CENACOLO DEI COGITANTI |
Documento d’interesse Inserito
il 23-7-2009
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La Stampa 23-7-2009
La scuola ha smesso di insegnare
LUCA RICOLFI
Sulla scuola e l’università
ognuno ha le sue idee, più o meno progressiste, più o meno laiche, più o meno
nostalgiche. C’è un limite, però, oltre il quale le ideologie e le convinzioni
di ciascuno di noi dovrebbero fermarsi in rispettoso silenzio: quel limite è
costituito dalla nuda realtà dei fatti, dalla constatazione del punto cui le
cose sono arrivate. Quale che sia l’utopia che ciascuno di noi può avere in
testa, la realtà com’è dovrebbe costituire un punto di partenza condiviso, da
accettare o combattere certo, ma che dovremmo
sforzarci di vedere per quello che è, anziché ostinarci a travestire con i
nostri sogni.
Queste cose pensavo in questi giorni, assistendo all’ennesimo dibattito
pubblico su scuola e università, bocciature e cultura del ’68, un dibattito
dove - nonostante alcune voci fuori dal coro - la nuda realtà stenta a farsi
vedere per quella che è. La nuda realtà io la vedo scorrere da decenni nel mio
lavoro di docente universitario, la ascolto nei racconti di colleghi e
insegnanti, la constato nei giovani che laureiamo, la ritrovo nelle ricerche
nazionali e internazionali sui livelli di apprendimento, negli studi sul
mercato del lavoro. Eppure quella realtà non si può dire, è politicamente
scorretta, appena la pronunci suscita un vespaio di proteste indignate, un coro
di dotte precisazioni, una rivolta di sensibilità offese.
Io vorrei dirla lo stesso, però. La realtà è che la maggior parte dei giovani
che escono dalla scuola e dall’università è sostanzialmente priva delle più
elementari conoscenze e capacità che un tempo scuola e
università fornivano.
Non hanno perso solo la capacità di esprimersi correttamente per iscritto.
Hanno perso l’arte della parola, ovvero la capacità di fare un discorso
articolato, comprensibile, che accresca le conoscenze di chi ascolta. Hanno
perso la capacità di concentrarsi, di soffrire su un problema difficile. Fanno
continuamente errori logici e semantici, perché credono che i concetti siano
vaghi e intercambiabili, che un segmento sia un «bastoncino» (per usare un
efficace esempio del matematico Lucio Russo). Banalizzano tutto quello che non
riescono a capire.
Sovente incapaci di autovalutazione, esprimono sincero stupore se un docente li
mette di fronte alla loro ignoranza. Sono allenati a superare test ed eseguire
istruzioni, ma non a padroneggiare una materia, una disciplina, un campo del
sapere. Dimenticano in pochissimi anni tutto quello che hanno imparato in
ambito matematico-scientifico (e infatti l’università
è costretta a fare corsi di «azzeramento» per rispiegare concetti matematici
che si apprendono a 12 anni). A un anno da un esame, non ricordano praticamente
nulla di quel che sapevano al momento di sostenerlo. Sono convinti che tutto si
possa trovare su internet e quasi nulla debba essere conosciuto a memoria (una
delle idee più catastrofiche di questi anni, anche
perché è la nostra memoria, la nostra organizzazione mentale, il primo
serbatoio della creatività).
Certo, in mezzo a questa Caporetto cognitiva ci sono anche delle capacità
nuove: un ragazzo di oggi, forse proprio perché non è capace di concentrazione,
riesce a fare (quasi) contemporaneamente cinque o sei cose. Capisce al volo
come far funzionare un nuovo oggetto tecnologico (ma non ha la minima idea di
come sia fatto «dentro»). Si muove come un dio nel mare magnum della rete (ma
spesso non riconosce le bufale, né le informazioni-spazzatura). Usa il
bancomat, manda messaggini, sa fare un biglietto elettronico, una prenotazione
via internet. Scarica musica e masterizza cd. Gira il mondo, ha estrema
facilità nelle relazioni e nella vita di gruppo. È rapido, collega e associa al
volo. Impara in fretta, copia e incolla a velocità
vertiginosa.
Però il punto non è se siano più le capacità perse o quelle acquisite, il punto
è se quel che si è perso sia tutto sommato poco importante come tanti
pedagogisti ritengono, o sia invece un gravissimo handicap, che pesa come una
zavorra e una condanna sulle giovani generazioni. Io penso che sia un tragico
handicap, di cui però non sono certo responsabili i giovani. I giovani possono
essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente lasciati ingannare (e
adulare!) da una generazione di adulti che ha finto di aiutarli, di
comprenderli, di amarli, ma in realtà ha preparato per loro una condizione di
dipendenza e, spesso, di infelicità e disorientamento.
La generazione che ha oggi fra 50 e 70 anni ha la responsabilità di aver
allevato una generazione di ragazzi cui, nei limiti delle possibilità
economiche di ogni famiglia, nulla è stato negato, pochissimo è stato
richiesto, nessuna vera frustrazione è mai stata inflitta. Una generazione cui,
a forza di generosi aiuti e sostegni di ogni genere e specie, è stato fatto
credere di possedere un’istruzione, là dove in troppi casi esisteva solo
un’allegra infarinatura. Ora la realtà presenta il conto. Chi ha avuto una
buona istruzione spesso (non sempre) ce la fa, chi non l’ha avuta ce la fa solo
se figlio di genitori ricchi, potenti o ben introdotti. Per tutti gli altri si
aprono solo due strade: accettare i lavori, per lo più manuali, che oggi
attirano solo gli immigrati, o iniziare un lungo percorso di lavoretti non
manuali ma precari, sotto l’ombrello protettivo di quegli stessi genitori che
per decenni hanno festeggiato la fine della scuola di élite.
Un vero paradosso della storia. Partita con l’idea di includere le masse fino
allora escluse dall’istruzione, la generazione del ’68 ha dato scacco matto
proprio a coloro che diceva di voler aiutare. Già, perché la scuola facile si è
ritorta innanzitutto contro coloro cui doveva servire:
un sottile razzismo di classe deve avere fatto pensare a tanti intellettuali e
politici che le «masse popolari» non fossero all’altezza di una formazione
vera, senza rendersi conto che la scuola senza qualità che i loro pregiudizi
hanno contribuito ad edificare avrebbe punito innanzitutto i più deboli, coloro
per i quali una scuola che fa sul serio è una delle poche chance di promozione
sociale.
Forse, a questo punto, più che dividerci sull’opportunità o meno di bocciare
alla maturità, quel che dovremmo chiederci è se non sia il caso di ricominciare
- dalla prima elementare! - a insegnare qualcosa che a poco a poco, diciamo in
una ventina d’anni, risollevi i nostri figli dal baratro cognitivo in cui li
abbiamo precipitati.