiamo fare, e non più solo parlare". All'osservazione del moderatore
che dalla platea non fosse giunto nemmeno un applauso, Salvi ha replicato:
"A me non interessano gli applausi, ma che il mio ragionamento sia
convincente. In una realtà come quella campana bisogna risparmiare fino
all'ultimo centesimo e destinare tutto ai servizi ai cittadini".
IL
CASO Gabriele (Prc) revoca il decreto: "Non ero stato avvisato".
Attacco del centrodestra a Cozzolino Folla ai dibattiti nel parco delle terme.
Nel pomeriggio arriva il vicepremier Rutelli Effetto Cozzolino.
Incarichi della Regione affidati ad esterni per complessivi 5 milioni e 300
mila euro sono stati cancellati di punto in banco dall'assessore regionale
Corrado Gabriele con un atto di revoca di un decreto firmato da un suo ex
dirigente di area. Dopo le polemiche che investono l'assessore ds Andrea Cozzolino
per i 15 milioni di euro destinati a consulenze, assistenza tecnica e
assunzione temporanea di esperti per l'attuazione del piano di sviluppo
economico regionale Paser, 24 ore fa è il collega di giunta del Prc,
Gabriele, a fare un singolare outing. Conferma di avere cancellato una spesa di
5 milioni destinati a 10 società che dovevano occuparsi di formazione
per giovani non diplomati. Sarebbe stata trasferita ad altro settore il
funzionario Maria Adinolfi. La dirigente, stando alla ricostruzione di Gabriele,
avrebbe commesso "l'errore di prolungare e decidere alcuni affidamenti
senza consultarsi con me". Un lampante esempio di scaricabarile?
"Niente di più falso - replica lui - Tutti dobbiamo fare
autocritica, ma è un dato obiettivo che non ci sia il dovuto
collegamento tra le prassi dei dirigenti e la responsabilità
politica". Analoga revoca è scattata per un affidamento di 300mila
euro: per l'elaborazione di progetti contro la dispersione scolastica. E
intanto continuano le polemiche sull'assistenza al Paser. "Il bando del
Piano attuativo del Paser va revocato". Lo chiede il capogruppo di An in
Regione, Francesco D'Ercole. "Al di là della qualità stessa
del Paser, sulla quale già in aula espressi perplessità - spiega
D'Ercole - è la questione dei 4milioni e mezzo di euro per le consulenze
a lanciare ulteriori ombre sulla rispondenza di questo pseudo-piano voluto da
Bassolino e da Cozzolino alle effettive esigenze di sviluppo della
Campania". "Di troppe consulenze c'è il rischio di fare indigestione
- aggiunge Nicola Cosentino, coordinatore campano di Fi - . Vi è
qualcosa di buffo, ai limiti del paradossale nella vicenda Paser, dove una
parte della maggioranza si rivolta contro se stessa, per questioni da Fi sempre
denunciate". "Serve assoluta trasparenza", incalza Cosimo
Sibilia, capogruppo di Fi in Consiglio. Contraria "all'utilizzo delle
consulenze come elemento sostitutivo dei settori del lavoro pubblico"
è la segreteria regionale Cgil Funzione Pubblica. Mentre secondo il
consigliere ds Michele Caiazzo, vicino a Bassolino, "queste polemiche sono
ridicole. è un festival delle ipocrisie e degli opportunismi, il Paser
è stato discusso da industriali, sindacati e Consiglio, erano previste
l'unità tecnica e l'assistenza tecnica, ma nessuno ha detto nulla".
(co.sa.).
(Ocse):
più investimenti per l'ambiente e i servizi Le ingenti spese sostenute
dalla Cina in ricerca e sviluppo non bastano a garantire a Pechino il
piedistallo dell'innovazione. "C'è ancora molto da fare", dice
il primo rapporto sul sistema di innovazione nazionale cinese pubblicato ieri
dall'Organizzazione per la cooperazione lo sviluppo economico (Ocse). "La
Cina ha un target, quello di diventare un paese orientato alla tecnologia entro
il 2020", ha detto il vice segretario generale dell'Ocse, Pier Carlo
Padoan, nel presentare il lavoro, "finora ha aumentato la spesa in ricerca
e sviluppo, ha investito nelle risorse umane e nelle infrastrutture, ma ha
bisogno di più investimenti nei servizi, nell'ambiente e nella
tecnologia, e di migliorare l'ambiente economico". RIFORME FUORI TEMPO Le
politiche cinesi per lo sviluppo e l'innovazione tecnologica sono orientate a
ridurre la dipendenza tecnologica dall'estero e assicurare uno sviluppo
qualitativo all'economia locale, ma secondo l'Ocse arrivano in un periodo non
adeguato. Il processo innovativo si sta facendo sempre più aperto e
interconnesso, rappresentando un vantaggio per i paesi che ospitano imprese
multinazionali: queste portano con sé una più alta produttività
del lavoro, capacità e conoscenze, redditività della ricerca e
sviluppo. Per beneficiare di questi effetti il sistema cinese ha bisogno di un
miglioramento dei meccanismi di mercato che finanziano l'innovazione, quali
venture capital e private equity, e di fornire maggiori possibilità agli
investitori di trarre benefici economici dall'innovazione. Poiché è
vero, secondo l'Ocse, che un mercato dei capitali aperto ed efficiente spinge
gli imprenditori a prendere rischi più grandi.Il problema più
spinoso resta quello della proprietà intellettuale. Molte leggi sono
state elaborate dal governo di Pechino, senza però che sia
effettivamente garantita la loro applicazione. Molte aziende straniere in Cina
sono state costrette a un trasferimento tecnologico forzato, attraverso gli
investimenti diretti o la collaborazione nel campo della ricerca e sviluppo (ad
esempio il non pagamento delle royalty). NORME INADEGUATE Questo quadro
normativo inadeguato è secondo l'Ocse "altamente anti
competitivo", minaccia gli sviluppi del mercato e la corsa all'innovazione
del paese. così come il voler a tutti i costi imporre degli standard
domestici (per esempio nel campo delle telecomunicazioni, con gli standard 3G
Td-Scdma) è dannoso per la redditività dell'innovazione cinese:
standard che non sono accettati altrove che in Cina rende difficile la
penetrazione delle imprese cinesi nel mercato internazionale e ne lede
la competitività.Meglio allora rendere i finanziamenti pubblici alla
ricerca più orientati al mercato con un'attenzione maggiore ai programmi
e alla loro gestione, per assicurare qualità ed efficacia alla ricerca
portata avanti da istituti pubblici e università.CONSUNTIVO POSITIVOAl
di là delle direttive Ocse i risultati della Cina non sono da
sottovalutare: dal 1995 a oggi la spesa per ricerca e sviluppo è
aumentata ad un ritmo del 19% annuo, fino a raggiungere i 30 miliardi di
dollari nel 2005, collocando il paese al sesto posto della scala mondiale. Le
esportazioni ad alto contenuto tecnologico sono anch'esse aumentate:
rappresentavano il 5% delle esportazioni totali all'inizio degli anni '90,
hanno superato il 30% nel 2005 (soprattutto macchine da ufficio, tv, radio e
apparecchi per le telecomunicazioni, prodotti per l'88% da imprese a capitale
straniero). Una fotografia confermata da un responsabile dell'Ocse, Jean
Guinet, che ha detto che "in alcune aree, come le nanotecnologie, la Cina
è già al livello degli Usa". La ricerca è
stata condotta dall'Ocse, in collaborazione con il ministero della scienza e
tecnologia cinese, su un periodo di due anni, attraverso ricerche, interviste,
visite ad aziende e centri di ricerca cinesi e la partecipazione
dell'università Tsinghua di Pechino.
ANSA.it 25-8-2007 Mercato immobiliare drogato, Roma
seconda dopo Montecarlo
La Repubblica 27-8-2007 Se anche i soldati Usa
contestano la guerra in Iraq MASSIMO L. SALVADORI
PARIGI - Procedere, con un «calendario
definito», al ritiro delle truppe dall'Iraq. Aprire all'Iran, a patto che il
nucleare non sia utilizzato per costruire armi di distruzione di massa.
Ritrovare il sentiero di «amicizia» con gli Stati Uniti e rendere «più
forte» l'Europa. Sono i passaggi principali del primo discorso sulle linee
generali di politica estera da presidente francese tenuto da Nicolas Sarkozy.
Il nuovo inquilino dell'Eliseo ha tenuto il discorso ricevendo il corpo
diplomatico transalpino e ha auspicato un Europa più forte e un rapporto
di amicizia più solido con gli Stati Uniti. Sarkozy ha anche auspicato
un «rilancio delle trattative» per l'ingresso della Turchia dell'Unione europea
(anche se sotto la forma dell'«associazione» a Bruxelles e non di un ingresso
vero e proprio nell'Ue) e «maggiore trasparenza» per evitare crisi finanziarie
devastanti come quella originata dai mutui americani meno garantiti.
IRAQ, CALENDARIO PER IL RITIRO - Il
presidente francese, Nicolas Sarkozy, si è dunque espresso a favore
della definizione di un «calendario chiaro» per il ritiro delle truppe
straniere dall'Iraq: «Non vi è altra soluzione se non quella politica»,
ha detto Sarkozy, «deve essere definito un orizzonte chiaro sul ritiro delle
truppe straniere dall'Iraq. Una decisione su questo tema inchioderà i
giocatori alle proprie responsabilità e li indurrà a regolarsi di
conseguenza». Una linea che si contrappone a quella del presidente degli Stati
Uniti, George W. Bush, il quale ritiene che indicare una tabella di marcia per
il disimpegno dall'Iraq favorirebbe le forze della ribellione e i terroristi di
Al Qaeda.
IRAN - Sarkozy ammette poi di ritenere
plausibile un'apertura di credito nei confronti dell'Iran, ma «Teheran deve
rispettare obblighi nel settore atomico». La Francia, in altre parole, è
pronta a sostenere una politica «d’apertura» verso l’Iran a condizione che il
Paese non di doti di armi nucleari.
EUROPA PRIORITA' ASSOLUTA - La costruzione
dell'Europa , per Sarkozy, resta una «priorità assoluta» e passa
attraverso la conferma «dell'amicizia» con gli Stati Uniti. «Sono tra quelli
che pensano che non ci possa essere una Francia forte senza un'Europa forte»,
ha detto Sarkozy agli ambasciatori francesi riuniti nella conferenza annuale.
«L'emergere di un'Europa forte come importante giocatore sulla scena
internazionale può contribuire in modo decisivo a costruire un ordine
mondiale più efficiente, più giusto e armonioso», ha detto il
presidente. Che ha auspicato la creazione «da qui alla fine dell'anno» di un
comitato di 10-12 saggi di elevatissimo livello» per riflettere sul futuro
dell'Unione europea. I «saggi» che Sarkozy vorrebbe convocare dovranno
rispondere a una domanda «semplice ed essenziale»: quale Europa nel 2020-2030?
E con quali missioni? «Le risposte arrivino - ha chiesto il presidente - prima
del voto per le elezioni europee del 2009.
27 agosto 2007
Per
il solare termico il 2006 è stato un anno record in tutta Europa. Lo ha
detto Gerhard Rabensteimer, presidente dell'Estif (l'Industria europea per il
solare termico), secondo il quale "sono state superate tutte le
aspettative e il solare termico è uscito dalla sua posizione di
nicchia". Anche in Italia, dove lo sfruttamento di fonti rinnovabili ha
tardato a svilupparsi, com'era invece accaduto in Austria e Germania. In uno
studio pubblicato proprio da Estif sulla produzione di energia solare nel 2006,
l'Italia risulta il quinto mercato in Europa dopo Germania, Austria, Grecia e
Francia, con una capacità di impianti solari installati di 130 MWth
(Megawatt termici) pari a 186mila metri quadrati di pannelli. Lo studio
rappresenta una novità rispetto a studi precedenti, che assegnavano
all'Italia una capacità di soli 50 MWth ( 72mila metri quadrati di
pannelli) concentrata soprattutto in nove regioni del Centro-Nord. Per il 2007
si prevede un aumento del 54%, che porterebbe a un mercato di 200 MWth (286mila
metri quadrati) e a quasi un milione di metri quadrati di pannelli in funzione
in Italia entro il 2007. Finora il solare termico aveva rappresentato il 23%
del mercato italiano, che ancora importa gran parte dei prodotti. Nel 2006 il
valore dell'industria del solare termico è stato di 70 milioni di euro
con 2mila posti di lavoro. Per il 2007 si prevede un balzo a 120 milioni e 3mila
posti di lavoro (si calcola un posto ogni 100 metri quadrati di pannelli
installati). Il vero problema, come sottolinea uno studio presentato all'Estes
2007 (Conferenza europea per l'energia termica solare) in giugno, è
l'alto livello di dipendenza dell'Italia da tecnologie importate. Ma a fare la
parte del leone in Europa è stata la Germania, con un balzo del 58% di
nuovi impianti. Anche la Francia ha avuto una forte crescita e perfino Gran
Bretagna e Irlanda "si sono svegliate". L'aumento di 2.100 MWth nel
2006 nei 27 Paesi della Ue più la Svizzera (per un totale di 3 milioni
di metri quadrati di pannelli) ha permesso di superare tutte le aspettative del
settore. Il merito, dicono all'Estif, è dei progetti di sostegno
pubblico come l'obbligo d'installare il solare in Spagna e i molti incentivi
fiscali varati in molti Paesi Ue. La metà di tutta la capacità
energetica installata in Europa proviene dalla Germania (1.000 MWth) con un
aumento del 50% della capacità totale sul mercato Ue, mentre i Paesi
mediterranei (Grecia, Francia, Italia, Spagna e Cipro) rappresentano
attualmente quasi il 30 per cento. "L'obiettivo per il 2020 – ha
dichiarato il segretario generale dell'Estif, Uwe Trenkner – è
di avere un metro quadrato di pannelli per ogni europeo". Ma già si
prevede che Austria e Cipro supereranno questo obiettivo entro quella data. Le
previsioni di crescita per il 2007 per i 27 Paesi Ue e la Svizzera sono
però più contenute: solo il 17%, a causa di un calo delle vendite
nel primo trimestre di quest'anno. Eppure, nonostante la crescita spettacolare
dello scorso anno, l'impatto del solare risulterà alquanto ridotto
rispetto ad altre forme di energia rinnovabile. Secondo il Consiglio europeo
per l'energia rinnovabile (Erec), il fotovoltaico e il termico solare messi
assieme contribuiranno per poco più dell'1% al mix totale di energia
rinnovabile previsto per il 2020, mentre l'eolico e l'idroelettrico
rappresentareanno tra il 4 e il 10% e le biomasse dal 12,5 al 14 per cento. Per
stimolare la crescita nel settore la Commissione europea prevede di proporre
entro quest'anno una direttiva-quadro sulle energie rinnovabili, in cui si
daranno indicazioni di massima ai Paesi membri. Ciascuno poi fisserà i
propri obiettivi nazionali. Ma sia Estif sia Epia (l'Associazione europea per
il fotovoltaico) chiedono che "la futura direttiva- quadro includa
specifici obiettivi settoriali (elettricità, raffreddamento,
riscaldamento, trasporto) e fissi un livello nazionale per le rinnovabili,
sorvegliando che questi obiettivi vengano rispettati". E per calcolare gli
obiettivi sarà utilizzata una mappa fotovoltaica messa a punto dal
Centro comune di ricerca di Ispra, chiamato Pvgis (Sistema fotovoltaico
d'informazione geografica). La mappa, già disponibile sul web, permette
di valutare la quantità di energia solare disponibile in ciascuna
località europea. Essa fornisce anche informazioni sullo sviluppo del
fotovoltaico e sulla percentuale di solare nel consumo totale di energia di
ogni Paese. Intanto l'Italia continua a rilanciare il solare: a fine luglio
Enipower e Unicredit Banca hanno firmato un accordo per lanciare una nuova
offerta di energia fotovoltaica integrata, mentre in maggio la Unimetal ha
acquistato dalla United Solar di Auburn Hills (Usa) commesse per fornire cellule
fotovoltaiche per 5,8 milioni di dollari. Un passo nella giusta direzione come
quello compiuto dalla Spagna, che a fine marzo si è portata al primo
posto in Europa nel campo della concentrazione dell'energia solare (o Csp),
creando uno dei più grandi complessi del genere con un sistema di
parabole che riflettono i raggi solari verso un punto focale da dove l'energia
cosìottenuta viene convogliata nella rete elettrica. I MERITI Secondo
l'Estif, a trainare lo spettacolare sviluppo sono stati i progetti di sostegno
pubblico e gli incentivi fiscali varati da molti Paesi Un business sempre
più caldo CORBIS.
DAL NOSTRO INVIATO PORTO SANT'ELPIDIO
(Ancona) - Gli aveva giurato che mai le sue scarpe tacco tre avrebbero varcato
la soglia di una sede dell'ex Pci, in pubblico e in privato se ne erano dette
di tutti i colori tanto che Ugo Sposetti le aveva spedito un biglietto per fare
la pace, ma ieri a sorpresa Rosy Bindi ha parzialmente "riabilitato"
il tesoriere dei Ds. A Porto Sant'Elpidio, davanti a un Teatro delle Api nemico
giurato della "casta", invece di attaccarlo come in passato ne ha
sposato almeno nella premessa il ragionamento. E cioè che tocca ai
contribuenti sostenere i costi della politica. "So di dire una cosa
impopolare, ma sono convinta che la politica ha un costo per la
comunità...". I cinquecento arrivati in ciabatte dalle spiagge come
in abito da sera rumoreggiano, qualcuno si arrabbia e lo grida forte, e la
senatrice Marina Magistrelli, che le aveva promesso una platea amica, si agita
sulla poltrona rossa di prima fila. Ma l'anti leader è approdata in
teatro a bordo di una vecchia auto blu che ha fatto 250 mila chilometri e non
si impressiona. "Il sindaco di Roma vuol tagliare le spese della politica,
Sposetti invece ha proposto tra le polemiche di tornare al finanziamento
pubblico", apre lo show a due il giornalista del Corriere Gian Antonio
Stella. E la Bindi, look nero che sfina: "Sposetti è persona che
dice le cose e io mi ci confronto con serenità. I cittadini non devono
pagare i privilegi, i costi devono scendere ma non si può pensare che la
politica la possano fare solo quelli che hanno disponibilità
economiche". Dunque la Rosy non vuole certo aumentare i fondi a
disposizione dei politici, anzi per lei è giunta l'ora di chiudere i
rubinetti che tengono in vita l'Unità ed Europa e fondare un nuovo
quotidiano del Pd. La sfidante dopo gli avvertimenti dei veltroniani va dosando
gli attacchi, prende qualche precauzione linguistica: "Gli italiani lo
hanno bocciato con un referendum quindi non chiamiamolo finanziamento pubblico.
Si istituisca un garante che controlli l'utilizzo dei rimborsi elettorali,
dopodiché per organizzare incontri come questo o scrivere agli elettori servono
soldi. Altrimenti succede che la politica la fanno solo Fede, Vespa o
Berlusconi col suo aeroplano personale ". A proposito del Cavaliere, cosa
pensa della rossa Michela Brambilla? La difende, la stima, quasi s'immedesima.
"Dileggiarla è una manifestazione tipica del pessimo maschilismo
italiano. Io come donna ho pagato un prezzo, fossi stata uomo nessuno si
sarebbe azzardato a dare certi giudizi". Francesco Cossiga disse di
preferirle la bella Sharon Stone e ancora non l'ha perdonato. "Gli mandai
a dire che anche a me piaceva di più Richard Gere e ora spero che
nessuno si diverta a fare lo stereotipo della Bindi che attacca". Un'altra
cosa che le fa male è il no di quelle donne che non si fidano della sua
laicità. "Si possono fidare più di me che di un Veltroni
appoggiato dalla Binetti". In questi giorni, ammette, gliele ha cantate al
segretario in pectore ma ora basta, se i suoi "biglietti " vengono
presi "come un'offesa " non ne manderà più. Però
la vittoria giura di sentirsela davvero. "Non votatemi perché sono una
donna, ma perché sono una donna brava ".
EW YORK - Il mercato immobiliare di Monaco
é il più surriscaldato del mondo, ma anche a Roma non si scherza: le
case del centro della Città Eterna sono arrivate al secondo posto dopo
quelle del principato in una hit parade compilata dalla rivista Forbes. Terza
in classifica è Parigi, staccate di varie distanze Londra, Tokyo, New
York, tre città considerate carissime dagli investitori immobiliari. La
ragione dell'apparente contraddizione si spiega con i criteri adottati da
Forbes per la valutazione: la rivista ha analizzato i tassi annui di profitto
reale che tengono conto delle rendite di affitto, aggiustate con le tasse sul
capital gain, le spese di transazione, i costi operativi e di manutenzione,
l'apprezzamento e l'inflazione.
La classifica di Forbes non è dunque un hit parade basata semplicemente
sui prezzi al metro quadrato, ma contiene un avvertimento esplicito: investire
nel mattone in una città della top ten rende meno che farlo in un
mercato dove il metro quadro è magari più caro, ma al contempo
più redditizio. Il Principato di Monaco è arrivato primo nella
hit parade con un punteggio di 74,07 anche grazie a costi di transazioni da
capogiro (fino al 20%, più o meno quanto a Seul) che mal si applicano
alla fama di paradiso fiscale. Roma, seconda con 50,51, è stata
considerata un mercato a crescita lenta e che tuttavia resta molto caro. A
rappresentare il Nord America non é New York ma Los Angeles, al quinto posto
dietro Madrid con 26,88 punti seguita di una lunghezza da Vancouver (26,81),
Vienna, Auckland Zurigo e Oslo.
