CENACOLO DEI COGITANTI |
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il 4-2-2009
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De Caprio. I Cenacoli umanistici (Letteratura
italiana – Einaudi) |
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UMANESIMO/RINASCIMENTO
di Enrico Galavotti
DA: www.homolaicus.com/storia/moderna/umanesimo_rinascimento/index.htm
Quadro storico
L'Umanesimo e il Rinascimento nacquero per primi in
Italia perchè qui, prima o più che altrove, si ebbero le condizioni favorevoli
alla nascita dei rapporti capitalistici. Nei secoli XIV e XV l'Italia era uno dei
paesi più progrediti d'Europa. Nel XIII sec. le città italiane avevano difeso
vittoriosamente, nella lotta contro l'impero tedesco, la propria indipendenza
(che divenne oltremodo sicura dopo la caduta della dinastia degli
Hohenstaufen). Il problema stava semmai nel fatto che il territorio del paese
non era ancora unito economicamente e politicamente.
Già verso la metà del XIII sec. ebbe inizio in
molte città-stato repubblicane la liberazione dei contadini dalla servitù della
gleba. A ciò naturalmente non corrispondeva mai un'equa distribuzione della
terra ai contadini liberati: la libertà concessa era solo giuridica, non
economica. Con la sola libertà "formale" essi non potevano fare altro
che trasformarsi in operai salariati o in braccianti, sfruttati da artigiani
arricchiti, dai maestri delle corporazioni, da mercanti-imprenditori o da altri
ricchi contadini neo-proprietari o dagli stessi feudatari di prima, ma con
altri metodi (ad es. la mezzadria, la rendita in denaro, ecc.).
Ecco perchè la produzione capitalistica si sviluppò
precocemente in Italia. I servi della gleba si emanciparono ancor prima di
essersi assicurati un qualsiasi diritto sulla terra. Naturalmente non mancarono
proteste e rivolte contadine, aventi per tema la distribuzione equa delle proprietà.
La più famosa delle quali fu quella di Fra Dolcino, agli inizi del '300,
considerata una delle più grandi insurrezioni contadine dell'Europa occidentale
di quel periodo. Queste rivolte furono sempre duramente represse: esse tuttavia
contribuirono alla transizione dal feudalesimo al capitalismo.
Nel XIV sec. avvennero grandi trasformazioni nella
produzione artigianale controllata dalle corporazioni. Si costatò che
l'ostinazione nel mantenere la piccola produzione, i metodi e gli utensili
tradizionali e la tendenza a frenare l'ulteriore progresso tecnico (che
diventava fonte di concorrenza tra i singoli artigiani della medesima
specializzazione), avevano trasformato le corporazioni in un ostacolo al
progresso della tecnica e all'ulteriore sviluppo della produzione.
Accadde allora che singoli artigiani, per
soddisfare le aumentate esigenze del mercato interno e soprattutto estero,
cominciassero ad allargare la loro produzione aldilà delle rigide barriere
corporative. Quelli che possedevano le botteghe più grandi commissionavano il
lavoro ai piccoli artigiani, consegnando loro la materia prima o semilavorata e
ricevendo il prodotto finito. In tal modo aumentava la ricchezza degli
artigiani più abbienti e lo sfruttamento di quelli piccoli, ivi inclusi gli
apprendisti e i garzoni. Anzi, col tempo, la qualifica di "maestro"
divenne accessibile solo agli apprendisti e ai garzoni che erano imparentati
colla famiglia dell'imprenditore. Gli altri garzoni e apprendisti si
trasformarono in operai salariati a vita.
I contadini senza terra, i garzoni e gli
apprendisti, i braccianti, i piccoli artigiani costituivano la grande
maggioranza dello strato inferiore degli abitanti delle città. I piccoli
artigiani, in particolare, venivano sfruttati anche dal capitale commerciale di
quei mercanti che fornivano materia prima, impegnando gli artigiani a rivendere
loro i prodotti finiti, rendendoseli così economicamente dipendenti. Questo
processo servì da punto di partenza per la manifattura capitalistica.
