CENACOLO  DEI  COGITANTI

PRIMA PAGINA

TUTTI I DOSSIER

CRONOLOGICA

 

 


Report "Obama"   20-4-2009


Indice degli articoli

Sezione principale: Obama

Il primo viaggio intercontinentale di un nuovo presidente americano assume sempre un significato che... ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: amministrazione Obama dovrà diventare un test della sua capacità di armonizzare gli interessi nazionali con problemi globali e multilaterali. Obama è entrato in carica in un momento di opportunità unica. La crisi economica assorbe le energie delle maggiori potenze, che nonostante i contrasti hanno tutte bisogno di una pausa nel confronto internazionale.

Crisi, Tremonti assicura "Finita la grande paura" ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Citando il presidente americano, Obama, il ministro dell'Economia rassicura: ci sono segnali di speranza, il peggio della crisi è alle spalle. Mentre Maurizio Sacconi chiede una moratoria alle imprese: «Non licenziate». Barbera e Grassia A PAGINA

Una finale, il Sud Africa film in bianco e nero ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: che però pochi giorni fa ha minacciato di dimettersi per gli attacchi razzisti dei dirigenti, dai quali è tollerato per convenienza politica. Mandela non è più presidente, Pienaar non si occupa più di rugby. Resta quella foto. Che qualcuno, nella nuova America di Obama, ha voluto rimettere in movimento.

Skype e Youtube le nuove tribune del sindaco ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: sul modello del presidente statunitense Barack Obama. In più il sindaco sarà disponibile a rispondere direttamente, sia sul proprio cellulare (il numero è pubblicato on line) che attraverso il programma Skype, software di messaggistica istantanea, che consente di chattare, conversare e videochiamare: il suo nome utente è marco.

Ahmadinejad: "Veglierò sui diritti della reporter" ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Obama: "Liberatela subito" NEW YORK Mahmoud Ahmadinejad invoca il diritto ad una giusta difesa nel processo di appello a Roxana Saberi, la giornalista iraniano-americana condannata sabato per spionaggio da un tribunale rivoluzionario di Teheran a otto anni di reclusione.

Un Presidente che fa troppi compromessi ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Barack Obama è eccessivamente cauto e tende troppo al compromesso politico. E' lapidario il «New York Times» nel giudicare i primi tre mesi di governo del nuovo presidente Usa colpevole, secondo il più liberal dei grandi quotidiani americani, di aver dimostrato di capitolare da subito su alcune importanti azioni riformiste annunciate durante la campagna elettorale.

L'AVANA VICINO SCOMODO ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: LE SFIDE DI OBAMA L'AVANA VICINO SCOMODO Washington Ha ammesso che sono sbagliate le politiche adottate contro Fidel negli ultimi 50 anni

Il piccolo disgelo di Barack ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Obama certamente non è Bush, tuttavia la conclusione della «cumbre» delle Americhe lascia il senso amaro di un risultato molto inferiore alle attese che si erano accese un paio di giorni fa. Nel vertice continentale dei presidenti, i problemi al centro dell'agenda erano due, intrecciati ma allo stesso tempo anche indipendenti:

Il nodo di Cuba guasta il vertice delle Americhe ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: mentre il presidente Barack Obama è impegnato nel discorso finale del summit di Port of Spain, da lui stesso definito «un nuovo inizio» nelle relazioni tra Stati Uniti, Cuba e America Latina. La fine dell'embargo «è lontana sulla strada», dice Summers convinto che questo passaggio cruciale non sia un evento che possa avvenire dall'oggi al domani.

Durban, rinuncia anche la Germania il summit verso il fallimento ( da "Repubblica.it" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Ecco perché ieri Barack Obama in persona ha confermato il boicottaggio Usa, facendolo con un ragionamento politico consequenziale: "Io sono un presidente degli Usa che crede nel multilateralismo e nelle Nazioni Unite, ma non posso accettare un linguaggio controproducente come quello proposto.

fresco:"bene il pressing di marchionne i sindacati usa difendono un privilegio" - paolo griseri ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Capisco che Obama lo voglia alla guida della Chrysler ma starei attento a caricare troppe responsabilità sulle spalle di una stessa persona». Staccherebbe l´auto dal resto del gruppo per fare un accordo? «L´avrei già fatto da tempo». Che cosa c´è dopo l´alleanza con Detroit?

la politica equilibrista - (segue dalla prima pagina) ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Il rifiuto di Obama, e il ritiro della delegazione americana che pure fino a pochi giorni or sono aveva partecipato alla preparazione di questa "Durban 2", come si chiama perché è la continuazione della prima, organizzata nella città sudafricana di Durban nel 2001, vengono dopo settimane di esitazione, di "nì", di "forse" e di "ma",

miracoli di san giulio - (segue dalla prima pagina) ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Il realismo di Barack Obama è un valido antidoto: insieme alla paura, che resta, si affaccia qualche speranza. Ma come dice il presidente americano, non siamo affatto usciti dal tunnel, i tempi restano molto difficili, il credito continua a non fluire. Se poi dal villaggio globale restringiamo l´orizzonte alla piccola Italia,

arriva la principessa tiana prima lady nera della disney - carlo moretti roma ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: prime apparizioni proprio mentre Michelle Obama assumeva il suo ruolo di First lady e le due ragazze Obama prendevano possesso delle loro stanze dei giochi alla Casa Bianca, la coincidenza di una nuova linea di Barbie nere "So in style" che verrà lanciata durante la prossima estate, sono tutti elementi che annunciano un anno di straordinaria visibilità per le donne afroamericane.

"troppi compromessi mr. president" tutti i dubbi dell'america liberal - jackie calmes david m. herszenhorn ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: HERSZENHORN WASHINGTON - Il presidente Obama è noto per le sue proposte ambiziose che hanno aumentato le aspettative di tutti, ma la sua Amministrazione ha già evidenziato una tendenza al compromesso e alla prudenza, e addirittura una certa disponibilità a cedere su alcune delle sue iniziative.

obama: mea culpa su cuba ma resta l'embargo - alberto flores d'arcais ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: il principale consigliere economico di Obama, in una intervista alla Nbc. «Dipenderà da cosa fa Cuba e da come Cuba intende proseguire nel cammino». Il vertice si è concluso con un altro siparietto di Chavez. Visto che il libro di Eduardo Galeano che ha regalato ad Obama (Le vene aperte dell´America Latina) in America è schizzato ai primi posti delle vendite di Amazon,

ahmadinejad: "garantire i diritti alla saberi" - vanna vannuccini ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Obama: "Liberatela" A sorpresa, Teheran sospende l´esecuzione di una donna condannata per omicidio VANNA VANNUCCINI Le prime reazioni americane non erano state polemiche. Certo, la Casa Bianca aveva espresso «profonda delusione» per la dura condanna pronunciata dal Tribunale della Rivoluzione di Teheran contro la giornalista americana di origine iraniana Roxana Saberi,

usa, la retromarcia global scatta dai call center indiani - (segue dalla copertina) federico rampini ( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: e Amministrazione Obama, annuncia la chiusura del centro di assistenza dopo-vendita (al telefono e online) che da anni era operativo in India. Licenziare gli indiani è un passaggio obbligato per convincere i colletti blu di Detroit ad accettare nuovi tagli su salari, pensioni e assistenza sanitaria.

SINISTRA, PAURA DI UN VERO LEADER ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Perché Blair e Obama vanno bene, ma da noi - in Italia - un leader non ci può essere, e quando prova a esserci viene rapidamente logorato e sostituito? Perché la destra può avere un leader nonostante l'ombra di Hitler e Mussolini, e la sinistra che ne ha sempre avuti - da Stalin a Togliatti a Berlinguer - ora lo teme come la peste?

Il vertice Onu sul razzismo spacca l'Occidente ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: 1 No di Obama, sì del Vaticano, Ue divisa. E Ahmadinejad attacca Israele Il vertice Onu sul razzismo spacca l'Occidente L'Occidente si è spaccato sulla partecipazione alla conferenza Durban II. Chi ha deciso di boicottarla (Stati Uniti, Israele, Italia, Australia, Canada, Olanda e Germania) teme che in Svizzera vada in scena una replica del summit nella città sudafricana,

Durban II: gli Usa non vanno, Europa divisa ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Obama difende Israele. L'arrivo di Ahmadinejad: «Sionisti ladri» Si apre oggi a Ginevra la Conferenza sul razzismo tra accuse e rinunce. Vaticano, Gran Bretagna e Francia: noi andiamo DAL NOSTRO INVIATO GINEVRA Diciassette pagine. Parole da eliminare o limare.

Caso Roxana, da Teheran ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Il presidente Usa Obama chiede il suo rilascio immediato. La magistratura iraniana ha rinviato di 2 mesi l'esecuzione della pittrice iraniana Delara Darabi, condannata a morte per un omicidio commesso a 17 anni (si dice innocente). Ma i parenti della vittima rifiutano di concedere il perdono che salverebbe Delara.

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Su Obama, secondo me, ha pesato altresì il timore che una presenza americana a Ginevra gli alienasse l'opinione pubblica interna oltre che Israele, che diffida di lui». Una divisione inattesa tra Londra e Washington? «Diciamo una divisione in contrasto con la Storia.>

Tremonti: finita la paura dell'apocalisse ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Possiamo guardare al futuro con qualche prospettiva che sostituisce, come dice Obama, la speranza alla paura». La cautela è comunque d'obbligo. Tremonti evita di fornire date e cifre mentre Barack Obama dalle isole Trinidad sposa la teoria del suo consigliere economico Larry Summers: «Non siamo ancora fuori dal tunnel, per l'economia si prospettano tempi difficili».

Obama: basta soldi dei contribuenti nel buco nero delle banche ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: 6 Il presidente Usa Obama: basta soldi dei contribuenti nel buco nero delle banche «Se ci sarà bisogno di altro denaro per le banche ha detto il presidente Usa Barack Obama (foto) dal vertice delle Americhe a Trinidad io ho la responsabilità di assicurare la trasparenza: non intendo gettare i soldi dei contribuenti in un buco nero».

Chávez rimanda l'ambasciatore negli Usa ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: ambasciatore negli Usa Obama: «Da Cuba vogliamo fatti, ma abbiamo sbagliato politica per 50 anni» Il leader bolivarista chiederà il gradimento per Roy Gaderton, attuale rappresentante di Caracas all'«Oas» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON Il regalo del libro, fra l'altro in spagnolo quindi di improbabile lettura per Barack Obama,

stagione ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Corriere della Sera sezione: Esteri data: 20/04/2009 - pag: 12 Nuova stagione Dialogo Il presidente Usa Barack Obama arriva alla conferenza stampa conclusiva del vertice panamericano di Trinidad e Tobago

Gli intellettuali avvertono: ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: mentre il fratello Raúl, leader in carica, ammette che con Obama può discutere di tutto, senza condizioni. Ha addirittura pronunciato parole proibite finora, come «dissidenti» e «diritti umani». Il regime sa che con Obama è difficile vendere ai cubani l'immagine del «demonio», come invece veniva facile con Bush.

G8 agricoltura Intesa sulla lotta alla speculazione ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: La novità sembra essere Obama: difficilmente gli Stati Uniti di un anno fa avrebbero potuto firmare un documento «multilaterale» come quello che sarà presentato domani. È invece mancato un documento condiviso anche dagli altri otto Paesi partecipanti al summit (Cina, India, Messico, Brasile, Sud Africa e Argentina, Australia,

Rendere utile l'embargo, revocandolo ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: pag: 26 OBAMA E CUBA Rendere utile l'embargo, revocandolo di FRANCO VENTURINI D a quando Barack Obama è alla Casa Bianca il mondo gira decisamente più veloce. Dopo la Russia, l'Iran e i «talebani buoni », un altro ponte è stato gettato dal nuovo presidente Usa verso quell'America Latina che Bush aveva tanto trascurato.

Pomigliano non somiglia a Detroit ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: cittadinanza che lega la società americana e per onorare le promesse elettorali di Barack Obama. Nella vecchia Europa, invece, il sindacalismo si agita tanto senza concludere niente. Tiene la piazza con manifestazioni imponenti, che si rivelano frutto però più di una straordinaria forza organizzativa che di una reale sintonia con le ansie e le aspettative più profonde del mondo del lavoro.

Chi c'è ha torto ( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: regime che Ahmadinejad rappresenta o se la risposta alle aperture del presidente americano Obama sia già contenuta per intero nella condanna a otto anni per spionaggio appena inflitta alla giornalista americanairaniana Roxana Saberi. Sapendo, naturalmente, che Ahmadinejad è comunque un presidente in scadenza e che dovrà, nel giugno prossimo, affrontare il giudizio degli elettori.

"L'incubo Borse è finito" ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Una prospettiva che sostituisce, «per usare le parole di Barack Obama, la speranza alla paura». Questo non significa che i numeri del 2009 cambieranno di segno, anzi. Non a caso Sacconi, temendo ancora un forte calo dell'occupazione in Italia, ha ribadito la sua richiesta alle imprese di una «moratoria per i licenziamenti».

Borse mondiali tra rimbalzo e vera ripresa ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: dollaro con una moneta internazionale come valuta per gli scambi e per le riserve dei paesi esportatori, e Obama ha detto di no. Che cosa succederà? "Il dollaro e' e rimarra' la valuta di scelta per riserve e scambi per il prevedibile futuro", dice Tarallo. "Lo vedo scendere però dagli attuali livelli entro fine anno per l'enorme debito pubblico Usa dovuto allo stimolo di Obama".

In aprile il Dow Jones delle blue chips americane sta confermandosi sopra quota 8000 punti - ha chiu... ( da "Stampa, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: dollaro con una moneta internazionale come valuta per gli scambi e per le riserve dei paesi esportatori, e Obama ha detto di no. Che cosa succederà? "Il dollaro e' e rimarra' la valuta di scelta per riserve e scambi per il prevedibile futuro", dice Tarallo. "Lo vedo scendere però dagli attuali livelli entro fine anno per l'enorme debito pubblico Usa dovuto allo stimolo di Obama".

Diffuso un nuovo video di Al Zawahiri "Con Obama per noi non cambia nulla" ( da "Repubblica.it" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: il medico egiziano considera la vittoria di Obama un successo dei combattenti islamici: "Non è altro che il riconoscimento da parte del popolo americano del fallimento della politica di Bush, conferma che mentivano gli americani quando sostenevano di aver vinto sui mujahidin. Obama ha sfruttato la sconfitta in Iraq per vincere le elezioni.

La politica equilibrista ( da "Repubblica.it" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: con il quale ci si sgancia educatamente da un noioso invito a cena, che Barack Obama non parteciperà alla conferenza dell'Onu contro il razzismo da oggi a Ginevra, creando in apparenza un colossale paradosso: quello del primo presidente americano nero, eletto nel trionfo dell'antirazzismo, assente da un'iniziativa internazionale contro il razzismo.

Il Papa benedice il vertice dell'Onu Ebrei infuriati, e l'Europa si spacca ( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: mentre Obama la diserta perché «controproducente e inaccettabile per il suo linguaggio sbagliato su Israele». La Santa Sede si smarca dal boicottaggio degli Stati Uniti, dell?Italia e di altri Paesi contrari all?impostazione anti-israeliana di «Durban II», il vertice Onu che oggi si apre a Ginevra tra le polemiche per le pesanti critiche contro lo Stato d?

Vertice sul razzismo, mondo diviso Israele richiama il suo ambasciatore ( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: Barack Obama ha difeso il no degli Usa alla partecipazione alla Conferenza sul razzismo e la xenofobia, ribadendo di essere un presidente che «crede nell?Onu» ma spiegando di non poter accettare «linguaggio controproducente» contenuto nella bozza del documento finale.

Fidel a Obama: "Stop all'embargo" ( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: ex presidente cubano Fidel Castro ha chiesto al presidente degli Stati Uniti Barack Obama di togliere l?embargo Usa a Cuba. Obama «è stato duro ed evasivo in merito all?embargo» durante la conferenza stampa di chiusura del vertice delle Americhe che si è tenuto a Trinidad Tobago, ha scritto il lider maximo in un commento pubblicato sul sito internet ufficiale Cubadebate.

Al Qaeda: "Obama non cambia nulla" ( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)
Argomenti: Obama

Abstract: WASHINGTON Barack Obama «non ha cambiato» la percezione che i musulmani hanno degli Stati Uniti: ne è convinto il numero due di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che ha parlato in un nuovo video diffuso su Internet. A darne conto è il centro di sorveglianza dei siti islamici Site.