Forbes ha puntato i riflettori anche su mercati emergenti come l'India, con
città come Bangalore, dove i prezzi sono saliti l'anno scorso di oltre
il 16% e dove le rendite di affitto sono le più alte del mondo rispetto
al valore dell'immobile, mentre a Bombay la crescita è stata appena del
6,6%. Sono state misurate 50 capitali finanziarie del mondo in ogni continente.
Per la maggior parte questo significava una città per nazione - Londra
per la Gran Bretagna, Bangkok per la Thailandia, Varsavia per la Polonia - ma
per paesi come India, Cina, Stati Uniti, Australia, Svizzera e Canada sono
stati misurati più mercati: Ginevra e Zurigo per la Svizzera ad esempio
o Pechino e Shanghai per la Cina.
BERGAMO. Nessuna retromarcia sulla protesta
fiscale: la Lega andrà fino in fondo. Umberto Bossi ieri sul Passo San
Marco a duemila metri di quota ha fugato ogni dubbio, con una delle sue
espressioni forti. "Non abbiamo mai tirato fuori fucili, ma c'è
sempre una prima volta". Al Senatur piace la terminologia 'armata': senza
andare al 1994, quando parlò di 300mila bergamaschi disposti ad armarsi,
anche più recentemente ha parlato di fucili, in tono più o meno
serio. Ora sul tema fiscale, non usa più il termine sciopero ma protesta
o rivolta perchè "con le parole - ha spiegato - bisogna stare
attenti". Ma i cinque punti con cui si comincerà, a distanza di
quindici giorni l'uno dall'altro, sono già nero su bianco. Nessuna
spiegazione per ora su quali saranno per evitare che il governo ricorra ai
ripari con un decreto legge o con un provvedimento dell'Agenzia delle entrate.
"Invece dopo - ha osservato il vice presidente del Senato Roberto
Calderoli - non potranno fare una legge retroattiva". Non ci sono stati
riferimenti agli alleati che non vedono esattamente di buon occhio la protesta
fiscale. Calderoli li ha invitati ad essere più presenti al Senato
"perchè è inutile che si parli dei costi della politica
se si ruba lo stipendio non andando in Parlamento". Il deputato Roberto
Cota ha invece criticato il "partito trasversale del freno a mano tirato
che fino a oggi non ha permesso un vero cambiamento". La Lega invece ieri
ha iniziato la raccolta firme sulla protesta fiscale e ai circa 500 militanti
saliti in Valbrembana è stata distribuita una scheda perchè dicano
se sono "favorevoli ad attuare la rivolta fiscale pagando le tasse alle
nostre regioni e ai nostri comuni anzichè allo Stato centrale".
Bossi è arrivato intorno alle 13, ma prima del suo breve intervento sono
saliti in tanti sul palco per parlare, dal segretario nazionale della Lega
Lombarda Giancarlo Giorgetti all'eurodeputato Mario Borghezio, agli esponenti
della Lega delle diverse regioni del nord. E tutti hanno ripetuto la stessa
cosa: "da qui parte la battaglia". Il via ufficiale, anzi
"l'inizio del conto alla rovescia" per mandare a casa Prodi, come ha
sottolineato Calderoli, sarà il 16 settembre al consueto appuntamento di
Venezia. "Davanti alla rapina delinquenziale dello Stato che taglia la
libertà - ha spiegato Bossi - noi sappiamo reagire e arrivare al
bersaglio. Ci tocca andare fino in fondo". E in questo senso la protesta
fiscale "non è la fine del mondo - ha aggiunto il leader della Lega
- ma una parte della lotta per la libertà". Il Senatur ha ricordato
ancora una volta che tutti gli stati moderni sono nati dalla rivolta fiscale,
ha citato Carlo Cattaneo rilanciando il lavoro comune con il Veneto, ma anche
il poeta siciliano Ignazio Buttitta per spiegare l'importanza delle radici.
"Finora gli è andata bene - ha osservato -, i lombardi pagavano e
non hanno mai tirato fuori il fucile, ma c'è sempre una prima volta. La
Lega è nata per la libertà della Padania e noi non ci fermeremo a
metà. Ora si lamentano perchè parliamo di rivolta fiscale, ma
siano più onesti e equilibrati. E' evidente che quando uno esagera ci
sono reazioni". "Nessuna istigazione alla violenza - precisa
Calderoli - nessun terrorismo politico, ma solo la legittima difesa di un
popolo che si vede negato anche il diritto alla proprietà privata, da
parte di uno Stato che, per ius prime noctis, vorrebbe toglierci il frutto del
nostro lavoro e persino le nostre famiglie. E la legittima difesa, quando si
espropriano la casa e la famiglia, autorizza anche la bomba atomica di
Ahmadnejad se necessario". Il vicepresidente del Senato, commentando il
suo leader ha aggiunto: "Chi toglie il diritto di vivere - aggiunge
Calderoli - e quello alla propria famiglia va fermato".
La lettera di sette militari statunitensi
impegnati in Iraq pubblicata dal New York Times il 19 agosto resterà,
credo, un documento importante nella storia della seconda guerra irachena. Si
tratta non solo di una testimonianza illuminante da parte di soldati che parlano
per esperienza diretta, ma anche di un'analisi insieme acuta, impietosa e,
stando a ciò che è ormai chiaramente sotto gli occhi di tutti,
intellettualmente fondata. Occorre inoltre dire che la lettera è un atto
di vero coraggio il quale si colloca nella migliore tradizione civile
americana. Questi i punti essenziali del discorso dei sette, che meritano di
essere richiamati. Esso parte dall'affermazione nuda e cruda che "il
dibattito politico in corso a Washington sulla guerra appare surreale".
Prosegue esprimendo il massimo scetticismo verso coloro che "parlano di un
conflitto sempre più gestibile" a fronte di una situazione che vede
i successi militari americani "vanificati dai fallimenti in tutti gli
altri campi". Questi ultimi sono resi evidenti da una scena dominata
dall'azione incrociata di estremisti sunniti, terroristi di al Qaeda, milizie
sciite, bande criminali e tribù armate, di una polizia e di un esercito
iracheno la cui fedeltà non va al governo ma "soltanto alla propria
milizia". I tre "più gravi errori" commessi dagli
americani ? lo smantellamento indiscriminato delle strutture politiche, lo
scioglimento dell'esercito iracheno e la creazione di uno sconnesso sistema
federale ? hanno creato le condizioni di un ingovernabile caos. I risultati sono
stati la distruzione del tessuto civile, con due milioni di iracheni finiti nei
campi profughi nei paesi confinanti, quasi altrettanti ridotti in baraccopoli,
e i "fortunati" barricati "dietro muri di cemento". Poi i
sette militari lasciano cadere il colpo di maglio più duro: "Dopo
quattro anni dall'inizio dell'occupazione, non abbiamo mantenuto nessuna delle
nostre promesse, sostituendo la tirannia del partito Baath con una tirannia
della violenza, la violenza degli islamisti, dei miliziani e della criminalità";
e, "se è vero che la nostra presenza può aver liberato gli
iracheni dalle grinfie di un tiranno, essa li ha anche privati del rispetto di
sé". Infine, la conclusione che certo avrà fatto maggiormente fischiare
le orecchie di Bush, dei suoi uomini, di Blair che fu il loro più fermo
sostenitore e di tutti i corifei della "guerra democratica" e
dell'esercito "liberatore": "Gli iracheni si renderanno presto
conto che il modo migliore per riconquistare la dignità è
chiamarci per quello che siamo: un esercito di occupazione, e forzarci al
ritiro". Il testo dei sette si chiude con una dichiarazione di piena
lealtà in quanto soldati, che però non li esime in quanto
cittadini dall'esprimere un pensiero che "non vuole essere disfattista, ma
piuttosto mettere in luce che stiamo portando avanti una politica con
scopi assurdi senza riconoscerne le incongruità". Sì,
possiamo davvero dire che questa lettera di alto tenore mette il re d'America
impietosamente a nudo. E ora, qualche riflessione stimolata da un testo tanto
clamoroso. La prima è che la guerra irachena è persa per gli
americani in una maniera che suggerisce una palese analogia con l'esperienza
vietnamita, che ormai anche Bush riconosce ma per sostenere che ritirarsi
dall'Iraq sarebbe un errore pari all'essersi ritirati dal Vietnam. La seconda
è che appare ormai perduta sia la guerra affidata agli ideali sia quella
legata all'esercizio della pura forza; e ciò perché gli uni erano
inquinati dalla menzogna e l'altro indebolito dall'inquinamento degli ideali.
La terza è che una superpotenza militare (e qui la memoria corre anche
alla lezione offerta dalla sconfitta sovietica in Afghanistan) non può
tradurre la vittoria iniziale, dovuta ad un sovrastante accumulo di mezzi
immensamente superiori, in un successo duraturo se entra in urto con il
consenso maggioritario delle parti attive del popolo conquistato, se insomma
non dispone delle necessarie risorse politiche per la riorganizzazione politica
e civile del territorio. La quarta è che agitare da parte degli occupanti
nobili ideali che mistificano la realtà e i fini delle loro azioni
costituisce un potente fattore di mobilitazione di coloro i quali si oppongono.
Ed è su quest'ultimo aspetto che vorrei ora soffermarmi, poiché esso
è in grado di mettere in evidenza la profondità dello scacco
subito dalla guerra americana. Ricordo che agli inizi della guerra fu proprio
il New York Times ad ammonire sulle conseguenze negative che avrebbe avuto il
porre, come fece l'amministrazione Bush, una guerra avente come scopo primario
il controllo sulle risorse petrolifere dell'Iraq in un quadro di egemonia sul
Medio Oriente sotto l'insegna per un verso di una "crociata" per
l'espansione della democrazia e il rispetto dei diritti umani. Ma Bush
tirò dritto, accecato da un trionfalismo sicuro delle sue ragioni e
della sua buona stella, facendo appello al diritto dell'America del mondo
occidentale di garantire la sicurezza del mondo occidentale contro un dittatore
dotato di armi di sterminio di massa, pronto ad usarle e divenuto stretto
compagno di Bin Laden. Fu del tutto insensibile al fatto di basare la propria
azione su un cumulo di costruite falsità. Non vero era che il motivo
fosse la democrazia e non il petrolio, non vero che Saddam, alleato con al
Qaeda, fosse coinvolto nell'11 settembre, non vero che disponesse delle armi di
distruzione di massa. Non vero dunque che la "guerra ideale" muovesse
la guerra reale. Quando le menzogne diventarono palesi al mondo, lo divennero
in primo luogo agli iracheni. Non ci si domanda quanto esse abbiano scavato in
profondità nella coscienza della popolazione, quanto abbiano favorito il
reclutamento delle forze di opposizione all'esercito di occupazione, quanto
abbiano contribuito ? di questo si tratta ? a fornire loro un senso di legittimazione?
Ora l'avventura americana è giunta al capolinea e i suoi peggiori
effetti sono di aver portato l'Iraq alla dissoluzione, indotto lo stesso
governo "vassallo" a capire che il paese per uscirne deve fare i
conti con l'Iran detestato da Bush, moltiplicato le energie del terrorismo internazionale.
Resta naturalmente sempre sullo sfondo l'interrogativo su cui i falchi
americani non cessano di fare leva: ma non è giusto diffondere la
democrazia nel mondo? La risposta l'hanno data i sette militari statunitensi
nella loro lettera, e cioè che il modo scelto da Bush in Iraq (ammesso
ma non concesso che il proposito fosse quello) ha mostrato che certi mezzi
distruggono il fine. Qui si apre l'enorme questione di come si possa favorire
la diffusione della democrazia nei paesi che ne sono privati dalle dittature e
in cui le condizioni del suo sviluppo risultano estremamente difficili.
è un discorso aperto, che vale sempre di essere ripreso e approfondito.
In ogni caso, penso che una regola, espressa da tempo dalla saggezza degli
antichi, si mostri sempre valida,: "Timeo Danaos, et dona ferentes".
dal nostro corrispondente BERLINO - La
crisi finanziaria internazionale scatenata dalle gravi turbolenze nei
mutui subprime Usa investe con violenza le banche tedesche. Crea un terremoto
nel mondo degli istituti di credito a partecipazione pubblica. La Saechsische
Landesbank, cioè la banca della Sassonia (il più ricco tra gli
Stati dell'Est) è stata venduta in extremis alla Landesbank
Baden-Wuerttemberg, Lbbw, ovvero l'istituto del prospero, postmoderno
Bundesland del sudovest con capitale Stoccarda. Lbbw sborserà 300
milioni di euro per acquisire la banca pubblica sàssone. E intanto sta
trattando l'acquisto di Westdeutsche Landesbank, WestLB, cioè l'istituto
di credito del Nordreno-Westfalia, che con 17 milioni di abitanti è lo
Stato più popoloso della Federazione. Se anche questa seconda scalata
riuscirà, la banca pubblica del Sudovest diverrà il secondo
istituto tedesco dopo Deutsche Bank. La crisi è precipitata nelle ultime
ore. Riunioni d'emergenza a catena hanno rovinato il weekend al governatore e
ai ministri della Sassonia, ai politici a livello federale, ai vertici
economici. La crisi della Saechsische Landesbank era esplosa una decina di
giorni fa: il 17 agosto l'istituto semipubblico aveva dovuto ammettere in
extremis di essersi esposto troppo con gli affari a rischio sul mercato
americano. Ed era stato salvato dalla bancarotta con un credito-lampo di 17,3
miliardi di euro concesso dalle Sparkassen, le Casse di risparmio tedesche che
sono l'altra branca semipubblica del settore creditizio. L'iniezione di
liquidità delle Sparkassen, e la cacciata di tutto il vertice, non sono
però bastati a salvare la Saechsische Landesbank. Il governo di Dresda,
la capitale dello Stato, ha deciso di vendere. Landesbank Baden-Wuerttemberg si
è fatta avanti, e ha vinto. Contemporaneamente, la banca del Sudovest
conduce negoziati per rilevare WestLB, scossa da recenti scandali. L'obiettivo
è diventare il numero due del credito dopo Deutsche Bank. Intanto
crescono i timori per l'esposizione, dichiarata o nascosta, delle banche
tedesche negli affari a rischio negli Usa. Secondo un'inchiesta della
Frankfurter Allgemeine, i conduits degli istituti tedeschi hanno portato molti
impegni pericolosi. Deutsche Bank aveva 38,3 miliardi di impegno sul mercato
immobiliare americano, ma è riuscita a uscire dal comparto a rischio
all'inizio del mese. Hypovereinsbank ha impegni nei subprime per un po' meno di
5 miliardi di euro. Hsh Nordbank risulta esposta per 1,8 miliardi di euro nei
subprime americani. Altri istituti si rifiutano di fornire dati precisi.
BRUXELLES. Le fiamme che stanno devastando
la Grecia hanno scatenato una gara di solidarietà fra i paesi
dell'Unione europea e allo stesso tempo riproposto con drammaticità la
necessità che l'Europa si doti di un vero e proprio sistema di
intervento per combattere gli incendi. Fra le idee allo studio, quella di una
task force antincendio. E' grazie al meccanismo di protezione civile europeo,
coordinato proprio dalla Commissione Ue, che stanno affluendo in
Grecia Canadair, elicotteri, personale e attrezzature per debellare i roghi.
Una gara contro il tempo, che rappresenta il maggiore impegno di assistenza
verso un paese Ue dalla creazione del meccanismo di protezione civile
europeo nel 2001. Oltre agli interventi immediati, la Commissione
europea sta studiando come rendere più efficace l'azione della
protezione civile e per questo sono stati individuati undici moduli di
intervento diversi. Uno di questi riguarda la lotta agli incendi con una task
force, composta da uomini e mezzi pronti ad intervenire in casi di crisi
caratterizzate da incendi così estesi. Una iniziativa su questi
"moduli" potrebbe venire già all'inizio dell'autunno. Fra le
ipotesi c'è anche quella che la forza di intervento rapido antincendio
sia creata attorno alle strutture e all'esperienza dei paesi maggiormente
colpiti dagli incendi boschivi e cioè Italia, Spagna e Francia.
Dall'Italia è venuto ieri un nuovo appello all'Ue ad adottare una
strategia europea nella lotta agli incendi, mentre a fine luglio il presidente
francese Sarkozy e il premier greco Karamanlis avevano già dato il loro
sostegno alla creazione di una forza di reazione rapida contro gli incendi. I
ministri dell'Ambiente Ue avranno modo di discuterne, quando si
riuniranno sabato prossimo a Lisbona per la loro periodica riunione informale.
All'Italia è anche andato un apprezzamento particolare da parte del
Commissario Ue all'ambiente, il greco Stavros Dimas, per il suo contributo
di un Canadair, pur in presenza di gravi incendi anche sul suo territorio
nazionale. La crisi greca, in sostanza, sta dimostrando che la
disponibilità ad aiutare c'è, ma bisogna migliorare la
capacità di intervento.
I
nuovi pastori Reportage Ieri l'apertura del Sinodo a Torre Pellice TENTAZIONI
PERICOLOSE Dopo il corteo ordinati tre giovani
La vera compassione evangelica non si fa
trasmettendo fino alla nausea gli spot dell'8 per mille "Qualcuno rischia
di confondere Dio con il proprio prestigio" Mentre milioni di bambini
muoiono di fame i cristiani disputano sullo status dell'embrione INVIATO A
TORRE PELLICE Ermanno Genre Giovanna Vernarecci Cara comunità, anzi cara
Chiesa". Nel saluto - con precisazione - del pastore Sergio Ribet che
inaugura il Sinodo Valdese e Metodista ci sono la dignità di una fede e
la spaccatura con Santa Romana Chiesa. Nel pomeriggio, aprendo la cerimonia che
accoglie 180 delegati, ospiti e fedeli, Ribet risponde diretto al documento vaticano
della Congregazione per la dottrina delle fede pubblicato in luglio, dove si
parlava di un'unica verità: "Non si può svilire una
comunità di credenti in Cristo chiamandola comunità ecclesiale e
negandole l'attributo di Chiesa. Non si è Chiesa per autocertificazione,
ma per vocazione, come persone convocate dalla Parola di Dio per ascoltarla e
metterla in pratica". È questo il vento che soffia nella Valle dove
i seguaci del mercante Pietro Valdo (1140-1217 circa) arrivarono in fuga e si
ritrovarono presto nelle maglie di un'Inquisizione senza pietà. In un
bel libro ("Vicende religiose dell'alta Val Chisone") con gli altri
autori il magistrato Piercarlo Pazé racconta i "passaggi" di
Francesco da Pocapaglia, Barnaba e Alberto di Castellario, Antonio de Septo e
così avanti. E in "Dio lo vuole" Franz Olliverio narra il
calvario dei valdesi. Perseguitati sempre, oggi sono 30 mila. Il ceppo
più forte qui, in Val Pellice, tra Pinerolo e il confine. Altre chiese a
Ivrea, Torino, Genova, Roma, Napoli, Palermo, Catania, Pachini, ai margini
della Sicilia. Chiese con oltre mille fedeli, oppure 5 o 600. Pochi, pacati,
riconosciuti (la Chiesa valdese ha diritto all'8 per mille dalla dichiarazione
dei redditi e non soltanto i fedeli la sottoscrivono) questi protestanti -
metodisti e valdesi insieme dopo il Patto di integrazione del 1975, con un
Sinodo unico dal 1979 - ieri mandavano a dire a papa Ratzinger che "la
Chiesa romana sta tornando indietro negli Anni e chiude ogni possibilità
di dialogo". Riferendosi al racconto biblico del Secondo libro di Samuele
(l'incontro tra il profeta Natan e il re Davide) il pastore Ribet ha auspicato
una "lucidità profetica" che affermi la verità e
resista alla tentazione del potere: "Il vero problema cui dovremo dare
risposta è se siamo capaci di ascoltare non la realtà, non la
tradizione, non altre voci, ma la parola di Dio vivente. Potremmo pagare cara
la tentazione delle Chiese, di confondere la volontà di Dio con il
proprio prestigio. Oggi Chiese e Stato, poteri e Chiese tendono a invadere il
campo altrui, a volte per il "bene comune", stabilito da
chissà chi, a volte, parrebbe, per il male comune. La missione della
chiesa nasce da una vocazione. Non è chiamata a salvare o giudicare il
mondo: lo ha già fatto Gesù. Non è suo compito dare ordini
o divieti, ma indicare la via per crescere nella libertà delle figlie e
dei figli di Dio". Una platea attenta, con il ministro Paolo Ferrero
presente in forma privata, con i tre nuovi pastori da consacrare al ministero.
Una giornata di messaggi chiari. Poi, da stamattina, i 180 delegati, gli oltre
cinquanta rappresentanti venuti dall'Europa e dagli Stati Uniti, entreranno nel
cuore dei temi. Spiega Maria Bonafede, moderatore (la più alta carica)
della Tavola Valdese: "Dibatteremo dell'Ecumenismo, sulla strada da
seguire in un momento difficile, dopo le prese di posizione del pontefice. Poi,
fondamentale, la laicità dello Stato. Le Chiese diano contributi, il
più possibile, ma lontane dal far pressioni". E qui si innesta il
discorso - così attuale e spesso drammatico - sulla castità e
sessualità dei ministri di culto. Poi la pena di morte: "Le voci
non sono ancora così determinate", dice Maria Bonafede,
"occorre una risoluzione chiara e forte". Infine, i diaconi:
"Non vicepastori, ma persone impegnate nel sociale: bambini, anziani,
cooperazione e stiamo attenti alle nuove povertà, tanto dignitose quanto
reali". Questi i temi in un sala che sul fondo ha l'affresco di una pianta
tra le montagne con un libro aperto. E la scritta: "Sii fedele fino alla
morte". Una data: 1689. O si facevano cattolici o erano deportati in
Svizzera. In quell'anno Enrico Arnaud li guidò nel ritorno a casa. Da
dove scendono le voci di questi giorni.È stato un corteo breve, guidato
dal pastore Ribet. Presente il vescovo di Pinerolo, monsignor Pier Giorgio
Debernardi. Con loro Bradley G. Lewis, della Chiesa riformata in America, e Claude
Baty, presidente della Federazione protestante di Francia. Dopo il sermone, il
Sinodo ha consacrato tre nuovi pastori, tutti di trent'anni. Sono Laura Testa,
Peter Ciaccio, Armando Casarella, che hanno sottoscritto la confessione di fede
del 1655. Imponendo su di loro le mani, i presenti - pastori e laici, sempre in
parità al Sinodo - hanno invocato la benedizione del Signore.Non fanno
parte di questa Valle, storica confluenza dei Valdesi perseguitati. Laura
Testa, siciliana, è pastore a Ivrea. Peter Ciaccio (madre irlandese e
padre romano) ha per sede Fiorano Sabino e Terni. Armando Casarella
reggerà Avellino. Non provengono dall'equivalente di un seminario.