Nelle fabbriche di panno (opifici) cominciarono a
lavorare contadini senza specializzazione e artigiani caduti in rovina. Ogni
operaio doveva svolgere una sola operazione. Tale divisione del lavoro era
ignota all'artigiano della corporazione e anche al contadino (che nel periodo
invernale, peraltro, svolgeva anche mansioni da artigiano). Anche nei cantieri
navali di Venezia e Genova si affermò il principio della divisione del lavoro.
In seguito, nei settori della metallurgia, nell'estrazione dei metalli, ecc.
Sorsero poi unioni d'imprenditori che si occupavano
contemporaneamente del commercio, dell'industria e dell'attività bancaria, e
che smerciavano la produzione soprattutto nei mercati esteri (cioè nei paesi
dell'Europa occidentale, del Mediterraneo orientale e dell'Asia). La domanda
estera contribuì, a sua volta, a sviluppare la manifattura: il lavoro cioè in
un unico luogo di un gran numero di operai sotto la direzione di un
capitalista. Le prime manifatture dell'Europa tardo-feudale sorsero nelle città
italiane più sviluppate e in alcuni centri del commercio d'esportazione di
altri Paesi (come ad es. le città delle Fiandre, dell'Olanda, ecc.).
Lo sfruttamento degli operai era notevole: la
giornata lavorativa, in media, era di 14-16 ore, sotto lo stretto controllo dei
sorveglianti, con salari molto bassi, coi quali spesso l'operaio doveva pagare
delle multe anche per le più piccole infrazioni. La prima rivolta degli operai
salariati avvenne a Firenze nel 1343: fu quella dei cardatori di lana. Poi ci
fu quella dei lanaioli a Perugia nel
E tuttavia, se i tumulti popolari non riuscirono a
trasformare il capitalismo manifatturiero italiano in un sistema produttivo più
equo e democratico, il frazionamento politico-economico del territorio (nel
quale esso si era pur formato) ne impedì l'ulteriore sviluppo, determinandone
infine la decadenza. Le città italiane, isolate fra loro economicamente,
commerciavano merci di produzione propria, che finivano principalmente sui mercati
esteri. Per la conquista di questi mercati le città erano sempre in concorrenza
fra loro: di qui le interminabili guerre, che portavano sempre
all'indebolimento delle reciproche parti. Alla fine del '400 la situazione in
pratica era la seguente: a Milano i duchi della famiglia Sforza; a Venezia
l'oligarchia commerciale; a Firenze i Medici; nell'Italia centrale lo Stato
della chiesa e a sud il Regno di Napoli, governato dalla dinastia spagnola
degli Aragona. Lo Stato della chiesa e il Meridione erano praticamente
sottosviluppati: il papato, oltre ad ostacolare fortemente l'unificazione della
penisola, spesso chiamava in Italia i conquistatori stranieri allo scopo di
consolidare il proprio prestigio (famosa fu la rivolta a Roma di Cola di Rienzo
nel 1347).
La mancanza di un unico mercato nazionale fu il
motivo principale della decadenza economica dell'Italia (si pensi ad es. alla
presenza delle barriere doganali, ai dazi elevati, al protezionismo reciproco
degli Stati: fattori questi che facevano enormemente lievitare i prezzi delle
merci). Peraltro, all'interno di ogni Stato solo la città principale poteva
estendere la propria industria. L'assenza del mercato nazionale aveva prodotto
notevoli contraddizioni nella gestione dell'economia: nelle manifatture si
impiegavano ancora metodi di costrizione diretta insopportabili; la borghesia
restava legata ai signori feudali, per cui nella campagna la manifattura si
estese pochissimo (i latifondisti non avevano gli stessi interessi della
borghesia e si accontentavano del rapporto di mezzadria, i cui pesi anzi
venivano sempre più accentuati e scaricati sulle spalle dei contadini);
l'export si riferiva soprattutto al tessile; le corporazioni continuavano ad
esistere...
Fu sufficiente la scoperta dell'America, che spostò
il traffico commerciale sulle coste dell'Atlantico, a far perdere all'Italia la
sua importanza nel commercio mondiale e a farla ritornare al sistema feudale,
rendendola di nuovo appetibile per le nazioni straniere (specie Francia e
Spagna). Quando Inghilterra, Francia e altri paesi nord-europei svilupparono
una loro manifattura, i prodotti tessili delle città industriali italiane non
furono più concorrenziali, sia in quantità che in qualità. Successivamente
altre industrie furono rovinate dalla concorrenza straniera: cantieristica,
bellica, cotonifici, ecc. In sostanza solo i prodotti di lusso continuavano ad
essere richiesti (seta, oreficeria, vetro veneziano, oggetti d'arte), il cui
consumo ovviamente riguardava l'élite.
