HOME   PRIVILEGIA NE IRROGANTO           di Mauro Novelli            

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FELICE VENOSTA

Raccolta delle opere

 

 

INDICE

·         BALILLA O LA CACCIATA DEGLI AUSTRIACI DA GENOVA (1746) 1

·         IL MARTIRIO DI BRESCIA. 45

·         I 46I TOSCANI  A CURTATONE E A MONTANARA. 119

·         CARLO PISACANE E GIOVANNI NICOTERA  O LA SPEDIZIONE DI SAPRI 167

LA SPIGOLATRICE DI SAPRI 224

 

 


BALILLA O LA CACCIATA DEGLI AUSTRIACI DA GENOVA (1746)

 

NARRAZIONE STORICA

 

 

 

 

Che l’inse! gridò Balilla.

 

 

 

 

 

 

MILANO 1865.

CARLO BARBINI EDITORE

Via Larga.


 

I

 

Jesus, Jesus non più fuoco non più

fuoco, siamo Cristiani!...

 

Le parole poste in testa a questo capitolo erano gridate la mattina del giorno 10 dicembre 1746 in Genova da numerose orde di Austriaci, fuggenti innanzi al popolo, che, stanco della straniera oppressione, era sorto forte del proprio diritto.

La tirannide ha pure un limite. Quando l’oppresso non trova giustizia sulla terra, quando il giogo si è fatto insopportabile, pieno di fidanza egli stende la mano al Cielo, e giù ne trae i suoi eterni diritti, che lassù pendono inalienabili e indistruttibili, come le stelle! Riede il primitivo stato di natura, in cui l’uomo sta in faccia all’uomo. - Qual mezzo supremo, se ogni altro mezzo non giovi, gli è dato il ferro.

Genova, la città dai cento triremi, la città dai splendidi dogi, la città che fra la vivezza del traffico ha mostrato come si eserciti il commercio e la guerra, che ne’ suoi annali ha scritto i nomi di Colombo e di Doria, era per il poco senno di alcuni deboli uomini caduta in mano dello straniero, il quale di essa faceva crudo strazio. Ma Genova, pronubo un fanciullo, sapeva riacquistare la propria dignità, rendersi degna de’ suoi grandi uomini.

 

II.

 

Ecco Genova, ecco l’antica dominatrice dei mari, la Ligure donna. Assisa sovra un letto di alghe e di coralli, col capo incoronato d’un diadema di monti, ell’è sempre bella, comechè lo scettro dei flutti le sia caduto di mano e disperso nelle acque! Ecco sublime levarsi il palagio del Comune un dì saldissimo monumento di libertà che Simon Cantoni riedificava; ecco il tempio di San Lorenzo dai neri suoi marmi, ove si custodisce il famoso catino che rammenta i Genovesi vincitori a Cesarea: rammenta que’ liberi petti che, ricevuta la comunione, non con altri ingegni che colle scale delle loro triremi, salivano animosi le mura dell’osteggiata città. Questo tempio, arricchito dalle spoglie dei Saraceni d’Oriente e di Spagna, fu testimonio di splendide repubblicane memorie. Imperocchè qui il popolo, geloso di sua libertà, ricusava il giuramento d’ubbidienza a Federico II; qui, armata mano, eleggeva a primo suo doge quel Simon Boccanegra cui la patrizia viltà indi a poco dava morte; qui rogavasi l’atto onde Giacomo re di Gerusalemme e di Cipro, passato dal carcere al soglio, si rendeva tributario de’ Genovesi dai quali riceveva lo scettro; qui fra la pompa d’un immenso popolo accolto un augusto Vegliardo prendeva dalla destra del doge il vessillo maggiore della Repubblica per condurre nella rubelle Corsica, soccorsa invano da Francia, le galee genovesi; e la croce vermiglia in campo d’argento, già riverita in ogni lido, nelle mani del decrepito ma generoso Andrea Doria fu ancor vincitrice. - Illustre per antiche memorie, infame per atroci delitti, ecco il tempio di San Giovanni di Prè, le cui marmoree colonne, il peregrino campanile, le ricche finestre accusano i secoli delle crociate. A tarda notte quando tace ogni lume di stella, quando il mare procelloso rompe sordamente al lido, echeggia per queste funebri arcate un lungo ululato, uno strido di catene, ed il volgo atterrito lo crede il lamento di cinque illustri infelici che quivi furono ad un tempo strozzati. Narrano concordemente gli storici che, quando Urbano VI, stretto d’ossidione in Nocera da re Carlo di Napoli fu salvo per opera de’ Genovesi, seco recasse tra’ ferri in questa città, fra gli altri molti, sei cardinali sospetti di fellonia. I quali, lacere le vesti, squallidi pei durati martirî, furono ivi tratti al cospetto dell’irato Pontefice. Invano sacramentarono la loro innocenza, invano lo disfidarono al giudizio di Dio, un solo andò salvo a petizione degli Inglesi primati: gli altri tutti fece il papa occultamente strozzare in prigione, o secondo altri, rinchiusi in cinque sacchi furono lanciati in balia dei flutti. - Ecco la chiesa di Carignano dall’eccelse sue cupole; quella dell’Annunciata, opera di una famiglia di re, decorata d’ogni più bel fregio d’arte; quella di San Matteo ove fremono le ossa del grande repubblicano; quella dei Servi, dai pregiati dipinti; quella della Consolazione ed altre molte sacre a Maria, protettrice del popolo. - Ecco il celebrato Faro; la torre di quell’Embriaco cui si dovette in gran parte la presa di Gerusalemme; l’Albergo dei poveri, opera di tre nobili artisti, ove i fortunati pezzenti sono i soli signori di sì magnifica reggia; ecco il bastione di Pietraminuta, testimonio di quanto possa l’ardore popolare. - Ecco gli ampî palagi, ove un giorno sobbollivano le più generose passioni, e che nome immortale diedero ai suoi artefici, i quali, scaldati al fuoco dei grandi geni, crearono la corona delle arti e ne cinsero Genova. Ciò che Sansovino a Venezia, fu a Genova il perugino Galeazzo Alessio, discepolo di Michelangelo. - Ecco l’ampio ospedale dalle cento sue statue; l’infermità può qui dimenticare la prima salute: il dolore non ebbe mai stanze più belle nei palagi di re. - Ecco i pensili giardini, i declivi erbosi dell’irrigua Polcevera, i ridenti poggi d’Albaro, il famoso acquedotto che levò al cielo il nome di Marin Boccanegra, l’Arnolfo di Genova. Fra tante bellezze d’arte e di natura, là presso l’asilo dei patimenti sorge un monumento che ricorda una gloria del popolo, l’eroico ritorno a libertà, per opera sua. È un piccolo marmo sul lastrico; esso porta la data del 1746.

Genova fra i nomi degli Adorni, dei Fregosi, degli Spinola, dei Doria, dei Grimani, dei Dinegro, dei Colombo, e di Giulio II e di tanti altri suoi grandi, incise quello umile di un fanciullo popolano, di Giovanni Balilla.

 

Un vecchio potente, Carlo VI d’Austria, era sceso nell’avito sepolcro, lasciando dietro di sè la sua corona, pomo fatale di discordia lanciato in mezzo al mondo. Invano una lunga guerra aveva preceduta quella prammatica per la quale l’estinto aveva creduto di avere pacificamente assicurata alla figlia, Maria Teresa, la sua vasta successione. La morte dell’Imperatore, svegliando le cupidigie di tutti, fece che il turbine imperversasse folgoreggiando per tutta Europa, e Maria Teresa si vedesse ridotta alle forze degli eserciti che il principe Eugenio di Savoia soleva ben a ragione chiamare la migliore delle prammatiche.

Federico di Prussia, Luigi di Francia, Filippo di Spagna, il re di Baviera e quello di Sardegna si erano collegati contro la nuova imperatrice, e il 18 di maggio 1741 avevano conchiuso un contratto, per cui, smembrata la monarchia austriaca, la bassa Silesia colla città di Neiss e la contea di Glatz restavano assegnate al re di Prussia; l’alta Silesia e la Moravia al re di Polonia; la Boemia, il Tirolo e l’Austria Superiore all’elettore di Baviera. Quanto all’Italia si doveva spartire tra la casa Borbone e quella di Savoia. Così coll’appoggio di testamenti, matrimoni, fedi di battesimo, parentele più o meno prossime acconce in begli alberi genealogici, cavillazioni senza fine, i principi di Europa rinnegavano ciò che avevano consentito, e preparavano ai popoli una delle maggiori tragedie che la straziata umanità abbia viste.

Maria Teresa era stata infrattanto, in virtù della prammatica, con pubblica solennità chiamata in Vienna regina d’Ungheria e di Boemia, arciduchessa d’Austria, e sovrana di tutti gli Stati, che, per titolo ereditario, appartenevano all’Imperatore suo padre. Poi, condottasi a Presburgo nel mese di giugno 1741, vi fu gridata con grandissimo calore, così dai magnati, come dal popolo regina d’Ungheria. La sua gioventù, la bellezza, le dolci ed affettuose maniere, legarono così fattamente i cuori degli Ungari che non mai regina fu più amata da nessun popolo. Cacciata più tardi da Vienna pel rumore delle armi bavare e francesi, fra i suoi forti e generosi Ungari si affrettò a ritirarsi. Chiamò in Presburgo la dieta, vennevi portando in grembo il suo figliuolo ancor bambino, che fu poi l’Imperatore Giuseppe II, di tanta gloriosa memoria, s’atteggiò in grazia e dignità, e latinamente con fuoco affascinante in tal modo parlò: « - Vedete i mancatori di fede, la cupidigia delle austriache spoglie li tira contro una donna e un fanciullo! ma un Dio è in cielo proteggitore dell’innocenza, punitore degli spergiuri, e sono in terra gli Ungari fedeli, cui la perfidia sdegna, cui la sventura commove, cui il valore inspira. Questo è mio figlio, ed ecco che è vostro: adottatelo, difendetelo; crescerà amandovi e difenderavvi un giorno, come ora voi lo difenderete.  »

Taciti ed ansi l’ascoltarono i magnati. Poi, come ebbe posto fine al parlare, proruppero in lagrime, in applausi in segni di fortissima volontà per salvarla. Toccavano il figliuolo, s’inchinavano alla madre, un incredibile entusiasmo li possedeva, nè mai più santo fervore di questo si manifestò a voce di re fra le commosse nazioni. Sguainate quindi le spade, fieramente e unanimamente, in latina favella, fecero il famoso giuramento:

 

«Moriamur pro rege nostro Maria Theresia!

 

giuramento che fu la salvezza dell’austriaco dominio; fatale vittoria, fatale ai vinti e ai vincitori insieme.

Le sorti rapidamente mutarono; e Carlo Emanuele di Sardegna, vedendo come la fortuna di Maria Teresa prendesse vigore, rompeva il trattato conchiuso colla lega e accordava all’Imperatrice il suo aiuto in Italia, mercè la carica di generalissimo delle armi austro-piemontesi. Il 1 di febbrajo 1742 l’Austria e la Sardegna, pel mezzo del conte di Schulembourg e del marchese d’Ormea, concludevano una convenzione.

Re Carlo Emanuele continuava la politica della sua casa, aiutandosi ora dell’uno ora dell’altro straniero, che si combattevano il dominio dell’Italia, per aggiungere qualche brano di terra al suo regno.

Se non quanto può risguardare la nostra istoria noi terremo dietro alle fierissime guerre in allora combattute, guerre che gravemente travagliarono l’Italia.

Sembra scritto che, come annovi uomini che la fortuna si piace a combattere e a stremare, sienvi nazioni che debbano piangere, e a cui Dio numerò non a giorni ma a secoli le pene della cattività e del tormento. Niobe delle nazioni, l’Italia doveva più d’ogni altra vedere i suoi figli condannati alle lagrime e ai tormenti.

Il giorno 13 settembre del 1743 erasi a Vormanzia stabilito un trattato segreto fra la Sardegna, l’Austria e l’Inghilterra a danno di Francia e di Spagna. Secondo ragione e secondo giustizia, la Repubblica di Genova, che viveva neutrale tra le parti, non per nulla ci doveva entrare; ma la scoperta di un patteggiamento iniquo la trascinò.

Quella Repubblica aveva da molto tempo, mercè lo sborso d’un milione e duecento mila pezze, comprato dall’Imperatore Carlo VI le sue ragioni di sovranità sul marchesato di Finale. Ora la figliuola dell’Imperatore per gratificare il re di Sardegna, di cui aveva bisogno, cedeva col trattato di Vormanzia la cosa venduta e legalmente comprata, senza partecipazione del compratore e con promessa solamente di restituzione del prezzo a carico di chi non aveva nè voglia, nè possibilità di pagare, cioè del re di Sardegna medesimo.

Lo storico Carlo Botta, discorrendo di questo fatto, esclama: «Bene era serbarsi la montagna delle pezze, ma sarebbe stato meglio serbar la fede con conservare al compratore. Misera Genova, che era picciola! Il pianto più forte che presto faremo di lei, proverà sempre più che la miglior ragione è quella dei cannoni e che han fatto bene a scrivervela su.»

Il patrizio Gian Francesco Pallavicino, legato in Allemagna, ebbe sentore della vendita e ne avvisò il Senato. Non poteva questo darsi a credere una cosa tanto enorme, posciachè la Repubblica non aveva offeso nessuno, standosene scrupolosamente neutrale; tuttavia mandò comando a Giuseppe Spinola e a Giambattista Gastaldi, il primo inviato straordinario presso la regina d’Ungheria, il secondo ministro presso il re d’Inghilterra, affinchè scrutassero ed informassero. I ministri di Vienna negarono con fronte ferrea; esclamarono non essere vero niente. Quei di Londra non istettero assolutamente sulle negative, ma parlarono per ambagi. La conclusione delle parole loro era che quando il trattato fosse comparso in cospetto del pubblico, si vedrebbe che non ci era poi quel tanto male, che si supponeva. L’un dì più che l’altro però divenendo palese il fatto e che la vendita era stipulata, Vienna e Londra non poterono più negare.

Gli Austriaci dissero «che la regina avendo ceduto a Carlo Emanuele pel trattato una parte considerabile de’ suoi Stati nel milanese, non era, in grado di negare a quel re ciò che di quello di altri egli mostrava di tanto desiderare; che del resto ella non avevagli ceduto che quelle ragioni che ella stessa aveva sul marchesato, e che se nessuna ce ne fosse tanto meglio per Genova.»

La qual cosa, oltre alla derisione, veniva a dire palesemente che Maria Teresa o aveva ingannato Carlo Emanuele con vendergli cosa che non era, o frodati i Genovesi dando ad altri ciò che loro apparteneva.

Gli Inglesi si spiegarono con derisione più pietosa; dissero che compativano proprio la disavventura della Repubblica, ma il re di Sardegna essere molto premuroso di possedere il marchesato di Finale e non lo si voler scontentare, perchè ne avevano bisogno.

Da bella prima quando si era subodorata la convenzione di Vormanzia, ma innanzi che se ne avesse certezza, la Francia e la Spagna avevano fatti tentativi presso la Repubblica perchè si unisse a loro promettendole aiuto e protezione. Alle quali insinuazioni non aveva allora prestato orecchio, sperando di indurre a migliore e più grato consiglio i tre confederati. Ma quando dalle risposte date ebbesi certezza dell’indegno mercato, si cominciò a trattare la cosa nel consiglietto, che era il minore consiglio politico dello Stato.

La materia era di somma importanza per Genova; si trattava di entrare o no in una guerra contro potenti nazioni, con pericolo di pagarne un troppo doloroso scotto. Alcuni consideravano fiorire la Repubblica pel commercio e per le pacifiche arti, che hanno amica la pace e nimicissima la guerra; vedersi sempre incerto l’esito delle armi, e se i Borboni avessero la peggio, quali sarebbero i destini dell’imprudente Genova? Pace convenirsi a chi non può far guerra da solo, a chi per eseguità delle forze debba essere secondo o terzo nella partita.

È fatto; lo abbiamo provato nel 1859, e tutto dì lo proviamo, che il vantaggio ricavato dalle alleanze colle potenze maggiori non è il più lusinghiero. O il maggiore alleato è vincitore, allora il minore è a sua discrezione e deve soggiacere a tutti quei patti od a tutte quelle umiliazioni che gli sono dopo la vittoria imposti; o è perdente, più dannosa pel minore è la conseguenza della sconfitta.

Quei della parte contraria rispondevano sopravvenire nella vita degli Stati congiunture straordinarie che li spingono, se non vogliono perire, a pigliare vie nuove e non consentanee alla cheta prudenza. L’ambizione di casa Savoia tirarla ai danni della Repubblica, sicchè pessimo evento sarebbe stato l’avere il re di Sardegna accampato da padrone sul prossimo marchesato di Finale. La cupidità dei Savoini essere ben nota, e avere il re medesimo, dopo l’acquisto di Piacenza, messo fuori voce e pubblicato per le gazzette che il golfo della Spezia era suo come dipendenza del Piacentino; andare di più mendicando ragioni or su questo or su quel feudo della Lunigiana; voler lui pertanto stringere co’ suoi artigli tutta l’ampiezza del territorio genovese; voler distruggere non solamente la potenza ma anco il nome della Repubblica. Soggiungevano conoscersi l’incertezza di casi della guerra, ma grandi forze avere i Borboni, e grandi eserciti in Italia, e supremo loro desiderio essere il procurarvi una Signorìa a don Filippo; se saranno da Genova rifiutati, si volteranno al re di Sardegna, e la sua amicizia e la sua alleanza di certo acquisteranno; così Genova, volendo perseverare in neutralità e pace, andrà incontro ad una guerra terribile e alla rovinosa tempesta l’esser suo e la libertà tutta perderà.

L’ultima sentenza prevalse. Il primo di maggio 1744 in Aranjuez fu convenuto tra la Repubblica, la Francia, la Spagna e la corte di Napoli che Genova nelle imprese che stavano preparando gli eserciti borbonici, darebbe un sussidio di diecimila soldati ed un treno di artiglieria, obbligandosi le potenze federate alla loro volta a guarentirle il presente dominio e segnatamente il marchesato di Finale.

Nel tempo istesso che i sopracciò della Repubblica stavano provvedendo a mettere in atto il trattato, pensavano anche a munire per la propria difesa i luoghi più minacciati. Mandarono cinque mila soldati al Finale, duemila a Savona; fecero rompere le strade che portavano al Piemonte, munire con serraglie tutti i passi pe’ quali rimaneva aperto l’adito ai Sardi; e aspettarono la tempesta che non doveva tardare a scagliarsi su loro violentissima se non improvvisa.

Le voci di guerra, il rumore dei cannoni che si trainavano or qua, ora là, i soldati, che s’ingrossavano, e mutavano le stanze, avevano molto sollevato gli animi in Genova, e fatti solleciti e pensosi delle cose avvenire. S’aggiunsero portenti. Un sacerdote, celebrando la messa all’altare di San Giovanni Battista nella metropolitana, vide per ben tre volte, come corse fama, scuotersi il tabernacolo con grande ammirazione dei circostanti. Chiamati i preti e i sacristani videro e paventarono; sparsasi la voce dell’accidente, tutta la città rimase compresa da stupore e da terrore, funesto annunzio dei mali della Repubblica. Il terrore e l’ubbia popolare accrebbe una cometa crinita con coda a modo di scopa, che in sullo scorcio del gennaio era sopra la città comparsa, facendovi per un mese intero terribile mostra di sè. Non sapevano quali, ma certo i Genovesi si aspettavano mortali disgrazie.

I presi auguri cominciavano a verificarsi per le insolenze inglesi. L’ammiraglio Mathews, come se non sapesse del turpe mercato e come se gli innocenti dovessero lasciarsi spogliare senza neppure muovere dito o mettere fuori voce, scrisse con modo altero alla Signorìa, che non conoscendo nessun nemico a Genova, non sapeva capire perchè armasse e che quell’attelarsi in guerra gli dava sospetto. Il Senato rispose che Genova non armava per altro che per fare rispettare la sua neutralità, e non per dipartirsene; che il trattato di Vormanzia le aveva insegnato quanto fosse pericoloso lo stare inerme; che gli apparecchi guerreschi non miravano ad altro che al rendersi sicura dagli insulti di chi le portava mal animo. La sincerissima risposta spiacque all’Inglese; esso quindi metteva ad abusare della sua forza. Sotto colore di chiudere il mare ai soccorsi spagnuoli, predava le navi genovesi, insultava i littorali, e talfiata, quasi a sollazzo, gettava bombe nelle innocenti città.

Genova tra la Sardegna e l’Inghilterra non aveva riposo. Presto vedremo venire l’Austria a sobbissarla.

 

III.

 

Non fu che nel 1745 che Genova si risolse di chiarire le sue intenzioni e palesare al mondo gli accordi di Aranjuez. In sulla fine di giugno di quell’anno mandò fuori un manifesto col quale esponeva i danni che a lei derivavano dal trattato di Vormanzia, le inutili diligenze fatte per ischivarne le funeste conseguenze e la necessità in cui si trovava di unire un corpo delle sue truppe in qualità di ausiliarie a quelle dei Borboni e di fornirle di artiglieria, unico partito, diceva, a lei rimasto per preservarsi da quelle rovine, che le sovrastavano.

Poco dopo tal manifesto la Repubblica mandava agli alleati gallo-ispani, che si trovavano attendati tra il Panaro e la Magra, i diecimila soldati promessi, cui diedero in governo, come commissario supremo, al patrizio Gianfrancesco Brignole Sale, e, come generale, al conte di Cecil. Coi Borboniani, i Genovesi combattevano gli Austro-Sardi sulle sponde del Tanaro e della Bormida; prendevano nei primi di settembre Tortona, Piacenza, Parma, Pavia; vincevano il 27 re Carlo Emanuele in gran giornata a Bassignana, e invadevano quindi il Piemonte fino a Casale ed Asti, difendendosi solamente la cittadella d’Alessandria.

Mentre le armi della Repubblica si coprivano di gloria nella suddetta guerra, gli Inglesi, come se volessero punire Genova dell’ingiuria che a lei avevano fatta col furto di Finale, e come se loro stesse a cuore di aggiungere la violenza all’ingiustizia, vennero col loro naviglio sopra Savona e gettarono dentro la città più di cento bombe. Speravano, oltre lo strazio di cui parevano assai dilettarsi, che i Savonesi si ritrarrebbero dalla loro fede verso Genova. Ma nessuno si rimutò, e la fortezza rispose coi cannoni, obbligando gli aggressori ad andarsene.

La Repubblica, considerato il fatto di Savona, temette per la capitale; armò, rinforzò le poste, moltiplicò le batterie, mise le galere alla bocca del porto. Le prevenzioni di Genova non andarono fallite.

Il 27 settembre, il giorno stesso in cui re Carlo Emanuele era posto in rotta a Bassignana, gl’Inglesi comparvero al cospetto della Ligure città colle loro navi grosse, e colle palandre, e coi cannoni, e colle pentole. Cominciarono il bersaglio delle bombe; ma non istettero mute le batterie, e fu piuttosto giuoco che seria rappresentazione. Imperocchè per la forza dei cannoni genovesi non potè il nemico approssimarsi tanto da far danno; e poche bombe lanciò, la maggior parte delle quali creparono in aria, le altre piombarono in mare.

Ridevano i cittadini di quella inutile mostra, e si burlavano degli Inglesi. Le donne stesse, accorse in sulle mura della marina, con fischiate, risa e vituperi canzonavano gli aggressori, i quali, sfogato finalmente il capriccio, se ne andarono con una nave rotta, e le palandre fracassate, ed alcune pentole crepate.

Il capriccio però non era passato. Gl’Inglesi continuavano a tributare le terre della riviera. Vennero pure a vista del Finale; i cannoni lanciarono trecento palle, le pentole quasi altrettante bombe. La fortezza rispose con forza; le giuste palle repubblicane cagionarono non lieve danno alle navi nemiche. Pareva che quelle tranquille sedi di uliveti facessero invidia agli Inglesi, e non fossero essi contenti se non le rendessero spaventate e sanguinose.

Il giorno 30 settembre si lanciarono contro San Remo. I Sanremaschi, veduti giungere quegli uomini settentrionali, della cui dolcezza e giustizia avevano da Genova, Savona e Finale avuto novelle, furono invasi dalla paura, e vollero provare se cortesia vincesse villania. Mandarono all’ammiraglio deputati con rinfreschi; gli fecero dire che se egli fosse adirato contro la Repubblica, essi non dovevano portarne la pena, perchè non sudditi di quella erano, ma bensì popoli convenzionati. Se non che l’Inglese rispose loro: «convenzionati o non convenzionati or ora vedrete.» E fece tosto mettere in giuoco i cannoni e le pentole. Sul povero San Remo vennero gittate più di mille due cento palle di cannone e duecento bombe; l’Inglese usava maggior rabbia per le non riusciute sue imprese contro Genova, Savona e Finale: i Sanremaschi pagavano per tutti. Settanta case furono rovinate o conquassate, e parecchi cittadini morti o feriti.

Frattanto le armi della Repubblica colle borboniche invadevano il Milanese, entravano in Milano, mandando sempre più a precipizio le cose austro-sarde in Italia.

Re Carlo Emanuele aveva nel trattato di Vormanzia introdotta una clausola, insueta sì ma che accettata dall’altra parte gli dava un diritto certo ed onorato, cioè che egli potesse scostarsi dall’alleanza, avvertendo tanti mesi prima. Quindi aveva il re libertà di trattare con Francia. Trattò, e ne risultarono una prima convenzione firmata il 26 dicembre 1745 a Torino, ed un armistizio firmato a Parigi il 17 febbrajo 1746, ed un progetto di pace definitiva, per cui dovevano rimanere Parma e Piacenza con alcune terre all’intorno all’infante don Filippo; il Milanese a Casa di Savoja; ed accresciuti a Genova, a Modena, a Venezia i loro possedimenti. Toscana sola toccava a Casa d’Astria; cosicchè tutt’Italia ne sarebbe rimasta indipendente alla fine, divisa tra principi italiani o che lo sarebbero diventati; e poi tutt’Italia doveva stringersi in lega a mantenere quella indipendenza.

Quel negoziato non si conchiuse e si ruppe. Se fosse riuscito, ci sarebbe stato il fatto più bello di quella guerra. Erano dodici secoli che l’Italia mancava della sua indipendenza; ed in allora, libera di stranieri, piena di principati nazionali, avrebbe potuto mano mano venir edificando quella libertà ed unità che le costarono ad acquistarle di poi tanto sangue de’ suoi figli.

Continuò Carlo Emanuele la guerra. Sorprese in bella fazione i Gallo-Ispani in Asti; il 6 marzo 1746 ripresela, e il giorno 11 liberò la cittadella d’Alessandria. Gli Austriaci vinsero in battaglia a Piacenza i Francesi, ricuperarono Milano e Lombardia; e quindi Austriaci e Piemontesi, sotto il comando del generale austriaco marchese Botta Adorno, rigettarono i Borboniani nell’Appennino e poi nelle Alpi e si presentarono innanzi a Genova.

Tra Francesi e Spagnuoli, dopo la perdita d’Asti, era sorta un po’ di diffidenza; gli Spagnuoli accusavano gli alleati di aver fatto cedere Asti per isforzarli ad acconsentire al trattato dello spartimento; quella diffidenza venne mano mano ingrandendo fra le due parti, cioè a misura che peggiori divenivano le loro condizioni in Italia.

I maneggi politici del re di Sardegna non furono estranei a quelle gelosie. Carlo da essi maggior frutto raccolse che da’ suoi sforzi militari stessi, comechè in questa parte non abbia certamente mancato a sè medesimo.

Risultato di quelle discrepanze fu terribile ammaestramento pei piccoli, l’abbandono di Genova, il cui governo, preso da timore al comparire degli Austriaci, venne, come vedremo, a vergognosi patti coll’inimico.

 

IV.

 

Un tremendo avvenire stava per piombare sopra l’abbandonata città. Lo sentiva, lo sapeva, e non vedeva a quale partito appigliarsi. I cittadini erano costernati, costernato era il governo. Mentre ognuno già di sè medesimo e della patria stava in forse, arrivavano a furia in città, siccome cacciati da qualche funesto accidente, donne e fanciulli, recando le loro più portabili masserizie. Si venne tosto a sapere che gli Austriaci, assaltata Bocchetta e trovata poca resistenza in coloro che la difendevano, se ne erano impadroniti, e già facevano le viste di avanzare.

In tanto estremo i sopracciò della Repubblica, anzichè darsi a tutt’uomo a provvedimenti di guerra, si appigliarono ad un miserando partito. Mandarono in Langasco, in val di Polcevera, ove trovavansi i Borboniani, deputati a pregare l’infante don Filippo e gli altri generali a non volere abbandonare la città. Esposero i mandati non essere le cose disperate; i malagevoli monti delle propinque valli poter essere scudo e fondamento a far risorgere la fortuna caduta; doversi dar tempo al respirare dei soldati, affinchè la lena e gli spiriti riprendessero; essere Genova pronta a far tutto per difendere la sua libertà e gli interessi de’ suoi alleati; essere città forte e piena d’un popolo geloso delle sue franchigie, pronto per esso a dare il sangue de’ suoi figli; essere i villani delle valli vicine usi alle armi e deditissimi alla Repubblica, i quali, uniti alle soldatesche d’ordinanza, avrebbero potuto giovare assai alla comune difesa; domandare Genova che, siccome per lei sola non aveva combattuto, sola non fosse lasciata contro un nemico, il quale di nessun’altra cosa la imputava, se non di quella di essere stata amica di Francia e di Spagna.

I deputati toccarono poscia gl’interessi degli Stati: importare molto la salute di Genova ai confederati; lei essere chiave d’Italia; se in mano austriaca venisse col famoso suo porto, colle sue comode riviere, essere certo che il regno di Napoli sarebbe in pericolo estremo; là l’Austria imbarcherebbe soldati, artiglierie, provvisioni per l’acquisto del desiderato reame; Genova amica dei Borboni essere antemurale di Napoli, serva degli Austriaci diventarne la ruina; non l’abbandonassero adunque, l’aiutassero, la preservassero.

E don Filippo e quanti generali alla presenza di lui si trovavano risposero con bellissime parole, che stessero pure i Genovesi di buon animo e sperassero bene della patria loro, perchè Francia e Spagna non avrebbero potuto in tanto momento abbandonare la fedele Repubblica. Parlarono di provvedimenti di guerra, d’un campo a Fegino sulla destra sponda della Polcevera.

I fatti dimostrarono quanto fraudolenti fossero quelle parole. Se per necessità militare era cosa tollerabile il lasciare nel fondo dell’abisso chi ci si era messo per colpa altrui, cosa intollerabile e sozza doveva reputarsi l’aggiungere l’inganno al danno, e il nutrire in uomini amici una speranza per cui dovevano, conosciuta tosto l’orribile verità, rimanere doppiamente affannosi e tormentati.

Mentre i capi borboniani le promesse riferite facevano, le truppe difilavano verso ponente, e ponevano su barche gli arnesi e le armi. Seppesi subito dopo come don Filippo già se ne fosse partito per la via di mare alla volta di Nizza, e ogni cosa fosse in moto per una totale partenza. Pretessevano i capi borboniani non sappiano quali fole: che il re di Sardegna infuriava verso Cadibuona, e minacciava Savona e Finale, come se coll’esercito ancora numeroso e coi soldati della Repubblica e colla gente del paese, nemicissima del nome savoiardo, non si fossero potuti facilmente custodire quei luoghi già di per sè stessi forti e guarentissimi.

L’Italia stupì della partenza de’ Borboniani; non poteva comprendere come tanto loro fracasso fosse finito in Signorìa austriaca.

Genova rimase atterrita; si empieva di pianto, di querele e di spavento. Il generale Escher fu mandato al conte Brown, comandante dell’avanguardia austriaca, per vedere se si avesse a fare con uomini discreti. Portò seco rinfreschi squisiti e delicati camangiari. Se non che l’Austriaco li ricusò, più crudo che ingannatore. Escher espose, che la Repubblica non aveva guerra coll’Imperatrice regina, e sperava che l’oste tedesca solo venisse per inseguire l’inimico non per trattare Genova da nemica.

Diede il conte di Brown con fiero cipiglio una dura risposta; egli disse che veniva come nemico, e userebbe con Genova da nemico.

I reggitori provarono mandargli i patrizi Ranieri, Grimaldi, Lomellini coi medesimi discorsi che Genova non era punto in guerra coll’Imperatrice, e che per la necessaria sua difesa solamente era stata costretta a prendere le armi in qualità d’ausiliaria.

Vana prova fu questa pure. Venne finalmente domandato a Brown quali fossero le sue intenzioni. Ei rispose che tosto lo saprebbero; e mandò in Genova il conte Gerani con un foglio. Crudele era il foglio; ma presto ne giunse altro più crudele ancora.

Gli Austriaci frattanto avevano occupato San Pier d’Arena. Improvvisamente e a dismisura crebbe la Polcevera per piogge copiose cadute sui monti, che con molte bestie, arnesi e provvisioni trascinò via quasi mille soldati, che rimasero annegati.

Pareva che il cielo volesse aiutare i reggitori genovesi, ma essi non sapevano aiutarsi.

Il marchese Botta, rinnegato italiano, sentiva come Genova non fosse preda da lasciare ad altri, e venne prestamente da Novi. Agostino Lomellini e Marcello Durazzo andarono a lui, e con mesti accenti gli rappresentarono l’innocenza di Genova, la necessità inevitabile che le aveva messo le armi in mano, il diritto incontrastabile che ella aveva avuto di usarle in quel modo. Gli raccomandarono finalmente una città famosa al mondo, città piena di maravigliosi edifici, appartenenti alla civiltà ed alla religione, città infine che era tanto sua, quanto di loro medesimi; imperocchè il nome dei Botta Adorno trovavasi numerato fra le famiglie patrizie ed inscritto nel libro d’oro.

Le voci miserande d’una eletta patria, d’un’inclita città, anziché muovere a mansuetudine, non fecero che vieppiù indurare l’intrattabile capitano austriaco. Disse che da nemico era venuto, da nemico voleva trattare Genova; che vincitore era, e contro Genova vinta userebbe la vittoria; obbedissero tutti ed eseguissero quanto era detto nel foglio che in mano teneva. Sincroni scritti narrano che Botta portasse odio a Genova per essere stato suo padre quarantott’anni prima dalla Repubblica, per attentato commesso da lui nel territorio di Ovada, d’ogni cosa spogliato e dannato nel capo, promettendo perfino una taglia a chi l’avesse ammazzato. Ma oltre a ciò il muovevano il suo mal animo, gli ordini dell’Imperatrice, forse anche la cupidigia dell’oro.

Volgeva il 6 settembre 1746 quando succedeva quanto abbiamo narrato.

Le intimazioni di Botta erano le seguenti: «Che alle ore ventitre di quello stesso giorno si consegnassero le porte della città alle truppe della regina d’Ungheria; che la guarnigione rimanesse prigioniera di guerra; che i disertori fossero dichiarati con promessa però di perdono; che si consegnassero tutte le artiglierie, armi e munizioni sì da guerra che da bocca raccolte per cagione di guerra; che la Repubblica comandasse a’ suoi popoli, soldati e milizie a non commettere ostilità contro i soldati della regina, contro i suoi alleati e dipendenti; che fossero liberi l’accesso e l’uscita del porto alle navi delle potenze alleate; che fossero notificate le persone e le proprietà dei Francesi, Spagnuoli e Napoletani; che il castello di Gavi si desse subito e rimanesse la guarnigione prigioniera di guerra; che durante quella guerra le soldatesche austriache avessero libero passaggio per tutti gli Stati e piazze della Repubblica; che il doge e sei senatori fossero spediti a Vienna dentro lo spazio d’un mese per implorare la clemenza cesarea e domandare perdono dei passati errori; che si liberassero tutti gli ufficiali e soldati austriaci od alleati d’Austria presi in guerra; che la Repubblica sborsasse incontanente cinquanta mila genovine[1] da dispensarsi ai soldati a titolo di rinfresco e pel quieto vivere, oltre le contribuzioni di guerra, circa le quali ella dovesse intendersi col commissario Chotek; che con ciò gli Austriaci si terrebbero in disciplina e pagherebbero ogni cosa in contante; che la convenzione valesse fino a ratifica o cambiamento da Vienna; che intanto quattro senatori si mandassero ostaggi nella capitale dell’Impero.»

Tali intimazioni vennero accolte dai deputati con orrore e dolore. Il Botta ciò scorgendo disse: « Dovete rimanermi obbligati che vi apro la strada da poter riscattare la libertà e la vita, le quali se non vi tolgo, vi sia d’argomento, che nè d’umanità sono spoglio, nè dimentico di quella patria che chiamate mia. Se poi ad alcuno gravi ed acerbe condizioni parranno, costui pensi, quanto più grave ed acerbo sarebbe il vedersi sforzare le case, involare le sostanze, trarre in servitù, e ferro e fuoco e sacco sofferire, ed ogni più dura cosa sostenere di quelle, con cui i vincitori sogliono i vinti ricalcitranti punire. »

Lomellini e Durazzo si provarono nuovamente a condurre a più miti sensi l’animo del Botta. Dissero dell’impossibilità di eseguire le imposte cose; come nel breve tempo prescritto non potessero i consigli deliberare, essendo statuito dalle leggi della Repubblica che quando si trattava di cose gravi, come quell’era, nulla si dovesse nello stesso giorno deliberare.

L’Italiano, fatto austriaco, per niente commosso, rispose, non esservi più altra legge che la sua volontà, e le condizioni eseguissero perchè così voleva.

La mezza notte era già scorsa, quando fu posto fine al tremendo colloquio. I deputati s’affrettarono a rapportare al doge le parole di Botta. Si convocò in ora straordinaria il consiglio; vi si trattò dell’inesorabile volontà dell’inumano generale. Genova avrebbe avuto d’uopo in que’ supremi momenti d’uomini energici, di quegli uomini che a difesa della libertà, anzichè tergersi colle mani gli occhi bagnati di pianto, non istanno un istante in forse ad armare la mano d’un ferro ed a chiamare il popolo tutto contro il nemico. Ma erano mutati i tempi per Genova. I suoi reggitori non sapevano trovar fiamma al pensiero dell’opere grandi che i grandi Genovesi avevano operate. I nomi degli Adorni, dei Fregosi, dei Doria ed altrettali non giungevano ad iscuoterli. Una sol donna antica genovese valeva per tutti quei padri; quelle donne che, serrate in unità di falange, animose volavano al conquisto del sepolcro del Nazareno; facevano gitto de’ loro gioielli e dorerie per cingere la città di baluardi; pugnavano, ministravano le armi; quella bellissima figlia di Fulcone Guercio che, ferita la mammella di strale, cadeva a lato de’ combattenti suoi padri, incitandoli all’ire.

Gli uomini dell’oggi, al racconto delle sciagure che soprastavano alla Repubblica, in atteggiamento mesto e doloroso rimangono, come coloro che, sopraffatti dalla paura, non sanno a qual partito appigliarsi.

Per ordine dei supremi consigli si chiamò alfine un consiglio di guerra. Vi assistettero gli ufficiali generali, i brigadieri e i colonnelli. Degni servi degli uomini fiacchi che reggevano la Repubblica, essi opinarono che la città per la poca soldatesca non poteva resistere alla forza superiore degli Austriaci; che non v’erano vittovaglie se non per pochi giorni; che la folla delle popolazioni della Polcevera e del Bisagno, venute a ricoverarsi dentro le mura, oltre il consumo dei viveri, cagionerebbe maggiori confusioni e minore difesa; che il contrastare con guerra non ridonderebbe in altro che in un totale esterminio.

La Signorìa si credette stretta da una ineluttabile necessità a piegare il collo, e vergognosamente il piegò. Acconsentì alle condizioni, il minor consiglio le approvò; venne sottoscritto il foglio fatale e lo si rimandò a Botta; il quale, non sì tosto l’ebbe ricevuto, ordinò ad una banda di granatieri prendessero possesso della porta della Lanterna. In sull’annottare del dì 7 mandò a dire ai Genovesi che voleva anco la porta san Tommaso. I deputati recaronsi a lui, e rappresentarongli come avesse a voce detto s’accontenterebbe di una sola. Il tristo Italiano a quelle parole, con un ghigno infernale, rispose che se dessi non avevano cervello lo aveva ben lui; che col domandare una porta, non aveva punto inteso un mucchio di sassi in arco, ma sibbene un adito aperto e libero per Genova, e che voleva porta san Tommaso. Ei se la ebbe; come pure per ordine della Signorìa ebbesi il castello di Gavi; ma non senza sdegno di Gianluca Balbi, che lo governava.

Occupate le porte Lanterna e san Tommaso, occupazione che era la servitù di Genova, la Signorìa, postergando insino all’estremo ogni dignità, mandava copiosi rinfreschi e cibi preziosi al Botta. Ma questi che di ben altri rinfreschi che di gola aveva voglia, ricusò il tutto. I sopracciò, temendo che il popolo, veduto il rifiuto in uno all’inaspettata consegna delle porte, potesse uscire in atti «imprudenti» - così i governi deboli chiamano la libera manifestazione del popolo contro ai nemici - ordinarono che i canestri prelibati fossero lasciati nella casa della missione di Fazzuolo. Quei religiosi godettero parte di quei doni, parte ne diedero ai poveri.

Il giorno 8 settembre arrivava in San Pier d’Arena l’annunciato commissario Chotek. Furono tosto dalla Signorìa mandati a lui Giambattista Grimaldi e Lorenzo Fieschi; a questi il duro Tedesco disse che la regina d’Ungheria era clementissima; che lasciava lo Stato ai Genovesi, ed in libertà di governarsi colle proprie leggi, cose di cui ella avrebbe potuto giustamente privarli per diritto di guerra e di confisca; che per cagione loro i Gallo-Ispani avevano trovato aperto il varco per introdursi in Lombardia, cui avevano sino in fondo desolata e guasta; che la regina aveva ogni ragione per domandare ai Genovesi il rifacimento dei sofferti danni; ma che siccome clemente era e buona così si accontentava soltanto di tremilioni di genovine, uno de’quali fra quarantotto ore, il secondo fra giorni otto, il terzo fra quindici. Concluse colle sue intimazioni, e disse badassero bene che se non pagavano i milioni avrebbero ferro, fuoco e sacco.

I deputati genovesi rimasero attoniti e pieni di spavento all’udire di quell’enorme contribuzione, che sarebbe stata insoffribile ad una ricca provincia, non ad una città sola. S’aggiunga che il Botta, il quale aveva ricevuto le cinquantamila genovine a titolo di primo sollievo pei soldati, e per cui, secondo la promessa, doveva contenerli in disciplina, e pagare ogni cosa in contante, andava moltiplicando in nuove e gravose richieste di tende, farine, biscotti, bastimenti da trasporto, in somma in tutto ciò che poteva abbisognargli, senza fare pagamento veruno. I deputati erano andati a trovarlo, lamentandosi e protestando che i Genovesi perivano sotto il peso di tanti balzelli e di tante avanie; ed egli aveva risposto «che bene restavano loro gli occhi per piangere». Così Genova pagava ad uno spietato nemico il fio del suo Finale, che esso stesso le aveva ingiustamente ritolto.

 

V.

 

Il generale Botta aveva detto ai Genovesi che ben loro rimanevano occhi per piangere. Ora vedremo come rimanessero loro pur mani per battere. L’abbiam detto nel primo capitolo, la tirannide ha pure un limite. Raro i popoli danno come Roma sotto Domiziano esempio di solenne pazienza, tollerando il colmo della servitù a cui la tirannide li ha condotti. Quando il giogo si è fatto insopportabile basta una parola, un atto a far sorgere il popolo contro l’oppressore.

Il Botta instava, e il Chotek più di lui, perchè presto Genova pagasse il primo milione. In caso contrario minacciavano l’esecuzione militare, non rendendosi garanti di quanto potesse in città accadere per parte delle soldatesche sguinzagliate.

Non soltanto que’ due inumani uomini si alzavano su colle acerbe domande per pagare e pascere l’esercito, ma benanco per procacciare ogni fornimento necessario alla spedizione che intendevano di fare contro la Provenza e contro Napoli.

Invano i deputati pregarono Chotek divenisse più umano; invano il pregarono a non voler la rovina della città, ad accontentarsi di una minore somma, od almeno a dare respiro sufficiente per trovarla. Volle la somma intera, accordando soltanto un breve indugio.

Il Senato, oppresso da una ferrea necessità, prese una risoluzione insolita e spaventosa, e fu di por mano nel sacro deposito di san Giorgio, dov’erano i capitali, non dello Stato, ma di uomini particolari, i quali, avendo fede in Genova, là avevanli investiti, mai immaginando, fra avvenimenti possibili di quaggiù, una irruenza di Austriaci, noti per la loro fame degli altrui averi. Si fecero i sacchi, si aprirono le porte, si caricarono le some, e l’illibato denaro fu portato all’avidissimo Chotek. Ei ne gongolava tutto per la gioia; ma i Genovesi ebbero a provarne sommo dolore; molti avrebbero desiderato di non essere mai venuti al mondo anzichè vedere quel denaro cadere in mani austriache.

I barbari nordici aspettavano senza remissione il tempo prefisso per l’estinzione delle altre due rate. Nè cessavano con tutto questo le domande del Botta per nuovi attrezzi militari, nè le molestie dei soldati contro li cittadini, cui per la più frivola cagione, e talfiata senza cagione veruna, disonestamente bistrattavano così fuori, come nelle case. «Non mai, scrive lo storico Botta, si vide un soldatesco furore simile a quello. Certamente se i Genovesi fossero stati, non uomini, ma bestie, con tanta rabbia non si sarebbe incrudelito contro di loro».

L’esecrabile fame dell’oro genovese andava ogni dì piú che l’altro moltiplicandosi nell’empie gole austriache; per essa i soldati di Maria Teresa avevano dimenticati perfino gli interessi del re di Sardegna.

Il banco di san Giorgio turbava i sonni di Carlo Emanuele, il quale, oltre l’avere il marchesato di Finale, voleva pur partecipare in que’ monti di genovine. Il ministro di lui conte Bogino il sollecitava, ed egli per sè ci andava assai volentieri. Il re si lamentò cogli Inglesi, i quali, essendo ancor più teneri di lui che degli Austriaci, molto efficacemente lo favorivano.

Villet, ambasciatore inglese, e Townshend, ammiraglio, trovarono che Carlo Emanuele aveva tutte le ragioni, e mandarono una nave con uno sciambecco[2] nel porto di Genova. Fu lasciata entrare, chè, come abbiamo letto nelle intimazioni del Botta, doveva il porto essere libero anco alle navi delle potenze alleate. Il capitano si ancorò alla bocca, non per semplice stazione, ma per commissione crudele. Quanti legni arrivavano, tanti faceva venire a bordo, poscia li metteva in preda, arnesi di guerra o non di guerra, vettovaglie o non vettovaglie portassero.

I Genovesi alzarono grida dolorose, poichè ben scorgevano come alla rapacità soldatesca si sarebbe presto aggiunta l’inesorabile fame. Non era punto da dubitarsi, che, sparsasi la voce dell’infame condotta degli Inglesi, nave nissuna più non si sarebbe indirizzata a Genova.

I deputati della città andarono dal Botta, gli rappresentarono che se quegl’Inglesi non se ne fossero andati, o non avessero cambiato modi, la fame avrebbe consumato non solamente i Genovesi, ma anco gli Austriaci; che il pretendere che la città pascesse l’esercito, ed il torle il mezzo di far venire i viveri, era un volere cose contradditorie; che poichè pei capitoli dell’accordo si era statuito non potessero i cannoni della Repubblica discacciare gl’insolenti, facesse almeno opera egli che cessassero. Rispose, che farebbe; eppure la rapacità continuava. Instarono di nuovo, e di nuovo rispose che farebbe. Ma era nulla di nulla; imperocchè l’Inglese continuava; porto e città erano desolati.

I reggitori della Repubblica fecero domandare al capitano stesso della nave nemica, perchè contro Genova in quella guisa operasse. Rispose ipocritamente dolergli tal cosa, ma esservi astretto dagli ordini superiori; condannare egli pel primo come ingiusto il suo operare e di pochissimo onore per la sua nazione, ma essergli giuocoforza obbedire.

Botta non rimediava, pretessendo ragioni che per comando di Maria Teresa nulla poteva imprendere che potesse arrecare disgusto a Carlo Emanuele o contrariare le sue intenzioni.

Gli storici non dubitano a credere come tra Austriaci ed Inglesi fosse una sola bottega.

Una terza volta i Genovesi si lamentarono col Botta. Dopo lunga discussione il generale concluse col promettere che avrebbe dato alle navi che sarebbero giunte in porto passaporti che l’Inglese rispetterebbe. Quei passaporti si davano in apparenza gratis, ma in sostanza no; chè anzi costavano grassi beveraggi.

In mezzo a congerie tale di danni e di disastri e sul timore di maggiori, avevano i cittadini concepito tanto terrore, che, dimentichi della patria e forse di loro medesimi, abbandonavano le proprie case e l’antica sede delle proprie famiglie, si dannavano all’esilio volontario, e andavano cercando se nel mondo fosse qualche regione in cui ancora si pregiasse il giusto e l’onesto, e trovasse la sventura compassionevoli cuori. Molti dei principali negozianti erano già partiti, già partivano alcuni dei primari patrizi, portando seco quanto di prezioso era asportabile. Nasceva il pericolo che, seguitandone altri l’esempio, si venisse finalmente a tale da mancare nel minore consiglio il numero dei suffragi necessario per andare a partito e fare le deliberazioni; cosa che sarebbe riuscita di totale esterminio in tanta necessità di provvisioni subite ed importanti. Con una legge si ordinò agli annoverati nel minor consiglio a non scostarsi per un anno dalla città o dalle vicinanze sotto pena del pagamento d’una multa di quattromila scudi d’oro e di essere mandati a confine per dieci anni.

 

VI.

 

Mentre Genova era in preda alle surriferite sciagure, nelle riviere andava pur precipitando il suo Stato. I Piemontesi, guidati dal conte della Rocca, si erano già avanzati nella riviera di ponente, avevano presa la città di Savona, solo rimanendo in potere della Repubblica il castello, alla cui custodia era Agostino Adorno, nobile per lignaggio ed ancor più per valore. Comechè egli si fosse avveduto che la fortuna di Genova andava cadendo in disperazione, da nessuna parte gli si aprisse speranza di soccorso, intento solamente al suo dovere, aveva risposto alle chiamate di dedizione che gli erano state fatte, che la Repubblica gli aveva dato in guardia la fortezza e alla Repubblica la voleva conservare.

Nacque da una tale opposizione un caso per parte degli Anglo-Austriaci, cui non sappiamo classificare se più iniquo o più ridicolo. Gli Inglesi, vilmente torcendo a danno del più debole il senso dell’articolo della intimazione del Botta, in cui era detto che i Genovesi non potessero commettere ostilità contro gli Austriaci e loro alleati, pretendevano che Agostino Adorno non dovesse in modo veruno sturbare i Piemontesi nelle opere che facevano contro la piazza di Savona, come se i Genovesi fossero obbligati a lasciarsi uccidere senza la menoma resistenza.

Il misero Adorno, mosso o da una fede eccessiva nei patti, o da una prepotenza, di cui non poteva conoscere, se ricusasse, gli effetti contro l’infelice sua patria, frenò la destra, e fece tacere i cannoni. I Piemontesi poterono farsi avanti a loro bell’agio nei lavori della per loro non difficile ossidione; imperocchè procedevano contro chi non voleva difendersi per rispetto ai patti stipulati, o per timore d’una incredibile prepotenza.

Quando poi le trincee, e le alzate, e le scavate, e gli spinapesci, e i gabbioni, e le fasciature, ed altre simili invenzioni di guerra furono condotte a compimento, senza che il castello dêsse segno, i Piemontesi cominciarono molto furiosamente a bersagliarlo con palle e bombe. L’Adorno, sebbene fosse sul disavvantaggio, per avere il nemico preso i luoghi più propizi all’attacco, non si smarrì punto; e poichè al fuoco si era venuto, col fuoco vigorosamente rispose. Nè cedè, come vedremo, se non quando per la rottura della muraglia era divenuto evidente che non a mancanza d’animo, ma ad una necessità di guerra obbediva.

Carlo Emanuele, geloso di ricuperare la sua Nizza, non si era punto fermato all’intoppo trovato a Savona. Lasciati ivi sufficienti manipoli di soldati, aveva più oltre proceduto, preso Finale, già bloccato dal principe di Carignano, occupato tutto il paese, e non aveva trovato impedimento che a Ventimiglia. Quivi era ancora forte mano di Francesi, i quali ricusarono di cedere alle intimazioni di Carlo Emanuele. Laonde fu necessità al re d’usare la forza per domarli. Fatte venire per mare le grosse artiglierie, battè talmente la piazza che il comandante, fatta per otto giorni onorata difesa, fu obbligato ad arrendersi.

Destino non dissimile ebbero i castelli di Villafranca e di Montalbano, i quali, venuti dopo debole contrasto in mano dell’antico padrone, gli aprirono l’adito a Nizza.

Carlo Emanuele desiderava di andare senza porre tempo di mezzo a tentare le sponde del fiume Varo; ma fu costretto di frenare il corso alcun giorno, essendo stato in Nizza colpito dal vaiuolo.

In sullo scorcio del mese di novembre, sempre fermo nel suo divisamento, accompagnato dall’austriaco Brown, passò il re il Varo, recandosi alla conquista della Provenza. Di tale invasione ebbe a soffrirne anco l’infelice Genova; imperocchè, avendo gli Austro-Sardi trovato il paese invaso spoglio affatto di viveri, da quella città traevano le provvigioni, il che la metteva in augustie tali da non potersi adequatamente descrivere. Oltre a ciò abbisognando gli aggressori di grosse artiglierie per battere le piazze forti, ed innanzi a tutte quella di Antibo, nè essendo riuscibile a Carlo Emanuele di far venire le sue in numero sufficiente per le difficoltà che un anticipato inverno aveva arrecato alle strade, decisero di servirsi di quelle di Genova; per cui scrisse al Botta che le mandasse. Il generale austriaco ne fece istanza alla Signorìa con qualche dolcezza di parole; ma però con minaccia che se non le dêsse le avrebbe prese da sè. Ebbe per risposta che la Repubblica non poteva concedere ai danni altrui quelle artiglierie che alla sua difesa soltanto erano destinate; che del rimanente essa non aveva mezzi per opporsi alla forza, qualora si fosse voluto con violenza levarle.

Forte risposta, che dimostrò non avere ancora l’estrema sventura del tutto accasciati gli animi dei patrizi genovesi.

Botta, veduto come fosse mestieri fare da sè, andava nell’arsenale visitando i depositi delle artiglierie, dei mortai e degli attrezzi, come pure i cannoni che in più felici tempi erano stati in sulle mura piantati a difesa della patria. Questo e quel pezzo sceglieva; e già aveva dato principio a trasportarli alla volta della Lanterna, donde intendeva inviarli sulle navi a Carlo Emanuele, il che fu presto cagione di quel furore di popolo che or ora narreremo.

Non meno di Genova e della riviera di Ponente era in lagrimevole stato la riviera di Levante. Quivi erano venuti colle loro genti austriache i generali Piccolomini e Kai, e l’avevano occupata in tutta la sua lunghezza da Nervi sino alla Spezia, nel quale golfo soggiornarono a loro arbitrio i vascelli inglesi e le galere sarde. Le insolenze, le rapine, le violenze soldatesche anche qui andarono al colmo: le estorsioni erano incredibili; il più basso uffiziale esigeva, sotto titolo di quartiere d’inverno, di quieto vivere, o d’altro pretesto, ciò che più venivagli pel capo. Gl’infelici abitanti cercavano alla meglio di soddisfare alla cupidigia degli ospiti rapaci; tuttavia non andavano esenti dagli strapazzi. Coi più acerbi modi venivano le comunità sforzate a dare grosse provvisioni di carni e di altri generi che dal paese non erano prodotti. Gli uffiziali dicevano: «Dateci il denaro, e ci provvederemo da noi medesimi.» Davano i Riveraschi anco il denaro, e tuttavolta le molestie e le vessazioni continuavano. E guai a chi si fosse indugiato all’impazienza austriaca. Le sconcie parole non solo, ma gl’immani fatti e le battiture stesse e le mortali ferite avrebbe dovuto soffrire.

Tutto il corpo della Repubblica era rotto e sanguinoso; tutto stretto dalla forza nemica; eppure i suoi tiranni avevano ancor paura che si riscuotesse. Domandarono gli statici, come se il più puro sangue degli onesti cittadini dovesse stare per la mallevadoria della schiavitù.

Sono ben schifosi gli oppressori dei popoli!

Al periglioso sacrificio furono scelti ed a Milano mandati, Giannicolò Santi e Carlogrillo Cattaneo, senatori, Giambernardo Veneroso e Negrone Rivola, patrizi.

Nel colmo di tanti affanni giungeva in Genova un conte Cristiani, gran cancelliere di Milano. Nato suddito della Repubblica, scritto nel libro d’oro, il suo arrivo diede qualche speranza a chi già più non ne aveva. Ma non più tenero verso la patria che il Botta, veniva egli a molesto cómpito. Non si tosto in Genova, egli stabiliva un ufficio di posta per Milano e paesi austriaci, non si fidando delle poste genovesi. Una rappresentanza della città si presentava a lui, raccomandandogli che sospendesse quell’istituzione. Rispondeva il cancelliere che non poteva nulla, e se ne partiva colle sue tasche e le sue bolgette.

Infrattanto lo spietato generale Botta andava sempre più aggravando la mano sulla sventurata Repubblica. Nè meglio rispettava la sua sovranità che la possibilità del pagare. Sforzava i magistrati a mettere in libertà i figli di un tal Domenico Rivarola, ladro e ribelle, il quale incitava allora a ribellione la Corsica ad istigazione di Carlo Emanuele. Questo re non si vergognava di servirsi di quell’impuro e vile uomo per turbare alla Repubblica lo Stato quieto in quell’Isola.

L’aspetto di Genova mostravasi squallidissimo; ad ogni momento grida d’uomini tormentati da crudeli aguzzini sorgevano ora in questa, ora in quella via; le botteghe si chiudevano per paura, per violenza si aprivano; i generali, gli uffiziali, gli stessi gregari usavano verso i cittadini asprezze sopra ogni credere, i più barbari trattamenti. S’accostavano alle botteghe per comperare generi; facevano o pesare, o versare, o tagliare ciò che loro piaceva, eppoi pagavano come saltava loro pel capo, senza riguardo di giustizia e di onestà, adoperando persino il bastone contro que’ meschini che prontamente non soddisfacessero alle loro richieste.

I deputati Grimaldi e Fieschi lamentavansi a nome della città col Botta delle insoffribili violenze. Il Tedesco rispondeva stringendosi nelle spalle, e dicendo, che quella era guerra, e che pure, ripetè, avevano i Genovesi gli occhi per piangere.

La giustizia era sospesa, i magistrati più non esercitavano gli uffici. Offendeva massimamente gli occhi del popolo il vedere il doge, l’uomo in cui era raccolta tutta la dignità della Repubblica, e che allora era Gianfrancesco Brignole Sale, chiaro per virtù e per costanza pari alla disgrazia, uscirsene senza onore di palazzo, mentre al tempo lieto sempre l’accompagnavano e la comitiva del grado ed i soldati attenti a fargli onoranza. Ciò era forse arte in Gianfrancesco, oppure dolore, o rispetto verso le pubbliche calamità. Se non che il popolo l’attribuiva a proibizione dell’Austriaco, e d’infinito sdegno se n’infiammava.

 

VII

 

Chotek andava intanto domandando il pagamento del secondo milione di genovine, e minacciava se non fosse eseguito, sacco, ferro e fuoco. All’avara e feroce intimazione Grimaldi e Fieschi andarono dal Botta, lamentandosi della gravezza della domanda e dimostrando l’impossibilità di soddisfarla. Ma tanto il generale, quanto il commissario avevano l’animo indurato ai patimenti degli infelici. Ei venne fuori con un proverbio tedesco assai usitato in Vienna e che significa: «La cosa deve essere così.» Instarono i deputati, e il generale allora pronunciò questa parabola: «C’era una volta Thamas Kulikan, il quale voleva intraprendere la guerra contro il Signore dei Turchi. Era entrato senza ragione alcuna nell’imperio del Mogol e ne aveva trasportato immensi tesori e ricchezze immense, di cui si servì per sopperire alle spese delle meditate conquiste.» Tirando indi la cosa a Genova, il Botta soggiunse «che l’Imperatrice, regina d’Ungheria, faceva la guerra contro i Francesi e che lo stato di Genova considerava come il suo Mogol.»

Così un Italiano per conculcare Italiani si serviva dell’esempio d’un Tartaro.

Non trovata pietà veruna in uomini spietati, Genova si apprestava a cercare il milione. Creossi un magistrato di tredici membri, uno decorato della toga senatoria, il quale a tutti presiedeva, due della toga procuratoria, cinque eran patrizii ed altrettanti cittadini o popolani dei migliori, acciocchè ad un tristo, ma inevitabile ufficio attendendo, con un balzello ad arbitrio, ma con equità posto sui più facoltosi, raggranellasse il secondo monte di genovine. Ma vedendosi il denaro di gran lunga inferiore al bisogno, e maggior tempo richiedendosi per raccoglierlo di quello fissato da Chotek, il quale già minacciava sacco e rovina, fu forza di compire la somma col denaro estratto una seconda volta dalla cassa di San Giorgio.

Al veder riaprire le porte del luogo che sacro a tutti doveva essere, immenso dolore s’aggiunse al dolore che già sì grave era nel cuore dei Genovesi.

Benedetto XIV, alle inaudite oppressioni ed angustie della Repubblica, si commosse. Scomunicare un generale apostolico sarebbe stata marchiana davvero; ma il pontefice, che al postutto non era tristo uomo, volle mettersi di mezzo tra Austria e Genova. Ordinò al suo nunzio in Vienna che caldamente si adoperasse presso Maria Teresa, affinchè si mostrasse clemente verso la Repubblica ligure. Il nunzio ebbe per risposta dalla bocca stessa dell’Imperatrice, che, in grazia delle preghiere del pontefice, si contentava di desistere dalla domanda del terzo milione. Il nunzio scrisse a Benedetto; questi alla Repubblica.

I Genovesi già se ne rallegravano, quand’ecco Chotek, senza cui non era bene far conti, domandare colle solite minaccie il terzo milione; più un quarto milione per gli alloggiamenti invernali; più ducento cinquantamila fiorini per prezzo «clementissimamente» come disse, valutato dalla sua Imperatrice e padrona, di que’ magazzini di viveri che pel mantenimento delle soldatesche della Repubblica avrebbe dovuto essere in Genova all’arrivo degli Austriaci.

Invero quegli appicchi militari per estorcere denaro erano cose incredibili e spaventose.

I Genovesi, ingannati crudelmente, vennero allora in forse di loro medesimi, e temettero del totale sterminio della loro patria. I deputati tornarono da Botta, lo pregarono a muoversi a giustizia verso la desolata città, e gli dimostrarono l’impossibilità di soddisfare alle insaziabilità del commissario. Il generale lasciò capire che se in Genova non si trovava oro ed argento a sufficienza, mettessero i cittadini mano nei capitali che possedevano in Inghilterra, in Francia, in Olanda, in Italia, in Alemagna, e con essi soddisfacessero. Soggiunse ironicamente parlando che, poichè tanto amavano la patria, non dovevano ritrarsi dal fare l’indicata deliberazione per salvarla. Ma quasi subito ritirandosi dalla sua proposizione, forse perchè aveva parlato con Chotek, riprese dicendo che voleva vedere oro e non carte, e tornò in sul volere che si pagassero in contanti il milione delle genovine colle due aggiunte sopra accennate.

Governo e cittadini erano costernati; ma Botta e Chotek non si curavano punto della costernazione e dei dolori altrui: essi si fondavano sulle baionette e sui cannoni. Chotek anzi venne apertamente in sul dire, come se Thamas Kulikan fosse lui stesso, che quanto era in Genova e quanto possedevano gli abitatori, tutto all’Imperatrice apparteneva, e che qualsivoglia cosa avessero voluto serbare, dovevano ripeterla dalla di lei generosità e clemenza. Con ipocrito dolore poi andava il commissario dicendo che gli ultimi mali sovrastavano a Genova, ignara che cosa realmente fossero gli estremi della guerra; ch’egli però lo sapeva, e, comechè avesse il cuore indurato fra l’armi, al solo pensarvi ne sentiva raccapriccio ed orrore. Diceva che avrebbe lasciate le truppe per le esecuzioni, ma in quanto a lui sarebbe uscito dalla città per non vederne cogli occhi propri l’eccidio e la desolazione. Replicatosi dai deputati che qualunque trattamento non poteva indurre Genova a pagare, il truculento Chotek soggiunse che essi parlavano in quella guisa, perchè mai non avrebbero potuto figurare, nè concepire nell’animo i mali che li minacciavano, i quali di gran lunga avrebbero superato ogni immaginativa.

Per mostrare poi come fosse risoluto di eseguire ciò che aveva minacciato, diede ordine che gli uffiziali e i soldati vieppiù insolentissero. Laonde si videro questi bentosto girare baldanzosi per la città, ed insultare ai pacifici cittadini e ai tranquilli soldati della Repubblica. Visitavano le porte ed i posti dove ancor erano truppe genovesi, e bravavanle, e da loro imperiosamente richiedevano qual numero di gente abbisognasse per provvedere le necessarie sentinelle, affermando che presto sarebbero venuti a prenderne possesso.

Soldati od uffiziali incontrandosi per le vie con soldati od uffiziali della Repubblica superbamente e con atti del maggior disprezzo li riguardavano. Notavano a voce alta gli Austriaci le case cui designavano al sacco. Alcuni uffiziali, portando al sommo la loro impertinenza, cavalcavano con barbarica iattanza nel chiuso ricinto di Porto Franco, dove, all’ombra del diritto comune delle genti e sotto la fede della Repubblica, stavano raccolte le ricchezze del commercio fra le nazioni, vantandosi che tutto quel tesoro era loro roba e che presto ne avrebbero pigliato possesso. Altri apposta andavano spargendo funeste voci, e profetizzavano che non passerebbero otto giorni che il sangue inonderebbe Genova, e che i mucchi dei cadaveri farebbero mostra ancor più terribile del sangue.

«Furore che più non pensa, scrive lo storico Botta, furore che più non regge, gonfiava gli animi poco sofferenti dei Genovesi.» Era il caso in cui i versi immortali di Petrarca si dovessero tradurre in fatto:

 

«Virtù contro furore

Prenderà l’arme e fia ’lcombatter corto;

Chè l’antico valore

Nell’italici cor non è ancor morto.»

 

Sì, era giunto l’istante in cui un popolo oppresso, ma non domato, doveva fiaccare l’orgoglio a chi con tanta insolenza lo insultava e lo rubava.

Il popolo genovese ha anima, è vero popolo italiano; non poteva esso più a lungo sopportare il terribile giogo.

 

VIII.

 

Il Botta dava opera al suo divisamento di togliere via le artiglierie di Genova per mandarle in Provenza, ove gran terrore regnava alla fama dell’esercito confederato. La Francia era lasciata a sè stessa. Gli Spagnuoli, rotto quasi l’accordo con essa, avevano preso la via per riguadagnare le case loro e rifarsi delle fatiche e dei danni sofferti in lunghi viaggi ed in accannita guerra. Francia sola non poteva bastare con soldati scemi per morti e diserzioni, resi deboli dalle tante fatiche, non solo a combattere lunga guerra, ma ad opporre una diga all’irrompere dei soldati vincitori di Londra e di Vienna.

La causa dei Borboni pareva perduta. «Ma, era fatale, scrive il Buonamici, che alla virtù dei Genovesi, la Francia andasse obbligata della sua salvezza, l’Italia della sua libertà.»

Qui ci è forza accennare come noi non accordiamo punto col Buonamici. Imperocchè è ben vero che l’eroismo genovese dalla rovina salvò colle sue le terre meridionali di Francia; ma non possiamo capire che razza di libertà salvasse all’Italia, quando la cecità del governo piemontese aveva fatta lega per riconfiggere nella Penisola il chiodo fatale dell’austriaca dominazione. La reggia di Torino non poneva punto mente alle voci di Dante e di Macchiavelli, e i suoi ministri ignoravano i bei versi di Petrarca:

 

«Ben provvide natura al nostro Stato

Quando dell’Alpi schermo

Pose tra noi e la tedesca rabbia.»

 

Gli Austriaci avevano cominciato col levare i più grossi cannoni dalle mura e dai posti della città; e già tredici pezzi coi loro carriaggi avevano trascinati verso la Lanterna, dove attendeva un naviglio inglese per riceverli a bordo, e portarli a destinazione. Fremeva il popolo nel vedersi involare quelle armi che erano state apprestate a sua difesa. Dalle maledizioni tacite, passava alle minacce aperte:

« — Costoro, diceva, vengono a rubarci l’oro per consumare, e anco ci disarmano per poterci a loro agio scannare.»

E l’indignazione, la rabbia, l’orrore andavano sempre più manifestandosi nel minuto popolo, il quale, coll’animo invasato dal furore e dalla vendetta, s’affollava e fremeva e mormorava là dove qualche ingombro od intoppo nasceva intorno alle artiglierie, che per le strette e montuose vie di Genova si conducevano dall’odioso nemico verso la porta a riva il mare.

Il popolo stava per insorgere; e quando il popolo si desta, diremo col poeta soldato Goffredo Mameli, il martire di Roma:

 

«Dio si mette alla sua testa

Le sue folgori gli dà.»

 

Le grandi rivoluzioni mai sempre furono fatte dai popoli. Il popolo tant’oltre non guarda; esso non numera il nemico; non calcola: ma sorge, combatte e muore. Il patrizio pensa ed è vizio, la plebe opera ed è virtù. Gli uomini dubitosi non salvano mai gli Stati, soltanto il popolo sa eseguire i grandi rivolgimenti politici, sa distruggere d’un colpo gli artifizi lungamente combinati dalla tirannide.

Nonostante i segni del nembo che s’aggirava in aria, Botta continuava nella sua ostinazione, quasi che Iddio pel castigo degli oppressori gli avesse tolto l’intelletto. Chotek, con quella sua avidità dell’oro, non sapeva alla sua volta quello che si facesse; solo andava gridando: danaro, danaro, date qua danaro!...

E tra i cannoni e il danaro scese tremenda la vendetta di quel Dio, che i potenti atterra e gli umili solleva.

Era il 5 dicembre 1746. Il pallido sole d’una bella giornata d’inverno brillava allegro e puro su d’un limpido, azzurro cielo. Il mare increspato lene lene dalla tramontana pareva andasse a ritroso, ed era appena se una lama sottile di candida spuma si frastagliasse fremendo in sulla riva.

Genova da tempo non era paruta così bella; il suo popolo stesso sembrava vivificato, ritornato ai bei giorni gloriosi della Repubblica.

Il dì era trascorso senza fatto di qualche importanza. In sulla sera una mano di Austriaci, pel quartiere di Portoria, veniva trascinando colle funi un pesante mortaio da bombe, quando ad un tratto, sfondatasi la strada sotto l’immane peso del bronzo, rimase incagliato il trasporto. Invano i soldati s’erano affannati e colle corde e colle stanghe a sollevare l’affondato mortaio, invano avevano chiesto aiuto al popolo, che, in cerchio, man mano s’era venuto agglomerando dattorno ai Tedeschi, e ghignava alle barbariche loro bestemmie.

Un giovanetto, il figlio di un povero pescatore, bello della persona e con occhi vivacissimi, stava in fondo alla via contemplando quel tramestio, e pareva che la vampa di tutto un odio gli salisse al capo.

— Oh! i maledetti! sclamò d’un tratto. Ci rubano ogni cosa costoro; e non vi saranno genovesi mani che sorgano a vendicare l’oltraggio?

— Aiutati che ti aiuterò, son parole di Dio, rispose un vecchio popolano, che era a lui vicino.

— Miseri noi! miseri noi!... suonò una voce di donna, miseri noi! che solamente ci rimangono gli occhi per piangere.

— E mani per combattere, no?...

In così dire il giovanetto s’era venuto avvicinando a pochi passi dalla soldatesca, che rabbiosamente lottava per vincere la resistenza del mortaio.

— Per Iddio! urlò il sergente nel suo gergo barbaresco; per Iddio! razza di scalzacani che siete, date una mano qua!...

L’opera era infame. Nessuno si mosse. Anzi la cerchia del popolo indietreggiò; tutti abborrivano dall’empio ufficio.

— Sollevatelo voi altri stessi se potete, che vi colga il fistolo! risposero cento voci alla stolta pretesa degli Austriaci.

I soldati, che non s’immaginavano punto qual grossa piena mandassero gl’indomiti cuori de’ Genovesi, si decisero ad usare il bastone contro alcuni popolani per obbligarli.

Un immenso grido di dolore e di rabbia, un fremito di furore e di vendetta sorsero come il mugghio d’un mare in tempesta. L’argine si ruppe, e cento e cento mani si levarono pronte a respingere la prepotenza colla forza.

Il giovanetto si trovò come alla testa di quella bufera. Cavato il logoro saio, e rimasto smanicato alla foggia popolaresca, mostrò le belle, giovanili sue forme, dove l’Ercole e l’Apollo si confondevano nel plastico atteggiamento della minaccia. Misurata la distanza con occhio pieno di lagrime, furioso volse il capo alla folla che stava dietro a lui, si chinò rapidamente, e colla destra dato di piglio ad uno sasso: Che l’inse! sclamò, e lo trasse. Il sasso scagliato corse a percuotere nel capo uno dei percussori, che stramazzò.

Che l’inse! parola che in quel tronco ed energico dialetto genovese significa presso a poco: «Io la rompo, la finisco, più non mi tengo.

Che l’inse! Che l’inse! Bravo Balilla, viva Balilla! chè tale era il nome del fanciullo, dappertutto si udì a gridare.

Ed ecco sorgere una sassajuola così furiosa da tutte bande contro que’ luridi soldati, mandati a pericolosa bisogna dallo stolido marchese Botta, i quali stimarono che fosse bene di dare indietro più che di passo.

Gli Austriaci, vergognosi della fuga, o rinfrancati gli spiriti da chi li comandava, tornarono indietro colle spade sfoderate, persuadendosi che a quell’atto il popolo avrebbe tremato molto e sgombrato il terreno. Ma ecco invece che dessi dovettero di nuovo indietreggiare accolti dai fieri Genovesi con un’altra pioggia di sassate peggiore della prima.

Il drappello, accortosi che quello non era più luogo da starci, a passo di corsa, tutto pesto, sanguinoso, si diresse verso la caserma. Il benaugoroso mortaio se ne stette affondato in Portoria; i ragazzi, come per festa e per vittoria, salivano su quel trofeo, che doveva essere piedestallo di libertà, mentre il popolo ne godeva.

Gli stranieri erano fuggiti all’ira prorompente del popolo, e ormai il fiotto saliva come i cavalloni dell’Oceano, quando il turbine li sospinge colla misteriosa prepotenza dei venti.

Balilla, salito sopra al mortaio, alzando le sue braccia bianche di giovinezza, gridò: «— Animo, animo, fratelli! a palazzo, a palazzo, a prender armi.»

« — A palazzo, a palazzo! andiamo a prender l’armi, andiamo!» rispose ad alta voce il popolo.

« — Viva Maria santissima!»

« — Armi, armi»

Se Tomaso di Aquino fosse stato al mondo e lì presente, avrebbe al certo confermate le parole scritte nel suo libro: «Quando il popolo si leva in massa è Iddio che lo chiama.»

Pigmei dell’umanità, tisici e paurosi intelletti, contemplate questi sublimi impeti del popolo e poi negate, se vi basta l’animo, la vita che anima questo grande essere collettivo. Che ponno mai i teoremi di gabinetto, i calcoli, con cui presumete confinare il mondo dentro alle brevi angustie del vostro cranio, di fronte a quel Briareo dalle mille braccia, a quell’Idra dai mille capi e dalle mille bocche, a quelle mille menti concepenti un solo pensiero, a quelle mille bocche levanti un concorde grido di guerra, a quelle mille mani pronte a combattere? Come l’immenso Oceano prova la vanità dell’umana potenza, così l’irresistibile onda del popolo prova la debolezza dei troni. Stolto chi crede infrenare l’impeto del popolo. Non v’ha diga che il possa. Simile alla bufera imperversante del mare, passa, e scettri e troni, imperatori e re, tutto travvolge sotto di sè e precipita.

Annottava; la pioggia si era messa a cadere a secchie; non per questo il popolo di Portoria si ristette. Calò pel borgo dei Laneri, per la via dei Servi, per la piazza del Molo, e, qual valanga che più s’ingrossa precipitando, ad ogni passo raccoglieva furia di gente simile a sè: garzoni da taverna, pattumai, ciabattini, pescivendoli, fruttaiuoli, fognai, facchini, da formare una considerevole folla.

Tra il buio della notte, gli scrosci dell’uragano, le grida che assordavano l’aria, i lumi che mano mano s’andavano accendendo nelle vie e per le finestre, formavasi uno spettacolo cui penna non potrà adequatamente descrivere, spettacolo degno dell’immaginazione di Dante.

Giunto il popolo a calca innanzi al palazzo pubblico, cominciò con urli e schiamazzi a chiedere le armi.

Erano in quel punto congregati i collegi per deliberare sulle tristi condizioni in cui versava la patria. Udito il rumore e le strida del popolo, mandarono i più prudenti padri in una stanza contigua all’interno cortile, acciocchè, fatti quivi venire i capi del tumulto, intendessero a calmare quel furore, che poteva, secondo i loro paurosi intelletti, mettere la città al bersaglio d’un sacco, e precipitarla in un abisso di irreparabili mali.

I signori del Governo, non volendo essere sforzati a qualche precipitosa risoluzione, fecero intanto chiudere le porte del palazzo, raddoppiare le guardie, a cui ordinarono che, anco colle armi, contenessero fuori del cancello la folla.

I pacificatori, abboccatisi coi popolani, quantunque mettessero loro innanzi le calamità, gli stenti ed i pericoli conseguenti necessariamente alla loro impresa, nulla poterono da quelli ottenere, perchè stettero sempre ostinati nel volere le armi e nel far guerra cogli Austriaci.

La moltitudine, accresciuta sempre più di numero pel sopraggiungere continuo di popolani di altri quartieri, specialmente di quel di Prè, fermossi a rumoreggiare fino alle cinque della notte innanzi a palazzo, incessantemente chiedendo armi. I sopracciò ricusarono sempre. Indignati i reclamanti cominciarono a mormorare contro i reggitori dello Stato, malgrado del solito rispetto che ognuno nutriva per loro.

Fra la notte tempestosa e piena di pioggie e di tenebre, e la stanchezza dei cittadini, e l’incertezza con cui i non bene conosciuti capi comandavano, la folla mano mano si sparpagliò, ritraendosi ognuno alla fine a casa sua. Era un bisbiglio, uno strepito, un bussare e un aprir di porte, un apparire e uno sparire di lucerne, un interrogare di donne dalle finestre, un rispondere dalle vie. Tornate queste deserte e tacite, i discorsi continuarono nelle case, e non morirono certamente negli sbadigli; chè gli animi de’ Genovesi erano di troppo concitati.

 

I reggitori del governo, temendo che dal moto popolare potesse derivare un gran male, mandarono al Botta il patrizio Nicolò Giovio coll’incarico d’informare quel generale dello scompiglio, d’avvertirlo dell’imprudente contegno dei conduttori del mortaio, di pregarlo a desistere dal pensiero di più farlo trasportare, se pur desiderava che il popolo si rimettesse in calma, e non sorgesse qualche strano accidente. Vollero che il Giovio gli mettesse in considerazione essere impossibile a porre termine alla vendetta di molti, quando sono accesi dallo sdegno. Il rinnegato Italiano rispose al messo che non temeva punto del popolaccio, che avrebbe nella seguente mattina mandata per prendere il mortaio altra soldatesca, condotta da prudente ufficiale per evitare scandali. Giovio ripregò, dimostrò come maggiori sconcerti succederebbero, ove ancora si toccasse allo sprofondato bronzo. Il Botta non si rimosse dalla sua risoluzione.

In fatti la mattina del giorno sei, verso le ore quindici italiane, si videro entrare per porta a San Tomaso cento granatieri austriaci colla baionetta in canna, scortanti una compagnia di guastatori destinata a levare il mortaio. Per la via di Prè erano quasi giunti presso a Fossello, il mercato dei commestibili, quando vennero accolti da una furia di sassate, lanciate loro di fronte dal popolo, che numeroso s’era venuto affollando al mercato, di fianco dalle finestre gremite di donne e di ragazzi, in guisa che, udito lo strano ronzio e sentite le disadatte percosse, più frettolosamente che non erano venuti, se ne tornarono al loro alloggiamento.

Fuggiti gli Austriaci, il popolo, fatto ancor più numeroso per l’agglomeramento di nuova gente accorsa dagli altri rioni, era tornato al pubblico palazzo, minacciosamente chiedendo armi. Ad ogni senatore, che entrava, assordava le orecchie dicendo: « — Armi, armi ci vogliono, non parole. Dateci armi; se non vi volete salvare da voi altri, vi salveremo noi, e noi con voi.»

Ma i padri, che avevano paura di essere salvati, saldi continuarono nel disdire la richiesta. Per non essere sforzati, fecero circondare il palazzo da doppie guardie, colle baionette in canna. Allora il popolo portò scale per salire alle alte finestre dell’armeria; ma i sopracciò fecero quelle scale portar via dalla soldatesca. Infrattanto mandarono nuovamente il Giovio al Botta per assicurarlo che essi non entravano per nulla nella sommossa.

Strana contesa; vigliacca da un lato, eroica dall’altro!

Non potendo avere le armi da chi avrebbe dovuto senza domanda offrirle pel bene della patria, il popolo, acceso da un santo entusiasmo, si voltò a cercarle altrove. Corse alle varie porte e ai vari posti della città, e per forza strappò di mano alle guardie i fucili, dicendo loro che se ne facessero dare degli altri. Quindi pensando che ne potessero essere nelle case dei particolari, specialmente degli ufficiali, si portò la moltitudine a precipizio verso di quelle, e o sforzandone le porte, o scalandone le finestre, vi irruì, e si provvide. Adocchiò altresí le botteghe degli armaiuoli, e spezzandone le toppe s’impossessò di quante armi vi potè ritrovare, senza portar via alcuna altra cosa, o fare la minima violenza.

Armato che fu alla meglio, si divise a squadriglie: una qua, una là, macchinando ciascuna a suo modo la meditata impresa.

Gli Austriaci frattanto si erano fatti forti alla porta a San Tomaso. Vi avevano verso la città guardie raddoppiate e numerosissime, ed in particolare i due reggimenti Piccolomini e Andreasi. Fuori della porta, specialmente sulla piazza principe Doria, stavano attelate grosse forze, massime di Croati, Panduri e cavalleria.

Due squadre di volontari della libertà, l’una per la strada di Prè, l’altra per l’Acquaverde, vennero contro San Tomaso, e quando furono a portata degli Austriaci, mandarono loro un saluto con una ben diretta scarica di archibugiate.

Questo fu il primo segno di fuoco che accennava alla salute di Genova.

Gli Austriaci furono presti a chiudere la porta. Poco dopo ne uscì una mano di granatieri, i quali respinsero i popolani, prendendo loro un cannone, cui una turba di ragazzi, ancor più inferociti dei loro padri, avevano colle tenere braccia aiutato a condurre. I nemici usarono tostamente del vantaggio; onde, fattisi innanzi con alcuni cavalli, prima con una scarica, poi ponendosi a corsa colle sciabole nude, facilmente sparpagliarono quell’incomposta moltitudine. Giunsero sino alla piazza della Nunziata; ma poco vi si trattennero; poichè i popolani, ripreso animo, avevano voltata la fronte, e tirata tal furia di archibugiate che tutta la squadra degli aggressori impaurita, a gran fretta, si riparò nella sicura stanza di San Tomaso, lasciando due morti in mano del popolo.

Principale intento dei sollevati era di scacciare innanzi tratto gli Austriaci da quella porta; e’ s’accorsero come a tale proposito fossero mestiere forza, ordine, armi migliori. Il numero dei zelatori di patria venne sempre crescendo, e con essi l’impeto. Trovate le braccia cercarono le armi, non più solamente sciabole ed archibugi, ma cannoni, mortai e colubrine.

Pegli amatori di quella libertà insidiata da uno spietato nemico, e malamente difesa da deboli patrizi, era bello il vedere il fremito, il bollore, l’ardore del popolo nel ricercare le armi, il durare contro la fatica di chi le trasportava. A forza di sole braccia, senza alcun aiuto di bestie da tiro, uomini, donne, fanciulli, preti, frati, trascinavano i pesantissimi cannoni con una velocità assai incredibile per le ineguali e perciò assai malagevoli vie che dovevano attraversare per giungere a fronte del nemico. Sembrava impossibile che per luoghi così disastrosi potessero essere condotte quelle macchine fatali. Narrano gli storici come in pochissimo tempo fosse montato a forza di sole braccia un grosso mortaio su per la rapida, angusta e difficilissima salita detta di Pietraminuta, cui molto importava di guadagnare per battere di là contro gli Austriaci a San Tomaso e nella piazza principe Doria.

Anco oggidì chi esamina quel luogo così erto, malagevole e stretto, e col fatto il paragona, non può rimanere capace della verità. Iddio infonde molta forza a chi difende la patria da fargli eseguire incredibili cose.

Spezzate con violenza le porte delle pubbliche polveriere, i facchini dentro vi entrarono; ed era una gara nel trasportare chi una cesta di palle da cannone, chi una bomba, chi altro arnese di distruzione; i ragazzi stessi si aiutavano a portare una palla, o un piccone da romper terra, o altro oggetto bisognevole all’intento.

«Maria Teresa, scrive lo storico Botta, che, col bambino in braccio, aveva eccitato così fervido moto fra gli Ungari, avrebbe dovuto ammirare l’ardente zelo del generoso popolo di Genova, non volere soffocarlo con le sue barbare soldatesche. Pacieri bisognava mandarvi, non Panduri e Varadini.»

Ai popolani non era nascosto quanto danno arrecar loro poteva la cavalleria, di cui abbondavano i nemici, perchè entrando, ed a furia correndo per le vie facilmente poteva mettervi ogni cosa in iscompiglio. Per avvisare al pericolo asseragliarono con botti, panche, tavole ed altri impedimenti le tre vie dell’Acquaverde, di Prè e di Sottoriva, verso dove mettono capo in prossimità di porta a San Tomaso, assicurando poi le serraglie con tagliate ed alzate di terreno. Inoltre pensando all’assalire non che al difendersi, vi condussero due cannoni in fronte della contrada dell’Acquaverde, uno in quella di Prè da Sant’Antonio, un altro nell’imboccatura di Sottoriva. Ordinarono poi le guardie; provvidero le sentinelle, avvicendarono ogni esercizio di custodia, osservarono in tutto gli ordini militari. Tanto più maravigliosa era tal cosa, in quantochè quegli uomini inesperti, nessuno o poco ammaestramento guidava, ma soltanto il natural talento di preservare quanto di più caro avevano in terra, la libertà della patria.

Nonostante la grossissima pioggia, che incessante cadeva, e ogni cosa, così gli uomini come la terra, fosse molle, sdrucciolevole e guazzosa, si facevano le guardie, vegliavano le sentinelle, niun servizio veniva negletto, e colla più immobile costanza duravano i volontari della libertà. E sì che la imperversante pioggia era più penosa a loro che ad altri, come quelli che in maggior parte erano dotati di povere facoltà. Misere vestimenta avevano, ricovero alcuno. È d’uopo il dire come i nobili, o che temessero che il popolo fosse per venire a qualche atto sfrenato contro di essi, o che, dubbiosi dell’esito, amassero temporeggiare per comparire in caso di rotta del popolo medesimo incolpabili, avessero egoisticamente fatto chiudere con gran cura le porte, e ostinatamente negassero di aprirle, quantunque ne venissero richiesti e pregati reiteratamente dai combattenti per trovare riparo contro la tempesta del cielo. I vili, mandate le mogli e le figliuole nei monasteri, si erano appiattati nei più intimi penetrali dei loro palazzi, con tutti i piani terreni chiusi, le finestre stoppate, i servitori armati; essi avevano prese tutte quelle precauzioni come quando si tema il sacco.

I popolani, malgrado quell’ingrato trattamento, e il grande bisogno che avessero di ripararsi contro il rovinío dell’acqua, non si portarono ad atti ostili, niuna porta sforzarono. Una sola ne aprirono, e fu quella de’ gesuiti in via Balbi, ponendo quivi il seggio dove si adunarono poscia le consulte e si resse la guerra.

Per dare buon indirizzo ad un moto di tanta importanza, si passò alle nomine dei capi. A presidente del quartier generale venne creato Tomaso Assereto, detto l’Indiano, e Carlo Bava a mediatore generale delle milizie di campagna. Poi gli altri destinati per ciascun quartiere, e tutti subordinati al quartier generale, furono eletti Giambattista Ottone, paramentaro; Giuseppe Comotto, pittore; Giuseppe Tezzoso, merciaio; Camillo Marchini, scritturale; Duval e Muratti, mercanti; Francesco Lanfranco, mercante di formaggio; Carlo Parma, merciaio; Andrea Urbedo, detto lo Spagnoletto, calzolaio; Stefano e Domenico fratelli Costa, detti Grassini, tintori; Domenico e Francesco Sicardi, impresari de’ forni; Giuseppe Malatesta, detto il Cristino, facchino; Giovanni Carbone, aiutante di locanda; Lazzaro Parodi, calzolaio; Alessandro Gioppo, pescivendolo e Bernardo Cartassi. Avevano essi balía di fare quanto richiedesse la salute della Repubblica.

Quegli oscuri uomini coi forti intelletti, colle callose mani, ma con cuori caldi ed anime sviscerate della libertà, si adoperavano e mettevano la vita a pericolo per la patria, mentre i tronfi patrizi, accovacciati nell’interno dei loro palazzi, lasciavano che la fortuna volgesse a suo talento quello Stato in cui essi avevano tanti onori e tanta potenza.

Non solo combattere, ma comandare anco sapevano i popolani. Ottimi furono i provvedimenti da loro presi. Ordinarono pattuglie di giorno e di notte per ovviare ai furti e ad ogni altro disordine; emanarono editti rigorosissimi sotto pene estreme ad ogni genere di persone, perchè accorressero alla comune difesa; disposero squadriglie ai capi delle vie, perchè invigilassero e accettassero chi avesse voglia di combattere, sforzassero i neghitosi.

In tanto tramestío di cose, in tanta concitazione di animi nessun inconveniente notabile successe. Il popolo si mostrava furioso contro il nemico, continente verso i cittadini, e perchè esso sempre mite si stesse, i capi fecero in abbondanza distribuire pane a chi, cessati i lavori e gli esercizi, colle non avvezze, ma devote mani difendeva la patria.

Odiosa era al popolo quella posta di lettere per Milano che il Cristiani aveva ordinata in Genova. Corse in calca alla casa ov’era collocata, e la mise in preda con far suo tutto quanto apparteneva agli impiegati della medesima. I predatori avendo ivi trovate certe argenterie da patrizi genovesi postevi come in luogo sicuro dal sacco, che, per ordine del Botta, si temeva, le presero e prontamente le restituirono ai proprietari, tosto che li conobbero.

 

IX.

 

Il marchese Botta s’era messo nel fermo proposito di voler domare il popolo insorto. Esso lo credeva più scomposto e meno coraggioso di quello che realmente fosse. S’era preparato alla guerra, aveva ingrossato le guardie alla porta a San Tomaso ed all’altura dei Filippini. Dalla prima infestava coi cannoni la strada di Prè, dalla seconda l’Acquaverde e la via Balbi. Aveva anco richiamate in Genova le genti che teneva sguinzagliate nelle riviere, ed in Novi ed in Varone, e alcune di quelle che erano in viaggio per la Provenza per averle tutte ad ogni emergenza pronte.

Prevalendosi poi la notte del giorno sette d’un po’ di riposo preso dal popolo, occupava la commenda di San Giovanni di Prè, posta nella via dello stesso nome, e vi si fortificava.

Chi dava molto a temere al generale austriaco erano gli abitanti delle valli di Bisagno e di Polcevera, uomini belligeri e deditissimi alla Repubblica. Spediva colà tostamente un proclama colla parola imperiale di non più esigere i due milioni di fresco intimati, e di sgravarli da ogni peso di guerra, purchè facessero promessa di non prender parte al moto della città e di fedelmente obbedire alla regina. Oltre a ciò instava presso la Signorìa affinchè per ridurre i Genovesi all’obbedienza ordinasse ai soldati regolori di assalire gli insorti alle spalle, mentre le genti austriache li urterebbero di fronte, dal qual movimento egli teneva certa la vittoria. Più volte avevano i padri ricusato all’instare del Botta, e per troncare molestia gli fecero alfine risolutamente capire, che non mai la Repubblica avrebbe acconsentito di volgere contro i propri sudditi quelle armi che soltanto alla tutela dei medesimi erano destinate. Risposta lodevole, ma sarebbe ancora stata migliore, se avessero comandato ai propri soldati: «Ite, al popolo unitevi, e i tiranni della patria sperperate.» Ma o per paura di sconcerti maggiori, o per fede nei disonorevoli patti, nol vollero fare. E quasi quella loro negativa volessero mitigare in faccia al Botta, vigliaccamente mandarono ordini ai due capitani delle valli di Bisagno e di Polcevera che tenessero quiete quelle popolazioni, e comminassero la pena della galera a chiunque prendesse le armi.

Il marchese Alessandro Botta, fratello primogenito del generale, provando increscimento dell’eccidio della nobile città e che il fratello si tirasse addosso il carico d’uomo crudele e spietato, presentavasi a lui, cercando di ammollirne il duro cuore. Anco il principe Doria, pietosissimo inverso la patria, in compagnia del padre Porro, teatino, recavasi dal generale, esponendogli le domande del popolo, e dimostrandogli come difficile cosa fosse il domarlo, pericoloso il cimento, in forse la riputazione delle armi austriache. Per parte della Repubblica vi andava il patrizio Agostino Lomellini. Infine per patria carità traeva dal generale pure il gesuita Visetti. Si convenne un armistizio di alcune ore, domandato dal nemico con innalzare bandiera bianca al posto dei Filippini. Botta il faceva con arte, e dava intrattenimento di parole, perchè aspettava i rinforzi di soldatesche. Il popolo accettò per meglio armarsi. Le pratiche fra il generale e i deputati e gl’intercessori della Repubblica, riducevansi in ciò che il primo acconsentiva ad abbandonare porta a San Tomaso, ma non quella della Lanterna, mentre i Genovesi le volevano ambidue, e di più che gli Austriaci intieramente sgombrassero dalla città. Botta mostravasi assai cocciuto; per cui Doria, disperando della concordia, sdegnoso erasene fuggito dalle conferenze, e andava dicendo al popolo: «Il Botta ha la testa dura, ed il popolo più del Botta.»

Il padre Visetti, desiderosissimo di aggiustare le discrepanze, aveva nuovamente visitato il generale nemico, notiziandogli che al popolo si erano uniti i cittadini d’ogni condizione, e che tutti erano risoluti di vincere o di morire per la libertà della patria. Il Botta rispose che avrebbe date le porte. Ma fu inganno; chè già il cannone nemico rimbombava, e scuoteva le falde del travagliato Appennino. Genovesi contro Austriaci, Austriaci contro Genovesi, già si erano di nuovo avventati, e ciascun faceva l’estremo di sua possa per vincere.

A quel fiero spettacolo, quanti animo pietoso avevano, preci innalzavano al Dio delle vittorie, affinchè rendesse felice la causa di un popolo, che era sorto a difesa della propria libertà.

Furibondi correvano i popolani contro l’odiato oppressore, quando incontrossi in loro il padre Visetti. Tra l’affanno, la meraviglia, la speranza, la disperazione, egli disse che il generale Botta acconsentiva al rilascio delle porte.

«Non è più tempo, rispose con voce tremenda il popolo; non vogliamo limosine, vogliamo guerra!»

Il gesuita allora soggiunse: «Ho fatto quanto ho potuto; aiutatevi, aiutatevi, non vi è più rimedio!»

E i Genovesi si aiutavano veramente.

 

X.

 

Era il giorno dieci dicembre. La pugna ferveva. S’udivano rimbombare i cannoni da ogni parte, strepitare gli archibugi, alzarsi grida teutoniche contro le italiane, e grida italiane contro le teutoniche; frastuono reso più orribile dal continuo martellare d’ogni campanile. Il Santissimo Sacramento era esposto in tutte le chiese; le vergini, le donne, ogni fievole per infermità e per età stavano prostrati innanzi agli altari, impetranti la benedizione di Dio sulle armi del popolo. Alcuni preti e frati salmeggiavano nei loro cupi cori, e quelle divote e dimesse voci indicavano come in quel momento stesso si giudicasse una gran causa. Altri preti e frati, in lunghe file schierati, e seguiti da stuoli di dame scalze e dolorose, recavansi per le vie recitando il rosario, e mandando preci a Maria protettrice di Genova. Altri, infine, mescolatisi col popolo, col Crocifisso in una mano, lo schioppo nell’altra, precipitavansi ove più terribile era la mischia, e si facevano animatori di guerra e del pari combattenti.

I dolci volti dei preganti, accanto ai volti severi degli andanti alla pugna presentavano in un tempo solo quanto la umanità ha di più tenero, di più venerando, di più tremendo.

 

Settecento Austriaci erano alloggiati in Bisagno, e si sforzavano di entrare in città per la porta Romana. I Bisagnini diedero loro addosso alle spalle; i Vicentini, gli abitatori cioè del quartiere di San Vincenzo che sta dicontro a quella porta, li presero da fronte; nel tempo stesso che i popolani, impadronitisi della batteria di Santa Chiara, per di sopra li fulminarono. Micidiale ed ostinato fu il combattimento, del quale rimase il popolo vincitore.

Cinquanta granatieri, riparatisi in una osteria, non volevano cedere alla forza, che d’ogni intorno li circondava. Essi si difendevano gagliardamente; lo snidarli pareva impossibile. Balilla, che sempre era là ove maggiore era il pericolo, saputa la cosa, accorreva seguìto da altro ragazzo di dieci in undici anni per soprannome Pittamuli. Giunto di faccia all’osteria, sclamava: «Lasciate pur fare a noi». E senza por tempo in mezzo, prendeva una fascina e l’accendeva; Pittamuli si armava di pistola; ed entrambi animosamente correvano verso la porta assediata, bravando la morte. Piantavano una palla in petto al primo austriaco che si parava loro avanti, e poi, entrati con altri ragazzi nell’interno, ponevano fuoco ai sacconi dei letti, in guisa che, l’incendio, unito alle archibugiate ed alle cannonate che cadevano e dal Bisagno, e da San Vincenzo, e da Santa Chiara, costringevano i granatieri ad arrendersi prigionieri. I ragazzi vittoriosi li trascinarono in Genova, e dietro di loro nel fango e nella belletta le loro bandiere.

Frattanto gli altri corpi di soldati che travagliavano la città da Levante, non potendo resistere innanzi ai guerrieri della libertà, cessarono dal combattere, e si diedero tutti in balìa del popolo, che fecene una grande e lieta festa. Anco quelli che erano alloggiati in Nervi ed in Recco, non trovando scampo in mezzo a que’ furiosi villani, seguirono la fortuna dei compagni. Il quale successo, uditosi dagli Austriaci che stanziavano in Chiavari e nei luoghi vicini, pel monte delle Cento Croci, fuggirono su quel di Parma. I vinti furono condotti in città laceri e scalzi colle bandiere e gli stendardi sdrusciti.

Gl’intrepidi cittadini dopo quella vittoria s’avviavano verso il fianco occidentale della città, con intenzione massimamente di snidiare il nemico dalla porta a San Tomaso. Strada facendo, continuamente s’ingrossavano, perchè, oltre al rintocco delle campane che rombava per l’aria, e l’aspetto dei preti e dei frati armati di croce e di spada, da cui erano incitati alla lotta, fu intimato a suono di tamburo ad ognuno di qualunque condizione fosse di correre alla difesa della libertà, pena la vita. Quartiere a quartiere ciascuno si accoppiava secondo le sue insegne, con tale ordine e con maestria tale che piuttosto che uomini dati agli esercizi civili sembravano soldati da molto tempo instrutti ed avvezzi alle militari fazioni.

Popolo e cittadini presero consiglio di spedire squadriglie armate ai posti tenuti dai soldati della Repubblica, i quali, fermi pel divieto della Signorìa, oziosamente guardavano i propri concittadini a combattere per la comune patria. Ne gettarono a terra le porte, infransero i rastelli, entrarono dentro a furia. — «Soldati, sclamarono, soldati; il suolo genovese tutto trema dal cannone; ne vanno le vite dei vostri fratelli; la servitù sta sulla soglia, e voi qui ve ne rimanete oziando, rattenuti da un timido, se non empio comando. Forse pei signori solamente, non per tutta Genova deste i nomi? Su, su; mano a quelle armi, che soggiogarono Tortona, Bassignana, Zuccarello; su, dimostrate combattendo per queste sante mura, che siete i medesimi in patria, che foste sulle terre straniere.» — In così parlare li sforzarono a marciare ai posti divisati.

Fra le grida, il calpestìo, gli scoppi degli archibugi, il rombare ed il rimbombare dei cannoni e delle campane, trascorrendo l’infierita moltitudine le vie Balbi, di Prè, di Sottoriva, s’avviava verso alla porta a San Tomaso e all’altura dei Filippini da cui il nemico fulminava in via Balbi. Agli insorti era obice il corpo austriaco alloggiato alla commenda di San Giovanni, posta a mezza strada dai luoghi in cui intendevano di andare a ferire. Provarono di sloggiarlo collo sparo degli archibugi, ma non vi riuscirono, difendendosi gli Austriaci con assai valore. A conseguire l’intento, voltarono una parte della vicina batteria dell’arsenale contro il campanile, dalla cui sommità il nemico fulminava, e lo diroccarono. Sassi, travi, campane e Tedeschi precipitarono a terra in un mucchio. Tra la rovina e lo spavento, i superstiti uscirono nella strada per ivi far battaglia. Debolmente combatterono, fortemente furono combattuti. Rimasero presi dal popolo, e condotti trionfalmente fra grida di gioia nel cortile del palazzo. I prigionieri mostrarono alla Signorìa come Genova per virtù del popolo risorgesse.

«A furia, a furia, a San Tomaso, all’altura dei Filippini!» gridava il popolo lieto della sua vittoria.

Fiera fu la lotta ai Filippini; più i soldati d’Austria resistevano, più i figli di Genova induravano la battaglia. In quel combattimento rimaneva morto da una scheggia di granata Giuseppe Malatesta uno dei principali capi del popolo, da noi più sopra mentovati. La morte del generoso uomo non rallentò punto il coraggio de’ suoi, anzi accrebbe a mille doppi il loro furore; tutti ansiosi di vendicare ad un tempo l’incontaminata vita.

Dopo lungo ed accanito combattimento, durante il quale i Genovesi rinnovarono atti di antico valore, riuscì a questi di smontare al nemico un cannone che più degli altri bersagliava la via Balbi, per cui le loro artiglierie cominciarono a sopravvanzare. E specialmente quelle collocate a Pietraminuta, le quali in modo terribile folgoravano sulla porta, sulla piazza principe Doria e sulla tanto contesa altura dei Filippini. Bello era il vedere come quella gente inesperta si opportunamente sapesse scegliere il bersaglio ed aggiustare i colpi.

Il generale Botta era venuto raccogliendo buon nerbo di fanti e cavalli nella piazza principe Doria a rinforzo dei difensori della porta a San Tomaso e a impedire l’irrompere del popolo, qualora giungesse a superarla. Egli stesso presiedeva alle mosse e al pericolo. Lo scoppio in aria su quella piazza stessa, dove stava cinto dal suo stato maggiore, di una granata reale lanciata da un mortaio in Pietraminuta, il fece accorto non essere quello il luogo da sostare; onde col suo seguito s’incamminò più che di passo verso la Lanterna. Sempre eguali i generali d’Austria; essi non furono giammai troppo amanti dei pericoli.

La gente mercenaria non potrà mai vincere la gente patria. L’amore della patria, oltre all’essere gran maestro di guerra, sa infondere nell’animo del popolo tale un coraggio che non può che essere soffio di Dio. La battaglia continuava terribile. Dalle vie Balbi, di Prè e da quella di Sottoriva, e da Pietraminuta, e dal monte Galletto, e dal Castellaccio, e dalla Darsena fecero i Genovesi tale urto, e fecero piovere tale fitta tempesta di palle e mitraglia, assordando l’aria colle grida di «Viva Maria! Viva Genova! viva la libertà!» che l’odiato nemico diessi a precipitosa fuga, lasciando in potere del popolo le posizioni dei Filippini e di San Tomaso, e molti morti, feriti e prigionieri. I soldati che si trovavano schierati nella piazza Doria s’affaticarono invano di resistere alla piena che contro di loro si riversava. Il popolo, uscito fuori vittorioso dalla conquistata porta, coi cannoni a scaglia, coi fucili, coi sassi terribilmente li conquideva. Nel momento istesso da Oregina e da San Rocco, quale torrente, calò giù una furia di armati popolani, e sulla sovrastante montagna, tra le vecchie e le nuove mura, si videro correre a precipizio al basso molti armati genovesi.

Gli Austriaci, già tempestati da fronte e dai lati, temettero che i scendenti dalla montagna venissero per tagliar loro il ritorno; onde più non ressero, e si diedero precipitosamente alla fuga, avviandosi verso la Lanterna.

Tra la paura e lo scompiglio, che invano il Botta s’ingegnava di frenare, accadde che una palla di cannone scagliata dalla Darsena contro la piazza di Negro, ove il generale aveva fatto sosta, uccidesse primieramente il cavallo del suo aiutante, il cavaliere Castiglione, che stavagli allato, percuotesse poscia nella muraglia, e distaccasse una scheggia di pietra, che andò a ferire, comechè leggermente, nella guancia il generalissimo. Gli Austriaci allora non si contennero più; fu così precipitosa la loro fuga e così alto il loro terrore, che, tutti tremanti, gridavano: «Jesus, Jesus, non più fuoco, non più fuoco, siamo Cristiani!»

E per vero sembrava che tutte le bocche dei vulcani d’Italia si fossero aperte sopra que’ soldati, tanto terribilmente Genova tuonava, tanto terribile era il menare delle genovesi mani.

Il popolo vinceva, ma non era ancor compiuta la vittoria, poichè il nemico occupava ancora una parte delle mura.

Una gran calca di cittadini e di villani scese dai sovrapposti monti, e si avventò contro San Benigno, sito tenuto dagli Austriaci con estrema gelosia. Il terrore da luogo in luogo aveva invaso tutte le anime teutoniche. Ben poco i nemici ostarono in San Benigno, e lo cedettero prestamente; morti alcuni di loro, fatti prigioni altri da quelli che tanto avevano sprezzato ed irritato, e che ora non sapevano combattere. Anche in San Benigno gridavano: «Jesus, Jesus, siamo cristiani!» E cristiani erano essi, poveri schiavi trascinati al macello dal dispotismo e dalla cupidigia altrui. Erano cristiani, ma non il Botta e meno il Chotek e meno ancora gli apostolici e cristianissimi e cattolici padroni autori di tante rovine.

Perduti i luoghi più importanti, inseguiti dappertutto da stuoli d’armati, scesi anco dal poggio della chiesa degli Angeli, gli Austriaci non pensarono più ad altro che a porsi totalmente in salvo coll’abbandonare affatto una città, che, crudelmente taglieggiata ed insultata, aveva saputo infugarli, e lavare l’onta che su dessa avevano gettato i suoi vilissimi reggitori. Rotti, scemi, avviliti e sanguinosi gli Austriaci dalla ghermita, ed or perduta preda, se ne andarono.

E ben col poeta poteva gridare il forte popolo genovese ai tiranni d’oltralpe e di oltremare:

 

«Imparate da me voi che mirate

La pena mia, non violate il giusto,

Riverite gli Dei.»

 

XI.

 

Il popolo era vincitore. La furiosa tempesta aveva cacciati i barbari dalla bella Genova, e le soldatesche croate, varadine, ungare, iloti del dispotismo, che Botta e Chotek per Maria Teresa e Carlo Emanuele avevano condotte all’eccidio di una generosa città, fuggivano collo sgomento nell’animo.

La ligure regina era libera, libera per la virtù delle sue braccia, de’ suoi figli, capaci di romano ardimento, perchè amavano la loro terra, perché sopra ogni altro affetto stava in loro l’amor santo di patria.

