La Repubblica 13-3-2009
Il
Papa e la guerra del Vaticano "Ostilità pronte all'attacco".
Dopo lo scontro sui lefebvriani Ratzinger scrive una lettera in cui
parla di "odio senza timore". E a 4 anni dall'elezione alza il velo
su una crisi cruciale all'interno della Curia.
di Marco Politi
CITTA DEL
VATICANO - Una Curia allo
sbando, un Papa chiuso nel suo palazzo e costretto a fronteggiare una bufera
che l'Osservatore Romano definisce senza esempi in tempi recenti. E fughe di
notizie che l'organo vaticano bolla come "miserande". Quattro anni
dopo la sua elezione Benedetto XVI sperimenta una crisi cruciale del suo
pontificato. Ferito e solo, ha scritto parole amare ed aspre ai vescovi di
tutto il mondo, lamentando che - per la vicenda della scomunica condonata ai
quattro vescovi lefebvriani e specie per il caso Williamson - proprio
ambienti cattolici gli abbiano mostrato un'"ostilità pronta
all'attacco". Persino arrivando a trattarlo, lui dice, con "odio
senza timore e riserbo".
C'è qualcosa che traballa nella gestione della Curia. Se ne avevano
segnali da tempo, ma la rivolta di alcuni grandi episcopati - in Germania,
Austria, Francia e Svizzera - contro la decisione papale di graziare i
vescovi lefebvriani scomunicati senza ottenere preventivamente una loro leale
adesione al concilio Vaticano II, ha messo in luce una disfunzione più
generale. Per due volte decisioni papali, che attendevano di essere rese note
attraverso la sala stampa, sono state fatte filtrare all'esterno in anticipo
causando clamore e polemiche. È successo con il decreto di revoca
delle scomuniche, è capitato di nuovo con le indiscrezioni sulla
lettera papale ai vescovi. Giovanni Maria Vian, direttore dell'Osservatore,
fustiga in un corsivo le "manipolazioni e strumentalizzazioni"
anche all'interno della Curia romana, ammonendo che la Curia è
"organismo storicamente collegiale e che nella Chiesa ha un dovere di
esemplarità".
Sferzata inedita e dura a chi nel palazzo apostolico non si è attenuto
alla linea del riserbo e dell'obbedienza. Ma l'impaccio e le disfunzioni
della macchina curiale vanno al di là della vicenda lefebvriana.
Benedetto XVI è solo. Ma non perché ci sia un partito che gli rema
contro. Bensì per il suo di governo solitario, che non fa leva sulla
consultazione e non presta attenzione ai segnali che vengono dall'esterno.
Meno che mai quando provengono dal mondo dei media, considerato a priori con
sospetto. "Benché sia stato più di un ventennio in Vaticano al
tempo in cui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede -
spiega off record un monsignore - Ratzinger non conosce affatto la Curia. Era
chiuso ieri nella sua stanza nell'ex Sant'Uffizio ed è chiuso oggi nel
suo studio da papa. Lui è un teologo, non è un uomo di governo.
Passa metà della giornata a occuparsi dei problemi della Chiesa e
l'altra metà concentrato sui suoi scritti: sul secondo volume dedicato
a Gesù". Monsignore si ferma e soggiunge: "Non è
detto che un grande teologo abbia con precisione il polso della realtà
così come è".
Certo, esiste in Curia un pugno di fedelissimi. Il cardinale Bertone in
primis. O il suo successore alla Congregazione per la Dottrina della fede,
Levada. O il nuovo responsabile del dicastero del Culto divino, lo spagnolo
Canizares. Parlano il suo stesso linguaggio i cardinali Grocholewski,
responsabile del dicastero dell'Educazione cattolica, o Rodè, titolare
della Congregazione dei religiosi. E fra i presidenti delle conferenze episcopali
è in prima a linea a solidarizzare con il pontefice il cardinale
Bagnasco, che prontamente ieri ha espresso "gratitudine" per le
chiarificazioni del Papa. Ma la fedeltà non basta. "Ciò
che si avverte - spiega un altro frequentatore dei sacri palazzi - è
l'assenza di una guida lineare della macchina curiale". Macchina
complessa, che va condotta con mano ferma dal Papa, dai suoi segretari di
Stato e qualche volta da alcuni segretari particolari molto attivi dietro le
quinte: come Capovilla per Giovanni XXIII, Macchi per Paolo VI, Dziwisz per
Giovanni Paolo II.
