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Il PuntO  Documento inserito il 18-10-2008


 

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Il PuntO n° 149

 

Catastrofe finanziaria “due”.

Mentre la Cina studia da potenza alternativa,

l’Occidente inventa, per le aziende, la buona salute garantita per legge.

 

Di Mauro Novelli 18-10-2008

 

 

Alla fine dello scorso secolo, i fan della globalizzazione pensavano che il coinvolgimento del mercato cinese si sarebbe concretizzato in un semplice e vantaggioso ampliamento della base della domanda mondiale. I poco lungimiranti fautori ritenevano, infatti, che l’offerta di merci e servizi sarebbe restata appannaggio dei paesi occidentali più il Giappone. Tale concezione fu mutuata anche dai no global, che ritenevano la globalizzazione una semplice colonizzazione dei paesi in via di sviluppo da parte dei paesi avanzati.

Insomma, si riteneva che il miliardo di cittadini “occidentali” e la loro economia avrebbero approfittato del raddoppio della domanda con l’inserimento, nel commercio mondiale, del miliardo e trecento milioni di cinesi, ritenuti poco capaci di competere sul versante dell’offerta.

Le cose non sono andate così. Per una serie di motivazioni che sarebbe troppo lungo analizzare, i Cinesi si sono dimostrati competitivi proprio sul versante dell’offerta, avendo approfittato anche della delocalizzazione di molte aziende occidentali e giapponesi e, oggi, delocalizzando a loro volta in Viet Nam o in Senegal.

Il virus che infetta tutte le nostre analisi ha un nome: etnocentrismo. Da pigri  tolemaici, riteniamo che il mondo giri (da sempre e per sempre) attorno a noi, attorno cioè ai paesi oggi dominanti.

Con molta probabilità, questa crisi dimostrerà che il mondo può “progredire” anche di fronte ad una delle più disarticolanti crisi dei paesi occidentali.

Oggi la Cina è in grado di svolgere il ruolo di potenza e può dar luogo al decoupling (sdoppiamento, disaccoppiamento), cioè potrebbe risultare capace di costituire un polo d’attrazione del commercio internazionale alternativo agli USA ed all’Europa. Polo in grado di raggiungere lo stesso piano dei “vecchi” paesi avanzati.

Si sta verificando, infatti,  un sostenuto trend nel commercio dei paesi emergenti tra di essi a fronte di una corrispondente riduzione degli interscambi con i paesi dominanti.

In particolare, la Cina ha dimostrato di avere una capacità di adattamento alla globalizzazione e,  oggi, una capacità di governo della crisi  ben superiori alla nostra

Vediamo che cosa sta succedendo al commercio internazionale:

 

LE ECONOMIE EMERGENTI

A gennaio 2008, le esportazioni sudcoreane verso gli Usa sono diminuite di circa il 20%, ma il totale dell’export è aumentato del 20%, in particolare quello con i Paesi emergenti.

Le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono calate del 5%, ma sono cresciute del 60% quelle verso Brasile, India, Russia, e del 45% quelle verso i Paesi Opec: circa la metà delle esportazioni cinesi è rivolta verso paesi emergenti.

Le economie emergenti hanno creato le condizioni per sostenere il mercato interno generando una  crescita dei consumi domestici e degli investimenti in infrastrutture.

Sta di fatto che solo il 15% degli investimenti cinesi sono puntati sui settori trainanti le esportazioni del paese; oltre la metà si rivolge a infrastrutture e costruzioni.

Anche i Paesi produttori di petrolio stanno curando massicci progetti urbanistico-architettonici; Messico, Brasile e Russia stanno privilegiando il recupero di ritardi nella creazione di infrastrutture.

L’Economist scopre così che le 4 maggiori economie emergenti (Cina, India, Brasile, Russia) sono le meno Usa-dipendenti: le esportazioni verso gli Stati Uniti rappresentano solo l’8% del pil cinese, il 4% di quello indiano, il 3% di quello brasiliano e l’1% di quello russo.

Secondo l’Economist, più del 95% della crescita cinese dell’anno scorso è dipeso dalla domanda interna.

Nel 2007, grazie al petrolio, il Messico ha aumentato del 50 per cento gli investimenti nonostante siano crollate le sue esportazioni negli USA.

