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Report "Obama"   25 maggio 2009


Indice degli articoli

Sezione principale: Obama

countdown a bagdad gli usa verso l'addio - (segue dalla prima pagina) ( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: alla quale Obama ha teso la mano. Un Iran ostile, ansioso di esportare la propria rivoluzione clericale, può tenere aperto il conflitto. Gli americani sono quasi spariti dalla città. Già se ne vedono pochi. Mentre passa un convoglio americano, uno dei rari, ovviamente blindato, chiedo quando un soldato yankee, o un cittadino degli Stati Uniti ben identificato come tale,

fiat-magna, duello di rilanci su opel - paolo griseri ( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: ultimatum di Obama per evitare il fallimento di Gm, casa madre di Opel. L´ipotesi più probabile è quella che si applichi anche in questo caso la procedura di fallimento pilotato («chapter 11») già utilizzata da Chrysler. è probabile che anche Berlino tenti di percorrere una strada simile, quella dell´insolvenza regolamentata per prendere tempo e non decidere subito il partner di Opel.

storia nefanda - anna bandettini ( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: della barzelletta inutilmente triviale sempre e dovunque tu ti trovi, come quando liquidò Obama dicendo che era bello e abbronzato. La cultura delle promesse a questa o quella ragazza di darle un posto in tv o in parlamento, che per lui sono la stessa cosa. La cultura dell´uomo che va in giro con la valigia piena di gioielli per elargire regali.

- pier paolo luciano ( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Perché come ha riconosciuto anche Obama in quest´area esiste una straordinaria concentrazione di competenze, capacità, sapere fare tecnico che dall´auto si sono estesi a altri settori come l´aerospazio e le energie rinnovabili PIER PAOLO LUCIANO L´ultimo colpo di acceleratore è arrivato a inizio secolo, sotto la spinta della crisi Fiat.

ciclone-hillary al dipartimento di stato "pari diritti ai partner dei diplomatici gay" - arturo zampaglione ( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: nel nuovo clima di aperture della presidenza di Obama ARTURO ZAMPAGLIONE NEW YORK - Hillary Clinton ha deciso che anche i partner dei diplomatici americani gay avranno diritto alle stesse forme di protezione e riconoscimento all´estero concesse a mogli e mariti. Godranno dell´assistenza medica, saranno evacuati in caso di emergenza, potranno frequentare i corsi di lingua e di anti-

Iran, il regime blocca la posta elettronica del premio Nobel ( da "Corriere della Sera" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: La chiamano la Michelle Obama dell'Iran. La censura su Facebook sembra intesa a colpire i due candidati riformisti: Mousavi e Mehdi Karroubi. Ne sono convinti i loro seguaci. «Ci hanno tagliati fuori sabato a mezzogiorno», scrive da Teheran Mohammadreza Mohsenirad. Come molti fan di Mousavi (oltre 6.

AMBASCIATORI IN MISSIONE CON IL MARITO ( da "Stampa, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Una tendenza che contraddice la cautela con cui il presidente Obama ha deciso di gestire in questi mesi la questione dei diritti civili. È possibile dunque che il Segretario di Stato voglia aiutare Obama trascinando avanti lei stessa la palla in campo. O che voglia aiutarlo magari riprendendo in mano una torcia liberal tipica dei Clinton e della loro generazione.

I bambini cubani iniziano a fare sport nella pancia della mamma ( da "Stampa, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Che pensa di Obama? «Mi piace, non ha solo parlato ha già dato segni concreti. I vicini devono comunicare, da quando c'è lui l'America dialoga con Cuba. Prima il presidente degli Stati Uniti era un criminale di guerra. Obama deve solo togliere l'embargo, così anche noi potremo andare avanti».

Missile e nucleare, la Corea provoca ( da "Stampaweb, La" del 25-05-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Barack Obama, in un comunicato, ha detto che le azioni di Pyongyang rappresentano «una minaccia per la pace». Il consiglio di Sicurezza dell?Onu ha convocato una riunione straordinaria per il pomeriggio di oggi. La Corea del Nord «ha compiuto con successo un nuovo test nucleare sotterraneo, il 25 maggio (oggi,


