HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di
Archivio dal 5 al 15 marzo 2007
· L’Avvenire 15-3-2007 Esentarsi dal magistero una scelta mai automatica Pio Cerocchi
·
Il Corriere
della Sera 14-3-2007 La Nota di Massimo Franco. Unione, caduto l'«alibi Ruini»
La sfida ora viene dal Pontefice Ma il rapporto Stato-Chiesa resta irrisolto
nei due schieramenti
·
Il Mattino di Padova 14-3-2007 UN'INGERENZA INSOSTENIBILE GIANFRANCO PASQUINO
·
Il Giornale di
Brescia 14-3-2007 Unione, nuove tensioni
laici-cattolici
·
L’Unità
13-3-2007 La Chiesa prepara i cattolici
allo scontro di Roberto Monteforte
· Il Centro 13-3-2007 La laicità e l'idea assolutistica Di Romolo Liberale *
· Da APCom 12-3-2007. OSSERVATORE ROMANO: SIT IN PER I DICO, ESIBIZIONE CARNASCIALESCA
· La Stampa 11-3-2007 Il Papa: Il rifiuto di Dio e dell'etica porta la società alla rovina
· La Repubblica 11-3-2007 La Chiesa di Pascal che piace a noi laici – Eugenio Scalfari
· Il Riformista 10-3-2007 La laicità non è un lusso È una priorità dello Stato
·
Il
Cittadino 9-3-2007 Bagnasco: "Ci sono valori invalicabili per i
cattolici"
· Il Corriere della Sera 7-3-2007 La rivoluzione riuscita Di Aldo Cazzullo
· "Il Centro 6-3-2007 I cattolici affossino la legge Per monsignor Sgreccia è "un dovere".
· l Riformista 6-3-2007 Perché restiamo nella famiglia del socialismo europeo di Emanuele Macaluso
· La Stampa 5-3-2007 Le due Chiese in campo. Giacomo Galeazzi
· La Sicilia 5-3-2007 Medici cattolici, i rischi reali del "relativismo" A. T.
· Il Giornale 5-3-2007 Mastella: "No alle guerre di religione" di Gian Maria De Francesco
· Libero 5-3-2007 Cretini e furbetti anticlericali di Alessandro Gnocchi
· La Stampa 5-3-2007 La bibbia dei teo-dem Di Franco Garelli
Quella sicumera davanti
all'esortazione apostolica Tutti i grandi personaggi della storia con sole
pochissime eccezioni, quando si sono trovati in opposizione alla Chiesa, hanno
provato qualche dubbio; un tormento interiore o qualcosa del genere. Magari non
proprio un dubbio sistematico, ma un pensiero fuggito all'autocontrollo per un
moto spontaneo dell'animo, questo sì, tutti più o meno lo hanno
avuto, a partire - si racconta - dallo stesso Martin Lutero, per non dire di
Garibaldi e tanti altri che in qualche momento della loro vita, hanno sentito
il bisogno di cedere un po' del proprio orgoglio, in nome di quella che gli
appariva come la debolezza di un mistero, sul quale però poteva poggiare
ancora qualche lontana speranza. Nella consapevolezza questa sì adulta,
che qualche tratto di verità possa annidarsi anche dove non si vorrebbe,
come ben riconobbe (e non solo in tarda età) il laico per eccellenza,
Benedetto Croce. Lunga premessa per descrivere uno stupore: quello suscitato
dalla spavalda sicurezza con la quale i "sessanta" cattolici
democratici della Margherita hanno reagito - pare - ad una sola voce dinanzi
all'invito alla "coerenza eucaristica" contenuto nell'esortazione
Sacramentum Caritatis di Benedetto XVI. Oh, ben'inteso, ha ragione monsignor
Bruno Forte quando avverte che non ci può essere un'applicazione
meccanica delle parole del magistero; allo stesso modo però in cui non
ci può essere un'esenzione altrettanto meccanica dallo stesso magistero.
E invece, una serie di affermazioni al suono di "Non cambia nulla" ha
contrassegnato la reazione degli esponenti più in vista del gruppo. Da
Franceschini a Castagnetti. Una sorta diipse dixit che non lascia, almeno nella
pubblica percezione, alcun margine, non dirò ad una supina accettazione
delle parole del Pontefice, ma almeno ad un vago bisogno di lasciare qualche
spazio ad una approfondita riflessione, al di là della riaffermazione,
davvero non richiesta, di una fedeltà ad un ddl che, a sentir loro,
sembra tirato giù dalle Pandette di Giustiniano a fondamento della
futura (e già gloriosa?) civiltà giuridica del Paese. I "sessanta",
titola la Repubblica, vanno avanti. Ma dove? Possibile che non si avverta che
ci potrebbe anche essere una qualche ragione dalla parte di un magistero che
drammaticamente difende il deposito di quella verità di Dio sull'uomo,
che chiama un popolo a riconoscerla e a fondare su di essa e non contro di
essa, un cammino di liberazione dalla povertà spirituale che, nella
crisi della modernità, sta cancellando anche il cielo? In altre parole,
c'è da chiedersi quale modello antropologico, quale umanesimo cristiano
persuadano così sollecitamente e unanimemente a considerare irrilevante
il magistero di una Chiesa su un punto sul quale essa, peraltro, non fa che
riconfermare un insegnamento mai dismesso nei secoli? E perché allora chiamarsi
"cattolici" oltre che "democratici" e magari a
questo titolo immaginare di tornare un domani a chiedere voti, e non avvertire
invece, come un bisogno primario, quello di ricercare percorsi di coerenza sul
merito di un provvedimento (ma altri ce ne saranno) che il richiamo formale
alla laicità, davvero non esorcizza dai rischi dei suoi inevitabili
effetti negativi sul Paese? Dove saranno le credenziali per un simile appello?
Perché allora non fermarsi un attimo fuori dai riflettori, e dirsi: ragioniamo.
Senza pregiudizi, mettendo da parte le convenienze di coalizione, per chiedersi
invece: come facciamo a meritare la nostra storia, al pari di quanto i diessini
intendono fare con la loro? Insomma meno gregariato per tutti, e un di
più di fiducia in quella libertà che è - e resta - l'alveo
naturale della laicità. E forse potrebbe convenire politicamente e, in
un futuro che non sembra poi così lontano, anche in termini di voti
ROMA - "Mettiamola
così: chiedere al Papa di tacere sarebbe impossibile e anche ingiusto,
continuare a erogare 2 miliardi di euro di privilegi alla Chiesa cattolica
è inaccettabile". Enrico Boselli, presidente dello Sdi, leader
della Rosa nel pugno, non arretra, anche adesso che il vincolo ai
"politici cattolici" contro le coppie di fatto non viene
più da Camillo Ruini ma da Benedetto XVI. Il Concordato va rotto
unilateralmente dallo Stato, dice Boselli. E l'accusa al Vaticano
è quella di "essere classista. I Dico sono a vantaggio di chi non
ha grandi possibilità economiche. La Chiesa invece conduce una vera e
propria campagna di classe". Comunque si è finalmente capito che la
Cei non si muoveva come un partito: aveva il pieno sostegno del Pontefice.
"è vero. Chi pensava a un cambiamento di rotta dopo l'uscita di
Ruini non può che rimanere deluso. Al Papa posso solo dire che
può rivolgersi ai parlamentari, altrochè. Ma essi devono avere in
tasca un'unica bibbia: la Costituzione repubblicana. Purtroppo, le gerarchie
intendono svolgere un ruolo molto forte sulla vita pubblica italiana e mettono
in discussione il principio della laicità dello Stato. Ma perché
la loro voce non si alza per altri paesi europei che hanno approvato leggi
più avanzate dei Dico? Perché non c'è una campagna simile in
Germania che è il paese natale di Ratzinger?". Perché? "Forse
perché si pensa che l'Italia dev'essere un paese con una sorveglianza speciale.
Ma i diritti vanno tutelati da noi come altrove. Vaticano o no". Non
sarà che le ingerenze trovano terreno fertile nella politica italiana?
"In effetti sembra che la Chiesa consideri la politica e i politici
l'anello debole dell'Italia. La società è più matura, lo
dimostrano i sondaggi in cui la maggioranza dei cattolici è
favorevole a una legge sulle convivenze". Questa debolezza riguarda anche
il centrosinistra? "Sì. La Margherita e Rutelli, dal giorno del
referendum sulla fecondazione assistita, hanno avuto un atteggiamento proclive,
direi inginocchiato nei confronti delle gerarchie. C'è un problema anche
nel nostro schieramento, va detto. Per me la soluzione resta una: l'abolizione
del Concordato. Sono venute meno le ragioni di un accordo tra lo Stato e
la Chiesa". Il Concordato l'ha firmato un socialista come lei, Craxi.
"Craxi modificò i Patti lateranensi soprattutto in un punto: la
fine della religione cattolica come religione di Stato". Il
centrosinistra sarà anche debole nei confronti della Chiesa, come dice
lei. Fatto sta che la sua posizione è isolata. "Non penso di essere
solo nell'opinione pubblica. Ho la presunzione di credere che il Paese sia
molto più sensibile di forze politiche timide, prive di coraggio, balbettanti.
E di leader che voltano la testa dall'altra parte". Vista la violenza
dello scontro, non valeva la pena varare una legge più avanzata dei
Dico? "In tutte le grandi nazioni europee la legge sulle convivenze
è più moderna, vero. A maggior ragione non si capisce perché in
Italia non si debba approvare una legge come la Bindi-Pollastrini. La cosa
più fastidiosa, nel dibattito italiano, è l'uso e l'abuso del
termine "etica". Posso accettarlo se si discute di staminali o
eutanasia. Ma non quando si prevedono diritti elementari come le visite in
ospedale del convivente, la reversibilità della pensione. Che c'entra
l'etica?". Quanto è laico il centrosinistra? "Non brilla, ha
una voce debole, non ha il coraggio di affermare i suoi valori. Anche se Prodi
si è comportato da cattolico liberale andando a votare per il referendum
sulla procreazione. E io non dimentico che l'Italia l'hanno fatta proprio i cattolici
liberali".
Ma il
rapporto Stato-Chiesa resta irrisolto nei due schieramenti
L' illusione un po' superficiale
di una Cei «liberata» dal cardinale Camillo Ruini, e dunque meno arcigna verso
l'Unione, sta già tramontando. Il martellamento di Benedetto XVI sulle
leggi «contro la natura» che «politici e legislatori cattolici» non dovrebbero
votare, non lascia margini. E il riferimento alla «coppia dell'uomo e della
donna» come «nucleo fondante di ogni società», fatto ieri dal
neopresidente della Cei, Angelo Bagnasco, chiude il cerchio di una
continuità rocciosa. I rapporti fra Santa Sede e centrosinistra
riemergono tormentati come prima.
Il modo stentoreo col quale la sinistra governativa denuncia l'«ingerenza
vaticana», è la replica di un'incomunicabilità vistosa; e di
categorie culturali datate, incapaci di rimodellare il dualismo Stato- Chiesa.
Ma non offre novità neppure il sostegno acritico e a volte strumentale
del centrodestra alle parole del Papa. Silvio Berlusconi è già
immerso in una lunga campagna elettorale senza data del voto. E sembra
scegliere il binomio Chiesa- ordine per logorare il governo. Le lodi al
Pontefice e la presenza alla marcia del sindaco Letizia Moratti a Milano appaiono
pezzi della stessa strategia.
Per l'Unione lo scontro assume contorni taglienti. La legge sulle unioni di
fatto è in bilico. Ministri come Mastella e singoli eletti anticipano
che non voteranno il provvedimento con una convinzione più forte che nel
passato. Non significa che sono diventati numerosi: è solo più
debole il fronte dei «Dico». E la pressione vaticana aumenta dopo le dimissioni
di Ruini del 7 marzo.
Il rettore dell'ateneo Lateranense, monsignor Rino Fisichella, annuncia che la
Cei discuterà la «Nota impegnativa» sulle unioni di fatto il 26 marzo,
quasi in parallelo col Parlamento: una coincidenza quasi minacciosa. Ma
soprattutto, le parole del Papa contengono espressioni che sono riferite alla
situazione italiana. Si conferma un'offensiva concentrata sul Paese considerato
la «vetrina» più vicina e strategica del cattolicesimo.
Non è detto che la pressione abbia successo. Ma sulla carta, al Senato i
voti non bastano. E comunque, per il Vaticano il risultato sembra meno
importante dell'esigenza di affermare principi «non negoziabili». Su questo
sfondo, la sintonia che il centrodestra accredita viene incassata oltre Tevere,
senza rilasciare deleghe. Ma per i cattolici al governo la situazione si
complica. Il loro sforzo di distinguere fra laicità e convinzioni
religiose potrebbe assumere contorni laceranti. Anche perché a tracciarli ora
è Benedetto XVI: l'«alibi Ruini» è caduto.
Massimo Franco
14 marzo 2007
Da qualche
tempo, la Chiesa cattolica italiana, grazie alla fin troppo vigorosa azione del
Cardinale Ruini, rivendica e esercita un suo attivissimo ruolo pubblico. Anzi,
sembra ritenere che il suo ruolo pubblico sia gradito dalla maggioranza degli
italiani, addirittura maggioritariamente accettato e approvato come sarebbe
dimostrato dall'esito del referendum sulla fecondazione assistita. Poco importa
a vescovi, cardinali e allo stesso papa, che non hanno particolare
dimestichezza con i numeri, se quel referendum sia stato fatto fallire
non dai cattolici, ma dalla più vasta platea degli astensionisti,
certamente in maggioranza non credenti. Non c'è nulla da obiettare ad un
ruolo pubblico della religione. E' perfettamente accettabile, persino
democraticamente utile, se i credenti cercano di fare valere le loro
convinzioni sulla scena pubblica. Su questa scena, le convinzioni di ciascuno
debbono essere affermate come opinioni e sostenute da argomentazioni, debbono
essere sottoposte al contraddittorio in pubblico e dimostrate valide. Invece,
la Chiesa cattolica pretende di avere il monopolio della validità delle
espressioni in alcune materie, diventate assolutamente rilevanti dal punto di
vista legislativo, poiché attengono alla vita, alla morte, alle modalità
con le quali le persone, anche dello stesso sesso, si rapportano e magari
intendono convivere per un tratto del loro percorso mondano. Non è
affatto casuale che il Papa abbia dichiarato che ci sono valori non
negoziabili. E', invece, del tutto ovvio, almeno ai laici, che possono anche
essere credenti, quali valori siano o non siano negoziabili è una
decisione da prendersi in pubblico, non imposta da qualcuno. Pertanto non
bastano i pronunciamenti, anche se definiti "magistrali", dei papi e
neppure quelli, immagino meno magistrali, dei cardinali. Quei pronunciamenti
vanno discussi, confrontati con altre opinioni, sottoposti a vagli rigorosi. Se
la religione decidesse che cosa la sfera della politica deve fare o non fare,
allora non saremmo più in un regime democratico, rispettoso delle
opinioni di tutti, ma poi autorizzato a decidere con il sostegno delle
maggioranze pure rispettose delle minoranze. Saremmo in un regime teocratico e
fondamentalista. Non si scorgerebbero differenze fra quanto la Chiesa cattolica
tenta di imporre alla politica italiana da quanto fanno le autorità
religiose in alcune situazioni medio-orientali. Infine, sostiene il Papa e
ribadiscono cardinali e vescovi, tocca ai cattolici comportarsi con
totale obbedienza ai dettami delle autorità religiose italiane. I loro
comportamenti e i loro voti dovranno uniformarsi ai dettami delle
autorità religiose. Qui si trova una plateale interferenza da parte del
Vaticano nella politica dello Stato italiano. Più precisamente,
se i parlamentari cattolici decidessero di seguire le imposizioni del
Papa e dei cardinali violerebbero l'articolo 67 della Costituzione che sancisce
lapidariamente che i parlamentari esercitano la loro funzione "senza
vincolo di mandato". Nessuna acrobazia verbale riuscirà a
giustificare voti supinamente espressione delle volontà ecclesiastiche.
Politici dai partiti deboli, parlamentari cattolici timorosi di perdere
il loro seggio farebbero un pessimo servizio alla politica italiana e allo
stesso ruolo pubblico della loro religione.
Mentre nella
Cdl i commenti alle parole del Papa sono di generale consenso, le due
"anime" della maggioranza si dividono La famiglia torna ad accendere
il dibattito nel mondo politico
ROMA
Un'esortazione "post-sinodo" del Papa contenuta in un libretto di 131
pagine spiazza e getta lo scompiglio nel mondo politico. È vero che si
tratta di principi generali riferiti ai cattolici di tutto il mondo, ma
quel passaggio nel quale si invitano i politici credenti a "non votare
leggi contro natura" e a sostenere valori come il rispetto della
"famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna" sembra a tutti una
fotografia fin troppo precisa della situazione italiana, alle prese con il
problema dei Dico. Così la frattura tra i poli diventa subito
trasversale.Con i cattolici, da una parte, che invitano ad abbassare i
toni e a non banalizzare l'appello di Benedetto XVI, e i laici, dall'altra, che
vivono la presa di posizione del Pontefice come un'"inaccettabile ingerenza"
nella vita dello Stato. Unico credente fuori dal coro è il
vicepresidente dell'Ulivo alla Camera Gianclaudio Bressa (DL). Per lui nessuna
incertezza: nella vita privata è coerente con la sua fede. Si è
sposato in Chiesa e non si è mai separato. Ma come legislatore ha
un'unica bussola: la Costituzione. Soprattutto quell'articolo 3 che parla di
uguaglianza e vieta discriminazioni di sesso, razza e religione. Invita invece
a "non piegare alle esigenze del dibattito politico contingente" i
documenti del magistero il vicepresidente della Camera Pierluigi Castagnetti,
che però non vede pericoli per le famiglie a causa dei Dico. Gli altri
"big" della politica, dal leader della Margherita Francesco Rutelli a
quello dell'Udc Pier Ferdinando Casini, almeno per ora tacciono. E non prende
posizione neanche il ministro della Giustizia Clemente Mastella, acerrimo
nemico del riconoscimento delle unioni civili. Anche se per lui parla il
capogruppo Udeur alla Camera Mauro Fabris, che consiglia di abbassare i toni,
attacca "l'anticlericalismo" e avverte: "Noi non possiamo
accettare nemmeno dagli alleati gli insulti al Papa". Soprattutto
nell'Unione infatti si alza la voce. Con Franco Grillini (Ds) che accusa il
Pontefice di "dittatura fuori dal tempo", e con il capogruppo dei
senatori Prc Giovanni Russo Spena che invita i "colleghi credenti" a
"non cedere ai diktat della Chiesa". In molti danno una lettura
politica alle parole di Benedetto XVI, come fa Rina Gagliardi (Prc), che
definisce "l'assalto del Pontefice" ai Dico una "mano tesa alle
destre". Mentre il capogruppo dei Verdi alla Camera Angelo Bonelli
definisce l'esortazione un "accanimento politico e religioso sulle coppie
di fatto". E il presidente dei deputati Pdci Pino Sgobio invita a non
confondere le acque: il Parlamento è una cosa, la Cei un'altra. Anche se
aggiunge: il "pressing della Chiesa non ha precedenti nella storia
repubblicana". Non vuol sentir parlare di pressing Federico Bricolo (Lega)
che legge nell'appello del Papa "un grande abbraccio alla gloriosa tradizione
cattolica". Esattamente il contrario di quanto sostiene l'Arcigay, secondo
la quale il Vaticano "non riesce più a guardare con amore alla
realtà sociale". E tranchant è anche il giudizio del leader
dello Sdi Enrico Boselli: "Ormai è assolutamente evidente che
è minacciata la laicità dello Stato". In particolare
la Costituzione, incalza Vladimir Luxuria (Prc), perchè "le parole
di Benedetto XVI" non la rispettano. Non tutti insorgono nell'Unione.
Mimmo Lucà, dei Cristiano sociali (Ds), invita a "non immiserire il
messaggio" del Papa, mentre Enzo Carra (DL) esponente teodem assicura che
si atterrà ai principi indicati dal Pontefice, ma prima vuole attendere
il documento Cei che tradurrà nella pratica l'esortazione papale.
Consensi invece arrivano da An con Maurizio Gasparri ("stimolo
importante") e con il capogruppo Udc alla Camera Luca Volontè che
condivide "in pieno" l'appello del capo della Chiesa.
CITTA' DEL VATICANO
Benedetto XVI pubblica oggi la sua «Esortazione Apostolica» sull’eucarestia,
che «La Stampa» è in grado di anticipare, e lancia un monito severo ai
politici e ai legislatori cattolici che, «consapevoli della loro grave
responsabilità sociale, devono sentirsi particolarmente interpellati
dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi
ispirate ai valori fondati nella natura umana».
E’ ovvio che il Pontefice, in questo ampio documento (centosessanta pagine) che
raccoglie il lavoro di quasi un mese di vescovi di tutto il mondo, riuniti
nell’ottobre scorso a Roma per un «Sinodo» su questo tema, non ha in mente
solo, o particolarmente, l’Italia e la battaglia dei Dico; ma la
traducibilità in termini italiani è agevole e immediata. Il Papa
parla di «coerenza eucaristica»; il culto a Dio non è mai un atto
meramente privato, ma «richiede la pubblica testimonianza» della fede. E questo
è vero «con particolare urgenza» per quelli che devono prendere
decisioni a proposito di valori fondamentali, «come il rispetto e la difesa
della vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale, la famiglia
fondata sul matrimonio fra uomo e donna, la libertà di educazione dei
figli e la promozione del bene comune in tutte le sue forme. Tali valori -
ammonisce Benedetto XVI - non sono negoziabili». E non si chieda alla Chiesa di
tacere: «I vescovi sono tenuti a richiamare costantemente tali valori:
ciò fa parte della loro responsabilità nei confronti del gregge
loro affidato». E’ una presa di posizione che, per la sua autorevolezza, lo
strumento usato (un’ «Esortazione Apostolica») e il fatto di avere origine da
un Sinodo mondiale, segnato perciò da una partecipazione collegiale e
qualificata di vescovi, ha un peso molto forte. In questa luce, anche il tanto
atteso documento della Cei sui Dico (la cui uscita potrebbe slittare a maggio)
ne verrà certamente condizionato.