 

LA CINA

Tasso di alfabetizzazione: 98% (sopra i 15 anni; uomini: 99,2%; donne: 96,7%) (stime 2001). Studenti universitari: 1,4%; 18 milioni (2003).

Il terzo millennio sembra dedicato alla Cina.

Fra il 1978 e il 2003 il PIL cinese è passato da 147 a oltre 1.400 miliardi di dollari. Oggi è di oltre  7.000 miliardi di dollari. Nei cinque anni considerati, le esportazioni sono aumentate da 10 a 438 miliardi di dollari, (nel 2008 supereranno i 1200 miliardi) e le importazioni da 11 a 413 miliardi di dollari (nel 2008 supereranno i 910 miliardi).

Dal 2003, la Cina ha posto mano a riforme del settore bancario: ha destinato 45 miliardi di dollari di riserve estere per ricapitalizzare la Bank of China e la China Construction Bank (la terza ricapitalizzazione delle banche di Stato dal 1998).

Il costo del lavoro è quasi raddoppiato: la paga mensile di un operaio, che nel 2003 era intorno ai 600 yuan (circa 60 euro al cambio odierno), oggi è di circa 1.200 yuan.

 

Come si è già visto (Il PuntO n° 148), la Cina non è immune dalla crisi dell’Occidente, ma si sta dimostrando pronta ad assumere iniziative miranti a permettere il raggiungimento di nuovi equilibri: ha diminuito i tassi di interesse per facilitare il credito interno ed aumentare i consumi cinesi per sopperire al crollo delle importazioni USA; sta procedendo a riforme radicali come quella che permette ai contadini di diventare proprietari delle terre che lavorano.

Nel 2007, la Cina ha costituito il China Investment Corporation, un fondo d'investimento sovrano con una dotazione di 200 miliardi di dollari attivo sul mercato azionario; il primo investimento del neonato fondo è stato l'acquisto del 10% del gestore di private equity[1] Blackstone, cui ha fatto seguito l'investimento da 5 miliardi di dollari nella banca Morgan Stanley. Questo fondo dispone di ingenti riserve di valuta estera, grazie al notevole surplus commerciale della Cina: le riserve, finora investite in gran parte in titoli del tesoro USA, sono ininterrottamente cresciute fino a raggiungere i 1.810 miliardi di dollari a luglio 2008 (erano circa 500 milioni di dollari a fine 2004).

 

Dal luglio 2005, la Cina ha permesso una rivalutazione della sua valuta rispetto al dollaro Usa.  Negli ultimi due anni il rapporto Yuan/USD è passato da 8,3 circa (livello mantenuto stabile per un intero decennio!) all’attuale 6,834 (UIC del 17-10-2008) praticamente stabile da luglio 2008, con una rivalutazione complessiva della moneta cinese di oltre il 17 per cento in tre anni.

Nel frattempo, però, la dinamica di crescita reale della Cina, e il valore del suo interscambio commerciale con gli USA e con il resto del mondo sono sempre stati crescenti. Anche da parte USA si è accusata la Cina di voler mantenere forzatamente basso il valore dello Yuan per facilitare le proprie esportazioni.

Il rapporto di cambio tra le valute di due paesi è l’unica variabile (se libera di muoversi, cioè se i cambi non sono fissi)  in grado di rendere armonizzate nel tempo le economie reali sottostanti. Tenere fissi i cambi di due economie dalle dinamiche reali manifestamente diverse, o addirittura con trend opposti, impone, prima o poi, delle revisioni nei rapporti di cambio, benevole se decise dalle autorità monetarie, malevole se obbligate dalla speculazione (come avvenne nel 1971 per il Dollaro, nel 1992 per Lira e Sterlina).

In rapporto col Dollaro - e con l’Euro - lo Yuan dovrebbe essere rivalutato fortemente per permettere un ribilanciamento nell’import-export tra Cina e Occidente. Ma i surplus cinesi favoriti da uno Yuan debole continuano ad essere uno dei maggiori finanziatori del deficit americano. Ci si permetta qualche dubbio sulla buona fede USA circa gli inviti alla Cina perché rivaluti la sua moneta: si ridurrebbe in tal modo l’accumulo di riserve cinesi da destinare all’acquisto dei bond del Tesoro Usa.

