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Il PuntO  Documento inserito il 13-10-2008 (agg.to del 19-10-08)


 

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del 12-7-2008 (rivisto il 13-7-2008)

 

 

Il PuntO n° 148

 

 

CATASTROFE FINANZIARIA. UNA FATALITÀ?

ORIGINI E CAUSE DI UN DISASTRO.

 

 

Di Mauro Novelli   13-10-2008

 

 

 

 


 

 

Indice

IL SISTEMA MONETARIO INTERNAZIONALE. UN PO’ DI STORIA. 2

DAL GOLD STANDARD AL GOLD EXCHANGE STANDARD. LA PRIMA CATENA DI S. ANTONIO   2

DAL GOLD EXCHANGE STANDARD AL DOLLAR STANDARD. 1971, SI INTERROMPE LA PRIMA CATENA DI S. ANTONIO.. 2

DAL DOLLAR STANDARD ALLA CRISI DI OGGI. 2008. SI INTERROMPE LA SECONDA CATENA DI S. ANTONIO.. 2

 

NON CI SONO LE CONDIZIONI PER UNA TERZA CATENA DI S. ANTONIO.. 2

INDOVINO… INDOVINO TRA LE DITA DI CHI RESTA IL CERINO?…... 2

L’INCERTEZZA SULLA VERIDICITA’ DEI DATI FORNITI 2

 

CONCLUSIONE PROBLEMATICA.. 2

 



IL SISTEMA MONETARIO INTERNAZIONALE.

UN PO’ DI STORIA.

 

 

DAL GOLD STANDARD AL GOLD EXCHANGE STANDARD. LA PRIMA CATENA DI S. ANTONIO

 

La Prima guerra mondiale aveva cancellato le condizioni favorevoli al corretto persistere del Gold Standard, cioè di un sistema monetario basato esclusivamente sull’oro detenuto in riserva.

Durante il periodo bellico, per il finanziamento della guerra, le Banche erano state costrette a mettere in circolazione carta moneta in misura abnorme: le scorte in oro in loro possesso risultarono troppo modeste in proporzione alle emissione cartacee. C’era, insomma, troppo poco oro nel mondo per soddisfare un fabbisogno monetario in forte lievitazione.

Con il Gold Exchange Standard, impostato negli anni ’20, il rapporto oro/moneta circolante diventa meno automatico: alcune monete “pregiate” (dollaro, sterlina, yen)  sono immediatamente convertibili; altre (lira, marco ecc.) non sono in diretto rapporto con l’oro, ma convertibili in monete pregiate. In tal modo, il volume delle riserve è passibile di ampio sviluppo, potendo le riserve stesse essere costituite da oro e da divise chiave.

Nel 1944, gli accordi di Bretton Woods costituirono la conclusione di due anni di discussioni su due progetti basati sul Gold Exchange Standard: un piano di Keynes (che prevedeva la costituzione di una International Clearing Union, dove trattare una nuova unità monetaria internazionale, il Bancor), e un piano di White (con la previsione di una più modesta “Cassa comune” alimentata dagli stati membri, e fornitrice di prestiti in Unitas – un semplice dollaro “pesante” -  in caso di sfavorevole andamento della bilancia dei pagamenti).

La differenza fondamentale dei due piani era costituita dal rapporto con l’oro: di fatto variabile per il Bancor di Keynes, praticamente fisso per l’Unitas di White. Vinse il progetto di White, pur con qualche modifica rispetto alla impostazione iniziale.

Due le critiche fondamentali al GES:

- la prima mette in evidenza la troppo comoda tendenza dei paesi detentori di valute chiave ad alimentare con emissioni cartacee i loro deficit della bilancia dei pagamenti, con conseguente preoccupante aumento del loro indebitamento nei confronti delle Banche centrali dei paesi in surplus;

- la seconda deriva dal fatto che l’aumento delle riserve internazionali dipende quasi esclusivamente dall’andamento del volume delle monete chiave in circolazione, essendo la produzione di oro del tutto irrilevante. Ne deriva che lo sviluppo del commercio internazionale dipende da una continua alimentazione di liquidità, a sua volta dipendente dalla volontà dei paesi detentori di valute pregiate di accettare  non solo l’esistenza di saldi passivi nelle loro bilance, ma addirittura una loro continua crescita.

Alcuni economisti paventavano l’innesto di un secondo problema, ben più grave di quello della scarsità di liquidità: il problema della “fiducia”.

 

 

DAL GOLD EXCHANGE STANDARD AL DOLLAR STANDARD. 1971, SI INTERROMPE LA PRIMA CATENA DI S. ANTONIO

 

Per tutti gli anni ’60, la bilancia commerciale degli USA risultò attiva, approfittando del boom che caratterizzò alcuni paesi occidentali (Italia e Germania in testa). Passiva risultava invece la bilancia dei pagamenti statunitense (merci+capitali) per l’esportazione continua di dollari. Nonostante il consolidamento di questa tendenza, gli USA non accettavano di ritoccare il rapporto Oro/Dollaro (35 dollari l’oncia) perché il deficit complessivo non era imputabile ad un commercio deficitario, ma alla “gravosa” funzione del dollaro quale regolatore del volume della liquidità internazionale necessaria allo sviluppo del commercio mondiale.

Con l’inizio degli anni ’70 intervenne una novità: anche la bilancia commerciale USA cominciò a risultare in deficit. La notevole crescita complessiva dei paesi occidentali, esauritasi a metà anni ’60, cominciava a ripercuotersi anche sugli Stati Uniti. Nel secondo trimestre 1971, per la prima volta dal 1893, l’andamento delle partite correnti USA presentò un deficit (729 milioni di dollari), tendenza aggravatasi nel terzo trimestre ( - 2,282 miliardi di dollari).

La debolezza del dollaro incalzato dalla speculazione, resa agevole dalla fissità dei cambi (prima o poi la valuta americana avrebbe dovuto rivedere il rapporto con l’oro e con le altre monete), e le richieste di conversione di dollari in oro da parte di alcuni paesi (Belgio, Olanda, Francia), costrinsero gli USA a rifiutare la conversione della loro valuta in oro, anche se tale operazione fosse richiesta da banche centrali, e ad imporre dazi del 10 %  alle importazioni.

Il 15 agosto 1971, con un discorso di 15 muniti, Nixon cancellò la base che aveva tenuto in piedi il sistema monetario internazionale con gli accordi di Bretton Woods, decretando l’inconvertibilità del dollaro. Mentre l’oro raggiunse in poco tempo i 44 dollari l’oncia, le Banche centrali rigurgitavano di dollari che nessuno voleva più.

La condizione perché  il dollaro fosse convertibile in oro era costituita dalla espansione continua delle economie dei paesi occidentali più il Giappone, dalla loro capacità, cioè, di assorbire senza problemi le esportazioni di beni e servizi USA e dal mantenimento di una loro fiducia di fondo nel meccanismo basato sul dollaro convertibile e sulla fissità di fatto dei cambi. Venuta meno la prima condizione col deficit americano anche nelle partite correnti, il problema della fiducia, esorcizzato fino agli ultimi anni ’60, esplose inevitabilmente con azione devastante.

 

 

DAL DOLLAR STANDARD ALLA CRISI DI OGGI. 2008. SI INTERROMPE LA SECONDA CATENA DI S. ANTONIO

 

Gli USA  uscirono dalla tempesta sufficientemente avvantaggiati.