Il documento - intitolato «Sacramentum Caritatis» - copre un ventaglio
vastissimo di temi: dalla confessione, al celibato sacerdotale, alle
nullità matrimoniali, al canto gregoriano fino alla posizione del
tabernacolo nella chiesa, e a come organizzare la domenica. Fra l’altro, viene
raccomandata «una equilibrata e approfondita prassi dell’indulgenza, lucrata
per sé o per i defunti». L’indulgenza, che come è noto fu una delle
cause dello scisma protestante, prevede la confessione personale; e il papa
esorta a «favorire la confessione frequente», e a non usare l’assoluzione
generale se non in casi eccezionali. Ma vediamo alcuni punti del documento.
Celibato. I sacerdoti devono sapere che il loro ministero «non deve mai mettere
in primo piano loro stessi o le loro opinioni, ma Gesù Cristo». Cristo
ha vissuto la sua missione «nello stato di verginità», e questo è
il punto di riferimento della tradizione della Chiesa latina. Il sacerdote
sposa la Chiesa; e allora, «in unità con la grande tradizione
ecclesiale, con il Concilio Vaticano II e con i sommi pontefici miei
predecessori, ribadisco la bellezza e l’importanza di una vita sacerdotale
vissuta nel celibato... e ne confermo quindi l’obbligo per la tradizione
latina». Divorziati risposati. Non possono essere ammessi ai sacramenti, perché
«il loro stato e la loro condizione di vita oggettivamente contraddicono
quell’unione di amore fra Cristo e la Chiesa che è significata ed
attuata nell’Eucarestia». Se c’è un dubbio sulla validità del
primo matrimonio, bisogna rivolgersi ai tribunali ecclesiastici, ma fondamentale
è «l’amore per la verità». Tradotto: niente manica larga con i
riconoscimenti di nullità. Se la nullità non c’è, e
però la convivenza è «irreversibile», se vogliono accostarsi ai
sacramenti gli interessati devono vivere «come amici, come fratello e sorella».
Latino e gregoriano. Per le liturgie di massa: «E’ bene che tali celebrazioni
siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere
più note della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani
in canto gregoriano». E i futuri sacerdoti «fin dal tempo del seminario» siano
preparati a celebrare in latino, «nonché ad utilizzare testi latini e a
eseguire il canto gregoriano». E in generale, la liturgia non può
«subire il ricatto di mode del momento».
Domenica
il Vaticano assicurava: niente caccia alle streghe. Ma ieri Sir, Cei e giornale
vaticano hanno detto altro Nessuna caccia alle streghe: l'aveva chiesto
l'arcivescovo Angelo Bagnasco il successore del cardinale Ruini alla guida dei
vescovi italiani. Si immagina che il richiamo fosse rivolto ai due
schieramenti. Ferma la sua difesa dei valori che per la Chiesa "non sono
valicabili", come la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una
donna e aperta a generare la vita, ma da esercitare con
"serenità" oltre che con "chiarezza". Una linea che
è sembrata indicare un passo nuovo, più "pastorale" e
vicino ai drammi dell'uomo e della donna nella società contemporanea.
Una Chiesa, quindi, che pur tenendo ferma la difesa dei valori, è
attenta a non esasperare i toni, a non acuire l'asprezza del confronto, a
mantenere aperta la via del dialogo, nella distinzione dei ruoli e delle
posizioni. Poi ieri è arrivato il commento dell'Osservatore romano alla
manifestazione di sabato per il riconoscimento delle coppie di fatto in
particolare per i diritti delle coppie omosessuali. "Un'esibizione
carnascialesca" così l'ha bollata il giornale vaticano. Giudizi da
fuoco alle polveri. In particolare per quelle critiche rivolte ai manifestanti
gay che hanno marciato con i loro figli: colpevoli di voler dare l'idea di
famiglia. È questa la linea della segreteria di Stato? L'impressione
è che il clima "caccia alle streghe", da chiamata alle armi
per i cattolici, lo stiano alimentando proprio le gerarchie. Un'impressione
confermata dal Sir, l'agenzia di stampa dei vescovi che muove un richiamo fermo
a quei cattolici "tiepidi", che paiono poco disposti a mobilitarsi
contro i Dico. "Oggi è il tempo delle proposte", e per questo
non è sostenibile un atteggiamento di "scelta tra
indifferenti" come al tempo dei referendum sull'aborto e sul divorzio, ma
bisogna chiamare "con il loro nome bene e male, vero e falso, giusto e
sbagliato" tuona l'agenzia ispirata dalla Cei. "È il tempo
delle proposte, con tre parole chiave: libertà, diritti,
responsabilità" conclude il Sir che richiama le parole del nuovo
presidente della Cei: "La vicenda dei Dico sta dimostrando con
serenità e chiarezza che il preciso no pronunciato con coerenza non solo
dai cattolici, ma da tanti laici, diventa un punto di riferimento aperto e
creativo". Come sul referendum per la procreazione assistita è il
via libera alla linea dello scontro. Così si prepara anche il terreno
per quella Nota Cei "vincolante per i politici cattolici", voluta dal
cardinale Ruini che sarà discussa il prossimo 26 marzo nel primo
Consiglio permanente della Cei a "gestione Bagnasco". Parola
d'ordine: sbarrare la strada ai Dico. Subito. Pare essere più importante
delle misure concrete, pure invocate, a favore della famiglia tradizionale. Le
richiama dai microfoni di Radio vaticana l'arcivescovo di Lecce, Cosmo Ruppi:
far fronte alle difficoltà dei giovani a sposarsi, degli alloggi, degli
affitti, l'insufficienza degli assegni familiari, la mancanza di tutela della
famiglia vera. Ma prima vi è il richiamo alle forze politiche.
"Facciano una valutazione di quello che è più urgente,
più importante e di quello che è meno importante" e "diano
la priorità ai problemi della famiglia rispetto ai Dico" afferma
Ruppi che pure riconosce che le coppie di fatto meritano rispetto e che
"la Chiesa non condanna nessuno". Ma la realtà pare essere
diversa. Per la gerarchia vi sono diritti e doveri da non riconoscere per non
rendere ancora più pesante la crisi della famiglia tradizionale. Sono
richiami ai quali lo Stato, nella sua auspicata neutralità, non
può essere indifferente. È il parere del patriarca di Venezia,
cardinale Angelo Scola che nel suo ultimo libro "Una nuova laicità",
edito da Marsilio affronta il tema del rapporto della Chiesa con la
società contemporanea, pluralistica e complessa. "Il potere
politico e dello Stato non è sacrale e quindi non è
onnipotente" scrive, richiamando il diritto della Chiesa ad esercitare una
"funzione di coscienza critica". Invoca uno Stato "laico",
ma non "indifferente alle identità e alle culture" prevalenti
e ai valori che stanno a fondamento della stessa convivenza democratica. Parla
di convivenza dialogica, il cardinale. E del rispetto delle procedure del consenso.
Di riconoscimento reciproco come garanzia da ogni integralismo. Ma che sia
davvero reciproco.
Ancora
passata la polemica sui Dico, non sono ancora finiti gli echi della
manifestazione a Roma del Gay pride, e Lui, sempre a Roma, domenica, ingiunge
ai laici di pentirsi altrimenti li aspetta la "rovina". Roma Non mi
pare che si possa parlare di "minaccia". La frase esatta del Papa
è: "Le persone e le società che vivono senza mai mettersi in
discussione hanno come unico destino finale la rovina". Fermiamo la
polemica; rileggiamo questa frase: è davvero minacciosa? Non dice forse
il Pontefice una verità che anche i laici dicono a sé stessi, sia pur
con parole e in contesti differenti? Quello del Papa è un invito a
ripensare la vita di ciascuno: "Cristo invita a rispondere al male prima
di tutto con un serio esame di coscienza e con l'impegno a purificare la propria
vita". Fa questo invito alla luce del Vangelo e del suo messaggio etico,
ma nel delineare il rapporto fra male e responsabilità individuale, pone
la stessa domanda che ogni coscienza laica si pone: che posso fare per rendere
migliore il mondo? Qual è la mia responsabilità nella definizione
delle cose? I laici si rispondono invitando ognuno a una vita retta, fatta di
rispetto di doveri verso gli altri e di consapevolezza del proprio peso nella
vita della collettività. Invitando ognuno a partire dalla propria vita
per far diventare migliore quella degli altri. Il Papa invece parla di
conversione, di penitenza, ma anche al centro del suo appello c'è la
necessità di "cambiare in meglio sé stessi e la
società". "La conversione - ha detto - pur non preservando dai
problemi e dalle sventure, permette di affrontarli in modo diverso. Anzitutto
aiuta a prevenire il male, disinnescando certe sue minacce. E in ogni caso
permette di vincere il male con il bene, se non sempre sul piano dei fatti, che
a volte sono indipendenti dalla nostra volontà, certamente su quello
spirituale". Sono davvero così lontani i due punti di vista?
È molto affascinante, in realtà, questo tema del rapporto fra
colpe degli individui e male in un'epoca di paure (non a caso il Papa ha
evocato due grandi disgrazie del passato) di fronte a eventi che "mettono
in crisi le certezze umane". Il Pontefice offre la sua risposta:
"Vera saggezza è lasciarsi interpellare dalla precarietà
dell'esistenza e assumere un atteggiamento di responsabilità".
Siamo forse noi laici esenti da queste paure, o esenti dal crollo delle nostre
certezze? Lo scontro fra laici e cattolici è in qualche modo una
costante del dibattito politico del nostro Paese negli ultimi due secoli. In
generale, la turbolenza permanente sul tema Chiesa e politica va data per
scontata. Ma c'è bisogno di un limite: la consapevolezza che la
riflessione sulla condizione umana non può essere così facilmente
divisa in parti.
Ho
letto e meditato con vivo interesse l'intervista che Piergiorgio Odifreddi ha
rilasciato al "Centro" (7 marzo 2007), sul rapporto tra fede e
scienza e sul come la chiesa esercita il suo magistero su un tema che in questi
ultimi tempi dilaga nella pubblicistica e nell'attenzione di un pubblico che va
molto al di là dei cosiddetti "addetti ai lavori". Un segno
eloquente dell'interesse crescente è dato dal successo straordinario di
opere come "Il Codice Da Vinci", "Il Vangelo secondo Giuda"
con il commento di studiosi di grande levatura quali Rodolphe Kassr, Bart D.
Ehrmann, Gregor Wurst, Marvin Meyer, "Inchiesta su Gesù" di
Corrado Augias che trova nel biblista Mario Pesce un interlocutore di vaste
conoscenze e di rigorosi ancoraggi documentari. Ho visto finanche ragazze e
ragazzi con sottobraccio questi volumi e ho sentito parlarne come chi, scosso
dal "sonno della ragione", si riappropria del proprio raziocinio e
scopre l'unico modo per domandarsi cosa mettere, in relazione alla propria
esperienza esistenziale, nello spazio temporale che va da quel che si pensava
da bambino e quel che si pensa nella età della ragione. E lo stimolo
viene - come è stato ricordato - dallo stesso San Paolo nella sua prima
lettera ai Corinzi per avvertire di tener sempre conto di come il tempo
talvolta segna il confine tra l'immaginazione e la realtà. Il volume di
Piergiorgio Odifreddi "Perchè non possiamo dirci cristiani (e meno
che mai cattolici)" è destinato a seguire e ripetere il successo delle
opere più avanti citate, per due motivi: primo, per la suggestione che
il tema suscita saldandosi all'ansia di sapere perchè una verità
che ci è stata proposta da secoli come rivelazione divina, trova oggi
crescente confutazione sia sul piano di uno scavo storico, sia sul piano di un impegnato
uso della ragione e della logica. Secondo, per la prestigiosa qualifica del suo
autore il quale, a livello universitario e a livello della pubblicistica, ha
dato un contributo inestimabile al pensiero laico come argine contro una
invadenza che non solo predica, ma vuole imporre, sul piano della morale e dei
rapporti civili, le sue verità che proclama pervicacemente essere
"non negoziabili". Quando Benedetto XVI, nella sua Enciclica Deus est
caritas afferma che "ci sarà sempre sofferenza che necessita di
consolazione ed aiuto", e poi sottolinea che "lo Stato che vuole
provvedere a tutto, che assorbe tutto il sè, diventa in definitiva
un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo
ha bisogno", rivendica, sostanzialmente, il gesto d'amore come proveniente
da Dio, ma il suo valore è vero solo se compiuto dalla chiesa. Insomma,
se lo Stato si fa carico dei bisogni dell'uomo, è come se ciò
defraudasse la chiesa di qualcosa a cui solo essa è abilitata. A questa
idea assolutistica, con non poche implicazioni integralistiche, il noto esegeta
delle Sacre Scritture Mario Pesce, discorrendo dell'apporto di altri settori
della società alla promozione dell'uomo, cita l'assunto del Concilio
Vaticano II che riconosce come anche "le altre religioni sono portatrici
di verità e di valori morali, ma solo la chiesa cattolica possiede la
verità piena e totale". Si domandi ognuno quanto spazio rimane per
un proficuo confronto se una parte proclama anche l'unic verità (e di
conseguenza l'unico sistema di valori) è quella che essa propugna. Ed
è intorno a questo esasperato assolutismo che dilaga, proprio in questi
giorni, il dibattito sui diritti della famiglia rispetto ai quali la chiesa
pretende dallo Stato come, con quali limiti, regolare tali diritti; e come,
umiliando l'attesa di tanti cittadini, lo Stato dovrebbe abdicare alla propria
laicità perchè sia salva la concezione manichea di una
verità "piena e totale" che non accetta mediazioni. *
Scrittore.
Città
del Vaticano, 12 mar. (APCom) - Dura condanna dell'Osservatore Romano alla
manifestazione di piazza Farnese di sabato sui 'Dico'. Una "esibizione
carnascialesca" la chiama il quotidiano d'Oltretevere che definisce
"discutibili le presenze" di alcuni ministri e "insultanti gli
slogan" inneggiati.
Si
è dunque inscenato sabato - osserva il quotidiano vaticano - il promesso
corteo a favore del riconoscimento legale delle coppie omosessuali. Una
manifestazione nella quale, al di là dell'immagine borghese e
rassicurante che si voleva dare, hanno trovato posto discutibili mascherate e
carnascialate varie. Ironie e isteriche esibizioni da parte di chi invoca
riconoscimenti e non esprime rispetto. Erano in molti, fra l'altro - prosegue
l'Osservatore Romano - i manifestanti omosessuali che recavano sulle spalle o
per mano, dei bambini, frutto di precedenti relazioni o anche di fecondazioni
praticate all'estero. Bambini - ammonisce ancora il quotidiano della Santa Sede
- la cui presenza è stata sfruttata proprio allo scopo di accreditare
l'immagine, che vorrebbe essere rassicurante, di una famiglia da
tutelare".
L'Osservatore
Romano condanna lo sfruttamento "dei bambini" che godono "anche
nell'ordinamento italiano, di diritti che gli vengono riconosciuti comunque, in
ogni condizione si trovino i loro genitori. Anche per questo - ammonisce il
quotidiano d'Oltretevere - sfruttare la loro ingenuità appare
un'operazione particolarmente criticabile". La manifestazione di sabato,
dunque, "è anche, ancora una volta, la prova evidente di quale sia
la finalità di chi si batte per il riconoscimento legale delle coppie
omosessuali, essendo la presenza di minori determinante per garantire ad un
nucleo famigliare particolari diritti. Non è un caso - conclude il
quotidiano vaticano - che nelle immagini trasmesse sul corteo di sabato a
parlare siano state quasi esclusivamente le coppie omosessuali, la categoria
per la quale, al di là di ogni tattica politica, i recenti tentativi di
regolamentazione sono concepiti".
L'Osservatore
Romano non manca di criticare anche la presenza al corteo di tre ministri,
"a dimostrazione di come una parte del Governo sembra volersi impegnare
personalmente per una questione diventata inspiegabilmente prioritaria. Una
presenza - prosegue - che ha portato fra l'altro il ministro della Giustizia
Mastella a sfrondare il campo da ogni ipocrisia, avvertendo che sulla questione
dei 'dico' il Governo potrebbe giocarsi la sua stessa esistenza. Mastella ha
anche criticato il presidente del Consiglio Romano Prodi che, a suo modo di
vedere, avrebbe potuto esprimere le sue 'perplessità' sulla presenza dei
ministri in piazza 'un po' prima'".
Il nuovo presidente della Cei: «Al servizio della
collegialità, per il discernimento comune»
Dal Nostro Inviato A Genova
Non è difficile immaginare che l'agenda dell'arcivescovo di
una diocesi metropolitana come Genova trabocchi di appuntamenti. Tanto
più se appartiene a un pastore che non si risparmia come monsignor
Angelo Bagnasco: le visite pastorali e la Messa nelle acciaierie, il ritiro per
i docenti universitari e un incontro all'ospedale pediatrico Gaslini, feste patronali,
la via crucis cittadina, e poi intere mattinate di udienze in Curia. E da
mercoledì 7 la presidenza della Cei, non certo un impegno lieve.
Al termine di una sequenza di incontri nel suo studio, come tirando il fiato,
risponde per un'ora e mezza alle nostre domande, col tono pacato, netto e la
sobrietà dei gesti che gli sono caratteristiche, senza esitazioni ma
come prendendo le misure di ogni concetto per trovargli il nome esatto. Tra
tanti temi aperti, viene spontaneo iniziare proprio da quell'agenda.
Monsignor Bagnasco, oltre a Genova ora anche la guida della Cei. Come
farà?
Quando l'ho incontrato nella visita ad limina dei vescovi liguri, il Papa mi ha
chiesto del mio ministero a Genova. «Santità - gli ho risposto - faccio
la bella esperienza della manna quotidiana». E lui ha replicato con un sorriso
d'intesa. La manna è l'affidarsi a Dio giorno per giorno con tutta la
fiducia di cui si è capaci, sapendo che Lui è fedele: dà
l'aiuto per un passo alla volta, non di più. Perché a ogni nuova
giornata vuole che rinnoviamo la coscienza di non poter fare nulla senza di
Lui. Questo è per me un criterio ormai abituale.
In questi giorni lei ha "fatto notizia": come si è sentito
accolto dall'opinione pubblica?
Nella sostanza molto bene, e devo dire che la cosa mi ha anche sorpreso. Posso
immaginare che non sarà sempre così, ma fa parte del servizio che
mi è stato affidato. Ha pesato nei giudizi certo anche la successione a
una personalità così capace e autorevole come il cardinale Ruini,
che ha segnato la Chiesa in Italia per vent'anni. Raccogliere il testimone da
una figura sim ile è una responsabilità grandissima, davanti alla
quale mi sento umanamente inadeguato. È Dio però che conduce la
Chiesa, ogni uomo porta ciò che ha e che è. Per questo mi sento
sereno e fiducioso. Come dissi mesi fa entrando a Genova, desidero essere me
stesso, senza impegnarmi a "copiare" i miei predecessori.
Il giorno dopo la nomina lei ha fatto per la prima volta il suo ingresso nella
sede della Cei a Roma come presidente. Che cos'ha pensato?
Ho notato anzitutto la grande simpatia con la quale sono stato accolto da
tutti. Penso al segretario generale monsignor Betori, al quale mi legano
un'amicizia e una stima consolidate. Betori costituisce per me uno
straordinario punto di forza. Poi ho incontrato i direttori e collaboratori,
sentendo tra tutti un grande calore, espresso con semplicità e senza
l'ombra di un pregiudizio. E in un istante ho compreso il loro amore per la
Chiesa.
Quali pensieri la stanno accompagnando in questi giorni?
La notizia della nomina me l'ha data lo stesso Santo Padre. La mia prima
reazione è stata di grande sorpresa e insieme di gratitudine, mi sentivo
come confuso davanti al compito che mi veniva prospettato. Ho però
avvertito con forza tutta la sua fiducia. Ho coscienza della grande
responsabilità verso i miei confratelli: devo servire la comunione e la
fraternità episcopale. Vedo la gravosità del compito anche
nell'importanza di questo momento storico, con i tanti e delicati appuntamenti
che attendono sia la Chiesa sia l'Italia.
Qual è il volto della Chiesa italiana oggi?
È una Chiesa sempre più consapevole della propria fede, della
necessità di annunciare il Vangelo e di essere presente come lievito
nella storia del nostro Paese, rispettosa ma incisiva, per il suo bene,
com'è dovere di ogni singolo cristiano. La dimensione pubblica della
fede cristiana, in termini di servizio e di chiarezza, è coessenziale
sia alla sua natura ecclesiale sia al suo rilievo nella vita di ciascuno.
È in questo se nso che la Chiesa italiana sta molto crescendo. Certo,
questa fede va ancora molto consolidata per renderla più pensata,
più fondata sulle sue ragioni profonde. Ma la Chiesa italiana sa che
è suo compito proporre oggi quella stessa fede a tutti, propagando
ancora la gioia che essa reca con sé.
È prematura qualsiasi considerazione programmatica. Può
però abbozzare un'idea che ritiene più necessaria ora?
La storia non nasce con noi, per fortuna. Sono consapevole di dover raccogliere
come meglio posso la ricchezza di chi mi ha preceduto, con alcuni criteri.
Anzitutto penso alla fisionomia intrinseca della Cei, che è una
struttura di comunione, di fraternità episcopale e di servizio ai
vescovi nelle loro diocesi. Qui ci sono criteri da confermare con molta
determinazione, in collaborazione con tutti i vescovi, per servire le Chiese
locali. La Cei è un luogo di elaborazione comunitaria delle grandi linee
pastorali, secondo la prassi ormai consolidata e fruttuosa degli orientamenti
decennali. Naturalmente queste coordinate pastorali sono poi assunte dai
singoli vescovi nelle rispettive diocesi, con una responsabilità che
è loro propria e non delegabile. La Cei non si sovrappone ai vescovi,
è al loro servizio. Infine, fa parte della tradizione della Conferenza
episcopale essere luogo per il discernimento della storia.