Articoli

Il primo viaggio intercontinentale di un nuovo presidente americano assume sempre un significato che... (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Il primo viaggio intercontinentale di un nuovo presidente americano assume sempre un significato che va al di là dell'itinerario. Per il presidente è l'occasione per saggiare l'impatto della propria politica, per i suoi interlocutori l'opportunità di conoscere il leader col quale dovranno trattare nei prossimi quattro anni. Obama ha approfittato della circostanza per tracciare il suo approccio personale alla politica estera: multilateralismo, una reiterata presa di distanza pubblica dal suo predecessore, negoziati ad ampio spettro su più fronti, enfasi sulla costruzione di relazioni personali con i suoi interlocutori. Mai dalla visita di John Kennedy in Europa nel 1961 un presidente americano ha conquistato tali manifestazioni di sostegno. La sfida di Obama consiste ora nell'articolare le sue iniziative ad ampio respiro in una strategia di politica estera coerente. Per lanciare negoziati su una tale varietà di dossier ci vuole coraggio. Alcune iniziative, come il dialogo strategico con la Cina, sono dibattiti già in corso ma elevati a un livello più alto. Altre, come il negoziato sul controllo delle armi con la Russia, sono rimaste in letargo per più di un decennio. L'apertura all'Iran non ha precedenti. I negoziati mediorientali hanno una lunga storia di iniziative fresche sconfitte da difficoltà sempre nuove. Ciascuno di questi negoziati ha una componente politica, ma anche strategica. Ciascuno rischia di incontrare ostacoli che oscureranno gli obiettivi finali, o di lasciar seppellire la sostanza dalla tattica. Tutti sono strettamente legati. Il dialogo sul controllo delle armi con la Russia influirà sul ruolo di Mosca nella non-proliferazione iraniana. Il dialogo strategico con la Cina aiuterà a dare forma al negoziato sulla Corea del Nord. Il negoziato con l'Iran verrà influenzato pesantemente dal progresso dell'Iraq verso la stabilità, altrimenti il vuoto che si verrebbe a creare potrebbe indurre in tentazione lo spirito d'avventura di Teheran. L'ampia agenda dell'amministrazione Obama dovrà diventare un test della sua capacità di armonizzare gli interessi nazionali con problemi globali e multilaterali. Obama è entrato in carica in un momento di opportunità unica. La crisi economica assorbe le energie delle maggiori potenze, che nonostante i contrasti hanno tutte bisogno di una pausa nel confronto internazionale. Sfide soverchianti come il clima, l'ambiente e la proliferazione riguardano tutti, aprendo un'opportunità senza precedenti per soluzioni globali. Ma questa realtà deve venire trasferita in un concetto operativo di ordine mondiale. E questo dipende in larga misura dalle prospettive dell'amministrazione. Per ora il suo approccio sembra puntare verso una diplomazia concertata sul modello del dopo-1815, in cui gruppi di grandi potenze lavorano insieme per consolidare le norme internazionali. In questa visione la leadership americana deriva dalla disponibilità ad ascoltare e dalla capacità di ispirare. L'azione comune deriva da convinzioni condivise. Il potere emerge da un senso di comunione e non da azioni unilaterali, e viene esercitato attraverso una distribuzione di responsabilità in base alle risorse del Paese. È una sorta di ordine mondiale senza una potenza dominante, o dove essa si autovincola nella leadership. La crisi economica favorisce questo approccio, anche se la storia conosce pochi esempi di una simile concertazione. Di solito i membri di un gruppo hanno una disponibilità diversa a correre rischi, e quindi a compiere sforzi in nome dell'ordine internazionale. Nel frattempo, l'amministrazione dovrà navigare tra due tipi di pressione dell'opinione pubblica caratteristici dell'America, e che cercano entrambi di bypassare il paziente dare e prendere della diplomazia tradizionale. Il primo riflette l'avversione a negoziare con società che non condividono i nostri valori e rifiuta il tentativo di alterare il comportamento dell'interlocutore attraverso un dialogo. In questa visione il compromesso è considerato appeasement e si cerca la conversione dell'avversario, o il suo rovesciamento. I critici di questo approccio - ora prevalenti - privilegiano invece la psicologia. Considerano l'apertura di un negoziato come atto di trasformazione, per loro i simboli e i gesti rappresentano la sostanza. La diplomazia deve cercare di trasformare un vicolo cieco in oggetto di negoziato. Ma i cambiamenti di posizione devono essere dettati da obiettivi chiari piuttosto che da tecniche negoziali. Storicamente, gli Usa hanno la tendenza a iniziare un negoziato con gesti che rendono più fragili le circostanze stesse che l'hanno reso possibile. Nel 1951 in Corea hanno fermato l'offensiva all'inizio dei negoziati sull'armistizio. Nel 1968 in Vietnam hanno cessato di bombardare il Nord come prezzo per iniziare i colloqui. In entrambi i casi, il negoziato che ne è seguito è durato anni e il numero delle vittime è stato paragonabile a quello di una guerra su larga scala. Nel negoziato a sei sul programma nucleare nordcoreano, dopo che Pyongyang ha accettato in linea di principio di rinunciare al suo arsenale nucleare, abbiamo concesso la restituzione unilaterale di 25 milioni di dollari bloccati dal Tesoro americano a Macao. Questo passo ha dato ai coreani spazio di manovra per rinviare la discussione del problema a monte per un altro anno. Forse l'illustrazione più lampante del rapporto tra ordine mondiale e diplomazia è la proliferazione. Se Corea del Nord e Iran riusciranno a dotarsi di arsenali nucleari nonostante il no di tutte le maggiori potenze dell'Onu e non solo, l'idea di un ordine omogeneo verrebbe seriamente colpita. Se Usa, Cina, Giappone, Corea del Sud e Russia non riescono a ottenere risultati, tutti insieme, con un Paese come la Corea del Nord, dall'influenza pressoché nulla sul commercio internazionale e privo di risorse che interessino a qualcuno, la frase «comunità mondiale» diventa un suono vuoto. Ho sempre considerato il miglior modo di trattare quello di esporre una lista completa e onesta dei propri obiettivi finali. Il mercanteggiare tattico, attraverso una serie di concessioni minime, rischia di produrre incomprensioni sullo scopo finale. Prima o poi, gli argomenti fondamentali vanno comunque affrontati, soprattutto quando si tratta con un Paese come l'Iran, col quale non ci sono stati contatti per tre decenni. Per contrasto, la questione della non-proliferazione è intrinsecamente multilaterale, e il prezzo del consenso trovato da Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia e ora pure dagli Usa è stato quello di lasciare irrisolti - o nemmeno affrontati - i problemi chiave, anche fattuali. Quanto è vicino l'Iran a produrre materiale arricchito a sufficienza per una testata nucleare? Quanto è vicino alla costruzione della testata per un missile? Fino a che punto gli ispettori internazionali riescono a controllare il limitato programma di arricchimento dichiarato pacifico? Mentre l'amministrazione cerca di convincere l'Iran a dialogare, deve anche energicamente cercare di risolvere questo dibattito sui fatti in corso tra i nostri partner. Se non ci sarà accordo su questi dossier, l'agognato negoziato finirà in uno stallo. Quando riprenderanno i colloqui sulle armi con la Russia, il bisogno di definire una posizione negoziale con la strategia sottostante diventerà altrettanto acuto. Obama e Medvedev hanno deciso di estendere il trattato Start-1, che scade quest'anno, e di ridurre le testate dalle 2200 concordate da Bush e Putin nel 2001 nel trattato Sort. Il problema è che le regole del conteggio tra i due trattati sono diverse. Lo Start conta i missili in base alla loro capacità di potenziali testate, mentre il Sort calcola solo quelle effettivamente installate. In base allo Start, l'arsenale Usa supera le 5 mila testate, e per raggiungere anche solo il numero di 2200 bisognerebbe smantellare quasi tutte le testate multiple. A quel punto si porrebbe la domanda: è lecito immagazzinarle o devono venire distrutte? Prima che ricominci l'inevitabile gioco dei numeri che ricorda gli Anni 70, bisogna accelerare la verifica dei siti strategici per dare una base per la diplomazia. L'amministrazione Obama ha lanciato il Paese in una importante impresa diplomatica. Ma ora deve aggiungere alla sua visione anche un piano diplomatico. © 2009 Tribune Media Services, Inc.

Torna all'inizio


Crisi, Tremonti assicura "Finita la grande paura" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Il ministro dell'Economia: fermata la caduta delle Borse Crisi, Tremonti assicura "Finita la grande paura" Sacconi alle imprese: "Non licenziate" «È finita la paura di un crollo epocale delle Borse, di un'apocalisse. Insomma, l'incubo degli incubi è passato». A parlare è Giulio Tremonti, secondo il quale anche se siamo ancora in una fase di «incognite», la gente ha iniziato a tirare un sospiro di sollievo. Citando il presidente americano, Obama, il ministro dell'Economia rassicura: ci sono segnali di speranza, il peggio della crisi è alle spalle. Mentre Maurizio Sacconi chiede una moratoria alle imprese: «Non licenziate». Barbera e Grassia A PAGINA 8

Torna all'inizio


Una finale, il Sud Africa film in bianco e nero (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

IL DOPO APARTHEID L'ABBRACCIO TRA LEADER Una finale, il Sud Africa film in bianco e nero Clint Eastwood sta girando "The Human Factor": racconta il miracolo del '95, un Paese riunito dal Mondiale di rugby Fino ad allora la Nazionale era sinonimo di razzismo Diventò una nuova bandiera Il presidente Mandela e l'afrikaans Pienaar con la stessa maglia: la n. 6 L'immagine che fece il giro del mondo era già allora un fotogramma, un pezzo di vita che impressiona la mente e mette in moto la storia: il piccolo padre nero che sorride al grande figlio bianco, mano nella mano, occhi negli occhi. Con lo stesso jersey verde addosso, il numero 6 sulle spalle. Anche il dialogo era già scritto: «Grazie per quello che avete fatto per il Sud Africa». «Presidente, è niente rispetto a quello che ha fatto lei per il Sud Africa». Ellis Park, Johannesburg, 25 giugno 1995. Per quattordici anni l'happy-end della terza Coppa del Mondo di rugby, Nelson Mandela che consegna la coppa a Jacobus Francois Pienaar il biondissimo, pallidissimo afrikaaner di origini ugonotte, capitano di quella che per decenni era stata la nazionale più razzista del mondo, ha aspettato qualcuno che si accorgesse che c'era già una sceneggiatura, si chiamava realtà, e che dicesse motore, ciak, azione. Quel film lo vedremo a dicembre, si intitolerà «The Human Factor», il Fattore Umano. È tratto da un libro («Playing the enemy: Nelson Mandela and the Game That Made a Nation») che il giornalista John Carlin ha dedicato a Mandela, al SudAfrica, a quella partita che per un lungo istante consegnò a tutti l'illusione che con lo sport si potesse costruire una nazione. E cambiare il mondo. A volerlo è stato Morgan Freeman, il premio Oscar nero, che produrrà la pellicola per la Warner Bros, e che nel copione ha il ruolo di Mandela. Per trovare i fondi necessari Freeman ha convinto Clint Eastwood a firmare la regia, mentre Matt Damon impersonerà Pienaar. «Devo ammettere che mia moglie è stata molto soddisfatta della scelta», ha ammesso l'ex-capitano, che dopo il ritiro nell'96 e qualche anno da allenatore in Inghilterra è tornato a vivere a Cape Town. Durante le riprese Pienaar ha allenato Damon, giocato a golf con Freeman, vissuto e cucinato con la troupe e per i due Eastwood, Clint e suo figlio Scott, che nel film recita il ruolo di uno springbok. Francois, il lato biondo della favola, che oggi ha 42 anni, è nato e cresciuto a Vereeniging, una città industriale a sud di Johannesburg. Nel 1960 nella township nera di Sharpeville, alle porte di Veereniging, la polizia uccise 69 dimostranti neri. «Ma noi eravamo una tipica famiglia di lavoratori afrikaans», racconta Pienaar. «Da noi non si parlava mai di politica e credevamo al 100 per cento alla propaganda». Mandela nel '94 era stato appena eletto presidente del Sud Africa. Veniva da 27 anni di prigionia, voleva finire il lavoro di una vita. Nel 1990, alla parata per la sua liberazione, dopo un lungo tormento, si era palesato anche Morne Du Plessis, l'ex capitano e allora manager degli Springboks. Un mito afrikaans. Mandela, come i neri lungimiranti che quel giorno di quattro anni prima aveva difeso l'immenso e imbarazzato omone bianco da un nero ubriaco che voleva cacciarlo dal party, capì che il rugby, lo sport bianco e sporco di vergogna che era appena uscito dal bando internazionale, poteva diventare uno strumento fenomenale. In occasione dei match degli Springboks, nell'evo buio della segregazione, un settore dello stadio era riservato ai neri. Che lo stipavano per tifare per la squadra avversaria. Mettere insieme palla ovale e orgoglio nero pareva un'impresa assurda, prima ancora che disperata. Ma «Madiba» lottò, e riuscì ad ottenere l'organizzazione dei Mondiali del '95. Un giorno di giugno del 1994, invitò Pienaar a prendere un tè con lui all'Union Building. Il capitano fu accolto dall'altissima, severissima segretaria nera di Mandela, Mary Mxadana. «Ero tesissimo. Che cosa devo dirgli? Poi Mxadana mi fece entrare nell'enorme sala vuota dove Madiba mi aspettava, lui si alzò sorridente e mi venne incontro: Ah! Francois, sei stato gentilissimo a venire! Vuoi un po' di latte nel tè? Si congratulò con me per la vittoria con l'Inghilterra, ci mettemmo a parlare. Dopo cinque minuti il mio umore era del tutto cambiato. Non è solo amichevole, Madiba. È che con lui ti senti al sicuro». Pienaar uscì dall'ufficio con un amico in più, che gli aveva consegnato un messaggio: «Sentitevi fieri della maglia degli Springbok, perché io lo sono. E vincete il Mondiale». Il Presidente continuò a chiamare il Capitano per tutto l'anno successivo, informandosi costantemente sulla squadra: «piccole cose», spiega Pienaar, «ma che per noi furono fondamentali». Riuscì, insieme a Du Plessis, anche a convincere gli Springboks (qualcuno degli Spingboks.) a imparare a memoria Nikosi Sikelele, il nuovo inno in lingua Xhosa, e a cantarlo. Gli Springboks non erano i favoriti del mondiale, nemmeno quando arrivarono in finale contro gli All Blacks. «Io quel giorno commentavo la partita per la radio», racconta Nick Mallet, il ct sudafricano dell'Italia. «E per la prima volta vidi sudafricani di tutti i colori e le religioni tifare insieme. All'inizio l'appello di Mandela a tifare per gli amabokoboko' non era stato preso bene dalla gente di colore. Ma quella partita per noi sudafricani oggi continua a significare molto più di una finale vinta. Arrivammo tutti insieme a un momento, magari breve, ma intensissimo, di unità nazionale». Il potentissimo all black Jonah Lomu fu fermato, Pienaar giganteggiò in difesa, il piede di Joel Stransky piazzò 15 punti, compreso il drop nei tempi supplementari: 15-12 per gli Springboks, i nuovi campioni del mondo. «Oggi ha sentito tutti i 63.000 dello stadio tifare per voi?», chiesero dopo il fischio finale a Pienaar. «No, oggi ho sentito 42 milioni di sudafricani tifare per noi». Poi la stretta di mano, l'immagine destinata a fermare il tempo, con Madiba infilato in quel jersey che, secondo la leggenda, una sua guardia del corpo gli aveva suggerito di indossare quel giorno ormai lontano, e i cori dello stadio che scandivano il suo nome. Il sogno del Paese arcobaleno negli ultimi 15 anni si è molto sbiadito. Le tensioni razziali continuano, il Sud Africa l'anno scorso ha attraversato momenti difficili. Il capitano degli Springboks oggi è un nero, Etienne De Villiers, che però pochi giorni fa ha minacciato di dimettersi per gli attacchi razzisti dei dirigenti, dai quali è tollerato per convenienza politica. Mandela non è più presidente, Pienaar non si occupa più di rugby. Resta quella foto. Che qualcuno, nella nuova America di Obama, ha voluto rimettere in movimento.

Torna all'inizio


Skype e Youtube le nuove tribune del sindaco (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Personaggio La «rivoluzione» tecnologica di Marco Pasteris ELVIO CHILELLI Skype e Youtube le nuove tribune del sindaco SALUGGIA Si proclama assertore dell'informatica come veicolo di democrazia. E vede internet come la nuova frontiera della pubblica amministrazione. Abituato a rompere gli schemi - uomo di An ha vinto le elezioni sfidando il centrosinistra su un tema come l'ambiente - ora Marco Pasteris ha voluto un cambiamento netto arricchendo il nuovo portale web del municipio di avanzate tecnologie digitali ed interattive, un enorme salto in avanti rispetto alla maggioranza delle amministrazioni pubbliche italiane che sui loro siti si limitano a qualche comunicato e a poche notizie realmente utili. Il sito internet municipale (www.comune.saluggia.vc.it) non conterrà più solamente informazioni e news comunali, ma offrirà anche una serie di servizi innovativi. Il Consiglio comunale sarà trasmesso in diretta via webcam. Ci sarà un messaggio video settimanale del primo cittadino, sul modello del presidente statunitense Barack Obama. In più il sindaco sarà disponibile a rispondere direttamente, sia sul proprio cellulare (il numero è pubblicato on line) che attraverso il programma Skype, software di messaggistica istantanea, che consente di chattare, conversare e videochiamare: il suo nome utente è marco.pasteris1. C'è la possibilità poi di gestire on line una lista di documenti, di ricevere tramite posta elettronica la propria posizione relativa all'Imposta comunale sugli immobili e, per le associazioni locali, di avere a disposizione una pagina web oppure un link, un collegamento, al proprio sito. Confermatissima, visto il successo, la sezione che permette di conoscere, giorno per giorno, dove e su quali lavori sono occupate le squadre di operai comunali. «Abbiamo lavorato alla possibilità di offrire un servizio migliore alla cittadinanza», così il sindaco ha presentato il nuovo portale che parte dai risultati raggiunti dalla versione precedente, capace nel 2008 di registrare un milione e settecentomila collegamenti totali, con una media giornaliera di 4700 visite. «Nel corso del 2008 - osserva Pasteris - abbiamo cercato di migliorare la quantità e la qualità di informazioni disponibili. Oggi presentiamo un sito rivisto completamente che offre maggiori opportunità ai cittadini». A partire dalla novità del messaggio video settimanale. Il primo è già visuabilizzabile attraverso l'icona sulla home page. E anche su Youtube, ovvio.

Torna all'inizio


Ahmadinejad: "Veglierò sui diritti della reporter" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Ahmadinejad: "Veglierò sui diritti della reporter" L'apertura di Teheran. Obama: "Liberatela subito" NEW YORK Mahmoud Ahmadinejad invoca il diritto ad una giusta difesa nel processo di appello a Roxana Saberi, la giornalista iraniano-americana condannata sabato per spionaggio da un tribunale rivoluzionario di Teheran a otto anni di reclusione. L'inattesa apertura da parte del presidente della Repubblica islamica arriva da un dispaccio dell'agenzia Irna, secondo cui il capo dell'ufficio di presidenza, Abdolreza Sheikholeslami, ha inviato una lettera al procuratore capo di Teheran, Said Mortazavi, nella quale chiede di prestare attenzione affinché l'imputata «disponga di tutte le libertà e dei diritti legali per difendersi e perché i suoi diritti non vengano calpestati». Un segnale insolito per Ahmadinejad, rappresentante della fazione conservatrice e nemico giurato degli Stati Uniti. Ancor più perché la richiesta non riguarda solo il processo Saberi, ma anche il caso Hossein Derakhshan, il «padre dei blog iraniani» detenuto dal 2008 e in attesa di giudizio. Le affermazioni di Ahmadinejad giungono ore dopo che il presidente americano Barack Obama ha chiesto di liberare la donna, dicendosi «preoccupato» per la sua sorte: «Stiamo lavorando per essere certi che venga trattata in modo adeguato e per ricevere tutte le informazioni sul suo caso. Washington fa tuttavia intendere di puntare su una cauta diplomazia. «Profonda delusione» era stata espressa poco prima dal segretario di Stato, Hillary Clinton. Roxana Saberi, 31 anni, nata negli Stati Uniti da padre iraniano e madre giapponese, da sei anni risiede in Iran ma da due le era stato revocato l'accredito da giornalista. Arrestata il 31 gennaio dopo aver comprato una bottiglia di vino in un bazar della capitale, è stata accusata in un secondo momento di spionaggio per conto degli Usa. E' la prima volta che l'Iran ha giudicato una giornalista americana colpevole di spionaggio al termine di un processo lampo: secondo il padre, Reza, l'udienza principale è durata solo 15 minuti. Per gli esperti il processo è un tentativo delle fazioni conservatrici di minare il cammino di distensione avviato da Obama dopo tre decenni di gelo diplomatico. Oppure una carta che Teheran vuole giocare nel contenzioso sul nucleare. E' per questo che l'intervento di Ahmadinejad ha colto di sorpresa tutti, anche perché giunge con un'altra decisione a sorpresa, ovvero la sospensione dell'esecuzione di Delara Darabi, una ragazza condannata a morte per un omicidio commesso a 17 anni, che avrebbe dovuto essere impiccata nei prossimi giorni.\

Torna all'inizio


Un Presidente che fa troppi compromessi (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

IL NEW YORK TIMES «Un Presidente che fa troppi compromessi» Barack Obama è eccessivamente cauto e tende troppo al compromesso politico. E' lapidario il «New York Times» nel giudicare i primi tre mesi di governo del nuovo presidente Usa colpevole, secondo il più liberal dei grandi quotidiani americani, di aver dimostrato di capitolare da subito su alcune importanti azioni riformiste annunciate durante la campagna elettorale. «Dov'è la battaglia tanto annunciata?» si chiede il NYT.