A fine 1971, il dollaro era stato svalutato a livelli ben al di là del necessario, facilitando di nuovo le esportazioni americane: il 17 per cento sullo yen, il 13,5 sul marco, l’8,5 su sterlina e franco, il 7,5 sulla lira.

Tale sovrabbondante svalutazione e l’introduzione di una fascia di oscillazione dei cambi di 4,5 punti, rese evidente la pecca fondamentale degli accordi di Bretton Woods: tenere ottusamente fissi i cambi delle valute di paesi con sistemi troppo diversificati e con sviluppi economici non omogenei, ed anzi disarmonici, avrebbe prima o poi facilitato la speculazione, con accomodamenti traumatici dei cambi (traumatici perché sempre tardivi) e con la disarticolazione del sistema nel momento in cui si fosse innestata una generalizzata sfiducia.

Il mondo si abituò (si dovette abituare) ben presto al Dollar standard istituzionalizzato.

Gli Usa cominciarono ad esportare titoli del Tesoro. Trovarono l’accoglienza del Giappone negli anni ’80.

Diminuita la capacità di sviluppo dei Nipponici, dopo la veloce prima guerra del Golfo (l’industria militare Usa riveste per quel paese il ruolo delle nostre Partecipazioni statali - oggi Partecipazioni locali - si aprirono i benevoli caveaux della Cina.

Ma anche questo sistema sta esplodendo, nonostante gli Stati Uniti abbiano cercato di ampliare la base della catena  per mantenere in piedi il Dollars Standard cavalcando alternativamente la comprensione cinese, la bolla della “new economy”, la seconda guerra del Golfo, quella – cosiddetta - del mercato immobiliare.

 

 

 


 

 

 

NON CI SONO LE CONDIZIONI PER UNA TERZA

CATENA DI S. ANTONIO.

 

 

Per una serie di motivi, gli USA molto difficilmente potranno impostare una terza Catena di S. Antonio:

 

1 - LA PRESENZA DELL’EURO. Con l’introduzione dell’euro, come valuta di riserva il dollaro Usa ha un competitore equipollente.

 

2 - L’ASSENZA DI “LOCOMOTIVE” ALTERNATIVE. Gli untori hanno infettato il sistema finanziario globale con i titoli tossici. Questa infezione planetaria, coordinata da mediocri intelligenze, di nessuna capacità valutativa delle conseguenze, non permette che esistano economie in grado di acquisire il ruolo di locomotive in alternativa agli Stati Uniti. Negli anni ’70 e ‘80 questo ruolo fu svolto da Germania e Giappone. Oggi, quella cinese ha bisogno ancora di un paio di lustri per poter esprimere le sue potenzialità.

 

3 – CONDANNA PLANETARIA PER L’ANNULLAMENTO DI OGNI CONTROLLO ISTITUZIONALE. Ogni strumento in grado, anche se non di governare, almeno di controllare la speculazione finanziaria è stato spazzato via permettendo, attraverso l’eliminazione di lacci e lacciuoli, la sopravvivenza del sistema anglosassone ancora per qualche anno.  E’, infatti, risultato vincente il messaggio che il “mercato libero” è quello operante in una giungla, non quello inserito nelle regole di una polis. 

Dal 1987, la lobby bancaria americana è riuscita ad annullare ogni controllo – si parla di elargizioni per centinaia di milioni di dollari: nel 1999, su pressioni di Greenspan, il sistema ha ottenuto (con Bill Clinton) la completa abolizione della legge Glass-Steagall, approvata dal parlamento americano dopo la crisi del ’29 per evitare il conflitto d’interessi tra banche e società che sottoscrivono obbligazioni ed azioni. Alan Greenspan, governatore della FED dal 1987, è stato membro del consiglio d’amministrazione della J.P. Morgan, la prima banca ad usufruire della liberalizzazione.

Nei 18 anni di governatorato di Greenspan si è avuta la più grande espansione della finanza speculativa della storia mondiale. Adesso il problema sta emergendo inesorabilmente, ma nessuno si è mai preoccupato di testare l’efficienza dei freni del veicolo, che oggi risultano inutilizzabili, anche da parte della stessa FED.

In questo ultimo periodo, i grandi gruppi finanziari e bancari americani hanno costituito un forzato consorzio di compagni di viaggio,  piazzando i titoli spazzatura sia in Europa che in Asia, confezionati  con le ingannevoli etichette AA o addirittura AAA, fornite dalle società di rating. E i forzati compagni di viaggio europei si fanno serenamente complici: in Italia, ancora il 13 settembre, Patti Chiari indicava i titoli della Lehman come a basso rischio

Il 15 settembre, questa era la notizia battuta da Teleborsa sulla vicenda Lehman:

 

Lehman Brothers: Moody's e Fitch tagliano ratings

(Teleborsa) - Roma, 15 set - Arrivano i necessari provvedimenti d'urgenza da parte delle grandi agenzie di rating, dopo la notizia del fallimento di Lehman Brothers.

Moody's ha infatti annunciato un downgrade del rating sul debito senior nel lungo termine della banca d'affari statunitense a "B3" da "A2" e sul breve a "not-Prime" da "Prime-1". Moody's inoltre annuncia che i ratings sono in fase di revisione per ulteriori possibili downgrade.
Un provvedimento analogo è stato preso da Fitch, che ha tagliato il rating a "D" da "A+" per il lungo termine ed a "D" da "F1" per il breve termine. Il rating sul debito senior è stato ridotto a "CCC" da "A+".


Come dire? Che cosa pretendete dai signori delle pagelle? Non possono mica avvisare i pollastri prima che gli untori abbiano appestato l’appestabile! Basta che abbiano preso  i “necessari provvedimenti d’urgenza”, ma con calma, senza fretta.

 

 

 

 

4 - LA COSTITUZIONE DEI FONDI SOVRANI HA ACCORCIATO LA FILIERA[1]. Vista l’assenza di regole e di etica (quindi di capacità di reazione di chicchessia), gli stati produttori di materie prime hanno scoperto di poter approfittare della loro posizione oligopolistica: se investono direttamente i surplus nazionali invece di conferirli ad entità finanziarie private multinazionali, potrebbero avere rendimenti ben più alti. Sono stati creati così  fondi sovrani, fondi di investimento controllati direttamente dai governi di alcuni paesi, alimentati dai relativi surplus. Tali iniziative di finanza creativa hanno accorciato la filiera e fatto saltare  il monopolio anglosassone degli strumenti finanziari.

Quegli stessi paesi hanno anche scoperto che se sono in grado di condizionare il prezzo delle materie prime (petrolio, rame ecc.) di cui sono produttori, possono lucrare investendo in futures su quelle materie prime, conoscendone l’andamento delle quotazioni: non quindi una scommessa sull’andamento del prezzo, ma una certezza nel trend.

Non a caso tali strumenti sono nati soprattutto nei paesi forti esportatori di petrolio: Emirati Arabi Uniti, Qatar, Norvegia, ma anche Singapore, Abu Dhabi, Dubai, Kuwait; ma anche libici, russi e algerini.

E’ abbastanza facile per i paesi appartenenti all’Opec e titolari di fondi sovrani conoscere in anticipo la politica del cartello dei produttori di greggio (visto che loro stessi contribuiscono a definirla) e “scommettere” sul futuro prezzo del greggio. Si badi bene, se decidono di abbassare il prezzo, “scommetteranno” su prezzi calanti, con conseguente garantito lucro. Non si scappa.

