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Archivio 1-15 APRILE 2007   Piccola Rassegna

 

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INDICE 1/15 APRILE 2007

 

15-4-2007

14-4-2007

13-4-2007

12-4-2007

11-4-2007

10-4-2007

6-4-2007

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1-4-2007


 

 

 

 

INDICE 15-4-2007

 

Il Corriere della Sera 15-4-2007 L'IDENTITA' SENZA PANTHEON Partito democratico e operazioni nostalgia. Angelo Panebianco  1

La Repubblica 15-4-2007 La moltiplicazione degli enti locali, una spinta bipartisan senza soste La geografia mobile del Paese Provincialista Ilvo Diamanti 2

La Repubblica LA STORIA Codice Vespucci. Vittorio Zucconi 3

La Repubblica 15-4-2007 Sesso, fallisce la guerra di Bush un flop le lezioni di astinenza Un miliardo di dollari spesi, ma i "virginauti" lo fanno come gli altri. Vittorio Zucconi 6

L’Arena di Verona 15-4-2007 "La Turchia resterà laica" Manifestazione ad Ankara  7

Il Giornale di Brescia 15-4-2007 L'appello del premier non ferma i referendari Segni, leader del Comitato per il referendum   7

 


Il Corriere della Sera 15-4-2007 L'IDENTITA' SENZA PANTHEON Partito democratico e operazioni nostalgia. Angelo Panebianco

 

Sarebbe facile, ma ingeneroso, soprattutto ora che il segretario dei Ds Piero Fassino è criticato nel suo stesso partito, ironizzare sulla questione del Pantheon, l'insieme di illustri padri nobili che dovrebbe dare un pedigree al costituendo Partito democratico. è più utile riflettere su ciò che l'idea del Pantheon rivela, sulla difficoltà della politica italiana di istituire un rapporto non tortuoso con il passato e, per conseguenza, con il futuro. In altri luoghi dell'Occidente ci sono culture politiche nelle quali i riferimenti al passato sono patrimonio condiviso. Il richiamo ai "padri fondatori" serve solo come espediente retorico per accendere l'orgoglio patriottico o di partito. Se il passato è fonte di condivisione anziché di divisione, ne consegue anche che le contrapposte identità politiche non possono definirsi in rapporto ad esso: devono definirsi in rapporto al futuro, alle diverse idee di futuro. Non vale la regola: dimmi il tuo patronimico, dimmi di chi sei figlio, e saprò chi sei. Vale la regola: dimmi (con precisione, senza menare il can per l'aia) cosa farai e saprò chi sei. Tutto il contrario in Italia. Qui la memoria è divisa. Qui ci si fa la guerra tuttora sui nomi di Craxi, di Berlinguer o di Togliatti. Pertanto, la strumentalizzazione della storia e delle sue interpretazioni da parte della politica arriva spesso al parossismo. Le identità politiche tendono a definirsi in rapporto al passato anziché al futuro. Ci si aggrega contro qualcun altro usando il passato (diviso) come fonte di identità. Una conseguenza è che si è esentati dal dover essere troppo dettagliati sul futuro, su ciò che si intende fare. Certo, giocano anche, nel caso specifico, le particolarità dei Ds: il loro rapporto nevrotico con la (loro) storia, gli sforzi, che durano da quindici anni, di quadrare il cerchio, rivendicando sia la rottura che la continuità con il passato. Si è visto però che questo gioco delle memorie divise e delle identità declinate al passato fa ancora presa soprattutto sulla classe politica e connessi (militanti, sistema dell'informazione politica, eccetera). Meno, o sempre meno, sugli elettori. è stato Berlusconi a farcelo capire. Solo a un outsider totale come lui poteva infatti venire in mente di definire la propria identità politica in rapporto al futuro anziché al passato - il "contratto con gli italiani", la promessa di tagliare le tasse - suscitando scandalo anche per questo, ma ottenendo un travolgente successo (mentre quando ha provato a richiamarsi a De Gasperi è stato molto meno credibile). Dopo che Berlusconi ha spezzato il cerchio, continuare a declinare al passato le identità rischia di essere suicida. Il Partito democratico non sarà una impresa vitale se non saprà districarsi dai lacci del passato, se non saprà costruire la propria identità in rapporto al futuro. Ma qui c'è anche l'inghippo. Qualche vera presa di posizione (circostanziata, non generica) sulle scelte future darebbe al nuovo partito "più identità" di qualunque riferimento al passato ma lo dividerebbe subito, drammaticamente: si tratti della collocazione in Europa, delle questioni che oppongono laici e cattolici, o di eventuali proposte innovative in campo economico destinate a suscitare le ire di un sindacato iperconservatore. Eppure, senza passare da quel collo di bottiglia non ci sarà una nuova identità. E serviranno a poco le operazioni nostalgia.

 


La Repubblica 15-4-2007 La moltiplicazione degli enti locali, una spinta bipartisan senza soste La geografia mobile del Paese Provincialista Ilvo Diamanti

 

Così l'Italia "emigra" verso Nordest e Nordovest La caccia alle Regioni autonome dove i privilegi sono maggiori Conseguenza è un aumento generalizzato e consistente dei costi di bilancio Più delle identità del territorio contano gli interessi particolari e logiche politiche L'istituzione di nuove Province avviene dopo un gioco di scambi fra i partiti nazionali (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Basta pensare alle Province. Erano 95 nel 1980, quando un fronte politico ampio proponeva di abolirle. Oggi, quasi trent'anni dopo, sono diventate 110: 15 di più. E, nonostante la riforma (federalista) del titolo V della Costituzione abbia previsto di ridimensionarle a favore delle aree metropolitane, le proposte di legge che mirano a istituire nuove Province aumentano. Attualmente, in Parlamento, se ne contano almeno 21 (una stima prudenziale). Sparse per tutta l'Italia. Se venissero approvate tutte, il loro numero, in Italia, salirebbe a oltre 130. Ma le Province ambiscono anche ad assumere nuovi poteri. Seguendo il modello di Trento e Bolzano. Come prevede un progetto avanzato dall'amministrazione leghista di Vicenza. Mica male per enti destinati, qualche anno fa, ad essere cancellati dalla carta geografica. L'Italia è un Paese "Provincialista". Dove ogni Provincia è perfino troppo grande, rispetto agli orientamenti sociali e politici. Per quanto piccola sia. In parallelo, si assiste a un ulteriore movimento. Comuni che intendono abbandonare la Provincia di appartenenza, per passare a un'altra, confinante, sfruttando le possibilità offerte dalla riforma costituzionale del 2001. Una sorta di "virus della traslochite", l'ha definito Gian Antonio Stella (in un'inchiesta pubblicata sul "Corriere della Sera" qualche mese fa). Il fenomeno, esploso nell'ultimo periodo, ha coinvolto soprattutto il Veneto. Dal quale se ne vogliono andare in tanti. Per primo, il Comune di Lamon, che ha promosso e approvato un referendum per "trasferirsi" nel confinante Trentino. Un esempio seguito da Cortina, ma anche dai comuni dell'Altopiano d'Asiago. Mentre altri Comuni del Veneto orientale spingono per passare al Friuli Venezia Giulia. Il virus, però, non si è fermato a Nordest. Ha contagiato il Piemonte, dove alcuni Comuni dell'alto Canavese (per primi Noasca e Carema, neanche 1000 abitanti insieme) hanno votato per passare in Val d'Aosta. E si è propagato altrove. In Italia centrale. Nei Comuni della Val Marecchia, suggestiva terra del pecorino di fossa e di Tonino Guerra. Dove i cittadini, a larghissima maggioranza, hanno deciso di non essere più periferia di Pesaro-Urbino. Ma di Rimini. Come si spiega questa iperfetazione localista, questa frammentazione di Province, dai confini sempre più circoscritti, che molti Comuni intendono scavalcare? Le ragioni sono diverse. Ma più delle identità e delle tradizioni territoriali contano gli interessi e le logiche politiche. Le nuove Province sono caratterizzate, spesso, da maggioranze elettorali che, nei contesti di provenienza, sono minoritarie. Riproducono, inoltre, pressioni economiche, partitiche, personali. E' un processo che non ha un colore politico particolare. Anche perché l'istituzione di nuove Province avviene a conclusione di un fitto gioco di scambi fra partiti, a livello nazionale. Assolutamente bipartisan (come ha mostrato una recente inchiesta di Report su Rai 3). Ne consegue, comunque e sempre, un aumento consistente e generalizzato dei costi. Destinato a perpetuarsi e a crescere. Perché ogni nuova Provincia prevede nuovo personale, nuove sedi, nuovi costi di bilancio. E nuovi amministratori, nuove commissioni, nuovi consulenti. I motivi che favoriscono lo "slittamento" dei Comuni da una Provincia - e, spesso, da una Regione - all'altra sono diversi. Tuttavia, il fatto che prevedano, perlopiù, il passaggio a Regioni autonome, ne fa intuire il significato. Che richiama benefici tangibili. Per i cittadini: dal costo della benzina, ai ticket sanitari, ai servizi. Ma anche per le amministrazioni, che, in una Regione autonoma, possono disporre di un maggior controllo sulle entrate "locali", senza rinunciare ai trasferimenti dello Stato. Ma non va sottovalutato l'aspetto propagandistico e simbolico, di queste iniziative. Negli ultimi dieci anni, infatti, si è determinato uno squilibrio crescente fra i compiti (sempre più ampi) e le risorse (sempre più scarse) dei governi locali. Fra le aspettative dei cittadini e le reali possibilità di risposta dei sindaci e dei governatori. I quali, attraverso questi "movimenti", tentano, dunque, di guadagnare consensi. Oppure di deviare i dissensi (e l'insoddisfazione dei cittadini) in altra direzione. Su altri bersagli. Lo Stato centrale; ma anche le Regioni. Incapaci di garantire loro le prestazioni e i benefici che, altrove, potrebbero ottenere. Nell'insieme, però, questa Italia a geografia variabile appare un riflesso di quello "specchio rotto" evocato da Eugenio Scalfari, per raffigurare la politica del nostro tempo. In particolare, rappresenta con mesta efficacia l'incapacità di portare a termine le riforme avviate negli ultimi quindici anni. Di regolare, in modo adeguato e coerente, i rapporti fra centro e periferia. Di chiarire quale Stato vogliamo diventare. Quindici anni di leggi e leggine, che hanno accentuato, in modo disordinato, le competenze locali, senza indebolire i poteri centrali. Senza federalismo fiscale. Quindici anni di conflitti diffusi. Fra centro e periferia. Fra Stato e Regioni. E fra Comuni, Province, Regioni. Ciascuno per sé e contro gli altri. Hanno alimentato e diffuso una sorta di "federalismo à la carte". La moltiplicazione di nuove Province oppure il passaggio di un comune a una Regione diversa. Non per "vocazione" e "identità" territoriale, come predicava (e ancora predica) Franco Rocchetta (fondatore della Liga Veneta, "madre di tutte le leghe"). Ma seguendo il criterio della massima convenienza. Che immagina e riduce l'Italia federalista a una sorta di "Paese dei balocchi". Dove benefici locali e contributi dello Stato si sommano. Senza costi. L'iniziativa recente delle Province di Rovigo e Treviso, che intendono "cambiare" Regione (passando, rispettivamente, al Trentino Alto Adige e al Friuli Venezia Giulia), è chiaramente una provocazione. Ma suggerisce uno scenario possibile, per la nostra geografia politica. Uno sbocco suggestivo per la nostra transizione. Lo slittamento, un passo dopo l'altro, di tutti i Comuni e di tutte le Province verso Nordest e Nordovest. Fino a disegnare un'Italia che ha, come capitali, Trento e Bolzano. Oppure Aosta e Trieste. A quel punto, si potrebbe tentare la soluzione finale. Chiedere l'annessione dell'Italia, tutta insieme, alla Francia o alla Svizzera. Risolveremmo, così, d'un colpo solo, i nostri problemi: in tema di sistema elettorale, di forma di governo, di federalismo. E, aspetto non meno importante, in tema di classe politica. Ma, sinceramente, dubitiamo che Francia e Svizzera sarebbero felici di "annetterci".


La Repubblica LA STORIA Codice Vespucci. Vittorio Zucconi

 

Esattamente cinquecento anni fa il geografo Martin WaldseemÜller disegnava e battezzava la "terra incognita" scoperta a occidente. Salvo poi pentirsene e avviare una querelle che dura ancora oggi Amerrik era una catena di monti dell'odierno Nicaragua, gli indiani Algonquin chiamavano la loro terra Em-merika, e c'è un Ommerika nella lingua vikinga per definire lontane lande a Nordovest

 Washington America. Il nome scivola sulla lingua come lo scafo di una caravella sulle acque del Caribe, canta con una gentilezza musicale che soltanto l'italiano sa generare. Lo fa da cinque secoli esatti, dal giorno 25 aprile 1507 quando un cartografo tedesco, Martin WaldseemÜller, letteralmente Martino "Il mugnaio del lago nel bosco", immaginò quel nome e lo stampò per la prima volta su una striscia di terra intravista da Colombo e poi da Vespucci, agli estremi confini occidentali del mondo. E se non sono stati sufficienti cinque secoli per placare le discussioni sulle origini del nome, sull'autenticità delle lettere di Amerigho, o Amerrigo, o Alberigo Vespucci a Piero de' Medici, per sedare le rivendicazioni di studiosi anticolonialisti, nazionalisti, terzomondisti, revisionisti o soltanto invidiosi fradici, quella "mappa mundi" oggi conservata alla Libreria del Congresso di Washington è ormai definitivamente, irreversibilmente, il certificato di battesimo. Non v'è certezza assoluta, tra ipotesi, tracce, reperti, su chi per primo toccò quelle terre navigando da Est. Ma se non sappiamo chi scoprì l'America, sappiamo chi la inventò: Martino il Mugnaio del Lago nel Bosco. La storia di come quella enorme massa continentale - che copre il trenta per cento di tutte le terre emerse, eppure era rimasta sostanzialmente ignota per quasi diecimila anni a tutti coloro che non ci fossero arrivati a piedi dagli altipiani asiatici, come gli Inuit, gli Iroquesi, gli Anasazi, i Maya, i Toltechi, gli Aztechi - sia stata battezzata con il nome di un fiorentino mandato in Spagna per l'allestimento di navi, è un romanzo che sa di complotti e di segreti e forse di inganni. Una storia "nel nome dell'America" che profuma di conventi, di abbazie, di documenti falsi, di salsedine, di vento, di ambizioni umane, di muffa, e dell'inchiostro spalmato sui blocchi di legno inciso che il "Mugnaio" usò per tirare mille copie della mappa che cambiò per sempre l'anagrafe della Terra. Ma odora soprattutto di quell'elemento impalpabile, immateriale e invisibile che indirizza tanto spesso il viaggio della conoscenza e quindi della storia. Il Caso. Oggi - quando per decidere la toponomastica di un vicoletto insignificante in una qualsiasi cittadina si devono attendere anni, riunire commissioni e consigli comunali, ottenere nullaosta, sentire esperti, mercanteggiare tra fazioni e partiti - ci sembra incredibile che un'enormità storica come battezzare un continente che occupa un terzo delle terre e occuperà poi l'intera storia del mondo possa esser dipeso dall'umore, dal ghiribizzo, dalla decisione casuale di un solo individuo, chiuso nell'abbazia di San Deodato, oggi Saint-Dié-des Vosges, in Lorena. Ma fu esattamente così. Quando Martin il geografo - o meglio il "cosmografo", come modestamente si considerava, che pare avesse una passione per cambiare i nomi e aveva cambiato anche il proprio, da quello del villaggio natale, Radolfzell, a quello che si era attribuito, WaldseemÜller - lesse i quattro resoconti inviati da Vespucci ai Medici di Firenze con il racconto dei suoi viaggi dalla Patagonia fino alle spiagge caraibiche del Nicaragua di oggi, decise di scegliere il nome dell'autore, Amerigus. Ovviamente e correttamente, scrivendo Martin in latino, lo declinò al femminile, trattandosi di terra: "America". Con la leggenda sotto: "Provincia invenita est per mandatum regis Castelle" (sic), la provincia scoperta per mandato del re di Castiglia. Con la punta di un bulino sui blocchi legno usati per stamparlo tagliò così, per le future generazioni, la diatriba che già era cominciata, appena quindici anni dopo il primo viaggio di Colombo e appena un anno dopo la sua morte, con coloro che avrebbero preferito, nel segno della primogenitura, chiamarla Colombia. Forse un castigo severo e un'amarezza risparmiata al genovese, ostinato fino alla fine nella persuasione di non avere affatto toccato una "terra incognita", ma il lembo più orientale delle Indie, dunque d'Asia. Peccato che il gossip, il passaparola del Sedicesimo secolo e i pettegolezzi di frati e cartografi avvertissero anche allora, così come farà la storiografia moderna, che quei quattro racconti erano apocrifi, opera di falsari decisi a sfruttare la popolarità internazionale di quei navigatori e delle loro sensazionali imprese, specialmente quelle di Vespucci che stava vendendo molte più copie del suo Novus Mundus di quante l'amico e rivale Colombo avesse venduto. Soltanto due lettere a Piero de' Medici sono oggi riconosciute come autentiche, ma il dubbio di avere avuto troppa fretta nel voler essere il primo a fare lo scoop del battesimo di un continente nuovo e di avere preso un granchio epocale attribuendolo al toscano, dovette raggiungere anche i Vosgi e la chiesa di San Deodato. Dopo la tiratura iniziale di mille copie della mappa allegata al trattato Cosmographiae Introductio, andate rapidamente esaurite e diffuse in tutta l'Europa che sapesse leggere, nella seconda edizione si autosmentì e ritirò il nome. Sconfessò la propria invenzione, cancellò America, e si affidò a un burocratico e prudente "Terra Incognita" stampato sopra quella lingua di terra. Ma era già troppo tardi. Senza comunicazione istantanea, cellulari, talk show o banda larga, quel nome aveva raggiunto e contagiato tutta l'Europa del Rinascimento che contasse, tutti coloro, diremmo oggi, che facevano opinione. Si era abbarbicato per sempre alle terre sfiorate da quelle caravelle che avevano definitivamente "scoperto" l'America e spalancato le sue terre alla ingordigia di una civiltà onnivora e invadente, la nostra. Fu come se anche quel nome non fosse stato inventato ma, proprio come le terre toccate, soltanto scoperto. Come se fosse stato sempre lì, da millenni, in attesa di essere trovato. Uno strano animale mitologico niente affatto "nuovo", come lo chiameranno Vespucci e poi tutti gli Europei nella loro sconfinata presunzione eurocentrica, quasi non fosse mai esistito prima, un ippogrifo addormentato in quelle sierre del Nicaragua dove, lontano dalle spiagge dei primi incontri con l'"homo caucasico" venuto dal mare, qualcuno aveva già battezzato una catena con il nome di "Amerrìk": i monti del vento che soffia forte. Amerrik? Secoli prima che vi arrivasse Amerigo e che il cosmografo in un abbazia della Lorena inventasse quel nome? Una coincidenza o un plagio senza pari, un altro furto tra i milioni di spoliazioni che i seguaci delle rotte di Colombo e Vespucci avrebbero compiuto? E come avrebbe potuto il nome di una popolazione di montagna nel ponte di terra centrale fra sud e nord, appunto gli Amerrìk o Amerìques secondo la successiva grafia spagnola, dal Nicaragua arrivare fino a un'abbazia nei Vosgi, oltre un oceano che allora pareva immenso, fino alla tipografia di un cartografo ambizioso e immaginoso ma serio, quando i contatti con gli indigeni erano stati rari, superficiali e senza interpreti? Si scopre, o si immagina di scoprire, che Vespucci stesso non si chiamava affatto Amerigo, ma era nato come Alberigo, nella sua Firenze, diventando poi Americius, addirittura Amerricius, con due "r", alla fine della vita, solo dopo i suoi viaggi e la sua fama, quasi avesse voluto assimilare il proprio nome a quello che aveva sentito portare fino alla costa dal "vento che soffia forte" giù dalle montagne degli Amerrìk, nella terra incognita? E rubato. Si spalancano a questo punto portali di dubbi, di rivendicazioni, di rancori anti-imperialisti e, in Europa, anti-italiani, attizzati da pubblicisti, antiquari, romanzieri, pataccari, dolenti organizzazioni di amerindi perennemente in collera contro quei maledetti avventurieri italiani che scoprirono in realtà, più che un continente, il modo e le rotte per arrivarci, seguendo i venti del commercio, i "Trade Winds" permanenti del sud, gli stessi Alisei che oggi portano gli uragani dall'Africa, ben più benigni per gli indigeni di quelle devastanti navicelle di legno. Si immaginano complotti, trame di mercanti e di vanitosi, comunque di euro-prepotenti, per appropriarsi del nome, premessa culturale necessaria per appropriarsi poi delle terre e delle loro ricchezze. è nato e vive da secoli una sorta di Codice Vespucci, un thriller, una fiction costruita per smascherare la gaffe del "Mugnaio" cartografo. "Mi hanno rubato anche il nome, il nome della mia terra", lamenta Danilo Antòn nel suo libro Gli orfani del paradiso, "perché Vespucci, gli italiani, gli euros si sono impadroniti del nome di una provincia montagnosa nella cordigliera del Chontales, oggi Nicaragua, chiamata Amerrique nel linguaggio lenca-maya della gente che la abitava molto prima che arrivasse il primo visitatore, Cristoforo Colombo". Questa gente scendeva al mare per commerciare, circolava sulla costa delle Moustiques, dove sicuramente Colombo attraccò. E il futuro "ammiraglio", il suo equipaggio, i messi castigliani incaricati di piantare la croce e la spada della Spagna cattolicissima e rapacissima in quelle "nuove terre" non potevano non aver ascoltato i locali, o i Carib, che in quella costa vivevano, indicare i monti alle loro spalle ripetendo il loro nome, appunto "Amerrik", come si fa con i turisti testoni. E altrettanto dovette ascoltare Vespucci. Per i nativi quelle erano soltanto cime, foreste sullo sfondo. Per i navigatori, quella era l'America. "Non gli è bastato rubarci il legno, l'oro, le donne, ci hanno rubato anche il nome, cioè la nostra dignità". Ed ecco, alimentata dal secolo celebre per i falsi, le riproduzioni, le imitazioni le scoperte sbalorditive, dall'Ottocento, infiammarsi la polemica, accendersi il revisionismo colorato di antropologia e di cattiva coscienza. Spuntano documenti firmati da Albericus Vesputius, prova apparente di come l'uomo d'affari fiorentino, trasformato in divo, nominato "piloto major" dai sovrani, autore di best seller, avesse metamorfizzato il proprio nome di battesimo per adattarlo a una toponomastica già esistente. Inutilmente un linguista della State University of New York, Jonathan Cohen, cerca di spiegare che buona parte di queste contestazioni sgorgano dalla gelosia, ben comprensibile, di rivali e tardi colleghi - come lo spagnolo Bartolomeo de las Casas che detestava Vespucci e spese la vita per calunniarne il buon nome, descrivendolo come "un commerciante di cetrioli" che a mala pena era qualificato come "timoniere" - o da pura fantasia alla Dan Brown. Cohen si affanna a chiarire che non solo il buon nome, ma il nome del fiorentino è perfettamente difendibile, perché il certificato di battesimo indica "Amerigho", che la storia di "Alberigo" è l'invenzione di un autore inglese deciso a screditarlo, che "Almerigo" è semplicemente la versione spagnola, come Cristobal per Cristoforo, che comunque la radice è germanica, Elmerich o Elmerik, forse ungherese, in onore di San Emerico. Osservazione incauta che immediatamente sollecita gli ungheresi a mettere anche loro il cappello sulla "mappa mundi" di WaldseemÜller, rivendicando le origini magiare della toponomastica. Tutti vogliono il nome per sé, come ne concupiscono la terra, come se impadronirsi del nome giustificasse il ratto di un continente, senza ascoltare il lamento di Pablo Neruda: "America, non invoco il tuo nome invano". "America", illustra il dizionario più diffuso negli Stati Uniti, il Webster, "è nome derivato da Amerigo Vespucius". Punto e basta. Ma subito sotto lo stesso lemma, l'augusta enciclopedia annota che "Amerrique era il nome usato dai primi esploratori". Punto e a capo. E, un momento, ci sono altri capitoli sempre più bizzarri nel Codice Vespucci. Si avanzano gli Algonquin, la nazione di aborigeni vissuti tra la Virginia e il fiume di New York, lo Hudson, che si riferivano alla loro terra come "Em-merika". Nella lingua dei Vikinghi, di Eric il Rosso, dei popoli dalle lunghe navi arrivati certamente in Groenlandia assai prima degli italo-spagnoli nel Caribe, c'è un "Ommerika" come anche un "Amterik", riferito a lontane e abbandonate lande a occidente. Se non bastasse, ecco aleggiare puzza di stoccafisso in un saggio recente dello storico americano Rodney Broome (Terra Incognita) grazie a un mercante gallese che dal porto di Bristol navigò verso ovest nel 1497 per cercare nuove fonti per il suo commercio di merluzzi salati. Tornò in Inghilterra annunciando, anche lui, di avere scoperto un altro "nuovo mondo", a Terranova. Il suo nome? Richard Amerike. La terra senza nome, il continente anonimo che nessuno aveva mai battezzato nella sua interezza, diventa ironicamente il continente con troppi padrini, affogato dai pretendenti al suo battesimo, come il nipote primogenito stiracchiato da troppi nonni. Ma se l'attribuzione a Vespucci è accettata come la più convincente, un segno della confusione rimane nell'equivoco quotidiano e globale commesso, quando si usa America ormai come sinonimo degli Stati Uniti d'America, quasi che la nazione più importante oggi si fosse divorata, insieme con i misteri della toponomastica, non una parte del tutto, ma il tutto. Aveva ragione Neruda, invitando a non invocarlo invano, perché si fa sempre troppo presto a dire America, a declamare un nome dolce da pronunciare quanto amaro da inghiottire, per quei milioni e milioni di uomini e donne nel mondo che lo digrignano con odio, lo bruciano in effigie, e sono pronti a morire uccidendo per ferire lei, l'America. Che cosa ci sia davvero nel nome della cosa, è meno importante della cosa che sta all'apice dei sogni e degli incubi di generazioni. La sera del 3 settembre 1939, quando Adolf Hitler si mise in viaggio da Berlino verso la frontiera polacca per assistere alla prima sequenza della tragedia che avrebbe distrutto lui e il suo tempo e avrebbe inginocchiato il vecchio mondo davanti alla supremazia di quello nuovo, s'imbarcò su un treno corazzato speciale riservato a lui, senza immaginare quale presagio portasse. Il nome del treno personale del FÜhrer era "Amerika". Il cartografo tedesco ne avrebbe sorriso.


La Repubblica 15-4-2007 Sesso, fallisce la guerra di Bush un flop le lezioni di astinenza Un miliardo di dollari spesi, ma i "virginauti" lo fanno come gli altri. Vittorio Zucconi

 

Un sondaggio rivela che i ragazzi che hanno seguito i corsi di castità hanno rapporti e usano i profilattici Otto Stati avevano accettato i fondi federali e inserivano la verginità nei curricula scolastici (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) "Abbiamo terrorizzato una generazione descrivendo il sesso come l'anticamera dell'inferno o almeno del cimitero" ha detto il congressman Henry Waxman, oggi presidente Democratico della commissione Giustizia della Camera, "e tutto quello che abbiamo comperato con i fondi pubblici sono tonnellate di sensi di colpa che tormenteranno questi giovani". Ottima notizia, questa, per gli psicoterapeuti e per gli psichiatri di domani. La "guerra preventiva" contro il desiderio che affiora nella pubertà era cominciata già sotto il regno di uno che ai voti di castità aveva rinunciato fin dalla più tenera età, Bill Clinton. Alla metà degli anni '90, quando la nuova destra guidata dal deputato Newt Gingrich (quel guerriero della moralità che si trastullava a letto con un'amante mentre la moglie agonizzava in ospedale) aveva preso il controllo della Camera, era stato autorizzato il primo stanziamento pubblico, 68 milioni di dollari, per l'educazione all'astinenza dei bambini di 9 anni negli Stati che avessero accettato di mettere la verginità nei loro curricula scolastici. Otto Stati avevano accettato i fondi e dunque il programma, nato sulla spinta di una tragedia reale come la gravidanza delle adolescenti soprattutto di colore, era partito con grande marciar di bande e produzione di opuscoli e operette clinico-morali. La buona intenzione era stata purtroppo subito inquinata dall'agenda politica dei crociati del moralismo, dai fustigatori del permissivismo che dopo il Sessantotto aveva spalancato le porte della Sodoma e Gomorra. Sempre federalisti e libertari quando al potere sono gli altri, e sempre centralisti e interventisti quando al potere sono loro, gli ultrà delle destre neo e paleo erano partiti coi soldi pubblici dai bambini di quarta elementare e con l'avvento alla Casa Bianca del Presidente che aveva promesso di ricristianizzare l'America, il programma era esploso. Lo stanziamento iniziale era balzato a quasi 200 milioni annui e ai 268 iscritti nel budget, nella finanziaria del 2007, nonostante le denunce e le proteste di medici, sessuologi, educatori e parlamentari non dipendenti come Bush dal voto dei cristiani, che scoprivano sbigottiti quale robaccia venisse spacciata ai ragazzi, per indottrinarli. Già nel 2004, Waxman aveva portato in commissione fasci di opuscoli diffusi dal governo con notizie false. "L'aborto rendere sterili le donne", un mito già smentito dall'associazione degli ostetrici americani. "La metà dei teenager gay è infetta dall'Hiv". Falso. Masturbarsi non rende più ciechi, come predicavano le mamme d'altri tempi, ma può portare al concepimento. Le infezioni veneree, come la clamidia, provocano fatali malattie cardiovascolari, una idiozia che gli stessi autori degli opuscoli furono costretti a eliminare dalle edizioni successive. Per chiarire poi quale fosse la vera linea culturale nascosta dietro i veli della modestia, qualche manuale spiegava che la spinta a fare sesso è espressione del "bisogno di completamento fisico" nei maschi, ma strumento per "raggiungere la sicurezza economica" nelle femmine. Migliaia di pre-teenager e di ragazzi venivano portati in parata davanti alle telecamere o esibiti nelle palestre delle scuole medie e dei licei per pronunciare i loro pledges, i loro giuramenti pubblici di purezza fino all'altare. E chiunque abbia frequentato una scuola può immaginare con un brivido di orrore le risatine, i sogghigni, le battute a mezza bocca, le gomitate, e dunque la vergogna, che accoglievano questi poveri disgraziati. Poi, arrivano i risultati, prodotti dall'istituto di ricerca "Mathematica" e disponibili in Internet. I virginauti lo fanno per la prima volta esattamente alla stessa età media, 14 anni e 9 mesi, dei loro coetanei. La stessa percentuale di indottrinati e non indottrinati, in città e stati diversi, in piccoli paesi di campagna come in metropoli peccaminose: il 51 per cento. Addirittura di più, il 56 per cento contro il 55 dei "non ufficialmente casti" lo hanno fatto negli ultimi 12 mesi, e pure con "tre o più partner", insinuando l'empio sospetto che abbiano voglia di recuperare il tempo perduto. Lo stesso numero usa quei profilattici che i manuali di propaganda finanziati dai contribuenti descrivono come "efficaci" nella prevenzione delle malattie e della gravidanza "soltanto al 70 per cento", mentre la cifra reale è superiore al 97 per cento. Se dunque la crociata contro il desiderio è stata prevedibilmente vinta dal desiderio, come accade dal Giardino dell'Eden, la questione dell'educazione ai rischi reali, fisici e psicologici, del sesso prematuro, della diffusione delle infezioni veneree e delle gravidanze adolescenziali rimane aperta ed è serissima. Il fallimento della rieducazione polpottiana anti-sesso dimostra soltanto che il mezzo era sbagliato, non il fine, e la formula semplicistica già cara alla signora Nancy Reagan, quando invitò gli americani a "dire no" per battere la droga, non funziona. Un miliardo di dollari spesi per dire ai giovani di "non farlo", sono l'equivalente moderno dei vani moniti del parroco felliniano di Amarcord quando ammoniva i fanciulli a "non toccarsi per non far piangere San Luigi" e loro gli mentivano per farlo contento. Almeno ai ricercatori di opinione, se non al confessore, i ragazzi americani di oggi confessano la verità.

 


L’Arena di Verona 15-4-2007 "La Turchia resterà laica" Manifestazione ad Ankara

 

Prima delle elezioni presidenziali "La Turchia resterà laica" Manifestazione ad Ankara: quasi un milione in piazza Ankara. No a Erdogan presidente. No a un qualsiasi islamico alla presidenza: lo ha gridato l'imponente manifestazione laica svoltasi ieri nella capitale turca, Ankara, con centinaia di migliaia di persone a sfilare nel nome del padre della Patria, Kemal Ataturk. A fine mese il Parlamento turco eleggerà un nuovo capo dello Stato, in sostituzione dell'attuale, Ahmet Necdet Sezer. La Turchia laica ha esercitato ieri così un'energica pressione sul partito al governo, il conservatore di radici islamiche Akp, che dispone in Parlamento di un'ampia maggioranza (354 seggi su 550) affinché rinunci a nominare un candidato scelto dalle sue fila. L'afflusso di gente, pervenuta con ogni mezzo di trasporto da ogni parte della Turchia, con bandiere turche (una era lunga 500 metri), ritratti di Ataturk e striscioni antifondamentalisti e in particolare anti-Erdogan, è andato oltre ogni previsione riempiendo non solo la piazza Tandogan del raduno, ma anche tutte le strade di accesso alla piazza e l'intero percorso del previsto corteo fino al Mausoleo di Ataturk, distante 5 chilometri. Gli esponenti del governo avevano previsto "solo poche migliaia di persone", ma avevano distaccato sulla piazza 10 mila poliziotti. I manifestanti hanno continuato ad affluire per circa cinque ore al Mausoleo di Ataturk, depositando fiori sulla sua tomba. Sulla partecipazione si è subito aperta una guerra delle cifre: "Minimo un milione di persone" per gli organizzatori; "200-300 mila dimostranti" invece secondo i media islamici e governativi che hanno ieri platealmente sottovalutato le cifre dei manifestanti. La polizia di Ankara si è rifiutata di dare cifre limitandosi a parlare di "centinaia di migliaia" di manifestanti. I contenuti nettamente antigovernativi e laici della manifestazione spiegano tutto; "Chi è per la sharia (la legge islamica) non sarà presidente della Turchia" e "La Turchia è laica e lo resterà" erano alcuni degli slogan scanditi dalla folla.

 


Il Giornale di Brescia 15-4-2007 L'appello del premier non ferma i referendari Segni, leader del Comitato per il referendum

 

ROMA Prodi rilancia la sua richiesta di rinviare la raccolta delle firme sul referendum elettorale, ma riceve un fermo "niet" dal comitato promotore che, anzi, alza il tiro: la macchina si fermerà solo a riforma elettorale approvata e non, come fino a Pasqua si era promesso, dinanzi ad un accordo formale tra le parti. Lo stesso premier ha anche lanciato una nuova proposta per venire incontro ai timori dei partiti più piccoli: quello di uno sbarramento inizialmente basso, che si innalzerebbe solo alle successive elezioni. Prodi, ospite di Giancarlo Santalmassi a Radio 24, ha usato una metafora ippica. Il referendum è "una frusta" che può aiutare la corsa delle riforme, ma ora essa rischia di fermarle: "A questo punto il cavallo sta correndo - ha osservato - e se gli si danno le frustate sul naso rischia di fermarsi". Da qui la richiesta, già formulata in passato, di rinviare la consultazione popolare: "non sarebbe la morte di nessuno". I primi a respingere l'appello sono stati gli esponenti di An. "L'unica possibilità di ritoccare l'attuale legge elettorale in Parlamento resta la pistola puntata del referendum", ha detto il capogruppo in Senato Altero Matteoli. Mentre per Italo Bocchino "il referendum resta la via maestra". Il responsabile riforme della Margherita, Riccardo Villari, appoggia invece il suggerimento di Prodi, definendolo "saggio". "Chi ha a cuore le riforme, e la vita stessa del Governo - ammonisce l'esponente Dl - ascolti l'invito pacato e saggio di Prodi". E che nella maggioranza il referendum crei fibrillazioni tra i piccoli lo dimostrano le dichiarazioni del socialista Angelo Piazza e del capogruppo di Idv al Senato, Nello Formisano, che chiedono a Ds e Dl di eliminare ogni sospetto in materia, e di appoggiare la bozza Chiti. In ogni caso a gelare tutti ci ha pensato la presidenza del Comitato promotore del referendum, con una nota di Giovanni Guzzetta, Mario Segni e Natale D'Amico, quest'ultimo esponente dei Dl che fa capo all'area di Arturo Parisi. "Se il Parlamento varerà una nuova legge elettorale nel senso auspicato anche dal presidente del Consiglio nelle dichiarazioni di oggi saremo i primi a rallegrarcene e il processo referendario si fermerà un minuto dopo la firma del capo dello Stato". Insomma non basta più che vi sia un accordo tra i partiti, come chiedeva Guzzetta il 6 aprile a Prodi e Berlusconi. Chissà se in previsione del "niet" dei referendari, Prodi ha lanciato una proposta finora mai emersa, che dovrebbe venire incontro proprio alle ansie dei piccoli. "Perchè - si è domandato - non fissare uno sbarramento più basso oggi e prefissare già da adesso che alle prossime elezioni sia un punto o due punti in più?". Il tutto purchè, ha comunque sottolineato intervenendo al congresso dello Sdi a Fiuggi, "dal Parlamento esca una legge che mantenga l'esigenza di un sano bipolarismo".


INDICE 14-4-2007

Il Corriere della Sera  14-4-2007 L’Italia, il Sud e le nostre Chinatown Sovranità limitata di  Ernesto Galli della Loggia  1

La Stampa 14-4-2007 Questa bambola ha la faccia di papàLanciate in America per i figli dei soldati in guerra 2

Europa 14-4-2007 Nel Pantheon mettiamoci una bella bomba   di STEFANO MENICHINI 3

Il Riformista 14-4-2007  Boselli vara la costituente in rosso che piace al Pse di Tommaso Labate  4

La Repubblica 14-4-2007 Mezzo milione di italiani vive di politica Spesi 3 miliardi l'anno, stretta in arrivo su consiglieri, incarichi e consulenze i costi dello Stato  4

La Republlica 14-4-2007 Sicilia al top, qui gli assessori guadagnano più dei ministri 5

Da Finanza e mercati 14-4-2007Il nodo dell'eredità del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr), abolito dal disegno di legge sulle Authority approvato da Palazzo Chigi, minaccia di far litigare Tommaso Padoa-Schioppa e Mario Draghi 5

 


Il Corriere della Sera  14-4-2007 L’Italia, il Sud e le nostre Chinatown Sovranità limitata di  Ernesto Galli della Loggia

 

Stampa e opinione pubblica non hanno certo mostrato di sottovalutare il valore sintomatico dei disordini scoppiati nella Chinatown milanese, ma pur nell'allarme non ne hanno colto, mi sembra, tutta la portata. E allora diciamolo subito senza giri di parole: la questione decisiva che gli avvenimenti di Milano obbligano a guardare fino in fondo è una questione di sovranità, la questione della sovranità dello Stato italiano, del valore effettivo delle sue leggi sull'insieme del territorio. «Non esistono zone franche », ha detto il sindaco Letizia Moratti, ma magari fosse vero: nel nostro Paese, invece, «zone franche » sono sempre esistite; fin dalla sua unità. E anzi è proprio questo uno dei tratti costitutivi del suo Dna.

Da 150 anni zone interne della Calabria e della Sardegna, come l'Aspromonte, il Soprammonte o parti della Barbagia, interi quartieri dei grandi agglomerati urbani del Mezzogiorno (penso a Napoli, a Palermo), sono luoghi dove il dominio della legge e la possibilità per le forze dell'ordine di esercitarlo sono quanto mai aleatori.Acustodire queste autentiche enclave extraterritoriali sta un'ulteriore caratteristica storica del nostro Paese: l'esistenza di potenti organizzazioni criminali radicate in quegli spazi e loro padrone di fatto. Come è stato già notato, non c'è alcuna vera differenza tra l'assalto ai vigili urbani da parte dei cinesi di via Sarpi e il più o meno identico assalto, che si ripete quasi ogni settimana, nei vicoli di Napoli da parte di torme di donne inferocite, ogni qualvolta la polizia vi fa irruzione.

Dopo un secolo e mezzo dalla sua unità l'Italia, insomma, è l'unico Stato dell'Europa occidentale dove allignano due aspetti patologici che rappresentano altrettante facce della stessa medaglia: porzioni non proprio minuscole della sua società sono dedite ad attività illegali se non criminali, e in parallelo parti del territorio nazionale sono virtualmente fuori dalla sovranità dello Stato; chi vi entra, anche il semplice turista, lo fa a suo rischio e pericolo. Ma ora questo dato storico del nostro Paese minaccia di subire un brusco salto quantitativo e quindi qualitativo. La rivolta della Chinatown milanese è per l'appunto il segnale che forse l'antica extraterritorialità/extralegalità italiana, collocata tradizionalmente in alcune zone del Mezzogiorno interno e delle sue città, è sul punto di estendersi alle metropoli del Nord. Principalmente per effetto di comunità di immigrati che sono in certo senso per loro natura stessa alternative alla comunità nazionale, non condividendone la lingua, la storia, la cultura, quasi sempre neppure la religione.

A forza di rivendicare esplicitamente la propria extraterritorialità culturale — come è il caso degli islamici con la richiesta di scuole islamiche — o di praticare una forma di ferrea anche se silenziosa extraterritorialità, come nel caso dei cinesi, è inevitabile che si arrivi, come si è di fatto arrivati a Milano, a rivendicare una sorta di vera e propria extraterritorialità legale, che vuol dire, in pratica, l'anticamera della extraterritorialità politica vera e propria. E’ solo un caso che si siano viste sventolare nel centro della capitale lombarda ad opera dei dimostranti le bandiere della Repubblica Popolare cinese? La statualità italiana, già insidiata fin dalle sue origini dalla presenza nel Mezzogiorno di spezzoni violenti di anti-Stato, si vede così costretta, in prospettiva, ad affrontare il problema nel Settentrione di queste enclave nascenti, o già consolidatesi, di extraterritorialità di fatto che hanno origine fuori dei nostri confini.

E per chiudere il cerchio, va osservato che proprio i fenomeni appena accennati producono a loro volta, in quella parte significativa della popolazione italiana che li vive più da vicino, sentimenti confusi ma forti di autonomismo estremo, desideri di autogestione dell'ordine pubblico, talora di secessionismo, che finiscono per rendere ancora più grave la crisi dell' involucro statual-nazionale. Tutto porta a concludere, insomma, che sia giunto il momento di reagire con forza allo stato di cose esistenti. Ma intervistato ieri, il ministro degli Interni, Giuliano Amato, ha reputato opportuno parlare di «dialogo», di «percorsi di integrazione », dei diversi tipi di immigrazione, e così via sociologizzando.

Tutte ottime cose; le quali però, mi sembra, vengono dopo una cosa preliminare che forse dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni di un ministro degli Interni (il quale invece, singolarmente, nella sua intervista non ne ha fatto neppure cenno): vale a dire l'imposizione della legge, la necessità di trasmettere a tutti il messaggio che chi esce fuori dalla legge sarà sempre e comunque sanzionato. Non è un caso se i Paesi a cui è effettivamente riuscito di integrare gli immigrati sono solo i Paesi dove su questa regola non è stato permesso a nessun nuovo arrivato, a differenza che in Italia, di farsi la benché minima illusione.

14 aprile 2007

 


 

La Stampa 14-4-2007 Questa bambola ha la faccia di papàLanciate in America per i figli dei soldati in guerra

Tricia e Nikki sono entrambe sposate con marines in servizio in Iraq e la prolungata assenza dei mariti da casa le ha spinte a far fronte al «consistente bisogno di affetto» dei rispettivi figli, creando un surrogato dei padri: le «Daddy Dolls».
Si tratta di bambole gonfiabili che sul davanti hanno stampata l’immagine del papà al fronte, sul dietro possono essere a stelle e striscie oppure avere uno dei colori delle divise militari (blu, marrone, marine, mimetica chiara o scura) e nascosto in una mini-sacca ospitano un microfono capace di ripetere all’infinito una frase incisa dal padre prima di partire.

Le «Daddy Dolls»
L’iniziativa delle due donne di Midway Park, in North Carolina, è nata dal bisogno di far fronte a una necessità famigliare, ma ha presto contagiato le altre mogli delle basi militari dei marines e si è quindi diffusa sull’intero territorio nazionale grazie a un sito Internet che raccoglie le prenotazioni delle «Daddy Dolls», assicura discrezione, tempi rapidi nella fattura e le recapita a domicilio anche se la famiglia risiede in una base all’estero. Le «Daddy Dolls» non hanno prezzi proibitivi: il formato gigante «Grande abbraccio all’eroe» è quello più caro e costa 24,95 dollari, a cui bisogna aggiungerne altri 7,95, se si vuole anche il piccolo nastro inciso.
Il successo ha portato alla moltiplicazione dei prodotti. Non solo le «Daddy Dolls» possono essere acquistate nel formato ridotto «Piccolo abbraccio all’eroe», ma Tricia e Nikki offrono «cuscini grandi» e «cuscini piccoli» per consentire ai piccoli di dormire la notte con la testa posata sulla foto stampata del papà, ciondoli da portare al collo con l’immagine del genitore e mosaici fotografici di varie forme e costi. Senza contare la possibilità di donare a favore delle famiglie che non hanno soldi a sufficienza per acquistare una «Daddy Doll» ai figli. Non sono mancati i casi nei quali a chiedere le bambole gonfiabili sono stati padri con le mogli in divisa e anche in queste occasioni la procedura è stata la stessa: tutto comincia con la scelta di una foto digitale da inviare al sito «Daddy Dolls» affinché sia al più presto impressa su una bambola gonfiabile. Fra le maggiori preoccupazioni delle due mamme c’è quella di evitare che le «Daddy Dolls» possano finire in lavatrice: «E’ preferibile lavarle a mano perché altrimenti l’immagine potrebbe risentirne» o sbiadirsi e dunque avere l’effetto opposto a quello desiderato di un papà sempre presente come se fosse in carne e ossa.
Con almeno un milione di uomini e donne che hanno già servito o servono in divisa in Iraq ed Afghanistan - spesso per più turni di seguito - Tricia e Nikki si trovano a gestire un’idea iniziata quasi come passatempo, ma diventata una piccola industria. Da qui la richiesta di «non telefonare», mandando email anche perché la posta elettronica è silenziosa, mentre rispondere al telefono può essere complicato per chi si trova impegnata in maratone fra sveglia, colazione, scuola, pranzo, cena, cambio pannolini, ginnastica o lezioni di piano al seguito di figli di età differenti, ma con bisogni pressanti, e senza papà disponibili per lunghi periodi. Le richieste di «Daddy Dolls» nelle ultime settimane si sono moltiplicate a seguito dell’annuncio del Pentagono dell’estensione del periodo di ferma per i soldati al fronte da dodici a quindici mesi.

 


Europa 14-4-2007 Nel Pantheon mettiamoci una bella bomba   di STEFANO MENICHINI

Anche noi vorremmo mettere qualcosa nel Pantheon del Partito democratico. Una bella bomba. Che facesse un bel botto. Tanto non c’è nessuno da ammazzare: sono già tutti morti e le loro spoglie, giustamente venerate, sicuramente sono infastidite dai ripetuti tentativi di reclutamento.
Lo scrive un giornale che, a ogni occasione del calendario, rende il dovuto omaggio a Sturzo, De Gasperi, Moro, Zaccagnini, Dossetti. Per carità, la memoria prima di tutto. Ma non commetteremmo mai l’errore di spiegare che è nel loro nome che siamo impegnati per il Partito democratico. O che vorremmo da loro una benedizione post mortem, da af- fiancare a quelle di Berlinguer, Gramsci, Nenni, Craxi, Spinelli, Einaudi, Gobetti, Turati, Gandhi, madre Teresa, Mandela, i Kennedy, Martin Luther King, Brandt, Olof Palme, Maritain, Darwin, Freud...
Ma per favore. Lo diciamo per il bene dei leader già non fortissimi che si sono caricati sulle spalle l’impresa del Pd. Basta col giochetto dei ritratti alle pareti. Perché alla fine quelli che ci rimettono sono loro. Sono la loro statura, la loro ambizione e il loro orgoglio a uscire ridimensionati dal confronto con gente che ha fatto la storia, ma che quando è partita non cercava di muoversi nell’ombra degli antenati: voleva fare qualcosa di nuovo, e di proprio.
Dicono che a questo Partito democratico manchi l’anima. Il sogno. Il coraggio. La visione. Sarà.
Ma manca soprattutto l’uomo o la donna che decide di investire tutto in un’operazione nuova, senza cercare riparo nel passato, trovando buoni argomenti solo nel presente e nel futuro del proprio paese. Dichiarando anzi che batterà strade sconosciute.
Ognuno dei grandi celebrati ha fatto soprattutto questo: ha iniziato. Ha fatto qualcosa che prima non era stato fatto, e in maniera diversa, senza tutela preventiva, senza la garanzia di riuscire.
Pensate che sia ingeneroso mettere i nostri a confronto con Gramsci, Lincoln o Gandhi? È vero.
Possiamo però fare di molto peggio.
Per esempio possiamo metterli a confronto con Berlusconi. Proprio il diavolo in persona. Paradigma negativo quanto vi pare, ma quando ha deciso di fare una cosa non s’è inginocchiato davanti ai Lari e ai Penati. Ha preso l’anticomunismo come bandiera, ha speso un sacco di soldi, s’è fatto i calcoli sugli affaracci propri, ha corrotto qualche coscienza; poi però c’ha messo tutto del suo. Su Craxi, poco e niente. Ha fatto una mossa su De Gasperi, rintuzzata. Ma certo non ha affidato alla memoria dell’uno o dell’altro le proprie fortune di newcomer.
Paragone offensivo? Un po’. Peraltro noi neanche lo vorremmo, un Partito democratico fondato e comandato da un Berlusconi. Abbiamo tutti gli anticorpi, pensate ai lazzi che s’è preso De Benedetti solo perché chiedeva una tessera. Però uno che ci metta la faccia, questo lo vorremmo. Uno che non abbia bisogno di farsi scortare dai cari estinti, né si illuda che citando una volta De Gasperi, una volta Craxi e una volta Einaudi possa raccattare voti dentro micro-particelle di mercato elettorale.
Scusate la mancanza di rispetto, ma agli italiani che cosa frega di Gobetti e Turati, ma pure di Bob Kennedy? Forse vorrebbero essere guidati da persone con quella tempra morale, piuttosto che da abili cacciatori di citazioni. Non ci sono personaggi di quel calibro in giro? Avevamo il sospetto. Neanche Occhetto però era un Lenin, citava a casaccio anche lui, eppure nel momento topico ha rischiato senza rete. Non è che Blair nel ’97 si sia nascosto dietro l’eredità di Wilson: voleva appunto rompere, col vecchio Labour. O che Clinton, per diventare Clinton, non abbia innanzi tutto dovuto accantonare la disastrosa esperienza dei liberal degli anni ’70.
Dunque parateviun po’ meno, fondatori del Partito democratico. Se la vostra gente vedrà che ci mettete qualcosa in più, qualcosa del vostro, e che legate ogni vostra fortuna al tentativo, saprà perdonare gli errori. E non rimpiangerà gli Antenati.


 

Il Riformista 14-4-2007  Boselli vara la costituente in rosso che piace al Pse di Tommaso Labate

Fiuggi. «What a wonderful colour…red». Come rimarca sorridente Poul Rasmussen all’inizio del suo intervento al Palaterme di Fiuggi, c’è rosso ovunque nella scenografia del quinto congresso dello Sdi. Quello che dà inizio, come sottolinea più volte Enrico Boselli, alla nuova costituente «aperta a tutti coloro che credono nel socialismo».
Ad assisterne alla nascita, ci sono tutti. C’è Fabio Mussi, che non si nasconde: «Sì, sono interessato». C’è Gavino Angius, che guarda «con molta attenzione» e specifica: «Parlare di una casa comune non è certo una bestemmia». E il segretario di Rifondazione comunista Franco Giordano che prima di entrare nella sala dice: «Oggi siamo al classico, al confronto fra socialisti e comunisti. Noi siamo interessati a formare un soggetto antiliberista e pacifista ma penso che sia molto interessante il progetto di Boselli, perché in esso emergono contenuti molto precisi». I contenuti precisi, forse, sono gli stessi che ha in mente Franco Grillini, quando - tra l’ironico e il dispiaciuto - afferma: «Vedo che qui si parla di laicità, di quella cosa che avrei voluto vedere nei congressi di Ds e Margherita. Dicono tutti che in questa stagione di congressi manchi l’entusiasmo…A me pare che, fuori dal recinto del Pd, questo benedetto entusiasmo non manchi».
L’entusiasmo alimentato dall’Inno di Mameli e dall’Internazionale socialista (curiosità: Piero Fassino entra quando quando le note di quest’ultima cessano), che danno il via alle assise, si trasforma, negli occhi di più d’un delegato, in commozione.


La Repubblica 14-4-2007 Mezzo milione di italiani vive di politica Spesi 3 miliardi l'anno, stretta in arrivo su consiglieri, incarichi e consulenze i costi dello Stato

 

Quasi un miliardo di euro finisce nelle tasche dei 280 mila consulenti, e ancora di più va a sostenere il ricco staff dei ministri Troppe cariche negli enti locali. Saranno ridotti i costi delle campagne elettorali. Invito agli organi costituzionali Ai nostri parlamentari stipendio doppio che a Parigi o Berlino La denuncia di Prodi: fenomeno esplosivo. Un ddl entro maggio VLADIMIRO POLCHI ROMA - In Italia o vinci la lotteria o ti butti in politica. Il risultato è lo stesso: una vita al riparo dalle difficoltà economiche. Questo devono aver pensato gli oltre 400mila cittadini che oggi vivono di politica: deputati, assessori, consiglieri locali e consulenti. Un esercito, che costa caro alle casse dello Stato: oltre tre miliardi di euro, all'anno. A lungo la politica ha promesso interventi d'austerity. Ora ci prova Romano Prodi e il suo ministro per l'Attuazione del programma, Giulio Santagata, che annunciano un disegno di legge ad hoc, entro fine maggio. "I costi della politica - ha detto il premier - sono esplosi". Quanto guadagna oggi un parlamentare? Il calcolo non è facile, tante le voci da sommare. Senatori e deputati si portano a casa 14mila euro netti al mese. All'indennità di 5.486 euro (ridotta del 10% con la legge Finanziaria 2006), va infatti aggiunta una diaria di 4.003 euro, "a titolo di rimborso delle spese di soggiorno a Roma" e altri 4.190 euro (che diventano 4.678 per i senatori) per "il rimborso delle spese inerenti al rapporto tra eletto ed elettori". Ma non è tutto. Il parlamentare non deve preoccuparsi dei suoi viaggi, usufruisce, infatti, di "tessere per la libera circolazione autostradale, ferroviaria, marittima e aerea sul territorio nazionale". Se poi deve andare all'estero, ha rimborsi annui di 3.100 euro. La bolletta telefonica non è un problema: per le sue chiacchierate, il deputato dispone di una somma annua di 3.098 euro, il senatore di 4.150 euro. Altri rimborsi sono infine previsti per i taxi (3.323 euro ogni tre mesi). Il parlamentare pesa sulle casse dello Stato anche da ex: bastano due anni, sei mesi e un giorno di legislatura per maturare il diritto alla pensione. Oggi la percepiscono 2.005 ex deputati e 1.297 ex senatori, per una spesa complessiva di 186 milioni di euro all'anno. I parlamentari italiani possono fare la voce grossa in Europa: i loro stipendi, infatti, fanno invidia ai colleghi tedeschi, spagnoli, francesi e inglesi, che guadagnano anche meno della metà. Ma i parlamentari nazionali sono solo una goccia nel mare dei costi della politica. Cesare Salvi e Massimo Villone (nel libro "Il costo della democrazia") calcolano che nel piatto oggi mangiano oltre 427mila persone: 149mila titolari di cariche elettive (dai deputati ai consiglieri circoscrizionali) e 278mila consulenti. Quanto costano? Un miliardo e 851 milioni l'anno. E la fetta più grossa finisce proprio nelle tasche dell'esercito dei consulenti (ben 958 milioni di euro ogni anno), mentre deputati e senatori spendono "solo" 187 milioni. Ci sono poi i ministeri, con i loro corposi staff, che "succhiano" un altro miliardo e 375 milioni di soldi pubblici. E il Quirinale? Il capo dello Stato ha un appannaggio di 218.407 euro all'anno, ma l'intera macchina del Colle costa circa 235 milioni di euro (destinati per l'87,6% alle spese per il personale). Insomma, il sistema politico spende e spande, tanto da far dire a Romano Prodi che "sono esplosi i costi della politica, nettamente superiori ormai agli altri Paesi europei". Tocca a Giulio Santagata, presentare la strategia dell'esecutivo per contenere le spese: "Il governo - spiega il ministro a Repubblica - è pronto a intervenire con un suo disegno di legge entro maggio". Quali le linee di intervento? "Primo, ridurre la proliferazione delle cariche negli enti locali, diminuendo per esempio il numero dei consiglieri comunali, provinciale e regionali, insieme al numero delle circoscrizioni cittadine. Secondo - prosegue il ministro - abbattere i costi delle politica e delle campagne elettorali. Terzo, aumentare la stretta sulle consulenze". Ma non basta. "Anche i vari organi costituzionali, come Camera e Senato, devono ridurre autonomamente le loro spese. In tal caso, però - conclude Santagata - il governo non può fare nulla".

 


La Republlica 14-4-2007 Sicilia al top, qui gli assessori guadagnano più dei ministri

 

Un milione di euro al giorno per mantenere un esercito di 11mila persone il caso

PALERMO - Un milione di euro al giorno. è il costo della politica in Sicilia, la somma necessaria a mantenere quell'esercito di 11 mila persone che nell'isola possono vantare una carica in un'istituzione grande e piccola: dall'Assemblea regionale siciliana alle circoscrizioni. Indennità, gettoni di presenza, missioni e rimborsi spese costano in tutto 362 milioni l'anno: dato che risulta dalla lettura dei bilanci. è come se ogni siciliano - minorenni compresi - pagasse alla politica una tassa di 72 euro l'anno. L'Ars, che si picca di essere il parlamento più antico d'Europa, è sicuramente il più "caro": da solo, incide sulle casse pubbliche per 156 milioni, più o meno le risorse occorrenti per il personale politico dei 390 Comuni siciliani. L'Ars è l'unico consiglio regionale d'Italia dove gli stipendi sono pari al 100 per cento di quello dei parlamentari nazionali - dei senatori, per l'esattezza - e dove gli assessori, con i loro 14.500 euro netti al mese, guadagnano più dei ministri. I sindaci siciliani se la passano meglio dei colleghi del resto d'Italia: Diego Cammarata, primo cittadino di Palermo, vanta un introito mensile lordo di 9.475 euro. Guadagna 352 euro al mese in più (4.200 l'anno) rispetto al sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, E ben al di sotto si ferma il sindaco di Firenze, Leonardo Domenici, che ha uno stipendio mensile lordo di 7.580,70 euro. L'austerity, d'altronde, non varca facilmente lo Stretto. La Finanziaria nazionale del 2006 ha stabilito un taglio del 10 per cento delle indennità di sindaci e consiglieri. Ma la norma non è mai stata recepita dall'Ars e la riduzione è stata lasciata alla volontà autonoma dei singoli Comuni. Risultato? Nella maggior parte delle amministrazioni, fra cui Palermo, i compensi non sono stati toccati. (emanuele lauria).


Da Finanza e mercati 14-4-2007Il nodo dell'eredità del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio (Cicr), abolito dal disegno di legge sulle Authority approvato da Palazzo Chigi, minaccia di far litigare Tommaso Padoa-Schioppa e Mario Draghi

 

. Anzi. Dal ministero dell'Economia sono già partite lettere formali (firmate da Enzo Grilli) per delineare in maniera concertata tra istituzioni a chi e come affidare o distribuire le competenze dell'ex Cicr. Fonti del Tesoro ritengono che sarebbe il ministero dell'Economia e delle Finanze il naturale erede delle funzioni dell'ex comitato interministeriale, anche perché lo stesso disegno di legge assegna al governo l'alta vigilanza sulla stabilità finanziaria. Ma un'impostazione di questo tipo non è affatto condivisa dalla Banca d'Italia. Significativa a questo proposito della visione dell'Istituto centrale governato da Mario Draghi, secondo gli specialisti del settore, è stato un recente intervento a un seminario di studi tenuto da Marino Perassi, responsabile dell'area legale di via Nazionale. Perassi ha sostenuto che l'"alta vigilanza" prevista dal testo del '47 e attribuita al Cicr ora soppresso, potrebbe far temere il risorgere della tentazione di pressioni politiche nei confronti della Banca centrale, più pericolose che mai a fronte dell'attività di Vigilanza. Un rischio che sarebbe esorcizzato una volta per tutte con l'attribuzione a via Nazionale delle funzioni del Cicr. Il dibattito tra istituzioni, comunque, è solo agli inizi. E pare che dalla parte di Draghi sia schierata una parte non indifferente dello stesso esecutivo.


INDICE 13-4-2007

++ La Repubblica 13-4-2007 Legge elettorale, Mastella si allea con Bossi. Il ministro della Giustizia spiega di essere in sintonia con il leader della Lega

++ Il Corriere della sera 13-4-2007 Milano, la Cina chiede «equilibrio». «Si rispettino esigenze e interessi legali dei cinesi residenti all'estero»

+ L’Espresso 13-4-2007 Le regole la mia legge Il sistema giudiziario lasciato allo sbando. Una cultura che rifiuta le norme. Ecco perché Colombo lascia la toga stralcio dell'intervista di Biagi a Gherardo Colombo  1

+ Il Corriere della Sera 13-4-2007 LA NOTA Riforma elettorale. Il duello tra piccoli e grandi fa riemergere le diffidenze di MASSIMO FRANCO  4

Europa 13-4-2007 La Rai insiste con madri-spose perfette mentre i figli vivono di anarchia e violenza. FEDERICO ORLANDO RISPONDE  4

La Repubblica 13-4-2007 L'ANALISI Colpo al cuore della fortezza americana VITTORIO ZUCCONI 5

Il Centro 13-4-2007 Regione Abruzzo. Enti regionali: niente più stipendi, solo rimborsi La scure cadrà su 60 Cda. A presidenti e consiglieri solo 50 euro a riunione Berardino Santilli. 6

Il Giornale di Brescia 13-4-2007 Multiculturalità, enigma da risolvere CONFERENZA INTRODUTTIVA DELLA PROF. SANTERINI 7

La Repubblica 13-4-2007 LA POLEMICA Una scorta laica per Bagnasco FRANCESCO MERLO  8

Il Corriere della Sera 13-4-2007 «Noi mai a sinistra. O si cambia oppure rinegoziamo le alleanze» Casini: «Il terzo polo? E' un’idea astratta»  9

La Gazzetta del Sud 13-4-2007 La stagione degli "invece" coinvolge anche la genesi del partito democratico Dino Basili 11

La Stampa 12-4-2007 Banca Mondiale, Wolfowitz: "Sì, ho favorito la mia amante" 12

La Stampa 13-4-2007 Abbiamo identificato i geni che impediscono alle cure anti-cancro di avere effetto». Michael White “Il prossimo passo? Medicine intelligenti” 12

Vita.it 12-4-2007 Blitz di Greenpeace alla Banca d'Italia  13

 


++ La Repubblica 13-4-2007 Legge elettorale, Mastella si allea con Bossi. Il ministro della Giustizia spiega di essere in sintonia con il leader della Lega


"Non vedo perché formazioni che hanno una tradizione debbano essere eliminate"
"Vogliono fottere i partiti più piccoli"

ROMA - La politica italiana potrebbe arricchirsi presto di una nuova strana coppia. Clemente Mastella ha dichiarato oggi il suo nuovo feeling con Umberto Bossi. A tenere insieme l'insolito asse Ceppaloni-Gemonio è il timore che Udeur e Lega possano rimanere entrambe vittime della riforma elettorale.
"Mi sono sentito con Bossi e abbiamo convenuto che vogliono fotterci. Sono più d'accordo con lui e con la Lega, che con i miei", ha detto senza mezzi termini il ministro della Giustizia registrando la puntata di Otto e mezzo in onda questa sera su La 7. "I piccoli partiti - ha aggiunto - resistevano anche alle intemperie della prima Repubblica. Non vedo perché i piccoli partiti che hanno una tradizione debbano essere eliminati".
Mastella ha quindi confermato che pur di bloccare l'eventuale referendum sulla legge elettorale non esiterebbe a scatenare una crisi di governo. Secondo il leader dell'Udeur c'è "una situazione incredibile sullo sfondo: tutti dicono di voler fermare il referendum. Ma di là Berlusconi prende in giro i suoi e di qua vogliono fottere noi". Mastella ha ammesso "che ci sono leggi di convenienza", come quella elettorale. "Ma perché - ha aggiunto - debbo accettare la convenienza della Margherita e non quella del mio partito?".
Ma in questa fase il tema del sistema elettorale non è l'unico motivo di freddezza tra l'Udeur e gli alleati del centrosinistra. A rendere difficili i rapporti c'è anche la tormentata gestazione del Partito democratico. "A me - ha ricordato Mastella - qualcuno ha detto: perché non vieni? Ho risposto lasciatemi stare. Preferisco stare da me". "Vedo un po' di stranezze - ha aggiunto - e non una logica politica".


++ Il Corriere della sera 13-4-2007 Milano, la Cina chiede «equilibrio». «Si rispettino esigenze e interessi legali dei cinesi residenti all'estero»

 

Nota ufficiale del ministero degli Esteri di Pechino: «Ci auguriamo che l'Italia risolva i problemi con equilibrio»

 

PECHINO - La Cina «si augura» che l'Italia «risolva con equilibrio» i problemi sorti con gli incidenti di giovedì a Milano tra immigrati cinesi e polizia municipale. Lo afferma una nota diffusa dal ministero degli Esteri di Pechino.

LA POSIZIONE DEL GOVERNO - Nella nota, il ministero sottolinea che ora la situazione «è calma» e si augura che venga risolta «tenendo conto delle ragionevoli esigenze e degli interessi legali dei cinesi residenti all' estero». La nota ricostruisce brevemente i fatti, attribuendone l'origine ad un «problema di parcheggio».

I TAFFERUGLI VISTI DA PECHINO - La notizia degli incidenti è stata diffusa dall'Agenzia Nuova Cina, secondo la quale le violenze sono scoppiate «dopo che la polizia aveva multato una donna incinta che stava scaricando merci da un carretto». L'agenzia riporta le affermazioni degli immigrati secondo i quali «non si è trattato di un caso isolato».«Nei due mesi scorsi i commercianti cinesi si sono spesso lamentati del comportamento della polizia», aggiunge Nuova Cina. Una lunga corrispondenza da Milano è stata messa in onda dalla «Phoenix Tv», una televisione di Hong Kong che si riceve nel sud della Cina ed in alcuni complessi residenziali ed alberghi di lusso.