Escono dalla Facoltà Valdese di Teologia presso l'Università di
Roma. Il percorso prevede quattro anni di ateneo e poi uno di borsa di Studio
all'estero - soprattutto Stati Uniti, Germania, Sudamerica - per consentire una
pratica delle lingue che consenta poi facilità di collegamento con i
fedeli di tutto il mondo.
+ La Repubblica 26-8-2007 Bossi rilancia sulla rivolta
fiscale "Andremo fino in fondo, a tutti i costi" "I lombardi non
hanno mai tirato fuori i fucili ma per farlo c'è sempre la prima
volta". Veltroni:
"Spero che qualcuno dei suoi alleati dica parole chiare e definitive"
Inizia al Passo San Marco nella bergamasca la raccolta di firme della Lega Nord
Il Senatur: "Lotta di liberazione. Il Nord ha le scatole piene di uno
Stato delinquenziale"
+ La Repubblica 26-8-2007 La nevrosi tutta italiana
delle tasse da pagare di EUGENIO SCALFARI
Il Centro 26-8-07 RIFONDAZIONE ED AN "Costi dei
consulenti la Regione maglia nera"
L’Unità 26-8-07 Caro Ichino chi è che
spreca il denaro pubblico? Marzio Gentili.
PASSO SAN MARCO (Bergamo) -
Il Senatur, dai duemila metri del Passo San Marco in provicia di
Bergamo, rilancia la battaglia sulle imposte. E lo fa, usando toni minacciosi e
frasi sopra le righe, davanti 500 militanti della Lega alla manifestazione dove
inizia la raccolta di firme per la protesta fiscale. "Andremo in fondo -
ha detto Umberto Bossi - non ci fermeremo a metà, costi quel che costi.
La rivolta e la protesta fiscale sono parte della lotta di liberazione in atto
perchè il Nord ha le scatole piene di uno Stato delinquenziale".
La Lega Nord va avanti. "Davanti alla rapina delinquenziale
dell'estate che toglie la libertà - ha continuato Bossi - sappiamo come
reagire ed arrivare al bersaglio. La protesta fiscale non è la fine del
mondo ma una parte della lotta per la libertà".
L'avvertimento. "Se la Lombardia chiude i rubinetti l'Italia muore
in cinque giorni perché vivono con i soldi dei lombardi", avverte Bossi. E
infine si fa minaccioso e lancia parole intimidatorie: "A Roma pensano che
i lombardi siano dei pirla che parlano ma poi pagano le tasse. A loro
interessano solo i nostri soldi. I lombardi non hanno mai tirato fuori i fucili
ma per farlo c'è sempre la prima volta".
Ieri il leader della Lega aveva parzialmente corretto le dichiarazioni
precedenti e aveva precisato che il programma di protesta "procederà
per step e ne attueremo uno per volta. Prevediamo cinque-sei passaggi."
Reazioni. "Spero che qualcuno dei suoi alleati dica
parole chiare, inequivoche e spero definitive su tutte le cose: Roma, tasse e
fucile", ha detto il candidato leader del Pd e sindaco di Roma Walter
Veltroni, a margine dell'incontro avuto con il sindaco di Parigi Bertrand
Delanoe. "Sono tre cose - ha aggiunto - sulle quali c'è attendersi che
i suoi alleati abbiano qualcosa da dire".
"La migliore risposta a Bossi è il silenzio", replica al
leader del Carroccio il sottosegretario all'Economia, Alfiero Grandi.
"Questo è un problema del centro-destra - ha concluso Grandi-. Non
ci riguarda".
Ieri ho telefonato a una decina di
amici della generazione dei cinquantenni, variamente inseriti nelle professioni
e in incarichi manageriali e ho fatto due domande: qual è secondo voi il
tema più importante della vita pubblica italiana in questi giorni? E poi
(seconda domanda): qual è - secondo voi - il tema che gli italiani
ritengono più importante?
Ho posto ai miei amici queste due domande perché - dai fuochi che stanno
bruciando mezza Sicilia e devastano terre e boschi in molte altre regioni, alle
tasse, al Partito democratico, all'investitura berlusconiana di Michela
Brambilla - gli argomenti non mancano e sentivo anch'io il bisogno di ascoltare
un mio piccolo campione di fiducia.
Le risposte sono state le seguenti. Cosa pensano i miei amici:
1. Una statistica europea ha collocato il sistema sanitario italiano al secondo
posto in Europa. Per noi, che in genere parliamo della nostra sanità
come un sistema pessimo, questa è una notizia che dovrebbe stare nella
prima pagina dei giornali e delle televisioni.
2. Le tasse. E qui non c'è bisogno di spiegarne il perché.
3. Il governo, il Partito democratico e il futuro del centrosinistra.
4. Il laicismo, i Dico, la bioetica.
Quali sono - secondo i miei amici - i temi che più appassionano in
questi giorni gli italiani:
1. Il delitto di Garlasco.
2. Le tasse.
3. I piromani.
4. Michela Brambilla detta la Rossa.
Lascio ai lettori di valutare le risposte a queste due domande. Dal canto mio,
poiché il tema delle tasse figura al secondo posto di tutte e due le
indicazioni, dedicherò le mie osservazioni di oggi a questo argomento
ringraziando gli amici per la loro collaborazione che, nella sua
varietà, può stimolare l'attenzione del pubblico.
BORDER=0 WIDTH=180 HEIGHT=150 ALT="Click
Here"></A> </NOSCRIPT>
* * *
Comincerò dalla sortita in favore dello sciopero fiscale fatta pochi
giorni fa da Massimo Calearo, presidente della Federmeccanica e vicepresidente
degli industriali di Vicenza. Per le due cariche che ricopre, Calearo è
uno degli esponenti di primo piano della Confindustria. Non risulta che sia un
leghista. La sua dichiarazione è stata dunque fatta in nome e per conto
delle associazioni imprenditoriali da lui rappresentate. Perciò è
assai più seria e grave dei proclami politici di Bossi e di Calderoli.
È vero che a distanza di poche ore il vicepresidente di Confindustria,
Alberto Bombassei, ha vivacemente redarguito il suo collega vicentino e che
quest'ultimo dal canto suo ha detto che la sua era stata una "provocazione
per smuovere le acque". Ma il giorno dopo è intervenuto Montezemolo
e a quel punto l'intera questione ha cambiato livello. Ha fatto, come si dice,
un salto di qualità.
Che cosa ha detto Montezemolo? Nella sostanza ha detto due cose: anzitutto che
la "provocazione" di Calearo rispecchia i sentimenti di gran parte
degli italiani; in secondo luogo ha detto che gli industriali non pagheranno un
soldo di tasse in più a meno che non vi sia in contropartita una
drastica riduzione delle imposte che gravano sulle imprese.
Il tono è stato molto brusco e decisamente "radicale" nel
senso che di solito si attribuisce alla sinistra massimalista che usa quel tono
per affermazioni di opposto contenuto. È vero che Montezemolo, per
bilanciare politicamente la sua perentoria dichiarazione, ha aggiunto che essa
suona come condanna sia della politica economica del governo attuale sia di
quella del precedente governo Berlusconi-Tremonti. Ma questo bilanciamento si
risolve in un incitamento antipolitico che un'organizzazione semi-istituzionale
come la Confindustria non dovrebbe fare se conservasse il dovuto senso di
responsabilità e di misura.
* * *
Il ministero dell'Economia ha diffuso ieri gli ultimi dati sulle entrate
fiscali dello Stato dopo l'autotassazione di agosto di Irpef, Ires e Irap. Sono
dati molto positivi, al di là delle aspettative. In percentuale
l'aumento dei primi otto mesi dell'anno confrontati con l'analogo periodo
dell'anno precedente è stato del 21 per cento. A parità di
aliquote e di reddito. In cifre assolute sono entrati 4 miliardi in più
di quanto previsto nel Dpef dello scorso giugno e 8 miliardi in più delle
previsioni del marzo. Il risultato sarebbe stato ancora maggiore se non fosse
già stata scontata la spesa di 4 miliardi per la restituzione dell'Iva
sulle automobili delle imprese, decisa dalla Comunità europea.
Il presidente del Consiglio, commentando queste cifre, le attribuisce al senso
civico degli italiani che smentiscono con i loro comportamenti gli
irresponsabili appelli allo sciopero fiscale. E preannuncia che la prossima
legge finanziaria affronterà il tema dell'alleggerimento del peso
fiscale sulle imprese e sulle fasce di reddito più deboli.
Il vice ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, dal canto suo ha liquidato la
posizione di Montezemolo come "vacua retorica" ed ha aggiunto ai dati
sulle entrate un'analisi della situazione che merita attenta riflessione.
* * *
Dice Visco che il vero problema italiano è quello dell'evasione fiscale
di massa che egli definisce una vera e propria "pandemia". Dice che
l'aumento delle entrate fiscali - a parità di reddito e di legislazione
- è interamente dovuto al recupero di evasioni ed elusioni fiscali e che
il suo ammontare dall'inizio del governo Prodi è stato di 20 miliardi.
Dice che la lotta all'evasione va dunque mantenuta con lo stesso rigore fin qui
applicato. Dice che il governo Berlusconi-Tremonti ci aveva lasciato in eredità
una finanza pubblica prossima ad una situazione Argentina. Dice che le maggiori
entrate non hanno affatto accresciuto la pressione fiscale proprio perché
ottenute con recuperi dell'evasione, ma che comunque è venuto il momento
di abbassarla, quella pressione fiscale, in favore delle imprese, delle
micro-strutture artigianali e dei redditi più deboli. Dice infine che
molti dimenticano che l'Italia ha un debito pubblico enorme che ci costa ogni
anno 5 punti di Pil in più di quanto avvenga negli altri paesi europei.
Questo debito si formò nel decennio 1982-'92 balzando dal 57 al 120 per
cento del Pil.
Vi ricordate quegli anni? Erano quelli della "nave va" e della
"Milano da bere". In realtà dell'"Italia da bere",
innaffiata dal debito e dall'inflazione, una Bengodi che ha scaricato l'onere
sui figli e sui nipoti senza che nessuno vigilasse e desse l'allarme salvo
pochissime Cassandre (tra le quali questo giornale) inascoltate e vilipese.
Queste cose ha detto il ministro Visco, anche lui come Prodi e Padoa Schioppa
tra gli ultimi in classifica nell'opinione degli italiani. Ed ecco un altro
tema che non figura nelle risposte dei miei amici ma figura in una mia
personale classifica della disinformazione ed anche della propensione del
pubblico a fermarsi alla prima osteria senza far la fatica di approfondire e di
scegliere con più attenzione le vivande delle quali cibarsi.
* * *
Io penso che il vero grave errore del governo e della maggioranza che lo
sostiene (o dovrebbe sostenerlo) sia l'endemica disparità dei giudizi e
la molteplicità delle ricette proposte a getto continuo da ministri,
sottosegretari e capi partito, ciascuno dei quali si richiama a qualcuna delle
281 pagine di un programma elettorale in cui c'era tutto il generico dello scibile
politico sciorinato con l'intento di tenere insieme una coalizione troppo lunga
e strutturalmente disomogenea.
Ricordo a me stesso - come si dice per sfoggio di umiltà lessicale -
d'esser stato tra i primi a segnalare questo serio anzi serissimo inconveniente
dopo i primi trenta giorni dal suo insediamento parlando di "governo
sciancato", il che non mi ha impedito di riconoscere i molti meriti su
gran parte dei provvedimenti presi da allora ad oggi. Ma quel difetto purtroppo
permane, come pure l'eccesso di annunci che sarebbe assai meglio evitare
parlando soltanto dopo aver deciso e attuato le decisioni.
La rissosità governativa del resto - come ha chiarito assai bene
domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera"
- è stato proprio anche del centrodestra che, pur disponendo di
maggioranze bulgare in Parlamento, non è riuscito a muovere neppure un
piccolo passo avanti nell'attuazione del suo programma "liberale" che
Berlusconi vorrebbe rilanciare oggi fondando il nuovo "Partito della
libertà", anch'esso di pura plastica poggiata sulla figurina di
Michela la rossa.
Queste considerazioni ci portano al tema della legge elettorale e del Partito
democratico.
* * *
Walter Veltroni, in recenti e ripetute dichiarazioni, ha detto che il Partito democratico
nella sua visione dovrà rinnovare l'alleanza con gli altri partiti
dell'Unione ma al tempo stesso privilegiare l'omogeneità della
coalizione stilando un programma chiaro, concreto, sintetico.
Ove questi due obiettivi risultassero incompatibili tra loro, quello
dell'omogeneità dovrebbe avere la meglio secondo Veltroni. In tal caso
il Partito democratico sarebbe costretto a presentarsi da solo, rinviando a
dopo le elezioni il problema delle alleanze.
Credo che questo modo di ragionare sia interamente condivisibile.
L'antipolitica è un vizio antico degli italiani, ma non c'è
dubbio che essa tragga nuovo e nutriente alimento dalle risse interne alle
coalizioni, amplificate come è inevitabile dal circolo mediatico che
vive anche di questi scontri adempiendo al suo compito di controllo in nome e
per conto della pubblica opinione.
Naturalmente se questo modo di ragionare è giusto, esso dovrebbe essere
applicato anche all'interno dei partiti. Le correnti sono inevitabili e anche
utili nei partiti di ampia dimensione, a condizione che esprimano
diversità di posizioni e di tonalità, compatibili tuttavia entro
ambiti di condivisione di obiettivi e di principi.
Da questo punto di vista a molti osservatori - ed anche a me come ho già
più volte scritto - non pare che le candidature alternative a quella di
Veltroni siano portatrici di posizioni differenziate. Finora queste
diversità non risultano, il che conduce a pensare che si tratti
piuttosto di posizionamenti per acquisire maggior voce e presenza nel quadro
dirigente del futuro partito. E' un obiettivo più che legittimo in un
partito democratico, ma va chiamato per quel che è.
Ci sono però due temi specifici che il nuovo partito deve con urgenza
affrontare e sui quali è opportuno richiamare l'attenzione del candidato
principale: uno è quello dell'elezione dei segretari regionali, se debba
esser fatta il 14 ottobre insieme a quella del leader nazionale o se debba
invece avvenire successivamente, quando la Costituente del partito sarà
stata insediata e dovrà appunto occuparsi anche dell'organizzazione. Si
può sottrarre alla Costituente un tema così importante come
è il quadro regionale e i modi della sua elezione?
Il secondo tema è quello dei partiti territoriali la cui federazione
darebbe vita al partito nazionale. Finora sembra di capire che Veltroni sia
favorevole a questo schema federativo. Come osservatore esterno ma interessato
mi permetto di dissentire. Le istituzioni dello Stato è giusto che
abbiano articolazioni federali provviste di ampie autonomie culminanti nel
Senato federale e nel federalismo fiscale. Ma proprio per questo i partiti
debbono avere una propria personalità nazionale. Le articolazioni
territoriali sono ovvie e sempre esistite, ma non possono dare luogo a partiti
autonomi di scegliere alleanze non compatibili e politiche proprie come se si
trattasse di altrettanti Stati confederati.
I grandi partiti esprimono convinzioni, principi, consensi su base nazionale.
L'Italia è stata e ancora in gran parte è uno spezzatino di
interessi e di costumanze. Non spetta ai partiti di perpetuarle e di
accentuarle. Essi anzi dovrebbero avere il compito di smussarle e ricondurle ad
un concetto di unità della nazione e di visione dello Stato. Si vorrebbe
conoscere in proposito l'opinione dei vari candidati alla leadership e in
particolare quella di Walter Veltroni.
Post scriptum. Ho letto sui giornali di ieri che Vittorio Feltri è stato
insignito dal Circolo Mario Pannunzio di Torino del premio, intitolato appunto
a Pannunzio. Come vecchio collaboratore del Mondo sono molto stupito: Vittorio
Feltri è senza dubbio un buon giornalista ma non ha niente a che vedere
con la figura professionale morale e politica di Mario Pannunzio e del Mondo.
Anzi è quanto di più lontano possa mai immaginarsi rispetto al
premio dato in nome del fondatore di quell'ormai epico settimanale.
(26
agosto 2007)
ROMA
Il rincaro dei libri scolastici approda sul tavolo dell’Antitrust.
Lunedì è in programma una prima riunione di ricognizione - alla
quale parteciperà il neo segretario generale, Luigi Fiorentino - per
valutare se aprire una istruttoria sull’aumento dei prezzi denunciato nei
giorni scorsi dai consumatori.
L’allarme sul caro libri di scuola arriva così per la prima volta sul
tavolo dell’Antitrust nell’ultima riunione di agosto. Ad istruire la pratica
saranno gli uffici competenti e si esaminerà se l’aumento è
un’azione concertata delle case editrici scolastiche o se è dovuto ad
altri fattori che nulla hanno a che vedere con la concorrenza. Nel primo caso,
se emergessero dei profili problematici, si passerà dall’esame informale
ad una fase di pre-istruttoria. Poichè si tratta di un tema mai trattato
dall’Authority per le concorrenza, potrebbero essere avviate anche indagini per
studiare la tipologia del mercato dei libri scolastici, che ha caratteristiche
completamente diverse rispetto a quello degli altri libri.
A lanciare l’allarme del caro scuola erano state nei giorni scorsi le
associazioni dei consumatori. In base ai calcoli fatti da Federconsumatori e
Adusbef saranno necessari quasi 700 euro per ciascun figlio. Oltre alla
consistente spesa per i libri, stimabile intorno a 320 euro causa un aumento
del 5% rispetto alle spese del 2006, i genitori - secondo le associazioni - si
ritroveranno ad affrontare un’elevata spesa anche per il corredo scolastico.
Per zaini, diari, astucci e quaderni la spesa media complessiva, che varia a
seconda dell’età del ragazzo, sarebbe calcolata in 377 euro, con un
aumento del 7,2% rispetto al 2006. Per una famiglia, quindi, la spesa
complessiva raggiungerebbe i 697 euro, 40 euro in più rispetto allo
scorso anno, con un aumento del 5,7%.
ROMA Sono tante le iniziative promosse dai
Comuni italiani per far froten al caro libri ed aiutare le famiglie a far
quadrare i conti alla riapertura delle scuole: buoni sconto per l’acquisto di
libri alle famiglie con i redditi più bassi, rimborsi, borse di studio,
fiere dove si vendono e acquistano libri usati e persino prestiti.
Milano e Trento tra le più virtuose
L’amministrazione comunale di Milano quest’anno distribuirà a tutti
i bambini che si iscrivono in prima media (10.300) un buono di 200 euro per
l’acquisto dei libri. L’iniziativa, che si affianca alla cedola che permette
già di acquistare gratuitamente i libri alle elementari, verrà
estesa nei prossimi due anni anche agli studenti di seconda e terza media. In
Trentino i libri di testo vengono dati gratuitamente alle elementari, in
comodato d’uso alle medie; nel biennio superiore è previsto un rimborso.
Il comodato d’uso vige anche nel Friuli Venezia Giulia. A Trieste, prestiti
fino a 1.500 euro per sei mesi senza interessi sono stati messi a disposizione
delle famiglie dalla Banca di Cividale per l’acquisto di libri, materiale scolastico
e computer. Per accedere al prestito sarà sufficiente presentare un
certificato d’iscrizione. L’istituto ha anche riservato un finanziamento
promozionale fino a 3.000 euro, rimborsabili in 12 mesi, agli gli studenti del
Conservatorio per l’acquisto di strumenti musicali.
A Roma kit scolastici a prezzi speciali
Dal 20 agosto è in vendita in 200 cartolerie e nella grande
distribuzione di Roma il kit scolastico per le scuole medie ed elementari a
19,90 euro: riparte così l’iniziativa “e” Un accordo tra Comune di
Napoli e Confcommercio per i kit scolastici dovrebbe scattare la prossima
settimana. Anche in Puglia la Federcartolai ha messo in vendita kit al prezzo
di 19,90 euro. Vendite promozionali e kit personalizzati sono stati annunciati,
da metà settembre, anche a Cagliari. A Potenza i grandi centri di
distribuzione propongono sconti tra il 5 e il 10%.
Libri a casa e buoni sconto a Perugia
Al Posteshop situato all’ufficio postale nel centro storico di Perugia,
è possibile prenotare i libri delle scuole secondarie e di primo e
secondo grado, che saranno recapitati a casa. Per tutti gli ordini di un valore
di almeno 120 euro saranno consegnati buoni sconto da 20 euro per l’acquisto di
quaderni, zaini ed altro materiale scolastico. Per contrastare il caro scuola
il comune di Palermo organizza ’Scuola amica”, una campagna di sconti.