Il Mediterraneo perse d'importanza per le città
italiane anche a causa dell'occupazione di Costantinopoli nel 1453, data a
partire dalla quale i nostri mercanti, per riavere i diritti commerciali di un
tempo, dovevano pagare forti tasse. L'unica via di transito per l'oriente era
quella egiziana, ma qui erano i sultani arabi a detenere il monopolio del
commercio.
A causa della decadenza economica, mercanti ed
imprenditori cominciarono ad abbandonare l'attività commerciale e industriale,
ricercando altri settori nei quali investire con profitto i propri capitali. Fu
così che si svilupparono le operazioni finanziarie e usuraie (con prestiti ai
proprietari terrieri, ad es.), ma anche l'acquisto di terre insieme ai titoli
nobiliari da parte della borghesia cittadina. Imprenditori, mercanti e banchieri
si trasformavano in proprietari terrieri che concedevano piccoli appezzamenti
di terra in affitto a contadini a condizioni semi-feudali. La rendita feudale
divenne la fonte principale dei loro redditi.
Nell'Italia settentrionale, man mano che si chiudevano
gli opifici, una gran quantità di operai era costretta a lasciare la città e a
ritornare in campagna: di qui il grande sviluppo dell'orticoltura. Il tipo
dominante di affitto era la mezzadria: in base a un contratto il mezzadro
doveva assumersi tutte le spese dell'azienda, apportare i miglioramenti
necessari e introdurre nuove colture. iNaturalmente l proprietario poteva
sempre interferire, però s'impegnava a fornire sementi, bestiame, strumenti
agricoli o il denaro per comprarli. Il mezzadro doveva dare metà del raccolto
al proprietario e pagare le imposte allo Stato. Purtroppo, i mezzadri, dovendo
sopportare le guerre di conquista franco-spagnole e vessati da interessi
usurai, divennero ben presto, pur essendo formalmente liberi, schiavi del loro
padrone, per cui la fuga dalla terra veniva sempre punita col carcere. Col
tempo ovviamente il padrone pretenderà, oltre alla metà del raccolto, anche
altre corvées. In una situazione ancora peggiore si trovavano gli operai
salariati agricoli, completamente privi di qualunque proprietà.
Il frazionamento politico rese l'Italia facile
preda degli Stati vicini, Francia e Spagna, che avevano già ultimato la loro
unificazione alla fine del '400 mediante forti monarchie centralizzate. Il
primo a scendere fu Carlo VIII chiamato da Ludovico il Moro di Milano per
combattere Ferdinando I, re spagnolo a Napoli. Carlo VIII s'insediò nel
napoletano coll'intenzione di restarvi, ma Milano, Venezia, il papato, il re di
Spagna e l'imperatore d'Austria riusciranno a cacciare i francesi.
La guerra naturalmente continuò ancora per molti
anni: sino alla pace di Cateau-Cambresis (1559), che sancì definitivamente
l'egeminia spagnola in Europa e in Italia. La Francia dovette rinunciare a ogni
pretesa sull'Italia.
Durante queste guerre, l'Italia cattolica si vide
impegnata anche nella Controriforma con il Concilio di Trento (1545-63): si
ripristinò il Tribunale dell'inquisizione e si istituì l'Indice dei libri
proibiti.
Contro gli avidi feudatari di Spagna e Francia, e
contro le bande di mercenari che con i loro saccheggi devastavano il paese,
insorsero le masse popolari al centro-nord con idee eretiche e riformatrici
(valdesi e anabattisti), al sud, senza idee eretiche ma con uguale volontà di
resistenza. Tuttavia la Spagna trionfò su tutti, continuando a rapinare e a
tenere in condizione di vassallaggio gran parte dei territori italiani.