Non a caso il Cile si sia dotato di  un fondo sovrano che punta sul rame e che il Botswana ne abbia uno che basa la sua politica di investimento  sui diamanti. 

I signori della City e di Wall Street sono stati spiazzati e, nel caso dei fondi sovrani, la filiera non li contempla più.

Da noi (notoriamente ai margini, nella marca) se ne è discusso poco, impegnati come eravamo sul controllo faziesco delle fusioni bancarie, sui furbetti del quartierino, su surrogazione e intervento dei notai.

Il problema è però fortemente sentito in Germania, dove è notevole la preoccupazione per le “esigenze” di libertà totale del capitale finanziario del pianeta preteso dagli anglosassoni. Nel corso del semestre di presidenza tedesca (2007), infatti, Angela Merkel ha sollevato pesantemente la questione dei fondi sovrani. Ha cercato di far adottare all’Europa misure almeno di regolamentazione della materia, di reciprocità: tentativo fallito per l’opposizione della Gran Bretagna e della sua capacità di coinvolgimento dei paesi recentemente accolti nell’Unione. Oggi, coautore del disastro, il primo ministro Brown si scopre terzo detentore mondiale di titoli del Tesoro USA, ed  invoca uno strumento europeo per far fronte alla crisi, visto che la politica americana è ormai nel pallone.

La Merkel  è stata l’unica a parlare di punizione per gli autori del ciclone che ci sta investendo. Tutti gli altri, come diciamo tra gentlemen, “hanno fatto pippa”.

 

5 - LA STRABILIANTE SFIDUCIA INTERBANCARIA. L’impossibilità di individuare ed isolare il virus che infetta i mercati, ha creato un rapporto tra banche improntato a reciproca e, ormai totale, sfiducia. [Anche per questo l’Euribor cresce nonostante la politica (oggi) espansiva della BCE in termini di tassi di riferimento.]

I titoli tossici sono stati impacchettati, rimpacchettati, spacchettati, suddivisi, variamente ricomposti ed infine collocati e ricollocati anche per 20 volte.

Gli autori (in testa alla catena di S. Antonio) si sono arricchiti e detengono le garanzie reali costituite dagli immobili negli Stati Uniti, se titolari di crediti costituiti da mutui, anche subprime. Il sistema si è però interrotto per l’impossibilità di ulteriori ampliamenti della base della piramide, ormai sclerotizzata e non più in grado di trovare pollastri tra entità finanziarie consorelle.

In ultima analisi, le banche, bravissime a pesare i clienti, non sono in grado di pesare loro stesse o altre banche. Ormai siamo al fallimento professionale.

A questo proposito, sarà interessante una occhiatina alle politiche di investimento dei gestori di fondi comuni e di gestioni patrimoniali: nell’ultimo hanno o no alleggerito le loro posizioni azionarie sul settore bancario e finanziarie? Cioè, hanno fatto gli interessi dei clienti o hanno dato un aiutino al sistema bancario sostenendone i titoli? L’argomento potrebbe risultare interessante per l’autorità giudiziaria.

 

6 – DIFFICILE TROVARE UN’ALTRA CINA. PASSARE ALL’INDIA? GLI USA CI PROVANO. Nonostante la minore poderosità economica rispetto alla Cina, l’India potrebbe essere il prossimo pollastro. Difficile ma ci si può provare. Detiene solo 13 miliardi di dollari di titoli del tesoro USA, in calo rispetto ai 14 del 2007 (vedi tabella successiva). Basterebbe convincere gli indiani ad acquistarne un po’ (come è stato fatto con la Gran Bretagna nel 2007) per campare bene qualche altro annetto.

Ma la repubblica indiana non ha scorciatoie governative come quelle cinesi, dove si sta sperimentando una via di mezzo tra capitalismo privato e di partito. Ha una legislazione molto vicina a quelle occidentali; si considera la più grande democrazia del mondo. Non sarà facile.

Ma gli USA ci provano. Cominciano a destabilizzare il Pakistan, nemico degli indiani fin dalla sua costituzione. Prima, con il suo aiuto, hanno destabilizzato l’Afghanistan approfittando delle decennali controversie di confine tra i due paesi. Ora buttano a mare Musharraf …… Forse per accreditarsi agli occhi degli indiani. Chissà?

Ecco i dati sui detentori esteri  dei titoli del tesoro americano:
Del debito complessivo 2007, 3500 miliardi sono detenuti da enti pubblici USA, 2800 miliardi da cittadini privati USA, e il restante 2200 da persone fisiche e Stati non USA.

Nel 2008, i detentori stranieri aggregano 2.676 miliardi di dollari. Oltre la metà (il 52,4 %) è nelle casse di Giappone, Cina, Gran Bretagna.

Ecco la tabella:

 

PRINCIPALI DETENTORI STRANIERI DI TITOLI DEL TESORO USA

(IN MILIARDI DI DOLLARI) HOLDINGS a/ AT END OF PERIOD

Fonte: Department of the Treasury/Federal Reserve Board. September 16, 2008

Nostra elaborazione

 

 

 

PAESE

LUGLIO

2008

GIUGNO

2008

MAGGIO

2008

LUGLIO

2007

VARIAZIONE

7-2008 / 7-2007

Japan

593,4

583,8

578,7

620,6

- 4,4 %

China, Mainland

518,7

503,8

506,8

480,0

+ 8,1 %

United Kingdom b

290,8

280,4

272,5

67,3

+ 332,1 %

PRIMI TRE PAESI

1.402,9

 

 

1.167,9

+ 20,1 %

Oil Exporters c

173,9

170,4

164,3

134,7

 

Brazil

148,4

151,6

151,4

105,8

 

Carib Bnkng Ctrs d

133,5

122,4

104,7

70,7

 

Luxembourg

75,8

 88,6

80,4

57,6

 

Russia

74,1

65,3

63,7

35,9

 

--------------------------------------------------------------------------

India

13,0

11,7

10,3

14,1

 

Sweden

12,4

12,4

13,2

15,5

 

Belgium

12,0

12,4

12,4

15,4

 

Ireland

11,2

14,2

15,8

15,6

 

All Other

139,5

145,8

147,7

154,3

 

 

 

 

 

 

 

Grand Total

2.676,4

2646,5

2611,2

2,201,0

 

 

 a/  Estimated foreign holdings of U.S. Treasury marketable and non-marketable bills, bonds, and notes

     reported under the Treasury International Capital (TIC) reporting system are based on annual

     Surveys of Foreign Holdings of U.S. Securities and on monthly data.

 b/  United Kingdom includes Channel Islands and Isle of Man.

c/  Oil exporters include Ecuador, Venezuela, Indonesia, Bahrain, Iran, Iraq, Kuwait, Oman, Qatar,

     Saudi Arabia, the United Arab Emirates, Algeria, Gabon, Libya, and Nigeria.

 d/  Caribbean Banking Centers include Bahamas, Bermuda, Cayman Islands, Netherlands Antilles and Panama.

     Beginning with new series for June 2006, also includes British Virgin Islands.