L’onda vivente, che aveva cogli impetuosi cavalloni rotto l’argine della schiavitù, si diffondeva per le vie della patria liberata, ed era un suono concorde di letizia, un grido unanime di riconoscenza a quel Dio che cogli oppressi combatte, e protegge i magnanimi ardimenti della conculcata innocenza. La natura istessa pareva sorridere al trionfo della giustizia, e il sole dardeggiando dal sereno cielo sul mare tranquillo faceva scintillare in grembo al mobile azzurro milioni di gemme. Le campane suonavano, ma non era più il tremendo rintocco delle battaglie, ma la voce maestosa dei festivi bronzi che l’eco delle vicine convalli recava sui passi del nemico fuggente.

Nella gloriosa impresa tutti i popolani fecero il loro dovere. Ma ogni altro sopravanzò quel capo quartiere Giovanni Carbone già da noi citato.

Esso era nato in bassa condizione, era un povero servitore nell’osteria della Croce Bianca, e non aveva che ventidue anni di età, ma era dotato di un gran cuore. Non solo colla mano, ma anco col senno molto si adoperò per la patria; imperocchè, quantunque ferito, fu sempre fra i primi là ove più ferveva la lotta. Questo coraggioso e dabben popolano, pugnando a San Tomaso, corpo per corpo, venutegli fra le mani le chiavi di quella porta, così grondante di sangue come era, si condusse a nome del popolo al palazzo, ove stavano i collegi radunati, e, al doge presentandole, disse queste memorande parole gravi di profondissimo senso:

« — Signori, queste sono le chiavi che con tanta franchezza, loro serenissimi, hanno dato ai nostri nemici: procurino in avvenire di meglio custodirle, perchè noi col nostro sangue le abbiamo ricuperate.»

Terribile ammonizione data da un umile garzone di osteria a tanti patrizi di antico e chiaro sangue.

Accrebbe la comune allegrezza la poca perdita fatta dai popolani nella terribile mischia, tanto essi seppero bene avvantaggiarsi colla celerità nelle mosse e col coprirsi nell’andare avanti. Nel giorno della compiuta vittoria otto soltanto mancarono per morte, trenta per ferite; qualche numero più rilevante perì nei fatti precedenti, ma non tanto che il danno del nemico non fosse di gran lunga maggiore.

Oltre a mille nelle sole giornate di Genova rimasero uccisi di Austriaci, e oltre a quattromila prigionieri; i reggimenti Andreasi e Pallavicini furono i più danneggiati. Combatterono degli Austriaci quattordici compagnie di granatieri, quindici battaglioni di veterani, oltre millecinquecento Varadini, Panduri e Croati.

Il generale Botta erasi ritirato in San Pier d’Arena. Ma pur quivi non si credette in luogo sicuro, temendo che i Polceveraschi, uditi i casi di Genova, si levassero in armi, e gli facessero qualche mal giuoco sul fianco e alle spalle. Ordinò che prontamente l’esercito partisse. Gli Austriaci raccolsero quanto era permesso nell’angustia del tempo, massime i monti delle estorte genovine, che ancor loro rimanevano. Caricata ogni cosa, così di contanti, come d’arnesi, sopra carri, muli e sulle spalle dei soldati più fedeli, col favore della notte, buzzi buzzi, silenziosi, s’incamminarono per alla volta della Bocchetta.

Qual fosse l’aspetto del nemico fuggente può adequatamente giudicarlo i nostri lettori. Il Botta non sapeva darsi pace per l’orgoglio, il Chotek per l’avarizia. Sospiravano il perduto onore, ma più di tutto le perdute genovine. Andando, temevano sempre di essere danneggiati da qualche levata di villani. Per ovviare a quel pericolo sparsero voce che ogni differenza era stata accomodata colla Repubblica, e che partivano in buona pace per tornare negli Stati della loro padrona e sovrana, divenuta amica di Genova. Ingannate da tali voci quelle alpestri popolazioni, e dai danari che gli ufficiali donavano loro, e di più assecondati da un Carlo Casale, detto il Bachelippa, mulattiere di professione, poi impresario dei viveri pegli Austriaci, il quale fu in Genova arrestato per questo fatto, i nemici poterono condursi a salvamento sino alla Bocchetta. Solamente verso la fine della ritirata, accortisi dell’inganno, i Polceveraschi diedero addosso in Pontedecimo ad un corpo di retroguardia, e gli tolsero il danaro rapito ai Genovesi.

Gli Austriaci non fecero sosta che oltre Gavi non riputandosi sicuri neppure alla Bocchetta.

La notte che successe al glorioso giorno dieci i popolani diedero ogni buon ordine in città. Intimarono a suon di tamburo che si tenessero lumi accesi alle finestre, che tutte le case dovessero rimanere aperte; minacciarono la pena della forca a chi avesse fatto il minimo rubamento. Il giorno 11 poi si spinsero fino a San Pier d’Arena, dove non dubitavano che gli Austriaci andandosene, avrebbero per la gran fretta lasciato molto bagaglio.

Passato ogni pericolo, le porte dei palazzi dei nobili si aprirono, e fuori ne uscirono i loro paggi, staffieri e servitori d’ogni fatta, i quali, lasciata la custodia dei padroni, accorrevano al bottino che i popolani stavano facendo nelle case e nei magazzeni precipitosamente abbandonati dal nemico; indi, seguendo i popolani stessi, i quali non sappiamo perchè non cacciassero lungi da loro quella bordaglia che s’era cansata al pericolo, con essi gridando Viva Maria! s’intrusero nel sacco delle case abitate dagli Austriaci in San Pier d’Arena, dividendo così i frutti delle altrui fatiche. Bandiere, tamburi, viveri, armi, munizioni, carri, calessi, carrozze, utensili, mobili d’ogni sorta, quanto l’avarizia aveva raccolto, quanto la paura aveva lasciato, quanto alla guerra serviva, od al vitto, od al piacere dei cacciati tiranni, tutto divenne preda di quel popolo che prima col valore si era vendicato, ed ora colle spoglie si confortava.

I fatti di Genova risuonarono con onore ovunque erano uomini generosi. Fortezza e amor di patria mai si erano accoppiati più fraternamente. Rimase sempre più provato come le giuste cause sieno dal cielo benedette, e come non senza pericolo si possano torturare e spolpare i popoli. Di sommo momento poi ne furono le conseguenze pei principi in guerra; imperocchè dall’improvvisa alzata di Genova ne venne la salute di quelli che perdevano, e la perdita di quelli che vincevano.

 

XII.

 

Genova continuava a reggersi a popolo. Il quartier generale era tuttodì nel collegio dei gesuiti in via Balbi: da quivi partivano tutti gli ordini. I capi eletti pensavano alla quiete, alle armi, all’annona; ordinavano quanto potesse tornare utile al paese. Rinnovarono le proibizioni rigorose contro i ladri e fautori di scandali, e per far loro vedere che non era da burla, piantarono nel bel mezzo della piazza dell’Annunciata le forche, e guai a chi ci avesse provato. Mandarono le navi più leggiere e spedite pei mari vicini, affinchè, sguizzando fra le navi inglesi, che opprimere volevano ed affamare un popolo libero, recassero in porto le vettovaglie. Diedero pur opera alle fortificazioni, ed a ridurre in regolari compagnie il popolo armato. Non isfuggiva loro come Maria Teresa e Carlo Emanuele, tanto più nemici, quanto più irritati, non avrebbero omesso di tornare a tribolare chi con sì terribile slancio avevali scacciati lontano da sè.

Infatti quando l’austriaca Imperatrice venne a sapere il caso di Genova, si trasportò a grandissimo sdegno, e, senza porre tempo in mezzo, mandò ordine allo Spinola, ministro della Repubblica, al quale aveva già proibito di comparirle dinnanzi, che sgombrasse tostamente da ogni terra austriaca. Nuova gente fece calare in Lombardia: Croati, Varadini, Austriaci, Boemi, Ungari, e quanti altri mai barbari aveva nel suo esercito, minacciando tutta l’ira sua alla Repubblica. Gli ostaggi genovesi, il Sauli, il Cattaneo, il Veneroso e il Rivarola, che Milano avevano per confine, furono rinchiusi e gelosamente custoditi nel castello.

I popolani stavano con non poca apprensione pel castello di Savona, il quale, come più sopra raccontammo, era cinto dalle armi piemontesi, che con estremo vigore ne battevano le mura. Le cose erano quasi condotte a termine, rotte quasi le muraglie e praticabile la breccia: poco tempo ancora la fortezza poteva durare. Soltanto sostenevala l’egregio valore dell’Adorno; il quale, non punto indispettito che il governo dai patrizi suoi compagni fosse passato al popolo, continuava a difendersi colla medesima fede, come se la Signorìa non fosse cambiata; raro esempio di temperanza e di cittadina bontà, e tanto più commendevole in un patrizio genovese.

Conosciuto l’imminente pericolo del forte di Savona, il quartier generale mise fuori un bando per adunare gente, ed inviarla al soccorso dell’Adorno. Assai uomini raccolse, ma, ad eccezione di pochi regolari, sì di soldatesca antica come di popolo, erano marmaglia atta piú a rubare che al combattere. Infatti giunta appena quella gente raccogliticcia in San Pier d’Arena, e quivi scoperto un magazzino di sale che agli Austriaci aveva appartenuto, si diede a farne bottino. La scoperta di quel magazzino, facendole subodorare che ve ne fossero altri, si sbandò, e Savona indarno attese il sospirato soccorso. Il dieciannove dicembre Adorno dovette arrendersi alle armi dei Piemontesi, ricevendo la guarnigione tutti gli onori militari, in riconoscenza del valore da lei dimostrato nel difendersi. Fu specialmente dal Rocca molto lodato l’Adorno per la sua virtù di guerra e pel suo amore al paese.

Erano intanto in Genova sempre due governi, uno di diritto che non faceva niente, cioè quello dell’antica Signorìa, l’altro di fatto, che faceva tutto, cioè quello del popolo. Allontanatisi gli Austriaci, le cose per parte di questo non camminarono più con quell’ordine maraviglioso per pensiero e per unità che aveva data la vittoria. Cominciò un po’ di tumulto. Alcuni volevano che i capi fossero cambiati, attesochè i presenti erano stati nominati durante la lotta; altri li accusavano di volersi fra di loro dividere il bottino; altri finalmente pretendevano che il loro numero fosse di troppo ristretto, e volevano che si ampliasse, affinchè il governo avesse più numerose radici nel popolo benemerito. Non mancavano, come sempre accade in tali contingenze, i susurroni, i commettimale, che si arrabattavano a seminare invidia per ambizione. Anco fra i nobili v’erano di quelli che non isdegnavano spargere fra il popolo i semi della discordia, nella speranza che fra di sè dividendosi, e della divisione divenendo insofferente, di nuovo si sarebbe sottomesso all’antica obbedienza.

Il diciasette dicembre venne in pubblico, in sulla piazza dell’Annunciata, convocato un parlamento. In esso furono aboliti i primi magistrati del quartiere generale, e creato un nuovo consiglio che fu detto deputazione. Fu questa composta di trentasei persone, escluso ogni nobile; cioè di dodici operai tratti a sorte, di otto avvocati, notai e mercanti, di dodici fra i primi del popolo che impugnarono le armi, e di quattro fra Polceveraschi e Bisagnini.

I nuovi magistrati, che però sovente variarono pei capricci delle moltitudini, emanarono altri ordini per la quiete e per la sicurezza pubblica; crearono nuove regole militari, affinchè ognuno fosse armato, e all’uopo potesse subitamente congiungersi ai compagni, e ordinarono infine una solenne festa nella chiesa della Provvidenza per ringraziare Iddio della ricuperata libertà.

Un immenso popolo trasse a quella festa; quel popolo che sa Dio e patria essere uno, muoveva volonteroso i passi al tempio del Signore, come Israele muoveva nei giorni della vittoria. Fra i popolani cominciarono in quell’occasione a vedersi alcuni nobili, certo per far ricordanza di loro, e dimostrare che approvavano l’avvenuto, e che ancor essi erano gelosi della libertà.

In strada Balbi, al quartier generale, venne inalberato il grande stendardo del popolo con in mezzo la croce rossa in campo bianco, in un angolo il nome ed il cuore di Gesù, con sotto il motto: Viva Gesù, e nell’altro angolo il nome di Maria, con sotto il motto: Viva Maria. I capi nei loro atti pubblici si intitolavano: difensori della libertà.

Gli Austriaci, condotti dai generali Andelaw, Marcelli e Woster, andavano frattanto infestando Sarzana e il paese circostante. I fatti di Genova avevano acceso di santo entusiasmo ogni terra ligure. I Sarzanesi, guidati da Giambenedetto Pareto, commissario della Repubblica, e da Paolo Petralba, comandante di Sarzanello, mossero intrepidi contro le genti nemiche, combatterono con molto ardimento, vinsero, fugarono gli Austriaci, obbligandoli a fuggirsene, a lasciar libero tutto il territorio genovese sin oltre la Magra.

Dopo questo fatto successero rumori in Genova. Il popolo tumultuariamente chiedeva se gli rendesse conto del bottino raccolto durante la lotta. E dálle dálle venne a scoprire che Tomaso Assereto e Carlo Bava, già capi del quartier generale, avevano, acconciando i propri fatti convertito in proprio prò quelle argenterie e quei denari che erano stati nelle loro mani depositati. Il popolo aveva verso i due colpevoli tanti obblighi per la loro instancabile opera alla ricuperazione della libertà, tuttavia fremette di sdegno. Assereto e Bava tentarono fuggire innanzi all’aspetto minaccevole del popolo, il quale, vieppiù infuriato per quel tentativo, li cacciò in prigione, con quasi tutti gli altri primi capi.

Infrattanto i patrizi stavano in sulle velette. Godevano delle dissezioni. Sapevano che il popolo, solito a darsi della zappa sui piedi, sarebbe da per sè medesimo tornato a loro. Infatti fra le accuse date, vere o false che si fossero, cominciò a rinascere nel cuore dei popolani il desiderio dei personaggi dell’antico reggimento. Una rappresentanza del popolo andò dai due senatori Piermaria Canevari e Girolamo Serra, e per forza li condusse al quartier generale dicendo: «Vi vogliamo come galantuomini alla testa del nostro governo.» Questo fu un primo appicco per la nobiltà, e come un capo di fune che tirò con sè il restante. Più tardi furono chiamati a consultare coi due senatori altri nobili.

Intanto le arti si erano ordinate in compagnie per parrocchie, ciascuna colla propria divisa; era un grato spettacolo quando si univano ed armeggiavano. Le quattro compagnie di castello elessero per loro colonnello il doge e per cappellano l’arcivescovo. In esse si arrolarono indistintamente i patrizi in qualità di semplici soldati o di ufficiali, cercando con zelo presente di far dimenticare la debolezza passata. La compagnia denominata dei cadetti fu la prima ad innalzare nel cortile del palazzo le antiche insegne della Repubblica, il che fu tosto imitato dalle altre; grande avviamento quello all’antica consuetudine.

Gli ecclesiastici dell’uno e dell’altro clero dimostrarono il medesimo zelo, essendosi i preti ordinati in diverse compagnie, le quali, finchè durò il bisogno, si adoperarono valorosamente in pro’ del pubblico. Anco i regolari di ogni ordine, così di cappuccio, come di berretta, prestarono un ottimo militare servizio, o alla guardia delle porte, o alla custodia della sontuosa fabbrica dell’Albergo, dove erano rinchiusi gli Austriaci prigionieri.

I mezzi divini non si omettevano. Vedevansi frequenti e divote processioni, sì d’uomini che di donne, andare visitando ora questa, ora quell’altra chiesa, o recitando per le vie preci fervorose ad invocare l’aiuto di Dio, e l’assistenza di Maria, a cui Genova era devotissima.

A perpetua memoria della riacquistata libertà, e ad onore di coloro che per essa avevano versato il proprio sangue, il popolo dell’abitatissimo quartiere di Portoria decise che l’avventuroso mortaio da cui era nato il primo rumore, il principio della liberazione, fosse solennemente riportato all’antica sua sede della Cava di Carignano, là donde le ladre mani austriache lo avevano levato.

 

XIII.

 

Volgeva l’8 gennaio 1747. Sin dall’alba Genova aveva un aspetto di festa. Mentre un popolo numerosissimo, azzimato e lieto, muoveva per il quartiere di Portoria, e i balconi e le finestre s’ornavano di tappeti e di bandiere, le campane d’allegrezza suonavano, strepitavano i mortaletti. Era quello il dì destinato al trasporto del mortaio.

Sopra un carro indorato, tappezzato e adornato di fiori veniva collocato il famoso bronzo. Nel tragitto il corteo era preceduto e seguito da innumerevole moltitudine, gridante Viva Maria!... Viva Genova!... Viva la libertà!... Nel volto di tutti stava dipinta un’allegrezza con un fervore sommo, e segni anco di gratitudine scorgevansi verso que’ valorosi che la Dio mercè salva avevano la patria: Genova era davvero in quel momento la più bella delle città.

Alla lieta pompa intervennero i capitani del popolo, tutti vestiti di spoglie austriache; due battaglioni di cittadini armati; sessanta giovani a cavallo, i quali, guerniti di elmo e di corazza, a terra trascinavano le insegne e le bandiere tolte all’abborrito oppressore. Seguivano anco regolari milizie, musiche e tamburi; onde più e più si rallegrava la festa.

Quando il popolo giunse alla Cava di Carignano e il mortaio si ricollocò all’antico suo posto, si rinnovarono e moltiplicarono le grida, gli applausi, le acclamazioni, ed i concenti. Cittadini d’ogni ordine s’abbracciarono fratelli: popolo e patrizi stringevansi alfine concordi la mano.

Bene avevano ragione i Genovesi di animarsi e di unirsi. Imperocchè gli Austriaci, rifattisi forti pei soccorsi venuti dalla Lombardia, erano di nuovo comparsi alla Bocchetta, e, infestando le regioni superiori della Polcevera, facevano le viste di voler calare a basso.

Schulembourg era succeduto a Botta nel comando delle squadre nemiche; esso andava concependo atroce vendetta dell’onta patita dalle armi imperiali. I popolani che s’immaginavano tal cosa, oltre i militari apprestamenti fatti dentro, avevano stimato necessarissimo di ordinar bene la difesa anco al di fuori. Non che i Polceveraschi e i Bisagnini avessero bisogno di sprone, poichè in loro l’odio contro i Tedeschi era moltissimo, ma necessaria cosa era di ridurre a qualche norma gl’incomposti moti delle masse.

Furono mandati, quali commissari generali, alla Polcevera il patrizio Gaspare Bassadonna, ed al Bisagno il patrizio Giambattista Cattaneo, e, quali commissari particolari, a Montoggio il patrizio Giambattista Raggi, e a Voltri il patrizio fra Girolamo Balbi, cavaliere di Malta. Diedero costoro ordinamento alla buona volontà dei popoli, le loro forze unirono a quelle delle milizie d’ordinanza, e colla voce e coll’esempio mostrarono quanto loro stesse a cuore la Repubblica.

Dalle nomine di tanti patrizi a custodia di luoghi gelosissimi, ognuno di leggieri può comprendere come la nobiltà principiasse ad aver piede e ad intromettersi nelle faccende. Al qual cambiamento, d’uopo è il dirlo, avevano dato luogo molte cagioni; lo zelo che i nobili allora dimostravano per la pubblica causa, l’essersi spogliati in un colle loro donne delle cose più preziose per far denaro a beneficio della patria, la prudenza dei patrizi chiamati alle consulte del quartier generale, la necessità infine che in ogni grave negozio politico spinge gli inesperti a voltarsi verso chi più vede e più sa.

La maggiore autorità che i patrizi andavano un dì più che l’altro acquistando, e il ridursi le cose a poco a poco sugli antichi ordini, mentre piaceva ai popolani più savi, i quali non ignoravano punto come l’infima plebe è buona a combattere non a reggere, arrecava grave disgusto a coloro che o amavano il saccheggio, od avevano il cuore acceso d’un odio inestinguibile contro i nobili. Questo verme rodeva lo Stato, ed eccitò tumulti.

Schulembourg, il nuovo capitano austriaco, era uomo destro non solo per la guerra, ma anche per maneggiare accortamente gli uomini. Esso non ignorava come la discordia serpeggiasse fra i Genovesi; e volle farne tesoro. Con sobillamenti e con accorte intelligenze giunse a guadagnare a sè alcuni fra coloro che si dimostravano più aderenti alla causa popolare. Colle insinuazioni, colle calunnie, colle accuse, cercò di contaminare gli animi: arte vecchia della tirannide di vincere colla divisione dell’inimico. Divide et impera, è detto antico e vero. Si spargevano con maestria voci che i nobili tradivano il popolo, che se la intendevano cogli Austriaci, che stati essi primieramente oziosi, quando cioè si combatteva, ora prevalevano della salute procurata loro per far rovinare di nuovo la Repubblica, che più che alla Bocchetta i principali nemici del popolo erano al palazzo pubblico, che sino a quando quel nido di tiranni e di traditori non era disfatto, invano potevasi sperare di giungere a salvamento. Dicevasi che poichè il popolo da sè solo aveva incominciato, da sè solo dovesse pur finire, che le insidie occulte dei traditori son più funeste alle imprese generose dei popoli che la forza manifesta. Per quanto i patrizi colla prudenza e la dolcezza cercassero sventare quelle disseminate insinuazioni, non ne venivano a capo. Temevasi dai buoni, e con ragione, che ad una data occasione la mina sarebbe scoppiata.

Un dì del gennajo 1747 udissi come gli Austriaci si fossero spinti sino alla Madonna della Vittoria. Senza porre tempo di mezzo vennero suonate le campane a martello per sollecitare i cittadini ad accorrere prontamente al pericolo. E senza farsi attendere, una immensità di gente d’ogni età e condizione recossi in Polcevera, e arditamente affrontati i nemici, dopo corto combattere li respinse.

Fra gente affollata, armata ed ardente, passato il pericolo, non potevano non riscaldarsi gli animi, rinfiammarsi le passioni; l’opera latente del nemico doveva operare.

D’un tratto fu visto uscire fuori di sua casa, e correre per le vie un vilissimo uomo, per nome Gianstefano Noceto, bargello di professione, epperò assuefatto colla belletta della società. A costui si unì anco un Gianfrancesco Garbino, pescivendolo, per colmo di infamia anco un figlio del boia; uomini tutti sfrontati, di mala vita, insolentissimi. Andavano gridando essere giunto il tempo di castigare debitamente i traditori; avere i patrizi macchinato di dare il misero popolo in preda agli Austriaci, affinchè ne facessero aspra vendetta; doversi opprimere chi opprimere voleva, ne esservi altro modo di salvezza che questo. Dalla mala opera di que’ tristi suscitossi un gran tumulto. I plebei, a cui ballava in tasca la tedesca moneta, fra loro si accostarono, si confusero, concordemente gridarono: a palazzo, a palazzo! e a quella volta con prave intenzioni s’incamminarono. I furenti erano armati di pietre e di bastoni e di armi da essi rubate nella pubblica armeria, ma pur anco traevano seco un cannone per abbattere le imposte della sede del governo. Era un baccano d’inferno, e davvero pareva che l’inferno avesse vomitata quella schifosa e cenciosa orda di gente.

A chi nulla nulla abbia vissuto in mezzo alle umane rivoluzioni questi fatti non giungeranno nuovi. Sempre succederanno, finchè il mondo, camminando innanzi, non per la via dei patiboli, ma per quella delle scuole, perverrà a distruggere la plebe. E qui è da fare una distinzione che si deve pure avvertire fra popolo e plebe. Narrano del demonio che abbia uno specchio, il quale invertisca ogni cosa da bene a male, da virtù a vizio. Quand’è così deve dirsi che il popolo è creazione di Dio e la plebe plagio del diavolo. Ed è poi certamente con diabolico artifizio che l’una all’altro si mescola, e, mascherando il suo vero essere, compie le nefande opere, e satisfà, agli istinti perversi col nome altrui; per cui, non raro, l’uno è accusato e infamato di quello che l’altra compie. Col popolo non possono vivere e grandeggiare che la libertà, che le opere generose, soltanto colla plebe gavazzano gli osceni saturnali, la sbrigliata licenza.

I furenti, giunti che furono innanzi all’antica e splendida sede del governo, ponevano il cannone sulla piazza detta volgarmente dei Pollaiuoli, e ne volgevano la bocca contro il palazzo, dov’erano il doge e i venerandi consessi della Repubblica. Quindi ad alte voci domandavano armi, mostravano di voler entrare negli appartamenti, lo che era loro negato col chiudere le guardie il rastrello. Ciò essi veduto vieppiù inviperivano. Scagliavano assai orribili imprecazioni contro la Signorìa, minacciavano di trarre col cannone. Noceto, Garbino e il figlio del carnefice ai più estremi fatti incitavano la pazza turba. I senatori che al palazzo andavano, insultavano con vilissime parole, e in ciò sopra ogni altro mostravasi accanito il figlio del boia. A tanto di sventura era giunta Genova, che un disceso dal più abietto fra i mestieri osava oltraggiare il fiore delle sue famiglie.

Una grande sciagura sovrastava quella città che colle patrie mani aveva testè versato il sangue forestiero, prossima allora a bruttarsi del sangue proprio.

Le esortazioni dei prudenti non valevano punto; anzi chi esortava, e della salute della patria ammoniva, era chiamato traditore e minacciato nella vita. In quel pericoloso momento uscì dal palazzo pubblico Giacomo Lomellini, disposto o di sedare quella forsennata rabbia, o di morire. Con voce calma, voltosi alle turbe: « — E dove andate, e che volete, o cittadini?» sclamò. «Questo non è il campo austriaco, ma la sede da tanto tempo riverita dei vostri padri. Farete voi, atterrando queste sante mura, ciò che gli Austriaci non hanno fatto? Farete voi ciò che essi vorrebbero fare? Sarete più nemici della vostra patria che i nemici stessi? Voi vi lamentate dei nobili, voi li chiamate traditori. Credete voi, che chi ha creato questa patria, ed a tanto splendore innalzata, la voglia ora distruggere? Credete voi che chi l’ha fatta libera, ora la voglia far serva? Credete voi ch’essi sieno tanto snaturati, tanto di loro medesimi nemici, che amino meglio servire ad un padrone lontano che reggere un popolo libero? Voi li chiamate traditori! E non vi sovviene dei doni gratuiti da loro fatti, non delle loro mani unite alle vostre in Polcevera, in Bisagno, in questa scena stessa della travagliata Genova, che felice e libera sarà, quando non sarà divisa e parteggiante! Voi li accusate di avere intelligenza coll’Austria! Badate a quel che dite. Voltate gli occhi, ed osservate là nei feudi imperiali, presentemente ingombrati da soldati austriaci, aguzzate la vista ed osservate fumare le proprietà dei nobili genovesi con maggiore furore di ogni altra incenerita da quegli uomini tedeschi. Venite, e prestate ora l’orecchio ad una fama vera, e sentirete, come la regina d’Ungheria abbia confiscato i capitali cantati ne’ suoi Stati, e che ai nobili genovesi appartengono. Queste sono le primizie d’Austria verso i nobili, che voi ora perseguitate, questi gli allettamenti, queste le carezze. Orsù, tornate in voi medesimi ed in calma vi rimettete, posciachè i divini oracoli hanno pronunziato, che i regni divisi periscano; tornate e calmatevi, che nè la nobiltà v’inganna, amante com’ella è al pari di voi di questa nobile patria, nè io parole vi recherei, in ciò credo che mi conosciate, da parte di chi a voi infenso ed amico del nemico fosse.»

Così parlava Lomellini per ridurre alla ragione la gente mentecatta. Alle affettuose parole del patrizio, che era grato al popolo per essersi con ardore e con fede adoperato per la causa della patria, alcuni si rimettevano della loro ferocia; ma il furore dei più non si calmava. Mossi da malvagi, che gridavano essere quello un nuovo tranello, non davano ascolto a quanto dicesse l’onesto cittadino, e volevano accontentare il fiero talento che li trasportava. Già le cose si avvicinavano agli estremi danni. Un plebeo più degli altri crudele ed empio, colla miccia accesa in un mano, si accostava per sparare il cannone e far strage del sovrano palazzo. Ma il Lomellini, con pericolo della propria vita, non permise quello scandalo inaudito. Esso, postosi innanzi alla micidiale bocca da fuoco:

« — Non fia, sclamò, che quell’augusta sede offendiate, se prima non avrete lacerate queste mie membra; in me, in me sfogate tutta la rabbia vostra: saziatevi del mio sangue; meno rei sarete per l’uccisione d’un cittadino solo che per l’eccidio di quel primo presidio della patria, ed io felice morrommi, se gli occhi miei una tanta scelleratezza non vedranno.»

Alle parole, al generoso atto e magnanimo del Lomellini gli empi persecutori della patria si ristettero. I circostanti per tenerezza non poterono trattenere le lagrime, il popolo, il vero popolo che comprese l’inganno con cui era stato trascinato, già mormorava, e voleva dare una seria lezione ai dispregiatori d’ogni legge divina ed umana. Ma costoro, conosciuto come corressero pericolo, si fecero piccin piccini, e chi di qua, chi di là, tutti sgattaiolarono. Il cannone, lasciato libero, fu ricondotto al luogo donde era stato levato. E la giustizia, che raro non raggiunge i colpevoli, prese tostamente Noceto, Garbino e il figlio del boia, e tutti e tre fece appiccare al gibetto.

Genova fu salva, e la sua salvezza dovette al patrizio Giacomo Lomellini, del cui nome con onore mai sempre parleranno le storie. Il nome di Lomellini non andrà disgiunto da quello del giovane Desilles, il quale, in sul principio della rivoluzione francese, in Nanci, con atto simile e per la medesima cagione, sè medesimo votò alla patria, e pervenne lo spargimento di sangue cittadino.

 

XIV.

 

La divisione dei capi del popolo, la cupidità di alcuni di loro col convertire in uso proprio ciò che era del pubblico, coll’appropriarsi parte maggiore di bottino di quella che a loro spettasse, l’amore del saccheggio mostrato dalla plebe, anco in occasione dell’ultimo tafferuglio, tutto concorreva a screditare affatto la loro parte. I più savi fra i popolani capivano poi come Genova per sostenere la libertà con tanta fatica e tanto sangue riacquistata, d’uopo avesse dei principi forestieri, i quali mai certo avrebbero acconsentito trattare con un reggimento tumultuario, variabile, non mai sicuro delle proprie deliberazioni. Da ciò nacque la necessità di rimettere in piena azione l’antico governo, conosciuto dai principi, ad essi spirante fiducia. Onde il doge ed i collegi in uno cogli altri magistrati tornarono nell’esercizio delle loro cariche, negoziarono colle estere potenze, amministrarono la giustizia, elessero i magistrati, regolarono le rendite pubbliche. Al quartiere generale del popolo non rimase che una certa sovraintendenza sulle militari faccende, e più per animare che per indirizzare, essendosi le milizie, come per lo passato, sottomesse all’autorità del sergente generale della Repubblica.

Dubbio non v’era che il rivolgimento delle cose in Genova non fosse per fare entrare le Corti d’Europa in nuove deliberazioni, e concepire alle medesime, circa la guerra, altri pensieri di quelli cui sino allora avevano accettati. L’Austria invece intendeva tutta al vendicarsi, e le sue mire poneva al soggiogamento della Repubblica. E tanto era il suo ardore in questo divisamento, che oltre le proprie genti di molto ingrossate e infestanti già le rive della Polcevera, instantemente domandava, e anche con qualche imperio, a Carlo Emanuele, che all’assedio di Genova buon nerbo de’ suoi soldati mandasse. Comechè il re già vivesse con qualche freddezza con Vienna, non potè tuttavia esimersi dalla fattagli inchiesta. Onde accadde che Genova, non solamente si trovò stretta da lungi, e dalla parte di ponente, ma eziandio da vicino, dalla parte di levante.

I Genovesi non s’intimorirono punto. Fatti grandi dalla precedente vittoria, invasati del santo amore alla propria patria, tutti stretti in fraterna concordia, arditamente affrontarono i numerosi nemici, e in più fazioni, sempre con estremo valore combattendoli, fecero del loro sangue rosse le rupi di Langasco, di Masone, di Ronsiglione, di Serra, d’Isoverde e di altri luoghi circostanti. Ma il valore non sempre è vincitore; esso talfiata deve dopo inaudite prove di costanza cedere al numero. Tal fu dei Genovesi, i quali altre braccia non avevano che le proprie, menomate ogni dì per ferite o per morti, mentre quelle del nemico ogni dì più s’accrescevano. Essi dovettero alfine indietreggiare per modo che già vedevano l’odiata grifagna sventolare dicontro alle mura della diletta città.

Infrattanto i fatti di Genova erano pervenuti nella loro verità alle orecchie dei re di Francia e di Spagna. Innanzi tratto erano stati mescolati con molte fole; dicevasi che in Genova signoreggiasse una plebe sfrenata e furibonda, che fossero scacciati tutti i nobili, che uno della più bassa plebaglia fosse innalzato alla suprema autorità del dogato, che lo Stato fosse ridotto al vivere, non pure popolare, ma plebeo, che nessun fondamento si potesse fare su di quella moltitudine cieca, mutabile, incomposta, sempre mossa da passione non mai da ragione, che le cose di quel paese fossero disperate, che esso si dovesse abbandonare a quel destino che da per sè stesso si era creato. Ma coll’andare del tempo i patrizi avevano trovato modo di far sapere che le condizioni della città non erano tanto cattive, quanto ne era andata la fama, che per verità un popolo poco regolato aveva gran parte nel maneggio delle pubbliche faccende, che però già gli antichi statuali risorgevano, e riprendevano piede ogni giorno più dell’altro, di modo che avevasi certa speranza che un assetto stabile si darebbe a tutto, e capace di poter presentare buon fondamento a chi volesse Genova soccorrere. Piegando poi i termini della Repubblica sempre più a maggior ordine, e ricuperatasi dal doge e dai collegi la consueta autorità, mandarono questi il principe Doria innanzi tratto in Provenza per informare i generali di Francia e di Spagna del vero stato delle cose, e come Genova, già aiutatasi da sè medesima, fosse in grado di aiutare chi a lei accorresse; indi allo stesso patrizio commisero si recasse a Parigi ed Londra per far persuasi quei sovrani delle ragioni e dei dolori della Repubblica, e per pregare il primo a mandare sussidi, il secondo a non più trattarla da nemica. A malappena schivando le navi inglesi, giunse il Doria in Provenza, e da quel buon patriota che era, fece con tutto l’affetto l’ambasciata appresso ai generali, dai quali fu accolto coi segni della maggiore onoranza. Poi mosse per a Parigi, quivi da quel re fu amicamente ed onorevolmente accolto; ma non a Londra, chè quel re lasciò capire, che quantunque l’ufficio gradisse e la persona, non poteva tuttavia in quelle emergenze di tempo nè udirlo, nè ammetterlo.

Luigi di Francia, che conosceva l’importanza della liberazione di Genova, non contento delle informazioni avute dal principe Doria, quantunque concordassero pienamente con quelle del signor di Guimont, ambasciatore francese presso la Repubblica, volle mandare in città apposta un uomo, coll’incarico di attentamente osservare e fedelmente ed esattamente riferire. Le relazioni del mandatario si uniformarono colle precedenti, e dileguossi allora nella mente di Luigi ogni dubbio, e per comunione anco in quella di Ferdinando di Spagna.

Que’ due monarchi pensarono che siccome Genova era stata forte e generosa nel vendicarsi in libertà, così ancora forte e generosa sarebbe nel conservarla, e non si commetterebbe a debole appoggio chi l’aiutasse. Per tanto si restrinsero le pratiche, e Luigi di Francia acconciò l’animo a far opera soccorritrice a favore della Repubblica. Innanzi tratto scrisse una lettera al doge, in cui, esaltando con magnifiche parole la nobile condotta del popolo genovese, il chiamava non punto degenere da quegli antichi Liguri che sì gloriosa fama di sè avevano lasciata nel mondo. Ciò ci dimostra chiaro come vero sia quel proverbio che suona così «Aiutati che ti aiuterò!» E Genova che si era aiutata, raccoglieva adesso il frutto del suo magnanimo ardimento, stringendo profittevoli alleanze.

È una ragione politica codesta di cui gli uomini di Stato italiani dovrebbero avere costante memoria, onde fra la ossequiosa osservanza ai maggiori e la iniziativa dei forti propositi non esitar mai. Siate forti e le alleanze saranno patti proficui ed onorati; ma deboli essendo e paurosi nel cercare amicizie, non troverete che protettori e padroni.

Prima che le narrate cose si facessero, in Provenza erano già succedute grandi mutazioni. Nel timore che se l’Austria s’impadronisse di Genova tutta Italia sarebbe sotto al giogo, Carlo di Napoli in pericolo, Filippo senza speranza di Stato, la Spagna s’era riconciliata colla Francia, verso la quale aveva avuto poco innanzi non lieve materia di dispiacenza. La Francia vittoriosa nei Paesi Bassi si era rifatta di gente sulle sponde del Varo con un forte rinforzo di veterani. E l’una e l’altra potenza si erano risolute di venire di nuovo al paragone dell’armi sui duri gioghi delle Alpi e degli Apennini.

L’austriaco Brown e re Carlo Emanuele provavano di già quello, di cui avrebbero dovuto rimaner capaci fin da prima, cioè che la Francia è una terra che non facilmente si lascia conquidere.

La rivoluzione di Genova diede il tracollo e la guerra perduta pegli Austriaci e pei Piemontesi in Provenza; imperocchè Brown non solo non poteva più trarre da quella città le artiglierie per rinforzare Antibo, ma eragli in pari tempo tolta ogni speranza di ricevere nuovi rinforzi da Schulembourg, il quale a malappena poteva colle truppe, che sotto i suoi comandi stavano, frenare i valenti Repubblicani. Disperata ormai l’impresa, e ogni dì più che l’altro crescendo la forza dei Gallo-Ispani, Carlo Emanuele e Brown si trovarono costretti a ripassare il Varo, e a ricondurre le soldatesche, sceme d’assai dalle fatiche, dai freddi e dalle pioggie invernali, l’uno in Piemonte, l’altro in Lombardia. In tale maniera seguì vana l’impresa di Provenza, e un tal fine ebbero gl’intendimenti d’Austria e di Sardegna contro di quella francese provincia, comechè gl’Inglesi si fossero impossessati delle isole di Sant’Onorato e di Santa Margherita, cui per breve tempo conservarono, tornate tosto in potere del primo signore per la ritirata degli Austro-Sardi.

Le truppe spagnuole destinate all’impresa d’Italia erano capitanate dal marchese Lasminas, sotto l’impero di don Filippo; le francesi dal maresciallo Bellisle, piuttosto bel parlatore di guerra che buon intendente, prode però della persona, generoso, e di gloria cupidissimo. Bellisle, che per proprio impulso e per volontà del suo re, procedeva con assai zelo in favore di Genova, attendendo l’istante propizio di mandare soldati in quella città, vi faceva precedere generose parole e segni del buon animo della Francia.

 

XV.

 

Ai due di febbraio 1747 entrò nel porto di Genova una nave francese. Da essa discesero a terra otto ufficiali, fra cui due ingegneri, che il maresciallo Bellisle mandava in servigio della Repubblica. A quel tratto d’amicizia della Francia, tutta la città si commosse. Cittadini d’ogni età, d’ogni sesso e condizione a calca correvano per vedere gli ufficiali mandati da un re benevolo in aiuto della patria di nuovo minacciata; salutavano con infinita allegrezza le insegne francesi, e nel rivederle sentivano rinverdirsi in loro ogni speranza.

Gli ufficiali di Francia, oltre la presenza, il valore, il consiglio, tutte cose di importanza non lieve, portavano seco ottomila luigi d’oro, somma molto opportuna, comechè fosse insufficiente per sollevare la Repubblica dalle angustie in cui versava. Le comuni allegrezze vennero accresciute dalle novelle dagli stessi ufficiali recate di non lontani soccorsi per parte di Francia e di Spagna, e della ritirata degli Austro-Sardi dal Varo.

Vana non riuscì l’aspettazione dei Genovesi; chè in sullo scorcio del mese di marzo e nei primi di aprile approdarono nei porti liguri i soldati soccorritori delle due potenze. Gli Spagnuoli, oltre l’aiuto d’armi, recavano anco quaranta casse di denaro.

Gli era ben tempo. Schulembourg era venuto frattanto cingendo Genova d’ogni intorno, e non più a piccoli affronti in sulle montagne, ma si cimentava a vere ed effettive oppugnazioni delle opere esteriori e delle mura stesse della città. A prima giunta s’impadroniva del monte dei Due Fratelli, che domina lo sperone, ultima parte delle mura; poi del convento del monte; ma quello veniva ricuperato dai Francesi, questo dai Genovesi.

Le operazioni degli Austriaci non procedevano con quella prestezza che avrebbe fatto di mestieri. Innanzi tratto non erano essi abbastanza numerosi per accerchiare una grande città, non giungendo il loro numero che a ventimila combattenti; poscia perchè il popolo e i presidiari acremente si difendevano, ed infine perchè i Bisagnini e i Polceveraschi, tutti in arme, continuamente tribulavano gl’ingiusti aggressori della loro patria. I Bisagnini, in particolar modo con altri popoli della riviera di Levante, avevano fatto una grossa accolta, la quale, sotto la condotta del patrizio Piermaria Canevari, postasi alla Scoffara, serviva quasi d’antemurale dalla parte del Bisagno. Così la guerra sino allora sparsa e vaga erasi ridotta sotto le mura.

Schulembourg, dal suo quartier generale alla Torrazza, mandò un aiutante di campo alla Repubblica, significandole che ancor era tempo pei Genovesi di ricorrere alla clemenza dell’Imperatrice pronta a perdonare ogni eccesso; che clemenza e perdono da parte di lei egli loro offeriva, ma che se intendessero aspettare gli estremi e le artiglierie, che già erano in cammino, riponessero bene in mente che avendo l’Austria giustissima collera contro di Genova, sarebbero allora, malgrado ogni preghiera, saccheggiate le campagne, inceneriti i villaggi, mandata sossopra la capitale, e sepolti sotto le sue rovine i cittadini tutti. Solito linguaggio codesto de’ capitani austriaci non peranco mutato ai giorni in cui viviamo; mentre in altri è tutto incivilimento e moderazione; in essi è barbarismo ed iracondia.

La Signorìa, ritemprata dall’eroica azione del popolo, come a uomini liberi s’addice, rispose allo stolto tedesco:

«Genova non aver per volontà preso le armi, non per offendere, ma per difendersi, non per torre ad alcuno il suo, ma per conservare il proprio; avere per Maria Teresa ogni rispetto, ma più cara la propria libertà; essere pronti i suoi popoli a mettere e beni e vita, e quanto amano e quanto possedono per mantenere quella libertà salva ed intatta; confidare che la gran Madre di Dio e Dio stesso non le sarebbero scarsi del loro sussidio, ond’ella potesse tener fermo lo Stato, resistere ad una ingiusta aggressione, e condurre a buon fine un proposito di cui niuno era nè più generoso, nè più santo.»

I cannoni ricominciarono allora a tirare; Austriaci, Ungari, Boemi, Croati, Varadini vennero alle prese contro i Genovesi, Francesi e Spagnuoli. Ai monti, al piano, alla Polcevera, al Bisagno, facevansi scaramuccie alla mescolata, seguivano zuffe accanite, in cui popolo e valligiani menavano le mani non meno aspramente delle soldatesce regolari.

Pel mondo si sparse famoso grido dell’assedio di Genova; il valore e la causa dei Genovesi erano nei cuori di tutti gli uomini onesti e generosi.

Mentre ostinazione e generosità fra loro si contendevano, ecco giugnere a Genova, quale legato di re Luigi, il duca di Boufflers, pari di Francia e governatore generale delle Fiandre.

Il 4 di maggio l’illustre personaggio, accompagnato dai deputati della Repubblica, preceduto dagli ufficiali sì francesi che spagnuoli, circondato dalla nobiltà, che l’aveva atteso vicino alla chiesa di San Siro, seguito da una calca innumerabile di popolo, andò a palazzo, ove, introdotto nella sala del minor consiglio in presenza dei collegi radunati, postosi a sedere di rimpetto al trono, dove stava seduto il doge Brignole Sale, così prese a favellare:

«Avete, o Genovesi, colla medesima grandezza d’animo restituito alla patria la libertà, procurato salvezza alle provincie nostre, e quel nemico stesso che dai vostri colli via levaste, pur dai confini della Francia allontanaste. Voi adunque prima per beneficio e fama di virtù conoscemmo che per aspetto e conversazione; a voi venendo, mi pare di venire al cospetto dei Marcelli, dei Fabi, e degli Scipioni, di cui voi a niun modo scorati per le estreme calamità, per un miracolo quasi non credibile dai posteri, rinnovaste col senno e colla mano gli altissimi fatti. Al famoso grido del valor vostro si commosse il re di Francia, quel re di Francia fido in guerra, fido in pace, e statuì di dare soccorso alla benemerita Repubblica; ed io qui sono testimonio e mallevadore della regia volontà. Ite adunque adesso, che un gran re vi accompagna; ite, combattete, prostrate quel nemico, che da voi soli già cacciaste e da voi soli rintuzzaste. M’avrete, così comanda il re, nei consigli compagno, nelle battaglie capitano, ne meglio crederommi provare al mondo che francese io sono, che col dimostrarmi per amore e per fede verso la Repubblica Genovese».

Il doge commosso rispose: «I Genovesi hanno la libertà più cara della vita, non mai di lei dubitarono, quando un acerbo nemico sulle loro generose cervici stava, nemico venutovi, non per forza di lui, ma per un impaccio di fatale destino, ma ora più cara l’hanno ancora, e più sicura la stimano, che il possente re Luigi sotto l’ombra del suo patrocinio l’accoglie, e lei di sostenere, lei di difendere promette, e cura e pensiero ne prende. Da così degno portatore delle sue promesse argomentano il grado della sua benevolenza, e superbi ne vanno, e se ne rallegrano sovrabbondevolmente. Molte cose fauste, molte infauste provò nel corso dei secoli la Repubblica, ma niuna più infausta della occupazione Tedesca, niuna più fausta di avere rivolto in sè il benigno animo di un re di Francia; ciò ella giudica essere il più desiderabile compenso delle passate disgrazie, il più prezioso frutto dei sudori e del sangue sparso. Non dubitate, o duca di Boufflers, e fatene certo il vostro alto signore, che Genova tale sarà, quale fu, e con tanta maggiore costanza combatterà, quanto che al desiderio di conservarsi libera si aggiunge quello di mostrarsi riconoscente.»

Mentre in Genova succedevano le dette cose, i nemici andavano insultando. Partiti dal campo di Creto, assaltarono monte Cornaro. Ivi s’appiccò una zuffa, come in un giusto fatto d’arme. I posti furono innanzi tratto ben difesi dai terrieri bisagnini, quindi, giungendo il patrizio Canevari con mille terrieri scelti, gli Austriaci vennero sì furiosamente caricati che dovettero a precipizio ricoverarsi nel loro primo alloggiamento di Creto.

In quel fatto glorioso, fu mortalmente ferito il Canevari, colpito da una archibugiata nemica nella gola. Era un giovine di venti anni, da ognuno amato pel suo valore e pella sua virtù. Sopravisse brevi momenti, e comechè si sentisse mancar la vita, non cessava con instanti voci di pregare i suoi a combattere, finchè avessero compiuta la liberazione della patria. Morì felice, udendo la vittoria del popolo, e la fuga degli Austriaci dal monte Cornaro.

Nella cattedrale si fecero solenni esequie al caro estinto. V’intervennero Boufflers con tutti i capi più ragguardevoli delle armi e del governo. Lodarono l’onorata persona, l’esaltarono, la mostrarono quale esempio agli altri. Il Senato ordinò che una statua le s’innalzasse nella sala senatoria.

I volontari della libertà non rimasero punto avviliti per la morte dell’egregio e prode cittadino; anzi le esangui spoglie, infiammando i loro cuori, li fecero entrare in maggior furore che mai, e le già pronte mani vieppiù sospinsero contro gli avidi conculcatori della patria. Guidati da Agostino Pinelli, sostituito al Canevari, quanti Austriaci capitavano loro alle mani, tanti sacrificavano all’anima del diletto capitano. Rimasero su per quei monti segni terribili del valore e del risentimento dei forti terrazzani.

Non migliore esito per il nemico avevano le battaglie dal lato della Polcevera; imperocchè i Genovesi non trascuravano in parte alcuna la difesa di que’ luoghi.

Schulembourg, che non poteva superare i forti petti degli Italiani, lasciava che i suoi soldati infierissero sugli inermi, solito andazzo austriaco che l’Italia dovrebbe sapere a prova e non dimenticar mai. Le crudeltà, i saccheggi, gl’incendi dalle truppe dell’apostolica Imperatrice commessi non ponno credersi. Non perdonavano le truculenti, nè a sesso, nè a età, nè a condizione; chi ferivano, chi contaminavano, chi trucidavano con barbari modi. Campane, vasi sacri, ornamenti di chiesa, marmi, statue, quadri, ferriate, vetri, suppellettili, mobili, tutto depredavano i saccomanni, e dalla spiaggia di Sestri di Ponente tutto imbarcavano su navi inglesi per Livorno e Savona. I sepolcri stessi non andavano esenti dalla loro rapacità; imperocchè li aprivano, e se vi trovavano alcun ornamento d’oro o d’argento posto ai morti dai congiunti o dagli amici, quale segno di riverenza od amore, tutto essi rubavano, ed insaccato mandavano ai sicuri lidi.

Eppure erano quelli soldati di una regina, di una donna che diceva seguire la religione del Nazareno, che si faceva chiamare imperatrice apostolica. Ma l’Austriaco del divin Maestro non segue già le dottrine, sibbene quelle del Papa, e come questo della religione fa istrumento di barbarie e di dispotismo.

Un colonnello austriaco, un tal Franquin, uomo più che bestiale, vera bestia, dopo tante immanità commesse da non ridire, fe’ a Sestri evirare un cappuccino, perché il meschino frate non aveva saputo appuntino ragguagliarlo dello Stato di Genova. Ma il castigo di Dio non doveva tardare a colpire l’inumano uomo; chè, tirando gli Italiani coi cannoni dal poggio di Belvedere contro gli Austriaci alloggiati all’Incoronata, una palla vendicatrice lo percosse nel petto, e lo stramazzò cadavere nel fango.

 

XVI.

 

Infrattanto che i fatti suaccennati accadevano, venivano giungendo mano mano intorno a Genova manipoli di soldati piemontesi, i quali si mettevano a campo cogli austriaci. Schulembourg assai si doleva del modo rilento impiegato da Carlo Emanuele nello spedirgli non solo i suoi, ma benanco le provvigioni di cui tanto abbisognava. Non è che quel re sentisse rimorso di dare aiuto allo straniero per debellare una città italiana. Egli oltre al temere l’eccessiva potenza di Vienna in Italia ove di Genova s’impadronisse, provava dispetto per non essere stato messo a parte del bottino di Piacenza, come aveva con istanza domandato.

Il generale austriaco che non ignorava come alla sua Imperatrice stesse a cuore la presa di Genova, e desideroso essendo egli medesimo di acquistar gloria in quella ossidione, instava presso Carlo Emanuele affinchè sollecitasse i soccorsi. Mandava anco a Torino il barone di Plunker, il quale abboccatosi coi ministri del re li trovò che volevano bensì aiutare, ma con nuovo vil prezzo, oltre ai già pattuiti. Trovato il prezzo, non ebbe ad impiegare molta fatica a persuaderli.

Dopo i soliti ragionamenti, si convenne fra le parti di fare uno spartimento della Repubblica. Genova doveva rimaner libera, ma soltanto come città anseatica, la riviera di Ponente doveva toccare a Carlo Emanuele, quella di Levante a Maria Teresa, eccettuato il golfo della Spezia ed il Sarzanese che sarebbero caduti in potere del Granduca di Toscana.

Così Piemonte ed Austria facevano fra di loro il conto, il quale, come in appresso vedremo, ricorda l’antico proverbio che non occorre rammentare.

Tosto, comandati dal conte Cacherano della Rocca, partirono alla volta del campo austriaco dodici battaglioni di fanteria con altre milizie, e la proporzionale accompagnatura di cannoni. A Sestri cacciarono Anfrano Sauli ed il capitano Barbarossa, lodatissimi guerrieri, i quali avevano in que’ luoghi dato prove di straordinario valore. Non potendo i due Repubblicani reggere all’impeto del nemico di molto più grosso, si ritrassero ai monti verso Masone per inquietarlo da quelle balze quanto più potessero.

Le fazioni militari si accalorarono. Dalla parte del Bisagno gli Austriaci tentarono parecchi assalti, ma con esito infelice; imperocchè quelle intrepide popolazioni, confortate anche da qualche compagnia di soldati regolari di Francia, Spagna e Genova, valorosissimamente sostennero i vari scontri.

Sulle rive della Polcevera gli Austro-Sardi avevano posto piede sul poggio della Madonna della Misericordia, da cui signoreggiavano la costa di Rivarolo. Quella comparsa fece stupire i Genovesi, e a Bouffiers dimostrò come non si dovesse tentennare. Fece suonare la raccolta in città; in gran numero accorsero le milizie cittadine, si unirono colle francesi, e, sotto la guida del cavaliere di Chauvelin, intrepide andarono all’assalto del poggio. Per divisamento di Boufflers, che dalla porta di Granarolo su ogni cosa vegliava, uscì in pari tempo, il conte di Lannion dal monte de’ Due Fratelli, ed investì da quel lato gli Austriaci.

Il combattimento dalle due parti durò più di tre ore d’assai ostinato. I Franco-Italiani si erano già condotti sino al convento della Misericordia, dov’era il grosso degli Austro-Sardi, e ogni speranza di vittoria avevano, quando, sopraggiunta la notte, dovettero porre fine al combattere, e tornarsene.

In quel fatto gli Austro-Sardi ebbero a soffrire una perdita di circa ottocento uomini tra morti e feriti, i Genovesi intorno a quattrocento. Fra questi eravi quell’Andrea Uberdò, detto lo Spagnoletto, uno dei capi-popolo da noi citati in sul principio della sommossa; egli morì col nome di patria sulle labbra. Perì pure di mortale ferita il marchese della Faye.

Tutti piansero l’Uberdò, generoso in vita, generoso in morte per la sua patria. Nella comune lode i Genovesi accoppiarono il di lui nome con quello di Canevari, quantunque l’uno patrizio, popolano l’altro; felice connubio da cui speravano la salute della Repubblica.

In quel medesimo fatto fra altri rimase prigioniero Francesco Grimaldi, il quale, stretto dalle forze austriache, andava gridando: «Della mia cattività non mi dolgo, se non perchè ella mi toglie la possibilità di più adoperarmi in pro della patria.»

Grandi pericoli sovrastavano ancora a Genova dalla parte del Bisagno, sino allora difesa con sì prosperi successi.

Schulembourg o che fosse mosso sul principio dalla necessità di aspettare i Piemontesi, o che il determinasse la maggior facilità di far venire dalla Lombardia le provvisioni, aveva anteposto l’attaccarsi alla parte verso la Polcevera, comechè Genova fosse ivi meglio munita che verso il Bisagno. Il suo sforzo aveva già assai tempo durato, nè si vedeva che presto dovesse aver fine, difendendosi quei di dentro con egregio valore. Anzi in loro crescevano ogni giorno gli spiriti guerrieri e la esperienza delle armi, mercè principalmente le cura di Boufflers, il quale nè giorno, nè notte riposava, nè ricusava alcun ufficio, ora capitano, ora soldato. Fortificava i luoghi più deboli, muniva maggiormente i più forti, indirizzava i movimenti, s’intendeva ottimamente col governo. «Se Genova, scrive lo storico Botta, fosse stata sua patria propria e fra quelle mura fosse nato, più amorevole volontà non avrebbe potuto dimostrare, nè con più attento o forte animo la causa genovese procurare.» Il valoroso duca egregiamente eseguiva il suo mandato; e tanto più perchè trovava negli uomini cui presiedeva valore e abnegazione.

Se Boufflers bene rispondeva al popolo che l’amava, bene pur rispondeva il popolo a Boufflers, e bene il governo ad ambedue. Tale concordia, tale vicendevole operare dovrebbero sempre essere seguiti in pari circostanze. Il non assecondare gli sforzi di chi regge le armi, gl’impacci frapposti dal governo, la sfiducia degli animi non danno certo giammai la vittoria.

Schulembourg, considerate tutte le esposte cose, prese consiglio d’avventarsi contro la fronte del Bisagno, nella speranza che la sorpresa e la qualità delle fortificazioni gli avrebbero aperto più facilmente la via al conseguimento del suo desiderio.

La notte che susseguì al giorno dodici di giugno, pose in esecuzione il suo disegno. Lasciati i Piemontesi a guardia degli alloggiamenti e trincee fatte sulle rive della Polcevera, e a Piemontesi mescolati con Austriaci data la custodia del quartier generale della Torrazza, il supremo capitano col maggior nerbo dei soldati dell’impero s’incaminò per alla volta del Bisagno. Marciava col favore della notte pei sentieri montuosi che sono attorno a Genova, silenzioso, colle schiere sciolte dalle artiglierie, cui intendeva di far venire da Sestri di Ponente alla Sturla col mezzo delle navi inglesi. Aveva diviso i suoi in tre drappelli, l’uno a guida del generale Spreker, l’altro del barone di Sant’Andrea, il terzo di lui stesso. Silenzioso partì, silenzioso giunse. Per fare che i Genovesi non si accorgessero del piano che poneva in opera aveva lasciato ordine al generale Della Rocca, come se sul solito piano della Polcevera volesse battere, che in sul far del dì assaltasse, come eseguì, il ponte di Corvigliano per far vista di entrare in San Pier d’Arena, al generale Piccolomini che rumoreggiasse più su verso Rivarolo, e al generale Andelaw che investisse il monte dei Due Fratelli.

Gli Austro-Sardi trovarono dappertutto i difensori pronti, ed altri che accorrevano, perchè credevano essi che quivi i nemici volessero sforzare la città; il disegno di Schulembourg riusciva a seconda.

Infrattanto egli passava il Bisagno nelle parti superiori, e in sul far del giorno era ivi alcun poco molestato dai villani che custodivano i passi di San Gottardo, ma fu un nulla. Proseguendo il cammino diligentemente, giungeva senza muovere sospetti alla serra dei Bavari, ove i paesani non avevano pernottato in quel numero che dai vigilanti capitani era stato prescritto. Per cui soltanto una leggiera avvisaglia qui succedeva, in conseguenza della quale Galeotto Pallavicino, che là reggeva le armi, doveva ritirarsi con andar a prender posto al basso, in prossimità di Albaro. Via celeremente seguitando, il duce austriaco, quasi senza difficoltà di sorta, superava il monte vicino denominato Castellazzo, e l’animo e l’armi voltava contro il poggio detto per la sua eminenza la Bocca dei Ratti.

Tale località era di estrema importanza, imperocchè per ivi si passa a Camaldoli, a Quezzi, a Santa Tecla, a San Martino d’Albaro, luoghi tutti vicini, e per dove si poteva far forza contro le trincee, che, per maggior sicurezza, i Genovesi avevano fatto sulla sinistra del Bisagno, e che si distendevano dalla Madonna del Monte sino a San Francesco d’Albaro. Un reggimento composto di Svizzeri ai servigi di Spagna con qualche nodo di paesani tenevano in custodia quel passo, da cui poteva dipendere la salute o la rovina di Genova. Ma se la passavano quegli molto alla spensierata, e senza quella vigilanza che si conveniva, negligenza da far meraviglia da parte degli Svizzeri che in quel tempo tenevano il primato delle armi.

Gli Austriaci assalirono improvvisamente, e quando gli altri meno se l’aspettavano. Gli Svizzeri e i Genovesi punto si sgominarono per ciò; ma, afferrate prestamente le armi, al certame corsero intrepidi, e ressero per ben tre ore, con uccidere molta gente al nemico, massime dei granatieri. Se non che la ognora crescente calca degli aggressori li fece indietreggiare. Al rumore e alle funeste novelle accorse sul luogo il generale spagnuolo Taubin, a cui, alloggiato dentro il recinto delle nuove mura, era commessa la custodia di quelle parti. Esso sovvenne gli Svizzeri, incoraggiò i villani, e già faceva certa per sè la vittoria, quando, ferito mortalmente in una gamba, fu trasportato via dal campo di battaglia, e tradotto nella propria abitazione in Genova, dove in capo a dodici giorni morì.

Impossessatisi gli Austriaci prima della Bocchetta, poscia del monte dei Ratti, colla loro ala sinistra scesero per le rive della Sturla sino alla marina, colla destra occuparono l’eremo di Camaldoli e la montagna di Quezzi, dove attesero a fortificarsi e a spingere guardie sino a tiro del cannone della piazza.

Colla perdita della Bocca dei Ratti non rimaneva ai Genovesi che un punto importante, quello del convento della Madonna del Monte, sito assicurato con qualche opera di trincee dal marchese di Roquepine. Se ivi giungevano ad annidarsi gli Austriaci, le fortificazioni esteriori divenivano pei Genovesi inutili. Il nemico si sarebbe facilmente insinuato fra le fortificazioni medesime e le mura del recinto, e, avvicinatosi così al Bisagno, avrebbe potuto e battere coi cannoni le mure e lanciare bombe nella città. Il sapeva Schulembourg; e a tutt’uomo vi si sforzò.

Nel convento della Madonna del Monte eravi il marchese di Leyde, spagnuolo, il quale, vedendo venire alla sua volta tanta moltitudine di nemici, e considerando la debolezza delle trincee, che lo cingevano, aveva fatto pensiero di ritirarsi e già, ottenutone il consentimento di Boufflers, si ritirava. Se non che il maresciallo di campo Sickel, svizzero, al soldo di Genova, insistette con sì efficaci parole sulla necessità di conservare quel posto, se pur si voleva che la Repubblica trionfasse, che Boufflers mandò ordine si difendesse ad ogni costo. Leyde, compreso che se si allontanava la vittoria per fermo sarebbe pegli Austriaci, i quali ferocemente venivano all’assalto, tornò prestamente indietro, ed appiccò la zuffa, e nel fatale cimento, accorsero e si mescolarono villani, popolo e borghesi.

Crudele e lunga fu la battaglia. Finalmente fra il resistere unito di tanti, si rallentò l’impeto dei nemici, i quali, lasciando sul campo circa duemila tra morti e feriti, ritiraronsi nei loro alloggiamenti di Camaldoli e di Quezzi. Fra i morti si numeravano il marchese Clerici e quattro colonnelli. Gli Austriaci, scesi più abbasso, avevano anco tentato le trincee di San Francesco d’Albaro, ma pur quivi senza frutto. Così Schulembourg, che aveva preso quartiere nel palazzo di Gianagostino Pinelli in San Martino d’Albaro, scorgeva le mura della bramata città, ma non le poteva battere per la distanza.

La battaglia della Madonna del Monte volse in bene le sorti di Genova; oltre alla strenua difesa devesi pure l’esito della giornata all’opportunità delle trincee innalzate e degli interriati fatti dai Genovesi oltre il Bisagno.

 

XVII.

 

I rapidi progressi di Schulembourg verso la parte orientale, e l’aver esso di Quezzi e di Camaldoli fatto suo ricettacolo, non poca trepidazione cagionarono nel popolo. Siccome sempre accade in simili casi, molti magnificavano la cosa oltre il vero, e, già presi da sgomento, i Genovesi dubitavano della salute della patria. In tali estremi momenti non vi è che l’energia di chi regge che possa risollevare gli animi di chi ubbidisce. E così fu.

I collegi in permanente adunanza vegliavano; Boufflers s’affaticava quanto e forse più di quanto potesse prode e amorevole uomo; assicurava le fortificazioni; alzava una subitanea trincea tra il monastero di Santa Chiara di Carignano e la porta Santo Stefano, eccitando colla parola e coll’esempio il popolo al lavoro, e il popolo, rifatto d’animo, accorreva; nuove opere d’alzate e di trincee faceva al minacciato posto della Madonna del Monte, vi mandava più forte presidio, dandolo in guardia al valoroso marchese Roquepine; infine l’instancabile capitano poneva il suo quartiere generale alla porta Romana per essere meglio in grado di sopravedere e di soprastare da sè medesimo a quanto occorresse per le difese. Anco la Signorìa mostrava animo pari al pericolo. Mandava alla Madonna del Monte gran numero di popolo e di villani guidati dai patrizi Giambattista Saluzzo, Stefano Lomellino, Gianfrancesco Dongo. Colla loro attività e col loro coraggio que’ patrizi assai danni arrecarono agli Austriaci, specialmente il Dongo, il quale, lasciato l’abito ecclesiastico, onninamente si adoperò nella patria causa.

Nel movimento universale prodotto dalla prossimità del nemico, gli ecclesiastici, che del Vaticano non seguivano le massime, mostraronsi sublimi nel loro cómpito di carità patria, degni di essere tramandati pel ministerio delle lettere alla memoria degli uomini. Si armarono in gran numero, ed armati si condussero a custodire notte e giorno la muraglia della minacciata parte; ed in tali pietosi esercizi continuarono, finchè durò il bisogno, mai venendo in loro meno l’ardore. Monsignore Saporiti, arcivescovo di Genova, spinto anch’esso dallo zelo medesimo, andò a farne la rivista là dov’erano accampati alle palizzate del Bisagno, e i fatti succedentisi non diceva opera umana, ma giustizia del Signore.

Tutto s’infervorava, nè la lunghezza del tempo attediava gli animi o stancava i corpi. Le donne ed i fanciulli, cui uguale amore per la Repubblica, ma non uguali forze potevano impiegare, si adoperavano volonterosissimi nell’aiutare i più robusti ed intrepidi uomini alle fortificazioni con portar ceste, terra, fascine, zappe ed ogni altro oggetto o strumento atto a procurare sicurezza. Onde forti e deboli, armati e inermi, ricchi e poveri, secolari ed ecclesiastici tutti pagavano il debito loro alla dolce madre che avevali allevati e nutriti.

La furia di Schulembourg dovette arrestarsi innanzi agli intrepidi petti dei difensori di Genova, innanzi alla loro concordia. Il Tedesco non si mise più in pensiero di voler conquistare la Madonna del Monte. Trovandosi la ligure città tutta all’intorno cinta dall’esercito confederato e il mare chiuso dal navilio inglese, sperò che la fame avrebbe fatto quello che non poteva la forza.

I terrazzani da difensori si fecero assalitori. Vedendo il nemico silenzioso, si spiccarono da Quezzi, l’andarono a snidare, e gli arrecarono grave danno con una ben combattuta fazione; altri portatisi a San Pier d’Arena scacciarono i Piemontesi da una casa nel borgo di Cornigliano, dove si erano fortificati. Gli Austriaci tentarono di tener fermo il posto di San Gottardo, ma pur quivi colla peggio furono rimandati.

Austriaci e Piemontesi, non potendo vincere, saccheggiavano e soqquadravano il paese; nè si poteva distinguere chi di loro più infuriasse; imperocchè gli uni e gli altri facevano alle peggiori, nè si ristavano ai pianti ed alle supplicazioni degli inermi e dei quieti, purchè rubassero, uccidessero, violentassero, ponessero dappertutto la desolazione e la rovina erano contenti. Nel leggere le narrazioni sincrone di questi fatti, non potemmo di meno di volare col pensiero alle pagine di Vittor Hugo, e di convincerci che quando la possente fantasia egli sbrigliava a descrivere le selvagge mostruosità d’un Han d’Irlanda fosse più storico che poeta. Cuori di quella tempra pur troppo allignano quaggiù. Se v’ha un conforto a ciò, egli è che le storie non sempre ci riportano di tali inumanità.

L’ammiraglio inglese che governava l’assedio dal lato di mare, anco da quello che aveva udito dalla bocca di Schulembourg, si era immaginato che i Genovesi morissero di fame. Per accertarsene si mise in capo di voler fare un bel tratto; e fu questo.

Una mattina con bandiera parlamentaria presentavansi al porto due ufficiali inglesi, i quali chiedevano, a nome del loro capo, di essere presentati al doge. Allorchè furono innanzi alla suprema carica della Repubblica, trassero un foglio e lo sporsero. In quel foglio da parte della Corte di Torino si domandava una cantatrice che in Genova tutt’altro mestiere faceva di quello di cantare. Aveva proprio la Corte di Torino da pensare in quel tempo alle cantatrici. Si conobbe la sciocca pretesa, e agli ufficiali venne detto andassero pure, secondo il piacer loro, cercando la chiesta persona, e visitassero liberamente la città. I due inglesi videro dappertutto perfetta quiete, le botteghe de’ fornai piene di pane, tutte le piazze provviste di commestibili d’ogni genere, non solo i più necessari, ma benanco di quelli che allettano alla gola. Boufflers li invitò a pranzo; la tavola fu imbandita con tale abbondanza e squisitezza, che ne avrebbe disgradato le più sontuose in tempo della più perfetta pace. In fine di tavola l’arguto francese disse loro: «Vedete, signori, ai Genovesi non manca che un po’ di neve per mitigare il calore contro dei loro nemici». Bisticcio da secentista, ma pure espressivo.

Allorchè i due messi se ne tornarono all’ammiraglio, e gli riferirono quanto avevano veduto ed udito, il superbo figlio d’Albione sbassò alquanto la sua arroganza per modo che non sapeva più che dirsi dello Schulembourg.

L’abbondanza dei viveri in Genova proveniva dall’ardire e dall’arte, con cui i legni della Repubblica: gondole, gusci, saettie, liuti, schifetti, trapassavano, malgrado gli sforzi supremi dei nemici, le navi inglesi, ed entravano nel porto recando ogni sorta di provvigioni.

Narrasi di una galeotta, chiamata la San Luigi, di bandiera francese, ma da Genovesi governata, la quale, carica di polveri, nella più chiara luce del giorno sguizzò attraverso della fila brittanica, e, comechè dalle due bande i cannoni inglesi la fulminassero, salva si condusse nel porto. Esempio questo raro di sommo ardimento.

Boufflers si studiava continuamente a moltiplicare gli ostacoli al nemico e a prolungare colla difesa la vita di Genova. Gli fu suggerito, ed accettò il pensiero di armare un pontone, tarda e grossa nave, fatta solamente per uso di trasportar pietre. Lo afforzò tutto all’intorno di gomene, stoppe, lane, di quanto infine il potesse rendere impenetrabile alle artiglierie. Lo munì di due grossi cannoni in poppa, di due minori ai lati, di due mortai nel mezzo. Così armato lo mandò alla marina della Sturla, scortato da due galere e rimorchiato da una quantità di battelli. Colà giunto, il pontone si diede a tirare contro gli Austriaci, molti ne uccise, indusse in tutti timore e stupore per l’apparizione di sì strana e potente invenzione. Incominciarono i cervelli alemanni a pensare, e capirono che i Genovesi non erano poi gente da potersi soggiogare così alla prima. Gli alleati principiarono pure a vacillare nei loro consigli, e dell’evento non pronosticarono troppo bene.

In quel mentre giunsero ai Genovesi desideratissime novelle. L’esercito Gallo-Ispano, passato il Varo, ed occupato il paese di Nizza, si era accinto all’assedio di Ventimiglia, mentre l’avanguardia condotta da don Francesco Pignatelli, già era pervenuta in San Remo. Più dubbio veruno non eravi che Carlo Emanuele, temendo pel suo reame, non fosse per richiamare i suoi soldati dal campo di Genova per inviarli ai soliti e naturali baluardi del Piemonte. Non fu così nondimeno, chè quel re, credendo forse che Genova fosse in maggiori angustie di quante veramente ne provava, oppure stimando che pei luoghi rotti della riviera il nemico non potesse così presto approssimarsi, aveva manifestato al generale austriaco l’intenzione di vieppiù stringere Genova, attaccarla con maggior sforzo, onde averla tosto nelle mani.

Schulembourg e Della Rocca si affrettarono ad aderire al desiderio del re di Piemonte; essi non cercavano di meglio che prevenire le nuove combinazioni di guerra che con sè portava l’esercito alleato.

Genova però non dormiva. Cittadini, popolo, contadini, soldati e milizie, Boufflers, la Signorìa e l’Arcivescovo stesso co’ suoi preti e frati, tutti zelatori di libertà, tutti vegliavano perchè la Repubblica non ricevesse danno. Mani forti avevano i campioni di Genova, ed animo ancor più forte. Scacciarono essi i Piemontesi e i Croati dalla Madonna della Incoronata sulle rive della Polcevera, respinsero gli Austriaci da San Gottardo sulle rive del Bisagno, e comechè in un assalto dato al monte delle Fasce rimanessero perdenti, tuttavolta vi ebbero combattuto così ferocemente che il nemico si accorse che in loro non era punto scemato il vigor primitivo.

In questo fatto fu ferito, preso e barbaramente trucidato dai Tedeschi fra Paris, fratello di Agostino Pinelli, cavaliere di Malta, il quale, udito il pericolo della patria, era prestamente accorso per giovarle e col consiglio e col braccio, in entrambi valentissimo. Il cadavere di lui, tutto lacero, e indegnamente tronco da uomini inscienti d’ogni legge divina ed umana, venne ricompro a contanti e trasportato in Genova. Nella cattedrale, come a quella del Canevari, vennero alla cara salma fatti gli ultimi onori con solenni esequie. V’intervennero i magistrati, la nobiltà e il popolo, ed i primi ufficiali di guerra.

 

XVIII.

 

La costanza genovese e la caponaggine austriaca continuavano ad urtarsi. La vittoria però non doveva essere ormai dubbia. Da un lato si combatteva per la libertà, dall’altro pella servitù; valore, umanità e diritto stavano pei Genovesi, viltà, crudeltà e dispotismo pegli Austriaci.

Il 30 giugno da Antibo giungeva in Genova Agostino Haumada, distintissimo generale spagnuolo, mandato da Lasminas in surrogazione del morto Taubin. Quell’arrivo rinforzò sempre più le speranze dei Genovesi; imperocchè se la Spagna mandava uno de’ più scelti suoi generali era argomento che neppur essa rallentava del suo favore verso la Repubblica. In quel torno di tempo seppesi pure che il castello di Ventimiglia si era arreso alle forze Gallo-Ispani. Ciò diede prova manifesta come essi avessero gli eserciti in buon assetto di guerra, e non restasse loro più altro impedimento per venire avanti che le difficoltà dei passi. In quanto a Leutron, che trovavasi in Oneglia, non dava timore che potesse arrestare il corso dei vincitori, poche genti avendo con sè.

Carlo Emanuele, veduto fallito il tentativo di impadronirsi di Genova, e udendo come l’esercito Gallo-Ispano ogni ostacolo superando si avanzasse vittorioso, ordinò al generale Della Rocca, levasse tosto il campo di Genova e andasse prestamente a congiungersi colle altre forze piemontesi destinate a preservare il Reame da un’invasione che pareva imminente.

Della Rocca, senza indugio alcuno, levò il campo e si ritrasse a Savona, donde poi fece passo in Piemonte. Tale provincia non era certamente sicura. I generali degli eserciti borbonici, non solamente sembravano di volersi prolungare per la riviera in soccorso di Genova, ma benanco di voler tentare qualche fatto di non lieve momento sulle fonti della Dora e del Chiusone, e aprirsi un varco nelle pianure subalpine, avendo mandato sotto gli ordini del cavaliere di Bellisle, fratello del generalissimo di Francia, numerosi battaglioni su pel dorso delle Alpi.

Le speranze d’Austria caddero affatto colla partenza dei Piemontesi, e vani tornarono i desideri di possessione e di vendetta. Ella, mordendosi le mani, dovè convenire che se i Genovesi avevano scritto sulle porte della loro città la parola Libertas, possedevano anche in cuore virtù capace per sostenere che altrui non la cancellasse.

La notte del 3 di luglio, Schulembourg, non potendo più fare alcuna cosa buona per la lontananza degli alleati, e trovandosi in cattiva condizione, levò con somma cautela tutti i campi che sul Bisagno aveva posti, e, con silenzio camminando, si ridusse innanzi tratto al suo alloggiamento della Torrazza; indi, varcata la Bocchetta, e più in là procedendo, lasciò libero quasi tutto il territorio della Repubblica. Gli Inglesi, venuti per opprimere un popolo che voleva la sua libertà, dalle spiaggie della Sturla e di Sestri di Ponente, dove avevano il principale adunamento, spiegate nel tempo stesso le vele, s’incamminarono a Vado ed a Savona, riconducendo con sè le artiglierie e le provvisioni che con tanta fatica e tanta spesa avevano portato ad una impresa di così brutto proposito per le armi d’Inghilterra. Salvi se ne andarono, perchè la superiorità del loro navilio non permise alle piccole navi genovesi di danneggiarli. Bene però popolo e villani seguirono alla coda i soldati fuggenti di Maria Teresa; non pochi ne uccisero e ne ferirono, impadronendosi anco di alcune some piene di oggetti d’oro, non che di molto bestiame.

Così i nemici di Genova se ne andarono; così libera rimase quella generosa città, esempio al mondo che non si assassinano impunemente gli innocenti, e che i forti petti dei cittadini sono baluardo insuperabile a qualunque prepotenza. Il nome genovese visse, come aveva tanti secoli vissuto, rispettato ed amato, finchè, tra la fede rotta e i nuovi disegni di chi più poteva per la forza delle armi vincitrici, non fu già spento, ma fatto comune con quello che già aveva avuto nemico. Però è da credere che i despoti non avvertissero bene nel 1815 a quel che facevano, unendo forti mani e forti petti di qua e di là dall’Appennino; se ci avessero pensato non lo avrebbero fatto.

 

Al partire delle detestate insegne si rallegrarono assai i Genovesi, gli uni e gli altri si abbracciarono, le passate calamità si raccontarono quasi come un orribile sogno, e il valore mostrato nella lotta con quel bell’entusiasmo d’un popolo che sa di aver fatto un’opera santa. E il popolo genovese aveva ben ragione di andar glorioso. Senza di esso Genova sarebbe stata sotto il giogo austriaco chi sa per quanto tempo ancora, angariata, concussa in sino all’estremo. Senza il popolo, il patriziato genovese non avrebbe saputo trovare l’antica energia, stabilire alleanze fruttevoli alla patria. «Che l’inse!» sclamò il popolano Balilla, parole che meglio di lunghi discorsi esprimono la terribile disperazione di un popolo che non poteva più sopportare sul capo la ferrea mano dell’usurpatore; e quel popolo, alla magica pietra lanciata contro i superbi e mal accorti Golia, si accese, insorse e vinse; vinse perchè lo volle con fermo e costante proposito. Le rivoluzioni non si fanno come un atto qualunque della vita individua o sociale. Iddio nella sua giustizia ne decreta il giorno e l’ora. E quando il giorno è sorto, quando l’ora è scoccata, la goccia d’acqua fa traboccare il calice, il sasso lanciato impegnare la guerra, mentre la voce dei secoli grida al mondo: «Lasciate passare la giustizia di Dio». Grido democratico di popolo fu quello di Balilla, allarme di rivoluzione, quello allarme che tuttora minaccevole e tremendo suona alla tirannide e alla prepotenza. Grido magnanimo, che precede la eterna giustizia, che i codardi Eunuchi invano presumono soffocarne il prorompere. Silenzio, vi diciamo coll’inspirata parola di Mameli, silenzio, Eunuchi:

 

«Stolti, o venduti — credono

Guidar tremando i fati,

Che il lor terror adorino

I popoli prostrati;

Della viltà profeti,

Sui fremiti secreti

Che l’avvenir racchiudono

Spargon blandizie e oblio,

Dicon, mentendo Iddio,

Empio chi tenta oprar.

 

Se Balilla avesse consultato uno di costoro innanzi gettare il sasso, avrebbe avuto l’appellativo di pazzo o di peggio; sarebbe stato deriso, se fallito il colpo, da quelli stessi, che, riuscito a bene, ne sublimarono il nome, gridandolo grande e generoso figlio di Genova. Sempre eguali costoro, anco ai dì nostri ne avemmo esempi. Milano sorge nel 1848, vince, ed è gridata eroica città; nel 1853 alcuni arditi patrioti tentano sollevarla per cacciarne il nemico, sono perdenti, e quelli stessi che cinque anni prima erano eroi, grandi, vengono appellati pazzi dai fratelli, assassini dai nemici. I fratelli Bandiera, Carlo Pisacane, ed altri furono derisi, perchè con pochi compagni tentarono generose imprese e fallirono; grande invece è chiamato Garibaldi, che, pur con pochi compagni, riesce nella redenzione di Sicilia e di Napoli. Se una nave borbonica lo avesse gettato nel fondo del mare innanzi sbarcare a Marsala, esso pur ora s’avrebbe la taccia di pazzo. Gli Eunuchi non adorano che la forza materiale, che i fatti compiuti, e pur questi a loro modo. Malgrado i molti esempi non vogliono riconoscere la potenza del popolo, non ammettere che Dio lo protegga nelle sante sue imprese.

Per debito di giustizia dobbiamo ora un cenno alla Francia e alla Spagna, le quali per salvare Genova dalla perdizione, a cui la chiamavano due principi vicini ed uno lontano, quella Genova che grande mostravasi, furono liberali d’uomini e di denaro. La Francia sopratutto è degna di grandissima commendazione; imperocchè nessuna spoglia per sè serbò, solo intenta a proteggere il giusto. Così se la ingiustizia trovò avvocati ed armi, la giustizia pur nè trovò, e tanto più che il popolo aveva saputo meritarli col suo amor di patria, col suo coraggio.

 

XIX.

 

Il duca di Boufflers, che sì valorosamente aveva combattuto, non ebbe il contento di veder coronata l’opera da lui sì bene condotta. Le palle tedesche lo avevano rispettato, il vaiuolo lo ammazzò. Esso morì ai 2 di luglio 1747 nell’età di quarantadue anni. I Genovesi lo avevano preso ad amare assai, poichè nessuno fu mai più caritatevole verso i poveri, nè più generoso verso gli amici, nè più valoroso contro i nemici, nè più amante di Genova dell’estinto duca. Il popolo lo pianse, e le lagrime d’un popolo sono la più eloquente, la più bella orazione funebre cui uomo possa desiderare. Il popolo non sa fingere, il suo pianto o la sua gioia non sono menzogneri, non adulatori. Oltre alle lagrime i Genovesi diedero al Boufflers quanto Stato riconoscente può dare a chi più non viva. I collegi decretarono che una lapide alla sua memoria fosse posta nella chiesa dell’Annunciata del Guastata, precisamente nella cappella di San Luigi appartenente alla nazione francese. L’inscrizione latina incisa su quel marmo nell’italiana favella suona così:

«A Giuseppe duca di Boufflers, governatore della Fiandra, francese, a Genova venuto portatore della volontà di Luigi XV, re, per avere col senno e colla mano confortato i cittadini afflitti da lungo assedio, col riattar vecchie ed alzar nuove fortificazioni, frenato per terra e per mare i confederati inimichevolmente avventantisi, con fatiche e consunzione della vita sostentato la libertà della Repubblica da nemica forza ad ogni modo tentata, al difensore amantissimo il Senato per dargli immortalità di nome, giacchè non potè di vita».

Quindi il gran consiglio, intento ad onorare un uomo caro e benemerito alla Repubblica, statuì che il figlio dell’estinto Boufflers e i suoi discendenti fossero inscritti nel libro d’oro della nobiltà genovese, e di più che e’ potessero annestare le armi della Repubblica con quelle del proprio casato.

Gli altri morti per Genova si ebbero pure i dovuti onori. Per ordine dell’arcivescovo fu solennizzato nella cattedrale un triduo ed un funerale. Il magnifico tempio era tutto a gramaglia; nel mezzo ergevasi un catafalco, circondato da infiniti lugubri lumi, e sopra la porta maggiore leggevansi le seguenti parole:

«Ai fortissimi cittadini cui l’amore della patria spinse a morte, perchè abbiano dopo le guerriere fatiche pace e riposo eterno, questo lutto di pietà, questo ufficio di gratitudine.»

Altro e non men grave pensiero era pur venuto in mente dei magistrati, e fu che si rendessero grazie e voti al Dator d’ogni bene per aver conservato alla Repubblica quello che più d’ogni altro si deve apprezzare ed amare, la libertà. Il 23 di luglio, i collegi, la nobiltà, i magistrati i capi delle armi radunavansi nella metropolitana, e per loro facevasi solenne processione coll’intervento dell’arcivescovo e del clero, a cui pei loro recenti fatti in pro della patria, i popoli riconoscenti guardavano con maggior riverenza del solito. La divina presenza, la serenità dell’aria, il raccoglimento dei magistrati, il rispetto dei cittadini, l’armi lucenti ed apprestate, non più a morte, ma a vita, la ricordanza dei passati danni, il contento della presente felicità, davano a quella pompa un non so che di grave, di pietoso, di soave e di sacrosanto insieme: religione e libertà si univano. I Genovesi pregavano e ringraziavano: il mondo li ammirava. In quel solenne e ben augurato momento suonavano le campane, strepitavano ad allegrezza i fucili delle schiere, tuonavano i cannoni. La sera poi la città in ogni parte comparve illuminata, e scorgevansi altri festevoli segni, indicatori che quello era giorno memorabile e grande nei fasti della Repubblica.

Le felici novelle di Genova furono dai sopracciò partecipate a mezzo di ambasciatori agli amici sovrani. Le cose però non erano ferme ancora intieramente; imperocchè i rumori di guerra facevansi tuttodì udire ai confini della Repubblica. L’assistenza della Francia era ancora necessaria.

Il marchese di Bissy venne per sostenere le veci di Boufflers, poi, per maggiore significazione d’onore e di favore, re Luigi, in sullo scorcio del settembre, mandava il duca di Rechelieu. Presentatosi questi al Senato disse:

«Genovesi, re Luigi, mio signore, niuna cosa ha più a cuore che la salute della Repubblica, io a voi vengo portando per lei la medesima incorrotta fede, il medesimo intenso desiderio di giovarle, che in Boufflers tanto da voi sospirato e pianto avete veduto.»

Il doge rispose:

«Duca di Rechelieu, la Repubblica conosce e sente nell’intimo del cuore le obbligazioni che ha al magnanimo re di Francia; si rallegra, si gloria e si conforta che ad un re sì potente tanto sia accetta da mandare, quale esecutore della sua benigna volontà, un ministro di così alto stato e tanto amato da lui.»

Il duca di Richelieu mostrò verso Genova la medesima benevolenza del predecessore; ma l’occasione di segnalarsi che fu larga a Boufflers gli mancò. Piccoli fatti soltanto successero ancora su quello della Repubblica, perchè la guerra in altri territori incrudeliva. Tentò Savona per sorpresa, Campofreddo per forza, e non gli riuscì. Conquistò però Varaggine, cacciandone i Piemontesi e facendo molti di loro prigioni. Represse il nemico nella riviera di Levante, preservò quella di Ponente sia dov’era libera, e tale in pericolo fazioni si mostrò, che ognuno conobbe come capace fosse delle più grandi.

 

XX.

 

I potentati erano ormai stracchi della guerra; ma non sazi di sangue. Terminato l’assedio di Genova, i Gallo-Ispani decisero condursi a nuove offese.

Il maresciallo Bellisle ed il marchese Lasminas, non andavano però innanzi tratto troppo d’accordo sull’impresa che primieramente dovevano eseguire. L’uno e l’altro volevano bensì cacciare nel precipizio il re di Sardegna, e rompere la forza austriaca in Italia, ma Bellisle l’intendeva ad un modo, Lasminas ad un altro. Il Francese considerava che se si penetrasse in Piemonte per le Alpi e si domasse re Carlo Emanuele, altro partito non resterebbe agli Austriaci che quello di ritirarsi sugli alti monti del Tirolo. Presumeva altresì che il re, tutto intento alle cose Liguri, avesse lasciato con poca custodia i luoghi per ove intendeva di passare. Voleva per conseguenza che il Piemonte s’invadesse per le Alpi. Lo Spagnuolo, pel contrario, mosso sempre dalla mira del grasso pascolo di Parma e di Piacenza, portava opinione che si costeggiasse il mare per la riviera di Ponente, si prendesse Savona e si riuscisse, varcati gli Appennini liguri, e sottomesso Gavi, sulle sponde della Scrivia e della Trebbia. Le due sentenze furono abbracciate, scemandole così del loro valore.

Una parte delle forze francesi fu posta a stanza nella contea di Nizza per tenere in riguardo la forte adunazione di truppe, che Carlo Emanuele aveva fatta nella provincia di Saluzzo. Quella parte, quando l’altra, di cui ora parleremo, avesse condotto a compimento le fazioni commessele, doveva prestamente calarsi pella valle di Stura contro Cuneo e appoggiare così l’andata di Lasminas per la riviera. L’altra parte francese, confidata al cavaliere di Bellisle, a cui il maresciallo, suo fratello, desiderava meritamente con ardore di aprire l’occasione di qualche fatto onorato, teneva ordine di passare le Alpi Cozzie e penetrare da quel lato nella pianura piemontese per divenire l’ala sinistra del corpo principale condotto dal fratello. Strano era il pensiero e inusitata la via che volevano fare; imperocchè disegno loro era di evitare Icilia e Fenestrelle, e, valicando i monti torreggiati fra l’una e l’altra di quelle fortezze e dividenti la valle di Dora dalla valle di Chiusone, sboccare nella valle di Sangone per scendere a Giaveno, con che avrebbero schivato l’incontro della insuperabile Brunetta. Speravano poscia, che parte per oppugnazione, parte per assedio non avrebbero molto penato ad impadronirsi delle fortezze, e, torcendo la via verso la loro destra, avrebbero inondato tutto il Piemonte, rasentando le Alpi Cozzie e Marittime e l’Appennino.

Il cavaliere di Bellisle marciò colle sue genti, giunse a Briansone, e, tra il quattordici e quindici luglio, passò il monte Ginevra. Al suo apparire i Piemontesi, ingrossati da qualche nodo di Austriaci e da alcune compagnie di Valdesi, si ritirarono sul colle di Sestriere, onde passarono a Villar d’Aumont, a Isoraus, e finalmente sul colle del Puy di Prato Gelato, dove si accamparono. Infrattanto i soldati leggieri di Francia si erano condotti alla Rua, piccolo villaggio posto rimpetto al Puy. Rimaneva a superarsi il sommo giogo che separa la valle di Dora da quella di Chiusone. La via ne è alpestre sì, ma alquanto piana sulla cima, per cui vien detto il colle dell’Assieta.

La custodia di quelle sommità era affidata al conte di Cacherano di Bricherasco, valoroso soldato subalpino. Ai diciotto venendo ai diciannove, egli ebbe avviso dell’avvicinarsi del nemico, e tosto da Puy mandò al passo dell’Assieta qualche po’ di gente a munirlo, alloggiandole nelle trincee, o piuttosto dentro certi ripari di sassi che vi aveva fatto innalzare con previsione di ciò che avvenne. Il numero de’ suoi non sommavano che a quattordici battaglioni, dieci piemontesi, quattro austriaci. Ma il capitano del re di Sardegna, postosi sulla più alta cima del monte, aveva innanzi a sè tutti i luoghi sottostanti, e signoreggiava tutte le trincee. Il dì diciannove i Gallo-Ispani comparvero con terribile mostra verso l’Assieta, salendo con quaranta battaglioni divisi in tre colonne, e provveduti di nove cannoni da campo. Alla vista di quelle prevalenti forze, il Bricherasco fu per un momento in forse della difesa. Erano tanto sproporzionati i due campi da non lasciar quasi speranza di vittoria, e anzi da mettere in fondato timore di essere circondati e fatti prigionieri di guerra. Senza artiglieria, senza palizzate, senza opere difenditrici, la esitazione non era per fermo da imputarsi negli Italiani subalpini a codardia. Però considerando l’importanza di quella chiave delle piemontesi valli e la brama di far argine coi valorosi corpi alla inondazione nemica, Bricherasco rinnovò su quelle vette alpine il magnanimo proposito dei trecento di Leonida alle Termopili.

L’ardimento all’assalto fu indicibile. Salivano i Gallo-Ispani di corsa la dirupata via verso il sommo del colle, quantunque ad ogni passo vedessero a cadere morti o feriti de’ compagni, avvegnachè nessun colpo i Piemontesi tiravano che non andasse a segno. Più volte i granatieri di Francia, formanti la prima colonna, ebbero toccato il sommo giogo, e già colle scuri abbattevano le deboli trincee, e già le rovinavano sulla fronte, là dove il conte di San Sebastiano e il cavaliere Caldora, capitani del reggimento delle guardie, sostenevano la battaglia, ma sempre da que’ due valenti furono con gravi perdite risospinti indietro. Le altre due colonne, a destra e a sinistra, non poterono mai avvicinarsi alle trincee, sì per la malagevolezza del cammino, come pel fitto bersaglio che facevano i Piemontesi a palle ed a sassi. Con infinito cordoglio il prode Bellisle vedeva l’indietreggiare de’ suoi. Egli a tutto costo anelava di mettere a fine il suo mandato, pensando all’importanza del fatto, all’onore della Francia, alla fede del fratello, ai discorsi che in Parigi si farebbero se vinto, dopo tanti vanti, da poca gente in mezzo ad ignorate montagne. Non sofferendogli l’animo ad un tal pensiero, e dal proprio coraggio sospinto, toglieva arditamente di mano ad un alfiere una bandiera, e si slanciava innanzi per piantarla proprio sull’orlo delle fatali trincere. Così precedeva Bellisle a Bonaparte, che, ai 17 novembre 1796, rinnovava il forte esempio nel Veneto, al ponte d’Arcole, quantunque con più lieto successo che non il suo predecessore. Soldati ed ufficiali lo seguitarono per punto d’onore. Accanitissima zuffa si accalorò allora d’attorno all’onorato segno. Invano gli stessi ufficiali di Piemonte, ammirati a tanto valore del capitano francese, lo supplicavano a ritirarsi da quel certo pericolo. Stette fermo, chiamando e richiamando i suoi alla pugna, finchè, ferito di baionetta in un braccio nell’atto stesso che piantava la bandiera, e poi da due archibugiate, l’una nel petto l’altra nella testa, cadde morto sul campo. Al cadere del prode generale, scoraggiatisi, i soldati di Francia si diedero precipitosamente a fuggire, rimanendo a Bricherasco e ai suoi strenui compagni la vittoria.

Il numero dei morti, feriti e prigionieri nella parte perdente passò i cinquemila, compresi trecento e più ufficiali uccisi. Da lungo tempo fra le nobili e più ricche famiglie di Francia non era stato tanto lutto per parenti od amici morti in battaglie. Più di seicento feriti, lasciati lungo le strade per mancanza di trasporto, furono raccomandati al Bricherasco. Nel campo vennero trovate tre bandiere, le quali furono anzichè a Torino recate a Vienna. Perchè? È vero che fra i vincitori contavansi pochi battaglioni austriaci, ed erano i meno di lunga, ed era battaglia combattuta e vinta in Italia. Ma Carlo Emanuele era sventuratamente non solo re di Sardegna, sibbene, come in principio di questa storia dicemmo, anco generalissimo di Sua Maestà Apostolica, e doveva essere a quella sottomesso. Misera sorte di questa nostra terra dannata per tanti secoli

 

«A pianger sempre vincitrice o vinta».

 

Degli Austro-Sardi, tra morti e feriti, mancarono appena duecento.

La nuova della vittoria rallegrò i popoli piemontesi, e tanto più che sperarono dalla gloria acquistata avere alfine la tranquillità. Fu vana speranza; chè non così presto dovevano essere i popoli appagati.

Il dì 23 di luglio nella metropolitana di Torino se ne rendettero pubbliche grazie a Dio. Carlo Emanuele fece distribuire in pari tempo premi a chi aveva sì ben combattuto, largire alle truppe il soldo d’un mese con un’arrota di riso, carne, vino ed altri commestibili e conforti di soldatesca. Al maggiore del reggimento di Casale, cavaliere di Panizzera, che primo recò a Torino la nuova della segnalata vittoria, fece dono della croce dei SS. Maurizio e Lazzaro e d’una pensione, e della gran croce e di una pensione più grossa a Bricherasco, che aveva con poche truppe, sprovvisto d’ogni argomento di guerra, vinto un nemico tre volte più forte e munito di cannoni.

 

XX.

 

Noi non racconteremo punto la minuta guerra che travagliò sullo scorcio del 1747 e sul principio del 1748 le due riviere di Genova, sforzandosi i generali austriaci di fare alla Repubblica ligure tutto quel male che potessero, e Rechelieu tutto quel bene che nel suo animo benevolo le portava. La narrazione di tali particolari, oltre al non essere nel limite della nostra storia, recherebbe troppo dolore ai nostri lettori. Soltanto diremo come il mondo, stremato di forze per lunga e disperata guerra, domandasse pace, e pace concludessero i potentati. I legati convennero in Aquisgrana, ed ivi il 18 ottobre 1748 fu conchiuso il patto, che ebbe nome da quella città. In forza di quel patto Genova venne rintegrata nel possesso del Finale, e così Carlo Emanuele rimase deluso di un paese, che gli era stato dato in acquisto col poco onesto trattato di Vormanzia. Gli Stati poi delle altre parti belligeranti a quasi nessuna variazione soggiacquero. I popoli respirarono alfine, pur dicendo che non francava la spesa di tanto sangue e di tanto oro per lasciare le cose poco su poco giù come erano prima. I popoli avevano ragione; ma avrebbero fatto meglio a pensarci prima di lasciarsi trascinare al macello. Quel giorno in cui la fratellanza europea sarà diventata un sentimento delle coscienze d’ogni popolo, allora di tali assassinamenti non se ne vedranno più. È cómpito santo degli Apostoli di libertà l’educare i popoli europei al principio delle nazionalità confederate. Ogni patriota di qualunque nazione sia, che ama davvero il bene della propria patria, e per essa quello dell’umanità intera, lavori indefessamente a sempre più propagarlo. Una tale confederazione è tuttora nella mente degli ideologi; bisogna perseverare, non sostare sulla via gloriosa e profittevole, e un dì il grande edificio sarà eretto: allora soltanto i popoli saranno ricchi e felici.

— E Balilla il generoso popolano? ci domanderanno i nostri lettori nell’accomiatarci da loro.

La storia tace di lui dopo aver narrato il suo atto eroico; anco la tradizione sembra averne perduta la traccia. I Bisagnini narrano che un pietoso romito nella seconda metà del secolo XVIII vivesse nella loro valle e che colle sue opere continuate di santità avesse saputo acquistarsi l’amore di tutti. Non aveva stabile dimora, or nell’uno or nell’altro eremo che dal Bisagno alla Cervara trovavasi, riposava. Pallido il viso, il dolore gli aveva travagliato la fronte di profondi solchi, e gli pendeva incolta sul petto la barba precocemente canuta. Era consiglio e conforto in quelle valli dove la riverenza e l’affetto lo facevano santo. Sugli ultimi anni lo aveva raccolto la solitudine dove fu prigione il re cavalleresco, e di là scendeva a Camogli per le provvisioni che domandava alla carità. Per alcuni giorni non fu veduto, e i terrazzani, inquieti per la di lui vita, salirono a cercarlo. Lo trovarono inginocchiato sull’ignuda terra nell’atto di chi prega. L’anima aveva spezzate le sue catene ed erasi liberata dal carcere umano. Sotto al cilicio che gli tormentava le carni trovarono un medaglione d’argento con inciso da un lato la data 5 dicembre 1746, dall’altra un nome di donna. L’amata reliquia fu sepolta con lui nella badia di San Fruttuoso, e avvegnachè nessuno sapesse il nome del santo vecchio, sulla pietra del suo sepolcro scrissero il nome e la data del medaglione.

L’innominato romito era Giovanni Balilla, il popolano iniziatore della grande rivoluzione genovese.

 

La Signorìa, per testimoniare ai posteri che ella riconosceva dalla Madre di Dio la forza e l’energia dimostrata dal popolo nello spezzare le proprie catene, dopo di aver rimunerato in ogni maniera chi tanto si era adoperato pel bene della Repubblica, decretava che ogni anno il giorno dieci di dicembre, giorno in cui gli Austriaci erano stati vinti e cacciati da Genova, il serenissimo doge coi collegi dovesse recarsi in forma solenne sul monte di Oregina a porgere inni di ringraziamento nella chiesa che ivi sorge dedicata a Nostra Signora di Loreto, la cui festa nel giorno dieci di quel mese appunto succede. Questa solennità aveva luogo ogni anno all’epoca indicata; caduta la Repubblica, tacque la festa del popolo.

Fu soltanto nel 1847 che alcuni egregi ed intrepidi cittadini genovesi, animati da quell’affetto che ogni dì più andava crescendo in quanti erano Italiani amanti della patria, vollero rinnovata la religiosa festa popolare, sì per isciogliere un voto fatto dai loro avi a Maria, come anche per restituire ai cittadini d’ogni ceto la dovuta e santa eredità delle loro gloriose memorie.

Il sole del 10 dicembre 1847 sorgeva bello, limpido in un cielo azzurro e trasparente, pareva che irradiasse con affetto maggiore le verdeggianti colline genovesi a festeggiare anch’esso colla brillante corona de’ suoi raggi la grande solennità diciamo, anziché municipale, nazionale. Erano appena le ore otto del mattino, e già l’amena passeggiata dell’Acquasola, luogo del comune ritrovo, era gremita di molte migliaia di persone, le quali ordinavansi in ischiere, in isquadre. Un numero immenso di bandiere sventolavano in aria, era un chiedere ansioso, un prepararsi giulivo, un fremere d’impazienza, una lietezza che traspariva d’ogni volto e che faceva più vivido l’occhio delle belle Genovesi, più espressiva la fisonomia della gente del popolo. In tutti vedevansi dipinto un insolito giubilo, in tutti una nuova energia, l’entusiasmo di un gran fatto, d’una nuova vita. Era una festa non officiale; era una festa cui il popolo doveva prendere parte, non come spettatore insciente di ciò che si stava per fare, ma siccome attore protagonista che leggeva nel passato e meditava sull’avvenire. Alle nove circa la processione prendeva le mosse ed avviavasi per il santuario di Oregina. In capo alla comitiva sventolava la famosa bandiera del 1746 che quei di Portoria in uno alla memoria del Balilla e della gran rivolta, conservano tuttodì con affetto veramente religioso, profondo. Essa era recata da un tal Nicola Bixio, cugino del generoso Balilla, vecchio di oltre novant’anni ed ottimo popolano, depositario del sacro vessillo[3]. Seguitava una numerosa schiera di donne povere e ricche bellamente confuse, capitanata dall’animosa signora marchesa Teresa Doria, e preceduta da uno stendardo portato da una del popolo. A questa schiera di donne, animate di un eguale sentimento, teneva dietro una rimarchevole truppa di fanciulli, i quali schiudevano il cuore, sì teneri ancora, all’affetto di patria. Questi erano seguiti da molti preti e frati, preceduti dalle loro bandiere, e dopo di essi da infinite schiere di cittadini d’ogni condizione: negozianti, mediatori, avvocati, procuratori, notai, studenti, questi ultimi aventi a duce il conte Terenzio Mamiani. Le schiere tutte procedevano in bell’ordine, facendo pompa dei loro vessilli che sventolavano festosi, o delle azzurre coccarde di cui adornavansi il petto; ciascuno aveva anche un ramoscello di quercia, simboleggiante la propria forza civile. Quelle schiere erano sempre precedute e regolate da un capo-squadra e da parecchie guide, le quali si adoperavano meravigliosamente perchè i movimenti delle schiere medesime si eseguissero con regolare e ben intesa prontezza. Venivano quindi i capitani di mare sulle cui fronti abbronzite brillava il raggio del sentimento cittadino, i marinai gagliardissimi, i cultori delle belle arti, i facchini, gli artigiani, confusi tra loro. Nè vuolsi dimenticare che era gratissimo lo scorgere un numeroso drappello di piemontesi, tutti disposti in ordine mirabile, facenti sventolare i loro rossi vessilli con bianca croce, capitanati da un signore piemontese, il quale, in segno di gentilezza veramente cordiale ed accettissima, recava un magnifico stendardo genovese.

Il numero delle persone componenti la processione era di oltre a trentamila.

La comitiva, partendo dall’Acquasola, percorreva le strade Nuove, via Balbi, San Tomaso, ecc. e bello era il vedere le finestre d’ogni palazzo, d’ogni casa adorne di arazzi, apparamenti, bandiere, e da queste stesse finestre bello lo scorgere persone che facevano sventolare i loro bianchi fazzoletti in segno di evviva, di esultanza. Il corteggio, devoto al programma, procedeva composto a gravità religiosa, silenziosa, tranquilla; a quando a quando quel silenzio era interrotto dai lieti suoni di molti civici concerti, alcuni dei quali erano stati inviati dalle vicine città e vicini paesi della Liguria. La folla del popolo, accorso anco dalle due riviere, era immensa; stipava ogni via, accalcavasi per ogni dove, applaudiva, esultava per tutto, e da per tutto ordine ed armonia scorgevansi; quell’ordine e quella ben intesa armonia, la quale è prova di incivilimento e di progresso.

Intanto il solenne corteo ascendeva il monte di Oregina. Appena il venerato stendardo del 1746 toccò le soglie della chiesa sacra a Maria fu intuonato solenne Te Deum che quelle moltitudini cantarono con tutta l’enfasi di cui è capace chi è animato dall’amore della patria, dalla religione. Dopo di che, inginocchiatisi gli astanti, fu data la benedizione del Venerabile. E qui si aprì una nuova scena quanto altra mai commoventissima e grande. L’egregio abate di San Matteo, Pio Nepomuceno Doria, collocatosi al sommo della gradinata del tempio, con intorno un corteggio di frati, preti e cittadini, benediceva ai vessilli che i passanti abbassavano dinanzi a lui, mentre quello del 1746 gli stava al fianco come simbolo della memoranda vittoria e dello splendido festeggiamento. Il verde degli allori, l’affluenza straordinaria del popolo, i suoni dei musicali istrumenti facevano di quel colle un luogo di magico incanto; ma la commossa persona dell’abate, sulla cui mitra dorata il sole vibrava i suoi raggi, in quell’atto maestoso e solenne, riempiva l’anima di profondo rispetto e di religiosa compunzione. E sfilava, sfilava il corteggio dinanzi all’ abate; e, sciolto il voto, intuonavasi da tutti l’inno popolare: «Sorgete Italiani - A vita novella». Fra i suoi evviva e i suoi canti e la sua ebbrezza indicibile, il corteggio schiudeva pure il cuore alla carità; imperocchè nell’attraversare la villa Elena, gentilmente aperta dall’egregio proprietario, offeriva a quattro distinte signore, collocate all’ingresso e all’uscita della villa anzidetta, una obblazione generosissima pel cugino del valoroso Balilla, pei poveri della città e per una cadente vecchia, dimorante in Oregina, la quale rammentava alcuni fatti della popolare vittoria del 1746. Attraversata la villa Elena, la comitiva, sempre in ordine ammirabile, discendeva dal piano di Rocca, mentre dal soprastante colle di Pietraminuta udivansi continuati spari di mortaretti, i quali accrescevano notabilmente la comune festività. Sboccato il corteggio sulla piazza dell’Annunziata, gremita di gente, inoltravasi in via Carlo Alberto, San Lorenzo, Carlo Felice, via Giulia, e finalmente nella gloriosa strada di Portoria, ove non è a dire quante persone si fossero adunate. Quivi era stato eretto un grand’arco, tutto a festoni, a bandiere, ad arazzi e ad emblemi, e alla cui sommità era la statua di Balilla in atto di scagliare il sasso fatale. Mano a mano che i drappelli passavano, dove è venerata la pietra del famoso mortaio, si abbassavano su questa i vessilli, ed alzavasi il più generoso e gagliardo evviva che mai puossi proferire da labbro: Viva l’indipendenza italiana! «Attraversata Portoria fra i viva ed i canti, la comitiva, reduce all’Acquasola, scioglievasi in bellissimo ordine, senza che il più lieve sconcerto alterasse mai nel lungo tragitto la dignitosa calma e la gioia suprema di tutti.

Ecco la festa del popolo. — V’ha festa al mondo che possa mai pareggiarla? Le feste nazionali del popolo sono la scena più imponente, lo spettacolo più grande che possa porgere una città; imperciocchè negli evviva, nei canti, nelle grida che egli solleva, v’ha il sentimento profondo della sua dignità e de’ suoi diritti; v’ha l’eco delle sue glorie, la grandezza de’ suoi giuramenti; le feste del popolo, destinate a solennizzare un gran fatto, una grande vittoria, sono la più gran prova della gagliardia cittadina. Il popolo che canta con tanto ardore e con tanto entusiasmo le sue vittorie, sente la propria forza. Sublimi sempre saranno le feste del popolo, ed eterne dureranno; imperciocchè le vittorie come quelle di Genova, di Milano, di Como, di Brescia, di Bologna, di Palermo, non facilmente ponnosi dai popoli dimenticare.