Nel corso del XVI sec. si cominciò ad avanzare
l'idea dell'unificazione del paese (vedi ad es. Machiavelli e Guicciardini):
un'idea che avrebbe dovuto essere realizzata ad ogni costo e con qualsiasi
mezzo e soprattutto per opera di un principe risoluto e senza scrupoli. Il
modello del Machiavelli era il figlio del papa Alessandro VI, Cesare Borgia,
duca di Romagna, famoso per i suoi delitti.
Quadro culturale
Premessa
Probabilmente i risultati più significativi e
duraturi l'Italia li ottenne non sul terreno economico e politico, ma su quello
culturale, con la nascita dell'Umanesimo e delle arti rinascimentali.
L'insorgere dei rapporti capitalistici portò infatti alla formazione della
scienza sperimentale, alla riscoperta e allo studio dei documenti della cultura
antica (in funzione antiscolastica e antimedievale), alla fioritura dell'arte e
allo sviluppo di una concezione immanente del mondo che spezzava l'egemonia
intellettuale della Chiesa. Si ebbero anche la formazione di letterature nelle
nuove lingue vive dell'epoca e la comparsa del teatro professionale.
Sul piano delle scienze sperimentali si ebbero
grandi progressi nelle costruzioni navali, nella scienza della navigazione
(impiego della bussola, delle carte geografiche, ecc.). Si sviluppò anche la
medicina, la botanica, la matematica, l'astronomia, ecc. La borghesia aveva
bisogno dello sviluppo delle scienze basate sull'esperienza, indispensabili alla
produzione, allo smercio dei prodotti, all'aumento della produttività del
lavoro.
Questa nuova concezione del mondo si espresse nel
Rinascimento italiano soprattutto nelle opere dei poeti, dei pittori, degli
scultori e degli architetti, che erano al servizio dei ricchi cittadini, dei
signori feudali di larghe vedute e del papato.
Per "nuova concezione del mondo"
s'intende quella dei ricchi abitanti di città, trasformatisi col tempo in
borghesi. Con la parola "humanista" s'indicava nel XVI sec. il carattere
terreno, pratico, immanente della nuova scienza e della nuova letteratura, in
antitesi alla teologia e alla scolastica.
Il tratto più caratteristico dell'umanesimo era
l'individualismo, nel senso che si considerava la soddisfazione delle esigenze dell'individuo
un fine in sé. Spesso infatti si giustificava l'idea secondo cui il successo
rende leciti i mezzi con cui lo si consegue. Da questo punto di vista le
personalità che più si dovevano stimare erano quelle "emergenti" per
ricchezza, cultura e potere.
Un altro tratto caratteristico era il destarsi
negli umanisti di una coscienza nazionale: lo attesta non solo il bisogno di
scrivere nelle lingue volgari o popolari, pur essendo essi ottimi conoscitori
del latino e del greco classici, ma anche l'ideale di una forte monarchia
centralizzata come organizzazione politica della nazione.
Uno dei più grandi umanisti del XIV sec., Lorenzo
Valla, dimostrò che nella traduzione latina della Bibbia (VULGATA) erano stati
commessi numerosi errori e che il documento sul quale i papi fondarono le loro
pretese al potere temporale (la cd. Donazione di Costantino) era un falso
composto nell'VIII sec.. Questo è un solo esempio, benché notevole, di come gli
umanisti cominciassero a togliere alla chiesa il monopolio dell'interpretazione
biblica e della tradizione cristiana.
Il difetto principale degli umanisti era che si
consideravano una casta intellettuale al di sopra del popolo.
I movimenti intellettuali
Se cominciamo col movimento intellettuale che per
molti aspetti è il più caratteristico del Rinascimento, l'umanesimo, ci
troviamo di fronte a discussioni e controversie riguardo alla sua durata, al
suo significato e al suo valore. Tra gli storici italiani l'umanesimo fu spesso
identificato con la cultura del Quattrocento e separato dal Rinascimento vero e
proprio che sarebbe il Cinquecento, abitudine che è forse venuta meno negli
anni recenti.
Nei paesi di lingua inglese la parola humanism che
comprende ciò che in italiano viene distinto bene come umanesimo e umanismo, ha
portato a una grande confusione poiché il significato vago e moralizzante
dell'umanismo contemporaneo viene senz'altro applicato all'umanesimo del
Rinascimento e si dimentica che l'umanesimo del Rinascimento insiste sì sui
valori umani, ma persegue questi valori attraverso una cultura classica
(greco-romana) e umanistica.