 

 

Commuove la fedele subordinazione degli inglesi alla politica anche suicida degli Stati Uniti: dal luglio 2007, al luglio 2008 i titoli USA detenuti da Londra sono passati da 67 a 290 miliardi di dollari (+ 332,1 per cento). Probabilmente per bilanciare l’alleggerimento del Giappone (- 4,4 per cento) e la minaccia cinese di abbandonare la politica di assorbimento dei titoli USA. Si ricordi che, a marzo 2008, Bush è stato costretto a togliere la Cina dalla lista nera dei paesi non rispettosi dei diritti della persona. Per ironia della sorte, qualche giorno dopo è iniziata la repressione cinese in Tibet.

L’Italia non è presente nella lista dei detentori esteri dei titoli Usa: o non ne ha o ne detiene un importo al di sotto degli 11 miliardi di dollari.

 

 


 

 

INDOVINO… INDOVINO…

 TRA LE DITA DI CHI RESTA IL CERINO?

 

Si è imputata la causa della crisi ai mutui subprime. Ma perché Bush ha offerto 700 miliardi di dollari dell’Erario (più 150 miliardi di alleggerimenti fiscali) quando ad oggi, in USA i pignoramenti per morosità sono circa 100 miliardi e si prevede  al massimo, un raddoppio di tale ammontare? E, ripetiamo, le garanzie ipotecarie, anche se ridotte, ci sono, stanno li, negli USA. Non solo, ma quasi  1/3 dei mutui subprime è stato concesso per l’acquisto di seconde case, quindi con possibilità di inserire ipoteche giudiziali anche sulla prima casa di chi dovesse risultare moroso.

Ma perché, mentre si distribuivano mutui a pioggia ed il prezzo degli immobili raggiungeva quotazioni oniriche, la FED anziché allertarsi - ed allertare presidente, parlamento e concittadini - procedeva ad una riduzione continua dei tassi d'interesse portandoli sino all'1%? Perché la tanto osannata FED non ha avvertito la pericolosità di una massiccia offerta di denaro a cittadini americani con basso o bassissimo merito di credito, attraverso l’elargizione di mutui addirittura oltre il valore dell’immobile dato a garanzia, con tassi di promozione?

E’ tutto imputabile alla famelicità di alcune decine di top manager che, per lucrare sulle stock options, hanno gonfiato bilanci e utili volantinando mutui ai concittadini?

 

Chi aveva l’occhio lungo, già nel 2001 (2001 !) paventava andamenti poi verificatisi.

 

Dal sito umm.it:

[…] A luglio 2001, Paul McCulley, economista del colosso finanziario Pimco, aveva previsto che la Federal Reserve non avrebbe fatto altro che sostituire una bolla speculativa con un'altra. "Qualora dovesse rendersi necessario", scriveva McCulley, "la Fed troverebbe il modo di gonfiare i prezzi degli immobili per sostenere l'edonismo americano. Penso che la Fed sia intenzionata a farlo nonostante si tratti di un'operazione non politically correct e nonostante le aspettative di chi vorrebbe un Greenspan contrario a simili iniziative".

 

Insomma, perché le autorità americane si sentivano obbligate a sostenere sempre di più la domanda interna attraverso integrazioni del reddito dei cittadini americani sotto forma di vere e proprie regalie ? Quali peggiori iatture dovevano essere scongiurate?

 

Oggi è evidente la risposta. Non doveva interrompersi la triangolazione: emissione di titoli del tesoro, assorbimento di questi da parte della Cina, importazione di prodotti cinesi da parte degli USA. Non si dimentichi che Pechino, oltre ai 500 miliardi di titoli del Tesoro, detiene anche 400 miliardi di titoli derivanti dalle cartolarizzazioni di Fanny e Freddy. Se la domanda interna degli Stati Uniti si fosse afflosciata, ne avrebbero risentito le esportazioni cinesi, la triangolazione si sarebbe interrotta ed il sistema sarebbe saltato. Si decise quindi di finanziare anche gli americani infinanziabili.

Ma il meccanismo si interruppe lo stesso. La insuperabile competitività dei prodotti cinesi a bassa tecnologia rischiava di disarticolare interi settori dell’economia americana. Nel 2005, infatti, su pressione del settore tessile interno e della sua capacità lobbistica, gli Stati Uniti furono costretti a reintrodurre  i dazi commerciali su tre categorie di prodotti tessili provenienti dalla Cina: le importazioni di magliette cinesi erano aumentate del 1.258% nel primo trimestre del 2005, rispetto allo stesso periodo dello anno precedente, mentre le spedizioni di pantaloni di cotone erano addirittura lievitate del 1.521% nello stesso periodo.

 

Il meccanismo finanziario è risultato straripante rispetto alla più contenuta dimensione  del sistema economico/produttivo sottostante che governo e FED volevano fargli supportare.

[Una curiosità: subito dopo la nomina di Bernanke in sostituzione di Greenspan, il vecchio presidente della FED cominciò, finalmente, a parlare di bolla speculativa sull’immobiliare.]

La situazione attuale non sembra reversibile. E la Cina si sta dimostrando pronta ad assumere iniziative miranti a permettere il raggiungimento di nuovi equilibri: ha diminuito i tassi di interesse per facilitare il credito interno ed aumentare i consumi cinesi per sopperire al crollo delle importazioni USA; sta procedendo a riforme radicali come quella che permette ai contadini di diventare proprietari delle terre che lavorano.

 

Da CRIonline:

Banca centrale cinese: ridotti i tassi di interesse di riferimento dei crediti e dei depositi di riserva. 2008-09-15 21:30:17 cri  

Il 15 settembre la banca centrale cinese, la Banca del Popolo, ha annunciato che per applicare la disposizione del lavoro economico statale nella seconda metà dell'anno, risolvere i problemi evidenti dell'attuale andamento economico, e mantenere lo stabile, rapido e continuo sviluppo dell'economia nazionale, ha deciso di abbassare il tasso di interesse di riferimento dei crediti in RMB e il tasso dei depositi di riserva dei piccoli e medi organismi finanziari.

A partire dal 16 settembre, il tasso di interesse di riferimento dei crediti in RMB scenderà dello 0,27%. Dal 25 settembre, a parte le Banche dell'Industria e del Commercio, o postale, gli altri organismi finanziari di deposito abbasseranno dell'1% il tasso dei depositi di riserva, e del 2% per gli organismi finanziari con lo status di persona giuridica delle zone terremotate di Wenchuan.

 

 

L’INCERTEZZA SULLA VERIDICITA’ DEI DATI FORNITI.

 

Ma, insomma, a quanto ammonta l’erogazione dei mutui subprime?

Le cifre fornite da FMI e OCSE sono molto discordanti. Ad aprile, il Fondo Monetario parlava di 975 miliardi di dollari, l’OCSE indicava  una forbice tra i 350 e i 420 miliardi di dollari ed ha giudicato ingiustificata la valutazione del Fondo monetario. Ad ottobre 2008, la valutazione del FMI era arrivata a 1.400 miliardi di dollari.

Ma una buona parte dei titoli derivanti dalla cartolarizzazione dei subprime è in mano alla finanza internazionale, o no? Di fatto, oggi Bush offre quella cifra per ritirare dal portafoglio delle banche americane non meglio definiti “titoli tossici”. Titoli ben oltre l’ammontare dei subprime?

Però, se 700 miliardi dollari sono necessari per bonificare il sistema bancario americano, quanti miliardi di dollari sono stati spalmati sul sistema finanziario internazionale? E quanti sono andati a finire nel portafoglio dei risparmiatori privati?