13 aprile 2007


+ L’Espresso 13-4-2007 Le regole la mia legge Il sistema giudiziario lasciato allo sbando. Una cultura che rifiuta le norme. Ecco perché Colombo lascia la toga stralcio dell'intervista di Biagi a Gherardo Colombo

 

PRIMO PIANO Un addio in silenzio, che dovrebbe diventare assordante per le coscienze degli italiani. Gherardo Colombo, il pm che indagò sulle coperture a Michele Sindona, che smascherò la loggia P2 di Licio Gelli, che condusse le indagini di Mani pulite e i processi a Silvio Berlusconi, lascia la magistratura. E per la prima volta spiega le ragioni del suo gesto. Ecco uno stralcio dell'intervista concessa a Enzo Biagi. Dottor Colombo, lei ha deciso di abbandonare la toga. Cosa c'è oggi nel suo animo, rimpianto, delusione, rabbia? "Sicuramente non c'è rabbia. E anche per quel che riguarda rimpianti e delusione, io vedo questa mia decisione in una prospettiva un po' diversa. Ormai sono 33 anni abbondanti che faccio il magistrato: ho sperimentato il funzionamento della giustizia. Ripeto ho maturato, ho sperimentato - anche perché contemporaneamente mi è successo di andare a parlare nelle scuole, nei circoli, nelle parrocchie, un po' ovunque - il fatto che è difficile, difficilissimo far funzionare la macchina della giustizia senza che da parte dei cittadini ci sia una forte condivisione delle regole. E allora la mia decisione è dipesa da quello. Io credo che sia molto importante cercare, nei limiti del possibile, di comunicare con le persone, con i giovani soprattutto, quale sia il perché delle regole e quale sia la loro importanza". Quanto ha contato la politica nella sua scelta? "Mah. la politica può aver contato per quel che riguarda la mancanza di interventi forti sulle regole che servono a far funzionare meglio la giustizia, sugli strumenti che consentono a tutto l'apparato giudiziario io non parlo soltanto di magistrati, mi riferisco in genere a chi opera nella giustizia , sui mezzi che servono a far funzionare meglio questa macchina che vista sia dall'esterno che dall'interno, sembra così farraginosa e si muove con grande difficoltà. Sappiamo tutti che i processi durano tantissimo. Io credo anche che le garanzie non sempre siano distribuite in modo esatto, magari qualche volta ce ne sono troppe, ma in altri casi ce ne sono anche troppo poche. E allora io credo che, ma non solo alla politica, più in generale alle istituzioni, si possa addebitare il fatto che la giustizia non funziona bene". Che destino attende il corrotto? Magari una bella carriera? "Chi lo sa: dipende poi dalle situazioni personali. Il fatto è che se non esiste un atteggiamento complessivo della società, io direi, delle persone, delle regole, delle istituzioni verso i reati e quindi anche verso la corruzione. Se non esiste un atteggiamento di riprovazione, poi è più facile che il corrotto faccia magari una bella carriera". Non c'è stato un momento o un episodio nel quale lei ha sentito che sembrava quasi che questo paese avesse smarrito il senso della legalità? "Io credo che nel nostro paese la relazione con la legalità, con le regole che hanno come riferimento la Costituzione, che la relazione tra le persone e le regole sia una relazione incredibilmente sofferta. Come si potrebbe spiegare altrimenti che provvedimenti di clemenza, condono edilizio, condono fiscale e via dicendo, continuano a ripetersi, praticamente da quando siamo una repubblica. Questi provvedimenti richiedono, per essere di qualche utilità, che la devianza sia massiva, e quindi sono un indice di cattivo rapporto con le regole". Una specie di carattere nazionale allora? "No, io non credo che sia un carattere nazionale". Un aspetto della vita italiana? "Un aspetto della - molto molto tra virgolette - 'cultura italiana', del modo di intendere la vita e le relazioni. Forse noi apprezziamo di più la persona furba che elude le regole, piuttosto chi cerca di impegnarsi perché siano trattati gli altri allo stesso modo di come si è trattati". Se un magistrato butta la spugna, il cittadino qualunque a chi si deve affidare? "Io premetto che non butto la spugna. La mia non è una decisione di rinuncia, la mia è una decisione di impegno. Io credo che si possa, nei limiti ovviamente del possibile per ciascuno di noi, nei miei piccoli limiti, che si possa fare molto per la giustizia operando fuori dalle strutture istituzionali. Io credo molto nel modo di essere delle persone rispetto alle regole. Penso sia importante che ai ragazzi e non solo, sia proposta una riflessione su come riuscire a capire il significato delle regole, partendo da lontano, andando alla storia, provando a leggere Antigone e via dicendo. Quello che vorrei fare io nel futuro è cercare di comunicare, attraverso libri, riuscendo a parlare con i ragazzi, con le persone. Non è un gettare la spugna. Io credo che se i cittadini si impegnassero nel vivere la propria vita badando anche alle regole. Pensi a quante cose noi badiamo: stiamo molto attenti a come ci vestiamo: i ragazzi hanno tutto o quasi tutto griffato e via dicendo. Stiamo attenti, attentissimi al cibo; ci piace avere un'automobile che sia in consonanza e in sintonia con la nostra persona, ci piace farla vedere agli altri; ci piace mostrare una bella casa, eccetera. Ci preoccupiamo di una serie di aspetti della nostra vita. Non altrettanto facciamo con un punto di riferimento che secondo me è essenziale, che sono le regole". Conta quindi più mostrare che essere? "Tante volte sì. Io credo che si sia persa un po' l'idea dell'essere. Si è dimenticato che esiste anche un essere, oltre all'apparire". Quindici anni dopo, che bilancio si sente di fare dell'esperienza di Mani Pulite? "Io constato che attraverso queste indagini si è scoperto molto. Credo si ricordi che prima del 17 di febbraio del 1992 si parlava di questo fenomeno della corruzione che era così esteso nel paese, però di fatti ce n'erano pochi, pochissimi. Da allora in avanti per quei tre, quattro, cinque anni in cui si è investigato sulla corruzione, di fatti ne sono emersi tanti, tantissimi: sono emersi episodi dettagliati, sono emerse le transazioni finanziarie. Io credo che sotto questo profilo l'informazione, la giusta informazione che è conseguenza naturale del processo pubblico, sia stata una cosa positiva. Per quel che riguarda i risultati all'interno del processo, beh, chissà quante sono le posizioni che sono finite in prescrizione, e quante sono le posizioni che sono finite con un proscioglimento perché sono cambiate le regole del processo, perché sono cambiate le regole sostanziali, perché una cosa che prima era reato adesso è un pochino meno reato e via dicendo. Allora sotto il profilo rigorosamente giudiziario, io credo che il risultato non sia stato quello che ci si aspettava". Il potere non cerca di fare la giustizia a sua misura? "Sì io credo che il potere cerchi di espandersi, magari anche al di là, qualche volta, delle possibilità che gli danno le regole. A proposito dell'esperienza di Mani Pulite, per quanto riguarda gli aspetti personali sicuramente è stato un periodo intenso, quindici anni, in cui sono successe tante cose. Ci sono stati dei dolori molto forti, per quel che riguarda me, non è mai indolore inserirsi così nella vita delle altre persone". Cosa pensa dei colleghi che hanno scelto la politica? "Guardi non penso proprio niente. Io credo che siccome le regole lo consentono è una cosa che si può fare. Io posso dirle però che per quel che riguarda me, io credo che sarebbe una bella cosa inserire un intervallo, un intervallo di una certa consistenza, fra l'esercizio dell'attività di giudice o di magistrato in generale e il dedicarsi all'attività politica. Primo. E secondo, non dovrebbe esistere la possibilità di tornare indietro. Questa è la regola che io mi prefiguro e per quel che riguarda invece le mie scelte personali, io credo che sia molto importante cercare di operare nella società. Ribadisco una cosa che riguarda me: una volta in cui si decide di non far più parte di un'istituzione, forse, il rivolgersi ad altri campi, completamente diversi, è una cosa che mi si addice di più". n Guai a raccontare questo Paese di Roberto Saviano L'incontro tra l'anziano giornalista e il giovane scrittore. In una società dove non si perdona chi dice la verità Ci sono dei momenti in cui hai l'impressione di attraversare il tempo diversamente, come se secondi e minuti si unissero in una specie di coltre, costringendoti a comprendere che ogni momento ti resterà tracciato nella memoria. Vivere il ritorno televisivo di Enzo Biagi è uno di quei momenti. Quando Loris Mazzetti, giornalista e regista, mi ha portato l'invito di Enzo Biagi ad andare in trasmissione avevo compreso la necessità di quest'incontro, la necessità di partecipare al ritorno di qualcosa che era stato spezzato piuttosto che interrotto. Enzo Biagi l'ho incontrato a casa sua. Abbiamo mangiato insieme. Lentamente. Parlava con tono chiarissimo, e non sembrava neanche per un momento aver perso la capacità di ficcarsi dentro le questioni e divertirsi a discutere con le cose che pulsano, valutando i veri meccanismi piuttosto che gli epifenomeni. Mi ha parlato come se conoscesse ogni cosa di me, ogni cosa detta, scritta e persino pensata. Discutiamo sullo stato di cose, una sorta di ricognizione degli elementi del disastro. Su una politica che non ha la geometria della buona amministrazione e né l'energia di muovere grandi passioni. Su un Paese spaccato in due, dove Nord e Sud non comunicano, dove tutto possiede un'unica dimensione del racconto, dove sempre meno si conosce ciò che avviene e tutta l'attenzione è rapita dal ginepraio della politica, discutiamo di un Paese dove "il pensiero di un parlamentare rischia di avere un peso maggiore rispetto a quello che accade". D'improvviso mi guarda e chiede un'attenzione particolare. "Mi ascolti, bene", dice, fermandomi la mano mentre mangiavo: "Lei ha raccontato questo Paese, nessuno glielo perdonerà mai. Nessuno perdona in questo Paese quando si viene ascoltati. Nessuno. Troppe persone l'hanno ascoltata, questo non glielo perdoneranno politici, colleghi scrittori, giornalisti, mi creda. Nessuno qui vuole sapere come stanno davvero le cose. Chi lo fa è come se mettesse in fallo tutti gli altri che non vengono ascoltati e per questo non si incolpano ma incolpano gli altri". Biagi poi racconta di quando era andato al matrimonio di Giovanni Falcone: "Fino alla fine hanno diffidato di lui, solo con la sua morte è riuscito a dare giustizia al suo lavoro. Che la sua strada era la strada giusta per modificare il mortale rapporto tra cosa nostra e politica. Solo dopo la morte tutti l'hanno compreso. Un Paese che riconosce queste cose solo dopo il sacrificio è un Paese malato". Enzo Biagi non ha perso la lucidità dello sguardo: è complesso discutere, ciò che nelle discussioni è per me citazione, bibliografia, verso tirato giù a memoria, citazione conservata nello stomaco, per lui è memoria reale; ciò che ho letto, lui l'ha conosciuto, incontrato, criticato, ascoltato. E genera una sorta di sensazione di straneamento, come se le mie parole fossero di una materia di inchiostro e carta e lui invece avesse sentito l'odore del sudore di ciò che ho potuto conoscere solo con la mediazione della scrittura. Una voce ci chiama: "Al trucco". Ci passano sul viso una specie di ovatta imbevuta di qualcosa. Loris Mazzetti però lo chiama mentre accompagnato dalla figlia Bice sta per andare a sedersi nella poltroncina della trasmissione. Si guardano: "Enzo, cinque anni... Enzo, cinque anni... Ora torniamo". Biagi si commuove, Mazzetti sembra stringere i denti. è come scoccata un'ora, un momento in cui il veto viene a cadere, aver resistito sembra esser stato il comportamento più corretto, una forza che viene da lontano che ha i muscoli allenati già a superare velenosi pantanti melmosi, il fascismo, le Br, la Democrazia cristiana, il Pci, Tangentopoli. Ci incontriamo nello studio, Biagi mi sorride, e sibila: "Senza il sud questo paese sarebbe un paese mutilato, povero. Non sopporto chi blatera contro il sud". Impossibile non vivere una sorta di flashback, vedere dinanzi a lui tutti i visi: mi è apparso Pasolini quando dinanzi a Biagi lancia la sua accusa verso la televisione di massa, quando proclama di credere nello sviluppo "ma non in questo sviluppo". è come vederseli tutti. Siamo lì nello studio, la regia è pronta. Nessuno sa bene cosa avverrà e come avverrà: è passato molto tempo e quasi ci si è dimenticati di come funzionano le cose, e l'emozione di tutti è palpabile persino ascoltando i respiri, come se tutti avessero fatto una corsa. Siamo invece tutti immobili da mezz'ora. Con Biagi e Mazzetti discutiamo: "Parleremo d'ogni cosa. di quello che si può dire e di ciò che non si può dire. Su quanto è impensabile dire in tv e su quanto dovremmo invece dire, sulla letteratura e sulla capacità di raccontare. ancora questo Paese". Biagi si è sistemato dinanzi a me, i riflettori caldissimi, le telecamere accese. Gli occhiali di sempre, lo sguardo ai fogli dinanzi a lui e il mezzobusto che ha raccontato un Paese, si materializza dinanzi ai miei occhi. Ogni stanchezza scompare, persino ogni malinconia scompare. Biagi è lì come se nulla fosse capitato, come se nessuno l'avesse cacciato, come se l'ultima intervista l'avesse fatta il pomeriggio precedente, come se fuori la porta fossero appena usciti Mastroianni e Pasolini, ancora fermi sul pianerottolo. Come se tutto iniziasse adesso, ma con un origine di sempre mai interrotta. Come se tutto dovesse ancora essere raccontato, testimoniato, come se sino ad oggi si fosse compiuto solo l'inizio del percorso. Tre... due... uno. via.


+ Il Corriere della Sera 13-4-2007 LA NOTA Riforma elettorale. Il duello tra piccoli e grandi fa riemergere le diffidenze di MASSIMO FRANCO

 

Il tentativo di minimizzare è comprensibile. Ma la reazione dell'estrema sinistra alle ipotesi di riforma elettorale della Margherita e dei Ds non sembra una "tempesta in un bicchier d'acqua". E, se lo è, potrebbe anticiparne un'altra di proporzioni maggiori dentro l'Unione. Archiviando polemicamente il tentativo di compromesso studiato dal ministro Vannino Chiti, Rifondazione comunista ha aperto le ostilità contro il maggioritario voluto da Fassino e Rutelli. E si è messa all'avanguardia del fronte dei piccoli partiti, disposti a tutto pur di evitare un bipolarismo ancora più accentuato; e quel referendum elettorale che ne sarebbe il catalizzatore. Annunciare, come è stato fatto ieri dal Prc, che adesso le intese vanno cercate in Parlamento, in apparenza vuol dire poco: nel centrosinistra è una parola d'ordine comune. Ma quando si aggiunge che "ognuno farà per sé", cercando "alleanze con tutti", allora palazzo Chigi ha di che allarmarsi. L'impressione è che il partito di Bertinotti e Franco Giordano alzi la voce tatticamente: lo conferma la richiesta al premier Romano Prodi di far slittare l'inizio della raccolta delle firme. La sostanza però rimane. Ed è quella di uno scontro via via meno governabile fra piccoli e grandi partiti della coalizione e della stessa opposizione. Dietro gli altolà al doppio turno e le stucchevoli diatribe fra sistemi da importare, si avverte una diffidenza reciproca che nasce da interessi diversi; e che alla lunga può scaricarsi sul governo. Già il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha avvertito che se si arriverà al referendum, la sua Udeur uscirà dal governo, provocandone la crisi. Il nervosismo affiorato ieri nelle file di Rifondazione segnala un'altra minaccia. E nessuno è in grado di placare le polemiche. D'altronde, rafforzare il maggioritario significa adattare il sistema al futuro Partito Democratico, inseguito da Ds e Margherita. Il proporzionale, invece, assicura la sopravvivenza delle formazioni minori. Si tratta di un gioco a somma zero, anche se tutti giurano che si sta cercando un compromesso per tenere compatta l'Unione e soddisfare il centrodestra; e si fanno scudo delle raccomandazioni arrivate ripetutamente dal Quirinale perché ci sia la quasi unanimità. In realtà, i margini rimangono striminziti. E l'opposizione può annunciare che "la Babele dell'Unione" renderà quasi inevitabile il referendum: sebbene lo stesso centrodestra sia diviso fra i referendari di An, tifosi del maggioritario, ed i proporzionalisti dell'Udc e della Lega, con FI in posizione d'attesa. Non a caso, il partito di Gianfranco Fini ricorda che senza un'intesa rapida, il referendum va celebrato perché è "la strada migliore". Su questo sfondo in cui la confusione è sovrana, il futuro del governo, e perfino della legislatura diventa ancora più precario. Le probabilità che un referendum nel 2008 terremoti Prodi sono alte. Ma rischiano di salire anche quelle che si arrivi al voto anticipato, pur di scongiurare una scadenza che semplificherebbe il sistema riducendo il numero dei partiti. Sono pericoli concreti. Proprio per questo potrebbero fare il miracolo di produrre un accordo sulla nuova legge elettorale nei "tempi strettissimi" invocati da Prodi alla fine delle sue consultazioni a palazzo Chigi. Ma nel marasma che si intravede oggi, si tratterebbe di un esito non scontato: appunto, miracoloso. I tempi strettissimi del premier per raggiungere un accordo non scontato.


Europa 13-4-2007 La Rai insiste con madri-spose perfette mentre i figli vivono di anarchia e violenza. FEDERICO ORLANDO RISPONDE

Cara Europa, vorrei sapere cosa pensate dal reality televisivo di Raidue “La sposa perfetta”, che ci ripropone scherzosamente ma non troppo l’immagine della storica suocera italiana, colonna dell’altrettanto italiano familismo amorale, che vede tutto il bene nel suo figlio maschio e tutto il male nella donna che lo porterà via, magari perché “brava a letto” e “la dà subito”. Contemporaneamente, Canale 5 ci offre l’Italia contadina (un po’ parodistica) di “Un due tre stalla”: insomma un’Italia democristiana, mentre la società è tormentata da un’ennesima crisi giovanile cui si vorrebbe rispondere con modelli arcaici. Noi genitori grandi idee non ne abbiamo, ma le élite, la classe dirigente ne hanno? ELENA DI VAIO, LA SPEZIA

Non credo, cara signora. Né in Italia né all’estero, mi pare. Lo dico anche in base alle ultime notizie apprese dai genitori, come la decisione del governo Blair di “combattere” i cyber-bulli, cioè il bullismo sul web (mi scusi se adopero questa lingua mista da colonia, ma è quella dei giornali, che più possono usarla e più credono di essere internazionali).
Bullismo, comunque, di alunni e alunne delle scuole di Sua maestà, che il ministro dell’educazione Johnson vorrebbe contrastare in collaborazione coi siti come Google e You Tube, i più usati dai giovani che filmano e spacciano fotografie e insulti in rete. Da noi il ministro Fioroni ha accolto con interesse l’iniziativa del collega britannico, che solleva un tema comune nel mondo, ma aggiunge: «Nessuna censura, sia chiaro: a è troppo chiedere ai gestori di vigilare sui contenuti dei video che circolano sui loro siti, in particolare quelli di bullismo?».
Io non credo, caro ministro, che sia troppo chiedere ai gestori di vigilare, almeno ai giganti del web (ci risiamo con la colonia), come i citati Google e You Tube. Ma forse il problema non è solo questo. Almeno come prima terapia d’urto, il problema è coinvolgere penalmente e civilmente le famiglie nei resti – perché tali sono – commessi da figli a scuola e, in caso di minorenni, anche fuori dalla scuola; e convincere i collitorti (clericali o laici) che in tutto il mondo dirigono i grandi media tv radio, internet, a non offrire ai giovani, e gli stessi adulti, modelli alternativi arcaici.
Appunto quelli di Raidue e Canale 5 di cui parla lei, gentile signora, che finiscono col rappresentare l’idiozia arcaica degli adulti anche quando ammantano le loro credenze sulle future nuore e sulle mogli altrui con espressioni volgarucce prese dai giovani. I quali non sanno che duemila anni prima di loro, e senza essere volgaruccio, Ovidio le scriveva nell’Ars amandi, garantendo, lui gran conoscitore, che Quae dant, quaeque negant, gaudent tamen esse rogatae.
Dunque, togliere dal video i reality senza cultura è giusto così com’è doveroso chiudere grandi e piccoli siti ai cyberbulli e sequestrare i telefonini a scuola, registrando le reazioni dei genitori, i quali già registrano a loro volta le reazioni dei professori immaginando di portarle in tribunale anziché di riempire di ceffoni le facce dei figli rincoglioniti dalla tempesta ormonale dell’età.
Ma il problema è che la società generale deve dare un giro di vite: non ai morenti che non ce la fanno a sopportare i dolori, o sulle coppie non sposate che vivono pacificamente e chi dono qualche diritto civile, contro cui si scatena l’odio teologico (pensate se a San Giovanni si andasse, anziché per “Più Famiglia”, per “Più cultura ai giovani”); ma un giro di vite sugli abusi diventati senso comune, dallo spinello (ministra Turco) ai superbolidi del sabato notte, dallo spaccio sotto casa alla prostituzione dovunque, dalla sodomie in parrocchia alla libera vendita di armi, dalle mani nel tanga della professoresse agli sfottò che portano il ragazzo al suicidio. Potremmo fare un libro, ritagliando questi episodi dai giornali degli ultimi tre mesi, e chiuderlo con una domanda: chi ha pagato?


La Repubblica 13-4-2007 L'ANALISI Colpo al cuore della fortezza americana VITTORIO ZUCCONI

 

Annunciata in febbraio come ultima spiaggia sulla quale fermare la marea del disastro iracheno e vincere la guerra, raccontata imprudentemente già l'8 marzo scorso da George Bush come "un successo incoraggiante", l'escalation della guerra in Iraq sta producendo i risultati facilmente e tristemente previsti: un cambio di strategia del nemico che sceglie dove e come colpire, e riesce a ferire addirittura il cuore della fortezza americana, la Zona Verde, facendo strage di parlamentari e di personale civile in una caffetteria, quattro anni dopo l'altro, mitico annuncio di "missione compiute".

LO SCENARIO "Sono gli stessi che vogliono colpirci" l'ira di Bush contro il doppio attentato Oggi come nel '68 quando i Vietcong assalirono l'ambasciata Usa a Saigon La Casa Bianca è "vicina a coloro che soffrono". Lodi al governo di Al Maliki che lavora per la "riconciliazione" Il presidente Usa rispolvera la teoria della "carta moschicida": "Meglio combatterli là, che trovarseli di fronte qui" (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) VITTORIO ZUCCONI Esattamente come una generazione fa, all'alba del 31 gennaio 1968, quando i Vietcong assalirono e occuparono a sorpresa l'ambasciata americana a Saigon mentre il presidente Lyndon Johnson e il generale Westmoreland promettevano la vittoria a portata di mano, il paradigma impossibile di tutte le guerre asimmetriche, fra l'elefante e il topo, si ripresenta quasi negli stessi termini militari e propagandistici, anche se certamente non politici. Al topo basta restare vivo e rosicchiare per vincere il duello con il pachiderma. Le reazioni del presidente americano al doppio attacco della guerriglia a Bagdad, con la demolizione del ponte sul Tigri e le bombe esplose dentro la impotente cittadella del governo e dei suoi lord protettori americani, sono, nella loro disperata banalità, la conferma che il colpo psicologico subito dal piccolo edificio di ottimismo che la Casa Bianca stava tentando di costruire, è stato durissimo. Oltre alla scontata condanna delle azioni e alle promesse di continuare ad appoggiare il primo ministro al-Maliki, Bush ha dovuto riesumare la dottrina della "carta moschicida", che non usava più da tempo. Ha tentato cioè di associare la guerriglia in Iraq con la sicurezza degli Stati Uniti, sostenendo in pratica che è meglio, per i cittadini americani, se il terrorismo è impegnato a distruggere Bagdad, piuttosto che a colpire una metropoli in Nord America. "è nel nostro interesse aiutare questa giovane democrazia", versione nobile del "meglio combatterli là, che trovarseli di fronte qui". Sarà anche vero che "i nostri cuori sono vicini a coloro che soffrono", e che il governo di Bagdad "sta compiendo passi verso la riconciliazione nazionale", come il Presidente cerca di dire, ma il legame, essenziale per tenere il fronte interno, fra la strage quotidiana irachena e la sicurezza interna degli Stati Uniti, che la propaganda aveva cercato di creare per spiegare l'invasione come una risposta all'11 settembre, non funziona più da tempo. La doppia offensiva, quella militare, affidata al generale Petraeus, e quella di immagine, sostenuta dai pochi media che ancora sostengano la Casa Bianca, si annullano a vicenda, perché la contabilità degli attacchi della guerriglia, diminuiti a Bagdad ma cresciuti nelle province, si scontra con la potenza simbolica dei ponti demoliti e del sancta santorum facilmente violato e insanguinato. Raccontare che le cose "vanno meglio" e che ci sono segnali di progresso, ricorda, di nuovo, la collera dei generali americani nel 1968 quando sostenevano che i Comunisti avevano subito una colossale disfatta militare nella loro offensiva del Tet, perdendo migliaia di militanti e di soldati. Era tatticamente vero, ma strategicamente, nella battaglia per i "cuori e le menti" del pubblico americano, vietnamita e internazionale, la disfatta era stata devastante. Il topo aveva rosicchiato, era vivo, nonostante gli sforzi dell'elefante per schiacciarlo. Peggio ancora, questo sorcio infetto del terrorismo che il vento della "democrazia" esportata in Afghanistan e in Iraq avrebbe dovuto sterminare, si sta riproducendo. Anziché il circolo virtuoso annunciato dalle screditate farneticazioni degli ideologhi della guerra preventiva e ora della escalation, stiamo assistendo a un allargamento del circolo vizioso alimentato dalla impossibilità di produrre una vittoria risolutiva e dalla imprevidenza dei suoi protagonisti. L'Afghanistan, la storica occasione perduta per correre dietro alla chimera irachena, sta ripiombando sotto l'incubo Taliban, con l'esplicito appoggio del vicino Pakistan che ha creato, come 30 anni or sono Laos e Cambogia per Hanoi, regioni santuario per i terroristi islamici. Sigle apparentate ad Al Qaeda colpiscono Algeri e Casablanca, soldati americani continuano a morire al ritmo quotidiano di sempre, migliaia di sciiti, i perseguitati da Saddam Hussein, scendono in strada a Najaf per onorare proprio la memoria del loro aguzzino, e sfidare i loro presunti liberatori. E quel vento impetuoso della democrazia che avrebbe dovuto soffiare sul mondo arabo ha portato invece il segretario di Stato Condoleezza Rice ad aprire i primi contatti con paesi come la Siria, visitata anche dalla Presidente della Camera Nancy Pelosi e ha reso l'Iran di Ahmadinejad ancora più impudente. Non è dunque l'attacco sensazionale alla fortezza dell'occupante, alla Zona Verde, che non è il primo e non sarà l'ultimo, ad angosciare Bush, a indurlo a rispolverare la tragica dottrina della "carta moschicida", del "meglio che muoiano gli iracheni piuttosto che noi". è ormai l'effetto critico raggiunto dallo stillicidio di cattive notizie che la propaganda dell'ottimsimo e del mezzo bicchiere pieno non riesce a controbilanciare. Parlare di "progressi", di fronte alla permanenza degli assalti, o dichiarare, come ha fatto il senatore McCain dopo una fulminea visita a un mercato di Bagdad, che "si fa ormai la spesa lì come la si fa nello Iowa", quando le telecamere lo inquadrano in giubbotto anti proiettile, circondato da 100 soldati in assetto di guerra e sorvegliato da quattro elicotteri armati, non è più soltanto ridicolo, è offensivo e non soltanto per gli abitanti dello Iowa. Purtroppo, nulla di serio e di profondo cambierà, nell'attesa di quella "vittoria" che lo stesso generale Petraeus, massimo esperto in uniforme di insurrezioni e controguerriglia, ha già detto essere "militarmente impossibile", perché Bush non può ammettere la verità senza riconoscere la sconfitta della propria missione e della propria presidenza. La situazione continuerà a "migliorare" in Mesopotamia, altri soldati saranno spediti o rispediti al fronte per dare la caccia ai sorci per altri 20 mesi, fino a quando questo Presidente potrà scaricare la responsabilità sul proprio successore nell'illusione che la sua sconfitta abbia, davanti allo storia, il volto di un altro.


Il Centro 13-4-2007 Regione Abruzzo. Enti regionali: niente più stipendi, solo rimborsi La scure cadrà su 60 Cda. A presidenti e consiglieri solo 50 euro a riunione Berardino Santilli.

L'AQUILA. Niente più indennità ai componenti di comitati, commissioni e consulte regionali: agli esperti esterni di questi enti regionali verrà riconosciuto un gettone di 50 euro per la partecipazione ad ogni riunione. Ai dirigenti e dipendenti regionali verrà corrisposto solo il rimborso per le spese di viaggio. Non solo il loro lavoro verrà controllato e monitorato. La drastica misura è contenuta nella proposta di deliberazione che la Giunta regionale dovrebbe approvare per dare il via libera alla prima delle due azioni tese alla riduzione dei costi della politica e alla razionalizzazione delle risorse annunciato per il mese di marzo dal presidente della Regione, Ottaviano Del Turco. La bozza di deliberazione potrebbe essere licenziata dall'esecutivo regionale entro la fine del mese di aprile per poi passare al vaglio del Consiglio regionale. Il giro di vite sui compensi riguarda circa 60 degli 89 organismi regionali finiti nella lente d'ingrandimento nell'ambito del censimento portato a termine dal segretariato generale della presidenza della Giunta regionale. Sui restanti 29 enti regionali pende seriamente la scure della soppressione con l'affidamento delle competenze a dirigenti e dipendenti regionali: come previsto nella proposta di deliberazione nella quale si prevede anche il trasferimento alla Regione di tutti i rapporti giuridici delle realtà tagliate. Questi enti sono stati ritenuti superflui e quindi strumento clientelare e di sprechi dai tecnici: ora dopo l'ultima passaggio con i direttori dei settori che ricomprendono le realtà in odore di taglio teso ad escludere problemi amministrativi, la parola finale sulla cancellazione spetterà alla politica, per intenderci alla maggioranza di centrosinistra. Ma considerando le misure contenute nella proposta di deliberazione chiamata a normare i tagli, neppure gli organismi che si salveranno dalla soppressione, avranno vita facile: oltre all'abolizione delle indennità, la Regione ha previsto controlli più serrati. Nella deliberazione si richiama ai principi amministrativi dell'efficienza, efficacia ed economicità ed inoltre si stabilisce che dai verbali delle riunioni devono essere riscontrabili gli indicatori per verificare se c'è stato il rispetto dei canoni di lavoro citati come fondamentali. Devono passare al vaglio dei settori di controllo della Regione le assunzioni di personale. Insomma, gli obiettivi di riorganizzazione e riordino sono molto chiari: il provvedimento, che ha già suscitato polemiche, è destinato ad essere ancora molto discusso. C'è, soprattutto in maggioranza, che la politica di tagli e rigore sia estesa ad altri enti regionali, come i consorzi per lo sviluppo industriale e di bonifica e alle partecipate più importanti della Regione. La razionalizzazione comprenderà anche Asl ed Enti d'Ambito, entrambi con la riduzione da sei a quattro, ed agenzie regionali per l'edilizia territoriale (Ater). Ma queste realtà dovrebbero essere coinvolte nella seconda fase, prevista entro il mese di giugno, che come recitano la Finanziaria nazionale e regionale, si basa sulla riorganizzazione e la riduzione del 10% dei costi per il funzionamento degli enti strumentali della Regione.


Il Giornale di Brescia 13-4-2007 Multiculturalità, enigma da risolvere CONFERENZA INTRODUTTIVA DELLA PROF. SANTERINI

 

LA Partita dalla constatazione della necessità del dialogo interculturale - "un vero e proprio segno dei tempi" -, la relazione della professoressa Santerini ha subito indicato la sfida - "centrale per il futuro" - nella quale l'educazione si trova a essere impegnata oggi: "rendere possibile la convivenza tra diversi, favorire un dialogo che costruisca una società pacifica". Gli obiettivi dell'educazione interculturale, quindi, devono essere ampliati: non si tratta più soltanto di aprire le istituzioni formative agli immigrati, "ma soprattutto di contribuire a creare e mantenere la coesione sociale in contesti di pluralismo culturale", e "non soltanto di tipo etnico". Come? Dopo aver svolto una riflessione sull'idea di cultura e sulla differenza (perché "un rinnovamento della visione del confronto di culture" precede necessariamente la revisione delle strategie educative), sottolineando in particolare che "ogni cultura fin dalle origini va considerata mista" e a maggior ragione al tempo della globalizzazione, la studiosa ha messo in guardia dai rischi del relativismo culturale che "postula l'uguale validità delle culture e la neutralità nei loro confronti, ma all'estremo ne impedisce le relazioni". Il che, in educazione, significa "impedire il dialogo e la reciproca trasformazione, rafforzando, anziché ridurre, i confini tra i gruppi". Nelle sue prime fasi, ha ricordato Santerini, "l'educazione interculturale ha corso proprio questo rischio; educatori e insegnanti, pur con le buone intenzioni di abbandonare l'etnocentrismo e lo sguardo monoculturale, hanno finito con l'esaltare la differenza fine a se stessa". Da parte sua, la scuola negli ultimi decenni ha affrontato - a livello europeo - l'enigma multiculturale attraverso tre fasi distinte: la fase dell'assimilazione (per cui ci si è sforzati di inserire le culture minoritarie senza troppo preoccuparsi delle stesse), quella del multiculturalismo (con la scoperta del pluralismo, ma anche - come si diceva - il rischio del relativismo e della folklorizzazione delle culture) e quella dell'interculturalità, una "fase ancora in divenire in cui occorre realizzare l'integrazione delle culture nella reciprocità". La prospettiva educativa che nasce da quest'ultima, ha spiegato Santerini, "contrasta l'idea dell'altro in termini deterministici e assoluti e presuppone la differenza sostenendo la persona, essa stessa multiculturale, nella costruzione di un'identità complessa e non esclusiva". Si pone allora la "domanda centrale": come trovare un linguaggio comune? "Come elaborare quella che Joseph Ratzinger ha chiamato la "grammatica" che ci permette di comunicare, davanti alla paura della diversità?". È forse proprio questo il ruolo dell'educazione oggi, secondo la studiosa: "promuovere quel dialogo che rende possibile la comunicazione tra diversi, aiutando a "tradurre" i differenti modi di pensare e sentire". Ma "non si tratta soltanto di dialogo inteso come procedura o come metodo, ma di aiuto affinché le persone tornino alla propria cultura a partire dalle culture altre, cioè riflettano su se stesse in un orizzonte di "appartenenza all'umanità"". A scuola, il problema della "grammatica" per il dialogo comporta la necessità di esercitare "un riconoscimento, un rispetto per le culture di origine dei ragazzi immigrati, che risponda alla loro domanda non di comunitarismo ma, al contrario, di più integrazione in un modello laico e universalista". Una "scuola della cittadinanza", insomma, "in cui la dimensione interculturale sia per tutti, immigrati o meno, che porti a scelte di plurilinguismo, guidi criteri per la distribuzione degli alunni imnmigrati e non la concentrazione in scuole-ghetto, punti sulla pedagogia della cooperazione per affrontare le differenze nella classe, affronti i problemi di discriminazione". Non solo. Bisognerà puntare "alla diversità culturale, ma anche a quella sociale, con essa intrecciata, e alla posizione che le famiglie occupano nel contesto esterno, attuando misure di sostegno a una stabile integrazione". Ma attenzione: l'educazione interculturale dovrà coinvolgere tutta la classe. Perché tutti - come dimostrano le migliori esperienze al riguardo - ne possano trarre beneficio. Francesca Sandrini Un enigma. Ha parlato di "enigma multiculturale" Milena Santerini, ordinario di Pedagogia generale all'Università Cattolica del Sacro Cuore che ieri ha introdotto con la sua conferenza i lavori del colloquio internazionale dell'Acise.


La Repubblica 13-4-2007 LA POLEMICA Una scorta laica per Bagnasco FRANCESCO MERLO

 

Sono arrivate, le incivili e minacciose scritte sui muri contro il neopresidente della Cei Bagnasco e contro Papa Ratzinger, proprio quando i vescovi italiani stavano rischiando di renderci simpatico, per reazione, il diavolo. Sono arrivate a ricordarci che questo nostro cattolicesimo, in cui siamo nati e in cui intendiamo continuare a vivere, va protetto anche da se stesso, va difeso anche quando viene colto dalla fregola fondamentalista, e dunque va scortato non solo dalla polizia come sta avvenendo a Genova, ma, se occorre, da tutti gli italiani. Insomma siamo pronti a offrirci volontari come guardie del corpo del vescovo Bagnasco anche noi laici. Uno scorta laica per Bagnasco (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Persino noi che nel Papa tedesco e nell'"imam" Ruini più che un anelito e un profumo di cielo annusiamo un gran puzzo di inferno; anche noi insomma che nella chiesa che manda in piazza i suoi preti contro i gay vediamo balenare non il buon Dio ma un "Diaccio" senza la grazia, sospettoso e diffidente a tal punto verso le sue creature da essere quasi contento di coglierle in fallo e dannarle senza misericordia. è vero che c'è nel neo tradizionalismo populista del Vaticano, e nello zelo savonarolesco dei vescovi italiani un'insicurezza di se stessi da cui chi crede veramente dovrebbe essere al riparo. Ma in fondo è una paura, è una debolezza, è una povertà di spirito che possono persino intenerirci se paragoniamo questi nostri monsignori, diventati, anche fisicamente, così incerti, così dispeptici, e tutti politicamente un po' torbidi, a quelle orribili stelle a cinque punte e alla sigla Br che, per la prima volta nella storia italiana, sono state rivolte contro di loro e contro il Papa. Le scritte ? da "vergogna" a "morte a Bagnasco", da "cloro al clero" sino a "Ruini Bagnasco Ratzinger assassini" ? che sono apparse sui muri di Genova, poi di Bologna e di Torino e che ora si stanno diffondendo per contagio, rimandano alla grammatica e alla sintassi di quell'Italia ormai ultraminoritaria ma violenta e vigliacca che sempre approfitta dell'impunità per preparare agguati, per rilanciare squallide battaglie perdute, per riportare il paese ai suoi anni incivili o solo per preparare la pesantezza del rituale chiassoso di strada. Da tempo ormai in Italia i muri non sono più i fogli bianchi, i pannelli collettivi e le pagine della comunicazione democratica, degli azzardi strampalati e degli abusi lessicali che sintetizzavano appassionate discussioni, segnalavano il debordare di un eccesso sociale, dalle assemblee di fabbrica alle occupazioni di università o di case, e diventavano gli slogan delle lotte studentesche e dei cortei operai. Oggi i muri sono piuttosto il corpo vivo su cui si incidono le cicatrici, sono i luoghi dove parlano gli antisistema alla taxi-driver, sono i taccuini delle anime malate. Non è più vero che chiunque abbia qualcosa da dire la scrive o la disegna sul muro, purtroppo non è più il diario irriverente degli adolescenti con l'acne comunicativa. E' invece vero che i muri esprimono il malessere dell'intelligenza e spesso anticipano il fanatismo di piazza. Ma temo che sia inutile spiegare ai vescovi che ad andare in piazza ci si imbatte sempre nei professionisti della piazza, negli organizzatori del disagio epocale come eversione, nei rifondatori delle rifondazioni che la disperazione rende pericolosi. Non che i fanatici producano vero consenso e sogni collettivi di rivoluzione, ma che possano produrre lutti, funerali e immensi dolori, questo sì, è possibile. E in questo senso ha fatto bene lo Stato a non sottovalutare le minacce ai vescovi e a proteggere fisicamente il loro capo. E però la parte odiosa di questa faccenda è che i vescovi non capiscono che anche il neo integralismo papista produce sofferenza. Un omosessuale che si sente bandito in nome di Cristo è sofferenza pura. Insomma quello controriformista può diventare un codice odioso che stana gli odiosi. E, in Italia, ormai lo sappiamo, si trova sempre un odioso imbruttito dal rancore, che scrive proclami feroci, fosse solo sui muri: scarti metropolitani che non ce la fanno a stare al mondo e che arrivano a sparare agli altri perché non hanno il coraggio di spararsi, disperati che invece di togliersi di mezzo, di impazzire o di suicidarsi, molto più vigliaccamente progettano di togliere di mezzo qualcuno, il loro presunto nemico che, adesso ? incredibile ma vero ? identificano con il vescovo, con la chiesa italiana. Ed è una follia, una folle novità che non ha nulla a che vedere con le persecuzioni dei cristiani, con il martirio dei sacerdoti nei paesi comunisti, con la Jihad islamica. è una follia tutta italiana, anche perché non è vero che questi vescovi dalle gote incavate hanno soffocato il sanguigno don Camillo, il mantello del ricco tagliato in due e diviso con il povero, l'amore per tutto ciò che è naturale e non è arzigogolio teologico, il prete antiideologico che ha registrato la nostra storia nazionale, il prete italiano a cui ricorrevano comunisti e conservatori, ricchi e poveri, miscredenti e baciapile, un prete bonario e ricco di saggezza di mondo, al di sopra dei partiti e delle classi. Su una cosa possiamo rassicurare Bagnasco: l'Italia laica proteggerà sempre questi suoi preti, e proteggerà anche Bagnasco, non solo perché non ama il martirio e l'industria dei santi che in questi giorni sembra eccitare i soliti focosissimi giornalisti e intellettuali ultracattolici, ai quali piace la rissa (sempre nel nome del perdono, della rinunzia e dell'amore). Il fatto è che, a dispetto della sbandata integralista della Cei, noi laici crediamo davvero nella nobiltà dei preti italiani, nella loro generosità, persino nelle loro capacità visionarie e nelle loro intemperanze, insomma nella superlevitazione della religione, nel suo stare sopra e mai contro: sopra i conflitti e i luoghi comuni, sopra i gusti sessuali e le tensioni sociali; la religione come lingua viva che non si trova nei mille libroni di teologia tedesca e neppure nelle scuole di pensiero dei banchieri tomisti, che sono un'altra bizzarria nazionale. Ecco perché, qualora occorresse, garantiremmo, sempre e comunque, una scorta laica a Bagnasco e alla sua battaglia di retroguardia, per proteggerlo certo dai matti fanatici e, come dicevamo all'inizio, per proteggerlo pure da se stesso. Ma anche per proteggere noi stessi, per evitare che davvero questi vescovi riescano a farci vivere nel rimpianto del Dio buono dei nostri padri e nel rimorso di averlo perso.


Il Corriere della Sera 13-4-2007 «Noi mai a sinistra. O si cambia oppure rinegoziamo le alleanze» Casini: «Il terzo polo? E' un’idea astratta»

Il leader carismatico dell'Udc: «Ora aspetto sulla riva del fiume». «Il referendum elettorale? Se ci sarà, io guiderò il fronte del no»            

 

ROMA—I sostenitori del terzo polo rischiano di restare delusi. Per il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, che si prepara al Congresso, «è un’idea astratta». La prospettiva è ristrutturare il sistema politico: «Aspetto sulla riva del fiume— dice— che passino le bugie».

Non davano Berretti verdi e non era neppure un cinema. Ma anche la storia politica di Pier Ferdinando Casini (come quella di Fini) comincia a Bologna davanti a un’occupazione dell’estrema sinistra; appoggiata però dalla destra. Il liceo Galvani era occupato. Con un gruppo di ragazzi «fuori dal coro», Casini guida la rivolta dei moderati. «Ho ancora i volantini: "Contro la svolta rossa e nera". Seguì un referendum che vincemmo con il 60%». Il Galvani è la prima scuola ad avere il consiglio degli studenti, anni prima della legge. «Era il 1973, segretario Dc era Forlani, fu suo il primo comizio che andai a sentire. Ecco, io mi sento coerente con il ragazzo di allora».

Andare contro quello che era considerato il senso comune, per poi scoprire di essere, in realtà, maggioranza. Il primo ad accorgersi di lui fu Giovanni Forti del manifesto, dopo un’assemblea a Pisa nel 1976: «Come fa un giovane a essere seguace di Flaminio Piccoli? ». Era Toni Bisaglia; ma rendeva l’idea. Eppure le sue scelte avrebbero presto portato Casini lontano dalla Democrazia cristiana. Deputato a 27 anni, segretario di partito a 38: ma fuori dalla Dc divenuta partito popolare. Senza per questo confluire in Forza Italia. Quando Berlusconi gli propone di diventarne coordinatore, risponde di no sorridendo: «Lasciata la politica, potrei lavorare con te aMediaset, non ora...».

Dirigente della Dc emiliana, quindi votato all’opposizione, è il padre. «Un moderato vero, degasperiano e scelbiano». Casini rivendica di aver onorato allo stesso modo i padri politici, i grandi vecchi democristiani, a cominciare da Cossiga (dopo la morte di Moro e le dimissioni è il primo a invitarlo a un incontro pubblico, all’hotel Carlton di Bologna). Ma sarebbe fuorviante interpretare come recupero del passato la linea che il congresso Udc — apre oggi il segretario Cesa, chiude lui domenica — è chiamato a confermare. C’è un unico, decisivo elemento di continuità: la mancanza di complessi di inferiorità culturale verso la sinistra. «Tutta la storia del cattolicesimo democratico— è la convinzione di Casini—nasce da una sorta di attrazione fatale verso la sinistra perché là sventolano le bandiere della pace, là si difendono i poveri. Ma poi sono venuti Wojtyla, Ratzinger e Ruini, ad aprire una nuova stagione, a confutare l’idea della Chiesa come una grande ong».

A rileggere la sua storia negli archivi, c’è una prima fase in cui gli vengono rimproverate la levità, lo «spirito del purgatorio», l’avvedutezza — essendo Pierfurby il più ricorrente tra i tanti soprannomi riepilogati anni fa dal Foglio: Pierre, Polly il bello, Tergicristallo, Colazione da Tiffany... —, persino il bell’aspetto—«bello come un attore americano » scriveva già Vittorio Orefice —. Poi viene l’elezione alla presidenza di Montecitorio, quando Casini non nasconde la sua duplice natura, l’esuberante e la moderata, i «ciao» con le mani e i baci ai familiari in tribuna e l’invocazione alla madonna di San Luca. Quel giorno chiamarono un po’ tutti. Tra le poche telefonate che fece lui, una fu per Romiti, la persona che chi gli aveva fatto incontrare Cuccia e avviato un legame coltivato con riservatezza—una serie di incontri in un ristorante di Milano, il Ranieri, che gli diedero modo di apprezzare «l’intima e privata religiosità» del capo della finanza laica italiana —.

Sono anni di autonomia da Palazzo Chigi e di applausi bipartisan, il che infastidisce un poco Berlusconi. Ora che la frattura è consumata, è tempo invece di attacchi mediatici, forse anche di trappole. Che lui però minimizza. «Non ne sono innervosito. Non mi sento un perseguitato, perché non lo sono ». La sua vita, racconta nelle conversazioni private, è sotto gli occhi di tutti. Avrebbe potuto comportarsi «come altri, vivere una vita doppia, tripla». Invece la scelta dolorosa del divorzio. L’incontro con Azzurra Caltagirone, il viaggio nel Sinai. «Siamo rimasti affascinati dal monastero di santa Caterina, ci siamo detti: se avremo una figlia la chiameremo così. Caterina è arrivata, è la mia terza figlia, ho voluto che nascesse come le altre a Bologna, la mia città. Franco, che ha fama di uomo glaciale, con la nipotina si scioglie. Il rapporto con il padre di Azzurra è affettuoso sul piano personale, e la cosa finisce lì: quando ci siamo conosciuti io ero già presidente della Camera e lui era già Caltagirone ».

Il ragionamento che sviluppa con i collaboratori è che, se davvero l’Udc fosse irrilevante, i giornali non scriverebbero che Berlusconi ha frenato sulla vicenda degli ostaggi per non lasciarle spazio. Del caso Mastrogiacomo è convinto sia un «pasticcio», di cui però è inopportuno discutere in piazza. «L’idea di una commissione di inchiesta sui sequestri è davvero da repubblica delle banane. Quando toccò a noi occuparcene, Gianni Letta si mosse con straordinario senso dello Stato. Non a caso già l’anno scorso si pensava a lui come candidato a Palazzo Chigi…». Non sarà però sulla questione della leadership o dei rapporti con Berlusconi che Casini incentrerà il congresso. Com’è ovvio, non potrà eludere il nodo delle alleanze. Ma i punti fermi resteranno quelli di sempre. Il partito rimane alternativo alla sinistra; Giovanardi che si candida alla segreteria per impedire che l’Udc vada di là esprime una preoccupazione vana. Però anche i sostenitori del terzo polo rischiano di restare delusi. In queste condizioni il terzo polo è «un’idea astratta. Può diventare una necessità. Un rimedio ».

Non una strategia. Casini resta convinto che nel ‘94 Martinazzoli abbia compiuto un errore: se, d’intesa con Segni, avesse schierato la Democrazia cristiana da una parte, probabilmente Berlusconi non sarebbe sceso in campo. Così come resta convinto che, se l’anno scorso l’Udc si fosse presentata da sola come voleva Follini, sarebbe andata incontro a una catastrofe numerica e politica. La prospettiva semmai è di ristrutturare il sistema politico e solo in caso di fallimento rinegoziare l’alleanza in un quadro nuovo. Con un’altra composizione, e un’altra leadership. Senza fretta, però. «Posso permettermi di aspettare sulla riva del fiume, in attesa che passino le bugie, le contraddizioni ». Per vincere, i moderati non potranno prescindere dall’Udc. I moderati; non il centrodestra com’è adesso. Casini è convinto che il sistema politico di oggi vada cambiato, e sia destinato a cambiare. «Non è detto che la normalità in Italia sia impossibile, che saremo ricattati in eterno dagli estremisti di entrambi i campi».

I segni di movimento ci sono. La nascita del partito democratico apre uno spazio al centro e crea un interlocutore, da criticaremacon cui confrontarsi. Il referendum elettorale non è un dramma. Anzi, Casini è pronto a cavalcarlo, «a capeggiare il no», a rivendicare la proprietà di un risultato che finirebbe comunque per legittimare il proporzionale; e magari aprire la strada al sistema tedesco, che superi le divisioni artificiali e avvicini le forze omogenee. Tanto la scelta del sistema elettorale non sarà fatta ora, «ma all’ultimo momento ». Ai collaboratori Casini confida la sensazione che Berlusconi quasi preferisca un centrodestra normalizzato alla caduta di Prodi. Del resto l’antiberlusconismo gli appare il collante che tiene insieme l'attuale maggioranza. I due strappi—il no al corteo di piazza San Giovanni, il sì alla missione a Kabul — non hanno messo in gioco soltanto il rapporto con il Cavaliere. Forlani lo critica, «ma non ne sono sorpreso: è mio amico, come lo è di Berlusconi».

Giovanardi lo attaccherà al congresso, però la fronda interna non è inutile se serve a contenere l’emorragia di consensi verso destra; e poi l’amicizia è solida, se è vero che quando Casini decise di separarsi fu Giovanardi il primo collega a saperlo (due ore di colloquio in macchina, in un parcheggio di Serramazzoni, sotto la neve). Com’è solido il rispetto per gli avversari: «Con Franceschini stiamo invecchiando insieme; ero amico della fidanzata di D’Alema, Giusi Del Mugnaio, ho sofferto con lui quando l’ha persa». Con Follini non si sentono più: quando «un forte sentimento» si spegne, meglio una pausa che una telefonata formale per gli auguri di Pasqua. Più che ad allearsi con lui e con Mastella, preme a Casini rinfrancare il proprio elettorato. «Se siamo al 7% con questo clima, non potremo che crescere».

Aldo Cazzullo


La Gazzetta del Sud 13-4-2007 La stagione degli "invece" coinvolge anche la genesi del partito democratico Dino Basili

 

Fateci caso, è la stagione degli "invece". Tiepidi, bollenti, ghiacciati. Di ogni genere, a catena, appena qualche esempio. Alla vigilia dei congressi prenatali del partito democratico, si scrive che la scelta unitaria è una realtà: invece sono evidenti più linee politiche in contrasto. Tre o quattro Ds, almeno un paio Dl, quella dell'Ulivo quando capita un minimo di coesione (ma nel Pd "in fieri" non tutti sono ulivisti). Piero Fassino proclama: "a dividerci è solo la storia da cui veniamo". Invece, sul fronte Dl, il ministro Gentiloni sostiene: "non riusciamo a declinare il nuovo partito al futuro". Boh. Si legge in continuazione: "Nell'Unione sono tutti contro tutti". Nel centrodestra invece pure. Ogni tanto si parla di un partito dei moderati o si entra nei dettagli di un patto federativo: invece all'orizzonte si staglia il solito fil di fumo. L'Udc teorizza una sorta di terza via e invece continua la caccia al voto, quasi ovunque, insieme agli alleati: al limite, non si dovrebbe più discettare di "due opposizioni", bensì di una e mezza... Si cita incautamente, per darci coraggio, una sentenza di Mao Zedong: "Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente". Invece il momento è pessimo per eccesso di confusione. O meglio, per la sua qualità scadente. Il nostro caos non è affatto creativo. Il governo usa a perdifiato, in originale e fotocopia, il termine "forte" per accompagnare decisioni o definire provvedimenti: invece fragilità o addirittura evanescenza sono all'ordine del giorno, proprio nei settori in cui l'esecutivo è insostituibile. Si è regalato "per tabulas", mai scalpellino fu più incisivo, un portavoce unico: invece ministri e sottosegretari dichiarano, controdichiarano, polemizzano a ogni piè sospinto. A Palazzo Chigi sono tolleranti. Dicono che si tratta di chiacchiere inutili. Com'è vero... Dovrebbe, il governo, astenersi da pesanti intrusioni nelle attività economiche private: invece non tralascia occasione per mettere becco o zampino nel mercato, se non entrambi. A proposito di Telecom (e non solo) si grida che interessano "innanzitutto le regole": invece microscopi, telescopi e periscopi sono puntati sulle squadre in campo. Sui singoli giocatori. Nessuno nega la necessità di profonde riforme istituzionali: invece restano intatte, sotto teca manco fossero icone preziose, le distorsioni e le anomalie del sistema (ammesso che esista un nostro sistema, almeno un sistemino). Si auspica costa poco, il concorso della maggioranza e dell'opposizione per significativi cambiamenti: invece "con" si perde lungo la strada e si corre in ordine sparso. Verso dove? La riforma elettorale, poi, è un "must". Il governo assicura impegno prioritario per la ricerca di nuove norme "condivise": invece, tenta di allungare il brodo a nutrimento di una stentata sopravvivenza. Si desidera, di qua e di là, il superamento degli errori del passato: invece il punto meno controverso (si fa per dire, vista la tenace disparità delle proposte) sembra quello di negare ancora agli elettori il diritto di scegliere coloro che li rappresenteranno in Parlamento. Un po' tutti speravano che il referendum facesse bau-bau, insomma che fosse un canone di pezza: invece morde, anzi minaccia di diventare un cannone. Che sia la "Grande Bertha" dell'interminabile transizione italiana? Per ripasso, la signora Krupp (delle omonime acciaierie) prestò il nome alla potente arma, lunga 36 metri, gittata da decine e decine di chilometri, con la quale i tedeschi bombardarono Parigi nel 1917-18. Per adesso, basta con gli "invece": un numero sufficientemente indicativo. Occorre solo aggiungere che sono stati messi insieme nello spirito della migliore "Conoscenza del peggio": questo il titolo dell'illuminante saggio di Manlio Sgalambro appena uscito da Adelphi. L'educazione al pessimismo, che richiede metodo e non cagnara, può essere premiante. A volte, può dare risultati miracolosi. "Dacché sai com'è il mondo" scrive Sgalambro "ti diverrà più lieve vivervi". Provare per credere. (venerdì 13 aprile 200


La Stampa 12-4-2007 Banca Mondiale, Wolfowitz: "Sì, ho favorito la mia amante"

 

«Ho incontrato il Board e mi rimetterò a qualsiasi sua decisione»

NEW YORK
«Chiedo scusa e mi faccio carico di tutte le responsabilità del caso». Con queste parole il numero dalla Banca Mondiale, Paul Wolfowitz ha aperto il briefing di presentazione dei lavori dell’Istituto di Washington. Le scuse di Wolfowitz si riferisconono alla vicenda per la quale avrebbe agevolato il trasferimento della sua compagna al Dipartimento di Stato, dove guadagna poco meno di 200.000 dollari all’anno. «Ho incontrato il Board questa mattina e mi rimetterò a qualsiasi decisione si prenderà». Il Board della Banca Mondiale sta decidendo adesso su eventuali misure da adottare.
«Ho fatto un errore del quale mi scuso», ma «non posso rispondere a queste domanda», ha proseguito Wolfowitz riferendosi a chi gli chiedeva se avesse rassegnato le dimissioni. «Sono speculazioni alle quali non posso replicare ora che il Board è riunito per prendere le sue decisioni. Wolfowitz nel settembre 2005, tre mesi dopo avere assunto l’incarico presso la Banca Mondiale, aveva aiutato la sua compagna Shaha Riza, dirigente di banca, a passare al dipartimento di Stato. I compensi della donna, che ammontavano a circa 132.000 dollari, sono aumentati a 193.500 dollari, all’incirca quanto percepisce il segretario di Stato Condoleezza Rice.
«Il mio rammarico è di non essere riuscito a tenermi fuori da questa situazione che, in ultima istanza, danneggia anche l’Istituzione per cui lavoro». «Due anni fa quando ho assunto la guida della Banca Mondiale ho immediatamente posto la questione alla commissione Etica dell’Istituto. Era una situazione senza precedenti, eccezionale, e pertanto il Board ha deciso di promuovere Riza e di trasferirla», ha spiegato Wolfowitz, che ha poi ammesso che avrebbe voluto seguire il suo primo istinto, non occupandosi della vicenda in questa occasione.
Il numero uno dell’Istituto di Washington ha inoltre spiegato che ci sarebbero stati dei rischi legali se la situazione non si fosse rivolta con un accordo consensuale. «Mi assumo pertanto - ha ribadito - tutte le responsabilità per i dettagli, e non me ne voglio sottrarmi esponendo altri ad assumere responsabilità». «Si è trattato di un doloroso dilemma personale. Ancora non conoscevo l’Istituzione, ma chiedo comprensione e chiedo di essere giudicato non associandomi al mio lavoro precedente», ha precisato il presidente della Banca (con l’amministrazione del presidente George W. Bush ndr). «Lavoro per una Istituzione in cui credo profondamente, la Banca Mondiale, e per la cui missione nutro una grande passione».


La Stampa 13-4-2007 Abbiamo identificato i geni che impediscono alle cure anti-cancro di avere effetto». Michael White “Il prossimo passo? Medicine intelligenti”

 

Michael White risponde dal suo studio del Southwestern Medical Center all’Università del Texas di Dallas e spiega i dettagli degli studi appena terminati da un team di ricercatori, senza però lasciarsi prendere da eccessivo ottimismo. Ciò che distingue White infatti è la volontà di sottolineare i limiti dei risultati, al fine di chiarire che la rivoluzionaria terapia genetica basata sulla tecnologia Rna è appena all’inizio.
Qual è il fine della ricerca genetica che avete condotto?
«La ricerca tenta di risolvere il problema dato dal fatto che molte persone non rispondono positivamente all’assunzione di farmaci anti-cancro e altre, pur rispondendo positivamente, generano una ricaduta che diventa intrattabile con il farmaco che è stato adoperato».

Quali sono i vostro obiettivi che vi proponete di raggiungere per rimediare al problema?
«Sono due. Primo: far funzionare farmaci antitumorali come il Taxol in un numero maggiore di persone di quanto avviene. Secondo: consentire ai medici di sviluppare terapie che portino a ridurre la chemioterapia che ha effetti tossici pur continuando a essere molto efficace contro le cellule cancerogene. Insomma, puntiamo a rendere la chemioterapia da un lato più efficace per più persone e dall’altro portatrice di minore tossicità».
Come siete siete arrivati a ottenere tali risultati?
«Grazie all’avvenuta mappatura del genoma umano e alla possibilità di attivare o disattivare ogni gene presente nel genoma. Senza questo punto d’inizio non avremmo potuto fare nulla. Ciò che abbiamo fatto in laboratorio è esaminare i geni uno per uno, interrogandoli per comprendere l’impatto sulle cure con farmaci anti-cancro. Abbiamo quindi preso le cellule resistenti al Taxol, comunemente usato per curare i tumori al polmone, cercando di identificare i geni capaci di aumentare l’efficacia del trattamento, diminuendo le resistenza. E abbiamo ottenuto un significativo successo, riuscendo a identificare in particolare almeno un paio geni risultati determinanti».
Allora perché la sua prudenza sull’esposizione dei risultati che sono stati ottenuti, con l’accento sulla precisazione che «non sono ancora utilizzabili per gli esseri umani»?
«Perché la tecnologia Rna che abbiamo adoperato per attivare i geni funziona assai bene in laboratorio ma dobbiamo ancora lavorare molto affinché possa dare identici risultati negli esseri umani, dentro organismi viventi. Un’alternativa che stiamo esaminando può essere quella di identificare le proteine capaci di attaccare i geni identificati. Ma non siamo ancora arrivati a questo punto, ci aspetta molto lavoro».
Ritiene che la chemioterapia sia un rimedio oramai datato e che la soluzione potrebbe venire da una terapia basata sulla genetica?
«Certo, la chemioterapia è uno strumento vecchio e sarebbe opportuno sostituirlo al più presto con qualcosa di più efficiente nel produrre effetti tali da contrastare i tumori negli organismi umani. Ma non bisogna avere fretta: la realtà è che la chemioterapia oggi funziona e non siamo ancora in grado di liberarcene, ciò che invece possiamo fare è combinarla con l’uso di medicinali capaci di attaccare i geni che riusciamo a identificare come decisivi per diminuire la resistenza degli organismi dei singoli pazienti».
Come giudica l’andamento della lotta ai tumori?
«La medicina è diventata molto sofisticata nell’identificare scorciatoie, rimedi, capaci di aggirare le resistenze delle cellule cancerogene. Vi sono molte strade da percorrere e noi abbiamo voluto indicarne una razionalmente basata sulle possibilità offerte dalle scoperte ricavate dalla mappatura del genoma umano, terminata da poco. Abbiamo identificato gli obiettivi da colpire: i geni che impediscono ai farmaci antitumorali di avere effetto positivo in quanto servono alle cellule per sopravvivere al cancro. Trovando dei farmaci per intervenire su queste cellule potremmo avere molti, positivi, effetti a catena».
CHI E'
Michael White
Professore associato di Biologia cellulare al Southwestern Medical Center di Dallas (Texas)


 

Vita.it 12-4-2007 Blitz di Greenpeace alla Banca d'Italia

Greenpeace ha proposto a Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, di vendere il palazzo per due pacchi di sale, 18 barre di sapone, quattro pacchetti di caffè, 24 bottiglie di birra e due sacchi di zucchero, quello che le multinazionali del legno offrono alla gente dei villaggi del Congo in cambio dell'accesso alle loro preziose foreste.
In vista dell'incontro della Banca Mondiale, che si terrà a Washington nei prossimi giorni, Greenpeace ha consegnato a Draghi, che è anche il Governatore italiano della stessa Banca Mondiale, un rapporto che rivela come gli sforzi di quest'istituzione di controllare l' industria del legno stiano fallendo mentre la foresta scompare nell'illusione che, estraendo il legno, si possa combattere la povertà.

A preannunciare l'azione dimostrativa nei giorni scorsi erano comparsi in alcuni parchi romani e di altre città numerosi cartelli sugli alberi che ne annunciavano l'abbattimento. Non era vero, ma non era neppure uno scherzo. Era solo la riproduzione in scala ridotta di quello che avviene dall'altra parte del nostro negozio di mobili o parquet.

Proprio ieri Greenpeace ha presentato il rapporto "Sos Congo" denunciando come la foresta pluviale del Congo, la seconda per estensione dopo quella Amazzonica, una delle principali difese del pianeta contro i cambiamenti climatici, sia a rischio. "Immaginate una ruspa che entri in casa nostra sfondando le pareti, i quadri, i mobili. È quello che accade ogni momento ai popoli indigeni della foresta, quando le motoseghe e le ruspe si fanno spazio devastando la loro casa, il loro supermercato, la loro biblioteca" afferma Sergio Baffoni, responsabile foreste di Greenpeace. "Per questo oggi siamo entrati in azione a Roma e in altre città e abbiamo fatto appello al governatore della Banca d'Italia e ai ministri degli esteri e dell'ambiente perché intervengano. La Banca Mondiale che si riunisce nei prossimi giorni può fare molto per fermare questo saccheggio delle foreste".
Ogni due secondi un'area di foresta grande quanto un campo da calcio viene distrutta per sempre. In Africa foreste millenarie vengono saccheggiate per portare via legni pregiati come iroko, wengè, afrormosia. A rischio è la sopravvivenza stessa di numerose specie animali, come i nostri più vicini parenti nel mondo animale, gorilla,
bonobo e scimpanzè. Un'area di foresta africana grande una volta e mezzo l'Italia è stata già data alle aziende del legno. Greenpeace chiede al governo italiano e alla Banca mondiale di non promuovere in Congo un modello economico basato sull'industria estrattiva, che non ha portato sviluppo ma solo povertà e devastazione
ambientale.          


INDICE  12-4-2007

 

La Repubblica 12-4-2007 Napoli La borghesia e la plebe Vincenzo Spagnuolo Vigorita  1

Il Giornale 12-4-2007 Nei palazzi della Roma eterna, il Partito democratico aleggia come uno spettro fra stelle e stalle. Luca Telese  2

L’Unità 12-4-2007 Veltroni: "L'Ulivo deve avere l'ambizione di arrivare al 40%  3

La Stampa 12-4-2007 "Noi Ds? Democratici, mai stati di sinistra" Viaggio nelle sezioni della Quercia, i trentenni non capiscono le diatribe dei vertici. Frabrizio Rondolino  3

Il Riformista 12-4-2007 Per ora federiamo la Costituente socialista E siamo cauti sui movimenti a sinistra di Lanfranco Turci 4

Il Secolo XIX 12-4-2007 La politica estera e di difesa torna per la quarta volta in poche settimane nelle aule parlamentari Giorgio Rinaldi. 6

Il Corriere della Sera  12-4-2007 Prodi vedrà Bush Summit a Roma. Ancora tensioni sul caso Strada Oggi il dibattito, le rassicurazioni di D’Alema. Massimo Franco  7

Italia Oggi 14-4-2007  Tra le righe spuntano i partiti 9

 


 

 

La Repubblica 12-4-2007 Napoli La borghesia e la plebe VINCENZO SPAGNUOLO VIGORITA

 

La storia dimostra che le rivoluzioni (non necessariamente e in tutto sanguinose) le fa la borghesia "crassa", la borghesia imprenditoriale dell'industria, della finanza, del commercio; o anche i Lords, quando erano titolari di manifatture o patenti di corsa. In ogni caso, la borghesia ricca, associata e strutturata nella consapevolezza di sé, della propria forza e dei propri diritti-interessi. Nei piccoli Paesi Bassi, il ferreo governo della gilde dei mercanti contrastava il passo alle armate spagnole nel massimo splendore del "siglo de oro"; e le "ronde di notte" immortalate da Rembrandt ("La compagnia del capitano Banning Coq") tenevano a bada malavita e tangenti d'ogni natura. In periodi fortunati, alla grande borghesia economica facevano da ornamento e orientamento circoli di veri intellettuali. Questi ultimi da soli però, e l'esempio è proprio qui da noi nel 1799, sono finiti sulle forche dei Borboni e dei sanfedisti. Non sottovaluto la possibilità di un fronte di opinione, che arrivi a possedere una qualche forza di pressione: ma ci vorrebbe Voltaire (appunto) e gli Enciclopedisti, e i grandi giornalisti, e i grandi maestri della cattedra e della critica; e poi la coscienza comune e anche di sé, il cercarsi e trovarsi, l'abnegazione, il disinteresse, il coraggio. E tuttavia non si andrebbe lontano senza le strutture e le forze imprenditoriali. Da noi purtroppo le carenze si sommano. La borghesia economica latita non solo per consistenza, ma per autonomia e spirito d'impresa. Il professore d'università non forgia una scuola per elaborazioni superiori, ma si gloria delle ore di lezione come il bidello di servizio nel corridoio; il giornalista non scaglia campagne mirate contro la corruzione, e teme anche di attaccare a chiare lettere l'infame centravanti della squadra di calcio; il medico non produce ricerche e statistiche ma tessere di partito. Meno che mai c'è una coscienza civica, la consapevole pretesa d'aver accesso a una piattaforma non discutibile né trattabile di diritti, di libertà, di lavoro, di dignità. Regna il credo dell'elemosina, delle briciole, della carità: per cui si innalza a gigante anche il più analfabeta (ricerca ardua!) degli esponenti di quartiere. E senza la pluralità di centri di potere bilanciati la democrazia è uno schema vuoto. Già la borghesia cosiddetta civile è una minoranza in una città oppressa da una plebe sterminata, incolta, aggressiva, irrecuperabile. La depressione è il meno che ti possa colpire quando poi si vede il borghese "civile" anche più dotato e fortunato prodursi nella sfrenata corsa al mercimonio, compiere virtuosismi nell'arte della compravendita e della caccia all'incarico clientelare. Molti partecipano, certo, al governo della città e del territorio: ma in posizione servile, perché nella più vergognosa baratteria prendono soldi dalla sciagurata direzione di imprese pubbliche o parapubbliche, o perché preparano in mille le mille ordinanze di stampo illegale e mafioso che il presidente si vanta di firmare senza leggere. Altro che Aventino! E non riesco a capire come si sia sostenuto che - qui e oggi - su quel colle metaforicamente ci sono solo posti in piedi, in virtù evidentemente di un massiccio disinteresse. Qui c'è invece l'ennesima riprova aggravata della vecchia abitudine italiana di precipitarsi in soccorso del vincitore. Sull'Aventino dissero di ritirarsi nel 1924 - in ricordo della leggendaria iniziativa della plebe romana degli inizi e della metà del IV secolo a. C - i deportati antifascisti indignati per il vile assassinio di Matteotti, nella generosa illusione di provocare la caduta del governo Mussolini e la punizione dei colpevoli. Quei deputati dissidenti quindi sentivano fortemente la questione morale (come sottolineò Giovanni Amendola), rischiavano la pelle contro le bande di delinquenti armati dai fascisti, alla fine persero il seggio parlamentare. Essi dunque persero la battaglia politica, ma la combatterono con coraggio, con piena consapevolezza di battersi per una causa grande e giusta. E gli stessi plebei del IV secolo a Roma - che pare si siano veramente ritirati sul colle Aventino - avevano coscienza di classe e obiettivi di grande rilievo: politico, come l'accesso alle magistrature, riservato ai patrizi; o sociale, come il connubium con le donne patrizie, strumento palese verso l'eguaglianza; o civile, come la certezza del diritto. Si rivedono forse oggi simili motivazioni, simile coscienza, simili responsabili rischi nell'atteggiamento del borghese che - seppur non si precipiti ad arraffare la livrea del lacchè - si disinteressa della cosa pubblica? A me pare che la borghesia napoletana, per quel che ce n'è e non sia compromessa, abiti a Posillipo, al Vomero, al Monte di Dio. L'Aventino, nel senso della nobile tradizione, proprio non lo vedo. Forse perché esso è, nella realtà, solo una piccola altura di appena 40 metri sul livello del mare. Ma dovrebbe essere fin troppo chiaro che - nelle vicende che toccano la nostra dignità di cittadini - l'altezza non va misurata in centimetri, ma sulla statura civile e morale dei consociati.