L'umanesimo del Rinascimento è strettamente
collegato con gli studia humanitatis, schema che si distingue nettamente dalle
arti liberali del Medioevo e dalle belle arti del tempo moderno e che comprende
la grammatica, la retorica, la poesia, la storia e la filosofia morale. Siccome
la grammatica si intendeva come lo studio della lingua e letteratura classica
greca e latina, e la retorica e la poesia consistevano sia nello studio dei
prosatori e poeti classici che nella pratica della composizione in prosa e in
versi, ne risulta che gli studia humanitatis di cui gli umanisti furono maestri
comprendevano tra l'altro la filologia classica, la letteratura (latina e anche
volgare), la storiografia e la filosofia morale, ed escludevano le altre
discipline che facevano pure parte dello studio e dell'insegnamento
universitario nel Rinascimento come nel tardo Medioveo, cioè le altre
discipline filosofiche come la logica, la filosofia naturale e la metafisica, e
poi la teologia, la giurisprudenza, la medicina e le matematiche. Quindi
l'umanesimo non costituisce l'insieme del sapere o del pensiero del
Rinascimento, ma soltanto un settore parziale e ben definito.
Tra le discipline filosofiche, soltanto la
filosofia morale fa parte degli studia humanitatis mentre le altre ne rimangono
fuori. D'altra parte, gli studia humanitatis includono, all'infuori della
filosofia morale, parecchi studi che non hanno niente a che fare con la
filosofia nel senso stretto della parola: la filologia, la letteratura, la
storia.
Tra gli umanisti alcuni dettero contributi
importanti al pensiero morale, quali il Petrarca, il Salutati, il Bruni, il
Valla, l'Alberti e molti altri, ma questi stessi umanisti si occupavano anche
di storia, letteratura e filologia, e molti altri umanisti si occupavano di
poesia, retorica, filologia o storia senza dare un contributo neanche minimo al
pensiero morale o filosofico.
Le tematiche
Bisogna notare anzitutto i temi di cui gli umanisti
si occupano nei loro trattati. Sono in parte gli stessi temi che si trovano
nella letteratura filosofica antica e medievale, e specialmente quella
popolare: il sommo bene, la virtù e il piacere; il fato, la fortuna e il libero
arbitrio; la dignità dell'uomo e la sua miseria; la nobiltà e la ricchezza e i
loro rapporti con la virtù. Gli umanisti parlano del rapporto tra intelletto e
volontà, e favoriscono spesso la volontà. Parlano dei doveri e dei vantaggi di
varie forme di vita, e spesso fanno il paragone tra di esse. Difendono poi
l'importanza dei loro studi contro i critici scolastici e teologici, o
addirittura attaccano la filosofia scolastica come astrusa e inutile.
I temi e gli argomenti sono interessanti, ma non
sono profondi o rigorosi secondo i criteri della filosofia antica o moderna o
anche medievale. Le conclusioni sono spesso ambigue, e le tesi chiare di un
Petrarca, Bruni o Valla non costituiscono un pensiero sistematico o un insieme
di dottrine generalmente accettato dagli altri umanisti. Ciò che li unisce non
sono determinate dottrine, ma certi atteggiamenti generali: un ideale culturale
che si basa sullo studio dei classici latini e greci e che viene messo al
centro degli studi e della scuola elementare e secondaria, e la convinzione che
l'antichità fu superiore ai tempi più recenti e che bisognava arrivare a una
rinascita delle lettere, degli studi e del pensiero.
Gli umanisti non furono contrari al cristianesimo,
come lo erano alla filosofia e alla teologia scolastica; per loro la rinascita
dei classici comportava anche la rinascita dei classici cristiani, cioè della
Bibbia e dei Padri della Chiesa. Ma lo studio intenso della letteratura e
filosofia antica portava a una secolarizzazione degli studi e della cultura.
