HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli
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15-6-2007 OPINIONI CONTROPIEDE Che errore perseverare con Visco Claudio
Rinaldi
L’Unità 15-6-2007 Silvio, facci sognare Marco
Travaglio
L’Azione 15-6-2007 Mons. Betori spiega il senso
dell'otto per mille
Trentino Economia Pinetana, nuova multa Consob Piazza
Affari colpisce Sighel, Pagano e Valentinelli
Roma, 15 Giugno 2007 – AgenParl – Se il
matrimonio tra Quercia e Margherita si farà, avverrà in regime di
separazione dei beni. L’afferma il tesoriere del Partito diessino Ugo Sposetti. Ds e Margherita continueranno a tenersi ciascuno
il proprio patrimonio e anche i propri debiti.
I diessini, essendo proprietari di un grande patrimonio immobiliare, non
intendono conferirlo al nuovo partito, al quale potrebbero affittare alcune
sedi.
ROMA Semplificazione degli enti, riduzione delle spese dei
ministeri e trasparenza nei bilanci; misure a cui potrebbero aggiungersi la
riduzione degli eletti (e delle loro retribuzioni) nelle autonomie locali. Sono
queste le norme che dovrebbero entrare nel disegno di legge governativo sui
costi della politica, che l'Esecutivo discuterà nel prossimo consiglio
dei ministri del 28 giugno. Per il momento sembra invece slittare una misura
impegnativa come il taglio del numero di ministri e sottosegretari. Una cifra
(102 unità) che lo stesso ministro per l'attuazione del Programma,
Giulio Santagata, aveva definito "record negativo". Il provvedimento,
su cui si discute da settimane, inizialmente era stato previsto per consiglio
dei ministri di oggi. Ma dopo la conferenza unificata Stato-Regioni- Enti
locali del 31 maggio scorso i tempi si sono allungati. Le Regioni, in
particolare, hanno presentato in quella occasione un proprio ordine del giorno
in tema di taglio dei costi della politica: rapporto adeguato per tutto il
territorio nazionale tra numero di consiglieri regionali e popolazione
(garantendo però un minimo di rappresentanza alle realtà
più piccole) e regole omogenee per le indennità dei loro eletti.
Ma quell'incontro non è stato un successo: le Regioni hanno chiesto
comunque che a dare il buon esempio siano Esecutivo e Parlamento. Anche
Province, Comuni e Comunità montane hanno messo sul tavolo della
discussione la riduzione del numero dei loro eletti. Upi
e Anci sono disponibili a tagliare di un quarto assessori e consiglieri
comunali e provinciali, con un risparmio di 120 milioni per i Comunie 27 milioni per le Provincie. Mentre le
Comunità montane hanno avanzato l'ipotesi di ridurre del 40 e 50% i loro
consiglieri e componenti di giunta. Da qui al 28 giugno, quindi, ci saranno
ancora due o tre incontri tra Governo e autonomie locali per definire tempi e
modi delle misure da prendere. I tagli dovranno essere a 360 gradi e dovranno
riguardare tutti i livelli istituzionali.
Roma - Pensioni, casa, infrastrutture, ricerca, sicurezza. Questi
i cinque punti per il rilancio dell azione di
governo, delineati dal premier Romano Prodi nell
incontro ieri con la maggioranza sul Dpef. Una riunione interlocutoria, distesa
, come l hanno definita i capigruppo, presenti al completo, di Camera e Senato.
Ma di fatto dal vertice di ieri non esce alcuna decisione. Tutto è
rinviato a lunedì 25 giugno. La linea emersa da Palazzo Chigi è
fare prima il documento di programmazione economica e finanziaria, il 28
giugno, e poi emanare un decreto legge (o subito, o a luglio o a settembre in
contemporanea con la Finanziaria) sulla distribuzione dell
extragettito che comunque non è stato ancora
quantificato. Per valutare l'entità si attende la fine del mese quando
arriveranno i dati sull autotassazione. Che peraltro
saranno certi solo a luglio inoltrato. Prodi ribadisce anche "due impegni
trasversali a tutti i provvedimenti": la riduzione dei costi della
politica e la lotta all evasione e all elusione fiscale, che "non sono solo messaggi
simbolici ha sottolineato Prodi -, ma stanno già portando risultati
concreti". Tutti i presenti riferiscono di un "clima disteso" e
di un "incontro costruttivo" perché il governo "è
consapevole dice Giovanni Russo Spena di Rifondazione
Comunista - che deve iniziare la fase dell
equità e dello sviluppo". "L incontro di oggi gli fa eco
Gennaro Migliore è servita per delineare una road-map
per il rilancio dell azione di governo".
"Il ministro dell Economia ha sottolineato
invece Roberto Villetti, della Rosa nel pugno ci ha
riferito che ci sono richieste tre o quattro volte superiori rispetto alle
risorse disponibili". Un piccolo disappunto vien fuori solo da Mauro
Fabris, dell Udeur: "Ci aspettavamo delle
decisioni che potevano essere prese, invece tutto è stato
rinviato". Le priorità avanzate dai partiti sono quelle già
note: aumento delle pensioni basse e abrogazione dello scalone previsto dalla
riforma Maroni (il passaggio nel 2008 da 57 a 60 per l età necessaria
per la pensione di anzianità a fronte di 35 anni di contributi).
"Sulla base dei dati sull autotassazione
riferisce Massimo Donadi dell
Idv si decideranno altre priorità". Certo
è chiaro che il ministro dell Economia Tommaso
Padoa-Schioppa è solo all
interno dell esecutivo a tenere fermo il punto sul
problema del risanamento in linea con i moniti arrivati dall'Europa a destinare
il tesoretto alla riduzione del deficit. Ma sulla questione previdenziale, su
cui l Europa ancora una volta ha lanciato allarmi, sembra tutto ancora in alto
mare. Il Governo incontrerà oggi le parti sociali ma non risulta che all interno della maggioranza sia stata formulata una
proposta precisa. Anche se il ministro del Lavoro Cesare Damiano conferma l
intenzione di chiudere entro fine mese. L ipotesi rimane quella degli scalini,
ossia un graduale innalzamento dell età
pensionabile, per modificare la Maroni. Ovvero abrogare lo scalone. Quest operazione però necessita di risorse. Quello
che rimarrebbe allora del tesoretto potrebbe non bastare più per
finanziare tutte le altre richieste che arrivano dalla maggioranza a partire
dal piano casa caro alla Margherita. E dagli ammortizzatori sociali cari ai
sindacati. [Data pubblicazione: 15/06/2007].
Il ripescaggio dello scorbutico ministro delle Finanze fu uno
sbaglio. Ora Prodi e i suoi devono dare un segno di discontinuità
C'è qualcosa di dolorosamente comico nella compattezza con cui al Senato
il centrosinistra, mercoledì 6 giugno, ha difeso Vincenzo Visco
dall'accusa di aver esercitato sulla Guardia di finanza indebite pressioni. Si
è fatto quadrato, certo, intorno all'uomo-simbolo della lotta
all'evasione fiscale; ma al tempo stesso si è mandato giù il
rospo della permanenza al potere di un viceministro che vanta il record
assoluto dell'impopolarità, e che alla tetra immagine del governo Prodi
ha causato più danni di chiunque altro. Un mezzo suicidio in diretta tv,
insomma. Se in una ricerca Ipr Marketing-'Repubblica'
ben 58 cittadini su cento invitano Visco a dimettersi, se molti suoi colleghi
gli chiedono di attenuare le vessazioni nei confronti di commercianti e
artigiani, se perfino Tommaso Padoa-Schioppa di fatto
lo sconfessa affermando che le aliquote di imposta vanno ridotte, la decisione
di lasciare l'arcigno personaggio al suo posto appare davvero bizzarra. Sarebbe
stato meglio accompagnarlo garbatamente all'uscita; così come durante il
governo Berlusconi due ministri incorsi in brutte cadute di stile, Claudio
Scajola e Roberto Calderoli, vennero costretti a farsi da parte. Né è
serio presentare il viceministro come colui che di riffa o di raffa ha risanato
i conti dello Stato. Non scherziamo. A parte il fatto che di un vero riequilibrio
si potrà parlare soltanto quando la dinamica della spesa pubblica
sarà stata riportata sotto controllo, il temporaneo aggiustamento
è stato realizzato nel modo più balordo: inasprendo il prelievo
sui redditi personali. La Germania, che doveva anch'essa rientrare nei
parametri di Maastricht, se l'è cavata semplicemente elevando l'Iva dal
16 al 19 per cento, misura che ha determinato un boom del gettito senza alcun
effetto negativo sui prezzi o sulla crescita. In Italia, invece di optare per
una manovra indolore, il presunto esperto Visco ha incautamente infilato la
manaccia nel vespaio dell'Irpef, accentuandone la progressività e
dotandola di un nuovo sistema di detrazioni; ma così ha combinato un
disastro. I contribuenti, messi in allarme da quella che ipocritamente veniva
definita "una rimodulazione", a lungo si sono scervellati per capire
se con i cambiamenti ci avrebbero guadagnato o rimesso, e alla fine i
più hanno scoperto di ritrovarsi nelle tasche meno soldi di prima. Un
anno fa il ripescaggio di Visco, scorbutico ministro delle Finanze dal 1996 al
2001, fu un errore, anche se pochi se ne avvidero. Annunciando una politica
fiscale punitiva, il centrosinistra aveva addirittura rischiato di perdere le
elezioni; dopo il voto, dunque, sarebbe stato saggio puntare su una faccia meno
usurata, meno invisa a tanti cittadini. Ma a questo punto, visti il crollo del
governo nei sondaggi e il trionfo del centrodestra alle amministrative,
l'insistenza dell'Unione nel propinare al paese una minestra riscaldata quale
Visco è stata un totale controsenso. Se vogliono spezzare la lugubre
catena degli insuccessi, infatti, Romano Prodi e i suoi hanno il disperato
bisogno di dare immediatamente qualche segnale di discontinuità: ma non
rispetto all'era Berlusconi, come nei mesi scorsi pretendevano i cervelloni
della sinistra radicale, bensì rispetto al tafazziano
avvio della legislatura unionista. Perciò, esploso il conflitto con il
generale Roberto Speciale, avrebbero dovuto cogliere al volo l'occasione di
concedere al viceministro un po' di riposo. Dicendogli: grazie di tutto,
Vincenzo, conosciamo la tua rettitudine, puoi sempre contare sul nostro aiuto;
adesso però, nel superiore interesse della coalizione, va a casa. Il
sacrificio di Visco sarebbe una mossa di forte impatto, da sé creerebbe
nell'opinione pubblica la sensazione di un governo che tenta un'onorevole
ripartenza. Anche senza arrivare a un simile passo, tuttavia, Prodi e i partiti
che lo sostengono sono in grado, almeno in teoria, di perseguire la
discontinuità che serve. Purché non lo facciano nelle forme datate,
autolesionistiche che taluno purtroppo auspica. Secondo l'ala sinistra
dell'Unione, gli elettori si possono riconquistare soltanto grazie al
cosiddetto 'risarcimento sociale': massiccia redistribuzione delle risorse a
favore di operai e pensionati, ripristino della facoltà di ritirarsi dal
lavoro a soli 57 anni, smantellamento della legge Biagi. Ma una svolta del
genere, oltre a pregiudicare la ripresa dell'economia, non farebbe che rendere
il centrosinistra ancora più minoritario nella società. Alla
prima conta, il "popolo dell'Unione" mitizzato da Fausto Bertinotti
& C. si rivelerebbe miserrima cosa. L'unica strada che per il governo
è sensato imboccare, in realtà, è quella di un oculato
contenimento della spesa pubblica: l'esatto contrario del Tax
and Spend che un sinistrismo facilone tuttora
vagheggia. Se Prodi all'improvviso riuscisse a instaurare un costume di
sobrietà, forse si salverebbe. Basterebbero pochi ma significativi
gesti: ridisegnare l'esecutivo dimezzando il numero dei ministri, tagliare
sprechi, eliminare privilegi, presentare subito un grande piano di abbattimento
dei costi della politica... Tutto, tranne l'ottusa continuità con un annus horribilis. Non è
stato il premier, in un meeting del 4 giugno 2006, a rivendicare a sé "il
coraggio di stupire"?.
E se avesse ragione Daniele Luttazzi? Sostiene, quel bandito criminoso,
che quella che sta montando nel Paese non è "antipolitica".
È invece una gran voglia di politica, quella vera. L'antipolitica
è lo spettacolo che ogni giorno ci squadernano i cosiddetti politici. A
sinistra ci sono politici che si occupano di banche, seminando sconcerto fra
gli elettori che li avevano eletti per occuparsi di politica. A destra
c'è un presunto politico che si occupa anche lui di banche, ma nessuno
lo dice perché, intanto, lui si occupa pure di giornali, di televisioni, di
radio, di portali internet, di assicurazioni, di Telecom, di Endemol, di cinema, di calcio, di lifting, di trapianti e,
alla sua età, anche di ragazze. Poi ci sono suoi alleati indagati per
aver preso soldi dalle banche medesime, ma nessuno ne parla perché lui, appunto,
si occupa di tv e di giornali. Poi c'è il capo dello Stato che,
solitario, parla di politica. Per esempio, sollecita la riforma della giustizia
che dovrebbe cancellare la controriforma Castelli sulla separazione delle
carriere. Ma inevitabilmente, visto che si occupa di politica, Napolitano viene
accusato di "invasione di campo": infatti nessuno sa più che
cosa sia il "campo". Come sia fatto, quanto misuri, quali ne siano i
confini. A furia di ripetere lo slogan del "primato della politica",
i politici hanno perduto il senso dell'orientamento. Non hanno più la
minima idea di che cosa sia, la politica. Infatti si occupano di tutto, fuorchè di quella. Sulla mattanza messicana del G8
di Genova, per esempio, silenzio di tomba. In compenso, nei prossimi giorni, il
capo dello Stato riceverà la visita del cavalier Bellachioma,
che però non ha ancora deciso che cosa dirgli. Nell'attesa, ha preso
appuntamento, come si fa alla mutua. Tre giorni fa pareva intenzionato a
chiedere nuove elezioni, col decisivo argomento che ha vinto le elezioni a
Parma e a Palermo. Poi gli hanno spiegato che lui, quando governava, ha perso
tutte le elezioni possibili, dalle circoscrizionali alle comunali, dalle
provinciali alle regionali, dalle europee a quelle per il rinnovo delle comunità
montane, ma nessuno si è mai sognato di sciogliere le Camere. Allora ha
deciso di chiedere un governo istituzionale. Ma l'hanno guardato strano, allora
ha cambiato idea e ha optato per un governo di larghe intese. Ma nemmeno questo
ha suscitato entusiasmi. E lui ha pensato bene di lanciare una bella protesta
fiscale: nel senso che continuerà ad accumulare fondi neri nei paradisi
fiscali, come fa da una trentina d'anni, ma consentirà di farlo anche a
qualcun altro. Poi i suoi onorevoli avvocati gli hanno fatto notare che,
essendo lui imputato di frode fiscale, appropriazione indebita, falso in
bilancio e corruzione del testimone Mills, la cosa
sarebbe apparsa come una piena confessione e l'hanno vivamente sconsigliato.
Allora è tornato a chiedere lo scioglimento delle Camere: qualcuno, con
calma e tatto, gli ha spiegato che, prima di scioglierle, deve cadere il
governo e la maggioranza. Allora lui ha dichiarato che il capo dello Stato
effettivamente non può sciogliere le Camere, ma glielo chiederà
lo stesso perché ormai ha preso appuntamento e che figura fa se non va
più. Ha anche pensato di parlare a Napolitano delle sue prossime
vacanze, ma non ha ancora deciso in quale villa andare, e ha lasciato perdere.
Magari, ha detto tra sé e sé, vado dal capo dello Stato e gli leggo una poesia
di James Bondi, l'inno alla bellezza di Michela Brambilla, che vende il pesce
surgelato e i mangimi per gatti e che diventerà la leader del Partito
delle Libertà, del Giornale delle Libertà e della Tv delle
Libertà. Ma dallo staff del Quirinale si son detti poco interessati.
Girava anche l'idea di portare sul Colle qualche amico leghista armato della
Padania col titolo "Fuori dalle balle" e di occupare simpaticamente
l'ufficio del Presidente della Repubblica, ma è parso eccessivo persino
a Borghezio. Qualcosa da dire si troverà, prima o poi. Alla peggio, Bellachioma lascerà in garage la Berlusmobile,
si darà malato e si farà portare da un'ambulanza, magari quella
che il confratello Gustavo Selva usa come taxi. Passerà inosservato,
farà un giro nei giardini del Quirinale, o in infermeria, poi
tornerà a casa contento con la camicia di forza. Uliwood
party.
La voce del questore Vincenzo Canterini arriva
da Bucarest. Il Viminale ce lo ha spedito due anni fa a occuparsi di traffico
di organi ed esseri umani presso una struttura Interpol, mettendo il mare tra
lui e il Reparto celere di Roma, tra lui e la scuola "Diaz" di
Genova, dove, la notte del 21 luglio del 2001, agli uomini che allora comandava
venne ordinato di fare irruzione. Sessantatrè
feriti. Una "macelleria messicana", per usare le parole del
vicequestore Michelangelo Fournier, che di Canterini
era il vice. "Io un macellaio non lo sono mai stato", dice lui.
Insiste: "Capito? Chi parla non è mai stato un macellaio. E' un
signore che è in polizia da 41 anni, fa sindacato con il "Consap" e vive in Romania, dove l'Amministrazione gli
ha chiesto di andare. Detto questo, sapete quando Fournier
ha parlato di "macelleria messicana"? Dieci giorni dopo quella notte.
E sapete con chi? Con il Procuratore di Genova dove si era presentato
spontaneamente per riferire quel che aveva visto. E sapete chi lo aveva
accompagnato dal procuratore? Vincenzo Canterini. Dunque, sono un macellaio
io?".
G8 di Genova, dopo il racconto di Fournier
al processo parla l'allora comandante del reparto celere "Alla Diaz fu una
notte cruenta ma il macellaio non sono io" Il questore Canterini: c'era
una macedonia di polizia il sangue Come ho detto sempre quando entrai era tutto
finito: vidi sangue ovunque le manganellate Qualche manganellata i miei uomini
l'avranno data, ma non a gente a terra la versione Fournier
è come un figlio per me, io e lui in fondo diciamo la stessa cosa l'irruzione
Suggerii a La Barbera una soluzione diversa dall'irruzione nella scuola.
Dunque, la macelleria c'è stata "Il termine è folcloristico.
Ma non c'è dubbio che è stata una notte cruenta". Il sangue
lo ha visto anche lei? "Certo che l'ho visto. Ne ho visto tanto e
dappertutto". Ha visto poliziotti picchiare donne e uomini inermi?
"No". E Fournier, allora? Ha ammesso di
aver visto e interrotto il pestaggio di una ragazza a terra. Si è
scusato per aver taciuto sei anni questa circostanza. Lui ha visto e lei no?
"Premesso che Fournier è come un figliolo
per me, io e lui diciamo in fondo la stessa cosa". "In fondo",
lei ha appena detto di non aver visto nessun pestaggio. "Come ho ripetuto
per tredici ore al processo di Genova, come spiegai nell'immediatezza dei fatti
alla Commissione di inchiesta e appunto al procuratore di Genova dove andai
insieme a Fournier, quando entrai nella
"Diaz" era tutto finito. Cominciai a salire le scale della scuola e
mi fermai al primo piano, proprio quando sentii le urla di Fournier".
Cosa vide? "Fournier era vicino a una ragazza
ridotta malissimo. E mi diedi da fare per far soccorrere lei come gli altri
feriti che erano nella scuola". Qualcuno la testa l'aveva rotta a quella
ragazza. "Non gli uomini del mio reparto. Non a caso, Fournier
dice di essersi dovuto togliere il casco e di aver gridato "Basta!" a
chi la stava picchiando. Se fossero stati i nostri ragazzi, Fournier
non avrebbe avuto necessità di togliersi il casco, perché il nostro
intero reparto era connesso da interfono. Avrebbe usato quello". Dunque,
lei arriva a cose fatte e né quella notte, né successivamente, riesce a venire
a capo di chi si è comportato da macellaio. è così?
"Quella notte, dentro la Diaz, c'era una macedonia di polizia". Una
"macedonia"? "Come si vede dai filmati, nella scuola entrarono
almeno in 300. I miei uomini erano solo 70. Poi c'erano colleghi di altri
reparti celeri, identici a noi per abbigliamento se si eccettua il cinturone
bianco. C'erano agenti con l'Atlantica (camicia a maniche corte ndr.), agenti delle squadre mobili con pettorina e casco,
poliziotti dell'Anticrimine. Di tutto, insomma". Insisto. La notte della
"Diaz" le ha cambiato la vita. Da due anni vive a Bucarest, e in
tutto questo non è riuscito a venire a capo di chi si abbandonò
alle violenze. "Che vuole che le dica? è così. Che devo
fare? Appena rientrai a Roma, chiesi tutte le relazioni di servizio di chi era
stato nella scuola quella notte. Ma non seppi allora e non so oggi chi si
è reso responsabile delle violenze". Nella "Diaz" i suoi
uomini rimasero a braccia conserte? "Ma no. Non dico questo. è
ovvio che qualche manganellata l'avranno data. Ma so per certo che nessuno dei
miei uomini ha mai picchiato una donna o un uomo a terra. Né ha mai ricevuto
ordini di questo genere. E non lo dico solo io". Chi altro lo dice?
"Evidentemente non lo sa nessuno, ma soltanto su 2 dei 78 tonfa (i
manganelli ndr.) in uso al mio reparto quella notte,
le perizie del Ris dei carabinieri hanno trovato
tracce di sangue. E quei due tonfa erano in dotazione a due agenti rimasti
feriti, Ivo e Parisi. Dunque, è molto probabile che il sangue sia il
loro. Dico di più. A Genova, Vincenzo Canterini è imputato di un
solo presunto reato. Non violenze, non pestaggi. Ma di aver stilato una
relazioncina di servizio al questore di 15 righe sui fatti di quella notte che
non sarebbe stata veritiera". Tacere la verità non è un
vanto per un funzionario di polizia. "Io non ho taciuto un bel niente. Io
riferii al Questore quello che avevo visto. Avevo visto la pettorina e il
giubbotto di uno dei miei squarciato da una coltellata e la perizia del
tribunale, al contrario di quel che affermò inizialmente il Ris dei carabinieri, ha stabilito che quella coltellata fu
inferta. Ho visto venire giù di tutto dai piani alti della scuola e
infatti tredici dei miei sono finiti in ospedale. Quali bugie ho detto?".
A distanza di sei anni ci sarà qualcosa che si rimprovera di quella
notte. O no? "Mi rimprovero di non essere riuscito a imporre una soluzione
diversa da quella che poi fu adottata. Ma è anche vero che non ne ebbi
modo". Quale soluzione diversa? "Suggerii a chi comandava in quel
momento di tirare all'interno della scuola qualcuno dei potenti lacrimogeni di
cui avevamo dotazione. E di aspettare che chi era dentro uscisse. Ma non ci fu
verso". A chi lo suggerì? "All'allora vicecapo della polizia e
capo dell'Antiterrorismo Arnaldo La Barbera". Arnaldo La Barbera è
morto. Non può né confermare, né smentire. "E infatti faccio a
fatica e mi dispiace doverne parlare. Ma queste cose le ho dette già sei
anni fa, quando il povero Arnaldo, un amico, era ancora vivo. Io non so con chi
si consultò a sua volta La Barbera. So cosa venne deciso e so che quando
l'irruzione cominciò io rimasi fuori dalla scuola e il mio reparto
passò sotto il comando di due funzionari della Digos
di Genova".
"I costi della politica devono essere tagliati, ma abbiamo la necessità di
tutelare la democrazia", afferma il presidente dell'assemblea pugliese,
Piero Pepe. Anche attraverso l'istituzione del Consiglio delle autonomie locali
o Consiglio regionale bis, come è ribattezzato? "Lo prevedono la
Costituzione, lo Statuto e una legge della Regione". Però, a quanto
pare, la denuncia di Repubblica vi spinge a fare retromarcia. "Questo
è un grande equivoco". Cioè? "Perché i 57 consiglieri
della "seconda Camera", come la chiamo io, non avrebbero percepito un
centesimo come indennità per esprimere pareri obbligatori, ma non
vincolanti in nome di Comuni, Province e Comunità montane, a proposito
dei provvedimenti della Regione". Giudizi inutili, in pratica?
"Giudizi di cui tenere conto, ancorché l'assemblea legislativa non
può mai e poi mai essere condizionata. Del resto non è che oggi
le amministrazioni comunali o provinciali non vengano ascoltate".
Tant'è che si materializza il sospetto che stavate per dare vita a un
doppione vero e proprio. O no? "La politica ha l'esigenza di compiere una salutare cura dimagrante: non ci
sono dubbi. I doppioni esistono, ma questa è un'altra storia". Per
esempio? "Bisognerebbe scegliere tra Comunità montane e parchi per
la tutela delle aree protette: si occupano delle stesse cose. Così come
dovrebbe essere sensibilmente ridotto il numero dei consorzi di bonifica e
degli Edisu. Sì, insomma, dove ci sono sacche
di sprechi non è impensabile intervenire con decisione". Campa
cavallo? "A me non piace l'idea di adeguarsi alla "pancia" del Paese.
è un ragionamento rischioso perché finiremmo per buttare il bambino con
l'acqua sporca. Non per questo la democrazia non deve essere efficiente giacché
se si limita a riprodurre se stessa e basta, è destinata a
perdere". Presidente Pepe, quanto durerà la "pausa di
riflessione" sul Consiglio bis: aspetterete che passi la piena per
rialzare la testa? "Attendiamo che il governo centrale vari il codice
delle autonomie locali e la legge delega sui costi della politica, per capire quali
saranno le nuove regole del gioco. Ma se qualcuno continuerà a
considerare senza senso il Consiglio delle autonomie o altri organismi di
controllo e partecipazione, lo dica ufficialmente nelle sedi istituzionali.
Possiamo stabilire autonomamente di bloccare tutto e fare un passo
indietro".
/ Roma La campagna di stampa sui costi della politica, meglio, sui costi dei partiti politici, "non
può far bene alla sinistra". Ugo Sposetti,
tesoriere dei Ds, questa tesi la sostiene da anni, convinto che i partiti debbano essere
finanziati, come dall'articolo 49 della Costituzione, in quanto strumento
indispensabile della vita democratica del Paese. Ritiene anzi che il partito al
quale appartiene non debba "farsi bloccare da questa campagna
populista". Mercoledì sera, a Roma, nell'ultimo giorno della Festa
della Sinistra Giovanile, Sposetti non era il solo a
pensare che una campagna di stampa che metta in uno stesso calderone i costi di singoli
consiglieri, di enti inutili, di auto blu, di partiti politici,
"ambasciate regionali" all'estero, viaggi, deputati e rimborsi
elettorali, non contribuisca a risolvere il problema. Allo stesso modo di Sposetti, infatti, oltre al tesoriere della federazione Ds
di Roma Carlo Cotticelli, la pensavano anche tanti
ragazzi della Sg (almeno un'ottantina presenti e
plaudenti nell'area del Circolo degli Artisti), compresi i due che erano sul
palco a discutere del tema: Sara Battisti e Andrea Baldini. La prima, che
è coordinatrice della segreteria Sg nazionale,
lo ha detto chiaramente: "Se alle spalle non avessimo avuto un partito,
non saremmo stati in grado di avvicinarci alla politica attiva a 16, 17, 18
anni". Il secondo, segretario romano della Sg,
sottolinea come per questa via "si ritorni alla politica fatta per censo,
aperta a chi è figlio di imprenditore, a chi ha già di suo i
mezzi economici per fare politica". È, di converso, un argomento a favore di questa
tesi quanto afferma Cotticelli: "Ma secondo voi
tutti i volontari che organizzano le feste come questa lo fanno per carrierismo
o per soldi?". Questa è una faccia della medaglia, su cui è
disegnata anche l'effige di quello che dovrebbe essere un forte partito
organizzato, un partito che punti su giovani e formazione politica, che elabori
contenuti e prospettive, che indirizzi i cittadini. Poi, però,
c'è il tema attuale dello spreco delle risorse pubbliche. Sposetti ne ha una sua visione storica: lo colloca
temporalmente nel crepuscolo dei grandi partiti di massa (Pci, Dc, Psi), e nella nascita dell'elezione diretta di
presidenti (di Provincia e Regione) e sindaci. È un elenco lungo quello
degli sprechi della politica al quale i relatori non si sottraggono: "Lo scandalo
dell'assemblea regionale siciliana, le 9 circoscrizioni di Catania, le 4 di
Verona, l'equiparazione degli stipendi tra un consigliere municipale di Napoli
e un consigliere comunale di Roma". L'elenco potrebbe essere anche
più lungo. Ma, messo in chiaro che un consigliere comunale di Roma
prende 1800 euro netti al mese, che un consigliere municipale, nella stessa
città, ne riceve 700 (e che, se fa a tempo pieno quel mestiere, con quei
soldi non ci vive), che un deputato Ds dà al partito il 40% della
propria indennità netta (il 48% quelli del Lazio), la risposta a come si
possa cambiare questo stato di cose passa da "un'autoriforma",
"da una bicamerale", dai singoli enti locali, dall'iniziativa, anche
di un partito nuovo e forte. Il clima, d'altronde, è quello che
è. Così Sposetti, non si sottrae a una
domanda sulle grane della Quercia. Difende la posizione dei Ds su Unipol
("Ma perché non avremo dovuto occuparcene?"), e mette la mano sul
fuoco su D'Alema ("Vi sembra che se uno deve mettere da parte dei soldi li
porta in Brasile?"). E poi c'è il futuro: l'orizzonte del Pd. Come
ci arrivano i Ds, finanziariamente parlando? Sposetti
rivendica il risanamento finanziario portato avanti fino ad oggi: "Nel
2001 il debito era di 584 milioni di euro. La prospettiva, al 31 agosto 2008,
è quella di un debito, accettabile, di 90 milioni di euro". Cotticelli, dal canto suo, ricorda come sette anni fa alla
Quercia romana fosse difficile anche chiedere un prestito in banca. "Oggi
abbiamo un debito di un milione e 100mila euro. A fronte di proprietà
immobiliari vicine agli 11 milioni e mezzo di euro". Il risanamento
è andato avanti puntando sul sistema delle feste ("fanno più
soldi quelle medio-piccole", certifica Sposetti),
sulle campagne di raccolta, sulle cene di autofinanziamento ("l'altra sera
a Tivoli, per la Finocchiaro, c'erano 500 persone"), sul tesseramento.
Anche, ovviamente, sui rimborsi elettorali. Per questo, comunque, le Feste non
si toccano. E le sezioni? Su questo Sposetti è
pratico: ci sono sedi storiche e sezioni di proprietà sulle quali si
deciderà caso per caso. "Ci si riunisce lì? Bene, ce le
teniamo. Non sono adoperate? Vediamo cosa farne...". Ultimo tema, la
formazione. "Non credo che potremmo tornare ai corsi di 3 o 6 mesi delle
Frattocchie". Immagina forum di formazione nei week-end.
Chiedo cortese ospitalità alla
rubrica delle lettere al direttore per intervenire con alcune considerazioni
sulla discussione in corso ultimamente sui costi della politica. Osservo come
ciclicamente il tema ritorna di attualità con una genesi non sempre
genuina, ispirata com'è, più o meno occultamente, da centri di potere
che considerano favorevolmente un arretramento del potere politico. Ritengo
giuste alcune considerazioni che accompagnano l'indignazione dell'opinione
pubblica sui privilegi di una parte della classe politica, che sicuramente
devono rientrare in un ambito di sobrietà ed equilibrio, ma mi permetto
di evidenziare che il panorama della partecipazione politica è composto da
una moltitudine di persone che per modesti rimborsi o, molte volte, in modo del
tutto gratuito, ogni giorno trasformano la propria passione civile in azione politica, senza clamore e
senza l'onore della ribalta ma con dedizione e impegno meritevoli di rispetto.
Voglio ricordare ad esempio come il mio impegno politico come capogruppo
comunale in Loggia, comporta ogni giorno molte ore di dedizione, tra analisi
dei documenti, incontri con i cittadini, partecipazione quasi quotidiana alle
Commissioni, rapporti con i media, preparazione e partecipazione ai Consigli
comunali, tempo che tolgo alla mia attività lavorativa, con un rimborso
spese che si limita ad un gettone netto di 50 euro per ogni Consiglio a cui
partecipo, per lo stesso gettone partecipo ad una Commissione mentre ad altre
otto presto la mia attività di capogruppo del tutto gratuitamente.
Ritengo comunque gratificante la mia attività politica, che svolgo con
grande entusiasmo, passione e arricchimento umano, ma mi permetto di
evidenziare come il mio sia l'esempio, come quello di una grande moltitudine di
attivisti politici, di come non si possa accomunare in una indifferenziata campagna
la condanna di inaccettabili privilegi con un attacco del tutto strumentale
alla politica tutta. Mi permetto di portare alla riflessione critica i nostri
cittadini sulla centralità dello strumento politico per difendere gli
interessi di tutti, soprattutto dei più deboli, a fronte del prevalere
del "particolare", di questo o quell'interesse corporativo o
lobbistico. A chi giova un ulteriore arretramento della politica dai centri
decisionali? Sicuramente non a una società che vuol crescere coesa, senza
lacerazioni sociali, dove l'interesse di ognuno di noi si contempera
nell'interesse complessivo, dove il senso civico è il collante dei
rapporti tra cittadini e dove la politica riprende il suo posto, di sintesi alta degli interessi comuni, di
quelli appunto della polis. NICOLA ORTO Capogruppo Udc in Loggia Brescia.
DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES - Il negoziato sulla riforma dei
Trattati europei è arrivato ieri alla stretta finale con la
presentazione ai governi di un rapporto della presidenza tedesca sullo stato
delle trattative. Il rapporto lascia capire come Angela Merkel
intende impostare i lavori del vertice che, tra una settimana, dovrà
dare "un mandato preciso e completo" alla Conferenza intergovernativa
in modo che questa "concluda il lavoro di revisione entro la fine
anno". Dal testo, si può desumere quali punti della abortita
Costituzione la presidenza consideri negoziabili, e quali invece non intenda
mettere in discussione. La riforma sarà articolata su due Trattati: un
"Trattato dell'Unione", che modificherà quello esistente, e un
"Trattato sul funzionamento dell'Unione" che sostituirà
l'attuale Trattato della Comunità europea. In questo modo, l'Unione
avrà personalità giuridica a livello internazionale anche in
materia di politica estera e di difesa. I punti che la presidenza considera
negoziabili sono sei. 1) Simboli e primato della legislazione comunitaria. I
simboli (inno e bandiera) potrebbero non essere iscritti nel Trattato, ma
resterebbero comunque in vigore. Il primato della normativa europea su quelle
nazionali è messo in discussione da britannici e olandesi, ma fermamente
difeso dalla maggioranza dei Paesi. 2) Il cambio di alcune terminologie: non si
parla più di Costituzione, ma di Trattati. Il ministro degli Esteri
europeo potrebbe essere ribattezzato segretario di Stato 3) Il ruolo della
Carta dei diritti fondamentali. Parte integrante del progetto di Costituzione,
potrebbe essere stralciata dal testo del Trattato, come chiede Londra. Tuttavia
molti Paesi vogliono che il suo valore vincolante venga riconosciuto con un
esplicito riferimento in un articolo del Trattato. 4) Il funzionamento della
Politica estera e di sicurezza. Riguarda il ruolo e le competenze del futuro
"ministro degli Esteri", che dovrebbe anche essere vicepresidente
della Commissione. Londra non vuole che presieda le riunioni del Consiglio perché
questo darebbe all'Unione europea il rango di Stato. 5) La delimitazione delle
competenze tra Unione e Stati membri. Alcune competenze di Bruxelles potrebbero
essere restituite ai governi nazionali. D'altra parte l'Unione potrebbe
acquisire competenza in materia di clima e di energia (quest'ultimo punto sta a
cuore ai polacchi) 6) Ruolo dei Parlamenti nazionali. Olandesi e cechi vogliono
dare ai parlamenti nazionali, qualora rappresentino almeno un terzo degli stati
membri, il diritto di bloccare le decisioni di Bruxelles. Sarebbe un modo per
sminuire le competenze del Parlamento europeo. Nel suo rapporto, la presidenza
non menziona due dei punti più controversi e delicati. Il primo riguarda
l'estensione del voto a maggioranza per una serie di materie, soprattutto in
tema di Giustizia, immigrazione e politica estera, che vede fermamente contrari
i britannici (ma anche cechi e polacchi). Il secondo riguarda la ponderazione
dei voti attribuiti a ciascun Paese. Il nuovo sistema previsto dalla
Costituzione aumenta il potere dei Paesi più popolosi. La Polonia, che
perderebbe influenza, minaccia di mettere il veto e contropropone un sistema
che ridurrebbe il peso della Germania aumentando invece il proprio. Il fatto
che il rapporto inviato ieri non menzioni questi due temi di discussione, ben
difficilmente potrà evitare che essi monopolizzino il dibattito al
vertice europeo. Ma Angela Merkel vorrebbe riservare
la discussione su questi temi alle riunioni ristrette dei capi di governo,
mentre gli altri sei punti saranno discussi preventivamente, già
domenica e lunedì, anche dai ministri degli Esteri per cercare di
sbrogliare la matassa prima del vertice.
Monsignor Betori quali sono i principi
che hanno ispirato la riforma concordataria del 1984? "I princìpi
ispiratori possono essere ritrovati sia nella Costituzione italiana che nel
Concilio Vaticano II e si muovono nella prospettiva di sana collaborazione per
la promozione dell'uomo e il bene del Paese. La Chiesa, in particolare, ha
recuperato meglio il bene supremo della sua libertà ("Libertas Eclesiae"), ponendosi più coerentemente a servizio
dell'uomo per promuovere il suo vero bene, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali. La revisione concordataria non offre nulla di
precostituito". E quali i valori ecclesiali alla base dell'otto per mille?
"In particolare l'otto per mille è una scelta che va confermata
tutti gli anni. E questo è già un valore ecclesiale che gli
appartiene perché ogni anno ogni cittadino contribuente è libero di
scegliere e confermare nuovamente la propria fiducia verso la Chiesa cattolica.
Tra i valori ecclesiali legati in particolare all'otto per mille ricordiamo
quello della partecipazione consapevole alla firma, della trasparenza
necessaria per rendicontare su quelle risorse che la gente ci affida".
Come mai la Chiesa ha deciso di destinare delle risorse alla pubblicità?
"Innanzitutto nulla è dato per scontato. La legge prevede che i
contribuenti esprimano ogni anno la propria scelta sull'otto per mille a favore
di una delle sette opzioni. E quindi, ogni anno, dobbiamo semplicemente
ricordare che esiste questa opportunità. Inoltre esiste l'esigenza
"educativa" di promuovere una partecipazione sempre più
consapevole alla missione e al sostegno economico della Chiesa, informando i
cittadini ancora meglio di quanto la Chiesa realizza ogni anno grazie ai fondi
ad essa destinati. È perciò necessaria un'informazione sempre
più trasparente, che se non è promossa crea disagio tra i
sacerdoti, disaffezione tra gli offerenti e i cittadini contribuenti. Per
questo una comunica zione annuale permette un legittimo controllo e rende
disponibili, soprattutto i fedeli, ad un coinvolgimento al
"sovvenire" capace di spingerli alla corresponsabilità, alla
solidarietà più spontanea". Esiste anche un'attività
di sensibilizzazione affidata alle parrocchie oltre che ai media? "Certo.
Ci sono molte persone di buona volontà che ogni anno contribuiscono
affinché ogni firma sia rinnovata, consapevole e motivata. In particolare penso
ai 225 incaricati diocesani e agli oltre 5 mila referenti parrocchiali che
portano avanti, attraverso il servizio al sovvenire, un vero e proprio servizio
pastorale per la nostra Chiesa. Quest'attività, per alcuni iniziata
già nel 1988, rappresenta un apporto di notevole valore alla più
generale azione evangelizzatrice della Chiesa, perché concorre a stimolare l'educazione
alla corresponsabilità e alla partecipazione anche attraverso il
sostegno economico alla Chiesa". Dal 1990 ogni anno i fondi dell'otto per
mille alla Chiesa cattolica sono cresciuti. Era un risultato prevedibile?
"Inizialmente nulla si poteva prevedere. Il sistema dell'otto per mille
nel 1990 fu qualcosa di veramente innovativo. Non per niente fu innovativa, per
la Chiesa cattolica, anche la comunicazione che doveva informare
contemporaneamente su questo nuovo meccanismo oltre 30 milioni di contribuenti
italiani. Ma nulla si può prevedere neanche oggi. Nulla si può
dare per scontato e anzi, proprio una progressiva assuefazione che legge questi
risultati come definitivi può essere il peggior nemico". Come
avviene concretamente la ripartizione? "Ogni anno i vescovi si riuniscono
in assemblea generale e decidono sulla ripartizione dei fondi dell'otto per
mille. Una parte va all'Istituto centrale sostentamento clero per integrare le
remunerazioni dei nostri 39 mila sacerdoti diocesani, una parte dei fondi viene
gestita dalla Cei, un'altra parte, invece, è
gestita direttamente dalle diocesi". E le diocesi come impiegano i fondi
dell'otto per mille? "Come la Cei anche le
diocesi devono impiegare i fondi dell'otto per mille secondo la legge, quindi
per le esigenze di culto e di pastorale e per le opere di carità. Grazie
a queste risorse sono state realizzate strutture educative e ricreative per
ragazzi e iniziative di cultura religiosa. Ma anche interventi per la
formazione dei sacerdoti, per le scuole di formazione teologica per laici,
catechisti e insegnanti di religione, per aiutare le parrocchie e i monasteri
di clausura in condizioni di straordinaria necessità, tenendo conto che
le attività pastorali si fanno sempre più articolate e si
proiettano maggiormente in prospettiva evangelizzatrice e missionaria. Per
quanto riguarda gli interventi di carità nelle nostre diocesi è stato possibile dare
risposte immediate e concrete alle tante domande di aiuto provenienti dalle
numerose situazioni di povertà". La ripartizione dell'otto per
mille risponde a precise normative. Come si è organizzata la Chiesa per
dare rendiconto di queste risorse? "Grazie alla riforma concordataria in
effetti la Chiesa cattolica è stata sollecitata, sia a livello istituzionale,
ma anche locale, a operare vari cambiamenti e in più ambiti per
l'introduzione di strumenti e modalità nuove per un'effettiva
trasparenza delle gestioni delle nuove risorse e per realizzare una sempre
maggiore partecipazione e corresponsabilità di tutti i fedeli alla vita
della Chiesa".
TRENTO. Non c'è pace per la
disgraziata avventura della Cassa Rurale Pinetana
nella fallita Piazza Affari Sim. Dopo la super multa
di 238.500 euro comminata dalla Banca d'Italia a tutti i consiglieri d'amministrazione ed al direttore (18 mila
euro a testa), nonché a tre sindaci in carica nel 2006 (9 mila euro per due,
4.500 per il terzo) ora è la Consob a sancire i protagonisti di quella partecipazione. Assieme ad
altri amministratori della società d'intermediazione, la Commissione per
la Borsa ha giudicato poco attenti nel "dotarsi di procedure idonee a
garantire l'ordinata e corretta prestazione del servizio" l'ex direttore
della Rurale, Franco Pagano, comminandogli una multa di 6.100 euro, l'ex
presidente della Rurale, Sandro Sighel, multato con
6.100 euro e il funzionario, sempre della Pinetana,
Paolo Valentinelli che dovrà pagare 16.300
euro: 5 mila per le medesime infrazioni dei colleghi, più 11.300 euro
perché, nel finanziare un investitore, non si sarebbe preoccupato di assicurare
adeguate garanzie. Sempre nel medesimo provvedimento (delibera n.15947 del 23
maggio scorso) la Consob multa con 8.900 euro Rodolfo Abbbate
che di Piazza Affari Sim è stato
amministratore delegato dal 1º gennaio 2002 al 19 gennaio 2006, nonché
promotore della filiale della società a Trento, in Via Piave. Per l'ex
presidente e per l'ex direttore della Pinetana - ma
anche per tutti gli altri amministratori - il conto delle sanzioni comincia a
farsi pesante. Come è stato pesante l'esborso di 1 milione di euro
pagato dalla Rurale per chiudere le pendenze nel fallimento di Piazza Affari Sim. Un costo, è stato rilevato nell'assemblea che
ha rinnovato il cda, pagato da tutti i soci a danno
dei risultati 2006. E' stato il costo di un'avventura a cui non tutti sembrano
disposti a contribuire, tanto che non si escludono iniziative per chiarire,
come ancora non è avvenuto, tutti i particolari del disgraziato
investimento.
Già quelli che volevano menare
Bertolaso, reo di voler costruire una discarica per smaltire i loro rifiuti.
Avete visto cosa tenevamo in mano? Cartelli, manifesti? Di più. Attorno
all'auto del commissario straordinario per i rifiuti, agitavano la vera, autentica
bandiera italiana. "NO". Questo stava scritto sui fogli di carta che
sventolavano durante l'aggressione. Altro che tricolore. Un bel "NO"
nero su campo bianco. Ecco il vero vessillo del Paese. Il suo emblema. La
sintesi del fronte immutabile, inossidiabile del
rifiuto. Rifiuto di tutto. Persino di smaltire i rifiuti. Rifiuto della Tav.
Rifiuto della base americana di Vicenza, anche da ministri e segretari del
Governo che ha appena detto SI'. Rifiuto delle grandi opere, ma anche di quelle
piccole. Appena parte un progetto. Appena si prospetta un'esigenza, appena
sboccia il germoglio di un qualunque "SI'", all'istante si
materializza, forte, combattivo, aggressivo, a volte violento, il fronte del
"NO". Risultato. IN TUTTO il mondo si costruiscono strade, si fanno
ponti, viadotti, ferrovie super veloci. In tutto il mondo si avanza, si
progredisce, magari si esagera pure nel fare e disfare, mentre da noi si
presidiano i ruderi delle nostre antiche civiltà che seppero innovare
rispetto alle precedenti perché non vivevano in questa Italia paludosa. Oddio.
Non per buttarla in politica, ma va detto che la legge obiettivo varata dal
Governo Berlusconi, qualcosa l'ha ottenuto. I cantieri dell'Alta
velocità Roma-Milano o la terza corsia dell'autosole
tra Firenze e Bologna, come si vede a occhio nudo, hanno fatto grossi passi in
avanti. Adesso, però, si torna indietro. O si cambia valle. Non
più la Tav in val di Susa, ma in una valle a
fianco, sempre che questi montanari non facciano esattamente come i loro
vicini. Non a caso, stiamo restando indietro mille miglia rispetto all'Europa.
Ora, se possibile, il problema si è fatto più acuto. Perché i
partiti del rifiuto, il fronte del "NO" è arrivato al Governo,
ne costituisce una parte solida e integrante. Siede allo stesso tavolo di chi
deve dire "SI". Con il risultato di congelare addirittura il
tesoretto, oppure, bene che vada, di partorire qualche "NI". Da
sventolare sulla bandiera di un Paese sempre più immobile e paralizzato.
L’Unità 16-6-2007 "No, io no" Tagli sì, ma non
si cominci da qui.
ROMA
La pressione fiscale in Italia viaggia attorno al 42% del prodotto interno
lordo. Ma questa è solo una media: perché in realtà, per colpa
degli evasori, gli italiani onesti pagano molto di più. Secondo i
calcoli dell’Agenzia delle entrate sui dati del 2004, a fronte di un prelievo
«apparente» del 41,42% i cittadini onesti hanno pagato quasi 10 punti
percentuali in più: il 50,74%. La ricchezza sottratta al Fisco negli
ultimi 27 annim, dal 1980 ad oggi, è cresciuta
infatti in maniera esponenziale, passando da 43,9 miliardi di euro ai 270,1
miliardi di euro del 2004. Che corrisponde ad una quota pari al 19,12% del
Prodotto interno lordo. La ricerca rivela che è addirittura dal 1989 che
la pressione reale viaggia sopra il 50%, con un picco del 55% nell’anno dell’Eurotassa,
il 1997. Le stime del 2004, l’ultimo anno per il quale sono disponibili tutte
le variabili, parlano di una base imponibile effettiva di 818.403 miliardi e di
tasse pagate solamente su 548.301 miliardi di euro.
L’anno di massimo assoluto dell’evasione è stato il 1990: negli anni a
seguire questo odiosissimo fenomeno comincia il suo graduale rientro fino ad
arrivare al minimo del 1999 con un decremento di quasi 10 punti in 10 anni.
Negli anni più recenti «si osserva, invece, una pericolosa fase ascendente
dell’evasione negli anni 2003 e 2004». La ricerca, appena sfornata, conferma la
volontà del Fisco di conoscere la reale portata del «fenomeno evasione»
proprio in un momento in cui l’argomento è diventato di strettissima
attualità, in vista della spartizione del cosiddetto «tesoretto» e della
messa a punto del nuovo Dpef (Documento di programmazione economica). Nei
giorni scorsi è stato lo stesso ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, ad affermare che in Italia il peso delle
tasse è altissimo e che la riduzione delle aliquote è
strettamente legata al recupero d’evasione fiscale.
Le nuove stime partono dai versamenti Iva che vengono incrociati con i dati
Istat relativi alla contabilità nazionale. L’imposta sul valore
aggiunto, infatti, secondo gli esperti, «è un tributo cardine del
comportamento fiscale tout-court perché la gran parte delle fattispecie di
comportamento evasivo generano un abbattimento di imponibile Iva». Che negli
ultimi anni è stato pesantissimo: solo nel 2004 sarebbero stati
sottratti al Fisco 43,2 miliardi di euro di Iva, ben il 31% in più
rispetto a 5 anni prima, a fronte di versamenti per 77,9 miliardi di euro. In
pratica ogni 100 euro di Iva pagata ce ne sono 55 che vengono puntualmente
evasi.
La vera novità dell’analisi condotta dall’Agenzia delle entrate riguarda
però la possibilità di calcolare la pressione fiscale effettiva,
un dato che consente di verificare se la riduzione della pressione sia
imputabile a una riduzione del carico fiscale determinato dalle leggi o se sia
il risultato di un aumento dell’evasione. Nel 2002, ad esempio, si è
assistito a una riduzione del carico fiscale legale, non colto tramite la
pressione fiscale apparente rimasta stazionaria, poiché associato a un recupero
di evasione (si riduce il carico fiscale di chi paga le tasse, perché si amplia
la base di quelli che le pagano). Nel 2003, è invece accaduto l’inverso:
e il carico fiscale sugli «onesti» è aumentato di più di quello
apparente. Nel 2004, la pressione fiscale apparente è invece scesa di
più di quella reale: questo significa che una parte della riduzione del
peso fiscale era il prodotto di una nuova impennata dell’evasione. La pressione
fiscale è cresciuta fino al 1997 per poi calare leggermente e
stabilizzarsi: intorno al 42-43% quella apparente, mentre quella effettiva
oscilla sul 51-52%. E questo, come segnalano da tempo molti osservatori, dalla
Confindustria alla Banca d’Italia, è la vera anomalia italiana. «A causa
del peso dell’evasione – denunciava il governatore della Banca d’Italia, Mario
Draghi, nelle sue ultime Considerazioni finali, lo scorso 31 maggio - la
differenza tra l’Italia e resto dei paesi d’Europa è maggiore se si
guarda la prelievo sui contribuenti fiscalmente onesti». La forbice tra
pressione fiscale «apparente» e «reale» viaggia infatti attorno ai 9-10 punti
percentuali del Prodotto interno lordo: ecco l’importo del vero «tesoretto» che
bisognerebbe cercare di incassare.
Era
notte a Genova. La città della Lanterna ospitava in quei giorni del
luglio 2001 il G8. Erano giorni duri, che videro la morte di un ragazzo, Carlo
Giuliani, e scontri violentissimi. Nella notte tra sabato e domenica la
tensione sfociò in nuove, drammatiche violenze. Il sabato sera, nella
scuola Diaz che era stata trasformata in una sorta di dormitorio per i
manifestanti venuti da fuori, arrivò la polizia. Che cosa accade? Secondo
la prima versione che venne fornita poi dagli agenti, c’erano dei manifestanti
già feriti a terra, in un bagno di sangue. Una versione sempre
contestata e che ieri è stata smentita definitivamente dalla
testimonianza, tardiva ma onesta, di un poliziotto che è fra i 28
imputati per i fatti di quella notte. Michelangelo Fournier,
all’epoca vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma, al pm Francesco Cardona Albini ha dichiarato: «Arrivato al
primo piano dell’istituto ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro
poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese, stavano infierendo
su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana». Pestaggi
ancora in atto. «Sono rimasto terrorizzato e basito - ha spiegato poi Fournier - quando ho visto a terra una ragazza con la testa
rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel
punto che gridai: “basta, basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano».
Il racconto diventa agghiacciante: «Intorno alla ragazza per terra c’erano dei
grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai
miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze. Per me
stava morendo».
Viene così a galla un pezzo di verità. Il vicequestore Fournier ha taciuto per sei anni: «Spirito di
appartenenza», si è giustificato. In parlamento si parla da tempo di una
commissione d’inchiesta sui fatti genovesi. Per ora è rimasta lettera
morta. È augurabile che queste dichiarazioni richiamino la politica ad
assumere rapidamente un impegno in questo senso. Lo impongono il rispetto della
moralità della vita pubblica e il senso dello Stato.
Per finire: il Comitato verità e Giustizia per Genova ci ricorda come ai
tempi si parlò (lo fece D’Alema in un memorabile discorso al Parlamento)
di «notte cilena». Oggi vien fuori l’inedito - finora - riferimento alla
«macelleria messicana». Sarebbe il caso di smetterla con i riferimenti esotici,
quasi a spingere oltre l’oceano l’immagine di un affare che è tutto e
solo nostro. Chiamiamola più semplicemente come si deve: una vergogna
italiana.
ROMA - Via libera, in prima lettura,
dell'Aula della Camera al ddl liberalizzazioni, la
terza lenzuolata del ministro dello Sviluppo
economico, Pier Luigi Bersani. I voti a favore sono stati 265, i voti contrari
221 e unico astenuto Salvatore Cannavò, "dissidente" del Prc della
corrente sinistra critica. Il provvedimento, il cui testo in buona parte
è stato modificato in corso d'esame, passerà all'esame del
Senato. Soddisfazione da parte del promotore del decreto, Pierluigi Bersani,
malgrado alcuni passi falsi nel passaggio alla Camera: "Il processo sta
andando avanti. Non vorrei che passasse l'idea che in questo Paese non si possa
cambiare", ha detto il ministro. Sul decreto sono arrivate pesanti
critiche da parte del presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo.
VANTAGGI PER I CONSUMATORI - Con la terza lenzuolata
di liberalizzazioni (ma la Cdl, viste le modifiche al decreto originario, parla
più volentieri, ironicamente, di "fazzoletto") i consumatori
potranno avere pane fresco anche la domenica e libri appena usciti da subito a
prezzi da saldo, farmaci da banco al supermercato e biglietti "last
minute" in aeroporto, segreteria gratis nei cellulari e (forse) un
risparmio in banca sulla commissione di massimo scoperto. Ma per il via libera
definitivo alle misure previste dal ddl ci
vorrà l'ok del Senato, Dove alcune norme verranno cancellate, anche per
iniziativa del governo: la vendita dei farmaci di fascia "C" al
supermercato, per esempio, decadrà, come ha già annunciato il
ministro della Salute, Livia Turco. In effetti, già nel passaggio alla
Camera qualche misura rilevante è stata accantonata: per esempio
è stata stralciata l'abolizione del Pra (il
pubblico registro automobilistico, che il ministro per lo Sviluppo economico,
Pierluigi Bersani, considera un doppione della Motorizzazione civlie). La cancellazione del Pra
confluirà in un apposito progetto di legge. E' rimasto inoltre l'obbligo
del notaio per vendite di immobili sotto i 100mila euro di valore catastale. E
qualcos'altro è stato aggiunto, come la moratoria (in attesa di una
nuova legge di settore) a tutte le privatizzazioni dei servizi idrici. Ecco, in
sintesi, le novità. BENZINAI - Via i limiti di distanza e i parametri
numerici per le pompe di benzina. I gestori potranno vendere prodotti "non
oil". Sugli orari competenza regionale. BANCHE
1/CONTI DORMIENTI - Ogni volta che si aprirà un conto corrente, le banche
dovranno chiedere all'intestatario le generalità di tre persone da
contattare nel caso in cui per due anni non si registrino movimenti sul conto.
BANCHE 2/MASSIMO SCOPERTO - Via la clausola di massimo scoperto, anche se
potrà essere predeterminato un "corrispettivo" per il servizio
di messa a disposizione delle somme. STOP A CARO BENZINA - Al salire del prezzo
del petrolio in due mesi di oltre 2 punti rispetto dal valore di riferimento
fissato nel Dpef, l'aumento degli introiti Iva servirà a finanziare un
calo equivalente delle accise sui carburanti. TRASPORTO INNOVATIVO - Gli enti
locali rilasceranno autorizzazioni per "forme innovative" di trasporto
pubblico locale: potranno essere date a titolari di licenze taxi o di noleggio
ma non alle aziende di trasporto pubblico locale. EDITORIA - È passato,
contro il parere del governo, un emendamento dell'opposizione che toglie il
divieto di fare sconti superiore al 20% sui libri per i primi due anni di
pubblicazione. FARMACI AI SUPERMERCATI - I farmaci di fascia "C", non
rimborsati dal Ssn, si potranno comprare anche al
supermercato a condizione che la vendita sia curata da un farmacista. Contro la
misura si è schierata il ministro Livia Turco, che ha promesso di
proporne la cancellazione in Senato. TELECOMUNICAZIONI - Approvato
l'emendamento del governo che dà più poteri all'Agcom per la
separazione della rete Telecom dai servizi. Stop ai servizi non richiesti di
telefonia mobile. PANIFICI - Pane fresco anche la domenica. Aboliti i vincoli
di chiusura domenicale e festiva per la panificazione. FERROVIE DELLO STATO -
Sì alla liberalizzazione delle tariffe, ma sono attenuate le norme per
definire i "rami secchi". TARIFFE AEREE - Nuovo stop a
pubblicità delle compagnie: non si potrà reclamizzare il prezzo
del biglietto separato dagli oneri accessori. AEREI LAST MINUTE - Le compagnie
aeree potranno vendere negli aeroporti con la formula "last minute" i
biglietti invenduti. ACQUA - Maxi moratoria per i servizi idrici: i nuovi
affidamenti, fino a che non sarà rivista la normativa in materia, non
potranno essere affidati a soggetti privati. INCENTIVI PER QUOTARSI IN BORSA -
La quota di capitale di nuova formazione sottoscritto da organismi di
investimento collettivo potrà avere una riduzione dell'Ires che potrà scendere fino al 20%. LEGGE ANNUALE
CONCORRENZA - Arriva il disegno di legge annuale "per la promozione della
concorrenza e la tutela dei consumatori": servirà a recepire i
suggerimenti delle Autorità. RC AUTO - È previsto il mantenimento
della stessa classe di merito nel bonus-malus per chi porta l'assicurazione da
un camioncino o un furgone a un'auto: per esempio, è il caso di commercianti
o artigiani che cambino modo di lavorare o vadano in pensione. 13 giugno 2007.
TRIESTE Una raccolta di firme per abolire le pensioni d'oro,
ovvero i vitalizi conseguiti da consiglieri, parlamentari, assessori o
ministri, dopo neanche una legislatura. La "crociata" per ridurre i costi della politica parte da Ruben
Colussi, leader regionale Cgil, che dice di parlare a titolo personale, che
tuttavia viene sostenuto anche dalla segreteria del sindacato. La petizione -
che sarà inviata al Parlamento e al Consiglio regionale - è il
primo passo verso la costituzione di un "Comitato per l'etica della politica". Primi
firmatari, con Colussi, Renato Kneipp, Giuliana
Pigozzo, Ezio Medeot. Accanto a loro i segretari
provinciali Franco Belci, Glauco Pittilino,
Roberto Massera e Emanuele Iodice. "La nostra -
spiega Colussi - non è una battaglia qualunquistica contro i costi della politica. Abbiamo scelto di
colpire un privilegio che non tocca partiti politici o istituzioni bensì il trattamento personale di
parlamentari e consiglieri regionali. Nessuno può sostenere che questo
privilegio sia utile alla democrazia. Anzi, nel momento in cui si vuole
rivedere il sistema della previdenza italiana, bisogna evitare lo sconcio
generato da persone che decidono della pensione altrui, potendo usufruire di un
vitalizio dopo due anni e mezzo di attività". Ma l'iniziativa non
trova tappeti rossi da parte della politica. "L'Italia è solita agire sotto una spinta emozionale
- evidenzia Bruno Malattia (Cittadini) - ed è quello che bisogna
evitare. La caccia alle streghe non porta a nulla. Servono provvedimenti strutturati
perché i veri costi della politica sono altri: le pletore che si moltiplicano, i troppi livelli
decisionali che aumentano i tempi per realizzare le opere. Noi, per la Regione,
proporremo alcune idee concrete". Un esempio? "Riduzione dei consiglieri
regionali a 40 e conseguimento della "pensione" a 65 anni".
È favorevole all'innalzamento dell'età in cui si percepisce il
vitalizio (oggi 60 anni) anche il forzista Isidoro Gottardo "perché non
possono esserci disparità di trattamenti rispetto a ciò che
avviene nel resto della società". Ma Fi non appoggia Colussi
"che ha partecipato in questi anni attivamente alla concertazione con la
Regione e si guarda bene dal sollevare problemi veri. Uno per tutti il costo
della comunicazione della giunta Illy: circa 5 milioni di euro". Rivedere
la durata del vitalizio è una priorità anche per Rifondazione,
come spiega Igor Canciani. E tra le proposte concrete
che arrivano dai partiti c'è quella di abolire la "pensione" dei politici
ma anche le trattenute, lasciando ai singoli la possibilità di stipulare
un'assicurazione. La ripropone, Cristiano Degano (Dl) che ricorda come "un
primo segno al problema dei costi, il consiglio l'ha dato riducendo le indennità del
10%". Un altro, secondo il capogruppo, sarebbe legare "l'indennità
dei consiglieri al numero di votazioni fatte in aula e non solo alla
presenza". Luca Ciriani (An) è favorevole
all'eliminazione del vitalizio in favore di una gestione privata ed evidenzia
come "i nostri benefit siano tra i più bassi d'Italia. Possiamo
migliorare riducendo il numero dei consiglieri". Di costi della politica i capigruppo
parleranno lunedì pomeriggio con Alessandro Tesini.
"La nostra idea - dice il ds Mauro Travanut - è che l'azione della Regione debba
inserirsi in un quadro di cambiamento nazionale. Diversamente sarebbe
inefficace". m.mi.
Diaria, indennità, gettone di presenza vitalizio:
l'insensata giungla retributiva degli eletti in Regione Appena sono state
estratte le forbici per tagliare il costo, divenuto esorbitante, della politica - dai vertici della
Repubblica ai consigli di circoscosrizione - è
cominciato il balletto "tagliate prima voi, ah, no, tagliate prima
voi". Morale, sembra che, per ora, siano state tagliate le
indennità di presenza dei consiglieri delle circoscrizioni bolognesi che
ammontavano ad una trentina di euro, ben poca cosa; il doppio, comunque, delle
34.000 lire lorde che il sottoscritto percepiva una dozzina di anni fa quale
consigliere al Comune di Urbino. Tutto finirà nella solita commedia
all'italiana? Un bel contributo in tal senso l'ha dato l'ex vice-premier di
Berlusconi, Gianfranco Fini, intervenendo al solito Porta a porta: "Noi
per la verità, con la nostra proposta di Costituzione, i parlamentari li
avevamo ridotti parecchio. Certo, fra due legislature. Ma io credo che nessuna
decisione del genere possa venire richiesta, a tempi rapidi, a chi è in
carica." Come dire: nessuno dei 945 parlamentari pensa minimamente di
tagliare l'erba sotto i piedi ai propri immediati successori o a se stessi
ipotizzati ovviamente quali successori. Lo vedete pure per cambiare la legge
elettorale, il Porcellum calderoliano,
quante divaganti resistenze, quante accuse scaricate sul voto o sui voti di
preferenza. L'elettore deve limitarsi a mettere la crocetta. Gli uomini e le
donne (poche) le cooptiamo noialtri. Senza tagliare a breve il loro numero
perché, altrimenti, i piccoli gruppi strillano. Commedia, commediaccia
all'italiana. Ma c'è dell'altro. Il costo della politica italiana, dai rami
alti a quelli bassi, è imputabile non soltanto a benefit sempre
più "grassi" di tanti eletti dal popolo (in realtà, in
regioni come la Toscana, cooptati dalle segreterie dei partiti), alle migliaia di
auto blu (meglio se con scorta), ma pure a tempi di lavoro effettivo molto
ridotti, ad una produzione e produttività ormai decisamente mediocri. Così
i tempi delle decisioni si allungano e il costo finale di una legge importante
diventa insopportabilmente alto. Il bipolarismo doveva servire a sveltire il
lavoro deliberante e legislativo, ma la sua versione italiana, fortemente
militante, di guerra permanente quasi, sta facendo terra bruciata delle
commissioni parlamentari. Le quali, anche nei periodi più arroventati
della nostra storia parlamentare, servivano da stanza di decombustione,
di discussione e di confronto sui problemi reali, senza le bandiere ideologiche
da sventolare nelle sedute pubbliche. In Parlamento "sono
"sparite" le commissioni", così titolava il 26 maggio
scorso Il Sole 24 Ore sottolineando come la difformità stessa dei
regolamenti, la diversa forza della presidenza fra Camera e Senato (con
più poteri decisionali a Montecitorio, anche in materia di calendari di
lavoro), il valore di voto contrario dell'astensione al Senato complichino
ulteriormente un andirivieni fra le due Camere che spesso, per un emendamento,
impegna mesi. È questo un costo della politica meno visibile quanto
decisivo. Nelle Camere attuali si guadagna parecchio e però si lavora
male, sempre peggio e sempre meno fruttuosamente. Oltre tutto, se anche per i
lavori parlamentari decide l'aula, cioè una ristretta oligarchia di
responsabili dei partiti, a che servono i quasi mille deputati e senatori? Ad alimentare
le rispettive tifoserie negli scontri d'aula o negli ostruzionismi. E sì
che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, sta dando un esempio
straordinario di solerzia, di rigore, di stile e di produttività
istituzionale. Si badi bene: il malessere delle assemblee non riguarda solo
quelle parlamentari, bensì pure le aule dei consigli comunali e
provinciali. Ne parlò, autorevolmente quanto isolatamente, Gianfranco
Pasquino, tempo fa. Mi piacerebbe che riprendesse quegli argomenti. Dati
recenti ci dicono che un consiglio comunale ogni 4 va deserto a Roma per
mancanza di numero legale. Accade anche altrove. È il modo di
manifestare profondo disagio delle maggioranze (badate bene, delle maggioranze)
che hanno perduto tanti, troppi poteri. Sono d'accordo che prima della riforma
della legge comunale e provinciale, le assemblee elettive avessero poteri tali
da dar luogo a forme di vero e proprio "assemblearismo". E
però la situazione si è ribaltata. Oggi gli atti importanti sono
tutti atti di giunta che ai consigli non resta che ratificare. Nel consiglio
comunale di Urbino che citavo, in tre consiglieri appena, tutti di sinistra,
tenemmo l'assemblea a discutere per due giorni sani di quattro progetti o
lottizzazioni assai poco persuasive che la giunta, ovviamente Pds-Psi, come
dalla Liberazione, nel sonno acquiescente della Dc, aveva rifritto il primo
giorno di scuola. Due furono ritirate, uno venne rifatto (e un dubbio residence
divenne un albergo a tutti gli effetti, il "Mamiani"), un altro
passò e poi rimase sulla carta. Oggi una operazione democratica di
profonda revisione di progetti urbanistici non è più possibile in
consiglio comunale. Ma la frustrazione degli odierni eletti fa sì che si
allunghino artificiosamente i tempi delle decisioni e che ne soffra la stessa
qualità. Almeno agli occhi di ancora crede ai benefici di un dibattito
serio. Torniamo ai tagli di seggi e posti. Dalla Val d'Aosta il presidente Luciano
Caveri fa sapere che lì dai 35 consiglieri
è impossibile scendere. Non potrebbe però scendere
l'indennità lorda, 10.878 euro, il top in Italia col Friuli-Venezia
Giulia, circa 3.500 euro più di Marche o Molise? Per quali misteriose
ragioni? Climatiche? Etniche? Il primato del numero dei consiglieri regionali
lo detiene invece la Sicilia con 90 scranni, seguita dalla Sardegna (85) e
dalla Lombardia (80, ma con oltre 8 milioni di abitanti), mentre
l'Emilia-Romagna si ferma a 50 eletti in Regione. La contigua Toscana, con una
popolazione inferiore, ne conta, chissà perché, 15 di più e la
Puglia addirittura 20 di più. La Sicilia spende ovviamente più di
tutte per le sole indennità: 854.010 euro mensili per i deputati regionali.
Senza tener conto di diarie e di benefit vari (che in Veneto comprendono i
funerali gratis, pure per gli ex consiglieri). Ha ben ragione il politologo
Gianfranco Pasquino a tuonare: "Le Regioni? Carrozzoni. Se avessero il 20%
in meno di consiglieri, questo non arrecherebbe danno al corretto esercizio
della pubblica amministrazione". Anzi, da regionalista profondamente
deluso (e siamo in tanti), Pasquino abolirebbe le Regioni e non le Province. In
effetti, una inchiesta del Sole 24 Ore ci dice che anche nelle Regioni un tempo
chiamate "rosse", dove vigeva, e in parte vige ancora, una certa
sobrietà, ci sono disparità inspiegabili: in Umbria, fra
indennità di carica e diaria, si sfiorano per ogni consigliere i 12.000
euro mensili, contro gli 8.537 della confinante Toscana dove i gettoni di
presenza sono i più bassi d'Italia. Siamo alla "giungla
retributiva", con tanti rami alti e costosi però. Tanto più
che in alcuni consigli regionali ce la si prende piuttosto comoda: una riunione
plenaria ogni 13-14 giorni in Umbria. E pensare che, ai tempi del Piero
Bassetti, si sosteneva che le Regioni avrebbero dato un esempio allo Stato in
termini di efficienza, produttività, velocità e costi delle pratiche e
dunque della politica. Altra "giungla" per le indennità lorde mensili
dei presidenti di Regione: si va dai 14.000 euro del Piemonte agli 11.000 del
Veneto passando per cifre intermedie in Lombardia, Lazio, Veneto e Campania. Ma
perché mai? Sono dislivelli insensati e inspiegabili. Naturalmente questi
elevati regimi retributivi si tirano dietro non meno elevati vitalizi, anche
questi però difformi: in Emilia-Romagna, nelle Marche e in Toscana il
minimo sta sui 1.500 euro lordi mensili, ma balza a quasi 4.700 euro nel Lazio
e a oltre 3.700 in Calabria dove peraltro la trattenuta è bassissima
(17% contro il 27% di altre Regioni, come Umbria o Campania). Per i massimi, si
sale, o si balza, dai 3700-3800 euro lordi al mese di Emilia-Romagna, Marche,
Toscana agli oltre 8.400 della Puglia e ai 9.308 del Lazio, in alcuni casi
cumulabili con altri redditi consimili (vitalizio parlamentare, ad esempio), in
altri no. Nel Lazio basta avere compiuto 55 anni e aver effettuato versamenti
per 5 annualità per conseguire un vitalizio minimo vicino ai 5.000 euro
lordi al mese. E la Regione Sicilia, patria di tante ingegnose e pingui
prebende? Non se ne sa nulla. Lo stesso Sole 24 Ore segnala che Palermo
"non ha fornito alcun dato". Del resto, la Corte Costituzionale con
la sentenza 157 ha stabilito l'illegittimità del taglio del 10% (appena)
inferto dalla Finanziaria 2006 ai compensi dei vertici delle Regioni. Quale
miglior incentivo ad abbuffarsi? Il governo Prodi - che ha già tanti
problemi di sopravvivenza - sta tuttavia elaborando un "libro bianco"
su tutta la scottante materia. Le anticipazioni che ne vengono date dal
ministro Vannino Chiti parlano di una riduzione secca dei parlamentari,
incrementata anche dalla trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie
(composta in parte da delegati delle Regioni, già eletti quindi) e da
una indennità unica per tutti gli eletti. A livello regionale qualcosa
si è fatto. La Regione Sardegna - come ha riferito l'Unità di
domenica 10 - ha ridimensionato le auto blu della Giunta da una quarantina a
14, ha cancellato 4 enti provinciali per il turismo e 8 Aziende di soggiorno. La
Regione Lazio ha soppresso le Aziende Provinciali per il Turismo (Apt) "che ci costavano 8 milioni e mezzo di euro
l'anno soltanto per aprire gli uffici", spiega l'assessore Raffaele
Ranucci. Qualche società a partecipazione pubblica è saltata o
sta saltando, in qualche "autorità", per esempio in
Emilia-Romagna, l'indennità viene sostituita dai gettoni di presenza. Ma
già si va dicendo - lo fa pure il ministro Santagata - che non bisogna
prendere provvedimenti "sull'onda emotiva" del momento. Passata l'onda,
in genere viene la bonaccia. Che per un governo, per il sistema dei partiti annuncia soltanto il
montare di una nuova tempesta sospinta dai venti furiosi dell'anti-politica e del qualunquismo.
Dare un segnale politico è indispensabile. Come non mai. "Sciagurata"
la classe politica, ha detto di recente Giuliano Amato, che non cogliesse questa
occasione: "Ci sono almeno 300 parlamentari di cui si può fare a
meno". E anche di un bel po' di ministri, di vice-ministri, di
sottosegretari nonché di consiglieri e assessori regionali, provinciali,
comunali, circoscrizionali a libro paga. (3-fine. Gli articoli precedenti il 28
maggio e il 4 giugno 2007).
Bruxelles, 14 giugno 2007 -, commentando
così la situazione negli Stati membri: "Sebbene la situazione di
bilancio sia notevolmente migliorata negli ultimi anni, appare chiaro che la
maggior parte degli Stati membri deve migliorare i risultati per quanto
riguarda il conseguimento degli obiettivi di bilancio. I benefici di politiche
di bilancio sane sono evidenti: la riduzione del disavanzo e del debito e il
miglioramento complessivo della qualità delle finanze pubbliche
consentirebbero agli Stati membri di liberare le risorse di bilancio necessarie
per promuovere l'innovazione, gli investimenti, l'istruzione e l'occupazione, i
quali a loro volta permetterebbero loro di affrontare con maggiore fiducia le
sfide della globalizzazione e dell'invecchiamento della popolazione". Per
quanto riguarda i dati relativi al nostro paese, la relazione pone l'Italia nel
gruppo dei 10 paesi a "medio rischio" dal punto di vista della
sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche insieme a Belgio,
Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Slovacchia e Regno
Unito. Il rischio più significativo è rappresentato per l'Italia,
come per Lituania, Lussemburgo, Portogallo e Regno Unito, dalla posizione di
bilancio iniziale, sebbene leggermente migliore rispetto al 2005. Risulta
quindi necessario un rapido consolidamento dei conti pubblici che assicuri una
stabile riduzione dell'attuale elevatissimo livello del debito pubblico. Ed
è proprio per l'elevato livello del debito pubblico che l'Italia deve
dare seguito all'invito del Consiglio di rispettare pienamente le riforme
previste del regime pensionistico, compresa la revisione periodica dei
coefficienti di trasformazione adeguandoli alle attuali aspettative di vita in
modo da evitare significativi incrementi della spesa legata all'invecchiamento
della popolazione. Inoltre, la relazione analizza la riforma del trattamento di
fine rapporto, sottolineando che pur riducendo il deficit, essa non migliora la
sostenibilità finanziaria, visto che implica future spese addizionali.
L'impatto sul bilancio della misura, essendo legato alla scelta non prevedibile
dei lavoratori, resta dunque incerto. Insieme alla relazione annuale sulle
finanze pubbliche nell'Uem, la Commissione ha adottato oggi una comunicazione al Parlamento e al Consiglio
contenente una serie di proposte per migliorare l'efficacia del "braccio
preventivo" del patto di stabilità e crescita. Le proposte
riguardano, da un lato, il modo in cui i governi formulano e attuano le loro
strategie di bilancio a medio termine e, dall'altro, il rafforzamento della
sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche e di bilancio a
livello dell'Ue. Lo scopo è realizzare politiche di bilancio sostenibili
che favoriscano la crescita e l'occupazione. Nel 2006 la situazione di bilancio
è migliorata considerevolmente. Il disavanzo medio nell'Ue è sceso dal 2,4% nel 2005 all'1,7%
(e dal 2,5% all'1,6% nell'area dell'euro), mentre il rapporto debito/Pil è diminuito per la prima volta dal 2002 sia
nell'Ue che nell'area dell'euro. Questa evoluzione riflette i continui
progressi conseguiti nella correzione dei disavanzi eccessivi. Dopo
l'abrogazione, la scorsa settimana, delle procedure nei confronti di Germania,
Grecia e Malta, sette sono ancora i paesi in disavanzo eccessivo, rispetto ai 13
prima della riforma del patto. Dopo la riforma la procedura è stata
abrogata anche nei confronti di Paesi Bassi (2005), Cipro (2006) e Francia
(gennaio 2007). I sette paesi restanti sono l'Italia e il Portogallo, fra gli
Stati membri dell'area dell'euro, nonché il Regno Unito, la Repubblica ceca,
l'Ungheria, la Polonia e la Slovacchia. Secondo gli ultimi aggiornamenti dei
programmi di stabilità e di convergenza, solo due paesi (Ungheria e
Repubblica ceca) dovrebbero ancora registrare disavanzi superiori al 3% del Pil alla fine del 2008. La Commissione è tuttavia preoccupata del fatto che il braccio preventivo
del patto non funziona così bene come il braccio correttivo. In genere,
nonostante il contesto economico favorevole, gli Stati membri che non hanno ancora
raggiunto l'obiettivo di bilancio a medio termine non stanno risanando le
finanze pubbliche ad un ritmo sufficientemente rapido. In alcuni paesi
l'inatteso maggiore gettito fiscale viene in parte utilizzato per finanziare
aumenti di spesa. Ciò solleva dubbi sul carattere permanente del
risanamento di bilancio in corso. Le previsioni di primavera dei servizi della Commissione mostrano che a politiche invariate solo 10 dei 27 paesi dell'Ue raggiungeranno il rispettivo obiettivo di
bilancio a medio termine nel 2008, nonostante tre anni consecutivi di crescita
economica superiore al tasso tendenziale.
ROMA Non è questione di turpiloquio: quello lo usiamo
tutti. "Cazzo", diceva Giovanni Consorte. "Cazzo", diceva
Stefano Ricucci. Cazzo, diciamo tutti al telefono.
"Figlia di troia", diceva Vittorio Emanuele di Savoia parlando di
Giuliana Sgrena. E "figli di puttana" diceva Piero Fassino di quelli
del Sole 24 Ore. Sì, confermava Consorte, "sono dei figli di
puttana". E "Porca troia!", diceva Chicco Gnutti.
"Deficiente" diceva Ricucci parlando di
Marco Tronchetti Provera. "Deficiente", diceva Fassino parlando di
Luigi Abete. Non è quella la questione, perché tutti al telefono
spacchiamo quello a quello, e per tutti noi il tale non capisce un tubo come
Nicola Latorre sosteneva del suo segretario. La
questione è altra. E' la cautela furbina, per esempio. Diceva Cristina
Rosati, la moglie dell'ex governatore della Banca d'Italia, Antonio Fazio, parlando
con Gianpiero Fiorani: "In questo momento meno si parla con i telefoni e
meglio è". Diceva Massimo D'Alema parlando con Consorte:
"Meglio incontrarsi di persona", e meglio "esser prudenti sulle
comunicazioni". E così Fazio, che a Fiorani consigliava di esser
prudente: "L'unica cosa, passa come al solito dal retro" di
Bankitalia. "Più si passa inosservati e meglio è",
diceva Consorte a D'Alema. La prudenza e lo sciorinamento di ganci buoni.
"A quelli ci penso io", diceva Fazio a Fiorani riferendosi alla Consob. "Comunque ho fatto un po' di chicchierate
anche milanesi... Insomma, alla fine se ce la fate vi rispetteranno",
diceva D'Alema a Pierluigi Stefanini, presidente della holding delle
cooperative, riferendosi a chissà chi. E poi, insomma, anche la
battaglia è comune. Il furbetto ormai, per la storia, è Ricucci. E il copyright è suo. "Furbetti del
quartierino" lo usò per battezzare sé e i suoi compagni. Ma peggio
erano quelli del salotto buono: "Tronchetti... Loro sono il salotto
buono... Ci ha 45 miliardi de' debbiti... Il salotto
sano lui ci ha". "Con i pierini bisogna giocare da pierini",
diceva Gnutti. E i pierini erano quelli del salotto
buono. "Loro adesso si scateneranno ancora di più... ieri il Sole
24 Ore ha fatto un'intera pagina contro di me", diceva Fassino a Consorte,
e il Sole è il quotidiano di Confindustria. "Abbiamo messo le mani
nel loro mercato", diceva ancora Fassino a Consorte. Una partita dura. E
quando la partita si fa dura... Lo sapeva Fiorani e infatti, parlando con Gnutti, diceva: "Noi siamo pronti con i
bazooka...". "Oggi ho fatto una telefonata di fuoco a
Montezemolo...", diceva Fassino parlando come al solito con Consorte.
"Questi maledetti", diceva Fiorani. E poi: "Mettiamogli paura anche
noi...". E ancora: "Bisogna partire noi con le minacce". Ecco
Fassino: "Bisogna passare al contrattacco". Oppure: "Siamo in
piena guerra. Bisogna che parliamo perché siamo in piena guerra". D'Alema,
col suo temperamento, non minaccia, ordina: "Gianni, andiamo al sodo: se
vi serve, resta". Gianni è Consorte. Quello che deve restare
è Vito Bonsignore, deputato europeo dell'Udc
di Pierferdinando Casini e detentore di quote della Banca nazionale del lavoro.
Sono tante le questioni. C'è anche una questione di affettuosità.
"Tonino, io sono commosso, con la pelle d'oca, io ti ringrazio, ti
ringrazio", diceva Fiorani a Fazio. Pure Silvio Berlusconi si definiva
commosso parlando con Fiorani. E pure Consorte era grato: "Grazie di
tutto", diceva a Fassino. E gli ridiceva: "Ti ringrazio anche per
l'aiuto che ci hai dato". C'è una questione sempre solida, e
cioè quella morale. I sistemi saranno discutibili, ma li si adopera
mossi da intenzioni filantropiche. "Caro Tonino, il Paese ti sarà
sempre grato", diceva Fiorani a Fazio persuaso che le sue scalate fossero
di pubblico beneficio. "Non c'è nessuno che fa niente per niente
Piero a 'sto mondo. Siamo rimasti in pochi secondo me", diceva Consorte a
Fassino a proposito di Marcellino Gavio, risoluto ad
appoggiare Unipol "siccome lui ha Impregilo" e "vuole lavorare
con le cooperative". E Consorte si tiene anche Gavio.
Niente per niente? "Facci sognare. Vai!" è l'incoraggiamento
euforico di D'Alema a Consorte. "Ti darei un bacio, in questo momento, un
bacio sulla fronte", è il trasporto altrettanto euforico di Fiorani
con Fazio. E infine i furbetti; lo sbrindellone, che era Giacino
Facchetti per Luciano Moggi; il bulletto, che era Ricucci
per Latorre. Lo scarparo,
che era Diego Della Valle sia per Ricucci sia per Latorre. "Non ci vuole molto ad avere un po'
più di classe di 'sti beceri", diceva Consorte.
Ieri il viceministro dell'economia Roberto
Pinza e il sottosegretario alla giustizia Alberto Maritati hanno firmato un
protocollo d'intesa per l'implementazione di un sistema informatico per la
gestione del processo penale. L'accordo muove da una precedente collaborazione
tra il ministero della giustizia, dipartimento tesoro, congiuntamente con Abi, Cnipa,
Agenzia delle entrate e guardia di finanza, che ha dimostrato la
possibilità di utilizzare i protocolli informatici in uso presso
l'Agenzia delle entrate da parte del ministero della giustizia anche in ambito
di giustizia penale. Il sistema giustizia è policentrico:
conseguentemente, tutti i soggetti cui compete la politica di pianificazione
devono lavorare in sinergia. Ed è proprio sulla scia di tale
convincimento che si è avviata un'intensa attività di
cooperazione fra amministrazione della giustizia e altre amministrazioni allo
scopo di conseguire un'efficacia dell'azione che i protocolli consentono di
raggiungere più celermente. Con l'accordo in questione, pertanto, si
arricchisce il panorama delle collaborazioni estendendo quanto già
avvenuto per il processo civile telematico, che consta di un protocollo fra
ministero della giustizia e dicastero per l'innovazione tecnologica, anche alla
gestione procedimento penale, che godrà adesso dell'appoggio del
ministero dell'economia e delle finanze per uno studio di fattibilità
diretto a verificare la possibilità di consentire alle procure di
richiedere ogni tipo di accertamento bancario nonché a gestori di telefonia,
polizia giudiziaria, ufficiali giudiziari, carceri ecc. per via telematica e di
ricevere dalle banche una risposta, in tempi rapidi, per analoga via.Il Mef - Dipartimento tesoro,
oltre alla sua competenza nelle materie di interesse del ministero della
giustizia, negli ultimi anni ha avviato specifiche iniziative, in accordo con
gli obiettivi governativi finalizzati alla digitalizzazione della p.a., volte
all'introduzione di sistemi di gestione documentale e sistemi di workflow management che, nel rispetto della rilevanza delle
tematiche trattate, consentono efficienza e riduzione dei tempi. Grazie quindi
alla conoscenza tecnologica sviluppata e alla performabilità
dei modelli predisposti che offrono importanti possibilità di
applicazione tecnica e metodologica si è potuto gettare le basi per
questa nuova e importante collaborazione.
++ Ilmeridiano.info 13-6-2007 In Italia oltre la metà del Pil
assorbita dalla spesa pubblica
+ La Stampa 13-6-2007 Sindrome complotto GIOVANNI DE
LUNA
L’Unità 13-6-2007 Antonveneta: i pm di Lodi indagano Roberto
Calderoli per appropriazione indebita
L’Unità 13-6-2007 La pentola e il coperchio
Marco Travaglio
Il Riformista 13-6-2007
SENTENZE Gli Usa riscoprono la giustizia
Roma Oltre
la metà della ricchezza prodotta dall’Italia viene assorbita dalla spesa
pubblica, ponendo il Belpaese al vertice dell’area euro. Secondo le
informazioni dettagliate sui conti del settore pubblico resi noti dall’Istat,
infatti, nel 2006 la spesa pubblica complessiva è aumentata del 7,9%
rispetto all’anno precedente evidenziando una «dinamica più accentuata»
di quella registrata nel 2005 (+3,6%). Inoltre, la pressione fiscale è
aumentata «in maniera significativa» al 42,3%; ma nel 2006 sono cresciute anche
le entrate totali: +7,7% con un incidenza sul Pil
pari al 46,1% (44,4% nel 2005). Sempre nel 2006, rileva ancora l’Istat, l’incidenza
della spesa pubblica sul Pil è salita al 50,5%
contro il 48,6% dell’anno precedente, un livello che risulta più alto di
2,7 punti percentuali rispetto alla media dei Paesi dell’area euro, e di 3,4
punti rispetto ai 27 Stati dell’Ue. L’andamento della spesa totale italiana
è il risultato della crescita delle spese correnti al netto degli
interessi (+3,6%), degli interessi passivi (+5,2%) e delle uscite in conto
capitale (+53,3% dovute prevalentemente a oneri straordinari. Gli investimenti fissi
lordi, che costituiscono una spesa in conto capitale, aumentano dell’1,7%, a
fronte di una sostanziale stabilità del 2005 (+0,4%). Il risultato
è dovuto alla riduzione delle dismissioni immobiliari, portate in
detrazione (1.386 milioni nel 2006, 3.176 milioni nel 2005). Escludendo
l’effetto delle dismissioni immobiliari, la riduzione degli investimenti
sarebbe stata del 3,4%. Le spese correnti, comprensive degli interessi passivi,
evidenziano un tasso di crescita del 3,7%, con un rapporto sul Pil pari al 44,5%. In dettaglio, la spesa per consumi
finali, costituita prevalentemente dalle spese sostenute per la produzione di
servizi pubblici, presenta un aumento del 3,1% rispetto al 5,2% dell’anno
precedente. Mentre le prestazioni sociali in natura registrano un rallentamento
della crescita passando dal 5,6% del 2005 al 3,4% del 2006, dovuto al
contenimento di alcuni interventi sul prezzo dei farmaci. Tra le spese
correnti, fa ancora notare l’Istituto di via Cesare Balbo, sono in crescita
anche gli esborsi per redditi da lavoro dipendente (+4,1% contro il +4,5%), a
seguito dell’applicazione dei nuovi contratti collettivi di alcune categorie. I
consumi intermedi diminuiscono invece dello 0,8% (+5% nel 2005). La pressione
fiscale complessiva rispetto al Pil aumenta in
maniera significativa, portandosi dal 40,6 al 42,3%.
r.e.
ROMA
Via libera, in prima lettura, dell’Aula della Camera al ddl
liberalizzazioni, la terza lenzuolata del ministro
dello Sviluppo economico, Pier Luigi Bersani.
I voti a favore sono stati
265, i voti contrari 221 e unico astenuto Salvatore Cannavò, dissidente del Prc della corrente
sinistra critica. Il provvedimento passa ora all’esame del Senato.
Bersani: il
processo sta andando avanti
Le critiche sul ddl liberalizzazioni che nell’iter parlamentare è stato svuotato di alcune importanti
norme non piacciono al ministro dello Sviluppo economico Pier Luigi Bersani che
invita a guardare al processo nel suo complesso. «Il processo - ha detto il
ministro a margine dell’assemblea dell’Unione petrolifera - sta andando avanti. Non vorrei che passasse l’idea che in questo Paese non si possa cambiare». Il ministro ha
inoltre sottolineato che coloro che criticano bisogna che «studino un pò di più». Poi, ha aggiunto, «anche io ho dei
sassolini nella scarpa che mi vorrei togliere come il Pra».
Montezemolo:
manca una cultura del mercato
«Devo dare ragione a quello che ha detto ieri il presidente dell’Antitrust Antonio Catricalà. Mi sembra si stia andando indietro e
che si perdano troppi pezzi». Lo ha detto il presidente di Confindustria, Luca
Cordero di Montezemolo, a margine dell’assemblea Up, in merito al tema delle liberalizzazioni. «Credo che
il ministro Bersani abbia fatto il possibile - ha dichiarato - e questo lo
abbiamo sempre detto dopo anni di liberalizzazioni zero. Questo dimostra la
mancanza di cultura di mercato in molti esponenti del governo e dell’opposizione. L’ho detto alla mia assemblea che le liberalizzazioni servono
soprattutto per dare ai cittadini servizi più competitivi e quindi meno cari.
Quando leggo - ha aggiunto - che c’è ancora un dibattito sul Pubblico
registro automobilistico, stiamo parlando del Medio Evo e questo è molto triste».
Sgarbi:
gli amministratori devono essere pagati in base alle loro
responsabilità. L'Ulivo: il sindaco predica bene e poi apre un ufficio a
Roma da 500 mila euro La rivolta dei consiglieri: no al taglio dei nostri
stipendi "I costi della politica? La ricetta della Moratti non ci
convince. Diminuire gli sprechi" Avanti adagio. E soprattutto, seguendo
un'altra rotta: da Palazzo Marino non partirà la crociata contro i costi
della politica. Casomai, con una trattazione di massima che dovrebbe venire
discussa venerdì in giunta, si cerca di essere ancora più
virtuosi e di razionalizzare la gestione per garantire risparmi. Insomma: la CdL frena sulla manovra annunciata dal sindaco Letizia
Moratti. E intanto, la Lista Fo annuncia che a giorni porterà alla Corte
dei Conti un secondo esposto sulle consulenze della Moratti. I capigruppo di
maggioranza che si sono riuniti ieri con i collaboratori del sindaco hanno
corretto il tiro: "Studiamo insieme la possibilità di tagliare gli
sprechi, se ancora ce ne fossero", è il massimo della
disponibilità. Il resto, le poltrone e gli stipendi, per ora non si
toccano. Critica la Moratti anche l'opposizione: "Invece di dare annunci
demagogici - commenta la capogruppo dell'Ulivo, Marilena Adamo - il sindaco
tagli le consulenze sue e degli assessori, non apra l'ufficio romano da 500
mila euro, risparmi iniziative da migliaia di euro e pseudo campagne, come
quella recente sulla salute costata 620 mila euro". Cosa succederà,
dunque? Il sindaco rinuncerà al 35 per cento del proprio stipendio,
destinando questa quota probabilmente ad un fondo contro la violenza alle
donne. Non ci sarà decurtazione tout court, perché in questo caso la
legge avrebbe imposto un proporzionale taglio agli stipendi di assessori e
consiglieri. I quali, per parte loro, lamentano di guadagnare poco rispetto
alle responsabilità. Per intenderci: a fronte di 9 mila euro lorde
appannaggio del sindaco, l'assessore guadagna il 60 per cento (un netto di 3800
euro circa ogni mese). I consiglieri funzionano con i gettoni: ciascuno vale 130
euro lordi e se ne possono accumulare fino ad un massimo di 25 al mese.
Ovviamente, quando Palazzo Marino chiude per ferie, i consiglieri restano senza
stipendio. Nessun amministratore, poi, può contare sui accantonamenti
pensionistici e contributi previdenziali. La Moratti annuncia poi il taglio dei
consiglieri di zona: da 41 a 31 per parlamentino. L'assessore Ombretta Colli
dà il corretto inquadramento politico: "Non stiamo dicendo che si
risanano i costi della politica, tagliando alcuni consiglieri. E non vogliamo
avviare una guerra tra poveri: semplicemente, stiamo studiando la riforma del
decentramento che prevede più poteri ai consiglieri di zona. Se passa la
nostra proposta, ci saranno meno consiglieri, ma più funzionali".
Non è piaciuta neppure l'idea di tagliare i contributi a Pim e Cimep: "Sono enti che
lavorano da trent'anni e hanno dato risultati importanti", spiega Alberto Garocchio, vicepresidente del Pim
oltre che del gruppo consiliare di Fim, che ha le
idee molto chiare anche sugli stipendi di consiglieri e assessori: "Sono
una miseria. Se li riduciamo ancora, faranno politica soltanto i ricchi o chi
ruba". Tesi molto simile a quella sostenuta dall'assessore Vittorio
Sgarbi: "I tagli alla politica? Stupidaggini della demagogia e stupisce
che abbiano sfiorato anche la Moratti. Io insisto con la mia tesi: gli
amministratori pubblici devono essere pagati in base alle loro
responsabilità e quindi non ha senso che una sindaco preda cento volte
meno di un amministratore delegato di grande azienda". Ci saranno poi
interventi sulle auto del Comune e su alcune spese di cancelleria:
"Tagliare gli sprechi va benissimo - conclude Pasquale Salvatore,
dell'Udc, ribadendo la linea della CdL - anche se
Milano già si è distinta fra i Comuni più virtuosi. Ma sia
chiaro: il problema non sono i costi della politica".
Le
reazioni alla pubblicazione delle telefonate si sono ispirate a abitudini ormai
consolidate, quasi rituali: tutti hanno chiesto di anticipare i tempi della
discussione della «legge Mastella» sulle intercettazioni; la direzione dei Ds
ha denunciato il tentativo di delegittimare la politica, sottolineando i rischi
per lo «Stato di diritto». L’irritazione verso i magistrati e i sospetti verso
i giornali e i «poteri forti» caratterizzavano la sindrome di assedio che
attanagliava Berlusconi e il centro-destra. La stessa sindrome sembra oggi
attanagliare gli esponenti del centro-sinistra.
Quale che sia la fondatezza di queste sensazioni, a colpire è
però soprattutto il fatto che essa venga vissuta più o meno nello
stesso modo da tutta intera la nostra classe politica.
Diciamolo francamente. È sicuro che molti sono i personaggi che
affollano un sottobosco interessato a pescare nel torbido e che i servizi si
sono largamente compromessi nella lotta politica. Ma è altrettanto
sicuro che in una democrazia compiuta come la nostra, quella che Bobbio
chiamava la dimensione «invisibile» della politica (quella del segreto e degli
arcana imperii), non è mai in grado di sopraffare completamente quella
«visibile» del confronto libero e aperto tra le varie opzioni che si
fronteggiano sul terreno della rappresentanza politica.
È stato così nel lontano passato della prima Repubblica. Nel
1976, nel pieno della guerra fredda, nonostante i maneggi della Cia, della
strategia della tensione, delle oscure trame del terrorismo, il Pci ottenne il
34 per cento dei voti, il maggior successo della sua storia. E nel convulso
biennio 1992-1994, a decidere la dissoluzione dei vecchi partiti furono la
perdita dei consensi, la frammentazione elettorale e l’emergere di un forte
astensionismo manifestatisi clamorosamente già nel 1989, ben prima che
scattasse Mani Pulite e le fantasmatiche «toghe rosse» evocate da Berlusconi si
mettessero a complottare.
In realtà la sindrome di assedio rinvia a una sorta di ansia di
delegittimazione che traspare in molti ambienti della nostra classe politica,
un problema che è stato affrontato recentemente con piena consapevolezza
proprio da Massimo D’Alema. L’insistenza sui «complotti» sembra così una
sorta di scorciatoia elusiva ed autoassolutoria. È veramente difficile
oggi immaginare una congiura contro i Ds che vedono la loro base elettorale in
preda allo sbandamento e alla disaffezione. Aver paura dei Ds sarebbe come aver
paura di uno squalo nel Lago di Bracciano. Ai loro nemici basta aspettare,
guardare con pazienza alle convulsioni di un mondo che appare incapace di
autoriformarsi, devastato dall’impatto con una gestione del potere affrontata
con eccessiva «voracità», in una dimensione esistenziale attraversata
più dal compiacimento che dalla consapevolezza.
Ad acuire quella sindrome c’è poi il modo confuso e contraddittorio con
cui si è avviata la fase costituente del Partito democratico;
contrariamente a ogni aspettativa, si profila oggi la possibilità di un
suo insediamento elettorale attestato intorno a quel 14-16 per cento che
segnò il punto più alto del Psi di Craxi e che lascia una vasta
area scoperta alla sua sinistra senza riuscire a sfondare al centro. Su questi
territori abbandonati si affollano le mille sigle che frammentano l’universo
della sinistra, rinchiuse nei propri feudi elettorali, inadeguate rispetto alla
vastità del potenziale consenso che potrebbero intercettare.
