Sezione
principale: Giustizia
Europa è in Baviera la tua
ultima fermata ( da "Sole
24 Ore, Il" del 21-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: è in Baviera la tua ultima fermata di
Carlo Bastasin A ngela Merkel sta cercando di sopire gli effetti della sentenza
della Corte costituzionale tedesca che a inizio mese ha denunciato rilevanti
carenze di democrazia nell'integrazione politica europea. Imponendo la riforma
della legge di accompagnamento a quella di ratifica del Trattato di Lisbona, i
giudici di Karlsruhe –
In Baviera l'ultima
fermata della Ue ( da "Sole
24 Ore, Il" del 21-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale con uno
speciale procedimento. Le poche voci sagge che hanno commentato la sentenza
sulla stampa tedesca riconoscono che un tale sistema renderebbe impossibile una
politica europea da parte tedesca esponendo ogni accordo raggiunto al tavolo di
Bruxelles dal governo o da altri organi politici alla verosimile contestazione
di qualsiasi nazionalista ipocondriaco
Apo Ocalan prepara la road
map per la pace tra kurdi e Turchia
( da "Manifesto, Il"
del 21-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il presidente della camera di
commercio, la moglie di un giudice della corte costituzionale. Altri 86
imputati sono sotto processo dallo scorso ottobre. L'udienza di ieri è stata
aggiornata al 6 agosto. Ergenekon è venuta alla luce dopo la scoperta di 27
bombe a mano, il 12 giugno 2007,
in una casa di Umraniye, a Istanbul.
Il Tar blocca le fusioni
delle Comunità montane ( da "Stampa,
La" del 22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Mentre la Toscana e il Veneto hanno
impugnato davanti alla Corte Costituzionale la norma della Finanziaria che
dispone il piano degli accorpamenti (recepita dal Piemonte). In Valle Susa sono
già previste le elezioni per il rinnovo delle cariche elettive e si stanno
contrapponendo le candidature per la presidenza.
Quella guerra infinita che
ha spezzato Mamma Rai ( da "Unita,
L'" del 22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il coraggio di riconoscere che è prima
di tutto servita a non tener conto di una sentenza della Corte costituzionale.
E non si dice che ha creato le condizioni per l'attuale ingovernabilità della
Rai. Nel libro non c'è una parola sulla necessità di mettere la Rai nella condizione di essere
diretta come una grande azienda della comunicazione in un'epoca di rivoluzione
tecnologica.
Per me Franco Debenedetti
è un ex collega del Senato che una volta ha detto: La Rai è...
( da "Unita, L'" del
22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il coraggio di riconoscere che è
prima di tutto servita a non tener conto di una sentenza della Corte
costituzionale. E non si dice che ha creato le condizioni per l'attuale
ingovernabilità della Rai. Nel libro non c'è una parola sulla necessità di
mettere la Rai
nella condizione di essere diretta come una grande azienda della comunicazione
in un'epoca di rivoluzione tecnologica.
Tra Lodo Alfano e stretta
sulle pubblicazioni. ( da "Sole
24 Ore, Il" del 22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: cioè dopo che la Corte costituzionale si sarà
pronunciata, il 6 ottobre, sul Lodo Alfano, lo scudo processuale per le alte
cariche dello Stato. «Onde evitare, anche lontanamente, che ci siano spunti per
alzare la tensione- spiega Centaro- il termine per la presentazione degli
emendamenti sarà fissato, verosimilmente, dopo il Lodo,
Le Commissioni danno il
via libera, ora il voto di fiducia
( da "Manifesto, Il"
del 22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: 000 precari delle poste per cui la Corte Costituzionale
aveva, con sentenza, disposto il reintegro. Stra-confermata anche la «mini
riforma delle pensioni» che inchioderà le donne della pubblica amministrazione
al lavoro fino ai 65 anni di età entro il 2018, con un sistema di «scalini»
identico a quello che sostituì lo «scalone di Maroni» ai tempi del governo
Prodi-
Protocolli standard per
indire le gare ( da "Sole
24 Ore, Il (Nord Est)" del
22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: «Il funzionamento della centrale è
per ora rinviato, perché collegato all'entrata in vigore della legge
provinciale sui lavori pubblici 10/2008, impugnata dal Governo davanti alla Corte
Costituzionale e in attesa di definitivo pronunciamento », aggiunge il
presidente
I VIZI DELLA COOPTAZIONE
UN BUON METODO USATO MALE ( da "Corriere
della Sera" del 22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale composta da
magi-- strati cooptati potrebbe essere meglio di una corte in cui alcuni di
essi sono scelti dal Parlamento e quindi dai partiti. Attenzione quindi a non
buttare via il bambino con l'acqua sporca. Cerchiamo di ricordare piuttosto che
la cooptazione funziona male se il titolare pensa soprattutto alla
conservazione del potere personale o familiare.
Magistratura, politica,
libertà di associazione, legittimità, intervento legislativo
( da "AltaLex" del
22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte Costituzionale Sentenza 17
luglio 2009, n. 224 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: - Francesco AMIRANTE Presidente - Ugo DE SIERVO Giudice -
Paolo MADDALENA " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi
MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " -
Caccia in deroga: nuova
richiesta di condanna dell'Italia dall'Ue
( da "Sestopotere.com"
del 22-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Vogliamo ricordare che il 25 giugno
2008 la Corte
Costituzionale ha dichiarato l?illegittimità di un?analoga
legge approvata nel 2007 dalla Regione Lombardia. La Corte – spiegano le
associazioni - ha infatti bocciato la possibilità di ricorrere alle deroghe
attraverso una legge-provvedimento in quanto in netto contrasto le previsioni
della legge 157/1992,
ma il cavaliere teme i
sondaggi "ora mi serve la pace sociale" - claudio tito
( da "Repubblica, La"
del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il disegno di legge sulle
intercettazioni e affrontare «con fiducia» il giudizio della Corte
costituzionale sul Lodo Alfano. Un patto "informale" che vorrebbe sottoporre
presto alla valutazione del Quirinale. «Per il resto - sono i ragionamenti
svolti nelle ultime ore con lo staff - dobbiamo puntare su azioni di governo
concrete, come la ricostruzione in Abruzzo.
la famiglia scrive al
ministro bondi "date il petruzzelli alla fondazione"
( da "Repubblica, La"
del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: in esecuzione e nel rispetto di
quel protocollo d´intesa del 21 novembre 2002 in cui ha sempre
creduto e che ha sempre difeso, anche dall´esproprio illegittimo, annullato
dalla Corte Costituzionale con sentenza del 30 aprile 2008». Si chiede inoltre
la rimozione «di ogni opera o realizzazione architettonica difforme dalle
previsioni contrattuali».
La distanza fra il paese
reale e il paese del sultano in accappatoio detentore del "lettone di ...
( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Il figlio di un giudice della Corte
Costituzionale che sta per decidere la sorte di un ministro (Matteoli) viene
promosso dal ministro medesimo alla guida di un importante ente pubblico. Lo
spirito del tempo è questo. Vent'anni fa moriva Paolo Baffi, lontano
predecessore di Draghi.
Di Pietro attacca il Colle
sulla firma delle leggi No comment all'iniziativa
( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: firma del Lodo Alfano al mancato
intervento dopo la cena di Berlusconi con due giudici della Corte
Costituzionale. Napolitano «spieghi e non offenda». Ai piedi del Colle si sono
ritrovati Di Pietro e un po' di amici, una trentina, poco più che sono stati
fermati dalle forze dell'ordine perché la manifestazione, anche se micro, non
era stata nè preannunciata, nè quindi autorizzata.
Chi non salta italiano è!
, così cantava l'allora ministro della Giustizia...
( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Non era questo né lo spirito né la lettera
della riforma dell'articolo 96 della Costituzione che sottraeva alla Corte
costituzionale l'accertamento dei reati ministeriali per darlo alla
magistratura ordinaria. Tanto più, sostiene Felice Casson, che «il Senato
avrebbe potuto attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale sul caso
analogo del ministro Matteoli».
Figlio del giudice
costituzionale a capo dell'Aviazione civile
( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte Costituzionale, partecipa al
voto che in qualche modo "assolve" proprio il ministro Matteoli
dall'accusa di favoreggiamento. Qui serve una parentesi. Perchè c'è una storia
nella storia. Nel 2004 il ministro Matteoli è accusato di favoreggiamento dalla
procura di Livorno per aver avvisato il prefetto di un'indagine a suo carico
per presunti abusi edilizi relativi alla costruzione
Nel 1989 fu abolito il
tribunale ad hoc ( da "Unita,
L'" del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: presso la Corte Costituzionale,
per i reati ministeriali. La nuova formulazione dice: «Il Presidente del
Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono
sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla
giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o
della Camera dei deputati,
Un lodo Alfano per i
ministri Il voto al Senato salva Castelli
( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Non era questo né lo spirito né la
lettera della riforma dell'articolo 96 della Costituzione che sottraeva alla
Corte costituzionale l'accertamento dei reati ministeriali per darlo alla
magistratura ordinaria. Tanto più, sostiene Felice Casson, che «il Senato
avrebbe potuto attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale sul caso
analogo del ministro Matteoli».
Per l'Irap salvezza più
vicina alla Consulta ( da "Sole
24 Ore, Il" del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Irap passerà indenne al vaglio
della Corte costituzionale. è questo,infatti,l'orientamento che starebbe
prevalendo tra i giudici della Consulta. L'ordinanza (il relatore è il giudice
Sabino Cassese) che fa salvo il contestato tributo regionale sulle attività
produttive sarà depositata con ogni probabilità la prossima settimana.
Rimborsi Ici alle coop
agricole ( da "Sole
24 Ore, Il" del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale. Illegittimo
il divieto di restituzione dei versamenti precedenti il 2008 Rimborsi Ici alle
coop agricole Si apre la strada per la presentazione delle istanze ai Comuni
Luigi Lovecchio è illegittimo il divieto di restituzione dell'Ici versata dalle
cooperative agricole per gli anni precedenti al 2008.
Province autonome
competenti sul paesaggio ( da "Sole
24 Ore, Il" del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Federalismo Province autonome
competenti sul paesaggio La
Corte costituzionale, con la sentenza n. 225 depositata ieri,
ha dato ragione alla provincia di Trento dichiarando l'illegitimità di un
passaggio del Codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004, riconoscendo
i limiti dello Stato in materia di protezione del paesaggio.
Polizze in recupero dal
2010 ( da "Sole
24 Ore, Il" del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: E da ultimo è arrivata la sentenza
della Corte Costituzionale che ha giudicando legittimo il nuovo modello di
indennizzo diretto nella Rc auto – è l'assicuratore del danneggiato che
risarcisce il cliente ricevendo successivamente un forfait dalla compagnia del
danneggiante –
Niente impunità per i reati
gravi ( da "Sole
24 Ore, Il" del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: collegato al condono tributario (
fino al 2002), la Corte
costituzionale aveva opportunamente chiarito che, a pena di provocare un indebito
arricchimento per lo Stato, della non punibilitàdovessero fruire pure i
componenti del collegio sindacale (e quindi anche i consulenti) delle società i
cui amministratori avevano fatto luogo al condono.
Precari a terra: salta
l'una tantum ( da "Manifesto,
Il" del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: assunzioni nel settore pubblico e
che dunque mette fuori i 25 mila precari delle Poste per i quali la Corte costituzionale aveva
disposto il reintegro. E non è tutto. Con il metodo ormai consolidato
dell'azzardare provvedimenti tramite emendamenti, il decreto «anticrisi», sul
quale con ogni probabilità il governo già oggi metterà la fiducia, si è
arricchito di vere e proprie chicche.
Il Cavaliere teme i
sondaggi "Ora mi serve la pace sociale"
( da "Repubblica.it"
del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il disegno di legge sulle
intercettazioni e affrontare "con fiducia" il giudizio della Corte
costituzionale sul Lodo Alfano. Un patto "informale" che vorrebbe
sottoporre presto alla valutazione del Quirinale. "Per il resto - sono i
ragionamenti svolti nelle ultime ore con lo staff - dobbiamo puntare su azioni
di governo concrete, come la ricostruzione in Abruzzo.
Processo tributario -
Nuovi termini ( da "AltaLex"
del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: tenendo altresì conto di quanto
disposto dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 139 del 15 dicembre 1967
e n. 159 del 06 luglio 1971. Di conseguenza, secondo me, il Legislatore
tributario fin dall?inizio ha voluto fare riferimento agli stessi termini del
processo civile e non poteva certo comportarsi diversamente trattandosi dei
medesimi istituti giuridici;
Caccia: La Ue condanna
l'Italia per colpa del Veneto ( da "Sestopotere.com"
del 23-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Vogliamo ricordare che il 25 giugno
2008 la Corte
Costituzionale ha dichiarato l?illegittimità di un?analoga
legge approvata nel 2007 dalla Regione Lombardia. La Corte – spiegano le
associazioni - ha infatti bocciato la possibilità di ricorrere alle deroghe
attraverso una legge-provvedimento in quanto in netto contrasto con le
previsioni della legge 157/1992,
Processo penale, il Csm
boccia la riforma: vìola la Costituzione
( da "Unita, L'" del
24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: di fronte ad analoghe circostanze, aveva
ammonito il Csm a non esprimere un vaglio di costituzionalità che compete ad
altre istituzioni». O come Italo Bocchino, presidente vicario del gruppo del
Pdl alla Camera, secondo cui «il Csm continua ad ergersi a terza Camera dello
Stato o a istituzione gemella della Corte Costituzionale».
Tensioni e manovre sulla
Corte Costituzionale Il giudice: Ero assente
( da "Unita, L'" del
24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: giorno in cui i quindici giudici
emeriti della Corte Costituzionale cominceranno la discussione sul Lodo Alfano,
se sia costituzionale o meno la legge che crea lo scudo processuale per le
quattro più alte cariche dello Stato, dal premier al Presidente della
Repubblica passando per il presidente del Senato e della Camera.
La deducibilità del 10%
salva il tributo ( da "Sole
24 Ore, Il" del 24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale. Per
l'ordinanza decisivo lo ius superveniens La deducibilità del 10% salva il
tributo Marco Bellinazzo ROMA L'Irap non è incostituzionale. L'ordinanza che,
dopo i rinvii del febbraio 2007 e del marzo 2008, sigillerà la legittimità
dell'imposta regionale sulle attività produttive sarà depositata la prossima
settimana (
Riforma incostituzionale
( da "Manifesto, Il"
del 24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il vicepresidente Mancino ha
cercato di smorzare i toni spiegando che quella del Csm non è stata affatto una
bocciatura. Semmai, un «parere articolato, perché il Csm non promuove e non
boccia nulla», e in ogni caso «il ministro Alfano, a cui (il documento ndr) è
diretto, farà le sue valutazioni, accoglierà ciò che riterrà accoglibile e
accantonerà ciò che non lo persuade».
( da "Manifesto,
Il" del 24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il vicepresidente Mancino ha
cercato di smorzare i toni spiegando che quella del Csm non è stata affatto una
bocciatura. Semmai, un «parere articolato, perché il Csm non promuove e non
boccia nulla», e in ogni caso «il ministro Alfano, a cui (il documento ndr) è
diretto, farà le sue valutazioni, accoglierà ciò che riterrà accoglibile e
accantonerà ciò che non lo persuade».
Sulla surroga dell'INAIL
dopo le Sezioni Unite ( da "AltaLex"
del 24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La sentenza della Corte
Costituzionale n. 184/1986 è stata superata dalla sentenza della stessa Corte
n. 372/1994, poi seguita dalle sentenze gemelle del 2003. Il danno non è mai in
re ipsa ed il giudice dovrà porre a fondamento della propria decisione non solo
la consulenza tecnica d?
"Legittimo
sospetto" e dubbi legittimi intorno alla nuova disciplina della rimessione
del processo ( da "AltaLex"
del 24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: la Corte Costituzionale a ?salvare? la disposizione in
esame vanno rintracciate in esigenze di carattere burocratico: l?ingresso di
elementi discrezionali, agevolato dalla formulazione della fattispecie,
consentiva alla Corte di cassazione, a fronte delle frequenti richieste di
rimessione, fenomeno anch?
Per l'IRAP occorre sempre
l'autonoma organizzazione ( da "AltaLex"
del 24-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: e più marcato il possibile
contrasto della imposta stessa con i principi costituzionali di uguaglianza, di
capacità contributiva e di tutela del lavoro, tanto da determinare l'intervento
della Corte costituzionale. 4. Il giudice delle leggi, con la sentenza n. 156
del 2001, ha
sancito la legittimità costituzionale dell'imposta osservando che «l'IRAP non è
un'imposta sul reddito,
È illegittima la riduzione
del fuori ruolo ( da "Sole
24 Ore, Il" del 25-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: pag: 23 autore: PROFESSORI è
illegittima la riduzione del fuori ruolo La Corte costituzionale, con sentenza 236/09, ha
dichiarato illegittima la norma che riduce la durata del collocamento fuori
ruolo per i professori universitari che stanno svolgendo tale periodo. Si
tratta dell'articolo 2, comma 434, della legge 244/07.
Nessuna penalità
automatica alle regioni ( da "Sole 24
Ore, Il" del 25-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Comunità montane Nessuna penalità
automatica alle regioni ROMA La
Corte costituzionale spazza via la parte
"automatica" della stretta impressa nel 2008 dal Governo Prodi alle
comunità montane. I giudici della Consulta, con la sentenza n. 237 depositata
ieri, hanno infatti accolto alcuni rilievi sollevati dalle regioni Toscana e
Veneto e dichiarato incostituzionali il comma 20,
La Consulta corregge il
Codice dell'ambiente ( da "Sole
24 Ore, Il" del 25-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ambiente Gugliemo Saporito La Corte costituzionale
riscrive, in parte, il Codice dell'ambiente con un pacchetto di sentenze di
illegittimità. Da qui l'opportunità di una rapida ricognizione degli effetti
dell'intervento della Consulta. Sui bilanci dell'Autorità di ambito la Corte (sentenza 246/2009)
elimina la norma (articolo 148,
Concerto sul suolo
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 25-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: minoritaria delle regioni ma la Corte costituzionale
–sentenza 232 – ritiene che i piani di bacino sono il fondamentale strumento di
pianificazione di difesa del suolo e delle acque. «Gli interessi regionali
risultano adeguatanebte tutelati dalla forma di collaborazione previsa dal
Codice» Il programma di intervento Produce effetti nella materia del governo
del terriroria,
Accertamento valido anche
se prematuro ( da "Sole
24 Ore, Il" del 25-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Lo ha affermato la Corte costituzionale, con la
sentenza 244 depositata ieri. Per la Consulta la norma non lede alcun principio
costituzionale, tanto meno gli articoli 24 e 111 che esigono il rispetto di
principi processuali. La norma censurata, infatti, è diretta a regolare il
procedimento di accertamento tributario e non ha natura processuale.
Sulla tariffa rifiuti
parola ai giudici fiscali ( da "Sole
24 Ore, Il" del 25-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: prima della recente rimessione
della questione alla Corte costituzionale da parte delle Sezioni unite, anche
la prima sezione civile della Corte di cassazione, con la sentenza 5298 del 5
marzo 2009, ha
affermato che la tariffa rifiuti è un'entrata tributaria perché non costituisce
il corrispettivo di una prestazione liberamente richiesta dal cittadino.
I TEDESCHI E L'EUROPA FINE
DELL'AMBIGUITÀ ( da "Corriere
della Sera" del 25-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: AMBIGUITÀ La sentenza del 30 giugno
della Corte Costituzionale tedesca sulla compatibilità della Costituzione della
Germania con il trattato di Lisbona è stata inizialmente accolta con favore
negli ambienti politici di Berlino e Bruxelles. Tuttavia, a seguito di un più
attento esame, sono emersi parecchi dubbi, a causa degli ostacoli che essa pone
sulla strada della integrazione europea.
Nozze fra due donne I
giudici: "No per legge"
( da "Stampa, La" del
26-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: entro il 31 luglio, presenteremo un
reclamo alla Corte d'Appello». L'avvocato Potè ha aggiunto: «Speravamo che i
giudici saluzzesi aderissero almeno alla seconda domanda dell'istanza, che
prevedeva di rimettere gli atti alla Corte Costituzionale come ha fatto,
invece, in un'altra situazione il Tribunale di Venezia».
Telecamere in
piazzaVittorio ( da "Stampa,
La" del 27-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: LA CORTE COSTITUZIONALE REINTEGRA I DOCENTI CHE
USUFRUIVANO DEL FUORI RUOLO IL GRANDE FRATELLO All'interno COMUNEAPPARECCHI IN
FUNZIONE 24 ORE SU 24 DA SETTEMBRE, SERVIRANNO ANCHE PER LA SICUREZZA Il ritorno
di 30 prof di 72 anni «Nelle scuole l'amianto è sotto controllo» In città più
di 10 mila occhi indiscreti Telecamere in piazzaVittorio Alessandro Mondo Dopo
l'
Reintegrati i prof over 70
In pensione i più giovani ( da "Stampa,
La" del 27-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: che lo scorso autunno gli ha dato
ragione rinviando la «leggina» incriminata alla Corte Costituzionale. Centinaia
di «baroni» tra 72 e 75 anni hanno fatto altrettanto. E sono stati reintegrati
. Adesso anche la Consulta
si è pronunciata: la norma è incostituzionale, a quei docenti andava consentito
di terminare i loro tre anni di «fuori ruolo».
Comunità montane: è caos
( da "Stampa, La" del
27-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Il Tar ad aprile aveva rinviato la
questione alla Corte costituzionale, che deve ancora dire la sua. La scorsa
settimana il tribunale ha deciso la sospensione della legge dopo un ulteriore
ricorso contro il decreto della Regione del 3 giugno con il quale si convocano
i comizi per l'elezione dei nuovi presidenti a partire dal 31 luglio, mentre
gli attuali diventano commissari.
Antefatti e postfatti del
mobbing ( da "AltaLex"
del 27-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: come avviene a partire dalla
sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e dal D.Lgs. 38/2000 (art. 10).
In particolare, l?istruttoria medico-legale non può prescindere da un?accurata
anamnesi lavorativa dell?assicurato, arricchita di tutti gli elementi raccolti
presso i datori di lavoro ed i colleghi dell?
Riforma del processo
penale: il parere del Consiglio Superiore della Magistratura
( da "AltaLex" del
27-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: risoluzione CSM 19 maggio 1993). La
necessità di trovare un giusto equilibrio tra diverse e contrapposte esigenze
non può legittimare la creazione di un meccanismo che, sulla base delle
apparenze, incide sulla compatibilità del giudice sovrapponendo il piano delle
espressioni del pensiero a questioni relative alla capacità del giudice di
esaminare e decidere su condotte individuali.
Tutela penale, differenti
discipline, legittimità, precisazioni
( da "AltaLex" del
27-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: nota di Adolfo Liarò) | tutela
penale | Corte Costituzionale Sentenza 14 luglio 2009, n. 217 REPUBBLICA
ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: - Francesco AMIRANTE Presidente - Ugo DE SIERVO Giudice -
Paolo MADDALENA ? - Alfio FINOCCHIARO ?
Prof reintegrati in
Università scatta la rivolta dei precari
( da "Stampa, La" del
28-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: DOPO LA SENTENZA DELLA CORTE
COSTITUZIONALE SUI DOCENTI TRA 72 E 74 ANNI Prof reintegrati in Università
scatta la rivolta dei precari
I baroni rientrano dalla
finestra e per noi non c'è nessuna speranza
( da "Stampa, La" del
28-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ANDREA ROSSI Ora che la Corte Costituzionale
ha stabilito che i docenti "fuori ruolo" mandati in pensione prima
del tempo vanno reintegrati la rivolta dei precari è scattata in un amen. «I
baroni escono dalla porta e rientrano dalla finestra; noi usciamo e basta».
All'inizio del prossimo anno accademico una trentina di professori tra 72 e 74
anni rientreranno in servizio (
Comunità montane in attesa
di verdetto ( da "Stampa,
La" del 28-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: tesi accolta dalla Corte
costituzionale, che a sua volta si è pronunciata a favore dei ricorsi
presentati dalle amministrazioni regionali di Toscana e Veneto contro la Finanziaria 2008.
Nell'incontro di ieri a Torino, fra Regione e Uncem, è stato annunciato che «la Regione farà ricorso al
Consiglio di Stato contro l'ordinanza del Tar che ha sospeso la legge sulle
comunità montane.
La Camera pronta a salvare
Matteoli ( da "Unita,
L'" del 28-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte Costituzionale. Intanto il
tempo è passato e una cosa è certa: il ministro Matteoli non sarà mai
processato per quei fatti. Che sono questi. Nel 2004 l'allora ministro dell'Ambiente
Altero Matteoli fu rinviato a giudizio a Livorno, sezione di Cecina, per
favoreggiamento poichè aveva avvisato il prefetto di Livorno di essere a sua
volta indagato per una storia di abusi edilizi
Congo, l'Alta corte
proclama eletto il contestato Nguesso La Corte costituzionale del...
( da "Unita, L'" del
28-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Congo, l'Alta corte proclama eletto
il contestato Nguesso La Corte
costituzionale del Congo ha proclamato Dinis Sassou Nguesso presidente. La Corte, presieduta da Gerard
Bitsindou, ha respinto il ricorso delle opposizioni che avevano denunciato
brogli diffusi nel voto del 12 luglio.
Beni demaniali e
responsabilità della Pubblica Amministrazione
( da "AltaLex" del
28-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: 1999 della Corte Costituzionale,
con la quale si ampliavano le ipotesi di applicabilità dell?art. 2051 c.c. Da
quel momento la regola generale contenuta nell?art. 2043 c.c. ha svolto una
funzione residuale nei casi di responsabilità della P.A. per danni causati da
beni demaniali, in quanto richiamato solo in via subordinata rispetto all?
pd, bersani stoppa
emiliano segretario - raffaele lorusso
( da "Repubblica, La"
del 29-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: così come sancito dalla Corte
costituzionale (il senatore Gianrico Carofiglio ha restituito la tessera del
Pd). Anche su questo Emiliano sembra però determinato. «A noi - racconta l´assessore
regionale Guglielmo Minervini - ha detto che quando si porrà il problema lo
affronterà e, se sarà il caso, si dimetterà dalla magistratura».
COnsulta per cena
( da "Unita, L'" del
29-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Il figlio di un giudice
costituzionale promosso a cariche importanti nel mezzo di decisioni delicate
proprio sul ministro sponsor della promozione.Una volta si diceva Corte
Costituzionale e scattava il rispetto dovuto a chi sta sopra di tutto a garanzia
dei diritti di tutti.
Il tribunale dei ministri
salva Matteoli ( da "Manifesto,
Il" del 29-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: che approva a larga maggioranza la decisione
di trasmettere il quesito alla Corte costituzionale, l'unico organo considerato
idoneo a stabilire se un reato può essere o meno considerato ministeriale. Ma
per non perder tempo, il ministro Matteoli si porta avanti con il lavoro e dà
incarico al suo legale (e collega di An) Giuseppe Consolo di studiare il caso e
trovare una soluzione.
Pisicchio: doveva
abbandonare, questione di credibilità
( da "Corriere della Sera"
del 29-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il giudiziario che esonda sugli
altri poteri». Pino Pisicchio è stato eletto nelle liste dell'Italia dei Valori
ma già nella scorsa legislatura, da presidente della Commissione Giustizia
della Camera, ha dimostrato una certa propensione a contrastare gli spiriti
giustizialisti che pure nel suo partito hanno spesso il sopravvento.
De Magistris si tiene la
toga: (
da "Manifesto, Il"
del 29-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: CSM De Magistris si tiene la toga:
«Mi dimetterò, ma non ora» Aveva detto che avrebbe lasciato la magistratura in
modo definitivo. Ma al momento di decidere, persino il pm Luigi De Magistris,
cui certo non manca il coraggio, ha tentennato ancora.
Comunità, slitta il
commissariamento La giunta regionale deciderà martedì
( da "Stampa, La" del
30-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: sentenze del Tar in merito al
ricorso della Comunità Antigorio Divedro e Formazza e quella della Corte
Costituzionale che fa riferimento all'esposto delle Regioni Veneto e Toscana
sulla legittimità della Finanziaria 2008 in merito al riordino degli enti montani,
che ha ribadito la competenza regionale sulla riforma, sta per delinearsi il
futuro di queste nuove «agenzie per lo sviluppo».
polemica sui decreti
anticrisi berlusconi: un piano per il sud - francesco bei
( da "Repubblica, La"
del 30-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: che minacciano ricorsi a pioggia alla
Corte costituzionale perché il decreto, dicono, intacca le loro competenze
esclusive. «Il clima che viviamo - preannuncia Vasco Errani, il presidente
della conferenza delle regioni - non può che portare a questo». Ma ieri è stata
anche la giornata dell´atteso vertice ministeriale a palazzo Grazioli sulla
questione del piano per il Sud.
- (segue dalla copertina)
roberto bianchin ( da "Repubblica,
La" del 30-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: è stata bocciata nel maggio scorso
dalla Corte Costituzionale che l´ha giudicata «illegittima». I comitati
autonomisti hanno annunciato ricorsi al Capo dello Stato e all´Unione Europea.
Ma lo stop della Consulta non ha frenato le spinte leghiste. Alcuni senatori
del Carroccio hanno preparato una legge per inserire il dialetto tra le materie
da studiare a scuola.
Fumata nera tra Sky e
RaiSat ( da "Sole
24 Ore, Il" del 30-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: «Si potrà anche raggiungere un accordo
con Bruxelles - spiega D'Angelo - ma la Corte Costituzionale
ha sottolineato che il digitale terrestre deve liberare risorse per soggetti
terzi. Se dopo la gara, i maggiori operatori potranno aumentare il numero delle
loro reti, le risorse per gli altri soggetti si restringeranno».
La strategia autoritaria
del governo ( da "Manifesto,
Il" del 30-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale e Consiglio
superiore della magistratura modificati nella loro composizione attraverso
l'aumento dei membri di nomina politica. Il Presidente della Repubblica sarà
quindi capo del governo, capo delle forze armate, capo del Csm e magari, se lo
scenario di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico e politico-
CSM: nuove regole per la
tutela dell'indipendenza e del prestigio dei magistrati
( da "AltaLex" del
30-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: CSM: nuove regole per la tutela dell'indipendenza
e del prestigio dei magistrati Consiglio Superiore della Magistratura, decreto
15.07.2009, G.U. 20.07.2009 Commenta | Stampa | Segnala | Condividi Gli
interventi del CSM a tutela di magistrati o della magistratura hanno come
presupposto l'esistenza di comportamenti lesivi del prestigio e dell'
bassolino contesta il
governo - giuseppe del bello ( da "Repubblica,
La" del 31-07-2009)
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Giustizia
Abstract: Davanti al Tar per profili di
illegittimità e alla Corte costituzionale». Il giorno dell´arrivo ufficiale del
documento a Palazzo Santa Lucia è anche quello della resa dei conti. E il
presidente Bassolino rivendica le proprie ragioni. A partire dal ruolo di
commissario che, precisa, sarà «accettato ma con riserva».
Campania, Sanità
commissariata Bassolino ricorre a Tar e Consulta
( da "Unita, L'" del
31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: si cercava di scrivere un testo che
fosse inappuntabile per evitare i già annunciati ricorsi al Tar o alla Corte
Costituzionale. Ma il ricorso ci sarà comunque. La giunta campana ricorrerà a
Tar e Corte Costituzionale contro il decreto di commissariamento della sanità
emanato dal governo. Bassolino firmerà comunque tutti gli atti da commissario,
ma «con riserva».