Mons. Gaenswein, ed è un suo pregio caratteriale, non ama giocare a
fare il braccio destro (occulto) del Papa. Ma contemporaneamente pesa il
fatto che larga parte della macchina curiale non riconosce il Segretario di
Stato Bertone come "uno dei suoi". Bertone non viene dalla
diplomazia pontificia. Non ha fatto la trafila dei monsignori che hanno
cominciato da minutanti in un ufficio della Curia e poi sono saliti crescendo
nella rete di contatti, passando magari attraverso l'esperienza di un paio di
nunziature all'estero. Bertone è un outsider. Scelto da Ratzinger
perché suo primo collaboratore al Sant'Uffizio e perché di provata sintonia e
fedeltà. Ma alla fin fine il mondo curiale non si sente sulla stessa
lunghezza d'onda con il "salesiano".
Non è una posizione facile la sua. Da un lato finisce per essere in
qualche modo separato dalla macchina curiale, dall'altro non può
influire sulla direzione di marcia che di volta in volta Benedetto XVI intraprende.
Abile nel controllare e riparare i danni, quando si verificano, il Segretario
di Stato può tuttavia intervenire soltanto dopo. Perché in ultima
analisi Ratzinger si esercita in uno stile di monarca solitario. Nella
lettera ai vescovi il Papa riconosce che portata e limiti del suo decreto sui
vescovi lefebvriani non siano stati "illustrati in modo sufficientemente
chiaro" al momento della pubblicazione. Adesso finalmente la commissione
Ecclesia Dei, guidata dal cardinale Castrillon Hoyos (fino a ieri titolare
esclusivo dei negoziati con la Fraternità Pio X), verrà
inquadrata nel lavoro della Congregazione per la Dottrina della fede e in tal
modo - garantisce il Papa - nelle decisioni da prendere sulle trattative con
i lefebvriani verranno coinvolti i cardinali capi-dicastero vaticani e i
rappresentanti dell'episcopato mondiale partecipanti alle riunioni plenarie
dell'ex Sant'Uffizio.
Il rimedio adottato ora rappresenta la confessione che Benedetto XVI nella
vicenda non ha coinvolto nessuno, non ha informato nessuno e ha lasciato mano
libera al cardinale Castrillon Hoyos, che non lo ha nemmeno informato
esaurientemente sui trascorsi negazionisti di Williams, noti da più di
un anno per la loro impudenza. I filo-lefebvriani di Curia in questa partita
hanno giocato spregiudicatamente la carta delle indiscrezioni per dare per
scontato un riavvicinamento ancora tutto da costruire. "Papa Ratzinger -
confida un vescovo che ben conosce il sacro palazzo - è stato in fondo
generoso nell'assumersi ogni responsabilità senza dare la colpa a
nessun collaboratore. Ma nel suo modo di governare c'è un problema:
parte sempre dall'assunto che quando è stabilita la verità di
una linea, allora si deve andare avanti e basta. Non mette in conto le
conseguenze esterne del suo ruolino di marcia e nella sua psicologia non
crede nemmeno che gli uomini di Curia siano all'altezza di dargli veri
consigli".
Non è casuale allora che siano stati i grandi episcopati d'Europa e
del Canada a ribellarsi all'idea che con l'improvvisa mano tesa ai
lefebvriani apparisse annacquata l'indispensabile fedeltà della Chiesa
contemporanea ai principi del Vaticano II. Persino un intimo di Ratzinger
come il cardinale di Vienna Schoenborn è stato costretto a denunciare
le "insufficienti procedure di comunicazione nel Vaticano". Un modo
elegante per evitare di criticare direttamente il Papa. Ma proprio in Austria
si è giocato un altro evento senza precedenti nella storia dei
pontificati moderni. Un vescovo ausiliare scelto dal pontefice è stato
respinto dall'episcopato intero di una nazione, costringendo Benedetto XVI a
un'ennesima marcia indietro.
Questo gli uomini di Curia non l'avevano mai visto.
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