È vero, tra tutti serpeggia una grande paura. La sinistra si congeda
dalla sua configurazione tradizionale fondata su un grande partito, «pesante» e
radicato sul territorio oltre che nelle istituzioni, affiancato e legittimato
dalle tante piccole eresie che lo circondavano, per affidarsi a un pulviscolo
organizzativo, con tanti partiti più o meno dello stesso peso e della
stessa influenza. Alla loro capacità di tenuta è affidata la
«fisiologia» della dialettica democratica tra destra e sinistra, la
possibilità stessa che in questo Paese possa esserci ancora
un’alternanza tra i due schieramenti, senza che uno dei due si autoaffondi; e
su questa loro capacità, più che nel sottobosco dei complotti, si
gioca una partita importante per la nostra democrazia.
MILANO - Quattro banche estere sono state
rinviate a giudizio dal giudice per l'udienza preliminare (gup)
di Milano, Cesare Tacconi, per il crack Parmalat con l'accusa di aggiotaggio in
relazione alla violazione della legge 231 sulla responsabilità oggettiva
per non aver predisposto il modello organizzativo adatto a prevenire la
commissione di reati. Si tratta di Citigroup, Ubs, Deutsche Bank e Morgan Stanley. Rinviati a giudizio anche
tredici funzionari delle banche coinvolte. La prima udienza si terrà il
22 gennaio 2008 davanti alla seconda sezione penale del tribunale di Milano. Il
prossimo 18 giugno, invece, il gup milanese dovrebbe
decidere sulla richiesta di patteggiamento di
Nextra (società di gestione risparmio di Banca Intesa) e di suoi quattro
funzionari, già avanzata nelle scorse settimane.
ESTRANEITÀ - «Il processo consentirà di
accertare la totale estraneità ai fatti contestati di Citigroup e del
dirigente Paolo Botta». È questo il commento ufficiale di Citigroup
sulla decisione del gup di Milano. Secondo Citigroup
la decisione «è stata determinata dalla ben nota limitazione probatoria
che caratterizza l’udienza preliminare. Il processo confermerà che
Citigroup fu parte offesa della più grave bancarotta fraudolenta della
storia italiana del dopoguerra».
13
giugno 2007
I pm
di Lodi indagano per appropriazione indebita l'esponente della Lega Nord
Roberto Calderoli, il senatore di Forza Italia Aldo Brancher, l'ex parlamentare
dell'Udc Ivo Tarolli, il presidente del Palermo
calcio Maurizio Zamparini, e altre 46 persone nell'ambito di uno stralcio di
indagine sulla scalata ad Antonveneta.
Gli indagati si sarebbero
appropriati di somme di denaro grazie alla complicità di ex funzionari della vecchia Bpi con
operazioni bancarie tra cui investimenti, disinvestimenti e fidi. Da queste
operazioni gli indagati avrebbero tratto dei vantaggi mentre le perdite
sarebbero state spalmate su clienti ignari della stessa banca.
La Guardia di finanza ha
effettuato una serie di acquisizioni di carte e documenti nella sede centrale
della banca a Lodi. All'origine delle accuse contro Calderoli ci sarebbe un
interrogatorio dell'ex numero uno di Bpi, Giampiero Fiorani: Calderoli avrebbe
ricevuto denaro contante.
L'inchiesta della
magistratura lodigiana dovrebbe essere chiusa entro settembre, salvo
imprevisti. Le indagini , che stanno procedendo in modo spedito, sono condotte
dal Procuratore della Repubblica di Lodi, Giovanni Pescarzoli
e dal pm Paolo Bargero e
sono, in sostanza, uno stralcio dell'inchiesta milanese sul tentativo di Bpi di
scalare Antonveneta. Infatti le posizioni dei 50 indagati sono state trasmesse
per competenza a Lodi, nel febbraio scorso, dai pm di
Milano Eugenio Fusco e Giulia Perrotti.
Sempre
a Lodi, ma questa volta il pm Alessandra Simion, sta predisponendo la chiusura del filone
d'inchiesta che riguarda il falso in bilancio, nel quale sono coinvolti l'ex
amministratore delegato di Bpi Giampiero Fiorani, il suo braccio destro Gianfrancon Boni e una serie di amministratori della banca.
Nei giorni scorsi il pm ha interrogato Fiorani.
Cara Europa, ho ascoltato con piacere
le dure parole di Cordero di Montezemolo all’assemblea dell’Assolombarda («Meno
dello 0,8 per cento degli italiani dichiara al fisco un reddito superiore ai
100 mila euro») e, al tempo stesso, ho visto con sgomento che la classe
politica di destra e di sinistra, forse perché anch’essa compresa fra i
renitenti al dovere civico, ha accolto quelle parole con silenzio.
Eppure, per il boccheggiante governo di centrosinistra, poteva essere una
ciambella di salvataggio.
Mara Guerzoni, Verona
Cara Signora, anch’io ho ascoltato con
ammirazione le parole di Montezemolo, pronunciate, fra l’altro, in una delle platee
più reazionarie d’Italia (anche se con forti minoranze aperte alle
regole morali dell’impresa classica). Ricordo l’Assolombarda dai tempi in cui
il centrismo, che aveva perduto la leadership di De Gasperi, non le andava
più bene, e insieme a Confcommercio e Confartigianato fece un patto, la
Confintesa, affidando a Malagodi l’incarico di farne una forza politica per
spostare a destra l’asse del paese. Naufragò nel ridicolo, ma il
paradigma del ricatto al governo attraverso la mobilitazione elettorale della
“categoria” è tuttora in piedi: anche la famiglia viene organizzata in
“categoria” al Family Day, con Pezzotta nel ruolo di Malagodi.
Ma torniamo a noi. Sulla fuga delle classi ricche dal dovere fiscale c’è
un secolo e mezzo di consolidata storia italiana, con l’eccezione, iniziale e
unica, della Destra storica: i cui notabili tartassarono le proprie ricchezze
per mettere in piedi le finanze del nascente regno d’Italia e si scavarono la
fossa quando chiesero eguale stoicismo, impossibile, alle classi povere. Oggi
il paradosso è questo: 100 mila euro sono 200 milioni di vecchie lire,
per comprare una casa media in periferia occorrono 300-500 mila euro, a chi
vanno a finire le migliaia di appartamenti che continuano a intasare la
penisola, se non c’è gente che possa comprarli? Oppure quella gente
c’è, e tantissima: basta vedere le Ferrari e le Bmw, le infinite ville,
i yacht da 30 e più metri, gli aerei privati, intere regioni dove si
lavora in nero, come il Mezzogiorno, e interi settori sempre in nero, come
l’edilizia di subappalto, l’agricoltura, e poi commercianti e artigiani e
ristoratori (sempre affollatissimi) che rilasciano o non rilasciano la ricevuta
secondo l’occasione, professionisti nelle cui case entra un fiume di denari al
giorno (sbalorditiva una recente confidenza della matrimonialista Bernardini di
Pace su gioielli da 400 mila euro), ecc. Eppure, non si ha la forza di
liberalizzare le professioni, di aprire le corporazioni, di dare una caccia in
massa agli evasori: si aumentano le tasse e i contributi e le bollette a chi
già paga; il governo perde la fiducia di questi cittadini onesti (e non
solo del Nord Est e di chi teme gli “studi di settore”); Berlusconi se la ride
del principio prodiano di «mettere il consumatore al centro del mercato» e
pensa che, se tornerà a Palazzo Chigi, continuerà a non
disturbare i ribaldi e a condonare i forti. Perché, cara signora, cento ribaldi
forti sono una forza, mille galantuomini deboli sono una debolezza. Almeno fino
a quando i deboli non si convincono di poter diventare forti.
ROMA - Due ultimi "strappi" e la lenzuolata sulle
liberalizzazioni completa il suo iter alla Camera. Lo stralcio delle norme che
abolivano il pubblico registro automobilistico e la sconfitta del governo su un
emendamento sulla liberalizzazione del prezzo dei libri simboleggiano la
difficoltosa gestazione del ddl del ministro Pierluigi Bersani che oggi
affronta il voto finale, per poi passare all'esame del Senato. "Non mi
stupisco delle difficoltà del percorso. Ce ne sono sempre state - ha
commentato Bersani - vorrei però fosse valutato il fatto che se
c'è stato qualche problema e in particolare su norme che lo stesso
Parlamento aveva introdotto, se guardo fin qui i contenuti della legge, salvo
l'accantonamento del Pra, c'è sostanzialmente ciò che c'era e
forse qualcosa in più". Al contrario il presidente dell'Antitrust
Antonio Catricalà ha ammesso: "Sono stati fatti passi indietro
rispetto alle scelte compiute tempo fa". Nel corso dei mesi gli interventi
volti a ridurre la carica "liberalizzatrice" sono arrivati sia dalla
maggioranza che dall'opposizione. Nel caso del Pra poi, lo stralcio delle norme
che lo volevano far sparire è stato votato con un ampia maggioranza
trasversale. Sull'altro fronte, l'emendamento che dà la
possibilità di vendere libri con uno sconto superiore al 20% vedeva il
governo contrario perché materia di una successiva legge sull'editoria. Invece
il proponente Benedetto Della Vedova (Fi) ha trovato i voti dei suoi ex
compagni del partito radicale presenti nella Rosa nel Pugno e così
l'opposizione ha potuto esultare. Per il resto la legge arriva al Senato con
notevoli modifiche e qualche conferma. Nella seconda categoria da ascrivere
l'articolo 1 sulla libertà d'insediamento delle aree di servizio, e
ciò nonostante le serrate dei benzinai. Così come confermate
nella sostanza le varie misure per ridurre al minimo le autorizzazioni e i
passi burocratici per le imprese e gli incentivi fiscali in caso di fusioni e
di quotazione in Borsa. Rimane l'obbligo per i gestori di luce, gas e telefono
di redigere le bollette con maggior trasparenza e chiarezza. Sparita, poi
reintegrata con qualche modifica, la commissione di massimo scoperto sui conti
correnti bancari. Per le banche l'altra novità è l'obbligo di
chiedere ad ogni correntista tre nominativi da contattare nel caso il conto
rimanga "dormiente" per più di due anni. "Cadute" le
norme sul mercato della componentistica auto. Ridotta l'efficacia delle misure
che incoraggiano il trasporto pubblico "alternativo" (non piacevano
ai tassisti) e la concorrenza sulle ferrovie. Inserita anche la moratoria delle
privatizzazioni degli acquedotti. Non tutte le novità hanno depotenziato
la legge: l'Autorità per le Tlc avrà più poteri sulla rete
telefonica fissa ed è stato approvato anche un meccanismo per sterilizzare
gli effetti dell'aumento del prezzo del petrolio sulla benzina, operando su
accise e Iva. Una breve apparizione l'ha fatta l'esenzione del passaggio dal
notaio per la compravendita di immobili sotto i 100 mila euro. Non era nel
testo iniziale e non è arrivata in fondo, ma potrebbe essere riproposta.
è invece probabile che al Senato sparisca la possibilità di
vendere nei supermercati i medicinali di fascia C.
Chiamo un grande inviato che lavora in America per sapere che
accadrebbe lì se alcuni politici fossero sorpresi a scalare banche. E
lui si mette a ridere: "Difficilmente in America i politici partecipano a
scalate bancarie". Ma poniamo per assurdo che quanto sta emergendo dalle
telefonate di Antonveneta-Unipol fosse accaduto negli Usa: le carte dell'
inchiesta finirebbero sui giornali, o resterebbero segrete? Altra risata:
"Finirebbero sui giornali, ovviamente. Come pure gli atti più
segreti del governo, che grazie al "Freedom of information act" sono
accessibili alla stampa e a chiunque dimostri un interesse pubblico a
conoscerli e a divulgarli. Solo qualche atto supersegreto di intelligence,
attinente la sicurezza nazionale, rimane inaccessibile. Il resto è
pubblico. Per gli atti processuali, una volta depositati, il segreto cade. E
sono accessibili tanto per le parti del processo quanto per i giornalisti:
questi fanno richiesta e prelevano copia. Anche se c'è di mezzo qualche
parlamentare, che non gode di alcun trattamento o segreto privilegiato.
Qualcuno, politico o privato cittadino, può chiedere la segretazione:
per esempio, un miliardario amico di Clinton, Ron Burkle, fece causa a un suo
partner e ottenne dal giudice gli omissis sugli atti perché contenevano
elementi imbarazzanti per i suoi affari; ma l'editore Bloomberg chiese al
tribunale di desegretarli, in nome dell'interesse pubblico: la ottenne e
divulgò tutto". Naturalmente, in America, la legge è
inflessibile con le violazioni della privacy e della reputazione: ma se la
notizia è vera e di interesse pubblica, tutto il resto non conta. Noi,
anche se siamo in Italia, siamo comunque immersi nella comunicazione globale:
se anche si facesse una legge che copre tutte le indagini fino al processo, chi
potrebbe impedire a qualcuno di pubblicare atti impubblicabili su un sito francese
o neozelandese? Davvero oggi qualcuno può pensare che esista un sistema
per nascondere atti depositati, cioè non più segreti, a
disposizione di centinaia di persone e noti a magistrati, poliziotti,
cancellieri, impiegati, periti, avvocati, indagati; atti che, fra l'altro,
saranno presto noti a un migliaio di parlamentari, a quali il gip Forleo li
invierà presto perché votino pro o contro l'utilizzabilità a
carico dei furbetti del quartierino? Quando la notizia è grossa, il
coperchio è sempre più stretto della pentola. E allora: non
è meglio rassegnarsi, inchinarsi all'informazione e affrontare casi
simili in modo più civile e virile, garantendo ai giornalisti la
completa conoscenza degli atti e fornendo le dovute spiegazioni dei propri comportamenti
ai cittadini elettori? Si eviterebbe così di trasformare i tribunali nel
"suk" mediorientale che vediamo in questi giorni a Milano, con i
giornalisti che pendono dalle labbra di cento avvocati che trascrivono
brandelli di intercettazioni, dando in pasto alla stampa quel che conviene a
loro. Si eviterebbe anche il ricatto del "cosa mi dai se non parlo di
te?". A quel punto, starà alla responsabilità e alla
deontologia dei giornalisti, in una sistema finalmente trasparente, decidere
che cosa è utile raccontare e cosa no. Chi sgarra, violando la privacy o
diffamando qualcuno, ne risponde in base alle leggi vigenti. Chi scrive la
verità non ha nulla da temere. E il dibattito passa dal contenitore al
contenuto: si parla cioè degl'intercettati, non degli intercettatori.
Ora si pensa di risolvere la questione con la legge-bavaglio Mastella, che
prolunga il segreto fino al termine delle indagini, cioè per anni e
anni, sottraendo l'attività dei magistrati dal necessario controllo
dell'opinione pubblica. Pezo el tacon del buso: i ricatti, anziché dissolversi,
si moltiplicheranno. Chi pubblicherà notizie impubblicabili
incorrerà in una multa fino a 100 mila euro. Una cifra che in Italia
possono permettersi 4-5 editori. Che potranno decidere di investire quei 100
mila euro secondo la convenienza, pubblicando le notizie che danneggiano i loro
avversari e tacendo quelle che danneggiano i loro amici. O mettendole all'asta
al migliore offerente, secondo il metodo di Ricattopoli: non vuoi che esca la
tua foto? Allora paga. Bel risultato, non c'è che dire. Uliwood party.
Aalla
fine si è deciso: arrestare un civile, bollarlo di punto in bianco come
«nemico combattente» e imprigionarlo a tempo indeterminato, oltre che contrario
ogni regola della decenza umana, è anche contro la legge. La sentenza,
pronunciata ieri da una corte d'appello federale americana, sembra quasi
lapalissiana. Eppure, negli Stati Uniti di George W. Bush, dopo sei anni di
renditions, di Guantanamo e di prigionieri fantasma, è a dir poco
rivoluzionaria. Ieri, infatti, si è concluso il processo d'appello sul
caso di Ali Al-Marri, un cittadino del Qatar che nel 2001 si trovava negli Usa
con regolare visto da studente e che fu arrestato, due mesi dopo l'undici
settembre, con l'accusa di avere clonato alcune carte di credito. Che Al-Marri
sia colpevole o no di questa frode non è dato sapere, visto che poco
dopo la sua cattura lo studente del Qatar fu dichiarato un «nemico
combattente», e quindi al di fuori della giurisdizione della legge civile. Da
allora Ali Al-Marri si è trovato in una sorta di «limbo legale» (l'espressione
è della Cnn): senza un processo né accuse formali, Al-Marri è
rimasto in carcere per quasi sette anni. Ieri la Corte d'appello ha dichiarato
tutto questo «incostituzionale» e, probabilmente, presto la sentenza
sarà confermata dalla Corte suprema. Il suo caso assomiglia a quello di
molti altri, ma ha ricevuto particolare attenzione dai media perché Al-Marri
è l'unico «nemico combattente» arrestato sul territorio americano.
La decisione presa ieri dalla Corte d'appello non ha solamente posto fine a una
lunga odissea di ingiustizie. Secondo alcuni, rappresenta l'inizio della fine
di un sistema di giustizia sommaria con cui l'amministrazione Bush ha gestito
(e con risultati assai dubbi, anche dal punto di vista della sicurezza)
l'emergenza terrorismo. Lo stesso concetto di «nemico combattente», o enemy
combatant, permetteva di sottrarre un presunto terrorista alla giustizia civile
senza per questo garantire le tutele previste dalla Convenzione di Ginevra per
i prigionieri di guerra: un «nemico combattente» non è né civile né
soldato, e in virtù di questo limbo non ha diritto a tutela alcuna.
Dichiarando «incostituzionale» quello che tutte le principali organizzazioni
umanitarie hanno già definito un abominio, i giudici americani hanno
mandato, seppure con un certo ritardo, un messaggio chiaro all'amministrazione
Bush: la lotta al terrorismo non è una giustificazione per la violazione
dei diritti umani. A cominciare dal diritto a un giusto processo.
Se i dossier possono essere a orologeria
come i provvedimenti giudiziari, non sono da meno le leggi o quanto meno le
proposte legislative che in materia di intercettazioni hanno avuto una
tempistica segnata dagli eventi più che dalla lungimiranza politica dei parlamentari sia
di maggioranza che di opposizione. Infatti, non c'è stata inchiesta di questi
ultimi anni, con relativa pubblicizzazione delle intercettazioni a corredo dei
capi di indagine, che non sia stata accompagnata da un dibattito acceso su come
era opportuno modificare il codice per eliminare la 'bulimia' delle
intercettazioni. Nel passato recente per dire, in piena Bancopoli, quando
tenevano banco le affettuose conversazioni tra l'ex governatore di Bankitalia
Antonio Fazio e l'ad di Bpl Gianpiero Fiorani, l'allora guardasigilli Roberto
Castelli produsse il primo articolato organico vietando le intercettazioni di
persone non indagate (tranne che nei casi più gravi), prescrivendo che
comunque fossero avvisate, prevedendo multe salate per i cronisti. L'allora
premier Silvio Berlusconi salutò il ddl ( approvato dal consiglio dei
ministri a settembre del 2005) con un liberatorio 'oggi finisce un incubo'. Ma
in effetti, scemato l'interesse giornalistico sfumò anche la pervicacia
parlamentare anche se vi contribuì la levata di scudi dei
rappresnentanti dei giornalisti e dei magistrati. E poi le camere furono
sciolte. In questa legislatura i proclami politici e 'l'ammuina' si sono
sprecati, con alterne vicende e papocchi parlamentari. Per dire, Clemente
Mastella alla sua prima dichiarazioni ufficiale da guardasigilli promise un
intervento contro lo 'sciacallaggio' mediatico (maggio 2006). E anche se il suo
ufficio legislativo magari lavorava a un testo, la riserva fu sciolta solo i
primi di agosto mica perché si riteneva che era arrivato il momento giusto ma
perché nel frattempo erano scoppiate Vallettopoli e Calciopoli e sulla stampa
erano finite le intercettazioni di Salvo Sottile, ex portavoce dell'ex ministro
degli esteri Gianfranco Fini, poi assolto dall'accusa di concussione sessuale,
per giunta. In quella occasione, in verità, Mastella avrebbe voluto
correre e trasformare il disegno di legge in un decreto d'urgenza, previo
accordo bipartisan. Il decreto legge arrivò, in effetti, ma per un'altra
questione: le intercettazioni illegali. A settembre scorso Giuliano Tavaroli,
l'ex capo della sicurezza Telecom veniva arrestato insieme al patron
dell'agenzia provata di investigazione Polis d'istinto Emanuele Cipriani,
accusati di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali
per l'acquisizione di notizie 'sensibili'. In altre parole, intercettavano
abusivamente, raccoglievano materiale, confezionavano dossier velenosi su
personaggi politici di spicco (Romano Prodi, per dirne una), così come
su personaggi noti del mondo della finanza, i giudici di Mani Pulite. La politica in quei giorni si
interrogava su quanto sarebbe potuto uscire dall'archivio dell'altro indagato
Pio Pompa, il dipendente del Sismi, fedelissimo dell'allora generale comandante
Niccolò Pollari. Nel dubbio (meglio prevenire) il governo, forte dell'appoggio
della opposizione, varò a settembre 2006 un decreto legge per
sterilizzare i dossier illegali, arrivando a prevedere la distruzione delle
intercettazioni eventualmente captata illecitamente. Ma il dl proprio non
girava, era scritto male e tra l'altro neanche serviva perché di questi dossier
si perse le tracce. Fu convertito solo per salvare la faccia con l'accordo che
nel ddl intercettazioni sarebbe stato affrontato anche questo capitolo. E
così è stato in effetti. E siamo a questi ultimi mesi. La camera
dopo nove mesi ha portato in porto il ddl. Ora tocca al senato. Ma proprio
perché ci sono di mezzo le 'vecchie' intercettazioni sulla scalata Bnl da parte
di Unipol.
BRUXELLES - D'ora in poi anche nei prodotti biologici ci potranno
essere tracce significative di organismi geneticamente modificati. Lo hanno
deciso ieri i ministri dell'Agricoltura dell'Unione europea scatenando aspre
polemiche e facendo gridare alla fine dell'epoca biologica: con il nuovo regolamento,
infatti, potranno essere etichettati come bio anche i prodotti che contengono
lo 0,9% di Ogm da contaminazione accidentale, una rivoluzione rispetto
all'attuale soglia dello 0,1%, il cosiddetto zero tecnico perché al di sotto di
questa percentuale gli ogm non sono rintracciabili. Ma non perde fiducia
l'Italia, contraria al regolamento, che studia il modo per annullare gli
effetti della decisione Ue. L'allarme riguarda i prodotti trasformati (quelli freschi sono
al sicuro) come riso, dolci, cereali, marmellate e snack. Insomma, tutti quelli
derivati da mais e soia provenienti dai mercati extraeuropei (come Usa, Cina e
Argentina): è proprio durante l'importazione, infatti, che gli
ingredienti naturali possono essere accidentalmente contaminati da quelli
transgenici, per esempio se vengono caricati sulla stessa nave. "Purtroppo
il Consiglio Ue non ha dimostrato quella sensibilità che ci saremmo
augurati", ha commentato il ministro per le Politiche agricole Paolo De
Castro, che ieri a Lussemburgo si è battuto per non fare passare il
regolamento insieme a Belgio, Grecia, Ungheria e Polonia. Ed è stata
proprio Varsavia a sparigliare le carte, sfilandosi all'ultimo momento dal
fronte del no e facendo cadere la minoranza in grado di porre il veto sulla proposta
della Commissione Ue. "Con questa scelta i ministri hanno tradito le indicazioni
dell'Europarlamento sulla necessità di avere una soglia di tolleranza
pari allo 0,1%", ha denunciato Monica Frassoni, co-presidente dei Verdi a
Strasburgo, riferendosi al parere non vincolante espresso dell'Assemblea.
Posizione a cui hanno fato eco tutte le associazioni, da Legambiente alla
Coldiretti, secondo cui il nuovo regolamento comunitario "ignora la
volontà dei cittadini europei". A ridare speranza ai sostenitori del
bio ci ha pensato lo stesso De Castro, annunciando che con un disegno di legge
"potremmo rafforzare" i limiti alla contaminazione. Provvedimento
chiesto anche dal ministro per l'Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, e dall'ex
ministro dell'agricoltura Gianni Alemanno (An), secondo cui ora il governo
"deve adottare delle misure molto drastiche". L'escamotage, segnalano
gli esperti del settore, potrebbe arrivare dallo stesso regolamento Ue che prevede la possibilità di
creare o mantenere i marchi nazionali con una soglia di transgenico inferiore
allo 0,9%. Una strada da battere anche per salvare l'industria del biologico,
settore in cui l'Italia è primo produttore europeo e quarto del mondo
con un fatturato complessivo di circa 1,5 miliardi di euro.
/ Milano ALTRO Niente di incredibile, ma soprattutto niente che
già non si sapesse. La ricostruzione delle trascrizioni delle
intercettazioni telefoniche con protagonista il senatore di Forza Italia Luigi
Grillo (molto vicino ad Antonio Fazio), non differiscono da questo punto di
vista con quelle aventi come protagonisti Fassino, D'Alema e Latorre. Al centro
delle conversazioni del senatore c'è la scalata che Gianpiero Fiorani
(uno dei conversatori) sta preparando ai danni di di Antonveneta. MENTE FINANZIARIA,
10 luglio del 2005 Fiorani: hai visto che stamattina è apparsa la
notizia allora che Unipol manda avanti l'operazione, servito su un piatto d'argento. Voglio
vedere se per Unipol hanno usato gli stessi pre... gli stessi prerogativi e gli stessi
rigori che hanno usato per noi. Grillo: e certo. Fiorani: quelli alzan la voce,
sostengono politicamente, c'è Fassino che parla e ottiene un gran
appoggio, per cui Fassino - pensa te che meraviglia - viene... viene lì
a sdoganare anche Ricucci o... (parole incomprensibili, nota del perito) la
vera mente finanziaria del paese è Ricucci che viene sdoganato sia da
Berlusconi che da Fassino, il che è il colmo dei colmi! ma positivo dico
io, eh! - Grillo: sì, sì. SPERIAMO NON DELUDA, 4 luglio 2005
Grillo: domani sera mi ha dato appuntamento anche Berlusconi, alle 19, che
voleva essere aggiornato. Fiorani: sì. E sai, però a questo punto
temo che la posizione... noi siamo ad un passo da poter... noi abbiamo
già prenotato gli spazi sui giornali per mercoledì. Grillo:
sì. Fiorani: fai tu il conto, per annunciare che partiamo con l'Opa.
Grillo: certo. Fiorani: siamo a questo punto, no? Per cui non c'è
neanche più nessun dubbio, nessuna incertezza... Grillo: non ce
n'è. Fiorani: se non la sua firma finale sulla autorizzazione che
potrebbe... Grillo: speriamo, speriamo, speriamo che non ci deluda. Sulla scia
delle intercettazioni uscite in questi giorni, è tornata a divampare la
polemica sulla fallita scalata di Unipol ai danni di Bnl. L'avvocato di Giovanni Consorte, Giovanni Maria
Dedola, dopo aver preso visione della perizia depositata dal gip Clementina
Forleo ha dichiarato che "Luigi Abete (presidente della Bnl) è uno
dei principali responsabili del fallimento della scalata alla Banca nazionale
del lavoro, scalata che era assolutamente lecita. Quando Abete voleva vedere
Fassino, in realtà desiderava "un aggancio al fine di far fiorire
una campagna stampa strumentale. Nella lettura dei documenti, ho cercato la
ragione sostanziale di questo atteggiamento: vuoi tecnica finanziaria, vuoi
politica, ma non sono riuscito a comprendere cosa ispirasse Abete. Ragioni
tecniche proprio non se ne rintracciano". Dalla Banca nazionale del lavoro
rispondono che "la mancata autorizzazione al controllo di Bnl da parte di Unipol è stata
determinata da un autonomo provvedimento della Banca d'Italia. La Banca ritiene
inoltre che il contenuto delle dichiarazioni relative alle pregresse vicende di
Bnl sono tali da non meritare alcun commento".
++ ASCA 12-6-2007
PRC: ULTIMATUM A GOVERNO DOPO FLOP PIAZZA DEL POPOLO E DELUSIONE VOTO
+ Il Corriere della sera 12-6-2007 Le partite da
giocare di Massimo Franco
+ La Repubblica 12-6-2007 Veleni e furbetti. Ezio Mauro
Italia Oggi 12-6-2007 Le intercettazioni 5 luglio 2005
Stefano Ricucci - Romano Prodi
La Stampa 12-6-2007 I partiti fanno quadrato LUIGI LA
SPINA
Europa 12-6-2007 Nell’Unione gara a chi soffre di
più. Chiaro che qualcosa non funziona.
Il Riformista 12-6-2007
Ora il governo ci illustri la ricetta del possibile di Emanuele
Macaluso
Brescia Oggi 12-6-2007 Multiproprietà, ora l'Ue
vuole vederci chiaro
ROMA
I pensionati
scendono in piazza: la protesta, indetta dai sindacati di categoria di Cgil
Cisl e Uil, si è articolata in numerose città e ha visto la
partecipazione di 200 mila persone. In particolare, i pensionati rivendicano un
ritocco alle pensioni minime e al fondo per i non autosufficienti le cui
risorse, ricordano, ammontavano a 100 milioni di euro, ma ora sono diventate 70
perchè «30 sono stati utilizzate per ripianare i debiti della
sanità».
La «Giornata di lotta» ha visto anche qualche momento di tensione a Roma
quando, riferiscono i sindacati, le forze dell’ordine hanno disperso alcuni
capannelli di manifestanti che, protestando, si stavano avvicinando a Palazzo
Chigi. La Questura di Roma ha smentito qualsiasi azione di forza, ma il sindacato
Snp Cisl ha scritto al premier Romano Prodi e al Ministro dell’interno Giuliano
Amato per denunciare l’accaduto. Secondo la fotografia dell’Istat, i
’nonnì d’Italia - che nel 2005 erano 16,5 milioni, di cui 53% donne -
non se la passano molto bene: uno su quattro percepisce un trattamento
inferiore ai 500 euro al mese mentre il 31% ha una pensione compresa tra 500 e
1.000 euro, il 23% un importo compreso tra 1.000 e 1.500 euro, il restante 22%
supera i 1.500 euro mensili.
A Napoli, il corteo dei pensionati aderenti a Spi-Cgil, Snp-Cisl e Uist-Uil ha
bloccato il traffico cittadino e perfino un treno. In circa 15mila secondo gli
organizzatori hanno sfilato da piazza Garibaldi verso la prefettura. A Bologna,
si sono notati molti cartelli che invitavano il ministro dell’Economia
Padoa-Schioppa a trovare i fondi per accogliere le richieste dei pensionati.
«Padoa, stiamo tutti per schioppare»; «Anziani una risorsa per il Paese», «Il
rebus è: affitto 650 euro, pensione 750 euro; la soluzione??!»; «Stavo bene
nel 1993, pensione 1.000.000. Oggi devo lavorare per vivere, pensione 633
euro», questi alcuni degli slogan. A L’Aquila, invece, ad aprire il corteo dei
pensionati una nutrita banda musicale che ha accompagnato la lunga catena
umana, «armata» di fischietti, slogan e bandiere varie, per tutto il percorso.
Il colorato corteo, partito dalla Fontana Luminosa, ha attraversato le vie
principali del centro storico della città con presidi sotto la
prefettura prima e sotto la Regione Abruzzo poi. Altre manifestazioni si sono
tenute a Torino, Cagliari e in numerose città italiane.
(ASCA)
- Roma, 12 giu - La riunione di segreteria di Rifondazione ha preso ieri una
decisione unitaria: d'ora in poi il partito non fara' sconti al governo e, se
le proprie richieste non dovessero venire accolte, si potrebbe tenere un
referendum tra iscritti e simpatizzanti sul tema della propria permanenza al
governo (su quest'ultimo punto ha insistito in particolare il capogruppo al
Senato, Giovanni Russo Spena). Non e' l'annuncio dell'apertura della crisi, ma
e' l'esplicitazione di un malessere che da qualche tempo attraversa il Prc, di
cui sono testimonianza i deludenti risultati nelle recenti elezioni
amministrative e l'annuncio di una scissione (da parte del deputato Salvatore
Cannavo', leader della minoranza trotzkista di Sinistra critica) che seguono
''l'allontanamento'' del senatore Franco Turigliatto (voto' contro il
rifinanziamento della missione militare in Afghanistan) e quel sit-in in una
piazza del Popolo semivuota a Roma sabato scorso che avrebbe dovuto invece fare
concorrenza al corteo dei noglobal e della sinistra dei movimenti contro la
visita del presidente americano Bush in Italia (un corteo dove primeggiavano
slogan contro il governo e contro il partito di Fausto Bertinotti). A proposito
di piazze, il segretario Franco Giordano ha annunciato con tono autocritico che
l'episodio di piazza del Popolo non si ripetera' e che d'ora in poi
Rifondazione avviera' la competizione politica anche con la sinistra piu'
estrema non rinunciando a cortei e a manifestazioni. Le richieste di Rifondazione
sono chiare: abolizione dello 'scalone' dalla riforma pensionistica varata dal
governo Berlusconi nella scorsa legislatura, no alla Tav (il progetto di treno
ad alta velocita' nella Val di Susa), no all'allargamento della base della Nato
a Vicenza, immediata ripartizione del 'tesoretto' accumulato grazie all'ultima
legge finanziaria in direzione dei settori sociali piu' disagiati, immediato
confronto sulle linee strategiche della prossima legge finanziaria. In
sostanza, si tratta di un ultimatum al governo Prodi che si motiva con una
collocazione governativa di Rifondazione difficile da sostenere se non ha
contropartite sul piano sociale e dei risultati tangibili. Ma e' anche la
richiesta di una svolta a sinistra nell'azione di governo che pero' Margherita
e Ds non hanno intenzione di assecondare, perche' ritengono che il risultato
delle recenti elezioni amministrative manifesti una disaffezione verso la
politica dell'Unione che non avrebbe parlato all'insieme della societa' e non
solo alle fasce sociali piu' deboli. E sul no alla Tav c'e' da prevedere pure
l'offensiva di Antonio Di Pietro, ministro delle infrastrutture, che vorrebbe
il via libera a quel progetto, mentre sulla base Nato di Vicenza e' assai
difficile prevedere un ripensamento di Palazzo Chigi che ha sempre parlato del
rispetto di impegni internazionali assunti dal precedente governo (la questione
non e' stata neppure sfiorata nel colloquio Prodi-Bush di sabato scorso). Tutti
questi problemi aperti sono materia ideale per il congresso di Rifondazione che
dovrebbe tenersi ad aprile 2008, mentre questo fine settimana si svolgera' il
congresso di Sinistra europea (l'aggregazione piu' ampia che il Prc ha promosso
da qualche tempo e che e' servita a far avvicinare al partito l'Associazione
per il rinnovamento della sinistra di Aldo Tortorella, Uniti a sinistra di
Pietro Folena e l'Associazione rosso-verde di Armando Cossutta). Proprio
domenica mattina, nelle assisi di Sinistra europea, e' previsto l'intervento di
Fausto Bertinotti, che il giorno prima partecipera' alla fondazione a Berlino
di Linke, il nuovo partito di sinistra che unifica gli ex socialdemocratici di
Oskar Lafontaine e i neocomunisti di Gregor Gysi. L'intervento del presidente
della Camera e' molto atteso perche' potrebbe contribuire a fare chiarezza
sull'identita' politica e culturale di Rifondazione e Sinistra europea, pur non
toccando le strette questioni di attualita' della politica italiana come vuole
la sua carica istituzionale. Giordano vuole intanto accelerare i rapporti unitari
con Sinistra democratica, Comunisti italiani e Verdi per rendere operativo il
patto di unita' d'azione varato nella riunione dei parlamentari della sinistra
critica di giovedi' scorso. Centocinquanta tra deputati e senatori sono infatti
una forza d'urto e un'ipoteca sulla politica del governo di cui l'Ulivo e
Romano Prodi non possono che tenere conto, pena la crisi della maggioranza. Il
problema per Giordano e' indirizzare questa forza d'urto verso comuni obiettivi
politici: ridistribuzione del 'tesoretto', abolizione dello scalone nella
riforma pensionistica e varo della prossima legge finanziaria con il confronto
preventivo tra governo e sinistra critica. Accelerare il processo unitario puo'
voler dire anche dare semaforo verde a una 'confederazione della sinistra' come
luogo dove avviare il processo di costruzione di un nuovo soggetto politico in
vista delle elezioni europee del 2009 (decisivo e' pero' l'atteggiamento della
Sinistra democratica di Fabio Mussi che sabato scorso non ha aderito ne' al corteo
noglobal ne' al sit-in a piazza del Popolo e che vorrebbe non spezzare il
dialogo con i socialisti dello Sdi di Enrico Boselli). Ma il problema per
Rifondazione e' a questo punto anche di cultura politica e di rinnovamento
ideale. Nei giorni scorsi, a causa di alcuni articoli critici su Cuba
pubblicati dall'organo del Prc 'Liberazione', il quotidiano diretto da Piero
Sansonetti ha dovuto dare spazio a decine di lettere che accusavano
Rifondazione di un cambio di collocazione internazionale e ribadivano la
tradizionale solidarieta' all'isola di Fidel Castro. Proprio Sansonetti, di cui
i filocubani hanno chiesto le dimissioni da direttore, nel rispondere a una
lettera molto aspra contro 'Liberazione' ha dovuto scrivere domenica scorsa:
''Non mi convincete per l'idea che esprimete sul giornalismo, come struttura di
servizio del partito e del potere, che trovo assolutamente arretrata e
stalinista''.
La
sindrome del tracollo è stata tamponata a Genova. La vittoria del centrosinistra
nel ballottaggio alla provincia non è stata trionfale. Ma simbolicamente
addolcisce le sconfitte collezionate dall’Unione alle amministrative, sebbene
non le compensi. Se il berlusconismo avesse prevalso anche lì, era già
pronta la resa dei conti a Roma. E dal punto di vista psicologico, la
maggioranza di governo avrebbe rischiato il «si salvi chi può».
La
prospettiva, adesso, appare un po’ meno disperata. La stessa visita che Silvio
Berlusconi vuole fare a Giorgio Napolitano, per additare al Quirinale un’Italia
condannata al voto anticipato, assume un segno diverso. Rimane da vedere se per
l’Unione sia l’interruzione di una crisi politica e d’identità, o
soltanto il suo prolungamento. I numeri dicono che la coalizione prodiana ha vinto
i ballottaggi alla provincia di Genova, e a Piacenza, Pistoia e Taranto; e il
centrodestra a Parma, Lucca, Latina, Matera e Oristano.
Fra
province e capoluoghi, 13 a 25 per la ex Cdl: nel 2002 era finita 16 a 22.
L’impressione prevalente è che il governo di Romano Prodi rimanga appeso
a un filo. Non c’è solo la frustrazione vistosa dell’estrema sinistra,
bruciata dal divorzio con la «sua» piazza nelle manifestazioni contro la visita
di George Bush. La novità è che sembra consolidarsi una tenaglia,
minoritaria ma insidiosa, fra tutti gli alleati esclusi dal Partito
democratico. L’obiettivo è di imputare l’instabilità e le
sconfitte al progetto voluto da Ds, Margherita e premier; e di lavorare ai
fianchi le due principali forze di governo, per impedire una riforma elettorale
nel segno del maggioritario. Si tratta di una manovra che risulterebbe di
retroguardia e inutile, se la coalizione andasse bene e i soci fondatori del Pd
si mostrassero concordi. Ma di fronte alle voci di crisi, alimentate da un
centrosinistra bocciato nel nord del Paese, le critiche diventano colpi
dolorosi.
L’offensiva
fa leva sui timori che serpeggiano fra gli stessi diessini dopo la scissione a
sinistra; e in una Margherita preoccupata dalla possibile erosione di
elettorato cattolico. Il martellamento di Rifondazione e Comunisti italiani
contro il ministro Tommaso Padoa-Schioppa si sta intensificando, secondo le
previsioni. E il fallimento dell’iniziativa anti-Bush di sabato a piazza del
Popolo sembra condannare il radicalismo antagonista ad inseguire il suo
elettorato più irriducibile: un magma ostile a qualsiasi compromesso di
governo. L’obiettivo minimo è quello di piegare Palazzo Chigi ad una
politica economica più «di sinistra». Con quale determinazione, si capirà
presto.
La
decisione sulla Tav (treno ad alta velocità Torino-Lione) e la riforma
delle pensioni sono ostacoli sui quali Prodi si gioca la sopravvivenza. E dire
che Palazzo Chigi è ottimista sarebbe una bugia. L’irrigidimento
dell’estrema sinistra è dato per scontato. Ma è soprattutto il
contorno di precarietà a rabbuiare le prospettive. Ci sono le
intercettazioni dei vertici diessini sul caso Unipol-Bnl; la scia imbarazzante
del caso Visco-Guardia di finanza, con la Corte dei conti che certifica il
proprio scetticismo; ed i sondaggi impietosi sul governo. Per questo, ogni
indizio in controtendenza è accolto come un balsamo: anche se è
forte il sospetto che si tratti di palliativi.
12
giugno 2007
Annunciate
per giorni nel grande mercato italiano delle voci e dei veleni, le
intercettazioni telefoniche legate al caso Unipol e all'estate dei
"furbetti" sono infine diventate pubbliche, con la formula obliqua
per cui gli avvocati possono leggerle ma non fotocopiarle. Il risultato
è un gigantesco passaparola - un meccanismo che non è né
garantista né garantito - che ha diffuso nomi, cognomi e verbali, in una
tempesta che non è giudiziaria, ma politica.
In attesa di conoscere bene le carte, tutte, tre risultati ci sembrano chiari
in una vicenda ancora per molti aspetti oscura, come quella dell'assalto al
cielo della finanza da parte di Fiorani, Ricucci e Consorte, con la benevola
protezione del Governatore Fazio, nella strana estate italiana di due anni fa.
Il primo è che la legge è scritta malissimo, e consente ai
magistrati di interpretarla a piacere subordinando la privacy ad altri
interessi: dunque la legge ha fallito il suo scopo.
Il secondo è che almeno per il momento non c'è nulla di
penalmente rilevante per gli uomini politici coinvolti nelle intercettazioni, e
infatti la magistratura non ipotizza alcun reato: e tuttavia la stessa
magistratura, autorizzandone la conoscenza, innesca un caso politico-mediatico
di grande portata, che rischia di incidere sui fragili equilibri tra
maggioranza e opposizione, e dentro la stessa maggioranza.
Il terzo risultato è la conferma di un rapporto molto intimo e dunque
del tutto improprio tra il gruppo dirigente Ds e Consorte nel momento in cui
Unipol è parte in causa in un'aperta contesa di mercato, con legami che portano
fino a Fazio, Fiorani e ai "furbetti".
Questa storia dei verbali ha molti aspetti che non convincono,
dunque: ma non sarebbe mai nata, con le speculazioni che ne derivano, se la
sinistra ex comunista avesse un'idea più chiara e trasparente del mercato,
abbandonasse le vecchie cinghie di trasmissione e la tentazione naïve di
crearsi ogni volta un capitalismo a propria immagine e somiglianza: capendo
infine che Gramsci e Ricucci, anche in tempi di eclettismo, non possono stare
insieme.
(e. m.)
(12 giugno 2007)
Prodi: Uhe! Come va?.Ricucci: Professor
Prodi, buongiorno, come sta?Prodi: Come va lei?Ricucci: Bene, bene, eh andrei
meglio se potessimo parlare un po' con lei.Prodi: Facciamo due domande
distinte. Come sta e come va...Ricucci: Molto molto bene, sabato mi sposo
quindi sto ancora meglio.Prodi: Auguroni.Ricucci: Sabato c'è il grande
evento.Prodi: Poi ci vediamo presto.Ricucci: Quando, quando?Prodi: Le dico io,
adesso so che lei è in qualche modo in giro. Io sono una trottola,
appena mi sarò fermato a girare ci vediamo presto.18 luglio 2005 stefano
Ricucci - nicola latorreLatorre: Stefano! Ricucci: eccolo! Il compagno Ricucci
all'appello! Latorre: (ride) Ricucci: ormai questa mattina a Consorte glielo ho
detto:datemi una tessera perché io non gliela faccio più, eh! Latorre:
ormai sei diventato un pericolo sovversivo. Ricucci: e si, eh! Latorre: un
pericolo sovversivo, rosso oltretutto. Ricucci: c'è anche il bollino
stamattina! Latorre: sì. Ricucci: ho preso da Unipol io tutto... ho preso,
tutto a posto, abbiamo fatto tutte le operazioni con Unipol quindi... Latorre:
sì, sì. Ricucci: non ti posso dire niente, eh! 5 luglio
2005giovanni Consorte - Piero FassinoFassino: Gli... gli altri cosa fa? Perché mi ha
chiamato Abete. Consorte: sìFassino: chiedendomi di vederci, non mi ha spiegato,
cioé voglio parlarti, parlarti a voce, a voce, viene tra un po'. Consorte: uhm. Fassino: su
quel fronte lì cosa succede? Consorte: mah, guarda, su quel fronte lì... eh noi con..
però tu... ma questa... eh... non gliela devi dire a lui... Fassino: ma io
non gli dico niente, voglio sapere, voglio solo avere elementi utili per il
colloquio. Consorte: no, no, no. No, no. Ti sto infatti... Fassino: sto
abbottonatissimo. Consorte: eh. No, ma ti dico anche quello che puoi dire e non dire, solo
questo. Fassino: ecco meglio così. Dimmi tu. Consorte: noi, sostanzialmente
con gli spagnoli un accordo l'abbiamo raggiunto. Fassino: sì. Consorte: anzi, non
sostanzialmente ma di fatto proprio, concreto. Uhm! Naturalmente ci siamo
riservati di sentire i nostri organi. Fassino: ma sarebbe un accordo che si
configurerebbe come? - Consorte: l'accordo si configura che noi aderiamo alla loro ops... -
Fassino: eh. Consorte: loro ci danno il controllo di Bnl Vita. Fassino: vi passano a
voi le quote di Bnl Vita? Consorte: sì. Consorte: sì, sì e soprattutto ci danno tutti gli asset,
quindi otto miliardi di euro che Bnl Vita gestisce, cioé tutta l'azienda
proprio, praticamente no? Poi ci danno un altro oggetto... Fassino: ehm. Consorte: che però non
si può dire oggi. Consorte: e poi d'altra parte il vero problema è che noi non
riusciamo a chiudere l'accordo con Caltagirone, questo è il problema
vero. Fassino: qual è il problema? Consorte: fa richieste 5 luglio 2005giovanni Consorte - Piero
FassinoFassino: allora siamo padroni di una banca? Fassino: Siete voi i padroni
della banca, io non c'entro niente. Consorte: Sì, sì è fatta, è stata una vicenda,
credimi, davvero durissima... però sai... (parola incomprensibile, ndr).
Fassino:Già, ormai è proprio fatta.7 luglio 2005 Giovanni Consorte - Nicola
LatorreConsorte: Sono qua con i nostri amici banchieri a vedere come...facciamo
a rimediare sti soldi'. Latorre: Ah, te l'ho detto, firmo io le fidejussioni,
non rompere eh. Stai tranquillo. Consorte: Ma tu non sei credibile con i soldi, non c'hai una lira! Tu mi
porti solo debiti. Latorre: Se c'è una cosa che non ti porto sono i
debiti. Consorte: Senti hai parlato con Massimo? Latorre: Sì ma lui domani
deve andare a Massa Carrara. La conversazione tra i due proseguirebbe su
argomenti personali dopo di che andrebbe avanti così. Consorte: Domani vado in
Consob. Latorre: Uhm. Consorte: Incontro le cooperative... Mi devono dare ancora un po' di
soldi... Se me li danno... eh... andiamo avanti. Latorre: Partiamo. Consorte: Sì. Latorre:
Va bene. Va bene. Consorte: Con questi signori abbiamo chiuso. Latorre: Come si sono
presentati? Consorte: Bene. Hanno spergiurato che loro neanche se glielo danno nel
c... danno le azioni agli spagnoli. Gli hanno posto solo una condizione per
contratto. Che Luigi Abete e Diego Della Valle devono star fuori dalla Bnl.
Latorre: Eh, va be' e questa l'abbiamo posta pure noi questa condizione. 7
luglio 2005Massimo D'Alema - Giovanni ConsorteEcco che cosa si sono detti
Massimo D'Alema e Giovanni Consorte nella telefonata del 7 luglio di due anni fa. La conversazione
clou della vicenda fa parte dei colloqui contenuti nella perizia depositata
ieri dal gip Forleo nell'ambito delle inchieste sulle scalate ad Antonveneta,
Bnl e RcsD'Alema: Lei è quello di cui parlano tutti i giornali? Consorte: Guardi, la mia
più grande s... io volevo passare inosservato ma non riesco a farcela.
D'Alema: Eh... inosservato, sì! Consorte: Massimo, ti giuro, il mestiere che faccio io più si passa
inosservati e meglio è.. niente Massimo, sto provando a farcela... Con
l'ingegnere abbiamo chiuso l'accordo questa sera. D'Alema: Ah! Consorte: Nel senso che loro
ci danno tutto. Adesso mi manca un passaggio importante e fondamentale. Sto
riunendo i cooperatori perché sono tutti gasati... Gli ho detto, però, dovete
darmi i soldi, non è che potete solo incoraggiarmi. D'Alema: Di quanti
hai bisogno ancora? Consorte: Di qualche centinaio di milioni di euro. D'Alema: E dopo di che
fate da soli? Consorte: Sì, sì. D'Alema: Tutto da soli. Consorte: Sì, Unipol, cinque banche,
quattro popolari e una banca svizzera. D'Alema: Ah, ah. Consorte: E... eh... (parola
incomprensibile) lì poi andiamo avanti. Ah no! C'è Opa anche Opa
che lo fa. E andiamo avanti, facciamo tutto noi. Avremo il 70% di Bnl. D'Alema:
Ho capito.Consorte: Secondo te Massimo ci possono rompere i c... a quel punto?
D'Alema: No, no, no. Sì qualcuno storcerà il naso, diranno che tu
sei amico di Emilio Gnutti e Gianpiero Fiorani.D'Alema: va bene. Vai avanti
vai! Consorte: Massimo noi ce la mettiamo tutta. D'Alema: Facci sognare. Vai! Consorte: Anche perché se ce
la facciamo abbiamo recuperato un pezzo di storia, Massimo. Perché la Bnl era
nata come banca per il mondo cooperativo. D'Alema: E si chiama del Lavoro,
quindi possiamo dimenticare? Consorte: Esatto. C'è da fare uno sforzo mostruoso ma vale la pena
a un anno dalle elezioni. D'Alema: Va bene, vai!.
La trincea dei Ds, ieri, era attaccata da
due fronti. Il primo, politico-elettorale, doveva difendere
l’inespugnabilità
dell’ultima roccaforte del Nord, Genova e la sua provincia. Il secondo,
scandalistico-giudiziario, doveva fronteggiare lo stillicidio delle
intercettazioni sul caso Consorte-Bnl. A fine giornata, il bilancio era
duplice: il blitz berlusconiano nelle «terre rosse» del Ponente genovese aveva
suscitato la sperata reazione elettorale e, così, l’offensiva del
centrodestra era stata respinta; i brani delle conversazioni filtrate dal Palazzo
di giustizia milanese, invece, avevano procurato gravi danni.
La procedura escogitata dai magistrati per garantire ai legali la conoscenza
dei verbali delle intercettazioni e, nel contempo, per cercare di evitarne la
pubblicazione ha avuto il disastroso, prevedibile effetto. Non solo parti
scottanti delle telefonate tra i leader Ds e Consorte sono trapelate lo stesso,
ma non c’è alcuna garanzia che le trascrizioni siano fedeli al testo
effettivamente verbalizzato, non è possibile contestualizzare le frasi
nell’intero dialogo e, soprattutto, c’è stata una arbitraria selezione
tra gli interlocutori dell’ex presidente Unipol che, almeno finora, ha ignorato
le conversazioni con alcuni parlamentari del centrodestra. Solo una grande
ingenuità, per usare un termine benevolo, può giustificare la
sorpresa davanti ai risultati ottenuti.
Se a una prima, parziale conoscenza delle conversazioni telefoniche tra
D’Alema, Fassino, Latorre e Consorte non sembrano emergere
responsabilità giudiziarie da parte dei leader Ds, il colpo all’immagine
di quel partito è davvero duro.
Si apre uno squarcio rivelatore, innanzi tutto, su uno stile, un linguaggio, un
giro di alleanze con discutibili imprenditori d’assalto che documentano
l’abissale lontananza con quella «diversità» di comportamenti, magari
presunta ma miticamente comunque autorappresentata, che Berlinguer vantava nei
confronti della classe dirigente degli altri partiti. Una leggenda che, per la
verità, gli epigoni della vecchia tradizione comunista avevano già
largamente contribuito a scolorire. Le frasi intercettate, pur nella
comprensibile gergalità e informalità di una conversazione
amicale e che doveva restare riservata, omologano definitivamente qualsiasi
pretesa di superiorità morale o politica, geneticamente riferita all’appartenenza
partitica dei ds.
Al di là del costume politico, però, la considerazione più
grave e importante è quella che si riferisce alla conferma di un solido,
antico e stretto intreccio di interessi tra il partito dei ds e il mondo
cooperativo che arriva al tentativo di impadronirsi di una banca. C’è
una frase rivelatrice di Consorte che non giustifica solo il «tifo» dei leader
ds per l’operazione Unipol-Bnl, ammesso peraltro da Fassino quando si seppe del
suo commento («abbiamo una banca») alla notizia, rivelatasi poi prematura,
dell’acquisto della Bnl. Il presidente dell’Unipol, parlando con D’Alema,
afferma: «È da fare uno sforzo mostruoso, ma vale la pena a un anno
dalle elezioni». Il collegamento tra una operazione finanziaria che riguarda un
importante istituto di credito e i suoi effetti sull’appuntamento del voto 2006
lasciano intuire quali vantaggi politici si potessero ipotizzare da
quell’acquisto. La distinzione, perciò, tra il sostegno «ideologico» a
un progetto economico-finanziario e l’appoggio per una convenienza partitica,
alla luce di quelle parole, diventa assai difficilmente sostenibile.
Il bilancio della giornata di doppio fuoco sulla trincea ds non sarebbe
completo, però, se non si manifestasse qualche impressione sulle
reazioni dell’intera classe politica alle indiscrezioni sui verbali di queste
telefonate. A prima vista, la sobrietà dei commenti nelle dichiarazioni
dell’opposizione, il rifiuto di strumentalizzare politicamente il contenuto di
quei colloqui dovrebbero testimoniare il recupero di una insperata
civiltà di rapporti tra i due schieramenti. Con le immagini televisive
ancora negli occhi del penoso spettacolo offerto al Senato nella discussione
sul «caso Speciale», questa britannica compostezza documenterebbe un miracolo
politico di fronte al quale anche i più increduli osservatori laici
dovrebbero inchinarsi.
C’è, però, un sospetto. Anzi, due. Il primo si annida dietro
l’ipotesi di una reazione corporativa e si rafforza dalla constatazione di una
tanto estesa valanga di accuse ai magistrati da ricordare il clima che
portò alla fine della cosiddetta prima Repubblica. Il secondo,
più politico, è legato al futuro, così incerto e
travagliato, del governo Prodi. Tutti gli scenari che si aprirebbero, dopo una
sua eventuale caduta, sembrano far perno sulla figura di D’Alema. Ecco perché
può essere così utile, da una parte non escludere il suo apporto
alla soluzione alternativa, dall’altra, condizionare il suo potere, quello del
suo partito e quello dei suoi alleati nel mondo dell’economia, della finanza,
della magistratura agli sviluppi di uno scandalo.
? ROMA ? MANTENERE la calma e fare quadrato,
tutti ? tranne Lega e Stefania Craxi ? scelgono la cautela. Per i Ds le intercettazioni Unipol sono un attacco a cui rispondere: nessuna rilevanza penale, ma
conseguenze imprevedibili, specie sul piano dell'immagine. Da qui la scelta di
dichiarazioni misurate nei toni ma ferme e dure nella sostanza. "E' una
storia ridicola ? attacca Piero Fassino, ospite di Porta a porta ? Da due anni sono impiccato al nulla.
Le mie telefonate con Consorte hanno avuto solo carattere informativo, ora si sta cercando
quello che non c'è". Sulla stessa linea il senatore Nicola Latorre,
tra gli intercettati, che si dice "assolutamente tranquillo" e
curioso "di vedere quali motivazioni saranno date allo spargimento di
veleni", dal momento che "stiamo parlando di conversazioni che non
hanno alcun rilievo penale". ANCORA PIÙ espliciti il ministro
diessino Pierluigi Bersani che a domanda risponde laconico con un "proprio
non ce ne interessiamo", mentre il sindaco di Roma Walter Veltroni
conferma la stima a Fassino e D'Alema e dice che la vicenda è segno di "quanto
torbido e pesante sia il clima politico del Paese". Il ministro Clemente
Mastella invita alla cautela i giornalisti nella pubblicazione delle intercettazioni, anche perché, secondo il Guardasigilli, "non si capisce bene
l'attendibilità della fonte". Arturo Parisi denuncia "il
mancato rispetto del segreto istruttorio e l'uso improprio delle intercettazioni". E SE MARCO Follini parla di gossip, il segretario dello
Sdi Enrico Boselli, mette in guardia dai processi di piazza, condannando
"l'intollerabile violazione della privacy". Il ministro Antonio Di
Pietro la butta invece sulla deontologia e spiega che "depositare le intercettazioni è stato un dovere per assicurare un diritto alle
parti". È necessario piuttosto ragionare su "chi è
venuto in possesso degli atti nonostante i divieti". Una levata di scudi,
insomma, condivisa anche dal centrodestra con il coordinatore di Forza Italia,
Sandro Bondi, che promette di non usare le intercettazioni "per attaccare i leader Ds" e il vice Fabrizio
Cicchitto che liquida il caso come "partita assai pericolosa e
inquietante". MA PERPLESSITÀ arrivano anche dall'Udc e da An, con
le prese di distanza dei capigruppo di Camera e Senato, Ignazio La Russa e
Altero Matteoli. Uniche voci fuori dal coro quelle del leghista Roberto
Castelli, che condanna la fuga illegittima di notizie, e di Stefania Craxi che
chiede le dimissioni di D'Alema e Fassino
Cara
Europa, l’onorevole D’Alema definisce “incivili” i suoi compagni che fischiano
Berlusconi a Genova. L’onorevole Amato dice che, da laico, non sopporta che si
definiscano “interferenze” le iniziative della Chiesa su temi che la toccano.
L’onorevole Binetti fa capire che il Partito democratico non le sta bene e
perciò concorda con Pezzotta che, ubriacatosi di vin santo a San
Giovanni, vuol fare il partito clericale (dalle nostre parti, per reminiscenza,
si direbbe di “Santa Fede”). Domando a Europa a chi e in che cosa deve credere
un ex (?) elettore di centrosinistra che guarderebbe con interesse al Partito
democratico? Per quanti decenni dovremo sopportare la disfatta a cui ci stanno
portando con tanti distinguo?
ANDREA PIANCASTELLI, LUCCA
Caro
Piancastelli, forse sui decenni lei è un po’ eccessivo, o sono io a
rifiutare l’ipotesi, che esula dalle mie prospettive di vita. Io credo che
parecchi nostri leader siano nel pallone. Prima di leggere la sua lettera (il
sabato e la domenica la nostra redazione resta chiusa) mi ero domandato: ma
come fa D’Alema a non capire che dare dell’“incivile” ai suoi elettori, che
tutti i giorni subiscono da Berlusconi offese ben più sanguinose dei
fischi, equivale a metterli in libera uscita, alla vigilia del voto di Genova,
e far pensare a qualcuno dei più maligni che così il ministro
degli esteri ricambia la solidarietà espressagli da Berlusconi per i
falsi conti all’estero? E come fa il dottor sottile Amato a non capire che una
cosa è il legittimo e indiscusso diritto della Chiesa (come di chiunque
altro) di affermare i suoi principi e di dissentire dalle leggi che non sono ad
essi conformi, e altra cosa è interferire nelle scelte elettorali dei
cittadini (se votare o astenersi in un referendum) e addirittura violare la
Costituzione della Repubblica intimando ai parlamentari di votare non secondo
il diritto-dovere costituzionale ma secondo la fedeltà alla gerarchia e
alla religione? E come può fare la senatrice Binetti a non capire che se
Pezzotta fa il partito clericale (ammesso che i preti glielo permettano) si
svuota di clericali il Pd, in base al principio pezzottiano che in quel partito
non vi sarebbe spazio per i cattolici? (Immagino che ce ne sarebbe tanto,
invece, per noi laici liberali, ma questo è un altro discorso).
Oggi debbo chiudere ricordandole che analoghe disponibilità,
pendolarismi, dubbi amletici li ho visti da vicino nella legislatura ulivista
1996- 2001. Fu così che maturò in noi del Palazzo tale senso di
disfatta, che Bertinotti e Di Pietro fecero liste per conto proprio. Berlusconi
aveva 14 punti più di noi nei sondaggi degli ultimi mesi del governo
Amato; ma Rutelli gliene riprese 13 in campagna elettorale. Senza la fuga di
Bertinotti e Di Pietro avremmo di nuovo vinto, come nel 1996. Ma nessuno
s’illuda, il quasi miracolo non si ripeterà e servirebbe a poco.
Guardate quest’anno di governo dal punto di vista dei riformisti, che cosa
è stato? Una continua insoddisfazione perché alla fine ogni mediazione
di Prodi pendeva a sinistra. Per far contenta Rifondazione e non rompere coi
sindacati si smarriva il profilo riformista.
Fino al punto che Fassino, tra dicembre e gennaio, arrivò a chiedere un
«cambio di passo» che offese Prodi e fece imbestialire Giordano e Ferrero:
avanti come da programma e guai a sgarrare, dissero.
E adesso? Adesso scopriamo che per un anno in sofferenza ci sono stati loro,
Rifondazione e dintorni. Che, vista dal loro punto di vista, la storia è
rovesciata: hanno solo dovuto ingoiare compromessi per favorire il nascente
Partito democratico. E adesso vogliono «un cambio di passo ». Sono stufi di
pagare pegno con il loro elettorato, tant’è vero che da ora in poi
andranno a tutte le manifestazioni di piazza possibili, pure dove gli tirano i
pomodori.
Dunque per un anno abbiamo visto proiettati a palazzo Chigi due film diversi.
Ognuno soffriva, pensando che l’altro godesse. Invece soffrivano tutti, e
più di tutti soffriva l’elettorato, che infatti appena possibile ha
cominciato a sfollare.
Tutti adesso vogliono cambiare film, ma con idee opposte sulla trama. Perché un
film dove si abbassano le tasse ad autonomi e artigiani e si alzano le
pensioni, si taglia l’Ici e si danno più soldi agli statali, la Tav si
fa e non si fa, lo scalone si tocca o non si tocca, in Afghanistan si resta ma
si va via, i servizi pubblici un po’ si liberalizzano e un po’ no... beh
sarebbe puro splatter, roba da invocare la commissione di censura.
Siamo davanti a un nodo strategico: oltre che a battersi con la destra, questo
centrosinistra può servire anche a governare l’Italia in maniera
coerente, sì che chi ci sta dentro trovi una ragione per restarci, e i
cittadini riescano a dare un senso compiuto allo spettacolo a cui assistono?
Per saperlo non resta che affidarsi al regista, sperando che faccia parte della
soluzione e non del problema.
ROMA
- Gustavo Selva si è dimesso da senatore. L'esponente di An, 81 anni, ha inviato una lettera al presidente di Palazzo Madama, Franco Marini, in cui annuncia la sua decisione di lasciare la carica dopo le polemiche suscitate dalla sua ammissione di aver finto un malore per utilizzare un'autoambulanza per raggiungere in tempo gli studi di La7 in cui doveva intervenire a una trasmissione televisiva. In ogni caso è l'assemblea del Senato che dovrà votare per decidere se le sue dimissioni saranno o meno accettate.LA LETTERA - «Per prendere la decisione che sto
per annunciarle», scrive Selva a Marini, «ho interrogato solo la mia coscienza
di cittadino e di parlamentare italiano senza ascoltare nessuna persona
politica e neppure la mia famiglia. Non voglio far ricadere sulla più
alta rappresentanza parlamentare della nazione italiana, quale è il
Senato della Repubblica, le mie eventuali colpe politiche e i miei possibili
errori. Con la presente pertanto pongo nella sua disponibilità le mie
dimissioni da senatore della Repubblica. Poiché le dimissioni, a norma di
regolamento, dovranno essere discusse e poste al voto dell'assemblea a
scrutinio segreto, nel frattempo mi asterrò a prendere parte a qualsiasi
attività e voto del Senato della Repubblica». Selva scrive poi che le
dimissioni gli permetteranno di intervenire nel dibattito in aula per fare le
sue considerazioni. «Lo devo anzitutto ai miei elettori della regione Veneto
che mi hanno dato la dignità, la forza e il coraggio di rappresentare le
loro idee nelle tre principiali istituzioni democratico-parlamentari formate
dagli elettori italiani e cioè il Parlamento europeo, la Camera dei
deputati e il Senato della Repubblica. Spetta ora ai senatori della Repubblica
decidere se si trovano in concordanza con i miei elettori: se invece
sarà no, ricercherò nuovamente, pur alla mia veneranda
età, a Dio piacendo, e contrariamente a quanto mi ero fissato nel mio
programma politico, la legittimazione e, soprattutto, l'idoneità etica e
morale dei miei atti presso gli elettori italiani, unici e definitivi giudici
di etica democratica che io riconosco». Selva annuncia anche un'interrogazione
con la quale chiede al presidente del Consiglio di riferire nell'aula del
Senato su uno specifico aspetto della vicenda che lo ha coinvolto: «Dal momento
in cui io sono stato accomodato da un infermiere sull'autoambulanza (che non fu
da me chiesta, trovandosi sul posto a disposizioni di quanti come me, avevano
presenziato nel cortile di Palazzo Chigi alla conferenza stampa congiunta dei
presidenti Bush e Prodi) a quello in cui l'ambulanza si avviò
all'ospedale San Giacomo trascorso 12 minuti 'nobile esempio della
rapidità e dell'efficienza del servizio».
118: «MINACCE DA
SELVA» -
Nella relazione al presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo, da parte
degli operatori dell'ambulanza si parla dell'atteggiamento del senatore di An
come «minaccioso e offensivo». Selva avrebbe inoltre «denigrato la
professionalità dell'equipaggio e minacciato il licenziamento di un
infermiere» nel caso in cui non fosse stato trasportato nello studio del suo
cardiologo di fiducia. Nella relazione è scritto che Selva, dopo essersi
fatto accompagnare nei pressi «dello studio del suo cardiologo, si strappava i
fili di monitoraggio, tentava di togliersi l'agocannula e usciva
frettolosamente dall'ambulanza inseguito dal personale medico». Selva ha
ordinato agli addetti della portineria di non fare entrare il personale
dell'ambulanza affermando che «il suo cardiologo lo stava raggiungendo». Gli
operatori del 118 hanno riferito che «dopo aver chiesto presso la portineria di
poter contattare il cardiologo, è stato loro risposto che si trattava di
un'emittente televisiva e che non era presente nessun cardiologo» ma che il
senatore era lì per partecipare a una trasmissione.
11
giugno 2007
Le sorti del governo appaiono sempre incerte, appese a un filo che in ogni
momento uno o due senatori della maggioranza possono tagliare. C’è
sempre chi minaccia di farlo: per l’Afghanistan, (i Turigliatto di turno), per
i Dico (Mastella), per il generale Speciale (Di Pietro) e da ultimo la
senatrice altoatesina per il fisco regionale.
Sabato scorso la sinistra massimalista, quarant’anni dopo, volendo imitare il
Pci nei confronti di Nixon, ha fatto trascorrere a pochi affezionati di vecchi
riti un pomeriggio al sole a piazza del Popolo per manifestare contro Bush. Il
quale nelle stesse ore teneva un cordiale colloquio col capo dello Stato,
personalità che con la sinistra italiana ha avuto una certa
frequentazione. Successivamente il presidente americano in un altro Palazzo ha
abbracciato l’amico Prodi il quale, come Napolitano, è stato invitato a
fare una visita in Usa. Insomma il mondo cambia ma un pezzetto della sinistra
non lo sa. La cordialità e gli apprezzamenti di Bush per la politica del
governo italiano hanno spiazzato una destra becera e incapace di capire che il
presidente degli Usa con i problemi che si ritrova in Iraq, Afghanistan, Medio
Oriente, e in altre parti del mondo e nel suo stesso Paese, ha bisogno di
recuperare comprensione e amicizia anche con i governi con cui il dialogo
è stato più complesso, ma leale.
La verità è che la politica estera è un campo in cui il
governo italiano ha un bilancio positivo e raccoglie quel che ha seminato. Il
problema vero dell’esecutivo sono le contraddizioni della sua maggioranza e di
una leadership che non riesce a esprimere con autorevolezza una sintesi
comprensibile. Tuttavia non mi pare che la soluzione sia una crisi le cui
alternative non si vedono. Io non so se fra amici del Cavaliere ci sia qualcuno
che gli spieghi che in nessun Paese al mondo, quando si verifica un calo di
popolarità del premier e del governo, si torna a votare. Né in Usa, né
in Inghilterra, né in Italia quando c’era Berlusconi. Il quale dà
l’impressione di temere il fatto che più tempo passa meno probabile
è una sua candidatura: oggi sente il vento in poppa (domani non si sa) e
a fine legislatura avrà 75 anni. E grida: salgo le scale del Quirinale!
Per fare che? Chiunque sia, il presidente della Repubblica sino a quando
c’è un governo e una maggioranza non si può sciogliere il
Parlamento.
Fatte queste considerazioni, non penso che il Paese possa essere governato per
altri quattro anni come fino ad ora. A parte la demagogia dell’opposizione
berlusconiana, il problema del governo è aperto: si tratta di scegliere
con nettezza una linea politica con un programma che l’esprima nel Parlamento e
nel Paese. Chi pensa che il miracolo lo farà a ottobre la Costituente
del Pd fa finta di non sapere che proprio quell’appuntamento già provoca
nuove tensioni nell’Unione e quindi nel governo.
Non si tratta quindi né di fare le tradizionali “verifiche” di maggioranza, né
di rinviare tutto a quando ci sarà il famoso e miracoloso “asse
riformista”. Il governo ha il dovere di dire non solo ai suoi elettori ma agli
italiani qual è il suo programma realizzabile con questa maggioranza:
sull’economia, sul fisco, sull’apparato statale, sul costo della politica, sul
welfare ecc. Ed è inutile elencare provvedimenti se su di essi non
c’è una maggioranza, come a proposito dei Dico. Lo stesso vale anche per
la riforma del sistema televisivo e per il conflitto di interessi. Insomma, se
l’attuale leader non è in grado di fare questa operazione politica che
può fare chiarezza nei rapporti tra governo e Paese occorre prenderne
atto senza sfasciare tutto. Questa è la sola verifica da fare.
Un Consiglio regionale parallelo che non
farà leggi ma che dovrà esprimere "pareri obbligatori non
vincolanti" su leggi e delibere regionali che toccano le funzioni e le competenze
di Comuni e Province: è il Consiglio regionale delle autonomie locali,
uno dei nuovi organi previsti dal nuovo Statuto regionale. Finora era rimasto
sulla carta, nonostante, "in sede di prima applicazione", nel 2006
per attivarlo erano stati riservati 50mila euro. Il nuovo organismo sta per
essere varato. Gli uffici del Consiglio regionale hanno avviato i contatti con
le Prefetture pugliesi per organizzare le elezioni che richiedono tempo,
sicuramente non saranno fatte prima di settembre. Così mentre in via
Capruzzi si discute dell'opportunità di ridurre il numero dei
consiglieri regionali dagli attuali 70 a 60 o anche a 50, ma non prima della
prossima legislatura, nello stesso "palazzo" la macchina burocratica
lavora per insediare questo consiglio regionale parallelo che si compone di 57
componenti, eletti fra gli eletti, perché si tratta di rappresentanti che
già siedono nei consigli provinciali, nei consigli comunali. Persino
nelle comunità montane. L'idea è di puntare al risparmio. Ma
l'operazione non sarà a costo zero. La sede sarà quella del
Consiglio regionale. E anche la struttura organizzativa non prevede nuove
assunzioni: sarà il Consiglio regionale a "prestare" con il
trasferimento il suo personale per le incombenze burocratiche. Avrà un presidente
e due vice presidenti. Ma l'operazione risparmio finisce qua. All'inizio
qualcuno ha tentato di prevedere per tutti i 57 componenti, una forma di
indennità parametrata a quella dei consiglieri regionali. Poi ha
prevalso il pudore e si è ripiegato sul più discreto gettone di
presenza. Non è stato quantificato perché sarà il Consiglio sulle
autonomie, in piena autonomia, a stabilire la cifra. Ma il consiglio si
riunirà ogni volta che alla Regione sarà discusso qualsiasi
provvedimenti (dalla legge alla delibera) che tocchi la sfera di comuni,
Province e comunità montane. Perché, su ogni atto, è previsto il
parere da consegnare in due settimane. Al gettone, però, potranno essere
aggiunti i rimborsi per le spese di trasporto. Il meccanismo funzionerà
così: paga la Regione se il consigliere delle autonomie rappresenta
comuni con meno di cinquemila abitanti, altrimenti a pagare è il comune
di provenienza. Tanta austerità, però, naufraga davanti
all'articolo 9 della legge istitutiva del 2006: "Per lo svolgimento del
suo mandato, il consiglio delle autonomie può avvalersi, previa intesa
con l'ufficio di presidenza, di istituti, centri di ricerca, università,
esperti... ". Insomma la finestra dalla quale fare entrare consulenti e
simili. In tempi di lotta ai costi della politica, è quanto di meno popolare si potesse fare in via
Capruzzi. Tanto più per un organismo che sarà eletto nemmeno dai
pugliesi, da una ristretta cerchia di eletti. Si calcola che alle urne, per la
scelta dei 57 componenti, saranno chiamati in cinquemila, più o meno la
"casta" che alberga in Puglia tra Consigli comunali e provinciali.
Sono elezioni vere e proprie, con tanto di liste contrapposte su base
provinciale e con la preferenza unica. La lista che prende più voti
s'aggiudica il 60 per cento dei seggi. E in ogni lista chi prende più
voti fino alla concorrenza dei seggi assegnati alla sua lista, s'aggiudica lo
scranno di consigliere delle autonomie. Per cui è possibile che nel
nuovo consesso si abbia una maggioranza di colore politico diverso da quello
del Consiglio regionale. Ma sul punto, a garantire la governabilità ci
penserà la previsione statutaria che consente ai rappresentanti
istituzionali degli enti locali, di avere l'obbligo di esprimere un parere ma
che quel parere non è vincolante e il Consiglio regionale può
anche non considerarlo. Per i futuri "consiglieri dell'autonomia"
sedere nella stessa aula dei consiglieri regionali per le proprie riunioni, non
darà diritto agli stessi benefit. Quindi niente Telepass e Viacard
autostradale gratis, niente budget di 120 euro per pranzo e cena o di 220
d'albergo al giorno se si va fuori in missione. E nemmeno il rimborso dei
viaggi di prima classe in treno o in classe economica in aereo.
VENEZIA. Prodi sì o Prodi no?
Stringiamo in questo dilemma due posizioni di cui si sono fatti portavoce, con
interviste al nostro giornale, Mario Carraro e Massimo Cacciari. Carraro,
imprenditore padovano molto noto, già presidente degli industriali
veneti, idee di centrosinistra, estimatore e amico di Prodi che lo voleva come
ministro nel suo primo governo, sostiene - con una libertà di giudizio
invidiabile - che il livello di sfiducia di questo governo è
irrecuperabile nel Nord; serve un esecutivo di emergenza nazionale, che faccia
la legge elettorale e ci porti al voto. No alle dimissioni di Prodi, dice
invece il sindaco Cacciari: sarebbero un salto nel buio, il Paese perderebbe quel minimo di
beneficio della ripresa economica. Il governo Prodi deve vivere, il che non
significa sopravvivere, per fare la nuova legge elettorale (che non può
essere delegata a tecnici) e una finanziaria che dia almeno un segnale diverso
al Nord del Paese. Codicillo di Cacciari: "Basta con la sinistra radicale, è solo
zavorra". Queste due posizioni mettono a rumore il centrosinistra del
Veneto. Diego Bottacin (consigliere regionale e coordinatore Margherita
veneta): "Sono completamente d'accordo con Mario Carraro, per un governo
di emergenza nazionale, di cui condivido le priorità: legge elettorale,
federalismo fiscale, riforma delle pensioni. Sono richieste di assoluto buon
senso, che troverebbero d'accordo gli elettori non solo del centrosinistra ma
anche del centrodestra. Solo che, per procedere, è necessario il
sì di Forza Italia e qui c'è l'ostacolo Berlusconi: non credo che
l'ex premier abbia voglia di mettersi in disparte e aspettare due anni, che un
governo istituzionale faccia la legge elettorale e vari un paio di finanziarie
serie e rigorose, in linea finalmente con le esigenze del Nord. E' Berlusconi
comunque che dovrebbe dire di sì. Fini e Casini sono disponibili, se non
capisco male". Pietrangelo Pettenò (capogruppo Rc in Regione):
"Il professor Massimo Cacciari che ci considera zavorra, dovrebbe ricordare che senza zavorra
una barca non ha stabilità. Basta guardare la sua amministrazione a
Venezia: è stato eletto con i voti di An e Forza Italia, ha imbarcato in
giunta tutti meno noi, perché doveva fare un laboratorio di innovazione.
Risultato: Venezia è più ferma che mai, in balìa alle
corporazioni. Oggi scarica le colpe del governo Prodi su Rc: è una
capriola pretestuosa per non discutere dei problemi del governo, che sono
serissimi e riguardano tutti i partiti interessati alla nascita del Pd. Basta
leggere i giornali". Andrea Causin (consigliere regionale Margherita):
"Andrei cauto a scaricare tutte le colpe su Prodi, escludendo la
leadership locale. Se si dimezzano i voti dell'Ulivo, qualche problema di
tenuta della dirigenza locale deve pur esserci. Forse la spiegazione è
che non esiste rinnovamento. Chi ha perso i confronti resta sempre al suo posto".
Achille Variati (capogruppo Ulivo-Pd del Veneto): "Non c'è dubbio
che Prodi deve dare un segnale diverso al Nord del Paese. E lo deve fare con la
prossima finanziaria, sempre che ci arrivi. Lui e i suoi ministri devono
governare, invece che pensare al Pd". Marco Zabotti (consigliere regionale
Uniti per Carraro): "Il governo Prodi non ha alternative, altrimenti si va
al vuoto istituzionale. Ma Prodi ha bisogno anche di un cambio di passo, di una
presa di contatto con il Nord del Paese che gli sfugge completamente. Venga a
passare alcune giornate nel Nordest. Pratichi l'esercizio dell'ascolto, di
persona, visto che le cose gliele riferiscono tutte sballate". (r.m.).
La Commissione europea vuole cambiare le regole sulla multiproprietà,
stanca delle continue segnalazioni di truffe che arrivano da ogni parte, Italia
compresa. Per farlo il commissario alla tutela dei consumatori, Meglena Kuneva
(nella foto), ha presentato nei giorni scorsi la proposta di revisione della
direttiva del 1994 sul cosiddetto "time sharing". "La direttiva
ha funzionato bene entro i propri limiti" ha spiegato il commissario
Kuneva nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles. Ma adesso "occorre
estendere i diritti". L'attuale legislazione, infatti, si applica soltanto
alle multiproprietà di case (non di altri beni), e soltanto quando il
cliente acquista il diritto di usufruire dell'abitazione per più di
sette giorni all'anno, e per una durata complessiva di almeno tre anni. Molti
operatori scorretti hanno approfittato di questa rigidità, facendo
stipulare contratti per un massimo di 6 giorni all'anno e per 35 mesi in
totale, arco di tempo che non dà alcuna tutela ai consumatori. Altro
problema aperto è quello delle barche e degli altri beni diversi dalle
case che, sempre più, vengono proposti con contratti di "quasi
multiproprietà", categoria che in realtà sfugge agli
obblighi della direttiva europea in materia di informazione alla stipula del
contratto, diritto di recesso e obbligo di non versare anticipi. Un terzo
aspetto della questione riguarda, infine, i club vacanze. Molti intermediari, infatti,
stanno iniziando a vendere diritti per ottenere sconti sui soggiorni vacanze,
promettendo tagli sui prezzi fino al 99%. "In questo caso - spiega
Giuseppe Abbamonte, capo unità della direzione per la protezione del
consumatore della commissione dell'Unione europea -, il consumatore paga per promesse spesso
illusorie o esagerate, senza nemmeno essere protetto dalla legge".
L'operazione per estendere la tutela dei consumatori avviata dalla commissione europea è importante, perchè la
multiproprietà rappresenta un mercato da 10,5 miliardi di euro in Europa, con 40 mila
lavoratori. Nella sola Italia, poi, ci sono almeno 130 mila persone che hanno
sottoscritto un contratto di multiproprietà. Per arrivare a realizzare
una nuova Direttiva ci vorranno almeno due anni. Nel frattempo Ofelia Oliva,
del Centro europeo consumatori dà un consiglio: "quando vi offrono
un'occasione da prendere al volo, è meglio evitare e riflettere con
calma, leggendo il contratto e informandosi in maniera dettagliata sui propri
diritti".
Il Giorno 11-6-2007 LO SDEGNO DELLA TURCO "Selva
finto malato? Non resterà impunito"
Il Manifesto 11-6-2007 Bush e Ratzinger seppelliscono
Wojtyla
Il Riformista 11-6-2007 Rifondazione si lecca le ferite
di piazza di Ettore Colombo
Corriere Economia 11-6-2007 Offshore Emergono i tesori
nascosti a cura di Ivo Caizzi
Italia Oggi Sette 11-6-2007Prodotti assicurativi
più trasparenti di Francesco Pau
Brundisium.net 10-6-2007 Nasce l'asssociazione
"Cittadini d'Europa"
ROMA — Il clima è quello
dell’assedio, anche se la parola d’ordine è ostentare
tranquillità. Perché deputati e senatori dei Democratici di sinistra
sono consapevoli che la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche sul
caso Unipol —registrate nell’estate del 2005— può avere effetti
imprevedibili sia sugli equilibri interni al partito, sia nei rapporti con gli
alleati. E dunque, dati per scontati gli attacchi che arriveranno
dall’opposizione, è nella maggioranza che si faranno i conti. Perché le
indiscrezioni assicurano che sono proprio i giudizi, anche personali, che
ognuno dà degli altri a poter creare imbarazzi e tensioni.
Così come l’interesse
esplicito dei leader per una scalata finanziaria che avrebbe portato
il gruppo assicurativo bolognese a conquistare la Bnl. E tutti sanno che, al di
là dei rapporti personali, in gioco c’è la tenuta della Quercia.
Benissimo lo sa il tesoriere Ugo Sposetti. I suoi colloqui con Giovanni
Consorte, l’ex presidente di Unipol, li ha già letti sui quotidiani
dell’epoca. E ora dice: «Due anni fa nessuno mi ha chiesto nulla prima di
mettere sui giornali le mie conversazioni private e quindi niente devo dire
adesso. Posso assicurare che nulla di nuovo mi creerà problemi, sono
sereno e tranquillo ». E gli altri? «Ognuno risponde di sé e di quello che
dice». A chi gli chiede commenti, Nicola Latorre risponde che «in questo
momento non si deve assolutamente parlare».
Con gli amici più cari
però lo ha fatto e ha più volte ribadito la sua amarezza
«perché posso pure aver usato qualche frase colorita, ma è il mio
carattere. Se poi si cerca il linciaggio è un’altra cosa e da quello
saprò difendermi benissimo». Due anni fa, quando si diceva che proprio
dal suo telefonino Massimo D’Alema parlava con Consorte, giurò che non
era vero. Ora che le carte dimostrerebbero il contrario, lui non si mostra
affatto preoccupato, «anche perché sono cose che non hanno alcuna rilevanza né
penale, né politica ». Le parole scandite dal senatore Massimo Brutti appaiono
eloquenti: «Nei prossimi giorni ci saranno insinuazioni e manipolazioni delle
telefonate, con frasi estrapolate dal contesto, per attaccare i Ds. Questo
è sicuro.
Non è la prima volta che
i Ds vengono bersagliati, non sarà l’ultima. Interessante
sarà però vedere da quale parte arriveranno le
strumentalizzazioni o le calunnie che già si preannunciano. Stiano
comunque tranquilli coloro che si stanno preparando all’attacco, perché nei
nostri armadi non ci sono scheletri di alcun genere. Siamo pronti a difenderci
da chi pensa di metterci in difficoltà inquinando il confronto politico
con tutta la decisione e l’energia di cui siamo capaci». Altrettanto energica
è la reazione di Guido Calvi, anche lui a Palazzo Madama. «Non
c’è alcuna agitazione — assicura — anche perché se si fosse adombrato un
reato, sarebbe già stato contestato. Si tenta di speculare sul nulla.
Abbiamo già vissuto la pubblicazione della conversazione di Fassino che,
al di là delle strumentalizzazioni, si è rivelata assolutamente
innocua.
Il vero problema è che
c’è chi ha interesse a mestare il quadro
politico in un quadro di degrado e di meschinità». Secondo Gerardo
D’Ambrosio, eletto con i Ds dopo una vita da magistrato, «non è
ammissibile che ci si scateni nelle interpretazioni di brandelli di colloqui e
si speculi su un linguaggio, sia pur colorito, che si usa quando due persone
amiche parlano al telefono ». Quando faceva il pubblico ministero, di
intercettazioni e di atti ne ha letti migliaia. Ha vissuto da protagonista gli
anni di Mani Pulite. E adesso avverte: «Ricordiamoci che una campagna di
delegittimazione alla fine può coinvolgere tutti».
MILANO, 11 giugno 2007 - BANCOPOLI si
arricchisce oggi di un nuovo capitolo. Via libera agli avvocati che avranno
voglia di curiosare fra le 73 intercettazioni telefoniche dei sei parlamentari
(i Ds Fassino, D'Alema, Latorre e i forzisti Grillo, Comincioli e Cicu) con
alcuni imputati nell'inchiesta Antonveneta-Unipol. Ma le trascrizioni di quelle
telefonate, pur non essendo più coperte dal segreto d'indagine, non
verranno consegnate ai legali, che possono soltanto prenderne visione in una
stanza apposita della cancelleria vigilata dai carabinieri, senza portare con
sè cellulari o scanner e solo per tre giorni. Al termine dei quali
verrà fissata l'udienza dove il gip Clementina Forleo deciderà
quali telefonate meriteranno di essere inviate alle Camere per ottenere
l'autorizzazione alla loro utilizzabilità come atto processuale. NORME
RIGIDE e blindate. Ma comunque vada, l'indagine sulla scalata occulta della
Banca Popolare di Lodi e dei suoi alleati 'concertisti' all'Antonveneta,
accertamenti estesisi poi all'Opa di Unipol sulla Bnl, al rastrellamento di
azioni Rcs ad opera di Ricucci, alle operazioni della holding di Gnutti e anche
all'utilizzo di fondi della presidenza Confcommercio, resterà nella
storia della seconda Repubblica quanto Mani Pulite ha segnato la prima. Se non
altro in termini patrimoniali: quasi 300 milioni di euro (600 miliardi di lire)
recuperati finora dai magistrati, una cifra che fa impallidire il
monte-risarcimenti di Mani Pulite (150 miliardi di lire). Mai un gruppo di
scalatori in Italia ha fatto una fine così rapida. Forse per le
dimensioni del tesoretto che avevano accumulato. Una parte di
"furbetti" (Gnutti e compagni) i denari li aveva ammucchiati nella
scalata Telecom. Quegli stessi soldi, poi, sono stati investiti nelle
spericolate operazioni del banchiere emergente Fiorani. E nell'estate del 2005
li troviamo impegnati su quasi tutti i fronti possibili. Fiorani è in
lotta con gli olandesi della Abn-Amro per conquistare l'Antonveneta e grazie
all'appoggio del governatore di Bankitalia Antonio Fazio, gli sembra quasi di
avercela fatta. Intanto finanzia altre due operazioni. La scalata alla Bnl,
contro gli spagnoli del Bbva. E la scalata di Ricucci alla Rcs-Corriere della
Sera. Quando i furbetti capiscono che la Bnl è una preda troppo grande,
passano la mano a Giovanni Consorte dell'Unipol. C'è un momento, verso
fine luglio, in cui sembra che gli scalatori riescano a mettere le mani sulle
loro prede. Qualcuno, nel mondo della politica, arriva a pensare che siano i
nuovi "capitani coraggiosi", capaci di far fuori le vecchie famiglie
del capitalismo italiano. I Fiorani, i Gnutti, i Ricucci, i Lonati, i Coppola
dipinti come i nuovi, veri signori d'Italia. IN REALTà gli avvenimenti
successivi dimostreranno che i soldi messi in campo erano tanti, ma non
moltissimi: la maggior parte veniva dalla Popolare Italiana di Fiorani.
L'intera vicenda comincia a crollare quando i magistrati di Milano decidono,
sulla base di un esposto di Abn-Amro, di occuparsi della vicenda. Controllano
in fretta i libri contabili, piazzano microspie ovunque e intercettano decine e
decine di telefonini. I risultati sono rapidi. Al punto che già il 2
agosto il gip Forleo blocca tutto e sequestra le azioni con cui Fiorani voleva
l'Antonveneta. A quel punto la verità viene a galla. I nuovi signori
altro non sono che piccoli speculatori. Fermato e messo fuori dalla banca
Fiorani, il cassiere di tutti, c'è una ritirata complessiva. La Popolare
Italiana, travolta dallo scandalo, rinuncia all'Antonveneta, che finisce all'Abn-Amro.
L'Unipol alla fine deve arrendersi, convince Consorte ad andarsene e la palla
torna al Bbva, che la perde a favore della francese Bnp Paribas. Anche Fazio
esce di scena. Tutti spazzati via nel giro di un'estate.
MILANO — «Faccio
l’avvocato da un bel po’ di anni, e una cosa del
genere non l’avevo mai vista... Comunque domani mattina (oggi, ndr) ci
sarò anch’io a recitare la mia parte in questo circo mediatico. Non mi
fa piacere, perché quelle telefonate con il procedimento penale non hanno
davvero nulla a che fare, sono solo gossip. Ma dovrò esserci, perché in
tempi in cui i processi stanno più in televisione e sui giornali che
nelle aule dei tribunali, bisogna essere preparati a tutto... Ricordo bene i
brogliacci di quelle telefonate — confida ancora l’avvocato prima di ribadire
il «niente nome, mi raccomando» — tutta roba inutile che in un normale
procedimento sarebbe stata cassata dall’ufficio del pubblico ministero. Mai
capitato di andare a consultare atti che non si possono fotocopiare, di doverlo
fare tirando fuori i documenti e, per giunta, d’essere guardato a vista da un
ufficiale di polizia giudiziaria...». Pensa questo, uno degli avvocati di uno
degli 84 indagati nel processo per la scalata Antonveneta e Unipol a Bnl. E non
è il solo.
Oggi, per lui come
per gli oltre cento altri colleghi, scatta l’ora «X».
Potrà mettere gli occhiali su quelle 73 telefonate intercettate
indirettamente dalla Guardia di finanza e in cui sono coinvolti sei politici, i
ds D’Alema, Fassino e Latorre, e i forzisti Grillo, il non meglio identificato
Cicu e Comincioli. «Di penale non c’è nulla, è vero — ammette un
finanziere che quelle intercettazioni le ha ascoltate più d’una volta —
maqualche epiteto che i signori della grande politica si rifilano a vicenda se
finisse sui giornali potrebbe essere davvero imbarazzante». Chi insulta chi,
però, il finanziere non lo vuole dire. Per visionare le intercettazioni
trascritte, gli avvocati dovranno salire al settimo piano del palazzo di
giustizia di Milano, alla stanza nove, che sarà sorvegliata da due
carabinieri inchiodati davanti alla porta, mentre un’altra decina di militari
blinderà l’intero ultimo piano del tribunale che non potrà essere
raggiunto «specialmente dai giornalisti».
Molti dei legali
hanno confidato che si terranno alla larga,
non quelli di Consorte, l’ex numero uno di Unipol che sta combattendo la sua
personale controffensiva e che conD’Alema, al telefono, di cosine ne ha dette
un bel po’. Le operazioni avranno inizio non appena, questa mattina, il perito
incaricato dal gip Clementina Forleo avrà terminato di fare le copie da
mettere a disposizione dei legali. Documento d’identità alla mano, e
senza macchine fotografiche, scanner, cellulari o registratori nella borsa, i
legali potranno entrare e sguainare, se vorranno, penna e taccuino. Potranno
quindi prendere appunti con calma, e per tutto il tempo che servirà
loro. Al limite, potranno anche trascrivere le telefonate che dovessero
reputare interessanti per la difesa del loro cliente, ma di certo mentre lo
faranno avranno addosso gli occhi di un cancelliere e della stessa gip Forleo,
che per tre giorni, ovvero per il tempo di permanenza previsto del materiale
che scotta nella stanza nove, ha deciso di cambiare ufficio e trasferirsi
lì dentro.
Voci non confermate
raccontano anche della presenza di un ufficiale di
polizia giudiziaria, ma è probabile che la formula sia stata rivista
proprio dopo la decisione del gip di trasferirsi nella stanza della
consultazione. Comunque sia, trascorsi i tre giorni, la stanza-cassaforte
sarà smantellata e le consultazioni delle telefonate potranno proseguire
per qualche giorno nell’ufficio della Forleo. Poco più in là e
senza carabinieri all’uscio. Dopo di che il gip fisserà un’altra udienza
in cui le parti potranno sollevare eventuali rilievi sul materiale studiato, e soltanto
allora verrà deciso quali delle 73 telefonate distruggere e per quali
inviare al Parlamento l’autorizzazione all’acquisizione agli atti del processo.
11 giugno 2007
Bufera su Gustavo Selva,
il senatore di An che sabato ha finto un malore per farsi trasportare da
un'ambulanza negli studi de La7 superando così tutti gli ostacoli al traffico
causati dalla visita di Bush a Roma.
Il ministro della Salute Livia Turco è
stata durissima, e non ha lesinato aggettivi: «Vergognoso, irresponsabile e
indegno». «Mi auguro - ha aggiunto il ministro - che le autorità competenti verifichino se un tale
comportamento non configuri ipotesi di fatti illeciti, sia in sede civile che
penale. Dobbiamo infatti pensare che il bilancio di questa arrogante goliardata
poteva anche essere tragico nel caso in cui, e poteva accadere, un'altra
persona avesse avuto realmente bisogno di quell'ambulanza».
Dal centrosinistra si è levato un coro con la richiesta di una
censura dal presidente del Senato, ma anche dal leader del suo partito,
Gianfranco Fini. E la vicenda potrebbe avere sviluppi davanti alla
magistratura.
A raccontare l'episodio è stato lo stesso Selva, in diretta,
durante la trasmissione dedicata alla visita di Bush. Il parlamentare di An è rimasto bloccato in piazza del
Parlamento visto che il centro di Roma era chiuso al traffico. Inutili le
insistenze del senatore con gli agenti di Polizia perchè permettessero il passaggio ad un taxi
o alla vettura dell'emittente. Niente da fare, Ed ecco il colpo di genio:
Selva ha finto di sentirsi
male e si è fatto portare dall'ambulanza a via
Nogaro dal suo cardiologo: in realtà
alla sede de La 7. «Un trucco da vecchio giornalista per farmi portare qui», si
è vantato in diretta Tv.
La notizia, pubblicata
oggi dai quotidiani, ha suscitato l'indignazioni di molti parlamentari. Roberto
Giachetti (Dl) ha chiesto al leader di An di condannare il suo senatore. Anche
il senatore verde Tommaso Pellegrino ha chiamato in causa Fini, ma anche il
presidente del Senato Franco Marini, a cui chiede di prendere «i dovuti
provvedimenti di censura». E il capogruppo del Prc al Senato, Giovanni Russo
Spena, ha chiesto la censura da parte di An e dell'intera Cdl. Numerosi voci si
sono levate dai colleghi senatori di Selva. Diversi di essi, come Massimo
Villone (Sd), hanno sottolineato che atteggiamenti del genere «confermano che
quella della politica è diventata ormai una casta a tutti gli
effetti». Mentre da un parlamentare della Repubblica, ha rimarcato il leghista
Roberto Calderoli, «dovrebbero invece arrivare il buon esempio». «Selva si
scusi pubblicamente in aula», hanno chiesto cinque senatori dell'Unione,
Francesco Ferrante e Andrea Ranieri (Ulivo), Loredana De Petris (Verdi), Nuccio
Iovene (SD), Tommaso Sodano (Prc).
Impietoso Piergiorgio Stiffoni (Lega): «A 65 anni bisognerebbe andare in
pensione». E il verde Angelo Bonelli ha chiesto alla magistratura di aprire
un'inchiesta. A fronte dell'imbarazzato silenzio di An, una voce in difesa di
Selva si è levata dalle file di Fi. Quella di
Francesco Giro che ha assicurato: «Gustavo Selva è un uomo integerrimo e se i fatti si
sono svolti come ci vengono oggi riferiti dalla stampa chiederà senz'altro scusa».
Il direttore generale
dell'Ares-118 del Lazio, Vitaliano De Salazar, ha avviato una inchiesta
amministrativa interna sulla vicenda che ieri ha visto protagonista il senatore
Gustavo Selva «per le azioni doverose e opportune». «Quanto è accaduto ci lascia una grande
amarezza - ha detto Vitaliano De Salazar - domani mattina convocheremo i
responsabili per fare una relazione al presidente Marrazzo per le azioni
doverose ed opportune». «Ieri, come tutti sanno, - ha ricordato De Salazar - è stata una giornata che ha visto
l'Ares 118 e tutto il suo personale impegnata in un superlavoro. Oltre ai 600
soccorsi ordinari, infatti, è stata aggiunta la grande tensione per
la gestione del piano di difesa sanitaria legato alla visita del presidente
Bush a Roma, con 50 mezzi dedicati». «Rispetto agli accadimenti di ieri - ha
aggiunto il direttore - non ci sono parole da parte di chi, come noi, è impegnato in un lavoro così delicato, strategico e vitale, come
l'emergenza sanitaria: quanto è accaduto ci lascia un grande
amarezza. Posso dire che il personale del 118 ha dimostrato, come accade tutti
i giorni, correttezza tempestività e professionalità ». «Ho comunque convocato per domani
mattina - ha concluso - i responsabili di tutti i servizi coinvolti, al fine di
stilare una dettagliata relazione al Presidente Marrazzo per le azioni doverose
ed opportune».
Il presidente della
Regione Lazio Piero Marrazzo presenterà un
esposto alla Procura della Repubblica contro il senatore Selva.
Marrazzo: «Ho già chiesto al direttore dell'Ares 118
Vitaliano De Salazar una relazione dettagliata sull'episodio che ha visto come
protagonista il senatore Gustavo Selva e che attendo per domani mattina. Ho
chiesto di procedere con la massima urgenza e accuratezza per verificare se
corrisponde al vero che il senatore Selva abbia utilizzato ieri, in una
situazione tanto delicata, un mezzo regionale adibito al soccorso pubblico per
fini di tutt'altro genere». «Posso solo affermare - aggiunge Marrazzo - che,
secondo le prime informazioni raccolte, l'episodio appare assai grave e suscita
una forte indignazione. Nell'attesa di conoscere appieno l'esatta dinamica
della vicenda posso soltanto dire che, se l'approfondita relazione del 118 che
ho richiesto confermerà le notizie frammentarie di cui adesso
dispongo, intendo presentare un esposto alla procura della Repubblica contro il
senatore Selva per tutti i reati che si possono configurare e per richiesta
danni».