Buoni sconto in Piemonte e rimborsi in Abruzzo
La Regione Piemonte assegna buoni sconto per l’acquisto di libri alle famiglie
con i redditi più bassi: 185 euro per la prima media, 75 per la seconda
e terza media, 165 per la prima superiore, 150 dalla seconda alla quinta. Un
buono da 50 euro viene assegnato per i corsi di formazione professionale. Anche
qui si rinnova lo “scuola kit”a 19,90 euro. Per risparmiare le famiglie toscane
possono acquistare libri nuovi negli ipermercati Unicoop con sconti sul prezzo
di copertina del 15% per i soci e del 10% per i non soci. Inoltre, per venire
incontro alle famiglie meno abbienti, il comune di Firenze propone
un’iniziativa che prevede borse di studio e rimborso dei testi scolastici.
Fiere e mercatini in Veneto e a Bolzano
A Mestre dal 3 al 4 settembre si svolgerà “Libro contro Libro”, fiera
per chi vende e chi cerca testi usati. Contro il caro libri anche a Bolzano
sono attivi i mercatini di libri usati.
A Catanzaro niente sconti
Nelle librerie di Catanzaro i titolari fanno notare come il margine di guadagno
sui libri di testo sia così limitato che divenga praticamente
impossibile praticare riduzioni di costo. Nessuna traccia di kit scolastici
scontati nelle cartolibrerie molisane, mentre il comune di Genova sta valutando
le iniziative per calmierare i prezzi.
Si chiama Comitato italiano Fao, secondo i
fini istituzionali per i quali è stato creato nel 1948 dovrebbe servire
per il collegamento tra il nostro governo e l'organizzazione delle Nazioni
Unite contro la fame nel mondo ma la Corte dei Conti, dal 1990, ne chiede la
soppressione perché non idoneo allo scopo. Il collegio amministrativo del
Comitato, infischiandosene della definizione di ente inutile, alla fine del
2005 ha deliberato di chiedere al ministero dell'Economia un aumento del
contributo pubblico ricevuto dallo Stato innalzandolo dai previsti 284.051 euro
l'anno a 750 mila euro, con la motivazione di adeguarlo agli indici Istat visto
che era fermo da un po'. Facendo due conti, questo Comitato da chiudere,
è però costato ai contribuenti italiani, dal 1973 ad oggi, 8
milioni e 806 mila euro circa. Nel 2004 il suo collegio amministrativo si
è riunito una volta e nel 2005 il Comitato nazionale non ha fatto di
meglio, una volta sola anche lui. Composto da 19 membri, in rappresentanza dei
vari dicasteri e organismi interessati, è presieduto dal ministro delle
Politiche agricole e forestali, quindi (al momento) il prodiano Paolo De
Castro. I suoi dipendenti, fino al febbraio 2002, erano 3 ma poi sono stati
inglobati dal ministero e così, l'anno scorso, il Comitato Fao è
ricorso a 4 contratti di collaborazione esterni, pagati per tre collaboratori
58 mila euro ognuno e per il quarto 21 mila euro. Il Segretario generale
attualmente in carica, che è il capo dell'Ufficio rapporti
internazionali del ministero delle Politiche agricole, riceve
un'indennità di 10.329 euro annui mentre le indennità previste
per i componenti del collegio amministrativo e per quello sindacale sono di
1.558 euro all'anno. "L'atrofia funzionale dell'ente - spiega nella sua
ultima relazione la Corte dei Conti -è confermata dal numero delle sedute
degli organi collegiali. Infatti, nel 2004, l'organo supremo dell'ente, non si
è mai riunito". Anche per questo la storia del Comitato Fao,
oltreché una vicenda di spreco di denaro pubblico, è soprattutto una
parabola italiana sul provvisorio che diventa definitivo. Basta dare
un'occhiata alle sue attività per rendersene conto. Nel 2003 il
segretariato del Comitato ha curato l'organizzazione del convegno
internazionale "Il diritto all'alimentazione ed il costo della fame",
svoltosi a Roma dal 20 al 21 giugno, l'anno seguente non risultano
attività svolte, eccezion fatta per la predisposizione, da parte del
Segretario generale, di un piano per "il progetto delle attività
2004-2006". Nel 2005, in collaborazione con il ministero delle Politiche
agricole ha prodotto uno spot tv, trasmesso gratuitamente sulle reti nazionali,
ha collaborato all'Unacoma (Unione nazionale Costruttori macchine agricole)
che, con il patrocinio del ministero e del Comune di Roma, ha allestito una
mostra appunto sulle macchine agricole. Dulcis in fundo, secondo la relazione
del Segretario, ha concretizzato un memorandum d'intesa con il Sudan per
"l'addestramento di guardie forestali sudanesi". Sempre nel 2005, il
Comitato ha speso 404.739 euro per la promozione culturale e formativa relativa
agli oneri di supporto per il sessantesimo anniversario della Fao. Siccome in
quell'anno sarebbe cresciuta, almeno rispetto al biennio precedente, la sua
mole di lavoro sono aumentate pure le spese per le indennità di
missione: erano 3.471 euro nel 2002 e sono salite a 16.513 euro. E puntuale la
Corte dei Conti, oltre alla critiche di merito, ha mosso rilievi anche sul
rendiconto finanziario presentato per il 2005, sottolineando che "il
disavanzo relativo non è di 182.620 euro come indicato nel prospetto ricavato
dai dati forniti dall'ente bensì di 255.846 euro", visto che non
sarebbe stato conteggiato il debito verso lo Stato di 73.226 euro. Spulciando
poi tra le entrate correnti, salta agli occhi una curiosità: nel 2001 le
entrate per il Comitato Fao sono state di 327.996 euro, mentre gli altri anni
hanno oscillato tra le 301.381 e le 305.540. Sapete perché? Quell'anno, oltre
al contributo statale e agli interessi bancari, al Comitato avevano pensato
bene di investire un gruzzoletto in titoli di Stato che, solo di interessi, gli
ha fruttato oltre 27 mila euro. Troppo, devono aver pensato, per un ente
inutile. Massimiliano Lenzi 26/08/2007.
L'AQUILA. Partiti diversi ma stessa
critica alla Regione. E' quella fatta da Maurizio Acerbo e Marco Gelmini
esponenti di Rifondazione e dal coordinatore regionale di An, Fabrizio Di
Stefano, sul mancato rispetto da parte della Regione degli obblighi della
finanziaria nazionale sulla pubblicità dei compensi degli amministratori
di società partecipate dalla Regione. "Altro che contenimento dei costi
della politica", attacca Di Stefano, "e trasparenza negli
incarichi affidati dalla Regione: Del Turco, tra un proclama di buone
intenzioni e rivoluzioni solo annunciate, ma ben lungi dall'essere attuate,
nasconde la spazzatura sotto al tappeto e sfugge alle norme, tanto da meritarsi
le bacchettate de Il Sole 24 Ore". "Inutile sottolineare", fanno
inoltre presente Maurizio Acerbo e Marco Gelmini, rispettivamente parlamentare
e segretario regionale di Rifondazione, "che probabilmente in Abruzzo
nessun Comune, Provincia, comunità montana, nè tantomeno la
Regione hanno adempiuto a questo obbligo. La nostra Regione, oltre a non aver
reso pubbliche sul web le retribuzioni dei manager o presunti tali, è
"l'unica a richiedere il pagamento di un abbonamento per la consultazione
del Bollettino Ufficiale e la registrazione (con relativa password) per leggere
l'elenco delle leggi regionali". Fortunatamente questa situazione
scandalosa del Bura a pagamento è stata superata proprio grazie
all'iniziativa del gruppo consiliare regionale di Rifondazione. Da mesi i
nostri consiglieri Santroni e Orlando hanno presentato una proposta di legge
che prevede l'accesso libero e gratuito per tutti al Bollettino Ufficiale della
Regione Abruzzo per via informatica. Siamo lieti di comunicare", dicono
Acerbo e Gelmini, "che nel corso dell'ultimo consiglio regionale la nostra
proposta è stata approvata. Quindi grazie a Rifondazione, su questo
tema, non sarà più un caso limite". (m.p.).
C'è pure la Regione tra gli enti che
devono pubblicare i compensi degli amministratori pubblici inseriti nei
consigli di amministrazione delle proprie società partecipate. La nuova
legge finanziaria obbliga infatti gli enti territoriali a pubblicare nei propri
siti internet i dati dei compensi elargiti
(http://www.regione.veneto.it/Organizzazione+Regionale/EntiSocietaOrgani/Società/).
L'indirizzo dove reperire i compensi elargiti dal comune è invece:
http://www.comune.vicenza.it/ente/contabilità/index.php. I dati vanno
aggiornati ogni sei mesi. Complessivamente sono 900 mila euro annui lordi che
dalle casse regionali passano a quelle dei manager pubblici e tra di loro ci
sono anche alcuni vicentini. Cominciamo dall'unica donna, la vicentina Irene
Gemmo, che presiede il cda di Veneto Sviluppo: le spetta uno stipendio di 30
mila 212 euro lordi più un'indennità di carica di 3 mila 222
euro. A questi si aggiungono i 227 euro e rotti come gettone ad ogni seduta del
cda. Tra le controllate di Veneto Sviluppo c'è anche Obiettivo Nordest
il cui presidente Tiziano Ziggiotto porta a casa 51 mila 500 euro, il suo ad
Walter Ottolenghi, invece, percepisce 15 mila 500 euro. Il presidente della
società Recoaro Terme Spa, il vicentino Francesco Casa, percepisce 15
mila 493 euro lordi annui più altri 7 mila. Il consigliere Giancarlo
Lora, guadagna 5 mila 164 euro lordi (gli stessi dei consiglieri Luciano
Todaro, Massimo Piccoli e Enzo Targhetta) più un'indennità di 7
mila euro. C'è un vicentino anche nel cda di Veneto Acque, Ezio
Framarin, che percepisce 5 mila euro. Il presidente e ad Pier Alessandro
Mazzoni per il doppio ruolo incassa rispetticamente 10 mila e 70 mila euro. E
non finisce qui, il vice presidente di Finest Gianalberto Medori, che è
pure consigliere delegato, ha un assegno di 43 mila euro più i gettoni
di 258 a seduta. L'amministratore unico di Società Veneziana Ediliza
Canalgrande, Domenico Antonio Gusso percepisce 45 mila euro mentre Giorgio
Simonetto per il ruolo di presidente, di cda e comitato esecutivo e ad
percepisce 20 mila euro, più i 250 euro a gettone per ogni seduta di cda
e comitato. Nessuno però si avvicina ai compensi di Silvano Vernizzi, ad
di Veneto Strade che percepisce 160 mila euro lordi cui vanno aggiunti gli
incassi per gli incarichi di segretario regionale alle infrastrutture e
commissario straordinario del Passante (180 mila euro).
Cara Unità, sul Corriere della Sera
del 25/08/07 il Prof. Ichino si è molto compiaciuto del licenziamento di
cinque dipendenti pubblici della Provincia Autonoma di Bolzano. Alcuni di
questi casi sono di rilevanza sociale, ma la domanda è questa: come mai
il prof. Ichino da avvocato della Camera del Lavoro di Milano e strenue
difensore dello statuto dei lavoratori, è passato a lanciare la canea
contro i pubblici dipendenti, che in tantissimi casi e con
professionalità erogano servizi anche ottimi ai cittadini, e che non
hanno nessuno riconoscimento economico e professionale da parte delle pubbliche
amministrazioni. Come mai non parla dei boiardi di Stato, vedi Cimoli, Catania,
che rispettivamente hanno rovinato Trenitalia, e poi Cimoli ha rovinato
l'Alitalia, prendendo liquidazioni di milioni di euro? Questa è la
classe dirigente italiana, che spreca il denaro pubblico e il governo fa finta
di niente. Perché non licenziano questi Lor Signori? Perché prendersela con i
poveri cristi che guadagnano mille euro al mese? Perché purtroppo oggi e in
questo contesto politico si fa a gara a chi è più liberista e
reazionario, perché cosi rende, e la sinistra sia a livello culturale che
politico è sempre assente. E dire che nella pubblica amministrazione i
casi sono sempre pochi di chi effettivamente non vuol fare il proprio dovere.
Che tristezza, che amarezza, questa è l'Italia di oggi. Vittorio Marchio
Viva le tasse (vedi alle voci sanità e scuola...) Cara Unità, la
caduta della Prima Repubblica ha portato ad un crollo del dibattito politico in
Italia, ormai quasi sempre focalizzato dall'unico argomento capace di fare
audience: l'abbassamento delle tasse. Gira con insistenza l'idea che la spesa
pubblica sia insostenibile, soprattutto a fronte dei servizi offerti al
cittadino. In altre parole, la gente ha la sensazione di essere derubata. Nel
film-documentario "Sicko", che consiglio fortemente a chiunque abbia
un reddito inferiore ai 100.000 euro annui e sia convinto che la trasformazione
della nostra società in stile neo-liberal americano sia auspicabile, ad
un certo punto viene mostrata la classifica mondiale relativa all'assistenza
sanitaria pubblica: l'Italia è seconda, dietro alla Francia. Il
significato è chiarissimo: non veniamo derubati quando paghiamo le
tasse, ma contribuiamo ad un sistema sanitario assolutamente
eccellente. Anche se non conosco la classifica relativa, sono convinto che
l'Italia farebbe un figurone anche in termini di scuola pubblica. Ora, è
mai possibile che nessun politico, per lo meno nell'attuale governo, sottolinei
questo risultato straordinario, dimostrando così ai cittadini che i loro
soldi non sono affatto buttati via? Inoltre, ricordare una tale classifica
permetterebbe di azzittire l'enorme quantità di politici qualunquisti e
poco informati che sanno solo dire che "la sanità (la scuola) in
Italia non funziona" Sono sicuri di avere la ricetta per migliorare un
servizio che appare al secondo posto nel mondo? In pochi ci crederebbero Credo
che un discorso in cui si ringrazino i cittadini per il loro contributo annuale
alla costruzione di una società che è capace di eccellere a
livello mondiale in settori chiave potrebbe creare una coscienza civile e un
orgoglio in grado di mitigare la rabbia per il livello di tassazione. E, credo,
farebbe anche audience. Chissà, forse la possibilità di
"battere" la Francia e diventare "campioni del mondo",
potrebbe anche fare sopportare la tassazione delle rendite al 20%... Francesco
Montalenti Veltroni al Pd: ero perplesso ora mi ha convinto Cara Unità W.W.
sta per viva Walter. Se avevo qualche perplessità sulla candidatura di
Veltroni e, soprattutto, sul ruolo che può svolgere per orientare nel
modo giusto la sempre più confusa fase costituente del Pd, le lettere
che ha pubblicato recentemente su tutti gli aspetti più delicati del
significato di questa operazione (per il Paese e non per i partiti
"sciolti") e anche le considerazioni rivolte allo stile da seguire
nel dibattito tra i candidati (trovare prima di tutto quello che unisce e poi
impegnarsi nel marcare quello su cui non si è d'accordo) mi hanno
convinto che è la persona con le idee più chiare ed efficaci tra
i politici di professione. Del resto ho condiviso la sua battaglia per l'Ulivo
quando era segretario dei Ds (nel 1999) prima che il serrate le fila della
guerra del Kossovo dall'altro ne neutralizzassero la spinta innovativa, tanto
che solo lasciando la segreteria e diventando sindaco di Roma ha potuto
acquistare spessore e prestigio. Quanto alla reazione della Bindi mi pare del
tipo di chi, se gli indicano la luna, guarda il dito: in questa fase
"storica" occorre volare alto e Veltroni, facendolo, interpreta un
sentimento diffuso di chi, nonostante tutto, si sta impegnando per far
decollare nell'elettorato di centrosinistra l'interesse per questa impresa.
Benedetto Tilia La tragedia di Amalfi e il silenzio dell'ambientalismo Cara
Unità, il tragico incidente che ha provocato la morte di una persona ad
Amalfi ha portato all'attenzione dei media il grave problema dell'abusivismo
edilizio in Italia. O meglio, ci ha ricordato quanto questo fenomeno sia
tollerato nonostante leggi molto specifiche. Purtroppo ci vuole quasi sempre il
morto perché ci si accorga dei danni che la mancanza di applicazione delle
norme può causare. Sono impressionanti le foto della costiera amalfitana
simile ad un vespaio di scale, terrazzi, tettoie, capanni ed altre costruzioni
che deturpano uno dei paesaggi più belli d'Italia. Mi sarei aspettato un
intervento di qualcuno fra i tanti che nell'ambientalismo hanno trovato
finalmente un cono di luce sotto cui sistemarsi. O anche una seconda
giovinezza, come il professor Asor Rosa, creatore del caso del cosiddetto
Ecomostro di Monticchiello, in Toscana. Come mai lui ed i suoi comitati non si
occupano di Amalfi o dei tanti obbrobri italiani? Sarà mica perché Alberto
Asor Rosa la casa c'è l'ha in Val D'Orcia e non sulla Costiera? Carlo
Sabatini Il caso Garlasco ovvero il corto circuito della cultura televisiva
Cara Unità, sono esterrefatto per il comportamento delle televisioni nel
caso dell'omicidio di Chiara. L'altra sera, al Tg1, ho visto una selva di
microfoni inseguire il fidanzato con una ferocia imbarazzante. È una
spettacolarizzazione giunta al parossismo. È la televisione che porta
due ragazze come le cugine di Chiara a comportarsi come aspiranti veline appena
annusano la vicinanze delle telecamere, è la televisione che trasforma
un terribile delitto in un reality show, è la televisione che inonda
l'ambiente circostante con il suo odore nauseabondo facendo accorrere
personaggi inquietanti come Fabrizio Corona. E per l'ennesima volta l'Italia
dà una pessima immagine di sé.
"È NECESSARIO educare alle
domande, quelle vere che sono proprie dell'umanità di sempre e che
attraversano l'intera storia umana. Domande, che oggi sono soffocate ma non
spente dalle ceneri dell'apparenza, dell'utile eretto a sistema, dell'emotività,
delle sensazioni forti, e che devono essere fatte emergere dal mondo inferiore
di ciascuno". A dare il "la" sono state le parole, pronunciate
in occasione dell'inaugurazione dell'Anno giudiziario 2007 del Tribunale ecclesiastico
ligure, dello stesso arcivescovo Angelo Bagnasco: diventare bravi non tanto a
dare risposte, ma a far sì che il prossimo risvegli in sé domande che
oggi nessuno si pone più. Queste parole, questo modo di pensare, sono
diventate un'iniziativa mai messa in campo dalla Diocesi di Genova: un corso
per "evangelizzatori degli adulti", laici e religiosi che dovranno
impegnarsi e prepararsi a dovere per portare in chiesa chi oggi ne è
lontano anni luce. "Il corso è rivolto agli adulti che lavorano
nelle nostre parrocchie, agli operatori pastorali e ai sacerdoti, ma anche a
chi, come gli operatori sanitari, si ritrova a essere vicino alle persone in
momenti importanti come una nascita o tragici come una morte - racconta don
Gianfranco Calabrese, direttore dell'ufficio catechistico della Diocesi e
responsabile dell'iniziativa - Momenti che scatenano dubbi e interrogativi
anche e soprattutto in chi non crede. In questi momenti, da cattolici,
si ha il dovere di avvicinarsi a queste persone. Non sempre, però, si ha
la preparazione per farlo nel modo giusto". Il corso si terrà dal
16 di ottobre al 29 gennaio presso il Centro Banchi (vico delle Compere 26,
telefono 010-2472506) sempre al martedì dalle ore 20,45 alle 22,30. A
ogni incontro un relatore diverso, persone che hanno maturato in diversi
ambienti un'esperienza non da poco in tema di relazioni umane e
spiritualità. Per don Calabrese essere cristiani, nella
complessità della situazione contemporanea, "richiede preparazione
culturale, dottrinale ed ecclesiale, perché il mondo oggi va prima di tutto
compreso, poi però bisogna andare al di là di ciò che si
vede e capirne i fondamenti, soprattutto quelli che riguardano
l'esistenza". Prima di tutto il corso, articolato in lezioni, avrà
il compito di imparare a formulare il "primo annuncio". "Nelle
chiese - spiega don Gianfranco - Ma anche negli ospedali e in altri ambienti di
vita, si presentano persone attratte dal Vangelo. A queste persone bisogna
imparare a dare il primo annuncio, il primo assaggio di quello che la Parola di
Dio può fare". La Diocesi genovese non ha fatto altro che
concretizzare, prima in Italia, alcune indicazioni uscite dal Congresso
ecclesiale di Verona. Rivolgersi a chi non crede ma sente il bisogno di trovare
Dio. Perché vive un'esistenza priva di significato, perché si sente da sempre
attratto dal messaggio ma non è mai entrato in chiesa, perché ha subito
la perdita di un figlio e cerca un senso a ciò che sembra non averne.
"Ma non ci sono soltanto esempi "estremi" - dice don Calabrese -
Ci sono occasioni ordinarie come gli incontri, nelle parrocchie, dei genitori
delle prime comunioni e dei battesimi, i corsi di preparazione ai matrimoni.
Persone che spesso si avvicinano a questi eventi spinte dalla tradizione. Da
tradizione a scienza, questo è il passo che dobbiamo insegnare oggi a
compiere". Scriveva Tertulliano: "cristiani non si nasce, ma si
diventa". A lavorarci saranno i nuovi evangelizzatori. 26/08/2007.