Torna all'inizio


L'AVANA VICINO SCOMODO (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

LE SFIDE DI OBAMA L'AVANA VICINO SCOMODO Washington Ha ammesso che sono sbagliate le politiche adottate contro Fidel negli ultimi 50 anni

Torna all'inizio


Il piccolo disgelo di Barack (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Il piccolo disgelo di Barack Si può pur dire la politica dei piccoli passi, e immaginare la costruzione lenta di un percorso che porti alla soluzione della crisi, ma quando poi i piccoli passi sono soltanto belle parole e foto sorridenti e però i fatti, quelli solidi, concreti, continuano a non vedersi, allora il pessimismo torna a dominare la scena, e i protagonisti si ricollocano nei loro vecchi angoli consunti. Non siamo ancora a questo punto, Obama certamente non è Bush, tuttavia la conclusione della «cumbre» delle Americhe lascia il senso amaro di un risultato molto inferiore alle attese che si erano accese un paio di giorni fa. Nel vertice continentale dei presidenti, i problemi al centro dell'agenda erano due, intrecciati ma allo stesso tempo anche indipendenti: uno era il ritrovamento di una forma accettabile di dialogo tra il grande vicino del Nord e i suoi diffidenti partners che stanno sotto il Rio Bravo, e l'altro era la ricomposizione della rottura tra Washington e l'Avana. Le parole con le quali Obama ha chiuso la sua partecipazione suonano bene, hanno il profilo aggregante della speranza e il respiro forte di un futuro aperto; ma, dentro, non contengono segni di nuove prospettive con il Cono Sur, nè risposte certe alla mano aperta che Raul Castro aveva appena offerto. E anche se l'embargo a Cuba è un fantoccio di comodo per il regime castrista piuttosto che una vera ghigliottina sullo sviluppo dell'isola, il suo valore simbolico ha un fortissimo contenuto politico; su questo si misurano il grado di pacificazione del vecchio contenzioso e la stessa prospettiva di una stabilizzazione pacificatrice, e non soltanto con l'isola. Lo si era detto da molti, già dopo l'insediamento di Obama alla Casa Bianca: che le aspettative che si erano proiettate sulla sua elezione - l'immagine giovane, il segno forte della discontinuità, la volontà di rendere reale il «We can» della speranza - si sarebbero dovute misurare con il peso pesante degli equilibri preesistenti e con la vischiosità degli interessi consolidati. Il presidente ha fatto molto, sul piano della rottura con le pratiche e con la storia della precedente amministrazione, e ha saputo pronunciare ovunque parole di apertura e di mutamento di rotta, disponibilità certe a un dialogo innovatore. Ma sia nel viaggio in Europa, sia ora in questo incontro con i suoi vicini del continente, i risultati raccolti appaiono inferiori ai grandi gesti retorici che li avevano preparati. I rapporti con l'America Latina, e con Cuba in particolare, devono scontare un lungo tempo nel quale - come Chàvez ha voluto platealmente sottolineare regalando a Obama il libro di Galeano - gli Usa hanno giocato il ruolo che i murales dell'Avana chiamano senza mediazioni - «El Imperialismo Yanqui»; e la frase celebre di Roosevelt - a chi gli faceva notare che il golpe del Nicaragua portava al potere «un autentico figlio di puttana» - che quel Somoza era comunque «il nostro» figlio di puttana, sintetizza con drammatica efficacia il tipo di relazioni egemoniche che Washington proiettava sui Paesi del suo Sud. Mutare questo corso comporta molto di più che una faccia giovane e parole di dialogo, ma certamente il fatto che - come lo stesso Obama ha voluto notare - tutti i presidenti che sedevano al suo tavolo della cumbre erano stati eletti, tutti, in un regime democratico è un valore forte al quale l'ancoraggio della speranza appare meno problematico che in passato, ma del quale, anche, gli Stati Uniti debbono tenere un conto certo, perché significa che le prospettive di dialogo si pongono oggi su un piano di parità. È il ruolo che Lula disegna al leadership latinoamericana, e la presenza degli investimenti cinesi e iraniani è un fattore che impone alla Casa Bianca una più misurata propensione a riconoscere le ragioni dei vicini del Sud.

Torna all'inizio


Il nodo di Cuba guasta il vertice delle Americhe (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Il nodo di Cuba guasta il vertice delle Americhe [FIRMA]FRANCESCO SEMPRINI NEW YORK La fine dell'embargo americano su Cuba è tutt'altro che vicina. La dichiarazione è di Larry Summers arriva come una doccia fredda nella cerimonia conclusiva del vertice delle Americhe di Trinidad e Tobago caratterizzato da un clima di generale distensione tra le opposte realtà continentali, ma chiuso senza l'unanimità sul testo finale. Il consigliere economico della Casa Bianca ricorre ad affermazione perentorie nel corso dei consueti salotti tv domenicali, mentre il presidente Barack Obama è impegnato nel discorso finale del summit di Port of Spain, da lui stesso definito «un nuovo inizio» nelle relazioni tra Stati Uniti, Cuba e America Latina. La fine dell'embargo «è lontana sulla strada», dice Summers convinto che questo passaggio cruciale non sia un evento che possa avvenire dall'oggi al domani. «Molto dipenderà da cosa fa Cuba e da come intende proseguire il cammino», avverte il consigliere gelando così l'ipotesi di una veloce revoca delle sanzioni emersa durante i lavori di Trinidad. Un segnale in controtendenza specie perché negli stessi istanti da Port of Spain, Obama spiega che le politiche adottate negli ultimi 50 anni dagli Usa nei confronti di Cuba «non hanno funzionato». In questi giorni, dice, «abbiamo percepito segnali positivi che aprono le porte a un dialogo franco, anche su questioni critiche come la democrazia e i diritti umani». Il presidente attende però un segnale dall'Avana spiegando che tocca a lei fare un passo in avanti iniziando magari con la liberazione dei prigionieri politici oppure con concessioni libertà di stampa. «Sono troppi i cittadini ai quali vengono negate la dignità, le opportunità e le chance per vivere i propri sogni a Cuba e in tutto il continente», avverte Obama. Il riferimento è anche al Venezuela di Hugo Chavez e giunge dopo l'inattesa stretta di mano tra il leader socialista e l'inquilino della Casa Bianca al quale il presidente venezuelano ha regalato il libro «Le vene aperte dell'America Latina» di Eduardo Galeano. Libro subito balzato al numero due della «top ten» di Amazon. Chavez da parte sua valuta la riapertura delle sedi di rappresentanza negli Usa dopo il richiamo a settembre del personale diplomatico. A conferma della ritrovata distensione il presidente brasiliano Lula chiede al collega americano di inviare il segretario di Stato, Hillary Clinton, a Caracas e a La Paz in Bolivia, come «emissario di buona volontà». Mentre Chavez nel corso del vertice Unasur (Unione delle nazioni sudamericane), avanza la candidatura dell'Avana quale sede per il prossimo vertice delle Americhe. Da parte sua Obama si impegna a «rispettare tutti i governi eletti democraticamente, anche se vi saranno divergenze politiche». E aggiunge: «Mi oppongo e condanno qualsiasi tipo di sforzo volto ad abbattere un governo eletto democraticamente: non è la politica di questa amministrazione, non è il modo in cui il popolo degli Stati Uniti si aspetta che si comporti il governo». Poco prima il presidente nel corso del Sica (il Sistema d'Integrazione centro-americana) ha confermato la sua disponibilità a cooperare con i leader «eletti democraticamente», anche con lo stesso Daniel Ortega uno dei leader più ostili a Washington. Si tratta di Paesi che rappresentano per Washington «un importante partner e con i quali sono uniti da sfide comuni», dice Obama. Non è mancato infine un accenno alla delicata questione dei paradisi fiscali, alcuni dei quali si trovano nei Paesi caraibici e sui quali molto hanno dibattuto all'inizio del mese a Londra i leader del G20. Larry Summers, ha spiegato che secondo il presidente» questioni come quella dell'evasione fiscale e del segreto bancario devono essere affrontate e risolte quanto prima».

Torna all'inizio


Durban, rinuncia anche la Germania il summit verso il fallimento (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

GINEVRA - "Uniti contro il razzismo": qualcuno ha scritto giustamente che sembra una beffa lo slogan scelto per la Conferenza dell'Onu sul razzismo (la cosiddetta Durban 2) che si apre a Ginevra. In serata è arrivata l'ultima rinuncia, pesante, quella della Germania. Dopo Stati Uniti, Israele, Canada, Italia, Olanda, il boicottaggio della Germania porta il peso della scelta di un paese guida nella Ue e nel mondo. Il vero timore è che la 4 giorni di Ginevra possa trasformarsi in una replica di "Durban 1", la conferenza Onu che nel 2001 mise nel mirino Israele accusandolo di essere l'unico paese al mondo titolare di politiche razziste e xenofobe. A Ginevra però ci sarà il Vaticano, ci saranno tutti i paesi arabi e quelli islamici che volevano Israele sul banco degli imputati. Con loro in prima fila il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Arriveranno alcuni paesi europei che non se la sono sentita di disertare una conferenza Onu, per esempio la Gran Bretagna di Gordon Brown (con una scelta quasi da doppiogioco: Londra sarà rappresentata solo dall'ambasciatore a Ginevra). Ci saranno tutte le agenzie Onu e le Ong interessate al tema dei diritti umani, dell'uguaglianza fra i popoli. Per mesi è stata negoziata una Dichiarazione Finale da cui progressivamente sono stati emendati i riferimenti aggressivi per Israele. Su un punto però gli anti-israeliani hanno fatto muro: nel progetto di "Dichiarazione Finale" è stato lasciato un esplicito richiamo alle conclusioni di Durban 1, in cui Israele veniva attaccato frontalmente. In questo modo quindi anche la conferenza di Ginevra si prepara a criticare Israele. OAS_RICH('Middle'); Ecco perché ieri Barack Obama in persona ha confermato il boicottaggio Usa, facendolo con un ragionamento politico consequenziale: "Io sono un presidente degli Usa che crede nel multilateralismo e nelle Nazioni Unite, ma non posso accettare un linguaggio controproducente come quello proposto. Ho detto al segretario Ban Ki Moon che siamo felici di aiutare l'Onu, ma questa non è l'opportunità giusta". Il Vaticano invece ha scelto di privilegiare il rapporto con gli altri paesi membri dell'Onu: sarà a Ginevra e l'ha fatto annunciare dal papa in persona. Benedetto all'Angelus ha invitato "tutte le delegazioni a lavorare insieme in uno spirito di dialogo e di reciproca accettazione per metter fine ad ogni forma di razzismo, discriminazione e intolleranza". Ahmadinejad , che in Svizzera è arrivato ieri sera, oggi parlerà al Palais Des Nations: unico capo di stato presente, ha anticipato il tono prevedibile del suo discorso con una dichiarazione poco equivoca. "Israele è il portabandiera del razzismo, i sionisti saccheggiano la ricchezza delle nazioni, controllano i centri di potere del mondo e hanno creato le condizioni perché non si parli di questo fenomeno". Ahmadinejad è un uomo politico abile ed esperto, nonostante i toni radicali della sua politica; vedremo se oggi adopererà le stesse parole usate ieri alla partenza da Teheran, ma sicuramente il summit di Ginevra questa mattina inizierà sotto il suo segno. Ieri sera l'Alto commissario per i diritti dell'uomo, la sudafricana Navy Pillay, diceva di essere "scioccata e profondamente delusa per la decisione degli Usa di non partecipare a una Conferenza dedicata alla lotta al razzismo e alla xenofobia". Il problema è capire davvero cosa sarà da oggi questa "Durban 2". (19 aprile 2009

Torna all'inizio


fresco:"bene il pressing di marchionne i sindacati usa difendono un privilegio" - paolo griseri (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 13 - Economia L´opzione Opel Parla l´ex presidente della Fiat ed ex vicepresidente di General Electric. Sua l´alleanza del Lingotto con la GM Fresco:"Bene il pressing di Marchionne i sindacati Usa difendono un privilegio" Dopo l´accordo con gli americani, per il gruppo del Lingotto sarebbe utile anche l´acquisizione della Opel da GM PAOLO GRISERI TORINO - I sindacati americani stanno segando il ramo su cui sono seduti e «per difendere i privilegi dei lavoratori del Michigan rischiano di portare al fallimento le società». Analisi impietosa quella di Paolo Fresco, ex numero due di General Electric, presidente di Fiat dal 1998 al 2003, autore dell´accordo con Gm che portò 4,5 miliardi di euro nelle casse di Fiat e immensi rimorsi a Detroit. Ingegner Fresco, con i miliardi versati dalla Gm è partita la riscossa di Fiat. Ora quei soldi serviranno a comperare la Chrysler? «Non è così semplice. I soldi dell´opzione put di Gm sono una parte di una somma complessiva che sfiora i 10 miliardi di euro (ai 4,5 di Detroit vanno sommati i 3 del convertendo delle banche e i 2,5 della vendita della quota Montedison) che consentì a Fiat auto di uscire dalla crisi. Anche grazie all´abilità negoziale di un ad come Marchionne». Allora Detroit stava per mangiarsi Torino, ora potrebbe succedere il contrario. Perché? «Perché i grandi produttori degli Usa non hanno risolto il problema del costo del lavoro. Non lo ha risolto completamente nemmeno la Ford». Ai tempi della sua trattativa con Gm, quel problema c´era? «Eccome. Solo che si pensava di avere un po´ di tempo davanti per risolverlo. Il fatto è che nel corso dei decenni i lavoratori di Detroit hanno ottenuto una serie di benefit che rendono molto più costoso produrre nel Michigan che in altri Stati degli Usa. Difendere quei privilegi significa condannare le società al fallimento». Lei li farebbe entrare i sindacati nel cda? «Non sono contrario a priori. L´esperienza tedesca dimostra che quando i sindacati vengono dalla tua stessa sponda del fiume, diventano molto più ragionevoli». E accetterebbe di fare l´ad di Fiat e Chrysler insieme? «Quando si è fuori è troppo facile dare consigli. Marchionne non ne ha bisogno. Capisco che Obama lo voglia alla guida della Chrysler ma starei attento a caricare troppe responsabilità sulle spalle di una stessa persona». Staccherebbe l´auto dal resto del gruppo per fare un accordo? «L´avrei già fatto da tempo». Che cosa c´è dopo l´alleanza con Detroit? «Quell´alleanza sarebbe un bel passo avanti per Fiat ma non sarebbe comunque la fine del percorso di fusione». Mancherebbero almeno due milioni di auto prodotte alla soglia dei sei milioni. Dove trovare il nuovo alleato? «Non credo che sia tanto un problema di numeri quanto di sinergie. Conta soprattutto quanto riesco a produrre e a vendere con la stessa piattaforma perché in quel modo posso realizzare maggiori risparmi. In questo senso va bene l´alleanza, di cui si parla, con Opel che lavora sullo stesso segmento di mercato». Non vede rischi per l´occupazione in quel caso? «Li vedo. Ma si tratta di rispondere contemporaneamente a due esigenze: quella di avere una gamma completa, e per questo andrebbe bene un´alleanza con Bmw, e l´esigenza di ridurre i costi, per cui sarebbe ideale la fusione con Opel». Due ipotesi tedesche. Anche lei trattò con i costruttori della Germania? «Con Mercedes, all´epoca della trattativa con Gm». Usò la Mercedes come arma di ricatto? «Dicemmo a Detroit che se non accettavano il vincolo del put, avevamo un´altra opportunità».

Torna all'inizio


la politica equilibrista - (segue dalla prima pagina) (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 19 - Commenti LA POLITICA EQUILIBRISTA (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Il rifiuto di Obama, e il ritiro della delegazione americana che pure fino a pochi giorni or sono aveva partecipato alla preparazione di questa "Durban 2", come si chiama perché è la continuazione della prima, organizzata nella città sudafricana di Durban nel 2001, vengono dopo settimane di esitazione, di "nì", di "forse" e di "ma", di sofferenze e di ambiguità che il Presidente stesso si è deciso a tagliare «con rammarico» per non offendere coloro, Israele e la comunità ebraica per prime, che leggono in questo incontro soltanto un´occasione di propaganda antisemita. E dunque una cassa di risonanza per quelle nazioni, come Iran e Libia, che bizzarramente fanno parte della commissione Onu per «i diritti umani», e usano il Palazzo di Vetro come megafono anti israeliano, mentre al proprio interno calpestano proprio quei diritti civili e individuali che domandano agli altri di rispettare. Ma se il rifiuto di partecipare è stato più facile per i governi che hanno detto "no", come l´Australia, la Francia, l´Olanda, che è agitata al proprio interno dalla più acuta "questione islamica" in tutta l´Europa o l´Italia, mentre il Vaticano, l´Inghilterra, la Spagna hanno accettato l´invito, l´assenza dell´uomo che incarna in questo momento la più alta speranza di superamento del razzismo sembra una contraddizione lancinante. Per questo, e fino all´ultimo, gli inviati americani a Ginevra, e la stessa Casa Bianca avevano tentato di lavorare per linee interne, di modificare dal di dentro quei documenti nei quali i promotori cercano di indicare nel "sionismo", sinonimo di Israele, il bastione del razzismo, che definiscono la barriera costruita dal governo ebraico «il muro dell´apartheid» e riconoscono soltanto nella "Nakba", nella catastrofe e nella diaspora palestinese, l´unico, autentico esempio di tentato genocidio. Di fronte alla nettezza inconciliabile di questa interpretazione del razzismo, che già aveva spinto George Bush a boicottare "Durban 1", neppure la consumata abilità obamiana di ricomporre gli opposti con il carisma o la sua capacità di fare annunci trancianti seguiti da azioni concrete molto più ambigue, sarebbe bastata. Benedetto XVI può, nel suo ruolo di pontefice di una confessione religiosa senza autentico potere politico, permettersi di sperare che questa conferenza sia «un passo fondamentale verso l´affermazione del valore universale della dignità dell´uomo, contro ogni forma di discriminazione», ma il Papa non deve vedersela con la comunità ebraica americana, con un governo di falchiestremisti come il neo insediato in Israele, con un capo di gabinetto come Rahm Emanuel già volontario con le forze armate israeliane, con lobbies che avrebbero considerato la sua presenza a Ginevra come assenso implicito alle tesi di chi nega l´Olocausto. La tecnica di governo di Barack Obama, quasi una edizione americana dei «due forni», il presidente che annuncia la chiusura di Guantanamo ma per il momento la lascia aperta, che ammorbidisce l´embargo anti cubano ma non lo cancella, che condanna la tortura ma non i torturatori, che fustiga i bonus e i profitti dei finanzieri ma poi puntella le loro banche agonizzanti, non poteva funzionare di fronte a una conferenza che esalta e sancisce il razzismo mentre dichiara di volerlo estirpare. E non è soltanto il nocciolo radioattivo dell´antisemitismo contenuto già nel primo documento approvato sette anni or sono a inquietare. C´è anche il tentativo di dichiarare ogni "discorso blasfemo" come proibito e di considerare "l´incitamento" alla critica antireligiosa come prova di discriminazione razziale, una tesi cara alle teocrazie fondamentaliste e integraliste che in sostanza sperano di avere il beneplacito dell´Onu alla loro «fatwa», alla persecuzione e repressione di ogni critica e di ogni opposizione vista come satanica. Il paradosso del presidente venuto dal Terzo Mondo, del primo capo di stato americano eletto "nonostante" la propria diversità e minorità etnica è dunque più apparente che reale. Questa volta, Obama il formidabile equilibrista che riesce a sembrare sempre troppo rivoluzionario ai conservatori e sempre troppo conservatore ai rivoluzionari, essendo tanto un centrista nell´azione quanto appare "estremista" nella parole, non ha potuto camminare sul filo dell´ambiguità. Obama, come gli rimproverano i delusi, è, prima di ogni altra cosa, un realista e lo ha dimostrato, con qualche imbarazzo, rifiutando di presentarsi a questo invito a cena. La realtà, oggi come negli ultimi 60 anni di politica estera americana, con presidenti democratici o repubblicani, insegna che, al momento delle strette, Washington, bianca o nera che sia, si collocherà sempre dalla parte di Israele.