ROMA ? UNA DENUNCIA alla procura di Roma
contro il senatore di An Gustavo Selva (nella foto Ansa) che sabato, in ritardo per la partecipazione a
una trasmissione televisiva e bloccato dalle misure eccezionali di sicurezza
per Bush, avrebbe finto un malore e si sarebbe fatto accompagnare da
un'ambulanza. "Se la relazione chiesta alle autorità
confermerà la vicenda ? ha detto il presidente della regione Lazio Piero
Marrazzo ? lo denuncerò alla procura. Ho già chiesto al direttore
dell'Ares una relazione dettagliata e urgente su un episodio molto grave e che
suscita una forte indignazione". In effetti la raffica di critiche al
comportamento di Selva ? raccontato da lui stesso durante la diretta tv su La7 ? non si
è fatta attendere. Durissima Livia Turco, ministro della Salute:
"Vergognoso, irresponsabile, indegno. Un senatore che rappresenta i
cittadini e che dovrebbe essere esempio di rettitudine e senso civico ha agito
in spregio del bene comune. E non può restare impunito". I SENATORI
dell'Unione, compatti, hanno condannato questo "episodio inqualificabile",
Rifondazione parla di "grave arroganza" e la Lega Nord, "censura
questa vicenda sconsiderata". A fronte dell'imbarazzato silenzio di An,
una voce in difesa di Selva si è levata dalle file di FI. Quella di Francesco Giro che
ha assicurato: "Gustavo Selva è un uomo integerrimo e se i fatti si sono svolti come ci
vengono riferiti dalla stampa chiederà senz'altro scusa. Ma i signori
della sinistra si diano una calmata".
Dodici anni fa a Parigi Alain Juppé ?
presidente del consiglio del primo governo nominato da Jacques Chirac dopo la
sua vittoria alle presidenziali del maggio 1995 ? annunciò un ambizioso
programma di riforme. Avrebbe cominciato con l'estendere ai dipendenti pubblici
la riforma delle pensioni che il suo predecessore, Eduard Balladur, aveva
introdotto per il settore privato. Ma durante l'estate, prima di metter mano
alle riforme, si occupò di riportare in equilibrio i conti pubblici. E
lo fece non intervenendo sulle spese, che aumentarono, ma con un sostanzioso
incremento della pressione fiscale, che salì in un anno dal 48 a oltre
il 49% del reddito nazionale francese. Quando in autunno Juppé affrontò
la riforma previdenziale venne travolto dallo sciopero dei ferrovieri e
costretto alle dimissioni. L'opposizione dei sindacati non fu sorprendente:
facevano il loro mestiere e la Cfdt addirittura appoggiò il progetto del
governo. Ciò che lo affondò fu il mancato sostegno della classe
media e della borghesia, che pure qualche mese prima avevano eletto Chirac con
un'ampia maggioranza. Poco lo aiutò l'indubbio merito di aver riportato
in attivo i conti dello Stato. (Il nostro ministro dell'Economia Tommaso
Padoa-Schioppa insiste ?anche nell'intervista di ieri al Tg1 ? nel tentativo di
convincere i sindacati ad appoggiare la sua riforma pensionistica. Non capisce
che, come Juppé, verrà travolto dai ceti medi del Nord, che già
lo hanno abbandonato, non dai sindacati. Ieri alla Nuova Venezia l'imprenditore
Mario Carraro, da sempre un leale sostenitore del centrosinistra, ha detto:
"Non esiste più alcuna sintonia tra chi ci governa e il Nord
dell'Italia"). L'esperienza di Alain Juppé è ben presente a Nicolas
Sarkozy che aveva osservato il naufragio di quel governo dall'esterno,
essendone stato escluso. E infatti la strategia del nuovo presidente è
radicalmente diversa. Grazie alla maggioranza parlamentare conquistata con la
grande vittoria di ieri, il primo passo consisterà in un'ampia riduzione
delle tasse destinata a favorire un po' tutti. Deducibilità completa
degli interessi sui mutui, forte riduzione dell'imposta sulla ricchezza, tetto
massimo del 50% alle imposte pagate a qualsiasi titolo dai cittadini,
eliminazione dei contributi sociali per le ore di straordinario. Il tutto prima
dell'estate. Le riforme, e in particolare la più delicata e importante,
l'unificazione dei contratti di lavoro, sono rimandate all'autunno. Il progetto
per il mercato del lavoro è intelligente, e non a caso Sarkozy ne ha
delegato l'ideazione a due dei migliori economisti francesi: Olivier Blanchard
e Charles Wyplosz. Il nuovo contratto offrirà garanzie crescenti nel
tempo: precari all'inizio, ma con la prospettiva di divenire dipendenti stabili
se con il passare del tempo il rapporto tra lavoratore e impresa dimostra di
funzionare. Conquistato l'appoggio del ceto medio con i tagli alle imposte ?e
anche quello di molti sindacati poiché la detassazione degli straordinari
favorirà l'occupazione ?Sarkozy sarà abbastanza forte da resistere
all'opposizione che in autunno le sue riforme inevitabilmente incontreranno.
Rimane un dubbio: il taglio delle tasse porterà per qualche anno il
deficit francese in zona-rischio e Bruxelles già si preoccupa. Ma che
importanza ha un deficit temporaneamente un po' più alto, se il
beneficio è una trasformazione radicale del mercato del lavoro francese?
Juppé aggiustò momentaneamente i conti, ma nei dodici anni successivi il
debito pubblico francese è salito dal 55 al 65% del Pil e le sue riforme
sono ancora tutte da fare.
Il Vaticano e la Casa Bianca ritrovano la
sintonia che Giovanni Paolo II aveva guastato criticando la guerra preventiva.
Benedetto XVI chiede protezione per i cristiani in Iraq, e in patria la difesa
dei valori etici cattolici Mimmo De Cillis Roma Difendere i cristiani in Iraq e
in altre parti del mondo. L'imperativo dal sapore crociato risuona nei palazzi
vaticani, nello studio dove papa Ratzinger incontra George W. Bush, per
chiedergli di diventare un bastione della cristianità. L'accorata
richiesta di aiuto a Bush non è certo dispiaciuta, impegnato
com'è nella sua lotta personale contro il terrorismo e nell'arginare
l'estremismo islamico che ormai dilaga in Medioriente, in special modo in Iraq.
In terra irachena le minoranze cristiane stanno effettivamente soffrendo un
clima di minacce, intimidazioni e violenze che non ha precedenti in quella che
resta la "terra di Abramo", dove i cristiani hanno una tradizione ben
più antica dell'islam e dove, comunque, hanno sempre convissuto senza
problemi interreligiosi. Così Benedetto XVI ha cercato conforto e
appoggio nel potente di turno che passava a fargli visita: tempestiva come non
mai la presenza Oltretevere del presidente americano che in Iraq ci sta ancora
con tutti e due i piedi, e con un bel po' di responsabilità dell'attuale
instabilità politico-sociale. E Bush - che ricorda sempre di essere un
cristiano evangelico Born again - ha assicurato al papa che gli Usa faranno il possibile
per proteggere le minoranze cristiane in Iraq. Anche perché Ratzinger ha
espresso "la sua inquietudine profonda", come ha riferito lo stesso
Bush. "Gli ho promesso che cercheremo di fare in modo che la Costituzione
irachena sia rispettata", ha detto il presidente, nonostante la manifesta
impotenza che gli Usa stanno dimostrando nel caos iracheno. Per il resto la visita di
Bush in Vaticano ha ricalcato un copione prevedibile, con scambi di sorrisi,
con un Bush disteso (al punto di compiere l'ennesima gaffe, chiamando il papa
"signore") e quasi commosso che ha raccontato: "Il Santo padre
è un uomo molto intelligente e compassionevole, sono rimasto veramente
colpito da questo incontro, è stata un'esperienza molto emozionante per
me". Confermando poi la sintonia profonda su tutti i fronti, specialmente
sulle "questioni morali e religiose odierne, come quelle relative ai
diritti umani e alla libertà religiosa, la difesa e la promozione della
vita, il matrimonio e la famiglia, l'educazione delle nuove generazioni, lo
sviluppo sostenibile", ha precisato il portavoce vaticano Federico
Lombardi. "Piena convergenza di posizioni", sulle questioni di politica internazionale è stata espressa anche nel colloquio fra Bush e il
Segretario di stato vaticano, Tarcisio Bertone. Agli Stati Uniti la Santa sede
ha chiesto poi impegno nella lotta all'Aids (Bush ha ricordato che il Congresso
ha aumentato gli aiuti da 15 a 30 miliardi di dollari annui), ma anche
all'altra malattia che affligge l'Africa, la malaria. Bush, da parte sua, ha
potuto vantarsi dei risultati del G8 ("un successo") e ha potuto
sfoderare le cifre degli aiuti elargiti dagli Usa per la fame nel
mondo, ritrovandosi a fare la parte del paladino delle preoccupazioni papali.
Peccato che proprio l'identificazione dei cristiani come filo-occidentali e
filo-americani - che già avviene in Iraq come in altre parti del mondo -
non fa che danneggiare le condizioni di vita delle minoranze (sottoponendole
alle pressioni degli estremisti) e costituisce un ostacolo imponente sulla via
del dialogo islamo-cristiano, faticosamente allacciato in tanti contesti in
Africa e Asia. Sta di fatto che i tempi del 2003, quando alla Casa Bianca il
Vaticano, contrario alla guerra in Iraq, destava più di un grattacapo,
sembrano ormai lettera morta. La Santa sede allora fu un ostacolo nella ricerca
di consenso internazionale degli Usa, diedero molto fastidio i numerosi appelli alla pace nonché le
argomentazioni per smontare il teorema della guerra preventiva sul piano del
diritto internazionale e della legittimità morale. Ma ormai è acqua
passata. Tutto è finito nel dimenticatoio. Un papa che ha come chiodo
fisso la difesa dell'Occidente e dei suoi valori non vede altra strada che
cercare l'appoggio, quand'anche fosse politico e militare, dell'unico stato
ancora capace di dettare legge (quella del più forte) nel mondo. Nella
logica manichea di Washington - che separa paesi amici e nemici - il Vaticano
è passato nella lista dei "buoni".
Il
Riformista 11-6-2007 Rifondazione si lecca le ferite di piazza di Ettore Colombo
l primo turno delle amministrative (i risultati del secondo si sapranno solo
oggi) è stato un mezzo disastro. Il “sit-in” di sabato in piazza del
Popolo, in occasione della visita di Bush, un flop imbarazzante e, per quanto
in parte annunciato, da far saltare i nervi ai più. I risultati della
presenza al governo non si vedono o sono parziali risarcimenti per una base che
ha “tirato la cinghia” per anni.
Ma Rifondazione comunista non può far altro che masticar amaro,
deglutire e cercare di ripartire. A due giorni dal corteo che ha sancito, di
fatto, la nascita di un nuovo soggetto politico radical-massimalista, e a
quattro giorni dalla presentazione del Dpef a partiti e sindacati, facciamo un
check-up di Rifondazione col ministro alla Solidarietà sociale Paolo
Ferrero e il capogruppo al Senato Giovanni Russo Spena.
«È vero, c’era molto popolo di Rifondazione, nel corteo indetto da
centri sociali, Cobas, trotzkisti e partitini comunisti vari, non ho nessun
problema ad ammetterlo», attacca Russo Spena, «e non solo per la presenza,
concordata, dei giovani comunisti e di qualche sezione sparsa o perché senatori
come Haidi Giuliani o deputati come Francesco Caruso e Daniele Farina hanno
deciso di andare là e sfilare con loro per creare “un ponte” tra le due
manifestazioni. No, c’erano compagni di base in carne e ossa: sabato ne ho
incontrati parecchi anch’io o l’ho saputo. Continuo a pensare che abbiamo fatto
bene a organizzare il sit-in, dove c’erano presenze qualificate di esponenti di
sindacati e associazioni, non solo dei partiti, anche se ci aspettavamo
qualcosa di più in termini di gente reale, ma abbiamo anche cercato
un’interlocuzione con l’altra piazza, nei giorni precedenti. I suoi leader,
però, vogliono lanciare un nuovo soggetto politico radicale e massimalista
alla sinistra del Prc e hanno cercato il massimo di separatezza».
Le
circostanze in cui nasce il governo Prodi sono singolari. Debutta mentre una
robusta onda espansiva sorregge l'economia mondiale e trascina l'Italia,
rimettendone in moto la crescita. Una parte delle imprese italiane asseconda e
intercetta questa opportunità, amplificandone gli effetti. Questa felice
congiuntura si affianca a una situazione preoccupante in termini di struttura.
La produttività globale del sistema Italia è bassa e la
capacità di competere è debole.
Il mercato finanziario non supporta adeguatamente la trasformazione necessaria
per rilanciare la crescita. La finanza pubblica è un problema. Eccesso
di spesa ed eccesso di pressione fiscale, una marcata inefficienza nella
erogazione dei servizi che si combina, amplificandola, con la bassa
produttività del sistema. Ipertrofia e inefficienza della macchina
pubblica amplificano il dualismo tra Nord e Sud. Il Nord reagisce alla
pressione fiscale eccessiva. Il Sud resta una economia sussidiata e incapace di
integrarsi davvero nel processo di convergenza europeo. Il governo lascia
irrisolte e aperte sia una questione meridionale che una questione
settentrionale. In questo clima si è consumato un anno. Sul terreno
politico, il governo nasceva da una maggioranza elettorale molto risicata. La
cosa più logica da fare era evidente ma la strada imboccata fu
radicalmente diversa. Bisognava creare condizioni di cooperazione e convergenza
sul terreno parlamentare, per alimentare una legislazione capace di dare corso
a riforme condivise, recuperando anche parte dei risultati ottenuti nelle
legislature precedenti, per la previdenza e il mercato del lavoro. Riforme
condivise avrebbero dilatato le opportunità offerte dalla congiuntura
internazionale. Non erano necessarie riorganizzazioni negli apparati
ministeriali e la estrema frammentazione delle deleghe ma una spinta efficace
che, in un clima di ragionevole continuità amministrativa, producesse la
elaborazione di progetti e programmi, finanziati dall'Unione europea, o
sbloccasse somme disponibili e impantanate nelle farraginose relazioni tra enti
ed organizzazioni del settore pubblico. Con poche emblematiche priorità.
Privilegiare la ripresa della crescita per chiudere il dualismo tra Nord e Sud
e garantire maggiore equità. Liberalizzare, riordinare le public
utilities, riproporre il merito e l'efficacia come valori guida per la
produzione di beni pubblici: sanità, educazione, valorizzazione del
patrimonio immobiliare controllato dallo Stato. Aprire partnership con i
privati per creare nuove infrastrutture. Comprimere la spesa pubblica,
razionalizzandone il contenuto, e rivedere il regime della previdenza.
La strada effettivamente percorsa è stata radicalmente diversa e si
è arenata in un cul de sac. In Parlamento, ostentando i muscoli, si
produce debolezza operativa. Nel medesimo tempo si è dato corso a un
eccesso di legislazione per decreto, annunci e intenzioni che sostituivano,
nella stessa agenda del governo, atti concreti di amministrazione. Troppi
decreti e disegni di legge, anche pregevoli, ma compromessi dal tono e dallo
stile di aperta contrapposizione in sede parlamentare, creano un freno oggettivo
per il cambiamento. Al quale si aggiunge l'erosione degli emendamenti promossi
dagli interessi corporativi costituiti: ostili alla liberalizzazione del
sistema e alla competizione. In una parola nemici del lievito della crescita
perché tenacemente interessati alla redistribuzione del valore esistente e alla
compensazione permessa dalla dimensione della spesa pubblica. L'impianto della
legge finanziaria, smentito oggi anche da Padoa Schioppa - che si accorge
dell'incremento della pressione fiscale effetto di quelle scelte - ha
finanziato queste erosioni mentre la disputa sul tesoretto, e i suoi impieghi,
è solo l'ultimo anello di questa catena. E oggi, infine, si vede come
riportare il Cipe nella presidenza del Consiglio, e spostare allo Sviluppo Economico
il Dps (Dipartimento per le politiche di sviluppo), combinandosi con la
superdelega fiscale a Visco, ha ridotto il Tesoro a meno di quanto contasse
prima della riforma di Ciampi e Bassanini. Una riforma che ne aveva fatto, al
contrario, la effettiva cabina di regia della politica economica. Tutto questo
- è solo una interpretazione - sembra essere accaduto per due motivi.
Una eccessiva attenzione ai dossier e non alle politiche da parte del
presidente del Consiglio, molta gestione e poca visione. Una coesione della
maggioranza che si regge solo contro l'altro schieramento ma che non ha alcun
motivo fondamentale per l'esserci. La conseguenza di queste determinanti
è il progressivo isolamento di chi, come Bersani, Damiano, Nicolais o la
Lanzillotta, avrebbero potuto, e forse voluto anche, agire nel solco dello
scenario virtuoso che è stato scartato imboccando la strada
dell'autosufficienza parlamentare. Un percorso che ha generato solo
fragilità: di azione e di elaborazione strategica.
Mercoledì scorso Il Sole 24 ore , il
più importante quotidiano economico italiano, ha pubblicato come notizia
principale della sua prima pagina la decisione del governo Prodi di trasferire
a un fondo dello Stato i depositi abbandonati nelle banche, noti come
"conti dormienti" e finora sempre trattenuti all'infinito. Molti altri
giornali hanno dato risalto alla notizia. E le associazioni dei consumatori
hanno esultato nel vedere finalmente affrontato un problema che può
riguardare tutti i cittadini. Pur in assenza di dati certi, si stima che le
somme congelate per decenni dai banchieri italiani possano ammontare a molti
miliardi di euro, accumulati in silenzio quando un cliente moriva
improvvisamente o perdeva le facoltà mentali senza aver prima informato
eredi e parenti su dove era depositato il suo patrimonio. Il denaro recuperato
verrà destinato a risarcire i risparmiatori a cui le banche hanno
rifilato obbligazioni-bidone (come Parmalat, Cirio o Argentina) e a favorire la
stabilizzazione di lavoratori precari del settore pubblico. Nell'aprile del
2001, quando il Corriere Economia sollevò tramite questa rubrica il
problema dei "tesori nascosti" nelle banche, l'argomento sembrava
misterioso e quasi tabù. Negli ambienti bancari si riusciva ad avere
qualche informazione solo informalmente e garantendo l'anonimato. Qualcosa si
mosse nel 2004, quando il quotidiano Financial Times di Londra scoprì il
problema dei "conti dormienti" nel sistema bancario britannico e pubblicò una stima
che li quantificava in ben 15 miliardi di sterline. Ma il ministero del Tesoro,
l'associazione delle banche Abi e, soprattutto, la Banca d'Italia di Antonio
Fazio continuarono ha opporre un rigido silenzio alle ripetute richieste di
informazioni e di interventi. La conoscenza del problema si è diffusa
lentamente. Alcuni deputati e senatori hanno poi portato il problema dei
"conti dormienti" in Parlamento. Varie associazioni dei consumatori hanno
iniziato a interessarsene intuendo che la reticenza delle banche poteva
bloccare per sempre i risparmi di incolpevoli e sfortunati cittadini.
Improvvisamente l'allora ministro dell'Economia di centrodestra, Giulio
Tremonti, dopo aver risposto negativamente a varie sollecitazioni,
cambiò idea e ruppe il muro di silenzio della Banca d'Italia di Fazio e
del sistema bancario sui "conti dormienti". Una serie di ritardi procedurali non gli hanno consentito
di realizzare l'operazione di recupero del denaro, che è stata ripresa
dal suo successore di centrosinistra, Tommaso Padoa-Schioppa, egualmente
pressato dalla necessità di nuovi introiti per puntellare la dissestata
finanza pubblica nazionale. La settima scorsa il ministro dell'Economia
è arrivato il via libera al conferimento dei "conti dormienti" in un fondo
dello Stato. Offshore non ha comunque dimenticato le resistenze e gli
ostruzionismi che negli ultimi anni hanno rimandato la risoluzione di un
problema che appariva scontata. Pertanto ritiene di ricordare che non tutto
deve essere considerato ancora completamente risolto. E' necessario seguire con
attenzione l'applicazione concreta del regolamento proposto da Padoa-Schioppa
per verificare se consentirà: l'effettivo "risveglio" di tutto
il denaro e i titoli in sonno nelle banche (a volte da decenni), la verifica
attraverso la Guardia di finanza che dei depositi non siano stati prosciugati,
la corretta destinazione dei soldi recuperati e, soprattutto, l'introduzione di
efficaci regole precauzionali in grado di impedire davvero alle banche di
trattenere in futuro i risparmi di cittadini morti o malati.
Le informative ai sottoscrittori saranno
garantite dal Tuf Prodotti assicurativi più trasparenti. Codificati
anche nel Tuf disposizioni comunitarie e regole Isvap in relazione
all'informativa da fornire ai sottoscrittori di prodotti finanziari
assicurativi e delle norme di condotta cui devono uniformarsi le imprese di
assicurazione nella commercializzazione di tali prodotti. Rientrano in tale
disciplina tutte quelle assicurazioni dall'elevato contenuto finanziario che
rappresentano una quota rilevante nella raccolta dei premi nel settore vita.
Con la legge 28 /12/2005, n. 262, (legge sul risparmio) e con il dlgs 29
dicembre 2006, n. 303 sono state introdotte modifiche nel dlgs 24 febbraio 1958
(Tuf) delegando nel contempo alla Consob il compito di apportare le necessarie modifiche regolamentari.
Più specificamente, con la delibera n. 15961 del 30 maggio 2007 è
stato modificato e integrato il regolamento in materia di intermediari
(adottato con delibera n. 11522 del 1° luglio 1998) anche con riguardo alla
distribuzione di prodotti finanziari emessi da banche e da imprese di
assicurazione. L'art. 25-bis, comma 2 del Tuf (Prodotti finanziari emessi da
banche e da imprese di assicurazione) ha esteso l'applicazione degli artt. 21 e
23 Tuf in materia di 'criteri generali' di condotta e norme in tema di
contratti, anche alla distribuzione, da parte delle banche, in fase di
emissione, di propri prodotti finanziari ed alla distribuzione di prodotti
finanziari emessi da imprese di assicurazione, a opera di 'soggetti abilitati'
e di 'imprese di assicurazione'. La scelta di estendere anche ai prodotto
finanziari assicurativi le regole di condotta già disciplinanti la
prestazione dei servizi di investimento è stata dettata essenzialmente
dal 'progressivo superamento, specie dal lato dei prodotti offerti e della
conseguente percezione dell'investitore, della tradizionale, rigida,
tripartizione del mercato finanziario nei settori bancario, assicurativo e
mobiliare'. A tal fine si è proceduto, per quanto possibile, ad
estendere a banche, Sim e imprese di assicurazione regole di condotta
già esistenti. Più specificamente, come precisato dalla stessa Consob nella relazione
illustrativa alla delibere:- la distribuzione di prodotti assicurativi
finanziari a opera di 'soggetti abilitati all'intermediazione assicurativa'
è stata disciplinata sul modello degli intermediari che collocano quote
di Organismi di investimento collettivo del risparmio (Oicr) e- la
distribuzione, da parte della stessa banca o dell'impresa di assicurazione emittente, dei propri prodotti
finanziari, è stata disegnata sul modello della 'commercializzazione
diretta' a opera delle Società di gestione del risparmio (Sgr), delle
proprie quote di Oicr. La commercializzazione dei prodotti assicurativi
è stata regolamentata nel rispetto della corrispondente normativa
comunitaria quale la direttiva n. 2002/92/Ce del 9 dicembre 2002
”sull'intermediazione assicurativa. Così nella lett. w-bis)
del comma 1, dell'art. 1 Tuf il dlgs n. 303/06 ha introdotto la nozione di
prodotti finanziari assicurativi mentre l'attività di distribuzione di
prodotti assicurativi è stata riservata agli intermediari italiani e
comunitari. Non possono invece iscriversi nel registro degli intermediari
assicurativi le sgr e le sicav. Nel regolamento intermediari è stata
introdotta una nuova Sezione III-bis, dedicata alle norme in materia di distribuzione
di prodotti finanziari emessi da banche e di prodotti finanziari assicurativi.
Le imprese di assicurazione dovranno dotarsi di idonee procedure per garantire
l'adeguata formazione, l'aggiornamento professionale e il rispetto delle regole
di comportamento anche quando operano per il tramite di reti distributive. Le
verifiche svolte devono, secondo quanto stabilito dall'art. 36-quinquies,
risultare da un rapporto annuale, redatto dall'unità organizzativa a
ciò delegata e da inviare all'Isvap entro 60 giorni dalla fine dell'anno
solare, dopo essere stato sottoposto, con eventuali osservazioni di merito, dal
responsabile dell'internal auditing agli organi amministrativi della
societàÉ 'ponendosi in tal modo in evidenza la necessità per le
imprese di assicurazione di dotarsi di idonee procedure di controllo delle loro
reti di vendita. Importante in tal senso la correttezza e la rapidità
nel trasmettere le informazioni alla clientela. Dispone al riguardo il secondo
comma dell'art. 36-quater 'l'informazione É può essere fornita
verbalmente a richiesta del consumatore o qualora sia necessaria una copertura
immediata del rischio. In tali casi, l'informazione è fornita al
consumatore É subito dopo la conclusione del contratto di assicurazione (É) e
comunque non oltre i due giorni lavorativi successivi'. Prima di concludere
qualsiasi contratto avente ad oggetto prodotti finanziari assicurativi,
è fatto obbligo ai soggetti abilitati all'intermediazione assicurativa
precisare le richieste e le esigenze del contraente e le ragioni su cui si
fonda qualsiasi consulenza fornita su un determinato prodotto della specie. La
nuova normativa di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 36-quater e 36-quinquies
entrerà in vigore il 1° luglio 2007. In questo modo specifica la Consob nella relazione
illustrativa le imprese di assicurazione, dovrebbero avere un periodo di tempo
necessario per conformare pienamente la propria operatività e le proprie
procedure alla nuova disciplina.
Il
Corriere della Sera 10-6-2007 FRANCO VENTURINI Dialogo su Basi più
Chiare
La
Repubblica 10-6-2007 RISCHIOSO ELOGIO DEL NOSTRO PREMIER EUGENIO SCALFARI
La
Stampa 9-6-2007 La mappa del popolo no-global . Di Igor Mann
La
Nuova Sardegna 10-6-2007 Simone Veil, il coraggio dell'autonomia
Qualche giorno fa abbiamo scritto che l'Italia d'oggi ricorda
quella del 1992: lo stesso disgusto per gli affari dei partiti, la stessa
noncuranza della classe politica per i segni della tempesta che si sarebbe
abbattuta di lì a poco sulla sua testa. Qualcuno ha osservato che il
confronto è improprio. Non esiste un partito, come allora la Lega,
pronto a cavalcare l'indignazione popolare. E non esiste un gruppo di procuratori
convinti di poter provocare, con gli strumenti della loro professione, la
rivoluzione morale del Paese. È vero. I confronti sono quasi sempre
parziali e imperfetti. Ma a me sembra che la situazione sia per certi aspetti
peggiore e proverò a spiegarne le ragioni.
Nel 1992 molti italiani capirono che la crisi non era un semplice incidente di
percorso e che non poteva essere risolta con la formazione di un nuovo governo
e la nascita di qualche nuovo partito. La corruzione e gli scandali erano i sintomi
esterni di una crisi costituzionale che aveva investito l'intero sistema
politico. La Carta era invecchiata e la Costituzione materiale aveva
progressivamente creato un Paese in cui il potere dello Stato e degli organi
autorizzati a esercitarlo era stato usurpato da partiti, sindacati, interessi
corporativi, famiglie professionali e criminali, istituzioni pubbliche non
legittimate da un pubblico mandato come, per l'appunto, l'ordine giudiziario.
Il fatto stesso che un organo tecnico come la Banca d'Italia abbia fornito al
Paese, da allora, due presidenti del Consiglio, un presidente della Repubblica,
due ministri del Tesoro e un ministro dell'Economia, dice meglio di qualsiasi
analisi quanto grave e profonda fosse la malattia del sistema politico italiano.
Non bastava quindi cambiare governi. Occorreva rifare la Costituzione. Furono
inutilmente create due commissioni bicamerali. Vennero esaminati e dibattuti
tutti i sistemi costituzionali delle maggiori democrazie occidentali. Fu
tentata la strada parlamentare con una riforma costituzionale del
centrosinistra e una riforma più incisiva del centrodestra. Ma la prima
è parziale e difficilmente applicabile, mentre la seconda è stata
distrutta da un voto popolare frettoloso e disinformato. Il risultato è
zero. La classe politica ha buttato via quindici anni della Repubblica per
girare attorno a un problema che non aveva alcuna intenzione di affrontare con
metodo e coraggio. Non è tutto. Quindici anni dopo gli scandali di
Tangentopoli scopriamo che questa classe politica sta facendo esattamente il
contrario di ciò che dovrebbe fare. Anziché lavorare al governo del
Paese e alla riforma dello Stato occupa il potere come un territorio
conquistato e sta elargendo a se stessa, come certi ecclesiastici alla vigilia della
Riforma, sinecure, prebende, manomorte e vitalizi. Anziché suscitare rispetto
per le istituzioni e incarnare la dignità della cosa pubblica,
preferisce la piazza o gli studi televisivi al Parlamento. E quando decide di
partecipare a una seduta, tratta l'Aula come un chiassoso refettorio
scolastico. Certe esibizioni parlamentari degli scorsi giorni dimostrano che
parecchi politici hanno ormai perduto il senso della realtà e non
capiscono quali sentimenti questi spettacoli stiano suscitando nella società
italiana.
Danno la sensazione di pensare che la politica sia rissa, alterco, scambio
d'ingiurie o, più semplicemente, dichiarazioni irresponsabili e
irriflessive, rilasciate a caldo di fronte a un microfono per segnare un punto
contro l'avversario del momento. Si battono per la conquista o la conservazione
del potere, e non si rendono conto che stanno perdendo il Paese.
10 giugno 2007
ROMA
- "Il flop di piazza del Popolo? Bene, benissimo. Così diventa
sempre più evidente: Giordano, Diliberto & company sono dei
conservatori, forze del passato remoto, residui di ideologia. Con l'innovazione
non hanno nulla a che spartire. Ecco perché non li segue più
nessuno". Sindaco Cacciari, però il governo Prodi si regge anche
grazie a loro. "Oggi è così. Che altro vuoi fare, con i
numeri che abbiamo? Siamo costretti. Per questa legislatura. Perché nella
prossima mi auguro che il nodo venga sciolto una volta per tutte. Il Partito
democratico deve smetterla di andargli sempre dietro, fanno zavorra". Non
sarà invece che l'anti-americanismo non paga più?
"L'anti-americanismo è un flop in sé. Ma se parliamo della reazione
ad una politica imperiale, anzi ad una cattiva politica imperiale, e
cioè quella di Bush, allora anche in America ormai il 70 per cento della
gente manderebbe a casa il presidente. E questo io non lo chiamo
anti-americanismo, vuol dire anzi far del bene agli Stati Uniti. Figurati
perciò in Europa. O nella sinistra europea: siamo al 90 per cento
anti-Bush. Quindi se al sit-in a piazza del Popolo non arriva nessuno, non
è certo perché la gente ama il presidente degli Usa". Perché,
allora? "Ma perché Rifondazione sceglie stilemi politici vecchi,
decrepiti, che non andavano bene nemmeno ai tempi dell'Ungheria, di Praga,
dell'Afghanistan. Immaginiamo oggi. Quella di piazza del Popolo era la
manifestazione di una minoranza dei conservatori". Minoranza, perfino?
"Certo. Perché, ovviamente, i veri conservatori non li becchi, perché
stanno dall'altra parte. E non becchi nemmeno i no-global, i disubbidienti, che
infatti stavano per conto proprio. Possiamo dire tutto il male possibile di
Casarini, ma almeno qualcosa di nuovo l'hanno portato: un bisogno della
politica, del desiderio, dell'utopia, chiamatela come vi pare". La
sinistra radicale ha perso il rapporto con i movimenti? "Ma radicale de
che? Blocca il rinnovamento del welfare. Ferma le riforme istituzionali. Mette il
bastone fra le ruote alle liberalizzazioni. La chiamano sinistra, questa, e
pure radicale? Comunque, il rapporto con i movimenti non l'hanno mai avuto.
Andate a chiedere a Casarini che ne pensa di Rifondazione. Ripeto: non pescano
né a destra né a sinistra". Però i voti li hanno pescati, il
cantiere di sinistra conta 150 parlamentari. "Gli rimane qualcosa
aggirandosi fra i cascami dell'ideologia. Ma soprattutto resistono ancora
grazie alle cappellate altrui. Del Pd in primo luogo". Non sarà che
a recitare il doppio ruolo di sinistra di lotta e di governo alla fine si paga
pegno? "Berlinguer era di lotta e di governo. Ma le manifestazioni del suo
Pci erano oceaniche. Allora, come la mettiamo? No, non c'entra nulla. Anche
perché una forza di innovazione dovrebbe sempre essere un partito di governo
responsabile e al tempo stesso guardare oltre, alto. Che altro erano i nostri
padri costituenti? Puntare nell'Italia del '46, devastata dalla guerra, alla
piena occupazione, era un programma di lotta e di governo". Teme, dopo il
flop piazza del Popolo, una sinistra più dura rispetto al governo?
"Può darsi. Ma, diciamo la verità, questo governo è
sempre ostaggio di qualcuno. Se non è Mastella è Di Pietro, se no
c'è Diliberto, ecco Giordano e il balletto ricomincia da capo. Prodi
è meno leader. Ormai, siamo in zona Cesarini. Dobbiamo giocare tutti
all'attacco. E' l'unica speranza di riuscire a fare un gol prima che l'arbitro
fischi la fine della partita". Come si mette la palla in rete? "Una
Finanziaria per i settori produttivi. Welfare rivolto ai giovani, anche per
garantire le loro pensioni future. Liberalizzazioni. E un Partito democratico
federale. Al nord come al sud. Mi spiegano sennò come faccio io a fare
politica se devo stare con Rifondazione?".
Quando si concluderà la vicenda del governo Prodi i
ministri delle «liberalizzazioni » Pier Luigi Bersani (Attività
produttive) e Linda Lanzillotta (Affari regionali) ne usciranno a testa alta.
Ma serietà e impegno di singole personalità non possono compensare
una squadra che non funziona. Le liberalizzazioni dovevano avere due scopi.
Mostrare la capacità e la volontà del governo di introdurre forti
cambiamenti (con il passaggio — epocale — dalla tradizionale protezione delle
corporazioni all’attiva difesa dei consumatori); dovevano poi essere la prova
della vocazione riformista del costituendo Partito democratico. Ma il progetto
si è sfilacciato per strada, con molti arretramenti sostanziali.
Qualcosa forse alla fine resterà ma sarà troppo poco per salvare
sostanza e immagine di quella politica.
Si è visto che cosa è accaduto. La liberalizzazione
dei servizi locali su cui ha lavorato la Lanzillotta è andata a sbattere
contro il muro delle lobbies locali, dell'opposizione sindacale e dei veti
della sinistra estrema. Un compromesso al ribasso (Boitani, Sole 24 Ore del 7
giugno) ne ha svuotato gli aspetti innovativi lasciando i servizi locali sotto
il tallone del regime pubblicistico.
Né miglior sorte tocca alle liberalizzazioni di Bersani che,
peraltro, l'estate scorsa (quando il ministro ne varò, con decreto, la
prima tranche) fecero crescere per un po', nel Paese, i consensi per il
governo. Ora, in aula, a colpi di emendamenti, il progetto si va decomponendo:
«rinazionalizzazione » dell'acqua, stralcio della norma sull'abolizione del pubblico
registro automobilistico, cedimenti a quasi tutte le corporazioni colpite.
Probabilmente, al termine dell' iter parlamentare, quando il provvedimento
verrà approvato, i risultati appariranno modesti. E pochi i vantaggi per
i consumatori.
Vari fattori hanno favorito il risultato. Non solo i veti
sindacali e della sinistra estrema. Ha contato probabilmente anche il fatto che
i ministri delle «liberalizzazioni» non sono stati sostenuti con l'impegno che
un'impresa così difficile avrebbe richiesto dal presidente del
Consiglio. Per giunta, in un clima di indebolimento dei consensi, molti
deputati della maggioranza sono diventati ancor più sensibili di prima
all' influenza delle lobbies colpite.
A parte gli effetti sulla sorte di un governo che sembra comunque
vicino al capolinea, due sono le principali conseguenze del mesto tramonto
delle liberalizzazioni. La prima riguarda i riflessi negativi
sull'identità del Partito democratico. Mentre la politica fiscale del
governo ha compromesso, forse irreparabilmente, il suo rapporto con il Nord del
Paese, la fine della breve stagione delle liberalizzazioni svuota di
credibilità la promessa «rivoluzione » che doveva mettere i consumatori
al centro dell'azione politica. Che razza di pedigree riformista potrà
domani esibire il Partito democratico di fronte agli elettori?
La seconda conseguenza riguarda l'opposizione e le sue ben note
ambiguità in tema di liberalizzazioni. I deputati della maggioranza che
lavorano all'affossamento delle liberalizzazioni sono spalleggiati da deputati
dell' opposizione anch'essi impegnati a difendere corporazioni varie.
L'opposizione nel suo insieme, probabilmente, tornerà al governo appena
si voterà di nuovo. Per demerito del centrosinistra più che per
meriti propri. Senza neppure bisogno (purtroppo) di dare chiarimenti sul perché
non ci fu alcun impulso alle liberalizzazioni all'epoca del governo di
centrodestra e su che cosa intenda fare al riguardo nella prossima puntata.
09 giugno 2007
Tra uomini di governo
vedersi per due ore dopo aver passato insieme due giorni non sempre è
assurdo. Può accadere, come è accaduto ieri a Prodi e a Bush
entrambi reduci dal G8, che l'incontro bilaterale abbia una valenza diversa da
quello multilaterale, che serva a riportare il sereno in un rapporto turbato da
qualche nube, che ricordi a tutti le ragioni di una amicizia solida ma non
subalterna. I colloqui di Bush con Napolitano e con Prodi, al di là dei
temi trattati e certamente al di là delle dimostrazioni non oceaniche
che hanno accolto il Presidente Usa, servono a lanciare tre messaggi. Alla
destra per smentire le strumentalizzazioni che dipingono l'Italia come un
pericoloso covo di comunisti e di anti-americani. Alla sinistra radicale per
ribadire scelte di fondo cui essa si è liberamente associata entrando
nella maggioranza. Alla sinistra moderata per confermare che le alleanze tra
democrazie lasciano spazio all'autonomia dei giudizi, come sanno del resto la
Merkel e Sarkozy (lo si è visto al G-8) oltre al semi-recuperato
Zapatero. Sono questi i messaggi che dovrebbero stemperare da oggi la nostra
endemica litigiosità sui temi di politica estera. Ed è nella
piena consapevolezza di questi messaggi che si è svolta ieri la tanto
attesa verifica bilaterale italo-statunitense. Forse troppo attesa, a giudicare
dai ripetuti ringraziamenti di Bush e dall'impegno profuso da entrambe le parti
nell'evitare l'emergere del benché minimo disaccordo, vicende Omar e Calipari
incluse. Ma se l'atmosfera ha risentito di un eccesso di buonismo, è
risultata egualmente agevole l'individuazione dei prevalenti interessi comuni
che legano i due Paesi. Il caso Mastrogiacomo non è stato evocato in
pubblico e probabilmente nemmeno in privato, così come non risulta che
sia stato ribadito da Bush l'invito ad ampliare l'impegno militare italiano in
Afghanistan. Ma su questi temi gli orientamenti di Washington sono ben noti, e
lo stesso Presidente americano ha preferito porre l'accento sulla questione
fondamentale che da noi troppo spesso viene dimenticata: l'Italia è in
Afghanistan, il governo in carica vuole rimanerci anche se alcune sue
componenti masticano amaro, e un ritiro italiano sarebbe un disastro per tutta
la coalizione. Dunque, grazie e continuate. Le opinioni sulla crisi
mediorientale talvolta non coincidono, ma l'Italia è stata determinante
nello schieramento di Unifil II in Libano. Sul Kosovo la volontà di non
umiliare la Serbia è più presente agli italiani che agli
americani, ma le nostre forze svolgono un ruolo essenziale nei Balcani e anche
sul Kosovo gli obbiettivi finali coincidono. Dunque, grazie e continuate. E poi
c'è la convergenza (fino a quando non si parlerà di uso della
forza) sulle risposte da dare alle ambizioni nucleari dell'Iran, c'è un
interessante accenno di Bush alla politica italiana verso la Siria dove
è da poco stato il ministro D'Alema, e il giudizio negativo sull'Iraq
che l'attuale maggioranza ha sempre espresso non incide più di tanto ora
che censure ancor più severe prevalgono in America. Evitando
accuratamente gli scogli, insomma, Prodi e Bush sono riusciti a restituire il
primato a quella tela di fondo dei comuni interessi strategici che ancora oggi
contraddistingue il rapporto italo-statunitense. Bisogna dedurne che ogni
increspatura tra Roma e Washington è definitivamente sepolta, e che non
ce ne saranno di nuove? Certamente no. Ma almeno sono state create le
condizioni perché il dialogo tra Italia e Stati Uniti possa ripartire da basi
più chiare. Senza l'obbligo di essere sempre d'accordo. E con l'aggiunta
di tre messaggi che si spera giungano a destinazione.
LA LOGICA vorrebbe
che, dopo l'invereconda gazzarra inscenata dalla destra in Senato durante il
discorso di Padoa-Schioppa sul caso Visco-Speciale e di fronte alla fondata
ipotesi d'una resurrezione del governo Berlusconi, i dissenzienti di sinistra
astenutisi al primo turno delle elezioni amministrative domani tornassero in
massa alle urne. Ma esiste ancora la logica? Mi viene in mente una celebre
battuta di Woody Allen: "Vorrei tanto iscrivermi ad un circolo per potermi
espellere un minuto dopo". Molti dissenzienti e astenuti del
centrosinistra ragionano esattamente a quel modo, perciò temo che
diserteranno anche questa volta. Lo temo non tanto per le sorti del governo,
che non sono in discussione nei ballottaggi di domani, ma appunto per la sorte
della logica che dev'essere fuggita a nascondersi in qualche soffitta o in
qualche scantinato. * * * Nel frattempo il popolo degli "autonomi",
piccoli imprenditori e artigiani concentrati soprattutto nel Nord, insorge
contro gli "studi di settore", cioè contro le tasse,
cioè contro Visco, Prodi e Padoa-Schioppa, nell'ordine. Il ministero
delle Finanze ha aumentato i parametri degli studi di settore che le categorie
interessate non accettano definendo l'aumento insopportabile, vessatorio,
offensivo. Minacciano di non pagare gli aumenti. Reclamano una moratoria,
cioè un condono e il ritiro dei nuovi parametri. La protesta riguarda
più o meno 4 milioni di soggetti e un gettito stimato all'incirca in 3
miliardi e mezzo più elevato di quanto fin qui incassato dal Fisco. Si
tratta dunque di una massa notevole di contribuenti e di elettori. Fin qui la
loro sponda politica è stata soprattutto la Lega e Forza Italia; ma la
loro protesta ha trovato ora udienza anche nella Margherita, nei Ds e in alcuni
sindaci di centrosinistra del Nord e della Puglia. Lo stesso Visco del resto ha
deciso di ammorbidire la stretta riconoscendo che una parte delle rimostranze
degli "autonomi" meritano di esser prese in considerazione. Lo
pensiamo anche noi, per quel tanto che può valere l'opinione di osservatori
indipendenti. Ci sono molti casi tra i piccoli imprenditori e tra le imprese
artigianali che non sono in condizioni di sopportare nuovi incrementi fiscali.
I giornali ne hanno dato ampia notizia nei giorni scorsi; si tratta di casi
così detti "marginali" per i quali l'amministrazione aveva
già disposto criteri specifici prima che la protesta collettiva
esplodesse.
Secondo stime
attendibili i casi "marginali" coinvolgerebbero mezzo milione di
contribuenti, ma ora sembra di capire che anche gli altri 3 milioni e mezzo
saranno in qualche modo alleggeriti dall'aggravio inizialmente previsto. Ci
auguriamo che questo basti ad eliminare il conflitto tra il Fisco e i
contribuenti, ma non ne siamo affatto sicuri. Quanto al maggior gettito, sulla
base delle nuove valutazioni risulterà "alleggerito"
anch'esso: si prevede che scenderà dai 3 miliardi e mezzo a 1 e mezzo.
L'intera questione merita tuttavia qualche ulteriore osservazione. Capisco che
si tratta d'un terreno minato sul quale è impervio incamminarsi, ma ci
sembra doveroso farlo se non altro per stanare quella famosa logica della quale
abbiamo già fatto cenno dalle soffitte dove si è nascosta. * * *
Le categorie degli "autonomi" alle quali si applicano gli studi di
settore hanno dichiarato per bocca dei loro rappresentanti (una ventina di
sigle riunite in una sorta di stati generali) di essere esasperate e anche
offese dal Fisco. Esasperate è comprensibile. Non sono le sole. Sono
esasperati i professionisti, le cosiddette partite Iva, gli agricoltori e
coltivatori diretti e insomma tutta la vasta platea di contribuenti le cui
imposte non sono trattenute alla fonte ma debbono emergere dalle dichiarazioni
dei redditi. Non so se anche i lavoratori dipendenti siano altrettanto
esasperati. Potrebbero esserlo perché il loro reddito viene tassato alla fonte
dai cosiddetti sostituti d'imposta, cioè dai loro datori di lavoro. Non
sfugge un solo centesimo alla tassazione dei lavoratori dipendenti. Esasperati
è dunque possibile, offesi certamente no: nessuno infatti può
sospettare che il reddito proveniente da lavoro dipendente possa essere evaso.
Ma poiché il reddito delle varie categorie di lavoro autonomo dipende "in
primis" dalle loro dichiarazioni, la logica ci dice che l'enorme evasione
e l'enorme "sommerso" sia annidano appunto nel piccolo commercio,
nella piccola impresa, nell'artigianato. Ecco perché gli "autonomi" oltreché esasperati sono anche
offesi: offesi dal sospetto di evadere le imposte, reato che ciascuna categoria
scrolla con sdegno dalle proprie spalle. Hanno ragione: infatti nessuno
può accusare i commercianti o i barbieri o i ristoratori o gli idraulici
o i medici di essere evasori in quanto categoria. Ma (aiutami logica!) poiché
gli evasori ci sono e sono una massa ingente, da qualche parte bisognerà
pur cercarli. Senza dire che l'evasione si annida spesso perfino nei bilanci
delle grandi imprese, nelle holding non quotate in Borsa, nel sistema dei
sub-appalti e delle sub-forniture, nelle false fatturazioni, nelle misteriose
società domiciliate nei paradisi fiscali. Tutti, assolutamente tutti, da
Tronchetti Provera all'ultimo barbiere di provincia e all'avvocaticchio di
paese, vogliono che l'evasione sia debellata una volta per sempre. Ma quando
l'Agenzia delle Entrate comincia a rovistare nell'ambito d'una qualsiasi
categoria o d'un qualsiasi bilancio per individuare l'evasore che vi avesse
fatto il nido, i lai si fanno altissimi, l'offesa diventa bruciante, il Fisco
viene visto come un invasore e prende corpo la minaccia dello sciopero.
Naturalmente fiscale. Che cosa sono gli studi di settore? Un metodo patteggiato
tra il Fisco e il lavoro autonomo. Il Fisco rinuncia a pretendere che il
lavoratore autonomo sia tassato sulla totalità del suo reddito per una
serie di giuste considerazioni: l'autonomo lavora personalmente, lavora senza
orario, le ferie e le malattie non sono ovviamente previste, non avrà
liquidazione visto che è al tempo stesso lavoratore e datore di lavoro.
Tutte buone ragioni per non toccarlo al cento per cento. Gli studi di settore servono
proprio a questo: individuano un livello d'imposizione che sia una percentuale
del reddito prodotto. Il problema dunque si sposta alla percentuale: dove va
messa l'asticella di un equo sconto fiscale? Al 10 per cento? Al 20? Al 50? Al
70? Il sommerso la mette al 100 per cento. Dunque il problema sta nella
valutazione dello sconto fiscale. Se esso compensa equamente i disagi del
lavoro individuale non c'è evasione; se supera di troppo il costo
stimato di quei disagi non si tratta più di compensazione ma di
evasione. Del resto ciascuno di noi ne fa diretta esperienza con gli artigiani
casalinghi, nel senso di quelli che vengono in casa a riparare i guasti. Avete
mai avuto una fattura registrata fiscalmente? Se l'avete chiesta certo l'avrete
ottenuta, ma cancellate quel lavoratore autonomo dalla vostra agenda
telefonica: non lo vedrete mai più. Può darsi che il problema sia
insolubile. Tremonti infatti non ci pensò nemmeno e andò avanti
con i condoni. Condonò tutto il condonabile mentre l'evasione fiscale
ovviamente cresceva. Prodi, Visco e Padoa-Schioppa hanno imboccato invece una
strada diversa per combattere un'evasione che viene stimata a dir poco a 300
miliardi di euro. Ne faremmo di cose se solo ne recuperassimo un terzo. Ma se
tutta Italia si ribella bisogna fermarsi. E questo è quanto. * * * Per
le liberalizzazioni vale più o meno lo stesso discorso. Le
"lobbies" non vogliono un mercato liberalizzato. Il governo di
centrosinistra ci prova (quello di centrodestra si dimenticò che il problema
esistesse e nessuno - dico nessuno - gliene fece carico). Le lobbies si
moltiplicano e si contano. Ci si accorge che sono una moltitudine. Ci si
accorge pure che, quando i provvedimenti arrivano in Parlamento, non c'è
un solo deputato o senatore di centrodestra che dia il suo voto a favore delle
leggi Bersani. Ci si accorge addirittura che perfino settori della maggioranza,
da quelli moderati a quelli radicali, contribuiscono ad annacquare. Ci si
accorge infine che i cosiddetti giornali indipendenti criticano - giustamente -
l'annacquamento e ne danno principalmente la colpa al governo. Anche qui: la
logica si è imboscata non so proprio dove e rifiuta pervicacemente di
venir fuori. * * * Ieri a Roma è stata la giornata di Bush. E dei cortei
contro di lui. Cortei pacifici ma con frange violente di difficile controllo.
La stampa, compresi alcuni giornali "indipendenti", ha attribuito al
governo l'eventuale responsabilità delle eventuali violenze. Il governo
è certamente responsabile, in casi come questi, di effettuare
un'efficiente prevenzione e attuare, se necessario, un'efficace repressione
proporzionata a livello di scontro con le frange violente. Ma che l'esistenza
stessa di frange violente venga ascritta a responsabilità di governo,
questo rappresenta un salto logico incomprensibile. A Rostock, tanto per dire,
in occasione di quest'ultimo G8 gli scontri tra i "Black Bloc" e la
polizia tedesca sono durati tre giorni lasciando sul terreno oltre ducento
feriti tra forze dell'ordine e dimostranti. Nel frattempo la Merkel e le
delegazioni del G8 discutevano in un castello sede della riunione di clima, di
Trattato europeo e anche di scudo spaziale americano e missili russi, di crisi
africana e di altri non trascurabili problemi che affliggono il pianeta. Nessun
giornale o telegiornale ha imputato al governo tedesco e al suo Cancelliere il
fatto che esistano giovani violenti che utilizzano eventi internazionali come
vetrina per le loro teppistiche imprese. Ai governi, lo ripeto, si chiede di
tutelare gli ospiti, garantire la regolarità degli incontri diplomatici,
prevenire e reprimere le violenze con efficacia e ponderazione. E se
riusciranno in questi obiettivi alla fine gli si riconosce il merito dovuto. *
* * Chiuderò queste note con qualche breve considerazione politica. La
sinistra radicale, principalmente Rifondazione comunista, si sente per la prima
volta lambita dalla disaffezione dei suoi elettori. Da questo punto di vista le
recenti amministrative non sono andate affatto bene. L'effetto sembra esser
stato quello di suggerirle un'ulteriore radicalizzazione politica soprattutto
in vista del Dpef, della trattativa sulle pensioni e dell'impiego delle risorse
disponibili. Lo stesso presidente della Camera, terza carica istituzionale
dello Stato, si è sporto assai più di quanto la carica gli
consentirebbe su questi temi e su altri ancora i quali, senza eccezione,
dovranno poi esser tradotti in atti legislativi e quindi affidati al dibattito
e al voto della Camera guidata dal suo presidente. Apprezzo l'eloquenza e la
rettorica (nel senso scolastico del termine) di Bertinotti e ne apprezzo
altresì alcune intenzioni e ragionamenti di lunga prospettiva, ma non ho
cessato di ripetere che egli viola troppo spesso la discrezione del suo dire
che la carica istituzionale dovrebbe imporgli. Così facendo reca danno
all'immagine sua e, quel che è peggio, dell'istituzione che presiede.
L'onorevole Rutelli, vicepresidente del Consiglio e leader della Margherita, ha
molto accentuato dopo le elezioni amministrative e il loro magro risultato,
certi suoi atteggiamenti di spiccato riserbo e anzi di critica sulla politica
del governo, sulla laicità del futuro Partito democratico, perfino sulle
leggi Bersani e sulla vicenda Visco-Speciale. Un leader di partito può
ben avere ed esprimere pubblicamente riserve sul governo di coalizione cui
appartiene; ma un vicepresidente del Consiglio può e deve farlo
autorevolmente soltanto in sede di governo. Fuori da quella sede non dovrebbe e
valgono le stesse ragioni che ho usato nei confronti del presidente della Camera.
Si dirà che si tratta di ragioni formali. Lo stesso si diceva un tempo
da parte dei comunisti contro chi difendeva le libertà borghesi. Si
è visto poi che in pratica nulla è formale e tutto è
sostanziale. Mi verrebbe infine da concludere facendo un elogio di Romano Prodi
per la sua tenacia che può a volte sconfinare nella testardaggine. Ha
innumerevoli difetti, Romano Prodi. Ma tiene. Se cadrà prima del tempo
il ruzzolone metterà l'intera sinistra col sedere per terra e non
gioverà in nulla al paese che riavrà Berlusconi per un altro
tempo indefinito. Mi auguro perciò che Prodi continui a tenere e metta
mano finalmente agli effetti positivi del suo programma di governo lasciando al
Partito democratico la libertà di nascere purché senza ipoteche. Neppure
la sua.
Buonasera!
Roma è piena di lapidi che io chiamo lapidi cicatrici. A doler di
più sono due in particolare: quella che ricorda la morte di Giorgiana
Masi, 18 anni, carina, fragile, uccisa a Roma a Ponte Garibaldi non sappiamo
tuttora da chi durante i moti, diciamo così, del '77. L'altra lapide
cicatrice ricord in Via Fani ricorda l'assassinio di Aldo Moro e della sua
scorta. Il marmo che rammenta quella strage della quale sappiamo tutto e nulla,
è stata imbrattata da una scritta in vernice rossa "Bush =
Moro". A parte lo sfregio vigliacco dirò subito che codesta equiparazione
è idiota. Bush crede nella guerra veicolo della democrazia, Moro
aborriva le armi. L'ho conosciuto bene, mi onorava della sua stima, l'ho
seguito nei suoi viaggi da ministro degli Esteri, e posso dirvi che era davvero
una colomba. Da buon cristiano (si veda Papa Wojtyla) lavorava per la pace pur
ironizzando sui cosiddetti pacifisti stradali. Era convinto Moro che la guerra
non risolve, è un'avventura senza ritorno. Non credo che quella
sverniciata idiota la si debba ai "no global" ai cosiddetti "figli
di Seattle" detti così perché si affacciarono alla ribalta della
nostra ineguale cultura proprio a Seattle, in quella città remota la
variopinta tribù globale fece naufragare il vertice del WTO,
l'Organizzazione Mondiale del Commercio, col quale WTO Clinton pensò di
inaugurare la nuova era tecnologica. Più che a una opposizione, a una
alternativa o a un movimento, quello dei "no global" assomiglia a un
popolo, ha scritto sulla nostra Stampa Filippo Ceccarelli. Un minuscolo popolo
che è cresciuto dentro la società non solo americana e che ogni
tanto si raduna in qualche luogo del mondo per qualche giorno ansioso di
ritrovarsi e riconoscersi come è l'Italia mistura capace di contestare
il mostro della omologazione. In definitiva un popolo a parte che vive in un
mondo che lui sa come sia o dovrebbe essere.
Una data di formazione esatta di questo movimento che si rifà alle
contestazioni del '68 a Cleveland o a Berkley una data esatta non l'abbiamo, ma
il popolo di Seattle debutta a Seattle giustappunto nel dicembre del 1999 mandando
a pallino l'iniziativa, sia pure interessante, di Bill Clinton. Oggi la mappa
dell'antagonismo, cosiddetto, grazie al web copre l'intero mondo sviluppato
unendo spesso i partiti della sinistra a sinistra, agli ecologisti i movimenti
di liberazione del Sud-America, ai luddisti gli anarchici, ai cristiani
integralisti, agli squatter, il guru dei "no global" è lo
scrittore Von Chomsky, il loro artista, l'unico e solo, è Kate Haring
www.haring.com.
I neo global o i no global si somigliano tutti, ma sono sempre tutti
completamente diversi. Sono una sorte di piramide post-moderna con differenti
chiavi di lettura. Dal vetero stalinismo al "People Global Action -
PGA" il sito italiano. In Italia dire G8 porta dritti alla tragedia di
Genova del luglio 2001. Tragedia perché morì ammazzato un giovane neo
global Carlo Giuliani, figlio di una persona onorata, già studente
universitario e non male, un giovane che decide di non dar più esami, di
vivere libero. Anarcoide ma non violento a 17 anni la prima denuncia: violenza
e resistenza a pubblico ufficiale. Di ragazzi come lui è piena l'Italia
è piena Roma. Li trovi sempre con i cani appresso in Campo dei Fiori,
magari a Piazza Navona dove fingono un numero di varietà per qualche
euro. Lui, Carlo Giuliani, si vuole fosse stato tentato dai black block, gli
anarchici neri che possiamo definire un movimento post-anarchico sfasciatutto.
Le nostre solerti autorità sapevano di poter controllare la visita di
Bush, temevano soltanto i black block.
Sono un fenomeno abbastanza recente, esiste un nocciolo duro che va in giro per
il mondo a caccia di casini. Per sfasciare quello che gli capita sotto mano, in
Francia li chiamano casseur, appunto. Ebbene i casseur hanno aggredito il
corteo pacifico contro Bush all'altezza di Campo dei Fiori ed è
importante sottolineare che è stata la gente del corteo pacifico a dare
una mano ai poliziotti reagendo alla provocazione degli anarchici neri.
A Roma per gridare "Bush no war" "Niente guerra Bush" sono
convenuti giovani da ogni parte, spinti dalla pulsione oramai diffusissima
della aggregazione. Nell'estate del Giubileo a Tor Vergata non c'erano soltanto
i "papa boys" ma anche giovani qualsiasi, giovani e basta, gioiosi di
far gruppo, di non sentirsi più soli, affamati di aggregazione, dunque,
i giovani venuti a Roma oggi vogliono sia pur confusamente i più,
vogliono giustizia, una briciola di serenità se non di felicità.
Per tutti, specie per i diseredati della Terra. Sognano, pretendono un
capitalismo dal volto umano e la loro protesta ancorché confusa, spontaneista,
senza paradigmi ragionati è una nobile protesta, tutto sommato. Il
nostro corrispondente da Washington, Maurizio Molinari, nella sua recente
intervista a Bush ha posto il problema della globalizzazione definendola una domanda
di democrazia forte e anomala. Ecco, è qui la forza del popolo di
Seattle mentre la sua debolezza è la violenza. E' però, la
violenza, viene da lontano, viene dalla contestazione di chi si vede relegato
ai margini del processo di globalizzazione culturale, politica ed economica. Da
qui il dovere del G8 di dichiarare guerra al determinismo selvaggio dello
sviluppo del sottosviluppo. Occorre far presto.
Buonasera!
Un tabloid berlinese
l'aveva dipinta come la novella Giovanna d'Arco, pronta alla crociata contro
gli sconvolgimenti climatici del pianeta. Già in aprile aveva promosso
un incontro tra i rappresentanti di 80 organizzazioni non governative (Ong) e i
delegati dei governi del G8, denominati "sherpa", per concordare
strategie e proposte. Ne era uscito un documento di sfida: "La
credibilità dei potenti al banco di prova", in cui si parlava di
Africa, di Aids, di clima, di commercio mondiale e di debito dei Paesi in via
di sviluppo. Bernd Pfaffenbach, "sherpa" di Angela Merkel, aveva dichiarato trionfalmente che la
cancelliera avrebbe puntato i piedi per "la radicale riduzione delle
emissioni di anidride carbonica (CO) nell'atmosfera". E la novella
Giovanna d'arco l'ha fatto. Ma ecco il risultato: gli otto grandi si sono
impegnati a "dimezzare entro il 2050 le emissioni di gas serra da parte
delle loro industrie". Questa misura del dimezzamento è ormai
classica. Anche alcuni obiettivi o "goal" del Millennio delle Nazioni
Unite prevedono un dimezzamento dei morti per fame o degli analfabeti nel
mondo. Ma la data fissata per il loro raggiungimento è il 2015, mentre
il G8 la fissa al 2050: in mezzo c'è una vita! Eppure la Merkel la considera una vittoria di cui
gloriarsi. Già perché Bush al suo arrivo ad Heilgendarm aveva fatto
capire che non si sarebbe fatto nulla, adducendo come argomento che era
necessario l'adesione anche di paesi come la Cina e l'India, già grandi
inquinatori sia per la loro estensione che per lo sviluppo rampante che
registrano. Come a dire: chi ce lo fare a ridurre l'inquinamento e a frenare il
nostro sviluppo, se altri continuano ad inquinare e a crescere? A ben ricordare
è successo già con il Protocollo di Kyoto, che pure prevede
impegni nella diminuzione dell'emissione di CO nell'atmosfera. Gli Stati Uniti,
prima non l'hanno firmato e poi vi hanno aderito nel 2005, ma in modo non decisivo.
Ebbene, anche ad Heiligendamm si è inserita una ripetizione che definire
malinconica è riduttivo. L'impegno a dimezzare le emissioni inquinanti
entro il 2050 non è vincolante bensì volontaristico e
compatibilmente con le rispettive economie. E chi stabilisce la compatibilità?
Ovviamente ogni paese a suo piacere. A onor del vero, la Merkel ha preannunciato di adoperarsi perché il
controllo sia posto nelle mani dell'Onu, ma oltre che essere un obiettivo di
là da venire, rimane l'eterno problema della capacità impositiva
delle Nazioni Unite. Esempi del passato non depongono a favore. Ma anche la
storia del G8 è più storia di dichiarazioni di intenti che di
risultati raggiunti e cogenti. Già nel primo vertice (allora G6)
svoltosi a Rambouillet, vicino a Parigi nel lontano 1975, ci si impegnava nella
liberalizzazione dei mercati per metter fine al protezionismo, che esiste
ancora, basta chiederlo all'Africa. Nello stesso vertice si parlava di ambiente
e di povertà in cui sono ridotti oltre un miliardo di esseri umani. Gli
argomenti si sono ripetuti e gli impegni ribaditi e specificati nei vertici
susseguenti. Per fare alcuni esempi: il G8 di Colonia del 1999 considerava
"I cambiamenti climatici una minaccia molto seria per lo sviluppo
sostenibile". Nel vertice di Gleneagles del 2005 si prometteva di
radoppiare da lì al 2010 gli aiuti pubblici allo sviluppo (Aps), ma
l'Oxfam recentemente ha giudicato "shoccante che gli aiuti del G8 ai paesi
poveri anziché aumentare sono per la prima volta diminuiti nel 2006". E
non parliamo delle promesse di azzeramento del debito, rispetto alle quali il
mondo è pieno di marinai. Il G8 appare a molti un organismo inutile.
Fuori dai denti, l'ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt l'ha definito
"evento mediatico" e "una chiacchierata fra amici attorno al
fuoco". Ci va di mezzo però il mondo intero, come ricorda
sinteticamente lo slogan coniato dai contestatori a Genova in occasione del
vertice del 2001: "Voi otto, noi 6 miliardi". Il fatto è che
l'impegno a diminuire le emissioni di CO nell'atmosfera è sincero solo
nella misura in cui si decide a cambiare modello di produzione, adottando
energie alternative e imboccando la strada suggerita dalla scuola di Wuppertal
e cioè dell'efficienza nella sufficienza o, come la chiama Aubrey Meyer,
della "contrazione e convergenza". In una parola, della cura
dimagrante e della produzione frenata. Ma vallo a dire a chi misura il livello
di civiltà con il metro del Pil! Ti rispondono come è successo a
me in un dibattito sul tema: "Mica siamo tutti francescani"!
Tra le altre, le
chiacchierate del luglio 2005 tra Gianni Consorte di Unipol e i vertici della
Quercia nei giorni caldi della scalata delle coop rosse a Bnl. Chi si aspetta
che Massimo D'Alema, Piero Fassino, il tesoriere Ugo Sposetti siano lì a
tessere trame illegali per far cadere Bnl nella rete della finanza rossa, si
sbaglia. Non c'è rilevanza penale per la nomenklatura del partito di
governo. Ma non è questo che allarma i ds. Il motivo di tanta ansia, ben
misurata dalle reazioni istintive all'inchiesta dell'attento Paolo Colonnello
sulla Stampa solo qualche giorno fa, ha cause più recenti. Cause che si
riversano in un contenitore che si chiama Partito democratico. Che nasce
claudicante, zoppo. A chi ha già sentito attentamente tutte le
conversazioni, parliamo soprattutto di investigatori, è balzato
all'occhio la faida interna che all'epoca montava tra gli interlocutori di Consorte,
tutti d'osservanza diessina. Parlando con l'ingegnere di Chieti tra loro si
smarcavano, lo pregavano magari di non farsi sfuggire niente con Fassino 'o
spilungone, di stare attento che il compagno Tizio è una testa di c...
mentre il compagno Caio manco parla bene e flirta con chi non deve. Assente
quindi la lettura penale delle conversazioni, ma che secondo la procura offre
una cornice politica che inquadra le relazioni di Consorte, tanto da chiedere
l'utilizzazione alle Camere. Lo psicodramma si nutre quindi di diversi
affluenti. Il primo: le telefonate creeranno fratture all'interno del Pd,
alimentando uno scontro che indebolisce fortemente i ds. Secondo: si
riapriranno ferite malcucite specie con gli amici della Margherita.
Chissà infatti che dirà Arturo Parisi che annunciava "il
ritorno della questione morale". Acuirà fratture scomposte come
quelle con Luca Cordero di Montezemolo, bistrattato da Piero Fassino. E si
rivitalizzeranno, soprattutto per le parole del segretario, i malumori tra ds e
Banca Mps. Del resto Fassino ragiona con Consorte da segretario politico che
vive con passione un'operazione amica ("Allora siamo padroni di una
banca?", "Allora prima portiamo a casa tutto"). Per questo
rilascia interviste a sostegno, improvvisa strategie comunicative con
l'ingegnere, si lamenta degli articoli del Sole24Ore. D'Alema assume un profilo
diverso. Il primo a chiamarlo in causa era stato addirittura, in un libro,
Marco Travaglio. Nell'autunno scorso disse che nelle
conversazioni tra Massimo e Gianni, il leader avrebbe avvertito Consorte che
questi aveva il telefono sotto controllo. D'Alema non smentì. E tutti
s'aspettano ora di leggere i testi delle telefonate. Staremo a vedere. Di
sicuro tra Massimo e Gianni corre un rapporto più profondo che tra Fassino
e Consorte. Tanto da spingere D'Alema a chiedere che la cordata Unipol rilevi,
come anticipato qualche settimana fa dal Giornale, la quota in Bnl del
parlamentare udc Vito Bonsignore. Cortesie da Transatlantico, si dirà.
Una sorpresa saranno invece le conversazioni con il tesoriere Ugo Sposetti,
incline a esprimere dure pagelle sui compagni di partito, e quelle con il
senatore Nicola Latorre, che subito dopo l'uscita delle prime intercettazioni
giurava che mai nella sua vita aveva passato il suo cellulare all'amico
D'Alema.
Insomma, i motivi di
questo psicodramma, che da domani lascia i contorni Telecom-Brasile per
diventare tutto nostrano, sono molti, troppi per cadere in una situazione
politica "sfrangiata", per usare un aggettivo caro a Clemente Mastella,
come quella di oggi. Con il risultato dei ballottaggi che si insinua in un
calendario perverso, con alle spalle le polemiche sulle pressioni esercitate da
Vincenzo Visco sui vertici della Guardia di Finanza. Ce n'è abbastanza
per uno psicodramma in piena regola. Del resto la proprietà, essere
padroni di qualcosa, figurarsi di una banca, è cosa indigesta per la
sinistra. Soprattutto se quell'operazione finì alla deriva sotto il
fuoco peggiore, ovvero quello amico. Infine, l'ultima incognita che non viene
dalle intercettazioni ma dal suo principale interlocutore. Ovvero Gianni
Consorte. Ha ripreso a lavorare. Gira tra Milano, Bologna e Roma. Si duole
delle ingiustizie patite. A tutti assicura che la storia non è finita.
Raccolte le prove, racconterà i retroscena della guerra su Bnl. Con
inevitabile coda di polemiche in pura salsa Pd. A iniziare da quelle con il
Bbva difeso da Guido Rossi. A proposito dell'ex presidente di Telecom, da
segnarsi in agenda il prossimo scandalo. Bolle in pentola, già
c'è stata qualche avvisaglia. Avrà ripercussioni su destra e
sinistra. Sedetevi comodi, si chiama proprio così: Telecom. gianluigi.nuzzi@ilgiornale.it
VENEZIA - Da una
settimana non fa che sfornare, con la sua Cgia di Mestre, dati e studi per
sostenere le ragioni degli autonomi in lotta con il fisco. E Giuseppe Bortolussi è diventato
la bestia nera del viceministro Vincenzo Visco. Eppure non è un uomo
della destra: 20 anni nel Pci e oggi assessore nella giunta di Massimo
Cacciari, non retrocede, nemmeno di fronte all'apertura del ministero sugli
studi di settore. Dice: "Con Visco ho fatto due campagne elettorali. Lo
conosco bene. Ha una visione dell'economia e dell'impresa vecchia. Per lui le
piccole aziende sono un fatto interstiziale, qualche cosa di malato, da
correggere. Non si rende conto che sono parte, e oggi anche la più
vitale, del Paese e che andando avanti così rischiamo di consegnarle,
mani e piedi e gratis, al centrodestra". Va bene, ma così si
finisce per giustificare l'evasione. "Macché. Qui si paga già
più del dovuto. E la pressione tributaria è nettamente superiore
a quella degli altri Paesi: 28% contro una media europea del 24". Ma anche
l'evasione è più alta. Come mai? "Perché siamo andati a
chiedere le tasse sempre agli stessi. Abbiamo aumentato le aliquote e chi non
paga ha continuato ad evadere, sempre di più". Ma la sua battaglia
è per eliminare gli studi di settore? "No, ma vanno cambiati. Li
abbiamo accettati obtorto collo, perché la costituzione impone che ognuno paghi
secondo quello che ha guadagnato, non secondo quanto è presunto che
guadagni. Abbiamo detto sì purché fossero concordati con le categorie
produttive e non fossero vessatori. E invece accade esattamente l'opposto: si
cambiano senza che venga concordato alcunché, si fanno medie di redditi
presunti che non hanno senso perché troppo generiche e, per giunta si chiede al
contribuente di dimostrare che non è vero quello che il fisco ha pensato
di lui. Ma dove siamo?". Visco dice che non è così. Sostiene
che i redditi scritti negli studi di settore sono solo indicativi e nemmeno
l'accertamento, dice, è automatico. "Non è vero. Se
l'amministrazione ti chiama, fa l'accertamento e dice che tu secondo quei
parametri dovresti avere guadagnato, mettiamo, 10 mila euro in più. Sta
a te dimostrare che non li hai guadagnati. Ma come si fa a invertire l'onere
della prova? Come si fa a dimostrare quel che non è successo? Ed
è proprio la legge che lo prevede". Insomma che cosa si deve
cambiare? "Prima di tutto si deve restaurare un clima di fiducia: non si
può andare avanti con la criminalizzazione di queste categorie". Ma
sono proprio queste che evadono, che presentano dati scandalosi con i
"padroni" che guadagnano meno dei dipendenti. "Se qualcuno
ritira fuori questi dati lo denuncio. Sono falsati. E poi è molto
frequente, soprattutto nelle piccole e medie aziende la ripartizione del
reddito tra più familiari". Ma lei chiede una resa.
"Nient'affatto: chiedo il rispetto di patti concordati a suo tempo,
proprio con il governo di centro sinistra che introdusse gli studi di settore.
E questa volta vorrei che tutte le promesse fatte a suo tempo venissero
rispettate: che fine hanno fatto la semplificazione burocratica e
l'eliminazione degli scontrini prevista nel '96?".
GEMONA DEL FRIULI E'
in pieno svolgimento "European Wind 2007", una tra le più
imponenti esercitazioni mai svolte nel Friuli Venezia Giulia che porterà
alla nascita del primo Battle Group europeo, forza di pronto intervento a
disposizione dell'Unione europea. Nei diversi poligoni lavorano gomito a gomito
2.500 militari di Italia, Slovenia e Ungheria con assetti specialistici,
artiglierie, componenti di sorveglianza aerea e di forze speciali assegnati
alla Multinational Land Force (Mlf), la brigata trinazionale
italo-sloveno-ungherese su base della "Julia", nata nel 2003 e di
stanza a Udine. L'unità è stata scelta dallo Stato maggiore come
capofila italiana del nuovo strumento militare comunitario: sta raggiungendo le
specifiche d'impiego richieste dall'Ue. La Commissione di Bruxelles aveva infatti espresso la
necessità di poter disporre, a rotazione, di 13 Battle Group e l'Italia
aveva aderito alla richiesta, prefigurando di poter formare e schierare, sempre
a rotazione, tre grandi unità. La prima è appunto l'alpina
"Julia" che, nella sua configurazione multinazionale, è stata
scelta per la sua struttura e l'esperienza maturata nelle missioni di pace nei
Balcani. Gli alpini friulani e i loro colleghi saranno a disposizione dell'Ue dal 1.o luglio per sei mesi. I Battle
Group sono lo strumento operativo di un nuovo concetto di sicurezza che prevede
l'invio di unità a livello brigata con breve preavviso (5 o 10 giorni, a
seconda delle circostanze) nei più diversi teatri operativi per
assolvere compiti vari: dalle missioni di stabilizzazione o di mantenimento
della pace alla risposta a catastrofi naturali, dalla cooperazione
civile-militare alla soluzione di crisi politico-militari. Il raggio d'azione
è di 6.000 km da Bruxelles, l'autonomia di 30-120 giorni. La nuova forza
di reazione rapida europea è costituita da componenti di Esercito,
Marina e Aeronautica sotto un unico comando, retto dal generale di brigata
Claudio Mora, comandante della "Julia", coadiuvato dai capi di Stato
maggiore sloveno colonnello Ivan Zore e ungherese colonnello Istvan Biro. Sono
sottoposti a valutazione circa 2.500 militari e 600 mezzi delle quattro Forze
armate italiane, con soldati sloveni e ungheresi, nelle aree addestrative di
Osoppo, Artegna, Gemona e nei poligoni di Rivoli Bianchi di Venzone, Tolmezzo e
del Meduna-Cellina. La Brigata è schierata con il suo Comando
multinazionale integrato da ufficiali della Marina e dell'Aeronautica,
indispensabili per coordinare i trasporti aerei, marittimi e le esigenze di
sostegno aero-tattico. Tra le opzioni è previsto che il Comando possa
operare anche da unità della Marina. La componente terrestre si articola
sull'8° reggimento alpini di stanza a Cividale del Friuli e Venzone, da una
compagnia del 3° battaglione ungherese di Debrecem e da una compagnia del 20°
battaglione sloveno di Celje. p.p.g.
A Sassari l'omaggio a
una donna ai vertici della politica europea Enrico Ferri, docente all'ateneo
sassarese, spiega gli obiettivi della giornata di studi di giovedì
prossimo COSTANTINO COSSU Il professor Enrico Ferri, docente di Filosofia del
diritto nella Facoltà di Lettere di Sassari, è l'organizzatore
della giornata di studi che giovedì della prossima settimana l'ateneo
sassarese dedicherà a Simone Veil. Con lui abbiamo tracciato il profilo
di una donna giunta ai vertici della politica europea. - Una giornata di studi
solo per celebrare Simone Veil? "No. Vuole essenzialmente essere uno
stimolo per comprendere meglio il contributo che questo personaggio ha dato e
dà alla storia del costume e della politica". - In quali ambiti
Simone Veil ha offerto un contributo importante? "In diversi. Il primo
è l'Europa, ma ancora prima a proposito delle relazioni tra gli Stati
europei, soprattutto fra ex-nemici, come Francia e Germania, all'indomani della
fine della guerra. Già poche settimane dopo la liberazione da Auschwitz,
una ragazza non ancora diciottenne, che usciva da un'esperienza terribile,
guardava avanti, come spesso ha fatto anche dopo, sostenendo la
necessità di una riconciliazione". - Dentro quali coordinate
politiche può essere collocata Simone Veil? "Qualsiasi categoria
politica sta stretta a Simone Veil. Lei ha detto più volte di collocarsi
in una prospettiva di centro-sinistra". - Ma i politici con i quali
è stata più legata, da Giscard a Sarkozy, appartengono all'area
di centro-destra. "Lei ritiene una politica di centro-destra essersi
battuta, come ha fatto la Veil, per le donne algerine detenute negli anni della
guerra d'Algeria? E ancora, di quale orientamento potrebbe definirsi lo sforzo
per salvaguardare i più in difficoltà, i messi ai margini: gli
immigrati, i detenuti, le donne per certe loro condizioni, i rifugiati? Simone
Veil non è classificabile attraverso schemi ideologici e politici
tradizionali. Gli stanno tutti stretti. Questa, del resto, è un'altra
sua caratteristica, quella di andare oltre gli schemi". - Anche la visione
dell'Europa propria alla Veil è così originale? "I principi
ispiratori dell'Europa di Simone Veil sono quelli che troviamo già nella
tradizione umanistica della Grecia e di Roma. L'idea di autonomia, per esempio.
Simone Veil ha esteso questo principio ad un intero continente. Un'Europa
libera, autonoma che sia il risultato di decisioni e di processi autonomi. Nel suo discorso di insediamento al
Parlamento europeo a Strasburgo, il 17 luglio 1979, Simone Veil affermò:
"E' essenziale che l'Europa possa determinare le condizioni del suo
sviluppo in maniera autonoma". - La storia recente della politica francese
mostra una certa diffidenza verso un'Europa che prenda il primato sugli Stati.
"Madame Veil, prendendo un congedo dal Conseil Constitutionnel, si
è schierata attivamente a favore dell'approvazione della Carta
costituzionale. Ha avuto di mira la prospettiva continentale, quella del
futuro. Ed è stata criticata da chi aveva in mente una prospettiva
legata a schemi del passato. L'Europa del futuro avrà bisogno di
un'identità non frammentata, dovrà giocare un ruolo non
gregario". - Ma perché un'Europa più unitaria e non piuttosto
l'Europa delle autonomie? "L'approccio di Simone Veil è assai
realistico. A Strasburgo, nel discorso ricordato, affermò con energia:
"Al confronto delle super-potenze, solo l'Europa ha la dimensione
dell'efficacia che non appartiene più, se presi isolatamente, a nessuno
dei suoi membri". Per Simone Veil l'unità dell'Europa è la
salvaguardia di tutte le autonomie, nazionali, personali". - Come si spiega
questa correlazione? "Per il semplice motivo che l'Europa di Simone Veil
è fondata, anche e soprattutto, su principi e valori che affermano e
tutelano le autonomie individuali e delle minoranze. Il discorso
dell'indipendenza, dell'autonomia, vale per l'Europa come per i singoli. Per
esempio, la Veil ha sempre sostenuto il diritto delle donne ad essere autonome,
di non dipendere economicamente e psicologicamente, di affermare la propria
autonomia come capacità di provvedere da sole a se stesse. Per questo
Madame Veil per molte femministe, per molte donne impegnate è un vero
"oggetto di culto"". - Parliamo di altri aspetti di questo
complesso personaggio della scena europea. Di un dato insieme personale e
storico: la deportazione ad Auschwitz, la tragedia della Shoah che travolse
pure la sua famiglia che uccise il padre, la madre, il fratello, assieme a sei
milioni di Ebrei. "Simone Veil, seppure ritiene importante testimoniare,
trasmettere, ripensare la esperienza sua e di tanti altri innocenti, vive
ancora in modo empatico la sua esperienza (privata, familiare, di popolo), la
vive con profonda emozione e sofferenza. Per questo motivo non le ho mai posto
domande su Auschwitz. Solo recentemente, lo scorso dicembre, pranzando insieme,
le dissi che stavo studiando la persecuzione nazista degli zingari. Lei, ad un
certo punto della conversazione esclamò: "Ad Auschwitz il loro
campo stava di fronte al nostro"". Del resto, il suo discorso all'Onu
del 29 gennaio scorso, comincia con queste parole: "Il tempo non può
niente; mi coglie sempre la stessa emozione quando prendo la parola per parlare
della Shoah"". - In che modo si collegano la vicenda personale della
Veil di perseguitata e deportata ed il suo impegno politico contro il razzismo
e l'intolleranza? "Tutte le scelte di fondo, tutte le linee che orientano
il suo progetto politico sono determinate, influenzate dalle sue vicende
personali. L'esperienza della deportazione, dell'attentato alla dignità
personale che essa determina, ha portato Simone Veil a battersi per tutta la
vita perché vengano meno le condizioni che possano permettere fenomeni simili.
"Il peggio è sempre possibile", bisogna essere avvertiti e
pronti". In che modo? "Parlando, raccontando, testimoniando la
propria esperienza, denunciando i meccanismi alla base dell'esclusione, dell'intolleranza.
Parlando soprattutto ai giovani, discutendo con loro. La trasmissione della
memoria, per Simone Veil, è un contributo alla presa di coscienza
individuale e collettiva". - Simone Veil sembra avere una speciale
considerazione per i "giusti", per quanti spontaneamente, in modo
disinteressato, correndo gravi rischi personali, salvarono dal 1942 al 1945
decine di migliaia di ebrei. "In anni oscuri i "giusti"
rappresentarono per Simone Veil un presidio della dignità e dell'onore
dell'Europa. Il simbolo vivente di persone che non si lasciarono contaminare
dall'orgia delle ideologie del tempo, mantennero una loro autonoma prospettiva
e agirono conseguentemente, da "giusti": in difesa della vita,
dell'accoglienza, di persone innocenti. Anche Simone Veil appartiene a questo
tipo umano, anche lei è una "giusta". Una "giusta"
di Francia e d'Europa; una donna libera, con un'alta dignità, sensibile
ed attenta alle vicende dell'altro". - Lei sembra avere una grande
ammirazione per questa donna. "Assieme a milioni di francesi ed europei. E
non solo. Ricordo la prima volta che l'invitai a Roma per ricevere un
riconoscimento dell'allora Presidente Ciampi, eravamo nel 2000, ci trovavamo
seduti nella Hall dell'Hotel Hassler. Alcuni tavoli più in là
c'erano due giovani signore, due Kennedy, le figlie di due noti senatori.
Quando la videro si alzarono e la vennero a salutare, in modo rispettoso ed
insieme affettuoso e caloroso". - Simone Veil ebbe un ruolo determinante
nell'approvazione in Francia della legge che rese legale l'aborto...
"Occorre dire che quella che viene impropriamente, almeno da un punto di
vista giuridico-politico, definita come "Legge Veil" è in
realtà la legge voluta dall'allora Presidente della Repubblica Giscard,
dal suo primo ministro Chirac, dal governo che essi rappresentavano e di cui
Simone Veil era ministro. Una legge voluta anche dai partiti d'opposizione, ma
soprattutto, da gran parte della popolazione francese, in particolare dalla sua
componente femminile. - Fu però soprattutto Simone Veil a farla
approvare con la sua determinazione. "Simone Veil prese atto che il
cambiamento del costume determinatosi nel corso del trentennio che seguì
la seconda guerra mondiale, modificando i rapporti personali e relazionali
anche in sfere come la sessualità, non poteva essere né ignorato né
represso, nelle sue conseguenze, semplicemente mantenendo in vita una
legislazione sorta in un altro contesto storico, culturale e sociale, una
legislazione che nessuno più rispettava da tempo, che quotidianamente
veniva violata e raggirata. Questa legge non impediva a 300 mila donne di
abortire clandestinamente in condizioni spesso prive di garanzie mediche,
igieniche, di un minimo di sostegno psicologico. Questo per Simone Veil era il
vero scandalo". - Lei prima diceva che la giornata di studio dedicata
Simone Veil vuol farla conoscere meglio, che vuol essere un contributo in tal
senso. Eppure è un personaggio di cui si discute da trent'anni.
C'è pure una voluminosa biografia a lei dedicata pubblicata lo scorso anno:
"Simone Veil, un destino", di Maurice Szafran. "è un
lavoro superficiale. Troppo attento all'aneddotica, alle note di colore, con
improvvisate introspezioni psicologiche, troppo preoccupato di stimolare
l'attenzione più esteriore del lettore. Lo stesso tentativo di tracciare
le coordinate del carattere di Simone Veil, mi sembra essere non di rado il
risultato di incomprensioni non di poco conto". - Ci può fare un
esempio di queste "incomprensioni"? "Il libro di Szafran comincia
così: "Un giorno Simone Veil fece questa confessione: quando mi
chiedono qualcosa, il mio primo riflesso è di rispondere no".
Szafran, a partire da questo spunto, tenta di costruire l'immagine di una
ragazza introversa, ribelle, poco disposta ai compromessi, insofferente
dell'autorità paterna, vivace fino all'eccesso. Poi quella di una donna
che conserva molti tratti di tale carattere. Io non so se Simone Veil abbia mai
pronunciato questa frase, ma leggendola mi viene in mente una sua affermazione,
in cui sostiene che in certi contesti quando prevale la violenza e la
sopraffazione per comportarsi in modo morale "bisogna sapere
disobbedire". Siamo grati a Simone Veil di aver detto tutti questi no,
dall'età di 17 anni. No all'intolleranza, all'ingiustizia, alla violenza
contro innocenti ed indifesi. Siamo grati a Simone Veil perché questi no li ha
ripetuti quando era ministro della Repubblica francese, quando era presidente
del Parlamento Europeo. Gli siamo riconoscenti perché anche oggi dice questi no
e siamo sicuri che anche domani continuerà a ribadirli e a
difenderli". - Che cosa si aspetta da una giornata di studi in omaggio a
Simone Veil? "Il rilievo scientifico dell'iniziativa è garantito
dal valore dei relatori. Per gli altri aspetti, mi permetta di riferire le
parole del Rettore Alessandro Maida che, commentando la concessione dell'alto
patronato del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha detto:
"Consideriamo il patrocinio che la più alta istituzione dello Stato
ci ha concesso, con le lusinghiere espressioni che lo hanno accompagnato, un
segno di apprezzamento e di stimolo, nonché una chiara manifestazione di
considerazione e stima per Simone Veil alla quale l'iniziativa è
dedicata. L'Università e la città di Sassari sono onorate di
ricevere Simone Veil in Sardegna ed impegnate ad offrirle un'accoglienza in
linea con la tradizione di ospitalità di questa terra"".
Lo scrittore si dice
scandalizzato dal gruppo con Catalano di Rc: "Solo per più
soldi" TRENTO. Gian Antonio Stella venerdì sera non ha fatto in
tempo a sedersi nello studio di Matrix, a Canale 5, che il conduttore Enrico
Mentana gli ha fatto la fatidica domanda a proposito di privilegi: "Tu che
per scrivere il fortunatissimo libro "la Casta" hai girato tutta
l'Italia avrai visto dei casi particolari, che ti sono rimasti in mente in modo
particolare?". Indovinate chi ha tirato in ballo, così, a freddo,
Stella? Ma sì, il Trentino: "C'è un certo
Andreotti...". E Mentana? "Andreotti? Non sarà...". E il
giornalista di Asiago, con lo sguardo furbo: "No, non quell'eh eh. Questo
è un consigliere regionale, sono 70, che per godere dei benefici di un
gruppo composto da almeno due persone si è messo assieme ad un altro.
Notare bene che Andreotti, pur avendo candidato come leader di una coalizione
di centrodestra, ha scelto un collega, tale Catalano, di Rifondazione
comunista". E via con gli appluasi e le risatone del pubblico di Matrix.
Insomma Stella con noi ce l'ha su, anzichenò. Attenzione, lo scrittore
è un maestro del genere reportage-inchiesta e questo (scusate la
personalizzazione) va detto preventivamente per evitare i suoi strali
telefonici, fatto già accaduto in presenza di una cronaca di chi scrive
non gradita all'inviato del Corriere. Ma non si può negare che per il
Trentino, per tutte le autonomie, abbia davvero un occhio di riguardo.
Attenzione che, al recente Festival dell'Economia, ha ribadito in un faccia a
faccia tra lo scrittore e il presidente Dellai. Si sono seduti ad un tavolo sul
far del mezzogiorno con due diverse idee. Poco dopo si sono salutati con le
stesse idee di prima. Gian Antonio Stella: "Non sono d'accordo sul fatto
di abolire le autonomie con un tratto di penna, come dice ad esempio Brunetta.
Però ci sono delle cose che vanno riviste". Lorenzo Dellai: "Mi
spiace che si parli della nostra Autonomia confondendo le cose e usando sempre
gli stessi luoghi comuni. Ma in questo contesto ci stanno anche le
eresie". Stella a sua volta ha riconosciuto che la gestione della cosa
pubblica che viene realizzata in Trentino è diversa rispetto a quella di
altre regioni, tuttavia ha insistito sulla necessità di riforme. (g.t).
(SEGUE DALLA PRIMA PAGINA)
DAL NOSTRO INVIATO Sono bastati meno di due anni in Cancelleria a
questa signora dagli occhi slavati e dagli abiti pastello per prendere in
Europa il posto che fu di Helmut Kohl: una forza tranquilla che sa imporsi ma
che sa anche mediare, convincere, sedurre se ce n'è bisogno. La cifra
personale, indubbiamente, è la stessa. Ma Kohl, per conquistarsi quel
ruolo, impiegò otto anni, dall'82 alla riunificazione delle due Germanie
nel '90. E le sue capacità di persuasione dei partner europei
coincidevano troppo spesso con la larghezza con cui apriva i cordoni della
borsa delle ricche finanze tedesche. Angela Merkel, invece, ha saputo
approfittare magistralmente del vuoto di leadership e dallo stato confusionale
in cui ha trovato l'Europa del dopo-Prodi. Ha lavorato con pazienza per
ricucire, almeno sul piano dei rapporti personali, la frattura tra Vecchia e
Nuova Europa che la guerra in Irak, la strategia neo-con americana e
l'alterigia del duo Chirac-Schroeder avevano scavato. Ed oggi è di fatto
l'unico leader europeo in grado di dialogare con i suoi ventisei colleghi
(tutti uomini) per cucire un nuovo compromesso sulla riforma dei Trattati senza
il quale l'Unione europea non ha alcuna speranza di uscire dal coma. Al summit
G8 di Heiligendamm, questa capacità di leadership della Cancelliera, fatta
di tenacia e di prudenza, di equilibrio e di fermezza, ha saputo arrivare ben
oltre la questione del clima, dove pure ha strappato un risultato modesto ma
che nessuno si sarebbe aspettato. Anche se ufficialmente non era uno dei temi
in discussione, il principio di disgelo tra Putin e Bush che si è
registrato sulle rive del Baltico è stato in buona misura il frutto
dell'equilibrio con cui Angela Merkel ha saputo sottrarre gli europei al
ricatto incrociato di Mosca e di Washington. Se si fosse schierata incondizionatamente
a favore del progetto missilistico americano reagendo alle minacce di Putin, se
avesse criticato polacchi e cechi per gli accordi bilaterali con Washington, o
se avesse mantenuto verso il Cremlino un atteggiamento meno fermo di quello che
ha assunto al recente vertice Ue-Russia di Samara, è probabile che russi
e americani avrebbero continuato a sfruttare il braccio di ferro sui missili
per giocarsi il cuore e l'anima degli europei, come avevano ricominciato a fare
da qualche mese a questa parte. Invece "il pulcino", come la chiamava
Kohl, è riuscita a tenere la barra del timone europeo facendo
chiaramente capire a Mosca e a Washington che l'interesse del Vecchio
Continente era comunque un altro, e precisamente la fine di questa nuova
"confrontation" tra i due blocchi. Il messaggio è
evidentemente passato, se proprio dall'incontro tra Bush e Putin a Heilgendamm
è ripartito un dialogo che solo alla vigilia del vertice sembrava
impossibile. In questa nuova Europa che sembra ritrovare brandelli dell'identità
perduta, la Merkel dovrà condividere il palcoscenico con il nuovo
presidente francese. Finora l'esordio di Nicolas Sarkozy è stato
più brillante che concreto. Ha proposto un corridoio umanitario per il
Darfur è si è fatto rispondere picche dagli africani. Ha
attaccato l'euro troppo forte, e la Banca centrale europea ha aumentato il
tasso di sconto invece di diminuirlo. Ha lanciato l'idea di una moratoria di
sei mesi per decidere la sorte del Kosovo, e nessuno gli ha dato retta. Ma
imparerà in fretta. E la sua esuberanza, accoppiata alla cautela e alla
concretezza della Cancelliera, potrebbero davvero ridare una spinta all'Europa.
La risposta a queste attese arriverà molto presto. Angela Merkel, che
finora ha dato prova di prudenza e di pragmatismo, sa anche prendere rischi
quando occorre. E al vertice europeo, tra due settimane, si giocherà il
tutto per tutto mettendo in palio il prestigio di un percorso finora
impeccabile. Se riuscirà a tessere un accordo ben definito per il nuovo
Trattato, che salvi una parte significativa delle conquiste che erano scritte
nella Costituzione, la Cancelliera consoliderà in modo inequivocabile il
suo ruolo di vero leader europeo. Se invece il Consiglio dovesse chiudersi con
un accordo ambiguo, o di basso profilo, "Angie" sarà chiamata
ad una scelta ancora più difficile: vivacchiare in una Ue senza
capacità politica, oppure andare fino in fondo e aprire una crisi
ponendosi alla guida del nocciolo duro, come le chiede di fare Romano Prodi.
Per una democristiana maestra del compromesso sarebbe una scelta straziante. Ma
se l'Europa imboccherà una strada o l'altra dipenderà, ancora una
volta, solo ed esclusivamente da lei.
La
stampa tedesca pressoché unanime ha elogiato ieri la cancel- liera Merkel per
l'accordo di compromesso strappato sul clima al presidente americano George
Bush e agli altri leader del G8 più restii a fare concessioni.
"Merkel festeggia un compromesso sul clima", titolava a tutta prima
pagina Die Welt (conservatore), che in un commento sempre in prima parlava di
"Trionfo della padrona di casa". La Bild, il quotidiano che con 12
milioni di lettori è di gran lunga il giornale più diffuso in
Germania, annunciava in grande pompa in prima di aver nominato Merkel
"Miss World", dove al posto della O di World vi è un globo
terrestre. Anche per il berlinese Der Tagesspiegel, "la cancelliera ha
puntato alto e ha vinto". Insomma, il vertice del G8 conclusosi ad
Heiligendamm si è rivelato un nuovo successo internazionale per Angela
Merkel, dimostratasi nuovamente abile mediatrice e politico saggio e intelligente.
La Merkel mostra di trovarsi più a suo agio sulla scena internazionale
che non su quella interna, dove la Grosse Koalition da lei guidata - pur
varando le riforme annunciate - non gode di eccessiva popolarità. In
realtà sulla difesa del clima va dato atto alla cancelliera
conservatrice di aver raggiunto tre obiettivi di massima: aver convinto gli Usa
ad accettare il principio delle riduzioni dei gas nocivi, aver fatto passare il
principio di porre il futuro negoziato sul clima sotto l'ombrello dell'Onu e di
aver convinto i paesi emergenti ad unirsi anch'essi nella lotta al
riscaldamento della Terra. Sugli aiuti all'Africa, la Merkel ha più
volte sottolineato la volontà degli Otto Grandi di tener fede agli
impegni presi due anni fa a Gleneagles, un obiettivo questo che si
accompagnerà al nuovo programma di aiuti per 60 miliardi di dollari per
combattere Aids, malaria e tubercolosi in Africa. Tutto ciò però,
ha osservato, non è sufficiente. Serve infatti una collaborazione da
parte degli stessi paesi africani, con un impegno dei rispettivi dirigenti a
continuare nelle riforme e a combattere la corruzione. Infatti ha annunciato
che a ottobre si recherà in Africa per visitare Etiopia e Sudafrica, e
si è deta a favore di un vertice tra Ue e Unione Africana. La cancelliera
ha commentato positivamente anche l'incontro con i cinque maggiori paesi
emergenti - Cina, India, Brasile, Messico e Sudafrica - ai quali ha lanciato un
appello a concludere al più presto il negoziato di Doha sul commercio
mondiale. Anche sul fronte delle manifestazioni, un tema che ha segnato
fortemente il summit di Heiligendamm, Angela Merkel ha mostrato saggezza ed
equilibrio. Pur condannando infatti senza attenuanti ogni forma di violenza
cieca contro le forze dell'ordine, la Merkel ha sostenuto la causa dei
manifestanti pacifici, dicendosi a favore di una "globalizzazione dal
volto umano".
Cara Europa, Bush è a Roma, amici anti-americani, ma non comunisti
sfegatati, mi chiedono di partecipare con loro alle manifestazioni di proteste.
Io non amo Bush, ma sono esitante, vorrei protestare senza scendere in piazza.
Datemi un consiglio.
ALESSANDRO DEBRAY, ROMA
Caro Debray, la sua perplessità è anche la mia e
l’ho risolta scrivendo una lettera all’ambasciata Usa e andandomene fuori Roma,
a respirare aria migliore. Con ciò voglio dire che non accettiamo Bush,
ma non lo identifichiamo con l’America.
Questa distinzione, per noi liberaldemocratici, è ovvia, non altrettanto
lo è per gli amici comunisti di cui lei parla.
Qualcosa della divisione del mondo è rimasta, magari inconscia, anche in
chi si proclama comunista non viscerale. Noi abbiamo guardato all’America come
all’altra faccia dell’Europa, e abbiamo concepito l’Atlantico come un mare
interno all’Occidente, e il Patto atlantico come l’unione delle due sponde.
Nella guerra fredda, mentre soffrivamo per l’espansione comunista (Corea, Cina,
Vietnam), ingoiavamo le prepotenze americane in Centro e Sudamerica “per
contenere il comunismo”. Ma l’America si compensava con la nuova frontiera di
Kennedy, con la grande società di Johnson, con l’antirazzismo di Martin
Luther King, con la destituzione di Nixon nel Watergate, con la terza via di
Clinton, con le leggi antimonopolistiche.