Secondo Mike Whitney, un analista finanziario americano, il totale di titoli circolanti emessi nei mercati non regolamentati e privi di patrimonialità reale, è di 20 mila miliardi di dollari. Se questi 20 mila miliardi di dollari di titoli sono privi di mercato e, quindi, non liquidabili, sono anche privi di valore. Secondo questa analisi, l’attuale sistema finanziario è destinato ad affrontare una crisi, ma non per problemi di liquidità, bensì per mancanza di solvibilità.

Torniamo così al problema della “fiducia” che interruppe la prima Catena di S. Antonio col discorso di Nixon che abolì la convertibilità del dollaro.

 

Quindi il cerino resterà in mano alle banche?

Non scherziamo!

Tutti i governi si stanno impegnando a trasferire nelle tasche dei rispettivi Pantaloni i buchi finanziari e le possibili  insolvenze di banche. E le iniziative dovranno risultare particolarmente vantaggiose per gli istituti di credito.

Si ricordi che, all’ inizio del 2007, la Goldman Sachs suggeriva di comprare o, quanto meno, di tenere azioni di banche, facendo storcere il naso agli analisti più accorti, in grado di avvertire le avvisaglie della tempesta che stava arrivando. Oggi, scopriamo che forse la Goldman Sachs aveva ragione, forse  era a conoscenza di informazioni migliori di altri: se il sistema avesse retto, sarebbero continuati i notevoli utili del settore bancario; se fosse crollato, sarebbero intervenuti i comprensivi e preoccupati governi del mondo intero.

In questa vicenda, in un gioco delle parti ben organizzato, il Fondo Monetario Internazionale si è assunto il compito di pressare i governi sul didietro. Come qualificare infatti i suoi  proclami miranti a terrorizzare miliardi di persone con intensità crescente, quando tutte le autorità politiche e monetarie cercano di spargere fiducia, o fanno finta di farlo?

 

(7-10-2008) Blog di Panorama. […]Del resto, parlano da sole le cifre riportate nel rapporto sulla stabilità finanziaria globale redatto dall’Fmi, nel quale si parla di perdite collegate alla crisi del mercato subprime americano che potrebbero arrivare a 1.400 miliardi di dollari, significativamente più dei 1.000 miliardi stimati ad aprile. “Sull’Europa pesa il 40% delle perdite emerse fino ad ora”, con svalutazioni per 580 miliardi di dollari solo a carico delle banche, come ha spiegato Caruana, sottolineando che “il compito del Fondo non è dare indicazioni specifiche ad ogni paese o imporre strategie uguali per tutti, ma promuovere collaborazione e coordinamento tra i vari paesi”, nel rispetto delle particolarità e necessità di ogni singolo stato. Proprio la collaborazione intergovernativa appare come una possibile via di uscita nel tentativo di migliorare il livello di comunicazione e rendere le politiche più organiche e coordinate. “Il tempo delle soluzioni graduali è terminato.

 

(8- 10-2008) Il Sole 24 Ore. L'allarme del Fondo Monetario. L'economia globale sta "decelerando rapidamente". Si tratta della "peggiore crisi finanziaria dal 1930". È l'allarme lanciato dal Fmi World Economic Outlook. L'economia mondiale, si legge nel rapporto, sta "entrando in una crescente depressione economica a causa del più pericoloso shock finanziario per le economie avanzate dagli anni Trenta".

 

(10-10-2008) ANSA Il direttore generale dell'Fmi, Dominique Strauss-Khan, ha fatto presente che il Fondo sarà pronto a soccorrere finanziariamente i Paesi membri più colpiti dalla stretta nel credito, non escludendo che anche alcune economie occidentali possano chiedere aiuto -"nessuno sa se alcune economie avanzate avranno bisogno degli aiuti del Fondo"

 

(11-10-2008) AGI- Secondo il numero dell'Fmi, nonostante le azioni senza precedenti, come il taglio dei tassi coordinato delle banche centrali, saranno necessarie ulteriori interventi affinché i mercati si stabilizzino

.

(12-10-2008) Il Fmi: «È una crisi di sistema, servono strumenti eccezionali»

 

(12-10.2008) Il Fondo Monetario internazionale ritiene che "il sistema finanziario globale sia sull'orlo di un collasso sistemico", ma appoggia il piano del G7. Lo dice il direttore generale Dominique Strauss-Kahn alla luce dell' "intensificarsi dei problemi di solvibilità delle maggiori finanziarie Usa e Ue". 

 

E, giacché ci siamo, anche le aziende dei settori industriali chiedono aiutini.

 

 


 

 

CONCLUSIONE PROBLEMATICA

 

Abbiamo scoperto che la globalizzazione non è la meccanica supremazia del vecchio mondo occidentale sul resto dei paesi della terra, come credevano i gonzi d’inizio millennio. 

Abbiamo anche scoperto che il sistema occidentale ed il livello di reddito a cui è giunto non sono esportabili: occorrerebbero le risorse di quattro Terre per garantire il nostro “benessere” a 6,7 miliardi di uomini. Non possiamo pensare che l’inserimento di circa duemiliardi e mezzo di persone nel meccanismo tendenziale del sistema economico e finanziario occidentale, promosso in pochi anni, possa non avere ripercussioni. La crescita conseguente di consumi (petrolio, alimentari, altre materie prime ecc.) non è possibile senza una drastica revisione dei consumi dei paesi oggi avanzati, pena un insostenibile aumento dei prezzi.

Con il coinvolgimento di Cina, India, Brasile ed altre nazioni abbiamo messo in comunicazione due vasi uguali in precedenza non comunicanti. Tolta la paratia di separazione, i liquidi dei due tubi tendono ad a disporsi alla stessa altezza. Cioè, pur nelle differenze fisiologiche, i redditi del mondo occidentale e quelli di Cina e di India, nel tempo, tendono ad equipararsi: i nostri devono contrarsi, gli altri devono crescere. 

La crisi impone  una revisione obbligatoria di molti equilibri. Ma gli strumenti ed i risultati di questa revisione non sono “oggettivi”, dipendono dalla decisioni dei governi dei paesi interessati, che – oggi – vogliono far passare le loro azioni per obbligate.

Intanto è stata rivista la posizione dei liberisti ad oltranza: quando le cose vanno bene è opportuno imporre il liberismo della giungla; quando le cose vanno male è opportuno scoprire il liberismo della polis e, magari, quello di una polis temporaneamente soggetta a tirannide.

Insomma, i vantaggi vanno divisi per pochi, mentre gli svantaggi è opportuno condividerli con tutti, anche adottando strumenti di politica economica verbosamente vituperati fino a qualche settimana fa (nazionalizzazioni, eliminazione di elementi di concorrenza, aiuti di stato). In seguito, rimesse in sesto le cose con il raggiungimento di nuovi equilibri, tornerà ad affacciarsi la superiorità del mercato della giungla su quello della polis. Le nazionalizzazioni oggi annunciate come salvifiche, verranno ripudiate per tornare alle necessarie, superiori e più efficienti privatizzazioni.

Vedremo se, nei vasi comunicanti, si creeranno sacche di privilegio i cui livelli non saranno influenzati dal riversarsi del liquido dalla parte dove è disposto a livello più alto, verso  quella dove il livello è più basso. Vedremo se, ancora una volta, il buono si dividerà tra pochi e il cattivo tra tutti.