 


 

Il Giornale 12-4-2007 Nei palazzi della Roma eterna, il Partito democratico aleggia come uno spettro fra stelle e stalle. Luca Telese

 

Nei palazzi della Roma eterna, il Partito democratico aleggia come uno spettro fra stelle e stalle, fra il 23% e il nonsoché, fra volte affrescate, paure demoscopiche e la neolingua "democratese", che tutto minimizza e annacqua. Il premier minimizza. Dice Romano Prodi, dopo che sul Corriere della Sera Renato Mannheimer ha dedicato una lenzuolata al sorprendente fenomeno rilevato dalle indagini sulle intenzioni di voto, quello che porta i due elettorati di Ds e Margherita (31%) a sottrarsi, piuttosto che a sommarsi: "Io non mi stupisco dei sondaggi: in questo momento - spiega il premier - se anche guardo dall'esterno quello che sta avvenendo, è fisiologico e fatale per un periodo di contrattazione". Splendidamente camomilloso: conoscendo il Professore non ti aspetti nulla di diverso: periodo di contrattazione per meno 10% vince il premio eufemismo 2007. Veltroni & Rutelli. E allora entri nel salotto buono di Palazzo Madama, la sala Zuccari - la più fastosamente affrescata del Senato, forse - per una serata che meglio di così non potrebbe annunciarsi: nell'ora della verità, a discutere della nuova creatura ci sono Walter Veltroni e Francesco Rutelli. E insieme a loro un direttore di quotidiano, Roberto Napoletano, e il senatore Antonio Polito, che sul tema ha scritto un libro brillante e provocatorio (Oltre il socialismo, Marsilio). Nel giorno in cui nei sondaggi la neonata creatura cola a picco - pensi - Rutelli e Veltroni potrebbero aprire uno squarcio di futuro, far assaporare un antipasto di leadership, l'anteprima di una battaglia di idee, magari convergere o dissentire su diversi progetti di partito. Ovviamente ti illudi, e a fine serata, quel che resta nel taccuino dei cronisti sconfortati è l'eterno minuetto di sintonie e frecciate, di due leader che affilano le zanne scambiandosi effusioni. Con piglio filologico proviamo a dimostrarvi come parlando straordinariamente bene l'uno dell'altro, i due si siano cordialmente manifestati reciproco dispetto. Confronto ovattato. Ecco la cronaca tutta arbitraria di un confronto che non c'è stato. a) Rutelli come suo solito arriva con un quarto d'ora di ritardo, perché teme che altrimenti non lo si noti (Napoletano tocca la mezz'ora, e poi si mette a fare domande sul debito pubblico!). Veltroni invece se ne va mezz'ora prima e dice: "Scusatemi, devo andare in Campidoglio, sapete, io sono un fondamentalista della puntualità!" (tiè). b) Rutelli, con un giochino di parole, butta lì la sua lisciatina all'anima cattolica: "Questo deve essere un partito interamente laico in cui deve potersi ritrovare chi è cattolico intero". E poi (excusatio non petita Pagina successiva >>.


 

L’Unità 12-4-2007 Veltroni: "L'Ulivo deve avere l'ambizione di arrivare al 40%

 

Il sindaco di Roma con Rutelli che polemizza coi sondaggi e aggiunge: "Penso ad un partito laico nel quale ci siano cattolici "interi"" di Maria Zegarelli / Roma Il cuore oltre il sondaggio. Soprattutto se l'ultimo blocca il partito democratico al 23% dei consensi. Per il sindaco di Roma Walter Veltroni si deve "puntare al 40% dei voti e questa non è un'utopia ma una necessità. Se l'ambizione non è questa non capisco la scelta che stiamo facendo". "Lasciamo perdere i sondaggi - continua il sindaco Ds durante la presentazione del libro di Antonio Polito "Oltre il socialismo" - è difficile che siano attendibili soprattutto se parlano di un partito che non c'è". Francesco Rutelli, gli siede accanto e concorda: "Simon Peres una volta disse: "I sondaggi sono come i profumi: annusare, non bere". Puntare in alto, avere l'ambizione di coinvolgere la società civile nella nascita del partito del nuovo secolo, dicono l'attuale vicepremier e l'ex vicepremier che si si sono dati il cambio nella guida della più grande e complicata città del Paese. Rispondendo alle domande del direttore del Messaggero, Roberto Napoletano, cercando di allontanare i nuvoloni che da tempo minacciano il Pd. L'Italia, dice Veltroni, ha bisogno "di stabilità, politica e istituzionale, e di modernizzazione. Credo proprio che sia quest'ultima la scintilla" in grado di accendere nuove passioni. Lo sa bene lui, alla guida di una coalizione "che in anni ha spostato il 31% dei voti, un terzo dell'elettorato". "Il paese ha bisogno di avere certezza di chi lo governa", e ci vuole coraggio per cercare di unire "coloro che sono più vicini". "Se dovessimo accettare un nuovo conflitto tra laici e cattolici faremmo un grande passo indietro - dice il primo cittadino -. Io, da democratico non posso non essere profondamente preoccupato per le scritte contro monsignor Bagnasco, ma questo non vuole dire che non possa continuare ad avere la mia idea sulla laicità dello Stato". Il Pd, aggiunge Rutelli, deve "essere un partito laico, interamente laico nel quale deve trovarsi anche un cattolico "intero"", senza per rischiare nel dire questo di essere tacciati di "clericalismo". Entrambi insistono sui "contenuti, non sui contenitori". Dunque, la questione della leadership del futuro partito non può essere posta all'ordine del giorno perché "è prematuro, si dovrebbe parlare di temi, non di geometrie organizzative e partitiche", insiste il vicepremier. Non più rinviabile la riforma elettorale, "che non si fa per aiutare i processi politici ma per aiutare un paese ad avere stabilità. La riforma è un'esigenza del Paese e non del Pd - spiega Veltroni -. La strada maestra per una nuova legge elettorale resta il Parlamento e spero che tutti si accorgano che senza una nuova legge elettorale chi vince non potrà garantire la stabilità".

 


 

 La Stampa 12-4-2007 "Noi Ds? Democratici, mai stati di sinistra" Viaggio nelle sezioni della Quercia, i trentenni non capiscono le diatribe dei vertici. FRABRIZIO RONDOLINO

ROMA
Il paradosso più stridente, la peculiarità più singolare della base diessina, nonché il vero motivo per cui il Partito democratico alla fine si farà, risiede in un dato generazionale che gli analisti, e i gruppi dirigenti della Quercia, faticano a mettere a fuoco: la «base» è più giovane del vertice. In molti sensi, ma specialmente in uno: il militante, l’attivista, il segretario di sezione andava alle elementari quando è caduto il Muro, Togliatti l’ha studiato sui libri di scuola e i conti con il comunismo - «che tanto appassionano il Corriere e Fassino», sorride una ragazza della Garbatella - appartengono al suo mondo quotidiano e al suo orizzonte ideale non più del Risorgimento o della Grande Guerra. I post-comunisti sono davvero postcomunisti, e del Pci conservano tutt’al più un ricordo familiare. Per questo le scaramucce al vertice interessano poco e nulla, e per questo la minoranza di Mussi, ancorché percepita come nobile e legittima, appassiona poco.
Nell’oleografia comunista la «base» era convenzionalmente identificata, da amici e avversari, con le feste dell’Unità, con le salsicce e con le coccarde: generosa e fedele, un poco ottusa, e in rapido invecchiamento. Questa antica favola ancora sopravvive al dissolvimento del Pci: ma nei Ds di oggi trova la sua smentita più clamorosa. La mitica sezione Mazzini - mitica, a Roma, perché frequentata dai borghesi del quartiere Prati e dal mondo Rai - è già, per dire, una sezione del Pd: causa lo sfratto dalla storica sede, oggi i diessini dividono la nuova con la Margherita e anche con lo Sdi. «Qui forse metteremo Mussi», spiega Renato, trent’anni, iscritto da tre, indicando la stanza che ospita i socialisti di Boselli: ma il concetto è che «oramai siamo tutti una famiglia, che ci piaccia o no», e dunque «il Partito democratico si farà pe
Già: sul futuro Pd s’è persino aperta (al vertice, naturalmente) una stucchevole polemica sulla permanenza o no di Gramsci-Togliatti-Berlinguer ai muri delle future sezioni democratiche. Dimenticando che quei ritratti - tranne forse l’ultimo, che è da tempo un’icona innocua quanto astratta, come «Che» Guevara - già da tempo sono spariti dalle sezioni. Intendiamoci: ci sono anche gli anziani, nelle sezioni diessine. E ci sono i nostalgici, gli identitari, i «rompiballe», gli ingraiani e persino i cossuttiani, e quelli che ancora vengono in sezione col «manifesto» perché dissentono ma non troppo, e quelli che la domenica diffondono l’ «Unità» come se ancora la dirigesse Macaluso. Ma sono frammenti, residui, «madeleines», cui i giovani guardano con delicatezza e rispetto, senza alcuna nostalgia.
Per loro - per la spina dorsale della Quercia, per quelli che ne organizzano le campagne elettorali - il tema non è il gulag o l’Internazionale socialista, e neppure «questa idea di aggiungere ogni giorno qualcuno nel nostro Pantheon: stavolta ha proprio ragione Stefania Craxi, mancano soltanto Totò e Macario...» (Marco, trent’anni, architetto, San Lorenzo). Ai trentenni che oggi hanno, letteralmente, le chiavi del partito in mano, importa di capire che cosa succederà adesso, non che cosa è successo nel ’56. O «come si fa a vincere le prossime elezioni, perché non sarà certo il restare o no nel Pse a deciderlo...» (Paolo, ultra 40enne, Garbatella).
Visto dal basso, il vertice diessino sembra muoversi seguendo una mappa vecchia di dieci o vent’anni: ma persino la topografia urbana è cambiata radicalmente. Oggi il palazzone rosso di via delle Botteghe Oscure è un residence di lusso, l’«Unità» ha lasciato da tempo il quartiere popolare di San Lorenzo e la storica sezione di Ponte Milvio - vi era iscritto Berlinguer - appartiene da anni a Rifondazione. Se agli «anziani» - ai dirigenti, agli intellettuali, agli opinionisti - quel paesaggio appare stravolto, per tutti gli altri è il mondo così come l’hanno sempre conosciuto. «A me Veltroni piace - spiega Barbara, trent’anni, “dalemiana” convinta, precaria e benestante - non perché fa il dj con Diaco, ma perché non parla mai di Togliatti».
Alla generazione di Barbara manca, per ora, un leader: nessun dirigente della Quercia ha meno di cinquant’anni, non c’è (ancora) un Franceschini o un Letta. Del resto, nessuno - neppure i «rompiballe» - coltiva una vera antipatia per Fassino, D’Alema o Veltroni, anzi. Ma di fronte alla «Villetta», il casale della Garbatella che dal ’45 ospita la sezione del Pci, e poi, in regime di separazione dei beni, quelle del Pds-Ds e di Rifondazione, la giovane militante trae le sue conclusioni: «Il mio Partito democratico? L’hanno fatto Barbara Pollastrini e Rosi Bindi con il disegno di legge sui Dico».


 

Il Riformista 12-4-2007 Per ora federiamo la Costituente socialista E siamo cauti sui movimenti a sinistra di Lanfranco Turci


La riorganizzazione delle forze del centro sinistra sta giungendo a una stretta risolutiva. Nel giro di pochi giorni si terranno i congressi dello Sdi, dei Ds e della Margherita. Dagli ultimi due verrà sancita la nascita del Partito democratico. I tempi e i modi sono ancora avvolti in una nuvola di incertezza, ma lo sbocco è ormai inevitabile. Sottolineo l’aggettivo inevitabile, perché il sentimento più diffuso fra i sostenitori di questo progetto non è più da tempo l’idea di un grande cambiamento, di un pensiero politico forte e innovatore, bensì l’ineluttabilità di una scelta cui è legata ormai la credibilità e la stessa sopravvivenza della classe dirigente della Margherita e di gran parte di quella dei Ds. Le ragioni di chi non condivide questo progetto dal punto di vista di una sinistra laica, liberale e socialista sono già state esposte fino alla noia. L’abbiamo fatto insieme: associazioni, circoli e club ancora al convegno di Bertinoro del 3-4 marzo, dedicato all’obiettivo della costituzione di una forza politica «laica e liberalsocialista, a vocazione maggioritaria, in competizione con il Partito democratico, collocata in Europa nel Pse». Il successo di quel convegno ha confermato la crescita dello spazio potenziale per una forza di sinistra che sappia coniugare la ferma difesa dei valori della laicità e dei diritti civili con i principi socialisti della giustizia sociale. Per questo abbiamo scomodato dagli archivi quel particolare filone del pensiero politico che va sotto il nome di socialismo liberale, che in vari e successivi passaggi ha ispirato il rinnovamento del socialismo europeo negli ultimi decenni dalla socialdemocrazia tedesca, al new labour, al Psoe di Gonzales.
Per questo abbiamo presentato in quel convegno ipotesi precise in materia di politica internazionale, di politica economica e di welfare, tese a definire una piattaforma di confronto con tutte le forze disponibili alla sfida della modernità e del cambiamento. Per creare un soggetto politico che si candidi a una chiara, effettiva, identificabile leadership riformista e modernizzatrice nella sinistra italiana, capace di attrarre anche forze riformiste liberali che ancora stanno nel centro destra.
Il titolo del manifesto politico dell’associazione per la Rosa nel pugno, l’associazione che costituimmo nel luglio dello scorso anno per salvaguardare il fecondo nocciolo di verità della Rosa nel pugno, anche dopo il suo fallimento come soggetto politico unitario, suona appunto così: laici, liberali in economia, radicali per i diritti civili, socialisti nel welfare. Queste posizioni politiche incrociano secondo noi sentimenti diffusi nella società italiana, portati ancora più in luce dalle carenze e dalle contraddizioni di un Partito democratico che la logica politica sospinge verso una collocazione di centro a tendenziale vocazione cattolica. Da qui il malessere profondo degli ulivisti prima maniera e soprattutto di gran parte dell’elettorato diessino, non solo della piccola parte residuale, nostalgica del Pci, ma anche e soprattutto di quello più laico e moderno che dopo l’89 si aspettava la trasformazione del Pci in un partito socialista e liberale (vi ricordate la “rivoluzione liberale” promessa da D’Alema, ancora in fase socialdemocratica?).
L’insieme di questi fatti attribuisce un vero significato dì strategico al congresso dello Sdi che si apre domani a Fiuggi. Compiendo la scelta della Costituente socialista «aperta a tutti: progressisti, liberali, laici, radicali e ambientalisti» lo Sdi taglia il nodo gordiano che lo stringeva da tempo, andando ben oltre il mero rifiuto della prospettiva del Partito democratico e la mera riaggregazione della diaspora socialista. È importante che la mozione di Boselli non si sia lasciata catturare dalla tentazione di riproporre pari pari il vecchio Psi, pure in una fase storica in cui il sentimento di rivalsa riemerge legittimamente, dal momento che il revisionismo storico in atto induce a riconoscere i meriti del Craxi migliore e più innovativo anche da parte di quanti ne furono i più acerrimi nemici. Con questa scelta lo Sdi può proporsi come fattore di guida e di impulso di un processo politico distinto e competitivo con il Partito democratico nella guida della sinistra e del paese. Con ciò dando uno sbocco anche alla crisi della Rosa nel pugno e a quanti, fra i radicali, vorranno uscire da una pura logica autoreferenziale. Occorre inoltre sottolineare che questo progetto di Costituente viene lanciato mentre matura nel paese un crisi profonda dell’assetto politico-istituzionale della seconda repubblica, con l’esigenza di superare le strettoie dell’attuale bipolarismo coatto, come dimostra tutto il dibattito sulla legge elettorale.
È dunque uno scenario di grandissimo interesse quello che si sta aprendo. Uno scenario che richiede coraggio, lungimiranza e una grande apertura politica e culturale, perché l’obiettivo è estremamente ambizioso, non tanto nei confronti delle aspettative della società italiana, quanto per lo stato dei soggetti politici chiamati a implementare questo processo. Uno stato gracile, frammentato e spesso puntiforme. Lo Sdi, che pure è il soggetto maggiore, è una piccola forza che porta i segni dei lunghi anni di battaglia per la sopravvivenza autonoma all’interno della sinistra. Poi ci sono le organizzazioni, ancora più piccole, de “I socialisti”, del Psdi, di parti importanti del Nuovo Psi che sta andando verso un congresso risolutivo. Poi c’è quello che noi chiamiamo il movimento di Bertinoro: un pulviscolo diffuso di circoli, associazioni e militanti di area socialista, ex diessina, laica liberaldemocratica, repubblicana e radicale.
Un pulviscolo che può garantire la fecondazione del progetto nella società ed estendere moltissimo l’area di ascolto e partecipazione, tuttavia un pulviscolo difficile da aggregare e fare contare. Poi c’è quanto sta avvenendo nei Ds.
Nelle prossime settimane si porrà infatti il problema del rapporto con i numerosi militanti che votando le mozioni di minoranza al congresso Ds, hanno dichiarato la propria volontà di non aderire al Partito democratico. Il possibile incontro con queste forze ha fatto gridare allo scandalo Piero Fassino e ha alimentato una campagna di interdizione verso la Costituente socialista, presentandola come il fantasma di un nuovo Psiup. Qui si gioca una partita decisiva per il profilo politico e culturale della forza che vogliamo costruire. Credo che nessuno avverta davvero né il bisogno di un nuovo Psiup, né di un rinato Pci. Questo vuol dire in altri termini che non si può pensare nei tempi pratici della politica (altri sono quelli della storia) che l’attuale processo costituente possa coinvolgere Rifondazione comunista e altre forze della sinistra radicale. Non perché non si veda il travaglio politico e ideale in atto in quel partito, anche alla luce dell’esperienza di governo, ma perché proprio per rispetto di quel travaglio, non si può pensare che il passaggio dalla rifondazione comunista alla costituente di una forza socialista, laica liberale possa essere ridotto a operazione politicista, a pura tecnica politica, incomprensibile per l’opinione pubblica e per il paese.
Stiamo parlando di socialismo europeo non di Sinistra Europea. Non a caso il socialismo europeo è diventato il tema distintivo del contrasto politico dentro i Ds, e lo Sdi ne è al momento l’unico partito italiano aderente senza incertezze anche per il futuro.
Non dubito che la grande maggioranza dei compagni e delle compagne che si apprestano a lasciare i Ds siano ben consapevoli di queste differenze ancora fondamentali e che con la loro opzione per il socialismo europeo, vorranno confrontarsi positivamente con il processo all’ordine del giorno della costituente socialista. Vi porteranno le loro sensibilità e i temi su cui sono più impegnati, sul solido terreno di una sinistra moderna, riformista e di governo, che saprà guardare con rispetto e nei termini delle convergenze possibili sia verso il Partito democratico sia verso una sinistra radicale in via di trasformazione.
Un’ultima considerazione sui tempi e i modi di organizzazione della Costituente. Le molte esperienze del passato, soprattutto l’ultima della Rosa nel pugno, ci ammoniscono a non trascurare gli aspetti di organizzazione e del modello di partito. Fra l’altro possiamo veder in questi giorni l’impasse della “fusione a freddo” fra Ds e Margherita, gli scontri di potere che già si agitano sotto il pelo dell’acqua, la dispersione in atto di quel grande patrimonio di partecipazione della prima fase dell’Ulivo e poi delle primarie. Crediamo che a regime il nuovo soggetto politico dovrà riuscire a bilanciare l’esigenza di un partito organizzato che valorizzi l’apporto dei militanti, con quella di partecipazione e controllo da parte di una platea di sostenitore ed elettori più ampia. Nella fase transitoria il processo di amalgama, selezione e consolidamento in un gruppo dirigente nuovo, inevitabilmente condizionato e marcato dall’origine relativa di ogni aderente al partito, sarà inevitabilmente lungo e difficile: una struttura federale permetterebbe nella transizione di affrontare al meglio le difficoltà della battaglia politica senza dovere nel contempo risolvere tutti gli inevitabili problemi personali e di gruppo che accompagneranno questo processo.
Quello che comunque è decisivo è la definizione urgente di regole per cui tutti coloro che lo vorranno possano registrarsi come iscritti alla Costituente e che alla fine solo essi, siano o no anche iscritti ai soggetti politici partecipanti alla Costituente, abbiano diritto a votare sugli indirizzi politici e sui dirigenti del futuro partito. Michele Salvati, che disperatamente patrocina da anni la causa del Partito democratico, ha cercato di trovare una risposta alle difficoltà di quel progetto con proposte di partecipazione intelligenti e innovatrici. Non credo che basteranno a superare le difficoltà politiche del Pd, ma quell’idea esposta martedì scorso sulCorriere della Sera di un’offerta pubblica di adesione al nuovo partito, potrebbe essere assunta da noi per la nostra Costituente.


 

Il Secolo XIX 12-4-2007 La politica estera e di difesa torna per la quarta volta in poche settimane nelle aule parlamentari GIORGIO RINALDI.

 

Ma questa volta, forse, la polemica politica sembra cedere il passo a una preoccupazione più immediata. La canea scatenata dalla tragica esecuzione di Adjimal, l'interprete di Daniele Mastrogiacomo, ha ceduto il passo, alle nuove minacce della Jihad islamica anche all'Italia e, anche grazie all'invito di Giorgio Napolitano, a una riflessione sulla gestione multilaterale dei rapimenti nei teatri di guerra. Hanno risvegliato ieri le ultime preoccupazioni gli attentati firmati da Al Qaida ad Algeri con decine di morti e la relazione semestrale inviata dai servizi segreti al Parlamento che indica di nuovo l'Italia "nel novero dei potenziali obiettivi dell'offensiva jihadista" e definisce "di prima grandezza" i rischi per attacchi al personale delle nostre missioni all'estero, a cominciare dall'Afghanistan e dal Libano. È auspicabile che la Pasquetta di insulti tra maggioranza e opposizione sulla liberazione di Mastrogiacomo e il ruolo di Gino Strada non vengano a turbare il dibattito in aula, anche se la Casa delle libertà, che sembra non più appassionarsi alle questione delle trattative e dei riscatti vista la chiamata a correo, è oggi tentata di dividere la maggioranza sulla richiesta della sinistra radicale che esige da Prodi la difesa di Emergency e la liberazione del suo mediatore scomparso nelle galere di Kabul senza che gli sia stata mossa una formale accusa, in barba ai principi democratici e dello stato di diritto che proprio l'Italia è andata a insegnare in Afghanistan. Sul dibattito a Montecitorio aleggia anche la proposta di una commissione d'inchiesta per far luce su tutti i sequestri in zone di guerra, che, presentata dalla Lega, ha trovato una sponda inattesa e astuta in casa diessina (Massimo Brutti). L'ansia di verità qui contrasta con le ragioni di opportunità. La commissione dovrebbe infatti indagare sul ruolo dell'intelligence. Ma esigere trasparenza dai servizi segreti è una favola. Oppure un ossimoro. L'ipotizzata commissione finirebbe per compiere una gincana tra segreti di Stato, ragioni internazionali, rifiuto di collaborazione degli Stati Uniti e omissis vari, in terre esotiche ma anche pericolose. Che oggi si adagiano sulla sponda sud del Mediterraneo, dal Marocco alla Turchia, con retroterra nel Sahel (Mauritania, Mali e Niger in prima fila). Gli attentati di Algeri, rivendicati dalla neonata "Al Qaida per il Maghreb islamico", seguiti a sole ventiquattr'ore dalla tragica caccia al terrorista di Casablanca, raccontano che è operativa in Nordafrica la fusione delle organizzazioni jihadiste e che, come sottolinea Antoine Basbous, fondatore e direttore dell'Osservatorio (parigino) dei Paesi arabi, "l'Europa fa parte degli obiettivi" di questa rifondazione jihadista. "Tutto è sapere se ci arriveranno, come e in quale momento". Ancora una volta è indicato il rischio dell'entrata in azione di membri di cellule dormienti che hanno fatto training in Afghanistan e in Iraq e che oggi praticano, in Italia, Francia e Spagna, il mimetismo sociale tra le comunità di appartenenza. La relazione dei servizi segreti censisce burocraticamente per l'ultimo semestre 71 minacce riferite al territorio italiano. Numero a parte, non è certo la prima volta. E l'unica variante non tranquillizza: anche il Papa e il Vaticano sono minacciati. La difesa contro il terrorismo islamista esige anche, e forse soprattutto, una riflessione sull'impegno dell'Occidente nei Paesi islamici, oggi affidato, invece che alla lotta contro l'ingiustizia e la povertà, al business, alla guerra e alle minacce. Il Palamento se ne ricordi. Lo scandalo Palestina, evocato dall'Europa democratica all'indomani dell'11 settembre, è intatto. E intanto sono passati cinque anni. 12/04/2007.

 


 

Il Corriere della Sera  12-4-2007 Prodi vedrà Bush Summit a Roma. Ancora tensioni sul caso Strada Oggi il dibattito, le rassicurazioni di D’Alema. Massimo Franco

 

L’incontro con Romano Prodi, a questo punto, dovrebbe esserci. Ma a Roma, non a Washington. Il presidente Usa, George Bush, si ritaglierà un giorno italiano durante il vertice del G8 in Germania a giugno. Dovrebbe vedere il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, il presidente del Consiglio, e Benedetto XVI. Fonti diplomatiche fanno capire che del colloquio col pontefice si parla da tempo. Bush lo vuole pensando alle presidenziali del 2008, con i repubblicani indeboliti dalla guerra in Iraq e Afghanistan. Ma ci sarà anche il primo contatto con i vertici istituzionali italiani, dopo mesi di tensioni.

Le polemiche sul caso Mastrogiacomo ripropongono un contrasto di metodo fra gli Usa e l’Italia, a prescindere dalle maggioranze al governo. E dicono che il conflitto fra il presidente afghano, Hamid Karzai e il medico Gino Strada, potrebbe avere contraccolpi nella maggioranza prodiana. Ieri la Farnesina ha dovuto riconoscere «la presenza preziosa» di Emergency: una precisazione alla vigilia del dibattito alla Camera, nel quale toccherà a Massimo D’Alema difendere il governo; e mentre l’organizzazione, emigrata per protesta a Dubai, minaccia di lasciare l’Afghanistan. Qualcuno vede nelle parole del ministro degli Esteri una concessione all’«antagonismo» pacifista, furioso con Karzai e pronto a solidarizzare con Strada. L’accusa di Prc, Pdci e Verdi a Palazzo Chigi è di avere scelto il metodo dell’ «usa e getta».

A Prodi si imputa prima di essersi affidato a Strada per trattare con i talebani; e poi di aver lasciato che Karzai imputasse i collaboratori di Emergency di fiancheggiare i terroristi. Le frange più antiUsa arrivano a dire che non è Strada a dover lasciare l’Afghanistan, ma le truppe italiane. Sono segnali che possono riaprire un fronte scivoloso nell’Unione. La verifica si avrà nel dibattito odierno. La cautela di Silvio Berlusconi fa pensare che nessuno voglia lo scontro su una «linea umanitaria» dietro la quale possono spuntare armadi pieni di scheletri bipartisan. C’è il rischio aggiuntivo di esporre i servizi di sicurezza italiani, già colpiti dopo il sequestro dell’imam Abu Omar da parte della Cia. Ma la prudenza si deve anche al sospetto che Karzai abbia qualche ragione per dubitare di alcuni elementi di Emergency; e all’ultimo rapporto del Sismi, per il quale l’Italia rimane un bersaglio dei terroristi islamici.


 

La Repubblica 12-4-2007 Usa, niente "zar" per Iraq e Afghanistan Rapporto choc della Croce Rossa sulle sofferenze degli iracheni. Dopo la Siria la Pelosi vuole andare a Teheran la Casa Bianca: sconcertante

 

Bush non trova un coordinatore delle guerre. Scontro con l'Iran sui prigionieri Prolungata da 12 a 15 mesi la ferma per i soldati impegnati sui due fronti ARTURO ZAMPAGLIONE NEW YORK - Tre ex-generali americani molto stimati al Pentagono e vicini al partito repubblicano hanno respinto l'offerta di George W. Bush di diventare "zar delle guerre". E' un nuovo incarico che la Casa Bianca vuole creare con l'obiettivo di coordinare meglio gli sforzi militari e civili in Iraq e Afghanistan. Erano compiti svolti finora da Meghan O'Sullivan, numero due del consigliere per la Sicurezza nazionale Stephen Hadley, la quale però ha intenzione di cambiare lavoro. Di qui l'ipotesi di un potenziamento del ruolo, affidandolo a un personaggio conosciuto nel mondo militare. Per conto del presidente sono stati interpellati i generali John Sheehan, ex-comandante della Nato, Jack Keane e Joseph Ralston. Tutti e tre hanno detto di no, a conferma delle inquietudini e delle incertezze sulle guerre di Bush. "Il vero problema", ha spiegato Sheehan al Washington Post, "è che nessuno sa bene in che direzione stiamo andando". Secondo l'ex-generale, Dick Cheney e i suoi "falchi" hanno ancora molto più forza dell'anima pragmatica della Casa Bianca: "Così, invece di prendermi un'ulcera, ho preferito restarmene a casa". Mentre Bush decide come rispondere all'affronto dei generali, come mantenere il livello delle truppe (ieri il periodo di ferma nei teatri di guerra afgano e iracheno è stato allungato da un anno a quindici mesi) e soprattutto come impostare la battaglia politica con i democratici, la situazione umanitaria in Iraq continua a essere sempre più grave: l'ultima denuncia è del Comitato internazionale per la Croce Rossa. "Le sofferenze cui sono sottoposti gli uomini, le donne e i bambini iracheni, non sono tollerabili", ha detto ieri a Ginevra Pierre Kraehenbuel, direttore operativo della organizzazione. Gli ospedali - ha ricordato - sono strapieni, la gente fa la fame, la disoccupazione è in aumento, un terzo della popolazione vive in povertà, più di 600mila persone sono state costrette a cercare rifugio lontano da casa. La gente invoca aiuto e tra i bisogni più segnalati c'è quello di una mano "per recuperare i corpi delle vittime in strada", di "protezione per portare i figli a scuola senza finire uccisi". E secondo Kraehenbuel, "l'offensiva militare lanciata a febbraio dagli americani non ha avuto ancora alcun effetto di stabilizzazione". La Casa Bianca sostiene il contrario. Parla di timidi segni di miglioramento grazie all'azione del generale David Petraeus e insiste perché il Congresso approvi lo stanziamento di 100 miliardi di dollari aggiuntivi, senza fissare le date per il ritiro, come invece hanno fatto la Camera e il Senato. Bush ha già minacciato il veto, senza però spaventare la maggioranza democratica. Ha anche proposto un vertice alla Casa Bianca, ma Nancy Pelosi ha respinto l'ipotesi. "Il presidente vuole un assegno in bianco per le guerre e noi non abbiamo nessuna intenzione di darglielo", ha chiarito la speaker che, dopo il controverso viaggio in Siria, punterebbe adesso a una missione diplomatica a Teheran. Progetto subito censurato dalla Casa Bianca come "sconcertante". A complicare le cose in Iraq è il crescente ruolo dell'Iran. Secondo il generale William Caldwell, portavoce del contingente di 145mila soldati del Pentagono, Teheran continua a fornire agli insorti sciiti e su, sia sciiti che sanniti, gli Efp (Explosively formed penetrators), cioè i congegni esplosivi che sono in grado di penetrare nei mezzi blindati e che hanno già causato la morte di 170 soldati americani. Caldwell ha aggiunto che l'Iran, in base a quel che si è saputo con le confessioni dei prigionieri, ha anche un ruolo di primo piano nell'addestramento dei ribelli. Alle insinuazioni da Bagdad, l'Iran ha risposto indirettamente in vari modi. Innanzitutto ha fatto vedere in televisione un filmato del suo diplomatico Jalal Sharafi, che, dopo una lunga detenzione in Iraq, era stato riconsegnato alla vigilia della liberazione dei marinai britannici. Nell'intervista, Sharafi ha accusato la Cia di averlo torturato. Teheran ha poi minacciato di non partecipare alla conferenza internazionale sull'Iraq, che si terrà il mese prossimo in Egitto, se non saranno rilasciati i cinque iraniani arrestati a gennaio nel nord dell'Iraq e considerati esponenti delle guardie rivoluzionarie. Ed è chiaro che senza la presenza iraniana, la conferenza rischia di essere zoppa.

 


 

Il Tirreno 14-4-2007 Dico e dintorni. Alla Chiesa non c'è che dire grazie

 

In Europa la seconda causa di morte tra i ragazzi è il suicidio; la seconda causa di morte è l'aborto (per i bimbi, non per le donne). Già, se non ci fosse questa seccatura della Chiesa che reclama politiche a sostegno dell'educazione, della famiglia fondata sul matrimonio, del rispetto della vita umana dal suo concepimento alla morte, anche gli italiani si sentirebbero più europei... Purtroppo da noi c'è un'"inaudita offensiva clericale". Pensate, la Chiesa si ostina a sostenere che la differenza sessuale è insuperabile. Addirittura. Sguainerà la sua spada per dimostrare che le foglie sono verdi? Altrove, per fortuna, la democrazia va a gonfie vele, lo Stato è laico e il colore delle foglie è affar vostro, basta che la legge non dica "verde", sennò discrima gli altri colori. Qualche esempio? In Portogallo il popolo fa mancare il quorum a un referendum abortista e il governo socialista prende atto che si tratta di una chiara indicazione per approvare una legge abortista. In Spagna il proprietario della più grande catena di giornali, radio e tv, grande elettore di Zapatero, sostiene che l'opposizione non ha il diritto di fare opposizione perché altrimenti è "franchista". In Gran Bretagna le Ong cristiane per l'infanzia devono chiudere i battenti perché non possono nemmeno fare obiezione di coscienza alla legge che, per non discriminare i gay, obbliga loro a dare in adozione i bambini alle coppie omo. Nei Paesi Bassi chiunque può accedere alla fecondazione in provetta e in Belgio l'eugenetica è legge. è vero, solo in Italia la Chiesa resiste più che altrove, sostiene le manifestazioni per la famiglia, scrive splendide note pastorali e fa del nostro paese l'apripista di una controffensiva politica e razionale all'impoverimento mentale in corso su tutto il continente. Che dire se non "grazie"? Salvo D'Acquisto Montignoso (Ms) DICO E DINTORNI La Nota dei vescovi, voce fuori del coro Alcuni giornali scrivono che la Nota dei Vescovi è un atto di potere, d'ingerenza sugli affari della politica, che i vescovi sono come i fondamentalisti islamici, addirittura fascisti, talebani; per il "Riformista" sono aridi, crudeli e un po' ottusi. "Europa" se la prende non con i vescovi ma con chi esaspera ad arte uno scontro che non ha motivo di esistere. In realtà il documento ha dato voce a chi, credente o no, ha opinioni per nulla coincidenti con quelle delle potenti lobby del genere sessuale. Se i Vescovi avessero voluto trovare facili consensi ai vertici, avrebbero potuto cavarsela standosene zitti o mandando qualcuno di loro in uno degli innumerevoli talk show televisivi a dire sul tema le cose "politicamente corrette", che purtroppo anche qualche cattolico e perfino qualche prete va a dire in tv: accolto, ovviamente, da uragani di applausi. Quando un governo perde tempo ed energie su di un aspetto marginale significa che non ha idee e proposte concrete. Ing. Augusto Bruno Lido di Camaiore DICO E DINTORNI Troppe ingerenze di Papa e vescovi Ma il nostro è uno Stato laico o confessionale? Secondo la Costituzione è laico ma seguendo tutti i giorni tv, radio e carta stampata, dove imperversano gli interventi dei porporati cattolici, mi sembra che la nostra società stia scivolando verso un cattolicesimo integralista. Si sta cercando con una pressante intromissione del Papa e dei Vescovi di ostacolare la ricerca scientifica e peggio ancora di intervenire nelle leggi in discussione al Parlamento. Tutte le mattine si alza un Vescovo che vuol dire la sua. L'ultima è stata veramente sconvolgente: "Se verrà approvata la legge sui Dico arriveremo anche a legalizzare l'incesto e la pedofilia". Sono affermazioni fatte da una mente offuscata dai dogmi cattolici e non liberata nella concezione della vita dell'uomo moderno. Però non riesco a capire i nostri politici. Non ce n'è stato uno che abbia ritenuto giusto intervenire con forza per far cessare queste illecite intrusioni. Sia a destra che a sinistra non c'è la volontà politica di affermare che l'Italia è uno Stato laico e che il Vaticano è uno Stato sovrano con i suoi canali d'informazione che possono far da portavoce al Papa e ai Vescovi invece di affollare le nostre Tv (tipo "Porta a Porta") e rilasciano interviste entrando nel merito di leggi e provvedimenti promulgati dal parlamento. La chiesa deve curare le anime, i governi gli uomini. Leandro Morroni Livorno UOMINI E CANI Il povero Billy cerca una famiglia Caro "Tirreno", grazie per aver pubblicato la settimana scorsa il mio appello per il povero cane Billy incatenato e abbandonato a se stesso. Purtroppo il cane, nonostante gli sforzi miei e di tante altre persone, ha avuto la sorte peggiore: i proprietari hanno firmato la rinuncia e il cane è stato prelevato e portato al canile di Viareggio. La triste storia di Billy oggi è ancora più triste: abbandonato da tutti vive ora in una gabbia e rifiuta il cibo. Oggi Billy ha bisogno di una famiglia pronta ad accudirlo e dargli affetto. Aiutatemi a diffondere questo appello. Chi fosse interessato a Billy può contattare me (Alessia: 335/6657844) o rivolgersi al canile di Viareggio. Spero che Billy trovi presto una nuova famiglia. Grazie! PRIVILEGI Onorevole, ci ridia la sua pensione Ho letto che duemila ex parlamentari e mille eredi di deputati e senatori incassano un vitalizio che varia (a seconda degli anni trascorsi in Pralamento) da 3mila 108 a 9mila 947 euri mensili. A me sembrerebbe una bella riforma se costoro fossero costretti non dico a restituire questo regali, ma almeno a pagare i contributi, che hanno sborsato solo per la durata dell'incarico parlamentare, per tutti gli anni a venire in cui percepiranno la pensione. Michele Guidi.

 


 

Italia Oggi 14-4-2007  Tra le righe spuntano i partiti

 

   Un riferimento diretto a partiti e sindacati non c'è, ma anche per loro arrivano novità nello schema di legge delega di riforma delle fondazioni e delle associazioni che è stato predisposto dal ministero dell'economia. La bozza, infatti, prevede una nuova disciplina per le associazioni non riconosciute, tra cui figurano appunto partiti e sindacati, ovvero quegli enti sprovvisti del riconoscimento della personalità giuridica e della conseguente limitazione della responsabilità al solo patrimonio dell'ente.Lo schema prevede per gli enti non riconosciuti 'l'applicabilità delle regole organizzative dettate per le associazioni riconosciute, in caso di esercizio dell'attività d'impresa commerciale'. In sostanza i sindacati e i partiti, attualmente associazioni non riconosciute, potranno darsi all'attività d'impresa. Così facendo, però, saranno soggetti a tutte quelle norme che impongono una disciplina di bilancio rigorosa previste per le associazioni riconosciute.Insomma, anche su questo fronte per i partiti potrebbero esserci delle novità. Del resto sul punto già nei mesi scorsi si è creato un certo movimento per cercare di dare a questi soggetti maggiori opportunità di finanziamento. E così all'interno di un ddl presentato da Siegfied Brugger (Svp), che aveva l'obiettivo di ottenere un semplice differimento del termine per la presentazione delle richieste di rimborso delle spese elettorali, è finito un emendamento del verde Marco Boato che consente ai partiti di costituire fondazioni verso le quali di fatto dirottare i finanziamenti. Dietro l'operazione, in particolare, ci sarebbero il tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti, e il vicepresidente di Fi, Giulio Tremonti. Dopo un momento di stasi, però, l'argomento sembra tornare alla ribalta. In senato, commissione affari costituzionali, è infatti cominciato in silenzio l'iter congiunto di 5 ddl che puntano al riconoscimento giuridico dei partiti e ad aprire nuove strade per il loro finanziamento.


INDICE 11-4-2007

++ Libero 11-4-2007 Camere sotto costo nei conventi romani di NICOLETTA ORLANDI

++ Da AgenParl 11-4-2007 UNIONE EUROPEA: DE CASTRO, ITALIA UNICA IN EUROPA A VIETARE USO TRUCIOLI

+ Il Tirreno 11-4-2007 CASO TELECOM E c'è chi si scandalizzava agli appelli di Fazio. Andrea Romano.

+ Il Sole 24 Ore 11-4-2007 COMMENTI E INCHIESTE Il dibattito sul giusnaturalismo laico. Il dialogo possibile tra etica e regole Il diritto senza fondamentalismi di Cesare Salvi *

+ La Stampa 11-4-2007 Ahmadinejad marchia i dissidenti  Stelle ai professori che protestano di Farian Sabahi

+ Il Corriere della Sera 11-4-2007. Gli ex Pci, i gulag e il Partito democratico La seconda mutazione di  Pierluigi Battista

Il Riformista 11-4-2007 Lo Stato difenda e garantisca la laicità senza asservirsi ai dettami della Chiesa  1

Il Corriere della Sera 10-4-2007 INEDITO A vent’anni dalla tragica scomparsa, un testo di Primo Levi sull’esperienza nel Lager. Noi di Auschwitz «Jawohl, il sì degli schiavi. E intorno il deserto»  2

Europa 11-4-2007 Il miracolo di un anno impossibile  di FEDERICO ORLANDO  3

La Repubblica 11-4-2007 Tre euro l'ora per rischiare la vita. Abusi, ricatti e pericoli: al lavoro con i manovali irregolari di PAOLO BERIZZI 5

La Stampa 11-4-2007 - INCHIESTA L'onorevole va due volte in pensione. Vitalizio irrinunciabile a duemila exparlamentari; molti lo cumulano con l'assegno di vecchiaia. PIERLUIGI FRANZ  7

Il Riformista 11-4-2007 L’utile grimaldello del referendum che smuove una situazione di stallo di Anna Cimenti 9

 


++ Libero 11-4-2007 Camere sotto costo nei conventi romani di NICOLETTA ORLANDI

 

Il Vaticano ringrazia comitive, famigliole, coppiette, studenti, pellegrini. Roma in questi giorni è invasa dai turisti. Ma a gongolare per come stanno andando gli affari non sono soltanto gli albergatori capitolini. È proprio lo Stato della Chiesa che ne trarrà grandi benefici: grazie alla trasformazione di conventi, parrocchie, scuole in hotel e bed&brekfast la Santa sede può disporre di larga parte degli oltre 15 milioni di pernottamenti l'anno del turismo religioso, ovvero il 12% della capacità ricettiva nazionale, con un business che supera i 4 miliardi di euro l'anno. Nulla di male, ovviamente. Se non fosse che la competizione con gli albergatori "laici" risulta falsata. L'albergo-convento è infatti esentato dal pagamento dell'Ici e sul reddito d'impresa paga una tassa (l'Irpeg) ridotta del 50%. Ci sono poi le ristrutturazioni. Prima del Giubileo lo Stato sborsò qualcosa come 2 miliardi di euro destinati all'accoglienza dei pellegrini, e gran parte di questi in realtà furono utilizzati dal Vaticano per convertire parte dell'immenso patrimonio immobiliare della Chiesa in strutture alberghiere, che a tutt'oggi hanno la medesima destinazione d'uso. La metamorfosi continua, come dimostrano i tanti cantieri aperti nella Capitale. Uno su tutti, quello segnalato da Mario Staderini, dirigente nazionale della Rosa nel pugno, nonchè capogruppo in I Municipio. Si tratta del convento delle suore oblate di Santa Maria dei Sette Dolori in via Garibaldi, al civico 27, posto ai piedi del Gianicolo. "Nello splendido palazzo seicentesco, opera del Borromini, sono in corso dei lavori straordinari", spiega Staderini, "al termine dei quali il Vaticano disporrà di un albergo con ben 62 stanze. Stanze dal valore unico, considerando il pregio architettonico dell'edificio e la bellezza del luogo in cui sorge. Questa", puntualizza l'esponente della Rosa nel pugno, "è concorrenza sleale nei confronti degli altri albergatori". Anche perché, sottolinea Staderini, non si tratta più esclusivamente di turismo religioso, ma del più redditizio turismo commerciale: "Suore e monache, infatti, non ospitano più solo pellegrini, ma soprattutto viaggiatori comuni ai quali applicano prezzi ben al di sotto del mercato. In centro storico chiedono circa 700 euro al mese per una camera". Tutto questo, secondo Staderini, avviene con il placet dello Stato italiano. "Non è un caso che gli ultimi due Ministri dei Beni culturali e del Turismo siano stati Rocco Buttiglione e Francesco Rutelli, ovvero", fa notare, "importanti leader politici legati da rapporti durevoli con le gerarchie vaticane. Il Ministero, in questi anni ha finanziato innumerevoli restauri di beni cattolici, magari a discapito di resti del periodo romano e quindi precristiano, e ha sottoscritto con la Cei una serie di accordi tra cui quello che ha dato origine al più grande database di arte sacra esistente in Italia". Ministero, dicevamo, ma anche Enti locali. Come il Comune - basti pensare ai bus "Roma Cristiana" che godono del patrocino del Campidoglio - e la Provincia di Roma. Che alla borsa internazionale del turismo di Berlino, ha annunciato l'istituzione di una Consulta per il turismo religioso, la prima in Italia, e il potenziamento del progetto "Cammini della cristianità". Ovvero la promozione della "Via Francigena dell'Est" (che passerà attraverso Venezia, Ravenna, Rieti, Roma e Assisi) e delle feste patronali nei centri dell'hinterland, ma anche lo sviluppo del circuito dei sopracitati bus. In Germania a siglare l'accordo c'era il presidente della Provincia Enrico Gasbarra e monsignor Libero Andreatta, amministratore delegato dell'Opera romana Pellegrinaggi. Organo della Santa Sede, alle dirette dipendenze del Cardinale Vicario del Papa, l'Opr è l'istituzione che gestisce gran gran parte dei flussi turistici religiosi e non. Nata per organizzare i viaggi in Terra Santa, Lourdes, Fatima, Santiago di Compostela, Czestochowa, Roma e "condurre lungo le strade del mondo migliaia di persone che si mettono in cammino alla ricerca di Dio", oggi in realtà prepara pacchetti per ogni dove. Con 4 mila euro circa, ad esempio, è possibile andare in Namibia dove, si legge sul sito, si potrà ammirare "il deserto del Namib, l'Oceano Atlantico, attraversare il Damaraland, tra animali e grandi spazi, fino ai safari in Etosha". Tutte cose che ben poco hanno a che fare con la religione. "E chissà come verranno trattati i dipendenti", incalza Staderini, "visto che non sono soggetti alle tutele del diritto del lavoro italiano perché soggetto a quello internazionale, trattandosi di ente dello Stato Vaticano". Salvo per uso personale è vietato qualunque tipo di riproduzione delle notizie senza autorizzazione.


++ Da AgenParl 11-4-2007 UNIONE EUROPEA: DE CASTRO, ITALIA UNICA IN EUROPA A VIETARE USO TRUCIOLI

 

Roma, 2 Aprile 2007 – AgenParl – “Basta confondere i consumatori. L’Italia è unica in Europa ad avere espressamente vietato l’uso dei trucioli nei vini di qualità”. Lo ha ricordato il Ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali on. Paolo De Castro, precisando nuovamente, alla luce del persistente circolare di non corretta informazione, che il decreto firmato il 2 novembre 2006 non è un decreto autorizzativo.
Il testo dispone infatti il divieto dell’uso dei trucioli per i vini doc e docg.
Dal canto suo il Consiglio Europeo dei Ministri dell’Agricoltura aveva autorizzato l’uso dei trucioli per tutte le tipologie dei vini fin dall’ottobre del 2005 e l’Italia continua ad essere ad oggi il solo Paese UE ad essersi dotato di una norma restrittiva. Pertanto l’eventuale accoglimento da parte del Tar del Lazio del ricorso voluto da Coldiretti,  Legambiente, Citta' del Vino e altri, annullando gli effetti del D.M., comporterebbe la possibilità di utilizzo dei trucioli per l’intera produzione enologica e quindi anche per i vini certificati DOC e DOCG.


+ Il Tirreno 11-4-2007 CASO TELECOM E c'è chi si scandalizzava agli appelli di Fazio. Andrea Romano.

 La vicenda della offerta di vendita di Telecom Italia agli americani di At&t e ai messicani di America Movil mi pare abbia fatto esplodere in un solo colpo tutte le contraddizioni del nostro sistema economico, il famigerato capitalismo straccione assistito da una politica altrettanto debole. Infatti, coloro che si scandalizzarono quando l'ex-governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio proclamava di voler difendere l'italianità delle nostre banche, opponendo alle sue teorie le meraviglie della concorrenza internazionale, oggi invocano l'intervento di qualche salvatore della Patria che eviti il passaggio di Telecom in mani straniere. Non solo: da anni sentiamo ripetere che è necessario evitare gli intrecci fra il sistema industriale e quello bancario, per non replicare periodicamente nuovi crac Parmalat, eppure oggi vogliono tutti che siano le banche a comprarsi Telecom, piuttosto che gli americani e i messicani. Infine, il presidente della Confindustria Luca Montezemolo ha ben pensato di regalarci la sua perla di saggezza: pur provenendo dal mondo della Fiat, la quale venne ceduta agli americani della General Motors finché non furono loro a volerla restituire all'Italia, oggi pontifica che con il passaggio di Telecom in mani (anche) statunitensi il nostro Paese "non ne uscirebbe bene". Se si può trarre una lezione da questo andirivieni di dichiarazioni contradditorie, scelte a seconda delle occasioni e delle opportunità, è che a certi personaggi non interessa né lo sviluppo della concorrenza globale, né la difesa del sistema economico nazionale, ma solo il proprio tornaconto.

 


+ Il Sole 24 Ore 11-4-2007 COMMENTI E INCHIESTE Il dibattito sul giusnaturalismo laico. Il dialogo possibile tra etica e regole Il diritto senza fondamentalismi di Cesare Salvi *

 

Salvatore Carrubba ha posto sul Sole 24 Ore del 16 marzo il tema dell'attualità del giusnaturalismo. Un giusnaturalismo "laico" che si misuri con quello cristiano. Il tema esiste.Alle soglie del nuovo millennio, di fronte a una globalizzazione senza regole, alle novità della scienza e della tecnologia, all'inedita guerra che non è più tra Stati,è giusto interrogarsi sulla fondazione etica del diritto. In Italia, negli anni 50, il dibattito su giusnaturalismo e positivismo giuridico fu considerato chiuso sul versante laico dalla nuova carta costituzionale. I valori comuni e condivisi sono in quel testo; la battaglia giusnaturalista per i diritti, affermava nella sostanza Norberto Bobbio,aveva raggiunto i suoi obiettivi. La conclusione si può sintetizzare nel giudizio espresso allora dal filosofo del diritto Guido Fassò: "Il giusnaturalismo laico è morto da un pezzo, quel che rimane è il giusnaturalismo cattolico, o comunque a base teologica". Il relativismo dei valori, del resto, è alla base della teoria liberaldemocratica della democrazia. Come scrisse Hans Kelsen, "proprio come l'autocrazia è assolutismo politico e l'assolutismo politico corrisponde all'assolutismo filosofico, la democrazia è relativismo filosofico". Se i valori sono relativi, afferma Kelsen, l'unico criterio per decidere, in un sistema che non voglia essere autocratico, è il principio di maggioranza. Positivismo giuridico e concezione procedurale della democrazia convergono così nell'escludere ogni rilevanza a un ragionamento fondato sul diritto naturale. Crescente però è l'insoddisfazione per un esito di questo tipo. L'accelerazione della storia alla quale assistiamo induce a temere una deriva nichilista del relativismo. Al "nichilismo giuridico" ha dedicato di recente un acuto saggio Natalino Irti. Ci si interroga sui "fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale", come ha fatto JÜrgen Habermas nel saggio con il quale ha interloquito con l'allora cardinale Ratzinger. Ma è, il suo, un filone di ricerca tutt'altro che isolato nell'odierno pensiero politico e giuridico. C'è però un problema molto serio. Esso riguarda le precondizioni di un dialogo tra giusnaturalismo laico e giusnaturalismo teologico, come quello che all'alba della Repubblica fu alle fondamenta dell'elaborazione dei principi contenuti nella nostra Costituzione. A coloro che ritengono che occorre tornare a misurarsi nella non facile impresa di una fondazione valoriale del diritto positivo,si pone il problema dell'atteggiamento,nel dialogo volto alla ricerca di valori etici condivisi, che assume oggi la teorizzazione ufficiale, da parte cattolica, di cosa si debba intendere per diritto naturale, e delle conseguenze che ne devono derivare nell'attività produttiva e interpretativa delle norme giuridiche. In una seriedi documenti,alcuni dei quali direttamente provenienti da Benedetto XVI,riemerge,con inedita fermezza,l'antica tesi del giusnaturalismo cristiano. Essendo la "natura"espressione del progetto divino sulla storia, unico soggetto legittimato a dire la parole finale e decisiva - ancorché formata alla luce di una recta ratio universale, cioè potenzialmente propria di tutti gli esseri umani - è colui che sulla Terra è il titolare del potere e del dovere di comunicare la rivelazione divina. Ritorna però per tale via la concezione autocratica dei valori alla quale si riferiva criticamente Kelsen. Seguiamo le cronache di questi giorni. Prima si afferma che il legislatore è vincolato a rispettare il diritto naturale, come interpretato dalla dottrina cattolica. Poi si invita alla obiezione di coscienza: si badi, non chiedendo di estendere le ipotesi legislative già oggi previste (dall'interruzione di gravidanza per il personale sanitario al servizio militare), e nemmeno sollecitandone il ricorso da parte dei fedeli; si chiede di obiettare alle norme poste, comprese le norme costituzionali. Si consideri l'invito alla obiezione di coscienza rivolto a magistrati. Il filosofo del diritto Francesco D'Agostino, in un editoriale sull'Avvenire, ha sostenuto (di fronte al rilievo che il magistrato che contesti il fondamento etico di una norma di legge ha la via del ricorso alla Corte costituzionale) che anche nel caso di esito per lui negativo del giudizio di costituzionalità, egualmente è auspicabile l'obiezione di coscienza del magistrato. L'invito, cioè, è a non applicare la stessa norma costituzionale. E ciononostante la Corte costituzionale abbia da tempo e ripetutamente affermato che al magistrato non può riconoscersi una facoltà di questo tipo. E del resto, se si ammettesse questo principio, che cosa dovrebbe impedire al magistrato di fede diversa, per esempio islamica, o dotato di un forte convincimento politico, per esempio anarchico, di comportarsi allo stesso modo? Non sarebbe più un dialogo sui valori, ma un conflitto tra fondamentalismi. Proprio chi crede nell'attualità di una nuova stagione del giusnaturalismo non può non credere che si riconosca,a chi legittimamente crede nella formazione extraumana del diritto naturale, di accettare davvero il dialogo. Il dialogo è possibile solo se si ammette di non avere il diritto, sempre e comunque,all'ultima parola.Come ha scritto Enzo Bianchi, il timore del nichilismo deve essere comune ai credenti e non credenti. Ma allora a ciascuno va chiesto di ammettere di non essere l'unico portatore dell'unico progetto possibile per una rinnovata fondazione etica del diritto. I laici possono, e a mio avviso devono, riconoscere che l'approdo nichilista del relativismo etico è profondamente insoddisfacente. Ma al tempo stesso devono chiedere che si riconosca, come del resto lo stesso Enzo Bianchi afferma, che non è necessario per questo dialogo che il laico faccia proprio il presupposto dell'etsi Deus daretur. Che si riconosca insomma che non è vera la famosa frase di Dostoevskij, che vi sono atei e agnostici per i quali, se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto.

* Senatore ds.

 


+ La Stampa 11-4-2007 Ahmadinejad marchia i dissidenti  Stelle ai professori che protestano di Farian Sabahi

Nella Repubblica di Ahmadinejad i professori dissidenti saranno ammoniti con una stella e, se precari, non saranno assunti a tempo indeterminato. Alla seconda stella i mezzi a disposizione per la ricerca saranno tagliati. E alla terza arriverà la lettera di licenziamento oppure il pre-pensionamento. Con lo stesso simbolo erano stati segnati, nei mesi scorsi, i libretti degli studenti ribelli: le collezionano quando sono fermati dalla polizia e dai paramilitari nelle dimostrazioni di protesta. E alla terza stella sono espulsi dagli atenei. La stella è simbolica. 
In Iran è sul libretto di lavoro e su quello universitario, ma in Europa ricorda quella a sei punte cucite sul petto degli ebrei durante l’Olocausto. E indurrà quindi molti all’ennesimo paragone tra il regime di Ahmadinejad e il nazismo di Hitler. In realtà, il simbolo della stella a professori e studenti iraniani indurrà finalmente la stampa occidentale a discutere della terribile rivoluzione culturale che il presidente iraniano ha avviato oltre un anno fa. Senza dover ricorrere a simboli, Ahmadinejad ha già licenziato e mandato in prepensionamento molti docenti universitari. E sostituito con i suoi fedelissimi decine di diplomatici moderati nelle ambasciate di tutto il mondo. Gli attivisti che militano nelle organizzazioni non governative non sono stati più fortunati, poiché il governo di Ahmadinejad ha bloccato i fondi stanziati dal suo predecessore Khatami. Senza finanziamenti, le ONG iraniane rischiano la bancarotta. 
Dall’università Tarbiat-e Modarres, dove era a capo del dipartimento di Filosofia islamica ed è stato declassato a semplice docente, il religioso Mohsen Kadivar spiega che “l’epurazione ha portato i più fortunati, che parlano inglese e hanno contatti con colleghi stranieri, a presentare domanda di insegnamento per un anno o due all’estero, per far calmare le acque nell’attesa che scada il mandato di questo presidente e gli iraniani tornino alle urne”. Commentando le ultime dichiarazioni di Ahmadinejad, che ieri ha detto di voler installare ben 50mila centrifughe per l’arricchimento dell’uranio, Kadivar ha ribadito che “gli iraniani non hanno solo diritto al nucleare civile ma anche alla libertà di espressione”. 
A sollevare dubbi sulle affermazioni trionfalistiche di Ahmadinejad è pure la diplomazia russa, che lascia intendere come il presidente iraniano stia bluffando. Mikhail Kamynin, portavoce del ministero degli esteri di Mosca, ha infatti detto di dubitare che l’Iran abbia recentemente fatto tanti progressi tecnologici. Partner dell’Iran nei progetti atomici, la Russia di Putin è ovviamente interessata alla vendita di know-how a Teheran, che paga in petrodollari pronto consegna. Ma teme un’escalation della tensione con Washington e con il resto dell’Occidente. 
Le politiche di Ahmadinejad gli fanno perdere sempre più consenso. In Iran, poiché la popolazione esige, oltre a un’economia solida e diversificata, maggiore libertà di espressione. E questo vale per tutti ma soprattutto i 50 milioni di iraniani (su un totale di 70 milioni) che hanno meno di 35 anni. Ma Ahmadinejad perde consenso ovunque. E persino alleati come la Russia sembrano esasperati dalla sua retorica.

 


 

+ Il Corriere della Sera 11-4-2007. Gli ex Pci, i gulag e il Partito democratico La seconda mutazione di  Pierluigi Battista

 

 

Sciolto ufficialmente sedici anni fa, il Pci rivive come fantasma, ossessione, occasione e pretesto per interminabili ripensamenti. Piero Fassino che annuncia il prossimo solenne omaggio alle vittime italiane del Gulag compie un gesto che solo apparentemente può significare l'immersione nell'archeologia degli orrori del Novecento, un viaggio a ritroso nelle dispute che hanno infiammato le passioni politiche di un tempo ma che ora sono spente, inerti, utili soltanto ad alimentare le diatribe storiografiche. Ricordare i comunisti italiani inghiottiti nel Gulag significa invece alludere al ruolo attivo che il Partito comunista di Togliatti ebbe nel dispotismo staliniano: comunisti massacrati dai comunisti, una storia tragica di delazioni, tradimenti, compagni scomodi soppressi, annichiliti, sacrificati al Moloch totalitario. Fassino non va a Mosca soltanto a commemorare le vittime del Gulag, ma va a ricordare che anche il Pci contribuì alla costruzione del Gulag.

Gli storici (o almeno quelli che non si piegavano all'ortodossia della vulgata) lo sapevano già da tempo, ma perché Fassino sente il bisogno incoercibile di ricordarlo proprio adesso, in un'epoca così lontana da quei fatti? Perché alla vigilia della nascita del Partito democratico e dello scioglimento dei Ds, il segretario della Quercia avverte con allarme che la prima mutazione, quella che nell'epopea dell'89 portò alla chiusura del Pci, alla cancellazione delle sue insegne, del suo nome e della sua identità storico-politica, fu sì drammatica, lacerante ed umanamente gravosa, (quante lacrime copiose rigarono il volto dei dirigenti che si avviavano a diventare postcomunisti) ma non tanto da spezzare tutti i legami con il passato. Chi ha diretto il passaggio dal Pci al Pds e poi ai Ds ha vissuto con un certo cruccio risentito la testarda sollecitazione a fare i conti con la propria storia senza remore ed esitazioni, come se un destino crudele costringesse i figli del comunismo italiano a sottostare ad esami che non finiscono mai e a sentirsi perciò, come amano dire, figli di un dio minore. Ma il complesso del postcomunista non ha perseguitato per prima proprio loro, i figli di un dio minore che hanno trascorso un quindicennio nella ricerca asfissiante di nuove aggregazioni, nuove denominazioni, nuove rifondazioni, in un susseguirsi vorticoso di Cose dal nome incerto ed evanescente, in un interrogarsi quasi maniacale sulla propria identità?
Oggi la maggioranza dei Ds guidati da Fassino ha scelto, e ha scelto proprio grazie all'ammirevole ostinazione del suo segretario che tra pochi giorni dovrà sobbarcarsi la fatica ma anche l'onore di un congresso che si preannuncia come una svolta altrettanto dolorosa di quella della Bolognina. Il suo approdo è il Partito democratico, lo scioglimento definitivo dell'eredità postcomunista.
Ma con la percezione che è ancora l'altra eredità, quella storicamente schiacciante, insomma l'eredità comunista, a chiedere di essere definitivamente dissolta. La «bulimia del ripensamento» che sembra agitare i dirigenti diessini, così tardivamente intenti a demolire ogni tassello della passata identità (tranne l'icona di Berlinguer, come ha acutamente notato un altro ex per nulla tenero con i suoi «compagni di scuola» come Andrea Romano) sembra proprio la malattia che accompagna questo congedo che si spera definitivo dal passato. Come se lo spettro del Gulag si fosse risvegliato per portare i postcomunisti all'appuntamento del Partito democratico totalmente purificati dalle macchie della loro storia. Anche se forse ci potevano pensare (molto) prima.


Il Riformista 11-4-2007 Lo Stato difenda e garantisca la laicità senza asservirsi ai dettami della Chiesa


Si può continuare a tacere? O bisogna interrogarsi se non si è andati oltre? Oltre lo stato laico e il rispetto della pluralità delle idee. Oltre l’idea di uguaglianza e il principio di non discriminazione.
Uno Stato è laico se religioni e ideologie non hanno influenza sul governo della società, ma hanno valore solo per le persone. Lo Stato deve garantire un comune spazio di libertà e non può imporre una dottrina morale. Per questo è necessario che chi siede in Parlamento per volontà di elettori ed elettrici serva il principio dell’autonomia e del pluralismo, rappresentando e disegnando una comunità libera e responsabile, contrastando le diseguaglianze in un contesto di diritti e doveri e sancendo la libertà di organizzarsi la vita e le relazioni senza che le scelte di alcuni diventino obbligo per tutte e tutti, pena la perdita dell’autonomia personale e la conseguente violazione della dignità della persona.
Vediamo crescere ogni giorno un ossessivo richiamo da parte della chiesa cattolica ai valori e ai modelli unici: in questo apostolato scorgiamo, con preoccupazione, vene di integralismo e di contrapposizione ad altri integralismi, ma, proprio perché laici, difendiamo la libertà della Chiesa e della sua missione.
Ciò che ci pare vada oltre è vedere le istituzioni, a partire dal nostro Parlamento, incapaci di esprimere autorevolmente il proprio giudizio.
Arretrare per evitare la chiarezza, per paura di un sano conflitto di idee non aiuta la convivenza, anzi descrive una società triste, che guarda indietro e non sa scrutare il futuro.
I diritti civili segnano l’epoca, parlano dell’accoglienza e delle società multietniche, del bisogno essenziale di diritti, doveri, responsabilità, di rispetto, di libertà e quindi di laicità.
Promotori: Susanna Camusso (sindacalista), Ferruccio Capelli (Direttore Casa della Cultura di Milano), Sylvie Coyaud (giornalista), Claudio Fasoli (musicista), Paolo Franchi (direttore del Riformista), Giorgio Gaslini (musicista), Giulio Giorello (filosofo), Sergio Lo Giudice (Presidente nazionale Arcigay), Aurelio Mancuso (Segretario nazionale Arcigay), Rita Marcotulli (musicista), Alfredo Martini (Presidente Onorario Federazione Ciclistica Italiana), Pier Giorgio Odifreddi (matematico), Moni Ovadia (regista), Ottavia Piccolo (attrice), Lella Ravasi (psicanalista), Massimo Rebotti (giornalista), Paolo Soldini (vicedirettore del Riformista).

 Per aderire all’appello, si può scrivere a scamusso@tin.it.

 


 

Il Corriere della Sera 10-4-2007 INEDITO A vent’anni dalla tragica scomparsa, un testo di Primo Levi sull’esperienza nel Lager. Noi di Auschwitz «Jawohl, il sì degli schiavi. E intorno il deserto»              

 

22 gennaio: Le nostre patate sono finite.Dagiorni circolava per le baracche la voce che un enorme deposito sotterraneo di patate fosse nascosto da qualche parte, fuori del filo spinato, non lontano dal campo; ora qualche pioniere ignorato deve averlo rintracciato. (Passi, rumore di pale e di carriole al vento). Un tratto del recinto di filo spinato è stato abbattuto a colpi di pala, e una doppia processione di miserabili esce ed entra dalla apertura. (...)

Narratore: Ed anche la fame stava per finire: il deposito di patate era enorme, ce n’era per tutti… Nessuno sarebbe più morto di fame (pausa).

25 gennaio: Nessuno sarebbe più morto di fame: ma la morte continuava a mietere. La debolezza di tutti era estrema: nel campo nessun ammalato guariva, molti invece si ammalavano di polmonite e di dissenteria. Non c’erano medici né medicine: i malati e gli esauriti, che non erano in grado di muoversi, giacevano torpidi nelle loro cuccette, paralizzati dal freddo, e nessuno si accorgeva di quando morivano. Per la prima volta la morte è entrata nella nostra camera. È stata la volta di Somogyi: un ungherese di cinquant’anni, alto, magro e taciturno. Era ammalato insieme di tifo e di scarlattina. Da forse cinque giorni non parlava. Ha aperto bocca oggi, e ha detto con voce ferma:

Somogyi:Ho una razione di pane sotto il saccone. Dividete voi tre. Io mangerò mai più.

Narratore: Non abbiamo trovato nulla da rispondergli, ma non abbiamo toccato il pane. Finché ha avuto coscienza è rimasto chiuso in un silenzio aspro. Ma la sera e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il suo silenzio è stato sciolto dal delirio.

Somogyi: Jawohl..., Jawohl..., Jawohl...