Che parola dice oggi la Chiesa italiana alla società?
Entro alla Cei in un momento, come questo che segue il Convegno ecclesiale
nazionale di Verona dell'ottobre scorso, nel quale a guidarci è il
mandato della speranza cristiana. Ci sono poi le urgenze che la storia di oggi
propone alla Chiesa italiana e che ben conosciamo, con la doverosa promozione e
difesa dei valori della vita, della famiglia, della libertà educativa,
della giustizia e della pace. È in tutto questo che occorre riportare la
speranza cristiana.
Lei raccoglie il testimone dal cardinale Ruini. Quali elementi della sua
eredità vuole fare suoi?
Due su tu tti. Anzitutto il suo approccio a qualunque tipo di problema, che
è sempre stato sostanzialmente pastorale. C'è poi la grande
intuizione del Progetto culturale che al cuore ha la questione antropologica.
Ruini c'è arrivato prima di tutti, nel '94: già allora aveva
capito che la cultura italiana sarebbe andata a misurarsi sull'identità
della persona umana. Tutte le questioni eticamente sensibili hanno alla loro
radice la visione dell'uomo.
Quale sarà il suo stile nella conduzione della Cei?
Tra le molte cose lette in questi giorni, c'è una parola nella quale mi
riconosco: "serenità". Mai lo scontro, ma fermezza sui princìpi.
Il Papa ci dà l'esempio: garbato nel linguaggio, ma senza cedere su
quello che conta. È lo stile di chi vuole rendere il servizio della
chiarezza.
C'è un legame speciale tra la Chiesa italiana e il Papa. Che valore
assume oggi?
La sua presenza in Roma e il peculiare rapporto con la nostra Conferenza
episcopale è una grazia singolare. Il Papa è vescovo di Roma, e
guarda all'Italia con un occhio e un cuore tutti particolari. Quindi il nostro
riferimento a lui e alla sua parola per noi vescovi italiani è un dono
straordinario di cui far tesoro.
Sempre più in Italia si guarda alla Chiesa come a un punto di
riferimento. Come avverte questa attesa?
La sento nel contatto con la gente semplice, negli incontri, in lettere o
e-mail. Anche non credenti ci incoraggiano a non recedere sui valori fondativi
della società. La gente che ha buon senso - ed è la grande
maggioranza - attende dalla Chiesa quella fermezza che a una parte dei media
pare sconveniente, con un clamore su alcuni temi che a chi ha dimestichezza con
la realtà pare del tutto sproporzionato.
Eppure c'è chi legge questo atteggiamento in senso opposto, come una
minaccia...
Va sfatato il pregiudizio delle presunte "mire egemoniche", come se
la Chiesa volesse mettersi alla guida del Paese. Proprio perché non ha di mira
se stessa è ancora più lib era per parlare del bene della persona
e dunque della stessa società. Facendolo ad alta voce sui valori
portanti, sempre nel rispetto di tutti, la Chiesa intende rendere un servizio
alla verità della persona umana, che è il fondamento dello Stato
e il cuore della redenzione. Il suo è un atto d'amore al Paese. Se
cercasse la propria gloria asseconderebbe la corrente, non la risalirebbe.
Anche tra i credenti fa breccia l'idea che non si può impedire ad altri
quello che contrasta con i propri valori. Come giudica questo atteggiamento?
È un criterio sbagliato, sul quale però ho l'impressione che ci
sia un po' di ripensamento. Si comincia a comprendere che l'applicazione
dell'individualismo alla fine va contro il bene di tutti. Anche nella storia
recente la Chiesa ha sempre proclamato e difeso la libertà responsabile
dell'individuo, facendo scudo a ideologie totalitarie di qualsiasi matrice. Nel
clima di iperliberismo individualista di oggi la Chiesa si trova invece a ricordare
che quella libertà non è un assoluto: l'individuo non vive da
solo ma è continuamente in relazione. Questo rovesciamento in
realtà porta da un'ideologia a un'altra di segno opposto: non più
l'individuo come ingranaggio di un meccanismo ma entità autosufficiente,
sciolta da ogni legame.
La Chiesa richiama lo Stato ai suoi doveri, ma non tutti gradiscono...
Va ricordato con chiarezza che le scelte individuali hanno sempre riscontri di
carattere comunitario. Uno Stato deve difendere la libertà individuale
insieme al bene comune, che non è la somma di tanti singoli vantaggi ma
un organismo armonico retto sui valori capaci di creare il bene di tutti: la
famiglia e il rispetto per la vita, la libertà di educare i figli e la
libertà religiosa... Uno Stato che sta a guardare, per il quale tutto
dipende esclusivamente dalle scelte dell'individuo, non ha in mente una
categoria di bene comune.
Vale anche per la famiglia?
Certo. Legittimare qualsiasi istanza vuol dire andare contro un'esperienza
millenaria, una tradizione universale: nella famiglia formata da uomo e donna e
aperta a generare la vita l'umanità da sempre riconosce il luogo
imprescindibile per la propria perpetuazione e per l'educazione alla vita
stessa. La storia ci consegna questo patrimonio naturale, un dato oggettivo. La
comunità sociale riconosce ogni nuova famiglia come soggetto importante,
nucleo fondante della sua stessa sussistenza, e la tutela individuando in essa
il requisito della stabilità e dell'impegno pubblico. I diritti derivano
da questa funzione sociale. È interesse della società tutelare la
famiglia, perché così facendo tutela anche se stessa. Ecco perché
occorre insistere in tutte le sedi perché siano attivate efficaci politiche per
un vero rafforzamento della famiglia come bene prezioso di un Paese.
Si fa un gran parlare della necessità di "nuovi diritti"...
Nessuna condanna per le convivenze, è inaccettabile invece creare un
nuovo soggetto di diritto pubblico che si veda assegnati diritti e tutele in
analogia alla famiglia. La legge ha anche una funzione pedagogica, crea costume
e mentalità. I giovani già oggi disorientati si vedono proporre
dallo Stato diversi modelli di famiglia e certo non vengono aiutati a diventare
cittadini adulti. Molto di ciò che viene chiesto è già
oggi garantito dal diritto privato, una via però rifiutata per creare un
nuovo soggetto alternativo in nome di una pretesa ideologica.
Un altro nodo è quello relativo alla fine della vita. Su quale frontiera
dovrà attestarsi la Chiesa?
Una società che codifica l'assoluta libertà di ciascuno su se
stesso, ad esempio con l'autodeterminazione senza alcun limite rispetto alla
morte, si pone sulla via dell'implosione: l'assoluta libertà sciolta da
ogni vincolo è la premessa per qualsiasi forma di violenza, di sopraffazione,
di conflitto. È necessario che la cultura di oggi - come le grandi
culture del passato - torni a riconoscere il senso del limite. Noi cristiani la
chiamiamo «creaturalità della persona», un non credente può
trovare il limite nella coscienza di non poter essere padroni assoluti né degli
altri né di se stessi. In nome di cosa si potrà dire che non possono
essere concessi alcuni "diritti" reclamati da singoli o gruppi ma che
la collettività riconosce come aberrazioni? Sciolta da valori oggettivi,
che è compito di una società riconoscere, la libertà si
rivolta contro se stessa.
In un Paese lacerato su tutto è ancora possibile trovare un accordo non
al ribasso su questi princìpi?
Quando il Papa insiste sulla necessità di allargare gli spazi della
razionalità intende dire che la ragione non va mortificata riducendola a
strumento che tutt'al più indaga sul funzionamento delle cose. Sono
anche altri gli spazi che la ragione può esplorare, come il senso della
vita e del mondo, della gioia e del lavoro, del dolore e della morte. Dove poi
la ragione trova un orizzonte decisivo è sul terreno della questione
etica, la capacità cioè di riconoscere il bene e il male
indagando razionalmente sui valori. Va recuperata la dimensione della natura umana
oggettiva, contro la quale si vede all'opera un accanimento culturale da parte
di un'ideologia che descrive l'uomo come costruzione culturale variabile. La
conseguenza è la sostituzione di qualsiasi valore assoluto con interessi
e desideri transitori, sui quali si consuma una divisione senza fine. Il
diritto positivo, privato del suo fondamento nel diritto naturale, diventa
terreno di affermazione della prepotenza.
Che cosa direbbe agli uomini che oggi reggono le sorti della nostra vita
pubblica?
I politici che cercano il consenso rincorrendo alcuni aspetti parziali della
società si allontanano dalla gente e dalla stessa idea del bene di
tutti, oggi centrata sui grandi temi etici. La politica ha come scopo il bene
comune, non l'inseguimento dei desideri.
Monsignor Bagnasco, come immagina la Chiesa italiana dei prossimi anni?
Una Chiesa ricca di speranza, entusiasta di annunciare Cristo all'uomo
affaticato che attende proprio quel messaggio di speranza. La gente chiede ai
cristiani e ai loro pastori un incoraggiamento per vivere la vita e affrontare
la morte. La Chiesa di domani, impegnata per essere questo segno visibile di
speranza, deve sempre più farsi madre e maestra. Oggi più che mai
questi due volti sono inseparabili, perché la Chiesa sia davvero speranza per
il mondo.
ROMA Da cattolica, Rosy Bindi ha ben chiaro che "stare al
governo significa "adoperarsi per fare il bene possibile", quindi
anche "per dare diritti alle minoranze", anche se è sicura che
"la priorità sono le politiche per la famiglia". Per questo,
il ministro, invita tutti "a riaprire il dialogo che non viene certo
favorito con i "non possumus"". Riflessione che dedica a laici e
cattolici. E, di fronte a nuove reprimenda da parte delle gerarchie
ecclesiastiche, spera che "dai vescovi non arriveranno nè condanne,
nè diktat ai cattolici impegnati in politica". Ministro Bindi, il nuovo
presidente della Cei, monsignor Bagnasco, conferma che Ruini sta preparando un
appello per i cattolici sui Dico. Non teme che possa inasprire le
contrapposizioni? "Vedremo il contenuto di quella lettera, ma credo sia
difficile allontanarsi dalla linea stabilita dal Concilio che invita noi
cattolici a non lavarci le mani anche delle questioni più spinose. E
penso sia giusto non sottrarci alle nostre responsabilità accettando la
sfida della mediazione non solo per evitare il male, ma per garantire il
maggior bene possibile". Tuttavia, dopo la manifestazione di sabato la
contrapposizione tra i laici dell'Unione e i cattolici sembra più aspra
che mai. Per Andreotti, Casini e l'Avvenire quella era "una caciara anti
Chiesa". Lei che ne pensa? "Tutto sommato, la manifestazione è
stata meno dirompente di altre, anche se certe parole e certi slogan sono stati
eccessivi. Bisogna però considerare che il risentimento è
scaturito dal fatto che quella piazza si è sentita giudicata ed esclusa
da certi politici e da una parte delle gerarchie ecclesiastiche. E' giusto che
i vescovi ricordino i valori e indichino un orientamento senza però
togliere spazio alla mediazione". Lei continua a invitare al dialogo. Il
governo però si è diviso ancora una volta, visto che i ministri
Pollastrini, Pecoraro Scanio e Ferrero erano sul palco. E Prodi si è
risentito.. "Bisogna dire che con i dodici punti stabiliti solo quindici
giorni fa ci si era dati certe regole di comportamento, che sarebbe meglio
rispettare. Ci sono cose precluse a chi governa e io credo che il nostro
compito non sia andare in piazza, ma saper ascoltare la protesta e saper dare
delle risposte". Quindi quei tre ministri hanno sbagliato. Ma altri due
suoi colleghi, i cattolici Mastella e Fioroni, si preparano a manifestare per
il Family day. Lei come ministro della Famiglia ci sarà? "Ripeto,
quando si governa, le piazze sono precluse. Io mi sto dedicando anima e corpo
alla Conferenza nazionale della famiglia e mi sto confrontando con le
associazioni cattoliche, che incontrerò il 2 aprile. Come ho detto, per
me la priorità sono le politiche da mettere in campo per la famiglia,
non le manifestazioni". Se per lei la priorità sono le politiche
familiari, a che posto mette i Dico? "Credo sia sbagliato mettere i
diritti delle minoranze in contrapposizione con le politiche per la famiglia.
Così come è un errore mettere piazza Farnese contro la piazza che
verrà. Nessuna delle due manifestazioni può essere considerata un
esempio di laicità". E cosa è la laicità?
"Nè contrapposizione, nè imposizione dei nostri valori su
quelli degli altri, nè tantomeno intolleranza. La sfida è trovare
una sintesi tra le diverse sensibilità. Quindi, è giusta la
battaglia contro ogni discriminazione, ma resta la centralità della
famiglia". Provi a dirlo a Mastella.. "Quando Mastella critica i Dico
in realtà pensa alla legge elettorale. E' un modo per difendere la sua
identità, ma anche il centrosinistra dovrà ritrovare la sintesi
perchè a furia di litigare rischiamo di cancellare le tante buone cose
fatte da questo governo". Come risponde al leader dell'Udc, Casini, che
invita i cattolici dell'Unione a reagire? "Lo invito a non fare polemiche
strumentali perchè la politica più ostile alla famiglia è
stata quella del governo Berlusconi. Noi abbiamo già adottato misure
importanti in Finanziaria e andremo avanti. Mi auguro che voglia collaborare
alla Conferenza della famiglia e che contribuisca a cambiare questa legge
elettorale perchè un referendum non risolve nulla. Su questo sono
d'accordo con Mastella. E per il futuro chissà..". Cosa
accadrà in futuro? "Se l'Udc risolvesse le sue contraddizioni e si
decidesse a certe scelte, Prodi potrebbe guidare l'allargamento della
maggioranza con quello che sarebbe un interlocutore naturale. Ma sia chiaro che
mai va cambiata la formula della coalizione".
Dopo gli interventi della Cei sul ddl per i diritti tra
conviventi, da rileggere un testo del fratello dello statista Gli interventi
della Presidenza della Cei sul disegno di legge per i diritti tra conviventi
hanno suscitato una serie di riflessioni: sul ruolo dei laici nella Chiesa,
sull'autonomia della sfera politica e sul concordato tra Stato e Chiesa.
È naturale che la Chiesa intervenga - com'è suo dovere e suo
diritto - su materie che toccano principi rilevanti, moralmente e socialmente.
E che dichiari la eventuale dissonanza tra le leggi dello Stato, esistenti o in
via di formazione, e i principi affermati nella propria dottrina. È
invece cosa diversa annunciare testi "vincolanti per i cattolici",
intendendo con ciò dettare i comportamenti dei cattolici eletti in
Parlamento per legiferare nella sfera dello Stato. L'articolo 67 della
Costituzione italiana stabilisce che "ogni parlamentare rappresenta la
nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato". E
l'articolo 1 del Concordato 1984 ribadisce: "La Repubblica Italia e la
Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel
proprio ordine, indipendenti e sovrani". La legislazione dello Stato nasce
dal concorso di credenti cattolici, di diversamente credenti, di agnostici, di
atei, di laicisti, secondo le evoluzioni (talvolta le involuzioni) culturali
della società. Le leggi sono sempre frutto di mediazioni tra visioni
diverse ed a queste mediazioni sono chiamati i parlamentari cattolici, i quali
agiscono per far sì che le leggi rispettino o almeno risultino il meno
distanti possibile dai principi in cui essi credono. Talvolta, quando si
trovano in minoranza e soccombono, i cattolici vedono vulnerati quei principi
(si ricordino i casi del divorzio e dell'aborto). In tali casi, essi devono
"astenersi" dall'ulteriore corso della legislazione in fieri, o
devono dare il loro contributo di legislatori, affinché le norme dello Stato
siano il meno lontane possibile rispetto al principio, ancorché intaccato dal
voto della maggioranza? La risposta sembra pacifica (i parlamentari devono
operare la legge "meno lontana"), ma nella pratica spesso si
manifesta una sorta di sfiducia nei confronti della saldezza della loro fede,
proprio perché sono tenuti al difficile e ingrato compito della mediazione.
È il problema del "male minore" o, come lo ha chiamato il
cardinale Martini "del bene comune concretamente possibile in quel
determinato contesto storico". Recentemente si sono levate alcune voci di
fedeli cattolici di chiara fama (da Leopoldo Elia a Giuseppe Alberigo) per
contestare il modo di porsi della Cei rispetto alla politica. Ed è
tornato di attualità un testo che Alfredo Carlo Moro (fratello dello
statista), aveva consegnato, due mesi prima di morire (novembre 2005), alla
Fondazione Zancan, nel quale - dopo aver esaminato la crisi del diritto e della
politica italiana - egli ha proposto alcune riflessioni sui "modi della
presenza della Chiesa nella società italiana", che appaiono molto
attuali. Moro dà per presupposta la distinzione conciliare tra
comunità politica e Chiesa quale la definisce la "Gaudium et
Spes" (n. 76) quando afferma che "la comunità politica e la
Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo" e
quando giudica "di grande importanza, soprattutto in una società
pluralista... che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli,
individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati
dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della
Chiesa in comunione con i loro pastori". Tuttavia il compianto magistrato richiama
il Concilio da "christifidelis laicus", che si appresta a far sentire
la propria voce critica; e confessa di farlo "con grande tremore,
però anche con forza" per rispondere all'impegno conciliare evocato
dalla "Lumen Gentium" (n.37), laddove si dice dei laici che
"secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la
facoltà, talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose
concernenti il bene della Chiesa". Moro osserva come spesso vi sia un modo
contraddittorio di porsi davanti al diritto, talvolta con una sopra-valutazione
della legge - come se fosse strumento fondamentale di evangelizzazione -
tal'altra con una sotto-valutazione della legge, dilatando arbitrariamente le
obiezioni di coscienza ("si pensi al tema della obiezione fiscale").
Egli sottolinea che la Chiesa italiana, a volte, non si è fatta solo
carico del diritto-dovere di proclamare i valori, ma anche delle mediazioni
pratiche sul piano legislativo. Il testo poi denuncia il "preoccupante silenzio
che si è tenuto sullo scempio della legalità e sulla caduta
dell'etica politica e sociale" verificatisi negli anni passati,
nell'ottica di ottenere benefici legislativi per istanze proprie del mondo
cattolico. "Nessuna elargizione di privilegi per alcuni valori a cui i
cattolici tengono - scrive su questo punto Moro - può compensare
l'inquinamento della vita sociale, la rottura della legalità, la
contrazione degli autentici diritti di cittadinanza, l'abbandono del principio
dell'eguaglianza degli uomini di fronte alla legge, la sopravvalutazione degli
interessi privati nei confronti di quelli pubblici". Moro scrive le sue
note verso la fine della scorsa legislatura e i riferimenti sono evidenti
soprattutto nelle due parti che si riferiscono alla crisi del diritto e della
politica. Qui egli vuol rompere "l'impressionante e assordante
silenzio" che si avverte (e non solo fra i laici) nella Chiesa italiana,
nella quale sembra esistere solo l'ufficialità. Insomma, traspare
nostalgia per le voci profetiche che offrono alla pastorale una capacità
di evangelizzazione assai più forte della linea neo-concordataria che si
affida ad una "trattativa tra poteri". Ma per una valutazione
complessiva, anche questa parte dedicata ai "modi di presenza della Chiesa
nella società italiana" non può essere separata dalle due
precedenti, sulla crisi del diritto e della politica. Per la crisi del diritto,
Moro riconosce i grandi progressi che hanno portato a fare del soggetto persona
un riferimento più forte del soggetto patrimonio. E tuttavia richiama le
"ombre" incombenti, quali lo "sviluppo alluvionale" della
tematica dei diritti: "tutto rischia di diventare diritto, anche le
attese, i desideri, i bisogni particolari che non hanno reali esigenze né
possibilità di essere legittimati e di avere copertura pubblica" (e
che spesso confliggono o con i diritti di altri o con la sfera dei propri
doveri). Poi c'è un crepuscolo del diritto, quando la legge diventa
tutela di interessi particolari o privilegio per singole persone (e cita apertamente
l'ormai celebre caso Previti). Il declino del senso alto della politica si
avverte poi - secondo A.C. Moro - dalla sostituzione della ricerca del bene
comune con la politica "supermarket": e cioè, con lo
spettacolo per la cattura del consenso; con la "pubblicità
ingannevole" per la sostituzione dell'immagine (apparenza) al carisma
delle idee; con la prevalenza del "contro" sul "per"; con
la "tecnica aziendalistica costruita da alcuni sedicenti illuminati, che
da soli sanno cosa può esser utile per tutti"; con la riduzione e
gestione pragmatica dell'esistente, priva di contenuti valoriali e di
capacità progettuale. Il monito è severo: guardatevi dal
populismo del demagogo e dal "libertinismo illiberale", cioè
dal presunto diritto di ogni uomo a scegliere liberamente ciò che per
lui può essere più utile, superando la cultura del limite perché
castrante. Chi avesse interesse a conoscere il testo nella sua
integralità, lo può trovare nel fascicolo numero 6 del 2005 degli
"Studi Zancan" (Padova), intitolato "Politiche e servizi alle
persone" e presentato da un illuminante editoriale di monsignor Giovanni
Nervo. Si tratta di un testo e di una biografia che conservano intatta tutta la
loro attualità.
11/3/2007 (12:7) - IL DISCORSO DI FRONTE A 80M
Benedetto XVI invita a ripensare la propria vita alla luce del
messaggio etico del Vangelo: «La conversione permette di affrontare i problemi
in modo diverso»
CITTA' DEL VATICANO
«Le persone e le società che vivono senza mai mettersi in discussione
hanno come unico destino finale la rovina». Benedetto XVI pronuncia parole
molto severe nel discorso agli oltre 60 mila fedeli presenti oggi in piazza San
Pietro ai quali ricorda: «Cristo invita a rispondere al male prima di tutto con
un serio esame di coscienza e con l’impegno a purificare la propria vita.
Altrimenti, dice Gesù, periremo». Il Papa si ferma un istante e poi
ripete: «periremo tutti nello stesso modo».