Articoli

countdown a bagdad gli usa verso l'addio - (segue dalla prima pagina) (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 12 - Esteri Ritorno alla vita Un futuro incerto COUNTDOWN A BAGDAD GLI USA VERSO L´ADDIO Viaggio nella capitale, a un mese dall´inizio del ritiro Il reportage La società, in quasi tutte le sue espressioni, ha ripreso vita. Cerca di avere, con coraggio e fatica, ritmi normali Non tutti sono sicuri che la vera pace, sia pure precaria, sia imminente e garantita (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Ma un uomo anziano, con la faccia scavata e severa, si alza e mi cede il suo. Senza l´ombra di un sorriso, conservando un´espressione grave, l´anonimo cliente spiega il suo gesto premuroso dicendo che uno dei primi stranieri a mettere piede nel locale dopo tanto tempo merita un certo riguardo. è come se, invece di compiere una cortesia, celebrasse un rito. Il padrone arriva a rincalzo per dirmi che vuole offrirmi un caffè. Un caffè turco? Mazbut? Con poco zucchero? Vuole cosi sottolineare, anche lui, il fatto che un occidentale senza armi e senza scorta, possa adesso muoversi indisturbato nella capitale dell´Iraq. Non è una novità perché altri mi hanno preceduto, ma resta un fatto insolito. è un segno che la situazione è cambiata. La gradita e composta cordialità al caffè degli artisti avviene dopo una lunga visita al grande mercato di Al Shourga, dove la ressa è tale che camminando tra le botteghe, urti, ti strofini a centinaia di corpi accaldati. Corpi duri come macigni, che mi ricordano come l´Arabia delle palme, i cui fiumi, il Tigri e l´Eufrate ricongiunti, si gettano nell´Oceano, sia più ruvida dell´Arabia dell´ulivo, il cui fiume, il Nilo, si getta nel Mediterraneo. In un suk egiziano sbatti contro spalle soffici, rispetto a queste irachene. Il suk di Al Shourga è stato per anni un labirinto in cui la caccia all´uomo, tra sunniti e sciiti, tra insorti e governativi, tra americani e saddamisti, è stato il micidiale gioco quotidiano. Gli ultimi morti, a pistolettate, sono recenti. Di quest´anno? Del mese o della settimana scorsa? Di ieri? Nessuno sa essere preciso sulle date. Per un mercato in grande agitazione, Al Shourga è stranamente silenzioso. Più delle voci, risuonano i rumori degli oggetti: lo stridio delle ruote dei carri sul selciato, il tonfo dei sacchi di riso che si ammucchiano nei magazzini, le radio piagnucolose. Gli sguardi sfuggenti sono più eloquenti delle parole. Si interrogano sulla tua provenienza. Un kafir? Un non musulmano? Forse un libanese che è una via di mezzo. Dal mormorio che ci accompagna, Asseel, la bella ed elegante irachena che mi fa da guida, ha afferrato più volte la parola «libanese». Pochi dunque pensano che un europeo possa aggirarsi solo nel suk. Per prudenza, Asseel si tiene qualche passo dietro di me, come è d´uso che facciano le donne, e questo contribuisce a credere che io non sia proprio un kafir, se faccio rispettare il privilegio maschile. Tanto più che Asseel porta l´hijab, il velo islamico. Sto dando l´impressione che una passeggiata nel cuore di Bagdad, dopo anni di stragi e di rapimenti, sia un´impresa temeraria. Non è cosi. Da più di una settimana mi aggiro per la città, in automobile e a piedi, raccogliendo estreme gentilezze, come nel caffè degli artisti, o suscitando talvolta una curiosità educata o sospettosa, come nei vicoli di Al Shourga. In generale, un mare di indifferenza. Da quando sono a Bagdad un centinaio di iracheni, e tre soldati americani, sono stati uccisi in attentati di kamikaze o di vario genere. Ma nella città vasta e rumorosa, confesso di non avere udito neppure le esplosioni. Né di avere assistito a momenti di panico. Mi viene fatto piuttosto notare che i morti sono in netta diminuzione. All´ospedale Abn Al Nafise, il dottor Jasme mi dice che dai quaranta e più feriti al giorno si è passati a una media di due. Le impennate dei diagrammi che seguono l´andamento dei ricoveri sono rare. Abito fuori dalla «zona verde», dove sono barricate ambasciate e ministeri, e il mio albergo, Al Mansour, è un oasi di pace. Non ci sono più tracce, nello spazioso ingresso, dell´esplosione che lo scorso anno ha decimato i capi tribù sunniti, della provincia di Anbar, invitati dal governo. Bagdad è come un campo trincerato che vive a un ritmo frenetico, dove colonne di automobili, spesso di gran lusso, incrociano colonne di autoblindo da cui spuntano armi di tutti i calibri. Armi che, nei momenti di vittimismo, pensi siano braccate su di te. Senza contare i posti di blocco, appostati dietro muri di cemento armato, e animati da poliziotti e militari dotati dei più moderni detector. I muri di tutte le dimensioni, costruiti ovunque, per difendersi dagli attentati, sono un´ossessione. Uno scultore, Monther, mi ha mostrato una sua statuetta di legno raffigurante un uomo dritto, in piedi, sull´attenti, con la faccia schiacciata contro un muro. «Siamo noi iracheni, mi ha detto. La prenda cosi si ricorderà di noi». L´ho comperata. Nonostante il traffico, le automobili sono esaminate con puntiglio, provocando intasamenti mostruosi. Nell´attesa puoi leggere un romanzo. In più occasioni i controllori, attraverso i loro sensibili detector, hanno individuato i medicinali, in compresse, che avevo in una tasca. Se chi guida è sunnita, il poliziotto o il soldato, che è sempre sciita, almeno a Bagdad, fa un controllo più severo. E il sunnita, che ha osato uscire dal suo quartiere dove di solito resta rintanato, teme sempre di essere perseguitato. Non ha del tutto torto. Lo scontro etnico si è attenuato, ma non spento. Nessuno sa con esattezza chi è all´origine degli ultimi attentati. Gli estremisti sunniti del Baath, il partito di Saddam, non ancora annientati o convertiti? Quelli di Al Qaeda, ossia gli integralisti arabi venuti da fuori, approfittando dell´invasione americana? Gli uomini di Sadr, quelli dell´esercito del Mahdi, non rassegnati a collaborare col governo? Gli iracheni preferiscono aggiudicare le stragi agli stranieri. Nei posti di guardia, nei commissariati, in molti checkpoint, magari appuntata su un sacco di sabbia, c´è l´immagine dell´imam Hussein, simbolo degli sciiti che detengono il vero potere. Mentre i sunniti sono ancora in bilico tra il dissenso armato e l´integrazione. Questa incertezza rappresenta uno dei rischi. Ma non è il solo. La società, in quasi tutte le sue espressioni, dagli uffici pubblici al commercio, dalle professioni private alla scuola e all´università, ha ripreso vita. Non conosce il boom economico di un dopoguerra, ma cerca di avere, con coraggio e fatica, ritmi normali. Lo fa con un certo successo. Il grande apparato militare la protegge e inevitabilmente la frena. La intralcia e la rassicura. L´enorme crescita del numero di soldati e miliziani iracheni fa pensare a una società sempre più militarizzata. C´è in questo fenomeno un innegabile aspetto positivo: lo Stato iracheno, dotandosi di una polizia e di un esercito efficienti, sta rinascendo dalle rovine di quello di Saddam Hussein, disperso ma non annientato dall´invasione americana, perché in parte si era dato alla macchia. è un segno visibile della sovranità nazionale in parte recuperata. Al tempo stesso i tanti soldati in giro danno l´impressione che ci si stia preparando a una guerra. Una nuova guerra? Visto che quella in corso dovrebbe essere sul punto di finire? A fine giugno gli americani si ritireranno dalle città. E l´esercito iracheno dovrà sostituirli. Cosi comincerà la "nuova" guerra. Meglio, il nuovo confronto. Quello tra soli iracheni. In un primo tempo sarà limitato alle zone urbane, con gli americani nei paraggi, pronti a intervenire. Poi si arriverà col tempo al ritiro progressivo e programmato delle forze straniere, delle quali resteranno (nel 2011) alcune guarnigioni isolate. L´uscita degli americani da Bagdad sarà la prima grande prova. Una prova attesa con impazienza ed evidente nervosismo. Migliaia di iracheni rifugiatisi in Siria o negli emirati del Golfo, quindi ricchi iracheni, sono ritornati. Ma nei quartieri benestanti molte ville sono ancora deserte, abbandonate. Non tutti sono sicuri che la vera pace, sia pure precaria, sia imminente e garantita. Per ora c´è l´appuntamento di Bagdad senza americani. I più prudenti attendono che si chiariscano anche i rapporti tra gli Stati Uniti e l´Iran. Perché quest´ultimo (vicino fratello nella religione sciita ma al tempo stesso nemico nella storia) ha armato la dissidenza anti-americana dell´esercito sciita del Mahdi, forse altri gruppi di insorti, e con identico zelo potrebbe esercitare domani una grande influenza, concreta, militare, sull´Iraq non più occupato e protetto dalla superpotenza. Prima di capire se gli Stati Uniti, dopo tante sconfitte e incongruenze, hanno "infine vinto" in Iraq, bisogna aspettare i futuri rapporti con la limitrofa Repubblica islamica, alla quale Obama ha teso la mano. Un Iran ostile, ansioso di esportare la propria rivoluzione clericale, può tenere aperto il conflitto. Gli americani sono quasi spariti dalla città. Già se ne vedono pochi. Mentre passa un convoglio americano, uno dei rari, ovviamente blindato, chiedo quando un soldato yankee, o un cittadino degli Stati Uniti ben identificato come tale, potrà passeggiare per Bagdad come io ho fatto in questi giorni. La risposta è: «Tra una decina d´anni». La sentenza viene da un giovane attore, Mohammed Kassem Al Mellak, che incontro nel ridotto del Teatro Nazionale. La giudico un po´ eccessiva. Ma a breve distanza a ripeterla sono due interlocutori molto diversi: due cardiologi, durante una colazione nel ristorante del loro ospedale. E poi ancora un avvocato, uno dei difensori di Zaidi, il giornalista che ha lanciato una scarpa contro Bush junior in visita a Bagdad, e che è diventato un eroe, agli occhi di molti iracheni. Non di tutti. All´università statale (Al Mostansyria) un gruppo di studenti, della facoltà di lettere e storia, si dichiara riconoscente nei confronti degli americani. Dicono - riassumo - che hanno portato, se non proprio la democrazia, una libertà prima sconosciuta. Ma sanno di essere in pochi a pensarla cosi. Anche se molti, in evidente contraddizione, adesso temono che, allontanatisi gli americani, Bagdad riesploda. L´astio nei confronti dei soldati stranieri è dovuta alle distruzioni e alle umiliazioni subite dal Paese. L´esibita avversione, a quasi tutti i livelli, fa pensare che ci sia il timore di infrangere qualcosa di simile a una parola d´ordine, dettata dall´orgoglio nazionale. Fanno eccezione i curdi del Nord, ma loro, e la loro regione, hanno un´altra storia. Faccio un salto ad Al Bataween, il vecchio quartiere ebraico rimasto da più di mezzo secolo senza ebrei. Durante la guerra, nel 2003, era uno degli angoli più animati della città, dove potevo trovare panini e salsicce nelle improvvisate cucine all´aperto degli immigrati maghrebini. C´era, mi dicevano, anche un anziano ebreo che non aveva mai voluto abbandonare l´Iraq. Adesso alcuni ebrei sarebbero ritornati con la speranza di recuperare i beni confiscati alle loro famiglie più di mezzo secolo fa. Ma in realtà è una leggenda. A spingermi a ritornare ad Al Bataween è soprattutto il ricordo di un bellissimo libro di Naim Kattam, un ebreo iracheno professore di arabo (emigrato in Canada), in cui racconta la sua giovinezza, negli anni Trenta e Quaranta, quando gli ebrei erano un terzo della popolazione di Bagdad, e pensavano di essere integrati nella società araba. L´italiano Sereni, che visitò l´Iraq a quell´epoca, scopri una sola differenza tra ebrei e musulmani: i primi chiudevano le botteghe il sabato e i secondi il venerdì. Il libro di Naim Kattam si chiama «Addio Babilonia».