Occorre predisporre nuovi strumenti di analisi e di intervento, adatti a situazioni fino ad ora considerate possibili ma improbabili. Pena la messa in comunicazione anche dei vasi contenenti i diritti, con la messa in discussione del loro rispetto, della loro valorizzazione: il nostro livello si abbasserà, il loro si alzerà. Ma questa deriva verso una polis tirannica non possiamo certo permetterla.

Le deleghe totali ai professionisti della politica e della finanza  non sono più ammissibili: cominciano ad essere, come stiamo verificando, pesantemente diseconomiche.


APPENDICE

 

UN PO’ DI CIFRE

 

 

 

 

IL PIL MONDIALE

A ottobre 2008 la popolazione mondiale ha raggiunto i 6.758.293.000 di unità.

Prima della attuale crisi, le previsioni circa il PIL mondiale 2008 mondiale superavano i 60 mila miliardi di dollari, per un Pil pro capite medio di circa 8.800 dollari.

Per quanto riguarda la ricchezza complessiva prodotta dalla singole nazioni, 14 dei 225 paesi della Terra  hanno un PIL superiore a mille miliardi di dollari; 49 hanno un PIL superiore a 100 miliardi di dollari.

 

TAB. 1 - PRODOTTO INTERNO LORDO PER PAESE

Fonte Index Mundi – In miliardi di dollari USA

 


Paese

Value

Stati Uniti

13.860

Cina

7.043

Giappone

4.417

India

2.965

Germania

2.833

Gran Bretagna

2,147

Russia

2.076

Francia

2.067

Brasile

1.838

Italia

1.800

Spagna

1.362

Messico

1.353

Canada

1.274

Corea del Sud

1.206

Iran

853

Indonesia

846

Australia

767

Taiwan

690

Turchia

668

Paesi Bassi

639

Polonia

625

Arabia Saudita

572

Argentina

524

Thailandia

520

Sudafrica

468

Pakistan

446

Egitto

432

Belgio

379

Malesia

358

Venezuela

335

Svezia

333

Grecia

326

Ucraina

321

Colombia

320

Austria

320

Svizzera

301

Filippine

299

Nigeria

295

Hong Kong

293

Algeria

269

Norvegia

257

Repubblica ceca

249

Romania

247

Cile

234

Portogallo

232

Singapore

223

Vietnam

223

Perù

218

Bangladesh

209

Danimarca

205

Ungheria

194

Irlanda

188

Finlandia

186

Israele

185

Kazakistan

162

Emirati arabi uniti

146

Kuwait

139

Marocco

127

Nuova Zelanda

113

Sudan

108

Slovacchia

108

Bielorussia

105

Iraq

100

Ecuador

98

Myanmar

91

Bulgaria

87

Rep.ca dominicana

85

Sri Lanka

83

Siria

83

Angola

81

Libia

79

Portorico

77

Tunisia

77

Azerbaigian

72

Croazia

69

Guatemala

67

Uzbekistan

62

Oman

61

Lituania

60

Qatar

58

Kenya

58

Serbia

57

Costa Rica

56

Etiopia

55

Slovenia

55

Yemen

53

Cuba

51

Turkmenistan

47

Tanzania

43

Libano

41

Lettonia

40

Camerun

40

Bolivia

40

Lussemburgo

39

Uruguay

37

El Salvador

36

Afghanistan

35

Costa d'Avorio

33

Uganda

31

Ghana

31

Nepal

31

Bosnia-Erzegovina

30

Estonia

29

Panama

29

Giordania

28

Paraguay

27

Montenegro

26

Cambogia

26

Guinea Equatoriale

26

Honduras

25

Bahrein

25

Botswana

24

Trinidad e Tobago

23

Senegal

21

Gabon

20

Madagascar

20

Albania

20

Georgia

20

Congo (ex Zaire)

19

Nicaragua

18

Mozambico

18

Burkina Faso

18

Macedonia

17

Armenia

17

Papua N.a Guinea

17

Ciad

16

Zambia

16

Haiti

16

Maurizio

15

Mali

14

Congo

14

Giamaica

13

Laos

13

Macao

13

Benin

12

Islanda

12

Tagikistan

12

Namibia

11

Malawi

10

Kirghizistan

10

Corea del Nord

10

Moldavia

10

Guinea

10

Brunei

10

Malta

9

Niger

9

Ruanda

9

Mongolia

8

Bahamas

7

Burundi

6

Zimbabwe

6

Mauritania

6

Somalia

6

Barbados

6

Swaziland

5

Togo

5

Figi

5

Sierra Leone

5

Eritrea

5

Guyana

4

Capo Verde

4

Bhutan

4

Suriname

3

Nuova Caledonia

3

Rep. Centrafricana

3

Lesotho

3

Andorra

3

Belize

2

Timor orientale

2

Isole Cayman

2

Gibuti

2

Liechtenstein

2

Seicelle

2

Liberia

1

Gambia

1

Comore

1

Samoa

1

Antigua e Barbuda

1

Saint Lucia

1

Groenlandia

1

Grenada

1

Monaco

1

S. Vinc. Grenadine

1

Guinea Bissau

1

Tonga

1

San Marino

1

Isole Salomone

1

Vanuatu

1

S.Christopher Nevis

1

Dominica

0

São Tomé  Príncipe

0

Kiribati

0

Palau

0

Isole Falkland

0

Nauru

0

Tuvalu

0


 

 

PIL PRO CAPITE

Per quanto riguarda la ricchezza per abitante, il PIL pro capite varia tra il massimo di 80.800 dollari del Lussemburgo ed il minimo di 110 $ l’anno della Striscia di Gaza,  dove si vive con poco più di un terzo di dollaro al giorno. L’Italia è al 38^ posto con 31 mila dollari.

 

Orientativamente, considerando la tabella che segue, possiamo dire che il gruppo più ricco (oltre 10.000 $ di Pil pro capite - dal primo al 94 posto in graduatoria), comprende il 20% della popolazione mondiale.

Quello intermedio, con Cina e India, (tra i 2.000 ed i 10.000 $ di Pil pro capite -  dal 95^ al 175 posto), il 55 % della popolazione mondiale.

Quello più povero (sotto i 2.000 $ di Pil pro capite - dal 176^ al 225^ posto), il 25 % della popolazione mondiale.

Un quarto della popolazione mondiale campa con 5 dollari e mezzo (meno di 4 euro) al giorno.

Il Pil della Cina (1.330 miliardi di abitanti) supera di poco i 7.000 miliardi di $, con un Pil p.c. di 5.260 $.

Il Pil dell’India (1.148 miliardi di abitanti) è di circa 3.000 miliardi, per un Pil p.c. di poco superiore ai 2.600 $.

La Ue dei 27 raggiunge un Pil di 14.070 miliardi di dollari (circa il 24,8 del Pil mondiale), con 497 milioni di abitanti per un Pil pro capite di 28.300 dollari annui.

Nel 2007, l'Italia, il cui Pil ammontava ad oltre 1.756 miliardi di dollari,  figurava al 32° posto mondiale nella classifica del Pil pro capite: circa 30.200  dollari. Per il 2008 si prevede un nostro declassamento fino al 38° posto.