Abitudini stilistiche e
filologiche
La quaestio e il commento vengono man mano
sostituiti dal trattato e dal dialogo, dal discorso e dall'epistola, e
finalmente dal saggio. La prosa elegante ciceroniana o almeno classicheggiante
sostituisce il ragionamento dialettico degli scolastici, non solo nella
struttura dei periodi ma anche nella terminologia, spesso con una perdita di
precisione. La generalizzazione astratta cede all'opinione personale e
all'esperienza individuale. Si sente poi nell'uso delle fonti e delle idee la
conoscenza più vasta e più profonda dei testi classici latini e specialmente
greci.
Il poema di Lucrezio, poco copiato o citato nel
Medioevo, ebbe una diffusione notevole e rese nota la cosmologia atomistica di
Democrito ed Epicuro. Gli scritti filosofici di Cicerone, del resto ben noti
nel Medioevo, furono studiati per una conoscenza migliore delle dottrine
stoiche, epicuree e accademiche. Vi fu poi una vera ondata di testi filosofici
greci che furono studiati nel testo originale e tradotti in latino per la prima
volta: molte opere di Platone e Proclo e dei commentatori di Aristotele,
l'opera principale di Sesto Empirico, tutte le opere di Teofrasto, Epitteto,
Marco Aurelio, Plotino e degli altri neoplatonici, e anche le opere popolari di
Isocrate, Plutarco e Luciano, e le vite dei filosofi di Diogene Laerzio che
contengono pezzi importanti di Epicuro. Anche gli scritti tradotti e studiati
nel Medioevo, come Aristotele, furono ritradotti e studiati nell'originale
testo greco e si prestavano quindi a interpretazioni nuove. In questo modo
l'intero tesoro della filosofia antica fu reso accessibile al mondo occidentale
come non lo era stato fin dall'antichità romana e forse nemmeno allora.
Grazie a quest'opera di recupero, vi furono dei
tentativi seri di risuscitare in forma autentica o modificata la filosofia
stoica, epicurea e scettica, di ridurre a una forma più pura le dottrine
aristoteliche e neoplatoniche note anche nel medioevo, e di ragionare di tutti
i problemi in una maniera eclettica che utilizzava liberamente tutte le fonti
antiche (e pseudo-antiche) disponibili. Vi fu poi uno sviluppo graduale del
metodo filologico e della critica testuale che portò i suoi frutti anche
filosofici nell'opera di Ermolao Barbaro e del Poliziano. Abbiamo come
risultato di questi sviluppi nel Quattrocento e ancor di più nel Cinquecento un
fermento e una varietà delle idee scelte e ricombinate da molte fonti, che
sciolgono i concetti precisi ma rigidi della tarda scolastica e che, pur non
portando immediatamente a una nuova sintesi chiara e ferma, prepara l'ambiente
per l'opera più precisa e duratura di Galileo e Cartesio.
Infatti troviamo l'influsso dell'umanesimo, anche
fuori degli studia humanitatis, in tutti gli strati della cultura del
Rinascimento. In tutti questi campi l'umanesimo fornisce il fermento, il
metodo, lo stile e le fonti classiche piuttosto che il contenuto e la sostanza
la quale viene data in parte dalla tradizione medievale e in parte dalle
esperienze e osservazioni nuove come quelle fatte nel Mondo Nuovo.
Mentre l'umanesimo italiano, i cui inizi si possono
seguire fin dal primo Trecento o perfino dall'ultimo Duecento quando i suoi
collegamenti medievali, grammatici e retorici piuttosto che filosofici sono
ancora visibili, ebbe la sua piena fioritura nel Quattrocento, non bisogna
dimenticare che continuò attivo, specialmente nella retorica, nella poesia
latina, nella storiografia e nella folologia classica attraverso tutto il Cin
quecento e ancora nel primo Seicento.
D'altra parte la cultura umanistica, per quanto di
origine italiana, non fu affatto limitata all'Italia. La sua diffusione,
specialmente in Francia, Germania e Boemia è stata notata già nel Trecento, e
nel Quattrocento cominciò a diffondersi in tutti i paesi europei.
Il Cinquecento fu poi il secolo che vide l'opera
dei grandi umanisti fuori dell'Italia: Reuchlin e Erasmo, Budé, Vives e Tommaso
Moro.