Venuta la notte fuvvi in Genova generale luminaria. I segni di vera esultanza non solo mostravansi per entro la città, ma anche sui mille colli che la incoronano; imperocchè ardevano sovr’essi un numero infinito di falò, le cui fiamme, agitate dal vento, parevano confondersi fra loro e formare attorno a Genova una ghirlanda di fuoco. Era un incanto magico e nuovo; uno spettacolo indescrivibile. Nè in quella sera tacquero gli spari dei mortaretti. Il colle di Pietraminuta, quello stesso su cui, come abbiamo narrato, in onta alla rapidissima salita, la furia del popolo trascinava nel 1746 un grosso mortaio per battere di là gli Austriaci a San Tomaso e nella piazza principe Doria, ora alla sua volta voleva ricordare il celebratissimo fatto; ed a tal uopo alcuni animosi signori, dimoranti sopra l’amenissimo colle, ordinarono gli spari di un numero sterminato di mortaretti, i quali echeggiavano rumoreggiando per l’aere, quasi accompagnando col loro frequente tuonare gli acuti evviva dei cittadini.

Mentre dai monti, dai colli, da ogni luogo circonvicino si appalesavano quei segni di giubilo, nelle popolosissime vie della città scorrevano molti e molti drappelli di cittadini, cui prendevano parte anco gentili signore, preceduti da vessilli, e alcuni accompagnati da torce. Il canto, voce dell’anima, risuonava dappertutto: ogni via era stipata di popolo e rischiarata da lumi; ogni viottolo aveva i suoi tripudi; ogni bocca il suo inno; ogni cuore il suo voto. Il quartiere di Portoria però era il centro della gioia, il luogo del trionfo; ivi le grida di festa erano continuate; i giuramenti profferti sul sasso del mortaio, infiniti; era un non interrotto abbracciarsi di nobili e plebei, di ricchi e poveri; un chiamarsi replicatamente fratelli. La generale commozione era sì grande, sì profonda, sì vera, che ogni ciglio versava lagrime di arcana indicibile contentezza.

Dal 1847 in poi, il glorioso anniversario della grande sconfitta austriaca è con più o meno pompa religiosamente celebrato in Genova ogni anno nel decretato giorno 10 dicembre. Il popolo sempre vi accorre numeroso: è dessa una sua festa, una sua gloria. — Ormai anco altri fratelli di Italia vi prendono parte, sciolgono coi Genovesi un voto che, se fu fatto dalla Repubblica, è voto nazionale, voto di tutta la generosa Penisola. — Iddio conservi sempre ai popoli le loro feste.

 

Oltre alla pietra che in strada di Portoria copre la fossa ove sfondò l’avventuroso mortaio e addita l’epoca in cui il sasso scagliato dal Balilla produsse quella popolare rivolta che abbiamo descritta, santificando nel cuore d’ogni buon Italiano le caldissime parole del giovinetto del popolo, venne eretto nella vicina piazza dell’Ospedale di Pammatone un monumento rappresentante il Balilla in atto che lancia la pietra. Quel monumento fu dono della città di Torino, alla quale Genova, in attestato di sentita gratitudine, fece alla sua volta presente della statua di Pietro Micca, il semplice soldato minatore, nato pur dal popolo in Andorno Sagliano, il quale, col sacrificio della propria vita, il 30 agosto 1706, faceva salva Torino.

Balilla e Micca; ecco i due liberatori del secolo decimottavo[4].

 

 

 

 

 

 


IL MARTIRIO DI BRESCIA

 

 

NARRAZIONE DOCUMENTATA

 

DI

 

FELICE VENOSTA

 

 

 

 

 

Seconda edizione riveduta dall'autore

 

AL PRODE BERGAMASCO

 

FRANCESCO NULLO
 
MORTO IN POLONIA

 

IL 5 MAGGIO 1863

 

COMBATTENDO PER LA LIBERTÀ

 

IN ITALIA GIÀ DA LUI COTANTO PROPUGNATA

 

QUESTE MEMORIE

 

COLL'AFFETTO DI UN CUORE DIVOTO

 

L'AUTORE CONSACRA.

I

 

Dopo l'infelice giornata di Custoza, Brescia, ritornata colla Lombardia sotto l'austriaco reggimento, o per meglio dire sotto la militare licenza, aveva serbato il più austero, il più dignitoso contegno. Mesi lunghi e lentissimi corsero per quella generosa città dall'agosto 1848, al marzo 1849, se si pensi che l'un di più che l'altro crescevano i motivi all'odio contro i truculenti generali dell'Austria, e la baldanza a questi e la disperazione d'ogni indugio; e più ancora se si consideri che molti incitamenti e d'uomini e di circostanze rinfuocavano le speranze e irritavano l'impazienza dei popoli. Ma nè lo scoppio della rivoluzione avvenuta in Vienna nell'ottobre, nè i moti della Valle Intelvi scossero la forte Brescia, a cui pareva che fossero da aspettare più sicuri segni e più fidi consigli.

Intanto infuriavano gli invasori, ebbri di paura e di vendetta. Oltre alle prescrizioni, agli assassini legali, ai sequestri, alle multe, che ingoiavano interi patrimonî, alle bastonature e alle prigionie mettevano mano ai più strani ed insoliti argomenti di tirannide. Bandivano una tassa sulle pietre e sui mattoni che si fossero trovati altrove che nei fondachi dei venditori, o in sull'opera dei manovali; richiamavano i disertori, che era quanto dire la gioventù profuga oltre il Ticino o pei monti, minacciando di trascinare al servizio militare i parenti di quelli, e non erano pochi, che non rispondessero all'appello; reprimevano peggio che con parole una scaramuccia infantile, animoso simulacro di guerra; giungevano fino alla stoltezza di comandare la gioia e di obbligare i cittadini a mostrarsi frequenti ai teatri. Non contenti di queste prepotenze, presto si misero sul truffare e sull'insidiare. Sitibondi d'oro, fabbricavano larve di congiure, e assoldavano sicarî e spie per ripescare multe e confische. Fra gli iniqui fatti, fu iniquissimo il sequestro di molti arredi militari, appartenenti al cessato Governo Provvisorio, di cui già il Municipio aveva dato nota al Comandante austriaco, e che nondimeno gli valsero pretesto per taglieggiare la città d'un mezzo milione di lire. Ma le minacce, le angherie e le estorsioni non piegavano gli animi invitti e fissi nell'avvenire: lusinghe e terrori non valsero a fare che la Congregazione Provinciale mandasse a Vienna, come ne aveva comando, a promettere fedeltà e ad invocare perdono al nuovo imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe. L'avvocato Saleri, probo e venerando vecchio, e dopo di lui il Sangervasio, eletti, non senza recondito consiglio, a curvarsi sotto quelle forche caudine, rifiutarono con risoluta fierezza: e la plebe, vedendo uomini cresciuti nella mollezza degli agi e degli studi sfidare l'esilio e il gibetto, imparava come si dovesse amare la patria, e come fosse onorevole e desiderabile di patire per essa.

Quelle enormezze soffriva Brescia con fiera dignità, senza infingersi, ma senza correre a precipitosi consigli. Per lo che gli Austriaci, dopo avere indarno usato le blandizie e le provocazioni, querelavansi nei loro bandi, che tutta la popolazione bresciana si mostrasse incocciata nelle tristizie liberali. Ma i Bresciani lasciavano strepitare i generali Haynau e d'Appel, e attendevano a riaversi dallo sbalordimento, e a raccogliere in una muta e generale congiura tutte le forze della provincia.

A confermarli in questo proposito si aggiunsero verso la metà di novembre i conforti de' fuorusciti lombardi, che, in gran numero, raccozzatisi in Piemonte, assediavano re Carlo Alberto e il Parlamento e l'Esercito perchè non venissero meno ai patti giurati della unione, e commuovevano l'opinione pubblica, mirabilmente spalleggiati da quanti erano in quelle provincie amatori del vivere libero e teneri dell'onore italiano.

«E scrive il Correnti([5]), tanto valse la fede recente del più solenne patto politico, di cui la storia dia esempio, e la pietà d'un popolo intero di profughi, che protestavano di non esser stati vinti e di non volersi rendere vinti, ed il dispetto di una fuga inesplicabile, che in breve il Piemonte si rincuorò e tornò a credere a' propri destini. E anche i più restii per diffidenza o i più avversi per interesse alla guerra di libertà, sentendo rinforzare il vento contrario, non osavano più predicar la pace ad ogni costo, e aspettavano l'opportunità, o di rompere la guerra, quando altro non si potesse, o di far la pace in termini meno disonesti. Ma nell'ottobre e nel novembre, giunte le novelle della rivoluzione viennese e della guerra fra l'Austria e l'Ungheria, fuggito Pio IX, e prevalente la democrazia in Roma ed in Toscana, più si rinfiammarono le impazienze del partito della guerra in Piemonte, e le speranze dei Lombardi. E il Ministero, benchè tutti lo giudicassero deliberato a temporeggiare insino all'ultimo, pure, non sappiamo se per tenersi aperta anche la via delle armi o se per qualche più cupo consiglio, cominciò ad accogliere più benignamente i capi dei fuorusciti e ad assecondarli. Di che tosto si videro i frutti: perchè in poche settimane furono annodate infinite corrispondenze coll'interno di Lombardia, e si vennero formando lungo il confine molti Comitati, ove i profughi di maggior seguito e i più operosi raccoglievansi a dare in comune il miglior indirizzo alla vasta cospirazione, che dovea dar vinta in tutta Italia la seconda guerra dell'indipendenza.»

La provincia di Brescia, animosa e concorde, rispose anch'essa all'invito de' fuorusciti e del governo piemontese; e mostrò di correre volonterosissima incontro ai nuovi pericoli. A Torino temevasi da que' popoli qualche precipizio fuori di tempo; se non che la prudenza fu pari all'ardore. Nè mai le spie dell'Austria seppero fiutare dove mettesse capo il Comitato insurrezionale; chè, se le forze pubbliche e regolari non avessero fatta sì misera prova, avrebbe presi tutti ad un colpo gli oppressori d'Italia.

Nel cuore dell'inverno chi teneva in Brescia il filo della vasta trama, sovvenuto da alcun poco di danaro, cominciò ad avviare, per un giro lunghissimo di valli e di monti, verso il Piemonte, i disertori ed i coscritti affinchè ingrossassero le file di quella divisione, che, conservando il nome di Lombarda, era simbolo della unione italiana e pegno di guerra. Altri coscritti e disertori, con infinito pericolo, soccorse di denaro e di consigli, perchè in quell'aspra stagione potessero annidarsi per entro le valli meno accessibili, e indurarvisi alle armi e alle abitudini dei guerriglieri.

Frattanto in Brescia, sotto gli occhi della polizia militare, in mezzo a numero grande di cagnotti e di delatori, correvano letti, ricopiati, imparati a memoria certi foglietti a stampa, mandati dai fuorusciti, ove brevemente si narravano le speranze della causa italiana, si indicavano gli ostacoli, si incuoravano i buoni, si minacciavano i seminatori di scandali e gli uomini venali. «Questi fogli, scrive il Correnti, che non tanto creavano quanto esprimevano i sentimenti popolari, diedero occasione e modo di riconoscere la mirabile e profonda concordia degli animi e la forza, infino allora latente, della opinione. I tristi impaurirono, gli astuti assecondarono, gli incerti e i tiepidi si rinfrancarono; e una vasta, universale, muta ma nondimeno quasi direbbesi pubblica congiura si venne ramificando e rassodando senza bisogno di assembramenti e di complicate affigliazioni. Così nel mentre il Comitato segreto attendeva con infinite cautele a comprar armi, ammannir munizioni, levare le piante de' fortilizi eretti d'intorno al castello e in sulle Alpi Camunie, tessere una vasta rete e sicura di corrispondenze e di esplorazioni, lo spirito pubblico con quella misteriosa sagacità che tiene del divino, sembrava indovinare e presentire quel che si andava preparando. I cittadini guardandosi negli occhi s'intendevano e si favellavano. Tutti dicevansi: il Piemonte è in armi, Roma e Toscana si mettono in punto, dieci milioni di Italiani sono liberi di pensare e di concertare la vendetta: alla prima novella che l'esercito nazionale siasi mosso, noi faremo in modo che cotesti cani non possano nè corrergli incontro, nè ritirarsi a salvamento nelle fortezze.»

Tra le speranze e i timori, sotto il permanente patibolo, in mezzo alle insidie nostrali e straniere, passò l'inverno del 1849, memorabile per coloro che lo vissero tra le incertezze dell'esilio, ma più ancora per coloro, che, prigionieri e quasi esuli in patria, lontani e segregati dalle notizie degli eventi da cui pendeva il loro destino, sospesi tra l'infamia e la gloria, passavano le notti insonni; aspettavano ogni domani il giorno della vendetta, e della libertà.

Più la primavera veniva avvicinandosi, più riavvampavano gli animi; crescevano le speranze, e con queste i timori.

Il 14 marzo giunse la notizia che l'armistizio tra l'Austria ed il Piemonte, era stato disdetto due giorni prima a mezzodì; che il 20 comincerebbero le ostilità, che i fuorusciti sarebbero entrati coll'esercito, e prima dell'esercito; che cento mila soldati stavano lungo il Ticino, pronti a rivendicare i diritti d'Italia.

Il dì 16 la guarnigione austriaca partiva da Brescia. Il generale d'Appel lasciava nel castello cinquecento uomini con quattordici pezzi di cannone, sotto gli ordini del capitano Leshke; alle falde di quello, nel Quartiere di Sant'Urbano, oltre sessanta gendarmi; nel Broletto, ov'era la Delegazione, il Tribunale della cassa pupillare e l'Ufficio della Polizia, un buon polso di soldati: nella sua solita stanza il Comandante di Piazza; negli ospedali di San Luca, Sant'Eufemia e San Gaetano da settecento in ottocento ammalati e un certo numero di medici.

Cogli Austriaci partivano le spie più notorie, gli sgherrani d'Haynau e d'Appel, e i pochissimi partigiani del dominio dell'oppressione.

Tant'era la fede in Dio e nella patria, che i Bresciani, senza distinzione, pronti aspettavano un cenno per insorgere; e nessun altro timore o dubbio avevano che quello di parere, per intemperanza di coraggio, o troppo impazienti, o poco disciplinati.

Appena gli Austriaci ebbero sgombrata la città, il Municipio, che era stato ricomposto poche settimane prima a capriccio dell'autorità militare, e alla cui direzione era stato messo Giovanni Zambelli, uomo tenuto ligio agli stranieri([6]), mandò fuori due bandi: in uno raccomandava ai cittadini la prudenza, e prometteva la guardia civica, perchè più facilmente si potesse mantenere la quiete: nell'altro, che faceva imponente la guarnigione del castello, minacciava in caso di disordini, il bombardamento. Codeste scede non piacevano punto a quelli che erano deliberati a far davvero; nè piaceva loro il Zambelli. E ormai il tempo degli indugi era trascorso; imperocchè le prime ostilità s'erano già rotte dalle bande montanare, le quali, guidate dall'animoso curato di Serle, don Pietro Boifava, il giorno 19, per consiglio del Comitato segreto insurrezionale, che a ciò da quasi un mese le aveva armate, spesate e ammaestrate, vennero a postarsi sui colli suburbani, e di là percorrendo le strade avevano predato i traini e le staffette dell'esercito nemico. Il dì 20 gran folla di popolo si mosse fin sotto la loggia del Municipio, chiedendo al Zambelli desse luogo ad uomo più degno di reggere il freno della città in sì gravi momenti. Nella vegnente sera il Zambelli rinunziava la carica([7]). Il Consiglio Comunale, presieduto dall'aggiunto di delegazione Dehò, acclamava allora capo del Municipio l'avvocato Saleri, con incarico di istituire subito la guardia nazionale per conservare il buon ordine nella città. Questa istituzione era tanto più urgente, in quanto che i gendarmi, per aver fatto da sicari durante il terrorismo d'Haynau e di Appel, erano odiati da tutti i cittadini. Era certo che col loro servizio non li avrebbero che maggiormente irritati, suscitando intempestiva sommossa. L'avvocato Saleri, uomo pur distinto per talenti, per specchiata probità e filantropico sentire, e benemerito alla patria pei miglioramenti sociali che cercò mai sempre d'introdurre, e, da ultimo, per il nobile rifiuto d'andarsene nunzio di sommessione a Vienna, forse per l'età sua avanzata o per troppa dolcezza di carattere, o fors'anche perchè oppresso da una crisi di famiglia cui era soggetto in quei giorni per grave malattia della moglie, che la conduceva poscia al sepolcro, mancava di quell'energia che si richiedeva per simile posto fra un popolo che divampava furore insurrezionale.

Comunque fosse, la città tutta aveva applaudito alla di lui nomina; per lo che il Saleri, più per riconoscenza che per propria volontà, accettava il posto conferitogli, e attivava subito la guardia cittadina, eleggendone capi i dottori Pietro Buffali e Carlo Tibaldi, giovani per capacità, per entusiasmo e per coraggio adattissimi. Chiedeva armi all'uopo al Comandante del forte, il quale, dietro replicate istanze, piegando alla necessità, prometteva quattrocento sciabole; ma come è di solito in tutti i generali austriaci, che hanno l'inganno a base della loro politica, ne consegnava, come vedremo, soltanto quaranta. In tal modo la guardia civica riesciva assai difficile ad effettuarsi, anche per la circostanza che pochi cittadini si facevano inscrivere, avversi come erano ai servigi che a quella venivano imposti, i quali non si confacevano punto alla santa causa cui avrebbero voluto coadiuvare.

Intanto giungeva in Brescia un messo, spedito dalla Giunta insurrezionale stanziata in Torino, il quale recava le istruzioni del generalissimo Charnowski, col piano dell'insurrezione lombarda, e coll'ordine che si dovesse incominciare il moto non più tardi del 21 marzo.

«I fuorusciti, scrive il Correnti, credevano utilissimo che in uno stesso giorno l'esercito regolare aprisse le sue mosse sul Ticino e sul Po, e le popolazioni lombarde tutte assieme insorgessero; di maniera che il maresciallo Radetzky, trovandosi asserragliate le vie, mozzate le comunicazioni, minacciati i fianchi e le spalle, non potesse concentrare lungo i confini le sue masse in tempo e in luogo da opporre valido contrasto agli irruenti Piemontesi, nè potesse staccare grosse colonne a sterminio delle città levatesi in armi, nè quieto ed intero ricovrare ai covili delle sue fortezze: e così messo in mezzo ad un incendio universale, trovasse pericoloso tanto il combattere, quanto il ritirarsi. Ma questo diviso venne a risolversi in nulla nel puntiglio dei capi di guerra piemontesi, che vollero intimare la cessazione dell'armistizio, comunque essi stessi confessassero, che gli Austriaci ne avevano violati svergognatamente e più volte i patti. Data agli Austriaci cogli otto giorni di disdetta ogni abilità di concentrarsi, l'insurrezione lombarda dovea di necessità riuscire secondaria; essendo evidente che, posti a fronte i due eserciti interi come in prefissa arena, la fortuna della guerra sarebbesi decisa in una battaglia campale. Ma ancora molto rimaneva a fare ai fuorusciti ed ai popoli lombardi; rumoreggiare alle spalle e sui fianchi dell'esercito nemico, interciderne le comunicazioni colle fortezze, preparare libero qualche punto sulla sinistra del Po, per agevolare il passo alle divisioni La Marmora ed Apice, che scendendo dall'Apennino accennavano a Mantova: portar il grido di guerra sulle soglie di Verona e nel Tirolo, e di là dar mano ai Veneti, i quali poi dal Cadore e dalle Lagune avrebber potuto correre su Padova e su Treviso, minacciare Vicenza, e congiungersi colle truppe della Repubblica Romana, che venivano a campo tra Ferrara e Bologna. Tutte queste cose, che ora sembrano quasi poetiche, si potevano allora compiere agevolmente, e si sarebbero senza alcun dubbio compiute, non diremo se Radetzky fosse stato vinto a Novara, ma soltanto se l'esercito Sardo avesse fatto testa per quindici giorni al nemico.»

La città di Brescia, riparata dalle estreme falde montane e signora delle valli armigere, che fanno strada dall'una parte al Tirolo italiano, e dall'altra a quel vasto labirinto prealpino, dove vive la più vigorosa razza d'Italia, e nel tempo stesso collocata quasi verso il mezzo della pianura a vigilare i passi dell'alto Mincio, era quella che meglio di ogni altra si prestava a quel piano d'insurrezione, e in essa appunto s'incardinava il vasto disegno. Il Municipio cercava, ma invano, di rattenere l'entusiasmo che infiammava ogni petto bresciano; chè questo veniva mirabilmente accresciuto dagli armati raccolti sui Ronchi. I cittadini d'ogni età e condizione si portavano a frotte a visitarli con espansione di gioia, comechè a pochi soltanto fosse accordato l'ingresso nel recinto dei locali in cui quelli si trovavano.

La guarnigione del castello s'era accorta della comparsa dei corpi-franchi, ed aveva fatto trasportare due cannoni nella parte del colle che guarda i Ronchi, e li aveva livellati contro di loro.

Il giorno 22 si leggeva affissa pei canti della città un'esortazione ai cittadini, che convenissero il dì appresso a mezzogiorno sotto la loggia municipale. Non era indicato da chi quella esortazione fosse stata promossa, nè perchè; onde gli animi ne erano tanto più scossi. Il Municipio, vedendosi disarmato ed incerto, e i tempi ingrossare, chiedeva tosto al Comando della piazza le armi per la milizia civica, ed a' suoi compatrioti soccorso d'opera e di consigli.

La mattina del 23 il Comando militare faceva consegnare quaranta sciabole; ma nel tempo stesso, quasi a ricompensa di quella maravigliosa larghezza, osava chiedere che gli sborsassero in sull'atto lire 130.000, porzione della ingiustissima multa di lire 500.000, con cui Haynau faceva pagare alla città una di lui menzogna.

Il Saleri allora raccolse in una sala del teatro tutti quelli che già si erano scritti per la guardia civica, e ristrettosi co' più savi veniva divisando come si potesse, senza disdire apertamente la soggezione, apparecchiare le armi, indugiare il pagamento dell'iniquo balzello e misurare agli incastellati le provigioni, sì che non se ne rifornissero troppo lautamente.

Ma intanto il popolo, tenendo l'invito delle scritte anonime, traeva in piazza; e avuto sentore dei denari che si chiedevano e si promettevano, cominciò a strepitare e a gridare: «Ai predoni si mandi piombo e non oro!»

Il caso volle che in quel punto avessero a passare per la via degli Orefici, proprio in su gli occhi dell'indignata moltitudine, certe carra di viveri e di legna che in mezzo ai soldati s'avviavano al castello. Non ci volle altro. I più impazienti diedero mano a quelle scheggie da ardere, e palleggiandole a modo di clava, con disperato coraggio si scagliarono sulla scorta, e, in un attimo, la disarmarono; predarono il convoglio, e corsero per le vie mettendo in fuga i soldati e gli accorsi gendarmi, strappando e calpestando quante insegne austriache loro venivano vedute, e levando il grido di viva il Piemonte! e morte ai barbari!

 

Ecco come descrive il Cassola quell'episodio:

 

«La caccia proseguiva in tutte le parti della città, e i pochi soldati della guarnigione degli spedali che si trovavano sbandati, venivano inseguiti ed arrestati, e quelli che osavano rivolgersi colle armi alla mano, erano a colpi di bastone feriti o massacrati. Finita questa caccia selvaggia, che avrebbe destato orrore se la santità della causa non l'avesse giustificata, e dirò anzi nobilitata, succedeva una scena ben più aggradevole a vedersi; era l'atterrarsi e la distruzione degli abborriti stemmi. Ad ogni aquila bicipite che veniva precipitata a terra, succedevano acclamazioni di gioia: quelle che erano formate di legno venivano spaccate, ed esultanti i cittadini si armavano con que' pezzi, che a qualche soldato riescivano ben dolorosi.»

Quel primo moto, che era costato la vita di uno de' nostri, non era ancora sbollito, che in mal punto si presentavano al Municipio, per ripetere la somma, il signor Pomo, comandante di piazza, unitamente al signor Canali, commissario de' viveri. La folla li serrò dappresso, e, riversatasi nelle aule municipali, li avrebbe spacciati senz'altri complimenti, se non era un tal Maraffio, popolano audacissimo e caporione dei macellai, che, pregato dal Sangervasio, dal Rossa e da altri cittadini, si prese i due male arrivati sotto il braccio, e gridando ch'ei ne rispondeva sulla sua testa, con piglio minaccevole, si schiuse il passo tra la folla, e condusse i prigionieri fuori delle porte sui Ronchi «dove, come soleva dire il popolo bresciano, magnificando col desiderio le cose, era il campo del general Boifava, cioè dove erano appostate le bande del curato di Serle, accresciute allora di altre guidate dal dottore Maselli, giovine ardentissimo di patrio amore.»

Il Comandante di piazza, fatto prigione, dovette per iscritto ordinare a' suoi di cedere alla guardia nazionale i fucili dei soldati, che erano ancora negli ospitali militari. L'ospitale di San Luca e quello di San Gaetano obbedirono senza porre tempo in mezzo: ma l'altro di Santa Eufemia rifiutò, e si fece a sparare sulla moltitudine: un cittadino in quella fazione cadeva morto, un altro gravemente ferito.

Quel tradimento portò al colmo l'irritazione del popolo, e sebbene soltanto otto o dieci cittadini vi si trovassero muniti di schioppi, parte de' quali anco in mal essere, tuttavolta scambiarono alcune fucilate.

Venuta la sera quasi trecento convalescenti ne uscirono e, sgominate o ferite le sentinelle cittadine, si aprirono coll'armi un varco al castello, lasciando i malati alla misericordia del popolo. Anche i gendarmi in quella sera riparavano in castello.

Ormai il dado era tratto; epperò con ottimo avvedimento i capi del Comitato divulgarono quei segreti che insino allora erano andati dubbiamente bucinando; e recate al Municipio le copie dei dispacci del Ministero e della Commissione insurrezionale di Torino, aprirono tutto l'ordine della congiura. Quasi nell'ora istessa giungevano dal Piemonte i cittadini Martinengo, Borghetti e Maffei, dando certezza, che già molte armi e munizioni erano in sulla strada d'Iseo, che le colonne degli emigrati movevano verso Bergamo, guidate da Camozzi, che in breve il campo degli insorti sarebbe raccolto intorno a Brescia: infine portavano liete non soltanto novelle, ma testimonianze della guerra, rotta da tre giorni coll'ingresso delle divisioni piemontesi in Lombardia per la via di Boffalora.

La certezza delle armi vicine e le speranze buone infiammarono il popolo meravigliosamente. Esso, sdegnoso d'ogni indugio, gridava concorde che si smettessero le pratiche e si venisse al ferro. Allora si cominciarono a vedere per le vie quei fucili irruginiti, che per sette mesi, sotto le minacce della legge marziale, erano stati guardati a rischio di vita, spettacolo minaccioso e commovente, che, mostrando quanto era stata infino allora la virtù segreta di Brescia, prometteva nuovi miracoli.

Intanto pareva che gli Austriaci a disegno irritassero quelle forti nature e volessero, così rintanati com'erano dietro i baluardi e i cannoni, comportarsi con baldanza da vincitori e con durezza da padroni.

Quando giunse al Leshke la notizia, che la città si era levata a rumore, egli gettò, quasi per saggio, dieci bombe, che non recarono danno notabile. Alle quattro mandava, a mezza d'un manuale muratore, ordine al Municipio, che rendesse i prigioni. Un'ora dopo, altro ordine che sciogliesse i prigioni, e tornassero tutti all'obbedienza; se prima di notte non fosse fatta ragione alla domanda, palle e bombe.

Il Saleri chiedeva tempo a pensare, a provvedere, a persuadere; dava in pegno la sua fede per la vita dei prigioni; e intanto convocava i Consiglieri comunali, e s'ingegnava per ogni via a guadagnare qualche ora di respiro. L'austriaco però era duro, e più duro il popolo; tantochè e lettere e preghiere poco fruttarono da una parte, e meno dall'altra.

A mezzanotte, quando già la città era tornata alla quiete, il Leshke, come ne aveva data parola, cominciò a bombardare: e per oltre due ore durò quel rovinìo. Ne infuriavano i bresciani, a cui non pareva essere secondo le giuste e onorate leggi di guerra quella tempesta di fuoco, lanciata a caso per le tenebre della notte, e paurosa e mortifera, non già agli uomini vigili ed armati, alle donne ed ai bimbi dormenti.

La città tutta, desta in sussulto, corse animosamente alle armi; gli incendi che qua e là scoppiavano furono spenti in poco d'ora; gli uomini armati traevano a furia verso il castello a bersagliarvi i cannonieri austriaci; i fanciulli correvamo alle campane, rispondevano ai cannoni martellando a stormo; le donne e gli inermi s'affaccendavano ad asserragliare le vie; e le bande dei disertori, annidate sui Ronchi, scendevano a battere le strade. Grandissimo era nei popolani il furore, ma più grande la fede: per cui quella scena di notturna lotta aveva quasi l'aspetto d'una festa promessa e lungamente desiderata.

«Le canzoni patriottiche, scrive Cassola, le grida di viva l'Italia e fuori i lumi, per invitare i cittadini ad illuminare la città, si confondevano nell'aere col fragore del bombardamento, e producevano sugli animi, specialmente dei giovani, quelle sensazioni per cui l'uomo s'innalza a tutta la sua dignità.»

Il bombardamento di quella notte aveva apportato la morte a due fanciulli, e il guasto di poche case e delle suppellettili che contenevano; ma aveva pur dimostrato che l'effetto devastatore delle bombe non è quale i tiranni vorrebbero far credere per atterrire i popoli. Una città predominata dal sentimento nazionale sfida i bombardatori e ride dei loro mezzi distruttori.

Il dì vegnente, in sull'albeggiare, Leshke, vedutosi stretto da ogni parte dalle compagnie del Boifava e del Maselli, e veduto come le scolte popolane, alla loro volta, già gli impedissero dal lato della città di fornirsi di acqua, di cui sul colle pativasi grande difetto, temendo di non poter resistere lungamente, mandò fuori alcuni gendarmi, due dei quali sgattaiolatisi tra le sentinelle dei disertori, che battevano le campagne, volarono a Mantova a chiedervi pronti soccorsi. Intanto teneva a bada i Bresciani, ora minacciando di nuovo le bombe, ora promettendo di sospendere le ostilità.

Dal canto loro i patrioti bresciani, volendo crescere forza ed autorità alla insurrezione, elessero duumviri a reggere lo sforzo delle armi cittadine e la pubblica difesa, l'ingegnere Luigi Contratti e li dottore Carro Cassola, uomini noti all'universale per devozione e per fede alla causa italiana. Essi tosto curarono di porre qualche ordine nell'impeto delle moltitudini, creando molti capi-squadre che guidassero i cittadini al fuoco, creando pure tre commissioni, una che sopravvedesse l'ordinamento e il servizio delle guardie nazionali, l'altra che facesse incetta d'armi, la terza che attendesse ad afforzare le mura e a piantare serraglie, secondo la necessità dei luoghi. Inoltre mandarono esploratori a spiare le mosse del nemico, e uomini autorevoli che chiamassero all'armi le campagne, e s'abboccassero coi fuorusciti, coi Bergamaschi e coi Riveriani del Mincio e del Po. Le 130 mila lire che la città aveva raccolte per saziare l'ingordigia d'Haynau, furono assegnate al Comitato di difesa, perché le erogasse a pro' della patria. «E anche questo pareva ottimo augurio; che la taglia della tirannide servisse a ricomperare la libertà([8])

Nella notte del 23 al 24, prendeva le redini del Municipio il Sangervasio; imperocchè, il Saleri, ritornando dall'ufficio alla propria casa, inciampò inavvertitamente in istrada e cadde, riportandone una contusione che lo tenne obbligato a letto. Quest'avvenimento e le disgrazie di famiglia già enunciate, riducevano quest'ottimo cittadino a rinunciare definitivamente alla sua carica.

Il giorno 24 passò tra timori e speranze, essendo l'animo di tutti vôlto alle novelle che si aspettavano dal Ticino. Il Leshke due volte riprese il bombardamento; la prima in sull'alba, per dar agio a' suoi messi di passare col favore del disordine attraverso i posti bresciani, la seconda poco oltre il mezzodì; ma l'una volta e l'altra molto debolmente; perchè anche gli Austriaci stavano con timore ed ansietà grandissima attendendo avvisi dal campo. Questi a dir vero, giunsero in quel dì medesimo anche in città recando il fatto di Mortara e la prima fuga dei Piemontesi; ma i Bresciani giudicarono quella essere un'avvisaglia di nessuna importanza, e il loro animo non fu minimamente abbattuto.

Il dì 25 passò quieto più che le circostanze paressero concederlo. Tacque il castello; la città preparava le armi. A crescere il numero e l'animo dei difensori calavano dalle valli parecchie centinaia di Trumplini, Valsabbini e Pedemontani, sui quali i capi della congiura avevano pur fatto assegnamento, armandoli e ordinandoli. Ma gli aiuti aspettati dalle provincie non venivano, i Pianigiani non davano sentore di volersi levare; nè dal teatro della guerra giungevano notizie d'alcun fatto importante. Ben sulla sera fu predato il corriere che dal campo portava lettere di privati e dispacci a Verona. Con quanta ansietà si leggessero quei fogli è più facile immaginarlo, che dirlo. Ma i dispacci non recavano cosa d'importanza, e le molte lettere non fecero che crescere l'incertezza. Un ufficiale scriveva dal campo: vincemmo a Mortara, d'un salto entreremo a Torino. Un altro scriveva da Pavia: i nostri trascorrono oltre Mortara, mentre noi qui abbiamo a' fianchi integra e minacciosa una divisione nemica.

I Bresciani avevano fede nella lealtà dei capi e nel valore dell'esercito regio; credevano, come tutti, italianissimo il generale Ramorino: e facilmente si persuasero che gli Austriaci, cacciatisi innanzi a tentare un colpo disperato, sarebbero stati côlti di fianco rituffati nel Po e nel Ticino, presi alle spalle da Ramorino e da Lamarmora.

In quella notte giunsero avvisi sicuri che un corpo di soldati austriaci si era mosso da Mantova; e sotto il comando del generale Nugent correva a marcia precipitosa sovra Brescia.

In fatto, all'alba del 26 marzo, una colonna di mille uomini con due cannoni sboccò a Montechiaro, e di là trasse a corsa verso Rezzato. Quivi, dopo breve avvisaglia coi disertori e gli altri insorti sui colli, sostò per aspettare rinforzi da Verona, ed a concedere un poco di respiro ai soldati affranti dalla marcia.

Il Comitato di difesa, d'accordo col Municipio, spediva come parlamentario a Nugent il capo-medico militare, dottor Lowestein, per saperne le intenzioni. Quel generale con modi villani licenziava il povero medico, dicendogli che per trattare con lui dovesse la città mandare una deputazione di cittadini. Non perchè si credesse che vi fosse qualche probabilità di convenire coll'Austriaco, ma per non lasciar nulla d'intentato che potesse risparmiare l'effusione del sangue, veniva mandata una deputazione di tre distinti e benemeriti cittadini, fra cui Pallavicini e Rossa, ai quali si aggiungeva il medico militare suddetto. Questi presentatisi al generale, lo stesso intimava loro che Brescia dovesse distruggere tosto le barricate, deporre le armi ed arrendersi a discrezione. Diceva voler entrare per amore o per forza, dare tempo quattr'ore a rispondere, intanto per misericordia avrebbe frenato i soldati, e comandato silenzio ai cannoni.

La Commissione riportò al Comitato l'arrogante proposta e le superbe minacce del Nugent. Comechè non peranco fossero giunti i fucili mandati dal Piemonte, Cassola e Contratti, fiduciosi nel valore cittadino, nella santità della causa, abbracciavano senza porre tempo in mezzo il partito di sfidare il tracotante straniero. Pubblicate al popolo dal balcone le esigenze di Nugent, esso colla potente sua voce prorompeva in grida di guerra e di disfida al nemico. Allora i duumviri ne scrivevano al generale austriaco, il quale, al messo che gli aveva portata la lettera, disse che il Comitato avrebbe avuto a che fare con lui. «Allora veramente, sclama il Correnti, si vide quanto possano in un popolo il magnanimo sdegno e lo amor di patria.» Di tutta quella moltitudine, che era convenuta in sulla gran piazza, non uscì infatti una voce che degna non fosse di Brescia e del nome italiano. E sì che le notizie della guerra correvano ancora dubbiose, e a moltissimi pareva pericolosa la condizione della città, la quale, lontana e incerta degli amici, pressochè inerme e al tutto sprovvista di cannoni e di milizie regolari, trovavasi avere sovracapo il castello, e alle porte un nerbo di agguerriti nemici, che signoreggiavano la campagna; pure tutti, come fosse ispirazione di istinto naturale, trovaronsi concordi nel pensare che Brescia si avesse a difendere fino all'estremo. E l'impeto cittadino parve torrente che, rotto l'argine, straripi.

All'ora fissata gli Austriaci, in numero di duemila, trassero ordinatamente contro sant'Eufemia, grossa borgata che siede appiè dei colli, a tre miglia da Brescia. I più animosi drappelli di cittadini e dei disertori si erano appostati e asserragliati in santa Eufemia, deliberati a difendervisi ed a ripulsare coi fucili e colle baionette le artiglierie nemiche. Arditi bersaglieri si erano distesi in catena per la campagna da una parte verso il piano, e dall'altra in sui monti di Caionvico ad impedire che gl'Imperiali circuissero il borgo; un piccolo corpo di riserva si era infine stabilito a san Francesco di Paola, che sorge a mezzo cammino tra Brescia e sant'Eufemia, dove i colli serrandosi alla strada la rendono più difendevole. Poco prima di mezzodì i nemici aprivano il fuoco, e irruivano più numerosi contro la sinistra dei Bresciani, sperando forse trovare mal difese le alture, che dominano quella posizione. Ma in quel primo scontro fu miracoloso il coraggio dei nostri, i quali, benchè pochi di numero e nuovi alle arti del combattere, ributtarono gli Austriaci, e li avrebbero inseguiti colla baionetta in resta sino al piano, se non si fosse opposto Tito Speri, giovane ardentissimo per la causa dell'indipendenza, che comandava quel pugno di bravi, e che ad una rara intrepidezza congiungeva perspicacia naturale, e qualche esperienza militare([9]).

Gli Italiani lietamente combattevano, e parimente morivano.

Un Raboldi, all'aprirsi del fuoco, côlto da una palla austriaca nel petto spirava dicendo: Me fortunato! ho l'onore di morire per primo sul campo di battaglia! e raccomandando al capitano che non dimenticasse di scrivere primo il suo nome. E il mio secondo! gridava un altro, cadendo col ventre squarciato dalla mitraglia; e i compagni che gli si affacendavano intorno lo udirono mormorare fino all'ultimo sospiro: Viva l'Italia! Viva la guerra! Un terzo, pericolosamente ferito, rifiutava con tenero disdegno i soccorsi dei commilitoni, e li ricacciava al fuoco dicendo: Ben è assai che manchi io: ma non comporterà mai che quattro sani per cagion mia lascino il posto.

Questi magnanimi esempi, e la persuasione che in tutti era saldissima di combattere col favore del cielo e per la giustizia, avevano infiammati i nostri per modo che, più volte, lo Speri fu costretto ad esortare e a comandare che più cautamente procedessero. Mostrando come i cacciatori nemici s'acquattassero dietro gli alberi e le siepi, li pregava ad avanzarsi cauti e coperti e a studiare il terreno. Ma con quella audacia che rare fiate si può biasimare, perchè di rado s'incontra, i soldati della libertà rispondevano unanimi che essi sdegnavano di imitare i soldati della tirannide; e cacciandosi innanzi all'aperto, e talora salendo in sulle barricate tranquillamente, e come se fossero dietro sicurissima trinciera, puntavano e sparavano su gli accovacciati nemici. E con superba arguzia chiamavano codesto modo di combattere: alla bresciana; modo che veramente doveva parere agli Austriaci non sappiamo se più strano, o più terribile: onde forse erano indotti a credere che que' radi ed audacissimi stracorridori fossero l'antiguardo di grosse schiere. Il fatto è che essi, a quella tempesta, stavano spesso come smemorati. Fu veduto un Bresciano, che aveva avuto il cappello forato da tre palle, scagliarsi ridendo contro uno scarco di macerie, ove erano nascosti quattro cacciatori austriaci, ucciderne uno, mandare in fuga gli altri, fermarsi a raccogliere le spoglie nemiche, e tornarsene a'suoi dicendo: Ben mi pagai del mio cappello!

E veramente doveva essere sovrumano il valore de' nostri, se, pochi di numero, tennero fermo più ore contro le truppe di Nugent. Mancate le munizioni, i battaglieri di sant'Eufemia mandavano per queste al Comitato e per rinforzi; ma s'ebbero invece comando di ritirarsi. Essi non sapevano risolversi a voltare le spalle; epperò, raccozzatisi nelle vie di quel borgo, continuarono a combattere.

Vedevi madri sorridere ai perigli de' figliuoli, e, baciandoli in fronte, dire loro come le antiche romane: «Compite il debito vostro e riva l'Italia!» Altre chiuder la casa ai figliuoli, che ritornavano stanchi dal combattimento, e dire loro che non avrebbero aperto sinchè Brescia non fosse affatto libera. E mariti distaccarsi senza pianto dalle non singhiozzanti loro consorti colle parole: «Se noi morremo vendicateci!» E non mancarono donne, le quali armate di moschetto escirono a combattere a lato degli amanti loro. E vecchi, che nulla ormai potevano operare col braccio, udivi rammentare le atrocità dei Croati, l'avarizia de' loro capi, le lascivie usate dai barbari dopo le civiche sconfitte; e i meglio devoti e pii, magnificare il miracolo altra fiata compito dai santi Faustino e Giovita, respingendo dalle protette mura le palle nemiche. Un sacerdote, fra gli altri, levatosi a favellare, con infiammativo discorso ricorda alla moltitudine lo strazio patito dal prete Attilio Pulusella e da Luigi Usanza([10]).

Il Comitato di difesa aveva frattanto dato mano a quei provvedimenti, che portava la gravità dei casi. Innanzi tutto prese ordine, che si chiudesse compiutamente il blocco del castello, appostando scolte e pattuglie ove ne era necessità; quindi si minassero i ponti, si tagliassero le strade minacciate; poi provvide che si rafforzassero le barricate, che si murassero le porte tutte, meno quella di san Giovanni e quella di Torrelunga. Oltre a ciò proibì strettissimamente a chiunque l'uscita dalla città senza un passaporto del Municipio; mandò lettere ai sacerdoti che predicassero per tutta la provincia la guerra di popolo, e diede facoltà ai parrochi di disegnare le famiglie povere, che nei giorni della battaglia dovessero venir mantenute dal pubblico erario([11]).

In mezzo a quel generale fervore giungevano in Brescia, quasi a confermare i generosi propositi, varie bande armate di valligiani, e un grosso traino che recava parte dei fucili e delle munizioni dal Ministero di Torino assegnate ed avviate alla provincia bresciana; carico affidato al signor Gabriele Camozzi, insieme ad altre armi destinate per Bergamo. Le armi, che erano bellissime, vennero distribuite a festa, ed impugnate con animo tanto più volonteroso, in quanto divulgavasi allora per lettere venute da Codogno, la lieta e creduta novella d'una gran vittoria piemontese. Ond'è che tutto il popolo, senza più dubitare, corse alle serraglie ed alle mura, acclamando viva alla guerra ed all'Italia, e rincalzando con terra e con altri munimenti le trinciere. E i più animosi uscirono fuori ad ingrossare le fila dei combattenti che s'erano appostati nelle case di San Francesco di Paola, e su pei Ronchi sovrastanti, da dove con un vivissimo moschettare, quantunque pochi di numero, impedirono agli Austriaci, forti di dieci compagnie di fanti, di procedere più oltre. Ma il fulminare incessante di due cannoni puntati contro il villaggio, e le difficoltà di guardare, durante la notte, con gente inesperta una lunga ed aperta linea, consigliarono verso sera i nostri a ridursi dentro le mura.

In tal modo aveva fine il giorno 26 marzo, in cui il popolo fu sull'armi dall'alba alla sera. Il Comitato di pubblica difesa emanava un ordine del giorno in cui si gloriava del coraggio bresciano, che veramente si era mostrato quel dì, come dissero i duumviri, con popolare efficacia, a prova di bomba.

Le ore notturne passarono senza molestie per parte del nemico; e l'alba del 27 sorgeva con ottime speranze. S'aspettava d'ora in ora Camozzi co' suoi Bergamaschi e colle bande dei fuorusciti; dal Ticino non venivano notizie certe, ma nessuno pensava che di là avessero a giungere altre notizie se non buone.

Nugent aveva avuto il giorno prima una dura lezione; e innanzi cimentarsi di nuovo attendeva altri rinforzi d'uomini e d'artiglieria; e appena li ebbe, verso le due pomeridiane, mosse l'avanguardia per porta Torrelunga. Il corpo austriaco era forte di 4,000 soldati e 5 pezzi di cannone.

Il Comitato di difesa, volendo risparmiare sangue e guadagnar tempo, aveva quel dì preso ordine coi capi delle bande bresciane che s'uscisse all'aperto.

«Durò l'attacco quasi tre ore, scrive il Correnti; e come fu micidiale ai nemici che procedevano in sullo stradale e spesso erano bersagliati di fianco dalle bande dei disertori appostati sui Ronchi, così sarebbe riuscito quasi incruenta ai Bresciani se il Leshke, battendo co' fuochi del sovraeminente castello la fronte interna di porta Torrelunga e fulminando le vie adiacenti, non avesse con più centinaia di bombe e di granate recato un danno gravissimo alla città e posti i difensori della porta in fra due fuochi. Nè però se ne sgominarono; chè anzi pareva in essi crescere l'animo, quanto più cresceva il pericolo. Anche i cannoni di Nugent, tirati in su d'un colle suburbano, tempestavano l'oppugnata porta, e spesso le palle di rimbalzo saltavano oltre la barricata, e venivano a rotolare in sul corso, dove l'ardita ragazzaglia le inseguiva e raccoglieva festosamente. Le bombe quasi subito seguite dai razzi, che entravano a metter fuoco dove il peso e l'impeto del primo proiettile avea aperta una rovina, presto ebbero desti molti incendi: e il popolo motteggiando diceva: Vhe la tal casa e la tal'altra che hanno acceso il sigaro! e senza punto badare a quella pioggia infernale, attendeva a spegnere il fuoco, a soccorrere i feriti e portar armi in sulle mura. Quivi poi era una bella gara di coraggio, anzi pur di fiera lietezza. Due de' più animosi e destri erano alla vedetta, e appena vedevano fiammeggiare il cannone, gridavano: La viene! e gli altri che stavano in sull'avviso, raccosciavansi un istante, poi rimbalzavano più alacri in piedi rispondendo al tuono delle cannonate con un Viva l'Italia, e collo sparo de' moschetti. Nè i feriti degnavansi turbare coi lamenti quella festa di guerra: ed uno a cui una scaglia portò via il braccio sinistro, si resse un istante in piedi, scaricò il fucile col braccio destro, e cadde gridando: Viva! mi resta un braccio per la spada; mi faranno capitano! Poco dopo era sepolto. Quasi nel tempo stesso lo scoppio d'una bomba levò di mano il martello ad un artiere, che stava in sul torrione interno a non so quali lavori, e il valent'uomo, senza mutarsi in viso, afferra un frammento della bomba, e s'ingegna a pur ripicchiare con quell'informe arnese, dicendo: Mi han tolto il martello di bottega, e mi han dato quello di guerra. Un altro, a cui una palla da fucile avea forato una coscia, sorridendo guardavasi la ferita, e diceva: Ih! che bel buco! ma io non voglio lasciar il ballo per questa miseria: e bisognò portarlo di forza all'ospitale

«Ciò che non si potè fare con un giovane a cui era entrata nelle carni una palla morta, il quale confortato ad aversi cura e a ritirarsi, sclamava argutamente: Come? Ora che io son maschio mezza volta più di voi? E fattosi levare la palla rimase al suo posto. Dopo la prova di un'ora e assalitori e assaliti compresero che le artiglierie facevano più fracasso che danno: e però scemava la baldanza degli uni, e cresceva negli altri l'ardimento: i quali veggendo languire il fuoco del cannone di Nugent, chiesero di sortire e di correre sui nemici. Detto, fatto; e vi fu gran ressa alle porte, volendo ognuno uscire tra i primi. E perché a schiudere il cancello era necessità di venire allo scoperto oltre le barricate, e lo Speri, come capitano della porta, non volle concedere che altri l'aprisse, e vi andò egli stesso; moltissimi accorsero a fargli scudo della persona contro le palle nemiche che convergevano a quel punto pericoloso come a metà di bersaglio. E sebbene Dio abbia voluto che niuno di quei bravi rimanesse colpito, che in vero parve miracolo, noi volemmo ricordare questo fatto, notabile in soldati di due giorni, non legati al loro capo da riverenza di disciplina, e da consuetudine di connivenza. Ma l'amor di patria è sollecito e mirabile maestro. E prova ne sia che i nostri, i quali non erano forse due centinaia, correndo audacemente contro la linea degli Imperiali, la videro rompersi e ritirarsi, e per poco stette che non riuscissero addosso ad un cannone, il quale era rimasto a sostenere il retroguardo, e che dovette a gran galoppo mettersi in salvo verso santa Eufemia.»

Côlto il buon punto, i disertori calavano dai Ronchi, ed occupavano le case di Rebuffone, scalandone le mura e le finestre con impeto indicibili; quivi, invece di trovarvi appiattati i cacciatori tirolesi, come se ne aveva avuto avviso, non si rinvennero che alcuni cadaveri austriaci. Intanto annottava; e benchè i nostri potessero spingere le loro scolte oltre il villaggio di san Francesco, sgombro di nemici, parve ai capi di guerra più savio partito, che i cittadini tornassero al sicuro e riposato posto delle mura, e le bande del Boifava e del Maselli si riducessero di nuovo in sull'alto dei Ronchi.

Ad un giorno glorioso ne succedeva un altro più glorioso ancora; e ciò che prima a molti era sembrato un prodigio di valore e di fortuna, dopo la doppia prova del dì 26 e del dì 27 a tutti cominciava a parere cosa naturale.

La mattina del 28 marzo arrivava un altro convoglio di fucili e, secondo il solita, una folla di popolo accorreva al Comitato per aspirare al possesso di quegl'istromenti tanto desiderati; per cui in un momento venivano distribuiti. Ma troppo scarso ne era ancora il numero al confronto di quelli che li ricercavano, e molti perciò si allontanavano dolenti per non aver potuto raggiungere la meta dei loro ardenti desideri.

Il Comitato di difesa, che mulinava come mettere in pensiero la guarnigione del castello, affinchè più non potesse fulminare la città, faceva un'eletta schiera de' più esperti bersaglieri, e, armatili di stutzen, li appostava in sull'alba del giorno nel pendìo dei Ronchi, e sulla torre del popolo, a cui quasi non partiva colpo, che non atterrasse in sugli spalti del castello o sentinella, o cannoniere. Ne infuriava il Leshke; e mentre faceva in fretta in fretta lavorare i parapetti, che mettessero i suoi al coperto, minacciava nuovamente delle sue bombe la città.

Dalla parte di sant'Eufemia i nemici procedevano frattanto rimessamente. Appena si vedevano venire con ogni cautela drappelli di Croati verso le mura, i quali ritraevansi alle prime fucilate, poi riapparivano di nuovo, e di nuovo andavano in volta. Ciò scorgendo, i nostri opinarono che gli Austriaci si ritirassero; e per conseguenza nacque tosto in loro il pensiero d'inseguirli. Ma lo Speri, che aveva occhio sicuro, da più indizi era stato condotto a pensare che quella peritanza dei nemici non fosse altro che un'astuzia per tenere i nostri lontani dalle mura, e averne buon mercato in rasa campagna. E però ne avvisò i suoi, confortandoli a rimanersi dietro le barricate, ove non poteva nè l'arte, nè la forza dei nemici. A molti parve, che insidia o non insidia, si dovesse uscire, dacchè prosperamente si era combattuto anche il giorno innanzi all'aperto. Per cui, contro le preghiere e i comandi di Speri e d'altri influenti uomini, tumultuariamente sortirono, caricando gli avamposti nemici, e respingendoli fin verso san Francesco di Paola.

Nugent li lasciò fare, perocchè voleva che si cacciassero innanzi e dessero nella rete che egli aveva tesa con molta arte, disponendo due grandi catene l'una verso il piano, l'altra in sui colli, e imponendo ai soldati che diligentemente s'acquattassero per le fosse, nelle case, dietro i muriccioli e sotto i vigneti. Oltre di che aveva imboscato tra due colline un mezzo battaglione di fanteria, che a un dato segno doveva irruire di fianco o alle spalle dei Bresciani. Ora quando le prime bande dei cittadini ebbero contro gli ordini dato dentro, non parve agli altri di doverle abbandonare; e perciò fatte due grosse squadre, l'una fiancheggiando a sinistra, sotto il comando dello Speri, salì pei Ronchi, l'altra, sotto quello di Antonio Bosi, rimase come retroguardo e riserva ad impedire che gli Austriaci, stesi dal lato della pianura, circuissero i Bresciani ed occupassero la strada.

Lungo tutta la linea cominciò allora il fuoco assai vivamente; e i cittadini con tanto impeto si scagliarono sugli Austriaci, che presto la ritirata di costoro non fu più simulata. Di che Nugent, ammirato e sdegnoso, veggendosi in sul punto d'essere ricacciato là, dove due giorni innanzi aveva con tanta durezza accolti i messi del municipio e posto loro termine quattro ore a pentirsi e a chiedere mercè, si trasse avanti ad incuorare i soldati: e mentre stava accennando che si avanzasse un cannone e si puntasse contro gl'infuriati Bresciani, cadde ferito d'un colpo che in pochi giorni lo trasse a morte([12]).

Gli Austriaci, portando seco il ferito generale, abbandonarono san Francesco; e i nostri ad inseguirli gridando: Avanti, avanti, a sant'Eufemia! Viva l'Italia! La Vittoria è nostra! E sì forte e sì concorde era il grido, e tanto l'impeto, che nè lo Speri, nè gli altri in influenti valsero per ragione o per autorità a dissuadere o fermare quella mossa dissennata.

Narrasi anzi che lo Speri, veduta l'impossibilità dell'impresa, e veduto inutile il sacrificio de' suoi, ordinava alla colonna di ritirarsi verso la città. Se non che taluni, dominati da disperato coraggio, insistevano perché non si dovesse lasciar posa al nemico, e tacciavano di vile il loro capo, e lo dicevano indegno di guidarli, ove non avesse abbracciato il partito d'inseguire il nemico. Un tale rimprovero, quantunque immeritato, ridestava un incendio in quell'intrepido cuore giovanile, e soffocava in lui ogni calcolo della mente; per cui, alzata la spada, seguitemi, sclamò, e senza badare che pochissimi uomini si mostravano determinati a quel sacrificio, si lanciava alla loro testa sulla falange austriaca.

Anco i più circospetti, per non far peggio, si disposero allora d'aiutare in tutto quello che non potevano impedire; e gittaronsi in sant'Eufemia. Mentre si stava gagliardamente combattendo per le contrade, Speri commise ad un Taglianini, giovane sopramodo intrepido, che, salito sul campanile, suonasse a stormo: e mandò messi ai Botticini, a Rezzato, a Cajonvico, affinchè le campagne si levassero in armi. I nemici si strinsero frattanto d'ogni parte verso sant'Eufemia; occuparono la strada di Brescia, e presero in mezzo i nostri. Il Taglianini, che attendeva a rintoccare a stormo, ebbe una palla in bocca, e nondimeno, moribondo com'era, continuò a martellare gagliardamente, finchè i Croati, saliti in sul campanile, non lo ebbero finito.

Infrattanto la prima brigata di Bresciani, che già era penetrata nel borgo, vedutasi ormai in punto d'essere oppressa dal numero, e al tutto deliberata di non volersi rendere, precipitossi in colonna serrata allo sbocco occidentale di sant'Eufemia per guadagnare la strada di Brescia. Ivi assalita da una schiera di cavalli la scompigliò con un fuoco a bruciapelo, e, passata oltre, rovesciò colle bajonette un nodo di fanti, che stavano in riserva dietro la cavalleria; così aprendosi il cammino fra un mucchio di cadaveri, potè congiungersi verso san Francesco, coi soccorsi, che accorrevano da Brescia, e rinfrescare il combattimento, che durò d'intorno a quel villaggio fino a notte.

La compagnia dello Speri, che, girando sant'Eufemia, era sboccata in sull'altra estremità del borgo, trovossi a disperato partito, come quella che aveva alle spalle tutte le forze di Nugent, nè poteva aprirsi il cammino se non espugnando il paese, già venuto in mano degli Austriaci. Epperò lo Speri si gettò co' suoi in sui colli, per vedere se con più lungo giro, e con una deliberazione strana e forse non preveduta dai nemici, potesse uscir loro di mano. Ma pare che la mala ventura lo portasse invece a dar di cozzo in quel mezzo battaglione, che Nugent aveva appostato in riserva, per modo che alla difficoltà della salita, s'aggiunse bentosto un fuoco di carabine, sì fitto, incessante e crescente, che due terzi dei Bresciani ne restarono in sul luogo morti o feriti. «Gli altri, nota il Correnti, respinti alle falde, si volsero senza smarrirsi verso il borgo; e benchè non giungessero alla decina, tentarono di attraversarlo colla baionetta in resta. La calca dei nemici li oppresse; cinque furono presi vivi, e poco stante fucilati; gli altri morirono combattendo([13]). I feriti, stesi al suolo o accoccolati, stavano aspettando coll'armi in pugno che i predatori nemici si avvicinassero, colpivano una volta ancora, e morivano. Di cinquanta, che erano collo Speri, egli quasi solo potè trarsi a salvamento dopo aver tutte adempiute le parti di soldato e di capitano, e cessata per alcun tempo con sottile accorgimento l'estrema rovina dei suoi. Poichè, quando i nemici calati in folla dal Monte incalzavano gli stremati Bresciani verso sant'Eufemia, lo Speri, gettandosi dietro le spalle parte del denaro, ch'egli aveva seco per far le spese alla sua brigata, più volte ritardò la furia dei perseguenti Croati, nei quali, sovra ogni altra considerazione, può l'avidità della preda.

Circa cento de' nostri caddero tra morti, feriti e prigionieri in quella terribile giornata del 28 marzo; ma doppia riescì la perdita dei nemico, che rimase ammirato del valore dei Bresciani, e quasi inorridito per la loro sovraumana pertinacia; e diceva essere essi più terribili quando cadevano, che quando vincevano. «E perchè sia chiara l'indole di questa guerra e degli uomini che la combattevano, scrive il Correnti, vuolsi ricordare un fatto, che occorse in questo dì 28 a vista dell'uno e dell'altro campo. Un drappello di dragoni trascinava fuori di sant'Eufemia due prigionieri bresciani. I bersaglieri nostri s'appostarono per pur tentare di liberare i loro compatrioti. Al primo suono delle fucilate i cavalli tedeschi si mossero per pigliare altra via: ma i due prigioni, ch'erano in mezzo ad essi, afferrando le briglie e le staffe tentarono d'impedir la mossa; percossi, feriti, atterrati non ristettero dall'offendere: e l'uno d'essi, avvinghiata la gamba deretana del cavallo dell'ufficiale che guidava il drappello, e cavato un pugnale, si tirò addosso col cavallo il cavaliere, e prima di rendere l'estremo fiato lo trafisse.

Cinque ufficiali austriaci rimasero per un dì intiero insepolti sul campo di battaglia. D'altri tre ufficiali furono recate in trofeo per tutta Brescia le vesti e le insegne, colla spada d'un capitano presa dai nostri.

Il generale Nugent, in punto di morte, mandava per nuovi soccorsi ad Haynau, che reggeva il blocco di Venezia, e al maresciallo Radetzky, che già tornava vittorioso dal Ticino.

La mattina del 29 alcuni esploratori, i quali erano stati mandati a Milano con lettere pel console di Francia, portarono una copia dell'armistizio di Novara. Ma l'enormezza veramente incredibile del fatto, e le speranze che i Bresciani avevano posto vivissime nell'esercito piemontese, non lasciava credere la funesta novella, a cui toglieva fede anche il difetto degli inviati, che avuto a Gorgonzola l'infelice bollettino, senza curarsi d'altro, e senza toccare Milano, mezzo smarriti, se ne erano tornati a Brescia.

Intanto giungevano lettere e messaggi da varie parti, recando della guerra novelle lietissime, ma con molta varietà di circostanze. In tre cose però tutte le lettere cadevano d'accordo: che, cioè Carlo Alberto, dopo essere calato a patti cogli Austriaci, avesse abbandonato la corona e la patria al suo primogenito Vittorio Emanuele; che Radetzky, spintosi a fidanza nel cuore del Piemonte, vi fosse stato combattuto e vinto dal Chzarnowsky; che la casa di Savoja era stata dalle Camere dichiarata decaduta dal trono, e spiegata bandiera rossa. Onde il Comitato di pubblica difesa, temendo che le contraddicenti novelle fornissero materia a dispute oziose e a gelosie, senz'ira di fazione, diè fuori un bando che acclamava Chzarnowsky salvatore e dittatore d'Italia, e confortava i cittadini a seguire quella bandiera, che il vittorioso Piemonte avrebbe inalberata.

I Bresciani non si lasciarono volgere dalle strane novelle a vanità di giudizi; i migliori se ne stavano in sulle mura e per le barricate; e loro bastava sapere che l'esercito piemontese vincesse.

Il fuoco era incominciato in sul mezzodì assai gagliardo; poiché gli Austriaci, per soccorsi avuti da Peschiera e da Verona, si erano considerevolmente ingrossati. I nostri tenevano ancora san Francesco di Paola; ma essendo riuscito ai nemici di stendersi sui fianchi del Ronco sovrastante, nè potendo la colonna dei volontari disertori, per difetto di munizioni, opporre a loro valido contrasto, i Bresciani abbandonarono il villaggio. Ma il prete Boifava, comechè stesse col sospetto di essere girato ed assediato su quelle cime isolate, tuttavolta, ritrattosi verso la cresta dei colli, vi si mantenne.

Mentre così con dubbia fortuna e senza molto sangue si combatteva fuor delle mura, il Leshke bombardava dentro furiosamente: la maggior parte dei proiettili cadeva nel quartiere di sant'Eufemia verso Torrelunga, ove i cittadini facevano l'adunanza per le sortite. Ma quel dì non poche caddero sull'ospitale civile. Di che il Comitato, giustamente commosso a sdegno, mandò al capo medico dell'ospedale militare di sant'Eufemia, significandogli che se Nugent non rispettava la bandiera sanitaria, esso e gli infermi suoi, che erano nelle mani dei cittadini, ne avrebbero pagato il fio([14]). Il capo medico spedì tosto taluno con bandiera bianca, perchè supplicasse Nugent di rispettare il diritto delle genti, o almeno di aver riguardo alle vite dei suoi compatrioti minacciate dalla legge del taglione.

«E qui occorse caso, racconta il Correnti, che mostrò quale veramente fosse l'animo del popolo. Imperocchè veduta quella bandiera parlamentaria, e venuti in sospetto che il Municipio trattasse la resa, colle grida e colle armi impedirono al signifero che andasse alle mura, e bisognò che lo Speri e due venerandi cittadini, che erano con lui, giurassero a nome di tutte le autorità bresciane, d'altro non volersi parlare ai nemici se non del rispetto dovuto, secondo la legge di guerra, ai sacri ospizi degli infermi.»

Gli Austriaci accolsero i nostri con piglio oltre dire superbo; e, fatto mostra di credere che Brescia volesse capitolare, senza dar luogo ad alcuna parola per parte de' parlamentari, concessero un'ora sola a mandare qualcuno, che legalmente rappresentasse la città, e ritennero in ostaggio un degno sacerdote, che era venuto agli avamposti coi parlamentari. Preso quel tempo, gli Austriaci, contro ogni fede o ogni legge di guerra, si trassero fin sotto la porta, e cacciatosi avanti il prete, senza guardare se fosse o no scoccata l'ora pattuita, vennero a più stretto contatto e deliberato assalto; e per crescere confusione e terrore, misero in fiamme molte case in sui Ronchi. A quella vista i Bresciani, irritati oltremodo, strappavano la bandiera di pace, e, calpestatala nel fango, gridavano di volere piuttosto seppellirsi colle donne e coi figli loro sotto le rovine della città, che comportare siffatto vituperio. E appunto mentre l'affollato popolo consigliavasi confusamente come pigliare vendetta dell'insulto, una grossa bomba scoppiò quasi in sulla piazza; e alcuno afferratone il più grosso frammento, recollo in mezzo; e su di esso, come sul Vangelo, tutti stesero a gara la mano, consacrando così in modo guerriero il giuramento di morire anzi che cedere.

«Del qual atto, scrive il Correnti, tanto fu la nobile fierezza e l'umanità, che molti, come a religioso spettacolo, s'inginocchiarono, e molti piangevano di tenerezza.»

Di repente il grido: Alle porte! Alla sortita! Sorse di mezzo alla moltitudine; e moltissimi a quella voce aggiunsero l'atto, precipitandosi fuori la porta. Il nemico, che aveva sperimentato di che sapesse la furia bresciana, si ritrasse verso san Francesco.

Breve fu la notte ai cittadini, già affranti di sette giorni di incertezze, di agitazioni e di battaglie. Il giorno 30 marzo, per tempissimo, ricominciarono le offese dalle due parti, massime a porta Torrelunga, investita da sei grosse compagnie di fanti, gente fresca e bene in punto, le quali facevano prova di stendersi sotto le mura, e di congiungersi colla guarnigione del castello. Ma il fuoco, spesso e giusto, dei cacciatori bresciani ruppe quel disegno; tanto che quelle dovettero pigliare altro partito, e salire in colonna sull'erta dei Ronchi per isboccare poi con lungo e faticoso rigiro alle spalle del castello. Il che riuscì loro nè senza pena, nè senza sangue; imperocchè innanzi tratto cozzarono coi volontari del Boifava, i quali, fatta quella resistenza che loro concedeva il numero sottile e la scarsità delle munizioni, si ritrassero quindi ordinati ed intieri verso le parti più aspre della montagna.

Nello scendere dai Ronchi per venire verso la porta di soccorso del castello, il nemico ebbe a sostenere, quasi scoperto, il fuoco dei cittadini, che dalle mura e dal torrione della Pusterla sicuramente lo tempestavano, e più fiate, comechè senza artiglieria, lo costrinsero a retrocedere. Seguendo il vandalico sistema introdotto nell'esercito austriaco dalla ferina natura de' capi, i truci si vendicavano delle perdite che soffrivano col saccheggiare i casini di campagna. Dopo tali gesta, piombarono sulla città. Intrepidi i Bresciani difendevano le serraglie; e nè le bombe del castello, nè il cannoneggiamento al di fuori, nè la fitta moschetteria bastarono ad atterrire quegli intrepidi petti, dai quali scoppiavano di tratto in tratto le grida di Viva l'Italia! Soltanto la morte costringeva quei prodi a cedere il posto, il quale veniva tosto rimpiazzato da altri; giacchè tutti gareggiavano nello spingersi avanti per essere a migliore portata di offendere il nemico. Un intrepido cittadino, fra le palle nemiche, osava salire sui cancelli di ferro della porta e piantarvi una bandiera nazionale.

Il conflitto durò sino a sera, e sebbene guaste in ispecialità dalle palle de' cannoni, nessuna serraglia fu abbandonata. Il nemico si ritirò di nuovo a santa Eufemia, idrofobo per non aver potuto sfogare la sua rabbia sui cittadini, come aveva fatto sui loro averi.

In quel giorno altre nuove fallaci giungevano del campo. Lettere da Crema e da Lodi recavano essersi dopo le due infelici battaglie di Mortara e Novara, combattuto di nuovo il 26 lungo la Sesia coll'ultimo esterminio dell'intera vanguardia austriaca; avere il maresciallo toccata tale una rotta da dover d'un tratto, come Melas, dopo la battaglia di Marengo, cedere tutta la Lombardia. I corrispondenti, uomini autorevoli e credibili, allegavano in prova di quelle notizie essere venuti in gran diligenza ordini che i prigionieri fatti sui Piemontesi a Mortara, e sino dal 22 avviati per a Pavia e Cremona verso Mantova, retrocedessero per essere restituiti al vincitore, e averne essi già veduti gli effetti; aver letto coi loro occhi il bando stampato dal generale, Chzarnowski ove celebrava le vittorie italiane e l'armistizio vendicatore delle vergogne di Vigevano e di Novara.

Anzi di quest'armistizio fu mandata copia a Brescia. Numerava sei articoli, che in sostanza portavano, doversi l'Austriaco ritirare oltre l'Adige, sgombrando le provincie lombarde e le fortezze del Mincio, e serbando rispetto alle vite ed alle proprietà delle popolazioni, framezzo alle quali gli si concedeva la ritirata. «E quest'ultima condizione, narra il Correnti, che assai bene quadrava ai Bresciani, indusse il Comitato a mandare un medico militare al generale Nugent, perchè lo ammonisse a ritirarsi oltre l'Adige, senza più molestare, violando i patti, i popoli lombardi. Il generale, il quale era, come dicemmo, malamente ferito, appena sentì le parole del parlamentario, che, senza più oltre chiarire le cose, come la giustizia e l'umanità avrebbero pur voluto, gl'intimò di levarsegli d'innanzi e di tornare a' suoi infermi. Ma i cittadini, ingannati da tanta concordia di liete novelle, e non disingannati nè dagli amici, nè dai nemici, sempre più si persuadevano che gl'Imperiali, battuti e perseguitati in sul Ticino dai Piemontesi, volessero per sete di vendetta e di preda buttarsi su Brescia e farne strazio prima di ridursi entro le linee loro assegnate dai Vincitori.»

Mentre di tali speranze si pascevano i Bresciani, le fanterie nemiche, le quali, finchè bastò la luce diurna, erano state tenute in rispetto, col favore delle tenebre, in silenzio e rapidamente, per la porta di soccorso, si riducevano in castello. E poco oltre la mezzanotte vi giunse anche, da niuno aspettato, il tenente maresciallo Haynau colla scorta del secondo battaglione del reggimento fanti di Baden. Uditi i casi di Brescia e lo smacco che le armi imperiali ne soffrivano, si era l'Haynau mosso segretamente da Mestre, e soprarrivato improvviso agli avamposti di sant'Eufemia, con meraviglia dello stesso Nugent, recossi in mano il comando dell'assedio, e prestamente divisò come compiere l'eccidio di quella città, cui pochi mesi prima aveva bistrattata e insultata sì bassamente, che i Bresciani solevano chiamarlo col nome di Jena.

Fu la notte quieta per Brescia quanto essere poteva tra i gridi d'allarme, le fucilate delle scolte, il rintocco delle campane, e il barlume dei morenti incendi, che i Croati avevano la sera accesi nelle case dei Ronchi, quasi per documentare a lor modo che ne avevano preso possesso.

 

 

II

 

Il mattino del giorno 31 sorgeva tristo e uliginoso. I cittadini, già fattisi alla vita soldatesca, erano tornati ai posti aspettando l'assalto, e più diligentemente guardandosi con doppie scolte, perchè il nemico non si vantaggiasse d'un nebbione assai fitto, che toglieva la vista dei colli e delle strade suburbane. Poco appresso le ore antimeridiane calarono dal castello alcuni soldati, preceduti da una bandiera bianca, portata da due gendarmi. Ne corse subito voce per la città, e fu maravigliosa la pressa del popolo, che già sperava d'essere venuto al termine glorioso delle sue fatiche. I due gendarmi furono presi in mezzo dalle pattuglie cittadine e condotti al Municipio, ove misero fuori un dispaccio dell'Haynau. Veggendo la firma del truculento generale, che per sicura fama sapevano a Mestre, istupidirono i Bresciani; e molti credettero che il Leshke, disperato d'uscire vivo dalle mani dei cittadini, avesse falsata la firma per ottenere col terrore d'un nome ciò che non aveva potuto colle bombo; altri cominciarono a sospettare quello che veramente era, cioè che ormai tutto lo sforzo della guerra italiana si riducesse d'intorno alle mura di Brescia. Ma più valse la lettura del dispaccio a rinfuocare gli animi, che tante e sì grandi cagioni di dubbio a tenerli sospesi. Scriveva l'Haynau di volere tosto, senza condizione alcuna, la resa della ribellante città; se per mezzodì non fossero levate le serraglie e dati i passi alle truppe, prometteva l'assalto, il saccheggio, la devastazione e l'estrema rovina. E per far pompa della sua fiera natura, finiva dicendo: Bresciani voi mi conoscete, io mantengo la mia parola!

Quantunque al disonesto scherno ribollissero i magnanimi sdegni, non si pigliò tuttavia alcun partito, che non fosse prudente, potendo nei consiglieri e nei capi del Municipio e del Comitato più la carità della patria, che l'ira. Decisero pertanto di mandare commissari in castello, che vedessero l'Haynau, e gli esponessero le cagioni per cui Brescia era sorta e voleva mantenersi in armi. Non fidandosi alcuno del tenente maresciallo, non furono i messi designati per sorte o per elezione; ma, come a sacrificio di vita si offrirono alla pericolosa andata Lodovico Borghetto e Pietro Pallavicini, animosi giovani, che erano stati pochi dì prima chiamati ad assistere il Sangervasio. E perchè si veda come i nobili esempi portano tosto i loro frutti, l'avv. Barucchelli e Girolamo Rossa vollero andare compagni ai primi due, e un Novelli si pigliò il carico di vessillifero, e li precedette col segnale di pace. Così si mossero per andare al castello, accorrendo d'ogni parte la moltitudine, che ora pregava loro dal cielo il ritorno, ora fremeva e si rifiutava di dare il passo, temendo che da quell'andare e venire non ne uscisse qualche brutta conclusione. Pervenuti i commissari al castello, furono messi dentro e condotti di mezzo a due file di ufficiali, che non si astennero punto dal minacciarli, fino ad un salotto, ove l'Haynau coi maggiorenti dell'esercito li stava attendendo.

Parlò uno dei commissari, narrando i fatti come erano corsi, e la città lasciata in propria balia, e gli impedimenti posti al valido ordinamento d'una guardia civica, e gli ordini avuti dal Ministero Sardo, e il debito di fede che stringeva la città per voto solenne al regno dell'Alta Italia, e infine le notizie della guerra e i patti dell'armistizio, che volevano sgombra la Lombardia dagli Austriaci: in così dire offerse copia dell'atto al tenente maresciallo, il quale con un ghigno feroce rispondeva: saper tutto, essere informato di ogni cosa, ma non voler parlare di questo; doversi parlare soltanto della resa ch'egli aveva intimata alla città pel mezzogiorno. Erano allora presso ad undici ore. I commissari come ne avevano ordine, chiesero 48 ore di tempo per meglio chiarire i fatti, protestando pur sempre che se un armistizio era stato firmato, doveva intendervisi compresa anche Brescia, e che se contro i patti, o senza dar altre soddisfazioni, gli Austriaci avessero attaccato quel dì stesso, di fermo la città si sarebbe difesa fino agli estremi. Ripeteva l'Haynau, quasi per fuggire dall'argomento dell'armistizio: Ho detto a mezzogiorno, ho detto a mezzogiorno! E gli altri a dimostrargli che mezzogiorno era tanto vicino, che appena rimaneva tempo a notificare di nuovo quel suo ultimato ai cittadini. Allora concesso due ore di respiro oltre il mezzodì; e presi gli appunti sull'orologio, senza altro dire accomiatò i parlamentari.

A codesta infamia assistevano anche gli altri ufficiali superiori; nè alcuno osò o volle disingannare i prodi Bresciani; ma anzi tutti se ne stavano ad arte pensosi.

Tornati i deputati in città, e venuti al Municipio riferirono le cose udite e le vedute; l'Haynau starsene veramente nella rocca con truppe nuove e fresche; i soldati o gli ufficiali minori mostrarsi insolenti e superbi, come gli Austriaci non sanno fare che nella fortuna seconda; avere il tenente maresciallo parlato alto ed arrogante; ma per contrario niuno essersi levato a smentire l'armistizio di Chzarnorwsky o le sue vittorie. A quel fatto, già per sè di grande significanza, aggiungevano valore le novelle per via sicurissima allora pervenute a Brescia, che gli Austriaci se ne erano tornati dal Piemonte in Milano senza alcuna pompa militare, senza le musiche, muti, laceri, disordinati, in aspetto di vergognosi e dolenti. Prova certissima, come tutti allora credettero a Milano, e come più facilmente si doveva credere a Brescia, già eccitata a maschi propositi, che quella fosse una ritirata pattuita e concessa, perchè il tumulto e la disperazione d'una fuga barbarica non avesse a consumare il paese([15]).

Il Sangervasio, uscito in sulla loggia del palazzo municipale, alla fremente moltitudine di che era gremita la gran piazza e le propinque vie e le finestre della case e infino i tetti, rispettoso e grave, lesse senz'altri commenti l'intimazione dell'Haynau, e narrò quello che ai messi era intervenuto.

Allorchè giunse a riferire le superbe parole dell'Austriaco e le due ore concedute, perchè Brescia si risolvesse a darsi vinta per paura, dall'innumerevole folla levossi un grido formidabile: Guerra! vogliamo guerra! libertà o morte. Era il mezzogiorno. Dato il voto, il popolo tacque e si sciolse; sicché in pochi minuti la piazza rimase muta e deserta. Correvano gli uomini pei loro quartieri e alle case a prendere le armi, ad afforzare le barricate, a mettere gl'infermi ed i bambini in salvo nelle cantine, e a dare gli ultimi baci e gli ultimi consigli alle donne; le quali, lodando la difesa, e non mostrandosi punto smarrite per la gravezza del pericolo, animosamente apprestavano le armi virili e le proprie: cartuccie, sassi, tegole, acqua bollente. Anzi molte ne furono viste armate e succinte correre alle mura ed alle serraglie: «e due sorelle fra le altre, fanciulle entrambe, e di vita e di casa onorate, le quali a vederle muovevano pianto d'orgoglio e di tenerezza, e più che di guerriere rendevano immagine di martiri cristiane([16]).» Così confortandosi ed ammirandosi l'un l'altro, e i propri dolori dimenticando per consolare i dolori fraterni, passarono i cittadini due ore sublimi, respirando un'atmosfera di sacrificio e d'amore; sicchè furono allora fatte molte paci, e spenti e perdonati molti odi antichi, come se quella fosse una comune preparazione ad una santa morte. Allo scoccare delle due tutte le campane della città, come se fossero siate mosse da un solo uomo, e tocche da uno stesso martello, cominciarono a suonare a stormo. E questa fu la risposta dei Bresciani alle minacce dell'Haynau.

Subito dopo cominciò dalle case, dai tetti, dai campanili, dalle porte, un vivo moschettare contro gli avamposti nemici, che debolmente rispondevano, e solo coi fucilieri dell'antiguardo. Ma non per questo perdevano essi tempo: perchè poco lungi della porta Torrelunga, a Villa Maffei, stavano puntando, a mezza gittata di cannone una batteria di grossi mortai; e intanto, fatte quattro nuove schiere di fanti, prendevano ordine ch'esse, col favor della nebbia, girando poco fuori delle mura, si conducessero presso le altre porte della Città, e s'appostassero poco lungi dai sobborghi per far impeto tutte assieme quando le artiglierie del castello ne avessero dato il segno. Per tal modo l'Haynau, moltiplicando gli assalti, i pericoli, le paure, sperava di forzare con poco sangue de' suoi la città, tanto più che i fuochi del castello potevano battere di fianco e di rovescio tutte le porte, e principalmente porta Torrelunga e porta Pile, le quali dovevano essere quel giorno oppugnate più duramente che mai.

Cominciò il Castello a tuonare verso le tre pomeridiane; e allora ad un tratto la città fu attaccata da ogni parte, e tutte le porte furono combattute col ferro e col fuoco. L'artiglieria, fulminando furiosamente in breccia contro porta Torrelunga, schiantò le spranghe di ferro dei cancelli, spezzò la barricata esterna. I nostri si ritrassero entro la porta, e i nemici ad inseguirli; ma ne furono aspramente ributtati. E sebbene dal castello venisse tutt'intorno alla porta una sì fitta tempesta di bombe, di granate, di razzi, che spesso ai difensori pareva d'essere dentro un cerchio di fiamme; sebbene i fanti di Nugent più volte tornassero all'assalto, e i mortai squarciassero con orribili colpi le crollanti trinciere, nondimeno i volontari dello Speri duravano intrepidi alla guardia di quel posto, che niun soldato di professione avrebbe più oltre osato difendere.

Mentre così lo sforzo della battaglia pareva, come nei giorni innanzi, concentrarsi a porta Torrelunga, l'Haynau commise al battaglione dei fanti di Baden di occupare di forza lo sbocco delle vie che mettono al centro della città. Trovarono i soldati duro contrasto, e furono ricacciati con molte morti dai colpi sicuri, che uscivano dalle barricate, dalle finestre e dalle torri. Ma dopo che si furono ritratti più in alto, e distesi a mezza china, cominciarono col vantaggio del sito a tempestare i Bresciani con un fuoco di fila assai ben nutrito. I nostri allora con ottimo avvedimento pigliarono partito di lasciarli calare e di combatterli nelle vie.

Fermato questo consiglio, essi a poco a poco si ritrassero dall'estrema barricata, eretta allo sbocco della via che mena al castello e che per quasi due ore aveva sostenuto il fuoco dei soverchianti fucilieri tedeschi; poi fatta una mostra di difesa, abbandonarono anche le altre barricate di sant'Urbano, e delle Consolazioni.

Gli Austriaci, a cui già sapeva strano quel lungo e micidiale contrasto di un popolo imbelle contro milizie agguerrite, facilmente s'indussero a credere quello che loro pareva naturale. E però, atterrati gli impedimenti e disfatte le serraglie, si cacciarono innanzi per le insidiose vie. E così urlando e minacciando sboccarono sulla piazza dell'Aldera. Quivi li aspettavano i Bresciani, appostati tutti all'intorno nelle case, e dietro saldissime trinciere, che chiudevano ogni sbocco della piazzetta verso le più interne parti della città. Il primo nodo di fanteria nemica, che uscì in sull'aperto, fu da un nugolo di palle decimato. E così gli altri, a misura che accorrendo al rumore della battaglia, giungevano sotto le feritoie cittadine. Non per questo i sorvegnenti soldati, contenuti e sospinti dai pelottoni che s'avanzavano dietro di loro per la via angusta, potevano ritrarsi dal mal passo. Per cui, disperati d'ogni altro scampo, fatto un nodo, e come meglio potevano copertisi dagli stessi colpi, si avventarono risolutamente alla baionetta in sulle barricate. Ma un fuoco a bruciapelo, diretto da mani ferme e da cuori sicuri, menò di loro siffatta strage, che nessun altro osò più ritentare la prova.

Stava l'Haynau alle vedette in sullo sterrato del castello, accanando con messaggi e con rinforzi il valore de' suoi, e ammirando, pur suo malgrado, quello degli avversari. E quando vide atterrata a piè delle barricate l'ultima schiera, dicono che esclamasse: «Se avessi trentamila di questi indemoniati Bresciani vorrei ben io tra un mese veder Parigi!([17])» E intanto comandava che tutte le riserve del battaglione di Baden e le compagnie di Rumeni calassero a rinfrescare la battaglia. E perchè i soldati ci andavano a malincorpo, come quelli che avevano veduto tornar pochissimi de' molti che erano stati al primo fatto, l'Haynau volle che il tenente colonnello Milez si ponesse alla loro testa. V'ha chi assicura, che per usare più spicci conforti, facesse spianare i cannoni del castello contro i soldati tentennanti, gridando loro «che se avessero voltate le spalle ai borghesi, si sarebbero trovati in faccia alla mitraglia imperiale([18])

Fatto sta che gli Austriaci s'avventarono di nuovo all'assalto. Ma appena le prime schiere si furono messe per la perigliosa forra, che il Milez cadde col cuore trafitto da una palla di carabina. A quella vista i Bresciani, levando uno strido di vittoria, saltarono fuori dai ripari e dai nascondigli, e colle baionette, colle daghe, colle coltella corsero sui nemici, desiderando pur una volta di odorare il loro fiato, come ferocemente chiedevano i macellai, di cui una grossa brigata era venuta alla difesa di sant'Urbano. Di che fu sì grande lo spavento dei soldati, incalliti al fischiare delle palle e al tuonare dei cannoni, ma insoliti a sostenere il baleno d'occhi sanguigni e il digrignare dei denti, ch'essi se ne andarono in dileguo, abbandonando morti o feriti in mano al vincitore; e fra questi anche il loro tenente-colonnello, non ancora ben freddo. I Bresciani lo svestirono, e le spoglie mandarono in città affinchè le vedessero le donne, i vecchi, e ne pigliassero augurio di vittoria. Il cappello e la spada donarono però al feritore, giovane popolano, che, armato d'uno stutzen, da più ore con occhio infallibile stava spiando e saettando gli ufficiali nemici. Il popolo lo gridò capitano del posto; ed ei si piantò presso la commessagli barricata colle trionfali insegne, e vi stette bersaglio ai nemici, e trofeo vivente del valore italiano, finchè delle tante che lo cercavano non l'ebbe giunto una palla che gli ruppe il magnanimo petto.

Così la piazza dell'Albera, ingombra da mucchi di cadaveri, restò ai nostri: e gli Austriaci non osarono più neppure far capolino dalla via di sant'Urbano. Ma da un'altra parte si riscattava il pertinace Haynau, il quale poichè vide alla prova come in quel labirinto di strade nulla potessero le artiglierie e poco la disciplina, racimolati quanti erano o per ufficio, o per ultima riserva, o per mal ferma salute rimasti in castello, e fattone un battaglione di mezzo migliaio di fanti d'ogni arma, lo pose sotto la direzione del tenente Imeresk, commettendogli di lanciarsi a corsa sui bastioni orientali, e di non sostare finchè non fosse riuscito alla torre che sta ai fianchi e quasi in sul collo della porta Torrelunga, ove già ferveva da due ore la mischia tra le compagnie dello Speri e la brigata Nugent, condotta quel dì all'assalto dal colonnello Favancourt, che poi vi rimase morto. Quando lo Speri vide gli Austriaci in sulle mura sovrastanti alla barricata di porta Torrelunga, ordinò a' suoi che, senza far altro contrasto, riparassero dietro alle barricate più interne, le quali già erano state fra loro legate con tale avvedimento, da formare una nuova linea difendibile. Ma tanto era il furore dei Bresciani, e sì fermo in loro il proposito di morire, che nè comandi, nè preghiere potevano indurli alla ritirata; e molti rimasero e caddero al loro posto. «Fra questi ricorderemo Cesare Guerini, giovane soave di forme e d'ingegno, che ferito in un ginocchio sarebbe venuto in mano de' truci, se non era un altro giovinetto appena quindicenne, e d'umile condizione, il quale non potendo vedere, come ei diceva, morire quel buon signore in mezzo ai nemici, tornato indietro tra il grandinare delle palle e quasi d'in sulle baionette austriache, levò di terra il ferito, e recatoselo in collo, lo trasse dietro le barricate. Ed un ferito mentre era portato per le vie sentendo alcune donne compiangerlo e muovere lamenti e che? sclamava, credete voi che alla guerra si vada a scambiar baci? state allegre, gridate viva l'Italia, e lasciate piangere i tedeschi([19])

Intanto la brigata di Nugent, rotta la barricata di porta Torrelunga, si rinversava in città; e mentre una colonna correva a prendere di fianco porta sant'Alessandro, e a sfondarla per mettervi dentro le compagnie, che infino allora avevano indarno dalla campagna combattuto quel posto, un'altra colonna si buttava sulle barricate interne, e faceva prove di entrare nel cuore della città. Fu l'urto violento per modo che gl'inimici penetrarono tino alla Bruttanome; ma poi accorrendo loro addosso da tutte le strade cittadini e valligiani, e venutosi a lotta più serrata di baionette, di pistole e di pugnali, furono risospinti ed inseguiti fino alla porta. E qui i nostri piansero gravemente ferita la più intrepida fra le eroine bresciane.

Cadeva il crepuscolo, e il feroce Haynau, temendo che i suoi per le incerte ombre si lasciassero tirare sprovvedutamente dietro le insidie cittadine, comandò che sostassero e si fortificassero nei posti che avevano con tanto sangue acquistati. Ma in sostanza la città durava ancora pressoché intatta, perchè i nemici dal lato di sant'Eufemia erano stati ricacciati fin sulle mura ed alla soglia di porta Torrelunga; nè dentro la porta sant'Alessandro avevano potuto fare alcun progresso di considerazione; alla scesa del castello tenevano appena quell'estremo lembo del quartiere di sant'Urbano, dove erano stati tirati ad arte. Alle porte di san Nazaro e di san Giovanni n'era stato piuttosto simulacro e fracasso, che pericolo d'assalto; a porta Pile, per la prossimità del castello, e pel giuoco delle soprastanti artiglierie, era riuscito più aspro il combattere degli Austriaci, e più onorata la vittoria dei Bresciani.

Senonchè atrocissimi consigli agitava l'animo dell'Haynau; il quale sapendo come il dì appresso tutto il terzo corpo dell'esercito con fioritissima artiglieria dovesse giungere sotto Brescia, smaniava d'impazienza, e recavasi ad onta di non avere espugnata la città prima che giungesse il soccorso, quasichè quel poco d'indugio, che altri avrebbe saputo volgere a benefizio d'umanità, potesse macchiare il suo onore, e fargli uscire di mano l'indubbia vittoria. Volle tentare in quella notte stessa un'estrema prova se mai colla pietà e coll'orrore potesse vincere gli animi, che la paura e la morte non avevano saputo piegare. Già a molte case suburbane ed a molte ville de' Ronchi era stato, come dicemmo, appiccato il fuoco; tantochè sull'imbrunire si vedeva la nobile città incoronata d'incendi. Quando le tenebre posero fine agli assalti, fu comandato e insegnato ai soldati di forare i muri delle case e penetrare nell'interno, abbruciando e devastando: nuovo ed orribile modo di guerra. A quest'uopo venivano per ogni pelottone alcuni gregari recando acqua ragia, pece, paglia ed altro da appiccare e propagare rapidamente le fiamme: e gli uffiziali si facevano maestri di questa barbarie. Gl'incendi ruppero spaventevoli principalmente nelle case di sant'Urbano e nei vicoli popolatissimi che stanno presso a porta sant'Alessandro: e presto giganteggiarono le vampe, spandendo largamente un orrendo chiarore sotto il cupo orizzonte d'una notte nebulosa.

I cittadini vegliavano in armi quell'ultima notte della libertà lombarda: e combattendo il fuoco ed i nemici, con maravigliosa gara di pietà, soccorrevano i feriti, raccoglievano ed ospitavano le famiglie fuggenti dalla ferina caccia de' Croati, i quali, poiché avevano saccheggiata una casa ed incendiata, si postavano presso ad essa ad insidiare i soccorrevoli, a scannarli senza riguardo a sesso o a età, prolungando soltanto per le donne il supplizio per appagare prima i loro istinti brutali. Gli stridi delle vittime di tratto in tratto si facevano udire fra il continuato moschettare, a cui tenevano dietro le grida di viva Haynau! saccheggio ed incendio a Brescia! grida che i proconsoli del paterno regime austriaco facevano emettere da quelle belve ferocissime. Con viva all'Italia, rispondevano i nostri a quelle umane ecatombi.

Poco oltre il mezzo di quell'orribile notte si raccoglieva a consiglio il Corpo municipale, chiamandovi i più autorevoli cittadini, fra' quali alcuni della guardia nazionale, i duumviri Contratti e Cassola. Brevi parole vi si fecero. Parecchi, allibiti e disfatti, mostrando più colla mano che colla voce l'atmosfera ardente che soffocava la città, pregavano che si cedesse al destino. I più stavano sopra pensiero, come aspettando od ascoltando un'interna ispirazione; al di fuori s'udiva crescere ed avvicinarsi il crepito degli incendi, il rovinio delle case, il tuonare degli schioppi, il rintocco rabbioso delle campane, e quello che sopra ogni altra cosa trafiggeva il cuore, le grida di donne e di fanciulli e gli urli come di fiere, che ora parevano dileguarsi lontano, ora finire strozzati, ora scoppiare in sulla piazza del Municipio, secondo che il vento ne portava col fumo, e colle faville quel viluppo di suoni orribili e pietosi. «Dinanzi a siffatto spettacolo, scrive il Correnti, levossi taluno chiedendo gravemente se rimanessero armi, combattenti, munizioni e speranze. Rispose il Comitato di difesa: non essersi perduto un fucile: pochi dei combattenti caduti, e quei che rimanevano tanto più feroci e deliberati: le munizioni bastare per un giorno ancora: aspettarsi aiuti dalle valli e dal Camozzi che forse fra poche ore, o certamente entro il domani doveva capitare: della guerra grande non v'essere altre nuove dopo quelle dell'armistizio, che l'Haynau non aveva osato negare. I consiglieri allora considerando che se era cresciuto il pericolo, non erano però mutate le ragioni dei difendersi, decisero, che Brescia terrebbe finchè le avanzasse una cartuccia, od una speranza. E fu di subito codesta deliberazione notificata al popolo, che, raccolto sotto la loggia, confortava i suoi magistrati a pigliar per migliore il partito più onorevole.»

 

 

III

 

L'aurora della domenica, prima di aprile, spuntava scolorata. Non si udivano più gli inni patriottici, le grida di gioia, le manifestazioni d'entusiasmo: soltanto lo sconforto si leggeva nel volto dei cittadini. Non era che il potente braccio del popolo bresciano fosse infiacchito dalle bombe e dalle baionette: lo spettacolo della morte dei molti Martiri non aveva fatto che accrescere energia ai cuori audaci dei volontari della libertà: era il sentimento dell'umanità, sconosciuto agli Austriaci, che aveva trovato facile albergo ne' petti bresciani. Il martellare spesseggiava più furioso del dì innanzi; i cittadini si cacciavano dappertutto fuori delle serraglie ad assalire i nemici, a snidiarli da quei posti che avevano sorpresi durante la notte, e col favore degli incendi. Haynau meravigliò come Brescia ancora combattesse tanto arditamente; e ne furono sì sbigottiti i soldati, che a porta Torrelunga vennero in tanta confusione, che se i nostri fossero stati più numerosi e freschi, come erano intrepidi, forse ne usciva la salute dell'eroica città.

Schiere austriache si erano avanzate a scaglioni dal lato della Bruttanome, ed avevano piantati due cannoni per battere le interne barricate, quando ardimentosi cittadini colle baionette e colle picche erano sboccati per una via traversa, si erano avventati contro quelle con immenso impeto, avevano rovesciate le prime file, ed erano riusciti addosso ai cannoni, che i soldati avevano dovuto difendere coi loro corpi e tirare a forza di braccia fin presso le mura.

Questa fu l'ultima vittoria del popolo bresciano. Imperocchè in quell'istante istesso, in cui i soldati in sulle mura e a capo delle vie, storditi dell'irruente furia bresciana, cominciavano a piegare, nuove artiglierie e nuovi battaglioni giungevano dal Ticino e dal Mincio sotto la città, e l'Haynau li faceva subito entrare nella battaglia, che da quel punto egli condusse con arte veramente infernale. Schierate le artiglierie sulle mura, e agli sbocchi delle vie spaziose si davano gli Austriaci a mitragliare, affinchè i cittadini non potessero stringere d'appresso colle armi corte i soldati: poi, inquietando con falsi assalti e con rumore di moschetti i difensori delle barricate, di repente dirizzavano il cannone e l'impeto dei guastatori contro qualche casa, i cui muri sfasciandosi lasciavano accesso ai soldati, i quali vi irruivano, col ferro e col fuoco ove non era difesa alcuna. Trascorrendo e passando di casa in casa, uscivano a tergo o in sui fianchi delle serraglie meno munite, e mostrandosi improvvisamente alle finestre e di mezzo agli incendi, confondevano ogni ordine della difesa cittadina.

«A stravolger le menti ed agghiacciar nelle vene il sangue, così il Correnti nella sua terribile narrazione, s'aggiungeva la vista delle orribili enormezze, a cui o ebbri, o comandati, per natura stolidamente feroci gl'Imperiali trascorsero: cose che escono dai confini non pur del credibile, ma dell'immaginabile. Perchè non solo inferocirono contro gl'inermi, le donne, i fanciulli e gli infermi, ma raffinarono per modo gli strazii, che ben si parve come le umane belve anche in ferocia passino ogni animale.

Le membra dilacerate delle vittime scagliavano giù dalle finestre e contro le barricate, come si getta ai cani l'avanzo di un pasto. Teste di teneri fanciulli divelte dal busto e braccia di donne e carni umane abbrustolate cadevano in mezzo alle schiere bresciane, a cui allora parvero misericordiose le bombe. E sopratutto piacevansi i cannibali imperiali nelle convulsioni atrocissime dei morti per arsura; onde, immollati i prigioni con acqua ragia, li incendiavano; e spesso obbligavano le donne de' martoriati ad assistere a siffatta festa; ovvero, per pigliarsi giuoco del nobile sangue bresciano sì ribollente alle magnanime ire, legati strettamente gli uomini, davanti agli occhi loro vituperavano e scannavano le mogli ed i figliuoli. E alcuna volta (Dio ci perdoni se serbiamo memoria dell'orribil fatto) si sforzavano di far inghiottire ai malvivi le sbranate viscere dei loro diletti. Di che molti morirono d'angoscia e più assai impazzirono.»

E il popolo bresciano, ad onta dei nuovi nemici accorrenti da tutte le parti ad opprimere una città di soli trentacinque mila abitanti, ad onta della persuasione essere vano ogni ulteriore contrasto, ad onta degli strazi testè narrati e d'una imminente rovina, non si dava per vinto, durava fermo alle poste e combatteva. Nè ciò basta, chè, scorta la bandiera di pace, inalberata sulla loggia del Comune, strepitò sì fattamente, che fu forza rizzare di nuovo il vessillo rosso, segnale di guerra disperata. E siccome i nemici, incendiando uomini e case, sempre più si venivano allargando, levossi una voce a consigliare a' cittadini, che, messi colle loro mani in fiamme anche i quartieri del centro, si gettassero tutti, uomini e donne, col coltello in pugno a cercare in quel vasto baratro di fuoco i nemici, e a morire sui loro cadaveri. Ma fu chi sviò il popolo da quel tremendo consiglio, che avrebbe avuto compimento, ricordando che molte spie stavano tuttora impunite nelle prigioni. I più feroci trassero a quell'invito di sangue; e cavati di carcere alcuni tristissimi mezzani della inquisizione austriaca, li fucilarono, sfidando così i sovrastanti nemici. I nomi di quei rifiuti della società sono: un Imiotti, cursore di Polizia, un Sambrini, un Giovanni Marinoni, detto Brutto, ed altro agente di Polizia col soprannome di Menacò. Non crediamo tacere, affinchè non si abbia a dare a questo fatto maggior valore di quello che porti un trabocco d'indignazione, come la Commissione dei giudizi avesse di que' scellerati già formato il processo, e già deciso di dannarli alla pena capitale, quali felloni del popolo sicari dello straniero.

Mentre così la folla si diradava, parte correndo alle carceri, e parte traendo di nuovo alle serraglie per ringagliardire la difesa, il Municipio, nel timore che la moltitudine, cieca di ira e di giusto dolore, non incrudelisse contro sè stessa, accettò, anco dietro consiglio del prete Mor, l'offerta che gli fece il Padre Maurizio, priore de' Riformati, di interporsi paciere appo la Jena. Il valent'uomo ben sapeva come la cocolla non fosse obice troppo sicuro contro i Croati, tuttavolta si mise animosamente per la via del turrito covo, accompagnato da un altro frate, e preceduto da un tal Marchesini, mirabile popolano a cui l'amore di patria in quel dì supremo ispirò eloquenza di tribuno e coraggio di martire.

Più fiate venne inceppato il cammino al vessillo bianco dai soldati, che non volevano saperne di dar quartiere, e dai cittadini che non volevano nè impetrarlo, nè accettarlo. Pure al fine, dopo lungo rigirarsi e pregare riuscirono i messi al castello.

Il Padre Maurizio con quella autorità che gli concedeva di prendere la riputazione di eloquenza e di bontà in cui era tenuto da tutti, venuto innanzi all'Haynau, fece ogni prova per cavarne pronta e benigna risposta, e gli consegnò una lettera degli uffiziali austriaci prigionieri di guerra in Brescia, i quali pregavano il tenente-maresciallo a ricordarsi in che mani fossero, e per che cagione; e un foglio in cui il Municipio, significando che la città sarebbesi senz'altro contrasto rassegnata alla forza, chiedeva a quali patti si potesse cessare il macello. Haynau, duro e muto, non annuì neppure a comandare che durante il colloquio le armi posassero. Epperò ne venne che mentre i Bresciani, incorreggibilmente cavallereschi, sapendo salito il Padre Maurizio ai castello, e temendo per la sua vita, si conteneva dall'offendere gli Austriaci, questi, per lo contrario, trovate sprovviste o debolmente difese parecchie barricate, contro ogni legge di guerra, si avvantaggiarono per modo, e per tante vie si vennero distendendo, che si può dire senza esagerazione avere quelle poche ore di falsa tregua assai più nociuto a Brescia dei molti giorni di battaglia.

Intanto la spietata Jena lasciava, che il Padre Maurizio gettasse il fiato e le lagrime; e solo una volta con un cotal suo ghigno gli accennò la strada di Milano, che da quell'altezza tutta, finchè bastava la vista, si scopriva. In quella si scorgevano luccicare per lunghissimo spazio le baionette de' battaglioni accorrenti su Brescia. Infine, dopo quasi due ore, lo accommiatò con uno scritto, ove in mezzo a parole aspre e sconvenienti a tanta sventura e a sì alto valore era pur detto: Che nulla d'ostile avrebbero a soffrire i pacifici cittadini. Ne' termini a cui erano venute le cose, parve al Municipio di doversene contentare; e veramente la promessa, quantunque non portasse alcuna sicurtà, assai larga doveva giudicarsi, se quella parola d'onore che sanciva le minaccie, si aveva a tenere per buona e ferma anche a sancire le promesse. E benchè lo scritto del tenente maresciallo fosse duro e nimichevole, piacque tuttavolta al nobile orgoglio de' Bresciani, gelosissimi della fede loro; essi preferirono non fosse imposto, nè consentito alcun atto di soggezione, recandosi a gloria di essere trattati come nemici e come vinti, e non come servi perdonati e rimessi all'usato giogo. Le altre condizioni erano che si togliessero le barricate e si smurassero le porte; che niun cittadino uscisse armato o armato si affacciasse alle finestre; che quelle case da cui fosse partito un colpo sarebbero state rase; che sei ostaggi fra i principali della città rispondessero vita per vita dei prigionieri austriaci. Degli ostaggi non occorsero altre parole, avendo il Municipio, quando già i nemici di fronte alla loggia apprestavano le scale e le fiaccole, accettato gli altri patti dell'Haynau e resi i prigionieri.

Le condizioni della resa furono gridate per tutta la città; e vennero mandati parecchi cittadini bene accetti al popolo a divulgare la capitolazione e a predicare la pazienza e la prudenza. Quasi tutte le case ed i campanili misero subito fuori bandiera bianca; molte barricate furono disfatte; e molti cittadini, gettato in terra lo schioppo, corsero al Municipio, agli spedali ed agli incendi, offrendosi a servire la patria caduta ed umiliata, come l'avevano servita libera e gloriosa. Ma ai macellai sapeva amaro il cedere; questi, ridottisi tra porta Pile e porta san Giovanni, sostennero fino a notte una valida difesa; il che fu cagione di saccheggio e rovina, non solo a quella parte di città, ma ad altri luoghi, dove pure ogni contrasto era del tutto cessato. I soldati chiedevano, come premio lungamente promesso, saccheggi e carnificine; e l'Haynau glieli concedeva; e moltissimi uffiziali volontieri avrebbero tenuto loro il sacco.

 

 

IV

 

Le torme austriache si sguinzagliarono subito dopo la resa per le piazze e per le vie, gridando con efferata gioia: Viva l'imperatore, viva Radetzky, viva Haynau! Ma i cittadini, non potendo più rispondere a quegli insulti con colpi di moschetto, dimostrarono loro almeno che avevano aperte le porte alla forza brutale; ma che giammai il bombardatore fanciullo li avrebbe ridotti alla servilità di inchinarsi al suo nefando altare.

Lo stato maggiore mandò a chiedere al Municipio viveri ed alloggi; e non lasciò di far capire come i soldati fossero stanchi e riscaldati dalla lotta e dalle celeri marce nella speranza di saccheggiare la città. Il Municipio che, quantunque minacciato, per miracolo di virtù civile, non aveva abbandonato il posto, non sapeva come aderire alle domande degli Austriaci. Erano parecchi giorni che in Brescia non entravano più carni; e nella pressura dell'assalto non si era neppur pensato a far pane. Fuggiti o rintanati nei nascondigli i fornai, gli osti, i pizzicagnoli; morti od ancora ostinati all'ultima barricata i macellai; oscura la notte, spezzate le lampade, chiuse tutte le finestre, piene le vie di soldati, che, guidati dal sinistro chiarore degli incendi, traevano colle scuri a sfondare usci e botteghe; l'andare nelle strade portava pericolo di morte; per cui non si potevano neppure mandare avvisi, nè chiedere consigli, nè interporre le supplicazioni presso i generali, i quali, sia avanzo di pudore, sia arte di crudeltà, non si lasciarono trovare. Malgrado tutto ciò, il Municipio, a mezzo dei fornitori di viveri nel castello, provvide che si imbandissero per le vie quindici mila razioni di pane, vino e salumi. S'aggiunsero legna e strame in buon dato. Allora si accesero per la città i fuochi dei bivacchi, e intorno ad essi il tumulto barbarico e le gozzoviglie dei vincitori durarono sino all'alba.

La lunga agonia di quella notte non fu senza un ultimo raggio di speranza; imperocchè, in sulle undici ore, quando era dappertutto cessato ogni conato, i Bresciani, che, quantunque chiusi nelle più remote parti delle loro case, stavano tuttavolta vigili per timore d'una irruzione de' truci, udirono di repente a scoppiare e mano mano distendersi poco lungi dalla città, verso ponente, una viva fucilata. Durò quel tumulto, come d'un'avvisaglia d'avamposti, per alcune ore; poi svanì senza che altro per allora se ne sentisse. Seppesi poi che in quella notte si erano gli Austriaci azzuffati coi volontari di Camozzi e di Narducci, i quali, lasciata Bergamo quando già correvano tristi novelle della battaglia di Novara, e nondimeno deliberati di mettersi a qualsiasi rischio anzichè abbandonare i Bresciani, la resa dei quali ignoravano, erano per la strada di Fantasine pervenuti, con quasi ottocento uomini, e con un buon carico di polvere e di armi, in vista della città sul declinare della domenica, e si erano spinti con un'audace manovra e non senza sangue fino nel borgo di san Giovanni.

Se un tal Patuzzi, agente comunale, citiamo il nome a sua perenne infamia, non si fosse fatto delatore appo l'Haynau, col riferirgli come i posti avanzati del Camozzi fossero ad Ospedaletto del Mella, questi avrebbe potuto sorprendere gli Austriaci e rinfrescare la lotta. Disgrazia volle che oltre all'essere i volontari prevenuti, gli Austriaci ne trovarono l'antiguardo sorpreso nel sonno; essi lo cinsero e gli furono addosso uccidendo ventuno di que' generosi. Alla fucilata accorse il Camozzi; egli pugnò con estremo ardimento insino alla mattina, facendo non una volta retrocedere i nemici; ma saputo della capitolazione di Brescia, e come imponenti forze nemiche marciassero verso la città, riflettè che ormai non avrebbe potuto coi pochi suoi volontari occuparsi in imprese che rialzassero la bandiera italiana nella Lombardia; disciolse allora la sua gente e si congedò da loro.

In compagnia del generale Camozzi trovavasi un personaggio illustre per fama italiana, vogliamo dire il padre Massimino, uomo di vasta mente, di condotta rigorosamente evangelica, di cuore divampante d'amor patrio. Se il clero di Roma si componesse di sacerdoti simili al padre Massimino, l'Italia avrebbe ormai la sua capitale, alzerebbe le mani al cielo per ringraziare il Dio dell'amore e della fratellanza dei popoli.