In altri termini, finché verrà mantenuta la triangolazione: “deficit Usa, copertura con titoli di stato, acquisto cinese dei titoli americani, libera esportazione di beni cinesi in Usa e suo conseguente deficit, coperto con bond e così via”, tutti i problemi di equilibrio monetario internazionale ricadrà sull’area Euro e sul Giappone. E questa situazione conviene sia alla Cina che agli Stati Uniti.

Ma da qualche tempo, alla Cina comincia a stare stretta quella triangolazione:

- Il basso tasso di interesse  imposto dalla Fed sul dollaro costringe Pechino ad investire in titoli a basso rendimento rispetto ad altre possibili collocazioni più remunerative.

- Dal 2005, potentati Usa (qualcuno anche in Europa) hanno cominciato a chiede una politica protezionistica (i tessili l’hanno ottenuta nel 2005).

Tutto fa ritenere che questa situazione stia convincendo i cinesi a valutare possibili strategie di uscita.

Insomma la Cina sta ponendo le basi per sganciarsi dall’Occidente: sta studiando da paese trainante, per permettere al pianeta un decoupling che le permetta di affiancare gli Stati Uniti sul fronte economico e del commercio internazionale.

E le valutazioni del FMI dimostrano che gli scambi tra economie emergenti crescono più rapidamente di quelli tra loro e i Paesi ricchi.

Questo lento distacco cinese dal Dollaro non può che favorire l’area dell’Euro e dello Yen.

 

L’OCCIDENTE

Nel 1999, su pressioni di Greenspan (a sua volta pressato da Phil Gramm, oggi predestinato ministro del tesoro Usa se dovesse vincere McCain), il sistema bancario e finanziario americano ha ottenuto (con il Gramm-Leach-Bliley Act firmato da Bill Clinton) la completa abolizione della legge Glass-Steagall del 1933, approvata dal parlamento americano dopo la crisi del ’29 per evitare il conflitto d’interessi tra banche commerciali, banche di investimento, assicurazioni.

Con l’eliminazione di questo ultimo vincolo, si conclude l’opera iniziata da Reagan e dalla Thatcher di eliminazione di ogni controllo nella finanza che conta, cioè quella anglosassone: il sistema finanziario internazionale dominato da statunitensi e britannici è stato ridotto allo stato brado.

Ma dal 1999 ad oggi, cioè in 10 anni, l’Occidente ha assistito al suo tracollo finanziario e forse economico. Certamente non è più in grado di governare il mondo con gli strumenti oggi in circolazione.

A fronte della attuale crisi, gli gnomi di New York e di Londra hanno infantilmente adottato la soluzione aborrita negli anni di vacche grasse: allora i cittadini non potevano dividersi (se non con azioni di risulta) i vantaggi dello sviluppo, oggi, al contrario, i cittadini dei paesi avanzati si dividano i risultati fallimentari della politica economica e finanziaria di governi ed apparti produttivi. La socializzazione del disastro a cui costoro hanno condotto il pianeta, ha visto l’adesione festosa (suggerita da Brown) di tutti i governi dei paesi che contano, ma tali iniziative non fanno altro che ritardare di qualche anno (o mese) l’evidenza del declino occidentale in atto.

Per mantenere in piedi per qualche tempo ancora la baracca, abbiamo introdotto per le aziende “la buona salute per legge”. Il nuovo  termometro per misurare la febbre ha una scala che si ferma a 37 gradi (indipendentemente da castronerie imprenditoriali e/o manageriali?).

Le banche non sono in grado di reggersi in piedi? Nessun problema: la legge garantisce la trasformazione dei risultati della loro politica da fallimentari a eccellenti. I costruttori hanno imposto i SUV che consumano 20 litri per 100 chilometri e che nessuno vuole più? Vanno verso il fallimento? Tranquilli, arriva lo zio Sam in USA e altri 7 zii occidentali in loro aiuto.

Insomma, i fautori del mercato della giungla (contrabbandato per unico mercato adatto alla polis)  hanno inventato la domanda nominale: se i consumatori non consumano direttamente, i governi dell’Occidente li fanno consumare indirettamente, attraverso l’utilizzo dell’erario quale fornitore sostanziale di domanda.