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fiat-magna, duello di rilanci su opel - paolo griseri (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 2 - Economia Fiat-Magna, duello di rilanci su Opel Guttenberg: no ai piani. Lingotto: meno soldi statali e niente chiusure in Italia Marchionne: "Con la nostra offerta solo 2000 esuberi in Germania" PAOLO GRISERI TORINO - A poche ore dalle decisioni irrevocabili, quella della Opel somiglia sempre più a un´asta. Magna e Fiat continuano a rilanciare modificando in continuazione l´offerta mentre il terzo incomodo, il fondo di private equity Ripplewood appare, al momento, fuori gioco. La disponibilità di Torino e Vienna a ridurre le pretese per conquistare Berlino sortisce due diversi effetti: prima spinge Karl Franz, leader dei sindacati Opel, a mettere in guardia «da chi cambia i piani in poche ore. è importante che mettano nero su bianco le nuove offerte». Il secondo effetto è la reazione del ministro dell´economia, zu Guttenberg: «Nessuna delle proposte finora presentate appare sufficiente», dice Guttenberg chiedendo implicitamente un nuovo rilancio ai pretendenti. Nelle pieghe della zuffa tedesca si intravedono le rivalità tra territori: con Angela Merkel favorevole alla proposta Fiat perché taglia meno posti a Bochum, lo stabilimento nella Westfalia retta dal suo partito, la Cdu. Una nuova certezza viene dal Frankfurter Allgemeinen Zeitung che l´8 maggio scorso aveva chiuso gli stabilimenti della Pininfarina a San Giorgio Canavese e il sito Fiat di Termini Imerese. Notizia singolare, visto che Pininfarina non è di proprietà della Fiat. Ora comunque non ci sono più rischi: nel nuovo piano della Fiat, annuncia la Faz, «non ci saranno chiusure di impianti in Italia». Nella girandola di indiscrezioni si capisce che l´asta tra Magna e Fiat si gioca su due terreni: accanto a quello dell´occupazione ci sono le richieste di denaro pubblico. Così Marchionne annuncia che «in Germania non ci saranno più di 2.000 esuberi» sapendo che nel piano Magna sono previsti 2.200 licenziamenti nel solo stabilimento di Bochum. Il gruppo di Vienna replica proponendo «l´anticipo nella restituzione dei prestiti» di cui si dovrebbe far indirettamente carico lo stato tedesco provocando così l´annuncio di Fiat che fa scendere da 7 a 6 i miliardi di denaro pubblico necessario a far ripartire l´azienda e accorcia a 4 anni il tempo per restituire il prestito: «Il nostro piano incontra ancora qualche riserva», ammette Marchionne intervistato dalla Bild per poi puntare sull´orgoglio tedesco: «A differenza dei nostri concorrenti, il nostro piano è un bastione contro l´esodo di tecnologia automobilistica dalla Germania e dall´Italia». Un modo per ricordare che alleandosi con Magna gli ingegneri tedeschi dovrebbero collaborare con i russi di Gaz. L´asta dovrebbe proseguire ancora per poco tempo. Quella che si apre oggi si annuncia infatti come la settimana decisiva. Domenica prossima scade l´ultimatum di Obama per evitare il fallimento di Gm, casa madre di Opel. L´ipotesi più probabile è quella che si applichi anche in questo caso la procedura di fallimento pilotato («chapter 11») già utilizzata da Chrysler. è probabile che anche Berlino tenti di percorrere una strada simile, quella dell´insolvenza regolamentata per prendere tempo e non decidere subito il partner di Opel. Questa soluzione irrita il vicepremier Franz - Walter Steinmeir, socialdemocratico, strenuo sostenitore del partito pro Magna: «Consiglio a chiunque di smetterla con le chiacchiere su un´insolvenza di Opel». «Con un´insolvenza controllata, una società non è irrimediabilmente perduta», ha replicato Guttenberg.