Purtroppo, i residui antiliberali della società americana (quella
puritana, violente, plutocratica) si sono riuniti nella presidenza Bush: dal
fondamentalismo religioso alla guerra preventiva e all’inquinamento del
pianeta.
Quest’America, che Bush verrà a raccontare a Berlusconi e a Ratzinger,
non sarà mai la nostra America.
Ma quella liberale non solo non possiamo dimenticarla, ma dobbiamo continuare a
pensarla come il risveglio della coscienza per la lotta ai mostri del nostro tempo.
Un’altra America è possibile, perché c’è già stata.
Possono perdere le elezioni, essere
inizialmente estromessi dai posti che contano, ma poi sono in grado di trovare
lo spiraglio giusto per non mollare la presa. I politici locali, insomma, ne
sanno una più del diavolo. E così in Toscana è capitato
che il forzista Alessandro Antichi, dopo aver perso nel 2005 la corsa alla
poltrona di governatore che lo vedeva opposto a Claudio Martini (Ds), sia
diventato consigliere regionale, ma soprattutto portavoce dell'opposizione.
Funzione, quest'ultima, che esiste solo in Toscana. E che grazie a una leggina
microscopica approvata dalla regione nel febbraio di quest'anno, fa scattare il
diritto a un'indennità più ricca del 10%.Il tutto mentre in
regione Rifondazione comunista alza le barricate contro una proposta di legge
che vuole la riduzione dei consiglieri regionali, già saliti in Toscana
da 50 a 65 a ridosso delle elezioni del 2005. Insomma, da destra a sinistra
sembra proprio che i bramini della politica non siano intenzionati a cedere il passo. Sta di fatto che
qualche mese fa già impazzava la polemica sui costi della politica, con la giunta di Martini che lanciava la crociata contro gli sprechi. La legge che disciplina il trattamento
economico di consiglieri regionali e assessori toscani, la numero 47 del 1983,
fissa l'indennità di base nel 65% dell'indennità dei parlamentari
nazionali. Ovviamente a questa base si devono aggiungere gli incrementi
derivanti dall'indennità di funzione (il governatore e il presidente
dell'assemblea, per esempio, integrano il trattamento con un 25% in
più). E qui sta il giochino portato a termine dalla legge del febbraio
scorso. Con un articolo unico di quattro righe, infatti, il portavoce
dell'opposizione è stato inserito tra le funzioni che meritano
un'indennità aggiuntiva del 10%. Ricavando, in questo modo, lo stesso
trattamento che prima era riservato 'solo' al segretario del consiglio, al
presidente di commissione e al presidente di gruppo consiliare. Insomma, allo
sconfitto dell'opposizione, due anni dopo, è stato riconosciuto una
sorta di risarcimento postumo. Che poi quella del portavoce dell'opposizione
è proprio una figura particolare, nata in conseguenza del 'toscanellum'.
Ovvero del sistema elettorale che, grazie a un'intesa tra centro-destra e
centro-sinistra, di fatto ha anticipato il 'porcellum', il vituperato sistema
elettorale con cui si è andati a votare alle politiche del 2006. Con gli
esiti tristemente noti. In Toscana l'accordo bipartisan ha naturalmente
prodotto effetti a cascata, tra cui anche l'aumento dei consiglieri regionali
da 50 a 65. In questo contesto Antichi si era presentato alle elezioni del 3 e
4 aprile del 2005 nella Cdl per sfidare Martini. Eletto comunque consigliere
regionale, in quanto secondo candidato con il maggior numero di voti dopo lo
stesso Martini, grazie a una norma dello statuto regionale è stato
nominato portavoce dell'opposizione. 'Questa figura è stata studiata sul
modello inglese, nel quale simbolicamente il leader dell'opposizione prende un
penny in più del premier', ha detto Antichi a ItaliaOggi, facendone una
questione di democrazia. E rilanciando: 'Un 10% in più è anche
poco, perché qui in Toscana la sinistra ha occupato militarmente tutti i posti
possibili. In questo contesto l'opposizione deve avere una voce'. Ma in
Inghilterra costa tutto di meno, dalla regina al parlamento. 'E va bene, se
vogliamo mettere anche il mio 10% in più tra i costi della politica facciamolo', ha avvisato Antichi, 'ma secondo me è solo un
costo della democrazia'. La stessa espressione, curiosamente, è stata
usata l'altro ieri in un comunicato dal gruppo consiliare di Rifondazione per
opporsi al taglio dei consiglieri: 'La democrazia ha un costo che va sostenuto
con convinzione. La questione è migliorare la democrazia, e non la si
migliora riducendo il numero dei consiglieri'.Che tutti capiscano: la casta
è più unita che mai.
Nelle società
finite male anche il ligure Balocchi, ex sottosegretario dai nostri inviati
Marco Menduni e Ferruccio Sansa Roma. Almeno in un campo la par condicio
funziona. Se oggi il partito di Umberto Bossi stigmatizza, con le sue
interpellanze, l'introduzione delle "mangiasoldi" nei Bingo e prepara
addirittura un libro bianco sul sistema di scatole cinesi messo su dal centrosinistra
per controllare il tombolone elettronico, in passato il Carroccio subì
la stessa, violenta fascinazione. Ma anche alla Lega andò male. Forse
ancora peggio che ai compagni di sinistra. I documenti su questa avventura sono
al vaglio della Guardia di Finanza che sta ricostruendo l'enorme giro di affari
che gravita o è gravitato intorno ai Monopoli e alle società
concessionarie dei giochi. Un sistema da cui avrebbero cercato di trarre
beneficio anche i partiti, proprietari direttamente o indirettamente
di alcune società concessionarie. Gli investigatori si chiedono:
"Ammesso anche che non ci siano profili di illegalità, siamo sicuri
che i partiti in quanto tali possano partecipare
direttamente ad attività imprenditoriali che richiedono concessioni e permessi
da parte degli organi dello Stato?". La storia di oggi è incentrata
su un personaggio politico ben conosciuto in Liguria e soprattutto nel
Tigullio: Maurizio Balocchi, che è stato sottosegretario all'Interno con
Berlusconi. Anche Balocchi (un nome che sembra scelto apposta), protagonista di
una serie di avventure imprenditoriali non coronate da grandi successi, fu
tentato dal tombolone. Scommessa tentata con un gruppo di amici, alcuni
esponenti del Carroccio, altri comunque gravitanti in quell'area politica. La società si chiamava Bingo.Net,
la "risposta padana" all'asse diessina che faceva perno sulle
federazioni di tutta Italia. Non andò benissimo a Balocchi. I Monopoli
non gli concessero il via libera per aprire le sale a Rapallo e soprattutto a
Chiavari (dove, ricorda un'interpellanza del senatore Aleandro Longhi del 19
febbraio 2002, Balocchi era anche presidente del consiglio comunale) e lui
aprì contenziosi amministrativi davanti al Tar. A Genova non andò
meglio. Lo stesso Longhi denunciò che la sala aveva aperto "in modo
abusivo in quanto mancante di concessione edilizia, di cambio di destinazione
d'uso dei locali, di certificato di prevenzione incendi, di nulla osta relativo
all'inquinamento acustico, di certificato di abitabilità nonché di autorizzazione
sanitaria per i locali di ristorazione". E rimarcò la poca
"eleganza" di un sottosegretario contemporaneamente gestore di sale
Bingo. La sala di via Donghi chiuse poi i battenti. Ma di chi era la Bingo Net,
che, dopo cambi di sede, trasformazioni societarie, procedure fallimentari
è oggi in liquidazione? Tra i proprietari che si dividono i diecimila
euro del capitale sociale spiccano Maurizio Balocchi (6.500), Enrico Cavaliere
(mille) e Mauro Damian (mille). Bisogna ora raccontare qualcosa del loro
curriculum. Cavaliere fu compagno di avventura di Balocchi nella tentata
impresa immobiliare leghista a Punta Salvore, in Istria. Cavaliere, poi
diventato presidente del consiglio regionale veneto, fu progettista del
complesso. Come investitori (nella Ceit srl) figuravano molti esponenti del
Carroccio. Il grande villaggio turistico doveva diventare "Il Paradiso dei
Leghisti". Finì invece con il crac e una raffica di indagati.
Cavaliere torna in sella, sempre con Balocchi, nella Santex per gestire il casinò
dell'Hotel Istria di Pola. Una vicenda chiusa con la vendita delle quote. La
terza avventura del duo è proprio Bingo Net. Cavaliere sarà
deputato della Lega dal 1996 al 2000 e componente del Comitato parlamentare per
i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato. Nella Bingo
Net c'era anche Roberto Faustinelli, deputato nella tredicesima legislatura
eletto nel collegio di Orzinuovi. Il sito della Camera elenca una sola proposta
di legge in cui Faustinelli figura come primo firmatario: "Disposizioni
per la realizzazione dell'asse viario tra Orzinuovi e Brescia". Nella
Bingo.Net c'è anche Mauro Damian, lui pure finito nel buco nero del crac
del "Paradiso" del Carroccio. E la stessa Bingo.Net andò a
fondo, nonostante il prestito che gli concesse la banca padana Credieuronord di
cui lo stesso Balocchi e Stefano Stefani, un altro sottosegretario dell'epoca,
erano amministratori. Un istituto nato nel Duemila dopo una campagna a tappeto
nelle sezioni della Lega, sollecitata con una lettera di Umberto Bossi.
L'obiettivo dichiarato era ambizioso: "Portare avanti gli ideali della
Lega: la difesa del risparmio delle famiglie e della piccola e media
impresa". I militanti ci credono. Affidano il loro denaro all'istituto.
Vengono raccolte tremila sottoscrizioni fino a cento milioni di lire. Si parte
con due sportelli a Milano e a Treviso, ma presto si capisce che l'avventura
prende una brutta piega: il bilancio del 2003 si chiude con otto milioni di
euro di perdite, dodici di sofferenze su 47 di impieghi. La tecnica creditizia
pare piuttosto singolare: la metà delle sofferenze fanno infatti capo a
cinque soggetti, tra cui la società Bingo.Net. Nel maggio 2003
un'ispezione di Bankitalia fa emergere il dissesto. Una mezza dozzina di
deputati del Carroccio rischia di essere coinvolta nel crollo. Centinaia di
risparmiatori padani sono sul piede di guerra. A quel punto arriva il
salvatore. Chi? Gianpiero Fiorani, allora numero uno della Banca Popolare di
Lodi. Se la Lega non finisce a gambe all'aria, lo si deve proprio a lui. Che
fino al 2004 garantisce milioni di euro di finanziamenti al partito di Bossi e
a molti suoi dirigenti. Il Carroccio offre come pegno la storica sede di via
Bellerio, la scuola leghista di Varese e addirittura il prato di Pontida, dove ogni
estate il popolo padano si riunisce sventolando le bandiere verdi. Così
la Lega evita la bancarotta. E Fiorani spera di ottenere l'appoggio delle
camicie verdi alla sua spericolata scalata ad Antonveneta e alla politica di Antonio Fazio, l'ex governatore di
Bankitalia. Sembra un discorso estraneo all'inchiesta sulle slot machine, sul
Bingo e sul centro di potere che gravita intorno ai Monopoli. Ma gli uomini
della Finanza non ne sono convinti. "Nel Duemila tutti i partiti si dibattevano in complesse difficoltà
di natura economica e finanziaria. L'arrivo del Bingo e dei giochi a scommessa
sembrò per tutti un'opportunità da sfruttare, anche muovendosi
sul filo delle regole". Questo dimostra perché sulla gestione dei Monopoli
ci sia stato, da parte di tutto il mondo politico, un sostanziale silenzio,
fino alla rivelazione del rapporto (pubblicato dal Secolo XIX) della
commissione presieduta dal sottosegretario Alfiero Grandi, che sembra aver
portato lo scompiglio in entrambi gli schieramenti. 09/06/2007 Il via libera al
gioco d'azzardo legale, nel 2000, ha scatenato la corsa. Dopo An e i Ds, ora
tocca alla Lega Nord 09/06/2007 Le "sfortune" della società
Bingo.net, concepita come la "risposta padana" al tombolone nazionale
09/06/2007.
VENEZIA Inizieranno
lunedì prossimo gli interrogatori delle cinque persone arrestate
giovedì dalla Guardia di Finanza di Venezia nell'ambito dell'inchiesta
sul crack miliardario del gruppo Finmek. I cinque - Carlo Fulchir, fondatore
del gruppo, sua moglie Doris Nicoloso, suo fratello Loreto Fulchir, Paolo
Campagnolo e Guido Sommella - sono accusati a vario titolo di reati che vanno
dall'associazione a delinquere alla bancarotta fraudolenta, dal falso in
bilancio, alle false comunicazioni sociali. Un ventaglio di accuse che
inseguono anche altri tre manager Finmek destinatari di altrettanti ordini di
custodia cautelare emessi dal gip Cristina Cavaggion su richiesta del pm Paola
De Franceschi, ma che risultano al momento irreperibili. Si tratta di Vittorio
Scialanga, 56 anni, di Jesolo (Venezia) già responsabile estero Finmek,
di Luigi Boschin, 54 anni di Fagagna (Udine) già coordinatore delle
società estere, e di Guido Gemellaro residente in Svizzera ritenuto
dagli investigatori il "gestore" dei bond emessi all'inizio degli
anni Duemila. Altre nove persone, tra cui Roberto Tronchetti Provera (non
coinvolto nell'associazione a delinquere) sono indagate dalla procura di Padova
che sta raccogliendo i frutti di un'inchiesta avviata nel maggio 2005. La data
cruciale è il 12 maggio 2004: il tribunale di Padova, su istanza del
commissario straordinario Gianluca Vidal, dichiara lo stato di insolvenza di
Finmek Access e Finmek spa. È l'inizio della fine. La fine di quello che
è stato per anni considerato il re della new economy, Carlo Fulchir. Per
un effetto domino, vengono ammesse alla stessa procedura in un estremo
tentativo di salvataggio tutte le società del gruppo: Finmek Automation,
Costelmar, Cpg, Finmek Space, Finmek Sat, Finmek Manifacturing, Finmek
Communication, Finmek Solutions, Finmek Sistemi, Access Media, Mekfin e Ge.Fin.
È in questo momento che, oltre a Vidal assistito dalla società di
advisory Deloitte, entra in campo la procura di Padova (il pm Paola De
Franceschi) supportata dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di
Finanza e dal suo consulente di fiducia, il commercialista Riccardo Bonivento.
Così si scopre il vorticoso processo di acquisizioni e cessioni di
società da parte del gruppo Finmek finalizzato a distrarre cospicue
risorse finanziarie da società operative sul mercato - di regola
destinatarie di sovvenzioni e finanziamenti erogati da enti pubblici o
società capofila - e a dirottare tali risorse verso società
estere - si legge nell'ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip Cristina
Cavaggion. Il modus operandi, dice l'accusa, è sempre uguale: Finmek
compra il pacchetto di maggioranza o la totalità delle quote-azioni, svuota
le società cedendo uno o più rami d'azienda e le mette in
liquidazione o avvia la procedura fallimentare. Per Fulchir, sostiene il pm, il
vantaggio è assicurato: se la società è sana, Finmek si
assicura delle linee di finanziamento da parte della venditrice e ne beneficia; se
è in difficoltà, Finmek usufruisce di un contributo a fondo
perduto da parte dello Stato o di un altro ente pubblico da investire per la
ristrutturazione aziendale. È a questo punto che, è la tesi
accusatoria, prende i soldi, spoglia la dotazione economica della
società ceduta e poi se ne sbarazza, lasciando i lavoratori a casa. Un
sistema che ha fatto totalizzare al gruppo Finmek un'esposizione di 906 milioni
di euro. Un esempio? Finmek spa compra Ixtant e Magneti Marelli, mentre Finmek
Sistemi acquisisce Upm, Telit Mobile Terminal e un ramo d'azienda dello
stabilimento Italtel di S.Maria Capua a Vetere. Uno dei risultati? Magneti
Marelli è svuotata di 12 milioni di euro.
- 09-06-2007 SENTENZE
Il regolamento Consob degli intermediari finanziari, nonché il
regolamento sulla gestione collettiva del risparmio emesso da Banca d'Italia ad aprile del 2005, hanno finalmente cominciato a produrre i loro
frutti in materia di corretto utilizzo del benchmark. Da sempre, le
società di gestione del risparmio considerano il parametro oggettivo di
riferimento (ovvero il benchmark) poco più di una semplice pagellina del
gestore. Insomma, una sorta di valutazione ex-post. In realtà,
però, il benchmark rappresenta un indicatore di rischio ex-ante,
estremamente preciso, di cui si deve necessariamente tenere conto. Dunque, non
è soltanto un mero un indicatore statistico, come eccepiscono diverse
Sgr. "Al riguardo, l'articolo 50 del regolamento Consob degli intermediari finanziari è
abbastanza chiaro - commenta Giuseppe Romano, responsabile dell'ufficio studi
Consultique - Il benchmark è un parametro oggettivo di riferimento che
identifica il prodotto e offre un punto di riferimento ex-ante per
l'indicazione degli obiettivi e rischio del cliente. Inoltre è
essenziale per verificare i risultati della gestione e del portafoglio". E
sempre in tema di benchmark, Banca d'Italia ha stabilito (con provvedimento datato 15
aprile 2005) che l'indice utilizzato come parametro di riferimento deve
necessariamente essere coerente con l'indirizzo di investimento del fondo. Per
fare un esempio, un fondo azionario Italia, deve avere come parametro di riferimento un indice di Piazza
Affari e non (come può capitare) il tasso Euribor. Inoltre, l'Istituto
di via Nazionale ha indicato altri due fattori fondamentali che devono
caratterizzare il benchmark: da un lato l'oggettività delle basi di
calcolo e la verificabilità; dall'altro l'adeguata diffusione presso i
risparmiatori dell'indice utilizzato come benchmark. Leggi che hanno come fine
ultimo quello di tutelare il cliente, ma che purtroppo non sono mai state
applicate. Almeno fino a pochi mesi fa. A rompere ogni tabù è
stato il Tribunale di Biella, con il giudice unico Eleonora Reggiani che ad
aprile ha condannato Banca Sella per aver gestito in maniera
eccessivamente rischiosa, rispetto alle previsioni contrattuali e al profilo
del cliente, due gestioni patrimoniali: una infondi e l'altra in titoli
mobiliari. Si tratta della prima sentenza di un Tribunale sul tema del
benchmark, parametro da sempre "odiato" dai gestori proprio perché li
espone a responsabilità che non vogliono avere. Il Tribunale ha
affermato esplicitamente che "il benchmark esprime non solo
quantitativamente ma anche qualitativamente il profilo di rischio della
gestione: rappresenta i rischi di mercato cui tipicamente è esposto il
patrimonio gestito". È chiaro che questa sentenza getterà
scompiglio tra le società di gestione del risparmio, in quanto ha creato
un precedente molto pericoloso; per le Sgr ovviamente. Forti di questa
decisione del Tribunale di Biella, infatti, ora anche altri risparmiatori che
si sentono vittime dei gestori potrebbero aprire un contenzionso. Di conseguenza
altre Sgr, che non sono state leste ad adeguarsi alle disposizioni di
Bankitalia in materia di benchmark, sono a rischio di condanna
L’Unità
8-6-2007 Il partito della famiglia Paola Gaiotti de Biase
NON SARA' ELIMINATO IL
PUBBLICO REGISTRO AUTOMOBILISTICO, PER IL MINISTRO UN DOPPIONE DELLA
MOTORIZZAZIONE CIVILE ROMA Il Pra è salvo. Uno dei simboli della nuova
stagione delle liberalizzazioni, il Pubblico registro automobilistico, per ora
non verrà smantellato. I sette articoli inseriti nel disegno di legge
sulle liberalizzazioni verranno infatti stralciati dal pacchetto Bersani e
spediti alla Commissione trasporti che studierà una norma ad hoc. A
mettersi di traverso, a fronte del rischio della perdita del posto di lavoro di
alcune migliaia di persone (6 mila secondo i sindacati, 3-3.500 secondo altre
stime), è stata innanzitutto l'ala sinistra della maggioranza
(Rifondazione, Verdi e Pdci), che mercoledì sera era arrivata
addirittura a minacciare il voto contrario sull'intero pacchetto. Il ministro,
che considerava questa una delle bandiere del suo pacchetto di riforme, ora
mastica amaro. "Ma l'impianto delle mie lenzuolate - si consola - non
viene intaccato. E il risultato raggiunto è importante". Ieri,
ovviamente, in tanti hanno cercato di attribuirsi meriti della
"battaglia" vinta. Lo ha fatto Mauro Fabris dell'Udeur ("solo
noi ed il Prc ci siamo opposti senza tentennamenti"), Menia di An
("abbiamo sventato il blitz di Bersani"), i Verdi e la Sinistra
democratica. Il coordinamento Rdb-Cub, che per tre giorni assieme agli altri
sindacati ha presidiato Montecitorio, protesta duramente: "Nessuno si deve
assumere meriti che non ha: questo risultato è frutto della
mobilitazione dei lavoratori dell'Aci". Dei 6 mila posti a rischio di cui
parlano i sindacati, almeno 3 mila (secondo documenti interni all'Aci)
avrebbero effettivamente rischiato di finire in mobilità. In prima fila
i 500 di Aci Informatica, la società che gestisce la grande banca dati
del Pra e il relativo call center. Tesi che il ministro dello Sviluppo
economico ha sempre respinto, convinto innanzitutto che il Pra fosse un
"caso unico in Europa", un doppione "inutile" della
Motorizzazione civile, tanto più inutile dopo la cancellazione della "tassa"
sui passaggi di proprietà dei veicoli. "La questione occupazionale
- ha ripetuto più volte Bersani - non esiste. I lavoratori del Pra
verranno tutti ricollocati nella pubblica amministrazione a cominciare da quei
servizi della Motorizzazione che più soffrono carenze di
personale". Per Bersani, che già nel 2000 da ministro dei Trasporti
aveva proposto invano una norma analoga, l'abolizione del Pra avrebbe
avvantaggiato i cittadini e soprattutto semplificato notevolmente la gestione
dei documenti che riguardano ben 45 milioni di autoveicoli (110 milioni con
quelli radiati) e producono ogni anno 7 milioni di visure e 15 milioni di
pratiche, tra nuove vetture iscritte e cambi di proprietà. Di parere
opposto l'Aci che a fine gennaio, in una lettera inviata al governo,
sottolineava la "grave perdita di garanzia sulla proprietà del
veicolo" a fronte di "risparmi irrisori". Senza contare che con
i suoi 5 mila sportelli sparsi in tutta Italia l'Aci garantisce una presenza
capillare su tutto il territorio cosa che la Motorizzazione da sola non riesce
a fare. Dopo l'ennesimo passo indietro ieri il relatore di maggioranza Andrea
Lulli (Ulivo) si è affrettato a dire che "l'obiettivo
dell'abolizione del Pra resta: nessun passo indietro". Salvo poi ammettere
che "il percorso sarà diverso e rallentato". Appunto.\.
Cara Europa, mi ha sorpreso che La Stampa, che anche per non torinesi come me
stava diventando il primo giornale, sia caduta nella trappola dello scandalismo
pubblicando su D’Alema robaccia degna della commissione Mitrokhin.
Cosa succede in Italia? Ha avuto ragione Follini: «Il mondo discute
dell’emergenza climatica, America e Russia sembrano tornare alla guerra fredda,
noi celebriamo in senato un referendum sul generale Speciale. Direi che stia
trionfando il provincialismo».
MARIO ALPINO, ROMA
Caro Alpino, anche per
me ha ragione Follini, ma nella politica italiana c’è più del
provincialismo (provinciali sono le querelle sui Dico, sul testamento
biologico, ed altre guerre dei cent’anni per problemi altrove risolti).
C’è una nebbia sempre più fitta prodotta dalle congiure tra
poteri forti, servizi segreti, polizie private, politici di incerto rigore,
giornali a servizio di fazioni o interessi da far prevalere sulla salus rei
publicae suprema lex. Prodi è andato in Germania al G8, dove Bush ha
ribadito il suo no al taglio delle emissioni che avvelenano l’ambiente del
pianeta. Ora, tornato in Italia, dovrebbe adoperarsi a dissipare il nebbione
nel nostro paese: che s’alza con la confusione del linguaggio politico,
conseguenza della confusione delle idee di chi non riesce a far quadrare il
cerchio del governo, a causa di una maggioranza fatta di pezzi che fra loro non
hanno niente in comune.
Forse è il giudizio negativo che gli interessi forti danno sulla
capacità del governo di diradare la nebbia, a spingere giornali come La
Stampa ad annunciare, proprio nel giorno in cui sta per chiudersi al senato il
brutto spettacolo del duo Visco-Speciale, che la settimana prossima avremo un
altro di spettacolo, Unipol-intercettazioni- D’Alema, dove il primo attore,
D’Alema, sembra messo nel mirino da chi, nel centrosinistra o nel centrodestra,
teme che con lui possa trovarsi qualche soluzione bipartisan a problemi
urgenti. Ipotesi, fantasie.
Ma cos’altro può fare il cittadino nel nebbione che le troppe infinite
inconcludenti parole governative, berlusconiane, giornalistiche, gli sollevano
attorno? Con quale sicurezza si può procedere, se si teme che qualche
metro più avanti ci sia il fosso e non si veda? Più che
provincialismo, forse si tratta della mala Italia di sempre, dove troppa gente
– generali, politici, portaborse, spioni, giornalisti – si guadagna da vivere
inventando dossier sui presunti nemici del potente di turno: presunto, come le
procure di Milano, Torino, Roma e Palermo (occupate – abbiamo letto anche
questo – a far cadere Berlusconi dopo la sua vittoria del 2001). Tutto questo
alla vigilia della riforma dei servizi, che non piace ai lestofanti. I quali,
fin qui, hanno avuto buon gioco, perché i potenti che una volta ne sono vittime
un’altra ne sono beneficiari. E il paese dimenticato non capisce, si astiene,
diventa qualunquista.
Prodotto interno
lordo |
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I dati Istat completi
e in dettaglio di contabilità nazionale sul periodo gennaio-marzo
confermano il rallentamento della ripresa dell'economia italiana, ma correggono
leggermente al rialzo la stima preliminare (+0,2%) di maggio. La crescita
congiunturale del Pil decelera significativamente (+0,3% da +1,1% nel trimestre
precedente), mentre si abbassa la dinamica tendenziale annua (+2,3% da +2,8%
nell'ultimo quarto del 2006), che non contraddice tuttavia la svolta ciclica in
atto. I conti economici Istat per il primo trimestre 2007. Eurolandia, a sua volta, si presenta
in contenuta decelerazione, come si registra nella stima di Eurostat, che indica una crescita dello 0,6%
trimestrale e del 3,1% annuo nello stesso periodo, a fronte di +0,9% e +3,3%
nel quarto trimestre 2006.
Tommaso Padoa-Schioppa
mercoledì sera, di fronte al Senato della Repubblica, ha negato che i
quattro ufficiali della Finanza che Vincenzo Visco tentò di rimuovere
s’occupassero di Unipol. La decisione del vice ministro che ha dato il via al
braccio di ferro con il comandante delle Fiamme gialle e, infine, alla
destituzione del generale, sarebbe dunque un’invenzione dei giornalisti, anzi
del Giornale. «Contrariamente a quanto cerca di far credere una campagna di
stampa in corso da circa un anno, il nesso manca di ogni riscontro – ha detto
il ministro –. Che gli instancabili corifei di questa tesi non abbiano saputo a
tutt’oggi citare un solo fatto a sostegno del loro canto è di per sé una
forte ragione per pensare che il nesso con Unipol sia inesistente».
Padoa-Spocchia forse prima di parlare avrebbe fatto bene a documentarsi,
evitando di prendere per oro colato il compitino che gli ha preparato il suo
braccio destro. Se il ministro si fosse letto l’editoriale dell’ex direttore di
Repubblica, Eugenio Scalfari, certo avrebbe evitato una gaffe. Nel suo sermone
domenicale il fondatore del più importante organo di stampa governativo
ha scritto che Visco tentò di cacciare quegli ufficiali perché li
riteneva responsabili d’aver passato a noi del Giornale il famoso brogliaccio
della telefonata in cui Fassino diceva al presidente di Unipol, Giovanni
Consorte: «Allora, adesso abbiamo una banca?». L’accusa – per altro infondata –
d’aver dato le intercettazioni al Giornale presuppone che quei documenti
fossero nelle mani dei finanzieri. Padoa-Schioppa pensa che li avessero per
leggerli la sera prima di addormentarsi oppure perché era materiale sul quale
stavano svolgendo accertamenti? O forse crede che la Gdf li abbia trovati
dentro un cassonetto?
Se Tps fosse un uomo prudente avrebbe evitato di dire in un’aula parlamentare:
«Se vi sono prove in contrario le si producano». Perché le prove esistono e,
visto che lo ha richiesto, le produciamo. Quella che pubblichiamo oggi è
la lettera che il procuratore capo di Milano, Manlio Minale, inviò il
primo giugno dello scorso anno al comandante della Guardia di Finanza della
Lombardia, il generale Mario Forchetti, uno degli ufficiali che Visco voleva rimuovere.
In essa si lodano il colonnello Rosario Lorusso e il colonnello Virgilio
Pomponi. Chi sono costoro? Altri due ufficiali di cui Visco ordinò la
rimozione.
Ma c’è di
più: Minale scrive che i comandanti del nucleo regionale e provinciale
della tributaria sono stati collaboratori preziosissimi nell’indagine
Antonveneta. «Nel momento in cui questa Procura si avvia a formulare le prime
conclusioni nell’indagine Antonveneta, vicenda giudiziaria esemplare sotto ogni
aspetto ed in particolare con riguardo alla collaborazione professionalmente
qualificata offerta dalla Guardia di Finanza e dai reparti già
richiamati (quelli di Lorusso e Pomponi, ndr) desidero farle pervenire il
più vivo compiacimento e personale apprezzamento». Forse Padoa-Schioppa
non lo sa, ma dall’inchiesta sulla scalata alla banca Antonveneta, quella in
cui rimasero coinvolti Giampiero Fiorani e anche l’ex governatore della Banca
d’Italia Antonio Fazio, è nata quella su Unipol. Le Fiamme gialle
arrivarono alla compagnia delle Coop ascoltando le conversazioni
dell’amministratore delegato della Popolare di Lodi. Fiorani parlava spesso con
il suo omologo in Unipol e la Gdf cominciò ad ascoltare anche le
chiamate di Consorte.
È così che furono registrate le chiacchiere del banchiere rosso
con Fassino, D’Alema e Nicola La Torre. Sono i reparti dell’allora colonnello
Rosario Lorusso e del colonnello Virgilio Pomponi a intercettarli. E sempre
Lorusso e Pomponi sono i due ufficiali che, un mese e mezzo prima che Visco ne
disponga l’allontanamento, Minale vuole che rimangano alla guida dei loro
reparti «nell’interesse delle indagini e per la continuità nell’azione
di comando». È chiaro ora il collegamento con Unipol o a Tps serve
altro?
P.s. Quelle intercettazioni da cui parte il caso Unipol, ovviamente, sono le
stesse su cui Bertinotti e Marini nei prossimi giorni vorrebbero mettere il
segreto di Stato
Caso De Gregorio, la Finanza rovista a casa dei giornalisti
Perquisizioni sono state compiute, fino a notte fonda, dalla Guardia di Finanza
nelle abitazioni e nei posti di lavoro di due giornalisti del Corriere della
Sera, Giovanni Bianconi, a Roma, e Enzo d'Errico, a Napoli e Milano su mandato
della Direzione distrettuale Antimafia del capoluogo partenopeo. Lo ha rivelato
il Cdr del quotidiano milanese. I giornalisti erano stati gli autori della
pagina che riguardava le indagini sul senatore Sergio De Gregorio, indagato a Napoli per riciclaggio con
l'aggravante di avere agevolato un'associazione mafiosa. "Tutto
l'intervento ha assunto - secondo la direzione del Corsera - caratteri di un
chiaro abuso e di un'intimidazione". A colpire le "modalità
sconcertanti dell'azione delle fiamme gialle: i militari - prosegue la
direzione - sono arrivati in piena notte nelle sedi di Roma e Milano del
corriere e nelle abitazioni private di Roma, Milano e Napoli dei giornalisti.
L'intervento della Gdf è durato fino all'alba ed ha portato al sequestro
di computer fissi e portatili, della memoria di un pc, di rubriche telefoniche
e appunti che nulla hanno a che fare con l'inchiesta di Napoli. La
perquisizione non ha risparmiato a notte fonda neppure i familiari di Enzo
d'Errico che tra l'altro è autore solo dell'articolo sulla storia
personale e politica di De Gregorio e non del pezzo sull'inchiesta". Anche il sindacato
nazionale si è inalberato (Fnsi), parlando di intimidazione "non
appena si tocca un uomo del Parlamento".
Intercettazioni scottanti....
Il palazzo non si deve toccare Guai a toccare il palazzo. Altrimenti lo spirito
di casta farà in modo di sterilizzare gli attacchi, per quanto
potrà. La tentazione è forte: mettere in campo tutti gli
strumenti normativi, attivare tutti i canali, operare con la moral suasion per
mettersi al riparo dal controllo dagli attacchi, veri o solo presunti. Si
prenda il caso Forleo di questi ultimi giorni. Il gip di Milano, Carolina
Forleo, deve decidere sulla richiesta dei pm di chiedere l'autorizzazione al
parlamento per la utilizzazione di alcune intercettazioni nell'ambito della
inchiesta Antoveneta, Bnl Rcs che riguardano politici della maggioranza
(Massimo D'Alema, Nicola Latorre e Piero Fassino) e della opposizione
(Romano Comincioli, Salvatore Cicu e Luigi Grillo) per valutare la rilevanza ha
deciso di sottoporre a perizia, ai fini della trascrizione, il supporto audio
sul quale il pm aveva inviato le tascrizioni annunciando che sarebbero state
depositate in segreteria a disposizione delle parti. In sostanza prima che il
parlamento ne avesse autorizzato la utilizzabilità. Apriti cielo. Il
palazzo, sentitosi minacciato nella sua prerogativa di immunità, ha
schierato tutta la sua pattuglia. I presidenti di camera e senato, Fausto
Bertinotti e Franco Marini, sollecitati anche da una lettera del persidente
della giunta delle immunità Carlo Giovanardi (Udc), hanno chiesto
informazioni al presidente del tribunale lombardon Livia Pomodoro e ieri ci si è
messo anche il ministro della giustizia Clemente Mastella che ha scritto ieri
una lettera al presidente della Corte d'appello di Milano Giuseppe Grechi e
alla Pomodoro per ottenere informazioni circa ' le misure adottate per
assicurare la concreta osservanza dell'articolo 68 della Costituzione e
l'effettiva tutela delle prerogative parlamentari'. Tutti in agitazione, a
destra come a sinistra, con Bertinotti che ieri si appellava 'al rispetto della
legge (Boato, ndr). Il fatto è che però la Forleo la legge l'ha
rispettata, come ieri hanno riconosciuto diversi giuristi tra cui Oreste
Dominioni e Giulio Illuminati, visto che non sta per decidere sulla
utilizzabilità delle intercettazioni ( per la quale deve chiedere
l'autorizzazione) quanto della loro rilevanza ai fini del processo. E che,
rendendo il materiale disponibile per le parti, il segreto è caduto. E
il vizio di chiedere informazioni agli uffici giudiziari è risalente.
Nella scorsa legislatura lo fece l'allora presidente di Montecitorio Pierferdinando
Casini che interpellò il tribunale di Roma su alcune intercettazioni
assunte nel corso di un procedimento per un preteso traffico di stupefacenti,
quello di Cosenza nel corso di un procedimento dei confronti di esponenti del
movimento no global (nel quale erano state intercettate telefonate con Paolo
Cento,Graziella Mascia e Mauro Bulgarelli), al procuratore di Catanzaro con
riguardo a intercettazioni che avevano riguardato Giuseppe Valentino.
"Gli farei sputare i denti per farmi
una collanina", mi diceva l'altro giorno un signore attempato con pensieri
elettrizzanti verso un noto politico che l'aveva a suo modo tradito. Il
simpatico vecchietto si definiva l'asino contribuente carico di grano che
stramazza al suolo sotto il peso dell'ultimo chicco. "Dunque è
vero, diceva; i nostri politici costano ogni anno, tra stipendi e privilegi, in
media 3 miliardi di vecchie lire, contro 500 milioni degli spagnoli e i 700
degli inglesi". Purtroppo, dico io, sembra una verità vera, anche
se credo bisogna non bisogna mai fare di ogni erba un fascio. Premesso che i
numeri sono argomenti testardi e non ci sono giustificazioni plausibili per
questo divario, e valutato che senza ogni ragionevole dubbio il predetto
stipendio non verrà mai ridotto (sic!) se non per motivi validi, io sono
dell'idea di trovare soluzioni percorribili, cercando spunti per riflettere
sperando che germoglino, evitando di murarci nel rancore verso lor signori
sempre più spesso antipatici ed intoccabili, evitando di incrociare le
loro acrobatiche satire irritanti, sciocche e patetiche quando si incolpano
l'un l'altro delle nostre disavventure trascorse e future. Il bello è
che vanno poi d'accordo cercando tra di loro, all'insaputa nostra, la posizione
orizzontale in un amore tormentato e conviviale, truccando le carte nelle sfumature
del tradimento. La verità è chi ci capisce è bravo, ma
nessuno è bravo perché nessuno ci capisce. Comunque sia, io proporrei la
cosidetta "logica di efficienza, logica di efficacia", come si fa di
solito in un'azienda privata dove vengono premiati i lavoratori più
bravi e coloro i quali a fine anno hanno consentito un aumento del fatturato,
retribuendoli con il "premio di produzione o di risultato". L'idea
che oserei proporre è la seguente: tutti i nostri parlamentari (tutti!)
fanno un passo indietro, si riducono ad un terzo l'attuale busta paga (devono
pur vivere), e si dà loro un cospicuo bonus calcolato sulla base
dell'incremento reale del Pil annuale (prodotto interno lordo), che sarebbe il
cosidetto premio produzione legato all'azienda Italia, ovviamente con l'ok dei
sindacati che dovrebbero dare l'assenso, visto che in queste cose sono sempre
favorevoli. Così se l'azienda Italia va bene si aumenta lo stipendio dei
politici, se va male.. Sono straconvinto che tutti lotterebbero per questo
obbiettivo, maggioranza e opposizione. Certo saranno tutti d'accordo, si
risveglierebbero i furboni, gli zombie che dormono, gli zucconi supponenti
evitando altresì i furti delle nostre speranze. Proporrò questa
idea per iscritto ai due presidenti della Camere, sperando in una risposta che
auspico non decennale, anche perché ho la seria intenzione di non demordere.
Lei direttore, che percepisco molto incisivo nelle idee e nei buoni propositi,
che ne pensa? Massimiliano Fattori Bolzano Vicentino L'idea mi sembra
dirompente, rivoluzionaria, accattivante, interessante. Insomma, buona e
praticabile. Proprio per questo può scommettere che lorsignori
continueranno come se niente fosse.
E meno male che per il 2007, i pugliesi
potranno contare ancora su una dose di generosità dei propri
rappresentanti in Consiglio regionale: nel dicembre scorso, quando hanno
approvato l'esercizio provvisorio del bilancio di previsione, hanno confermato
il taglio alle proprie indennità deciso l'anno precedente. Un 10 per
cento in meno che, per quanto rappresenti lo stipendio mensile di tre precari
messi insieme in un call center, fa solo il solletico a una busta paga comunque
pesante che viaggia dai quasi 25mila euro al mese del governatore ai 16mila
euro del consigliere regionale senza nemmeno il gallone di una vice presidenza
di commissione. Sta di fatto che nelle indennità di presidenti,
assessori, vice presidenti e consiglieri semplici, va quasi la metà di
quei 33 milioni di euro il Consiglio regionale sborsa per far funzionare la
macchina, come si dice. Quindi: spese telefoniche, straordinari e missioni ai
dipendenti, biblioteca, rimborsi per i gruppi regionali. Di tutto, di
più. Anzi di meno. Perché, su questa voce di bilancio, il presidente del
Consiglio regionale, Pietro Pepe ha preteso di stringere la cinghia. E infatti
nel 2006, la spesa fu di 35 milioni. Per l'anno in corso i 70 consiglieri
regionali, dovranno fare a meno di due milioni di euro. Il problema è
che, solo due anni fa, le indennità da pagare erano dieci in meno,
perché con la nuova legislatura i consiglieri sono aumentati da 60 a 70. E in
quella seduta del Consiglio regionale, tutti ma proprio tutti, furono
d'accordo. Dieci consiglieri in più sono 160mila euro in più al
mese, quasi due milioni in più all'anno, quindi la cifra che il
Consiglio, in pompa magna, annuncia di voler risparmiare per il 2007. Al netto,
ovviamente, degli assessori esterni che, come gli interni, portano a casa a
fine mese poco meno di 19mila euro. Ma il lavoro che si svolge, vale tutto
questo esborso da parte dei contribuenti pugliesi? Quando di mezzo c'è
il principio che la carica elettiva non ha vincolo di mandato, in punta di
diritto, la risposta deve essere affermativa. Al consigliere regionale non
è chiesto di timbrare il cartellino, non ha da fare otto ore di lavoro,
non ha l'obbligo di essere presente sul luogo di lavoro che è sì
il Consiglio regionale ma anche il collegio elettorale di provenienza, il
rapporto con gli elettori. A parte i presidenti e i vice presidenti, di giunta
e di Consiglio, e gli assessori, che hanno funzioni esecutive, per gli altri il
discorso della produttività che giustifichi stipendi d'oro, può essere
fatto su una base empirica. E questa base può essere rappresentata da
ciò che il Consiglio regionale produce: leggi, delibere, ordini del
giorno, mozioni, interrogazioni e interpellanze. Nel 2006, al Consiglio
regionale sono state effettuate 25 sedute, stati presentati 49 disegni di legge
(33 approvati), 41 proposte di legge (12 approvate), 5 proposte di legge di
iniziativa popolare, 134 delibere di giunta regionale (25 approvate), 30 ordini
del giorno (discussi 26), 7 mozioni (discusse 6), 240 interrogazioni (127
discusse) e 37 interpellanze (discusse 19). In totale più di 500 atti.
Calcolando lo stipendio minimo del consigliere regionale semplice quindi con
una spesa totale per difetto che in un anno ha sfiorato i 15 milioni di euro,
si può facilmente dedurre che ogni atto, sia esso legge o semplice
interrogazione, non costi meno di 25mila euro. Se come punto di
riferimento si prende invece la legge, ma nella forma della proposta che
rientra nelle funzioni del consigliere regionale, e che rappresenta il prodotto
principale che un Consiglio regionale è chiamato a fare, si nota ci sono
più consiglieri (70) che proposte di legge presentate (41) e di queste
solo 12 approvate. Un pdl solo presentato, quindi, costa 330mila euro. E che
dire delle sedute: se si è assenti, al consigliere viene detratta la
diaria (200 euro). Un'inezia alla quale però pochi rinunciano
soprattutto dalle parti dell'opposizione che non ha da garantire il numero
legale per la validità delle sedute.
"Bisogna fare in fretta, se no la politica muore proprio quando il paese ne ha
più bisogno" "Abbiamo già sciolto decine di enti e
cancelleremo 16 consorzi industriali" ALBERTO STATERA "Macchè
libri bianchi, ci vogliono leggi, leggi nero su bianco". Renato Soru, il
governatore capitalista della Sardegna che si beccò l'epiteto di
"comunista" per aver introdotto la "tassa sul lusso - ville,
yacht e jet privati - torna a dar scandalo all'insegna del motto di suo nonno
"chi non miete spigola", cioè raccoglie per terra ciò
che resta delle spighe, e ha deciso di usare la falce (non il martello) per
tagliare i costi della politica, gettando nello sconforto le migliaia di persone che nell'isola
di politica vivono. "Non c'è più
tempo per libri bianchi, come quello annunciato da Prodi, bisogna fare in
fretta - dice - se no la politica muore, proprio nel momento in cui il paese
ne ha più bisogno". Lei da dove comincia, governatore Soru?
"Ho già cominciato, abolendo con legge regionale 24 comunità
montane, comprese naturalmente quelle al livello del mare che tanto scandalo
giustamente hanno suscitato. Sono cancellati per sempre 300 tra presidenti e
assessori e 500 consiglieri, totale 800 persone e relativi emolumenti, con un
risparmio stimabile prudenzialmente in 10 milioni. Senza considerare le
società collegate". Un po' poco, le comunità montane con i
loro "deputatini", politici di ultima fila, sono l'anellino più
debole. Quelli forti? "Abbiamo sciolto decine di enti e messe in
liquidazione decine di società regionali. Abbiamo eliminato 9 enti in
agricoltura, con i rispettivi consigli d'amministrazione, 4 enti provinciali
per l'edilizia abitativa, abbiamo cancellato l'Esit e 4 enti provinciali per il
turismo, più 8 aziende di cura e soggiorno. Abbiamo sciolto l'Isola,
l'ente per l'artigianato, e l'Esaf, quello per le risorse idriche e, al suo
posto, istituito una società per azioni che accentra le funzioni di 60
enti e soggetti pubblici. Abbiamo commissariato l'Azienda regionale dei
Trasporti". Sempre bazzecole, se permette, rispetto ai templi del potere
della politica regionale. "Le pare una bazzecola
aver soppresso altri 1000 posti tra consigli d'amministrazione di enti, giunte
e consigli di società, con un risparmio di decine di milioni di euro? Ma
il bello deve venire". Allora ci racconti il bello, governatore. "E'
pronta la legge per cancellare, con i relativi costi, 16 Consorzi industriali, gonfi di decine e decine di
società, di presidenti, vicepresidenti, consiglieri d'amministrazione,
consulenti, autoblù, foresterie e quant'altro". Ecco, governatore,
forse ci avviciniamo. Ma ci dicono che per far passare questa legge
dovrà anche passare sul cadavere, naturalmente in senso metaforico, di
molti presidenti ben sponsorizzati dai partiti, ad esempio del potentissimo e inamovibile avvocato Sandro Usai,
presidente del Casic di Cagliari. "Guardi, tutte le decisioni importanti
generano conflitto e magari anche perdita momentanea di consenso, ma ci vuole rapidità,
decisione e coraggio, se si vuole poi recuperare la dignità della politica presso i cittadini, che non ne possono
più di privilegi, storture e sprechi. Prodi stesso ha detto che i
governi responsabili devono mettere in conto anche momentanee perdite di
consenso, per cui confido che vogliano fare anche loro e fare in fretta, al di
là dei libri bianchi". Scusi, governatore, lei ci parla di
comunità montane, società pubbliche, consorzi industriali. Ma il
raddoppio delle province sarde da quattro a otto per una popolazione
complessiva di un milione e mezzo di abitanti, quanto una città, non
è un vero scandalo? "E' vero, sono province improbabili, se si
pensa che quella di Lanusei ha meno di 60 mila abitanti. Ma e' uno scandalo che
non abbiamo creato noi, l'abbiamo trovato bello e fatto. E' già pronta
una legge per intervenire radicalmente". Come? Avrete la forza di abolire
le quattro nuove province, con presidenti, vicepresidenti, assessori,
dirigenti, impiegati? "Obbligheremo le più piccole a unirsi per la
gestione in forma associata dei servizi, come la manutenzione delle strade e
delle scuole, e soprattutto i consiglieri provinciali dovranno essere eletti
tra i sindaci del territorio in carica, con un'elezione di secondo grado, in
modo da evitare la moltiplicazione del ceto politico. In più, al governo
chiediamo il trasferimento alla Regione delle funzioni prefettizie". Mica
vorrà abolire i prefetti? "Non spetta a me, io proporrò che
gli vengano lasciate le funzioni di ordine pubblico e di lotta alla criminalità
organizzata. Riduciamo invece il numero dei consiglieri comunali e sopprimiamo
le circoscrizioni comunali". E dentro casa, in Regione, governatore, né
falce né scopa? "Guardi che le autoblù, che tanto fanno irritare i
cittadini, sono già state ridotte in Regione da 39 a 14. Sono state
cancellate le missioni di giunta, i pranzi, le cene, le feste, i regali di
Natale. L'appalto per le pulizie degli uffici è sceso da 8 a 3 milioni.
La villa di rappresentanza della presidenza, costo inutile ed emblema del
vecchio e arrogante potere, è in corso di trasformazione in scuola
materna per i figli dei dipendenti regionali. Il parco viene aperto e
restituito alla città". Belle cose, ma il Moloch burocratico
regionale su cui lei è seduto? "La legge di riorganizzazione
regionale prevede la riduzione degli assessori da 12 a 8, la riduzione del 30
per cento dei dirigenti, la riduzione del 30 per cento delle consulenze.
Ridefinisce poi i costi dei consiglieri regionali, facendo
chiarezza nella poco trasparente selva delle indennità. Niente
più viaggi all'estero o rimborsi spese per chi abita a trenta chilometri
di distanza". Lei farà felici, forse, Montezemolo, il giovane
Colaninno, il professor Monti e il professor Giavazzi, ma sa che, se non la
impallinano prima i partiti, così si gioca la rielezione?
"Il costo della politica è un costo monetario e anche un
costo in termini di disistima, non meno grave, per tutta la politica. Se non si interviene subito con rigore
non riavvicineremo più i cittadini, con tutti gli evidenti rischi per la
democrazia. O si fa così, qui e subito, o la politica in questo paese muore". E i voti?
"Chi governa deve saper rischiare l'impopolarità, con la certezza
che di fronte ai fatti e non alle parole i cittadini capiranno".
- Le liberalizzazioni rischiano di arrivare
al Senato annacquate. La Camera ieri ha stralciato, ritirato, bocciato
emendamenti, indebolendo così la costruzione del ministro dello Sviluppo
economico Pierluigi Bersani. Il risultato? Un disegno di legge monco, da cui
sono state sfilate norme sostanziose come l'abolizione del Pra, il pubblico
registro automobilistico. Troppo forte la resistenza della Margherita, cui non è
mai piaciuta la norma, di Rifondazione comunista e del Partito dei comunisti
italiani. L'articolo che riguarda il Pra sarà stralciato, ma il relatore
al provvedimento Andrea Lulli (Ds) è tutt'altro che rassegnato.
"Martedì l'aula di Montecitorio voterà lo stralcio - ha
dichiarato Lulli - ma l'obiettivo della sua abolizione resta". Naufraga
anche la norma che rendeva possibile la compravendita di un immobile di valore
catastale non superiore ai 100mila euro senza l'ausilio di un notaio. A
ritirare l'emendamento è stato lo stesso Lulli, dopo il giudizio
negativo espresso dal ministero della Giustizia e dopo le pressioni del
Consiglio nazionale del notariato. Un provvedimento, questo, sul quale Andrea
Lulli è deciso a tornare. Altro capitolo aperto è quello sulla componentistica
per le automobili: nei giorni scorsi il governo è stato battuto in Aula,
ma ora potrebbe decidere di ripresentarlo al Senato o inserirlo in un altro
provvedimento alla commissione Trasporti. Molto è anche quello che
il governo ha portato a casa a cominciare dalle norme sulle telecomunicazioni.
Ha imposto uno stop ai servizi non richiesti di telefonia mobile,
all'imposizione di costi aggiuntivi per le segreterie telefoniche e dato il via
libera a consultazioni dell'Agcom con gli operatori dei cellulari nel settore
del roaming internazionale. Settore sul quale sono intervenuti ieri i ministri
delle telecomunicazioni Ue, che hanno approvato il regolamento che
fissa i tetti massimi delle tariffe. I tagli arrivano fino al 70 per cento
rispetto a quelle applicate in alcuni paesi. Sempre sulle telecomunicazioni il
governo ha portato a casa il via libera a una norma che consente all'utente, al
momento della chiamata da un numero fisso o cellulare e senza alcun addebito,
di conoscere l'indicazione dell'operatore che gestisce il numero chiamato.
Eliminato anche l'obbligo del rispetto della privacy per le aziende più
piccole, varata la sterilizzazione delle accise sul greggio, resa nulla la commissione di massimo scoperto sui conti correnti,
anche se con un compromesso che piace alle banche. La discussione
riprenderà martedì e intanto gli italiani promuovono a pieni voti
il pacchetto Bersani-bis che ha introdotto, tra le altre misure, le ricariche
dei cellulari senza costi aggiuntivi e le chiusure anticipate dei mutui senza
penali. Così dice un sondaggio del sito del Sole24ore, cui hanno
partecipato finora oltre 33mila utenti. In particolare il 90 per cento degli
italiani approva la possibilità di recedere annualmente dalle polizze
danni senza penali e con preavviso di 60 giorni. Il 76 per cento dice sì
alle informazioni comparate sui prezzi del carburante su strade e autostrade,
l'85 per cento promuove le ricariche senza costi fissi per i cellulari, il 92
per cento è soddisfatto per l'estinzione automatica dell'ipoteca sui
mutui. Semaforo verde anche per la creazione di un'impresa in un giorno.
Semaforo verde dei
ministri Ue delle tlc all'intesa sulle tariffe
roaming, che prevede la riduzione dei prezzi per chi fa o riceve chiamate sui
cellulari quando è all'estero, nei 27 paesi membri dell'Unione europea.
La nuova normativa prevede una riduzione graduale spalmata in tre anni fino al
50% delle attuali tariffe. L'intesa è stata raggiunta lo scorso 15
maggio dai rappresentanti della commissione, del Parlamento e del Consiglio europeo. 'è un bel giorno
per i consumatori europei', ha detto il ministro tedesco dell'Economia Michael
Glos. Le prime riduzioni dovrebbero entrare in vigore a partire da fine giugno
e per il primo anno prevedono tre diversi tetti: uno di 49 centesimi al minuto
per le chiamate effettuate, uno di 24 centesimi per quelle ricevute e uno di 30
centesimi per i prezzi all'ingrosso praticati da un operatore all'altro. L'anno
prossimo questi tetti scenderanno a 46 e 22 centesimi per le chiamate
effettuate e per quelle ricevute e a 43 e 19 centesimi nel 2009. Attualmente in
Europa le chiamate effettuate e ricevute via
roaming costano in media un euro al minuto. Il commissario Ue alle comunicazioni Viviane Reading ha di
nuovo avvertito le compagnie di tlc che dovranno informare i clienti delle
nuove tariffe inviando messaggi sms. Il nuovo regolamento dovrà adesso
essere formalmente approvato a fine giugno dal Consiglio dei capi di stato e di
governo dell'Ue. L'entrata in vigore dovrebbe avvenire a
metà luglio. L'accordo è stato accolto con favore dal ministro
delle comunicazioni, Paolo Gentiloni: 'Credo che sia una decisione molto
importante', ha spiegato, 'con questo regolamento la telefonia mobile diventa
europea, i vantaggi per i consumatori sono evidenti e il costo dell'operazione
è considerato da tutti più che sostenibile per l'industria. Per
quanto attesa, la decisione più importante del Consiglio', ha aggiunto,
'è stato l'accordo politico del regolamento sul roaming, che dura da 5-6
anni come iter comunitario. Gli ulteriori adempimenti sono di carattere tecnico
Segue dalla Prima Già in partenza
l'opposizione ai Dico non sembrava poter giustificare tanto zelo organizzativo,
e tanto meno lo sembra oggi, di fronte al sostegno a una tesi alternativa, che
in realtà è solo tecnica (e non si fanno manifestazioni di massa
per questioni tecniche) del contratto davanti al notaio, assai più
simile a un contratto di matrimonio. Ora l'obiettivo, di un movimento politico,
un'aggregazione come che sia, che, per lo meno, tenga fuori cattolici dal Partito Democratico, appare scoperto.
In sé questo può anche essere un elemento di chiarezza, che
contribuirebbe a ridurre i timori di molti sulla scarsa laicità del Pd,
e salverebbe dal riprodursi domani di conflitti e incomprensioni interne. Ed
è tutta da verificare la sua forza di dissuasione su tanti cattolici, almeno di quelli già schierati col
centrosinistra, che all'idea del dialogo fra le culture politiche, della
necessità di superare la frammentazione, di riformare il sistema
politico italiano, ormai non intendono rinunciare. E tuttavia una tale
iniziativa sollecita alcune riflessioni severe. Quale sarà, la
traduzione concreta nell'asse politico di questa volenterosa difesa dei valori
cristiani? Resterà tutta centrata sui temi della famiglia e della
bioetica o si farà carico anche dei problemi, di rilevanza etica non
minore, della lotta all'illegalità, alla corruzione, alla
criminalità, della crescita di un nuovo senso dello Stato, del superamento di un
competitività esasperata nella vita sociale, delle nuove sfide del
lavoro e della politica internazionale, della stessa crisi della democrazia,
non solo in termini di testimonianza, ma in termini di azione pubblica e
politica conseguente e efficace? Ed è possibile non avvertire che
quest'azione pubblica è imbrigliata da decenni proprio dalla
frammentazione dei soggetti politici, dai caratteri del sistema, dai suoi
condizionamenti corporativi, dall'autoreferenzialità perenne di coloro a
cui preme più la difesa della propria identità che la costruzione
delle condizioni per l'efficacia dell'azione pubblica? Un soggetto in
più potrà mai essere favorevole a una legge elettorale che
scoraggi la frammentazione? L'uscita a sinistra nei Ds e questa diaspora
cattolica annunciata non hanno in sé nulla di assolutamente riprovevole,
esprimono una libertà di giudizi assolutamente lecita; ma è una
libertà che rischia, se dovesse avere seguiti consistenti, di non
produrre più libertà e democrazia nel sistema, ma di avvitarlo su
se stesso. Il futuro del paese si gioca, nell'attuale crisi e stallo del
sistema, sulla nascita forte del partito democratico, come spinta alla riforma
del sistema; il futuro della testimonianza cattolica, nel tempo della
secolarizzazione e della globalizzazione, si gioca in un impegno laico per la
crescita di una cultura politica che unisca e non divida di fronte alle sfide
del nostro tempo. Una credente che ama insieme la Chiesa e la storia del suo
paese non può non veder con angoscia il ripetersi di errori che hanno
segnato drammaticamente la nostra vicenda politica. Il nostro Risorgimento e il
processo di unificazione non sarebbe stato lo stesso se l'iniziale alto apporto cattolico, che vide anche
tanti martiri, non fosse stato bloccato dai timori per il potere
temporale, dalle paure del nuovo, che ebbero la loro più significativa
espressione nella condanna delle "Cinque piaghe" di Rosmini, sotto la
pressione dell' ambasciatore d'Austria, e da cui in definitiva inizia la
sconfitta del cattolicesimo liberale favorevole all'Unità, e un processo
unitario segnato in seno anticlericale. Il fascismo non avrebbe potuto
diventare quello che è stato se una pattuglia di deputati popolari, dopo aver imposto al
partito l'astensione sulla legge elettorale di Acerbo (che non l' avrebbe
comunque vista vincente) non avessero votato invece a favore; e l'esilio di
Sturzo resta il segno di un ritardo della Chiesa, di fronte alle
potenzialità della democrazia. La pressione della Chiesa per mantenere
un simbolo politico dell'unità dei cattolici ha favorito la vittoria di Berlusconi, con tutto quello che
significa anche di diffusione di una cultura popolare intrisa di
volgarità, di miti del successo comunque, di egoismo sociale, di
irresponsabilità civile. Ciò che i cittadini cattolici hanno oggi nelle loro mani è la
possibilità di riscattare questi passaggi della storia, nella pienezza
delle loro convinzioni, nella forza di una tradizione politica da cui
attingere, cresciuta anche attraverso un lungo dialogo storico, per poter
rispondere in forme efficaci alle sfide del nostro tempo.
ROMA - Costa caro comprare casa in Italia ricorrendo a un mutuo. Più di
quanto non avvenga nei Paesi dell'Unione europea. I tassi di interesse sono
infatti più elevati, in media di mezzo punto percentuale. Un
differenziale "anomalo", lo ha definito il vice direttore generale
della Banca d'Italia, Giovanni Carosio. E una penalizzazione per gli italiani, che
continuano a indebitarsi per acquistare casa, anche se il mercato è
rallentato nel 2006. "A marzo scorso - ha ricordato Carosio - il tasso
d'interesse sui nuovi prestiti alle famiglie per l'acquisto di abitazioni
è risultato pari, in Italia, al 5,2 per cento, a fronte del 4,7 per cento registrato in media
nell'area dell'euro". E il differenziale fra il costo dei mutui a tasso
fisso e quelli a tasso variabile, "è stato nel 2006 di 80 punti
base, a fronte dei 30 registrati, in media in Eurolandia". La forbice
dunque c'è ed è elevata. "Un malvezzo delle banche che non
ha giustificazione", accusano Adusbef e Federconsumatori, che da tempo
denunciano il differenziale dei tassi con l'Europa. Ma le aziende di credito si
sono sempre difese sostenendo che il vantaggio competitivo del mercato europeo
poggia tutto sui covered bond, obbligazioni bancarie garantite che diminuiscono
i costi della raccolta e dunque abbattono i tassi finali per i consumatori. Il
sistema dei covered bond è infatti utilizzato in ben 22 Stati europei e
per alcuni Paesi, come la Germania, è ormai un'istituzione con una
tradizione che dura da oltre 100 anni. Le banche italiane da anni si battono
per anni per introdurre anche in Italia questi strumenti finanziari. Ci sono riuscite: i covered bond
stanno sbarcando anche da noi. Dopo l'ok del Tesoro in aprile, a maggio sono
arrivate anche le istruzioni di vigilanza della Banca d'Italia. Un mercato, quello delle obbligazioni
garantite, che secondo l'Abi vale circa 200 miliardi di euro, che offre
un rafforzamento del livello di competitività con i concorrenti europei
e maggiori opportunità per gli investitori istituzionali. L'Abi ritiene infatti che l'importanza
dell'emissione di covered bond in Italia "sia finalizzata alla possibilità per le banche di
migliorare la propria raccolta, in termini di riduzioni dei costi, con
l'obiettivo di fornire finanziamenti maggiormente aderenti alle aspettative
della clientela". Caratteristiche principali dei covered bond rispetto
alle normali obbligazioni bancarie sono il profilo di rischio molto basso e
l'elevata liquidità. "L'Italia entra in un mercato internazionale già affollato e competitivo
- ha detto Giuseppe Zadra, direttore generale dell'Abi - ma la solidità dell'impianto
normativo e l'alta qualità dei crediti utilizzabili a garanzia delle
emissioni, sono una via essenziale per recuperare terreno a livello europeo e
attrarre con successo gli investitori esteri". Dunque c'è ottimismo
tra le aziende di credito che si dicono pronte ad affrontare la sfida di
allineare i tassi sui mutui a quelli della media Ue. Se lo augura anche il vice
direttore della Banca d'Italia secondo cui sembrano "esistere le condizioni perché
un'offerta di mutui ipotecari in espansione, trainata dalla richiesta di
covered bonds, e una domanda di mutui in rallentamento, contribuiscano a
eliminare l'anomalo differenziale fra i tassi italiani e quelli degli altri
paesi dell'area dell'euro". Toccherà però agli intermediari
fare la loro parte e "trarre dall'utilizzo di questo nuovo strumento di
raccolta vantaggi significativi, che accrescano la loro competitività
sul mercato domestico così come su quello internazionale". La sfida
è appena iniziata. (b.ar.).
I sindacati "Un'azienda che fa regali
ai dirigenti e punisce i lavoratori non è più credibile"
GIOVANNI PONS MILANO - Strano a dirsi ma lo sdoppiamento del consiglio
Mediobanca attraverso la governance dualistica si intreccia con il passaggio di
mano della Telecom. Il 27 giugno, primo giorno in cui si riunirà il
nuovo consiglio di sorveglianza di Piazzetta Cuccia, si provvederà alla
nomina del consiglio di gestione. Il cui presidente dovrebbe essere Gabriele
Galateri di Genola, con Alberto Nagel amministratore delegato e Renato Pagliaro
direttore generale. Ma se per quella data si dovesse firmare il contratto
definitivo tra la Telco e Olimpia, come auspica il presidente di Telefonica
Cesar Alierta, allora Galateri potrebbe non essere nominato in Mediobanca e
passare direttamente in Telecom. Sempre che ci sia il consenso della
maggioranza degli azionisti Telco, tra cui figura anche Intesa Sanpaolo. Ma
nell'attesa che si verifichi il passaggio del testimone tra i vecchi e i nuovi
azionisti, l'azienda di tlc attraversa un periodo molto travagliato. Ieri i
sindacati interni hanno scritto al presidente Pasquale Pistorio per chiedere "una
informazione dell'azienda relativa alle notizie di stampa circa una presunta
erogazione di premi per decine di milioni di euro alle fasce dirigenziali che,
se confermate, rischiano di dare l'idea di un gruppo nel quale, a fronte di un
arretramento dei dati di bilancio 2006, persisterebbe una generosità
eccessiva nei confronti dei dirigenti". In sostanza i 70 mila dipendenti
Telecom hanno scoperto che il Premio di risultato 2006 è stato loro
negato, mentre ai dirigenti sono stati erogati circa 50 milioni. Non solo. Gli
80 milioni che erano stati accantonati per far fronte ai premi 2006 sono
rimasti intatti e rappresentano una riserva per il bilancio 2007. Inoltre per
le "risorse strategiche" dell'azienda, che nel bilancio 2006 erano
rappresentate da dieci dirigenti superpagati (Buora, Ruggiero, Bracco,
Parazzini, Castelli, Chiappetta, Luciani, Pileri, Grijuela, Spreafico), sono
stati stanziati altri 50 milioni circa sotto forma di "oneri per
esodi". Si tratta di una sorta di paracadute per l'attuale prima linea nel
caso i nuovi azionisti dovessero provvedere alla loro sostituzione. Infine,
l'ultima assemblea ha approvato un piano di assegnazione gratuita di 25 milioni
di azioni Telecom (valore di mercato 50 milioni) che l'azienda
acquisterà sul mercato e poi assegnerà ad alcuni dirigenti. Fonti
interne stimano che già nel 2007 il beneficio per i fortunati
destinatari delle azioni sarà di 15 milioni. Su questo punto,
particolarmente delicato, si registrò in assemblea l'astensione dal voto
della Banca d'Italia e ora anche la Consob potrebbe mettere gli occhi sulla
questione. Insomma, pare proprio che la divaricazione in Telecom tra una
"casta" di superdirigenti e la massa dei dipendenti si sia allargata
a dismisura e sia diventata una questione che Pistorio non potrà
liquidare tanto facilmente. "Un'azienda che premia azionisti e dirigenti e
scarica l'insieme delle compatibilità sui lavoratori rischia di non
essere credibile e creduta, e ciò sarebbe grave ? scrive il sindacato ?
Il processo di risanamento finanziario di Telecom deve essere governato con
trasparenza e con equilibrio".
Stiamo parlando del generale dei
carabinieri Carlo Mori, comandante del Raggruppamento
tecnico-logistico-amministrativo (Rtla), indagato nelle pieghe dell'inchiesta
su logge massoniche e affari coordinata dal pm della Procura di Potenza, Henry
John Woodcock. Alla "perquisa", effettuata martedì pomeriggio,
erano presenti il colonnello Salvatore Musso, comandante provinciale dei
carabinieri di Padova, e il maggiore Federico Peri, comandante del nucleo
operativo dell'Arma. In questa storia, sulla quale si sta cercando di fare
chiarezza, risultano coinvolti politici e funzionari pubblici, soprattutto
livornesi. E siamo solo al primo round. Ancora una volta lo spettro della
massoneria incombe su scorridori d'affari legati alla politica tramite logge
dove venivano svolte attività direttive in grado "d'interferire
sull'esercizio delle funzioni di organi istituzionali, di amministrazioni ed
enti pubblici anche economici nonché di servizi pubblici essenziali d'interesse
nazionale". Soggetti in profumo di affarismi ottenuti tramite la
pianificazione d'interventi "diretti ad accaparrarsi appalti, concessioni
o risorse pubbliche sfruttando legami ed entrature scaturiti da rapporti di
natura massonica". E' la terza mossa giudiziaria del pm Woodcock, dopo
l'arresto del principe Vittorio Emanuele di Savoia e l'inchiesta su Valettopoli
entro cui è rimasto intrappolato il re dei paparazzi Fabrizio Corona.
Quest'ultima indagine dal collare massonico nasce dalle "dritte" agli
inquirenti del faccendiere con ventilate credenziali nei servizi segreti
Massimo Pizza, arrestato nei crespi sulle grandi truffe ad imprenditori e
coinvolto nell'inquietante Somalia-gate. Il magistrato anglo-napoletano inizia
ad approfondire le varie facce della massoneria, a cominciare da quella legale.
A tal fine chiede a 103 prefetture italiane gli elenchi degli iscritti alle
logge massoniche. Ma sarà arduo averli tutti, non sussistendo più
l'obbligo di comunicarli alla polizia. Intanto però il pm ipotizza un
capo d'imputazione di partenza: associazione a delinquere finalizzata alla
violazione della legge Anselmi contro le associazioni segrete, motivata
motivato in 380 pagine coi nomi di 24 inquisiti, date, luoghi e circostanze. E
lunedì scorso i suoi fidi ufficiali di pg partono da Potenza alla volta
di varie località italiane, perquisendo sedi di associazioni e partiti, abitazioni
private e uffici, per lo più a Livorno. Arrivano anche nella
città del Santo, dal cui ufficio il generale Mori può ammirare lo
stupendo scenario di Prato della Valle. Il magistrato inquirente scrive che
alcune riunioni si sarebbero svolte "nella sede dell'Udc di Livorno"
per discutere di affari di "dubbia liceità". Tra gli indagati,
oltre al generale Mori, spiccano i nomi di Giampiero Del Gamba, iscritto con
tessera 863 alla vecchia P2 di Licio Gelli, e dell'ex parlamentare Emo Danesi,
tesserato 752. E c'è pure Paolo Togni, collaboratore del Ministero
dell'Ambiente ai tempi di Mattioli.
Il default dei bond emessi da Caboto (Banca
Intesa) per 150 milioni ha coinvolto i risparmiatori Esperto di aziende tlc nel
tempo aveva rilevato l'ex Olivetti, la Telit e alcuni rami della Italtel ETTORE
LIVINI DAL NOSTRO INVIATO MESTRE - Cinque ex manager arrestati, decine di
indagati. Tre persone (di passaporto italiano ma residenti all'estero)
ufficialmente latitanti. Dopo due anni di indagini, il lavoro dei magistrati
sul crac della Finmek è arrivato a una svolta. Il nucleo della polizia
tributaria di Venezia guidato dal colonnello Giulio Piller ha bussato alle
quattro di ieri mattina alla porta della casa di Carlo Fulchir, l'ex numero uno
del gruppo, a Buia, a due passi da Udine. In anticamera erano pronte le valige
per una crociera programmata da tempo assieme alla moglie Doris Nicolosi. Ma i
due hanno dovuto cambiare programma. I finanzieri li hanno trasferiti in
carcere, dove sono finiti anche il fratello di Fulchir, Loreto, e due ex
dirigenti del gruppo informatico, Paolo Campagnolo e Guido Sommella, secondo il
provvedimento emesso dal gip Cristina Cavaggion su richiesta del pm Paola De
Franceschi che ha condotto le indagini. Le accuse (riassunte nelle 250 pagine
dell'ordinanza di custodia cautelare) sono gravissime: associazione per
delinquere, bancarotta, falso in bilancio, riciclaggio (per 17 milioni),
malversazione ai danni dello Stato, aggiotaggio e appropriazione indebita. Tra
gli indagati (con l'accusa di concorso in bancarotta) c'è anche Roberto
Tronchetti Provera, fratello dell'ex numero uno di Telecom Italia, per un paio
d'anni presidente della Finmek. Gli elementi raccolti dal pool della polizia
tributaria lagunare (guidato dal colonnello Pier Luigi Pisano e dal tenente
Francesco Mora) disegnano un quadro inquietante. In base all'accusa, Fulchir e
i suoi compagni d'avventura avrebbero sistematicamente svuotato le casse della
società e delle sue controllate, distraendo 150 milioni di euro, creando
voci di bilancio fittizie per 650 milioni ed emettendo fatture false per 140
milioni. In tutto un buco da un miliardo che ha affondato l'intera galassia
Finmek, finita in amministrazione straordinaria a fine 2004, lasciando 6mila
persone senza lavoro e mandando in fumo in 150 milioni di bond emessi nel 2001
da Caboto Banca Intesa e sottoscritti da un migliaio di risparmiatori. Il
responsabile numero uno del crac - secondo le carte degli inquirenti - sarebbe
proprio Carlo Fulchir, l'ex enfant prodige dell'informatica italiana che grazie
a una rete di relazioni bipartisan e a una grande capacità di
comunicazione si era candidato a fine millennio al ruolo di risanatore
dell'informatica nazionale, rilevando per un piatto di lenticchie aziende in
crisi (dagli ex pc Olivetti alla Telit fino ad alcuni rami d'impresa di
Italtel) per rilanciarli. Strada facendo si era guadagnato - secondo la Finanza
- il ruolo di consulente dell'innovazione nel governo D'Alema, aveva aperto il cda della sua Mekfin a
Umberto Minopoli uomo di Bersani, ma strizzando però l'occhio anche al
fronte opposto entrando nell'azionariato del Domenicale di Marcello Dell'Utri.
Il sogno del polo elettronico italiano - oliato anche da 10 milioni di
contributi pubblici per progetti poi mai realizzati - si è però
rivelato subito un bluff. Le aziende sono andate in crisi, i dipendenti sono
rimasti per strada mentre Fulchir - secondo l'accusa - ha spolpato le
società trasferendo i soldi nei suoi conti svizzeri. Lo schema era
articolato. Fulchir girava i soldi in alcune società estere grazie a
contratti di consulenza fittizi, a vendite di materiali e magazzini inesistenti
o accendendo finanziamenti. I contanti finivano poi in un vorticoso giro di
conti correnti, da Londra alle Bahamas fino alla Svizzera, dove entravano nelle
disponibilità personali del manager e di sua moglie. Gli altri arrestati
sarebbero invece responsabili solo di aver avvallato il meccanismo con le loro
firme. I primi a sentire puzza di bruciato sono stati nel 2003 gli uomini della
Deloitte. I revisori hanno avvisato la magistratura di questi strani movimenti
e gli inquirenti, dopo aver passato al setaccio 713 conti correnti (20 all'estero)
e dopo 17mila ore d'intercettazione, 8 rogatorie sono entrati ieri in azione
per evitare la dispersione di prove. Quanto sarà possibile recuperare?
Un mese fa erano stati già congelati beni per 14 milioni di euro. E
secondo la polizia tributaria all'appello mancherebbero almeno un altro
centinaio di milioni spariti nel dedalo di conti esteri degli imputati. Gli
inquirenti sono ancora in attesa dei risultati di nuove rogatorie che
potrebbero consentire di recuperare almeno un altro pezzo del tesoretto di
Fulchir.
Europa
7-6-2007 Ora arriva l’altra onda di fango
Il
Corriere della sera 7-6-2007 UNA VITTORIA EFFIMERA di PIERLUIGI BATTISTA
La
Repubblica 7-6-2007 IL COMMENTO Il sintomo dell'infezione di GIUSEPPE D'AVANZO
Il
Riformista 7-6-2007 D’Alema, la «spazzatura» e i conti sbagliati dei Ds di
Stefano Cappellini
Il Sole
24 Ore 6-6-2007 Tassi Bce al 4%. Trichet: «Tutte le opzioni aperte per il futuro»
P. F.
Tagli anche ai giornali di partito Levi: entro giugno una riforma
organica. La lente della Finanza sugli sprechi
ROMA- Non ci saranno sconti neanche per il futuro Partito Democratico. I soldi
andranno all'uno o all'altro, non a tutti e due i quotidiani di Ds e
Margherita. A meno che non facciano una bella fusione. "Il governo ce l'ha
già detto: quando arriverà il nuovo partito non potrà
continuare a dare contributi pubblici a tutti e due. A Europa che è
espressione della Margherita, e a noi che siamo organo dei gruppi parlamentari
dei Ds" racconta Giorgio Poidomani, amministratore delegato della
società editrice dell'Unità. Che comunque, fatta salva quella
prospettiva sicuramente problematica, è assolutamente ben disposto ad
accogliere il riordino delle provvidenze pubbliche a favore dell'editoria
annunciato ieri dal governo. "è ora che i finanziamenti vadano ai
giornali veri, espressione di partiti veri, che vendono copie vere. O alle vere
cooperative di giornalisti" dice Poidomani. ENTRO GIUGNO IL DDL Il
riordino, al quale lavora da un anno il sottosegretario alla Presidenza,
Ricardo Levi, entrerà nel pacchetto di misure per l'abbattimento dei costi della politica che il ministro dell'Attuazione
del programma, Giulio Santagata, ha confermato per fine giugno. Farà
compagnia ai nuovi criteri per la definizione delle province, delle
comunità montane, delle circoscrizioni, a quelli per snellire i consigli
regionali, comunali e provinciali, per ridurre i benefit e le indennità.
E forse anche ministri e sottosegretari, perché Santagata ammette che con 26
dei primi e 104 dei secondi, anche il governo di cui fa parte "ha
esagerato. Sui costi della politica bisogna dare un segnale urgente, perché
il rischio del distacco dei cittadini è grande e sotto gli occhi di
tutti". RIFORMA ORGANICA Anche di chi si chiede come mai Torino Cronaca
prenda dallo Stato quasi 3 milioni di euro in quanto espressione di un
movimento politico, come il Foglio e il Riformista, ma anche come il Roma di
Napoli, il Denaro, Metropoli Day, e Libero. Di chi si domanda se sia giusto che
anche il mensile con i programmi che Sky invia ai suoi abbonati, in quanto
prodotto editoriale, riceva le agevolazioni previste sulle tariffe postali (25
milioni di euro l'anno). O semplicemente come mai i contributi pubblici siano
esplosi in 20 anni: da 28 milioni di euro del 1980 agli oltre 600 di oggi. Via
alla riforma, dunque. "Che sarà organica, e riguarderà tutti
gli aspetti dell'industria editoriale: il prodotto, il mercato, le imprese, e
ovviamente gli aiuti" spiega Levi. Si stabilirà con precisione cosa
è un prodotto editoriale, perché è dubbio che lo siano, come sono
oggi considerati, e quindi agevolati, i cosiddetti "collaterali", dai
dvd agli aerei da montare. I contributi alle cooperative resteranno, ma a
quelle vere, composte dai giornalisti e dai dipendenti. Mettendo fine al caos
generato dalla sanatoria del 2001, quando si decise che per continuare ad avere
contributi i giornali espressione dei "movimenti politici" (bastavano
due parlamentari) dovevano essere trasformati in cooperative anche spurie,
cioè con soci azionisti e non lavoratori. Resteranno, ovviamente, i
contributi ai quotidiani politici, tutelati in nome della libertà
d'espressione dalla Costituzione. "Ma, anche qui, dobbiamo chiarire cosa
si debba intendere per un organo legato ad un gruppo politico" spiega
Levi. Soprattutto, poi, ci saranno parametri industriali per calcolare
l'entità delle sovvenzioni. "Che saranno legate - aggiunge il
sottosegretario - al numero effettivo di copie stampate e realmente diffuse, ma
anche all'occupazione effettiva". LA FINANZA AL LAVORO Oggi il criterio
per stabilire il "quantum" del contributo è facilissimo da
aggirare. Basta stampare migliaia di copie e magari lasciarle in un deposito.
Oppure regalarle. O venderle in blocchi ad aziende come le Fs, Alitalia,
ospedali, catene alberghiere, che poi li distribuiscono gratuitamente ai loro
clienti, a prezzi irrisori. "Criteri non sempre trasparenti" ammette
Santagata. Tanto che due mesi fa il governo ha chiesto alla Guardia di Finanza,
di distaccare un nucleo di ispettori al Dipartimento dell'Editoria, per evitare
possibili truffe. Paolo Franchi, direttore de Il Riformista, organo del movimento
Ragioni del Socialismo, concorda. "Dal mio punto di vista è giusto
mettere ordine con regole chiare e trasparenti. Purché ci si renda conto che la
tutela di una voce piccola, ma di peso, non è lo stesso problema
dell'auto blu usata dal nipote dell'assessore" dice Franchi. "Da
questa riforma noi abbiamo tutto da guadagnare" concorda Stefano
Menichini, direttore di Europa. "Lo scenario - aggiunge - è
ignobile: i soldi li prendono tutti, giornali veri e falsi, chi vende e chi non
s'è mai visto in edicola, chi è espressione di veri partiti e chi
lo è di sole due persone". "Però dobbiamo parlare anche
della grande stampa. Il grosso delle agevolazioni - dice Poidomani - va
lì. Mi chiedo se anche questo è giusto".
POTENZA - Un "comitato
d'affari" comprendente politici, magistrati, avvocati, imprenditori e
funzionari avrebbe festito grosse operazioni economiche in Basilicata. La
guardia di Finanza sta perquisendo le abitazioni e gli uffici del
sottosegretario allo Sviluppo economico, Filippo Bubbico (Ds), del procuratore
generale di Potenza, Vincenzo Tufano, dell'avvocato Giuseppe Labriola e della
dirigente della squadra mobile di Potenza, Luisa Fasano. L'inchiesta,
denominata "toghe lucane", è condotta dal pm di Catanzaro,
Luigi De Magistris.
Le ipotesi di reato sono quelle di abuso d'ufficio per Tufano; corruzione in
atti giudiziari e associazione per delinquere per Labriola; abuso d'ufficio per
Fasano; abuso d'ufficio, associazione per delinquere e truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche per Bubbico che è stato presidente
della Regione Basilicata. Gli accusati avrebbero costituito un "vero e
proprio centro di affari occulto", che tutelava "interessi personali
e di gruppi".
Nell'inchiesta sono indagati uomini politici, amministratori, imprenditori,
funzionari e magistrati in servizio in Basilicata (fra questi ultimi, uno ha
lasciato la magistratura e altri sono già stati trasferiti in altre sedi
dal Consiglio Superiore della Magistratura).
Bubbico, si legge nel decreto di perquisizione redatto dal pm di Catanzaro De
Magistris, è "il punto di riferimento politico apicale, unitamente
ad altri appartenenti alla politica", nel "comitato di affari"
al centro dell'inchiesta. L'inchiesta avrebbe messo in luce, sempre a carico di
Bubbico - che è stato presidente della Giunta regionale della Basilicata
nella passata legislatura - "una logica trasversale negli
schieramenti", con il "collante degli affari".
Mentre il procuratore Generale della Repubblica di Potenza, Vincenzo Tufano,
era "il punto di riferimento" per avvocati e magistrati che volevano
difendere "i 'poteri forti' operanti in Basilicata".
(7 giugno 2007)
Cara Europa,
leggo che la Sip (non la vecchia società telefonica ma la Società
italiana di psicologia) ha denunciato il drammatico abbassamento a 11 anni
dell’età in cui i ragazzi si avvicinano al loro primo spinello. Il nuovo
rischio, oltre quello insito nel fatto stesso, è che la nuova cannabis o
marijuana è geneticamente modificata, prodotta in Albania, a prezzi
stracciati.
Ministri, presidi, professori, medici, poliziotti, dovrebbero essere tutti nel
problema. O ne restano fuori? ANGHELINA PODESTÀ, MILANO
Cara Anghelina, probabilmente lei ha figli in età. In
questo caso, avrebbe dimenticato di inserire al primo posto, nell’elenco degli
emeriti di cui vuol sapere se sono nel problema o fuori, i papà e le
mamme. Comunque fa bene a lanciare l’allarme, che già comincia a
risuonare anche su giornali ben più diffusi del nostro. L’allarme
riguarda non solo l’abbassamento dell’età, ma anche la qualità
della droga. Sull’età, l’allarme più vibrante l’ha lanciato, con
un libro appena presentato a Roma e tra qualche giorno a Milano, la mia
carissima amica e collega Marida Lombardo Pijola, del Messaggero, che ha figli
dell’età dei miei nipoti più piccoli. Il libro, presentato a Roma
da docenti e psichiatri infantili, si intitola Ho dodici anni, faccio la
cubista, mi chiamano principessa: è uno spaventoso documento del
divertimento adolescenziale fra balli, droga e sesso a pagamento dopo la lap
dance, nelle discoteche pomeridiane per soli ragazzi, gestite da ragazzi
più grandi che fanno tanti soldi trasformando le ragazzine in puttane e
i ragazzini in candidati alle malattie mentali. Avessimo un governo, metterei
insieme i ministri dell’istruzione, della salute, degli affari sociali, della
gioventù e, perché no, dell’interno (altro che ripulire la Salaria) ; e
farei acquistare tanti milioni di copie di quel libro quante sono le famiglie
che hanno figli negli ultimi anni delle elementari e nei primi della scuola
media: una befana per tutte, così imparerebbero quel che fingono di non
sapere, e cioè cosa fanno i figli mentre papà e mamme lavorano o
si distraggono a loro volta, come vuole il costume della
deresponsabilizzazione.
Certo, la mia ideuzza comporterebbe qualche fatica in più per i
professori e soprattutto per i presidi, sempre pronti a dire No ai Nas nelle
scuole, ma lo stipendio debbono pur meritarselo. Naturalmente, non è coi
Nas in classe che si risolve il dramma della droga, i Nas potrebbero aggirarsi
fuori delle scuole. Nelle aule dovrebbero operare gli uomini e le donne della
scuola.
Senza mandare i ragazzi nei centri di disintossicazione dei cocainomani e degli
eroinomani, dove magari gli danno il metadone; ma avvertendo la famiglia e,
quando questa è sorda, i “correzionali”, come si diceva una volta, con
esemplari sospensioni dalla scuola. Senza dimenticare che vendere spinelli
geneticamente modificati, che contengono fino al 50 per cento in più di
thc (il principio attivo), può essere assimilato ai reati gravi contro
la persona.
Il testo
integrale della replica di Padoa Schioppa (6-6-07)
Seguono: Mozioni e Ordini del giorno
Il Governo ha retto dopo una maratona conclusasi oltre le 23.
L'ordine del giorno presentato da tutti i capigruppo dell'Unione ha ottenuto la
maggioranza. La Cdl, contestando che parte del testo fosse preclusa da una precedente
votazione (l'apprezzamento sull'operato della Guardia di Finanza), non ha
partecipato al voto. La mozione della Cdl con la richiesta di revoca di tutte
le deleghe al vice ministro dell'Economia è stata respinta con 155 voti
a favore e 160 contrari (315 i presenti e votanti, 158 la maggioranza
richiesta). Identica sorte anche per la mozione della Lega. Respinti anche
tutti gli ordini del giorno.
L'intervento del ministro Padoa Schioppa
Poche parole e subito il ministro dell'Economia Tommaso Padoa
Schioppa, è stato interrotto dal vociare dell'Aula. Una bagarre che ha
raggiunto il culmine quando i senatori della Cdl, tutti in piedi, hanno
cominciato ad agitare fogli con su scritto "ridateci la democrazia" e
manifesti accompagnati dalla scritta «Don Vincenzo Visco, il padrino». Il
presidente Marini ha interrotto la seduta per alcuni minuti voci.
Dopo alcuni minuti l'avvio, faticoso, dell'intervento.
L'intervento del ministro
«L'obbiettivo dominante del mio comportamento in questo delicatissimo circostanza
è stato restituire serenità e fiducia alla Guardia di Finanzia».
Il governo è intervenuto nel momento in cui «la situazione è
diventata insostenibile». Lo ha detto il ministro dell'Economia, Tomaso
Padoa-Schioppa: «Ora è necessario un rapporto corretto tra ordine
militare e ordine politico».
«La continua distorsione di regole e procedure ha portato il corpo
dall'autonomia alla separatezza». «Tutta la vicenda - ha sottolineato il
ministro - è stata caratterizzata da assenza di comunicazione serena e cooperativa,
da mancanza di trasparenza, prudenza e riservatezza, dal venir meno delle
regole etiche e deontologiche».
Visco non ha rivolto alcuna minaccia al generale Speciale. «Queste minacce - ha
detto Padoa-Schioppa - se fossero state vere, Speciale avrebbe dovuto
denunciarle subito. Ma - ha aggiunto - non erano tali e questo spiega
perchè il procuratore
generale non le ha prese in considerazione nelle sue decisioni». È
«inqualificabile che le telefonate tra il comandante Speciale e il vice
ministro fossero fatte ascoltare in viva voce dal colonnello Carbone e dal
maggiore Cosentino».
Opacità nei comportamenti, gestione personalistica, scontri, malessere
generale. Questi gli addebiti che il ministro ha rivolto al comandante generale
della Guardia di Finanza Roberto Speciale, ricordando anche la necessità
di quella che ha definito «arte del comando».
«Là dove sono i generali o i colonnelli a determinare la sorte dei
governanti e non viceversa siamo fuori della democrazia». Padoa-Schioppa ha
ricordato che, «se un prefetto viene rimosso, non rimane neppure un momento al
comando della sua
prefettura senza l'avallo del Viminale». «In guerra e in pace - ha aggiunto -
la politica è
intervenuta per rimuovere un comando. McArthur fu rimosso durante una guerra».
Infine il ministro ha espresso il parere favorevole del Governo esclusivamente
sull' ordine del giorno firmato dai capigruppo della maggioranza in Senato.
Invito al ritiro o, in alternativa, parere negativo per tutti gli altri
documenti presentati dai senatori dell' opposizione.
Il ministro ha concluso il suo intervento con una citazione. «Dice Eraclito:
combattere a difesa della legge è necessario per il popolo proprio come
la difesa delle mura. Ritengo di avere combattuto a difesa della legge
affinchè la difesa delle mura continui a svolgersi nel modo migliore»
Le proteste
L'intervento del ministro Padoa-Schioppa si è concluso tra le proteste
della CdL, mentre i senatori della maggioranza si sono alzati battendo le mani.
Gli applausi si sono accompagnati così alle grida di «buffone!buffone!»
che si sono alzate dai banchi dell'opposizione. Poco prima che concludesse la
sua relazione il ministro aveva fatto andare gli esponenti della CdL su tutte
le furie accusandoli di fare «schiamazzi». «Tanto gli italiani - ha detto il
ministro riferendosi alla diretta Tv che è stata data per questa seduta
di palazzo Madama - riescono a sentire solo la mia voce e non tutti questi
schiamazzi!». I senatori del centrodestra, che già stavano
protestando, alla parola 'schiamazzì hanno alzato ancora di più
la voce fino ad arrivare al coro di «buffone!buffone!» che ha siglato la
relazione di Padoa-Schioppa.
La cronaca della giornata
La giornata è stata davvero complicata e lunga.
Alle 9.30 è cominciata la discussione generale su mozioni, ordine del
giorno e interpellanze e la Cdl ha subito chiesto chiarimenti sulla questione
della correttezza delle procedure di nomina del nuovo comandante Cosimo
D'Arrigo. Roberto Calderoli ha sostenuto che ieri la Corte dei Conti avrebbe
rinviato a Palazzo Chigi il provvedimento di nomina di D'Arrigo e la revoca di
Roberto Speciale. Il Presidente del Senato, Franco Marini, ha precisato che «il
decreto non è stato respinto dalla Corte dei Conti, è all'esame»,
anche «se non è stato ancora registrato». Ma il centrodestra ha
insistito sulla necessità di avere chiarezza sul decreto di nomina del
nuovo comandante della Guardia di Finanza e sulla revoca di Roberto Speciale. E
per questo ha chiesto al Presidente Marini di sospendere i lavori dell'Aula e convocare
d'urgenza la conferenza dei capigruppo. La richiesta è stata accetta. La
capigruppo si è riunita e ha deciso la riprese della seduta con il
dibattito seguendo le modalità che erano stabilite ieri
all'unanimità dalla stessa conferenza. Sono stati confermati anche i
tempi preventivati per il dibattito: per le 19.40 è fissata la replica
del Governo con il ministro dell' Economia Tommaso Padoa-Schioppa e il voto
è previsto non prima delle 22.00.
Nella ripresa pomeridiana della seduta Roberto Calderoli ha richiesto di avere
il decreto che «il Presidente della Repubblica ha trasmesso alla Corte dei
conti» relativo alla rimozione del Generale Speciale e che «non è stato
secretato».
I due schieramenti si confrontano con voto palese attraverso le due mozioni del
centrodestra e l'odg del centrosinistra. Quest'ultimo oltreché esprimere
«apprezzamento» per l'operato delle Fiamme gialle, sottolinea la «condivisione»
dell'operato del Governo. La mozione della Cdl, oltre a chiedere il ritiro di
tutte le deleghe a Visco, impegna l'Esecutivo a rispettare le procedure di
revoca e conferimento di incarichi perché ritiene che Palazzo Chigi abbia agito
non correttamente, non essendoci un atto di revoca per il generale Roberto
Speciale. C'è poi la mozione a firma di Calderoli, della Lega, di
solidarietà a Speciale e sempre Calderoli ha presentato tre odg. Mentre
il Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga è firmatario di
due interpellanze.
Nel centrosinistra sono rientrate le possibile defezioni di due senatori Prc,
per malattia e anche i dubbi dell'Idv sono superati. Tra i senatori a vita
dovrebbero essere in Aula Emilio Colombo, che vota con la maggioranza e Giulio
Andreotti, il quale non ha ancora sciolto la riserva sulle sue intenzioni.
Oltre al nodo politico, al centro della discussione resta quello procedurale
sulla sostituzione di Speciale. La Cdl accusa: c'è il decreto di nomina
di D'Arrigo, ma non quello di revoca di Speciale. Roberto Calderoli insiste:
«so per certo che la Corte dei conti ha respinto il provvedimento con cui si
sostituisce il vertice della Guardia di finanza». Ma Palazzo Chigi già
ieri sera aveva precisato: si tratta di tempi tecnici, «il provvedimento di
sostituzione del vertice della Guardia di finanza è in corso di
registrazione alla Corte dei conti». La Corte, a sua volta, fa sapere che
nessuna decisione, ancora, è stata presa. Il ragionamento
dell'opposizione è chiaro: non si può registrare la nomina del
nuovo comandante della Gdf quando non esiste un atto ufficiale di destituzione
del precedente. E solo se Speciale avesse accettato il nuovo incarico, il suo
posto sarebbe rimasto vacante, e quindi il cambio di guardia sarebbe potuto
avvenire senza contrattempi. La maggioranza controbatte che il testo del
decreto è «pienamente in linea» con analoghe nomine decise in passato e
fa notare che lo stesso Speciale ha infine accettato la decisione del Governo,
rinunciando ad opporvisi per via giudiziaria
Mozioni e Ordini del giorno
Sono 2 mozioni e 8 ordini del giorno (cinque dei quali del
leghista Roberto Calderoli) sulla vicenda Visco-GdF i documenti che saranno
posti in votazione questa
sera, in Senato. Ecco chi li ha presentati e cosa chiedono al governo.
MOZIONI -
1) CDL - Chiede di revocare tutte le deleghe assegnate al viceministro
dell'Economia Vincenzo Visco. Impegna il governo a rispettare rigorosamente le
procedure giuridiche e amministrative riguardanti la revoca e i conferimenti di
incarichi pubblici. Il documento, tra l'altro, fa notare che dagli atti
dell'intera vicenda Visco-Speciale mancherebbe il provvedimento di revoca
dell'incarico di guida della GdF e quindi ci sarebbe una «anomala situazione di
incertezza ai vertici delle Fiamme Gialle» con presenza di due comandanti
generali.
2) LEGA (Calderoli) - La mozione della Lega impegna il governo ad esprimere la
fiducia sull'operazione del Corpo della Guardia di Finanza e dei suoi alti
vertici della catena di comando. Qualora fosse bocciato - ha detto in Aula
Roberto Calderoli - i nuovi vertici della GdF dovrebbero prenderne atto e
dimettersi.
ORDINI DEL GIORNO -
1) UNIONE - Il testo della maggioranza afferma che il Senato condivide
l'operato del governo ed esprime pieno apprezzamento per il ruolo che svolge la
Gdf, essenziale per l'ordine democratico e l'equità fiscale. Il documento
porta le firme di tutti i capigruppo della maggioranza compresa quella del
senatore Roberto Manzione che aveva presentato nei giorni scorsi un Odg, poi
ritirato, che chiedeva chiarezza sul comportamento del ministro.
2) CDL - Impegna il governo a rispettare la legge del '59 che afferma che il
Corpo della GdF dipende direttamente a tutti gli effetti dal ministro delle
Finanze.
3) LEGA (Calderoli) - Impegna il governo ad esprimere solidarietà e
apprezzamento alla Gdf.
4) FI (Massidda) - Chiede al governo di accogliere la richiesta del generale
Speciale di rimanere in carica almeno fino al 21 giugno, giorno della festa
della GdF.
5) LEGA (Calderoli) - Chiede al governo di non procedere a nomine in assenza di
dimissioni o di revoca di rispetti titolari che portino come conseguenza alla
preposizione di due generali al comando della Gdf.
6) LEGA (Calderoli) - L'Odg sostiene che vi è la possibilità che
l'azione del Governo nella questione Visco-Gdf possa determinare un contenzioso
sul decreto del presidente della Repubblica. Il documento impegna il Governo,
per salvaguardare le alte cariche istituzionali, a trarre le conseguenze, anche
politiche dell'accaduto«.
7) LEGA (Calderoli) - Impegna il governo ad esprimere apprezzamento nei
confronti dell'operato del corpo della GdF.
8) LEGA (Caledroli) - Impegna il governo ad esprimere apprezzamento nei
confronti della GdF e a promuove una politica di riduzione fiscale e di
sostegno delle fasce più deboli.
La coalizione di centrosinistra esce dall’ennesima resa dei conti
di palazzo Madama. Il voto che conferma la linea del governo sul caso Speciale
arriva peraltro al termine di una giornata al di sotto delle attese, se fra le
attese c’era uno scontro al calor bianco nell’aula di palazzo Madama.
C’è stata la parentesi della gazzarra della destra durante il discorso
di Padoa- Schioppa, e poi una serie di interventi finali pieni di propaganda ma
abbastanza approssimativi: tutto qui, neanche la Casa delle libertà
è sembrata voler premere più di tanto il pedale sull’acceleratore
della crisi.
Per paradosso, il dibattito si è incentrato alla fine più su
meriti e demeriti del generale Speciale, che non sulla linea di condotta del
viceministro congelato. L’amicizia con Fiorello non è bastata:
l’ufficiale è uscito male dalla giornata. Prima ha ascoltato i senatori
unionisti ripercorrere i suoi anni di autocrazia nel corpo. Poi s’è
sentito rimbrottare dai leghisti per aver voluto “obbedire” alla destituzione.
Infine è stato accusato di slealtà dal ministro dell’economia,
quando questi ha finalmente spiegato la versione governativa della vicenda.
Per onestà, non tutto è stato chiarito fino in fondo e in maniera
soddisfacente (a cominciare dalla famosa nomina alla Corte dei conti).
Ma Padoa Schioppa è uscito dal cliché dell’austerità e ha
ingaggiato un autentico scontro con la Cdl, la quale si sarà forse
pentita di avere offerto la platea televisiva alla requisitoria ministeriale.
Più o meno chiusa la partita Speciale, il mondo politico aspetta le
seconde ondate di fango. Ieri, sorprendentemente, se n’è alzata una
sulle pagine della Stampa a carico di D’Alema per una storia di conti esteri
tanto vecchia quanto poco documentata. Arriveranno ad horas i testi delle telefonate
dei dirigenti diessini all’epoca del caso Unipol: anche qui, una vicenda tanto
sgradevole quanto datata.