Riportiamo il Pil pro capite previsto per il 2008 dei 225 paesi della Terra:

 

TAB. 2 - PIL PRO CAPITE PER PAESE

Fonte Index Mundi. Stime 2008. In $ Usa

 


 

Paesi

PILp.c in $ USA

1

Lussemburgo

80.800

2

Qatar

75.900

3

Bermuda

69.900

4

Jersey

57.000

5

Norvegia

55.600

6

Kuwait

55.300

7

Emirati arabi uniti

55.200

8

Singapore

48.900

9

Stati Uniti

46.000

10

Irlanda

45.600

11

Guernsey

44.600

12

Guinea Equatoriale

44.100

13

Isole Cayman

43.800

14

Hong Kong

42.000

15

Svizzera

39.800

16

Islanda

39.400

17

Austria

39.000

18

Andorra

38.800

19

Paesi Bassi

38.600

20

I.le Vergini brit.

38.500

21

Canada

38.200

22

Gibilterra

38.200

23

Australia

37.500

24

Danimarca

37.400

25

Svezia

36.900

26

Belgio

36.500

27

Finlandia

35.500

28

Gran Bretagna

35.300

29

Man. Isle of

35.000

30

Bahrein

34.700

31

Germania

34.400

32

San Marino

34.100

33

Francia

33.800

34

Giappone

33.800

35

Spagna

33.700

36

Brunei

33.600

37

Isole Faroer

31.000

38

Italia

31.000

39

Grecia

30.500

40

Monaco

30.000

41

Taiwan

29.800

42

Israele

28.800

43

Macao

28.400

44

Slovenia

27.300

45

Nuova Zelanda

27.300

46

Liechtenstein

25.000

47

Isole Falkland

25.000

48

Corea del Sud

24.600

49

Repubblica ceca

24.400

50

Malta

23.200

51

Bahamas

22.700

52

Estonia

21.800

53

Portogallo

21.800

54

Aruba

21.800

55

Trinidad e Tobago

21.700

56

Arabia Saudita

20.700

57

Groenlandia

20.000

58

Slovacchia

19.800

59

Barbados

19.700

60

Portorico

19.600

61

Ungheria

19.500

62

Oman

19.100

63

Seicelle

18.400

64

Lettonia

17.700

65

Polinesia francese

17.500

66

Lituania

16.700

67

Polonia

16.200

68

Antille olandesi

16.000

69

Croazia

15.500

70

Guam

15.000

71

Nuova Caledonia

15.000

72

Botswana

14.700

73

Russia

14.600

74

I. Vergini USA

14.500

75

Cile

14.400

76

Malesia

14.400

77

Gabon

13.800

78

Costa Rica

13.500

79

Libia

13.100

80

Argentina

13.000

81

Venezuela

12.800

82

Marianne sett.li

12.500

83

Messico

12.500

84

Iran

12.300

85

Maurizio

11.900

86

Bulgaria

11.800

87

Is.le Turks e Caicos

11.500

88

Romania

11.100

89

Antigua e Barbuda

10.900

90

Uruguay

10.700

91

Sudafrica

10.600

92

Libano

10.400

93

Kazakistan

10.400

94

Bielorussia

10.200

95

Brasile

9.700

96

Turchia

9.400

97

Turkmenistan

9.200

98

Rep.ca dominicana

9.200

99

Isole Cook

9.100

100

Azerbaigian

9.000

101

Panama

9.000

102

Anguilla

8.800

103

Macedonia

8.400

104

S.t Christ. e Nevis

8.200

105

Algeria

8.100

106

Thailandia

8.000

107

Belize

7.800

108

Suriname

7.800

109

Serbia

7.700

110

Palau

7.600

111

Perù

7.600

112

Tunisia

7.500

113

Colombia

7.200

114

Ecuador

7.100

115

Capo Verde

7.000

116

S.Pierre Miquelon

7.000

117

Ucraina

6.900

118

Bosnia-Erzegovina

6.600

119

Angola

6.500

120

Samoa americane

5.800

121

Niue

5.800

122

Armenia

5.700

123

Albania

5.500

124

Figi

5.500

125

Egitto

5.400

126

Guatemala

5.400

127

Guyana

5.300

128

Cina

5.300

129

El Salvador

5.200

130

Namibia

5.200

131

Nauru

5.000

132

Mayotte

4.900

133

Giamaica

4.800

134

Swaziland

4.800

135

Saint Lucia

4.800

136

Giordania

4.700

137

Cuba

4.500

138

Bolivia

4.400

139

Siria

4.300

140

Georgia

4.200

141

Sri Lanka

4.100

142

Paraguay

4.000

143

Grenada

3.900

144

Maldive

3.900

145

Montenegro

3.800

146

Marocco

3.800

147

Dominica

3.800

148

Wallis e Futuna

3.800

149

Congo

3.700

150

S.t Vinc.Grenadine

3.600

151

Iraq

3.600

152

Monserrat

3.400

153

Indonesia

3.400

154

Honduras

3.300

155

Filippine

3.300

156

Nicaragua

3.200

157

Isole Marshall

2.900

158

Papua N. Guinea

2.900

159

Mongolia

2.900

160

Vanuatu

2.900

161

India

2.700

162

Pakistan

2.600

163

Vietnam

2.600

164

Sudan

2.500

165

Sant'Elena

2.500

166

Yemen

2.400

167

Camerun

2.300

168

Micronesia

2.300

169

Moldavia

2.200

170

Nigeria

2.200

171

Uzbekistan

2.200

172

Tonga

2.200

173

Samoa

2.100

174

Timor orientale

2.000

175

Kirghizistan

2.000

176

Corea del Nord

1.900

177

Laos

1.900

178

Haiti

1.900

179

Myanmar

1.900

180

Cambogia

1.800

181

Costa d'Avorio

1.800

182

Mauritania

1.800

183

Senegal

1.700

184

Tuvalu

1.600

185

Tagikistan

1.600

186

Ciad

1.600

187

Kenya

1.600

188

Lesotho

1.500

189

Benin

1.500

190

Bhutan

1.400

191

Bangladesh

1.400

192

Zambia

1.400

193

Ghana

1.400

194

Mali

1.200

195

São Tomé e Prínc.

1.200

196

Burkina Faso

1.200

197

Tanzania

1.100

198

Uganda

1.100

199

Nepal

1.100

200

Madagascar

1.000

201

Kiribati

1.000

202

Guinea

1.000

203

Tokelau

1.000

204

Ruanda

1.000

205

Afghanistan

1.000

206

Gibuti

1.000

207

Eritrea

1.000

208

Togo

900

209

Mozambico

900

210

Gambia

800

211

Malawi

800

212

Sierra Leone

800

213

Burundi

800

214

Repubbl.Centrafric.

700

215

Etiopia

700

216

Niger

700

217

Comore

600

218

Isole Salomone

600

219

Somalia

600

220

Guinea Bissau

600

221

Zimbabwe

500

222

Liberia

500

223

Congo (ex Zaire)

300

224

West Bank

110

225

Gaza Strip

110


 

 

 

 

 

 

 

RAPPORTO DEBITO/PIL

 

La tabella che segue mette in evidenza il rapporto del Debito pubblico sul PIL.

Uruguay a parte, da rilevare il rapporto Debito/Pil del Giappone (oltre il 170 per cento).