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storia nefanda - anna bandettini (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 6 - Interni Storia nefanda Quella sentenza Pensavamo che il peggio fosse stato raggiunto, ora c´è questa nefanda storia Se possiamo digerire questa storia? Abbiamo digerito la sentenza del caso Mills... ANNA BANDETTINI ROMA - «Pensavamo che il peggio fosse già stato raggiunto. E invece ora questa nuova, nefanda, storia. Mi viene amaramente da dire: noi italiani abbiamo quello che ci meritiamo». Lo dice con rabbia, più che con rassegnazione, il premio Nobel Dario Fo leggendo dell´ultima, clamorosa puntata della storia che riguarda Noemi Letizia, la giovane ragazza napoletana, e Silvio Berlusconi. Fo, in che senso ce lo meritiamo noi italiani? «Lei crede che con queste nuove dichiarazioni del fidanzato della ragazza, che contraddicono tutto quello che Berlusconi ha detto finora, succederà qualcosa? La gente in giro plaude. Se la ride. Signore che di solito si scandalizzano per un seno nudo, ora sono pronte a giustificare quest´uomo dicendo "ma vabbè che male c´è, lo fanno tutti gli uomini". Il premier va in giro con le ragazze, si dice minorenni? Che sarà mai! La gente anche davanti a questo lo ama. Viene fuori che si fa in week end in villa con trenta ragazze? Bravo! Che bella vita. Ecco cosa dicono gli italiani. E´ all´estero che ci guardano come poveri deficienti, ma in Italia si applaude. E questo perché Berlusconi ha tirato fuori il peggio di questo Paese». Molta gente dice che si tratta di faccende private, che non c´entrano con la politica «In parte sono d´accordo, ma per altre ragioni. Considero un errore fare il conto della spesa dei comportamenti di Berlusconi. Perché quello che fa paura non sono le cose belle o brutte che fa, ma la volgarità , la cultura, il senso della vita che esse esprimono. Berlusconi va battuto non per quello che fa ma per quello che produce, e che ha già contagiato tutto il paese. Parlo di quella cultura della pacca sul sedere, della barzelletta inutilmente triviale sempre e dovunque tu ti trovi, come quando liquidò Obama dicendo che era bello e abbronzato. La cultura delle promesse a questa o quella ragazza di darle un posto in tv o in parlamento, che per lui sono la stessa cosa. La cultura dell´uomo che va in giro con la valigia piena di gioielli per elargire regali. E´ la cultura di chi si presenta nelle vesti dell´imbonitore" Lei dice che ormai tutto questo noi lo digeriamo. «Se abbiamo digerito la sentenza Mills…» Ma perché digeriamo tutto questo? «Perché Berlusconi è il sogno dell´italiano medio, incarna l´anima profonda del Paese e l´ha allevata rendendola più triviale, più meschina e kitsch. Ecco perché dico che il problema non è lui, sono gli italiani. Non tutti per carità. Sono un 50 per cento. Ma è quel 50 per cento che lo applaude e che lo tiene lì sulla poltrona del potere».

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- pier paolo luciano (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