La Stampa 25-8-2007 E' una svolta della
mentalità Così diventeremo un Paese normale
Italia Oggi 25-8-2007
Altro oro alla patria. Boom delle Entrate. di Franco Bechis
ROMA. I sindacati dei dipendenti pubblici non
fanno una piega: il licenziamento di cinque dipendenti della Provincia autonoma
di Bolzano "è una falsa notizia" e dimostra soltanto
che i licenziamenti nella pubblica amministrazione sono già oggi
possibili, sulla base delle normative attuali e senza bisogno di leggi
speciali. E sono tutti d'accordo, Carlo Podda (Cgil), Salvatore Bosco (Uil) e
Rino Tarelli (Cisl) su un altro punto: il problema della pubblica
amministrazione non è questo, ma semmai di modernizzare e valorizzare le
professionalità presenti. La circostanza che ha portato al licenziamento
di un bidello, un operatore informatico e altri tre lavoratori tutti dipendenti
dell'amministrazione provinciale dell'Alto Adige non è passata
inosservata. A conferma che quando viene applicata la sanzione estrema del
licenziamento si è in presenza di una "notizia", e la notizia
in qualche modo vale doppio se proviene da una terra che ha sempre coltivato il
mito dell'amministrazione "teresiana" e asburgica fatta di solerzia,
dedizione e insomma di grande senso civico. L'assessore al Personale del Comune
di Torino, Beppe Borgogno, a capo di una macchina composta di 12.375
dipendenti, trova giusto il provvedimento "per i casi conclamati di
fannullaggine", non foss'altro per il rispetto dovuto ai cittadini che finanziano
con i loro soldi l'amministrazione pubblica. Il punto, per Borgogno ma anche
per altri suoi colleghi, è il ringiovanimento del personale, l'arrivo di
forze fresche e motivate. La pensa così Federico Gelli, vice presidente
della Regione Toscana con delega al personale. Più che pensare a un
quadro punitivo, la Toscana si sta preoccupando "di fare un'attenta
campagna acquisti, immettendo nei propri uffici dipendenti giovani e motivati,
magari provenienti da situazioni di precariato. Si ottiene di più, anche
come risparmio di risorse, da attente procedure di selezione del personale, da
un'intelligente organizzazione delle mansioni e dalla capacità di
motivare e di incentivare, tutte cose a cui stiamo lavorando e che saranno
contenute nel nostro prossimo piano occupazionale".
Domande a Pietro Ichino docente
universitario "E' una svolta della mentalità Così
diventeremo un Paese normale" 3 Professor Pietro Ichino, lei che da
tempo si è fatto promotore di una campagna contro i
"nullafacenti", come giudica i licenziamenti di Bolzano? "Se
fossimo un Paese normale il fatto che un'amministrazione pubblica si comporti
come un qualsiasi datore di lavoro nei confronti dei dipendenti, non sarebbe
una notizia: è del tutto ovvio. La realtà è che in Italia,
nel settore pubblico, di fatto il licenziamento disciplinare scatta soltanto
come sanzione accessoria in caso di condanna a molti anni di reclusione. Per
questo, un caso come quello di Bolzano fa notizia ed è giusto che lo
faccia: segna un'opportuna inversione di tendenza". Anche perchè i
sindacati non si sono opposti e hanno ritenute giuste le decisioni dei
dirigenti della Provincia. E' un cambio di rotta significativo? "Bisogna
distinguere: i sindacati confederali denunciano da tempo l'inerzia della
dirigenza pubblica. Ma ora dovrebbero acconsentire alle modifiche dei contratti
collettivi, necessarie per riattivare prerogative dirigenziali troppo
complesse. Nei sindacati autonomi, invece, prevale un atteggiamento di totale
disimpegno rispetto all'esigenza di riattivazione del potere direttivo e
disciplinare dei dirigenti pubblici". Diversi assessori regionali e
provinciali hanno applaudito i licenziamenti di Bolzano, come esempio di
rispetto nei confronti dei cittadini. Che cosa si dovrebbe fare per non
lasciare questo episodio isolato? "Si deve auspicare che si cominci a
chieder conto del raggiungimento degli obiettivi fissati a tutti i dirigenti
pubblici, in modo che siano costretti a recuperare le prerogative cui hanno
abdicato in passato e che incomincino a esercitarle. In realtà negli
ultimi mesi si sono verificati altri casi simili, in amministrazioni sia locali
sia statali: alcuni settori della dirigenza pubblica hanno reagito
positivamente al dibattito dell'ultimo anno su questo tema e hanno cominciato a
esercitare le loro prerogative in modo più incisivo".\.
"Non siete messi male come noi negli
Usa", dice il regista. "Almeno non dovete vendere casa per pagare
l'ospedale" di MARCO SASSANO ? ROMA ? A MICHAEL MOORE, il
documentarista-polemista più famoso del mondo, non interessa più
prendersela con Charlton Heston per la diffusione tra i giovani delle armi da
fuoco o con il presidente Bush per la guerra in Iraq: "In questo momento -
dice - molti repubblicani mi fermano per strada e si scusano per avermi
fischiato quando li ho accusati di averci mentito sulle armi di distruzione di
massa. Ora mi trovo a far parte della maggioranza". L'obiettivo di Moore
è il sistema sanitario americano, il più caro al
mondo, ma al tempo stesso il 37° nella graduatoria dell'Organizzazione mondiale
della sanità. Da ieri, in 250 sale italiane, il suo nuovo
documentario-inchiesta, "Sicko", è in programmazione sperando
di ripetere il successo di "Fahrenheit 9/11" quando il Belpaese fu al
secondo posto per gli incassi dopo il Giappone. MICHAEL MOORE, senza più
barba e baffi e per questo ancora più grasso come fu il giovane
Pavarotti, arriva alla romana Casa del Cinema a Villa Borghese per la
presentazione della sua nuova fatica. Ha uno sgargiante cappellino rosso in
testa e non se lo toglie nemmeno quando saluta il ministro della Salute, Livia
Turco, tutta contenta di poter presenziare a un atto in cui si dichiara che il sistema
sanitario italiano è il secondo del mondo dopo quello francese,
come se non avessero peso le dure foto pubblicate questa settimana da
"Panorama" sugli ospedali campani. "Certo il nostro Servizio sanitario
ha i suoi problemi: migliorarlo è il mio lavoro quotidiano",
ammette. Il regista spara ad alzo zero sul sistema americano che tiene
cinquanta milioni di persone senza nessuna copertura e che obbliga la
maggioranza delle altre a sottostare alle clausole capestro delle
assicurazioni. Spiega: "E' enorme il numero delle persone che da noi ha
subito un crack finanziario per i costi assicurativi della sanità
e molti hanno perso la casa perché l'ospedale gliel'ha tolta. Se siete capaci,
presentatemi un solo italiano a cui hanno tolto la casa per poter pagare il
costo dell'ospedale". "Certo - aggiunge - avete il problema delle
lunghe liste d'attesa, ma voi non eliminate nessuno. Non dite: Siete poveri,
fuori dalla fila! Quindi se voi non eliminate i poveri dalle liste d'attesa
sarete costretti ad aspettare. La verità è che voi ascoltate
troppo quel tizio che si chiamava Gesù. Dovete spiegarmi perchè
vivete più a lungo di noi che siamo i primi in tutto, i più
forti. E' impossibile che voi possiate diventare più vecchi". UN
ATTIMO di pausa in questa alluvione di parole ed ecco un fendente contro Silvio
Berlusconi e il suo governo, considerato da Moore troppo amico di quello del
presidente Bush: "E' anche vero che voi italiani siete stati governati
negli ultimi anni da un governo di centrodestra, quello di Berlusconi, che
cercava di imitare gli Usa e ha ridotto i finanziamenti al sistema
sociale e sanitario lasciandovi in una condizione non ottimale e ora il
governo attuale deve risolvere il casino che è stato lasciato. Ma questo
io, che non sono italiano, non lo potrei dire. La verità è che il
sistema Italia è sottofinanziato: invece di finanziare con gli
Stati Uniti delle guerre illegali sarebbe meglio finanziare la sanità
pubblica". PARLANDO del suo modo di fare del cinema e della sua
capacità di denunciare, con l'arma dell'umorismo, le piaghe sociali, il
regista spiega: "L'umorismo è necessario soprattutto nei momenti
oscuri. E' un modo per alleviare le sofferenze e aiutare ad ammalarsi
meno". A questo punto cita i film di Sabina Guzzanti che gli piacciono
molto: "Ho scoperto di avere una sorella gemella. Abbiamo parlato e dico che
mi piacerebbe fare un tour dell'Italia insieme a lei. Ovviamente non in
vacanza". Ieri sera, la Guzzanti lo ha accompagnato al cinema 4 Fontane
per la prima di "Sicko". Parlando della vittoria di Nicolas Sarkozy
in Francia Moore si infiamma e dice: "Per voi che una socialista prenda il
46% dei voti è una sconfitta: per noi è una cosa che manda al
manicomio. Basta piagnucolare: esiste una forza oscura che è il
capitalismo americano e noi dobbiamo cercare di bloccarla. La gente prima o poi
si stanca di questi uomini d'affari al potere che non hanno a cuore l'interesse
della gente e se ne libera. E' successo già qui da voi e in
Inghilterra". Dice la sua sulle pensioni ("Se i nostri figli non
avranno la pensione è solo perché non sono stati tassati abbastanza i
ricchi") e sulle ferie: "Gli americani si ammalano molto anche perché
lavorano troppo. I francesi, ad esempio, lavorano meno ore e sono più
produttivi. Certo in America puoi anche avere più ferie, solo che non te
le pagano". Il suo prossimo lavoro? "So già benissimo quale
sarà, ma non vi dico niente perchè, se ve ne parlassi, non me lo
farebbero più fare".
Quattro mld di nuovo tesoretto da buttare
via Macché sciopero fiscale. Come sempre gli italiani hanno portato più oro
alla patria. Per la seconda volta in un anno Romano Prodi e Vincenzo Visco si
ritrovano fra le mani un tesoretto (questa volta 4 miliardi di euro di entrate
impreviste) buono per essere buttato via alla prossima legge finanziaria. Non
solo i contribuenti hanno conservato il tradizionale patto di lealtà con
lo Stato, piegando la testa anche quando contrari, ma si sono dovuti ricevere
in ringraziamento ieri la beffa del premier. "Visto che le aliquote non
sono cambiate, significa che gli evasori sono stati costretti a pagare",
ha subito chiosato Prodi i primi dati sulle entrate straordinarie. Con una
doppia gaffe. Primo, la Finanziaria 2007... (...) ha cambiato sì le
aliquote, e non di poco. Secondo: mai esporsi troppo commentando i dati sulle
entrate, perché dopo mesi le analisi reali potrebbero dire l'esatto contrario.
Oggi manca qualsiasi elemento sicuro per potere discernere quel che è
arrivato dalla crescita del pil, quel che è legato all'aumento della
pressione fiscale e quel che invece è puro recupero dell'area di
evasione. L'unico dato certo finora viene dal decreto spandi-tesoretto di
inizio estate, che per fortuna non in grandissima parte, ha dilapidato il
surplus fiscale fin lì ottenuto in mille rivoli buoni soprattutto per
tenere al guinzaglio gruppuscoli della maggioranza di governo. Altra certezza:
ieri non erano ancora stati battuti i lanci di agenzia completi sul nuovo
tesoretto, che già se lo spartivano gli stessi gruppi, chiedendo nella
migliore delle ipotesi marce indietro su pensioni e welfare, e cioè
sugli unici accordi striminziti faticosamente chiusi a luglio dal governo dopo
mesi di concertazione.Il tesoretto continuo scoperto come una sorpresa
dall'esecutivo è in realtà la prova di quel che tutti gli
istituti internazionali avevano già certificato: in Italia la pressione
fiscale è salita in modo vertiginoso fino a battere ogni record di
classifica. A fine anno, per le politiche opposte dei due paesi, con ogni
probabilità anche quella Francia che la precedeva, le passerà
alle spalle. Per i conti pubblici del Paese per altro le maggiori entrate non
hanno nemmeno avuto l'effetto benefico atteso. I tesoretti sono entrati da una
parte e purtroppo sono usciti perfino con gli interessi dall'altra. Il rapporto
deficit/pil non è mutato nonostante i ripetuti extra-gettito annunciati.
Nessun intervento è arrivato a contenere i grandi aggregati della spesa
pubblica che purtroppo si sono ancora una volta gonfiati. L'accordo sulle
pensioni riduce una previsione di risparmio del governo precedente, e aumenta
la spesa pubblica. Di tagli alla pubblica amministrazione nemmeno l'ombra: gli
stipendi pubblici sono cresciuti ancora rispetto agli anni precedenti. Lo
squilibrio di un paese che per metà si svena per rispettare il patto con
il fisco e per metà vive di rendita utilizzando quel sangue, è
evidente ed irrisolto. Ma forse una soluzione ci sarebbe, e nemmeno tanto
difficile da realizzare. Invece di sprecare tante parole sui costi della
politica e sui mega progetti di riduzione, basterebbe una sola modifica:
cancellare la norma di legge che lega le indennità parlamentari a quelle
sui magistrati. E stabilire un nuovo parametro inversamente proporzionale: gli
stipendi di deputati e senatori salgono o scendono secondo l'andamento della
spesa pubblica. Cresce la spesa del 5%? Scendono le indennità
parlamentari della stessa percentuale. Si taglia la spesa del 10%? Subito
l'aumento di stipendio a tutti gli onorevoli d'Italia. Con i complimenti del
caso: a mettere nuove tasse e fare crescere le entrate è buono anche un
bimbo. Fare rientrare costi di sanità, pensioni, pubblica
amministrazione, è compito di un politico con i fiocchi
"La Costituzione americana del 1787
lasciò aperta la questione della schiavitù, questione non piccola.
Noi abbiamo lasciato aperta una quantità di questioni irrisolte molto
minore di quella che ha permesso di creare il primo Stato federale della
storia". Il Consiglio dei ministri aveva appena approvato, il 3 agosto, il
progetto di legge sul federalismo fiscale e Tommaso Padoa-Schioppa commentava
così i molti contrasti che lo hanno accompagnato. E messa così,
è come lui dice. Anche se sarebbe stato meglio se il progetto avesse
già incassato il consenso della Conferenza di regioni, province e comuni
(che invece, non si è potuta neppure riunire per il rifiuto dei comuni).
Comunque, ha ragione il ministro dell'Economia. La ripartizione dei soldi
pubblici fra Stato, regione e comuni è una grande questione
costituzionale. Anzi: la più spinosa che ci sia. Di fronte ad essa,
tutte le altre di cui tanto si sente parlare diventano secondarie. Legge
elettorale, referendum, democrazia nei partiti, coalizioni e fusioni
politiche, poteri del premier e così via: sono certo cose assai
importanti ma, a ben vedere, riguardano la nostra forma di governo. Il
federalismo fiscale riguarda invece la nostra forma di Stato. Cioè la
maniera con cui si dividono e si intrecciano le decisioni tra la capitale politica
e i centri territoriali; i rapporti tra le regioni e le minori comunità
locali; la disponibilità delle risorse finanziarie per i servizi
pubblici; e, infine e in principio, la garanzia uguale dei diritti civili e
sociali dei cittadini. Per dirla in altri termini, la vita quotidiana degli
italiani non cambia molto se il sistema elettorale è maggioritario o
proporzionale, "alla tedesca" o "alla spagnola"; oppure se
si forma un grande partito di centro-sinistra, con le "primarie", o
una grande confederazione di centro-destra, per volontà sovrana. Il
"giorno per giorno" dei cittadini risente invece, moltissimo, del
livello di efficienza dei servizi pubblici come sanità, scuola e
trasporti e del grado di vivibilità delle città. Perciò la
"Costituzione della vicinanza" è come una rete che accomuna
tutti ed ognuno. I suoi nodi sono: la quantità di soldi del contribuente
che possono essere spesi dai sindaci e dai "governatori" di regioni;
le entrate che i governi territoriali si possono procurare con imposte proprie
senza attenderle dallo Stato; la trasparenza dei conti e del rapporto tra dare
(al fisco "vicino") e avere (in servizi); la misura giusta e
controllabile degli aiuti tra le regioni secondo il principio di
solidarietà nazionale. Come il Dna, il progetto del governo ha una
doppia elica. Quella del decentramento fiscale: che disegna un sistema di
tributi propri dei governi territoriali, autonomi rispetto a quelli dello Stato
ed operanti "nelle materie non assoggettate a imposizione da parte dello
Stato". L'altra elica è quella del coordinamento complessivo della
finanza pubblica e del sistema tributario. In certi punti le due eliche si
intrecciano e sono lì le cinque questioni aperte del nostro federalismo
fiscale. Questione numero uno. La tenuta complessiva del sistema delle entrate
e delle spese pubbliche ("nel rispetto dei vincoli derivanti
dall'ordinamento comunitario" come dice la Costituzione). E' giusto che
sia la prima questione. Anche negli Stati di federalismo "maturo" sta
suonando l'allarme sugli impedimenti, le nicchie, i privilegi che ogni sistema
di assolutismo federale ha tendenza a produrre. Il coordinamento complessivo
del sistema tra finanza centrale e finanza territoriale è affidato dal
progetto ad una legge "collegata" alla legge finanziaria statale.
Essa sarà presentata, ogni anno, assieme al Documento di programmazione
economico-finanziaria. In questo modo il Parlamento potrà fissare sia i
saldi e il tetto all'indebitamento delle istituzioni territoriali sia
soprattutto il livello della pressione fiscale, ripartito tra i tributi del
governo centrale e quelli dei governi locali. Nessuno può contestare che
spetti al Parlamento stabilire l'equilibrio finanziario nazionale. E che non vi
debbano essere entrate o spese "periferiche" che sfuggano al suo
occhio. L'euro circola infatti dappertutto, da Bolzano a Palermo. E non vi
possono essere regioni "speciali" che si sottraggano alla
responsabilità per la sua tenuta. Questa dipende infatti anche dalla
buona gestione del conti pubblici della nostra Repubblica, tutta intera.
Preoccupa perciò che, per cautela costituzionale forse oramai eccessiva,
il progetto rimandi, per le regioni speciali, questa esigenza di coordinamento
generale alle norme di attuazione dei loro "statuti". Non è
così che si bloccheranno i tentativi di migrazione dei comuni delle
regioni confinanti con quelle "speciali" (il referendum per Cortina
d'Ampezzo si farà il 24 ottobre?). Questione numero due. La
perequazione: cioè gli aiuti dello Stato e delle regioni più
ricche ai territori "con minore capacità fiscale per
abitante". La Costituzione garantisce infatti, per tutto il territorio
nazionale, sia i "livelli essenziali" dei diritti civili e sociali,
sia la copertura "integrale" delle funzioni amministrative
fondamentali che incidono direttamente sulla vita dei cittadini. Il progetto
dice che lo Stato farà la sua parte con l'istituzione di tre "fondi
perequativi": per le regioni, per le province, per i comuni. Ma le
difficoltà si annidano negli aiuti orizzontali fra regioni e regioni. Le
regioni "ricche" hanno naturalmente i mezzi per coprire tutte le
funzioni che la Costituzione attribuisce loro. Inoltre possono chiedere al
Parlamento di svolgere e finanziare altri compiti ora riservati allo Stato.
Quello che non possono fare è tenersi, a loro uso e consumo, tutti i
soldi riscossi nel loro territorio. In ogni caso non possono sfuggire, secondo
il progetto, alle "esigenze di perequazione". Ma anche per le regioni
" che ricevono" si pone un problema di responsabilità
nazionale. Certo, i soldi del fondo perequativo sono costituzionalmente
"senza vincolo di destinazione". Ma la Costituzione non dice che sono
anche senza vincoli di rendiconto. In Paesi più attenti del nostro alla
spesa pubblica, chi dà i soldi pretende lo spending review e
l'accountability. Cioè: fammi vedere come hai speso i "miei"
soldi, e se non li hai spesi bene, non te ne do più. Le regioni
"che danno" se chiedessero anche da noi un meccanismo di controllo
(sanzionatorio) di questo tipo non solo sarebbero nella legittimità
costituzionale, ma farebbero cosa utile per l'intero Paese. Questione numero
tre. La certezza dei dati numerici. Il progetto di federalismo fiscale è
un progetto matematico. Le formule giuridiche in esso contenute rimandano
continuamente a cifre. Deve essere "cifrato", con variazioni annuali,
l'equilibrio istituzionale tra Stato e governi territoriali. E devono essere
calcolati: i costi standard per i servizi essenziali; gli indici di
fabbisogno finanziario; il mix tra tributi locali, addizionali ai tributi
statali e quote "perequative"; il costo delle "funzioni fondamentali"
e così via. Essenziale appare allora l'individuazione
dell'autorità pubblica che dovrà compiere, in maniera
incontestabile, questi complessi calcoli. L'Istat certo e in primo luogo, per
il suo prestigio nazionale ed europeo (in Eurostat). Ma in vista di tutto
questo, su un terreno di naturale conflittualità di interessi, sarebbe
bene farlo diventare un super- Istat con più nitide garanzie di
indipendenza, se non con la sua "costituzionalizzazione". Questione
numero quattro. Il rapporto tra regioni e comuni. E' zona di guerra tra le
nostre due storiche istituzioni territoriali. Guerra dura ma pura: per una
volta destra e sinistra non c'entrano niente. Si scontrano due ragionamenti e
non due schieramenti. Le regioni fanno valere due vincoli costituzionali da
rispettare. Il primo è il principio generale che i tributi possono
essere imposti solo "in base alla legge" (qui: legge regionale). Il
secondo è che le regioni concorrono con lo Stato " al coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario". I comuni ricordano la
specialità della norma costituzionale per cui anche essi hanno il potere
di "stabilire" ed "applicare" tributi propri. E ricordano
la pari dignità che la Costituzione riconosce a regione e comuni nella
gestione della propria autonomia. Il progetto non è riuscito a trovare
formule d'equilibrio. Né quando, per il coordinamento fiscale, prevede che le
regioni possano "istituire tributi locali" (e non solo, com'è
giusto, "determinare le materie nelle quali i comuni possono stabilire tributi
locali"). Né quando, per il coordinamento della finanza territoriale,
prevede che i comuni siano divisi in due fasce per popolazione. Nella fascia
superiore il coordinamento, anche attraverso il fondo perequativo, spetterebbe
allo Stato. Per i comuni con meno abitanti, spetterebbe alle regioni. Divisione
certo arbitraria e di macchinosa gestione (a cominciare dalla determinazione
delle due fasce). Detto questo è però anche chiaro che la
possibilità per i nostri comuni di evitare il temuto "centralismo
regionale" passa per la loro riduzione numerica, almeno per poter svolgere
determinate funzioni: 8000 comuni (di cui 7 mila con meno di 10 mila abitanti)
sono una enormità. E allora sia che si tratti di gestione di servizi
(come sta prevedendo il "codice delle autonomie" all'esame
parlamentare) sia che si tratti di poteri fiscali e finanziari, la stessa
nozione di "comune" va ristretta. E per "comune"
dovrà intendersi, ai soli fini della legge sul federalismo, una entità
municipale singola o aggregata, con almeno 15 mila abitanti (fermo restando
sotto ogni altro aspetto l'identità storica di tutti i comuni e le loro
funzioni tradizionali). Questione numero cinque. Il Senato. Cioè il
problema dei problemi. Perché è evidente che nessuna delle questioni
irrisolte potrà comporsi se non in un luogo dove i rappresentanti delle
autonomie territoriali abbiano effettivi poteri di co-decisione. Questo
progetto ha segnato anche il punto di estrema crisi e quasi di irrilevanza
della Conferenza Stato-istituzioni territoriali, del cui consenso ha potuto
fare a meno. Eppure è proprio dalla Conferenza Stato-istituzioni
territoriali, un organo con 30 anni di esperienze, che si deve cominciare,
andando contromano, per costruire un Senato-casa delle autonomie. Un Senato con
funzioni federatrici. Perché in un Paese con fortissime autorità
territoriali (a cominciare dalla elezione diretta del sindaco e dei
"governatori") non ha alcun senso che esse siano prive di voce e
poteri diretti nel sistema parlamentare. E, come nel Bundesrat tedesco, la voce
più autorevole deve essere quella dei governi territoriali. L'invenzione
del nuovo Senato passa dunque per la "parlamentarizzazione" e la
"costituzionalizzazione" della Conferenza; con i "governatori"
di tutte le regioni, i sindaci delle nove "città
metropolitane" e i rappresentanti dei presidenti delle province e degli
altri ottomila comuni. E in più, non più di cento senatori eletti
direttamente nelle regioni o con elezioni di secondo grado dai consigli
regionali. Del nuovo Senato nel progetto, per ovvie ragioni tecniche, non si
parla. Ma le ragioni politiche dicono che è questo il punto in cui la
"Costituzione della vicinanza", espressa nei complicati meccanismi
del federalismo fiscale, deve congiungersi con la Costituzione parlamentare di
un Paese che funzioni. Ha fatto dunque bene il governo a forzare la mano e a
portare il progetto in Parlamento, rompendo un abbandono dei temi
"federali" che durava dal 2001. Certo, non c'è una questione
aperta come quella della schiavitù nell'America del 1787. Ma ci sono i
problemi appena visti e altri ancora. E tuttavia non vi è interesse
nazionale più grande in confronto a quello di chiudere bene questa
partita, prima che si concluda ? quando che sia ? la legislatura.