Poco mancò che l'Italia non perdesse sotto le mura di Brescia questi due suoi prodi campioni, giacchè, essendosi avanzati in compagnia soltanto di un aiutante per osservare le mosse dei nemici, erano stati colti all'improvviso da un picchetto di cavalleria austriaca, che passò sul ponte sotto il quale essi ebbero appena il tempo di nascondersi. Fu al certo l'angelo della libertà che li salvò da quel pericolo.

 

———

 

Riferiamo alcuni fatti, i quali chiaramente dimostrano come i mercenari austriaci, lasciandosi uscire quasi sempre di mano i validi e i combattenti, si avventassero bramosamente contro gli infermi, le donne e i fanciulli.

La mattina della domenica, 1.° aprile, i Moravi dalla scala di sant'Urbano discesero dopo un fiero contrasto nel vicolo della Carità, e mandarono le case che erano lì intorno a fuoco ed a ruba; fra le quali era quella in cui un tal Guidi teneva un collegio d'educazione per fanciulli. Vi irruirono i soldati, non essendovi che la madre del Guidi, donna assai avanti negli anni, la moglie di lui e dodici alunni sotto la guardia di un servo. I saccomanni cominciarono a rompere, strepitare, minacciare, invano pregando loro d'innanzi le donne ed i fanciulli. Poi, cresciuto il furore, presero fra gli alunni il più tenerello di età, e lo sgozzarono. Il servo, che l'indegno strazio di quell'innocente non seppe sopportare, senza far prove di difenderlo, fu morto: e dopo di lui, le due donne e alla rinfusa quanti altri diedero nelle mani di quelle furie: appena alcuni di quei fanciulli furono salvati da un gendarme italiano. Di questo martirio andò subito il grido per la città; e benchè già a tutti e da tutte le parti sovrastassero supremi dolori, nondimeno fu grande la pietà delle molte madri accorrenti al Municipio per aver novelle de' loro figliuoli.

Più fiero fu lo strazio dei Parolari, mercanti onorati alle Cantarane, poco lungi da Torrelunga, nella cui casa entrati i dragoni il sabbato sera, ferirono di squadrone e lasciarono per morto il figlio Luigi, giovane d'animo prode, ma non atto all'armi per forte epilessia. I parenti lo portarono in camera, e tutta quella notte lo vegliarono, benchè le case e le propinque vie fossero in fiamme. Il mattino della domenica di nuovo irruirono i soldati, e strappato pe' capegli giù dal letto il moribondo, sconciamente lo percossero, sicchè appena la madre con lagrime e con industria di blandimenti e di doni ottenne che nol finissero. Ma poco valse; perchè quanti soldati passavano per quella via come a data posta traevano a pascersi del doloroso spettacolo; ed ogni fiata erano nuove ferite all'agonizzante, e nuove trafitture al cuore della madre, la quale, nè per minacce, nè per l'abbandono di tutti i suoi, mai si mosse di là, supplendo cogli atti, quando le mancavano la voce e le lagrime, di pregare in misericordia pella vita del figliuolo. Così dieci volte vide la derelitta co' propri occhi l'assassinio del suo sangue, finchè un croato suggellò quel lungo spasimo, freddando con un colpo di grazia il corpo mutilato e malvivo presso il quale l'amore materno pregava e sperava ancora.

Pietoso fatto fu anco quello della Piozzi, che, vecchia e inferma, trovossi di notte cacciata fuori da una sua villetta, ove ella viveva sui Ronchi, e tratta fra le imprecazioni e le minacce dei soldati, e obbligata a vedere dall'una parte l'incendio della città, e dall'altra parte la ruina della casa. Non è villanìa che non le facessero percuotendola e straziandola a diletto; e certo l'avrebbero uccisa, o lasciata morire di dolore e d'affanno in sulla nuda terra, se non erano alcuni contadini nei quali tanto potè la pietosa vista di quella canuta posta a sì indegno vituperio, che, fatto impeto d'improvviso, la tolsero di mano a' soldati e la condussero a salvamento in un seno più remoto di que' colli.

Il sacerdote Andrea Gabetti, maestro di scuola ed alienissimo dall'armi, appena gridati la domenica i patti della resa, si mosse inerme e sicuro verso porta Torrelunga, con animo d'uscire nel quartiere suburbano dove la notte prima aveva veduto, stando pur tuttavia in città, ardere poco fuori dalle mura una sua casetta, nella quale aveva la madre. Alla porta chiese dell'ufficiale, e chiaritolo del pietoso motivo che lo faceva andare, n'ebbe l'assenso. Ma non aveva fatto cento passi, che a gran tempesta fu richiamato, inseguito, preso e mandato all'Haynau in castello, dove, il dì appresso, come prete e come patriota, venne fucilato.

Pietro Venturini, uomo di legge assai popolare tra i Bresciani, grave come era per l'età e per la podagra, fu pur strappato inerme di sua casa e tradotto in castello. Quivi pressato con minacce a giurare la bandiera imperiale, si rizzò fieramente in mezzo alle baionette puntategli sul cuore, e imprecando ai nemici d'Italia, e mandando un saluto d'amore alla patria e alla libertà chiese ed ottenne di morire.

Carlo Ziga, lavoratore di cocchi, giovine vensettenne e sciancato della persona, fu ghermito dai Croati, e, bagnato d'acqua ragia, arso vivo, credendo i truci che il misero potesse spirare coi più risibili contorcimenti che mai. Se non che il forte popolano, avventatosi sul più prossimo e giubilante dei suoi manigoldi, lo abbrancò, e colla furibonda vendetta, lo tenne sì indissolubilmente avvinto che lo costrinse a morire con lui di morte aspra e crudele.

 

 

V

 

L'alba del lunedì, 2 aprile, rischiarando le opere della notte e destando alle usate cupidigie le soldatesche, crebbe orrore allo spettacolo della violata città e terrore negli abitanti. Quei pochi che si attentarono ad uscire delle case, inermi e in atto di supplichevoli, venivano minacciati, percossi, rubati; parecchi che recando il fucile disarmato ed arrovesciato verso terra s'avviavano al Municipio per liberarsene, furono in sull'atto fucilati, nè loro valse pregare e chiamare in testimonio Dio e i patti della resa. Per il che tutti, aspettando il saccheggio e la morte, stavano come la notte innanzi, rintanati ed agonizzanti. Non uscio, non bottega, non finestra aperta, se non dove divampavano gl'incendi, o dove erano entrati i saccomanni. Quasi in nessun luogo delle muraglie si potevano fissare gli occhi, senza vedere solco di palla o di scure, traccia di fuoco o macchia di sangue.

«Per le vie, narra il Correnti, smosso e spezzato il lastrico di granito, sconvolto l'acciottolato, mura squarciate dalle bombe, tetti crollanti, avanzi di barricate, che alle materie ricche talora e gentili di cui erano composte, e alla fretta con cui poi erano state atterrate e disperse ancora serbavano indizio del primo entusiasmo e dell'ultimo spavento; scarchi di stoviglie e d'arredi rotti e sperperati come dalla pazza furia d'un turbine; e qua e là cadaveri di Bresciani e di soldati già da molte ore insepolti; e talora gruppi di donne e di fanciulli accovacciati in qualche angolo remoto, fissi, muti, istupiditi, i quali dando immagine della morte dell'anima, erano più strazianti a vedere che i cadaveri. Gli incendi duravano tuttavia, e minacciavano di stendersi a tutta la città; nè le violenze dei soldati cessavano.»

Il Municipio domandò in carità che gli venissero restituite le macchine idrauliche, che come nobile trofeo di guerra, avevano nel dì 31 gli Austriaci menate via, e le ottenne. Domandò una guardia pel palazzo di città e pei suoi impiegati, che più fiate erano stati bistrattati dai soldati e perfino dagli ufficiali; e anche questo gli fu consentito. Allora si cominciò a rifiatare e a dare qualche provvedimento. Ma troppo più facile era frenare gli incendi, che ammansare gli inferociti vincitori, massime con animi sì ripugnanti alla viltà delle supplicazioni come sono i Bresciani; e con quel soprarrivare ad ogni ora di nuove truppe, le quali si sguinzagliavano per la città cavando da tutto pretesto di forzare le porte e d'insanguinare le mani. Così alcuni, da più giorni rimbucati per le cantine, furono allora malconci o morti. Nè i generali, nè gli ufficiali superiori si mostravano solleciti dell'onore o dell'umanità, se appena se ne eccettuino alcuni pochi. E tra questi vogliamo menzionare il colonnello Jellachich, il quale volle mostrarsi, fra compagni, umano. Narrano ch'egli, udendo minacciata da' suoi la chiesa di sant'Affra, ove si erano ricoverate molte donne, accorresse a guardia della soglia, che la religione avrebbe mal difesa, e vi rimanesse supplicando finchè i suoi non furono passati oltre. Anche parecchi altri ufficiali, che nel verno avevano avuta le stanze in Brescia, accorsero per salvare dal sacco le case degli ospiti. Ma l'Haynau non diè segno alcuno che il valore, la sventura e l'aperta giustizia della causa avessero ammollito la sua ferocia; sicchè parve piuttosto aver l'animo di vendicarsi che a vincere e a governare.

Quel lunedì, quasi per sopraggravare i dolori dei Bresciani, la Jena mandò fuori un bando con cui multava la provincia di sei milioni di lire, e la città, due volte ribelle, d'una tassa di trecento mila lire destinate a compenso e premio degli ufficiali. Poi il comando della città affidò al tenente maresciallo Appel, il quale alle due pomeridiane entrò in Brescia alla testa del terzo corpo di armata, composto di venti battaglioni con cavalleria e cannoni, borioso di essere stato vincitore a Novara, e chiedente con ansia che quella sua gloria gli fosse pagata in licenza ed in sangue!

Il Sangervasio ed i suoi due assistenti accorsero a lui, sebbene non fosse senza loro pericolo, e modestamente ricordarono all'Appel, essersi la città data sotto fede che si sarebbero rispettati gl'imbelli, i rassegnati e gli inermi; epperò pregavano che si frenasse la licenza militare, che le porte e le vie della città si liberassero ai commerci, e che anche nel punire non si procedesse più a capriccio e a furore de' soldaiti. Aspramente rispose Appel: «Non essere tempo di misurati consigli, ma di rigida giustizia; i municipali non a parlar di patti e a muover querele, ma pensassero invece a dargli in mano i capi-popolo, o a denunciarglieli; a far subito sparire ogni traccia delle infami barricate, a riaprir le botteghe, a rassettare il selciato. Conceder loro per questo un termine di 6 ore, e facoltà di usar coi renitenti la forza e le pene; badassero però che anch'essi colla forza e colle pene sarebbero stati astretti a compiere l'ufficio loro

Così li accommiatò minacciando. Poco dopo il Sangervasio, avuto per indizi e per avvisi, certezza, che volevano arrestarlo, dovette trafugarsi fuor di città. Rimasero i due suoi colleghi, i quali con bandi e con messi sollecitarono i bottegai a riaprire i loro fondachi, mostrando come quella chiusura irritasse il nemico e offrisse pretesto d'usare violenza. Ma più di questi conforti valse il pensiero di assoldare sentinelle e postarle a guardia delle botteghe, frenando così colla religione della disciplina quelle orde ubbriache di sangue.

Intanto alla tumultuaria carnificina, succedeva, nuovo argomento di terrore, la carnificina ordinata. Svanera e Siccardi, famosi sgherri di polizia, appena liberati dalle prigioni, ove il popolo aveva loro perdonato la vita, entrarono in caccia: e quanti si fossero in voce o di più caldi amatori della patria, o di più intrepidi al fuoco venivano fiutati, cercati, e, se per loro mala ventura presi, erano nel giro di poche ore tratti in castello o nelle caserme, bastonati, martoriati, e infine fucilati e buttati nelle fosse o sotto i bastioni, ove per più giorni se ne lasciavano insepolti i cadaveri, affinchè servissero di salutare terrore.

Mal si potrebbe dire quanti a questo modo mancassero; ma la fama li reca presso ad un centinaio. Infine tre giorni dopo, alle reiterate supplicazioni del Municipio, il tenente maresciallo Appel promise, e gli parve clemenza, che «da quel dì in avanti nessuno più sarebbe passato per l'armi senza i soliti processi.» Tanto s'erano gli animi spaventati, e le menti alterate che, parve un beneficio il tornare alle enormezze de' giudizi marziali.

«E veramente, scrive il Correnti, in questo fatto di Brescia, quasi come in ultimo schianto di tutte le passioni buone e malvagie che si erano andate ingrossando durante la guerra italiana, trasmodò per modo l'umana natura così in bene, come in male, da toglier fede a chi debba narrarne con tocchi rapidi e riassuntivi.»

Che i soldati austriaci, anzichè infrenati, venissero eccitati dai capi a incrudelire spietatamente contro gli abitanti, possiamo chiarircene leggendo la relazione dell'atroce Haynau. «Quando io vidi, scrive egli, che già moltissimi dei nostri erano caduti, e che nè per la tempesta incessante delle bombe, nè per l'assalto generale s'allentava il furore dei cittadini, che duravano pertinaci alle difese, diedi mano gli estremi argomenti di guerra, comandando che più non si ricevessero prigioni, e che in sull'atto si facesse macello di quanti fossero presi coll'armi indosso, e le case, ove si trovasse contrasto, venissero arse e spianate.» Quest'era la legge di guerra del tenente maresciallo austriaco; ed egli stesso poi confessa che i soldati nel calore del fatto trascorsero più oltre, e diedero in eccessi. Pensino i nostri lettori di qual natura saranno stati questi eccessi, se tali parvero al truculento Haynau. E un tal uomo, chiamato dall'austriaco imperatore suo benemerito, veniva dal medesimo mandato tosto dopo a rizzare le pericolanti sorti dell'impero in Ungheria; e come sotto le mura di Brescia, pur quivi il suo cuore fu chiuso ad ogni senso di pietà([20]).

Comechè la sfrenata licenza dei soldati avesse per modo inorriditi i cittadini, che non pochi si precipitarono alla fuga da incredibile altezza, o cercarono morte più riposata buttandosi sulle armi nemiche, tuttavia, anco in mezzo allo spavento ed al furore che suole aizzare gli uomini, si vide sempre segno della forte ed amorevole natura del popolo bresciano.

Alle famiglie cacciate dalle loro case e raminghe per le vie, ai fuggenti, ai proscritti non furono mai chiuse le porte dai cittadini, quantunque non si potessero aprire senza pericolo di vedere irrompere dietro gli inseguiti i persecutori. Anzi in quei dì nefasti pareva che niuna altra gloria conoscessero i Bresciani e niun'altra consolazione volessero se non quella d'ospiziare qualche Martire della patria; e molte famiglie, che prima erano sembrate tiepide alle speranze, si mostrarono ferventi ai pericoli colla carità. E se ne videro esempi notabili anche nel saccheggio. Imperocchè avendo i soldati aperto delle loro ruberie un mercato fuori di porta Torrelunga intorno al Rebuffone, molti accorsero a comperare, fingendo d'esservi tirati dall'ingordigia del buon prezzo in cui quegli oggetti erano venduti([21]); e acquistato che avessero alcun che andavano cercando i danneggiati e a loro restituivano il mal tolto. E fra gli altri moltissime robe ricomperò e diligentemente restituì una ostessa, che, come bella e giovane, era stata dai soldati trascinata fra le prede, e che, senza lasciarsi avvilire dalla vergogna e dal dolore, volse la sventura propria in soccorso de' suoi fratelli.

«E certo, scrive il Correnti, a frenare gli animi indomiti più valse la pietà, che la paura. E pur troppo spesso nelle case del popolo gli uomini dopo avere per carità delle donne e dei figli patito alcun tempo l'oltracotanza dei nemici, vinti ad un tratto da qualche più acerba trafittura, riafferravano le armi e morivano vendicati. Spesso anche i cittadini, che da più ore s'erano abbarrati nelle loro case, uscirono fuori di nuovo ai pericoli per soccorrere feriti, od accorrere agli incendi. Perchè è da notare che anche in questo estremo i Bresciani sdegnosamente rifiutarono che gli stranieri mettessero mano a soccorrere la città dopo averla rovinata; ed una volta che i soldati fecero vista di mescolarsi coi cittadini per combattere le fiamme che minacciavano d'incenerire tutto un quartiere, furono accolti con imprecazioni e con atti di orrore, sicchè dovettero restarsene.»

Dieci giorni durò Brescia in sull'armi, spesso vincente e non vinta affatto se non colle insidie. Caso unico negli annali guerreschi, ove, si pensi che la città, popolata, come abbiamo più sopra notato, di soli trentacinque mila persone d'ogni sesso e d'ogni età, aveva confitto nei fianchi il castello devastatore, e di più in sulle porte l'oste nemica, che crescendo man mano, in sull'ultimo toccava le venti migliaia di soldati stanziali. A questi appena appena si opposero due in tre migliaia di fucili in mano di cittadini e di valligiani nuovi tutti alla guerra, se ne togliamo le bande dei disertori; il resto sassi, tegole, coltelli. Lontani i patrioti più autorevoli, lontana tutta la gioventù più animosa e più esperta dell'armi, scarso l'erario, le mura indifese, non un cannone, nè un nodo di milizie regolari, nè un ufficiale di esperienza, col quale consigliarsi. E nondimeno o sul campo, o di ferite negli ospitali morirono 1514 nemici; e fra questi un tal numero d'ufficiali, da provare qual fosse l'accanimento nel combattere e il terrore del soldato, a muovere il quale, dopo ch'ebbe assaggiato di che sapessero i Bresciani, bisognarono stimoli di fieri castighi, di insolita emulazione e d'infami promesse. Fra i morti 30 ufficiali, tre capitani, un tenente colonnello, due colonnelli e il generale Nugent. Nel giorno 17 gli Austriaci contavano ancora più di seicento feriti nei tre ospitali.

Più fiate il castello saettò l'incendio e la morte sulle case cittadine, delle quali trecento furono consunte dal fuoco, o guaste; e il danno passò i dodici milioni di lire. Piovvero mille seicento bombe e palle: alcune di pietra, le quali, furono dal Leshke gettate per sordidezza. I vincitori, non contenti alle multe, ai danni dell'incendio ed alle tasse di guerra di sei milioni e mezzo, mandarono al Municipio la polizza dei proiettili e della polvere, chiedendo che la città ne pagasse le spese.

I circa seicento Bresciani che morirono (e più di metà furono donne, fanciulli o inermi presi e martoriati a furore, ovvero assassinati dai giudizi militari a dispetto delle condizioni della resa) furono spazzati via alla rinfusa; e di molti non si trovò il nome o il cadavere.

Consci d'aver dato al mondo un magnanimo esempio, i Bresciani non ruppero al fiero colpo in discordie e in calunnie. E sì che avrebbero potuto con troppa apparenza di ragione dirsi tratti in errore da coloro, che, promettendosi miracoli dall'esercito piemontese, avevano mosso quella pratica esiziale. Ma all'incontro, ricordandosi soltanto che le speranze erano state comuni, e abborrendo dal volgere, secondo il capriccio della fortuna, in colpa ed in biasimo quello che prima a tutti pareva merito e lode, non pensarono neppure un momento a gridare traditori, quelli che l'Austriaco cercava a morte. Anzi tutti d'accordo e principalmente i macellai e gli operai minuti, s'adoperavano anco col rischio di vita, a trarre fuori delle porte e a calare giù delle mura i più noti autori della sommossa, quelli stessi che i sobbillatori e le spie dell'Austria con quell'arte vecchia, che pur troppo, anco in questi dì venne posta in opera per gettare scissura fra noi, accusavano al popolo come macchinatori delle sciagure che aggravavano su Brescia. Onde l'Haynau e l'Appel, per vigili che stessero, non ebbero in mano altro che uomini, i quali non avevano preso parte alcuna a preparare o a dirigere i fatti. Ciò non tolse ai due generali d'incrudelire e allora, e poi; come mostrò l'infame processo del luglio, pel quale dodici popolani, quando già tutta Italia era prostrata e quattro mesi erano corsi sul primo furore delle vendette, furono sentenziati a morire della morte dei ladri. Dodici forche furono rizzate in fila sui baluardi al cantone Mombello in vista dei Ronchi, della città e di quella porta di Torrelunga, ove tante volte i Bresciani avevano con liete grida invocato il Dio della libertà e della vittoria.

 

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Fra un popolo di cotanto eroismo, come quello di cui abbiamo narrato le gesta, non mancarono uomini vili, che cercarono di disonorarlo col mostrare al mondo come esso si trovasse pentito della fatta rivoluzione e che a questa fosse stato travolto soltanto da pochi pazzi, andando, dietro proposta del famigerato Zambelli, in commissione a Vienna per impetrar grazia dall'Imperatore. I Bresciani non potendo protestare altamente contro l'illegale atto, vollero gli emigrati della vinta ma non doma città, residenti in Isvizzera, pubblicare lo scritto, che qui riportiamo, il quale fa conoscere come la sventura non aveva potuto avvilire i petti bresciani.

 

PROTESTA.

 

..... l'8 giugno 1849.

 

«Perchè una Commissione rappresenti legalmente ed equamente una nazione, in ispecial modo quando si tratta del suo onore, non solo deve averne da essa il mandato, ma deve inoltre essere coscienziosamente persuasa che il di lei voto è quello della massa, giacchè senza il primo requisito, la Commissione sarebbe illegale nella sua rappresentanza, senza il secondo, il di lei operato sarebbe iniquo. Ora la Commissione, composta dei cittadini bresciani Giovanni Zambelli, Faustino Feroldi e Camillo Palusella, partita da Brescia per Vienna a riconoscere l'imperatore fanciullo Francesco Giuseppe I, ed impetrar grazia da lui per averlo offeso colla rivoluzione, mancherebbe di entrambi questi requisiti, e perciò la si dichiara illegale ed iniqua

«È illegale, perchè, non solo la Congregazione provinciale che la nominò, dietro proposta del famigerato austriacizzante Zambelli, non poteva avere, nè aveva facoltà di rappresentare il principio nazionale, perchè affatto indipendente dalle mansioni relative alla sua istituzione, ma perchè ancora i pusillanimi cittadini che componevano quella Congregazione non potevano emettere un libero voto sotto la diretta influenza delle baionette austriache, pronte a ferire ove diversamente si fossero espressi.»

«È poi iniqua la commissione, perchè il voto della nazione assolutamente contrario al di lei mandato. E ciò chiaro si appalesa dalla generale rivoluzione del passato anno, riprodotta non ha guari dai Bresciani colla più disperata resistenza, dimostrando in tal modo che fra essi e gli Austriaci non v'ha più transazione, ma che si tratta di vita o di morte; e si manifestò inoltre colla universale riprovazione che susseguì alla nomina della Commissione stessa.»

«In vista di ciò, gli emigrati bresciani, interpreti del vero sentimento della nazione, e come i soli che possano liberamente esprimerlo,»

1.° Protestano altamente in faccia ai popoli d'ogni nazione contro l'operato qualsiasi della Commissione bresciana diretta a Vienna allo scopo di patteggiare vilmente coll'imperatore fanciullo Francesco Giuseppe I, per essere stata la Commissione istessa illegalmente costituita, e per essersi assunto un mandato contrario al voto della nazione;

2.° Dichiarano e sostengono che la provincia di Brescia non perde punto del suo onore nazionale per il fatto illegale ed iniquo della Commissione stessa;

3.° Manifestano la più sentita disapprovazione contro la Congregazione Provinciale, che per vigliacca condiscendenza agli aggressori della nostra patria si lasciò indurre alla nomina di quella Commissione;

4.° Abbandonano all'esecrazione universale gli individui componenti la Commissione, per avere rinnegata la loro patria, cercando di stuprarne l'onore, che i loro concittadini resero sì bello col proprio sangue.»

 

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Gli uomini che hanno fede soltanto in ciò che vedono e che toccano; quelli la cui religione è materia e calcolo, tanto che vorrebbero gettare ghiaccio e chiudere un abbaco fin dentro al divampante cuore del popolo; i pochi di spirito che vorrebbero le rivoluzioni misurate a compasso e che presumerebbero fare l'economo agli slanci popolari, questa gente, che è quanto codarda, altrettanto inetta a capire i grandi problemi dell'umanità, nella caduta di Brescia non vide che quello con cui finiscono le vittorie austriache: oro espilato e vittime massacrate. Il popolo per lo contrario scôrse nel mezzo delle grandi rovine della patria, il grande compenso; misurò le sue forze, sentì la sua potenza, acquistò la sicurezza per l'avvenire; e, superbo della sua opera, per dodici anni nudrì ed espresse un sempre crescente odio allo straniero. Noi teniamo poi per fermo che abbia di molto operato sul cuore non solo dei Bresciani, ma di tutte le genti italiane, lo spettacolo d'un popolo che si dibatte per dieci non interrotti dì colle smisuratamente superiori forze nemiche, e l'un di più che l'altro progredisce nella disperata lotta, e cade schiacciato soltanto dallo sterminato numero, ma pur contando, sopra una delle sue, dieci delle vittime nemiche. La grandezza delle tradizioni e degli esempi hanno sempre gran parte nella riabilitazione dei popoli. Le rivoluzioni di Brescia, di Milano, di Bologna e delle altre città italiane s'ebbero i loro frutti; ne scorgiamo il genio in tutti que' portentosi avvenimenti che vennero succedendosi ne' giorni dell'oggi; e quella fiamma di cui tutta Italia è invasa, la chiamiamo fulgidissima favilla di quelle rivoluzioni.

Concluderemo dicendo che i dieci giorni di Brescia verranno mai sempre ricordati ad onore perpetuo di quella generosa città, ad infamia perenne de' suoi scellerati carnefici.

 

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Le ossa delle vittime dell'insurrezione bresciana inonoratamente sepolte dall'austriaca vendetta, vennero ricuperate dietro accurate indagini d'una Commissione istituita da quel Municipio, e, come cosa santa, con trasporto d'amore, collocate nel pubblico cimiterio.

La mesta e solenne cerimonia del trasporto delle ossa, ebbe luogo il 1.° aprile 1861. Meglio che alla nostra parola a descriverla, noi diamo luogo ad una peregrina narrativa che il bresciano scrittore Federico Odorici gentilmente ci inviava:

«Alcuni scheletri dissepolti nell'ultimo recinto del castello, e che si tennero dapprima miserande reliquie di fucilati del 1849, furono causa di più minute ricerche. Perchè destatasi dal fatto l'attenzione del Municipio e del Circolo Nazionale, una Commissione da quest'ultima eletta, ritrovate quell'ossa di lunga mano più antiche, fu dal Circolo incaricata della indagine di altre, che veramente sapevansi colà disperse, di molte vittime cadute nell'eroica resistenza, che apprese al Leshke ed all'Haynau di che sapessero l'armi nostre.

«Rinvenuti i luoghi che la pietà cittadina aveva già designati come deserte sepolture di quegli assassinati, la nostra Giunta delegava (13 marzo) il conte Gerolamo Fenaroli, il dottor Lodovico Balardini, l'ing. Bortolo Peroni e Federico Odorici, perchè sopravvedessero al disterramento ed al trasporto nel patrio cimiterio dei martiri della nostra indipendenza.

«La disumazione fu principiata in castello il 19 marzo nella cannoniera sotto il torrione così detto dei Francesi. Vi si rinvennero quattro cadaveri barbaramente fracellato il cranio da gravi pietre scagliate loro prima ancora che la terra ne li coprisse. L'una di quelle vittime sembra non spirasse che a quest'ultimo colpo di tedesca rabbia, perchè ci apparvero spalancate le mascelle e schiacciata la fronte sotto il largo sasso. Il poveretto, nelle prime esultanze della rivolta, poneva all'abito bottoni dorati del 1797 recanti il moto Guardia Nazionale Bresciana, e quel moto fors'anche gli costò la vita.

«Il giorno appresso venivano dissepolte l'orsa dei fucilati lungo gli spaldi del Ravarotto. In quattro fosse, così com'erano rimescolati alla rinfusa, e nelle strane guise in cui giacquero, buttativi dentro dall'ira croata, emersero le reliquie di trentadue cadaveri: nè fu cuore dei presenti a quell'orrida scena, che non fremesse di sdegno e di pietà. - Era austriaca sepoltura.

«Per quanto difficile riuscisse alla Commissione discernere ed appartare gli scheletri, una scarpa ed una fibula da prete additarono quello di Andrea Gabetti, come una suola di femminile calzatura e l'ossa delle pelvi designavano i resti d'una donna massacrata coi dodici che nel tumulo rasente alla cinta di S. Giulia furono rinvenuti. Nessun indizio positivo distingueva del resto di tanto salme, quella di Francesco Canobio, mitissima ed innocente creatura; di Pietro Venturini, che terrore de' suoi carnefici, moriva imprecando alla tedesca immanità; di Cesare Nullo, che ferito com'era, fu colà trascinato perchè le palle nemiche troncassero nel fiore delle speranze una giovane vita.

«Se i due comaschi ciotolai, giustiziati nelle fosse del castello a destra dell'ingresso, furono tosto rinvenuti, più difficili tornarono le indagini nella Rocchetta di S. Chiara, dove soltanto al terzo dì si discopersero le spoglie di Pietro Boifava, Sotero Bresciani, Dionisio Donabini, Filippo Franzoni, mentre nel piano di fronte ai magazzeni del Forno di Castello, a rintracciarsi le reliquie del prete Attilio Pulusella e di Luigi Usanza, riuscirono vane investigazioni più rigorose ed insistenti.

«Terminato quel triste ufficio che allo squallore di profana terra toglieva i resti di tanti martiri della bresciana libertà, la Giunta Municipale annunciava la pompa del trasporto, mentre la Commissione volgevasi con altro appello a tutte le classi lavoratrici: a quella massa potente dai terribili commovimenti, che nelle grandi sventure sostenne frequenti volte le nostre sorti, e sempre la dignità del nostro nome. E quell'appello fu inteso; e più di due mila popolani accorsero dimandando al Circolo Nazionale i moti e le bandiere dell'arti.

«La funerea cerimonia doveva compiersi al 1° di aprile, ricorrenza gloriosa della nostra insurrezione, cui le attonite città chiamarono salvatrice dell'avvenire. Quel mattino volgeva mesto e piovoso; ma l'onda dell'affluente moltitudine, lo spiegarsi delle bandiere e il divisarsi a lutto delle contrade dava imponente aspetto di popolo chiamato ad un convegno fraterno, nè d'altro compreso che del compimento di una sacra ed antica promessa.

«La Guardia Nazionale sfilata nella piazza del Duomo, e nella via di Broletto le ventinove Corporazioni dell'arti aspettavano il convoglio che lentamente si avvicinava, e che arrestatosi di fronte alla cattedrale, cessato il rito con cui la religione saluta le ceneri dell'uomo, s'era messo nel centro del grave corteggio, per modo che, precedute dai nostri Bersaglieri e da una banda musicale, venivano l'arti schierate a compagnie, distinte dalle loro bandiere; poi gli animosi Garibaldini; e recante l'impresa, di cui ben presto non avrà più bisogno:

 

«V'aspettan frementi

«Le oppresse città»,

 

la veneta Emigrazione, e dietro ad essa le singole rappresentanze dell'arti e delle industrie provinciali.

«Era il convoglio come di ricco mausoleo. Otto genii, colle faci arrovesciate, seduti appiè del monumento, erano simboli del nostro dolore. Sovr'alta base decorata dell'armi sabaude e cittadine, fiancheggiata dalle italiche bandiere e di funerei vasi, era l'urna dei martiri. Il Bresciano lione posava sull'urna e gli sedeva sul dorso mestamente raccolta la immagine di Brescia, che fiera de' suoi martiri porgea, spezzate per essi, le catene dell'antica servitù. Quattro consiglieri della città ed altrettanti ufficiali della guardia cittadina reggevano i cordoni del feretro, che, trascinato da sei cavalli coperti di gramaglie, cui moderavano vestiti a lutto sei palafrenieri, traspariva da un ampio velo che leggermente ne l'avvolgeva. Ai lati del monumento leggemmo le parole — Vittime della patria libertà — Caddero senza vanto ma da forti. Dietro al carro procedeva col Sindaco l'intero Corpo municipale, e col governatore l'altre civili e provinciali rappresentanze, quelle dei Circoli, del Commercio, della pubblica Istruzione, dei molti Comuni del piano e delle valli, accorse volonterose al commovente rito; nè mancarono sacerdoti che dividessero con noi quest'ultimo saluto ai fratelli caduti. Sei bande musicali empievano frattanto di mestissime armonie le contrade silenti, eppur stipate di popolo, mentre dalle finestre cadevano fiori in sulla tomba, e più d'un volto immoto su di lei, come di vinti dalla piena di commozioni profonde, si rigava di pianto. Il corteggio era chiuso dall'intera Legione della Guardia Nazionale.

«Tra le bande Musicali quella di Breno attrasse i nostri sguardi. La ricca e fantastica sua divisa di velluto nero a candidi cordoni, armonizzava colla mestizia della pompa; se non che la breve tunica stretta al fianco da una sciarpa azzurra che dall'un capo libera scendeva, e un non so che di spigliato ritraente del bersagliere, le dava carattere alpigiano ch'era nuncio dei luoghi da cui veniva, i quali a noi per secoli congiunti di lingua, di costumi, di glorie e di sventura, a noi tolti sul principiare del secolo, ridati ora dalle sorti mutate, riconsacravano in quel giorno, dodici lustri, sull'ossa dei nostri martiri la fratellanza antica.

«Giunto il convoglio di fronte al camposanto, il cui viale era messo a cippi ed are e serti di fiori, o confaloni divisati a corruccio, ritrovò già sfilate a riceverlo le compagnie dell'arti, mentre la Guardia Nazionale col tuono delle artiglierie e coi fuochi di fila egregiamente riusciti, ne salutavano l'arrivo.

«Finalmente, dall'alto della tribuna, suonò poderosa la parola del nostro Salvoni, che trasfuso negli animi commossi l'entusiasmo del suo, vi destò sentimenti ed affetti, a ciascuno dei quali rispose un palpito dei nostri cuori. E quando facevasi promettitore, che la virtù dei figli sarebbe stata degna dell'olocausto dei padri, lo giuriamo, gridò una voce solitaria emersa dalla calca; e il forte grido corse vibrato per la vasta moltitudine come un eco solenne e per poco la sacra dignità di quell'istante non fu vinta dal prorompere impetuoso d'una di quelle manifestazioni, che nei popoli concitati hanno sempre un non so che di sublime e di tremendo.

Sulla porta del tempio, dettata dal conte Lechi, era la bella epigrafe:

 

RITI SOLENNI

PER L'INUMAZIONE DELLE OSSA DEI NOSTRI FRATELLI

CHE L'AUSTRIA RABBIA

ASSASSINÒ E SEPPELLÌ A GUISA DI BELVE

IN POCA TERRA

SCAVATA DALLE MANI STESSE DEI MISERI.

 

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DIO VINDICE E LIBERATORE

CHE NELLA TUA MISERICORDIA

BENEDICI AI POPOLI REDENTI

ACCOGLI LE PRECI E LE LACRIME DEI BRESCIANI

PER QUESTI MARTIRI

CHE NELL'AGONIA IMPLORAVANO QUELLA GIUSTIZIA

CHE CI DIEDE ALFINE UNA PATRIA.

 


 

MARTIRI DI BRESCIA

 

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Brescia nel 1836, colpita dal flagello del cholera, erigeva piamente nel suo cimitero un cenotafio comune, ove tutte sono ricordate le vittime del contagio; noi siamo sicuri che, non andrà molto, essa porrà una colonna votiva a commemorazione dei Martiri suoi. Frattanto con religioso sgomento qui trascriviamo i nomi che si sono potuti ricavare. Alle vittime ignote, che non hanno lasciato che un brano di cadavere irreconoscibile, e forse un'angoscia segreta in qualche umile cuore, provvegga la giustizia di Dio!

 

1.    Albertani Angelo, di Brescia, massacrato.

2.    Anderloni Faustino, id., d'anni 45, massacrato

3.    Angeli Andrea, idem, d'anni 62, agricoltore, massacrato.

4.    Apostoli Tommaso, idem, morto all'ospedale per ferita di bomba.

5.    Archetti Domenico, idem.

6.    Arrighini Federico, idem, morto per ferite.

7.    Arrighini Rosa, idem, d'anni 30, cucitrice, ferita in sua casa, poi morta.

8.    Baronio Pietro, idem, d'anni 40, cuoco, preso e fucilato in castello.

9.    Bassi Pietro, idem, d'anni 15, preso e fucilato in castello.

10. Beccaguti Vincenzo, idem, d'anni 52, massacrato.

11. Bellini Giovanni, idem, d'anni 48, cuoco, morto all'ospedale per ferite.

12. Berardi Pietro.

13. Bernasconi Antonio, idem, d'anni 38, muratore, massacrato dai soldati in cantina.

14. Berti Bortolo, idem, d'anni 48.

15. Bertolani Antonio, idem, d'anni 51, muratore, ucciso.

16. Bertolani Giuseppe, idem, d'anni 27, muratore, figlio del suddetto, ucciso.

17. Bertolani Giuseppe, idem, d'anni 25, muratore, figlio del suddetto, ucciso.

18. Bertua Giovanni, idem, d'anni 48, oste, preso in sua casa e fucilato sugli spalti dai soldati.

19. Bettini Marco.

20. Boggiani Faustino.

21. Bonata Pietro, idem, d'anni 20, morto per ferite all'ospedale.

22. Bonduri Andrea, idem, d'anni 39, prestinaio, ucciso in sua casa, ammogliato e padre di tre teneri figli.

23. Bonfanti Gio. Battista, idem, d'anni 49, sarto e possidente, massacrato dai soldati che invasero la sua casa.

24. Bonservi Giovanni, di Milano, d'anni 57, indoratore, morto per ferita al braccio sinistro.

25. Braga Pietro, di Brescia, d'anni 15, ucciso dai soldati.

26. Bracchi Carlo, idem, d'anni 32.

27. Bresciani Angelo, idem, d'anni 29, ucciso dai soldati.

28. Bruschi Giuseppe, morto all'ospedale per ferite.

29. Buffi Gio. Antonio, idem, d'anni 49, calzolaio.

30. Calabi Carlo, idem, d'anni 35, negoziante israelita, morto per ferite.

31. Calzavelli Margherita, idem, d'anni 70, uccisa dai soldati.

32. Capellini Giovanni, idem, morto per ferite.

33. Carobi Pietro, idem, d'anni 67.

34. Cassamali Giuseppe, morto per ferite.

35. Chiodo Pietro, di Bedizzole, d'anni 25, farmacista, morto in combattimento.

36. Chiodo Gio. Battista, idem, d'anni 20, studente, fratello del suddetto, ferito in ambe le braccia, ed amputato che ne moriva.

37. Cominardi Vincenzo, morto all'ospedale per ferite.

38. Conti Gaetano, di Brescia, d'anni 39.

39. Corsetti Antonio, di Gargnano, d'anni 18, studente, morto in combattimento.

40. Costa Giacinta, di Brescia, d'anni 88, uccisa dai soldati.

41. David Carlo, idem, d'anni 46.

42. Duina Gio. Battista, idem, d'anni 46, ucciso dai soldati.

43. Eretico Gio. Battista, d'anni 56.

44. Ferrari Luigi, idem, morto all'ospedale per ferite.

45. Ferretti Giuseppe, idem, d'anni 17, vetturale, ferito in fronte da una palla e morto.

46. Filippi Andrea, d'anni 60.

47. Fogliata Gio. Battista, morto all'ospedale per ferite.

48. Francinelli Pietro, idem, d'anni 48, ucciso dai soldati.

49. Franzoni Benedetto, idem, d'anni 29, macinatore.

50. Franzoni Gio. Battista, idem, d'anni 31, agente di negozio.

51. Gabaglio Fedele, idem, d'anni 66, muratore, massacrato dai soldati nella sua cantina dove si era nascosto.

52. Gabaglio Francesco, idem, d'anni 24, massacrato come sopra.

53. Gabetti Andrea, di Urago Mella, d'anni 41, sacerdote, prese inerme a porta Torrelunga e fucilato il 1° aprile in castello.

54. Gazzoli Pietro, di Volta Bresciana, d'anni 35, agricoltore.

55. Genovesi Girolamo, morto all'ospedale per ferite.

56. Gherber Alberto, svizzero, d'anni 19, cameriere, gettato dalla finestra dai soldati che ne invasero la casa, moriva.

57. Gigalini Gio. Battista, di Brescia, d'anni 29, barbitonsore.

58. Giacomini Francesco, idem, d'anni 32.

59. Giuliani Giuseppe, idem, sarto, colpito da una bomba, moriva.

60. Godi Giovanni, idem, d'anni 39, ucciso dai soldati.

61. Grassi Giovanni, idem, d'anni 32, prestinaio.

62. Guerrini Cesare, idem, d'anni 23, dottore in legge, ferito al ginocchio in combattimento, fu amputato, e moriva.

63. Guerrini Paolo, idem, morto all'ospedale per ferite.

64. Guerrini Carlo, idem, d'anni 44.

65. Inselvini Gio. Battista, idem, d'anni 32, oste.

66. Lecchi Benedetto, idem, d'anni 72, falegname, massacrato in sua casa.

67. Locatelli Francesco, idem, d'anni 68, ucciso dai soldati.

68. Longhi Innocente.

69. Lovatini Temistocle, idem, d'anni 19, studente, ferito, fu fatto prigioniero e fucilato.

70. Lumieri Giovanni, idem, d'anni 40, sensale.

71. Maffezzoni Giuseppe, idem, d'anni 66, domestico, ucciso dai soldati.

72. Marti Giuseppe, d'anni 55, agricoltore.

73. Mazza Angelo, idem, d'anni 22, argentiere.

74. Mazza Faustino, idem, d'anni 77, sacerdote, venne abbruciato dai soldati.

75. Mayer Carlo d'anni 32.

76. Melchiori Rosa, idem, uccisa dai soldati.

77. Micheli Pietro, idem, d'anni 40.

78. Mottinelli Lorenzo, idem, d'anni 57.

79. Mostacchini Antonio, idem, oste, ucciso dai soldati in sua casa.

80. Ninzola Luigi, idem, d'anni 31.

81. Novelli Giuseppe, idem, morto all'ospedale per ferite.

82. Nullo Cesare, idem, d'anni 24, negoziante, ferito, fu fatto prigioniero e fucilato.

83. Onofrio Gio. Pattista, idem, d'anni 30, possidente, ferito nella coscia destra, moriva.

84. Paderni Giuseppe, idem.

85. Fari Alessandria, idem, incendiata.

86. Parolari Luigi, idem, d'anni 28, negoziante di biade, martoriato ed ucciso in sua casa.

87. Parzani Andrea, idem, d'anni 56, canestraio, morto di ferite ricevute in combattimento.

88. Pasotti Felice, idem, possidente, prestinaio, uscendo da città il giorno dopo le ostilità, venne ucciso dai soldati, che lo spogliarono di alcune migliaia di lire, nella partizione delle quali essendo nato contrasto col loro ufficiale, lo uccisero.

89. Pasqualigo Gaetano, idem, d'anni 65, giornaliere.

90. Pedrini Barbara, idem, d'anni 65, cucitrice, uccisa dai soldati.

91. Pellegrini Santa, idem, d'anni 65, abbruciata.

92. Pelizzari Bortolo, idem, d'anni 66, ucciso dai soldati.

93. Perati Pietro, idem, morto all'ospedale per ferita di bomba.

94. Patiroli Giacomo, idem. d'anni 68, patinista, colpito da fucilata uscendo di casa.

95. Perlotti Faustino, morto all'ospedale per ferite.

96. Peroni Bortolo, idem, d'anni 61, possidente ed oste, martoriato e ferito venne gettato dalla finestra dal 4,° piano della sua casa, alla quale i soldati diedero fuoco dopo saccheggiata.

97. Peroni Pietro, idem, d'anni 27, figlio del suddetto, martoriato some sopra.

98. Piazza Luigi, d'anni 60, giornaliere.

99. Pini Giacomo, d'anni 60.

100.                    Prina Giacomo, morto all'ospedale per ferite.

101.                    Radici Serina, idem, d'anni 42, moglie del direttore del collegio Guidi; invaso il collegio dai soldati, venne uccisa con 10 alunni dell'età dagli 8 agli 11 anni.

102.                    Ragni Giovanni, idem, morto all'ospedale per ferite.

103.                    Ragni Bortolo, idem, morto all'ospedale per ferite.

104.                    Ragni Faustino, idem.

105.                    Rienzi Antonio.

106.                    Ronchetti Pietro, morto all'ospedale per ferite.

107.                    Ronchi Gaetano, ferito sulle mura da una palla in fronte, moriva.

108.                    Rubini Francesco, idem, d'anni 13, studente nel collegio Guidi, ucciso dai soldati.

109.                    Sandri Giacomo, idem, d'anni 50, ucciso dai soldati.

110.                    Sandrini Andrea, idem, d'anni 37, vetturale, ferito, moriva all'ospedale.

111.                    Serafini Paolo, d'anni 37.

112.                    Servergnini Paolo.

113.                    Sigalini Francesco, d'anni 41.

114.                    Squassini Luigia, idem, d'anni 24, cucitrice, ferita dai soldati in sua casa e poi morta.

115.                    Tavelli Michele.

116.                    Tavelli-Lubbi Teresa, idem, d'anni 17, sposa da mesi, uccisa dai soldati.

117.                    Tedeschi Cesare, d'Adro, possidente prigioniero, fu fucilato.

118.                    Tisi Giuseppe, di Gargnano, d'anni 36, maiolino, morto in combattimento.

119.                    Tosi Massimiliano, di Brescia, morto all'ospedale per ferite.

120.                    Tosini Giorgio, idem, d'anni 70, calzolaio, ferito da bomba, moriva.

121.                    Trenchi Beniamino, idem, morto all'ospedale per ferite.

122.                    Trentini Giovanni, idem, d'anni 64, ucciso dai soldati.

123.                    Valsecchi Luigi, morto all'ospedale per ferite.

124.                    Vanini Luigi, d'anni 45.

125.                    Ventura Luigi, idem, morto all'ospedale per ferite.

126.                    Venturini Pietro, idem, d'anni 63, fu preso inerme in casa sua, condotto in castello e fucilato.

127.                    Vicentini Gio. Battista, d'anni 70, ucciso dai soldati.

128.                    Vicentini Pietro, d'anni 50, ucciso dai soldati.

129.                    Vicentini Luigi, d'anni 35, ucciso dai soldati.

130.                    Vimercati Ulisse, d'anni 18.

131.                    Vonong Carlo, Ungherese, d'anni 40, si battè da prode, e moriva in combattendo.

132.                    Zambelli Teresa, di Brescia d'anni 73, madre del direttore Guidi, massacrata in sua casa.

133.                    Zamboni Catterina, maritata Fava, idem, morta per ferita di bomba.

134.                    Zatti Costantino, idem, morto all'ospedale per ferite.

135.                    Zatti Paolo, idem, morto all'ospedale per ferite.

136.                    Zima Carlo, idem, d'anni 26; fabbricante di carozze, abbruciato vivo con un croato.

137.                    Frate Arcangelo, idem, d'anni 75, P. Francescano, ucciso da un croato in sua casa.

 

 

Oltre ai sunnominati si debbono aggiungere:

 

a)                     Diciassette morti trovati in parrocchia Santa Maria Calchera, non riconosciuti.

b)                     Altri tre, i cui cadaveri mutilati si rinvennero nell'orto del Dazio porta Turrelunga, e che non erano riconoscibili, e fra cui forse quello del povero Taglianini.

c)                     Venti individui Bergamaschi appartenenti alla legione Camozzi stati rinvenuti morti in casa Caldera nel comune di Fiumicello; nel territorio del qual comune furono pure trovati altri quattro individui appartenenti alla stessa legione.

d)                     Altri 16 individui della stessa legione, dei quali 11 Bergamaschi, 5 della provincia bresciana, che fatti prigionieri e condotti in castello, furono fucilati.

e)                     Il 5 aprile 1849 furono sepolti altri 29 individui morti nei combattimenti del 30 e 31 Marzo, e 1° aprile, i quali vennero raccolti nella fossa della città tra porta Torrelunga e il Casino della Polveriera.

 

Al numero risultante dal presente quadro ve ne sarebbero da aggiungere molti altri, che venivano nei giorni del trambusto seppelliti dai cittadini, ed altri sotterrati dal militare all'insaputa del civile.

 

In occasione del disterramento praticato nel 19 marzo 1861, venivano riconosciuti gli scheletri de' seguenti generosi Martiri

1. Boifava Pietro, vero sacerdote del Vangelo.

2. Bresciani Sotero.

3. Canobio Francesco, giovine elettissimo per molte virtù cittadine.

4. Donabini Dionisio.

5. Franzoni Filippo.

 

In questo martirologio non dobbiamo dimenticare i nomi di:

 

1. Pulusella Attilio.

2. Usanza Luigi,

fucilati dall'ira austriaca prima dell'eroica difesa.

 

Nomi dei 12 individui stati appiccati, 6 il giorno 9, e gli altri 6 il susseguente giorno 10 luglio per aver preso parte alla insurrezione di Brescia: ciò per sentenza del Consiglio di guerra radunatosi per ordine dell'I.R comando dell'armata d'Italia.

 

Maccatinelli Pietro, detto Cicca di Brescia, d'anni 31, nubile, macellaio.

Rizzi Costantino, detto Pitanzini, idem, d'anni, 31, ammogliato e padre, tintore,

Bianchi Vincenzo, di Pavia, d'anni 26, nubile, orefice.

Gobbi Bortolo, di Lumezzane, provincia di Brescia, d'anni 19, nubile, calzolaio.

Conegatti Gaetano, di Brescia, d'anni 38, nubile, tintore.

Dall'Era Giovanni, detto Gobbo, idem, d'anni 27, nubile, macellaio.

Avanzi Giovanni, detto Pestaos od Inoci, idem, di anni 46, vedovo con due figli, calzolaio.

Zanni Napoleone, idem, d'anni 29, nubile, muratore.

Zanini Pietro, di Villanova, provincia di Brescia, di anni 45, ammogliato e padre, fruttivendolo.

Zanini Pietro, detto Peteo di Brescia, d'anni 30, nubile, fruttivendolo.

Zappani Francesco, di sant'Eufemia, provincia di Brescia, d'anni 31, nubile, falegname.

Maggi Bonafino, detto Barabba, di Milano, d'anni 30, nubile, macchinista.

COMANDO DEL TERZO CORPO D'ARMATA

 

Brescia, 21 dicembre 1813.

 

All'Inclita I. R. Delegazione Provinciale.

 

Sembra essere intenzione di un certo partito di dar a divedere il proprio malcontento intorno allo stato attuale delle cose col non frequentare, in maniera come concertata, le rappresentazioni teatrali. Affinchè non vi abbia nemmeno l'apparenza, che gli impiegati di queste II. RR. cariche civili e della città, i quali pur ricevono il loro onorario dallo Stato, convengano in così semplici e frivole dimostrazioni col non andare al teatro, si dovrà significare ai medesimi, giacere nella natura della cosa che tutti i pubblici impiegati abbiano ad abbonarsi alle rappresentazioni teatrali che stanno per aver luogo, ed in quanto non vi si oppongano forti impedimenti frequentare eziandio il teatro, per non figurare siccome prendenti parte a quelle meschine dimostrazioni.

 

Haynau, tenente maresciallo.

PROCLAMA

 

L'avviso stato pubblicato in questa città il 6 passato settembre prescriveva che tutti gl'individui presso i quali si fossero trovati oggetti militari di qualsiasi specie appartenenti a truppe austriache, ovvero a quelle di altre potenze, od a corpi franchi formatisi sotto il passato governo provvisorio, erano obbligati a farne immediata notificazione a questo I. R. comando sotto comminatoria che qualora si fossero in seguito trovati simili oggetti non notificati i detentori sarebbero stati trattati secondo le vigenti leggi militari.

Malgrado ciò si scopersero ora diversi magazzini chiusi sotto chiave, con iscienza di questa municipalità, nei quali trovansi accumulate considerevoli quantità di monture e di effetti d'armatura d'ogni specie in parte già perfezionati, ed in parte ancora in materiali, non solo di ragione dell'Austria, ma anche di altre potenze estere.

Questo accumulamento di sì rilevante numero di forniture militari, che per essere durato quattro mesi, deve dirsi operato a disegno, è tanto più inescusabile e colpevole, in quanto che partì dalla prima autorità della città, alla quale non essendo ignota l'esistenza dei suddetti magazzini, correva già obbligo per suo dovere d'ufficio di farne la notificazione, e la consegna anche senza il preciso avviso di sopra enunciato.

La sleale occultazione di tanta ragguardevole quantità di monture ed effetti di armatura austriaca tolta all'I. R. militare non poteva essere ignota neppure agli abitanti della città, il che non fa che confermare di nuovo lo spirito ostile, in cui questa stessa città continuamente persiste. Anche lo scoprimento di fucili carichi nascosti appartenenti alle truppe austriache verificatosi in occasione dell'incendio non è guari quivi scoppiato, è un'altra prova della cattiva disposizione di questi abitanti.

Tali fatti, e la conservazione dei magazzini ripieni di effetti militari non fanno fede di sentimenti leali e di pacifiche tendenze, e non possono trovare spiegazione se non se nella speranza che si nutre di rimettere all'occasione gli effetti medesimi ai nemici dell'Austria.

Per queste misure di alto tradimento, e per l'opposizione che si manifesta in ogni occasione contro il legittimo I. R. governo, la città di Brescia, ad ammonizione ben anco delle altre città che fussero dello stesso spirito, viene multata della somma di austriache lire 520.000, alla quale dovranno contribuire in ragione del rispettivo scotato d'estimo tanto i proprietari di una o più case in Brescia coll'aggiunta della cifra d'estimo della possidenza che potessero avere in provincia, quanto coloro che avendo soltanto regolare domicilio in questa città di Brescia possedessero beni immobili nel territorio bresciano.

La quota parte dei singoli contribuenti dovrà essere versata pel giorno 21 del prossimo venturo febbraio al più tardi nella cassa dell'esattore comunale di Brescia sotto la comminatoria ai morosi dell'immediata esecuzione forzosa.

L'I. R. Delegazione provinciale resta incaricata della pronta e puntuale esecuzione del presente proclama.

Brescia, 4 gennaio 1849

Il comandante l'I. R. 3° Corpo d'armata

I. R. ten. Maresciallo Haynau

 

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NOTIFICAZIONE

 

Egli è un fatto comprovato dalle investigazoni praticate che la recente diserzione, la quale va sempre più estendendosi, dei già disertori del reggimento conte Haugwitz, rientrati in seguito al perdono generale, è indotta principalmente dalle insinuazioni dei loro parenti ed amici, i quali, dal canto loro, sono a ciò eccitati da malevoli ed ingannevoli dicerie di ogni maniera, che loro danno ad intendere i male intenzionati: ed è pur cosa di fatto che cotali disertori si trattengono nel circondario dei comuni, e che anzi vengono da questi sussidiati.

Allo scopo di porre possibilmente un argine a questo procedere ostile, il quale, nella maggior parte dei casi, non può dai comuni ignorarsi, si fa noto colla presente, che quel comune nel cui territorio trovasi il disertore, qualora non avesse a consegnare il medesimo entro il termine che gli verrà fissato, dovrà pagare la multa di austriache lire 500.

Nelle stesse pene incorrerà pure quel comune in cui venga colto il disertore in qualsiasi altro modo, e questi deponga d'essersi trattenuto in esso comune senza essere stato dal medesimo notificato e consegnato.

La famiglia di un tal disertore dovrà inoltre fornire al detto reggimento un individuo idoneo preso dal seno della medesima, e quando questo non vi fosse, dovrà provvedere il comune per la presentazione di un altro soggetto, da prendersi dal comune stesso, il quale rimarrà presso il reggimento qual supplente del disertore sino a che quest'ultimo sarà ricondotto ad esso reggimento. Qualora il disertore avesse esportate in questa rinnovata di lui evasione effetti di montura ovvero d'armatura, il comune rispettivo dovrà pure presentarne l'indennizzo giusta l'ordine che al medesimo sarà per pervenire.

Quel comune, il quale, cinque giorni dopo che gli sarà stata partecipata la relativa condanna, che non avrà versata la multa che si sarà tirata addosso nella maniera suindicata, ovvero il rimborso presso il commissario distrettuale, cui appartiene per l'ulteriore trasmissione all'imperiale regio comando del terzo corpo d'armata, sarà punito col doppio importo della multa stessa, e verrà inoltre colà spedito un corrispondente distaccamento di truppa per l'esecuzione, il quale vi si tratterà a spese del comune, e con l'aggiunta di una lira austriaca al giorno fino a che la somma di detta multa sarà soddisfatta.

Per quei comuni poi, i quali, persistendo nella resistenza, daranno a conoscere con ciò la continua loro disposizione ostile, verrà proceduto contro di loro ad altre più severe misure militari.

La presente notificazione dovrà esser letta in ciascun comune dal parroco al pubblico raccolto nella chiesa, per tre giorni, fra i quali dovrà cadere una domenica, e dovrà inoltre essere affissa al locale del comune e partecipata dalla deputazione comunale a quella famiglia in ispecie alla quale appartiene l'uno o l'altro dei disertori.

Brescia, 15 gennaio 1849.

Haynau.

 

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NOTIFICAZIONE

 

Essendo avvenuti ripetutamente nell'intervallo di questi ultimi quattro giorni gravi eccessi a perturbare la quiete, quali sarebbero uno sparo d'arma carica a palla stato diretto il 15 corrente contro la quasi caserma in casa Cazzago, ed una sassata lanciata da una casa il giorno 18 pure corrente contro una pattuglia, nella quale occasione si ebbe perfino l'ardire di insultare e scagliar sassi non solo contro i singoli soldati tranquilli, che passavano a caso, ma ben anche contro le pattuglie mandate a ristabilir l'ordine e la quiete, così allo scopo di mantenere sì l'uno che l'altra, trovo di ordinare quanto segue:

Sono severamente proibite le adunanze di ragazzi e giovinetti adulti, che hanno luogo, a quel che sembra, non senza scopo, sui bastioni, i quali ragazzi, mediante giuochi clamorosi, attirano numerosi spettatori, gran parte dei quali si compone di persone che approfittano di quest'occasione per provocare in modo petulante il militare. Qualora in onta a tal divieto avesse a rinnovarsi un cosiffatto scandalo saranno sottoposti al meritato castigo non solo i ragazzi che verranno arrestati, ma saranno severamente puniti i loro genitori, ed in mancanza di questi i parenti, ovvero le persone incaricate della sorveglianza dei medesimi, correndo loro obbligo di curare che simili fanciulli oziosi non vengano sedotti a cattivi fini.

All'intento però di meglio ovviare in avvenire simili perturbazioni della quiete, introdotte a disegno, costituisco in pari tempo solidariamente responsabile quel circondario della città, in cui avesse a verificarsi un inconveniente di tale natura, ed impartisco parimente l'ordine che all'evenienza di simili casi venga immediatamente colà acquartierata per l'ulteriore mantenimento dell'ordine una divisione, ovvero a norma delle circostanze un intiero battaglione, per le cui competenze di tappa durante tutto il tempo di questa occupazione militare dovrà provvedere il corrispettivo circondario, il quale dovrà pagare inoltre una multa di austriache lire 5000. Ciascuna casa, dalla quale venisse gettato un sasso, qualora non venga consegnato il colpevole, dovrà essere sgombrata intieramente entro 24 ore, e sarà ridotta a caserma a spese del circondario della città, e come tale subito occupata dal militare, ovvero rivolta ad altro uso.

Si ricorda da ultimo, che il gettar sassi contro le pattuglie porta con sè, secondo la legge marziale, la stessa pena della resistenza a mano armata.

Nel caso che queste sassate partano da un assembramento di persone, le pattuglie hanno ordine di rispondere a cotali attacchi con una scarica a palla.

Le vittime colpevoli od innocenti, che in conseguenza di ciò rimanessero colpite, dovranno ascriversi a sola colpa degli autori di un tale conflitto.

Brescia, i febbraio 1849.

L'I. R. comandante del 3.° Corpo d'armata.

Tenente maresciallo Appel.

 

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N° 14-24

 

I. R. INTENDENZA PROVINCIALE DI FINANZA

 

Brescia, 6 marzo 1849.

Con sommo mio dispiacere mi viene oggi partecipato da S. E. il tenente maresciallo barone di Appel, comandante il terzo corpo d'armata, che alcuni degli impiegati di Finanza si permettono di indossare distintivi anti-politici tendenti a dimostrazioni contro l'attuale ordine di cose, come sarebbero abiti di velluto, stivali rossi e cappelli così detto alla Calabrese, all'Ernani, alla Profuga ecc., ecc.

Non potendosi tollerare, massime nei pubblici impiegati, i quali anzi dovrebbero servire di buon esempio agli altri abitanti, il rimarcato abuso, siccome scandaloso ed ostile all'attuale governo, così d'ordine della prelodata S. E. diffida tutti i signori impiegati a smettere in giornata i suddetti distintivi, perchè in caso contrario dovranno a sè stessi imputare le severe misure delle leggi militari da cui sarebbero impreteribilmente colpiti i renitenti, contro le quali non varrebbe al certo l'opera mia in loro favore.

E perchè nessuno degli impiegati da me dipendenti abbia ad allegare ignoranza di queste determinazioni, i signori capi d'uffizio trarranno copia della presente sulla quale dovranno essere riportate le firme di tutti gli impiegati addetti all'ufficio rispettivo, e me la rassegneranno in giornata e prima della scadenza dell'ora d'ufficio.

I dirigenti poi dell'ufficio medesimo saranno ritenuti responsabili dell'inesecuzione della stessa.

Pagani

 

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MUNICIPIO DI BRESCIA.

 

AVVISO

 

Una rappresentanza di cittadini per la difesa della patria ha nominato un Comitato apposito, composto dei seguenti:

Ingegnere professore Luigi Contratti,

Dottore Carlo Cassola.

«Cittadini, il vostro amore per la patria è conosciuto, ed ora è il tempo di darne una luminosa prova; avvicinatevi al Comitato, che fissa la sua residenza nel locale del Teatro, ed attendete da lui direzione ed ordine.

Brescia, 24 marzo 1849.

Per il dirigente Sangervasio

 

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IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Elegge e nomina in via d'urgenza le seguenti Commissioni:

Per l'organizzazione della Guardia nazionale, con incarico di sorvegliare l'esatto adempimento del servizio e la distribuzione delle relative paghe:

I signori ingegnere Domenico Buizza,

Dottor Pietro Buffali,

Ingegnere Camillo De-Dominici,

Dottore Carlo Tibaldi;

Per l'acquisto delle armi e munizioni:

I signori Vincenzo Grassi,

Serafino Volponi,

Giovanni Micheloni,

Zaccaria Premoli;

Per la distribuzione delle armi e munizioni:

I signori ingegnere Pietro Pedarali,

Ragioniere Alessandro Usardi.

Le summentovate Commissioni avranno residenza nel locale del Teatro.

Dall'Ufficio, 24 marzo 1849.

I membri del Comitato

ContrattiCassola.

 

 

 

IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 29 marzo 1849.

I sottoscritti, stati eletti per provvedere alla difesa della patria, nell'accettare sì grave incarico confidano che i cittadini i quali diedero già tante belle dimostrazioni di amor patrio vorranno concorrere con tutta l'energia di cui sono capaci, a sostegno di una così santa causa.

Frattanto si invitano tutti coloro che possiedono uno schioppo e che non fossero ancora organizzati in pattuglie, a presentarsi oggi alle ore dieci antimeridiane alla caserma nel Teatro, ove si dirigeranno alla Commissione già nominata per l'organizzazione e pagamento della Guardia nazionale, avvertiti che a coloro che traessero i mezzi di sussistenza dal giornaliero lavoro verrà corrisposta la mercede di lire 1,50.

 

Cittadini!

 

Nessun privato interesse, nessun timore vi trattenga dall'accorrere alla chiamata, e considerate quale infamia piomberebbe su quelli che non si prestassero in momenti tanto decisivi per la salute della patria.

Unione - Costanza - Coraggio.

Cassola – Contratti

 

 

MUNICIPALITÀ DI BRESCIA

AVVISO.

 

La rappresentanza Municipale di questa città trovasi necessitata a dover provvedere ai mezzi di pubblica sicurezza e difesa, la quale venne ieri affidata ad un Comitato composto dei signori ingegnere Luigi Contratti e dottore Carlo Cassola.

Trattasi di confermare nel Comitato medesimo ogni relativo potere di somministrare i mezzi ad agire nell'importantissimo ed urgente mandato.

Il rappresentante Municipale a questa scopo, e per essere appoggiato al voto della popolazione, invita tutti i possidenti e censiti, negozianti ed esercenti arti liberali della città, e quelli ancora della provincia che si trovassero, a recarsi oggi alle ore quattro pomeridiane nel palazzo Municipale della Loggia per deliberare sopra così importante oggetto.

Brescia, dal Civico Palazzo, il 25 marzo 1849.

Per il dirigente Sangervasio.

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

CIRCOLARE.

Ai reverendi Parrochi

della città e campagna della provincia di Brescia.

 

Sacerdoti! A voi, che tanta influenza, pel sacro vostro ministero, avete sulla popolazione, è giunto il momento dell'opera vostra.

Il sole della nostra indipendenza aveva già rischiarato il nostro bel paese l'anno scorso, e poscia offuscatosi, ora comincia a mostrarsi più bello, ed a lasciarne scorgere speranze, e speranze fondate di libertà ed indipendenza dello straniero.

Ma non basta l'affidarsi all'esito di una battaglia fra le due armate, che delle notizie avute è a noi favorevole; è necessario che anche la popolazione lombardo-veneta dia mano contro il comune nemico, contro lo straniero, e mostrandosi e lui imponente ed infesta, agisca sul morale di truppe preste alla diserzione, e poco vogliose al combattere, come le italiane e le ungheresi, e sia al nemico di danno, o col scemarlo di numero, o col rendergli difficile il provvigionarsi, e le operazioni militari nel caso specialmente di una ritirata ai loro nidi.

Brescia e Bergamo hanno di già dimostrato di essere comprese di queste massime, hanno di già inalberata la bandiera della rivoluzione, e dimostrato all'austriaco cha non aspettavamo che il segnale per armarsi e difendere col loro sangue e colla loro vita quanto si ha di più caro dopo Dio; la nostra patria.

Ora a voi si indirizza questo Comitato di pubblica difesa, a voi, ministri di un Dio giusto, onnipotente e che vuole mantenuti agli uomini i diritti che a lui concesse col dare un'anima, un pensiero libero, una patria, affinchè col vostro carattere sacro alla popolazione abbiate a secondare lo spirito d'indipendenza che così bene si ebbe già a manifestare in questa città ed in alcuni paesi. Nè solo è Ufficio il secondare, ma se siete veri patrioti dovete eccitare la popolazione, far conoscere ad essa il debito verso la patria. Ma i giovani specialmente accorrino alla caserma ed alla città, che quivi sarà loro dato un fucile, un'arma, onde con essa dar prova del loro amor patrio; pronti i cittadini a dividere seco loro il pane ed i pericoli.

Sì, voi dovete parlare, voi dovete col crocifisso in mano gridare l'allarmi, voi dovete far conoscere colle vostre influentissime parole come si deve amare la patria, e quanto deve farsi per essa contro lo straniero.

Se compirete quest'ufficio, Dio nella sua giustizia vi benedirà, la patria ve ne sarà grata, la storia, parlerà di voi, la vostra coscienza ed il vostro cuore saranno tranquilli. Guai a voi se non lo compirete, guai per la vostra coscienza e per la esecrazione dei vostri concittadini e congiunti.

Brescia, 25 marzo 1859([22]).

I membri del Comitato

Contratti - Cassola.

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, il 26 marzo 1849.

Questo Comitato avrebbe intenzione di formare una guardia di arditissimi bersaglieri, ai quali verrebbero affidate importantissime operazioni di difesa ed offesa.

Si invitano pertanto tutti coloro che avessero il coraggio e l'attitudine per appartenere a questo corpo distinto a presentarsi nella caserma del Teatro alle dodici meridiane d'oggi, ove verranno debitamente organizzati e si assegneranno loro le relative incombenze.

 

Giovani Bresciani!

 

L'ora è scoccata in cui potrete mostrare all'Italia che il nome di prodi che avete ereditato dai vostri maggiori sapete conservarlo immacolato, e farete conoscere all'ostinato nemico quali cuori questo sole arista riscaldi.

Unione - Costanza - Ardire.

Cassola - Contratti.

 

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IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

AL POPOLO BRESCIANO.

 

Brescia, 28 marzo 1849.

Il 27 marzo di Brescia sarà trasmesso ai posteri del paro coi più gloriosi giorni che rifulsero a Milano e Palermo durante la lotta per l'indipendenza italiana.

Nel precedente giorno 26 un'armata nemica presentavasi nelle vicinanze della città. Alla Commissione di tre distinti cittadini, speditagli contro a Sant'Eufemia per conoscere quali fossero le sue intenzioni, imperiosamente rispondeva che gli si dovevano aprire le porte e consegnare i prigionieri di guerra.

Il Comitato di difesa allora, dopo aver consultato il voto del popolo, rescriveva quanto segue:

 

Al comandante le armate austriache

nelle vicinanze di Brescia.

 

Abbiamo comunicato ai cittadini la vostra risposta, ed il popolo in massa ha respinto con indignazione le vostre proposte, proclamando che si deve vincere o morire, e che la città è pronta a resistere finchè sia ridotta in cenere. Nulla noi aggiungiamo alla potente voce del popolo, e ci siamo perciò determinati di sostenere con tutti i mezzi che abbiamo in nostro potere qualunque assalto.

Signore! Non confidate troppo nelle vostre forze; perchè la massa popolare di una città agguerrita non si vince che con un imponente esercito. Pensate che le vostre truppe saranno massacrate sotto le mura di questa città, e quindi quale responsabilità attirerete sul vostro capo con un progetto disperato.

Pensate inoltre che al principiare delle ostilità contro Brescia tutti i prigionieri e gli ammalati che abbiamo in nostro potere sarebbero massacrati dal furor popolare.

Il Comitato di pubblica difesa

Cassola - Contratti

 

Ieri giorno il comandante nemico minaccioso si presentava davanti alla città, ed il popolo bresciano, fermo nelle sua promesse, avrebbe senza dubbio effettuato lo sterminio delle sue truppe, se prudentemente non le avesse salvate colla ritirata.

Cassola - Contratti.

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 26 marzo 1849.

 

LA PATRIA È IN PERICOLO.

 

Ora è il momento, o Bresciani, di agire e di far conoscere che le vostre promesse non furono millanterie. Gli armati accorrino davanti al Teatro per ricevere le destinazioni. Chi non ha armi, le donne, i vecchi, i ragazzi, si adoprino a costruire barricate alle porte della città. Uniamo le forze, e difendiamoci. Non si tratta che di duemila uomini con due pezzi d'artiglieria, quasi tutti italiani. All'armi, all'armi.

Unione – Costanza - Ordine.

Cassola - Contratti.

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 26 marzo 1849

 

Allo scopo che i cittadini abbiano cognizione degli eventi della guerra, si pubblica il seguente bollettino piemontese, or ora pervenuto.

 

Bollettino piemontese.

 

Il nemico ebbe l'audacia d'inoltrarsi sul nostro suolo; battuto da tutte le parti, tenta inutilmente ritirarsi al corpo.

La nostra vittoria è di diecimila tra morti e feriti, e quattromila prigionieri.

Un corpo di quindicimila uomini è separato dal maggior corpo austriaco, e tenta invano di riunirsi.

Dal Campo.

Chrzanowski.

 

Cittadini!

 

A fronte di tali vittorie riportate dai nostri prodi, vorrete voi gettare incancellabile macchia d'infamia sulla nostra città col cedere in faccia ad un piccolo distaccamento, che certe notizie dicono minore di duemila uomini? Quando i generosi figli di Brescia che combattono per noi in Piemonte ritorneranno in patria a raccontare le loro prodezze, come potrete nascondere la vostra viltà se mostraste loro delle catene? Il Comitato di difesa ha deciso di vincere o morire. Lo abbandonerete voi? Ah no! Brescia non smentirà il suo nome di città eroica.

All'armi adunque, alle barricate.

Ordine - Costanza - Ardire.

Cassola – Contratti

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 26 marzo 1849.

Popolo bresciano,

Pare che il nemico non abbia avuto il coraggio di affrontarci durante il giorno per non far conoscere la sua debolezza. Forse potrebbe tentare un assalto nella vegnente notte, nella lusinga che, spiegando all'improvviso un vivo fuoco dall'esterno della città di concerto col bombardamento da parte del castello, fra le tenebre della notte, possiate essere atterriti ed abbandoniate la difesa. Quanto s'inganni però ce lo comprova l'entusiasmo che scorgiamo in tutti i cittadini pronti a vincere o morire. Voi siete già a prova di bomba, perchè finora il bombardamento non eccitò che allegria ai cittadini. I nemici esterni non oltrepassano i seicento.

Interpreti perciò del voto universale, li sfidiamo a qualunque ora. Poco importa che la nostra vittoria sia rischiarata dal sole o dall'illuminazione della città.

Comprenderanno pertanto i cittadini che necessita che a tutte le finestre verso strada sieno esposti i lumi.

In questo momento ci è giunto un proclama del generale insurrezionale Camozzi, il quale annuncia che la città di Bergamo ha di già ottenuta vittoria del presidio nemico. Domani sarà qui in nostro sussidio. I Bergamaschi usarono di ogni mezzo di difesa; sassi, tegole ed altri effetti venivano scagliati dalle finestre e dai tetti. Sarete voi meno di loro? No, per Dio! Brescia sceglierebbe la tomba in confronto del disonore. Secondate pertanto gli sforzi del Comitato, e la città sarà salva.

Unione - Costanza - Ardire.

Cassola - Contratti

 

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MUNICIPALITÀ DI BRESCIA.

 

AVVISO.

 

Seduta del Consiglio comunale

del giorno 27 marzo 1849, ore 10 antimeridiane.

 

La suprema necessità di conservare la sicurezza delle persone e delle sostanze di questa città dopo chè le autorità superiori hanno abbandonato l'esercizio delle loro attribuzioni, lasciandola sprovveduta, in onta alle fatte istanze d'ogni guarnigione, difesa e tutela, ha indotto il sig. dottor Girolamo Sangervasio col concorso di un'eletta di cittadini convocati a tale scopo a domandare parte dei poteri e lui conferiti dall'avv. Saleri ad un Comitato composto dei signori Luigi Contratti e Carlo Cassola affinchè provvedessero alla difesa della patria nell'urgenza delle circostanze. I sopravvenuti avvenimenti, i bombardamenti tre volte ripresi sulla città e la vicinanza di un corpo di milizia imperiale hanno suscitata nel popolo la massima esacerbazione, ma l'indole generosa della popolazione ci ha salvati fin qui dalle estremità della guerra conservando incolumi gli stessi ammalati militari lasciati alla sua protezione. Continuando però il pericolo, ed il governo della cosa pubblica trovandosi tuttavia concentrato nel solo Municipio, e l'unica forza del popolo armato, l'adunanza dei consiglieri comunali e di altri cittadini in numero di 38 convocatisi in questo stesso giorno ha deliberato ad unanimità quanto segue, ed ha votato la pubblicazione del seguente

 

PROCESSO VERBALE.

 

Attesa la necessità imperiosa di provvedere straordinariamente alla sicurezza delle persone e delle cose, resta conservato interinalmente nel signor dott. Girolamo Sangervasio ogni potere già conferito al benemerito avvocato Saleri, compresa la facoltà di aggregarsi quelle persone che più credesse opportune con pieno mandato di avvisare al miglior possibile andamento della cosa pubblica, anche costituendo un corpo armato nazionale che come in altra epoca ha meritato l'universale encomio, così anche negli attuali bisogni si presti munito delle armi necessarie tanto lasciate dal militare, quanto provvedute o da provvedersi al di fuori; è approvata ad unanimità ogni misura sin qui attuata dal signor Sangervasio sottentrato alla dirigenza municipale per i poteri trasmessi dal consiglio 22 marzo corrente, oltre a quelli straordinariamente attribuitegli in questo giorno, e nel mentre si votano i ringraziamenti ad esso Sangervasio ed al Comitato di pubblica difesa, si lascia allo stes-so Sangervasio di avvisare al completamento degli uffici dipendenti per tutte le misure ch'egli crederà nel caso così pure alla provvista dei mezzi e relativa esecuzione.

Per estratto conforme

il f. f. del Presidente dei consiglio

Antonio Basiletti.

 

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IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, il 27 marzo 1849

ore sei e mezza pomeridiane.

 

Cittadini!

 

Il vostro nome alla posterità è assicurato. Voi vi difendeste da leoni. Il nemico trovasi nell'avvilimento perché gli imponenti mezzi di guerra coi quali credeva atterrirvi non hanno fatto che accrescere il vostro entusiasmo. Ormai ha consumati tutti i suoi mezzi guerreschi, e quindi non dovete far altro che dar compimento alla vittoria nello stesso modo che l'avete incominciata.

Italia tutta farà plauso a tanta prodezza.

Ordine - Costanza - Unione.

Cassola - Contratti

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 27 marzo 1849.

Mentre l'entusiasmo patriotico predomina la mente ed il cuore di questa generosa popolazione, pur troppo alcuni vermi malnati, calpestando ogni dovere sociale, osano in questi momenti sacri alla patria commettere il più abbominevole fra i delitti, quello cioè di violenza alle persone allo scopo di impadronirsi delle sostanze. Se pertanto da una parte il Comitato di difesa va superbo di trovarsi in circostanze da prestarsi alla salvezza di sì eroica popolazione, conosce, dall'altra, gli obblighi che si trovano inerenti al suo difficile incarico; e perciò, mentre fa plauso alla massa dei cittadini che fanno onore alla loro patria con azioni generose, ha determinato di adottare le misure più rigorose contro questi esseri indegni del nome bresciano.

 

SI DECRETA QUINDI:

 

Tutti quelli che verranno colti in flagrante delitto di rapina saranno assoggettati ad una Commissione di giudizio statario e condannati alla pena di morte colla fucilazione.

Allo stesso giudizio ed alla stessa pena verranno assoggettati anche coloro a carico dei quali sarà provato lo spionaggio a favore del nemico.

Tale Commissione di giudizio statario viene composta dei seguenti cittadini:

Contratti Luigi

Cassola Carlo.

Prestini Giambattista.

I buoni cittadini faranno eco senza dubbio a questa misura straordinaria di giustizia, e la loro approvazione basta ai sottoscritti.

Cassola - Contratti

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 28 marzo 1849

AVVISO.

Attesa la rinuncia del cittadino Prestini Giambattista al posto assegnatogli nella Commissione di giudizio statario, nominata con decreto a stampa di ieri giorno, gli si sostituisce il cittadino Ulisse Marinoni, e perciò tale Commissione viene composta dei seguenti cittadini;

Contratti Luigi.

Cassola Carlo.

Marinoni Ulisse.

I membri dei Comitato

Cassola - Contratti.

 

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CITTADINI!

Chiamato dalla confidenza vostra in questi gravissimi tempi alla direzione della cosa pubblica, io non potei soffermarmi a considerare quanto le mie forze fossero insufficienti a tanto peso; amore pel mio paese e i vostri incoraggiamenti mi spinsero a continuare nel cammino; volontà ferma, intenzione pura, piena fiducia in voi, ecco ciò che importa al grande lavoro, cui tutti ora ci stiamo travagliando. L'affetto e la persuasione che mi avete dimostrato sono già largo compenso alle mie fatiche. Uniti nell'impresa il pericolo non saprà disgiungerci mai. Le angoscie della patria cesseranno fra breve, io ne sono certo, perché voi, i quali sapeste già eroicamente difenderla, siete degni di possederla libera e gloriosa.

Brescia, 28 marzo 1849.

Il dirigente interinale del Municipio.

Sangervasio.

 

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LA DIRIGENZA DEL MUNICIPIO DI BRESCIA.

 

DECRETA

 

Tutti i venditori di commestibili di prima necessità, come pure le farmacie, droghierie ed i caffè dovranno secondo l'uso restare aperte onde prestarsi immediatamente al pubblico bisogno. Quelli che non eseguiranno tale ingiunzione saranno multati ed anche puniti a norma delle circostanze.

Brescia, 28 marzo 1849.

Il dirigenteSangervasio.

 

 

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LA DIRIGENZA DEL MUNICIPIO

 

DECRETA

 

Tutte le case della città devono essere illuminate per tutta la notte fino a nuovo avviso. E siccome tale misura voluta imperiosamente dalle circostanze non è stata in parte eseguita malgrado le ordinanze del Comitato di difesa, così ogni proprietario ed inquilino si ritiene solidariamente obbligato a tale ingiunzione, ed alle pene o multe pecuniarie che saranno applicate in caso di mancanza.

Brescia, 8 marzo 1849.

Il dirigente - Sangervasio

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 28 marzo 1849,

 

LE BARRICATE.

 

Questa felice istituzione dei popoli per fiaccare la potenza di forze materiali, diabolicamente congegnate a ruina della società, deve essere non solo conservata, ma migliorata.

Frattanto pensiamo noi a trar profitto degli importanti vantaggi di tale istituzione.

Le guardie nazionali si lagnano ed a ragione, al vedere tanti individui colle mani in mano, e che non hanno altra scopo se non quello di appagare la propria curiosità, raccogliendo notizie, mentre ad esse tocca vegliare giorno e notte per la causa comune. Nessuna scusa che valga possono addurre i neghittosi in questi momenti d'azione. Chi non ha armi può prestare colle braccia importante sussidio; le barricate li aspettano. Chi non ha forza di braccio, avrà una voce per incoraggiare, mani per apprestar cibi ai lavoranti, cuore per offrir loro ricovero ove ne avessero di bisogno.

Tutti i cittadini adunque devono prestare qualche sussidio alla causa, e guai agli inerti.

Cassola - Contratti

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Per evitare qualunque disordine dell'uso della forza armata, e per moderare l'ardore sfrenato di alcuni che anelano di battere il nemico, lo che può portare delle sinistre conseguenze, si ordina che nessuno possa intraprendere qualsiasi impresa fuori di città, senza avere riportati l'assenso del Comitato di difesa.

Brescia, 29 marzo 1849.

Contratti - Cassola

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 29 marzo 1849.

Non avendo avuto compimento la sistemazione della guardia nazionale colla convocazione seguita nelle parrocchie al mezzogiorno d'oggi, si ordina che tale convocazione dovrà rinnovarsi nel giorno di domani 30 marzo, alle ore dodici del mezzodì.

A tale convocazione dovranno intervenire indistintamente tutti coloro che sono domiciliati in città, sia che abbiano armi proprie od armi avute dal Comitato, e sia che ricevino soldo o che si prestino gratuitamente, non avuto riguardo alle antecedenti iscrizioni. Tutti quelli che si troveranno in servizio nell'ora prefissa, faranno pervenire alla parrocchia i loro nomi colla indicazione della compagnia a cui appartengono.

Nessuno manchi per compire un ordine che tanto deve giovare alla patria.

Contratti - Cassola

 

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COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 31 marzo 1849.

Riesce spiacentissimo il vedere quasi tutte le porte delle case chiuse quando la prode Guardia Nazionale di città e di provincia sta respingendo il nemico alle barricate. Come mai ponno esistere esseri dominati da tanto egoismo e privi d'ogni sentimento amorevole verso i suoi simili, da chiuder loro le porte in faccia mentre espongono il loro petto alle palle nemiche per la comune causa dell'indipendenza ed impedire così ad essi un rifugio, nel caso che esuberante forza d'impeto nemico, superata qualche barricata, portasse la guerra nelle contrade? Guai a quel cittadino che, dopo la pubblicazione del presente, non aprisse il portello non solo, ma anche gli usci degli appartamenti onde i nostri prodi possano all'evenienza ripararvisi ed offendere il nemico dalle finestre. Colui sarebbe dichiarato traditore della patria, ed oltre l'esecrazione universale, verrebbe da apposita commissione condannato al pagamento di una gravosa multa.

Si ripromette il Comitato che chi racchiude in petto cuore bresciano non vorrà contravvenire a tale ordine.

Contratti - Cassola.

 

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MUNICIPALITÀ DI BRESCIA.

 

AVVISO.

 

Brescia, 29 marzo 1849.

Il dirigente della municipalità di Brescia in forza dei poteri attribuitigli dall'adunanza del Consiglio comunale e dei cittadini convocati nel 27 febbraio 1849, giusta quanto stato proclamato con avviso municipale:

 

DECRETA

 

1.° Tutti gli ufficii tanto amministrativi, quanto giudiziarii restano pienamente confirmati nelle loro attribuzioni e nello stesso modo con cui sono attualmente costituiti; essi dipendono immediatamente dalla dirigenza del municipio.

2.° Tutti gli impiegati addetti agli ufficii medesimi dovranno prestare il loro servizio.

Il dirigente Sangervasio.

 

 

MUNICIPIO DI BRESCIA.

 

Visto l'urgenza di provvedere a che gli affari giudiziarii non soffrano pregiudizio dalle attuali condizioni politiche locali, interpellato anche il potere giudiziario:

Il dirigente del Municipio in vista delle attribuzioni conferitegli,

 

DECRETA:

 

1.° Resta sospesa la decorrenza di tutti i termini giudiziarii tanto prescritti dal regolamento generale sul processo civile, quanto dal giudice a datare dal giorno 23 marzo fino a nuova disposizione.

2.° Le rate ed altri effetti cambiari scadenti col giorno 30 e 31 marzo corrente restano in proroga fino a tutto il prossimo venturo aprile, e quelle scadenti dal 1.° al 10 aprile prossimo venturo restano prorogate pel lasso di 8 giorni, salvo le successive disposizioni che saranno del caso.

Dal civico Palazzo, 26 marzo 1849.

Il dirigente Sangervasio,

 

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CITTADINI!

 

Il Comitato di pubblica difesa, intento al bene dei poveri di questa città, essendo in questi momenti interrotti i mezzi di sussistenza, ha emesso dei Boni che vennero consegnati ai parrochi e curati delle singole parrocchie, i quali conosciuti i più e i meno bisognosi dispenseranno a questi i detti Boni, che i fornai hanno l'ordine di estinguere.

Brescia, 29 marzo 1849.

CASSOLA - CONTRATTI.

 

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IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 29 marzo 1849

Per meglio facilitare la difesa della patria si ordina: Chi venderà fucili ricevuti dal Comitato sarà arrestato, e secondo le circostanze aggravanti potrà anche venir fucilato. Chi compra tali fucili sarà arrestato e condannato alla multa di lire 100 per ogni fucile. Chi ha arme da fuoco senza farne il debito uso a pro della patria, sarà arrestato e le armi saranno confiscate e subirà altresì una multa da determinarsi. Chi non sa usare le armi da fuoco dovrà consegnarle al Comitato di difesa per la distribuzione, salva la restituzione a suo tempo, altrimenti sarà arrestato e multato.

Contratti - Cassola.

 

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IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 28 marzo 1849.

Dietro proposta di molte guardie nazionali si ordina ai principali alberghi e caffè di questa città di lasciar aperte le botteghe durante la notte, così in caso di attacco del nemico si proibisce che si chiudano le botteghe e le porte delle case, delle quali ultime si dovrà almeno lasciar aperto il portello. Non si pone dubbio che questi ordini saranno puntualmente eseguiti.

Cassola - Contratti

 

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IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 29 marzo 1849.

S'invitano tutti i cittadini a portarsi colle proprie armi alla rispettiva parrocchia per eleggersi un capo. Ogni parrocchia avrà un capitano il quale dividerà sotto di sè i soldati in tante compagnie di 30 uomini per ciascheduna con un capo.

 

Bresciani!

 

Voi che fino ad ora deste tante luminose prove di buon volere, voi sarete per approvare questa deliberazione, e quindi vi stabiliamo per tale riunione l'ora di mezzogiorno.

Viva l'Italia! Viva l'Indipendenza!

Cassola – Contratti.

 

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IL COMITATO DI PUBBLICA DIFESA.

 

Brescia, 28 marzo 1849.

 

Il Comitato di pubblica difesa conoscendo che alcuni dell'armata austriaca disertano e girano senza nome, ha deliberato che tutti quei disertori che si presenteranno allo stesso Comitato con fucile saranno premiati colla somma di correnti lire 50. e saranno altresì protetti e giornalmente sussidiati colla paga di lire 1 50.

Contratti - Cassola.

 

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CASTELLO DI BRESCIA.

 

Li 31 marzo 1849, ore 9 antimeridiane.

Notifico alla Congregazione municipale ch'io alla testa delle mie truppe mi trovo qui per intimare alla città di rendersi tosto e senza condizione. Se ciò non succederà sino oggi a mezzogiorno, se tutte le barricate non sono intieramente levate, la città sarà presa d'assalto e saccheggiata, e lasciata in balìa a tutti gli orrori della devastazione. Tutte le uscite della città verranno occupate dalle mie truppe, ed una resistenza prolungata trarrà seco la certa rovina della città.

Bresciani! voi mi conoscete, io mantengo la mia parola.

Il comandante delle truppe

stanziate all'intorno alla città di Brescia

il tenente maresciallo

Haynau.

 

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ORDINE DEL GIORNO.

 

Italiani, sì Piemontesi che Lombardi, voi siete valorosi e degni figli d'Italia.....! Voi vedeste il nemico ed egli fu vinto, ora ritornerete colle vostre stesse mani a piantare il vessillo tricolore sull'Adige, lo vedrete, ve lo assicuro, sventolare sulle rive dell'Isonzo.

CHZARNOWSKY.

 

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BOLLETTINO.

Il giorno 25 Radetzky proponeva un armistizio che fu rigettato dal valente Chzarnowsky. Il giorno 25 due divisioni, 24,000 uomini, avanzavansi baldanzosamente sul ponte della Sesia inseguendo piccol corpo di piemontesi in finta ritirata. Appena da una di queste divisioni fu passato il ponte già minato, questo balzò, dividendo così l'armata austriaca. Le divisioni ora trovansi al cospetto di 40,000 uomini comparsi quasi per incanto: s'impone la resa. La divisione rifiuta, e le nostre artiglierie fulminano da ogni lato. I nostri soldati assalgono il nemico di fianco alla baionetta. I Tedeschi si avvoltolano nella polve lasciando nude le fila. Radetzky vedendo irreparabile una sconfitta, innalza bandiera bianca intanto che la predetta divisione deponeva le armi. Dopo breve ma franco parlamento fu conchiuso l'armistizio in questi termini:

1.° Radetzky sgombrerà subito il Lombardo col restante dell'armata ritirandosi Veronetta oltre l'Adige.

2.° Il Lombardo verrà immediatamente occupato dalle truppe sarde.

3.° Restituzione di tutti i prigionieri Piemontesi e Lombardi.

4.° Detenzione dei prigionieri Tedeschi in Piemonte.

5.° Rispetto alle vite ed alle proprietà d'ogni provincia lombarda.

6.° Sull'Adige nuovi trattati riguardo al Veneto.

 

Cittadini!

 

A tali notizie non occorre far comenti per destare entusiasmo. Rispettiamo i patti del grande Chzarnowsky e quindi tregua coi nostri nemici. Se però fossimo assaliti, imitate i nostri fratelli che si trovano in Piemonte.

Firmati - CASSOLA - CONTRATTI.

ESTRATTO DEL RAPPORTO

 

DEL FELD MARESCIALLO HAYNAU

 

sulla presa di Brescia comunicata a Radetzky.

 

«Non dubitando che a V. E. saranno noti gli avvenimenti in ed all'intorno di Brescia fino al 30 marzo a. c. comunicati col mezzo dell'I. R. comando militare L. V. mi affretto ad umiliare a V. E. la relazione dell'attacco e sottomissione di questa ribelle città intrapreso nel giorno 31 marzo e 1 aprile.

Fino al 30 marzo la brigata del generale Nugent si era accontentata di minacciare la città dalla sola parte del borgo di sant'Eufemia, e non aveva potuto fino allora mettersi in comunicazione col castello.

Quando nella notte dal 29 al 30 mi pervenne la notizia che la ribellione in Brescia prendeva maggiormente vigore, nel giorno 30 mi portai da Padova a Verona fino sant'Eufemia, presi tutte le disposizioni per spedire alcuni corpi di truppe, come anche pel rinforzo della guarnigione a Verona, ed ordinai che sul giorno 31 in unione alla brigata Nugent concentrata a sant'Eufemia si dovesse compiere il blocco della città ed operare l'assalto sopra le cinque porte ad un tempo.

La detta brigata consisteva nel 1. battaglione di Confinali Rumeni del Banato, 2. battaglione del reggimento arciduca Baden, due divisioni del Ceccopieri, uno squadrone di cavalleggieri Lichtenstein, e quattro pezzi di cannone: dassi in tutto 2300 uomini e 50 cavalli.

Ad onta di così piccol forza di truppa io non dubitava dell'esito, nè si poteva ritardare più oltre l'attacco poichè gl'insorgenti ricevevano dai colli continui rinforzi. Nel giorno 31 in sull'aurora venne operata la circuizione col mezzo di cinque colonne in modo che erano occupate le cinque strade che conducono alla città, e minacciate le cinque porte.

Io condussi meco il primo battaglione del Baden attraverso al declivio dei colli, facendolo entrare in castello per la porta esterna. Tutte le indicate colonne dovettero mettersi alle rispettive posizioni lottando cogli insorgenti in modo che ebbimo un morto e quattordici feriti. Sebbene una dirotta pioggia rendesse difficile l'operazione, venne d'altra parte favorita dalla nebbia. Verso il mezzogiorno era compiuto il blocco della città nella quale dominava il popolo e la perfetta anarchia.

Io feci conoscere alla città che mi trovava in castello, e che con apposita notificazione le intimava la resa.

Alle 11 ore comparve una deputazione della città, la quale facendo conoscere l'impotenza dell'autorità municipale e della parte ben intenzionata dei cittadini a dominare la ribellione, tenne contemporaneamente un linguaggio che provava come i ribelli non volessero in alcun modo conoscere il loro delitto: anzi versassero nella pazza idea di trovarsi sopra un terreno legale difendendo la città contro le truppe imperiali poichè erano incominciate le ostilità tra il Piemonte e l'Austria.

La deputazione chiese una dilazione fino alle 2 ore dopo mezzogiorno, essendo quel tempo assolutamente indispensabile per muovere gl'insorgenti a deporre le armi. Concessi la dilazione sempre sperando che i ribelli rinunciassero al pazzo proposito della difesa.

In luogo della risposta alle due ore pomeridiane venne suonato a stormo con tutte le campane della città, e si diresse sopra il castello un fuoco non interrotto dalle fila delle case che circondano il castello, dalle torri e dai tetti.

Io temporeggiai volontariamente il termine fino a 4 ore dopo il mezzogiorno, ma vedendo che la ribellione si faceva più forte, feci aprire il fuoco dal castello sulla città, ed incominciai l'assalto sopra tutti i punti.

Siccome io non aveva che 4 pezzi di cannone alla porta Torrelunga, e tutte le entrate fortemente barricate, non si potè a prima giunta penetrare che per questa porta.

L'attacco di essa venne facilitato da una divisione di riconvalescenti che io feci partire dal castello sotto la direzione del tenente Imeresk, prendendo la via dei Bastioni, disperdendoli in modo di operare di fianco sulla barricata della porta medesima.

Il tenente Imeresk eseguì l'attacco con distinta bravura e gl'insorgenti al primo giungere furono dispersi dalla barricata in modo che la colonna esterna del generale Nugent potè penetrare per questa porta nella città. Contemporaneamente feci uscire dal castello il 1.° battaglione Baden ordinando di assalire anche da quel lato la città.

Allora cominciò un combattimento micidiale il quale dagl'insorgerti venne condotto da barricata a barricata, da casa a casa, colla massima ostinazione: io non avrei giammai creduto che una causa così cattiva potesse essere sostenuta con tanta perseveranza. Ad onta di questa disperata resistenza, sebbene l'assalto non si potesse effettuare che in parte e con forti cannoni le nostre brave truppe sotto grave perdita con eroico coraggio occuparono una fila delle prime case; ma siccome tutte le colonne non poterono ad un tempo penetrare nella città, comandai sul far della notte di sospendere ogni progresso nell'assalto e di mantenere soltanto le parti conquistate.

Il combattimento durò sino a notte inoltrata. Al primo aprile sul far del giorno si rinnovò il suono delle campane a stormo ancor più forte che nel giorno prima, e la pugna cominciò dalla parte degli insorgenti con ancor maggior accanimento.

Io feci aprire subito un terribile bombardamento sulla città e ricominciare l'assalto. Attesa la grave perdita che avevamo di già sofferta, l'ostinazione ed il furore del nemico, si dovette procedere alla più rigorosa misura, comandai perciò che non si facessero prigionieri, e fossero immediatamente massacrati tutti coloro che venissero colti coll'arma alla mano; le case da cui venisse sparato, incendiate, e così avvenne che il fuoco già incominciato parte ad opera delle truppe, e parte dal bombardamento si appiccò in parecchi luoghi.

Le nostre truppe fecero a poco a poco progressi, poichè non si poteva avanzare che di posto in posto, essendo la forza disponibile troppo poca per una città così estesa, e colle contrade così strette. A poco a poco mediante assalti di fianco furono prese ed occupate le porte s. Alessandro, s. Nazaro, e finalmente in sulla sera anche la porta s. Giovanni, e in quella misura sgombrata la città dagl'insorgenti che in maggior parte tentarono fuggire per le mura. Essi furono serrati nell'angolo tra s. Giovanni, e porta Pile. A quattro ore dopo mezzogiorno entrava in città un battaglione di confinali del Banato ed una batteria di mortai che io aveva fatto pervenire il primo da Verona, la seconda da Mantova.

Il suddetto battaglione venne tosto impiegato a sollecitare la resa della città, e siccome la resistenza dei ribelli a poco a poco cedeva, così le nostre truppe a 6 ore pomeridiane erano già in possesso della città non solo, ma avevano anche ristabilita la quiete.

La nostra perdita in questo ostinato e micidiale combattimento che durò dalle 4 pomeridiane del 31 marzo fino a cinque ore dopo mezzogiorno del 1.° aprile fu considerevole. Non posso per ora spedire un quadro preciso e particolareggiato, però debbo umilmente annunciare che il generale Nugent è stato ferito alla noce del piede in modo che gli si dovette farne l'amputazione; che il colonnello conte Favancourt comandante in sua vece alla testa delle sue truppe ebbe una palla attraverso il petto e morì poco dopo; che il tenente colonnello Milez, dello stesso reggimento Baden, cadde gravemente ferito e dagli insorgenti poscia massacrato, e la sua salma mutilata. In tutto, la perdita dovrebbe ammontare in morti a 5 o 6 ufficiali e 480 uomini, in feriti a 10 o 12 ufficiali, e più che 430 uomini, avrò l'onore di comunicare a suo tempo la precisa distinta di queste perdite. Quella degli insorgenti non si può stimare; però si sono trovati in molti luoghi quantità di cadaveri.

Tutte le truppe, i loro ufficiali alla testa, hanno combattuto con straordinario valore, e il loro contegno merita la più grande riconoscenza.

Se questo lungo ed ostinato combattimento non trascorse senza eccessi in tali circostanze, ciò non si può evitare anche colle truppe meglio disciplinate.

Io mi darò somma cura di ristabilire nella città l'ordine e la legge, e non ritornerò colle mie truppe se non quando l'avrò consegnata al feld-maresciallo barone Appel, il quale deve entrare in Brescia al giorno 2 aprile. Tengo frattanto occupate le porte con forte guarnigione, e non lascio uscire alcuno per ottenere possibilmente l'arresto dei capi della rivolta.

In prova dello spirito che dominava nella città unisco alcuni proclami emanati dall'autorità([23]).

B. HAYNAU.

 

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PROCLAMA.

 

Partite le Imperiali Regie truppe pel Ticino, la città di Brescia con baldanza insolente si mise in ribellione, usò violenze agli II. RR. Militari qui rimasti, imprigionandoli e maltrattandoli, si armò e ammise entro le sue mura masnade armate della provincia e fece tutti i preparativi ed una difesa ostinata contro l'I. R. Militare.

Invece che il terrore di un bombardamento l'avesse indotta di desistere dal suo procedere insensato e di ritornare al suo dovere, s'organizzò nella città la resistenza sotto la direzione d'un apposito - Comitato di pubblica difesa - e colla diffusione delle notizie le più assurde di sventure sofferte dall'armata imperiale, s'eccitò ad una perseveranza generale e pertinace. Sono accorso per domare la città ribelle e di punirla per la ripetuta sua ribellione verso l'I. R. Governo.

Non ostante la prolungazione di due ore chieste e da me accordata, il termine posto alla città per la sua resa a discrezione, non servì ad altro, che di vieppiù fortificare la difesa della città coll'erigere di nuove barricate, e il termine scorso fu annunziato con un generale suonar a stormo.

Nulla di meno ritenni ancora per alcune ore gli ordini per l'assalto della città, nell'aspettativa che questa desistesse dal suo procedere insensato.

Poichè dopo un breve bombardamento, fatto come avvertimento, non si eseguì ancora la sommissione, la città dopo una resistenza disperata fu presa d'assalto dalle valorose mie truppe.

Eccitati dalla micidiale lotta nelle contrade alla più grande esacerbazione, nulla di meno essi non fecero sentire alla città tutti gli orrori di una presa d'assalto.

 

SI PORTA A GENERALE COGNIZIONE:

 

1.° Quattro ore dopo la pubblicazione di questo Proclama, tutte le armi e munizioni d'ogni sorta devono essere portate al Municipio, e consegnate all'I. R. Militare.

2.° Dove scorso il termine accordato per l'impunita consegna delle armi, si trovassero, praticando visite domiciliarie, delle armi o munizione di qualunque sorta il loro proprietario, o se questo non venisse trovato, il proprietario della casa o il suo agente sarà fucilato.

3.° Tutte le barricate sono tosto da levare, e il selciato deve essere rimesso come era prima, dove questo non succede sino oggi alle cinque ore di sera, e talmente che le traccie non sieno riconoscibili, le case private che vi confinano pagheranno una multa determinata.

4.° Gli II. RR. stemmi sono da ricollocare entro 48 ore in tutti quei luoghi ove furono prima, dove ciò non sarà effettuato, subentrerà una multa corrispondente.

5.° La città e provincia di Brescia pagherà una multa espiatoria di Sei milioni di Lire Austriache, le quali levate secondo lo scudo d'estimo, si verseranno in rate mensili di cinquecento mila lire austriache, cioè la prima rata col primo maggio di quest'anno, la seconda col primo giugno e così avanti sino all'ultima, scadente col primo aprile 1850.

6.° Per quegli II. RR. Militari, che in questa lotta contro gl'insorgenti traditori furono feriti, come anche per gli orfani dei rimasti sul campo, la città di Brescia pagherà Trecento mila lire austriache, pagabili in tre rate eguali, una coll'ultimo aprile, l'altra coll'ultimo maggio e la terza coll'ultimo giugno di quest'anno.

7.° Inoltre tutti i detrimenti sofferti dalle locali Casse militari e pubbliche durante e in causa di questa ribellione, sono da restituirsi e soddisfarsi dietro la precisa evaluazione.

 


 

 

I TOSCANI  A CURTATONE E A MONTANARA

 

(1848)

 

NOTIZIE STORICHE

 

 

«I combattimenti di Montanara e di Curtatone salvarono l'onore toscano, e mostrarono che la gioventù nostra sapeva tenersi sui campi di guerra, quantunque tre secoli di servitù cospirassero a snervare e ammollire il nostro paese.»

Atto Vannucci.

 

 

 

 

 

 

 

MILANO 1863.

PRESSO L'EDITORE CARLO BARBINI

ALLA SANTA MEMORIA

DI

LUIGI ZAMBONI

DI BOLOGNA

E DI

GIOV. BATTISTA DE - ROLANDIS

DI CASTEL D'ALFEO D'ASTI

CHE PRIMI CONGIURARONO

E SOFFERSERO LA MORTE PER LA PATRIA

QUESTE MEMORIE

SUI GENEROSI MARTIRI TOSCANI

L'AUTORE CONSACRA.

«Giova ricordare gli esempi della virtù popolare: così si insegna ad imitarli.»

 

Con animo veramente commosso ci accingiamo a narrare la storia di que' generosi Toscani, che, corsi nel 1848 ne' campi lombardi, mostrarono a Curtatone, a Montanara, alle Grazie, di che fossero ancora capaci le genti italiane, malgrado che tre secoli di schiavitù avessero congiurato a snervare ogni braccio, a soffocare nei petti ogni sentimento di patria. Erano pochi, adolescenti appena, usciti allora allora dai collegi, dalle famiglie, male forniti d'armi, eppure stettero saldi alla tenzone, non fuggirono innanzi ad un nemico fortissimo per numero, per posizioni, per argomenti di guerra. Non fuggirono que' pochi, ma combatterono sino a che o morti o prigionieri non fosse più a nessun di loro dato di brandire un ferro. Era il 29 maggio, anniversario glorioso; e que' soldati della libertà si mostrarono degni emulatori degli avi; i quali, nello stesso giorno del 1176, combatterono e vinsero in Legnano il medesimo nemico. Noi narriamo la storia di questi Martiri, perchè è sacra per noi la vita data per la patria; perchè dobbiamo per quanto è in noi eternare la memoria di que' precursori, che c'insegnarono, morendo, come si adempie il disegno di Dio, che ci vuol liberi e fratelli sulla terra. La gioventù italiana, leggendo queste pagine, troverà esempi di grandi virtù; essa, compresa d'ammirazione e d'entusiasmo, farà un voto di imitarli, preparando l'anima ed il braccio ai novelli cimenti della suprema battaglia.

 

Felice Venosta.

«La morte loro accese nei superstiti più vivo l'amore di libertà.»

Anonimo.

 

I

 

Il sabbato 18 marzo 1848, un popolo inerme sorgeva concorde, col santissimo nome di patria in sulle labbra, contro lo straniero oppressore. Era quello il popolo di Milano, il quale con solenni dimostrazioni aveva già fatto conoscere al tiranno, che l'opprimeva, come la dignità sua non avesse sbandita dal petto, come esso si accingesse a combatterlo, ove ai suoi giusti desideri non fosse fatta ragione.

Quando al diritto d'un popolo si sovrappone il falso diritto dei desposti, quando la sacra ragione giace schiacciata dalla forza, allora la coscienza di quel popolo trova al suo grido forme solenni, nobilissime dimostrazioni, che, svelando al mondo l'isolamento della tirannide, ne preparano la caduta. E, da queste generose proteste mosse la rigenerazione italiana sin dalla seconda metà dell'anno 1846. Milano sopratutto, ricorda con giusto orgoglio quelle gigantesche dimostrazioni, che segnarono irrevocabilmente la condanna dell'oppressione straniera e che rimarranno indelebili nel sacro volume della Storia.

La virtù del volere, spiegata di fronte alla brutale potenza delle baionette, il fermo proposito d'un popolo, consapevole del suo diritto e del suo finale trionfo, professato a viso scoperto, sotto gli occhi delle falangi nemiche, gridato all'orecchio dell'oppressore fu fatto mirabilissimo, infallibile foriero della nostra risurrezione. — Era il diritto che faceva tremare la forza.

Che disse allora, per calunniare Milano all'Europa, l'oppressore straniero? Disse che quelle dimostrazioni erano l'opera di pochi spiriti turbolenti e perversi, nemici d'ogni autorità e d'ogni governo, a cui il popolo, incline sempre a novità, affascinato ed illuso, traeva dietro. Rise l'Europa civile della stolta discolpa, ben sapendo che non è dato a pochi facinorosi d'imporsi al buon senso del popolo, e prevalere all'istinto d'ordine radicato profondamente nei civili consorzi. Essa sapeva che que' segni non erano che le aspirazioni di tutto un popolo stanco del servaggio.

Tale sacrosanta verità Milano mostrò nelle sue giornate di marzo. L'Austria non aveva più dinanzi a sè i pochi forsennati tumultuanti: essa si trovava di fronte un popolo, che aveva spezzate le catene, pronto a vendicarsi dei patiti martirî. Il potente straniero impallidì, tremò, fuggì dinanzi a quegli uomini che per tant'anni aveva conculcati, che aveva sempre riguardati con occhio di sprezzo.