L'Irap si salva all'esame
Consulta ( da "Sole
24 Ore, Il" del 31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale ha infatti
restituito gli atti alle Commissioni tributarie rimettenti perché valutino
l'impatto della novella di cui all'articolo 6 del decreto legge 185/08. In
forza di questa disposizione, è deducibile dalle imposte sui redditi una quota
pari al 10% dell'Irap versata, forfetariamente riferibile alle spese sostenute
a titolo di personale dipendente e di oneri
La pronuncia moltiplicherà
i rinvii alla Corte ( da "Sole
24 Ore, Il" del 31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: redditi la Corte costituzionale avrebbe
dovuto pronunciarsi in termini di logica giuridica, cercando il collegamento di
essa con le imposte sui redditi, ma nell'ordinanza n. 258/2009 la Corte ha voluto dare al
requisito della «rilevanza » della questione di costituzionalità proposta un
significato indistinto tale da consentire ogni tipo di soluzione da parte dei
giudici tributari.
Andata e ritorno
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: dovranno valutare se la novità
normativa intervenuta eliminio meno tutti i dubbi di costituzionalità Gli
sviluppi possibili Con buona probabilità le Commissioni tributarie rimetteranno
nuovamente la questione all'esame della Corte costituzionale, perché la
deducibilità del 10%dell'Irap non consente di tener conto di tutti i costi
della produzione effettivamente sostenuti dalle imprese
Regole territoriali per i
rischi rilevanti ( da "Sole
24 Ore, Il" del 31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale, con sentenza
248 del 16 luglio. Il governo aveva sollevato la questione di legittimità di
alcuni articoli della legge della regione Puglia 7 maggio 2008, n. 6, che le
attribuiscono l'esercizio di funzioni di indirizzo e coordinamento sui pericoli
di incidenti rilevanti, sostenendo che la norma regionale lede la competenza
legislativa dello Stato nella tutela
Eccessiva discrezionalità
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Sentenza Corte Costituzionale
252/2009 La Regione
Marche, nel disciplinare in modo autonomo le modalità di
selezione del personale esterno destinatoa collaborare con i gruppi consiliari
e le segreterie della Giunta, non ha previsto alcun criterio selettivo
alternativoa quelli dettati dalla legge statale.
Vincoli statali per le
consulenze ( da "Sole
24 Ore, Il" del 31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Con questi motivi la Corte Costituzionale
( sentenza 252/2009, depositata ieri) ha bocciato la legge 7/2008 delle Marche
nella parte in cui consente di conferire incarichi esterni e instaurare
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa indipendentemente dai
requisiti fissati dalla legge sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze della
Pa (
La Campania impugna il Dl
sulla sanità ( da "Sole
24 Ore, Il" del 31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale il decreto
dicommissariamento deliberato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri.
La scelta di Bassolino è legata, ha detto egli stesso, all'indicazione del sub
commissario o dei sub commissari previsti. Mentre il ricorso al Tar e alla
Consulta fa perno sui profili di illegittimità che si lamentano nella decisione
del Governo di arrivare al commissariamento,
Lavoratore che assiste
handicappato trasferibile in caso di incompatibilità ambientale
( da "AltaLex" del
31-07-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La
Corte
compie una configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute
dalla norma, e i limiti del relativo esercizio all?interno del rapporto di
lavoro, alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale, che,
collocando le agevolazioni in esame all?
"incompatibile?
decida il parlamento" ( da "Repubblica,
La" del 01-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La discesa in campo di Michele Emiliano
potrebbe essere frenata da una recente sentenza della corte costituzionale che
pone l´impossibilità per i magistrati di avere tessere di partito. Il sindaco
di Bari, concentrato a presentare la sua candidatura alla segreteria del Pd, ha
preferito rimandare ogni decisione ad un altro momento. «è un problema serio,
ma mal posto.
Assunzioni ampie per i
precari ( da "Sole
24 Ore, Il" del 01-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La
Corte
costituzionale, infatti, ha puntualmente bocciato le norme che hanno provato a
imporre a sindaci e presidenti di provincia limiti puntuali sulle assunzioni,
in contrasto con l'autonomia riconosciuta a comuni e province. Per loro,
dunque, i margini di manovra sulle stabilizzazioni sono quelli generali che
disciplinano la spesa di personale:
OSPEDALI Bassolino contro
Roma: Decido io ( da "Manifesto,
Il" del 01-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Farà ricorso al Tar e alla Corte Costituzionale
per alcuni punti del decreto. E sta valutando di nominare, entro il 31 ottobre,
i nuovi direttori generali di alcune Aziende sanitarie ed ospedaliere. Il
governo, invece, non è riuscito a persuadere Andrea Monorchio che quella
campana sarebbe stata una sfida facile.
ambiente, losappio contro
fitto "fa perdere alla puglia soldi e lavoro" - paolo viotti
( da "Repubblica, La"
del 02-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale che ha
ritenuto «non fondate le questioni di legittimità costituzionale» poste dal
ministro in relazione alla legge regionale sulle industrie a rischio, la
cosiddetta "legge Seveso". Un anno fa la Regione approvò una norma
con la quale, con trent´anni di ritardo, si recepivano le direttive nazionali
sulla prevenzione dei disastri ecologici in relazione alle grandi
il tribunale: sì ai
matrimoni gay quel divieto è irragionevole - filippo tosatto
( da "Repubblica, La"
del 02-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ordinanza che solleva davanti alla
Corte Costituzionale una questione di legittimità degli articoli del codice
civile che impediscono le nozze gay, sono i magistrati della terza sezione
civile del Tribunale di Venezia presieduta da Maurizio Gionfrida. L´ordinanza,
che risale al 3 aprile scorso e reca la firma del giudice Silvia Bianchi,
Cossiga vent'anni dopo le
picconate (
da "Corriere della Sera"
del 02-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Lì dentro c'è tutto: l'assetto
semipresidenziale dello Stato, l'elezione diretta del presidente della
Repubblica, la divisione delle carriere in magistratura, la riforma della
stessa Corte costituzionale... tu presentala e voglio vedere come farà il centrosinistra
a non votarla». Marzio Breda
Comunità montane blindate
dagli Statuti oltre che dalla Carta
( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 03-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: inequivocabile la Corte costituzionale in
alcuni passaggi chiave della sentenza 237/2009 depositata il 24 luglio scorso.
Su ricorso del Veneto e della Toscana, la Corte dichiara l'illegittimità di alcune
disposizioni della Finanziaria 2008 (commi 20, 21, ultimo periodo, e 22 della
legge 244 del 2007) sul riordino delle comunità montane finalizzato alla
riduzione delle spese di funzionamento,
"gianfranco ha
ragione, forse abbiamo esagerato" - giovanna casadio
( da "Repubblica, La"
del 04-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Ma prima che la Corte costituzionale
imponesse la non reiterazione dei decreti - dopo la scadenza non si può
rinnovare - i governi di centrosinistra, la Dc in testa, ripresentavano un decreto anche sei,
sette volte. Davvero il Parlamento veniva esautorato. Ormai se le Camere non
trasformano in legge un decreto, questo decade.
Impianti di energia
rinnovabile e verifica preventiva dell'interesse archeologico
( da "AltaLex" del
04-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La
Corte
costituzionale, con la sentenza n. 364 del 2006, pur affermando la legittimità
dell?intervento regionale sul piano delle competenze costituzionalmente
assegnate (trattandosi di energia), ha in ogni caso dichiarato la incostituzionalità
della norma regionale poiché si poneva in contrasto con il principio
fondamentale posto dall'
La Russa: "Fini ha
ragione forse abbiamo esagerato"
( da "Repubblica.it"
del 04-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Ma prima che la Corte costituzionale
imponesse la non reiterazione dei decreti - dopo la scadenza non si può
rinnovare - i governi di centrosinistra, la Dc in testa, ripresentavano un decreto anche sei,
sette volte. Davvero il Parlamento veniva esautorato. Ormai se le Camere non
trasformano in legge un decreto, questo decade.
incarichi esterni delle
asl e farmacie i carabinieri acquisiscono nuove carte - gabriella de matteis
giuliano foschini ( da "Repubblica,
La" del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: articolo 14 della legge è stato
anche impugnato dinanzi alla Corte Costituzionale dal governo secondo cui la Regione non avrebbe potuto
legiferare su una materia che rientra invece nelle competenze dello Stato. La Corte rigettò però il
ricorso. Sin qui il dibattito politico, ora la legge, però, diventa materia
d´indagine della procura.
"noi, scandalizzati
vogliono creare il caos" ( da "Repubblica,
La" del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La Corte Costituzionale ha già annullato l´esproprio, ora
cercheremo di far bocciare la class action». Intanto, l´unica cosa di cui
nessuno parla è la riapertura del teatro. «Abbiamo più volte invocato
spiegazioni dal ministro Bondi: deve chiarire i motivi del ritardo nella
riconsegna del Petruzzelli alla Fondazione.
La retromarcia di Rezart
Taçi Il Bologna resta ai Menarini
( da "Unita, L'" del
05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: com) hanno scritto che la Corte costituzionale locale
ha accolto il ricorso di un gruppo di petrolieri bocciando la decisione del
governo di Sali Berisha di affidare il monopolio della distribuzione di diesel
ecologico (D2) alla Armo, la compagnia ex statale acquistata da Taçi.
Dai commercialisti
l'allarme sull'Irap ( da "Sole
24 Ore, Il" del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: per quanti hanno avuto oneri e
spese per il personale è una costruzione giuridica solo per salvare l'imposta
regionale alla Corte costituzionale ». Siciliotti denuncia anche situazioni
ambigue: ci sono strutture e società di servizi che promettono ai clienti di
avere una piattaforma informatica in grado di trasmettere la domanda in pochi
secondi, così da accappararsi i fondi.
La regione partecipa alla
class action per il teatro ( da "Manifesto,
Il" del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: alla proprietà passate anche attraverso
un esproprio deciso dal governo e annullato dalla Corte Costituzionale nel
2008. Il teatro, infatti, è privato ma sorge su suolo pubblico in concessione.
Dopo l'incendio, il restauro è stato fatto anche grazie ad un protocollo
d'intesa tra proprietari, regione, provincia e comune di Bari, la cui validità
è messa in discussione dalla Regione.
Bari, i carabinieri
tornano in Regione ( da "Corriere
della Sera" del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Norma impugnata dal governo di
fronte alla Corte Costituzionale. Il pm ha acquisito gli atti preparatori della
legge per capire se era ispirata da interessi illeciti. «Solo l'interesse dei
cittadini ad avere due farmacie nei paesini che ne hanno una sola e sono costretti
a fare chilometri quando è chiusa», rivendica Vittorio Potì, l'ex consigliere
regionale socialista,
Sanzioni amministrative:
percezione sensoriale dell'agente e querela di falso
( da "AltaLex" del
05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: come sottolineato in materia dalla
Corte Costituzionale (cfr. n. 50411/ 987) - è funzionale l?efficacia di piena
prova attribuita all?atto pubblico dall?art. 2700, c.c., e per il cui
perseguimento il legislatore ha ritenuto necessario e sufficiente in tema di
sanzioni amministrative, da un lato, non porre limiti alla contestazione dell?
Friuli, presidente Renzo
Tondo incontra Raffaele Fitto : vertice sulla legge anticrisi
( da "Sestopotere.com"
del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Il presidente Tondo ha comunque
informato il ministro che, in via cautelativa e in vista della scadenza dei
termini, la Giunta
regionale di domani autorizzerà l'Avvocatura della Regione a costituirsi in giudizio
in merito all'impugnazione della legge davanti alla Corte costituzionale.
Terremoto: numeri record
della solidarietà per l'Abruzzo ( da "Sestopotere.com"
del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ex Presidente della Corte
Costituzionale, da Vito d?Ambrosio, ex Presidente della Regione Marche nel
periodo in cui la Regione
fu colpita dal terremoto del 1997, da Natalino Irti, abruzzese e membro
dell?Accademia dei Lincei e da Fernanda Contri ex Vice Presidente della Corte
Costituzionale, che è stata designata anche a presiedere il Comitato stesso.
Regione Friuli: tavolo con
Governo su tributi Inps ( da "Sestopotere.com"
del 05-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Dopo la sentenza favorevole della
Corte costituzionale la nostra Regione ha acquisito un diritto di essenziale
rilevanza. Pur consapevoli delle difficoltà economiche che il nostro Paese sta
attraversando, non posso quindi esimermi dal rappresentare con forza al Governo
un diritto certificato".
la crociata vaticana e le
mani sulla vita - (segue dalla prima pagina)
( da "Repubblica, La"
del 06-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Governo vogliono trarre profitto
dalle lezioni impartite dalla Corte costituzionale con due recenti sentenze che
indicano quali debbano essere i rapporti tra potere legislativo, potere medico
e potere individuale quando si affrontano temi che riguardano la vita delle
persone. Viene ribadito il ruolo centrale dell´autodeterminazione, per la prima
volta riconosciuta esplicitamente come "
Nichi Vendola esce
trafelato da una riunione delle Regioni sulla sanità e borbotta: E
...
( da "Unita, L'" del
06-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Norme che sono state legittimate
dalla Corte Costituzionale. Ma il problema è un altro». Quale? «È il rimbalzo
mediatico. La mia faccia è comparsa sul Tg1 mentre si parlava di prostituzione
e cocaina, inchiesta che tocca la destra e Berlusconi. Su di me c'è stata una
intensità comunicativa che non ha eguali».
Ambiente promosso a pieni
voti ( da "Sole
24 Ore, Il" del 06-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: 12 Regioni lo impugnarono di fronte
alla Corte costituzionale, con 130 contestazioni e richieste, che andavano
dalla cancellazione radicale dell'intero provvedimento all'impugnazione di
minuzie procedurali, tipo l'utilizzazione dei poteri sostitutivi delle Regioni
in caso di inadempienze da parte dei gestori del ciclo dei rifiuti.
Tangenti per farmacie
Bari, sequestrate altre carte ( da "Corriere
della Sera" del 06-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: atti di fronte alla Corte
Costituzionale, contro il parere dei 14 ex gestori provvisori (difesi
inizialmente da Giovanni Pellegrino, ex senatore ds ed ex presidente della
Commissione stragi, all'epoca presidente della Provincia di Lecce, e poi dalla
figlia di lui Valeria e da altri colleghi): «La legge venne approvata in una
seduta segnata dalle proteste dei farmacisti presenti.
Onida: standard etici
decisivi nella vita pubblica ( da "Corriere
della Sera" del 06-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale e l'editoriale
di Panebianco: la sinistra non può trascurare questo problema Onida: standard
etici decisivi nella vita pubblica ROMA «La posizione della sinistra viene
dipinta in modo un po' caricaturale. Ma, a parte questo, mi sembra che ci sia
una confusione tra due aspetti: quello della critica alla moralità privata del
premier e quello della lotta alla corruzione.
Irap, indeducibilità dalle
imposte sui redditi, legittimità ( da "AltaLex"
del 06-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: legittimità Corte Costituzionale ,
sentenza 30.07.2009 n° 258 Stampa | Segnala | Condividi | irap | imposte sui
redditi | deducibilità | Corte costituzionale Sentenza 30 luglio 2009 N. 258 LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Francesco AMIRANTE Presidente Ugo DE SIERVO Giudice Paolo
MADDALENA " Alfio FINOCCHIARO " Alfonso QUARANTA "
Spetta al GA la
giurisdizione in materia di scorrimento di graduatorie degli idonei
( da "AltaLex" del
07-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La sentenza della Corte
Costituzionale n.390\2004 invocata dai ricorrenti ha dichiarato costituzionale
dell'art. 3, comma 60, 1.n.350\2003 limitatamente alla parte in cui dispone che
le assunzioni a tempo indetenninato «devono, comunque, essere contenute (...)
entro percentuali non superiori al 50 per cento delle cessazioni dal servizio
verificatesi nel corso dell'
Ici agricola, 3,5 milioni
di euro alle cooperative di Reggio Emilia
( da "Sestopotere.com"
del 07-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La cifra è stata calcolata da
Confcooperative (relatrice davanti alla Corte con l?avvocato Ermanno Belli), che
ha valutato in oltre 700.000 euro all?anno l?imposta a carico delle cooperative
di trasformazione reggiane. “L?effetto della sentenza della Corte
Costituzionale – spiega Confcooperative –
Comunità montane avanti
tutta ( da "Stampa,
La" del 08-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte Costituzionale, che riconosce
le Regioni competenti in materia». Per quanto riguarda il commissariamento,
tutto rimane ancora congelato come illustra sempre Ronzani: «Ovviamente i commissari
non sono stati ancora nominati, proprio in attesa di conoscere il verdetto del
Consiglio di Stato sulla sentenza sospensiva emessa dal Tar nei confronti del
provvedimento di accorpamento
"in autunno
tenteranno di buttarmi giù" il premier chiama alle armi i media di casa -
claudio tito ( da "Repubblica,
La" del 08-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: sentenza della Corte costituzionale
che si esprimerà sul Lodo Alfano, ossia sullo scudo che protegge le più alte
cariche istituzionali dalle indagini della magistratura. Il tutto - ripete
sempre più spesso il Cavaliere - «ingigantito» dai mass media. Un clima che -
sono le osservazioni di molti dei suoi collaboratori - rischia di trovare
sponde nei settori della maggioranza più «
Referendum, il sì a
valanga Mamadou Tandja inarrestabile
( da "Manifesto, Il"
del 08-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: e sostituito i membri della Corte costituzionale.
Questi provvedimenti hanno suscitato molte critiche anche all'estero, in Africa
ma anche in Europa e negli Stati uniti. L'Unione europea ha già sospeso
l'erogazione di una «tranche» di aiuti e minacciato «serie conseguenze» nella
cooperazione con il Niger se Tandja porterà avanti - come ormai assai
plausibile -
"In autunno
tenteranno di buttarmi giù" il premier chiama alle armi i media di casa
( da "Repubblica.it"
del 08-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: sentenza della Corte costituzionale
che si esprimerà sul Lodo Alfano, ossia sullo scudo che protegge le più alte
cariche istituzionali dalle indagini della magistratura. Il tutto - ripete
sempre più spesso il Cavaliere - "ingigantito" dai mass media. Un
clima che - sono le osservazioni di molti dei suoi collaboratori - rischia di
trovare sponde nei settori della maggioranza più "
Il notaio deve pagare
l'Irap ( da "Sole
24 Ore, Il" del 08-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale, sentenza
156/2001) e, invece, del tutto dipendente dal titolare professionista, è
esclusa l'applicazione dell'imposta (Commissione tributaria regionale del
Lazio, sezione XIV, sentenza 98/2005). I professionisti, quindi, sono soggetti
all'Irap quando nella loro attività si avvalgono di collaboratori,
Esentati i medici del Ssn
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 08-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: la
Corte
di cassazione ha elaborato a partire dalla sentenza della Corte costituzionale
156/2001 che ha riconosciuto imponibili i redditi di lavoro autonomo solo nei
casi in cui l'attività sia esercitata con un'organizzazione in grado di
imprimere alle capacità lavorative e produttive del professionista un impulso
economicamente rilevante che altrimenti non riuscirebbe a ottenere.
perché la lega sta facendo
ammuina - (segue dalla prima pagina)
( da "Repubblica, La"
del 09-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: problemi della delega e dei decreti
delegati per la graduale attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma
costituzionale che trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto
il ricasco che una tale trasformazione avrà sull´organizzazione del governo,
delle istituzioni di controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte
costituzionale e dall´Ordine giudiziario.
Perché la Lega sta facendo
ammuina ( da "Repubblica.it"
del 09-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: problemi della delega e dei decreti
delegati per la graduale attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma
costituzionale che trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto
il ricasco che una tale trasformazione avrà sull'organizzazione del governo,
delle istituzioni di controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte
costituzionale e dall'Ordine giudiziario.
il potere senza controllo
- (segue dalla prima pagina) ( da "Repubblica,
La" del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: appunto la Presidenza della
Repubblica e la Corte
costituzionale, di cui cresce la responsabilità. I casi ricordati prima,
infatti, non sono una eccezione o una emersione casuale di pulsioni autoritarie.
Rappresentano la conferma di una linea avviata fin dall´inizio della
legislatura: con il Lodo Alfano e gli attacchi ripetuti e le minacce rivolte a
giudici costituzionali e ordinari;
Tassa sul lusso della
Sardegna senza avallo Ue ( da "Sole
24 Ore, Il" del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: rimarcando la svolta sul punto da
parte della Corte costituzionale (la quale aveva in passato negato tale
possibilità, da ultimo con l'ordinanza n. 536/1995) e sottolineando come essa
ora si inserisca «nella cerchia delle corti costituzionali nazionali che
intrattengono un rapporto di cooperazione attivo con la Corte di giustizia».
Tassa rifiuti senza Iva:
sei milioni di famiglie hanno diritto al rimborso
( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La decisione della Corte
costituzionale, nella sentenza 238/2009, fa cadere l'Iva al 10%applicata sulla
tariffa, e apre per 6 milioni di famiglie la strada del rimborso, che può
riguardare anche gli arretrati degli anni scorsi. La decisione riguarda anche
operatori economici e imprese.
Per far quadrare i conti
da domani si pagherà di più ( da "Sole
24 Ore, Il (Del Lunedi)" del
10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: prelievo Per far quadrare i conti
da domani si pagherà di più Paolo Maggiore La decisione della Corte
costituzionale sulla natura tributaria della tariffa d'igiene ambientale sembra
venire incontro a una esigenza di diminuzione dei costi sostenuti dalle
famiglie, certamente auspicabile in un momento di crisi economica. Ma siamo
veramente sicuri che sia questo il risultato raggiungibile?
L'effetto domino crea il
caos fiscale per le imprese ( da "Sole
24 Ore, Il (Del Lunedi)" del
10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte costituzionale, chiamata a
confermare la natura tributaria della Tia agli effetti del contenzioso. Ma
nella corposa motivazione, opera di un autorevole studioso del diritto
tributario come il professor Franco Gallo, la Corte dichiara che l'Iva non può essere
applicata, non esistendo una differenza sostanziale tra Tarsu e Tia e mancando
la condizione essenziale di corrispettività
Rischio rimborsi sulla
tariffa rifiuti ( da "Sole
24 Ore, Il (Del Lunedi)" del
10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: si è dovuti arrivare fino alla
Corte costituzionale, che con la sentenza 238/2009 (si veda Il Sole 24 Ore del
25 luglio) ha chiuso un dibattito durato anni. I giudici delle leggi non hanno
avuto dubbi, e ribaltando i ragionamenti di molti tribunali amministrativi
hanno decretato che la tariffa, a guardarla bene, è una tassa.
LE COMPONENTI
( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: mancata correlazione fra quantità e
qualità del servizioe corrispettivo pagato dai consumatori ha determinato la
sentenza della Corte costituzionale che ha stabilito la natura tributaria e non
tariffaria della Tia Iva è il 10% sulla somma di parte fissa e parte variabile
Addizionale provinciale è un'ulteriore aliquota (spesso del 5%) applicata sulla
somma di parte fissa e variabile
Sull'acqua indennizzi da
ottobre ma non si sa dove trovare i soldi
( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: altra bocciatura della Corte costituzionale
Sull'acqua indennizzi da ottobre ma non si sa dove trovare i soldi La tariffa
rifiuti non è la prima voce dei servizi localia uscire male dall'esame della
Corte costituzionale. A ottobre dell'anno scorso i giudici delle leggi si erano
esercitati sul canone di depurazione, sentenziando una verità ovvia ma
rivoluzionaria:
Contenzioso con più
cautele nel nuovo processo civile
( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: della Corte costituzionale n. 64
del 10 marzo 2008, il giudice individuato nonè quello corretto, quali sono le
conseguenze del suo errore? Le conseguenze sono di tipo processuale, in caso di
difetto di giurisdizione il giudice infatti invece di dichiarare inammissibile
il ricorso, dichiara la propria carenza di giurisdizione con sentenza e rimette
le parti al giudice competente.
Il controllo preventivo
rischia di bloccare i processi contabili
( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ordinamento: nella sentenza 29/1995
la Corte
costituzionale aveva negato la possibilità di avviare l'azione di danno senza
un preciso rispetto degli «inviolabili» diritti di difesa, tra i quali c'è l'esistenza
di una notizia preesistente all'azione, già astrattamente configurabile come
sospetto di «illecito contabile ».
C'è un matrimonio gay
legale in Italia "Ecco come sono riuscito a registrarlo"
( da "Repubblica.it"
del 10-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: In attesa del verdetto della Corte
costituzionale - chiamata in causa dal Tribunale di Venezia e da quello di
Trento che hanno considerato fondate le ragioni delle coppie omosessuali che
chiedono di accedere all'istituto del matrimonio - dai faldoni dello stato
civile italiano esce una storia surreale, fatta di equivoci e vita vissuta.
Addio a Marini professore
con Cossiga ( da "Stampa,
La" del 11-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ex presidente della Repubblica
Francesco Cossiga (docente di Diritto costituzionale) cui era legato da
profonda amicizia. Marini è stato anche pro-rettore dell'Università tra il 1982
e il 1984 e giudice della sezione della Corte Costituzionale incaricata di
giudicare il presidente della Repubblica in caso di messa in stato d'accusa.
Priorità al nuovo processo
penale ( da "Sole
24 Ore, Il" del 11-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: la decisione della Corte
costituzionale sul Lodo Alfano - lo scudo per le alte cariche dello Stato -
attesa per il 6 ottobre. Grazie al Lodo, il premier è "uscito"
momentaneamente dal processo Mills, in cui è accusato di aver corrotto
l'avvocato inglese condannato nel frattempo a 4 anni e sei mesi per falsa
testimonianza («mentì per salvare Silvio Berlusconi »
La Tia alla scoperta di
sanzioni e ravvedimenti ( da "Sole
24 Ore, Il" del 11-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Lovecchio Secondo la Corte Costituzionale
(sentenza 238/09), la Tia,
in quanto tassa, non può essere soggetta a Iva, poiché vi sarebbe
incompatibilità tra l'imposta sul valore aggiunto e una prestazione di
carattere tributario (si veda «Il Sole 24 Ore»di ieri).L'affermazione
perentoria si fonda sull'assunto secondo cui una tassa non si qualifica mai
come corrispettivo di un servizio,
Germania, arrivano le
unioni omosessuali ( da "Corriere
della Sera" del 11-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ha ritirato il ricorso alla Corte
costituzionale federale contro il rafforzamento dei diritti delle coppie gay e
lesbiche, stabilito da una legge del 2005. Nessuna spiegazione, nessun
comunicato ufficiale a motivare la marcia indietro: l'anticipazione, comparsa
ieri sulla prima pagina della Süddeutsche Zeitung , è stata poi confermata dal
ministro bavarese della Giustizia,
Chi ci fa la morale?
( da "Stampa, La" del
12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: presidente della Corte
costituzionale, Giovanni Maria Flick - si obbedisca al concetto di legge
permissiva che ho imparato da un cattolico adulto come Leopoldo Elia». Flick,
che si definisce un cattolico vecchio, un giuspositivista costituzionale, si richiama
a Elia perché «ha ragione Bagnasco: se è l'opinione pubblica a stabilire la
morale si va incontro alla dittatura della maggioranza.
quadrifoglio rischia
pioggia di ricorsi - michele bocci
( da "Repubblica, La"
del 12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Firenze Quadrifoglio rischia
pioggia di ricorsi La
Corte Costituzionale cancella l´Iva dalla tariffa rifiuti
Riunione per capire come far fronte ad un esborso che potrebbe arrivare a 10
milioni MICHELE BOCCI La Corte Costituzionale toglie l´Iva dalla tariffa
sui rifiuti, la Tia,
e al Quadrifoglio temono una pioggia di ricorsi.
Quel contratto nuovo a
metà ( da "Sole
24 Ore, Il" del 12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: ex giudice della Corte
Costituzionale e già legale del premier Silvio Berlusconi in diversi processi
civili. Ma qual è la carta d'identità della Kalos? Si tratta di una cooperativa
di Milano che ha chiuso il bilancio 2007 con un valore della produzione di soli
50mila euro, divenuti 7,1 milioni l'anno successivo.
L'Agenzia alleggerisce le
sanzioni ( da "Sole
24 Ore, Il" del 12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: rilevato che la norma originaria venne
ritenuta incostituzionale (sentenza Corte costituzionale 144/05) nella parte in
cui non ammetteva la possibilità per il datore di lavoro di dimostrare che il
rapporto irregolare era iniziato dopo il 1Ú gennaio. Oggi la sanzione varia da 1.500 a 12mila euro per
ogni lavoratore, maggiorata di 150 euro per ciascuna giornata di lavoro
effettivo.
Negli scrutini nessun
vantaggio dalla religione ( da "Sole
24 Ore, Il" del 12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: enunciato dalla Corte
costituzionale (sentenza n. 203/89), ritenuto garanzia dello Stato per la
salvaguardia della libertà religiosa, in regime di pluralismo confessionale e
culturale: «sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e
religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente
–
Religione via dagli
scrutini ( da "Manifesto,
Il" del 12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: dalla Corte Costituzionale
(n.203/1989) come «garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà
religiosa, in regime di pluralismo confessionale e culturale», precisando che
«sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e religioso,
strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente essere
oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico»
( da "Corriere
della Sera" del 12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: comprese delle sentenze della Corte
costituzionale. Mi sembra quindi assai difficile che questa sentenza del Tar
del Lazio possa trovare accoglienza da parte del Consiglio di Stato». A causa
della pausa di agosto la commissione della Cei per l'educazione cattolica, la
scuola e l'università verrà convocata dal suo presidente, il vescovo di Como
Diego Coletti,
I nuovi 7 Comuni dell'
Alta Valmarecchia nella provincia di Rimini, commento Lorenzo Valenti
( da "Sestopotere.com"
del 12-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: annunciato alla stampa di
rinunciare alla presentazione del ricorso contro la legge teste approvata
presso la Corte
Costituzionale. E? un opportuno segno di distensione verso la
nostra vallata che interpretiamo nel segno di una auspicabile collaborazione
interregionale nel delicato momento del passaggio di regione: conclude il
Presidente della Comunità Montana Alta Valmarecchia.
Cittadinanze onorarie
eccellenti ( da "Stampa,
La" del 13-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Corte Costituzionale) «per
l'impegno civico che ha dimostrato lungo tutta la sua carriera che lo ha
portato sino a ricoprire la carica di presidente della Corte Costituzionale, e
per il suo impegno nella Fondazione Courmayeur» e a Piero Savoretti (fondatore
delle Funivie Val Veny) «per le grandi capacità imprenditoriali che ne hanno
fatto uno dei più riconosciuti esponenti del tessuto
Le polemiche, i sospetti.
Le intercettazioni e le testimonianze delle show girl coinvolte nel Bari-g...