Pagina X - Torino Da "one company town" a polo della conoscenza: Torino cerca una nuova missione puntando sempre sulla produzione manifatturiera. Perché come ha riconosciuto anche Obama in quest´area esiste una straordinaria concentrazione di competenze, capacità, sapere fare tecnico che dall´auto si sono estesi a altri settori come l´aerospazio e le energie rinnovabili PIER PAOLO LUCIANO L´ultimo colpo di acceleratore è arrivato a inizio secolo, sotto la spinta della crisi Fiat. Le aziende dell´indotto che per anni avevano lavorato solo per il Lingotto hanno capito che per sopravvivere occorreva andare a cercare commesse oltreconfine. Una sfida non per tutti, complice una serie di difetti ereditati dalla tradizione delle boite, a cominciare dall´inesperienza internazionale per chi aveva lavorato sempre per un solo padrone. Ma chi ce l´ha fatta - assistito da progetti come «From concept to car» promosso dalla Camera di commercio proprio negli anni bui della crisi del Lingotto per aiutare la componentistica ad allargare il portafoglio clienti - ora conta tra i suoi committenti quasi tutti i marchi più prestigiosi dell´auto made in Europe. Perché, come ricorda Vincenzo Ilotte, numero uno dell´Amma, «a Torino esiste una straordinaria concentrazione di competenze, di capacità, saper fare tecnico e organizzativo riferiti all´intero ciclo dell´auto». Competenze che lo stesso Barack Obama ha riconosciuto quando ha indicato nella Fiat il partner giusto per salvare la Chrysler e indirizzarla verso l´auto del futuro. Già, l´auto del futuro. A Torino ci si lavora già da tempo. E non solo Fiat, che pure pare pronta a produrre presto un motore che abbina l´elettrico, che è nel nuovo cambio a doppia frizione, al bicilindrico e che «Quattroruote» ha ribattezzato ibridino. C´è Pininfarina che, pur tra guai finanziari, si sta preparando a produrre in serie l´auto elettrica realizzata in partnership con il francese Vincent Bollorè. E c´è Phylla, l´auto ad alimentazione solare che è frutto di una collaborazione tra Politecnico e Centro ricerche Fiat finanziato dalla Regione. Ecco le energie sostenibili sono l´altra grande sfida di Torino nel futuro. Per esempio l´idrogeno, con gli studi compiuti all´Environment park. Ma anche l´eolico e il solare. Senza dimenticare l´altro grande filone di questa sfida che punta a trasformare la "one company town" del "secolo breve" in una delle capitali europee della conoscenza: l´aerospazio. Quasi tutti i progetti dell´agenzia aerospaziale europea contengono qualche pezzo prodotto negli stabilimenti torinesi di Alenia o di Avio. Senza dimenticare anche in questo caso l´indotto che ruota attorno a questi colossi dell´aeronautica. Questi tre filoni su cui Torino sembra scommettere per il futuro hanno un comune denominatore: la ricerca. E dunque i due atenei cittadini, l´università e, soprattutto, il Politecnico. Sono proprio queste oggi le migliori carte per attrarre investimenti dall´estero. Ma Alessandro Barberis, presidente della Camera di commercio, non si stanca di ripetere come sia importante innanzitutto la capacità di fare sistema: «Solo sfruttando appieno tutte le risorse che Torino offre, potremo ancora accrescere il nostro potenziale tecnologico. E arrivare prima degli altri in qualsiasi campo resta ancora oggi la miglior garanzia per battere la concorrenza». E proprio questo spostamento verso produzioni a maggiore intensità di conoscenza e innovazione che richiedono servizi di informazione, comunicazione, ricerca - come sottolineano i ricercatori del Comitato Giorgio Rota nell´ultima indagine - hanno favorito nell´ultimo decennio il sorpasso del terziario sul manifatturiero. «La terziarizzazione è quindi connessa più che a un processo di deindustrializzazione, a una trasformazione di struttura del settore manifatturiero - sottolinea Luca Davico, ricercatore - . Tra l´altro molte imprese hanno esternalizzato servizi prima svolti nel proprio interno». In questo quadro di una Torino orientata a diventare un polo della conoscenza internazionale - come provano già le centinaia di laboratori di ricerca presenti in città - resta un handicap che è lo stesso di vent´anni fa: il nanismo delle imprese industriali. Il 97,2% ha meno di dieci dipendenti. «Imprese di dimensioni così ridotte mostrano generalmente minori produttività, capacità di investire in innovazione, marketing e di differenziare i Paesi in cui esportano».

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ciclone-hillary al dipartimento di stato "pari diritti ai partner dei diplomatici gay" - arturo zampaglione (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 15 - Esteri Ciclone-Hillary al Dipartimento di Stato "Pari diritti ai partner dei diplomatici gay" Il Pentagono pronto a cambiare linea sui militari omosessuali La svolta si inserisce nel nuovo clima di aperture della presidenza di Obama ARTURO ZAMPAGLIONE NEW YORK - Hillary Clinton ha deciso che anche i partner dei diplomatici americani gay avranno diritto alle stesse forme di protezione e riconoscimento all´estero concesse a mogli e mariti. Godranno dell´assistenza medica, saranno evacuati in caso di emergenza, potranno frequentare i corsi di lingua e di anti-terrorismo, saranno rimborsati per le spese di viaggio e gireranno con un passaporto diplomatico. «Le discriminazioni che ci sono state storicamente sono ingiuste e devono sparire», ha scritto la Clinton in un memorandum interno diffuso al Dipartimento di Stato. Preannunciata nei giorni scorsi al Congresso, che l´ha già avallata, la svolta del Segretario di Stato chiude una lunga battaglia condotta dall´associazione che riunisce i diplomatici gay e le lesbiche. Si inserisce anche nel nuovo clima di apertura dell´America di Barack Obama, che non solo sta portando un numero crescente di stati americani a legalizzare i matrimoni gay ma anche a un riesame della «politica dello struzzo» seguita dal Pentagono. Proprio ieri il capo di Stato Maggiore Mike Mullen ha confermato di essere pronto ad accettare un eventuale cambiamento parlamentare della linea «don´t ask, don´t tell» che finora impediva ai militari omosessuali di dichiarare pubblicamente i loro orientamenti sessuali pena l´espulsione dalle forze armate. Fu Bill Clinton, quando era presidente, a nominare il primo ambasciatore americano apertamente gay, James Hormel, destinandolo alla sede di Lussemburgo e sfidando i repubblicani. Ma negli otto anni di George W. Bush sono stati fatti solo passi indietro. Pur non avendo veri ostacoli di carriera, i diplomatici gay mandati all´estero si consideravano funzionari di serie B e si lamentavano per la scarsa tutela riservata ai loro partners specie in situazioni di grave crisi. Secondo le regole in vigore fin qui, infatti, quando il Dipartimento di Stato ordina l´evacuazione di una sede a rischio, i partners non possono salire sugli elicotteri o sugli aerei predisposti dal Pentagono. Nel dicembre del 2007 Michael Guest, un giovane abile e colto che era riuscito a diventare ambasciatore in Romania a soli 43 anni, diede le dimissioni da Foggy Bottom, il soprannome del Dipartimento di Stato, criticando le discriminazioni ai danni dei gay. «Ho dovuto scegliere tra gli obblighi nei confronti del mio compagno e il lavoro per il mio paese», spiegò nella cerimonia pubblica di commiato, facendo il gesto meno diplomatico della sua vita. «Una scelta del genere - continuò - rappresenta una macchia per il Segretario di Stato e una vergogna per la nostra istituzione». Chiamata in causa, Condoleezza Rice preferì tacere e barricarsi dietro alla legge sulla difesa del matrimonio che limita il riconoscimenti delle coppie omosessuali negli organismi federali. Hillary Clinton invece non ha perso troppo tempo. Le nuove norme, che entreranno in vigore tra breve, rappresentano una piccola rivoluzione nella cultura e nello stile della diplomazia internazionale. Potrebbero anche avere un effetto contagioso nelle strutture diplomatiche di altri paesi che, come nel caso della Farnesina, non prevedono facilitazioni specifiche per i partners dei funzionari gay.