Narratore: Jawohl, il Sì degli schiavi, la parola dell’obbedienza e della remissione. La sua voce è sommessa, è estenuata, eppure sembra che passi le pareti del tetto, che gridi al cielo. Seguendo un ultimo interminabile sogno di schiavitù, Somogyi ha continuato a dire Jawohl finché ha avuto fiato: regolare e costante come una macchina, Jawohl ad ogni tensione di respiro, ad ogni abbassamento della povera rastrelliera delle costole. Jawohl, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di svegliarlo, di soffocarlo. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. (Silenzio per qualche secondo, si sente soltanto il Jawohl di Somogyi) Fuori adesso c’è un grande silenzio. La pianura intorno al campo è deserta e rigida, bianca a perdita d’occhio, mortalmente triste. Il numero dei corvi è molto aumentato e tutti sanno perché

26 gennaio: Siamo soli, abbandonati in un universo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà è sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione intrapresa dai tedeschi trionfanti, è stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. È uomo chi uccide, è uomo chi commette o subisce ingiustizia: non è uomo chi ha perso ogni ritegno, e divide il suo letto con un cadavere. Chi ha atteso che il suo vicino finisse di morire per togliergli un quarto di pane, può essere innocente, ma è segnato, è condannato, è maledetto. È più lontano dal modello dell’uomo pensante, che un sadico atroce e rozzo pigmeo. (Silenzio, si sente adesso in primo piano il Jawohl di Somogyi. È morente e la sua voce è un rantolo) Erano questi i nostri pensieri, alla vigilia della libertà. Soltanto Somogyi si accaniva a confermare alla morte la sua dedizione. (…) Misono svegliato di soprassalto: Somogyi taceva, aveva finito. Con l’ultimo sussulto di vita si è gettato a terra dalla cuccetta: ho udito l’urto delle ginocchia, delle anche, delle spalle e del corpo.

27 gennaio: L’alba. Sul pavimento, l’infame tumulto di membra stecchite, la cosa Somogyi. Nonpossiamo portarlo via. Ci sono lavori più urgenti, non ci si può lavare, non possiamo toccarlo che dopo di aver cucinato e mangiato. I vivi sono più esigenti. I morti possono aspettare. Ci siamo messi al lavoro come tutti i giorni. Abbiamo preparato la zuppa, abbiamo rifatto i letti dei malati, poi ci siamo accinti a quell’altro triste lavoro. (Rumore di stoviglie ecc. Poi si sente un mormorio crescente, lontano e poi vicino che si muta infine in grida di gioia e acclamazioni) I russi sono arrivati mentre Charles e io portavamo Somogyi poco lontano. Lo abbiamo caricato su di una barella: era spaventosamente leggero. Abbiamo rovesciato la barella sulla neve grigia mentre sulla strada passavano le avanguardie russe a cavallo. (...)

Narratore: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti. A me dispiacque di non avere il berretto.

Primo Levi

 

 


Europa 11-4-2007 Il miracolo di un anno impossibile  di FEDERICO ORLANDO

Non ripeteremo per Romano Prodi, a un anno dalla sua vittoria senza gioia alle elezioni del 9- 10 aprile, la frase che si attribuisce all’abate Sieyès, teorico del terzo stato e padre della rivoluzione francese, quando, sottrattosi al boomerang di Robespierre, gli domandarono cosa avesse fatto durante il Terrore: «Ho vissuto». In quest’anno a Palazzo Chigi, Prodi ha fatto qualcosa di più che aver vissuto, anche se agli italiani manca la percezione del “Terrore” all’italiana. Glie l’ha descritto ieri, con la maestria del grande artista, non politologo, non sociologo, non economista, non giornalista, Vincenzo Cerami su la Repubblica.
Riproduciamo il testo, sperando che qualcuno che non l’ha fatto ieri ritagli la frase e la conservi nel portafogli, per il giorno delle prossime elezioni di maggio o per più grandi eventi: «Assediato da destra da sinistra e dal centro; assillato dagli eterni debiti dello Stato; ricattato al Senato dal trotskysta di turno ; additato dalla Chiesa come picconatore di famiglie; dipinto come il Savonarola delle tasse; quotidianamente spintonato da sindacati e Confindustria; privo di una benché minima attrezzatura che renda visibili le cose buone del governo , compresa la difficile Finanziaria… Possiamo dire che Prodi ha compiuto il miracolo. Ma finché la politica , in Italia, rimane questa, c’è da essere molto ottimisti sull’avvenire del pessimismo, come direbbe Rostand».
Bloccato al Senato da una legge elettorale Calderoli-Quirinale fatta per non far governare, e stoppato in Consiglio dei ministri da una sinistra comunista sudamericana che ci risucchia dalla modernità, il governo ha tuttavia saputo ottenere i suoi successi più significativi proprio al Senato, sulla politica estera ben guidata da D’Alema – dal ritiro dei soldati in Iraq all’intervento in Libano al rifinanziamento delle missioni nonostante il devastante provincialismo di Berlusconi; e in alcuni caposaldi della politica economica e sociale, che è quella dove si misura la capacità di innovazione di un centrosinistra rispetto al governo dei conservatori e delle caste: intendiamo le liberalizzazioni di Bersani e la legge finanziaria di Padoa-Schioppa.
Le prime ci avviano fuori dell’età feudale, nonostante la resistenza degli interessi e di una destra liberista- antiliberalizzatrice-illiberale, ferma a prima del laisséz faire, laisséz passer. La seconda, integrata da una politica fiscale (effetto Visco) che aiuta il risanamento dei conti, lasciati dalla destra come dopo una rapina a mano armata, aiuta a creare il clima in cui, insieme alle liberalizzazioni, dovrebbero fiorire il rilancio delle aziende, il benessere delle famiglie, il miglioramento esistenziale di tanti soli, poveri, precari degli affetti, del lavoro, della casa.
Dovrebbe, abbiamo detto, se nel frattempo la riduzione del costo del lavoro per le grandi e medie aziende (orrendamente obnubilata dalla nostra stessa campagna elettorale come “cuneo fiscale”) non fosse desaparecida, se l’aumento delle tasse non avesse colpito i ceti medi vitali e le famiglie in miracoloso equilibrio, se la destinazione di una parte del tesoretto al pubblico impiego fosse stata accompagnata dall’inizio di una defoliazione chimica della giungla istituzionale (province, microcomuni, comunità montane, Asl, enti ignoti) nei quali s’annidano centinaia di migliaia di parassiti che vivono di stipendio politico, e sono una palla al piede dell’Italia 2007 non meno delle corporazioni professionali, ferme ai privilegi del medio evo. Se, insomma, alla politica del risanamento, del recupero fiscale, dei primi investimenti sociali, si fosse affiancata, almeno nelle proclamazioni forti, la politica dei tagli della spesa. Com’era stato promesso agli elettori.
Una politica sola, da fare tutta insieme, non in due o più tempi, come invece accadrà.
Non per tutto, s’intende. Per la scuola, l’università, la ricerca, i beni culturali, insomma il blocco della formazione dei cervelli, delle idee e del senso comune, qualcosa è stato fatto anche nella razionalizzazione della spesa, sollevando strilli, molto altro no. La ricerca e l’università continuano a soffrire di un’attenzione impari alla tragicità della situazione (che è cosa diversa dalla gravità), mentre la cultura di base dentro e fuori le aule scolastiche si è valsa con Fioroni di un risanamento della scissione morattiana fra scuola del privilegio e scuola della manodopera, dell’innalzamento dell’obbligo, del ripristino della severità negli esami proprio mentre infuria il teppismo dei minori (e dei loro familiari iperprotettivi) che s’accoppia all’ipocondria di molti presidi e all’inadeguatezza professionale e forse umana di alcuni insegnanti. Alla grande apertura al popolo – come si sarebbe detto una volta – delle strutture culturali, e alla restituzione di sempre nuovi beni alla comunità operate da Rutelli, non corrisponde altrettanto impegno per il servizio pubblico radiotelevisivo, stoppato dalle corporazioni interne e dal blocco d’interessi con Berlusconi: che garantisce «la legge Gentiloni non passerà mai»; (né quella, inesistente, sul conflitto d’interessi); né per la legge del cinema, che l’attende, come la musica, il teatro, terreni su cui la destra ha lasciato crescere le ortiche. Non fanno dané. A noi invece piacerebbe che entrassero nel secondo tempo del governo di centrosinistra, perché cultura e socialità sono le cose che fanno la differenza: o meglio la farebbero, se ci fosse un po’ di spirito liberale nella coalizione, non nel senso ottocentesco ma europeo d’oggi, l’unico effettivamente “rivoluzionario”.
Ma, travolto da una cultura comunista del ghetto, che non ha nulla a che vedere con la difesa delle minoranze e con la loro liberazione nel diritto comune di uno Stato laico, il governo Prodi ha iniziato con la toppata dei Dico, che dovevano costituire invece il campo di una vasta battaglia parlamentare tra l’antirazzismo di una laicità liberatrice e il razzismo di una società egoista e bigotta. Come si sta facendo per il testamento biologico. Ora la politica della famiglia, insieme a quella dei giovani e dello sport e a quella delle pari opportunità per le donne, finalmente promosse da Maddalene pentite a incolpevoli di deicidio, dovrà partire subito, a cominciare dall’imminente Conferenza nazionale organizzata da Rosy Bindi; mentre salute e droga aspettano qualcosa di più di una rivisitazione dell’intramoenia e del riordino delle grandi aziende ospedaliere o della modica quantità di marijuana. Un vero coordinamento di queste politiche con quelle della famiglia appare, a noi inesperti, piuttosto logico. Vedremo assai presto se apparirà lo stesso agli esperti. Così come vedremo se agli esperti apparirà ancora tollerabile la paralisi ideologica delle infrastrutture e delle fonti energetiche, bloccate da jacquerie valligiane e cittadine, che in alcun altro paese d’Europa avrebbero l’ultima parola.
Abbiamo lasciata, dulcis in fundo, perché apre il capitolo delle grandi riforme istituzionali, la politica della sicurezza e della giustizia. Amato e Mastella – il primo arricchendo la cultura del governo con la sua scienza delle istituzioni concretamente applicata, il secondo tormentandola per ragioni di bottega (Udeur) – hanno avviato nel primo anno del governo provvedimenti radicali, che ora spetta al parlamento concludere. Pensiamo all’approvazione, necessariamente entro luglio, delle modifiche alla riforma Castelli, che ne smontano la struttura verticistica e vendicativa nei confronti dei giudici, fanno saltare la separazione delle carriere introdotta (di fatto) dal ministro leghista, ma distinguono nettamente le funzioni, e verificano la professionalità dei magistrati. Il nuovo ordinamento giudiziario risponde alle attese dei cittadini, così come le riforme, anch’esse presentate al parlamento, del codice civile, e infine del codice di procedura penale che impone ai tribunali di esaurire non oltre i 5 anni il primo grado di giudizio, attuando un principio del “giusto processo”.
Ora si tratterà di vedere se Camera e Senato lavoreranno con la stessa diligenza del governo o continueranno a oziare sulle spalle dei contribuenti, tra paralisi trotskysta dei senatori e distrazioni dei deputati in congressi di partito, settimane corte ed elezioni amministrative. Tanto, il superstipendio per lorsignori corre lo stesso. Anzi di più, perché hanno più tempo per gli affari privati. E ci spiace per gli onorevoli avvocati che solo il 12 per cento di chi è uscito per indulto sia tornato nelle patrie galere e avrà bisogno nuovamente di loro. A pagamento.
Si tratta di un 12 per cento quasi esclusivamente italiano, che ridimensiona la paura per l’immigrato con la quale il governo Berlusconi partorì il mostro della Fini-Bossi. Qui l’incontro tra il riformismo di Amato e il comunismo di Ferrero potrebbe dare buoni risultati, ampliando gli ingressi regolari in Italia e così consentendo di avviare i legalmente residenti al lavoro, mentre la Bossi-Fini restringeva quegli ingressi, favorendo l’illegalità di quanti entravano con passaporto turistico di 3 mesi, restavano come irregolari e s’imboscavano nella selva oscura del lavoro nero, dello spaccio, della prostituzione, della droga. Alla faccia della politica della sicurezza, esigenza di tutti i cittadini, ma usurpata in passato come bandiera dei padroncini della “fabbrichétta” e della “villétta”. Tutti colleghi del Cavaliere.
Certo, tutte queste cose, cariche di valore effettuale, come il risanamento dei conti, le liberalizzazioni, la scuola, o di valore potenziale, come i provvedimenti in itinere, avranno senso compiuto soltanto se compiuto sarà, finalmente, il nostro sistema istituzionale ai livelli più alti: una sola camera legislativa che dà la fiducia, un senato delle autonomie e dell’“appello”, un governo non presidenziale ma con poteri di primo ministro per chi lo rappresenta, una legge elettorale che consenta maggioranze e alternanze, come in Germania, e non sia una legge di sussistenza per bande e capibanda che ogni altra democrazia ridicolizzerebbe.
Una democrazia che ritrovi lo “Stato” dopo tanto parlare di federalismo e decentramento, che fin qui hanno partorito caricature di governatori e tantissimi feudi, sottofeudi e vassallaggi nei quali s’irradiano le metastasi della partitocrazia, e delle troppe braccia sottratte alla zappa, che in essa campano. Se il governo si deve sfasciare, si sfasci su queste grandi cose. In ogni caso, prendiamo atto con l’amico Cerami che in un sol anno, «assediato, ha fatto miracoli». Anche se per l’attesa degli italiani, a cominciare da chi scrive, è poco. Un poco che va addebitato interamente o quasi ai capitribù che lavorano per la bottega e non per il paese.

 

 

 


 

La Repubblica 11-4-2007 Tre euro l'ora per rischiare la vita. Abusi, ricatti e pericoli: al lavoro con i manovali irregolari di PAOLO BERIZZI

l contatto in strada a Milano, poi sui ponteggi per lavorare dalle sette fino al tardo pomeriggio senza casco e protezioni

A UN CERTO punto mi assale l'angoscia dell'infortunio, e non mi mollerà più. Paura di finire schiacciato sotto un blocco di tavole di ferro, quelle imbracate da una corda consunta che dal cortile vedo piombare giù dal settimo piano del ponteggio, e se perdi l'attimo, o ti distrai, o se una di quelle lastre che devi afferrare prima che tocchino terra si ribella alla morsa del moschettone, rimani sotto. Il terrore di venire travolto da una betoniera. Stritolato da un cavo d'acciaio. Che le braccia cedano, o semplicemente di scivolare dall'impalcatura dove mi fanno arrampicare anche se sono nuovo del mestiere.
Anche se calzo dei banali scarponi da montagna. Niente a che vedere con quelli antinfortunio, obbligatori. Non indosso nemmeno il casco. Un caporale, un calabrese duro e silenzioso, mi dice di tenerlo a portata di mano: "Magari arriva qualche ispettore, ma stai tranquillo, non ti guarda nemmeno". Lascio riposare il guscio in cima a una pila di assi di legno. Dovrò caricarle su un camion, assieme a quintali di altro materiale.
Da buon manovale bado solo a lavorare, a guadagnarmi, in nero, i miei 3 o 4 euro l'ora. Per dieci ore fanno 30-40 euro. Pagamento dopo 50 giorni. La prima settimana di prova, spesso, è gratis. Inizi in cantiere alle sette dal mattino, finisci, sfatto, alle cinque, sei del pomeriggio. Un massacro. Niente documenti, sicurezza zero. Alla fine del mese devi pure pagare la mazzetta: 300 euro al caporale che ti ha dato lavoro. Per mantenere il posto. A Milano, in una settimana da operaio abusivo, caporali e capomastri conoscono a malapena il mio nome. In un caso solo perché me lo chiede un collega marocchino.
Sulla trentina, magro, sdentato, quasi sempre alterato dall'alcol. Amil è uno dei pochi che in sette giorni si prenderà il disturbo di farmi coraggio. "Non è il massimo, ma è sempre meglio che rubare o spacciare", biascica in un italiano incerto mentre a bordo di un furgone raggiungiamo un cantiere alla periferia di Novara. Ne ho conosciuti tanti come Amil. Schiavi. Con loro ho condiviso e subìto il ricatto dei caporali. Gente spietata che nei cantieri della Lombardia spreme migliaia di braccia. In barba a ogni regola e a ogni diritto.
A Milano e provincia, dei 120 mila operai edili (il 42,3 per cento sono immigrati stranieri, nel 2000 erano solo il 7,1), 60 mila sono in nero: la metà. Tutti gestiti dai caporali. È manodopera fantasma, soprattutto straniera e clandestina. Ricattabile. Chi non è in regola col permesso di soggiorno, si deve accontentare. Fa cose da bestia, che gli italiani rifiutano. Sono albanesi, egiziani, marocchini, romeni, tunisini. E sudamericani. Italiani pochi: stanno quasi sempre in cima alla piramide. Impresari. O, appunto, mercanti di braccia.
Ti reclutano all'alba e ti scaricano nei cantieri dove rischi la vita per pochi spiccioli, e se ti fai male ti lasciano lì in strada. Mai visto, mai conosciuto. Nemmeno al pronto soccorso puoi andare. Altrimenti metti nei guai chi ti ha assunto. E perdi il posto. "Tra il manovale e il caporale c'è un rapporto esclusivo. Tu devi parlare solo con lui, non fare domande sul dove e il come e per conto di quale impresa dovrai lavorare - spiega Marco Di Girolamo, della Fillea, il sindacato edile della Cgil - a fine mese gli devi dare la mazzetta, da 200 a 300 euro. La consegna del denaro avviene a cielo aperto. Oppure, in base all'accordo tra ditte e caporalato, il pizzo è trattenuto alla fonte: fai 250 ore, e te ne pagano solo 200".
Il mercato degli uomini inizia quando il sole sta ancora sotto la linea dell'orizzonte. Alle 5 del mattino siamo già tutti qui, in piazzale Lotto. Schiavi e padroni. Chi cerca lavoro nero, e chi lo offre. I primi sciamano sul prato, aspettano seduti sulle panchine, sotto le pensiline degli autobus. I volti stropicciati dal sonno, zainetti e sporte di plastica con dentro il rancio: pane egiziano, formaggi cremosi da spalmare, riso, kebab in scatola, bibite dolciastre, molto gassate, birra, bocconi di carne speziata. Gli scarponi induriti dalla calce, i camicioni larghi di lana, gli invisibili dell'edilizia attendono l'arrivo dei caporali. Piazzale Lotto è uno dei luoghi dove tutte le mattine all'alba si svolge la contrattazione per una giornata di lavoro in cantiere.
Le altre filiali sono piazzale Corvetto, piazzale Maciacchini, piazzale Loreto, le fermate della metropolitana di Bisceglie, Famagosta, Inganni. La stazione Centrale, quella di Sesto Marelli. Per essere qui alle 5 centinaia di uomini scendono dal letto anche due ore prima. Sono giovani immigrati che l'inedia spinge a elemosinare un lavoro massacrante. Il contratto nazionale di categoria prevede 173 ore al mese, 8 ore al giorno per 5 giorni settimanali. I caporali te ne fanno fare in media 250, sabato compreso. Tutelato da niente e da nessuno.
Inserirsi nella filiera del caporalato non è difficile: bastano una modesta prova di recitazione, un paio di scarponi, jeans sdruciti, giubbotto e un cappellino con visiera. Ecco i primi gruppetti intorno all'edicola di piazzale Lotto. "Cerco lavoro, a chi posso chiedere?" Mi dirottano prima su un egiziano, poi su un marocchino, un albanese, infine un ucraino. Italiani, a quest'ora, neanche l'ombra. Arrivano più tardi, al volante di mezzi di ogni tipo. Utilitarie, station wagon, pick-up, monovolume. Vecchi e nuovi furgoni.
L'unico sveglio è l'autista. "Fino a un mese fa facevo il magazziniere, poi la ditta ha chiuso. Chi è il capo?": mi faccio coraggio fendendo un cerchio umano a due passi dalla fermata della 91. "Intanto vai da quello là con il giaccone nero". È un calabrese, sulla quarantina. Viene da Buccinasco. Lancia Ypsilon sporca di fango. "Da dove vieni?". "Bergamo. Però vivo qui, a Bonola". "Che cosa fai?" "Magazziniere, qualche trasloco, ma adesso sono fermo". "Edilizia, mai?" "Mai". "Oggi ti va bene, ho uno malato che è rimasto a casa. Però ti dico subito... Lavorare duro senza fare storie, la paga è di 3,50 euro all'ora, finiamo alle cinque, e se succede qualcosa, affari tuoi". Il contratto si chiude con una pacca sulle spalle.
Un'ora dopo siamo a Monza. Lo scheletro ponteggiato di una palazzina. Salvatore ci scarica lì. Sta incollato al telefonino. Controlla. "Un lavoratore regolare per l'impresa ha un costo di 22 euro l'ora. La metà rimane tra l'impresa appaltatrice e quella subappaltante. La parte restante la intasca il caporale - spiega ancora Di Girolamo - La quantità di evasione fiscale contributiva ammonta a 6 miliardi di euro all'anno". Una bella fetta di Finanziaria.
Nel cantiere monzese ci sono nove operai: cinque noi (due soli in regola), quattro di un'altra squadra. Mentre all'ultimo piano un giovanissimo muratore albanese getta il calcestruzzo nelle casseforme e un collega marocchino lo assesta con un pestello, io ne trasporto dell'altro. Prima con una carriola, poi in secchi stracolmi, facendo acrobazie tra i correnti del ponteggio. Un piano è sprovvisto di parapiedi.
Mancano anche le "mantovane", le barriere anti caduta sassi. Una pioggerella sottile ha reso scivolose le pedane d'acciaio e il rischio di cadere nel vuoto è altissimo. "Veloce! Veloce!", grida il caposquadra. Esige il minimo (per lui) rendimento. Che a me sembra l'impossibile. Alle 17, esausto, chiedo a Salvatore se per favore può anticiparmi la paga giornaliera. Lui temporeggia. Si capisce che la richiesta è inusuale. Eppure sono solo 35 euro, per dieci ore di lavoro. "Soldi? Fra 50 giorni - mi gela - nell'edilizia funziona così, bellooo!".
In Italia il settore edile dà lavoro a 1 milione e 200 mila operai. 600 mila sono regolari o mezzi regolari (in "grigio": su 250 ore mensili solo 80 vengono messe in busta paga); gli altri 600 mila sono in nero. Provo rabbia. Lo sfruttamento lo senti prima nella mente, poi nei muscoli. Vorresti scappare. Prima di scivolare da un'impalcatura e spaccarti la testa. Secondo le stime ufficiali Inail nel 2006 nei cantieri italiani sono morti 258 operai (la Lombardia conserva il triste primato con 46 vittime), il 35 per cento in più rispetto al 2005. Gli infortuni sono stati 98 mila. Ma il sommerso è enorme. I manovali clandestini, i "fantasmi", si fanno quasi sempre male in silenzio. Persino quando perdono la vita.
Ogni giorno della settimana, con il caporale prendo appuntamento per il giorno dopo. E puntualmente lo disattendo. Ricevo telefonate da altri a cui ho lasciato un numero di cellulare. "Allora ci vediamo domani alle 6 a Famagosta". "Porta guanti e tenaglia, alle 6.15 in piazzale Loreto". Lavoro ce n'è. Il secondo e il terzo giorno sono sotto un egiziano. Ponteggi. Cantiere tra Milano e Pavia. Freddo cane. Un collega tunisino, Aziz, è appena guarito dopo un ferita alla testa. "Mi hanno detto che se andavo in ospedale non dovevo farmi più vedere". Arriviamo in autobus in corso Lodi. Ci aspetta la monovolume del capo. Rashid, un marcantonio del Cairo. "Ti dò 3 euro, 4 se sei svelto.... " è la prima cosa che dice. Fino a qualche anno fa il caporalato edile era appannaggio esclusivo degli italiani. Oggi è diverso. Egiziani, albanesi, romeni stanno riproducendo tale e quale il meccanismo dello sfruttamento. Da schiavi sono diventati padroni.
Godono tutti di una sostanziale impunità. In Italia lo schiavismo sui cantieri non è (ancora) reato. Il 16 novembre scorso il Consiglio dei ministri ha presentato un disegno di legge, che ora dovrà essere discusso da Camera e Senato, che introduce il reato di caporalato.
A giudicare dall'esito delle due giornate di cottimo a Rashid credo di non essergli sembrato troppo svelto. Non mi paga, se voglio continuare, lo farà, pure lui, tra cinquanta giorni.
Eppure la mia parte l'ho fatta. Tre piani di ponteggio smontati. Tra cavalletti, tavole, botole, correnti di ogni foggia e dimensione, sono in tre, lassù, in cima all'edificio. Sgobbano come muli. Mi fanno scivolare giù la roba con corde e carrucole. A ritmo incessante. Il tempo di sganciare il materiale dall'imbracatura, impilarlo sul camion, e altro carico precipita dai piani alti. "Così non va", mi rimprovera il capo squadra, anche lui egiziano. Sa che sono un novizio. "Vai su, sgancia quei correnti e passali a lui". 17 anni, boliviano, le guance segnate dalla prima peluria. Niente casco, niente guanti. A quest'ora dovrebbe essere a scuola, invece è qui a giocarsi la vita per 40 euro. Non fiata, esegue.
A mezzogiorno consumiamo un pranzo frugale dentro una baracca di lamiere. Riscaldata, per fortuna, da una stufa elettrica. Una bottiglia d'acqua passa di bocca in bocca. Poi ognuno addenta il suo rancio. "Un mese fa - racconta Aziz - mi è caduto un corrente del ponteggio sulla testa, sono sceso dal ponteggio tutto insanguinato. Ha visto anche la gente del palazzo. Adesso sto bene", sorride.
Mezz'ora e siamo di nuovo con la schiena piegata sulle passatoie di ferro. Sono le quattro del pomeriggio, ho già la mente all'alba del giorno dopo. Altro sfruttatore, altro viaggio, altro sudore, altri soldi che non vedrò mai. Altri clandestini che si spaccano le braccia per ingrossare il conto corrente dei caporali e delle imprese lombarde che vogliono tutto, e subito. Calpesterò fango a Lissone, a Novara, infine in quella valle Seriana nella bergamasca dove un tempo l'edilizia era considerata un'eccellenza. Tutto sarà uguale al primo giorno di lavoro. Anzi peggio.
L'edilizia, oggi, è diventata terra di predoni e di oppressi ridotti in cattività. A volte lasciati morire in silenzio. Come scrive Andrea Camilleri ne "La Vampa d'agosto". "... è caduto dall'impalcatura del terzo piano... Alla fine del lavoro non si è visto, perciò hanno pensato che se n'era già andato via. Ce ne siamo accorti il lunedì, quando il cantiere ha ripreso il lavoro... Forse, pinsò Montalbano, abbisognerebbe fari un gran monumento, come il Vittoriano a Roma dedicato al Milite Ignoto, in memoria dei lavoratori clandestini ignorati morti sul lavoro per un tozzo di pane".

(11 aprile 2007)


 

La Stampa 11-4-2007 - INCHIESTA L'onorevole va due volte in pensione. Vitalizio irrinunciabile a duemila exparlamentari; molti lo cumulano con l'assegno di vecchiaia. PIERLUIGI FRANZ

ROMA
Ci sono anche due volti noti del mondo del pallone, Giancarlo Abete e Guido Rossi, fra i beneficiari del vitalizio regalato dallo Stato agli ex parlamentari. Il neo presidente della Figc riceve 6.590 euro al mese per i suoi 13 anni a Montecitorio, mentre l’ex Commissario straordinario della Figc riceve ogni mese 3.108 euro per i suoi 5 anni trascorsi al Senato dall’87 al ’92. E pensare che il 76enne ex presidente di Telecom Italia non ama incassare pensioni. Preferisce gestirsele direttamente tanto è vero che citò la Cassa Forense per riavere in contanti tutti i contributi che vi aveva versato come avvocato. E nel 2003 la Cassazione gli dette ragione: la Cassa gli rimborsò parecchi milioni di euro, ma cambiò poi le regole per evitare che altri legali lo imitassero. Sono circa 2 mila gli ex parlamentari e poco più di mille gli eredi di deputati e senatori che ricevono gratis da Camera e Senato un vitalizio, variabile da 3 mila 108 (più di 6 volte la pensione sociale) a 9 mila 947 euro al mese a seconda della durata in carica. Costo annuo per l’Erario: 187 milioni di euro (127 pagati dalla Camera e 60 dal Senato). Il vitalizio non può essere rifiutato. Unica alternativa è quella seguita dal Sindaco di Roma Walter Veltroni, già ministro dei Beni Culturali, che con un nobile gesto ha devoluto in beneficenza alle popolazioni africane l’assegno di 9.014 euro mensili. Ma quanti seguiranno il suo esempio? Se il vitalizio può essere in qualche modo giustificato come segno di riconoscenza dello Stato per chi ha rappresentato la Nazione, sedendo sui banchi di Montecitorio o di palazzo Madama senza avere altre forme di pensione, fa invece discutere l’entità dell’assegno anche per chi è rimasto poco tempo in carica e la sua cumulabilità con altri redditi.
Da 37 anni c’è poi un’altra anomalia che nessun politico intende correggere: i dipendenti pubblici e privati eletti deputati, senatori, europarlamentari, governatori di Regioni e sindaci di grandi città - grazie all’art. 31 dello Statuto dei lavoratori - possono conservare il posto di lavoro mettendosi in aspettativa con il diritto di vedersi accreditare i contributi figurativi dall'Inpdap, dall'Inps o dall'Inpgi.
In pratica, quasi per magia magistrati, professori universitari, militari, ambasciatori, insegnanti, bancari, piloti, medici ospedalieri, ferrovieri, telefonici e giornalisti hanno diritto al vitalizio dello Stato ed ai contributi in gran parte gratuiti (fino al ’99 il regalo era, invece, totale) sulla loro futura pensione per tutta la durata del mandato se al momento dell’elezione era già aperta una posizione previdenziale. Molti vitalizi finiscono così per sommarsi a pensioni maturate a spese di “Pantalone” o di enti previdenziali di categoria. E d’incanto ottengono quasi gratis 2 pensioni per lo stesso arco di tempo in cui hanno svolto funzioni pubbliche. Il costo per l’Erario è stato calcolato in almeno 5 miliardi di euro, pari a circa 10 mila miliardi di lire, ma nella legge n. 300 del ’70 non era prevista alcuna copertura di spesa. Ad esempio, molti giornalisti parlamentari hanno chiesto l’accredito dei contributi figurativi: dal leader di An ed ex ministro degli Esteri Gianfranco Fini al ministro degli Esteri ds Massimo D'Alema, dall'ex ministro delle Poste Maurizio Gasparri (An) all'ex ministro della Sanità Francesco Storace (An), dall'ex Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Paolo Bonaiuti (Forza Italia) all'ex segretario Udc e ideatore del Movimento dell'Italia di Mezzo Marco Follini. In pratica, la loro pensione finisce per essere in parte pagata dai loro colleghi in attività perché l’Inpgi è un ente privatizzato senza più l’ombrello dello Stato. Altri loro colleghi hanno, invece, già maturato la pensione: il ministro della Giustizia Clemente Mastella (Udeur), il presidente della Rai Claudio Petruccioli, gli ex direttori del Tg2 Alberto La Volpe, del Gr Rai Gustavo Selva, di “Panorama” Carlo Rognoni, de “L’Europeo” Gianluigi Melega, de “Il Tirreno” Sandra Bonsanti, de “La Gazzetta del Mezzogiorno” Giuseppe Giacovazzo, de “L’Avanti” Ugo Intini, nonchè Corrado Augias, Alberto Michelini, Carla Mazzuca, Luciana Castellina e Gianfranco Spadaccia. Solo due giornalisti hanno sinora rinunciato ai contributi figurativi gratis sulla loro pensione: l’ex direttore de “il Tempo” ed ex Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta e il Vicedirettore de “il Giornale” Paolo Guzzanti.
Persino chi ha frequentato poco o niente Montecitorio come il professor Toni Negri, eletto nell’83 nelle file dei radicali, e che ha preferito restare in quei 5 anni a Parigi perché ricercato, incassa 3.109 euro al mese oltre ai contributi gratis per 5 anni sulla pensione di docente universitario. Anche l’ex ministro della Difesa Mario Tanassi condannato nel ’79 dalla Corte Costituzionale per lo scandalo Lockheed gode di un vitalizio di 7.709 euro. Ricevono lo cheque tre ex presidenti della Corte Costituzionale: Leopoldo Elia (6.590 euro) e Aldo Corasaniti (3.108 euro) poi eletti al Senato, mentre l’ex ministro, Mauro Ferri, riceve 9.387 euro per i suoi 25 anni trascorsi alla Camera. Per la loro attività parlamentare assegni anche per due ex vicepresidenti della Consulta: Ugo Spagnoli (9.760 euro) e Francesco Guizzi (3.108).
Duplice vantaggio (vitalizio di 8.455 euro più contributi gratis sulla futura pensione Inpdap) per il presidente di sezione di Cassazione ed ex sottosegretario agli Esteri Claudio Vitalone e per l’ex ministro dei Lavori Pubblici Enrico Ferri (3.108 euro). Pensione di magistrato con contributi figurativi per l’ex Capo dello Stato e senatore a vita Oscar Luigi Scalfaro, che ha indossato la toga solo per pochi anni nel dopoguerra. Anche l’ex P.G. di Roma ed ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso beneficia di un vitalizio della Camera di 4.725 euro. Stesso importo per l’ex p.m. del pool di Mani Pulite Tiziana Parenti, mentre l’ex deputato di An Publio Fiori percepisce 9.947 euro, ma gli spettano anche i contributi gratuiti sulla pensione di avvocato dello Stato.
Altri legali beneficiano del vitalizio: 3.108 euro sia al professor Carlo Taormina, ex difensore della signora Annamaria Franzoni, sia all’ex presidente della Commissione pari opportunità Tina Lagostena Bassi. Più consistenti, invece, gli importi per il radicale Mauro Mellini rimasto per 16 anni a Montecitorio (6.963 euro) e per l’Udeur Lorenzo Acquarone (9.387 euro) . A questa cifra risultano ex-aequo l’attuale presidente del Cnel ed ex ministro per le Attività produttive Antonio Marzano, l’ex ministro dei Lavori Pubblici Nerio Nesi, il demoproletario Mario Capanna e il sindaco di Venezia Massimo Cacciari.
Lunga la lista di altri ministri della Prima Repubblica: Franco Bassanini, Giuseppe Zamberletti, Remo Gaspari, Luigi Gui, Virginio Rognoni, Vincenzo Scotti e Franco Nicolazzi (9.947 euro ognuno), Antonio Gava (9.636 ), Filippo Maria Pandolfi (9.512), Salvatore Formica (9.387), Salvo Andò, Pietro Longo e Claudio Martelli (8.455), Renato Altissimo (8.828) ed Emilio De Rose (4.725). Tra i medici incassa un vitalizio di 3.108 euro il celebre cardiochirurgo Gaetano Azzolina. Stessa cifra per il regista Pasquale Squitieri, mentre a Franco Zeffirelli vanno 4.725 euro. Tra i beneficiari del vitalizio come ex parlamentari non mancano, infine, personaggi del mondo della finanza, ma nel loro caso non vi è, però, il cumulo con i contributi figurativi a spese di “Pantalone”: l’ex ministro degli Esteri Susanna Agnelli (8.455 euro), l’ex ministro dei Lavori Pubblici Francesco Merloni (9.947), Luigi Rossi di Montelera (8.455), Franco Debenedetti (6.590), Vittorio Cecchi Gori (4.725) e Luciano Benetton (3.108).


 

Il Riformista 11-4-2007 L’utile grimaldello del referendum che smuove una situazione di stallo di Anna Cimenti


Si può discutere quanto si vuole sull’utilità dei referendum nel moderno sistema democratico (non va dimenticato che la Seconda Repubblica nasce dalla spinta referendaria del 1991 e del 1993). Ma quello che sta accadendo attorno alla riforma della legge elettorale dimostra già l’efficacia di questo strumento, in sé e per sé, e come stimolo nei confronti di una situazione politica bloccata.
Nei 36 anni dall’entrata in vigore, i referendum, o la paura dei referendum, oltre a produrre riforme, hanno determinato crisi e cambi di governo, maggioranze inedite, scioglimenti delle Camere, elezioni anticipate e l’ingresso di nuovi partiti in Parlamento. Anche stavolta a decidere la soluzione di una crisi di governo, che poteva concludersi con la fine prematura della legislatura, è stato il grimaldello referendario. Grazie anche alla sollecitazione del capo dello Stato, i partiti hanno riconosciuto che rinunciare almeno a tentare di riformare la legge elettorale in Parlamento avrebbe dato una sensazione di impotenza con un riflesso negativo su tutto il sistema politico. Di qui la rapida ripresa del dialogo all’interno e tra le due coalizioni. E la definizione di due ipotesi (la proposta Chiti e quella Calderoli), che hanno numerosi punti di contatto, e che, pure in presenza di autorevoli dissidenti (il ministro degli Interni Amato e l’ex presidente della Camera Casini), stanno già portando a un confronto parlamentare che potrebbe concludersi positivamente in tempi brevi. Potrebbe, appunto, o non potrebbe, esposto com’è ai mutevoli venti della politica e alle esigenze propagandistiche della prossima campagna elettorale per le amministrative.
Quello che è sicuro è che in un caso o nell’altro il referendum ha fatto la sua parte e continuerà a farla fino all’ultimo. Proprio per questo è importante che i due canali - quello referendario che si rivolge alla volontà popolare, e quello governativo-politico-parlamentare - restino separati. Lavorino, pertanto, il ministro Chiti, i leader dei partiti di maggioranza e opposizione e i parlamentari delle commissioni di Camera e Senato senza curarsi della raccolta delle firme che partirà il 24 aprile, e senza chiedere di rinviarla. E lavori il Comitato, insieme con gli esponenti dei partiti che hanno confermato la propria disponibilità, per fare in modo che il referendum prosegua la sua marcia, senza cercare ruoli che non gli competono tra gli attori della riforma in Parlamento. A ciascuno il suo e a ciascuno il suo mestiere.


INDICE 10-4-2007

 

Il Corriere della Sera 10-4-2007 Riscatti boomerang di  Magdi Allam   1

La Stampa  Strada: "Basta con i Ponzio Pilato" GIULIETTO CHIESA  2

Libero 10-4-2007 Telecom-ica Il governo studia l'esproprio di OSCAR GIANNINO  3

Il Corriere della Sera 10-4-2007  I medici e i fannulloni . Pietro Ichino  5

Il Riformista 10-4-2007 La fiducia fa la felicità  6

L’Unità 10-4-2007Armi: l’Italia fa boom. Più 61 % nel 2006  7

Il Piccolo di Trieste 10-4-2007 Gorizia Il costo della politica e i bisogni della gente. Adriano Tremuli. 7

Il Giornale di Vicenza Sono quattro le aree di evasione Dal secondo lavoro alle società di capitali Così 310 miliardi sfuggono al fisco  8

 


 

Il Corriere della Sera 10-4-2007 Riscatti boomerang di  Magdi Allam

 

 

Mors tua vita mea. È questa, all'indomani della barbara decapitazione del giornalista afghano Adjmal Nashkbandi, la sensazione netta che serpeggia tra gli italiani circa la cinica logica perseguita dall'insieme della classe politica, dai governi di destra e di sinistra, per ottenere il rilascio dei nostri connazionali sequestrati dai terroristi islamici.
Ormai l'Italia si contraddistingue come il Paese occidentale che, più di altri, è pronto a cedere al ricatto, sia che si tratti di un riscatto in denaro sia che si tratti di esercitare pressioni per ottenere la scarcerazione di terroristi, pur di aver salva la vita dei propri ostaggi. E il fatto che non siamo gli unici, dato che perfino la Gran Bretagna è scesa a patti con Ahmadinejad per ottenere il rilascio di suoi 15 marinai, non deve farci sentire sollevati, ma all'opposto deve accrescere la comune preoccupazione per la grave deriva etica e politica in cui versa l'Occidente.

Finora l'Italia, per ottenere la liberazione dei nostri talvolta improvvidi connazionali sequestrati, ha pagato dei riscatti sempre più consistenti. Un fiume di denaro che ha visto concordi governo e opposizione nell'autorizzarlo e nel negarlo pubblicamente, in una delle rare e non esaltanti manifestazioni di unità nazionale. Ebbene ciò che ora non consente più di riproporre quest'approccio spregiudicato, è stata la decapitazione dell'autista dell'inviato de la Repubblica Daniele Mastrogiacomo, Sayed Agha, e del suo interprete Adjmal. Due cadaveri di troppo che non è proprio possibile occultare e tacere. Che vengono pianti dalla vedova e dai cinque figlioletti di Sayed e dai familiari di Adjmal. Due vite spezzate in una trama che ruota intorno all'Italia, di natura terroristico-politica, in cui Sayed e Adjmal hanno finito per essere brutalmente immolati come vittime sacrificali. Ecco perché ora l'Italia non può tirarsi indietro.

Credo che l'Italia dovrebbe innanzitutto avere la sensibilità umana e il senso della giustizia necessari per assumersi appieno la propria responsabilità nei confronti delle famiglie di Sayed e di Adjmal, assicurando loro le condizioni materiali per sopravvivere dignitosamente. In secondo luogo, l'Italia dovrebbe formalmente condannare i Taliban, ritirando la incredibile proposta di coinvolgerli nella conferenza di pace per l'Afghanistan. In terzo luogo, l'Italia dovrebbe ufficialmente impegnarsi a non consentire mai più il pagamento di riscatti o cedere in alcun modo alle richieste delle bande terroristico- criminali. Non possiamo essere strenui difensori della legge che in Italia impone il blocco dei beni della famiglia del sequestrato per impedire il pagamento del riscatto, e poi acconsentire che sia lo Stato stesso a pagare con denaro pubblico il riscatto ai terroristi. Infine l'Italia dovrebbe, al più presto, far osservare un minuto di silenzio nei posti di lavoro, nelle scuole, all'inizio delle manifestazioni sportive, in memoria di Sayed e di Adjmal, per testimoniare che per noi il valore della vita è assoluto e universale.

Questo è quanto io immagino gran parte degli italiani vorrebbe che il nostro governo facesse per recuperare la credibilità dello Stato, la cultura dell'interesse nazionale, il primato della civiltà occidentale che non mercanteggia sul diritto alla vita.

10 aprile 2007

 


 

La Stampa  Strada: "Basta con i Ponzio Pilato" GIULIETTO CHIESA

 

Il fondatore di Emergency: sulla liberazione del prigioniero solo tante parole

ROMA
Ho appena sentito Prodi che dice che hanno fatto tutto il possibile. Chiedo: cos’è il possibile? Abbiamo richiamato l’ambasciatore italiano a Kabul? Abbiamo convocato l’ambasciatore afgano a Roma? Abbiamo fatto richiesta formale, scritta, per la immediata liberazione di Hanefi? A me pare di aver sentito Ponzio Pilato rivisitato» Gino Strada è furibondo. «L’accordo formale per la liberazione di Mastrogiacomo era che lo scambio avvenisse attraverso Emergency». Perché Emergency?, interrompo. «Semplicemente perché noi abbiamo gli ospedali e di noi si fidano tutti, che altro? Ed è la prima volta che viene arrestato, da una delle parti, il mediatore che era stato concordato in anticipo. Capisci? Se in passato fosse stato così avremmo in galera tutta la Croce Rossa Internazionale e parecchie decine di funzionari di altre organizzazioni non governative. Qualcuno vuole raccontarci la storia che non ci si può fare niente?» E la preoccupazione cresce di ora in ora. Hanefi è in una prigione di sicurezza in cui Emergency ha una clinica interna. E, per regolamento ogni prigioniero deve essere visitato quando entra. «Ebbene, guarda il paradosso: Hanefi non abbiamo neanche potuto visitarlo». Una brutta storia, anche prima della morte di Adjmal. Ma può uscire qualcosa di bello da una matrioshka piena di fango com’è la guerra afgana? Perché l’Afghanistan, come l’Iraq, è ormai un immondezzaio d’intrighi, e perfino chi ci lavora da anni, contro la guerra, in tutti i sensi, rischia di essere inzaccherato dagli schizzi di una politica – quella italiana nel caso specifico – che vive d’intrallazzi anche quando è in gioco la vita di persone innocenti.

«Lasciali dire, quelli che attaccano Emergency e che gettano fango. Mi piacerebbe che, prima di sputare le loro immonde stupidaggini, rinunciassero pubblicamente alla loro immunità parlamentare. Invece parlano dietro quella protezione. A me, a noi di Emergency, interessa solo che si arrivi a una soluzione ragionevole. Non pretendiamo di essere ringraziati, ma che ci lascino fuori dai loro scontri politici. Io Prodi non l’ho nemmeno votato, figurati. Ho agito perché era giusto agire. E degli altri sciacalli non mi curo». E qual è la soluzione ragionevole? «La liberazione di Rahmatullah e che si possa continuare a lavorare con la necessaria sicurezza. Noi abbiamo attivato tutti i nostri contatti e ci muoviamo anche per altre vie, ma certo è che è difficile lavorare in un paese il cui governo ti è apertamente ostile». Questo è un momento molto delicato. Dopo l’arresto di Hanefi, 13 collaboratori afgani di Emergency si sono licenziati, di cui undici «perché hanno troppa paura». Strada ha convocato a Kabul l’intero staff di Lashkar Gah per discutere sulle prospettive della sicurezza. Si vedrà. Dunque l’ipotesi di abbandonare l’Afghanistan è aperta? Strada non la conferma ma nemmeno la smentisce. «Vedremo», dice dopo una lunga pausa. Ricorda l’episodio del 17 maggio 2001, quando i taliban invasero l’ospedale di Emergency a Kabul. «Noi chiudemmo perché per noi è fondamentale che i governi con cui lavoriamo rispettino i patti. E i talebani non li rispettarono. E ci vollero mesi di trattative – e tu eri con noi, e le hai seguite passo passo – e riaprimmo solo quando ci furono assicurate le condizioni».

Ma ora, con la polemica aperta contro Karzai i margini sono logorati oltre il limite. Difficile dare torto a Gino Strada quando protesta. E’ almeno la seconda volta che un italiano rapito in Afghanistan si salva grazie all’intervento di Emergency. Torsello è vivo perché fu proprio Hanefi a portare i 2 milioni di euro allo scambio. E, come ringraziamento arrivano frecce avvelenate. Cossiga dice che Strada è amico dei taliban e di Al Qaeda. Io, che nel 2000 attraversai con Strada le linee dei taliban, da Kabul alla valle del Panshir , so con quale difficoltà e rischio Gino Strada ha saputo tenere dritta la barra del timone: per poter continuare a salvare esseri umani, da una parte e dall’altra. Perché per questo chirurgo italiano la linea del fuoco è tra la vita e la morte, non stare da una delle parti che infligge la morte all’altra. Il fatto è che non si sa chi guida la danza di morte. Hanefi è formalmente prigioniero di Karzai, ma la questione è quali sono i gradi di libertà di Karzai. Esterni e interni. Di quelli esterni, a stelle e strisce, c’è poco da aggiungere perché basta guardare la sua scorta. E di quelli interni dice qualcosa il nuovo partito di Rabbani, il vecchio capo mujahed, il Fronte Unito nazionale, che sta raccogliendo tutte le opposizioni: tagiche (Qanuni), uzbeke (Dostum), hazarà (Ismail Khan), perfino pashtun (l’ex governatore di Kandahar ed ex comunista, Noor-ul-Haq Ulumi. E, siccome questi non agiscono nel vuoto, si deve immaginare che Ahmid Karzai potrebbe avere qualche problema a restare al potere. C’è chi dice, con sarcasmo, che è sindaco di Kabul, e neanche di tutta. Per cui chi vivrà vedrà. Purtroppo la vita di Rahmatullah è appesa a fili sottili. A meno che, davvero, l’Italia decida di far sentire il suo peso. «Non c’è solo la diplomazia con le sue cortesie formali – aggiunge secco Gino Strada – spendiamo 50 milioni di euro per cambiare la fisionomia del sistema giuridico afghano. E permettiamo che ci straccino sul naso gli accordi stipulati?» Ma, come è difficile capire perché si sta facendo questa guerra, altrettanto lo è sapere da chi dipendono i servizi afghani: «Io non avrei molti dubbi – replica Strada - . Il ministro della sanità di Karzai, Fatimie, ci ha detto, senza troppi giri di parole, che dietro questa vicenda ci sono mani invisibili. Vediamo un po’. Forse c’è la mano del Principato di Monaco o del Liechtestein? Vogliamo dare un’occhiata alle parti interessate? C’è Roma e Kabul, ma ci sono anche inglesi e americani. E quanti di questi sono stati contenti di come erano andate le cose?» Ugo Intini ha detto che «Gino Strada è un uomo esasperato», un po’ meno volgare di Berlusconi che parlò di un «chirurgo confuso».


 

Libero 10-4-2007 Telecom-ica Il governo studia l'esproprio di OSCAR GIANNINO

 

È proprio diventata una Telecomica. Intorno al controllo conteso della compagnia italiana ex monopolista, ogni giorno emergono trovate, indiscrezioni e particolari sempre più estremi e bombatici. Tanto che, scambiando gli auguri di Pasqua con uno dei pochi tifosi a tutta prova del mercato che vi sia in Italia, e che ha per anni tentato di portare il suo verbo nel centrosinistra rimanendo quasi sempre inascoltato, ci siamo proprio detti che il livello delle bufale è tale che meriterebbe una testatina quotidiana di messa in burla: "Telecom-ica", appunto. L'ultima è l'ipotesi che prende sempre più corpo, e della quale ieri hanno parlato fuori dai denti il ministro Antonio Di Pietro e il viceministro Sergio D'Antoni: dicono che il governo guarda con sempre maggior interesse al "modello inglese", e che per questo sta predisponendo un decreto legge. Un decreto legge? Tutti coloro che hanno anche solo una minima idea di che cosa si stia parlando, non possono che fare un salto dalla sedia. Non i lettori di Libero, visto che su queste colonne abbiamo spiegato tante volte già da un anno e mezzo che cosa sia davvero, il "modello inglese", come sia nato e in che consista. C'è il piccolo problema che evidentemente i componenti del governo Prodi non ne hanno invece la minima idea, se sono in buona fede. E se invece è la malafede è guidarli, allora usano lo scudo della soluzione inglese per tentare di spacciare tutt'altra cosa. Cerchiamo - per l'ennesima volta - di spiegare che cosa sia e che cosa "non" sia, la soluzione data nel Regno Unito al problema rappresentato non dalla presunta - e del tutto fantascientifica - "strategicità nazionale" della rete fissa dell'ex monopolista, bensì invece alla questione della necessità di garantire pieno accesso alla rete a tutti i concorrenti dell'ex monopolista stesso, non titolari di rete propria ma gestori sul mercato di servizi che attraverso la rete devono passare a parità universale di condizioni, e che come attori del mercato sono naturalmente co-interessati a una rete sulla quale investimenti adeguati consentano sempre più e sempre meglio di offrire servizi di generazione avanzata, a banda larga, vasta capienza e alta velocità. Cos'è lo scorporo Tutti i ministri - ma anche molti giornalisti di testate confindustriali - che parlano a proposito del modello inglese di "scorporo" della rete fissa, semplicemente mentono o sono dei somari. Lo "scorporo", nel diritto societario italiano - perdonate il tono ma visto che parliamo della quinta società quotata italiana è a tali norme che bisogna tutti si rifacciano, senza coniare pericolosi e scivolosi neologismi - è una precisa modalità di separazione di un'attività rispetto a un'altra, che continua a essere gestita direttamente. Vi si può ricorrere per esempio per conferire agli azionisti la propria quota parte di un'attività separata che prima era inglobata in una controllata, ed era per questo meno valorizzata dal mercato. In nessun modo e in nessun caso Openreach - la rete fissa di British Telecom - ha costituito uno scorporo della rete fissa dalla società madre. Openreach è semplicemente una divisione funzionale di BT, che continua ad averne piena proprietà e a registrarne nelle quotazioni del proprio titolo il valore scontato dal mercato. Alla costituzione di Openreach, alla definizione delle condizioni che su di essa BT deve offrire alle sue concorrenti, dei parametri di redditività che tali condizioni garantiscono a BT, e alle modalità di indicazione dei suoi stessi manager, non ci si è affatto arrivati attraverso uno strumento di legge, varato dal governo Blair e approvato dal Parlamento britannico. Neanche per idea: per il semplice - ma decisivo - fatto che Openreach nasce grazie a un'intesa alla quale si è reso del tutto disponibile un privato, BT appunto, definendone le modalità attraverso ben 14 mesi di intensa trattativa con Ofcom, l'autorità di settore che nel Regno Unito vigila sulle telecomunicazioni. Il torto dell'Agcom italiana guidata da Corrado Calabrò è stato di risolversi a interessarsi per davvero del modello inglese solo quando la stima reverenziale per la Telecom di Tronchetti si era ormai dissolta sui media italiani, alla fine dell'anno scorso. Col risultato che i primi contatti veri tra Telecom e l'Agcom per una Openreach "italiana" sono iniziati solo con la nuova gestione di Guido Rossi, oggi già finita nella polvere. Il che significa che bisognerebbe aspettare nella migliore delle ipotesi sino a fine anno, per veder definita almeno una bozza tecnica delle mille delicate problematiche che sono connesse alla questione, visto che la Telecom tronchettiana è impregnata di una cultura molto combattiva sia verso il regolatore - imputato di aver sabotato i nuovi prodotti che l'azienda voleva lanciare una volta deliberata la convergenza fisso-mobile - sia verso la concorrenza, regolarmente citata in tribunale quando non spiata illecitamente attraverso dossieraggi. Chiarito questo, è ovvio che un governo che intervenisse sulla rete Telecom per decreto legge o per disegno di legge, non volgerebbe affatto il proprio sguardo al modello britannico. Bensì a quello sovietico, o, se preferite, a quello del bolivarismo sudamericano alla Chavez e Morales. Sarebbe una violazione patente e clamorosa della proprietà privata, effettuata proprio dallo stesso premier che nel 1997 deliberò la privatizzazione di Telecom a vantaggio del nocciolino duro in cui la Fiat esprimeva il management della compagnia esattamente con lo stesso 0,6% del capitale detenuto da Tronchetti oggi, al netto delle scatole cinesi. A dire il vero, di bestialità se ne vedono comunque molte, e questa non è l'unica. Sempre il ministro Di Pietro, per esempio, ha parlato di un provvedimento che abroghi la legge Draghi in materia di diritto societario, e stabilisca che solo chi ha il 75% delle azioni di una società quotata possa esprimervi il 75% del management. Chissà, con tale concezione da età della pietra del controllo d'impresa probabilmente il ministro imporrebbe anche il voto obbligato per legge nelle assemblee agli azionisti. Come una volta era il voto politico per gli elettori. Visto che il ministro confonde la legge elettorale proporzionale con i tetti previsti per esprimere il controllo di una società e lanciarvi un'Opa, rispetto a quelli sufficienti per nominarne i manager, oppure a quelli con cui ci si può opporre a delibere straordinarie in assemblea. Le due strade O ancora: prestigiose firme hanno tirato in ballo nei giorni scorsi del tutto a sproposito il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, sostenendo che nel 1999 egli - direttore generale del Tesoro - chiese al premier D'Alema una lettera scritta per non costituirsi in assemblea e non votare per Bernabè, che voleva conferire Telecom ai tedeschi "di Stato" di Deutsche Telekom - nel frattempo assai più scassati del nostro ex monopolista. Tale lettera venne chiesta perché Draghi diffidava delle scatole cinesi di Colaninno, scrivono oggi i giornali confindustriali. E il governatore della banca d'Italia freme in silenzio di sdegno: per il semplice fatto che quella lettera la chiese perché la legge sulle privatizzazioni al Tesoro affidava solo poteri in ordine alla redditività finanziaria delle partecipate, mentre lì si trattava di una decisione straordinaria. Era dunque una procedura obbligata per legge, non una valutazione - che a lui n on competeva - sugli eventuali compratori alternativi alla gestione Bernabè. Potrei continuare a lungo: vi sono grandi giornali che per invogliare il governo paragonano i 5 miliardi che costerebbe all'offerta Tex-Mex il rilevare Olimpia, ai ben 12 miliardi di produzione di cassa da parte di Telecom ogni anno: che è come usare delle mele per dire che le pesche sono buone. Ma mi fermo qui: sottolineando però che è evidente che San-Intesa punta molto, sullo scivolone espropriatore bolivarista da parte del governo. Dopo un tale colpo di scena, la disponibilità di San-Intesa ad affiancarsi ad América Mòvil e AT&T vedrebbe la prima sempre interessata a Tim Brasil, la seconda - una volta effettuato lo scippo per decreto della rete fissa di Telecom - assai più incerta, e forse pronta a tirarsi indietro. Mediobanca, Generali e Capitalia continuano a seguire un'altra strada. A oggi continua a sembrare a molti più interessante. Ma verrebbe devastata da un intervento del governo. Che, tanto per cambiare, sembra proprio tifare ancora una volta a favore della propria banca amica. Salvo per uso personale è vietato qualunque tipo di riproduzione delle notizie senza autorizzazione.

 

 


 

Il Corriere della Sera 10-4-2007  I medici e i fannulloni . Pietro Ichino

 

Quando i certificati diventano troppo facili

Milioni di giornate di malattia di nullafacenti sani come pesci, certificate da medici irresponsabili       STRUMENTI

Nei giorni scorsi gli Ordini dei medici hanno protestato contro l'accenno, contenuto nel mio ultimo articolo, alla loro inerzia di fronte ai milioni di giornate di malattia di nullafacenti sani come pesci, certificate da medici irresponsabili. «Non è compito nostro controllare le certificazioni», obiettano gli Ordini. E poi: «Il medico curante non può che fidarsi di quel che gli dice il paziente». In qualche caso è vero: di fronte a una crisi improvvisa di emicrania o di lombalgia anche il medico curante ha scarse possibilità di verifica. Ma in moltissimi casi la mala fede del medico è evidentissima. Uno di questi, il più clamoroso per dimensioni, è quello degli 800 certificati di un giorno di malattia rilasciati a Fiumicino il 2 giugno 2003 ad altrettanti assistenti di volo dell'Alitalia, che intendevano così bloccare i voli senza preavviso, nel corso di una vertenza sindacale.

«Strafottente "sciopero sanitario" di hostess e steward», lo definì Michele Serra sulla Repubblica; «malcostume sindacale e dei medici» titolò il Corriere in prima pagina. Ma l'Ordine non mosse un dito. Assistiamo tutti i giorni a casi in cui la mala fede del medico curante è altrettanto evidente; e, anche quando questi vengono denunciati, l'Ordine chiude entrambi gli occhi. È, per esempio, il caso del medico di una Asl friulana che, il 5 febbraio 2004, «certifica» una prognosi di 20 giorni per un'impiegata bancaria, indicando che essa è - quel giorno stesso - reperibile a Santa Fe in Argentina, pur essendo l'assenza imputabile soltanto a un «trattamento fisioterapico per artrosi post-traumatica della caviglia»; il 24 giugno successivo identica certificazione, con paziente reperibile sul Mar Morto; per l'Ordine e la Asl, cui la cosa viene denunciata, la certificazione è «professionalmente corretta e contrattualmente ineccepibile».

L'Ordine non ha mosso un dito neppure nel caso del professor M. di un liceo di Milano, denunciato dal Corriere il 16 ottobre scorso, che da anni per centinaia di volte si è fatto certificare infermo regolarmente nelle giornate di lunedì, di venerdì, o di ponte tra due festività, e sempre al paesello natale in Sicilia; o nel caso del sig. A. di Parma, cui il medico certifica per tre volte di seguito 30 giorni di lombosciatalgia, senza disporre alcun accertamento diagnostico, né tanto meno alcuna terapia; o nel caso del sig. D. di Roma, che il giorno stesso in cui gli viene comunicato il trasferimento a un ufficio a lui sgradito è colto da «depressione del tono dell'umore», per la quale il medico di famiglia arriva a prescrivere complessivamente sei mesi di astensione dal lavoro, ma non una visita specialistica, e neppure alcuna cura appropriata.

Né gli Ordini hanno mai preso alcuna iniziativa di fronte al fenomeno delle certificazioni puntualmente rilasciate ogni anno a comando da migliaia di medici ad altrettanti membri esterni delle commissioni per gli esami di maturità, per consentire loro di sottrarsi alla chiamata. Certo, questo potere di autorizzare chiunque a «mettersi in malattia» può essere gratificante per un medico di scarsa levatura professionale; mentre, al contrario, rifiutare un certificato di comodo può costargli la perdita di un paziente. Ma ci sono anche molti medici seri che al proprio interesse antepongono il dovere. E comunque la compiacente certificazione a comando costituisce una grave violazione del codice deontologico, il quale imporrebbe al medico, quando egli attesta un'infermità, di farlo con «formulazione di giudizi obiettivi e scientificamente corretti» (art. 24). Il fatto che, di fronte a una violazione così platealmente diffusa e culturalmente radicata, sia addirittura il presidente della Federazione Nazionale degli Ordini dei medici a giustificare l'inerzia di questi organismi (Corriere del 23 marzo, p. 53) la dice lunga sulla questione se essi siano davvero posti a garanzia dell'interesse della collettività, o non agiscano invece di fatto come una sorta di sindacato nazionale obbligatorio di categoria. Va anche detto che a questa vera e propria frode istituzionalizzata concorre il sistema dei controlli sulle malattie dei lavoratori.

Basti osservare in proposito che nei moduli sui quali i medici dei servizi ispettivi dell'Inps e delle Asl redigono i referti delle loro visite domiciliari non è neppure contemplato l'accertamento dell'inesistenza dell'impedimento: il peggio che può accadere al falso malato è di essere dichiarato idoneo a riprendere il servizio il giorno successivo a quello della visita ispettiva (salva «ricaduta» la sera stessa della visita, che il medico curante può sempre tornare a certificare). Né i magistrati penali e del lavoro brillano per reattività di fronte al fenomeno: quante sentenze pilatesche si leggono quotidianamente, nelle quali il giudice chiude entrambi gli occhi di fronte a incongruenze evidentissime tra la diagnosi «certificata» e il difetto degli accertamenti necessari o delle terapie appropriate, oppure di fronte a circostanze che escludono l'impedimento al lavoro.

Fra le molte tare che riducono la capacità di competere del nostro Paese c'è anche questa; per valutare quanto essa ci costi, basti confrontare i tassi di assenteismo delle nostre aziende e amministrazioni pubbliche con quelli dei nostri partner europei. Sull'Unità del 1˚ aprile Furio Colombo mi rimproverava di tuonare contro i nullafacenti senza considerare che le retribuzioni italiane sono tra le più basse in Europa, addirittura la metà di quelle britanniche; ma a deprimere le nostre retribuzioni sono anche gli enormi sprechi e lassismi come questo: i tassi di assenteismo britannici sono la metà dei nostri. Tutti devono fare la loro parte per correggere questa stortura: il governo, le imprese, i lavoratori, i sindacati, i giudici, i medici. E, ovviamente, anche chi è preposto al controllo dell'operato di questi ultimi.

 

10 aprile 2007

 


 

Il Riformista 10-4-2007 La fiducia fa la felicità

In cima alla classifica troviamo quelli con una grande fiducia nel prossimo, un alto reddito e un grado elevato di formazione. Che vivono in un ambiente poco corrotto, dove il fenomeno del lavoro nero è raro, esattamente come la disoccupazione. E che sono calati in un contesto di mercato libero, con una bassa protezione sul lavoro, un alto grado di reimpiego degli anziani e tanti bambini. È la hit parade dei cittadini delle economie più felici del mondo stilata dalla Deutsche Bank. E non meraviglia, visto l’identikit dei più soddisfatti, che in fondo figurino gli italiani, assieme a greci e portoghesi. Ma a sorpresa anche i tedeschi occupano una posizione piuttosto arretrata. Vivono, secondo il rapporto, in «una variante poco felice del capitalismo», ad esempio per colpa dell’alto tasso di disoccupazione. Noi invece, siccome non ne azzecchiamo neanche una, siamo classificati tout court come versione «infelice» dell’economia di mercato.
Lo studio analizza ventidue dei paesi più ricchi al mondo e quattro varianti del capitalismo. Risultato: paesi come l’Australia, la Svizzera, gli Stati Uniti ma anche gli immancabili Svezia e Norvegia e Paesi Bassi ne rappresentano esempi felici. Hanno cioè «organizzato la società e le istituzioni in modo tale da creare condizioni favorevoli alla soddisfazione delle persone». Due gradini sotto, all’ultimo posto, dicevamo, tra gli esempi della «versione infelice» figura anche il Belpaese, perché è tra quelli «che non sono riusciti a portare avanti condizioni importanti per la felicità delle persone».
Ovviamente uno dei segreti dei paesi più felici, scrive la Deutsche Bank, è che si pongono «intensamente» il problema del benessere dei propri cittadini. Basti pensare che la Gran Bretagna (che è nel gruppo di testa) si è posta sin dal 1999 il programma “A better quality of life” come obiettivo politico. Tony Blair spiegò già allora che ricchezza e progresso non andavano più considerati sinonimi, anzi. Infatti, lo studio ricorda che è un dato ormai assodato che «il reddito mostra nel confronto internazionale una scarsa correlazione con la soddisfazione personale delle persone». Piuttosto, per capire se i cittadini sono felici, bisogna tenere in altissima considerazione i rapporti con gli altri. La fiducia nel prossimo «è un metro affidabile di giudizio per misurare la stabilità dei rapporti sociali di un paese» e contribuisce in modo «importante» alla felicità delle persone. Al contrario, siccome la corruzione «è il sintomo del cattivo funzionamento delle istituzioni politiche e sociali», trascina i paesi che ne sono afflitti in fondo alla classifica.
Salta poi agli occhi il fatto che i risultati prescindano totalmente dal tipo di capitalismo che i paesi analizzati rappresentano. In cima alla lista troviamo ad esempio due paesi opposti dal punto di vista dell’organizzazione del welfare o del fisco come Stati Uniti e Svezia. Quindi, «non esiste un sistema economico ottimale» per garantire un alto grado di felicità ai cittadini. Infine, perché questo studio? Semplice: «alla lunga i paesi più felici sono anche quelli che hanno più successo, al livello economico».

 

 


 

 

L’Unità 10-4-2007Armi: l’Italia fa boom. Più 61 % nel 2006

 

Un incremento delle esportazioni del 61,12%, oltre un miliardo di euro in più in un solo anno: è questa la cifra record registrata dall’industria delle armi del Belpaese nel 2006 secondo il rapporto annuale inviato al Parlamento dalla presidenza del Consiglio. Il primo dell’era Prodi che sarà discusso in aula. Il quadro che ne viene fuori è quello di un’industria che sembra non conoscere crisi e intoppi e che fa fare affari anche alle banche italiane che, sempre nel 2006, si sono viste autorizzate operazioni di incassi relativi al solo export di armi per quasi 1,5 miliardi di euro con relativi “compensi di intermediazione” per oltre 32,6 milioni di euro.
Tra le cosiddette
“banche armate” in testa troviamo ancora il gruppo San Paolo Imi e Bnp Paribas. Nel 2006 sui conti dell'istituto torinese sono transitati ben 446 milioni di euro frutto di transazioni internazionali per la compravendita di armi. L'anno precedente erano 164 milioni. Anche Bnp-Paribas supera la quota massima dello scorso anno, attestandosi sui 290 milioni di euro. Questi due istituti coprono da soli praticamente la metà delle transazioni dovute a esportazioni definitive. A seguire vengono Unicredit (in flessione del 15%), la Banca nazionale del lavoro (+33%), Deutsche Bank (-14%), Banco di Brescia (con uno sbalorditivo +95%) e Commerz Bank (in crescita dell'85%).
Passando ai Paesi che beneficiano di tanto rifornimento bellico, troviamo al primo posto come destinatari dell’export nostrano gli Stati Uniti che oltre alla flotta di elicotteri presidenziali dell'Agusta acquistano dall'Italia armamenti di vario genere per un totale di oltre 349,6 milioni di euro. Seguiti a ruota da un Paese che nei rapporti di Human Right Watch si distingue per «vessazioni nei confronti delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani»: gli Emirati Arabi Uniti ai quali il Governo ha autorizzato la vendita di bombe, siluri, razzi, missili ed accessori oltre che di navi da guerra e quant’altro per oltre 338,2 milioni di euro.
Da sottolineare inoltre che, anche se la destinazione principale delle autorizzazioni rilasciate riguardano i Paesi dell'Ue e della Nato (63,7%), nel 2006 le esportazioni effettuate per l'area extra Ue-Nato sono salite ad oltre il 44,2% e più del 20,2% dei sistemi d'arma finisce in una delle zone più calde del pianeta, il Medio Oriente e l'Africa settentrionale al quale sono destinate armi per un valore complessivo di 442,8 milioni di euro. Per non parlare della Nigeria che riceve armi per 74,4 milioni di euro o del microscopico Oman che si vede autorizzate importazioni di armi dall'Italia per oltre 78,6 milioni di euro.

 


 

Il Piccolo di Trieste 10-4-2007 Gorizia Il costo della politica e i bisogni della gente. Adriano Tremuli.