( da "Unita, L'" del
13-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: La misura fu poi bocciata in alcune
sue parti dalla Corte Costituzionale e poi, per essere proprio sicuri, abolita completamente
dal neo governatore Cappellacci ad una settimana dal suo insediamento. Che
Briatore sia ben visto dagli amministratori del centro destra non è un mistero:
lo conferma la concessione per cinque anni firmata dall'ex sindaco di Arzachena
Pasquale Ragnedda (
Un regolamento per i figli
dei clandestini ( da "Manifesto,
Il" del 13-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: il governo possa cercare di
bloccarlo facendo ricorso alla Corte costituzionale. Non sarebbe la prima
volta. La stessa cosa accadde infatti con la legge che, sempre a Genova,
consentiva agli immigrati di votare alle elezioni amministrative. «Certo, la
possibilità esiste - ammette l'assessore - ma ricordiamoci che stiamo parlando
dei diritti dei bambini».
processo in piazza a
giulio cesare ( da "Repubblica,
La" del 14-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Il tribunale del popolo sarà
presieduto da Giuseppe Tesauro, giudice della Corte costituzionale. Giudici:
Claudio Tringali (presidente tribunale Vallo della Lucania), Raffaele Quaranta
(penalista), Nicola D´Angelo (magistrato), Raffaele Grisolia, (docente di
filologia). A sostenere l´accusa: il Procuratore Corrado Lembo e il giudice
Nicola Graziano.
religione, il vicariato di
roma avverte "a settembre battaglia agli scrutini"
( da "Repubblica, La"
del 14-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: Diciamo no alla religione insegnata
secondo i dettami del catechismo - afferma Mario Di Carlo, coordinatore della
Consulta romana per la laicità delle istituzioni - e per sancire una volta per
tutte il principio di "non discriminazione", spiegheremo ai giudici
del Consiglio di Stato che è necessario l´intervento della Corte Costituzionale».
Sull'ora di religione è
battaglia di ricorsi ( da "Manifesto,
Il" del 14-08-2009)
Argomenti:
Giustizia
Abstract: In caso di invalidazione anche di questo
pronunciamento faremo ricorso alla Corte costituzionale», minaccia Domenico
Maselli, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia
(Fcei). Ma la diatriba sull'ora di religione rischia di spostare il cuore del
problema sulla scuola pubblica in Italia. Seriamente compromessa tra un taglio
gelminiano e una «sparata» leghista.
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 21-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: PRIMA data: 2009-07-21 - pag: 1 autore: SENTENZA TEDESCA Europa è in
Baviera la tua ultima fermata di Carlo Bastasin A ngela Merkel sta cercando di
sopire gli effetti della sentenza della Corte costituzionale
tedesca che a inizio mese ha denunciato rilevanti carenze di democrazia
nell'integrazione politica europea. Imponendo la riforma della legge di
accompagnamento a quella di ratifica del Trattato di Lisbona, i giudici di
Karlsruhe – secondo le parole di un ex presidente della Corte – hanno fissato
«il chiaro capolinea » dell'integrazione europea. L'Europa è ora in bilico su
un difficile esercizio di aggiramento della sentenza da parte della politica
tedesca, chiamata a riscrivere la legge e a evitare di dover rinazionalizzare
le politiche sociale, economica e di sicurezza. Si tratta forse della minaccia
più grave che sia mai pesata sul destino dell'Unione europea, innescata nel
paese più importante e proprio nel momento in cui la crisi globale
richiederebbe maggior coordinamento politico. Le trattative si svolgono tra
Berlino e Monaco, sotterranee ma veementi. Il partito bavarese promotore della
linea antieuropea, la Csu,
ha dovuto moderarei toni. La stampa, che aveva salutato la sentenza di
Karlsruhe e cantato la fine dell'europeismo tedesco, è ora più cauta. Tutti i
maggiori partiti, tranne la sinistra estrema che è tra i promotori delle cause,
sottolineano i danni per la stessa Germania, isolata dalla sentenza. Ma il
genio è ormai fuori dalla lampada. La sentenza nasconde anche una suggestione:
«Il Trattato di Lisbona ampliando le competenze della Ue ha aumentato e non
ridotto il deficit democratico», ciò dovrebbe giustificare la costruzione di un
sistema politico europeo più responsabile, una vera unione politica, come
ricorda la sentenza stessa. Ma l'iniziale, disordinato tentativo di limitare i
danni con interpretazioni ottimistiche sta cadendo nel vuoto. Sotto accusa sono
tutte le decisioni europee prese non all'unanimità, e non solo. Proprio in
queste ore, di fronte alle richieste islandesi di entrare nella Ue, alcuni
parlamentari bavaresi hanno minacciato di appellarsi alla Corte di Karlsruhe,
come se i tedeschi disponessero di un loro speciale diritto di veto sulle
questioni europee, originato dall'inalienabile diritto di voto sulle questioni
nazionali. E questo è infatti il senso della sentenza dei giudici di Karlsruhe.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 21-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: COMMENTI E INCHIESTE data: 2009-07-21 - pag: 13 autore: DALLA PRIMA In
Baviera l'ultima fermata della Ue Nei 421 paragrafi della sentenza i giudici
impongono che, «nel caso di espansione nelle pretese di responsabilità
dell'Unione europea», venga eseguita una «verifica di competenza » in modo che
«resti salvaguardata l'intoccabile componente cruciale dell'identità della
Legge fondamentale tedesca». Di fatto attraverso questa formulazione la Corte di Karlsruhe si
attribuisce il diritto di valutare quali siano le competenze che fissano i
confini dell'integrazione europea e che non devono essere «scavalcati». Sia nei
principi generali, sia nei dettagli. Un giurista vicino alla Corte,
interpellato da un settimanale, definisce questa formulazione la versione più
intelligente di una riserva contrattuale, un diritto di veto "più dinamico
e flessibile", tale da negare all'Unione europea deleghe di iniziativa non
specificamente autorizzate dai parlamenti nazionali e tale da consegnare alla
sensibilità della Corte di Karlsruhe il giudizio decisivo su ogni passo di
Berlino verso l'integrazione europea. Karlsruhe diventa la sede primaria di
accertamento di legittimità dei rapporti tra Berlino e la Ue e di conseguenza anche
dentro la Ue. In
tal senso i giudici tedeschi si pongono espressamente al di sopra dei poteri
della stessa Corte di Giustizia europea. Si tratta di un regolamento di conti
tra le due Corti dopo una concorrenza che durava da almeno 17 anni, da quando
sono nate le prime contestazioni del Trattato di Maastricht. A quella europea
fa capo l'ultimo giudizio sulla validità e il rispetto della norma europea, ma
Karlsruhe riconoscendosi l'unica competenza sul giudizio di costituzionalità
per la Germania
pone se stessa – seppur tra alcuni artifici cautelativi in cui riconosce la
superiorità del diritto europeo su quelli nazionali nonché il principio di
apertura, sancito dalla Legge fondamentale, alla Comunità internazionale e in
particolare all'Europa –come istanza successiva ma indispensabile, e quindi al
di sopra, del sì eventuale della Corte del Lussemburgo. Il ragionamento è relativamente
semplice. La Corte
tedesca stabilisce che l'Unione europea ha forma di stato federale, ma ha una
legittimità derivata da quella degli stati nazionali. Non ha le procedure di
decisione di uno stato federale e non rispetta sotto vari aspetti i caratteri
di una democrazia compiuta in cui si possa esprimere la volontà di cittadini
uguali e di un popolo omogeneo. In ragione di ciò, le competenze che possono
fare capo all'Unione europea sono solo quelle che non possono influenzare in
modo sostanziale le condizioni di vita dei cittadini, in base naturalmente alle
convinzioni dei giudici di Karlsruhe. Secondo la sentenza,l'unificazione
europea non può essere realizzata in modo che gli stati membri non trattengano
spazio sufficiente di potere per determinare la formazione delle circostanze
vitali nella sfera economica, culturale e sociale. Fa capo alla politica
nazionale lo spazio privato della responsabilità privata del cittadino e della
sicurezza politica, privata ma anche sociale, protette dai diritti fondamentali.
Fanno capo ai parlamenti nazionali anche «le decisioni politiche che devono
ricondursi a intese preesistenti ( Vorverstaendnisse) con riferimento a
cultura, politica e linguaggio e che si esprimono in uno spazio politico
attraverso il sistema dei partiti o in spazi organizzati parlamentari entro i
quali l'opinione pubblica in materia politica si dispiega discorsivamente». Il
trasferimento di sovranità, qualora possibile, è comunque da intendersi in
un'accezione molto ristretta soprattutto negli ambiti della giustizia penale,
del monopolio della forza militare e civile, nelle decisioni fondamentali in
materia fiscale, in tema cioè di imposte e di spesa pubblica, nella formazione
delle circostanze vitali da parte delle politiche sociali e delle decisioni
rilevanti in materia culturale come l'istruzione, il sistema scolastico, le
disposizioni che presidiano il sistema dei media e le relazioni con le comunità
religiose. La Corte
sottolinea il ruolo essenziale alla democrazia dell'opinione pubblica di cui
non riconosce traccia in Europa. Nonostante il Trattato di Lisbona richiami il
ruolo del Parlamento europeo come ambito politico in cui possono esprimersi i
rappresentanti dei cittadini europei, i giudici tedeschi liquidano il
parlamento di Strasburgo come un organo «non rappresentativo di un popolo
europeo sovrano ». Il requisito di eguaglianza dei cittadini europei di fronte
alle procedure decisionali non sarebbe rispettato perché i criteri elettivi non
sono proporzionali alla popolazione (ogni parlamentare maltese viene eletto da
un numero di votanti pari a un quattordicesimo di quelli dei colleghi tedeschi)
contraddicendo il principio di non discriminazione per ragioni di nazionalità.
Questo sistema è coerente solo con un'Unione europea concepita non come Stato
ma come Associazione (Verbund) di stati sovrani, a fronte del quale non c'è
dunque un popolo sovrano, né un organo plenipotenziario rappresentativo nella
forma di un Parlamento, bensì un'unione di popoli ognuno sovrano attraverso
l'espressione di volontà nei parlamenti nazionali. In tal senso il deficit
democratico non potrà essere compensato attraverso un'attribuzione di poteri
crescenti al Parlamento europeo. Al contrario, il percorso deve essere
riportato indietro verso i parlamenti nazionali assicurando – quanto meno a
quello tedesco – pieno diritto di decisione su ogni tema europeo. Un composito
insieme di condizioni vitali in una società caratterizzata da unità storica,
culturale e linguistica – francamente nostalgiche e impossibili da ritrovare in
società moderne – giustificano con un ragionamento circolare il criterio di
"identità costituzionale" che naturalmente
non può essere danneggiato da Bruxelles. Come ha felicemente sintetizzato il
settimanale Der Spiegel, per i giudici «l'identità viene prima
dell'integrazione ». Ma è perfino peggio: l'attenzione all'identità della norma
sembra nascondere un'idea di identità di popolo, per ragioni storico, culturali
e linguistiche, che si sperava bandita dalle menti tedesche. Il giorno dopo la
pubblicazione della sentenza l'ex giudice costituzionale
Paul Kirchhof, riemerso dopo una breve e disastrosa esperienza politica, ha
espresso sulla Faz il suo compiacimento: la sentenza rappresenta «il chiaro
capolinea » per la Ue,
«non ci potrà essere uno stato europeo finché la costituzione tedesca avrà
vita». A chi si illude tuttora che la sentenza sia una forma perversa per
richiedere maggiori sforzi di costruzione di una più compiuta democrazia
europea, Kirchhof propina la sua sentenza: «L'Unione europea è un'unione
contrattuale tra stati sovrani e in quanto tale uno spazio politico di rango
secondario». La dottrina di Kirchhof è ora rappresentata dal giudice Udo di
Fabio, che la Faz
ha salutato come un interessante esempio di immigrato «che ricorda ai tedeschi
la libertà duramente guadagnata», come un Nino Manfredi che si fosse tinto i
capelli di biondo nazionalismo giuridico. Kirchhof esclude espressamente che la
sovranità in materia di politica di bilancio e politica fiscale possa essere né
comunitarizzata, né condivisa. In tale circostanza un avvocato della Corte
potrebbe solo appellarsi alla sostanziale ignoranza in materia economica che
caratterizza i giudici di Karlsruhe. Ma ciò che è stupefacente è che nemmeno
l'evidente necessità di coordinare le politiche fiscali europee emersa con la
crisi globale ha smosso la pupilla dei costituzionalisti col tocco rosso in
capo. Invocando infine nella sentenza una modifica delle procedure
parlamentari, i giudici tedeschi chiedono che, a fronte di qualsiasi disposizione
europea, ogni singolo cittadino possa appellarsi alla Corte
costituzionale con uno speciale procedimento. Le poche voci sagge che hanno
commentato la sentenza sulla stampa tedesca riconoscono che un tale sistema
renderebbe impossibile una politica europea da parte tedesca esponendo ogni
accordo raggiunto al tavolo di Bruxelles dal governo o da altri organi politici
alla verosimile contestazione di qualsiasi nazionalista ipocondriaco di
fronte a giudici notoriamente euro-critici. Nessun paese inoltre potrebbe
basare la propria politica europea su un'intesa con la Germania, la cui capacità
di decisione sarebbe costantemente esposta al rischio di smentita da parte del
potere giudiziario. Carlo Bastasin carlo.bastasin@ilsole24ore.com ©
RIPRODUZIONE RISERVATA LIMITI ALLA SOVRANITà La sentenza dei giudici della
Corte di Karlsruhe stabilisce la prevalenza dell'identità nazionale
sull'integrazione europea REGOLAMENTO DI CONTI Il conflitto di competenze con la Corte di Giustizia durava da
17 anni: sul Trattato di Maastricht le prime contestazioni
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( da "Manifesto, Il"
del 21-07-2009)
Argomenti: Giustizia
ANKARA Al via il
processo contro Ergenekon: chiesto l'ergastolo per due generali. E dal carcere
di Imrali il leader annuncia la svolta Apo Ocalan prepara la road map per la
pace tra kurdi e Turchia Orsola Casagrande Eppur si muove. Nonostante il
governo turco faccia di tutto per dare del paese un'immagine di stabilità, il
paese di Ataturk è in fermento. Migliaia di persone scendono in piazza quasi
quotidianamente per chiedere al governo di accettare la proposta di pace del
Pkk. La società civile si ribella contro l'ingerenza dell'esercito negli affari
politici del paese. I sindacati rivendicano il loro ruolo sfidando una
legislazione che li penalizza escludendoli da molti luoghi di lavoro. Le donne
prendono la parola per dire basta a una violenza domestica e più in generale di
genere sempre più pesante. Gli omosessuali occupano le strade per chiedere
rispetto. Ieri si è aperto il secondo processo Ergenekon. La Gladio turca è alla sbarra
e il pm chiede l'ergastolo per i generali Sener Euygur e Hursit Tolon, accusati
di essere ai vertici dell'organizzazione che negli anni ha ordinato omicidi,
pianificato golpe e fatto «sparire» centinaia di attivisti politici e
sindacali. Insieme ai generali altre 54 persone sono imputate. Tra loro
giornalisti, il presidente della camera di commercio, la
moglie di un giudice della corte costituzionale.
Altri 86 imputati sono sotto processo dallo scorso ottobre. L'udienza di ieri è
stata aggiornata al 6 agosto. Ergenekon è venuta alla luce dopo la scoperta di
27 bombe a mano, il 12 giugno 2007,
in una casa di Umraniye, a Istanbul. La casa era
di proprietà di un generale dell'esercito in pensione. L'analisi delle bombe ha
confermato che erano le stesse utilizzate in un attentato contro la redazione
del quotidiano Cumhuriyet, nel 2006. Ma gli occhi dei commentatori turchi sono
da qualche giorno puntati su Imrali, l'isola-carcere in cui da dieci anni è
detenuto Abdullah Ocalan. Il leader del Pkk ha fatto sapere tramite i suoi
avvocati che tra metà agosto e il 1 settembre renderà pubblica la sua road map.
Una proposta di pace che starà al governo turco decidere se cogliere o meno. Il
Pkk dal canto suo ha prolungato il suo cessate il fuoco unilaterale fino al
primo settembre proprio per consentire al presidente Ocalan di terminare la
stesura della «yol haritasi», la road map appunto. Un documento che conterrà le
proposte e le considerazioni che in questi mesi sono state discusse e approvate
in Kurdistan, Turchia e Europa. Dagli intellettuali alle organizzazioni kurde
della società civile, dai rappresentanti politici kurdi ai guerriglieri, tutti
hanno avuto occasione di dire la loro sulla formulazione di una proposta per
una soluzione negoziata del conflitto kurdo-turco. Nelle settimane scorse Murat
Karayilan, membro del comitato centrale del Pkk, ha rilasciato un'intervista al
giornalista di Milliyet Hasan Cemal. «Nessuno - dice Karayilan - può
sconfiggere il Pkk militarmente e questo è ampiamente dimostrato dal conflitto
in atto ormai da 25 anni». «Quando entrambe le parti coinvolte nel conflitto avranno
cessato le azioni militari - prosegue -, il passo successivo è negoziare con
Abdullah Ocalan. Se la Turchia
non vorrà negoziare con Ocalan, l'alternativa è negoziare con la leadership del
Pkk. Se anche questo non sarà accettato, l'alternativa è negoziare attraverso
il Dtp o un "comitato di saggi", composto da persone rispettate, che
potrà avviare un dialogo con lo stato». Quanto alla deposizione delle armi,
come precondizione, Karayilan è chiaro. «Deporre le armi è una fase successiva.
Prima le armi devono essere mute. Nessuno deve usarle. Nella prima fase le armi
saranno mute, quindi comincerà il dialogo». La richiesta del Pkk è di «un
Kurdistan democratico e autonomo. Quello che intendiamo per autonomia non
significa federazione. Non si tratta di ritracciare confini. Quella che
proponiamo è una soluzione che preserva l'unità dello stato».
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( da "Stampa, La" del
22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
POLEMICA IN
REGIONEL'ASSESSORE LUIGI RICCA ANNUNCIA: «FAREMO RICORSO AL CONSIGLIO DI STATO»
Il Tar blocca le fusioni delle Comunità montane Per ora interessati due enti;
incertezze sul futuro [FIRMA]ALESSANDRO MONDO Caos sulle comunità montane
piemontesi, soggette ad un accorpamento che rischia di essere smentito a suon
di carte bollate. E' di ieri la notizia che il Tar Piemonte, con due ordinanze,
ha accolto il ricorso di due comunità montane - Alta Valle Susa e Valle Antigorio
- decise a puntare i piedi contro la legge regionale del luglio 2008 che
ridurrà da 48 a
22 le comunità sul territorio. Per la cronaca, l'Alta Valle Susa -
rappresentata e difesa dall'avvocato Paolo Scaparone, professore di Diritto
civile all'Università di Torino - avrebbe dovuto essere accorpata alla Bassa
Valle Susa, dando luogo ad un'enclave di quasi 120 mila abitanti (la più grande
della regione). La
Valle Antigorio, invece, avrebbe dovuto fondersi con le
comunità montane della Valle Ossola. Da qui il ricorso al Tar, con richiesta di
annullamento: richiesta accolta solo in parte, visto che per ora il Tribunale
regionale si è limitato a disporre la sospensiva. Il senso è quello di una
vittoria ai punti per le due comunità interessate, che in attesa del
prevedibile ricorso da parte della Regione congela l'intero piano degli
accorpamenti in Piemonte. Stando all'assessore Sergio Ricca, infatti, la
sospensiva disposta dai magistrati per le comunità Alta Valle Susa e Valle
Antigorio interessa automaticamente tutti gli altri accorpamenti contenuti
nella medesima legge regionale. Mentre per Mauro Carena, presidente della
comunità Alta Valle Susa, «non si tratta di una vittoria politica, nè di destra
nè di sinistra, ma l'ordinanza del Tar è il riconoscimento di una legge
sbagliata». «Prendiamo atto del provvedimento - commenta Ricca -. Stiamo
valutando con il nostro ufficio legale, ricorreremo al Consiglio di Stato
confidando nella sentenza di merito». Resta l'incertezza per i corsi ed i
ricorsi - normativi e giudiziari - che inceppano il piano degli accorpamenti
previsto dalla legge regionale: dall'ordinanza del Tar al disegno di legge
Calderoni, che di fatto propone l'abolizione delle comunità montane. Mentre la
Toscana e il Veneto hanno impugnato davanti alla Corte
Costituzionale la norma della Finanziaria che dispone il piano degli
accorpamenti (recepita dal Piemonte). In Valle Susa sono già previste le
elezioni per il rinnovo delle cariche elettive e si stanno contrapponendo le
candidature per la presidenza. Nel migliore dei casi, la posizione del
Tar rimette i giochi in discussione. Esulta Osvaldo Napoli, vicepresidente dei
deputati del Pdl: «E' una sconfessione netta dell'operato della giunta-Bresso,
il minimo che deve fare è bloccare il rinnovo dei consigli di Comunità previsti
per l'autunno».
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( da "Unita, L'" del
22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Quella guerra infinita
che ha spezzato Mamma Rai Il libro di Franco Debenedetti e Antonio Pilati sul
rapporto tra televisione e politica: una ricostruzione affetta da inquietanti
strabismi CARLO ROGNONI Per me Franco Debenedetti è un ex collega del Senato
che una volta ha detto: «La Rai
è un dinosauro e prima o poi dovrà sparire. Meglio prima che poi». E di Antonio
Pilati so che è un grande esperto di media, voluto da Forza Italia fra i
commissari, prima dell'Agcom e poi dell'Antitrust. È così vicino a Mediaset che
si racconta sia stato fra i consiglieri del governo Berlusconi per la legge
Gasparri. Ebbene su quella legge ho scritto un libro (Inferno tv) proprio per
denunciare quello che non funziona. Questa premessa mi serve a far capire con
quale spirito mi sono prima avvicinato a La guerra dei trent'anni ovvero
«politica e televisione in Italia 1975 - 2008» (Einaudi, 19 euro). La strana
coppia - Debenedetti è un ex parlamentare di centrosinistra, Pilati un grande
esperto «prestato» a Forza Italia e alle Autorità indipendenti - ha un merito:
ci racconta «la questione televisiva» - così intrecciata con la vita politica -
in maniera non conformista, provocatoria. La tesi di fondo è condivisibile: se
in Italia la tv è un caso politico sempre aperto, la responsabilità è tutta dei
partiti. Non hanno mai seriamente tentato di risolvere la questione, di
affrontarla come un fatto economico-industriale. Hanno preferito pensarla come
un media da condizionare o su cui mettere le mani. È tuttavia
sull'interpretazione di alcune fasi della guerra televisiva è difficile essere
d'accordo. C'è infatti una gran voglia di sparare ad alzo zero sulla sinistra e
sui suoi ritardi culturali - che pure ci sono stati - mentre c'è reticenza se
non addirittura complicità nel guardare benevolmente a Berlusconi. Non più
tardi di qualche giorno fa abbiamo letto di Veltroni che ha fatto l'elogio di
Craxi «che interpretò meglio di ogni altro uomo politico come la società
italiana stava cambiando». Ebbene la nascita della tv commerciale - ci
raccontano i due - rappresenta un momento di modernità e fu largamente
sponsorizzata da Craxi anche contro la
Dc di De Mita e il Pci di Berlinguer. Lo stretto rapporto fra
Craxi e Berlusconi si fonda sulla convinzione di Craxi che «la
spettacolarizzazione della politica è necessaria a una forza come la sua».
Craxi sarà ospite di Berlusconi tutti i capodanni dal 1985 al 1991. A tagliare la strada
a Craxi si impegna la
Repubblica di Scalfari. In ballo non c'è solo la torta
pubblicitaria, non c'è solo lo scontro per il controllo della Mondadori
azionista di Repubblica, c'è un disegno più ambizioso: puntare su Dc e Pci,
«partiti su cui si era retto l'equilibrio politico del dopoguerra», per giocare
con loro la carta della modernizzazione del Paese. E questo contro il tentativo
del nuovo Psi di costruire un nuovo equilibrio politico: anche attraverso «la
grande riforma», più governabilità, «supremazia della politica sulle
interpretazioni della magistratura», più «attenzione al consenso popolare». È
una tesi suggestiva. C'è un passaggio del libro che è forse il più controverso:
«L'Editoriale L'Espresso è un gruppo mediatico industriale» che segue «un
percorso speculare a quello di Fininvest. Nel senso che i giornali nascono
politici e approdano alla grande impresa, mentre la televisione nasce come
impresa e approda alla politica». Anomalie macroscopiche Ma ecco il punto più
polemico: «Se proprio si vuole usare la parola «anomalia», è semmai anomalo il
ruolo politico di un direttore di giornale, quale ebbe personalmente Eugenio
Scalfari negli anni del compromesso storico». Beh, caro Debenedetti come si fa
- se non per provocazione - a mettere l'accento sull'anomalia di Scalfari e non
su quella macroscopica di Berlusconi? Dc e Pci, e Scalfari, dunque come
rappresentanti della conservazione. Il Psi e Berlusconi come paladini del
rinnovamento! Non è forse vero che a difendere a tutti i costi la Rai si impegnarono proprio i
primi contrastando le reti Fininvest? Già, ma quello che Debenedetti e Pilati
non dicono è che, una volta ottenuto il risultato di restare padrone di tre
reti, è diventato proprio Berlusconi il difensore della Rai: gli serviva poter
dire che le sue tre reti erano indispensabili se si voleva far concorrenza alle
tre reti del servizio pubblico. Quando Berlusconi entra in politica, «la
questione televisiva» fa un salto di qualità. E i due autori finiscono per
mettere in secondo piano «il conflitto di interessi» che pure ammettono
esserci, mentre accusano intellettuali (per esempio Bobbio) e partiti di
sinistra di vedere di fatto nella tv lo strumento del diavolo. Cercano di
smontare la tesi che «chi controlla reti televisive gode di un vantaggio verso
le altre forze politiche, che falsa il gioco democratico». Detto brutalmente:
la sinistra ha usato «la questione televisiva» come un'arma impropria, «ha
avuto un ruolo di supplenza, ha riempito il vuoto di pensiero politico». La
sinistra preferisce demonizzare Berlusconi con le sue tv piuttosto che fare i
conti con i propri errori. C'è del vero. Ma come si fa a scrivere che «con l'espansione
dei consumi e il proliferare delle marche, che narrano storie e declinano
identità, la televisione amplia in misura cospicua la propria influenza
sociale» e poi di fatto negare il peso condizionante, formativo,
propagandistico della tv nelle mani di un uomo al potere? Quello che mi è
piaciuto di meno è poi la difesa della legge Gasparri. Non si ha il coraggio di riconoscere che è prima di tutto servita a non
tener conto di una sentenza della Corte costituzionale. E
non si dice che ha creato le condizioni per l'attuale ingovernabilità della
Rai. Nel libro non c'è una parola sulla necessità di mettere la Rai nella condizione di essere
diretta come una grande azienda della comunicazione in un'epoca di rivoluzione
tecnologica. Non c'è il coraggio di completare la propria analisi
critica della questione televisiva. Altrimenti si dovrebbe dire che a
Berlusconi piace poter mettere le mani sulla Rai, spartirsela con i suoi
alleati. Come spiegare altrimenti quello che sta succedendo? Una potente vice
direzione generale a un uomo della Lega Nord, la direzione del Tg 1 a un giornalista fidato, la
divisione della radio in tre in modo da accontentare tutti! Purtroppo «la
guerra dei trent'anni» non è affatto finita. Sta entrando in una fase nuova
grazie alle tecnologie digitali. È vero che ormai la tv è un media stanco. E
tuttavia il controllo della Rai da parte di Berlusconi non è mai stato così
stringente. E fino a quando non si riconoscerà che la Rai è una grande azienda alle
prese con un cambiamento epocale e non un media da asservire al vincitore, la
guerra non potrà dichiararsi conclusa. La polemica
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Per
me Franco Debenedetti è un ex collega del Senato che una volta ha detto: La Rai è...
(sezione: Giustizia)
( da "Unita, L'" del
22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Per me Franco
Debenedetti è un ex collega del Senato che una volta ha detto: «La Rai è un dinosauro e prima o
poi dovrà sparire. Meglio prima che poi». E di Antonio Pilati so che è un
grande esperto di media, voluto da Forza Italia fra i commissari, prima
dell'Agcom e poi dell'Antitrust. È così vicino a Mediaset che si racconta sia
stato fra i consiglieri del governo Berlusconi per la legge Gasparri. Ebbene su
quella legge ho scritto un libro (Inferno tv) proprio per denunciare quello che
non funziona. Questa premessa mi serve a far capire con quale spirito mi sono
prima avvicinato a La guerra dei trent'anni ovvero «politica e televisione in
Italia 1975 - 2008» (Einaudi, 19 euro). La strana coppia - Debenedetti è un ex
parlamentare di centrosinistra, Pilati un grande esperto «prestato» a Forza
Italia e alle Autorità indipendenti - ha un merito: ci racconta «la questione
televisiva» - così intrecciata con la vita politica - in maniera non
conformista, provocatoria. La tesi di fondo è condivisibile: se in Italia la tv
è un caso politico sempre aperto, la responsabilità è tutta dei partiti. Non
hanno mai seriamente tentato di risolvere la questione, di affrontarla come un
fatto economico-industriale. Hanno preferito pensarla come un media da
condizionare o su cui mettere le mani. È tuttavia sull'interpretazione di
alcune fasi della guerra televisiva è difficile essere d'accordo. C'è infatti
una gran voglia di sparare ad alzo zero sulla sinistra e sui suoi ritardi
culturali - che pure ci sono stati - mentre c'è reticenza se non addirittura
complicità nel guardare benevolmente a Berlusconi. Non più tardi di qualche
giorno fa abbiamo letto di Veltroni che ha fatto l'elogio di Craxi «che
interpretò meglio di ogni altro uomo politico come la società italiana stava
cambiando». Ebbene la nascita della tv commerciale - ci raccontano i due -
rappresenta un momento di modernità e fu largamente sponsorizzata da Craxi
anche contro la Dc
di De Mita e il Pci di Berlinguer. Lo stretto rapporto fra Craxi e Berlusconi
si fonda sulla convinzione di Craxi che «la spettacolarizzazione della politica
è necessaria a una forza come la sua». Craxi sarà ospite di Berlusconi tutti i
capodanni dal 1985 al 1991.
A tagliare la strada a Craxi si impegna la Repubblica di Scalfari.
In ballo non c'è solo la torta pubblicitaria, non c'è solo lo scontro per il
controllo della Mondadori azionista di Repubblica, c'è un disegno più
ambizioso: puntare su Dc e Pci, «partiti su cui si era retto l'equilibrio
politico del dopoguerra», per giocare con loro la carta della modernizzazione
del Paese. E questo contro il tentativo del nuovo Psi di costruire un nuovo
equilibrio politico: anche attraverso «la grande riforma», più governabilità,
«supremazia della politica sulle interpretazioni della magistratura», più
«attenzione al consenso popolare». È una tesi suggestiva. C'è un passaggio del
libro che è forse il più controverso: «L'Editoriale L'Espresso è un gruppo
mediatico industriale» che segue «un percorso speculare a quello di Fininvest.