È un invito a ripensare la vita di ciascuno e di tutti alla luce del
Vangelo e del suo messaggio etico. «La conversione - spiega il Papa - pur non
preservando dai problemi e dalle sventure, permette di affrontarli in modo
diverso. Anzitutto aiuta a prevenire il male, disinnescando certe sue minacce.
E, in ogni caso, permette di vincere il male con il bene, se non sempre sul
piano dei fatti - che a volte sono indipendenti dalla nostra volontà,
certamente su quello spirituale. In sintesi: la conversione vince il male nella
sua radice che è il peccato, anche se non sempre può evitarne le
conseguenze». Benedetto XVI prende spunto dal Vangelo di oggi che riporta il
commento di Gesù a due fatti di cronaca. Il primo era la rivolta di
alcuni Galilei, che era stata repressa da Pilato nel sangue; il secondo: il
crollo di una torre Gerusalemme, che aveva causato diciotto vittime. «Due
avvenimenti tragici - spiega il Papa - ben diversi: l’uno causato dall’uomo,
l’altro accidentale. Secondo la mentalità del tempo, la gente era portata
a pensare che la disgrazia si fosse abbattuta sulle vittime a motivo di qualche
loro grave colpa».
«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei? O
che quei diciotto fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di
Gerusalemme?», chiese invece Gesù che in entrambi i casi conclude: «No,
vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti nello stesso modo».
«Ecco - afferma il Papa - il punto al quale Gesù vuole portare i suoi
ascoltatori: la necessità della conversione. Non la propone in termini
moralistici, bensì realistici, come l’unica risposta adeguata ad
accadimenti che mettono in crisi le certezze umane. Di fronte a certe disgrazie
non serve scaricare la colpa sulle vittime. Vera saggezza è piuttosto
lasciarsi interpellare dalla precarietà dell’esistenza e assumere un
atteggiamento di responsabilità: fare penitenza e migliorare la nostra
vita». Secondo il Pontefice, «questa è sapienza, questa è la
risposta più efficace al male, ad ogni livello, interpersonale, sociale
e internazionale».
«Preghiamo Maria Santissima che ci accompagna e ci sostiene nell’itinerario
quaresimale - è stata l’esortazione di Papa Ratzinger - affinchè
aiuti ogni cristiano a riscoprire la grandezza, direi la bellezza della
conversione. Ci aiuti a comprendere che fare penitenza e correggere la propria
condotta non è semplice moralismo, ma la via più efficace per
cambiare in meglio se stessi e la società. Lo esprime molto bene -
conclude il Pontefice mentre sulla piazza gremita come non mai è calato
un irreale silenzio - una felice sentenza: accendere un fiammifero vale
più che maledire l’oscurità».
LA QUESTIONE è diventata talmente chiara che la stessa Chiesa
italiana ha smesso di negarne l'esistenza: esiste uno scontro aperto tra la
Conferenza episcopale (cioè il maggior organo pastorale e politico dei
cattolici) e lo Stato italiano, la rappresentanza parlamentare, i vari partiti
e associazioni democratiche. Due concezioni si contrastano, due culture
ciascuna delle quali deve moltissimo all'altra, si contrappongono e non
soltanto sui modi per raggiungere un obiettivo comune, ma sulle finalità
stesse che vengono proposte. Gli ultimi due papi scavalcando a piedi pari gran
parte delle conclusioni e dello spirito del Vaticano II e di fatto cancellando
i due pontificati precedenti, quello di Giovanni XXIII e quello di Paolo VI,
hanno fatto dell'accusa di liberalismo e di relativismo un tema centrale e
l'hanno usato sistematicamente per sconfessare di fatto l'intero valore della
modernità, dal Rinascimento alla libera ricerca, dalla scienza
sperimentale allo stoicismo di Montaigne, al "Discorso sul metodo" di
Cartesio, all' "Etica" di Spinoza, all'Illuminismo, alla
"Critica della ragion pura" di Kant e infine ai più recenti
svolgimenti del pensiero filosofico derivanti da Schopenhauer e da Nietzsche e
agli esiti scientifici di Freud, di Einstein e della fisica quantistica. Tutto
questo immenso deposito di pensiero e di sapere è impregnato di
relativismo nelle sue diverse varianti metodiche conoscitive ed etiche e tutto,
preso nel suo insieme, si è proposto di spodestare la metafisica dal
vertice del pensiero filosofico dove si era insediata a partire da Platone. Se
dunque Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, pur dotati di diversa portanza e di
diverso linguaggio, hanno deciso di eleggere come nemico numero uno della
cattolicità il relativismo e l'Illuminismo e lo hanno ripetuto in gran
parte delle loro pubbliche allocuzioni e delle più solenni encicliche; e
se Ratzinger appena insediato sulla cattedra petrina, nella sua prolusione
all'università di Ratisbona ebbe nei confronti del fondamentalismo
islamico accenti addirittura meno severi di quelli riservati al pensiero
moderno dell'Occidente, non è purtroppo lontano dal vero parlare oggi
d'uno scontro in atto tra cattolicesimo e modernità. La Chiesa lo nega
tenacemente. E come potrebbe ammetterlo, visto che la sua missione è
quella di stare tra la gente, ascoltarne i dolori e le richieste, darle un
progetto di sicurezza e di salvezza senza mai separarsi dai diversi e dai
peccatori? La Chiesa tiene ben ferma questa sua missione perché essa
costituisce il fondamento del messaggio evangelico e della predicazione del
Cristo e dei suoi apostoli. Ma la contraddice tutte le volte in cui fa passare
questa missione in seconda fila di fronte ad altre incombenze che ritiene
più urgenti per l'affermazione del suo potere. In realtà nella
Chiesa cattolica ci sono due anime. Una è quella dell'Evangelo,
dell'amore, della misericordia, della povertà; l'altra è quello
del potere, della politica, dell' "imperium". La prima spesso
è perseguitata, sofferente e tuttavia portatrice di salvezza nel regno
futuro delle Beatitudini; la seconda si sente forte e fonte unica e legittima
d'investitura: investitura di verità e insieme di potere terreno. Nella
Chiesa cattolica questa divisione tra le due anime è stata
particolarmente visibile per la struttura stessa della sua organizzazione
centrata su un unico personaggio che la rappresenta interamente per il fatto
stesso di rappresentare il Cristo incarnato e portare con ciò la
presenza del Redentore. Nelle altre chiese cristiane questa unità di
comando non esiste e neppure esiste nelle altre religioni monoteistiche:
nell'Islam e nell'ebraismo. Probabilmente questa duplicità del
cattolicesimo questa sua doppia anima riunificata in una persona è stato
uno degli elementi che ne ha esaltato la dinamica e la capacità di
comprendere e di aderire ai mutamenti della società. Per capire a fondo
le persone, individui e comunità, bisogna avere l'attitudine e
l'attrezzatura psicologica per commerciare anche con gli interessi oltre che
con i principi le convinzioni e i dogmi. La Chiesa cattolica è stata la
sola ad avere questa vocazione e i frutti positivi ne sono stati copiosi per
lei e per le popolazioni che ne hanno seguito il messaggio e gli incitamenti.
Ma non è certo un caso se in anni più recenti la sua influenza si
è ristretta nel mondo occidentale ed è diventata assai più
ampia in Africa e in America Latina. Questo movimento di sgonfiamento e
rigonfiamento ha proceduto di pari passo con la secolarizzazione della
società moderna l'affermarsi del concetto di laicità nelle
nazioni dell'Europa e del nord America. La vocazione missionaria nel senso
più ampio del termine della Chiesa cattolica ha finalmente sfondato in
quei paesi ancora immersi nella povertà e in mitologie tribali che la
Chiesa ha avuto la capacità di trasferire nel messaggio cristiano come
del resto già aveva fatto nel momento della evangelizzazione dei popoli
germanici alla caduta dell'Impero Romano. * * * * Il nemico è insomma il
relativismo, la rivendicazione dell'autonomia di ciascuno, la ricerca
sperimentale della verità che non esclude neppure l'inesistenza di
un'unica verità assoluta. E di conseguenza l'abbandono della
trascendenza, antico rifugio contro l'insicurezza del vivere e ultima istanza
del giudizio finale tra buoni e cattivi, tra bene e male. Il pensiero laico
è stato lungamente silente su questa diabolizzazione cui la
Chiesa l'ha sottoposto. Parlo del pensiero laico e non di quello anticlericale
che ne rappresenta una caricatura. Il pensiero laico non ha mai escluso (e come
potrebbe?) il mistero, l'Increato, la necessità di dare un senso al
nostro vivere. Si è sempre posto con estrema serietà i problemi
della vita e della morte. Non ha mai confuso il complesso delle sue idee e
delle sue convinzioni con la secolarizzazione consumista che è fenomeno
diverso e per molti aspetti deteriore. Per di più il pensiero laico,
anzi il mondo laico, non ha una struttura di potere, non ha associazioni
proprie che lo rappresentino, non parla "ex cathedra". Predica
libertà, democrazia, tolleranza. Perciò non ha alcuna responsabilità
nello scontro che si è determinato con la Chiesa se non per il fatto di
opporsi alle pretese ecclesiastiche di voler imporre ad una comunità
dove convivono pacificamente cattolici, laici e fedeli di altre
religioni, istituti che vietino l'esercizio e il riconoscimento dei diritti.
Diritti di minoranze, certo, e proprio per questo ancor più sacri e
degni di riconoscimento e tutela. Ieri si è svolta a Roma una
manifestazione in favore del progetto di legge sulle convivenze di fatto, sia
eterosessuali sia omosessuali sia affettive tra amici e parenti lontani. Come
tutte le proposte, anche queste possono essere migliorate ma non certo abolite.
Questa sarebbe infatti una prevaricazione contro una minoranza del tutto
inaccettabile per ogni democratico responsabile. Proprio per questo il
documento dei sessanta parlamentari cattolici della Margherita in difesa
della propria autonomia rispetto alle ingiunzioni dei Vescovi sul voto per le
convivenze di fatto ha rappresentato un evento positivo e ? senza esagerazione
? storico. Non accadeva da mezzo secolo che il laicato cattolico politicamente
impegnato prendesse una posizione di questo genere. L'episodio di De Gasperi,
quando bocciò la lista clerico-fascista nelle elezioni comunali di Roma,
proposta da Sturzo e caldeggiata da papa Pacelli, fu un atto di grande
importanza che aveva però come autore un presidente del Consiglio capo e
fondatore della Dc. Nel caso dei "sessanta" si è trattato di
deputati e senatori per lo più sconosciuti e tuttavia fieri dell'autonomia
del loro rango costituzionale e del loro impegno politico. Gli avversari dei
patti sulle convivenze di fatto cercano di dimostrare che quei diritti sono in
gran parte già riconosciuti dal codice civile e che quindi una legge in
proposito è del tutto inutile. Se la si vuole, la si vuole per dare
riconoscimento pubblico a quei diritti e a quelle coppie. L'obiezione è
in parte inesistente e in parte sbagliata. Inesistente perché la quasi
totalità dei diritti in questione deve essere affermata "erga
omnes" cioè nei confronti dei terzi, senza di che quel diritto
è di fatto inesistente. Sbagliata perché il riconoscimento pubblico di
una situazione è un atto fondamentale che attiene alla dignità
delle persone ed alla loro riconoscibilità. * * * * Qualche giorno fa si
è svolto nel salotto televisivo di Giuliano Ferrara un dibattito di
spessore su questo tema. L'ho seguito con interesse; ho apprezzato la prudenza
e anche il garbo con il quale ha sostenuto le ragioni della Chiesa il cardinale
Barragan, le efficaci stimolazioni del conduttore il quale, per antica
vocazione, vorrebbe che i suoi invitati preferiti facessero a pezzi gli
avversari e che il suo manicheismo fosse fatto proprio da tutti i partecipanti
non concependo lui, nella vita pubblica, altra modalità per regolare i
conti tra opposte convinzioni, interessi, poteri. Ma ho soprattutto apprezzato
l'intervento finale di Rosy Bindi, coautrice con il ministro Barbara
Pollastrini del disegno di legge sulle convivenze di fatto ormai da tempo
presentato in Parlamento. Sul tema specifico si era già detto tutto e
del resto esiste un testo legislativo che non abbisogna di ulteriori
spiegazioni. Di che cosa dunque doveva parlare la Bindi a chiusura di quel
dibattito? Ha parlato di cristianesimo. Ha detto tre cose che mi hanno molto
colpito e che voglio qui riportare con la massima chiarezza così come mi
sono arrivate. Vorrei che la religione si occupasse soprattutto di Dio e di
Cristo. Vorrei una Chiesa pastorale che non solo vivesse tra la gente ma tra i
diversi, tra quelli che non la pensano come noi, che noi consideriamo
peccatori, ma che sono pur sempre uomini e donne come noi. In loro dobbiamo
percepire esaltare aiutare la scintilla divina che anch'essi possiedono al pari
di noi. Che cos'altro il Cristo ci esorta a fare? Ma è questo che stiamo
facendo? Tanti uccelli si posano la notte sui rami degli alberi e ne ripartono
al mattino. A volte ritornano, altre volte non più. Ma l'albero che li
ha ospitati ha comunque dato e ricevuto da ciascuno di essi qualche cosa,
qualche insegnamento e comunque la presenza di una vita. Non so se questa
conclusione d'un dibattito che si annunciava ed è stato polemico
sia piaciuta al suo turgido conduttore. A me, laico non credente, è
piaciuta molto. A me piace la Chiesa di Francesco e anche quella di Agostino,
quella di Bernardo, quella di Duns Scoto. Mi piace quella di Pascal e quella di
Maritain. Mi piace quella del cardinale Martini. Mentirei se dicessi che mi
piace quella di Camillo Ruini. Politicamente sarebbe forse stato un papa
migliore di Ratzinger. Ma la Chiesa ha bisogno di un politico sulla sedia di
Pietro? Se è questo di cui ha bisogno, allora è perduta.
Torna a
farsi sentire anche dalle nostre parti un argomento (?) antico, con il quale
chi ha qualche annetto sulle spalle ha dovuto fare i conti già alcuni
secoli fa: ai tempi del divorzio prima e dell’aborto poi, per intenderci. Le
libertà, i diritti, la laicità della politica e dello Stato?
Tutte cose serie e importanti, ci mancherebbe, di cui bisognerà
occuparsi. Prima o poi. Ma meglio, molto meglio poi. Perché al momento le
priorità sono altre, ieri l’inflazione e il terrorismo interno, oggi le
pensioni, la riforma del mercato del lavoro, l’Afghanistan e via elencando. Per
affrontarle, e venirne a capo, c’è bisogno soprattutto di unità.
Tra le forze che hanno responsabilità di governo, si capisce, ma anche,
e forse soprattutto, nel Paese. Dunque, porre l’accento adesso sulle
libertà, sui diritti, sulla laicità della politica e dello Stato
sarebbe un errore gravissimo, forse addirittura una pazzia. Perché (si diceva
ieri) si turberebbero, e in nome di valori tutto sommato «borghesi», la «pace
religiosa degli italiani» e l’operosa serenità delle famiglie dei
lavoratori, che hanno a che fare con problemi tutto sommato ben più
seri. Perché, si dice oggi, si rischierebbe di mandare in pezzi quel po’ di
unità che il centrosinistra è riuscito nonostante tutto a
mantenere, e si innescherebbe una reazione del Vaticano, della chiesa e della
Cei di proporzioni incalcolabili e dagli esiti potenzialmente sconvolgenti,
della quale una manifestazione oceanica per il Family Day sarebbe solo
l’antipasto: il governo, varando il ddl sui Dico, ha fatto la sua parte, forse
persino in eccesso, ora occupiamoci d’altro.
Cosa accadrà dopo il cambio
al vertice della Conferenza episcopale
All'interno della storia della
chiesa e in rapporto alla società la funzione, il ruolo e il peso dei
vescovi è stato molto diverso. In origine questa figura aveva il compito
di curare i rapporti tra le varie comunità ed eleggere i nuovi vescovi;
elezione accettata e convalidata, in genere per acclamazione, dal popolo.
È una situazione che durerà parecchi secoli, durante i quali
assistiamo all'affermazione di un'autorità soprattutto spirituale. La prima
grande novità si verifica nell'età feudale. Moltissimi vescovi
diventano veri e propri signori feudali. Nascono figure impensabili prima. Il
vescovo-conte o il vescovo-principe esercitano non solo un potere spirituale ma
anche e soprattutto una signoria territoriale. Appartengono a una nuova
geografia sociale che travalica i compiti tradizionali della chiesa. La
conseguenza è che si diventa vescovo meno per vocazione e sempre
più spesso per interessi di famiglia o per ambizione politica personale.
Ancora fino a un secolo fa il vescovo di Trento era un principe dell'impero
austro-ungarico. La sua autorità più che dalla chiesa finiva con
l'essere legittimata dal sovrano. In nome di questa autorità
territoriale decine di vescovi, sparsi per l'Europa, avevano proprie milizie,
battevano moneta, ed erano autorizzati a imporre tasse. Il loro potere
temporale inglobava e nascondeva quello spirituale. Un tale rilievo sociale,
politico ed economico crebbe fino alla metà del Cinquecento, quando il
Concilio di Trento tentò di ridimensionare questo processo avanzato di
secolarizzazione. Già Lutero e i protestanti avevano denunciato una
situazione nella quale i vescovi non facevano più i vescovi ma i signori
temporali. Costoro spesso non vivevano neppure più nelle diocesi ma alla
corte del principe più importante, al quale esprimevano devozione e
fiducia e, in cambio della sottomissione, ricevevano la convalida del loro
potere. Il Concilio di Trento porrà le basi per eliminare tutto questo.
Ma occorrerà aspettare ancora due secoli perché di fatto la situazione
si risolva. Saranno gli stati nazionali a eliminare progressivamente questi
signorotti locali che ormai non sono più né laici né vescovi, ma un
ibrido giuridicamente preoccupante. Si tratta di un passaggio fondamentale per
ristabilire una figura di vescovo che avesse una fisionomia soprattutto
spirituale, oggi diremmo pastorale. Chi è dunque il vescovo oggi? Ecco
una domanda che richiede una considerazione allarmante. Ancora quarant'anni fa,
cioè all'epoca del Concilio Vaticano II, i vescovi erano circa duemila e
cinquecento. Oggi nel mondo sono più che raddoppiati. Alla crescita
numerica si è accompagnato mediamente un abbassamento della
qualità. Può non sorprendere. Lo scadimento intellettuale si
registra anche nella società. Ma le conseguenze nella chiesa sono di
aver favorito alcune personalità più forti. Da questo punto di
vista, la lunga e incontrastata presidenza di Camillo Ruini alla guida della
Cei - che ha ridotto la conferenza episcopale a una struttura monolitica -
è stata possibile sia per le sue spiccate doti politiche sia per la
scarsa personalità dei vescovi che hanno conformisticamente obbedito
alle sue scelte. Lamento, a voler essere più chiari, un'assenza di
dibattito reale che mi auguro il nuovo presidente della Cei Angelo Bagnasco,
sappia promuovere. C'è un paradosso che a questo punto, vorrei
segnalare. Quando fu firmato il nuovo concordato, quello per intenderci del
1984 con Craxi presidente del consiglio, si impose una novità: non era
più la segreteria di stato del Vaticano (il loro ministero degli esteri
per intenderci) a trattare con lo Stato italiano, ma la conferenza. Si disse
che scopo di questa novità era di ridurre il coinvolgimento politico
della chiesa. Si è visto che in questi anni è accaduto
esattamente l'opposto. Perché? A parte le considerazioni sullo "spirito
del tempo" credo che la forte personalità di Ruini abbia coinciso
con il rafforzamento economico della Cei. Pochi sanno che l'otto per mille - il
modo con cui lo Stato italiano finanzia lautamente la chiesa - è in
larga parte gestito dalla conferenza episcopale. La questione di quale rapporto
deve esserci tra potere spirituale e temporale è nuovamente sotto i
nostri occhi. La chiesa di questi anni sta ingigantendo i propri compiti
proiettandoli in modo arbitrario sulla società. Il rischio è di
sopraffare la società italiana e i cattolici che vi fanno parte.
Discutibile mi appare la tendenza che sia la Cei a dettare le norme ai
parlamentari cattolici. Quando De Gasperi ricevette da Pio XII l'ordine di fare
un governo con l'estrema destra egli rifiutò, restando naturalmente un
buon cattolico. Aveva chiara la distinzione tra quello che si deve a Cesare e
ciò che si deve a Dio e ai suoi rappresentanti. Si obietta che oggi,
più che in passato, i cattolici italiani sono sottoposti a un processo
di secolarizzazione molto intenso. è vero. Ma la chiesa può far
fronte a questa pressione sia con ordini inappellabili, sia cercando il
dialogo. Del resto non è la prima volta che la Chiesa abbia dovuto
misurarsi con fenomeni minacciosi che ha poi felicemente superato. Ritengo che
l'unità della chiesa sia un bene prezioso e innegabile. Ma non
c'è oggi il rischio di una spaccatura? Il pericolo più forte per
la chiesa quasi mai viene dall'esterno, più spesso è frutto di
tensioni intestine. Concludo con un pensiero che mi sta a cuore. In ogni grande
epoca storica i vescovi hanno avuto dei modelli. Cioè un punto di
riferimento esemplare. Nell'età antica fu Gregorio Magno, che poi
divenne papa, a svolgere questo ruolo edificante. Nel cinquecento lo stesso
compito lo assolverà il vescovo di Milano Carlo Borromeo. Ancora oggi in
certe chiese si possono ammirare le sue immagini. La considerazione un po'
triste è che attualmente i vescovi non hanno più un modello da
seguire. E neppure la pietà per Padre Pio può aiutarli a
guadagnare quello stile che si ispira ai valori cristiani. (Testo raccolto da
Antonio Gnoli).