Nelle prime ore della lotta i cittadini non avevano che pochissime armi: circa trecento fucili da caccia: qualche pistola, un pugno di vecchie sciabole, e quanti utensili domestici, ferri taglienti ed appuntati, cadessero nelle mani. Tutto per loro era buono a correggere le antiche ingiurie. E così sforniti d'armi furono sempre vincitori, perchè tutti avevano l'entusiasmo nel cuore, il valore nel braccio; perchè il coraggio era grande in tutti, quanto l'amore della libertà, quanto la coscienza del proprio diritto. Innumerevoli barricate, costruite dagli ingegneri del popolo, sorsero, come per incanto, in ogni via, custodite animosamente da fanciulli e da vecchi, mentre i più gagliardi si cimentavano a fronte del nemico, accorrendo ove più minacciasse il pericolo. Le campane tutte suonavano a stormo, eccitando sempre più i cittadini, e gettando nel petto dello straniero il terrore. Le donne fasciavano le ferite, incuoravano alla pugna, combattevano esse medesime; e non poche andarono famose per coraggio e per virile ardimento. Le persone, già più deboli e timide, allora, fatte forti e coraggiose dal pericolo della patria, instavano animosamente alla zuffa; e il fragore dei cannoni convertivano in argomento di festa e di scherzo. Chi non poteva fare altra difesa, gettava dalle finestre e dai tetti sassi, tegoli, legnami. Ogni classe di cittadini in quelle famose giornate fece prove stupende, e con uno splendido trionfo fu purgata la vergogna di 34 anni di turpe dominio.

Allato di questa gloria, altra anco ne vanta la memorabile rivoluzione di Milano; vogliamo dire la più che rara unica moderazione del popolo nella vittoria. Non furti, non saccheggi, non incendi, non private vendette, non insulti privati; alle persone, alle cose rispetto; rispetto ai prigionieri; mirabile contrasto colla barbarie, colla ferocia, la licenza degli Austriaci; e tanto più mirabile, che mentre il popolo accoglieva con amore il gregario vinto, sapeva che i fratelli prigionieri erano nel turrito castello spietatamente trucidati.

Il memorando trionfo del 22 marzo non si poteva ottenere senza grandi dolori, senza grandi sacrifici. L'albero della libertà non alligna che in terreno inaffiato col sangue dei Martiri. E copioso fu il numero di questi generosi, perchè grande era la forza dei nemici e più grande la loro efferatezza. I Martiri, che conquistarono e resero più preziosa la libertà di Milano, sommano a più centinaia: sono donne, vecchi, fanciulli, sacerdoti, cittadini d'ogni età, d'ogni condizione.

Il giorno 23 era in Milano un contento, una festa che sentiva del delirio. La coscienza di aver saputo col proprio valore cacciare l'abborrito straniero, rendeva baldo quel generoso popolo.

Dopo la vittoria, i Milanesi avrebbero voluto inseguire il fuggente nemico, stringerlo ai fianchi, distruggerlo. Ma quel movimento abbisognava di un capo esperimentato, che riunisse ogni fede; era pure mestieri che venissero ordinate le masse dei battaglieri della libertà; imperocchè, in campo aperto, ogni impetuoso valore diviene dannoso, ove non venga regolato dal senno di chi lo guida. In campo aperto l'uomo deve combattere a posta d'altri e non sua; altrimenti, la disciplinatezza del nemico, quantunque inferiore di animo e di numero, lo atterra e lo infuga.

L'entusiasmo del popolo milanese andò scemando sempre più tra i cantici e l'allegria. Quelli che continuarono ad essere i sopracciò della pubblica cosa non avevano la sapienza delle rivoluzioni. Essi lasciarono che il popolo s'intiepidisse, lasciarono che credesse già compiuta l'antica speranza, che tornasse alle usate faccende, ai piaceri. — Errore grandissimo e fatalissimo.

Nulladimeno, in mezzo a quella fiacchezza, parecchi, che l'adorazione d'Italia spingeva innanzi, partirono. Non avevano uniformità d'armi, nè di reggimento. Erano centoventinove, animosi giovani appartenenti a povere, agiate o nobili famiglie, i quali, sapendo come il debito d'ogni Lombardo non fosse interamente saldato sulle cittadine barricate, senza provvedimenti, senza vesti di ricambio, col solo moschetto dei cinque giorni, spensieratamente, ma colla esaltazione dell'eroismo, seguivano Luciano Manara, il quale, pel primo, dava esempi di abnegazione, lasciando la moglie, i figliuoli, le abitudini di lusso, tutto, per seguire gli impulsi dei suo cuore, e concorrere alla conquista della patria indipendenza, o morire.

Ma se que' che in Milano rimasero al timone degli affari, si mostrarono fiacchi non all'altezza del cómpito che più che il merito, il caso aveva loro affidato, non dormivano le genti italiane.

Da ogni città, da ogni borgo, da ogni villaggio, all'annuncio della sollevazione di Milano, sorgevano giovani volontari, i quali correvano sui campi lombardi per combattere le onorate battaglie del fraterno riscatto. Mancava in essi il freno della disciplina; non l'impeto. Fra gli uomini si notavano parecchie donne, a cui la debilità del sesso, la nessuna abitudine ai forti esercizi non erano impedimento all'impugnare le armi, ai disagi delle marce, alle privazioni d'ogni maniera([24]). Non mancavano sacerdoti, i quali, in nome di Cristo liberatore dei popoli, si erano fatti guidatori di squadre.

Il movimento dei novelli crociati era bello, grande, ammirato dai contrari, temuto dai nemici.

Non ci sentiamo abbastanza forti a descrivere il superbo spettacolo che la nostra Italia presentava in que' dì, in cui i padri, i mariti, i figliuoli, i professori, gli studiosi correvano a rivendicare col loro sangue i colculcati diritti, e a riconquistare a tutti una patria che uno straniero insolente ci aveva tolta. Dal Modenese, dal Parmigiano, dal Genovesato, dal Novarese andavano volonterosi aiuti ai Lombardi. Le Guardie nazionali di Firenze, di Pisa, di Livorno, di Siena si mobilizzavano, aventi a capo il colonnello Giovannetti. La principessa Cristina di Belgioioso traeva seco da Napoli un drappello di volontari, cui Ferdinando di Borbone aveva dovuto, suo malgrado, accordare le armi. Da Roma, guidati dai generali Giovanni Durando e Andrea Ferrari, partivano le truppe pontificie delle tre armature con parecchie legioni di militi cittadini. Da Milano, dopo l'esempio di Manara, partivano nuove guerriglie, le quali, là sul Garda, si univano, coll'intendimento di asserragliare i passi dello Stelvio e del Tonale, suscitare nel cuor bellicoso dei Tirolesi la sacra fiamma del fratellevole amore, rivendicare i confini d'Italia sulle Alpi Rezie, dove la natura li ha posti, e il diritto delle nostre genti li addita.

Bello era quell'entusiasmo, quell'accorrere di giovani volonterosi di vincere o di morire per la patria; ma di quell'entusiasmo, di que' volontari non si volle far tesoro.

Era cessata la lotta delle vie. La baldoria delle festività rumorose venivasi mano mano pur racquetando. La mente di parecchi posò per riflettere sui nuovi casi e trarne norma alle proprie azioni: gli uni a rivolgerle all'italica vita, gli altri all'individuale ambizione, i troppi alle sfrenatezze politiche. Per cui il nostro paese presentò alla gente illuminata la anarchia delle idee; il governo, l'ignoranza del maneggio della pubblica cosa; il popolo, il genio della rivoluzione bensì, ma fiacchezza nei propositi, facilità di spogliarsi della virtualità del sacrificio, di credere alla parola di quelli che, di lui temendo, sanno con arte fina trarlo nell'inerzia.

I governi provvisori, che qua e là vennero sorgendo, mano mano cioè che, all'esempio di Milano, le altre terre di Lombardia e quelle della Venezia cacciavano il nemico, erano composti da uomini di casato o di censo; da magistrati municipali dei tempi degli Austriaci, sudditi queruli, ma non energici; da qualche vittima dei caduti governi; da qualche avvocato in grido o scrittore di novelle. Codesti uomini, dondolandosi in seno di fallaci speranze di potenti aiuti del Re sabaudo, spensero a tutta possa il pubblico entusiasmo, risuscitarono le mal sopite discordie col parlare di agglomeramenti, d'innesti, di fusioni di popoli, invece di provvedere forti e pronti mezzi per discacciare oltre l'Alpi il nemico, di assecondare gli sforzi eroici dei soldati piemontesi coll'attivare la coscrizione, col chiamare alle armi l'italica gioventù, coll'affrettare la compera delle armi, e poter dire un giorno con nobile orgoglio: «L'Italia sta ed ha fatto da sè. Pusilli, per non dir peggio, guardavano invece con occhio diffidente quelli che in loro desideravano energia di propositi, sprezzavano i volontari accorrenti da ogni dove; e non potendo porre un obice all'impeto di quelle sacre falangi, facevano in modo che esse avessero ad essere in balia di sè stesse, a mancare di tutto; non furono rari i giorni in cui quegli eletti giovani d'Italia ebbero a piatire il pane. I sospetti, le tendenze, le ambizioni, le ingorde bramosie, le speranze agitarono gli animi di tutti, e fecero pendere in sospeso lo scopo precipuo, essenzialissimo, vitale, che tutti in lor cuore volevano attuato, fiaccamente aiutandolo.

 

II.

 

Carlo Alberto, all'esempio di Pio IX, aveva innalzato lo stendardo italiano, ogni suo decreto aveva diretto al bene della parte d'Italia che era da lui governata. Postosi su d'una tal via non poteva egli, senza smentire i propri atti, non aderire alle brame dei suoi popoli, che lo spingevano ad accorrere al soccorso dei Lombardo-Veneti. Sia per impulso altrui, sia per quello del proprio cuore, fatto stà che il giorno 23 emanava il seguente proclama:

 

Popoli della Lombardia e della Venezia!

 

«I destini d'Italia si maturano; sorti più felici arridono agl'intrepidi difensori di conculcati diritti.

«Per amore di stirpe, per intelligenza di tempi, per comunanza di voti, Noi ci associammo primi a quell'unanime ammirazione che vi tributa l'Italia.

«Popoli della Lombardia e della Venezia! Le nostre armi che già si concentravano sulla vostra frontiera quando voi anticipaste la liberazione della gloriosa Milano, vengono ora a porgervi nelle ulteriori prove quell'aiuto che il fratello aspetta dal fratello, dall'amico l'amico.

«Seconderemo i vostri giusti desiderii, fidando in Dio, che è visibilmente con Noi, di quel Dio, che ha dato all'Italia Pio IX, di quel Dio, che con maravigliosi impulsi pose l'Italia in grado di fare da sè.

«E per viemmeglio dimostrare con segni esteriori il sentimento dell'unione italiana, vogliamo che le nostre truppe entrando nel territorio della Lombardia e della Venezia portino lo scudo di Savoia sovrapposto alla bandiera tricolore italiana.

Carlo Alberto»

 

Scorsi tre giorni partiva da Torino per Alessandria, ove era radunato il maggior nerbo delle truppe, di cui ne assumeva il supremo comando. Divideva quelle in due corpi; spediva le avanguardie, ed accelerava la mossa degli sparsi reggimenti; indi stipulava col governo provvisorio di Milano i seguenti capitoli:

«I. Le truppe di S. M. Sarda agiranno da fedeli e leali alleati del governo provvisorio, ritenendo S. M. a tutto suo carico gli stipendi in corso e stando invece a carico del governo provvisorio ogni somministrazione di sussistenza. A tal uopo l'esercito piemontese sarà assistito da' suoi commissari di guerra; potrà il governo provvisorio aggiungere quei controllori che crederà del caso. Le richieste per la somministrazione delle razioni di viveri e foraggi si giustificheranno mediante boni firmati dai rispettivi comandanti dei diversi corpi, i quali saranno mallevadori della loro esattezza numerica.

«II. Avendo il governo provvisorio sopra istanza del signor generale comandante Lecchi espresso il desiderio di avere degli ufficiali per la istruzione delle nuove truppe che si stanno organizzando, il signor marchese Passalacqua - generale di S. M. - accoglie la richiesta in quanto a quelli che non figurano nei quadri di attività colla condizione che gli ufficiali assunti dal governo provvisorio diventino ufficiali al servizio di questo.»

 

Il 29 marzo, accomiatandosi dai suoi popoli, il Re varcava quel confine, che segnato aveva la tirannide, seguito da 23,000 soldati d'ogni armatura. A Pavia veniva accolto fra applausi indicibili, tra gridi di festa e fra le vie sparse di fiori. L'esercito sardo sommava a 72,000 uomini, molte migliaia de' quali rimasero di presidio nei paesi che furono occupati durante la guerra; molti i vaganti per capriccio, per malattia, per superiore permesso, per dilatata licenza. Quell'esercito era ben lontano allora da quell'organamento a cui il La Marmora seppe portarlo dopo gl'infelici anni 1848 e 1849, e a cui si dovettero quelle stupende prove da lui date in Crimea, a Palestro, a san Martino. La fiducia d'un'eterna pace coll'Austria aveva fatte trascurare al governo di Torino le provvidenze di guerra; e se le armi soperchiavano di gran lunga la ordinaria misura per sedare le possibili intestine sommosse, non bastavano, sia nel numero, sia nelle militari discipline, per porsi convenientemente in campo contro un nemico, fuggitivo sì, ma sempre gigante com'era l'austriaco. Oltre a ciò i generali mancavano di carte topografiche, e non conoscevano la parte d'Italia in cui andavano a combattere. A un tale esercito bisognava un capo ardito, sapiente delle cose di guerra, di que' generali che sanno in pochi dì creare i soldati, che sanno loro infondere quell'impeto che sopperisce agli stretti ordinamenti. Carlo Alberto, prendendo a sè il comando supremo delle truppe, fece grave errore. Egli avrà avute tutte le buone qualità immaginabili; ma mancava di spirito belligero, e d'attitudine per essere generale; era fiacco ed ignorante affatto della strategia. Anco il suo stato maggiore, fatta una eccezione, quella del generale conte Franzini, non era da più del supremo capitano. Affinchè i nostri lettori possano convincersi come le sorti della guerra fossero in cattive mani, diremo che il capo di stato maggiore, il conte Carlo Canera di Salasco, era un gentiluomo di camera, di nobile prosapia, d'indole timida e servile e di scarso ingegno. Egli spingeva la devozione verso la persona del re sino all'estremo; perfin nel campo si credeva in obbligo di continuare l'incarico di ciambellano, e sempre lo segui come l'ombra sua sia a piedi che a cavallo. Parte della notte passava in veglia per redigere que' bollettini che tutti hanno letto e prescrivere gli ordinamenti dell'esercito. Travagliato dalla propria coscienza, egli non cessava dal chiedere al suo principe lo dispensasse da cure, che domandavano altre teste che non fosse la sua. Carlo Alberto non assentiva ai suoi desideri; e al cessare della prima campagna, cessava l'alta funzione con fama di pessimo strategico e colla fatalità d'aver dato il suo nome ad un armistizio coll'inimico, forse per la forza dei casi inevitabile, però inviso ad ogni generoso cuore italiano.

Il giorno cinque di aprile il quartiere generale era a Bozzolo. Una mano di arditissimi volontari, capitanata da Griffini, aveva occupato il passaggio del fiume Oglio e disfattone il ponte presso Marcaria. Verso sera fu spinto più innanzi un nodo di truppa regolare delle tre armi, che occupò una casipola isolata lungo la strada di Mantova. A notte fitta, i cacciatori nemici, approfittando della spensierata sicurezza in cui si credevano i nostri, si avanzarono carponi verso quella casipola, attaccarono que' negligenti soldati e li posero in fuga. Una quarantina d'ulani li inseguì, facendone prigionieri nove, e togliendo loro otto cavalli che furono tradotti in Mantova. Quel primo scontro si poco felice, le frequenti paure al più lieve rumore notturno, il continuo trarre degli schioppi senza saper dove, nè contro chi, appalesavano chiaramente come le truppe piemontesi ignorassero i primi elementi dell'arte militare.

Il giorno sette il grosso dell'esercito muoveva per Goito, collo scopo di forzare il passo tra la fortezza di Mantova e quella di Peschiera. Il giorno 8, in sul meriggio, la prima divisione mosse con molta ansia contro gli Austriaci, i quali si erano asserragliati nel paese ed avevano minato il ponte. Dopo accanito contrasto i nostri facevano estremo impeto, entravano in Goito a viva forza, abbattevano ogni ostacolo, ponevano in fuga il nemico; il quale, sgominato da tanto ardire, correva precipitosamente al ponte per difendersi sull'altra linea del fiume. Anche quivi la resistenza fu lunga e ostinata; ma i nostri rimanevano vincitori.

Le perdite dal nostro lato, tra morti e feriti, sommarono a quarant'otto uomini. Caddero eroicamente il maggiore Maccarani del Real-Navi e il giovine tenente Wrigt, inglese di nascita. Si distinsero particolarmente il generale d'Arvillars, il generale dei volontari Griffini, il colonnello Alessandro Ferrero della Marmora([25]), il tenente Franchetti, il Milanesi, caporale d'artiglieria.

Il felice successo della giornata di Goito, mentre indeboliva la temuta fama di possanza dell'esercito nemico, incuorava sopramodo i nostri. Il giorno 9, il generale Broglia, colla 3a divisione, dirigevasi verso le alture che signoreggiano Monzambano. Gli Austriaci, all'avvicinarsi delle colonne italiane, fuggivano dal paese, e, riparando nella sponda sinistra, appiccavano il fuoco al ponte. La prima batteria a cavallo, sotto gli ordini del maggiore Filippi, allontanò di quasi mille metri gli opponenti dal Mincio, affine di ristabilire il ponte, su cui passavano di corsa buon nodo de' nostri. Se lo stato maggiore avesse conosciuti i luoghi avrebbe saputo rispondere all'ardore dei soldati, che volevano ad ogni costo inseguire i fuggenti. Ma quello doveva tenersi in una saggia moderazione, e anzichè eccitare le truppe le infrenava. Il colonnello Mollard, alle due e mezza dello stesso giorno occupava Borghetto. L'indomani le truppe della libertà prendevano posizione sulle alture dinanzi il castello di Valeggio; e il giorno 11, riposti in assetto i ponti fatti saltare in aria dal nemico, tutte passavano il fiume.

La facile vittoria ringalluzziva i nostri, e li faceva meno oculati e guardinghi; come quelli che ormai non temevano punto d'un nemico sbaragliato e fuggente. Ed era quello il momento che un generale esperto in cose di guerra avrebbe afferrato per ispingere innanzi le sue colonne, e approfittare in un tempo e dell'entusiasmo che le infiammava e della paura in cui ancora erano invasi gli Austriaci. In quella vece Carlo Alberto fissava il suo quartiere generale in Volta, e pago si teneva delle posizioni che gli erano state cedute con tanta facilità. La prima operazione del re a Volta fu, dietro consiglio di taluno, di tentare un movimento verso Peschiera; poichè, venivagli detto, il presidio di quella fortezza avrebbe tosto ceduto all'avvicinarsi delle sue truppe vittoriose. Se non che le mura di Peschiera non erano quelle di Gerico; nè era più il tempo che a suon di tromba cadevano i fortilizi. I Croati, che la presidiavano, erano soltanto 1800; ma, gente predona e selvaggia, avanzata alle vendette di Milano; essi non sentivano punto lo scoraggiamento nell'animo, bensì la speranza, nel resistere alla mala fortuna, d'infestare di bel nuovo le strade e i paesi, di appagare la non mai sazia ferocia col saccheggio e col sangue.

L'ufficiale parlamentario trovò adunque illusoria la facile reddizione della piazza; ed il Re, che, durante l'inutile tentativo, era rimasto ne' punti più bersagliati dalle palle nemiche, si ritraeva di là lasciando la brigata Pinerolo a stringere il blocco della fortezza.

Le truppe di Mantova, sfornite di viveri, andavano infrattanto battendo i campi, le cascine, i paeselli, predando quanto meglio cadesse loro nelle mani e malmenando spietatamente que' terrazzani che non erano lesti a darsi alla fuga. Carlo Alberto, a togliere questi miseri campagnuoli dallo strazio che il nemico di loro faceva, e fors'anco per pulire Rivolta e le Grazie dagli Austriaci, e facilitare il congiungimento delle proprie ordinanze colle modenesi, romane e toscane, che avevano di già varcato il Po, ordinava per la notte del dì 11 una grande ricognizione verso quella fortezza.

Ai primi albori, il generale Bava, alla testa di 12 mila uomini, muoveva da Gazzoldo dirigendo le sue truppe per Sarginesco, per Castellucchio e Montanara, affine di attaccare di fianco il nemico, ove avesse cercato di difendere l'argine dell'Osone; altre truppe dirigeva da Sacco per Rivolta e le Grazie per coglierlo di fronte; altre di Ceresara per Rodigo e Borghetto per procedere sino a Curtatone, ed altre infine da Piubega per Ospitaletto, affine di starvi come riserva, ed entrare, nel bisogno, a prender parte alla ricognizione.

Scopo di quelle mosse era, come si vede, di battere di fronte e di fianco gli Austriaci, esploranti le campagne, di tagliar loro la ritirata, e portarsi quindi immediatamente sotto le mure di Mantova. Il nemico non fu côlto all'improvviso; egli era stato avvisato di que' movimenti dalle accurate e indefesse spie che aveva saputo sguinzagliare dappertutto. Si ritirò in fortezza, sostenendo, verso Belfiore, un breve scontro coi bersaglieri, che gli tennero dietro sino alle porte.

Fallito quel tentativo, Bava faceva ripiegare i battaglioni. Sotto Mantova rimaneva una divisione di 5000 mila Toscani, volontari e stanziali, sotto il comando del generale d'Arco Ferrari, il quale, già buon soldato sotto il primo Bonaparte, era dagli anni e dagli ozi reso ormai svigorito ed inutile. Ai Toscani s'era aggiunto il 10.° reggimento di linea Abruzzo, che Ferdinando di Napoli aveva mandato in aiuto al granduca di Toscana.

Sin dal 18 aprile una legione volante di Modenesi, sotto gli ordini del maggiore Lodovico Fontana, aveva traghettato il Po presso San Benedetto per presidiare Governolo, posizione importantissima non lontana da Mantova.

La scelta del Fontana a capo di que' soldati fu ottima. Uomo di natura semplice, onesta, attivissima, egli aveva apprese le militari dottrine nel battaglione del duca di Modena, e desunte dal proprio cuore le politiche credenze. Il suo coraggio, la franchezza dei modi lo facevano stimare dai conterranei; il suo piglio soldatesco, le libere parole lo rendevano l'idolo delle schiere, che il governo provvisorio avevagli affidate. Consistevano queste in ottocento volontari, in duecentoventicinque soldati d'ordinanza, in trentacinque dragoni a cavallo ed in trenta cannonieri con tre pezzi d'artiglieria da campagna ed un obice. A cotale forza erano uniti cinquanta bersaglieri mantovani, guidati da Longoni, distinto ufficiale al servizio del Piemonte; fra que' bersaglieri erano i genovesi Nino Bixio e Goffredo Mameli. Saputosi come alcuni nodi di nemici ponessero a ruba ed a sacco il vasto paese, che era loro dato di campeggiare, alcuni fra i Modenesi, divorati dalla sete di combattere, chiesero a Fontana di poter volteggiare verso il forte, e ai predoni in cui s'imbattessero di far pagare caramente le loro ribalderie. Partirono quegli arditi in numero di trecento. Giunti a Castellaro vi si fortificarono, riconoscendo quel luogo importante per intercettare le comunicazioni di Mantova con Verona e Legnago. L'indomani a sera, avvertiti che due compagnie di cacciatori austriaci erano giunte a Castelbelforte, partirono in numero di duecento per tentare di sorprenderle e farle prigioniere. Albeggiava appena, quando presso il paese si scontrarono in loro, già deste ed in marcia per a Mantova. Attaccatele senza porre tempo di mezzo, dopo mezz'ora di accanito combattimento, le costringevano alla fuga, facendo loro soffrire parecchie perdite, ed inseguendole per buon tratto di strada.

Frattanto i rimasti a Castellaro venivano sorpresi ed assaliti da un battaglione ungherese con cavalleria e cannoni; e, benchè presi all'improvviso per la mala guardia che intorno a sè facevano, si difesero per un'ora, e si ritirarono poscia ordinati verso Governolo. Il temerario ardimento dei nostri divenne esca al nemico alla vendetta.

 

III

 

Il generale Gorzkowsky, di esecrata memoria, l'uccisore di Ugo Bassi, era allora governatore di Mantova. L'animo suo truce non poteva sopportare in pace come un pugno di volontari, usciti allora allora, in gran parte dai collegi, figli di famiglia il dì prima, non abituati alla guerra e in loco non munito dall'arte, avessero saputo porre in fuga due compagnie delle migliori sue truppe e sostenuto un lungo combattimento con altre truppe numerose senza arrendersi, senza lasciare neppure un di loro prigioniero. Quel generale deliberò di gettare, nella sera del dì vegnente, contro i soldati di Fontana una forte colonna di scelti gregari ai cenni d'un veneto, il Duodo. — Notiamo il nome a titolo di vergogna, chè, se come soldato il Duodo non credeva dover abbandonare le file dell'oppressore, come italiano doveva infrenare le sue soldatesche.

Per la porta San Giorgio, notte tempo, come branco di ingordi ladroni, un reggimento di ungheresi ed un battaglione di cacciatori uscivano con seco sei pezzi d'artiglieria e due squadroni usseri. Ubbriacatisi in un'osteria alle Colombare, uccisone l'oste e la moglie, ed arsa la casa, il Duodo spediva i cacciatori verso Casale per assalire i nostri di fronte e di fianco; il molto vino però, che questi avevano tracannato, offuscava loro siffattamente gli occhi che stentavano a raccapezzare la strada. Il grosso del corpo egli spingeva direttamente per la via dell'argine. Tutto era silenzio e tenebra; le ruote dei carri erano fasciate di stoppa. Gli Austriaci sorprendevano, immerso nel sonno, un giovinetto reggiano, sentinella avanzata; uccisala a colpi di baionetta, scavalcavano la prima serraglia composta provvisoriamente d'alberi incrocicchiati; e i nostri, a difesa di quel punto, sorpresi e côlti da spavento si davano a precipitosa fuga, avvisando il campo del giungere del nemico con grida smodate.

Scoccavano allora le quattro del mattino. Un falso allarme nella notte aveva tutti desti; epperò tutti erano pronti a battaglia. Fontana, disceso in fretta nella strada, minacciava di morte chi alzasse grido, o battesse i tamburi; e provvedeva celeramente alla difesa. Poneva una compagnia di fanti con due cannoni sulla sponda destra del Mincio, ordinando al capitano Cremonini di prendere l'inimico di fianco. Disponeva tre centurie nel camposanto, che sta sulla via di Casale. Difilava dal ponte levatoio sino alla chiesa, che è in fondo al borgo, una riscossa di trecento uomini tra volontari, stanziali e soldati a cavallo. Traeva seco trecentosessanta civili, i bersaglieri mantovani e due pezzi d'artiglieria sull'argine della riva sinistra. Presso il casino Tiraboschi era stata già rotta la strada, e apertovi un largo fosso comunicante col fiume.

Il nemico si accennò col rimbombo dei cannoni e col fischio dei razzi. Il Fontana, a cavallo, si pose alla testa de' suoi, ed alzando il braccio e la spada, gridò animosamente: Viva l'Italia! a' quel grido si succedevano le grida dei soldati, e alla mitraglia delle artiglierie austriache quella delle modenesi. Ad ogni colpo dell'inimico vedevansi andare in frantumi i tetti delle case di Governolo, a smembrarsi i pilastri dei porticati; ad ognuno dei nostri vedevasi lo sperpero nelle avverse file, e si udiva il confuso lamento delle teutoniche voci. La compagnia di Longoni procedeva innanzi, e i Modenesi la imitavano. Intanto uno dei due pezzi a capsula — su cui il duca Francesco IV, di trista memoria, aveva con villano scherzo fatta apporre la leggenda «Ciro Menotti contro i liberali, 1831» avendo rotto il congegnamento, non faceva più fuoco. Il Cremonini si rimaneva inoperoso nell'opposta riva, mentre alcuni tra i suoi si erano posti a fuggire verso il Po. Fontana mandava il suo aiutante per riscuotere l'attività dell'inerte capitano; ma lo stimolo non valse. Pur la fortuna combatteva pe' nostri; imperocchè i pochi, postisi in iscaglioni, recavano la strage nell'opposto campo.

Dopo un combattimento di oltre quattr'ore, il Duodo, inasprito dalla lunga difesa e per le tante morti de' suoi, ordinava la carica alla baionetta. Gli ungheresi rispondevano al cenno che i tamburi loro davano; ma giunti al valico del fosso s'arrestavano incerti. Essi venivano côlti da un ben nutrito fuoco di moschetteria che li faceva indietreggiare. Un nostro tamburo, senz'ordine, cominciava a battere anch'egli la carica. Il Fontana gridava: Vittoria! Viva l'onore italiano! I soldati della libertà si aggruppavano in colonna e correvano sui passi dell'inimico, il quale, preso da tale sbigottimento, si dava a dirotta fuga. Erano allora le dieci. Inseguiti gli Austriaci per buon tratto, i nostri fecero qualche prigioniero ed ebbero per bottino un carro coperto con munizioni da guerra.

 

IV.

 

Dal lago di Garda alle alture tirolesi erano adunati cinquemila e più volontari lombardi, svizzeri e genovesi, i quali si avevano a comandante un colonnello federale, originario di Piemonte, per nome Allemandi. Le varie legioni erano capitanate dal Borra di Brescia, ufficiale del già esercito italiano, cui i molti anni non avevano punto scemate le forze fisiche e del cuore; dal Thannberg, giovine alsaziano arditissimo; dal Tibaldi di Cremona; dal Manara, dal Trotti, dall'Arcioni, dal Torres, dal Beretta, dall'Anfossi, dal Longhena, e da altri generosi figli d'Italia. I soldati, che a que' capi dovevano ubbidire, erano audaci tutti, ma mancavano di disciplina, di fermezza ne' propositi. Il governo, come accennammo, avevali quasi abbandonati, facendo loro mancare vesti, munizioni e vettovaglie. Tuttavia essi valorosamente combatterono alle Sarche, presso il castello di Toblino, ed inseguirono il nemico verso Trento sin oltre Vezzano. L'Allemandi, che vedeva quanto importante fosse di conservare i passi del Tirolo, sia per tagliare da quelle parti la ritirata agli Austriaci, sia per impedire che vi ricevesse nuovi rinforzi, chiedeva a Carlo Alberto quattro battaglioni di truppe regolari con quattro pezzi d'artiglieria. Le sue istanze non erano ascoltate; dopo lungo domandare, gli veniva detto che il governo provvisorio di Milano, non volendo in quelle posizioni più oltre agire, gli ordinava si apprestasse a portarsi a Brescia colle sue genti per ricevervi una regolare riforma. Così nel corso d'un mese, dì per dì, dalla cacciata di Milano degli Austriaci, que' reggitori della pubblica cosa decretavano l'abbandono del Tirolo, concedevano agio al nemico di raccozzare nuovi armati al di là delle Alpi, lasciavano indifesa la Venezia, scoperto il Friuli, libero il passo del lago di Garda per Brescia. Incredibile cosa, ma pur vera.

Anco la grossa guerra era infrattanto condotta con molta lentezza. Dopo una assai prolungata inerzia, parecchie scaramucce di avamposti si erano operate dai Piemontesi in sullo scorcio d'aprile. Essi avevano infugati gli Austriaci da Villafranca e avevano occupata quella terra. Pel giorno 30 si decideva di dare una battaglia. Mentre il generale Bes vigorosamente avrebbe respinto il nemico dai villaggi di Pacenzo e di Cola, il generale Broglio avrebbe marciato verso Santa Giustina e Pastrengo per impossessarsi di quelle posizioni; distruggere i corpi esciti da Verona, e infine chiudere ogni comunicazione tra quella piazza e Peschiera. Altre truppe venivano aggiunte in modo da formare un corpo di venticinquemila uomini, che era affidato al supremo comando del generale Ettore De-Sonnaz.

Il 30 aprile era giorno festivo. Il Re volle che, prima d'ingaggiare la battaglia, i soldati avessero ad udire la messa, ciò che ritardò di molte ore i movimenti delle truppe. Tuttavia le saggie disposizioni date dal De-Sonnaz, e il valore dei soldati riportarono dappertutto completa vittoria. La brigata Piemonte, 3.° e 4.° di linea, era la prima a misurarsi; essa spingeva il nemico, lo incalzava, lo proseguiva di collina in collina; la brigata Cuneo, 7.° e 8.° di linea, comechè a rilento a cagione del terreno accidentato, la imitava alla dritta. Pastrengo era preso d'assalto con un entusiasmo senza pari. Gli Austriaci, disloggiati, si riordinavano, e tentavano una vigorosa fazione sulla sinistra; e quel brusco attacco poteva forse cangiare le loro sorti, se tre squadroni di carabinieri non si fossero slanciati alla carica sulla collina, e non avessero colla forza irresistibile dell'esempio trascinata a sè la fanteria. Allora gli Austriaci, cinti da ogni lato, piegavano disordinatamente verso i ponti di barche stabiliti a Pescantina e a Pontone. Battevano le quattro pomeridiane; senza alcun pericolo si potevano inseguire i fuggenti, tagliare loro la ritirata, o farne per lo meno un numero grande prigionieri. Ma Carlo Alberto, che, da un'eminenza, aveva innanzi tutto assistito alla battaglia, e si era trovato quindi, a vero dire, ne' più perigliosi punti, non seppe trarre profitto dalla loro demoralizzazione, e si accontentò delle acquistate posizioni.

La giornata di Pastrengo fu la prima battaglia campale, in cui gl'Italiani diedero saggio del loro valore e dell'intelligenza nell'eseguire le disposizioni del supremo generale.

Tra le più note virtù che in quel dì si appalesarono, noteremo il capitano d'artiglieria Paolo Riccardi, che poneva in rotta un grosso corpo nemico, disponendo saggiamente e con molto ardimento i suoi cannoni; — il maggiore Alfonso Lamarmora, il quale alla testa di uno squadrone di lancieri e d'una mezza batteria a cavallo, infugava, sgominandola, prima una colonna di fanteria nemica poscia altra di cacciatori; — il capitano Delavenay, che con un piccolo drappello di granatieri savoiardi si avanzava arditamente contro una compagnia di Austriaci, che avevano sorpreso uno squadrone de' nostri, disposto in iscaglioni. Il nemico resisteva, egli lo assaliva colla baionetta; e, afferrato il braccio del capitano, lo faceva prigioniero co' suoi. Ufficiali e soldati morirono da prodi. Cadde tra i più cari e rimpianti il giovane marchese Gerolamo di Bevilacqua, da Brescia, ricco di dovizie e di amor patrio, pochi dì prima assunto al grado di ufficiale nel reggimento di cavalleria Piemonte Reale; egli cadde mentre già i nostri gridavano vittoria. Avuto il comando dal suo capitano d'infugare un nodo di nemici, egli si slanciava furiosamente alla testa de' suoi soldati, e, spiccando un gran salto per sopra una siepe, si dirigeva verso il cimitero di Pastrengo. Il fatto era coronato di lieto successo, non era morto che un trombettiere. Imperocchè gli Austriaci lasciavano la riva destra dell'Adige, e i Croati, rannicchiati dietro una cascina posta sopra un poggio, erano stati obbligati a snidar di colà per la maestria delle artiglierie nostre, le quali avevano smantellato quel riparo. E ad uno di codesti Croati, mortalmente ferito vicino ad un albero, Bevilacqua si avvicinava appunto per pietà guerriera e per dirgli di rimanere pur tranquillo in potere degl'Italiani. Esso avvicinavasi con un sentimento di benevolenza; ma l'altro, scaricandogli contro l'archibugio, che carico aveva fra le gambe, freddamente l'uccideva. Così a 25 anni moriva per la causa italiana Gerolamo Bevilacqua, lasciando di sè ineffabile dolore nella famiglia, desiderio perenne negli amici, nella storia il nome di un Martire.

La forza santificata dal diritto respingeva sui campi lombardi la forza compagna alla violenza ed all'oppressione. I casi della prima trovavano un eco sopra ogni labbro, sopra ogni pagina di giornale, e destavano un palpito di sublime fierezza entro ogni cuore italiano. Ma sollevando il pensiero all'altezza dei tempi progrediti, possiamo asserire che le vittorie riportate dai nostri sull'austriaco non valevano quelle apparentemente più modeste, che riportavano su loro medesimi, vogliam dire su quell'istinto naturale che ci spinge a lavare l'offesa colla vendetta. Mentre da una parte si sapevano i crudeli trattamenti a cui venivano sottoposti i nostri prigionieri, noi siamo lieti di contrapporre al quadro dolente due episodi, non unici, durante quella campagna.

Nella battaglia appunto di Pastrengo i due eserciti erano travagliati da un'ardentissima sete. Ricacciati gli Austriaci dappertutto, alcuni dei nostri erano giunti a procacciarsi una secchia d'acqua, e vi stavano affollati intorno, avidissimi d'immergervi le riarse labbra. Ma una voce si sollevò: «Portiamola ai prigionieri.» Tutti applaudirono al generoso invito, e gli Austriaci non tardarono ad essere i primi a spegnervi la sete. Il primo Bonaparte fu applaudito quando, salutando un convoglio di prigionieri, sclamava: Honneur au courage malheureux! Ma noi abbiamo ferma credenza che il fatto dei nostri si lasci di gran lunga addietro la vantata generosità del saluto e del detto dell'imperatore dei Francesi.

In quella medesima fazione, ricercando alcuni dei nostri nella giberna d'un prigioniero, ed affrettandosi questo a dar di mano alla borsa per offrir loro alcune swanzighe, gli venne risposto: «Tienti il tuo danaro, noi non sappiamo che farne, vogliamo soltanto le cartucce.»

Mentre gl'Italiani dalla mente immaginosa e poetica cantavano inni a gola piena sulla riconquista della patria, quasi attendendo il rinnovamento di que' prodigi registrati nella storia degli Ebrei, il generale Nugent, quello stesso che un anno dopo moriva sotto le mura di Brescia, alla testa d'un corpo d'armata valicava senza ostacolo l'Isonzo, muovendo per alla volta di Palmanova. Erano 20,000 uomini che il ministero di Vienna aveva potuto radunare e spedire in Italia durante le incertezze di Carlo Alberto e gli errori del governo di Lombardia.

Oh! se quel re, serbando le mitezza dell'animo per tempi più lieti, si fosse mostrato capace di risoluzioni forti ed ardite! Se i generali, meglio scienti di quanto valessero, non avessero abbracciato ogni mezzo per ispegnere il primo entusiasmo, nè gettato il discredito sull'insurrezione popolare! Oh almeno, se gl'Italiani tutti adatti alle armi, invece di farsi abbagliare da mendaci propositi, fossero sorti alla voce dell'onore ed avessero avviluppato e ristretto gli stranieri entro una cerchia di baionette, l'Italia sin d'allora si sarebbe costituita; avremmo Roma e Venezia; Nizza e Savoia non sarebbero state vendute, e non saremmo all'arbitrio dell'uomo del 2 dicembre.

La fortezza di Palmanova era presidiata da un buon nerbo di difensori lombardi, veneti e piemontesi; ciò saputosi dal Nugent, stimando che lo Zucchi, lor comandante, si sarebbe battuto sino all'estremo, volse le sue genti perso Udine. Presidiavano questa città due compagnie di fanteria; 500 civici mobilizzati, parte con fucili da caccia, parte armati di lancie; una compagnia di granatieri mandati da Venezia senz'armi, e pochi artiglieri di marineria con quattro cannoni da 6. E questo pugno d'Italiani, sprovveduto d'ogni argomento di guerra, teneva per sei ore continue testa alle falangi austriache, e le fugava con non lievi perdite. Cresciuto l'animo nei civili, volevano esporsi ad una sortita che dalle autorità municipali e dall'arcivescovo non era assentita. Durante la notte i reggitori del paese, presi da paura, vilmente cedevano al nemico; e i cittadini, nel leggere, in sull'alba dell'indomani, affisso pei canti il turpe trattato, ad imprecare contro i traditori del paese, a sottrarre le armi e le robe alla cupidigia nemica, e a fuggire il loco natio per non cader vittime della vendetta dei fortunati.

Nugent non imitava punto la moderazione e la lentezza dei nostri generali. Esso opprimeva, taglieggiava, spandeva dappertutto il terrore, e proseguiva la sua corsa verso il Tagliamento. Il ponte era quivi troncato per un quarto della sua lunghezza; ma egli lo traghettava su piccole barche. I volontari della libertà e le scarse truppe, che difendevano la sponda, dopo breve resistenza si ritiravano, contando far mano non sulla Livenza, ma sulla Piave.

In Treviso si adunavano, oltre i volontari, un migliaio d'uomini di truppa regolare, e due legioni di egual numero, una delle quali comandata dal conte Livio Zambeccari, di Bologna. Poco lungi stavano i settemila pontifici e diecimila volontari di Roma, delle Marche, dell'Umbria, i primi guidati da Durando, da Ferrari i secondi.

Quelle schiere non potevano bastare ad infrenare i passi di Nugent, che, giunto d'improvviso a Conegliano, aveva spinti i suoi avamposti sulla riva sinistra del fiume. Soprammodo difficile è la difesa di una tal naturale barriera; impossibile quando si hanno di contro forze di molto superiori, e una lunga linea da sorvegliare.

Il generale Durando ne aveva una lunghissima dal Cadore alla Foce e colle poche sue truppe. Laonde dava soltanto quelle disposizioni che avessero potuto, non già respingere, ritardare almeno le operazioni di un nemico abile e forte. Il Nugent esitava qualche giorno in Conegliano e in Oderzo; distaccava armati a Ceneda, a Serravalle, e spingeva nodi dei suoi sino a Mel sulla Piave; finalmente, udendo come i Romani si avanzassero, cacciava un grosso corpo tra Belluno e Feltre, dirigeva tremila uomini sulla prima città senza incontrare opposizione, e faceva lo stesso sull'altra che, senza condizione veruna, pur gli apriva le porte. Durando ripiegava su Bassano affine di asserragliare la valle del Brenta; e siccome il nemico, perseguendolo da Feltre, non aveva che due strade, quella di Primolano e l'altra di Pederoba, poneva mille e duecento uomini nel primo paese, ritenendosi seco tremila; l'altro era custodito dai Romani di Ferrari, il quale era in Montebelluna e in Narvesa col principale nerbo.

Nugent, che aveva frastagliate le sue schiere pei paesi rioccupati, mandava quattromila nelle due strade. In Pederoba fu breve la resistenza; le truppe ripiegarono sopra Cornuda, ove Ferrari si recava sollecitamente con tremila uomini. Le truppe di Nugent attaccava quel generale la sera dell'8 maggio; e le milizie civili, comechè nuove alla guerra, resistevano intrepide al tempestare delle bombe e dei razzi e all'impeto della cavalleria. La notte poneva fine al combattimento; ma l'alba appariva appena, che gli Austriaci lo riaccendevano; e i nostri lo sostenevano con maraviglioso ardire. Nelle prime, file, esempio di raro coraggio, era il Gentiloni di Filottrano, che i compagni animava colle parole e cogli atti. Il Ferrari aveva, durante la notte, spediti messaggi premurosi al Durando, pregandolo di accorrere subito. Questo generale per lettera gliene dava assicurazione; dicendo che le sue truppe si sarebbero incontanente poste in marcia per Crespano; e i volontari, certi d'un pronto soccorso, tenevano fermo, mentre la morte mieteva molti di loro, tra cui l'aiutante maggiore Danzetta, operosissimo e prode. Poco oltre il mezzogiorno giungeva altra lettera del Durando, la quale diceva queste ormai celebri parole:

 

«Generale — Crespano — Vengo correndo. — Durando.

 

Ma il Durando non venne. In tutta la campagna quel generale cercò sempre di sfuggire gli Austriaci, tenendo una condotta delle più inesplicabili e senza scuse; eppure egli andò impunito; poichè, vuolsi, gli fosse tenuta buona la discolpa, di avere seguite le istruzioni del governo di Roma al cui stipendio era dal 1847, cioè da quando i Romani vollero ufficiali piemontesi pel riordinamento delle loro milizie.

Nugent infrattanto era venuto sempre più rinforzando le sue posizioni con nuovi battaglioni; e tuttavia le milizie nostre avevano tenuto fermo; ma svigorite dalla veglia della notte precedente, dal continuato combattere, dal digiuno, e non vedendo a giungere i soccorsi, esse cominciarono a diradare il fuoco e a cedere il terreno. Allora Ferrari comandò si effettuasse il movimento di ritirata. Erano le cinque e un quarto pomeridiane. La marcia fu ordinata, se non tranquilla. Gli Austriaci, che avevano patite di molte perdite, non osarono inquietarle.

I nostri giunti a Montebelluna, non trovandovi truppa stanziale, gridarono ad alta voce essere ingannati dal Ferrari, traditi dal Durando, venduti al nemico; e tanta paura e tanto disordine entrò in quelle legioni, che pocanzi avevano sì gagliardamente combattuto, che, sciogliendo il freno della disciplina, si diedero a fuggire verso Treviso. Fu giuocoforza al Ferrari seguire le improntitudini dei suoi e col resto della sua divisione abbandonare la Piave. Egli sperava confortare gli animi, contenere la corsa, riordinare i volontari, e riprendere Montebelluna prima che il nemico potesse occuparla. Senza porre tempo di mezzo, egli partecipava i lamentevoli eventi al Durando acciò lo soccorresse; scriveva al generale Guidotti di difendere colla sua brigata i posti occupati, o si ritirasse su quel punto che stimasse il migliore; ed eguale ordine trasmetteva al colonnello Gallieno. Inutile cura; il primo si poneva ad eseguire delle marce e contromarce a suo talento senza recare soccorso al compagno; i secondi erano già in marcia precipitosa verso Treviso. Veduta ormai vana ogni resistenza, Ferrari dirigevasi anch'esso per quest'ultima città.

Il Nugent, non trovando opposizione veruna da parte di Durando, e degli altri corpi, muoveva le sue genti per a Treviso in tre punti diversi, Il Ferrari dava disposizioni per la difesa; ma alcune sue truppe, andate in ricognizione sulla via di Spresiano, sorde alle voce del dovere e dell'onore, allo apparire degli Austriaci, ripiegavano in tumulto per colpa di alcuni capi, a cui il governo di Gregorio XVI aveva dato gradi supremi in grazia di turpi e nefandi meriti. Quel fatto demoralizzava sempre più le schiere stanziate in Treviso ed in ispeciale modo i papalini. Per cui Ferrari, radunato sollecito consiglio, proponeva di lasciare nella piazza un presidio di 5,000 uomini, i migliori che avesse tra i granatieri, i reggimenti de' volontari e i corpi franchi, e trarre seco il rimanente, di notte per la via di Mestre, la sola sicura. Ma il grosso delle sue genti, preso dal timor panico — malattia contagiosa che così facilmente si apprende nelle giovani schiere di recente battute — non voleva partire adducendo a ragione non voler commettere una viltà coll'abbandonare un paese che il nemico stringeva come d'assedio. Oltre a ciò, un forte nodo di giovani trevigiani asserragliava la porta della città per impedirne la uscita. L'indomani, dodici maggio, venne ritentata la prova e riescì; il colonnello Lante rimase a comandante la piazza colla guarnigione di sopra accennata; la popolazione, sommante a quindicimila abitanti, pareva animata dal più nobile ardore; e la città circondata da muraglie era per lungo tratto inaccessibile a cagione delle paludose sponde del Sile. Facevano parte eziandio del presidio trecencinquantuno Italiani di tutte provincie, venuti da Parigi a Genova, con armi ed a spese del governo provvisorio di Francia e guidati da Giacomo Antonini, di Novara, capitano nelle napoleoniche schiere; colonnello in quelle della Polonia; eletto poi dai suoi, generale; uomo valente, arditissimo; ma di poco ingegno e di non specchiata moralità.

Il corpo del Nugent era in buona parte composto di Transilvani e Croati, gente brutta, ingorda e ladrona, uscita dalle povere sue contrade per far numero e forza, ed opprimere con ogni crudeltà, con ogni preda il paese infestato da' suoi passi. E' campeggiavano sui prati tra Visnadello e Fontane, e spingevansi qua e là a drappelli, rubando nei vicini villaggi. Lo stesso giorno che il Ferrari si dirigeva per a Mestre, il generale Guidotti, col moschetto alla mano, quasi semplice milite, volle fare una sortita coi pochi che consentirono seguirlo. «Soldati, aveva detto, il generoso italiano, il primo posto del pericolo è quello dei vostri generali; noi non vi diciamo di avanzarvi inverso l'inimico, vi diciamo soltanto di seguirci.» Ciò detto si slanciava solo in mezzo alla via, a pochi passi dagli Austriaci; e per tre volte faceva fuoco sull'oste vicina, con ardimento che è quasi incomprensibile al coraggio umano. Rotto il cuore dall'angoscia, voleva morire. Invano Ugo Bassi il raggiungeva a cavallo per esortarlo a non esporsi a certo pericolo. Egli fu irremovibile, e gridò ancora: Vincere o morire! Nè fu lontano l'avveramento del presagio. Colpito in mezzo alla fronte, cadde riverso sul terreno, e le sue ultime parole suonarono: Italia e libertà. Un grande cittadino perdette la patria, e un guerriero fortissimo l'esercito romano. Guidotti portò in cielo intemerata e bella la palma del martirio.

 

V.

 

La pubblica opinione aveva già mormorato sull'inutile tentativo fatto sopra Peschiera. Il ministero muoveva istanze perchè le mosse offensive si continuassero; i gazzettieri prorompevano in biasimi più o meno aperti, a seconda del partito a cui appartenevano, sulle cose operate cotanto a rilento, sulla persona che le dirigeva, e sul nessun pro' ritirato dalla vittoria di Pastrengo. Carlo Alberto leggeva que' fogli, entrava in gravi pensieri, e ordinava che l'esercito uscisse dall'incriminata immobilità. Alcuni segreti messaggi spediti da Verona al quartiere generale, davano speranza che gli abitanti di quella città sarebbero insorti all'apparire dei nostri nelle vicinanze; dicevano altresì che cinquemila Lombardi avrebbero disertato; ed aggiungevano che le truppe ungheresi, conscie di ciò che accadeva nella loro patria, non avrebbero preso parte al combattimento.

Il Re, a quelle voci, senza molto precisare il come ai capi delle schiere, comandava si eseguisse l'indomani, 6 maggio, una ricognizione offensiva sotto Verona. Nelle prime ore del mattino, le truppe si mossero dai rispettivi campi di Pastrengo e di Goito, o s'avanzarono scaldate da molto entusiasmo. Le due genti s'incontrarono vicino al villaggio di Santa Lucia, da una parte e dall'altra si combattè con impeto grande. I nostri furono sempre vincitori; ma il Re, vedendo che niun movimento avveniva in Verona per parte dei cittadini, ordinava verso sera la ritirata.

Cotesta impresa, malamente diretta e senza assieme, senza la menoma conoscenza del terreno, con uno spreco di sangue, come se da essa avessero dipenduto le sorti supreme d'Italia, colmò di stupore il nemico, il quale tolse un'alta idea del valore italiano, e impensierì i nostri sulla imperizia dei capi e sull'imprevidenza del corpo sanitario.

Un migliaio di soldati d'ogni grado e d'ogni arma rimase fuori di combattimento. Perirono tra gli altri gloriosamente il colonnello del 5.° fanteria, cavaliere Ottavio Caccia, il quale, traforato il petto da una palla, proferì negli estremi singulti: «Come io sono felice di morire per la mia Italia!»; il luogotenente dei cavalleggieri Aosta, cavaliere Alfonso Balbis di Sambuy; il marchese Carlo Del-Carretto, spento sul cannone di cui dirigeva il fuoco; il marchese Pietro Colli, pur ufficiale d'artiglieria; il tenente nel 5.° reggimento Bernardino Polombella, ed altri molti.

Possano presto gl'Italiani alzare in Santa Lucia una pietra monumentale a tutti i nostri fratelli, i quali vi caddero colla spada alla mano per la libertà d'Italia. Allora scomparirà la lapide che il 6 maggio dell'anno 1858 fece lo straniero collocare nel cimiterio a perpetuare la memoria di que' fra i soldati del reggimento Sigismondo, che perirono in quella fazione; e tanto più che quella pietra rammenta una vergogna nostra: que' soldati erano italiani combattenti per la tirannide!

Fra i fatti parziali in quel dì operati, vogliamo ricordare quello del soldato Descamps dell'artiglieria a cavallo, il quale rimase al suo posto, comechè una scheggia di mitraglia gli avesse strappate due dita; — quello del capitano d'Yvoley, il quale, non curando una grave ferita già riportata, continuò a combattere sino al punto in cui un altro proiettile venne a fracassargli l'osso della gamba. Vogliamo ricordare altresì l'atto generoso e pio del tenente di Loc-Maria, il cui cuore nella ritirata fu scosso alla vista di parecchi soldati giacenti sul campo alla mercè de' Croati; ond'egli, con pochi de' suoi, malgrado il grandinare delle palle, li raccoglieva e li faceva salvi per tempi migliori.

Alcuni giorni prima della fazione di Santa Lucia, i Toscani, dilatando il campo d'operazione sino al villaggio di San Silvestro a due miglia da Mantova, avevano, presso Chiesanova, ingaggiato il fuoco con parecchie compagnie ungheresi del reggimento Gyulai. La ricognizione era diretta dal magg. Belluomini, vecchio soldato che le nevi di Russia avevano risparmiato all'Italia. Breve fu la resistenza; i nemici vennero presi ed infugati; ed alcuni ardimentosi giovani li inseguirono sin sotto le mura di Mantova. Due giorni dopo, essi ricomparvero in numero di mille contro gli avamposti di San Silvestro; da cui ben presto volsero ignominiosamente le spalle; e in numero di duemila contro il campo di Curtatone; quivi si trovarono a fronte del secondo battaglione del 10.° di linea napoletano, che, gittando grandi urli, si cacciarono loro addosso. L'avanguardia austriaca si pose a fuggire; ma in quell'istante sboccarono da una prossima via altri uomini in colonna serrata, aventi veste di velluto e cappello piumato alla foggia dei volontari lombardi, i quali, preceduti da una bandiera tricolore, andavano gridando: «Viva Pio IX! Viva l'Italia!» I Napoletani ed i Toscani li stimarono fratelli, risposero al gradito saluto, e corsero per abbracciarli. Allora quegli sciagurati scoprirono un pezzo d'artiglieria, diedero fuoco e fuggirono precipitosamente. I nostri li rincorsero per trarre vendetta di sì nero tradimento. Quella mancanza di lealtà è degna di vili assassini e non di soldati. Ma da quelle orde che insozzano l'Italia ne abbiamo veduto a commettere di peggiori.

La Valtellina, ricca di belle tradizioni, manifestò essa pure il suo entusiasmo per la causa nazionale. Ma non a sole parole si limitò quell'entusiasmo. Le nevose giogaie dello Stelvio furono presidiate da quei generosi e gagliardi valligiani. Infrattanto che avvenivano i fatti per noi narrati, varie fazioni ivi pur ebbero luogo; e le compagnie Lavizzari e Arrigosi sostennero sempre glorioso il nome italiano. Da tutte le relazioni che abbiamo sotto gli occhi risulta che que' prodi figli delle Alpi combattevano ad un tempo e le bufere alpine e la rabbia tedesca, e sopportavano i disagi di quegli inospiti siti con una fermezza che altamente onora il loro nome.

 

VI.

 

Quelli che reggevano la cosa pubblica in Toscana non avevano aggiunto altre truppe alle già spedite pel blocco di Mantova. Cotesta città ne chiedeva ben altro numero di quello che ivi era. Le frequenti scaramucce poi che esse sostenevano coi drappelli, che uscivano dal forte per provvedere profende e vettovaglie, l'aria malsana dei luoghi andavano giornalmente diminuendole. Il giorno dieci maggio, venuto l'ordine dal comandante il primo corpo d'esercito di riprendere le primitive posizioni di Curtatone e di Montanara, il battaglione di linea, sotto la guida di Ferdinando Landucci, veniva vigorosamente attaccato presso Rivalta da trecento Tirolesi. I Toscani, comechè pochi, li respinsero sino a Curtatone. Il Landucci, sempre primo alla mischia, combatteva con estremo ardimento. Uccideva colla pistola un nemico, che nella lotta lo stringeva per farlo prigione, si difendeva colla sciabola da altri assalitori, ma riportava mortale ferita, e moriva alle Grazie dopo sette giorni, mostrando sia nel combattere che nel novissimo istante del viver suo animo ben temprato e italianissimo. Fu nella chiesetta delle Grazie che il fiero e cittadino sacerdote Giambastiani, cappellano militare, ne disse l'orazione funebre, e il capitano dello stato maggiore, Enrico Mayer, notissimo letterato e cittadino di Livorno, ne dettò una bellissima iscrizione.

Il giorno 12, Gorzkowky ordinava ai campagnoli, che abitavano presso la città, che disloggiassero immantinente e si riducessero nell'interno. E l'indomani, poco oltre il mezzogiorno, quel generale spingeva numerose colonne con molta artiglieria verso Montanara, San Silvestro e Curtatone. Il colonnello Campia faceva quivi una gagliarda resistenza, sapendo trarre profitto del valore dei nostri artiglieri, diretti dal Niccolini e dal Mossele, della giustezza dei tiri dei bersaglieri volontari e dei Napoletani civili; i quali continuamente respinsero le barche armate, mostrantisi minacciose sul Mincio. In quella mischia erano feriti Cesare Rossaroll ed Enrico Poerio.

Trovavasi a caso nel campo, per ispezionare le scarse truppe, il ministro della guerra, De-Neri Corsini; egli volle assistere a cavallo a quella fortunata fazione.

Il colonnello Giovannetti alle grida di Viva l'Italia! attaccava il nemico sulla fronte di Montanara. Il generale De-Laugier sosteneva con due compagnie la posizione avanzata di San Silvestro. Il Giovannetti, approfittando dell'altezza del grano e della boscata delle vigne, assaltava di fianco gli Austriaci, che ripiegavano sino al camposanto; finchè, infugati da tutti i punti, si ritiravano nelle turrite mura, seco trascinando parecchie carri di feriti e di morti. Pochi furono i prigionieri fatti; ben più i disertori, dai quali seppesi la gravità delle perdite sofferte dall'oste nemica.

In quella fazione si distinsero il Lazzeretti, il Carminati, il Peckliner, il Michelazzi, il Simoncini, il Bresciani, il Carchidio, il Geri, il Zanetti, il Molli, il Renard, il Barzacchini, il Parra e molti altri. Noteremo pure il fatto d'un granatiere, che merita di essere ricordato. Questi, che il soverchio dell'audacia aveva lasciato solo in mezzo ad un drappello ungherese, veniva tolto prigione ed avviato verso Mantova. In una rivolta, côlto il destro, faceva cadere un nemico, l'altro disarmava ed uccideva, il già caduto malamente feriva, e colle armi tinte del sangue straniero, ritornava fra i suoi.

 

——

 

Noi ebbimo ad accennare all'improvvido richiamo dei volontari dal Tirolo. Essi rientrarono in Brescia laceri e scalzi; pochi erano i forniti di cappotti o di mantelli; e quella povertà di vestiti, que' visi incotti dal sole ed emaciati dai patimenti; quell'andare spavaldo, che assume comunemente chi ha sacrificati i propri interessi e rischiata la vita a pro della patria in faccia a coloro che cooperano coi soli voti a quei sacrifici e a que' rischi, invece di renderli bene accetti alla popolazione, li faceva malvisi ed insultati. Domandarono di far parte dell'esercito regolare; e la domani erano passati in rassegna dal colonnello piemontese Cresia. Quell'ufficiale, anzichè parlar loro d'Italia, della santa guerra combattuta, pronunciò parole enfatiche sul Piemonte, su Carlo Alberto, sulla disciplina dell'esercito regio. I volontari, a que' detti, risposero tumultuariamente che essi volevano bensì combattere, ma per l'Italia tutta, e non agli ordini di un re. E al grido di Viva il Re promosso dal Cresia, risposero con Viva la Repubblica! Il governo provvisorio seppe tuttavia rappattumarli; li vestì convenientemente, li ordinò alla meglio, e, postili sotto gli ordini del generale Durando, fratello all'altro che trovavasi alla testa delle truppe papaline, li dirigeva pel Caffaro a trattenere l'impeto dei nemici tra i claustri delle Alpi.

Gli Austriaci campeggiavano in Vai di Ledro; essi sapevano che que' volontari, per naturale incuria, mal custodivano i loro posti, e che nei dì festivi si davano tempone, per cui l'indomani giacevano briachi e bisognosi di quiete.

In sull'albeggiare del 22 maggio, i nemici, silenziosi si avanzarono verso i nostri. I primi a vedere le colonne austriache furono i volontari di Beretta e quelli d'Anfossi, i quali si davano a precipitosa fuga. Fortuna volle che il tenente Guerini tenesse fermo colle sue artiglierie e rispondesse al cannoneggiare e alla fucilata del nemico. Il generale, avvisato a Vestone del disastro, accorreva col suo stato maggiore. In Sant'Antonio s'imbatteva nei fuggenti; egli snudava la spada, minaccioso li incalzava, e, spingendo gli uni sugli altri, riusciva a riordinarli.

Luciano Manara, avvertito anch'esso a tempo, muoveva co' suoi da Salò, toglieva seco le guide del Tirolo, comandate da Thannberg, e, passando per Rocca d'Anfo, si riduceva a Sant'Antonio, ove la via si biforca, l'una scendendo al palazzo del Caffaro, l'altra ascendendo al monte Suelo.

La mischia ricominciava e durava due ore; finchè il soperchiante nemico, portatosi sul fianco sinistro lungo le pendici, rendeva dubbia e micidiale la difesa del Caffaro e di Lodrone. Il colonnello Monti, capo di stato maggiore, disegnava allora di occupare sollecitamente le alture del monte Suelo, le quali, dominando la valle, offrono la chiave di tutta quella linea. Ciò fatto, gli Austriaci, che alla lor volta pur vi salivano, venivano cacciati al basso. Una legione, ch'erasi arditamente avanzata sullo stradale di Rocca d'Anfo, fulminata dai nostri, dovette rivalicare il fiume, ove parecchi annegarono. Un'altra, che, presa la via montana, la quale da Lodrone conduce a Bagnolino, minacciava pur sempre la nostr'ala sinistra, veniva respinta anche da questo lato dal secondo battaglione del reggimento bresciano, accorso frettolosamente da Ricco-Massimo.

L'azione durò sino al declinare del sole colla perdita di venti de' nostri tra morti e feriti; e lasciato Val Bona, il Durando rimaneva nei conquistati quartieri di Sant'Antonio e di San Giacomo sul monte Suelo.

Infrattanto Carlo Alberto aveva abbandonato il suo quartier generale per assistere al bombardamento di Peschiera. Cinque pezzi del forte furono smontati, e un violentissimo scoppio avvisava l'incendio di una piccola polveriera del forte Mandella. Diversi punti della città erano in fiamme. Il Re, mosso dalla pietà per quegli abitanti, mandava il maggiore Alfonso La Marmora a proporre onorevoli accordi al comandante della cittadella; e siccome al suo lato cadevano a furia le palle nemiche, un uffiziale di stato maggiore se gli accostò per dirgli: «Maestà, la vostra vita è in pericolo qui; non è egli questo un posto per voi.» Ed egli preoccupato e distratto forse dalla sorte dei miseri, che dimoravano nella città assediata, rispondeva: «È vero: eccolo!» E spronando il cavallo lo arrestava venti passi più oltre. Intanto il La Marmora tornava colla risposta del general Rath, il quale aveva detto, che la breccia non essendo pur anche aperta, nè le munizioni esaurite, non poteva senza mancare all'onor militare consegnare il posto che gli era stato affidato. «Vi rimanga finchè il suo onore sia salvo» rispondeva Carlo Alberto; ed ordinava per l'indomani si attivasse il fuoco di tutte le batterie.

La direzione suprema dell'assedio era stata affidata al duca di Genova, secondogenito del Re, giovane istruito, valentissimo e assai bene amato dal padre suo, e prematuramente tolto all'Italia; il generale Chiodo comandava il corpo degl'ingegneri, il generale Rossi l'artiglieria e il generale Federici la quarta divisione che assediava la cittadella.

Verso il 15 di maggio, il generale Nugent aveva tentato e tentava ogni prova per far sì che Durando lasciasse le sue posizioni dietro la Brenta, e accorresse alla difesa di Treviso e de' miseri abitanti delle vicinanze, i quali dagli Austriaci erano danneggiati a tutta possa; ma quegli indovinando la segreta cagione di tanti eccessi, si ristava immobile e vigilante. Non però molto, chè cedeva alle vive dimostranze del governo di Venezia.

Pauroso delle sue sorti per la voce che il nemico volesse ad ogni costo occupare Treviso, per aver libera la diretta via di Udine a Verona, e così stringere dappresso la città della Laguna, Durando, cedendo in mal punto, si portò da Piazzola a Moriano, e di là a Quinto per passare il Sile, e attaccare di fianco il nemico, che il presidio della città avrebbe combattuto di fronte. Gli era per l'appunto ciò che il Nugent agognava; imperocchè appena ebbe sentore delle altrui mosse, tolse il campo, e per Castelfranco e Cittadella avviossi per a Vicenza.

Durando era avvertito di quella subita partita a Mogliano; dirigeva immantinente su Mestre la sua avanguardia, comandata dal colonnello Gallieno, il quale nella sera del dì 19 giungeva per la strada ferrata in Vicenza co' suoi tre battaglioni. Il giorno di poi, al tocco, gli Austriaci si annunciavano a Lusiera col fumo degl'incendi. Un'ora di poi il fuoco di moschetteria era vivissimo sulla prima barricata fuori la porta di Santa Lucia; quindi, a porta Padova e a porta San Bortolo. Dopo cinque ore di combattimento che a noi valsero la perdita di dieci morti e settanta feriti, il nemico validamente respinto e inseguito, si ritirava sul suo corpo principale. Il giorno dopo giungeva il Durando col resto delle sue schiere. Lo avevano preceduto il generale Antonini colla sua legione, il colonnello Cavedalis con una provvista di munizioni, ed il Manin ed il Tommaseo espressamente venuti di Venezia.

La guerra contro Vienna era sì santa; la inesperienza militare, il temerario eroismo, il valore frugavano siffattamente le vene e i polsi de' nostri a non farli tranquilli e lieti che nell'azione. Per acquietare tali brame, Durando permetteva all'Antonini di muovere ad una ricognizione. E più tardi egli stesso esciva per sostenerlo nella temeraria impresa colla colonna Galateo, le compagnie scelte degli Svizzeri, uno squadrone di dragoni e quattro pezzi d'artiglieria.

Alla distanza di due miglia da porta Castello il primo trovò un grosso corpo nemico, il quale proteggeva la marcia di tutto il convoglio che aveva preso la via di Verona. Il combattimento fu oltremodo ostinato e durò sino all'imbrunire. Perdemmo un centinaio d'uomini tra morti e feriti; la colonna la più danneggiata fu quella dell'Antonini, il quale, spintosi con molta imprudenza e bravura alla testa de' suoi sul Bacchiglione, n'ebbe molti uccisi e annegati, ed egli il braccio diritto portato via da un pezzo di mitraglia.

Nel ritirarsi di là per far la congiunzione colle truppe di Radetzky, il generale La Tour Taxis, surrogante il Nugent malato di febbre in Udine, scontravasi in San Bonifacio col maresciallo, il quale era scontentissimo de' fatti suoi per aver con poca energia attaccato Vicenza, posizione strategica ch'ei voleva possedere, come quella a cui fanno capo tutte le vie del Tirolo e del Friuli, che menano all'Adige. Egli ordinavagli di tornare indietro alla testa di 18,000 uomini e di quaranta pezzi d'artiglieria.

Il generale Taxis giungeva a Vicenza in sull'annottare del dì 23; e, senza dare riposo alle truppe, le scagliava contro la città per impadronirsene di sorpresa. Alcuni posti importanti cadevano in suo potere. Ma i 10,000 armati dell'interno, accorsi frettolosamente, ne li ricacciavano colla punta dalle baionette. Oscura la notte e tempestosa; pioveva acqua a dirotto; piovevano bombe e razzi anche a dirotto, che danneggiarono parecchi edifici ed in particolare modo quello della Posta, ove un proiettile caduto nella camera abitata dal generale Antonini, al quale avevano amputato il braccio, lo avrebbe ucciso con quelli che lo attorniavano, se, scivolando dal poggiuolo della finestra, non avesse scoppiato nella sottoposta corte.

All'alba, le artiglierie vicentine collocate presso il casino Carcano, dominante il campo di Marte e la stazione della ferrovia, venivano rafforzate da due pezzi delle batterie svizzere dirette dal buon colonnello Lentulus, il quale ne smontò due all'inimico. Vano il numero contro il valore de' nostri e la vigilanza degli abitanti, che sfidavano ogni pericolo per ispegnere gl'incendi e per recar munizioni dovunque abbisognassero. Verso le dieci ore del mattino, una sortita trovava debole resistenza negli avversari; cadevano in nostro potere alcuni prigionieri, fra i quali parecchi ufficiali. Già un distaccamento di veneti aveva occupato Cittadella, ove trovavansi parecchi feriti. In sul mezzodì il fuoco era interamente cessato e i più arditi inseguivano i Croati per più di sette miglia verso Montebello, ove questi depositarono all'ospedale dodici carrettoni di feriti; altri feriti coi morti li avevano posti qua e là nelle case di campagna in prossimità del luogo della battaglia, e bruciatili al solito nella ritirata. La nostra perdita sommava ad una settantina d'uomini fuor di combattimento; quella dell'inimico fu calcolata quasi a due mila.

Un tentativo cotanto dannoso impensierì il vecchio maresciallo senza punto indebolire la possanza dell'animo suo. Egli guerreggiava una guerra sventurata e rea; ma aveva nelle file del suo esercito capi, che non facilmente piegavano nelle avversità; le sue genti imbaldanzivano nei ladronecci e nello sfogo di tutte le passioni. D'altra parte scorgeva la nessuna sagacia militare ne' generali avversi, il nessun vantaggio ritratto dall'empito, dalla destrezza e dalla intelligenza degl'Italiani, assoldati o volontari, e la sfiducia e lo scoramento che la mancanza di buoni ordini metteva in essi; notava la indifferente attitudine delle popolazioni lombarde, tranne quelle che abitavano le città più cospicue, in faccia alla nazionale rivoluzione, ed a' necessari effetti che ne derivavano; a furia d'oro abilmente sparso in Milano aveva ordito una trama, da cui operava concertati favori. Immaginò allora un'impresa arditissima, che, scambiando di un tratto le sorti della guerra, poteva rifarlo possessore di tutto il paese perduto. I rischi erano molti, siccome pur molte le probabilità di successo.

 

VII.

 

In sulla sera del 27 maggio, Radetzky partiva da Verona con 35,000 uomini, una numerosa artiglieria e un traino da ponte, dirigendosi per l'Isola della scala. L'indomani a quell'ora istessa giungeva in Mantova, ed accampavasi presso San Giorgio. Durante il giorno, da Nogara e da Castellaro disertarono dugento soldati italiani allo incirca. parte con armi, parte no, e venuti in Sustinente e in Governolo presso il maggiore Fontana, tuttora stanziante coi Modenesi sulla sinistra del Mincio e del Po, a lui rivelarono il disegno del Maresciallo, cioè di piombare sulla divisione toscana e sterminarla; passare sulla ripa diritta del Mincio e distruggervi i magazzini ed i ponti; sgominare sulla linea le schiere piemontesi, e ripresentarsi trionfante in Milano, di cui i retrivi gli aprirebbero le porte, profittando dello scompiglio generale; lo accertarono che presso Rivoli stava forte nerbo di soldati per correre su Peschiera e chiudere il grosso dell'esercito di Carlo Alberto tra l'Adige ed il Mincio.

Fontana, senza porre tempo di mezzo, avvertiva delle cose udite il generale Bava, che allora stanziava a Custoza, e il generale De-Laugier, il quale aveva il quartier generale alle Grazie, e in pari tempo chiedeva istruzioni all'uopo. La legione modenese, comechè di molto assottigliata dalle malattie, dalla svogliatezza, prodotta da perverse mene e dall'inazione, isolata com'era e con poca speranza d'aiuti, pur era decisa a combattere e a tener saldo a qualunque costo.

Il foglio di Fontana trovava il De-Laugier già avvisato da Bava, il quale avevagli pur promesso un sollecito e valido soccorso. Il generale toscano, con pochissime truppe in paragone di quelle nemiche, non contando che 4,685 fanti, 100 cavalli, 6 cannoni e 2 obici sulla lunga linea da San Silvestro alle Grazie, senza precise istruzioni, senza precise promesse d'aiuti, sentiva di assumere una grande responsabilità. Ov'egli senza combattere si fosse ritirato su Goito, le più acerbe e più odiose critiche avrebbero il suo nome infamato. Aspettando di piè fermo gli Austriaci, esponeva i suoi ad un macello, ma salvava l'onore suo e quello della gioventù toscana pronta, come i soldati di Leonida, ad ogni sacrificio per l'Italia. De-Laugier decideva di star saldo.

È triste quanto glorioso il racconto della disperata lotta in cui durò quell'eletta gioventù; glorioso perchè dimostra quanto sia il valore italiano, infiammato dal santissimo amor di patria, dal sentimento d'indipendenza e di libertà; triste per le vittime, troppo chiare sventuratamente, che dovevano col sangue loro improntare nella storia quella indelebile pagina.

Il De Laugier, verso la sera del 28 maggio, riceveva dal Bava un altro dispaccio, in cui eragli detto, si apparecchiasse a difesa; e se malgrado ogni conato avesse dovuto cedere il terreno, si ritirasse in buon ordine verso Gazzoldo; indi, approfittando dei terreni tagliati, si conducesse sin sotto Volta, ov'era il suo corpo d'ordinanza.

De Laugier cominciò a dare le opportune istruzioni, ed intimò al maggiore Fortini, il quale aveva sparso il suo battaglione di volontari in Rivolta, a Sacca e a Castelluccio, di sorvegliare le sponde del Mincio, di distruggere al bisogno il ponte di Fossa Nuova e di difendere i ridotti dell'estremo paesello, per sostenere la ritirata ai compagni. Avvisò il Campia a Curtatone e il Giovannetti a Montanara di ciò che avrebbero dovuto operare tanto nell'attacco, quanto nella ritirata. Egli rimase alle Grazie con un solo obice; più tardi mandò anche quello col tenente Giovanni Araldi a Montanara, chiedendo di là un pezzo da sei che non gli fu spedito.

Alle ore nove e mezzo della mattina del giorno 29 maggio, il nemico, forte di trentamila uomini con cinquanta pezzi d'artiglieria, inoltravasi pella strada di Mantova.

I bersaglieri dei volontari venivano tosto alle prese. Le nostre artiglierie rispondevano gagliardamente alle austriache. A Montanara e a San Silvestro, i liberi battaglieri, presso i quali l'ardente amor di patria suppliva al numero, saltavano le barricate e battevano allo scoperto.

De Laugier passava per di là, e faceva richiamo al Giovannetti di tanta imprudenza. L'impavido colonnello rispondevagli: «Gl'Italiani debbono mostrare il petto al nemico. È viltà il nascondersi. Lasciamolo fare agli Austriaci!»

Infrattanto il capitano d'artiglieria Contri operava con una mano di cannonieri e di volontari un'ardita esplorazione sul fianco sinistro dei nemici. Egli s'incontrava con due battaglioni, ed apriva il fuoco ed il sosteneva per qualche tempo; alfine, non ricevendo aiuti, era obbligato a ripiegare. Ma, riforzato da due compagnie di fanteria, riprendeva la offensiva, e pel momento giungeva a discacciare la soperchiante colonna.

Il battaglione degli universitari, forte di duecento ottanta uomini, e comandato dal colonnello Melani, era stato posto come riserva a Curtatone. Se non che que' generosi, non resistendo al loro patriottico ardore, si cacciavano oltre il ponte, là dove meglio ferveva la mischia, e rinforzavano i punti più ferocemente assaliti. Quivi moriva il capitano in quel battaglione Leopoldo Pilla, chiarissimo professore di geologia nell'Università di Pisa. Così tanti studi, tanta dottrina, tanto onore d'Italia distruggeva un colpo vandalico.

Nel centro non era meno l'entusiasmo. I razzi nemici avevano appiccato il fuoco ai cassoni delle polveri, e queste avevano orrendamente morti e feriti gli artiglieri e quanti erano vicini. Vedevi alcuni a correre sfigurati, dolenti, e strapparsi di dosso gli accesi abiti; altri, fatti anche più ebbri da quel supplicio, a surrogare alle riarse miccie i brani brucianti delle proprie assise, coi quali davano fuoco ai loro pezzi. Era ammirabile la condotta del caporale cannoniere Elbano Gaspari, il quale, rimasto solo in vita fra' compagni, rispondeva con tre pezzi d'artiglieria ai 22 degli Austriaci che aveva di contro; solo e ignudo per essersi dovuto togliere i panni che gli bruciavano addosso. Mirabile pure era la condotta dei due ufficiali sanitari, Zannetti e Burci, professori di molto nome, che avevano lasciato le loro clientele, gl'ingenti lucri, tutto per seguire nel campo la gioventù militante; il loro zelo operoso ove più ferveva la mischia ha pochi riscontri nella storia.

I promessi aiuti non giungevano; nessuno dei messaggeri mandati a Goito ritornava con liete notizie. La mitraglia nemica continuava a mietere spietatamente le file dei generosi; alle grida di entusiasmo era succeduto il silenzio, quel solenne silenzio indicante che quelli i quali combattono sanno di morire senza vincere.

Il De Laugier riceveva frattanto un foglio da Bava, in cui era detto che un reggimento di cavalleria era in Goito, che due altri erano poco lontani con una batteria di campagna, e che un'intera divisione di fanteria con due batterie accampavano a Volta. Il generale spediva un aiutante per chiedere un sollecito soccorso, e gridava ai suoi: «Coraggio, figliuoli, costanza; i Piemontesi non sono lontani.»

Il vigore si riaccendeva; si operavano prove d'indicibile eroismo. Il colonnello Chigi aveva una mano tronca da un colpo di mitraglia; pur lieto sorrideva, e, agitando in alto il moncone sanguinoso; sclamava: Viva l'Italia! Il Campia pur era ferito; molti ufficiali e soldati giacevano alla rinfusa morti o semivivi al suolo.

Battute le ali, battuto il centro, non giungendo soccorso veruno, era mestieri sgombrare il terreno. Senza riserve, senza artiglierie numerose, che valessero a tenere in distanza il nemico, era impossibile eseguire con ordine la ritirata. Le discipline erano infrante; le voci dei capi non venivano più udite. Ognuno, per naturale istinto di vita, cercava uno scampo. Il disordine e lo scompiglio erano da non dirsi.

Il capitano Malenchini giungeva fortunatamente a rannodare i suoi bersaglieri e qualche altro dei volontari, e teneva in rispetto l'irrompente nemico, il quale intendeva di tagliare la ritirata dalle Grazie.

Il professore Giuseppe Montanelli colle parole e cogli atti infiammava i compagni; e intanto che pietoso dava l'ultimo bacio di affetto ad un giovine amico, caduto morto a' suoi piedi, una palla lo feriva nella clavicola e cadeva. Il Morandini sorreggevalo, lo difendeva da un'orda di Croati, e veniva con esso lui tolto prigione; tenevano loro dietro in Mantova il Barellai e il Paganucci, giovani chirurghi, i quali, per mancanza di ambulanze, non avendo potuto salvare i feriti, vollero seguirli per aver cura di essi.

Bella prova di eroismo forniva l'aiutante Giuseppe Cipriani, il quale cedeva il proprio cavallo al generale De Laugier nell'atto che, stramazzato al suolo e calpesto dai suoi cavalieri in fuga, era per essere raggiunto da un drappello di ulani. Il Cipriani, uno dei gravemente offesi in Curtatone pella esplosione delle polveri, rimase sempre al suo posto; e comechè soffrisse moltissimo per la scottatura delle carni, fu uno degli ultimi a ritirarsi dal luogo del combattimento.

Passato il ponte, che era minato, le confuse schiere si riordinavano, e lentamente potevano procedere verso Goito, ove giunsero sull'annottare. Quivi, oltre al consueto presidio toscano e napolitano di 940 fanti, 14 cavalli e due cannoni, sotto gli ordini del colonnello Rodriguez, nessun altro corpo trovavasi. Che aveva detto e promesso adunque il Bava? Quel generale s'era infatto recato in Goito; ma era ritornato a Volta, senza mandare un soccorso ai fratelli, che, credenti nella sua parola, facevano sacrificio della vita, col combattere un nemico numerosissimo e fornito di tutto: speravano che i loro cadaveri avrebbero spianata la via a debellarlo completamente. Bava ritornava a Volta, e tranquillamente si poneva a contemplare col canocchiale gl'incendi e l'eccidio dei generosi Toscani. La storia ha già rimeritato quel generale della sua condotta.

Sguernite le posizioni delle Grazie e di Curtatone, Radetzky spingeva forti colonne ad investire quel pugno di eroi, che, con una ostinatezza senza pari difendeva ancora i ridotti di Montanara. Ma alla furia dei colpi e alle grida dei nostri, gli Austriaci credevano che fossero truppe fresche allora allora sopraggiunte, e indietreggiavano; era d'uopo agli ufficiali porsi alla testa delle colonne, perchè le loro schiere disanimate tornassero all'assalto.

Poco oltre le ore quattro, il generale Lichtenstein si avvedeva che i casolari della Santa erano sprovveduti di armati, e, marciando per quella volta, sboccava sulla via maestra, e minacciava alle spalle i compagni del Giovannetti. L'intrepido Toscano contrastava palmo a palmo il terreno, finchè, vedendo indebolite le sue file, e scorgendo farsi ognora più spessa l'onda nemica, avvertito pure che le altre linee erano già state abbandonate ordinava la ritirata. Appena passata la porta di Montanara, quel nodo di prodi vedeva dinanzi a sè chiusa la strada di Santa Lucia.

Il colonnello si teneva sulla destra coi Napoletani e coi volontari, e spingeva un reggimento in colonna dietro l'artiglieria per difenderla. La spessa mitraglia lo sgominava; i cannonieri anch'essi saltavano il fosso a dritta, e spargevansi pei campi; il solo tenente Araldi, comechè ferito, rimaneva al suo posto. Incitato dal Giovannetti a ritirarsi, rispondeva: «Un buon artigliere, quando non può salvare i suoi pezzi, muore su di essi.» E trascinava a braccia con sessanta volontari i cannoni nella cascina ov'erano deposti i feriti, e quivi proseguiva un fuoco micidiale contro il nemico per più d'un'ora, finchè, da varie parti gli Austriaci entrati nella cascina, e que' pochi uomini dopo una disperata difesa, ridotti a soli dieciasette, feriti tutti, egli rimaneva prigioniero. Giovanni Araldi sarebbe stato morto di baionetta nemica, se un ufficiale degli ungheresi, il barone Lazzarini di Fiume, vedendolo a cadere sul pezzo, non fosse corso a lui per salvarlo.

Dopo parecchi tentativi, e sempre combattendo, il Giovannetti poteva imboccare in una traversa, che l'introduceva sulla via di Castellucchio, da cui proseguiva co' suoi, trafelati e stanchi, il cammino verso Marcaria e San Martino.

Il nemico non potè menar gran vanto della sua vittoria, scorgendo delusa ogni preconcetta speranza. Soltanto quattro cannoni andarono perduti per mancanza di cavalli che li trasportassero. Le bandiere furono tutte salve. Gli ufficiali Lavagnini e Andreini, che, con un drappello di soldati d'ordinanza le avevano in custodia, cinti da ogni lato, presso a cadere prigionieri, ritolsero le insegne dalle aste, e, celatele sotto la divisa, religiosamente le spartirono in Mantova tra i compagni. E quando furono liberi mostrarono ai loro conterranei quelle onorate reliquie, come memoria d'un infelice destino e della loro intemerata fede.

Nella giornata del 29 maggio 1848, gl'Italiani non vennero meno a sè stessi. Ricordandosi che in quel medesimo giorno, nel 1176, i loro avi, pochi di numero, avevano in Legnano combattuto e vinto i soldati del Barbarossa, fecero prove stupende d'abnegazione e di valore. Per tre volte fu suonato a raccolta; indarno. Tutti fermi nel proposito di far vedere al nemico quanto valesse il braccio dei figli d'Italia, tutti volevano morire sul campo. Ma alla fine, pensando come fosse migliore serbarsi a successi più prosperi, frementi si ritiravano, lasciando sul suolo zuppo di sangue, lacere membra, morti molti e feriti, e molti prigionieri. E nella morte e nella prigionia non ismentirono il nome italiano. Tutti sino all'ultimo gridarono: Viva l'Italia. Molti di essi e per ingegno e per dottrina erano le più belle speranze della patria: v'erano avvocati, medici, professori, artisti, studenti, che formavano la parte più eletta delle città toscane. Morirono venticinque di Firenze, sei di Pistoia; altri di Livorno, di Pisa, di Lucca, di Montepulciano, di Massa, d'ogni terra: molti in battaglia, alcuni nella ritirata, altri nella prigionia; tutti fieri amatori della libertà della patria.

Accenniamo que' giovani immortali, che, come i trecento di Sparta, insegnarono ai superstiti che per vincere bisogna saper morire; li accenniamo per causa di venerazione, e per ricordare ai nuovi campioni il sangue che spetta le loro vendette. Che gl'Italiani si rendano degni di coloro che dai primi albori del nostro risorgimento, hanno con prove indefesse o continue preparato le vittorie della nostra libertà, che come gl'immortali di Dario hanno sempre presentato la stessa fronte al nemico, allora sì che il completo affrancamento della patria diverrà un fatto compiuto.

 

Leopoldo Pilla, professore dell'università di Pisa, nacque a Venafro, patria del celebre capitano Giambattista Della-Valle, primo scrittore italiano di fortificazione, il dì 20 ottobre del 1805.

Gli scritti e gli esempi paterni di certo instillarono nell'animo di Leopoldo i primi amori della scienza, cui aveva a recare tanto lustro e decoro, e più le avrebbe arrecato incremento e copia di trovati e di utilità, se gli fosse bastata la vita, se una vita sì preziosa non fosse stata con tante altre generosamente e debitamente esposta per la salute e la libertà d'Italia. Ed a che giova la vita, la scienza e la gloria quand'è schiava la patria? Le provincie e i reggimenti di cavalleria sentivano il difetto dei chirurghi da mascalcìa; sicchè sorgeva in Napoli un collegio di coteste discipline, per educarvi numerosa gioventù. Colà faceva i suoi studi il giovine Leopoldo Pilla, già inviato nelle lettere dall'archeologo Cotugno, e nelle scienze fisiche dal chiarissimo Niccolò Cavelli, e ne uscì ornato di buoni studi in fatto d'Ippiatria, di Zoologia e di scienze naturali. Ma non si sentì chiamato all'arte pur generosa di ricercare, e sapere, e curare i mali gravi delle bestie. Per la qual cosa più e meglio si volse alla terra; e coltivando poi gli studi geologici, egli presto s'accorse che assai difficilmente ne avrebbe potuto trarre frutto di vita, nè voleva, anche potendolo, vivere delle discretissime entrate della sua casa, tanto più ch'altro fratello e due sorelle avevano bisogno di ricorrere al patrimonio. Non lasciando dunque da parte i suoi lavori prediletti, vi congiunse gli studi di medicina, come secondari in vero e come espedienti di professione. Infatti il primo suo lavoro è quello della vita scientifica del citato Cavelli, ch'ei lesse nell'Accademia Pontaniana l'anno 1830. Nè faremo le maraviglie vedendo un giovane com'era il Pilla, promettitore di sicura ed eminente riuscita nelle scienze naturali, vivere negli ultimi posti de' medici militari d'un ospedale. Imperocchè generalmente negli eserciti e allora più in Napoli, tenendosi in maggior pregio la vita de' cavalli e delle bestie da tiro, si affidava la salute del soldato a giovani, o a praticanti di pochissimo valore. Pure il Pilla, al cui animo gentile ripugnava di certo un servigio, che non avesse egli potuto ministrare con tutte le forze dell'ingegno e dell'animo, preferì anche in quell'officio il ramo piuttosto dell'amministrazione e della statistica. E in questo suo intendimento potè essere viemmeglio confortato, dappoichè risaputasi la sua passione e la sua valentìa nelle cose naturali, il generale che comandava allora supremamente le milizie napolitane, ed era vago d'impinguare il patrimonio co' negozi dell'allume, dell'ossidiana, delle acque termali, de' cappelli di certa materia vegetale, consultava sempre il Pilla. Cotesta meritata e pesata protezione, non che la sua bella fama, la quale di dì in dì cresceva rapidamente, lo fecero eleggere fra quei professori dell'arte salutare e delle scienze naturali, i quali furono dallo Stato spediti in Vienna e nella Germania per istudiarvi la malattia venuta in Europa dalle regioni asiatiche, che desolò l'Italia e sovrappiù Napoli e Palermo.

I terreni meridionali fra' più ricchi d'Italia, richiedevano una gioventù studiosa de' naturali tesori; nè più erano que' tempi che l'Italia, e in ispecie la parte di mezzodì, potevasi contentare di tenere solo il campo dell'agricoltura e della pastorizia. Più non era stagione di esclusioni e di sapere privato, in cui chiamavansi i minatori sassoni e stiriani per aprire e coltivare le miniere di Calabria. Anche ai ministri meno veggenti si presentava il bisogno di avere non già per vanità e per pompa una cattedra nel pubblico Studio di Napoli; ma più e più geologi e mineralogisti, i quali avessero potuto disaminare e scorrere e studiare la natura, più che sulle pagine, nelle viscere de' nostri terreni, quasi lasciati vergini e sconosciuti al martello e alla trivella del ricercatore.

Per le quali considerazioni il ministro dell'Interno indusse il Pilla a lasciare quel posto di chirurgo militare, alla cui gloria davvero non aspirava, nè poteva aspirare il geologo, e a mostrarsi cittadino veramente utile ed operoso, in que' tempi d'industria nazionale, nelle ricerche e nelle aperture delle miniere; tanto più che, morto di recente il vecchio professore dell'Università, poteva un dì più che l'altro ascendere meritamente a quell'offizio. Dovette egli credere a cotesta spacciata protezione, la quale non era punto quell'altra, più povera forse, ma subita e pronta e franca del soldato; era la protezione tronfia, magnificante, abbottonata dell'uomo di Stato, secondo i tempi infausti e codardi. Gli si voleva mostrare il posto vuoto, perchè la scienza fosse stata cortigiana e stesse inchinata innanzi al superbo ministro, e intanto il Pilla rimaneva senza l'antico officio modesto, e senza il magnanimo soccorso annunziato.

Si accorse dunque, come aveva già avuto sempre in animo, dover meglio fondare sul favore del popolo e dell'universale, che su quello del famoso Mecenate; talchè non si addormentò su' guanciali delle promesse de' Grandi, ma guardò alla scienza e alla sua fama, e nel 1836 fece un viaggio nella Sicilia e nella Calabria per studiare l'attacco degli Appennini, come lo dimostrano certe sue scritture.

Gli studiosi di scienze naturali, massime di geologia, non erano molti in Italia; Pilla ne aprì uno studio; anzi, come annunzio più solenne e come più solenne malleveria del suo valore nell'insegnamento, lesse nella grande sala dell'Accademia Pontoniana, fra ripetuti e grandi applausi, un Discorso accademico intorno ai principali progressi della geologia ed allo stato presente di questa scienza.

L'insegnamento suo privato ebbe grandissimo successo. E volendo tornare utile a' suoi cittadini, quand'era appunto il tempo di non aver bisogno del braccio altrui e dell'altrui predominio nelle imprese di scavazioni, di combustibili e di minerali, e sentendo già il bisogno d'ogni affrancamento dallo straniero e della libertà della patria, faceva pubbliche nel 1841 alcune Conoscenze di mineralogia necessarie per lo studio di geologia, dove in ogni pagina contiensi quanto è necessario a preparare lo studioso alle cognizioni geologiche.

Intanto all'occhio del governo pareva troppa vergogna fare sì lungo tempo rimanere chiusa la cattedra pubblica di mineralogia; e alla fine il Pilla vi nominava professore, ma professore interino solamente.

La Corte toscana allora era in Napoli: le tradizioni di civiltà, la estimazione maggiore in che tenevansi in quella Italia di mezzo le discipline e i pubblici studi, la minore gelosia e la veruna paura che, a differenza di Napoli, ispiravano colà gli uomini sapienti e dediti alla gloria d'Italia, e forse un certo tributo di omaggio alla casa di Carlo III, che aveva onorato il cittadino di Stia, Bernardo Tanucci; tutte queste cose insieme fecero dall'Università di Pisa dimandare al Gran Duca d'invitarvi delle capacità eminenti, in ispecialità nella geologia, nella chimica e anche nella medicina frenologica; vieppiù indotti i Toscani dalla decrepitezza del professore di chimica, cui erasi concesso il riposo, e dalla divisione delle due cattedre di zoologia e di geologia, non meno che dalla scarsezza che allora facevasi colà sentire in cotesti campi scientifici, di uomini egregi.

Il Pilla, prima di lasciare Napoli, recossi dal ministro dell'Interno per ringraziarlo delle sue parole, e prendere congedo. Quegli, con modi del tutto sconci, osò dire al professore: Eh dovreste ricordarvi ch'io vi tolsi di mano il lavativo!

Non terremo presso alla vita del Pilla durante gli anni che fu professore a Pisa. Diremo come, quando i comizi scientifici italiani succedevansi di anno in anno, egli, che lieto vi vedeva il bene delle scienze, e lietissimo ne scorgeva le conseguenze morali e politiche della divisa Italia, non mancò di farvi risuonare la sua voce o mandarvi le sue scritture.

Sul cominciare del 1846 il ministero toscano, dov'erano ministri un Homburg e un Paucr, voleva aprire il passo a' Gesuiti, e si provava a stanziarvi le suore del Sacro Cuore, tenute come antiguardo della milizia gesuitica, e già raccettate dalla contessa Buturlin, sotto il gradito e onorevole nome di suore della Carità. Gli amici e protettori della Compagnia stimarono esser Pisa il primo asilo più acconcio; ma il popolo e l'Università se ne sdegnarono forte, sicchè ì professori sottoscrissero una dignitosa petizione, e fu tra essi il Pilla, comunque vi fossero stati negativi il Mori, i due Savi, il Padelletti e Del Padule.

Ma a' mali morali si aggiunsero quelli di natura, dacchè un'ora dopo il mezzodì del 15 di agosto di quello stesso anno una romba simile a quella di lontana bufera, annunziava un flagello che doveva contristare buona parte di Toscana. Succedeva un tremuoto, ch'empieva di terrore e di rovine quel tratto di paese, che si distende fra Orbetello, l'isola D'Elba, la Lunigiana e la montagna di San Marcello. E Leopoldo Pilla pianse quel caso e ne studiò le cagioni, e ne raccolse i fatti, recandosi in vari luoghi, e più specialmente in Orciano, popolata di 800 abitanti, la quale divenne un mucchio di sassi, e in Castelnuovo della Misericordia, dove rovinarono trentatrè case rusticali; pubblicandone una importantissima descrizione, venduta a beneficio de' danneggiati. Nè passò molto tempo, che pose a stampa il primo volume del suo Corso compiuto di Geologia, il cui secondo volume non si poteva ancora pensare dovesse apparire postumo nel 1849.

Fra' pochi, cui parve sicura la morte gloriosa sui campi di Lombardia, si fu di certo Leopoldo Pilla. Il quale, eletto capitano d'una compagnia del battaglione universitario, stimolando al cammino e alla guerra il governo e la scolaresca, fu solamente tranquillo alla vista del nemico. E presago di sua prossima fine, tant'era acceso al combattere, appunto al quartiere generale delle Grazie, il dì 22 maggio scrisse di sua mano il suo testamento, per provvedere a innocente e caro bambino di tre anni, che portava il suo nome medesimo. E furono queste le sue solenni parole:

 

«Siccome la vita e la morte è nelle mani di Dio, così trovandomi nel campo toscano nella santa guerra della Indipendenza Italiana, e potendo mancare a' vivi, esprimo in questo foglio la mia ultima volontà in parte: Lascio a Giuditta Nocentini, ed alla sua sorella Teresa, tutto il danaro contante che si trova chiuso nella scrivania dentro alla mia stanza di studio a Pisa, e di più il letto più grande della mia casa con tutte le suppelletteli annessevi. Dichiaro che il bimbo Leopoldo Nocentini, che è custodito dalla prelodata Giuditta, è mio figliuolo. Lascio a questo bimbo tutte le suppellettili di casa, fuorchè i libri scentifici, e di più i soldi, di cui posso rimanere creditore dal governo, a condizione che egli rimanga sempre in casa della prelodata Giuditta, la quale gli ha fatto ufficio di madre. Raccomando questo bimbo al governo, se mai la mia opera e le mie fatiche hanno potuto essere in qualche modo utili alla Toscana.»

 

Tardi fu chiamato a combattere il battaglione universitario, dov'era un fremito generale di guerra; e quando si fu giunti al bivio fra le Grazie e Curtatone, dove si rimase fermi per più di un'ora, il capitano Pilla era fra' primi a gridare di doversi e volere accorrere prontamente. E parecchi de' militi, mancando alla disciplina, lasciarono un'ora innanzi il battaglione; ma il Pilla, il quale avrebbe pur voluto farsene guida, rattenuto dall'idea della riverenza alle leggi militari e dell'esempio, rimase dolorosamente obbediente.

Lieto egli della vita di guerra, ritornato da Peschiera, di cui volle osservare i lavori dell'assedio, invitò il dì 28 alle Grazie i suoi amici carissimi e compagni d'arme Ginnasi e Fonseca, uno che cadde pur vittima alla domane e l'altro prigioniero. E nel giorno appunto della pugna stava Leopoldo sopra un rialto con Mossotti: gli scolari pregavanli di ritirarsi perchè troppo esposti. Ma vi sono delle ore supreme della vita, in cui l'uomo generoso non vive la vita propria, che un granello di piombo può sperdere, ma la vita nazionale, contro cui non hanno nessun potere i passeggieri trionfi della tirannide e dell'usurpazione. Poco dopo, una scaglia gli fracassò l'antibraccio destro, e gli lacerò corrispondentemente il basso ventre. Lo raccolse il Bini, che gli era innanzi nell'abbarrata, al cui orecchio giunse un grido e si voltò. Accorsero poscia il Livi e altri due scolari, i quali lo posero su moschetti; e passando per quell'usciolino medesimo, pel quale pochi minuti prima era entrato il battaglione, lo menarono sull'argine destro dell'Osone, avendo a sinistra le Grazie, dove lo lasciarono colla speranza e quasi colla certezza che un'ambulanza lo avesse raccolto.

 

Ferdinando Landucci, maggiore nelle milizie stanziali, nacque a Pescia nel giorno 4 dicembre 1791, morì alle Grazie il 17 maggio 1848, per ferita riportata nel combattimento del giorno 10.

 

Armando Chiavacci, nacque a Pistoia il 18 agosto 1818, morì a Montanara il 29 maggio. Fin da quando fu istituita la guardia nazionale in Pistoia, Armando fu fra' più volonterosi ed accesi sostenitori di essa. Laonde egli colla signora Bracciolini ed altre signore concittadine, e con altri che meglio potevano esser di esempio, si recò a Firenze nella memoranda giornata del 12 settembre 1847.

Nel marzo del 48 egli, fatto foriere, si diresse alla frontiera passando per San Marcello, piano Asinatico e l'Abetone; ma nell'animo suo combattevano potentemente gli affetti della famiglia e gli affetti di patria, ai quali risolutamente pospose ogni altro. Ma scoraggiato dalla lentezza del procedere, dalla discordia tra comandanti e comandati, e dalla poca disciplina, lasciò il suo corpo, desiderando trovarne uno ove fosse maggior ordine e vigoria di comando. E sul cominciare dell'aprile tornava a Pistoia ed a Firenze a rivedere la madre inferma e la sorella: poi il dì 6 del medesimo mese prendeva lo schioppo e il sacco dalle mani dell'Odaldi e dal gonfaloniere di Pistoia; e con alcuni altri della compagnia Bellorini si volgeva a Bologna per arruolarsi in quella del modenese Piva, antico soldato napoleonico. E il dì 10 di aprile scriveva da Revere ad un suo amico grandissimo: «Nel vedere il Po e quelle immense pianure, nel calcare questo suolo desolato ed afflitto, mi sono sentito compreso da entusiasmo e da orgoglio indefinito, pensando che anch'io sono qua, e che presto coi Napoletani, Romani, Lombardi potrò io pure combattere e versare il mio sangue pel santo riscatto.» E il 20 di aprile scriveva: «Sono in Montanara e sto benissimo: spero di battermi, e allora starò meglio.»

Il suo cuore era generosissimo, e di impeto subitaneo, benchè facile ad essere vinto e ragionevolmente persuaso. Quand'era risoluto davvero ad una impresa, sentivasi impaziente, durante il tempo che pur era necessario ad ottenere lo scopo. Dopo di che ognuno intenderà che non altro che la fortuna (la quale mai non gli era stata amica) lo avrebbe potuto salvare da essere vittima della guerra. Un soldato cittadino come lui generoso, tenero, impetuoso, impaziente, infiammato dell'amor della patria e della gloria italiana, doveva pei primi cadere il dì 29 nell'impari tenzone sulle abbarrate pur troppo deboli di Montanara, ferito in fronte da palla di moschetto.

 

Luigi Pierotti, volontario, nacque a Pistoia nel 1818, fu ferito mortalmente alle Grazie il 29 maggio, e morì all'ospedale di Castiglione delle Stiviere, ai 7 di giugno 1848.

 

Alberti Bechelli, volontario, nacque a Pistoia agli 8 di dicembre 1828, morì a Curtatone il 29 maggio.

 

Luigi Barzellotti, volontario, nacque in Pian Castagnaio, morì il 29 maggio a Curtatone. Ferito volle pur continuare a combattere; il professore di matematiche di Pistoia, che gli caricava il moschetto, e dicevagli di ritirarsi, lo vide cadere a terra tronco del capo che una palla di cannone gli aveva portato via.

 

Pietro Parra, volontario, era nato a Pisa; era giovane; era ricco; ma non per questo era felice. Imperciocchè egli aveva un'anima nobile e sentiva che gioventù e ricchezza sono perle vanamente sprecate per chi appartiene ad una famiglia di schiavi, per chi si sa figlio d'una Nazione, che non può levar la testa nel consesso delle Nazioni. E convinto di questo supremo dovere, gemente com'era la Toscana sotto la sferza d'una polizia tirannica ed onnipotente, univasi con animo pronto alle politiche manifestazioni che avevano luogo in patria contro le mene de' Gesuiti e dei Gesuitanti. Nè de' liberi sentimenti faceva vanto, quieto e tranquillo nelle pareti domestiche, dove l'amore della famiglia lo circondava, tra' fondatori del giornale l'Italia; cosicchè quella libertà che ne' giorni del pericolo aveva coraggiosamente sostenuta, non adulò poi vilmente, quando mostrarsi libero divenne facile coraggio, e il santo nome di patria suonò senza merito sulle labbra di tutti. Ma per l'Italia parve un giorno solenne, parve giunto il momento di frangere con uno sforzo generoso il giogo di dieci secoli; e l'idea d'indipendenza si mostrò vicina a ricevere la conferma dal fatto.

Il 22 marzo, Parra partì coi volontari, lasciando il suo grado di capitano per stringere un moschetto. Ma quelle milizie cittadine, per altrui colpa, tergiversavano nelle montagne di Lunigiana, e per incerti ordini; sicchè a lui che la causa italiana, non la municipale Toscana, era surto a difendere, parve quella un'angustissima sfera d'azione; e lasciando i compagni corse ai campi di Lombardia col fratello Antonio, con Luigi Fantoni e Giovanni Frassi. E annoverato nella colonna dell'Arcioni volò verso il Tirolo, ove prima pareva doversi incontrare il nemico.

Ma volto appena verso Rezzato, la malattia di suo fratello lo costringeva a tornare in Brescia, per deciderlo a riprendere la via di Toscana, e provvedere sotto il patrio cielo alle cure di mal ferma salute. I due fratelli si separarono, e fu straziante l'addio, come se un mesto presentimento dicesse loro, non doversi rivedere mai più. Intanto la legione toscana aveva passato il Po, e stava a campo sotto Mantova; talchè si prevedeva da tutti, avrebbe essa avuto luogo a sostenere ardue e luminose fazioni di guerra. Parra allora, in compagnia di Giuseppe Montanelli, volle tornare fra' suoi, dai quali soltanto lo aveva diviso il pensiero, che potessero non esser serbati alla gloria della battaglia.

Giunse al campo di Curtatone, dov'era stanziato il battaglione pisano; e benchè non iscritto a nessuna compagnia, divise la dura vita e le costrizioni morali che alle anime generose sono il più duro sacrificio, poichè per esse è momento di festa quello nel quale ferve più accesa la mischia. Era di poco giunto al campo toscano, quando la prima scaramuccia ebbe luogo il dì 5 di maggio, alla quale accennando; scriveva a sua madre, che stava allora in Desenzano «Appena giunti qua, abbiamo portato fortuna.»

Presente allo scontro vittorioso del 13 di maggio, d'altro non si lamentava che d'aver dovuto restare a guardia della trincera, invidiando chi da bersagliere si era avanzato ne' campi, inseguendo più da vicino il nemico. Comunque fosse, egli ebbe parte in quella gloriosa giornata; e qualche tempo dopo andò a Desenzano per abbracciarvi la sorella e la madre, e insieme con Montanelli potè stare all'assedio di Peschiera, ed avere, com'esso diceva, la consolazione di vedere due bombe scoppiare a' suoi piedi. La sorella e la madre volevano trattenerlo ancora, ed esso sentì la forza del dovere maggiore di quella dell'affetto, e il 25 di maggio partì pel campo.

Intanto sorgeva l'alba del 29; le scaramuccie, gli scontri, che avevano avuto luogo fino allora, cedevano il passo ad una vera, a una disperata battaglia, dove, come vedemmo, il valore d'una mano di Toscani osava tener fronte per sette ore all'urto delle migliaia, al fulminare delle artiglierie austriache.

Egli, incorporato in quel giorno alla compagnia Malenchini, fu sempre per tutto ove maggiore incalzava il pericolo: vide per tre volte piegare gli Austriaci, li vide tornare rinforzati all'assalto, e quando la disperata resistenza dovette cessare, per le munizioni scoppiate, per le artiglierie sguarnite, quando si dovette volgere a ritirata, che fruttò più d'una vittoria, alla voce di Montanelli, il quale gridava a pochi: «Dobbiamo morire ma non ritirarci,» lo seguì al posto disperato del Molino, e là, mentre accanitamente ferveva la mischia, che oramai non era più che parziale, una palla lo colpiva nella fronte, e, stendendolo senza vita su' campi sanguinolenti, gli cingeva alla fronte la corona del martirio.

 

Torquato Toti, volontario, nacque il 18 febbraio 1823 in Val d'Arno, morì il 29 maggio a Curtatone.

 

Roberto Buonfanti, volontario, vero sacerdote del Vangelo, nacque il 20 novembre 1826 in Lamporecchio, morì, credesi, il 29 maggio a Curtatone. Ove giaccia la sua spoglia mortale s'ignora. Forse che la mano del nemico la compose nel sepolcro. Neppur breve nota indica al passante il nome di lui. Ma che ci cale? Anco le ossa di Francesco Ferruccio non sappiamo ove sieno; non pertanto la fama lo consacra fra gl'immortali, alla gloria delle opere grandi, all'eternità.

 

Domenico Vincenti, volontario, nacque in Santa Reparata di Corsica nel 1828, morì il 29 maggio.

 

Riccardo Bernini, volontario, studente di medicina, nacque a Livorno nel 1827, morì alle Grazie il 29 maggio, colpito nel petto al di là delle barricate che egli saltò per andare incontro all'inimico.

 

Giovacchino Biagiotti, volontario, nacque a Firenze nel 1829, morì a Curtatone il 29 maggio. All'urto poderoso delle falangi austriache, fra' primi che opposero disperata resistenza fu Giovacchino. Il quale, quando il valore tornò vano sul numero, sdegnoso di sopravvivere, con pochi de' suoi, fra il piombo e le scaglie che gli strisciavano sul capo, passò le abbarrate; nè restò dal combattere finchè, fulminato dalle batterie nemiche, cadde morto sul campo. E infatti il chiarissimo chirurgo supremo Zannetti, incapace di esagerare i fatti, lo chiamava giovane coragiosissimo ed ardente.

 

Raffaelle Zei, volontario, studente di medicina, giovane di raro ingegno, nacque a Firenze il 16 novembre del 1829; ferito di molti colpi il 29 maggio a Curtatone, morì nel campo nemico. Come quella del Buonfanti, ignorasi ove giaccia la sua salma.