Nel senso che i giornali nascono politici e approdano alla grande impresa,
mentre la televisione nasce come impresa e approda alla politica». Anomalie
macroscopiche Ma ecco il punto più polemico: «Se proprio si vuole usare la
parola «anomalia», è semmai anomalo il ruolo politico di un direttore di
giornale, quale ebbe personalmente Eugenio Scalfari negli anni del compromesso
storico». Beh, caro Debenedetti come si fa - se non per provocazione - a
mettere l'accento sull'anomalia di Scalfari e non su quella macroscopica di
Berlusconi? Dc e Pci, e Scalfari, dunque come rappresentanti della
conservazione. Il Psi e Berlusconi come paladini del rinnovamento! Non è forse
vero che a difendere a tutti i costi la
Rai si impegnarono proprio i primi contrastando le reti
Fininvest? Già, ma quello che Debenedetti e Pilati non dicono è che, una volta
ottenuto il risultato di restare padrone di tre reti, è diventato proprio
Berlusconi il difensore della Rai: gli serviva poter dire che le sue tre reti
erano indispensabili se si voleva far concorrenza alle tre reti del servizio
pubblico. Quando Berlusconi entra in politica, «la questione televisiva» fa un
salto di qualità. E i due autori finiscono per mettere in secondo piano «il
conflitto di interessi» che pure ammettono esserci, mentre accusano
intellettuali (per esempio Bobbio) e partiti di sinistra di vedere di fatto
nella tv lo strumento del diavolo. Cercano di smontare la tesi che «chi
controlla reti televisive gode di un vantaggio verso le altre forze politiche,
che falsa il gioco democratico». Detto brutalmente: la sinistra ha usato «la
questione televisiva» come un'arma impropria, «ha avuto un ruolo di supplenza,
ha riempito il vuoto di pensiero politico». La sinistra preferisce demonizzare
Berlusconi con le sue tv piuttosto che fare i conti con i propri errori. C'è
del vero. Ma come si fa a scrivere che «con l'espansione dei consumi e il
proliferare delle marche, che narrano storie e declinano identità, la
televisione amplia in misura cospicua la propria influenza sociale» e poi di
fatto negare il peso condizionante, formativo, propagandistico della tv nelle
mani di un uomo al potere? Quello che mi è piaciuto di meno è poi la difesa
della legge Gasparri. Non si ha il coraggio di riconoscere
che è prima di tutto servita a non tener conto di una sentenza della Corte costituzionale. E non si dice che ha creato le condizioni per l'attuale
ingovernabilità della Rai. Nel libro non c'è una parola sulla necessità di
mettere la Rai
nella condizione di essere diretta come una grande azienda della comunicazione
in un'epoca di rivoluzione tecnologica. Non c'è il coraggio di
completare la propria analisi critica della questione televisiva. Altrimenti si
dovrebbe dire che a Berlusconi piace poter mettere le mani sulla Rai,
spartirsela con i suoi alleati. Come spiegare altrimenti quello che sta
succedendo? Una potente vice direzione generale a un uomo della Lega Nord, la
direzione del Tg 1 a
un giornalista fidato, la divisione della radio in tre in modo da accontentare
tutti! Purtroppo «la guerra dei trent'anni» non è affatto finita. Sta entrando
in una fase nuova grazie alle tecnologie digitali. È vero che ormai la tv è un
media stanco. E tuttavia il controllo della Rai da parte di Berlusconi non è
mai stato così stringente. E fino a quando non si riconoscerà che la Rai è una grande azienda alle
prese con un cambiamento epocale e non un media da asservire al vincitore, la
guerra non potrà dichiararsi conclusa.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: POLITICA E SOCIETA data: 2009-07-22 - pag: 14 autore: Tra Lodo Alfano
e stretta sulle pubblicazioni. A ottobre i capitoli più scottanti: la
maggioranza attende la pronuncia della Consulta Ma il dialogo sulla giustizia è
in salita Donatella Stasio ROMA «Direi che un minimo di disponibilità a percorrere
una via mediana c'è; una via che se anche non soddisfa, non scontenta ». Da
siciliano, Roberto Centaro dosa le parole per dire che la maggioranza non sarà
sorda all'appello al dialogo del Presidente della Repubblica sul Ddl
intercettazioni.Purché l'opposizione, aggiunge, «non pretenda di imporre le
proprie scelte; altrimenti per noi sarebbe un suicidio ». Peraltro, il relatore
al Senato del provvedimento lascia intendere che non si entrerà nel vivo
dell'esame prima di metà ottobre, cioè dopo che la Corte costituzionale si sarà pronunciata, il 6 ottobre, sul Lodo Alfano, lo scudo
processuale per le alte cariche dello Stato. «Onde evitare, anche lontanamente,
che ci siano spunti per alzare la tensione- spiega Centaro- il termine per la
presentazione degli emendamenti sarà fissato, verosimilmente, dopo il Lodo,
verso metà ottobre». Prima di allora, ci sarà spazio per audizioni (si parte
domani con giornalisti e editori e si continuerà la settimana prossima con Anm,
avvocati, Procuratore nazionale antimafia) e poi seguiranno le repliche del
relatore e del Governo. Nel frattempo, la «Consulta della giustizia del Pdl»
(di cui Centaro fa parte) tenterà di trovare una linea unitaria tra le sue
diverse anime: quella più dialogante, che spinge per un testo condiviso,
rappresentata da Fini- Bongiorno, e quella più intransigente, rappresentata da
Niccolò Ghedini, consigliere giuridico del premier. Certo è che le
intercettazioni non figurano nell'agenda della maggioranza di qui alla fine di
agosto, sebbene la tradizione voglia che, da anni, proprio ad agosto,
Berlusconi abbia sempre rilanciato questo tema dalla sua villa in Sardegna.
Anche le parole di Gianfranco Fini sono state un preciso segnale politico alla
maggioranza e, ovviamente, all'opposizione. Il presidente della Camera non è
entrato nel merito delle correzioni, ma è ormai noto che tra i punti da
rivedere ci sono anzitutto i presupposti in base ai quali si possono
autorizzare le intercettazioni; presupposti talmente stringenti che, secondo
l'Anm,depotenziano fortemente le indagini contro ignoti e persino quelle contro
la mafia. Il testo della Camera parla di «evidenti indizi di colpevolezza» in
luogo dei «gravi indizi di reato» previsti attualmente dal Codice, «che è come
dire - ha osservato ieri Donatella Ferranti del Pd - che per fare una
perquisizione si deve già sapere chi è il colpevole». «Di tornare indietro, non
se ne parla», dice Centaro, mentre i finiani sono molto più flessibili. Idem
sulla possibilità di rivedere le multe salate previste per gli editori in caso
di violazione del divieto di pubblicare le intercettazioni. Ancora da discutere
la posizione sulla norma transitoria che, nel testo attuale, esclude
l'applicazione delle nuove norme ai processi in corso, ma pone una serie di
problemi (organizzativi e di costituzionalità) da far presagire il caos negli
uffici giudiziari. «è un problema di civiltà politica che riguarda tutti,
nessuno è al sicuro» diceva ieri il vicecapogruppo Pdl al Senato, Gaetano
Quagliariello, a proposito della riforma, confermando che il rinvio all'autunno
è stato determinato dalle parole di Napolitano. La Lega, con Matteo Brigandì,
sostiene che per dialogare è necessario che «una parte della magistratura e i
partiti di minoranza non si barrichino dietro le loro posizioni »,ma l'Idvfa
sapere che «non si può avere alcun tipo di dialogo se il governo non cambia la
porcheria che ha portato in Parlamento». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Manifesto, Il"
del 22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
DECRETO ANTI-CRISI
Le Commissioni danno il via libera, ora il voto di fiducia Francesco Piccioni
Tra forzature procedurali e pasticci normativi, la «manovra d'estate» è stata
licenziata ieri dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera. Ora passa
all'esame dell'aula, ma il voto finale è atteso per la prossima settimana. Un
voto di fiducia, naturalmente, perché il «maxi-pacchetto emendativo» è il solito
calderone di provvedimenti disomogenei che non avrebbe potuto mai passare
indenne. Anche in commissione, per fare solo un esempio, il governo è finito in
minoranza su un innocuo emendamento relativo all'authority dell'energia. Un
minimo di polemica si è prodotta intorno all'ennesimo ricorso alla fiducia,
visto che questa prassi viene considerata da tutti «normale» solo per i
provvedimenti legati alla manovra finanziaria; cosa che questo decreto
formalmente non è (lo è invece il Dpef, ancora in discussione). Il
ministro-principe di questa operazione, Giulio Tremonti, se l'è cavata
definendolo solo «l'aggiornamento della finanziaria triennale approvata lo
scorso anno». Lo stesso Gianfranco Fini, inizialmente indicato come possibile
fustigatore in aula, ha ammesso come pacifica la richiesta di fiducia, a meno
che il governo non presenti «ulteriori interventi di cui non ci sia stata
conoscenza in commissione». Ma un po' di maretta all'interno della maggioranza
è venuta egualmente alla luce. L'Mpa del siciliano Lombardo ha votato contro e
minaccia di fare altrettanto sulla fiducia perché «c'è stata chiusura totale
alle nostre richieste per il Mezzogiorno». Il ministro dell'ambiente, Stefania
Prestigiacomo, ha invece protestato per i poteri eccezionali concessi ai
«commissari ad hoc» nominati dalla presidenza del consiglio per gli «interventi
urgenti» relativi alle reti di energia. «Potrebbe essere applicata anche per le
centrali nucleari», ha rivelato, e «sopprime di fatto il ruolo del ministero
dell'ambiente - così come anche degli enti locali - nel delicato iter
autorizzativo per la realizzazione di centrali di produzione». Brunetta e
Sacconi hanno invece continuato a duellare sull'opportunità di mandare
obbligatoriamente in pensione gli statali con 40 anni di contributi (anche
figurativi), tranne che per i magistrati, i docenti universitari e i primari
ospedalieri. Ma non si è capito chi abbia prevalso. I punti salienti della
manovra erano noti da settimane. Confermato lo «scudo fiscale» per le attività
finanziarie illecitamente trasferite all'estero: basterà pagare il 5%, se
detenute in paesi dello «spazio economico europeo»; dovranno invece rientrare
obbligatoriamente se collocate in paesi che non ne fanno parte (tipo la Svizzera). Confermata
anche la sanatoria per badanti e colf extracomunitarie, ma il soggetto che
vuole regolarizzarle deve guadagnare almeno 20.000 euro se single, o 25.000
come nucleo familiare. Senza sorprese anche la «moratoria dei crediti» che
piccole e medie imprese hanno con le banche. Una norma-ponte concede al
ministro dell'economia 120 giorni per definire una convenzione con l'Abi per
incentivare le banche ad «attenuare» gli oneri finanziari per questi soggetti.
Niente da fare, invece, per l'occupazione negli enti pubblici economici.
Prorogato il blocco delle assunzioni; e quindi resteranno fuori i 25.000 precari delle poste per cui la Corte Costituzionale
aveva, con sentenza, disposto il reintegro. Stra-confermata anche la «mini
riforma delle pensioni» che inchioderà le donne della pubblica amministrazione
al lavoro fino ai 65 anni di età entro il 2018, con un sistema di «scalini»
identico a quello che sostituì lo «scalone di Maroni» ai tempi del governo
Prodi-bis. Quando si dice la fantasia al potere...
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( da "Sole 24 Ore, Il (Nord Est)"
del 22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Nord-Est sezione:
EST data: 2009-07-22 - pag: 13 autore: Pronta al via la centrale di committenza
Protocolli standard per indire le gare Una centrale di committenza per
supportare le amministrazioni pubbliche trentine nella gestione delle procedure
relative ai contratti di lavori, servizi e forniture. A deliberare la nascita
dell'Agenzia, la Giunta
della Provincia autonoma, che si occuperà di nominare anche il Cda, composto da
due membri designati dall'Esecutivo stesso, due dal Consiglio delle autonomie
locali, oltre al direttore. La centrale di committenza assisterà Provincia e
amministrazioni comunali (ma anche società pubbliche, aziende di servizi alla
persona, ecc) nella fase di controllo e di esecuzione dei contratti: curerà le
procedure a evidenza pubblica per la scelta del contraente, l'affidamento di
incarichi di progettazione, direzione lavori e coordinamento sicurezza sopra
soglia comunitaria, fornirà inoltre assistenza alle stazioni appaltanti, dal
contenuto dei bandi ai criteri di aggiudicazione. «Un provvedimento assai
utile, in grado di sanare la schizofrenia con la quale si muovono i Comuni –
commenta Mario Agostini, presidente Ordine architetti di Trento, 1.030 iscritti
– Attualmente infatti enti locali, anche territorialmente attigui, indicono
gare d'appalto con criteri assolutamente differenti, in mancanza di una procedura
standard». La centrale di committenza creata dalla Provincia dovrebbe
introdurre variabili di metodo e standard sulle prestazioni uguali per tutti
gli enti, ad esempio regole sul massimo ribasso accettabile. A questo riguardo,
difficilmente i Comuni hanno gli strumenti adeguati a valutare le offerte dei
progettisti, non solo in base al prezzo, ma anche alla qualità della
progettazione offerta e alla possibilità che i tempi di esecuzione indicati nel
bando vengano rispettati. «Il provvedimento piace ai professionisti, ma
incontra la resistenza delle amministrazioni minori che vorrebbero fare da
sole, senza sottostare al controllo e ricevere indicazioni da un'agenzia
autonoma, ma di emanazione provinciale», aggiunge Agostini. «Il funzionamento della centrale è per ora rinviato, perché
collegato all'entrata in vigore della legge provinciale sui lavori pubblici
10/2008, impugnata dal Governo davanti alla Corte Costituzionale e in attesa di
definitivo pronunciamento », aggiunge il presidente
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( da "Corriere della Sera"
del 22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera sezione:
Lettere al Corriere data: 22/07/2009 - pag: 33 Risponde Sergio Romano I VIZI
DELLA COOPTAZIONE UN BUON METODO USATO MALE Sicuramente avrà letto anche lei
l'articolo «Quegli amici che affondano l'Italia» su Il Sole 24 Ore dell'11
luglio. Alla luce dello scenario denunciato in questo articolo, e che purtroppo
rappresenta la nostra realtà quotidiana, e quale madre di due ragazzi laureati
entrambi con 110 e lode che si affacciano ora al mondo del lavoro, mi domando
che speranze abbiano i miei figli, e tanti altri come loro, di trovare
un'occupazione dignitosa, non godendo né di «amicizie», né di «parentele» con
quelli che contano. Sabina Petrelli Roma Cara Signora, P er coloro che non
hanno letto l'articolo ricordo che Michele Ainis, professore universitario e
commentatore politico, parla della cooptazione, vale a dire di quel metodo che
consente a un organo, a una classe sociale o a un ordine professionale di
designare e reclutare i suoi nuovi membri. Il metodo non è soltanto italiano e
ha antiche tradizioni, ma sopravvive più tenacemente in Italia di quanto accada
in altre democrazie. I professori scelgono i professori, i politici scelgono i
politici e molti mestieri o professioni rimangono nelle stesse famiglie da una
generazione all'altra. Secondo Ainis, poco meno della metà della classe
dirigente italiana è scelta da chi ricopre gli stessi incarichi. Ainis ha
ragione naturalmente, e avrebbe potuto aggiungere che la cooptazione soffoca
gli entusiasmi giovanili e favorisce l'invecchiamento della classe dirigente.
Là dove le chiavi della successione sono saldamente nelle mani del titolare di
un incarico, i giovani coltivano i suoi favori e si adattano ad attendere
pazientemente che si faccia da parte. Si potrebbe persino sostenere che la
cooptazione educa i giovani a essere remissivi e servili. Siamo un Paese
governato da vecchi dove i giovani, quando arrivano al potere, sono già vecchi,
fisicamente e moralmente. Eppure non vorrei, cara signora, che il pessimo
spettacolo italiano ci facesse dimenticare che anche la cooptazione, come la
raccomandazione, ha i suoi meriti. Chi meglio di un professore è in grado di
valutare le qualità culturali e le doti di carattere dei suoi allievi? Chi
meglio di un uomo politico è in grado di pesare le virtù e i difetti dei suoi
colleghi più giovani? Sarei persino incline a pensare che una Corte costituzionale composta da magi-- strati cooptati potrebbe essere meglio di una
corte in cui alcuni di essi sono scelti dal Parlamento e quindi dai
partiti. Attenzione quindi a non buttare via il bambino con l'acqua sporca.
Cerchiamo di ricordare piuttosto che la cooptazione funziona male se il
titolare pensa soprattutto alla conservazione del potere personale o familiare.
Là dove le sue preoccupazioni sono la dignità e il futuro dell'istituzione e
dell'ordine professionale a cui appartiene, la cooptazione è ancora il migliore
dei metodi possibili.
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( da "AltaLex" del
22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Magistratura,
politica, libertà di associazione, legittimità, intervento legislativo Corte
Costituzionale , sentenza 17.07.2009 n° 224 Commenta | Stampa | Segnala | Condividi
Magistratura – politica – libertà di associazione –
legittimità – intervento legislativo Nel bilanciamento tra la libertà di associarsi in partiti,
tutelata dall'art. 49 Cost., e l'esigenza di assicurare la terzietà dei
magistrati ed anche l'immagine di estraneità agli interessi dei partiti che si
contendono il campo, l'art. 98, terzo comma, Cost. ha demandato al legislatore
ordinario la facoltà di stabilire «limitazioni al diritto d'iscriversi ai
partiti politici per i magistrati» (nonché per le altre categorie di funzionari
pubblici ivi contemplate: «i militari di carriera in servizio attivo, i
funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari
all'estero»). La
Costituzione, quindi, se non impone, tuttavia consente che il
legislatore ordinario introduca, a tutela e salvaguardia dell'imparzialità e
dell'indipendenza dell'ordine giudiziario, il divieto di iscrizione ai partiti
politici per i magistrati: quindi, per rafforzare la garanzia della loro
soggezione soltanto alla Costituzione e alla legge e per evitare che
l'esercizio delle loro delicate funzioni sia offuscato dall'essere essi legati
ad una struttura partitica che importa anche vincoli gerarchici interni.
(Fonte: Altalex Massimario 28/2009) Corte Costituzionale
Sentenza 17 luglio 2009, n. 224 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE
COSTITUZIONALE composta dai signori: - Francesco AMIRANTE
Presidente - Ugo DE SIERVO Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfonso QUARANTA
" - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI "
- Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO
" - Paolo Maria NAPOLITANO " - Giuseppe FRIGO " - Alessandro
CRISCUOLO " - Paolo GROSSI " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel
giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3,
comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109
(Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni
e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina
in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25
luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d),
numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia
nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario), promosso
dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nel
procedimento relativo a L.B., con ordinanza dell'11 novembre 2008, iscritta al
n. 23 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica, n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2009. Udito nella camera di
consiglio del 10 giugno 2009 il Giudice relatore Paolo Maddalena. Ritenuto in
fatto La Sezione
disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con ordinanza dell'11
novembre 2008, ha
sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 18, 49 e 98 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell'art. 3,
comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109
(Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni
e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina
in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25
luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d),
numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia nonché
modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario). La Sezione disciplinare
rimettente premette che il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha
esercitato l'azione disciplinare nei confronti del dott. Luigi Bobbio,
magistrato attualmente fuori del ruolo organico della magistratura perché
addetto ad una funzione di consulenza parlamentare, già parlamentare egli
stesso, contestandogli la violazione degli artt. 1 e 3, comma 1, lettera h),
del d.lgs. n. 109 del 2006, come modificato dalla legge n. 269 del 2006, nonché
del codice etico della magistratura, per avere egli in data 5 maggio 2007
accettato ed assunto la carica di presidente della federazione provinciale di
Napoli del partito di Alleanza Nazionale. La norma denunciata configura quale
illecito disciplinare l'iscrizione o la partecipazione sistematica e
continuativa a partiti politici ovvero il coinvolgimento nelle attività di
soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare
l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato.
Il giudice a quo rileva che, nella lettera e nella logica della legge,
l'incarico politico, ovvero l'assunzione della qualità di appartenente ad un
partito politico e più ancora l'assunzione di una carica rilevante in un
partito politico, atti che esplicitano e presuppongono una coerente attività
politica, non vengono in alcun modo differenziate a seconda che si tratti, o
meno, di partiti politici sicuramente “legittimi” e come tali anche
rappresentati in Parlamento. Secondo il rimettente, l'art. 49 Cost. fonda il
diritto, in capo ad ogni cittadino senza distinzione di sorta, di associarsi liberamente,
ovvero senza condizionamento formale o sostanziale, in partiti, per concorrere
all'obiettivo fondamentale che è la determinazione democratica della politica
nazionale. Osserva ancora la
Sezione disciplinare che l'art. 98, ultimo comma, Cost.
prevede che la legge possa stabilire limitazioni all'esercizio del diritto di
elettorato passivo, tra l'altro, dei magistrati. La legge ordinaria disciplina
espressamente l'esercizio di siffatto diritto con l'apposita limitazione
costituita dal preventivo collocamento fuori ruolo (art. 8 del d.P.R. 30 marzo
1957, n. 361 – «Approvazione del testo unico delle leggi recanti
norme per la elezione della Camera dei deputati», nel testo modificato dalla
legge 3 febbraio 1997,
n. 13). La pacifica legittimità della candidatura elettorale di un magistrato
fa ritenere che il legislatore non ignori la natura intrinsecamente politica ed
inevitabilmente partitica della stessa, la quale dunque, se giustifica il
limite della previsione della predetta cautela, non verrebbe perciò stesso
respinta. Invece, la norma denunciata – precisa il rimettente –
introduce «un vero e proprio divieto formale ed assoluto» di iscrizione ai
partiti politici per i magistrati, «rafforzato da una sanzione per la sua violazione». Ad avviso
della Sezione disciplinare, «nell'economia del giudizio di non manifesta
infondatezza», siffatto divieto assoluto andrebbe «oltre la nozione giuridica
della mera limitazione, ovvero di una regolamentazione che contemperi il
diritto politico del singolo con l'esigenza di imparzialità, anche percepita,
del giudice». Nella volontà del Costituente sarebbe esclusa ogni assimilazione
tra i partiti politici in quanto tali ed i centri di affari o di potere
affaristico, che la norma denunciata tuttavia menziona, nella sua previsione
punitiva, nel medesimo contesto e con una particella alternativa, quasi che il
giudizio di disvalore per tutte siffatte possibili appartenenze che al giudice
si intendono vietare debba essere di necessità eguale. Ad avviso del giudice
rimettente, «quanto alla partecipazione o al coinvolgimento del magistrato in
centri di affari o di potere anche politicamente orientati» non si porrebbe
alcun «problema di rispetto del principio costituzionale
della parità dei diritti politici, a partire dal diritto di associazione di cui
all'art. 2 Cost., in capo a tutti i cittadini», mentre detto problema si
presenterebbe per la minacciata punizione della iscrizione e della
partecipazione sistematica alla vita di un “partito legittimo”. La
disposizione denunciata, in definitiva, rivelerebbe una sorta di contraddizione
– non superabile in via interpretativa – con la normativa che legittima,
disciplinandola, la partecipazione del magistrato alle elezioni. Vi sarebbe,
inoltre, un evidente
contrasto tra la proibizione e la punizione di cui si tratta ed il complesso ed
articolato regime costituzionale, imperniato sull'art.
18 Cost., che vede nel partito politico rispettoso del metodo della legge
fondamentale, e quindi non organizzato militarmente, un essenziale luogo di
democrazia ed individua la partecipazione allo stesso anche quale diritto della
personalità, oltre che quale irrinunciabile strumento di democrazia e, dunque,
estensione del principio di cui all'art. 3 della Costituzione. Considerato in
diritto 1. La questione di legittimità costituzionale
posta dall'ordinanza in epigrafe investe l'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto
legislativo 25 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari
dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro
applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità,
dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma
dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel
testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d), numero 2), della legge 24
ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia nonché modifiche di
disposizioni in tema di ordinamento giudiziario), il quale configura quale
illecito disciplinare – accanto al coinvolgimento nelle attività di
soggetti operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare
l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato –
l'iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa del magistrato a partiti politici. Ad
avviso della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura,
che ha sollevato il dubbio di legittimità costituzionale
in riferimento agli articoli 2, 3, 18, 49 e 98 della Costituzione, il divieto
formale ed assoluto di iscrizione ai partiti politici per il magistrato,
rafforzato da una sanzione per la sua violazione, andrebbe oltre la nozione
giuridica della mera limitazione, ovvero di una regolamentazione che contemperi
il diritto politico del singolo con l'esigenza di imparzialità, anche
percepita, del giudice; e irragionevolmente assimilerebbe nel medesimo giudizio
di disvalore l'appartenenza a partiti politici ed a centri di affari o di
potere affaristico. La norma denunciata, inoltre, confliggerebbe con il
principio costituzionale della parità dei diritti
politici, a partire dal diritto di associazione di cui all'art. 2 Cost., in capo
a tutti i cittadini; e rivelerebbe una contraddizione con la normativa (art. 8
del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 – «Approvazione del testo
unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati», nel
testo modificato dalla legge 3 febbraio 1997, n. 13) che legittima,
disciplinandola attraverso l'istituto del preventivo collocamento fuori ruolo, la partecipazione del
magistrato alle elezioni. Più in generale, la proibizione e la punizione in
esame contrasterebbero con il complesso ed articolato regime costituzionale,
imperniato sull'art. 18 Cost., che vede nel partito politico rispettoso del
metodo della legge fondamentale, e quindi non organizzato militarmente, un
essenziale luogo di democrazia ed individua la partecipazione allo stesso anche
quale diritto della personalità, oltre che quale irrinunciabile strumento di
democrazia e, dunque, estensione del principio di cui all'art. 3 della
Costituzione. 2. La questione non è fondata. Deve riconoscersi – e
non sono possibili dubbi in proposito – che i magistrati debbono godere degli
stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino e che quindi possono, com'è
ovvio, non solo condividere un'idea politica, ma anche espressamente
manifestare le proprie opzioni al riguardo. Ma deve, del pari, ammettersi che
le funzioni esercitate e la qualifica rivestita dai magistrati non sono
indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale
(sentenza n. 100 del 1981). Per la natura della loro funzione, la Costituzione riserva
ai magistrati una disciplina del tutto particolare, contenuta nel titolo IV
della parte II (artt. 101 e ss.): questa disciplina, da un lato, assicura una
posizione peculiare, dall'altro, correlativamente, comporta l'imposizione di
speciali doveri. I magistrati, per dettato costituzionale
(artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.), debbono essere
imparziali e indipendenti e tali valori vanno tutelati non solo con specifico
riferimento al concreto esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche come
regola deontologica da osservarsi in ogni comportamento al fine di evitare che
possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza ed imparzialità. Proprio
in questa prospettiva, nel bilanciamento tra la libertà di associarsi in
partiti, tutelata dall'art. 49 Cost., e l'esigenza di assicurare la terzietà
dei magistrati ed anche l'immagine di estraneità agli interessi dei partiti che
si contendono il campo, l'art. 98, terzo comma, Cost. ha demandato al
legislatore ordinario la facoltà di stabilire «limitazioni al diritto
d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati» (nonché per le altre
categorie di funzionari pubblici ivi contemplate: «i militari di carriera in
servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti
diplomatici e consolari all'estero»). La Costituzione, quindi,
se non impone, tuttavia consente che il legislatore ordinario introduca, a
tutela e salvaguardia dell'imparzialità e dell'indipendenza dell'ordine
giudiziario, il divieto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati: quindi,
per rafforzare la garanzia della loro soggezione soltanto alla Costituzione e
alla legge e per evitare che l'esercizio delle loro delicate funzioni sia
offuscato dall'essere essi legati ad una struttura partitica che importa anche
vincoli gerarchici interni. La norma impugnata ha dato attuazione alla
previsione costituzionale stabilendo che costituisce
illecito disciplinare non solo l'iscrizione, ma anche «la partecipazione
sistematica e continuativa a partiti politici»: accanto al dato formale dell'iscrizione,
pertanto, rileva, ed è parimenti precluso al magistrato, l'organico
schieramento con una delle parti politiche in gioco, essendo anch'esso
suscettibile, al pari dell'iscrizione, di condizionare l'esercizio indipendente
ed imparziale delle funzioni e di comprometterne l'immagine. Non è ravvisabile,
pertanto, alcuna violazione dei parametri costituzionali invocati dal giudice
rimettente, perché, nel disegno costituzionale,
l'estraneità del magistrato alla politica dei partiti e dei suoi metodi è un valore
di particolare rilievo e mira a salvaguardare l'indipendente ed imparziale
esercizio delle funzioni giudiziarie, dovendo il cittadino essere rassicurato
sul fatto che l'attività del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero,
non sia guidata dal desiderio di far prevalere una parte politica. In
particolare, non contrasta con quei parametri l'assolutezza del divieto, ossia
il fatto che esso si rivolga a tutti i magistrati, senza eccezioni, e quindi
anche a coloro che, come nel caso sottoposto all'attenzione della Sezione
disciplinare rimettente, non esercitano attualmente funzioni giudiziarie.
Infatti, l'introduzione del divieto si correla ad un dovere di imparzialità e
questo grava sul magistrato, coinvolgendo anche il suo operare da semplice cittadino,
in ogni momento della sua vita professionale, anche quando egli sia stato,
temporaneamente, collocato fuori ruolo per lo svolgimento di un compito
tecnico. Né vi è contraddizione con il diritto di elettorato passivo spettante
ai magistrati, e ciò sia per la diversità delle situazioni poste a raffronto
(un conto è l'iscrizione o comunque la partecipazione sistematica e
continuativa alla vita di un partito politico, altro è l'accesso alle cariche
elettive), sia perché quel diritto non è senza limitazioni. Infine, non è
ragione di illegittimità costituzionale la circostanza
che la disposizione censurata configuri come illecito disciplinare, sotto la
medesima lettera h), accanto alla iscrizione o alla partecipazione sistematica
e continuativa a partiti politici, il coinvolgimento nelle attività di soggetti
operanti nel settore economico o finanziario che possono condizionare
l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato.
Non si tratta di una indebita assimilazione, in un medesimo giudizio di
disvalore, di due ipotesi di ben diversa portata. Il legislatore, piuttosto, è
stato spinto dall'esigenza di porre una tutela rafforzata dell'immagine di
indipendenza del magistrato, la quale può essere posta in pericolo tanto dall'essere
il magistrato politicamente impegnato e vincolato ad una struttura partitica,
quanto dai condizionamenti, anche sotto il profilo dell'immagine, derivanti dal
coinvolgimento nella attività di soggetti operanti nel settore economico o
finanziario. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale
dell'art. 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n.