ROMA
L’inizio del ritiro britannico da Bassora sarebbe oramai imminente: l’ordine,
secondo quanto riporta il quotidiano britannico The Guardian, potrebbe arrivare
entro le prossime due settimane e potrebbe essere questione di giorni.
Londra ha già deciso di riconsegnare al controllo iracheno gli edifici
che ospitano le autorità di Bassora, presidiati da 500 effettivi, che
dovrebbero essere trasferiti fuori città nella zona dell’aeroporto,
ultima base militare britannica rimasta: è tuttavia possibile che i
militari vengano effettivamente rimpatriati.
Fonti militari sostengono che il passaggio di consegne con le forze irachene
è assolutamente normale e che non verrebbe effettuato se si venisse a
creare un vuoto di potere.
+ L’Espresso
24-8-07 PRIMO PIANO CONSULENTI D'ORO di Marco Lillo
Finanza e Mercati 24-8-2007 S&P: "Il mattone
europeo scricchiola in modo sinistro" di Redazione
Il Riformista 24-8-2007 Per Lazar i Ds se ne
infischiano
Il Cittadino 24-8-2007"Quella busta con i soldi
per Calderoli"
Un
miliardo e mezzo l'anno speso da Stato e regioni per incarichi inutili.
Concesso ad amici, politici, faccendieri. E Palazzo Chigi frena la trasparenza.
La rete dello spreco Una città di 261 mila abitanti, tanti sono i
consulenti esterni della nostra pubblica amministrazione. Una massa enorme che
succhia ogni anno un miliardo e mezzo di euro dalle casse pubbliche.
Architetti, ingegneri, avvocati, commercialisti, ma anche personaggi in cerca
di contratto senza alcuna competenza, figli di ministri, amanti, clienti e
famigli, portatori di voti, politici trombati e manager arrestati. Tutti in
fila per incassare la loro fetta della grande torta. Il ministero della
Funzione pubblica tra poche settimane presenterà in Parlamento la sua
relazione sugli incarichi. 'L'espresso' è in grado di anticiparne il
contenuto. A leggere le tabelle, riferite al 2005, ultimo anno censito,
c'è da restare a bocca aperta. I consulenti esterni sono 156 mila e 500,
la popolazione di un capoluogo di regione come Cagliari, vecchi e bambini
compresi, a cui vanno aggiunti i 105 mila pubblici dipendenti che eseguono
prestazioni extra per altri enti fino ad arrivare a un totale di 261 mila
persone. Una città grande come Venezia che galleggia sulla spesa
pubblica. Basterebbe abolire le consulenze e si potrebbe rimborsare l'imposta
sulla prima casa a due italiani su tre. Ma non si può. Il fenomeno
è ormai strutturale: nulla riesce a combatterlo. Rispetto al 2004 la
spesa è ferma a 1 miliardo e 500 milioni di euro. E anche se gli
incarichi sembrerebbero diminuire, il condizionale è d'obbligo: i
burocrati tardano nel consegnare gli elenchi degli ingaggi e quasi sempre il
dossier finale lievita di mese in mese, con rialzi di centinaia di milioni. La
spesa per gli incarichi esterni è ormai una montagna difficile da
ignorare anche per la politica italiana. La Finanziaria del 2005 aveva posto
dei limiti precisi al potere discrezionale degli amministratori, poi erano
intervenuti il ministero con una circolare e la Corte dei Conti. La Procura
Regionale del Lazio, quella competente sugli organi centrali, ha dato un
segnale inequivocabile, mettendo all'indice i vertici di 14 colossi pubblici.
Si va dall'ex commissario dell'Unire, l'ente delle razze equine, al quale sono
stati contestati 147 mila euro , fino alle consulenze elargite dai tre ultimi
ministri della giustizia: Fassino, Diliberto e Castelli. Dal direttore generale
dell'Istruzione, sotto accusa per 90 mila euro di parcelle, all'Asi, l'Agenzia
spaziale italiana, che avrebbe mandato in orbita assegnazioni illegittime per
un totale di 381 mila euro. Chi non pubblica paga L'onda però è
proseguita ignorando anche i fulmini della magistratura contabile, fino a
quando i senatori della Sinistra democratica, Cesare Salvi e Massimo Villone,
hanno tirato fuori dal cilindro un'arma letale contro le consulenze facili
dello Stato. Un comma inserito nella manovra per il 2007, che rappresenta una
miccia accesa nel sottobosco della politica: "Nessuna consulenza
può essere pagata se non sia stata resa nota, con tanto di nome e
compenso, sul sito Web dell'amministrazione". E se l'incarico non viene
pubblicizzato, scatta una punizione micidiale: chi ordina il pagamento e chi ne
beneficia deve restituire i soldi di tasca sua. Sembrava l'uovo di Colombo, in
grado di trasformare il Palazzo in una casa di vetro. Tutti avrebbero saputo in
tempo reale con un click i nomi dei 223 consulenti delle agenzie fiscali, dei
14 mila uomini d'oro della sanità e soprattutto dei 4 mila e 563
prescelti dai ministeri. Purtroppo, l'Eden della trasparenza telematica non si
è realizzato. Cavilli, circolari e ricorsi burocratici hanno
depotenziato l'arma letale. E alla fine più della metà dei
ministeri ha mantenuto il silenzio. Nella lista dei buoni figurano Funzione
pubblica, Comunicazioni, Interno, Solidarietà sociale, Commercio estero,
Salute, Sviluppo economico, Attuazione del programma, Affari regionali,
Economia. Mentre tra i bocciati troviamo a sorpresa un paladino della lotta
alle consulenze fasulle come Alfonso Pecoraro Scanio. Il ministero degli
Esteri, pur non avendo ancora sul sito la lista, non ha avuto difficoltà
a consegnarla a 'L'espresso', come hanno fatto anche l'Enav, l'Unire e l'Aams.
Va detto però che il cattivo esempio viene dall'alto. I dipartimenti e
gli uffici di Palazzo Chigi non hanno ancora pubblicato l'elenco dei
consulenti. "Ma nel frattempo", spiega il segretario generale Carlo
Malinconico, "i pagamenti degli incarichi conferiti dopo la finanziaria
del 2007 sono sospesi". I beneficiati Chi è sul Web invece
può incassare. Ed ecco spuntare una lista infinita di avvocati,
ingegneri, commercialisti, architetti o semplici ragionieri. Pochi i nomi noti.
Come Pellegrino Mastella, figlio del Guardasigilli e consulente di Bersani allo
sviluppo economico per 32 mila euro. Nelle liste dell'Inpdap spunta il manager
informatico Elio Schiavi. Chi è? Secondo Visco è stato una
vittima dello spoils system di Tremonti. E Schiavi, definito dal viceministro
diessino "l'inventore del fisco telematico", potrà consolarsi
con un contratto da 150 mila euro. Alla Farnesina si segnala invece il rientro
sulla scena dell'ex procuratore di Roma Vittorio Mele. Sottoposto a
procedimento disciplinare nel 1998 per i suoi rapporti disinvolti con il re
delle cliniche Luigi Cavallari, Mele aveva lasciato la magistratura evitando il
giudizio del Csm. Ha appena firmato un contratto da 24 mila euro per quattro
mesi e mezzo. Altri 25 mila euro andranno invece a Giovanni Lombardi,
rappresentante dei Ds nel consiglio degli italiani all'estero, per progettare
il museo dell'emigrazione. Le Poste pubblicano la lista più completa:
194 gli incarichi e un paio di curiosità: i 200 mila euro a Maurizio
Costanzo e gli 8 mila euro a Giovanni Floris. Gran parte dei soldi però
vanno agli studi legali, come quello dell'onorevole di An Giuseppe Consolo (126
mila euro per il 2007) o quello fondato da Giulio Tremonti che ha preso 25 mila
euro. L'Anas invece mostra un profilo fin troppo basso. Stando alle striminzite
comunicazioni del sito, avrebbe speso finora poco più di 400 mila euro
per sei incarichi. Una carestia rispetto ai 41 milioni del 2003 e ai 20,4
milioni dell'ultimo anno. Dov'è finita l'azienda sprecona che regalava 2
milioni e mezzo di euro in consulenze come buonuscita ai consiglieri? Basta
fare un paio di verifiche per scoprire che il lupo cambia colore politico ma
non il vizio. Sul sito non appare, per esempio, l'ingaggio da 100 mila euro
all'ex consigliere Alberto Brandani, vicino all'Udc. Perché? Risposta
burocratica: la commissione di cui fa parte è anteriore alla nuova
legge. Esemplare la vicenda di Giuseppe D'Agostino. Un collaboratore da 50 mila
euro l'anno, ignorato nella lista pubblica, ma attivo in tutto il mondo, dove
incontra ministri per conto dell'Anas. In Moldavia ha presentato un accordo,
seduto accanto al premier, per rifare tutte le strade . Non figurano sul sito
neanche i due giovanissimi avvocati Sergio Fidanzia e Angelo Gigliola.
Trent'anni a testa, iscritti all'albo dal 2005, hanno ricevuto dall'Anas un
paio di arbitrati e la difesa della società nelle cause più
importanti, quelle contro le autostrade davanti al Tar e alla Corte di
giustizia europea. Per le stesse controversie è stato arruolato anche
Marco Annoni, legale arrestato dal pool di Mani Pulite che ha patteggiato la
sua condanna per tangenti. Il loro compenso è top secret. Ma quella
degli avvocati in carriera non è un'eccezione. Perché con una direttiva
firmata da Romano Prodi molte categorie sono state escluse dalla trasparenza.
Una deroga che regala l'anonimato a tanti professionisti della parcella: tra
loro artisti, società di revisione e soprattutto avvocati patrocinanti.
Particolare piccante: il segretario generale di Palazzo Chigi che sta seguendo
la partita delle consulenze è l'ex avvocato Carlo Malinconico, titolare
dell'omonimo studio, chiuso dopo l'approdo a Palazzo Chigi, nel quale hanno
mosso i primi passi i giovani Fidanzia e Gigliola. Agenzie reticenti L'Anas
è in buona compagnia. Anche le agenzie fiscali seguono la linea
dell'ermetismo. A fine agosto, territorio, dogane, monopoli ed entrate
dichiarano sui rispettivi siti in tutto 21 consulenze. Nel 2004, secondo il
ministero, le agenzie elargivano 223 incarichi. Che fine hanno fatto? Una parte
importante si trova nel calderone della Sogei, che fornisce personale e servizi
alle agenzie, e che però copre i suoi consulenti con il silenzio.
è il caso del braccio destro del direttore dei Monopoli, Giorgio Tino.
Si chiama Guido Marino e lo accompagna persino alle audizioni in Parlamento.
Proprio a Marino, il direttore Tino ordina al telefono (intercettato dal solito
pm Woodcock) nell'aprile del 2005: "Procurami tutte le carte. Poi leva da
tutti i computer e lascia solo sul tuo senza farlo vedere ai colleghi".
Oggi Marino sul sito non c'è, anche se il suo incarico, ottenuto da
Sogei con una sorta di gara, potrebbe valere circa 2 milioni di euro.
Situazione analoga all'Ice. L'Istituto per il commercio estero non espone la
sua lista e così è impossibile sapere quanto guadagna la
società Triumph, controllata da Maria Criscuolo, imprenditrice molto
amica di Umberto Vattani, come è emerso dalle intercettazioni di
un'inchiesta contro il capo dell'Ice. Anche la Triumph sarebbe oscurata dalla
solita direttiva Prodi. Attacca Cesare Salvi: "Quella circolare limita
moltissimo l'obbligo di trasparenza e va contro la legge. Comunque non ci
fermiamo. La strada è quella giusta e anche il premier lo sa. Ora
vogliamo chiedere che nella Finanziaria si includa l'obbligo di pubblicare
tutti gli atti di spesa. Anche se il vero problema sono gli enti locali, sui
quali non possiamo intervenire. Lì accadono gli abusi peggiori".
Bengodi locale L'autonomia delle regioni è diventata libertà di
spreco. L'Eldorado delle consulenze è in Lombardia: il censimento
parziale del 2004 segnalava 45.500 incarichi con 185 milioni di euro liquidati.
E tutto calcolato per difetto: un quinto del totale nazionale. Un sistema di
potere parallelo, in parte all'insegna della cultura del fare, nella
presunzione che il professionista esterno nominato direttamente faccia prima e
meglio. Il modello caro a Letizia Moratti, che in un anno a Palazzo Marino ha
assegnato 91 incarichi. In parte però questo network nutre anche il
sottobosco del potere. L'ultimo scandalo è recentissimo, emerso alla
vigilia di Ferragosto con un'istruttoria penale per truffa. Al centro un
progetto finanziato dal Pirellone per costruire sul lago di Como il Museo di
Leonardo. Viene perquisita la Glr Consulting, controllata dal consigliere
regionale Gianluca Rinaldin di Forza Italia. In Piemonte, nel 2005, regione,
province e comuni hanno inghiottito consulenze per 18 milioni di euro, un terzo
dei quali ritenuto privo dei requisiti. A Genova, le Fiamme Gialle hanno
contestato un danno erariale superiore ai 20 milioni: sotto accusa nove
amministratori dell'Istituto tumori. La Guardia di finanza spiega che, "a
fronte di enormi investimenti effettuati, non è stata prodotta alcuna
attività scientifica". Nel Lazio il meccanismo si è evoluto
per aggirare i controlli. E le designazioni vanno a carico delle società
a partecipazione regionale. Secondo una denuncia dei sindacati, Sviluppo Lazio
ne ha assegnate per un importo di 27 milioni; la Filas per 8,2 milioni, la Bic
per 5. In Abruzzo tra gli ingaggi della giunta guidata da Ottaviano Del Turco
si segnala il fotografo personale del presidente e il vignettista. Il primo
costa 60 mila euro, il secondo 32 mila per occuparsi, tra l'altro, del cartoon
'Capitan Abruzzo'. Il fumettista è figlio del sindaco di Collelongo,
comune della Marsica che ha dato i natali a Del Turco. Certo, a Sud la situazione
è peggiore. C'è il caso Calabria che spicca fra tutti. Quando i
magistrati sono andati a mettere il naso negli incarichi della Regione, si sono
messi a piangere. In soli tre mesi ne erano stati assegnati una valanga:
metà con importi non specificati, l'altra metà per oltre 487 mila
euro. E tutti, ma proprio tutti, illeciti. Persino quelli destinati
all'attuazione del 'piano di legalità' non rispettavano le regole. In
altre regioni gli incarichi sono quasi dei benefit. In Molise lo scorso anno il
presidente della giunta ha nominato due consiglieri personali costati 115 mila
euro. Nella lista non manca una ricerca sui molisani a Stoccarda per 41 mila
euro e un intervento sperimentale sulle lepri da 15 mila. In Sicilia, invece,
consulenza è sinonimo di favore. Talvolta anche agli amici degli amici.
Come nel caso di Francesco Campanella, il mafioso ed ex presidente del
consiglio di Villabate, oggi collaboratore di giustizia. Anche lui non si
lasciò sfuggire un bel contratto. Nessuno oggi è in grado di stabilire
quanti siano i consulenti: c'è stato persino un esperto per la
'prevenzione dei rischi connessi al diffondersi del bioterrorismo'. Un caso
limite? No: a Rosolini, comune in provincia di Siracusa, c'è stato
l'esperto per la lettura delle bollette telefoniche. A Catania ancora ricordano
l'affascinante Miriam Tekle. La splendida top model eritrea, dopo aver
partecipato alle finali di Miss Italia nel mondo, venne nominata alle dirette
dipendenze dell'assessorato comunale all'Industria, per svolgere funzioni di
'supporto dell'attività d'indirizzo'. Per quell'incarico, la bella
Miriam avrebbe dovuto percepire poco più di 24 mila euro all'anno. Dopo
le proteste non se fece nulla, perché Miriam, così c'è scritto,
aveva 'poca attitudine al ruolo'. hanno collaborato Stefano Pitrelli e Marcello
Bellia Alla carica CONSULENTI TOTALI 2005 2004 Numero consulenti 261.297
295.769 Consulenze affidate 418.294 489.785 Compensi liquidati 1.499,4 1.516,2
in milioni di euro Compenso medio 3.584 3.095 per incarico in euro CONSULENZE
ESTERNE 2005 2004 % Numero consulenti 156.541 174.195 -10,13 Consulenze
affidate 234.512 270.312 -13,24 Compensi liquidati 1.218,7 1.220,1 - 0,12 in
milioni di euro Compenso medio 4.932 4.861 1,47 per incarico in euro CONSULENZE
A DIPENDENTI 2005 2004 % Numero dipendenti 104.756 121.574 -13,8 Consulenze
affidate 183.782 219.473 -16,3 Compensi liquidati 280,7 296,1 -5,2 in milioni
di euro Compenso medio 1.538 1.545 -0,5 per incarico Com'è galante quel
Galan di Paolo Tessadri "Certe consulenze che fanno ricchi avvocati e
professionisti potrebbero essere evitate sfruttando le risorse interne".
Angelo Pavan, anziano senatore dc, oggi alla guida dei cento comuni dell'Anci
trevigiana, è l'ultimo a criticare la sbornia di incarichi in Veneto, terza
regione in Italia con 117 milioni di euro finiti in parcelle e 22.998
consulenti. Spesso per attività di chiaro stampo elettorale. Nel
febbraio 2006 la giunta di centrodestra finanzia con 25 mila euro la 'cerimonia
di presentazione del recupero e dello sviluppo della portualità
veneziana'. I discorsi di rito li tengono il governatore Galan e il ministro
Lunardi e i 25 mila euro servono per pagare il pranzo agli elettori. Designata
è la società di pr Bmc Broker con sede a San Marino, di cui fanno
parte l'ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, e il suo ex capo ufficio
stampa, Gianluca Latorre. Per lo stesso evento la Bmc Broker riceve altri 150
mila euro dall'Autorità portuale di Venezia e 60 mila dalla
società regionale Veneto Acque. La Bmc ha avuto 130 mila euro per
pubblicizzare il sistema metropolitano regionale. Luca Zaia, leghista e
vicegovernatore, ha speso 900 mila euro per organizzare a Jesolo un triennio di
Miss Italia nel Mondo. E ci è scappato anche il rinnovo a Mario
Maffucci, ex capostruttura di Raiuno, da 25 mila euro nel 2006 a 33 mila 600
nel 2007. Compito: portare il Veneto nelle trasmissioni Rai. E An? A marzo il
direttore generale dell'Arpav, l'agenzia regionale per l'ambiente, Andrea Drago
ha affidato un incarico promozionale per 80 mila euro a Davide Manzato,
geometra, consigliere comunale a Vicenza: entrambi hanno la tessera di An. Ma
la consulenza forse più importante è quella al portavoce di
Galan, Franco Miracco, per 126 mila euro annui: è lui il regista della
sfida culturale contro Cacciari e delle mosse future dell'ultimo doge. L'arma
letale del ministro Nicolais Abnorme. Non trova altre parole Luigi Nicolais per
definire l'uso delle consulenze nel settore pubblico in Italia. Il ministro
della Funzione pubblica fa una diagnosi impietosa del sistema e annuncia a
'L'espresso' le sue mosse per arginare il problema a partire da settembre.