L’aria è mefitica. C’è però l’impressione che se la destra
affida solo a queste storie le speranze di rivalsa, riuscirà solo a
inquinare l’acqua nella quale tutti nuotano.
Per durare il governo
deve ritrovare coesione Come era previsto, la maggioranza di governo non
è stata battuta dal voto del Senato sul caso Visco-Speciale. Ma non esce
indenne da una vicenda condotta in modo contraddittorio, confuso, impacciato.
Evita con i numeri del Senato guai peggiori neutralizzando defezioni e malumori
che pure serpeggiavano nella coalizione. Ma lascia dietro di sé un clima intossicato,
un terreno costellato di trappole e virtuosismi nell'arte del doppiogioco,
imbarazzi, silenzi, lealtà strappate obtorto collo e ottenute solo per
scongiurare la fine traumatica della maggioranza. Il governo non cade, ma
appare debole e sfibrato il primo elemento che dovrebbe cementarne se non
l'unità e la concordia, almeno una fondamentale solidarietà: la
fiducia reciproca tra gli alleati, la percezione di un percorso da affrontare
insieme, per obiettivi che non siano la pura e semplice durata alimentata dal
comune (questo sì) istinto di sopravvivenza. Non è la prima volta
che la maggioranza di governo arriva al voto del Senato in affanno, gravata
dalle divisioni che ne minano la compattezza. Ma in altre occasioni la
divisione politica tra le sue componenti è sembrata
chiara, articolata su contenuti contrapposti, motivata dalla persistenza di
culture politiche diverse che non riescono a trovare composizione sui temi
qualificanti della politica di governo (a cominciare dalla politica internazionale). Stavolta tutto appare più opaco, allusivo, non motivato
da spaccature politiche che, sebbene rischino di compromettere l'adozione di
indirizzi coerenti e univoci, comunque rimandano all'esistenza di anime e
culture diverse che si affrontano apertamente (e talvolta rovinosamente).
Stavolta le divisioni della maggioranza di governo rivelano nicchie di dissenso
e di disimpegno malmostoso che attraversano tutte le forze politiche, anche con
propaggini all'interno dei singoli partiti. Primo fra tutti quello che ancora
formalmente non esiste ma costituisce ormai l'orizzonte politico e
organizzativo irrinunciabile della parte maggioritaria della coalizione: il
Partito democratico. Le forze che compongono la maggioranza saranno costrette a
comprendere le ragioni di tanto malessere paralizzante, il perdurare di un
umore diffuso nel governo che non rappresenta il migliore dei viatici per chi
ogni giorno si mostra determinato a intraprendere un cammino di altri quattro
anni. Dovranno approntare gli strumenti e le medicine per una cura
disintossicante che liberi l'organismo del governo dal peso di un clima, di
un'atmosfera, di uno stato d'animo che fanno gradualmente ma inesorabilmente
venir meno le condizioni minime di una maggioranza di governo incapace di trovare
le ragioni di una convivenza duratura. Alla fine, i voti determinanti per non
affogare al Senato confluiscono, per disciplina o per disperazione, o per
l'insieme di questi due fattori. Mai come in questa occasione si dimostra
però che una vittoria effimera e aritmeticamente scontata non è
sufficiente per ritrovare quel minimo di coesione indispensabile in un governo
che, a poco più di un anno dal suo insediamento, deve dimostrare di non
avere le batterie irrimediabilmente scariche. Senza proclami stentorei,
sistematicamente smentiti da una quotidianità rissosa e discorde. E
senza interpretare le sue divisioni come una fastidiosa e superabile
escrescenza. Sempre più avvelenata, però.
LO SPETTACOLO andato
in scena al Senato è una danza macabra per il Paese, autolesionista per
il Palazzo. Il governo salva la ghirba. La maggioranza c'è e si mostra
compatta nell'approvare il comportamento dell'Esecutivo nell'"affare
Speciale". Tirato il sospiro di sollievo, appare difficile tirare avanti
come se non fosse successo niente o poco. Perché quel che è accaduto, in
questi giorni, è ben più grave di una indecorosa rissa politica.
È uno scricchiolio della nostra democrazia. Un comandante generale della
Guardia di Finanza - appena ieri "sempre agli ordini" della
discrezionalità di Giulio Tremonti e oggi scorretto, sleale, opaco con
il nuovo governo, come sostiene il ministro Padoa-Schioppa - scatena un
conflitto contro l'Esecutivo in carica. E collabora, laboriosissimo, alla
preparazione di una trappola politica, favorita da qualche mossa grossolana del
vice-ministro Visco e soprattutto, diciamo così, dall'amore per il
quieto vivere del governo. L'interesse pubblico di questo affare non è
nel cinismo del generale - fin troppo tardi rimandato a casa - né nella sua
spregiudicata affezione alle fortune della destra a cui ha piegato la funzione
pubblica e la dignità di soldato. Quel che più conta e preoccupa
è che l'opposizione ritiene di usare questo imprudente ferro di bottega
per manomettere l'equilibrio politico e disarcionare il governo eletto appena
un anno fa. Che il centro-destra di Silvio Berlusconi ci riproverà
è, purtroppo, una facile previsione. Il programma immediato
dell'opposizione, a giudicare questo "caso Speciale", sembra
prevedere la sostituzione del confronto politico con una "guerra" di
rivelazioni scandalistiche, notizie manipolate, campagne di stampa alimentate
da segmenti di apparati dello stato che si mettono al servizio di un interesse
politico. Questa strategia l'abbiamo sotto gli occhi da anni. Le bufale Telekom
Srbija e Mitrokhin non sono state altro. Altre bufale possono venire. Sono in
giro nel sottosuolo del "mercato della politica" muffe e tossine che
basta raccattare e gettare in faccia all'avversario accompagnando il gesto con
un'adeguata grancassa mediatica. L'alambicco può distillare umori maligni
a ogni passaggio critico del dibattito pubblico. Se ne è avuta una
conferma, appena ieri, con il frammento di un dossier calunnioso per Massimo
D'Alema. Organizzato da una grande agenzia di investigazione americana (Kroll)
sulla base di "informazioni" raccolte dall'intelligence italiana,
è stato diffuso dagli spioni della Telecom e consegnato - accreditato e
ingrassato a dovere - di nuovo alla nostra intelligence. Dio solo sa che ci ha
fatto o intendeva farne. Un test in più (come se ce ne fosse bisogno)
della presenza nel sottosuolo del Palazzo di un network legale/clandestino
incardinato in ambienti del Sismi di Nicolò Pollari, nella Security
della Telecom, in agenzie d'investigazione private, disponibile a un lavoro di
pressione, condizionamento e ricatto. Gattino cieco ieri mentre il network
prosperava, il centro-sinistra oggi guarda al dito e non vede la luna. Indeciso
a tutto, tentato dal compromesso, diviso al suo interno, debilitato dal tarlo
ossessivo della sua debolezza, confonde l'allarme pubblico per quella presenza
illegittima con una critica ai suoi passi. Vede fantasmi ad ogni angolo. Non si
risolve ad intervenire con decisione, come dovrebbe, là dove si
addensano le ombre e le propaggini di quella minaccia che ha lasciato
colpevolmente incubare. Non si accorge che l'"affare Speciale"
è un sintomo. Quanto meno della paralisi in cui può essere
precipitato il governo e il Paese. Ma, più probabilmente - e peggio -
è l'annuncio di una stagione infetta che soltanto una decisione
irresponsabile può consentire all'opposizione di sposare e soltanto alle
timidezze della maggioranza di non prevenire con energia. Il sistema politico -
l'intero sistema politico, il centro-sinistra come il centro-destra - appare
sordo e cieco dinanzi al pericolo, prigioniero di una litigiosità
autoreferenziale, che non sembra mai incontrare il bene pubblico e l'interesse
generale. Nessuno attore politico - se non qualche mosca bianca - sembra
comprendere che la radicalità del conflitto ingaggiato non avrà
un solo vincitore, ma tutti perdenti. La crisi di credibilità verso le
élite di governo - ha ragione D'Alema - può spingere il Paese verso una
deriva dove le quote di sfiducia per la politica (oggi, sette italiani su
dieci) non possono che aumentare. Non si può che essere scoraggiati e
preoccupati. La qualità del dibattito, vissuto quotidianamente come uno
"scontro tra civiltà", spinge gli uni contro gli altri a testa
bassa. Persuade i due schieramenti a ritenersi e a proporsi come il solo luogo
abitato da opinioni politiche compatibili con il quadro democratico. Una
convinzione che lascia immaginare la propria sconfitta come un evento
catastrofico. Questa contesa che non prevede prigionieri caccia in un canto la
politica, le responsabilità pubbliche, le sfide e le urgenze del Paese.
Lascia emergere soltanto il peggio. Fino a lasciarsi tentare - come è
avvenuto al centro-destra di Silvio Berlusconi - di servirsi delle rivelazioni
truccate di un generale per abbattere un governo. Ci fermeremo qui?
Nell'interesse di tutti, dei cittadini e di chi li governa, conviene fermarsi
qui. Le mura di una democrazia così giovane non sono indistruttibili.
Gentili senatrici e
senatori, abbiamo sbagliato. Ha sbagliato Visco a non spiegare subito, nel
luglio scorso, perché voleva il cambio della guardia al vertice dele Fiamme Gialle
milanesi. Come viceministro delegato ne aveva il potere (quando le stesse cose
le faceva Tremonti non fiatava nessuno, anche perché all'opposizione c'eravamo
noi, e dormivamo). Ma ha sbagliato il modo: se pensava che quegli ufficiali
avessero fatto qualcosa di male, doveva dire cosa; se li riteneva colpevoli
della fuga di notizie sulla telefonata Fassino-Consorte al Giornale, non aveva
che da dirlo. Invece ha fatto tutto in via riservata, alimentando sospetti di
conflitti d'interessi su Unipol e fidandosi del comandante Speciale, uno che
basta guardarlo in faccia per capire che ti frega. L'errore di partenza ne ha
prodotti altri a catena: sabato abbiamo cacciato Speciale, ma nemmeno stavolta
abbiamo spiegato chi è e perché lo Stato non può fidarsi di lui.
Solo oggi il ministro Padoa Schioppa analizzando vita e opere non edificanti
del comandante licenziato ci ha fatto capire quel perché. Costui fa parte del
giro del generale Pollari, che ha trasformato il Sismi in una palude di dossier
illegali, veline fasulle e stecche a giornalisti compiacenti e, pare,
addirittura di sequestri di persona. Ma anche su Pollari abbiamo sbagliato:
scaduto al Sismi, l'abbiamo nominato giudice del Consiglio di Stato, lui che
è imputato di sequestro di persona; l'abbiamo coperto col segreto di
Stato, salvo poi fare retromarcia; e l'abbiamo pure nominato consulente di
Palazzo Chigi anziché spedirlo a casa. Idem per Pio Pompa, pure lui coinvolto
nei dossier e nel sequestro Abu Omar: l'abbiamo tolto dal Sismi e promosso
dirigente del ministero della Difesa. Lo stesso errore abbiamo commesso con
Speciale offrendogli un posto alla Corte dei Conti, come se questa fosse la
discarica pubblica, anziché spedirlo a casa e spiegare al Paese perché non
poteva più comandare la Guardia di Finanza, anche se piace molto a
Fiorello. Ecco: in tutti i nostri errori s'è incuneato come lama
incandescente nel burro il centrodestra. Che, diversamente da noi, sa come fare
l'opposizione. Quando l'Unità e altri giornali amici denunciavano le
porcate della Banda Berlusconi, infinitamente più gravi dei nostri
recenti errori, noi li invitavamo a non "demonizzare". Quando i
girotondi scendevano in piazza contro le leggi vergogna, li snobbavamo o li
accusavamo di radicalismo e giustizialismo, alla ricerca di un fantomatico
"dialogo col Cavaliere". Ora ce lo insegna lui come si fa
l'opposizione: il suo Giornale racconta le nostre pagliuzze, la Cdl ne fa una
battaglia politica, e noi che potremmo rispondere con le sue travi ce ne stiamo
zitti. Se penso che Berlusconi solo un mese fa veniva applaudito al congressi
Ds e Dl e addirittura invitato a entrare in Telecom, mi viene da piangere.
Così lui oggi ci dà lezioni di morale, con i suoi Previti, i suoi
Dell'Utri, i suoi 7 reati prescritti, i suoi fondi neri, il suo processo per
evasione fiscale, i suoi condoni. E atteggiarsi a difensore della Gdf, lui che
la definiva "associazione a delinquere". Ma ora basta. D'ora in poi
ricorderemo chi sono Berlusconi e la sua banda. Comincio subito. Il capo dei
servizi fiscali della Fininvest Salvatore Sciascia fu condannato in Cassazione
per corruzione della GdF. Credete che l'abbiano cacciato? Come scriverà
domani Franco Bechis su Italia Oggi, è socio di Michela Vittoria
Brambilla nella Vittoria Media Partners Srl, editrice del Giornale delle
Libertà. Se l'on. Massimo Maria Berruti volesse, potrebbe raccontarci di
quando, capitano delle Fiamme Gialle, condusse un'ispezione valutaria
all'Edilnord e interrogò Berlusconi sulle sigle svizzere retrostanti le
sue società. Era il 1979. Lui si spacciò per "un semplice
consulente", mentre era il proprietario. Berruti bevve tutto,
archiviò e si dimise dal corpo. E andò a lavorare in Fininvest.
Nel '94 fu arrestato e poi condannato a 1 anno e 8 mesi per i depistaggi sulle
tangenti alla Gdf, dunque è deputato di Forza Italia. Per ora basta
così, il resto alla prossima puntata. Ora scusate, ma devo correre a
cancellare le leggi vergogna, perché non resti traccia del berlusconismo.
Uliwood party.
. La prima è
uscita ieri 6 giugno.Il 16 luglio 2006 lo scontro sul lancio dell'AnsaIn data
15 luglio 2006, rientrato a Roma, alla presenza del generale Emilio Spaziante
(capo di stato maggiore del comando generale), il comandante generale Roberto
Speciale ha incontrato nel suo ufficio il generale Italo Pappa, comandante in
seconda del corpo, a cui ha mostrato la lettera ricevuta dal procuratore capo
di Milano, Manlio Minale. Pappa ha minimizzato l'accaduto sostenendo che di
lettere come quella del dott. Minale ne arrivano tante. Il comandante generale
ha chiesto al generale Spaziante di contattare il vice capo di gabinetto,
generale Flavio Zanini al fine di incontrare il prima possibile il vice
ministro Vincenzo Visco. Dopo aver sentito il predetto ufficiale generale,
Spaziante ha riferito a Speciale che l'incontro non sarebbe stato possibile
prima del lunedì successivo (17 luglio) e che comunque Zanini insisteva
nell'avere assicurazione della partenza del messaggio dei movimenti definitivi.
Nella serata di domenica 16 luglio 2006, alle 22,50 circa, il comandante
generale ha ricevuto una telefonata da parte di Zanini che gli ha riferito
della notizia battuta dall'Ansa (che annunciava l'allontanamento degli
ufficiali di Milano, ndr) e che in proposito Visco sollecitava, a cura del
generale Speciale, un'immediata smentita alla notizia, con riferimento alla sua
connessione alla vicenda Unipol. Alle 23.20 circa il comandante generale
è stato contattato nuovamente dal generale Zanini che gli ha chiesto di
accelerare l'uscita della smentita alla notizia Ansa nei termini di cui
sopra.Il generale Speciale ha convocato di conseguenza il capo di stato
maggiore ed il sottocapo. A mezzanotte circa Zanini ha informato
telefonicamente il comandante generale che Visco aveva provveduto personalmente
alla smentita e che si aspettava altrettanto dal generale Speciale stesso. Quest'ultimo,
dopo una consultazione con il capo e il sottocapo di stato maggiore, ha
ordinato di provvedere alla diramazione di un comunicato stampa, nel quale si
precisavano i reali termini dell'atto adottato, vale a dire l'avvio del
procedimento amministrativo dei trasferimenti che però sarebbero stati
solo eventuali in esito alla prescritta attività istruttoria.Alle ore
9.26 del 17 luglio 2006 Speciale è stato informato dal colonnello
Michele Carbone che il l'aiutante di campo di Visco, Ortello, lo aveva chiamato
riferendogli che avrebbe dovuto chiamare subito il viceministro. Il generale
Speciale ha contattato immediatamente il viceministro, il quale ha asserito di
ritenerlo responsabile di quanto accaduto, di non aver rispettato alcuna regola
deontologica non avendo dato esecuzione istantanea a quanto era stato da lui
disposto, di riunirsi subito con i generali Italo Pappa e Sergio Favaro per
dare a quegli ordini esecuzione immediata e di concordare con loro una risposta
da dare alla procura di Milano. Il vice ministro Visco ha aggiunto, infine, che
se il generale non avesse ottemperato a queste direttive, erano chiare le
conseguenze cui sarebbe andato incontro. Il comandante generale ha risposto a
Visco che l'osservanza dalle regole era stata da sempre il faro della sua vita,
di non poter, pertanto, assecondare le sue richieste e che, piuttosto, era
pronto a rassegnare il mandato. L'intera conversazione telefonica è
avvenuta alla presenza del colonnello Carbone e del maggiore Cosentino. Alle
ore 12.00 circa del giorno 17 luglio 2006, il generale Spaziante ha informato
il generale Speciale che con due distinte telefonate, sia il generale Pappa che
il generale Favaro gli avevano riferito che, su disposizione del vice ministro
Visco, loro pervenuta per il tramite del generale Zanini, il contenuto della
lettera di risposta, da inviare al procuratore della repubblica di Milano,
sarebbe dovuto essere preventivamente concertato con entrambi i suddetti
generali di Corpo d'armata.Il 17 luglio 2006 l'avvocato generale della procura
generale della repubblica presso la corte d'appello di Milano, Manuela Romei
Pasetti, ha invitato il comandante generale e il capo di stato maggiore del
comando generale a comparire avanti alla stessa autorità giudiziaria al
fine di acquisire i necessari chiarimenti in relazione alle note del locale
procuratore della repubblica, datate rispettivamente 1° giugno e 14 luglio
2006. Nel pomeriggio dello stesso giorno, il generale Speciale ed il generale
Emilio Spaziante hanno reso, al riguardo, dinanzi alla menzionata
autorità giudiziaria dichiarazioni spontanee presso gli uffici del
comando regionale Lombardia della gdf, in Milano.Visco chiama Minale per
tranquillizzarloSempre il 17 luglio 2006, come riscontrabile da agenzie
giornalistiche, in una nota il vice ministro Visco ha affermato di aver avuto
lo stesso giorno 'un lungo e cordiale colloquio telefonico con il procuratore
capo della repubblica di Milano, Minale, nel corso del quale è stato
ribadito che le motivazioni di tali avvicendamenti sono unicamente
riconducibili ad esigenze di servizio. Le decorrenze degli stessi movimenti,
come peraltro pianificato dal comando generale della guardia di finanza e con
l'obiettivo di evitare plateali strumentalizzazioni saranno scaglionate per
favorire un graduale inserimento da parte dei nuovi ufficiali nelle indagini in
corso'. In merito giova osservare che: a) non sussistevano esigenze di servizio
né sopravvenute altre circostanze alla base degli avvicendamenti alla sede di
Milano, come ampiamente in precedenza motivato. Al contrario, vi era
necessità di permanenza degli ufficiali in causa come puntualmente
segnalato dallo stesso procuratore Minale;b) non erano state stabilite le
relative decorrenze da parte del comando generale, non essendo stati a monte
ancora adottati i relativi provvedimenti di impiego, poiché a quella data era
semplicemente in corso la fase endoprocedimentale del prescritto iter
amministrativo, volta ad acquisire il parere delle parti interessate, ivi
compreso il nulla osta dell'autorità giudiziaria. Con lettera nr. 56585
del 18 luglio 2006 il comandante generale ha risposto al procuratore di Milano
a seguito della sua missiva (datata 14 luglio) di richiesta di elementi sulla
vicenda dei trasferimenti degli ufficiali a quella sede, in cui sono stati
sintetizzati i punti salienti sin qui esposti.La lettera del viceministro al
generale SpecialeIl giorno 24 luglio 2006 è pervenuta al generale
Speciale la lettera nr. 787, in pari data, a firma del vice ministro Visco. In
particolare, nella missiva affermava, tra l'altro: che il comandante generale
gli aveva prospettato, il 26 giugno, 'l'opportunità di effettuare
numerosi cambiamenti funzionali ai vertici della guardia di finanza'; che a tal
fine, il 13 luglio il vice ministro ha 'parlato della questione con i generali
Pappa e Favaro e da questi incontri emerse l'opportunità di coinvolgere
nei movimenti anche Milano'; di averlo invitato 'a procedere nei trasferimenti,
inserendo anche Milano nel complesso dei movimenti e decidendo, previa consultazione
con i generali Pappa e Favaro, una proposta di avvicendamento' che trovasse
'tutti concordi'; di far conoscere gli intendimenti del comandante generale in
ordine ai trasferimenti, in materia questa riservata alla competenza e alla
responsabilità di quest'ultimo, invitandolo, 'in ogni caso, al criterio
sopra ricordato (ossia la 'previa consultazione con i generali Pappa e
Favaro'), al fine di garantire armonia ed equilibrio nella gestione del corpo'.
Sul punto occorre evidenziare che:a) i numerosi cambiamenti funzionali ai
vertici della Guardia di Finanza che sarebbero stati prospettati da Speciale
altro non sono che i provvedimenti di impiego, resi necessari dalle circostanze
sopravvenute all'approvazione del piano ordinario dei trasferimenti dei dirigenti,
già adottato nel mese di marzo 2006, come illustrato in precedenza;b) il
viceministro ricorda nella missiva al comandante generale di averlo pregato 'di
attendere in modo da poter maturare qualche convinzione in proposito' e che a
tal fine, il 13 luglio ha parlato della questione con i generali Pappa e Favaro
e da questi incontri emerse l'opportunità di coinvolgere nei movimenti
anche Milano'. In verità, nella sua precedente missiva del 14 luglio
aveva già affermato di volersi occupare dei movimenti prospettati il 26
giugno solo in un secondo momento, preoccupandosi esclusivamente di quelli
concernenti la gerarchia milanese. Va da sé, quindi, la contradditorietà
dell'ulteriore affermazione contenuta nella missiva in esame, laddove Visco lamenta
di non aver più ricevuto proposte in merito alla manovra di impiego del
26 giugno;c) per stessa ammissione di Visco, l'esigenza di avvicendare gli
ufficiali di Milano sorge nel corso dei colloqui da lui avuti con i generali
Pappa e Favaro, i quali, successivamente, 'scaricheranno' sul vice ministro la
paternità dell'iniziativa (in tal senso, le dichiarazioni per iscritto
rese dai generali Pappa e Favaro al comandante generale nonché le audizioni dei
due ufficiali generali dinanzi all'autorità giudiziaria di Milano). In
definitiva, questa è la sequenza logica dei fatti:1) nel piano ordinario
di impiego dei dirigenti del marzo 2006 non viene configurata alcuna esigenza
di avvicendamento di ufficiali per quanto concerne il comandante della regione
Lombardia, i comandanti dei nuclei regionale e provinciale di polizia
tributaria, nonché il responsabile dei servizi di polizia giudiziaria;2) nella
manovra di assestamento elaborata dal comando generale e consegnata al Visco il
26 giugno non vi è traccia ancora di siffatte esigenze;3) tali esigenze,
per ammissione dello stesso Visco nella lettera a sua firma del 24 luglio 2006,
nr. 787, scaturiscono dai suoi colloqui con Pappa e Favaro. Questi, chiamati a
rendere chiarimenti dalla magistratura, chiudono il cerchio attribuendo la
paternità dell'iniziativa al solo vice ministro d) da un lato Visco
riconosce al comandante generale gdf la competenza e la responsabilità
in tema di impiego del personale ufficiali, dall'altro continua ad ingerirsi
nella specifica materia gestionale, esortandolo ad attenersi 'in ogni caso, al
criterio sopra ricordato' (ossia la 'previa consultazione con i generali Pappa
e Favaro'), persistendo nel suo progetto di delegittimazione, all'interno del
corpo, del generale speciale, a vantaggio di Pappa e Favaro.Ad ogni modo, la
missiva nr. 787/2006 in data 24 luglio 2006, successivamente al clamore che
ormai aveva assunto la questione, cerca di far rientrare i movimenti di Milano
in un contesto più generale, inserendoli nella manovra di assestamento
del 26 giugno 2006 che, come detto più volte traeva origine da ben
motivate e improvvise ragioni di servizio. In data 26 luglio 2006, dovendo dare
esito, nei termini di legge, al procedimento amministrativo per il successivo
eventuale trasferimento ad altra sede degli ufficiali interessati e avuto
riguardo a quanto affermato dal vice ministro nella sua lettera del 24 luglio
2006, Speciale ha interpellato per iscritto i generali Pappa e Favaro
invitandoli a partecipare le motivazioni alla base dei proposti avvicendamenti,
cui fornivano risposta con lettera del 26 luglio 2006. In estrema sintesi, i
due generali hanno affermato che la sostituzione degli ufficiali dirigenti di
Milano fu una disposizione di Visco non accompagnata da alcuna motivazione
specifica.La risposta di Prodi alla camera dei deputatiSempre il 26 luglio 2006
il presidente del consiglio dei ministri, rispondendo alla camera a
interrogazioni di alcuni parlamentari, ha affermato, tra l'altro che 'gli
avvicendamenti indicati dal comando generale della gdf non presentano alcuna
eccezionalità; infatti , tutti gli ufficiali del rango di generali e
colonnelli interessati al nuovo incarico, lungi dall'essere penalizzati dalle
scelte compiute, sono destinati ad incarichi di pari o superiore livello nella
stessa Milano o in altre regioni o presso il comando generale della gdf'.In
ordine a tali dichiarazioni si osserva come l'eccezionalità dei
movimenti in questione fosse del tutto evidente sia per la mancata previsione
degli stessi nel piano di impiego ordinario dei dirigenti del marzo 2006,
nonché nella relativa manovra di assestamento del giugno 2006, sia per le
modalità con cui era intervenuto Visco, Inoltre le affermazioni del
premier venivano fatte allorquando non erano stati ancora adottati provvedimenti
di impiego poiché a quella data era semplicemente in corso la fase
endoprocedimentale del prescritto iter amministrativo. Il 27 luglio 2006,
infatti, in piena aderenza alla normativa vigente, Speciale ha concluso senza
l'adozione di alcun provvedimento di impiego il procedimento amministrativo
afferente le ipotesi di avvicendamento di ufficiali alla sede di Milano. In
merito è utile riferire che le ragioni sulla base delle quali è
stata assunta una siffatta decisione come emerse nel corso della relativa istruttoria
prescritta ai sensi degli articoli 7 e 8 della legge n. 241/1990 sono da
ricondurre alle seguenti considerazioni: Pappa e Favaro, interpellati per
iscritto sulle circostanze citate nella missiva di Visco del 24 luglio 2006,
non hanno saputo fornire alcuna specifica motivazione sulla necessità di
trasferire gli ufficiali in parola;- la procura della repubblica di Milano ha
formalmente manifestato l'esigenza di garantire continuità nell'azione
di indirizzo, coordinamento e controllo delle delicate attività
investigative in corso a quella sede, concernenti peraltro reati di turbativa
ai mercati finanziari, sottolineando nel contempo l'assoluta e incondizionata
fiducia riposta negli attuali vertici milanesi del corpo;- si è
rispettata l'opportunità di mantenere, anche alla sede di Milano, la
linea di comando esistente, in vista dell'imminente attuazione dell'importante
riforma ordinativa che ha comportato, dal 1° settembre 2006, in tutto il paese,
la fusione dei nuclei regionali e dei nuclei provinciali di polizia tributaria
in un unico reparto. Si è trattato di cambiamenti organizzativi di
notevole complessità sul piano operativo, tali da esigere che la
gestione delle relative problematiche fosse affidata agli ufficiali che
già disponevano di un approfondito livello di conoscenza del contesto
locale;- si è tenuto conto delle esigenze personali partecipate dagli
ufficiali interessati nell'ambito del procedimento amministrativo che li ha
riguardati. A tutto ciò si aggiunga che il generale Angelo Ferraro, comandante
interregionale dell'Italia nord occidentale, competente anche per il territorio
lombardo, nel corso di una riunione fra tutti gli ufficiali di vertice del 29
luglio 2006, ha convenuto sulla soluzione di non trasferire gli ufficiali alla
sede di Milano, precisando l'insussistenza di ragioni che ne potessero motivare
il movimento e, anzi, esprimendo lusinghieri giudizi nei confronti dei
medesimi.In tale cornice, ogni provvedimento assunto in difformità alle
univoche indicazioni che pervenivano dall'istruttoria amministrativa compiuta a
norma di legge, avrebbe corso il rischio di facili censure sotto il profilo
della violazione di legge per eccesso di potere e di irrazionalità
manifesta. Di quanto sopra Speciale ha dato notizia all'autorità
giudiziaria di Milano, con 2 missive del 28 luglio 2006. Come da consolidata
prassi istituzionale, il comandante generale ha informato, con lettera nr.
56686 del 31 luglio 2006, il vice ministro dell'economia e delle finanze in
ordine alle decisioni assunte. Il 5 agosto è stata inoltrata al
procuratore militare della repubblica presso il tribunale militare di Roma una
nota informativa a firma di Speciale sugli avvenimenti sopra descritti.
NAPOLI -
"Aggredito per aver difeso Pollari e Speciale, e per giunta in
prossimità del dibattito al Senato sul caso Visco-Speciale".
è soprattutto politica la reazione di Sergio De Gregorio, il senatore che ieri ha appreso dal
"Corriere della sera" di essere indagato nientemeno che per
riciclaggio. Si tratta dell'esito di una indagine relativa al fatto che assegni
da lui firmati fossero stati ritrovati e sequestrati in casa di un camorrista.
Circostanza che alla fine ha indotto i magistrati della Direzione distrettuale
antimafia di Napoli a iscriverlo nel registro degli indagati per l'ipotesi di
reato di riciclaggio, aggravato dall'aver agevolato un'associazione mafiosa. De
Gregorio ha prima negato la gravità degli
addebiti: "Ho solo firmato un preliminare di acquisto, poi non perfezionato,
in tempi non sospetti, con una signora sposata con una persona perseguita per
traffico di tabacchi, particolare di cui all'epoca non ero a conoscenza, ma non
per associazione camorristica. Bastava chiedere, avrei mostrato il
preliminare". De Gregorio dice di attendere ora con fiducia la
convocazione del magistrato. Poi la butta in politica, sostenendo la tesi della
manovra ai suoi danni: "Evidentemente sono diventato selvaggina pregiata.
Vengo a sapere di essere avvisato il giorno stesso della seduta al Senato sul
caso Visco-Guardia di Finanza e dopo le mie forti prese di posizione a difesa
di Nicolò Pollari e di Roberto Speciale (il primo ex direttore del
Sismi, sostituito dal governo sette mesi fa, il secondo comandante delle Fiamme
gialle, rimosso invece pochi giorni fa, ndr)". è allusivo, De Gregorio, del clima che circonda i suoi rapporti
col centrosinistra, certo non rafforzati dalla sua carriera parlamentare:
eletto con Italia dei valori, De Gregorio si avvalse dei voti del centrodestra per farsi eleggere alla
guida della commissione difesa del Senato, poi si è reso autonomo col
suo movimento Italiani nel mondo, ma più spesso vicino alle posizioni
del centrodestra che a quelle di Prodi e compagnia. Ora sospetta che "la
temporalità è inquietante, questa è una giustizia a
orologeria, la regia non è a Napoli ma sicuramente a Roma e il voto a
palazzo Madama non è estraneo alla vicenda. Pago il fatto di aver difeso
le istituzioni. Attaccarmi però non salverà il governo dal
baratro". Comunque lui darà battaglia: "L'accusa nei miei
confronti si ritorcerà su chi l'ha prodotta. Ho piena fiducia nella
Procura e nella Guardia di Finanza di Napoli, ma chiunque mi ha tirato in ballo
ha trovato un osso durissimo: non mi lascio assolutamente intimidire. Chi pensa
di azzopparmi, pensa male, perché ho la responsabilità di un partito,
Italiani nel mondo, e la simpatia di qualche militante in più".
Bruxelles, 7 giuno
2007 - In vista dell'adozione di una relazione sulla roadmap per il processo
costituzionale europeo, si è tenuto in Aula un ampio dibattito cui hanno
partecipato Presidenza e Commissione e che ha visto opporsi difensori e
avversari del trattato costituzionale. Tra i temi evocati: il mandato della Cig
e il calendario, la presa in considerazione di nuove tematiche, il ruolo del
Parlamento e dei parlamenti nazionali, il destino della Carta dei diritti
fondamentali e l'estensione del voto a maggioranza. Dichiarazione dei relatori
- Enrique Barón Crespo (Pse, Es) ha spiegato che la relazione in esame
ribadisce il sostegno del Parlamento ai progressi previsti dal trattato
costituzionale e agli sforzi della Presidenza in vista della Conferenza
intergovernativa (Cig) che dovrà modificare i trattati. Ha poi sottolineato
che la Costituzione è composta da due elementi: le parti prima, seconda
e quarta che sono state elaborate con il metodo della Convenzione, e la terza
parte che consiste in una rifusione dei trattati esistenti a cui la Convenzione
ha apportato taluni miglioramento, come l'estensione della codecisione da 37 a
86 campi. Il relatore ha poi sottolineato che la revisione dei trattati
dovrebbe prendere in considerazione le nuove tematiche emerse durante il
periodo di riflessione - cambiamenti climatici, lotta al terrorismo e dialogo
tra le civiltà, per esempio - per arricchire la risposta alle richieste
dei cittadini. Ha poi insistito sull'esigenza di coinvolgere pienamente il
Parlamento nella Cig. Per Elmar Brok (Ppe/de, De) l'Unione deve poter funzionare
con 27 Stati membri e, affinché ciò possa realizzarsi, è
imprescindibile modificare i trattati esistenti. Questo processo dovrà
anche evitare di "disintegrare l'Ue in blocchi che viaggiano a diverse velocità" e
affrontare anche le nuove questioni emerse in questi anni, mantenendo i
principi basilari contenuti nella Costituzione. Nell'affermare l'esigenza di
garantire l'efficienza, la democrazia e il rispetto dei diritti civili, il
relatore ha sottolineato anche la necessità di assicurare l'equilibrio
fra tutte le istituzioni europee, rafforzando al contempo il ruolo dei
parlamenti nazionali. Si tratta quindi di lavorare nell'interesse dei cittadini
laddove i singoli Stati non sono in grado di farlo da soli. Ha poi sostenuto
che occorre chiarire che l'Ue non è un superstato e non intende diventarlo. Ha quindi
difeso l'estensione delle decisioni da prendere a maggioranza e affermato che
la Carta dei diritti fondamentali rappresenta una parte
"irrinunciabile" del trattato. Occorre poi eliminare il sistema di
pilastri e attribuire la personalità giuridica internazionale all'Ue. Dicendosi contrario al ricorso al metodo
intergovernativo, ha auspicato che il negoziato sulla base della Costituzione
si concluda in tempo per le prossime elezioni europee. Dichiarazione della
Presidenza Gunter Gloser ha affermato che l'appoggio del Parlamento sulla
questione istituzionale è essenziale per il successo della Cig e la sua
partecipazione ai lavori dovrà essere garantita. Ha quindi giudicato la
relazione in esame "equilibrata", visto che combina "ambizioni e
realismo". Osservando che non bisogna ascoltare solo i cittadini francesi
e olandesi che hanno detto no alla Costituzione ma anche quelli ad essa
favorevoli, ha sottolineato che sarà necessario trovare un compromesso
che soddisfi tutti, Stati membri e Parlamento europeo. Per rispondere ai
cittadini potranno anche essere presi in considerazione i nuovi temi che li
preoccupano. Il Ministro ha poi notato che la posizione del Parlamento sulla
Carta dei diritti fondamentali, in particolare il suo carattere vincolante,
è condivisa dalla maggioranza degli Stati membri. L'ue dovrà essere in grado di prendere
decisioni in modo democratico e trasparente e, in proposito, il progetto di
Costituzione resta valido. Tutti devono essere disposti al compromesso, ha
proseguito il Ministro, e la Presidenza - che sta continuando le consultazioni
con i governi - intende proporre un calendario chiaro: la Cig dovrà
iniziare nel 2007 e terminare entro la fine dell'anno, dovrà poi essere
firmata all'inizio del 2008 per permettere la ratifica del nuovo trattato in
tempo per le elezioni europee del 2009. Dichiarazione della Commissione Per Margot Wallström occorre migliorare la
democrazia, l'efficienza e la trasparenza dell'Ue ed è necessario prevedere maggiori sforzi sulle nuove
tematiche. E il trattato costituzionale, ha osservato, risponde a queste
esigenze. Ha anche rilevato l'esigenza di ascoltare di più i cittadini.
Sottolineando come la Costituzione sia frutto di un compromesso difficile da
migliorare ma facilmente smantellabile, ha osservato l'esigenza di conferire
alla Cig un mandato e un calendario chiari. La Commissione, ha poi aggiunto, illustrerà la sua posizione e inizio
luglio e cercherà di conciliare tutte le esigenze, restando ambiziosa.
Il minimo comune denominatore, ha precisato, "non sarà
sufficiente". La Vicepresidente della Commissione ha poi sottolineato che la sostanza della Costituzione
"resta valida" in quanto protegge il metodo comunitario, mantiene il
diritto d'iniziativa dell'Esecutivo Ue, riunisce i pilastri, amplia le decisioni a maggioranza e
rafforza il ruolo del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. Ha inoltre
affermato che la Commissione resta favorevole a conferire la natura
vincolante alla Carta dei diritti fondamentali ed è pronta ad esaminare
la possibilità di trattare nuove questioni. Ha quindi concluso
sottolineando l'esigenza di garantire la partecipazione del Parlamento alla
Cig. Interventi in nome dei gruppi Íñigo Méndez De Vigo (Ppe/de, Es) ha
affermato che occorre evitare di fare come il protagonista di "Il vecchio
e il mare" che, dopo una lunga lotta, "arriva in porto solo con la
lisca del grande pesce". "Vogliamo un accordo", ha spiegato,
"ma non di qualsiasi tipo". Ha poi sottolineato che la relazione
afferma l'esigenza di non ascoltare solo chi è contrario alla
costituzione, ma anche i favorevoli. Per il deputato sarebbe addirittura
possibile migliorare ulteriormente la Costituzione trattando nuovi temi che non
erano d'attualità cinque anni fa, come i cambiamenti climatici e il
terrorismo. Ha quindi concluso sottolineando l'esigenza che il Parlamento sia
debitamente ascoltato, anche perché giudicherà il risultato della Cig in
funzione della Costituzione. Anche per Jo Leinen (Pse, De) il contenuto della
Costituzione deve essere salvaguardato, anche eventualmente sotto una forma
diversa. Si è quindi detto contrario a un "mini trattato" e ha
ribadito che il Parlamento non accetterà un accordo che porti a meno
democrazia, meno efficienza e miniori diritti dei cittadini. Sottolineando che
sono i cittadini stessi a chiedere più Europa ha ammonito i governi a "non amputare" i testi
esistenti. La Cig dovrà tenere conto dei pareri del Parlamento europeo e
dei parlamenti nazionali e trattare anche le nuove tematiche
d'attualità. Andrew Duff (Alde/adle, Uk) ha affermato che il suo gruppo
condivide sia la relazione in esame sia le dichiarazioni di Consiglio e Commissione, e che occorre sostenere gli sforzi della
Cig "nel rinegoziare e riconfezionare" la Costituzione "allo
scopo di migliorarla sostanzialmente". Sostenendo che il nuovo Presidente
Sarkozy ha portato "un pragmatismo rinfrescante alla politica europea
francese" e che il futuro Primo Ministro britannico Gordon Browon
farà altrettanto, ha sottolineato che l'opinione pubblica olandese e
polacca ha capito che non è interesse dei rispettivi paesi appartenere a
un'Unione incapace di agire. A suo parere, il periodo di riflessione ha portato
a due conclusioni: occorre rafforzare la democrazia all'interno delle istituzioni
europee e tra queste e le autorità locali, inoltre è necessario
adottare metodi più lungimiranti e flessibili per modificare i trattati
concedendo la possibilità giuridica di veto ai Paesi, ma non accordando
"l'autorità morale e politica di frenare i progressi auspicati
dagli altri". Per Brian Crowley (Uen, Ie) occorre ascoltare tutti i
cittadini europei, non solo i francesi e gli olandesi, che sono preoccupati dal
futuro dell'Europa. Dopo aver sottolineato che il successo
dell'Unione si è basato sulla capacità di raccogliere il consenso
attraverso il compromesso, si è detto contrario a un'Europa a due velocità ed ha auspicato che
la sostanza della Costituzione sia mantenuta, portando gli adeguamenti
necessari. Johannes Voggenhuber (Verdi/ale, At) ha espresso il sostegno del suo
gruppo alla relazione in esame in quanto invia un messaggio chiaro ai governi:
il Parlamento intende difendere i diritti universali, porre fine al sistema dei
pilastri e estendere le decisioni a maggioranza qualificata. Ha poi rivolto un
appello affinché il Parlamento si dimostri responsabile, non accettando
compromessi insoddisfacenti. Il deputato ha quindi criticato i governi che
cercano di sfruttare i "no" francese e olandese per mantenere il
metodo intergovernativo. Francis Wurtz (Gue/ngl, Fr) ha criticato talune
affermazioni della relazione riguardo ai "no" francese e olandese
secondo cui le cause di queste scelte sarebbero ora risolte. Si è poi
detto contrario al mantenimento della sostanza della Costituzione presentata sotto
un'altra forma. Per il leader della Sinistra unitaria "non si serve l'Europa nascondendo i problemi crescenti creati ai
nostri cittadini da una parte fondamentale dell'acquis comunitario", ossia
"l'economia di mercato aperta o la libera concorrenza". Evocando
quindi il rischio di una crisi di legittimità del modello economico e
sociale europeo, il deputato ha auspicato un dibattito pubblico aperto su cosa
deve cambiare negli orientamenti e nella struttura dell'Unione nonché un
referendum per ratificare il futuro trattato. Bastiaan Belder (Ind/dem, Nl) ha
criticato il fatto che la relazione riconosce a malincuore la necessità
di cambiare la Costituzione ma propone solo un'operazione
"cosmetica", accettando modifiche del solo "imballaggio". A
suo parere, invece, è proprio il contenuto che andrà rivisto. Per
Bruno Gollnisch (Its, Fr) la verità è che si vuole "creare
un superstato europeo che abbia la personalità giuridica, una Presidenza
stabile, il Ministro degli esteri, la moneta unica e l'estensione delle
competenze e delle decisioni a maggioranza". Molti possono anche essere
d'accordo, ha spiegato, ma devono avere "l'onestà di dirlo ai
cittadini". Dopo aver ripercorso il susseguirsi delle revisioni dei
trattati dal 1951, ha affermato che si tratta di un processo che "va
contro la natura dell'Europa". Interventi dei deputati italiani
Secondo Mario Borghezio (Uen, It), la relazione "insiste sulla via
sbagliata dell'accanimento terapeutico per tenere in vita una Costituzione
rifiutata dai popoli e poi sostenuta da grandi patrioti del federalismo, come
il Presidente del Consiglio italiano Prodi, che nega al Nord, alla Padania, il
federalismo interno, il federalismo fiscale per avere giustizia da "Roma
ladrona"". Inoltre, elude il tema dei criteri e dei limiti dell'allargamento
che invece, riprendendo quanto sostenuto dal Primo ministro Balkenende,
"è al centro del dibattito politico europeo". "Invece di
arzigogolare su questi sotterfugi giuridici", ha aggiunto, "l'Europa dovrebbe concentrarsi sui problemi concreti
e mobilitare le sue energie per difendere la produzione, il lavoro e
l'occupazione", per esempio "rispondendo con i fatti, e non con un
fumoso linguaggio burocratico, come ha fatto il Commissario Mandelson, ai
pesanti e puntuali rilievi delle industrie europee le quali chiedono di essere
difese contro lo stop alle misure antidumping che l'ultraliberale Commissario
al commercio ha imposto fin dall'inizio di quest'anno". Il deputato ha
quindi proseguito sostenendo che le nostre imprese e l'occupazione "soffrono
per queste scelte sbagliate, accentuate inoltre dalla decisione odierna della
Banca centrale europea di aumentare i tassi di sconto". Le scelte dell'Europa, ha concluso, "sono sbagliate perché
rallentano il cammino verso il progresso, l'occupazione e il benessere dell'Europa e quindi restano molto distanti dal
sentire profondo e dall'opinione dei cittadini europei che pagano le tasse
anche per mantenere Bruxelles".
Da anni è il piatto forte annunciato, e finora mai servito, ogni qual
volta lo scandalo del momento (Telecom Serbia, Telecom Italia, Telecom-spioni,
Unipol-Bnl) si intreccia alla politica e in particolare al ruolo dei Ds: fondi
neri, conti esteri, tangenti. Un armamentario da Tangentopoli che grava sulla
Quercia e che soprattutto negli ultimi due anni, sulla scia del risiko
bancario, si è riaffacciato periodicamente sui giornali e nei palazzi.
Ma ieri, nel delicatissimo giorno del dibattito in Senato sul caso Visco, che
ad alcune delle vicende prima citate pare intrecciato, Massimo D’Alema non si
aspettava di trovare servite sul quotidiano La stampa due pagine che riscrivono
la trama degli ultimi anni alla luce di un perno: un conto estero a
disposizione del vicepremier.
Durissima la reazione di D’Alema, che annuncia querela. Compatti i Ds, che
promettono battaglia in tutte le sedi per difendersi dalle accuse. Stavolta
allineata e coperta anche la Margherita, opposta alla Quercia nell’«estate dei
furbetti», che ha diffuso un comunicato unitario per esprimere
solidarietà al ministro degli Esteri. Raccontano che D’Alema fosse
furioso per l’attacco. Il vicepremier si è sfogato coi suoi: «Hanno il
coraggio di attribuire la presunta notizia del conto a due righe di un’agenzia
di intelligence americana che dice di averla da fonti dell’intelligence
italiana». Per il leader ds, è evidente che qualcuno ha venduto agli
americani un’informazione per ricomprarla «riciclata» e usarla per ottenere
favori e mettere in atto ricatti. «Si tratta in verità di spazzatura che
era in circolazione da molto tempo ad opera di provocatori che sono noti e le
cui gesta sono all’attenzione della magistratura. Ciò che è
assolutamente sorprendente e sconcertante è che questa spazzatura venga
raccolta e rilanciata da un prestigioso quotidiano nazionale con un’operazione
che sinceramente stupisce, addolora e preoccupa».
Tra i provocatori cui si riferisce D’Alema c’è l’ex numero due del Sismi
Marco Mancini, citato dalla Stampa come l’uomo che nel 2004, su consiglio di
Pollari, dopo aver ricevuto l’informazione del conto estero dalemiano da
Giuliano Tavaroli, capo della sicurezza Telecom, cercò di “venderla” al
diretto interessato. Il quale smentisce vi sia mai stato un incontro. Ma quando
D’Alema sottolinea che «la spazzatura circola da molto tempo» offre una
possibile chiave anche sul caso Visco.
Dicembre 2005, impazza il nuovo filone di intercettazioni sul caso Unipol-Bnl.
È in quel momento, quando il Giornale pubblica la conversazione tra
Piero Fassino e Giovanni Consorte, mai trascritta dagli inquirenti, che i
vertici dei Ds si convincono definitivamente di essere oggetto d’attenzione di
una centrale spionistica che fabbrica e gestisce dossier avvelenati contro la
Quercia. L’estate successiva, dopo che il centrosinistra ha vinto le elezioni,
si verifica lo scontro tra Visco e il comandante generale della Guardia di
Finanza Roberto Speciale sul trasferimento dei vertici delle Fiamme gialle
lombarde. Alla base della mossa di Visco c’è la volontà di
intralciare le indagini sul caso Unipol-Bnl, come sostiene una parte della
stampa e dell’opposizione? O non c’è piuttosto l’intenzione da parte dei
Ds di recidere quei gangli dello Stato che essi reputano parte integrante della
macchina spionistica che sforna la «spazzatura»? Se la verità, come
suggeriscono voci interne al Botteghino, sta piuttosto in questa seconda
ipotesi, si capirebbe anche la difficoltà di Visco nel fornire pubblica
e ufficiale spiegazione della decisione di rimuovere gli ufficiali lombardi
della Gdf. Resta però una domanda: perché l’operazione Visco non va in
porto e alla fine si decide di congelare tutto, Speciale e gli ufficiali
rimuovendi? Da una parte, ha il suo peso la resistenza di un pezzo di Unione,
specie della Margherita, contro il provvedimento. Ma forse, più delle
divisioni nella coalizione, conta il fatto che i giorni dell’estate 2006 in cui
si svolge il carteggio Visco-Speciale coincidono con la bufera mediatica e
politica per il coinvolgimento dell’ex capo del Sismi Nicolò Pollari nel
rapimento di Abu Omar. Quel Pollari che ha sempre intrattenuto buoni rapporti
con un pezzo di Quercia, ma che, con lo sviluppo delle indagini sulla centrale
spionistica con base in Telecom, appare agli occhi di molti come il capo di
quella centrale multiforme che spia i Ds. Sta di fatto che Massimo D’Alema
è tra i garanti del patto bipartisan che offre a Pollari un
salvacondotto. Forse al Botteghino qualcuno può aver pensato che si
fosse spento là, con l’azzeramento dei vertici del Sismi, il motore
della «spazzatura». E che quindi anche l’azzeramento della Gdf lombarda potesse
attendere. Poi, ed è storia recente, ancora il Giornale tira fuori la
vicenda Visco. Il motore riparte. E con le nuove intercettazioni
D’Alema-Consorte in arrivo, i Ds scoprono di aver fatto male i conti.
Il costo del denaro nel mondo (tabella)
Banca centrale europea ha deciso una nuova stretta monetaria,
alzando di un quarto di punto i tassi d'interesse di Eurolandia. Il tasso di
rifinanziamento principale sulle operazioni pronti contro termine sale al 4%,
quello marginale al 5% e quello sui depositi overnight al 3 per cento. Con il
rialzo di oggi, il secondo dall'inizio dell'anno, la Bce porta il costo del
denaro ai massimi di quasi sei anni: per trovare un livello dei tassi
così alto bisogna infatti risalire all'agosto del 2001, quando il costo
del denaro viaggiava al 4,25%, prima che il 17 settembre venisse tagliato di 50
punti base al 3,75% dopo lo scossone sui mercati finanziari dovuto agli
attacchi alle Torri Gemelle dell'11 settembre. L'euro viaggia sostenuto sopra
quota 1,35dollari, reagendo senza scossoni al rialzo dei tassi.
Congiunura favorevole. «I dati in arrivo dalla congiuntura confermano chiaramente che
l'economia dell'Eurozona continua a crescere a un ritmo decisamente più
forte di quanto generalmente previsto un anno fa»: ha detto il presidente della
Bce Jean-Claude Trichet, nella consueta conferenza stampa al termine della
riunione del Consiglio direttivo. Le informazioni «indicano che questo solido
tasso di crescita è continuato nel secondo trimestre». L'outlook nel
medio termine «resta favorevole» e ci sono le condizioni «perchè
l'economia dell'Eurozona continui a crescere a tassi sostenuti».
La Bce ha rivisto al rialzo la stima sul Pil per il 2007: quest'anno l'economia
di Eurolandia si espanderà del 2,6%, contro il 2,5% previsto in
marzo.Nel 2008, invece, l'economia crescerà del 2,3%, in ribasso
rispetto al 2,4% stimato in marzo. Inoltre la Bce ha rialzato dall'1,8% al 2%
le sue stime sull'inflazione nel 2007. Il range passa da 1,5%/2,1% a 1,8%/2,2%.
Le stime sull'inflazione 2008 restano invariate nel range tra 1,4% e 2,6%,
cioè al 2%.
In arrivo un altro ¼ di punto di rialzo
fra agosto e settembre. La politica «monetaria è piuttosto accomodante» ha detto
ancora il presidente della Bce, al termine della riunione del consiglio
direttivo. Tutte le opzioni sono aperte, comunque «non c'è nessun
impegno ex ante» per quanto riguarda le future mosse sui tassi, ha aggiunto
Trichet, ribadendo che farà ciò che ritiene necessario per
assicurare la stabilità dei prezzi. «Abbiamo le mani libere per fare
tutto ciòe che riteniamo necessario in futuro», ha aggiunto Trichet, che
non ha voluto commentare le ipotesi di un prossimo rialzo dei tassi, che
secondo il mercato arriverà fra agosto e settembre. Dopo che la Bce oggi
ha rialzato il tasso di rifinanziamento di un quarto di punto, il divario fra
il costo del denaro negli Usa e in Eurolandia è sceso a 1,25 punti
percentual: il tasso dei Fed Funds statunitensi è infatti al 5,25%. La
maggior parte degli analisti, comunque, ritiene che la Bce entro la fine
dell'anno, probabilmente in settembre, ricorrerà a una nuova stretta,
portando il tasso di riferimento al 4,25%, se non addirittura al 4,50% entro
dicembre.
ROMA. Mandanti ed
esecutori dell'omicidio del banchiere Roberto Calvi, trovato il 18 giugno del
1982 impiccato a Londra sotto un ponte sul Tamigi, restano ancora sconosciuti.
Non si sa - e probabilmente non si saprà mai - chi l'ha materialmente ucciso,
né da chi fosse partito l'ordine di eliminarlo. Ma ieri pomeriggio è
stato ufficialmente riconosciuto che quello di Roberto Calvi fu un omicidio e
non un suicidio. A venticinque anni dalla morte del "banchiere di
Dio", un tribunale dello Stato, pur giudicando insufficienti e
contradditorie le prove a carico del faccendiere Flavio Carboni, del cassiere
di Cosa Nostra, Pippo Calò, di Ernesto Diotallevi, ex boss della
"banda della Magliana", e dell'ex contrabbandiere Silvano Vittor, ha
stabilito che fu un omicidio. Lo ha scritto nella sentenza. Una magra
consolazione per l'accusa e per il pm Luca Tescaroli, che però ha
giudicato la stessa sentenza "un passo in avanti rispetto agli esiti
dell'inchiesta di Scotland Yard, che lasciarono aperta l'ipotesi del
suicidio". Tutti assolti gli imputati, secondo la formula che una volta
indicava l'insufficienza di prove. La quinta imputata, Manuela Kleinsig - l'ex
fidanzata di Carboni - è stata invece assolta con formula piena. Come
aveva chiesto lo stesso pubblico ministero al termine della sua requisitoria.
La II Corte di Assise, presieduta da Mario Lucio d'Andria, si era riunita in
camera di consiglio martedì mattina. Il pm aveva concluso la sua
requisitoria chiedendo ben quattro condanne all'ergastolo, per concorso in
omicidio volontario con l'aggravante della premeditazione. Tutti gli imputati
erano stati rinviati a giudizio perché in concorso tra loro e con altri non
ancora identificati, avvalendosi delle organizzazioni criminali di tipo mafioso
(Cosa Nostra e camorra), avrebbero organizzato la morte di Calvi "per
punirlo di essersi impadronito - si legge nel capo di imputazione - di notevoli
quantitativi di denaro appartenenti alle organizzazioni criminali".
Roberto Calvi, secondo l'accusa, avrebbe pagato con la morte anche il
"potere ricattatorio - scrive il pm - che avrebbe avuto nei confronti di
referenti politico-istituzionali della massoneria, della Loggia P2 e dello Ior
(la banca vaticana, ndr". A conclusione delle indagini, il pubblico
ministero è andato addirittura oltre. Dietro la morte del banchiere - ha
sostenuto - si nasconderebbero una serie di intrecci "torbidi": dalla
cattiva amministrazione del denaro di Cosa Nostra affidato al banchiere
milanese, al pericolo che fossero rivelati segreti su riciclaggi compiuti
attraverso il Banco Ambrosiano. Ma non solo. L'accusa ha parlato anche della
volontà dei mandanti, con quella morte, di acquisire maggiore peso
negoziale nei confronti di coloro che erano in rapporti con Calvi, ovvero
massoneria, P2, Ior, referenti politici e istituzionali, enti pubblici
nazionali. Nell'aula-bunker del carcere di Rebibbia era evidente la
soddisfazione dei difensori degli imputati (solo Calò ha ascoltato la
lettura della sentenza collegato in videoconferenza dal carcere di Ascoli),
quando il presidente D'Andria ha scandito la parola "assolti per non aver
commesso il fatto". "È stato smantellato un altro teorema
giudiziario tendente a cambiare la storia di questo Paese: come per il processo
al senatore Giulio Andreotti, Calòè stato accusato da una serie
di pentiti inaffidabili e incontrollabili" ha detto il difensore di Pippo
Calò, l'avvocato Corrado Oliviero. Deluso il pm, che tuttavia ha
affermato che "la ricerca della verità continua". Sulla morte di
Calvi, in procura a Roma c'è un secondo fascicolo aperto:
un'indagine-stralcio sui mandanti, che vede indagate una decina di persone tra
le quali l'ex Venerabile della Loggia P2, Licio Gelli.
Il
Riformista 6-6-2007 Bush fa il superpotente per isolare Cina e Russia di Tonia Mastrobuoni
L’Unità
6-6-2007 “Fine pena” sempre. Marco
Travaglio
La Repubblica
6-6-2007 Palermo Dai costi della politica alla denuncia degli sprechi LINO
BUSCEMI
6/6/2007 - L'Italia denuncia Strasburgo alla Corte di giustizia.
Conflitto istituzionale senza precedenti
E' una storia difficile. Un arabesco all'italiana, dunque una
brutta figura. Eccola, semplificata, nei limiti del possibile dato il caso.
Italia dei valori? Lo so che è popolista, ma qui è l'Italia
degli Stipendi di valore. Di programmi, strategie politiche e coerenza ne
parliamo un'altra volta.
Giugno 2004. Allontanatosi
definitivamente dai Ds, Achille Occhetto fonda una lista con Antonio Di Pietro.
Insieme raccolgono il 2,1% dei consensi alle elezioni per il parlamento
europeo. L’ex pm è primo in due collegi, Nord Ovest e Sud. L’ex leader
della Quercia secondo in entrambi.
Luglio 2004. Di Pietro rinuncia nel
Nord Ovest e lascia ad Occhetto che, a sua volta, abbandona in favore di
Giulietto Chiesa (il terzo arri9vato) e sceglie di restare senatore in Italia.
Così rispetta l’impegno preso con un atto notarile - siglato prima dello
svolgimento delle elezioni - con il quale si vincolava cedere il suo posto al
giornalista, qualora quest'ultimo non avesse avuto accesso al Parlamento
Europeo per percorso naturale. Di Pietro resta eurodeputato coi voti
cinquistati del Mezzogiorno.
Maggio 2006. Di Pietro diventa
ministro nel governo Prodi e abbandona coerentemente l’incarico a Strasburgo.
Occhetto, trombato alle politiche e rimasto senza poltrona, gli subentra.
Ottobre 2006. Il ritorno di Occhetto
viene contestato da Beniamino Donnici, l’ex missino terzo più votato
nella lista dipietresca al Sud. Ritiene che l’elezione sia illegittima
perché Occhetto ha firmato un documento privato e quindi non ha diritto a
rientrare al Sud dopo essere uscito nel Nord Ovest. Occhetto si difende
sostenendo che il suo atto di rinuncia era esplicitamente compiuto in favore di
Chiesa e che, quindi, in questo caso, non ha alcuna validità
Dicembre 2006. Il Consiglio di
Stato dà ragione a Donnici.
Marzo 2007. Il Consiglio di Stato
decreta la decadenza di Occhetto da parlamentare europeo.
Aprile 2007. La Commissione affari
giuridici del Parlamento europeo ripesca Occhetto. "Le dimissioni furono
dettate da un accordo privato e, quindi, non possono essere considerate
valide».
Maggio 2007. Il ministro di Grazia e
Giustizia Clemente Mastella scrive al presidente del Parlamento europeo Poettering
per chiedere all’assemblea di Strasburgo di omologarsi al pronunciamento del
Consiglio di Stato. Sarebbe infatti la prima volta che un voto degli
eurodeputati annulla la volontà di organo giudiziario nazionale.
24 maggio 2007. L’assemblea del
Parlamento Europeo conferma il seggio di Occhetto, attaccato alla poltrona come
la più tenace delle edere. All’Italia non resta che il ricorso alla
Corte di Giustizia per difendere la propria sovranità legale. Donnici
attende. Chiesa non ha giustamente problemi. Di Pietro bofonchia, anche perché
tornando a Strasburgo, Occhetto si è iscritto al gruppo socialista
europeo.
6 giugno 2007. L'Italia denuncia Strasburgo
alla Corte di Giustizia.
Paradosso finale. Poiché lo stipendio
di un europarlamentare è responsabilità nazionale, la situazione
finanziaria dei due contendenti è la seguente: Donnici ha l'assegno
mensile ma non il seggio; Occhetto ha il seggio ma non la paga e percepisce
solo le indennità che, invece, sono responsabilità dell'assemblea
comunitaria. Fantastico....
continua....
ROMA - Anche Visco avrebbe
dovuto dimettersi, la cacciata di Speciale è stata un errore e,
complessivamente, l'intera vicenda non è stata gestita in modo
trasparente dal governo. E' quanto emerge da un sondaggio in tempo reale
eseguito ieri da Ipr Marketing per Repubblica.it su un campione "validato"
di mille persone. Su tutte e tre le questioni si coagula una maggioranza
piuttosto consistente che va dal 53% (le dimissioni di Speciale) al 58% (il
comportamento di Visco) fino al 62% (la gestione da parte del governo). In
tutti i casi il parere di chi si dichiara elettore di centrodestra appare
decisamente più compatto di quello dei simpatizzanti del centrosinistra.
Il campione è formato da un 53% di elettori di centrodestra, un 45% di
centrosinistra e un 2% di "non schierati": un quadro che corrisponde
all'attuale composizione dell'elettorato.
Un sondaggio di questo tipo, dicono gli stessi esperti che l'hanno eseguito,
risente anche dell'emozione del momento e della prevalenza della comunicazione
(piuttosto aggressiva) del centrodestra, ma è pure chiaro che siamo di
fronte a un atteggiamento decisamente critico da parte degli intervistati sulla
conduzione dell'intera vicenda.
Se cade il governo. Il
sondaggio aggiunge anche una domanda su cosa dovrebbe accadere se, oggi, la
maggioranza non riuscisse a superare lo scoglio della discussione al Senato.
Per il 44% del campione si dovrebbe andare al voto subito (12% tra gli elettori
del centrosinistra, 70% tra quelli del centrodestra, 34% tra i non schierati).
L'opzione più gettonata dagli elettori di centrosinistra (49%) è
quella di un governo di larghe intese che incontra il favore del 29% del totale
del campione, m a, tra i sostenitori del centrodestra piace solo al 17%. L'idea
di un nuovo governo di centrosinistra limitandosi a cambiare il premier
incontra il favore del 13% degli intervistati, mentre il 14% non ha un'opinione
in merito.
Visco. Gli intervistati, che si
sono formati la loro opinione leggendo i giornali e guardando la tv non
sembrano cogliere le ragioni del viceministro. Secondo il 58% (21% del centrosinistra,
89% del centrodestra) Vincenzo Visco dovrebbe dimettersi. Per il 21% (52% del
centrosinistra, 3% del centrodestra) può restare al suo posto mentre un
altro 21% non ha un'opinione in merito.
Speciale. Valori simili per quanto
riguarda l'antagonista di Visco, il generale comandante della Gdf, Roberto
Speciale. Secondo la maggioranza (53%) il governo ha fatto male a sostituirlo;
per il 31% la sua cacciata è giustificata, mentre il 16% non sa.
Il governo. Complessivamente, il
governo non ne esce bene. Il campione testato da Ipr ritiene a larga
maggioranza (62%) che la gestione della vicenda non si stata trasparente. In
questa quota va compreso un 33% di elettori di centrosinistra che,
evidentemente, sono critici nei confronti del loro esecutivo. Solo il 16%
ritiene che il governo si sia comportato in modo chiaro e trasparente e il 22%
non ha opinioni.
(6 giugno 2007)
Oggi lo stato finanzia
l'editoria per circa 600 milioni di euro. Ci sarà distinzione tra fogli
politici veri e fasulli, tra chi vende e chi no
ROMA- Non ci saranno sconti
neanche per il futuro Partito Democratico. I soldi andranno all'uno o
all'altro, non a tutti e due i quotidiani di Ds e Margherita. A meno che non
facciano una bella fusione. «Il governo ce l'ha già detto: quando
arriverà il nuovo partito non potrà continuare a dare contributi
pubblici a tutti e due. A Europa che è
espressione della Margherita, e a noi che siamo organo dei gruppi parlamentari
dei Ds» racconta Giorgio Poidomani, amministratore delegato della
società editrice dell'Unità. Che
comunque, fatta salva quella prospettiva sicuramente problematica, è
assolutamente ben disposto ad accogliere il riordino delle provvidenze
pubbliche a favore dell'editoria annunciato ieri dal governo. «È ora che
i finanziamenti vadano ai giornali veri, espressione di partiti veri, che
vendono copie vere. O alle vere cooperative di giornalisti» dice Poidomani.
DDL ENTRO GIUGNO - Il
riordino, al quale lavora da un anno il sottosegretario alla Presidenza,
Ricardo Levi, entrerà nel pacchetto di misure per l'abbattimento dei
costi della politica (■ le novità previste) che
il ministro dell'Attuazione del programma, Giulio Santagata, ha confermato per
fine giugno. Farà compagnia ai nuovi criteri per la definizione delle
province, delle comunità montane, delle circoscrizioni, a quelli per
snellire i consigli regionali, comunali e provinciali, per ridurre i benefit e
le indennità. E forse anche ministri e sottosegretari, perché Santagata
ammette che con 26 dei primi e 104 dei secondi, anche il governo di cui fa
parte «ha esagerato. Sui costi della politica bisogna dare un segnale urgente,
perché il rischio del distacco dei cittadini è grande e sotto gli occhi
di tutti».
RIFORMA ORGANICA - Anche di chi si
chiede come mai Torino Cronaca prenda dallo
Stato quasi 3 milioni di euro in quanto espressione di un movimento politico, come
il Foglio e il Riformista, ma anche come il Roma di Napoli,
il Denaro, Metropoli Day, e Libero. Di chi si domanda se
sia giusto che anche il mensile con i programmi che Sky invia ai suoi abbonati,
in quanto prodotto editoriale, riceva le agevolazioni previste sulle tariffe
postali (25 milioni di euro l'anno). O semplicemente come mai i contributi
pubblici siano esplosi in 20 anni: da 28 milioni di euro del 1980 agli oltre
600 di oggi. Via alla riforma, dunque. «Che sarà organica, e riguarderà
tutti gli aspetti dell'industria editoriale: il prodotto, il mercato, le
imprese, e ovviamente gli aiuti» spiega Levi.
Si stabilirà con precisione cosa
è un prodotto editoriale, perché è dubbio che lo siano,
come sono oggi considerati, e quindi agevolati, i cosiddetti «collaterali», dai
dvd agli aerei da montare. I contributi alle cooperative resteranno, ma a
quelle vere, composte dai giornalisti e dai dipendenti. Mettendo fine al caos
generato dalla sanatoria del 2001, quando si decise che per continuare ad avere
contributi i giornali espressione dei «movimenti politici» (bastavano due
parlamentari) dovevano essere trasformati in cooperative anche spurie,
cioè con soci azionisti e non lavoratori. Resteranno, ovviamente, i
contributi ai quotidiani politici, tutelati in nome della libertà
d'espressione dalla Costituzione. «Ma, anche qui, dobbiamo chiarire cosa si
debba intendere per un organo legato ad un gruppo politico» spiega Levi.
Soprattutto, poi, ci saranno parametri industriali per calcolare l'entità
delle sovvenzioni. «Che saranno legate - aggiunge il sottosegretario - al
numero effettivo di copie stampate e realmente diffuse, ma anche
all'occupazione effettiva».
LA FINANZA AL LAVORO -
Oggi il criterio per stabilire il "quantum" del contributo è
facilissimo da aggirare. Basta stampare migliaia di copie e magari lasciarle in
un deposito. Oppure regalarle. O venderle in blocchi ad aziende come le Fs,
Alitalia, ospedali, catene alberghiere, che poi li distribuiscono gratuitamente
ai loro clienti, a prezzi irrisori. «Criteri non sempre trasparenti» ammette
Santagata. Tanto che due mesi fa il governo ha chiesto alla Guardia di Finanza,
di distaccare un nucleo di ispettori al Dipartimento dell'Editoria, per evitare
possibili truffe. Paolo Franchi, direttore de Il Riformista, organo del
movimento Ragioni del Socialismo, concorda. «Dal mio punto di vista è
giusto mettere ordine con regole chiare e trasparenti. Purché ci si renda conto
che la tutela di una voce piccola, ma di peso, non è lo stesso problema
dell'auto blu usata dal nipote dell'assessore» dice Franchi. «Da questa riforma
noi abbiamo tutto da guadagnare» concorda Stefano Menichini, direttore di Europa.
«Lo scenario - aggiunge - è ignobile: i soldi li prendono tutti,
giornali veri e falsi, chi vende e chi non s'è mai visto in edicola, chi
è espressione di veri partiti e chi lo è di sole due persone».
«Però dobbiamo parlare anche della grande stampa. Il grosso delle
agevolazioni - dice Poidomani - va lì. Mi chiedo se anche questo
è giusto».
06 giugno 2007
Sono due righe scritte in inglese all’interno di un voluminoso
rapporto «privilegiato e strettamente confidenziale» intitolato «Project Tokyo»
e redatto dagli uomini della Kroll, l’agenzia di investigazioni private
americana più importante del mondo. Due righe che si ritrovano anche in
alcune e-mail intercettate dagli uomini della Security Telecom di Giuliano
Tavaroli sul computer di un agente della Kroll, tale Erginsoy, e che finiscono
in un gigantesco file che racconta la guerra tra Marco Tronchetti Provera e
Daniel Dantas (titolare del fondo brasiliano CvC-Opportunity) per il controllo
di Brasil Telecom: il rapporto «K».
Una storia di anni fa ma resa attuale dal
caso Visco-Speciale
Due righe che però riguardano anche la politica italiana e ne sono forse
il cuore avvelenato delle polemiche di questi giorni che, dietro il caso
Visco-Speciale, il caso Antonveneta-Unipol, e il caso Telecom, puntano in
un’unica direzione, rivelare ciò che nei chiacchiericci romani si
mormora da tempo e che lega in fondo, e vedremo il perché, tutte queste storie:
l’esistenza di conti segreti di alcuni esponenti della maggioranza, in
particolare del ministro degli Esteri Massimo D’Alema. Esistono questi conti?
Negli atti in mano alla Procura milanese delle varie inchieste condotte negli
ultimi due anni, c’è un solo riferimento a questa circostanza ed
è contenuto in quel file dell’indagine Telecom. Due righe, non di
più, di cui La Stampa è in grado di rivelare il contenuto. Eccole: «Source intelligence in Italy
indicates that Inepar (un fondo brasiliano, ndr) was the company that moved
funds for the then Prime Minister D’Alema, which involved Tl activities». Tradotto
in italiano significa che «fonti d’intelligence in Italia indicano che Inepar
era la società che ha movimentato i fondi per l’allora primo ministro
D’Alema, che ha coinvolto le attività di Telecom».
L’origine: è il rapporto della Kroll
stilato ai tempi dello scontro su Brasil Telecom
In una e-mail datata 29 marzo 2004, tale Charles della Kroll
scrive anche: «Mi piace questo angolo di Inepar... Ho saputo qui in Italia che
Inepar era la società che ha movimentato i soldi per D’Alema, coinvolto
nelle attività di Telecom...». Nello stesso rapporto si ricostruiscono
anche le varie scalate Telecom, attribuendo quella «dell’era Colaninno», ma
è cosa nota, sempre alla benevolenza di D’Alema. Sono accuse gravi che
però si fermano qui, non trovano cioè altri riscontri, pezze
d’appoggio, documenti per dimostrare un’affermazione tanto pesante quanto
palesemente, almeno in quei rapporti «confidenziali», non dimostrata. Eppure
questa storia di un presunto conto in Brasile dell’attuale ministro degli
Esteri viene scritta nero su bianco e viene da una parte consegnata dalla Kroll
ai suoi committenti brasiliani, dall’altra intercettata dagli uomini del «Tiger
Team» di Fabio Ghioni che la ritrasmette a Tavaroli insieme al dossier completo
delle attività Kroll in Brasile, spionaggio su Tronchetti e famigliari
compreso. Diventa cioè uno dei tasselli del gigantesco puzzle di misteri
e dossier che da mesi sta avvelenando la vita politica italiana.
Telecom e Unipol
Per capire infatti il duro scontro in atto in questi giorni tra maggioranza e
opposizione sul caso Visco-Speciale, bisogna allargare il campo anche alla
vicenda Telecom e al giro di spioni pubblici e privati che la animano, nonché
interpretare correttamente i risvolti della vicenda Unipol, contestualizzando
il tutto in uno scenario più generale. Non si tratta necessariamente di
descrivere un gigantesco complotto, ma di seguire le tracce di una serie di
avvenimenti che si concatenano tra loro e che offrono, a chi le sa sfruttare,
opportunità di ricatto o di scambi silenziosi. Ma non limpidi. Dunque:
il «Progetto Tokyo» e i suoi inquietanti contenuti (dentro e in alcuni allegati
si trovano anche riferimenti a Berlusconi e al suo ruolo nella partita Telecom)
vengono intercettati nel 2004.
Gli spioni
La prima domanda è: chi sarà mai la fonte «d’intelligence» in
Italia che fa sapere agli uomini della Kroll dell’esistenza di soldi di Massimo
D’Alema movimentati in un fondo brasiliano? Mistero. Impossibile non notare
però un verbale del 14 dicembre scorso davanti al gip Gennari e ai pm
dell’inchiesta Telecom reso dal dirigente del Sismi Marco Mancini, accusato di
aver passato informazioni riservate del servizio alla premiata ditta Tavaroli
& Co. Ebbene, Mancini racconta di aver ricevuto «dopo il 2003» dei dossier
sui conti esteri di alcuni politici della Quercia e dell’Udc che gli sono stati
consegnati da Emanuele Cipriani, investigatore fiorentino legato ad ambienti
massonici (è buon amico della famiglia Gelli), nonché principale
fornitore dei dossier ordinati da Telecom e animatore di un network di
investigatori e uomini delle Forze dell’Ordine che arrotondano i loro stipendi
trafugando informazioni dalle banche dati riservate dello Stato.
Laziogate
Cipriani è anche legato ad ambienti della destra, visto che si arriva a
lui indagando sull’oscura vicenda del Laziogate, dove, secondo le accuse, l’ex
presidente della Regione Lazio, Francesco Storace, si avvale di alcuni uomini
del network di Cipriani per far spiare e fabbricare falsi dossier su Alessandra
Mussolini e Piero Marrazzo, entrambi suoi concorrenti alla poltrona della
presidenza della Regione Lazio. Non si capisce a che titolo e con quali mezzi
Cipriani abbia indagato su presunti conti esteri della Quercia («dossier Oak»)
e del segretario Udc Lorenzo Cesa. Fatto sta che un bel giorno Cipriani
consegna queste carte a Mancini. Il quale le porta all’allora capo del Sismi
Nicolò Pollari. E qui iniziano i problemi. Mancini spiega infatti ai
magistrati che Pollari gli consigliò di contattare i diretti interessati
per sottoporre loro quel materiale. Procedura davvero singolare: un alto
dirigente delle istituzioni viene a conoscenza di fondi segreti di esponenti di
spicco della politica italiana e invece di rivolgersi alla magistratura o di
ordinare indagini più approfondite, ritiene di doverli sottoporre, o
almeno così sostiene un suo subordinato, ai diretti interessati. I
quali, afferma Mancini, definirono quelle carte delle «fesserie». I diretti
interessati, ovvero il senatore diessino e braccio destro di D’Alema, Nicola La
Torre, e il segretario Udc, Lorenzo Cesa, smentiscono però questa
versione dicendo di non avere mai saputo niente di dossier sui conti esteri
fatti vedere da Mancini. La cosa sembra finire lì.
Unipol e Abu Omar
Nel frattempo, tra il 2003 e il 2005, succedono cose
straordinarie. La magistratura milanese apre un’inchiesta sulla scalata
Antonveneta scoprendo anche risvolti sulla scalata Unipol Bnl, con
intercettazioni che vengono definite «politicamente imbarazzanti» per alti
esponenti diessini. Quasi contemporaneamente si scopre anche che un cittadino
egiziano sospettato di terrorismo, Abu Omar, è stato rapito nel marzo del
2003 in una strada di Milano da un commando di agenti della Cia con la
complicità di agenti italiani (e forse di uomini che hanno operato con
la Security Telecom) e che del sequestro era informato l’ex capo del Sismi
Pollari, nonché lo stesso Marco Mancini - che pure per questa vicenda
verrà arrestato - ed esponenti del governo Berlusconi. Dunque, ci sono a
questo punto due storie che si muovono parallelamente e che tra la primavera e
l’estate scorsa sembrano raggiungere lo zenith: l’inchiesta Antonveneta-Unipol-Bnl,
che porta a scoprire il pagamento da parte di Emilio Gnutti di una consulenza
di 50 miliardi di lire a Giovanni Consorte (presidente Unipol) e Ivano
Sacchetti (il vice) per la rinegoziazione della vendita Telecom a Tronchetti
Provera; dall’altra l’inchiesta sul sequestro Abu Omar che fa finire sotto
accusa lo stesso Pollari per il quale la procura chiede il rinvio a giudizio
con l’accusa di concorso in sequestro di persona. Sullo sfondo intanto inizia a
muoversi l’indagine sui dossier Telecom.
Il caso Visco
È in questo momento caldissimo, luglio 2006, che s’inserisce la
decisione del vice ministro Visco di rimuovere da Milano la catena di comando
della Gdf. Una decisione che subito, nonostante le decise smentite del
viceministro, qualcuno accredita come determinata dall’indagine condotta dalla
Gdf sulla scalata Unipol-Bnl. Perché? Perché da quell’indagine sono scaturite
alcune intercettazioni su vari uomini politici che solo in questi giorni un
perito incaricato dal gip Clementina Forleo sta trascrivendo in vista di
un’udienza peritale prevista per lunedì prossimo. Eppure una di queste
intercettazioni, nemmeno trascritta ma conservata in un file a disposizione di
almeno una decina di computer di inquirenti e investigatori, finisce sulle
pagine de «Il Giornale». È la famosa conversazione tra il segretario dei
Ds Piero Fassino e l’allora presidente di Unipol Giovanni Consorte («Allora
abbiamo una banca?»). Nulla di penalmente rilevante eppure, squadernata verso
il finire della campagna elettorale (era aprile) deflagra come una bomba e
ingenera nuovi sospetti sulla possibilità che esistano ben altre
conversazioni e maggiori compromissioni. Il fatto poi che Gnutti abbia pagato
una cifra esorbitante, 50 miliardi, allo stesso Consorte per una consulenza
sulla vendita Telecom tuttora all’attenzione della Procura milanese e che
questi soldi, prima di rientrare in Italia per essere sequestrati, abbiano
preso aria su dei conti esteri, ingigantisce ipotesi e presunti misteri. Chi ha
passato quella intercettazione al Giornale? Fonti autorevoli sostengono che
quell’intercettazione sia giunta da ambienti romani e non da via Fabio Filzi,
sede della Gdf milanese. Eppure fare credere il contrario conviene a chi vuole
accreditare l’idea di una vendetta politica del viceministro nei confronti dei
quattro ufficiali milanesi da trasferire. Nel frattempo si consuma, lontano dai
riflettori, lo scontro tra Visco e Speciale. Gli ufficiali alla fine non
verranno rimossi e anche questa storia cade nell’oblio. In realtà diventerà
il detonatore di una bomba ad orologeria che un anno più tardi,
cioè ai giorni nostri, verrà fatta esplodere rianimando gli
spettri dei conti esteri della Quercia. Per giunta proprio a ridosso
dell’udienza davanti al gip che dovrà finalmente rendere conto delle
intercettazioni Unipol-Bnl, un centinaio, non di più.
E il Sismi tace
Sono davvero così esplosive queste intercettazioni? Chi le ha potute
ascoltare, sostiene che non vi sia nulla di più di qualche affermazione
che potrebbe provocare degli imbarazzi politici. E allora? Perché tutta questa
inquietudine? Perché in realtà qualcosa che porta a dei conti esteri
della Quercia esiste, si trova invece agli atti dell’inchiesta Telecom ed
è, al momento, la frase che abbiamo pubblicato. Lo intuiscono
perfettamente anche alla segreteria dei Ds che, non a caso, due settimane fa si
presentano in Procura con il tesoriere Sposetti costituendosi parte offesa e
facendo riferimento proprio ai dossier di cui ha parlato l’ex capo del
controspionaggio Marco Mancini. Manca infine ancora una versione, quella
dell’ex capo del Sismi Niccolò Pollari, per il quale il governo Prodi, a
differenza di Berlusconi, si spende fino ad entrare in conflitto aperto con la
Procura di Milano opponendo sul caso Abu Omar il segreto di Stato e rivolgendosi
alla Consulta per scaricare sui pm milanesi accuse da galera. E’ Pollari,
stando a Marco Mancini, che ha potuto vedere bene questi dossier sui conti
della Quercia e di Massimo D’Alema. E che forse potrebbe avere un’idea a quale
fonte d’intelligence italiana si siano abbeverati gli spioni privati della
Kroll per scrivere il loro rapporto «Tokyo».
PECHINO
Con un allineamento degno dei tempo delle fratellanze comuniste, ieri anche la
Cina ha preso posizione sulla questione dello scudo spaziale, e dalla parte di
Mosca. Con una nota ufficiale del ministero degli Esteri, Pechino ha fatto
sapere che il progetto americano "altera l'equilibrio strategico". Lo
scudo sarebbe inoltre "sfavorevole per la reciproca fiducia tra grandi
potenze e per la sicurezza regionale, oltre a creare problemi di
proliferazione". La nota è arrivata prima del discorso di Bush a
Praga: vista la differenza di fuso orario non ci sono state subito reazioni
ufficiali alle dichiarazioni del presidente americano. Ma gli specialisti di
questioni americane non vedono cambiamenti sostanziali nella politica
bilaterale. È da notare, dicono gli esperti, che la Cina è stata
messa nello stesso gruppo di Egitto, Pakistan e Arabia Saudita: Paesi sì
a basso livello di democrazia, ma anche amici degli Usa. Questo ultimo dato
è quello che conta davvero per Pechino. Del resto, dietro la facciata di
grande cordialità politica e l'allineamento sullo scudo spaziale, le
differenze tra Cina e Russia sono enormi. I cinesi sostengono di essere
costretti a comprare armi dalla Russia per ammodernare l'esercito e mantenere
l'equilibrio di forze nello stretto di Taiwan. Ma queste armi arrivano in Cina
ad un prezzo altissimo e sono arretrate persino rispetto a quelle che la Russia
cede all'India. Inoltre non c'è nessun progresso sugli accordi di
esportazione di gas ed energia dalla Russia alla Cina. I patti sui tracciati di
gasdotti e oleodotti sono stati cambiati più volte, non si trova
un'intesa sui termini della distribuzioni o degli investimenti a monte per
l'estrazione del petrolio o del metano. "Come se non bastasse nella
Siberia del nord i russi si lamentano un giorno sì l'altro pure di una
prossima invasione cinese, esasperando la tensione locale", aggiunge un
professore dell'Accademia delle scienze sociali cinesi. Anche a livello
culturale le relazioni sono stagnanti: pochi scambi di studenti, ricercatori
universitari. Negli ultimi due anni le visite reciproche tra accademici di
India e Cina sono raddoppiate, mentre quelle tra Russia e Cina non hanno fatto
un passo avanti. Pochi ragazzi cinesi vanno a studiare in Russia e solo una
manciata di giovani russi va a studiare in Cina. Di contro, gli scambi
accademici e di studenti a tutti i livelli tra Cina e America crescono in
maniera verticale. Gli Usa sono la meta preferita per gli studi all'estero dei
ragazzi cinesi e gli americani sono il gruppo più numeroso di studenti
occidentali in Cina. Una predilizione che ha solide basi economiche: l'America
è il primo partner commerciale della Cina e la Cina è il primo
acquirente del debito americano: di fatto è il primo creditore
dell'America. Nonostante un debito americano ormai smisurato e un dollaro
debolissimo, la Cina continua a finanziare generosamente gli Usa, pur sapendo
che con la caduta del biglietto verde il credito di Pechino si svaluta di
giorno in giorno: un grande atto di fiducia. Il timore vero della Cina, che ha
bisogno di un'area di pace e stabilità per la sua crescita economica,
è il nervosismo della Russia. L'irritazione di Mosca per le accuse di
Bush sulle "riforme democratiche russe deragliate" rischia di
ripercuotersi anche a Oriente. Una Russia agitata, nervosa, rischia trasmettere
onde di destabilizzazione lungo le migliaia di chilometri del confine tra i due
Paesi. E certo Pechino starà bene attenta a non dare l'impressione ai
russi che si stia creando una morsa sino-americana da est e da ovest. Del
resto, nella sua visione di un mondo multipolare, Pechino ha interesse a
mantenere una certa equidistanza con tutti i principali attori della politica
internazionale, nonostante gli afflati culturali o economici, senza
sbilanciarsi troppo da una parte o dall'altra.
E i
dati sono davvero inquietanti: il 20% della mortalità nel nostro Paese
è legato proprio all ambiente malsano. Sotto accusa soprattutto il
traffico che rappresenta il 60% dell inquinamento in generale, con punte dell
80% in alcune città: le polveri sottili sono uno dei fattori più
dannosi per la salute e in Pianura Padana presentano una delle più alte
concentrazioni d Europa. Si pensi che i livelli indicati dalle linee guida sono
di 10 microgrammi per metro cubo, mentre qui si registrano valori che vanno dai
35 a 45, cioè tre volte superiori a quelli considerati accettabili. Non
solo: un recente studio dell Organizzazione mondiale della sanità (Oms)
sulle 13 più grandi città italiane ha stimato che, tra il 2002 e
il 2004, una media di 8.220 morti l anno sono da attribuire proprio agli
effetti di queste polveri. Tra le città europee con concentrazioni
più elevate di micropolveri, ci sono Milano e Torino. L'inquinamento da
particolato fine - spiega Roberto Bertollini, direttore Centro Ambiente e
salute Oms Europa, - preoccupa molto per la salute perchè queste
sostanze sono così piccole da entrare nel sangue, riuscendo arrivare a
tutti gli organi". Tutte le aree urbane italiane risentono del fenomeno.
"Il problema delle polveri sottili - sottolinea Ermete Realacci,
presidente della VIII Commissione della Camera dei deputati Ambiente,
territorio e lavori pubblici - riguarda tutto il Paese. Le leggi ci sono:
abbiamo le norme fissate dall Ue. Purtroppo, però, non sempre ci sono
adeguati strumenti per dare concrete risposte operative. Per affrontare questo
tema, infatti, è necessario agire su molti fronti. Uno dei più
importanti è quello del trasporto. Tra le misure necessarie, ad esempio,
il potenziamento del trasporto pubblico e la limitazione di quello privato. E
questo significa anche risorse". Dal canto suo il rappresentante dell Oms,
Bertollini, invita a seguire l esempio della maggioranza dei Paesi europei che
hanno costituito organismi istituzionali, come per esempio Agenzie ad hoc, per
valutare e monitorare le politiche ambientali. Per gli esperti del Cnr,
conoscere meglio le reali condizioni d inquinamento del territorio e i rischi
per la salute che ne derivano è ormai una necessità. "Quello
che proponiamo - ha spiegato Bianchi - è un vero e proprio sistema di
biomonitoraggio. Oggi, infatti, non abbiamo abbastanza informazioni. Manca,
poi, una misurazione dei miglioramenti ottenuti dopo le bonifiche delle aree
inquinate". A seguito dei dati allarmanti resi noti dal Cnr, il Codacons
ha chiesto al ministro dell'Ambiente Pecoraro Scanio di modificare urgentemente
la normativa vigente, in particolare il Decreto Ministeriale 2 aprile 2002, n.
60, obbligando i sindaci ad introdurre automaticamente il provvedimento delle
targhe alterne ad ogni superamento delle soglie limite degli inquinanti. [Data
pubblicazione: 06/06/2007].
Cara Europa, a me quel generale della Finanza, Speciale di nome e
di fatto, che davanti a tutte le autorità dello stato alla parata del 2
giugno sbatte i tacchi davanti a Berlusconi e gli dice “Sempre agli ordini,
presidente”, mi ricorda il generale De Lorenzo; e il presidente Prodi che non
sa o non ridenuncia alla magistratura eventuali trame di sciabole, rischia come
Forlani, che esitò nel fare i nomi della P2 (tanti generaloni) e
finì scavalcato da Spadolini, segnando la fine dei governi Dc. La storia
si ripete? COL. GIUSEPPE
Caro Colonnello, a parte il disagio nel pubblicare lettere firmate
così, temo lei abbia ragione di pensare che anche stavolta la storia si
ripete.
Ma su questo punto preferirei attendere gli sviluppi dell’inchiesta D’Avanzo su
La Repubblica, che ha molte bocche da fuoco: una puntata contro le sciabole
generalizie, sempre disponibili a farsi coinvolgere nei giochi d’interesse dei
governi che puntano sulle faide interne delle forze armate, sugli odi
sacerdotali che frammentano la casta; un’altra contro il governo Berlusconi,
che ha fatto carne di porco, specie con la Finanza e specie in Lombardia,
durante il quinquennio del Vanno Marchi di Arcore (la definizione è di
Pannella) e del suo Professore Tributarista al Tesoro; un’altra ancora contro
l’attuale governo, che avendo ereditato dalla destra il groviglio di vipere in
borghese o in divisa di “servitori dello Stato”, con metastasi nei Servizi
segreti di Pollari, nello spionaggio Telecom, negli affari Unipol o come si
chiamino, invece di usare il lanciafiamme a costo di illuminare la notte della
repubblica, ha preferito (more democristiano), sopire, tacere, tacere, sopire,
magari con la speranza non solo del quieto vivere ma anche di qualche incertuccio
(Alfieri) a Pasqua ed a Natale.
Oggi, dal dibattito al senato, sapremo qualcosa di più. Ma fin d’ora
voglio esprimere il mio personale rammarico che un uomo di altissima coscienza
morale, il mio amico Nando Dalla Chiesa, all’inizio di questa vicenda abbia
detto, per comprensibilissime ragioni umane, di credere sempre alla
lealtà degli uomini in divisa. Se tutti fossero come suo padre, certo.
Ma io ricordo ancora, come scrivo in prima pagina, in un’altra festa del 2
giugno d’oltre 40 anni fa, gli occhiolini del generale De Lorenzo agli invitati
di Palazzo Barberini, quando meditava il Piano Solo; ricordo le tazzine di
caffè alla buvette di Montecitorio col generale Miceli, capo del Sid,
poi arrestato, l’assassinio(?) del generale Mino odiato dai carabinieri per la
sua tendenza a democratizzare l’Arma; ricordo i comandanti della Finanza
(Cerciello e altri) in fortezza a Peschiera per gli scandali dei petroli;
ricordo il covo di Provenzano lasciato alla mercè dei visitatori per 18
giorni dal Sisde, ma soprattutto ricordo i generali passati direttamente dalla
divisa alla poltrona di Montecitorio sui banchi della destra. Mi domando,
perché sempre a destra. I veri soldati, che avevano fatto la guerra – dal
maresciallo Messe all’ammiraglio Durand de la Penne – entrarono in parlamento
nei ranghi dei partiti liberaldemocratici.
L'emiciclo della
Camera: è urgente ridurre i costi della politica ROMA Ridurre gli sprechi della politica è una priorità del governo da sempre. Quindi si
deve agire e in fretta, ma non sull'onda "emotiva e mediatica" di
questi ultimi tempi. E le prime mosse saranno un Patto tra le istituzioni e un
disegno di legge da mettere a punto entro giugno. A spiegare cosa intende fare
l'esecutivo di Romano Prodi per contenere i costi dei ''palazzi'' della politica è il ministro per l'Attuazione del programma Giulio
Santagata nella sua audizione in commissione Affari Costituzionali alla Camera.
Santagata, che la settimana scorsa si è incontrato con rappresentanti di
Regioni, Province, Comuni e Comunità montane proprio per fare il punto
su quanto costa la politica in Italia, è stato chiarissimo. Non
ci saranno interventi mirati a tagliare solo in "casa di qualcuno"
perchè la "dieta dimagrante" dovrà riguardare tutti: da
Parlamento e governo, a Comuni e società pubbliche. Con "tempi
condivisi" e metodi analoghi. "Vogliamo evitare così - precisa
il ministro - di dividere le istituzioni tra ''buoni'' e ''cattivi''".
L'intervento, assicura Santagata, dovrà essere a 360 gradi e riguardare
tre livelli: costi della rappresentanza, che sono la voce
più pesante del bilancio; razionalizzazione della Pubblica
Amministrazione; maggiore trasparenza, responsabilità ed etica pubblica.
Quindi, avverte il ministro, si dovrà pensare a ridurre gli emolumenti,
le indennità, a ridimensionare il numero di consulenti e rappresentanti
("non solo dei consiglieri regionali"), a fare insomma tutti quei
tagli che saranno necessari a contenere gli sprechi. E anche il governo dovrà fare la sua parte. Santagata
infatti fa "mea culpa", come rappresentante dell'esecutivo,
affermando che l'attuale governo ha talmente esagerato in termini di ministri e
sottosegretari che ha toccato un "record negativo". Che ovviamente
dovrà essere rivisto. Il governo dunque si è già messo al
lavoro incontrando tutti gli enti locali (che tornerà a rivedere
giovedì), mettendo a punto un libro bianco e accelerando il più
possibile l'iter di un disegno di legge che indichi tempi e modalità.
Quindi, non si escludono percorsi legislativi separati e mirati anche se,
ricorda Santagata, "molto per ridurre i costi è stato già fatto nella Finanziaria e nel Dl
Bersani". E poi, per Santagata, "va completato quel federalismo"
che così com'è rimasto ha creato solo delle costose
"sovrapposizioni". Gli interventi da fare, per il ministro, sono
davvero tanti: dalla revisione dei contributi per i giornali, alla riduzione
degli "incarichi per chi ha già incarichi direttivi",
"evitare proliferazione eccessiva" delle società a
partecipazione pubblica, discutere delle "dimensioni minime delle
Province". "Non dobbiamo agire sull'onda dell'emotività -
dichiara Santagata -. Ma abbiamo tutti l'urgenza di dare un segnale della
capacità delle istituzioni di auto-riformarsi, perchè il rischio
del distacco dei cittadini dalla politica è grande e ben visibile". "Come governo -
conclude - avvertiamo la necessità di agire con urgenza".
ROMA - è
più facile cambiare partner che abbandonare la propria banca, passare a
un nuovo operatore di telefonia mobile, disdire l'abbonamento tv. Seguire le
sirene della concorrenza si trasforma spesso in un calvario che in cima ha
piantate tre croci: i tempi, i costi o tutti e due. Resistono al cambiamento
banche, società di telefonia e pay-tv. Resistono alle picconate di
Bersani, che con le sue "lenzuolate" sulle liberalizzazioni è
deciso a rendere più facile e meno costoso cambiare. Se n'è
accorta da tempo anche la Commissione europea, che ieri ha pubblicato il lavoro
di un gruppo di esperti sugli ostacoli che incontra chi vuole cambiare banca:
asimmetria delle informazioni, opacità dei prezzi, vincoli
amministrativi, spese di chiusura. Problemi che le banche italiane stanno
affrontando, replica l'Abi, attraverso il Consorzio Patti Chiari e che verranno
superati quando sarà operativo lo spazio unico dei pagamenti europeo. Il
trasloco del conto corrente è infatti faticoso e pieno di insidie.
Eliminati i costi di chiusura grazie al decreto Bersani, al cliente rimane il
compito di avvisare quegli enti che sul suo conto prelevano o addebitano: il
datore di lavoro, l'Inps, le società finanziarie che incassano le rate,
gli abbonamenti tv. Un primo passo è stato fatto. Ci sono 17.000
sportelli che aderiscono all'iniziativa, "CambioConto" di Patti
Chiari: si firma un modulo e la banca trasferisce le domiciliazioni bancarie
sul nuovo conto. "L'ideale - spiega Mauro Novelli dell'Adusbef - sarebbe
assegnare un codice bancario, sulla falsariga di quello fiscale, anche se il
problema è a monte: le banche dovrebbero offrire contratti con
condizioni valide per un anno, senza modificarle a ogni piè
sospinto". Una nebbia fitta avvolge anche l'estinzione anticipata del
mutuo. Da giugno chi sceglie di andarsene non paga più penali o paga
penali ridotte sui vecchi mutui. "Notiamo però una certa resistenza
da parte delle aziende di credito - dice Novelli - e il tentativo di imporre i
loro usi. Allo sportello spesso non sanno dare risposte certe". E fanno
presto le società di telefonia mobile a lanciare promozioni. Chi chiede
di cambiare operatore può attendere anche cinque mesi. Un esempio? Ci
sono oltre 250mila clienti che spettano di passare da Tim a Vodafone. E al
danno si aggiunge la beffa: "Se scelgo un nuovo operatore perché il mio
modifica il piano tariffario - spiega Antonio Bosco dell'Adiconsum - sono
costretto a pagare proprio per quello da cui volevo scappare". La
portabilità del numero introdotta nel 2002 è ancora una chimera.
E la situazione peggiorerà perché stanno arrivando sul mercato Coop e
Poste italiane. Staccare la spina di Sky o Fastweb è invece
costosissimo, un salasso se si vuole recedere dal contratto nel primo anno.
"Sky si è inventata una spese fissa di chiusura pari a 220 euro
più 30, anche se ripartita nell'anno - accusa Mauro Vergani di Adiconsum
- Fastweb ne chiede 217, cui se ne aggiungono altri 52 se si ha l'allacciamento
tv". Proprio oggi l'Authority farà sentire la sua voce:
l'orientamento è rendere rigoroso il rispetto della normativa Bersani:
non devono esserci costi di uscita se non quelli legati alle spese aziendali.
Un principio che vale anche per i gestori di Internet e della telefonia fissa
(per abbandonare la linea chiedono dai 40 euro in su). Con le polizze sembra
andare meglio. La prima "lenzuolata" di Bersani ha abbattuto a 15 i giorni
entro i quali bisogna disdire l'Rc auto prima della scadenza del contratto. La
seconda ha cancellato le penali previste per chi, prima del tempo, voleva
sbarazzarsi di una polizza danni. E dal 1° luglio parte la liberalizzazione
dell'energia: le famiglie potranno scegliere tra diversi fornitori. Un nuovo
capitolo che per ora è fatto solo di offerte promozionali.
A Praga, durante la prima tappa del suo tour europeo, che toccherà anche
l’Italia, George W. Bush ha lanciato prima un segnale distensivo, poi un
affondo contro la Russia. Il presidente americano ha sdrammatizzato ieri
mattina gli scenari da guerra fredda, sottolineando che quell’epoca «è
finita» e ha accusato solo qualche ora dopo il presidente russo Putin di aver
fatto «deragliare riforme democratiche che un tempo sembravano promettenti».