Torna all'inizio


miracoli di san giulio - (segue dalla prima pagina) (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 19 - Commenti MIRACOLI DI SAN GIULIO (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) In America l´incubo del collasso della finanza, e in definitiva dell´intero modello turbo-capitalistico dell´ultimo ventennio, sembra scongiurato. I clamorosi profitti di bilancio macinati dalle grandi banche d´affari, cuore pulsante del sistema, dimostrano ancora una volta che il capitalismo uccide e rigenera le sue cellule con velocità sorprendente. In Cina gli investimenti fissi urbani sono cresciuti del 30%, e Pechino scommette su una crescita dell´8%. In India settori come la siderurgia e il cemento, dopo mesi di calma piatta, mostrano picchi di risveglio. In Russia la produzione industriale a marzo è cresciuta dell´11,1%, e il ministro delle Finanze Kudrin ipotizza una piena ripresa già nel quarto trimestre. Persino in Europa qualcosa si muove: l´indice Euro-Coin che stima la differenza tra la produzione attuale e le aspettative delle imprese tre mesi prima inizia a stabilizzarsi, mentre l´Indice Baltico che registra le variazioni del prezzo di trasporto via mare delle merci, crollato sotto quota 1.000 a dicembre, avvia ora una lenta risalita. Ma com´era sbagliato lasciarsi travolgere dal catastrofismo sei mesi fa, sarebbe altrettanto sbagliato lasciarsi coinvolgere dal trionfalismo oggi. Il realismo di Barack Obama è un valido antidoto: insieme alla paura, che resta, si affaccia qualche speranza. Ma come dice il presidente americano, non siamo affatto usciti dal tunnel, i tempi restano molto difficili, il credito continua a non fluire. Se poi dal villaggio globale restringiamo l´orizzonte alla piccola Italia, al netto della straordinaria rinascita della Fiat, c´è purtroppo più di una ragione che suggerisce ancora un po´ di sano pessimismo. Come dice Tremonti, nessuno pensa più a un crollo globale della finanza. Questo è sicuramente un bene nell´ottica della psico-patologia della crisi, perché in questa grande tempesta perfetta la prima virtù che è andata sommersa è stata la fiducia. Ma il dramma, per il nostro Paese, riguarda solo marginalmente, e di riflesso, l´economia finanziaria. Il vero nodo è l´economia reale. è la recessione e la deflazione, che in Italia mordono più che altrove. Il Prodotto lordo, secondo Ue e Ocse, quest´anno segnerà un meno 4,3%. La produzione industriale a febbraio ha ceduto di schianto, meno 8,1%, il livello più basso dal dopoguerra. La disoccupazione è tornata a salire oltre il 7%, dopo anni di discesa. I consumi rallentano, il reddito diminuisce. E la produttività continua a calare, mentre i Paesi forti di Eurolandia allungano il passo. Questo è il quadro a tinte fosche dell´economia italiana. E non bastano le pennellate ottimistiche di Berlusconi e Tremonti a ravvivarne i colori. La crisi come opportunità: l´abbiamo scritto più volte. E invece è proprio questo che è mancato e che manca, nell´azione del governo di questi mesi. Un grande progetto. Non solo per sopravvivere in negativo dentro questa palude, fidando nel solito stellone italiano. Ma per uscirne in positivo, confidando nelle risorse migliori, con un Paese diverso, più forte e più moderno. Per fronteggiare la crisi, il contributo delle manovre di bilancio finora è stato pari al 4,8% del Pil negli Stati Uniti, al 3,4% in Germania, all´1,4% in Francia e solo allo 0,3% in Italia. Fa piacere, adesso, sentire che il ministro dell´Economia, di fronte alla tragedia del terremoto in Abruzzo che ci costerà 1 punto e mezzo di Prodotto lordo nei prossimi dieci anni, dichiara che non c´è bisogno di introdurre nuove tasse per la ricostruzione, perché «le risorse pubbliche bastano e avanzano». Ma se è così, vorremmo sapere dove erano in questi mesi, quando sarebbero servite come il pane. O c´erano già, ma le ha tenute nascoste. O le ha trovate oggi e ha fatto un miracolo. m. gianninirepubblica.it

Torna all'inizio


arriva la principessa tiana prima lady nera della disney - carlo moretti roma (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 33 - Spettacoli Il film animato "The princess and the frog" a novembre in America Arriva la principessa Tiana prima lady nera della Disney CARLO MORETTI ROMA Dopo Jasmine, la principessa araba di "Aladdin", dopo la principessa indiana Pocahontas e dopo Mulan, la principessa cinese, gli studi Disney puntano ora su una principessa afroamericana. Si chiama Tiana, viene da New Orleans ed è la protagonista di "The princess and the frog", un film animato la cui uscita è attesa in America per novembre. Tiana è la prima principessa Disney in più di dieci anni ma soprattutto è la prima principessa nera in assoluto prodotta dalla casa di produzione di cartoon più famosa al mondo. Il cerchio sembra essersi dunque chiuso 70 anni dopo la nascita di Biancaneve, divenuta un´icona in tutto il pianeta, al pari delle altre otto principesse Disney che l´hanno seguita, dalla Bella Addormentata a Cenerentola, da Belle alla Sirenetta, da Jasmine a Pocahontas, a Mulan. Un effetto Obama? Del film si era cominciato a parlare nell´agosto del 2008, in piena campagna elettorale ma prima dell´elezione del presidente degli Stati Uniti. Tiana rappresenta però senza dubbio un segno del cambiamento sociale negli Stati Uniti, ma anche un indiretto gancio offerto alla popolazione afroamericana rispetto alle nuove opportunità che si sono aperte a tutti i livelli. Il messaggio implicito di Tiana è infatti che le ragazze nere americane posso essere eleganti come Biancaneve, e questo nell´immaginario collettivo americano rappresenta una pietra miliare. Nelle scorse settimane si è messa in moto la macchina del marketing e la bambola di Tiana, come del resto i vestiti che il suo personaggio indossa nel film, sono già disponibili per i fan che il nuovo personaggio animato raccoglierà in giro per il pianeta. Le sue prime apparizioni proprio mentre Michelle Obama assumeva il suo ruolo di First lady e le due ragazze Obama prendevano possesso delle loro stanze dei giochi alla Casa Bianca, la coincidenza di una nuova linea di Barbie nere "So in style" che verrà lanciata durante la prossima estate, sono tutti elementi che annunciano un anno di straordinaria visibilità per le donne afroamericane. Ma considerata la capacità di influenza dei film Disney, tra tanti tratti culturali, il personaggio della principessa Tiana sarà di sicuro il più determinante nel produrre un cambiamento globale negli standard comunemente accettati della bellezza femminile.

Torna all'inizio


"troppi compromessi mr. president" tutti i dubbi dell'america liberal - jackie calmes david m. herszenhorn (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 9 - Esteri Il New York Times "punzecchia" e critica le scelte prudenti dei suoi primi 100 giorni alla Casa Bianca "Troppi compromessi Mr. President" tutti i dubbi dell´America liberal Per i suoi critici, Barack sarebbe poco disponibile agli scontri a viso aperto I suoi alleati replicano: "è un pragmatico, le battaglie vere arriveranno" JACKIE CALMES DAVID M. HERSZENHORN WASHINGTON - Il presidente Obama è noto per le sue proposte ambiziose che hanno aumentato le aspettative di tutti, ma la sua Amministrazione ha già evidenziato una tendenza al compromesso e alla prudenza, e addirittura una certa disponibilità a cedere su alcune delle sue iniziative. Obama non ha fatto dietrofront su nessuno dei suoi obiettivi fondamentali: i suoi consulenti sostengono che le concessioni fatte finora - in relazione a questioni di budget, per esempio - sono intese a facilitare la vittoria nelle più importanti battaglie politiche che andranno affrontate in futuro. Ciò nondimeno, la sua disponibilità a trattare ha lasciato perplessi alcuni commentatori e alcuni democratici: «Ciò che ancora ignoriamo di Obama è per che cosa sia disposto a battersi», dice tra gli altri Leonard Burman, economista dell´Urban Institute e dirigente del Dipartimento del Tesoro dell´Amministrazione Clinton: «Per quanto mi riguarda, mi preoccupa il fatto che al presidente piaccia fare bei discorsi, adulare l´opinione pubblica e far felice la gente». In alcuni dei primi scontri in cui è stato coinvolto, Obama ha preferito il pragmatismo alle scazzottate. I democratici del Congresso sono riusciti efficacemente a cassare la sua proposta di tagliare i sussidi all´agricoltura di circa un miliardo di dollari l´anno, lo hanno obbligato a fare dietrofront almeno in parte rispetto a un piano che avrebbe imposto agli assicuratori privati di sostenere una quota maggiore dei costi per l´assistenza sanitaria dei veterani di guerra, e lo hanno messo nella condizione di accantonare almeno per qualche tempo l´idea di una commissione incaricata di rafforzare le finanze del sistema pensionistico pubblico. I suoi consiglieri più stretti liquidano come infondate le supposizioni di chi afferma che Obama si tiene alla larga dallo scontro diretto, e replicano che così si ignorano i suoi effettivi risultati, l´esigenza di dover agire in tempi rapidi per risolvere la crisi economica e le battaglie che egli ha ingaggiato contro alcuni grossi gruppi di interesse di Washington. Il pragmatismo -aggiungono - è un carattere distintivo di Obama, e tra i cambiamenti che egli ha promesso e mantenuto vi è anche una netta rottura rispetto allo stile spesso privo di compromessi del suo predecessore. In che misura il presidente sarà disposto a venire a patti con i lobbyisti, i leader delle varie commissioni del Congresso e i gruppi di interesse, tuttavia, dipenderà da come la Casa Bianca affronterà questioni come la riforma sanitaria e l´immigrazione. Dice il suo capo di gabinetto, Rahm Emanuel: «Dobbiamo lottare su più fronti, perché vogliamo combattere una serie di interessi radicati in più ambiti, dall´istruzione alla sanità, dall´industria della Difesa alle varie lobby. Alla fine sul tabellone segnapunti potremo vedere quali battaglie avremo vinto e quali perso, ma in ogni caso ciascuna di queste sfide politiche sarà stata una nostra iniziativa». Gli alleati di Obama sottolineano il fatto che l´ha spuntata nell´ottenere un secondo salvataggio finanziario in extremis da 350 miliardi di dollari da un Congresso molto riluttante; nel fare approvare una legge sulla parità salariale tra uomini e donne; nel varare un piano governativo allargato di assistenza sanitaria per i bambini, inclusi i figli degli immigrati; e segnalano la legge per la ripresa economica che prevede lo stanziamento di 787 miliardi di dollari. Ma tutto ciò potrebbe finire col sembrare facile a confronto della lotta che sarà necessario ingaggiare in tema di assistenza sanitaria e che molto verosimilmente costringerà Obama a resistere alle pressioni di ospedali, medici e assicurazioni, e ai loro potenti sostenitori che siedono al Congresso. Copyright The New York Times/La Repubblica. Traduzione di Anna Bissanti

Torna all'inizio


obama: mea culpa su cuba ma resta l'embargo - alberto flores d'arcais (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 9 - Esteri Obama: mea culpa su Cuba ma resta l´embargo Chiuso il viaggio in Sudamerica: "Per cinquant´anni abbiamo sbagliato" Conferenza stampa del presidente Usa: "Il popolo cubano non è libero, questo deve essere chiaro" ALBERTO FLORES D´ARCAIS dal nostro inviato new york - «La politica che abbiamo condotto per cinquant´anni non ha funzionato». Cuba, grande assente al vertice delle Americhe, ottiene il palco anche nella scena finale, la conferenza stampa con cui Barack Obama ha concluso il suo viaggio in America Latina. Con la sua ammissione il presidente americano chiude di fatto mezzo secolo di «guerra fredda» contro il comunismo caraibico, aprendo la strada a nuove relazioni con i fratelli Castro. Non sarà una strada facile e neanche veloce perché, cosa che Obama ha voluto sottolineare, «la popolazione cubana non è libera, le questioni relative ai prigionieri politici, alla libertà di espressione e alla democrazia sono importanti e non possono essere soltanto accantonate». Sarà però una strada opposta a quella seguita per cinquant´anni dai presidenti americani in modo rigorosamente bipartisan (la rivoluzione castrista vinse ai tempi di Eisenhower ma trionfò con John Kennedy), con l´Urss potenza mondiale ma anche dopo il crollo sovietico, durante le crisi (cubane) degli anni �80 e quelle più recenti, fino alla malattia di Fidel. Per quasi cinquant´anni tutto è ruotato attorno a una parola: embargo. Una misura (anch´essa decisa da Kennedy) passata nel corso dei decenni attraverso qualche modifica ma rimasta sempre in vigore, nella convinzione che con il blocco economico il regime castrista sarebbe prima o poi crollato come i vecchi Stati dell´orbita sovietica. Non è accaduto e adesso Obama ne prende atto. A spingerlo è stata la risposta «positiva» data da Raul Castro alle misure della Casa Bianca di lunedì scorso, l´alleggerimento di alcune restrizioni, l´agevolazione dei viaggi nell´isola per i cubano-americani che a Cuba hanno familiari. Nessuna novità di grande rilievo, lo aveva fatto anche Jimmy Carter, ma un segnale preciso. Una risposta, quella di Raul, che Obama non poteva e non ha voluto ignorare, anche grazie alla pressione dei leader latino-americani, sempre più compatti nel chiedere la fine dell´embargo. «E´ un segnale di progresso, adesso esploreremo e vedremo se sono possibili passi avanti. C´è la possibilità di un dialogo franco, anche in aree critiche quali la democrazia ed i diritti umani». Per Obama «ignorare completamente Cuba» non porta a nessun cambiamento, mentre un dialogo «spero che possa portare nel tempo anche a Cuba i cambiamenti impressionanti che ci sono stati in questo emisfero». Per la Casa Bianca la fine dell´embargo resta al momento «lontana». Lo ha confermato Larry Summers, il principale consigliere economico di Obama, in una intervista alla Nbc. «Dipenderà da cosa fa Cuba e da come Cuba intende proseguire nel cammino». Il vertice si è concluso con un altro siparietto di Chavez. Visto che il libro di Eduardo Galeano che ha regalato ad Obama (Le vene aperte dell´America Latina) in America è schizzato ai primi posti delle vendite di Amazon, il «caudillo» ha detto di aver salutato così il presidente Usa: «Mettiamoci in affari. Promuoveremo libri. Io ne darò uno a te e tu ne darai un altro a me». Prima di ripartire da Trinidad&Tobago alla volta di Washington, il presidente Usa ha voluto anche spiegare il no a Durban II, la conferenza dell´Onu sul razzismo che si apre oggi a Ginevra: «La precedente conferenza è diventata una sessione in cui si è espresso antagonismo contro Israele in modo ipocrita e controproducente». Per questo motivo gli Stati Uniti avevano chiesto di cambiare il linguaggio di allora e rimuoverlo dai documenti di Durban II, cosa che «nonostante gli sforzi di diversi paesi» non è accaduta. Come conseguenza la Casa Bianca «ha deciso di non dare un imprimatur a qualcosa che non condividiamo».

Torna all'inizio


ahmadinejad: "garantire i diritti alla saberi" - vanna vannuccini (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 10 - Esteri Ahmadinejad: "Garantire i diritti alla Saberi" Il leader iraniano chiede chiarimenti al Tribunale. Obama: "Liberatela" A sorpresa, Teheran sospende l´esecuzione di una donna condannata per omicidio VANNA VANNUCCINI Le prime reazioni americane non erano state polemiche. Certo, la Casa Bianca aveva espresso «profonda delusione» per la dura condanna pronunciata dal Tribunale della Rivoluzione di Teheran contro la giornalista americana di origine iraniana Roxana Saberi, condannata a otto anni per spionaggio dopo un processo a dir poco dubbio; e ancora ieri Obama ha chiesto che la donna sia liberata al più presto. Ma il tono generale era volutamente cauto: «Attraverso la Svizzera (Paese che rappresenta gli interessi americani in Iran, che non hanno relazioni diplomatiche con gli Usa da trent´anni) esprimeremo la nostra preoccupazione alle autorità iraniane», aveva detto il portavoce della presidenza. Tanta cautela si è rivelata fruttuosa: il presidente Ahmadinejad ha richiesto ieri alle autorità giudiziarie di garantire che «tutte le libertà e i diritti legali di difesa» le siano assicurati. Il suo capo di Gabinetto, Abdolreza Sheikholeslami, ha scritto al procuratore di Teheran, Said Mortazavi, relativamente al processo di Saberi e a quello di un noto blogger, Hossein Derakshani, condannato per «spionaggio a favore di Israele». Gli ha chiesto di «garantire personalmente» che tutte le procedure siano «basate sulla giustizia» e che siano assicurati «tutti i diritti legali di difesa» agli accusati. «Tenendo conto dell´insistenza del presidente la invito ad accertarsi che le indagini vengano condotte nel rispetto della giustizia e della legge». Un gesto irrituale, quello del presidente, diretto all´esterno, in un momento in cui l´Amministrazione americana si dice pronta a trovare una soluzione negoziata al programma nucleare (di cui il regime ha fatto il simbolo della sovranità nazionale). Ma anche un gesto rivolto verso l´interno, alla vigilia di importanti elezioni presidenziali. Ahmadinejad non ha ancora ufficialmente presentato la sua candidatura, anche se uno stretto collaboratore ha annunciato che si ricandiderà, ma i sondaggi gli sono molto sfavorevoli. Nonostante la rinuncia di Khatami - che i conservatori vedono come un Gorbaciov che farebbe crollare la Repubblica islamica - anche il meno conosciuto candidato riformatore Moussavi ha consensi molto superiori a quelli di Ahmadinejad. Sempre ieri il capo della magistratura iraniana, ayatollah Mahmud Hashemi Shahrudi, ha sospeso temporaneamente l´impiccagione di Delara Darabi, una ragazza condannata a morte per un omicidio commesso quando aveva 17 anni.