Ministro, un miliardo e mezzo di euro di consulenze pagate con soldi pubblici
ogni anno. è il gettito di un'imposta. Cosa state facendo? "Per noi
è una priorità. L'uso delle consulenze in Italia ha raggiunto
livelli intollerabili. Per questa ragione siamo intervenuti subito, inserendo
una norma che impone la pubblicizzazione delle consulenze sul sito Internet
dell'amministrazione o dell'ente pubblico. Però non basta. Ci siamo
accorti che molti, troppi enti non stanno pubblicando nulla. All'inizio pensavo
a superficialità. Ora sono passati mesi e non ci credo più.
Esiste una diffusa volontà reale di non far conoscere ai cittadini come
si spendono i soldi pubblici. Per questa ragione posso annunciare una mossa che
definirei risolutiva". E quale sarebbe questa arma letale? Lo scetticismo
è d'obbligo, visto che la legge, non a caso, non prevede una sanzione
per chi non ottempera all'obbligo di pubblicazione sul sito. "Vero. La
legge vieta il pagamento, ma non dice cosa accade a chi non la rispetta. Ma noi
raggiungeremo l'obiettivo per un'altra via. Ho chiesto alla Corte dei Conti,
che ha un importantissimo ruolo in questa materia, di bloccare i pagamenti
delle consulenze e degli incarichi a persone e società, se prima non
sono stati pubblicati sul sito Internet. Ne ho già parlato con il
presidente della Corte dei Conti e mi sembra che sia molto sensibile. Ritengo
che in autunno, con una mia apposita direttiva in materia, raggiungeremo
l'obiettivo. è un provvedimento cruciale: se la Corte dei Conti non
vista un pagamento, nessun pubblico ufficiale pagherà, perché corre il
rischio di dover rimborsare lui la somma". Ministro, certamente la
direttiva della presidenza del Consiglio che limita l'ambito di applicazione
solo agli incarichi continuativi, esclude senza alcuna ragione i
professionisti, le società di revisione, i compensi agli artisti, non ha
aiutato il decollo della normativa. "I miei uffici stanno preparando una
piccola norma che sarà inserita in Finanziaria e che chiarirà che
quando la legge parla di pubblicizzazione delle consulenze non intende porre
alcun limite, ma si riferisce a tutti gli incarichi". Non sarebbe meglio
inserire dei paletti, delle norme che impediscano di appaltare all'esterno
funzioni essenziali della pubblica amministrazione? "In alcuni casi la
legge impedisce l'uso dei consulenti esterni. Ma il ministro della Funzione
pubblica può intervenire solo sulle amministrazioni centrali. Poi
c'è il mondo molto esteso delle aziende autonome, delle società a
partecipazione pubblica. In quel caso deve intervenire il ministero competente.
Infine c'è il grandissimo problema degli enti locali, che fanno un uso
ancora più ampio delle consulenze esterne, ma la riforma della
costituzione ci impedisce di intervenire su questo settore". M. L. E a
Firenze arrivano le Fiamme Gialle di Simone Innocenti Gli incarichi sporchi non
si lavano nemmeno in Arno Così la Corte dei conti di Firenze ha
formalizzato le ipotesi d'accusa contro 60 dirigenti della Regione Toscana,
tutti nel mirino per le consulenze elargite tra il 2002 e il 2003. Il bello
è che l'indagine delle Fiamme Gialle si basa su un mansionario
pubblicato per magnificare le professionalità della Regione. Bene: ma se
i dipendenti sono così bravi, che bisogno c'è di affiancargli una
falange di collaboratori esterni? Sono spuntati una marea di doppioni, con un
danno erariale da oltre 3 milioni Nella lista nera lo studio da 100 mila euro
sulla spiritualità femminile, 50 mila per la navigazione interna, 40
mila per monitorare le televendite e un corso per fuoristrada da 80 mila. Il
governatore Claudio Martini si è detto fiducioso nei risultati finali. E
l'inchiesta erariale ha subito sortito effetti miracolosi. La spesa per
consulenti in un anno si è dimezzata, passando da 16,6 milioni del 2004
a 8. Segno di quanto inutili fossero quegli incarichi. I controlli si sono poi
estesi al Comune. A Palazzo Vecchio il blitz dei finanzieri potrebbe far
ipotizzare 2 milioni di parcelle inutili: sono al vaglio le posizioni di 29
funzionari. Il caso più importante è l'incarico da 600 mila euro
per progettare il nuovo palazzo di giustizia, assegnato senza appalto. Ci sono
poi 12 mila euro per un piano di comunicazione: secondo gli inquirenti negli
uffici c'erano 19 persone che potevano occuparsene. Ma tra Regione e Provincia
fa capolino anche il vizio del contentino agli ex. Un'indagine penale è
stata aperta sul funzionario che ha ingaggiato il coordinatore cittadino dei
ds. E da anni si discute per la consulenza ad Antonio Bargone, ex
sottosegretario di punta del governo D'Alema. Consulenti esterni anno 2005
COMPARTI CONSULENTI VARIAZIONE % COMPENSI VARIAZIONE % CON INCARICHI RISPETTO
IL 2004 LIQUIDATI* RISPETTO IL 2004 Enti locali 72.323 -11,33 709,9 2,0
Università 30.091 -20,51 149,3 3,8 Scuola 34.020 -3,45 59,3 3,1
Sanità 14.252 -10,59 200,4 -6,0 Ministeri 4.563 2,98 24,0 -16,3 Altri
comparti 8.699 -6,03 75,9 -6,2 TOTALE GENERALE 163.948 -11,03 1.218,7 -0,1 * in
milioni di euro Consulenti interni anno 2005 COMPARTI DIPENDENTI VARIAZIONE %
COMPENSI VARIAZIONE % CON INCARICHI RISPETTO IL 2004 LIQUIDATI* RISPETTO IL
2004 Enti locali 26.928 -12,7 72,3 -15,3 Sanità 23.820 -17,2 54,0 0,1
Scuola 26.159 -9,5 41,6 -1.5 Università 15.428 -16,6 71,3 -0.7 Ministeri
6.842 3,3 21,6 18,4 Altri comparti 5.939 -29,8 20,0 -18,8 TOTALE GENERALE
105.116 -13,9 280,8 -5.2 * in milioni di euro Serve più autodisciplina
di Bernardo Giorgio Mattarella* Rendere gli incarichi pubblici. lmitando Brown
Make or buy? Produrre o comprare prodotti altrui? Costituire strutture che
assicurino servizi più o meno complessi (dalla vigilanza degli edifici
alla consulenza legale) o rivolgersi a imprese ed esperti esterni? è un
problema che spesso si pone per le organizzazioni private, che lo risolvono
sulla base di difficili valutazioni di convenienza. Valutazioni legate alla
politica del personale e condizionate dalle leggi: i risparmi della soluzione
interna possono essere bilanciati dalle garanzie dei lavoratori dipendenti, che
si traducono in rigidità dell'organizzazione produttiva. Il problema si
pone anche per le pubbliche amministrazioni e anche per esse la scelta è
condizionata dalle leggi, ma in modo diverso. A differenza delle imprese
private, le pubbliche amministrazioni amano assumere dipendenti a tempo
indeterminato, ma le assunzioni sono soggette a norme stringenti. In primo
luogo, è necessario un concorso pubblico, che rende difficili, anche se
non impossibili, gli abusi e il clientelismo. In secondo luogo, a volte
l'assunzione è impedita dalla legge, soprattutto per ragioni
finanziarie. Questi due fattori contribuiscono a spiegare l'aumento delle
consulenze e degli incarichi professionali che si è avuto negli ultimi
anni. In parte si tratta di malcostume: si dà un'inutile consulenza a
qualcuno invece di assumerlo, per evitare il concorso e scegliere liberamente
il beneficiario, magari un affiliato politico. In parte è il necessario
rimedio a cattive leggi, che impediscono di assumere e costringono a supplire
con incarichi a tempo: molte consulenze sono figlie dei blocchi delle
assunzioni, contenuti in tutte le ultime Finanziarie; i quali sono strumenti
rozzi, che fanno risparmiare poco, ma danneggiano molto le amministrazioni. Un
terzo fattore è dato dal frequente abuso della possibilità di
affidare incarichi dirigenziali, molto ben pagati, a soggetti esterni "di
particolare e comprovata qualificazione professionale". Consulenti e
collaboratori, poi, finiscono per alimentare le file dei precari nella pubblica
amministrazione: a quel punto, scattano forti pressioni per la loro
stabilizzazione, che aggiunge ingiustizia a ingiustizia. I dati sulle
consulenze scarseggiano, ma l'aumento è certamente notevole. Secondo il
Dipartimento della funzione pubblica, nel 2005 gli incarichi di consulenza sono
stati ben oltre 250 mila. L'immagine che ne risulta è quella di
un'amministrazione che non sa, o non vuole, camminare con le proprie gambe, che
spesso fa girare il motore a vuoto e contemporaneamente lo lascia arrugginire:
mentre si conferiscono incarichi a soggetti esterni, molti dirigenti di ruolo
vengono tenuti a disposizione, con vaghi incarichi di studio, perché invisi al
ministro o all'assessore di turno. Le migliori parole, per descrivere questa
situazione, sono quelle pronunciate dal Procuratore generale della Corte dei
Conti all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2006: l'eccessivo ricorso alle
consulenze dà luogo a "una sorta di 'amministrazione per
incarichi', con possibili negativi effetti non solo sui bilanci, ma anche sulla
efficienza dell'azione amministrativa, a causa della conseguente
sottoutilizzazione delle risorse umane e del mancato stimolo allo sviluppo
delle professionalità interne". Quali i rimedi? La via maestra
è la trasparenza: i cittadini sappiano come vengono spesi i loro soldi.
Naturalmente, la trasparenza non va confusa con lo scandalismo o con il
pettegolezzo. E il diritto alla riservatezza, che pure in questa materia deve
cedere il passo, non va del tutto ignorato. La trasparenza, quindi, può
anche non essere assoluta, ma deve essere reale: forse non è proprio
necessario che tutti i navigatori conoscano il compenso, anche se modesto, di
ciascun consulente, ma è necessario che i dati siano facilmente
accessibili, su un unico sito. Anche limiti e divieti possono essere utili:
criteri di scelta obiettivi, procedure aperte, controllo dei requisiti, limiti
alla durata degli incarichi, rapporto massimo tra consulenti e impiegati,
divieti di cumulo e rinnovo, prevenzione dei conflitti di interessi. Ma occorre
rispettare l'autonomia degli enti ed evitare di gettare il bambino con l'acqua
sporca: i consulenti possono essere preziosi rimedi alla debolezza delle
amministrazioni. La pubblicità degli incarichi è prevista da una
norma della Finanziaria 2007, fin troppo rigorosa e ampiamente inapplicata.
Ulteriori previsioni sono contenute nel disegno di legge del governo sui costi
della politica, la cui approvazione non è certo imminente. In questa
materia, forse, più ancora che sulla legge si deve puntare sull'autoregolazione,
che può generare una competizione virtuosa tra forze politiche, a colpi
di codici di comportamento e garanti indipendenti. Subito dopo essersi
insediato, il primo ministro britannico Gordon Brown ha annunciato al
Parlamento l'adozione di un nuovo e più rigoroso codice di comportamento
per i membri del suo governo. Nulla impedisce al governo italiano di fare
altrettanto. *docente di diritto amministrativo, autore di 'Le regole
dell'onestà'.
[Nr. 166 pagina 2] Per l'agenzia di rating il
real estate del Vecchio Continente è ormai in frenata. Un rallentamento
che potrebbe diventare recessione, causa la contrazione del settore delle
costruzioni Si salvano Uk e Francia Partite Oltreoceano dal mattone di carta,
le nubi del mercato cominciano ad addensarsi anche sul mattone reale. Lo
sostiene S&P, che in un report pubblicato ieri prefigura seri rischi di
rallentamento, se non addirittura di recessione, per il settore delle
costruzioni in Europa. L'agenzia di rating prende in considerazione quattro
mercati europei - Gran Bretagna, Irlanda, Spagna e Francia - associati da un
denominatore comune: "L'aumento dei tassi d'interesse portato avanti da
Boe e Bce, aggiunto al livello di indebitamento delle famiglie già alto,
farà si che la crescita dei prezzi delle case
resterà contenuta nel breve-medio periodo". Nel caso inoltre la
fiducia dei consumatori, già pesantemente minata dal dilagare della
crisi subprime e dai riflessi sulle Borse, venisse ulteriormente deteriorata
"il mercato delle abitazioni potrebbe spingersi in terreno negativo e dare
il via alla recessione del settore delle costruzioni". Secondo lo studio
di S&P la Gran Bretagna, grazie soprattutto al mercato londinese e al
prevedibile capolinea della politica restrittiva della Boe, potrebbe essere il
paese che uscirà meglio dalla potenziale crisi. Più critica la
situazione dei paesi dell'area euro, dove la Bce dovrebbe intervenire al rialzo
almeno una volta prima di fine anno. In Irlanda, dove i prezzi sono
cresciuti appena dell'1% nell'ultimo anno e sono previsti in calo nel 2007,
l'effetto si farà sentire anche sulle costruzioni, già in
rallentamento. In Spagna, paese europeo considerato a maggiore rischio-bolla,
l'avvio di nuove costruzioni è in frenata già da inizio 2006 e i prezzi
delle abitazioni di molte zone hanno iniziato a calare. Meglio se la cava la
Francia, dove il rallentamento dei prezzi, +5% nel primo semestre 2007
dal +9% dei sei mesi precedenti, appare fisiologico.
di
Alessandro De Angelis
Non si appassiona tanto al modo in cui la discussione sugli anni Ottanta
è stata aperta, in Italia, dai due candidati alla guida del Pd, Bindi e
Letta. Ma sottolinea, eccome, il silenzio sull’argomento dei Ds e di Veltroni.
Il politologo francese Marc Lazar non usa mezzi termini: «I Ds sono imbarazzati
perché nonostante le tante svolte compiute non hanno mai seriamente fatto i
conti col comunismo». E gli anni Ottanta, segnati dalla sua crisi e dalla sua
fine, sono un momento cruciale, con cui la sinistra italiana di matrice
comunista, a suo giudizio, continua ad evitare il confronto: «Il punto vero è
che i Ds se ne infischiano della storia. Mentre il Pci la usava per dipingere
la sua grandezza e la sua diversità, i suoi eredi evitano di parlare e,
in fondo, mostrano un certo compiacimento con il passato». E sull’oggi (e sul
domani) chiosa: «Essere di sinistra significa essere antifascista ma anche
anticomunista».
Ma partiamo dall’inizio. Per il politologo le questioni centrali da affrontare,
a proposito di anni Ottanta, sono due: la crisi e il crollo del comunismo e la
trasformazione della società. Ma è soprattutto sulla prima che
l’autore delle Maisons rouges focalizza la sua attenzione, con un occhio ai
rapporti tra i partiti della sinistra che in Italia trovano un esito davvero
particolare. E, neanche a dirlo, lo fa attraverso un raffronto tra l’Italia e la
Francia: «Alla fine degli anni Settanta il quadro non è poi tanto
diverso. In entrambi i Paesi ci sono due forti partiti comunisti che, nelle
loro diversità, dominano su tutta la sinistra. Fino all’81 il Pcf
è il primo partito della sinistra. In Italia lo è il Pci. E in
entrambi i Paesi ci sono partiti socialisti che, come nel resto d’Europa,
tentano di rinnovare il socialismo». Ma se il punto di partenza è
simile, le evoluzioni che i partiti hanno non lo sono affatto. Sui partiti
comunisti Lazar spiega: «Il Pci che pure ha cercato di prendere autonomia
dall’Urss non voleva rompere e ne fu costretto dall’89. E oggi i Ds pagano i
suoi ritardi. Mentre il Pcf si è ripiegato su una linea prosovietica,
settaria e minoritaria e oggi infatti quasi non esiste». Poi sui partiti
socialisti aggiunge: «Mitterrand ha scelto di unire la sinistra per
ridimensionare il Pcf e ha avuto successo. Ma i socialisti francesi hanno
pagato un prezzo caro, perché hanno concesso molto al Pcf sul piano della
dottrina e hanno annacquato il riformismo. Al contrario il Psi di Craxi
è stato molto più chiaro su problemi di fondo e il suo socialismo
era moderno e europeo, ma, paradossalmente, l’altra faccia della medaglia era
una politica clientelare».
Lazar è critico sul Ps di allora («il partito socialista più a
sinistra d’Europa»), che avrebbe avuto i suoi successi «grazie alla grande
abilità di un politico come Mitterrand, ma anche grazie alle debolezze
della destra». E a proposito di Mitterrand aggiunge: «Nei primi due anni per
unire la sinistra fu poco realista nella politica economica». Mentre sul Psi
giudica negativamente «l’alleanza con la Dc e le pratiche clientelari».
Tuttavia considera Craxi un «innovatore» e ricorda i punti chiave: «La critica
all’Urss, il riconoscimento dell’economia di mercato, i temi del welfare, una
classe dirigente moderna». Insomma, parlare di anni Ottanta significa per Lazar
soprattutto fare i conti con la crisi del comunismo. E infatti, nonostante
tutte le originalità su cui gli storici hanno scritto fiumi di
inchiostro, punta l’indice sul Pci: «Berlinguer ha la grande
responsabilità di aver creduto nella riformabilità dell’Urss
nonostante le critiche che lui stesso aveva mosso». E ancora: «La sua critica
al capitalismo era ideologica così come lo era l’idea della
superiorità morale dei Paesi dell’Est. E lo era pure la sua critica alle
socialdemocrazie». E conclude: «Il Pci, che pure aveva dei tratti originali,
non poteva non essere coinvolto della crisi del comunismo». Quindi all’89 la
sinistra arriva, nei due Paesi, in modo diverso. Ma il trauma è tutto in
Italia. Dove, dopo un decennio di scontro durissimo tra i due principali
partiti della sinistra, si produce un esito «incredibile» per Lazar: «il crollo
di entrambi i partiti».
Fin qui la politica in senso stretto. E la società italiana degli anni
Ottanta, tra yuppies e paninari di cui tanto si riparla? Lazar precisa:
«Innanzi tutto declina la classe operaia in senso classico, le tute blu e il
mitico metalmeccanico della scala mobile per intenderci. E poi si sviluppa un
rapporto individualistico con la società». Il politologo non giudica
negativamente questi cambiamenti: «Edonismo e yuppismo indicano una
trasformazione democratica perché le persone sono più libere, più
individualiste, meno inclini a obbedire a strutture centralizzate». Tuttavia
non sottovaluta alcuni elementi negativi: «Ognuno pensa più a se stesso
senza il senso del bene comune». E nel trarre un bilancio, senza entrare nella
polemica Letta-Bindi, conclude: «L’Italia degli anni Ottanta è un’Italia
che ha sfiducia nelle elites tradizionali, che non vuole delegare le decisioni,
meno ideologica ma anche più egoista».
Gli
007 bocciano il governo di al-Maliki e prevedono una escalation della violenza
settaria
«Maliki è un importante alleato e lo
appoggio. È un uomo bravo, con un lavoro difficile», aveva detto appena
ieri Bush. Capovolgendo il paragone, ormai consueto, tra Vietnam e Iraq per
affermare la necessità di restare nel Paese. Oggi un rapporto delle
agenzie di intelligence americane boccia queste tesi, su tutta la linea. Il
governo iracheno guidato dal premier Nuri al-Maliki è destinato a
diventare ancora «più instabile» entro i prossimi sei-dodici mesi. E
senza cambiamenti al potere è «improbabile» che si raggiunga un
compromesso capace di garantire la sicurezza.
Il rapporto affronta anche il tema dei reclamizzati miglioramenti della
sicurezza in Iraq da gennaio valutandoli «misurabili ma incoerenti». Nno cessa,
infatti, anzi cresce, la crescente violenza settaria tra le diverse fazioni in
lotta e secondo gli 007 americani «è improbabile che emergano i
compromessi politici ampiamente accettati necessari per una sicurezza duratura,
per un progresso politico a lungo termine e per lo sviluppo economico, a meno
che non vi sia un cambiamento fondamentale nei fattori che guidano gli sviluppi
politici e di sicurezza iracheni».
Il rapporto delle agenzie di intelligence è destinato a giocare un ruolo
fondamentale nella discussione del Congresso sulle strategie future
dell’impegno americano in Iraq quando, a settembre, si parlerà del nuovo
assetto da dare alle truppe schierate nel Golfo.
n
"Nessuno si fregherà i nostri istituti di credito. Fino ad ora il
nostro modello ha funzionato, non vedo perchè il lavoro dei nostri
piccoli risparmiatori debba andare a potenziare i nostri concorrenti". Era
il 31 marzo 2005 quando l'allora ministro per le Riforme Roberto Calderoli,
arrivato a Lodi per chiudere la campagna elettorale del suo partito, difendeva
con queste parole il progetto di Gianpiero Fiorani: battere Abn Amro nella
scalata ad Antonveneta e creare una grande banca del Nord, sotto la benedizione
di Antonio Fazio. Quella data è finita ora nei verbali d'interrogatorio
di Fiorani. L'ex banchiere infatti, lo scorso 19 giugno, ha detto ai magistrati
di Lodi di aver dato, il 31 marzo 2005, 200mila euro in contanti a Calderoli e
all'onorevole azzurro Aldo Brancher. Fiorani ha rivelato che i soldi erano
chiusi in una busta gialla e sarebbero dovuti servire per la loro campagna
elettorale. La storia di quei 200mila euro che, secondo Fiorani, Calderoli e
Brancher si sarebbero dovuti poi spartire, era in realtà già
emersa molto prima del 19 giugno scorso. Facciamo un passo indietro dunque, e
risaliamo al 5 gennaio 2006. Fiorani è in carcere a San Vittore, dopo
l'arresto avvenuto nella notte del 13 dicembre 2005. Sono le 15.30 circa quando
l'ex banchiere viene sottoposto a interrogatorio. Davanti a lui ci sono i
pubblici ministeri Francesco Greco, Eugenio Fusco e Giulia Perrotti. Fiorani
dice: "Nego l'esistenza di un fondo a disposizione dell'a.d.
