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NE IRROGANTO di Mauro Novelli Documento d’interesse Inserito
il 10-10-2007 |
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Il Secolo XIX 10-9-2007 Partiti,
tassa da 226 milioni Massimiliano
Lenzi Duecento milioni
di euro. Tanto sono costati agli italiani i partiti nel 2006. E la cifra si
riferisce ai soli contributi per il rimborso delle spese elettorali. Il conto
sale a 226 milioni e spiccioli se si sommano i fondi pubblici all’editoria di
giornali e testate organi di partito (con gruppo parlamentare) erogati nel
2004. In totale fanno 5,80 euro per ogni votante, 3,80 per ogni italiano
anche se non vota. Si tratta, seppur in forma di rimborso, di una vera e
propria “tassa per i partiti”. Alla faccia del referendum del ’93 che ha
detto no ai finanziamenti pubblici alle forze politiche. È una gabella
che non trova eguali nelle altre grandi democrazie europee. In Francia il
finanziamento pubblico dei partiti costa 73,4 milioni di euro (circa un terzo
del nostro): 1,97 euro a votante. In Germania (oltre 20 milioni di abitanti
in più dell’Italia) i finanziamenti pubblici alle forze politiche si
fermano a 133 milioni, 2,8 euro per ogni votante tedesco (meno della metà
di quanto paga l’elettore italiano). Per non parlare della Gran Bretagna, che
per mantenere i propri partiti spende solo 0,35 euro per votante. Nel 2006 i partiti
sono costati agli italiani, solo di contributi per rimborso delle spese
elettorali, 200 milioni di euro. Questa somma sale a 226 milioni di euro e
spiccioli se consideriamo anche i fondi pubblici all’editoria di giornali e
testate organi di partito (che abbiano il gruppo parlamentare) erogati nel
2004. Fanno 5,80 euro per ogni votante, 3,80 per ogni italiano anche se non
vota. Si tratta, seppur in forma di rimborso, di una vera e propria “tassa
sui partiti” che non trova eguali, per quel che riguarda i costi, nelle altre
grandi democrazie europee. In Francia, ad esempio, il finanziamento pubblico
dei partiti costa 73,4 milioni di euro (circa un terzo del nostro), 1,97 euro
a votante che diventano 1,14 se si considerano tutti i cittadini francesi; in
Germania, paese che ha oltre 20 milioni di abitanti in più
dell’Italia, i soldi pubblici alle forze politiche si fermano a 133 milioni
di euro, 2,8 euro a testa per ogni votante tedesco (meno della metà di
quanto paga l’elettore italiano) che diventano 1,61 se contiamo anche chi non
vota. Per non parlare della Gran Bretagna, modello di democrazia diversa da
quelle europee continentali e costruita sul Common Law, che per finanziare i
propri partiti spende ventuno volte meno dell’Italia: appena 9,3 milioni di
euro, ovvero 0,35 euro per votante che scendono a 0,15 se consideriamo tutti
i cittadini britannici, compresi quelli che non vanno alle urne. Il paragone con le
altre grandi democrazie europee, oltre a rilevare una discrepanza tra
ciò che accade in Italia e quello che avviene in Francia, Gran
Bretagna e Germania, è interessante per almeno due ragioni. La prima:
da noi, quando si parla di sprechi e costi eccessivi della politica, la
replica che arriva dal Palazzo è che la democrazia ha un prezzo, i
partiti sono necessari alla democrazia e chi spulcia le spese è un
qualunquista o fa della facile demagogia. Domanda: come mai in Francia, Gran
Bretagna e Germania, i partiti prendono un sacco di soldi pubblici in meno
rispetto al nostro Paese ma i partiti sono vivi, i leader (leggi Nicolas
Sarkozy in Francia, Angela Merkel in Germania, Gordon Brown e Tony Blair in
Inghilterra) si rinnovano di generazione in generazione e a nessuno viene in
mente di seguire il modello italiano per avere più democrazia e
libertà? Il secondo aspetto interessante riguarda la stessa
sopravvivenza dei partiti. Da un’inchiesta fatta sui bilanci dei partiti di
casa nostra, all’inizio dell’estate di quest’anno, dal quotidiano della
Confindustria, Il Sole 24 ore, è saltato fuori un dato significativo:
la maggior voce del capitolo entrate dei partiti italiani, senza grandi
differenze tra centrodestra e centrosinistra, arriva proprio dai contributi
pubblici. Nel 2006 (anno delle elezioni politiche e quindi anche del grosso
dei rimborsi elettorali) la voce contributi pubblici ha rappresentato oltre
l’82,5% delle entrate del futuro Partito democratico (dato frutto di una
media tra quelle dei Ds e quelle della Margherita), l’83% dell’Udc, il 75%
per la Casa delle libertà (la cifra è una media tra i dati di
Lega, An e Forza Italia), il 98,1% per l’Italia dei Valori e l’86% per i
Verdi. Una fotografia, questa, che aiuta a comprendere come mai, dopo il
referendum del 1993 per l’abrogazione della legge sul finanziamento pubblico
ai partiti (promosso dai Radicali di Marco Pannella) e nonostante la
schiacciante maggioranza degli italiani (oltre 31 milioni, pari al 90,2%)
abbia detto no ai soldi pubblici per i partiti, la politica abbia
tergiversato. Prima con la
leggina del 4 per mille dell’Irpef e poi con la soluzione dei cosiddetti
rimborsi elettorali, i più alti d’Europa. Se togliamo quel contributo
di quasi 6 euro a testa che ogni italiano paga, i nostri rischiano di perdere
più o meno l’80% delle loro entrate. «La situazione è grave ma
non seria», direbbe lo scrittore Ennio Flaiano, avvezzo alle furbe morbidezze
di Roma: una città imperturbabile, dove (quasi) tutti si chiamano
“onorevole”. |