Torna all'inizio


usa, la retromarcia global scatta dai call center indiani - (segue dalla copertina) federico rampini (sezione: Obama)

( da "Repubblica, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Pagina 23 - Economia Delta e Chrysler li riportano a casa . Per motivi linguistici e per non licenziare in patria Usa, la retromarcia global scatta dai call center indiani (SEGUE DALLA COPERTINA) FEDERICO RAMPINI Malgrado gli sforzi per dissimulare la loro nazionalità, i passeggeri americani che prenotavano un volo o che protestavano per una valigia smarrita spesso intuivano che il call-center della Delta Airlines o della United rispondeva da migliaia di chilometri di distanza. Tuttavia per anni le multinazionali americane hanno ignorato il fastidio del consumatore, e hanno insistito su quella formula magica per ridurre i costi: l´outsourcing, o delocalizzazione, di tutti i servizi di assistenza alla clientela. Il salario medio è di 500 dollari Usa per l´addetto a un call-center indiano. Cioè un sesto dello stipendio che si paga in America per la stessa mansione. Quel divario economico sembrava incolmabile. Ma la recessione fa vacillare le certezze più consolidate. In una fase in cui i clienti si fanno rari e preziosi, il loro parere riceve un´attenzione inusitata. E i call center indiani, si scopre, sono tutt´altro che amati dalla clientela del Midwest. Un´altra motivazione interviene per quelle aziende Usa che devono chiedere aiuti di Stato: prima di licenziare dipendenti americani, è politicamente accorto cominciare a tagliare l´occupazione straniera. Per l´industria dell´outsourcing, uno dei motori del miracolo economico indiano, è un colpo duro. Una delle scene centrali del film Slumdog Millionaire si svolge proprio in un call center di Mumbai, posto di lavoro ambito per una generazione di giovani istruiti e anglofoni. La Delta Airlines, terza compagnia aerea americana, ha smesso di usare ogni call center indiano dall´inizio dell´anno. Prenotazioni, biglietti elettronici, reclami per bagagli smarriti, non saranno più gestiti da centri di assistenza situati all´estremità opposta del pianeta. Il chief executive della compagnia, Richard Anderson, ha spiegato la decisione ai dipendenti: «Dai nostri passeggeri abbiamo avuto delle reazioni molto negative. La pratica di usare call center situati in nazioni lontane è decisamente poco gradita, i clienti lamentano di avere difficoltà di comunicazione». Suscita qualche curiosità la tempistica di questo annuncio: i call center indiani sono stati usati per molti anni, durante i quali evidentemente il parere dei suoi passeggeri americani non stava in cima ai pensieri dell´amministratore delegato. Ma i tempi cambiano e le priorità del top management devono adeguarsi molto in fretta. Con aerei che viaggiano semivuoti, soprattutto in prima classe e in business che sono i segmenti di clientela più redditizi, l´insoddisfazione dei passeggeri viene notata. Un esperto nella gestione dell´outsourcing, Ben Trowbridge della società Alsbridge di Dallas, ha dichiarato al Wall Street Journal: «è chiaro che avere i call center in India è un risparmio considerevole sui costi. Ma oggi si pone la questione se sia più importante ridurre i costi o migliorare il rapporto con il consumatore». E i call center indiani sono la prima vittima di questo - proclamato - ritorno alla qualità del servizio. United Airlines, numero due del trasporto aereo Usa, conferma la stessa scelta: basta con i call center indiani, si torna a casa, costi quel che costi. La U. S. Airways non esita a chiudere i call center delocalizzati in zone ben più vicine, Guatemala e Salvador. Con la diminuzione del traffico passeggeri e quindi il calo nel volume di chiamate per l´assistenza telefonica, la portavoce Valerie Wunder spiega che «U. S. Airways coglie l´opportunità per concentrare il lavoro negli Stati Uniti». Si affaccia così l´altra motivazione più o meno esplicita: il nazionalismo economico. I leader di tutti i paesi sono unanimi nel condannare il protezionismo, come si è visto all´ultimo vertice del G-20 a Londra. Ma una volta tornati a casa, nell´opinione pubblica trovano un clima sempre più propenso a scaricare sugli altri i costi della crisi. I capi-azienda hanno fiutato l´aria che tira. Se hanno ricevuto aiuti pubblici - o temono che dovranno chiederli in futuro - non vogliono scoprire il fianco alle accuse politiche. Guai se un´azienda Usa che elemosina sussidi dal Congresso si fa scoprire in flagrante delocalizzazione. Il contribuente americano è esasperato dai continui salvataggi di grandi aziende, chiede che i suoi soldi servano a frenare l´emorragìa di posti di lavoro in casa. E ancora una volta l´India si trova nel mirino. La Chrysler, mentre tra la vita e la morte affronta un delicatissimo negoziato a quattro con sindacati metalmeccanici, creditori, Fiat, e Amministrazione Obama, annuncia la chiusura del centro di assistenza dopo-vendita (al telefono e online) che da anni era operativo in India. Licenziare gli indiani è un passaggio obbligato per convincere i colletti blu di Detroit ad accettare nuovi tagli su salari, pensioni e assistenza sanitaria.

Torna all'inizio


SINISTRA, PAURA DI UN VERO LEADER (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Luca Ricolfi SINISTRA, PAURA DI UN VERO LEADER Ci sono idee che non vanno mai via. E infatti le chiamiamo «fisse». Ne abbiamo un po' tutti nella vita di ogni giorno, e ci prendiamo anche un po' in giro quando le scopriamo negli altri: Alberto ha la fissa delle vacanze intelligenti, Peppino mangia spaghetti anche in Burundi, Loredana ha l'ossessione dei pipistrelli che ti si attaccano ai capelli (fa anche rima). Ultimamente, però, mi sono accorto che le idee fisse, o fissazioni, ci sono anche nei cieli della politica. Non parlo delle fissazioni ovvie, cioè quelle ossessioni che le forze politiche alimentano consapevolmente, per darsi un'identità o per fare proseliti. Quelle ci sono sempre state, e rientrano perlopiù nella vasta categoria della «costruzione del nemico»: i comunisti, gli immigrati, gli islamici, gli ebrei e, naturalmente, Berlusconi, il nemico per eccellenza. No, le fissazioni di cui parlo io sono più sottili, sono idee, convinzioni, credenze che - chissà perché - sono diventate inamovibili, inespugnabili, scontate come lo sono i riflessi condizionati, irrinunciabili come lo sono i pilastri della nostra identità. Che ci siano convinzioni inossidabili me lo ha fatto capire Enrico Letta qualche giorno fa, con un bell'articolo uscito su questo giornale. Di fronte all'osservazione che la sinistra non ha né un leader capace di mettere d'accordo le sue mille anime, né un metodo per dirimere le controversie, Enrico Letta su un punto solo non pare attraversato da dubbi: Berlusconi è un unicum irripetibile, ed è illusorio sperare di costruire una «alternativa vincente» a Berlusconi sul terreno della leadership. Per Letta «l'operazione alternativa non potrà che giocarsi su un campo differente dal suo», perché «sul suo vincerà sempre lui». Non sono un politico e non so se Letta abbia ragione. Mi incuriosisce molto, però, questo rifiuto a priori dell'idea di un leader come cemento di un'alleanza. È anni che sento ripetere, in pubblico e nelle conversazioni private, che la pluralità della leadership è una risorsa della sinistra, che l'assenza di un capo è una virtù, che la discussione aperta e «franca» è una forza della cultura progressista. E mi sovviene quel che diceva Montanelli nel 2001, per spiegare ai suoi lettori come mai lui, uomo culturalmente di destra, avrebbe votato per il centro-sinistra, allora guidato da Rutelli: «Naturalmente la mia scelta è più che discutibile perché l'esercito di Rutelli è una brancaleonesca accozzaglia di forze (si fa per dire) impegnate a combattersi tra loro, come sempre è avvenuto nel campo delle Sinistre, senza che mai riuscissero a darsi un capo e un programma. Mentre quelle della destra, il Polo, sono molto più compatte, come lo erano, ai loro tempi, quelle fasciste e naziste. \ Sicché l'Italia si trova di fronte alla solita eterna scelta: una Destra che regolarmente finisce per elevare a oggetto di culto il manganello, e una Sinistra con la vocazione del bordello. \ «Ora, nella mia lunga vita, io ho già fatto esperienza di entrambe le cose. Da ragazzo ho visto volteggiare molti manganelli, e ne ho conservato un ricordo ispirato al disgusto. Poi sono stato un buon frequentatore di bordelli, e ne ho conservato un ricordo ispirato al rimpianto. Ecco il motivo della mia attuale scelta. Questa sinistra (con i suoi gaglioffi alla Bertinotti), non mi fa nessuna paura: non tanto perché è destinata alla sconfitta, quanto perché, anche se arriva al cosiddetto Potere, non riesce a usarlo. La Destra, se ci arriva, ha in mano tutti gli strumenti per restarci. E che volto abbia la destra italiana, che ha perfino il coraggio di proclamarsi "liberale", lo abbiamo ben visto in questi ultimi giorni. No, meglio - cioè meno peggio - il bordello». Ebbene, capisco più Montanelli che Letta. Montanelli parteggiava per il «bordello» della sinistra perché gli sembrava la garanzia che la sinistra stessa, a differenza della destra attratta dal «manganello», non sarebbe stata in grado di mettere in atto le idee bacate di cui era portatrice, una certezza che a Montanelli derivava dagli ultimi cinque anni di governo, rassicuranti proprio per la loro inconcludenza (un programma largamente disatteso, 4 governi in 5 anni). Ma i politici di sinistra che si dicono riformisti possono accontentarsi delle ragioni di Montanelli? Chi pensa che l'Italia debba essere modernizzata, che abbia bisogno come il pane di riforme liberali, può consolarsi pensando che avere tanti leader in competizione reciproca ci vaccina contro il rischio di una dittatura? Se un leader che faccia il leader non è la soluzione, qual è lo strumento che ne fa le funzioni? Ma soprattutto: da dove viene questa fobia per la figura del leader? Perché Blair e Obama vanno bene, ma da noi - in Italia - un leader non ci può essere, e quando prova a esserci viene rapidamente logorato e sostituito? Perché la destra può avere un leader nonostante l'ombra di Hitler e Mussolini, e la sinistra che ne ha sempre avuti - da Stalin a Togliatti a Berlinguer - ora lo teme come la peste? Può darsi che mi sbagli, ma la mia impressione è che la repulsa della cultura di sinistra per il leader abbia una radice profondissima e tragica. Questa radice si chiama, nel lessico marxista, falsa coscienza. I politici sono, come è naturale, guidati quasi sempre e innanzitutto dal loro interesse egoistico, che è quello di fare carriera, gestire potere, ottenere benefici privati, in denaro e in natura. A differenza di quelli di destra, però, i politici di sinistra non cessano di raccontare a se stessi e agli altri la fiaba secondo cui il loro impegno è disinteressato, volto a perseguire il bene comune: se occupano poltrone lo fanno solo per «spirito di servizio» (o perché il partito chiama, come ha detto Cofferati per giustificare la sua aspirazione a un seggio al Parlamento europeo). Questa idea eroica di se stessi non è particolarmente deplorevole (dopo tutto l'autoindulgenza è uno dei tratti umani più comuni), però ha conseguenze logiche pericolose. Una di esse è di far sì che coloro che la professano, anche quando si accapigliano per i posti, si sentano portatori di «valori non negoziabili», rappresentanti unici del bene pubblico, naturalmente inteso in una decina di accezioni diverse, da quella di Bertinotti a quella di Prodi, da quella di Pecoraro Scanio a quella di Di Pietro, da quella di Pannella a quella della Binetti. E allora si capisce perfettamente perché non ci può essere un capo: se nessuno si sente, prosaicamente e semplicemente, rappresentante di determinati interessi, ma tutti quanti si sentono, poeticamente e grandiosamente, portatori di altissimi principi, è logico che non abbiano alcuna intenzione di tradire la propria fede, di venire a patti con le tante eresie di cui è fatta la storia della sinistra. Ve li vedete voi il Papa, il patriarca russo, gli ayatollah, i rabbini, gli innumerevoli rappresentanti delle altrettanto innumerevoli religioni di questa terra cedere il loro potere oligopolistico sulla definizione del «bene», di ciò che è buono e giusto, in favore di un potere monopolistico superiore, un capo di tutte le religioni incaricato di dirimere le controversie? Insomma, la mia sensazione è che la fobia della sinistra italiana per la figura del capo in quanto tale non sia figlia soltanto della naturale avversione per la gerarchia, ma anche del suo arcaismo, del suo sentirsi ancora depositaria di valori assoluti e irriducibili, mentre è invece soprattutto ceto politico portatore di interessi personali e di gruppo, ormai incapace di ricondurli a quella che Norberto Bobbio considerava l'unica vera stella polare della sua storia: l'idea di uguaglianza. Un male in certo modo speculare a quello della destra, in cui gli ideali - che pure non mancano - lasciano fin troppo facilmente il posto al negoziato sugli interessi, come la vicenda della Bossi-tax (soldi pubblici per interessi di partito) sta illustrando giusto in questi giorni. Montanelli diceva che la scelta era Tra manganello e bordello. Oggi, forse, constaterebbe che la scelta è diventata tra commercio e fede: una destra fin troppo capace di mediare tra interessi pur di restare al potere, e una sinistra anch'essa attentissima agli interessi ma così poco capace di mediare tra fedi inconciliabili da rischiare perennemente di perderlo, il potere. O, ancor peggio, di non saperlo usare nei rari momenti in cui ce l'ha.

Torna all'inizio


Il vertice Onu sul razzismo spacca l'Occidente (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Prima Pagina data: 20/04/2009 - pag: 1 No di Obama, sì del Vaticano, Ue divisa. E Ahmadinejad attacca Israele Il vertice Onu sul razzismo spacca l'Occidente L'Occidente si è spaccato sulla partecipazione alla conferenza Durban II. Chi ha deciso di boicottarla (Stati Uniti, Israele, Italia, Australia, Canada, Olanda e Germania) teme che in Svizzera vada in scena una replica del summit nella città sudafricana, quando Israele venne accusato di razzismo. L'Unione europea non ha trovato una linea comune, la Francia ci sarà. Il Vaticano parteciperà. Anche la Gran Bretagna ha scelto di essere a Ginevra «per fare la guardia contro un inaccettabile tentativo di negare l'Olocausto». Il presidente iraniano Ahmadinejad, appena arrivato, ha subito attaccato Israele. ALLE PAGINE 2E3 Caretto, Frattini, Vecchi

Torna all'inizio


Durban II: gli Usa non vanno, Europa divisa (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Primo Piano data: 20/04/2009 - pag: 2 Durban II: gli Usa non vanno, Europa divisa Il Papa: «Importante esserci». Obama difende Israele. L'arrivo di Ahmadinejad: «Sionisti ladri» Si apre oggi a Ginevra la Conferenza sul razzismo tra accuse e rinunce. Vaticano, Gran Bretagna e Francia: noi andiamo DAL NOSTRO INVIATO GINEVRA Diciassette pagine. Parole da eliminare o limare. I diplomatici discutono da mesi per arrivare a un accordo sul documento finale. All'ospite più scomodo, bastano poche frasi ancora prima di salire sul podio per allontanare da Ginevra qualche altro Paese. «L'ideologia e il regime sionista sono i portabandiera del razzismo». Se il termine Israele è uscito dalla bozza, ci pensa Mahmoud Ahmadinejad a farlo rientrare e a metterlo al centro della conferenza, che in cinque giorni dovrebbe fare il punto a otto anni dal primo vertice sul razzismo. È chiamata Durban II e chi ha deciso di boicottarla (per ora Stati Uniti, Israele, Italia, Australia, Canada, Olanda, Germania e Nuova Zelanda) teme che in Svizzera vada in scena una replica del summit nella città sudafricana. «I sionisti saccheggiano le ricchezze mondiali controllando i centri di potere nel mondo. Hanno creato le condizioni perché non si possa dire nulla di questo fenomeno diabolico », ha continuato il leader iraniano. Che ieri sera ha visto a cena Hans-Rudolf Merz, presidente della Confederazione elvetica, e oggi parla al palazzo dell'Onu. Israele - «Non lo incontri, non gli stringa la mano», ha invocato Aharon Lechnoyaar, ambasciatore israeliano presso le Nazioni Unite a Ginevra. Da Gerusalemme, Avigdor Lieberman, neo-ministro degli Esteri, ha ricordato che dal tramonto viene commemorato Yom HaShoa: «Ahmadinejad nega l'Olocausto ed è stato invitato a tenere un discorso nel giorno in cui ricordiamo sei milioni di ebrei ammazzati dai nazisti e dai loro complici ». L'Ue - L'Unione europea non ha trovato una linea comune. Il Belgio ieri sera era ancora convinto che fosse possibile, i francesi avevano detto che era «fondamentale », ma poi sono arrivati il no tedesco e, subito dopo, l'annuncio dell'Eliseo che la Francia invece ci sarà. Il Vaticano ha deciso (parteciperà) e Benedetto XVI giudica la conferenza «un'iniziativa importante, perché ancora oggi, nonostante gli insegnamenti della Storia, si registrano tali deplorevoli fenomeni. Formulo i miei sinceri voti affinché i delegati lavorino insieme, con spirito di dialogo e di accoglienza reciproca, per mettere fine a ogni forma di razzismo, discriminazione e intolleranza, ». Anche la Gran Bretagna ha scelto di essere a Ginevra «per fare la guardia contro un inaccettabile tentativo di negare l'Olocausto» (l'Iran ha provato a cancellare qualunque accenno dal testo in discussione). Gli Usa - Il no americano è arrivato dopo che le modifiche alla bozza non sono state considerate «soddisfacenti»: tolti i riferimenti allo Stato ebraico e alla diffamazione delle religioni (voluti dalle nazioni musulmane), vengono riaffermate le conclusioni di Durban I, contestate da molti Paesi occidentali. «Sarei pronto a essere coinvolto in una conferenza che affronta in modo utile la discriminazione. Credo nell'Onu, ma non posso accettare un linguaggio controproducente e affermazioni ipocrite contro Israele», ha spiegato il presidente Barack Obama. L'Onu - «Sono scioccata e profondamente dispiaciuta dalla decisione degli Stati Uniti di non intervenire», ha commentato Navi Pillay, alto commissario per i Diritti umani, che organizza il vertice. «Qui vogliamo affrontare e combattere il razzismo, la xenofobia e altre forme di intolleranza in tutto il mondo. Non riesco a capire: il Medio Oriente non è nominato nel testo, eppure la questione continua a intromettersi nel dibattito». Davide Frattini Diplomazia dei sorrisi Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, al centro, accolto dall'omologo svizzero Hans-Rudolf Merz, a sinistra, ieri al suo arrivo a Ginevra

Torna all'inizio


Caso Roxana, da Teheran (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Primo Piano data: 20/04/2009 - pag: 2 La giornalista Caso Roxana, «garanzie» da Teheran Il presidente iraniano Ahmadinejad ha chiesto ieri alla magistratura di assicurare che la giornalista irano-americana Roxana Saberi (a sinistra), condannata a 8 anni per spionaggio, abbia il «diritto di difendersi», dopo le accuse di «processo farsa». Si prepara il ricorso. Il presidente Usa Obama chiede il suo rilascio immediato. La magistratura iraniana ha rinviato di 2 mesi l'esecuzione della pittrice iraniana Delara Darabi, condannata a morte per un omicidio commesso a 17 anni (si dice innocente). Ma i parenti della vittima rifiutano di concedere il perdono che salverebbe Delara.