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Iran, il regime blocca la posta elettronica del premio Nobel (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Esteri data: 25/05/2009 - pag: 17 Repressione All'avvio della campagna presidenziale Iran, il regime blocca la posta elettronica del premio Nobel Boicottata la Ebadi, chiuso Facebook «Questo sito non è accessibile ». E' un messaggio che in questi giorni compare spesso sui monitor in Iran dove, alla vigilia dalle presidenziali del 12 giugno, le autorità hanno imposto una nuova stretta su internet. Colpiti la posta elettronica dell'avvocato e premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, il social network Facebook e altri siti usati da attivisti e riformisti. L'email della Ebadi, che dirige a Teheran il Centro per la difesa dei diritti umani, è stata oscurata due settimane fa. Gli esuli iraniani negli Stati Uniti, dove l'avvocato si trova attualmente, lo leggono come un tentativo di intimidirla per evitare che torni in Iran prima delle presidenziali. Ai primi di maggio, le autorità avevano negato l'espatrio a due sue collaboratrici, Narges Mohammadi (moglie di Taghi Rahmani, attivista riformista in prigione) e Soraya Azizparah, attese in Guatemala per un convegno. Mohammadi è accusata di «atti di propaganda contro il regime islamico», ha comunicato venerdì il portavoce della magistratura. La Ebadi, il cui Centro era stato chiuso a dicembre dalla polizia, era attesa in Europa domani, ma ha deciso di tornare in Iran mercoledì. In vista delle elezioni, ha formato una coalizione con 100 note attiviste per i diritti delle donne: non si sono schierate con nessuno dei 4 candidati (tutti uomini; 42 donne sono state squalificate dal Consiglio dei Guardiani, insieme a 429 altri uomini aspiranti alla presidenza). La coalizione chiede di modificare le leggi che discriminano le donne. E gli sfidanti del presidente Ahmadinejad le stanno corteggiando: in particolare il «riformista » Mir Hossein Mousavi punta sulla moglie, Zahra Rahnavard, scrittrice, scultrice, ex rettore dell'Università femminile Al Zahra (dove invitò la Ebadi), che appare ai comizi nel ruolo inedito di first lady. La chiamano la Michelle Obama dell'Iran. La censura su Facebook sembra intesa a colpire i due candidati riformisti: Mousavi e Mehdi Karroubi. Ne sono convinti i loro seguaci. «Ci hanno tagliati fuori sabato a mezzogiorno», scrive da Teheran Mohammadreza Mohsenirad. Come molti fan di Mousavi (oltre 6.000 in uno dei 40 gruppi a lui dedicati), ha «dipinto » la propria foto di verde, colore del candidato in campagna elettorale (simbolo dell'Islam e del progresso). Mohsenirad dà la notizia via Facebook: continua ad accedere usando indirizzi alternativi che però vanno cambiati appena le autorità li individuano. Il social network era stato bandito a settembre ma «riaperto » a febbraio. «Forse pensavano di usarlo a scopi di propaganda », scrive Pedram Kargosha, la cui foto è viola, colore simbolo di Karroubi. «Anche la campagna elettorale virtuale di Ahmadinejad è altamente professionale nota Hamid Tehrani, redattore per l'Iran della rete di blogger Global Voices Online . Su You- Tube ci sono dozzine di video sui suoi comizi: forse per questo non è stato bandito. Ha lanciato il sito Emtedad Mehr (seguaci della gentilezza) con link a blog, a Facebook e Twitter. Ma Mousavi e Karroubi sono riusciti a usare Facebook in modo più efficiente. Forse le autorità non volevano correre rischi». Nei giorni scorsi sono stati bloccati anche il sito di informazione Fararu e (di nuovo) il portale dell'università Amir Kabir. Viviana Mazza Attivista L'iraniana Shirin Ebadi, 61 anni, avvocato, ha vinto il Nobel per la pace nel 2003

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AMBASCIATORI IN MISSIONE CON IL MARITO (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