 

Giuseppe Ginnasi, volontario, nato a Imola nel 1827. Nel 1848 trovavasi all'università di Pisa; e allo scoppiar della guerra di Lombardia muoveva col battaglione dei suoi condiscepoli, e si trovò alla mischia il giorno 29. Quando vide che già da qualche ora combattevasi e il suo battaglione rimaneva inoperoso, corse dove il pericolo era maggiore, cioè ai posti avanzati della sinistra, ove era una mano di Napoletani sotto gli ordini del tenente Fonseca. Combattè da prode, quantunque la natura non lo avesse fornito di grande coraggio: ma lo incitavano il sentimento, il dovere, l'amor della patria e il farsi degno della mano di una carissima vergine. — Colà una scheggia di granata lo ferì primamente alla fronte, e tosto che l'ufficiale ebbelo con una pezzuola medicato alla meglio, ritornò al fuoco. Altri, dopo la ferita, avrebbe stimato terminare il proprio ufficio: non così il Ginnasi. Anzi pieno d'ira nel veder morto il fratello della sua sposa, il suo maestro, l'amico, uno dei più splendidi intelletti d'Italia, raddoppiò di valore. Ma ecco cominciava la ritirata, rimanevano soli quei pochi, nè il tenente voleva abbandonare il posto. Si ripararono poi dietro una casa, e di là continuarono a far fuoco, caricando i moschetti sotto le scale, quando una palla di stutzen colpì nel petto il Ginnasi e lo gittò sul terreno. Nè fu possibile raccoglierlo, imperocchè, incalzati vieppiù, si ebbero gli altri a ridurre in una casa ed abbarrarla: donde udirono i lamenti del povero moribondo che diceva ripetutamente: «Ungheresi, uccidetemi.»

 

I fratelli Sforzi. — Temistocle Sforzi nacque in Livorno il 24 luglio 1826. Fu di ingegno pronto e vivace, di animo schietto e generoso. Negli anni più giovani frequentò le pubbliche lezioni di San Sebastiano, e poi la scuola privata d'eccellente Istitutore. Proclive assai al divertimento seppe però spregiarlo quando il dovere lo esigeva, e lo dimostra il felice esito con cui subì tutti gli esami sì nella Università di Siena, che in quella di Pisa, ove attese allo studio delle scienze naturali. — Nell'anno appunto in cui doveva conseguire la laurea, scoppiò la guerra della Indipendenza; e come aveva posposto al dovere di studente i sollazzi che tanto allettano l'età giovanile; così al dovere di cittadino sacrificò non solo gli agi e le mollezze delle quali in tempi ordinari era anche troppo curante, ma eziandio il piacere per lui grandissimo di essere spesso in seno della famiglia; e si espose a perdere (come pur troppo perdè) un avvenire lieto, quale lo facevano presagire il buon esito de' suoi studi, e un mediocre censo domestico. Ottenuto, dopo replicate istanze, il consenso del padre, partiva da Pisa col battaglione universitario, ansioso di difendere colle armi quella indipendenza che aveva gridato nelle feste di settembre. Chi ha conosciuto il gracile temperamento e le abitudini di Temistocle Sforzi, dice, non potersi niuno immaginare come egli abbia potuto sopportare i disagi del cammino e del sereno.

Pure nulla di ciò lo turbava; giunto in Lombardia, non di altro si lagnava, che di essere lontano dal fuoco, e invidiava gli altri due fratelli che erano nel luogo dell'azione. In data del 5 maggio scriveva alla famiglia da Marcaria, accennando lo scontro del 4, e soggiungeva: «Forse Aristide avrà veduto i nemici, ed avrà con essi cambiata qualche palla, e noi, del Battaglione Universitario, che dovremmo esser l'anima de' volontari, ci tengono qua a poltrire almeno dieci miglia distanti dal campo.» Le quali parole, alteramente disdegnose, ei ripeteva al suo capitano e parente, professor Puccinotti, ed al suo amico d'infanzia e compagno di studi, Azzati. E nel 16 maggio, da Castellucchio, chiedeva al padre un permesso scritto e autenticato dalle Autorità competenti, onde, in caso di scioglimento del battaglione universitario, entrare nella Civica fiorentina «per potere essere utile alla patria, per la quale sinora ho sofferto senza riportarne onore veruno, mentre tutti gli altri corpi di volontari, almeno sanno per prova che cosa sieno le moschettate.»

Il pericoloso onore che tanto agognava, lo ebbe finalmente nel 29 di maggio. Colpito nel ventre da una palla di cannone, spirò dopo pochi momenti; e fu il primo a morire nel passaggio del piccolo ponte di comunicazione fra le due parti del campo, rimanendo ferito dal medesimo colpo l'altro milite Brachini di Siena.

 

Aristide, l'altro fratello di Temistocle, nacque in Livorno il 16 giugno 1830. Fino dalla sua infanzia mostrò intrepidezza non comune, anzi disprezzo del pericolo e del dolore. — Agli studi letterari mostrava preferire una vita più attiva e faticosa. Chiese ed ottenne di entrare nella Marineria di Guerra Sarda, ma gli avvenimenti del 1848 gli fecero cambiare proposito.

Partì da Livorno come milite civico colla prima colonna comandata dal capitano Mussi, comunque si sentisse spezzare il cuore lasciando la madre che lo guardava stupefatta, avendo da qualche tempo smarrito il senno e la ragione. In età di non ancora diciotto anni sopportò tutti i disagi delle marce nè mai nelle sue lettere accennò a lagnanze; la traversata dell'Appennino, fatta con un temporale orribile, non strappò dalla sua penna che espressioni di compiacenza: «ora posso dirmi soldato perchè ho potuto tollerare questi disagi senza risentirne danno.» — Anzi, quanto più pativa e più si avvicinava ai pericoli, tanto più si innamorava della vita militare, e quindi chiedeva al padre il permesso di arruolarsi nel primo Reggimento di linea. Ottenne finalmente il sospirato consenso, e nonostante il difetto di età, fu scritto nella 6.a compagnia del 2.° battaglione, colla quale combattè il 13 maggio a Curtatone, mostrando un ardore che da molti era tacciato, e forse con ragione, di temerità, scusabile per altro in lui giovanissimo.

Piacque ai superiori di ordinare in altro modo il Reggimento; ed egli fu allora collocato nella 4.a compagnia del battaglione medesimo. Con questa si trovò a Montanara il 29 maggio, e là dopo distinte prove di valore, cadeva mortalmente ferito da un colpo di moschetto. Così periva Aristide Sforzi innanzi di compiere il diciottesimo anno, lasciando immersa nel lutto una famiglia, che doveva piangere la perdita di Temistocle nello stesso giorno a Curtatone, e deplorare ancora la prigionia di un fratello degli uccisi, Napoleone.

 

Cesare Taruffi, volontario, nacque a Firenze il 6 gennaio 1832, morì a Montanara il 29 maggio.

 

Giuseppe Amidei, volontario, nacque a Massa Marittima il 28 agosto 1823. Sebbene allevato in povera ma onesta famiglia, sebbene educato al lavoro ed al grave lavoro dell'incudine e del fuoco, sentì che oltre al babbo e alla mamma, eravi una mamma più ancora venerabile, la patria: oltre ai doveri di cristiano e dell'officina, eranvi quelli non meno sacri del cittadino e della patria. E perchè avesse meglio inteso i suoi doveri, imparò a leggere e scrivere. Maggiore di sei figliuoli, tre fratelli e altrettante sorelle, egli avrebbe voluto esser di conforto a' bisogni della famiglia col suo amato genitore. Il quale, incuorandolo di certo a ben fare quando, era chiamato come milite della guardia nazionale, agli esercizi e ai doveri della pace, seppe con ammirabilissime parole accommiatarlo, abbracciandolo piangendo, e dicendogli: «Sai, il tuo dovere ti chiama; e se fossi più giovine, volerei anch'io in soccorso della patria. Ultime parole che il giovine ascoltò, e che il padre gl'indirizzò. Imperocchè al 29, combattendo con animo fierissimo all'estrema difesa del Molino, fu ferito nel braccio sinistro, e condotto a Castiglione delle Stiviere, sopportando coraggiosamente i patimenti della ferita, nè d'altro lamentandosi che d'esser posto nell'impossibilità di pugnare, in quell'ospedale il dì 11 di luglio diede l'anima a Dio.

 

Giuseppe Fusi, volontario, dottore in medicina, nacque a Massa Marittima il primo di novembre 1831, morì il 29, valorosamente combattendo, colpito da una palla di cannone nel momento in cui stava piegato per evitare lo scoppio d'una bomba vicina.

 

Raffaele Luti, bersagliere, nacque ai 24 ottobre 1826 a Sant'Angelo. A 19 anni andava all'Università. La medicina, come scienza d'affetto, ministero di carità e scuola di verità, gli piacque meglio, e l'abbracciò non come mezzo venale di brancicarsi così materialmente, ma come scopo santissimo da intendervi anima, ingegno, vita, tutto sè stesso.

Andato a Pisa, anzichè sfrenarsi a una vita sollazzevole e lieta, parve raccogliersi più che mai nella sua abituale melanconia, melanconia mista a una certa alterezza, che ai pusilli pareva superbia, e non era; era invece sentimento della dignità dell'uomo, era tensione continua dell'anima a cose alte e generose. Parlava poco, ma con posatezza soave, con un senno, spesso sovra l'età; co' maggiori di sè ei si teneva in silenzio, i ciarlatani tanto di caffè che di trivio che allora allora erudivano, nè anche d'uno sguardo li avrebbe degnati.

Una madre tenerissima lo richiamava ogni dì tra gli affanni di un dolore disperato; la salute stessa cominciava a pericolare. Qual cosa più potente in un'anima buona delle preghiere d'una madre? Povero Raffaello! Si hanno sott'occhio le lettere sue d'allora; chi sa le lagrime di cui le bagnava! che sforzo gli sarà costato lo scrivere al tuo fratello Luigi, che pur lo pregava a tornare: «Chi sente l'onore, non macchia la vita di quest'obbrobrio. Intendo l'angoscia d'una madre e d'un padre; il pensiero mi strazia l'anima, e mi adiro col mio destino, che non mi diede genitori simili a quelli che scrivono a' figli: «non tornare a casa, se non onorato; tutto sacrifica alla patria.» Però se gli altri seguitano col conforto della famiglia, io col disconforto, ho un merito doppio, peno doppiamente: consola e persuadi. Cosa difficile, comprendo, parlare all'affetto, perchè, perdio, non si può parlare alla ragione.»

Queste parole ei le scriveva da Reggio il giorno di Pasqua, 23 aprile, le quali parole ogni giovane italiano vorrebbe saper dire a 22 anni; ed esse come valgono ad onorare una vita intiera, così le vogliamo scolpite a ricordanza di sì caro nome, a vergogna delle ignave e stolte superbie, ad eccitamento di maschie virtù, in luogo sacro ai martiri della patria.

 

Alberto Acconci, bersagliere, nato a Pisa il 9 dicembre 1828. Alberto nell'allontanarsi dalla casa paterna sentiva palpitare il suo cuore diviso in due affetti. — La speranza di salvare la patria, il dolore di aver lasciato i suoi cari genitori. Vinto però dal suo primo dovere, la mattina del dì ventidue marzo 1848 si unì alla Civica pisana, salì nel convoglio della ferrovia lucchese, e, giunto a Lucca, si diresse a Pietrasanta, da Pietrasanta a Fivizzano, e quivi, unitosi al battaglione senese, traversò gli Appennini.

Colà il padre gli scriveva perchè ritornasse in patria presso l'adorata famiglia, la quale non attendeva che il momento di riabbracciarlo. Ed egli rispondeva in questo tenore: — «Se ella è mio padre, non mi discorra di tornare adesso, che vi è qualche pericolo. Fino dalla mia prima età ho sognato questo momento, e adesso che è giunto non dovrei approfittarne?» — E soggiungeva — «Dica da parte di tutti coloro che sono qua con me, quei tali che ci chiamano vagabondi, dica loro, che se non si crepa tutti, torneremo, e sapremo loro rispondere, che il vile ha sempre bisogno di una scusa per nascondere agli occhi di tutti la sua dappocaggine.» — E più sotto ancora: — Sento con piacere che stiate tutti bene, ed io pure starei, se il desiderio di rivedere la mia famiglia non mi facesse alcuna volta stare di cattivo umore: ma per ora ci vuol pazienza. Iddio mi darà forza, e mi farà combattere per la salvezza dalla mia bella Italia, e se a Lui piacerà, ritornerò sano e salvo a rivedere i miei.»

Giunto a Mantova, dopo varie scaramuccie avute coi nemici, il tredici maggio 1848, Alberto Acconci non solo si distinse per il suo coraggio, quanto ancora per la sua destrezza delle armi: ed il ventinove, combattendo da valoroso, facendo animo a' suoi amici, e difendendosi colla maestria di un vecchio soldato, cadde sventuratamente prigioniero.

Ognuno può immaginarsi il dolore, l'angoscia e la disperazione che regnava nella famiglia Acconci dopo il giorno ventinove. Eglino credevano estinto il loro figlio, e ne avevano ben donde, poichè stettero un mese e mezzo nella più crudele incertezza e nell'assoluta mancanza di sue notizie. Finalmente parve che il cielo volesse mettere un termine al loro dolore, e la mattina del dì diciassette luglio 1848 giunse una lettera di Alberto diretta a suo padre, che lo ragguagliava della sua prigionia.

Egli scriveva da Budwei quando giunse l'ordine di trasferirsi a Theresienstadt.

Giunto in quel luogo (facendo quasi sempre a piede quel viaggio per non togliere sui carri un posto a chi egli nella sua delicatezza credeva ne fosse più degno), ricevè lettere di sua famiglia, scrisse varie poesie, e si mostrò cogli amici pieno di coraggio e di rassegnazione. Ma, oh fatalissima circostanza! o fossero i disagi del lunghissimo tratto di strada che aveva percorso, o fosse il cattivo vitto, o il clima variabilissimo e costantemente umido di quel luogo, una sera dopo qualche malessere provato durante il giorno, gli comparve una febbre. La credè una effimera, e giudicò non essere necessario il riguardo. Nel secondo e terzo giorno la febbre tornava, ma non essendo accompagnata da gravi sintomi, pensava di superarla senza bisogno di costituirsi ammalato. — Io desidero morire presso di voi, diceva a' suoi compagni, piuttosto che andare all'ospedale. L'ospedale mi fa orrore... non so perchè... ma sento che ci ho una grande avversione. — Il quinto però essendo più forte la febbre, cedè alle istanze di tutti i suoi amici, che gli promisero di assisterlo e di mai abbandonarlo, come infatti fecero, e fu condotto all'ospedale.

Alla sordità si aggiunse l'insonnio continuo, quindi il vaniloquio, un delirio placido, e finalmente dopo due giorni di continuo sopore, il dì diciassette agosto 1848, spirò fra le braccia de' suoi più cari amici. Prima che fosse entrato in delirio, diceva spesso ai suoi compagni: — Io sento che è giunta l'ultima ora, eppure assicuratevi che morirei più volentieri, se fossi sicuro di lasciare l'Italia libera. Ah! potessi almeno rivedere i miei genitori, i miei fratelli; i miei parenti!... quando sapranno la nuova della mia morte.... mi amavano tanto!... infelici!... e dovrò morire lungi da loro senza rivederli mai più!... Ah! per pietà, che eglino non lo sappiano!... io sono certo che ne morirebbero di dolore! — Dopo di ciò, uscito fuori di sè non si udiva che proferire queste interrotte parole: — Madre mia!... Padre mio!... mia bella Italia!... morte ai Tedeschi!...

 

Achille Becheroni, bersagliere, nacque in Poggibonsi il 5 ottobre 1817. Spuntati i giorni sereni del risorgimento italiano, e suonata l'ora del riscatto, partì, caldo d'amor di patria, nella seconda compagnia del primo battaglione dei volontari. Giovine pieno a ribocco d'onore, ma educato alla bellezza e alla pace delle arti, era assai inquieto, e passò dal primo al secondo battaglione nella compagnia dove erano tenenti Federico Fabbrini e Ferdinando Materassi. Poco dopo fece altro mutamento per combattere nei bersaglieri, e per essere insieme con altri artisti. E avendo affrontati con ardore tutti i disagi della insolita vita, il 29 maggio 1848, ferito mortalmente, da due palle nel basso ventre a Montanara, morì, dopo 24 ore, nelle stanze dell'ambulanza di Mantova, di morte gloriosa e onorata, e fra il compianto de' suoi compagni d'arme, che con lui eran caduti vivi, nelle mani dell'inimico.

 

Pietro Pifferi; bersagliere, nacque in Arcidosso di Val d'Orcia nell'anno 1828. Quando scoppiò la guerra patria si arruolò nella quinta compagnia del secondo battaglione. Il dì 29 fu ferito alla coscia destra e menato all'ambulanza; ma essendo pieno il luogo, venne collocato sulle stanghe per salvarlo dall'inimico che sopraggiungeva. Nè però si sottrasse alla morte, chè piombò la cavalleria ungherese; ed il soldato Baroncelli, ordinanza del capitano Giannelli, il quale anch'esso era fra i feriti, dette al Pifferi il suo moschetto, ed egli con fermezza e coraggio indescrivibile lo scaricò addosso ai nemici. Della qual cosa irritati gli ungheresi, si dettero a menare in tondo e alla cieca i loro squadroni su tutti quegli sventurati, e più sul Pifferi, che fu orribilmente mutilato e quasi ridotto in pezzi.

 

Alessandro Ceccherini, bersagliere, nacque a Pisa da genitori popolani nel 1824; ferito mortalmente il 29 a Montanara, morì a Mantova i primi di giugno.

 

Pietro Sarcoli, volontario nei bersaglieri, nacque in Massa Marittima il 26 giugno 1817. Giovane serio per natura, e sempre prudente e morigerato, ei non tenne come pompa vana l'officio e l'abito di milite nella guardia nazionale; finchè all'annunzio della guerra, prima di scriversi soldato volontario co' suoi compagni, avuta la notizia che potesse la fortezza di Ferrara essere assalita, vi si recò rapidamente, e non essendosi poi verificato quest'assalto, raggiunse in Viadana la compagnia, dov'erano annoverati i suoi carissimi Massetani. Il Sarcoli il 29 era distaccato con dieci uomini ad un posto avanzato. Quando i nemici sopravvennero, e col numero soverchiarono i nostri; egli non si volle ritirare. Proseguì colla baionetta spianata contro gli Austriaci e fu trucidato.

 

 

Paolo Sacchi, nacque a Bibbiena. Appena scoppiata la guerra s'inscriveva nella settima compagnia dei volontari. E quanto amor di patria sentisse e di quanto coraggio avesse pieno l'animo solennemente il dimostrò a Curtatone il dì 29, quando i suoi soldati, restati privi di cartucce per l'incendio de' cassoni di munizione, egli andava a cercarne nelle tracolle dei morti in mezzo a una grandine di palle e di razzi, sempre mantenendosi il medesimo fino a che una palla d'archibugio non gli passò una coscia. Egli dapprima voleva disprezzare la ferita, e a chi amorosamente dimandavagli: «che! sei ferito?» rispose: «non è niente, non è niente» e intanto si fasciava là dove sgorgava il sangue. Ma non potè durare lungamente, e quindi trasportato in una casa poco distante sulla destra del lago, fu con altri fatto prigioniero e menato all'ospedale di Mantova.

Forte e robusto, potè in pochi giorni essere a tale da muovere per la Germania, ed era a Theresienstadt, quando vennegli la lieta novella del cambio dei prigionieri. Partì immantinente ma quella vita che era rimasta salva in cotanti pericoli non potè superare una febbre cagionata anche dalla riapertura della ferita, che gli sopraggiunse in Budwei; e così in terra straniera rimase il di 22 di agosto il corpo trafitto di Paolo Sacchi.

 

Clearco Freccia, volontario, nato nel 1831 a Noceto. Lasciato lo scalpello correva nel 1848 a combattere le battaglie della patria indipendenza. Il dì 9 di maggio il battaglione in cui era inscritto dividevasi colle stanze fra Rivalta, Sacca e Castelvecchio; e Clearco, volendo correre i maggiori pericoli, e non esser fermo di presidio, si unì a' bersaglieri, comandati e ammaestrati dal valoroso maggiore Beraudi piemontese in Monteggiana sulle rive del Po.

Così combattè strenuamente il dì 29 nel campo di Montanara, e mortalmente ferito insieme al Becheroni, furono entrambi menati prigionieri in Mantova, dove all'alba del dì 30 insieme spirarono nelle stanze di osservazione nell'ospedale, senza un abbraccio e una lagrima pietosa de' fratelli e degli amici.

 

Francesco Barzacchini, volontario, nacque il 21 luglio 1821, in Campiglia, morì a Montanara il 29 maggio.

 

Francesco Pierallini di Bibbiena, soprannominato il Grillino, fu figlio unico di onesti pigionali. E quantunque, giovine di diciannove anni, fosse sostegno ai vecchi genitori col guadagno che ritraeva come garzone di postiglione, cioè come stalliere, pure quando Milano e Lombardia si scossero, sentì anch'esso il bisogno di consacrare all'Italia la sua vita. E non ebbe pace finchè non partì per Firenze con altri volontari del paese; ma giunto al deposito, non fu arruolato perchè mancante del permesso paterno. Laonde ripartì il medesimo giorno per Bibbiena, e si presentò al povero padre che, quasi previdente dell'avvenire, non voleva accordargli il suo consenso; ma dovè cedere quando scôrse la ferma risoluzione del giovane italiano, di togliersi la vita primachè esser scherno dei suoi compagni e de' suoi concittadini. Col desiderato permesso ripartì lietissimo, e ricomparve al deposito colla massima sollecitudine: ed ivi fu arruolato, e fin da quel momento diceva di esser diventato il giovane più felice della terra. Al campo, questo popolano fu esempio di valoroso ed ubbidiente milite, ed amore della sua compagnia. Il giorno 29 maggio 1818 fu il primo, cui una palla di moschetto colse mortalmente alla fronte; e di subito spirò fra le braccia del suo compatriota tenente Ghilardi.

 

Virgilio Bernardini, volontario, nacque il 1832 a Convalle in quel di Lucca. Alla battaglia di Curtatone, dopo la prima ora di fuoco, salito sul parapetto della trincea, sdegnando di parare il suo corpo, fu colpito in fronte da una palla, e cadde, gridando più volte: Viva l'Italia!

 

Giuseppe Solimeno, nacque in Marciana il dì 10 febbraio 1806, ferito mortalmente il 29 maggio, morì il 1 dicembre 1848 dopo dolorosa malattia, sopportato colla massima rassegnazione.

 

Giuseppe Nerli di Siena, deposto il grado tributatogli nella milizia cittadina, si distaccava dall'amorosa madre, volava ai campi di Lombardia. Ultimo negli onori, primo ai rischi e ai disagi, intrepido e feroce nel conflitto, pio, umano modesto, docile, mansueto fra i suoi, ei presto rendevasi modello ai guerrieri della libertà; e ben tale suonava e suona sempre il suo nome fra quanti durarono con lui quella infelice e gloriosa guerra. Nel 29 maggio rimasto con un solo compagno tra i nemici ferri, rispettabile ai nemici stessi per indomito valore, fu preso alfine e fatto prigione. Sopportò dignitoso i quattro mesi di sua cattività; fu paziente nella malattia contratta fra i travagli del campo; ma il cordoglio dei pubblici casi vinse le sue forze usate già con tanto abbandono. Attaccato dalla miliare, dissimulò alla povera madre il corso pericolo, e sperò, nella breve tregua avuta dal fiero morbo, tornare a lei consolatore del lungo affanno. La infelice gli corse incontro al ritorno, lo abbracciò vaneggiando, e nelle care sembianze ravvivate in quell'ultima gioia, non lesse, delusa! la imminente ruina. La cruda lue, appresa sordamente agli organi respiratori, insorgeva di nuovo, e dopo poca lotta, già puro e disposto a miglior soggiorno, spegnevalo tra le braccia di quella desolata.

 

Roberto Menabuoni, nacque il 19 luglio 1827 in Livorno. Lo scoppio della guerra lo chiamava nei campi lombardi ove difatti si inviava fra i primi il giorno 21 marzo 1848, quantunque afflitto da dolori reumatici acquistati poche notti avanti, allorquando nel compiere l'ufficio della ronda cittadina gli avvenne di scoprire ed inseguire alquanti malfattori. Partiva esso col primo battaglione livornese, comandato dal Mussi, e precisamente colla prima compagnia del capitano Dupuis. E ad un amico, il quale avendo stabilito di partire egli pure fra militi, lo impegnava ad aspettarlo per partire poi insieme solo due giorni dopo, il Menabuoni risolutamente rispose: «Ho dato la mia parola d'onore e parto oggi.». Nè valsero a ritenerlo neppure le calde esortazioni della famiglia, e specialmente del padre. E partì, tribolando pel dolore alle gambe; del quale però in breve restò libero, come egli stesso dopo non molti giorni scriveva. E coi Napoletani si trovò il 4 maggio al fatto di San Silvestro; ed ivi si segnalò per valore ed ardire, tantochè poco mancò non fosse ferito, come avvenne al suo compagno d'armi è d'affetto Riccardo Lacomba, che cadde il primo nelle mani del nemico. Il dì 29 era nella linea aperta de' bersaglieri di Montanara, aspettando con ansia di scaricare il suo archibugio già preparato, allorchè disgraziatamente fu colpito per negligenza da ferita mortale che subitamente il freddò. Lo piansero italianamente i suoi cari; e del padre suo desolatissimo non vogliamo tacere una bellissima azione, che meglio si scorgerà nelle due lettere seguenti:

 

«Cittadino ministro,

«Quando la patria ha d'uopo di soccorso, ciascuno faccia quel che può. Il sottoscritto perdè un figlio per l'italiana indipendenza: ebbene, sia pace all'anima sua.

«Oggi, tanto esso, quanto la di lui famiglia, ascoltano le grida dell'eroica Venezia e le destinano la piccola somma di lire fiorentine cinquanta, inviandole a voi, cittadino ministro, acciò, unite alle altre sovvenzioni, possano essere di qualche utile a quei valorosi italiani.

«Con distinta stima si pregia di essere

«Livorno, 8 gennaio 1849.

«Di voi, cittadino ministro dell'interno

«Umil. devot. servo

«Bartolommeo Menabuoni»

 

Il ministro F. D. Guerrazzi rispondeva il giorno 10:

 

«Cittadino,

«Leggiamo nei libri santi, come il Signore, di tutte le offerte, gradisca principalmente l'obolo della vedova e dell'orfano; e la patria sopra ogni altra, in verità io ve lo assicuro, avrà accetta la vostra offerta, che io chiamerei volentieri il dono del dolore. Non temete, no, che la vostra moneta vada confusa con le altre; ella vince di splendore quella dell'oro, perchè sfolgorante di ardentissimo amore e di sacrificio cittadino.

«Il cuore vostro di uomo forte vi ha consolato della morte del figlio; e poichè voi siete di coloro che si mostrano capaci di virili conforti, io vi dico che non si muore cadendo per la patria, ma si vive nella memoria degli uomini e nelle sedi più beate del cielo, dove si accolgono le anime elette. Credete, o, buon cittadino, a questa religione; imperciocchè, se tale fu la religione di Cicerone, di cui porge testimonianza nel sogno di Scipione e di Tacito, come si legge nella Vita d'Agricola, perchè non dovrebbe essere la nostra, dopochè con bene altri precetti e con divina certezza ce la rivelava Gesù Cristo, amico di ogni oppresso, nemico di tutto oppressore?»

 

Ulisse Renard, nacque a Firenze nel 1823. Quando sorsero le voci di guerra, e si andava da molti con ampie parole tentando gli animi de' giovani più arditi, Ulisse rispondeva con brevi, ma vere e sentite parole: «quando sarà il momento di combattere, non s'avrà che ad annunziarmelo soltanto, e non sarò secondo a nessuno.» Infatti lasciò subitamente Castiglion Fiorentino, appena intese le prime mosse, e partì volontario in uno de' battaglioni. Fu a' diversi fatti combattuti il 4, il 10 e il 13; e nella giornata del 29 aveva ricevuto tre ferite, una al piede, due al braccio, e pure non andava all'ospedale. «Ritirati» gli dicevano i compagni e gli uffiziali; ma egli rispondeva, bastargli ancora la vita, e tutta volerla dare all'Italia libera. Un cannone era per cadere nelle mani dell'inimico: vi volevano audaci cittadini e soldati per salvarlo, e primo tra essi andò il Renard; ma lì presso venne colpito mortalmente da una palla nemica e cadde sul campo.

 

Liberato Molli, nacque in Arezzo nel 1822. Come architetto e ingegnere fu sempre adoperato alla tumultuaria costruzione e al mantenimento delle deboli trincee del campo in Montanara; ma non volle mai nè per viltà, nè per avarizia, pur di fatica, nè per aumento di provvisione lasciar la veste del caporale; sicchè, ora costruiva ed ora vigilava, quando ristaurava e quando proteggeva i campali baluardi; e ne prese cotale infreddatura, che il dì 25 di maggio fu obbligato dal chirurgo maggiore Chelli di cavarsi presto sangue e starsene qualche tempo guardingo in letto. E scriveva appunto in que' momenti di ozio una lettera al Pierotti, in cui, fra altro, così diceva: «Se mi sono prestato e mi seguito a prestare per le fortificazioni, lo faccio colla paga solita cha passano a' comuni, e ho rifiutato l'aumento, non dovendo esser lo scopo d'un buon figlio d'Italia l'interesse, ma sì vero la buona volontà d'occuparsi pel felice esito della santa causa per cui siamo mossi. Pur troppo si va dicendo che parecchi di noi stanno qua per speculazione, non già io e la maggior parte.» E in questa medesima lettera proponevasi di disegnare la chiesa e il posto delle Grazie, sicchè dimandava seste e righe e occorrenze da disegno. Ei lasciava subitamente l'ospedale ambulante per trovarsi alla già preveduta zuffa. Era appunto sui parapetti di Montanara, quando il furiere della sua compagnia, Leopoldo Pierotti, dicevagli: «Smetti, Liberato, oramai sono buone quattr'ore che fai fuoco. — È il mio dovere, rispondeva, dammi un solo bicchier d'acqua, che ho arsa la gola.» Andava subito l'amico, ma ritornato, una palla coglieva in fronte il Molli, il quale spirò sul suo parapetto.

 

Paolo Caselli, nacque a Firenze nei primi del 1831. Mentre a Curtatone ferveva la pugna, gli ufficiali della compagnia, a cui apparteneva, dissero animosamente: «Giovanotti, chi di voi ha audacia e valore lo mostri: deggionsi portare le cariche a' nostri posti avanzati, che già cominciano a difettarne.» E Caselli, presane buona quantità, arditamente si spinse innanzi. Ma più non tornò fra' suoi, e veduto il bisogno pugnò nell'antiguardo e perì da forte.

 

Pietro Simoncini, nacque a Fucecchio. Nel 13 maggio fu ferito a Curtatone nella parte superiore dell'avambraccio sinistro, per cui fino al 29 luglio seguente stette all'ospedale di Villafranca sotto il chirurgo Burci, professore nell'Università pisana.

Ripatriò il 3 di agosto 1848, ricondotto dal suo fratello Giovacchino (chè se arrogi Francesco, erano al campo tre fratelli) e si mise sotto cura rigidissima; perocchè per due consulti fu minacciato della mutilazione. Ma poscia dalla estrazione di diversi frammenti e schegge degli ossi radio e ulna, si erano formate delle caverne intorno del condotto fistoloso, le quali facevano deposito, ed in alcune di esse rendendosi difficile lo scolo, chè le materie dovevano ripassare contro il proprio peso, si rese indispensabile la contro apertura, dietro cui migliorò assai. Sempre però accusava offeso il braccio; ma infine riprese servigio, e poteva considerarsi guarito.

Ebbe a patire carcere in Samminiato dopo la ristorazione in seguito di processo; perocchè alla fin fine divennero sospetti colà tutti quelli che avevano combattuto per l'Italia. E per dolore, e per le conseguenze della ferita, nel febbraio dell'anno 1851 si rimise in letto, e agli 8 di luglio ad un'ora pomeridiana morì.

 

Pio Foresti, nacque in Casale il 19 gennaio 1813. Ai primi rumori della rivoluzione di Milano abbandonò ogni cosa per offerire il suo braccio alla guerra santa; e, vinta la ripugnanza de' genitori, che, come unico figliuolo, lo persuadevano a rimanersene a casa, si arruolò volontario nella legione Torres. — Giovane alto di statura, di colorido pallido, ma di fibra gagliarda, e d'indole aperta e risoluta, non tardò a dare prove di singolare bravura e di molta perizia nelle fazioni campali, per cui fu promosso al grado di maggiore della legione. — Ma quella milizia andò in breve soggetta a sinistre vicende, e ai 17 di aprile Pio Foresti scriveva da Goito al vecchio suo padre le seguenti parole:

 

«La legione Torres, nella quale io era maggiore del secondo battaglione, venne disfatta sotto Mantova tre giorni fa, ed in pochi ci siamo ritirati con marcia retrograda qui a Goito. — Molti sono i partiti che mi vengono offerti: — prima però d'accettare voglio intendermela col comitato del governo provvisorio di Milano.

«Spero per altro di aver tempo a fare una gita a casa per passarvi le feste di Pasqua. — Se però non potessi, e dovessi invece trovarmi presto nuovamente in faccia al nemico, ella non si turbi perciò, perchè, passando anche nel numero dei più, sarò lieto abbastanza di aver data la mia vita alla patria.

«Tanti saluti a tutti, ed in ispecie alla cara mamma.

«— In fretta addio.—

 

La Pasqua di quell'anno cadeva ai 23 di aprile; ma Pio Foresti non potè adempiere il voto di rivedere i suoi, perchè, essendosi riordinata la legione Torres, egli tornò a correrne le sorti e ad affrontare il nemico. E innanzi Mantova, nella fazione di San Silvestro, Pio Foresti, combattendo, cadeva il terzo giorno di maggio trafitto da una palla che gli passava da parte a parte il petto, senza poter mettere altre voci che Italia mia!

 

Enrico Lazzeretti, nacque in Montepascoli il 17 maggio 1827. Fece prodigi di valore nel combattimento del 13 maggio a Curtatone, sicchè meritò la medaglia da Carlo Alberto. Ed oggi la famiglia, che tien conto delle virtù cittadine di Enrico, le quali sono le prime virtù del mondo, conserva religiosamente quella medaglia d'argento, e, più che la medaglia, le parole del decreto, per aver sostenuto con molto coraggio l'assalto del nemico, riportando nell'azione una ferita al lato destro del torace.

Giovanetto com'era, chiamava, morendo, la madre, e diceva al Buonamici, che ne raccoglieva l'ultimo sospiro: «Ella non voleva lasciarmi partire; la desolata sappia almeno ch'io sono spirato col suo nome carissimo sulle labbra e con quello d'Italia!»

 

Francesco Lotti, nacque a Pisa nell'anno 1818. Allo scoppiare della guerra si scrisse volontario nella prima compagnia del battaglione pisano comandata dal capitano Ferdinando Ruschi, e combattè valorosamente in tutta la giornata del 29 insino all'ultima ritirata: allora nel saltare una fossa fu colpito al fianco da una palla dirizzatagli da un Croato, rimanendo supino su quel ciglio, e proferendo un ultimo addio al fratello, ch'ei consegnava morente al suo compagno d'arme Giovanni Donzelli, ch'insieme con lui fu più fortunato nel saltare quell'ostacolo.

 

Leopoldo Fedeli, nacque a Siena il 1 aprile 1825. Egli esercitava la professione di stipettaio; nella quale si mostrava intelligente ed operoso; sicchè i lavori che uscivano delle sue mani, erano non solo eleganti nelle forme, ma esattissimi e netti. Cogli altri Sanesi ei partì per Lombardia il dì 24 di marzo 1848. Fu eccellente milite e di carattere esemplare: buono, obbediente, indefesso alla fatica, rassegnato a' disagi della guerra; e quantunque si fosse ammalato delle febbri dei pantani fin dal 24 di maggio, e il dì 29 si trovasse assai debole e febbricitante, si slanciò coi suoi fratelli d'armi nel pertinace conflitto a Montanara, e fu ferito alla coscia destra. Rimasto prigioniero, fu menato dai nemici in Mantova, dove imperterrito morì il dì 3 di agosto, tre giorni dopo l'amputazione di quella gamba, che per tre mesi lo aveva fatto stare fra la vita travagliata e la desiderata morte.

 

Tito Diddi, nacque in Firenze nel 1826. Nella famosa giornata del 29, egli ricevè moltissime ferite per fitta mitraglia, una delle quali all'inguine, che lo tolse di vita il 22 di giugno, dopo giorni di prigionia nell'ospedale di Mantova. E si racconta della sua costanza che, trafitto in terra, cercasse a un suo compagno lo schioppo carico, e sollevatosi come potè meglio volle trarre almeno per l'ultima volta contro il nemico d'Italia.

 

Alfredo Newton, inglese di nascita, italiano per l'affetto che portava alla nostra terra. Non tratto già da spirito inconsiderato di parte, ma da vero amor patrio, risolvè di partire per la guerra, non convenendo, diceva, a lui oramai italiano, starsene colle mani in mano, mentre gli altri, e singolarmente il fratello Gervasio, esponevano il petto alle spade e al cannone. Andò dunque e sempre si segnalò, singolarmente in due fatti d'arme, a testimonianza dei commilitoni superstiti. Nella battaglia del 29 in Montanara fu ferito da due palle di moschetto alla spalla sinistra, e caduto come estinto fu presso ad esser seppellito co' morti. Per sorte un uffiziale austriaco, vedutolo dar segni di vita, lo fece trasportare in Mantova, quando aveva già quasi vuote le vene di sangue: pur tuttavolta riebbesi nello spedale, mercè le cure dei medici e di persone che le rare sue doti gli amicarono ben presto. Intanto scriveva al padre più volte, nè mai ebbe risposta, per sinistro invio di lettere. Fu annunziato nella lista dei prigionieri già morti; e come tale fu tenuto per un mese all'incirca. Pienza, terra ove erasi accasata la famiglia Newton, ne piangeva dolorosissimamente la perdita, e con solenne funebre pompa ne ricordava la cara memoria; ed egli intanto stava a confortare caramente il suo compagno di prigionia e d'infermità Raffaele Zei, il quale gli offriva come segno di affetto e di ultimo addio il proprio oriuolo, e Alfredo ricusando, quegli soggiungeva: «Tienlo, ti farà comodo: tu non hai un soldo: io poche ore ho da vivere.»

Dopo alquanto tempo finalmente vennero certissime novelle che Alfredo era ancor vivo. Il padre, che di quella perdita era desolatissimo, si mosse per le poste alla volta di Mantova per condurlo via. La nuova frattanto giunse ancora in Pienza, i cui cittadini trasecolarono come di cosa che non pareva credibile. Riavutisi dallo stupore i Pientini festeggiarono con pubbliche dimostrazioni d'esultanza e con rendimento di grazie all'Altissimo il fausto annunzio. Alfredo tornò in braccio a' suoi cari, malgrado però della spalla che tormentavalo sempre e mantenevalo abitualmente arso di febbre. Migliorò nondimanco mercè le sollecite cure del prof. Filugelli, e ottenuto alcunchè di miglioramento, eccolo col pensiero e coll'anima tutta alla sua Pienza. Riassunto il grado negli offici di capitano, la notte del giovedì santo del 1850, volle di per sè distribuire e vigilare la civica nella visita dei SS. Sepolcri. La febbre ingagliardì e lo pose in letto. Fu creduto vano ogni medico, e il 6 aprile, tra le smanie del male, quanto repentino, altrettanto doloroso, rese la bell'anima a Dio.

 

Alfonso Mazzei, nacque a Pistoia il giorno 29 settembre 1831, morì il giorno 29 maggio.

 

Mariano Mancianti, nacque in Siena il 2 gennaio dell'anno 1817. Fece parte del battaglione sanese-pisano, e nel dì 29 perdè fra' primi la giovine vita ne' campi di Montanara, trovandosi per l'appunto una delle più avanzate sentinelle in quel posto. Gridò il suono dell'arme, aspettò il nemico per ripiegare e congiungersi colle altre sentinelle della Gran Guardia e del Sostegno, e, nel battere la ritirata, cadde quasi in mezzo a' nemici, che forse nell'impeto dell'assalto gli calpestarono il viso insanguinato.

 

Romualdo Bianchini, giovane scultore allo studio dei Duprez, figliuolo d'un tappezziere, moriva il 29 maggio a Montanara.

 

Leopoldo Calosi, già dottorato nell'Università di Pisa, scolare di belle speranze, morì a Montanara il 29 maggio.

 

Tomaso Marchetti di Bagnacavallo, di 27 anni all'incirca, il quale a Montanara fece prove di immenso valore, e per una palla giuntagli alla gola, rimase freddo sul campo.

 

Colombi Cesare di Montepulciano, studente di legge, morì ferito da cinque palle il 29 a Curtatone.

 

Zenone Benini di Firenze, egualmente al canonico Bonfanti, ignorasi quando e come perisse.

 

Luigi Santini, del corpo dei bersaglieri, fu ferito mentre animosamente combatteva presso il mulino di Curtatone. I compagni, fra cui Giovanni Bozzano, incalzati furiosamente dal nemico non poterono soccorrerlo. Ed egli, trovata forza per alzarsi dalla caduta, passeggiava dietro una casa col petto insanguinato, aspettando senza lamenti e con disperata rassegnazione la morte.— Il Bozzano era uomo di cuore veramante italiano e commendabilissimo per bontà di costumi. Combattè animosamente alla trinciera: cadde colpito da una palla di moschetto nella fronte e morì.

 

Gli altri valorosi volontari morti sono:

 

Agostini Giovanni — Arrighini — Baldi Angiolo — Bardi Lodovico — Barlei Francesco — Benozzi — Berlinghieri — Bertuccelli Giorgio — Bianchi Gaetano — Boccardi Metello — Bonuccelli Raffaello — Bozzano Giovanni — Brilli Lorenzo — Camagrani Ferdinando — Cartoni — Catani Eugenio — Cateni Cesare — Ciaccheri — Ciacchi — Cialdi Giuseppe — Ciani Ferdinando — Cinganelli Michele — Comasoni Ferdinando — Fondi Ferdinando — Formichini — Francia Giuseppe — Franci Gioachino — Franchini Giuseppe — Giacomelli Giovanni — Grossi Angiolo —Guidi Francesco — Lucchesi Ermenegildo — Marcucci Nicola — Marendi Nicola — Marruzzi Nicola — Martini Angiolo — Martinelli Luigi — Masetti — Masi, di Montereggioni — Masini Luigi — Mazzoni Angiolo — Micheletti Pietro — Molinelli Luigi — Monaldi Milziade — Nardini Giuseppe — Nusiglia Lorenzo — Paolo detto Giuseppe —— Pavolini Domenico — Pelagatti Lorenzo — Pellegrini Francesco — Piantini Giacomo — Picchi Tito — Pieri Giuseppe — Pierolini Domenico — Pietrini Pietro — Pizzetti Ottavio — Rafanelli Ferdinando — Righini Angiolo — Rivi Stefano — Rossi Alessandro — Rossini — Salvarelli Domenico — Sambuchi Angiolo — Sandrini Giulio — Santini Federigo — Savelli Gaetano — Scatarsi Luigi — Scelli Pietro — Tassi Cosimo — Tomagioni Lorenzo — Vibriani Leone — Vincenti Marco — Zellini Raffaello — Zocchi Gaetano.

 

I nomi conosciuti sommano a 194, di cui solamente 70 appartengono alla truppa regolare e che sono i seguenti:

 

Angeletti Domenico — Balbiani Eugenio — Baliotti Pietro — Benedetti Michele — Biagini Pietro — Bianchi Luigi — Borelli Pietro — Bossi Samuele, cadetto — Brunetti — Bruscatini Ferdinando — Camiciottoli Lorenzo — Caprilli Silvestro — Cartoni — Ciarpaglini Ellero, maggiore — Ciocchi Pietro — Clementi Gian Battista — Colzi Riccardo — Comparini — Comparoni — De Gambron Emmanuele — Donini Paolo — Fabbri Carlo — Foresti — Franci Gioachino — Fratini Andrea — Gasperini Cesare — Gattai Onorato — Gavazzi Pier Francesco — Ghelardoni Jacopo, tenente — Giannini Antonio — Giuntini Oreste — Grassolini Eugenio, sergente — Gualtierolfi — Guarigieri Salvatore — Guerri Lorenzo — Ilari Luigi — Innocenti — Landucci Ferdinando, maggiore — Lenzi Giuseppe — Livi Gioachino — Lorenzoni Costantino — Lucchesi Giovanni — Lupi Costantino — Lupichini Rinaldo — Luppicchini — Maffei Antonio — Mancini Antonio — Marchi Luigi, cadetto — Mattioli Tito — Nosi Giovanni — Pallini Michele — Pananti Claudio — Pelagatti Cristoforo — Pellegrini Francesco — Pellegrini Costantino — Petronici Alessandro — Piccinini Pietro — Poggesi Ranieri, cadetto — Pompei Gio. Antonio — Raspi Antonio — Rimbotti Giuseppe — Sandrini Giulio — Scoti Cesare — Tellini Raffaele — Tognocchi Giuseppe — Tonnacchera Andrea — Trani — Vigiani Giovanni — Viti Angelo — Zannoni Antonio.

 

Nella giornata del 29 maggio, coi Toscani, pur da prode moriva Beraudi Francesco, piemontese, maggiore nelle milizie stanziali del granducato. Era nato il dì 29 aprile 1801 in Boves, borgo assai cospicuo nelle vicinanze della città di Cuneo, ultimo figliuolo di molta prole. Indottosi alla vita del soldato, entrava nel 1816 nella brigata Cuneo; nel 1822 era sergente nella brigata Pinerolo. Da grado in grado giungeva nel 1848 al grado di capitano nel 13.° fanteria. Vi erano voluti meglio di nove anni, e quasi un'èra novella perchè il Beraudi avesse con dispaccio del 26 febbraio 1848 il grado di maggiore, e fosse «destinato al servizio della Toscana con paga e vantaggi fissati in Piemonte agli ufficiali dell'arma e grado stesso, con soprassoldo di lire 1000 annue, oltre l'alloggio, con riserva di ricollocarlo col suo grado nell'armata, e quando l'opera sua non tornasse più utile al servizio toscano.» E tanto più lietamente vi andava; quantochè l'unica sua sorella Caterina era colà maritata sin dal 1813 a Deograzias Manetti da Oratorio presso Pisa. Giunsero in Firenze il dì 22 di marzo gli ufficiali piemontesi, a' quali non fu data molta ingerenza; ma nessuno poteva, nè voleva impedire che nei pericoli supremi quegli eccellenti ufficiali avessero esposta, col pubblico vantaggio, la vita, facendo opera non pur di prodi soldati d'Italia, ma di guide sapienti e di conforto. E Beraudi, perito com'era negli esercizi e negli armeggiamenti da bersaglieri ammaestrò i più svelti militi de' due battaglioni toscani a guerreggiare nell'ordine sparpagliato; tenendo guardie frattanto sul Po verso Borgoforte insino al 4 di maggio. Nè si contentò di ammaestrarli e addestrarli, volle bensì guidarli e con essi bravamente pugnare. Laonde il dì 29, date le più acconcie disposizioni, disse la sera al capitano Bellandi, il quale avea preso il comando dei bersaglieri ed erasi presentato alla Canonica, dov'era l'alloggiamento del comandante: «ritornate alla compagnia, e procurate di star pronti e dormire come le lepri.»

Alla domane egli era lieto e animoso alla testa delle sue giovani ribollenti milizie; e spintosi primo innanzi al fervore della pugna, fuori del campo trincerato di Montanara fu gravissimamente ferito nell'ippocondrio sinistro, e non ostante fosse raccolto dal sergente Luigi Maccianti di Prato Vecchio, che in quel giorno medesimo cotanto si distinse, e da Bartolomeo Gaube, i quali lo menarono nel quartiere del colonnello Giovannetti, e fosse poscia collocato con altri feriti sopra un barroccio, pur ci cadde prigioniero al nemico. Nell'ospedale de' Cappuccini in Mantova, il dì 31 giugno spirò pietosamente fra la mesta compagnia de' prigionieri italiani, mandando l'ultimo sospiro all'Italia e al Dio degli oppressi([26]).

 

Alla gloriosa sventura non solo la Toscana, ma tutta Italia si commosse; e ai prodi che intrepidamente morirono si fecero dappertutto solenni esequie, e si decretarono onori di epigrafi e di monumenti.

Il giorno tre di giugno 1848 in Santa Maria del Fiore([27]), e a gramaglia, e a fiori e a trofei, si raccoglieva tutta Firenze per pregare pace alle anime dei generosi Toscani che il sangue avevano versato per l'indipendenza della patria.

Ci piace riportare le epigrafi dettate in quella circostanza. Al sommo della porta di mezzo leggevasi:

 

Ai Valorosi

 

Che il ventinove maggio

Anniversario della gloriosa giornata di Legnano

Nipoti non degeneri del Ferrucci

Palpitanti di libertà e di gloria

Sul Campo Lombardo

Per la santa Indipendenza d'Italia

Morirono combattendo come leoni

Pregate o Cittadini

 

———

 

Ai quattro lati del Tumulo:

 

Fortunati!

 

A voi toccò di morire per la Patria

E potete dal Paradiso

Vagheggiare la grande Vittoria

Frutto della vostra morte.

 

———

 

Carissimi!

 

Finchè aura di libera vita

Spiri su i colli del bel Paese

Voi sarete il primo palpito

D'ogni Italo cuore.

 

———

 

Benedetti!

 

L'Angelo il più innamorato

Raccolse il vostro sangue in calice d'oro

Arra d'intero trionfo

E Dio l'ebbe caro.

 

Gloriosi!

 

Palme di fronda immortale

Crescono per voi Martiri della Patria

Alla vostra eterna memoria

S'ispirerà l'avvenire.

 

———

 

Nella stessa Firenze poi i nomi dei 25 suoi martiri furono incisi in tavole di bronzo e posti nei Panteon di Santa Croce. A Pisa i nomi degli otto pur caduti per la causa della patria vennero scolpiti in una lapide posta nel camposanto. A Pistoia i sei prodi di Curtatone furono eternati nella facciata del palazzo municipale. Ai tre di Massa Marittima, Pasquale Romanelli eresse un monumento. Una scritta rammentò quei di Poggibonsi. Vedremo poscia come la reazione vincente muovesse guerra anco ai santi Martiri.

 

VIII.

 

Lo stesso giorno in cui il terreno di Mantova si bagnava del generoso sangue toscano, un corpo di circa 6000 Austriaci discendeva dai colli di Rivoli per portare soccorso a Peschiera. Baldanzosi venivano innanzi i nemici; ma giunti a Colmasino, sorpresi da poche compagnie di bersaglieri, si asserragliarono nel cimitero. Sopraggiunto in quel mentre colà il generale Bes con rinforzi, i nostri caricarono i nemici alla baionetta, li snidarono dal campo, li inseguirono al di là del Cavaglione. I bersaglieri, tra i quali erano gli studenti dell'Università di Torino, e il 3.° e 4.° di linea, contarono due morti e quattordici feriti. Gli Austriaci lasciarono sessanta cadaveri sul campo.

Se Radetzky avesse posseduto quel genio guerresco che i reazionari d'Europa tutta decantavano in lui, non avrebbe lasciato tempo a Carlo Alberto di apparecchiarsi alle difese. Appena superato il passaggio del Mincio, «che buoni ragazzi toscani, così egli chiamò ironicamente que' giovani immortali, durante sei ore a lui contrastarono» avrebbe marciato su Goito. Non fu che il giorno 30 che, alla testa di 25,000 uomini all'incirca, presentavasi ai nostri senza segnalare il suo arrivo nè per vedette, nè per corpi di riconoscenza. Accanita si accendeva la battaglia, la quale durava tutto il dì. Gli Austriaci, sebbene superiori di numero, furono alla fine sgominati, scompigliati, posti in piena rotta, ed inseguiti sino a Gazzoldo, ove vennero collocati i nostri avamposti. Erano le sette della sera, e la vittoria era dappertutto acclamata, quando a renderla più bella giungeva al Re un ufficiale portatore di una lettera del duca di Genova colla quale gli annunciava la resa di Peschiera. L'entusiasmo fu allora al colmo; e grida unanimi echeggiarono nell'immensa pianura di Goito di Viva il Re! viva il duca di Genova! Viva l'Italia! L'interna gioia fece spuntare un leggero sorriso sulle labbra di Carlo Alberto, che, voltosi ai circostanti, diceva: «Ora, i Toscani sono vendicati!». Quindi percorse il disputato terreno, confortò di una visita i feriti, ch'erano in numero di duecentosessanta e tornò al suo quartier generale di Valeggio. Si distinsero per la difesa il generale Bava, che diresse la battaglia, e i suoi colleghi il duca di Savoia, l'attuale re d'Italia, il d'Arvillars e il d'Aix-Sommariva.

In sulla sera cominciò a piovigginare; nella notte e nel dì appresso l'acqua venne a torrenti. I Piemontesi, non avendo che Goito ove trovare adatto ricovero, poichè l'esercito austriaco campaggiava a poca distanza, non poterono prendere nessun riposo dalle fatiche durate.

Carlo Alberto invece di far tesoro dell'entusiasmo in cui erano le sue schiere, e tentare un atto ardito, piombando addosso alle tarde e scorate truppe austriache, entrava il primo dì del giugno in Peschiera, e co' soldati moveva alla cattedrale per ringraziare Iddio della riportata Vittoria; quindi umanamente andava a visitare nell'ospedale i malati e i feriti Croati, donandoli di conforti e di denaro. Percorse co' figli e co' suoi generali le opere e il paese danneggiati da una grandine di più di ottomila palle, bombe e granate; eranvi alcune case che fumavano ancora; i tetti delle caserme traforati; dodici pezzi smontati; se ne trovarono però 127 integri con una quantità grande di proietti, di polvere e di materiale d'ogni maniera.

Nel mattino del terzo dì, il sole tornava ad allegrare l'orizzonte; e comechè la ruinosa pioggia avesse sfondato il terreno e obbligasse a camminare sulla strada, il general Bava mosse da Goito per operare un'energica offensiva, forzando il centro nemico, contenendo la sua ala destra con buona e numerosa artiglieria ed opprimendo la sinistra colle migliori e più fresche schiere. Ma Radetzky non aveva atteso i suoi comodi; e, saputa la concentrazione delle forze in Goito e la resa di Peschiera, escì anch'egli dalla sua inerzia, sguarnì nottetempo e in silenzio le posizioni di Sacca, Cagliara, Caigola, La-Motta, Rodigo, Solarolo e Ceresara, e per la via di Mantova si ridusse a Legnago.

Il corpo austriaco, comandato dal generale d'Aspre, che co' suoi cavalieri aveva portato la desolazione e lo spavento fin sullo stradale di Brescia, e che il De Laugier, supponendolo tagliato fuori di combattimento nella fazione del dì 30, tentò col mezzo del suo ufficiale d'ordinanza, Leonetto Cipriani, di persuadere alla resa, aveva pur sgombrato il paese sino allora campeggiato e seguiva il maresciallo, seco traendo prigione il male avventurato parlamentario. Se il generale comando avesse avuto migliore spionaggio il generale Salasco avrebbe sapute le mosse dell'oste nemica anche prima che partisse. Imperocchè, in tempi di guerra, per quanto il capo di un esercito si taccia, l'ansia premurosa de' suoi indovina i preconcetti disegni; quindi spargesi d'un tratto, senza autore, nè principio, una voce d'un prossimo attacco, d'una pronta ritirata e via discorrendo.

Nel villaggio delle Grazie evvi una chiesa, santuario rinomatissimo in que' luoghi, nelle cui interne pareti, ornate tutte bizzarramente di cera, sono lunghi ordini di statue, pure di cera, le quali rappresentano i principi di casa Gonzaga e i loro clienti, graziati dalla Madonna di qualche miracolo. Il Re, devoto com'era, desiderò visitare l'antico tempio; ma non vi fu modo da raccapezzare le chiavi che ne aprissero l'uscio. Si seppe dipoi come quivi fossero ricoverati meglio di cento feriti austriaci, grave impaccio in una celere fuga; ed è facile l'immaginare che quei contadini li celarono per tema di venir macellati allorchè un drappello di Mantova sarebbe tornato alle Grazie per trasportarli all'ospedale.

Frutto della mossa sino all'argine dell'Osone, da Curtatone a Montanara, fu la cattura di parecchi soldati stracchi e rilenti e di mille e cinquecento disertori italiani, che avevano approfittato della marcia precipitosa e notturna per isbandarsi. I prigionieri furono inviati in Piemonte e i disertori alle loro case. Dall'Osone Bava tornava indietro per riprendere le antiche posizioni.

Le milizie toscane, dopo la giornata del 29 maggio, venivano mandate a Brescia coll'intendimento di ordinarle. La magnanima città offerse loro le delizie di Capua. Le belle prove di coraggio e di ardire lodate a cielo; la squisita gentilezza dei modi ammirata; ogni cura fu per esse. Le donne specialmente, prese da un sentimento inesprimibile, che i casi d'Italia inspiravano, avvincolarono in siffatto modo gli ospiti da rendere impossibile il loro ordinamento. Le discussioni, l'indisciplina, le querele, i disordini furono giornalieri; e fu giuocoforza al De Laugier di rilasciare congedi, attestati, fogli di via ai militi dei battaglioni civili, pressochè tutti vogliosi di ritornare alle case loro. Così, nell'atto che i nostri nemici andavano ingrossandosi, le file dei difensori d'Italia venivano assottigliandosi di giorno in giorno. Chi soffiava nel disordine erano gli uomini dell'antico regime, i nemici di libertà, i quali speravano in quello salvezza alla causa del dispotismo. Altra cagione di tumulti e di discordie fu la malaugurata fusione col Piemonte, la quale, suscitando forti discussioni in pro' e in contra, divideva gli animi, li disviava dall'unico scopo che ogni italiano avrebbe dovuto aver fisso dinanzi, la cacciata cioè dell'Austriaco al di là delle Alpi.

Non poca influenza pur s'ebbe in molti la famosa Enciclica pubblicata da Pio IX, con cui, grazie all'abborrimento che la Chiesa ha del sangue, egli abbracciava suoi figli gli eterni nemici della nostra nazionalità, malediva in certo modo le patrie battaglie, rifiutava ogni responsabilità, esponendo così i volontari non solo, ma i soldati stanziali delle provincie romane ad essere passati per le armi se fatti prigionieri dagli Austriaci.

 

IX.

 

Un nuovo rinforzo di 16,000 uomini, capitanato da Welden, partito dal Tirolo, correva in soccorso di Radetzky. Il non aver a dovere chiusi que' passi, dava il destro all'ostinato Maresciallo di trarre partito di un altro sistema di guerra da riallacciare conseguentemente al suo primo. Gli è perciò, che, nell'atto in cui l'esercito, piemontese si disponeva a sloggiare di Goito affine di muovere per Verona, il feld-maresciallo celava i suoi disegni al confidente avversario col lasciare poche truppe in Legnago; ed intanto, dirigendo una colonna per San Bonifacio, marciava col grosso delle sue forze per alla volta di Montagnana. Quivi egli riceveva una staffetta di Vienna, in cui gli veniva ordinato di abbandonare immediatamente l'Italia e di portarsi a grandi giornate sulla capitale dell'impero per far salvo colle truppe a lui più fide il governo in preda alla rivoluzione trionfante. Fidente nella propria energia e sulla disciplinatezza delle schiere, egli volle innanzi tentare un colpo in Italia. Mandava in Verona 5, o 6,000 uomini, per ingannare i nostri sulle sue vere intenzioni, e decideva impadronirsi di Vicenza nel doppio scopo di rialzare il morale delle truppe alquanto abbattute dalla disfatta di Goito, e di avere nelle mani la chiave delle strade che hanno il loro sbocco verso la Germania. Il Durando, cui era nota la discesa del corpo di Welden dal Tirolo, nell'udire la novella dell'approssimarsi di Radetzky, impauriva e decideva di parare a Venezia. Ma, bentosto corse al suo orecchio la voce, che l'oste nemica era stata battuta a Sanguinetto dai Piemontesi e questi rincorrerla oltre l'Adige per isterminarla. Ond'ei si rimaneva, e scriveva al quartier generale del Re dell'imminente attacco che avrebbe sostenuto, del buono spirito delle sue truppe e del patriottico ardore de' Vicentini; e conchiudeva che per le munizioni di guerra e di bocca poteva calcolare sulla difesa di otto giorni. Cotesto annuncio giungeva l'undecimo del giugno nel campo; e immediatamente veniva ordinato alle nostre divisioni si apparecchiassero per trovarsi dopo due giorni presso Villafranca, per marciare su Verona e sulla linea dell'Adige, lasciata quasi scoperta. Ma gl'intoppi al conseguimento dell'impresa furono tali e tanti per contrarietà di destino, che allorquando l'esercito giunse sotto Verona, Vicenza era stata espugnata, e il Maresciallo colle vittoriose sue schiere trovavasi già nel forte.

 

———

 

Il generale d'Aspre all'alba del dì 8 giugno passava il Bacchiglione, rompeva la ferrovia, ed accampavasi all'est della città; il generale Wratislaw stabilivasi al sud, alle falde dei colli Berici; e l'indomani il generale Welden giungeva per quella strada e compiva lo accerchiamento. Le forze di cui disponevano que' generali sommavano a 43,000 uomini e a centodieciotto pezzi d'artiglieria. Il Durando, con 10,000 de' suoi e quaranta cannoni, non dubitò punto a resistere, e, a vero dire, con senno attivò le sue linee di difesa.

Egli si affrettava a premunire i colli con tre mila uomini scelti tra le migliori sue schiere, affidandone il comando al colonnello Enrico Cialdini, intelligente e valorosissimo soldato venuto allora di Spagna; con lui era altresì il cavaliere Massimo d'Azeglio, colonnello e capo di stato maggiore del generale. Collocava due battaglioni a sinistra sulla via di Verona. Ed il resto delle sue forze lo distribuiva ne' sobborghi e presso le porte. Le serraglie erano sui monti, nel piano, nelle interne vie.

Ai primi chiarori del giorno 10 vennero assaliti i monti Berici da numerose colonne nemiche: l'attacco era validamente sostenuto; accanita la disparata lotta. I nostri con grande valore combattevano e cadevano; il terreno non ceduto neppure d'una linea; le artiglierie, bravamente dirette, facevano scempio delle torme croate. Ma gli eroici sforzi dovevano avere un termine dinanzi a un nemico, che i suoi morti e gli scorati rimpiazzava con altri 12,000 e con ventiquattro cannoni. Ferito con dubbio di vita il Cialdini da una palla di moschetto nel basso ventre; tratti fuori di combattimento almeno seicento Svizzeri, tra i quali ventidue ufficiali; ferito in un ginocchio il d'Azeglio; gli artiglieri d'assai menomati, fu mestieri suonare a raccolta e a ritirarsi dinanzi il numero nella città, che già la si assaliva da ogni lato. Anche le milizie civili dovettero piegare, dopo le più ostinate prove dai sobborghi per l'urto formidabile della divisione Schwarzemberg.

Appena gli Austriaci furono signori delle alture, vi collocarono le loro artiglierie, e cominciarono a lanciare sulla città un rovescio di proietti d'ogni maniera. Contemporaneamente assalivano le porte di Padova, di Santa Lucia e di S. Bartolo; ma da quei posti erano sempre respinti con gravi perdite. Il sole declinava al tramonto; declinavano pure le forze de' nostri, stanchi per trentasei ore di veglia, di fatiche, di sangue. Molte le perdite; le batterie in gran parte smontate; quasi esauste le munizioni. Utile cosa sarebbe stato più a lungo resistere; perchè, così facendo, si sconcertava il piano del Maresciallo e si dava agio a Carlo Alberto di trarre in Verona le vicentine vendette. Ma la città veniva esposta alle luttuose conseguenze di un disperato assalto; la nostra truppa al più compiuto macello.

Durando, scorgendo impossibile il resistere, ordinò si togliesse dalla torre la bandiera rossa e vi si sostituisse la bianca. Il comitato del governo si offese per tale misura. La popolazione entusiasmata e cieca gridava per le vie: «Viltà lo arrendersi; tradimento il commetterla alla fede di una capitolazione cogli Austriaci; voler essere sepolta sotto le ruine della natia città.» I volontari, rispondendo all'indole impetuosa che li aveva mossi, chiedevano si continuassero i pericoli sino all'estremo e crivellavano di palle l'insegna di pace. Pur gl'incendi sempre più propagavansi, le polveri erano esaurite e gli stessi gridatori prostrati a terra per la stanchezza. In quell'istante, le musiche militari de' nostri nemici suonavano sulle occupate colline. La chiesa della Madonna del Monte era profanata con ogni genere di sacrilegi.

Alle ore sei mattutine del giorno 11, nella casa Balbi presso Vicenza, dopo lunghe, reiterate e minaccevoli discussioni, il vinto e il vincitore sottoscrivevano i capitoli di un trattato, mediante il quale si guarentiva a' nostri l'uscita dalla città con tutti gli onori della guerra per ridursi in Este e di là per Rovigo oltre il Po; le schiere romane pattuivano di non combattere per tre mesi; Radetzky, alle vive istanze con cui Durando raccomandava gli abitanti della città e provincia per tutti gli avvenimenti passati cui essi avessero potuto prender parte, rispondeva colla «promessa di trattarli, in rapporto agli avvenimenti suddetti, a seconda dei benevoli principi del suo governo.»

Ma il d'Aspre, non appena usciti i Romani, imponeva alla città una contribuzione di tre milioni di swanziger; e siccome il Municipio non poteva pagare una sì ingente somma, egli ordinava ai suoi dessero il sacco alla città.

Dopo la caduta di Vicenza, Radetzky riceveva altro messaggio da Vienna, mediante il quale veniva avvisato, rimanesse in Italia se tal fosse la sua mente, avendo il governo imbrigliato la rivolta. Ond'ei diresse una parte delle sue truppe a Padova e a Treviso ed il rimanente a Verona, mettendosi egli stesso alla testa dell'avanguardo di 8,000 uomini.

Padova era munita di dieciotto pezzi d'artiglieria e di una guarnigione di 5,000 volontari romani. Al Ferrari, lor generale, richiamato in Roma, era stato surrogato il colonnello Bartolucci. Scarse le munizioni di guerra pei fanti; non più che cento colpi a mitraglia per ogni cannone; nessuna speranza di soccorso; imperocchè, il solo che avrebbe potuto darne, il generale Guglielmo Pepe, allora a Rovigo ed avente il suo avanguardo a Monselice, opinava non doversi esporre le truppe ad una resistenza inutile di pochi giorni, ed egli ritiravasi su Venezia per ivi attendere gli avvenimenti della guerra. Il comitato di difesa della città, per civico amore, fe' opposizione vivissima alla ritirata e la protrasse sino all'estremo momento, in cui il nemico era quasi alle porte. Batteva il tocco dopo la mezzanotte, e il partire, cotanto differito, fu tumultuoso e disordinato. In un istante così supremo, per manco di cavalli di traino, fu giuocoforza abbandonare in Padova molti carreggi e tutte le artiglierie che guarnivano le mura. Il Bartolucci, prima di muovere, avvisava il colonnello Pianciani, partisse da Badia colla guarnigione e si imbarcasse sul Po per Venezia. Lo stesso avvertimento dava a Treviso; ma, sia che il messo tardi giungesse, o il presidio, circondato dai nemici, non potesse ritirarsi, questa città si apparecchiò alla difesa.

Il generale Welden; alle prime sette ore del dì 14, annunciò il giungere de' suoi 10,000 soldati con una bomba che cadde nel fossato esterno. Altri proiettili e dannosi succedettero al primo. Le nostre artiglierie tuonarono alla lor volta; ma inutilmente; perchè le truppe e le batterie inimiche erano di molto distanti. Allora si pensò d'inviare una deputazione al campo per capitolare. In Treviso erano parecchi volontari siciliani giunti da Palermo in Livorno sin dal ventunesimo aprile. L'eletto drappello, composto quasi tutto di ufficiali del nascente esercito insulare, capitanato da Giuseppe La-Masa, l'iniziatore in Palermo della gloriosa giornata del dì 12 gennaio, era venuto in aiuto de' fratelli per convertire in opera efficace la universale effervescenza. Quei bollenti patrioti, uniti ai Lombardi, ch'erano a guardia della porta, respinsero i deputati del Municipio con minacce di morte. Essi intendevano cadere sepolti sotto le ruine della città piuttosto che cedere; e quando il comandante la piazza, per la sua responsabilità, dovesse transigere coll'inimico, ritirarsi con tutti gli onori di guerra sopra Venezia. Dopo due ore si rinnovava il tentativo, innalzando sulla torre la bandiera bianca; ma la si dovette ritrarre, perchè non voluta e bucherellata dalle palle dei malcontenti. Verso sera però, tanta era la confusione dei voleri, e lo scompiglio negli armati, tanto l'abbattimento dei cittadini sì arditi nel dire, sì incoerenti nel fare, che fu mestieri concedere le trattative col Welden, le quali vennero conchiuse sulle basi delle vicentine, salvo che il generale volle i cannoni come oggetti di austriaca spettanza.

La lentezza della marcia delle truppe regie verso Verona, la perdita di un tempo prezioso in Villafranca per farle passare in rassegna da re Carlo Alberto, la ruinosa pioggia che, sfondando le strade, impedì alle artiglierie di muovere dal loro posto, fornirono intoppi al buon esito dell'impresa. Durante il tragitto di Villafranca ad Alpo, il principe conobbe la disfatta e la capitolazione di Vicenza. Nella sera del giorno 13 seppe pure che nel mattino era giunto in Verona il maresciallo con 8,000 uomini e che nell'atto stesso erano esciti di quel forte 4,000 soldati per rimontare la riva sinistra dell'Adige. Cotali misure rendevano inutili le disposizioni prese, e consigliavano a retrocedere. Ma un veronese, giunto al quartier generale, recava l'annuncio che sei o settecento cittadini eransi determinati a far nascere un interno subbuglio, malgrado la presenza del Radetzky e de' suoi rinforzi, ove i Piemontesi si presentassero in buon numero verso le mura; il segno del convenuto avviso da parte nostra doveva essere un falò in Villafranca. Il Re aderiva a quelle speranze, e dava le disposizioni necessarie per l'attacco dell'indomani. Il comandante la piazza del luogo, ove l'indizio fissato doveva attuarsi, nol consentì; perchè, nel nostro campo tutto facevasi a caso, senza puntualità, nè ubbidienza agli ordini emanati. Convenne avvertire la divisione del duca di Savoia, che nella notte aveva occupato Tomba, di sgomberare il paese per Ca di Rupi, Castel d'Azzano, Forette e Isolalta. All'alba, il secondo corpo di armata si diresse verso Sona e Sommacampagna. La divisione di cavalleria, situata dietro Dossobuono, protesse la ritirata, fastidita appresso da grossi distaccamenti di ulani. Piemonte Reale e Novara ebbero uno scontro con essi presso le cascine di Calzoni in un sentierello sì ristretto dalle vigne e dalle siepi di gelsi, a non permettere il passo che a due cavalli di fronte. Un grido d'allarme scompigliò le file; i palafrenieri, che conducevano a mano le cavalcature di ricambio degli ufficiali, le abbandonarono; il disordine dalla coda della colonna si propagò rapidamente alla testa; gli squadroni saltarono dal sentiero sui campi. Ma il colonnello del reggimento Novara, preso di nobile ardire, gridò ai soldati, che confusamente sbandavansi: «Compagni, a me! volgete indietro. Seguitemi, in nome d'Italia!» E primo ei s'imbattè con un ufficiale austriaco, se gli slanciò addosso, il ferì; in quello, quattro ulani, corsi in aiuto del loro capo, gli furono sopra colle lance. Egli bastava per tutti; uno ne gittava di sella e gli altri siffattamente incalzava a trovar salute sol nella fuga. Molti de' nemici furono morti e prigioni. Il colonnello era il conte Maffei di Broglio, parente del celebre Scipione.

 

X.

 

Fino dal giorno 10, le truppe avevano discacciati i nemici dappresso Rivoli e costrettili a raggiungere celeremente le alture del Tirolo. Ove l'attacco fosse stato meglio combinato, si potevano prenderli a rovescio e tagliare loro la via della ritirata. Otto giorni più tardi, tremila e cinquecento Austriaci, discesi dai colli di Ferrara, assalirono, alla prima luce, di sorpresa, un battaglione della brigata Pinerolo, cui erasi aggiunta la compagnia dei bersaglieri universitari torinesi. Ma i nostri, annoiati di far fuoco coi moschetti e colle carabine, gridando Viva Italia! furono loro addosso impetuosamente. Gli Austriaci indietreggiarono; e cacciatisi entro un cimitero, fulminarono i nostri dal muro di cinta. Gli studenti, con quell'avventatezza propria alla gioventù, che sfida ogni più grave pericolo, li scacciarono anche di là, costringendoli a fuga dirotta. Dei nostri morirono gli studenti Sarchieri, Longoni e Rogiapane.

Infrattanto la unione della Lombardia col Piemonte era compiuta. A' dì 13 giugno veniva pattuito il testo della convenzione tra il governo provvisorio e il governo del Re. Due giorni appresso, il ministro Ricci proponeva l'atto politico al Parlamento, dicendo esser quello «l'instaurazione d'una nazionalità lungamente conculcata dagli uomini e dalla fortuna.» Alla immediata fusione nessun altro patto ponevasi, tranne il convocamento di un'assemblea costituente per tutto lo Stato sulle basi del suffragio universale, la quale discutesse e stabilisse le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale colla dinastia di Savoia.

In quel torno le mura di Palmanova si aprivano senza breccia agli Austriaci. La difendeva, come dicemmo, il barone Carlo Zucchi, quegli cui Napoleone nella campagna di Sassonia affidava i perigliosi onori dell'avanguardo e del retroguardo, e che nel 1831 era alla testa degli animosi amici della patria. Zucchi era ora troppo vecchio per comprendere i nostri tempi; egli, quantunque la città avesse una discreta guarnigione e munizioni di bocca e di guerra, preparò il meglio che seppe la sua uscita; e saputa la caduta di Vicenza, di Padova e di Treviso, chiedette vilmente di capitolare. Il colonnello Kerpan sottoscriveva i capitoli che se gli presentarono, l'ultimo de' quali non ridonda certo a gloria dello Zucchi.

Le varie capitolazioni avevano tolte molte migliaia di soldati dal campo. La viltà e i rei maneggi facevano disertare parecchie centurie di Modenesi da Bozzolo, da Marcaria, ove la legione comandata dal maggiore Fontana erasi recata da Governolo, Sacchetta e Sustinente, per difendere la linea dell'Oglio abbandonata dai Toscani. Una lettera di re Ferdinando richiamava in quel frattempo in Napoli il 10.° reggimento di linea, che aveva valorosamente combattuto nelle giornate 13, 29 e 30 maggio a San Silvestro, Montanara, Curtatone, le Grazie e Goito, coll'ordine al colonnello Rodriguez di far tosto rientrare le truppe; e a tutti quelli che non retrocedessero, sarebbero confiscati i beni e preso in ostaggio il capo della famiglia. Partirono i Napoletani da Goito la sera del 29 giugno, lasciando cotesto addio a' loro fratelli d'armi:

«Compagni ne' disagi e ne' pericoli, noi abbiamo partecipato all'onore delle vostre vittorie. Legati da sì sacrosanti nodi, sanzionati dal battesimo del fuoco, voi soli potete sentire interesse della nostra posizione. Addio, fratelli Piemontesi! Addio Toscani! Non abbiate trista ricordanza dei soldati del 10.° napoletano.»

Parecchi soldati abruzzesi si rimpiattarono per non seguire il reggimento; molti altri disertarono lungo la marcia per Marcaria e Casalmaggiore; e richiesero servire ne' battaglioni del primo corpo d'ordinanza. «Noi amiamo la bandiera tricolore e il buon re Carlo Alberto. E poichè cominciammo l'impresa ne vogliamo vedere la fine.» Buone e semplici parole proferite da quegl'incuranti ogni dolore per l'Italia, le quali notiamo a loro elogio ed a biasimo de' capi dell'esercito napoletano, i quali preferirono le grazie del loro principe e la guerra fraterna alla santa crociata d'indipendenza e di libertà.

In pari tempo, i prigionieri toscani, da Mantova, venivano trasferiti co' Napoletani volontari e regolari nel Tirolo tedesco. Que' di Trento fecero loro gran festa; e avuto il permesso di offerire loro ciò di che meglio abbisognassero; l'entusiasmo del popolo fu commovente. Nella via Lunga si gittò loro danaro a manciate; e gli uni donavali di camicie, di calzoni, di scarpe; chi non aveva roba pronta, dava il proprio vestito. Le ricche famiglie si distinsero nella gara dei benefizi; e i poveri artigiani che non avevano che il cuore, pregavano quella buona e valorosa gente ad asciolvere e a bere con essi; e le venditrici di latte mettevano per forza nelle tasche di que' non inviliti dall'infortunio, le monete ritratte dal commercio della mattina; e i fornai del borgo di San Martino, non avendo più pane, pregavano si aggradissero le stiacciate appositamente fatte.

Quegli atti di simpatia e di compassionevoli affetti; questi sensi di patria carità, volemmo accennarli per testimoniare quanta italianità si annidi nei forti petti de' montagnardi del Tirolo, dei quali non si seppe dedurre alcun pro' nella rivoluzione e ne' combattimenti di una guerra sì nobile e sì generosa.

In sullo scorcio del mese di giugno, l'esercito italiano in faccia al nemico, detrattone il forte numero dei malati di febbre, dei feriti, de' disertori nelle proprie case, dei buoni a nulla, poteva calcolarsi a 65,000 uomini con 120 pezzi d'artiglieria; e questi ridotti in tale disordine, per la nessuna polizia del campo e pel dannoso sistema di militare giustizia, sino a partire e a tornare a proprio talento, ad entrare e ad escire dagli ospedali senza il conveniente polizzino sanitario, o ad andarsene di propria mente in Brescia, ove quella popolazione così affettuosamente accoglievali sino a nudrirli, vestirli e pagarli come maestri di scherma e di evoluzioni alla guardia nazionale, o come operai in lavori orticoli e rurali.

Intanto i fogli pubblici strepitavano per la inazione del quartier generale. Una deputazione lombarda insisteva presso Carlo Alberto affinchè l'ordinanza marciasse innanzi, aggiungendo, che il partito della repubblica avrebbe prevaluto sul costituzionale monarchico, ove non si acquetassero le nazionali esigenze a furia di vittoriosi successi. Altri dicevano il Re traditore; torme di vili, d'inetti, di avversi alla causa i suoi ufficiali e soldati. E il Re, che leggeva cotali cose, se ne accorava, e chiedeva a' suoi il mezzo efficace per escire da tanta ambage e accontentare tutti.

Carlo Alberto era debole ed incapace di far tacere la calunnia, di disciplinare un esercito, di maneggiare memorande fazioni di guerra; egli non aveva che l'eroico coraggio individuale della sua razza, e si teneva nel campo come esempio di fede nella giustizia della nostra causa, come confutazione vivente agli oltraggi prodigatigli da chi aveva in mano la penna, non lo schioppo e la spada. Il torto del principe era quello di non aver mai saputo cogliere profitto dalla vittoria; e i replicati falli avevano perduto la Venezia e lui costretto a difesa con un esercito non bene ordinato.

Il Re volle rispondere alla volontà dei molti e cacciarsi con imprudenza in qualunque avventata fazione. Egli pensò in sulle prime di attaccare Verona dalle eminenze sulla riva sinistra dell'Adige; quindi preferì una marcia offensiva verso Legnago; in ultimo si decise per l'assedio di Mantova, anco per tranquillare gli animi delle popolazioni modenesi e parmensi, e far contenti coloro che volevano si agisse ad ogni costo.

Allo spuntare dell'alba del giorno 13 luglio, Carlo Alberto poneva in movimento i battaglioni. La divisione Ferrere, la divisione delle nuove truppe lombarde, sotto gli ordini del generale Perrone, i bersaglieri, ed i volontari di Griffini e di Longoni si dirigevano per Belfiore. Giunte queste truppe sotto al tiro del cannone, gli zappatori del genio tagliavano tosto la strada, e cominciavano ad innalzare trincee.

Il giorno 14 un battaglione della brigata Savoia veniva spinto verso Sant'Agata. Esso trovava questo borgo trincerato, lo girava, e, dopo una lotta accanita, costringeva gli Austriaci ad uscirne. Dipoi lo stesso battaglione inoltravasi sulla destra sino a Lugagnano; pur quivi trovava il nemico trincerato e munito di molti pezzi d'artiglieria. Piegava quindi alla sinistra, e retrocedeva per la via di Bussolengo; e quantunque circondato da imponenti forze nemiche, le teneva sempre a bada, finchè poteva riunirsi al grosso dell'esercito. Seppesi da questa ricognizione che gli edifici presso Verona erano vuoti d'abitatori, che Radetzky aveva fatto sgomberare le case, che si trovavano entro la linea delle sue difese, e si seppe eziandio che tutti i pozzi all'ingiro erano stati murati o disfatti.

Il giorno 19, il generale Bava pensava di prendere la forte posizione di Governolo per far sicura la linea del Mincio sino alla foce del Po e compiere il blocco di Mantova. Esso faceva scendere in certe barche un battaglione di bersaglieri con ordine di assalire il nemico tosto che la brigata Regina, 9 ° e 10.° di linea, avesse cominciato l'attacco. Alla vista degli Italiani, i quali si avanzavano con brio e risolutezza, gli Austriaci si ritiravano entro il borgo, ed alzavano il ponte levatoio. Allora la nostra artiglieria cominciava colla fanteria un fuoco di conserva così terribile, che i nemici ne soffrivano assaissimo. In pari tempo i bersaglieri, spingendosi innanzi, ne facevano tale una strage che in breve li costringevano a porsi in disperata fuga, lasciando sul terreno parecchi morti e feriti, e nelle mani dei nostri 500 prigionieri, due cannoni, molte armi, molti cavalli e la bandiera del reggimento Rukavina. L'impresa di Governolo, quantunque propizia, riesciva dannosa; imperocchè allungava di molto la nostra linea d'operazione, e costringeva a tenere in quella borgata il nono e il decimo reggimento, che pure sarebbero stati di qualche aiuto nelle ulteriori battaglie.

Radetzky aveva riuniti 40,000 uomini con sè presso Verona; altri 30,000 li aveva occupati intorno a Venezia; più che 20,000 gli aveva presso Legnago e dentro il forte di Mantova; un rinforzo di altri 20 mila scendeva allora il Tirolo. Egli pose in effetto lo antico disegno di Goito, promettendosi un migliore successo. Volle sfondare la nostra linea a Sona e a Sommacampagna attaccando prima Rivoli e la forte posizione della Corona. Il giorno 22, verso le quattro del mattino, una grossa colonna nemica, discesa dalle alture del monte Baldo, avviluppava il piccolo numero dei nostri, che da quell'ultimo luogo sosteneva con grande eroismo il combattimento per lo spazio di sei ore. Siccom'era periglioso e vano il resistere più a lungo, operavasi con ordine la ritirata su Rivoli. Il maggiore Danesi accorreva in aiuto e col suo battaglione ingaggiava il fuoco coll'avanguardia, la quale perseguiva ed incalzava i compagni suoi che ripiegavano, ed avvedutosi che gli Austriaci cercavano di prenderlo a rovescio, raddoppiava il coraggio e l'ardire, e dalla difesa passava all'offesa, ponendo in fuga un corpo di Tirolesi. Alle tre, il generale di Sonnaz giungeva con un rinforzo di fanti e di artiglieria; la battaglia ricominciava con accanimento maggiore. I Piemontesi erano in numero di 5,000. Il generale austriaco rassegnava almeno 12,000 uomini. Questi non seppe trarre partito di tale vantaggio dinanzi la intrepidezza de' nostri; e sul far della sera, i suoi, bersagliati su tutti i punti, dovettero gittarsi una parte verso Incanale sulla riva dritta dell'Adige, e l'altra al di là di Caprino. Cotesta azione, gloriosissima pel generale di Sonnaz, che la diresse, e pei reggimenti che vi presero parte, ricorda le stesse prove di valore delle schiere repubblicane di Francia nella memorabile giornata del dì 14 gennaio 1797.

Comechè vincitori, le condizioni di guerra non si mutavano punto per noi. Il de Sonnaz, vedendosi intorno forze cotanto inferiori, e temendo un attaccò nell'indomani, previde che le sue schiere, stanche ed affrante, sarebbero di leggieri rotte e sforzate. Egli ritiravasi sur Affi e Cavaglione per Pastrengo e Bussolengo, scegliendo a sua stanza Sandrà per ivi attendere gli ordini. E ben per lui e per le sue truppe. Imperciocchè, nella sera del dì 22, Radetzky faceva partire da Verona due divisioni capitanate dai generali d'Aspre e Wratislaw per assalire il nostro campo. Moveva altresì una brigata per Santa Giustina, per ingannare i nostri sulle sue vere intenzioni, ed un'altra spedivane dalle vicinanze di Legnago per piombare su Villafranca e Custoza e riunirsi al corpo di un esercito venuto di Verona. Il cielo cospirava per noi. Una pioggia ruinosa rallentando la marcia nemica, ci salvò da un'improvviso attacco notturno. La linea da Pastrengo a Sommacampagna era difesa da 6,000 uomini comandati dal generale Broglia di Casalborgone.

Gli Austriaci si presentarono alle sei mattutine del dì 23 presso l'Osteria del Bosco e Sommacampagna; un corpo di riscossa, posto indietro tra le due colonne, attendeva gli avvenimenti. Dopo inutili sforzi e molte perdite toccate presso l'Osteria, il nemico si ritirava al di là della portata dei cannoni, ed andava in parte ad attaccare Sona. Ma l'empito maggiore venne rivolto verso Sommacampagna e la Madonna del Monte; sanguinoso fu quivi il combattere; irresoluti, a quando a quando, gli Austriaci; audaci i nostri nelle offese per ben tre ore; finchè, giacenti sul campo morti e moribondi, le stanche genti stimarono prudente consiglio il ripiegare su Villafranca. A tale nuncio, que' di Sona, che avevano più volte caricato il nemico colla punta della baionetta e disputato palmo a palmo il terreno, vedutisi prendere al rovescio sulla diritta, si ritirarono a Pacengo per la via di Sandrà.

In quel frattempo il generale Thurn marciava su Rivoli con grande cautela, stimando sulla costa trovare la resistenza del giorno innanzi. Per quella lentezza il destino a lui niegava gloria e profitto, mentre per le sue buone ed accorte mosse dava il destro al de Sonnaz di salvare i magazzini ed i parchi ch'erano in Lazise, e di giungere con poche perdite a Cavalcaselle per riunirsi al rimanente della ordinanza, Nell'ora istessa, la divisione Visconti toglievasi dalla sinistra linea del Mincio, rompeva i ponti di Borghetto e di Monzambano, collocando un battaglione in faccia a Salionze per impedire al nemico di traghettare il fiume in tal punto. Poco di poi, la brigata Savoia, il battaglione parmigiano e Savona giungevano per dare il ricambio su que' posti istessi alla seconda divisione di riscossa comandata dal barone Visconti. I nuovi venuti erano discorati dai frequenti allarmi, stanchi pel continuo combattere, e svigoriti da un digiuno di trentasei ore. Pur, quando gli Austriaci, protetti da dieci pezzi d'artiglieria, si approssimarono alla ripa del fiume per costruirvi un ponte di barche, combatterono per quanto potettero; essi non avevano da opporre che due cannoni. Il di Sonnaz, che trovavisi in Monzambano, spedì immediatamente il colonnello Solaroli a Ponti per ordinare al 14.° di linea di attaccare il nemico sul suo fianco destro; ma quel corpo non vi era più; chè, al primo rombo del cannone, aveva in disordine piegato sopra Peschiera. Gli universitari tentarono arrestare i disegni dell'inimico, ma vennero ben presto respinti dalle scariche a mitraglia. Una volta che quello potè occupare l'opposta sponda, il de Sonnaz non valeva più a far argine all'oste irrompente, e ritirossi invece co' suoi su Volta. I nuovi occupanti non lo inseguirono, ma volsero per Ponti e Monzambano, e più tardi per Valeggio.

Carlo Alberto, saputa la rotta del secondo corpo di esercito, e immaginando che necessità spingesse i vincitori a perseguirlo, volle battaglia pel dì vegnente. E raccolta una parte delle truppe, che assediavano Mantova, colle loro rispettive batterie e con quattro reggimenti di cavalleria si dirigeva a Villafranca per tenervi consiglio di guerra. Due battaglioni di Pinerolo co' Toscani sotto gli ordini del generale Manno munirono il paese. Carlo Alberto ed il Bava avanzaronsi verso la valle di Staffalo con tre brigate, quelle delle Guardie e di Cuneo guidate dal duca di Savoia, l'altra di Piemonte dal duca di Genova. Il sistema decretato in consiglio era questo. Le truppe avrebbero dovuto impadronirsi di Vateggio, di Sommacampagna e di Custoza; quindi, con una conversione a sinistra verso il Mincio, gittarsi con impeto sulle schiere imperiali, cacciarle nel fiume, o al di là; e così, tagliata loro la via di Verona, sterminarla e costringerle ad arrendersi.

Nel dì 23 luglio era il calore eccessivo, insopportabile. I nostri, sfiniti dalla fame, dalla sete, dalla lunga marcia, non punto aiutati dalle popolazioni egoiste, istupidite e villane traevano dal proprio onore la forza di attaccare colla baionetta in resta il nemico eccedente di numero, in magnifiche posizioni e opponentesi a tutta possa. Dopo lungo ed ostinato combattere, le alture cadevano sull'imbrunire in potere dei nostri; i vinti si rincantucciarono dietro gli scoscendimenti dei colli; quindi, approfittando della notte oscurissima, si rivolsero ad Oliose ov'era il grosso dell'esercito. Lasciarono però sul terreno, oltre quattrocento e più tra feriti e morti, mille e ottocento prigionieri, tra cui quarantasei ufficiali e due bandiere. Fu azione stupenda la nostra in cui tutti si coprirono di gloria.

Ma anche in tale occasione il Bava peccò di lentezza e non colse l'eroico slancio de' valenti che comandava. Valeggio era il perno delle sue operazioni. Approvvigionate le truppe alla meglio, invece di farle serenare sulle conquistate posizioni, doveva cacciarle verso quel punto d'appoggio, e il suo eccellente disegno di guerra sarebbe riescito a capello. Ei pur doveva richiamare il generale Perrone dall'inutile assedio di Mantova, avere alla sua portata il corpo di ordinanza lasciato a Governolo e accelerare il congiungimento del de Sonnaz al grosso dell'esercito nostro. Così il Radetzky non si sarebbe impadronito nella notte di Valeggio, od almeno non avrebbegli quivi presentato nell'indomani una linea di fronte di 55,000 uomini da opporre a' suoi 20,000 e al secondo corpo di armati, sulle cui forze il Re sperava impedire al nemico il passaggio del Mincio. Ma il generale de Sonnaz non ubbidì agli ordini mandatigli di attaccare Valeggio verso il ponte di Borghetto, togliendo a scusa che le sue schiere erano prostrate di molto.

Al chiarore primo del dì 25, il duca di Genova doveva partire dalla Berettara e da Sommacampagna per alla volta di Oliose collegandosi a manca col suo fratello il duca di Savoia, il quale alla testa delle Guardie e di Cuneo aveva ordine di dirigersi da Custoza verso Salionze, affine di favorire la brigata Aosta nel suo attacco di Valeggio, e far credere al nemico di esser colto alle spalle.

Radetzky, aspettando di piè fermo i nostri, che supponeva forti di 40,000, collocava a diritta il primo corpo d'esercito agli ordini del generale Wratislaw, dilungava parte di una divisione a Borghetto, e l'altra la riteneva in Valeggio; una seconda l'appostava tra Fornelli e San Zenone. Il generale d'Aspre distribuiva i suoi sulle alture di Custoza, di Sommacampagna e di San Giorgio. Fece togliere al corpo di riscossa la posizione di San Rocco e di Oliose. Il generale Thurn ebbe avviso di rimanersi in osservazione del forte di Peschiera nelle vicinanze di Castelnuovo; e faceva custodire il ponte di Monzambano e il nuovo di barche presso Salionze da tre battaglioni di fanteria.

La brigata Aosta, alla cui testa era il Re, col Bava e col Sommariva, scontrossi verso le nove cogli avamposti nemici. Accolta da una formidabile artiglieria, cui la nostra rispondeva senza alcun pro, convenne ritirarsi indietro per non ricevere inutili perdite ed aspettare il simultaneo effetto del concertato piano di attacco. Gli occhi del generale erano verso Valeggio per notare da una repentina mossa degli Austriaci l'avvicinarsi al fiume del de Sonnaz. Egli attendeva eziandio con impazienza la divisione del duca di Savoia. Quegli invece, assalito da forze superiori presso Custoza, difendeva la posizione, e spediva un solo reggimento alla nostra fronte. Il duca di Genova trovavasi anch'egli alle prese con forze assai rilevanti alla Berettara. Alle tre, il combattimento si faceva accanito, disperato su tutta la linea, da Valeggio a Sommacampagna. I principi conservavano il terreno a furia di cariche alla baionetta. Il primo colla sua brigata Cuneo lottò per sei ore contro 15,000 imperiali. L'altro con soli quattro battaglioni e mezzo ebbe cuore di resistere per la intera giornata contro diecinove battaglioni condotti dallo stesso Radetzky.

Inutili le prove di eroismo contro le stragrandi forze dell'inimico. La ritirata fu battuta su tutta la linea. L'artiglieria, la cavalleria, intanto che la si effettuava, tennero in rispetto gli Austriaci, e alle otto della sera l'ordinanza si ridusse regolarmente sul piano che spazia intorno Villafranca. E i vinti lacrimarono la perdita di mille e cinquecento compagni posti fuori di combattimento. E i vincitori si ebbero duemila uomini tra morti e feriti, tra i quali moltissimi ufficiali, costretti a porsi alla testa delle loro colonne perchè meritassero dal vecchio Maresciallo nel bollettino del dì 26 luglio il titolo di «valorose truppe.»

Tale fu la battaglia di Custoza sì funesta alla causa dell'indipendenza.

Le truppe avevano sostato per quattr'ore, quando, per ordine del Re, dovettero levare il campo da Villafranca, e alla metà della notte partire per Goito. Se più si rimaneva, il nemico avrebbe potuto precludere loro la ritirata, separarle dalla nostra base d'operazione, circondarlo e intimarle la resa. Partirono primi i feriti, i prigionieri, i convogli colla scorta di due battaglioni di Pinerolo e della brigata toscana. Le brigate delle Guardie e di Cuneo passarono per Mozzacane, Roverbella e Marengo. Quelle di Piemonte e d'Aosta si avanzarono per Quaderni e Massimbona. Per proteggere la ritirata, vennero appostati i reggimenti a cavallo coll'artiglieria volante presso Mozzacane; il 17.° di fanti presso Roverbella; e la brigata, sopraggiunta allora da Governolo, sui campi tra Marengo e Goito. Due battaglioni di Cuneo, comandati dal duca di Savoia, composero il retroguardo.

Miserando spettacolo offeriva il teatro ove i nostri avevano altra volta sì gagliardamente combattuto e vinto! Non un fil verde sui campi; gli alberi e i vigneti rotti e sguarniti di fronde; le baracche costruite dopo la vittoria del maggio, rovesciate e disperse; gli argini e le trincee presso il fiume, scomposte ed aperte; il primo corpo di ordinanza allor giunto, trepidante, sfinito. E per colmo di sciagura, il secondo corpo, disceso alle due del mattino da Volta, spingeva sempre più in peggio la causa italiana.

La chiave della posizione era ormai sulle alture di Volta; conveniva impossessarsene di bel nuovo e tenervisi a qualunque costo. Alle sette s'ingaggiò il fuoco delle nostre artiglierie, cui risposero le inimiche; chè, il corpo capitanato dal generale d'Aspre, formante l'ala sinistra dell'esercito imperiale, aveva già preso quartiere nel paese e premunitolo da un probabile attacco. I nostri si slanciavano con baionetta spianata all'assalto, malgrado il grandinare di proietti. La porta era atterrata; le prime case cadevano in nostro potere; molte barriere, parecchi giardini, discacciatine i difensori, divenivano posti di offesa; lo eroismo di quegli arditi superava l'elogio, Buia e tempestosa la notte. Le audaci imprese schiarite dal lume degl'incendi. Il lagno degli agonizzanti confuso col grido animoso dei capi che conducevano i soldati all'arduo cimento. E in quel rombazzo di artiglierie e di moschetti, ogni ordine scambiato, rotto franteso. Il conflitto il più ostinato fu presso la chiesa di Volta, ove tre o quattrocento uomini eransi trincerati come in un ridotto. Ufficiali e soldati rivaleggiarono nel ferocissimo scontro; i primi successi mettevano una nuova e più gagliarda volontà di superare ogni ostacolo negli assalitori. E il generale, côlto anch'egli dal comune entusiasmo, non rifiutava spingere l'affronto a' termini estremi; e per ciò fare, mandava a richiedere in Goito copia maggiore di milizie. La pugna durò accanita, terribile, corpo a corpo, per ben sette ore. In sulle prime non fu possibile ottenere dai nostri il dar quartiere ai prigioni; questi vennero macellati senza pietà; meglio che cinquecento giacquero supini tra' vigneti del colle. Erano le due del mattino. I domandati soccorsi intanto non giungevano; e il generale de Sonnaz vedeva con amarezza freddarsi l'entusiasmo delle sue milizie spossate dal lungo combattere; dinanzi la chiesa l'ardore dei nostri cominciava già a rallentare; udivasi la voce che altre truppe accorrevano da Monzambano in aiuto a quelle del d'Aspre. Egli pensò l'avviso ingannevole, volle illudere sè stesso, stette titubante, esitò se dovesse co' suoi darsi intero nelle braccia della più disperata fortuna; ma, prudente per natura, quantunque battagliero audacissimo, non osò più oltre rischiarsi ed ordinava la ritirata. I feriti furono raccolti; e, posti nel mezzo i prigioni, gli ancora validi discesero alle falde della collina.

Albeggiava quando questi s'imbatterono colla brigata Regina, che il quartier generale aveva alla fine spedita come rinforzo. Il de Sonnaz ingiunse allora di tornare indietro e di attaccare di bel nuovo il nemico. Il comando era eseguito coll'impeto primo; le menti, come nella notte, erano ebbre di vendetta e di sangue. Ma il tentativo non rispondeva al pensiero, e procacciava altre inutili morti. Anche una volta, ei convenne avviarsi verso la pianura, pur senza disordine e protetti dalla cavalleria. Gli Austriaci, ringalluzziti dalla vittoria, cercavano di turbare la ritirata, e dissennatamente prorompevano a slascio. I cavalieri di Savoia e di Genova, attelati presso Cerlungo, davano di sprone ed accorrevano a lancia spianata. Gli ulani s'incrociavano con essi, non reggevano all'urto e s'infugavano dopo aver lasciato sul terreno una trentina di cadaveri. E peggiore sventura toccavano nella corsa precipitata; lo sgomento non fece loro osservare che passavano a tiro delle nostre batterie; d'un tratto si disegnava una linea di fuoco per entro una nube di fumo; una salve di mitraglia lanciava la morte su quella spessa colonna d'uomini e di cavalli.

Il paesello di Volta Mantovana sarà celebre per l'ostinata impresa del dì 26 luglio, in cui un pugno di prodi per ben due volte attaccava in sì forte posizione un numero stragrande di Austriaci.

Alla notizia della rotta di Custoza e di Volta lo scoramento si fe' generale. Il rappresentante del governo provvisorio di Milano vigliaccamente partì. Con esso disparvero i commissari di guerra, l'imprenditore delle somministrazioni, i vettovaglieri, lo steccato dei buoi aperto e il bestiame rubato e condotto via. I carreggi di pane, incamminati verso i magazzini del Mincio, tronche le tirelle a' cavalli, in balìa de' primi occupanti. Gli abitatori delle campagne ragunavano le loro robe, e cacciando disperate grida, quasi quello fosse l'ultimo giorno della loro vita, riparavano in tutta fretta in più sicuro paese. I più tristi intra essi, che preferivano il servaggio straniero, gittarono ne' pozzi la secchia e la corda, perchè i nostri, affamati, cadessero anche per sete. L'esercito, che da quattro dì marciava, combatteva e mancava regolarmente di viveri, dimentico della disciplina sino allora tenuta, discioglievasi in parte, seguendo i feriti e i bagagli diretti per Bozzolo, e in parte trasmodava in maggiore delitto, dacchè molti capi erano minacciati della vita come ostacolo alla fuga. Parecchi soldati dopo breve convulsione morirono di stenti sui canti delle strade. Le case erano chiuse o vuote di abitatori; o, se pur questi vi si trovavano, erano affranti a tal segno dallo schianto dell'anima a non essere capaci di aiuto veruno. Oltre a ciò le provvigioni di bocca insufficienti al numero degli sbandati, che arrogantemente ne chiedevano in folla pel forte istinto della propria conservazione. Il tumulto, il disordine di quel giorno nefasto non escirà mai dalla memoria di chi ne fu testimonio.

In que' casi estremi, Carlo Alberto pensò d'inviare il cavaliere Bes al campo inimico per proporre una sospensione d'armi al Radetzky, mercè la sua ritirata oltre l'Oglio. Alle cinque della sera venne la risposta che i Regi si ritirassero al dì là dell'Adda, consegnando Venezia, Peschiera, Bocca d'Anfo, i due Ducati e la più gran parte degli ufficiali austriaci caduti prigioni. Il Maresciallo ignorava le nostre critiche circostanze, altrimenti non sarebbe stato sì generoso a lasciarci la provincia di Milano, che equivaleva ad una successiva rinuncia della Lombardia. Il Re parve offeso da siffatte condizioni, e sperò nell'aiuto del popolo, in una levata d'insegne formidabile; e pubblicò all'uopo un programma.

I popoli d'Italia non rispondevano al richiamo. Udivasi bensì continuo nelle sale parlamentarie, nei circoli, nelle piazze, in ogni pubblico ritrovo proferire la santa parola di patria; e ai molti sembrò che da migliaia e migliaia di bocche la uscisse. E si ingannarono! La era un eco armoniosa di poche voci onorate, che vacuamente ripercuotevasi da ogni banda. E ancor pochi la udivano; e a lei più pochi ubbidivano. I popoli erano stati innanzi tratto troppo trascurati; avevano perduto quell'entusiasmo che crea gli eroi; il timore aveva incominciato ad invaderli. È raro che nella sconfitta possasi destare lo slancio.

Carlo Alberto passava in rassegna nella sera le truppe che tuttora stanziavano in faccia al nemico. Avuto riguardo al loro numero ed alle fazioni di guerra che gloriosamente avevano combattuto, ci poteva rischiarle ad ulteriori cimenti sul Mincio, temporeggiare sino al punto in cui la intera nazione darebbe la prova di quanto potesse; non già nelle scissure di parte; o negli amori municipali; o nelle pedantesche ciarle di una pubblica tribuna; o nelle velleità ambiziose de' consigliatori di misure estreme; o nelle inettezze governative; o nelle parole di una minorità spodestata; o nelle smargiasserie popolari; sibbene nell'energia, nell'operoso entusiasmo, nella disciplinatezza, nel ragionato silenzio, nel sacrificio di sè e degli averi alla fortuna della patria; tutte virtù cittadine che insublimano un popolo e il fanno degno di libertà e d'indipendenza.

 

XI.

 

La sera del ventisette, alle undici, Carlo Alberto, invece di far tuonare ai cannoni di Goito il colpo d'allarme ed intimare il passo di carica sugl'inimici eterni d'Italia, ordinò ai tamburi battessero la ritirata verso Cremona. Il nostro esercito vi si diresse per tre strade convergenti. Nel passare l'Oglio, la falsa voce che il nemico era alle spalle ad un trar di moschetto, fece sbandare una parte della terza divisione; e i Savoiardi, per tema di peggio, alla voce dei capi si aggruppavano intorno alle loro bandiere e formavano un quadrato di brigata, per contrastare agli Austriaci il passaggio del fiume; gli artiglieri e la cavalleria si associavano a tal movimento, e quivi si ristavano quasi antimuro al rimanente della ordinanza. Quella posizione non poteva però essere difesa; ei fu mestieri procedere innanzi. In sugli albori del giorno trenta i cavalieri austriaci si trovarono presso il nostro retroguardo; d'un tratto si ritraevano e scoprivano tre pezzi d'artiglieria che fulminavano ed infugavano i nostri ne' campi. Il generale Broglia, quantunque ferito, saliva a cavallo, conduceva la sua divisione e sosteneva validamente l'urto degli avversari. La pioggia, per colmo di mali, cadeva a torrenti. Si pensava allora di difendere la linea dell'Adda da Pizzighettone a Lodi. Ma il Sommariva, accampato colla prima divisione a Grotta d'Adda, sia per dappocaggine, sia per turpe infedeltà, permetteva al nemico la costruzione d'un ponte, e senza opporre ostacoli ritiravasi colle artiglierie e co' suoi su Piacenza. Così, gli altri corpi, scoperti sulla sinistra, erano obbligati a indietreggiare sino a Lodi in gran fretta.

L'ambasciatore inglese tentava in quel frangente interporsi tra le due parti belligeranti. La risposta del Maresciallo fu ch'egli avviavasi per a Milano. Il Re poteva ridursi in Piacenza, combattere ed ottenere una capitolazione onorevole. A' tre di agosto l'esercito si accampava poco lungi da Milano in una linea semicircolare sino al canale di Pavia. La seconda divisione stava sulla dritta della via di Lodi ed appoggiava la sua sinistra a Gambaloita; la terza, che dilungavasi più indietro, occupava le cascine di Boffalora, di Besana e di Caminella. La quarta trovavasi a sinistra; gli altri corpi colla cavalleria formavano la riscossa; il Re stabiliva il suo quartier generale fuor di Porta Romana, tra la seconda e la terza divisione, nell'osteria all'insegna di San Giorgio.

Già i sopracciò della Lombardia, cagione di tanta catastrofe, scendendo sulle ruine della prima loro fortuna, avevano rassegnato il potere, nelle mani del generale Olivieri, venuto in Milano coll'autorità di regio commissario. Lo scoramento era grande nella città. La era stata tanta la sicurezza della vittoria che giammai erasi pensato a premunire il paese da un attacco nemico. Creavasi un comitato di difesa composto del general Fanti, del Rastelli, del Maestri; i due ultimi erano incaricati di tutti i rami del servizio pubblico; il primo col colonnello Pettinengo, col maggiore Cadorna e con alcuni ingegneri civili si adoperò a far innondata colle acque dell'Adda la sponda sinistra del fiume; a concentrare le truppe stanzianti nel Tirolo, nello Stelvio, ed in Brescia ne' monti di Bergamo; e a premunire Milano di ogni mezzo di resistenza, perchè l'esercito italiano avesse potuto far fronte al nemico sull'Adda, o respingerlo di fianco sul Po. L'Olivieri il giorno 4 passava in rassegna le 6,000 guardie cittadine, capitanate dal generale Zucchi, il traditore di Palmanova, e gli 8,500 uomini di truppe agli ordini del Fanti, il quale non era tal uomo da illudersi sulla efficacia di quelle forze, che avrebbero spezzato gli ordini al primo rovescio di avversa fortuna.

Il duca Antonio Litta, che le sue generose oblazioni avevano renduto uno tra i cittadini più benemeriti d'Italia, era già partito alla volta della Svizzera per assoldarvi di proprio cinque mila uomini per la salute della patria in pericolo. Ma la dieta fin dal dì 13 maggio aveva annullato ogni speranza di valido soccorso. Uno dell'ex governo provvisorio, lo avvocato Anselmo Guerrieri, inviato a Parigi per chiedere rinforzi al reggimento della Repubblica, nulla pur esso potè ottenere.