Vi sono differenze stilistiche e altre dovute ai
vari paesi e ai tempi cambiati, ma troviamo gli stessi tratti fondamentali:
+ la profonda cultura classica (conoscenza
del greco e latino classici, della filosofia, letteratura e patrologia
classiche), + il senso critico e storico, + l'eleganza letteraria,
+ l'eclettismo (nel senso della poliedricità delle fonti attinte), + l'interesse
per i problemi morali e pedagogici ma anche politici e religiosi, + l'avversione
alla scolastica, + l'indifferenza alle tradizioni professionali delle
discipline universitarie.
Per quanto riguarda i rapporti Umanesimo/religione
va affermato qualche volta, che la cultura umanistica non è soppressa dai
movimenti religiosi del Cinquecento, e che gli umanisti come gruppo non hanno
favorito un solo partito religioso, protestante o cattolico. La cultura
umanistica come tale è neutrale di fronte a determinate dottrine teologiche o
anche filosofiche, e il singolo umanista può scegliere le sue opinioni secondo
le sue convinzioni o inclinazioni. Troviamo studiosi e letterati umanisti e
uomini di cultura umanistica tra i cattolici, i protestanti e gli eretici del
Cinquecento. Melantone (e forse anche Lutero), Calvino e molti gesuiti furono
profondamente imbevuti della cultura umanistica del loro tempo.
L'aristotelismo
Se l'umanesimo fu forse l'elemento più vivo e nuovo
nella cultura intellettuale del Rinascimento, e specialmente nell'Italia del
Tre e Quattrocento, e se il suo influsso si fece sentire man mano in tutti i
settori culturali del periodo, sarebbe un errore pensare che la vita
intellettuale del periodo si potesse ridurre all'umanesimo solo. In realtà vi
furono parecchie tradizioni e correnti di origine e interesse diversi le quali
si trovavano di fronte all'umanesimo in un rapporto di rivalità o di semplice
coesistenza.
La cultura umanistica è riuscita a conquistare la
scuola media, e a occupare nell'insegnamento universitario le cattedre di grammatica,
retorica e poesia, di greco e spesso di filosofia morale. Ma continuava
l'insegnamento universitario delle altre discipline che risaliva all'origine
dell'università nei secoli XII e XIII, e la tradizione scolastica, cioè
universitaria di queste materie, durante il nostro periodo non fu mai
interrotta, ma soltanto modificata sotto l'influsso dell'umanesimo.
Bisogna ricordarsi di questi fatti piuttosto
fondamentali, se vogliamo capire l'importanza e la vitalità dell'aristotelismo
che nel pensiero del Rinascimento occupa un posto distinto dall'umanesimo.
L'importanza dell'aristotelismo dipende dai nostri criteri. Se mettiamo
l'accento sulla tradizione tecnica e professionale, se non universitaria, della
filosofia, bisogna dire che nel Rinascimento questa tradizione viene
rappresentata dall'aristotelismo, e che il contributo degli umanisti alla
filosofia, per quanto interessante e influente, fu un contributo fatto da
dilettanti e dall'esterno. Si è però anche notato che gli aristotelici del
tardo Medioevo hanno seguito un metodo razionalistico e hanno studiato molti
problemi di logica e fisica in modo tale da apparire come predecessori del
libero pensiero e della scienza moderna.
La vasta letteratura aristotelica prodotta dal
secolo XII fino al secolo XVII e oltre ritrova la sua origine nell'insegnamento
universitario e scolastico. L'aristotelismo in Italia si distingue fin dagli
inizi dall'aristotelismo negli altri paesi. Questa differenza non consiste
nella scelta dei testi o nel metodo della loro spiegazione, ma nel rapporto tra
la filosofia aristotelica con le altre discipline universitarie, e quindi
risale a una differenza strutturale tra le università italiane e la maggior
parte delle università fuori dell'Italia.
Le università fuori dell'Italia, con l'eccezione di
Montpellier, si componevano di quattro facoltà, cioè teologia, giurisprudenza,
medicina e filosofia (e arti), dove la teologia predomina e la filosofia serve
più cha altro come preparazione alla teologia.
Le università italiane (eccetto Salerno),
cominciando con Bologna, iniziarono come scuole di diritto romano e canonico
alle quali furono aggregati alcuni corsi preparatori di grammatica e retorica.