Torna all'inizio


(sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Primo Piano data: 20/04/2009 - pag: 3 L'intervista Lo storico Paul Kennedy «Anche Stalin firmò per i diritti dell'uomo» «Un vertice simbolo dell'ipocrisia dell'Onu» WASHINGTON Per lo storico Paul Kennedy, autore di Ascesa e declino delle grandi potenze e de Il Parlamento dell'uomo (l'Onu), la Conferenza sul razzismo non segnerà una svolta storica: «Dopo accuse e contraccuse, propaganda e scontri, sfocerà in una di quelle dichiarazioni solenni che rappresentano in realtà dei modesti compromessi». Il docente dell'Università di Yale, che sta scrivendo un libro sulla Seconda guerra mondiale, è scettico sull'efficacia di simili iniziative: «Il rispetto dei diritti umani si impone solo con risoluzioni vincolanti. C'è da chiedersi chi e quanti le vorrebbero veramente perché la sede adatta non è certo questa conferenza. Inoltre c'è il pericolo che essa assuma un tono antisemita». Lei è pro o contro il boicottaggio di Durban II, a Ginevra? «È una questione di grigio, non di bianco e di nero. Io penso che i nostri governi si siano posti un interrogativo etico e uno politico. È giusto o ingiusto il boicottaggio, visto che una gran parte dei Paesi firmerà la dichiarazione senza alcuna intenzione di rispettarla? E in previsione di una denuncia di Israele che ha fornito l'occasione all'Islam con la sua sproporzionata reazione a Gaza è politicamente vantaggioso o svantaggioso parteciparvi?». Di qui le opposte decisioni degli alleati? «Esattamente. L'America e l'Italia si sono dette che il boicottaggio è giusto e partecipare alla Conferenza sarebbe dannoso. La Gran Bretagna e la Francia hanno invece concluso che, nonostante i dubbi e i rischi, conviene dimostrare di essere alla ricerca di un dialogo onesto. Su Obama, secondo me, ha pesato altresì il timore che una presenza americana a Ginevra gli alienasse l'opinione pubblica interna oltre che Israele, che diffida di lui». Una divisione inattesa tra Londra e Washington? «Diciamo una divisione in contrasto con la Storia.>Circa 25 anni fa, il presidente Usa Ronald Reagan e la premier britannica Margaret Thatcher lasciarono all'unisono l'Unesco perché aveva equiparato il sionismo al razzismo». Perché è scettico su Durban II? «Lo sono stato anche su Durban I, nel 2001, manipolata e strumentalizzata da troppi Paesi. Io sono scettico sulla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, che proponeva anche il pieno impiego, l'assistenza sanitaria di Stato. Il presidente americano Truman la firmò perché sapeva che, a differenza delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza, non aveva valore legale. La firmò persino Stalin, un violatore dei diritti umani». Dovrebbe farsene carico il Consiglio di sicurezza? «Il Consiglio è bloccato da cinque potenze conservatrici che hanno macchie razziste, presenti o passate, da nascondere, l'America i neri, la Russia la Cecenia, la Cina il Tibet, la Francia gli arabi, l'Inghilterra il Kenya. E si trincera dietro il principio che deve decidere delle questioni di guerra e pace non delle libertà civili. Insomma, rifiuta di interessarsene se non in casi circoscritti ». Non c'è il Consiglio dei diritti umani dell'Onu? «Il Consiglio, come la precedente Commissione, a volte è ostaggio di Paesi che promuovono delle decisioni inique o che vanificano quelle eque. Invece di penalizzare sempre, come dovrebbe, quanti fanno del razzismo o peggio fanno del genocidio, in certi momenti li ignora o li nasconde ». Qual è il rimedio? «Bisogna martellare il messaggio antirazzista. Quando l'Onu fece la Dichiarazione universale sui diritti umani, l'impatto fu forte, creò grandi aspettative. Idem quando fu varato il protocollo di Kyoto contro l'emissione di gas serra. Le grandi potenze devono alimentare le aspettative e premere molto più fortemente sulle nazioni interessate alle buone relazioni con loro, ma che ancora violano i diritti umani. Se lo faranno, in futuro anche conferenze come quella di Ginevra produrranno frutti». Ennio Caretto Storico Paul Kennedy, docente a Yale: è scettico su Durban II

Torna all'inizio


Tremonti: finita la paura dell'apocalisse (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Primo Piano data: 20/04/2009 - pag: 6 Tremonti: finita la paura dell'apocalisse Appello di Sacconi alle imprese: «Adesso moratoria sui licenziamenti» Il ministro dell'Economia: dichiarazioni dei redditi scandalose, ma l'evasione non sale. «Nessuna nuova tassa per il terremoto» ROMA Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti conferma i primi timidi segnali di ottimismo e spiega che «l'apocalisse non c'è stata e ora la gente può tirare un sospiro di sollievo, l'incubo degli incubi è finito». «Restiamo in una situazione di incognita ha detto ma la mia impressione è che la prima causa della crisi cioè la caduta della Borsa e della finanza si sta riducendo ». Ospite della trasmissione di Lucia Annunziata «In Mezz'ora » su Raitre, Tremonti passa dalla grande preoccupazione dei mesi scorsi a una visione più rassicurante sulla tenuta del sistema globale fino a citare il presidente degli Stati Uniti: «Possiamo guardare al futuro con qualche prospettiva che sostituisce, come dice Obama, la speranza alla paura». La cautela è comunque d'obbligo. Tremonti evita di fornire date e cifre mentre Barack Obama dalle isole Trinidad sposa la teoria del suo consigliere economico Larry Summers: «Non siamo ancora fuori dal tunnel, per l'economia si prospettano tempi difficili». Ma il messaggio di base è chiaro, il fondo è stato toccato e l'esplosione «atomica» del meccano finanziario globale non c'è stata. I cocci, con pazienza, si possono rimettere insieme. E anche per quanto riguarda lo scenario nazionale il ministro del Tesoro ha evitato ogni sorta di allarmismo confermando le parole del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: «Non ci saranno tasse per sostenere la ricostruzione dell'Abruzzo, le risorse si troveranno dentro il bilancio dello Stato, non metteremo le mani nelle tasche dei cittadini perché non ce n'è bisogno». Ottimista anche il collega al Welfare Maurizio Sacconi che tuttavia, intervenendo a Treviso, non nasconde la sua preoccupazione sulla tenuta dell'occupazione e ha rivolto alle imprese una sorta di «appello» per una «libera e responsabile moratoria ai licenziamenti». Sacconi ha ricordato che l'Italia sta reagendo meglio di altri Paesi per limitare la perdita di posti di lavoro e ha comunque invitato le imprese a ricorrere ai «contratti di solidarietà spalmando la riduzione d'orario su più lavoratori». Sulla necessità di non lasciare indietro nessuno facendo ricorso alla «coesione sociale» si è soffermato più volte lo stesso Tremonti spiegando che le risorse dello Stato sono sufficienti per far fronte alle emergenze. Niente nuove tasse dunque per il terremoto ma alcune idee che il ministro ha fornito nel corso della trasmissione: come l'introduzione di detrazioni più corpose per chi fa donazioni mirate al terremoto, un ruolo più incisivo della Cassa depositi e prestiti e un maggiore impegno da parte degli enti previdenziali i quali «essendo obbligati fare interventi pubblici investano all'Aquila». Il responsabile di Via XX Settembre, commentando il calo delle imposte nei primi mesi del 2009, ha precisato che deriva in gran parte dalla crisi dell'economia e anche dall'evasione «che c'è sempre stata e non è aumentata adesso». «Le dichiarazioni 2007 ha affermato Tremonti sono oggettivamente scandalose e risalgono al centrosinistra ma comunque l'evasione c'era e c'è ancora e l'unico modo per combatterla è mettere in campo i Comuni e fare il federalismo fiscale». Per quanto riguarda la polemica sul costo del referendum, infine, per il ministro andrebbe «addebitato a chi lo ha promosso ». R. Ba. Giulio Tremonti

Torna all'inizio


Obama: basta soldi dei contribuenti nel buco nero delle banche (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Primo Piano data: 20/04/2009 - pag: 6 Il presidente Usa Obama: basta soldi dei contribuenti nel buco nero delle banche «Se ci sarà bisogno di altro denaro per le banche ha detto il presidente Usa Barack Obama (foto) dal vertice delle Americhe a Trinidad io ho la responsabilità di assicurare la trasparenza: non intendo gettare i soldi dei contribuenti in un buco nero».

Torna all'inizio


Chávez rimanda l'ambasciatore negli Usa (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Esteri data: 20/04/2009 - pag: 12 Svolte La sede venezuelana a Washington era stata chiusa dopo l'espulsione del diplomatico di Caracas lo scorso settembre Chávez rimanda l'ambasciatore negli Usa Obama: «Da Cuba vogliamo fatti, ma abbiamo sbagliato politica per 50 anni» Il leader bolivarista chiederà il gradimento per Roy Gaderton, attuale rappresentante di Caracas all'«Oas» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE WASHINGTON Il regalo del libro, fra l'altro in spagnolo quindi di improbabile lettura per Barack Obama, non era la solita sbruffonata di Hugo Chávez. Il presidente venezuelano ha detto a Hillary Clinton di voler rimandare un suo ambasciatore a Washington, nella speranza che ciò sia il preludio a «una nuova era» di rapporti con gli Usa. Chávez ne ha anche fatto il nome, anticipando che chiederà il gradimento per Roy Gaderton, attuale rappresentante di Caracas all'Organizzazione degli Stati Americani. Il Venezuela non aveva un ambasciatore sul Potomac dallo scorso settembre, quando lo State Department ne aveva deciso l'espulsione, in risposta a quella dell'inviato americano a Caracas, decisa poco prima da Chávez sull'esempio del collega boliviano Evo Morales. L'annuncio, nella giornata conclusiva del vertice delle Americhe, corona una settimana di disgelo e ripartenza nelle relazioni degli Usa con il mondo sudamericano, segnata dalla storica apertura di Obama a Cuba e più in generale dal cambio di tono e di paradigma del nuovo presidente, che ha di fatto chiuso due secoli di «mano pesante » del suo Paese verso l'ex «cortile di casa» e inaugurato un'epoca di «cooperazione tra eguali». Sul piano formale, il vertice di Trinidad non è stato un successo. Come previsto, è mancato l'accordo sul comunicato finale, che un gruppo di Paesi fra cui Venezuela, Bolivia, Honduras e Nicaragua non ha voluto siglare, criticandone il silenzio sull'esclusione di Cuba, sospesa dall'Oas sin dal 1963. Ma sul piano politico, tutti, compresi i dissidenti, parlano di un summit di svolta e di nuovo inizio. A fare la differenza è stato naturalmente Obama, che anche nella conferenza stampa finale ha riconfermato la disponibilità del suo Paese ad «ascoltare e non solo a parlare», riconoscendo che «anche altri Paesi abbiano buone idee». Ma il presidente e il suo staff non hanno rinunciato a fissare precisi paletti alle aperture. Su Cuba, soprattutto. Da un lato, infatti, Obama ha fondato le ragioni della sua svolta sullo stesso terreno di chi, negli Usa, critica la sua svolta come un eccesso di Realpolitik: «La nostra politica degli ultimi 50 anni non ha funzionato: il popolo cubano non è libero». Dall'altro, rispondendo alle pressanti richieste di porre fine all'embargo economico venute da quasi tutti i partecipanti al vertice, ha ripetuto che tocca al regime castrista fare i prossimi passi, per esempio rilasciando un congruo numero di prigionieri politici: «Il test per tutti non sono più le parole, ma i fatti». Una posizione, quest'ultima, ribadita in precedenza da Larry Summers, capo dei consiglieri economici del presidente: «La fine dell'embargo è ancora lontana e dipende dai passi in avanti di Cuba, nelle politiche e nella democratizzazione ». Nella sua conferenza stampa finale, Obama ha anche difeso la scelta di non rifiutare l'approccio di Chávez, criticata negli Usa dai repubblicani: «Il Venezuela ha un bilancio militare che è 1/seicentesimo di quello degli Stati Uniti ed è proprietario di una compagnia petrolifera, Citgo: è difficile credere che stiamo mettendo a rischio gli interessi americani parlando con Chávez». Paolo Valentino A Cuba Un cartellone anti-Usa lungo il litorale Malecón all'Avana (Paolo Poce/Emblema)

Torna all'inizio


stagione (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Esteri data: 20/04/2009 - pag: 12 Nuova stagione Dialogo Il presidente Usa Barack Obama arriva alla conferenza stampa conclusiva del vertice panamericano di Trinidad e Tobago

Torna all'inizio


Gli intellettuali avvertono: (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Esteri data: 20/04/2009 - pag: 13 Il dibattito Analisti e esuli cubani negli Usa dopo le aperture della Casa Bianca Gli intellettuali avvertono: «E' Raúl che deve cambiare» C'è la storia mezzo secolo di ostilità non si cancella con due parole e il buon senso, che avverte quando è ora di cambiare. C'è la voglia di Obama di voler affermare il nuovo anche sulle questioni più antiche, e l'esigenza della diplomazia: basta un aggettivo in più per mandare un messaggio. Naturale che sulla svolta americana verso Cuba, e il parallelo raffreddamento delle ostilità con il Venezuela di Hugo Chávez, si sia scatenata ogni sorta di interpretazione. La soddisfazione unanime dell'America Latina in entrambe le anime di sinistra moderata e «bolivariana» nasconde qualche rammarico: al summit di Trinidad e Tobago si sarebbe dovuto anche parlare d'altro, crisi e commercio per esempio, ma va bene anche così. Il Brasile è un Paese dove Obama è talmente popolare che alle ultime amministrative una ventina di candidati scuri di pelle hanno assunto legalmente il suo nome e con Lula il feeling è forte: tutte le divergenze in questo incontro sono sparite tra gli abbracci e le strette di mano. Su Cuba, poi, l'intera America Latina è da sempre a favore dell'abolizione dell'embargo senza condizioni, ma stavolta nemmeno Chávez ha voluto spingere troppo. Venezuela e alleati si sono limitati a non firmare la dichiarazione finale perché i summit delle Americas escludono l'isola dal lontano 1963, ma senza polemiche. Tutto per mantenere un clima amichevole, e protocollare l'incontro come un grande successo, a differenza del precedente di quattro anni fa che fu un disastro per George W. Bush. Lontani da Trinidad, sono invece gli osservatori di cose cubane e i dissidenti all'estero a manifestare più dubbi sulla cosiddetta svolta. «Non credo che L'Avana sia sincera quando dice che vuole rapporti migliori con Washington scrive il noto columnist Andres Oppenheimer . La dittatura ha bisogno del confronto con gli Usa e negli ultimi 50 anni Fidel Castro ha sempre sabotato tutte le aperture ». Se la prende con gli altri Paesi latinoamericani lo scrittore dissidente Raúl Rivero, dalla Spagna: «Ora sono tutti insieme, radicali e moderati, a dipingere i repressori in vittime», scrive a proposito della grande solidarietà che Cuba riceve sulla questione dell'embargo. Scettico anche un altro scrittore in esilio, Carlos Alberto Montaner: «Obama ha assunto una posizione corretta, eliminando alcune restrizioni dell'era Bush. Ma non vedo nulla di diverso da quello che hanno detto ben dieci suoi predecessori: le relazioni torneranno normali solo con una apertura politica sull'isola e il rispetto dei diritti umani». Per Richard Feinberg, ex consigliere di Bill Clinton, il nulla di nuovo riguarda invece le parole dell'Avana: «I fratelli Castro hanno detto centinaia di volte che devono rettificare gli errori del passato, ma non l'hanno mai fatto». Non è una novità che la Miami della diaspora sia divisa rispetto ad un tempo tra falchi e colombe, ma stavolta la mano tesa di Washington ha creato una vera e propria frattura tra gli stessi parlamentari repubblicani di origine cubana: il senatore Mel Martinez sta con Obama, il deputato Mario Diaz-Balart contro. Sull'isola i dissidenti moderati in libertà come Elizardo Sanchez e Vladimiro Roca guardano con interesse all'apertura, mentre i parenti di quelli in carcere giurano che i loro congiunti non si faranno mai «scambiare» in un eventuale accordo con Washington (si parla del rilascio dalla Florida dei cinque cubani accusati di spionaggio). L'esercizio di interpretazione meno facile, come sempre, riguarda i messaggi che giungono dal regime cubano. Dopo un periodo di silenzio che aveva fatto scattare l'ennesimo campanello di allarme sulla sua salute, Fidel Castro è tornato a scrivere tutti i giorni e alcuni parlamentari Usa appena recatisi all'Avana l'hanno trovato in gran forma. Insiste sulla fine dell'embargo ma non accenna a monete di scambio, mentre il fratello Raúl, leader in carica, ammette che con Obama può discutere di tutto, senza condizioni. Ha addirittura pronunciato parole proibite finora, come «dissidenti» e «diritti umani». Il regime sa che con Obama è difficile vendere ai cubani l'immagine del «demonio», come invece veniva facile con Bush. Ecco allora che la tv si è spinta ieri a mandare in onda alcuni brani del suo discorso. Nelle prossime ore, forse, una risposta. Rocco Cotroneo Convinti Manifestazione castrista per l'anniversario dell'invasione della Baia dei Porci (Ap)

Torna all'inizio


G8 agricoltura Intesa sulla lotta alla speculazione (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Cronache data: 20/04/2009 - pag: 23 Treviso G8 agricoltura Intesa sulla lotta alla speculazione CISON DI VALMARINO (Treviso) Forse non sarà ancora il nuovo ordine mondiale dell'agricoltura e la fine della fame nel mondo. Ma i ministri degli 8 grandi riuniti nell'alta marca trevigiana ieri a tarda sera si sono accordati su un testo in 13 punti in cui si parla esplicitamente di «lotta alla speculazione» e «rigetto del protezionismo». Anche se quest'ultima affermazione non si tradurrà in un rapido superamento dei dazi: la dichiarazione è stemperata dal richiamo a una concorrenza equilibrata da regole. Il documento prevede anche l'istituzione di una sorta di banca mondiale delle derrate con scorte per evitare i picchi di prezzo responsabili delle sommosse che si sono verificate in parecchi paesi dalle economie emergenti. Anche se Luca Zaia (nella foto), il ministro italiano che ha fortemente voluto il summit, ieri sera spiegava che «sugli stock ci sono ancora alcune divergenze». Il documento è invece esplicito sulla «lotta alla speculazione». La novità sembra essere Obama: difficilmente gli Stati Uniti di un anno fa avrebbero potuto firmare un documento «multilaterale» come quello che sarà presentato domani. È invece mancato un documento condiviso anche dagli altri otto Paesi partecipanti al summit (Cina, India, Messico, Brasile, Sud Africa e Argentina, Australia, Egitto). Dalla Cina, invece, documento incentrato sull'agricoltura sostenibile. Marco Cremonesi DAL NOSTRO INVIATO

Torna all'inizio


Rendere utile l'embargo, revocandolo (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Opinioni data: 20/04/2009 - pag: 26 OBAMA E CUBA Rendere utile l'embargo, revocandolo di FRANCO VENTURINI D a quando Barack Obama è alla Casa Bianca il mondo gira decisamente più veloce. Dopo la Russia, l'Iran e i «talebani buoni », un altro ponte è stato gettato dal nuovo presidente Usa verso quell'America Latina che Bush aveva tanto trascurato. Nei resoconti televisivi del vertice di Trinidad e Tobago abbiamo visto scene fino a ieri impensabili: Ugo Chávez, campione riconosciuto della retorica anti-yankee, che stringe la mano e promette amicizia al rappresentante ufficiale dell'imperialismo nord-americano; e Obama che sta al gioco, che ricambia per nulla imbarazzato dai testimoni mediatici. Vedremo fin dove si spingerà questa politica delle pacche sulle spalle. Senza dimenticare, però, che nel rapporto tra Stati Uniti e Venezuela le apparenze hanno spesso ingannato. Come quando gli Usa, anche nei momenti più accesi della polemica bilaterale, hanno continuato a comprare giornalmente più della metà della produzione petrolifera di Caracas, che ha continuato a vendergliela. Ben diversa, e per questo assai più significativa, è la questione dell'embargo americano contro Cuba in vigore dal 1962. Obama, anche qui, ha fatto il primo passo rendendo più agevoli i viaggi e le rimesse in denaro degli esuli cubani residenti negli Usa. Fidel Castro, redivivo per l'occasione e tornato per un giorno comandante en jefe, gli ha risposto che Cuba vuole di più e non ha bisogno di elemosine. Ma al di là delle scontate punture di spillo la palla è ormai in movimento, e porterà, in tempi ragionevoli ma non brevi, a una delle due possibili conclusioni: la levata dell'embargo Usa previe concessioni dell'Havana, oppure una nuova rottura che avrebbe questa volta conseguenze gravissime per una popolazione che non sa più come «arrangiarsi» e per un regime che non osa o non può scegliere la via del rinnovamento. «Siamo pronti a parlare di tutto, dei prigionieri politici, della libertà d'informazione, dell'economia...»: le parole con le quali ha ripreso il sopravvento l'altro Castro, il presidente Raul, sono parse inedite se non altro nell'elencazione di problemi mai prima riconosciuti. E non proprio normale è stato anche l'immediato compiacimento di Hillary Clinton, che ha dato l'impressione di spingersi più lontano del suo Presidente. Si tratta, a ben vedere, di due anomalie che spiegano tutto: la storia paradossale dei rapporti cubano-americani dopo la rivoluzione castrista, e ancor più l'interesse reciproco che hanno oggi le parti a guardare avanti e a far sì che la guerra fredda finisca anche a 90 miglia dalle coste della Florida. L'elenco dei paradossi è lungo e corposo. Basterà ricordare che l'embargo ha colpito duramente il popolo cubano soprattutto dopo la fine delle generose sovvenzioni sovietiche, ma ha anche contribuito a rinsaldare la dittatura di Fidel Castro accentuando quel nazionalismo che è sempre stato la base del suo potere. A dispetto di questo storico errore (così lo giudicano, oggi, la Chiesa, molti dissidenti cubani, gli europei, la maggioranza degli americani e probabilmente il loro Presidente), a dispetto della Baia dei Porci e della crisi dei missili, a dispetto dei divieti della legge Helms-Burton ancora in vigore, gli Stati Uniti sono da diversi anni il primo fornitore agro-alimentare di Cuba. Per le pressioni della lobby agricola, non per bontà d'animo. E George Bush, quando decise di tornare a inasprire le sanzioni che Clinton aveva un po' allentato, lo fece per dar retta ai duri e puri dell'emigrazione cubana in Florida. Ma nel frattempo questa emigrazione era cambiata anche per motivi generazionali, e così la Florida che era repubblicana ha votato democratico, cioè Obama. E l'interesse reciproco? È presto spiegato. Cuba ha l'acqua alla gola, l'economia non gira, le conquiste del castrismo (sanità, scuola) sono anch'esse sull'orlo della crisi, la popolazione «socialista» sogna e quando può pratica un capitalismo di rapina, il vagheggiato modello cino-vietnamita appare irraggiungibile. Serve quel cambiamento che gli Usa posso garantire senza traumi, ora che non puntano più sul regime change ma sulla sua evoluzione. Tanto più se Washington si mostrerà interessata all'estrazione del petrolio che i cubani sono sicuri di avere non lontano dalle loro coste. Quanto a Obama, senza Cuba le sue aperture risulterebbero incoerenti. E poi ci sono gli interessi economici, non soltanto quelli degli agricoltori. E c'è, come già ricordato, una Florida non più ostile al dialogo e non più favorevole all'embargo. E infine è più probabile che i Castro possano cadere stringendo la mano americana che denunciando la sua lontananza. Affare fatto, allora? No di certo. Nella Cuba fortino ideologico i «duri» non disarmano. E in America i critici di Obama sono pronti a mettere l'isola nemica sul conto dei suoi auspicati fallimenti. Eppure la speranza di voltare pagina resta forte. Hillary ha parlato chiaro: noi ci siamo mossi, ora aspettiamo che Cuba ci rimandi l'ascensore. Sottinteso, con a bordo prigionieri politici, maggiore libertà d'informazione e qualche altra cambiale firmata. Non è sicuro che i Castro vogliano o possano preparare un simile carico. Ma il tentativo di Obama resta chiaro: rendere utile, per la prima volta, l'embargo. Negoziando la sua fine.