109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni
e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina
in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio
dei magistrati, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera f, della legge 25
luglio 2005, n. 150), nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lettera d),
numero 2), della legge 24 ottobre 2006, n. 269 (Sospensione dell'efficacia
nonché modifiche di disposizioni in tema di ordinamento giudiziario),
sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 18, 49 e 98 della Costituzione,
dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura con
l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2009. F.to: Francesco AMIRANTE,
Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata
in Cancelleria il 17 luglio 2009. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA
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( da "Sestopotere.com"
del 22-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Caccia in deroga: nuova
richiesta di condanna dell'Italia dall'Ue (22/7/2009 15:37) | (Sesto Potere) -
Roma - 22 luglio 2009 - “La nuova richiesta di condanna per l’Italia
presentata dalla
Commissione europea non arriva inaspettata, avevamo già avvisato la regione
Veneto che attraverso l’utilizzo improprio, ormai un vero e proprio
abuso, dello strumento delle deroghe avrebbe aggravato la posizione dell’Italia
rispetto alla procedura d’infrazione in corso ”. E’ quanto dichiarano ENPA,
LAC, LAV, LEGAMBIENTE, LIPU, VAS e WWF a proposito della richiesta avanzata
dalla Commissione europea di condannare l’Italia al pagamento delle spese in
giudizio per le ripetute violazioni della Direttiva 9/409/CEE commesse dal Veneto
riguardo la concessione di deroghe ad esercitare la caccia nei confronti di
specie protette. La richiesta di condanna arriva mentre sono in discussione al
Consiglio Regionale del Veneto due nuove proposte di legge inerenti l’applicazione del regime di deroga
per la stagione venatoria 2009/2010. Proposte che non faranno altro che
aggravare ulteriormente la posizione dell’Italia e del Veneto rispetto
alle procedure di infrazione riguardanti la caccia in deroga, sia per lo
strumento previsto che
per i contenuti, dato che la richiesta di estendere la caccia a specie oggi protette
dalla normativa europea va da 5 addirittura a 11 specie. Vogliamo ricordare che
il 25 giugno 2008 la
Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità
di un’analoga
legge approvata nel 2007 dalla Regione Lombardia. La Corte – spiegano le associazioni
- ha infatti bocciato la possibilità di ricorrere alle deroghe attraverso una
legge-provvedimento in quanto in netto contrasto le previsioni della legge
157/1992, articolo 19
bis, poiché tale atto impedisce l’esercizio del potere di
annullamento da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri. “Siamo di
fronte a una situazione di particolare gravità – concludono ENPA, LAC, LAV,
LEGAMBIENTE, LIPU, VAS e WWF – per la quale chiediamo al Presidente Galan un autorevole e fermo
intervento, istituzionale e politico per impedire che un nuovo provvedimento di
deroga venga attivato e al Consiglio regionale di respingere tali proposte e di
adottare provvedimenti che sanino la posizione del Veneto rispetto alle
procedure di infrazione”.
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( da "Repubblica, La"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 3 - Interni
Ma il Cavaliere teme i sondaggi "Ora mi serve la pace sociale"
"L´autunno sarà difficile, dialogo anche coi sindacati" Il premier:
bisogna ritrovare il feeling con il Paese e far dimenticare gli scandali A
Palazzo Chigi clima "più sereno" in vista del giudizio della Consulta
sul lodo Alfano CLAUDIO TITO ROMA - «Una nuova legittimazione». Un piano per
provare a far dimenticare gli scandali di questi tre mesi e costruire una «pace
sociale» in grado di sostenere le difficoltà del prossimo «autunno caldo». I
sondaggi non sono più brillanti come all´inizio dell´anno. La speranza di
presentarsi come «il presidente di tutta l´Italia» si è allontanata. Le spine
dell´esecutivo crescono e rischiano di moltiplicarsi da settembre in poi.
Silvio Berlusconi, allora, tenta la "mossa del cavallo". Cambiare
strategia per impostare una «fase nuova» del suo governo e per rivitalizzare il
rapporto con gli elettori. Evitando lo scontro diretto con l´opposizione e
avviando un «rinnovato dialogo» con le parti sociali. Compresa la Cgil di Guglielmo Epifani. Il
Cavaliere, insomma, è convinto che le ultime vicende «non avranno alcun effetto
sulla durata dell´esecutivo». Il suo timore, semmai, è che possano
condizionarne i risultati. Ha paura della paralisi. E in più che si incrini
definitivamente il feeling con gli italiani. Il caso Noemi, gli scatti osè di
Villa Certosa, adesso le registrazioni di Patrizia D´Addario, infatti, stanno
pesando sul suo indice di popolarità. I sondaggi segnano un flessione per
quanto riguarda la fiducia nel premier. Ma la sua preoccupazione, appunto, è
un´altra. Che la luna di miele sia definitivamente tramontata e che il clima di
«scontro» possa congelare ogni scelta di «lungo periodo» della sua maggioranza.
Tant´è che negli ultimi giorni, ha iniziato a discutere con i suoi fedelissimi,
sulla strategia da studiare per la ripresa dopo la pausa estiva. «Resto
convinto che questa vicenda della D´Addario non cambierà la situazione rispetto
a noi. Non c´è la possibilità che l´asse nazionale si sposti a sinistra. Il
Paese - è il suo ragionamento - ha già digerito tutto». Il problema però è il
«feeling» con gli italiani. «Dobbiamo ricostruire la sintonia», dice.
«Indispensabile» per affrontare il prossimo «autunno caldo» e compiere scelte
capaci di dar vita a «riforme strutturali». A partire da quella previdenziale e
della sanità. E già, perché gli studi che girano sulle scrivanie di Palazzo
Chigi e del ministero del Tesoro non lasciano molte speranze su quel che
accadrà alla nostra economia da settembre in poi. Aziende costrette a chiudere
i battenti soprattutto nei distretti settentrionali, il pil ulteriormente in
discesa. In più proprio tra qualche mese scatteranno le vertenze per il rinnovo
di importanti contratti come quello del pubblico impiego. Una situazione
esplosiva che, anche per il presidente dl consiglio, potrebbe imporre decisioni
«drastiche» ma «condivise». Non solo con la Lega. Non a caso negli
ultimi giorni il capo del governo ha incaricato "ambasciatori" e
ministri di ricucire il dialogo con «tutte» le parti sociali. Ieri ha chiamato
a Palazzo Grazioli Emma Marcegaglia, il presidente di Confindustria. Di recente
Gianni Letta ha sentito i segretari di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni e Luigi
Angeletti. E soprattutto la scorsa settimana Giulio Tremonti è corso
all´Assemblea di programma della Cgil proponendo di «fare insieme l´ultimo
miglio». Il tutto, appunto, per scommettere su una nuova "pace
sociale" che generi una «nuova legittimazione» e faccia dimenticare gli
scandali. Proprio in questa ottica Berlusconi ha dato ordine di chiudere senza
scossoni l´ultima partita di nomine nelle società controllate dallo Stato.
Senza rivoluzioni. Nel braccio di ferro che ha visto sfidarsi Letta e Tremonti,
allora, ha decisamente avuto la meglio il primo. Risultato: solo conferme.
All´Anas è rimasto Pietro Ciucci, alle Poste Massimo Sarmi (che rischiava di
chiudere anticipatamente il suo mandato), a Fincantieri ci sarà ancora Giuseppe
Bono, a Fintecna Maurizio Prato. Per non parlare del caso Eni-Porto Torres per
il quale il Cavaliere ha chiesto ai vertici del "cane a sei zampe" di
trovare l´accordo con «tutti» i sindacati. Non solo. Secondo il premier, è
indispensabile un ragionamento analogo anche per i rapporti con l´opposizione.
«Non penso alla possibilità di "grandi intese" sulle riforme
istituzionali», puntualizza a ogni piè sospinto. Eppure, Berlusconi si è
convinto che un clima «più disteso» possa servire sia al centrodestra, sia al
centrosinistra. «Loro - dice - possono avere la possibilità di tenere il loro
congresso serenamente». In cambio il governo - tra settembre e ottobre -
potrebbe esaminare «altrettanto serenamente» il disegno di
legge sulle intercettazioni e affrontare «con fiducia» il giudizio della Corte costituzionale sul Lodo Alfano. Un patto "informale" che vorrebbe sottoporre
presto alla valutazione del Quirinale. «Per il resto - sono i ragionamenti
svolti nelle ultime ore con lo staff - dobbiamo puntare su azioni di governo
concrete, come la ricostruzione in Abruzzo. E poi comunicare meglio
quello che facciamo». In attesa di verificare se davvero potrà siglare la
"pace sociale".
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( da "Repubblica, La"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina XIII - Bari
La famiglia scrive al ministro Bondi "Date il Petruzzelli alla
Fondazione" La famiglia Messeni Nemagna, proprietaria del teatro
Petruzzelli, in una lettera inviata al ministero per i Beni culturali, chiede
che «con urgenza si proceda alla consegna dei locali teatrali alla Fondazione».
Una richiesta «in esecuzione e nel rispetto di quel
protocollo d´intesa del 21 novembre 2002 in cui ha sempre creduto e che ha sempre
difeso, anche dall´esproprio illegittimo, annullato dalla Corte Costituzionale
con sentenza del 30 aprile 2008». Si chiede inoltre la rimozione «di ogni opera
o realizzazione architettonica difforme dalle previsioni contrattuali».
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( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
La distanza fra il
paese reale e il paese del sultano in accappatoio detentore del "lettone
di Putin" e in subordine della carica di primo ministro è un abisso
tragico la cui foto, oggi, è quella del postino che recapita trecento lettere
di licenziamento agli sfollati delle tendopoli dell'Aquila. I terremotati bisogna
immaginarli per quello che sono, non una indisciplinata colonia estiva di
liceali ripetenti gestita da Bertolaso coi pass e gli orari di coprifuoco ma
persone una volta dentisti e idraulici, maestre d'asilo e architetti, orfani e
studenti universitari oggi rimasti senza casa, spesso senza famiglia, senza
intimità, senza progetti ma dotati purtroppo di un indirizzo collettivo al
quale far giungere in blocco le lettere. Le smista poi un addetto della
protezione civile, racconta Marco Bucciantini. «Lei ha perso il lavoro».
Licenziare gli sfollati è come far pagare l'affitto ai deportati. Una beffa
crudele e consueta: togliere a chi ha già perso tutto. Il virile anziano leader
scherza davanti alla sua ennesima platea plaudente, «non sono un santo», dice.
Non c'è nessun dubbio. Non è a lui dunque che gli eventuali credenti
superstiti, in Abruzzo e altrove, potranno chiedere il miracolo. Neppure, del
resto, c'è chi gli chieda il rispetto del Contratto con gli italiani, quella
trovata da cabaret alla quale molti - si direbbe dai successivi esiti
elettorali - hanno creduto. Al posto dell'ennesimo milione di posti di lavoro
promesso come il ritornello di una canzone di Apicella arriveranno piuttosto in
autunno, dice il Cnel, mezzo milione di nuovi disoccupati. Cinquecentomila
persone tra i privilegiati che lo detengono stanno per perdere il posto di
lavoro. Le fabbriche del Nord consumano il 25% di energia in meno dunque
producono un quarto di meno. I consumi di beni ordinari è in calo. Chi non ha
non spende. Chi non vende non produce. Il motore del Paese è vicino allo
stallo. Il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi sentito dalla
commissione Antimafia avvisa del rischio che un'eventuale ripresa sia
"strozzata dal crimine". La crisi è un affare per la malavita. La corruzione
eletta a sistema allontana investitori e turisti. Le mafie e le camorre fanno
il resto. I componenti dell'esecutivo (Castelli) provano a far passare in modo
subdolo una sorta di lodo Alfano per i ministri, impunità anche per loro. Il figlio di un giudice della Corte Costituzionale che sta per
decidere la sorte di un ministro (Matteoli) viene promosso dal ministro
medesimo alla guida di un importante ente pubblico. Lo spirito del tempo è
questo. Vent'anni fa moriva Paolo Baffi, lontano predecessore di Draghi.
Ne scrive per noi Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio. Nella bella intervista
a Rinaldo Gianola dice Mario Sarcinelli, di Baffi il più stretto collaboratore:
«L'esempio degli uomini, anche i più illustri, si dimentica facilmente
soprattutto da parte delle generazioni che non ne sono state dirette testimoni.
L'etica e anche il diritto si rivelano impari nella lotta col potere. Ecco
perché la democrazia è una forma di governo superiore, poiché permette il
ricambio della classe o del gruppo che governa, ma anche quando non è bloccata,
come a lungo fu in Italia, non è detto che rinnovi la mentalità clientelare,
frantumi le coalizioni di interessi, diffonda la cultura del bene comune».
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( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Di Pietro attacca il
Colle sulla firma delle leggi «No comment» all'iniziativa MARCELLA CIARNELLI
Ancora una volta l'onorevole Antonio Di Pietro mostra di preferire la piazza
all'aula parlamentare. E così il leader dell'Italia dei Valori si è presentato
al Colle per dare pubblicità ad una lettera indirizzata al presidente della Repubblica
che contiene una lunga requisitoria sull'operato di Napolitano, a cominciare
dall'ultimo episodio, quello delle notazioni con cui il Capo dello Stato ha
accompagnato la firma della legge sulla sicurezza, a tornare indietro. Solo una
«letterina di rimprovero» che non è piaciuta a Di Pietro che nel suo editto
elenca tutta una serie di altre omissioni che sarebbero state fatte dal
Quirinale, secondo la sua interpretazione della Costituzione, dalla firma del Lodo Alfano al mancato intervento dopo la cena di
Berlusconi con due giudici della Corte Costituzionale. Napolitano «spieghi e
non offenda». Ai piedi del Colle si sono ritrovati Di Pietro e un po' di amici,
una trentina, poco più che sono stati fermati dalle forze dell'ordine perché la
manifestazione, anche se micro, non era stata nè preannunciata, nè quindi
autorizzata. Un po' di discussioni ma alla fine i manifestanti sono
stati fatti avvicinare al Quirinale dove di Di Pietro ha potuto portare a
termine una missione con scopi più che altro mediatici e si è guadagnato le
riprese televisive sue e dei supporter con maglietta «Giorgio non firmare»
allusive ad una firma, quella sotto la legge sulle intercettazioni, di cui
bisogna ancora discutere. Un'azione preventiva contro un bersaglio, il
presidente, individuato con preoccupante determinazione. A dar man forte ha
provveduto anche Marco Travaglio sul blog di Micromega. La reazione del Pd La
«scimitarra» dell'Italia dei Valori contro il Quirinale che ha scelto la strada
del «no comment». Quel che aveva da dire il presidente, a proposito della
«letterina», l'ha ampiamente argomentato nella missiva inviata al capo del
governo e per conoscenza ai presidenti delle Camere per rendere edotto il
Parlamento sui «dubbi e le perplessità» suscitati dalla legge sulla sicurezza
sottoposta alla sua firma. E nell'intervento, in occasione del Ventaglio, si
era rivolto direttamente al «fiero guerriero» che contesta l'uso «della piuma
d'oca» e che «invoca, polemicamente e di continuo, poteri e perfino doveri
d'intervento che non ho, mostra di aver compreso poco della Costituzione e
della forma di governo, non presidenziale che essa ha fondato». Nessuna
risposta,all'Idv. Al Colle è salito Dario Franceschini. Nei giorni scorsi
c'erano stati colloqui con Bersani, Cesa e Casini e anche esponenti del
governo, per un confronto sulla situazione del Paese. «Di Pietro non mostra
ritegno nel destabilizzare le istituzioni al fine di lucrare vantaggi politici»
hanno affermato in una nota congiunta i capigruppo Pd di Senato e Camera, Finocchiaro
e Soro. «Chi non ci vuole non ci merita» la replica. Antonio Di Pietro
all'attacco del Colle armato di una lettera-scimitarra contro la presunta piuma
d'oca del presidente. Azione mediatica con pochi supporter. Il Pd:
«Destabilizza le istituzioni». No comment del Colle.
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( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
«Chi non salta
italiano è!», così cantava l'allora ministro della Giustizia Roberto Castelli
sotto Montecitorio, unendosi a una manifestazione di giovani padani. Ieri il
voto del Senato, prima nella giunta per le autorizzazioni a procedere e poi in
Aula, ha sancito (170 voti contro 120) - fra le proteste dell'opposizione - che
il ministro era nelle sue funzioni, che egli perseguiva «un preminente
interesse pubblico» e che, quindi, nelle vicende giudiziarie scaturite da
quell'episodio la magistratura ordinaria non abbia voce in capitolo. Grande
bagarre, dunque, per una storia complicata e piccola nel merito ma che ha
portato - accusa l'opposizione - a uno stravolgimento della carta fondamentale,
la Costituzione,
che stabilisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e che, con la
riforma del 1989, abolì l'immunità dei ministri. «Hanno introdotto
surrettiziamente - dà l'allarme la capogruppo Pd Anna Finocchiaro - un lodo
Alfano per i ministri. È questo il risultato che la maggioranza voleva
raggiungere, facendo ciò che non gli è riuscito con il lodo Alfano». I fatti
del 2004 Mentre Castelli saltava con i giovani padani passò Oliviero Diliberto
che, il giorno dopo, in una trasmissione di «Telecamere» gli rinfacciò quel
comportamento poco consono a un ministro della Repubblica. La replica fu
violentissima: «Meglio saltare che mandare in giro a sprangare come fai tu». E
poi, riferendosi al caso di Silvia Baraldini: «Favorisci il rientro dei
terroristi in Italia». «Quelli che sparavano e stanno in Francia sono amici
tuoi». Tanto che la conduttrice, alla fine, gli chiese se volesse chiedere
scusa al suo predecessore al dicastero della Giustizia. «Non chiedo scusa a uno
che libera i terroristi come ha fatto lui». Partì, il 27 aprile 2004, la
denuncia per diffamazione di Oliviero Diliberto. E la schermaglia giudiziaria:
il 30 giugno 2004 il Senato decide che le parole del ministro sono
insindacabili. il 13 dicembre dello stesso anno il cosiddetto Tribunale dei
ministri, ovvero un collegio di tre giudici presso il tribunale ordinario,
stabilisce la propria incompetenza, «non si configura un reato ministeriale, e
rinvia - come prevede la legge - alla giustizia ordinaria. Nel luglio 2007 la Consulta annulla la
decisione del Senato sulla «insindacabilità». Il vulnus costituzionale
È a questo punto che Roberto Castelli, oggi sottosegretario alle
infrastrutture, gioca d'anticipo sulla magistratura ordinaria. E si rivolge lui
stesso alla Giunta. Ed è qui, denuncia l'opposizione, la prima violazione della
legge costituzionale. Secondo l'articolo 96 della
Carta, infatti, solo i magistrati e non il singolo, possono sollecitare la Giunta di palazzo Madama.
Ma non basta, la Giunta
si è comportata, sostiene Anna Finocchiaro come se esistesse «un potere delle
Camere di valutare la ministerialità del reato, di valutarla di propria
iniziativa». On demand, su richiesta dell'interessato e, per di più, di entrare
nel merito. Non era questo né lo spirito né la lettera
della riforma dell'articolo 96 della Costituzione che sottraeva alla Corte costituzionale l'accertamento dei reati ministeriali per darlo alla
magistratura ordinaria. Tanto più, sostiene Felice Casson, che «il Senato
avrebbe potuto attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale sul caso
analogo del ministro Matteoli». «sarebbe stato saggio, per evitare, come
chiede il capo dello Stato, conflitti tra istituzioni. Ma evidentemente a
questa maggioranza di evitare conflitti non glie ne importa niente». Mentre
Castelli controattacca, «è il tribunale dei ministri che ha violato le regole,
non io», il senatore Francesco Sanna accusa: «La Giunta non ha visto le
carte del Tribunale dei ministri, non ha potuto ascoltare nemmeno Castelli, si
è basata solo sulle carte dell'avvocato Ghedini».
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( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Figlio del giudice costituzionale a capo dell'Aviazione civile CLAUDIA FUSANI La
storia è questa: un avvocato di 44 anni è promosso alla guida di un importante
ente pubblico mentre il padre, giudice, è impegnato in una decisione assai
delicata che riguarda il ministro che ha proposto e ottenuto la nomina del
figlio. Probabilmente si tratta solo di una coincidenza, uno di quegli incroci
temporali che neppure il diavolo riuscirebbe a mettere in piedi. Probabilmente.
E al bando i maligni, chi ci vuole vedere altro, piani e strategie. Magari
scambi di favori, ohibò. E però la storia va raccontata tutta. Per filo e per
segno. Il 4 di giugno l'avvocato Alessio Quaranta, 44 anni, sposato, due figli,
professionista stimato, un curriculum segnato dai ruoli dirigenziali
all'interno dell'Enac, diventa n°1 dell'Ente nazionale di aviazione civile,
l'organismo che decide tutto in materia di voli, aeroporti e licenze e
sicurezza. Insomma, un Signor incarico. La nomina di Quaranta viene fatta dal
Consiglio dei ministri su proposta del ministro competente, Altero Matteoli (
Trasporti). Un paio di settimane dopo, anche se i giornali ne parlano solo il 9
luglio, succede che un altro Quaranta, Alfonso padre di Alessio e giudice della
Corte Costituzionale, partecipa al voto che in qualche modo
"assolve" proprio il ministro Matteoli dall'accusa di favoreggiamento.
Qui serve una parentesi. Perchè c'è una storia nella storia. Nel 2004 il
ministro Matteoli è accusato di favoreggiamento dalla procura di Livorno per
aver avvisato il prefetto di un'indagine a suo carico per presunti abusi
edilizi relativi alla costruzione di un residence all'isola d'Elba.
All'epoca Matteoli è ministro dell'Ambiente e in quanto tale chiede alla Giunta
per la autorizzazioni a procedere di deliberare che «i fatti a lui ascritti
siano dichiarati attinenti alle sue funzioni ministeriali». Nel frattempo il
tribunale di Livorno, dopo che il Tribunale dei ministri di Firenze si era
spogliato del procedimento perchè non si trattava di reato ministeriale, rinvia
a giudizio il ministro per favoreggiamento. Matteoli si oppone, investe della
questione la Giunta
della camera che solleva il conflitto di attribuzione di poteri presso la Corte Costituzionale.
La quale, e torniamo a oggi, decide di rinviare tutto alla Giunta della Camera.
Ma quella della Consulta non è stata una decisione serena. Anzi. E' stata presa
a maggioranza - è ipotizzabile una conta di 8 sì e sette no - e ha registrato
la contrarietà del vicepresidente della Corte Ugo De Siervo che, pur essendo il
relatore, non scriverà le motivazioni di una scelta che non condivide. Non si
capisce infatti come possa essere una prerogativa ministeriale avvisare una
persona di essere sotto inchiesta. E' un fatto che la decisione della Corte sta
facendo molto discutere nel merito. E inquieta sapere che uno di quei giudici
che hanno deciso, in un modo o nell'altro, su una sorta di Lodo Matteoli, è il
padre di un professionista che lo stesso Matteoli ha appena promosso. L'ex dg
consulente al ministero Coincidenze. E malignità. Nulla di più. Che però non
finiscono qua. Infatti l'ex dg di Enac, Silvano Manera, ex comandante di
Alitalia, è candidato a diventare consulente dello stesso ministro Matteoli.
Insomma, tutti contenti e nessuno a piedi.Il caso Matteoli slitta a settembre.
Sarà la Camera
a decidere se il reato è ministeriale o meno. Resta aperto il caso Consulta:
dopo la cena a casa del giudice Mazzella con il premier, il sottosegretario e
il ministro della Giustizia, arriva ora il caso Matteoli-Quaranta. E a ottobre,
sempre la Consulta,
dovrà decidere sulla costituzionalità del Lodo Alfano. In pratica se processare
il premier oppure no. Dopo la cena a casa del giudice Mazzella un nuovo
caso-Consulta. Pochi giorni prima che il giudice Alfonso Quaranta decidesse sul
lodo Matteoli il figlio di Quaranta è diventato direttore dell'Enac. Su
proposta di Matteoli.
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( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Nel 1989 fu abolito il
tribunale ad hoc La riforma Nel 1989 fu modificato l'articolo 96 della Carta.
Prima si prevedeva un tribunale ad hoc, presso la Corte Costituzionale,
per i reati ministeriali. La nuova formulazione dice: «Il Presidente del
Consiglio dei Ministri ed i Ministri, anche se cessati dalla carica, sono
sottoposti, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, alla
giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o
della Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale». Un collegio di tre magistrati fa le
indagini preliminari e chiede a Camera o Senato l'autorizzazione.
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( da "Unita, L'" del
23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Un lodo Alfano per i
ministri Il voto al Senato salva Castelli JOLANDA BUFALINI «Chi non salta
italiano è!», così cantava l'allora ministro della Giustizia Roberto Castelli
sotto Montecitorio, unendosi a una manifestazione di giovani padani. Ieri il
voto del Senato, prima nella giunta per le autorizzazioni a procedere e poi in
Aula, ha sancito (170 voti contro 120) - fra le proteste dell'opposizione - che
il ministro era nelle sue funzioni, che egli perseguiva «un preminente
interesse pubblico» e che, quindi, nelle vicende giudiziarie scaturite da
quell'episodio la magistratura ordinaria non abbia voce in capitolo. Grande
bagarre, dunque, per una storia complicata e piccola nel merito ma che ha
portato - accusa l'opposizione - a uno stravolgimento della carta fondamentale,
la Costituzione,
che stabilisce l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e che, con la
riforma del 1989, abolì l'immunità dei ministri. «Hanno introdotto surrettiziamente
- dà l'allarme la capogruppo Pd Anna Finocchiaro - un lodo Alfano per i
ministri. È questo il risultato che la maggioranza voleva raggiungere, facendo
ciò che non gli è riuscito con il lodo Alfano». I fatti del 2004 Mentre
Castelli saltava con i giovani padani passò Oliviero Diliberto che, il giorno
dopo, in una trasmissione di «Telecamere» gli rinfacciò quel comportamento poco
consono a un ministro della Repubblica. La replica fu violentissima: «Meglio
saltare che mandare in giro a sprangare come fai tu». E poi, riferendosi al
caso di Silvia Baraldini: «Favorisci il rientro dei terroristi in Italia».
«Quelli che sparavano e stanno in Francia sono amici tuoi». Tanto che la
conduttrice, alla fine, gli chiese se volesse chiedere scusa al suo predecessore
al dicastero della Giustizia. «Non chiedo scusa a uno che libera i terroristi
come ha fatto lui». Partì, il 27 aprile 2004, la denuncia per diffamazione di
Oliviero Diliberto. E la schermaglia giudiziaria: il 30 giugno 2004 il Senato
decide che le parole del ministro sono insindacabili. il 13 dicembre dello
stesso anno il cosiddetto Tribunale dei ministri, ovvero un collegio di tre
giudici presso il tribunale ordinario, stabilisce la propria incompetenza, «non
si configura un reato ministeriale, e rinvia - come prevede la legge - alla
giustizia ordinaria. Nel luglio 2007 la Consulta annulla la decisione del Senato sulla
«insindacabilità». Il vulnus costituzionale È a questo
punto che Roberto Castelli, oggi sottosegretario alle infrastrutture, gioca
d'anticipo sulla magistratura ordinaria. E si rivolge lui stesso alla Giunta.
Ed è qui, denuncia l'opposizione, la prima violazione della legge costituzionale. Secondo l'articolo 96 della Carta, infatti,
solo i magistrati e non il singolo, possono sollecitare la Giunta di palazzo Madama.
Ma non basta, la Giunta
si è comportata, sostiene Anna Finocchiaro come se esistesse «un potere delle
Camere di valutare la ministerialità del reato, di valutarla di propria
iniziativa». On demand, su richiesta dell'interessato e, per di più, di entrare
nel merito. Non era questo né lo spirito né la lettera
della riforma dell'articolo 96 della Costituzione che sottraeva alla Corte costituzionale l'accertamento dei reati ministeriali per darlo alla
magistratura ordinaria. Tanto più, sostiene Felice Casson, che «il Senato
avrebbe potuto attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale sul caso
analogo del ministro Matteoli». «sarebbe stato saggio, per evitare, come
chiede il capo dello Stato, conflitti tra istituzioni. Ma evidentemente a
questa maggioranza di evitare conflitti non glie ne importa niente». Mentre
Castelli controattacca, «è il tribunale dei ministri che ha violato le regole,
non io», il senatore Francesco Sanna accusa: «La Giunta non ha visto le
carte del Tribunale dei ministri, non ha potuto ascoltare nemmeno Castelli, si
è basata solo sulle carte dell'avvocato Ghedini». Il ministro Castelli salvato
dalla sua maggioranza con 170 voti contro 120. Ma l'opposizione accusa: violata
la legge e la Carta
costituzionale, avete introdotto un lodo Alfano anche
per i ministri.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-23 - pag: 23 autore: Imposte contese.
Sul nodo della deducibilità Per l'Irap «salvezza» più vicina alla Consulta
Marco Bellinazzo ROMA L'Irap passerà indenne al vaglio
della Corte costituzionale. è questo,infatti,l'orientamento che starebbe prevalendo tra i
giudici della Consulta. L'ordinanza (il relatore è il giudice Sabino Cassese)
che fa salvo il contestato tributo regionale sulle attività produttive sarà
depositata con ogni probabilità la prossima settimana. Nelle
considerazioni della Corte, chiamata fin dal 2004 dalle commissioni tributarie
di mezza Italia a pronunciarsi sull'indeducibilità dell'Irap aifini dei tributi
erariali (sancita dall'articolo 1, comma 2 del decreto legislativo 446/97),
avranno pesato, indubbiamente, le novità relative alla parziale deducibilità
del 10% del costo del lavoro introdotta dalla manovra anti-crisi della scorsa
estate (decreto legge 185/08), i nuovi scenari istituzionali legati
all'implementazione del federalismo fiscale e i timori per l'impatto di
un'eventuale bocciatura sui conti pubblici (l'Irap garantisce qualcosa come 40
miliardi all'Erario) e, in particolare, sui fondi per la sanità. Nelle
ordinanze di rimessione che si sono succedute in questi anni – tra le più
recenti (ma con altro taglio) quelle della Ctp di Bologna del 3 aprile e del 25
giugno 2009 – i capi d'"imputazione" contro l'Irap sono andati
moltiplicandosi. In definitiva, però, è stata l'indeducibilità dell'imposta a
essere accusata di violare il principio di capacità contributiva (articolo 53
della Costituzione), in quanto comporterebbe la "doppia" incidenza
del prelievo, perchè le imposte sui redditi graverebbero anche sull'Irap.
Ovvero l'incidenza dell'imposta su un reddito negativo: quando le imprese
tassate sono in perdita l'Irap, in effetti, grava comunque su costo del lavoro
e interessi passivi. Solo quando saranno rese note le motivazioni,
naturalmente, sarà possibile ricostruire l'excursus giuridico seguito dalla
Corte. In alternativa alla semplice dichiarazione di inammissibilità o
infondatezza della questione si starebbe valutando anche la possibilità di
ritenere "determinante" l'elemento dello ius superveniens. Per i
giudici costituzionali si aprirebbero così due strade: potrebbero trarre la
convinzione del superamento tout court della presunta illegittimità dell'Irap;
oppure rinviare il problema alle Commissioni tributarie affinchè valutino se lo
sconto forfettario del 10% dell'Irap dalla base imponibile Ires e Irpef (in
relazione ai costi sostenuti per personale e interessi passivi) abbia garantito
all'imposta regionale pieno diritto di cittadinanza nell'ordinamento
tributario. © RIPRODUZIONE RISERVATA LE INDICAZIONI I giudici della Corte
dovrebbero considerare superate le questioni di legittimità degli ultimi anni
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore sezione:
NORME E TRIBUTI data: 2009-07-23 - pag: 25 autore: Corte costituzionale. Illegittimo il divieto di restituzione dei versamenti
precedenti il 2008 Rimborsi Ici alle coop agricole Si apre la strada per la
presentazione delle istanze ai Comuni Luigi Lovecchio è illegittimo il divieto
di restituzione dell'Ici versata dalle cooperative agricole per gli anni
precedenti al 2008. Con la sentenza 227/09, la Corte costituzionale
ha infatti dichiarato l'incostituzionalità della previsione contenuta nell'articolo
2, comma 4 della legge 244/07, che disponeva il blocco dei rimborsi Ici sui
fabbricati strumentali delle cooperative. Gli effetti della sentenza potrebbero
rivelarsi dirompenti, posto che sull'applicabilità dell'imposta comunale agli
immobili delle cooperative agricole sono pendenti numerosi contenziosi, anche
di ingente entità. La pronuncia della Corte costituzionale
si segnala per la puntuale ricostruzione storica della nozione di ruralità, a
partire dalla originaria formulazione dell'articolo 9 del decreto legge 557/93.