ROMA. Subito alla Cei, nel palazzo di via Aurelia,
per presentarsi ai collaboratori e insediarsi ufficialmente. E poi la prima
intervista a Radio vaticana, per chiarire come intende la testimonianza
cristiana e il ruolo della Chiesa in Italia, con una novità lessicale: i
valori non negoziabili diventato "non valicabili". Così ha
impegnato la sua prima giornata romana e da presidente monsignor Angelo
Bagnasco, 64enne arcivescovo di Genova, nominato mercoledì dal Papa
guida dei vescovi italiani dopo i 16 anni della presidenza Ruini. Per i laici
impegnati nel sociale e nella politica, ha spiegato l'arcivescovo, "ci
sono dei punti, dei valori, delle colonne portanti della persona che
asseriscono alla persona umana, dei confini che non sono assolutamente
valicabili". "Perché - ha aggiunto - valicare certi confini, che sono
propri, che definiscono, che configurano la profondità dell'essere umano
e di tutto ciò che ne consegue, significa andare contro l'uomo e non
liberare l'uomo". Interpellato su come risolvere il problema della identità
cattolica sul fronte sociale, monsignor Bagnasco ha risposto che quando
"si è convinti delle proprie idee di fede e, comunque, di
ragione" ci si pone rispetto anche alle diversità "con un
atteggiamento non aggressivo, ma sereno e di confronto. Detto questo, come
premessa generale, come approccio e come metodo, - ha aggiunto - dobbiamo
veramente scoprire e riscoprire e consolidare quello che si ha. Non è
che nascondendo o avendo una percezione debole di ciò che siamo,
possiamo essere più dialoganti e propositivi verso tutti. Semmai
è il contrario".
M
diritto di farlo!») e lo strumento
ne esce come protagonista assoluto, ammantato d'un fascino gotico tipo garrota
o vergine di ferro e in più garantito dal successo planetario del Codice
da Vinci. Tutti pensano al «monaco» Silas dell'Opus Dei, tutto assassinii e
penitenze, e pazienza se nell'Opera i monaci manco esistono. A quelli dell'Opus
è toccato ripeterlo per l'ennesima volta, «il cilicio è nominato
nella Bibbia, non è una nostra invenzione, san Josemaría ne sconsigliava
l'uso alla maggior parte dei fedeli...». Anche le accuse di «imporlo» per due
ore al giorno sono storia vecchia, smentita, rilanciata eccetera. Resta il
fatto che a quanto pare circoli ancora l'evoluzione di quel panno ruvido
intessuto (nella regione della Cilicia, appunto) di peli di capra: lo
indossavano i soldati romani e si dice che i primi anacoreti cristiani, come
penitenza, usassero portarlo sulla pelle nuda. Poi sono arrivate le versioni in
metallo, i ganci.
E non è che facesse
furore tra pazzi fanatici e ignoranti: lo usavano Dottori della Chiesa come la
mistica trecentesca Santa Caterina da Siena, un genio dell'umanesimo come
Tommaso Moro, in tempi più recenti pure il coltissimo Paolo VI. E
allora? Messori, lo scrittore cattolico più letto al mondo, autore di
best-seller planetari sia con Wojtyla sia con Ratzinger, confessa: «Io sono un
pigro, doppiamente scomunicato dal politicamente corretto perché fumatore e
leggermente obeso, e le poche volte che m'è capitato di vedere una
palestra ho provato una sensazione di raccapriccio, il fitness!, mi parevano
strumenti di tortura... Non solo sudavano ma manifestamente soffrivano. E i
cicloturisti? E quelli che fanno roccia? E le diete? E la chirurgia estetica?».
Insomma, «il mondo è pieno di gente che, grazie a Dio, sceglie
liberamente il suo tipo di sofferenza, solo che questa è elogiata ed
elegante. Immagino che almeno il cilicio sia più economico che rifarsi
il naso».
Sì, ma che senso ha? «Il senso è comprensibile solo in una prospettiva
di fede. Non mi accodo alle crociate dei cattolici su matrimonio o eutanasia
perché finisce sempre che facciamo la parte dei rompiscatole, dall'esterno
sembrano aberranti». Il cilicio riguarda l'ascesi, «cioè la salita spirituale,
l'invito a partecipare in qualche modo alla Passione di Cristo» e del resto «la
Chiesa invita all'equilibrio, nelle penitenze, il limite è non
danneggiare mai la propria salute». Senza contare che il penitente «non
danneggia nessuno. Io non ho mai chiesto a nessuno se lo portava perché tanto
non me l'avrebbe detto. Come dice Gesù: fai penitenza nel chiuso della
tua stanza. Li lascino in pace...». Non è l'unico a pensarla
così. «Piuttosto è strano che i cristiani non lo pratichino
più, o che si faccia così poco il digiuno», osserva Antonio
Socci. Altro che scandali: «È come dicevano Del Noce e Don Giussani: la
cultura contemporanea è sleale verso il cristianesimo perché se ne
costruisce una caricatura e fa i conti con essa. A Medjugorje e Fatima la Madonna
ha chiesto rosario, digiuno e penitenza. E qui non c'è ricerca del
dolore: se tuo figlio o un amico avesse bisogno, non andresti a donare il
sangue? Non ti alzeresti nel cuore della notte? Ogni sacrificio è sempre
un gesto d'amore anche se al di fuori può apparire folle, la follia di
un Dio che per salvarci si è fatto flagellare, sputare e crocifiggere
anziché usare il potere».
Del resto, fa notare il poeta Davide Rondoni, «il sacrifico crea sempre
scandalo, anche quello di Padre Kolbe o di Salvo D'Acquisto, se non si
capisce di fronte a che cosa e per che cosa è fatto. In un'epoca nella
quale Dio è ritenuto assente è ovvio che sia difficile capire. A
me il cilicio fa l'effetto di qualcosa da trattare con grande rispetto, sono
scelte personali non banali. Sono molto più preoccupato dei tanti cilici
obbligatori che ci vengono fatti indossare, mente e corpo, dalla società
in cui viviamo: almeno la pratica ascetica può piacere a Dio, questi al
massimo possono essere graditi al capufficio». Don Gianni Baget Bozzo è
lapidario: «Cristo ha salvato il mondo non con le parole, ma con il suo
sangue». Però non crede sia ancora diffuso, «accadeva un tempo, ma il
mondo post- cristiano, e anche un po' noi credenti, ha dimenticato che la
sofferenza ha un senso: il male non è il male, il male è il
dolore fisico». Eppure Luigi Amicone, direttore di Tempi, un dubbio lo ha:
«Personalmente sono intemperante e non autoflagellante. Non mi sono avvicinato
al cristianesimo pensando al sacrificio. Forse il cilicio appartiene a un'epoca
perfetta come il Medioevo, a quell'equilibrio tra uomo, mondo e Dio cui non
mancava alcuna sfumatura, neanche il mistero, la grande mistica... Nella nostra
età imperfetta tocca a tutti noi, poveri cristi, risalire la china: il
cilicio lo abbiamo già, è la nostra vita quotidiana».
Gian
Guido Vecchi
08
marzo 2007
"Meglio criticati che
irrilevanti": rimarrà di sicuro racchiuso in queste parole il senso
profondo della presidenza della Cei tenuta per 15 anni dal cardinale Camillo
Ruini. Parole che hanno voluto dire innanzi tutto la consapevolezza di
rappresentare un'identità - quella cristiano-cattolica - posta dai tempi
nella condizione di una difficile identità di frontiera; e poi, ancora,
l'impegno a proporre in modo reciso, senza la vaghezza di tanta prosa o oratoria
clericali, un punto di vista forte sul Paese e sul mondo; e che hanno voluto
dire infine non esitare a differenziarsi dall'opinione dominante sia tra i
laici sia tra quegli intellettuali cattolici accreditati solo perché
immancabilmente pronti a seguire nella sostanza i dettami dei primi. È
accaduto così che la Chiesa di Roma abbia acquistato di nuovo, sulla
scena pubblica italiana, un rilievo di cui certamente nessuno più la
riteneva capace. Incontrandosi con la politica e spesso rischiando
inevitabilmente di mischiarsi con essa, come tanti critici hanno rimproverato a
Ruini? Certamente sì! Ma quale altro è mai stato, da sempre, il
destino della cristianità, nata al mondo dovendosela vedere con
quell'amalgama supremo di statualità e di politica che fu l'impero dei
Cesari? E cos'altro facevano se non anche politica (ma "anche": non
cercavano certo un posto di ministro o qualche prebenda) Ambrogio quando
metteva sotto accusa Teodosio, o Agostino quando cercava di attutire la
reazione pagana spiegando l'inevitabilità della caduta di Roma sotto
l'impeto di Alarico, o Caterina quando richiamava il Papa da Avignone?
"Chi pensa che la religione non debba avere nulla a che fare con la
politica non ha capito nulla né della religione né della politica", ha
detto una volta Gandhi: e sapeva quel che diceva. Ma solo il più
radicale pregiudizio può condurre a negare che dietro l'impegno di
Camillo Ruini ci sia stata, sì, una preoccupazione di ordine politico,
ma ben oltre, e soprattutto ben al di sopra, una sollecitazione religiosa e
specialmente di ordine culturale, naturalmente declinata secondo la prospettiva
cattolica. Ruini giunse alla presidenza della Cei nel 1993, nel momento della
fine della Dc ma, ben più importante, nel momento in cui, crollato il
muro di Berlino, la sinistra italiana e lo schieramento progressista stavano
dando l'addio al marxismo e al suo mito classista per convertirsi
repentinamente a un individualismo libertario sempre più volto a modelli
di vita fruitori e a orizzonti ideologici dominati dalla ragione strumentale
dello scientismo. Egli capì che rispetto alla conciliazione con la
modernità ideologico-politica avviata dal Vaticano II si apriva
così una pagina del tutto nuova, perché del tutto nuova era la inedita e
incipiente modernità dell'obliterazione e della manipolazione della
natura. Capì, ancora, che questo dato segnava il passaggio a un universo
non più anticristiano, come era stato per tanta parte l'8-900, ma
radicalmente postcristiano: minacciosissimo non solo per la Chiesa ma per
l'intera dimensione umanistica della tradizione culturale occidentale. La
quale, come nei secoli più bui, forse ancora una volta alla Chiesa di
Roma sarebbe tornata a guardare. E proprio questo è ciò che sta
accadendo, mentre Camillo Ruini lascia la sua carica, consapevole di aver
combattuto "la buona battaglia".
"Per le coppie di fatto non
c'è necessità di una nuova figura giuridica che ferisce la
famiglia, basta la via del diritto privato" 08/03/2007 Genova. Non
è solo convergenza di contenuti con Ruini, ma anche di metodo: la
determinazione a stare sulla scena pubblica nonostante le contestazioni - quel
"meglio contestati che irrilevanti" espresso da Ruini - è
ispirata e condivisa da Papa Ratzinger, come lo era da Giovanni Paolo II. E
Bagnasco non ha intenzione di tirarsi indietro. Lo ha dimostrato con le prese
di posizione nelle ultime settimane: il no del neopresidente della Cei al
disegno di legge governativo è altrettanto netto di quello del suo
predecessore Camillo Ruini. "Se l'esigenza è di assicurare
determinati bisogni o desideri all'interno di una coppia di fatto - ha detto
Bagnasco - sappiamo bene che la via del diritto privato già consente
queste garanzie. Quindi, pur con alcuni aggiustamenti possibili del diritto
privato, non si vede oggettivamente la necessità di costituire una nuova
figura giuridica che veramente è una ferita grave all'istituto
familiare". E sull'importanza di sostenere un'identità cattolica:
"Ai cattolici non basta essere presenti e dire semplicemente che ci sono.
Devono dimostrare tutta la forza della loro identità con grande
serenità". E poi: "È chiaro che i cattolici devono
difendere la famiglia e che la Chiesa cattolica deve richiamarli a questo
compito. Non si vogliono fare guerre sante". "Cercano spesso di farci
passare per degli intolleranti ma non è così, il problema
è quello dell'identità culturale in Europa, in Italia come in
Francia. In Europa siamo il cuore del mondo, ma fatichiamo a definire la nostra
identità a fronte delle altre culture religiose e laiche che si
impongono al mondo moderno". Ma l'arrivo alla guida della Cei di Bagnasco,
comunque esponente di una Chiesa locale come è quella genovese,
rappresenta un ridimensionamento della struttura più collegiale della
Chiesa italiana, per privilegiare invece il centralismo romano? Ieri ha
risposto indirettamente, a distanza, Papa Benedetto XVI nell'udienza generale,
quando ha ammonito i cattolici a non considerare la Chiesa un "luogo di
anarchia o di confusione" ma nemmeno una "struttura politica".
"La Chiesa - ha spiegato il papa teologo, a circa 16 mila pellegrini che
lo ascoltavano nell'Aula Paolo VI in Vaticano - ha una struttura sacramentale,
dove l'azione liturgica precede le nostre decisioni e le nostre idee". La
Chiesa, ha detto ancora, è una "creatura di Dio, non creatura
nostra". 08/03/2007.
La biografia di Monsignor Bagnasco
è ricca di spunti.
ROMA
Chi è mons. Angelo Bagnasco, il nuovo presidente della Cei, ai vertici
della Chiesa italiana, che assume la gravosa eredità lasciata dal
Cardinale Camillo Ruini. Non è uomo di copertina, neppure nel mondo
cattolico. L’opinione pubblica ricorda le sue sofferte e toccanti omelie ai
funerali dei militari morti in Iraq come ordinario militare, o qualche
intervento nelle vesti di Vescovo di Pesaro, suo prima sede episcopale e poi la
nomina nell’agosto scorso ad Arcivescovo di Genova. C’è un don Angelo
giovane, la cui biografia nascosta e pubblicamente anonima, è ricca di
spunti interessanti di una personalità diversa e nuova del mondo cattolico
italiano.
Don Angelo è un prete schivo e umile, animato da una fede e intensamente
vissuta, un maestro per molti giovani che ha conosciuto e ai quali ha trasmesso
negli anni della formazione, i suoi insegnamenti e la sua amicizia. E’ nato a
Pontevico il 14 gennaio 1943 ma solo per caso. La famiglia era sfollata nel
bresciano. Dunque è genovese doc, come papà Alfredo, che lavorava
in una fabbrica di pasticceria e mamma Rosa e la sorella maggiore, Anna. Ligure
nell’animo e nella discrezione, ma non nel mugugno. Mai una parola fuori posto,
una polemica. Il giovane Angelo cresce nella città della Lanterna, abita
nel centro storico, nei carruggi della città portuale, dove la devozione
religiosa si scontra con le miserie della strada: matura la sua giovanissima
vocazione sotto il campanile di S. Maria delle Grazie a due passi dal mare. Il
giovane Angelo frequenta il ginnasio ed il liceo classico presso il seminario
arcivescovile di Genova e il 29 giugno 1966 è ordinato sacerdote.
Prosegue gli studi di teologia, ma è mandato vicario parrocchiale dal
1966 al 1985 nella Parrocchia di S. Pietro e S. Teresa del Bambino Gesù
in Genova.
Quartiere di Albaro, la zona ricca della borghesia genovese. Dal 1986 al 1995
è aiuto pastorale con compiti diocesani, ma lega soprattutto con i
giovani, senza dimenticare le sue umili origini. In Albaro diventa assistente
ecclesiastico del gruppo scout dell’Agesci Ge 10 e inizia un rapporto intenso e
fecondo di educazione e formazione di tante generazioni di giovani del
quartiere, in un’associazione di frontiera come sono gli scout, gruppo
eterogeneo e complesso, dal quale transitano i figli dalla alta borghesia e
alla classe operai. Intanto, incoraggiato dal cardinale arcivescovo Giuseppe
Siri, che di lui ha una grande ammirazione, ricambiata, frequenta
l’università statale, incontrando il mondo dell’accademia laica e
turbolenta negli anni Settanta.
Frequenta il corso di teoretica dell’insigne filosofo Alberto Caracciolo dove
può mettere a confronto la teologia tomista con le ideologie marxiste e
laiche. In particolare si specializza sul materialismo storico di Feuerbach. Si
laurea in Filosofia a pieni voti. Dal 1980 al 1998 è docente di
metafisica e ateismo contemporaneo presso la facoltà teologica
dell'Italia Settentrionale, sezione di Genova: singolare abbinamento che gli
permette di affrontare in seminario e all’Istituto Superiore di Scienze
Religiose due materie apodittiche e opposte tra loro. Incontro don Angelo nei
primi anni Ottanta negli scout e gli divento, insieme ad altre decine di
ragazzi liceali, amico e allievo. L’esperienza degli scout, tra avventura,
servizio, volontariato e strada, intesa come fatica dell’ascesa e voglia di
confrontarsi con se stessi e con gli altri e l’orizzonte sul quale si
costruiscono comunità e prove di dialogo con il mondo, è una
rivelazione per noi, ma anche per don Angelo. Di lui ci colpì la
coerenza e la spiritualità, sempre profonda e vissuta con
un’intensità che attira. L’intransigenza e la radicalità cristiana
per don Angelo non sono un modo di esprimere o imporre la propria fede agli
altri, ma è segno di contraddizione con il mondo e capacità di
vedere dentro e oltre la realtà. Un cristianesimo non tradizionalista e
intransigente, ma autentico e radicale, un legame forte al messaggio evangelico
attraverso la liturgia, la preghiera e l’esegesi biblica.
I momenti che toccano e restano di più sono quelli di raccoglimento e
preghiera: in un fuoco di bivacco e in una veglia. Don Angelo sembra astrarsi,
raccogliere su di sé il bene e le sofferenze del mondo: una testimonianza
ascetica e quasi monastica, senza mai essere ossessivo e carismatico, che tanto
colpisce l’immaginario dei giovani. Adorazione eucaristica, Lectio divina, la
celebrazione della messa i punti cardini del suo insegnamento. Lo studio e il
confronto con la Parola, fonte primaria di ispirazione nella vita quotidiana,
insieme a tanta mistica e spiritualità: S. Teresa del Bambino
Gesù, San Benedetto, S. Agostino, ma anche “L’imitazione di Cristo” di
Thomas Kempis o l’esempio del giovane laico Pier Giorgio Frassati. E qui sta la
novità e la discontinuità di don Angelo Bagnasco con il passato,
una personalità diversa e nuova nel panorama ecclesiale italiano.
Capacità di ascolto e dialogo, sincero e convinto, unito a fermezza
nella dottrina e all’obbedienza alla gerarchia, ereditata dalla scuola del
cardinale Siri; ma anche una sete di Assoluto molto intensa, oltre le cose del
mondo. Una volontà di guardare oltre per andare alla radice delle fede,
per sondare il mistero della vita e della morte alla luce di Gesù
Cristo. Un ritorno ai “novissimi” ad una scelta religiosa prima ancora che
culturale, un tentativo di rifondazione antropologica cristiana in un mondo
plurale, nel quale la convivenza è possibile solo se si è credibili
nella propria identità. Ciò che colpì la generazione dei
suoi ragazzi scout fu lo spirito di servizio e la capacità di
trasmettere gioia nel rapporto umano. Poi nel 1980 il passaggio all’assistenza
alla Fuci, guardato con qualche sospetto, all’inizio del suo mandato. Il fatto
di essere stato chiamato a seguire, le avanguardie del progressismo cattolico,
secondo una superficiale pubblicistica intorno agli universitari cattolici,
è un fatto importante. Don Bagnasco diventata assistente della Fuci che
fu di Don Franco Costa, l’uomo della scelta religiosa dell’Azione Cattolica
insieme a Vittorio Bachelet e di don Emilio Guano, vescovo di Livorno ed
esponente dell’apertura conciliare ed ecumenica. Ma è il Cardinale Siri
a volere sperimentare nel mondo della cultura le capacità di meditazione
e di fermezza di Don Angelo e la stagione fucina, grazie al nuovo assistente
rifiorisce. Dal 1980 al 1996 è un susseguirsi di iniziative: campi
scuola, incontri nazionali, congressi, settimane in cui decine di giovani si ritrovano
le loro angosce e le loro speranze. Don Angelo ascolta, coltiva un livello di
fraternità molto profondo, che è accompagnato dalla direzione
spirituale individuale.
A volte le posizioni dei giovani universitari non collimano con quelle
dell’assistente, ma la discussione è il confronto sono sempre al centro
della parte formativa spirituale e culturale del gruppo. E’ la Fuci nazionale
di Giorgio Tonini, Stefano Ceccanti, Giovanni Gazzetta e Salvatore Vassallo,
nomi che ritornano oggi nella discussione politica sui temi caldi dell’etica e
della riforme istituzionali ed elettorali, nel bipolarismo e il ruolo dei
cattolici. Con la presidenza nazionale c’è ascolto ma anche divergenze,
ma sempre dialogo. L’autonomia dei laici la loro formazione di cristiani adulti
e corresponsabili è uno dei cardini della visione di mons. Bagnasco. La
sintesi è sempre religiosa e spirituale, mai politica o solamente
culturale. Parlare più di Dio e del vangelo, piuttosto che di procedure
legislative. Ritrovare il senso più profondo e ultimo ed essenziale del
massaggio evangelico che è una Persona prima che regole e precetti, i
quali sono fondamentali nella misura in cui rispondono alla fonte di amore del
Padre. “Ama e fa ciò che vuoi”, di S. Agostino, è una massima
cara a Don Bagnasco. Nel rigore dell’obbedienza e alimentandosi alla tradizione
e alla dottrina sociale della Chiesa, il nuovo presidente della CEI, ma anche
Arcivescovo di Genova come il suo maestro Siri, ma anche Poma e Ballestrero,
non è un intransigente ma neppure un progressista, non ha un movimento
di riferimento, ma crede nella forza della Chiesa, partendo dalla
corresponsabilità dei laici credenti. Non ama troppo la politica e
soprattutto i giochi di potere, non cerca l’apparire, ma pensa da sempre alla
sostanza delle cose, ai principi e ai valori che derivano dalla fede. Al centro
è l’uomo, uno sguardo lungo, oltre l’effimero e il quotidiano, ben
radicato nella sapienza e nella speranza, che per i cristiani sono nel mondo,
ma ad esso non appartengono totalmente.