Torna all'inizio


Pomigliano non somiglia a Detroit (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Opinioni data: 20/04/2009 - pag: 26 SINDACATI E CRISI DELL'AUTO Pomigliano non somiglia a Detroit di DARIO DI VICO SEGUE DALLA PRIMA L'America che lapida i Madoff e i Wagoner, super finanzieri senza scrupoli e top manager senza idee, si affida invece ai Gettelfinger, pragmatici leader sindacali che hanno fatto accordi anche negli anni di George W. Bush e che oggi si rivelano decisivi per salvare il patto di cittadinanza che lega la società americana e per onorare le promesse elettorali di Barack Obama. Nella vecchia Europa, invece, il sindacalismo si agita tanto senza concludere niente. Tiene la piazza con manifestazioni imponenti, che si rivelano frutto però più di una straordinaria forza organizzativa che di una reale sintonia con le ansie e le aspettative più profonde del mondo del lavoro. Il caso limite è quello francese dove la deriva populista sembra aver preso la mano alle forze sindacali. I sequestri di manager rischiano di diventare un'abituale forma di lotta contro la crisi e nei servizi sono rispuntate agitazioni in stile gatto selvaggio, come l'improvvisa interruzione della fornitura di luce e gas alle famiglie decisa sabato scorso dai dipendenti dell'Edf e della Gaz de France per sostenere una richiesta di aumento degli stipendi. Dentro le confederazioni sindacali italiane la confusione è grande quanto il cielo. Come si può desumere da un informato articolo di Bruno Ugolini pubblicato sull'Unità, in casa Cgil è tempo di manovre pre-congressuali e il posizionamento dei suoi dirigenti sembra obbedire più a logiche di potere e di ricerca di alleanze interne che alla necessità di dare chiare indicazioni alla base. La conseguenza è che i segnali che arrivano in fabbrica e negli altri luoghi di lavoro sono assai diversi tra loro. Non si firma con la Confindustria l'accordo-quadro che dopo anni di incredibili rinvii tenta di rinnovare e decentrare le relazioni industriali e legarle agli incrementi di produttività. Si minaccia esplicitamente di trasformare Pomigliano in una polveriera (da rendere necessario addirittura «l'intervento dell'esercito») se la Fiat dovesse ristrutturare lo stabilimento. Poi, però, per evitare di restare spiazzati si finge di guardare con attenzione a ciò che succede a Detroit e al modello Chrysler e si studiano caute aperture sull'azionariato dei dipendenti. Il risultato prodotto da tutte queste prese di posizione, contraddittorie tra loro, è la sovrapposizione delle parole d'ordine. Un sindacalismo à la carte dove ognuno trova il suo piatto preferito ma i lavoratori restano a digiuno. Se si guarda con attenzione alle dinamiche politico-elettorali anche in questo caso la sensazione di disagio delle aree di forte tradizione sindacale e politica è lampante. Tutti i sondaggisti pronosticano alle imminenti elezioni europee ed amministrative un'ulteriore emorragia di consensi «manifatturieri» dal Pd in direzione della Lega o del neonato operaismo dipietrista. Nelle aree del Lombardo- Veneto già saldamente controllate dal centro-destra ma, ed è questa la novità, anche in Emilia e Toscana, nelle zone in cui la piccola industria è in grave sofferenza per gli effetti della recessione. Persino Giovanni Consorte, l'ex capo di Unipol, si può permettere di irridere Dario Franceschini annunciando che un «grande convegno nazionale sulla media impresa» lo organizzerà lui. Chi pensava a un effetto Obama, a un automatico trascinamento di voti per il centro-sinistra italiano come riflesso della straordinaria performance dei democratici yankee, si deve giocoforza ricredere. Il consenso non è moneta elettronica che si possa trasferire con un clic da una sponda dell'Atlantico all'altra, lo si conquista sul campo a casa propria. Per farlo bisogna mettersi dalla parte delle soluzioni, non solo da quella dei problemi. ddivico@rcs.it

Torna all'inizio


Chi c'è ha torto (sezione: Obama)

( da "Corriere della Sera" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

Corriere della Sera sezione: Opinioni data: 20/04/2009 - pag: 26 CONFERENZA DI GINEVRA Chi c'è ha torto di ANGELO PANEBIANCO SEGUE DALLA PRIMA È proprio in nome dei «diritti umani» (nel senso che essi danno a queste parole) che i Paesi islamici cercano oggi di imporre a tutto l'Occidente una drastica limitazione della libertà di parola e della libertà di stampa, erigendo barriere giuridiche che rendano la religione islamica non criticabile. Hanno tentato di farlo con la risoluzione 62/154 dell'Assemblea delle Nazioni Unite. E sono tornati alla carica (salvo recedere a fronte delle proteste occidentali) nei lavori preparatori del documento che dovrà essere approvato dalla Conferenza di Ginevra. Chi pensa che i diritti umani siano «transculturali», anziché connotati culturalmente, che siano cioè un minimo comun denominatore potenzialmente in grado di essere condiviso da tutti, dovrebbe riflettere, ad esempio, su quale compatibilità possa mai esserci fra i diritti umani nel modo in cui li intendono gli occidentali e la sharia, la tradizionale legge islamica. La terza lezione che si può trarre dal pasticcio della Conferenza di Ginevra riguarda l'impossibilità di separare diritti umani e politica. A Ginevra «si fa» e «si farà» politica, ossia la questione del razzismo e dei diritti umani verrà usata come arma propagandistica ai fini della competizione di potenza e delle connesse negoziazioni politiche. Come è inevitabile che sia. La presenza di Ahmadinejad a Ginevra, in particolare, merita attenzione. Dal suo discorso, ovviamente, nessuna persona sana di mente si attende un contributo per la «lotta contro il razzismo». Si cercherà piuttosto di capire, leggendo tra le righe, se ci sarà o no qualche segnale di disponibilità alla trattativa sul nucleare iraniano e sugli altri dossier mediorientali da parte dei settori del regime che Ahmadinejad rappresenta o se la risposta alle aperture del presidente americano Obama sia già contenuta per intero nella condanna a otto anni per spionaggio appena inflitta alla giornalista americanairaniana Roxana Saberi. Sapendo, naturalmente, che Ahmadinejad è comunque un presidente in scadenza e che dovrà, nel giugno prossimo, affrontare il giudizio degli elettori. Un risultato (paradossale) la Conferenza sul razzismo lo ha comunque già ottenuto: ha offerto al presidente di un regime assai poco rispettoso dei diritti umani (comunque li si definisca) una tribuna internazionale da cui iniziare la sua personale campagna elettorale.

Torna all'inizio


"L'incubo Borse è finito" (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

"L'incubo Borse è finito" [FIRMA]ALESSANDRO BARBERA ROMA La situazione - ci tiene a dirlo - «resta incognita». Nessun numero ancora ci dice che la recessione è finita. Ma almeno la slavina si è arrestata e si possono mettere da parte le parole più cupe. «L'incubo degli incubi è finito». L'apocalisse dei mercati «non c'è stata, e la gente ha tirato un sospiro di sollievo». Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, intervistato da Lucia Annunziata per «in mezz'ora», cita a sostegno della sua tesi «la fine della caduta dell'import e dell'export, dei traffici nei porti e nelle strade», e più in generale «del commercio mondiale». Il collega del Lavoro Maurizio Sacconi, con una forte dose di ottimismo, parla addirittura di «inversione del trend recessivo», elencando anch'esso alcuni dati: l'andamento dei noli nel commercio marittimo, delle vendite dei beni durevoli, ma soprattutto - «per la prima volta da mesi» - la crescita degli ordinativi delle imprese dall'estero. I dati diffusi venerdì dall'Istat dicono che a febbraio, a fronte di un calo annuo del 32,7%, il confronto con gennaio si è fermato a -1,5%. E questo lo si è dovuto soprattutto all'andamento delle prenotazioni estere. A gennaio avevano segnato un timidissimo +0,1%, a febbraio hanno segnato un netto +3,5%. Di questi tempi, non è poco. Se ci si fida delle stime, si potrebbe effettivamente dire che le due locomotive dell'economia mondiale, Cina e India, sono pronte a ripartire; se non subito, dall'autunno in poi. L'ultimo rapporto della Banca mondiale sulla Cina dice che già quest'anno il prodotto interno dell'impero del sol levante invertirà la tendenza. Uno dei segnali sarebbe il forte aumento della domanda di una delle materie prime più usate nell'industria, il rame. Stessa cosa dovrebbe avvenire in India: proprio ieri il premier Manmohan Singh ha stimato che «da settembre» il prodotto interno lordo del Paese «dovrebbe tornare a crescere fra l'8 e il 9%». Oggi, entrambe le economie non crescono più di uno striminzito (per loro) 6% annuo. Le borse mondiali, dopo crolli mai visti dal 1929, hanno iniziato una lieve e costante ripresa. Alcune grandi aziende americane, manifatturiere e non, cominciano a presentare trimestrali migliori delle attese degli analisti. Questa settimana è accaduto fra le altre a Citigroup, General Electric, Jp Morgan. La fiducia, l'ingrediente numero uno della crescita, sembra farsi spazio fra le macerie. Dice Tremonti: «L'impressione è che la prima causa della crisi, la caduta della Borsa e della finanza, si sta riducendo». Il paragone è con quello che accadeva non più tardi di due mesi fa, quando le banche centrali di tutto il mondo sembravano inermi di fronte alla slavina dei titoli di borsa e ai fallimenti a catena. «Nessuno pensa più all'apocalisse finanziaria. Non vedo più la paura di un crollo della finanza». Ora «possiamo guardare al futuro con qualche prospettiva». Una prospettiva che sostituisce, «per usare le parole di Barack Obama, la speranza alla paura». Questo non significa che i numeri del 2009 cambieranno di segno, anzi. Non a caso Sacconi, temendo ancora un forte calo dell'occupazione in Italia, ha ribadito la sua richiesta alle imprese di una «moratoria per i licenziamenti». In buona sostanza le ha invitate a scegliere, in attesa «di una ripresa della domanda», cassa integrazione e contratti di solidarietà. Per un Paese ad alto debito come l'Italia una delle conseguenze più gravi della crisi sarà sui conti pubblici. Nei primi due mesi del 2009, dicono gli ultimi dati della Banca d'Italia, le entrate fiscali sono calate del 7,2%. Ma anche in questo caso Tremonti getta acqua sul fuoco: I dati sulle dichiarazioni dei redditi 2007 «sono scandalosi», ma «l'evasione non aumenta» e il calo delle entrate, «che oggettivamente c'è», è «inferiore di quanto si registra in altri Paesi europei». In ogni caso, «l'evasione non si batte con la propaganda, ma attrezzando i Comuni e costruendo il federalismo fiscale».

Torna all'inizio


Borse mondiali tra rimbalzo e vera ripresa (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

I mercati ricominciano a recuperare terreno Ma i gestori sono cauti Analisi Borse mondiali tra rimbalzo e vera ripresa GLAUCO MAGGI NEW YORK In aprile il Dow Jones delle blue chips americane sta confermandosi sopra quota 8000 punti - ha chiuso a 8131 venerdì scorso - dopo che era sprofondato a 6500 nella prima settimana di marzo. E' vera ripresa? O è un "rally dell'Orso", come sono chiamati i rimbalzi che non durano? La Stampa lo ha chiesto a due money manager internazionali. Ecco le loro risposte. «I mercati hanno ripreso la via del consolidamento», sostiene Christoph Riniker, Senior Strategist di Bank Julius Baer. «A fronte di dati di crescita deboli del Pil nei prossimi trimestri, ci aspettiamo mesi di volatilità azionaria. Ma restiamo cautamente positivi, visto che vari indicatori di tendenza come l'indice Ism o l'Ifo (spie del business americano e tedesco, Ndr) hanno continuato il percorso di discesa avvicinandosi ai livelli minimi. Di conseguenza, ci si potrebbe aspettare un successivo rialzo dei mercati azionari, in particolare nei settori ciclici». Il Nasdaq dei tecnologici ha retto meglio nel primo trimestre di S&P e Dow, e da un sondaggio della rivista The Banker è emerso che il 71,3% del centinaio di Ceo di corporation globali si aspetta di investire in information technology nel corso di quest'anno. Sarà il settore tecnologico a guidare il prossimo Toro? Per Riniker, «in passato il comparto ha sempre registrato una buona performance quando gli indicatori di tendenza tornavano ad essere positivi. Inoltre, in considerazione dei consistenti incentivi fiscali in atto negli Stati Uniti, i nostri studi indicano che alcuni settori sono più sensibili ai rimbalzi dell'economia che dovrebbero risultare dal pacchetto di aiuti. Tecnologia, energia e materiali sono tra questi settori. Attualmente manteniamo comunque una distribuzione degli asset piuttosto difensiva, sovrappesati su beni di prima necessità, salute, telecomunicazioni ed energia, e sottopesati su beni di consumo discrezionali, industriali e finanziari». La crisi ha colpito molto severamente le banche. Con i prezzi attuali è tempo di rientrare nel comparto? "La tentazione di comprare banche e' molto forte, ma mi limiterei ai nomi migliori, come JP Morgan e Goldman Sachs", dice Edward Tarallo, investment manager di Wachovia-WellsFargo a New York. "E quanto al piano del ministro Geithner per vendere i bond tossici delle banche potrebbero esserci buone occasioni per gli investitori, ma credo che le banche saranno riluttanti a vendere". Proprio giovedì scorso la Fasb (Financial Accounting Standards Board), l'ente che stabilisce per conto della Sec (Consob Usa), le regole per scrivere i bilanci, ha aumentato la discrezionalità concessa alle banche di dare una propria valutazione ai titoli non quotati legati ai mutui: cala quindi l'incentivo per le banche che hanno i bond tossici in portafoglio di metterli all'asta, perché rischierebbero di realizzare prezzi troppo bassi rispetto ai valori di libro. Infine, qual è il futuro del rapporto dollaro-euro, che tanto incide sugli investimenti diversificati degli europei? La Cina e la Russia vogliono sostituire il dollaro con una moneta internazionale come valuta per gli scambi e per le riserve dei paesi esportatori, e Obama ha detto di no. Che cosa succederà? "Il dollaro e' e rimarra' la valuta di scelta per riserve e scambi per il prevedibile futuro", dice Tarallo. "Lo vedo scendere però dagli attuali livelli entro fine anno per l'enorme debito pubblico Usa dovuto allo stimolo di Obama". Per Riniker, "alcune monete, come l'euro, potrebbero assumere una maggiore importanza come valute di riserva nell'ambito del processo di diversificazione delle banche centrali. In generale, il dollaro conserverà la sua posizione dominante per la liquidità e la lunga tradizione di investimento in titoli del Tesoro Usa delle banche centrali. Entro fine anno prevediamo un cambio euro/dollaro di 1,40".

Torna all'inizio


In aprile il Dow Jones delle blue chips americane sta confermandosi sopra quota 8000 punti - ha chiu... (sezione: Obama)

( da "Stampa, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

In aprile il Dow Jones delle blue chips americane sta confermandosi sopra quota 8000 punti - ha chiuso a 8131 venerdì scorso - dopo che era sprofondato a 6500 nella prima settimana di marzo. E' vera ripresa? O è un "rally dell'Orso", come sono chiamati i rimbalzi che non durano? La Stampa lo ha chiesto a due money manager internazionali. Ecco le loro risposte. «I mercati hanno ripreso la via del consolidamento», sostiene Christoph Riniker, Senior Strategist di Bank Julius Baer. «A fronte di dati di crescita deboli del Pil nei prossimi trimestri, ci aspettiamo mesi di volatilità azionaria. Ma restiamo cautamente positivi, visto che vari indicatori di tendenza come l'indice Ism o l'Ifo (spie del business americano e tedesco, Ndr) hanno continuato il percorso di discesa avvicinandosi ai livelli minimi. Di conseguenza, ci si potrebbe aspettare un successivo rialzo dei mercati azionari, in particolare nei settori ciclici». Il Nasdaq dei tecnologici ha retto meglio nel primo trimestre di S&P e Dow, e da un sondaggio della rivista The Banker è emerso che il 71,3% del centinaio di Ceo di corporation globali si aspetta di investire in information technology nel corso di quest'anno. Sarà il settore tecnologico a guidare il prossimo Toro? Per Riniker, «in passato il comparto ha sempre registrato una buona performance quando gli indicatori di tendenza tornavano ad essere positivi. Inoltre, in considerazione dei consistenti incentivi fiscali in atto negli Stati Uniti, i nostri studi indicano che alcuni settori sono più sensibili ai rimbalzi dell'economia che dovrebbero risultare dal pacchetto di aiuti. Tecnologia, energia e materiali sono tra questi settori. Attualmente manteniamo comunque una distribuzione degli asset piuttosto difensiva, sovrappesati su beni di prima necessità, salute, telecomunicazioni ed energia, e sottopesati su beni di consumo discrezionali, industriali e finanziari». La crisi ha colpito molto severamente le banche. Con i prezzi attuali è tempo di rientrare nel comparto? "La tentazione di comprare banche e' molto forte, ma mi limiterei ai nomi migliori, come JP Morgan e Goldman Sachs", dice Edward Tarallo, investment manager di Wachovia-WellsFargo a New York. "E quanto al piano del ministro Geithner per vendere i bond tossici delle banche potrebbero esserci buone occasioni per gli investitori, ma credo che le banche saranno riluttanti a vendere". Proprio giovedì scorso la Fasb (Financial Accounting Standards Board), l'ente che stabilisce per conto della Sec (Consob Usa), le regole per scrivere i bilanci, ha aumentato la discrezionalità concessa alle banche di dare una propria valutazione ai titoli non quotati legati ai mutui: cala quindi l'incentivo per le banche che hanno i bond tossici in portafoglio di metterli all'asta, perché rischierebbero di realizzare prezzi troppo bassi rispetto ai valori di libro. Infine, qual è il futuro del rapporto dollaro-euro, che tanto incide sugli investimenti diversificati degli europei? La Cina e la Russia vogliono sostituire il dollaro con una moneta internazionale come valuta per gli scambi e per le riserve dei paesi esportatori, e Obama ha detto di no. Che cosa succederà? "Il dollaro e' e rimarra' la valuta di scelta per riserve e scambi per il prevedibile futuro", dice Tarallo. "Lo vedo scendere però dagli attuali livelli entro fine anno per l'enorme debito pubblico Usa dovuto allo stimolo di Obama". Per Riniker, "alcune monete, come l'euro, potrebbero assumere una maggiore importanza come valute di riserva nell'ambito del processo di diversificazione delle banche centrali. In generale, il dollaro conserverà la sua posizione dominante per la liquidità e la lunga tradizione di investimento in titoli del Tesoro Usa delle banche centrali. Entro fine anno prevediamo un cambio euro/dollaro di 1,40".