 

l La campagna sconti sui farmaci che con tanta enfasi è stata applaudita non ha certamente risolto il problema della salute. Il significato dello sconto ha fatto credere, a molte persone, che il farmaco possa essere inteso come uno dei tanti prodotti, di consumo, che si acquistano per propria personale soddisfazione, inoltre la scontistica, ha toccato solo alcuni articoli da banco permettendo a chi dispone di un buon reddito di procurarseli con più facilità. Chi invece deve fare i conti con i pochi soldi, di una normale pensione o di un lavoro poco retribuito o precario, è costretto a sopportare costi non da poco per potersi curare. Con queste considerazioni mi permetto di osservare che la funzione delle farmacie comunali in primis e delle farmacie, in generale, hanno un compito ben più importante. Non sono e non devono essere dei semplici distributori di prodotti, esse sono parte integrante del sistema sanitario regionale e nazionale. Compito della politica, dunque, è gestire questo "mercato" della salute, un mercato dove le grandi aziende farmaceutiche la fanno da padrone ed è compito dei politici locali fare in modo che i nostri cittadini possano vivere dignitosamente, anche nei momenti di difficoltà e di malattia. Non possiamo restare indifferenti davanti allo spreco del denaro pubblico, dall'esuberante costo della politica e delle amministrazioni e poi chiudere gli occhi sui "reali problemi" della gente. Giancarlo Karlovini Gorizia Un azzardo attraversare le strade della città lSono rimasto molto sorpreso quando ho appreso che il Comune di Gorizia avrebbe utilizzato delle "intercettazioni" semaforiche (pari a quelle telefoniche e ambientali, previste per determinati reati) per scoprire i colpevoli dell'attraversamento delle strisce orizzontali trasversali in presenza della luce semaforica rossa. Non credevo in un'evidente utilità di una misura così invasiva dei diritti degli utenti della strada e, al contempo, non immaginavo che il numero di incidenti conseguenti a tale violazione fosse così elevato da richiedere l'utilizzo di tali strumenti. La sorpresa è poi aumentata quando, leggendo il contratto stipulato tra la Polizia municipale di Gorizia e la società Ci.Ti.Esse. di Busto Arsizio, ho scoperto che l'accordo, oltre ad avere una durata prevista fino al 31.12.2007 ed essere qualificato come comodato dietro pagamento di un corrispettivo (a differenza di quanto prevede l'art. 1803, secondo comma, codice civile, che qualifica il comodato come contratto gratuito), prevede il pagamento di un corrispettivo di euro 29,10 per "ogni singola infrazione validamente documentata". Quindi, per esere chiari, il Comune si è impegnato a pagare la Ci.Ti.Esse sulla base delle contestazioni documentate e non sulla base dei pagamenti ricevuti. Il senso di stupore e di fastidio suscitato da tale vicenda è stato però subito scalzato da un sentimento di insoddisfazione e di frustrazione. La solerzia dell'amministrazione comunale, infatti, dimostrata nel rintracciare e perseguire i trasgressori è stata degnamente bilanciata da un assoluto immobilismo su altre questioni ben più importanti riguardanti la sicurezza. Nulla è stato fatto per rendere più sicuri gli attraversamenti pedonali in alcune zone della città: mi riferisco, ad esempio, alla zona del Parco della Rimembranza ove, in prossimità con via Buonarroti, l'attraversamento da un lato all'altro di Corso Italia è da considerarsi un azzardo per la propria incolumità. Parimenti l'incrocio tra le vie Meontesanto, via Palladio e via Mighetti non è certo il luogo più sicuro per il transito dei veicoli e dei pedoni. Discorso analogo merita essere fatto per l'accessibilità delle strade cittadine da parte dei portatori di handicap e delle famiglie con carrozzine con bambini: basta allontanarsi dai controviali di corso Italia per ritrovarsi in un percorso a ostacoli, difficilmente superabili. La città di Gorizia non ha bisogno di un Grande Fratello, ma solo di un po' di buon senso e di avveduti amministratori. Dario Obizzi Gorizia A Grado si respira aria di ripresa l Grado si è presentata, grazie anche alle ottime condizioni atmosferiche, all'appuntamento pasquale con l'avvio della stagione turistica 2007 nel migliore dei modi. Da tempo assente dall'Isola, complice un po' anche il fastidio per le lunghe polemiche e i non pochi piagnisei sulle sorti dell'economia locale, ho scelto di trascorrervi la giornata di Pasqua per il tradizionale pranzo a base di pesce e la ancor più tradizionale passeggiata all'aria aperta lungo la diga e in centro storico. Ebbene, devo dire che sono rimasto più che piacevolmente sorpreso da vari fattori che contribuiscono a dare di Grado un volto ancora più fresco, bello e accogliente. Il rifacimento delle strade e dei viali, assieme a un gradevole arredo urbano, ha fatto sì che il "salotto" di Grado si presenti finalmente all'altezza del suo glorioso passato. La città si è proposta in modo molto pulito. La terrazza a mare e la diga sono un luogo davvero piacevole da dove è possibile, senza alcun ostacolo visivo, ammirare le mille sfumature di luce della laguna e del suo cielo. E poi i tanti locali, bar e ristoranti. Ho notato un ringiovanimento nello stile e negli arredi. Ma soprattutto molta più gentilezza e cordialità rispetto al passato. Così mi è capitato di essere servito con molta simpatia dal nuovo gestore del caffè-piano bar del mitico hotel Fonzari mentre sono stato accolto con un cordiale "Buona Pasqua" al ristorante-bar di fronte alla spiaggia Costa Azzurra, anche questa tenuta molto bene e finalmente comodamente raggiugibile grazie al prolungamento della passeggiata lungo la diga. Luca Normanni Abbazia onora Otto d'Asburgo l Alla fine di aprile le autorità di Abbazia della cittadina croata conferiranno la cittadinanza onoraria a s.a.i. Otto d'Asburgo. Finalmente gli eredi di Jelacic, Sarkotic e Boroevic hanno capito che gli Asburgo avevano fatto cose molto buone per quanto riguarda Abbazia, prima del 1918 veniva spesso scelta dalla famiglia imperiale per le vacanze estive e le belle ville e gli alberghi presenti sono una vera testimonianza in quella che viene definita la "perla del Quarnero". Mi rivolgo ora al sindaco Dipiazza perché prenda in considerazione la possibilità che il Comune di Trieste segua l'esempio non solo di Abbazia, ma anche di città dell'Isontino, del Veneto e del Sud Tirolo, dando la cittadinanza onoraria all'erede del trono d'Austria. Ricordo che Otto d'Asburgo quest'anno compirà 95 anni e sarebbe un vero peccato perdere un'occasione per riconciliarsi con il nostro passato consegnando all'anziano arciduca il sigillo trecentesco. Abbazia l'ha capito, Trieste no.

 


 

Il Giornale di Vicenza Sono quattro le aree di evasione Dal secondo lavoro alle società di capitali Così 310 miliardi sfuggono al fisco

 

Mestre. Di fronte ad un imponibile evaso di oltre 310 miliardi di euro, le imposte sottratte al fisco oscillano tra i 125 e i 150 miliardi di euro l'anno. Quattro le grandi aree individuate dalla Confartigianato di Mestre: l'economia sommersa, l'economia illegale, le grandi e le piccole aziende. Secondo una stima della Cgia di Mestre, l'imponibile evaso in Italia è di oltre 310 miliardi di euro l'anno. In termini di imposte (dirette, indirette e contributive) sottratte alle casse del fisco italiano siamo, sempre secondo l'ufficio studi mestrino, nell'ordine dei 125/130 miliardi di euro. Dall'analisi effettuata dagli artigiani mestrini si è cercato, tra grandi difficoltà, di mappare questo fenomeno individuando quattro grandi aree di evasione/elusione fiscale presenti nel nostro Paese: l'economia sommersa; l'economia illegale; l'elusione fiscale delle grandi imprese e l'evasione fiscale dei lavoratori autonomi e delle piccole imprese. Vediamo nel dettaglio queste quattro aree. -La prima è la più diffusa e riguarda l'economia sommersa che, secondo l'Istat, sottrae al fisco italiano circa 200 miliardi di euro l'anno. In questo ambito si segnala il comportamento sleale di molte imprese (che sottodimensionano il fatturato o sovrastimano i costi di produzione) e quello dei lavoratori in nero, composto da oltre 3 milioni di unità di lavoro standard. Di questi 2,6 milioni sono lavoratori dipendenti che fanno il secondo o il terzo lavoro. Da queste cifre, sottolineano dalla Cgia, sono esclusi decine e decine di migliaia di pensionati e disoccupati che svolgono attività "sommerse" per arrotondare le loro magre entrate economiche. -La seconda è l'economia illegale compiuta in buona parte dalle grandi organizzazioni criminali che, in almeno tre regioni del Sud, controllano buona parte dell'economia di quei territori. Secondo l'analisi il giro di affari non "contabilizzati" si attesta sui 100 miliardi di euro l'anno. -La terza area è quella composta dalle grandi società di capitali. Secondo i dati del ministero dell'Economia e delle Finanze, il 50 per cento delle grandi società di capitali italiane dichiara per più anni redditi negativi o pari a zero e un altro 17 per cento dichiara meno di 10 mila euro. In pratica, su un totale di quasi 770 mila società di capitali il 50 per cento non versa un euro al fisco italiano, almeno per quanto riguarda le imposte sul reddito. Si stima un'evasione/elusione fiscale attorno ai 7 miliardi di euro. -Infine, c'è l'evasione fiscale dei lavoratori autonomi conosciuti al fisco a causa della mancata emissione di scontrini, ricevute e fatture fiscali che sottrae all'erario circa 4 miliardi di euro l'anno. "Questi grandi capitoli che abbiamo individuato - sottolinea Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre - sono in buona parte sovrapponibili e i responsabili negativi di questo grave problema li ritroviamo presenti in tutti e quattro le aree. Sia chiaro, gli oltre 310 miliardi di imponibile evaso altro non sono che una stima e non potrebbe essere diversamente, vista la difficoltà denunciata anche dalle istituzioni statistiche ufficiali a dimensionare questo fenomeno. Non solo. Ma in questa elaborazione, a differenza di quanto fa correttamente l'Istat, abbiamo cercato di mappare gli effetti evasivi dell'economia criminale presente, in modo particolare, in molta aree del Sud del nostro Paese".

 


INDICE 6-4-2007

 

+ Il Giornale 6-4-2007 «Dannose le scatole cinesi, non At&t»

+ Il Corriere della Sera 6-4-2007 Usa: sei bravo? Ora ti licenzio. Addio ai dipendenti più produttivi, ma che guadagnano di più. La ricetta pericolosa del capitalismo americano: il caso dei licenziamenti nella catena di negozi Circuit City           

+ La Repubblica 6-4-2007 Le regole per il genio del futuro così si misura chi potrà vincere di FRANCESCA CAFERRI

La Repubblica 6-4-2007 Rossi: "La mia verità su Telecom Tronchetti mi ha eliminato" di FEDERICO RAMPINI. Intervista al presidente: "Un mercato da Chicago negli anni '20. Non mi presento all'assemblea del 16". Passera, appello alle banche. 1

La Stampa 6-4-2007 Passera chiama le altre banche. L’ad di Intesa Sanpaolo: «Soluzione possibile». In Borsa passa un altro 4% del capitale. Francesco Spini 3

Il Giornale di Brescia 6-4-2007 IN PRIMO PIANO Le banche al centro della scena  4

Finanza e Mercati 6-4-2007 Draghi vuole banche a prova di catastrofe  5

Borsa e finanza 6-4-2007 FONDI & RISPARMIO La consulenza prende il largo E si paga solo se batte gli indici Cresce l'advisory. Il 20% delle gestioni Xelion usa il servizio. Copernico richiede la parcella se supera il bechmark, mentre Generali parte con 30 consulenti di Anna Messia  5

Il Giornale 6-4-2007 Insider trading: la Consob "firma" la prima condanna. Di Rodolfo Parietti 6

Milano Finanza 6-4-2007 Qui serve uno sceriffo Sulla carta sono molti gli organi che vigilano su compagnie e sgr per evitare che il gestore scappi con la cassa o sia troppo spericolato. Ma funzioneranno? Carlo Giuro. 7

Il Sole 24 Ore 5-4-2007 L'Antitrust boccia Vodafone sull'operatore virtuale, il procedimento continua. Al.An. 8

 


+ Il Giornale 6-4-2007 «Dannose le scatole cinesi, non At&t»

da Roma

Enrico Morando, presidente diessino della commissione Bilancio del Senato, non condivide la preoccupazione espressa da altri esponenti del suo partito per l’ingresso dell’At&t e di America Movil in Olimpia; e, quindi, in Telecom.
«E perché dovrei essere preoccupato? In fin dei conti ci troviamo davanti ad un’operazione analoga a quella che portò Tronchetti a controllare Telecom. All’epoca nessuno si pose il problema di come Pirelli, attraverso lo strumento delle scatole cinesi, arrivò a controllare Telecom, senza ricorrere a un’Opa. E chi di “non Opa ferisce...”».
Prego, finisca la frase...
«Insomma, qui si finisce di dimenticare che la grande anomalia italiana è data da quell’originale eufemismo che è il “capitalismo di relazione”. Le società vengono controllate da patti di sindacato. Ne consegue che non c’è alcuna tutela degli azionisti di minoranza. Basta scalare una scatola cinese e il gioco è fatto. Tutto il contrario della trasparenza garantita dal meccanismo delle Opa: meccanismo che tutela tutti, azionisti di maggioranza; ma soprattutto di minoranza».
Paradosso per paradosso, anche l’operazione At&t è figlia di questo «capitalismo di relazione». Nella maggioranza e nell’opposizione si lamenta che, in questo modo, verrebbe meno l’italianità dell’azienda...
«Ma quale italianità! L’italianità di un’azienda non è un valore da difendere in sé. L’operazione presenta le stesse lacune che portarono Tronchetti al controllo di Telecom. Qui non si parla di chi controlla, ma di come arriva al controllo di un’azienda. È questo il problema che abbiamo davanti. Eppoi, fino a un po’ di anni fa, la nostra era un’economia domestica, locale. Le nostre imprese non erano aperte all’esterno. Ora, invece, ci siamo aperti. E non è un caso che arrivino gli americani e i messicani. Arrivano perché le nostre imprese sono gestite da questo meccanismo delle scatole cinesi. Un meccanismo che manifesta l’estrema debolezza del nostro capitalismo, e i colossi internazionali ne approfittano. Si parla tanto della rete Telecom e di una sua separazione sul modello inglese. Ma se in Gran Bretagna si racconta che le aziende sono controllate con i Patti di sindacato, chiamano il 118».

A dir la verità c’erano, e forse ci sono ancora, anche gruppi finanziari italiani interessati a sfruttare quella che lei definisce la debolezza del nostro capitalismo, le scatole cinesi.
«Certo che ci sono banche e istituti finanziari pronti a sfruttare la situazione. E quello delle banche è un caso paradossale. Nel patto di sindacato di Telecom ci sono alcune banche che, oggi, potrebbero far parte di cordate destinate ad acquistare le azioni di Olimpia. Cioè della scatola cinese che controlla Telecom. Insomma, sono nella doppia posizione di acquirenti e venditori. Quale ruolo adotteranno?».
Crede che l’At&t sia stata affiancata dall’amministrazione americana nell’operazione Telecom?
«Non so se l’At&t sia stata affiancata dall’amministrazione Usa nell’operazione Telecom. Comunque, non me ne stupirei. Credo sia naturale che un governo affianchi una propria impresa impegnata in una grande acquisizione internazionale. Penso che formule di affiancamento ci siano state anche da parte del nostro governo nei confronti dell’Enel e dell’Eni in Russia. E ritengo che l’operazione dell’Enel in Spagna non sia stata proprio indifferente a Prodi. Quindi, perché scandalizzarsi se l’amministrazione Usa ha affiancato, o affianca, l’At&t?».


+ Il Corriere della Sera 6-4-2007 Usa: sei bravo? Ora ti licenzio. Addio ai dipendenti più produttivi, ma che guadagnano di più

La ricetta pericolosa del capitalismo americano: il caso dei licenziamenti nella catena di negozi Circuit City           

STRUMENTI

L e ristrutturazioni imposte dalla crisi dell'auto Usa stanno facendo scomparire 70 mila posti di lavoro nell'area di Detroit. L'era della fotografia digitale costringe la Kodak a tagliare 30 mila addetti. Altri 10 mila posti svaniscono alla Pfizer (farmaci), mente Citibank annuncia 15 mila esuberi. Eppure da diversi giorni a catturare l'attenzione dei giornali americani è un'altra vicenda, apparentemente minore: quella di Circuit City — una catena di negozi di elettronica — che ha deciso di liberarsi di 3400 dipendenti, l'8% della sua forza lavoro. O meglio: la società ha deciso di licenziare i dipendenti più esperti e meglio pagati per riassumerne altri, magari meno preparati, che riceveranno un salario molto più basso. È proprio questo che fa discutere: per la prima volta una società dice chiaramente che non licenzia perché deve ridimensionare gli organici o perché non è soddisfatta dei suoi dipendenti. Anzi, licenzia proprio quelli che rendono di più ma che, avendo ricevuto aumenti retributivi per merito o anzianità, sono diventati troppo costosi.

Se ci si limita a guardare ai numeri del mercato, l'operazione una sua logica ce l'ha. Nell'economia moderna il potere si sposta sempre più dai produttori ai consumatori: il rapido calo dei prezzi delle tv a schermo piatto è benvenuto dalle famiglie americane, ma sta drasticamente riducendo i margini dei distributori per i quali la flat tv era il prodotto più redditizio. Best Buy, la catena concorrente di Circuit City, ha reagito meglio all'erosione dei profitti. Circuit City si è invece ritrovata coi conti in rosso: tagliando gli stipendi più elevati, conta di recuperare 100 milioni di dollari e di tornare in utile. Wall Street è d'accordo e ha premiato il titolo della società dopo l'annuncio dei licenziamenti. E vari economisti sottolineano come proprio questa estrema libertà di licenziare spinga poi le imprese americane anche ad assumere con grande facilità. Tanto che, anche in un periodo di profonde ristrutturazioni, la disoccupazione Usa rimane a livelli bassissimi: il 4,5%. In parte è vero, ma il meccanismo messo in moto da Circuit City rappresenta oggi soprattutto una minaccia per la stabilità del capitalismo americano nel quale in genere è il datore di lavoro a fornire al dipendente pensione e assistenza sanitaria. E che già soffre del «tarlo» della polarizzazione dei redditi, con lo schiacciamento dei ceti che un tempo vivevano in un'agiatezza da classe media. Fenomeni che erodono il consenso sociale e che in genere vengono considerati un effetto della globalizzazione: aziende, soprattutto manifatturiere, obbligate a tagliare occupati e stipendi per poter competere con i Paesi emergenti.

Invece Circuit City non è un'azienda manifatturiera ma di servizi e il suo concorrente non sta in Asia, ma dall'altra parte della strada: ed è americano come lei. Da quando i democratici hanno ripreso il controllo del Congresso, la politica Usa sta rivedendo le sue posizioni su globalizzazione e libero scambio. Tanto più che l'economista Alan Blinder, un liberista convinto che negli anni '90 spinse Bill Clinton sulla strada del free trade, ha presentato uno studio dal quale emerge che nei prossimi anni 40 milioni di posti di lavoro americani rischiano di «emigrare» all'estero. Il caso di Circuit City dimostra che le minacce alla stabilità vengono anche dall'interno. Oltre che dai lavoratori, la decisione di licenziare chi guadagna 51 centesimi di dollaro all'ora più della paga giudicata ottimale dalla direzione aziendale, è stata aspramente criticata anche da consulenti aziendali e da analisti come quelli di Merrill Lynch per i quali l'eliminazione del personale più esperto peggiorerà il servizio offerto ai clienti e finirà per demotivare il personale.

Massimo Gaggi


+ La Repubblica 6-4-2007 Le regole per il genio del futuro così si misura chi potrà vincere di FRANCESCA CAFERRI

nuovi "must" di Gardner, l'inventore dell'intelligenza multipla
Sono disciplina, sintesi, creatitività, rispetto ed etica

L'UOMO delle intelligenze multiple è tornato. Questa volta per suggerirci cinque minds, modi di pensare, approcci mentali, che considera decisivi per sopravvivere - ed eccellere - nel futuro. Si intitola proprio Five minds for the future il nuovo libro di Howard Gardner, il professore di Harvard che vent'anni fa smontò l'idea che esistesse un'unica maniera - il quoziente intellettivo - per misurare le capacità del cervello umano e che per questo si è guadagnato un posto fisso nella lista dei cento intellettuali più influenti del mondo compilata ogni anno dalla rivista Prospect.
Nel libro - che da settimane occupa pagine e pagine sulla stampa internazionale e che le più importanti riviste di settore raccomandano ai manager come una delle letture must del 2007 - Gardner sostiene che il 21simo secolo appartiene alle persone che sono in grado di pensare in un certo modo e che chi non è in grado di sviluppare queste capacità è destinato a soccombere - professionalmente e socialmente - in un mondo sovrabbondante di informazioni, dove per fare la scelta giusta occorre farsi guidare da capacità di sintesi o da intuito ben allenato.
Per "sopravvivere", secondo la teoria di Gardner, occorre essere rigorosi e creativi allo stesso tempo: il primo dei cinque approcci mentali presi in esame dal professore americano è quello della mente disciplinata, la più classica se vogliamo, quella che accoglie i vari input che riceve nel tempo e poi li indirizza e mette in pratica in un campo particolare, che sarà quello dove eccelle. Segue la mente sintetica, essenziale nell'epoca di Internet e dei canali all news: chi ha questo tipo di impostazione raccoglie le informazioni, le seleziona e le sintetizza in maniera originale. La mente creativa è invece quella che coltiva nuove idee e si pone domande insolite, arrivando a risposte inattese.
Seguono poi due approcci che Gardner definisce "non opzioni ma necessità" oggi: la mente rispettosa - il modo di pensare di chi accetta le differenze, si sforza di capire gli altri e di collaborare - e quella etica, quella che valuta i bisogni e i desideri della società globale, cercando di spingersi oltre gli interessi personali. "Sono certo che ci sono altri approcci che è interessante studiare - spiega da Harvard lo studioso - ma questi sono quelli su cui mi pare occorra mettere più enfasi oggi".
Il motivo, Gardner lo scrive nelle pagine del suo libro: "Il mondo del futuro - con i suoi motori di ricerca, robot e altre potenzialità informatiche - ci chiederà di avere capacità che finora sono state solo opzionali: per rispondere a queste richieste occorre che cominciamo a coltivare sin da ora queste capacità". Messaggio rivolto in particolare a insegnanti e genitori.


La Repubblica 6-4-2007 Rossi: "La mia verità su Telecom Tronchetti mi ha eliminato" di FEDERICO RAMPINI. Intervista al presidente: "Un mercato da Chicago negli anni '20. Non mi presento all'assemblea del 16". Passera, appello alle banche.


"Adesso posso dirlo: mi sento sollevato, mi sono tolto un peso. Da metà settembre fino a martedì scorso ho passato sei mesi d'inferno. Alla mia età è giunta l'ora di rinunciare alle illusioni: il sogno di salvare la Telecom, come quello di risanare il calcio italiano. Erano le illusioni di un vecchio signore che ancora pensa di fare il riformista. E' tempo che mi passino dalla testa". Il giorno dopo l'ultimo scontro con Marco Tronchetti Provera, Guido Rossi pronuncia giudizi severi e lapidari ma con il tono sereno, di chi davvero è convinto di aver chiuso una pagina.
Può parlare in libertà, può dare la sua versione, può fare un bilancio di questi sei mesi (poco più) che lo hanno visto tornare alla testa del gruppo che lui stesso aveva guidato nella privatizzazione. Il giurista, ex presidente della Consob, promotore della legislazione antitrust in Italia, da questa vicenda trae la conferma di una diagnosi spietata sui mali profondi del capitalismo italiano, sulla sua incapacità di cambiare. Tronchetti; il vizio antico delle scatole cinesi; le banche; la politica; nessuno si salva: e se questo è lo stato del paese allora ben vengano gli stranieri, è la sua lezione finale.

Professor Rossi, cominciamo dall'inizio, cioè da settembre. Visto com'è andata a finire, non era una missione impossibile la sua? E perché Tronchetti venne a cercare proprio lei, se stava scritto che i vostri disegni sarebbero risultati incompatibili?
"Perché è venuto a cercarmi? Perché era troppo nei guai, perché era alle strette sia con l'Antitrust che con l'Authority delle Comunicazioni, perché la sua situazione sembrava irrecuperabile, perché aveva bisogno di credibilità. Io mi sono fatto carico di questa responsabilità nell'interesse dell'azienda, l'ultima grande impresa tecnologica italiana, un gruppo al quale mi sentivo legato dalla storia della sua privatizzazione. Ma quando ho cercato di fare pulizia nel conflitto d'interessi fra Tronchetti e la Telecom, per il bene dell'azienda, del mercato e del paese, siamo entrati in rotta di collisione. Sono diventato pericoloso per lui, andavo eliminato. Naturalmente anche negli scontri c'è modo e modo di comportarsi. Che mancanza di stile, avvertirmi solo la sera prima che Olimpia non mi avrebbe ricandidato per il rinnovo del consiglio d'amministrazione...".
Ma già prima di questa resa dei conti finale, c'erano stati scontri strategici. Si è detto che lei ha fatto saltare un primo accordo, quello che Tronchetti stava negoziando con la spagnola Telefonica. Sarebbe stato, dopotutto, se non una soluzione italiana almeno un esito europeo.
"Ma chi ha messo in giro questa fandonia? Ho l'impressione che mentre io mi occupavo dell'azienda, c'è chi passava più tempo a parlare con i giornali per accreditare queste tesi. Quella che io avrei ostacolato il dialogo con Telefonica è una menzogna. Al contrario, da un certo momento sono stato l'unico a tenere i rapporti con Cesar Alierta. Il presidente di Telefonica era scandalizzato per la tracotanza di Tronchetti. Venne a trovarmi a casa, passò un'intera domenica pomeriggio a parlarmi. Aveva capito che Tronchetti voleva incassare tutto il premio di controllo, per un controllo che non ha. Telefonica è una public company, mi disse Alierta, certe cose non può farle. Ecco come si parla quando si ha rispetto per il mercato".
Si è detto anche che lei con il suo ostruzionismo di fatto stava spianando la strada all'ingresso della Fininvest di Silvio Berlusconi, l'unico gruppo italiano con i mezzi per subentrare nel controllo di Telecom.
"E' un'accusa ignobile. Purtroppo in questo paese sembra non sia facile trovare persone libere, non condizionate da logiche d'appartenenza. E così le dietrologie sfidano anche le regole della verosimiglianza. Io appoggerei Berlusconi? Guardi, ho vissuto altri momenti drammatici per l'economia italiana, e basti ricordare il crac Ferruzzi-Montedison, ne ho viste tante ma questa è davvero la vicenda peggiore. Al conflitto d'interessi di Tronchetti si sono mescolate le grandi manovre del risiko bancario, le eterne tentazioni di commistione della politica. Non so se gli stranieri che si affacciano hanno capito con quale paese hanno a che fare".
Questa volta però il presidente del Consiglio ha deciso di non intervenire sul caso Telecom.
"Sì, ma il risiko bancario è ancora e sempre impregnato di politica, è percorso da tensioni fra Prodi e i Ds. Tronchetti si sente appoggiato da Banca Intesa. Prodi forse pensa di condizionare la vicenda, di garantire un ancoraggio italiano, attraverso le banche. In tutto questo si perde di vista l'unica questione seria: nonostante gli anni di difficoltà, i ridimensionamenti, le occasioni perdute, la Telecom è l'ultima grande impresa italiana che è ancora in grado di fare ricerca tecnologica, e la fa. Nel 2006 ha investito più di 3 miliardi di euro in ricerca, innovazione e sviluppo, per l'Italia sono volumi importanti. E' un patrimonio del paese. Il suo indebitamento è dovuto solo a quelli che l'hanno scalata, a chi sta ai piani superiori. L'azienda è sana, ha un cash flow straordinario, genera utili. Non merita di essere al centro di un gioco al massacro".
Il 16 aprile è convocata l'assemblea della Telecom. Lei fino a quell'assemblea è ancora il presidente. Che farà?
"Non credo proprio che mi presenterò. Che cosa farei, in mezzo a una lista di amministratori designati per obbedire a chi di suo ha investito lo 0,6% del capitale, e pretende di controllare la società? Qui vengono a galla problemi strutturali del nostro capitalismo, che ho denunciato da decenni. Si paga il prezzo delle riforme mai fatte, delle opportunità sprecate anche quando il centro-sinistra era al governo. Di recente è diventato di moda scoprire il sistema dualistico di governance d'impresa, il modello tedesco: lo scopriamo noi proprio quando la Germania per modernizzarsi prende le distanze da una formula vecchia di settant'anni. Ci si trastulla con questi inutili diversivi, nessuno invece osa toccare le anomalie patologiche del nostro sistema: le scatole cinesi, i patti di sindacato. Questa vicenda Telecom passa tutta sopra la testa del mercato, ecco l'unica certezza: i piccoli azionisti sono resi impotenti, e saranno beffati come sempre. E un paese che soffre di una così grave mancanza di regole naturalmente è il terreno ideale per chi vuole approfittarne, per chi pensa a portar via più soldi che può. Invece del fare, c'è l'arraffare. Questa sembra la Chicago degli anni Venti, sembra il capitalismo selvaggio dei Baroni Ladri nell'America del primo Novecento. Ma almeno in America un secolo non è passato invano. Là semmai con la Sarbanes-Oxley oggi hanno addirittura il problema opposto, quello di un sistema iper-regolato".
Tronchetti ha aperto ufficialmente un tavolo di trattativa per la cessione del controllo di Telecom all'americana AT&T associata coi messicani di America Movil. The Wall Street Journal sostiene che si sono rimessi in moto altri due contendenti stranieri, France Télécom e Telefonica. Alla fine sono tutti gruppi esteri, con eventuali soci bancari italiani nella funzione di comprimari. Una parte della sinistra preme su Prodi perché difenda l'italianità della Telecom. Lei che ne pensa?
"Ma ben vengano gli stranieri! Il nostro sistema paese sta dando il peggio di sé. In questa situazione mi par di vedere dei ricorsi storici, torniamo a un'epoca in cui un pezzo d'Italia era sotto gli austriaci, un altro sotto gli spagnoli... Fuor d'ironia, non sono mai stato un nemico della globalizzazione. Se veramente si hanno a cuore gli interessi dell'Italia, vanno difesi in altri modi. Bisogna creare le condizioni ambientali, dalla formazione dei giovani nelle università alla ricerca scientifica, perché questo sia un paese dove è comunque vantaggioso mantenere attività ad alto valore aggiunto, centri d'innovazione. Chi predica la difesa dell'italianità, dov'era quando occorreva costruire le fondamenta di un mercato dei capitali moderno, cos'ha fatto per definire regole serie in difesa degli azionisti? Questo è un paese disperante per chi ha creduto nelle riforme. E' un paese dove ormai o si muove la magistratura - e lei stessa è sempre più paralizzata dalle inefficienze - oppure non succede più niente".
Mercoledì lei è stato a Mediobanca, dove il polo bancario alternativo a quello di Banca Intesa ha chiesto il suo parere su un eventuale contropiano da opporre a quello di Tronchetti.
"Ho risposto che ho già dato. Ora sono fatti loro, tra azionisti, che trovino qualcun altro".
A sei mesi di distanza, le sembra di rivivere un film già visto con lo scandalo del calcio?
"La trama è diversa, il finale è lo stesso: il trionfo della restaurazione".
E adesso cosa farà il professor Rossi?
"Quello che per fortuna non ho mai smesso di fare. Mi dedicherò ai miei studenti universitari. Finirò il ciclo di lezioni sulla pena di morte e i diritti umani. L'unico terreno su cui l'Europa è rimasta all'avanguardia nel mondo, e l'America farebbe bene a imparare da noi. Il tema del mio prossimo libro".


La Stampa 6-4-2007 Passera chiama le altre banche. L’ad di Intesa Sanpaolo: «Soluzione possibile». In Borsa passa un altro 4% del capitale. Francesco Spini

MILANO
Mentre tra Pirelli e l’asse Mediobanca-Generali la tensione resta alta, Intesa-Sanpaolo chiama a raccolta il mondo finanziario italiano sul futuro assetto di Telecom Italia. «Nonostante la difficoltà della situazione che si è venuta a creare - dice l’amministratore delegato Corrado Passera - riteniamo sia possibile lavorare anche con altre istituzioni finanziarie per cercare soluzioni che rispettino tutti gli interessi coinvolti». Un appello alla responsabilità comune per un’azienda «di grandissima importanza per il nostro Paese», la cui stabilità di azionariato «può contribuire a rafforzarla».
Passera, dunque, lancia l’ipotesi di una soluzione condivisa da quelli che oggi hanno interessi su Telecom - e quindi anche gli americani di At&t e i messicani di America Mòvil - ma che salvaguardi anche gli interessi generali del Paese e che ricompatti il sistema. Da Parigi un socio di peso di Mediobanca, Vincent Bolloré, parla dell’attenzione di Mediobanca a «che l’operazione su Telecom sia perfettamente chiara e nell’interesse italiano».E che non diventi «solo una questione di prezzo». Il finanziere bretone usa invece parole chiare sul blitz con cui Marco Tronchetti Provera ha depennato il nome di Guido Rossi dal futuro Cda Telecom. «Quello che è successo con la lista del cda che non era la stessa è un primo importante motivo di preoccupazione». Bolloré non sposa la difesa dell’italianità «a tutti i costi, ma bisogna stare attenti che non ci siano ricadute negative nel tempo». Parla del diritto di prelazione che i due gruppi «decideranno se esercitare o meno solo quando ci sarà un’offerta ufficiale». Ma gli affari, secondo il finanziere, non sono «solo una questione di prezzo». Quindi spiega che Mediobanca e Generali «al momento giusto adotteranno le misure necessarie» visto che, tra i loro compiti, c’è quello di assicurare «il miglior sviluppo possibile nella stabilità delle aziende italiane».
Ma Pirelli e Mediobanca-Generali divergono su tutto. A partire dalla ricostruzione degli esiti della riunione in cui giovedì scorso il patto parasociale aveva trovato l’intesa sulla lista davanti al notaio Carlo Marchetti, figlio del presidente di Rcs Piergaetano. Nella lettura dell’asse triestino-milanese tali accordi comprendevano anche il nome di Rossi, tanto che i due consiglieri di loro espressione avevano accettato la candidatura, sempre giovedì, subordinatamente alla presenza del giurista. Diversa la lettura di Tronchetti, propenso nel riconoscere solo l’accordo sulla generica riconferma del management con un aumento delle professionalità tecnico-industriali. Insomma, l’identikit di Pasquale Pistorio quale prossimo presidente.
Nel contempo sono partite le lettere con la richiesta di convocazione del direttivo del patto di blocco di Pirelli. Sulla carta l’appuntamento dovrebbe essere fissato entro 15 giorni, ma nelle missive sarebbe esplicitata la richiesta di agire per le vie brevi, con lo scopo di fissare la riunione prima del 16 aprile, data dell’assemblea di Telecom. Mentre At&t è stata impegnata in nuovi intensi contatti milanesi in Pirelli e con il mondo bancario, le continue voci di prossimi nuovi interessi da parte di cordate alternative hanno dato nuova benzina alla bagarre in Borsa. Non tanto per le quotazioni (+0,6% che porta il titolo ai massimi da un anno), quanto per gli scambi. Ieri è transitato un altro 4% del capitale: fatti due conti, ciò significa che nelle ultime sedute ha cambiato casacca il 20% del capitale di Telecom. Tantissimo se si considera che At&t è in corsa per il 12%, ossia la quota corrispondente al 66% di Olimpia. Segno che la prossima assemblea potrebbe riservare più di una sorpresa

 


Il Giornale di Brescia 6-4-2007 IN PRIMO PIANO Le banche al centro della scena

 

Una risposta non superficiale richiede che quantomeno si considerino da un lato i caratteri dell'attività di vigilanza svolta dalla Banca d'Italia e dall'altro lato la struttura gestionale e operativa dei gruppi bancari italiani protagonisti di questi nuovi sviluppi di business. Quanto alla vigilanza svolta da Bankitalia va sottolineato che essa, pur avendo subito una profonda trasformazione che l'ha portata ad evitare interventi diretti sulle scelte di gestione delle banche, continua a tenere sotto controllo banche e gruppi bancari attraverso la disciplina del loro patrimonio e l'imposizione di una serie di vincoli che fanno riferimento ai rischi assunti. Gli interventi che vedono i gruppi bancari al centro delle cronache finanziarie hanno o avranno ripercussioni sulla dimensione del loro patrimonio minimo di vigilanza e da tale dimensione risulteranno condizionati. Per quanto riguarda poi l'assunzione di partecipazioni azionarie che una banca intenda assumere nei riguardi del capitale di imprese/gruppi non finanziari, va ricordato che vige una disciplina che prevede limiti concernenti sia le singole partecipazioni, sia il complesso delle medesime. Sono limiti formalizzati anche livello di direttive comunitarie, ai quali si aggiunge il cosiddetto limite di separatezza che esiste solo in Italia e che vieta alle banche di superare il 15% del capitale della singola impresa partecipata. Quanto poi ai gruppi bancari italiani, va rilevato che essi non solo hanno realizzato un forte incremento dimensionale, ma si sono anche dati nuovi assetti organizzativi e di gestione, dimostrando un miglioramento nel loro tasso di imprenditorialità, risultato sia degli innesti in ambiente bancario di competenze di provenienza industriale, sia della maggiore responsabilizzazione che è derivata dal citato mutamento negli indirizzi di vigilanza di Bankitalia. La struttura di gruppo a cui le banche italiane sono pervenute ha operato una sintesi efficace fra il modello della banca universale e quello dell'intermediario finanziario specializzato, consentendo loro di entrare anche in nuove aree di business più vicine all'attività di private equity e della banca di investimento che a quella tradizionale della banca commerciale. Le performance elevate che i gruppi bancari italiani hanno realizzato, non solo hanno gratificato gli azionisti, ma hanno anche rafforzato il patrimonio, così consentendo loro ulteriori assunzioni di rischio. Scontata l'inesistenza del pericolo di una riproposizione della banca mista di inizi '900, si conferma e diviene più critico il rilievo assunto dalle aree di sovrapposizione dei ruoli, dalle relazioni fra parti correlate e dai conflitti di interessi che conseguono ai rapporti partecipativi, di patto sindacato e di debito-credito che le varie società del gruppo bancario intrattengono singolarmente, ma col raccordo di una logica unitaria, con le imprese e i gruppi non finanziari. Su questo terreno e in applicazione della legge sulla tutela del risparmio della fine del 2005, la Banca d'Italia e l'Autorità Antitrust devono poter collaborare per ottimizzare i risultati di vigilanza e di controllo. Antonio Porteri e impieghi. Può porsi a questo punto e legittimamente l'interrogativo circa la compatibilità tra gli sviluppi che, pur in circostanze non ordinarie, il rapporto fra banche e imprese va assumendo in Italia e l'esigenza di salvaguardare continuamente l'equilibrio di gestione delle banche stesse. In altri termini, non vi è forse il pericolo che, sulla scorta della nuova libertà d'azione aperta alle banche dal Testo Unico Bancario del 1993, le banche italiane stiano spingendo troppo sull'acceleratore d'una gestione troppo rischiosa?.

 


Finanza e Mercati 6-4-2007 Draghi vuole banche a prova di catastrofe

 

Si chiamano business continuity e disaster recovery. Due concetti, in Italia non molto conosciuti, che hanno cominciato a fare il giro del mondo dopo l'11 settembre 2001. Si tratta della continuità operativa e delle misure da adottare in caso di eventi terroristici o disastri naturali (terremoti, black-out, attacchi biologici, pandemie). Le grandi aziende hanno cominciato a muoversi in questa direzione. Del resto i danni, soprattutto per l'industria finanziaria, possono essere spropositati. Ecco perché si è mossa la Banca d'Italia che, ieri, ha dettato precisi obblighi per gli istituti di credito italiani. Obiettivo: evitare l'interruzione dei pagamenti o le transazioni sui mercati di fronte a qualsiasi evento. Entro 4 ore dal disastro, le banche devono assicurare la ripresa dei sistemi e avere, in ogni caso, siti di recovery distanti da quelli primari. Il tutto coordinato da speciali task force. Ieri, intanto i vertici di Palazzo Koch hanno incontrato un'altra volta i sindacati. Sul tavolo, la riorganizzazione del servizio studi che si dovrebbe rafforzare grazie a quattro distinti uffici (statistica e ricerca, e relazioni internazionali). Fino al 12 aprile le sigle possono presentare osservazioni. Il progetto dovrebbe essere approvato dal Consiglio superiore di Via Nazionale il 26 aprile per essere operativo già dal 1 giugno.

 


Borsa e finanza 6-4-2007 FONDI & RISPARMIO La consulenza prende il largo E si paga solo se batte gli indici Cresce l'advisory. Il 20% delle gestioni Xelion usa il servizio. Copernico richiede la parcella se supera il bechmark, mentre Generali parte con 30 consulenti di Anna Messia

 

- 06-04-2007 NUOVA DISTRIBUZIONE Una definizione dettagliata della consulenza finanziaria indipendente arriverà solo con il regolamento della Consob. Quando la commissione di controllo specificherà in ogni punto le modalità di attuazione della direttiva europea Mifid. Ma gli operatori di settore, nel frattempo, non sono rimasti con le mani in mano. Sfruttando le chance delle normativa attuale, hanno iniziato a offrire servizi di consulenza finanziaria, separarata dalla vendita. Il mercato si rivolge ancora a una nicchia di risparmiatori, ma attira l'interesse di diversi operatori: non solo fee only (come Consultique o Free & Partners), che hanno come unico scopo quello di consigliare investimenti (senza collocare i prodotti), ma anche di reti di promozione finanziaria, che possono aggiungere la vendita alla semplice consulenza. La prima rete a sperimentare questo mercato è stata Banca Xelion (gruppo Unicredit), partita a fine 2005 con il servizio di Advice. E i risultati sembrano aver superato ogni previsione. I clienti "consigliati" dai promotori del gruppo Xelion sono stati oltre 2.700, con un patrimonio complessivo di 500 milioni di euro, che rappresentano più del 20% delle gestioni patrimoniali della banca. "I risparmiatori hanno la possibilità di richiedere una diagnosi indipendente sui propri attuali investimenti, detenuti anche presso altri intermediari, senza obbligo di acquistare prodotti distribuiti da Xelion - dicono dalla banca - numerosi promotori hanno più del 10% delle masse gestite con il servizio di Advice, e oltre mille (su un totale di 1.900, ndr) sono stati già formati per offrire consulenza. Per il 2007 ci aspettiamo il decollo della consulenza finanziaria e di Xelion Advice grazie anche all'introduzione della Mifid". Il fenomeno sta quindi prendendo piede, al punto che nuove aziende sono pronte a lanciarsi in iniziative simili. Come Banca Generali, che ha riservato il servizio di consulenza ai clienti che hanno un portafoglio minimo di 250mila euro. Soglia che nei prossimi mesi dovrebbe essere abbassata a 100mila euro. "Trenta persone di Bsi hanno iniziato a offrire consulenza a aprile. Alla fine dell'estate tireremo le somme e apporteremo eventuali correttivi - dice Piermario Motta, direttore generale di Banca Generali - Poi a settembre tutti i 200 promotori di Bsi avranno accesso al servizio, oltre a 100 persone di Banca Generali selezionate su una rete complessiva di 1.600 persone". La banca del gruppo Generali, per offrire il servizio di consulenza ha stretto un accordo con Morningstar, utilizzando una piattaforma che permette di censire più del 90% di fondi e sicav collocati oggi in Italia. "La consulenza coinvolgerà però anche i singoli titoli, analizzando azioni e obbligazioni acquistate dai nostri clienti - continua Motta - Del resto il risparmiatore italiano medio detiene più del 70% del suo patrimonio in titoli. Non potevamo quindi trascurare questa componente". Ma quanto costerà chiedere consigli a un promotore del gruppo Banca Generali? "In questa fase iniziale non costerà nulla, sarà un valore aggiunto - dice Motta - Per stabilire un prezzo futuro aspettiamo di avere indicazioni più precise dalla Mifid. L'orientamento attuale è far pagare un costo marginale per le masse gestire presso di noi, prevendendo invece una spesa una tantum per gli asset tenuti presso terzi". Diversa, invece, la linea seguita da Copernico, società indipendente fondata e guidata da Saverio Scelzo, ex promotore di Ing e Azimut. La sim ha previsto un sistema di remunerazione che applica commissioni solo al raggiungimento di obiettivi prefissati con il cliente. In particolare i contratti a parcella sono di tre diverse tipologie. Nel primo caso il cliente potrà acquistare la consulenza una tantum chiedendo consigli sugli asset investiti presso altri intermediari e potrà conoscere la sua attitudine e la propensione al rischio. "Per usufruirne è necessario possedere un patrimonio di almeno 100mila euro, e la parcella oscillerà tra lo 0,5% e l'1% del patrimonio", spiega Scelzo. Oppure c'è la formula on demand, con incontri periodici con il consulente per monitorare e ridefinire il piano di investimento, che costa in media 300 euro. E infine, se si desidera avere anche la gestione del proprio patrimonio, in accordo con il cliente il promotore finanziario crea un benchmark ad hoc per ogni singolo portafoglio con l'obiettivo di batterlo. Solo in questo caso è previsto il pagamento della commissione. Per questo è stato creato un software che permette al promotore di monitorare insieme al cliente la capacità di generare plusvalenza rispetto al benchmark. "Per adesso non c'è certo la fila per acquistare questi servizi, e non tutti i nostro consulenti mostrano interesse a offrirli - commenta Scelzo - Ma credo molto nello sviluppo di questo settore, che non deve essere una moda". Oggi i consulenti di Copernico coinvolti dal progetto sono una decina, ma tra breve sarà accessibile all'intero gruppo.

 


Il Giornale 6-4-2007 Insider trading: la Consob "firma" la prima condanna. Di Rodolfo Parietti

 

da Milano

Condanna per abuso di informazioni privilegiate: la sentenza porta in calce il timbro della Consob, ed è la prima in Italia dal recepimento, nel maggio 2005, della direttiva Ue sul cosiddetto market abuse. A esserne colpito è l'imprenditore bresciano Ettore Lonati, al quale è stata inflitta una multa da 1,5 milioni di euro, confiscati beni per 3,2 milioni (il valore attribuito al profitto illecitamente ottenuto) e imposto il divieto di ricoprire cariche sociali per i prossimi sei mesi. La vicenda che ha portato al verdetto non è proprio "freschissima": risale infatti al 1999, quando Emilio Gnutti passa a Lonati (uno dei suoi alleati storici, coinvolto anche nel tentativo di scalata ad Antonveneta) alcune notizie riservate relative a operazioni societarie che avrebbero riguardato la Cmi, la Cantieri metallurgici italiani della famiglia Falck in procinto di riconvertirsi al business dell'ecoindustria. I grafici borsistici di Cmi dal periodo che intercorre dall'11 febbraio al 19 marzo di quell'anno raccontano la storia di un titolo effervescente come mai era stato, protagonista di un rialzo di quasi il 23%, tra scambi vorticosi (58mila pezzi, contro una media di 11.500 nel trimestre precedente). Da quei movimenti anomali, scatta un'indagine della Consob volta ad accertare se vi sia stato insider trading. Alla fine, l'accertamento si chiude con un atto dovuto, la segnalazione alla magistratura. Segue così il rinvio a giudizio di Gnutti e Lonati (al quale viene contestato l'acquisto di 320mila azioni grazie alla "soffiata" dello stesso Gnutti) e la successiva condanna da parte del Tribunale di Brescia, rispettivamente, a 8 mesi di reclusione e 100mila euro di ammenda e a 6 mesi e 100mila euro di ammenda. Caso chiuso? No, perché i due imprenditori non accettano la sentenza, decidendo di ricorrere in appello. Passa altro tempo, e quando il dossier arriva sul tavolo del magistrato è l'ottobre 2005. Insomma, fuori tempo massimo, perché l'Italia ha già fatto propria la normativa sull'abuse market che, tra l'altro, conferisce alla Consob poteri ispettivi che includono le intercettazioni telefoniche, oltre alla possibilità di confiscare beni. Ma, soprattutto, uno dei capisaldi della legge è la netta distinzione tra l'insider primario, cioè colui che fornisce le informazioni privilegiate e che è quindi soggetto a sanzioni penali, da quello secondario, ovvero chi quelle informazioni le utilizza, da colpire con sanzioni amministrative. A quel punto, la Corte di appello può pronunciarsi soltanto su Gnutti, al quale viene confermata la condanna (seppur ridotta a 4 mesi di reclusione e 80mila euro di multa), mentre il caso Lonati diventa di competenza della commissione guidata da Lamberto Cardia che, accertata la violazione, decide di condannare l'industriale bresciano.


Milano Finanza 6-4-2007 Qui serve uno sceriffo Sulla carta sono molti gli organi che vigilano su compagnie e sgr per evitare che il gestore scappi con la cassa o sia troppo spericolato. Ma funzioneranno? Carlo Giuro.

 

'Viver seguri come i po'', recitava un detto Veneziano del Quattrocento; e il tema sicurezza è essenziale per scegliere tra tfr e previdenza integrativa; a maggior ragione se si considera che la liquidazione in azienda, oltre a godere della garanzia di conservazione del capitale e della rivalutazione legale (1,5% fisso +75% indice Istat), beneficia della tutela di uno speciale Fondo di garanzia in caso di insolvenza del datore di lavoro costituito presso l'Inps. Se il tfr confluisce nei fondi pensione è affidato invece, insieme con i contributi del lavoratore e del datore di lavoro, ai mercati mobiliari. La dimostrazione che i lavoratori si interrogano sui rischi di affidare a mani terze la propria pensione è fornita da un recentissimo sondaggio condotto da Gfk Eurisko per conto di Assogestioni secondo cui in cima ai desiderata si colloca, secondo il 45% degli intervistati, la sicurezza/garanzia di avere almeno la restituzione di quanto versato. Il risparmiatore italiano, corteggiato da più di una rete di vendita, si chiede quindi quali siano i meccanismi di protezione dei risparmi per la vecchiaia, oltre alla tutela di base garantita dalla Costituzione. I controllori della Covip. Il nostro sistema, in particolar modo alla luce della recente riforma Maroni così come modificata e corretta dalla Finanziaria 2007, prevede un articolato sistema di garanzie al cui apice si colloca la supervisione generale del ministero del lavoro, che, di concerto con il ministero dell'economia, emana le direttive generali in materia di vigilanza. Esiste poi un'apposita Authority, la Covip (Commissione di vigilanza sui fondi pensione), già prevista dalla normativa precedente, 'istituita con lo scopo di perseguire la trasparenza e la correttezza dei comportamenti e la sana e prudente gestione delle forme pensionistiche complementari, avendo riguardo alla tutela degli iscritti e dei beneficiari e al buon funzionamento del sistema di previdenza complementare'. Dal 1° gennaio 2007 si attua il principio dell'omogeneità del sistema di vigilanza previdenziale accrescendosi le prerogative della Covip, oltre che sui fondi negoziali e sui fondi preesistenti, con riferimento ai fondi pensione aperti e ai pip assicurativi, prevedendo che esse riguardino anche quelle in materia di trasparenza e correttezza dei comportamenti, in precedenza assegnate, rispettivamente, alla Consob e all'Isvap. La Covip elabora poi schemi per gli statuti, i regolamenti, le schede informative, i prospetti e le note informative. L'Authority presieduta oggi da Luigi Scimia vigila sull'attuazione dei principi di trasparenza e sulle modalità di pubblicità (recentissima una specifica direttiva a tal proposito). La Covip tiene poi l'albo in cui da quest'anno vanno iscritti anche i pip (novità assoluta). Resta invece ferma la vigilanza delle Autorità di controllo (Banca d'Italia, Consob e Isvap) sui soggetti abilitati, che istituiscano e/o gestiscano le forme pensionistiche (banche, sim, sgr e imprese di assicurazione). L'Autorità disciplina poi le modalità di rendicontazione e di comunicazione periodica, esercita il controllo sulla gestione tecnica, finanziaria, patrimoniale e contabile di tutte le forme pensionistiche. Va evidenziato come il disegno di legge di riordino delle Authority preveda l'assorbimento delle competenze della Covip, dal 1° luglio 2008, da parte di Consob e Banca d'Italia. Una rivoluzione che trova molte voci critiche, tra cui, la più recente, quella dei sindacati e delle associazioni dei datori di lavoro che aderiscono a Fonchim e Fondenergia: 'C'è preoccupazione rispetto alla soppressione della Covip prevista nel recente disegno di legge governativo sulle Authority. L'effetto di questa misura appare infatti non coerente con la volontà di dare un forte impulso alla previdenza complementare e potrebbe comportare una minore attenzione sull'aspetto previdenziale di forte interesse sociale'.I vigilantes interni. Un ruolo fondamentale nell'ambito dei fondi pensione è interpretato dalla banca depositaria, come accade per i fondi comuni dove questo organo garantisce che i gestori non scappino con la cassa. Le funzioni da essa espletate sono infatti quella di custodia dei valori mobiliari dell'organismo previdenziale, di controllo delle transazioni, di rendicontazione, di riscossione degli interessi e dividendi relativi al portafoglio. Altro anello fondamentale della catena di protezione è rappresentato dagli organi di vigilanza interni e dalla governance dei fondi pensione. In precedenza la figura del responsabile era prevista per i soli fondi pensione aperti, mentre ora in base alla nuova normativa deve prevedersi per tutte le forme pensionistiche. Nominato dal consiglio di amministrazione, il responsabile verifica che la gestione sia svolta nell'esclusivo interesse degli aderenti, nel rispetto della normativa vigente e delle previsioni stabilite nei regolamenti e nei contratti; deve provvedere all'invio di dati, notizie e di una specifica relazione annuale sull'attività complessiva alla Covip. Vigila poi sul rispetto dei limiti di investimento, complessivamente e per ciascun comparto in cui si articola il fondo, sulle operazioni in conflitto di interesse; sull'osservanza dei principi di corretta amministrazione. Con specifico riferimento ai fondi pensione aperti e ai pip assicurativi (per questi ultimi tale figura è una novità assoluta) l'incarico non può essere conferito a uno degli amministratori o a un dipendente della forma stessa ed è incompatibile con lo svolgimento di attività di lavoro subordinato, di prestazione d'opera continuativa, presso i soggetti istitutori delle predette forme, ovvero presso le società da queste controllate o che le controllano. Ci sono poi gli organi dei fondi pensione. I chiusi sono soggetti giuridici autonomi dotati di organi di amministrazione e controllo interni: consiglio di amministrazione, collegio sindacale, assemblea dei delegati. Tali organi devono essere paritetici, rappresentativi dei lavoratori iscritti e dei rappresentanti dei datori di lavoro che contribuiscono al finanziamento del fondo pensione. Per i datori è prevista la possibilità di designazione dei propri delegati in assemblea, mentre per la nomina dei delegati dei lavoratori è richiesto il ricorso al metodo elettivo. In particolare, il consiglio di amministrazione ha poteri di indirizzo e di controllo. Ulteriore novità è poi rappresentata dall'obbligo per i fondi pensione aperti che prevedano la possibilità di adesione in forma collettiva di istituire anche un organismo di sorveglianza; l'obiettivo è quello di rappresentare gli interessi degli aderenti e verificare che l'amministrazione e gestione del fondo avvenga nell'esclusivo interesse degli stessi. Riferisce all'organo di amministrazione del fondo pensione aperto e alla Covip in merito alle irregolarità riscontrate. In sede di prima applicazione, l'organismo di sorveglianza dovrà essere composto da almeno due membri (dotati dei requisiti di onorabilità e professionalità) da designarsi da parte dei soggetti istitutori dei fondi aperti, per un incarico che non potrà superare i due anni. è facoltativa, in sede di prima applicazione, la partecipazione paritetica dei rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro all'organismo di sorveglianza. Poi, dopo questa prima fase, i componenti dell'organismo di sorveglianza dovranno essere individuati nell'ambito degli amministratori indipendenti iscritti a un albo della Consob. Nella fase successiva l'organismo di sorveglianza dovrà essere integrato da un rappresentante del datore di lavoro e da uno dei lavoratori per ogni azienda o gruppo ogni qualvolta l'adesione collettiva comporti l'iscrizione al fondo di almeno 500 lavoratori di una singola azienda o di un medesimo gruppo. Separati in casa. Altra importante innovazione è la necessità di una separatezza patrimoniale, amministrativa e contabile. Gli strumenti finanziari dello strumento previdenziale devono costituire patrimonio separato e autonomo rispetto al patrimonio del fondo pensione/compagnia, a quello degli altri fondi gestiti e a quello degli aderenti. (riproduzione riservata) Milano Finanza  - I vostri soldi in gestione Numero 070, pag. 29 del 6/4/2007 Autore: Carlo Giuro.


Il Sole 24 Ore 5-4-2007 L'Antitrust boccia Vodafone sull'operatore virtuale, il procedimento continua. Al.An.

 

Gli accordi per dare il via all'operatore mobile virtuale con Carrefour e Poste non sono stati sufficienti. L'Antitrust (Autorità garante della concorrenza e del mercato) ha infatti bocciato gli impegni proposti dal gruppo guidato dall'amministratore delegato Pietro Guindani (secondo la prassi avviata con la legge Bersani) per chiudere l'istruttoria per abuso di posizione dominante avviata su ricorso di Tele2 e altri operatori fissi che hanno accusato Tim, Vodafone e Wind di bloccare di fatto le intese, abusando della loro posizione dominante.
Quasi indifferente la reazione di Vodafone: «La valutazione dell'Antitrust - è stata la replica ufficiale - non cambia le nostre strategie e non ci preoccupa. Abbiamo aperto il mercato agli operatori mobili virtuali già con due accordi e altri, con soggetti diversi, ne seguiranno. Ciò sarà motore di sviluppo e rafforzerà le condizioni concorrenziali del mercato». Dei tre operatori mobili sotto accusa, soltanto Vodafone ha presentato venerdì 30 marzo e nei termini (a questo punto scaduti) impegni all'Antitrust per chiudere un accordo con un operatore virtuale entro il 30 marzo 2007.
La filiale italiana del gruppo britannico si era impegnato ufficialmente a fine gennaio con gli uffici del garante, Antonio Catricalà, a fare «quanto ragionevolmente possibile» per chiudere entro il prossimo marzo «un accordo giuridicamente vincolante, preparatorio o definitivo» per permettere l'accesso alla propria rete di un operatore di telefonia mobile virtuale. Una partita iniziata a seguito dell'istruttoria avviata due anni fa per abuso di posizione dominante collettiva contro Tim, Wind e la stessa Vodafone. Secondo le risultanze, i tre big della telefonia avrebbero fatto "cartello" per impedire l'ingresso sul mercato degli operatori virtuali. Il procedimento dell'Antitrust, che non compromette gli accordi commerciali siglati, prosegue e si concluderà entro il 7 giugno.
Sulla questione, secondo l'agenzia Radiocor, è pronta a intervenire anche l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Via delle Muratte potrebbe infatti riaprire l'indagine sul cosiddetto "mercato 15" (accesso e raccolta delle chiamate nelle reti telefoniche pubbliche mobili) e presentare una bozza di provvedimento da mandare alla Commissione Europea che contenga l'obbligo per gli operatori mobili di concludere accordi con i fissi.
Si passerebbe dunque dalla "moral suasion" usata finora dall'Autorità guidata da Corrado Calabrò per il raggiungimento delle intese all'imposizione di un vero e proprio obbligo di natura regolamentare. L'Agcom aveva già aperto un'indagine sul "mercato 15" conclusa a gennaio con la valutazione che le condizioni competitive del mercato erano sufficienti. Ora c'è invece la possibilità che si riaprano i giochi poiché l'Autorità ritiene gli accordi nel frattempo conclusi dagli operatori mobili «inadeguati a realizzare l'integrazione fisso-mobile». Vodafone ha annunciato oggi l'accordo con Poste italiane mentre risale al 2 aprile scorso l'annuncio dell'accordo con Carrefour. Tim, invece, ha concluso un'intesa con Coop.


INDICE 5-4-2007

+ Il Gazzettino 5-4-2007 Mondo cattolico diviso sul giorno anti-Dico. Condivisione ma anche disagio per la manifestazione in difesa dei valori cristiani e la forte pressione politica messa in atto dalla gerarchia

+ La Repubblica 5-4-2007 Il "Nanarellum"  Di Ilvo Diamanti

+ Il Sole 24 Ore 5-4-2007 Dal Governo via libera alla riforma del processo penale di Nicoletta Cottone

Il Corriere della Sera 5-4-2007  La Nota Massimo Franco L’offensiva vaticana e il vuoto politico. Sul Family day governo in difesa. E i Ds «chiamano» il Professore sui Dico

La Repubblica 5-4-2007 La modernità che conosciamo, la modernità occidentale che porta alla democrazia, si fonda sull'idea di autonomia dell'uomo. Autos nomos, l'uomo che è legge (nomos) a se stesso (autos). PAOLO FLORES D'ARCAIS  1

La Stampa 5-4-2007 Tronchetti licenzia Rossi. Escluso dalla lista del consiglio Telecom. Pistorio verso la presidenza. FRANCESCO SPINI 2

Europa 5-4-2007 Pelosi in Siria, il dopo-Bush è già iniziato di GUIDO MOLTEDO  3

Il Riformista 5-4-2007 Se tre ore vi sembran poche, pensate a Mr. Kissinger. di Anna Momigliano  5

Italia Oggi 5-4-2007 L'annuncio a Varsavia del commissario alla giustizia Franco Frattini. Sarà Eurosur a vigilare sulle frontiere esterne  5

La Repubblica 4-4-2007  L'Italia scopre il web 2.0. "Io posto, dunque sono" Il 56% degli internauti italiani visita i siti con contenuto user generated.Ma c'è chi teme che la New Internet faccia la fine della New Economy

Trentino 5-4-2007 Corruzione, maxi risarcimento La Corte dei Conti chiede 237 mila euro ad Arlati e Dal Rì Contestati i danni di immagine patiti dalla Provincia nella vicenda degli appalti truccati LUCA PETERMAIER  6

 


+ Il Gazzettino 5-4-2007 Mondo cattolico diviso sul giorno anti-Dico. Condivisione ma anche disagio per la manifestazione in difesa dei valori cristiani e la forte pressione politica messa in atto dalla gerarchia

Maroni: io personalmente sono favorevole al testamento biologico, la Chiesa deve poter parlare ma il Parlamento è autonomo RomaNOSTRA REDAZIONECi sono cattolici a disagio, ci sono cattolici che condividono, ci sono cattolici che disapprovano e vanno per la loro strada. E ci sono laici che si indignano e protestano. Nel momento in cui politica e società si confrontano su temi dalle forti implicazioni morali e religiose - come i Dico, l'eutanasia o il testamento biologico - e mentre si prepara il Family day (al quale i sacerdoti potranno partecipare con i loro parrocchiani) la voce della Chiesa continua a farsi sempre più presente nel dibattito politico. Una presenza che, forse, non era mai più stata così forte dai tempi del dibattito sul divorzio e sull'aborto. E ancora una volta, come inevitabilmente accade quando in discussione sono temi cosiddetti eticamente sensibili, gli schieramenti si sfrangiano, le posizioni si incrociano, e gli umori si fanno strada trasversalmente.Così ad esempio, nella Cdl, l'azzurra Isabella Bertolini condivide "i dubbi di monsignor Betori e della Cei sulla legge in materia di testamento biologico", spiegando che "quello che oggi ci spaventa è che attraverso questo provvedimento si possa arrivare a legalizzare l'eutanasia nel nostro Paese. Siamo decisamente contrari". Ma su posizioni opposte si schiera il capogruppo del Carroccio, Maroni, che spiega: "Personalmente sono favorevole al testamento biologico, anche se la Lega non ha ancora espresso la sua posizione. Se ci sarà una proposta interessante, ne discuteremo e forse la sosterremo". Quanto al dibattito sull'intervento delle gerarchie ecclesiastiche, Maroni sottolinea che "la Chiesa ha il diritto e il dovere di esprimersi sui temi etici. Ovviamente - aggiunge però - il Parlamento ha la sua autonomia. La Chiesa esprime la sua opinione, poi spetta ai parlamentari aderire o meno".Il verde Tommaso Pellegrino intanto, "da cattolico", si dice "profondamente a disagio per la posizione espressa dalla Cei sul no al testamento biologico", osservando che "le imposizioni sono fuori luogo e contrarie a qualsiasi principio etico" e che "la laicità dell'azione legislativa è essenziale per un buongoverno: piuttosto - osserva - la Cei sarebbe dovuta intervenire contro l'ipocrisia dei politici cattolici che, a parole, dichiarano di seguire i precetti della Chiesa ma che, di fatto, nella propria vita privata fanno tutt'altro".Nel frattempo accade anche che un altro azzurro, Alfredo Biondi, guadagna le lodi di un leader del movimento gay, Enrico Oliari. Critico con monsignor Betori a causa della sua bocciatura di qualsiasi ipotesi di riconoscimento delle unioni di fatto, anche se limitata ad un contratto registrato da un notaio come prevede la sua proposta di legge, Biondi protesta: "Non si accettano neppure i diritti individuali e privatistici di solidarietà, e questo non ha nulla a che fare con la pregiudiziale contro il matrimonio dissimulato, l'attacco al matrimonio che la Chiesa diceva di temere. Qui si vogliono additare come peccatori sulla pubblica piazza le persone che convivono, siano o no dello stesso sesso!". Ha ragione, applaude il leader di GayLib: "I vescovi vogliono avere il pieno controllo della vita affettiva e sessuale degli italiani. I continui e martellanti interventi della Cei e della Chiesa stanno portando la discussione politica all'epoca giolittiana, quando la società si trovava in un forte contrasto fra clericali ed anticlericali".Intanto il ministro per la famiglia, Rosy Bindi, afferma che, rispetto al Family day "il governo deve porsi in atteggiamento di ascolto, così come per qualsiasi altra manifestazione. Il Family day - aggiunge - deve essere visto dalle istituzioni come la manifestazione di una componente rilevante della vita del Paese, che è quella che si riconosce nell'associazionismo cattolico e in una serie di valori che si riconducono all'ispirazione cristiana, e che si convoca in nome dei diritti della famiglia, proponendo al governo e alle istituzioni una serie di interventi per meglio tutelare le famiglie italiane".C.G.