Nel corso del XIII secolo l'insegnamento della medicina fu stabilito a Bologna
e altrove, e la medicina, insieme alla filosofia aristotelica, alla grammatica
e retorica e alle matematiche venne a costituire una facoltà indipendente dalla
facoltà di legge e spesso in rivalità con questa.
Le università italiane non ebbero mai una facoltà
separata di teologia, e l'insegnamento teologico in Italia fu sempre limitato
alle scuole degli ordini religiosi e a pochi corsi piuttosto sporadici dati
all'università entro la facoltà di medicina e arti.
La conseguenza di questo sviluppo fu il carattere
laico dell'aristotelismo italiano, che dal secolo XII fino al secolo XVII fu
sempre collegato con lo studio e l'insegnamento della medicina e mai con quello
della teologia. L'aristotelismo laico nacque anzitutto a Bologna, poi si
sviluppò a Padova, infine in tutte le università italiane, ma l'università di
Padova ebbe un ruolo importante nell'epoca in cui si distinse in tutti i campi,
cioè nel tardo Quattrocento e nel Cinquecento dopo il 1525.
Questa scuola aristotelica, e specialmente quella
italiana, fa impressione per la sua vitalità e la varietà dei suoi problemi.
Basata solidamente nella sua propria tradizione, non mancava poi di legami
esterni, ricevendo e impartendo influssi significativi.
Il Pomponazzi, pure essendo commentatore
aristotelico, dovette agli umanisti del suo tempo la conoscenza di molti testi
classici quale Platone, Plutarco e la sua dottrina filosofica si presenta
stoica piuttosto che aristotelica su alcuni punti fondamentali.
Il platonismo
Il platonismo fiorentino del Quattrocento è stato
spesso interpretato come una semplice parte o appendice dell'umanesimo poiché i
suoi rappresentanti avevano senz'altro una cultura umanistica, studiavano e
traducevano i testi platonici e neoplatonici e cercavano, pure con altri
elementi antichi, di risuscitare il platonismo antico come altri umanisti
avevano o avrebbero fatto con le dottrine stoiche, scettiche e altre.
D'altro canto vi sono sufficienti motivi per
considerare questo grande movimento come qualcosa di a sé stante, distinto
dall'umanesimo e anche dall'aristotelismo.
A differenza dell'umanesimo, il platonismo
rinascimentale aveva un profondo interesse per i problemi cosmologici e
metafisici che mancava nel pensiero degli umanisti. Per quanto riguarda il suo
rapporto con l'aristotelismo, il platonismo del Rinascimento è stato spesso
opposto all'aristotelismo scolastico del tardo Medioevo, contrasto che si
accentua con riferimento al platonismo antiaristotelico di Gemisto Pletone e
dei suoi seguaci bizantini. E' stato altresì mostrato che il platonismo del
Ficino come quello del Pico non fu affatto antiaristotelico, ma profondamente
penetrato e influenzato dalla filosofia scolastica.
Il platonismo del Rinascimento non deriva la sua
forza dalla tradizione dell'insegnamento, come l'aristotelismo che dominava
l'istruzione filosofica e scientifica nelle università e nei collegi religiosi,
o l'umanesimo che dominava la scuola media e le cattedre universitarie degli
studia humanitatis.
L' Accademia platonica di Firenze sotto il Ficino
era senz'altro un centro influente di discussione e diffusione delle dottrine
platoniche, ma ebbe un'organizzazione poco stabile e durò appena un trentennio.
La forza del platonismo del Rinascimento non deriva
dalla scuole. Si deve al fatto che i tre pensatori più importanti del Quattrocento,
il Cusano, il Ficino e il Pico furono, se non platonici puri, fortemente
imbevuti di Platonismo e che i loro scritti, come quelli di Platone stesso e
dei neoplatonici, ebbero nel tardo Quattrocento e nel Cinquecento una vasta
diffusione.
Ci rimane da fare un breve accenno a quei pensatori
del Cinquecento che sono noti per il loro contributo originale, specialmente
alla filosofia naturale, per quanto abbiano assorbito più o meno profondamente
l'influsso dell'umanesimo, dell'aristotelismo o del platonismo.
La cosmologia del Cardano, del Telesio, del Patrizi
e del Bruno ha il merito di aver tentato di sostituire la tradizionale
cosmologia aristotelica con una costruzione nuova basata su principi nuovi.