Innanzi che l'esercito fosse costretto ad una ritirata, la colonna dei Modenesi aveva ricevuto l'ordine di portarsi da Pizzighettone a Governolo e di prendervi posizione. Due altre compagnie guidate da Giuseppe Castelli erano in Revere, e combattevano sole da più giorni contro un nerbo d'Austriaci vaganti da Ferrara ad Ostiglia con desolazione della corsa contrada. Il colonnello Alessandro Della Marmora trovavasi da poco in San Benedetto con un rinforzo di 3,000 uomini. Il maggiore Fontana chiarì al generale il rovescio delle nostre sorti. E' fu mestieri lasciare la linea del Po, e per Guastalla, Brescello e Parma ritirarsi a Piacenza. S'incontravano presso Borgo San Donnino coi Toscani, i quali per la via appennina s'incamminavano pel loro paese; in questa ritirata il prode colonnello Giuseppe Giovannetti veniva ucciso con palla in Pecorile da un soldato di linea e l'iniquo fatto restava impunito.

Gli Austriaci frattanto marciavano a gran furia sopra Milano. In sulle otto ore del giorno 4 di agosto avvenne il primo scontro avanti la cascina della Gambaloita. Burrascoso era il tempo come la nostra fortuna; la pioggia cadeva a secchie; lo scoppio dei tuoni e delle artiglierie intronava l’aere per intervalli; e siccome temevasi che nelle prossime case gli Austriaci avrebbero potuto celarsi co' loro cannoni, e bombardare il paese, o che per esse venisse impedita la difesa de' bastioni, chiedevasi al Re la licenza di mandarle alle fiamme; ciò ch'ei rifiutava, rimettendone la sentenza al comitato di difesa. Siccome anche questo non volle sobbarcarsi ad una tanta responsabilità, ignote mani appiccavano il fuoco alle suburbane dimore, che ben presto elevarono su per l'aere fosco e piovigginoso una nube di fumo biancastro, dalla quale sprigionavansi le lingue di fiamme e la luce corrusca dell'incendio, che addoppiavano l'orrore della infelice giornata. Le scariche seminavano dall'una parte e dall'altra la morte, e molti erano i cadaveri illacrimati giacenti sul cruento terreno. In ogni canto si fabbricavano cartucce; i quartieri delle guardie nazionali ne erano provvisti a dovizia; le farmacie ridotte in officine di guerra per fornire cotone fulmineo; ogni casa, ogni stamperia, ogni bottega distribuiva piombo e palle ai combattenti in pro della patria. Carlo Cattaneo suggeriva a provvedimento l'asserragliare intorno alla città tutte le acque correnti per comporne una cerchia di fango e farne ostacolo materiale al libero giro delle artiglierie nemiche e confondere le molte linee di strade colle linee de' molteplici canali; con tale spediente si sarebbero separati i corpi che imprendessero il blocco, e distrutti in pochi dì per malattia gli assedianti. In quegli estremi pericoli a certuno l'alacrità del popolo sembrava delitto; l'abbarrare delle vie, un insulto fatto a' soldati del Re e un dannoso ingombro all'azione; la irrequietezza dei molti, una minaccia repubblicana. Le voci erano troppe; soverchia la confusione; la diffidenza scambievole tra i popolani ed i Regi, la quale più e più si accrebbe ne' primi, allorchè videro accorrere questi precipitosi in Milano, dopo la toccata disfatta.

Gravi considerazioni occupavano Carlo Alberto. A lui non rimanevano che i 24,000 uomini sfiniti dal manco di riposo e dalla scarsezza de' viveri. Radetzky poteva danneggiare fortemente il paese colle sue bombe; e, irritato nel suo amor proprio pe' patiti insulti, porlo a fuoco a sangue ed a ruba. Poteva costringere lui a cedere le armi dopo un disperato ed infelice combattimento, ed a rendersi prigioniero col pugno de' bravi che l'amica sorte gli risparmiasse.

Siffatti pensieri lo indussero a ragunare in consiglio i suoi generali per conoscere il loro avviso su ciò che si dovesse operare in tanta avversità di fortuna. Calcolata la impossibilità di una lunga ed onorata difesa, ne venne la inevitabile sentenza di entrare in comunicazione col Maresciallo e pattuire seco lui da resa della città. Erano presenti alla redazione ed alla lettura de' patti varie autorità militari e civili lombardi. Il Rastelli protestò in modo assai energico. Il podestà non era l'uomo dai disperati consigli; epperciò rifiutava i nobili, ammirevoli, pur vani disegni offerti dal Rastelli ed ostinavasi a salvare il paese dall'eccidio e dalla ruina. Que' che assentivano o si opponevano a' divisati patti, partirono. Rimase solo col Re il general Fanti, il quale esponeva l'impossibilità di tenere la campagna più oltre. Fu stabilito che i Piemontesi si ritirassero entro due giorni oltre il Ticino; che Peschiera, Piacenza ed ogni altro luogo occupato dalle truppe sarde sarebbero consegnati alle I. R. truppe; che Milano sarebbe risparmiata, rispettandone le persone e le proprietà; e che chiunque volesse emigrarne, avrebbe avuto l'agio sino a ventiquattr'ore dopo l'ingresso degli Austriaci in città.

«L'infausto avvenimento saputosi bentosto per qualcuno del municipio — cui i patti non si eran tenuti celati — produsse grande fermento. Due infelici, ch'ebbero la sventura di parlarne in pubblico sulle vie, gridati traditori ed austriaci, vennero incontanente sbranati. Un tal Montignani, amministratore del diario compilato dal Mazzini, sarebbe stato morto del pari, se un amico che passava, noto per fede repubblicana, non lo faceva salvo. Il general Fanti, che, escito dal palazzo Greppi, erasi diretto a quello Nazionale ove siedeva il quartiere supremo delle truppe e delle milizie civili, trovatolo deserto, avviavasi verso la piazza di San Fedele, quando una turba di popolo assalivalo da ogni banda, e minacciandolo colle baionette e co' coltelli, tentò gittarlo giù da cavallo. Il prode ed incolpabile soldato non aveva a difesa che la serenità della propria coscienza; il sentimento della dignità d'uomo offesa gli contraeva leggermente il viso; alcuni che il riconobbero, lo chiarirono per quell'uomo che era, e lo conducevano al palazzo del Marino, ove trovavansi Pompeo Litta, l'Anelli, il Giulini ed il Clerici. Questi poco dopo partirono. Il Fanti fu ritenuto, e a quando a quando vedevasi trascinare innanzi, da quella gente scaldata, persone, ch'essa diceva sospette e che il generale con vari stratagemmi salvava. Alla perfine potette anch'egli sottrarsi da tale incresciosa posizione, e coi suoi aiutanti di campo tornare al palazzo del Re. I più esacerbati, e frenetici erano quelli che si erano firmati per l'atto della infausta fusione, i quali scorrazzavano le contrade, bestemmiando al nome di Carlo Alberto e alla fede in lui avuta. Nella confusione dei poteri, nello imperar della plebe atterrita da un pericolo che la minaccia od offesa da supposti tradimenti, le sentenze dissolute danno plauso e trionfo; le oneste e vere, supplizio. Allora il più ardito che si presenti e colle sue parole incarni i pensieri degli adunati, ne è il capo. Nè il capo mancò in tale frangente. Le piccole partite in sul nascere, tosto ingrossarono e si fecero moltitudine schiamazzante e ruinosa. L'un disse «Morte a Carlo Alberto! Morte al Re traditore! al palazzo Greppi!» E tutti ad accorrere, e con ricambiati discorsi e con grida di minaccia, aiutarono all'atto reo. Per la via quanti s'incontravano vestiti della divisa piemontese erano insultati, picchiati e peggio; le regie carrozze, capovolte e frugate; il baccano più feroce e ribaldo che mai; la milizia civile di guardia al palazzo o fugge o la si accomuna co' sediziosi. Allora invasa la corte, e la plebaglia su per le scale. Ma quivi alcuni coraggiosi carabinieri bastano a farla rinculare chè non havvi gente più vigliacca e codarda quanto quella che medita o commette assassini. Molti ufficiali superiori erano nell'appartamento ove trovavasi il re; e — per la più parte impaurati e sgomenti — mal presagivano su ciò che potesse: avvenire. Il rumore della strada cresceva; su per le scale l'orda de' furiosi addoppiavasi, al cui empito i carabinieri a dura prova potevan resistere. Quand'ecco entra nell'anticamera il maggior generale, conte Maurizio Nicolis di Robilant, e voltosi agli astanti: «Spero, signori, che noi sguaineremo la spada a difesa della persona del Re.» Quindi si fa sulla scala e tenta acquetar l'ira negli animi concitati. Il tenente colonnello Ardoino — antico patriota che le calunnie de' retrogradi avevano nel 33 colorato colle tinte dell'assassino e costrettolo per quindici anni a spendere il proprio valore per tutelare dal dispotismo le non sue contrade — per meglio aggiungere lo intento pietoso, vi si slancia egli pure; ed udito come il capo de' sediziosi, giovane dalla barba e dai capelli biondissimi, parlasse italiano con forestiero accento, con sicurtà grande esclama: «Poveri illusi! Io conosco costui nel qual voi fidate! Non è già un nostrano. Egli è un tedesco, mandato dal suo governo a seminar zizzanie fra noi, a far nascere contese civili, acciò nel mentre che gl'Italiani si sgozzan tra loro, entrino qui gli imperiali.» Il manigoldo balbetta parole confuse, si guarda intorno, legge l'ira sur ogni volto e dassi a fuggire. E tutti lo seguono a precipizio. Ma quei della strada sommano già a più centinaia. I pericoli, i timori si fanno più forti. Un tribuno di plebe salito sur una sedia, chiede con baldanza che il Re si presenti; e Carlo Alberto apre le imposte e francamente si mostra sul verone; e per alcun tempo vi rimane segno a parecchie archibugiate e ad invettive le più grossolane. L'orator su accennato — reso ardito e potente dalla bassa moltitudine che dominava — si rifà accusatore del principe per la sua fuga del 21; ricorda gl'imprigionamenti, gli esilii, le morti, le sevizie comandate dal Re dodici anni più tardi; ripete i sospetti di tradimento nel campo; lo dichiara vie più traditore in Milano; e consiglia la commossa ciurmaglia ad atti colpevoli, ribaldi. E gli accorati dalle ruine della patria, che omai a tutto credevano, addoppiavano gl'impeti e le ingiurie contro re Carlo Alberto, il quale, sereno in tanto gravi perigli, pone la mano sul petto, quasi per dimostrare la propria lealtà e resta segnacolo di ben altri colpi. «O guerra o morte» seguitano ad urlare tra le imprecazioni ed i fischi quei della strada. Ed il duca di Genova, credendo che quegli arditi sarebbero stati capaci a tener la promessa — e lo avrebbero potuto, se i fatti non fossero fortunatamente più difficili delle parole — rispondeva loro com'egli, ammirando l'animo dei cittadini milanesi, sarebbesi posto alla loro testa per vincere o morire con essi. La folla applaudì; ma qualcun sorse per chiedere che il Re di sua bocca confermasse quel voto. Richiesto, si presentò di bel nuovo; il popolo, però avea mutato mente, giacchè un altro oratore, sur una sedia, avea detto che per esser sicuri facea d'uopo vedere il nero sul bianco ed emetter fuori una promessa in istampa. Vennero di fatto pubblicate queste parole: «Il modo energico col quale la intera popolazione si pronuncia contro qualsiasi idea di transazione col nemico, mi ha determinato di continuar nella lotta, per quanto le circostanze sembrino avverse. Io rimango fra di voi coi miei figli.» E Carlo Alberto strappava la capitolazione, sperando nella provvidenza di Dio. In quel mentre con immenso scoppio andava in aria il palazzo del genio, ove trovavasi la provvisione delle polveri; non dovevano essere stranieri al misfatto gli sprigionati dalla galera di Mantova, di cui il Radetzky aveva innondata la Lombardia; nè gli ufficiali austriaci travestiti, i quali — profittando di tanta confusione capitanavano l'orda degli eccessivi cogli infami artifizi riesciti altra volta in Gallizia. Il municipio impensieriva a tale novella; e vedendo che il Re era deciso a combattere ancora, fidando sulla cooperazione di uomini, i quali nell'istante del pericolo — perchè con tali elementi così deve accadere — sarebbero tutti scomparsi, inviò di propria mente, al declinare del quinto del mese, una sua deputazione al Radetzky per pregarlo di ratificare i capitoli già convenuti.»

«La novella dell'attentato bociavasi già tra le file, e gli ufficiali della brigata di Savoia, indignati per tanto eccesso, eransi riuniti per deliberare in qual modo potesse farsi salva la persona del Re. Gabriele Massimiliano Ferrero, Carlo di Coucy, e Leone di Cocatrix vennero deputati a rappresentare presso i differenti corpi della ordinanza le comuni inquietudini e le prese determinazioni. Ma re Carlo Alberto, informato del pensier generoso che movea le sue genti e deciso a tutt'uomo d'impedire la fratricida discordia ordinò pace ed obblio. «Dovess'anche questo popolo assassinarmi» egli disse «non permetterò giammai che i miei soldati si pongano al rischio di versare il sangue italiano!» Il duca di Genova, malgrado l'ordine di raggiungere la propria divisione, volle rimanersi presso suo padre per tutelarne a qualunque costo la vita. Il sergente Orengo, giacente ferito nell'ospedale, trascinossi fino al palazzo Greppi, e appoggiato l'infermo corpo ad una colonna della porta, rispose alle minacce di morte colle grida reiterate di «Viva il Re!» Serbino queste pagine il ricordo di una fedeltà così coraggiosa. Il colonnello d'artiglieria Alfonso della Marmora, scorgendo come i forsennati si affaticassero nello adattar sotto l'uscio un barile di polvere con sinistre intenzioni, si gittò da una finestra nel giardino e coll'aiuto de' bersaglieri e di un battaglione della brigata Piemonte infugò quegli arditi, che mai più ricomparvero. Verso il mezzo della notte, Carlo Alberto, saputo come lo arcivescovo e il podestà avessero — a nome del municipio — stipulato i capitoli sulle sorti della città, col cuore angosciato ed oppresso deliberò rientrare nei proprii Stati. Una più lunga dimora potea compromettere il popolo, l'esercito e sè medesimo. Escì dunque dal palazzo e si diresse a piedi alla volta della porta Orientale; dopo breve riposo continuò il cammino per porta Vercellina in mezzo alle tenebre più profonde, tra il rintocco delle campane a stormo, tra lo scoppio della moschetteria che diè morte a parecchi soldati al suo fianco. Con lunga e penosa fatica venne sgombera la via dalle molteplici barricate esterne, e l'esercito in tre colonne potette alla fine dirigersi a Magenta e Abbiategrasso per rientrare in Piemonte. Un solo battaglione della brigata Guardie rimase col duca di Genova in Milano per consegnare la porta Romana agli Austriaci e per tutelare le convenzioni del municipio([28]).

La luce sinistra degli incendi suburbani; il continuo trarre degli archibugi contro le mura; il frastuono delle campane a martello; l'inaspettato giungere di Garibaldi con cinquemila uomini a Monza; l'avere il Re stracciato i discussi capitoli; il girovagare de' contadini armati per le campagne, senza sapersene lo scopo; tutto ciò poneva lo sgomento nel cuore di Radetzky e de' suoi generali. Credettero la ritirata di Goito, di Cremona, di Lodi un tranello loro teso per distaccarli dalle loro fortezze e distruggerli sommariamente con una guerra omicida e mai rallentata di truppe e di popolo armato. Il Maresciallo mandò i suoi ufficiali travestiti per ogni dove a esplorare il terreno. L'indomani, in sul meriggio, fece il suo ingresso nella città. Le vie erano spopolate e nude; le case in molti luoghi deserte; chè, più di centomila abitanti eransi prima dell'alba e poi precipitati fuor delle porte. Piangendo accorati, traendo seco le poche robe e i bambini e i malati e le donne e i vecchi cadenti, smarriti quasi del senno, muovevano quelli innanzi senza direzione, senza scopo, privi di danaro e di ogni altro mezzo da sostentarsi. Alcuni, stremati dal dolore, o deboli di corpo, o non adatti alla fatica delle marce, od a resistere ai raggi di un sole cocente, impazzarono, o caddero morti sulla polvere della strada. Altri raggiunsero i soldati piemontesi, i quali, memori delle fratellevoli cure avute in Milano, ove i cittadini offerirono loro quarantamila camicie in un giorno, ove vennero cibati di pane bianco e di doppia razione di carne, di cacio e di vino, ove furono presentati di sigari e di denaro, aiutarono i derelitti come meglio poterono; e, messo ad armacollo il moschetto, portarono fra le braccia i bambini che pel lungo cammino non valevano più a reggersi in piedi. Misera consolazione, perchè tremenda!

Innanzi por termine a narrare d'una guerra cominciata sotto i più felici auspici, e che l'imperizia del capo supremo, dei governi provvisori, e il tradimento di alcuni generali trassero a sì miseranda fine, sacrificando un esercito a cui non mancava certo il valore, dobbiamo un cenno di lode ai volontari tutti, i quali, malgrado l'obblio in cui furono tenuti, soffrirono con abnegazione ogni disagio, e combatterono sempre con estremo ardimento. Il pugno di prodi Alpigiani alla custodia dello Stelvio non venne pur mai meno a sè stesso; esso più volte rintuzzò gli attacchi dei nemico, fortemente stabilito sulla linea del Taufers, Glums, Schluderns e Trafoi; e i soldati del Reisinger del Wellington e i cacciatori tirolesi ebbero a provare quanto fosse ardito il volontario italiano! Ne' combattimenti allo Stelvio s'ebbe a compiangere la perdita di un volontario, il Clerici di Milano, il quale soltanto da ventiquattro ore era corso ad offerire la sua vita alla patria. Si copersero di gloria il Lavizzari, l'Arrigosi, un tal Battista De Gasperis, e molti altri generosi di cui non potemmo raccogliere i nomi.

 

XII

 

Per dodici anni l'Italia fu immersa nel lutto; vi fu un istante, nel 1849, in cui essa sperò risorgere a nuova vita; ma i generosi conati venivano dappertutto vinti dai soldati dell'oppressione. E la feroce reazione scatenavasi; mentre imprigionava o cacciava in esilio quanti rei fossero d'amare la patria, muoveva pur guerra alle ossa dei morti. Fra i tanti fatti, non crediamo doverne tacere uno inaudito, avvenuto nella gentile Firenze dopo che il Granduca fu rinsediato al potere.

Ai 29 maggio 1851, quando i cittadini di ogni ceto e d'ogni età gremivano il tempio di Santa Croce per pregare alla memoria dei fratelli, morti in quel glorioso dì sui campi di Lombardia, una masnada di sgherri, uscita d'improvviso dai sotterranei, ove s'era per tempissimo accovacciata, invase la casa del Signore, fece fuoco sugli inermi preganti, contaminò il luogo sacro, e produsse un tumulto pieno di spavento e di pericolo. Poscia furono tolte le tavole di bronzo, le quali per opera dei generosi cittadini passarono, in copia, nel palazzo municipale a Torino. Anco a Pistoia la lapide dei Martiri venne tolta dal suo luogo. Da questa proscrizione di morti scamparono per obblio degli infami persecutori solo quelli del camposanto di Pisa e quelli di Poggibonsi.

E le cose così perdurarono sino a che le mutazioni, prodotte dal 27 aprile del 1859, non redense le terre toscane. A Pistoia, alle ore quattro pomeridiane di quello stesso giorno, non appena si seppe del rivolgimento accaduto a Firenze, il popolo accorse in folla sulla Piazza del Duomo e chiese che la pietra dei Martiri fosse ricollocata al suo luogo d'onore. A Firenze, il giorno 28 dal governo provvisorio venne pubblicato il seguente decreto:

 

Il Governo Provvisorio Toscano.

 

Al Tempio nel quale si adunano tante glorie italiane una sola gloria e la maggiore mancava, la gloria del sangue versato per la Patria.

Nel 1848 quando fu per la prima volta concesso agl'Italiani di morire per l'Italia, i nomi dei morti nella Guerra combattuta per l'Indipendenza d'Italia, incisi sopra tavole di bronzo, furono esposti in Santa Croce.

E poi, quando il dominio straniero non contento di averci ogni cosa rapita, volle anche rapirci le memorie e gli affetti, quelle tavole furono tolte alla pubblica venerazione, e nascoste in una fortezza, per esservi custodite da soldati austriaci, che allora la occupavano.

Il Governo Provvisorio Toscano, volendo e dovendo dare una pronta riparazione al sentimento nazionale oltraggiato, tra i primi suoi atti emana le seguenti disposizioni:

Art. 1. Le Tavole di Bronzo, nelle quali si leggono i nomi dei morti per la Patria nella Guerra della Indipendenza combattuta nel 1848, saranno immediatamente riposte al luogo che prima occupavano nella chiesa di Santa Croce.

Art. 2. Una solenne Commemorazione funebre sarà celebrata ogni anno, a spese pubbliche, nella chiesa di Santa Croce il giorno 29 maggio, anniversario della battaglia di Curtatone e Montanara.

 

Dato in Firenze il 28 aprile 1859.

 

Cav. Ubaldino Peruzzi

Avv. Vincenzo Malenchini

Magg. Alessandro Danzini

 

Per cui nella chiesa di Santa Croce, il Panteon di Firenze — ove i suoi più grandi uomini riposano fra la pubblica venerazione, — il 29 maggio 1859 celebrossi solenne festa; e il popolo, accorso in gran folla, rese solenni onori di preci e di pianto ai morti per la patria. «Il tempio era adorno, scrive il Vannucci, come si addiceva alla santa commemorazione. Nel mezzo era il catafalco a tre ripiani coperto di nero, tranne la parte superiore in cui eran dipinti dal Sanesi i fatti di Curtatone e di Montanara. Al disopra, l'urna con immensa ghirlanda tricolore. Nel primo imbasamento quattro grandi candelabri, e in terra quattro gruppi di fucili corrispondenti agli angoli: poi tamburi, palle e pistole da tutti i lati, e due cannoni dalla parte riguardante l'ingresso. Nel secondo ripiano altri quattro candelabri, e nelle quattro colonne coperte di nero, cartelli con iscrizioni, intrecciate di bandiere e coronati di alloro. Bandiere anche ai trofei dei fucili e ai candelabri. Fra il catafalco e l'altar maggiore era la statua d'Italia del Cambi, a mani alzate, con due corone nell'atto di offrirle a Dio. Alto tra la statua e il tumulo una bandiera pendente, a stendardo, nera, con iscrizioni bianche. Le due tavole di bronzo coi nomi dei morti erano piene di corone d'alloro, di bandiere e trofei. Bandiere ad ogni arco e a ogni capitello della navata principale. Le iscrizioni composte da Luigi Muzzi ricordavano eloquentemente la storia dei prodi caduti a difesa d'Italia e la venerazione che loro si deve. La festa riuscì splendidissima come conveniva alla santità dell'idea e degli affetti a cui era dedicata. Belle le armonie musicali dirette dai nostri più valorosi maestri: eloquenti, pie e generose le parole dette dal canonico Novelli. Tutti gli astanti ne rimasero profondamente commossi, e da questa mesta cerimonia trassero eccitamento e forza alle nuove battaglie che allora preparavansi contro quel medesimo nemico di cui furon vittima i morti del 29 maggio.»

 

FINE

 

 


 

 

 

CARLO PISACANE E GIOVANNI NICOTERA  O LA SPEDIZIONE DI SAPRI

 

NOTIZIE STORICHE

 

«Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor.»

 

 

 

«Eran trecento: eran giovani e forti:

«E sono morti!»

 

 

 

 

 

 

 

MILANO 1876

PRESSO Carlo Barbini EDITORE

Via Chiaravalle N. 9

 

 

 

....E il popolo v'imparerà che quando l'Italia era tenebre e pianto sommesso, e l'Unità era battezzata sogno d'infermo, e la Libertà non era creduta possibile, un altro popolo, nelle condizioni più sfavorevoli e contro i potenti, innalzò una bandiera di fede definita e pubblicamente confessata, e parlò d'educazione di popolo e la tentò, d'azione e la tentò, di martirio e l'affrontò col sorriso.

 

I.

 

Da Ferdinando il cattolico a Filippo IV, cioè dal 1500 al 1648, Napoli, sotto il dominio di Madrid, ebbe ventotto vicerè, i quali, rubando ad un tempo e per la Spagna e per sè stessi, avevano con ogni sorta di balzelli e di avanie ridotta nella più squallida miseria quella regione privilegiata da Dio delle più rare delizie della natura. Salito al trono, Filippo V vide come difficile gli tornasse conservarsi i possedimenti italiani; onde distaccava per sempre dalla sua corona il regno di Napoli, e lo dava a Carlo suo figliuolo, nato dalle nozze con Elisabetta Farnese. Il nuovo re si fece chiamare Carlo III, «per la grazia di Dio re del regno delle due Sicilie e di Gerusalemme, infante di Spagna, duca di Parma, gran principe ereditario della Toscana.» Disegnò le armi innestando alle nazionali delle due Sicilie tre gigli d'oro per la casa di Spagna, sei di azzurro per la Farnese e sei palle rosse per quella dei Medici. La bandiera volle bianca con in mezzo le torri di Castiglia ed il rinomato vello d'oro della monarchia spagnuola. Nel 1735, cioè un anno dopo che era stato insediato nel nuovo regno, Carlo, recatosi a Palermo, e convocati nel Duomo i tre ordini dello Stato, che costituivano l'assemblea nazionale della monarchia rappresentativa, fondata dai Normanni in Sicilia([29]), saliva sul trono, e, ponendo la mano sul Vangelo, ad alta voce giurava di mantenere i diritti del popolo, le ragioni del parlamento e i privilegi della città. — «Diciotto re, scrive La-Cecilia, avevano giurato anch'essi di mantenere e garantire le libertà rappresentative della Sicilia: tutti osservarono que' giuramenti; i successori di Carlo III, Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II giurarono anch'essi più volte di mantenere e garantire non solo le antiche istituzioni della monarchia di Sicilia, ma anche i nuovi patti costituzionali della moderna civiltà; i tre principi furono fedifraghi e spergiuri in faccia a Dio ed al popolo.» Dopo secoli di straniera servitù, nella più bella parte d'Italia, veniva costituito un regno indipendente, che i trattati delle primarie potenze d'Europa garantivano al ramo dei Borboni di Spagna, i quali presero da quel tempo il nome di Borboni di Napoli, a patto però che rinunciassero per sempre a riunire in una sola la corona delle due Sicilie e quella di Spagna e delle Indie.

Napoli sotto Carlo III godette d'un savio governo, Bernardo Tanucci di Stia nel Casentino (Toscana) ministro del re, dava tosto mano a riformare con ottime leggi lo Stato, a riordinare la finanza e ad emancipare la corona da tutte le usurpazioni e da tutti gli abusi della podestà ecclesiastica. Queste ultime radicali riforme sono le opere più sorprendenti di quel regno; imperocchè per incuria dei vicerè eransi talmente estesi i poteri della Chiesa, che il clero opprimeva i popoli ed imperava perfino sul governo. Infrenati i chierici, si pose mano sulle giurisdizioni ed immunità baronali. Si regolarono ed alleggerirono le imposte; si diede opera al catasto; per cui fu contento il popolo, e respirò; s'impinguò l'erario, e «soperchiando gl'introiti ai bisogni si pensò ai monumenti di grandezza.» Allora, come per incanto, sorsero palazzi, edifici, ospizi, teatri e monumenti d'ogni genere([30]).

Moriva il re Ferdinando II di Spagna senza prole, e lasciava vacante il trono a Carlo III. Ma non potendosi, come accennammo, pe' trattati riunire in una sola le corone di Spagna e di Napoli, Carlo decise porre quest'ultima corona sul capo del suo terzogenito, il fatale Ferdinando, fatale a sè, fatale al reame delle due Sicilie.

Come in quella di Spagna, costumavasi nella Corte di Napoli ad ogni giovine principe o principessa a dare un compagno coetaneo che con vocabolo spagnuolo chiamavasi il Menino. Divideva esso la tavola i giuochi, gli studi coi reali infanti; ma se questi commettevano fallo, egli doveva sopportarne le reprensioni, i castighi a pane ed acqua e perfino le frustate. Compagno di Ferdinando fu un tal Gennaro Rivelli, figlio della nutrice di lui, ragazzo robustissimo, brutto però e di istinti feroci, e dedito ai vizi. Ferdinando venne da costui iniziato a vita incresciosa, e con esso lui ebbe comuni gli istinti rozzi, plebei ed impuri. Finite le pompe dell'insediamento al potere reale, il giovine Ferdinando corse difilato dal Rivelli, e, tutto giubilante, sclamò, «Sai che sono re e posso fare ciò che voglio, e tu, fratello di latte, sarai luogotenente mio.» «E fu vaticinio reale! scrive La-Cecilia. E vennero i giorni in cui Rivelli fu luogotenente del re, ma di ferocissimi atti, di delitti spaventevoli e di lesa umanità.» Trascorsa una giovinezza nel più turpe modo che mai([31]), addì 12 gennaio 1767, compiendo gli anni sedici, età maggiorenne stabilita da Carlo, Ferdinando si faceva proclamare sovrano assoluto e libero delle due Sicilie; e un anno dopo si univa in matrimonio coll'orgogliosa e superba Maria Carolina d'Austria.

Al Rivelli si aggiunse allora l'inglese Giovanni Edoardo Acton, nome esecrabile per tutta l'italianità e per l'umanità intiera, immeritevole di nascere uomo. Chiamato dal Borbone a Napoli per istabilirvi la marineria, vi andò da Toscana l'anno 1779; divenne in breve volgere di tempo l'arbitro della mente del re, del cuore della regina, e per tali pratiche, giunto a spodestare dagli stalli ministeriali chiunque dimostrasse giustizia e pudore, sopra quella medesima scranna di dove Piero delle Vigne e Bernardo Tanucci erano discesi, si assise solo, dispotizzando del re, del regno, del popolo e di Dio.

Non importando punto allo scopo di questo scritto il narrare per filo e per segno delle sozzure a cui si abbandonò la regale coppia e il suo degno ministro([32]), salteremo a piè pari allo scoppio della grande rivoluzione francese, rivoluzione che proclamava i diritti dell'uomo, e che, gridando guerra mortale alla barbarie dei vecchi troni, chiamava i popoli tutti a nuova vita. Narratori delle iniquità dei principi, dei delitti contro la libertà, del martirio dei popoli, ci atteniamo soltanto a quella parte delle generali vicende che aiutono ad intendere l'opera gloriosa di coloro che per la patria tutto consacrarono.

Nel 1791, Ferdinando e Carolina, impauriti delle idee di Francia, eccitavano contro di esse l'odio delle turbe ignoranti, usando a ciò l'opera dei preti e dei frati, i quali, mutando in tribuna i pergami e i confessionali, a tutt'uomo predicavano contro gli ordini liberi. Anche le spie si affaccendavano a più potere; Carolina conferiva con esse nella reggia; magistrati, nobili, ecclesiastici si prestavano al cómpito infame. I libri di Gaetano Filangieri erano sbanditi e bruciati; vietati i giornali forestieri, vietate le adunanze dei dotti; e adoperata la frusta, come abbietti furfanti, contro i sospetti di essere amatori delle riforme francesi.

Il 4 ottobre 1794, Vincenzo Vitaliano, di ventidue anni, Emanuele De Deo, di venti, Vincenzo Galiano, di diciannove, gentiluomini per nascita, notissimi per ingegno, salivano il patibolo per avere, al giungere del navilio francese, comandato dall'ammiraglio Latouche, salutato con fervore la bandiera della libertà. Mentre i tre giovani versavano il loro nobilissimo sangue, le galere e le carceri si empirono d'ingegni preclari.

Le opinioni perseguitate diventano sentimenti; il sentimento produce l'entusiasmo, l'entusiasmo si comunica in ogni classe; onde le opinioni perseguitate si fanno generali e trionfano. Il sangue di quei primi Martiri della libertà eccitò sdegno ed amore di vendetta; il numero di quelli che odiarono gli ordini antichi andò semprepiù crescendo; e quello che prima era amore di riforma diventò desiderio ardente di libertà. Quindi nuove persecuzioni e nuovi martiri.

Nel 1798, essendosi i Francesi, guidati da Championnet, impadroniti di Roma, la fama della Repubblica, inaugurata in Campidoglio, venne più tremenda che mai a disturbare i sonni di Ferdinando e di Carolina. Per cui, a malgrado della neutralità promessa all'ammiraglio Latouche, addì 22 novembre di quell'anno, con un manifesto, il re dichiarava essere deciso a muovere col suo esercito per conquistare al papa le terre che i Francesi gli avevano tolte. E, senza porre tempo in mezzo, irruì negli Stati romani con cinquantamila uomini, capitanati dal tedesco Mack; e, camminando a grandi giornate, giunse a Roma il 29 novembre medesimo. All'avvicinarsi dei Napoletani, i Francesi, vedendosi in piccolo numero, si ritirarono da quella città, e con esso loro la più parte degli amatori della Repubblica.

«Ma alcuni di questi, scrive il Colletta, confidenti alle regali promesse di clemenza o arrischiosi o dal fato prescritti, restarono: e nel giorno istesso furono imprigionati o morti; due fratelli di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa fede al re, furono, per comando di lui, presi ed uccisi. La plebe, scatenata sotto velo di fede a Dio e al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini, affogò nel Tevere molti Giudei: operava disordini gravi e delitti.»

Championnet, raccolte tutte le milizie che qua e là aveva, sconfisse da ogni parte il nemico; gli tolse molte armi e bandiere; e, da assalito divenendo assalitore, mosse colle sue genti per alla volta di Napoli. Il re e la regina, non vedendosi nella metropoli più sicuri, ai 21 dicembre 1798 partirono per la Sicilia, recando seco le suppellettili più preziose dei reali palazzi, tutte le ricchezze dei musei, non che quelle dello Stato, cento milioni di lire, e lasciando il regno senz'ordine, senza leggi, e nella miseria. Non contento di ciò, volle Ferdinando, per soprassello, impartire barbarissime disposizioni, fra cui quella di abbruciare le navi dell'arsenale e dei porto, perchè non andassero in mano ai Repubblicani. E due vascelli, tre fregate e centoventi barche cannoniere furono arse in cospetto della città, che rimase mesta e costernata da quel tristo spettacolo.

Il generale francese, dopo fiera battaglia, e molte stragi, ai 23 gennaio 1799, entrò vittorioso in Napoli, e proclamò la Repubblica Partenopea. Mentre i buoni sostenevano i nuovi ordini della libertà e adoperavano ogni più onesto e generoso modo, i tristi facevano studio di male arti per rinsediare in trono la tirannide e la barbarie. Uomini di cattivo ingegno, ladri, assassini si posero alla testa della controrivoluzione nelle provincie. Essi erano chiamati amici ed onorati da Ferdinando e da Carolina; ad essi si rivolsero i preti, i frati, i vescovi e gli altri amici del dispotismo; e ad essi fu anima e capo il cardinale Fabrizio Ruffo, uomo che lasciò di sè fama scelleratissima. Assuntosi quel porporato di sommuovere le Calabrie contro i Repubblicani, sbarcò sul lido calabrese nel febbraio di quel medesimo anno 1799; raccolse intorno a sè malfattori e masnadieri in gran copia, e ne compose un esercito che chiamò della Santa Fede; donde venne poscia il nome di Sanfedisti a tutti i più perversi retrivi. Il Ruffo s'impadronì di molte città calabresi; eppoi si diresse a Cotrone([33]) ove, in nome della religione e del diritto divino dei re, fece nefandità non mai più udite. Tutti gli amanti di Repubblica vennero tratti a morte, anche negli altri luoghi in cui l'esercito della Santa Fede entrava vittorioso; e fra questi, la sera del 24 febbraio, Giovanni Andrea Serrao, vescovo di Potenza, uomo veneratissimo per dottrina, per vera religione e per santità di costumi.

I Repubblicani resistettero valorosamente, in sulle prime, alle orde del cardinale Ruffo; ma il combattimento era in armi dispare; e però non poterono a lungo resistere.

Il Ruffo, dopo essere passato su mucchi di cadaveri de' suoi e dei Repubblicani, attraverso alle fiamme, ai saccheggi e le rovine, più coll'inganno che colle sue preponderanti forze, a cui si erano uniti e Russi e Turchi, potè entrare in Napoli il 13 giugno; e dopo giorni di ecatombi, il 30, alla rada, protetto dall'armata inglese, condotta dall'ammiraglio Nelson, giunse pure re Ferdinando. Suo primo cómpito fu quello di promulgare una legge contro i rei di Stato, in forza della quale più di quarantamila cittadini erano minacciati della pena di morte, e un numero maggiore del bando. «E per conseguire i suoi feroci voleri, scrive il Vannucci, avea creata una Giunta di Stato composta di tristissimi uomini, più tristo de' quali era Vincenzo Speciale, nativo di Sicilia, spregiatore di ogni giustizia, furioso amatore della tirannide, insultatore crudele dei prigionieri, iniquo falsificatore dei processi: insomma schiuma di scellerato, e degno ministro alle ire di Carolina e di Ferdinando Borbone.» La persecuzione di questa tristissima coppia superò in crudeltà quella de' più feroci tiranni. Mentre contaminava le città col sangue degli uomini più venerandi, col commettere gli atti più arbitrari che mai, non risparmiava nè pure le donne. L'avere legami di parentela o d'amicizia con un fautore di Repubblica, l'avere soltanto mostrato un senso di umanità pelle vittime, bastava per esporre le più nobili e virtuose donne agli strazi della plebe furibonda, alle ire della corte, alle vendette di Carolina. Le madri, le mogli, le sorelle dei Repubblicani vennero barbaramente trattate; non mancarono le condanne di morte: anche nobilissime donne offersero il collo al capestro, o tinsero del loro sangue la mannaia del Borbone. Questo re, stretto dalle vittorie di Napoleone, dovette nel 1805, cercare di nuovo rifugio in Sicilia, scampando così alla meritata vendetta. Ivi rimase dieci anni finchè durarono in Napoli i regni di Giuseppe Bonaparte e di Giovacchino Murat.

Le sciagure dei Napoletani non ebbero termine nè pure sotto il governo di questi due re, i quali mancarono alle loro promesse. Colle prepotenze della conquista, colle immoderate gravezze, colle morti della più gagliarda gioventù in lontane guerre, essi avevano di molto irritati i popoli. Insopportabile fu più che l'altro il regno del Murat; e qualche storico dimostra come l'Austria e Ferdinando II fossero assai più miti nelle loro misure di quel re francese.

Gli amatori di Repubblica, odiando qualunque dominazione straniera, si ritirarono sui monti degli Abruzzi e delle Calabrie; ed ivi, intenti a cospirare contro i re, diedero principio alla sêtta dei Carbonari, la quale presto divenne potentissima([34]). Gl'Inglesi, che stavano in Sicilia a difesa di Ferdinando, si rallegrarono della mala contentezza che nasceva contro i Francesi; si rallegrarono dei sentimenti che animavano i Carbonari, e con essi fecero pratiche, e promisero loro una costituzione se si adoperassero a richiamare l'antico re. La polizia di Giovacchino, venuta in sospizione di queste pratiche, cominciò ad usare fierissimi modi; furono stabilite commissioni militari, vi furono condanne di morte. Ma la Carboneria, perseguitata, s'ingrandiva e si estendeva in ogni luogo, in ogni ceto; e quanto più poteva lavorava a' danni del Murat. E quando questi, muovendo contro gli Austriaci, chiamò col proclama di Rimini (30 marzo 1815) gl'Italiani all'indipendenza, niuno rispose all'appello, tanto i popoli erano stanchi delle fallite speranze.

Cadde Giovacchino; e tornò Ferdinando a gotizzare Napoli. Il Borbone, anzichè dar sostegno e favore a coloro che avevano cooperato al suo ritorno, anziché dare la promessa costituzione, si mostrò pronto a punire chi di libertà parlasse o pensasse. I Carbonari allora cominciarono a cospirare contro di esso. La rivoluzione di Spagna del 1820 vieppiù accese i desideri e le speranze di libertà. La materia era pronta; a destare vastissimo incendio bastava una favilla.

Ai 2 di luglio dello stesso 1820, i sottotenenti nel Reggimento Borbone cavalleria, Michele Morelli e Giuseppe Silvati, innalzando la tricolore bandiera, disertavano da Nola con alquanti sergenti e soldati. Ad essi si univano varî settari e il prete Luigi Menichini da Nola. Il grido di patria trovò dappertutto favore; e la rivoluzione in quattro giorni si operò da un capo all'altro del regno, con esemplare concordia, senza spargimento di sangue. In tant'armonia di tutti nello stesso pensiero, il re cedette ai desideri del popolo, e promise e giurò solennemente la Costituzione di Spagna. Il giorno primo di ottobre si aprì il Parlamento nella chiesa dello Spirito Santo, ed ivi il re col maggiore apparato giurò sul libro dei Santi Vangeli di difendere e conservare la Costituzione, ed aggiunse che se mai mancasse al giuramento, invocava da Dio sul proprio capo la pena degli spergiuri. I principi della santa alleanza, non assentendo al mutamento di Napoli, invitarono Ferdinando a congresso in Lubiana per trattare cose del regno. Il re accettò tosto l'invito, e comunicò al Parlamento la sua volontà; dopo vario disputare, i rappresentanti del popolo commisero il gravissimo errore di lasciarlo partire.

Nella vita delle nazioni, come in quella degli individui, v'hanno istanti solenni, i quali decidono di tutto un avvenire; un'ispirazione luminosa, uno slancio generoso possono essere l'origine di felicità e di gloria; un istante di debolezza costa spesso anni di umiliazione e di servaggio. L'errore del Parlamento napoletano fruttò larga mêsse di lacrime e di sangue a quella già troppo sfortunata terra. Il re partì in fatti, il 14 dicembre, giurando che andava qual mediatore di pace, qual propugnatore dei diritti del suo popolo, e aggiunse che quando non ne conseguisse l'intento, a tutt'uomo difenderebbe colle armi la Costituzione. Tre mesi non erano per anco trascorsi, allorchè giunse novella che Ferdinando tornava a Napoli con cinquantamila Austriaci, comandati dal Frimont, per distruggere quella Costituzione che aveva giurato difendere. In riscatto dello spergiuro il Borbone appendeva a Firenze in voto ricchissima lampada alla Madonna dell'Annunciata([35]).

Alla nuova fremettero i popoli e corsero alle armi. Condotti dai generali Carrascosa e Guglielmo Pepe, quarantamila uomini di soldatesche regolari; a cui si erano unite molte milizie civili, mossero contro il nemico. Ma i capitani erano discordi, grandissima la diffidenza fra i generali e soldati. Il Pepe assalì il 7 marzo 1821 gli Austriaci a Rieti, e fu vinto. L'esercito napoletano si scoraggiò, e si disperse; e gli Austriaci con gran facilità entrarono in Napoli ai 23 marzo, in mezzo allo sbalordimento dei cittadini che «mesti pensavano alla perduta libertà e alla soprastante tirannide.» E questa all'usanza dei Borboni fu crudelissima, avendo trovato Ferdinando nello scellerato Canosa un suo degno ministro. L'effusione di sangue fu tale che perfino l'Austria se ne commosse. L'imperatore scriveva al generale Frimont comunicasse al re Borbone, come ei reputasse migliore politica quella di martirizzare senza spargimento di sangue i rei di maestà. Il Borbone rispose che di per sè stesso non farebbe grazia a niun condannato, ma che siffatte essendo le imperiali intenzioni, ad esse pienamente si conformerebbe. E però invece d'impiccare quelli già sentenziati alla morte, nel suo cuore magnanimo stabilì che patissero trent'anni di ferri nell'orrida isola di Santo Stefano.

Quel re, che aveva sull'anima più delitti d'ogni altro tiranno, moriva, esecrato da tutti, il 4 gennaio 1825([36]). Il duca di Calabria, figlio di Ferdinando, veniva, per testamento olografo del defunto, confermato re; egli assumeva il nome di Francesco I. Questo degno erede dei Borboni pure spremè le lagrime ed il sangue dei popoli per mezzo dei preti, dei frati, dei crudeli ministri, e vieppiù di un suo rapacissimo servitore favorito, Michelangiolo Viglia; il quale insieme con una Caterina De-Simone, aiutatrice delle bestiali lussurie della regina Isabella, pose a prezzo ogni cosa. Dando denari al Viglia si campava dalle condanne, si avevano impieghi civili, militari, ecclesiastici. Francesco sapeva di quelle turpitudini, ne godeva, e diceva al Viglia: «Fa buoni affari e approfitta del tempo, che io non vivrò molto». Nel 1828 gli abitatori del Cilento, stanchi del mal governo, si levarono a tumulto e si posero d'accordo coi liberali di Napoli e di altre provincie per proclamare una costituzione che liberasse i popoli dagli orrori del dispotismo. Francesco mandò contro gl'insorti il marchese Del-Carretto, generale comandante della gendarmeria, con una truppa di sgherri, investendolo di pieni poteri. Il Del-Carretto fece orribili cose: mise a ferro e a fuoco intieri villaggi: fece macellare, condannare numero grande di generosi. Per ispaventare quel generale fece studio di barbarie. Le teste tagliate sul patibolo erano per ordine di lui esposte in una gabbia di ferro e messe davanti agli occhi della moglie e dei parenti di quei disgraziati([37]).

Lo stupido e crudele Francesco Borbone moriva il giorno 8 novembre 1830. Nell'agonia della morte vedeva intorno al suo letto le ombre dei sacrificati; onde negli estremi deliri, asseverano dicesse: «Che cosa sono queste grida? Il popolo vuole la costituzione? Dategliela, e lasciatemi tranquillo!»

Ferdinando II, il figlio di quell'Isabella che fu moglie di Francesco e donna di molti, saliva al trono due giorni dopo la morte del padre. Le popolazioni credettero sorgere a nuova vita, notando nei primi atti del giovane principe sentimenti di giustizia, di assennatezza e di clemenza regale. Ferdinando biasimò il governo del padre, disse farebbe ogni sforzo per rimarginare le piaghe che da anni affliggevano il reame, promise giustizia, vigilanza e saggezza; e cominciò col dare alcune concessioni e col diminuire il tempo di pena dei condannati politici. Ma non tardò guari a mostrarsi non degenere della sua trista razza; si diede ai gesuiti, si fece bigotto e feroce. Gli esili, le condanne e i macelli si succedettero senza posa dal 1832, anno in cui ricominciarono le cospirazioni([38]), al 1859, tempo in cui l'angelo della giustizia, librandosi sul capo del tiranno lo chiamò a rendere stretto conto a Dio delle sue scelleratezze.

La congiura dei fratelli Rossaroll, quella del frate Angelo Peluso, la insurrezione di Catania e di Siracusa per opera di Salvatore Barbagallo-Pittà e di altri generosi, quella di Aquila e di Cosenza, la spedizione dei fratelli Bandiera e compagni diedero luogo a nuove strazianti uccisioni, a condanne numerosissime. E in modo particolare il macellamento dei generosi Bandiera coi sette loro amici mosse a sdegno un cuore nobilissimo, quello di Carlo Pisacane, il martire, del quale particolarmente imprendiamo oggi a parlare. Il nome di Carlo Pisacane primeggia fra gli uomini che coll'ingegno e col valore cooperarono grandemente a pro della patria nostra e che per essa fecero sacrifizio della vita. Generoso fra quanti mai ne ebbe l'Italia, volle con un pugno di prodi ritentare quella spedizione già fallita ai fratelli Bandiera.

Quando si accinse all'azione era quasi sicuro della morte che l'attendeva; tuttavia, porgendo un magnifico esempio agli Italiani, con animo fermo e deliberato, seguito da pochi, eroi come lui, le andò incontro, come ad una festa da lungo tempo desiderata.

 

II.

 

All'alba del 22 agosto 1818, Carlo Pisacane sortiva alla vita nella ridente Napoli, in quell'albergo di gentili spiriti e di profondi intelletti, in quella città sì ben composta di greca vivacità e di romana sapienza. Il padre fu il duca Gennaro di San Giovanni, e la madre Nicolina Basile De Luna. Fin dalla più tenera età Carlo ebbe a pregustare le amarezze della vita; chè toccava appena i sei anni, quando perdeva il padre, il quale molto il predilegeva. Non furono per altro da donna Nicolina risparmiate cure e premure alcune, perchè il suo Carlo ricevesse quell'educazione che si convenivano e ai natali che aveva avuti in sorte, e alla dimostrata precoce svegliatezza di mente. E Carlo corrispose con affetto alle materne sollecitudini, mostrandosi amatissimo degli studi. L'animo suo fervido inclinava specialmente alle cose di guerra; e quest'inclinazione parve tanto forte alla genitrice, che, nel 1831, lo pose nel reale collegio militare della Nunziatella, dove i figli di patrizia famiglia o di militari si educavano al mestiere delle armi. Carlo in quelle discipline che ivi si insegnavano fu sempre de' primi; e nelle matematiche specialmente avanzò ogni altro; onde gli istruttori se lo tenevano carissimo.

Mentre trovavasi nel collegio fu pur paggio, per quattro anni, alla corte del re Borbone; «ed è questo, scrive un suo biografo, non lieve indizio di sua nobile indole, che in quell'età giovanissima, così facile agli allettamenti ed agli inganni, si serbasse incorrotto e non bevesse il veleno dei consorzi cortigianeschi.»

Passati, nel 1839, gli esami in modo luminosissimo, amante com'era pegli esercizi equestri, desiderò militare nella cavalleria. Ma non avendo potuto ottenere ciò, recavasi, come soldato gregario, nella città di Nocera, e, dopo sei mesi di tirocinio, veniva ammesso nel corpo reale del Genio napolitano col grado di sottotenente. Innanzi entrare in collegio, nel 1830, egli aveva conosciuta una fanciulla dell'età sua, della quale sin d'allora si prese. Nè il giovanile affetto fu dimenticato pelle lunghe assenze e per gli studi severi; chè anzi, sempre più crescendo, si fece amore, e più violento riarse quando, uscito della Nunziatella, egli trovava la diletta fanciulla sposa ad altro uomo. Il contrasto fra la passione e il dovere fu lungo; pure come vedremo, vinse l'amore.

La rinomanza che non tardò guari ad acquistarsi quale ingegnere abilissimo, fece sì che il capitano Fonseca lo domandasse in aiuto a condurre la ferrovia da Napoli a Caserta. Carlo adempiè quell'ufficio con molta lode; ma i modi burberi del Fonseca mal si affacevano colla gentilezza di lui. Onde, stanco chiese di essere tolto a quei lavori. Ciò che ottenne; se non che, quasi in pena del passo fatto, veniva mandato negli Abruzzi, ove se ne stette meglio che quindici mesi. Restituito alfine alla sua Napoli, fu promosso al grado di primo tenente.

Nel tempo in cui fu in quella città gli accadeva un caso, degno di essere ricordato. Mentre una sera, ad ora assai inoltrata, moveva alla propria abitazione, un ladro improvvisamente sboccava fuori, gli si avventava alla persona, minacciandolo di morte se non gli avesse dato quanto denaro per avventura si trovasse avere in dosso. Carlo non era tal uomo da inghiottirsi con santa rassegnazione le minaccie del ladro. Comechè inerme, a fronte d'uomo armato, non stava punto in forse, si gettava risoluto sul malandrino, e tentava vincerlo. Robusto ed agile come era, esso vi sarebbe riuscito; ma lo scellerato, vedutosi al mal partito, cavava di sotto un trincetto, e gli traeva due colpi nel petto e nel ventre. Il povero Carlo, chiesto invano soccorso a poche pietose persone, a stento, solo per forza d'animo, condottosi alla porta di casa, ivi, immerso nel proprio sangue, come corpo morto cadeva. I chirurghi, pe' quali mandò la famiglia di lui dissero che, essendo d'una ferita tocca l'ala destra del fegato, non v'era luogo a speranze di vita. Se non che il vigore singolare che aveva d'animo e di corpo, e le pietose cure della donna del cuore vinsero la forza del male; si riebbe, e sanò. Della qual cosa l'egregio chirurgo Coluzzo non rifinì di stupirsi, dicendo «esser certo il Pisacane serbato a cose grandi dal cielo, poichè tale pericolo, a nessun uomo superabile, avesse così felicemente, contro ogni giusta aspettazione, superato.»

Guarito che fu, veniva chiesto dal capitano Gonzales per dirigere una strada all'Antignano. Egli accettava, e muoveva tostamente per quella volta. L'odio, che presto sentì nascersi in petto contro i tiranni d'Italia, massime contro il Borbone; la lotta sempre più viva tra l'amore per la donna che avrebbe voluto far sua, e il rispetto alla sposa altrui, lo decisero a rinunciare all'impiego e a lasciare il paese nativo. L'8 di febbraio 1847, il Pisacane partiva da Napoli per Londra. Quivi rimasto qualche tempo, si recava a Parigi, e, invano cercato di procacciarsi di che campare la vita col lavoro, decideva di inscriversi tra le schiere dei soldati francesi che muovevano a guerreggiare gli Arabi dell'Algeria. E tanto più volentieri abbracciava tale determinazione, in quanto che poteva tenersi addestrato nel mestiere delle armi, speranzoso, come era, di essere poscia in grado di esercitarlo a beneficio della patria e della libertà. Egli presentavasi al Duca di Montebello, in quel tempo ministro per gli affari della marina, il quale aveva conosciuta la famiglia Pisacane quand'era ambasciatore di Francia presso la Corte di Napoli, per le costui raccomandazioni veniva accettato come sottotenente nel primo reggimento della legione straniera, comandato dal colonnello Mellinet. Il Pisacane partiva per Marsiglia; e il 5 dicembre dello stesso anno 1847 faceva vela per l'Africa. Colà, nella rude guerra contro gli Arabi, non gli mancarono occasioni di guadagnarsi la stima e l'affetto dei commilitoni.

 

———

 

Nell'anno 1847, i popoli, soggetti a Ferdinando, chiedevano a lui, come a padre, quelle concessioni che altri principi italiani avevano ai loro sudditi accordate in quel torno di tempo. Ma l'infame Borbone, alle nobili e giuste domande, rispondeva colle schioppettate, colle prigioni, colle stragi. I Palermitani, stanchi delle frustrate speranze di libertà, delle governative enormezze colle quali si pretendeva acquistare il reame, insorgevano il 12 gennaio 1848. — Il grido della rivolta si diffondeva per tutta l'isola sicule; e Messina, Trapani, Catania, Termini, Siracusa, erano le prime a seguirne l'esempio. I preti, i frati, col Cristo alla mano, eccitavano sulle serraglie il popolo ai sentimenti generosi e gagliardi, alla conquista dei propri diritti. A malgrado delle preponderanti soldatesche che, ad istigazione del Ministro Del Carretto, del monaco Cocle, confessore della corte, e dei gesuiti, Ferdinando aveva spedite nell'Isola, i Siciliani furono vincitori; ma, generosi dopo la vittoria, non si portarono a vendette, e si accontentarono della Costituzione di Napoli.

Il Borbone, all'aspetto ognora più minaccevole dei Napoletani, alle vittorie dell'insorta Sicilia, il 29 di gennaio si decise a promettere una Costituzione. Ma non fu che all'11 febbraio, e, dopo mille nuove incertezze, che quella promessa, suo malgrado, faceva un fatto compiuto.

Cittadini di tutte le classi, dimentichi dei sofferti malanni, si affollarono, in sulla Piazza di san Francesco da Paola, per applaudire al re. Ferdinando, seguito dalla moglie, dall'erede al trono, dai suoi fratelli, fecesi al verone del palazzo reale a ricevere l'omaggio della moltitudine. Alle voci di Viva Ferdinando II! — Viva la Costituzione! — Viva l'Italia! — egli rispondeva portando la destra sul petto. E siccome ad ogni tratto si faceva maggiore il numero delle genti affollate e il grido devoto ognora più crescente, così quegli, che pareva certo dell'amore de' suoi sudditi, escì della reggia per raccogliere davvicino il premio d'un'opera tanto desiderata, sì a lungo protratta. Allora l'entusiasmo divenne febbrile, e i saluti di onore confusi in uno solo, si mutarono in suono alto di festa, commoventissimo. E chi baciava le mani del re; chi il lembo della sua veste; chi dicevagli parole di grazie, di affetto; chi designavalo il balio dell'italiana nazionalità; chi l'incoronatore delle speranze di molti secoli. I fatti dei Napoletani e dei Siciliani vennero da tutt'Italia applauditi.

I grandi avvenimenti che occorrevano in Italia, i quali come terremuoto scuotevano la terra, la guerra bandita contro l'Austriaco, non potevano non commuovere l'animo di Carlo Pisacane, ansiosissimo di pugnare pel risorgimento della terra natale. Ond'egli, alla voce della patria che alla battaglia chiamava tutti i suoi figli, come colui che riceveva un invito da molto tempo atteso e desiderato, non poneva tempo in mezzo, e, il 24 marzo 1848, presentava al colonnello Mellinet la rinuncia al grado, dicendo reputare sacro dovere l'accorrere in patria mentre essa aveva bisogno del soccorso d'ogni buon italiano. Il colonnello Mellinet sottoponeva, a malincuore, ai superiori la dimanda del Pisacane; egli avvertiva essere la partenza di questi una grave perdita pel reggimento. Il generale Cavaignac, allora governatore generale dell'Algeria, spediva l'accettazione della rinuncia, accompagnandola con lettera in data 6 aprile in cui esternava al Pisacane il rincrescimento pell'allontanarsi di lui dal suo esercito. Non sì tosto in possesso di questa lettera, Carlo partiva per l'Italia, apportando alla sua difesa il tributo del suo braccio e de' suoi studi.

Nel viaggio da Marsiglia a Genova appiccava amicizia col medico Giovanni Cattaneo, già da molti anni emigrato in Francia e uno dei partecipi all'antica spedizione di Savoia; e fu con esso lui che, giunto verso la metà di aprile a Milano, recavasi da Carlo Cattaneo. Il Pisacane credeva fosse tuttora quest'illustre statista membro di quei consigli e comitati che il caso aveva accozzati nei giorni della rivoluzione; e a lui domandava di essere ammesso nel nuovo esercito lombardo. Il Cattaneo poteva soltanto offrirgli di presentarlo al generale Teodoro Lechi. «Mi sta a memoria, scrive il Cattaneo, come lungo la via il popolo si fermava a mirare quel bel giovine in quell'insolito uniforme. Era con noi un altro officiale della Legione straniera, d'età più provetta, Angelo Todesco, israelita di Trieste. Il generale li accettò volontieri ambidue.»

Narrasi che Lechi volesse affidare al Pisacane la cura di levare ed ordinare un reggimento, dandone a lui, come colonnello, il comando. Se non che egli rifiutava rispondendo: «Non essere venuto a bella posta dall'Africa, non corso sui campi ove si disputavano le sorti della patria diletta, per trascinare neghittoso la spada per le vie di Milano, ma per tingerla nel sangue dei nemici d'Italia; non ambire lui comandi, non grossi stipendi, non onori; ma vita operosa e pericoli e battaglie; lo mandassero per ov'e' isto affrontarsi coll'odioso straniero. Lechi lo inviò come capitano nella legione Borra, che trovavasi ai confini del Tirolo, sul monte Nota.

Prima che partisse per colà, essendosi il Cattaneo avveduto dei talenti e dell'alto cuore di Carlo, lo pregava notasse in breve i suoi pensieri sul modo di ordinare quanto più sollecitamente si potesse il nostro armamento; «imperocchè, come accenna il citato Cattaneo, sebbene avessimo Venezia e tutta Italia e la Sicilia, già si vedeva offuscar l'orizzonte, e dividersi i principi per forza alleati. Il gran punto era di ordinare l'esercito col numero di officiali che si aveva.»

Il giorno 19 aprile, Carlo presentava la memoria: Sul momentaneo ordinamento dell'esercito lombardo in aprile 1848, la quale non venne pubblicata, «perchè già era troppo tardi; e i savi non accettavano più consigli([39]).» Fu soltanto nel 1860 che era resa di pubblica ragione nel Politecnico n. 45. Accenna il Cattaneo che nella firma della memoria tra il nome e il titolo di capitano d'infanteria, v'era una riga mal cancellata che diceva: capitano nel reggimento della morte!

Ai confini del Tirolo, il Pisacane ebbe a sostenere diversi scontri coll'Austriaco, riportandone sempre somma lode di virtù e di coraggio. Lieto sen viveva sulle sorti della patria, quando la notizia degli eccidi e dei tradimenti accaduti il 15 maggio in Napoli, venne ad amareggiargli alquanto l'animo.

Il Borbone, comechè l'11 febbraio altamente dichiarasse di voler accordare a' suoi popoli liberi ordinamenti e mantenere loro una sana costituzione, non aveva, il truculento, che cercato cogli intrighi e colle iniquità proprie della sua schiatta di guadagnare tempo, covando nel nero petto il modo di distruggere quella Costituzione che molto abborriva. E più il popolo rispondeva con dimostrazioni e proteste, e vieppiù desso e i suoi sgherri con ogni sorta di trame, con tutte le arti più perfide preparavano la controrivoluzione. Con un decreto del 5 di aprile, Ferdinando aveva accordato ai deputati il diritto di svolgere e modificare lo Statuto. L'assemblea doveva radunarsi solennemente il 15 maggio. Il giorno 14 mentre i deputati di tutte le provincie si erano raccolti in adunanza preparatoria nel palazzo comunitativo di Mont'Oliveto, fu presentata loro una formola di giuramento che toglieva le facoltà concesse dal decreto del 5 aprile, e sanzionava implicitamente l'infame guerra contro la Sicilia. I deputati rigettarono questa formola unanimemente, e ne proposero un'altra che fu rigettata dal re. Quindi si cominciava una lotta vivissima fra i difensori della libertà e il dispotismo desideroso di avere occasione di scatenare i suoi cagnotti. Tutti gli antichi sbirri quel giorno uscirono fuori, si mescolarono col popolo, e accrebbero la diffidenza con grida faziose. Si cominciarono le serraglie in Toledo e nelle vie vicine: la città era tutta commossa. I deputati fecero quanto più potevano per calmare gli animi, per trovare un modo di conciliazione; ma il tiranno, che innanzi tratto parve aderire alle domande, voleva la guerra e il macello. Verso la mezzanotte da più punti della città si seppe che le soldatesche uscivano dei quartieri, che molta cavalleria e artiglieria si schierava avanti al palazzo reale. Allora la guardia nazionale fu chiamata alle armi; allora le serraglie si fecero più spesse; allora incominciarono e il tumulto e la confusione. Una voce copriva l'altra; niuno regolava quei moti, niuno li dominava, perchè niuno li aveva preveduti; niuno sapeva il disegno di colui che gli era accanto ad innalzare le barricate: atti erano di furore per accingersi a disperata difesa contro i pretoriani del re, non disegni prefissi, concertati e diretti a mutamenti politici. Si trascinavano panche, tavole, vetture; si picchiava ad ogni uscio; molti senza ordine d'alcuno andavano a postarsi sulle terrazze, sui balconi: tutti operavano senza consiglio, ma senza proferirsi un sol grido contro la forma del governo costituzionale o contro il re stesso. Sol quando le scaglie decimavano le vite di tanti prodissimi giovani, e la più bella via di Napoli mutavano in campo di strage, allora si ripeteva a ragione: morte ai Borboni!

Ferdinando stavasene nella reggia coi suoi sgherrani preparando la guerra. Aveva dato ordine ai comandanti dei forti di innalzare a un cenno bandiera rossa, e di tirare sulla città. Non pochi istigatori di rapine e di morte erano stati inviati fra i Lazzaroni a spargere oro, e a promettere il saccheggio delle case dei ricchi. Anche ai soldati fu promesso il saccheggio. E di questo re, che cercava esterminare i popoli, i quali, fidenti in lui, attendevano le promesse franchigie, di questo re, che dall'uno all'altro punto del suo regno aveva steso un lenzuolo funereo, il d'Arlincourt, vero scherano del dispotismo, non vergognava nella sua Italia Rossa di dire «nessuno più di lui ebbe animo alieno dalla tirannia, e il cuore propenso all'umanità; ei fu sempre clemente e magnanimo.»

Dopo quella terribile notte venne un più terribile giorno. A un grido di all'arme, a una schioppettata tirata non si sa da chi, gli Svizzeri e tutti gli sgherri del re si slanciarono contro le barricate, nel tempo stesso in cui i cannoni fulminarono da tutti i castelli. Il forte della battaglia fu a Toledo, a S. Ferdinando e a S. Brigida. Dalle barricate e dalle case veniva una tempesta di schioppettate continue. Per tre volte i soldati regi furono respinti. I combattenti, sebbene in piccolo numero, sebbene senza munizione, senza capo e disgiunti gli uni dagli altri, fecero prodigi di valore. La pugna cessò dopo sei ore di disperata ma generosa difesa da parte dei valorosi cittadini, dopo prove di inaudita ferocità da parte dei soldati e dei Lazzaroni.

Non è possibile di adequatamente narrare tutti gli orrori di quella giornata d'inferno. Dappertutto strage, stupro e rapine. Spogliati i magazzini, spogliate le case, le chiese, fu superato il furore delle bande del cardinale Ruffo. Vi furono famiglie intere distrutte, donne prima violate e poi spente, innocenti bambini gettati colle loro culle nelle vie e nei pozzi. Molte guardie nazionali perirono sulle barricate: 27 prigionieri furono condotti nei fossi del castello e uccisi subito alla presenza del conte d'Aquila, fratello del re. Furono assassinati circa duecento tra vecchi, donne e fanciulli. Parecchi morirono nel palazzo Gravina, che fu dato alle fiamme. Ivi quattordici persone che si erano nascoste nelle cantine, nei giorni appresso furono trovate cadaveri. Da molte donne si esigeva denaro o poi si straziavano e si uccidevano. La moglie di un Ferrari ucciso nel palazzo Gravina, per salvarsi dal fuoco diede ventimila ducati di gioie; e appena avuto il prezzo, gli sgherri la gettarono giù dal balcone. La vedova Benucci diede seimila ducati per salvare l'onore delle figlie; si prese il denaro e si tolse l'onore. Alla figlia del marchese Vasatura, giovinetta di tredici anni, fu trapassato il ventre da cinque baionette, mentre sull'uscio chiedeva pietà. Angelo Santilli fu ucciso nel letto. Era un giovine di 17 anni, nato in Terra di Lavoro, ricco di dottrine politiche. Aveva facile e calda eloquenza e di leggieri trasfondeva negli altri i sentimenti che gli commuovevano il cuore. Egli per le vie di Napoli faceva alla plebe la spiegazione del Vangelo e delle libere dottrine insegnate da Gesù; predicava la religione, la libertà, la fratellanza, l'amore. Il despota napoletano lo odiava perchè insegnava agli uomini a conoscere i loro diritti, e con ogni suo discorso diminuiva il numero delle anime schiave. Il 14 maggio predicò per l'ultima volta al popolo, che plaudiva e piangeva. Le sue parole in quel giorno furono più del solito malinconiche e commoventi. Tornato a casa, nella notte del 14 al 15, fu preso da febbre ardentissima, e stava in grande travaglio quando la città rintronava dei reboati del cannone e si contaminava tutta di sangue. Due giovani fratelli, la sorella e una fantesca a quell'orribile suono stavano raccolti e spaventati intorno al letto dell'ammalato. Le finestre della stanza erano chiuse; da esse non era uscito alcun tiro di schioppo; ma l'infelice era designato ai carnefici. Si cercò la sua casa, si ruppe la porta, si invasero le stanze, si fece fuoco su tutti. L'ammalato, giacente al letto, ebbe una palla al cuore e morì nell'istante. Nello stesso modo furono spenti i fratelli e la sorella dell'infelice.

Non fu possibile di raccogliere tutti i nomi dei molti valorosi che morirono colle armi alla mano. Possiamo però ricordare quello di Luigi La Vista, giovine di 25 anni, nato in Venosa, patria di Orazio. Aveva l'animo pieno di generosi e liberi propositi, l'intelletto ricco di civile sapienza; prometteva di essere un bell'ornamento della patria.

Terminate le umani ecatombi, Napoli tutta rimase immersa in profondo lutto. Soltanto la reggia era in festa: gli sbirri e le meretrici esultanti. Il re e la regina sclamarono essere stato quello il più bel giorno della loro vita, e andarono nella chiesa del Carmine a rendere grazie a Dio della vittoria di sangue. Ad istigazione della polizia, frotte di meretrici sozzissime non cessarono di andare per le vie gridando viva u re! Unite a sbirri e a soldati rubavano e facevano oscena guerra ai baffi e alle barbe dei cittadini. Chiunque fosse riconosciuto per guardia nazionale, per deputato o per liberale, era vituperato con parole e percosse. Lo stesso generale Gabriello Pepe fu svaligiato dagli Svizzeri e condotto al castello, ove lo tennero due giorni in prigione in mezzo agli scherni di vilissima soldatesca.

Napoli fu messa in istato d'assedio; la guardia nazionale e l'assemblea furono sciolte; della libertà non rimase nè pure l'apparenza. Molti dei deputati, che avevano durato intrepidi in faccia al pericolo e non si erano disciolti che per la violenza della forza brutale, dopo aver scritta e firmata una degna protesta, portarono la notizia di quegli orrori nelle Calabrie. Tutti i liberali calabresi si commossero al tristissimo annunzio, e gridarono vendetta. Si crearono comitati di sicurezza pubblica in Catanzaro e in Cosenza; molta gioventù corse alle armi, e si formò in Filadelfia un campo di ottomila volontari, desiderosi di vendicare i fratelli trucidati a Napoli. Il governo mandò contro di essi il generale Nunziante con forte nerbo di soldatesca feroce e di quantità grande d'artiglieria. Al ponte della Grazia, al fiume Angitola si venne alle mani, e alcuni Calabresi si batterono da eroi; ma, sopraffatti dalle artiglierie, dovettero ritirarsi e sbandarsi. Fra quelli che ivi caddero martiri della libertà sono ricordati Angelo Morelli e Giuseppe Mazzei, due uomini tenuti in pregio ed onore per la generosa indole loro. I soldati del Borbone lasciavano la desolazione in ogni luogo; rubavano e uccidevano anche chi li accoglieva con segni di gioia. I pochi abitanti rimasti a Filadelfia, dopochè si erano ritirati gli insorti, per campare dal flagello, mandarono una deputazione di preti, alle soldatesche, invitandolo nella città e assicurandole che sarebbero accolte amichevolmente. I pretoriani entrarono il dì 28 giugno; e l'accoglienza fu quale era stata promessa. Ma ciò non rese migliore la sorte degli abitanti. Furono invase le case: grandi le rapine e i guasti; poi ingiurie, percosse e uccisioni; contaminato l'onore delle donne, straziati i venerandi vegliardi, diciotto cittadini condotti in ostaggio. Otto furono uccisi, fra i quali due fratelli Federico ed Edoardo Serrao. Orribili casi avvennero anche al Pizzo, comechè ivi pure si accogliessero i soldati con ogni guisa di dimostrazioni amorevoli. Alle gentilezze, que' berrovieri risposero colla strage e col saccheggio. Fecero fuoco contro le case e contro le persone; atterrarono colle scuri le porte, rapirono, distrussero, spogliarono uomini e donne; poi, ebbri di furore e di vino, dettero di piglio nel sangue innocente: molti pacifici cittadini furono spenti o feriti. Queste ed altre scelleratezze commisero in Calabria nel giugno nel 1848 i soldati del Borbone, guidati dal Nunziante, il quale nei suoi proclami diceva «esser venuto a rimetter l'ordine, a frenar l'anarchia, a proteggere le sostanze e le vite dei cittadini.» Nè qui finirono i lutti e le stragi del 1848. Nel settembre la città di Messina pativa rovine, incendi e macelli. I Borboniani vi fecero opere esecrate così che nella storia non trovano confronto.

 

III

 

Carlo Pisacane, credente che i popoli avrebbero saputo vendicarsi delle infamie di Ferdinando, non si perdè punto di coraggio; cercò di attutire il dolore da lui provato giurando che con tutte le potenze della mente e del braccio avrebbe rimeritati i tiranni delle lagrime e del sangue versato dagl'Italiani. E mantenne la promessa. Combattè sempre con estremo ardimento, con somma sapienza; e nei giorni della sconfitta colle armi della parola. Il 29 giugno, ebbe in un combattimento da una palla ferito il braccio destro, e così miseramente che, dove non fossero state le cure della sua diletta amica, da lui ritrovata a Marsiglia mentre tornava in Italia, e quelle del dottore Leone, a comune giudizio dei medici, sarebbe stato mestieri amputarglielo. Dopo trenta dì che giaceva infermo a Salò, per l'avvicinarsi dei nemici fu tratto a sicurezza in Milano. Ed era convalescente che già si affrettava ad offrire l'opera sua al Governo Provvisorio per la difesa della città minacciata dagli Austriaci. Ma coloro che reggevano allora la somma delle cose, calpestando l'onore della patria, a tutta possa si adoperavano a stancare e a fiaccare l'impeto generoso delle genti, che dappertutto volevano con guerra popolare prendere la rivincita di Custoza; onde all'offerta del Pisacane rispondevano: «non essere lui atto a battaglia, malconcio com'era: pensasse alla propria salute e raggiungesse i feriti che il precedevano.» Della qual cosa egli molto si rattristò e si dolse cogli amici, dicendo: «costoro non hanno fermo proposito di resistere al nemico, nè di far opera degna di quel popolo che loro obbedisce.» E fu vero.

Caduta Milano di nuovo in potere del Radetzky, il Pisacane recossi sdegnoso in Isvizzera, ove si ridussero molti dei più ragguardevoli uomini d'Italia; e fu in quel tempo che per la prima volta conobbe Giuseppe Mazzini.

D'animo ardentissimo, non poteva lungamente rimanersi neghittoso. E però, come in sul finire del 1848 venne a cognizione che il Piemonte levava soldatesche per la riscossa e ordinava reggimenti nuovi, correva a Vercelli ad offrire la sua persona; e quivi veniva ammesso col grado di capitano nel 22° reggimento di fanteria, che faceva parte della divisione lombarda. Se non che gravissimi tornandogli gli indugi, le esitanze, le ministeriali incertezze, non sì tosto seppe che a Roma era stata, il 9 del febbraio 1849, proclamata la Repubblica, egli chiedeva ed otteneva in breve regolare congedo dal ministro della guerra, e si affrettava a muovere per alla volta della città eterna, dove un irresistibile instinto gli presagiva che più gloriosamente avrebbe potuto consacrare l'opera sua a difesa della periclitante libertà.

Quando Carlo Pisacane giunse a Roma, il piccolo esercito della nuova Repubblica era disordinato e disperso; ond'egli, che peritissimo era delle cose militari, espose al triunviro Mazzini i suoi pensieri sul modo di raccoglierlo e disciplinarlo. Piacquero tanto al Mazzini que' disegni che nella tornata del 15 marzo propose all'assemblea si creasse una commissione sulle cose di guerra, la quale riformasse e le soldatesche che vi erano e ne levasse di nuove per provvedere alla salute della patria. Fu creata la commissione, e fra quelli che ne fecero parte, per unanime voto, fu il Pisacane. Coloro che in quel tempo lo conobbero asseverano che principale parte di lode a lui spetta delle buone cose operate da quella commissione, la quale tanto conferì a difendere la città contro le soldatesche di Francia e a mantenere la gloria delle armi italiane; e ad esso pur attribuiscono il vanto di aver ordinato il fatto d'arme del 30 aprile, di tanto onore ai difensori di Roma. Comechè il Pisacane dissentisse dal Mazzini su varie questioni, socialista e pur federalista essendo, tuttavia quegli sel tenne assai caro; lo elevò al grado di colonnello, e all'ufficio di capo di stato maggiore. Ma il Pisacane non si accontentò di far parte degli ordinatori dell'esercito; volle essere pur soldato di azione; trovossi in ogni combattimento, pugnando sempre con estremo coraggio. E ben ebbe ragione il Bertani, ne' suoi Cacciatori delle Alpi, di chiamarlo il prode dei prodi; imperocchè, degnissimo compagno dei Mameli, dei Manara, dei Daverio, dei Morosini, dei Dandolo e di altrettali, operò fatti degni de' padri nostri.

Il Pisacane non ammetteva l'entusiasmo che i volontari sentivano pel Garibaldi. «Guai, scriveva egli, allorchè le masse giungono a credere all'inviolabilità ed all'infallibilità di un uomo. Guai allorchè le masse si avvezzano alla fede e non alla ragione: è questo il segreto sul quale sino ad ora si è basata la tirannide, che ha trovato facile la strada al conseguimento dei suoi disegni; dappoichè il pensare è fatica dalla quale rifuggono le moltitudini, corrive sempre al credere. Indisciplina in pace e disciplina in guerra è la divisa in ogni rivoluzione, quella genera la discussione e crea il concetto, ovvero la bandiera; questa unifica gli sforzi, ed invita il soldato a tener gli sguardi fissi sul vessillo e non già sul capitano. Poco monta che la mitraglia distrugga un generale: un altro lo rimpiazza, ma la bandiera non cambia, ogni milite deve averla scolpita nel cuore.» Eminentemente dotto nell'arte militare non poteva poi riconoscere il sistema di guerra adottato dal Garibaldi, quell'indipendenza sua ad ogni disciplina e quella cieca fidanza che ei riponeva nella fortuna. Noi però abbiamo fermo convincimento che se il Pisacane fosse vissuto tanto da essere testimonio delle vittorie comensi e della spedizione dei Mille, avrebbe certamente rivocato il suo concetto sul Garibaldi, e salvatore dei popoli non solo, ma grande capitano lo avrebbe salutato.

Incerto del partito da prendere, il Pisacane era rimasto in Roma anco dopo che i Francesi vi erano baldanzosi entrati. Esso, e mai seppene la causa, era un giorno imprigionato, e rinchiuso in Castel sant'Angelo per otto giorni; da dove non uscì che per le molte istanze che fece al generale Oudinot la donna del suo cuore, la quale sempre lo aveva seguito. Come fu fuori dovette subito partirsene; imperocchè i vincitori tanto temevano di que' vinti che dileggiavano quali codardi ed imbelli, che gli contesero di rimanere più a lungo in città. Il Pisacane partiva per Losanna, ed imprendeva di nuovo la vita dolorosa dell'esule.

Caduta Roma, e con essa pure Venezia, la quale aveva durata una lunga e gloriosa difesa, gli uomini reggitori del movimento nazionale italiano trassero in Isvizzera; e quivi si diedero a raccogliere i fatti, a studiare le ragioni del loro esito, e, avvalorando il dire con esempi magnanimi, cercarono di facilitare quell'avvenire le cui fondamenta ormai erano state poste in Italia. Gli avvenimenti avevano dimostrato il paese educato; era adunque mestieri, non eccitarlo dopo il giorno d'una caduta, sibbene perfezionarlo, confortarlo alla risurrezione della patria. Fu a Losanna che gli Evangelisti della libertà presero stanza; e quivi, per azioni, fondarono la Società editrice, L'Unione, che ebbe un Comitato Direttore nelle persone di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Mattia Montecchi. Precipuo scopo di quella società era la stampa e la vendita di scritti scientifici, politici, religiosi e letterari, tanto italiani che esteri, i quali tendessero a mantenere e a sempre più inculcare negli animi lo spirito di libertà, di nazionalità, d'indipendenza([40]). Essa veniva anche in soccorso degli uomini che vivevano nell'esilio a qualunque opinione liberale appartenessero, col pubblicare i loro scritti, assegnando loro un equo compenso; così era ricostituita l'unità delle varie intelligenze.

L'opera collettiva iniziata in Losanna fu il giornale L'Italia del Popolo, continuazione di quello pubblicato nel 1848 a Milano e nel 1849 a Roma. Questa rassegna non ebbe programma, e dove alle prime pagine si dichiara di non proporvene alcuno, dicesi che il programma è «nella parola uscita il 9 febbraio 1849 da Roma, madre comune e centro d'unità a tutte le popolazioni d'Italia — nella missione che la tradizione e la coscienza popolare assegnano all'Italia.» Alla libera stampa devesi se l'Europa conobbe i nostri dolori, le nostre aspirazioni, le nostre guerre, i nomi dei santi che consacrarono a vittoria la nostra causa; ad essa devesi se il popolo italiano, attraverso la ecatombi politiche, portò nobilmente il lutto delle sue funeree condizioni; se la sciabola dei tiranni incontrò nell'occhio di lui quella misteriosa potenza, con cui lo sguardo di Mario inerme fece cadere il gladio di mano allo schiavo armato; ad essa pur devesi la fraterna associazione nelle battaglie, nello scopo, nella bandiera; quella persuasione all'olocausto di ogni altro concetto al sommo, l'unificazione della patria; per essa disparvero i partiti, sorse la Nazione. E quanta potenza e quanto felice successo avesse L'Italia del Popolo, ce lo dimostrano poi i pubblici fogli di quei tempi e le note della diplomazia.

La moltiplicazione di quella rassegna per mezzo di ristampe e di traduzioni fu portentosa; e il governo austriaco ne fu siffattamente atterrito che ne proibiva rigorosamente l'introduzione nelle terre a lui soggette, e condannava a cinque anni di fortezza il sacerdote Pietra Dalloca di Venezia, perchè possessore di due fascicoli dell'Italia del Popolo. Non meno dell'Austria, la Repubblica di Francia ebbe timore della veridica stampa; essa, nel settembre 1849, proscriveva il giornale, e, in sui primi del 1850, si doleva amaramente «della stampa di giornali e di libri incendiari che, a malgrado del divieto, clandestinamente entravano in Francia.» La guerra della polizia francese fu tale, che non solo venivano sequestrati i quaderni che entrassero nel territorio della Repubblica; ma, postergato ogni diritto internazionale, si sottraevano i pacchi che transitavano colla direzione per gli Stati Uniti.

Scrittori dell'Italia del Popolo erano: Giuseppe Mazzini, generale Allemandi, R. Andreini, C. Arduini, Bertani, De-Boni, Montecchi, Francesco Pigozzi, Carlo Pisacane, Maurizio Quadrio, Saffi, Pietro Sterbini, G. B. Varrè ed un Russo; non che altri, che, rimasti in patria, non fecero palesi i loro nomi.

Fondato che fu il giornale l'Italia del Popolo, il Mazzini cercò di ricostituire con una parte dei profughi italiani un'assemblea nazionale. Se non che il Governo svizzero, resosi mancipio del Radetzky, espellendo i rifugiati, dovettero questi trarre a Londra. Quivi costituiva regolarmente il Comitato nazionale italiano, in dipendenza ed in piena correlazione coll'altro, che pur colà sorse, appellato Comitato democratico europeo. Il primo era composto del Mazzini, Saffi e Montecchi; il secondo del Mazzini, qual rappresentante l'Italia, Ledru-Rollin, la Francia, Ruge, la Germania, Darasz, la Polonia. Ambi i comitati tennero sedute, e pubblicarono proclami che il giornalismo d'Europa diffuse e ripetè con molta compiacenza.

Il Comitato nazionale italiano fu d'un'attività senza pari. A mezzo di emissari fidati, di scritti criptografici, veniva in poco tempo a stabilire centri repubblicani nello stato Romano e in quello di Toscana, nei Ducati e persino nel Napoletano. Scopo dei Comitati era quello della Giovine Italia, cioè di mantenere viva nelle masse del popolo e colla voce e colla stampa la sacra fiamma di libertà; di accrescere sempre più il numero degli affiliati; di spiare, tergiversare possibilmente l'operato dei despoti; di favorire la fuga dei soci che fossero rinchiusi nelle prigioni; e di raccogliere infine somme per soccorrere quelli che giacessero nelle prigioni, e per le imprese che si sarebbero tentate in favore della libertà. Molti adepti trovò il Comitato, fra cui non pochi sacerdoti, i quali non avevano titubato un istante a scegliere fra la causa degli oppressi e quella degli oppressori, ed alcuni perfino pagarono col loro sangue l'amore di libertà, affrontando con esultante serenità, come i Martiri del cristianesimo, la morte per la fede italiana.

Le cospirazioni, ricominciate nel 1850, vennero mano mano attingendo il loro massimo grado di esplicazione; nè bastarono a spegnerle le molte vittime immolate dai governi ai loro furenti terrori. I despoti giacevano destituiti d'ogni forza morale, in mezzo ai cannoni ed alle baionette.

Il Comitato centrale aveva emesse cartelle per contrarre il prestito nazionale; quelle cedole si diffondevano dappertutto in modo meraviglioso. Tipografi e litografi, sotto gli ordini dei Comitati, supplivano all'opera clandestina della stampa nazionale, alle cui esigenze non bastavano le introduzioni che si facevano dal Piemonte e dalla Svizzera. Nè del tutto venivano neglette le armi; e le fila della vastissima trama si propagavano persino nelle schiere dell'esercito austriaco. In tali circostanze non sembrava illusione, nè temerità il seguire una politica, la quale non desiderava che quanto l'eroismo può chiedere ad un popolo. L'eccezione era divenuta regola; il cospirare era divenuto, per così dire, generale, pubblico, normale.

 

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Gli articoli di Carlo Pisacane nell'Italia del Popolo tendevano principalmente a dimostrare come riescisse fatale alla libertà l'istituzione degli eserciti assoldati, e come fosse necessaria alla conquista dell'indipendenza l'attuazione del principio militare svizzero ed americano; per cui, all'uopo, ogni cittadino sa e può essere soldato. Nello stesso giornale egli parlò dei fatti di Roma sotto il punto di vista militare, e specialmente della spedizione di Velletri.

Dopo tre mesi di sosta a Losanna, il Pisacane recavasi a Londra, dove conobbe i capi della democrazia francese ivi rifugiati. Favellando seco loro, si addentrò in que' sistemi sociali di cui egli cercava far tesoro, malgrado fossero altamente combattuti dal Mazzini ed anco oppugnati dai rifugiati italiani. Vuolsi poi che a Londra per campare la vita desse lezioni di lingua italiana e francese.

Nella prima metà del 1850 traeva a Lugano, ove ravvivò l'amicizia con Carlo Cattaneo, pel quale nutrì i sentimenti della più alta ammirazione, come colui che professava le dottrine federative. Fu a Lugano che, nella calma di cui gli fu prodiga allora quella Repubblica, egli intese a importante lavoro, quasi a conforto delle sventure in cui versava l'Italia e a dolce rimembranza dei giorni degnamente spesi a pro della patria. Egli scrisse la narrazione su La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49, che è forse l'istoria più dotta per istudi militari, e più fedele di quante se ne scrissero da amici e da nemici, da nazionali e da forestieri, intorno a quella fase dell'italiana rivoluzione. Ecco come il coscienzioso autore parla del suo libro: «Mentre una turba di scrittori, o servi di un partito ed apologisti di un uomo, o romanzieri più che storici, od ignoranti dei fatti e delle cause dei fatti, avevano completamente falsato la pubblica opinione riguardo agli avvenimenti militari di Roma, io fui il primo a parlare il vero, disprezzando i malcontenti e le suscettibilità che avrebbero sollevato il mio dire.» In questo suo lavoro egli si appalesa Apostolo di que' principi politici, filosofici e sociali, i quali formano accumulativamente il simbolo della religione razionale. In varie pagine poi comprova come vano sia l'attendersi schietto ed efficace sussidio dai principi e dalla diplomazia a promuovere la causa della rivoluzione, e come la conventuale disciplina, inflitta alle soldatesche assoldate valga assai meno del fervore proprio delle milizie cittadine a conseguire la vittoria nelle battaglie della libertà. «Tutti, proclama egli, debbono essere militi e soldato nessuno. Nelle guerre nazionali il popolo tutto deve radunarsi al campo; nè deve esservi distinzione fra il soldato ed il cittadino; per cui la guardia nazionale riesce una di quelle assurde instituzioni, figlia del dualismo costituzionale, la quale rappresenta l'esercito del popolo posto a fronte coll'esercito del desposta

Devoto ai principi della scuola razionalista e sociale, non esita a proclamare come «la miseria e la religione sieno i primi ausiliari dei despoti;» che stolto è il credere, che si possano salvare le nazioni «marciando alla guerra con l'insegna del privilegio e del cattolicismo,» e non deve fare meraviglia se la rivoluzione del 1848 fu dappertutto sconfitta, dal momento che si ebbe dovunque la dabbenaggine di far cantare il Te Deum, e benedire la bandiera dai preti cattolici; che la religione, insomma «è l'ostacolo più potente, che si opponga al progresso dell'umanità.»

Esempio poi raro a' giorni nostri, zeppi d'uomini vantatori, il Pisacane nel libro di cui parliamo non una volta registrò il suo nome, quantunque avesse, come vedemmo, operato di molte cose tanto in Lombardia, quanto durante il memorando assedio di Roma.

Parecchi mesi passò in fraterna dimestichezza con Carlo Cattaneo, Filippo De-Boni, Mauro Macchi e Francesco Dall'Ongaro: «e, scrive il Macchi, presto abituatomi alla cara consuetudine di sua compagnia, non dimenticherò mai il dolore che sentii dentro di me il giorno in cui ci diede addio, per raggiungere incognito quell'egregia signora, che aveva abbandonato la primitiva famiglia, i parenti, gli agi domestici, il paese nativo, tutto per dividere le tribolate sorti del profugo politico: tanto forte fu l'affetto che egli aveva saputo inspirarle con le rare virtù e con la gentile persona.»

Infatti sullo scorcio del 1850, stanco di vivere sotto cielo straniero, il Pisacane recavasi a Genova, ove riunito alla donna del suo cuore, che ansiosa ivi stava ad aspettarlo, approfittò di quella calma di spirito che dona la domestica pace, e che forma il più desiderabile fra i beni di questo mondo, per dedicarsi a tutt'uomo a quegli studi, dai quali era convinto potesse esclusivamente derivare il trionfo della causa nazionale. Innanzi tratto dovette tenersi celato; imperocchè il governo gli negava di poter rimanere in Genova; ma tanto vi restò che alfine ne ottenne l'adesione. E allora, per accudire con minori distrazioni possibili agli studi suoi, ritirossi ad abitare fuor di città sull'ameno colle di Albaro, dove era soltanto visitato dai più intimi amici.

Nel 1851, il genovese editore Giuseppe Pavesi accettava di fare di pubblica ragione il libro su «La guerra combattuta in Italia»; vi si apponeva quest'epigrafe: «Le rivoluzioni materiali si compiono allorchè l'idea motrice è già divenuta popolare.»

II Pisacane era uomo logico, franco ed integro; onde alle convinzioni sue coscienziosamente conformava le opere; e non solo s'asteneva da ogni pratica cattolica; ma quando, nel 1853, gli nasceva una bambina, l'unica che gli sopravviva, si ricusò di portarla alla chiesa per le consuete cerimonie lustrali, e di farla inscrivere su i registri clericali. «In quella vece, scrive il Macchi, ricorse all'opera ben più competente di un pubblico notaio, dando così l'esempio di una condotta, che, ove fosse imitata, varrebbe più d'ogni altra cosa ad accelerare lo scioglimento del problema religioso, il quale pesa, come incubo, su l'età nostra. Sì, ad accelerare il trionfo del Vero, più d'ogni propaganda filosofica, varrebbe il proposito in ogni cittadino, che abbia perduta la fede nella mitologia papale, di non permettersi alcuna pratica, che sia propria dei credenti, come, per umani riguardi, finora troppo spesso succede([41])

Il Pisacane aveva allora la ferma idea che non si dovesse dar mano a congiure, e a promuovere insurrezioni, ove prima non si fosse guadagnato nelle moltitudini coll'apostolato della parola, non solo il consenso degli animi, ma eziandio l'effervescenza degli spiriti, in favore di quel principio, che si vorrebbe sostituire all'ordine attuale. «Senza di che, scriveva egli, il dar di piglio alle armi solo per obbedire alla parola d'ordine di un caposetta, riesce un vero maleficio.» A poco a poco però, dovette riconoscere quanto la voce della stampa liberale avesse operato nelle masse, educandole ai sentimenti di patria e di libertà, eccitandole ai più nobili sacrifici. E se non ammetteva pienamente che il principio dell'unità fosse passato nel petto d'un intero popolo, tuttavia riputava esistere da noi la rivoluzione morale. Quando poi pensava ai dolori d'Italia, alle sue vergogne, ai suoi doveri, l'anima di lui si intendeva con quella del Mazzini in un solo palpito d'opere generose. Infatti non tardava guari a gettarsi nel partito d'azione; e ciò che innanzi tratto dannava, ammetteva poscia, scrivendo, che «la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese, è quella di cooperare alla rivoluzione materiale; epperò cospirazioni, congiure, tentativi, ecc., sono quella serie di fatti attraverso cui l'Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano (Agesilao) fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari.»

I vari tentativi dei patrioti per iscuotere il giogo di servitù, comechè falliti, non furono in fatto giammai sterili. Imperocchè, come altrove dicemmo, dando luogo per parte dei tiranni a persecuzioni ed a morti, queste non facevano che sempre più accrescere la fede politica, la quale si andava dilatando dall'un capo all'altro d'Italia.

Carlo Pisacane facendo tesoro di molte buone letture nel romitaggio d'Albaro, meditò anco e scrisse i Saggi-storici-politici-militari sull'Italia, che divise in quattro saggi: 1° Cenni storici — 2.° Cenni storici militari — 3.° La rivoluzione — 4.° Ordinamento dell'esercito italiano. «Il bisogno, egli dice, di formarmi un convincimento che essendo norma delle mie azioni, fra il continuo mutare degli uomini e delle cose, mi avessero mantenuto sempre nel medesimo proposito, fu la cagione principale che mi determinò a questo lavoro.»

Quantunque terminasse il nuovo libro nel 1855, e se ne fosse potuto conoscere il valore da alcuni frammenti che vennero inserti, invia di appendice, in un giornale genovese, giacque pur tuttavia per ben tre anni inedito, non essendo riuscito mai quel valente uomo a trovare un editore che avesse voluto assumersi l'incarico di pubblicarlo. E chi sa per quanto tempo sarebbe stato ad esso negato l'onore della stampa, se, in seguito alla catastrofe che al Pisacane tolse la vita, non si fossero accinti a procurarne la pubblicazione i tre concittadini commilitoni, Mezzacapo, Cosenz e Carrano, «i quali, scrive il Macchi, intesero con ciò di adempire due debiti; l'uno di porre ad atto l'ultima volontà dell'autore: l'altro di offerire agli amanti d'Italia, qualunque sia la loro opinione, opportuna occasione di dare una testimonianza di affetto all'ingegno ed al valore di un illustre Martire della libertà italiana.»

L'opera era principiata in Genova (Stabilimento tipografico nazionale, 1858); ma sembrava che una fatalità pesasse su di essa; chè, terminata la prima parte, non potè più essere proseguita. Fu nel 1860, che l'avvocato Enrico Rosmini, amicissimo del martire e della famiglia, pensò di proseguire la pubblicazione degli scritti del Pisacane, e lo fece coi tipi di Pietro Agnelli di Milano. — Il Rosmini si accinse alla stampa per fare cosa grata alla famiglia dell'illustre patriota e rendere come meglio poteva omaggio alla gloriosa memoria di lui.

Trovando molta riluttanza negli editori genovesi, il Pisacane non ebbe amore ad ordinare il suo scritto; e come egli stesso nel Testamento politico ricorda «non lo condusse a forbitura di stile.»

Oltre agli scritti di cui abbiamo parlato, due altri se ne hanno del Pisacane, ove non si voglia pur computare una viva polemica che da Genova sostenne col generale Roselli, quando questi pubblicò le sue Memorie intorno ai fatti militari di Roma, la quale trovasi inserta nel giornale La voce della Libertà (settembre 1853, n. 260, 261, 262). Il Roselli si mostrava offeso nelle Memorie per averlo il Pisacane ne' suoi scritti detto debole, e per aver dichiarato che la sua debolezza fu causa di errori. Se il generale si fosse accontentato di mostrare come quegli si fosse ingannato, e in quelle circostanze non si potesse usare severità, il Pisacane non gli avrebbe certamente replicato; ma non entrando in franca discussione, accusandolo di mala fede, e dichiarando che si era espresso così sul conto suo per trarre qualche opinione più favorevole a sè dal pubblico, egli non poteva tacere.

Il Pisacane fu tra i primi che combatterono le pretensioni del Murat al trono di Napoli, mediante due scritti. Il primo, che ha per titolo Italia e Murat, fu pubblicato nel giornale il Diritto del 1855; n. 225, ed è firmato di conserva con altri emigrati politici delle provincie meridionali; l'altro intitolato Murat e i Borboni è individuale; e venne innanzi tratto inserto nell'Italia e Popolo del 1856, n. 263; indi diffuso dall'Autore nel settembre di quello stesso anno pelle provincie meridionali. In questo articolo il Pisacane cercava dimostrare i danni arrecati a quelle regioni dall'occupazione del Murat, e le sevizie patite da quanti erano ivi amatori di libertà, ammonendo così ognuno a non prestar fede alle promesse dello straniero.

Nel 1856 Carlo recavasi nuovamente a Genova, ove si dava ad insegnare le scienze matematiche, presso alcune famiglie di amici; se non che, nè al merito nè al buon volere rispondeva fortuna; e mentre a molti abbondava il superfluo e di che profondere in lascivie ed in crapule, a lui, che per la patria aveva dato il sangue, ed era pronto a dare la vita, a lui degno, per virtù e per dottrina, di laude e di premio, appena appena riusciva con molta fatica a procacciarsi il sostentamento. Alfine otteneva l'incarico di fare gli studi d'una ferrovia da Mondovì a Ceva; ed ancora i Monregalesi conservano tuttodì dolce memoria di lui.

 

IV.

 

Il 15 maggio 1849, anniversario delle carnificine di Napoli, le soldatesche del Filangeri, in numero di diciasettemila uomini, entravano in Palermo. Così, dopo aver difeso a palmo a palmo i terreni su cui sventolava la sacra bandiera e avervi lasciato di molte vittime, la rivoluzione siciliana veniva assopita. Il principe di Satriano e il Maniscalco, il primo traditore, il secondo feroce, furono destinati da Ferdinando a conculcare quel popolo generoso; ed essi risposero in modo di appagare le ferine brame del padrone. Alcuni arditi giovini sdegnarono soffrire le verghe di quei due truculenti sgherrani del dispotismo; e il 27 gennaio 1850, gridando libertà, insorsero alla Fiera Vecchia. Il popolo era stanco della lotta sostenuta; desso, alla vista della bandiera tricolore, non seppe trovare l'antico siculo entusiasmo; la forza accorse; sei di quei giovini furono arrestati; e il domani, nel luogo istesso dell'insurrezione, vennero fucilati. Così al martirologio italiano furono aggiunti sei nomi, e fra questi quello di Nicola Garzilli, giovine avvocato, nelle lettere e nelle scienze versatissimo, di mente sublime, di cuore impareggiabile.

Dopo il martirio di quegli eletti uomini, si formò una società segreta, che fu appellata Associazione unitaria italiana, la quale, inspirandosi nel Comitato di Londra, aveva per iscopo di costituire in tutti i comuni dell'Isola Comitati filiali, e di mantenere sempre acceso nel popolo l'amore di libertà, di raccattare danaro per la causa del riscatto, e di tenere la Sicilia avvinta al grande rivolgimento italiano che preparava la democrazia. Il truce direttore di Polizia Maniscalco venne verso il 1854 a capo di scoprire alcune fila della trama; egli fece trarre, carichi di ferri, nelle prigioni di Palermo i più audaci dell'Associazione, i quali vi languirono fin sullo scorcio dell'agosto 1856. E pure allora non ebbero piena libertà; imperocchè il Maniscalco, posto in sulle guardie dai tentativi d'insurrezione che venivano di quando in quando succedendosi in parecchi punti, della Penisola, si faceva disprezzatore d'ogni regola di morale e di giustizia, e li condannava arbitrariamente a domicilio forzoso sotto la vigilanza immediata della Polizia.

All'alba del 23 novembre 1856, il barone Francesco Bentivegna di Corleone, Salvatore Spinuzza di Cefalù ed altri elettissimi patrioti inalberavano in Taormina la bandiera della libertà. Non risposero alla santa chiamata che Mezzoiuso, Ciminna, Villafrate, Ventimiglia e Cefalù: muti rimasero gli altri paesi di Sicilia. Non si perdettero tuttavia di coraggio i capi dell'insurrezione, e quantunque le soldatesche regie, comandate dai tenenti-colonnelli Marra e Ghio, in forte nerbo, e un distaccamento di guardie rurali, specie di guardaboschi, capitanate dal sindaco di Belfrate, si scagliassero contro di essi, si difesero strenuamente per alcuni giorni, facendo pagare cara ai Borbonici la vittoria. Il Bentivegna, Spinuzza, Luigi Pellegrino di Messina, i fratelli Nicola e Carlo Botta, Alessandro Guarnera e Andrea Maggio di Cefalù, Francesco Bonafede di Gratteri ed altri cadevano nelle mani dei vincitori. I palermitani Luigi La Porta e Francesco Riso, il trapanese Mario Palizzolo e Vittorio Guarnaccio di Mezzoiuso con pochi riuscirono a sfuggire dalle loro mani; alcuni di questi poterono imbarcarsi per l'estero.

«Mi disseterò nel sangue dei rivoluzionari» sclamò il Maniscalco, allorchè erasi in ogni luogo soffocata l'insurrezione; e re Ferdinando disse contento: «La diplomazia ammirerà anco una fiata la sagacia e la fortezza del mio governo.» Se non che gli sguardi d'Europa tutta si rivolsero verso la sicula terra; la stessa diplomazia pronunciò parole di compassione; e Ferdinando e Maniscalco capirono che ove si fosse versato molto sangue, sarebbero stati messi al bando dei popoli, avrebbero suscitato il corruccio di qualche potenza. Tuttavolta vollero sangue. Francesco Bentivegna e Salvatore Spinuzza, il primo per sentenza d'un consiglio di guerra, il secondo per quella della Corte marziale, erano fucilati il giorno 7 dicembre 1856. Altri venivano pur condannati a morte; ma rimessi alla clemenza sovrana, la loro pena era commutata in diciott'anni di ferri nell'orrido ergastolo di Favignana, o nella così detta fossa di Santa Caterina([42]). Tutti gli altri, fatti pur segno dall'ira del despota, venivano confinati per anni nelle più anguste prigioni a vivere vita miserrima.

Francesco Bentivegna apparteneva sì ad un'illustre famiglia, ma era popolano di cuore. Natura lo dotava di anima ardente ed avversa ad ogni tirannide. L'odio alla dominazione borbonica era in lui un furore. Cospirò, e combattè per la libertà. Nella prigione, parlò poco, pensò molto; senonchè la sua fronte fu sempre serena, l'anima tranquilla, il cuore speranzoso della libertà italiana. Colà ebbe la visita della vecchia madre e d'alcuni amici. Prima di morire chiese un sorso di caffè; non volle essere bendato, e, scopertosi il largo petto, cadde ucciso dalle palle del Borbone, gridando Viva l'Italia!

Salvatore Spinuzza aveva mente avida di sapere, animo pietoso verso i bisognosi che spesso lo circondavano. Niuno abborrì più di lui il dispotismo, niuno più di lui amò la libertà. Le carceri, le incessanti sevizie, le scellerate persecuzioni di alcuni suoi concittadini non gli fiaccarono l'animo, non ne indebolirono i forti propositi. Giovane eroe, lo Spinuzza cadeva quando la patria abbisognava del sangue dei suoi figli.

Non erano quasi scorse ventiquattr'ore dacchè il Borbone si bruttava del sangue di que' due generosi, quand'egli impallidiva innanzi alla baionetta di un giovine soldato.

Per antica costumanza, il giorno otto dicembre, Ferdinando doveva passare una grande rassegna al campo di Marte. Meglio di venti mila uomini, comandati dal tenente-generale Del Carretto, erano sotto le armi. Il re, circondato da numeroso stato maggiore, si recava al campo. Sfilavano i battaglioni di fanteria, quand'ecco dalla 7a compagnia del 3° cacciatori, irrompeva un soldato; che, novello Scevola, con baionetta spianata, con passo fermo, moveva innanzi al tiranno, lo colpiva alla coscia, ritornava alla percossa ed avrebbe triplicato il colpo, se il conte don Francesco della Tour, tenente-colonnello degli Usseri della Guardia Reale, veduto il fatto, non si fosse spinto col cavallo sul soldato e stramazzato non lo avesse al suolo([43]).

Quel cacciatore era Agesilao Melano o Milano. Aveva sortito la vita nel 1830 da civile famiglia nel comune di San Benedetto Ullano, nella Calabria Citra, uno dei villaggi appartenenti alle colonie greche. Lo studio delle lingue e delle storie antiche gli aveva nutrito di buon'ora un pronto ingegno ed infiammato il nobilissimo cuore. Fin da giovinetto gli apparvero meravigliosi gli eroi delle Repubbliche di Grecia e di Roma. Ogni loro detto e fatto gli diventò famigliarissimo; di tutta la sapienza antica fece tesoro nella mente. Questo amore per le forti virtù e per la grandezza degli antichi uomini liberi si accrebbe in lui nel collegio Italo-Greco, ove recavasi a compire gli studi. Essendo scritto sul suo petto:

 

«Il giusto, il ver, la libertà sospiro»

 

non poteva non mostrarsi qual fosse a' professori, mancipi del despota. Le libere aspirazioni altamente esternava; cercava infonderle ne' compagni. Ferdinando non sopportò tale propaganda, e in sull'aprire del 1848 lo fece espellere dal collegio.

Da quel giorno in poi Agesilao prese parte attivissima alle società segrete, e cospirò quanto più potè alla cacciata dei Borboni da Napoli; e più d'una volta, facendo pur parte di bande insurrezionali, si trovò in conflitto colle soldatesche del re. Un dì giurò di togliere dalla terra quest'inumano uomo, e per meglio accostarlo, cinto e ricinto com'era di baionette, nel maggio del 1856, si inscriveva fra le reclute dell'esercito, e veniva destinato al 3° battaglione cacciatori, settima compagnia. Nel servizio militare si mostrò puntualissimo; ma cercò sempre di tenersi lontano dai compagni. Il dì della parata della Concezione, fu da lui fissato per trarre a compimento il fatto disegno. La vigilia gli annunciarono che non farebbe parte della rassegna. Agesilao si recava dal capitano Testa; e tanto pregava che ne otteneva facoltà. Come fu gettato a terra dal tenente-colonnello della Tour, a cui, per tal prodezza, venne conferita la croce del R. Ordine di S. Ferdinando e del Merito, corsero in un battere d'occhio molti gendarmi e soldati, i quali richiesero al Milano perchè avesse voluto tentare la vita del re: esso imperterrito rispose loro: Per liberare la terra da quel mostro. A questa risposta per piacere a Ferdinando volevano i soldati ammazzare Agesilao sul luogo. Ma il re disse: Lasciatelo stare; e fu consegnato ai gendarmi, che lo scortarono dal campo di Marte alle prigioni in una carrozza.

Il Consiglio di guerra del corpo, a cui presiedeva l'aiutante Pianell, venne tosto riunito. Questo gli fece soffrire ogni orribile tortura perchè svelasse i complici. Rispose «aver solo a complici le nefandità del Borbone.» Lo torturarono ancora in modo che più non consentono essere narrati. «Io non ho altri complici che i delitti del Borbone, rispondeva sempre alle reiterate domande.» Il Milano aveva fatto parte anco della gran rassegna che il re costumava ordinare pel dì 8 settembre. Il Consiglio lo interrogò perchè non avesse attentato alla vita del re in quel giorno; al che egli rispose: «Il Borbone passa allora la rivista in carrozza, io avrei dovuto tirargli una fucilata, e colpire un altro in sua vece, mentre colla baionetta era sicuro del fatto mio.» Interrogato se fosse pentito dell'azione, disse che «se avesse potuto ripeterla l'avrebbe eseguita volentieri.» Vedendo come null'altro potevasi strappare dalle labbra del fiero soldato, il Consiglio dannavalo alla forca col quarto grado di pubblico esempio.

Il dì 13 dicembre 1856, alle dieci e mezza, dopo la degradazione militare, il Milano, vestito dell'abito di forza, a piedi scalzi, con appeso al petto un cartello che lo qualificava parricida, doveva salire l'infame gibetto, eretto nel largo detto Cavalcatoio fuori Porta Capuana. Egli vi trasse ritto, senza impallidire, nè senza jattanza; morì gridando: Viva l'Italia! Narrasi che tanto eloquente mostrossi in materie religiose, che i due frati che lo assistettero negli estremi istanti l'udivano senza fiatare ed avevano cera di penitenti a fronte del condannato.

L'anima di Agesilao Milano era pura, gentile come quella di fanciulla non mai uscita dalle braccia materne, innamorata della virtù, d'ogni bella magnanima cosa. Come sì fiero proposito vinse Agesilao? Contemplando il lagrimoso spettacolo della sua patria, non iscorgendo che la potente ingiustizia, non udendo che singulti e gemiti, il suo cuore sentì le angosce di tutti; credette in Ferdinando il sostegno e la causa di tante calamità, la sua coscienza condannò quel monarca, e consacrò sè e Ferdinando alla morte([44]).