 

 


+ La Repubblica 5-4-2007 Il "Nanarellum"  Di Ilvo Diamanti

Una legge elettorale, da sola, non può risolvere i problemi della politica e della democrazia. Certamente, però, può peggiorare entrambe. Soprattutto se è ispirata all'"adhochismo". Se, cioè, viene costruita ad hoc: rispondendo a specifici interessi di partito, fazione, frazione. Anche perché, di solito, produce effetti molto diversi dal previsto.
Basti pensare alla legge approvata nel 1993, il famoso "mattarellum", come la defin
ì Giovanni Sartori, dal nome del primo firmatario, Sergio Mattarella. Un sistema elettorale misto , in cui tre quarti del Parlamento veniva eletto con il maggioritario di collegio, il resto con il proporzionale. Concepito in modo tale da "salvare" i partiti più piccoli e "premiare" le forze politiche che, allora, apparivano dominanti. La Lega nel Nord, i post-comunisti nel centro, gli ex-democristiani nel Sud.
Come and
ò a finire, lo sappiamo tutti. Dalle macerie della prima Repubblica emerse Forza Italia, il "partito personale" di Silvio Berlusconi. E scardinò le previsioni, le premesse e le promesse della legge elettorale. Da allora iniziò l'era delle "coalizioni eterogenee", in cui tutti i partiti, o sedicenti tali, contano. Così, una legge scritta per dare potere ai grandi partiti e salvaguardare i più piccoli ottenne l'effetto opposto. Inibì l'affermarsi di grandi partiti e rese il sistema politico ostaggio delle formazioni politiche "marginali". I "nanetti", come li ha chiamati (di nuovo) Sartori.
Si pensi, ancora, alla legge elettorale approvata, con i voti della CdL, pochi mesi prima del voto del 2006. Presentata dal ministro dell'epoca, Roberto Calderoli, il quale la defin
ì, senza mezzi termini, "una porcata". E Giovanni Sartori (sempre lui) la ribattezzò subito il "porcellum". Un proporzionale con premio di coalizione. Una legge elaborata in modo frettoloso, con l'obiettivo principale di ridurre il vantaggio del centrosinistra, che nel maggioritario ha sempre ottenuto più voti rispetto al proporzionale. Al contrario del centrodestra.
Obiettivo raggiunto. Ma, con alcuni effetti inattesi. Visto che il centrosinistra ha egualmente vinto le elezioni. Non solo, ma, alla Camera, con un vantaggio inferiore allo 0,1% dei voti validi, ha ottenuto il 55% degli eletti. Mentre al Senato ha conquistato la maggioranza, per quanto minima, dei seggi pur avendo preso meno voti della CdL.
Non propriamente ci
ò che il centrodestra si attendeva dal "porcellum". Il quale ha, invece, esaltato il potere dei "nanetti". Dai partiti "personali", come FI, si è, anzi, passati ai "partiti individuali". Che non sono "al servizio di una persona", ma coincidono con essa. Come l'Italia di mezzo: Follini. L'AISA (Associazione Italiani del Sud America): Pallaro. E, ultimo, il PSdG: il "Partito Sergio de Gregorio". Una legge dopo l'altra, siamo, quindi, scivolati in un Parlamento e in un Paese che dipendono dalle scelte e dagli umori di alcuni "individui".
Le bozze di legge elettorale presentate, nei giorni scorsi, dalle due coalizioni, non riescono a farci scorgere una via d'uscita convincente. Riteniamo, infatti, difficile che coalizioni tanto condizionate da partiti minimi e individuali possano progettare leggi elettorali adatte a curare il male della politica italiana. Che coincide largamente con il potere esagerato dei partiti minimi e individuali. Perch
é mai, questi, dovrebbero condividere una terapia che li neutralizzerebbe?
Per cui, non rassicura, ma, anzi, insospettisce un po', l'assonanza fra i due progetti di legge. Ispirati, entrambi, al modello regionale (il "tatarellum", visto che venne ispirato da Tatarella, al tempo eminenza grigia di AN). Prevedono, entrambi, che la gran parte dei seggi venga attribuita, su base proporzionale, ai partiti che superino uno sbarramento basso (il 3%, secondo il centrodestra; ancora incerto, per il centrosinistra). Ancora, entrambi i progetti stabiliscono un premio di coalizione "nazionale" (anche al Senato) alla coalizione vincente. Per cui, come avviene ora, i partiti dovranno coalizzarsi e indicare un candidato premier. Inoltre, nessuno dei due progetti prevede le preferenze. Cos
ì le segreterie dei partiti non perderanno il controllo sulla formazione delle liste e sugli eletti. Altri aspetti appaiono incerti. Il progetto del centrosinistra (presentato dal ministro Chiti) ipotizza una modifica costituzionale, che attribuisca al Senato competenze "federali".
E', comunque, difficile capire cosa possa uscire da queste bozze appena abbozzate. Tanto pi
ù perché dovranno essere integrate e adattate reciprocamente. E perché sono molte le riserve espresse, al proposito, nelle due coalizioni. Come dimostrano le critiche sostanziali sollevate dal ministro Amato, su "la Repubblica". Tuttavia, dubitiamo che proposte possano disegnare una riforma adeguata a curare il "male" della democrazia italiana. Viste le premesse, la nuova (ipotetica) legge emergerebbe dalla media ponderata del calcolo di utilità espresso da ogni partito. Medio, piccolo, piccolissimo e individuale. Ciascuno proteso a tutelare il proprio interesse particolare con una determinazione (e un'efficacia) inversa al peso elettorale.
Dopo il "mattarellum" e il "porcellum", sarebbe, forse, la volta non del "tatarellum", ma (Sartori ci perdoni, se gli facciamo il verso) del "nanarellum".
(5 aprile 2007)


+ Il Sole 24 Ore 5-4-2007 Dal Governo via libera alla riforma del processo penale di Nicoletta Cottone

Via libera del Consiglio dei ministri al disegno di legge che prevede un'accelerazione dei tempi e una razionalizzazione del processo penale. È anche previsto un adeguamento del sistema delle sanzioni. «Si è cercato di incidere sulla lentezza dei processi», spiega il ministro della Giustizia Clemente Mastella. In primo luogo il provvedimento interviene sulla legge ex Cirielli: in tema di recidiva si abolisce il doppio binario introdotto dalla legge varata nella precedente legislatura e si riconduce a una sostanziale unità la disciplina, eliminando la distinzione tra incensurati e soggetti con precedenti penali. Ridisegnato anche l'istituto della prescrizione del reato, che torna sostanzialmente ai preesistenti criteri di commisurazione del tempo necessario a prescrivere. Non si estinguono per prescrizione i reati per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, anche se il carcere a vita consegue all'applicazione di circostanze aggravanti. La conferma della sentenza di condanna anche in secondo grado sospende il decorso della prescrizione e lo stesso effetto si produce anche a
seguito della dichiarazione di inammissibilit
à del ricorso per Cassazione. Altro punto centrale del provvedimento varato dal Consiglio dei ministri è l'eliminazione dell'istituto della contumacia, in ottemperanza alle numerose sentenze di condanna pronunciate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dell'Italia: sarà consentito, di massima, lo svolgimento del processo soltanto nel caso in cui l'imputato abbia effettiva conoscenza dello stesso, dovendone, in caso contrario, disporre la sospensione. Il giudice portà procedere in assenza dell'imputato se, in ragione del numero, della natura e della gravità dei reati contestati, o del numero delle persone offese e dei testimoni o dell'esigenza di garantire la genuinità della prova, la sospensione possa arrecare grave pregiudizio all'accertamento dei fatti. A tutela dell'imputato irreperibile che sia inconsapevole della sua situazione, resta applicabile l'istituto della remissione in termini.
Si tratta, spiega Mastella, «di una risposta di sistema a un problema antico relativo all'efficienza del processo, partendo dal principio costituzionale della ragionevole durata nel rispetto delle garanzie per le parti». Il cittadino «ridiventa protagonista - ha spiegato Mastella - perch
è una giustizia lenta finisce per essere ingiusta. Il disegno di legge prevede interventi mirati che responsabilizzano gli attori del processo». Previsto, per esempio, l'obbligo per il giudice di programmare un calendario di udienza, per evitare una «melina processuale» e giungere a decisioni in tempi ragionevoli: due anni e mezzo per il primo grado, un anno e mezzo per il secondo grado e un anno per il giudizio di legittimità, salvo che per i processi di particolare complessità. Il processo penale potrà anche essere sospeso con la messa alla prova dell' imputato, che consentirà, per i reati detentivi con pena non superiore a tre anni, di presentare in udienza preliminare o in dibattimento «uno specifico programma contenente i propri impegni ad elidere le conseguenze del reato e, ove possibile, a promuovere la conciliazione con la persona offesa».

nicoletta.cottone@ilsole24ore.com


Il Corriere della Sera 5-4-2007  La Nota Massimo Franco L’offensiva vaticana e il vuoto politico. Sul Family day governo in difesa. E i Ds «chiamano» il Professore sui Dico

 

Prudente, e attento a non alimentare lo scontro col Vaticano, Romano Prodi replica indirettamente. Sceglie di citare lo «spirito laico e cristiano» di Beniamino Andreatta, suo professore e mentore, appena venuto a mancare, per celebrare «il senso delle proporzioni anche nello scontro politico»; e per ricordare che la laicità è «la forma più alta di antideologia, di antifondamentalismo». Sono parole che arrivano mentre la pressione delle gerarchie ecclesiastiche si intensifica. E la manifestazione del 12 maggio a difesa della famiglia assume i contorni del grande «no» alla legge sulle coppie di fatto voluta dall’Unione; e non solo a quella. Palazzo Chigi appare sulla difensiva. Sente montare l’offensiva della Cei. Intuisce un’operazione che parte da Benedetto XVI, dal segretario di Stato Tarcisio Bertone e dal presidente dei vescovi, Angelo Bagnasco, giù fino alle associazioni. Proprio ieri la rivista 30 Giorni, diretta da Giulio Andreotti, ha diffuso un’intervista a Bagnasco sui «Dico».

Una legge di cui «non si sentiva la necessità»; e che «suona un po’ ridicolo presentare come il frutto di una modalità cristiana di legiferare». Sono toni liquidatori, che non concedono nulla; e ai quali il capo del governo cerca di opporre una laicità attinta dal Concilio. Ma la cautela imbarazzata con la quale il ministro Rosy Bindi parla del Family day riflette difficoltà oggettive. Come promotrice della legge sulle unioni di fatto, la Bindi deve difenderla. In quanto cattolica, non può ignorare le gerarchie. E da esponente dell’Unione, sa che la tentazione del muro contro muro col Vaticano è forte almeno quanto in alcuni settori dell’episcopato quello col governo. Assicura dunque che i promotori riceveranno «attenzione e ascolto come le altre manifestazioni». E difende Palazzo Chigi che «ha fatto il suo dovere offrendo al Parlamento una sintesi». È un’eco della posizione di Prodi, che dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri ha delegato le Camere a definire che cosa saranno i «Dico»: un modo per consegnare ad altri una questione che divide la maggioranza e incendia i rapporti con il Vaticano. Il fatto che Bagnasco annunci «tutto il nostro consenso e sostegno» al Family day è un segnale di allarme.

L’opposizione, e sotto voce l’Unione ritengono che una mobilitazione così massiccia possa accelerare lo svuotamento, se non la bocciatura della legge. Sulla carta, infatti, non ci sono i numeri per approvarla al Senato. Ma la sinistra non si rassegna. E torna a guardare a Prodi. Il ministro ds Barbara Pollastrini, autrice della legge con la Bindi, sostiene che «il ruolo del governo non è esaurito»; che il provvedimento non si può ridurre a qualche modifica del codice civile: il risultato a cui puntano la Cei ed i suoi alleati. Ma sembra la difesa generosa di un’operazione sempre più acrobatica. Le accuse al «familismo anacronistico» dell’episcopato non bastano a coprire la debolezza della politica: un vuoto che la Chiesa riempie senza freni né barriere di autentica laicità.

Massimo Franco

05 aprile 2007

 


La Repubblica 5-4-2007 La modernità che conosciamo, la modernità occidentale che porta alla democrazia, si fonda sull'idea di autonomia dell'uomo. Autos nomos, l'uomo che è legge (nomos) a se stesso (autos). PAOLO FLORES D'ARCAIS

 

L'uomo è dunque sovrano, stabilisce la propria legge, anziché riceverla dall'Alto e dall'Altro, da un Dio trascendente. L'uomo è libero proprio perché non è più costretto ad obbedire a norme che gli vengono imposte dall'esterno (eteros nomos, eteronomia), ma in realtà dai poteri terreni che quella volontà divina pretendono di incarnare (Papi e/o Re). La premessa della modernità è l'autonomia, la sua promessa è la sovranità dell'autogoverno. Il lungo papato di Karol Wojtyla ha costituito una ininterrotta denuncia e critica di questa modernità (modernità incompiuta, si badi: le democrazie realmente esistenti sono ben lungi dal realizzare la sovranità dei cittadini). Il Papa polacco ha denunciato l'illuminismo come l'alambicco che ha prodotto - proprio a partire dalla pretesa dell'autonomia dell'uomo - il nichilismo morale e di conseguenza i totalitarismi del XX secolo e i loro omicidi di massa. Voltaire all'origine dei Lager e del Gulag, insomma! Tanto Wojtyla quanto il suo successore hanno fatto dunque propria la celebre frase di Dostoevskij: "Se Dio non esiste, tutto è permesso". Joseph Ratzinger, che di Papa Wojtyla è stato del resto il principale ideologo, sta solo radicalizzando l'anatema di Giovanni Paolo II contro la modernità, e lo sta inquadrando in una vera strategia culturale e politica. In una efficace crociata oscurantista, che ha oggi nuove possibilità di successo (almeno parziale) grazie anche al clima di fondamentalismo cristiano che sta accompagnando negli Usa la presidenza Bush. La chiave di volta di questa strategia è l'idea che - di fronte alla crisi di valori che sta portando il mondo globalizzato al tracollo, attraverso conflitti incontrollabili e sfiducia delle democrazie in se stesse - "solo un Dio ci può salvare". Il vero scontro di civiltà vede dunque da una parte le religioni nel loro insieme, e dall'altra l'inevitabile deriva nichilista di ogni società che voglia fare a meno di Dio (e di una "legge naturale" che coincide però puntualmente con la legge di Dio). Il discorso di Ratisbona, che ha spinto più di un governo islamico a scatenare contro il Papa il fanatismo delle folle, era in realtà un invito ai monoteismi (Islam compreso, e anzi Islam più che mai) a fare fronte comune contro la vera minaccia che incombe sulla civiltà: l'ateismo e l'indifferenza, e insomma un laicismo che pretende di escludere Dio dalla sfera pubblica e dalla elaborazione delle leggi. Ratzinger ovviamente non mette tutte le religioni monoteiste sullo stesso piano: alla religione cristiana nella sua versione "cattolica apostolica romana" riserva il primato che gli verrebbe dalla capacità, che solo il cattolicesimo realizza in modo compiuto, di essere una religione non solo della fede ma anche del logos. Una religione, cioè, capace non solo di assumere la rivelazione divina ma anche di inverare in sé la ragione umana e la sua tradizione, da Socrate in avanti. Una religione del vero illuminismo, della ragione "rettamente intesa". Ma se la dottrina della Chiesa di Roma e del suo Sommo Pontefice costituiscono una Verità che non è solo di fede ma anche di ragione, ne consegue la pretesa che parlamenti e governi non promulghino leggi in conflitto con tale dottrina, poiché sarebbero leggi in violazione della "natura umana", di quell'animale razionale che è e deve essere l'uomo. E contro natura, come sappiamo, sono secondo la Chiesa cattolica l'aborto, la contraccezione (compreso il preservativo), il divorzio, la ricerca scientifica con cellule staminali, l'omosessualità, e ovviamente l'eutanasia (cioè la decisione di un malato terminale, sottoposto a sofferenze inenarrabili, che la sua tortura non venga prolungata). In tutti questi ambiti, che con il progresso scientifico vanno allargandosi, Ratzinger continua a ripetere che un parlamento e un governo, che approvassero leggi "contro natura", diventerebbero ipso facto illegittimi, anche se eletti con tutti i crismi della democrazia costituzionale. E' la stessa posizione che Wojtyla aveva già affermato di fronte al parlamento polacco (il primo eletto democraticamente dopo mezzo secolo!), arrivando a definire l'aborto "il genocidio dei nostri giorni". Pronunciate nel contesto polacco, parole del genere stabiliscono una raccapricciante equazione tra olocausto e aborto, tra una donna che abortisce e una Ss che getta un bambino ebreo in un forno crematorio. Queste cose venivano - ahimè - perdonate a Wojtyla (anche dal mondo laico) per via del suo "pacifismo". Joseph Ratzinger ha invece avviato una fase nuova: è convinto che la crisi delle democrazie offra alla Chiesa maggiori e insperati spazi di influenza, sia presso la classe politica sia presso i cittadini. La strategia è esplicita anche nei tempi e nei luoghi: l'Italia è considerata l'anello debole, dove sperimentare inizialmente questa vera e propria "riconquista", per passare poi alla Spagna, senza perdere le speranze per una futura azione in Germania. La Francia, allo stato attuale, sembra ancora troppo radicata nella sua laicità repubblicana, perché una crociata culturale e politica oscurantista sia ipotizzabile. Il cuore di questa strategia, cioè il fronte comune delle religioni contro l'illuminismo dell'uomo autonomo, è destinata all'insuccesso. Ogni religione pretende di essere "più vera" delle altre, il conflitto seguito al discorso di Ratisbona non resterà l'unico. Ma i danni che questa nuova santa alleanza cattolico-islamica (e di parti crescenti dell'ebraismo, oltre che dei protestantesimi di nord e sud America) sta producendo nella sua pars destruens contro la democrazia sono già ingenti. In Italia il 70% dei cittadini si è dichiarato a favore dell'eutanasia, ma la Chiesa è riuscita a bloccare perfino una legge incredibilmente moderata sulle coppie di fatto. E per il 12 maggio è prevista una gigantesca manifestazione clericale di massa benedetta dalla conferenza episcopale italiana. E come da copione, anche quella spagnola annuncia una nuova fase offensiva. Mentre il mondo laico, per disattenzione o per opportunismo, tace (e l'attacco contro la scienza darwiniana intanto dilaga, dalla Casa Bianca alla cattedrale di Vienna).

 

 


La Stampa 5-4-2007 Tronchetti licenzia Rossi. Escluso dalla lista del consiglio Telecom. Pistorio verso la presidenza. FRANCESCO SPINI

MILANO
Porta in faccia a Guido Rossi e duello con Mediobanca-Generali. Dalla lista presentata da Olimpia in vista dell’assemblea Telecom, il nome del professore non c’è. Marco Tronchetti Provera, numero uno di Pirelli, non usa il guanto di velluto e con un coup de théâtre dà il benservito al suo avvocato storico, sfilandolo dalla lista targata Olimpia stilata in vista dell’assemblea che tra dieci giorni ridisegnerà la plancia di comando della compagnia telefonica. In pole position per la presidenza, al contrario, secondo le indiscrezioni, ci sarebbe Pasquale Pistorio, già presente in Cda come consigliere indipendente, fondatore di StMicroelectronics e favorevole quando si profilò l’ipotesi Telefonica. E nei salotti della finanza italiana scoppia la battaglia con un doppio duro comunicato targato Mediobanca e Generali cui Pirelli è costretta a replicare.

Che la giornata si presenti complicata, lo si capisce subito, da quando nel pomeriggio inizia un lungo comitato esecutivo di Mediobanca a cui oltre al vicepresidente esecutivo di Telecom, Carlo Buora, partecipa per tre ore lo stesso Rossi. Scartata in partenza l’opportunità di presentare una propria lista, monta il nervosismo per la mossa spiazzante di Tronchetti. Il tutto, in tarda serata, sfocia in comunicato durissimo: Generali e Mediobanca comunicano con una nota che «la lista presentata da Olimpia per la nomina del consiglio di Telecom Italia non è stata preventivamente condivisa» all’interno del patto di consultazione creato il 18 ottobre scorso con la Pirelli, l’Edizione Holding dei Benetton e Olimpia. Il che tradotto significa che l’accordo di una settimana fa in cui si conveniva sulla «continuità» con l’attuale struttura del consiglio e sulla «sintonia con la presidenza» a lista fatta si è tramutato in carta straccia.

Non solo. Piazzetta Cuccia e il Leone promettono battaglia anche in casa Tronchetti, visto che richiedono «l’immediata convocazione del patto di sindacato di blocco» delle azioni della società della Bicocca. I due azionisti, che hanno sempre considerato strategica la partecipazione in Pirelli, insomma, non gradiscono il ruolo di semplici spettatori. Guerra aperta, insomma. Tanto che a ruota, arriva la risposta di Pirelli, secondo cui il patto «non prevede alcun obbligo per i partecipanti di consultarsi in merito all’indicazione di candidati al Cda di Telecom». E aggiunge che nella lista di Olimpia fanno parte Renato Pagliaro di Mediobanca e Aldo Minucci di Generali che «hanno espressamente accettato, con apposita dichiarazione la relativa candidatura». Tronchetti Provera inoltre risponde piccato alla richiesta di convocazione del patto di Pirelli: «Nel caso ne ricorrano le condizioni e risultino soddisfatti i relativi requisiti la direzione verrà convocata nei modi e nei termini previsti dal patto stesso».

Nel frattempo si muovono possibili cordate alternative all’offerta presentata dagli americani At&t e dalla messicana America Movil, già al lavoro, con l’advisor JpMorgan, per passare al setaccio i conti di Olimpia. Ieri, ad esempio, sono circolate - ne parlava anche il Wall Street Journal - le ipotesi di un ritorno di Telefonica con una new entry della partita, France Télécom. Entrambe avrebbero allacciato contatti con Intesa-Sanpaolo, Mediobanca e Generali (ma al lavoro ci sarebbero anche Capitalia e Deutsche Bank) per verificare la possibilità di mettere sul tappetto una controfferta. Senza contare che sempre indiscrezioni vogliono l’interesse da parte dei tedeschi di Deutsche Telekom che, però, si dicono «non interessati».

Troppe notizie, troppi tamburi che battono senza sosta. Anche per questo Piazza Affari tiene sotto pressione il titolo che anche ieri, pur frenando in chiusura (in giornata arriva a salire di oltre 4 punti percentuali), strappa un +1,47% a 2,408 euro. Ancora sostenuti i volumi: è passato di mano il 4,77% che porta i movimenti degli ultimi tre giorni a movimentare qualcosa come il 16% del capitale. Dalle sale operative più che di una febbre da rilancio si parla di rastrellamenti. Speculazione, anche. Ma pure, secondo qualche operatore, la volontà di creare un nuovo raggruppamento di soci forti che facciano venir meno l’utilità economica di pagare un premio di maggioranza così sostanzioso per controllare il 18% di Telecom (tale è la quota in mano a Olimpia) che oggi basta a controllare la compagnia e quindi costringere At&T e la Mòvil a compiere un passo indietro.

Il pensiero va sempre all’assemblea, dove alle liste di minoranza presentate da Hopa/Holinvest e dei fondi Arca, si aggiunge quella fondamentalmente targata Tronchetti Provera: ci sono il vicepresidente di Pirelli Carlo Puri Negri, il direttore generale Claudio De Conto e Luciano Gobbi, responsabile finanza e pianificazione strategica. Per parte Telecom ci sono il vicepresidente esecutivo Buora e l’amministratore delegato Riccardo Ruggiero. Da tredici passano a sei i consiglieri indipendenti.

 

 

 


Europa 5-4-2007 Pelosi in Siria, il dopo-Bush è già iniziato di GUIDO MOLTEDO

Non era mai successo che, nel campo della politica internazionale, e in particolare sul terreno più delicato, quello mediorientale, Washington mostrasse al mondo due posizioni così diverse. Anzi, contrapposte.
Quella della Casa Bianca e quella del Congresso. La politica estera, specie nei momenti di crisi, è sempre stata caratterizzata da una sostanziale bipartisanship tra repubblicani e democratici, tra presidenza e Campidoglio.
La missione mediorientale di Nancy Pelosi, con la tappa di due giorni a Damasco, segna una rottura clamorosa rispetto a questa tradizione.
Ma, a ben vedere, non siamo di fronte semplicemente all’esplicitazione di una linea diversa rispetto a quella presidenziale.
Altro che «messaggi contraddittori lanciati nella regione», come ha commentato il presidente Bush. Il viaggio della Speaker della House invia un solo messaggio, estremamente chiaro, ai paesi dell’area e al mondo: la linea internazionale dell’amministrazione in carica è da considerarsi ormai un brutto reperto storico, da archiviare; quella dei democratici – oggi maggioranza al Congresso e il prossimo anno verosimilmente con un proprio esponente alla Casa Bianca – è già in corso, è quella con cui fare i conti.
Non è il punto di vista del partito d’opposizione ma di una forza decisa a far pesare tutta la sua forza numerica e il consenso nel paese per condizionare oggi la presidenza Bush e precostituire l’indirizzo di governo dei democrats, domani, quando avranno loro in mano le chiavi dell’amministrazione.
L’iniziativa della Madam Speaker segue di poco il doppio voto, alla camera e al senato, che impone il ritiro delle truppe statunitensi dall’Iraq, il prossimo anno. I democratici sanno che l’operazione sarà complessa, per- fino drammatica, e intendono creare fin da adesso le condizioni perché in tutti i paesi della regione ci sia un clima propizio che accompagni la strategia d’uscita. In una situazione di tensione come quella attuale, e in prospettiva anche peggiore – il conflitto tra Israele e Palestina, quello all’interno del Libano, e due paesi-chiave come la Siria e l’Iran sotto costante pressione – sarebbe inimmaginabile lasciare l’Iraq. Il paese mesopotamico resterebbe in preda al conflitto etnicoreligioso che lo dilania, un conflitto che farebbe corto circuito con quelli in corso o che covano sotto la cenere nella regione. L’intero Medio Oriente diventerebbe quello che è l’Iraq oggi.
Nancy Pelosi può già contare sul sostegno di Israele, il paese intorno a cui ruota la strategia americana nell’area.
Attraverso la leader democratica, il premier israeliano Olmert ha fatto sapere al presidente siriano Assad di essere pronto a colloqui diretti. Se la spola mediorientale di Condoleezza Rice è stata intensa quanto infruttuosa, la repentina iniziativa di Nancy Pelosi dà risultati sostanziosi che fanno bene sperare. Per ora, solo di speranza si può parlare, trattandosi di una regione a dir poco instabile e imprevedibile nell’arco di ore più che di giorni. Eppure, la disponibilità israeliana e l’ostentato calore dell’accoglienza siriana confermano che, agli occhi dei protagonisti mediorientali, il presidente repubblicano è percepito come un’anatra zoppa – e, dunque, la sua segretario di stato non ha il potere per negoziare credibilmente – e che i democratici sono già con un piede nella stanza dei bottoni. È con loro che bisogna trattare.
Lo stesso Mahmoud Ahmadinejad se n’è reso conto, se ha lanciato ieri – certo, a modo suo – un’offerta di dialogo agli Stati Uniti nel giorno in cui metteva fine al braccio di ferro con il loro principale alleato.
Sfoderando sorrisi e dosi massicce di buonismo.
Scenari futuri a parte, la svolta di Nancy Pelosi è la boccata d’aria fresca che da tempo il mondo si aspettava da Washington.
La ragionevole, saggia fiducia nella forza del dialogo e del negoziato che, normalmente, si fa con chi non la pensa come te, a volte perfino con il tuo nemico. La superiorità dell’attitudine all’ascolto rispetto all’affermazione, spesso brutale, del puro potere militare. Il multilateralismo.
Ecco, in Nancy Pelosi si vedono all’opera i tratti della migliore tradizione democratica.
Dell’America più rispettata che temuta.
Benvoluta, non subita. Di un’America “amica” a cui è anche riconosciuto un ruolo positivo, decisivo, nel mondo.
In questi anni di bushismo, è passata l’idea che l’America fosse entrata in una lunghissima fase storica dominata dal “pensiero unico” neoconservatore, temperato da alcune sue varianti “neoliberal”, in dissenso non con il merito della politica internazionale interventista e unilateralista, ma solo con i metodi. L’intervento in Iraq era sacrosanto, ma gestito malamente, è il succo di queste posizioni alla Walzer e alla Berman. Gli stessi che, una volta scoperto il bluff delle armi di distruzione di massa, avevano approvato l’intervento perché comunque rovesciava un dittatore. E, una volta deposto il tiranno, che bisognava combattere contro i terroristi in Iraq. E poi che non si poteva lasciare l’Iraq in mano ai terroristi.
L’ombra lunga dell’ideologia dei nipotini di Leo Strauss ha influenzato anche il dibattito europeo e influenza tuttora quello italiano. Non solo pesa sul modo d’intendere le relazioni con Washington: l’assunto sottostante è che non c’è alcuna diversità tra democratici e repubblicani e che entrambi gli schieramenti hanno la stessa concezione dell’interesse nazionale e di come tutelarlo. Ma soprattutto, quest’ideologia ha pesato e pesa sulla concezione e sulla pratica della nostra politica internazionale. Per dire, l’idea di negoziare con il nemico è bollata come un’eresia e un’onta per chi la propugna.
Apochi giorni dalle polemiche contro Fassino, reo di aver proposto una conferenza internazionale sull’Afghanistan, con la partecipazione dei talebani, sarebbe divertente sentire cosa dicono quei critici di Nancy Pelosi che si mostra alle tv del mondo affabilmente a colloquio con il capo di uno stato canaglia come Bashar Assad.
Ma di fronte alla prospettiva di una nuova epoca caratterizzata dalla “distensione” – un po’ come avvenne tra Usa e Urss dopo la crisi dei missili – non sarebbe utile soffermarsi in polemiche retrospettive.
Tanto più che la svolta segnata dal viaggio di Pelosi è considerevole dal punto di vista simbolico ma è ancora tutta da costruire, ed è esposta alla rivincita dei falchi.
L’importante è ora sostenerla, con lo sguardo rivolto al futuro.
è già iniziato


Il Riformista 5-4-2007 Se tre ore vi sembran poche, pensate a Mr. Kissinger. di Anna Momigliano


La puntualità non è mai stata tra le virtù di Henry Kissinger, e su questo non ci piove. Per esempio, quando lo scorso week-end il leggendario ex segretario di Stato ha annunciato in pompa magna che «è impossibile vincere una guerra in Iraq», Bush si è guadagnato tutte le nostre simpatie: scusa, Henry, non me lo potevi dire prima? Quattro anni fa, la stessa informazione sarebbe risultata assai più utile. Detto ciò, proprio non si capisce perché un ritardo di tre ore stia generando tutto questo dibattito erudito. E non si parla neppure di Iraq, bensì di un conflitto che si è concluso più di 30 anni fa, ovvero la guerra del Kippur. I fatti sono questi: un noto storico americano, Robert Dallek, già biografo di Kennedy, sta per pubblicare un nuovo libro, dedicato al complesso ménage tra Nixon e Kissinger. Vanity Fair (edizione americana) ha pubblicato un’anticipazione, disponibile anche su internet, che rivela l’impensabile: nel lontano 20 ottobre del 1973, quando siriani ed egiziani lanciarono un duplice attacco a sorpresa contro Israele, immersa nel giorno più sacro del calendario ebraico, l’allora segretario di Stato aspettò ben tre ore (3 ore e 25 minuti, per la precisione) prima di avvisare il presidente Nixon.
Perché tanta lentezza? La comunicazione da Gerusalemme era arrivata alle 6 di mattina, ora di Washington. Il fatto che Kissinger non avesse voglia di buttare giù dal letto Nixon, che non è certo passato alla storia per il suo buon carattere e che in quei mesi doveva vedersela con lo scandalo Watergate, all’alba di un sabato non sfiora l’immaginario di Dallek. Deve per forza esserci una spiegazione politica: «Kissinger doveva tutto il suo potere alla debolezza di Nixon» e di conseguenza era nel suo interesse «mantenere il presidente all’oscuro dei fatti». Dalle 6 alle 9,25 di mattina. Intanto, lo scoop di Dallek è rimbalzato sulla stampa israeliana, che ha preso la cosa molto sul serio. Haaretz fornisce persino un’interpretazione alternativa dei fatti: Kissinger avrebbe rimandato la comunicazione per dissuadere il presidente da eventuali tentazioni interventiste a favore degli israeliani. Questo, tra l’altro, farebbe cadere il mito secondo cui un segretario di Stato di origine ebraica (dopo Kissinger c’è stata anche la Albright) non può essere distaccato nei confronti di Israele. Eppure lo stesso Nixon, secondo lo storico Dallek, avrebbe espresso dubbi, dal sapore antisemita, sulle origini di Kissinger: «Non importa quanto sia obiettivo, un ebreo non può occuparsi di Medio Oriente. Lì hanno massacrato la sua stessa gente, lì hanno crocifisso Gesù, e lì sono arrivati milioni di persone che fuggivano dai forni nazisti: com’è possibile essere obiettivi?». Non ce ne vogliano i sostenitori di Nixon, però riesce difficile pensare a Kissinger come un sentimentale. E non ce ne voglia Dallek, ma non serviva il suo libro, con tanto di aneddoto sulle tre ore di ritardo, per dimostrarlo.


 

Italia Oggi 5-4-2007 L'annuncio a Varsavia del commissario alla giustizia Franco Frattini. Sarà Eurosur a vigilare sulle frontiere esterne

 

Ue Prende slancio la cooperazione giudiziaria per la protezione delle frontiere esterne dell'Unione europea. Sarà infatti lanciato entro il prossimo anno Eurosur, il sistema unico europeo di sorveglianza delle frontiere marittime e terrestri dell'Ue. Lo ha annunciato il commissario alla giustizia Franco Frattini, in occasione dell'inaugurazione dei nuovi locali dell'Agenzia Frontex, a Varsavia. L'Unione europea deve sorvegliare una frontiera terrestre e costiera che si estende rispettivamente su 6 mila e 85 mila chilometri. L'Agenzia Frontex risponde perciò alla duplice necessità di un'impostazione comune e di una solidarietà europea riguardo al fenomeno della migrazione. E inoltre rende possibili nuovi sviluppi tecnologici alle frontiere esterne dell'Unione. In previsione di sistemi che controlleranno attraverso la raccolta di dati biometrici i viaggiatori registrati in ingresso e in uscita presso le frontiere esterne, Frontex sta comunque già conseguendo risultati operativi. Appena una settimana fa una nave battente bandiera nordcoreana è stata intercettata in mare aperto in prossimità delle acque territoriali senegalesi da due navi vedetta, una spagnola e l'altra italiana, nel quadro dell'operazione Hera III, coordinata dall'Agenzia. L'episodio della nave, che sarebbe stata diretta nel Regno Unito, dimostra ancora una volta che la sorveglianza delle coste europee è una sfida comune per tutta l'Europa, e non soltanto per alcuni stati membri. L'immigrazione clandestina, infatti, non si limita alle frontiere tradizionali, e dunque sembra necessario che anche le istituzioni comunitarie (comprese quelle giudiziarie) si adeguino a tale realtà. Come sostenuto nella recente dichiarazione di Berlino, secondo Frattini 'è necessario lavorare insieme per gestire il fenomeno della migrazione'. D'altronde la libera circolazione dei cittadini in uno spazio senza frontiere è uno dei principali obiettivi realizzati dalla cooperazione giudiziaria europea. Questa va di pari passo con la protezione delle frontiere esterne dell'Ue, nell'ambito della quale l'Agenzia Frontex svolge un ruolo fondamentale. Per ulteriori informazioni sulle attività del vicepresidente Frattini, si veda il sito.http://www.ec.europa.eu/commission_barroso/frattini/index_en.htm.

 


La Repubblica 4-4-2007  L'Italia scopre il web 2.0. "Io posto, dunque sono" Il 56% degli internauti italiani visita i siti con contenuto user generated
Ma c'è chi teme che la New Internet faccia la fine della New Economy

 

SI CHIAMA Web 2.0, ed è il futuro di internet. E' una rete fatta di community, mondi virtuali, blog e di contenuti generati dagli utenti. Ed è già qui: ne sono un esempio siti come My Space, Wikipedia e YouTube, per fare qualche nome. La novità è che il Web 2.0 piace agli italiani. Che preferiscono passare il loro tempo su Wikipedia o su Twitter piuttosto che sui siti di eCommerce e di eGovernment. A gennaio, secondo i dati di una ricerca della Nielsen/NetRating, il 56% dei navigatori italiani, più di 11 milioni di persone, ha visitato almeno una volta i siti Web 2.0.

Insomma, nonostante il tipico ritardo italiano nell'adozione delle nuove tecnologie, la rivoluzione della rete ha attecchito anche nel Belpaese. E adesso, il traffico su Web 2.0 italiano è quarto in Europa per grandezza, dietro Inghilterra, Germania e Francia. Paesi che hanno una maggior penetrazione della banda larga.

Tra gli internauti italiani, ad essere più affascinati dai nuovi servizi sono i cosiddetti "heavy user", gli utenti che si collegano alla rete più assiduamente della media. Quelli, per dare i numeri, che si collegano a internet almeno 44 volte ogni mese. Visitano soprattutto le Communities, che a gennaio hanno raggiunto gli 8 milioni di utenti unici. Ma anche quei servizi che la ricerca Nilesen mette sotto la categoria Giants: Wikipedia, MySpace e, soprattutto, YouTube, che hanno raggiunto quota 7 milioni.

"Gli utenti hanno uno stimolo particolare ad affacciarsi alla finestra dell'online con continuità", spiega Daniele Sommavilla, vicepresidente sud Europa di Nielsen/NetRatings. "Vogliono condividere un'informazione, un parere, un'esperienza. Si sente la necessità di collegarsi soprattutto per verificare se qualcuno ha risposto allo stimolo messo in rete precedentemente".

E' il legame di dipendenza che si crea tra gli utenti di Blog. Che infatti sono in terza posizione, con 4,4 milioni di utenti italiani. "La gente pensa: posto, dunque sono - spiega Rishad Tobaccowala, CEO della società di consulenza Denou - è un modo per sentirsi vivi. E di condividere le proprie conoscenze o opinioni con gli altri".

Gli italiani sembrano pensarla nello stesso modo. Wikipedia, che nell'ultimo anno è cresciuta del 122%, è stata il Giant che ha raggiunto il risultato più modesto: YouTube ha segnato un +1034%, e MySpace uno spaventoso incremento del 1295% degli utenti unici. Ad essere presi in contropiede sono soprattutto i grandi publisher della rete. Che temono che il Web 2.0 gli soffi i lettori. In un anno, dopotutto, la categoria "Web 2.0" è entrata direttamente al quinto posto nella top ten delle preferenze degli internauti nostrani. E il prossimo anno potrebbe superare in utenti unici i siti di news.

Ma il boom ha suscitato i dubbi di più di un'analista. O'Reilly Media, a cui si deve il termine "Web 2.0", aveva definito la nuova era di internet come "la rivoluzione commerciale dell'industria informatica, che trasformerà internet da semplice rete di connessione a luogo d'incontro".

Per l'Economist, però, il Web 2.0 è "un'idea affascinante, ma che non ha a che fare necessariamente con il successo commerciale. "Troppe aziende competono nello stesso mercato senza un solido modello di sviluppo - si legge nel reportage dal titolo "Bubble 2.0" - rischiamo di trovarci di nuovo di fronte all'esplosione di una bolla speculativa. Come ai tempi della famigerata New Economy". Bolla 2.0, appunto.

(4 aprile 2007)

 


Trentino 5-4-2007 Corruzione, maxi risarcimento La Corte dei Conti chiede 237 mila euro ad Arlati e Dal Rì Contestati i danni di immagine patiti dalla Provincia nella vicenda degli appalti truccati LUCA PETERMAIER

 

TRENTO. Uno - Pierpaolo Dal Rì - confessò di essersi intascato poche migliaia di euro per agevolare alcuni amici imprenditori nella gare d'appalto. L'altro - Giancarlo Arlati - per qualche favore qua e là ammise di aver ricevuto in regalo una lavatrice. Valore 258 euro. Per il codice penale questa si chiama corruzione e ora ai due ex funzionari pubblici (il primo si è licenziato, il secondo è andato in pensione) è arrivata la batosta della Corte dei Conti che - per i danni patrimoniali e di immagine provocati alla Provincia - chiede loro un maxi-risarcimento: 237 mila euro. Nei giorni scorsi alle difese dei due funzionari pubblici è arrivato l'atto di citazione a giudizio firmato dal procuratore regionale presso la Corte dei Conti Salvatore Pilato e dal collega Carlo Mancinelli. Il conto finale dei magistrati è il frutto di un calcolo molto semplice. Secondo i magistrati il danno erariale corrisponde alla retribuzione dei due funzionari spalmata su tre anni, dal 2002 al 2005, periodo durante il quale si sarebbero consumati gli illeciti. Per il geometra Dal Rì la stima è di 103 mila euro, per Arlati 134 mila euro. Nelle 29 pagine dell'atto di citazione la procura ricostruisce le fasi della vicenda partendo dal patteggiamento dei due funzionati concluso nel settembre del 2005. Per Pierpaolo Dal Rì la pena finale fu di 1 anno e 8 mesi di reclusione, con un risarcimento di 25 mila euro. Arlati trovò un accordo su 1 anno 1 mese, con il risarcimento di 258 euro: il prezzo esatto della lavatrice. L'accusa principale per entrambi era di corruzione e secondo la procura regionale "le fonti di prova dimostrano che l'associazione a delinquere è stata organizzata per agevolare l'aggiudicazione dei lavori conferiti in appalto dal Servizio gestione strade della Provincia ad imprenditori privati, legati da rapporti di amicizia e interesse economico". Nell'atto di citazione viene spiegato che "la percezione della tangente costituisce innanzitutto una irreversibile lesione della legalità e dell'efficienza dell'agire amministrativo e poi costituisce anche una radicale infrazione delle regole del mercato e della libera concorrenza". Insomma, la mazzetta è di per sé indice della sussistenza di danno erariale, anche per la lesione di interessi non patrimoniali quali l'immagine e il prestigio della Provincia. Un messaggio rivolto a tutti i dipendenti pubblici: attenzione a quello che fate, perché la lesione della rispettabilità dell'ente pubblico potrebbe ricadere sulle vostre tasche. Nel caso di Arlati e Dal Rì il conto è stato salatissimo: 237 mila euro (più gli interessi) per i quali la procura regionale chiede il pagamento in solido. Loro, gli imputati, si sono difesi in modo diverso. Arlati ha spiegato che il suo ruolo gli impediva qualsiasi tipo di incidenza nelle decisioni sull'affidamento dei lavori. Dal Rì, invece, ha escluso qualsiasi tipo di "sodalizio criminoso" con Arlati spiegando di aver già risarcito i danni patrimoniali.


INDICE 4-4-2007

++ Il Corriere della sera 4-4-2007 Iran: amnistia per i soldati britannici.  Il presidente iraniano: ««Nessuno scambio, un dono per motivi umanitari. Se Bush e il suo governo cambiano disposti a riprendere rapporti diplomatici

++ La Repubblica 4-4-2007 Telecom, lo scontro sale di tono Olimpia esclude Guido Rossi dal cda. La controllata da Marco Tronchetti Provera non ha ricandidato l'attuale presidente. Polemica nel centrosinistra tra Fassino e Giordano sul possibile ruolo di Mediaset

++ La Stampa 4-4-2007 Evasione fiscale in calo nel 2006

+ Il Correre della Sera 4-4-2007 L'Eni vince l'asta per gli asset Yukos. Lo riferisce l'Interfax

+ La Stampa 4-4-2007  ANALISI Banche all’attacco Allo studio l’ipotesi di arrivare allo scontro con Pirelli in assemblea FRANCESCO MANACORDA, ARMANDO ZENI

+ La Stampa 4-4-2007 Marinai, 24 ore per evitare lo scontro. Il no di Bush : «Il sequestro è indifendibile». Il governo di Baghdad svela: «Trattativa segreta per uno scambio di prigionieri» MAURIZIO MOLINARI

La Repubblica 4-4-2007 Trapani, arrestato per mafia l'ex vicepresidente della Regione. Sarebbe stato "a disposizione" delle cosche del trapanese interessate agli appaltiBartolo Pellegrino, leader del movimento "Nuovca Sicilia" era stato assessore regionale al Territorio e Ambiente

Il Riformista 4-4-2007 Dottorandi come pentiti di mafia. di Massimiliano Gallo  1

Il Riformista 4-4-2007 LEGGE ELETTORALE I dubbi del Botteghino e la bozza che non c’è  1

La Stampa 4-4-2007 Unione, bozza d'intesa sulla legge elettorale. ANTONELLA RAMPINO   2

La Repubblica 4-4-2007 Cuneo fiscale, sfida dell'Italia alla Ue Il governo notifica a Bruxelles il piano confermando le esclusioni dai tagli ALBERTO D'ARGENIO   3

Il Sole 24 Ore 3-4-2007 Nuove rendite catastali in oltre 7mila comuni (L’elenco) 4

Il Riformista 4-4-2007 La Spd: anche i talebani alla conferenza afghana di Anna Momigliano  4

La Repubblica 3-4-2007 L'Independent: "I marinai catturati dopo un blitz Usa contro agenti iraniani" Il giornale inglese spiega l'origine della crisi: gli americani tentarono di arrestare in Iraq due importanti agenti di Teheran. Ma fallirono  5.

Punto-informatico.it  4-4-2007 Le biblioteche italiane scoprono Skype. Il celebre software VoIP non solo consente di risparmiare, ma apre a un dialogo del tutto nuovo con gli utenti della biblioteca, e velocizza le procedure

 


++ Il Corriere della sera 4-4-2007 Iran: amnistia per i soldati britannici.  Il presidente iraniano: ««Nessuno scambio, un dono per motivi umanitari. Se Bush e il suo governo cambiano disposti a riprendere rapporti diplomatici

Ahmadinejad consegna medaglie ai soldati iraniani autori della cattura

TEHERAN - I 15 soldati britannici catturati lo scorso 23 marzo da parte delle forze di sicurezza iraniane per una presunta violazione dello spazio marino dell'Iran saranno amnistiati e liberati mercoledì pomeriggio «come regalo al popolo britannico e per festeggiare la Pasqua e il compleanno di Maometto». Lo ha annunciato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in una conferenza stampa televisiva nella quale ha conferito la medaglia al valore ai tre comandanti responsabili della cattura dei marinai britannici nel Golfo Persico. Ahmadinejad ha poi accusato il Consiglio di sicurezza dell'Onu, incapace a suo avviso di fermare l'invasione dell'Iraq o i «crimini» compiuti in Palestina.
«NESSUNO SCAMBIO» - La liberazione ieri in Iraq di un diplomatico iraniano, Jalal Sharafi, rapito a Bagdad il 6 febbraio scorso, aveva indotto molti osservatori a leggervi una mossa per ammorbidire la posizione di Teheran rispetto alla crisi con la Gran Bretagna. Invece il presidente iraniano ha anche detto che non vi sono rapporti tra il rilascio dei britannici e la sorte dei cinque iraniani catturati dalle forze Usa in Iraq: «Se avessimo dovuto scambiare qualcuno per Jalal Sharafi - ha detto Ahmadinejad sottolineando il valore del diplomatico - avremmo dovuto scambiare centinaia di persone». Il presidente iraniano ha poi respinto l’interpretazione della liberazione dei 15 britannici come il risultato di uno scambio. «Si è trattato di un dono - ha ribadito Ahmadinejad - di una decisione unilaterale presa per motivi umanitari».
«RIPRESA RELAZIONI SE USA CAMBIANO» - Quanto alla possibilità che l'Iran riprenda le relazioni diplomatiche con gli Usa (interrotte dal 1980), Ahmadinejad ha ribadito una posizione espressa ormai da anni dai vertici della Repubblica islamica: «Se il signor Bush e il suo governo cambieranno il loro comportamento, c'è la possibilità che riprendiamo in esame i rapporti con Washington. Abbiamo già detto - ha precisato - che con il comportamento attuale del governo Usa, non solo la nostra nazione, ma nessun'altra nazione sarebbe disposta a riprendere le relazioni. Del resto non siamo stati noi a interromperle». Fu Washington, 27 anni fa, a interrompere le relazioni diplomatiche, dopo la presa di ostaggi nella sua ambasciata a Teheran, avvenuta nel novembre del 1979.
CAMBIO DI TONI - Il presidente del parlamento iraniano, Gholam-Ali Hadad Adel, aveva salutato con favore quello che definisce il «cambio di tono» da parte di Londra.Il governo Blair era intenzionato a risolvere la questione della cattura dei militari attraverso il negoziato. «I britannici hanno cambiato i toni della loro propaganda - ha detto Hadad Adel - e provano ormai a negoziare con l’Iran a proposito dei loro militari intrusi e questa è una buona scelta».
Sulla vicenda è intervenuto anche il leader cubano, Fidel Castro, che ha parlato di provocazione e di similitudini con le vicende degli esuli cubani in Florida. «I validi provvedimenti presi dalla Gran Bretagna negli ultimi giorni - aveva precisato il numero uno del Majlis, parlando con l'agenzia di stampa ufficiale Irna - rendono il tono della loro retorica più logico e, invece che verso la polemica, essi sono adesso orientati al negoziato».

CONTATTI BILATERALI - Martedì sera il governo di Tony Blair aveva fatto sapere di aver proposto a Teheran «discussioni bilaterali dirette» in occasione di «ulteriori contatti» intercorsi con Ali Larijani, segretario del Supremo consiglio iraniano per la sicurezza nazionale nonché capo negoziatore in materia nucleare. Sempre martedì era stato confermato un nuovo incontro tra l'ambasciatore iraniano a Londra, Rasoul Movahedian, e lord David Triesman, sottosegretario agli Esteri britannico e uno dei più stretti collaboratori del ministro Margaret Beckett.
DISTENSIONE E NUOVE TENSIONI - La televisione di Stato iraniana aveva poi diffuso la notizia secondo cui un inviato iraniano incontrerà cinque concittadini detenuti dalle forze Usa, dal giorno del loro arresto a Irbil, nel nord dell’Iraq, avvenuto in gennaio. Secondo il quotidiano del Kuwait, Arab Times, che cita ambienti della Casa Bianca coperti da anonimato, gli Usa sarebbero pronti ad attaccare reattori e impianti nucleari dell'Iran entro la fine di aprile. Un'azione che, sempre secondo Arab Times, il presidente George W. Bush giustificherà con la necessità di interrompere il piano di arricchimento dell'uranio portato avanti da Teheran e con l'accusa di fornire armi e fondi ai gruppi di insorti in Iraq ritenuti causa della morte di centinaia di soldati americani.

04 aprile 2007


++ La Repubblica 4-4-2007 Telecom, lo scontro sale di tono Olimpia esclude Guido Rossi dal cda. La controllata da Marco Tronchetti Provera non ha ricandidato l'attuale presidente. Polemica nel centrosinistra tra Fassino e Giordano sul possibile ruolo di Mediaset

Dietro la decisione il contrasto sulla decisione di offrire l'azienda ad America Movil e At&t

Oggi il comitato esecutivo di Mediobanca affronta il nodo del diritto di prelazione


MILANO - Il presidente di Telecom Italia, Guido Rossi, non è tra i candidati della lista presentata dal socio di maggioranza relativa Olimpia per il rinnovo del cda. I consiglieri proposti sono: Carlo Alessandro Puri Negri, Claudio De Conto, Luciano Gobbi, Gilberto Benetton, Gianni Mion, Carlo Orazio Buora , Riccardo Ruggiero, Aldo Minacci, Renato Magliaro, Paolo Baratta (indipendente), Diana Bracco (indipendente), Domenico De Sole (indipendente), Luigi Fausti (indipendente), Jean Paul Fitoussi (indipendente) Pasquale Pistorio (indipendente), Francesco Gori, Lucio Pinto.
La scelta è probabilmente in relazione ai dissidi fra Marco Tronchetti e Rossi sulle scelte future dell'azienda, con l'ex commissario della Federcalcio schierato contro l'ipotesi di cessione agli statunitensi di At&t e ai messicani di America Movil. Si annuncia dunque una fase quanto mai infuocata per l'azienda telefonica, visto che Rossi aveva già fatto sapere che non sarebbe bastata una sua esclusione formale per convincerlo a farsi da parte. "Anche se la Pirelli avesse deciso di non inserirmi nella lista per il consiglio di Telecom Italia - aveva annunciato Rossi dalle colonne del Sole 24 Ore - mi presenterei ugualmente in assemblea: a tutti gli effetti sono il presidente di Telecom Italia e guiderò l'assemblea. Non intendo dimettermi per nessuna ragione: in gioco c'è il futuro della più importante azienda del paese".
La battaglia per il controllo del colosso delle tlc non si combatterà però solo nel cda di Telecom. Un'altra partita fondamentale è quella prevista nel pomeriggio a Mediobanca, quando il comitato esecutivo del gruppo bancario affronterà il delicato dossier Telecom. Mediobanca, azionista tra l'altro di Pirelli con il 4,45%, è legata in una patto 'leggero' con Generali ed Olimpia nella compagnia telefonica che prevede anche un diritto di prelazione a favore di Piazzetta Cuccia e di Generali che potrà essere esercitato nei 15 giorni successivi alla fine di aprile, data in cui scadrà l'esclusiva della trattativa di Pirelli con gli statunitensi di At&t e i messicani di America Movil.
Davanti al ventaglio di possibili soluzioni sul tappeto, il mondo politico continua intanto a dividersi. Il presidente del Consiglio Romano Prodi non è voluto intervenire sul merito. "Di Telecom non parlo", si è limitato a commentare. Ma nell'Unione inizia a serpeggiare qualche malumore. Se ieri il leader dei Ds Piero Fassino si era raccomandato che la proprietà della rete telefonica rimanga comunque pubblica, senza escludere però la possibilità di un'offerta da parte di Mediaset, oggi il segretario di Rifondazione Franco Giordano ha preso subito le distanze. "Sono d'accordo con la proposta di Fassino sul mantenimento della rete pubblica di Telecom, ma sono assolutamente contrario sul rapporto Telecom-Mediaset perché siamo in un clamoroso quanto irrisolto conflitto di interessi", ha spiegato Giordano.
(4 aprile 2007)


++ La Stampa 4-4-2007 Evasione fiscale in calo nel 2006

 

I dati emersi dal rapporto annuale 2006 presentato oggi dalla Guardia di Finanza

ROMA
Quattro miliardi di Iva evasa. È questo uno dei principali risultati del lavoro svolto dalla Guardia di Finanza ed emerso dal Rapporto annuale 2006 presentato oggi dal Comandante generale dell’Arma, il Generale Roberto Speciale. Nel 2006 la Guardia di Finanza ha verbalizzato rilievi per Iva dovuta e non versata per 3,97 miliardi: è questo il picco più alto registrato negli ultimi 10 anni con un incremento del 38% nella media del decennio (dal ’96 in poi).

Fra gli altri dati piu significativi, i redditi per il recupero della tassazione si sono attestati a 16,8 miliardi. Si tratta del secondo risultato più elevato dal 2000 in poi. Altrettanto si può dire per il sequestro di beni, ai sensi della normativa Antimafia, pari compessivamente a un miliardo e per le denunce di 1.072 persone indiziate di riciclaggio, che rapresentato il massimo storico del decennio scorso. Quattro sono i settori in cui si è concretizzata la lotta all’evasione: per quanto riguarda l’economia sommersa sono stati scoperti 7.288 evasori totali. Scoperta una base imponibile di 8,4 miliardi sfuggiata a tassazione e accertata e l’impeigo di 30.906 lavoratori in nero e irregolari. Per frode fiscale sono stati denunciati 7.231 soggetti per un’Iva evasa di 1,6 miliardi, il 60% in più dell’anno precedente. Per quanto riguarda l’indebita richiesta di credito Iva sono state effettuate 6.700 verifiche nei confronti di contribuenti che avevano contabilizzato crediti d’imnposta 1,3 miliardi.

Infine, il piano di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale internazionale ha portato all’individuzione di una base imponibile non soggetta a tassazione per 2,3 miliardi. Da mensionare anche il piano di controlli sull’emissione di scontrini e ricevute fiscali che sono state più rapide: i controlli sono stati 381 mila e riscontrati rilievi in 84 mila casi. Per quanto riguarda le accise sono state 5.500 le verifiche complessive. La lotta alla criminalità organizzata ha portato al sequestro di beni per oltre un miliardo concentrati soprattutto in Sicilia, Campania e Puglia, con 1.963 sequestri pari al 23% in più rispetto al 2005. Il contrasto al riciclaggio ha portato alla denuncia di 1.072 persone di cui 181 arrestati.

«La presentazione del rapporto ha luogo in un momento in cui il Paese vive un momento delicato di crescita e per questo motivo l’azione di vigilanza e controllo della Guardia di Finanza, in primo luogo per combattere l’evasione e l’elusione fiscale, diventa una leva essenziale per assicurare allo Stato risorse finanziarie da destinare allo sviluppo«, ha detto il Generale Speciale nel corso della presentazione. Per quanto riguarda gli obettivi per l’anno in corso, sono due quelli da seguire in particolare: «la lotta all’evasione e il contrasto alla crimialità economica, così come richiesto dala direttiva del ministro dell’Economia. Punteremo, inltre, a rafforzare l’attività investigativa e di cooperazione internazionale, con verifiche a campagna o a progetto, oltre che calibrare le scelte non solo in base al rischio di evasione della categoria ma anche sulla loro solvibilità».


+ Il Correre della Sera 4-4-2007 L'Eni vince l'asta per gli asset Yukos Lo riferisce l'Interfax

 

Il prezzo per le attività gas del gruppo russo, inclusa la quota del 20% di Gazprom Neft, è stato di circa 4,4 miliardi di euro

 

MILANO - Enineftegas, il consorzio formato da Eni ed Enel, ha vinto l'asta per alcune attività del fallito gigante energetico privato russo Yukos. Lo comunica l'agenzia Interfax.
GARA - Enineftgas pagherà 151,536 miliardi di rubli (5,83 miliardi di dollari o circa 4,4 miliardi di euro) per le attività gas del gruppo russo, Arcticgas e Urengoil, inclusa la quota del 20% di Gazprom Neft, la divisione petolifera russa di Gazprom. Nell'asta per le attività gas di Yukos erano rimasti in gara in tre: Eni, la società petrolifera russa a controllo statale Rosneft e Yunitex, che secondo indiscrezioni stampa agiva per conto di Gazprombank, parte del monopolista russo del gas Gazprom.
RISERVE - L'intesa permette all'Eni di raggiungere due obiettivi: l'aumento di circa un terzo delle riserve di gas e petrolio e l'entrata sul mercato russo, uno dei mercati strategici del settore. L'accordo risulta anche la contropartita dell'intesa raggiunta con i russi nei mesi scorsi.
OPZIONE DI ACQUISTO - In precedenza Eni e Gazprom avevano firmato un accordo su una opzione di acquisto da parte del colosso russo del 20% di azioni di Gazpromneft compresi nel lotto all'asta. Secondo quanto riferisce l'Interfax, l'opzione di acquisto sarà valida tre anni ed Eni avrà un posto nel consiglio di amministrazione del colosso russo.

04 aprile 2007


+ La Stampa 4-4-2007  ANALISI Banche all’attacco Allo studio l’ipotesi di arrivare allo scontro con Pirelli in assemblea FRANCESCO MANACORDA, ARMANDO ZENI

L’ultima tentazione delle banche? Il confronto, se non lo scontro, all’assemblea Telecom del 16 aprile con Olimpia e il suo azionista di maggioranza Pirelli. Mentre tra Intesa e Mediobanca si continua la nuova fase istruttoria - dopo il colpo di scena dell’offerta messico-americana arrivata a Tronchetti - per capire quali siano le soluzioni tecniche in grado di riportare Olimpia in area creditizia senza però sborsare quei 2,82 euro che da oltreoceano si dicono pronti a pagare, c’è anche chi pensa a una via diretta e un po’ più brutale per tenere Telecom in mani italiane e Marco Tronchetti Provera in un angolo. La regia di questa operazione si può cercare proprio nelle banche più esposte finora per trovare una soluzione «di sistema», ma anche un passo più indietro. Il presidente di Capitalia Cesare Geronzi è ad esempio assai attivo in queste ore, quasi teso ad assicurarsi un ruolo di protagonista in una vicenda che inquieta assai il mondo politico e - a giudicare dalle reazioni - preoccupa oggi i ds più di Prodi e i suoi uomini. Un ruolo tutt’altro che smentito, quello del presidente di Capitalia, anche se da ambienti a lui vicini non si accredita invece l’idea di un Geronzi disposto a preparare uno scontro in assemblea con Tronchetti. E nel nuovo scenario si ritrovano anche le Fondazioni bancarie. Sempre evocate quando si tratta di interventi «di sistema», nelle ultime settimane sembravano essersi messe un po’ in disparte. Adesso invece, con l’ovvio consenso del mondo politico si ripensa a un loro coinvolgimento. C’è già chi - come la Fondazione Cariplo e la torinese Crt - al round precedente aveva fatto capire di essere disposta ad intervenire.
Lo scenario non è complicato: se Olimpia governa adesso Telecom con il 18% del capitale, nominando i quattro quinti del cda, una nuova maggioranza superiore a quel 18% che si presentasse in assemblea potrebbe mostrare la sua forza e di fatto annullare non solo il premio di maggioranza che oggi Pirelli chiede, ma anche l’interesse di qualsiasi soggetto a comprare proprio una quota di Olimpia, che diventerebbe a quel punto il secondo e non più il primo azionista di Telecom. Insomma alle banche che intendessero attuare questa controffensiva a tappeto servirebbe il 20-25% del capitale di Telecom per contrastare il 19,35% cui al momento arrivano la quota Olimpia e la partecipazione diretta di Pirelli nella società telefonica.
Fantafinanza? Non è detto. Ci sono alcuni elementi che vanno messi in fila. Il primo riguarda gli scambi boom sul titolo Telecom, che in due giorni hanno visto passare di mano l’11% del capitale. Fatta la tara della speculazione, sfrondati gli acquisti dalle coperture dei fondi di investimento, c’è chi è pronto a giurare che un 6-7% almeno del capitale Telecom sia approdato nelle ultime 48 ore in mani vicine a quelle dei grandi istituti che stanno cercando una soluzione «di sistema». Del resto c’è una parte del capitale Telecom che è già in mani bancarie o in mani amiche delle banche. L’elenco? il 4% delle Generali che hanno come socio di maggioranza relativa Mediobanca, l’1,9% della stessa Mediobanca che ha come principale socio bancario Capitalia. Questi due soggetti, pur oggi legati a un patto parasociale con Olimpia, non avrebbero dubbi su dove posizionarsi in caso di scontro tra Tronchetti e le banche. E poi si può aggiungere anche un 2% circa della società che appartiene a Romain Zaleski, vicino al presidente di Banca Intesa Giovanni Bazoli, e a voler forzare un po’ le cose anche un altro 3,7% oggi posseduto dalla Hopa, dove i soci bancari sono ormai numerosi e importanti. In tutto si arriva già oltre l’11%: un’altra quota di pari peso costa - ai prezzi attuali - circa 8-9 miliardi di euro. Non sarebbe un investimento impossibile per banche e Fondazioni e soprattutto sarebbe un investimento fatto lontano dai 2,82 euro che chiede Pirelli, visto che la chiusura di ieri del titolo era a 2,37 euro. Certo, un’operazione di questo genere avrebbe almeno due controindicazioni. La prima sarebbe quella di sancire una sorta di guerra aperta fra Tronchetti e il mondo delle istituzioni finanziarie. Se si trovasse privato dei potenziali privilegi che quel 18% di Telecom controllato attraverso Olimpia gli attribuisce oggi, il presidente della Pirelli potrebbe essere tentato a sua volta di fare qualche mossa spericolata. E l’uomo sta dimostrando anche in questi mesi di dare il meglio si se stesso proprio quando sembra con le spalle al muro.
Seconda controindicazione, più sostanziale, è la possibilità di giustificare di fronte al mercato e all’opinione pubblica internazionale un eventuale intervento delle banche nel capitale della Telecom senza la presenza di un socio industriale, anzi con il probabile effetto di spingere via i due potenziali soci con passaporto industriale che si sono presentati finora. Anche per questo ci sarebbe in queste ore un nuovo fiorire di contatti sia da parte degli istituti sia da parte della stessa Telecom, per cercare nuovi possibili partner industriali europei. I nomi che circolano sono quelli della spagnola Telefonica e di Deutsche Telekom. ma c’è anche chi non esclude che alla fine i soci americani possano essere accolti con l’«abbraccio» delle banche italiane. Il presidente di Telecom, Guido Rossi, ha già dato l’ok ai manager per incontrare i nuovi soci e ieri il vicepresidente Carlo Buora ha visto l’ad di at&t, Edward Whitacre, e il direttore finanziario Richard Lindner.


+ La Stampa 4-4-2007 Marinai, 24 ore per evitare lo scontro. Il no di Bush : «Il sequestro è indifendibile». Il governo di Baghdad svela: «Trattativa segreta per uno scambio di prigionieri» MAURIZIO MOLINARI

CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Conto alla rovescia per la soluzione della crisi dei soldati britannici detenuti in Iran grazie a un possibile scambio di prigionieri, ma se entro domani non si scioglierà l’impasse Londra, con il sostegno di Washington, accrescerà la pressione su Teheran a cominciare dall’Onu.

«Le prossime 48 ore sono critiche» ha detto ieri il premier britannico Tony Blair, poco dopo che l’ambasciatore di Londra all’Onu aveva avvertito i membri del Consiglio di Sicurezza sull’incombente inizio di un’offensiva diplomatica tesa ad accrescere l’isolamento della Repubblica islamica dell’Iran. Se la Gran Bretagna si prepara a un duello all’Onu con Teheran è perché la soluzione è arrivata a un passaggio decisivo: fonti del governo iracheno hanno svelato l’esistenza di una richiesta iraniana di ottenere da Washington la liberazione di cinque pasdaran catturati ad Irbil in gennaio in cambio del rilascio dei 15 soldati inglesi catturati nello Shatt El Arab. Sebbene Londra smentisca ufficialmente il negoziato su uno scambio che ricorda la Guerra Fredda, qualcosa di simile sul terreno sta già avvenendo: il diplomatico iraniano Jalal Sharafi è stato rilasciato dalla milizia irachena che lo aveva sequestrato due mesi fa ed è tornato subito a Teheran. I pasdaran hanno sempre accusato Washington di essere dietro il rapimento di Sharafi e dunque la sua liberazione lascia intendere l’esistenza di una trattativa segreta, che potrebbe coinvolgere anche i pasdaran arrestati ad Irbil. L’assenza di conferme ufficiali e la complessità di una trattativa che vede coinvolti anche gli Stati Uniti rendono tuttavia lo scenario di un accordo assai precario, anche perché Washington ha presentato una richiesta formale a Teheran - attraverso canali diplomatici elvetici - per avere notizie dell’ex agente dell’Fbi misteriosamente scomparso sull’isola di Kish.

A conferma che l’escalation della crisi potrebbe essere dietro l’angolo vi sono le parole pronunciate dal presidente americano George W. Bush alla Casa Bianca: «Il sequestro dei marinai britannici è indifendibile, sostengo Blair nella ricerca di una soluzione pacifica e lo sostengo con determinazione anche nella scelta di non accettare "qui pro quo" quando si tratta di ostaggi». Ciò significa che Washington si oppone allo scambio di prigionieri con Teheran e sostiene invece Londra nella ricerca di una soluzione che non garantisca agli iraniani alcuna vittoria politica. Tanto più che la pressione contro il programma nucleare iraniano resta alta. «E’ il cardine della nostra politica nei confronti di Teheran» ha sottolineato Bush, dicendo di «prendere molto sul serio il loro tentativo di arrivare all’arma atomica» pur senza spingersi fino a confermare le indiscrezioni della tv Abc secondo la quale Teheran sarebbe in grado di fabbricare un ordigno nel 2009.

Se passate le «48 ore» indicate da Blair i 15 soldati inglesi dovessero essere ancora nelle mani di Teheran, il prossimo passo di Londra potrebbe avvenire al Consiglio di Sicurezza con la richiesta di una condanna esplicita del sequestro attraverso una dichiarazione della presidenza di turno - ricoperta dai britannici - oppure con una risoluzione. Nei contatti diplomatici già in corso si accenna a un testo che condanna Teheran per la violazione della Convenzione di Ginevra - a causa dell’esposizione pubblica dei soldati catturati - e delle basilari norme di rispetto dei diritti umani per via dell’impossibilità dei soldati di avere contatti con il proprio consolato e, più in generale, di ricevere qualsiasi tipo di visite, incluse quelle della Croce Rossa. Ad avvertire il rischio che i pericoli nel Golfo potrebbero aumentare è Mosca, il cui viceministro degli Esteri Andrei Denissov ha ammonito Washington: «Faremo di tutto per impedire un attacco vicino ai nostri confini». E lo stato maggiore russo ha aggiunto: «Gli Usa possono colpire Teheran ma non vincerebbero una guerra».

 


La Repubblica 4-4-2007 Trapani, arrestato per mafia l'ex vicepresidente della Regione. Sarebbe stato "a disposizione" delle cosche del trapanese interessate agli appaltiBartolo Pellegrino, leader del movimento "Nuovca Sicilia" era stato assessore regionale al Territorio e Ambiente

 

TRAPANI - Manette a Trapani per l'ex vicepresidente della Regione siciliana, Bartolo Pellegrino, 73 anni, leader del movimento politico "Nuova Sicilia". Il politico è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione.
Il gip Antonella Consiglio ha concesso gli arresti domiciliari per via dell'età dell'indagato.
Pellegrino, fra il 2001 e il 2003, ha ricoperto anche la carica di assessore regionale al Territorio e Ambiente nell'amministrazione guidata da Totò Cuffaro. L'ex vicepresidente della Regione è accusato di avere ricoperto il ruolo di cerniera fra i mafiosi e la politica. Per i pm della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, Pellegrino sarebbe stato a disposizione per interventi di tipo amministrativo o politico in favore degli interessi della mafia. Il politico, sostengono gli investigatori, avrebbe inoltre concordato con i boss l'individuazione di possibili candidati a elezioni politiche, ma anche l'aggiudicazione di gare d'appalto, come quella per i lavori della funivia Trapani-Erice. Attualmente Pellegrino era impegnato in una serie di accordi politici in vista delle elezioni amministrative di maggio.
L'indagine della squadra mobile trapanese, denominata "Progetto mafia e appalti Trapani" costituisce uno sviluppo di attività investigative che il 24 novembre del 2005 avevano già portato all'arresto di Francesco Pace, 65 anni, "reggente" di Cosa nostra a Trapani, e di altre 11 persone. A Pace oggi è stato notificato in carcere un nuovo ordine di custodia.
L'inchiesta ha coinvolto anche il direttore tributario dell'Agenzia del demanio Francesco Nasca, 61 anni, e gli imprenditori Vincenzo Mannina 46 anni, Michele Martines, 37 anni, e Mario Sucamele, 52 anni, quest'ultimo in passato già indagato per mafia

(4 aprile 2007)

 


Il Riformista 4-4-2007 Dottorandi come pentiti di mafia. di Massimiliano Gallo


Ce lo hanno già ripetuto in tutte le salse che per gustare un po’ di giornalismo in tv bisogna guardare Le Iene oppure Striscia la notizia. Una solfa che abbiamo ascoltato più volte e a dirla tutta ci ha persino stufato. Poi, però, capita che un lunedì sera torni stanco dal lavoro e ti ritrovi a guardare proprio le Iene di Italia1. Dove, tra un fantastico reportage sul tristissimo compleanno di Marina Occhiena, l’ex bionda dei Ricchi e Poveri, e un noiosissimo numero di magia, parte un servizio di Alessandro Sortino, che denuncia il mancato versamento di contributi Inps da parte di numerose università italiane a dottorandi o contrattisti, i famigerati co.co.co.
Quel che ci ha colpito, però, non è tanto la questione in sé (ormai siamo rassegnati quasi a tutto), quanto la modalità di denuncia. Dopo aver intervistato due gruppi di giovani lavoratori che mostravano il loro estratto conto Inps a somma zero, Sortino ha infatti centrato la sua attenzione su un caso specifico. Quello di una giovane co.co.co. che, non avendo ricevuto tre mesi di cosiddetti versamenti consolidati - e aver invano protestato presso gli uffici competenti - non può godere dei cinque mesi di astensione obbligatoria dal lavoro previsti in caso di gravidanza. Informazioni, queste, che Sonia - non si sa se il nome è autentico o meno - ha fornito con una voce camuffata, davanti a una telecamera che inquadrava solo il suo pancione e omettendo di rivelare l’università di appartenenza. Proprio come fanno i pentiti, che si fanno intervistare di spalle, lasciandosi paperinizzare la voce per paura di ritorsioni. Ma, per quel che ne sappiamo, l’università dovrebbe essere diversa dalla mafia. E la rivendicazione di un proprio diritto, in uno Stato civile, da parte di una futura mamma dovrebbe avvenire a volto scoperto. Se non altro per consentire ai responsabili dell’errore di potersi scusare con la diretta interessata.