La pochezza di questa gente – comunque alla barra del timone della nave occidentale -  non ha permesso loro la necessaria lungimiranza nella valutazione delle loro azioni. In termini di qualità di classi dominanti, la congiuntura ci è sfavorevolissima.

Con la dimostrata capacità di governo, non hanno esitato ad innestare metodi mafiosi nella loro azione: se la baracca occidentale non regge alla concorrenza degli emergenti, gli abitanti della baracca paghino il pizzo.

Quanto potrà andare avanti un meccanismo del genere? Ma, soprattutto, questo prendere fittiziamente tempo a che cosa serve? Sarebbe accettabile se esistessero le condizioni culturali per ripensare il  modello sociale dell’Occidente e ad impostarne uno nuovo. Ma chi può avere una  visione del mondo e dell’uomo sufficientemente alta per fare questo? Bush? Brown? Sarkò? Berlusca? Tutti insieme?

I Tedeschi son gli unici ad essersi resi conto che qualche errore è stato commesso. Tutti gli altri vanno trotterellando garruli dietro Bush, affiancati in questi momenti terribili (guarda caso!), sia dall’apparato produttivo, che ringrazia per essere stato trasformato in destinatario di pizzo a danno dell’erario, sia dall’alto senso di responsabilità delle rispettive opposizioni. Le quali, non sapendo neanch’esse che cosa proporre per governare il momento di trapasso da paesi “avanzati” a paesi “raggiunti”, si limitano a guardare passivamente a quanto sta accadendo, anche perché devono a loro volta qualche ringraziamento ai saccheggiatori.

Ricordate, quando le cose andavano bene, le affermazioni assertive miranti a promuovere la superiorità delle leggi di mercato?  “La concorrenza è salutare perché permette il progresso di chi intraprende con efficienza ed elimina chi non sa competere ed è diseconomico!” si diceva. Oggi, le cose vanno male perché il versante dell’offerta (cioè che produce beni e servizi) non sa competere con i concorrenti cinesi, russi, brasiliani, indiani e risulta diseconomico.

Ma, senza partorire nuovi strumenti, senza ripensare il nostro sistema di vita e di sviluppo, di produzione e di consumo,  chi può competere con i 120 euro di reddito medio mensile di un lavoratore cinese?

Ci si trincera dietro analisi sui livelli tragicamente bassi del rispetto dei diritti in quei paesi. Ma queste condizioni erano conosciute, dovevano entrare nelle valutazioni degli imprenditori e dei fan della globalizzazione, secondo i quali l’Occidente avrebbe vinto a mani basse. Comunque, invece di offrire ed impostare trasfusioni in termini di diritti umani – certamente non agevoli -  si opta per la convenienza di breve periodo, togliendo la Cina dai paesi cattivi e sperando in una sua benevolenza nell’accogliere di nuovo i bond del Tesoro Usa al fine di sostenere ancora i debiti delle famiglie anglosassoni e di rinviare (per quanto tempo?) il momento in cui sarà necessario per esse tirare le somme e fare i conti con la realtà.

Invece di pensare a vie d’uscita di sistema, con nuove elaborazioni  culturali, sociali, economiche, con nuove impostazioni produttive e di consumo, come per millenni ha saputo fare il mondo occidentale, ci limitiamo a fornire ossigeno (quello che resta) proprio a quei saccheggiatori che ci hanno condotto alla catastrofe.

Invece di puntare ad una valorizzazione delle nostre peculiarità antropologiche, umanistiche, culturali, cerchiamo di ridurre gli spazi dei diritti dei cittadini ed i loro redditi per poter essere concorrenziali con i paesi che ci stanno raggiungendo. Ma rastrellare i redditi residuali dei cittadini servirà a poco. Ancor meno ridurre gli spazi di democrazia.

Chi ci governa non ha la cultura per approntare gli strumenti in grado di tirarci fuori dal pantano: né è più possibile contrabbandare per visione strategica una tattica ormai risultata d’accatto.

 

Occorrerà un nuovo umanesimo per salvare il mondo?

 

 

 



[1]   Il private equity è un'attività finanziaria mediante la quale un investitore istituzionale rileva quote di una società sia acquisendone le azioni, sia apportando nuovi capitali.