In forza di questa norma, ai fini della definizione di fabbricato rurale
occorreva l'identità soggettiva del proprietario del terreno e del proprietario
del fabbricato asservito al fondo. Questo impediva, dunque, il riconoscimento
della ruralità agli immobili delle cooperative agricole, in ragione del fatto
che la titolarità dei terreni appartiene normalmente ai soci delle coop. Con
l'inserimentodel comma 3 bis all'interno dell'articolo 9, si è poi proceduto a
disciplinare autonomamente i fabbricati rurali strumentali. Secondo la
prevalente lettura di tale comma, la norma dovrebbe consentire di attribuire la
qualifica di ruralità ai beni oggettivamente destinati ad attività agricole,
indipendentemente dal possesso dei fondi cui essi afferiscono. La Corte costituzionale
ricorda tuttavia anche il recente filone giurisprudenziale inaugurato dalla
Cassazione con numerose sentenze emesse nell'estate del 2008, a fronte del quale
tutti i fabbricati rurali dovrebbero scontare l'Ici. Tanto, in ragione del
fatto che la ruralità rileverebbe solo ai fini del classamento degli immobili,
non anche ai fini dell'esenzione dal tributo comunale. In un quadro
interpretativo già sufficientemente controverso, si inseriscono le innovazioni
introdotte a fine 2007 e nei primi mesi del 2009. Si tratta in particolare: •
dell'articolo 42 bis del Dl 159/07, che ha completamente sostituito la
definizione di fabbricato rurale, menzionando espressamente, tra l'altro, le
cooperative agricole; • dell'articolo 2, comma 4 della legge 244/07, che ha
sancito il divieto di rimborso dell'Ici versata sulle costruzioni strumentali
delle cooperative; • dell'articolo 23, comma 1 bis del Dl 207/08, che contiene
una disposizione interpretativa in materia di ruralità. La sentenza della Corte
non prende posizione sulla natura interpretativa o innovativa dell'articolo 42
bis, ritenendo sufficiente l'esame della sola disposizione incriminata, recata
nella legge 244/07. Osserva in proposito la Corte costituzione che se l'Ici era dovuta dalle
cooperative per le annualità precedenti il 2008, non avrebbe avuto senso il
divieto di rimborso disposto nel 2007. Ne consegue che l'unica finalità
perseguita nella legge 244/07 è quella di impedire il rimborso di una somma
altrimenti indebita. A rafforzare tale conclusione, la pronuncia si richiama
anche alla disposizione contenuta nel Dl 207/08. La norma, qualificata dalla
Corte come interpretativa, afferma infatti che i fabbricati rurali devono
intendersi esclusi dal presupposto dell'Ici. Stando così le cose, la sentenza
non ha potuto che confermare i precedenti a fronte dei quali è irragionevole la
disparità di trattamento tra soggetti che hanno pagato un tributo indebito, ai
quali si preclude il rimborso, e soggetti che invece non hanno versato nulla
sin dall'inizio. La disposizione dell'articolo 2, comma 4 della legge 244/07 è
stata pertanto dichiarata costituzionalmente illegittima. Si apre a questo
punto la strada per le istanze di rimborso dell'Ici pagata dalle cooperative
agricole. Al riguardo, occorre ricordare che le sentenze di incostituzionalità
non producono effetti per i rapporti esauriti. Ne consegue che, in linea di
principio, non sono ammesse restituzioni in caso di sentenze passate in
giudicato, accertamenti divenuti definitivi e decorrenza dei termini per il
rimborso. La scadenza per i rimborsi è di cinque anni dal pagamento. ©
RIPRODUZIONE RISERVATA IL QUADRO Cinque anni per la domanda La sentenza non
avrà nessun effetto se si è prodotto il giudicato o l'accertamento definitivo
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-23 - pag: 25 autore: Federalismo Province autonome competenti sul paesaggio La Corte costituzionale, con la sentenza n. 225 depositata ieri, ha dato ragione alla
provincia di Trento dichiarando l'illegitimità di un passaggio del Codice dei
beni culturali e del paesaggio del 2004, riconoscendo i limiti dello Stato in
materia di protezione del paesaggio. Veniva contestato, in particolare,
un comma ritenuto in contrasto con la competenza primaria della Provincia
autonoma di Trento in materia di tutela del paesaggio, sancita dallo Statuto
speciale del Trentino Alto Adige. Si tratta del comma 3 dell'articolo 131 del
decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. Per la Consulta bisogna
ricordare che le disposizioni della legge costituzionale
n. 3 del 2001 (che assegna allo Stato competenze in materia di paesaggio) non
sono destinate a prevalere sugli statuti speciali di autonomia ed è proprio in
questa prospettiva che, con specifico riferimento alla competenza legislativa
della Provincia autonoma di Trento, la stessa Consulta, con la sentenza n. 62
del 2008, ha
richiamato la competenza legislativa esclusiva in materia di «tutela del
paesaggio ». Una conclusione che è stata poi corroborata anche da una
successiva pronuncia della stessa Corte cstituzionale che aveva riconsciuto una
posizione esclusiva analoga anche alla Valle d'Aosta.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: FINANZA E MERCATI data: 2009-07-23 - pag: 37 autore: Assicurazioni.
Per il Ceo della compagnia la Rc
auto è stata penalizzata dalle modifiche al bonus-malus Polizze in recupero dal
2010 Marchionni (Fondiaria Sai): le semestrali saranno ancora difficili
Riccardo Sabbatini «Penso che sia stato toccato il fondo e che il 2010 vedrà un
recupero ma, allo stesso tempo, immagino che le semestrali in arrivo ancora non
porteranno buone notizie». L'amministratore delegato di Fondiaria Sai Fausto
Marchionni non condivide il pessimismo del Ceo di Allianz Michael Dickmann sui
tempi lunghi del recupero del settore assicurativo dalle secche della crisi.
Nell'immediato, tuttavia, la sua previsione è che le compagnie italiane si
preparino ad archiviare semestrali ancora difficili con risultati «più vicini a
quelli del primo trimestre 2008 che alla semestrale dello scorso anno». Con
l'attenzione dei manager, per l'interoesercizio,concentrata a migliorare i
bilanci tecnici ed a tenere la barra diritta sulla solidità patrimoniale. «è la
mia bussola. Certamente teniamo in considerazione le esigenze degli azionisti
ma sotto il livello di 130% del margine di solvibilità non intendiamo
scendere». In questa fase di congiuntura negativa gli assicuratori italiani hanno
una spina sul fianco, la Rc
Auto. Dopo anni di utili tecnici nel 2008 il combined ratio (
il rapporto tra il totale delle spese e dei premi incassati) a livello di
mercato a superato nuovamente quota 100 (100,8% secondo le rilevazioni
dell'Ania, l'associazione delle compagnie) e, nonostante i ritocchi tariffari
già decisi da molte società la situazione sta peggiorando. A soffrire è anche
Fondiaria Sai che da sempre detiene la leadership del mercato (con una quota
del 23%). Sono le conseguenze, perduranti, del decreto Bersani che ha innescato
–sottolinea Marchionni – una «deregolamentazione selvaggia ». Le reti agenziali
– nonostante gli incentivi al plurimandato «non si sono spostate, non c'è stato
il temuto sconquasso ». Al di sotto degli agenti, al livello di subagenti e
produttori, qualche effetto invece c'è stato con venditori che si sono spostati
da una compagnia all'altra alla ricerca di chi faceva gli sconti maggiori per i
portafogli che erano in grado di trasferire. Le compagnie hanno perso il controllo
della flessibilità a vantaggio dei distributori. A tutto questo si sono
aggiunte le conseguenze «devastanti» delle modifiche al bonus-malus che hanno
consentito di attribuire a tutta la famiglia la classe di merito più
favorevole. «In un solo anno la classe migliore – sottolinea Marchionni - si è
incrermentata del 40% a livello di sistema mentre le peggiori sono praticamente
sparite». Ma le cattive notizie non si fermano qui. Negli ultimi mesi le
maggiori insidie alle compagnie sono venute dalla magistratura. Ha iniziato il
tribunale di Milano elevando le tabelle di risarcimento per i danni fisici che,
se fossero ribaltate interamente sui prezzi – stima Fonsai – comporterebbero
incrementi medi del 3- 3,5 per cento. E da ultimo è arrivata la sentenza della
Corte Costituzionale che ha giudicando legittimo il nuovo modello di indennizzo
diretto nella Rc auto – è l'assicuratore del danneggiato che risarcisce il
cliente ricevendo successivamente un forfait dalla compagnia del danneggiante –
ma allo stesso tempo ha accordato all'automobilista il diritto, se
insoddisfatto del trattamento, di rivolgersi alla compagnia del danneggiante.
Come avveniva in precedenza. «Tutto questo è suscettibile di vanificare
completamente il modello scelto dal legislatore rendendo ingestibile la cassa
di compensazione tra le compagnie. Facciamo l'esempio che una compagnia abbia
risarcito per 500 euro il suo cliente e che quest'ultimo abbia successivamente
chiesto e ottenuto altri 700 euro dalla compagnia del danneggiante, già obbligata
a versare il forfait (ad esempio di 1500 euro). La prima avrà guadagnato ma per
l'altra avrà subito una perdita doppia».C'è anche una beffa. «Nel contenzioso
con l'automobilista la seconda compagnia non potrà utilizzare in tempi brevi
neppure i dati sull'incidente visto che l'Antitrust ha vietato lo scambio di
informazioni tra gli assicuratori, considerandolo collusivo». LE STIME «I conti
del comparto dovrebbero essere più vicini a quelli del primo trimestre 2008 che
a quelli di giugno dello scorso anno» Al vertice. Fausto Marchionni, a.d. di
Fondiaria Sai FOTOGRAMMA
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: SYSTEM data: 2009-07-23 - pag: 5 autore: ANALISI Niente impunità per i
reati gravi di Ivo Caraccioli P er evitare che i contribuenti che aderiscono al
rientro dei capitali si "autodenuncino" per i reati collegati all'esportazione
illecita, il provvedimento prevede una causa estintiva del reato (o causa di
non punibilità), limitatamente peraltro a quelli di «dichiarazione infedele » e
«omessa dichiarazione » dei redditi e Iva di cui agli articoli 4 e 5 del
decreto legislativo 74/2000 (oltre ai reati di cui alla legge 516/82 a
eccezione di quelli previsti dall'articolo 4 lettere d) e f) della stessa
legge). Una scelta minimale onde evitare che il provvedimento provochi
l'impunibilità per reati più gravi,solo indirettamente collegati all'esportazione
o non meritevoli di estinzione. è quindi, in ogni caso, inesatto parlare di
«condono dei reati». Sempre nel campo dei reati fiscali, non vi sono, quindi,
compresi, ad esempio, quelli in materia di fatture false (utilizzazione in
dichiarazione ed emissione: articoli 2 e 8 dello stesso decreto legislativo).
In proposito si devono, comunque, tenere presenti gli orientamenti della
giurisprudenza, anche della Cassazione, secondo cui non dà luogo all'articolo
2, ma all'articolo 4, la deduzione di costi non inerenti (fatturati a un
contribuente al posto dell'altro). Parimenti, per l'utilizzatore, la deduzione
di costi, pur realmente sostenuti, provenienti da soggetti diversi da quelli
che hanno ceduto i beni ed effettuato la prestazione di servizi. In base
all'articolo 182 del Codice penale le cause di estinzione del reato si
applicano solo alla persona a cui direttamente si riferiscono e non sono quindi
estendibili ai concorrenti nel reato. Peraltro, in relazione allo scudo bis, collegato al condono tributario ( fino al 2002), la Corte costituzionale aveva opportunamente chiarito che, a pena di provocare un
indebito arricchimento per lo Stato, della non punibilitàdovessero fruire pure
i componenti del collegio sindacale (e quindi anche i consulenti) delle società
i cui amministratori avevano fatto luogo al condono. Un principio
generale che deve valere anche in relazione allo "scudo", tenendo
presente peraltro che non deve trattarsi di società, e quindi il principio vale
solo per i consulenti o altri concorrenti. Questo, si badi, riguarda i
concorrenti " esterni", non quelli "interni" (ad esempio,
se il rimpatrio effettuato dal socio di una società semplice o associazione
equiparata estingue con lo scudo l'ammontare dell'evasione penalmente
rilevante, la causa di non punibilità vale per tutti i soci od associati). è
previsto, come normalmente accade, che dell'estinzione non si possa godere se
sono già iniziate ispezioni, verifiche, accessi. Questa formula, essendo
limitativa di un diritto, va peraltro intesa in senso restrittivo, e quindi
unicamente con riferimento ai soggetti direttamente verificati.Ad esempio,se
l'accesso è finalizzato ad acquisire documenti relativi a un contribuente
detenuti dallo studio di consulenza, non è impedito l'effetto estintivo dello
scudo riguardo agli eventuali reati, connessi alla vicenda, commessi dal
consulente (ad esempio mancata dichiarazione dei redditi derivati dalla
consulenza stessa). © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Manifesto, Il"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
DECRETO ANTICRISI
GOVERNO Un emendamento cambia destinazione alla copertura Precari a terra: salta
l'una tantum «L'Istat deve restare pubblica», ma vanno aumentate le risorse e
riformato lo statuto. La lotta dei rilevatori delle «forze di lavoro», precari
cococò da 7 anni e ora a rischio licenziamento. Mentre nel decreto «anticrisi»
spunta un emendamento che eliminina l'indennità una tantum per i collaboratori
a progetto, sbandierata dal governo nei mesi scorsi Sara Farolfi ROMA Era
marzo, l'uscita dal tunnel della crisi non si intravedeva neppure e il governo
annunciava in pompa magna il raddoppio, dal 10 al 20%, dell'indennità per i
collaboratori a progetto (co.co.pro). «Non lasceremo indietro nessuno», suonava
allora la parola d'ordine, palleggiata all'occorrenza tra i ministri. Grande
retorica, pochi i persuasi dell'impatto della misura, 100 milioni i fondi
stanziati per la copertura 2009. «Ma ne metteremo altrettanti anche per il
2010», aveva giurato Sacconi. E invece niente. Niente raddoppio, ma neppure
niente «elemosina», come in tanti l'avevano definita. Tra le pieghe dei 150
emendamenti presentati al decreto «anticrisi», infatti, viene cambiata la
destinazione d'uso di quei 100 milioni stanziati per finanziare l'una tantum
per i collaboratori a progetto (in monocommittenza), e che ora invece andranno
a finire, «tutti o in parte», nel Fondo sociale per l'occupazione e la
formazione. Neppure le briciole insomma per chi, se espulso dal mercato del
lavoro, non ha diritto neppure al sussidio di disoccupazione: diversi
economisti avevano mostrato l'esiguità della misura - il 20% della retribuzione
2008, pari a circa 1600 euro di una tantum, per una platea pari al 12,5% dei
collaboratori a progetto, secondo le stime de Lavoce.info. Tutto ciò fa il paio
con quell'altra norma del decreto che proroga il blocco delle assunzioni nel settore pubblico e che dunque mette fuori i 25
mila precari delle Poste per i quali la Corte costituzionale
aveva disposto il reintegro. E non è tutto. Con il metodo ormai consolidato
dell'azzardare provvedimenti tramite emendamenti, il decreto «anticrisi», sul
quale con ogni probabilità il governo già oggi metterà la fiducia, si è
arricchito di vere e proprie chicche. Come la «mini» liberalizzazione
del trasporto pubblico locale. L'obiettivo, spiegano i due emendatari di casa
Pdl, è quello di «promuovere l'efficienza e la concorrenza nei singoli settori
del trasporto pubblico», a tal fine almeno il 10% dei servizi di trasporto
pubblico locale dovranno essere affidati tramite gara a imprese non controllate
dagli enti locali. E ancora, la completa esautorazione del ministero dell'ambiente
e degli enti locali nelle autorizzazioni per la realizzazione di centrali di
produzione e di distribuzione di energia, nucleare incluso. Dopo la denuncia
della stessa ministra Prestigiacomo, ieri l'allarme è arrivato anche dall'Anci
(l'associazione dei comuni) e da Legambiente. La società Stretto di Messina può
invece dormire sonni tranquilli: è sempre un emendamento a stanziare 1,3
miliardi di euro, e a trasformare l'amministratore delegato della società,
Pietro Ciucci, in commissario straordinario con il compito di rimuovere gli
ostacoli frapposti al riavvio delle attività. I terremotati abruzzesi invece
dovranno rimborsare allo stato le tasse non pagate in questi mesi (dal
terremoto in poi), non è chiaro se con o senza interessi. A proposito, arriva
invece una 'buona' notizia per gli ex terremotati di Marche e Umbria (era il
1997): anche per loro c'era il rimborso di quanto non pagato allo stato ma, si
decide ora, «senza maggiorazione, sanzione nè interessi». I proventi della
«porno tax» - prevede un altro emendamento - andranno al ministero dei beni
culturali per interventi a favore dello spettacolo, anche se ancora non si è
parlato di ripristino del Fondo unico, su cui si è mobilitato in questi giorni
tutto il mondo della cultura. Alcune modifiche sono state fatte alla cosiddetta
Tremonti ter, quella parte del decreto che riguarda i benefici alle imprese: le
agevolazioni fiscali ci saranno solo per l'acquisto di macchinari nuovi ma
decadranno (zampino leghista) qualora gli strumenti così acquisiti vengano ad
aziende di paesi extra Ue. Ultima chicca: lo stop ai sacchetti non
biodegradabili scatterà solo dal 2011 (e non più da inizio 2010). Su tutto il
provvedimento - che contiene lo scudo fiscale, la sanatoria per colf e badanti
e la riforma delle pensioni per le dipendenti pubbliche da quest'anno, ma dal
2015 per tutti, uomini e donne, pubblici e privati - il governo dovrebbe
mettere la fiducia già oggi. Il decreto dovrebbe arrivare in senato giovedì 30
luglio, per il voto finale entro il primo week end di agosto. Dati i malumori,
anche dentro la stessa maggioranza, non sono escluse modifiche, che
riporterebbero il testo in terza lettura alla camera. Foto: UN PRECARIO IN
PIAZZA /FOTO EMBLEMA. A SINISTRA, IL MINISTRO DELL'ECONOMIA TREMONTI
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( da "Repubblica.it"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
ROMA - "Una
nuova legittimazione". Un piano per provare a far dimenticare gli scandali
di questi tre mesi e costruire una "pace sociale" in grado di
sostenere le difficoltà del prossimo "autunno caldo". I sondaggi non
sono più brillanti come all'inizio dell'anno. La speranza di presentarsi come
"il presidente di tutta l'Italia" si è allontanata. Le spine
dell'esecutivo crescono e rischiano di moltiplicarsi da settembre in poi.
Silvio Berlusconi, allora, tenta la "mossa del cavallo". Cambiare
strategia per impostare una "fase nuova" del suo governo e per
rivitalizzare il rapporto con gli elettori. Evitando lo scontro diretto con
l'opposizione e avviando un "rinnovato dialogo" con le parti sociali.
Compresa la Cgil
di Guglielmo Epifani. Il Cavaliere, insomma, è convinto che le ultime vicende
"non avranno alcun effetto sulla durata dell'esecutivo". Il suo
timore, semmai, è che possano condizionarne i risultati. Ha paura della
paralisi. E in più che si incrini definitivamente il feeling con gli italiani.
Il caso Noemi, gli scatti osè di Villa Certosa, adesso le registrazioni di
Patrizia D'Addario, infatti, stanno pesando sul suo indice di popolarità. I
sondaggi segnano un flessione per quanto riguarda la fiducia nel premier. Ma la
sua preoccupazione, appunto, è un'altra. Che la luna di miele sia
definitivamente tramontata e che il clima di "scontro" possa
congelare ogni scelta di "lungo periodo" della sua maggioranza.
Tant'è che negli ultimi giorni, ha iniziato a discutere con i suoi fedelissimi,
sulla strategia da studiare per la ripresa dopo la pausa estiva. OAS_RICH('Middle');
"Resto convinto che questa vicenda della D'Addario non cambierà la
situazione rispetto a noi. Non c'è la possibilità che l'asse nazionale si
sposti a sinistra. Il Paese - è il suo ragionamento - ha già digerito
tutto". Il problema però è il "feeling" con gli italiani.
"Dobbiamo ricostruire la sintonia", dice. "Indispensabile"
per affrontare il prossimo "autunno caldo" e compiere scelte capaci
di dar vita a "riforme strutturali". A partire da quella previdenziale
e della sanità. E già, perché gli studi che girano sulle scrivanie di Palazzo
Chigi e del ministero del Tesoro non lasciano molte speranze su quel che
accadrà alla nostra economia da settembre in poi. Aziende costrette a chiudere
i battenti soprattutto nei distretti settentrionali, il pil ulteriormente in
discesa. In più proprio tra qualche mese scatteranno le vertenze per il rinnovo
di importanti contratti come quello del pubblico impiego. Una situazione
esplosiva che, anche per il presidente dl consiglio, potrebbe imporre decisioni
"drastiche" ma "condivise". Non solo con la Lega. Non a caso negli
ultimi giorni il capo del governo ha incaricato "ambasciatori" e
ministri di ricucire il dialogo con "tutte" le parti sociali. Ieri ha
chiamato a Palazzo Grazioli Emma Marcegaglia, il presidente di Confindustria.
Di recente Gianni Letta ha sentito i segretari di Cisl e Uil, Raffaele Bonanni
e Luigi Angeletti. E soprattutto la scorsa settimana Giulio Tremonti è corso
all'Assemblea di programma della Cgil proponendo di "fare insieme l'ultimo
miglio". Il tutto, appunto, per scommettere su una nuova "pace
sociale" che generi una "nuova legittimazione" e faccia
dimenticare gli scandali. Proprio in questa ottica Berlusconi ha dato ordine di
chiudere senza scossoni l'ultima partita di nomine nelle società controllate
dallo Stato. Senza rivoluzioni. Nel braccio di ferro che ha visto sfidarsi
Letta e Tremonti, allora, ha decisamente avuto la meglio il primo. Risultato:
solo conferme. All'Anas è rimasto Pietro Ciucci, alle Poste Massimo Sarmi (che
rischiava di chiudere anticipatamente il suo mandato), a Fincantieri ci sarà
ancora Giuseppe Bono, a Fintecna Maurizio Prato. Per non parlare del caso
Eni-Porto Torres per il quale il Cavaliere ha chiesto ai vertici del "cane
a sei zampe" di trovare l'accordo con "tutti" i sindacati. Non
solo. Secondo il premier, è indispensabile un ragionamento analogo anche per i
rapporti con l'opposizione. "Non penso alla possibilità di "grandi
intese" sulle riforme istituzionali", puntualizza a ogni piè sospinto.
Eppure, Berlusconi si è convinto che un clima "più disteso" possa
servire sia al centrodestra, sia al centrosinistra. "Loro - dice - possono
avere la possibilità di tenere il loro congresso serenamente". In cambio
il governo - tra settembre e ottobre - potrebbe esaminare "altrettanto
serenamente" il disegno di legge sulle intercettazioni
e affrontare "con fiducia" il giudizio della Corte costituzionale sul Lodo Alfano. Un patto "informale" che vorrebbe
sottoporre presto alla valutazione del Quirinale. "Per il resto - sono i
ragionamenti svolti nelle ultime ore con lo staff - dobbiamo puntare su azioni
di governo concrete, come la ricostruzione in Abruzzo. E poi comunicare
meglio quello che facciamo". In attesa di verificare se davvero potrà
siglare la "pace sociale". (23 luglio 2009
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( da "AltaLex" del
23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Processo tributario -
Nuovi termini Articolo di Maurizio Villani 23.07.2009 Commenta | Stampa |
Segnala | Condividi | processo tributario | termini processuali | riforma del
processo civile | condanna alle spese di giudizio | Maurizio Villani | Processo
tributario - Nuovi termini di Maurizio Villani La riforma del processo civile
(Legge 18 giugno 2009, n. 69,
in S.O. n. 95/L alla G.U. del 19 giugno 2009, n. 140),
entrata in vigore sabato 04 luglio 2009, ha modificato molti termini processuali e
ciò ha avuto conseguenze anche nel processo tributario. Oltre ai termini, di
cui si tratterà oltre, tra le principali novità che interesseranno il processo
tributario, schematicamente, segnalo: l’abrogazione dell’art.
366-bis c.p.c., che prevedeva l’obbligo per il ricorrente in Cassazione di proporre i
famigerati quesiti di diritto; le modifiche alla consulenza tecnica d’ufficio
– CTU – (artt. 191 e 195 c.p.c.), che sarà più celere; la sanabilità dei vizi
(artt. 83 e 182, comma 2, c.p.c.) in tema di procura alle liti ed al difetto di rappresentanza o di
autorizzazione; soprattutto, la sostanziale modifica in tema di condanna alle
spese di giudizio (art. 92, comma 2, c.p.c.), per cui: “Se vi
è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni,
esplicitamente
indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per
intero, le spese tra le parti”. Per comprendere meglio e stabilire i
nuovi termini nel processo tributario, secondo me, è necessario preliminarmente
evidenziare la seguente tripartizione,
conseguenza di determinati presupposti giuridici e processuali. Infatti, nel
processo tributario, è necessario distinguere: termini che richiamano
espressamente le norme del codice di procedura civile e, di conseguenza, ne
subiscono le recenti modifiche; termini che sono stabiliti esclusivamente per
la particolare natura del processo tributario e, di conseguenza, rimangono
inalterati; termini che, seppure non richiamano espressamente le norme del
codice di procedura civile, sono previsti nella stessa misura del processo
civile e, di conseguenza, per un principio di coerenza processuale, in assenza
peraltro di specifiche giustificazioni, devono ritenersi modificati nella
stessa misura di quelli previsti nel processo civile, perché compatibili. A)
Termini espressamente modificati 1) L’art. 38, comma 3, D.Lgs. n.
546 del 31 dicembre 1992 prevedeva che: “Se nessuna delle parti provvede alla
notificazione della sentenza, si applica l’art. 327, comma 1, del codice di
procedura civile. Tale disposizione non si applica se la parte non costituita dimostri di
non avere avuto conoscenza del processo per nullità della notificazione del
ricorso e della comunicazione dell’avviso di fissazione
d’udienza”. Quindi, il c.d. termine lungo per l’appello ed il ricorso per Cassazione era di 1 anno e 46
giorni, conteggiando anche la sospensione feriale dei termini. Oltretutto, il
suddetto termine era suscettibile di un ulteriore analogo prolungamento di 46
giorni quando l’ultimo giorno della prima proroga veniva a cadere dopo l’inizio
del nuovo periodo feriale dell’anno successivo (Cassazione, Sez. Tributaria,
sentenza n. 12373 del 28 gennaio 2009, depositata il 27 maggio 2009). Con le
recenti modifiche processuali, l’art. 327, comma 1, c.p.c. è stato così
sostituito: “Indipendentemente
dalla notificazione, l’appello, il ricorso per cassazione e la
revocazione per motivi indicati nei numeri 4) e 5) dell’articolo 395 non
possono proporsi dopo decorsi sei mesi dalla pubblicazione della sentenza”. Di
conseguenza, il nuovo termine
lungo, a partire dal 04 luglio 2009, è di sei mesi, che eventualmente può
essere prorogato di 46 giorni (se ricade nel periodo feriale 1° agosto - 15
settembre) e mai due volte, come in precedenza. L’art. 38, comma 3, cit.
prevede, in ogni caso, che il c.d. “termine lungo” non si applica se la parte non
costituita dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della
notificazione del ricorso e della comunicazione dell’avviso di fissazione
d’udienza. La Corte
di Cassazione, Sez. Trib., con la sentenza n. 12623 del 28 maggio 2009, ha stabilito che: “Così
come alla parte a conoscenza del processo che non si sia volutamente
costituita, anche (ed anzi a fortiori) alla parte che, come nella specie,
avendo avuto conoscenza del processo, si sia tardivamente costituita incombe comunque l’onere
di impugnare la sentenza nel termine di decadenza (n.d.r. oggi sei mesi) dalla
pubblicazione della sentenza stessa, che la legge prescrive a tutela della
certezza delle situazioni giuridiche, anche se alla parte tardivamente costituita non
sia stata fatta comunicazione né dell’avviso di trattazione né del
deposito della sentenza”. Resta naturalmente sempre possibile accelerare lo
svolgimento del processo, procedendo senza indugio alla notificazione della sentenza subito dopo il deposito per
far scattare il termine “breve” di 60 giorni, oltre la sospensione
feriale dei termini. 2) L’art. 3, comma 2, D.Lgs. n. 546 cit., stabiliva: “E’
ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione previsto dall’art. 41, primo comma, del codice di procedura
civile”. Inoltre, l’art. 50 c.p.c. prevedeva: “Se la riassunzione della
causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel termine fissato
nella sentenza dal giudice e. in mancanza, in quello di sei mesi dalla comunicazione della sentenza di
regolamento o della sentenza che dichiara l’incompetenza del giudice
adito, il processo continua davanti al nuovo giudice. Se la riassunzione non
avviene nei termini su indicati, il processo si estingue”. Dopo la riforma
processuale, il
succitato art. 50, comma 1, c.p.c. è stato così sostituito: “Se la
riassunzione della causa davanti al giudice dichiarato competente avviene nel
termine fissato nella ordinanza dal giudice e in mancanza in quello di tre mesi
dalla comunicazione della
ordinanza di regolamento o della ordinanza che dichiara l’incompetenza
del giudice adito, il processo continua davanti al nuovo giudice”. Quindi il
nuovo termine per la riassunzione della causa è di tre mesi e non più di sei
mesi, in caso di regolamento di giurisdizione (art. 41 c.p.c.). 3) L’art.
64, comma 1, D.Lgs. n. 546 cit. prevedeva che: “Contro le sentenze delle
commissioni tributarie che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non
sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate è ammessa la revocazione ai sensi
dell’art. 395 del codice di procedura civile”. L’art. 327, comma 1, c.p.c.
prima delle modifiche prevedeva il termine lungo di 1 anno e 46 giorni; dopo le
modifiche, invece, il termine è stato ridotto a sei mesi (vedi precedente lett. A). Di conseguenza,
oggi, la revocazione per i soli e particolari motivi indicati nei numeri 4) e
5) dell’art. 395 c.p.c. non può proporsi decorsi sei mesi dalla pubblicazione
della sentenza. Avverso le sentenze di mera legittimità della Corte di Cassazione non è ammissibile l’impugnazione
per revocazione per contrasto di giudicati, ai sensi dell’art. 395, n. 5,
c.p.c., non essendo tale ipotesi espressamente contemplata nella disciplina
anteriore al D.Lgs. n. 40/2006 né in quella successiva (artt. 391-bis e 391-ter c.p.c.),
secondo una scelta discrezionale del Legislatore, non in contrasto con alcun
principio e norma costituzionale, atteso che il
diritto di difesa ed altri diritti costituzionalmente garantiti non risultano
violati dalla disciplina delle condizioni e dei limiti entro i quali può essere
fatto valere il giudicato, la cui stabilità rappresenta un valore costituzionale, condivisibile anche alla luce della
circostanza che l’ammissibilità di tale impugnazione sarebbe
logicamente e giuridicamente
incompatibile con la natura delle sentenze di mera illegittimità, che danno
luogo solo al giudicato in senso formale e non a quello sostanziale (Cass.,
Sez. trib., ordinanza n. 13914 del 06 maggio 2009, depositata il 15 giugno
2009). 4) Infine, è opportuno precisare che i nuovi termini si applicano ai
giudizi instaurati dopo il 04 luglio 2009. Se il giorno di scadenza è festivo,
la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. La
suddetta proroga si applica altresì ai termini per il compimento degli atti
processuali svolti fuori dell’udienza che scadono nella giornata del
sabato. B) Termini rimasti invariati I termini rimasti invariati perché
esclusivamente previsti nel processo tributario, alcuni senza alcun
collegamento, neppure
indiretto, con i termini del processo civile, sono i seguenti: 1) il termine
breve di 60 giorni previsto dall’art. 51, comma 1, D.Lgs. n. 546 cit.; 2)
il termine di 60 giorni previsto per la particolare procedura tributaria di cui
all’art. 54, comma 2,
D.Lgs. n. 546 cit.; infatti, nello stesso atto di appello depositato, può
essere proposto, a pena di inammissibilità, appello incidentale; 3) il termine
breve per il ricorso per Cassazione di 60 giorni decorrente dalla notificazione
della sentenza ad istanza di parte, come previsto dall’art.