Infine, Bush ha aperto un fronte anche con la Cina, annunciando di voler
incontrare la dissidente cinese Rebiyah Kadeer e scandendo che «i leader di
Pechino pensano di poter portare avanti l’apertura economica senza affiancarla
ad un’apertura del sistema politico». Su questo punto, ha aggiunto, gli Stati
Uniti non sono d’accordo.
Un esordio di fuoco che accentua l’impressione sconcertante di un remake della
crisi degli euromissili di venti anni fa (compresi i manifestanti in piazza,
più angosciati per i McDonald’s, oggi, che per le testate atomiche). Ma
che serve a Washington per altri scopi che non per quello esclusivo di creare
un braccio di ferro sugli armamenti con Vladimir Putin. Indubbiamente le sue
dichiarazioni avranno l’effetto di acuire le tensioni con il Cremlino e
monopolizzare le discussioni tra gli otto Grandi, che si riuniranno oggi ad
Heiligendamm per uno dei G8 più burrascosi degli ultimi anni. Ma i due
fronti aperti con Russia e Cina vanno al di là della contrapposizione su
armamenti e diritti umani. Sono l’espressione dell’ansia di Washington di
spezzare il legame sempre più stretto - soprattutto sul piano dei
rapporti commerciali - che lega Europa e Russia e di riaffermare, anche ad uso
interno, la leadership americana tra le superpotenze del mondo. Solo
così si spiega l’accento posto ieri da Bush sul carattere
antidemocratico e repressivo dei governi di Mosca e Pechino. Unito alla
rivendicazione, da parte del presidente americano, della funzione “virtuosa”
dello scudo spaziale, programmato per difendere l’Occidente dagli «stati
canaglia», come è tornato a definirli ieri, cioè Iran in testa.
In serata il portavoce del Cremlino ha respinto le accuse di Bush ed è
chiaro che il presidente russo affronterà il suo omologo americano a
muso duro, alle riunioni previste a Heiligendamm. E non saranno facili neanche
i rapporti tra Bush e i cinesi, che si sono uniti ieri, inevitabilmente, al
niet di Mosca allo scudo stellare.
Soprattutto, non sarà di buon umore la Cancelliera tedesca, Angela
Merkel, che incontrerà Bush oggi a pranzo e la cui agenda è stata
già letteralmente capovolta dagli eventi degli ultimi giorni.
L’ambizione dichiarata della Kanzlerin era quella di mettere in primo piano
temi economici e in particolare la lotta al riscaldamento climatico. Assoluti
protagonisti dei summit saranno invece temi politici, che Merkel avrebbe
volentieri discusso ad un altro tavolo, cioè quello della Nato.
L’assoluta priorità, per Merkel, resta il tema dei cambiamenti climatici
e un programma multilaterale di riduzione delle emissioni di Co2 per ottenere
un dimezzamento della temperatura globale, entro il 2050. Un piano nello
spirito degli accordi di Kyoto, fortemente contrastato da Washington, che
vorrebbe tener fede alla linea di impegni vaghi e lasciati all’iniziativa dei
singoli paesi. Un’impostazione che Bush vuole imporre anche a livello
internazionale, con una conferenza dei 15 a Washington, in autunno. Ieri
pomeriggio lo sherpa della Cancelliera, Bernd Pfaffenbach, ha ribadito che le
trattative continuavano ad essere serrate, per avvicinare le posizioni. Ai
giornalisti ha detto che ci sono «delle chance» per trovare un accordo,
rivelando che la Kanzlerin era ancora al lavoro, in quelle ore, per ottenere un
avvicinamento tra la posizione americana e quella europea. Ma sembra difficile
che lo scenario muti, entro il vertice di oggi.
Il vertice G8 di oggi
a Heiligendamm (sulla costa baltica tedesca) consacrerà definitivamente
il cancelliere tedesco tra i protagonisti della scena politica internazionale. Alla vigilia dell'incontro, Merkel è riuscita a smussare
le posizioni più controverse sulle misure da prendere per impedire un
ulteriore aumento del riscaldamento terrestre. Il fatto che Bush nei giorni
scorsi abbia affrontato il tema delle misure da prendere anche da parte degli
Stati Uniti è indubbiamente un punto a favore del cancelliere. Resta il
pericolo di una posizione rigida, quasi un boicottaggio, da parte del
presidente russo Vladimir Putin, che potrebbe non sentire ragioni e insistere
sulla sua posizione contraria ad oltranza contro i progetti di difesa spaziale
degli Stati Uniti, rendendo impossibile qualsiasi accordo. Altro rischio da non
sottovalutare è la possibilità che la protesta dei no-global
possa essere funestata da gravi incidenti di piazza, come quelli avvenuti
sabato scorso nella vicina Rostock con oltre 1000 feriti tra polizie e
dimostranti. "Io sono ottimista sul fatto che assisteremo ad un buon
vertice - ha detto il cancelliere in una intervista -. Ci siamo proposti un
ampio spettro di temi, tra essi una delle questioni basilari di un vertice G8 e
cioè la questione dei rischi e delle possibilità che comporta la
globalizzazione".Ai lavori sono stati ammessi come osservatori anche i
rappresentanti dei Paesi emergenti, senza i quali il mondo ormai non può
più fare progetti, e cioé Cina, Brasile, India, Sudafrica e Messico.
"Io non posso anticipare quali saranno i risultati, ma in tema di ambiente
sono sicura che alla fine avremo compiuto passi in avanti - ha detto Merkel -.
Nessuno può più ignorare il tema della tutela del clima e noi
abbiamo bisogno dopo lo scadere del protocollo di Kyoto nel 2012 di un nuovo
accordo internazionale".
Nel 1999 l'Ulivo vara
la riforma del "giudice unico". La legge attuativa
"Carotti" estende il giudizio abbreviato a tutti i delitti, compresa
la strage: basta scegliere il rito alternativo, e scatta automatico lo sconto
di un terzo della pena. Così gli stragisti, anziché l'ergastolo,
rischiano al massimo 30 anni, che coi benefici della Gozzini diventano 20 e
consentono i primi permessi dopo 10. Così i boss mafiosi arrestati dopo
le stragi del 1992-'93, fino ad allora rassegnati all'idea di restare dietro le
sbarre per tutta la vita, contano gli anni (pochissimi) che li separano dalla
scarcerazione. I pm antimafia e i parenti delle vittime ricordano che in cima
al "papello" consegnato da Totò Riina nei primi anni 90 ai
suoi referenti politici col programma della mafia c'era proprio l'abrogazione
dell'ergastolo e del 41-bis. Ma è tutto inutile. Il 23 ottobre 2000,
nell'aula bunker della Corte d'assise d'appello di Firenze, Totò Riina,
Giuseppe Graviano e altri 15 boss condannati in primo grado all'ergastolo per
le bombe del '93 a Milano, Firenze e Roma ne approfittano: si alzano nelle
gabbie e chiedono alla Corte il rito abbreviato per scendere dall'ergastolo a
30 anni. Stavolta, dinanzi alla prospettiva concreta di veder uscire in poco
tempo gli stragisti del 1992-'93 e alle proteste dei familiari delle vittime
dei Georgofili, il governo Amato ingrana la retromarcia e corre ai ripari in
tutta fretta: il 23 novembre vara un decreto che esclude dal rito abbreviato i
mafiosi processati per omicidio o strage: chiunque, oltre al delitto di sangue,
risponda anche di un altro reato (tipo l'associazione mafiosa) viene condannato
all'ergastolo più l'isolamento diurno. Che gli viene revocato con lo
sconto dell'abbreviato, mentre l'ergastolo rimane. E, per qualche anno, non se
ne parla più. Il 12 luglio 2002, dopo un anno di governo Berlusconi,
Cosa Nostra torna a farsi viva: Leoluca Bagarella, dalla gabbia di un processo,
tuona contro i "politici che non mantengono le promesse" e "ci
usano come merce di scambio". Altri mafiosi inviano ultimatum ai loro
difensori eletti con la Cdl perché si decidano a tradurre in legge il famoso
papello. Alcuni onorevoli avvocati vengono precipitosa- mente dotati di scorta,
e con loro anche Previti e Dell'Utri che - secondo il Sisde - potrebbero
rischiare rappresaglie mafiose: stavolta Cosa Nostra non colpirà
più personaggi immacolati come Falcone e Borsellino. La mafia affigge
pure uno striscione allo stadio di Palermo: "Uniti contro il 41 bis.
Berlusconi dimentica la Sicilia". Il governo Berlusconi vara una legge che
stabilizza il 41-bis (finora rinnovati per decreto di sei mesi in sei mesi):
pare una norma più severa, in realtà ha l'effetto opposto. Se
prima era difficilissimo per i boss far revocare il 41-bis, visto che i tempi
dei ricorsi erano più lunghi di quelli delle proroghe semestrali e ogni
volta bisognava ricominciare da capo, ora che il regime è definitivo
c'è tutto il tempo per chiederne e ottenerne l'annullamento. Risultato:
solo nell'ultimo anno, a cavallo tra il governo Berlusconi e il governo Prodi,
89 boss e killer mafiosi su 526 escono dal 41-bis. Ma, anche per chi ancora vi
soggiace, il carcere duro è sempre più molle. E c'è chi,
come l'onorevole avvocata Bongiorno, vorrebbe addirittura abolirlo. Resta un
solo punto del "papello" da realizzare: l'ergastolo. Purtroppo si sta
provvedendo anche a quello, con una coazione a ripetere tutti gli errori del
passato che lascia basiti. Mentre 310 ergastolani su 1294 (tra cui i killer di
Livatino e Siani) scrivono a Napolitano, la rifondarola Luisa Boccia presenta
un ddl per abolire il "fine pena mai" e lo stesso annuncia Giuliano
Pisapia, che riscrive il Codice penale per il governo Prodi. Il sottosegretario
Manconi è d'accordo. Naturalmente sono tutte brave persone e possono
fare ciò che vogliono. L'impor- tante è avere chiare le
conseguen- ze. Gli ergastolani arrestati dopo le stragi scenderebbero a 30 anni
di pena, che poi, con la liberazio- ne anticipata per "regolare
condotta" sono 20. Avendone già scontati 13-14, uscirebbero fra
6-7, anzi fra 3-4 ai servizi sociali. E potrebbero chiedere subito semi-
libertà e permessi premio. Non bastava l'indulto? È sicura la
maggioranza di voler completare il papello di Riina e di affrontare la
scarcerazione di mafiosi e terroristi? Ci facciano sapere. Uliwood party
i / Roma RISARCIMENTO
Finalmente le vittime dei crack finanziari potranno essere risracite. Il
Consiglio dei ministri ha varato ieri il decreto attuativo della norma sui
depositi cosiddetti dormienti della Finanziaria 2006. In sostanza i
conti correnti rimasti inattivi per 10 anni vengono devoluti a un fondo
destinato in gran parte (ma non solo) ai risparmiatori traditi. Potranno
così essere ricompensati delle perdite subite i cittadini rimasti
impigliati nelle reti di Parmalat, Cirio, bond Argentina. Secondo le
associazioni dei consumatori il "tesoro" dei conti dormienti vale tra i 10 e i 15 miliardi "L'Adusbef
- dichiara in una nota il presidente Elio Lannutti - è lieta che
finalmente il governo abbia sbloccato il 'tesorò dei clienti confiscato
dalle banche". Anche se tra le associazioni non manca chi critica i tempi
lunghi del provvedimento e chi (sempre Lannutti) attacca i
"vigilanti" (cioè Bankitalia) per non aver chiesto una
quantificazione esatta dei conti. Per l'Abi, lassociazione dell banche, le
misure varate sono "in linea con quelle di altri Paesi".
L'associazione, rivelano fonti vicine al vertice, "non ha mai considerato
negative queste norme ma anzi condivisibili. L'unica preoccupazione era che gli
adempimenti per rintracciare i clienti titolari dei conti dormienti fossero troppo onerose per le banche.
Dalle prime anticipazioni del provvedimento sembra che non sia
così". Il testo varato ieri è solo il primo passo verso lo
sblocco delle risorse. Il decreto concede 6 mesi di tempo agli istituti dic
redito per chiudere lo stock di conti già arrivati alla scadenza
indicata (10 anni di inattività) ed altri 4 mesi per destinare le
risorse dal fondo alle famiglie colpite dai crack. Il provvedimento - sette
articoli di cui uno di norme transitorie, che tengono conto di una recente
pronuncia del Consiglio di Stato nonchè della normativa già sperimentata
in altri Paesi come Spagna, Francia e Irlanda - di fatto scongela risorse
"silenti", fornendo però delle garanzie agli intestatari. Per
questo occorre un lasso di tempo abbastanza lungo. considerato che gli
intermediari finanziari dovranno avvisare, o comunque provare a rintracciare,
gli interessati e nel frattempo dovranno essere approvati i Regolamenti del
ministero dell'Economia per la gestione del Fondo e per la funzionalità
dell'apposita commissione. "Non solo si dovranno avvisare gli interessati
- spiega il sottosegretario all'Economia Alfiero Grandi - ma ci sarà
anche un elenco pubblico, con nomi, cognomi e date di nascita" delle
persone che hanno dimenticato in qualche banca, alla posta o all'assicurazione
una certa cifra di denaro. "E in ogni caso l'interessato potrà
sempre fare opposizione" al provvedimento di estinzione del conto. Dopo
l'avviso da parte degli istituti del rischio di estinzione del conto
"fermo" da 10 anni, i titolari hanno 180 giorni di tempo per
"farsi vivi". Se questo non accade, le risorse vengono devolute al
fondo, che in parte è destinato anche a finanziare misure per i precari
e per il sociale. La norma fu introdotta dall'ex ministro Giulio Tremonti nel
mezzo della bufera su Parmalat. Ma il testo era di difficile attuazione, proprio
perché non consentiva alle banche di stornare i fondi senza incorrere in iregolarità. Di qui la riscrittura
nella finanziaria 2007, che ha anche allargato la platea di beneficiari: non
solo i risparmiatori traditi, ma anche (per circa il 20% del totale) i
lavoratori precari. "Un atto importante di giustizia sociale",
commenta il Verde Angelo Bonelli. Reazioni negative da FI. "Scopiazzano
Tremonti - dichiara Osvaldo Napoli - il risultato non potrà che essere
estremamente irrisorio".
(segue dalla prima di
cronaca) Dunque, non è di ulteriori analisi e considerazioni che la
gente avverte la necessità. Pure le pietre hanno capito che c'è
bisogno di una seria e convincente inversione di rotta per dire basta a un
metodo di gestione degli affari pubblici che non fa altro che produrre la
dilatazione della spesa pubblica e privilegiare il sovvenzionamento di
barocche, inutili e autoreferenziali attività amministrative e
governative. Ma la politica che si è fatta
"antipolitica" con l'improvvisata azione di denuncia da postazioni
qualificate, potrebbe deludere l'opinione pubblica perché sembra giocare a
scaricabarile soffermandosi su questioni che, pur non prive di valenza,
appaiono marginali economicamente e eticamente parlando. Si privilegia lo
sdegno e la lotta per tentare di rimuovere la pagliuzza, rispetto alla necessità
di impostare una duratura battaglia contro abusi, sprechi e tutele di caste e consorterie varie. Il
soverchiante uso, all'interno delle istituzioni, di costose auto blu o
l'utilizzo immotivato e non necessario di numerosi esperti e consulenti, pur
essendo argomenti che indignano e che incidono notevolmente sui bilanci
pubblici, tuttavia non possono essere additati quali unici mali da estirpare
per riportare il sereno. Ci sono ben altre patologie e fattori inquinanti,
ancorché destabilizzanti, dei conti pubblici regionali e locali. Si possono
chiudere gli occhi su quella idrovora che è la spesa sanitaria e
farmaceutica? Si può tollerare, ancora, che enti, aziende e istituti,
controllati e finanziati dalla Regione, anziché promuovere sviluppo pensano
soltanto a consolidare costosissime nicchie di privilegio e di sperpero?
è serio non intervenire per bloccare il fiume di danaro destinato alla
formazione professionale, a manifestazioni e feste paesane? Che ce ne facciamo
delle decine di migliaia di forestali che qualcuno ha definito
sovradimensionati persino per gestire la foresta amazzonica? Perché, dopo tanti
bla bla, si coltivano ancora sogni di grandezza quali quelli di equiparare, dal
punto di vista dei privilegi e delle retribuzioni, la nostra poco produttiva
Assemblea regionale nientemeno che al Senato della Repubblica? C'è
qualcuno che può onestamente spiegare perché la Regione debba avere un
così esorbitante numero di dirigenti generali? Che dire dei tanti
insignificanti uffici speciali e dei pletorici uffici di gabinetto? L'elenco
è troppo lungo per continuare, come ben sanno i reggitori della cosa
pubblica. è facile puntare il dito sulle auto blu (che sia chiaro vanno
drasticamente ridimensionate) o sui gettoni di presenza (sproporzionati e
percepiti a piene mani). Diventa più difficile farlo quando bisogna
affrontare argomenti più seri che sono all'origine del depauperamento
delle risorse pubbliche e del diffuso sistema di clientele e sottogoverno.
Ecco: la politica che si trasforma in antipolitica, per
essere credibile, impugni l'ascia della severità e colpisca le tante
zone dove si annidano interessi di parte e di gruppi che nulla hanno a che
vedere con l'autonomia regionale e con il suo sviluppo. Oggi la Sicilia
è per antonomasia il luogo simbolo dello scialo, pur avendo il
più alto tasso di disoccupati ed una economia bloccata. Se si ha la
consapevolezza di tutto ciò, per favore, si eviti di fare il solito
teatrino (dove c'è posto per recite a soggetto condite da finte
indignazioni) con il solo scopo di confondere le acque, consentendo alle caste
di sopravvivere, alimentarsi e riprodursi. Ovviamente a spese del popolo
siciliano.
Eppure c'è poco
più di un mese e mezzo per arrivare alle cinquecentomila firme
necessarie ad indire nella primavera del 2008 il referendum: il quorum va
raggiunto infatti entro il 24 luglio. Il quesito che impegnerà gli
italiani sarà abrogativo, nel senso che chiederà di abolire
l'attuale sistema proporzionale a liste bloccate (contestato anche per i
diversi premi di maggioranza fra Camera e Senato) per tornare ad una versione
più vicina al maggioritario. Nel frattempo una delle non molte proposte
di riforma elettorale, alternative al referendum, firmate da deputati o
senatori è quella avanzata alcuni giorni fa dal parlamentare melegnanese
Erminio Quartiani, segretario dell'Ulivo alla Camera, insieme ad alcuni colleghi.
La bozza di revisione della legge propone di importare in Italia il
maggioritario spagnolo. Quest'ultimo, a turno unico e circoscrizioni
provinciali, prevede la ripartizione dei seggi secondo quorum che oscillano, a
seconda del numero di seggi per circoscrizione, dal 25 al 3 per cento.
Finanzaonline.com 5-6-2007 Usa: Bernanke,
inflazione e mercato immobiliare le minacce alla crescita
Finanzaonline.com - 5.6.07/16:11
Il presidente della Federal Reserve (Fed), Ben Bernanke, si
attende che nei mesi a venire la locomotiva americana sbuffi, ma senza troppo entusiasmo.
Lo ha dichiarato nel suo intervento in teleconferenza alla International
monetary conference a Città del Capo, in Sud Africa. In estrema sintesi,
il numero uno della Fed può essere collocato nella schiera dei
"moderatamente ottimisti": "In media nei prossimi trimestri ci
aspettiamo che l'economia avanzi a passo moderato, vicino o appena sotto il
trend (individuato generalmente dagli economisti in un tasso di crescita
annualizzato del Prodotto interno lordo pari al 3%, ndr)".
Un elemento che tuttavia potrebbe frenare la crescita
dell'economia è l'inflazione: se il tasso di crescita dei prezzi, al
netto di alimentari ed energia (la cosiddetta inflazione "core"), non
rallenterà, il quadro macroenomico potrebbe farsi complicato.
"Nonostante che appaia probabile che l'inflazione core scenda gradualmente
nel corso del tempo - ha affermato Bernanke - i rischi rispetto a questa
previsione sono di un'accelerazione". "In particolare - ha aggiunto
il successore di Alan Greenspan alla Fed - il tasso di utilizzo delle risorse,
che rimane elevato, suggerisce che il livello della domanda finale potrebbe
essere ancora alto rispetto alla sottostante capacità produttiva
dell'economia".
Tra l'altro a offuscare il quadro macroenomico di crescita moderata potrebbe anche
essere il settore immobiliare e questo capitolo è quello su cui Bernanke
ha speso più parole. La debolezza del comparto infatti potrebbe minare
la crescita del Pil per più tempo del previsto e una attenta lettura dei
dati del mercato immobiliare indica proprio che nei primi quattro mesi
dell'anno in corso c'è stata una battuta di arresto.
"L'aggiustamento del settore immobiliare - ha commentato il numero uno
dell'autorità monetaria per eccellenza degli States - è ancora in
corso e il rallentamento dell'edilizia residenziale ora sembra destinato a
rappresentare un freno per la crescita economica più a lungo di quanto
si ritenesse prima". Nonostante gli allarmi lanciati, Bernanke ha
preferito concludere il proprio discorso con una nota di ottimismo sul mercato
immobiliare: "I fattori fondamentali, che includono una solida crescita
dei redditi e interessi da pagare sui mutui relativamente bassi, dovrebbero in
ultima analisi supportare la domanda di case, e, a quel punto, le
preoccupazioni legate al settore subprime (quello con maggiori
probabilità di insolvenza, ndr) difficilmente avrebbero modo di
riversarsi seriamente sull'economia o sul sistema finanziario".
Intanto, la Borsa di Wall Street, che ha da poco dato inizio
alle danze del 5 giugno, viaggia all'insegna della debolezza: alle 16.00 circa
ora italiana il Dow Jones industrial average cede sul terreno lo -0,45% a
13.614 punti, l'S&P500 (che aveva aperto la seduta con un ribasso dello
0,19%) scende dello 0,39% a 1.533 punti e il Nasdaq composite si muove in
ribasso dello 0,49% a quota 2.608 punti.
+ Consiglio dei Ministri n. 54
del 5 giugno 2007 Il Consiglio ha approvato i seguenti provvedimenti:
+ Il
Sole 24 Ore 5-6-2007 Sì al decreto presidenziale sui depositi dormienti
di Nicoletta Cottone
Il
Corriere della Sera 5-6-2007 Cossiga e i fantasmi delle scalate rosse Di
FRANCESCO VERDERAMI
Il
Riformista 5-6-2007 Il problema non è Visco, è la guida
politica di Emanuele Macaluso
L’Unità
5-6-2007 La strategia dei veleni Gianfranco Pasquino
5
Giugno 2007
La
Presidenza del Consiglio dei Ministri comunica:
Il
Consiglio dei Ministri si è riunito oggi alle ore 9,40 a Palazzo Chigi,
sotto la presidenza del Presidente del Consiglio, Romano Prodi.
Segretario,
il Sottosegretario di Stato alla Presidenza, Enrico Letta.
su proposta del Ministro per le politiche europee, Emma Bonino, e
del Ministro dell’economia e delle finanze, Tommaso Padoa-Schioppa:
- un decreto legislativo che prevede misure di contrasto all’uso
del sistema finanziario per scopi legati al finanziamento del terrorismo e dell’attività di
Paesi che minacciano la pace e la sicurezza internazionale; l’Italia
ottempera all’obbligo assunto in ambito comunitario e internazionale (direttiva
2005/60, che viene organicamente recepita nel testo, Risoluzioni del Consiglio
di sicurezza delle Nazioni Unite e regolamenti comunitari emanati ai sensi
degli articoli 60 e 301 del Trattato istitutivo della CE) istituendo il
Comitato di sicurezza finanziaria che opera in sinergia con analoghi organismi
operanti all’estero e con l’Agenzia del demanio; il
provvedimento ha ricevuto il parere favorevole delle Commissioni parlamentari;
su
proposta del Ministro dell’economia
e delle finanze, Padoa-Schioppa:
- un decreto presidenziale, sul quale è stato acquisito il parere
del Consiglio di Stato, che in ottemperanza a quanto stabilito dalla legge
finanziaria per il 2006 definisce la nozione di rapporto contrattuale bancario
e assicurativo “dormiente”,
anche allo scopo di indennizzare i risparmiatori che, investendo sul mercato
finanziario, siano rimasti vittime di frodi finanziarie o abbiano sofferto un
danno ingiusto non risarcito in altro modo. I conti correnti bancari o
assicurativi che per dieci anni non abbiano subito alcuna movimentazione da
parte del titolare o di un delegato vengono dichiarati “dormienti” e
in quanto tali confluiscono in un fondo, già
istituito dalla predetta legge finanziaria e gestito da una apposita
commissione. Tra i risparmiatori che beneficeranno di queste norme vi sono
coloro che hanno sofferto un danno in conseguenza del default dei titoli
obbligazionari argentini;
Il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto presidenziale in
materia di depositi dormienti. Varate, dunque, le regole per le comunicazioni
ai titolari di conti e depositi dormienti e il trasferimento delle somme al
Fondo per risarcire le vittime dei crack finanziari, che per il 20% sarà
utilizzato per le assunzioni dei precari nella Pubblica amministrazione. I
conti correnti bancari o assicurativi che per dieci anni non hanno subito
movimentazione da parte del titolare o di un suo delegato vengono dichiarati
dormienti e confluiscono nel Fondo, che sarà
gestito da una commissione ad hoc.
Il Fondo, alimentato da conti correnti e rapporti bancari definiti dormienti
all'interno del sistema bancario, assicurativo e finanziario è
stato istituito dalla Finanziaria per il 2006 per indennizzare i risparmiatori
che investendo nel mercato finanziario fossero rimasti vittime di frodi
finanziarie, soffrendo di un danno ingiusto, non risarcito in altro modo. Ai
benefici erano stati ammessi dalla stessa Finanziaria per il 2006 anche i
risparmiatori danneggiati in conseguenza del default dei titoli obbligazionari
della Repubblica argentina. La Finanziaria per il 2007 ha, poi, stabilito che
il 20% del Fondo sia destinato alla stabilizzazione dei precari nella Pubblica
amministrazione.
nicoletta.cottone@ilsole24ore.com
LUCCA
«Vedo che mi state accogliendo come l’Italia accoglie Prodi...». Silvio
Berlusconi arriva a Lucca e viene salutato dalla folla che lo applaude davanti
all’albergo.
«Dobbiamo - dice - chiedere di andare al voto e se ce lo
impediscono una volta tanto dobbiamo essere duri e andare in piazza per
ottenere le elezioni». L’ex premier si sofferma poi
con i giornalisti: «vogliono portarci a far scendere in piazza milioni di
persone? Vogliono che arriviamo allo sciopero fiscale? E allora diano uno
sguardo alla situazione e traggano le conseguenze».
L’ex presidente del Consiglio indica anche la strada da percorrere:
«se non vogliono il voto subito allora ci sia un governo della sinistra che
faccia la legge elettorale e che duri qualche mese per poi indicare la data
delle elezioni. Tutto il resto - conclude Berlusconi - è
poesia».
Caso Visco:Napolitano deve intervenire
Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano «ha assolutamente i mezzi per
intervenire» sul caso Visco-Speciale, e deve farlo: è quanto ha
affermato Silvio Berlusconi, leader della Casa delle libertà, parlando
con i giornalisti a margine di una iniziativa elettorale a Lucca. «Il
presidente della Repubblica - ha detto Berlusconi- è il capo delle Forze
armate: c’è una situazione di emergenza democratica, e il presidente
della Repubblica, che io personalmente stimo, ha assolutamente i mezzi per
intervenire. Anzi, deve intervenire in una situazione come questa - ha aggiunto
Berlusconi - per lo meno ingiungendo a questa maggioranza di essere veramente
una maggioranza. Oggi ancora non siamo riusciti a ricontare le schede
elettorali, e io vi dico: non hanno vinto loro».
ROMA ? Qualche giorno
fa in Transatlantico, in attesa che iniziasse la seduta, il presidente della
Camera sospirò: "Mi piacerebbe esser libero di dire ciò che
penso". Poi venne inghiottito dai lavori dell'Aula. Il caso Visco era appena
scoppiato. La terza carica dello Stato non poteva esporsi, non poteva spiegare
pubblicamente ciò che aveva confidato ai suoi. Bertinotti era
rammaricato per "il modo pessimo" in cui palazzo Chigi stava gestendo
la vicenda, perché "all'esterno si dà l'idea di voler nascondere
qualcosa", e "l'immagine del governo ne esce a pezzi": "No,
non si può andare avanti così", aveva concluso sconsolato.
Ecco cosa si celava dietro la frase con la quale ieri il presidente della Camera
ha ipotizzato "pesanti ricadute politiche" per lo scontro tra il
viceministro dell'Economia e l'ex comandante delle Fiamme Gialle, Speciale. Ma
se è vero che la vicenda sta tracimando nel conflitto istituzionale, sta
destabilizzando l'Unione e rischia addirittura di minare la tenuta dell'esecutivo,
resta da capire il motivo di una battaglia che non ha precedenti. Come un
moderno Virgilio, Cossiga accompagna per i sentieri lastricati della vicenda.
Non è facile decrittare le parole del presidente emerito della
Repubblica, ma è chiaro quando avvisa che le ruggini tra Visco e
Speciale vanno cercate molto indietro nel tempo: "Bisognerebbe chiederlo a
Spaziante, che oggi è vicesegretario generale del Cesis, e che è
stato il comandante della Guardia di Finanza in Lombardia, prima di tornare a
Roma". Ad essere ancor più esplicito è il segretario del
Pri: "La ruggine tra il viceministro e il generale delle Fiamme Gialle
risale al 1998, quando ci fu la scalata a Telecom dei "capitani
coraggiosi"". Altro non aggiunge Nucara, che però si lascia
andare a una previsione: "Non credo che su un tema così delicato i
senatori a vita, e tra questi Ciampi, voteranno dopo il dibattito a palazzo
Madama". Nucara un po' ci prende, perché Cossiga fa sapere che,
"siccome sento arrivare un malessere, credo non andrò a votare al
Senato: ma al momento debito chiederò che vengano rese pubbliche le
intercettazioni telefoniche su Unipol che mi riguardano, perché io mi onoro di avere per amico il
compagno Consorte". Telecom e Unipol. Sono questi gli indizi lasciati cadere, e
ai quali Nucara aggiunge un ragionamento sull'offerta fatta dal governo Prodi a
Speciale: "Gli avevano proposto di andare alla Corte dei conti, che ha un
ruolo di magistratura giudicante su atti amministrativi. Ma se Speciale si
è macchiato di colpe gravi, perché affidargli questo incarico? Forse
perché sa troppe cose?". Gli interrogativi resterebbero inevasi, insieme a
un'altra domanda: per quale motivo Visco aveva chiesto il trasferimento da
Milano dei quattro ufficiali delle Fiamme Gialle, questione che è
all'origine della vicenda? Anche stavolta è Cossiga a fornire una
risposta. Dapprima con fare scherzoso: "Perché i quattro avevano infierito
su Mediaset e Fininvest nelle indagini, e Visco ? che è uomo retto ?
voleva dire basta a questa persecuzione". Poi il tono di voce muta:
"Avanti... È chiaro. È in corso un regolamento di conti nel
centrosinistra che parte da lontano e arriva fino al caso Unipol. E chi lavorò per far affossare la
scalata Unipol alla Bnl? La Margherita, con Rutelli e
Parisi". È noto che Rutelli ? da quando è scoppiato il
putiferio ? non ha aperto bocca, mentre lo stato maggiore dei Ds si aspettava
un sostegno a difesa del suo viceministro. Ed è altrettanto noto che
Parisi aveva rotto la linea di difesa del governo, anticipando che il caso
sarebbe rimasto "aperto", e lasciando poi trapelare il suo
"imbarazzo" per la gestione del caso. "Ripeto, quando
arriverà il momento io chiederò che le intercettazioni a mio
carico siano rese pubbliche". Il fatto che Cossiga insista sulle
intercettazioni impone che anche questo dato venga inserito nel rebus.
D'altronde la vulgata di Palazzo fa risalire al caso Unipol i motivi di ruggine tra Visco e Speciale,
"è ormai un segreto di Pulcinella", sostiene il democratico
Bordon: "E come si dice in questi casi, voglio credere che Visco
dimostrerà l'assoluta infondatezza delle voci. Di voci, poi, ne
circolano tante: pare che da mesi il viceministro e Speciale non si
rivolgessero più nemmeno la parola". Bordon ritiene che il governo
non cadrà domani al Senato, e così la pensano anche nella Cdl. Ma
Bordon ? cosi come i leader del Polo ? è altresì convinto che il
caso non si chiuderà domani: "Se l'ex comandante della Gdf ha
deciso di non rivolgersi al Tar, allora vuol dire che non è finita qui.
Non vedo uno come Speciale che si ferma improvvisamente". Ancora molte
cose non tornano. Anche nel centrodestra. Da esperto conoscitore della vicenda,
Virgilio-Cossiga solleva il velo su un altro interrogativo. Chi volle Speciale
al comando delle Fiamme Gialle, ai tempi del governo Berlusconi? La risposta
dell'ex capo dello Stato è: "Tremonti. Perché Speciale a Martino
non piaceva, e viceversa. Fu l'allora ministro dell'Economia a imporlo, infatti
il titolare della Difesa, quando arrivò il momento di nominare il capo
di Stato maggiore dell'Esercito, non prese nemmeno in considerazione il
curriculum di Speciale". Ma contro Speciale "si muovevano nella
Guardia di Finanza correnti a lui contrarie". Ad affermarlo è
Rotondi, che da giorni esterna a difesa di Visco, e che sostiene di avere le
prove di quanto dice: "Mesi fa mi venne chiesto di presentare
un'interrogazione parlamentare contro Speciale". L'esponente diccì
di centrodestra non fa nomi, si limita a dire che "erano uomini delle
Fiamme Gialle di medio livello": "Asserivano che doveva esserci una
rotazione ai vertici della Gdf, rotazione che Tremonti aveva ritardato e che
Visco continuava a rimandare. L'interrogazione che loro auspicavano doveva
partire proprio dal caso dei mancati trasferimenti da Milano e concludersi con
la richiesta di notizie su quando ci sarebbe stato l'avvicendamento al comando
delle Fiamme Gialle. Ma siccome io non conoscevo bene questi signori e non
conoscevo per nulla Speciale, non feci l'interrogazione". Rotondi sostiene
che "quel colloquio mi è tornato in mente quando è scoppiato
il caso Visco": "Dall'impegno con cui Tremonti ha difeso Speciale,
desumo che ne abbia grande stima. Da come si sono comportati il viceministro e
il generale, si capisce che i due non hanno detto tutto. Se ho preso le difese
di Visco è perché non posso pensare che lui ? avendo cattivi rapporti
con Speciale ? gli abbia poi chiesto di cambiare quei quattro a Milano. In quel
caso, gli andrebbe dato il tapiro d'oro". Francesco Verderami.
Cara Europa, a Santa Margherita Ligure, nel raduno annuale dei
giovani imprenditori di Confindustria, i lui e le lei delle ultime file, ma non
loro solo, hanno subissato di applausi Fini e di rumoreggiamenti Bersani,
benché questi parlasse di cose concrete come liberalizzazioni e rimozioni
burocratiche, e il fascista calunniasse il governo definendo «porcata» la
destituzione del generale intrigante, e difendendo addirittura il Pra (oltre
che i golpisti). Sarebbero questi quaquaraquà, imbottiti di miliardi
facili, la nuova classe dirigente, descritta dopo il recente discorso di
Montezemolo ai loro padri ? EPIFANIO DE GRANDIS, SANTA MARGHERITA LIGURE (GE)
Caro De Grandis, non è opportuno generalizzare e non ho
conoscenza diretta del mondo o sottomondo in oggetto e quindi i giudizi che
esprimerò sono “di riporto”, in base a quel che lei dice e che mi sembra
confermi la devastante raffigurazione che dei “quaquaraquà
confindustriali” ha fatto Alberto Statera su La Repubblica: titolo ”Quell’ovazione
in stile tassista dei giovanotti targati Confindustria”, ossia “Lo strano
successo del leader di An, nemico delle liberalizzazioni di Bersani e difensore
del Pra”.
Se la descrizione di questi giovanotti in gessato con spacchi laterali, e di
queste giovanotte in tubino con spacco centrale e coscia in evidenza, risponde
alla realtà che anche lei ha osservato, allora il confronto coi tassisti
mi sembra offensivo per costoro, che non hanno ereditato aziende e miliardi ma
al più una macchina e una licenza, sono vittime dell’ambiente fascista
che da sempre esalta le corporazioni e gli statalismi (compreso il Pra, vedi la
lettera che pubblichiamo qui sotto), e che in fondo lavorano con la pioggia e
sotto i dardi dell’estate e – spesso, ma non sempre – non hanno lauree più
o meno elargite dai cattedratici amici di papà. Appena dieci giorni fa,
commentando i frenetici applausi stile Vicenza che i papà avevano
riservato a Montezemolo, proteso a riconquistare il loro cuore berlusconiano,
il bravissimo Dario Di Vico parlava sul Corriere della sera di “nuova
borghesia”. Questa roba? Ma allora ridateci la vecchia, che almeno non si
nascondeva dietro il falso “liberismo” di Berlusconi e si dichiarava per la
privatizzazione degli utili e la pubblicizzazione delle perdite senza tante storie.
Scrisse Di Vico che costoro, i nuovi borghesi, «chiedono se la politica abbia
scelto come missione quella di perpetuare se stessa e il suo ricco indotto o
piuttosto non debba dedicarsi a costruire l’Italia del 2015». È
esattamente il problema che poniamo ai giovani rampolli e alle giovani
pollastre confindustriali: se abbiano studi, capacità e volontà
di lavorare per l’Italia del 2015 o no, visto che a fare i fascisti e i
corporativi ci hanno già pensato, e sempre con successo per loro, i
bisnonni i noni e i padri.
Temo, per tutti noi, che né un maturo Montezemolo né un giovane Colaninno
facciano, da soli, una nuova borghesia. Men che meno, una nuova classe
dirigente.
La Repubblica italiana, sessant’anni dopo la scrittura della Costituzione, non
ha sciolto il nodo di tutti i nodi che ha condizionato la nostra democrazia: il
rapporto tra il potere politico e gli altri poteri in cui si articola lo Stato
nel momento in cui è chiamato a fare rispettare le sue leggi e a
difendere la libertà dei cittadini: la magistratura, la polizia, i
carabinieri, la guardia di finanza e anche l’esercito. La Costituzione fu
approvata nel gennaio del 1948 e il 18 aprile dello stesso anno il sistema
politico fu condizionato dalla guerra fredda, dalla presenza di un grande
Partito comunista alleato con i socialisti (sino al 1956) e da un partito, la
Dc che, di fatto, ha esercitato il monopolio del potere politico. Sono gli anni
in cui i poteri dello Stato cui ho accennato sono governati da quel partito: i
comandanti delle armi, i magistrati collocati nei punti chiave del sistema
giudiziario, sono nominati dalla Dc.
Quando il sistema comincia a scricchiolare, il centrismo è in crisi e si
prospetta l’“apertura a sinistra” chiesta da Nenni, negli anni Sessanta esplode
il caso del comandante dei carabinieri De Lorenzo e del “piano Solo”. Il
generale lo incontreremo a Montecitorio, deputato della destra. E con lui un
altro generale che aveva avuto in mano i servizi segreti deviati, Vito Miceli.
Io non ho le informazioni di cui dispone D’Avanzo che, ieri su Repubblica,
traccia somiglianze tra la rete di interessi e posizioni di potere di cui
farebbe parte l’ex comandante della guardia di finanza Speciale e la P2.
La storia ci dice però che il bubbone della P2 esplose nel 1981 quando
presidente del Consiglio era Arnaldo Forlani (che si dimise) e il sistema
politico, scosso dall’assassinio di Aldo Moro (1978), non aveva ritrovato un
punto di riferimento forte e certo. Del resto negli anni della
solidarietà nazionale (1976-79), quando Ugo Pecchioli, che veniva
definito il ministro degli Interni ombra di Berlinguer, pensava di concorrere,
con Cossiga, al governo dei poteri, era talmente estraneo a quel mondo e
ingenuo da essere veramente solo un’ombra. E anche dopo l’ondata di opinione,
animata da Pertini, contro la P2 e i poteri oscuri e deviati su cui pesavano e
pesano sospetti terribili negli anni delle stragi e del terrorismo, tutto si
riallinea al già visto.
Con la Seconda Repubblica le cose non sono cambiate: la conflittualità
tra i due poli è stata così radicale per cui anche i poteri si
sono ancora una volta piegati e hanno piegato la politica. È chiaro che
il generale Speciale, fortemente voluto dallo schieramento berlusconiano ha
operato come parte di quel sistema. E siccome in tutte queste strutture
(carabinieri, polizia, finanza, servizi ma anche magistratura), le divisioni e
le guerre intestine per le carriere sono spesso feroci, le cordate attorno ai
candidati si colorano anche politicamente. Così è stato anche per
la nomina del comandante dei carabinieri. E la Cassazione da quasi un anno non
ha ancora un presidente: la guerra continua. Diciamo la verità: l’Unione
su questo terreno, come su altri, non ha avuto una linea. E lo spettacolo
offerto in questi giorni è penoso. Quello della destra è
semplicemente indecente.
Il problema quindi non è Visco ma la guida politica, la capacità
di cambiare, anche in questo campo, facendo chiarezza sui rapporti tra il
potere politico e gli altri poteri. Non si è fatto e non si fa. E chi
chiama in causa il capo dello Stato vuole solo creare confusione per fare come
prima e peggio di prima.
Segue dalla Prima
Dopodiché, se alla crisi della politica, che è crisi del modo di fare politica e degli stessi uomini politici,
opportunamente denunciata da D'Alema, fa seguito un attacco alle istituzioni,
anche sotto forma di loro svilimento, allora ne risente tutto il tessuto
democratico. Nel sottolineare l'importanza delle istituzioni e del rispetto
delle regole, sono certamente influenzato dal fatto di essere vissuto in
Inghilterra per parecchi mesi. Qui, il conflitto politico è sicuramente
intenso, i giornalisti, televisivi e no, non si ritraggono dall'utilizzare il
loro "quarto" potere interrogando senza soggezione governanti e
rappresentanti, i problemi, in special modo nella transizione da Tony Blair a
Gordon Brown, non sono certamente irrilevanti, ma nessuno pensa di risolverli
aggredendo le istituzioni. Quello che vedo con sufficiente chiarezza in Italia
è di notevole gravità. Per bocca del suo Primo ministro, il
centro-sinistra ha esagerato la portata della sua vittoria elettorale, mentre
il centro-destra è ancora alla ricerca di un qualche, alquanto
improbabile, sconvolgimento numerico. In una democrazia parlamentare anche le
spallate, ovvero vittorie elettorali di tale rilevanza che producano le
dimissioni del governo, sono strumento legittimo dell'azione di qualsiasi
opposizione, ma debbono avere qualche giustificazione convincente. Il luogo del
confronto fra governo e opposizione rimane il Parlamento dove, opportunamente
e, mi auguro, efficacemente, vale a dire con il massimo di produzione di
informazioni esaurienti, mercoledì si discuterà di quello che, in
estrema sintesi, chiamerò il "caso Visco-Speciale". Credo che
il governo abbia fatto male a usare nei confronti del Gen. Speciale il metodo
"promoveatur ut amoveatur" poiché se il Generale ha operato in
maniera inadeguata dovrebbe essere semplicemente sollevato dai suoi compiti e
mandato in pensione. Se no, doveva rimanere al suo posto, salvo che esistano
comprovabili motivi di sostituzione. Correttamente, il vice-ministro Visco ha
restituito la delega alle Finanze rimuovendo alibi dal dibattito in Senato. In
maniera assolutamente criticabile, poiché si presenta come una sfida
all'autorità del governo, il Gen. Speciale ha preferito alzare il
livello della scontro rifiutando la nomina alla Corte dei Conti (un
pensionamento alquanto dorato). Invece di esercitare il massimo della sua capacità
di informare l'elettorato attraverso il dibattito in Senato, convincendo anche
altri Senatori dell'eventuale gravità del caso, il centro-destra sta
probabilmente, non da oggi, strumentalizzando il Gen. Speciale che,
consapevolmente, accetta questo "gioco". Quello che il centro-destra
non dovrebbe sicuramente fare è chiamare in causa, in maniera del tutto
impropria, il Presidente della Repubblica, con l'obiettivo non troppo nascosto
di "svelarne" una presunta propensione a favorire il centro-sinistra
in quanto eletto da quella maggioranza parlamentare. Interpretando in maniera
impeccabile la Costituzione e conoscendo perfettamente le modalità con
le quali si dipanano i rapporti fra le istituzioni e si (ri-)equilibrano i
poteri, il Presidente Napolitano sa difendersi da sé. Al tempo stesso, tutela
la Costituzione da incursioni populiste e peroniste alle quali si è
piegato Fini e non si è opposto neppure Casini. L'opposizione non
è affatto priva di potere, politico e altro, e quindi non corre il
rischio di logorarsi in tempi brevi, anche se qualcuno, per ragioni
demografiche ha fretta. Tuttavia, almeno coloro che, ugualmente per ragioni
demografiche, possono attendere una successione politica regolare e regolata, dovrebbero sentire il dovere di proteggere
le istituzioni come sono, salvo denunciare il governo e la maggioranza del
centro-sinistra per la sua lentezza nel proporne la riforma, a cominciare da
quella elettorale e dei costi della politica. Se l'opposizione non dimostra nessuna saggezza istituzionale,
sarebbe il caso che la maggioranza di centro-sinistra raddoppiasse i suoi
sforzi e rilanciasse decisionalità, trasparenza, efficacia. Il
Parlamento è la sede dalla quale si può riformare la politica.
In Italia abbiamo capi
e padroni, abbiamo "imperium" ma non abbiamo leadership, abbiamo
bulli e abbiamo comandanti, abbiamo "dux" ma non abbiamo leader. E
infatti abbiamo avuto Mussolini ma non Churchill; non abbiamo avuto De Gaulle e
Mitterrand ma Togliatti e De Gasperi, che traevano la loro grande forza dalle
potenze estere, erano gli autorevoli rappresentanti consolari delle due
metà del mondo, erano insomma leader per conto d'altri, leader senza
leadership. Alla fine, molto raramente abbiamo avuto un'autonoma leadership e
dunque veri leader nazionali, che sono infatti significati non tradotti e non
traducibili nella nostra pur bella e ricca lingua, benché siano essenziali alla
democrazia prima ancora che al nascente Partito democratico. Supremazia,
egemonia, guida dei propri uomini, controllo del Parlamento, autorevole e non
autoritaria influenza politica, dirigenza e direzione: leadership è
parola inglese che rimanda al mare perché viene da leader, da to lead, che vuol
dire condurre, e da ship che è la nave, ma è anche è il
suffisso che nella lingua inglese dà qualità all'astrazione, come
in scholarship e in citizenship, e deriva dal germanico skop e quindi skip e
appunto ship, nave, che in antico tedesco si dice schif, in greco skaphos e
schyphos e in latino scapha ed è sempre lo stesso campo semantico, quello
del bastimento e dell'imbarcarsi perché la leadership nella civiltà
anglosassone viene battezzata sul mare, nel confronto con l'oceano, con quel
"sea power" che è motore della storia. Senza volere qui rifare
la storia dell'influenza del "sea power" nell'evoluzione
dell'umanità ci basta ricordare che la seconda guerra mondiale è
stata vinta dai navalisti e persa dai continentalisti, e che l'Italia è
lontana dall'etimo stesso della leadership, perché, pur essendo una penisola,
una quasi isola, la sua non è storia di navi, di flotte, di controllo
delle acque, di ufficiali di marina che avevano un'educazione da statisti, di
marinai che diventavano leader perché si misuravano con la forza degli oceani,
di portaerei che erano un modo di accorciare le distanze e controllare il
mondo. E infatti ancora oggi la formazione della nostra classe dirigente
è lontana dagli orizzonti internazionali, non c'è nessun leader
italiano che si qualifichi attraverso strategie mondiali, dal nuovo ruolo della
Cina e dell'India alla forza dell'Islam? Difficilmente la leadership italiana
si affaccia al mondo. Campioni di fantasia e di inventiva abbiano avuto il
ministro della Devoluzione e quello dei Rapporti con il Parlamento, quello per
gli Italiani nel mondo e quello per gli Affari regionali, e abbiano persino il
ministero per l'Attuazione del programma di governo che è una sorta di
ministero della Supercazzola con scappellamento a destra o a sinistra, ma
abbiamo, senza nulla togliere alle qualità di Massimo D'Alema, per
tradizione, un politica estera approssimativa e abborracciata, con gli avanzi
di cucina delle politica interna, idea arcitaliana appunto, radicatissima nella
nostra storia, con alleanze mai sicure, trattati mai definitivi, con il nemico
che è anche amico e viceversa. Come si forma la leadership in Italia?
Ebbene, non c'è nulla di più lontano dalla idea occidentale della
leadership. Le ambizioni infatti si muovono nell'ombra, malcelate sotto cumuli
di ipocrisia, non c'è nessuno che osi dire "io voglio fare il
presidente del consiglio, o della repubblica o il segretario del partito
democratico", come ha fatto per esempio per esempio Sarkozy che già
tre anni fa conquistava l'Ump, il partito dell'ostile Chirac, e intanto
confessava di pensare all'Eliseo "tutte le mattine mentre mi faccio la
barba". In Italia invece tutti hanno paura di bruciarsi e di esporsi,
Veltroni non osa sfidare D'Alema, la Finocchiaro si finge umile, Rutelli lavora
nell'oscurità, nessuno si fida di nessuno, si inventano candidati
civetta e finte primarie con il vincitore bloccato, si punta su qualcuno solo
per farlo impallinare, non c'è nulla di pulito, di chiaro, di laico, e
alla fine la scelta del leader, quale che sia la carica da ricoprire,
sarà il frutto di negoziati estenuanti, di compromessi al ribasso e mai
di una forte competizione a viso aperto. La scelta viene via via depotenziata
politicamente e umanamente. Quasi sempre il prescelto è un politico di
basso profilo, possibilmente già vecchio, meglio se un po' acciaccato,
si spera che sia un utile brav'uomo, il quale ovviamente alla prima prova
difficile, alla prima sconfitta amministrativa per esempio, o si rifugia nella
retorica o si esprime in una rabbia inconsulta minacciando di dimettersi.
Ricordate come Tony Blair seppe prendere su di sé l'impopolarità della
guerra in Iraq e riuscì a vincere per la terza volta le elezioni
politiche? Invece il leader italiano somiglia al titano Enceslao che scala
l'Olimpo e crede di essere diventato un dio. Giove afferra quell'omuncolo e lo
scaglia sulla terra mettendogli sullo stomaco un'immensa montagna, l'Etna. E il
tapino sta lì, costretto a fare il morto, a trattenere il respiro...
Solo quando non ne può più tossisce e si agita, si scuote, si
gratta, starnutisce. E allora apriti cielo, la terra trema, le bocche del
vulcano sputano fuoco e pietre, il cielo si oscura. Né va meglio nella
cosiddetta società civile, all'università per esempio, che, unico
paese occidentale, l'Italia considera il serbatoio fintamente tecnico della
politica. E' tipico di un Paese arretrato trarre i suoi quadri dirigenti
dall'università. La leadership nei paesi occidentali si forma nella
scuole di alta amministrazione, oppure nell'alta politica o ancora nelle
professioni. La classe dirigente italiana, invece, o viene dalla burocrazia dei
partiti, o è una specie di università allargata con tutte le
miserie della gestione del potere universitario spavaldamente praticate in nome
della cultura. All'università il clientelismo si chiama cooptazione, la
mafia si chiama scuola o baronia, la gerontocrazia si chiama scienza, il
traffico delle cattedre si chiama concorso. Ma la sostanza è che la
leadership universitaria è autoreferenziale, immutabile, cerimoniale,
fondata sul culto del vecchio, sulla ossificazione delle idee, sulla
mummificazione della cultura e dunque anche della politica. E dovrebbe essere
superfluo spiegare che il leader guida e il padrone comanda e che nella cultura
della leadership, scriveva Comte, "ogni partecipazione al comando è
degradante". Non ci sorprende dunque che i governi italiani, quelli di
sinistra come quelli di destra, siano in perenne crisi di consenso, si
dissipino in un gorgoglio di comandi, un flottare di ordini, perché appunto la
mancanza di leadership ordina e riordina e preordina e postordina e sputacchia
disordinatamente discorsi e sentenze, encicliche e omelie, ordini di servizio e
servizi d'ordine, ma non governa, non guida, non dirige, non traccia la rotta
di un Paese che rimane "nave senza nocchiero in gran tempesta". La
leadership italiana sembra l'epifania postcoitale perché, come si sa, nel
nostro Paese, "cumannari è megghiu di futtiri".
corrispondente da
Bruxelles S'AFFIDA ad una delle sue battute, Giuliano Amato, occhialini sul
naso, per schivare una domanda "pericolosa" sul testo di trattato
costituzionale "semplificato" che è venuto a presentare a
Bruxelles, a nome di un gruppo di indipendenti volenterosi, a meno di venti
giorni da un cruciale Consiglio europeo che dovrebbe fissare, finalmente, un
percorso rapido alle tanto attese riforme istituzionali dell'Ue. La domanda è: quanto è
differente questa proposta dal cosiddetto "mini trattato" del neo
presidente francese Nicolas Sarkozy? La risposta: "La differenza sta nel
fatto che il nostro testo è scritto e voi potete leggerlo".
Infatti, le proposte dell'Eliseo non sono ancora state esplicitate. Quel che si
sa, da più voci, è che il "mini trattato" di Sarkozy
non sarebbe più tale. E che, dunque, grazie anche al lavorio della
presidenza tedesca e all'impulso molto forte dato, in svariate e recenti
occasioni dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, e dal presidente
del Consiglio Romano Prodi, la possibilità che si vada ad un'intesa su
un testo che non distanzi, nella sostanza, più di tanto dal progetto di
tre anni fa, non sarebbe più un'ipotesi remota. Ma la cautela non
è mai troppa. Nel frattempo, il "gruppo Amato" (il ministro
dell'Interno è stato vice presidente della Convenzione presieduta da
Valery Giscard d'Estaing), che ha lavorato a stretto contatto con l'Istituto
universitario europeo di Fiesole, ha messo sul tavolo il "suo"
progetto. Un trattato "semplificato", fatto di 70 articoli e 12.800
mila parole (il progetto, firmato nel 2004 da tutti i capi di Stato e di
governo, è formato da 448 articoli e circa 63 mila parole). Per cercare
di venire incontro alle obiezioni ben note di alcuni Paesi riluttanti, il
trattato cassa la parola "costituzione" e rinuncia al riferimento
simbolico per l'inno, la bandiera e il preambolo. In questo
"contributo" al lavoro della cancelliera Merkel che il 18 giugno presenterà
un testo scritto delle sue proposte per il summit del 21-22, il "gruppo
Amato" salva, praticamente, tutta la prima parte della Costituzione e
anche la parte terza che altro non è che la riproduzione dei trattati
esistenti e delle politiche dell'Unione. Insomma si tratta di un testo reso
"leggibile", molto più chiaro del precedente, e che viene
accompagnato da due "protocolli". Il primo è dedicato al
funzionamento dell'Unione europea, il secondo agli sviluppi delle politiche con
la soppressione dell'attuale struttura in "tre pilastri" (politiche
comunitarie, politica estera e di difesa, politica degli affari interni e
giustizia). La Carta dei diritti fondamentali (che non piace ad alcuni Paesi,
Gran Bretagna in testa) è citata in un articolo che ne proclama il suo
valore giuridico vincolante. Nel testo vengono salvate le principali
innovazioni della Costituzione, come il presidente in carica per due anni e
mezzo rinnovabili, come la figura del ministro degli Esteri che, proprio se a
qualcuno non piace, gli si potrebbe cambiar nome ma non la sostanza del
mandato. Soprattutto viene mantenuta la "personalità
giuridica" dell'Unione e, anche, il primato del diritto comunitario. Ma
tutto questo servirà per tacitare i governi recalcitranti o ostili? Si
tratta, essenzialmente, di Gran Bretagna, Olanda, Polonia e Repubblica Ceca.
Che continuano a manifestare forti resistenze. Il rappresentante del governo
Blair avrebbe presentato, nelle riunioni dei cosiddetti "focal
points" organizzati dalla presidenza Merkel, ben dodici punti
irrinunciabili, tra cui l'opposizione alla Carta dei diritti, l'allargamento
del diritto di veto, il no alla personalità giuridica e cosí via
boicottando. Il tempo stringe. Il Consiglio del 21-22 giugno dovrebbe dar
mandato ai ministri degli Esteri, sotto presidenza del Portogallo, di avviare
una "breve" Conferenza intergovernativa per la stesura del nuovo
testo, previo il parere del Parlamento europeo e della Commissione che sono pronti a darlo il 10 luglio
prossimo.
ROMA Tra Italia e
Stati Uniti ci sono "rapporti solidi e molto intensi" che permettono
di affrontare discussioni libere e franche dove si possono manifestare anche
"idee diverse" senza alcun "senso di colpa". Su questa base
si svolgerà sabato prossimo a Roma l'incontro tra Romano Prodi e George
W. Bush. Un colloquio nel quale i due leader cercheranno soprattutto di parlare
dei temi che uniscono piuttosto che di quelli - e non sono pochi - che dividono
il Governo dell'Unione dall'amministrazione repubblicana. "L'amicizia e
l'alleanza tra i due Paesi non è in discussione, ma questo non significa
aderire acriticamente a qualunque cosa venga detta o fatta da Washington; se
gli americani fanno delle scelte che non condividiamo, nello spirito di
amicizia e alleanza, lo diciamo e la stessa cosa vale per loro", ha
spiegato una fonte diplomatica di palazzo Chigi facendo capire che il colloquio
di palazzo Chigi - sarà presente anche il ministro degli Esteri Massimo
D'Alema - si svolgerà in un clima di " serenità "
alimentato dalla consapevolezza che l'Italia non ha "sensi di colpa",
nè la necessità di "farsi perdonare qualcosa". Una
premessa necessaria quest'ultima, visto che i rapporti bilaterali, il cui esame
rappresenterà l'ossatura delle discussioni romane, da mesi veleggiano
con alterne fortune. Diversi e importanti sono a tutt'oggi i punti di frizione
tra Roma e Washington: si parte dalle valutazioni diametralmente opposte sulla
guerra in Iraq (solo domenica Prodi ha ripetuto che si è trattato di un
"errore storico"); si prosegue con la non archiviata uccisione di
Nicola Calipari (per la quale è indagato dalla magistratura italiana il
marine americano Mario Lozano); per arrivare ad uno dei temi più caldi,
il rapimento di Abu Omar (il giorno dell'arrivo di Bush in Italia, l'otto
giugno, parte il processo a Milano contro 26 agenti della Cia accusati del
sequestro in pieno centro a Milano dell'Imam); ultimo punto ma non meno di
attualità è l'Afghanistan, area di crisi dove i due Paesi sono
entrambi impegnati seppure in operazioni distinte - Enduring freedom gli Usa e
missione Isaf l'Italia - ma con approcci sostanzialmente diversi. Da tempo
l'amministrazione Bush chiede ad alcuni alleati in Afghanistan un ruolo più
combattente sul campo e la modifica dei caveat nazionali per permettere gli
spostamenti dei contingenti nelle zone più pericolose del sud del Paese.
Richieste alle quali l'Italia ha sempre replicato con un fermo "no
grazie". Intanto, il presidente americano, sul volo che lo portava a
Praga, all'inizio del suo viaggio in Europa, ha annunciato che la sera del 9
giugno a Roma si vedrà con l'ex premier Silvio Berlusconi: un incontro
"tra due vecchi amici", l'ha definito. Nella sua prima visita a Roma
dalla vittoria dell'Unione di Romano Prodi nel 2006, l'agenda di Bush
sarà fitta di colloqui istituzionali, ma lascerà spazio nella
serata di sabato ad una "rimpatriata" con uno dei leader alleati che
più gli sono stati vicini nel travagliato periodo alla Casa Bianca e che
anche ieri ha invitato gli italiani a ricordare "quello che devono agli
Stati Uniti per la nostra libertà, per quello che hanno fatto per noi in
passato". Come Blair e in alcune circostanze forse più di Blair,
l'"amico Silvio" ha rappresentato agli occhi di George W. un alleato
fedele e convinto. Dall'11 settembre, all'Afghanistan, fino alla
contestatissima "coalizione dei volenterosi" della guerra in Iraq,
Bush ha sempre avuto al suo fianco, nei passaggi più delicati della sua
presidenza, l'Italia di Berlusconi: "Il mio rapporto con questo signore -
spiegò il presidente Usa - è strategico, non solo politico".
Una sintonia assoluta sulla scena internazionale: non è un caso se il
Cavaliere, ai tempi di Palazzo Chigi, fu uno dei pochissimi leader alleati ad
essere invitato a più riprese alla Casa Bianca, a Camp David e perfino
al ranch texano di George W.
Pd, ovvero proprio un
gran bel discorrere. Un discutere a getto continuo. Un precisare, un ricamare,
un riprendere, un sentenziare. Così scorrendo la stampa, così
guardando i tiggì. Romano Prodi impegnatissimo a mettere i puntini sulle
"i". Ad assicurare che non c'è davvero alcun problema, e che
il percorso verso la costituente è obbligato e tutto fila nel migliore
dei modi. Per la democrazia interna della nascente aggregazione non c'è
da preoccuparsi, anzi ci saranno sorprese, forse persino regali e cotillons. In
giro per la capitale durante il fine settimana, spesso in compagnia del
più papabile antagonista e/o successore, Walter Veltroni, il premier
motteggia e proclama. In primis, l'iperdiscussione è "una forza e
non una debolezza", insomma una maniera per sottolineare che l'incipiente
parto, quanto a regole e comportamenti democratici virtuosi, non avrà
nulla da spartire con altri aggregati del panorama nazionale (intendi
berluscones) "comandati e posseduti". Identica ostentata sicurezza
sul rischio diarchia, visto che lo stesso Romano Prodi ha pensato bene di farsi
nominare già presidente del futuro Pd; quindi nessun timore, dato che
"non intendo violare i tempi dell'investitura di cinque anni avuta alle
primarie". Su democrazia ed elezione degli organismi direttivi massima
apertura, perché nel caso in cui avvenisse sulla base di "un listone"
sarebbe proprio "un fallimento". Al contrario "se ci sarà
una pluralità di concorrenti ci divertiremo tutti quanti e nascerà
un grande partito". Parola di economista navigato (e politico consumato).
Eppure, persino nel trionfale tour qualche dubbio si faceva largo. A dargli
voce, il medesimo compagno d'avventura, l'ottimo sindaco di Roma, che
denunciava il pericolo di "un partito virtuale come Second life".
Insomma, una certa confusione sotto il cielo. Un disagio, che la recente
batosta al Nord, o semplice sconfitta se si preferisce, ha dilatato, ma non
inventato. Il pericolo più serio è che tanto can can paghi poco
elettoralmente ed esasperi la diaspora nel centrosinistra irrigidendo antiche
rendite di posizione, vedi la cosiddetta sinistra radicale che teme
un'ulteriore sterzata a destra nella politica di governo. Per quanto concerne
le percentuali di voto, i risultati, ma anche i sondaggi, non incoraggiano. Se
poi si vanno a vedere i precedenti storici c'è poco da stare allegri. A
cominciare dall'unificazione socialista. È l'anno di grazia 1966, quando
Pietro Nenni e Giuseppe Saragat, da tre anni di nuovo alleati, pensano, anche
per ridare fiato a un centrosinistra in versione morotea che langue e vivacchia
(le analogie con l'attuale esecutivo non sono casuali, lo stesso Prodi in
qualche modo arriva dal giro del leader ucciso dalle Br), di porre termine a
una divisione d'area che, all'apparenza, non aveva più ragion d'essere,
lanciando la prospettiva di una terza forza, fra i colossi Diccì e
Piccì, capace di dar voce all'Italia laica, riformista e liberal.
Risultato, una débâcle. Scadenti i riscontri delle urne. Peggio quelli politici.
Vista come operazione a tavolino che non riuniva praticamente nulla. A
cominciare dagli attori principali, Psi e Psdi, le cui storie negli anni si
erano molto diversificate. Al massimo, l'unione li sovrapponeva, senza che
nella fase preparatoria fosse stato svolto alcun serio lavoro di chiarificazione ed elaborazione
identitaria e culturale. All'incirca, stando a coloro che vedono nero, quanto
sta accadendo nel percorso Pd. Un iter ispirato più che altro a uno stato di necessità. Quasi una cosa da
farsi comunque, dato che, assiomaticamente, va fatta. I rischi di replicare
alla grande il disastro Nenni-Saragat sono perciò tutt'altro che lievi.
Nel frattempo, la Seconda Repubblica è in affanno e, come ha rilevato di
recente sul Corsera Ernesto Galli della Loggia, non riesce proprio a darsi
quella "costituzione materiale" (ben viva invece prima del '92) che
permette di tirare avanti. Per capirci, "quella cornice di regole, non
definite formalmente ma rispettate per tacito accordo da tutti gli attori, che
assai più delle regole scritte consentono a un sistema politico nel suo
complesso di funzionare". Intanto, forse ancora per la "legge"
Nenni-Saragat, si preannunciano nuovi scossoni fra i possibili azionisti Pd.
Dopo la scissione a sinistra guidata da Fabio Mussi, ora se ne paventa un'altra
a destra, capeggiata dall'ex segretario della Cisl, Savino Pezzotta, che chiama
a raccolta quei cattolici, teodem eccetera, che non si sentono
rappresentati dai valori espressi dalla nuova formazione. È l'ala dura,
papista, dei diellini, che per il momento non ha deciso il suo futuro, ma si
organizza e lavora. Che avesse dunque visto giusto Ciriaco De Mita quando
ammoniva che "per voler fare un solo partito si rischia di farne nascere
tre"? Se sì, saremmo ancora in pieno effetto Nenni-Saragat che a un
fragile anelito all'unità per l'unità pagò un prezzo
chiamato Psiup e indipendenti di sinistra, oltre alla fulminea dissoluzione,
solo tre anni dopo, del formidabile giocattolino progettato a freddo.
05/06/2007.
Nasce il Partito
democratico, ma l'ondata dell'antipolitica non si placa. E allora, mentre ormai
dei politici e dei loro privilegi si parla e si scrive come di una
"casta", tra i compiti principali della nascente formazione
c'è proprio quello di ricucire un rapporto ormai troppo sfilacciato con
la società. E tra i pericoli più concreti da evitare c'è
proprio quello di non capire come il crinale sia stretto, perché il rischio
è che "qualche demagogo calchi l'ondata anti-politica e travolga
non solo - non tanto - l'attuale governo e le principali forze che lo
sostengono, quando l'intero sistema di garanzie costituzionali e la democrazia
italiana nel suo complesso". Questo ha sottolineato ieri pomeriggio
Giorgio Rossetti aprendo l'incontro che l'area "democratica, laica e
socialista" dei Ds - ex sostenitori della mozione Angius che hanno deciso
di rimanere nel partito - ha organizzato innanzitutto per "ascoltare"
appunto la gente. "Tanti cittadini e pochi politici" - osserva lo
stesso Rossetti - in sala ieri, dunque, per fare il punto della situazione e
proporre a loro volta contributi di riflessione. Nella presentazione fatta
dall'ex europarlamentare, promotore del gruppo assieme a Piera Alzetta, Mauro
Gialuz e Marino Pittoni, c'è stato appunto ampio spazio per lo sprone ai partiti a uscire
dall'autoreferenzialità del dibattito. Ma Rossetti - che assieme al
gruppo ha confermato la volontà di partecipare alla fase costituente del
Pd - ha posto l'accento anche sulla necessità di affermare il
"carattere laico" del nuovo partito, l'esigenza di vederlo
coinvolgere fin da subito altre forze riformiste "che non possono essere
chiamate quando tutto è già stato deciso", e la necessità che la nuova formazione stia
nel Pse su scala europea. Tra i presenti in sala docenti universitari,
studenti, professionisti ma anche esponenti dello Sdi e Gianfranco Carbone.
"Non ci sono state conclusioni proprio perché l'incontro era stato organizzato per ascoltare", commenta
Rossetti, "e i sedici interventi in sala la dicono lunga sull'esigenza di
dialogo". Una decisione però è stata presa: prima del 15
giugno, data dell'assemblea in cui a livello locale si riunirà il
comitato costituente del Pd, il gruppo intende indire altri due incontri nei
quali mettere a fuoco altrettanti temi: "Il primo, l'orizzonte culturale
del nuovo partito che ha da essere con forza laico e avere la sua prioritaria
referenza nel mondo del lavoro; il secondo, il contenuto di quello che
sarà il Manifesto del Pd". Sull'iniziativa del gruppo, intanto,
arriva una nota del segretario provinciale del Nuovo Psi Alessandro Perelli,
che criticando la posizione dei socialisti nel Pd, annuncia invece "la
Costituente socialista in cui l'identità socialista e laica non
sarà camuffata né relegata in secondo piano e che avrà come unico
riferimento il Partito socialista europeo".
IL RETROSCENA Nel dossier di Visco le sostituzioni disposte dal
centrodestra D'Ambrosio: "Domani spiegherò perché Speciale è
pericoloso" Mariella fu silurato senza spiegazioni e senza incarichi di
prestigio CARLO BONINI ROMA - Per fulminare
Romano Prodi e la sua evanescente maggioranza sul caso Visco-Speciale, per
rendere nitida la gravità di un brutale tentativo di spoils system nella
Guardia di Finanza, Silvio Berlusconi ha usato un argomento di indubbia
efficacia: "Io mi domando se fosse successo a noi...". Bene. E'
successo. Cinque anni fa. Quando - ministro dell'Economia Giulio Tremonti -
venne prima rimosso in ventiquattro ore il capo di stato maggiore della Guardia
di Finanza, perché ritenuto politicamente inaffidabile, e quindi avvicendata
l'intera catena di comando delle Fiamme Gialle a Milano: il comandante
regionale, il comandante provinciale, il comandante del nucleo regionale di
polizia tributaria. Non si levò un fiato. Nessuno ebbe a indicare
inopportuni incroci con le allora indagini sui diritti tv di Mediaset, né che
tra i promossi ai nuovi incarichi vi fosse l'aiutante di campo del ministro
Tremonti. Non ci fu il tempestivo e preoccupato intervento dell'Avvocatura
Generale per verificare la limpidezza professionale degli ufficiali che
venivano messi alla porta. Non furono sollecitate lettere allarmate alla
Procura della Repubblica. Non fu chiamato in causa il capo dello Stato. La
vicenda non ha nulla di segreto, ha il pregio di mettere a nudo qualche
ipocrisia e, per quel che se ne sa, è tra quelle che il viceministro
Visco, in questi giorni, ha ricostruito nel suo dossier consegnato a Palazzo
Chigi e di cui il senato discuterà domani. I fatti, dunque. Settembre
2001. Giulio Tremonti è da qualche mese il nuovo ministro dell'Economia.
Comandante generale della Guardia di Finanza è il generale di corpo
d'armata Alberto Zignani, anche lui nuovo nell'incarico (è stato
nominato in marzo). Di fatto, la Guardia di Finanza ereditata dal governo di
centrodestra è quella che, per quattro anni (1997-2001), ha governato e
riformato il generale Rolando Mosca Moschini, uno dei migliori e più
brillanti ufficiali del nostro esercito, apprezzato all'estero, integrato per
lungo tempo nei comandi Nato. Mosca Moschini, oggi consigliere militare del
Presidente della Repubblica, è fumo negli occhi per il centrodestra.
Nella sua lunga stagione di comando in viale XXI aprile ha aggredito un grumo
di potere che ha coltivato, con il rancore, voglia di rivincita. Si è
liberato di Nicolò Pollari, sostituendolo dopo neppure due mesi con un
nuovo capo di Stato Maggiore, il generale Giovanni Mariella, un pugliese
solare, un galantuomo di buon carattere che, di fatto, nel settembre 2001,
quando Moschini lascia il comando ne raccoglie l'eredità. Mariella dura
poco. Alla fine di settembre del 2001, il centrodestra se ne libera in
ventiquattro ore, sostituendolo con il generale Nino Di Paolo. Delle ragioni della
sua destituzione il comandante generale Zignani non offre nessuna spiegazione.
Né, soprattutto si comprende, perché, una volta avvicendato, Mariella finisca
nel magazzino delle scope del Comando. Per lui non ci sono incarichi di
prestigio. Non ci sono poltrone da vicesegretario del Cesis (che, a quanto
pare, sono invece un esito di carriera naturale se gli ex capi di stato
maggiore si chiamano Nicolò Pollari ed Emilio Spaziante). C'è
solo un lungo esilio da comandante interregionale della Guardia di Finanza dell'Italia
meridionale. Fino a quando, quattro mesi fa, non se lo porta via una malattia
fulminante. Ai suoi funerali a Napoli, lo scorso 24 febbraio, nella basilica di
san Francesco di Paola, in piazza Plebiscito, sono presenti sia il comandante
generale Roberto Speciale che l'ex comandante Mosca Moschini. Ed è lui a
pronunciare un ricordo che convince Speciale a lasciare infuriato la chiesa
prima del feretro, per un caffè al "Gambrinus" insieme al suo
seguito di ufficiali. Ma torniamo a quell'autunno 2001. Perché accade qualcosa
di più. Contemporaneamente alla destituzione di Mariella, su
sollecitazione di Tremonti, viene ridisegnata competenza e gerarchia degli
uffici periferici del II Reparto, l'intelligence della Guardia di Finanza (che
Mariella, prima di diventare capo di Stato maggiore, ha comandato), stanza di
scambio e compensazione con il Sismi, la nostra intelligence militare. Delle
informazioni che raccoglieranno sul territorio, i "nuovi" reparti
informazione non risponderanno più al Comando generale, ma ai comandi
regionali. La "riforma" coincide con l'allontanamento di alcuni dei
responsabili del reparto informazioni a Milano, come a Roma. Rende i comandanti
regionali centri nevralgici nella raccolta delle informazioni, accrescendone il
potere. E annuncia quel che accadrà nell'ottobre del 2002. In un unico
giro di avvicendamenti, viene sostituita l'intera catena di comando della
Guardia di Finanza di Milano. Il comando interregionale della Lombardia viene
assegnato al generale Emilio Spaziante. Uomo di Pollari, suo luogotenente in
una piazza che esprime la nuova classe dirigente politica, i suoi interessi
economici. Comandante provinciale è nominato il colonnello Rosario Lo
Russo. Ma, soprattutto, al Nucleo regionale di polizia tributaria arriva il colonnello
Stefano Grassi. L'ufficiale è aiutante di campo del ministro Tremonti.
Ha lavorato al ministero dell'economia insieme a Marco Milanese, capo della
segreteria del ministro, altro brillante ufficiale della Finanza che ha avuto
quale suo compagno di corso Dario Romagnoli, poi passato allo studio tributario
di Milano dello stesso Tremonti. Gerardo D'Ambrosio, allora procuratore della
Repubblica di Milano, oggi senatore dei Ds, ha un ricordo sfumato di quegli
avvicendamenti. Sicuramente non prese carta e penna per redigere lettere
allarmate. "Perché - dice - la legge stabilisce che il procuratore della
repubblica e il procuratore generale non hanno alcun potere di intervento sui
trasferimenti di ufficiali al vertice della catena di comando locale della
Guardia di Finanza a meno che non si tratti di ufficiali di polizia
giudiziaria. Perché in questo caso, non solo devono essere informati ma
è addirittura necessario il loro consenso. Sicuramente, nessuno in
quell'occasione, al contrario di come mi pare sia invece accaduto nel caso
Visco, venne a sollecitare un mio interessamento a quel che stava
accadendo". Aggiunge l'ex Procuratore: "La verità è che
da questa storia ho tratto delle convinzioni che, domani, proverò a
comunicare all'aula del Senato. Un ufficiale come il generale Speciale è
pericoloso innanzitutto per la Guardia di Finanza. Se le cose fossero andate
come lui dice, un anno fa avrebbe dovuto prendere la porta e denunciare Visco
alla competente Procura di Roma per poi dimettersi un minuto dopo. Non mi
risulta lo abbia fatto. Perché?".
+ AgenParl 4-6-2007 Prodi
APRÈS MOI LE DÉLUGE
L’Unità
4-6-2007 Un caso Speciale Furio Colombo
Il
Riformista 4-6-2007 Se le intercettazioni sostituiscono i pentiti
La
Repubblica 4-6-2007 LINEA DI CONFINE MARIO PIRANI
Il
Manifesto 4-6-2007 Spunto Tra Mosca e Varsavia la carne è debole Astrit
Dakli
Roma, 4 Giugno 2007 –
AgenParl – “Dopo di me il diluvio”. L’ha detto Prodi ai leader della
coalizione, affermando che “con la caduta del mio governo lo scioglimento delle
camere diventa inevitabile”.
Il “capo” del governo ha così minacciato sia i suoi alleati che la
stessa opposizione. A nome di quest’ultima gli ha risposto Gianfranco Fini il
quale, in polemica con Berlusconi, ha detto che “non ci sono le condizioni di
uno scioglimento delle camere, anche nel caso in cui il governo dovesse
cedere”. Con queste affermazioni il leader di Alleanza Nazionale ha offerto ai
partner di Prodi un’alternativa per sottrarsi ai ricatti del Professore, nei
confronti del quale cresce di giorno in giorno la sfiducia.
La mossa di Fini obbedisce ad un disegno strategico contrapposto a quello di
Berlusconi- Egli è consapevole del fatto che l’eventuale costituzione di
un governo istituzionale, più o meno di transizione, consentirà
la nascita di un’aggregazione centrista che potrebbe spaccare Forza Italia,
consentendo così ad AN di acquisire l’eredità di Berlusconi.
In questa direzione, sia pure guardando all’altro versante, si muove l’Udc del
suo vecchio amico Pierferdinando Casini, il quale conta di trarre notevoli
vantaggi dalla spaccatura di Forza Italia e della costituzione di una grande
area centrista.
Sulla medesima linea si muove anche il nascente movimento di Savino Pezzotta,
intenzionato a chiamare a raccolta tutti i teo-dem del centro destra e del
centro sinistra, compreso l’UDEUR di Clemente Mastella, al fine di sollecitare
il Partito Democratico a rompere gli indugi nel buttare a mare Prodi e la
sinistra “alternativa”.
Ovviamente Berlusconi punta a tamburo battente sullo scioglimento delle camere,
in quanto questo avvenimento costringerebbe i partiti alleati a ricompattarsi,
scongiurando la dissoluzione definitiva del centro destra.
Visco cede alla
tentazione di avviare, come si legge in una lucida analisi del Sole-24 Ore,
"un rozzo spoils system nei confronti di personale militare ritenuto
troppo vicino alla gestione politica precedente". Che in Lombardia, la
Guardia di Finanza sia stata molto prossima e a volte subalterna alle volontà
del ministro dell'Economia uscente, Giulio Tremonti ? e che ancora oggi possa
esserlo ? è fatto noto dentro la Guardia di Finanza e nella
magistratura, ma Visco tira per la sua strada in silenzio e al coperto, con un
altro passo falso. "Anziché stare alla larga da diatribe annose e poco
misurabili", pensa "di utilizzare un gruppo contro un altro, senza
calcolare modi, conseguenze e nemmeno la forza di chi gli sarebbe potuto
rivoltare contro" (ancora il Sole-24 Ore). Tatticamente difettosa,
l'iniziativa di Visco ha un altro deficit. Non è politicamente omogenea
alle scelte del governo che ha deciso di stringere, contrariamente a quel che
crede Visco, un patto di compromissione, un'intesa, un patto di
non-aggressione, chiamatelo come volete, proprio con quel network di potere, di
cui il generale Roberto Speciale è soltanto uno degli attori, e nemmeno
il maggiore. * * * Di quel network di potere occulto e trasversale, ormai si sa
o si dovrebbe sapere. E' un "apparato" legale/clandestino deforme,
scandaloso, ma del tutto "visibile". Nasce con la connessione abusiva
dello spionaggio militare con diverse branche dell'investigazione, soprattutto
l'intelligence business, della Guardia di Finanza; con agenzie di
investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi
aziende come Telecom, dove esiste una "control room" e una
"struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche
intercettazioni vocali: può entrare in tutti i sistemi, gestirli,
eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la
possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente
autorizzato". Quel che combina questo "mostro", che dovrebbe
preoccupare chi ha a cuore la qualità della democrazia italiana, si sa.
Qualche esempio. Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, pianifica
operazioni ? "anche cruente" ? contro i presunti "nemici"
del neopresidente del Consiglio. Durante la legislatura 2001/2006 raccoglie,
"con cadenza semestrale", informazioni in Europa su presunti
finanziamenti dei Democratici di Sinistra. E' il "dossier Oak"
(Quercia), alto una spanna, denso di conti correnti, bonifici, addirittura con i nomi e i
cognomi di presunti "riciclatori" e "teste di legno" dei
finanziamenti occulti dei Ds che fanno capo ai leader del partito. Prima della
campagna elettorale del 2006, l'apparato legale/clandestino programma e
realizza una campagna di discredito contro Romano Prodi. Sarebbe un errore,
però, considerare il network "al servizio" del centrodestra.
Quell'apparato legale/clandestino, a cavallo tra due legislature, si è
"autonomizzato", si è "privatizzato", è
autoreferenziale. Raccoglie e gestisce informazioni in proprio. Vere, false non
importa: sono qualifiche fluide ? il vero e il falso ? nella
"mediatizzazione della politica dove ogni azione politica si svolge
all'interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei
media". A questa variante moderna di P2 è sufficiente amministrare,
saggiamente, la cecità e le nevrosi delle power élite, angosciate dalle
mosse degli alleati; spaventate dai complotti possibili, probabili, prossimi.
Con accorta disciplina, il network spionistico sa essere il virus e il
terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all'uno
come all'altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale
prima che politica) di governare. Alimenta così la sindrome di
Berlusconi consegnandogli dossier sul complotto mediatico-giudiziario. La cura
con una pianificazione di annientamento dei presunti complottardi. Eccita il
"complesso berlusconiano" della sinistra e lenisce quello stato
psicoemotivo, prima che politico, con informazioni sulle mosse vere o presunte
del temuto spauracchio. Quanto più il conflitto pubblico precipita
oscurandosi in un sottosuolo, dove poteri frantumati, deboli, nevrotici tentano
di rafforzarsi o difendersi; tanto più il network è in grado di
essere il custode dell'opaca natura del potere italiano o il giocatore in
più che può favorire la vittoria nella contesa. * * * La minaccia
di questa presenza abusiva e minacciosa nel "mercato della politica",
alla vigilia delle elezioni del 2006, sembra chiara al centrosinistra.
C'è chi esplicitamente, con grande scandalo e dopo anni di distratto
silenzio, avverte che "sono tornati i tempi della P2" e chi,
più lucidamente, ragiona sul quel che è accaduto e sul da farsi.
Preoccupato da una realtà che ha consentito di "sviluppare un
agglomerato oscuro fatto di agenzie di investigazione e polizie private in
combutta con infedeli servitori dello Stato che si muove in una logica di
ricatto", trova "lo spettacolo spaventoso" e promette che
"il nuovo governo solleciterà il Parlamento a indagare, accertare,
comprendere cosa è accaduto". (Marco Minniti, oggi viceministro
agli Interni). In realtà, il governo Prodi appena insediato muove in
tutt'altra direzione. Preferisce guardare altrove, incapace di prendere atto
dell'infezione, in apparenza impotente a comprenderne il pericolo, addirittura
impedito a programmare il necessario lavoro di bonifica. Quel che appare al
vertice del network, il direttore del Sismi Nicolò Pollari, incappa
nelle indagini della procura di Milano per il sequestro di un cittadino
egiziano. L'inchiesta mostra le connessioni del network e dimostra la sua
attività di dossieraggio illegale. Incrociata con i risultati
dell'istruttoria Telecom, offre una scena così inquietante per la
qualità della nostra democrazia che dovrebbe convincere il governo a
darsi da fare in fretta, a rimuovere, rinnovare, risanare; a chiedere al
Parlamento ? appunto ? di "accertare e comprendere". Accade il
contrario. Il sequestro del cittadino egiziano è protetto da un segreto
di Stato che nemmeno Berlusconi e Gianni Letta hanno mai proposto alla
magistratura milanese. Di più, per dare un minimo di credibilità
alla sorprendente iniziativa, l'esecutivo non esita ad accusare dinanzi alla
Corte Costituzionale di illegalismo la procura di Milano. Un altro segreto di
Stato va a coprire gli avvenimenti che hanno accompagnato la missione in Iraq
di Nicola Calipari, salvo poi chiedere a Washington "verità e
giustizia". Che si voglia tutelare, anche nella nuova stagione politica,
il passato, i traffici e la fortuna dei protagonisti di quel network è
ancora più chiaro quando si procede alla sostituzione dei vertici dell'intelligence.
L'ammiraglio Bruno Branciforte va al Sismi senza alcuna delega in bianco o
margini operativi e decisionali. Viene consegnato a un imbarazzante stato di
impotenza. In sei mesi, per vincoli politici, non ha avuto la
possibilità di rimuovere nemmeno un dirigente. Lo staff, i direttori
centrali e periferici, il potentissimo capo del personale sono gli stessi
dell'éra Pollari. Ad alcuni degli uomini più fidati del generale uscente
è stato consigliato di fare un accorto passo laterale diventando gli
uomini forti e ascoltati del ministero della Difesa. Al Sisde il nuovo capo,
Franco Gabrielli, ammette addirittura davanti al Parlamento che
"così com'è, il servizio interno non può svolgere
appieno un efficace compito di prevenzione". E tuttavia non riesce a
incuriosire il ministro dell'Interno che, in sei mesi, non ha ancora trovato il
tempo e il modo di riceverlo. Se i "nuovi" hanno difficoltà a
fare il loro lavoro, i "vecchi" possono ampliare ? al contrario ? il
loro margine di manovra e i "punti di appoggio". Pollari è
oggi consulente di Palazzo Chigi; il suo fidatissimo braccio destro, che con
spavalderia minacciosa si è detto dinanzi al Parlamento "di
sinistra" e prodiano, è addirittura al "Personale" della
Difesa mentre il generale Emilio Spaziante, l'operativo di Pollari nella Guardia
di Finanza di Roberto Speciale, è il numero due al Cesis, la struttura
che fa da link tra la presidenza del Consiglio e l'intelligence militare e
civile, una poltrona che, nel 2001, già fu di buon auspicio per
Nicolò Pollari che da lì partì alla conquista della
direzione del Sismi. * * * Il governo di centro-sinistra ha preferito chiudere
un accordo di non-aggressione con quel network che, soltanto alla vigilia delle
elezioni, appariva all'opposizione di ieri "spaventoso", "oscuro".
Un'intesa cinica, realista che avrebbe anche potuto resistere se la parabola
dell'esecutivo avesse dimostrato di poter durare a lungo; se la forza del
governo avesse dimostrato, in questo suo primo anno, di essere adeguatamente
salda e autosufficiente per poter affrontare l'intero ciclo quinquennale della
legislatura. Ai primi scricchiolii di popolarità e consenso, ai primi
segnali di debolezza politica interna, il network è ritornato a muoversi
con tutta la sua pericolosità. Le minacce del generale Roberto Speciale
ne sono una eloquente testimonianza. "So io che fare", ha detto ieri
al Corriere della Sera. La congiuntura politica, la debolezza e le divisioni
della maggioranza, qualche appuntamento di carattere giudiziario non inducono
all'ottimismo e lasciano pensare che il peggio debba ancora venire, altro che
il match Visco/Speciale. Dunque. Ancora poche settimane e nel frullatore
politico-mediatico entreranno le migliaia di intercettazioni telefoniche
raccolte nell'inchiesta Antoveneta/Bnl. Un breve saggio di quanto possano
essere esplosive lo si è già avuto nel 2006 con la pubblicazione
della conversazione tra Gianni Consorte (Unipol) e il segretario dei Ds, Piero
Fassino. Ma in quelle intercettazioni si sa, per dirne una, che si ascolta la
voce dei maggiori leader del centro-sinistra, a cominciare da Massimo D'Alema e
del suo collaboratore più affidabile, il senatore Nicola Latorre. A
incupire la scena, la preoccupazione che le intercettazioni legali possano
incrociarsi con gli ascolti abusivi e le indagini illegali della Security
Telecom. Per quel che se ne sa, è stato trovato soltanto un dvd con
migliaia di dossier, nella disponibilità di un investigatore privato che
lavorava per la società di telecomunicazioni (o per lo meno per gli
uomini della sua sicurezza). Nessuno è in grado di escludere, a Milano
come a Roma, che quel dvd sia soltanto una parte dell'archivio segreto. Mentre
non c'è dubbio che anche la più irrilevante briciola di quelle
informazioni, raccolte illegalmente, sia oggi nella disponibilità
dell'"agglomerato oscuro". Che avrà il modo e l'occasione di
giocare una nuova partita e qualche asso. I tempi sono favorevoli. Le anomalie,
i vizi, gli sprechi della politica italiana hanno scavato un solco tra il Paese
e il Palazzo mettendo in moto, per dirla con le parole di Massimo D'Alema,
"una crisi di credibilità della politica che tornerà a
stravolgere l'Italia con sentimenti come quelli che, negli anni novanta,
segnarono la fine della Prima Repubblica". La storia ci insegna che una
democrazia fragile e largamente screditata può sopravvivere anche molto
a lungo, grazie ai sui meccanismi di autotutela, soltanto però "in
assenza di eventi traumatici "esterni" che la facciano
crollare". Ora tutta la questione è in questa eventualità.
Non c'è dubbio che il network oscuro sia in grado di creare, anche
artificialmente, un evento "traumatico" esterno. I dossier ? veri o
falsi, non importa ? raccolti negli anni del governo Berlusconi dall'apparato
legale/clandestino di spionaggio possono di certo esserlo. Se si guarda a come
si è mosso, contro Vincenzo Visco, il generale Roberto Speciale, sembra
di poter dire che in giro ci sia anche la volontà di farlo, la
determinazione senza tentennamenti. Il comandante della Guardia di Finanza ha
tentato, infatti, di "giudiziarizzare" il braccio di ferro con il
viceministro, di alimentare con la sua testimonianza (aggiustata per
l'occasione) un'indagine penale e, sotto l'ombrello dell'inchiesta, mettere in
circolo veleni, notizie mezze vere e mezze false o del tutto manipolate, capaci
di "travolgere il Paese con i sentimenti degli anni novanta".
Può essere stato soltanto un piccolo accenno di quanto accadrà di
qui a dieci giorni. Sapremo presto quali iniziative intende muovere,
quest'altra P2 ? simile, ma non uguale a quella che abbiamo conosciuta ? e
quale forza di dissuasione o di compromesso è in grado di opporre il
sistema politico.
Segue dalla Prima.
Annuncia clamorosamente, il proprietario di tutti i media privati italiani,
l'arrivo della "tv della libertà", "la tv della gente
fatta dalla gente", niente di più sudamericano, lungo un percorso che
va da Peron a Chavez, sempre al di fuori di ogni regola democratica e
costituzionale. È evidente quello che è accaduto, e sta ancora
accadendo. Poiché nonostante l'incapacità espressiva e comunicativa del
legittimo governo Prodi, la spallata non c'è stata e la forza della
opposizione distruttiva lanciata da Berlusconi paralizza le Camere ma non
è riuscita ad affondarle, poiché la formula esclusiva della piazza,
benché tentata due volte, con e senza vescovi, non ha rovesciato il Paese,
occorrevano i militari. Chi scrive crede fermamente che tutti gli altri vertici
militari italiani che hanno giurato fedeltà alla Costituzione, non si
uniranno alla mossa illegale, incostituzionale e - rispetto alle regole
democratiche - estrema del generale Speciale. Ma il generale Speciale,
"sempre agli ordini", ha dato il via al suo piano ben preparato, che
appare in curiosa e interessante sintonia con il piano
"Peron-Chavez-Brambilla" di Silvio Berlusconi. Purtroppo, nonostante
l'evidente striatura di ridicolo che attraversa la vita e le opere (quelle
pubbliche, politiche) di Silvio Berlusconi, la vicenda non fa ridere. Ricorda i
film di Tognazzi, quando Berlusconi, il 2 giugno, si fa circondare da "ali
di folla" mentre va alla parata (famiglie di militari appostate per l'evento,
ci dicono alcuni giornali, ma certo non c'erano i familiari dei morti di
Nassiriya). E l'effetto Monicelli scatta in pieno quando l'ex comandante della
Guardia di Finanza si fa deliberatamente sentire da tutti mentre grida
"sempre agli ordini". Ma in quella frase il generale ci dice a quali
ordini si ubbidisce (quelli di Silvio Berlusconi) e a quali ordini si
disubbidisce, marcando il tono di ribellione e disprezzo: quelli del vice
ministro Visco, notoriamente uno dei personaggi da umiliare e da abbattere,
nella visione berlusconiana di un mondo di liberi ricchi possibilmente fuori da
ogni legalità e sgombro di tasse. Che cosa sia accaduto e di quanti
gradi ciò che è accaduto, protagonista il gen. Speciale, si
separi dalla legge e dalle regole democratiche, lo ha raccontato in modo
incontestabile Eugenio Scalfari su La Repubblica di domenica. Il generale
Speciale, nega, resiste, si oppone, non risponde, fa ascoltare in viva voce le
telefonate del suo legittimo superiore, per poi passare i materiali direttamente
al Giornale di Berlusconi ("sempre agli ordini"). E quando il
dissenso è clamoroso e inaccettabile per il legittimo capo e
responsabile politico (il ministro) il generale mostra di non vedere il solo
onorevole percorso a disposizione di un militare che rifiuta gli ordini:
dimettersi. Invece oppone ribellione, si arruola apertamente nella politica
della parte avversa al governo (ovvero rivela i veri legami) pretendendo di
restare generale comandante di una delle tre forze di polizia del Paese. La destituzione
che segue è inevitabile e legittima. Già il presidente emerito
Cossiga aveva chiaramente ammonito: "Un generale può dimettersi ma
non può disobbedire". Il caso dunque è tra i più
gravi nella storia della Repubblica, anche perché alcune delle conseguenze
avvelenate e perverse possono ancora verificarsi. Il mondo di Berlusconi
è fittamente popolato di personaggi stravaganti, di una tipologia non
disponibile fuori dal mondo del realismo magico sud americano. Ma quando uno di
questi personaggi è generale, è armato, è circondato da
altri generali, comanda una parte delle forze armate del Paese e si esprime
come se fosse doppiato da Bondi, Baget Bozzo e (nei suoi giorni peggiori) da
Tremonti (si veda l'intervista sul Corriere della Sera del 3 giugno) il gioco
cambia e la farsa si avvicina bruscamente al dramma. Tutto ciò non
sottintende che, nel confronto fra un politico e un militare, il politico abbia
per forza ragione. Ripeto Cossiga: "Il militare obbedisce o si dimette.
Non gli è consentita la sfida". Ma il politico risponde senza rete
al Parlamento e, se del caso alla autorità giudiziaria. Mai attraverso
la ribellione concertata fra militari e partiti politici avversi. Mai facendosi
rappresentare dalla furente dichiarazione di guerra dell'ex ministro degli
Esteri Fini, che, a Santa Margherita Ligure, di fronte all'assemblea dei
giovani industriali, rifiuta in modo insultante un dibattito col ministro
Bersani, accusato di essere complice di Visco. Evidentemente per Fini si
possono liberamente licenziare sui due piedi giornalisti e autori di libera
satira. Ma non si può nemmeno parlare con il membro di un legittimo
governo che ha dimesso un generale. Perché dei giornalisti e dei civili in
genere - ci dice, con un curioso automatismo del passato, Gianfranco Fini puoi
fare quello che vuoi. Ma se tocchi un generale "è una
porcata". È bene dirlo. È un linguaggio golpista. Per
fortuna a quel linguaggio il presidente della Repubblica ha risposto con
fermezza. furiocolombo@unita.it.
ROMA - Il
"Sistema" (lo chiamano proprio così in viale XXI aprile) che
ha fatto della Guardia di Finanza un corpo separato, che ne ha consegnato le
gerarchie a una doppia fedeltà, è semplice. Antico. Arruolamenti,
avanzamenti, encomi. Se li controlli e non devi rispondere, se non con vuota
formalità, delle tue scelte, l'apparato sarà tuo.
L'"autonomia" diventerà separazione. La politica, un
interlocutore fragile e passeggero, in un rapporto di forza capovolto. Del
"Sistema", osserva una fonte del Comando generale, "il generale
di corpo d'armata Nicolò Pollari è stato maestro. Il generale
Roberto Speciale, uno scienziato". Qualche dato. Lo scorso anno, il 70 per
cento degli allievi ufficiali entrati nei ranghi del corpo avevano almeno un
finanziere in famiglia. Un padre, uno zio, un fratello, un cugino. In tutte le
commissioni di arruolamento ufficiali e sottoufficiali, per prassi, il
comandante Speciale ha imposto l'incongrua partecipazione di un ufficiale della
sua segreteria particolare. E gli encomi sono diventati lo strumento per
arrivare dove non riescono capacità, concorsi interni, anzianità.
Per ripulire carriere non esattamente adamantine. Ne sono stati distribuiti a
centinaia, soprattutto "solenni" (dovrebbero distinguere il militare
che, nell'adempimento dei propri doveri, acquisisce meriti eccezionali). Come
quelli che hanno consentito all'aiutante di campo di Speciale, il capitano
Cosentino (cinquantesimo del suo corso, indagato dalla procura di Salerno per
falso ideologico e materiale) di diventare maggiore. Come quelli che, la scorsa
estate, consegnarono la guida dell'Accademia della guardia di Finanza al
generale Francesco Attardi, penultimo del suo corso, impicciato nelle
telefonate di Calciopoli, e, nelle valutazioni individuali, ottavo di otto tra
i generali di brigata. Arruolamenti, avanzamenti, encomi. Non bisogna essere
degli addetti per capire. Il vincolo del "sangue" e quello del voto
di fedeltà e appartenenza al Comandante decidono dei primi passi nel
corpo e di quelli futuri. Della resurrezione dopo eventuali cadute. O dentro, o
fuori. O "con", o "contro". La legge che governa le carriere
non impone particolari obblighi di motivazione all'autorità politica.
Quella interna e di clan è nota a tutti. E si deposita nel pervasivo
potere del I Reparto, l'articolazione del Comando generale deputata al
"personale". Il generale Speciale - come dato conto da
"Repubblica" ieri - ha ordinato che alla guida di questo nevralgico
centro di potere e controllo un fedelissimo si avvicendi ad un altro
fedelissimo, il generale Caprino al generale Adinolfi. Sommando i tempi
dell'incarico del primo a quelli del secondo (due anni più due anni) si
arriva quasi a un lustro. Il che significa qualche migliaio di carriere segnate
o comunque avviate in direzioni di cui è complesso modificare l'inerzia.