 


 

Il Riformista 4-4-2007 LEGGE ELETTORALE I dubbi del Botteghino e la bozza che non c’è

Bisogna o no dar credito alle voci che ieri pomeriggio, subito dopo l’annuncio della «quadra» trovata all’interno dell’Unione sulla legge elettorale, davano conto dell’«irritazione» di Piero Fassino sulla gestione del dossier? Il dubbio rimane, anche se nelle vicinanze del segretario - sempre ieri - indicavano la via del dialogo come unica via d’uscita dall’impasse.
Ci sono due punti-chiave nella vicenda che lega la riforma elettorale agli umori della guida del principale partito del centrosinistra. Al Botteghino, infatti, continuano a mettere l’accento sui «tanti, troppi ostacoli» disseminati lungo il percorso stabilito. E, soprattutto, la Quercia non sembra avere alcuna intenzione di richiamare quei «compagni» (che tra l’altro sono tutti firmatari della mozione del segretario) impegnati nel comitato referendario.
Dal vertice del centrosinistra, animato dai capigruppo dell’Unione, è emersa una linea di sostegno alla «proposta Chiti» e un niet di fatto al referendum. La discussione è stata animata. Franceschini, a nome dell’Ulivo, aveva esordito specificando agli altri componenti del tavolo che «l’unica proposta unitaria che possiamo prendere in questa sede è chiedere al comitato referendario di rinviare di un anno la raccolta delle firme». L’intervento dei “piccoli” (col mastelliano Fabris che chiedeva «il ritiro di tutti gli ulivisti dal comitato Guzzetta» e Russo Spena su posizioni più morbide, ma comunque ferme) ha ricacciato il lodo Franceschini in alto mare.
Risultato: il no politico ai quesiti referendari è stato messo nero su bianco, al pari del sì al modello Chiti. Una vera e propria «bozza», al contrario di quanto si dice in giro, non c’è. Nemmeno nelle stanze del ministero delle Riforme. Di conseguenza, si continua a ragionare sugli atti di indirizzo del ministro diessino (proporzionale sul modello del Tatarellum, vincolo di coalizione, premio di maggioranza e - ancora una volta - no alle preferenze).
Morale? An e Lega rispondono con un sì timido, Forza Italia continua a tenere le carte coperte, l’Udc a sbandierare il modello tedesco. E se i più scontenti di tutti fossero proprio i Ds?

 


 

La Stampa 4-4-2007 Unione, bozza d'intesa sulla legge elettorale. ANTONELLA RAMPINO

 

Accordo sulla proposta Chiti: «Confronto col Polo»

ROMA
Ripartire dalla bozza Chiti. Alla fine di due intensissime riunioni, con in campo di prima mattina Prodi, Fassino e Rutelli, l’Unione trova l’accordo, e trionfalmente lo comunica. Si parte dalla bozza Chiti, l’unico minimo comun denominatore possibile, stante che i Ds vogliono il sistema spagnolo (come messo a punto in un pre-vertice tenuto da Fassino), i piccoli da Rifondazione ai Verdi il sistema tedesco, e c’è il problema - non irrilevante - di approntare un marchingegno elettorale che permetta all’Udc di presentarsi da solo (specularmente, la Cdl punta invece a forzare Casini a presentarsi con Berlusconi). E la «bozza Chiti» mette d’accordo tutti perché è solo un sommario che definisce una legge proporzionale senza preferenze (nessun partito le vuole, pare, perché ormai i segretari si sono affezionati a truppe di parlamentari non eletti ma designati), con la quale al momento del voto si scelgono premier e coalizione, che aumenta sensibilmente il numero delle circoscrizioni, e che però sul punto cruciale, quello capace di affondare il coltello nelle divisioni, resta sul vago: la soglia di sbarramento è inversamente proporzionale al premio di maggioranza, come dire che tanto più alto è quest’ultimo, tanto più bassa sarà l’asticella per l’accesso dei partitini al Parlamento. L’Unione però alla fine del secondo vertice di giornata, quello di Chiti con i capigruppo, si premura di specificare che andranno varate anche alcune riforme costituzionali, dal superamento del bicameralismo perfetto con l’istituzione del Senato federale, al premierato forte (con poteri di revoca dei ministri), alla riduzione del numero dei parlamentari. Correzioni niente affatto minimali, che richiedono anni per essere messe a punto, come l’esperienza insegna. E così, mentre Lega e An plaudevano alla «bozza Chiti», che «in fondo non è tanto dissimile da quella di Calderoli», che del resto ricalca il modello delle regionali, come spiega Matteoli e come sottolinea lo stesso Calderoli, arriva l’altolà di Forza Italia: «Riforma costituzionale e riforma elettorale non sono conciliabili». Il senso del niet di Renato Schifani è chiarissimo: Prodi starà in piedi finché ci sarà da fare la legge elettorale, e questa ha senso produrla entro la primavera 2008 per fermare il referendum, nessun allungamento dei tempi per riforme istituzionali.

L’altro fronte è proprio quello con i referendari. Non a caso la riunione dell’Ulivo con Prodi è stata in gran parte dedicata al tema «come fermare il referendum». Dario Franceschini in quella sede ha proposto di chiedere ai referendari, che guardacaso albergano tutti in seno all’Ulivo, di rinviare il referendum. Proposta rimandata al vertice dell’Unione: quando Franceschini l’ha riproposta in quella sede s’è trovato di fronte la rivolta dei piccoli, a cominciare da Rifondazione. Oggetto del contendere, la presenza nel comitato dei referendari di importanti ulivisti. Invece di chiedere ai referendari di rimandare, cosa che finirebbe solo per rafforzarli, imponete piuttosto a Parisi e Melandri di uscire dal comitato, ha obiettato Mauro Fabris dell’Udeur. E alla fine, una volta placate le acque, s’è dovuto mettere in chiaro il no fermo dell’Unione al referendum che in tre quesiti, abrogazione delle coalizioni, premio di maggioranza alle liste singole (e non coalizzate), impossibilità di candidarsi in più di un collegio, si propone in pratica di arrivare a qualcosa di molto simile al bipartitismo. L’esito dei vertici unionisti, che riprenderanno il 12 aprile con l’incontro tra Prodi e i segretari dei partiti di centrosinistra, ha immediatamente irritato i referendari. Bravissimi, han fatto sapere, ma noi il 24 cominciamo la raccolta delle firme: per quella data, sarebbe possibile avere per iscritto la legge elettorale sulla quale l’Unione ha trovato l’accordo?

 


 

La Repubblica 4-4-2007 Cuneo fiscale, sfida dell'Italia alla Ue Il governo notifica a Bruxelles il piano confermando le esclusioni dai tagli ALBERTO D'ARGENIO

 

Muro contro muro, ma dietro le quinte della trattativa c'è il convincimento che alla fine il provvedimento dovrà per forza cambiare BRUXELLES - Dopo mesi di contatti informali sull'asse Roma - Bruxelles, la partita sul cuneo fiscale entra nel vivo con la speranza che si concluda entro maggio. Come confermato dal ministro per le Politiche comunitarie, Emma Bonino, la notifica del provvedimento inserito in Finanziaria "è partita tra lunedì sera e martedì mattina". Si tratta dell'atteso passo formale che investe ufficialmente la Commissione Ue del dossier. Formalmente il governo mantiene la propria linea, sostenendo la compatibilità con le norme Ue dell'esclusione dagli sgravi fiscali per public utilities, banche e assicurazioni. Anche se dietro le quinte nessuno crede che, salvo clamorosi ripensamenti della Commissione, la norma resterà così. Il documento inviato in queste ore a Bruxelles contiene il provvedimento nudo e crudo corredato da una serie di spiegazioni sul perché Roma ha deciso di escludere alcuni settori dal suo perimetro. Insomma, un riassunto delle puntate precedenti che contiene le argomentazioni già illustrate a Bruxelles in tre incontri informali e nei carteggi tra gli sherpa del governo e quelli del commissario Ue alla Concorrenza, Neelie Kroes, che, assicurano, "hanno avvicinato le parti eliminando una serie di malintesi". Anche se dal ministero dell'Economia fanno sapere di essere "convinti" della propria posizione, a nessuno sfugge che i dubbi della Commissione sulla "selettività" degli sgravi saranno difficili da superare. Ciononostante al momento il governo può solo notificare ciò di cui dispone, ovvero il testo della Finanziaria e la sua spiegazione. Per gli accordi ci sarà tempo, fattore che però rischia di diventare il nemico numero uno di Roma. La Kroes ha due mesi per dare un responso sul cuneo. Un termine che per il governo andrebbe bene perché consentirebbe alla misura di entrare in vigore entro giugno. Ma l'imprevisto è dietro l'angolo: i ricorsi presentati da banche e assicurazioni (Abi e Ania) contro l'esclusione dai benefici fiscali pesano come macigni e costringeranno la Commissione ad andare avanti con i piedi di piombo prima di prendere una decisione. E poi un minimo intoppo, come una semplice richiesta di informazioni, potrebbe allungare i tempi, rimandando a dopo l'estate l'adozione degli sgravi. A Roma si attende una presa di posizione ufficiale della Kroes, i cui emissari fino ad oggi hanno sempre confermato le proprie perplessità ma senza mai dire con chiarezza come cambiare il taglio dell'Irap. E qui gli scenari sono molteplici. Gli italiani sono convinti che con una lunga battaglia legale riuscirebbero a convincere la Ue che l'esclusione del settore finanziario è compatibile con le norme sugli aiuti di stato, ma un simile confronto allungherebbe troppo i tempi. E gli addetti ai lavori non nascondono che se la Ue minaccerà di bocciare la misura, cosa al momento verosimile, alla fine il governo dovrà mollare e concedere il cuneo a banche e assicurazioni. Stesso discorso per le public utilities, come Fs, Telecom, Eni ed Enel: nei colloqui informali sembrava essere emersa una via d'uscita che prevedeva l'allargamento del cuneo ai concessionari a patto che venisse concesso un periodo transitorio per modificare le tariffe di alcuni settori che già premiano il costo del lavoro. Un punto poi passato in secondo piano e lasciato in sospeso visto che le discussioni si sono concentrate su banche e assicurazioni.

 


 

Il Sole 24 Ore 3-4-2007 Nuove rendite catastali in oltre 7mila comuni (L’elenco)

Aggiornata la banca dati catastale per il settore agricolo sulla base delle dichiarazioni dei contribuenti. Dalla Gazzetta Ufficiale del 2 aprile riprendiamo l'elenco degli oltre 7mila comuni (riportati in ordine alfabetico, per provincia) che hanno rivisto le rendite sulla base delle variazioni colturali denunciate dagli agricoltori nelle dichiarazioni del 2006.
Gli agricoltori hanno 60 giorni di tempo per fare ricorso alla Commissione tributaria provinciale. La contestazione potrà riguardare la variazione dei redditi adottata dal Catasto.

 

Clicca qui per consultare l'elenco

 


 

Il Riformista 4-4-2007 La Spd: anche i talebani alla conferenza afghana di Anna Momigliano


Intavolare una conferenza di pace per l’Afghanistan: l’idea è partita dall’Italia, ed ora sta raccogliendo le risposte di alcuni alleati Nato, ovvero Germania e Turchia, nell’ordine di endorsement. Includere i talebani al tavolo negoziale: anche questa seconda proposta è stata lanciata per la prima volta in Italia, dal segretario Ds Piero Fassino, ma finora i leader e i politici dei paesi europei si erano ben guardati dal commentare un’iniziativa tanto delicata. Fino a ieri, quando è giunta l’adesione di Kurt Beck, presidente del partito socialdemocratico tedesco. E’ tempo di dialogare con i talebani più moderati, ha detto Beck in un’intervista alla radio Deutsche Welle, mentre si trovava in visita ufficiale a Kabul, dove ha incontrato il presidente Hamid Karzai. Tuttavia, il leader dell’Spd ha anche sottolineato che chi non accetta di porre fine alle violenze non può fare parte dei negoziati.
La proposta di Kurt Beck ha suscitato reazioni contrastanti all’interno dello stesso governo tedesco. Il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, anch’egli rappresentante dell’Spd, ha accolto la proposta con cauto ottimismo: «Anche la leadership afghana ha espresso il desiderio di includere maggiormente tutte le forze che accettano di rinunciare alla violenze e che sono disponibili ad agire in maniera costruttiva rispetto al governo», ha detto il capo della diplomazia tedesca, esprimendo posizioni che sembrano coincidere con quelle di Beck, ovvero trattare con i talebani, ma solo a patto che depongano le armi. Steinmeier ha anche espresso la disponibilità ad ospitare la conferenza in Germania, come già avvenuto nel 2004. Rolf Mützenich, portavoce dell’Spd alla Commissione affari esteri del Bundestag, ha subito espresso il suo pieno sostegno alla linea Beck: una conferenza che includa dei rappresentanti dei talebani è «essenziale per portare stabilità nel paese». Commenti positivi sono giunti anche dai Verdi. La destra della Grosse Koalition, invece, ha bocciato l’idea senza mezzi termini: Eckart von Klaeden, responsabile esteri della Cdu, ha definito quella di Beck «una proposta avventata», mentre secondo Karl Guttenberg, rappresentante della politica estera della Csu, i negoziati metterebbero a repentaglio la sicurezza dei soldati impegnati nella missione Isaf. Proprio in questi giorni, intanto, stanno arrivando a Kabul i sei Tornado dell’aviazione tedesca. I caccia dovrebbero svolgere funzioni di ricognizione e d’intelligence per la Nato, senza prendere parte ad azioni violente, eppure il loro dispiegamento ha creato qualche malumore nella sinistra della coalizione.
L’inclusione dei talebani al tavolo di pace, dunque, è un ulteriore motivo di divisione all’interno della Koalition. Eppure, il governo di Berlino è unito nel sostenere la proposta, lanciata dalla Farnesina, che una conferenza di pace s’ha da fare, e al più presto. La cancelliera Angela Merkel fu la prima, dopo D’Alema, ad esprimere il suo impegno a favore di una conferenza. Badando bene, però, a non sbilanciarsi sulla composizione. Ieri, comunque, all’endorsment di Berlino si è aggiunto quello di Ankara. L’annuncio è arrivato da Egemen Bagis, parlamentare del partito di governo Akp e consigliere del premier Recep Tayyip Erdogan per la politica estera. «In questo momento, è necessario fare tutto il possibile per creare un nuovo sostegno internazionale per la stabilizzazione dell’Afghanistan, in particolare da parte dei paesi confinanti», ha detto Bagis, che nei prossimi giorni sarà a Roma, in un’intervista al quotidiano di lingua inglese Turkish Daily News. Il consigliere di Erdogan ha posto l’accento sul ruolo cruciale che il Pakistan dovrebbe giocare nella futura conferenza, che secondo Bagis dovrebbe svolgersi in Italia. Il politico turco non si è sbilanciato però sull’eventuale inclusione dei talebani al tavolo di pace. «La Turchia sostiene l’iniziativa Italiana per l’Afghanistan», titolava ieri il Turkish Daily News.


 


 

La Repubblica 3-4-2007 L'Independent: "I marinai catturati dopo un blitz Usa contro agenti iraniani" Il giornale inglese spiega l'origine della crisi: gli americani tentarono di arrestare in Iraq due importanti agenti di Teheran. Ma fallirono

 

I quindici militari inglesi sarebbero stati presi per rappresaglia

 

LONDRA - La crisi dei 15 militari britannici arrestati dall'Iran ha origine in una operazione fallita dagli americani, che intendevano arrestare due capi dell'intelligence iraniana mentre questi erano in visita ufficiale in nord Iraq: lo rivela oggi l'Independent, ricordando che alla fine in quel blitz furono arrestati i cinque presunti agenti di Teheran ancora nelle mani degli Usa.

Nelle prime ore del mattino dell'11 gennaio forze americane a bordo di elicotteri attaccarono un ufficio di collegamento iraniano nella città curda di Erbil, senza notificare nulla alle autorità irachene o curde. Il loro obiettivo erano due pezzi da novanta dei servizi iraniani: Mohamed Jafari, capo del consiglio di sicurezza nazionale, responsabile della sicurezza interna, Minojahar Fruzanda, capo dell'intelligence della Guardie rivoluzionarie. I due erano in visita ufficiale in Kurdistan, e avevano già visto il presidente iracheno Jalal Talabani e Massud Barzani, capo del governo regionale curdo. E proprio il capo dello staff di Barzani, Fuad Hussein, ha detto all'Independent: "Gli americani miravano a Jafari. Pensavano fosse in quell'ufficio". La presenza di Fruzanda ad Erbil al momento del raid americano è stata invece confermata da Sadi Ahmed Pire, capo dell'ufficio di Talabani a Baghdad. Il ministro degli Esteri iraniano Manuchehr Mottaki disse all'epoca chiaramente che il bersaglio erano i due alti dirigenti "che erano in Iraq per sviluppare la cooperazione nel settore della sicurezza bilaterale".

La gravità del gesto americano, scrive il giornale, avrebbe dovuto far temere a Usa e GB una ritorsione contro la Coalizione, in particolare nella zona vulnerabile del Golfo, dove 10 settimane dopo sono stati arrestati i 15 marinai e marines. Washington ha detto che i cinque iraniani arrestati erano sospettati di "essere strettamente legati ad attività contro la coalizione e le forze irachene". Ma ad Erbil non è mai stato ucciso nessun militare americano, o della coalizione, dice l'Independent, e il blitz seguì un discorso di George Bush, il 10 gennaio, in cui diceva che "l'Iran dà sostegno materiale per gli attacchi contro le truppe americane".


 

Punto-informatico.it  4-4-2007 Le biblioteche italiane scoprono Skype. Il celebre software VoIP non solo consente di risparmiare, ma apre a un dialogo del tutto nuovo con gli utenti della biblioteca, e velocizza le procedure

 

Punto Informatico investiga sul fenomeno, partendo dall'esperienza di Empoli.

Roma - Incrementare la soddisfazione dell'utenza, ridurre i tempi di fornitura del servizio e risparmiare denaro: alla biblioteca "Renato Fucini" di Empoli hanno ottenuto la quadratura del cerchio, realizzando i tre obiettivi cardine della Pubblica Amministrazione. E lo hanno fatto attraverso l'adozione della tecnologia Skype per migliorare le comunicazioni interne alla struttura e con gli utenti del servizio. "È il modo migliore per evitare lunghe attese in compagnia della segreteria telefonica e alleggerire la bolletta del Comune", scherza ma neanche troppo Maria Stella Rasetti, 46enne direttrice della biblioteca, con una laurea alla Normale di Pisa e una passione per le tecnologie che l'ha portata ad aprire un proprio spazio sul Web per condividere la passione per i libri e la cultura.

Punto Informatico: Com'è nata l'idea di utilizzare Skype in biblioteca?
Maria Stella Rasetti: Si è trattato di un "reato" al contrario: interesse pubblico in atti privati. A inizio anno un mio collega mi ha parlato con entusiasmo del programma che utilizzava in casa e mi ha invitato a sperimentarlo in biblioteca. È stata una folgorazione: dopo i primi tentativi, abbiamo capito che poteva avere un effetto dirompente sulla nostra capacità di comunicazione con gli utenti e per far fronte alle ristrettezze di bilancio tipiche della Pubblica Amministrazione. Per qualche giorno lo abbiamo sperimentato, dedicando ore del tempo libero alla messa a punto della comunicazione, quindi siamo partiti a pieno regime. È il classico esempio di una passione nata nel tempo libero e trasformatasi in una strategia di lavoro.

PI: È possibile fare un primo bilancio a tre mesi dall'avvio dell'iniziativa?
MSR: Il tempo trascorso è troppo breve per fornire delle cifre sui risparmi ottenuti. Di certo ogni giorno riceviamo e facciamo decine di telefonate a costo zero con altri utenti Skype. Non solo: abbiamo adottato il programma anche per uso interno. La videochiamata consente di scambiarci informazioni sullo stato di avanzamento dei lavori in agenda praticamente in tempo reale, con una resa migliore rispetto alla cornetta.

PI: Quanto denaro si può risparmiare con Skype?
MSR: Per ora siamo posizionati su piccole cifre, comunque registriamo un chiaro trend di crescita. Difficile pensare che il risparmio economico derivante dall'uso di questo nuovo mezzo possa raggiungere una massa critica tale da richiedere un vero e proprio cambiamento delle voci di bilancio, tuttavia qualsiasi risparmio è il benvenuto perchè consente di destinare le risorse ad altre necessità della struttura.

PI: Come incide Skype sulla componente tempo? Il programma, infatti, è spesso considerato un'arma a doppio taglio: il miglioramento dell'efficienza e il risparmio dei costi rispetto alla cornetta potrebbe spingere a conversazioni più lunghe
MSR: Nel nostro caso il responso è stato largamente positivo, soprattutto dal lato utente. Infatti la chat richiede una risposta immediata, un sì e no al volo, senza logoranti tempi di attesa con la segreteria attivata. È un passo avanti importante per chi si trova dall'altro lato della cornetta.

PI: Cosa non si può fare con Skype?
MSR: Non si possono fornire i servizi più complessi. Ad esempio non si può costruire attraverso la videochiamata un percorso bibliografico tagliato sui gusti dell'utente. Tuttavia, per queste necessità ci sono altri canali. Possono bastare pochi secondi per prendere un appuntamento, definire tempi e modalità di una consulenza, fornire informazioni su alcune caratteristiche del servizio, per poi magari rimandare l'approfondimento alla posta elettronica o a un incontro in sede. Utilizziamo un sistema di comunicazione integrata che prevede anche sms, newsletter via email e servizi di reference on line attraverso i form web. Presto attiveremo anche un blog per il nostro gruppo di lettura.

PI: Avete provato a delineare un profilo dell'utente tipo che si rivolge a voi con questo strumento?
MSR: Abbiamo a che fare con un'utenza molto differenziata, sia per fasce d'età, sia per attitudini e abitudini con le nuove tecnologie, e quindi dobbiamo sempre giocare su tavoli diversi, offrendo una gamma il più possibile ampia di opzioni, anche sul fronte tecnologico. Per il momento, prevalgono gli utenti giovani, ma non giovanissimi, che già disponevano di un account Skype. Negli ultimi giorni, invece, abbiamo registrato molti casi di persone che, leggendo le informazioni su questo nuovo servizio, hanno chiesto notizie sul programma con l'obiettivo di adottarlo: insomma, in qualche modo le abbiamo indotte in tentazione!

PI: Ci sta delineando uno scenario fatto solo di rose e fiori. Davvero in ufficio nessuno ha riscontrato problemi nel passaggio alla tecnologia, non ci sono state riserve o resistenze?
MSR: Il cambiamento più importante riguarda il linguaggio.
Usando Skype, non si può certo dire "la signoria vostra è pregata di restituire il volume in oggetto", come si diceva un tempo. È tutto più familiare, semplice e veloce e il nostro impegno è diretto ad assecondare questa evoluzione. Un nostro utente ci ha scritto: "C6x1 libro?", perché voleva sapere se eravamo aperti in quel momento. Abbiamo risposto "certo che sì" e abbiamo aggiunto un bello smile. Un passo in avanti importante per una struttura che non vuole essere un mero deposito di libri o un museo di cose preziose, ma un luogo di produzione e scambio di idee, attraverso libri e altri media.

PI: Esistono altre biblioteche in Italia che fanno uso di Skype?
MSR: Ne abbiamo censite un'ottantina circa a fine marzo. Un numero di gran lunga superiore rispetto a paesi tecnologicamente più avanzati come Stati Uniti e Inghilterra, ma sugli stessi livelli di Spagna e Portogallo. Non abbiamo fatto rilevazioni scientifiche in merito, ma la sensazione che ricaviamo è di un'adozione diffusa dello strumento nei paesi in cui le risorse per le biblioteche sono più limitate: è il caso dell'Italia, ma anche dei paesi da poco entrati a far parte dell'Unione Europea. Per restare al nostro paese, gli account sono diffusi soprattutto tra le biblioteche piccole e medio-piccole.

PI: Solo una risposta alla limitatezza delle risorse?
MSR: Non è solo questo. Le biblioteche più piccole possono contare anche su una maggiore libertà di manovra. Comunque, stiamo monitorando il fenomeno attraverso uno scambio di impressioni, esperienze e consigli. Presto potrebbe nascere un coordinamento delle biblioteche italiane su Skype.

PI: Un'ultima cosa: qual è l'account al quale gli utenti possono contattarvi?
MSR: Semplice: direzione.biblioteca.empoli

a cura di Luigi dell'Olio


INDICE 3-4-2007

 

++ La Stampa 3-4-2007 Credenti in rivolta: "Siamo cattolici e per i Dico""I vescovi sbagliano, noi non marceremo al Family Day" GIACOMO GALEAZZI 1

++ La Repubblica 3-4-2007 Family day, la Cei detta le regole "Niente vescovi in piazza, ok ai parroci" 2

+ La Stampa 3-4-2007 Mercato e paletti. MARIO DEAGLIO  3

+ La Repubblica 3-4-2007 Sondaggio Ipr Marketing per Repubblica.it: centrodestra al 48% senza Casini. Cdl, cinque punti di vantaggio ma la vera incognita è al centro. Ma il partito dell'ex presidente della Camera, assieme a Follini, non paga lo "strappo" 4

Nell'Unione la difficoltà - ma anche la scommessa - si chiama Partito democratico di MARCO BRACCONI 4

+ Il Corriere della Sera 3-4-2007«Consulenze d'oro» Anas: indagato Pozzi L'inchiesta scaturita da una denuncia del ministro Di Pietro  5

Il Secolo XIX 3-4-2007 Telecom agli stranieri? E' impossibile dire di no  5

Il Corriere della sera 3-4-2007. Telecom - Il negoziato. Le banche e le mosse sulla rete. Vertice tra Salza e il premier. Il piano made in Italy degli istituti. La prelazione Mediobanca-Generali 7

La Repubblica 3-4-2007 A fine febbraio il timore dell'esplosione della bolla immobiliare aveva fatto crollare i listini azionari. Saranno tagliati la metà dei posti di lavoro Mutui a rischio, fallisce la New Century  9

La Nuova Ferrara 3-4-2007Crac Costruttori, verso la chiusura dell'inchiesta: dopo Pasqua previsto il deposito dei primi atti d'accusa Prorogata la perizia sulle banche Un ispettore di Bankitalia indaga sui rapporti tra coop e istituti 9

Finanza e Mercati 3-4-2007 Draghi gela il governo, fisco mai così alto Cautela sulle banche: "Effetto Ias sui conti" 10

Il Riformista 3-4-2007 DUE ANNI DOPO WOJTYLA. La Chiesa assomiglia al cielo? 10

 


++ La Stampa 3-4-2007 Credenti in rivolta: "Siamo cattolici e per i Dico""I vescovi sbagliano, noi non marceremo al Family Day" GIACOMO GALEAZZI

CITTA' DEL VATICANO
Noi al Family day non ci saremo». Aumenta il dissenso nella Chiesa per la crociata sulla famiglia e cresce il fronte dei cattolici «sì Dico», cioè sacerdoti diocesani, comunità di base, associazioni e movimenti ecclesiali che diserteranno la chiamata della gerarchia e degli stati maggiori del laicato alla «guerra santa» contro la regolarizzazione delle unioni di fatto. Sono in molti, nelle diocesi e nel laicato, a ritenere che la prova di forza, l’esibizione «muscolare» di 100mila cattolici in piazza, non giovi alla causa di un istituto (il matrimonio religioso) la cui crisi non accenna ad arrestarsi. No alla kermesse, spiega don Vittorio Cristelli, capofila dei «dissenzienti» in Trentino. «Le manifestazioni di piazza, anche per esigenze di spettacolarizzazione, si caricano di simboli polemici e di sceneggiature satiriche, che estremizzano le tematiche e personalizzano lo scontro», spiega.
E anche tra i movimenti che hanno firmato il manifesto del «Family day» si aprono lacerazioni interne. Nelle Acli, per esempio, l’adesione del gruppo dirigente nazionale alla manifestazione del 12 maggio ha fatto infuriare una fetta consistente della base aclista. Una contrarietà che in alcuni casi si è tradotta persino in pronunciamenti ufficiali, come il clamoroso sì ai Dico della presidenza provinciale delle Acli di Arezzo: «Il ddl Bindi-Pollastrini non tocca l’istituto del matrimonio e nemmeno ne crea un altro simile, ma prende atto di una situazione e attribuisce alcuni diritti non alle convivenze in quanto tali ma ai conviventi, in quanto persone». Quindi no alla partecipazione alla kermesse anti-Dico perché «lo Stato deve occuparsi di tutti i cittadini senza distinzioni e discriminazioni, riconoscendo i loro giusti diritti».
Mentre i cattolici del centrosinistra, dai diessini Mimmo Lucà e Giorgio Tonini agli ex-popolari della Margherita Pierluigi Castagnetti e Antonello Soro provano ad attenuare l’effetto della nota Cei sul ddl Bindi-Pollastrini, nella galassia «bianca» e tra i preti «pro-Dico» sono sempre meno quelli disposti a smussare gli angoli. Non si mobilita affatto contro la legge sulle unioni di fatto, per esempio, il parroco spoletino don Gianfranco Formenton che invece di sfilare a piazza san Giovanni il 12 maggio chiama alla «disobbedienza civile i cattolici impegnati in politica e cresciuti nei valori del cattolicesimo democratico». Un «contro-Family day», praticamente, «in nome del rispetto di tutti, della maturità e della coscienza dei fedeli impegnati in politica considerati, politicamente, dei minorati incapaci di intendere e di volere, cattolicamente». Eppure, aggiunge don Formenton, «nella "res publica" ci sono anche gli omosessuali e i conviventi che hanno il diritto di non veder confinati i loro diritti nel privato ma riconosciuti giuridicamente dallo Stato».
Family day e nota Cei, rincara la dose il parroco aquilano don Aldo Antonelli, dimostrano la «talebanizzazione della Chiesa e l’ideologizzazione della teologia». E a «una gerarchia che non ha occhi per vedere se non se stessa» corrisponde l’«ammutinamento omertoso e interessato di politici abituati all’adulazione e alla prostrazione». La genuflessione, osserva don Antonelli, è «lo sport dominante nei due rami del Parlamento». Diserta il Family day anche don Beppe Scapino, parroco a Ivrea: «I Dico non sviliscono la proposta religiosa del matrimonio come unione tra un uomo e una donna per sempre e non cercano di sostituirsi ad essa, né vogliono imporsi come modello unico ed esclusivo per la società».
Anche l’adesione dell’Azione cattolica al Family day suscita malumori. Una parte della dirigenza, a livello locale e nazionale, è in subbuglio. A Torino, l’appello a favore dei Dico di un gruppo di credenti è stato sottoscritto, tra gli altri, dai responsabili del Settore Adulti dell’Ac torinese Nino Cavallo e Paola Gariglio e dall’amministratore diocesano Stefano Vanzini (tutti e tre membri della presidenza diocesana). Oltre a loro, il presidente del Meic locale Beppe Elia e gli ex responsabili di Ac-ragazzi Domenico Raimondi, Elena Gariglio, Roberta Russo, l’ex responsabile Giovani Luca Bobbio e altri consiglieri. «Sintomo di un malumore diffuso, che ha trovato una sponda anche a livello nazionale: nel corso di una seduta straordinaria della presidenza di Ac - evidenzia l’agenzia cattolica Adista - i vicepresidenti nazionali degli adulti e dei giovani hanno lamentato il ruolo imposto all’associazione dalla Cei, che ha reso l’Ac semplice cinghia di trasmissione dei desiderata della gerarchia verso i credenti e le altre strutture laicali».


++ La Repubblica 3-4-2007 Family day, la Cei detta le regole "Niente vescovi in piazza, ok ai parroci"

 

Il segretario Betori ribadisce comunque il sostegno dei vescovi alla manifestazione
Poi puntualizza le dichiarazioni di Bagnasco sui Dico: "Capito male per colpa delle agenzie"

La Chiesa "preoccupata" anche dal testamento biologico
"Non deve aprire la strada all'eutanasia"

 

CITTA' DEL VATICANO - Piazza vietata ai vescovi, ma via libera ai parroci. Il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, ha ribadito oggi le modalità con cui il clero potrà prendere parte alla manifestazione in programma a Roma il prossimo 12 maggio in occasione del Family day. "La parrocchia - ha spiegato - non è una realtà privata del clero, la loro partecipazione al Family Day dipende da come si organizzeranno al loro interno, certo alcuni parroci vorranno esserci".
L'iniziativa gode comunque, ha ricordato Betori, dell'appoggio della Conferenza episcopale italiana, che a sua volta poggia sul consenso pontificio. "Lo ha detto anche Benedetto XVI - ha precisato Betori - il rischio è quello di seguire aspettative, desideri e brame. Il convergere sui desideri espone al rischio di un passaggio da comportamenti considerati illeciti a comportamenti leciti. Solo se fondiamo su una base forte il riferimento normativo siamo sicuri che questo non accada".
Nel mirino della Chiesa non c'è però solo la possibile legge sulle coppie di fatto, ma anche quella per l'istituzione del testamento biologico. "Siamo preoccupati - ha spiegato Betori - se un eventuale disegno di legge dovesse aprire a una eutanasia di fatto. Il rischio maggiore riguarda il concetto della cura della persona, cioè la possibilità di rinunciare all'alimentazione e l'idratazione che aprirebbe la strada all'eutanasia di carattere passivo".
Il segretario della Cei ha avanzato poi una richiesta specifica ai legislatori: "La volontà del paziente - ha detto Betori - non si può imporre al medico, pena il venir meno della sua stessa funzione. Eventuali disegni di legge dovrebbero essere 'chiusi' in questa direzione, per evitare scivolamenti di carattere eutanasico".
Il segretario della Cei è tornato anche sulle polemiche suscitate dalle parole usate dal presidente Angelo Bagnasco nell'attaccare il disegno di legge sulle coppie di fatto, paragonandole a pedofilia e incesto. "Monsignor Bagnasco - ha spiegato Betori - è stato compreso male, anche a causa dei titoli scelti da agenzie di stampa. Ma il suo richiamo ai fondamenti dell'etica resta valido, al di là degli esempi fatti, che non intendevano mettere sullo stesso piano cose che sono diverse". "Monsignor Bagnasco - ha proseguito Betori - utilizza espressioni sempre articolate e complesse che le agenzie devono ridurre a un titolo. Quel che dispiace è che il dibattito poi prende per riferimento non la notizia ma addirittura il titolo dell'agenzia. Prima di intervenire invece bisognerebbe leggere i testi".
Betori ha poi ricordato che su questo tema la Chiesa è compatta e che "la Nota della Cei sulle coppie di fatto è stata sottoposta e approvata dalla Santa Sede ed è stata votata dal Consiglio Episcopale Permanente con nessun voto contrario e un solo astenuto". Inoltre la prima discussione sarebbe durata due ore, la seconda circa un'ora e mezza. Betori ha riferito quindi che ci sono stati dei cambiamenti, ma nessuna modifica sostanziale.
Quanto alle misure di protezione prese dopo la scritta "vergogna" comparse sulla cattedrale di Genova, Betori ha affermato che "sono misure prese in sede locale, relative alla situazione di Genova. A livello nazionale non abbiamo notizie al riguardo".

(3 aprile 2007)


+ La Stampa 3-4-2007 Mercato e paletti. MARIO DEAGLIO

 

Per quella che una volta ci si compiaceva di chiamare «Italia spa», la giornata di ieri ha rappresentato un durissimo momento della verità. Per Telecom Italia e Alitalia, due delle imprese italiane maggiormente a contatto con l’economia mondiale, sono scattate proposte di acquisto da parte di gruppi stranieri alle quali sarà molto difficile resistere. Se i centri decisionali di queste imprese, e soprattutto di Telecom, saranno trasferiti all’estero, il declassamento dell’Italia produttiva potrà dirsi completato: rimarranno, certo, diversi settori di eccellenza, ma nel complesso il Paese - ormai privo di significative industrie elettroniche, informatiche e di telecomunicazioni e senza un vero settore chimico o farmaceutico - non potrà più dirsi una grande potenza economica, come lo è sicuramente stato dagli Anni Sessanta fin quasi alla fine degli Anni Novanta. Diventerà oggetto più che soggetto delle grandi scelte economiche e industriali. La vittoria «ai punti» di Enel che entra nella proprietà della spagnola Endesa, ma deve cedere molte attività, è un fatto lusinghiero tuttavia non basta a raddrizzare il quadro.
Da tempo il Paese scivola vistosamente e fa di tutto per non accorgersene: tutto intento a discutere su piccoli problemi contingenti, a esempio su come impiegare il «tesoretto» fiscale accumulatosi negli ultimi dodici mesi, si lascerà forse portar via un «tesoro» industriale come Telecom. Politici banchieri e sindacati dovrebbero, come si diceva un tempo, «fare autocritica» ossia interrogarsi, in maniera il più possibile distaccata, su ciò che, nel loro modo di comportarsi, può avere contribuito a determinare il declassamento italiano che ora non si può più nascondere.
Gli imprenditori, dal canto loro, dovrebbero schiettamente domandarsi se le loro qualità sono in linea con i tempi e il settore dell’informazione dovrebbe riflettere sull’esaltazione continua del «made in Italy» e sulla parallela mancanza di attenzione alla scarsissima presenza dell’Italia nelle attività economiche avanzate. Occorre evitare, insomma, che ci si concentri semplicemente su come impedire l’acquisizione di Telecom, come innalzare un muro che tenga gli stranieri fuori dal sacro suolo della patria economica italiana. Gli schieramenti dei «falchi» che vorrebbero una chiusura totale della «fortezza Italia» e delle «colombe» che vorrebbero lasciare il campo totalmente libero al mercato attraversano il governo e la maggioranza che lo sostiene (e anche, sia pure in misura minore, l’opposizione). Queste opinioni opposte sono indizio della confusione o addirittura della mancanza di idee di tutto il Paese sul proprio futuro economico. Si va dal presidente del Consiglio che afferma, attraverso il suo portavoce, che le decisioni del consiglio di amministrazione sono «sacre» e che il governo non può (e non deve) fare nulla, al ministro delle Infrastrutture secondo il quale non bisogna lasciare via libera alla finanza.
Un comportamento realistico potrebbe consistere nel porre «paletti» precisi e internazionalmente accettabili all’azione di Telecom Italia e delle altre società del settore. Di tutte deve essere salvaguardata non già la nazionalità del gruppo di controllo bensì l’oggetto sociale: Telecom Italia deve garantire all’Italia una serie di servizi essenziali e avanzati e ne deve essere assicurata l’autonomia operativa, pur nell’ambito di gruppi multinazionali. Questo implica l’impossibilità di trasferire all’estero le funzioni chiave dell’impresa e il mantenimento dell’azionariato diffuso e della quotazione principale alla Borsa di Milano.
Dovrebbero essere scorporate da Telecom Italia e mantenute sotto controllo italiano attività essenziali nelle quali è ravvisabile un forte interesse nazionale; sarebbe, a esempio, semplicemente assurdo che per un’operazione finanziaria venissero chiusi i laboratori Cselt di Torino che vantano primati mondiali in molti campi informatici e competono con i settori di ricerca dell’At&t. L’Italia, insomma, dovrebbe comportarsi in maniera non dissimile dagli Stati Uniti che, pur in un clima di grande apertura all’estero, impediscono decisamente il controllo straniero di attività ritenute di rilevante interesse nazionale.
È ben possibile che si finisca per andare in questa direzione ma il pericolo maggiore è che, finita l’emergenza immediata, tutto ritorni come prima; che continuiamo a esaltare il nostro ottimo vino e il nostro bellissimo «design», a coltivare un orticello ben curato senza accorgerci che il mondo ci ha ormai sorpassato.
mario.deaglio@unito.it


+ La Repubblica 3-4-2007 Sondaggio Ipr Marketing per Repubblica.it: centrodestra al 48% senza Casini. Cdl, cinque punti di vantaggio ma la vera incognita è al centro. Ma il partito dell'ex presidente della Camera, assieme a Follini, non paga lo "strappo"

Nell’Unione la difficoltà - ma anche la scommessa - si chiama Partito democratico
di MARCO BRACCONI

 

LA Cdl al 48 per cento. L'Unione al 43. Il Centro al 7. E' questa la fotografia della forza elettorale dei tre schieramenti in campo secondo l'ultima rilevazione di Ipr marketing sulle intenzioni di voto. Una istantanea scattata dopo lo "strappo" di Pier Ferdinando Casini sull'Afghanistan e la nuova fiducia al governo, nel mezzo di una fase politica dove molto si muove in modo ancora nebuloso e confuso.
Il primo dato sensibile messo in luce dal sondaggio Ipr per Repubblica.it è la conferma del vantaggio della Casa delle libertà (An, Lega, FI, Dc, Nuovo Psi e Mussolini) sull'Unione. Lo schieramento oggi all'opposizione godrebbe del 48% dei voti, quello che governa il Paese del 43%. Il secondo elemento di interesse è la sostanziale tenuta dell'Udc, che non sembra pagare in termine di consensi la rottura con gli alleati. Il terzo - ed è un a conferma anche questa - è la difficoltà dei due partiti che stanno per dare vita, con una complessa e perfino dolorosa transizione, al Partito Democratico.
Vincere comunque. "Vinceremmo anche senza l'Udc", sostiene Silvio Berlusconi. E' una affermazione che i dati Ipr non avvalorano né smentiscono. La ex Cdl, grazie soprattutto alla crescita di Forza Italia, è infatti maggioranza relativa, ma non assoluta. E la tenuta dell'ex alleato Casini, che assieme a Follini supera di qualche decimale il risultato ottenuto alle politiche 2006 (7% contro il 6,8%), dimostra che in determinate condizioni - con una nuova legge elettorale, per esempio - il progetto centrista può frenare la corsa alla rivincita dell'ex premier. Le cui valutazioni sui numeri, pur non essendo campate in aria, peccano forse di eccessivo ottimismo.
Ciò malgrado i dati ribadiscono la "dipendenza" del Polo dalla "sua" creatura politica: la crescita dello schieramento e il conseguente vantaggio sull'Unione dipendono infatti esclusivamente dalla crescita di Forza Italia, oggi al 27% rispetto al 23,7% della scorsa primavera. Il "barometro" del consenso della ex Cdl, insomma, resta legato a doppio filo al successo del partito del Cavaliere.
L'incognita centrista. Le variabili sono numerose. Dalla legge elettorale al profilo che si darà il partito democratico. Dalla tenuta dei due leader in campo, Prodi e Berlusconi, all'esito delle prossime consultazioni elettorali. Ma per il progetto politico dell'Udc i dati Ipr sono incoraggianti. Con il 7% raggiunto assieme a Follini sembra intanto scongiurata l'emorragia di consensi auspicata dagli ex alleati dopo la rottura. A ciò si aggiunga un certo disorientamento degli elettori cattolici del centrosinistra (si vedano le percentuali del futuro Pd), che sembra lasciare ampi margine di manovra per il futuro.
I voti "sottovuoto". I dati Ipr dicono che tra i partiti dell'Unione la difficoltà - ma anche la scommessa - si chiama Partito democratico. E' infatti al partito che ancora non c'è, ma di cui si parla come se già esistesse, che mancano i voti necessari a tenere testa al centrodestra: mentre le altre formazioni del centrosinistra fanno registrare oscillazioni poco significative, Margherita e Ds navigano attorno a un deludente 25 per cento (alle politiche 2006 era il 31,3%).
E' un dato che va comunque pesato con grande prudenza, proprio in ragione della transizione incorso da diversi mesi. Al di là delle considerazioni più propriamente politiche - dal tasso di "riformismo" dell'alleanza di governo alle polemiche sulle questioni eticamente sensibili - è assai probabile che in questa fase di passaggio l'elettorato Ds-Dl sconti una certa aliquota di disorientamento. Non è un caso che il sondaggio non attribuisca a nessun altro partito della coalizione i consensi perduti dall'Ulivo. Voti che sembrano restare "sottovuoto", in una zona grigia e in attesa di futura collocazione.
Fuori dalla diaspora. Negli ultimi anni sono stati un po' di qua, un po' di là. Tra congressi movimentati e tentativi di allenze laico-riformiste. Ma se i socialisti tornassero tutti assieme, quanto peserebbero? I dati Ipr su questa ipotesi offrono due scenari diversi e una indicazione significativa: agli eredi del Garofano converebbe, in termini di consenso, stare nel centrosinistra. Se infatti il Nuovo Psi si unisse allo Sdi e a Bobo Craxi, lasciando il centrodestra, la potenzialità elettorale del nuovo soggetto sarebbe dal 2% al 4%. Se invece accadesse il contrario, con Craxi e Boselli che si accostano al partito di De Michelis per diventare alleati di Berlusconi, la forbice si restringe tra l'1 e il 2%.

(3 aprile 2007)


+ Il Corriere della Sera 3-4-2007«Consulenze d'oro» Anas: indagato Pozzi L'inchiesta scaturita da una denuncia del ministro Di Pietro

 

L'ex presidente dell'Ente nazionale per le strade indagato per abuso d'ufficio: avrebbe autorizzato consulenze strapagate

 

ROMA - L'ex presidente dell'Anas, Vincenzo Pozzi, è indagato dalla procura della Repubblica di Roma per l'ipotesi di reato di abuso d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta sulle cosiddette «consulenze d'oro» ossia pareri legali, amministrativi, contabili pagati dalla gestione Anas dal 2003 al 2005 a professionisti esterni all'ente.

L'inchiesta, scaturita da una denuncia del ministro Antonio Di Pietro, è coordinata dai pm Perla Lori e Salvatore Vitello che hanno delegato il nucleo valutario della Guardia di finanza, diretto ad acquisire nella sede dell'Anas una corposa documentazione. Oggetto dell'indagine sono i contratti di consulenza stipulati in un triennio dall'Anas che sono stati vagliati nei mesi scorsi anche da una inchiesta dell'Alto commissariato contro la corruzione. L'inchiesta dovrà verificare se i pareri legali, contabili e gli incarichi professionali commissionati all'esterno dell'azienda potevano essere invece svolti da professionalità interne.

03 aprile 2007


Il Secolo XIX 3-4-2007 Telecom agli stranieri? E' impossibile dire di no

 

Massimo baldini Entrambi gli schieramenti politici hanno espresso forte preoccupazione di fronte alla possibilità che Telecom Italia finisca in mani straniere. Il controllo nazionale sull'azienda è infatti ritenuto da molti strategico per gli interessi economici del paese. Fausto Bertinotti ha parlato addirittura di lesione alla sovranità nazionale. La maggioranza di governo non sembra ripetere il solito copione della dialettica interna tra ala riformista ed ala radicale, perché quasi tutti sono ostili alla discesa degli stranieri. Può anche darsi che la prospettiva di vendere agli americani sia un bluff con cui Tronchetti spera di alzare il prezzo per le banche italiane, ma vale la pena di porsi il problema di fondo: la cessione ad acquirenti stranieri di Telecom Italia può provocare rischi per l'economia nazionale? E' giusto preservare l'italianità delle grandi reti infrastrutturali, comunicazioni comprese? Per quanto si possa cercare, difficilmente si potrà trovare, su libri o quotidiani, l'articolo di qualche economista che sia disposto a rispondere di sì a queste domande. Le ragioni della preferenza per un mercato che non discrimini in base al passaporto dei giocatori sono molteplici. La principale è che un proprietario italiano non dà alcuna garanzia maggiore, rispetto ad uno straniero, di fare gli investimenti necessari per l'efficienza della rete. Un monopolista fa solo gli investimenti che ritiene necessari per massimizzare il profitto, qualunque sia la sua bandiera. Un italiano non investirebbe un euro in più rispetto ad uno straniero solo perché vuole bene al suo paese. Visto che la gestione della rete di telecomunicazioni è un monopolio naturale -a causa della presenza di elevati costi fissi può cioè esistere un solo operatore - è logico che esso sia controllato rigidamente da un'autorità di regolazione pubblica, che esiste già, ed è la sola che può indurre il titolare dell'azienda, italiano o straniero che sia, a fare gli investimenti che essa, e per suo tramite il governo, ritiene indispensabili. Forse i politici che preferiscono che Telecom resti italiana immaginano di poter avere un contatto più facile e diretto con un imprenditore nazionale. Ma la politica può intervenire sull'assetto e sul funzionamento dei mercati, però non può parteggiare per un contendente piuttosto che un altro. Una volta definito l'assetto dei singoli mercati, sono le autorità di regolamentazione che devono garantire la concorrenza e controllare i monopolisti naturali. Gli interventi partigiani della politica producono clientelismo e corruzione, che non portano efficienza e avvantaggiano non i cittadini, ma gli imprenditori amici del potere. In presenza di una buona autorità di controllo, quindi, la nazionalità dell'imprenditore non dovrebbe essere rilevante. Ma al problema generale della opportunità o meno di difendere l'italianitàè difficile dare soluzione senza fare riferimento al caso specifico. Telecom Italia deve per forza cambiare azionista di riferimento. Quello attuale, Tronchetti, è ancora schiacciato dai debiti con i quali l'ha acquistata, e per questo ha sempre costretto l'azienda a distribuire dividendi elevati per poter ripagare almeno gli interessi passivi. In questa situazione, dobbiamo chiederci quale sia la soluzione migliore per i consumatori italiani. Che Telecom finisca nelle mani di un medio imprenditore nazionale (come Colaninno dieci anni fa) non esperto del settore e sotto la tutela delle banche, oppure che diventi parte di un gruppo internazionale guidato da giganti mondiali del settore? Certo la seconda possibilità presenta rischi, ma non sembra che ci siano alternative migliori. Una possibilità estrema potrebbe essere la ripubblicizzazione della rete, caldeggiata qualche mese fa anche da uno dei consiglieri di Prodi. Sono in molti a sostenere infatti che in Europa tutti sono liberisti a parole, ma poi nei fatti le società di telecomunicazione sono quasi tutte pubbliche e comunque certo non guidate da stranieri. E' vero, ma bisogna fare una qualificazione importante. All'estero vi sono tanti casi di aziende pubbliche - e anche di amministrazioni centrali e locali- che funzionano bene, ma questo ci dice poco sulla nostra situazione, perché il settore pubblico italiano è molto lontano dall'efficienza, ed è troppo permeabile ai condizionamenti della politica. Molti politici nostrani commettono l'errore di essere a favore dell'intervento diretto del pubblico nella produzione e vendita di beni e servizi (a cominciare dai servizi pubblici locali) citando l'esempio di imprese francesi o tedesche ottimamente gestite. Ma bisogna guardare a quello che in Italia significa gestione diretta di aziende da parte del pubblico, ad esempio le municipalizzate delle città meridionali o le aziende di trasporto pubblico in tutto il paese, e allora il giudizio sarebbe più obiettivo. Telecom Italia ci ha dato in più lo scandalo dell'uso degli apparati di sicurezza aziendali per fini oscuri e sicuramente illegali. Dopo Tronchetti e Colaninno, non ripetiamo per la terza volta l'errore di privilegiare l'italianità a qualunque costo rispetto alle reali prospettive di sviluppo. 03/04/2007 vincenzo tagliasco Negli ultimi trent'anni, a Genova, non è diminuita solo la popolazione, ma si è modificata radicalmente la struttura dell'età dei suoi abitanti. I bambini che oggi hanno cinque o dieci anni sono meno della metà di quelli che abitavano a Genova alla fine degli anni Settanta; anche i giovani fino ai venticinque anni sono meno della metà di allora. Eppure non si ha la sensazione che Genova si sia svuotata così tanto. Neppure i medici dei bambini e gli insegnanti hanno questa percezione perché ciascuno di loro, in media, continua ad avere relazioni con lo stesso numero di giovani. Nelle ore di punta, sugli autobus, gli anziani continuano a lamentarsi (come altri anziani molti anni fa) per l'invasione di giovani incuranti delle esigenze degli altri utenti. Le automobili che circolano sembrano crescere ogni giorno di più e ovunque si scavano nuovi parcheggi per nasconderle e farcele stare tutte, data anche la loro dimensione crescente. Inoltre nuovi edifici sono in costruzione in tutte le periferie. Genova non dà l'impressione di avviarsi a diventare una città fantasma, in via di svuotamento. Ha ragione Paolo Arvati, ineguagliabile guardiano della storia di Genova, quando afferma: "Il "caso ligure"è un caso di "anticipazione" che sempre più segnala trasformazioni e criticità di un più ampio "caso italiano". Forse, tra una decina di anni, il caso demografico ligure interesserà soprattutto, se non solamente, gli storici". E' vero, i genovesi hanno anticipato i tempi; ma l'Italia e gran parte dell'Europa hanno confermato la mutazione sociale in atto. Fino a oggi questo cambiamento, pur radicale, è andato avanti inavvertito. Ma gli effetti sono ormai tali che d'ora in poi cominceranno a farsi sentire anche nella percezione quotidiana dei genovesi. Con Enrico Pedemonte avevamo già suggerito, più di dieci anni fa, di trasformare il calo demografico in opportunità; più recentemente, con un libro dedicato a Genova, abbiamo sottolineato che non siamo più nella fase della previsione, bensì in quella della gestione di una realtà che sta cominciando a incidere profondamente nella nostra vita. A meno che la durata della vita non si estenda a livelli insopportabili a causa di nuovi accanimenti medico-assistenziali, il numero degli anziani è destinato a stabilizzarsi almeno per alcuni decenni. Anzi, tenuto conto che il numero dei morti all'anno, dagli anni Ottanta, si è mantenuto sostanzialmente costante, si può affermare che l'aumento degli anziani è oggi rilevabile solo nel confronto con le altre generazioni (è cresciuto il rapporto tra anziani e giovani), non in valore assoluto. Riporto alcune cifre. Anche se è aumentata la vita media, a Genova il numero dei morti negli ultimi trent'anni è rimasto più o meno costante, attorno alle 9.200 unità (il doppio dei nati). Poiché il numero delle coppie che fino a oggi hanno avuto bisogno di una casa sono nate ai tempi in cui si facevano molti bambini, la richiesta di appartamenti è rimasta sostenuta. Le abitazioni lasciate libere dai vecchi che morivano non bastavano alle nuove coppie in formazione. Ma tra pochi anni, quando al mercato immobiliare si affaccerà l'esigua schiera dei nati negli anni Ottanta, le cose dovrebbero cambiare. Così come dovrebbero diminuire le automobili e la necessità di mezzi pubblici. In altre parole, coloro che si avviano ad avere trent'anni avranno un impatto significativo sui ritmi e i tempi della città, e cambieranno la percezione di "pieno" e di "vuoto". In Italia, sono le donne che hanno un'età compresa tra i 26 e i 36 anni a mettere al mondo il 70% dei nati ogni anno. Ma già l'anno scorso, nel 2006, hanno compiuto 26 anni le donne nate nel 1980 quando i nati per la prima volta erano scesi sotto le 5.000 unità (nel 1964 avevano sfiorato le 12.000). Questo potrebbe cambiare radicalmente il numero dei bambini nati. Se le donne genovesi continueranno a fare un solo figlio come le loro madri, le nascite in città scenderanno sotto quota 3.000 all'anno (oggi si aggirano attorno a 4.500). Con Pedemonte abbiamo fatto parecchi esercizi di futurologia e siamo arrivati alla conclusione che la variabile su cui puntare nei prossimi dieci anni sarà l'immigrazione. Genova è città troppo bella e accogliente per rimanere "vuota": già oggi una significativa porzione del mercato immobiliare trova negli immigrati potenziali clienti. Saprà la città intercettare un'immigrazione equilibrata, fatta non solo di badanti e di forza lavoro indifferenziata, ma anche di tecnici qualificati? Sarà in grado, Genova, di intercettare intelligenze distribuite su un ampio ventaglio di competenze e di aspirazioni ai massimi livelli e non solo persone spinte dal bisogno e dalla disperazione? Un'ultima considerazione, la solita. I problemi associati agli anziani sottolineano ancora una volta le drammatiche differenze tra ricchi e poveri: un tragico aumento della forbice tra chi ha e chi non ha. Molti, in questi giorni, denunciano il rischio di una grave frattura tra generazioni specie nel momento in cui si tratterà di pagare le pensioni. Sicuramente le nostre pensioni verranno pagate con il lavoro degli immigrati. Il problema più grave è un altro: chi aiuterà gli anziani, non autosufficienti e "nuovi poveri", che la società desidera mantenere in vita il più a lungo possibile? Forse, per fronteggiare le nuove mutazioni sociali non si potrà fare leva solo sugli immigrati, ma sperare che scienza e tecnologia riescano a realizzare il sogno adombrato nella fantascienza: vivere bene per un certo numero di anni e, poi, nel giro di pochi mesi, degradare velocemente in attesa della buona morte, senza traghettarvi attraverso lunghi anni di malattie penose per i vecchi, per quelli che li amano, e per le istituzioni, che cominciano a considerarli un peso intollerabile. vincenzo tagliasco è ordinario di Bioingegneria all'Università di Genova. 03/04/2007.


Il Corriere della sera 3-4-2007. Telecom - Il negoziato. Le banche e le mosse sulla rete. Vertice tra Salza e il premier. Il piano made in Italy degli istituti. La prelazione Mediobanca-Generali

 

MILANO—Di sicuro al momento c’è la prelazione di cui dispongono Mediobanca e Generali. Vale a dire la possibilità di acquisto delle azioni Olimpia in mano alla Pirelli, su cui stanno trattando At&t e América Móvil. da parte di Piazzetta Cuccia e del Leone di Trieste. E’ tra Piazzetta Cuccia e Trieste che dovrà passare in ogni caso, se ci sarà, l’alternativa all’offerta arrivata domenica sul tavolo di Marco Tronchetti Provera. Ma ieri mattina si sono messi in movimento anche i vertici degli altri istituti che avevano aperto i loro dossier sul riassetto Telecom. E cioè Intesa Sanpaolo, Capitalia e, seppur meno coinvolta, UniCredito.

La mossa inattesa del presidente della Pirelli ha riaperto la partita. Intesa e Mediobanca, che stavano cercando insieme una soluzione per alleggerire il peso del gruppo milanese in Olimpia, sono rimaste un po’ spiazzate (qualcuno aggiunge «irritate»). Ca’ de Sass tre settimane fa aveva messo sul tavolo 2,7 euro ad azione per l’80% della cassaforte del gruppo telefonico. L’accordo sembrava a portata di mano. Poi è arrivato il piano alternativo di Mediobanca. E negli ultimi giorni sembra che, di concerto, Piazzetta Cuccia e Intesa avessero trovato una nuova soluzione. Sempre, però, a 2,7 euro ad azione. Non è un caso forse che il giorno dopo l’annuncio a sorpresa delle trattative con At&t e América Móvil, Enrico Salza sia stato visto a Palazzo Chigi.

Nel pomeriggio di ieri il presidente del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo è stato a colloquio da Romano Prodi. Come di consueto i contenuti della conversazione sono rimasti riservati. Tuttavia, nei corridoi della presidenza del Consiglio si raccontava di un scambio di opinioni basato su una «presa d’atto» dell’operazione. Il premier non ha mai nascosto di vedere, ovviamente, con favore la soluzione «di sistema» tutta italiana, a cui stavano lavorando le banche. Non solo Intesa e Mediobanca. Anche Capitalia e Montepaschi erano dentro la partita. Però ora sul tavolo di soluzione ce ne è una «di mercato» che arriva dall’estero. E il messaggio che sarebbe giunto in questa giornata convulsa è che sbarrare la strada agli americani di At&t non è semplice (ancor di più se nell’asta per Alitalia dovessero vincere i russi di Aeroflot).

Ieri i contatti sono stati continui tra i vertici degli istituti di credito. Ma una soluzione, al momento, non sembra facile. L’entrata in scena di At&t e América Móvil ha improvvisamente alzato l’asticella. Già per arrivare a un’offerta a 2,7 euro per azione sembra che Mediobanca e Intesa abbiano fatto molti sforzi. E salire a 2,82 non è semplice. Almeno che non vengano imbarcati altri partner che possano rendere giustificabile con un approccio strategico, e non solo finanziario, il premio pagato per rilevare il controllo di Telecom da Pirelli. In tal senso sarebbero ripartiti i contatti informali con possibili soci industriali. In passato si è parlato di Roberto Colaninno (la cui disponibilità finanziaria è però relativamente elevata), fino al gruppo Fininvest- Mediaset. E c’è chi ieri parlava di un possibile ritorno in campo degli spagnoli di Telefónica.

Comunque sia la strada è tutt’altro che in discesa. Di sicuro i banchieri starebbero lavorando anche su altri possibili scenari, che non sono legati necessariamente a un’offerta tout-court, alternativa a quella degli americani e dei messicani. Ieri, come ha fatto notare il ministro dello Sviluppo economico, Pierluigi Bersani, «che i sistemi di rete abbiano un radicamento nazionale, in attesa di averlo europeo, è un dato di fatto comune a tutti i Paesi Ue. Potremmo anche candidarci e fare l'eccezione ma...». E in quel «ma» potrebbe esserci una eventuale seconda soluzione, se l’offerta di At&T e América Móvil andasse in porto. Soluzione che potrebbe addirittura marciare parallelamente. «Non è semplice», spiega un banchiere che sta seguendo da vicino la vicenda, «ci stiamo lavorando».

In questi mesi di tensione sul gruppo telefonico è risultato chiaro che la rete è uno snodo cruciale. Tanto al ministero delle Comunicazioni quanto all’Authority sonomesi che ragionano sull’assetto dell’infrastruttura telefonica più importante del Paese. E la mossa a sorpresa di Tronchetti avrebbe accelerato il lavoro. D’altra parte è chiaro che una soluzione al riassetto Telecom non potrà essere solo tecnica. E’ per questo che probabilmente nello scenario che si andrà a definire nelle prossime settimane dovranno essere distinti due livelli. Da un lato, appunto, la soluzione tecnica: un’offerta delle banche alternativa a quella di At&t e América Móvil, o un piano che mantenga in Italia la rete di Telecom. Dall’altro lato quella «politica » che coinvolgerebbe i massimi vertici del sistema bancario: da Giovanni Bazoli a Cesare Geronzi ad Alessandro Profumo. Anche perché in ballo c’è lo sbarco sul mercato italiano del principale partner politico del Paese: gli Stati Uniti. E per sbrogliare la matassa gli interlocutori non potranno che essere «di livello».

Finora le banche hanno fatto lavorare le «seconde linee» del management, con i vertici a fare da raccordo. E, anche se si è chiamata fuori dalla partita, ieri è stato il vicedirettore generale di UniCredit, Sergio Ermotti, a spiegare esattamente il clima: «Per il momento non vedo altri nella partita. Abbiamo preso atto dell'offerta, avrà le sue ragioni industriali. UniCredit — ha aggiunto—ha sempre detto che solo degli operatori industriali potevano pagare per Telecom un prezzo superiore a quello di mercato. Questa è sempre stata la nostra posizione, confermata dagli eventi di ieri». Aquesto punto, però, non è più solo una questione di prezzo. Certo, quei 2,82 euro messi sul piatto da Edward Whitacre e Carlos Slim restano sul tavolo.

C’è comunque un mese e mezzo di tempo per lavorare: il mese dell’esclusiva ottenuta dai due offerenti più i 15 giorni concessi a Mediobanca e Generali per esercitare la prelazione. «LeGenerali non prenderanno decisioni fino a quando l'offerta non sarà vincolante e non scatterà il periodo di prelazione» ha commentato ieri la compagnia triestina. E visto che la scadenza è il 30 aprile, questo significherebbe dopo le nomine dei vertici del Leone di Trieste. A conferma che forse quella che si sta giocando attorno a Telecom è una partita che riguarderà l’intera finanza italiana.

Federico De Rosa

03 aprile 2007


La Repubblica 3-4-2007 A fine febbraio il timore dell'esplosione della bolla immobiliare aveva fatto crollare i listini azionari. Saranno tagliati la metà dei posti di lavoro Mutui a rischio, fallisce la New Century

Il colosso Usa in amministrazione controllata dopo due mesi di turbolenze La finanziaria a sua volta travolta dalle richieste di rientro dei prestiti MILANO - Ha tentato di resistere per un paio di mesi; ieri ha gettato la spugna e ha chiesto il Chapter 11, la procedura di bancarotta che negli Stati Uniti "difende" la società dai creditori, nel tentativo di salvare il salvabile. La New Century Financial, ha mandato in onda l'ultima ma anche la più prevedibile mossa: ammettere il fallimento, rivolgersi al giudice e annunciare le prime contromisure per arginare la catastrofe, cioè il licenziamento del 54% del personale - grosso modo 3.200 dipendenti - e la vendita degli asset. Il colosso finanziario americano è specializzato nei mutui ipotecari alla clientela "subprime", quella cioè non in grado di fornire le normali garanzie che in genere accompagnano un finanziamento, anche sull'acquisto di una casa. Clientela difficile, a rischio per definizione, che negli Usa rappresenta grosso modo il 30% del mercato dei finanziamenti immobiliari; clientela che per prima dà grattacapi quando non è più periodo di vacche grasse. Esattamente quello che sta succedendo in America: rallentamento del tasso di crescita, prezzi degli immobili ormai fermi se non in discesa (negli Usa quando il valore della casa sale, il cliente medio corre a farsi dare altri soldi, dando in garanzia sempre lo stesso immobile rivalutato) e rate sempre più onerose, soprattutto in relazione al reddito. Per la New Century Financial già da qualche tempo la clientela in difficoltà era cresciuta in maniera preoccupante. Che le cose si stessero mettendo davvero male lo si è capito un paio di mesi fa, quando la società ha ammesso di aver conti in rosso nel quarto trimestre dell'anno e di dover rivedere i conti anche dei tre precedenti. A quel punto si sono aperte le inchieste penali e i controllori della Sec hanno dichiarato lo stato di massima allerta. Ma come accade spesso in questi casi, i buoi erano già scappati. E che la crisi fosse ormai irreversibile l'hanno capito tutti. A partire dai mercati: la sbandata di Wall Street della fine di febbraio - continuata poi a marzo e rapidamente diffusasi anche in Europa - aveva un nome solo: il rischio-bolla immobiliare e l'allarme mutui. Ieri è saltato l'anello più debole della catena, la società di mutui "subprime", stritolata a sua volta dai suoi creditori che gli hanno chiesto di rientrare a fronte delle voci sempre più insistenti di difficoltà. Nomi di grande prestigio, come Bank of America, Deutsche Bank, Goldman Sachs, Lehman Brothers Holding, Morgan Stanley e Ubs. In alcuni casi anche azionisti con piccole quote, in molti finanziatori della società e poi "impacchettatori" dei prestiti stessi in obbligazioni, con le cosiddette cartolarizzazioni. Ecco perché la Borsa ha paura e teme l'effetto-contagio della crisi dei mutui immobiliari, non solo di quelli "subprime" (meno sicuri). Per ora Wall Street ha ignorato la notizia, evidentemente dandola ormai per scontata. La società dal canto suo sta cercando di fare il possibile, annunciando il taglio del personale ma anche la vendita della piattaforma e dei servizi connessi ai prestiti, per 139 milioni di dollari; inoltre, dovrebbe essere in dirittura d'arrivo la cessione di prestiti e altri asset per ulteriori 50 milioni e una iniezione di liquidità per 150 milioni per consentire la normale amministrazione (e comunque New Century conta di vendere la maggior parte dei suoi asset in 45 giorni). Ma ormai siamo ai palliativi. (vi.p.).