62, comma 2, D.Lgs. n. 546 cit. e dall’art. 325, comma 2 c.p.c., rimasto
invariato; 4) il termine di 60 giorni per proporre la revocazione per i
particolari e specifici motivi di cui ai numeri 1,2,3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., come previsto dall’art.
51, comma 2, D.Lgs. n. 546 cit.. Nei suddetti casi, il termine di 60 giorni
decorre dal giorno in cui è stato scoperto il dolo o sono state dichiarate
false le prove o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la sentenza che accerta il dolo
del giudice. Se i fatti sopra menzionati avvengono durante il termine per l’appello
il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da
raggiungere i 60 giorni da esso, ai sensi e per gli effetti dell’art. 64, comma 3, D.Lgs. n. 546 cit..
C) Termini implicitamente modificati 1) L’art. 43, comma 1 e 2, D.Lgs.
n. 546 cit., in tema di ripresa del processo sospeso o interrotto, prevedeva il
termine di 6 mesi che era uguale al termine di sei mesi previsto dagli artt. 297, comma 1, e 305 c.p.c.,
prima delle modifiche introdotte dalla Legge n. 69/2009, tenendo altresì conto
di quanto disposto dalla Corte Costituzionale con le sentenze n. 139 del 15
dicembre 1967 e n. 159 del 06 luglio 1971. Di conseguenza, secondo me, il
Legislatore tributario fin dall’inizio ha voluto fare riferimento agli
stessi termini del processo civile e non poteva certo comportarsi diversamente
trattandosi dei medesimi istituti giuridici; quindi, non è stata assolutamente
una scelta legislativa
autonoma da parte del Legislatore tributario. Con la recente riforma i termini
di cui ai citati artt. 297, comma 1, e 305 c.p.c. sono stati ridotti a 3 mesi;
non vedo il motivo di lasciare nel processo tributario termini più lunghi,
soprattutto in presenza dei medesimi istituti giuridici processuali in
questione, che non possono certo definirsi incompatibili con il processo
tributario, alla luce dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 546 cit.. Infatti: i
casi di interruzione del processo tributario (art. 40 D.Lgs. n. 546 cit.) sono
praticamente uguali a quelli previsti e disciplinati dagli artt. 299-300 e 301
c.p.c., salvo che il fatto riguardi l’ufficio tributario
(logicamente non poteva essere diversamente, in quando si è in presenza di un
ufficio pubblico e non
di una persona); i casi di sospensione del processo tributario non sono
soltanto quelli previsti dall’art. 39 D.Lgs. n. 546 cit. ma c’è da
aggiungere anche il caso di cui all’art. 295 c.p.c. della sospensione
necessaria: “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o altro
giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la
decisione della causa” (per esempio, artt. 34, 313 e 337, comma 2,
c.p.c.). Il suddetto art. 295 c.p.c., come sostituito dall’art. 35 della Legge n.
353 del 26 novembre 1990, quindi prima del D.Lgs. n. 546/1992, è applicabile
anche al processo tributario, secondo il consolidato orientamento della Corte
di Cassazione (da ultimo, Cassazione, Sezioni Unite, sentenza n. 14814 del 04 giugno 2008). Infatti, secondo i
giudici di legittimità, nel processo tributario, l’art.
39 cit. può limitare i rapporti esterni, ovverosia i rapporti tra processo
tributario e processi non tributari, ma non anche i rapporti interni fra i
processi tributari,
per i quali valgono le disposizioni del codice di procedura civile, tra cui il
disposto dell’art. 295 c.p.c.. Così, per esempio: ne consegue
che va cassata la decisione resa dal giudice tributario che non abbia sospeso
il processo, pronunciando nel merito sull’impugnazione dell’avviso di liquidazione
dell’ICI relativo ad un immobile in ordine al quale l’UTE (oggi Agenzia del
Territorio) aveva notificato l’attribuzione della rendita, autonomamente
impugnata in altro giudizio, pregiudiziale, non ancora definito (Cassazione, sentenze nn.
13082/2006, 9203/2007); analogamente, è stata cassata la sentenza pronunziata
in base all’esito non definitivo della causa pregiudiziale concernente il rifiuto
di riconoscimento del diritto alle agevolazioni per il Mezzogiorno, portata alla cognizione di
altro giudice tributario (Cassazione, sentenze nn. 9999/2006, 24408/2005); così
pure è stato ritenuto che la pendenza di una controversia sul reddito di una
società di persone soggetta ad ILOR, cui abbia partecipato il singolo socio
dell’ente, comporta l’obbligo di sospendere, ai sensi dell’art. 295
c.p.c., la separata causa eventualmente promossa dal socio stesso ai fini
IRPEF, per il reddito di partecipazione (Cassazione, sentenza n. 5366/2006); in
quest’ultimo caso, il contrasto
giurisprudenziale è stato risolto dalla Corte di Cassazione, a Sezioni Unite,
con le sentenze nn. 14815/2008 e 14816/2008, nel senso che non si tratta di una
semplice questione di pregiudizialità, riferibile al fenomeno della mera
connessione oggettiva, ma di giudizio necessariamente unico (per la unicità
dell’accertamento e per la sussistenza del vincolo del litisconsorzio
necessario) all’interno del quale la questione della ricostruzione del reddito
societario riveste il carattere di questione preliminare di merito, non suscettibile di acquisire la
forza del giudicato, se non nei confronti dei soggetti che abbiano partecipato
al processo nel quale si è formato il giudicato stesso. In definitiva,quando
viene riconosciuto il vincolo della consequenzialità necessaria, il
procedimento dipendente, se non è stato riunito (o non è stato possibile
riunirlo) al principale, deve essere sospeso ai sensi dell’art.
295 c.p.c. in attesa dell’esito di quest’ultimo (Cassazione, Sezioni Unite,
sentenza n. 14814/2008).
Infine, non si può escludere che il giudice tributario, anche per i rapporti
esterni tra processo tributario ed altri processi (civile o amministrativo),
ritenga necessario ed indispensabile attendere l’esito finale degli
altri giudizi; infatti, la succitata giurisprudenza della Corte di Cassazione mentre obbliga il
giudice tributario all’applicazione dell’art. 295 c.p.c. nei rapporti
interni tra i processi tributari, non fa assoluto divieto (o peggio ancora
impedisce) al giudice tributario di applicare l’art. 295 c.p.c. anche nei rapporti
esterni tra processi. Oltretutto, l’art. 2, comma 3, D. Lgs. n. 546 cit. non
esclude che il giudice tributario rinvii la causa perché non se la sente di
risolvere, in via incidentale, questioni civili o amministrative alquanto delicate e complesse. In
definitiva, secondo me, alla luce di tutte le considerazioni giuridiche e
giurisprudenziali di cui sopra, non vedo il motivo perché: nel processo civile,
la fissazione della nuova udienza dopo la sospensione dell’art.
295 c.p.c. deve
avvenire entro il termine perentorio di 3 mesi dal passaggio in giudicato della
sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa (art. 297, comma
1, c.p.c. riformato); mentre nel processo tributario ci dovrebbe essere il
termine di 6 mesi, quando sia nel rapporto interno (tra processi tributari)
sia, eventualmente, tra rapporti esterni (tra processo tributario e processi
civili ed amministrativi) sostanzialmente la situazione processuale non cambia,
sempre in funzione dell’art. 295 c.p.c.. Inoltre, sia il processo tributario (art. 39
D.Lgs. n. 546 cit.) sia il processo civile (art. 313 c.p.c.) devono essere
sospesi quando è presentata una querela di falso, per cui non è logico, anche
per una questione di coerenza processuale, che per una stessa fattispecie i
termini di riassunzione siano diversi, in mancanza di una specifica
giustificazione ed incompatibilità. Secondo me, ripeto, il legislatore
tributario, prima della riforma del codice di procedura civile, ha voluto
prevedere lo stesso termine di 6 mesi, trattandosi dei medesimi istituti
giuridici, per cui ritengo che la riduzione a 3 mesi debba essere applicata al
processo tributario; questo anche per una questione di prudenza professionale,
in attesa di un chiaro intervento risolutivo da parte del Legislatore, con
interpretazione autentica, o della Corte di Cassazione. 2) Stesso discorso può
farsi anche per l’art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 546 cit., dove
peraltro all’art. 62, comma 2, D.Lgs. cit. è previsto che “Al ricorso per
Cassazione ed al
relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura
civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto”.
Infatti, come nel caso di cui al precedente n. 1, anche nel succitato art. 63,
comma 1, il Legislatore tributario ha voluto fare riferimento espresso allo stesso termine annuale
previsto dall’art. 392, comma 1, c.p.c., prima delle
modifiche. Infatti, non vedo alcuna giustificazione giuridica e processuale di
prevedere due termini diversi (1 anno e 46 giorni per il processo tributario e 3 mesi per
il processo civile) per lo stesso istituto giuridico della riassunzione.
Sarebbe assurdo se per una sentenza civile il termine è di 3 mesi (art. 392,
comma 1, c.p.c. riformato) mentre se trattasi di una sentenza tributaria
(peraltro emessa dalla Corte di Cassazione – Sezione tributaria civile)
il termine dovrebbe essere 1 anno e 46 giorni, con la possibilità di un secondo
riconteggio (vedi lett. A n. 1 del presente articolo). Secondo me, anche in
questo caso, non vedo alcuna
logica incompatibilità con il processo civile, tanto è vero che, ripeto, prima
delle recenti modifiche, i termini erano uguali. Infine, in allegato al
presente articolo, presento un quadro sinottico dei nuovi termini processuali,
nel processo tributario, dopo la recente riforma del processo civile. Quadro
sinottico Processo tributario Nuovi termini processuali dopo la riforma del
processo civile (legge n. 69 del 18 giugno 2009, pubblicata in g.u. n. 140 s.o.
n. 95/l del 19 giugno 2009, entrata in vigore sabato 04 luglio 2009) Articolo
D.Lgs. n. 546/92 Argomento Termini sino al 3 luglio 2009 (Processo Tributario)
Articoli C.P.C. al 3 luglio 2009 Articoli C.P.C. dal 4 luglio 2009 (Processo
Civile) Nuovi termini dal 4 luglio 2009 (Processo Tributario) Note 3, co. 2
Regolamento preventivo di giurisdizione. Termine per la riassunzione della
causa. 6 mesi 41, co. 1-50 41, co. 1-50 3 mesi (NOVITA’) Il
termine di 3 mesi decorre dalla comunicazione dell’ordinanza di regolamento o
dell’ordinanza che dichiara l’incompetenza del giudice adito; in difetto, il processo si
estingue. 38, co. 3 Termine lungo per l’appello ed il ricorso per
Cassazione 1 anno + 46 gg. 327, co. 1 327, co. 1 6 mesi (NOVITA’)
Indipendentemente dalla notificazione, il termine lungo di 6 mesi decorre dalla pubblicazione della
sentenza. Tale disposizione non si applica se la parte non costituita dimostri
di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della notificazione del
ricorso e della comunicazione dell’avviso di fissazione
d’udienza. 43, co. 1
Ripresa del processo sospeso o interrotto 6 mesi 297-305 297-305 3 mesi (NOVITA’) Se
col provvedimento di sospensione non è stata fissata l’udienza in cui il
processo deve proseguire, le parti devono chiedere la fissazione entro il
termine perentorio di
3 mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia
civile o amministrativa di cui all’art. 295 c.p.c..Il processo
deve essere proseguito o riassunto entro il termine perentorio di 3 mesi
dall’interruzione, altrimenti si estingue. 51, co. 1 Appello – Termine breve 60 gg.
325 325 60 gg. Immutato 54, co. 2 Appello incidentale 60 gg. // // 60 gg.
Particolare procedura tributaria. Nello stesso atto di appello depositato può
essere proposto, a pena di inammissibilità, appello incidentale. 62, co. 2 Ricorso per
Cassazione 60 gg. 325, co. 2 325, co. 2 60 gg. Termine breve decorrente dalla
notificazione della sentenza ad istanza di parte. 63, co. 1 Cassazione –
Giudizio di rinvio 1 anno + 46 gg. 392, co. 1 392, co. 1 3 mesi (NOVITA’) La riassunzione della causa
davanti al giudice di rinvio può essere fatta da ciascuna delle parti non oltre
3 mesi dalla pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione. 51, co. 2
Revocazione (art. 395 nn.1-2-3-6 c.p.c.) 60 gg. 325, co. 1 325, co. 1 60 giorni
E’ di 60 giorni il termine per proporre la revocazione. Se i fatti
menzionati nell’art. 395 nn. 1,2,3 e 6 c.p.c. avvengono durante il termine per
l’appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell’avvenimento in modo da
raggiungere i 60 giorni
da esso. 64, co. 1 Revocazione (art. 395 nn.4-5 c.p.c.) 1 anno + 46 giorni 327,
co. 1 327, co. 1 6 mesi (NOVITA’) N.B. I nuovi termini si applicano ai
giudizi instaurati dopo il 04 luglio 2009. - Se il giorno di scadenza è
festivo, la scadenza è prorogata di diritto al primo giorno seguente non festivo. - La suddetta
proroga si applica altresì ai termini per il compimento degli atti processuali
svolti fuori dell’udienza che scadono nella giornata del sabato.
Casi particolari. Indipendentemente dalla notificazione, la revocazione per i motivi particolari
indicati nei numeri 4 e 5 dell’art. 395 c.p.c. non possono proporsi
dopo decorsi 6 mesi dalla pubblicazione della sentenza. Commenta | Stampa |
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Caccia:
La Ue condanna l'Italia per colpa del Veneto (sezione: Giustizia)
( da "Sestopotere.com"
del 23-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Caccia: La Ue condanna l'Italia per colpa del
Veneto (23/7/2009 15:26) | (Sesto Potere) - Roma - 23 luglio 2009 - “La nuova
richiesta di condanna per l’Italia presentata dalla Commissione
europea non arriva inaspettata. Avevamo già avvisato la regione Veneto che
attraverso l’utilizzo improprio, ormai un vero e proprio abuso, dello strumento delle deroghe avrebbe aggravato
la posizione dell’Italia rispetto alla procedura d’infrazione in
corso ”. E’ quanto dichiarano ENPA, LAC, LEGAMBIENTE, LIPU e WWF a proposito
della richiesta avanzata dalla Commissione europea di condannare l’Italia al pagamento delle spese in giudizio per
le ripetute violazioni della Direttiva 79/409/CEE commesse dal Veneto dal 2005
al 2008 riguardo la concessione di deroghe a esercitare la caccia nei confronti
di specie protette. La richiesta di condanna arriva mentre sono in discussione
al Consiglio Regionale del Veneto due nuove proposte di legge inerenti l’applicazione
del regime di deroga per la stagione venatoria 2009/2010. Proposte che non
faranno altro che aggravare ulteriormente la posizione dell’Italia e del Veneto rispetto alle procedure di
infrazione riguardanti la caccia in deroga, sia per lo strumento previsto che
per i contenuti, dato che la richiesta di estendere la caccia a specie oggi
protette dalla normativa europea va da 5 addirittura a 11 specie. Vogliamo
ricordare che il 25 giugno 2008 la Corte Costituzionale
ha dichiarato l’illegittimità di un’analoga legge approvata nel
2007 dalla Regione Lombardia. La
Corte – spiegano le associazioni - ha infatti bocciato la possibilità
di ricorrere alle deroghe attraverso una legge-provvedimento in quanto in netto contrasto con le
previsioni della legge 157/1992, articolo 19 bis, poiché tale atto impedisce l’esercizio
del potere di annullamento da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.
“Siamo di fronte a una
situazione di particolare gravità – concludono ENPA, LAC, LEGAMBIENTE, LIPU e
WWF – per la quale chiediamo al Presidente Galan un deciso ripensamento,
respingendo tali proposte e adottando invece, con urgenza, provvedimenti che
sanino la posizione del Veneto rispetto a queste procedure d’infrazione”.
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Processo
penale, il Csm boccia la riforma: vìola la
Costituzione
(sezione: Giustizia)
( da "Unita, L'" del
24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Processo penale, il
Csm boccia la riforma: vìola la Costituzione MASSIMO SOLANI Non bastano nemmeno
le cautele del vicepresidente Nicola Mancino a bagnare la miccia dell'ennesimo scontro
fra il Consiglio Superiore della Magistratura è la maggioranza di governo. «I
pareri che l'organo di autogoverno esprime non vincolano le autorità di governo
e meno che mai il Parlamento, sovrano nelle sue decisioni - spiega in una nota
- sulla riforma del processo penale la Commissione competente del Csm ha lavorato per
quattro mesi e ha tenuto molte riunioni nel corso delle quali ha elaborato in
progress un testo di suggerimenti, avanzato perplessità e, perché no, anche
critiche. Ma c'è uno spazio per le critiche?». Perché la decisione del Plenum
del Csm (contrari soltanto i due laici del Pdl, astenuto ugo Bergamo dell'Udc
mentre i togati della corrente più moderata, Magistratura Indipendente, hanno
votato a favore dissociandosi soltanto su alcune norme relative all'astensione
e alla ricusazione) rischia ora di scatenare un nuovo putiferio dopo
l'approvazione del parere redatto dalla settima commissione che, di fatto,
stronca il disegno di legge del ministro della Giustizia Alfano sul nuovo
processo penale. IN CONTRASTO LA
CARTA Un ddl che, secondo il Csm, viola principi
costituzionali come l'obbligatorietà dell'azione penale e la ragionevole durata
dei processi, e che avrà effetti «gravi» sull'efficacia delle indagini. Sotto
accusa soprattutto l'orientamento del governo di "spostare" il motore
delle indagini nelle mani della polizia giudiziaria sottraendo al Pm la facoltà
di acquisire direttamente le notizie di reato mentre gravi critiche le ha
raccolte anche la decisione di cancellare la dipendenza dei servizi di polizia
giudiziaria dal Pm e quella di instaurare una sorta di concorrenza e controllo
reciproco tra il Pm e la polizia giudiziaria, di cui oltretutto viene
«rafforzata la dipendenza dal potere esecutivo». In questo modo, infatti,
«viene meno l'obbligatorietà dell'azione penale e la separazione dei poteri».
«Così non sarebbero state possibili le indagini sulla strage di Bologna, sulla
P2 e sui Nar», ha tuonato Betta Cesqui (Md). O più in generale quelle «sui
poteri forti», ha fatto notare Fabio Roia (Unicost), secondo cui il ddl Alfano
contiene quattro violazioni della Costituzione e due norme dettate
«dall'attualità giudiziaria». Un chiaro riferimento a quella parte del ddl che
impedisce di acquisire le sentenze irrevocabili per i reati meno gravi. «Norme
- commenta un consigliere - che sembrano studiate apposta per il processo
Mills». Una stroncatura senza appello, si diceva, che il ministro della
Giustizia Alfano si è sforzato di incassare senza scomporsi troppo di fronte
agli inviti dell'opposizione a tenere conto dei rilievi del Csm. «Il consiglio
esprime pareri - ha infatti commentato laconico il Guardasigilli - è il
Parlamento che promuove o boccia i ddl». Toni decisamente più morbidi rispetto
a quelli usati da altri membri della maggioranza. Come Gaetano Quagliariello:
«È un vulnus istituzionale di inaudita gravità - ha tuonato il vicepresidente
dei senatori del Pdl - dal momento che appena un anno fa il capo dello stato, di fronte ad analoghe circostanze, aveva ammonito il Csm a non
esprimere un vaglio di costituzionalità che compete ad altre istituzioni». O
come Italo Bocchino, presidente vicario del gruppo del Pdl alla Camera, secondo
cui «il Csm continua ad ergersi a terza Camera dello Stato o a istituzione
gemella della Corte Costituzionale». Accuse di fronte alle quali Mancino
ha replicato: «Mi dispiace si parli ancora di invadenza o di terza Camera. La
prima critica rischia d'essere aprioristica, la seconda fa parte di un
repertorio di cui ci si deve liberare». Fuoco di fila del Pdl contro il parere
approvato dal Plenum sul ddl per il nuovo processo penale. Che, secondo il Csm,
viola in più punti la
Costituzione: dall'obbligatorietà dell'azione penale alla
separazione dei poteri.
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( da "Unita, L'" del
24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Tensioni e manovre
sulla Corte Costituzionale Il giudice: «Ero assente» CLAUDIA FUSANI Tensioni,
imbarazzi e grandi manovre alla Consulta. E siamo solo a luglio. Il meglio, o
il peggio, deve ancora arrivare. Via via che si avvicina il 6 ottobre, giorno in cui i quindici giudici emeriti della Corte
Costituzionale cominceranno la discussione sul Lodo Alfano, se sia costituzionale o meno la legge che crea lo scudo processuale per le quattro più
alte cariche dello Stato, dal premier al Presidente della Repubblica passando
per il presidente del Senato e della Camera. Solo che l'unica alta carica
sotto processo è il Presidente del Consiglio. E quella di ottobre è una data
decisiva per la tenuta del governo. L'ultimo imbarazzo è di ieri quando la Corte ha dovuto precisare
che «il giudice Alfonso Quaranta non ha partecipato alla fase dell'udienza in
cui è stata discussa la causa riguardante il ministro Matteoli». Il fatto è che
il ministro Matteoli aveva appena promosso (4 giugno) il figlio del giudice,
l'avvocato Alessio, alla guida dell'Enac, una poltrona che conta nel manuale
Cencelli della pubblica amministrazione. E che lo stesso ministro Matteoli il 7
luglio è stato "salvato" dalla Corte medesima con una decisione molto
tribolata che in pratica lo mette al riparo, rinviando il tutto alla Giunta per
le autorizzazioni della Camera, dal rinvio a giudizio deciso dal tribunale di
Livorno con l'accusa di favoreggiamento. Era il 2004, il ministro - oggi ai
Trasporti, all'epoca all'Ambiente - aveva informato il prefetto di Livorno di
un'inchiesta a suo carico per presunti abusi edilizi. Matteoli rivendica la
competenza del Tribunale dei ministri. La Consulta gli ha dato ragione. Spaccandosi come
una mela, però, visto che il presunto favoreggiamento non sarebbe avvenuto
nello svolgimento delle funzioni di ministro. Tanto che il relatore, il
vicepresidente Ugo De Siervo, secondo il quale il procedimento è di competenza
del tribunale ordinario, non scriverà le motivazioni. Le decisioni della Corte
sono sempre segrete. Impossibile sapere ufficialmente chi ha votato cosa. Si sa
però che la decisione su Matteoli è passata con uno, massimo due voti di
scarto. E che il giudice Quaranta, in evidente conflitto di interesse
familiare, ha ritenuto opportuno assentarsi dalla seduta «dopo averlo
comunicato al presidente Amirante». Non poteva fare altro il giudice Quaranta,
dopo che una settimana prima l'ovattato palazzo della Consulta era stato
investito dallo scoppio di un altro bubbone. A maggio, infatti, Berlusconi,
Letta e Alfano erano stati a cena a casa Mazzella, un altro giudice costituzionale, presente anche il giudice Napolitano. La
cena, definita dal governo «una cosa tra amici», aveva già acceso dubbi sulla
necessaria neutralità della Corte. Il presidente Amirante era stato costretto
ad intervenire con un comunicato per dire che la Consulta «deciderà come
sempre in modo imparziale e obiettivo». Restano l'intreccio di conflitti e
l'accavallamento di date tra nomine politiche e decisioni della Consulta.
Potevano essere evitati? Si fa notare all'Enac che «la promozione del pur bravo
figlio di Quaranta, su proposta di Matteoli, ha tolto il posto al candidato
naturale». L'attuale vicedirettore Alfredo Sciacchitano. Ancora un caso alla
Consulta. La Corte
"salva" Matteoli che due settimane prima promuove al vertice
dell'Enac il figlio del giudice Quaranta. Che dice: «Non ho partecipato a
quella decisione». E a ottobre il lodo Alfano.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-24 - pag: 27 autore: Corte costituzionale. Per l'ordinanza decisivo lo ius superveniens La deducibilità
del 10% salva il tributo Marco Bellinazzo ROMA L'Irap non è incostituzionale. L'ordinanza che, dopo i rinvii del febbraio 2007 e del marzo
2008, sigillerà la legittimità dell'imposta regionale sulle attività produttive
sarà depositata la prossima settimana (e comunque prima della pausa
estiva) nella cancelleria del Palazzo della Consulta. I giudici costituzionali
(il relatore è Sabino Cassese) valutano però con attenzione il
"taglio" da dare alla decisione che, di fatto, respinge le censure
sollevate in questi anni da numerose commissioni tributarie (Genova, Parma,
Chieti e Bologna, tanto per citarne alcune). Da parte di queste ultime infatti
è stata messa in discussione, in un'ottica di proporzionalità del prelievo
all'effettiva capacità contributiva, l'indeducibilità dell'Irap ai fini dei
tributi erariali (principio stabilito dall'articolo 1, comma 2, del decreto
legislativo 446/97). Rispetto al quadro normativo all'interno del quale la
maggior parte delle commissioni tributarie ha messo in dubbio la correttezza costituzionale dell'Irap sono intervenute, a
"sanare" parzialmente la situazione, alcune novità legislative di cui
si è indubbiamente dovuto tener conto. E proprio questo ius superveniens, anche
in vista dell'evoluzione del federalismo fiscale, si è dimostrato decisivo per
la scelta della Consulta. In primo luogo, va ricordata la manovra sul
"cuneo fiscale" (Finanziaria 2008) che, nell'ottica di alleggerire
per le aziende il costo del lavoro, ha tentato di correggere l'impianto della
base imponibile Irap. In secondo luogo, il decreto legge anti-crisi dello
scorso autunno (185/08) con il quale è stato introdotto uno sconto forfetario
del 10% dell'Irap dalla base imponibile Ires e Irpef in funzione dei costi
sostenuti per il personale e gli interessi passivi. Uno sconto che, peraltro,
ha aperto la strada anche a parziali rimborsi per il passato. Scartata dunque
l'ipotesi di una bocciatura dell'Irap, che sarebbe costata alle casse statali
una decina di miliardi sui 40 di entrate annue prodotte dall'imposta, per i
giudici costituzionali sono teoricamente due le soluzioni adottabili:
dichiarare la non fondatezza o l'inammissibilità delle questioni di legittimità
alla luce delle modifiche normative, ritenendo perciò cessata la materia del
contendere; oppure richiamare in causa le commissioni tributarie provinciali
nell'auspicio che risolvano le liti pendenti in base alla deducibilità parziale
del 10% dell'Irap dai tributi erariali ammessa con il decreto legge 185/08. ©
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( da "Manifesto, Il"
del 24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
INGIUSTIZIA Le toghe
votano contro la nuova riforma penale. «Pericolosa» anche perché impedisce ai
giudici di esprimere opinioni politiche sugli imputati. Il centrodestra la prende
male. Gasparri: «Sono sconcertato, non hanno obbedito alla richiesta di
Napolitano». Il ministro della giustizia Alfano minimizza: «E' solo un parere,
in ogni caso decide la maggioranza al governo». Niente testo a favore dei
giudici che indagarono Berlusconi. Se ne parla a settembre. Forse CSM Bocciata la legge che dà alla poliz «Riforma
incostituzionale» Sa. M. ROMA Un «gravi» al posto di «devastanti», invece dei
«dubbi di costituzionalità» una definizione che parla di «norme censurabili con
riguardo» alla costituzione. E via tagliuzzando (poco) qua e là. Non è cambiato
poi tanto il documento del Consiglio superiore della magistratura che, dopo il
voto in commissione della scorsa settimana, ieri è stato approvato anche dal
plenum di palazzo dei Marescialli. Come richiesto dal vicepresidente Nicola
Mancino il testo è stato emendato di qualche aggettivo. Ma la sostanza resta:
la riforma del processo penale presentata dal ministro Alfano è giudicata
«incostituzionale». Praticamente da tutto il consiglio superiore, con i soli
voti contrari di due laici del centrodestra Michele Saponara e Gianfranco
Anedda e il «no» di Magistratura indipendente per la parte che mette limiti più
stretti alla «libertà di espressione dei giudici». In aula uno degli interventi
più duri è stato proprio di Antonio Patrono, ex segretario dei moderati di Mi.
«Trovo sconcertante», ha detto, «che nella relazione che accompagna la legge si
spieghi come il fine ultimo del progetto è mettere in regime di concorrenza e
controllo reciproco pubblico ministero e polizia giudiziaria. Questa legge
consente alla polizia di controllare il pm, con il rischio, per lo meno, che ci
siano tre o quattro indagini parallele e che il vero colpevole resti impunito
ex lege». In sintesi, aggiunge Roberto Carrelli Palombi (Unicost), «c'è una
evidente volontà di escludere il magistrato dall'attività investigativa». La
proposta Alfano affida alla polizia giudiziaria il compito esclusivo di trovare
la notizia di reato, con la possibilità di comunicare i risultati alla
magistratura anche molti mesi dopo l'avvio dell'inchiesta e di svolgere
interrogatori e sequestri. Ma a far discutere sono anche gli articoli in cui si
dice che, davanti ad un conflitto tra procure, il procuratore generale presso la Cassazione può decidere
che l'inchiesta sia affidata ad un altro ufficio. Scelto da lui. O quella in
cui si stabilisce che un giudice debba essere escluso da un processo tutte le
volte che ha espresso un «giudizio» nei confronti delle parti del procedimento
«tale da provocare fondato motivo di pregiudizio all'imparzialità del giudice».