L'affare Visco ha aperto più di uno squarcio sul "Sistema" e
sulla natura autocratica e autoreferenziale con cui lo ha scientificamente
modellato Speciale. Nel quinquennio del centrodestra a Palazzo Chigi, né il
comandante in seconda del corpo (che è poi il più alto ufficiale
in grado proveniente dai ranghi della Finanza, essendo il comandante scelto in
quelli dell'Esercito), né il capo di stato maggiore sono mai stati messi
preventivamente al corrente dei piani di "trasferimento" disposti dal
Comandante, né delle ragioni che li hanno sollecitati. Né sono stati in altro
modo coinvolti nel traffico degli "encomi". Quando hanno provato a
ficcare il naso in quel che evidentemente non dovevano (i trasferimenti
sollecitati da Visco a Milano), Speciale - lo sappiamo - li ha denunciati alla
Procura militare per attentato ai poteri del comandante. Per difendere la
Democrazia o il Sistema?.
Negli anni Sessanta e
Settanta le famiglie italiane acquistavano beni e servizi per un 4-5% in
più ogni anno. Da allora la crescita dei consumi si è progressivamente
esaurita: 2,6% negli anni Ottanta, meno del 2% negli anni Novanta. Dal 2001 a
oggi i consumi delle famiglie sono rimasti sostanzialmente invariati. (Questi
dati sono calcolati pro capite, così che il rallentamento dei consumi
non possa essere attribuito al venir meno della crescita della popolazione). La
spesa delle famiglie rappresenta oltre i due terzi della domanda totale per i
beni e i servizi prodotti dalle nostre imprese: se essa non cresce è
difficile che la produzione si espanda. E infatti il rallentamento
dell'economia italiana ha seguito passo passo quello dei consumi. Ad esempio, a
poco è servito che lo scorso anno le esportazioni delle nostre imprese
aumentassero del 6%: la crescita dei consumi non ha raggiunto l'1,5% e così
è stato, sostanzialmente, per l'intera economia. Perché le famiglie
italiane hanno smesso di accrescere i loro consumi? "La spesa delle
famiglie è erosa dalle rendite, frenata dall'incertezza sull'esito di
riforme che toccano in profondità la loro vita", ha detto la scorsa
settimana il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi. L'analisi del
ministro della Solidarietà sociale, Paolo Ferrero (di Rifondazione
comunista), è più semplice: "Se salari e pensioni non
crescono come aspettarsi una crescita dei consumi?". Hanno ragione
entrambi: la stagnazione dei consumi è il sintomo di alcuni difetti
della nostra società e dell'incapacità della classe politica di
prendere decisioni. E' vero che i salari reali non crescono. In sei anni sono
aumentati solo del 3%, ma comunque più della produttività,
immutata dal 2001. Se non riprende la produttività, i salari reali non
possono crescere, a meno di mandare in malora le imprese. La
produttività dipende dall'innovazione e quindi dalla qualità del
capitale umano: se non si migliora la scuola non c'è speranza. Finché
eravamo un Paese di aziende manifatturiere l'istruzione era meno importante:
molti mestieri ? il saldatore di metalli, il falegname ? si imparavano
lavorando. Ma in un'economia di servizi senza una buona istruzione si è
perduti perché si rimane schiacciati in mestieri sottopagati. L'indagine
dell'Ocse sui livelli di apprendimento dei ragazzi quindicenni ("Problem
Solving for Tomorrow's World ") mostra non solo un ritardo delle scuole
italiane rispetto a quelle europee, ma anche un forte divario fra Nord e Sud,
anche a parità di voto scolastico. Un 4 in matematica in una scuola del
Nord mostra un livello di conoscenze superiori a un 7 in una scuola del Sud. Se
poi confrontiamo i quindicenni italiani con i loro colleghi europei, la
percentuale di coloro che ? posti di fronte a un problema relativamente
semplice, come decidere il percorso più efficiente in un viaggio che
deve toccare 6 città diverse ? ottengono un voto superiore a 592 (in una
scala da 0 a 750) sono il 30% in Finlandia, il 22% in Francia, Germania e nella
Repubblica Ceca, solo l'11% in Italia. E' vero che le pensioni sono basse: la
pensione media è di circa mille euro al mese. Ma come si possono pagare
pensioni più alte in un Paese in cui 16 milioni di pensionati sono
sostenuti da solo 24 milioni di lavoratori, quasi 7 pensionati per ogni dieci
lavoratori? Se non si lavora di più, è difficile pagare pensioni
più dignitose. Con una popolazione che invecchia il reddito delle
famiglie dipende sempre più dalle pensioni ma anche dal rendimento dei
risparmi accumulati in una vita. I risparmi delle famiglie italiane sono per lo
più investiti in attività finanziarie domestiche: meno del 20%
è investito in azioni e obbligazioni estere. Questo non è
sorprendente: la presenza di banche estere in Italia è trascurabile,
soprattutto nella gestione del risparmio, e le banche italiane sanno vendere
solo titoli italiani, talvolta, come nel caso delle obbligazioni Cirio e
Parmalat, per motivi inconfessabili. Ma se si investe in un Paese che non
cresce, difficilmente si otterranno buoni rendimenti. Il monopolio delle banche
italiane nel mercato del risparmio gestito non solo pone gravi problemi di
trasparenza, ma produce anche rendimenti bassi, che comprimono i consumi dei
molti anziani che vivono soprattutto di cedole. Nel 1998 il cancelliere
socialdemocratico Gerhard Schröder, appena eletto, cancellò la riforma
pensionistica che era stata introdotta dal suo predecessore
cristiano-democratico, Helmut Kohl, pochi mesi prima delle elezioni. Quella
riforma alzava l'età di pensionamento, riduceva le prestazioni,
aumentava i contributi, in una parola riduceva la ricchezza pensionistica delle
famiglie tedesche. La notizia che la "legge Kohl" era stata abrogata
avrebbe dovuto indurre le famiglie a risparmiare di meno perché i tagli alla
loro ricchezza pensionistica venivano cancellati. Tutt'altro: lo sconcerto e la
preoccupazione per un problema che si riteneva risolto e invece veniva
riaperto, indusse le famiglie tedesche a risparmiare di più.
Quell'episodio è all'origine della stagnazione dei consumi tedeschi che
dura da quasi un decennio. A Caserta, il 13 gennaio scorso, il presidente del
Consiglio, Romano Prodi, aveva promesso la riforma delle pensioni entro il 30
marzo. Siamo a giugno e ancora in alto mare. Questi ritardi e
l'incapacità del governo di decidere su questioni che toccano in
profondità la vita di tutti noi non hanno solo un effetto meccanico sui
conti pubblici. Preoccupano le famiglie e creano un clima di incertezza che,
come è accaduto in Germania, deprime i consumi e quindi la crescita.
Quasi tre lustri dopo Tangentopoli, in Italia il nodo gordiano tra
politica e giustizia è ben lungi dall’essere tagliato. Anzi:
Vallettopoli, i furbetti incarcerati e poi, ancora, la pubblicazione delle
intercettazioni alimentano il sospetto che l’agenda della politica sia sempre
più dettata o, quantomeno, condizionata dalle iniziative della
magistratura. Del resto, basta vedere gli ostacoli che incontra il
Guardasigilli Mastella nell’azzerare la riforma Castelli, il punto di frattura
più grave negli ultimi anni tra il potere legislativo e quello
giudiziario. Che fare, allora? Nella scorsa legislatura, il senatore di An Giuseppe
Valentino, penalista calabrese con studio a Roma, è stato
sottosegretario alla Giustizia. Sostiene Valentino: «Uno dei primi atti del
ministro Mastella è stato quello di “consegnarsi” all’Anm,
l’Associazione nazionale magistrati. Ricordo che in un’intervista a Repubblica,
il Guardasigilli sostanzialmente invitava i magistrati a tracciare le linee
politiche di una sorta di “controriforma”. È stato, però, un
tentativo meno semplice di quanto non si pensasse perché il capo dello Stato non
diede corso alle richieste di decreto legge ipotizzate dal governo al fine di
bloccare l’entrata in vigore della riforma dell’ordinamento giudiziario
realizzata durante il governo Berlusconi. Oggi nove decreti delegati su dieci
della riforma sono in vigore. Le uniche questioni aperte - proprio in questi
giorni in discussione al Senato - sono quelle della progressione in carriera e
dei limiti imposti al transito del magistrato dalla funzione requirente a
quella giudicante».
In pratica, il cuore della Castelli, tra l’altro frutto di un compromesso al
ribasso, visto che dalla separazione delle carriere fortemente voluta dalla Cdl
si passò a quelle delle funzioni. Continua Valentino: «Sì, anche
io ritengo che la scelta di separare le funzioni o meglio di prevedere
particolari condizioni per il transito del magistrato da una funzione
all’altra, sia stata una soluzione minima. In ogni caso alcune scelte non sono
più rinviabili perché è l’Europa a chiederci una grande opera di
modernizzazione dell’ordinamento giudiziario, è l’Europa a sollecitarci
la separazione delle carriere per realizzare sistemi più omogenei ed
è, soprattutto, l’articolo 111 della nostra Costituzione a reclamarlo
nel momento in cui sottolinea la terzietà del giudice: un soggetto
processuale distinto dalle parti in causa che non può appartenere,
quindi, allo stesso ordine giudiziario del pm».
Sull’attuazione però di queste modifiche radicali, e sui relativi tempi,
Valentino è lucidamente pessimista. Primo: perché adesso c’è una
maggioranza attestata sulle posizioni più conservatrici della
magistratura. La seconda ragione è, invece, più profonda e meno
contingente: «Le leggi non cambiano la mentalità, è necessaria,
dunque, una riflessione più ampia. Le riforme arrivano fino a un certo
punto. Questo perché aree della magistratura sono ormai convinte di dover
combattere una sorta di crociata, come dimostra il tentativo costante di alcuni
magistrati, da Mani Pulite in poi, di condizionare la politica. Omettono di
ricordare, però, che il loro compito è solo quello di applicare
la legge. Quanto accaduto durante il governo Berlusconi è esemplare: per
cinque anni vi è stata la percezione che la vera opposizione alla
maggioranza fosse la magistratura e non il centrosinistra. Si ha, così,
l’impressione di esser di fronte a una patologia del sistema dove l’agenda
politica è per molti versi scandita da iniziative giudiziarie, anche se
poi si risolvono in un nulla di fatto in una percentuale elevatissima di casi.
C’è bisogno di cambiare il passo, per fare della magistratura la vera,
autentica struttura delle garanzie fortemente volute dal cittadino. Per questo
motivo, occorre che la magistratura si apra di più alla società e
si confronti con essa. Una possibilità potrebbe essere costituita da
un’applicazione ampia dell’articolo 106 della Costituzione che prevede possano
essere chiamati all’ufficio di Consigliere di Cassazione giuristi non togati di
particolare livello. Culture costituitesi in contesti diversi contribuirebbero,
così, a vivacizzare e stimolare il dibattito in un prestigioso presidio
giudiziario dove nasce la giurisprudenza, fonte primaria del Diritto».
Ultima nota dolente, ultima in ordine di apparizione sui media, le
intercettazioni telefoniche. Valentino conosce molto bene il problema dal
momento che quand’era sottosegretario alla Giustizia aveva la delega
all’Informatica: «In Italia le intercettazioni assorbono gran parte delle
risorse del ministero della Giustizia, svariate centinaia di milioni di euro
l’anno. Un’enormità. Se avessimo fortemente condizionato la criminalità
in tutte le sue accezioni, capirei pure, ma, purtroppo, non è stato
così. Anzi. Ho la sensazione che l’uso delle intercettazioni, da qualche
tempo, abbia sostituito quello ormai usurato dei pentiti. Due strumenti
investigativi di indubbia efficacia che in molti casi, però,
rappresentano pericolose scorciatoie che, temo, possano “impigrire”
intellettualmente gli inquirenti. Peraltro, analoghe valutazioni ha svolto un
illustre magistrato torinese sostenendo che prima i pentiti e poi le intercettazioni
hanno, in certo senso, attenuato le capacità investigative dei
magistrati». Per quanto riguarda l’uso mediatico delle intercettazioni,
l’opinione di Valentino è netta. «In ogni caso, uso o abuso che sia,
l’intercettazione è atto di indagine funzionale al processo non al
diritto di cronaca. Eppoi l’ordinanza di custodia cautelare quando viene emessa
dal giudice per l’indagine preliminare non è ancora atto pubblico, né lo
diviene subito dopo la sua esecuzione. Per questo sono d’accordo con l’introduzione
di sanzioni adeguate per chi pubblichi questi documenti sottoposti ancora al
segreto istruttorio».
MILANO - Ci sono i
superstipendi "a incentivo demografico" del Pirellone, rimpolpati da
rimborsi chilometrici arrotondati (crepi l'avarizia) alla ventina superiore. Ci
sono le teche d'oro per gli orologi della Provincia di Milano e gli hovercraft
comprati (e mai usati) da Palazzo Marino. Ci sono i super-contratti garantiti
in Comune dal sindaco-manager (Letizia Moratti) ai compagni di cordata trombati
alle elezioni. Hai voglia a essere padano, a essere cresciuto nella cultura
dell'efficienza, magari lanciando anatemi contro "Roma Ladrona".
Davanti alle tentazioni della politica, tutto il mondo è paese. E anche i Lumbard, alla fine si
adeguano. A risparmiare qualcosa, a dire il vero, ci provano: la Regione
dà lavoro a 3.729 persone (di cui 297 dirigenti), il 6,7% in meno dal
2002 e il rapporto abitanti per dipendente (2.518) è il migliore
d'Italia. Così come il costo del personale del Comune di Milano (598
milioni nel 2005) è calato dell'1,5% dal picco del 2003. Per il resto
però la politica lombarda è uno specchio fedele di
quella del resto del Paese. Con gli stessi privilegi, gli stessi sprechi e le consulenze a pioggia che uniscono
l'Italia più della nazionale di calcio. Il costo del politico. L'Oscar
del privilegio va di diritto agli 80 consiglieri del Pirellone. Lo stipendio
(circa 10mila euro netti al mese tra indennità e diaria) è solo
una voce. Pari comunque al 100% della busta paga di un parlamentare per il
Governatore e al 75% per i presidenti di Commissione (sono "solo" 7,
molte meno delle 21 cui è arrivata la Campania). Tanto? Forse, ma non
per i diretti interessati che nell'estate 2002 si sono regalati il "premio
natalità": uno scatto del 2% dello stipendio per ogni milione di
abitanti della Lombardia oltre il primo. Tradotto in cifre (i 9 milioni di
lombardi) un aumento secco del 16%. Siamo però solo all'inizio. La vita
del Consigliere è dura. Qualcuno ad esempio viene da fuori Milano. Poco
male. Ha diritto al rimborso per il viaggio: 0,35 euro a km. per un massimo di
240 chilometri al dì a seconda del luogo di partenza (arrotondati ai 20
chilometri superiori, ad abundantiam) per un massimo di 18 giorni al mese. Poi
ci sono le trasferte istituzionali e le missioni. Certo da un po' di tempo a
questa parte si sono rarefatti i periodici viaggi (rigorosamente maschili,
pare) a San Pietroburgo, assistiti da una diaria da 464 euro al giorno. Ma le relazioni
internazionali e con Roma sono lo stesso frequenti. Prendiamo il Governatore
Roberto Formigoni, che per gli spostamenti in auto, stando alle delibere,
viaggia su una Bmw blindata (presa usata) in leasing per 272mila euro in due
anni. Nel 2005 ha fatto 21 missioni a Roma (per 41 giorni), un viaggio in Usa
(7 giorni) e una a Bruxelles (in giornata) per cui si è visto rimborsare
spese per 25mila euro (513 al giorno). Il suo ufficio di presidenza ha speso
per colazioni di lavoro, rappresentanza e omaggi istituzionali 73mila euro (292
euro a giorno feriale) oltre ad altri 19mila per ospitalità riunioni e
13mila in corone e necrologi. La vita da Consigliere, insomma, sarà
stressante ma ha i suoi privilegi. E anche la vecchiaia, per gradire, non
è un problema: dopo cinque anni di legislatura (anche meno se integra i
contributi) si ha diritto a un vitalizio pari al 20% dell'indennità di
funzione (1.500 euro circa al mese) dopo i 60 anni. Dopo 12 anni di lavoro in
Regione l'assegno sale oltre i 2.800 euro. I costi della politica. Il problema numero uno in Lombardia su
questo fronte, secondo il procuratore della Corte dei conti Domenico Spadaro,
è l'area grigia delle consulenze. Gli enti locali hanno conferito nel
2004 (ultimo dato disponibile) 45mila incarichi per 185 milioni, il 21% del
totale nazionale. Un mare magnum senza controlli. Anzi: in molti casi i
revisori di nomina pubblica hanno "applaudito" iniziative rivelatesi
poi "dannosissime per l'erario" (parole di Spadaro). Ci sono le consulenze
milionarie delle Asl, i 7 milioni pagati nel 2006 dalla Provincia rossa di
Filippo Penati, i 50 milioni di collaborazioni esterne di Palazzo Marino nel
2007. L'indotto della politica ha però confini più larghi
dei palazzi. Prendiamo le nomine negli enti e nelle fondazioni, strumento di
gestione del consenso spesso lautamente retribuito. La regione Lombardia
"sintetizza" le sue in un tomo di 322 pagine. Le partecipazioni
autostradali (Asam e Serravalle) di Penati sono al centro di una bufera per le
"pressioni politiche" sulla gestione. Ma le polemiche più
feroci sono quelle che hanno travolto il sindaco di Milano Letizia Moratti. In
nome dell'efficienza ha impostato una riorganizzazione del Comune che ha
portato da 13 a 22 le direzioni centrali (moltiplicando stipendi e poltrone) e
ha deliberato l'assunzione di 51 dirigenti esterni pagati 9 milioni annui.
Tutte iniziative finite sotto la lente di Procura e Corte di Conti. Il problema
non è solo la quantità, ma anche la qualità dei nuovi
manager. Per tre di loro lo stipendio comunale ? da 203 ai 217mila euro l'anno
? è stato lo zuccherino che ha reso meno amara la bocciatura elettorale.
Luca Concone ? 41enne ingegnere "che associa l'orientamento ai risultati
con la profondità di pensiero strategico", recita il suo curriculum
? è stato assunto a 244mila euro l'anno per l'area pianificazione.
Dimessosi dopo otto mesi è stato riciclato dalla Sea, quegli aeroporti
di Milano dove lo spoil system interno al centrodestra ha portato a liquidare
l'ex numero uno dell'era Albertini, Giuseppe Bencini, con una maxi-buonuscita
(pare 1,3 milioni). Dietro super-stipendi e consulenze d'oro c'è poi la
lunga teoria dei piccoli sprechi quotidiani. La casistica, volendo, sarebbe
lunga. Ci sono due hovercraft voluti dalla giunta Albertini per la Polizia (la
sicurezza dei milanesi non ha prezzo), usati per un'esibizione e poi
dimenticati. Ci sono 10 teche per proteggere gli orologi antichi della
Provincia costate 20mila euro. Ci sono gli assessori del Comune che appena
insediati, hanno ordinato costose ristrutturazioni dei loro uffici e bagni. O i
10mila euro stanziati (come preventivo, va detto) dalla Provincia per una
missione per due persone di una settimana a Cuba. Quattromila euro per il
viaggio e 6.000 per "spese minute". C'è persino la storia a
lieto fine: quella dei milioni stanziati per acquistare trattorini incaricati
di aspirare le feci dei cani milanesi. La giunta Albertini ne ha provato uno.
Funzionava male e non poteva operare sui marciapiedi. La commessa è
stata bloccata e il metabolismo dei quattrozampe meneghini è stato
affidato al buon senso e alle palette dei milanesi. La zavorra della macchina.
Patologie straordinarie e privilegi a parte, il vero "costo" della politica locale lombarda è quello
dell'inefficienza. Il Comune di Milano, ad esempio, assorbe il 29% del budget
(450 euro di spesa a cittadino) solo per funzionare. Meno del 43% di Napoli ma
se Palazzo Marino scendesse al livello di Torino (21,9%) libererebbe 120
milioni per investimenti utili alla collettività. Altro spreco, perlomeno
di tempo, è l'inattendibile e corposo bilancio preventivo. Per il 2005 a
Milano prevedeva 3,7 miliardi di investimenti e 2,2 di dismissioni. Il bilancio
reale, alle due voci, segna oggi 618 milioni di investimenti e 117 di cessioni.
Si possono tagliare queste spese? Può darsi, ma per ora gli enti locali
lombardi, invece che dimagrire, ingrassano. La neonata Provincia di Monza e
Brianza ha già provato a stendere un primo bilancio teorico: ci sono 124
milioni di entrate previste (tasse già esistenti) e 91 milioni di spese
(nuove di pacca). Oltre 65 milioni per il personale e la funzionalità
interna, solo 25 per investimenti sul territorio. Il classico doppione
mangia-soldi. Forse, alla fine, la soluzione è fare come la Provincia di
Varese. In bilancio tra le entrate, ha 7mila euro alla voce Casinò di
Campione. Magari è un affitto. Ma in fondo una puntata al tappeto verde,
viste le resistenze dei palazzi, è forse la soluzione più
razionale per far quadrare i conti (e i costi) della politica.
"Sono d'accordo
con il "compagno" Laus. D'altronde la prima idea di ridurre le
circoscrizioni da 10 a 5 fu mia. Ne avevamo già discusso nella scorsa
legislatura: sarebbe un modo per dare più potere e aumentare
l'efficienza di questi enti. Fosse per me potrei arrivare a soluzioni
più radicali, modello Barcellona, ma il percorso sarebbe lungo". Il
sindaco Chiamparino, nonostante ieri i presidenti delle sue circoscrizioni
abbiano masticato parecchio amaro leggendo che cosa pensa il leader dei Dl
cittadini Laus sull'amministrazione delle medesime (troppi sprechi) gli dà ragione su un fatto: dieci
quartieri sono troppi, la politica del decentramento va rivoluzionata. Lo
dice al termine di un pomeriggio scandito da una levata di scudi, sottoscritta
anche da parecchi rappresentanti della sua maggioranza. Una su tutti, Paola
Bragantini, segreteria provinciale dei Ds, che avvisa: "La questione dei costi della politica non è una specie di patata bollente che gli enti si
possono passare l'un l'altro, cercando di lasciarla nelle mani del più
debole". Mentre Chieppa del Pdci aggiunge: "Mauro Laus ha compiuto un
errore clamoroso. Le circoscrizioni rappresentano il livello istituzionale
più a contatto dei cittadini e dovrebbero assumere sempre più
competenze". Più sfumata la posizione di un comunicato congiunto,
sottoscritto da Rifondazione, Sinistra democratica, Pdci, Rnp, Verdi:
"Convochiamo al più presto un vertice di maggioranza sul
decentramento". Una cosa è certa: il sasso scagliato nello stagno
dei costi della politica, partendo "dall'esercito di stipendi delle
circoscrizioni" per mano di Laus (condivisa dal consigliere comunale Salvatore
Gandolfo) ha scatenato una specie di tsunami. E la forza che accompagna la
polemica è inversamente proporzionale alla grandezza dell'ente che
colpisce: lo stagno, appunto delle circoscrizioni, mica il mare magnum dei
Consigli regionali e comunali. Piccolo bersaglio (anche se i 10 quartieri,
insieme, amministrano ben 12 milioni di euro l'anno) che scatena le reazioni
indignate dei loro presidenti al capitolo "guadagni&sprechi ". Il primo a sfogarsi sul tema
è il "presidente dei presidenti" Michele Paolino, responsabile
della circoscrizione 3 (Margherita anche lui, oltretutto): "Non è
vero che portiamo a casa 5000 euro lordi, ma 3300 e di quei 3300 ce ne restano
in tasca, a noi presidenti, al massimo 2474 di cui paghiamo altre tasse - si
sfoga Paolino -, un consigliere invece al top dei gettoni arriva a guadagnare
1100 euro lordi, e le assicuro, ne restano al massimo 600 netti. Basta scorrere
la legge per scoprire queste cifre. E poi va aggiunto che non abbiamo nemmeno
una possibilità di fare una nota spese: se io le offro un caffè,
insomma, devo farlo di tasca mia, come anche nel caso in cui voglia comprarmi
dei quotidiani per sapere che cosa accade nel mio quartiere". Se invece si
vuol parlare di inutilità dell'ente allora Paolino (come molti dei suoi
colleghi: ieri siamo riusciti a sentirne 7 su 10) si scalda ancora di
più: "Siamo la realtà più vicina alla gente, da
quando c'è stato lo scandalo geometri va detto che noi ci occupiamo
della manutenzione ordinaria e non abbiamo mai abbastanza fondi per riuscirci".
Anche An, alla voce guadagni, ha qualcosa da ridire: "Ho cominciato a fare
il consigliere di circoscrizione da pensionato delle Poste - spiega Antonio
Pasquarella consigliere della circoscrizione 5 - la mia aliquota fiscale
è aumentata e, colpo di scena, il partito mi ha chiesto anche il 50% dei
gettoni da me percepiti. Dopo aver pagato il partito, le tasse, il
commercialista, la benzina, il telefonino, i volantini e i manifesti, forse e
dico forse, mi restano in tasca solo 50 euro al mese...".
Tutti one-man-show: si
riuniscono, discutono, propongono, dissentono. In perfetta solitudine. È
ininfluente il fatto che, oltre agli 8mila euro lordi al mese come consiglieri,
ne intascano altri 2mila per questa funzione. E in più: ognuno ha un
ufficio, i finanziamenti previsti per i gruppi, personale di segreteria.
Così, dopo l'Umbria, anche in Abruzzo si fa strada l'idea di dare una sforbiciata
a questa manna, via referendum. "L'ufficio legale della Regione ha dato
parere favorevole" dice Pio Ravagnà, ex parlamentare (eletto nel
'92 nelle Liste Pannella) e portavoce del comitato promotore: "Ora si
devono attendere i tempi dell'Ufficio di presidenza del consiglio regionale:
perché a norma di statuto sono i consiglieri regionali a decidere
sull'ammissibilità della consultazione sui loro privilegi".
L'inizio della raccolta di firme è previsto a metà giugno. Il fatto
è che se a livello nazionale si predica bene (con piano di governo per
ridurre i costi di Comuni, Province, Regioni e studi per
abolire le Comunità montane), a livello locale si razzola meno bene. In
Umbria il presidente ds, Maria Rita Lorenzetti, ha fatto slittare tre volte in due
anni la data del referendum. E in Abruzzo il governatore Ottaviano Del Turco,
appena passato al Partito democratico? "Non ha detto una sola parola"
affonda Ravagnà. Che aggiunge: "Per tagliare i privilegi dei
consiglieri regionali, di referendum ce ne vorrebbero 12. Tanti quanti le voci
che compongono gli emolumenti". Intanto si comincia con tre. Tre quesiti
referendari. Il primo chiede di abolire l'articolo relativo alle cosiddette
"indennità aggiuntive". Dai 3mila euro "aggiuntivi"
al mese per i presidenti di giunta, consiglio, commissioni. Ai 2mila dei
capigruppo (più rimborsi spese, diaria, gettoni di presenza eccetera).
Il secondo quesito cancella il vitalizio - le pensioni dei consiglieri: da
3.500 euro al mese con un mandato, fino a 6mila per più mandati - e gli
assegni di reversibilità per vedove e orfani. Il terzo quesito è
il più dirompente. Vuole azzerare gli "organi di vertice degli enti
strumentali". Vale a dire le nomine politiche dei consigli d'amministrazione
negli enti per la portualità, consorzi di bonifica, agenzie per la
cultura o la sanità, l'ambiente, l'acqua, i rifiuti. Sono 3mila persone
che in Abruzzo vivono di politica. "Al di là degli annunci
roboanti - commenta Pio Ravagnà - i politici cercano in tutti i modi di ignorare
il referendum". C'è da stupirsi?
Al momento in cui
scrivo (ore 16 dell'1 giugno) le risposte positive al cosiddetto "decalogo
per il Palazzo" lanciato da Repubblica (24/5), assommavano a 150.197, un
livello tra i più considerevoli per questo tipo di iniziative su web.
Ringrazio di cuore tutti i lettori che hanno compreso il senso di quella che ha
voluto essere una provocazione positiva nei confronti dei dirigenti di centro
sinistra. Analogo valore ha la verifica successiva sul candidato preferito per
la guida del futuro partito unificato che vede di gran lunga in testa Walter
Veltroni (col 47% delle preferenze) seguito a molta distanza da Anna
Finocchiaro col 10% e dagli altri papabili con percentuali ad una sola cifra.
Non si tratta, è vero, di sondaggi, elaborati in base a tecniche
demografiche, sociologiche e di campionatura precise, così da riflettere
con un alto grado di approssimazione, le scelte dell'assieme dei cittadini, ma
di un termometro per saggiare il grado di reattività politica di quanti si riconoscono nel profilo del
nostro giornale. Il fatto che in così gran numero abbiano voluto far
sentire la propria volontà in ambedue i test assume, peraltro, un valore
tutt'altro che trascurabile per percepire in presa diretta l'orientamento di
una aliquota molto corposa di uno strato qualificato di cittadini - in grande
maggioranza di centro sinistra - rappresentata dai lettori di Repubblica. Per
questo il fatto che i maggiorenti della nomenklatura, in primo luogo i
cosiddetti 45 saggi del costituendo partito democratico, mostrino di non tenere
in alcun conto le propensioni espresse da un'avanguardia significativa del loro
elettorato, comprova l'involuzione autoreferenziale di un gruppo dirigente
refrattario a una seria analisi critica del proprio operato. Un gruppo, dunque,
assai restìo ad affidare al vento della democrazia la spinta propulsiva
per far decollare con forza il partito democratico. Di qui il rifiuto delle
primarie, in cui i leader dovrebbero gareggiare, confrontarsi e trarre dal voto
diretto di tutti gli aderenti la legittimazione a guidare il partito. Premessa
ad un'altra tornata di primarie in cui siano gli elettori di centro sinistra a
scegliere il candidato premier. Il successo del Decalogo, peraltro, induce a
qualche altra riflessione. In primo luogo vorrei dire che quello che è
stato definito semplicisticamente lo tsunami dei "costi della politica" genera alcuni dubbi. Da un lato, più che propiziare
la riforma indispensabile della politica, può alimentare con nuovi flussi il bacino già
esteso dell'anti politica. Dall'altro si presta fin troppo ad
innescare dibattiti ripetitivi, anche se speziati da ripetuti talk show e
accompagnati da finte indignazioni ed ipocriti buoni propositi. Alla fine tutto
potrebbe concludersi con qualche taglio di auto blu e una modesta limitazione
di remunerazioni di vertice. Bisognerebbe, per contro, tenere ben fermo che il
problema dei costi e dei privilegi esiste, ma, soprattutto,
che la dilapidazione va misurata dal rapporto squilibrato fra i costi della politica e la sua inefficienza (se volessimo usare un linguaggio economico
dovremmo parlare di caduta verticale di produttività). E', quindi, la
struttura del potere che va riformata se vogliamo rimettere in riga l'efficienza
del sistema e la sua efficacia. Per questo al centro del "decalogo"
sono stati inseriti una serie di quesiti che sottolineavano l'abnorme crescita
delle cariche elettive stipendiate, del numero di ministri, consiglieri
regionali, provinciali, comunali, ecc., l'occupazione partitica di gran parte
della pubblica amministrazione o, quantomeno, la necessità di
"targarsi" politicamente per ogni dirigente, la creazione di migliaia
di enti inutili su scala regionale e locale, veri e propri uffici di collocamento
politico a spese dei contribuenti. I lettori, chiamati a scegliere tre
questioni su dieci hanno per il 23% votato per una riduzione drastica dei
privilegi dei parlamentari, per il 20% per la riduzione di un terzo dei
consiglieri regionali e locali, per il 15% per un cambio radicale della squadra
di governo e il taglio dei suoi membri da 104 a 60. Al quarto posto, col 12%
dei voti, si piazza l'abolizione dei finanziamenti diretti ai consiglieri
regionali, la censita e il taglio degli enti inutili. Dalla qualità
delle preferenze adottate si intuisce una scelta consapevole per colpire sia i
privilegi e gli sprechi, quanto le inefficienze strutturali. Resta il quesito
se i registi del partito democratico lo capiranno o continueranno a discettare
se ci vuole un segretario, un coordinatore o un semplice portavoce, agitandosi
vanamente come mosche chiuse in una bottiglia.
Sul tema dei costi e dei privilegi della politica, e più in generale sulla questione morale,
abbiamo già scritto in passato. In questi anni la situazione è
certamente e ulteriormente peggiorata a tutti i livelli e forse anche i
risultati delle recenti amministrative trovano una parziale spiegazione in
questo argomento. Perciò, a nostro avviso, non è più il
tempo delle denunce, bensì di cercare di avanzare proposte credibili per
riuscire a dare un contributo a quella parte della politica che può essere riformata. L'aspetto
positivo di questa situazione è che sempre più spesso i
cittadini, alle volte anche in maniera confusa e su questioni localistiche, si
auto-organizzano autonomamente non avendo più fiducia nelle istituzioni
e nella politica. Gruppi che andrebbero, per quanto
possibile, "recuperati" alla politica con la p maiuscola. Sicuramente la crisi della politica non è determinata solamente e
unicamente dai suoi costi e dai privilegi che produce. Pesa
senz'altro la caduta di ideologie e valori forti, anche contrapposti. Ma
sicuramente, anche rimanendo al solo fronte privilegi-costi della politica, molto si può e si deve fare da subito. Questo è un
compito che da subito le forze di sinistra debbono assumersi in prima persona.
La destra, infatti, può pensare di ben vivere e svilupparsi in un
contesto di "antipolitica", in cui regnino il qualunquismo e la
diffidenza verso i meccanismi democratici di partecipazione e decisione. La
sinistra in un clima di questo tipo, invece, è destinata alla sconfitta,
soffre la disillusione dei suoi militanti ed elettori che vogliono contare,
poter dire la loro e soprattutto essere ascoltati. Deludere ancora le attese
degli elettori di sinistra, accrescere le distanze tra i palazzi e i cittadini,
non è difficile da ipotizzare, porterebbe a una sicura sconfitta
elettorale del governo di centro-sinistra. È giunto il tempo di lanciare
proposte concrete: abolizione di tutti i privilegi degli eletti in materia
pensionistica, riduzione di stipendi e indennità, trasparenza nei
contributi e nei finanziamenti di partiti e testate giornalistiche di partito, riduzioni delle consulenze a
titolo oneroso, retroattività di queste disposizioni, abolizione delle
Province, accorpamenti dei Comuni, gratuità della carica di consigliere
di circoscrizione, eccetera. In questo senso un primo passo è stato
fatto dalla proposta di legge presentata dai parlamentari Salvi e Spini.
Naturalmente neppure questi provvedimenti possono essere risolutivi se non
accompagnati da un radicale cambiamento del modo di fare politica che privilegi i contenuti e la
partecipazione e che sappia respingere i richiami dei poteri forti e delle
varie lobby che perseguono interessi personali o di parte. Riuscirà la
sinistra del terzo millennio a proporre un orizzonte credibile per lo sviluppo
del nostro paese nel rispetto dell'ambiente e dei diritti di tutti i cittadini?
Dipenderà dalla passione politica che sapremo mettere in campo, dalla capacità
d'incontrarci, discutere, confrontarci. Questione morale, temi del lavoro e
dell'ambiente, del sapere e della ricerca, assieme alla riduzione dei costi della politica, possono essere un buon inizio per ridare cuore, ragione,
passione e autorevolezza alla politica. Una nuova e rinnovata sinistra in campo che non urla le sue
verità, che non può né oggi né domani essere avversaria del
Partito democratico ma suo leale alleato, con idee e programmi di rinnovamento
di stampo europeo.
CHIETI. I costi della politica a Chieti? Stratosferici. E' il giudizio espresso da Giustino
Zulli (nella foto) che propone una cura per evitare che "processi
involutivi abbiano la meglio" in città. Nel 2006, il Comune ha
speso circa un milione di euro per far funzionare la macchina amministrativa.
"La democrazia ha un suo costo di cui tutti i cittadini dovrebbero tener
conto", dice l'ex segretario generale della Cgil teatina, "ma se si
fa il rapporto costi-benefici, a Chieti non è alto ma
stratosferico". Cosa fare per cambiare le cose? "Prima di
tutto", sostiene Zulli, "bisognerebbe ridurre gli assessorati: nella
precedente gestione delle destre erano otto. Per ora siamo arrivati a 11 e
sembra che, per qualcuno, non bastino. Inoltre, bisognerà ridurre, a partire
dalla prossima legislatura, il numero dei consiglieri comunali a 30 e le
indennità per tutte le cariche come hanno già fatto molte
amministrazioni". Per Zulli, la riduzione dei costi della politica è possibile, basta solo volerlo. "La riduzione del
numero dei consiglieri e assessori", riprende, "dovrebbe essere
bilanciata dalla costituzione dei consigli di quartiere da prevedere senza
indennità. Un altro problema ruguarda i doppi incarichi: se uno è
contemporaneamente sindaco e consigliere provinciale, senatore o deputato e
consigliere comunale, segretaria regionale di partito e consigliere regionale,
vice sindaco e componente degli organismi dirigenti di partito, potrebbe non
trovare il tempo necessario per onorare al meglio tutte le
responsabilità".
Gli italiani infatti
spendono mediamente 182 euro l'anno per usufruire dei servizi di conto corrente
offerti dagli istituti creditizi nazionali. Ben 101 euro in più rispetto
ai principali Paesi europei. È quanto riportato ieri da un'inchiesta del
Sole 24 Ore in cui vengono evidenziate luci e ombre del sistema bancario
italiano. In Germania si spende mediamente il 17% in meno, in Olanda il
risparmio arriva addirittura all'83 per cento. Una situazione allarmante che
è stata evidenziata in questi giorni dallo stesso governatore della
Banca d'Italia, Mario Draghi, il quale ha invitato anche a una maggiore
trasparenza. Infatti secondo un'indagine condotta dall'Autorità non
esiste una prassi che indichi la redazione di un documento sintetico dei costi
delle operazioni bancarie: il 66,6% dei fogli informativi esaminati non riporta
i costi dei bonifici, il 31,9% quelli del bancomat, il 57% glissa sui costi per
la carta di credito e il 46,3% sul costo degli assegni. Il Fmi ha concluso che
in Italia le banche operano ancora in un regime di concorrenza monopolistica,
mantengono alti i costi perché sanno che non perderanno tutti i clienti.
Nonostante la ristrutturazione, conclude il Fmi, i recuperi di efficienza non
si sono del tutto concretizzati. Nel 2004, infatti, commissioni e canoni
valevano un quinto delle prime 50 banche, quattro volte il valore relativo agli
Stati Uniti. Le banche si giustificano sostenendo di sopportare un'elevata
aliquota fiscale, superiore del 6,85% rispetto alla media Ue.
Uno dei motivi che
paralizzano da tempo i rapporti fra l'Unione europea e la Russia - e hanno per esempio
impedito di mettere a punto un nuovo trattato di cooperazione, che agli europei
affamati di energia servirebbe moltissimo - è il rifiuto di Mosca
all'importazione di carne polacca, finché non ci saranno garanzie di
qualità che secondo i russi attualmente non ci sono. In breve, il
Cremlino sostiene che nelle partite di carne importate dalla Polonia e
"certificate Ue" è stata riscontrata la frequente presenza di
partite avariate e, fatto potenzialmente ancor più grave, di partite
provenienti da paesi extra-Ue, prive di qualsiasi certificazione e riesportate
semplicemente aggiungendo un timbro. Per le autorità polacche, quella di
Mosca è una "ritorsione politica" con cui il governo russo
pensa di "punire" la Polonia per altre vicende bilaterali che qui non
stiamo a vagliare; essendo la Polonia un membro a pieno titolo della Ue,
quest'ultima ha ritenuto di doverla difendere in ogni caso, senza neanche
provare a considerare il punto di vista russo: così, nei suoi recenti
colloqui moscoviti e poi nel fallito summit Ue-Russia della settimana scorsa a
Samara, il presidente della Commissione Barroso ha affermato con sicurezza che
"la carne polacca risponde agli elevati standard qualitativi dell'Unione
europea e non c'è nessun motivo per rifiutarla". Meno sicura di sé
è apparsa la cancelliera tedesca Angela Merkel, che finora ha evitato di
affrontare in modo troppo diretto l'argomento: il fatto è che di recente
la carne polacca è stata respinta al mittente anche dall'amministrazione
municipale di Moabit (una delle municipalità della grande Berlino), con
motivazioni del tutto analoghe a quelle avanzate dai servizi sanitari dello
stato russo. La notizia è arrivata a Vladimir Putin, che con un largo
sorriso ha detto ai giornalisti: "Vedete come stanno le cose? Ma comunque
state tranquilli: quando sarò ospite della signora Merkel, nella cena
dei G8 ad Heiligendamm, non andrò a dirle 'dunque lei rifiuta di
mangiare la carne che vuole far mangiare a me?'. Non sono così
maleducato". Forse a tavola no, ma non scommetteremmo sul fatto che in un
modo o nell'altro il presidente russo questa storia non la sollevi più.
La vicenda potrebbe essere divertente, se non mostrasse due problemi tutt'altro
che buffi, sui quali forse in Italia non ci si interroga abbastanza, e cioè:
a) che in realtà l'Europa, espandendosi all'est, ha inglobato dentro di
sé, senza nemmeno rendersene conto, delle tensioni molto serie che ora
rischiano di paralizzare la sua stessa crescita; b) che la decantata sicurezza
igienico-alimentare garantita dalle normative elaborate a Bruxelles - le stesse
che hanno messo al bando tanti meravigliosi prodotti artigianali - alla resa
dei conti non è poi tanto garantita, se basta trovarsi in una
"marca di confine" per essere di fatto autorizzati a traffici
pericolosi e disonesti, altrimenti inammissibili.
Il Manifesto 2-6-2007
L'intervento Lo Scudo in Europa è una mossa di guerra Noam Chomsky
La
Repubblica 3-6-2007 LA DESTRA GIACOBINA A PASSO DI CARICA Eugenio Scalari
La
Repubblica 3-6-2007 IL PERSONAGGIO La raffica di nomine del generale rimosso
CARLO BONINI
L’Unità
2-6-2007 Io dico: avanti Ds Alfredo Reichlin
La
Stampa 2-6-2007 Bush, scommesse romane MAURIZIO
MOLINARI
L'installazione di un sistema di difesa missilistica in Europa
orientale è praticamente una dichiarazione di guerra. Provate a
immaginare come reagirebbe l'America se la Russia, la Cina, l'Iran o qualunque
potenza straniera osasse anche solo pensare di collocare un sistema di difesa
missilistica sui confini degli Stati uniti o nelle loro vicinanze, o
addirittura portasse avanti questo piano. In tali inimmaginabili circostanze,
una violenta reazione americana sarebbe non solo quasi certa, ma anche comprensibile,
per ragioni semplici e chiare. E' universalmente noto che la difesa
missilistica è un'arma di primo colpo. Autorevoli analisti militari
americani la descrivono così: "Non solo uno scudo, ma
un'abilitazione all'azione". Essa "faciliterà un'applicazione
più efficace della potenza militare degli Stati uniti all'estero".
"Isolando il paese dalle rappresaglie, la difesa missilistica
garantirà la capacità e la disponibilità degli Stati uniti
a "modellare" l'ambiente in altre parti del mondo". "La
difesa missilistica non serve a proteggere l'America. E' uno strumento per il
dominio globale". "La difesa missilistica serve a conservare la
capacità americana di esercitare il potere all'estero. Non riguarda la
difesa; è un'arma di offesa e è per questo che ne abbiamo
bisogno". Tutte queste citazioni vengono da autorevoli fonti liberali
appartenenti alla tendenza dominante, che vorrebbero sviluppare il sistema e
collocarlo agli estremi limiti del dominio globale degli Stati uniti. La logica
è semplice e facile da capire: un sistema di difesa missilistica
funzionante informa i potenziali obiettivi che "vi attaccheremo se ci va e
voi non sarete in grado di rispondere, quindi non potrete impedircelo".
Stanno vendendo il sistema agli europei come una difesa contro i missili
iraniani. Se anche l'Iran avesse armi nucleari e missili a lunga gittata, le
probabilità che le usi per attaccare l'Europa sono inferiori a quelle
che l'Europa venga colpita da un asteroide. Se dunque si trattasse davvero di
difesa, la Repubblica Ceca dovrebbe installare un sistema per difendersi dagli
asteroidi. Se l'Iran desse anche il minimo segno di voler fare una simile
mossa, il paese verrebbe vaporizzato. Il sistema è davvero puntato
contro l'Iran, ma come arma di primo colpo. Fa parte delle crescenti minacce
americane di attaccare l'Iran, minacce che costituiscono di per sé una grave
violazione della Carta delle Nazioni unite, sebbene questo tema non emerga.
Quando Mikhail Gorbaciov permise alla Germania unita di far parte di
un'alleanza militare ostile, accettò una grave minaccia alla sicurezza
della Russia, per ragioni troppo note per rivederle ora. In cambio il governo
degli Stati uniti si impegnò a non allargare la Nato a est. Questo
impegno è stato violato qualche anno più tardi, suscitando pochi
commenti in Occidente, ma aumentando il pericolo di uno scontro militare. La
cosiddetta difesa missilistica aumenta il rischio che scoppi una guerra. La
"difesa" consiste nell'aumentare le minacce di aggressione in Medio
Oriente, con conseguenze incalcolabili, e il pericolo di una guerra nucleare
definitiva. Oltre mezzo secolo fa, Bertrand Russell e Alfred Einstein
lanciarono un appello ai popoli del mondo perché affrontassero il fatto che ci
troviamo di fronte a una scelta "netta, terribile e inevitabile. Dobbiamo
porre fine alla razza umana, o l'umanità è disposta a rinunciare
alla guerra?". Accettare il cosiddetto "sistema di difesa
missilistica" colloca la scelta a favore della fine della razza umana in
un futuro non troppo distante.
La crisi della politica è anche,
più propriamente, crisi della democrazia? Direi di sì.
La democrazia non sta progredendo, sta retrocedendo. E se non funziona non
è perché sia superata (da una fantomatica post democrazia), ma perché
l'abbiamo sciupata. Benjamin Franklin, uno dei costituenti di Filadelfia,
rispose così alla domanda su cosa la Convenzione avesse partorito: «Una
repubblica, se sarete capaci di mantenerla». Appunto: se sarete capaci di
tenerla in vita. Uno dei principi fondamentali di qualsiasi organizzazione — e
anche la democrazia lo è — è di saper premiare e di poter punire.
Se una organizzazione contiene sacche di impunibilità, queste sacche
diventano lestamente aree di inefficienza e di parassitismo. Pertanto una
democrazia che diventa una «repubblica degli impuniti» è sicuramente una
pessima democrazia. E l'Italia sopravanza tutte le tradizionali democrazie
occidentali nell'essere caratterizzata dal premiare chi non merita premi (nel
settore pubblico le promozioni sono per lo più automatiche) e dal
proteggere chi invece merita castighi. Tempo fa Pietro Ichino ha osato chiedere
su queste colonne che gli statali «fannulloni» vengano licenziati o comunque
puniti. Ma a tutt'oggi non mi risulta che nemmeno uno degli assenteisti di
professione sia stato licenziato o che nemmeno uno dei fannulloni sia stato
punito. E' normale che i sindacati proteggano l'occupazione.
Ma è nocivo per tutti, e iniquo,
che proteggano il cattivo lavoratore a danno del buon lavoratore disoccupato.
Ma torniamo alla democrazia e veniamo al caso specifico dei politici, di chi
gestisce la democrazia. Domanda: i nostri eletti in Parlamento sono punibili?
Nella teoria della democrazia rappresentativa la punizione è la non
rielezione: gli elettori scontenti del candidato o del partito per il quale
hanno votato si vendicano cambiando voto. Questa sanzione in passato era efficace.
Non lo è più. E questo è il problema. La «casta»
magistralmente raffigurata da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo fa soltanto
finta, il più delle volte, di servire l'interesse pubblico. In
realtà il «politico gentiluomo» è pressoché sparito, sostituito
dal politico che «fa per sé», soltanto per sé e per la poltrona. Il che
equivale a dire che il movente che più lo muove è la propria
rielezione. E siccome siamo arrivati a un sistema elettorale senza preferenze
che sottopone all'elettorato soltanto due listoni preconfezionati, a questo
punto l'elettorato è impotente. Può soltanto scegliere tra una
coalizione di destra oppure di sinistra; ma così non ha alcun modo di
punire o premiare uno specifico partito o persona. E meno democrazia
(elettorale) di così si muore. Il rimedio ci sarebbe: vietare la
rielezione consecutiva, il che implica che viene consentita a intervallo.
L'idea non è balzana perché è anche stata, seppur raramente,
attuata. E anche se si presta a obiezioni, i vantaggi ne superano i difetti.
Primo vantaggio: rende inutile l'elettoralismo acchiappa- voti. Chi promette
mari e monti promette senza tornaconto. Secondo vantaggio: così apriamo
davvero le porte al rinnovamento della classe politica. I nuovi entranti non
saranno tutti nuovi, perché ci saranno sempre dei rientranti delle penultime
elezioni; ma questo è un riequilibrio positivo. Non mi faccio illusioni.
La proposta verrà seppellita dal silenzio oppure da acutissimi strilli
di dolore. Serve però a mostrare che, volendo, i rimedi esistono.
Appunto, volendo.
02 giugno 2007
La maionese è impazzita.
Quando avviene questo incidente culinario (e può accadere anche se le
uova sono fresche di giornata) non c'è che buttarne il contenuto e
ricominciare pazientemente da capo. Un'altra immagine dello stesso fenomeno che
ho usato qualche mese fa è quella dello specchio rotto. Lo specchio
è uno strumento che serve a riflettere l'immagine. Se si rompe in tanti
frammenti l'immagine non c'è più e sopraggiunge una sorta di
cecità, sia che si tratti d'un soggetto individuale sia ? peggio ancora
? d'un soggetto collettivo. Ma nel caso nostro, voglio dire nella
società italiana, nelle forze politiche e sociali che ne sono parti
rilevanti, nella classe dirigente che dovrebbe guidarla ed esserne punto di
riferimento e di esempio, non ci sono più nemmeno i frammenti di quello
specchio. Si direbbe che un cingolato ci sia passato sopra e l'abbia
polverizzato. Così si procede a tentoni, animati solo dall'istinto di
sopravvivenza, dagli spiriti animali, dalla psicologia del branco, dai legami
corporativi. La razionalità non fa più parte del nostro bagaglio
intellettuale e morale. è stata picconata da tutte le parti la
razionalità; accusata di essere all'origine dei delitti e del più
grave tra tutti ? quello della superbia. Così la luce della ragione
è stata spenta, nuove ideologie si sono installate al posto di quelle
crollate in rovina, fondamentalismi d'ogni tipo hanno preso il posto della
tolleranza e della certezza del diritto. I circuiti mediatici hanno dato mano a
questa devastazione e salvo rarissime eccezioni ancora continuano in questa
funzione amplificatoria e istigatrice del peggio, accreditando e ventilando
versioni dei fatti prive di verità e di ragione. Questo complesso di
circostanze ha toccato il suo culmine nel conflitto in atto tra il governo e il
generale comandante della Guardia di finanza, Roberto Speciale. Un conflitto
certamente grave perché motivato da ragioni tutt'altro che futili, ma che sta
coinvolgendo le massime istituzioni repubblicane in un contesto, appunto, di
impazzimento generale sapientemente alimentato da una psicologia del tanto
peggio tanto meglio che ha ora raggiunto livelli mai visti prima. Ci occuperemo
dunque di questa incredibile vicenda cercando di chiarirne gli elementi di
fatto con la massima obiettività possibile in questi chiari di luna. Non
senza avvertire che essa è soltanto l'ultimo episodio d'una serie che
costella da anni il costume nazionale gettando nello sconforto tutte le persone
di buona fede e di buona volontà che costituiscono ancora la maggioranza
del Paese e assistono impotenti e senza voce allo scempio della ragione.
Sarò conciso
nel rievocare fatti già noti ma spesso trascurati o volutamente
stravolti. E comincio dalla fine, cioè da quanto è avvenuto ieri,
2 giugno, festa della Repubblica. La giornata è cominciata malissimo. A
Roma nella tribuna dalla quale le autorità dello Stato assistevano alla
parata delle Forze armate mentre sfilavano i vari corpi, le storiche bandiere
dei reggimenti con i medaglieri guadagnati sui campi di battaglia e nelle rischiose
missioni di pace, andava in scena una lite continua e sommamente disdicevole
tra i rappresentanti dei due schieramenti politici, seduti alle spalle del
presidente della Repubblica. Poco dopo il capo dell'opposizione, Silvio
Berlusconi, interrogato dai giornalisti sull'intenzione di chiedere udienza al
Capo dello Stato per rappresentargli una situazione definita di "attentato
alla democrazia" da lui e da tutti gli altri componenti del centrodestra,
rispondeva: "Quella visita al Quirinale sarebbe nei nostri desideri, ma
purtroppo non c'è più nessuna istituzione che ci dia garanzie
d'indipendenza: la sinistra le ha occupate tutte". Affermazione della
quale è superfluo segnalare la gravità e che, pronunciata da chi
ha guidato il governo per cinque anni e da un anno guida l'opposizione, segnala
- essa sì - un degrado democratico che colpisce il presidente della
Repubblica in prima persona e il suo ruolo di massima garanzia. Prodi dal canto
suo, nel corso di un drammatico Consiglio dei ministri avvenuto il giorno prima,
di fronte alle reiterate divisioni sull'uso delle risorse disponibili, aveva
detto: "Se si continua così io me ne vado, ma non vi illudete
pensando a soluzioni dopo di me perché dopo di me ci sono soltanto le
elezioni". Si può capire il perché di questa affermazione, volta a
richiamare all'ordine gli alleati riottosi, ma non toglie che si tratti d'una
forzatura poiché non spetta a Prodi stabilire che cosa potrebbe avvenire dopo
le sue eventuali dimissioni; spetta soltanto al Capo dello Stato dopo che abbia
consultato i gruppi parlamentari. Quanto a Napolitano, egli ha più volte
ripetuto che non intende sciogliere le Camere con la vigente legge elettorale
che le rende ingovernabili e comunque senza prima aver accertato l'esistenza o
meno d'una maggioranza parlamentare che possa dare fiducia ad un governo
istituzionale insediato per formulare una nuova legge elettorale e adempiere ai
compiti urgenti che incombono sulle materie dell'economia, della finanza
pubblica e della sicurezza nazionale. Infine lo stesso Napolitano ha dichiarato
che il tema della Guardia di Finanza e della rimozione del suo comandante
generale esulano dalle sue competenze. In quelle stesse ore, nel corso d'un
convegno dei giovani industriali a Santa Margherita, Gianfranco Fini insultava pesantemente
il ministro dell'Industria, Bersani, ottenendo dalla platea un'ovazione da
curva sud dello stesso tipo di quelle ottenute da Berlusconi a Vicenza alcuni
mesi fa sotto lo sguardo allora allibito di Montezemolo e del vertice della
Confindustria. Spettacolo preoccupante, quello di Santa Margherita; non perché
gli industriali non possano applaudire un uomo di partito che esprime le sue
idee, ma perché quell'uomo di partito è lo stesso che ha condiviso
quella politica che ha portato il reddito nazionale a crescita zero, il debito
pubblico a risalire, l'avanzo primario del bilancio a scomparire, la pressione
fiscale ai suoi massimi, i fondi per le infrastrutture inesistenti e le
liberalizzazioni interamente inevase. Questo, ad oggi, il grado di impazzimento
di quella maionese di cui si è parlato all'inizio.
Ma ora risaliamo a
quanto è accaduto tra il vice ministro delle Finanze e il generale
Speciale. Ecco i fatti nella loro crudezza.
1. Speciale presenta a
Visco qualche mese fa un piano di avvicendamenti comprendenti l'intero quadro
di comando della G. d. F. Motivazione: è prassi che ogni tre anni gli
incarichi siano avvicendati per ragioni di funzionalità.
2. Visco esamina il
piano e vede che l'avvicendamento riguarda tutti i comandi salvo quelli di
Milano e della Lombardia. Ne chiede ragione. Speciale, in ottemperanza, si
impegna a riformulare il piano includendovi i comandi della Lombardia.
3. Visco sa benissimo
il motivo dell'esclusione dei generali e dei colonnelli che hanno incarichi
dirigenti a Milano: si è formato da anni in quella provincia un gruppo
di potere collegato con il comando generale di Roma. Risulta a Visco che quegli
ufficiali abbiano "chiuso gli occhi" su gravissime
irregolarità verificatesi nel sistema delle intercettazioni telefoniche,
avvenute nel corso di scalate finanziarie a banche e a giornali. Alcuni di quei
documenti sono stati trafugati e consegnati a giornali di parte per la
pubblicazione. In alcuni casi le intercettazioni non sono neppure arrivate
all'ufficio del Pubblico Ministero ma trafugate prima e consegnate ai giornali
senza che la magistratura inquirente ne avesse preso visione.
4. Passano i giorni e
le settimane ma Speciale non consegna il nuovo piano di avvicendamento.
5. Nel frattempo lo
stesso Speciale avvisa, all'insaputa di Visco, il procuratore della Repubblica
di Milano che i comandi della G. d. F. milanese stanno per essere sostituiti.
Il procuratore si preoccupa per i nuclei di polizia giudiziaria che operano ai
suoi ordini effettuando inchieste delicate e importanti. Speciale lo invita a
mettere per iscritto quelle preoccupazioni. Arriva la lettera del procuratore.
Speciale la mostra a Visco.
6. Visco, dopo aver
riesaminato la pratica, telefona a Speciale per manifestare la sua sorpresa e
il suo malcontento. Speciale mette in vivavoce la telefonata alla presenza di
due alti ufficiali che ascoltano la conversazione.
7. Il tribunale di
Milano, richiesto di verificare lo stato dei fatti in via di accertamento,
esclude che esista alcuna indebita interferenza da parte di Visco.
8. Speciale rende
pubblico il conflitto in atto presentandolo come un'interferenza di Visco
sull'autonomia della G. d. F. Di qui i seguiti politici che conosciamo e che
portano all'autosospensione di Visco dalla delega sulla G. d. F. e alla
rimozione di Speciale dal comando generale per rottura del rapporto fiduciario
tra lui e il governo.
Dove sia in questa arruffata vicenda
l'attentato alla Costituzione e alla democrazia denunciato con voce stentorea
da Berlusconi e da tutti i suoi alleati, Casini compreso, è un mistero.
Il vice ministro delle Finanze aveva - ed ha - il fondato sospetto di gravi
irregolarità compiute da alcuni comandi collegati con il comando
generale. Rientra pienamente nei suoi poteri stimolare il comando generale ad
avvicendare i generali non affidabili. Alla fine, accogliendo le preoccupazioni
del procuratore di Milano, lo stesso Visco consente ad escludere i comandi
milanesi dall'avvicendamento dei quadri nel resto d'Italia. Tra i dettagli
(dettagli?) incredibili c'è quella telefonata messa in vivavoce
all'insaputa dell'interlocutore ed ascoltata da due ufficiali di piena fiducia
dello Speciale. Basterebbe questo dettaglio a rimuoverlo dal comando. Del resto
- e purtroppo - non è la prima volta che il comando generale della G. d.
F. dà luogo a gravissimi scandali. Almeno in altre due occasioni dovette
intervenire la magistratura penale e fioccarono pesanti condanne di reclusione.
Ovviamente ciò non lede il valore e l'affidabilità di quel corpo
militare, così come i tanti casi di pedofilia dei preti non vulnerano
l'essenza della Chiesa quando predica il Vangelo. Certo ne sporca l'immagine e
quindi danneggia fortemente la Chiesa. Così le malefatte di alcuni
generali e perfino del comandante generale pro-tempore non inficiano l'essenza
d'un corpo chiamato a tutelare le finanze dello Stato ma certamente ne sporcano
l'immagine. Quanto a Visco, quando il conflitto si è fatto rovente
tracimando nella politica e in Parlamento, ha restituito la delega in attesa che
si pronunci la magistratura di Roma che nel frattempo ha aperto un'inchiesta
contro ignoti su quel tema.
C'è
un'orchestrazione sapiente in tutto questo. La ricerca della spallata che tarda
a venire. L'uso delle proteste provenienti dai tanti interessi corporativi. I
danni gravi dell'eterno litigio all'interno del governo e della coalizione che
lo sostiene. Il voto elettorale certamente sfavorevole al centrosinistra specie
nel Nord. Il riemergere del massimalismo della Lega e dei falchi berlusconiani.
Le rivalità fra i riformisti del centrosinistra per la leadership del
Partito democratico. La sinistra radicale imbizzarrita. C'è un paese che
non ha più una classe dirigente ma solo veline e velini disposti a tutto
pur d'avere due minuti su un telegiornale e un titolo di prima pagina su un
quotidiano. Possiamo esser tranquilli in mezzo a questo "tsunami"?
Due punti fermi negli ultimi tre giorni ci sono stati. Il primo è la
correttezza e la forza di Giorgio Napolitano di fronte agli sguaiati tentativi
di coinvolgerlo e il richiamo del Capo dello Stato al principio della divisione
dei poteri che rappresenta il cardine dello Stato di diritto e che, in
verità, Berlusconi ha calpestato e calpesta da dieci anni a questa
parte. Le leggi "ad personam" e la sua prassi di governo lo provano a
sufficienza, quale che sia in proposito l'opinione della nuova borghesia
sponsorizzata e immaginata da Montezemolo e dal giovane Colaninno. Il secondo
punto di tranquillità è venuto dalle Considerazioni finali
esposte il 31 maggio dal governatore della Banca d'Italia. Draghi, con una
prosa secca quanto lucida e documentata, ha segnalato le luci e le ombre
dell'economia italiana distribuendole equamente tra la classe politica, le
parti sociali, gli operatori economici. Ha dato a ciascuno il suo, nessuno
è stato privato dei riconoscimenti meritati e del fardello di critiche
altrettanto dovute. Personalmente temevo che il tecnocrate Draghi si mettesse
sulla scia della protesta confindustriale legittima ma sciupata dalla salsa
demagogica servita a piene mani nell'Auditorium di Roma e in quello di Santa
Margherita. Non è stato così e ne sono ben lieto. Draghi ha reso
un servizio al paese, come ha fatto Mario Monti in altre occasioni. Come fece
Ciampi nelle varie tappe della sua vita al servizio delle istituzioni. Queste
persone ci danno calma e recuperano la morale e la ragione. Seguendo questa
traccia si potrà forse costruire uno specchio nuovo e recuperare
un'immagine decente di noi stessi e d'un paese deviato dai cattivi esempi a
ingrandire il fuscello che sta nell'occhio altrui senza occuparsi della trave
che acceca il proprio.
NELLE ORE in cui un
generale nella polvere manomette per l'ultima volta un Corpo su cui non ha
più autorità, firmando un rosario di nomine, l'immagine proposta
da un alto ufficiale della Guardia di Finanza è ancora più
nitida. Più vera. "Il Comando generale è una foresta
pietrificata. Per metterci davvero mano ci vorranno non più mesi, ma
anni". Fino alla fine, all'ombra dell'ex direttore del Sismi Nicolò
Pollari, che ne è stato il ventriloquo, Roberto Speciale ha avuto il
tempo di lavorare in profondità sulla catena di comando. Ha cementato
una fitta ragnatela di nuove fedeltà, creato i presupposti di durature
riconoscenze, distribuito a decine gradi ed encomi in una logica di clan.
IL RETROSCENA Al
comando generale c'è chi ammette: la mano di Speciale è arrivata
ovunque Tutti i fedelissimi in posti chiave e D'Arrigo ricomincia da qui La
mano di Speciale è arrivata ovunque. Non esiste un generale che non si
sia inchinato Il caso di Cretella, indagato in Calabria su un caso di
spionaggio politico a Fassino.
Il nuovo comandante
generale, Cosimo D'Arrigo, ricomincia da qui. E, almeno all'inizio, sarà
solo. Forse in compagnia del nuovo e "giovanissimo" (51 anni) capo di
stato maggiore nominato a fine marzo con i favori del governo di
centro-sinistra, il generale di divisione Paolo Poletti, già presidente
del Cocer. O, forse, dell'unico nemico che a Speciale era rimasto in viale XXI
Aprile: il comandante in seconda Sergio Favaro, di cui lo scorso agosto aveva
tentato di liberarsi con una denuncia alla Procura militare di Roma,
vagheggiandone l'insubordinazione e la complicità "nell'attentato ai
poteri del comandante" ordito da Vincenzo Visco. La corona di generali con
cui l'ex comandante generale ha sigillato e sugellato la sua stagione ha piedi
ben piantati nei gangli della gerarchia e nei comandi che contano. Gode della
benevolenza e delle attenzioni dell'ultimo e inatteso dioscuro di Speciale, il
generale Emilio Spaziante, capo di stato maggiore fino al marzo scorso, oggi
vicesegretario del Cesis (l'organo di coordinamento dei Servizi). Un ex nemico
divenuto d'incanto "amico carissimo" proprio nel luglio 2006, nei
giorni del conflitto con il viceministro dell'economia. In nome di un comune
interesse. Mantenere intatti gli assetti, l'equilibrio e il controllo della
Guardia di Finanza di Milano e della Lombardia, a tutt'oggi comandata dal
generale Mario Forchetti. L'ufficiale che a Milano non sarebbe mai arrivato, se
non fosse stato il delfino di Spaziante, e che da Milano non se ne sarebbe mai
andato. Grazie a Spaziante e a Speciale. Ai due deve molto anche il generale di
brigata Renato Russo. Sin qui custode del comando regionale in Sicilia, l'isola
dove Speciale è nato e in cui governano gli amici forzisti. Dal prossimo
luglio sarà al comando del II Reparto, l'intelligence della Guardia di
Finanza, il suo occhio e orecchio. La stanza di compensazione con il Sismi.
L'ufficio a cui non si accede se non in nome di una provata fedeltà al
clan di Pollari. Russo succede al generale Raffaele Romano, altro naufrago
tratto in salvo. L'estate scorsa, era rimasto malamente impicciato in
Calciopoli. Con il suo nome a ballare in telefonate non proprio edificanti con
Luciano Moggi per qualche biglietto e un passaggio aereo gratuito nella
trasferta della Juventus a Madrid. Speciale lo aveva premiato. Con una
promozione utile a cavarsi di impaccio da un problema serio. Collocare altrove
un altro degli "illustri" comandanti del II Reparto, il generale
Walter Lombardo Cretella, delfino di Pollari. Cretella, oggi, comanda la scuola
di polizia tributaria delle Fiamme Gialle, a Ostia. La fucina dei nuovi
ufficiali, il passaggio obbligato per il loro avanzamento in carriera. A nulla
rilevando, evidentemente, il fatto di essere indagato dalla procura di
Catanzaro in un'inchiesta del pm Luigi De Magistris sulla gestione illecita di
impianti di depurazione, sul finanziamento in nero di esponenti politici di
centro-destra, sullo spionaggio politico in danno del segretario dei Ds Piero
Fassino (venivano illegalmente intercettate le sue conversazioni con il
presidente dell'Anas, Vincenzo Pozzi) per la quale, non più tardi del 2
marzo scorso, gli uffici e l'abitazione del generale sono state perquisite. Da
ex capo di stato maggiore del I Reparto di Esercito e Difesa, Speciale, che
conosce il peso decisivo del governo del "personale", ha
evidentemente provveduto anche in viale XXI Aprile. Al I Reparto della guardia
di Finanza ha voluto prima Michele Adinolfi, ex comandante della Regione
Veneto, ufficiale gradito alla Lega e a Forza Italia. Ora, ne lascia
l'eredità al fedele Giuseppe Zafarana, un colonnello, che libera la
poltrona di comandante del nucleo provinciale di Roma (dove va Andrea De
Gennaro, sin qui portavoce del Comando). Mentre Adinolfi potrà sedere
nella accogliente poltrona di nuovo comandante delle Fiamme Gialle del Lazio
(sin qui, guidate da Giuseppe Caprino). "E' un domino che consegna
carriere e movimenti a criteri di appartenenza e che da quattro anni non
conosce eccezione - osserva una fonte del Comando - Diciamolo chiaramente:
oggi, non esiste un solo generale, di brigata o di corpo d'armata che sia, che
non abbia dovuto inchinarsi. La mano di Speciale è arrivata
ovunque". Già. Comincia in ripida salita il lavoro di Cosimo
D'Arrigo. Per un po' farà fatica a spostare anche soltanto un posacenere
in viale XXI aprile.
Dopo il voto del 27 maggio il problema che si pone (Prodi e non
Prodi, si rilanci il governo oppure cada) è l’autonomia dei Ds. E la
loro funzione che diventa essenziale. E ciò nell’interesse di tutti e
vorrei dire perché. Un nuovo soggetto politico-culturale e un processo unitario
non si farà se non sarà in grado di dare una risposta al
grandissimo problema che il Nord ha squadernato. Finalmente, io dico. È
venuto all’ordine del giorno (sia pure nel modo peggiore) il problema dello
Stato e della europeizzazione della nazione italiana.
Guardiamo bene in faccia la realtà. È evidente che il Nord ha
votato così per le tante ragioni di cui si parla: le tasse, gli errori
del governo, le intollerabili divisioni tra le decine di partitini e partitini
che formano l’attuale maggioranza (Diliberto esulta perché è passato dal
2,3 al 2,4 per cento). Sì, si è votato così anche per
queste ragioni.
Penso però, quando si assiste a certi smottamenti, che questo vuol dire
che è venuta al pettine un questione più grossa, di fondo, e di
più lungo periodo. Ed è in rapporto a questa (non solo a Prodi)
che il partito democratico non è stato percepito come un partito nuovo
ma come l’ennesima trasfigurazione della cosidetta partitocrazia. Voglio dire
che si è votato così perché non appariva in campo una forza in
grado di dare una risposta nuova a quella che si configura ormai come una crisi
crescente dell’assetto reale (centralistico, romano-centrico, inefficiente)
dello Stato democratico. Di qui la protesta, ma una protesta con una grande
giustificazione. È questo che punisce la sinistra. Noi paghiamo il fatto
che la «transizione» non si è compiuta e una seconda repubblica non
è nata. Si è creato un vuoto, tanto più insopportabile
perché insieme con l’epoca e le cose del mondo, sta cambiando intorno a noi la
nostra gente. Occorreva, quindi, e occorre oggi più di ieri una nuova
idea dell’Italia e della sua nuova configurazione in Europa e nel mondo. Il
vuoto è questo. Perciò siamo stati sconfitti noi e non la destra,
la quale si avvantaggia del fatto che è corporativa e protestataria e
nessuno le chiede di farsi carico dell’interesse generale.
Ma se il tema è questo, noi da qui possiamo e dobbiamo ripartire.
Perchè quale forza di radice nazionale e con una grande storia politica
e culturale alle spalle è in grado di costruire una risposta all’altezza
di una crisi che non riguarda solo le istituzioni e le strutture formali dello
Stato ma il venir meno di un collante più profondo capace di tenere
insieme gli italiani diventati europei? È il vecchio compromesso tra il
Nord e il Mezzogiorno che è saltato. È impressionante il modo
come il fossato si è aggravato, anche qualitativamente, in questi anni.
E ciò nel silenzio totale. Ma sta qui la radice della cosidetta
«questione settentrionale».
Io non so leggere il modo separato in voto leghista di Verona, così
massiccio e di rivolta xenofoba anche contro il candidato moderato proposto dal
vescovo, e il voto di Reggio Calabria: un numero enorme di liste,
rappresentative di ogni «famiglia» che spazzano via la sinistra ed eleggono
più che un sindaco, il loro capo più affidabile. E potrei
continuare con l’associare il voto della Brianza alla prova di forza che sta
dando la camorra napoletana con lo spettacolo orrendo delle vie cosparse di
immondizia. E non è forse vero che la mafia non spara più in
Sicilia perché ormai è andata al governo in prima persona e non ha
più bisogno delle vecchie minacce per fare accordi con i partiti?
Io credo sia questo, insieme a tanti altri deficit, che ha fatto esplodere la
«questione settentrionale». La parte più dinamica del paese, quella
più direttamente coinvolta dalle sfide della mondializzazione, la quale
esprime anche forze dirigenti nuove e cosmopolite, non tollera più
questo stato di cose.
Ecco perché io non credo che si debba concentrare tutta la nostra iniziativa
sul governo. Il governo è fondamentale, lo so anch’io, ma Prodi o non
Prodi, noi, la sinistra italiana, quella che viene da lontano, da Gramsci, non
da Stalin (e da ben prima dell’Ulivo) quella che ha fatto nel bene e nel male
la Repubblica e la costituzione (noi, non quella borghesia corporativa che si
specchia nel Corriere della Sera) non possiamo procedere allo scioglimento
delle nostre file e partecipare alla costruzione di un nuovo soggetto politico
senza interrogarsi su ciò che al fondo è la vera giustificazione
di un nuovo partito.
Parlo della necessità di una forza la quale intervenga sul problema dei
problemi della politica (se intendiamo la politica come la polis, la scelta del
destino di una nazione) sul fatto cioè che si sta ridefinendo lo stare
insieme degli italiani non in astratto ma nel vivo di scontri e di sfide che
investono la vecchia compagine nazionale e, di conseguenza, il vecchio sistema
politico che la rappresentava. Di questo partito bisognerebbe - finalmente -
rendere chiara la missione, oltre che il leader. Il suo compito. Che a me
sembra quello di riempire il vuoto lasciato dalla fine della prima repubblica.
La quale crollò (lo ricordo per accenni) non per le inchieste dei
giudici, le quali vennero dopo, ma per il fatto che l’integrazione europea
metteva fuori gioco la costituzione materiale del paese: appunto quell’insieme
di compromessi che tenevano insieme gli italiani. Parlo di cose fondamentali
come l’economia mista e la svalutazione della lira, la spesa in deficit per
finanziare corporazioni e rendite, lo scambio tra Nord e Sud in base al quale
il Sud forniva mano d’opera e mercati protetti al Nord e il Nord finanziava,
con i trasferimenti, il reddito e i consumo del Mezzogiorno. E tutti erano
contenti.
Questo è il vuoto. Chi lo riempie? Noi non possiamo lasciare lo spazio
pubblico alla mercè delle scorrerie di poteri e oligarchie politicamente
irresponsabili le quali fanno il bello e il cattivo tempo approfittando della
mancanza di una nuova guida nazionale. Parlino i Ds anche in prima persona. Si
ricordino che il Pds nacque così, nel senso che dieci anni fa esso si
collocò al centro della scena e fece il miracolo di salvare gran parte
del patrimonio politico e morale della sinistra perché disse al paese che il
comunismo era morto ma sopravviveva la capacità di una sinistra
rinnovata di farsi carico dell’interesse generale. Non per caso fu chiesto a
D’Alema di presiedere la Bicamerale per riscrivere la Costituzione. Non ci
riuscì ma non per colpa sua. Perciò io sento così
acutamente il dramma della crisi attuale della politica. È una
sciocchezza ridurre tutto ai costi eccessivi dei politicanti: questa razza
davvero insopportabile, tanto arrogante quanto capace di leggere solo i titoli
dei giornali. Il dramma è l’impotenza, la frammentazione,
l’incapacità a decidere. È il fatto che alla assemblea annuale di
quella che, dopotutto, è una associazione di categoria, la
Confindustria, sono accorsi 15 ministri. E per sentirsi prendere a pernacchie.
Che pena.
Siamo arrivati a un dunque. Lo Stato italiano, e quindi tutto, compreso la
questione sociale, la cittadinanza, l’idea di sé degli italiani va posto su una
base nuova. E’ un problema terribilmente concreto. È vero che non si
può più pensare al vecchio modello di Stato centralistico. I
Chiamparino e i Cacciari, e su questo punto anche Maroni, hanno ragione. Ma
anch’essi devono sapere che se il federalismo, ormai necessario, non
avrà una forte cornice politica e se non si farà carico di
funzionare in modo tale da colmare il divario crescente tra Nord e Sud (e
ciò proprio in funzione del Nord, se è vero che in una economia
moderna la produttività dipende dall’insieme dei fattori sistemici) noi
condanniamo la nazione italiana all’irrilevanza. Possiamo anche diventare una
brutta copia del Belgio dove valloni e fiamminghi coesistono ma a mala pena. E
nel caso nostro sarebbe peggio. A me non sembra un caso l’attivismo politico
della Chiesa.
Io non ci sto. Resto convinto che il problema che ci sfida è tale per
cui la forza della destra è certo notevole ma, al fondo è
effimera, è corporativa. Però alla condizione che noi, invece di
inseguirla, la sfidiamo sul terreno dello Stato, cioè dello stare insieme
degli italiani, che poi è il terreno del compimento della democrazia
italiana, della dignità del lavoro e dell’intelligenza, della selezione
di una nuova classe dirigente.
ROMA. Sul caso
Visco-Speciale l'opposizione tenta l'affondo e in vista del dibattito che ci
sarà mercoledì al Senato non esclude che la richiesta di dimissioni
possa essere estesa all'intero governo. Romano Prodi prova invece a
disinnescare la mina e dopo il "congelamento" parziale delle deleghe
a Visco fa capire che il dibattito potrebbe non essere più necessario.
"Sono stati presentati degli ordini del giorno che chiedevano la revoca
temporanea delle deleghe. A questo punto non so se si svolgerà lo stesso
il dibattito al Senato. In teoria non dovrebbe più esserci motivo"
spiega il premier ai microfoni di Radio 24. La risposta della Cdl viene
affidata a Renato Schifani per il quale la discussione avverrà in ogni
caso. "Sarà un dibattito alla luce del sole e sotto gli occhi del
paese" assicura il capogruppo dei senatori di Forza Italia, che contesta
la soluzione adottata due giorni fa dal consiglio dei ministri e promette
battaglia in Parlamento. "Il paese non intende accettare supinamente un
rimedio finto e iniquo. Comprendiamo lo stato d'animo del Professore ma"
avverte il senatore "non potremo lasciare che la trasparenza e la legalità
siano condizionate da un Prodi che ha perso il controllo di sé". In queste
ore il centrodestra sta valutando l'atteggiamento da tenere in Senato.
Martedì il presidente dei senatori Dc, Mauro Cutrufo, chiederà
alla conferenza dei capigruppo che il dibattito in Senato si svolga in diretta
Tv ma c'è anche chi vorrebbe trasferire la protesta in piazza e dare
vita ad una imponente manifestazione contro il governo. Questa soluzione,
però, non viene neppure presa in considerazione dall'Udc che ha
già definito un "fatto eccezionale" la nota unitaria firmata
due giorni fa da Berlusconi, Fini, Cesa, Bossi, e prende le distanze dal
pressing del centrodestra sul Quirinale. Ma anche nella maggioranza c'è
chi non approva l'operato del governo. Antonio Di Pietro, che dopo la restituzione
della delega sulla Finanza da parte di Visco ha ritirato il suo ordine del
giorno, non considera chiusa la partita e si chiede se la rimozione di Speciale
possa essere considerata una "ritorsione". "L'Italia dei Valori
vigilerà su questa vicenda. Noi siamo leali ma" avverte il ministro
"non staremo solo a guardare". Maggioranza spaccata? Quel che
è certo è che il malumore di Di Pietro offre nuove munizioni
all'opposizione e il leghista Roberto Maroni fa partire il primo colpo: "Insisteremo
con la richiesta di dimissioni del viceministro Vincenzo Visco, ma forse le
estenderemo all'intero governo". Roberto Calderoli prova a giocare con il
calendario e nota che ieri non si è celebrata la festa della Repubblica
ma si sono celebrate le "esequie" della Repubblica. "Tutti
coloro che hanno a cuore questa democrazia avrebbero dovuto disertare i
festeggiamenti o parteciparvi con la banda nera del lutto al braccio" dice
il vicepresidente del Senato. Per Maurizio Ronconi (Udc), il voto del Senato
previsto per mercoledì potrebbe essere evitato solo se Visco si
dimettesse dal governo oppure restituisse tutte le deleghe. "Per noi"
taglia corto il parlamentare centrista "non c'è altra
soluzione".
BRUXELLES Un nuovo
caso di corruzione colpisce le istituzioni dell'Unione: la procura di Bruxelles
ha aperto un'inchiesta sulle attività di alcuni funzionari Ue ed i loro rapporti con una società
privata belga sospettata di aver fatturato l'Eurogoverno per lavori di
manutenzione mai realizzati. La notizia, pubblicata dal quotidiano belga
"Le Soir", è stata confermata da un portavoce dell'Olaf,
l'ufficio antifrode Ue. Se le accuse saranno confermate, si
tratterà del secondo caso di corruzione che coinvolge le istituzioni
comunitarie dopo l'inchiesta avviata dall'Olaf nel 2004 che lo scorso marzo ha
portato all'arresto di tre italiani, tra i quali un funzionario della Commissione europea. Al centro di quest'ultima vicenda
c'è la società belga Pedus di Zellik (una città nella
parte fiamminga del Belgio) che - secondo quanto scrive "Le Soir" -
da tempo si occupa dei lavori di manutenzione dei palazzi della Commissione Ue (il Berlaymont) e del Consiglio europeo (il Justus Lipsius),
grazie a un appalto quadriennale da circa 60 milioni di euro. Il nuovo caso
è sulla scrivania della procura di Bruxelles dal 23 maggio scorso grazie
alla denuncia di un dipendente dell'ufficio contabile della stessa Pedus, il
quale è stato licenziato dopo aver segnalato alla direzione alcune
anomalie nei conti della società relative proprio ad alcuni contratti di
manutenzione dei palazzi delle istituzioni Ue.
ROMA - La provocazione
l'aveva lanciata Fabio Mussi in settimana, subito dopo l'esito non
proprio confortante delle amministrative. "Seguiamo l'esempio Sarkozy,
dimezziamo il governo, sono pronto io stesso a lasciare il posto". Romano
Prodi l'ha preso sul serio, fosse pure per vedere l'effetto che fa dentro la
rissosa compagine che si ritrova a guidare. "Dimezzare il numero dei
ministri? Potrebbe essere un'idea - ha iniziato a ventilare il Professore ai
microfoni di Radio 24 - So bene che siamo troppi. è stato un errore da
parte nostra. Abbiamo tre o quattro sottosegretari in più del precedente
governo (una decina a guardare bene le tabelle di Palazzo Chigi, ndr), ma
abbiamo ridotto le spese e costiamo il 30 per cento in meno". E poi, la
situazione è "il risultato di una legge elettorale disgraziata e
non di una cattiva volontà". Se ci fosse stata la vecchia legge, al
governo sarebbero andati molti ministri in meno, "nel primo erano 17 e non
25". Per non dire se ci fosse stata la legge francese: "Datemi quella
di Sarkozy e io vi presento 12 ministri e non 15". Dimezzare, dunque.
Figurarsi l'opposizione che da settimane non invoca altro. Ma i diretti
interessati, ecco, i ministri, saranno d'accordo? Lo sono, in linea di
principio. Ma pronti anche a fare un passo indietro, alla Mussi? Molto meno, diciamo. Va detto che lo
stesso ministro ex diessino all'Università ha puntato il dito intanto
sulla poltrona di Padoa Schioppa ("Ha fatto un eccellente lavoro, ma non
si può restare piantati a custodire il tesoretto"). Così
fanno un po' tutti gli altri. Antonio Di Pietro (Infrastrutture) sui tagli ha
imbastito una battaglia di partito. "Resto convinto che sia necessario,
bisogna dare segnali forti ai cittadini. Passo indietro? Semmai, in un'ottica
di risparmio, si potrebbe pensare a riaccorpare i ministeri dell'Infrastruttura
e dei Trasporti". Come dire, potrebbe tornare a lui la delega affidata non
senza polemiche ad Alessandro Bianchi (Pdci), per esempio. Di riduzione a 15
ministeri in stile Sarkozy parla da giorni la paladina del "partito dei
tagli" dentro il governo, Linda Lanzillotta (Affari regionali,
Margherita): "Sono per una forma più asciutta anche dell'esecutivo
e sono favorevole all'idea di costituzionalizzarla" esulta dopo le parole
di Prodi. Quanto al suo posto, poi, "si faccia prima la riforma e si veda
quale ministero serve davvero e quale è stato creato ad hoc. Non
è un problema di nomi, ma di consistenza delle deleghe". Che
è poi il ragionamento di Emma Bonino, unica radicale, a capo delle
Politiche comunitarie. "Dunque, il Commercio internazionale è stato
ricostituito dopo anni in cui è stato inglobato nelle Attività
produttive, la crescita è trainata dall'export, c'è bisogno di
più Europa e non di meno, sarebbe autolesionistico tornare al passato. E
poi il mio è un ministero senza portafoglio. Forse un bel gesto
potrebbero farlo i colleghi di Ds e Margherita". Pecoraro Scanio su questo
terreno ritiene di giocare in casa: "Il nostro ministero ha fatto il
record di risparmi per consulenze e spese, la riduzione dei costi è una
battaglia storica dei verdi - premette - Mercoledì presenteremo un
disegno di legge. Tagliare il ministero dell'Ambiente? Sono gli enti inutili e
le consulenze, piuttosto, da cancellare". Il clima insomma è quello
che è. Il ministro della Difesa Arturo Parisi ha capito l'antifona:
"Tutto ciò che comporta un alleggerimento e una maggiore
funzionalità dell'amministrazione è benvenuto. Quel che è
importante è che le cose che diciamo siano poi mantenute. Altrimenti si
rischia ulteriore disaffezione dalla politica e dallo Stato". Di
dimezzamento dell'esecutivo non vi è traccia nel progetto al quale sta
lavorando il governo e che il ministro Giulio Santagata vorrebbe portare in
Consiglio dei ministri il 15 giugno. Per quel che possa valere, il fedelissimo
del Professore sarebbe pronto se, come è avvenuto per il comitato del
Pd, "il presidente chiedesse un sacrificio". Giusto lui e pochissimi
altri.
La sera dell’8 giugno George W. Bush arriva a Roma con la
scommessa di trovare nell’Italia di Romano Prodi un partner globale sui
più importanti temi in agenda degli ultimi 18 mesi di Casa Bianca,
inclusa la transizione a Cuba nel dopo-Fidel. Il presidente cresciuto a
Midland, Texas, dove ai bambini si insegna che «sky is the limit» («il limite
è il cielo»), quando compie una scelta è abituato ad andare fino
in fondo, giocare ogni carta, senza farsi impressionare troppo dalle
difficoltà. La scelta di Bush di andare in Italia è dovuta non
solo al prioritario desiderio di incontrare Benedetto XVI, con cui condivide
molti valori e alcune politiche, ma anche alla volontà di mettersi alle
spalle incomprensioni e polemiche con il governo Prodi. Incomprensioni che
hanno avuto il culmine nella decisione italiana di far liberare da Kabul alcuni
capi taleban per riottenere l’ostaggio Daniele Mastrogiacomo e nelle
conseguenti dichiarazioni del ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, che
attribuivano a Condoleezza Rice un avallo americano che in realtà non vi
era mai stato.
Se Bush crede nella possibilità di avere a fianco l’Italia nel prossimo
anno e mezzo è perché è l’agenda stessa a suggerirlo. Basta
sfogliarla per rendersene conto. Sul fronte del clima, entro un anno gli Stati
Uniti riuniranno attorno a un tavolo le 15 maggiori potenze industriali - e
dunque inquinanti - del pianeta tanto per ridurre le emissioni nocive che per
sviluppare energia rinnovabile e l’invito che Bush recapiterà a Prodi
testimonia l’interesse per le posizioni ambientaliste sostenute con forza
dall’Italia. Sul fronte degli aiuti al Terzo Mondo, il pacchetto di
stanziamenti per la lotta all’Aids - 30 miliardi di dollari - punta a innescare
un volano di cooperazione con nazioni come la nostra, in prima linea sulla
cancellazione del debito dei Paesi in via di sviluppo. E sul fronte umanitario
l’urgenza di far intervenire i caschi blu in Darfur per porre fine al genocidio
degli africani per mano delle tribù arabe Janjaweed fa dell’Italia un
interlocutore prioritario per due ragioni: sediamo nel Consiglio di Sicurezza
dell’Onu e condividiamo, sin dai tempi dell’intervento in Kosovo nel 1999, il
principio dell’ingerenza umanitaria.
Poiché a Washington la politica estera bada poco al colore del governi dei
partner ma assegna molta importanza a ciò che fanno e dicono, per gli
sherpa della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato è stato naturale
inserire l’Italia fra i potenziali interlocutori su temi globali come clima,
lotta all’Aids e soccorso al Darfur che terranno banco al G8. Questa possibile
partnership fra i governi di Washington e Roma, portatori di politiche e valori
molto diversi, nasce dall’apertura alla comunità internazionale che distingue
l’azione del presidente dall’indomani della rielezione nel 2004. È in
questo quadro di estremo pragmatismo che Bush discuterà con Prodi di
quanto sta avvenendo sui diversi scenari della guerra al terrorismo, tentando
di comprendere se l’interlocutore è pronto a compiere un passo in
più lì dove sarà necessario.
In Libano le truppe italiane dell’Unifil già arginano le milizie
Hezbollah nel Sud, ma l’insediamento di Al Qaeda nei campi palestinesi del Nord
potrebbe richiedere a Roma un maggiore impegno, politico ed economico, per la
stabilità del governo di Fouad Siniora. In Iran il programma nucleare
sta accelerando e l’Onu discuterà presto nuove e più rigide
sanzioni incluse in una terza risoluzione che Washington auspica venga
approvata all’unanimità, ovvero anche con il nostro assenso. In Iraq la
ricostruzione civile, miglior argine contro la guerra civile, richiede un
maggior impegno all’Europa e quindi anche all’Italia. E in Afghanistan, unico
fronte caldo della guerra al terrorismo dove sono presenti soldati italiani,
Washington vorrebbe avere da Roma più truppe e mezzi nonché la rinuncia
ai limiti del loro impiego contro i taleban e i mujaheddin di Osama bin Laden.
Ma non è tutto: fonti diplomatiche di entrambi i Paesi confermano che
Bush parlerà a Prodi (oltre che a Benedetto XVI) di Cuba. Fidel Castro
sta morendo e nel laboratorio di Washington si lavora agli scenari di una
transizione che può prendere due strade: la successione di Raul, con il
mantenimento dell’attuale regime comunista, oppure il progressivo avvento di
riforme, libertà e democrazia. Per favorire questo secondo scenario
l’Europa potrebbe rivelarsi decisiva se scegliesse di non legittimare Raul: di
questo la Rice ha parlato a Madrid e di questo discuterà Bush a Roma e
in Vaticano, avendo accanto John Negroponte che oltre ad essere l’ex zar
dell’intelligence e il numero due del Dipartimento di Stato è un noto
esperto di America Latina.
Le tante opportunità di partnership racchiuse nell’agenda del viaggio
romano, unite all’assenza della Rice nella delegazione, svelano la
volontà di Bush di puntare sul rapporto personale con Romano Prodi,
archiviando i disaccordi avuti nel 2001 sulle biotecnologie e l’ambiente e nel
2003 sull’Iraq. Se la scommessa di George W. avrà successo e l’esito dei
colloqui romani guarderà al futuro anziché al passato potremmo vivere
nei prossimi mesi una stagione di inedite convergenze fra il governo di
centrosinistra e le politiche di un’amministrazione oramai definita
«neo-liberal» dal «Washington Post».
Europa
2-6-2007 Repubblica tra crescita e
senilità FEDERICO ORLANDO
Città
di Salerno 2-6-2007 I tempi della maturità per i laici sono ancora
lontani Di Massimo Onori
La
Repubblica 2-6-2007 IL RETROSCENA Il gran rifiuto del Generale CARLO BONINI
ROMA - Unipol, la procura di Roma sequestra 55 milioni
all'immobiliarista romano Vittorio Casale. Il provvedimento è diretta
conseguenza della querela presentata dall'attuale dirigenza dell'Unipol nei
confronti dell'ex presidente Giovanni Consorte e del suo ex braccio destro
Ivano Sacchetti e che ha consentito ai magistrati di ipotizzare contro di loro
l'appropriazione indebita e l'infedeltà patrimoniale. Il provvedimento
firmato dal gip Guicla Mulliri è una tranche dell'indagine sul tentativo
di scalata alla Bnl e si riferisce alla dismissione di 133 immobili dell'Unipol
che Consorte e Sacchetti fecero in favore della società Glenbrooker di
Casale per circa 250 milioni tra il 2004 e il 2005. Gli immobili furono poi
rivenduti a Pirelli Real Estate fruttando una plusvalenza da 55 milioni,
oggetto del sequestro fatto ieri dal nucleo valutario. Nel decreto il gip
Mulliri sostiene che non c'è alcuna rispondenza tra le dichiarazioni di
Giovanni Consorte e il quadro indiziario. Di più, il magistrato afferma
che le spiegazioni fornite dall'ex numero uno dell'Unipol e dal suo ex vice non
sono state suffragate da quanto finora accertato dalla procura di Roma.
Interrogato dai pm romani, Consorte aveva dichiarato di avere informato e di
avere ricevuto il via libera per la vendita degli immobili dagli attuali
vertici dell'Unipol, l'amministratore delegato Pier Luigi Stefanini, e il suo
vice Vanes Galanti, allora a capo di Holmo, la cassaforte del gruppo bolognese.
Che però interrogati dai medesimi pm hanno smentito la ricostruzione. E
nel motivare il sequestro, il gip ricorda come nella circostanziata querela
presentata dall'Unipol contro Consorte e Sacchetti emergano ulteriori elementi
che smentiscono un'intesa con Stefanini e Galanti. Quindici milioni sono stati
sequestrati in contanti, circa quaranta in azioni e immobili. La vendita a
Casale di 130 dei 133 tra uffici, ville, appartamenti sotto inchiesta aveva
già provocato un sequestro nel gennaio scorso: 9,5 milioni di euro, una
plusvalenza che Consorte e Sacchetti avrebbero realizzato cedendo un
appartamento a Bologna. Parte del pagamento era stata anticipata da Casale.
Secondo gli investigatori una forma di ringraziamento ai due ex manager proprio
per la vendita degli immobili, avvenuta, secondo i magistrati, a prezzi
inferiori a quelli di mercato. La procura aspetta in giugno un ultimo rapporto
della guardia di finanza sulla tentata scalata dell'Unipol. Ma appare scontata
ed è attesa nei prossimi mesi la richiesta di rinvio a giudizio per
Consorte e Sacchetti.
La repubblica ha 61 anni. Giovanissima non è più, qualche
medicina e qualche intervento sono necessari. Il discorso è semplice.
Quel che l’organismo poteva dare in sviluppo e socialità, e in
democrazia delle istituzioni, l’ha dato. Siamo tutti più ricchi o meno
bisognosi, siamo tutti più liberi, quasi non abbiamo più terra
dove costruire case e capannoni, siamo così sazi di diritti da
rinunciare ai doveri. La crescita naturale continua: ne va merito – ha voluto
ricordarlo Napolitano – a imprenditori, lavoratori e contribuenti «sensibili al
dovere civico ».
Ai cattivi cittadini, quelli delle corporazioni, delle caste, delle camorre,
dell’evasione, del crimine, nessun merito. Essi sono la piovra che tira a fondo
la repubblica. Per poterla fiocinare, servono politiche non più legate
al patto della società classista e dell’imprenditoria assistita del
1946, ma concordate con una borghesia “nuova”, se c’è, e con s i n d a c
a t i “nuovi”, più rappresentativi del lavoro reale.
Quel patto aveva anche una cornice di regole. Anch’esse non servono più,
per cambiamento dei soggetti e degli obbiettivi di riferimento.
I punti da correggere sono arcinoti: parlamento e governo, autonomie e
legislazioni corporative, sindacati e partiti.
Tutto dovrà essere più magro e più pubblico:
lo stato dovrà riprendere le redini, le autonomie dovranno essere reali
e non mafiose. Mentre si cammina sul terreno del credito e delle
privatizzazioni e si accenna almeno alla parola liberalizzazione, i tentativi
di nuove regole istituzionali sono falliti, perché impostati, sia da sinistra
che da destra, contro l’altra metà del paese. «Nulla può
sostituire – ripete Napolitano – la ricerca di intese, di soluzioni condivise»,
senza confondere i ruoli di governo e di opposizione.
Aggiungiamo: senza confondere i ruoli di classe (ottimati o no) e di società
generale, di governo e di opposizione, di controllo dell’ordine civile e di
censura, di convinzioni religiose e di diritti civili. E invece sono proprio
queste le confusioni d’ogni giorno, le cause della malattia da ricchi che
anticipa la senilità della repubblica.
Giusto a 62 anni, lo statuto albertino si arrese. E venne il fascismo. Se la
Costituzione repubblicana fa altrettanto, un nuovo abisso sarà
inevitabile.
In questo momento il
primo posto nella classifica dello sdegno popolare è rappresentato dai costi della politica. è in corso - il tema l'ha lanciato proprio
"Repubblica" - la polemica sulla scarsa produttività dei
deputati regionali a fronte di emolumenti non proprio da fame. Le accuse in
realtà colpiscono tutti i livelli di rappresentanza, dalle
circoscrizioni al parlamento. Certo, non siamo di fronte a quella che si
direbbe una novità assoluta. Il primo atteggiamento dei cittadini,
quando si parla di politica, è di disgusto per gli alti
guadagni e ai privilegi di chi abita i palazzi del potere. Ciò che
difficilmente si ammette, da parte di coloro che s'indignano per stipendi e
prebende altrui, sono i conti salatissimi che a volte essi stessi presentano
alle pubbliche amministrazioni.
Talvolta nel rispetto
formale delle regole, spesso ricorrendo a procedure illegali. In ogni caso
facendo lievitare in maniera esponenziale e davvero insostenibile le spese
pubbliche che in teoria si vorrebbero ridimensionare. Proprio l'altro giorno
abbiamo appreso che l'Inps, che gestisce soldi di tutti, ha subito un danno di
circa 3 milioni di euro a causa dei falsi braccianti scoperti in provincia di
Palermo. Superfluo sottolineare che si tratta della punta di un enorme iceberg.