Così cade il diritto
"Assistiamo al riconoscimento di libertà individuali talvolta
aberranti, dove il singolo fagocita ciò che gli sta intorno, senza vere
relazioni con gli altri. Chi difende questa situazione ha un'idea miope di
laicità"
Oggi sembra che tutto sia diventato un
diritto. Messi in cassaforte - almeno nel nostro Occidente - quelli umani
fondamentali, da tempo si alzano voci che reclamano altrettanta tutela
giuridica per sedicenti "diritti" negati: il "diritto" ad
avere figli, per esempio, o a disporre della propria morte, o a
"sposarsi" dentro e fuori alla famiglia... La parola "diritto"
è oggetto allora di una trasformazione. "E non certo in senso
positivo", osserva il giurista Paolo Grossi, che nei giorni scorsi ha
ricevuto la laurea honoris causa in Giurisprudenza dall'Università
Cattolica di Piacenza. Che cosa c'è alla radice di questa trasformazione
dei "diritti", professor Grossi? "Tutto sta nel come si è
venuto a costruire durante la modernità il soggetto. Certo, una della
conquiste degli ultimi secoli è avere districato il singolo dai vincoli
di ceto e di casta, attraverso diritti che sono tuttora essenziali: il diritto
di libertà di pensiero, di professione religiosa, di circolazione, di
riunione. Ma questo passo avanti è stato condito da un certo parossismo
soggettivistico: il soggetto è stato separato completamente dalla società
e si è pensato solo a un individuo autoreferenziale, assolutista,
egoista. Il risultato è la moltiplicazione dei "diritti",
anche di quelli più aberranti sul piano sociale. Quello che dobbiamo
combattere non è, naturalmente, la liberazione del soggetto, così
come è avvenuta nel Seicento e nel Settecento, ma la strada che ha
portato a questa liberazione: il fare dell'individuo un soggetto insaziabile,
che fagocita chi gli sta intorno. Questo individuo non è persona, perché
non è un soggetto relazionale. Io sono persona nel momento in cui la mia
individualità si mette in tensione con l'altro che mi sta accanto,
cioè quando io concepisco il mio essere soggetto all'insegna di un'etica
della responsabilità, in cui devo tenere conto anche degli altri".
Come tracciare un confine tra diritti leciti e diritti egoistici? "Nei
rapporti tra credenti il problema non si pone nemmeno. Ma anche su un piano di
laicità io credo fermamente nella ragione profonda del diritto naturale.
C'è un'esigenza di diritto naturale, cioè di un diritto che
è scritto nel cuore degli uomini - sarà Dio che ce l'ha scritto,
sarà la coscienza di un minimo etico che ognuno di noi ha -, sulla quale
si può costruire una tavola di valori condivisa. Soltanto nel momento in
cui io divento persona - e divento persona solo quando mi metto in relazione
con gli altri - posso costruire qualcosa. Il soggetto ha dei diritti, ma anche
dei doveri; solo se al diritto aggiungo il dovere, allora contemplo l'altro.
Questa è un'ottica puramente laica: la nozione di diritto naturale
è preziosa, ed è aconfessionale". Eppure spesso da parte
laica la si "squalifica" bollandola come esclusivamente cattolica?
"Ma questa è una visione da laici miopi, che non vedono come nel fondo
di ogni uomo, credente o no, ci sia un minimo etico invalicabile. Noi siamo
ancora malati di individualismo". Una malattia che si riflette nelle
costruzioni giuridiche dell'Europa attuale? "Sì: prendiamo la
Costituzione europea, la Carta di Nizza: è un catalogo come quelli che
si facevano nel tardo Settecento, che allineavano una serie di posizioni
soggettive. Ma, quando abbiamo enunciato a favore del soggetto una serie di
diritti, dobbiamo andare oltre. Dobbiamo vedere l'io sociale, all'interno delle
formazioni civili: perché sono queste che impediscono la massificazione. La
Carta di Nizza pecca ancora di eccessivo individualismo, ultimo anello di una
catena che risale al 1789. Oggi ci si sarebbe potuto aspettare qualcosa di
più". Invece la tendenza sembra essere quella dell'accentuazione
diritti egoistici? "Di quelli svincolati da una proiezione sociale.
Prendiamo per esempio tutto il dibattito in corso oggi in merito alle coppie di
fatto. È soltanto un guardare alle posizioni egoistiche di tizio o di
caio, senza considerare minimamente quello che è il bene comune. Ma non
occorre essere credenti per dire che lo Stato deve preoccuparsi soltanto della
famiglia monogamica: perché quella è la cellula della società
civile. Poi, tutt'altro discorso è come io gestisco il mio privato: ma
quello resta privato. Lo Stato deve occuparsi soltanto della cellula portante
della società. E qui tutti - cattolici, buddisti, atei, agnostici... -
credo che debbano essere d'accordo. Anche se non lo sono, perché quello che si
porta avanti programmaticamente sono solo le bandiere del più bieco
individualismo".
ROMA - Nella storia politica
italiana, fitta di rivoluzionari mancati, al momento dell'addio Camillo Ruini
(Sassuolo, 1931) imprime il segno di una rivoluzione riuscita. Che l'ha portato
a rafforzare l'influenza dei cattolici nonostante la morte della Dc. L'ha
portato a riprendere l'offensiva dei valori nonostante la secolarizzazione del
Paese, a imporre nell'agenda del confronto parlamentare e intellettuale i temi
della vita e della bioetica, a stravincere un referendum trent'anni dopo la
disastrosa sconfitta del divorzio, a innovare la linea sulla missione in Iraq
nell'ora più drammatica; in una parola, a ripristinare la coscienza identitaria
della Chiesa italiana, e modificarne profondamente - nel bene o nel male, a
seconda dei punti di vista - il rapporto con lo Stato e la società.
Nessuno dei suoi predecessori era stato tanto amato e criticato, blandito e
temuto, al punto da diventare un personaggio centrale della politica,
guadagnarsi in conclave il ruolo di grande elettore di Ratzinger, respingere
numerose richieste di incontro da parte di segretari di partito (cui preferiva
mandare appunto il segretario della Cei Betori), ispirare l'invettiva di una
brava attrice di Rai3 ( Eminenz! ), portare in Senato una scienziata dell'Opus
Dei affezionata alle mortificazioni, essere visto ora come un baluardo ora come
un bersaglio come ha spiegato lui stesso domenica scorsa al Corriere :
"Meglio criticati che irrilevanti". Una missione condotta con uno
stile molto personale: schivo ma costretto a un ruolo pubblico, taciturno ma
deciso a non lasciarsi mai zittire, Ruini non ha ceduto alla tentazione della
vanità e alla scorciatoia della vetrina televisiva. Pur avendo a
disposizione una Rai non certo ostile, ha scelto per la sua battaglia culturale
gli strumenti più tradizionali del libro, delle riviste, dei giornali.
Di qui, ad esempio, la scelta di rilanciare Avvenire, affidato al pupillo Dino
Boffo, e di farne una postazione avanzata di intervento anche polemico. Assunta
la guida dei vescovi italiani nel 1991, alla vigilia della bufera, Ruini vide
nella rottura dell'unità politica dei cattolici non un guaio ma
un'opportunità. Considerò il crollo del partito, che secondo un
esponente non secondario come Cossiga era stato fondato e diretto dal Vaticano,
non come la fine del rapporto tra la Chiesa e la politica ma come l'alba di una
fase nuova, in cui i vescovi, scavalcata la mediazione Dc, avrebbero potuto
allargare la loro influenza all'intero sistema. Non a caso, i referenti del suo
disegno non sono stati tanto ex democristiani quanto insospettabili come l'ex
radicale Rutelli o l'ex anticlericale Pera. Ruini ha cercato il dialogo con
intellettuali critici, come quando scrisse un libro con Magris, Scalfari e
Vattimo ( Le ragioni della fede ) e discusse a distanza con "i tre
Alberti" come li definì Avvenire (Ronchey, Asor Rosa e Arbasino).
Ha avuto rapporti migliori con l'azionista Ciampi che con il democristianissimo
Scalfaro. E ha trovato corrispondenze non scontate con il pensiero di Giuliano
Ferrara ed Ernesto Galli della Loggia, e in genere dei laici preoccupati dalla
debolezza identitaria dell'Occidente nel confronto con l'Islam. Sul piano
politico, la "dottrina Ruini" ha portato al gelo tra la Chiesa e la
sinistra, compresa quella cattolica; simboleggiato dalla rottura con Romano
Prodi, che da Ruini fu unito in matrimonio con Flavia Franzoni, ma che da Ruini
si divise quando annunciò che da "cattolico adulto" non
avrebbe disertato il referendum sulla fecondazione assistita. Un gelo che non
ha mai indotto il capo dei vescovi ad appoggiare apertamente la destra,
accusata da sinistra di guardare alla Chiesa strumentalmente, alla ricerca di
sostegno elettorale e di un nucleo di valori in grado di surrogare il proprio
deficit culturale. Che questo fosse l'esito della stagione di Ruini era scritto
nella sua formazione; e non perché fin da quando era un giovane sacerdote - fu
ordinato a 23 anni - lo chiamavano "don Camillo". Negli anni in cui
alla Gregoriana, dove si è laureato, si mandavano a memoria Maritain e
Mounier, lui meditava i tedeschi, in particolare Rahner (di cui darà poi
un'interpretazione critica), che gli forniranno gli strumenti per l'intesa dottrinaria
con Ratzinger. Ruini ha studiato Heidegger, Kant, Husserl. Ha dedicato una
parrocchia romana a Escrivà de Balaguer fondatore dell'Opus Dei prima
ancora che fosse proclamato santo. Ha definito Dossetti "portatore di una
visione catastrofale dell'Occidente" e ha amato Tocqueville, in
particolare là dove invita la religione a non schierarsi mai con un
partito o un regime; "perché allora essa aumenta il suo potere su alcuni
uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti". I suoi alleati naturali
in questi anni sono stati i teologi e i moralisti educati al rigore wojtyliano,
che non a caso Giovanni Paolo II d'intesa con Ruini volle in diocesi importanti
o posti-chiave: Scola a Venezia, Caffarra a Bologna, Fisichella alla
Lateranense. Mentre interlocutori soggetti alla sua primazia, e però mai
del tutto conquistati alla sua dottrina, sono stati i tanti vescovi di
provincia che non avevano rinunciato alle suggestioni postconciliari e a
un'allure progressista. Proprio alla Chiesa del post-Concilio Ruini ha impresso
la sua svolta: basta nascondersi nel mare magno della società
secolarizzata, mimetizzare le chiese tra le case, difendere il ridotto del
cattolicesimo dall'invasione laicista; anzi passare al contrattacco, uscire
allo scoperto, riprendere coscienza che se i cattolici praticanti sono in
effetti in minoranza i loro valori possono tornare a essere patrimonio della
maggioranza. Una sorta di riconquista, un Kulturkampf capovolto. Cominciato
quando, nell'aprile 1985, da vicepresidente del convegno di Loreto Ruini si
segnalò presso Wojtyla. E condotto con gli strumenti del mondo, a
cominciare dall'8 per mille ("quando nell'86 arrivai alla Cei da
segretario avevamo a malapena i soldi per pagare quattro impiegati", ha
ricordato), ma soprattutto scegliendo un nuovo campo di battaglia: la bioetica,
il rapporto tra scienza e fede, i limiti da porre alla ricerca, al progresso
tecnologico, alla capacità teoricamente illimitata di sostituirsi al
creatore e intervenire sull'uomo sino a programmarne nascita e codice genetico
e quindi farne cosa diversa da sé. Non gli interessava rendere testimonianza,
ma intervenire nell'agone con efficacia. Per farlo non ha esitato a inoltrarsi
nelle tecnicalità della politica; come quando invitò ad astenersi
al referendum del 2005, suscitando la denuncia penale del ginecologo Antinori,
la perplessità di Andreotti, la polemica dei referendari. Poi la
denuncia è stata archiviata, Andreotti si è inchinato, e i
referendari ne sono usciti nettamente sconfitti: il 75% degli italiani non votò.
Altrettanto coraggio Ruini aveva dimostrato due anni prima, nel novembre 2003.
La sua omelia a San Paolo fuori le Mura, davanti alle bare dei caduti di
Nassiriya, non puntava a suscitare commozione, ma a innovare la linea della
Chiesa, a sostegno della missione italiana in Iraq e della guerra al terrore
("Noi non fuggiremo davanti ai terroristi; li fronteggeremo, ma non li
odieremo..."); e non è un caso che ora sia chiamato a succedergli
Angelo Bagnasco, già ordinario militare per l'Italia. Un'omelia porta
con il caratteristico tono di voce, dolce ma fermo, e con l'eloquio consueto in
cui la geometria prevale sul pathos, che fece dire a Giorgio Rumi: "Ruini
è emiliano ma ragiona come un cardinale tedesco". Lo stesso tono e
lo stesso rigore geometrico con cui motivò il rifiuto ai funerali per
Welby, e nel contempo ammise la propria sofferenza; Ruini del resto è
uomo asciutto, e non solo nel fisico; e forse è quello il suo modo di
provare pietà. I cattolici italiani l'hanno compreso. Basta seguire
Ruini nelle sue visite alle parrocchie di Roma (anche nelle borgate rosse,
anche nelle comunità come quella di Sant'Agnese legata alla liturgia
delle chitarre e dei battimani ma che qualche domenica fa è rimasta due
ore a tributargli un'accoglienza e un'attenzione impressionanti), per
verificare come accanto alla sua popolarità sia cresciuto l'orgoglio
identitario del suo popolo. La forza asciutta che ha deluso molti laici ed
è forse spiaciuta anche a qualche cattolico ha finito, nel tempo, con
l'alimentarne il carisma, e ha contribuito a scriverne il ruolo nella storia
recente d'Italia, che ora prosegue come vicario di Roma. E quando si
sarà sopito il clamore del mondo - la polemica quotidiana, le richieste
d'udienza dei segretari di partito, l'urlo della Littizzetto, il cilicio della
Binetti -, anche la politica saprà fare, nel tempo, quello che alla
Chiesa riesce più facile, fermarsi a meditare, individuare gerarchie di
valori, restituire le cose alla loro dimensione; e allora si comprenderà
appieno che all'inizio della primavera del 2007 si è consumato l'addio
di un grande. Aldo Cazzullo.
Monsignor Sgreccia: coppie gay contro
natura. I Dl: serve una «pausa»
ROMA — È il giorno dei
Dico. La commissione Giustizia del Senato accende i riflettori sul ddl, tra le
polemiche e 10 testi da esaminare. I cattolici si mobilitano. Monsignor Elio
Sgreccia, presidente della pontificia Accademia per la vita, li invita a «fare
di tutto» perché provvedimenti come questo «non passino». Sfidando le accuse di
«oscurantismo» venute, anche ieri, dalla Rosa nel pugno. Con i Dico «viene
screditato non il matrimonio religioso, ma il matrimonio tout court», avverte
monsignor Sgreccia che si dice scettico sul fatto che un «legame tra persone
dello stesso sesso sia salutare per la loro socializzazione» e parla di
rapporti contro la «legge naturale ». E, sulla scorta del monito lanciato dal
cardinal Ruini («cattolici svegliatevi»), invita a osteggiare il ddl. Lo
faranno Giulio Andreotti che non è «contrario a una regolamentazione, ma
mettere in una legge le coppie di fatto, anche dello stesso sesso, mi sembra
vada oltre», Giuseppe Pisanu (FI) («I Dico sono pacs travestiti») e Luigi
Pallaro («Non spenderei neanche un centesimo »).
La Margherita con Pierluigi
Castagnetti chiede «una pausa di riflessione». Follini non «scaglia anatemi»,
ma vuole priorità per la famiglia. La capogruppo Ulivo Anna Finocchiaro
invita a discutere «senza ideologizzare» e il ministro Pecoraro Scanio parla di
«arretratezza culturale assurda». Il presidente della commissione Cesare Salvi
tenterà una mediazione. «Non voglio né accelerare, né insabbiare»,
annuncia. «Seguiremo le indicazioni di Prodi che aveva detto: "Scelga il
Parlamento"». Il testo Pollastrini-Bindi sarà esaminato se il ddl
sul caporalato e il decreto sul calcio violento ne lasceranno il tempo. Poi
verrà accantonato. Dopo un monitoraggio Salvi vuole arrivare a un testo
unico delle leggi e leggine già esistenti sui diritti alle coppie di
fatto. Il testo base dovrebbe essere quello di Alfredo Biondi (FI). «È
un contratto per l’unione solidale da stipulare per persone di qualsiasi sesso
davanti a un notaio» spiega Biondi che avverte: «Non farò da cavallo di
Troia per reinserire i Dico». Ma stasera in una riunione di Forza Italia si
discuterà se sarà questa la prima prova tecnica di «maggioranza
variabile».
06 marzo 2007
Rapporto con i giovani, pluralismo religioso e culturale i
temi che agitano la Chiesa Nessuna critica diretta all'istituzione, ma la richiesta
che sia al passo "coi mutamenti" MARCO POLITI ROMA - L'era Bagnasco,
alla Cei, non è ancora cominciata e già nel mondo cattolico (dove
pure nessun esponente fa nomi per rispetto alla scelta che il pontefice si
appresta a comunicare) si manifesta il bisogno di una svolta. "C'è
l'esigenza di un cambiamento di passo", commenta Andrea Olivero presidente
delle Acli. Valori, identità, mobilitazione sono alcune delle parole -
chiave dell'arcivescovo di Genova. Nel variegato mondo cattolico emergono vari
modi di coniugarle. Ma soprattutto cominciano a risaltare, in vista del
dopo-Ruini, alcune tematiche centrali: l'urgenza di creare un rapporto con le
nuove generazioni, la voglia di educare al Vangelo oltre che difenderne i
principi con le leggi, il bisogno di confrontarsi con il pluralismo religioso e
culturale presente nella società italiana ed europea, l'auspicio che il
laicato cattolico non sia appiattito sull'istituzione ecclesiastica. Dice
Olivero che "va favorita la crescita di un laicato che abbia maggiore
autorevolezza". Nella fase che si apre, secondo il presidente aclista,
è necessario lavorare sulla formazione delle coscienze piuttosto che
dare l'impressione di una Chiesa preoccupata della "tenuta" della
religiosità tradizionale. E soprattutto "è urgente arrivare
con tutte le forze della società ad una ridefinizione di valori etici
condivisi". In un mondo pluralista e in evoluzione l'identità va
difesa, spiegata razionalmente, ma certamente nessuno può rimanere nel
proprio recinto senza confrontarsi. Olivero non ha dubbi: rispetto ai mutamenti
la Chiesa si è fatta trovare a volte "un po' impreparata".
Sulla formazione batte anche Comunione e liberazione. Alberto Savorana,
direttore della rivista Tracce, è convinto che la nuova evangelizzazione
di papa Ratzinger, Ruini e del futuro presidente della Cei si gioca per la
Chiesa italiana nell'educare le nuove generazioni. "Rendere affascinante
l'esperienza cristiana - spiega - per i giovani e gli adulti di oggi nelle loro
realtà concrete". Inutile scervellarsi se il cattolicesimo sia
maggioranza o minoranza nel Paese. "Siamo quel che siamo - sottolinea
Savorana - i numeri non contano. Conta il rapporto personale con la fede e in
questo senso è decisivo il ruolo dei credenti battezzati". Nessuno
ha intenzione di criticare il forte rapporto tra gerarchia ecclesiastica e
mondo politico, cavallo di battaglia del cardinale Ruini (accanto al Progetto
culturale, beninteso). Ma è diffusa la sensazione che non è
fermandosi ai "livelli alti del potere" che si potrà mantenere
la vitalità del cattolicesimo italiano. Fondamentale, come afferma
Gianni Borsa, direttore della rivista dell'Azione cattolica Segno, è che
non si muova solo la Chiesa istituzionale, ma "siano protagonisti della
missione evangelizzatrice i credenti nelle parrocchie, nelle associazioni,
nella vita quotidiana". E se si parla di difesa della vita, non basta
insistere sull'inizio (aborto) e sulla fine (eutanasia), ma bisogna tutelarla
anche "nel mezzo": e dunque occuparsi di lavoro, famiglia, scuola, servizi.
Dice Bagnasco che i cattolici devono farsi sentire? Vittorio Bellavite,
coordinatore del movimento "Noi siamo Chiesa", risponde:
"Sì, ma in modo diverso. Abbandonando le contese politiche su Dico,
radici cristiane e così via. La Chiesa deve cambiare rotta rispetto
all'era Ruini: parlare più di Vangelo, aprirsi alla modernità,
capire il mondo del pensiero laico". Mario Marazziti della Comunità
Sant'Egidio torna sulla questione generazionale: "La grande sfida è
trasmettere il Vangelo alle nuove generazioni. Testimoniare come cristiani il
Vangelo d'amore - vedi l'enciclica di Ratzinger Deus caritas - nella sua
interezza". Ma la pagina nuova da scrivere per la Chiesa italiana è
di capire che il bene comune "va pensato nella società insieme agli
"altri", i seguaci di altre religioni, i laici con la loro
spiritualità". Affrontare e rispettare visioni diverse del mondo
non è "inquietante", semmai è uno stimolo ad
approfondire la propria identità. Salvatore Rimmaudo, dell'Agesci,
è convinto d'altronde che i conflitti laici-cattolici o cristiani-altre
religioni siano molto esacerbati a livello mediatico o politico, mentre nel
quotidiano i rapporti sono assai più collaborativi. "Come educatore
di minori - dice Rimmaudo - lavoro con colleghi laici e musulmani e nella
pratica condividiamo spesso valori e scelte di vita. Poi ognuno ha la sua fede,
senza fritti misti". Per questo Federica di Lascio, presidente Fuci,
continua a credere nell'utilità del "confronto pacato, del rispetto
delle reciproche posizioni, senza toni esagitati, ma nello spirito di una
laicità bella". Tra i Focolarini Paolo Loriga non si nasconde
l'esistenza di un filone culturale antagonista dei valori evangelici, ma
proprio perciò pensa che il futuro del cattolicesimo sia affidato a un
di più di "amore scambievole", testimoniato tra i credenti e
nella comunità cristiana intera, in apertura al dialogo e alla
fraternità con gli altri. E' un programma di costruzione permanente del
cristianesimo
I gay? Contro natura Dura replica di Grillini: basta con
razzismo e omofobia Per il prelato coppie di fatto e divorzio disgregano le
famiglie ROMA. Il "dovere" dei cattolici italiani è quello di
non far passare i 'Dico' o qualsiasi altra proposta legislativa che screditi la
famiglia tradizionale, o, peggio, legittimi le coppie omosessuali. Alla vigilia
dell'iter parlamentare del disegno di legge governativo sui diritti dei
conviventi il Vaticano conferma il diktat annunciato pochi giorni fa dal
cardinale Ruini. E lo fa con una nota di monsignor Elio Sgreccia, presidente
dell'Accademia vaticana per la Vita. Di più. Secondo il documento in
sostanza nessun compromesso è possibile con chi vuole dare dignità
alle convivenze gay e che compito della Chiesa e dei suoi fedeli deve essere la
difesa ad oltranza della famiglia basata sul matrimonio tra due persone di
sesso diverso. Posizione che spinge i settori laici della società
italiana ad una secca risposta. A partire dalla manifestazione in programma
sabato prossimo a Roma promossa da numerose associazioni tra cui l'Arcigay.