 

 

 

TAB. 3 - RAPPORTO DEBITO/PIL 2007

 

Uruguay

793,4 %

Giappone

oltre il 170 %

Italia

oltre il 105 %

Germania

68,1 %

La Francia

66,5 %

USA

64,7 %

GB

42,2 %

Canada

38,7 %

Hong Kong

1,8 %

 

 

La comparazione col Giappone non è consolante per l’Italia: mentre il Giappone ha un difetto di entrate, l’Italia ha un eccesso di spese. I nipponici, cioè, possono far conto su una potenziale ed efficace leva fiscale. Infatti, mentre la nostra pressione fiscale supera il 43 per cento, quella giapponese supera appena il 25 per cento. E sappiamo quanto sia difficile per l’Italia diminuire le spese correnti.

 

 

 

ALCUNI DATI DEGLI STATI UNITI

 

Abitanti: 303.824.646

Prodotto Interno Lordo (PIL): $13.860 miliardi di dollari (2007)
Tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo (PIL): 2,2% (2007)
Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite: $46,000 (2007)
Tasso di inflazione annuo (prezzi al consumo): 2,7% (2007)
Tasso di disoccupazione: 4,6% (2007)

Soglia di povertà: il 12% della popolazione degli USA vive sotto la linea di

povertà. [Germania: 11 per cento; Francia: 6 per cento]

Proprietari di case: il 67 per cento delle famiglie sono proprietarie di case.

Disavanzo: L'anno fiscale 2006 si è chiuso con un disavanzo di 8.500 miliardi di dollari, pari a 6.472 miliardi di euro.



[1]  I fondi sovrani controllano solo lo 0,3% di Piazza Affari di Carlo Festa (Il Sole 24 Ore del 19-10-08)


Hanno decine di miliardi di dollari da investire in Europa e negli Stati Uniti e la loro ombra si sta velocemente avvicinando a molti dossier fino a poco tempo fa intoccabili. I fondi sovrani asiatici e del Medio Oriente in pochi mesi hanno comprato quote di banche europee e americane (Merrill Lynch, Barclays, Ubs, Credit Suisse, Citigroup e Deutsche Bank fino all'ultimo raid su Unicredit), ma anche colossi dell'energia (con l'acquisto di azioni del colosso transalpino Total) e simboli di Wall Street come General Electric e Blackstone. Insomma, settori e aziende strategiche per qualsiasi Paese.
In Italia, per ora, hanno ancora un peso ridotto. A Piazza Affari contano infatti con un risicatissimo 0,3% che vale 1,5 miliardi di capitalizzazione e partecipazioni in Unicredit e nella Juventus (dove è presente la Lafico) e in Mediaset (dove c'è il fondo sovrano di Abu Dhabi). Ma proprio dopo il recente raid della Banca di Libia e della Lybian Investment Authority che hanno rilevato sul mercato nelle ultime settimane il 4,2% di Piazza Cordusio, si stanno ritagliando un angolo privilegiato nelle stanze dei bottoni.

Alla conquista delle banche
Dalla moda-lusso e dal real estate, soprattutto i grandi alberghi, che sono sempre stati settori privilegiati, i fondi sovrani si stanno rapidamente espandendo verso l'area del credito. Con risultati a dir la verità altalenanti: perché è pur vero che il braccio finanziario di Muammar Gheddafi potrebbe avere visto giusto a comprare un titolo come Unicredit ormai a livelli di Borsa molto bassi.
Meno bene è andato però finora ad altri. Molti fondi sovrani hanno comprato quote di grandi banche nel 2007 e, nell'ultimo anno, le quotazioni del credito sono scese pesantemente. Che dire dell'investimento con il quale il Governo di Abu Dhabi, attraverso Adia, a fine novembre del 2007 ha dato 7,5 miliardi di dollari a Citigroup (scesa a Wall Street in un anno del 66%), rilevando una quota del 4,9% del capitale attraverso speciali "equity units" convertibili in azioni ordinarie.
Perdite pur sempre teoriche come quella su Barclays, dove in agosto al termine della ricapitalizzazione alcuni investitori, come la China Development Bank e il fondo Temasek di Singapore hanno accresciuto la loro quota, mentre è entrata la Qatar Investment Authority. Tuttavia il collocamento era avvenuto a 282 pence, mentre oggi il titolo Barclays quota 221 pence. E non sono finora state un grande affare le quote comprate dai fondi sovrani cinesi in Bearn Steans, Morgan Stanley fino alla quota rilevata nel colosso finanziario Blackstone.
E c'è da chiedersi, dunque, se alcuni di questi stessi investitori non stiano rischiando di restare con il cerino in mano, puntando su aree ad alta volatilità dove peraltro finora non hanno badato ai prezzi.
Si sono salvati con fortuna nell'investimento in Merrill Lynch Temasek, fondo sovrano di Singapore con più di 100 miliardi di dollari di asset, e la Korea Investment Corporation. Se non fosse arrivata l'offerta di Bank of America (a ben 29 dollari per azione) il fondo asiatico avrebbe potuto accusare un passivo sul 14% di azioni Merrill Lynch acquistato in fasi successive: pacchetto attualmente con un prezzo di carico, secondo le elaborazioni di Bloomberg, a 23,11 dollari ad azione.

Le mire in Italia
In Italia, fino ad oggi, i fondi sovrani si sono mossi poco sulle aziende quotate. Il più attivo è stato proprio il braccio finanziario del governo di Tripoli, la Lafico che ha investito nel corso degli ultimi quindici anni su Fiat, Capitalia, Juventus (di cui hanno tuttora il 7,8% per un valore di 11 milioni) e Olcese. Recentemente Tripoli è entrata come principale azionista anche in Retelit, società italiana di dorsali per le tlc.
Se si guarda invece ad Abu Dhabi Investment Authority, cassaforte con attivi stimati a 875 miliardi di dollari, che alla fine degli anni 90 era entrata anche in Bulgari e nella Banca Popolare Commercio e Industria, ha il 2,04% di Mediaset che vale ai prezzi attuali un centinaio di milioni di euro.
Ci sono poi i dossier allo studio, principalmente su aziende non quotate. Fino a questo momento i fondi sovrani hanno preso di mira il Belpaese soltanto per due tipi di investimenti: moda-lusso e real estate. Non è un caso che le indiscrezioni di mercato di queste ultime settimane indichino le attenzioni di alcuni fondi sovrani per il dossier di alcune note griffe e per progetti di sviluppo nel settore immobiliare.
È il caso di Prada, la maison guidata da Patrizio Bertelli che dopo la momentanea archiviazione del progetto di Ipo a Piazza Affari potrebbe prendere in considerazione l'ingresso di un socio di minoranza con circa il 20% del capitale. E per l'ingresso in Prada ci potrebbe essere la fila tra i fondi sovrani. E un altro dossier che piace ai fondi sovrani è quello di Ferretti, brand italiano degli yacht di lusso.
Se si guarda all'immobiliare è invece ormai da diversi mesi che sta procedendo, tra tira e molla, la trattativa tra il fondo Limitless di Dubai e la Risanamento di Luigi Zunino per acquistare i progetti di sviluppo di Sesto San Giovanni-area Falck e quello di Santa Giulia. Insomma, per ora soltanto dossier singoli, anche se il raid su Unicredit di Lafico potrebbe creare un effetto domino anche su altri grandi gruppi italiani, come Telecom Italia ed Eni.