Lucia Annunziata AMBASCIATORI IN MISSIONE CON IL MARITO Quando la scorsa settimana, nel pieno del dibattito sulle torture durante la presidenza di George W. Bush, un ennesimo traduttore arabo venne cacciato dall'esercito americano perché gay, il comico Jon Stewart così trafisse le ipocrisie americane: «Permettiamo agli interrogatori di usare il waterboarding per i terroristi, ma cacciamo perché gay i traduttori che ci potrebbero dire cosa rivelano i terroristi sotto tortura». «Don't ask, don't tell» - Non chiedere e non spiegare. La formula, che è da sempre nel mondo anglosassone la base della ricerca della felicità in condizioni di incertezza - per esempio, nel matrimonio - è diventata da anni sinonimo della pilatesca fuga a cui hanno fatto ricorso una serie di Amministrazioni statunitensi di fronte a uno dei più scomodi tra i diritti civili: il riconoscimento dei gay nell'esercito. Fu Clinton - Bill, presidente Usa - nel primo mandato a dovervisi adeguare, dopo aver fatto molte promesse, intimorito dalla reazione dei conservatori. La storia torna a galla ora, rimessa in moto da un secondo Clinton, Hillary, Segretario di Stato, che ha deciso di picconare il muro delle fobie pubbliche antiomosessuali. Non si tratta di militari, stavolta, ma - da un certo punto di vista - il riconoscimento è persino più audace: il Dipartimento di Stato riconoscerà ai compagni/e dei diplomatici americani gay gli stessi diritti delle coppie eterosessuali. E forse gli Usa rischieranno di pentirsene. A volte succede. Ma, se di rivoluzione nel linguaggio internazionale si vuol parlare, quale migliore shock che quello di portare a tavola, a ricevere i potenti di turno, insieme con il Signor Ambasciatore anche il suo Signor compagno? È un bel ribaltamento, intanto, contro l'ipocrisia. I Mr e Mrs Ambasciatori esistono già oggi: nelle mani di Hillary e Obama c'è un recente appello di ben 2200 membri dell'Amministrazione Esteri di sgombrare la vita diplomatica dalle ambiguità connesse al problema di compagni di vita che finora vengono inclusi come «parte della famiglia», ma che non hanno diritto, ad esempio in situazioni di guerra, di essere evacuati insieme con i loro compagni/e. Il caso più famoso lo ha fatto esplodere nel 2007 un apprezzato diplomatico, Michael Guest, che dopo 26 anni di servizio si dimise dal Foreign Service per protesta contro le regole che gli impedivano di riconoscere il suo compagno, «obbligandomi così a scegliere tra la lealtà al mio partner e quella nei confronti della patria». Guest è poi stato chiamato da Obama a far parte del «transition team» nel Dipartimento di Stato. Molti punti di vista possono essere letti, ovviamente, in questa decisione di Hillary Clinton. Secondo gli ultimi dati, il 57 per cento della popolazione Usa sotto i 35 è a favore dei matrimoni gay. Una tendenza che contraddice la cautela con cui il presidente Obama ha deciso di gestire in questi mesi la questione dei diritti civili. È possibile dunque che il Segretario di Stato voglia aiutare Obama trascinando avanti lei stessa la palla in campo. O che voglia aiutarlo magari riprendendo in mano una torcia liberal tipica dei Clinton e della loro generazione. O anche solo che voglia «compensare» la cautela nazionale della Casa Bianca, aprendo una campagna di immagine internazionale. Perché, alla fine, di questo poi si tratterà. Immaginiamo l'impatto che avranno sul piano diplomatico queste coppie «same-gender»; immaginiamo gli sconvolgimenti del più arido e del più tradizionale settore della burocrazia, quello dei «foreign offices» esposti alla frizione di una rivoluzione sessuale aperta; immaginiamo imbarazzi di cerimoniali, e autentici problemi di rispetto religioso, come potrebbero verificarsi in Medio Oriente o anche in Vaticano. Ma qualunque sarà l'intoppo, questa decisione di Foggy Bottom si irraggerà in tutta l'amministrazione pubblica americana, e anche in quelle mondiali. Con effetti non meno rivoluzionari di quelli già avuti nelle relazioni internazionali dall'elezione del primo presidente Usa nero.

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I bambini cubani iniziano a fare sport nella pancia della mamma (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

L'AVANA AMERICA LA FRASE Intervista 12"87 «Li vedo anche io i palazzi che crollano e i problemi economici, ma non potrei mai stare lontano da qui» «Sono primi in troppi campi per non essere intelligenti e Obama mi piace. Bush era un criminale di guerra» I bambini cubani iniziano a fare sport nella pancia della mamma GIULIA ZONCA Record mondiale Santiago Antunez INVIATA A SANTA CLARA (CUBA) DEI 110 OSTACOLI Il simbolo della nuova Cuba ascolta hip-hop americano per caricarsi, adora il gelato di McDonald's, tiene in casa le foto fatte a Pechino con il Dream Team Usa e si sente «cubano al 100 per 100», faccia di quella nuova generazione che studia la Revolucion, ma si veste come i rapper del Bronx. È idolo, esempio, trascinatore. Dayron Robles ha vinto un oro olimpico nei 110 ostacoli alle ultime Olimpiadi, ha il record del mondo della specialità (12"87), è uno di quegli sportivi cresciuti dal sistema e sbandierati orgogliosamente dal governo. Ed è diverso da chiunque sia stato bandiera prima di lui. Perché è figlio della scuola di stato, ne va fiero ed esibisce il libro su Marx che sta studiando per l'esame di filosofia, però è anche un ragazzo che sa dire «Obama me gusta muchissimo» e «gli americani sono leader in troppi campi per non essere intelligenti». È intriso di storia come chiunque sia cresciuto sull'isola che si nutre di passato. Il centro di perfezionamento degli ostacoli, Università Manuel Fajardo, il posto dove Dayron passa mesi ad allenarsi, sta a Santa Clara, la città che ha trasformato il Che nel comandante Guevara. Qui i castristi hanno combattuto l'ultima battaglia contro Batista e sulla facciata del cinema Camillo ci sono ancora i segni dei proiettili, qui c'è il mausoleo dedicato a Guevara e proprio nell'enorme piazza comunista, che si apre davanti alla statua, gli atleti esibiscono in parata le loro medaglie. Robles festeggia in un locale più intimo, la Villita, ribattezzata casa Dayron. Un bar che ha appeso al soffitto la sedia preferita dall'ostacolista e sopra c'è scritto: «Recordista mundial, campeon olimpico nell'anniversario della Revolucion», firmato Robles. Per lei, nato nel 1986, che cosa è la «Revolucion», chi è Che Guevara? «È la nostra storia. La studiamo e la onoriamo. Il Che ha avuto una vita impressionante, nemmeno era cubano, si è guadagnato la nazionalità sul campo. Lo ammiro, non è lo stesso per tutti i ragazzi?». Lei è nato a Guantanamo città che per il resto del mondo è un carcere. Che effetto fa? «Per me è casa. Io non posso tenere i premi delle miei vittorie ma lo Stato mi ha messo a disposizione una casa ed è lì che l'ho chiesta. Ci stanno mia madre e i miei fratelli. E vi assicuro che è un posto come un altro, abbiamo avuto anni più ricchi, quando c'era l'Unione Sovietica poi la vita è diventata complicata, ma ho sempre avuto quello di cui avevo bisogno e sono felice che le mie vittorie vengano abbinate a Guantanamo, che il nome della mia città evochi anche belle cose. Più vinco e meno sarà conosciuta per un carcere». All'Avana non ha una casa? «Vivo con mia zia e guido la sua macchina, una Chevrolet del 1957. Ne vorrei una mia... ci vuole tempo». Tempo? A Bolt ne hanno regalata una per i record, perché lei deve aspettare? «Perché sono cubano, qui è diverso e a me va bene così. Senta, io viaggio molto e non posso fare comparazioni. Noi siamo un Paese piccolo e povero, non siamo ricchi come l'Italia e li vedo anche io palazzi che cadono a pezzi e i problemi economici che abbiamo. Non so fare politica, so che sono un fanatico di Cuba e che non potrei mai vivere altrove. E poi forse per un giamaicano è strano, ma per un cubano è normale fare record del mondo. Lo sport qui è centrale, l'abbiamo nel sangue». E che pensa dei campioni come lei che hanno usato lo sport per espatriare? «Scelte. È Cuba che mi ha permesso di diventare l'atleta che sono e io mi sento bene quando cammino per le calli dell'Avana, quando vado a mangiare con la mia fidanzata al Fior di Loto, nel barrio chino, quando guardo quelle vecchie macchine che circolano solo qui. Ecco, anche se potessi non ne prenderei una nuova, vorrei un Porsche Cayenne, datato». Tutto questo come si concilia con l'hip hop e le foto del Dream Team? «Gli americani fanno un sacco di roba che mi piace e non importa cosa dicono i governanti: sono primi in troppi campi per non essere intelligenti. Prima di una gara io devo caricarmi e quella musica dura e violenta è perfetta. Se devo ballare va bene la nostra salsa». Che pensa di Obama? «Mi piace, non ha solo parlato ha già dato segni concreti. I vicini devono comunicare, da quando c'è lui l'America dialoga con Cuba. Prima il presidente degli Stati Uniti era un criminale di guerra. Obama deve solo togliere l'embargo, così anche noi potremo andare avanti». Crede che ci sia una nuova generazioni di cubani che la pensa così? «Il tempo passa, le mode cambiano e arrivano persino qui. Ci piacciono i vestiti bianchi, l'alta moda e le catene d'oro. Non ci vestiamo come i nostri padri e non pensiamo come loro». Come fa a correre con tutto quell'oro addosso, bracciali, catena al collo, orecchini, orologio? «Mi ci sento a mio agio. Proprio quando tolgo qualcosa la gara va storta». Porta un crocefisso anche se a Cuba non si può manifestare appartenenza religiosa. È cattolico? «È solo un regalo di mia zia. Mi fa sentire protetto, tutto qui». Dicono che gli ostacolisti per vincere devono essere un po' matti. «È vero. Io urlo prima di affrontare la pista. La vena di follia è necessaria altrimenti non ti butti in una gara dove puoi cadere rovinosamente. È successo a tanti, ci vuole un attimo a toccare un ostacolo e franare». Lei ha dei problemi alla vista, potrebbe essere un freno nel futuro? «Porto occhiali speciali in gara, il mio occhio destro è debole e va tenuto sotto controllo. Non a caso il mio idolo è Allen Johnson, anche lui aveva un problema simile». Un altro idolo americano. «Sono bravi, che ci posso fare? Anche se non è il passaporto di Johnson che fa la differenza, ma la longevità. Ha corso e vinto oltre i 35 anni. E questo inseguo, i record per i cubani sono normali io voglio durare tanto tempo».