"Non possiamo accettare in alcun modo il precariato matrimoniale - ha
detto monsignor Sgreccia - Solo una famiglia sana e non sbriciolata può
essere alla base di una società e di un'economia sane", ha
affermato monsignor Sgreccia. "Le coppie di fatto, il divorzio hanno
portato alla disgregazione sociale e ad un crescente disagio psicologico. Come
non vedere - si è chiesto - in certi comportamenti di sofferenza adolescenziale
gli effetti di una famiglia che non risponde più alle sue prerogative
etiche?". Con durezza, monsignor Sgreccia ha poi criticato l'estensione
dei diritti della convivenza alle coppie omosessuali. "Qui - ha dichiarato
- si va contro la legge naturale". "Se il corpo conta qualcosa e non
è solo un accessorio - ha spiegato - il disegno della natura vuole che
il corpo dell'uomo e della donna si uniscano, anche in chiave
procreativa". "Compito dei cattolici italiani - ha detto il
monsignore - è quello di non fare passare il ddl sui diritti dei
conviventi o altre proposte di legge che screditino l'istituzione
familiare". Insomma un appello alla mobilitazione generale. "Basta
razzismo antigay. Il 'partito di Dio' - ha replicato Franco Grillini presidente
onorario di Arcigay e deputato Ds - vorrebbe imporre al Paese un gigantesco e
doloroso cilicio morale". "Dire che io gay sono contro-natura - ha
dettpo Grillini - è calunniare un'intera comunità diffamandola e
additandola al pubblico ludibrio. Sgreccia, Binetti, Andreotti e C. quando
fanno queste affermazioni alimentano l'odio razziale verso milioni di cittadini
giustificando e assumendo in toto la responsabilità morale della
violenza antigay e delle gravissime discriminazioni di cui quotidianamente
è oggetto la comunità". Alla manifestazione di sabato in
piazza Farnese in difesa dei diritti e della laicità dello Stato hanno
aderito ieri anche il capogruppo di Rifondazione Gennaro Migliore e la
parlamentare della sinistra Ds Gloria Buffo.
Cari lettori, dal Riformista avete
appreso che sono stato a Bertinoro, in una bellissima rocca romagnola per partecipare
all’incontro promosso dall’associazione per la Rosa nel pugno guidata da
Lanfranco Turci supportato da un gruppo di giovani, al fine di verificare se
c’erano le condizioni per promuovere una Costituente socialista. Anzitutto
un’impressione: negli anni Ottanta ho partecipato a vari congressi del Psi e
nei pressi dei locali dove si svolgevano sostavano molte auto blu, le sale
erano stipate di “portaborse” e i delegati erano, quasi tutti, persone che
occupavano centri di potere locale e nazionale. A Bertinoro, invece, ho quasi
avvertito il clima di un’assemblea socialista degli anni ’50, con persone
“anarchicheggianti”, giovani studiosi che hanno progetti per la società,
donne che rivendicano un forte impegno sociale, tutti lontani dai poteri che contano.
Lo spettacolo di quei congressi del Psi oggi si vede, almeno in parte, in
quelli dei Ds: il nerbo (non tutto) dei congressi è il nerbo del potere
locale.
Mi è stato pubblicamente chiesto (da amici veri e meno veri) se volevo,
con altri, dare vita a un altro piccolo partito. E la domanda mi veniva posta
da chi si appresta a fare un grande, anzi grandissimo partito, il Partito
democratico. La risposta è la stessa che ho dato a Morando (un amico
vero): continuo a stare su quel fronte che mi impegna almeno da vent’anni,
quando nel 1987 con altri “miglioristi” ci battemmo affinché il Pci fosse parte
del socialismo europeo. Per questa prospettiva ci siamo sempre battuti, prima e
dopo la svolta della Bolognina. E non per metterci un distintivo o un’etichetta
ideologica ma per obiettivi politici concreti: riformare e non abbattere il
welfare, dare alla modernità un segno diverso da quello delle
“rivoluzioni conservatrici”, coniugare i diritti individuali con gli interessi
generali per costruire, qui in Italia, uno Stato laico e di diritto. Separarci,
proprio ora, dalla famiglia europea significherebbe quindi non solo separaci da
una storia ma da una cultura e da un processo politico.
Oggi infatti quel socialismo europeo viene messo in discussione. Nonostante le
capriole di Fassino («siamo con il Pse», «nell’ambito anzi dentro», «decideremo
dopo quando c’è il Pd», «lavoreremo insieme», ecc.), il referente
europeo di Prodi e della Margherita è il partito di Bayrou:
nell’intervista di Rutelli al Corriere si dice che «la Margherita vuole
allearsi con il Pse ma non vi entrerà mai». Mai, vuole dire mai: né
prima né dopo la nascita del Pd. E in fondo Rutelli è più
corretto dei dirigenti dei Ds che, pur conoscendo la sua posizione, mentono
sapendo di mentire.
Non so se il progetto di una Costituente socialista prenderà corpo e
coinvolgerà una vasta parte della sinistra. So però che ci sono
energie nuove interessate non a rimettere insieme i cocci di quel che c’era nel
Psi, ma a costruire una forza in grado di esprimere, nella società di
oggi, idee, valori e programmi in continuità con la storia e i valori
della sinistra italiana e europea. Non è un orizzonte nostalgico, e
sarebbe corretto un confronto nel merito e senza demonizzazioni, a partire dai
fatti nuovi che emergeranno mano a mano che questo Pd prenderà forma.
Ha fatto bene Paolo Franchi a chiarire come questo confronto possa
proficuamente svolgersi anche sul Riformista. Per quel che mi riguarda, siccome
il mio impegno è stato e sarà esclusivamente rivolto alla battaglia
delle idee, continuerò a farlo come in passato, con apertura e senza
anatemi, ma rimanendo sempre su quel fronte del socialismo europeo per cui
questa lotta continua ad avere senso.
Retroscena
Il giudizio sui Dico riaccende antiche rivalità fra credenti. Barricarsi
o trattare?
ROMA
La "Chiesa bipolare" alla battaglia dei Dico. Mai come in questi
frangenti, nel laicato e nelle gerarchie ecclesiastiche, vengono evocate
divisioni e fronti contrapposti che hanno i riflessi più evidenti nella
contesa politica. Un clima da "guerra civile" che contrasta con
l'attitudine curiale a smussare i conflitti per tenere insieme
sensibilità e orientamenti diversi. Già le cronache medievali
descrivono un Sacro Collegio spaccato fra innovatori e conservatori, ma nello
scorrere delle epoche le tensioni sono sempre più finite sotto traccia.
Le contese tra capofila del cattolicesimo politico o istituzioni
(Lazzati-Giussani, comunità di base-Curia) e le dispute all'interno dei
movimenti ecclesiali hanno sempre ricalcato gli schemi delle dinamiche
"tollerabili" e sono state risolte tra le mura dei Sacri Palazzi.
Nella temperie delle mobilitazioni contro il divorzio e l'aborto, poi, soffiava
ancora forte il vento conciliare e alla fine prevaleva l'imperativo di
raccordare il Magistero e i comportamenti dei fedeli. Stavolta a scuotere la
"galassia bianca" a far uscire allo scoperto le divergenze in modo
inusuale sembra essere stata la nota annunciata dal presidente della Cei
Camillo Ruini per vincolare i parlamentari cattolici a non votare il ddl
Bindi-Pollastrini. I primi a scendere in campo, gli uni contro gli altri armati
di appelli di segno opposto, sono stati gli intellettuali. Da una parte lo
schieramento dei catto-progressisti Giuseppe Alberigo, Alberto Melloni,
Alessandro Parola (e degli altri 7500 firmatari della richiesta alla Cei di
bloccare il diktat anti-Dico), dall'altra i "teocon" Francesco
D'Agostino, Antonio Socci, Giovanni Maria Vian (e gli "atei devoti"
Giuliano Ferrara, Vittorio Mathieu, Sergio Ricossa), desiderosi che la la
Chiesa faccia sentire chiara la sua voce nel mondo politico. "E' in corso
un sisma - spiega il teologo don Gianni Baget Bozzo -. Il carisma di Giovanni
Paolo II teneva tutto insieme, la posizione ferma di Joseph Ratzinger fa
emergere le differenze e sui Dico sono clamorosamente esplose le contraddizioni
interne al mondo cattolico". Adesso sarà necessario, osserva Baget
Bozzo, ricomporre il conflitto tra chi vive il cristianesimo come una pura
prassi a favore dell'uomo e chi lo considera una dottrina di verità
rivelate. "E' una situazione di fibrillazione dovuta al valore non
negoziabile della famiglia - evidenzia padre Enzo Fortunato, direttore della
"Rivista di San Francesco" -. Sul caposaldo della società non
si gioca al ribasso, bisogna stare da una parte o dall'altra". Secondo il
ciellino Luigi Amicone, direttore del settimanale Tempi, si riflette nell'agone
politico una questione ecclesiale di fondo. "A 40 anni dal concilio i
cattolici democratici, nelle parrocchie e in Parlamento, hanno annacquato
l'identità dei credenti fino a snaturarla - sottolinea Amicone -. Con il
Pontefice del mondo Wojtyla la questione italiana era limitata alla
valorizzazione dei movimenti, adesso con Benedetto XVI la fede non si fa
ridurre alla dimensione privata". Il clima da "muro contro muro"
non spaventa l'ala progressista dell'universo ecclesiale, che fa notare il
"significativo silenzio" sui Dico di maggiorenti della Conferenza
episcopale come il cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe. "Anche
all'interno dell'episcopato c'è pluralità di pensieri e opinioni-
commenta il dossettiano Giovanni Niccolini, storico vicario episcopale a
Bologna e fondatore della Comunità "Sammartini" -. Questa
diversità di posizioni va accettata e fa parte della vivacità
della Chiesa. Se la nostra unità fosse basata sull'uniformità
sarebbe disperante, mentre, grazie a Dio, è fondata sulla varietà
dei doni dello spirito". Così anche l'odierna differenziazione
è "segreto di grande ricchezza", pur avendo passaggi dolorosi.
Tra tesi e antitesi, la Chiesa saprà fare la sintesi, assicura
l'arcivescovo di Curia Francesco Gioia: "Va bene la discussione, ma non si
possono fare sconti sulle verità di fede". Una fibrillazione tanto
più evidente in politica. "I teodem non scatenino guerre tra
cattolici. Io, teocon, ubbidirò al vescovo di Roma", avverte il
presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga che sabato ha ripreso una
polemica montante. Il prodiano Franco Monaco, ex presidente dell'Azione
cattolica di Milano, ribadisce il concetto: "La discussione sui Dico va
messa al riparo dalle guerre di religione. E la stessa sigla Teodem è un
ossimoro un po' blasfemo". A non combattere "guerre di religione sull'etica
e la famiglia" esortano altri due cattolici "doc" come l'ex
leader Udc Marco Follini e il segretario della Dc Gianfranco Rotondi. Secondo
il diellino Giorgio Merlo "finalmente i Teodem gettano la maschera e sui
Dico". Mentre per il presidente della Consulta etico-religiosa di An
Riccardo Pedrizzi: "Un cattolico, in quanto tale, non può essere di
centrosinistra".
Il
progressivo, irrefrenabile sovvertimento di taluni principi etici e sociali quali
la famiglia, la religione, il comune senso del pudore, il matrimonio, la
procreazione, hanno travolto la sfera più intima di ogni persona
favorendo il sorgere di una filosofia che non riconosce alcunché di definitivo
tra i tradizionali valori della vita sicché tutto diventa soggettivamente
opinabile, tollerabile e cioè a dire"relativo" nella sua
essenza. E deriva da ciò il termine di "relativismo" che
oltretutto finisce con il turbare e porre magari in imbarazzo assai spesso i
cristiani: ed è proprio quest'ultimo risvolto a sollecitare i dibattiti
che si vanno susseguendo anche a livello territoriale, come quello che
l'Associazione medici cattolici di Catania (presidente il prof. Salvatore
Castorina e vice il dott. Armando Galletta) ha tenuto con largo consenso di
presenti e relativi interventi nel salone delle suore domenicane nell'ambito di
un ricco programma di iniziative da realizzare quest'anno. Ed è stato il
sacerdote don Vittorio Rocca (docente presso l'Istituto Teologico San Paolo) a
approfondire la complessa quanto delicata tematica. Il relativismo - ha
spiegato il teologo dopo un'ampia introduzione del dott. Galletta - è la
struttura portante del cosiddetto "pensiero debole", che assume
sfaccettature solo apparentemente cangianti, come indifferentismo, nichilismo,
mobilismo, pirronismo, soggettivismo, individualismo. Tendenze di pensiero che
sta portando a un consequenziale e inesorabile indebolimento dei valori.
"La questione del relativismo ha soggiunto don Vittorio - appare sempre di
più come il filo rosso anche del pontificato di Benedetto XVI. In ogni
circostanza (persino quando parla di pace o solidarietà verso i malati
di mente) il Papa sottolinea come sia decisivo oggi non chiudere il cielo sopra
di sé. La preoccupazione costante di Benedetto XVI è di far ritrovare il
fondamento ultimo di tutto". Come dunque comunicare il Vangelo in questo
mondo secolarizzato? "Prima di tutto è necessario ribadire il
diritto della Chiesa di non tacere sui temi morali che sottostanno ai
meccanismi generali e ai modi dell'agire politico: non tanto per la Chiesa
quanto per tutelare dal pericolo incombente la natura stessa del costume
sociale che sta alla base della democrazia. In una società pluralista
com'è quella di oggi occorre poi una sapiente gradualità nel
parlare: non basta aggredire i problemi con dichiarazioni di principio, se non
si individuano strumenti di traduzione pratica che possono essere condivisi
utilizzando un linguaggio al positivo, indicando valori vivibili e appetibili
per tutti giacché se ci si chiude sempre e solo nei no, alla lunga si diventa
sterili". Don Vittorio ha poi indicato tra i più attuali e scabrosi
esempi di relativismo la questione dei Dico. "Se i cattolici sono in prima
linea nella loro battaglia contro i Dico - ha affermato - ciò non
dipende dal desiderio di difendere un bene confessionale, ecclesiale e nemmeno,
a ben vedere, spirituale: ciò che si difende dicendo no è uno
specifico bene umano, che caratterizza tutte le epoche e tutte le culture e che
non a torto è ritenuto, dagli etnologi, alla stregua di una struttura
antropologica fondamentale". Per quanto riguarda inoltre la vicenda Welby
la liceità o meno dell'eutanasia, per lo stesso don Vittore bisogna
laicamente riconoscere che la persona umana ha una dignità intangibile,
una preziosità incommensurabile, che dipende dal suo stesso esserci e
non dal suo esercitare determinate attività o dalle sue condizioni di
vita: perciò non può mai essere ammessa l'eutanasia. Per il prof.
Castorina il relativismo scaturisce ormai da tutti i problemi più
ambigui coi quali siamo costretti a misurarci giorno per giorno, minuto per
minuto e dai quali ricaviamo un disturbo del nostro equilibrio psichico.
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lunedì 05 marzo 2007, 07:00 da Roma Ministro Mastella, la senatrice
Binetti ha definito l'omosessualità una "devianza della
personalità". Lei che ne pensa? "Io non sono per un'offensiva
contro gli omosessuali. Ma un conto è il rispetto delle persone, un altro
sono i desideri tramutati in diritti che non trovano riconoscimento né sul
piano religioso né soprattutto un mio riconoscimento sul piano giuridico e
personale". Ma il ddl Bindi-Pollastrini è già al Senato.
"All'inizio non ci saranno grandi sorprese. Le forche caudine per i Dico
arriveranno in aula e là maturerà la decisione. A differenza
della Binetti o di questi teodem, non credo che accorgimenti o modifiche
possano trovare accoglienza favorevole. Io sono per una minor pressione fiscale
e per maggiori servizi di modo che le coppie italiane possano fare più
figli". Il vicepremier Rutelli ieri ha detto che i Dico non sono una
priorità e non faranno cadere il governo. "Non vorrei che
diventassero una specie di discriminante per il Partito democratico. Salvi erge
la propria bandiera di "più laico dei laici" per ragioni
congressuali, altri il vessillo di una minore velocità sul piano
parlamentare. È una questione più complessa dei congressi di Ds e
Margherita". È una questione centrista: per Dario Franceschini sono
una "garanzia che non ci saranno barriere tra laici e cattolici",
mentre Enzo Carra sarà in prima fila al Family Day. "Vorrei che
fossimo un po' più sereni tutti quanti nell'esprimere le nostre
valutazioni. Non è una guerra di religione. Se le discussioni hanno come
elemento primario le ricadute all'interno dei partiti, sono molto
spiacevoli". L'Udeur è contraria ai Dico? "Certamente
sì. Mica ho smorzato l'impegno nel dire che siamo contrari ai Dico e
favorevoli alle politiche per la famiglia. Non è solo un atto di natura
religiosa". Che cosa pensa della politica che si fa
"biopolitica" includendo nella sua sfera d'azione questioni che
attengono il privato come unioni di fatto ed eutanasia? "È la
deriva del relativismo cui spesso fa cenno papa Ratzinger parlando di
disimpegno morale. È il relativismo che ritiene che i limiti possano
essere superabili in nome >>.
Cultura e scienza 05-03-2007 Un
petulante e verboso fantasma si aggira per l'Italia: è la polemica tra
laici e cattolici. O meglio la polemica dei laici contro i cattolici. O meglio
ancora dei laici contro la Chiesa. Una polemica che nasce e muore sulle pagine
dei giornali o in qualche salotto. Troppe le battaglie più recenti di
questa guerra unilaterale e immaginaria per ricordarle tutte: si va dalle
quotidiane lamentele per le "ingerenze" del Vaticano fino al recente
"processo" (?!?) intentato da una schiera di teologi reazionari all'
"Inchiesta su Gesù" di Corrado Augias, novello Galileo
Galilei. Terribile la sentenza della rinata Inquisizione, così riassunta
su Repubblica dallo stesso perseguitato: "Non si può parlare di
Gesù senza misurarsi sulle fonti". Le librerie sono ormai ingolfate
da pamphlet anticlericali, tutti identici. Non c'è quasi casa editrice
che non ne abbia almeno un paio in catalogo. Tuttavia Piergiorgio Odifreddi,
nel suo "Per ché non possiamo essere cristiani" (Longanesi, pp. 260,
euro 14,6) , lamenta che nessuno voglia farsi carico della difesa del laicismo.
Per fortuna "ogni epoca ha i suoi matematici resistenti". Alla nostra
è toccato il "matematico resistente" Odifreddi il quale
raccoglie l'eredità di Bertrand Russell, autore di "Perché non sono
cristiano" (1957), e risponde ancora una volta al "Perché non
possiamo non dirci cristiani" (1943) di Benedetto Croce, "filosofo
collaborazionista" della Santa Sede. Un'impresa troppo grande per un uomo
solo? Odifreddi comunque ci prova, e va per le spicce fin dall'introduzione
"Cristiani e cretini". "Il termine cretino ", spiega
Odifreddi "deriva da cristiano ". L'accostamento potrebbe sembrare
"irriguardoso" ma è "corroborato dall'interpretazione
autentica di Cristo stesso che nel Discorso della montagna inizia l'elenco delle
beatitudini con: "Beati i poveri di spirito perché di essi è il
Regno dei Cieli"". La stringente analisi etimologica non lascia
spazio a dubbi e rischia addirittura di rendere superflua la lettura delle
restanti 250 pagine: "In fondo la critica al Cristianesimo potrebbe dunque
ridursi a questo: che essendo una religione per letterali cretini, non si
adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non
esserlo". Tra l'altro la "questione etimologica" spiega anche
perché il Cristianesimo abbia riscosso un certo successo: "come insegna la
statistica, metà della popolazione mondiale ha un'intelligenza inferiore
alla media". Odifreddi, dotato di un'intelligenza normale o superiore alla
media, è uno scienziato e in quanto tale un metodico. Nel resto del
saggio quindi si "carica sulle spalle la Bibbia" e percorre "la
via crucis della sua esegesi". E scopre che la Bibbia è piena di
"assurdità scientifiche, contraddizioni logiche, falsità
storiche, sciocchezze umane, perversioni etiche e bruttezze letterarie".
Non può quindi essere "un'opera ispirata da un Dio". In alcune
parti è una sorta di reportage riuscito male e pieno di errori. In altre
è pura fiction con trucchi da bestseller di serie B. Al termine della
via crucis Odifreddi emette un "verdetto" inappellabile sul Cristianesimo:
"ovviamente è la condanna capitale". Impossibile "essere
Cristiani, e meno che mai Cattolici, se vogliamo allo stesso tempo essere
razionali e onesti". La ragione e l'etica sono infatti "incompatibili
con la teoria e la pratica del Cristianesimo". Rimane da notare un
particolare: Odifreddi è tutt'altro che cretino . Mostrare disprezzo per
il cristianesimo è un fiore all'occhiello. Frutta pubblicità e
sontuosi commenti sulla stampa. Come andrebbe a finire se prendesse a schiaffoni
l'islam e il Corano? Da lui, coraggioso "matematico resistente", ci
aspettiamo almenoun altro libro che liberi per sempre l'umanità dalla
zavorra religiosa. Foto: Piergiorgio Odifreddi Salvo per uso personale è
vietato qualunque tipo di riproduzione delle notizie senza autorizzazione.