In Sicilia c'è un fiume di gente che ha mani illibate eppure certifica
decenni di lavoro nei campi. In fondo è facile puntare ferocemente i costi delle istituzioni pubbliche, è come
sparare sulla Croce rossa. Basta che poi le vite private di ciascuno possano
muoversi liberamente alimentando la prassi predatoria di tutto ciò che
ricade sulle tasche della collettività. Se passiamo dall'agricoltura
alla formazione professionale, perché non riflettere sull'enorme spesa pubblica
che finanzia corsi che mai hanno prodotto un solo posto di lavoro? E non ci
sono solo le risorse interne. Ci si potrebbe chiedere, a esempio, quanto
denaro, dell'enorme flusso arrivato con Agenda 2000, è andato ad
alimentare rivoli minuscoli o grossi torrenti di spesa inutile fine a se
stessa. E se i fondi che arriveranno nei prossimi anni seguiranno la stessa
strada. Scendendo poi nello spicciolo, si possono citare i tantissimi, e in
Sicilia ne vengono scoperti continuamene, che dichiarano un reddito inferiore
per non pagare il ticket sulle medicine, aggravando il buco profondo del
settore che poi le casse pubbliche devono in qualche modo coprire. Oppure i
giovani che certificano stati patrimoniali da fame per evitare di pagare le
tasse universitarie. O quelli che certificano stati familiari inesistenti per
incassare corposi assegni. Non parliamo, poi, della ricerca spasmodica di
entrare, da parte di molti giovani della nostra regione, tra le fila del
precariato. Dove tale approdo non è inteso come la ricerca di un vero
lavoro e il premio alla propria professionalità da mettere al servizio
della comunità, ma come la possibilità di ottenere un gratuito
assegno mensile proveniente sempre dal forziere pubblico. Gli esempi potrebbero
proseguire all'infinito. Ricordiamo le continue truffe scoperte nella nostra
regione sull'utilizzo dei fondi della legge 488. Che, da strumento per
distribuire aiuti statali alle aziende, si trasforma di sovente in un grande
supermercato del raggiro e della distrazione di milioni di euro. In tutti gli
ambiti citati c'entra sempre la politica, certo. Ma nel senso che i rappresentanti del popolo dirigono
un'orchestra sociale che già conosce a memoria lo spartito. Il popolo,
da parte sua, critica aspramente chi dirige la compagnia. Guai però a
mettere in discussione la musica, perché ciò significherebbe la fine dei
tanti pezzetti di spreco individuale che compongono un totale gigantesco. Al
cui confronto anche i costi, pur esosi, delle istituzioni
impallidiscono. Quante volte ci capita di assistere a veementi proteste
corporative davanti agli assessorati regionali contro chi intende abbattere,
anche di poco, qualche spesa? Basta ricordare, per tutti, il settore della
sanità. In genere l'approccio è il seguente: si tagli pure, si
tagli tutto, purché non si tratti del mio orticello. Vista così, la
vicenda dei costi della politica assume una dimensione diversa. è più complessa da
affrontare, ma lo si può farlo con meno ipocrisia.
Tesini: "Bisogna
ridimensionare i costi della politica. Troppi 103 fra ministri e sottosegretari" TRIESTE Compensi
tagliati del 10% per i componenti delle commissioni pubbliche, in tutto 149. La
giunta regionale ha deliberato ieri la riduzione delle indennità e dei
gettoni di presenza, fra l'altro, per i membri del Comitato di indirizzo e di
verifica dell'Arpa, della Commissione Tecnico - Consultiva Via, delle Commissioni
provinciali di Trieste, Gorizia, Udine e Pordenone per la determinazione delle
indennità di espropriazione, del Comitato incaricato alla verifica delle
fasi dello studio finalizzato alla predisposizione del Piano regionale di
tutela delle acque, della Commissione regionale per le servitù militari
del Friuli Venezia Giulia, del Comitato misto-paritetico per le servitù
militari del Friuli Venezia Giulia. Si tratta di un provvedimento che era
previsto già nella Finanziaria regionale approvata lo scorso dicembre,
la quale prevedeva, appunto, il taglio del 10% dei compensi corrisposti ai
componenti di commissioni, comitati e organi collegiali nell'ottica di una
riduzione della spesa pubblica. Un tema che è stato affrontato a Roma al
tavolo sulla riforma della politica e su cui è tornato, attraverso il suo blog, il presidente
del Consiglio regionale Alessandro Tesini: "Il clima che si respira a Roma
è brutto. - commenta Tesini - Sui costi della politica serve fare chiarezza e soprattutto serve
una profonda azione di trasparenza. Ci sono Consigli regionali che costano
"cinque" e Consigli che, a parità di produzione, costano
"dieci". Non solo. Siccome nel termine "costi della politica" si comprende tutto serve capire bene da dove si comincia,
che cosa si toglie, che cosa si aggiunge". Una questione che tocca anche
l'ipotesi di riforma federale dello Stato italiano che, secondo il presidente
del Consiglio regionale, "non deve essere la via italiana al declino ma il
modo con il quale le Regioni e gli Enti locali vengono coinvolti in una azione
di sviluppo e partecipano al rilancio del sistema Italia. Ebbene - ha aggiunto
Tesini - non è possibile andare verso un Federalismo a
responsabilità invertita". Cioè chi chiede di più,
più spende. Per questo dico che c'è bisogno di chiarezza e anche
Governo e Parlamento devono fare la loro parte. Forse 103 tra ministri,
viceministri e sottosegretari e 945 parlamentari sono un po' troppi. Per
raggiungere un obiettivo - ha concluso Tesini - serve un tavolo tra Governo,
Parlamento e Regioni per provare a stipulare un patto. Ma non so se ci saranno
le condizioni politiche per farlo". COMPARTO UNICO È stato
approvato in via preliminare dalla Giunta regionale lo schema di regolamento
sui criteri di riparto a favore degli enti locali per l'istituzione del
comparto unico regionale del pubblico impiego. Secondo questo schema,
l'amministrazione regionale si sobbarcherà gli oneri derivanti dagli
aumenti per i dipendenti degli enti locali parificati ai colleghi regionali,
dall'estensione di un ulteriore mese di congedo parentale retribuito, dalla
quota di perequazione relativa al risparmio sul part-time destinata
all'incremento del fondo di secondo livello e dal costo relativo al ricalcolo
Inpdap per la quota di perequazione per i pensionamenti per gli anni 2004 e
2005. Sarà invece a carico degli enti locali, a decorrere dall'anno
2006, una parte degli oneri di perequazione corrispondente alle risorse
destinate al fondo per la contrattazione di secondo livello derivanti dal
mancato accantonamento dello 0,20% per le alte professionalità e dalla
riduzione dello 0,20% dell'incremento del fondo previsto dal contratto
nazionale relativo al biennio 2004-2005.
ESSEN (Germania).
Qualcuno lo ha salutato persino con entusiasmo, azzardando la definizione di
"svolta ecologista" della Casa Bianca. Ma il piano per combattere i
cambiamenti climatici del presidente George W. Bush ha ricevuto un'accoglienza
fredda in Europa, e la direzione generale della Commissione europea per l'ambiente l'ha respinto
definendolo modesta e "di classico stampo americano". Bush, sotto
pressione per fare di più in vista del vertice del G8 in Germania la
settimana prossima, giovedì ha annunciato che cercherà di fare un
accordo a lungo termine con i 15 maggiori produttori di gas del mondo per
ridurre le emissioni a effetto serra entro la fine del 2008. "La
dichiarazione del presidente Bush sostanzialmente ribadisce la classica linea
americana - nessuna riduzione obbligatoria, niente quote per l'emissione di
carbonio e obiettivi espressi con vaghezza", ha detto il commissario per
l'Ambiente Stavros Dimas. "La strategia degli Stati Uniti si è
dimostrata incapace di ridurre le emissioni", ha poi aggiunto. Bush
intende trovare un accordo a lungo termine con i 15 maggiori Paesi produttori
di gas serra, inclusi quelli (come l'Australia e gli stessi Usa) che hanno
sempre avversato il protocollo di Kyoto. Alcuni giornali hanno definito il
progetto di Bush come una sconfitta per il Cancelliere tedesco Angela Merkel,
che vuole che durante il vertice il G8 acconsenta a ridurre le emissioni
mondiali di gas a effetto serra del 50% circa entro il 2050. "Una delle
usanze dei vertici del G8 è che gli altri partecipanti garantiscano a
chi li ospita di soddisfare una sua grande richiesta" ha scritto il
Financial Times Deutschland in un articolo. "Il fatto che Bush non si sia
attenuto a questa regola è un affronto e ha reso la sconfitta della
Merkel ancora più dura" diceva l'articolo. In Gran Bretagna il
Guardian ha scritto "Bush ha distrutto le speranze di variare il piano per
i cambiamenti climatici al G8". Il portavoce di Angela Merkel, Ulrich
Wilhelm, ha detto che è ancora troppo presto per prevedere gli esiti del
vertice: "Credo che a questo punto si possa solo dire che sarà
dura". L'Ue vorrebbe ridurre le emissioni del 20% entro
il 2020. Alcuni leader, tra cui il premier britannico Tony Blair, hanno
apprezzato la svolta di Bush. "Adesso voglio vedere se saremo capaci di
fare più di quello che ha previsto il presidente Bush, ma è
importante chiarire che per la prima volta ci sono gli elementi per un accordo
mondiale che ha l'obiettivo di ridurre le emissioni di gas a effetto serra, e
dietro a questo c'è l'America" ha detto Blair durante una visita in
Sud Africa. Un entusiasmo condiviso solo dal commissario Europeo per l'Energia
Andris Piebalgs: "Secondo me è un buon piano e ci dà delle
buone notizie", ha detto a Helsinki. "Il piano americano non
può essere un cavallo di Troia per distruggere praticamente il processo
internazionale di protezione del clima", ha obiettato invece il ministro
dell'Ambiente tedesco Sigmar Gabriel, che con la Merkel progettava di mettere
intorno a un tavolo esattamente i Paesi indicati da Bush. Paesi come
l'Australia, che pur essendo alle prese con la peggiore siccità che si
ricordi a memoria d'uomo, continua a sostenere l'impossibilità di
limitare l'uso dei combustibili fossili (è il maggior produttore di
carbone del mondo). O come la Cina, che, pur non volendo rinunciare alla
propria crescita economica, la prossima settimana varerà il suo primo
piano nazionale per la riduzione delle emissioni. Nell'ultimo Consiglio europeo
di marzo, i 27 Stati membri della Ue hanno concordato un obiettivo vincolante unilaterale di riduzione
delle emissioni di gas serra del 20% entro il 2012, indicando la
disponibilità ad elevare questa soglia al 30% se allo sforzo si uniranno
gli altri Paesi industrializzati. Obiettivi ben più ambiziosi rispetto
al 5 per cento previsto dal Protocollo di Kyoto. E che, comunque, saranno al
centro del G8 tedesco, perché il riscaldamento globale è ormai il
problema dei problemi anche per i grandi della Terra.
Ho visto Annozero, dalla
prima all'ultima sequenza, con la massima concentrazione possibile. Devo
confessarlo: non è stato facile vincere la noia. La domanda resta
ineludibile: qual è lo stato di salute di un Paese in cui si ha bisogno di una trasmissione
così per indignarsi o per gridare alla libertà d'informazione?
Direi: pessimo. Comincio da Marco Travaglio e dalla commossa lettera
indirizzata al suo maestro Montanelli: quel Montanelli sempre più
celebrato, non solo come grande giornalista, ma addirittura come importante scrittore.
Ma davvero l'Italia ha bisogno d'un mito così? Dell'inventore, in
politica, della raffinata metafora del "votare turandosi il naso",
del perentorio semplificatore d'ogni problema: in gloria dell'eterno piccolo
borghese italiano, quello che ha fatto la peggiore storia nazionale. A pensarci
bene non è un caso che si sia iniziato con un omaggio del genere.
Santoro, in tempi televisivi, non fa altro che colmare il vuoto lasciato da
Montanelli: altrettanto fazioso e spiccio, altrettanto abile nel farsi carico
di quel moralismo e di quel giustizialismo facile da cui una democrazia vera
dovrebbe difendersi come dal peggior nemico. Altrettanto bravo, il Santoro, nel
farci credere che il suo populismo forcaiolo, il suo perbenismo, rappresenti
invece il non plus ultra della libertà e della spregiudicatezza civile.
Ma vengo al tema della trasmissione: Chiesa e pedofilia. Che Santoro ha
orchestrato - di sicuro non aiutato dai due partners laicisti: lo spento
Piergiorgio Odifreddi, il concitato giornalista della Bbc Colm O'Gorman - su un
ripetitivo refrain: l'accusa alla Chiesa e a Ratzinger d'aver sempre mantenuto
un atteggiamento di omertà nei confronti dei preti pedofili. L'impianto
della trasmissione m'è parso di un anticlericalismo davvero puerile. Che
cosa si voleva dimostrare insistendo su un vecchio documento come il
"Crimen sollicitationis" del 1962? Non ci sarebbe bisogno di dirlo:
basterebbe un solo prete santo, uno solo, a garantire l'Istituzione, a salvarla
per sempre. Così come resta puerilmente anticlericale la pretesa che la
Chiesa - come ogni Istituzione di Potere costitutivamente votata alla sua
sopravvivenza - non metta in atto, per lo scopo, tutte le risorse e la sua
millenaria prudenza. La Chiesa non è più quella di Giordano Bruno:
non ha il monopolio della forza, il potere di condannare al rogo. E non
coincide con tutta la società: per questo, non possiamo chiederle di
rinunciare al suo diritto d'azione e di parola. Come noi laici non possiamo
rinunciare al nostro. Dalla Chiesa si può entrare e uscire: ma non si
può chiederle d'accettare, nel suo seno, l'inaccettabile .
Inaccettabile, piuttosto, mi pare la posizione di chi difende i suoi sacrosanti
diritti, magari in nome di una diversa idea di natura da quella cattolica, ma
che, nello stesso tempo, chiede il consenso del Papa. Ecco il punto: la Chiesa
si guarda dentro, riflette, ma senza derogare ai suoi principi. Com'è
emerso dalle serene parole di monsignor Fisichella. Ma noi laici siamo stati
mai capaci d'accettare la condizione d'orfanezza in cui la morte di Dio ci ha
precipitati? La nostalgia risentita e moralistica con cui, ad Annozero, si
guardava al papa e la Chiesa, alla loro autorità, la dice lunga: i tempi
della maturità, per i laici, sono lontani.
Parte il coordinamento
dei consiglieri della sinistra dissidente La replica di Loreti: non siamo certo
noi a minare la tenuta della coalizione ANDREA CHIARINI Più che
"rossa" potrebbe diventare una "Cosa arcobaleno" quella
tenuta a battesimo ieri a Palazzo d'Accursio. Ne fanno parte sei consiglieri
comunali (quattro dell'Altrasinistra più i due dell'area Mussi). E' il primo passo verso una nuova
componente di maggioranza - ancora da decidere se si arriverà a un unico
gruppo oppure no - sempre più critica nei confronti di Sergio Cofferati.
Un segnale che la Quercia - impegnata nella costruzione del Partito democratico
- non sottovaluta. Al punto che sempre ieri il segretario diessino Andrea De
Maria si è chiesto retoricamente se la nuova formazione non finisca col
fare un favore all'opposizione che in Comune stenta a trovare un leader. Resta
il fatto che la sinistra radicale sta pensando seriamente a un proprio
candidato sindaco (anche se non tutti, come il verde "controcorrente"
Carmelo Adagio, sono convinti della bontà del progetto). I vertici del
Sole che ride, insieme al Pdci, si dicono già pronti a presentarsi da
soli nel 2009 in Provincia e in Comune. Per ora si muovono Roberto Sconciaforni
e Valerio Monteventi (Prc), Roberto Panzacchi (Verdi), Serafino d'Onofrio
(lista del Cantiere), Gian Guido e Milena Naldi (Sinistra democratica). I
consiglieri si sono riuniti ieri per la prima volta a Palazzo d'Accursio e
promettono di rivedersi periodicamente. Se sarà una sorta di opposizione
interna lo dirà il tempo, in ogni caso il centrosinistra senza i voti
dei sei "rossoverdi" non avrebbe più la maggioranza assoluta
in aula. Il che significa che se nascesse ora il Pd non sarebbe
autosufficiente. Mentre Ds e Margherita accelerano verso il gruppo unico, si
organizza anche la sinistra alternativa. "Abbiamo deciso di incontrarci
ogni settimana per coordinare le nostre iniziative consiliari - dice Gian Guido
Naldi - il punto di partenza è la condivisione di un giudizio critico
nei confronti dell'amministrazione che non riguarda solo l'aspetto della
comunicazione con i cittadini. Ci siamo anche impegnati per i prossimi due anni
a lavorare per attuare il programma dell'Unione. Inizia così percorso
unitario dei consiglieri alla sinistra del Pd". Nel dibattito interviene
anche il Ds De Maria aprendo i lavori al Baraccano del convegno dell'Ulivo
sulla riforma della politica. Il segretario di via Beverara corregge Tiziano
Loreti del Prc che, ragionando a voce alta sulla tornata elettorale del 2009,
aveva parlato di un candidato alternativo a Cofferati (scelto, tra l'altro,
fuori dai partiti). Affermazioni per De Maria "strane, anzi addirittura
non normali per forze che stanno insieme nella stessa coalizione". E, a
scanso di equivoci, il numero uno della Quercia spiega che "se l'obiettivo
è arrivare uniti nel 2009, i Ds ci sono e sono pronti a sentire le idee
di tutti e a riconoscere a ogni forza politica il proprio spazio. Ma se uno sta
pensando a correre da solo nel 2009, lo scenario è un altro". Se
poi si vuole polemizzare, ironizza, "polemizziamo con il centrodestra.
Così facendo, infatti, faremmo anche un favore all'opposizione che qui a
Bologna è quasi scomparsa. E questo non è un bene". La
replica di Loreti non si fa attendere. "Non siamo noi a minare la tenuta
della coalizione - dice il segretario del Prc - noi non consideriamo il
cittadino un consumatore come fa il Pd, non ci interessano gli equilibri di
potere, i rapporti con la Curia, ma vogliamo affrontare i temi concreti della
città: precariato, giovani, immigrati. Ma se le risposte sono più
polizia e il kit antidroga alle famiglie non si va da nessuna parte".
ROMA ? "Se non
vado bene è meglio dirlo subito. Se non vado bene ? scandisce il premier
col suo tono privo di impennate ? me ne vado. Ce ne sono tanti che vogliono
prendere il mio posto, fuori c'è la fila... Mi dimetto e la legislatura finisce
qui. Perché si torna a votare". La minaccia del Professore vibra tra le
pareti ovattate di Palazzo Chigi e chiude un incontro che ha il sapore della
resa dei conti. Di Pietro che mena fendenti incrociati su Visco e su Prodi,
Mastella e l'ex Tonino nazionale che si scambiano epiteti per nulla cortesi,
Diliberto che auspica le dimissioni di Padoa-Schioppa... E poi il bilancio
elettorale spietato di una sinistra compatta come un sol'uomo, lo scontro
annunciato su "tesoretto" e pensioni e pure, evento che ha gelato i
presenti, la plateale defezione del vicepremier Rutelli. "Impegni
pregressi a Milano", ha fatto sapere l'ufficio stampa Dl e così ai
piani alti è salito il ministro Beppe Fioroni. Assente anche Massimo
D'Alema, a Valencia per la Coppa America: "Io ho l'autorizzazione di
Prodi". Riunione nervosa, quasi furibonda. E dire che il Professore la
apre con un appello accorato al senso di responsabilità. Chiede a Di
Pietro di ritirare quell'atto di accusa contro Visco depositato al Senato.
Prima con le buone, poi con le cattive: "Non esiste che un ministro
presenti una mozione senza che il capo del governo ne sappia nulla". Ma
lui niente, fermo come una pietra. "Ma come non ti ho detto niente,
Romano, ti ho sempre informato, te ne ho parlato per la prima volta a
giugno". E Prodi, scuro in faccia: "Non me l'hai detto. E se l'hai
fatto, dopo non mi hai fatto sapere più nulla". Nervosissimo, Di
Pietro. Sospettoso. Quasi convinto di un complotto governativo contro la
Procura di Milano: "Vogliamo parlare del segreto di Stato su Abu
Omar?". Nervoso anche Mastella, che finisce per azzuffarsi col
responsabile delle Infrastrutture. Finché Fassino non lascia intendere che
mercoledì il governo non cadrà: "Vedrete, qualcuno
farà un passo indietro...". Poteva finire qui, col sospirone di
sollievo del Professore. Invece Giordano battibecca col leader Ds su lavoro e
previdenza e riapre la tenzone, estremisti co ntro riformisti. E Fioroni, con
le stesse parole che Rutelli scandisce nelle riunioni riservate: "Ma vi
rendete conto del clima che c'è? O siamo in grado di rimuovere tutte
queste cavolate, o è meglio che ce ne andiamo a casa".
"Diciamo che non è stata una delle migliori riunioni" lascia
Palazzo Chigi il segretario dello Sdi, Boselli. Pecoraro se n'è andato
da un pezzo quando dal portone sbucano, in favor di telecamera, Giordano,
Diliberto e Mussi. Quel che uno dice l'altro conferma, un
terzetto affiatatissimo che ha studiato nei particolari come mettere all'angolo
i riformisti, già piuttosto provati dal voto. "Tutta colpa del
Pd" è il leitmotiv dei massimalisti, assai zelanti nel porre un
freno allo slancio riformatore di Fassino. "Le pensioni non si toccano ?
fa muro la triplice ?. L'unica riforma possibile è l'abolizione dello
scalone". Il leader Ds chiede "tre o quattro misure concrete da
annunciare subito", vuole abbattere la precarietà giovanile, alzare
le pensioni minime, varare un pacchetto casa, cose non molto diverse da quelle
che teorizzano i segretari dell'estrema sinistra. Ma la parola d'ordine per i sinistri
uniti è rintuzzare Fassino per punire il Pd: "Romano, ammetti che
il vostro partito sta facendo ballare il governo" colpisce duro Diliberto,
che a forza di invocare collegialità strappa a Prodi la promessa di un
dpef scritto "tutti assieme". Si litiga, ma una gaffe di Prodi fa
ridere di gusto Diliberto e Giordano. "Dobbiamo fare un grande balzo in
avanti" sprona il premier, di certo dimenticando le conseguenze nefaste
del Grande Balzo imposto da Mao ai cinesi negli anni '50. Il segretario del Prc
chiede di non sottovalutare il "profondo malessere sociale del Nord",
vuole più risorse dall'extragettito per giovani, precari e casa e una
agenda identica propongono Diliberto e Mussi. E poi è inutile, bacchettano a sinistra, discutere di
quei due terzi di tesoretto da distribuire alle famiglie mentre Rutelli, il
teorico del taglio dell'Ici, se ne sta a Milano a inaugurar triennali. "Vi
ricordo ? si schiera con Padoa-Schioppa il rigorista Boselli ? che la vicenda
è iniziata dalla violenta polemica del vicepremier contro Prodi, proprio
sul tesoretto". Non sarà gran cosa, ma una bozza di accordo salta
fuori: ritocchi alle pensioni minime, maquillage della riforma Maroni e azioni
mirate contro la precarietà. Un vertice drammatico Monica Guerzoni.
Nell'epilogo, dunque,
il generale di fanteria Roberto Speciale da Petraperzia (Enna), "Ciccio il
comandante", come ama farsi vezzeggiare dai suoi amici forzisti e di
Alleanza nazionale, non batte i tacchi. Nella sua uscita non c'è traccia
di uno di quei suoi "Ossequiosamente obbedisco",
"Subordinatamente La saluto", con cui per dodici mesi ha omaggiato un
nuovo padrone politico cui scavava la fossa. In trenta minuti di colloquio in
via XX Settembre, comunica al ministro dell'Economia Padoa-Schioppa, che gliele
chiede, che lui alle dimissioni "non ci pensa nemmeno". Si fa mettere
alla porta e destituire dal comando con effetto immediato lasciandosi offrire
un posticino alla Corte dei conti (che forse accetterà, o forse no).
IL PERSONAGGIO Da
sconosciuto generale imposto da Pollari allo strappo finale. Oggi Speciale
forse alla festa del 2 Giugno, pensa un ricorso al Tar L'ultima partita del
Comandante E a Padoa-Schioppa dice: andarmene? Non ci penso neanche La nomina
del 2003 sotto il governo Berlusconi dopo una carriera di potere Non è
escluso che possa opporsi al trasferimento con un ricorso al Tar (SEGUE DALLA
PRIMA PAGINA) CARLO BONINI Perché questo contemplava il format che il
centro-destra aveva scritto e che con diligenza lui ha interpretato in queste
due settimane. L'uscita di scena doveva essere rumorosa. E rumorosa è
stata. Perché, da oggi, in un'ultima operazione di "spin", rumore
possa chiamare altro rumore ("La destituzione è un golpe".
"Un attentato alla Costituzione". "Un'esecuzione gappista")
convincendo il Paese di essere rimasto orfano di un generale
"spezzaferro", di un "civil servant", che non si è
piegato all'arroganza della politica. Roberto Speciale non è stato né
l'uno, né l'altro. Roberto Speciale è un fungo cresciuto nel sottobosco
in cui, per cinque anni, il centro-destra ha coltivato un disegno di controllo
degli apparati che doveva avere nell'intelligence politico-militare, il Sismi
di Nicolò Pollari, e nelle Fiamme Gialle, un nuovo potente e pervasivo
strumento di controllo e intervento a uso politico. Un grumo di potere non
più misterioso almeno da quattro anni. Di cui il governo di
centro-sinistra conosceva e conosce uomini e coordinate. Di cui ha fatto le
spese (la campagna sul caso Unipol, le intrusioni abusive nelle anagrafi
tributarie, il sistema di spionaggio illegale in Telecom). Ma a cui sin qui non
ha voluto (o potuto) mettere mano. Per insipienza, per miopia, per divisioni
interne. E a cui oggi sacrifica, non a caso, il viceministro Vincenzo Visco
(l'unico, a quanto pare, ad aver avvistato per tempo
"criticità" che altri non hanno voluto vedere). Eppure, non
era necessario un indovino per intuire come sarebbe andata a finire. Per
comprendere quale fosse la posta in gioco. Nell'autunno scorso, con l'uscita di
Pollari dal Sismi, Speciale perde il suo mentore e rimane unico custode della
potente macchina che, nel luglio 2003, gli era stata consegnata con ben altre e
per lui più consone mansioni. E' un Carneade, "Ciccio il
comandante". E, in quell'estate, quando decidono di nominarlo comandante
generale della Finanza, Berlusconi e Tremonti ne ignorano persino l'esistenza.
E' Nicolò Pollari, siciliano come Speciale, che garantisce per lui. Che
ne sollecita e impone la nomina. E' l'uomo giusto, al posto giusto, al momento
giusto, ragiona l'allora direttore del Sismi. E' una muffa degli Stati Maggiori
della Difesa che a fatica ha superato l'Accademia militare di Modena. Un
burocrate furbissimo con un debole per le belle cose (arredi e orologi), la
bella gente, i bei luoghi (Capri). Che in dieci anni (dal 1993 al 2003), da
poltrone di nessuna visibilità, ha coltivato una fitta rete di
benevolenze. Ha comandato infatti il primo Reparto dello Stato maggiore
Esercito e quindi il primo Reparto dello Stato maggiore Difesa, da dove ha
controllato "il personale" (avanzamenti e stato giuridico della
truppa e dei quadri ufficiali. Per un periodo anche la leva). Nell'estate 2003,
Pollari ha bisogno di una testa di legno che governi per conto terzi (per suo
conto) la Guardia di Finanza. Il tempo necessario al governo di centro-destra
per varare la riforma che (come per l'Arma dei carabinieri) dovrebbe consentire
di nominare al comando del corpo un proprio generale. Che prepari cioè a
Pollari, generale di corpo d'armata delle Fiamme Gialle, il suo grande rientro
quando si tratterà di lasciare il Sismi. E' un piano di cui Pollari si
compiace e che Speciale racconta in giro, vantandosene. Pollari dispone.
"Ciccio" esegue. Il Sismi si gonfia di ufficiali della Finanza e, va
da sé, anche del figlio di Speciale, cui per qualche tempo viene affidato (con
esiti disastrosi) il centro di Abu Dhabi. Speciale ridisegna i vertici del
Corpo con organigrammi dettati da Pollari e dal suo delfino, il generale Emilio
Spaziante, che dalla Lombardia (di cui controlla ogni ufficiale) viene portato
a Roma, come capo di Stato Maggiore. Speciale fa e disfa, ritenendo di non
dover neppure informare il suo comandante in seconda. Poi, il piano Pollari va
a farsi benedire. E con lui la direzione del Sismi e l'osmosi tra la nostra
intelligence militare e le Fiamme Gialle. Speciale resta il solo garante, con
pieni poteri di comando, di una ragnatela pazientemente tessuta per quattro
anni. Di un apparato che è stato il braccio operativo dell'esecutivo di
ieri, oggi opposizione. Il tentativo di Visco di cominciare a intaccarne i
gangli (Milano) è troppo. Ma è anche una magnifica occasione.
L'operazione può cominciare. E Speciale ne conosce l'epilogo. Si
aggiusterà la fascia in vita e si farà saltare come un martire
nel governo di centro-sinistra. Forse, farà qualcosa di più. Se
è vero, come dicono quando ormai è notte, che oggi, da
destituito, sederà ai Fori imperiali nel palco autorità della
Festa della Repubblica. Se è vero che in queste ore lo accende l'idea di
mummificarsi in Viale XXI Aprile ricorrendo a qualche tribunale amministrativo
contro la decisione del governo.
Cara Europa, nell’Italia di destra, governata dalla sinistra, i
padroni dei taxi ci tolgono i taxi, i padroni degli stabilimenti ci tolgono le
spiagge e i padroni delle famiglie ci tolgono la serenità di cenare
guardando un tg senza crimini consanguinei. E allora? ELENA CAMINITI, CATANIA
E allora, cara signora Elena? E allora le dirò: ci vorrebbe
un governo in sintonia, ci vorrebbe un’opposizione responsabile, ci vorrebbe
una stampa vigile, ci vorrebbe una chiesa non medievale, ci vorrebbe una
borghesia meno vigliacca ed egoista, ci vorrebbe una società civile
capace di esprimere, appunto, tutto ciò. Si rassegni, non c’è,
non esiste.
Quando le avvelenano la cena con le cronache sanguinolente della nostra Family,
ha mai sentito un intervistato della porta affianco dire: “Sì, ho sempre
pensato che fosse un farabutto”? Quando mai: “Tutta brava gente, mai sospettato
nulla”. Sono questi gli italiani che tutte le sere ci passano sui teleschermi,
sfuggendo alla responsabilità, al coraggio di esprimersi liberamente.
Come meravigliarci se alla Rai c’è chi si batte per la censura a
Santoro, come ci fosse ancora Mussolini? Se l’ospedale Galliera di Genova –
presieduto dal presule Bagnasco – abbia sospeso da due mesi le interruzioni di
gravidanza? Se i magistrati di Rignano Flaminio non riescano a raccapezzarsi
come, in un paese di 8mila abitanti, nessuno abbia saputo niente di un problema
che coinvolgeva centinaia di persone? Veda, cara signora, nel nostro paese la
democrazia è cresciuta e diventata vecchia (oggi la repubblica fa 61
anni, la costituzione 60) ma non ha creato lo spirito repubblicano, inteso come
autocoscienza di libertà, indipendenza, anticonformismo,
autodeterminazione, servizio della comunità, adempimento dei doveri,
pretesa dei diritti. Siamo ancora all’elargizione, all’accattonaggio.
Noi che ne siamo consapevoli possiamo usare l’unica arma che ci è
concessa: la parola, per dire quel che pensiamo di tutto e di tutti. Magari
rimettendoci un po’ del nostro quieto vivere. Che non è quieto, e
nemmeno tanto vivere, perché alla fine è un boomerang che ci
tornerà in fronte, a tutti.
Finanza&Mercati del 02-06-2007. Il titolo, che nel corso della
giornata è stato sospeso due volte per eccesso di ribasso, è
stato travolto da una raffica di vendite. Sono passati di mano oltre 11,8
milioni di azioni, pari al 12,89% del capitale, contro una media giornaliera di
2,3 milioni. Il tonfo di Italease (-32,41% da inizio anno) ha trascinato al
ribasso anche Bpvn (azionista di riferimento con il 30,71% del capitale), che
ieri ha perso il 3,54%, chiudendo a 21,77 euro. L'ondata ha travolto anche Bpi
(-3,40%), l'istituto che si fonderà con la Bpvn il primo luglio dando
alla luce il Banco Popolare. Con il tonfo di ieri, la perdita dei titoli della
banca guidata da Massimo Faenza ha superato 32 punti percentuali.
Giovedì, in tarda serata, l'istituto aveva comunicato che "il
potenziale rischio riferibile a strumenti derivati (attivati a titolo di
copertura sulle operazioni di leasing immobiliare stipulate dalla clientela,
ndr) attualmente si attesta a circa 400 milioni". Quindi quasi raddoppiato
rispetto ai 225 milioni del 31 dicembre scorso "per effetto
dell'evoluzione del mercato". Un peggioramento che potrebbe essere
all'origine delle dimissioni di Massimo Sarandrea, ad della controllata
Italeasing (ex Bipielle Leasing), che mercoledì 30 maggio ha lasciato il
gruppo. Sarandrea era entrato in Banca Italease nel 2003, insieme a Faenza, e
aveva avviato l'operatività dei derivati a copertura dei rischi di
tasso. Intanto ieri Cheuvreux ha tagliato il target price su Banca Italease da
42 a 38 euro confermando il giudizio di underperform. I vertici della banca
hanno precisato di aver "avviato contatti con i clienti titolari di questi
contratti per prendere decisioni a reciproca tutela". L'esito degli
approfondimenti, inclusa l'indagine interna sui rapporti con il gruppo Coppola,
saranno comunicati dal presidente Lucio Rondelli al cda del 7 giugno. Un appuntamento
importante, in cui verrà svelata anche la nuova struttura organizzativa
dell'istituto. Il mercato scommette sulle dimissioni di Faenza dalla carica di
ad (Faenza è indagato nell'inchiesta sulla bancarotta fraudolenta da 109
milioni dell'immobiliarista romano) e sull'ingresso di un nuovo direttore
generale che andrà ad affiancare Antonio Ferraris, ma avrà
cariche più operative. Mentre la presidenza resterà salda nelle
mani di Rondelli.
+ Il Gazzettino 1-6-2007 Delusione per questa
Repubblica Claudio Calligaris Guerrino
Cecotti (Udine)
La Repubblica
1-6-2007 Interrogazioni contro Iorio, governatore del Molise. (g. cap.).
L’Unità 1-6-2007 Gli impuniti Marco Travaglio
Europa 1-6-2007
Qualcosa da dire a Romano Prodi
STEFANO MENICHINI
Il Riformista 1-6-2007 Il Pd non aiuta il governo, il
governo fa male al Pd. di Claudia Mancina
Il Giornale di Vicenza 1-6-2007 Il "nodo Kosovo"
al pettine dell'Europa
2 Giugno: festa della Repubblica. Anche festa della povertà,
della disuguaglianza socioeconomica, della disoccupazione, della corruzione, dello
sfacelo della Democrazia?. Sul "palco". politici, amministratori.
elettrizzati, gonfi, appagati di trovarsi sul "piano rialzato" con
voce tonante, ma vuota, esaltano i valori della Democrazia, della
partecipazione civile e sciorinano magnanime promesse e fondamentali riforme
per il bene comune. Ma chi ascolta, radicalmente provato e conscio della caduta
della funzione civilizzante della politica, rimane deluso, sconcertato o
indifferente all'agitato vociare degli "impalcati". a quell'arte oratoria
di grandi effetti fine solo a sé stessa, sfogo del delirio
di potere: l'art pour l'art politica. La non credibilità
dei loro sermoni, infatti, è ormai un dato
comune nella gran parte della popolazione unitamente a un'esplosione di
correnti antipolitiche contro liturgie sempre più
patetiche, quasi ridicole, decaloghi inutili o ad personam, apparati senza
legittimazione democratica. E i populisti leader televisivi che fanno?
Attraggono il consenso appropriandosi dei linguaggi non politici degli esclusi
dalla cultura e dai palazzi dei poteri tanto che il popolo dei consumi e della
televisione spazzatura è uno dei loro
maggiori bacini elettorali. Infatti, i tele-leader hanno ben compreso che il
legame fra politica e collettività è il calore delle
emozioni condivise, la gestualità, l'imponenza
dell'immagine, è il mimetizzarsi a livello di massa: tale escamotage, mito
ingannevole della "teledemocrazia" viene da questi sfruttato,
consapevoli di poterci contare. Davvero sono passati i tempi in cui la proposta
e il "fare politico" sapevano diventare reale mobilitazione popolare
emotiva nella produttività delle interazioni!
"La Verità non è più ciò che è utile all'Io, bensì ciò
che serve a Noi. 'Noi' che dovrebbe identificarsi con il popolo, ma, di fatto, è
rappresentato solo dai potenti che, pur di conservare ed estendere il proprio
potere, si adoperano per alimentare la fede nella verità
cui essi non credono più". Una colata
di lava sta scendendo, una colata nera, buia, bruciante che tenta di coprirci,
di annullarci. La mattanza si fa sempre più
forte e incisiva nella carne di tutti, in particolare degli "Ultimi",
mentre continua la "moltiplicazione dei pani e dei pesci" per la
classe politica, quella classe che, secondo me, ed è
parere diffuso, ha mistificato la Democrazia e non vuole assumerla nel proprio
agire come ideale, come virtù da proporre e
praticare. La virtù democratica è Amore per la Res
publica, è disponibilità a dedicarvi energie
e risorse, è amore e rispetto di sé e degli altri, è
dignità e riconoscimento del cittadino come capace di partecipare,
discutere, decidere sulla vita pubblica, è
dialogo paritario. In ogni sistema di governo dovrebbe vivere l'ethos come
guida dello spirito dei governanti altrimenti è
inevitabile l'autocrazia e quindi lo sgretolamento dell'essenza democratica
fondata sulla scelta dell'uguale dignità
delle esistenze irripetibili nella necessità
assoluta per il riconoscimento della propria identità.
Questa è un'epoca politica d'implosione delle aspettative. Non c'è più
l'idea del futuro che deve dar senso all'operare collettivo, non c'è
l'innovazione di quella cultura-educatio essenziale a cambiare la sfera
pubblica e a reinventare la Democrazia. Ma il popolo ha una mentalità
progressista? Ha voglia di giustizia, pulizia morale, libertà, di
azione concreta e benefica? O come diceva Nietzsche "la tendenza del
gregge è sempre lasciare le cose come sono"? nel tempo in cui viviamo
e soffriamo e nel quale non si scorge più
orizzonte. è ardentemente auspicabile che la gente stanca e delusa, sfiduciata
e frustrata, nauseata e allibita ascolti con speranza il forte scricchiolio
della trasversale, oscura, cadente montagna politica che la sovrasta e la
soffoca giorno per giorno. Montagna di costi assurdi, di incredibile spreco di
denaro pubblico, di scandalosi stipendi e immeritevoli indennità,
di vergognosi benefit, di spropositato numero di parlamentari e istituzioni e
assenza di ricambio generazionale, di carrierismo opportunistico, illegalità e
ingiustizia. Ormai i mediocri e gli arrampicatori sociali hanno invaso il mondo
del potere: c'è un autentico trionfo ella superbia e del proprio ego nel tramonto
dell'umiltà, dell'onestà, della trasparenza,
dell'equità. Purtroppo l'accaparrato scanno aureo è
prezioso e non si può lasciare a costo di seguire Faust: "vendere l'anima al
diavolo". Invece, questi "signori" devono andarsene. Non vivono
la Democrazia, non ci rispettano. La ferita è
profonda e non è lacerazione dell'ultima ora, ma vecchia, necrotica piaga che si
sta progressivamente dilatando. E l'unica proposta di speranza per infrangere
la cristallizzazione dei paradigmi relazionali e di potere è
distruggere questa pericolosa architettura con un No collettivo.Gianna
BianchiCoordinatrice Fogolâr civic UdineCosti carie privilegidella politicaSul
tema dei costi e dei privilegi della politica, e più in
generale sulla questione morale, abbiamo già
scritto in passato. In questi anni la situazione è
certamente e ulteriormente peggiorata a tutti i livelli e forse anche i
risultati delle recenti amministrative trovano una parziale spiegazione in
questo argomento. Perciò, a nostro avviso,
non è più il
tempo delle denunce, bensì di cercare di
avanzare proposte credibili per riuscire a dare un contributo a quella parte
della politica che può essere riformata. L'aspetto positivo di questa situazione e che
sempre più spesso i cittadini, alle volte anche in maniera confusa e su
questioni localistiche, si auto organizzano autonomamente non avendo più
fiducia nelle istituzioni e nella politica. Gruppi che andrebbero, per quanto
possibile, "recuperati" alla politica con la "P" maiuscola.
Sicuramente la crisi della politica non è
determinata solamente e unicamente dai suoi costi e dai privilegi che produce.
Pesa senz'altro la caduta di ideologie e valori forti, anche contrapposti.Ma
sicuramente anche rimanendo al solo fronte privilegi-costi della politica molto
si può e
si deve fare da subito.E questo è un compito che da
subito le forze di sinistra debbono assumersi in prima persona. La destra
infatti può pensare di ben vivere e svilupparsi in un contesto di
"antipolitica", in cui regni il qualunquismo e la diffidenza verso i
meccanismi democratici di partecipazione e decisione. La sinistra in un clima
di questo tipo invece è destinata alla
sconfitta, soffre la disillusione dei suoi militanti ed elettori che vogliono
contare, poter dire la loro e soprattutto essere ascoltati.Deludere ancora le
attese degli elettori di sinistra, accrescere le distanze tra i palazzi e i
cittadini, non è difficile da ipotizzare, porterebbe ad una sicura sconfitta
elettorale del governo di centro sinistra. È giunto il tempo di lanciare
proposte concrete: abolizione di tutti i privilegi degli eletti in materia
pensionistica, riduzione di stipendi e indennità,
trasparenza nei contributi e finanziamenti dei partiti e testate giornalistiche
di partito, riduzioni delle consulenze a titolo oneroso, retroattività di
queste disposizioni, abolizione delle province, accorpamenti dei comuni,
gratuità della carica di consigliere di circoscrizione, ecc ecc.In questo
senso un primo passo è stato fatto dalla proposta di legge presentata dai parlamentari
Salvi e Spini.Naturalmente neppure questi provvedimenti possono essere
risolutivi se non accompagnati da un radicale cambiamento del modo di fare
politica che privilegi i contenuti e la partecipazione e che sappia respingere
i richiami dei poteri forti e delle varie lobby che perseguono interessi
personali o di parte.Riuscirà la sinistra del
terzo millennio a proporre un orizzonte credibile per lo sviluppo del nostro
paese nel rispetto dell'ambiente e dei diritti di tutti i cittadini? Dipenderà
dalla passione politica che sapremo mettere in campo, dalla capacità di
incontrarci, discutere, confrontarci. Questione morale, temi del lavoro e
dell'ambiente, del sapere e della ricerca assieme alla riduzione dei costi
della politica possono essere un buon inizio per ridare cuore, ragione,
passione e autorevolezza alla politica. Una nuova e rinnovata sinistra in campo
che non urla le sue verità, che non può ne
oggi ne domani essere avversaria del Partito Democratico ma suo leale alleato,
con idee e programmi di rinnovamento di stampo europeo.Claudio
CalligarisGuerrino CecottiUdine.
Bruxelles, 1 giu. (Apcom) - Il prodotto interno lordo (Pil) della
zona euro e dell'Ue a 27 è cresciuto dello 0,6
per cento nel primo trimestre del 2007 rispetto all'ultimo trimestre del 2006.
Lo ha reso noto oggi Eurostat, l'ufficio statistico delle comunità
europee, nella sua prima stima sulla crescita del primo trimestre di
quest'anno. La crescita del trimestre precedente era stata dello 0,9 per cento.
Su base annua (rispetto al primo trimestre 2006), le stime di crescita sono del
3,0 per cento nell'eurozona e del 3,2 per cento nell'Ue a 27.
Fra i grandi paesi dell'Unione, su base trimestrale la Spagna
mantiene il tasso di crescita più elevato con l'1,1%,
seguita dalla Gran Bretagna allo 0,7 per cento e da Francia e Gernania allo 0,5
per cento.
L'Italia è ultima con lo 0,2
per cento, dopo l'1,1 per cento dello scorso trimestre. Su base annua, in testa
sempre la Spagna al 4,1%, seguita da Germania al 3,6 per cento, dalla Gran
Bretagna al 2,9 per cento. Chiudono l'Italia al 2,3 per cento e la Francia al 2
per cento.
Ds: in Molise il
governatore aiuta i parenti
ISERNIA - Per il
governatore del Molise, Michele Iorio, la famiglia viene prima di tutto. Lo denunciano
le opposizioni in consiglio regionale, indicando incarichi e presunti benefit
ottenuti da fratelli, sorelle, figli e nipoti. La "parentopoli"
molisana è contenuta in una serie di interrogazioni del capogruppo dei
Ds Michele Petraroia. E si svolge quasi tutta ad Isernia. Si parte da uno dei
rampolli di casa Iorio, Raffaele, che in città ha aperto qualche
settimana fa un centro privato di riabilitazione, proprio mentre la Regione,
attraverso l'azienda sanitaria, decideva di chiudere il reparto di ortopedia
dell'ospedale e trasferirlo alla vicina Venafro. Di figli, il governatore ne ha
tre. Anche Luca e Davide hanno trovato, durante il governo paterno, ottimi
impieghi. Il primo, è stato assunto all'ospedale, come chirurgo,
entrando a far parte dello staff del discusso medico Cristiano Huscher, al
centro di diverse vicende giudiziarie e fortemente voluto ad Isernia, proprio
dall'azienda sanitaria regionale. Davide invece lavora nel privato. E' in forza
a finanziaria svizzera. Coincidenza vuole che questa società abbia
gestito la cartolarizzazione dei debiti della Regione, relativi proprio al buco
sanitario. Ha poi motivo di ringraziare il governatore anche la sorella
Rosetta. Nelle recentissime elezioni amministrative è risultata la più
votata dei cinquecento candidati al consiglio comunale, pur essendo alla sua
prima esperienza politica. Ora la attende un incarico di vicesindaco o un posto
di riguardo nella giunta. Rosetta Iorio è stata anche nominata direttore
del distretto sanitario della stessa città. Suo marito, Sergio
Tartaglione, invece, è primario all'ospedale civile, sempre qui. Nello
stesso ospedale lavora anche il fratello del governatore, Nicola Iorio, neo
primario del nuovissimo reparto di neurofisiopatologia, al centro di polemiche perché
poco frequentato, visto la specificità della patologia. (g. cap.).
A furia di parlare
degli scandalosi costi della politica, si trascura l'aspetto forse più
odioso della Casta degl'Intoccabili: il ritorno surrettizio
dell'immunità parlamentare, abrogata nel '93 in un sussulto di
dignità dal Parlamento degl'inquisiti. Caduta per le indagini,
l'autorizzazione a procedere restò per arresti, intercettazioni e
perquisizioni, che però può essere negata solo quand'è
provato il "fumus persecutionis". Cioè in casi
eccezionalissimi. Restò anche l'insindacabilità per le opinioni
espresse e i voti dati "nell'esercizio delle funzioni parlamentari",
molto ampliata nel 2003 con la legge Boato-Schifani: si stabilì pure che
i giudici non possano, senza il permesso delle Camere, usare le intercettazioni
quando un indagato intercettato parla con un parlamentare. Per usarle, a carico
del cittadino comune come del parlamentare, occorre il permesso del Parlamento.
Che lo nega sistematicamente. Così Montecitorio e Palazzo Madama son
tornati a essere quello che erano prima di Tangentopoli: come le chiese e i
conventi del Medioevo. Chi entra lì dentro, può aver fatto o fare
quel che gli pare. Previti, interdetto in perpetuo dai pubblici uffici il 4
maggio 2006, è ancora deputato a nostre spese: l'altro giorno la giunta
ha votato per cacciarlo, ma l'iter è ancora lungo e non si vede
francamente perché, visto che la decisione l'ha già presa la Cassazione,
inappellabile e immediatamente esecutiva. In 61 anni di storia repubblicana si
son potuti arrestare solo 4 deputati su 61 candidati alle manette: 2 richieste
accolte per l'ex partigiano comunista Franco Moranino, condannato per 5
omicidi; una per il fascista Massimo Abbatangelo, coinvolto in storie di armi;
una per il missino Sandro Saccucci, omicidio e cospirazione. Nel primo anno
della legislatura, tre richieste di arresto: tutte respinte coi voti
determinanti di parte dell'Unione oltre a quelli, scontati, della Cdl. La prima
riguardava Vittorio Adolfo (Udc), indagato per turbativa d'asta, corruzione e
truffa aggravata. Respinta. La seconda era per l'ex governatore pugliese
Raffaele Fitto (FI), proposto per gli arresti domiciliari per aver ricevuto 500
mila euro dalla famiglia Angelucci in cambio secondo l'accusa dell'appalto
da 198 milioni per 11 residenze sanitarie assistite. Respinta con applausi
bipartisan e abbracci festosi per l'onorevole miracolato. La terza investiva il
forzista Giorgio Simeoni, ex vicepresidente della giunta Storace, eletto
deputato, coinvolto nello scandalo della sanità del Lazio e accusato da
"Lady Asl" (arrestata in quanto non parlamentare: non ancora).
Secondo l'accusa, Simeoni "usava il suo ruolo per appropriarsi di denaro
pubblico in modo reiterato" e "inquinava le prove". Nella giunta
per le autorizzazioni a procedere l'Unione aveva annunciato il sì
all'arresto, ma all'ultimo momento ha cambiato idea e ha votato no. Solo Vacca
(Pdci), Palomba (Idv) e Samperi (Ulivo) han votato a favore. Arresto negato,
Simeoni salvato. Poi c'è l'abuso di insindacabilità. L'onorevole
o il senatore diffamano o calunniano un privato cittadino; questo querela o
chiede i danni; il Parlamento annulla il processo perché il suo membro agiva
"nell'esercizio delle sue funzioni". Qui, per fortuna, i giudici
possono ricorrere alla Consulta, che sempre più spesso cancella il voto
parlamentare, stabilisce che le Camere hanno abusato del proprio potere e
sblocca il processo. È accaduto per Previti che aveva diffamato
l'Ariosto, per Iannuzzi e Sgarbi specializzati nel diffamare i pm di Milano e
Palermo, per Bondi che se l'era presa con due ginecologi favorevoli alla
fecondazione assistita, per la Maiolo che aveva insultato il giudice Almerighi,
per Bossi che voleva "pulirsi il culo col Tricolore", per Boato che
aveva lanciato accuse al gip Salvini. La Camera aveva salvato persino il ds
Rocco Loreto, imputato non per le sue parole, ma per calunnia e violenza
privata, cioè per aver convinto un imprenditore a calunniare un giudice.
Nelle ultime settimane il Parlamento ha negato sempre coi voti della Cdl e di
un bel pezzo di Unione l'ok alle intercettazioni nei processi a carico di
Altero Matteoli di An (imputato di favoreggiamento) e Michele Ranieli dell'Udc
(concussione). E tra poco si vota sulle telefonate dei furbetti del quartierino
e su quelle del duo Guzzanti-Scaramella. Gentilissimi politici preoccupati per
la crisi della politica, ci fate sapere qualcosa? Uliwood party.
Due cose, con il rispetto dovuto al fondatore dell’Ulivo, a colui
che è stato il punto di riferimento del centrosinistra per dodici anni,
andrebbero dette a Romano Prodi.
La prima: che se vuole un segretario alle sue dipendenze che si occupi degli
affari correnti del Partito democratico, se lo può prendere dallo staff
di palazzo Chigi. Così comincia anche a sfoltire i ranghi. La seconda:
che se c’è qualcuno che in questo momento ha dei problemi con il
presidente del consiglio, questi è il popolo italiano. Non chi vorrebbe
dare una guida autentica, dinamica e di prospettiva al Pd.
Alla radice del conflitto in corso c’è un errore di analisi. Siccome per
anni s’è detto e scritto – ed era vero – che la debolezza di Prodi
nasceva dal non avere un partito dietro di sé, s’è coltivata l’idea che
l’Ulivo prima, poi la Margherita, infine il Pd potessero servire a colmare
l’aporia.
Dell’Ulivo e della Margherita non parliamo, è storia passata. Ma sul
Partito democratico abbiamo le idee chiare: dal punto di vista politico e
persino storico, non potrà essere il partito di Prodi perché casomai
sarà il contrario, ovvero il partito col quale il centrosinistra esce
dalla stagione di Prodi. Cioè la stagione di Prodi-Berlusconi-
Prodi-Berlusconi, eccetera eccetera.
Ciò che accade in questi giorni c’entra solo in parte con i destini del
governo. Essi non dipendono dalla competizione per la leadership ulivista, ma
dalla capacità residua di ricostruire un rapporto di fiducia con gli
italiani. Dalle scelte che verranno fatte, dall’equilibrio possibile fra le
posizioni della sinistra comunista e quelle riformiste, dalla rapidità
con cui si darà esecuzione al perfetto programma riformista suggerito
ieri dal Governatore Draghi: meno spesa corrente, meno tasse, più
investimenti.
Le chance di palazzo Chigi sono legate alla capacità di vincere il
braccio di ferro con le corporazioni.
Di chiudere la partita sulle pensioni.
Di rispettare l’impegno a tagliare i costi dell’amministrazione pubblica
centrale e periferica.
Il Partito democratico ha un altro lavoro da fare, e per questo lavoro ha
bisogno di un’altra guida politica. Deve giocare d’anticipo sul terreno dello
scontro prossimo venturo con la destra.
Deve far capire agli italiani che tipo di paese ha in mente per il futuro. Una
roba alla quale il governo attuale – neanche per suoi demeriti, ma per le
condizioni oggettive, il risultato elettorale, i numeri parlamentari –
può appena alludere.
Il governo va difeso, e deve soprattutto difendersi da sé (a solo evocare il
’98 c’è da mettere mano alla pistola). Prodi può reggere ancora molto,
poco, o così così. Comunque, non basterà la sua resistenza
a proiettarci dentro la stagione nuova che serve all’Italia. Ci vuole altro, e
ci vogliono altri, da far scegliere a quel popolo ulivista che è stato
tirato in ballo tante volte, per anni, anche un po’ a sproposito. A noi pare
un’idea molto ulivista. Diremmo prodiana.
Cara Europa, ho letto sul Corriere della sera la “reprimenda” di
Burlando a Marta Vincenzi, che, pur perdendo moltissimi voti rispetto a Pericu,
ci ha consentito di salvare la città dall’alluvione lanzichenecca. Alla
Vincenzi, che lamentava lo scarso sostegno ricevuto in campagna elettorale,
Burlando ha replicato che l’aiuto del partito c’era stato e che il
centrosinistra non ha bisogno di Giovanne d’Arco. Sarà. Ma non mi sembra
il modo di affrontare l’emergenza.
LELIO BAGNASCO, GENOVA
Lei ha ragione, caro Bagnasco. I politici debbono smetterla di
scaricarsi delle responsabilità delle sconfitte e correggere i propri
errori. Non conosco i casi di Genova da vicino, ma la perdita dei voti
dell’Unione ha una sola concausa in tutta Italia: essa si chiama governo Prodi,
rissosità della coalizione, incapacità della sinistra di
distinguere tra politiche di nicchia e politiche di governo,
refrattarietà di Ds e Margherita a costruire un partito nazionale
generale, il Pd, che doveva essere fondato col popolo e dal popolo e invece a
molti elettori è apparso sacrificato alla carriera della Casta. In
questo quadro, credo tuttavia che il governo Prodi – come sostengono i suoi
critici più costruttivi, da Ferrara a Sergio Romano – pur portando le
responsabilità massime, abbia l’attenuante d’aver affrontato una crisi
finanziaria abissale e d’averla curata, sia pure con lacrime e sangue. Si
aggiunga che questo è un paese dove, se non paghi le tasse, tutti ti
applaudono come uno capace di “fregare il governo”; se le paghi ti dissangui;
se i carabinieri restano in caserma non c’è sicurezza, se vanno a scuola
a prelevare teppistelli dediti all’hashish i presidi insorgono (si sentono
extraterritoriali) e le famiglie pure; se le convochi a San Giovanni, non per
indicare “quali” politiche per le famiglie ma solo per dire come Pezzotta
“abbasso i Dico”, accorrono in un milione, ma se preti pedofileggiano
all’oratorio, o mariti uccidono mogli incinte di 8 mesi, o bimbe pugnalano
madri e fratellini, o padri stuprano figli e figlie, o costoro massacrano
genitori per soldi, il problema viene rimosso dal popolo sperando che ci sia di
mezzo un extracomunitario, dalla Cdl provando a introdurre la censura su
Santoro, dalla stampa relegando le storie di quel porcaio di lussurie e crimini
che spesso è la famiglia nelle pagine della cronaca nera. E perché non
abolire anche questa, come già fece Mussolini? Il quale, tuttavia,
concluse che “Governare gli italiani non è difficile, è inutile”.
Anche Prodi deve convincersene, ma, poiché non ha il diritto di trascinare
tutti in un altro 25 luglio o 25 aprile, separi le sue responsabilità di
governo (un governo dimagrito, che restituisca le tasse – Ici in testa –, che
si occupi di autostrade, Tav, centrali e termovalorizzatori) e consenta al
Partito democratico di nascere e vivere federativo e pluriculturale, senza
l’ossessione di una balia il cui latte non è piaciuto alla cittadinanza
e potrebbe risultare indigesto anche al neonascente partito.
Sta accadendo una cosa imprevista: anziché essere il Partito democratico a
rafforzare il governo, è il governo a indebolire il Partito democratico.
Il timore di Prodi di essere delegittimato dal leader del partito è
comprensibile; la sua rivendicazione che leader e premier debbano coincidere
nella stessa persona, è corretta rispetto a una situazione stabile, a
partito già consolidato. Ma la situazione attuale - anche prima del
cattivo risultato delle amministrative - è tutt’altro che solida. Si
tratta di costruire il partito e dargli rapidamente un profilo, per farne un
protagonista del sistema politico. Di più: nessuno si nasconde che
bisogna recuperare una tendenza già negativa, e per questo ci vuole un
fortissimo impegno ideale e organizzativo. Tutto ciò richiede una scelta
significativa, sia rispetto alla persona, sia rispetto alla procedura di
elezione. Sarebbe veramente miope interpretare ciò che sta avvenendo
come uno smarcamento dei dirigenti dell’Ulivo dal governo o come un assedio a
Prodi. È evidente che il governo non è in ottima salute e non si
può correre il rischio di trovarsi senza governo e senza partito. Con i
congressi di poche settimane fa Ds e Margherita hanno davvero bruciato i
vascelli, come disse Parisi. Non si può tornare indietro; dunque si deve
andare avanti, e questo comporta che il partito dev’essere salvaguardato, al di
là del governo e della stessa legislatura.
Il Partito democratico non è di Prodi né di nessun altro: è dei
cittadini che lo sceglieranno, e dei militanti che hanno deciso di trasferire
in esso la loro storia. È quindi del tutto positivo che finalmente i
capi dei due partiti abbiano deciso di affrontare il problema del leader, per
quanto possa essere complicato. Un nuovo partito non nasce senza un leader riconoscibile;
questo non può essere Prodi, che è il capo di una coalizione
composita e deve rispondere a tutti i partiti che la compongono. Anche se
è inevitabile rinviare la scelta del candidato premier a un momento
più vicino alle elezioni, ci vuole un segretario, non un portavoce. Un
segretario che potrà concorrere, quando quel momento sarà
arrivato, per essere scelto come candidato premier, alla pari con tutti gli
altri.
C’è da chiedersi però come mai questo passaggio difficile non sia
stato previsto, e preparato per tempo. Ci volevano le elezioni per capirne la
necessità e anche l’urgenza? Il centrosinistra sta dando l’ennesimo
triste spettacolo, che certo porterà un contributo non piccolo alla
crisi della politica di cui si parla. C’è un modo per riprendersi?
Sì, se si cambia decisamente stile. Un primo test è quello
relativo alle modalità di elezione del leader. C’è chi vuole le
primarie, chi invece propone una elezione da parte dell’assemblea costituente,
anche per differenziare la base di legittimità di questa carica da
quella di Prodi. Ci sono argomenti a favore e contro entrambe le soluzioni: la
prima ha maggiori possibilità di coinvolgere l’elettorato, e quindi di
determinare un evento politico positivo, di cui il Pd ha molto bisogno. La
seconda, oltre a non ferire la sensibilità del premier, sembra una
investitura più adatta per non condizionare le scelte future. Ma
ciò che conta, qualunque sia la procedura seguita, è che
l’elezione scaturisca da un processo politico reale, da un dibattito sulle idee
e sulle proposte, e non da una decisione di vertice, che inevitabilmente
avrebbe un sapore oligarchico.
L’assemblea costituente si avvicina. Non ci si può arrivare discutendo
solo di cariche e di liste. Sono cose importanti, certamente; ma più
importante, se si vuole costruire un consenso intorno a questo nuovo partito,
è discutere le sue idee, elaborare la sua cultura politica. Anche le
elezioni amministrative, con la sconfitta al Nord, ci dicono che c’è un
problema di cultura politica: quella del centrosinistra, a quanto sembra,
è vecchia e arretrata rispetto alla parte più dinamica del paese.
I partiti servono per questo: per discutere, analizzare, elaborare, raccogliere
proposte; la scelta dei leader si fa sulla base di una battaglia delle idee. In
Europa è così. E in Italia?
Bella l'appassionata
difesa del Parlamento da parte di Stefano Rodotà. Bella, ma anche
pericolosa. Nel suo generoso e condivisibile tentativo di arginare la marea
montante dell'antipolitica, infatti, l'amico Rodotà rischia di fornire -
certo senza volerlo - ottimi argomenti a coloro (e non sono pochi) che in
realtà intendono lasciare le cose come stanno nell'inconfessabile
speranza che anche questa ondata di confuso malcontento prima o poi passi, come
sovente accade in questo paese. Perché sarà giusto sostenere che la
riduzione del numero dei parlamentari andrebbe coordinata con una riforma più articolata delle funzioni delle
due Camere, di cui lo stesso Rodotà offre alcune argomentate
esemplificazioni. Ma forse è altrettanto giusto riconoscere che la
praticabilità politica di una ridefinizione complessiva dell'istituto
parlamentare è oggi pari a zero. Almeno alla luce degli equilibri
numerici dell'attuale Senato, ma anche politici della Camera dei deputati.
Insomma, sarebbe ottima cosa rivedere un defatigante bicameralismo perfetto o
rendere più cogente, per esempio, l'iniziativa legislativa popolare.
Altrettanto lo sarebbe immaginare che i nostri parlamentari possano disporre di
staff e di servizi analoghi a quelli che operano nel Rayburn Building di
Capitol Hill. Ma Roma non è Washington. Non lo è sotto il profilo
dell'impianto costituzionale: la nostra, nonostante tutto, è e rimane
una democrazia parlamentare, mentre negli Usa il Congresso fronteggia un
esecutivo presidenziale dai poteri forti, talora prepotenti. Ma non lo è
anche sotto il profilo funzionale: i tempi decisionali delle nostre Camere sono
incomparabili con quelli altrui. Non per caso perfino il presidente della
Repubblica si è appena sentito in dovere di intervenire sulla questione
per sollecitare il Parlamento a darsi, come s'usa dire, una mossa in termini di
efficienza. In quest'ambito la secca proposta di ridurre il numero dei
parlamentari - per esempio, a 400 deputati e 200 senatori - può apparire
semplificatoria rispetto alla complessità dei problemi. O, peggio,
potrebbe sembrare perfino una capitolazione dinanzi al cretinismo
antiparlamentare - quando non antidemocratico - che anima sotto traccia molte
delle attuali critiche ai costi della politica. E però, proprio perché
esiste questo rischio, chi opera dentro la cultura politica della sinistra
dovrebbe tenere ben dritte le orecchie. Si tratta di non ripetere in materia
errori i cui effetti, in altri campi, stanno venendo clamorosamente alla luce.
Un primo esempio: è vero che sotto un diffuso disagio popolare in tema
di gestione dell'immigrazione covano spinte sia di razzismo latente sia di
miope autarchia economica. Ma coi loro malcerti modi di contrastare questi
minacciosi impulsi, partiti e amministratori della sinistra hanno finito per
perdere contatto con molte realtà sociali scomode. I risultati di questo
astratto arroccamento in difesa di valori per altro sacrosanti si sono appena
visti nelle ultime elezioni in grandi capoluoghi del Nord. Dove la sconfitta
è stata duplice, perché a quella numerica nelle urne occorre sommare
quella politica di avere regalato più potere e spazio proprio a chi
fomenta l'intolleranza sociale. Un secondo esempio: è vero che le
resistenze interne alla sinistra sul nodo delle pensioni (età di
quiescenza e coefficienti di calcolo) mette radici in un disagio diffuso fra
coloro che si sentono prossimi al ritiro dal lavoro. Un disagio che i sindacati
rappresentano con forza, forse anche con qualche eccesso. Ma è altrettanto
un fatto che non voler completare oggi la riforma del sistema significa anche fare una precisa scelta di classe,
ancorché generazionale: cioè, proteggere gli interessi dei padri contro
quelli dei figli, come s'è fatto per decenni lasciando correre il debito
pubblico. E anche in questo caso gli effetti si vedono. A che serve che i
partiti di sinistra si lamentino della scarsa propensione dei giovani
all'impegno politico oltre che al voto? Come si può attirarli se gli si
governa contro? Sulla questione dei costi della politica la sinistra si trova
dinanzi a un bivio assai simile a quelli descritti. Lasciare spazio alla destra
perché possa cavalcare demagogicamente il disagio popolare ovvero assumere
proprie, rapide e forti, iniziative? Lasciamo perdere le proposte di cui più si parla - come la
revisione dell'età per i vitalizi o la soppressione dei consiglieri
circoscrizionali - che stanno a metà fra il placebo e il rito
pseudopenitenziale, come lo chiama sarcasticamente il ministro Bersani. Non si
tratta stavolta di contare le foglie degli alberi, ma di incidere sulla
dimensione della foresta. Insomma di cominciare dal flusso maggiore dei costi
della politica - il numero dei parlamentari - per poi poter proseguire a
cascata sul resto. In chiave di cultura politica soprattutto di sinistra,
questo passaggio comporta una riduzione anche del livello di
rappresentatività del Parlamento. Perché una simile operazione è
anche una riforma elettorale implicita in quanto alza e non di poco il quoziente necessario
per l'accesso a Montecitorio e a Palazzo Madama. Ma è proprio qui la
scelta da compiere. La scarsa efficienza del Parlamento dipende in larga misura
dal fatto di avere finora privilegiato il valore della rappresentatività
rispetto a quello della capacità decisionale. Come dimostra la
proliferazione di gruppi parlamentari e il potere di condizionamento sulle
scelte nelle mani di forze politiche, magari di piccola presa nel paese ma di
sovrabbondante potestà in Parlamento. La sinistra può continuare
a pensare che il tenore della rappresentatività debba essere un valore
superiore e perciò fissarlo nel bronzo della nuova riforma elettorale. Il prezzo che rischia di pagare per questa sua scelta è
già alto oggi in termini di governabilità, potrebbe rivelarsi
esiziale domani se alla destra si farà il duplice regalo di lasciarla
coltivare il fertile campo del malcontento popolare e di sottrarsi al banco
d'esame della riduzione dei parlamentari, tema sul quale non sarebbe male veder
ballare anche i seguaci di Berlusconi, Bossi e Fini. Poi, di sicuro, ci sono
anche altre riforme da fare per riqualificare il Parlamento. Il meglio,
però, è sempre stato nemico del bene.
BRUXELLES - Nove
banche italiane sono finite nel mirino della Commissione europea per gli incentivi fiscali introdotti dalla Finanziaria
del 2004 che hanno permesso loro di sbloccare le plusvalenze realizzate con le
privatizzazioni degli anni '90 dietro il pagamento di un'imposta ridotta. E se
l'indagine formale aperta ieri da Bruxelles confermerà i sospetti dalla
responsabile Ue per la Concorrenza, Neelie Kroes, gli
istituti di credito saranno costretti a restituire alle casse pubbliche i 586
milioni di euro che hanno risparmiato grazie alla tassazione di favore creata
dal precedente governo senza notificarne il contenuto all'Unione europea. A non
convincere Bruxelles è la norma inserita nella manovra di tre anni fa
che consente agli "ex istituti di credito di proprietà dello Stato
di sbloccare i capitali latenti generati dalle ristrutturazioni aziendali degli
anni Novanta attraverso il pagamento dell'imposta nominale del 9% al posto di
quella ordinaria applicata alle società del 37,5%". In particolare,
la Commissione ricorda che con la legge del 1990 sulla
privatizzazione degli istituti di credito è stata attuata una vasta
riorganizzazione delle banche pubbliche, mentre la Finanziaria del 2004 ha
introdotto la possibilità di rimettere in circolo le plusvalenze latenti
derivanti da tali privatizzazioni - fino a quel momento rimaste congelate sotto
forma di riserve di capitale - pagando un'imposta ridotta e per di più
spalmabile in tre rate senza interessi (l'ultima è stata versata nel
2006). E secondo le informazioni raccolte da Bruxelles diversi gruppi bancari
hanno riallineato il valore dei loro attivi proprio sfruttando il regime
fiscale favorevole sui 2 miliardi di euro di plusvalenze realizzate con le
ristrutturazioni dello scorso decennio Nel mirino della Commissione sono quindi finite nove banche, ma il
portavoce della Kroes ha spiegato che Bruxelles non ne conosce
l'identità (a parte Banca Intesa, secondo indiscrezioni). Una situazione
paradossale, praticamente un'indagine contro ignoti, che viene spiegata
sottolineando che al tempo dell'approvazione degli incentivi l'Italia non ha
notificato all'Ue la loro introduzione, spingendo
così la Kroes ad interessarsi del dossier di propria iniziativa e
basandosi su semplici notizie di stampa. Ad ogni modo Bruxelles teme che
"lo sblocco delle plusvalenze potrebbe incidere in misura eccessiva
sull'attuale processo di consolidamento dei conglomerati bancari nell'Ue senza contribuire in modo significativo
allo sviluppo economico". Insomma, gli incentivi "potrebbero produrre
un impatto negativo sulla concorrenza" attraverso "un aumento del
valore economico delle banche agli occhi degli investitori e degli acquirenti
aziendali". Il che porterebbe gli incentivi ad essere condannati in quanto
aiuti di Stato contrari alle regole comunitarie. Per spazzare il campo da ogni
dubbio la Commissione ha quindi deciso di aprire un'indagine
formale, passo che permetterà ai tecnici della Kroes di "valutare
in maniera più approfondita la misura e di calcolare l'entità del
vantaggio fiscale" e alle parti coinvolte di inoltrare a Bruxelles le
proprie difese.
La Consob ha applicato sanzioni amministrative
pecuniarie di 181.900 euro a 25 componenti dei vertici (consiglieri e
amministratori) del Banco Popolare di Verona e Novara per volazioni commesse
nella negoziazione di bond Argentina, Cirio e Parmalat nel 2001, quando,
cioè, si chiamava ancora Banca Popolare di Verona-Bsgsp. Le multe sono arrivare a seguito
dell'attività ispettiva della Commissione di vigilanza che aveva
coinvolto anche vari altri istituti di credito tutti sanzionati anche essi (tra
cui Bnl, Pop Ancona, Credem, Carifirenze, Antonveneta, Agricola Mantovana,
Cassa di Risparmio Torino-Unicredit, Banca di Roma-Capitalia, Cariplo-Comit-Intesa, San Paolo Imi, Credito
Italiano-Unicredit, Bpm). Le sanzioni complessivamente applicate sono state
pari in totale a 10,6 milioni di euro. Per il Bpvn l'importo della multa varia
da un minimo di 5.900 a un massimo di 11 mila euro, mentre per gli altri
istituti si arriva anche 52.600 euro, in proporzione alle irregolarità riscontrate
dalla Consob. Irregolarità che vanno
dall'"assenza di procedure idonee allo svolgimento del servizio di
negoziazione in conto proprio" alle informative agli investitori alle
ricezioni e trasmissione di ordini. Al banco sono state contestate I reclami
presentati al Banco per i bond Argentina, Cirio e Parmalat nel 2005 sono stati
943, in netto calo rispetto ai 1.307 dell'anno prima.
Palermo Costi della politica, il dibattito investe anche la Sicilia. Il giorno dopo l'ennesimo
rinvio dell'assemblea regionale per assenteismo, i Ds aprono la polemica: il
capogruppo all'Ars Antonello Cracolici, presenta un disegno di legge contro gli
sprechi, la leader dell'Unione, Rita Borsellino,
propone che ogni sei mesi il consiglio regionale presenti un rendiconto ai
cittadini sul lavoro d'aula e il contenimento dele spese. Ma il governatore
Totò Cuffaro dice, intanto: "Non voglio essere ipocrita. Guadagno
150 mila euro all'anno che è un quinto di quanto guadagna l'onorevole
Michele Santoro. E io ho qualche spesuccia in più di lui, se non altro
per tutti i regali di cresima e matrimonio a cui vengo invitato". Il suo
stipendio non si tocca: "Avendo scelto di non rubare non mi scandalizza la
mia busta paga", osserva. Ed elenca: "Prendo al mese 8.500 euro,
più l'indennità da presidente della regione, altri 3.200 euro al
mese. Il totale è di tutto rispetto: 11.700 euro. Però "cominciare
a discutere di tagli ai compensi è solo ipocrisia. Non capisco il
presidente della Camera, Fausto Bertinotti che dice che deve tagliare lo
stipendio ai parlamentari del 50%. Avremmo un Parlamento di imprenditori che
non hanno problemi di soldi nel mantenere la segreteria e la famiglia. Non
è che un parlamentare regionale debba guadagnare quanto un dipendente
pubblico". Giù le zampe dagli emolumenti. Meglio contingentare i
tempi di intervento in aula dei deputati e multare di 500 euro gli assenteisti.
Il centrodestra - c'è da sorprendersi? - è tutto d'accordo con il
governatore della Sicilia. Da An, con il presidente della commissione affari
costituzionali all'Ars Nicola Cristaldi, arriva il richiamo sulla
"lentezza esasperante di trovare soluzioni ai problemi dei cittadini"
e l'invito a maggioranza e opposizione di trovare soluzioni per rivedere la
legge elettorale per i Comuni e le province, ma anche il sistema che incide sui
costi in maniera spropositata. Forza Italia,
dice il capogruppo all'Ars Francesco Cascio è d'accordo con le multe e propone
di pubblicare ogni giorno i nomi dei deputati assenti in aula e in commissione.
Un'idea che "farà un po' di rumore ma non risolve il
problema", ribatte Tonino Russo, segretario dei Ds siciliani:
"L'improduttività dell'Ars, infatti, dipende dall'assoluta mancanza
di proposte del governo e dalla continua litigiosità della maggioranza,
che non riesce a mettersi d'accordo e paralizza il parlamento. Se si aggiunge
l'inadeguatezza del presidente Miccichè, ne viene fuori un cocktail
micidiale per la Sicilia".
? MILANO ? "CHE
SIA CHIARO, i luoghi della massima inefficienza in Italia sono lo Stato e il
Parlamento". Attacca invece di difendersi, il presidente della regione
Lombardia Roberto Formigoni, dopo le recenti polemiche sui costi della politica. E contrattacca coi numeri per sottrarsi a quella che definisce
"una scorciatoia fuorviante", quella dei "tagli per tutti".
Perché si dovrebbe tagliare una regione che, dati alla mano, ha il più
basso numero di consiglieri per abitanti? NON SOLO. Il governatore descrive i
molti virtuosismi della sua gestione: dipendenti ridotti da 4.109 a 3.000,
dirigenti da 660 a 250, aziende sanitarie da 85 a 44. In realtà,
controbatte il consigliere di opposizione Luciano Muhlbauer (Prc), "questi
lavoratori mancanti continuano a essere pagati dal contribuente lombardo. Infatti
si tratta di centinaia di lavoratori dei centri di formazione professionale
passati dalla Regione alle Province, di un altro nutrito gruppo trasferito dal
Pirellone all'Arpa, e di molti precari dipendenti di varie cooperative che
lavorano direttamente per l'amministrazione regionale". In sostanza, per
l'opposizione si tratterebbe di esternalizzazioni e trasferimenti. D'accordo
anche la Margherita, mentre Ds e Verdi puntano il dito contro la spesa per la
comunicazione che, denunciano, ammonta a 15 milioni di euro l'anno. MA SONO
anche altri i numeri che fanno paura. Quelli dati dall'assessore alle Finanze
Romano Colozzi: "Ogni giorno per i ritardi nel trasferimento dei soldi dal
Governo centrale alla sanità lombarda paghiamo 220mila euro di
interessi. In una settimana vengono divorate risorse pari al costo di un anno
di tutte le auto di servizio della Regione e in soli due giorni quelle pari al
costo di tutte le spese di rappresentanza di un anno". Quindi urge il
federalismo fiscale, ma su questo ormai sono tutti d'accordo in Lombardia. Ma
intanto, niente tagli per tutti. ANCHE PERCHÉ secondo Formigoni la Lombardia si
conferma "regione virtuosa anche dal punto di vista della trasparenza.
Siamo stati i primi a iscriverci al sistema Siope, che rende i bilanci leggibili
da tutti". E poi, ribadisce, i costi della politica "vanno analizzati anche in base al
rapporto costi-benefici per il cittadino". E in
effetti i 40 euro per abitante, ossia il costo del funzionamento dell'intero
ente Regione, non sono molti se raffrontati alla media di 80 delle altre
regioni. Lunedì il presidente della Regione incontrerà a Roma il
presidente del Messico Felipe Calderon in visita in Italia. "Tra i temi
che affronteremo - ha preannunciato Formigoni - la candidatura di Milano per
l'Expo 2015 (il Messico è infatti uno dei 98 Paesi Membri del Bie -
Bureau International des Espositions chiamati a decidere sulla sede);
l'organizzazione della terza Conferenza Nazionale sull'America Latina che si
svolgerà a Roma dal 14 al 18 ottobre e la proposta di una nuova Intesa
tra Regione Lombardia e Stato di Nuevo León per l'avvio di collaborazioni in
campo economico e formativo".
Il tema della
riduzione dei costi della politica è da giorni al centro del dibattito ed accoglie autorevoli
interventi. Martedì, su queste stesse pagine, il presidente Errani ha
lanciato la proposta di un "patto tra le Regioni" per offrire
soluzioni positive ad un tema che chiama in causa l'intero sistema politico.
Accolgo questa sollecitazione e propongo di avviare un processo che coinvolga
le autonomie locali. D'altro canto le Regioni sono state chiamate in causa
dallo stesso ministro Lanzillotta che ha invitato i Presidenti a ridurre del
10% le spese della pubblica amministrazione, agendo su indennità dei
consiglieri, società partecipate e struttura organizzativa. Intendo
testimoniare l'esperienza della Regione Marche che ha avviato un'azione di
riforma del sistema politico e amministrativo con risultati che vanno
esattamente nella direzione auspicata dal Governo. Nel periodo 2004/2006 la
spesa pro-capite per il funzionamento della macchina amministrativa è
scesa dai 105 ai 95 euro per ogni cittadino marchigiano. Nella sua relazione
annuale la Corte dei Conti ha sottolineato come le Marche siano tra le Regioni
che destinano alle spese istituzionali la minore quota di bilancio. È il
risultato di una azione di semplificazione della struttura organizzativa, con
un risparmio di 10 milioni di euro; della riduzione di due terzi dei posti nei
Consigli di Amministrazione delle agenzie regionali, del numero degli enti
strumentali. Nello stesso periodo le spese delle consulenze sono passate da
oltre 3 milioni a 531 mila euro, le indennità dei Consiglieri regionali,
Assessori, Presidente, dirigenti della sanità si sono ridotte del 10%.
Insieme a queste misure di risparmio è cresciuta la capacità di
attrarre risorse europee e la lotta all'evasione ha aumentato il gettito della
fiscalità regionale. Questo ci ha permesso di aumentare le
disponibilità di bilancio da dedicare allo sviluppo, alla sicurezza,
alla protezione sociale ed al territorio. Alcuni dati sono significativi: nel
periodo preso a riferimento, le risorse che la Regione ogni anno destina a
ciascun cittadino, sono passate da 1.795 a 1.980 euro per la sicurezza e la
protezione sociale, da 75 a 138 euro per lo sviluppo, da 181 a 223 euro per le
infrastrutture territoriali e difesa dell'ambiente. Naturalmente si può
fare di più e meglio. Ma per aumentare l'efficienza del sistema occorre
anche la disponibilità del Governo. Un esempio concreto: quest'anno la
Regione Marche ha pagato 32 milioni di interessi passivi per il mancato
trasferimento, da parte dello Stato, di oltre 834 milioni di euro, di cui 504
derivanti dalle tasse addizionali regionali (Irap e Irpef). Una situazione
paradossale, che drena risorse altrimenti utilizzabili e che finiscono per
incrementare i costi impropri. Quindi, se è necessario
tagliare, occorre anche aumentare le sincronie del sistema. Anche se appare
lontana una soluzione per il federalismo fiscale, le Regioni devono poter
contare su un rapporto più corresponsabile con lo Stato, dato che il
sistema delle Regioni e delle Autonomie locali gestisce circa il 60% del totale
della spesa per gli investimenti pubblici. Un dato che deve far riflettere, per
evitare che il tema "dei costi della politica" assuma aspetti soltanto emotivi che
non contribuiscono a migliorare l'organizzazione e l'efficienza del sistema.
Ridurre i costi ed aumentare l'efficienza sono condizioni
essenziali ma ancora non sufficienti. Serve anche qualcos'altro alla politica per recuperare la distanza dai cittadini.
Occorre un colpo d'ali perché la sfida a cui la politica è chiamata è anche quella di sapersi riscoprire
agenzia di senso e di orientamento. Si sente il bisogno di una politica che sappia progettare e farsi carico di
quel governo della complessità che la società richiede. E qui si
consuma il paradosso di un sistema politico che appare incapace di rispondere
alle nuove sfide e che si allontana sempre più dalla società,
proprio mentre quest'ultima si avvicina sempre più alla politica. Infatti, i cittadini non chiedono
"meno politica", ma più politica. Una politica attenta, però, ai bisogni concreti, capace di garantire opportunità
e diritti, efficiente ed efficace sia nel disegnare perimetri che nell'indicare
direzioni. Chi si auspica e predica di poter fare a meno della politica fa male i suoi conti. Semmai si sente il
bisogno di un "nuovo inizio", dove il senso del "progetto"
sia nel comune sentire di valori condivisi e di una civile appartenenza. Se
questo è ciò che ci viene richiesto, se fare politica deve essere inteso come un viaggiare
insieme nella stessa direzione, occorre che sul grande autobus che accompagna
la comunità verso il futuro ci sia anche scritto: "Per favore,
parlate al guidatore". Allora fare politica può anche non essere difficile, se si ha la mente libera
dai condizionamenti del consenso a ogni costo e dalla disperata ricerca delle
rendite di posizione. Niente è più facile che perdere tutto per
voler testardamente conservare ciò che si possiede e che non serve
più.
WASHINGTON
Cravatta rossa, spilla dorata a forma di bandiera sul risvolto della giacca
grigia ed espressione determinata sul volto, il presidente americano, George W.
Bush, ci accoglie nella sala della West Wing intitolata a Teddy Roosevelt, il
precedessore repubblicano passato alla Storia per le riforme di inizio ‘900. Un
quadro ritrae Roosevelt in divisa mentre è in sella a un cavallo bianco
nella prateria. Sulla parete a fianco campeggiano le bandiere dei corpi scelti
attorno a un mobile in legno con sopra il bronzo di un bisonte gigante
impegnato a difendersi dall’assalto dei lupi. E’ in quest’ambiente ricco di
simboli e richiami ai valori a lui più cari che Bush incontra «La
Stampa» assieme ad altri giornali europei per presentare i messaggi di cui
è portatore nel viaggio che inizia lunedì a Praga, prosegue in
Germania per il G8 e Polonia e quindi farà tappa a Roma per gli incontri
in Vaticano e Palazzo Chigi prima di proseguire alla volta di Albania e
Bulgaria.
Quando si mette seduto al centro del tavolo con al fianco i consiglieri Stephen
Hadley e Dana Perino Bush ha di fronte appunti preparati che non legge, due
mentine che non tocca e un bicchiere d’acqua che resterà pieno fino al
termine dell’intervista. Ha qualcosa da dire e lo vuole fare in maniera chiara,
senza preamboli, riaffermando il proprio stile.
Presidente Bush, che cosa verrà a dire
all’Europa?
«Vengo per discutere un’agenda basata sulla libertà, il G8 è al
centro del viaggio assieme ai bilaterali in cui si discuterà di Iraq,
Afghanistan e Iran, ma all’inizio parlerò a Praga al Forum della
Democrazia di Havel per affermare con forza che il compito dell’America
è promuovere la democrazia nel mondo, anche in luoghi che non sembrano
troppo ospitali».
E la tappa a Roma?
«Vedrò per la prima volta Benedetto XVI e la mia intenzione è
soprattutto di ascoltarlo. Poi vedrò il primo ministro Prodi che conosco
da tempo, ricordo quando era presidente della Commissione Europea e ricordo
anche quando ci incontrammo mentre stava correndo su una spiaggia della Georgia
al summit del G8 del 2004, c’è fra di noi una forte amicizia».
Quali valori sente di condividere con Benedetto
XVI?
«Il comune rispetto per vita e dignità dell’uomo. Credo che il Santo
Padre è lieto del fatto che gran parte della nostra politica estera
è basata sul principio secondo cui a chi molto è dato, molto
è richiesto. Condivido con lui il desiderio di combattere la
povertà e le malattie. Spendiamo 30 miliardi di dollari per combattere
l’Aids in Africa, fra i molti che aiutano questi programmi per circa 30 milioni
di persone vi sono enti cattolici. Sono orgoglioso dei tanti cattolici
americani che si offrono volontari. Credo anche di condividere con Benedetto
XVI il valore universale della libertà, che non è solo un’idea
occidentale. La Storia ha dimostrato che le democrzie non si fanno la guerra e
dunque la migliore maniera per raffozare la pace è promuovere le
libertà. Spero che parleremo a lungo, è un solido pensatore, vado
con mente molto aperta e sono pronto ad ascoltare».
Usa
e Vaticano possono operare assieme su scenari come Cuba, Cina o Libano?
«Se il Papa vorrà, mi farà piacere parlare di Cuba e del suo
desiderio di essere libera. Nel momento in cui c’è una transizone verso
una nuova leadership il mondo deve lavorare per la libertà, non per la
stabilità. In cima all’agenda non ci deve essere il nome di chi governa
ma elezioni libere, stampa libera, liberazione dei prigionieri. Riguardo al
Libano confermerò al Papa il sostegno al governo Siniora, il
rafforzamento che ha avuto grazie al varo all’Onu del Tribunale sull’omicidio
di Hariri e la nostra determinazione a impedire interferenze straniere. Sulla
Cina dirò al Papa che gli parliamo con chiarezza delle libertà
religiose, gli ricorderò che sono stato in una vera Chiesa in Cina e gli
assicurerò che continueremo a batterci per i cattolici in Cina»
Come giudica la linea del governo Prodi
sull’Afghanistan?
«Prodi sta facendo delle scelte difficili sull’Afghanistan e spero che la mia
visita le rafforzerà. Voglio sedermi con Prodi e parlare con lui di
quanto è importante l’impegno italiano in Afghanistan, ora e in futuro».
Cosa si aspetta dalla presenza italiana?
«Il ruolo italiano è importante, fa sapere agli afghani che esiste la
volontà di aiutarli a consolidare la loro giovane democrazia. L’Italia
dà importanti contributi nell’addestramento della polizia e
dell’apparato giudiziario. Sono di valore».
E nella guerra al terrore, qual’è la
partnership con l’Italia?
«La cooprazione di intelligence fra noi e l’Italia è solida. Ci parliamo
in maniera tale da proteggerci a vicenda perché i nemici vogliono ancora
colpirci. Sono pericolosi, ideologici e dobbiamo prenderli sul serio. Il
rischio resta, ho bisogno del pieno impegno delle nazioni libere su questo
terreno. L’Italia è un forte alleato a tale riguardo, lo apprezzo molto»
A Roma i manifestanti la aspettano con la
dimostrazione «No Bush Day». Se potesse parlargli, cosa gli direbbe?
«Quando
si va in Paesi liberi spesso si vedono proteste. E’ la libertà di
parola. E’ possibile che vi saranno proteste non solo a Roma ma anche in
Germania. Quando i leader si riuniscono la gente vuole far sapere come la pensa
in tv. Sono contento di andare in un Paese dove c’è la libertà di
parola, è il segno dell’esistenza di una società robusta. Ricordo
cosa avvenne a Genova, fu dura».
Come risponde alle proteste di Mosca contro lo
scudo antimissile in Europa?
«Il mio amico Putin vede nello scudo qualcosa che lo minaccia ma in
realtà lo scudo difende i Paesi europei dal lancio di missili da Paesi
ostili, non dalla Russia che è un amico. Non andiamo sempre d’accordo
con la Russia ma questo avviene quando si è amici».
Lei dice che Putin è un suo amico ma i
rapporti non sono mai stati tesi come ora...
«Siamo molto trasparenti con Mosca. Ho mandato il Segretario alla Difesa Robert
Gates a Mosca per invitare la Russia a partecipare allo scudo. Vogliamo
condividere la tecnologia, non abbiamo nulla da nascondere ma schierare lo
scudo è la costa giusta da fare. Chi pensa che la Guerra Fredda continui
si sbaglia, siamo nel XXI secolo e dobbiamo affrontare le nuove sfide:
l’ideologia estremista e la proliferazione delle armi di distruzione.
C’è molto da fare assieme alla Russia, continuerò a parlarne con
Putin».
Cosa c’è dietro la sua determinazione di
realizzare lo scudo sull’Europa?
«Sono molto preoccupato dalla possibilità che un missile iraniano possa
essere lanciato verso l’Europa o verso qualsiasi altro nostro alleato. Non
vogliamo trovarci nella condizione in cui l’Iran potrebbe ricattarci. Una
maniera per evitarlo è la difesa antimissile».
La sua popolarità è molto bassa
in America e all’estero è contestato. A 18 mesi dalla fine della
presidenza è deluso?
«Sento cosa dice la gente ma la nostra nazione è stata attaccata ed
è ancora minacciata. La migliore maniera per difenderla è andare
all’attacco e non lo facciamo da soli ma con alleati e amici. Per difenderci
dobbiamo farlo prima che la minaccia si materializzi, le decisioni prese in
Iraq e Afghanistan sono state giuste. Ora bisogna aiutare queste giovani
democrazie a sopravvivere. Se le democrazie non posso aiutare altre democrazie
allora è la stabilità di tutti ad essere in pericolo. Siamo
impegnati in una lunga guerra contro nemici che usano grandi risorse per
sconfiggere la democrazie».
I disaccordi sull’ambiente rischiano di far
fallire il summit del G8...
«Non credo. Si tratta di contributi diversi per trovare un accordo. Rispondendo
alle sollecitazioni della Merkel ho detto che serve un accordo per il
dopo-Kyoto: deve prevedere un obiettivo internazionale sulla riduzione dei gas
inquinanti da raggiungere con il contributo non solo di Usa e Ue ma anche di
Cina, India e Russia. Ogni nazione deve darsi un proprio obiettivo, compatible
con la propria economia. Riguardo all’America, sarà la tecnologia a
trovare le risposte. Sono pronto a dire al G8 quanto sta già avvenendo:
ad esempio 6 miliardi di litri di etanolo prodotto da granturco sono usati
dalle auto e nel corso del prossimo anno metà delle vetture saranno
flex-fuel. Bisogna investire nelle tecnologie e poi condividerle con altri.
Abbiamo un’iniziativa con Russia, Cina e India e Francia sul riciclaggio di scorie
nucleari. Altri Paesi hanno esempi da seguire: è interessante quanto fa
il Giappone sull’energia da batterie».
Nulla è,
spesso, peggio dell'apatia della politica internazionale. Negli anni Novanta l'Europa fu distratta
e apatica di fronte alla violenta dissoluzione dell'ex Jugoslavia. Sappiamo
come andò a finire. Ci volle la determinazione degli Stati Uniti; una
guerra dai contorni ancora discutibili e ormai otto anni di decadente e ancor
più contestabile regno delle Nazioni Unite. Il Kosovo rimane nel suo limbo.
Una soluzione negoziale fra la Serbia e la provincia irredentista è
stata disperatamente cercata dal mediatore internazionale Martti Ahtisaari. Non era possibile, semplicemente, perché
Belgrado e Pristina non vogliono, non possono o non sanno ancora parlarsi. Alla
fine, l'unica via d'uscita rimasta è la proposta Athisaari. Un Kosovo
indipendente, ma dalla sovranità limitata e sotto rigido controllo internazionale, a garanzia soprattutto dei diritti e
degli interessi della minoranza serba. Impossibile illudersi. Neppure dopo otto
anni di "scuola Onu", Pristina può pretendere di essere una
capitale democratica. Non sono bastati i miliardi di euro profusi dall'Europa
per dare al Kosovo un aspetto diverso da quello di una landa devastata.
Inutili, pure, tutti i costosi tentativi di dar vita a un'economia reale, che
resta moribonda mentre prospera quella criminale. Eppure, non c'è altra
soluzione possibile! E la diplomazia non è un'arte perfetta, ma solo
quella del possibile. La Russia non ha considerazione particolare per la
Serbia. Fa il suo gioco e lo sta conducendo con energia a tutto campo. Nel
copione di Putin il veto sulla nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza sul
Kosovo non è un favore dovuto né necessario a Belgrado. E solo un
tatticismo per marcare il nuovo corso della diplomazia del Cremlino. Il tempo
stringe. I capipopolo di Pristina sanno che ne rimane poco. Il rapporto
Athisaari ha illuso i kosovari-albanesi che l'indipendenza fosse questione di
settimane; di mesi al massimo. Ne sono passati già quasi sette. L'estate
potrebbe portare a nuove esplosioni di violenza; anche perché il quadro
politico e istituzionale kosovaro sembra al rimasto privo d'ogni riferimento.
L'amministrazione internazionale dell'Onu è ormai, fin da troppo
tempo, sul piede di partenza. La Lega Democratica del Kosovo, dopo la morte di
Rugova, si è spaccata in almeno due correnti avverse e agguerrite. Dopo
la nuova estradizione di Ramush Haradinaj, l'altra componente al governo,
l'Aak, è diventata irrilevante. Lasciando il Kosovo, per almeno i
prossimi due anni, Haradinaj ha nominato luogotenente il fratello, ma solo per
gli affari di famiglia. Infine, Hashim Thaci, creatura degli americani, sembra
caduto in disgrazia e non più affidabile come interlocutore né all'interno
né all'esterno. Non resta che l'Europa, chiamata dal piano Athisaari a
sovrintendere e guidare la nascita del nuovo Stato balcanico. La Ue
dovrà avere il coraggio d'imporsi a Mosca, o il bubbone dei Balcani
marcherà nuovamente la sua storia. Poi, dovrà imporsi ai
kosovari. Ma questa è un'altra storia, ancora tutta da scrivere. Quella
già scritta, invece, negli anni Novanta racconta di un'Europa priva di
visione e coraggio. di Gian Pietro Caliari.
Roma "Il battage
pubblicitario che ha preceduto la messa in onda, su Rai Due, del video Sex
crimes and the Vatican ha già fatto chiarezza sulle reali intenzioni
della trasmissione: fare sciacallaggio mediatico contro la Chiesa e il
Papa". Così il Sir, Servizio Informazione Religiosa della Cei, ha bollato ieri prima della messa in onda
la scelta di "Annozero" di Michele Santoro di trasmettere l'inchiesta
realizzata dalla Bbc sugli abusi sui minori perpetrati dai sacerdoti e sul
Crimen sollicitationis, il documento riservato emesso nel 1962 (sotto Giovanni
XXIII) dal Sant'Uffizio - e aggiornato nel 2001 con la lettera De delictis
gravioribus dall'allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede
Joseph Ratzinger - nel quale si istruiscono i sacerdoti sui comportamenti da
tenere in caso di scandalo. Secondo l'agenzia di stampa cattolica, "questo
filmato della Bbc, più che un'inchiesta, in realtà è un
video a tesi, non credibile, con grandi falsità, pretestuoso e
pregiudizialmente ostile". Secondo la nota "noi non abbiamo paura
della verità. Riteniamo la pedofilia un grave crimine contro
l'umanità e la Chiesa. Ma facciamo nostro quanto richiamato da Papa
Giovanni Paolo II ai vescovi americani: "pur riconoscendo il diritto alla
dovuta libertà d'informazione, non bisogna consentire che il male morale
divenga occasione di sensazionalismo"". Sul tema interviene anche
padre Gianfranco Ghirlanda, rettore magnifico della Pontificia Università
Gregoriana. "La lettera della Congregazione per la dottrina della fede non
riguarda solo i processi per abuso sessuale, ma anche altri: per i delitti
contro l'Eucaristia e per i delitti contro il sacramento della penitenza. Nella
Lettera si afferma il segreto pontificio, ma senza stabilire alcuna pena per la
violazione di esso, anche se si tratta di un segreto che lega la coscienza
più fortemente che il segreto normale. In questo caso, il senso del
segreto è quello di proteggere il più possibile la buona fama
dell'imputato, che fino alla condanna va considerato innocente. Nel Codice non
viene prevista la pena della scomunica per chi viola il segreto pontificio. La
giusta pena non comprende mai la scomunica".
L'on. Mario Segni
all'incontro bresciano di ieri Un referendum elettorale per rinnovare la
politica italiana e per renderla capace di decidere. Lo ha sottolineato Mario
Segni, coordinatore nazionale del movimento referendario, intervenuto ieri in
città a un incontro del comitato bresciano. All'iniziativa hanno preso
parte anche l'on. Diego Masi (membro del comitato nazionale), Stefano Facchi
(coordinatore per la Lombardia dell'iniziativa referendaria), Ciro Ramaschiello
(coordinatore bresciano) e Guido Alberini (consigliere comunale dei Ds).
"Nella storia italiana - ha detto Segni - le istituzioni non si sono mai
riformate da sole. È stato necessario il movimento referendario dei
primi anni '90 per cambiare qualcosa. Oggi la macchina riformatrice può
ripartire. Abbiamo infatti un Parlamento frammentato, una maggioranza che ha il
record di gruppi parlamentari e che, dopo l'uscita di Mussi dai Ds, è composta da 13
partiti". Proprio per questo, secondo il promotore della consultazione
referendaria, oggi la cittadinanza è pervasa da una profonda sfiducia e
da un giudizio estremamente negativo della classe dirigente. "Lo stesso
Calderoli, che ha definito l'attuale legge elettorale una porcata - ha fatto
notare ancora Segni -, è il primo a riconoscere la necessità di
un cambiamento, sottolineando che bisogna far approvare una nuova legge almeno
in un ramo del Parlamento entro il 25 luglio. Il referendum, dunque, segna la
scadenza del dibattito parlamentare" (il 24 luglio infatti scadono i
termini per depositare le 500mila firme in Cassazione). In particolare, i
referendari, attraverso tre quesiti chiedono l'abrogazione, sia alla Camera sia
al Senato, del premio di maggioranza alle coalizioni, in modo tale che il
premio venga concesso solo alla singola lista (e non più alla coalizione
di liste), che abbia ottenuto il maggior numero di seggi. Inoltre, i promotori
chiedono di elevare lo sbarramento al 4% alla Camera e all'8% al Senato e si battono
per l'abrogazione delle candidature multiple. Con queste correzioni il sistema
elettorale dovrebbe andare verso il bipartitismo (comunque con la tutela delle
minoranze rilevanti), eliminando la frammentazione, visto che sulla scheda
elettorale comparirebbero un solo simbolo, un solo nome e una sola lista per
ogni aggregazione. Durante l'incontro di ieri, i promotori del referendum hanno
espresso poi soddisfazione per "l'andamento positivo delle aspettative
della raccolta firme". Fino ad oggi in tutta Italia sono state raccolte
150mila firme, 20mila in Lombardia. Infine, i rappresentanti hanno ricordato
che i cittadini interessati possono firmare per il referendum non solo ai
banchetti allestiti dal comitato, ma anche nelle sedi comunali.