La Nuova Ferrara 3-4-2007Crac Costruttori, verso la chiusura dell'inchiesta: dopo Pasqua previsto il deposito dei primi atti d'accusa Prorogata la perizia sulle banche Un ispettore di Bankitalia indaga sui rapporti tra coop e istituti

ARGENTA. Ancora un po' di tempo, altri 30 giorni per studiare gli intrecci tra le banche e la CoopCostruttori: la procura ha concesso una proroga di un mese all'ispettore della Banca d'Italia che dal gennaio scorso sta traducendo per procura e finanza tutti i documenti commerciali sui rapporti economici tra il colosso di Argenta e gli istituti che prestavano denaro, senza batter ciglio. La consulenza, dunque, dovrà essere depositata dall'ispettore del servizio vigilanza della Banca d'Italia, Salvatore Pizzoferrato, a fine aprile. E questo sarà veramente l'ultimo atto dell'inchiesta giudiziaria ormai al rush finale e che si sta allungando da quasi 3 anni. La consulenza, come si ricorda, era stata voluta dal pm Ombretta Volta e dagli ispettori della Guardia di finanza che stanno conducendo l'inchiesta, per avere un riferimento tecnico nel mare di carta della Coopcostruttori. Il compito dell'ispettore della Banca d'Italia che da tre mesi sta ispezionando tutte le banche cittadine, e acquisendo i documenti sui loro rapporti con la Coop, è quello di "leggere" questi documenti bancari frutto dei rapporti rapporti intercorsi, nel decennio tra gli anni'90 e i primi anni del 2000, tra la Coopcostruttori e i vari istituti di credito nazionali e locali. Il compito dell'ispettore dovrebbe, secondo le intenzioni degli inquirenti, aiutarli a capire meglio tutti i meccanismi di tecnica bancaria su cui sono nati e si sono prolungati nel tempo i rapporti tra azienda e finanziatori. E' possibile che una banca, o più banche, non si siano mai accorte di nulla, che abbiano accolto le garanzie prodotte dalla Costruttori senza rilevare nulla di illecito o quantomeno anomalo? Sulla base delle garanzie prodotte, infatti, venivano concessi finanziamenti, crediti e prestiti: l'ispettore dovrà verificare i passaggi che hanno portato all'elargizione del denaro e che hanno consentito negli ultimi 15 anni al gigante di Argenta di prendere fiato di volta in volta. Non a caso si è arrivati a questa superconsulenza dopo la raccolta di migliaia di pagine di documentazione bancaria, che riguardano tantissimi soggetti e altrettante operazioni di finanziamento alla Coop, prima azienda della provincia: insomma rapporti normali tra chi chiede soldi e chi li concede in prestito. Rapporti improntati comunque sul rischio di impresa che dovranno essere letti e tradotti dal superesperto che procura e finanza hanno nominato. Ma si badi bene, l'ispettore della Banca d'Italia non è chiamato ad indicare possibili rilievi amministrativi o penali: sarà un compito, successivo, di procura e Finanza. Un compito che ormai è agli sgoccioli: infatti la prima tranche della conclusione dell'inchiesta dovrebbe essere depositata dopo Pasqua: e dovrebbe interessare tutto il gruppo dirigente, i vari consigli di amministrazione e le società di revisione dei bilanci.

 


Finanza e Mercati 3-4-2007 Draghi gela il governo, fisco mai così alto Cautela sulle banche: "Effetto Ias sui conti"

La Banca d'Italia gela il governo sui conti pubblici. Altro che euforia da tesoretto: la pressione fiscale, secondo l'istituto guidato da Mario Draghi, non è mai stata così alta in Italia e perciò c'è bisogno di un immediato taglio delle tasse. Non solo. Bisogna proseguire sulla strada del risanamento dei conti, accelerando il processo di riduzione del disavanzo, e va ridotta la spesa corrente. Il rinnovato bollettino economico di Bankitalia, ora trimestrale, indica con decisione la strada da seguire in un momento di congiuntura favorevole. La crescita dell'economia italiana, nonostante un rallentamento in questa prima fase del 2007, raggiungerà a fine anno il 2 per cento. "L'andamento dei conti pubblici consente di accelerare il processo di riduzione del disavanzo", evidenziano gli economisti di Via Nazionale definendo "essenziale" il pareggio strutturale per far diminuire il debito. Primo obiettivo: abbassare il carico fiscale. Il peso del prelievo risulta così gravoso che le famiglie, nonostante una maggiore disponibilità di reddito (+1,5% nel 2006), restano molto attente nei consumi: "nell'ultimo trimestre del 2006 hanno decelerato al di sotto dell'1% su base annua" e "nei primi mesi di quest'anno non si prospettano significativi mutamenti di tendenza". Altro fronte su cui agire, la spesa primaria corrente. Nell'ultimo biennio ha toccato il 40% sul pil. Poi il capitolo dedicato ai conti delle banche italiane. Che, secondo Palazzo Koch, archiviano il 2006 con un forte aumento della redditività operativa. I dati indicano un balzo del 25% del risultato di gestione lo scorso anno rispetto a un incremento di poco superiore al 5% nel 2005 (il margine d'interesse è salito dell'11%). Ma attenzione. L'andamento, avvertono gli esperti dell'Istituto centrale, va valutato con cautela: potrebbe essere influenzato, infatti, dagli Ias, i nuovi principi contabili internazionali. Uno sguardo alla Borsa: nessun rischio di bolla, crescita in linea coi mercati mondiali. E sempre ieri Bankitalia ha annunciato di aver firmato con l'Antitrust un accordo per lo scambio di informazioni sulle fusioni nel settore creditizio.


Il Riformista 3-4-2007 DUE ANNI DOPO WOJTYLA. La Chiesa assomiglia al cielo?

Al di là di dogmi, non possumus e dispute teologiche, il secondo anniversario della morte di Giovanni Paolo il Magno, al secolo Karol Wojtyla, ci offre l’occasione per interrogarci su un quesito che sta molto a cuore anche a noi laici: e cioè quanto è cambiata la Chiesa in questi due anni senza la guida del pontefice polacco? La domanda la poniamo senza addentrarci nelle sottigliezze di natura intellettuale che lasciamo volentieri agli atei devoti più interessati ai paleologi che alla parabole di Cristo. Dunque: che Chiesa è quella che sta venendo fuori con Ratzinger?
La percezione che si coglie, anche tra i cattolici con cui parliamo e ci confrontiamo, è prevalentemente negativa, almeno in rapporto al predecessore di Benedetto XVI. In questi tempi il sorriso di Wojtyla e la sua forza di pellegrino sembrano un ricordo lontano. Certo, Giovanni Paolo è stato un papa fortemente conservatore in materia di etica e morale sessuale, lo sappiamo benissimo. Eppure agli occhi di molti, e non solo necessariamente cattolici, la sua Chiesa aderiva completamente al vangelo: nel senso che lasciava una porta aperta a tutti. Insomma era un Chiesa in cui si respirava il profumo del mistero di Cristo, scolpito da duemila anni nel comandamento lasciato come testamento agli apostoli nell’Ultima Cena: amatevi gli uni altri come io ho amato voi. Oggi, invece, la forza di Ratzinger sta più nella difesa strenua dalla secolarizzazione, dando la sensazione che le porte lascino passare meno persone del previsto. Che siano i Dico oppure i funerali di Welby, la Chiesa sta alzando barricate talvolta incomprensibili agli stessi cattolici. Si tratta di riflessioni che nascono sull’onda del ricordo di Wojtyla, di quel vangelo posto sulla sua bara che un colpo di vento chiuse il solenne giorno delle esequie in san Pietro: una metafora possente per chi crede. Il vangelo si chiuse e nel conclave il vento spirò su Ratzinger l’ortodosso, Ratzinger il tedesco, Ratzinger l’inquisitore. Un segno che ci ha introdotti in tempi di altissima conflittualità tra Cesare e Dio. Per carità, non tocca a noi dire al papa cosa fare o non fare, ma la turris eburnea in cui sembra aver rinchiuso una Chiesa in stato d’assedio crediamo che non sia un bene per nessuno. Noi speriamo, da laici, in una chiesa che dialoghi con tutti, che si faccia finanche agnello tra i lupi, ma che nel mondo e in Italia faccia prevalere sui divieti il comandamento dell’amore.
Domenica scorsa, con la liturgia delle Palme, siamo entrati nella settimana santa. In tutte le chiese è stato letto l’intero racconto della Passione e Morte di Gesù. Pagine tremende, per chi crede, di una bellezza tragica e divina, che culminano nel Venerdì Santo, quando Cristo viene inchiodato sulla croce. Chiunque si accosti a questo racconto evangelico, anche un non credente, non può fare a meno di interrogarsi sul mistero della morte. Ma sono anche pagine che rimandano al cielo. E per questo ci chiediamo: questa Chiesa di Ratzinger assomiglia al cielo?


INDICE 2-4-2007

 

Il CorriereEconomia 2-4-2007 Gli arresti e le mazzette che scuotono l'Ue Una serie di indagini rilanciano i dubbi sulla diffusione della corruzione nelle istituzioni di Bruxelles  1

Il Corriere della Sera 2-4-2007 Il messicano e il gigante di Wall Street puntano alla tecnologia italiana  2

Il Riformista 2-4-2007 Perché non importa quante divisioni ha il papa  2

La Stampa 1-4-2007 Il Papa: "Chi ha le mani  sporche è lontano da Dio " 3

La Repubblica 2-4-2007 Commenti Lo scacchiere iraniano RENZO GUOLO   4

Italia Oggi 2-4-2007 I servizi di pagamento sono sprint Pagine a cura di Gabriele Frontoni 5

Il Piccolo di Trieste 2-4-2007 La lezione tedesca per la ripresa. Franco A. Grassini. 6

Il Giornale di Brescia 2-4-2007 FINESTRA SUL MONDO Nonostante Fidel Castro abbia delegato il potere, il regime si mostra ancora solido. 7

 


Il CorriereEconomia 2-4-2007 Gli arresti e le mazzette che scuotono l'Ue. Una serie di indagini rilanciano i dubbi sulla diffusione della corruzione nelle istituzioni di Bruxelles

 

L'antifrode comunitaria Olaf di Bruxelles, spesso criticata per la scarsa efficacia e per muoversi quasi sempre solo in seguito a denunce specifiche, ha recentemente sviluppato importanti indagini in collaborazione con le autorità giudiziarie di Belgio, Francia, Italia e Lussemburgo, che rivelano un quadro allarmante sull'uso del denaro pubblico nelle istituzioni dell'Unione europea. Complessivamente avvalorano la convinzione che gli oltre 120 miliardi di euro spesi annualmente dall'Ue non siano sottoposti a controlli sufficienti a limitare al minimo i casi di corruzione e di frode, pur fisiologici quando si elargisce un'enorme massa di finanziamenti e di contratti. L'ultimo scandalo è esploso la settimana scorsa con l'arresto a Bruxelles di tre italiani: l'euroburocrate della Commissione Giancarlo Ciotti, l'assistente parlamentare Sergio Tricarico (oggi alle dipendenze dell'eurodeputato Gianni Rivera e in passato collaboratore nell'Europarlamento dell'attuale presidente del Senato Franco Marini e del centrista Gerardo Bianco) e l'imprenditore Angelo Troiano. Sono accusati di fatti corruttivi per appalti nelle sedi della Commissione a Nuova Delhi in India e a Tirana in Albania. Le indagini si stanno estendendo all'intera rete di 132 uffici all'estero, che costano ai contribuenti 500 milioni di euro (gestiti dagli alti livelli dell'euroburocrazia). Un altro dipendente belga della Commissione, Victor M., è stato arrestato dalla magistratura di Bruxelles perché avrebbe preteso tangenti per favorire l'accesso ai finanziamenti dell'Ue all'Ucraina, destinati a risolvere le conseguenze della catastrofe di Chernobyl. Avrebbe preteso il 2,5% dei contratti milionari assegnati alle aziende impegnate nell'iniziativa. Emblematica appare la vicenda di Orlando V., un euroburocrate della Commissione (di cui non è emersa la nazionalità), responsabile degli acquisti di mobili per gli uffici, occupatosi anche dell'arredamento del gigantesco palazzo Berlaymont, sede dell'istituzione presieduta da Josè Manuel Barroso e rinnovato nel 2004 dopo una lunga ristrutturazione. Assegnato all'Ufficio per le infrastrutture e la logistica di Bruxelles (Oib), valutava le offerte delle ditte fornitrici. L'Olaf, che è diretta dal tedesco Franz Bruener, ha trasmesso alla magistratura belga l'indagine interna sulla sua posizione quando ha saputo di appalti organizzati in modo da scoraggiare alcuni e favorire altri (in cambio di tangenti). In più Orlando V. sarebbe risultato co-interessato in società fornitrici e avrebbe svolto attività in proprio nelle Fiandre utilizzando mobili sottratti alla Commissione. L'inchiesta dell'Olaf avrebbe poi allargato le responsabilità delle presunte irregolarità nell'ufficio Oib. Il vicepresidente della Commissione europea, l'estone Siim Kallas, responsabile per l'amministrazione, ha ammesso che gli euroburocrati sotto inchiesta sono tre. E che il responsabile dell'Oib, pur non essendo indagato, è stato spostato ad altro incarico "in modo da cambiare lo stile di gestione dell'ufficio". Naturalmente le persone sopra citate vanno considerate innocenti almeno fino alla sentenza definitiva dei procedimenti giudiziari in corso. Ma, al di là delle singole responsabilità, le loro vicende consentono di intuire l'immediata necessità di attuare controlli più severi su come viene spesa la massa di miliardi pagata dai contribuenti per finanziare l'Ue.

 


Il Corriere della Sera 2-4-2007 Il messicano e il gigante di Wall Street puntano alla tecnologia italiana

 

 

MILANO — Nell’autunno scorso sembrava fosse pronto a mettere sul piatto 10 miliardi di dollari per acquistare Tim Brasil. Ma adesso Carlos Slim Helu mira più in alto. E, con meno di un terzo di quella cifra, punta alla conquista dell’intero gruppo Telecom Italia. Con un alleato di dimensioni monstre: quella At&t che con i suoi 242 miliardi di dollari di capitalizzazione, 63 miliardi di fatturato e 7,3 di profitti è il gigante assoluto delle telecomunicazioni mondiali. Sarebbe proprio il miliardario messicano d’origine libanese, padre padrone di América Móvil, lo stratega di una campagna d’Italia che, se dovesse riuscire, trasformerebbe di colpo il risiko delle telecomunicazioni europee in un Grande Gioco su scala planetaria. Perché a entrare in scena sono davvero due pesi massimi, con un perimetro di attività che copre ogni porzione di quel processo di «convergenza » fra telecomunicazioni, Internet e «nuovi»media che sta ridisegnando i confini dell’industria della comunicazione.

Quella di At&t è la storia di un monopolio telefonico che è stato frantumato nel 1984 per dar vita a una galassia di 22 compagnie locali, le famose «baby bells». E che negli ultimi tre anni si è sostanzialmente ricomposto, aggiornato però all’era di Internet. Nel 2005 ha acquistato infatti Sbc. E nel 2006 ha chiuso il cerchio, riconquistando per 67 miliardi di dollari un’altra delle ex baby bell, BellSouth, che le ha portato in dote anche il controllo assoluto della società di telecomunicazioni wireless Cingular. Con il risultato che, oggi, At&t non solo resta leader nella telefonia «tradizionale», ma lo è anche nel settore nel mobile (dove conta solo negli Usa 51 milioni di clienti e fattura 37,5 miliardi di dollari), delle tv via cavo e dei servizi Internet. In più il gruppo texano guidato da Edward Whitacre sta investendo molto in quella nuova frontiera che è la tv via internet (in acronimo Iptv).

Non a caso è fra i protagonisti del consorzio mondiale «Open Iptv» insieme a Ericsson, France Telecom, Sony, Samsung e la stessa Telecom Italia. Carlos Slim ha invece bruciato le tappe. Nel 1990, fiutato il business delle telecomunicazioni, ha acquisito l’allora monopolista messicano Telmex, seguita poi da Telcel, rib a t t e z z a t a América Móvil quando ormai il wireless è diventato il pilastro dei suoi affari. Da lì non si è più fermato. Acquisizione dopo acquisizione, oggi il gruppo di Slim è il quarto al mondo per dimensioni, conta 108 milioni di clienti sparsi in 14 mercati americani, fattura più di 15 miliardi di dollari e ne guadagna 3 miliardi netti. Negli Usa è il terzo maggiore provider di servizi internet, con il marchio Prodigy. Quale possa essere l’interesse di Slim per Telecom Italia è facile da capire. Da un lato c’è Tim Brasil, secondo operatore mobile del Paese dietro a Vivo (di Telefonica e Portugal Telecom) e davanti a Claro, che fa capo allo stesso Slim. Dall’altro lato, ovviamente, c’è lo stesso mercato italiano, con i suoi 70 milioni di carte sim in circolazione e con le prospettive legate allo sviluppo dei nuovi media internet.

Quanto a At&t, che guardi con interesse verso uno sviluppo in Europa è noto da mesi. Tantopiù che il vecchio continente rappresenta l’area tecnologicamente più avanzata al mondo per qualsiasi cosa abbia a che fare con le telecomunicazioni mobili. La stessa At&t del resto, nei suoi corsi e ricorsi storici ha già avuto a che fare con un esempio di alta tecnologia italiana: era il 1983 e l’allora monopolista Usa era entrato con una quota nell’Olivetti di Carlo De Benedetti. Con l’idea, svanita nel 1988, di arrivarne al controllo.

Giancarlo Radice

02 aprile 2007


Il Riformista 2-4-2007 Perché non importa quante divisioni ha il papa

Mio nonno, che aveva esordito nella vita pubblica fondando un “Fascio anticlericale Francisco Ferrer”, pretendeva dai credenti di famiglia il più rigoroso rispetto dei precetti di Santa Madre Chiesa. Credere, diceva, non è obbligatorio. Ma se si decide di credere, bisogna essere coerenti.
Mi è venuto in mente leggendo l'editoriale del Foglio del 30 marzo, e vedendo a Otto e mezzo Giuliano Ferrara rimproverare a Ermanno Olmi la sua diffidenza per il Verbo e la sua confidenza con la Carne. Neanche per il Foglio essere cattolici è obbligatorio. Ma chi lo è deve sapere che «il cattolicesimo non è un supermarket nel quale si prende quel che serve e si lascia il resto». A prima vista, non fa una grinza. Ma è un paralogismo se applicato a chi crede che verbum caro factum est, e non viceversa. Per cui sa che perfino ai tempi del mercato delle indulgenze la logica di scambio è rimasta sostanzialmente estranea alla vita della Chiesa.
Del resto nel decennio peggiore del pessimo secolo ventesimo Georges Bernanos ci ricordava che per i curati di campagna «tutto è grazia». E quando la lettura del Vangelo era almeno altrettanto assidua della lettura delle note vescovili ci si stupiva per l'ingiustizia retributiva di cui godevano gli operai dell'undicesima ora. Finché, con l'aiuto di qualche curato di campagna, non si comprendeva che il bello del cristianesimo era proprio quello, e si cominciava a distinguere la logica della Città di Dio da quella della Città dell'uomo, nella quale «nessun pasto è gratis».
Nella Chiesa, invece, è tutto gratis, e lo Spirito soffia dove vuole. Un ateo, per quanto sia devoto, comprensibilmente fatica ad accettarlo. E fa ancora più fatica ad accettare che è proprio per questo, e non per la superiorità delle teorie di monsignor Sgreccia rispetto a quelle del professor Lysenko, che la Chiesa ha sconfitto per venti secoli i suoi avversari, comunismo compreso. E che per questo, e solo per questo, al papa non importa sapere di quante divisioni dispone.
La libertà di coscienza del cristiano, quindi, non è un beneficio graziosamente octroyè dalla gerarchia, ma è l'elemento costitutivo della stessa comunità dei credenti, gerarchia compresa. Perciò, fra l'altro, la Chiesa è generalmente poco affidabile come fondamento di un ordine civile. Mentre è sicuramente affidabile per il continuo incivilimento dell'uomo, che di qualsiasi ordine civile è la premessa. Lo sanno, meglio degli atei devoti, i cattolici disobbedienti. Che per questo, fra l'altro, non si stupiscono oggi della testimonianza di rispetto della sacralità della vita fornita proprio da chi, come Nino Andreatta, dagli “atei devoti” ha messo per primo in guardia i cattolici italiani. E pazienza se per Baget Bozzo (Il Foglio del 31 marzo), per esempio, il film di Olmi «non è un film cattolico» perché si rifà al «cristianesimo giovanneo», di cui anzi svela «un nocciolo non cattolico»: come sa meglio di chiunque don Gianni, che è stato a sua volta un cattolico disobbediente, le sue opinioni teologiche non fanno ancora parte del magistero, e papa Giovanni non è ancora un eresiarca.
Se non se ne tiene conto il rischio, per gli atei devoti, è quello di interpretare come un semplice movimento dialettico l'alternarsi della révanche de Dieu che si manifesta in questo secolo con l'eclisse del “Dio che è fallito” nel secolo scorso. Mentre alle gerarchie può capitare non solo di confondere i codici linguistici, come da ultimo è capitato sabato a monsignor Bagnasco, ma di incrinare l'ineffabile potenza di una Chiesa fondata sul paradosso cristiano della parola che si fa carne, e che proprio per questo deve essere usata almeno con lo stesso rigore con cui giustamente si pretende che venga usato il seme dell'uomo, che né va disperso, né va collocato in vasu improprio, se si vuole evitare sia il peccato di Onan che quello di Sodoma. Sempre che si voglia parlare anche di cose serie, oltre che del family day, dei Dico, degli assestamenti di potere in seno alla Cei e delle fortune politiche dei teodem.


La Stampa 1-4-2007 Il Papa: "Chi ha le mani  sporche è lontano da Dio "

 

Il Pontefice all'Angelus: «Seguire Cristo significa rinunciare ai guadagni e alla carriera»

CITTA' DEL VATICANO
Opporsi con coraggio alla menzogna e alla violenza, ma soprattutto c’è «una condizione molto concreta» per accostarsi all’altare del Signore: solo con «mani innocenti e cuore puro». Da qui l’appello di Benedetto XVI ai giovani che oggi celebrano la Giornata Mondiale della Gioventù, a livello diocesano. «Mani innocenti - ha spiegato il Papa - sono mani che non vengono usate per atti di violenza. Sono mani che non sono sporcate con la corruzione, con tangenti. Cuore puro - ha aggiunto - è un cuore che non finge e non si macchia con menzogna e ipocrisia. Che rimane trasparente come acqua sorgiva, perchè non conosce doppiezza. È puro un cuore che non si strania con l’ebbrezza del piacere».

«RINUNCIARE A COMODITÀ VITA, CREARE PACE NEL MONDO»
Ancora: no alla carriera e al successo, come «scopo ultimo della propria vita». Il monito del Papa nella Domenica delle Palme è anche quello di «non considerare la mia autorealizzazione la ragione principale della mia vita». Benedetto XVI invita invece a donarsi completamente e «liberamente a un Altro». «Si tratta - sottolinea il Pontefice di fronte a una piazza gremita - della decisione fondamentale di non considerare più l’utilità e il guadagno, la carriera e il successo come scopo ultimo della mia vita, ma di riconoscere invece come criteri autentici la verità e l’amore. Si tratta - ammonisce Papa Ratzinger - della scelta tra il vivere solo per me stesso o il donarmi, per la cosa più grande. E consideriamo bene che verità e amore non sono valori astratti; in Gesù Cristo essi sono divenuti persona».

«NO A SUCCESSO E GUADAGNO COME SCOPO DELLA VITA»
Il Papa invita infine a «rinunciare alle comodità della propria vita» per «mettersi totalmente a servizio dei sofferenti» ma anche ad «opporsi alla violenza e alla menzogna, per far posto nel mondo alla verità». Non manca anche un appello a tutti gli uomini e le donne del mondo «a fare del bene agli altri, a suscitare la riconciliazione dove c’era l’odio, a creare la pace dove regnava l’inimicizia». Benedetto XVI, dopo aver preso parte alla Processione all’inizio della celebrazione, portando in mano un ramoscello di ulivo, ha assistito alla Passione in piedi con il crocifisso in mano.


La Repubblica 2-4-2007 Commenti Lo scacchiere iraniano RENZO GUOLO

 

La "crisi dei marinai" aggrava i già difficili rapporti tra Iran e Occidente. L'intollerabile esibizione in video dei militari catturati, obbligati a pronunciare improbabili quanto estorte "confessioni", suscita vecchi fantasmi e inasprisce le tensioni. La dura presa di posizione dell'Unione Europea che chiede il rilascio senza condizioni dei soldati britannici, minacciando in caso contrario l'adozione di "misure adeguate", "comunitarizza" la crisi, facendola uscire dall'alveo del contenzioso bilaterale tra Londra e Teheran. Ma il governo iraniano sembra non curarsene troppo, annunciando che i marines della Royal Navy potrebbero essere processati per violazione delle acque territoriali. Perché Teheran esaspera questa crisi in frangenti così delicati per paese? Non si tratta solo di una reazione alla crescente pressione internazionale sulla questione del nucleare. Nonostante Ahmadinehjad abbia definito, ancora una volta, "carta straccia" la nuova risoluzione Onu in materia, la "presa in ostaggio" dei marinai non è legata esclusivamente a quella vicenda. Sulla torretta delle motovedette delle Guardie della Rivoluzione che hanno bloccato le lance britanniche davanti a Faw, sventolava, metaforicamente, un vessillo che poco aveva a che fare con l'orgogliosa bandiera della difesa della sovranità nazionale. Quel vessillo segnalava ai "turbanti", l'ala clericale del regime, che il gioco tornava in mano al "partito dei militari". Il governo di Ahmadinejad, espressione di quel "partito", è oggi in seria difficoltà. Gli equilibri politici sono mutati dopo la svolta di dicembre, quando il disilluso elettorato un tempo riformista è tornato alle urne per limitare il peso della fazione radicale del regime. La svolta ha dato vita a una maggioranza politica e sociale diversa da quella sortita dalle presidenziali del 2005. In un sistema politico in cui non esiste alternanza gli equilibri tra fazioni determinano gli indirizzi di regime: nell'ultimo anno la Guida Khamenei si è riavvicinata a Rafsanjani, che a sua volta ha rinsaldato i rapporti con l'ala khatamista dei riformisti Per la Guida, capofila dei conservatori religiosi, schieramento che sceglie di volta in volta se allearsi con i radicali o i pragmatici, il processo di autonomizzazione dei "militari" in nome del primato del "partito rivoluzionario" sul "clero combattente" si è spinto troppo in là. Minacciando, non solo la rendita politica dell'eterno rivale Rafsanjani ma anche quella dello stesso Khamenei. Così è iniziato il "25 luglio iraniano" caratterizzato, più che da clamorosi rovesciamenti nelle cariche, da una strisciante ma non meno emblematica ridislocazione del potere. La volontà di anticipare la scadenza del mandato presidenziale per uniformarlo a quello del Majlis, il parlamento, non è un semplice tassello di ingegneria costituzionale: indica la volontà di settori importanti dell'establishment di porre fine al più presto all'esperienza di Ahmadinejad. Guida e Consiglio delle Scelte, organo presieduto da Rafsanjani, marciano uniti per fare da contrappeso a un governo in cui i due terzi dei ministri provengono dalle fila dei Pasdaran. L'obiettivo della "nuova maggioranza" in formazione è quello di lasciar indebolire il governo accollandogli le responsabilità delle crescenti tensioni economiche interne. Operazione, esplicitata dal pressante invito rivolto da Khamenei a Ahmadinejad a accelerare le privatizzazioni, che mira a dare spazio a un blocco sociale "mercatista". Prospettiva tanto invisa ai radicali, teorici del primato della stato anche in economia, quanto gradita ai pragmatici, punto di riferimento di tecnocrati, quadri delle imprese energetiche e imprenditori privati. Un blocco sociale che ha come "compagni di strada" il movimento delle donne e quello degli studenti universitari cresciuti a Nike & Internet più che nel mito di Khomeini; accomunati dalla richiesta di maggiore libertà e diritti e di un quadro politico interno meno ipotecato da relazioni conflittuali con l'Occidente. "L'incidente" dello Shatt-el Arab, pianificato o meno, offre al "partito dei militari" la possibilità di cambiare l'esito della partita in corso, scegliendo il terreno che meglio preferisce: la drammatizzazione, a fini interni, delle tensioni internazionali. Situazione che permette agli "elmetti" di chiedere alle altre fazioni del regime e alla società di serrare i ranghi contro il Nemico esterno, stornando l'attenzione dagli scarsi risultati ottenuti nella loro azione di governo. L'attuale crisi non è assimilabile a quella di tre anni fa, quando altri militari inglesi furono arrestati in analoghe circostanze e rilasciati dopo tre giorni. Allora il quadro politico interno e internazionale era diverso: a Teheran governava un crepuscolare Khatami e la disputa sull'uranio arricchito era lontana dalla svolta impressa in seguito dall'amministrazione Bush. Nella circostanza il modello di riferimento dei radicali è, semmai, la lunga crisi degli ostaggi dell'ambasciata americana a Teheran, che permise loro di liquidare le componenti non islamiche della rivoluzione. Costringere le forze rivali a mobilitarsi sulle proprie parole d'ordine, escludendole dalle gestione delle crisi ma imponendo loro le conseguenze politiche che ne derivano, è tipico del loro modo d'agire. Quel tipo di partita può ora ricominciare. Anche perché a catturare gli uomini della Cornwall sono state le unità della marina dei Pasdaran. Il governo iraniano pare intenzionato a portare i marines britannici davanti a una corte militare, accusandoli di violazione delle acque territoriali. Accusa meno grave di quella di spionaggio, invocata nel gioco della parti dai Basij, ma destinata comunque a aprire un fronte caldo con Londra e Washington. Gli americani hanno subito sbarrato la strada all'ipotesi di scambiare i militari detenuti, ed eventualmente condannati, con i pasdaran da loro arrestati a Erbil. Una vicenda che gli Usa hanno fatto esplodere per lanciare un esplicito segnale proprio alle Guardie della Rivoluzione, accusate di pesanti interferenze in Iraq. Quanti a Teheran speravano di aver messo all'angolo il "partito dei militari", vedono dunque tornare il pallino nelle sue mani. Con la prospettiva che la "crisi dei marinai", tanto più se destinata a durare a lungo, diventi oggetto di negoziazione interna tra fazioni sul profilo da tenere sul versante del nucleare. Grande disordine sotto il cielo iraniano: per i pasdaran la situazione è eccellente.


Italia Oggi 2-4-2007 I servizi di pagamento sono sprint Pagine a cura di Gabriele Frontoni 

 

Dal 2008 gli stati membri inizieranno il recepimento della direttiva che crea un sistema unico. Bollette e contravvenzioni al supermercato e bonifici in 24 ore L'Europa dice sì al sistema unico dei pagamenti. I ministri delle finanze dell'Ecofin hanno approvato all'unanimità il testo finale della direttiva concordata con l'Europarlamento che stabilisce nuove norme per i servizi di pagamento all'interno dei confini dell'Unione. La questione passerà adesso all'esame del parlamento che dovrà esprimersi in via definitiva nel corso della sessione plenaria fissata per il 23-26 aprile. Se il cammino della normativa dovesse continuare senza intoppi, la definitiva liberalizzazione dei pagamenti transfrontalieri dovrebbe iniziare a partire dal mese di novembre del 2009. Oltre a questo, la direttiva approvata dall'Ecofin fissa il quadro giuridico per la creazione di un sistema unico dei pagamenti in euro che garantirà, a partire dal 2008 (e al più tardi entro il 2010), le stesse condizioni praticate nei paesi d'origine per tutti i pagamenti in euro con carta bancaria o via bonifico effettuati nei 31 paesi europei (quelli aderenti alla Ue, oltre a Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda). 'L'approvazione da parte dei ministri delle finanze dell'Ecofin del testo finale della direttiva concordata con l'Europarlamento rappresenta un passo fondamentale verso la creazione di un'area unica di pagamenti all'interno dell'Europa', ha spiegato il commissario europeo per il mercato interno e i servizi, Charlie McCreevy. 'Questa direttiva consentirà di rendere semplici e sicuri i pagamenti transfrontalieri con carte di credito, di debito, bonifici bancari, o altre forme di pagamento, come quelli che attualmente vengono effettuati all'interno di ognuno dei paesi di Eurolandia. E ciò consentirà di ottenere forti risparmi per i consumatori e, più in generale, per il sistema economico europeo. Oltre a questo, la direttiva garantirà quella cornice legale necessaria per la costituzione di un'area unica di pagamenti all'interno dei confini Ue'. In base ai dati contenuti nel Libro bianco del dicembre 2005 della Commissione europea, il costo della frammentazione nel sistema dei pagamenti europei grava ogni anno sul sistema Europa per una quota compresa tra il 2 e il 3% del pil. 'L'apertura dei mercati nazionali dei pagamenti a nuovi prestatori e la garanzia di parità di condizioni consentiranno di aumentare la concorrenza e di promuovere la prestazione transfrontaliera di servizi', si legge nel documento della commissione. 'Gli utenti di servizi finanziari beneficeranno di maggiore concorrenza, trasparenza e di una più ampia scelta nel mercato dei servizi di pagamento. E questo dovrebbe favorire la convergenza dei prezzi tra gli stati membri e ridurre l'attuale forchetta di costo dei servizi erogati'. Le novità della direttivaLa direttiva approvata dall'Ecofin rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana per il sistema dei pagamenti europeo. Una delle principali novità è rappresentata dall'ingresso nel mercato di nuove istituzioni finanziarie. Dal 2009 sarà dunque possibile compiere operazioni 'bancarie' tradizionali come il pagamento delle utenze o l'affitto di casa non più soltanto presso gli sportelli degli istituti di credito o alle Poste ma anche al supermercato, nelle agenzie di money transfer o presso tutti quegli operatori che dimostreranno di possedere i criteri di affidabilità ed efficienza imposti dalla normativa. Non solo. Le operazioni di pagamento tradizionale potranno effettuarsi anche tramite il proprio telefonino grazie all'ingresso degli operatori di telefonia mobile nel grande puzzle dei pagamenti nazionali e transfrontalieri. Oltre a questo, la direttiva abolisce le frontiere dei pagamenti all'interno dell'Ue, con regole e modalità uguali per tutti: bollette e contravvenzioni potranno essere pagate anche dall'estero, così come sarà possibile utilizzare in tutta Europa la propria carta di credito o il bancomat grazie all'introduzione obbligatoria di chip e codice personale al posto della banda magnetica. Verrà poi attuata la regola del D+1 che consiste nella riduzione del tempo di esecuzione massimo per i bonifici transfrontalieri in euro che dovranno essere conclusi nel termine massimo di 24 ore dal momento della presentazione dell'ordine di pagamento. La direttiva prevede poi che la somma totale del pagamento venga accreditata senza operare alcuna deduzione a carico del beneficiario. Non solo. Viene meno anche la regola, al momento in vigore all'interno degli ordinamenti di alcuni membri dell'Ue27, che prevede la necessità di aprire una filiale all'interno del paese ospitante per autorizzare l'offerta del servizio finanziario sul mercato nazionale.

 


Il Piccolo di Trieste 2-4-2007 La lezione tedesca per la ripresa. Franco A. Grassini.

 

La Germania, per altro, ha saputo accrescere la sua quota delle esportazioni mondiali dall'8% del 2000 al 10% del 2006; prima di Cina, Giappone e Stati Uniti. La disponibilità di un'industria dei beni strumentali di affermata qualità ha certamente aiutato,ma ancora di più sono servite le consistenti ristrutturazioni che le imprese germaniche hanno saputo affrontare per divenire competitive in un mercato sempre più difficile. Altrettanto fondamentali sono stati i massicci investimenti resi possibili da un sistema bancario che, avendo rapporti molto stretti con le imprese, li ha finanziati guardando al lungo termine. In questo quadro intere produzioni sono state trasferite in Paesi a basso costo del lavoro, gli orari di lavoro (in molti casi - vedi Volkswagen che era scesa a 29 ore settimanali - eccessivamente brevi) allungati, i salari quasi congelati o comunque aumentati meno dell'inflazione. Nel breve periodo queste ristrutturazioni sono state piene di aspetti negativi:la disoccupazione aveva superato i 5 milioni di unità, i salari reali ridotti, la domanda interna afflosciata, la spesa pubblica per fini sociali accresciuta sino al punto di far aumentare il deficit ben oltre quei limiti previsti dal Trattato di Maastricht per imporre i quali la Germania tanto si era adoperata. Eppure queste ristrutturazioni sono state portate avanti senza che il Paese soffrisse di aspri conflitti sociali. Al contrario il Governo del socialdemocratico Schroeder ha avviato, a partire dal 2003, una serie di riforme del mercato del lavoro e del sistema di sicurezza sociale che gli sono costate politicamente molto care, ma hanno molto agevolato la ripresa. La ragione sta essenzialmente in due aspetti fondamentali della società tedesca. La grande coesione che è resa possibile dal fatto che tutti i processi decisionali - nello Stato come nelle imprese - hanno nella ricerca del consenso delle parti interessate un fondamento comune. Nello Stato questo è agevolato dai pochi partiti e da un sistema bicamerale non di parità assoluta come da noi, ma con una camera alta in cui i singoli Lander sono rappresentati. Nelle imprese il sistema tedesco, e siamo al secondo aspetto fondamentale cui si è fatto cenno, prevede una rappresentanza del personale - analoga alle nostre commissioni interne - per tutte le aziende con più di 5 dipendenti, mentre in quelle, che rappresentano il cuore dell'industria tedesca, con oltre 500 la rappresentanza del personale nel consiglio di sorveglianza è di un terzo e nelle società con oltre 2000 addetti la posizione è paritetica ( ma con il Presidente,scelto tra i rappresentanti degli azionisti, con voto doppio in caso di stallo). È evidente che le decisioni sono spesso lente e comportano sempre un compromesso,ma sono la base per scelte spesso difficili e impopolari. La Bundesbank ha calcolato che se dal 1999 al 2006 i salari fossero cresciuti al 2,5% annuo, la disoccupazione sarebbe stata molto più elevata e la Germania non sarebbe in ripresa. È pensabile importare in Italia il modello tedesco? Tal quale indubbiamente no. Tuttavia ci si potrebbe accostare con modalità più adatte alla nostra storia. Del resto la concertazione tra le parti sociali del 1993, un modo nostro di decisioni consensuali, ha prodotto effetti positivi per molti anni. Il vero nodo è politico: un Paese in cui tutti guardano al proprio particolare e non c'è mai uno sforzo di comprendere le ragioni degli altri non può avere molte speranze di risolvere bene e presto i temi difficili che ci pone un mondo in continuo mutamento.

 


Il Giornale di Brescia 2-4-2007 FINESTRA SUL MONDO Nonostante Fidel Castro abbia delegato il potere, il regime si mostra ancora solido.

 

E con seri problemi. Cuba, stipendio medio: 12 dollari Tutti costretti a un doppio lavoro non legale. Lo spauracchio della polizia popolare di quartiere Una manifestazione di regime: giovani sventolano bandiere cubane davanti ad una gigantografia di Che Guevara Claudio Gandolfo

L'AVANA "Come sta el Comandante?" "Meglio, meglio. L'altra sera è apparso in Tv con Chavez. Si sta riprendendo". Il taxista non ha dubbi. Provo a contraddirlo: "L'ho visto anch'io - rispondo - ma, se devo essere sincero, mi sembrava molto mal messo". È la verità. Ma il taxista controbatte: "Ma che dice? Ha parlato, gesticolava, si muoveva. No, no: sta decisamente meglio". Cuba vive la malattia di Fidel Castro con un misto di fatalismo e di convinzione che il vecchio "lupo della sierra" ce la farà, ancora una volta. In Plaza Vieja, nel centro dell'Avana, campeggia uno striscione benaugurante: "80 años mas querido comandante", "Altri 80 anni ancora caro comandante". Come se i primi non fossero già bastati. Scaramanzia dei fedelissimi? Sta di fatto, che il regime castrista tiene. La cosa ha sorpreso tutti gli osservatori stranieri, in primis gli strateghi americani. Il mostro sacro della revolucion non governa più, ma tutto procede come prima. Nell'isola regna sovrana la calma rassegnata di sempre. Ci si aspettava una "transformacion" (capovolgimento), moti popolari, proteste di piazza, l'opposizione che viene allo scoperto, come accadde nell'89 nell'Est europeo. Invece nulla. Il regime appare più forte di quanto si potesse pensare. E, forse, con maggiore sostegno popolare di quanto si possa supporre. Sennò non si spiegherebbe questa situazione di sostanziale e tranquilla continuità. È che Castro ha saputo blandire lo smisurato orgoglio nazionalistico dei cubani: noi, piccola isola, piccolo Davide, da mezzo secolo teniamo testa al "prepotente gigante norteamericano": lui la forza economica, noi la forza morale. Il gioco ha funzionato, nonostante il regime sia oppressivo e illiberale. Paradossalmente, Castro è stato aiutato dal bloqueo, dall'embargo: una misura sciocca, perché ha affamato la povera gente e ha consentito al "lider" di giustificare i suoi disastri, addossandone la responsabilità alla "protervia affamatrice dei gringos". Molta gente ci ha creduto e ancora ci crede. D'altro canto, qui, gli Stati Uniti sono molto amati per i dollari, ma odiati per il loro passato "colonialistico": non si dimentichi che Cuba fu un quasi-protettorato Usa dal 1898 fino a metà anni Cinquanta. E non furono esattamente rose e fiori. Insomma, per ora, il regime resiste. Per quanto ancora? "Vedrai che quando Castro muore, crollerà" mi suggerisce un amico cubano. Ma c'è da non esserne tanto certi. Intanto Cuba e i suoi cittadini si dibattono nei problemi e nella fatica di vivere di sempre. Che tu faccia l'operaio o l'avvocato, lo stipendio è più o meno lo stesso: dai 300 ai 400 pesos cubani al mese, l'equivalente di 12-16 dollari. Solo i medici specializzati e gli ingegneri con grandi responsabilità arrivano a guadagnare l'equivalente di 40 dollari al mese. Con una cifra così, una famiglia sopravvive una settimana, dieci giorni, al massimo. E poi? Poi bisogna arrangiarsi. Fare un secondo lavoro, ovviamente in nero, commerciare, offrire servizi, tipo taxista abusivo. Tutto illegale, non consentito dalle leggi vigenti. Così fan tutti. Proprio tutti. Il regime lo sa e lascia correre, sennò i suoi cittadini morirebbero di fame e si ribellerebbero. Ma, nel contempo, il regime mette in atto un lucido e perverso ricatto: tu, cittadino, svolgi un lavoro illegale, ok: io lo so e te lo lascio fare, ma attento, non mi creare problemi sennò io so dove stai e ti faccio passare un guaio. L'illegalità programmata con norme impossibili (risulta chiaro anche al governo che 12 dollari al mese non bastano a nessuno) in cambio del consenso. O, quantomeno, dell'acquiescenza. Il che crea, per tutti, una sorta di vita a doppio binario e un alto livello di corruzione interna: infatti, se vuoi stare tranquillo, devi pagare i funzionari di polizia, addetti ai controlli, i quali, a loro volta, sono ben contenti di chiudere entrambi gli occhi, in cambio di una mancia: anche loro devono pur vivere e neanche a loro i 12 dollari bastano a sbarcare il lunario... Va detto che di tutto questo il turista quasi non si accorge: con l'ospite i cubani sono gentili, socievoli, molto dignitosi; l'isola, d'altro canto, ha un alto livello di sicurezza e questo dà allo straniero una sensazione di piacevole rilassatezza. La povertà e l'illiberalità sono evidenti, ma il visitatore ne resta come immune... Anche in questo ambito il regime ha creato una specie di doppio livello: la Cuba dei cubani e la Cuba dei turisti. Viene quasi da dire che la "duplicità" sia la cifra distintiva del potere castrista. Ma per tenere salde le redini del comando, il regime ha un altro asso nella manica: la polizia popolare di quartiere. In ogni "quadra" , o isolato che dir si voglia, ogni cittadino, a turno, deve fare la guardia al suo isolato, assieme a un altro compagno. Una coppia che, per 24 ore, vigila che tutto sia in regola nel suo isolato. I nomi e i turni li sceglie il partito. In questo modo nessuno, nel quartiere, sa chi è il poliziotto popolare per la giornata in corso. Può essere chiunque. Risultato: tutti, teoricamente, sono abilitati a controllare tutti e ognuno sa che può essere spiato da chiunque: il poliziotto di turno può essere anche il dirimpettaio. Questo sistema, a dire il vero, fino a un paio di anni fa era assai rigoroso: ora è molto più blando. Ugualmente mantiene la sua efficacia e la sua deterrenza. In questa enorme (e peraltro splendida) prigione a cielo aperto, la gente non ha paura a lamentarsi, a dire la sua, anche a criticare il regime. Ma lo fa con misura. Sembra che il potere abbia allentato un po' le maglie e abbia concesso una sorta di diritto al mugugno. Nulla di più. Per ora.


INDICE 1-4-2007

Il Corriere della Sera 31-3-2007 Marzo è finito e la riforma delle pensioni non c’è. L'agenda smarrita di Francesco Giavazzi 1

La Repubblica 1-4-2007 Svolta neoprotezionista di Bush contro la Cina ecco i dazi Usa Dura replica di Pechino: "Danno inaccettabile" 2

L’Unità 1-4-2007 ASSOCIAZIONE a delinquere finalizzata alla turbativa di aste pubbliche, falso, truffa ai danni dello Stato, corruzione. di Francesco Sangermano  3

Il Corriere delle Alpi 1-4-2007 I politici costano una fortuna I deputati italiani guadagnano il doppio dei francesi GABRIELE RIZZARDI 4

Il Riformista 31-3-2007 L'ESIBIZIONE DEI PRIGIONIERI INGLESI. Dall'Iran uno spettacolo che non si può accettare  5

 

 

 

Il Corriere della Sera 31-3-2007 Marzo è finito e la riforma delle pensioni non c’è. L'agenda smarrita di Francesco Giavazzi

 

 

Al termine dell’incontro di Caserta sulle riforme, il 13 gennaio scorso, Romano Prodi annunciò un’agenda in 10 punti: dall’accelerazione dei tempi della giustizia, al federalismo fiscale, a interventi urgenti per il Mezzogiorno. Vi aggiunse anche, sfidando con coraggio l’ala sinistra del suo governo, un punto specifico sulla riforma delle pensioni. A Rutelli, che chiedeva una cabina di regia sulle liberalizzazioni, disse: «Guiderò io le liberalizzazioni ». E lasciò Caserta con questo impegno: «Accelererò il più possibile. Se non chiudo il 31 marzo, sarà subito dopo». E’ la fine di marzo e, tranne per i provvedimenti del ministro Bersani approvati ieri al Senato, quei progetti non hanno fatto grandi passi avanti, soprattutto il più importante, la riforma della previdenza.

L’incrociarsi degli eventi (alcuni importanti, come il finanziamento delle missioni militari all’estero, altri un po’ più provinciali) e la grande fragilità della maggioranza sembrano aver distratto il presidente del Consiglio, tanto da fargli scordare l’impegno che aveva assunto. E oggi l’avvicinarsi di alcune scadenze elettorali suggerisce provvedimenti che sembrano più dettati dai sondaggi che coerenti con quell’agenda e con il Programma che un anno fa l’Unione aveva presentato agli elettori. La buona salute dei conti pubblici consente di ridurre le tasse: da dove cominciare? Si pensa di ridurre l’Ici e si è ormai abbandonata l’idea di armonizzare la tassazione delle attività finanziarie. In entrambi i casi perché così si spera di riguadagnare un po’ di consenso.

Che cosa pensava la maggioranza un anno fa? «Per realizzare il progetto federale occorre che siano immediatamente ripristinati i margini di autonomia tributaria già previsti dall’ordinamento». Cioè: un federalismo responsabile richiede che ai Comuni sia concessa ampia autonomia nella determinazione delle aliquote fiscali, in primis le imposte sugli immobili, che sono la loro maggiore fonte di reddito. Solo così i sindaci potranno valutare i costi e i benefici politici delle spese che vorrebbero realizzare. Alcuni alzeranno l’Ici, altri la ridurranno. Proporre da Roma una riduzione generalizzata dell’Ici è l’esatto contrario. «Il sistema fiscale italiano è distorto a danno del lavoro e della produzione. Dobbiamo invertire questa situazione attraverso una politica fiscale che realizzi... l’uniformità del sistema di tassazione delle rendite finanziarie».

Anche qui un progetto assolutamente condivisibile. Il 10% più ricco delle famiglie possiede il 40% di tutte le attività finanziarie; il 10% più povero solo l’1,2%. Quando lo Stato tassa i cittadini più poveri per pagare gli interessi sul debito pubblico preleva il 23% (l’aliquota minima) sui redditi da lavoro e lo trasferisce per lo più ai ricchi, i quali, sugli interessi che percepiscono, pagano il 12,5%. L’iniquità riguarda anche le imprese che sui loro redditi pagano il 33%. Che coerenza dimostra un governo che si spaventa e per qualche sondaggio abbandona il proprio programma? «Occorre abbattere gli ostacoli che penalizzano le possibilità di lavoro, soprattutto delle donne»: era un altro punto importante del programma. Vi sono due modi per consentire alle donne di lavorare di più. Uno costa: costruire asili, scuole materne, e non è provato che funzioni. Un altro paradossalmente raggiunge l’obiettivo facendo risparmiare lo Stato.

Alberto Alesina e Andrea Ichino hanno proposto (Il Sole 24 Ore, 27 marzo) di abbassare le aliquote fiscali per le donne e alzarle (ma meno) per i maschi. Questo «miracolo» è possibile perché gli uomini hanno un’offerta di lavoro rigida. Se fossero tassati di più, lavorerebbero un po’ meno, ma non molto meno. Viceversa l’offerta di lavoro femminile è più elastica: a fronte di una riduzione dell’aliquota fiscale molte più donne lavorerebbero. Con redditi netti più alti potrebbero lavorare anche quelle madri che oggi sono costrette a restare a casa perché altrimenti guadagnerebbero troppo poco per pagare qualcuno che si occupi dei loro figli quando sono fuori casa. Abbassare le tasse per le donne che lavorano è anche un modo per ridurre la discriminazione a loro sfavore. Un modo molto più efficace delle «quote rosa»: comeper l’inquinamento ilmodo migliore di abbatterlo è tassarlo, così per la discriminazione il modo migliore per combatterla è renderla più costosa per chi la pratica.

31 marzo 2007


 

La Repubblica 1-4-2007 Svolta neoprotezionista di Bush contro la Cina ecco i dazi Usa Dura replica di Pechino: "Danno inaccettabile"

 

La misura per ora si applica solo all'import della carta "patinata", ma è un precedente per tutti i settori Dopo 23 anni Washington cambia strategia. Mercati finanziari in allarme Timori per la crescita mondiale Molte multinazionali statunitensi temono un freno all'export dal gigante asiatico Altra grande incognita l'impatto di questa manovra sul dollaro e sui consumatori FEDERICO RAMPINI dal nostro corrispondente pechino - Con un'improvvisa sterzata protezionista che interrompe 23 anni di continuità, l'Amministrazione Bush cambia strategia nel commercio con la Cina, vara un dazio punitivo che a Washington come a Pechino è considerato l'inizio di una escalation di ostilità dalle conseguenze imprevedibili. I mercati finanziari hanno già reagito con nervosismo, di fronte al possibile avvio di una spirale di rappresaglie che può far deragliare la crescita mondiale. NewPage Corporation, una cartiera di Dayton nell'Ohio, con un ricorso contro il made in China può avere innescato una catena di avvenimenti ben più grandi di lei: il classico batter d'ali di una farfalla che nella teoria delle catastrofi si trasforma in un uragano dall'altra parte dell'oceano. Accogliendo il ricorso, l'Amministrazione Bush ha deciso di colpire le importazioni dalla Cina con dazi punitivi dal 10,9% al 20,3%. La misura per ora si applica alle carte patinate di alta qualità usate per magazine, dépliant, cataloghi, manifesti: una nicchia di mercato in cui le importazioni dalla Cina l'anno scorso hanno raggiunto i 224 milioni di dollari. Cioè meno di un millesimo del deficit commerciale bilaterale Usa-Cina, che è stato di 232,5 miliardi di dollari nel 2006. Ma la protezione concessa dal governo degli Stati Uniti alla cartiera dell'Ohio è un precedente che aspettavano da tempo altri settori industriali ben più importanti: le lobby delle macchine utensili, del tessile-abbigliamento, dell'acciaio, dei mobili e della plastica, premono con richieste analoghe di dazi e ora le chances che vengano accettate sono aumentate notevolmente. La svolta dell'Amministrazione Bush è il risultato dei nuovi rapporti di forze al Congresso di Washington. Dopo le elezioni di novembre i democratici hanno la maggioranza parlamentare e possono condizionare la politica del commercio estero. Il partito democratico, più vicino ai sindacati, è il meno liberista. Diversi esponenti democratici accusano la Cina di concorrenza sleale, sostengono che le sue imprese godono di crediti agevolati e sussidi statali all'export. Finora l'Amministrazione Bush aveva tenuto duro ma il via libera ai dazi sulla carta è il segnale che si apre una pagina nuova nelle relazioni tra Washington e Pechino. Due esponenti democratici che presiedono la commissione Finanze e quella del commercio estero, Charles Rangel e Sander Levin, hanno salutato il provvedimento così: "Ora ogni settore industriale americano che si ritiene danneggiato può ottenere giustizia". La reazione cinese è stata dura. Il portavoce dell'ambasciata della Repubblica popolare a Washington, Chu Maoming, ha definito la misura "un danno inaccettabile" e ha annunciato che "il governo cinese si riserva il diritto di salvaguardare i propri diritti e legittimi interessi". A Pechino il ministero del Commercio estero ha dichiarato: "Questa azione degli Stati Uniti contraddice il consenso che era stato raggiunto tra i leader dei due paesi per risolvere le dispute attraverso il dialogo". Anche negli Stati Uniti l'improvvisa svolta protezionista ha suscitato preoccupazioni. Il New York Times vi dedica la prima pagina con un titolo che parla di "drastico cambiamento". Il Los Angeles Times cita l'esperto di geopolitica Jason Kindopp di Eurasia Group secondo il quale "la novità è significativa, può segnare l'inizio di una nuova tendenza". Un timore è che Pechino possa ricorrere a rappresaglie contro gli interessi stranieri. Anche se il commercio bilaterale è pesantemente squilibrato in favore del gigante asiatico, è noto che una quota consistente delle esportazioni made in China sono prodotte in realtà nelle fabbriche delle multinazionali Usa insediate da anni a Shanghai, Canton, Shenzhen. Una frenata alle esportazioni dalla Cina può rappresentare un duro colpo per i bilanci di molte marche americane. I mercati finanziari hanno accusato il colpo: venerdì sera il dollaro si è indebolito e la Borsa di Wall Street ha annullato i guadagni che erano stati innescati dal calo del prezzo del petrolio. "I dazi contro la Cina possono affondare il dollaro" ha dichiarato David Watt, responsabile del mercato dei cambi alla Rbc Capital Markets di Toronto. Joseph Battipaglia, capo della divisione investimenti nella società finanziaria Ryan Beck di Philadelphia ha detto che "attaccare la Cina con misure protezioniste può avere conseguenze incalcolabili". Un'incognita è l'impatto sui consumatori. Il made in China a buon mercato che domina gli scaffali di Wal-Mart e di tutta la grande distribuzione americana, ha un effetto calmieratore sul costo della vita. Se si riduce la disponibilità di prodotti cinesi l'inflazione può aumentare, costringendo la Federal Reserve ad alzare i tassi d'interesse, con un effetto depressivo sulla già debole crescita americana. Un altro rischio è legato al ruolo della banca centrale cinese come "creditore di ultima istanza" degli Stati Uniti. A furia di accumulare attivi commerciali, Pechino ha messo da parte circa 1.200 miliardi di dollari di riserve valutarie ufficiali. La Cina è diventata uno dei principali serbatoi del risparmio mondiale, e una esportatrice netta di capitali all'estero. La maggior parte delle sue riserve (intorno al 70%) sono reinvestite in buoni del Tesoro Usa, quindi finanziano il debito federale di Washington e indirettamente la spesa delle famiglie americane. Se la banca centrale cinese dovesse abbandonare il sostegno al dollaro, la moneta americana sarebbe esposta a una crisi di sfiducia, destabilizzando i mercati finanziari internazionali. Sia nel caso di un rallentamento della crescita americana e cinese, sia nello scenario di una forte svalutazione del dollaro, i danni si farebbero sentire anche in Europa. Il precedente creato dai dazi punitivi sulla carta cinese è importante perché segnala un cambio di regole fondamentale. Dall'inizio degli anni Ottanta gli Stati Uniti si sono preclusi la possibilità di usare i dazi punitivi contro la Cina, in quanto la classificano tra le "economie non di mercato". Questa definizione giuridica impedisce in linea di principio di verificare se le imprese cinesi godano di sussidi all'export. Se infatti si stabilisce che la Cina non è davvero un'economia di mercato, allora si deve presumere che le sue aziende siano comandate da direttive governative, non influenzate da incentivi economici come i sussidi. Nei confronti dei paesi definiti "non di mercato" gli Stati Uniti possono usare solo le tasse anti-dumping, molto più basse dei dazi punitivi. Ma nel varare il provvedimento protezionista per le cartiere il segretario al Commercio Carlos Gutierrez ha dichiarato: "La Cina di oggi non è la stessa di anni fa; così come è cambiata la Cina, devono adattarsi anche gli strumenti con cui noi garantiamo che le imprese americane siano esposte a una concorrenza leale". Questa svolta ora alimenta le speranze di altri settori industriali americani, le cui richieste di dazi contro il made in China erano state bocciate per anni.

 


 

L’Unità 1-4-2007 ASSOCIAZIONE a delinquere finalizzata alla turbativa di aste pubbliche, falso, truffa ai danni dello Stato, corruzione. di Francesco Sangermano

 

Ma anche intrecci tra affari e politica, tra appalti e cemento. Con l'ombra inquietante della mafia a completare il quadro di una settimana che ha sconvolto la vita amministrativa ed economica di Campi Bisenzio, cittadina della periferia nord di Firenze. È stato lunedì 26 che i Carabinieri sono entrati in azione dopo oltre un anno di indagini. Trentatre persone colpite da ordinanza di custodia cautelare o da sottoposizione all'obbligo di firma e un doppio filone d'inchiesta che al momento coinvolge noti industriali della zona oltre a funzionari e tecnici del Comune ma che non esclude, nel prossimo futuro, di allargarsi anche all'ambito politico ed amministrativo. In oltre 200 pagine di ordinanza redatte dal giudice per le indagini preliminari l'indice viene puntato su una serie di interventi effettuati nelle province di Firenze e Prato sia riguardo all'esecuzione di lavori pubblici sia alla predisposizione delle gare d'appalto ed ai procedimenti di rilascio delle concessioni edilizie. Dalle indagini condotte dal Ros dei Carabinieri del colonnello Domenico Strada i pm Giusppina Mione e Leopoldo De Gregorio hanno ipotizzato in primo luogo la costituzione di una vera e propia cupola costituita da società del settore edile. Un cartello cui avrebbero aderito una ventina di imprese e che sarebbe stato diretto dall'imprenditore Vincenzo Aveni (peraltro ex presidente della sezione edilizia della Confindustria fiorentina). Scopo del cartello sarebbe stato quello di partecipare ad appalti pubblici per lavori stradali ed acquedottistici, indetti dai comuni di Firenze, Campi Bisenzio, altre località toscane come Viareggio e Grosseto, nonché dalla Publiacqua Spa, società di gestione dell'acquedotto fiorentino. Appalti inferiori a 5 milioni di euro assegnati attraverso il sistema della cosiddetta "media mediata" (la gara veniva vinta dall'impresa che avesse fatto il ribasso immediatamente inferiore alla media tra quello più alto e quello più basso presentati per la gara in oggetto) e quindi ripartiti in subappalto alle imprese rimaste escluse ma che avevano aderito al cartello. Non solo. In alcuni casi, infatti, l'accusa ipotizza che l'affidamento dei lavori veniva assicurato anche attraverso la corruzione di compiacenti funzionari dell'area tecnica degli enti committenti, come risultato per due licitazioni bandite rispettivamente dall'Asl di Firenze e dal Comune di Campi Bisenzio. E proprio l'apparato amministrativo di quest'ultimo Comune, è risultato caratterizzato da una "generalizzata illegalità" che, oltre ai casi di corruzione di alcuni dipendenti, coinvolge l'attuazione del nuovo Regolamento Urbanistico Comunale (Ruc). In molte conversazioni telefoniche intercettate il dirigente degli appalti pubblici Marco Cherubini dice chiaramente ad esponenti della giunta o consulenti esterni che "il Regolamento è illegittimo". Nel dettaglio, l'accusa che gli inquirenti rivolgono ai funzionari (anche basata su numerose intercettazioni telefoniche) è che questi attestassero falsamente la conformità dei progetti allo strumento urbanistico, sovradimensionando, di fatto, i parametri di sviluppo edilizio autorizzati dalla Regione Toscana e determinando, di conseguenza, notevoli profitti economici ai soggetti promotori dell'intervento speculativo. Il tutto, cercando di muoversi all'interno di delicati equilibri politici: ancora il Cherubini, infatti, non eista a definire il sindaco "nella morsa" e a lanciare dure accuse alla Margherita che, dice, "ha interessi talmente colossali in prima persona...".


 

Il Corriere delle Alpi 1-4-2007 I politici costano una fortuna I deputati italiani guadagnano il doppio dei francesi GABRIELE RIZZARDI

 

ROMA. Ridurre i costi della politica. Romano Prodi lo ha promesso in campagna elettorale ed è tornato a parlarne durante la conferenza stampa di fine anno. Lo ha ripetuto a ministri e sottosegretari ed infine lo ha scritto nel patto in 12 punti con il quale un mese fa ha chiesto la fiducia al Parlamento. Tagliare, ridurre, contenere. Ci hanno provato in tanti ma i risultati finora sono modesti: la politica in Italia costa sempre di più. A confronto con gli altri paesi europei, poi ci distinguiamo nettamente. L'International Herald Tribune ha pubblicato recentemente un articolo che fa la comparazione tra lo stipendio dei deputati italiani e quello degli altri parlamentari europei. Le cifre non lasciano dubbi: l'assegno mensile lordo del deputato italiano è poco inferiore ai 16 mila euro, quello di un membro dell'Assemblea nazionale francese si aggira intorno ai 7 mila euro. I deputati svedesi si "accontentano" di 5 mila euro. Ma non è solo uno stipendio smisurato il privilegio di cui godono i nostri parlamentari. Tra i benefici che provocano irritazione ci sono le auto blu, i biglietti gratis, le poltrone assicurate ovunque, i conti bancari a costo zero e una vera giungla di benefici-scandalo. Deputati e senatori incassano ogni mese più di 15 mila euro tra indennità, diaria e rimborsi vari. Allo stipendio di 5 mila 486 euro (si chiama indennità) bisogna aggiungere il rimborso (si chiama diaria) di 4 mila 3 euro per il soggiorno a Roma e altre 4 mila 190 euro per le "spese inerenti al rapporto tra eletti ed elettori". Sotto questa voce è compresa anche la cifra che ogni deputato corrisponde ai propri assistenti (i cosiddetti portaborse che, per una decisione presa pochi giorni fa da Bertinotti e Marini, potranno entrare in Parlamento solo se in possesso di un regolare contratto di lavoro). E si arriva al capitolo trasporti. I depuati, è noto, viaggiano molto. Ma se si muovono nel territorio nazionale non pagano niente. Non fanno file e prendono posto in business class. Per loro, gli spostamenti in treno, aereo o traghetto, sono gratis ed anche per i viaggi in autostrada non versano una centesimo. Ma non è finita. Serve un taxi? Per questo servizio è previsto un rimborso trimestrale di 3 mila 323 euro per il deputato che deve percorrere fino a 100 chilometri per raggiungere l'aeroporto più vicino al luogo di residenza e di 3 mila 995 euro per chi deve percorrere più di 100 chilometri. Un bonus annuale di 3 mila 100 euro è infine previsto per tutti i parlamentari che intendono recarsi all'estero per ragioni di studio o "connesse" alla propria attività. E il telefono? Nessun problema: il rimborso annuale è di 3 mila 100 euro e copre tutte le chiamate dal fisso o dal telefonino. Il trattamento di favore comprende anche una assistenza sanitaria integrativa (pagata dal deputato), la barberia della Camera e del Senato a prezzi scontati, panini alla buvette e pranzi ai ristoranti di Monecitorio e palazzo Madama a prezzi fuori mercato. Sono previsti sconti (offerti da produttori e negozi di loro inizitiva) anche per l'acquisto di automobili, aparecchi telefonici, Tv e altro. Un esempio? A gennaio la Tim ha stipulato una convenzione con la Camera per la fornitura di servizi di telefonia mobile e cellulari aziendali. Agli inquilini del "Palazzo", l'operatore telefonico ha riservato un trattamento particolare: tariffe tra le più competitive sul mercato e dotazione di telefonini di ultima generazione. Una chiamata da un telefonino Camera a un altro utente Tim costa solo 0,005 euro. Di tutti i privilegi, quello che più irrita i cittadini è il trattamento pensionistico. Deputati e senatori, anche se in carica per una sola legislatura, maturano il diritto ad una pensione straordinaria che si chiama vitalizio e si somma con tutti i redditi. I sacrifici previdenziali che il governo chiede a tutti i lavoratori non sembrano riguardare i parlamentari. Per i deputati è in vigore un regolamento approvato nel 1997 che stabilisce il diritto alla pensione a 65 anni per gli onorevoli il cui mandato sia iniziato successivamente al 1996. L'unico vincolo è quello della contribuzione: devono essere stati fatti versamenti (1006 euro mensili) per almeno 5 anni. Tutti in pensione a 65 anni? Non esattamente: l'età minima per il vitalizio scende di un anno per ogni ulteriore anno di mandato oltre i 5 obbligatori, sino a raggiungere il traguardo dei 60 anni. I deputati eletti prima del 1996 (e anche in questa legislatura ce ne sono tanti) possono invece avvalersi della "vecchia" normativa secondo la quale si ha diritto al vitalizio all'età di 60 anni, riducibili a 50 utilizzando tutti gli anni di mandato accumulati oltre i 5 minimi richiesti. Ma quanto costano alla colletività gli eletti dal popolo? Un conto preciso è quasi impossibile farlo. Quel che è certo è che i bilanci della Camera, del Senato ma anche quelli del Quirinale, sono in continua crescita. Per la prima volta, la Presidenza della Repubblica ha reso note le cifre essenziali del suo bilancio: la previsione di spesa per il 2007 è di 235 milioni di euro. Il Senato, per il 2006, aveva previsto una spesa di 566 milioni 510 mila (di cui 80 milioni 360 mila euro per lo stipendio dei senatori) contro i 550 milioni 674 mila euro del 2005. Secondo il bilancio di previsione, la Camera dei deputati nel 2006 avrebbe dovuto spendere 1023 milioni di euro contro i 979 dell'anno precedente. Solo la voce "deputati", lo scorso anno, ha pesato per 166 milioni di euro (ai quali vanno aggiunti altri 128 milioni per i vitalizi).


 

Il Riformista 31-3-2007 L'ESIBIZIONE DEI PRIGIONIERI INGLESI. Dall'Iran uno spettacolo che non si può accettare

Non è neppure necessario entrare nel merito: non importa se i marinai britannici catturati dagli iraniani abbiano o no sconfinato nelle acque territoriali dell'Iran, come sostengono le autorità di Teheran. L'uso che si sta facendo di loro è comunque infame. Il fatto di portare dei prigionieri davanti alle televisioni e di far inviare da loro messaggi ricattatori è una pratica contraria alle leggi internazionali, alle convenzioni e alla sensibilità morale del mondo civilizzato.
Sarebbe bene, per tutti e in primo luogo per il loro popolo, che i governanti di Teheran cominciassero ad esercitare più correttezza e più prudenza nei loro rapporti con il resto del mondo. La pratica del ricatto, l'umiliazione degli avversari non solo non servono, ma sono controproducenti. Non fanno che confermare le riserve che il mondo ha nei confronti del regime di Ahmadinejad, della sua politica e dei suoi programmi nucleari. Riserve che hanno trovato espressione nel voto dell'Onu sulle sanzioni.
Anche chi non è d'accordo con la guerra in Iraq, anche chi ritiene che le truppe britanniche, come quelle americane, dovrebbero lasciare quel paese, non può tollerare quel che si sta vedendo in questi giorni e che richiama, drammaticamente, la vicenda degli ostaggi catturati dai pasdaran nell'ambasciata Usa di Teheran. Una vicenda che finì molto male e i cui effetti negativi si continuano ancor oggi a pagare.