Si tratta di 25-30 parlamentari e
amministratori locali di forte ispirazione religiosa, che appartengono alla
Margherita ma che di fatto sembrano avere il cuore "altrove".
C'è chi li considera le brigate che il cardinal Ruini avrebbe collocato nel
centro-sinistra per difendere i valori cattolici nel polo più
"laico" della politica italiana; altri li ritengono un gruppo ibrido,
per la velleità di fare un discorso progressista sui temi cari ai
teo-con americani. Sia da destra che da sinistra sono guardati con un mix di
attenzione e di sospetto, anche da parte di cattolici doc di lungo corso.
Proprio due giorni fa, Rosy Bindi li ha accusati di aver usato l'arma dei Dico
per affossare Prodi e il partito democratico, "per passare a maggioranze diverse".
Loro, i teo-dem, respingono le critiche e vanno per la loro strada. Che non
è ancora ben definita, ma che ha alcune stelle polari: anzitutto la
forza di un'area cattolica di base che non ha adeguata rappresentanza politica,
ma che costituisce una ricchezza del Paese; inoltre, aver individuato nei temi
della vita e della bioetica la nuova frontiera della questione sociale. Come
credenti, hanno antenne ben sintonizzate con la gerarchia cattolica, ma nella
ferma convinzione che spetti al laicato impegnato in politica tradurre i grandi
principi della dottrina cristiana nelle scelte pratiche. Oggi hanno un nuovo
manifesto del loro credo politico, nel volume Il posto dei cattolici in uscita
da Einaudi. L'ha scritto Luigi Bobba che, insieme a Paola Binetti, Marco
Calgaro ed Enzo Carra, è tra i promotori di questa nuova corrente di
impegno pubblico. Si tratta di un libro a un tempo autobiografico e
programmatico. Bobba è un piemontese di Cigliano, che anche nel fisico
da contadino mancato dà l'impressione della concretezza della terra da
cui proviene. Di lui colpisce lo sguardo buono e un pensiero che si sviluppa
lento ma incisivo. È del tutto evidente che la "modernità
liquida" di cui parla nel libro per descrivere la società attuale
è qualcosa che non gli appartiene, forse l'unico vezzo letterario che si
concede per non essere da meno nel dibattito pubblico. Bobba ha vissuto la sua
giovinezza nei vivaci e controversi anni Settanta, animando il foglio Acido
solforico del suo liceo classico, organizzando cineforum, impegnandosi nel
collettivo dei giovani democratici della zona. A 18 anni esce per la prima
volta dai confini della sua parrocchia, attratto da due grandi comunità
monastiche, prima Taizè e poi Bose, che gli aprono il cuore e lo
spirito. Questa tensione lo spinge a un maggior impegno nelle Acli. Sarà
questo il trampolino di lancio che lo porterà a Roma, dove sarà
chiamato nel tempo a ricoprire importanti incarichi, prima come segretario di
Gioventù aclista, in seguito come Presidente delle Acli dal '98 al 2006.
Da responsabile di questa grande organizzazione si è sempre speso per
favorire un maggior dialogo con la chiesa e per riscoprire la "distinzione
cristiana". L'intento non è mai stato di alzare gli steccati,
quanto di affermare un modo nuovo dei cattolici di stare in politica. Siamo al
cuore della sfida dei teo-dem. C'è in Italia una grande allergia al
fatto che i cattolici si pronuncino in quanto tali sui temi politici e sociali.
Finita la Dc, c'è paura di vedere riuniti i cattolici attorno a qualche
obiettivo politico; e ciò soprattutto a sinistra, dove molti pensano di
avere un'esclusiva. I teo-dem non ci stanno a lasciarsi confinare nell'angolo e
lottano con forza contro due derive oggi prevalenti. Anzitutto, contro l'idea
che i temi della vita, della famiglia e della scuola siano monopolio della
destra e che possano essere trattati solo in una prospettiva di conservazione.
I cattolici non sono necessariamente dei moderati. Già Paolo VI invitava
i cristiani a essere degli scompaginatori della stagnazione, non dei condannati
alla moderazione. Spetta ai cattolici far sentire alta la loro voce per
coniugare i diritti individuali con le responsabilità sociali; e
ciò mentre molta sinistra sembra succube di posizioni radical-liberarie
in fatto di etica e di costumi. L'altra deriva contro cui i teo-dem combattono
è la riduzione del cristianesimo a religione civile. Con ciò essi
non intendono chiudere la bocca agli atei devoti, che pur sostengono da
posizioni laiche i valori religiosi. Ma prendere le distanze da quanti, nel
richiamare i valori della tradizione, fanno della fede più una religione
d'ordine che un principio di conversione. Per i teo-dem, dunque, il "posto
dei cattolici" è farsi carico della questione antropologica nel
dibattito pubblico, soprattutto nel centro-sinistra in cui sono collocati, ma
anche nella destra sensibile a questi temi. Il richiamo alla distinzione non
implica però il ritorno a un partito cristiano. Non si rinuncia al
dialogo, ma sui temi eticamente sensibili è bene mantenere ferme le
posizioni. Sulle questioni vitali è anche possibile far emergere un
bipolarismo etico che scompagini gli equilibri politici di sempre. Ecco servito
il manifesto dei teo-dem, che sembra comunque più una carta dei valori
che un vero progetto politico. Come queste istanze possano essere difese e
proposte in una società pluralistica, come passare dai principi alla
concreta mediazione politica, è un'altra pagina che deve ancora essere
scritta.
ROMA -
«Se noi cristiani ci rassegniamo ad essere una subcultura, in un mondo che
guarda dai tetti in giù, niente potrà salvarci». La mano ossuta
accarezza il Crocifisso appeso alla lunga catena argentea, poi lo sguardo del
cardinale Camillo Ruini si accende, come il suo sorriso. E si affretta ad
aggiungere: «Salvo un intervento della Provvidenza. Certamente». Con questo
appello alla mobilitazione dei pensatori cattolici il cardinale vicario di Roma
ha appena chiuso la due giorni di studi su: «La ragione, le scienze e il futuro
delle civiltà». Ultimo appuntamento di quel forum che dieci anni fa ha lanciato
il tema del «progetto culturale», così gradito ora al Pontefice. Un
appuntamento da record per numero e qualità degli interventi di
giuristi, matematici, filosofi, fisici e teologi che segna anche l'addio del
cardinale settantaseienne al ruolo di presidente della Conferenza episcopale.
«La prossima volta sarò da quella parte e non da questa», dice alludendo
alla sua imminente sostituzione per motivi di età, suscitando gli
applausi affettuosi degli studiosi.
Ruini
tira le fila della riflessione comune e confessa la sua intenzione di «mostrare
che per dire quel "grande sì all'uomo" auspicato da Ratzinger
e per mostrare la verità, la bellezza e la vivibilità della fede,
bisogna andare alle radici della razionalità contemporanea». Non
è un invito a respingere la cultura del nostro tempo. Anzi. Sollevando
la testa dai suoi fitti appunti, il cardinale sottolinea: «Qualcuno sostiene
che c'è molto da assumere da Kant. Io, a costo di scandalizzare, voglio
dire anche da Hegel. E guai a chiudersi e buttare via tutto», ammonisce. Quella
che attende il cattolico, spiega, è una sfida «ineludibile»: «Deve
svegliarsi. Deve giocare di proposta e dare un orientamento alla cultura. E per
questo occorre che ci sia una crescita del senso di appartenenza alla Chiesa e
a Cristo e una più precisa consapevolezza della radicalità della
sfida che abbiamo davanti».
A
convegno chiuso, finite le strette di mano, ascoltate le richieste più
disparate (compresa quella di ribadire l'inconsistenza dei vangeli apocrifi), il
cardinal vicario si aggiusta l'abito e ci spiega meglio perché nutre molte
speranze che i cattolici possano abbracciare la sua sfida a diventare bussola
della cultura e vincerla: «Dall'interno del cattolicesimo cresce la
consapevolezza che c'è bisogno di farlo. Perché i problemi che
riguardano l'uomo in quanto tale e il dialogo tra le religioni spingono ormai
in una direzione convergente: fanno sentire a molti il bisogno di riscoprire la
propria identità cristiana». Eppure, da fuori, sembra che il periodo sia
molto più complesso. E fortemente scosso dai contrasti sui temi etici.
Il cardinal vicario allarga le braccia, annuisce e sorride: «È vero che
la contestazione contro la Chiesa aumenta. Ma è preferibile essere
contestati che essere irrilevanti». E aggiunge: «In altri Paesi come la Francia
forse c'è minore contestazione, ma solo perché minore è il peso
specifico dei cattolici». Si ferma, si illumina e aggiunge: «Se ci
considerassero a fine corsa ci attaccherebbero meno». «Tra l'altro - fa notare
- i rapporti numerici tra credenti e non credenti nella totalità della
popolazione sono molto diversi da quelli che appaiono sui media. Io credo che
qui in Italia, come negli Stati Uniti, sono maggioritari quelli che hanno Dio
come punto di riferimento». Il rischio insito nello scontro però
è di ritrovarsi nemici senza volerlo. Ora che l'etica è divenuto
terreno di polemica politica ne abbiamo esempi quotidiani. E ieri l'altro il
ministro dell'Interno, Giuliano Amato, intervenendo sui Dico, la legge sui
diritti per le coppie di fatto, ha lanciato un monito alla religione a trattare
con amore «legami forti anche fuori da quelli convenzionali» e non respingerli
come «un peccato da cancellare», «sennò regaliamo a Satana un tempo che
non è detto sia il tempo di Satana».
Ruini, divenuto nella considerazione di alcuni il paradigma di una visione
severa che sembra voler più escludere che includere, allontana da sé
questo sospetto con garbo: «Non ho mai pensato di demonizzarli. Certo io
suggerisco il matrimonio, ma non sono contro le persone che vivono in una
coppia di fatto. Per carità. Quella è una loro libera scelta. Va
rispettata. D'altra parte non si vede perché dargli una struttura giuridica che
rischia di sovrapporsi a quella esistente e a fare confusione». «E del resto
non la vogliono. A dirlo sono loro stessi. Noi ne conosciamo molti, giacché
molte sono le coppie che si sposano dopo aver convissuto. Sono una sorta di
coppie di fatto in transito verso il matrimonio. Da quanto risulta ai sacerdoti
che hanno ogni giorno a che fare con loro, queste coppie non chiedono forme
diverse dal matrimonio».
Nel convegno era già stata messa in discussione una nuova tendenza,
quella della richiesta sempre più diffusa di nuovi diritti (c'è
chi ne reclama anche per l'intelligenza artificiale) senza farsi carico dei
corrispondenti doveri. Un diritto che voglia essere ragionevole, era stato
detto, deve invece riuscire a bilanciarli. Nella conclusione il cardinale
evidenzia che «il punto decisivo è l'apertura della razionalità
umana alla trascendenza, cioè, in concreto, a Dio e anche all'uomo che
non può essere considerato un pezzo di natura». Altrimenti, fa notare
condividendo l'intervento di un professore di letteratura russa, «ricadiamo
nell'errore descritto dal pensatore sovietico Soloviev». Nel suo romanzo
metaforico c'è un uomo, progressista, umanista, pacifista, che riusciva
a mettere d'accordo tutto il mondo, persino le religioni diverse. Ma viene
smascherato: è l'Anticristo.
Fuor di metafora, Ruini e i pensatori del Forum sono convinti: «Occorre tenere
conto della novità e della importanza decisiva della fede cristiana
rispetto alla razionalità. Non basta adottare i valori senza riconoscere
l'importanza decisiva di Cristo. Questa è la sfida culturale ineludibile
dei cattolici. E per vincerla non basta organizzarsi. Occorre una
consapevolezza dell'appartenenza. Ci sono gruppi religiosi numericamente non
molto diffusi ma capaci di esprimere una presenza assai incisiva. Lo abbiamo
visto». Malgrado le critiche affilate e gli sbeffeggiamenti subìti dalla
satira Ruini non rifugge dai media: «Gli attacchi non mi hanno mai dato
fastidio. E credo che, come cattolici, dobbiamo stare dentro alle dinamiche
della comunicazione. Senza limitarci al gioco di rimessa. Solo in questo modo
la cultura cristiana potrà avere piena cittadinanza nel pensiero
attuale. Ma soprattutto dare alla cultura di tutti un nuovo slancio». In uno
slogan: «Cattolici svegliatevi».
04 marzo 2007
M
GENOVA - I cattolici devono
svegliarsi e battersi per difendere la famiglia, la loro cultura e i loro
valori, in uno Stato che vara leggi difficili da digerire. Parola di Angelo
Bagnasco, 63 anni, ex Ordinario militare, da soli sei mesi sulla cattedra che
fu di Giuseppe Siri, il cardinale mancato papa per due Conclavi, di Dionigi
Tettamanzi, oggi arcivescovo di Milano, e, da ultimo, di Tarcisio Bertone, oggi
segretario di Stato in Vaticano e indicato come il suo grande sponsor per la
successione a Ruini.
Già in settimana Bagnasco potrebbe diventare la nuova guida della Cei.
Tutti lo danno come il candidato in pole position, senza reali concorrenti. Ma
naturalmente Bagnasco, in una domenica da pastore del suo gregge di anime,
mentre visita una parrocchia nella profonda periferia genovese, tace e sorride
alla domanda se toccherà a lui prendere il posto di Camillo Ruini alla
presidenza della Conferenza episcopale.
Cita il suo impegno al silenzio. Parla da arcivescovo di Genova e quindi da
semplice membro della Conferenza che starebbe per essere chiamato a presiedere
dopo Ruini, Poletti, i vicari di Roma, dopo Ballestrero, come lui nato a
Genova. Ma condivide in pieno la linea sempre più insistentemente
tracciata da Ruini e aggiunge di suo una richiesta urgente allo Stato italiano
per una politica della famiglia più forte, descrivendo il terreno sul
quale i cattolici devono scendere in campo e il temperamento che devono
mostrare in una società sempre più laicizzata.
Monsignore, quella di Ruini sembra una chiamata alle armi dei cattolici contro
lo Stato laico. Condivide?
"E' chiaro che i cattolici
devono difendere la famiglia e che la Chiesa cattolica deve richiamarli a
questo compito. Non si vogliono fare guerre sante. I nostri valori vanno difesi
con serenità, moderazione, ma anche con fermezza di fronte allo Stato che
fa le sue leggi. Non siamo contro le famiglie di fatto, ma contro una
sovrastruttura che si aggiunga alla famiglia. Attenzione: questa è una
battaglia che tocca anche a chi non crede, a chi non ha la fede ma un senso di
responsabilità nell'organizzazione della nostra società:
difendere un istituto come la famiglia".
E lo Stato cosa dovrebbe fare di fronte alla discesa in campo della Chiesa:
modificare, rettificare i suoi progetti?
"Sono fiducioso che il buon senso sopravvenga. Ma dallo Stato ci
aspettiamo subito, direi con urgenza, per esempio, politiche forti in favore
della famiglia. Per ora nei programmi, nelle intenzioni di chi governa abbiamo
visto segni troppo piccoli, troppo deboli in questa direzione. Non possono
aspettarsi che la Chiesa dica sì e applauda le idee di riforma di
istituti chiave come la famiglia. La Chiesa deve battersi perché siano difesi i
valori fondamentali della nostra cultura".
Ma c'è qualche altro Stato che vara queste leggi ed è più
sensibile ai valori della vostra cultura? O questa è una prerogativa
italiana e dei rapporti tra l'Italia e il Vaticano?
"In Francia, per esempio, c'è una politica per la famiglia
più avanzata. Ci sono leggi più favorevoli, anche se è
chiaro che il peso dei cattolici è storicamente meno forte che in Italia.
Ci sono altri Stati in cui quelle politiche sono più flebili o prendono
altre direzioni, come la Spagna. Quello che noi ci aspettiamo sono segnali
forti: quella è la strada che indichiamo".
E' solo un problema di programmi di governo o c'è qualcosa di più
forte che divide la politica del governo dalle aspettative della Chiesa?
"Cercano spesso di farci passare per degli intolleranti. Non è
così. Il problema è quello dell'identità culturale, in
Italia come in Francia, in Europa. In Europa siamo il cuore del mondo, ma
fatichiamo a definire la nostra identità a fronte delle altre culture
religiose e laiche che si impongono nel mondo moderno. Guardi gli Usa:
lì hanno un forte senso della loro identità. Noi stentiamo a
imporre i segni forti della nostra civiltà. La famiglia è tra
questi. E se non la difendiamo noi cattolici, chi deve farlo?".
E, quindi, qual è il richiamo che va fatto ai cattolici, oltre a quello
di scendere in campo con moderazione e fermezza?
"Il Novecento si è chiuso lasciando alle nostre coscienze un grande
problema: che cos'è oggi l'uomo? Tutto è entrato in discussione a
partire dal fatto che di un uomo si possono anche cambiare gli organi, decidere
il momento della morte, predeterminare il suo sviluppo, incidere geneticamente.
Sui principi dell'etica ci sono scontri sempre più forti: è
lì, appunto, che possiamo apparire intolleranti o che qualcuno
può aspettarsi al contrario il nostro applauso, la nostra resa. Ricordo
un commentatore qualche anno fa aveva posto retoricamente questa domanda: ma se
la Chiesa dicesse sempre di sì, accettasse la rivoluzione laica dei
valori? Ecco qual è il nostro ruolo di fronte a questo problema: essere
non solo presenti, risaltare, mobilitarci per far valere questi valori, non per
applaudire".
Insomma vuol dire che la linea di Ruini va condivisa e lei come vescovo si
sente perfettamente identificato nella sua mobilitazione?
"Ripeto: ai cattolici non basta essere presenti e dire semplicemente che
ci sono. Devono dimostrare tutta la forza della loro identità con grande
serenità".
(5 marzo 2007)
ROMA - Ruini dice "cattolici
svegliatevi". "Rischiamo di diventare subcultura", aggiunge.
Sembrano parole da mobilitazione. Che succede? "Può sembrarlo. Ma
non si tratta di un appello politico", risponde Marcello Pera, ex
presidente del Senato. "La dimensione resta religiosa, morale soprattutto.
E' anche la risposta a un risveglio delle coscienze che si coglie in Europa. E
a cui si vuole corrispondere. Si rafforza la reazione al relativismo, con un
appello alle coscienze e agli individui prima ancora che ai cattolici. Ruini
sembra rivolgersi al singolo uomo, affinché tutti possano recuperare il senso
della propria identità: religiosa, cattolica, culturale". "Se
non vi svegliate niente potrà salvarci", prosegue Ruini. Sono toni
quasi escatologici, la situazione è così grave? "Si fa
riferimento al rischio d'estinzione della nostra cultura. Non solo cattolica,
occidentale in senso più lato. Non a caso Ruini fa un parallelo fra
Italia e Stati Uniti, la prima considerata come fortezza in grado di arginare
il laicismo europeo. La diagnosi è grave, ma non è la
marginalizzazione dei cattolici, bensì di un'intera civiltà. Ed
è in piena linea con l'appello di Ratzinger, quando si rivolge a
credenti e non credenti, e dice siete a rischio, tutti quanti...". Avremo
una Chiesa sempre più interventista? "Sulla politica la Chiesa
diventa meno interventista, in qualche modo la bypassa. Mentre si rivolge
direttamente ai laici come ai cattolici, assume le forme di un magistero morale
prima che religioso, diventa uno dei simboli chiave di un'identità
millenaria non solo cattolica". "Meglio contestati che irrilevanti",
dice ancora Ruini. "Non da ora ma da alcuni millenni la Chiesa ha fatto i
conti con la contestazione. Accade ogni qual volta predica, si fa ecclesia,
assume sino in fondo il proprio magistero di evangelizzazione, di missione
morale". Sui Dico la Chiesa ha vinto? "Che la Chiesa abbia chiamato a
raccolta singoli senatori, da Andreotti alla Binetti, non ci credo. Credo
invece sia riuscita volutamente ad alzare il tono dello scontro ed a svegliare
le coscienze. E qui ha vinto. Anche con argomenti non propriamente religiosi
come la difesa dei figli. Con una predicazione più catechistica forse
non avrebbe ottenuto lo stesso successo". Cosa ha prodotto lo scontro?
"Io credo che ci sia stata un'eccessiva dose di arroganza da parte di
Prodi, che fra l'altro è un cattolico. Spesso è stato
irriguardoso verso la Chiesa, in alcuni casi nei confronti del Papa. C'è
stato un eccesso di sicurezza che Oltretevere ha sconcertato parecchie persone
e che alla fine ha prodotto un muro". I Dico sono un capitolo chiuso per
il governo? "Non credo che ci sarà una crisi sui Dico, ma la
situazione per la maggioranza si è aggravata. Alcuni, come Cesare Salvi,
cominciano a considerare il testo concordato come un mostro giuridico.
Giustamente, dato che crea un numero incontrollato di coppie di fatto".
Omosessuali come deviati, l'accostamento ai pedofili: alcune parole di
Andreotti e della Binetti fanno discutere. "Gratta gratta è uscito
l'atteggiamento omofobico. Ma dire di no al matrimonio omosessuale non ha nulla
a che fare con l'omofobia piuttosto con una proibizione di tipo morale. E
questo è un elemento su cui Ruini ha vinto: si è scoperto che il
nostro Paese ritiene minoritario il fondamento morale delle coppie di fatto. E
prevalenti le ragioni della nostra tradizione, che vuole la coppia fatta di
uomo e donna". Il rischio è la marginalizzazione di un'intera
civiltà.