Napoli al tristo fato di Agesilao si commosse, e volle, nella mattina in cui doveva essere condotto all'estremo supplicio, dimostrarlo coll'unico atto che le fosse permesso. Come d'antico costume, i confratelli di Vertecoeli, un'ora prima che si annunciasse l'aurora, si posero ad andare intorno per la città, chiedendo con voci pietose l'obolo per celebrare la messa a suffragio del condannato. Mai elemosina non fu più abbondante; mai non così spontanea, generale. Non vi fu finestra che non si aprisse al grido della santa messa; cittadini d'ogni classe gareggiarono a chi più avesse potuto gettare di danaro nella borsa dei confratelli. Altri fatti da non tacersi sono i seguenti:

In Napoli vi ha un cimitero, il quale conta trecentosessantacinque fosse; una appunto per ogni giorno dell'anno. È il cimitero dei poveri e dei giustiziati. Ogni giorno si dissuggella il coperchio di una di quelle fosse. All'indomani suggellano la fossa di ieri e ne aprono un'altra, e così sempre. Avvenne che il giorno dopo in cui Agesilao Milano fu giustiziato e sepolto, i becchini, venuti in quel cimitero a dissuggellare altra fossa, trovarono che quella che avevano suggellata il giorno prima era riaperta. Esterrefatti si peritano da prima ad affacciarsi alla buca, poi si appressano, vi guardano dentro, e scorgono che il cadavere di Agesilao era stato nella notte involato da quel luogo d'ignominia. Dicono che riferito il fatto al Borbone ne avesse immenso terrore. La sua polizia, ed era famosa, frugò, perquisì uomini e case, sguinzagliò tutti i segugi; le migliaia di spie ebbero ordine di scoprire, di trovare almeno un indizio. — Trovarono niente! E sì che un cadavere non è cosa che sia facile ad essere trafugata, ed agevole a celarsi.

La salma di Agesilao era stata collocata in onorato sepolcro.

La viltà e la paura auspicavano al Borbone perchè era rimasto salvo nella vita. Bassi ed alti cortigiani proposero di innalzare sul luogo una cappella alla Vergine in rendimento di grazie; ma il Dio delle giustizie volle che il religioso edificio rimanesse incompiuto. Frattanto che i più s'inchinavano davanti al fortunato superstite, un signore, vestito a corrotto, si recò ad una delle principali e più frequentate chiese di Napoli. Domandò del parroco e gli disse che avendo perduta persona a lui molto cara, e ne portava il lutto, desiderava che piamente le fossero fatti splendidi funerali, non badare a spesa di sorta, volere anzi pagare subito, ma la chiesa al domani fosse tutta a gramaglia, con molto decoro di ceri, di musica, ed una messa solenne fosse cantata per suffragare il defunto che egli piangeva. Il parroco chiese allo sconosciuto signore chi fosse il suo parente. A questa domanda l'interrogato rispose con un singhiozzo e tergendosi una lagrima; e poi, quasi come chi sopraffatto da una grande passione non possa più proferire parola, tratta una borsa di denaro la pose nelle mani del prete dicendogli. «Per lei e pei poveri.» E s'incamminò. Ma poi sovvenendosi come di cosa dimenticata, ritornato indietro, disse: — «Reverendissimo, non pensi al catafalco, che a questo ho già provveduto; ella faccia parare la chiesa, e domani un'ora prima verranno alcuni operai a rizzare la tomba dipinta a nuovo.» E partì.

Il reverendo rimase a contemplare la borsa, che era molto pesante, e, fingendo commozione, disse: «Quel povero signore è tanto addolorato che bisogna gli sia morto qualche stretto congiunto, o padre o madre.» Il domani la chiesa era parata di nero. — Vennero alcuni operai, portando tavole e telai dipinti cogli emblemi delle tombe, e drizzarono nel mezzo un semplice ma alto e decoroso catafalco. Figurava una tomba di marmo bianco a quattro lati. — Agli angoli quattro statue velate. Nei campi nessuna iscrizione, nessun nome. All'ora convenuta si accendevano i cerei, e la messa incominciava. Nell'istante solenne in cui le gravi note dell'organo intuonavano il Deprofundis, le pareti della tomba, per un lume interno, diventavano trasparenti, ed apparivano ai quattro lati, scritte in rosso, le seguenti parole

AD AGESILAO MILANO

SOLENNI ESEQUIE.

Chi vi dirà il terrore dei preti! Fu fatta ricerca dello sconosciuto; ma non fu mezzo a ritrovarlo.

Finchè in Napoli durò il governo dei Borboni, gli spasimi di Agesilao continuarono, anche oltre la tomba, su tutti i congiunti, su tutti quanti egli aveva avuto cari. Il Dittatore Garibaldi, come fu a Napoli esercitò un atto di giustizia, ricordando con una pensione la famiglia Milano.

Ecco il decreto pubblicato in settembre nel 1860:

 

«Considerando sacra al paese la memoria di Agesilao Milano, che con eroismo senza pari s'immolò sull'altare della patria per liberarla dal tiranno che l'opprimeva, decreta:

1. È accordata una pensione di ducati trenta al mese a Maddalena Russo, madre del Milano, vita durante a contare dal primo ottobre prossimo;

2. È accordata una dote di ducati duemila per ciascuna delle due sorelle del detto Milano. Questa somma sarà investita in fondi pubblici a titolo di dote inalienabile, e consegnata alle dette sorelle nel corso del prossimo ottobre.»

 

Questa pensione allarmò l'animo dei pusilli, e taluni dissero che il Dittatore premiava con pubblico decreto il regicidio. Da alcune città d'Europa si levò un grido di riprovazione, e molti pensarono che il Garibaldi avrebbe dovuto accordare quella pensione privatamente e senza un pubblico decreto. Francesco II, dalle mura di Gaeta, protestò formalmente presso tutte le corti d'Europa, e fece udire al corpo diplomatico come quelli che reggevano a Napoli la somma delle cose giungessero a tanto da decretare una pensione alla madre ed alle sorelle d'un regicida. Ma non fu immoralità, nè feroce sentimento che spinsero il Garibaldi a sottoscrivere quel decreto, sibbene odio alla tirannide, sentimento di riconoscenza, virtù che in lui primeggia verso chi ha dati tanti belli esempi di sacrificio per vedere infranti i secolari ceppi della patria. Egli non premiava il regicida; ma volgeva un pensiero ad una povera famiglia, che, fatta bersaglio all'ira d'un despota, conduceva fra gli stenti una vita che fu sì cara al povero Agesilao.

Con grande soddisfazione delle corti d'Europa e dei retrivi quella pensione non doveva essere pagata per molto tempo. Non erano quasi scorsi due mesi, che il Governo di Torino ne abrogava il decreto, gettando la famiglia Milano in quella miseria da cui un atto benefico l'aveva sottratta. Esso decretava invece pensioni ai Ghio, ai Marulli, ai Marra, agli Spanzilli ed altrettali borbonici uccisori di libertà.

In Torino, nel 1857, un artefice di cuore ritraeva le sembianze di Francesco Bentivegna e di Agesilao Milano sopra una medaglia che qui riproduciamo; e l'avv. Giuseppe Del-Re, emigrato napoletano, scriveva un Carme intitolato Agesilao Milano([45]).

 

 

I fatti che si svolgevano in Sicilia ed in Napoli commossero altamente l'animo di Carlo Pisacane che traboccò poi di sdegno, quando il Borbone, rifatto dalla paura, e reso vieppiù esacerbato dall'esplosione di una polveriera e di una fregata per opera del Comitato napoletano, volse l'animo alle maggiori repressioni, perseguitando perfino i vecchi, le donne e i fanciulli([46]). Terenzio Mamiani aveva detto: «un tiranno che opprime il suo popolo, le sacre carte confermano il popolo nel sacro diritto di spegnerlo.» Vincenzo Gioberti aveva detto, piangendo su i generosi Bandiera, che «meglio invidiava la loro sorte che la potenza di re Ferdinando.» Il Pisacane pensò di proposito a siffatte sentenze, e si convinse che la salute e la salvezza della patria stava appunto in ciò che prima aveva gridato cagione di sua rovina.

Fin da quando era in Albaro, aveva strette relazioni di congiure e di arditi disegni col Comitato Nazionale che era in Napoli. Allora si poneva d'accordo col barone Giovanni Nicotera, il quale aveva preso già parte a congiure. Esso abitava in Torino; quivi si recava il Pisacane nei primi giorni di maggio del 1857, proponendogli un assalto improvviso sul napoletano; e a renderlo certo della riuscita gli mostrava lettere del Comitato. Il Nicotera aderiva. Con lui ed altri emigrati, fra i quali Giovanni Battista Falcone, si concretavano i mezzi per una spedizione, e veniva stabilita. Il Pisacane accettava di assumerne il comando, che a lui, come a quello che di militari discipline era peritissimo, affidavano gli uomini dell'emigrazione napoletana residente in Genova, e del partito d'azione.

Il Nicotera veniva nominato luogotenente del Pisacane. Egli aveva 29 anni; era nato in San Biaso dal barone Felice. I primi suoi studi li fece nel collegio di Catanzaro, ove Luigi Settembrini gli aveva dato lezioni di belle lettere; studiò quindi l'avvocatura. Benedetto Musolino, suo zio materno, capo della Giovine Italia nella Calabria, lo aveva affiliato all'associazione mazziniana. Era stato nella cospirazione e nella rivoluzione in cui perdettero la vita Domenico Romeo, Pietro Mazzoni e Gaetano Ruffa ed altri nel settembre 1847. Nell'anno 1848, si distingueva nel campo di Spezzano con altri prodi Calabresi; fu poi a Roma nel 1849([47]); quindi emigrò a Torino. — Prese parte a varie congiure, e nel 1856 veniva incaricato dal Comitato Nazionale di Napoli di recarsi in Sicilia per valutare il movimento tentato dal Bentivegna.

Prima di operare volle il Pisacane di persona chiarirsi dello stato delle contrade meridionali e degli animi. Affidandosi ad un passaporto e alla lingua inglese, che parlava perfettamente, in sullo scorcio del maggio 1837, penetrava in Napoli, si affiatava con parecchi amici, dai quali aveva l'assicurazione che il paese trovavasi in condizioni tali da insorgere in un solo pensiero al benchè lieve impulso. Teodoro Pateras, Luigi Dragone e Giuseppe Fanelli, dei più fervorosi del Comitato, gli facevano inoltre solenni promesse di aiuti d'uomini e di danaro; ma avrebbero desiderato tempo ancora. Se non che il Pisacane, allettato dalla speranza che forme atletiche avrebbe preso l'insurrezione allo sbarco di gente armata, non accondiscese a procrastinare l'esecuzione dello stabilito disegno, e pregò il Comitato ad affrettarne le disposizioni. Egli era convinto che si dovessero, avanti tutto, rivolgere gli sforzi alle terre del Cilento, terre di poesia, di memorie di sventure. Ivi la libertà era sempre stata tenuta in pregio, e i Cilentani per acquistarsela non avevano perdonato nè a fatiche, nè a pericoli. Il carcere, l'ergastolo, l'esilio, il capestro, furono i mezzi che la tirannide sempre usò per ispegnere nel loro cuore la fiamma di libertà; ma dessi, anzichè spegnerla, non avevano fatto che ingrandirla e nobilitarla. A ragione il Pisacane poteva avere certezza di pronti e potenti mezzi rivoluzionari.

Ecco quanto ci scriveva (1864) il Nicotera sugli accordi del Pisacane col Comitato napoletano: «Innanzi operare, Carlo scrisse in diretta corrispondenza col Comitato di Napoli, ed ebbe da questo le più larghe assicurazioni che il paese trovavasi in condizioni tali da sorgere in un solo pensiero al benchè lieve impulso. Un tal Pateras gli rimetteva un così detto piano militare, che in verità muoveva il riso, che diceva studiato da lui in un viaggio nelle provincie di Salerno e di Potenza (si è verificato poi che il Pateras non era mai stato in quelle provincie); ed un certo Giuseppe Fanelli assicurava che tutti i quartieri della città di Napoli erano preparati ad insorgere; che si era praticata una mina sotto la caserma degli Svizzeri, e dava come possibile la sorpresa di Sant'Elmo; per le quali cose si chiedeva un capo militare che fu scelto nella persona di Enrico Cosenz.»

Sapri fu il punto fissato per lo sbarco, e il giorno della partenza da Genova il 13 giugno dello stesso 1857; la spedizione sarebbe stata aiutata da tentativi che il Mazzini avrebbe arrischiati su Genova e sulla Toscana. Il giorno 9, il palermitano Rosolino Pilo, altro dei congiurati, faceva collocare in una paranzella alcune armi, e, accompagnato da venti giovani, partiva dalla spiaggia. Il Pilo doveva rimanere in mare, sempre al largo una trentina di miglia, verso Portofino, sino al giorno 13, e a un dato segno, trasportare le armi sul piroscafo che si sarebbe sequestrato. In que' quattro giorni di attesa il mare si fece burrascoso in modo che il giorno 12, il Rosolino dovette gettare le armi in acqua e retrocedere in Genova. Il Pisacane rimase colpito alla notizia; riflettendo come l'accaduto potesse essere causa di serî inconvenienti, decise di partire subito per Napoli per avvisarne il comitato, e con esso combinare il tutto per un altro giorno. Egli si servì per giungervi del passaporto che era stato preparato per Cosenz, il quale, arrivato a Genova, mutò pensiero, e dichiarò di non volersi più portare in Napoli. Il Pisacane quivi stette sino al giorno 15, dopo d'aver tutto concertato col Fanelli, e preveduto perfino i disappunti.

Diamo luogo alla corrispondenza che tenne Pisacane in allora, la quale dà maggior luce a quella sventurata spedizione.

Lettere del Pisacane a Nicola Fabrizi, scritte in casa del socio Dragone.

 

14 giugno 1857.

 

Procedimento energico del lavoro in Napoli, mediante gli aiuti pecuniarii che potranno ottenersi; ricezione o compra di armi, scegliendo il mezzo più pronto. Lavoro in Basilicata sospingendola all'iniziativa, al più presto con spedire i capi, se li domandano. — Continuare la pratica con le isole, nel modo il più sollecito possibile. Coi moderati evitare ogni discussione, procedendo sempre ad assimilarsi gli elementi d'azione, ed evitando ogni discussione di principî, opponendosi occultamente con ogni mezzo alle dimostrazioni. Cedere alle loro pretese di ammettere il grido di Costituzione (perchè l'avvenire è nostro) nel solo caso che da questo dipendesse il fare o il non fare immediato. Contare sempre, non come condizione indispensabile, ma come spinta (se necessaria) il progetto delle isole, o uno sbarco di una cinquantina d'armati. Un proclama pei cittadini e per la truppa, una specie di dichiarazione di principî d'affiggersi sulle mura nel momento dell'azione. Spedire una barca nelle acque di Pantelleria, con segnali convenuti, avvertirne a Niccola, comunicargli i segnali, acciocchè spedisca in quelle acque le armi.

 

———

 

Napoli, 14 giugno 1857.

 

Amico carissimo. — Ho abbracciato i nostri ottimi amici, io mi recai qui in Napoli temendo che la disgrazia sopravvenuta([48]) avesse prodotto una catastrofe, dalla quale io non voleva, nè doveva essere immune; ma fortunatamente la disgrazia avvenuta non ha prodotto altri danni, se non quello della cosa stessa mancata. Ho visto tutti, ho parlato con le cime, con coloro dai quali dipende l'azione, ho trovato una grande quantità di ottimi elementi e più di quello che assicurava il coscienziosissimo Kilburn([49]), manca, come egli dice, un centro interno a cui questi elementi potessero indissolubilmente rannodarsi, ma non ci è mezzo per crearlo, è da questo male che dipende la esuberante individualità, non vi è che un sol rimedio, che il nostro operosissimo amico si tenga strettamente unito con costoro, e si accrediti presso di loro coi mezzi di cui noi dobbiamo fare ogni sforzo per fornirlo; egli lo può; avveduto e modesto come è speriamo riuscire. Ci abbiamo segnata una linea di condotta, abbiamo calcolato più o meno quello che potrà bisognare, il tempo necessario, il modo d'iniziare, e ora è d'uopo che io e lui prefigendoci come scopo lo stabilito, pieghiamo come si dovrà alle circostanze. Io sperava senza verun impulso ottenere una immediata iniziativa, ma è stato impossibile([50]). Riguardo ad armi abbiamo stabilito così: egli farà partire una barca inviandola nelle acque di Pantelleria con stabiliti segnali; tu avuti questi segnali farai partire immediatamente armi, e le dirigerai nel medesimo punto, ove avverrà il trasbordo. Se questo non potesse avvenire, se tu non trovi il mezzo, come inviarle, ed egli come riceverle, allora, previo consenso di Mazzini, io crederei che la miglior cosa sarebbe di vender tutto e spedire il danaro a Kilburn che gli sarà assai più utile che le armi depositate in Malta, giacchè con danaro si faranno cose molto utili, anzi decisive, e si avranno anche armi. Io domani parto per Genova; non so cosa sia avvenuto dopo la mia partenza; è inutile dirti con quanta ansietà sono su tale riguardo. Ti prego dire a Calona che ho tutto ricevuto, che lo ringrazierò, ma che non ho avuto tempo di farlo.

Addio.

 

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Il Pisacane, ritornato a Genova, si occupò subito della spedizione, e al Comitato di Napoli scrisse la seguente lettera.

 

Genova, 23 giugno 1857.

 

Amico carissimo. — Trovai come aveva già previsto, o immediato manopolio qui, o rifare il mancato. Il materiale era stato rimpiazzato non già così abbondante come il perduto, ma più di quello che io sperava. Gl'indugi impossibili per ragioni troppo lunghe ed inutili a dirsi. Io ho accettato, e perchè accetto sempre quando trattasi di fare, e perchè son convinto che questo è l'ultimo gioco che per ora si farà; e se mai non cercheremo trarne il profitto possibile faremo tale errore che verrà scontato con lunghissimo sonno. Noi ci siamo intesi su tutto. Il giorno appresso alla partenza, sarà spedito il dispaccio a Derrata, se non ricevo da voi altra indicazione. Quindi bisognerà prevenirlo, ed appena giunto fare immediatamente quello che vi ho suggerito sul rapido cenno su Napoli. Come ancora è cosa urgentissima, nel ricevere questa mia, se ieri non ne avete ricevuta un'altra, che ho spedita all'indirizzo, di fare il possibile onde quelle medesime persone si trovassero a quel medesimo luogo, e che il nostro amico (Pateras) si portasse immediatamente in Basilicata, attenendosi a quanto fu convenuto fra noi. Vi rimetto lo scritto da affiggersi, che io avrò stampato, e che se potrò inviarvene un certo numero lo farò, ma sembrami cosa molto difficile. Or vado a dirvi ciò che io spero dalla vostra lettera che debbo ricevere.

1.° Indicazione più precisa per l'invio del dispaccio, sia alla stessa persona, sia ad altra.

2.° La lettera di Agresti.

3.° Schiarimenti maggiori sulla località di Ponza, che avrete avuto da quel tale indicato, e per lo stesso mezzo un avviso che potreste spedire nel ricevere questa o la precedente a questa.

4.° La faccenda di armi in Malta già in corso, barca già partita da Castellamare.

5.° Secondo il convenuto avrete già almeno un cantaio di polvere, che potreste avere in tale circostanza.

Se nella vostra che ricevo leggerò tutte queste cose sarò contentissimo. La lettera di cui vi parlo diretta a Rizzo non la spedii: vi accludo varie lettere, voi le leggerete e suggellerete, ma vi prego di consegnarle al loro indirizzo appena avrete ricevuto il dispaccio, se tale merce non giunge è segno che il contratto non ha avuto luogo, ma se giunge vi prego caldamente consegnarle a coloro ai quali sono dirette, senza la benchè minima esitanza, aggiungendo a voce tutti i possibili schiarimenti. Appena saprete il contratto conchiuso a Sapri spedite quelle merci dispaccio. Finalmente se per caso in luogo di sapere la conclusione del contratto per le merci Sapri, venisse a vostra conoscenza un nostro disastro, spedite qui le merci, dispaccio all'indirizzo medesimo, ma con queste altre così stabilite. La cambiale è stata rifiutata. Dunque queste merci significano disastro, tutte le altre a vostra scelta, che non sieno queste, vuol dire arrivo. Spero che la cosa vada, ma non possiamo essere certi di nulla, voi continuate a lavorare alacremente su quelle basi, giacchè se per imprevedibile eventualità ciò non avesse luogo, il monopolio di Genova è inevitabile, e quindi la conseguenza immediata è il nostro contratto, dunque comunque vadano le cose, ritenete che se il tutto non sfuma, la cosa avverrà con differenza di pochi giorni. — Resta fisso che il nostro dispaccio vuol dire cosa fatta. Attendo con ansia la vostra lettera, se dopo averla ricevuta vi è cosa che importa, e sarò ancora in tempo vi spedirò una seconda lettera. Un abbraccio a voi ed agli amici tutti, in particolare al socio (Dragone) ed una stretta di mano alla moglie. — Abbiate in pronto i seguenti campioni. Giovedì venticinque partenza. Domenica arrivo a Sapri. Salute e così sia.

 

 

Certo delle promesse avute, speranzoso che le tradizioni avrebbero deste le popolazioni e rese pronte a vendicarsi del Borbone, il Pisacane se ne viveva profondamente credente nell'efficacia dei perigliosi tentativi. E la sera del 24, mentre tutto aveva stabilito cogli amici Nicotera e Falcone, egli affidava alla carta il suo testamento politico, riassumendo tutte le sue teorie in queste due parole: Libertà ed Associazione.

 

Ecco il testamento.

 

«Nel momento d'intraprendere un'arrischiata impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e maledire i vinti.

«I miei principi politici sono abbastanza noti; io credo che il solo socialismo, ma non già i sistemi francesi informati tutti da quell'idea monarchica e dispotica che predomina una nazione, ma il socialismo espresso dalla formola Libertà ed Associazione, sia il solo avvenire non lontano dell'Italia, e forse dell'Europa: questa mia idea la ho espressa in due volumi, frutti di circa sei anni di studio; non condotti a forbitura di stile per mancanza di tempo, ma se qualche mio amico volesse supplire a questo difetto e pubblicarli, gliene sarei gratissimo. Sono convinto che le ferrovie, i telegrafi, il miglioramento dell'industria, la facilità del commercio, le macchine ecc. ecc., per una legge economica e fatale, finchè il riparto del prodotto, è fatto dalla concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l'accumulano sempre in ristrettissime mani, ed immiseriscono la moltitudine; epperciò questo vantato progresso non è che regresso; e se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che, accrescendo i mali della plebe, la sospingerà ad una terribile rivoluzione, la quale, cangiando d'un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è volto a profitto di pochi. Sono convinto che l'Italia sarà libera e grande oppure schiava: sono convinto che i rimedi necessari come il reggimento costituzionale, la Lombardia, il Piemonte, ecc. ecc., ben lungi dall'avvicinarla al suo risorgimento, ne l'allontanano; per me non farei il minimo sacrificio per cangiare un Ministro, per ottenere una costituzione, nemmeno per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia ed accrescere il regno Sardo: per me dominio di Casa Savoia o dominio di Casa d'Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all'Italia che la tirannide di Ferdinando II. Credo fermamente che se il Piemonte fosse stato retto nella guisa medesima degli altri Stati italiani, la rivoluzione sarebbe fatta. Questo mio convincimento emerge dall'altro che la propaganda dell'idea è una chimera, che l'educazione del popolo è un assurdo. Le idee risultano dai fatti non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero quando sarà educato, ma sarà educato quando sarà libero. Che la sola opera che può fare un cittadino per giovare al paese è quella di cooperare alla rivoluzione materiale; epperò cospirazioni, congiure, tentativi, ecc., sono quella serie di fatti attraverso cui l'Italia procede verso la sua meta. Il lampo della baionetta di Milano fu una propaganda più efficace di mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro, come di ogni paese.

«Alcuni dicono che la rivoluzione deve farla il paese: ciò è incontestabile. Ma il paese è composto d'individui, e poniamo il caso che tutti aspettassero questo giorno senza congiurare, la rivoluzione non scoppierebbe mai; invece se tutti dicessero: la rivoluzione dee farla il paese, di cui io sono una particella infinitesimale, e però ho anche la mia parte infinitesimale da compiere, e la compio, la rivoluzione sarebbe immediatamente gigante. Si potrà dissentire dal modo, dal luogo, dal tempo di una congiura, ma dissentire dal principio è assurdo, è ipocrisia, è nascondere un basso egoismo. Stimo colui che approva il congiurare e non congiura egli stesso: ma non sento che disprezzo per coloro i quali non solo non vogliono far nulla, ma si compiacciono nel biasimare e maledire coloro che fanno. Con tali principi avrei creduto mancare a un sacro dovere, se vedendo la possibilità di tentare un colpo in un punto, in un luogo, in un tempo opportunissimo, non avessi impiegato tutta l'opera mia per mandarlo ad effetto. Io non ispero, come alcuni oziosi mi dicono per schermirsi, di essere il salvatore della patria. No: io sono convinto che nel Sud la rivoluzione morale esista: sono convinto che un impulso, gagliardo può sospingerla al moto, epperò il mio scopo, i miei sforzi sonosi rivolti a mandare a compimento una congiura, la quale dia un tale impulso: giunto al luogo dello sbarco, che sarà Sapri nel principato citeriore, per me, è la vittoria, dovessi anche perire sul patibolo. Io individuo, con la cooperazione di tanti generosi, non posso che far questo e lo faccio: il resto dipende dal paese e non da me. Non ho che i miei affetti e la mia vita da sacrificare a tale scopo e non dubito di farlo. Sono persuaso che se l'impresa riesce, avrò il plauso universale; se fallisce, il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbolento, e molti, che mai nulla fanno e passano la vita censurando gli altri, esamineranno minutamente la cosa, porranno a nudo i miei errori, mi daranno la colpa di non essere riuscito per difetto di mente, di cuore, di energia... ma costoro sappiano ch'io li credo non solo incapaci di far quello ch'io ho tentato, ma incapaci di pensarlo. A coloro poi che diranno l'impresa impossibile, perchè non è riuscita, rispondo, che simili imprese se avessero l'approvazione universale non sarebbero che volgari. Fu detto folle colui che fece in America il primo battello a vapore; si dimostrava più tardi l'impossibilità di traversare l'Atlantico con essi. Era folle il nostro Colombo prima di scoprire l'America, ed il volgo avrebbe detto stolti ed incapaci Annibale e Napoleone, se fossero periti nel viaggio, o l'uno fosse stato battuto alla Trebbia, e l'altro a Marengo.

«Non voglio paragonare la mia impresa a quelle, ma essa ha un testo comune con esse; la mia disapprovazione universale prima di riuscire e dopo il disastro, e l'ammirazione dopo un felice risultamento. Se Napoleone, prima di partire dall'Elba per isbarcare a Fréjus con 50 granatieri, avesse chiesto consiglio altrui, tutti avrebbero disapprovato una tale idea. Napoleone aveva il prestigio del suo nome; io porto sulla bandiera quanti affetti e quante speranze ha con sè la rivoluzione italiana; combattono a mio favore tutti i dolori e tutte le miserie della nazione italiana.

«Riassumo: se non riesco, dispregio profondamente l'ignobile volgo che mi condanna, ed apprezzo poco il suo plauso in caso di riuscita. Tutta la mia ambizione, tutto il mio premio lo trovo nel fondo della mia coscienza, e nel cuore di quei cari e generosi amici, che hanno cooperato e diviso i miei palpiti e le mie speranze; e se mai nessun bene frutterà all'Italia il nostro sagrificio, sarà sempre una gloria trovar gente che volonterosa s'immola al suo avvenire.

 

V.

 

Verso le ore sei pomeridiane del giorno 25 giugno 1857, Carlo Pisacane di Napoli, Giovanni Nicotera di San Biaso (in Nicastro) e Battistino Falcone di Acri, (Calabria), seguiti da ventidue prodi amici, sforniti di tutto, ma infiammati del santo amore di patria, si imbarcavano, come passeggieri, sul Cagliari, piroscafo della Società Rubattino, che da Genova faceva vela per Tunisi toccando la Sardegna. Niun sospetto si nutriva su di essi; tranquillamente erano lasciati passare dai Carabinieri e dalle Guardie di pubblica sicurezza, che la Questura, in sentore di qualche tiro ardito, teneva non in poco numero sguinzagliati lungo il porto. Quando furono lontani dal lido si gettavano sul capitano del battello, Antioco Sitzia, e sui marinai, e colla forza li costringevano a cedere il comando, racchiudendoli sotto coperta. Veniva al Sitzia rilasciata una dichiarazione perchè potesse provare la sua innocenza su quanto stava per accadere. La dichiarazione era firmata da Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Giovanni Battista Falcone, Luigi Barbieri, Achille Pomari, Cesare Faridoni, Felice Poggi, Giovanni Gagliani, Domenico Rolla, Cesare Cori, Federico Foschini, Lodovico Negroni, Francesco Medusei, Giovanni Sala, Lorenzo Gianoni, Giuseppe Faielli, Domenico Mazzoni, Giovanni Camillucci e Pietro Rusconi.

Il comando del Cagliari era affidato a Giuseppe Daneri, capitano marittimo, che si trovava a bordo diretto per la Sardegna, il quale accettava. Rosolino Pilo con una barca, piena di armi e di polvere, anche questa volta, doveva, a venti miglia dalla spiaggia, raggiungere la spedizione. Una fitta nebbia gli impediva di scorgere il Cagliari, e, sconfortato, doveva riprendere terra, abbandonando tutto il carico, il quale era catturato dall'Ichnusa, piroscafo, che il Governo sardo, avvertito della spedizione, aveva mandato contro i congiurati.

Attesa invano, e dopo lunghe ricerche, la barca del Pilo, sorse in alcuni il dubbio se convenisse, quasi inermi, proseguire il viaggio, o procrastinarlo ancora. Pisacane, Nicotera e Falcone decisero di continuare, essendo ormai il dado gettato. «Impareranno i moderati, sclamò il Pisacane, come poche anime generose, sappiano iniziare grandi fatti, armate d'un pugnale soltanto.»

 

Quindi egli dettava la seguente dichiarazione:

 

«Noi qui sottoscritti, avendo tutti congiurato, forti nella giustizia della nostra causa e nella gagliardia del nostro animo, ci dichiariamo gli iniziatori della rivoluzione italiana. Se il paese non ci asseconderà, noi senza maledirlo sapremo morire da forti, seguendo la nobile falange dei Martiri italiani. Trovi altra nazione uomini che, come noi, s'immolino per la loro libertà, ed allora solo potrà paragonarsi all'Italia benchè sia tuttora schiava.

 

Carlo Pisacane, di Napoli.

Giovanni Nicotera, di san Biaso (in Nicastro).

Giov. Battista Falcone, di Acri (Calabria).

Giovanni Gagliani, di Milano.

Giovanni Sala, idem.

Amilcare Bonomi, idem.

Pietro Rusconi, di Treviglio (Lombardia).

Carlo Rota, di Monza.

Luigi Barbieri, di Lerici (Genovesato).

Lorenzo Gianoni, di Genova.

Domenico Bolla, idem.

Gaetano Poggi, idem.

Felice Poggi, idem.

Cesare Faridoni, idem.

Domenico Porro, idem.

Francesco Medusei, idem.

Giuseppe Faielli, di Parma.

Federico Foschini, di Ugo (Romagna).

Luigi Conti, di Faenza.

Giuseppe Sant'Andrea, di Bologna.

Cesare Achille Perucci, di Ancona.

Cesare Cori, idem.

Domenico Mazzoni, idem.

Giovanni Camillucci, idem.

Lodovico Negroni, d'Orvieto.»

 

Mentre volgevano la prua verso l'isola di Ponza, ove in orride prigioni stavano rinchiuse alcune centinaia d'infelici condannati politici, al Nicotera veniva in pensiero di rovistare il piroscafo se mai per avventura vi fossero armi. Sotto coperta discopriva sette casse con 150 schioppi, che un armaiuolo genovese spediva a Tunisi, e poca polvere, rimasta sul legno dall'epoca della guerra di Crimea. Non è a dire come a quella scoperta giubilassero i generosi patrioti; trassero da questo lieto pronostico pell'esito dell'impresa. Durante il viaggio essi si occuparono a far cartucce, e a ventilare sempre più il disegno d'azione.

Il giorno 27, alle ore 4 pomeridiane, il Cagliari, con a poppa la bandiera piemontese, a prua una piccola bandiera rossa, col pretesto di avarie, dava fondo innanzi a Ponza. Il capitano del porto si recava a bordo per dar pratica al legno; ma a viva forza era ritenuto prigione. In pari tempo il Pisacane con quattordici compagni, essendo gli altri rimasti a guardia del battello, a mezzo delle lancie, scendeva a terra ed assaltava il posto doganale, che si trovava sulla marina, e lo disarmava; indi aggrediva la guardia dei Veterani, di là poco discosta; qualche tiro di schioppo veniva scambiato; ma anco quella non tardava a cedere. Il Pisacane guidava sollecito i compagni verso il forte. All'avanzarsi di lui i trecento soldati di fanteria, che vi stavano di guarnigione, si attelavano a battaglia; ma niuno in atto di minaccia. Gli ufficiali credevano che quel pugno di gente fosse foriere di forte nerbo d'armati; essi si facevano incontro al Pisacane, e chiedevano di essere trattati cogli onori di guerra. In pari tempo Nicotera, Falcone e Daneri, pure unitosi ai congiurati, recavansi dal vecchio comandante dell'Isola, il quale, accompagnato dalla moglie e dalle figliuole piangenti, accostavasi a loro, e, non meno commosso della sua famiglia, impetrava la vita. Il Nicotera gli rispondeva «consegnasse le armi e le chiavi delle prigioni; nulla avessero a temere che non assassini, ma essere Italiani venuti a combattere le guerre dell'indipendenza della patria.»

I soldati cedevano le armi; e que' pochi arditi divenivano padroni dei destini dell'Isola di Ponza. I relegati politici erano resi alla libertà; questi avrebbero tutti impugnate le armi, se un tal De-Leo, udito come la spedizione non fosse fatta allo scopo d'insediare a Napoli la monarchia del Murat, d'accordo col parroco dell'Isola, non avesse insinuato loro a non imbarcarsi. Non contento di ciò il De-Leo coglieva l'istante in cui niuno lo vedesse, balzava in una barca, e fuggiva a Gaeta per riferire al governo dell'accaduto di Ponza. Pei tristi uffici di questo scellerato, che in premio del suo spionaggio otteneva la condonazione della pena e una licenza da farmacista, dei relegati se ne imbarcarono poco più di quattrocento. I rimasti, meglio di seicento, rubarono gli schioppi che si erano presi ai soldati e li vendettero per pochi carlini agli Isolani.

Verso la mezzanotte del 27 al 28, Pisacane, Nicotera, Falcone e i generosi compagni, quale novella falange delle Termopili eubee, destinata anch'essa ad empire la storia dell'eco dell'ultimo suo sospiro, muovevano intrepidi, fidenti per le regioni del Cilento.

A convalidare quanto abbiamo scritto di quei primi fatti, diamo luogo ad una particolareggiata narrazione quale ci venne dettata da uno de' generosi che fecero parte della magnanima impresa.

«Il giorno 25 giugno 1857, fu definitivamente fissato per la partenza. Una barca, carica d'armi e munizioni, partiva il 24, guidata da Pilo e da venti compagni; doveva stare al largo sino al domani e raggiungerci nelle acque di Portofino. Gli uomini della spedizione si recarono verso le sei del vespro sul piroscafo Cagliari. Chi fingeva essere diretto per Tunisi, chi per Cagliari: chi andare per un interesse, chi per un altro: mai una parola si scambiavano fra di loro: sembravano veramente passeggieri che si trovassero colà a caso. Dopo due ore circa di cammino, ad un segnale di Pisacane, che consisteva nel porsi in testa un berretto rosso, ognuno si collocò al posto assegnato; ed al grido di viva l'Italia tutta la gente del bordo venne sorpresa; si tolse il comando al capitano, e si affidò a Giuseppe Daneri, genovese, pur capitano di marina, il quale trovavasi fra i passeggieri. Tanto i marinai quanto i viaggiatori, vedendo gli uomini della spedizione armati di pistole, furono presi da timore, credendoli pirati. Ma bentosto furono rassicurati dalle parole del Pisacane, il quale, senza particolareggiarglielo, disse loro a quale scopo avessero fatto quel tiro. La calma ritornò in tutti; si mostrarono lieti; ed una donna, una tal Rosa Mascherò, genovese, moglie d'un medico di Tunisi, sclamò: «Quand'è così, vi auguro buona fortuna, e grido con voi viva l'Italia! viva la libertà!» Prima cura fu quella di trovare la barca partita il giorno prima colle armi e colle munizioni. Si fecero i convenuti segnali; ma invano. Finalmente alla mezzanotte, dopo tre ore d'attesa, perduta ogni speranza, i congiurati stavano perplessi sul da farsi, quando uno di essi, esaminando non a caso il giornale di bordo vide che nel Cagliari si trovavano imbarcate sette casse di fucili da caccia e due di tromboni. Riferita la cosa a Pisacane, questi, di conserva coll'altro, si recò nella stiva, ed ivi rinvennero le armi segnate sul giornale. Un grido di gioia echeggiò sul Cagliari: «Armi! armi! Ecco trovato quel che ci mancava.» Il capitano del piroscafo pregava non si toccassero quelle armi, perchè mercanzia a lui affidata; ma lo scopo a cui dovevano servire non ammetteva consegna di sorta. Dopo le armi bisognava pensare alla munizione: rovistato il bordo si trovò polvere e piombo. Allora la coperta del bastimento fu tramutata in un arsenale. Chi faceva le cartucce, chi fondeva le palle, la cui forma era stata fatta con due pezzi di mattoni, chi metteva in sesto gli schioppi; insomma il giorno 26 passò in grande attività. Allorchè il 27 si fu in vista dell'isola di Ponza vennero caricate le armi e concertati i mezzi di prender terra. Giunti a poca distanza dell'Isola il piroscafo si fermò, e fu chiamato il pilota col segnale all'albero di trinchetto. Egli venne; ma richiesto salisse a bordo per condurre alcuni marinai nel porto per far acqua, rispose non poterlo vietandoglielo le leggi ivi vigenti. Fu fatto salire a forza.

«L'arrivo di un grosso vapore a quell'Isola aveva attirato sul piccolo molo e sulla calata molta gente, ed anche il comandante del porto e l'aiutante di piazza. Questi due militari, tratti dalla curiosità, si erano con una barchetta avvicinati al piroscafo, e veduto il pilota sul cassero lo sgridarono qual trasgressore delle leggi sanitarie. E mentre parlavano anch'essi vennero presi, e fatti salire a bordo. Lo stratagemma successe senza che que' di terra se ne accorgessero. Imperocchè la scala per cui si ascendeva sul piroscafo, era nel fianco opposto a quello presentato al porto. In mare era già pronto un drappello di congiurati, il quale doveva recarsi dal comandante dell'Isola a domandare la permissione di visitare il luogo; e fu appunto quel drappello che costrinse i due militari a salire a bordo. Pisacane per viemmeglio ingannare i curiosi pregò la signora Rosa Mascherò a starsene sul cassero. Il battello che conduceva i finti passeggieri era a metà cammino, quando Pisacane, che dalla prora del bastimento guardava con un canocchiale l'Isola, ad un tratto gridava: — «In mare le imbarcazioni, e pronti. —» L'ordine fu eseguito in un batter d'occhio; eccetto pochi, rimasti a guardia del vapore, i congiurati scendevano in mare; e innanzi che la barchetta che precedeva fosse giunta alla casa sanitaria per presentare le carte, Pisacane co' suoi era già sceso a terra in un luogo, ove aveva scorto un sentiero che conduceva nella piazzetta del porto. Quivi giunto egli spiegò la bandiera, che era portata da un giovinetto di 13 anni, mozzo del bastimento (era un tal Demetrio Costa), e si diresse dov'era la guardia. La sentinella, vedendo gente armata, fece fuoco, e cercò poscia di rinchiudersi coi compagni entro la cancellata; ma non glielo permise la prontezza con cui Federico Foschini pose la canna del fucile attraverso l'apertura del cancello. Il corpo di guardia venne così invaso: i soldati furono tosto disarmati. In questo fatto rimase morto l'ufficiale comandante il posto, colpito da un fendente mentre cercava eccitare i soldati a far fuoco. Poscia furono disarmati i soldati dell'altro corpo di guardia, e affondata in pari tempo la barca scorriera (specie di barca doganale armata di piccola colubrina), e inchiodati i cannoni della piazza. Questi fatti erano eseguiti da quindici uomini in poco più d'un quarto d'ora. Ma il più mancava: il disarmamento della guarnigione, forte di circa trecento uomini. Questi si erano rinchiusi entro il forte, munito di cannoni; all'avvicinarsi di Pisacane fecero fuoco, ferendo Cesare Cori e Lorenzo Acquarone, cameriere del piroscafo, il quale aveva seguito a terra la spedizione. Vedendo come non lieve còmpito fosse quello della dedizione del forte, il Nicotera pensò di far prigioniero il comandante, che fu condotto a bordo e quivi costretto a firmare la resa della piazza: alle dieci circa l'Isola era in potere dei congiurati. Allora Pisacane ordinò si armassero que' relegati politici che volevano seguire la spedizione, i quali giunsero a più di quattrocento.»

Sbarcavano i congiurati vicino al villaggio di Sapri, posto nel golfo di Policastro, innalzando il grido di libertà. Nessun eco rispondeva a quel grido: tutto era silenzio e tenebre. Nessuno li aspettava, nessuno veniva ad incontrarli; gli uomini promessi dal Comitato di Napoli non si scorgevano punto: qualche terriere li vedevano: ma fuggivano spaventati. Attendevano tuttavia per lunga ora; infine perdevano ogni speranza di soccorsi e di guida. L'inesecuzione delle solenni promesse fatte a Pisacane dal Comitato, promesse che chiaramente risultano dagli scritti dati, fu la precipua cagione della morte di que' generosi([51]).

Lo sbarco si era effettuato in circa due ore poco lontano dal Casino Bianco, ove il Pisacane avrebbe dovuto trovare gli uomini armati. Egli dispose la colonna in quest'ordine di cammino. Gli imbarcati a Genova, a cui s'era unito anche Giuseppe Mercurio di Subiaco, cameriere del Cagliari, vennero divisi in due squadre, metà di avanguardia, comandata dal Nicotera, e metà di retroguardia, comandata dal Falcone; i relegati formarono il centro, diviso in tre compagnie coi rispettivi ufficiali, comandato dal Pisacane. Giunta la comitiva presso il Casino Bianco, gridò, come di concerto: — Italia degli Italiani! a cui avrebbero dovuto rispondere: E gl'Italiani per essa. — Niuna voce si fece udire. — Entrata nel Casino, lo trovò deserto. Due guardia-coste fecero fuoco; ma nessuno venne colpito. Imbattutasi nell'impiegato del telegrafo, lo fece prigioniero; esso servì di guida sino a Sapri. Quivi pernottava; e la mattina muoveva per a Torraca, ove giungeva a mezzodì del giorno 29. Il Pisacane sperò che sarebbe accolto festosamente; ma non un volto amico: nessuno s'offrì di seguirlo. Soltanto l'oste del Fortino, eretto lungo la strada che conduce a Lagonegro([52]), disse al Pisacane che un po' più avanti avrebbe trovati i compagni col barone Gallotti. Recatosi al Casino di costui trovarono un di lui figlio, il quale non solo non fece delle vaghe promesse; ma chiese se si era fatta la spedizione per conto del Murat. Quanto al barone, come seppe dello sbarco di Sapri, recavasi subito dal Sotto-Intendente di Lagonegro, e dichiarò che, essendo egli un attendibile politico, non voleva si fosse ritenuto complice. Esiste nel processo, che seguì questi fatti, un certificato di quel Sotto-Intendente in questi sensi. «Per verità il Gallotti non sapeva nulla della spedizione, non aveva promesso nulla.»

«In quel tragitto, ci disse uno della spedizione, patimmo tanta sete che credo fosse eguale a quella che soffersero i Crociati.»

Pisacane, Nicotera e Falcone non si perdettero di animo. Compresero anzi come fosse mestieri di ardite risoluzioni; raccozzatisi, tennero fra loro un breve consiglio, e statuirono di muovere per alla volta di Potenza. — Speravano ancora che il grido di libertà avrebbe accesi gli animi a virili propositi. In essi non nacque punto il pensiero che la tirannide avesse potuto attutire in quelle terre perfino l'ebbrezza di riabbracciare i fratelli proscritti.

La sera del 30 giugno arrivavano in Padula. Ivi pure non amici, non segni di rivoluzione; ma un paese atterrito. E come la voce della vendetta gridava: all'armi, gli uomini o fuggivano spaventati, o si nascondevano. I popoli più bellicosi, i più devoti a libertà, quegli stessi che due volte in vent'anni, nel 1828 e nel 1848, osavano iniziare la rivoluzione, si mostravano allora imbelli e timidi schiavi della paura. Le sante ossa dei De-Luca, dei De-Mattia, dei Dei-Dominicis e dei Carducci fremettero certo di sdegno. A Padula, il Pisacane e il Nicotera trovavano i fratelli Sant'Elmo, i Romano ed altri, tutti cospiratori; parlavano loro, facevano conoscere l'urgenza di armarsi: «Noi abbiamo mantenuta la parola, dicevano: siamo qui, e voi che cosa faceste?» Promisero pel domani gente: ma il domani non si presentò nessuno.

La voce dei fatti dell'isola di Ponza e dello sbarco a Sapri erasi tosto sparsa pel regno, per opera del traditore De-Leo. L'esecrato Ajossa, intendente della provincia salernitana, senza porre tempo in mezzo, prendeva tutti quei provvedimenti che meglio potevano valere ad impedire la riuscita d'un magnanimo proponimento. Spediva avvisi a tutti i paesi, sul cui territorio avevano a passare gli sventurati, ingiungendo di dar loro la caccia, come se fossero belve feroci, e di non concedere loro clemenza. Battaglioni di cacciatori, di gendarmi e di urbani vennero sguinzagliati. Le fregate a vapore della marina reale Amalia, Roberto, Ruggero e Vesuvio, con soldati dell'11° cacciatori, ebbero ordine di incrociare lungo le coste per guardarle da ogni sorpresa.

Nei fatti napolitani si trova spesso citata la guardia urbana, come quella che prese parte alla repressione d'ogni più nobile conato. Crediamo pregio dell'opera narrare come e di quali elementi si componesse. La guardia urbana non era che una fazione armata, che si reclutava fra i più improbi ed i più ignoranti sudditi devoti del Borbone; ogni milite, prima d'essere iscritto nei registri, soggiaceva al più severo scrutinio: i suoi atti, i suoi desideri, i suoi costumi erano accuratamente scandagliati; nè bastava che egli fosse ardentissimo ammiratore del governo e furibondo nemico del progresso civile: al soldato dell'ordine delle Due Sicilie era pure mestieri d'essere improbo e malvagio. I comandanti di queste orde poi, gli uomini preposti ad imperare su di esse in ciascun comune, dicevansi capi-urbani, e dovevano avere mostrato con evidenti prove l'affetto sentito per la casa dei Borboni ed i servigi a questa renduti. La guardia urbana era costretta a sussidiare le milizie regolari ed a supplire alle medesime col restare anche di guarnigione ove quelle non fossero. Ordinamento di partito fu questo, non istituzione liberale, come si era fatto credere all'estero; diramazione della polizia, la guardia urbana potevasi altresì considerare; imperocchè compiutamente ed esclusivamente vedevasi soggetta al ministero di polizia, ed i manigoldi che vi si facevano ascrivere non ricusassero qualunque incarico di bargello, di spia ed anche di carnefice. Ricordava la guardia urbana delle Due Sicilie i centurioni di papa Gregorio XVI, e serviva ad appuntellare la tirannide borbonica, con più di trecentomila scellerati e fanatici realisti, i quali, riuniti alle numerose soldatesche, ai mercenari svizzeri, ai gendarmi, agli agenti di polizia, agl'impiegati, ai servili magistrati, alla maggioranza del clero ed agli attivissimi gesuiti costituivano la gran macchina governativa di cui era supremo regolatore Ferdinando II.

A viemmeglio nascondere il nefasto intendimento dell'istituita guardia urbana delle provincie, si era creata nella metropoli partenopea la guardia di sicurezza. Ottomila furono gl'inscritti: i capitani formavano i registri, scegliendo i militi fra gl'impiegati ed i possidenti, nè senza il consiglio della polizia: molti nobili ne brigarono i gradi superiori per vaghezza di assisa, non per ispirito militare o aspirazione patriottica: il comando supremo di questa guardia di sicurezza fu affidato al principe di Salerno, Leopoldo di Borbone, zio del re, già disfatto dagli anni e dalle intemperanze d'ogni genere. Sospettoso mai sempre il re concesse ai militi di vestire elegantissima divisa, ma negò ad essi le armi, che, deposte negli arsenali del Castello Nuovo, si distribuivano nei giorni di esercizio dei singoli battaglioni, e subito dopo quei militari ammaestramenti si riponevano nei regi depositi. In un sol giorno dell'anno vedevasi tutta riunita la guardia di sicurezza, nella grande rassegna di Piedigrotta, che avveniva l'otto settembre, giorno consacrato alla natività della Vergine; ed in mezzo alle file, di quarantamila soldati indigeni e stranieri, fedeli al re e devoti alla sua tirannide. Questa pomposa mostra, a giorno determinato, e sotto lo sguardo di numerosi e distinti stranieri, giovava allo scaltro Ferdinando per confermare l'Europa nella credenza che felicissimi fossero i Napoletani, possedendo i Consigli rappresentativi delle provincie, una Consulta di stato, l'organamento amministrativo moderno, una sapiente e liberalissima legislazione, e perfino una milizia cittadina. L'Europa non sapeva, o meglio non voleva sapere, che il re colla polizia, e la più schifosa corruzione, calpestava le istituzioni, le leggi, i diritti, i doveri e sostituiva l'arbitrio sfrenato, la sua volontà personale alla regolare azione della monarchia temperata. La guardia urbana fu richiamata in vigore dal ministro Del-Carretto, il quale, con arte veramente infernale, rivolse quell'istituzione dei popoli civili e liberi a danno non della libertà, che non esisteva a Napoli, ma delle semplici aspirazioni verso un migliore avvenire.

La guardia urbana di Sapri, Torraca, Sala e di altri paesi, raccolta dal giudice di Torchiara, forte di ottocento uomini, a cui si erano uniti duecento gendarmi, si schierava nel piano di Padula per combattere i generosi. Spuntava l'alba dei 1.° luglio. I volontari della libertà, comechè in molto minor numero e cinti dappertutto da uomini a loro ostili, accettavano la lotta, e combattevano come sanno i campioni d'una causa santa. Sgominati, sanguinosi, i Borboniani non potevano a lungo resistere all'impeto della sacra falange, e fuggivanle dinanzi, lasciando sul terreno parecchi morti, fra cui degli ufficiali. Invano, dopo la vittoria, l'eroica legione cercava di che confortarsi: ogni porta, ogni finestra era chiusa: essa doveva, cosa inaudita, soffrire la fame e la sete, là ove non avrebbe dovuto trovare che abbondanza di tutto, che fraterne accoglienze. La tirannide col suo terrore non solo il sentimento di patria, ma anco quello di umanità aveva soffocato nel cuore di quei terrieri.

Mentre i generosi, adagiati sotto gli alberi, rinfrancavano le forze, di cui avevano pur troppo abusato, venivano d'un tratto scossi dal suono d'una fanfara. Erano le otto compagnie del 7° battaglione cacciatori, mandate in soccorso degli urbani dall'intendente Ajossa([53]). Comandavale il tenente-colonnello Ghio, quel desso che in Sicilia aveva alcun mesi prima date prove d'inaudite barbarie. L'infame Ajossa sapeva finamente scegliere fra gli ufficiali superiori dell'esercito, napoletano, quelli che devotissimi erano al Falaride. Il Ghio, fatto generale, alla testa di un corpo d'esercito, fuggiva vilmente nel 1860 innanzi ad una mano di volontari guidati dal Garibaldi. Sempre così gli uomini della tirannide: jattatori e crudeli nella vittoria: servi e vigliacchi nella sconfitta!

I gendarmi e le guardie urbane, all'inaspettato soccorso del 7.° cacciatori, vedendosi ormai otto volte maggiori degli uomini che avevano da combattere, riprendevano animo, e si ponevano sotto gli ordini del Ghio.

I generosi patrioti avanti alla certa morte, non cercavano ritirarsi; ma come i trecenti Spartani, di pie' fermo aspettavano il nemico, e come quelli facevano olocausto della vita sull'altare della patria. A mezzogiorno cominciava il combattimento; gli uni fatti arditi dal grosso numero e dall'avidità della carnificina, gli altri resi magnanimi dal santo amore di libertà e dal pensiero che la loro morte sarebbe di grande esempio a' fratelli e di rimorso ai mancatori delle date promesse. Due ore continuava la battaglia; da ambo le parti il terreno era coperto di morti. Il Ghio eccitava i suoi agli atti più crudeli; il Pisacane ed il Nicotera cercavano quanto più potessero di risparmiare sangue fraterno. Consumate le cartuccie, i valorosi devevano cessare il fuoco. Il Pisacane si recava sulla linea difesa dal Nicotera, ove sventolava il vessillo nazionale; e, sereno in volto, come uomo sicuro, risolveva aspettare l'avanzarsi del nemico, e a quel posto pugnando di ferro, corpo a corpo, morire. «Noi morremo da uomini, sclamava egli, abbiamo fatto quello che umanamente far si poteva per aiutare questo disgraziato paese. Maledetti coloro che ci lasciano soli, ai quali non basta nemmeno l'esempio per iscuotersi dal vergognoso sonno di nove anni!» Il Nicotera proponeva invece di ritirarsi sui monti per ivi far guerra ad oltranza ai satelliti di Ferdinando: «Chissà, diceva, il nostro sacrificio potrà forse destare alfine i dormenti.» E con altre nobili ed eloquenti parole induceva il Pisacane a rinunciare al fiero proposito. La ritirata cominciava con ordine. Il Pisacane, silenzioso, rimaneva ultimo sul luogo, volgeva quindi uno sguardo all'ingiro, e a lenti passi raggiungeva i compagni.

Nell'attraversare Padula, la magnanima schiera veniva fatta segno alla più inaudita barbarie. Feroce e pazzo popolo dalle finestre e dai tetti delle case scagliava sopra a' generosi, sassi, suppellettili, quanto gli capitava nelle mani, ed innalzava gridi di gioia al cadere di ogni Martire. Quasi un terzo della schiera sventurata si sperperava; parecchi morivano lottando: altri finivano prigionieri: cinque di questi, senza formalità di legge, cadevano uccisi per ordine del tenente-colonnello Ghio.-Dei partiti da Genova morivano Lorenzo Gianoni e Lodovico Negroni; venivano fatti prigionieri: Domenico Porro, Gaetano Poggi, Giovanni Camillucci, Cesare Faridoni, Domenico Mazzoni e Felice Poggi; nonchè Giuseppe Mercurio e Nicola Valletta. Novantasei dei più animosi superstiti di Genova si raggruppavano intorno al Pisacane, al Nicotera, al Falcone; e, sfidando il nemico, percorrevano lungo la pianura, ed ascendevano le montagne di Buonabitacolo, nella valle di Diano. Il Pisacane diceva: «Il nostro dovere lo abbiamo fatto, ora tentiamo ancora nel Cilento: se non ci riesce, e se non troveremo modo di salvarci moriremo da forti.» Stanchi, digiuni, col cuore sanguinante, erravano sino al tramonto del sole per que' monti, senza mai trovare un pietoso che desse loro asilo. Il Falcone, giovine a ventun'anno, bello di forme e di cuore, basiva per lassitudine fra le braccia del Pisacane. I compagni gli erano attorno; lo confortavano con amorose cure; altro non potevano, avendo invano picchiato alle capanne dei pastori. Alfine uno di questi, nel cui cuore allignava un senso di pietà, scôrti gli sventurati, si avvicinava loro; ed interrogato dei luoghi, segnava ad un'ora di cammino il villaggio di Sanza, e s'offriva a servire di guida. Il cammino ricominciava. Preceduti dal pastore, essi entravano in un bosco: guida e guidati si smarrivano dopo poco tempo; eglino dovevano, incerti, vagare per tutta la notte.

All'alba del 2 luglio scorgevano Sanza, villaggio di cinquemila abitanti. Il drappello si era rimpicciolito, giacchè parecchi perdutisi; pochi erano gli uomini armati di schioppi, ed anche scarichi. I prodi spiegavano la bandiera nazionale, e si avanzavano gridando: Viva l'Italia! viva la libertà!

I terrieri di Sanza a quegli accenti, che avrebbero dovuto far palpitare ogni cuore, si levavano contro i generosi: sono uomini e donne, vecchi e giovini, preti e monaci, armati tutti, chi di schioppo, chi di scure, chi di coltello, chi di bastone, e, a gran passi, mentre le campane suonavano a stormo, muovevano là dove erano quegli schietti Italiani, che avevano tratto in una terra d'Italia a fare opera utile alla patria comune, ed a ricevervi, così essendo scritto nei fatti, il vilipendio e la morte. La stupida ed ignorante gente, aizzata ai più feroci propositi dai preti e dai frati, non si tratteneva di piombare su i poveri Martiri alle soavi e tenere parole che essi facevano suonare in mezzo alla turba furente: — «Siamo vostri fratelli,» andavano dicendo gl'infelici. «Perchè ci assassinate?... Noi siamo venuti a spendere la nostra vita per togliervi dalla tirannia!» — Ma pur dovendosi difendere, e vedendo che vano tornava il fraterno linguaggio, i pochi generosi non si atterrivano, ed affrontavano la moltitudine pazza e scellerata. I rimasti dei regalati di Ponza, vedendo impossibile la difesa, fuggivano precipitosamente. Pisacane, Nicotera e Falcone, con nove degli imbarcati a Genova rimanevano, e, sospinti dal popolo furibondo, si ritiravano in un burrone all'ingresso della borgata. Il Nicotera volava per raggiungere i fuggenti, e ricondurli all'azione; ma tutto era vano; preferivano cadere prigionieri; ed egli ritornava per morire cogli undici compagni. Giungeva il Nicotera al luogo ove pochi istanti prima li aveva lasciati, e trovava il Falcone supino a terra; poco più avanti il Foschini e il Barbieri. Il Pisacane, sempre imperterrito, cercava ripassare un torrente, quando veniva colpito dalla scure de' terrazzani, e tratto a morte crudele con colpi di forca e di bastone. V'ha taluno che asserisce aver egli pronunciato mentre era aggredito: «Voi siete assassini, mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi alla giustizia.» Il Nicotera con altri trenta circa, che aveva potuto ancora raggranellare, si raccoglieva per continuare la difesa; infine, vedendo come vano era ogni ulteriore conato, stava per raccogliere il cadavere del Pisacane e ritirarsi in altro punto, quando una palla gli forava la destra: datosi ad inseguire il feritore, tre fendenti di scure lo coglievano al capo, e cadeva in una gora di sangue non lungi dall'amico. I relegati, che si consegnavano, morivano sotto la scure di quella gente ubbriaca dopo essere stati disarmati e spogliati di tutto. Ben si poteva scrivere sulle mura di Sanza come Agide: «Passeggero, percorri l'Italia, e grida che i suoi figli morirono per la sua libertà!»

Fra i morti erano: Domenico Rolla, Giovanni Sala e Luigi Conti; fra i feriti: Giovanni Gagliani, Giuseppe Faielli, Giuseppe Sant'Andrea, Cesare Achille Perucci, Carlo Rota e Pietro Rusconi.

I prigionieri in numero di ventinove, tutti grondanti sangue e nudi, fra i quali Giovanni Nicotera, a furia di popolo, venivano sospinti entro il paese di Sanza. Diamo luogo alle parole di uno dei superstiti di quelle ecatombi.

«Uno dei guardiani del campo, finita la pugna, si aggirava tra le vittime, per constatarne la morte. Una di esse, gli parve desse segno di vita. Tre fendenti di scure gli avevan fatto tre larghe ferite nel capo: la mano destra giaceva inerte per una quarta ferita. Al di lui fianco un largo cappello alla calabrese lo additava per uno dei capi della spedizione. Era il barone Giovanni Nicotera, che giaceva supino e privo di sensi. Il guardiano dava ordine ai suoi uomini di raccoglierlo e di consegnarlo nelle mani della giustizia. Venne spogliato ignudo, deposto sopra una barella e trasportato a Sanza. Lungo il tragitto, turbe d'infuriate megere muovevano incontro al convoglio, in cerca delli briganti che volevano ammazià u re. Il guardiano giungeva in tempo per salvarlo dalle furie, che volevano scannare il catturato semivivo. I portatori, stanchi, a un certo punto della via, deponevano la barella per riposare. Il guardiano si scostava alcuni passi, e soggiungeva altro drappello di donne, armate di forche e di picconi, le quali si affollavano intorno al Nicotera, e scaricavano sul di lui ignudo corpo colpi spietati. Uno di questi colpi lo feriva al ventre e gli faceva uscire l'ombelico; nè sarebbe stato l'ultimo se il guardiano tratto al rumore, non salvava una seconda volta la vita del prigioniero. Il dolore della nuova ferita aveva richiamato ai sensi il coraggioso Nicotera, svelandogli tutto l'orrore della sua posizione. Ma la triste storia non era finita. All'ingresso del paese altre megere infuriate assalivano il convoglio, e volevano costringere il Nicotera a pronunciare: Viva u re! Egli raccoglieva un supremo sforzo d'energia, e lieto d'aver occasione a finirla una volta, gridava con quanta forza si sentiva ancora in gola: Morte al re! Le streghe gli si precipitavano addosso, armate di coltello, e la sua vita era salva a stento per la terza volta, dal guardiano. Chi era mai questo guardiano? Come fu deposto sulla nuda terra in una stanzaccia del convento, il Nicotera riesciva saperlo. Il guardiano gli stringeva la mano; gli faceva il segno dei carbonari, e gli domandava se qualche cosa potesse fare ancora per lui. Credete che il Nicotera gli domandasse qualche cosa per sè? No. Le sue uniche parole furono queste: «— Scendi al campo, e cerca vicino al posto ov'io mi trovava, un uomo basso, biondo, col cappello uguale al mio. Al fianco porta una borsa: dentro la borsa sonovi alcune carte. Prendi tutte le carte e mettile in sicuro.»

«Poco dopo il guardiano ritornava; aveva trovato l'uomo, il Pisacane; ma la borsa era vuota. I saccheggiatori del campo ne avevano tolto i denari e sparpagliate le carte. Di queste il guardiano aveva raccolte tutte quelle che gli fu dato vedere. E sapete che cosa si trovasse tra quelle carte? Un foglio su cui erano scritti i nomi dei cospiratori in tutte lettere; la prova più terribile che potesse cadere nelle mani del governo borbonico. Quel foglio, e le altre carte raccolte, furono preda delle fiamme prima che il Nicotera si trovasse a contatto dei giudici.» —

Dal supplente al giudicato del Circondario di Sanza Pier Antonio Rinaldi, facente funzione pel titolare in accesso; assistito dal cancelliere sostituto Giovanni Pastore, il Nicotera ebbe un primo interrogatorio. Egli era stato preso colle armi alla mano: la fucilazione immediata era immancabile. Le sue risposte furono le seguenti:

Dimandato del motivo che diede luogo al suo arresto, rispose:

«Che per gli affari politici del 1848 e 1849 emigrò dalla sua patria, rifugiandosi in Torino; quindi passò in Genova, dove nel giorno 25 dello scorso giugno s'imbarcò con vari altri di Genova istessa, recandosi in questo regno a promuovere una rivoluzione per liberare la sua patria dalla tirannia, e propugnare la libertà.»

Dimandato chi fossero i compagni coi quali partì da Genova, rispose «conoscere il solo Pisacane, ignorando il nome degli altri.»

Dimandato chi avesse noleggiato il piroscafo, dove, e a chi appartenesse, rispose «non saperlo, ma è certo che per mezzo di un legno a vapore si recarono in questi luoghi a fare la rivoluzione.»

Dimandato chi gli avesse somministrato le armi e munizioni, rispose: «che rinvennero tutto sul piroscafo e se le presero. — Altro non sapere.»

Dimandato se il Pisacane fosse in loro compagnia, e dove si trovasse, rispose «essere giunti uniti in questo comune, e ora dicesi di essere stato ucciso.»

Lettura data, disse: «non potere sottoscrivere perchè ferito alla mano.»

Dopo quest'interrogatorio, l'esecuzione non era più che questione di ore. Ma, in questo mezzo, giunse al giudice un telegramma che annunciava la cattura del Cagliari, il battello da cui era sbarcata la spedizione, cattura che rendeva necessaria una procedura criminale. Il Nicotera, unico capo superstite della spedizione, non poteva essere giustiziato sommariamente. Venne l'ordine di mandarlo a Salerno.

Il Cagliari era stato catturato dalle fregate a vapore della marina borbonica Tancredi ed Ettore Fieramosca, e condotto a Napoli. Capitano, macchinisti (Watt e Parks inglesi), marinai, passeggieri, ed alcuni dei delegati di Ponza, che erano rimasti sul cassero, vennero senza distinzione, gettati nelle prigioni della Vicaria.

Gli evasi da Ponza erano: Michele Milano, di Napoli, Filippo Conte, di Caserta. Michelangelo Mario, di Foggia, Salvatore Barberio, di Cosenza, Vincerzo Pafaro, di Catanzaro, Francesco Gallo, di Catanzaro, Battista de Pascale, di Teramo, Giovanni Parrillo, di Caserta, Carlo Lofata, di Sicilia, ed Eugenio Lombardo, di Potenza.

Erano i prigionieri di Sanza da circa due ore nel convento, quando arrivavano da Sapri due compagnie dell'11° cacciatori. Gli ufficiali chiedevano del Pisacane, e, udito come non fosse fra i presenti, comandavano che il Nicotera venisse accompagnato sul luogo, ove era avvenuto il combattimento, affinchè cercasse riconoscerlo fra gli estinti. Già sfinito per la perdita di molto sangue, il Nicotera doveva compire il tristo ufficio. Il corpo del Pisacane era stato reso deforme; ma l'amico lo riconobbe subito.

In Italia si serbò per qualche tempo la speranza che Carlo Pisacane fosse scampato al macello de' suoi. Ma quella speranza andò dileguando, e pur troppo non rimase che il conforto della speranza di vendicarlo e di lavare ad un tempo l'Italia dalla vergogna di averlo lasciato perire. E il sangue del generoso Martire e de' suoi compagni, fu largamente vendicato dall'Eroe dei due Mondi, il quale mostrò altresì che se la tirannide aveva per un istante soffocato nel cuore dei figli del mezzogiorno l'amore di patria, essi avrebbero però saputo ritrovare, nella propria coscienza, la forza di riaccenderlo più potente che mai. Tra le provvidenze del Garibaldi, dopo quella risguardante i congiunti di Agesilao Milano, vuol essere accennata l'altra relativa a quelli di Carlo Pisacane, come nuovo segno di gratitudine verso chi perde la vita pugnando per la libertà. Il seguente decreto fu uno dei primi atti del Dittatore:

 

«Considerando che è debito ed obbligo di giustizia di un governo, interprete della gratitudine del paese, riconoscere i grandi sacrifici fatti a pro della patria, ed il soccorrere le vittime della tirannide, decretiamo; è accordata una pensione di ducati sessanta al mese, vita durante, a contare dal 1° ottobre prossimo, a Silvia Pisacane, figlia dell'eroico Carlo Pisacane, trucidato a Sanza mentre combatteva per la liberazione dei fratelli, nel luglio 1857.»

 

Più tardi con offerte di popolo veramente italiano, si eresse in Salerno alla memoria del Pisacane e dei suoi compagni periti un monumento ricco di sante memorie. Esso innalzasi lungo la maggiore passeggiata, in vicinanza del Golfo; il Martire di Sanza ha la destra in atto di additare il cammino che dovevano i prodi seguire. È doloroso il sapere come quel monumento non sia tenuto con quella devozione che dovrebbe inspirare ai cittadini il Municipio di Salerno; esso è fatto segno a bisogni che ci vergognamo di dire.

Altro monumento all'amico Pisacane venne fatto innalzare nel 1872 da Giovanni Nicotera nel Cimitero di Napoli, a Poggioreale. — Rappresenta un obelisco: in cima si vede lo Stemma di Roma colla storica lupa, a dinotare il concetto dell'unità italiana, pel quale il Pisacane cadde illustre vittima. Sulla base vi è un bassorilievo di bronzo; in esso si raffigura il Pisacane ferito a morte, sostenuto fra le braccia del Nicotera. Di fronte è la marina, e si vede il Cagliari. Il moribondo accenna colla mano alla Stella d'Italia che sorge in lontananza.

Fu Carlo Pisacane ben composto della persona, sebbene di breve statura; ebbe gentile l'aspetto, in cui ad un dolce sorriso tutto suo si mesceva una temperata mestizia che carissimo lo faceva a chi pur per la prima volta lo vedesse. Degli esercizi del corpo, e specialmente della scherma, della ginnastica e dei cavalli, si dilettò oltre ogni credere e vi fu eccellente; ne trasse vigore di membra non comune ed operosità singolare. Quanto è delle qualità dell'animo, al coraggio e all'impeto d'un eroe, aggiunse la dolcezza, l'affabilità, la modestia d'una fanciulla. Fu di rara costanza nell'amicizia e nell'amore; tenace nel proposito; benigno agli altri, severissimo a sè; di parsimonia e di temperanza antica, e tanto più pregevole in lui educato fra molli agi e fra licenze soldatesche; laborioso e amantissimo di studi gravi e che avessero in sè del grande, si beava di contemplare ed ammirare la natura, e da quella traeva argomento a profonde meditazioni e conforto e pace dell'anima. Amò sopratutto la patria, e credette con ferma fede vicina l'ora del riscatto, e diede la vita in testimonianza di quella credenza. Credette che l'Italia fosse non solo grande in ogni nobile arte ed in ogni virtù e seconda a nessun popolo; ma benanco a tutti maestra. E ne' suoi Saggi con moltissimo affetto si adopera a mostrare come la terra nostra nulla abbia appreso dagli altri, tutto insegnato, e possa di virtù propria e con proprie forze operare ogni più gran cosa. Abbiamo già detto come fosse nelle cose militari peritissimo; il suo naturale ingegno, accresciuto dallo studio, fu lucidissimo; e rese tutto quanto riferivasi alla scienza militare assai facile alla comune intelligenza. Nella questione che tutto abbraccia l'umano genere fu socialista; nella questione italiana, inchinò innanzi tratto al federalismo; ma poscia abbracciò le dottrine del Mazzini, l'unità della patria.

Non è mestieri che ci diffondiamo in altre parole a celebrare Carlo Pisacane. La sua fama sfida le miserabili ire di parte, le calunnie e il correre degli anni; vivrà eterna. «Sì, scriveva un amico del Martire, finchè la libertà sia cara agli uomini, finchè vi sia un italiano che ami l'Italia, finchè la virtù abbia culto e memoria nel mondo, il tuo nome, fortissimo eroe, sarà benedetto e ripetuto con ammirazione e con lode dagli uomini! Cesseranno i tiranni di essere salutati col nome di grandi; ma tu, Carlo Pisacane, non cesserai di essere offerto ad esempio del come degnamente per la patria si viva o si muora.»

Del Pisacane è superstite la figlia Silvia che fu col cuore adottata dal Nicotera e dalla consorte di lui signora Poerio, dopo la morte della signora D..., che, non meno del padre, assai teneramente amava. Da Silvia i congiunti Nicotera sono corrisposti del pari al grandissimo affetto che hanno per lei; ella volle dal dì in cui entrò nella nuova famiglia formarne una sola nel petto, e chiamarsi Pisacane-Nicotera. La signorina Silvia alle gentilezze della persona accoppia un animo nobilissimo ed un intelletto ricco di sapere; la sua parola, i suoi modi le caparrano d'un subito l'ammirazione di quanti l'avvicinano. Figlia di Martire, ama immensamente la patria e la libertà, e per esse farebbe pur sacrificio della vita.

 

VI.

 

Verso il vespro, i prigionieri, avvinti di catene, e sempre nudi, venivano dai soldati dell'11° cacciatori condotti a Buonabitacolo, sulla via di Salerno, ove facevasi loro incontro il feroce colonnello Marulli, lo stesso che nel 1860 comandava da generale la piazza di Gaeta. Il Marulli, dopo di avere fortemente percosso ed insultato il Nicotera, fece rinchiudere tutti in un porcile. Tre giorni i prigionieri fatti a Sanza furono tenuti rinchiusi a Buonabitacolo. Durante questo tempo, il Nicotera veniva a sapere della cattura del Cagliari, e come fosse esso mandato a Salerno per esservi processato. Il pensiero dei suoi compagni gli rampollava tosto alla mente, e cercava il mezzo di stornare da loro le ire di Ferdinando II, di attenuare, di giustificare, in certo modo, la spedizione di Sapri. Quanto a sè, non pensava nè pure; ben sapeva come il suo fine fosse segnato; ma in favore dei suoi compagni potevano militare attenuanti. E appunto a Buonabitacolo, alla presenza di un ufficiale dei cacciatori, stendeva una dichiarazione, sulla quale esagerando la cospirazione murattista, in questa faceva consistere il vero pericolo pel regno dei Borboni, e cercava di rendere più mite l'animo dei giudici, verso i suoi compagni di sventura. Non un nome di quelli che potevano essere colpiti gli sfuggiva di bocca. Conosceva tutti i capi murattisti di Napoli, e non ne svelava alcuno. Parlava soltanto di quelli che si trovavano all'estero, al sicuro da qualsiasi persecuzione; onde nessun murattista fu mai posto in accusa, nè arrestato, nè tampoco sospettato per sua cagione.

I prigionieri erano al quarto giorno fatti salire su carri tirati da buoi, e legati ed esposti ai raggi del sole, e fra i maggiori strapazzi, condotti a Sapri, ove giungevano la mattina del giorno 7 luglio. È facile immaginarsi lo strazio che dovettero soffrire specialmente i feriti gettati in quel modo su carri di campagna ed esposti tutto il giorno alla cocentissima sferza del sole. Verso sera dello stesso dì venivano imbarcati per Salerno, dove, giunti il giorno 9, trovavano gli altri compagni fatti prigionieri a Padula. A Salerno ebbero a patire i più gravi insulti dall'intendente Ajossa. Ma alle contumelie di quel tristo, i generosi rispondevano parole così nobili e così energiche, che fu costretto a tacersi.

L'Ajossa, assistito da un suo segretario, Alfonso Condò, lo stesso giorno 9 luglio cominciava l'istruttoria.

Il Nicotera eragli condotto davanti, ravvolto in una coperta di lana, il capo bendato per le ferite, e la mano destra abbandonata al lavoro di sessanta mignatte, non avendo egli voluto che se gliene facesse l'amputazione.

Stesse domande fatte a Sanza gli furono mosse; eguali risposte. Se non che, il guardiano non aveva raccolte tutte le carte del Pisacane. Nello sparpagliamento, alcune altre erano rimaste sul campo, e queste erano cadute in mano dei commissari borbonici. Venivano presentate al Nicotera, il quale le guardava, le scorreva, e si accorgeva d'essere appena a metà strada. Fra questi documenti ce n'era uno, intestato: «Nota campioni.» Era un foglio grande di carta grossissima; portava una lunga lista di nomi insignificanti; nomi di merci, di commestibili. Accanto a ciascun nome era segnata una cifra. Quella «Nota campioni» era nientemeno la chiave del cifrario. Se di quella carta si fosse rilevato il valore, tutte le lettere cifrate del Pisacane sarebbero state interpretate, tutti i coinvolti nella cospirazione inevitabilmente perduti. Che cosa faceva il Nicotera? «— Riconosco queste carte, rispondeva; appartenevano al Pisacane.

«— A Pisacane?

«Sì, e domando che si eriga verbale della mia ricognizione.» —

Ciò detto, e mentre le mignatte si venivano staccando, una ad una dalla mano destra minacciata di amputazione, colla sinistra il Nicotera numerava i documenti, tra i quali erano parecchie lettere cifrate, e li contrassegnava tutti con una sigla, non potendo firmare colla mano sinistra. Si erigeva il verbale, nel quale ogni documento era notato e descritto.

Giunti alla Nota campioni, il Nicotera la riprendeva colla sinistra, la guardava con indifferenza, e:

«— Questa, diceva, non credo appartenesse al Pisacane. Contiene una serie di nomi di genere di commercio: l'avrà smarrita qualcuno dei nostri compagni, o si riferirà alle operazioni commerciali che il mio amico voleva fare in Sardegna.» —

L'Ajossa non vi badava più che tanto, poichè riponeva tutta la sua attenzione nelle lettere cifrate, e il verbale parlava della «Nota campioni» come d'una carta insignificante, e taceva delle figure che si trovavano accanto ai nomi.

Le Autorità borboniche avevano già arrestato, Giovanni Matina, N. Libertini, F. Agresti, Michele e Nicola Magnone, Pasquale Verdolina e parecchi altri. Sul loro conto si avevano molti sospetti. Mancavano però le prove: ma quelle prove sarebbero state indubitabilmente raggiunte, se le lettere del Pisacane si fossero decifrate.

Il giorno 10 luglio l'istruttoria dall'intendente Ajossa passava nelle mani del procuratore generale presso la Corte Criminale della Provincia di Salerno, Francesco Pacifico. Questi non si accontentò di compilare verbali: volle interpretare anche documenti, aiutato dal vice segretario Michele Orienzi; e però le cose andarono così per le lunghe che i dibattimenti non poterono cominciare prima del 29 gennaio 1858. Fu allestita all'uopo una nuova Corte nel soppresso monastero di San Domenico dove, era anche un quartiere. Gli accusati erano 286, e cioè i congiurati non rimasti sul campo di battaglia, l'equipaggio del Cagliari, ed alcuni passeggeri sospetti di connivenza col Pisacane e coi suoi compagni. Furono condotti nell'aula della Corte Criminale legati due a due, e vestiti, come se fosse estate, della giubba di tela grigia che era prescritta nelle carceri. La Corte era speciale, e consisteva nel Presidente, avvocato Domenico Dalia, nel procuratore generale, avvocato Francesco Pacifico, e in dieci giudici, due più dell'ordinario per provvedere in caso di malattia.

Quindi si hanno i nuovi interrogatori del Nicotera. E questi, meno tormentato-dalle ferite fu interpellato sul modo con cui i documenti potevano essere letti dall'autorità. La chiave del cifrario era conservata negli atti del processo; ma il Nicotera non si scompose, e con calma e serenità disse:

«La lettera N. 13 è scritta dallo stesso Comitato, ma con cifre che non si possono interpretare altrimenti, se non avendo sott'occhio una copia del libro a riscontro, di cui uno era presso lo stesso Pisacane e l'altro presso il Presidente del Comitato di Napoli. Nè gli abecedari numerici sono bastevoli per riuscire alla spiegazione delle cifre che vi si contengono.»

Il Procuratore generale si dava attorno per cercare il famoso libro a riscontro del Pisacane. Il Ministro sardo Rattazzi, che aveva già fatto perquisire la casa che il Martire abitava in Genova colla mite signora D..., quante carte e quanti libri eransi rinvenuti, con molta compiacenza spediva a Salerno([54]). Ma il Nicotera non trovava il libro famoso che doveva dare la chiave dell'enigma, e pel Procuratore generale si faceva bujo, più bujo di prima; esso non sapeva più raccapezzarsi. Il libro a riscontro non si sarebbe potuto da nessuno trovare; non aveva mai esistito. Il Nicotera l'aveva immaginato per sviare l'attenzione dalla Nota campioni, e preparare così l'incidente che si svolse nel dibattimento. Il libro a riscontro fu l'arma principale con cui il Nicotera difese, e fece rimandare assolti tutti i compagni. Tra gli oggetti appartenenti al Pisacane, si trovò un biglietto sul quale era scritto a tutte lettere un nome. Questo nome era quello del De Mata, cappellaio a Napoli, e facente parte del Comitato. Il De Mata, prima ancora che fosse interrogato il Nicotera, era stato arrestato.

«— E questo nome che cosa significa? venne domandato al Nicotera.

«— Ah! me n'era scordato, rispose egli pronto. Il De Mata è un bravo cappellaio di Napoli. Il Pisacane aveva comprato da lui un cappello, e siccome n'era stato contento, così ne aveva notato il nome per fargli le commissioni in seguito.»

Pochi giorni dopo il De Mata veniva rilasciato in libertà, per mancanza di prove, frutto del nobile procedere del Nicotera.

Tra gli oggetti sequestrati al Nicotera, c'era un grosso portafoglio inglese. Il Procuratore generale glielo presentava, ed egli lo riconosceva per suo. L'apriva, ne passava i fogli candidi come neve; ma da una divisione usciva un involtino di carta contenente polvere bianca.

«— E questa polvere che cosa è?

«— È, rispondeva il Nicotera senza scomporsi, un veleno. Aveva deciso d'ingoiarlo se la spedizione andava male. Ma caddi ferito, ho perduto i sensi, e non fui a tempo di sottrarmi alle vendette del governo borbonico.»

Il Procuratore generale prendeva la cartolina, s'accostava alla finestra, la scioglieva e sperdeva al vento la polvere. Quel portafoglio conteneva la lista dei componenti il Comitato di Napoli, di tutti i cospiratori, e di tutti i corrispondenti, scritta con inchiostro simpatico. La polvere bianca, sciolta in un bicchiere d'acqua, avrebbe dato il mezzo di leggere, tutti quei nomi, scritti di pugno del Nicotera.

Il Procuratore generale, più furbo dell'intendente Ajossa, quando vide che il famoso libro a riscontro non si trovava, rifrugò tra le carte del processo; trovò la Nota campioni, e s'incaponì a crederla la chiave del cifrario. L'adoperò, e lesse interi i nomi del Matina, dell'Agresta, del Libertini, del Magnone e degli altri. L'istruttoria poteva dirsi compiuta; l'atto d'accusa veniva redatto, e gli accusati comparivano alla sbarra. Le prime parole del Nicotera furono un aggressione vivace contro il procuratore generale.

«— Protesto contro il modo iniquo con cui mi volete dar complici, ch'io non conosco e non ho mai conosciuto. Avete preso uno dei fogli del processo, e vi avete scritto cifre arbitrarie, le quali, interpretate a vostro modo, vi dessero i nomi del Libertini, del Matina, dei Magnone, dell'Agresti, del Verdolina, che avevate già arrestati prima. Il vostro è artificio infernale di polizia per colpire innocenti, mentre i veri, i soli rei siamo io ed i miei compagni morti sul campo di battaglia.»

Il Procuratore generale replicava vivissimamente. Le sue parole mettevano in sodo che egli si era valso della Nota Campioni.

Quella nota, rispondeva il Nicotera, conteneva nomi, non conteneva cifre. Le cifre vennero aggiunte dopo. Domando che si constati il fatto, consultando il verbale di ricognizione.»

Nasceva un incidente, si consultava il verbale, e la Corte era costretta a ritirarsi per deliberare. Non osando prendere da sola una decisione, consultò telegraficamente il Consiglio supremo di Napoli. Finalmente, esaminato il processo, riconosceva che la Nota Campioni conteneva soli nomi, e che non poteva venire considerata come mezzo di prova per le figure aggiunte in seguito. Così scomparve la prova contro il Matina, il Libertini e gli altri, e la Corte li mandò assolti. L'ingegnoso eroismo del Nicotera riesciva a salvare i propri compagni. Procedendosi nell'interrogatorio, il Nicotera veniva interpellato se conosceva un certo regolamento. Era fatto scendere presso il cancelliere. Egli guardava il foglio, e rispondeva:

«— Questo è il regolamento del convitto femminile di Vercelli.

«Voi mentite! sclamava il procuratore generale.

«— Signor presidente, replicava freddo il Nicotera: la prego a difendermi dagli insulti del procuratore generale. Questo è il regolamento del convitto femminile di Vercelli.

«— Vi ripeto che siete un mentitore! —

Non ancora era uscita intiera l'ingiuria dal labbro del procuratore generale, e già il Nicotera, sollevato il calamaio di bronzo del cancelliere, glielo scaraventava in viso.

L'udienza era sospesa, ed il processo interrotto per quindici giorni. E d'ordine di re Ferdinando si riapriva con una dichiarazione del procuratore generale, che non aveva inteso di offendere la persona dell'accusato barone Giovanni Nicotera.

Due compagni, generosi quanto lui, s'alzavano al processo, e dichiaravano che il Nicotera li aveva sconsigliati dalla spedizione, e che un assalto dei cacciatori li aveva sorpresi mentre stava inalberando la bandiera bianca, e voleva indurli alla resa.

«— Quei signori mentono! interrompeva con impeto il Nicotera. Caddi tramortito alle prime ferite, e me vivo, e padrone dei miei sensi, non avrei mai, come non ho, parlato di resa, nè innalzato bandiera bianca, davanti alle soldatesche del Borbone.» —

Prima che si chiudesse la procedura, il Nicotera protestò anche contro l'accusa che gli insorti avessero commesso furti e rapine, ricordando invece che uno era stato fucilato per ordine del Pisacane per avere involati pochi carlini ad una donna.

Quando, in carcere, gli recarono la sentenza (era la notte dal 19 al 20 luglio 1858), svegliato dagli amici, fece attendere un'ora il cancelliere per compire la sua teletta; indi gli chiese seccamente:

«— Quante condanne di morte?

«— Tre.

«— Per quanti è giunta la sospensione?

«— Per due.

«— Ed io sono l'escluso non è egli vero?

«— Sì; furono graziati Gagliani e Sant'Andrea.

«— Bene; mi basta. —»

E dato mano agli strumenti, convertì la prigione in sala da ballo!

Quando il capo custode delle carceri, certo Giacomo Ferrigno, gli recò l'annuncio che, per istanza del Governo inglese, il re gli aveva commutata la pena di morte nella galera a vita, egli rispose con un motto rimasto tradizionale a Salerno:

«— Sarà per un'altra volta!

Il presidente della Gran Corte, il Dalia, all'annuncio della grazia di Ferdinando, mostrava al Nicotera il desiderio che lui e i suoi compagni avessero corrisposto col grido di viva il re! Al che egli sclamò fieramente che quel grido equivaleva a morte alla libertà.

Il Governo inglese erasi intromesso nella quistione per l'affare del Cagliari, facendosi mediatore del Piemonte, che chiedeva la restituzione del piroscafo e la liberazione dei due macchinisti. Esso usò ogni ascendente presso la corte di Napoli perchè le pene di morte fossero commutate; e così il Nicotera venne condannato a vita nell'ergastolo, e gli altri condannati a morte ebbero i lavori forzati per trent'anni; altri pene minori; moltissimi furono prosciolti per mancanza di prove a loro carico.

Il Borbone, «aprendo tutto il paterno cuore alla beneficenza,» destinò la somma di annui ducati duemila a favore dell'isola di Ponza per le «sciagure in cui fu immersa per opera dei malfattori che la invasero;» dispose altri duemila ducati da dipartire fra i poveri di quell'isola, profuse onori e gratificazioni agli Ajossa, ai Ghio, ai Marulli, ai Capi-Urbani, e fece distribuire onorificenze e danaro ai gendarmi, ai cacciatori, alle guardie urbane, a tutte le centinaia di eroi che combatterono un pugno d'uomini. Infine fece coniare una medaglia che eternasse le infamie di Padula e di Sanza, la quale venne specialmente data agli assassini dell'eroico Pisacane e suoi compagni. Una di queste medaglie d'oro è conservata dal Nicotera per dono fattogliene dal Garibaldi.

Il Governo borbonico volle in ogni maniera vendicarsi del Nicotera. In generale i condannati politici venivano mandati a Santo Stefano, senza catena; esso inviò invece lui nelle terribili sepolture di Favignana, con trenta libbre di ferro al piede, in una fossa dove bisognava estrarre l'acqua, e dove visse parecchi mesi con due soldi di pane al giorno, senza mai venir meno a quella fortezza d'animo di cui aveva date tante prove. Fattogli intendere durante la prigionia come avesse potuto ottenere una grazia speciale, la respingeva disdegnosamente, scrivendone in questo senso ad un tal Angeleri. Egli era entrato in Favignana negli ultimi di agosto dell'anno 1858. La traduzione da Salerno in Sicilia, nell'ergastolo, era stata affidata con ordini severissimi a Michele Bracco, ufficiale della marina militare.

E quando nel 1860, i Borboni accordarono il perdono, vi furono compresi gli Spaventa, i Poerio, i Pironti; il solo Nicotera ne rimase escluso, nè avrebbe riveduto la luce del sole, senza l'ardimentosa spedizione dei Mille.

Giovanni Nicotera, visitato il Garibaldi, come potè acquistare tanto di forza da potersi muovere ed operare per l'Italia, si recava sollecito in Toscana, ed ivi assunse il comando di una brigata di volontari, che, in unione ad altre, sotto gli ordini del Pianciani, dovevano far guerra al Lamoricière per liberare Roma. L'impresa non potè aver luogo per l'opposizione del barone Ricasoli. Nel 1866 fece la guerra del Trentino come colonnello-brigadiere dei volontari. Nel 1867, alla testa di una schiera pure di volontari, dalla Terra di Lavoro penetrò nel territorio romano per iniziare la guerra di emancipazione di quella provincia; ma non fu punto assecondato nella sua nobile impresa.

Giovanni Nicotera è tarchiato e robusto come un alpigiano, svelto ed elegante come uno zerbinotto, colla faccia bruna, circondata da nera e foltissima barba, somigliante a quella d'un tribuno romano; è di ingegno svegliatissimo, di facile e immaginosa parola, pronto all'assalto e abilissimo nella difesa, focoso e nel tempo stesso attissimo a padroneggiarsi anche nel fervore di una improvvisazione. Il Nicotera è la più diretta riproduzione di quegli oratori improvvisati dalla Repubblica Partenopea, di cui il Colletta ci ha tramandato non pochi esempi. Egli fu deputato al Parlamento italiano, e lo è tuttodì come rappresentante del Collegio di Salerno. In oggi è Ministro per gli affari dell'interno, e l'Italia attende da lui e dai suoi colleghi opere di ben ponderato progresso.

 

FINE.

LA SPIGOLATRICE DI SAPRI

(1857)

 

Eran trecento: eran giovani e forti

E sono morti!

Me ne andava al mattino a spigolare

Quando ho visto una barca in mezzo al mare:

Era una barca che andava a vapore,

E issava una bandiera tricolore.

All'isola di Ponza si è fermata,

È stata un poco, e poi s'è ritornata:

S'è ritornata, e qui è venuta a terra,

Sceser con l'armi e a noi non fecer guerra.

Eran trecento: eran giovani e forti

E sono morti!

Sceser con l'armi e a noi non fecer guerra,

Ma s'inchinaron per baciar la terra

Ad uno ad uno li guardai nel viso,

Tutti avevano una lagrima ed un sorriso:

Li disser ladri usciti dalle tane

Ma non portavan via nemmeno un pane:

E li sentii mandare un solo grido:

— Siam venuti a morir pel nostro lido —

Eran trecento: eran giovani e forti

E sono morti!

Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro

Un giovin camminava innanzi a loro;

Mi feci ardita, e presolo per la mano

Gli chiesi: Dove vai, bel capitano?

Guardommi e mi rispose — O mia sorella,

Vado a morir per la mia Patria bella! —

Io mi sentii tremare tutto il core

Nè potei dirgli — V'aiuti il Signore —

Eran trecento: eran giovani e forti:

E sono morti!

Quel giorno mi scordai di spigolare

E dietro a lor mi misi ad andare:

Due volte si scontrar con li gendarmi

E l'una e l'altra li spogliar dell'armi

Ma quando fûr della Certosa ai muri

S'udiron a suonar trombe e tamburi:

E tra il fumo e gli spari e le scintille

Piombaron loro addosso più di mille.

Eran trecento; eran giovani e forti

E sono morti!

Eran trecento, e non voller fuggire,

Parean tre mila e vollero morire:

Ma vollero morire col ferro in mano

E innanzi ad essi scorrea sangue il piano.

Finchè pugnar vid'io, per lor pregai,

Ma un tratto venni men, nè più guardai...

Io non vedeva più fra mezzo a loro.

Quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro.

Eran trecento: eran giovani e forti:

E sono morti!

 

Luigi Mercantini.

 



[1] Andava la genuina sette franchi con qualche soldo di più.

[2] Nave alla foggia di quelle dei corsari.

[3] Prima del 1847 erano state offerte al venerabile cugino del Balilla parecchie migliaia di lire per quello stendardo, ma l’onesto e nobile artigiano, che tanto era altero di tenerlo in deposito, rifiutò l’ingente somma, dicendo che per qualunque tesoro non avrebbe ceduto mai il tesoro della sua casa e del suo quartiere.

[4] Il monumento di Balilla è alto circa cinque metri e mezzo, la base ne è di marmo, la statua del popolano in bronzo. Quel monumento venne posto anzichè in Portoria, nell’attigua piazza dell’Ospedale di Pammatone per non ingombrare la strada, essendo alquanto stretta come molte ve ne sono in Genova.

([5]) Dal libro di quest'autore attingemmo varie ad interessanti notizie sui fatti bresciani.

([6]) Il vero podestà di Brescia, l'Averoldi, era fuggito per scansare l'arresto ordinato da Haynau in conseguenza della scoperta del magazzino di vestimenti militari sopra citato.

([7]) Narra il Cassola che di quel sacrificio venne il Zambelli giustamente ricompensato, perché il Montecucoli, conscio del suo fedele attaccamento al paterno regime di casa d'Austria, gli conferiva il posto di amministratore dei Luoghi Pii.

([8]) Correnti.

([9]) Tiro Speri morì martire per la fede italiana; egli fu appiccato a Mantova dagli Austriaci il 3 marzo 1853. Vedi I processi di Mantova pubblicati in questa raccolta.

([10]) Attilio nobile Pulusella, nativo di Cellatica, d'anni 36, cappellano nel santuario delle Grazie, e Luigi Usanza, di Borgo san Giovanni, d'anni 20, venivano per ordine di Haynau fucilati, il 20 ottobre 1848; il primo, diceva la notificazione, per aver tenuto indosso uno stile bitagliente, il secondo perchè possessore d'una pistola.

([11]) Veggansi Cassola e Correnti.

([12]) Il generale Nugent, innanzi spirare, chiamò nel suo testamento legataria la città di Brescia, non sappiamo se per iattanza soldatesca o per rimorso. Nel cippo che venne collocato nel cimitero di quella città alla di lui memoria, il governo austriaco fece incidere il verso di Monti nella Basvilliana: «Oltre il rogo non vive ira nemica

([13]) Fra i cinque fatti prigionieri eravi l'intrepido Speri. Questi però, poco dopo, quasi per miracolo, riusciva a fuggire lor di mano, riportando soltanto leggiera ferita al capo. Per quanto ci consta tra i martiri di quella fazione trovaronsi il Nullo, il Lovatini ed il Taglianini.

([14]) Parecchi giornali austriaci si scatenarono contro il Comitato di pubblica difesa in Brescia, tacciandolo di selvaggia ferocia, per avere, come dicevano, fatti massacrare gli ammalati militari e gli altri prigionieri di guerra. Sappiano però quei satelliti del dispotismo che gratuitamente lanciarono tali imputazioni, che il Comitato ed il popolo bresciano non attinse la sua politica alla malvagia scuola di Casa d'Austria; e sebbene nelle corrispondenze co' propri aggressori minacciasse qualche volta l'esterminio dei prigionieri di guerra, nol fece che per tentare con tale mezzo dl rimuovere i bombardatori dai loro progetti di distruzione, ma in realtà i prigionieri sempre furono trattati con tutta l'umanità.

([15]) Il pietoso spettacolo che offrivano i soldati riedenti dal Piemonte, specialmente dalla porta Vercellina, aveva sì fattamente persuasi i Milanesi essere gli Austriaci in ritirata, che, lieti in volto, andavansi ripetendo: Lasciamoli pur stare: entrano da una porta per uscire da un'altra; fra poco saremo liberi senza macchiarci di sangue.

([16]) Correnti.

([17]) Correnti.

([18]) Correnti.

([19]) Correnti.

([20]) Quanto fosse l'orrore destato nell'Europa tutta civile ai fatti dell'Haynau, consumati sì in Italia che in Ungheria, ci basti il citare che, recatosi quel crudo uomo, alcuni anni dopo, a visitare in Londra una officina, gli operai, udito chi egli fosse, gli si avventarono addosso. gli strapparono gl'ispidi baffi; e lo avrebbero freddato alle grida di morte al carnefice di Brescia e di Arad, se non fossero accorsi soldati a salvarlo.

([21]) Per comprendere quanto i soldati vendessero all'impazzata le loro ladronate, diremo come giungessero perfino a spacciare per una lira austriaca un sacco di riso, e per cinquanta una coppia["copia" nel testo] di buoi.

([22]) Così nel testo, ma è 1849. Nota per l'edizione elettronica Manuzio

([23]) Noi non crediamo necessario di entrare nella confutazione delle molte falsità asserite in questo rapporto. I fatti per noi narrati vennero attinti a fonti troppo autorevoli per poterli mettere in dubbio; il mondo sa che fede si possa attribuire ai bollettini austriaci. Noteremo soltanto come l'Haynau non che sperar di vedere i Bresciani rinunciare al loro pazzo proposito di difesa non dicesse verbo di ciò che avrebbe potuto indurveli; che attaccò alle tre e non alle quattro, che lo stato delle forse operanti il 31 non giunge al terzo del vero.

([24]) Giacinta Luchinati di Genova, a mo' d'esempio, era caporale nella legione universitaria di Roma, e combattè in più luoghi coraggiosamente. Giulia Modena portava il vessillo dei volontari della Venezia, che sempre difese. Anco le madri distaccarono senza dolore dal petto i propri figli. Un esule romagnolo, appena scoppiata la guerra, scrisse alla vecchia madre che tornerebbe ad abbracciarla e che quindi andrebbe tosto a combattere l'abborrito Austriaco. La povera madre temette la propria tenerezza, e rispose al figliuolo: «Ti ho desiderato tanti anni per rivederti prima di morire: ma se tu venissi adesso come potrei aver la forza di lasciarti partire? Va, combatti per la patria. Se muori per lei ci rivedremo presto in cielo. Dio mi terrà conto del sacrifizio.» Un'altra madre, la signora Danzetta di Perugia, mandò i suoi due figli al campo, e quando seppe che uno era morto combattendo a Cornuda disse: Spero che l'altro non sarà fuggito.»

([25]) Fu il creatore del corpo del bersaglieri; egli morì in Crimea.

([26]) Siamo dolenti di non aver potuto raccogliere i nomi dei volontari di Genova, nè di altre città che caddero nella guerra dell'indipendenza. Fra gli studenti dell'Università di Torino troviamo quattro giovani che caddero da prodi. Sono Saccheri, Coppa, Longoni e Rogiapane.

([27]) La cattedrale di Firenze, detta del Fiore, dal simbolo rappresentante Fiorenza, che è il giglio. Il tempio di Santa Maria del Fiore, il Campanile e il Battistero di San Giovanni, basterebbero essi soli ad illustrare una città capitale.

([28]) C. A. Vecchi.

([29]) Que' tre ordini chiamavansi bracci o ceti; ed erano il baronale l'ecclesiastico ed il popolare, composto quest'ultimo dei deputati delle città non soggette a feudo.

([30]) Specialmente il magnifico palazzo di Caserta e il superbo teatro di San Carlo, entrambi unici nel loro genere.

([31]) I giorni di Ferdinando erano occupati dalle donne, dal vino, dai bagordi, dalla caccia e dalla pesca.

([32]) Carolina d'Austria era disordinata nella fantasia, ardente nei desideri; univa alle lubriche ispirazioni della mente, una più potente lubricità di organismo; era l'antica Messalina, era Venere Afrodisiaca. Di lei si poteva dire quanto scrisse di Messalina Giovenale: et lassata viris, nec dum satiata recessit.

([33]) Antica Repubblica greca nella Calabria; ivi sbarcarono i fratelli Bandiera, allorchè partirono da Corfù per sommuovere le Calabrie.

([34]) Veggasi: Venosta, I fratelli Bandiera, cap. I. (Ediz.:Barbini), non che I Carbonari del 1820 e 1821 (Ediz. Terzaghi.)

([35]) Si disse che le benedizioni del Pontefice lo avessero sciolto dagli obblighi del giuramento.

([36]) Ferdinando morì notte tempo d'apoplessia. Il mattino i dottori ed i servi, entrando nelle di lui stanze, trovarono le coltri e le lenzuola disordinate, e in esse avvolto il corpo cosa stranamente che pareva avesse lottato per molto tempo; un lenzuolo gli avvolgeva il capo; le gambe, le braccia erano stravolte; la bocca aperta; il viso livido e nero; gli occhi aperti e terribili. Non un congiunto, non un amico ebbe nel solenne istante della morte. Ei moriva chiuso nella propria stanza, lontano da tutti, custodito soltanto da un feroce cane mastino da lui prediletto. Il seguente distico corse un pezzo per le bocche de' Napoletani:

«Accadono in ver gran cose strane,

Moriva un lupo e l'assisteva un cane.»

([37]) Carlo Didier, l'autore della Roma sotterranea, che viaggiò in quel tempo per quegli infelicissimi luoghi, narra nella Revue des deux Mondes di aver veduta la testa di un vecchio in cima ad una picca piantata davanti alla casa di lui: i bianchi capegli, macchiati di sangue, ondeggiavano al vento e davano alla famiglia orrenda vista.

([38]) Giuseppe Mazzini, esule genovese, dopo aver assistito alla mala prova della spedizione di Lione del febbraio 1831, passò in Corsica con altri esuli per dar moto ad uno sbarco di Carbonari accorsi sulle rive della Toscana per aiutare la rivoluzione dell'Italia centrale. Veduti fallire per mancanza di senno politico e di ardita difesa i moti di quelle provincie, e avendo conosciuto da vicino i capi preposti al movimento della Romagne e dei Ducati, ben presto si avvide che l'Italia non era risorta perchè mancavano gli accordi fra i capi e il genio rivoluzionario. E però decise di dare alla Penisola un generale organamento che si appoggiasse sulle forze vitali della Nazione. Si recò a Marsiglia, da quivi si volse alla gioventù italiana, e prima che terminasse l'anno 1838 ebbe una potente e segreta affiliazione in Italia, e fondò la Giovine Italia, ed un giornale, che, coll'istesso nome, sfidava altamente i re ed i governi, ne svelava le turpitudini, li perseguitava colla storia del vero; e mentre mostrava al mondo che, quantunque sfortunati, nè ciechi, nè vili erano gl'Italiani, questi educava nel santo concetto dell'unità della patria e li infiammava a' fatti ardimentosi.

([39]) Cattaneo, Politecnico, n. 45, pag. 270.

([40]) Pietro Ceroni pubblicò un aureo libro sulla Stampa nazionale Italiana.

([41]) È superfluo avvertire che queste parole erano scritte prima dell'anno 1865, tempo in cui venne dal Parlamento sanzionato il Codice Civile.

([42]) Favignana è una delle isolette sparse nelle acque di Marsala e di Trapani. Nella parte occidentale di essa s'innalza un monte, la cui vetta è coronata di fabbriche che formano una delle più terribili carceri.

([43]) Nel primo assalto la daga incontrò la resistenza dei mappafondi delle pistole e si torse all'impugnatura. Agesilao con occhi di bragia, vedendo il colpo fallito, ebbe la freddezza di dirigere lo schioppo in modo che la daga torta andasse a ferire dritto il re; ma non potè compiere questo disegno per l'accorrere di della Tour.

([44]) Vuolsi che Agesilao Milano si decidesse ad uccidere il re per trarre vendetta della morte d'un fratello moschettato nel 1848, perchè liberale dal maresciallo Nunziante, quando comandava nella Calabria Citra, morte che trasse seco quella del padre.

([45]) Il Del-Re fu posto sotto processo per la sua poesia in cui era esaltato il regicida. Ma i giurati, avendolo dichiarato non colpevole, veniva rimandato assolto (luglio 1857).

([46]) Non volle il Borbone risparmiato nè pure il capitano del Milano, il signor Testa. Lo fece mandare alla seconda classe per non aver fatto osservare che, nello stato di assento, il Milano era qualificato come idiota, mentre doveva saperlo giovine istruito.

([47]) Giovanni Nicotera, dopo essersi distinto nell'anno 1848 nelle Calabrie, fu nel 1849 a Roma, ed ebbe il grado di sottotenente nel reggimento Manara.

([48]) Allude alla fallita spedizione del giorno 13; da questo si vede la fiducia che aveva il Pisacane nelle promesse fattegli.

([49]) Nome convenzionale di Fanelli.

([50]) Il Pisacane voleva arrivato in Napoli incominciare senz'altro la rivoluzione.

([51]) Sin da quando pubblicammo nel 1864 i fatti di Sapri ci fu presentato uno scritto firmato, come ci si affermava, dagli stessi, L. Zuppetta, G. Matina, N. Agresti, R. Laurelli, Nicola Mignogna, Filippo De-Boni, Nicola Fabrizi, Aurelio Saffi, Antonio Mordini, e F. Crispi, in cui, citando documenti, si dimostrava che Fanelli e Dragone in fatto di promesse portarono il dubbio insino allo scrupolo; che le loro vedute e i loro disegni accennavano a profonde meditazioni ed a previdenze di favorevoli risultati; che Mazzini e Pisacane, astretti dai loro progetti preordinati ed allettati dalla speranza che un diversivo qualunque potesse dare forme atletiche ai sincroni movimenti altrove preparati, operarono improvvisamente ed anticipatamente a ciò che gli accordi indicavano; che infine il disastro di Sapri dovevasi ascrivere ad una di quelle fatalità, che ogni popolo è condannato a subire come inesplicabile volere del cielo, e come prezzo anticipato della redenzione. Malgrado di un tale scritto, testimoni oculari, assicurano che Il comitato di Napoli mancò alla data parola.

([52]) Nel 1860 con religioso raccoglimento quivi si fermarono i Garibaldiani a contemplare il letto ove dormì il martire, Pisacane.

([53]) Affinchè i lettori abbiano una esatta cognizione del numero delle forze contro cui dovettero combattere i compagni dell'infelice Pisacane, accenniamo come i battaglioni di cacciatori nell'ex esercito borbonico fossero composti di otto compagnie dai 150 ai 160 uomini cadauna.

([54]) Diamo luogo alla relazione d'un testimonio oculare che dimostra quali Istruzioni avesse dato il Rattazzi a' suoi agenti.

«Il giorno 11 luglio, non saprei indicare a quale ora precisa dopo il mezzodì, la signora D.... parlava con due amiche, che erano a visitarla, delle incerte notizie che correvano sulla spedizione, e delle speranze che ancora rimanevano dell'esito e della vita del Pisacane. Picchiato l'uscio, ella disse d'improvviso: «Questa dev'essere la Polizia.» Aprì, e vide entrare il vice-console di Napoli, accompagnato da uscieri e da un giudice; questi con aria insolente e burbera, e con voce truce prese a dire: «Essendo morto Carlo Pisacane, siamo venuti in questa casa che egli abitava per mettere in sicuro la roba sua.» A quest'annunzio la signora D.... ricevè tale impressione che si può sentire, ma esprimere non mai. Nervosamente commossa, tra l'ira e il dolore che non ha nome, si avvicinava al giudice malaugurato ripetendo: «È morto? E dà a me questa notizia? A me?....» E il giudice rispondeva: «Sì, a lei; non se ne dovrebbe meravigliare; perchè questo era il fine che doveva fare, e che faranno tutti i pazzi come egli era.»

«La signora si volgeva al vice-console di Napoli domandandogli se fosse vera la morte. E costui umanamente le rispondeva: «Ne sono dolente, signora, di compiere questo ingrato ufficio; ma egli è morto.»

«Le persone che erano presenti lodano come civile la condotta del vice-console napoletano, e danno la parte di esecutore spietato al giudice del Rattazzi. Fino gli uscieri erano visibilmente commossi; gli astanti versarono lagrime. — Rifrugarono le carte: ignorasi con qual diritto. La signora protestava che erano sue le robe tutte che trovavansi in casa, perchè pagato da lei sola il fitto dell'alloggio che dava al Pisacane. Le domandarono la scrittura di locazione, e il proprietario, che era presente, attestò che non s'era fatta scrittura, perché la signora D.... pagava il fitto a trimestri anticipati. Ciò non ostante il sequestro fu eseguito inesorabimente, e se il vice-console di Napoli non s'interponeva per lasciare alla signora la custodia della camera suggellata, il giudice nominava un custode a spese della medesima.»