Torna all'inizio


Diffuso un nuovo video di Al Zawahiri "Con Obama per noi non cambia nulla" (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

WASHINGTON - Barack Obama "non ha cambiato" la percezione che i musulmani hanno degli Stati Uniti: ne è convinto il numero due di Al Qaeda, Ayman Al Zawahiri, che ha parlato in un nuovo video diffuso su internet. A darne conto è il centro di sorveglianza dei siti islamici Site. "Il nuovo presidente Obama non ha cambiato nulla dell'immagine dell'America tra i musulmani e i popoli oppressi", ha dichiarato Ayman Al Zawahiri, secondo estratti delle sue dichiarazioni pubblicate da Site. "Questa è l'America che ancora continua a uccidere i musulmani in Palestina, Iraq e Afghanistan", ha aggiunto il braccio destro di Osama Bin Laden. "E' l'America che si appropria delle loro ricchezze, occupa le loro terre, e appoggia i latrocinii, la corruzione, i dirigenti traditori nei loro Paesi. E conseguentemente il problema non è risolto. Al contrario, è probabilmente destinato a deteriorarsi e peggiorare". Secondo Al Zawahiri, l'amministrazione Obama mostra un nuovo volto, ma conduce in realtà la stessa politica del suo predecessore George W. Bush. ''L'America - osserva - e' venuta verso di noi con un nuovo volto, cercando di ingannarci; un volto che parla di cambiamenti, ma che mira a cambiarci, per farci abbandonare la nostra fede e i nostri diritti, non a mettere fine i loro crimini, le loro aggressioni, i loro stupri e i loro scandali''. Al tempo stesso, il medico egiziano considera la vittoria di Obama un successo dei combattenti islamici: "Non è altro che il riconoscimento da parte del popolo americano del fallimento della politica di Bush, conferma che mentivano gli americani quando sostenevano di aver vinto sui mujahidin. Obama ha sfruttato la sconfitta in Iraq per vincere le elezioni. Dopo sei anni i mujahidin sono ancora a combattere contro i tiranni". OAS_RICH('Middle'); Il messaggio, intitolato "Sei anni dall'invasione dell'Iraq e 30 anni dagli accordi con Israele", è rivolto a un pubblico arabo e non è sottotitolato in inglese come invece è accaduto più volte in passato. (20 aprile 2009

Torna all'inizio


La politica equilibrista (sezione: Obama)

( da "Repubblica.it" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

È con "great regrets", spiega il governo americano con l'eufemismo del "rammarico" con il quale ci si sgancia educatamente da un noioso invito a cena, che Barack Obama non parteciperà alla conferenza dell'Onu contro il razzismo da oggi a Ginevra, creando in apparenza un colossale paradosso: quello del primo presidente americano nero, eletto nel trionfo dell'antirazzismo, assente da un'iniziativa internazionale contro il razzismo. Il rifiuto di Obama, e il ritiro della delegazione americana che pure fino a pochi giorni or sono aveva partecipato alla preparazione di questa "Durban 2", come si chiama perché è la continuazione della prima, organizzata nella città sudafricana di Durban nel 2001, vengono dopo settimane di esitazione, di "nì", di "forse" e di "ma", di sofferenze e di ambiguità che il Presidente stesso si è deciso a tagliare "con rammarico" per non offendere coloro, Israele e la comunità ebraica per prime, che leggono in questo incontro soltanto un'occasione di propaganda antisemita. E dunque una cassa di risonanza per quelle nazioni, come Iran e Libia, che bizzarramente fanno parte della commissione Onu per "i diritti umani", e usano il Palazzo di Vetro come megafono anti israeliano, mentre al proprio interno calpestano proprio quei diritti civili e individuali che domandano agli altri di rispettare. Ma se il rifiuto di partecipare è stato più facile per i governi che hanno detto "no", come l'Australia, la Francia, l'Olanda, che è agitata al proprio interno dalla più acuta "questione islamica" in tutta l'Europa o l'Italia, mentre il Vaticano, l'Inghilterra, la Spagna hanno accettato l'invito, l'assenza dell'uomo che incarna in questo momento la più alta speranza di superamento del razzismo sembra una contraddizione lancinante. Per questo, e fino all'ultimo, gli inviati americani a Ginevra, e la stessa Casa Bianca avevano tentato di lavorare per linee interne, di modificare dal di dentro quei documenti nei quali i promotori cercano di indicare nel "sionismo", sinonimo di Israele, il bastione del razzismo, che definiscono la barriera costruita dal governo ebraico "il muro dell'apartheid" e riconoscono soltanto nella "Nakba", nella catastrofe e nella diaspora palestinese, l'unico, autentico esempio di tentato genocidio. OAS_RICH('Middle'); Di fronte alla nettezza inconciliabile di questa interpretazione del razzismo, che già aveva spinto George Bush a boicottare "Durban 1", neppure la consumata abilità obamiana di ricomporre gli opposti con il carisma o la sua capacità di fare annunci trancianti seguiti da azioni concrete molto più ambigue, sarebbe bastata. Benedetto XVI può, nel suo ruolo di pontefice di una confessione religiosa senza autentico potere politico, permettersi di sperare che questa conferenza sia "un passo fondamentale verso l'affermazione del valore universale della dignità dell'uomo, contro ogni forma di discriminazione", ma il Papa non deve vedersela con la comunità ebraica americana, con un governo di falchiestremisti come il neo insediato in Israele, con un capo di gabinetto come Rahm Emanuel già volontario con le forze armate israeliane, con lobbies che avrebbero considerato la sua presenza a Ginevra come assenso implicito alle tesi di chi nega l'Olocausto. La tecnica di governo di Barack Obama, quasi una edizione americana dei "due forni", il presidente che annuncia la chiusura di Guantanamo ma per il momento la lascia aperta, che ammorbidisce l'embargo anti cubano ma non lo cancella, che condanna la tortura ma non i torturatori, che fustiga i bonus e i profitti dei finanzieri ma poi puntella le loro banche agonizzanti, non poteva funzionare di fronte a una conferenza che esalta e sancisce il razzismo mentre dichiara di volerlo estirpare. E non è soltanto il nocciolo radioattivo dell'antisemitismo contenuto già nel primo documento approvato sette anni or sono a inquietare. C'è anche il tentativo di dichiarare ogni "discorso blasfemo" come proibito e di considerare "l'incitamento" alla critica antireligiosa come prova di discriminazione razziale, una tesi cara alle teocrazie fondamentaliste e integraliste che in sostanza sperano di avere il beneplacito dell'Onu alla loro "fatwa", alla persecuzione e repressione di ogni critica e di ogni opposizione vista come satanica. Il paradosso del presidente venuto dal Terzo Mondo, del primo capo di stato americano eletto "nonostante" la propria diversità e minorità etnica è dunque più apparente che reale. Questa volta, Obama il formidabile equilibrista che riesce a sembrare sempre troppo rivoluzionario ai conservatori e sempre troppo conservatore ai rivoluzionari, essendo tanto un centrista nell'azione quanto appare "estremista" nella parole, non ha potuto camminare sul filo dell'ambiguità. Obama, come gli rimproverano i delusi, è, prima di ogni altra cosa, un realista e lo ha dimostrato, con qualche imbarazzo, rifiutando di presentarsi a questo invito a cena. La realtà, oggi come negli ultimi 60 anni di politica estera americana, con presidenti democratici o repubblicani, insegna che, al momento delle strette, Washington, bianca o nera che sia, si collocherà sempre dalla parte di Israele. (20 aprile 2009

Torna all'inizio


Il Papa benedice il vertice dell'Onu Ebrei infuriati, e l'Europa si spacca (sezione: Obama)

( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

CITTA' DEL VATICANO Il Papa benedice la conferenza Onu sul razzismo («incontro importante», «azione ferma contro l’intolleranza per prevenire ed eliminare ogni forma di discriminazione»), mentre Obama la diserta perché «controproducente e inaccettabile per il suo linguaggio sbagliato su Israele». La Santa Sede si smarca dal boicottaggio degli Stati Uniti, dell’Italia e di altri Paesi contrari all’impostazione anti-israeliana di «Durban II», il vertice Onu che oggi si apre a Ginevra tra le polemiche per le pesanti critiche contro lo Stato d’Israele, accusato di razzismo verso i palestinesi («il sionismo è una ideologia razzista»). La commissione Onu ha in parte ripulito dai brani della discordia il testo che fino a sabato sarà in discussione a Ginevra, dove sarà presente la delegazione vaticana guidata da Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente presso le Nazioni Unite («è in gioco l’etica, sbagliato disertare»). Il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, lancia un appello a «partecipare al meeting e avere un atteggiamento costruttivo in nome della lotta alla xenofobia» e anche Benedetto XVI attribuisce alla dichiarazione di Durban il merito di «riconoscere che tutti i popoli e le persone formano una famiglia umana, ricca in diversità». Il livello di tensione attorno al summit Onu è altissimo. Ieri l’Iran ha inviato all’Interpol la richiesta di emettere mandati internazionali di arresto per 25 dirigenti israeliani, accusati di avere commesso «crimini di guerra» durante l’offensiva di 22 giorni condotta fra dicembre e gennaio nella Striscia di Gaza. E il governo israeliano ha criticato il presidente svizzero Hans Rudolf Herz per la sua decisione di ricevere il leader iraniano Mahmud Ahmadinejad. Venerdì è stata raggiunta l’intesa su una bozza finale, che elimina i controversi riferimenti a Israele e alla diffamazione delle religioni ma «riafferma» le conclusioni e il Programma d’azione di Durban-1, contestati da molti Paesi. Ai lavori del meeting (è prevista la presenza di una trentina di ministri degli Esteri e di almeno quattro capi di Stato) non parteciperanno Australia, Canada, Israele, Usa e alcuni Paesi Ue tra cui Italia, Olanda, Svezia e Germania. Il 5 marzo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aveva ritirato la delegazione italiana dai negoziati per le frasi antisemite contenute nella prima bozza. Gli Usanon ci saranno per il «linguaggio ipocrita e controproducente» su Israele. Obama spiega così i motivi del boicottaggio Usa: «Credo nelle Nazioni Unite, ho ribadito al segretario generale Ban Ki-Moon che aiuteremo l’Onu ma questa non è risultata l’opportunità giusta». Israele vede nella partecipazione di Ahmadinejad la conferma della correttezza della sua decisione di disertare il summit. Il capo della delegazione vaticana a Durban II, però, ribatte che «la Santa Sede sarà presente con la grande maggioranza degli Stati del mondo». Aggiunge l’arcivescovo Tomasi: «Abbiamo ragioni molto coerenti per esserci. Ogni persona ha la stessa dignità e non può essere oggetto di comportamenti discriminatori, quindi se non partecipiamo che messaggio diamo, ad esempio, ai Paesi africani?». Secondo la Santa Sede, «se si lascia che il messaggio di indifferenza prevalga su altre ragioni politiche finiamo per spingere le nazioni povere in una direzione che può favorire alleanze diverse, con conseguenze negative».

Torna all'inizio


Vertice sul razzismo, mondo diviso Israele richiama il suo ambasciatore (sezione: Obama)

( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

GINEVRA Il Mondo e l’Europa si spaccano sulla partecipazione alla conferenza Onu sul razzismo "Durban 2" che si apre oggi a Ginevra e che rischia di mutarsi in un processo a distanza a Israele. L’Italia, contraria sin dalla prima ora per gli accenti antisemiti presenti nella bozza del documento finale, ha confermato che non ci sarà. Sulla Stessa linea dopo Svezia e Olanda da ieri sera anche la Germania. Il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman intanto ha ordinato all’ambasciatore di Israele in Svizzera di rientrare in patria per consultazioni. Fonti del ministero degli esteri hanno spiegato al sito del quotidiano Yediot Ahronot che il provvedimento rappresenta un gesto di protesta per l’incontro di ieri fra il presidente elvetico Hans Rudolf Merz e il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad, giunto ieri a Ginevra per partecipare alla conferenza sul razzismo Durban 2. «Malgrado gli intensi sforzi dell’Unione Europea, c’è il timore che questa conferenza sia dirottata verso altri interessi, come già era accaduto nel 2001» ha spiegato in un comunicato il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, e «questo non lo possiamo accettare». Ci saranno invece la Gran Bretagna, che da tempo aveva confermato la presenza, e la Francia. Sulla linea italiana Stati Uniti, Australia, Israele e Canada. Da Parigi intanto arriva un secco altolà all’incendiario presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad. Il ministro degli Esteri Bernard Kouchner ha detto che la Francia lascerà l’assise se il presidente iraniano continuerà nei suoi «attacchi anti-semitici». «Dobbiamo essere molto chiari, non tollereremo alcuno scivolone», ha detto Kouchner. «Se Ahmadinejad farà attacchi razzisti o antisemiti, lasceremo i lavori immediatamente». Barack Obama ha difeso il no degli Usa alla partecipazione alla Conferenza sul razzismo e la xenofobia, ribadendo di essere un presidente che «crede nell’Onu» ma spiegando di non poter accettare «linguaggio controproducente» contenuto nella bozza del documento finale. A Ginevra ci sarà la Santa Sede e da ieri sera è già arrivato il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad che ribadito la sua ostilità verso lo Stato ebraico, definto «portabandiera del razzismo». Lo slogan del vertice («Uniti contro il razzismo») sembra dunque quasi una beffa. Il vertice si apre all'insegna del boicottaggio di diversi Paesi occidentali e fa già discutere la controversa presenza del presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad. Presente invece il Vaticano che giudica sbagliato disertare la conferenza anche alla luce dell’importanza dei «temi etici» che saranno trattati e dei miglioramenti apportati alla bozza delle conclusioni finali. Grande la delusione dell’Alto commissario dell’Onu per i diriti umani, la sudafricana Navy Pillay che apre oggi la Conferenza insieme al Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon. «Sono scioccata e profondamente delusa per la decisione degli Usa di non partecipare ad una Conferenza che mira a combattere il razzismo, la xenofobia, la discriminazione razziale ed altre forme di intolleranza in tutto il mondò», si è rammaricata l’Alto commissario. Il razzismo e l’intolleranza - ha detto - sono realtà quotidiane , nei Paesi sviluppati e in via di sviluppo, sono «questioni globali ed è essenziale che siano discusse a livello globale».

Torna all'inizio


Fidel a Obama: "Stop all'embargo" (sezione: Obama)

( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

L’AVANA L’ex presidente cubano Fidel Castro ha chiesto al presidente degli Stati Uniti Barack Obama di togliere l’embargo Usa a Cuba. Obama «è stato duro ed evasivo in merito all’embargo» durante la conferenza stampa di chiusura del vertice delle Americhe che si è tenuto a Trinidad Tobago, ha scritto il lider maximo in un commento pubblicato sul sito internet ufficiale Cubadebate.cu. Indicando che Barack Obama avrà 48 anni il 4 agosto prossimo, il padre della rivoluzione cubana del 1959 ha sottolineato che anche l’embargo a Cuba ha quasi gli stessi anni dal momento che fu messo nel 1962, sotto la presidenza di John F. Kennedy. Fidel Castro ha aggiunto che «nello stesso mese, nove giorni dopo (il compleanno di Obama)» compirà 83 anni. «Desidero ricordargli un principio etico di base che riguarda Cuba: qualsiasi ingiustizia, qualsiasi crimine, non importa il periodo in cui è stato commesso, non ha alcuna scusa; l’embargo crudele contro Cuba ha pagato un prezzo in vite e sofferenze» ha aggiunto Fidel Castro che ha lasciato la presidenza a suo fratello Raul nel febbraio del 2008 per ragioni di salute. Al vertice delle Americhe di Trinidad è insomma iniziato il disgelo tra gli Stati Uniti di Barack Obama, Cuba e Venezuela ma «i tempi non saranno brevi». Il presidente americano nel complesso ha superato l’esame: ha fatto dimenticare il suo predecessore, ha usato le giuste parole per allentare la tensione con i Castro e Hugo Chavez. In particolare ha apprezzato i «segnali potenzialmente positivi» per i rapporti con i due Paesi più critici degli Usa in America Latina ma ha avvertito che per aprire una nuova stagione nei rapporti dall’Avana e Caracas non devono arrivare «semplici parole, ma anche fatti». Obama ha ammesso che più di mezzo secolo di embargo commerciale americano contro Cuba «non ha funzionato» ma per ora le sanzioni restano perchè «il popolo a Cuba non è libero e questa deve essere la stella polare della nostra politica estera». Washington attende gesti concreti dall’Avana e quindi ha avvertito che non ci saranno cambiamenti «in tempi brevi». È comunque sua intenzione esplorare le possibilità di progressi dopo la disponibilità al dialogo espressa dal presidente Raul Castro. Per Obama i segnali ricevuti «ci danno la possibilità di un dialogo franco, anche in aree critiche quali la democrazia ed i diritti umani» perchè ha ricordato «sono troppi i cittadini ai quali vengono negate la dignità, le opportunità e le chance per vivere i propri sogni a Cuba e in tutta la regione». Per questo «le controversie sui prigionieri politici, la liberta di parola e la democrazia sono importanti e non possono essere accantonate». Anche per il presidente brasiliano Luiz Ignacio Lula da Silva il ghiaccio si è rotto ma la normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti e L’Avana «richiederà tempo». Il Quinto vertice delle Americhe sarà anche ricordato per la capacità istrioniche di Hugo Chavez che è riuscito a comparire sulle prime pagine dei principali quotidiani del mondo immortalato mentre stringe la mano a Obama.

Torna all'inizio


Al Qaeda: "Obama non cambia nulla" (sezione: Obama)

( da "Stampaweb, La" del 20-04-2009)

Argomenti: Obama

WASHINGTON Barack Obama «non ha cambiato» la percezione che i musulmani hanno degli Stati Uniti: ne è convinto il numero due di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, che ha parlato in un nuovo video diffuso su Internet. A darne conto è il centro di sorveglianza dei siti islamici Site. «Il nuovo presidente Obama non ha cambiato nulla dell’immagine dell’America tra i musulmani e i popoli oppressi», ha dichiarato Ayman al-Zawahiri, secondo estratti delle sue dichiarazioni pubblicate da Site. «Questa è l’America che ancora continua a uccidere i musulmani in Palestina, Iraq e Afghanistan», accusa il numero due di al-Qaeda. «È l’America che si appropria delle loro ricchezze, occupa le loro terre, e appoggia i latrocinii, la corruzione, i dirigenti traditori nei loro Paesi. E conseguentemente il problema non è risolto. Al contrario, è probabilmente destinato a deteriorarsi e peggiorare».

Torna all'inizio