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Missile e nucleare, la Corea provoca (sezione: Obama)

( da "Stampaweb, La" del 25-05-2009)

Argomenti: Obama

ROMA La Corea del Nord ha annunciato oggi di avere compiuto «con successo» un nuovo test nucleare, sfidando la comunità internazionale che chiede da tempo a Pyongyang di rinunciare allo sviluppo del suo programma. Dallo scorso mese di aprile, la Corea del Nord minacciava rappresaglie contro la decisione del Consiglio di sicurezza dell’Onu di inasprire le sue sanzioni a seguito del lancio di un razzo passato sopra il Giappone. L’esperimento odierno sembra così aver dato compimento alla minaccia ed ha provocato «profonda preoccupazione» nella comunità internazionale. Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, in un comunicato, ha detto che le azioni di Pyongyang rappresentano «una minaccia per la pace». Il consiglio di Sicurezza dell’Onu ha convocato una riunione straordinaria per il pomeriggio di oggi. La Corea del Nord «ha compiuto con successo un nuovo test nucleare sotterraneo, il 25 maggio (oggi, ndr), nel quadro delle sue misure volte a rafforzare le sue capacità di dissuasione nucleare», ha indicato oggi l’agenzia di stampa ufficiale KCNA. «Il test contribuirà a garantire la nostra sovranità, il socialismo, la pace e la sicurezza sulla penisola coreana e nella regione», ha aggiunto l’agenzia, senza fornire dettagli sull’esperimento. L’esperimento è stato confermato dal ministero della Difesa di Mosca. E l’agenzia giornalistica sudcoreana Yonhap ha riferito anche che la Corea del Nord ha compiuto un altro test, lanciando un missile a corto raggio. Secondo KCNA, questo secondo test sarebbe stato più potente di quello compiuto nell’ottobre 2006 che aveva causato una vera e propria crisi internazionale. «Il test nucleare è stato compiuto senza rischi e a livello superiore in termini di potenza esplosiva e di controllo di questa tecnologia», ha precisato l’agenzia nordcoreana. Alcuni responsabili sudcoreani hanno riferito che il test avrebbe provocato una scossa sismica nella città nordcoreana di Kilju, nel nord del paese, dove Pyongyang aveva già compiuto il test di ottobre 2006. L’Istituto americano di studi geologici (USGS), da parte sua, ha registrato un sisma di magnitudo 4,7 sulla scala Richter alle 9.54 locali (le 2.54 in Italia), a 375 chilometri a nord-est di Pyongyang e ad una profondità di 10 chilometri. Una cellula di crisi militare è stata costituita in Corea del Sud: Seoul ritiene il test nucleare «una grave minaccia per la pace». E analoghe sono state le parole del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che ha anche chiesto «un intervento della comunità internazionale». Da parte sua, il governo giapponese si è detto favorevole alla convocazione di una riunione urgente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu: un appello che è stato ascoltato al Palazzo di Vetro. L’organismo delle Nazioni Unite, infatti, si riunirà questa sera alle 22 ora italiana. Anche l’Unione europea ha fatto sentire la sua voce. Il ministro ceco degli Affari esteri, Jan Kohout, il cui paese assicura la presidenza dell’Ue, si è detto «molto preoccupato», mentre il commissario europeo alle Relazioni esterne, Benita Ferrero-Waldner, ha spiegato che il test nordcoreano è «molto, molto inquietante». Il capo della diplomazia di Parigi, Bernard Kouchner, infine ha «condannato fermamente» l’esperimento di Pyongyang da Abu Dhabi.

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