(l'amministratore delegato, ndr) per le operazioni riservate. Gli unici
pagamenti riservati sono quelli che andrò a elencare precisando,
peraltro, che tutte le volte che ho effettuato un pagamento riservato ne ho
messo al corrente Spinelli (consulente Bpi, braccio destro di Fiorani, ndr)
quanto a destinatario e motivazione perché volevo rimanesse testimonianza del
mio operato". Nei minuti successivi Fiorani snocciola ai magistrati un
lungo elenco di politici finanziati dalla banca lodigiana. Tra questi ci sono
anche Brancher e Calderoli. L'ex banchiere dice: "Con Brancher ho avuto
diversi rapporti economici ed in particolare: 200mila euro a Lodi quando ho
consegnato la busta a Brancher che la doveva dividere con Calderoli che era
presente presso la sala del consiglio (nella sede della Bpi, ndr). Ricordo che
Brancher e Calderoli erano accompagnati da una donna. Ricordo ancora che quella
sera Calderoli doveva tenere un comizio a Lodi per le elezioni amministrative.
Ho consegnato la busta a Brancher il quale mi disse che doveva dividere con
Calderoli perché il ministro aveva bisogno di soldi per la sua attività politica".
Nel verbale dell'interrogatorio del 5 gennaio 2006, dopo Brancher spunta
Calderoli. Dice infatti Fiorani: "Calderoli è stato da noi pagato
due volte, la prima tramite Patrini-Brancher (200mila euro) e la seconda in occasione
della sua visita a Lodi insieme a Brancher (200mila euro) consegnati a Brancher
ma non conosco i termini della successiva divisione". La vicenda dei
200mila euro fa un brusco salto in avanti e così si passa dal 5 gennaio
2006 al 19 giugno 2007. Fiorani viene interrogato a Lodi nell'ambito
dell'inchiesta su una serie di appropriazioni indebite commesse ai danni della
banca. In una stanza del tribunale ci sono il procuratore Giovanni Pescarzoli,
il pubblico ministero Paolo Bargero e il capitano del Nucleo di polizia
tributaria della Guardia di finanza Jacopo Pasini. Fiorani racconta agli
inquirenti di un incontro, avvenuto a Roma tra il febbraio e il marzo del 2005,
in cui Brancher gli disse che "lui e Calderoli avevano bisogno della somma
di 200mila euro per le spese della campagna elettorale". Rientrato a Lodi,
come è riportato nel verbale dell'interrogatorio, Fiorani
incaricò Silvano Spinelli, "di preparare quella somma in
contanti".L'ex banchiere prosegue il racconto e dice ai magistrati di aver
ricevuto, una ventina di giorni dopo il colloquio romano, un telegramma o forse
un fax in cui Brancher gli comunicò la data in cui insieme a Calderoli
sarebbe stato a Lodi per un convegno. Infatti il 31 marzo 2005 i due politici
si recarono in banca e, nell'ufficio di Fiorani, Spinelli avrebbe consegnato a
Brancher una busta gialla con dentro i 200mila euro. Dopo di che il
parlamentare raggiunse Calderoli, fatto accomodare in un'altra sala. Nel corso
dell'interrogatorio Fiorani aggiunge di non "aver assistito alla divisione
della somma tra loro" ma di aver però notato che "Calderoli
era visibilmente entusiasta, tenendo in seguito un accalorato discorso in
favore di Bpl". Nella giornata di ieri abbiamo ripetutamente cercato di
metterci in contatto con Roberto Calderoli, al fine di presentare la sua
versione dei fatti, ma l'ex ministro era irreperibile: ben volentieri
presenteremo la sua posizione qualora intendesse rilasciarci le sue
dichiarazioni in merito.Lorenzo Rinaldi.
Per
il Fondo monetario la crisi peserà sulla crescita. Balzo di Milano:
1,74%
FRANCOFORTE
Nonostante le turbolenze sui mercati finanziari, la Banca centrale europea
ribadisce l'intenzione di aumentare il costo del denaro nella riunione del
direttivo prevista per il 6 settembre. Un chiarimento della linea di politica
monetaria che Eurolandia aspettava da giorni. E che ha spinto l'euro a quota
1,3550 dollari, contro l'1,3466 della vigilia. Mentre nuovi interventi della
Bce con un'operazione straordinaria di rifinanziamento a lungo termine (3 mesi)
da 40 miliardi di euro e della Fed americana, e la scommessa di un prossimo
taglio dei tassi da parte della Federal Reserve hanno spronato le Borse. Milano
- mercoledì - ha guadagnato l'1,74%, Francoforte l'1,02%, Parigi
l'1,83%, Londra l'1,81%. In un breve comunicato, mercoledì la Bce ha
segnalato che "la posizione del Consiglio dei governatori della Bce in
materia di politica monetaria è stata espressa dal suo presidente
il 2 agosto del 2007". Quando, in una conferenza convocata a sorpresa, il
numero uno Jean-Claude Trichet aveva segnalato la necessità di
esercitare una "forte vigilanza, per garantire che i rischi alla
stabilità dei prezzi non si materializzino nel corso del medio termine
". Un'espressione utilizzata dalla Bce per segnalare un incremento dei
tassi il mese successivo, che secondo gli operatori avrebbe portato il costo
del denaro in Eurolandia al 4,25%. Senonché, la crisi di liquidità
iniziata giovedì 9 agosto che ha costretto la Bce a rifinanziare gli operatori
per assicurare "l'ordinato funzionamento dei mercati" il taglio del
tasso di sconto della Fed, la scarsa circolazione della liquidità e
l'incertezza e volatilità dei mercati, nei giorni scorsi avevano
convinto la maggior parte degli economisti e degli operatori della
necessità di un rinvio dell'aumento dei tassi europei. Tanto che ieri il
ministro delle Finanze francese, Christine Lagarde ha fatto pressione sui
banchieri di Francoforte affinché riducano il costo del denaro, per aiutare "le
imprese e i mercati". Anche se ha ammesso che "non è certo una
decisione facile" e che la Bce l'affronterà "con grande
precauzione" e "responsabilità ". D'altra parte, le
decisioni della Bce sono legate alla crescita (robusta) di Eurolandia e ai
mercati. E per questo il numero uno della Bce aveva comunque avvisato che
Francoforte "non s'impegna in anticipo" su una decisione di politica
monetaria. D'altra parte, aveva spiegato che "i rischi al rialzo
dell'inflazione sono confermati dalla forza di espansione della crescita
monetaria ". Resta da vedere se la crescita rimarrà robusta. Perché
ieri è intervenuto il numero uno del Fmi Rodrigo de Rato, sostenendo che
le turbolenze sui mercati avranno "senz'altro qualche impatto", anche
se "non drammatico", sull'economia mondiale. Da Bruxelles il
presidente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker ha replicato che la crisi
finanziaria "per il momento " non presenta "rischi di impatto
rilevanti " sulla crescita europea. Nel frattempo, gli ordinativi
all'industria europea di giugno sono aumentati del 4,4% rispetto a maggio,
Goldman Sachs interpreta il dato come foriero di "una forte produzione nei
mesi a venire". 23 agosto 2007.
L'ultimo numero dell’Espresso sferra un
duro attacco contro i sindacati: «L’altra casta»
è il titolo di copertina, sotto le immagini dei tre segretari generali
di Cgil, Cisl e Uil. Imputazione principale: una ricchezza eccessiva, che
verrebbe scorrettamente alimentata con il denaro pubblico. Ma la requisitoria
su questo punto non è molto convincente. L'Espresso imputa alle confederazioni
maggiori di avere beneficiato, negli anni '70, della distribuzione del cospicuo
patrimonio immobiliare del disciolto sindacato nazionale fascista; ma non dice
a chi mai avrebbe dovuto essere assegnato quel patrimonio, se non agli eredi
delle libere associazioni sindacali che nei primi anni '20 avevano visto le
proprie sedi messe a ferro e a fuoco dagli squadristi in camicia nera ed erano
state poi espropriate e soppresse dal regime.
Quanto ai contributi pubblici per i servizi
resi dai sindacati ai lavoratori, mediante i
patronati per le pratiche previdenziali e i Caaf per le dichiarazioni dei
redditi, una critica attendibile dovrebbe basarsi su di una valutazione
rigorosa del costo e del valore di quei servizi, di cui beneficiano
quotidianamente — con un buon grado medio di soddisfazione— milioni di
lavoratori (tutt'altro è il discorso sui contributi pubblici per i
servizi di formazione professionale, dove gli sprechi sono enormi, ma la
responsabilità prioritaria è delle Regioni e il ruolo gestionale
dei sindacati è per lo più marginale). Una «questione sindacale »
in Italia oggi esiste eccome; ma essa ha ben poco a che vedere con quella del
«costo della politica», sollevata da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo con la
loro denuncia contro «la casta ».
La vera questione sindacale è quella
di un sistema di relazioni industriali opaco e
vischioso, consolidatosi nell'arco di sessant’anni in contrasto con una norma
della Costituzione, l'articolo 39, senza che questo sia mai stato né abrogato
né riscritto. Un sistema che favorisce il frazionamento della rappresentanza
sindacale, garantendo gli stessi diritti di proclamazione dello sciopero, di
assemblea e di permessi retribuiti anche a sindacati cui aderisce meno dell'un
per cento dei lavoratori; ma non garantisce affatto un vero pluralismo
sindacale: l'assenza di regole sulla rappresentanza e il depotenziamento del
patto di tregua — per cui qualsiasi lavoratore può aderire a uno
sciopero proclamato anche il giorno dopo la stipulazione del contratto — penalizzano
chiunque si proponga di contrapporre un modello di relazioni cooperative a
quello tradizionale di relazioni conflittuali, privilegiando di fatto chi
è capace di strillare più forte.
Gli apparati sindacali centrali vogliono —
e questo non sorprende—un sistema fortemente centralizzato, nel quale dunque
quasi tutto si decide a un tavolo romano; ma non è chiaro chi abbia
titolo per sedere a quel tavolo e in rappresentanza di chi. Ciò comporta
alcune anomalie evidenti in sede di concertazione tra governo e sindacati,
denunciate lucidamente da Bernardo Mattarella in un altro articolo
sull'Espresso, questo sì centrato su di una questione cruciale.
Ciò comporta pure che rappresentanze espresse quasi esclusivamente dai
lavoratori regolari e dagli imprenditori del Centro-Nord possano negoziare
contratti destinati ad applicarsi inderogabilmente su tutto il territorio
nazionale, anche se incompatibili con lo sviluppo delle regioni del Sud. Ma
sulle sabbie mobili di un diritto sindacale così incompiuto è ben
difficile costruire soluzioni alternative. Sarebbe auspicabile che il sistema
di relazioni sindacali fosse capace di darsi da sé le regole che oggi mancano.
Ma se esso non ne è capace, deve essere il legislatore a farlo. Questo
accade in tutti i Paesi civili; non si vede perché non debba accadere anche nel
nostro.
09 agosto 2007
È ben comprensibile che il dibattito
in seno alla maggioranza si concentri sulla questione del lavoro precario o
maltrattato: qui più che altrove è in gioco il valore
dell'uguaglianza, valore fondante di una sinistra degna di questo nome. Questa
però deve curare attentamente la bontà della diagnosi, se vuole
che la terapia per cui si batte sia credibile e, soprattutto, efficace.
L'aumento del lavoro precario non è
causato né dalla legge Biagi né dalla legge Treu del 1997. Lo dimostra,
innanzitutto, il fatto che esso è in atto in Italia da almeno un quarto
di secolo (e negli ultimi sei anni esso ha subito semmai un netto
rallentamento). Lo conferma, poi, il fatto che lo stesso aumento si sta
verificando da tempo in tutti i Paesi occidentali, Australia compresa,
indipendentemente dalle tendenze delle rispettive legislazioni in materia di
lavoro. E il tasso italiano di lavoro precario (contratti a termine, co.co.co.
e lavori a progetto) rispetto al totale — circa un lavoratore ogni sette—
è rimasto al di sotto, sia pur di poco, della media europea.
Tutto questo non significa affatto che non
ci sia qui un grave problema da affrontare. Ma occorre individuarlo bene, per
non rischiare di sbagliare clamorosamente il bersaglio. Il problema consiste in
un sensibile e costante aumento delle disuguaglianze di produttività tra
i lavoratori, che si traduce in crescenti disuguaglianze di trattamento fra di
essi. Per avere un’idea di quanto si sta verificando, si consideri ciò
che accadeva negli anni Cinquanta o Sessanta, quando due terzi della
forza-lavoro erano costituiti da operai, per lo più impegnati in mansioni
ripetitive e parcellizzate di diretta modificazione della materia: nel contesto
di quell'organizzazione del lavoro, fatto 100 il rendimento normale, l'operaio
più produttivo poteva arrivare a un rendimento 130 o 140, mentre quello
del più debole non scendeva quasi mai sotto quota 80. Era molto raro che
fra il rendimento del primo e quello del secondo ci fosse un rapporto superiore
a 2. Oggi la diretta modificazione della materia è affidata quasi
dappertutto alle macchine; la grande maggioranza dei lavoratori opera su flussi
di informazioni o sulle macchine stesse; e l'applicazione delle nuove
tecnologie fa sì che la possibile differenza di produttività fra
due lavoratori, anche di basso livello, possa essere di 10 o persino 100 a 1!
Ad aggravare il problema si aggiunge, per
un verso, il ritmo sempre più incalzante di sostituzione delle
tecnologie applicate: per ogni cambiamento ci sono i lavoratori che sanno
adattarsi, sanno «saltare sull'autobus » dell'innovazione, e quelli che non ci
riescono, restano indietro. Vi contribuisce, per altro verso, la
globalizzazione dei mercati, che espone soprattutto i lavoratori
professionalmente più deboli dei Paesi occidentali alla concorrenza di
quelli dell'Asia o dell'Europa orientale. Il ritmo dell'evoluzione tecnologica
e la globalizzazione penalizzano la parte più debole dei nostri
lavoratori, aggravandone il distacco dagli altri nella capacità di
trovare lavoro e, quando riescono a trovarlo, nel trattamento che ottengono,
compreso il grado di stabilità.
Qualsiasi forza politica che abbia a cuore
il valore fondamentale dell’uguaglianza tra i cittadini, e in particolare tra i
lavoratori, deve porre questo problema al centro della propria iniziativa. Ma
l'uguaglianza di cui stiamo parlando non è di quelle che si possono
«garantire » con un tratto di penna del legislatore.
Essa va costruita nel vivo della
società civile, compensando vigorosamente il deficit di cui soffrono i
lavoratori più deboli con l'offerta di un sovrappiù di servizi
efficaci di formazione, informazione e assistenza alla mobilità.
D'altra parte, ritornare alla legislazione
del lavoro degli anni Settanta, quando la sola alternativa era tra il lavoro
stabile a tempo pieno e la disoccupazione, non gioverebbe per nulla ai
lavoratori più deboli. Anche perché la produttività individuale
dipende molto dal contesto in cui il singolo si inserisce; e una certa
mobilità nella fase iniziale della carriera lavorativa può
giovare moltissimo nella ricerca del posto in cui il proprio lavoro sia meglio
valorizzato. Tanto questo è vero, che nella seconda metà degli
anni Settanta furono proprio la Cgil dei Lama e dei Trentin, la Cisl dei
Carniti e dei Crea, appoggiate da tutta la sinistra politica, a chiedere e
ottenere l'introduzione dei contratti di formazione e lavoro — cioè una
forma di lavoro precario, un lungo periodo di prova—come strumento utile per
favorire l'accesso al lavoro dei giovani.
Sta di fatto, comunque, che proporsi di
affrontare il problema dell’aumento della disuguaglianza tra i lavoratori con
l'abrogazione delle leggi Treu e Biagi significherebbe sbagliare clamorosamente
il bersaglio: la questione dell'aumento della disuguaglianza tra i lavoratori
resterebbe totalmente irrisolta. E, sulla distanza, proprio i militanti
più accesi di questa battaglia si rivolterebbero contro chi li ha
guidati nel vicolo cieco.
20 agosto 2007
Che la distinzione tradizionale tra destra
e sinistra sia d'impiccio, più che di aiuto, nell'affrontare
molti dei problemi che si affollano in questo inizio di secolo — dai problemi
dell'ambiente a quello delle risorse scarse, dalle questioni di pace e guerra a
quelle dell'immigrazione — è un'osservazione tante volte ripetuta da
risultare banale. Meno ripetuta è un'altra: lo scarso significato di
destra e sinistra non è vero soltanto per i grandi problemi «nuovi» che
tutti i Paesi si trovano di fronte: è vero anche per alcuni grandi
problemi «vecchi». L'Italia è un Paese ricco, solitamente assimilato ai
Paesi civili del mondo occidentale, ma si tira appresso gravi difetti di
cultura civica che lo rendono diverso dagli altri. Difetti identificati da gran
tempo — chi non ricorda le considerazioni di Leopardi sul carattere degli
italiani, sulla loro mancanza di «buon tuono »? — e confermati da una
letteratura storica, sociologica e antropologica molto ampia e convincente.
Moralismo? Esterofilia? Conosco molte persone intelligenti che scrollerebbero
le spalle di fronte a queste lagnanze, ritenendo che altri caratteri positivi
del nostro popolo più che compensino quei difetti. Questo giudizio
d'insieme poteva forse avere un senso durante la fase più semplice e
travolgente del nostro sviluppo economico, quando bastava lo scatenarsi degli
«spiriti animali», la voglia di intraprendere e di guadagnare, la
capacità di arrangiarsi, per superare gli svantaggi provocati dalla
mancanza di senso civico, dalla debole legalità, dallo scarso rispetto
per tutto ciò che è collettivo, dalla sfiducia nello Stato e
nelle sue istituzioni. Ma da tempo siamo entrati in una fase di sviluppo del
tutto diversa, nella quale non sono solo i moralisti a lamentarsi della
mancanza di senso civico e dei suoi corollari: sono gli economisti e i
sociologi che hanno scoperto, con prove sempre più solide, che un
«capitale sociale» appropriato è un potente motore di sviluppo, e lo
è soprattutto in un contesto di crescente complessità. E il senso
civico, il rispetto delle leggi, la fiducia nelle istituzioni, la capacità
di cooperare onestamente, sono ingredienti essenziali di quel capitale sociale.
Il programma di un ceto politico decente deve avere tra le sue priorità
quella di affrontare il «vecchio problema» che l'Italia non ha mai risolto: la
deve avere non per moralismo, ma per moralità; e la deve avere per
lungimiranza, perché una sua soluzione è indispensabile per affrontare i
nuovi problemi che si affacciano all' orizzonte. Dunque tolleranza zero per i
comportamenti illegali.
Dunque una pubblica amministrazione che
funzioni, specie nei suoi comparti cruciali, dalla
giustizia alla scuola. Dunque una strategia credibile, resistente al
cambiamento dei governi, per affrontare la questione meridionale: è il
Mezzogiorno la zona del Paese in cui i caratteri negativi che abbiamo prima descritto,
presenti ovunque, assumono i loro aspetti più estremi e non ci
sarà alcuna crescita, civile prima che economica, se essi non verranno
combattuti e il Mezzogiorno non contribuirà con forza allo sviluppo del
Paese. Col tempo — un lungo tempo, purtroppo — e se un indirizzo coerente e
severo verrà tenuto fermo, cambieranno anche le mentalità e gli
atteggiamenti degli italiani e lo spirito civico e la legalità
attecchiranno quanto basta per diventare un Paese civile. E' qualcuno in grado
di indicare che cosa dicono — che cosa dicono di diverso — la destra e la
sinistra su questi problemi di civiltà, di legalità, di buona
amministrazione, di controllo dello Stato sul territorio? Una soluzione
accettabile, in altri Paesi, è stata fornita prima che iniziasse il
confronto tra destra e sinistra: un confronto che si occupa di altri problemi,
importantissimi, ma assai diversi: di libertà, di eguaglianza, di
democrazia, di distribuzione del reddito. Ma quando una soluzione accettabile
non si è stabilizzata, quando in un lontano passato il processo di
formazione dello Stato e della Nazione non l'ha fornita, quando il problema
centrale è proprio quello di raggiungerla oggi, in grave ritardo, le
ideologie politiche cui destra e sinistra fanno riferimento, che ancora alimentano
i nostri partiti, sono mute. All'interno degli schieramenti di centrodestra e
centrosinistra esistenti in Italia ci sono persone pienamente consapevoli
dell'importanza di questo problema. Ma il gioco politico in cui sono immerse
non consente loro di affrontarlo con la priorità che merita: affrontarlo
significa scontrarsi con interessi e mentalità diffuse, con ideologie
radicate; significa sostenere misure impopolari e un riformismo…
rivoluzionario. Temo proprio che non basti una svolta del nostro sistema politico
verso il centro, un abbandono del bipolarismo, un taglio delle ali estreme, per
consentire a quelle persone di raggiungere una stabile egemonia: i loro nemici
stanno anche al centro.
22 agosto 2007