«E' come dire che se oggi dico che Mourinho è un pessimo allenatore dell'Inter
non potrò giudicarlo né ora né mai, per un qualunque reato che abbia commesso»,
sintetizza Livio Pepino di Magistratura democratica. «Col paradosso che
qualunque giudizio, anche non insultante, possa essere usato per sostenere la
ricusazione», dice ancora Vincenzo Siniscalchi (laico del Pd). «Ci si dice che
il problema è la lunghezza dei processi e invece su questa si interviene ben
poco», spiega Fabio Roia (Unicost). Dopo il voto del plenum e le proteste del
centrodestra - Gasparri: «Sono sconcertato», il ministro Alfano: «E' solo un
parere, il parlamento decide» - il vicepresidente Mancino
ha cercato di smorzare i toni spiegando che quella del Csm non è stata affatto
una bocciatura. Semmai, un «parere articolato, perché il Csm non promuove e non
boccia nulla», e in ogni caso «il ministro Alfano, a cui (il documento ndr) è
diretto, farà le sue valutazioni, accoglierà ciò che riterrà accoglibile e
accantonerà ciò che non lo persuade». Passato il voto, resta il tema
delle pratiche a tutela. Soprattutto quella a favore della giudice del processo
Mills, Nicoletta Gandus, variamente accusata da Berlusconi. Dopo l'ennesima riunione
del consiglio di presidenza, Mancino ha deciso di non mettere l'argomento
neppure all'ordine del giorno dell'assemblea di oggi. Con il rischio che, a
settembre, tutti i documenti a favore delle toghe (compreso quello per Armando
Spataro in seguito all'inchiesta sul rapimento di Abu omar) tornino in una
commissione riformata e decisamente più moderata. Se finora nessuno dei membri
togati ha avuto dubbi nel sostenere i giudici sotto attacco almeno un rischio
si correrebbe: quello che i documenti restino impantananti ancora molto, molto,
a lungo. voti contrari Il testo del Consiglio superiore è stato votato da tutto
il plenum. Pollice verso solo da due dei tre laici eletti dal centrodestra. Che
accusano: «Giudizi poco propositivi» Foto: AL CENTRO, UNA PERQUISIZIONE DI
POLIZIA /FOTO AP SOPRA, IL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA
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( da "Manifesto, Il"
del 24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
CSM - Bocciata la legge che dà alla
poliz «Riforma incostituzionale» INGIUSTIZIA. Le toghe votano contro la nuova
riforma penale. «Pericolosa» anche perché impedisce ai giudici di esprimere
opinioni politiche sugli imputati. Il centrodestra la prende male. Gasparri:
«Sono sconcertato, non hanno obbedito alla richiesta di Napolitano». Il
ministro della giustizia Alfano minimizza: «E' solo un parere, in ogni caso
decide la maggioranza al governo». Niente testo a favore dei giudici che
indagarono Berlusconi. Se ne parla a settembre. Forse Sa. M. ROMA Un «gravi» al
posto di «devastanti», invece dei «dubbi di costituzionalità» una definizione
che parla di «norme censurabili con riguardo» alla costituzione. E via
tagliuzzando (poco) qua e là. Non è cambiato poi tanto il documento del
Consiglio superiore della magistratura che, dopo il voto in commissione della
scorsa settimana, ieri è stato approvato anche dal plenum di palazzo dei
Marescialli. Come richiesto dal vicepresidente Nicola Mancino il testo è stato
emendato di qualche aggettivo. Ma la sostanza resta: la riforma del processo
penale presentata dal ministro Alfano è giudicata «incostituzionale».
Praticamente da tutto il consiglio superiore, con i soli voti contrari di due
laici del centrodestra Michele Saponara e Gianfranco Anedda e il «no» di
Magistratura indipendente per la parte che mette limiti più stretti alla
«libertà di espressione dei giudici». In aula uno degli interventi più duri è
stato proprio di Antonio Patrono, ex segretario dei moderati di Mi. «Trovo
sconcertante», ha detto, «che nella relazione che accompagna la legge si
spieghi come il fine ultimo del progetto è mettere in regime di concorrenza e
controllo reciproco pubblico ministero e polizia giudiziaria. Questa legge
consente alla polizia di controllare il pm, con il rischio, per lo meno, che ci
siano tre o quattro indagini parallele e che il vero colpevole resti impunito
ex lege». In sintesi, aggiunge Roberto Carrelli Palombi (Unicost), «c'è una
evidente volontà di escludere il magistrato dall'attività investigativa». La
proposta Alfano affida alla polizia giudiziaria il compito esclusivo di trovare
la notizia di reato, con la possibilità di comunicare i risultati alla
magistratura anche molti mesi dopo l'avvio dell'inchiesta e di svolgere interrogatori
e sequestri. Ma a far discutere sono anche gli articoli in cui si dice che,
davanti ad un conflitto tra procure, il procuratore generale presso la Cassazione può decidere
che l'inchiesta sia affidata ad un altro ufficio. Scelto da lui. O quella in
cui si stabilisce che un giudice debba essere escluso da un processo tutte le
volte che ha espresso un «giudizio» nei confronti delle parti del procedimento
«tale da provocare fondato motivo di pregiudizio all'imparzialità del giudice».
«E' come dire che se oggi dico che Mourinho è un pessimo allenatore dell'Inter
non potrò giudicarlo né ora né mai, per un qualunque reato che abbia commesso»,
sintetizza Livio Pepino di Magistratura democratica. «Col paradosso che
qualunque giudizio, anche non insultante, possa essere usato per sostenere la
ricusazione», dice ancora Vincenzo Siniscalchi (laico del Pd). «Ci si dice che
il problema è la lunghezza dei processi e invece su questa si interviene ben
poco», spiega Fabio Roia (Unicost). Dopo il voto del plenum e le proteste del
centrodestra - Gasparri: «Sono sconcertato», il ministro Alfano: «E' solo un
parere, il parlamento decide» - il vicepresidente Mancino
ha cercato di smorzare i toni spiegando che quella del Csm non è stata affatto
una bocciatura. Semmai, un «parere articolato, perché il Csm non promuove e non
boccia nulla», e in ogni caso «il ministro Alfano, a cui (il documento ndr) è
diretto, farà le sue valutazioni, accoglierà ciò che riterrà accoglibile e
accantonerà ciò che non lo persuade». Passato il voto, resta il tema
delle pratiche a tutela. Soprattutto quella a favore della giudice del processo
Mills, Nicoletta Gandus, variamente accusata da Berlusconi. Dopo l'ennesima
riunione del consiglio di presidenza, Mancino ha deciso di non mettere
l'argomento neppure all'ordine del giorno dell'assemblea di oggi. Con il
rischio che, a settembre, tutti i documenti a favore delle toghe (compreso
quello per Armando Spataro in seguito all'inchiesta sul rapimento di Abu omar)
tornino in una commissione riformata e decisamente più moderata. Se finora
nessuno dei membri togati ha avuto dubbi nel sostenere i giudici sotto attacco
almeno un rischio si correrebbe: quello che i documenti restino impantananti
ancora molto, molto, a lungo.
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( da "AltaLex" del
24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Sulla surroga dell’INAIL
dopo le Sezioni Unite Tribunale Milano, sez. V civile, sentenza 09.06.2009 n° 7515 Stampa | Segnala
| Condividi | | Tribunale di Milano Sezione V Civile Sentenza 9 giugno 2009, n.
7515 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MILANO
SEZIONE V CIVILE In persona del Giudice Istruttore, in funzione di Giudice
Unico, dott. Damiano Spera, ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa
civile iscritta al R.G. n. 26093/04 , promossa da L. R., con gli avv.ti
Giuseppe Centola ed Ezio Centola - attore - contro UFFICIO CENTRALE ITALIANO
Soc. Cons. a r.l., con l’avv. Filippo Martini - convenuto - e SOC. PH
SERVICES X. convenuti contumaci – nonché ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE
CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO (I.N.A.I.L.), con l’avv. Pierpaolo Piluso -
terzo chiamato - e M.
M., in proprio L. R. e M. M., quali genitori esercenti la potestà sulla minore
L. K., con gli avv.ti Fausto Felice e Ferruccio Felice - terzi intervenuti -
CONCLUSIONI Per l’attore: vedi foglio n. 3 Per il convenuto: vedi
foglio n. 4 Per il terzo chiamato: vedi fogli n. 5-6 Per i terzi intervenuti: vedi fogli n. 7-8
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione ritualmente notificato, R. L.
esponeva: che il giorno 28.08.2002, alle ore 22,20 circa, sull’Autostrada
A/4 Venezia-Milano in località Capriate San Gervaso (BG), l’attore, mentre si trovava ad
espletare attività lavorativa di manutenzione autostradale alle dipendenze di
Nuova Omege S.p.A. Edilizia, veniva investito da un camion, il cui conducente
si allontanava dopo il sinistro senza prestare soccorso; che quest’ultimo veniva poi individuato
e tratto in arresto, identificandosi nella persona di X., residente in Francia,
così come in Francia aveva sede la società Ph Services, proprietaria
dell’autocarro condotto dal signor X.; che, nel sinistro, l’attore riportava gravissime
lesioni, da cui derivava lunghissima malattia con postumi permanenti e che,
pertanto, anche avuto riguardo alla sua giovane età, l’attore
aveva subito ingenti danni patrimoniali, biologici, morali, esistenziali. Tra
l’altro, non potendo
espletare attività lavorativa e dunque non riuscendo a provvedere al pagamento
del mutuo fondiario contratto, era stato costretto a vendere il proprio
appartamento sito in Como; che alcun indennizzo era ancora stato offerto dall’Ufficio
Centrale Italiano,
garante per la responsabilità civile relativa a veicolo estero. Conveniva
pertanto in giudizio la
Società Ph Services, X. e l’ Ufficio Centrale
Italiano soc. cons. a r.l. (di seguito, UCI) e concludeva affinché il Tribunale
- preliminarmente disponendo
a loro carico, ex art. 24 L.
990/69, provvisionale di Euro 500.000,00 od in diversa misura - condannasse i
convenuti, in via tra loro solidale, al risarcimento di tutti i danni derivanti
dalle lesioni riportate nell’anzidetto sinistro, nella misura da accertarsi e previa deduzione
della rivalsa INAIL; il tutto oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Instaurato il contradditorio sull’istanza ai sensi dell’art. 24 L. 990/69, il Tribunale
assegnava a R. L., ponendola a carico solidale dei convenuti, la somma di Euro
500.000,00, da imputarsi alla liquidazione definitiva del danno. Instauratosi
il contraddittorio, si costituiva il convenuto UCI, che, condividendo l’attribuzione
di responsabilità del sinistro in capo al X., si limitava a contestare il quantum delle pretese
avversarie; previo differimento dell’udienza, l’U.C.I. provvedeva
a chiamare in causa l’INAIL, al fine di ripartire, secondo le legittime
spettanze, le voci di danno tra il soggetto danneggiante e l’assicuratore
sociale. Intervenivano
volontariamente M. M. in proprio, nonché la stessa e R. L. in qualità di
genitori esercenti la potestà sulla minore L. K., onde ottenere –
previa declaratoria di esclusiva responsabilità del sinistro in capo al
convenuto X. Jacky – la condanna dei convenuti al ristoro dei danni morali, biologici,
patrimoniali patiti dalle medesime M. M. e K. L., rispettivamente moglie e
figlia dell’attore, in conseguenza del sinistro occorso a quest’ultimo. Si
costituiva, infine, il terzo chiamato INAIL, deducendo di aver già erogato al signor L., in
conseguenza del sinistro in oggetto, prestazioni per l’ammontare
totale di Euro 419.868,38; chiedeva pertanto, in via riconvenzionale, che il
signor X. e Ph Services venissero condannati in solido al rimborso in suo favore della predetta somma, nonché di
eventuali ulteriori somme che l’INAIL potesse essere tenuto a
corrispondere in dipendenza dello stesso evento. Dichiarata la contumacia dei
convenuti X. e Ph Services, il terzo chiamato INAIL precisava, ai sensi
dell’art. 183 comma 5
c.p.c., che le prestazioni erogate in favore di R. L. ammontavano a complessivi
Euro 445.582,22. Il G.I. disponeva consulenza tecnica d’ufficio
medico-legale diretta ad accertare e a quantificare i danni patiti dall’attore,
nonché da M. M. e dalla
figlia minore K. L.. Conclusa l’istruttoria, ritenuta la causa matura
per la decisione, il giudice invitava le parti a precisare le proprie
conclusioni come in epigrafe trascritte; disposto lo scambio delle sole
comparse conclusionali, all’udienza di discussione dell’11.3.2009, la causa veniva
assegnata in decisione, ai sensi dell'art. 281 quinquies cpv. c.p.c.. MOTIVI
DELLA DECISIONE Ritiene il Tribunale che debba essere dichiarata la
responsabilità – peraltro non contestata – nella produzione del sinistro per cui è causa, in capo al
convenuto X.. Gli elementi di prova desumibili dal rapporto di incidente
redatto dalla Polizia Stradale di Seriate, nonché dalle dichiarazioni che i due
colleghi dell’attore (presenti sul posto al momento del fatto)
hanno reso sia ai
verbalizzanti della Polizia Stradale sia all’Ispettorato del lavoro (cfr.
verbale di inchiesta DPL 28.11.2002), consentono un’univoca ricostruzione
dell’accadimento. In data 28.08.2002, R. L., mentre era intento ad apporre una
segnaletica di deviazione
sulla corsia di emergenza dell’autostrada Venezia-Milano, in località
Capriate, veniva urtato e scagliato a terra dall’autocarro condotto da X.. Lo
stesso mezzo proseguiva la sua corsa, sfiorando lo specchietto retrovisore del
furgone degli operai,
fermo sulla corsia di emergenza. Risulta per tabulas, inoltre, che l’attore
– il cui corpo veniva interamente rinvenuto all’interno della corsia di
emergenza – al momento dell’impatto indossava l’apposita tuta di colore
arancione catarifrangente. Deve pertanto ritenersi che la presenza del signor L. a piedi sull’asfalto
fosse ben visibile; e ciò considerando, altresì, che il furgone degli operai,
fermo sulla corsia di emergenza con luci accese (cfr. verbale DPL), avrebbe
dovuto facilmente richiamare l’attenzione dei conducenti i mezzi in transito sul tratto
autostradale in questione ed imporre particolare cautela nella percorrenza
dello stesso. Ritiene dunque il Tribunale indubitabile, alla luce degli
elementi obiettivi acquisiti, la piena responsabilità del convenuto che, per
imprudenza, negligenza ed imperizia, ha cagionato l’incidente
di cui trattasi, invadendo, senza avvedersi degli operai al lavoro, la corsia
di emergenza. Per quanto attiene al quantum, va osservato: che, a seguito
dell’impatto, l’attore
veniva ricoverato, in stato di coma profondo, agli Ospedali Riuniti di Bergamo,
riportando, tra l’altro, trauma cranioencefalico con danno
assonale diffuso e focolai contusivi cerebrali multipli, fratture multiple,
contusione epatica, renale e polmonare; che l’attore veniva, tra l’altro, sottoposto
ad intervento chirurgico sull’omero destro con utilizzo di fissatore esterno;
che, dopo lunghissima degenza anche presso l’istituto Clinico Villa Aprica per
la riabilitazione, l’attore veniva dimesso con diagnosi di postumi di trauma
cranioencefalico, fratture multiple del cingolo scapolare destro ed arto
superiore destro, lesione severa del plesso brachiale destro con deficit
subtotale dell’arto superiore destro, fratture costali
multiple; che il 22.12.2003 si concludeva la riabilitazione, prendendosi atto della persistente
paralisi dell’arto superiore destro, ed il 13.01.2004,
all’esito di controllo neurologico, si decideva per la stabilizzazione del
quadro clinico; che, nella primavera 2004, l’attore ricorreva, altresì, ad ausilio specialistico
per lamentati deficit sessuali, con alterazione della libido e della funzione
eiaculatoria; che i C.T.U. hanno quantificato in 59 giorni (corrispondenti alla
degenza ospedaliera) il periodo di inabilità temporanea assoluta ed in quindici
mesi quello di inabilità temporanea parziale (mediamente all’80%),
con una durata totale di malattia, pertanto, di diciassette mesi; che tuttora
persiste situazione di sostanziale perdita funzionale dell’arto, cui si è
associata sindrome dolorosa
cronica, il cui trattamento richiede la somministrazione cronica di morfina;
che, sul piano psichico, l’attore presenta, tra l’altro, deficit di memoria
e di giudizio, concomitanti a sintomatologia ansioso-depressiva, che i C.T.U.
hanno ritenuto riconducibili
ad una reazione psicologica all’evento lesivo in oggetto, oltre che alla
presenza di sofferenza frontale secondaria al riportato trauma
cranioencefalico; che i C.T.U. hanno pertanto ritenuto individuabile,
complessivamente, una lesione dell’integrità psico-fisica dell’attore pari al 75%;
che, ad avviso dei C.T.U., i sopra enunciati postumi hanno determinato la
perdita completa della capacità lavorativa specifica dell’attore, dovendosi
valutare, da un lato, la plegia dell’arto superiore dominante (ostativa allo svolgimento di
attività manuali) e, d’altro lato, la compromissione del generale
assetto neuro-psichico (ostativa allo svolgimento di mansioni lavorative
esposte ad eventi imprevedibili); che le spese di cura documentate, sostenute
dal signor L., devono
ritenersi, secondo i C.T.U., pertinenti e congrue per l’importo
di € 1.598,97; che sono state altresì documentate spese per copia di cartelle
cliniche e per consulenza tecnica di parte per complessivi € 332,00; che,
invece, nessun danno biologico,
né permanente né temporaneo, veniva dai C.T.U. riconosciuto relativamente alla
signora M. M. ed alla minore K. L.. Questo giudice condivide le argomentazioni
e le conclusioni cui sono pervenuti i C.T.U., con metodo corretto ed immune da
vizi logici o di altra natura. Pertanto, alla luce delle risultanze sopra
esposte, ritiene il Tribunale che l’attore abbia certamente
subito il danno biologico e, cioè, quello derivante da illecito lesivo
dell’integrità psico-fisica della persona, che, quale evento interno al fatto lesivo della salute,
deve necessariamente esistere in presenza delle accertate lesioni, e che
prescinde dal danno correlato alla capacità di produzione del reddito;
dovendosi, tuttavia, sin d’ora precisare che il predetto danno biologico
viene qui in rilievo a
meri fini descrittivi quale componente medicalmente accertata del più complesso
danno non patrimoniale subito. Come è noto, infatti, la Cassazione a Sezioni
Unite (sentenza n. 26972/2008) ha recentemente ritenuto che, nell’ambito
del danno non
patrimoniale, il riferimento a determinati tipi di pregiudizi, in vario modo
denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto
parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento
di distinte categorie di danno. E’ compito del giudice
accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal
nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo
si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione. E’ mutata, invece, la
nozione di danno morale soggettivo. La nozione di “danno morale soggettivo
transeunte va definitivamente superata”; non ne parla la legge ed è inadeguata
se si pensa che la sofferenza morale cagionata da reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto
penoso protrarsi anche per lungo tempo. Nell’ambito del danno non patrimoniale
il danno morale non individua una autonoma sottocategoria, ma descrive, tra i
vari possibili pregiudizi, quello “costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé
considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono
rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del
risarcimento”. Viene riaffermata, invece, la nozione di danno biologico, come danno conseguente alla
lesione del diritto inviolabile della salute, nell’accezione
normativa di cui agli artt. 138 e 139 del Codice delle Assicurazioni. Si noti,
poi, che le Sez. Unite, pur negando la sussistenza del “danno esistenziale”
come voce autonoma di
danno non patrimoniale, non disdegnano affatto di menzionare “i
pregiudizi esistenziali” concernenti aspetti relazionali della vita, che
possono accertarsi come compresi nel danno biologico c.d. dinamico. Rilevano
poi che certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell'integrità
psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del
quale pure non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi
separato indennizzo. Analogamente, deve dirsi per il c.d. danno da perdita o
compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave
invalidità del congiunto, laddove “la sofferenza patita nel
momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l'esistenza del
soggetto che l'ha
subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va
integralmente ed unitariamente ristorato”. Circa i criteri di
liquidazione, il giudice, coerentemente con quanto statuito dalla Cassazione a
Sez. Unite citate, è chiamato a valutare congiuntamente, entro il danno biologico, tutte le
sofferenze soggettivamente patite dall’attore, in relazione alle
condizioni personali dello stesso ed ai risvolti che concretamente la lesione
all’integrità psico-fisica ha comportato. Così stigmatizzano le Sezioni Unite: “Determina
quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno
biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato
in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà
il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata
personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro
effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto
leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza. Egualmente
determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno
morale, nella sua nuova configurazione, e del danno da perdita del rapporto
parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è
percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che
l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va
integralmente ed unitariamente ristorato”. Le Sez. Unite ribadiscono tuttavia che il danno non
patrimoniale, quale danno conseguenza, deve essere allegato e provato. La
sentenza della Corte Costituzionale n. 184/1986 è stata superata dalla sentenza
della stessa Corte n. 372/1994, poi seguita dalle sentenze gemelle del 2003. Il
danno non è mai in re ipsa ed il giudice dovrà porre a fondamento della propria
decisione non solo la consulenza tecnica d’ufficio, ma anche “tutti gli
altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze) avvalersi
delle nozioni di comune
esperienza e delle presunzioni” (ex artt. 115 cpv. c.p.c e 2727 e ss.
c.c.). Alla luce di questa innovativa sentenza, devono essere necessariamente
rivisti i criteri di liquidazione tabellare adottati dagli Uffici Giudiziari.
In particolare, la tabella milanese (ad eccezione del danno morale) già comprendeva, nella nozione
unitaria del danno biologico, la molteplicità delle singole possibili “voci”
di pregiudizi, non lasciando spazio ad autonome liquidazioni del danno alla
vita di relazione, del danno estetico, del danno alla sfera sessuale, ecc.; la tabella prevedeva,
separatamente, solamente la liquidazione del danno morale, nella misura da un
quarto alla metà dell’importo liquidato per il danno biologico.
Incorreva dunque anche questa tabella nelle censure delle Sez. Unite, perché produceva una
duplicazione di risarcimento del danno. Come risolvere questo problema,
salvaguardando in pari tempo i valori monetari finora riconosciuti? E’
stato necessario approvare una nuova tabella. La nuova tabella milanese muove dal presupposto che i
criteri di liquidazione del danno non patrimoniale da lesione del bene salute
debbano prevedere valori monetari che siano riconducibili a quelli già
riconosciuti precedentemente, sia a titolo di danno biologico che di danno morale,
da liquidarsi dal giudice complessivamente, all’esito di una unitaria
personalizzazione del danno accertato. In sostanza, per ciascun punto
percentuale di menomazione dell’integrità psicofisica, si liquiderà un importo
che dia ristoro alle conseguenze della lesione in termini “medi”: in relazione agli
aspetti anatomo-funzionali, agli aspetti relazionali, agli aspetti di
sofferenza soggettiva, ritenuti provati anche presuntivamente. Il giudice - in
considerazione delle peculiarità allegate e provate nella fattispecie concreta, con
specifico riguardo sia alla “sofferenza soggettiva” che alle
“particolari condizioni soggettive del danneggiato” (nozione accolta anche
dagli artt. 138 e 139 Cod. delle Assicurazioni) - procederà ad un’adeguata e
complessiva “personalizzazione”
della liquidazione del danno entro valori monetari stabiliti in un
predeterminato range di aumento dei citati importi “medi”. Con gli stessi
criteri il giudice liquiderà anche il danno biologico temporaneo, comprensivo
altresì del danno morale,
entro un range che consenta un’idonea personalizzazione. In ogni caso,
il giudice sarà sempre libero di liquidare importi diversi da quelli indicati
in tabella, con congrua motivazione, soprattutto laddove la fattispecie
concreta presenti aspetti affatto peculiari. Nella fattispecie in esame, il Tribunale dovrà
necessariamente tenere conto di tutto quanto sinora esposto ai fini di una
corretta liquidazione del danno subito dall’attore. Tale operazione
dev’essere compiuta, peraltro, non soltanto in ragione delle domande risarcitorie svolte dall’attore
medesimo, ma anche ai fini dell’azione di surroga svolta dall’INAIL nei
confronti dei convenuti riconosciuti responsabili, per le somme corrisposte
dall’ente all’attore. Ai fini della liquidazione del danno non patrimoniale patito da R.
L., occorrerà pertanto tenere conto delle accertate invalidità, della giovane
età dell’attore (al momento dell’accadimento ventiseienne), delle condizioni
di vita (tra queste la circostanza, di cui ancora infra, che l’attore vantava bell’aspetto
e velleità di sfruttarlo a fini economici o, comunque, di metterlo in risalto),
delle risultanze probatorie, dell’espletata CTU, della rilevantissima entità
del danno biologico, delle particolari sofferenze fisiche e psichiche sofferte e degli innumerevoli gravi
pregiudizi che una menomazione psico-fisica, quale quella subita dall’attore,
comporta su un giovane, inevitabilmente compromettendone la sfera relazionale e
sessuale. Tenuto infine conto dei nuovi criteri tabellari sopra delineati, stimasi equo liquidare, per
il complessivo risarcimento del danno non patrimoniale da lesione al diritto
alla salute nella sua nuova accezione onnicomprensiva e “dinamica”,
la somma già rivalutata di Euro 750.000,00; per il danno biologico temporaneo – reputandosi equo
calcolare (avuto riguardo, sempre, a tale valutazione complessiva del danno
biologico) un parametro medio giornaliero di circa Euro 100,00 per l’inabilità
totale – si liquida la somma già rivalutata di Euro 43.100,00. Conformemente ai dicta delle Sezioni Unite
richiamati, non residua spazio per il risarcimento di ulteriori pregiudizi non
patrimoniali (quali, in particolare, i dedotti danni morale ed esistenziale),
poiché tutti già ricompresi in quelli già liquidati, risultando altrimenti
certa la duplicazione risarcitoria del medesimo danno. Il danno non
patrimoniale subìto dall’attore viene, pertanto, quantificato
nell’importo rivalutato di Euro 793.100,00. Quanto al danno patrimoniale, deve
aversi riguardo, anzitutto, alle spese sostenute, ritenute congrue dai C.T.U. per l’importo
di Euro 1.598,97, al quale va aggiunto l’importo delle ulteriori spese
documentate di Euro 332,00, per un totale di Euro 1.930,97. Questa somma,
rivalutata ad oggi secondo gli indici I.S.T.A.T., è pari ad (arrotondati) Euro 2.201,00. In punto
di lucro cessante per perdita della capacità lavorativa specifica, il danno dev’essere
quantificato considerando un reddito annuo oggi pari a circa Euro 16.000,00
(come documentato) ed utilizzando le tabelle di capitalizzazione di cui al R.D. 9.10.1922 n.
1403, con coefficiente di sopravvivenza pari a 18,557 per il totale di Euro
296.912,00, da decurtarsi nella misura del 15% avuto riguardo allo scarto tra
vita fisica e vita lavorativa e pertanto si liquida la somma di (arrotondati)
Euro 252.375,00. Dal momento che il danno patrimoniale da capacità lavorativa
specifica è stato determinato nella misura del 100%, non può essere
distintamente liquidato, pena incorrere in duplicazione risarcitoria, il danno
patrimoniale da inabilità temporanea. Non può, inoltre, essere accolta la
domanda relativa al danno da perdita di chance, con riferimento alla
compromissione definitiva della possibilità per l’attore (asseritamente
già offertagli in passato) di posare o sfilare come modello e, così, di integrare le proprie
entrare reddituali. L’accoglimento della domanda di risarcimento del
danno da lucro cessante esige, infatti, la prova dell’esistenza di elementi
oggettivi e certi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità e non di mera potenzialità,
l’esistenza di un pregiudizio economicamente valutabile (da ultimo,
Cass. 4052/2009). In tal senso, non risulta sufficientemente ed univocamente
probante l’unico elemento oggettivo risultante per tabulas, ossia la circostanza che l’attore
si sia fatto scattare delle fotografie professionali (un c.d. book) per mettere
in risalto il proprio aspetto fisico. Le deduzioni svolte in punto e,
segnatamente, il principio di prova desumibile dal book fotografico versato in
atti, sono stati
tuttavia considerati (come innanzi accennato) ai fini della complessiva
valutazione del danno non patrimoniale subito dall’attore,
in quanto compromissione delle sue condizioni di vita. Il danno patrimoniale
complessivamente subito dall’attore deve, pertanto, essere liquidato nell’importo
rivalutato di Euro 254.576,00. Tuttavia, sul diritto al risarcimento dei
predetti valori incide la rivalsa esercitata dall’assicuratore pubblico, che ha
allegato e dimostrato di aver liquidato all’attore, in ragione dell’infortunio
de quo, i seguenti importi: Euro 20.254,72 a titolo di indennità per 500 giorni
di inabilità temporanea assoluta dall’1.9.2002 al 13.1.2004; Euro 77,47 per
spese mediche e accertamenti medico-legali; Euro 43.627,73 per ratei di rendita
corrisposti dal
14.1.2004, data di decorrenza della rendita, al 22.2.2006, data di
effettuazione dei calcoli; Euro 1.105,70 a titolo di interessi maturati sui
ratei fino a quest’ultima data; dette somme, rivalutate ad oggi
sono pari a complessivi Euro 71.380,00. L’I.N.A.I.L. ha inoltre liquidato
all’attore la somma di Euro 185.582,70, a titolo di valore capitale della quota
di rendita erogata quale indennizzo del danno biologico, calcolato alla data
del 22.2.2006, nonché la somma di Euro 194.933,90, a titolo di valore capitale della quota di
rendita erogata quale indennizzo del danno patrimoniale, calcolato sempre alla
stessa data. In definitiva, l’I.N.A.I.L. ha liquidato la somma di
(arrotondati) Euro 266.314,00 per le conseguenze patrimoniali del sinistro e la somma di Euro 185.582,70 per il
danno biologico. In relazione alla domanda di surroga ex art. 1916 c.c. svolta
dall’INAIL con riferimento alle dette somme, si rendono necessarie alcune
premesse. L’art. 13 del D. lgs. 38/2000, anche accogliendo le sollecitazioni al riguardo avanzate dalla
Corte Costituzionale (sentenza n. 87/1991), ha inserito il danno biologico
nella copertura indennitaria dell’assicuratore sociale. Il
problema del c.d. danno differenziale, ossia del risarcimento di quel danno che
il lavoratore può
ottenere, ai sensi dell’art. 10 commi 6 e 7 del D.P.R. 1124/1965, dal
datore di lavoro penalmente responsabile o dai terzi civilmente responsabili,
se e nella misura in cui tale danno superi l’ammontare delle indennità
corrisposte dall’INAIL, era
problema che trovava una sua (non pacifica) sistemazione in termini sia
qualitativi – il danno differenziale relativo alle poste di credito non
ristorabili dall’INAIL: danno biologico temporaneo, danno biologico permanente
sino al 5%, danno morale ed esistenziale, esborsi ecc. – sia in termini
quantitativi, avuto riguardo, cioè, al differenziale relativo alle poste
indennizzate. A tale proposito, il nodo della questione era costituito
soprattutto dalla scindibilità o meno delle poste ai fini della rivalsa. Poiché di regola il danno
biologico veniva liquidato in sede civilistica in misura maggiore di quella
indennizzata dall’INAIL e il danno patrimoniale, invece, era
liquidato in misura inferiore a quest’ultima, parte della giurisprudenza
riteneva – al fine di
evitare l’indebita locupletazione del lavoratore infortunato – di dover
raffrontare unitariamente i rispettivi ristori (civilistico e previdenziale) e
consentire la surroga INAIL per l’intero ammontare versato a titolo di danno
biologico e patrimoniale
(vedi in proposito Cass. n. 10035/2004). Un’altra parte della dottrina e
della giurisprudenza operando la scomposizione delle singole voci indennizzate
dall’INAIL in definitiva aumentava l’importo del danno differenziale
riconosciuto al danneggiato e, conseguentemente, diminuiva l’importo riconosciuto
all’INAIL in accoglimento della domanda di surroga. Il recente intervento delle
Sezioni Unite, che ha ridisegnato la nozione di danno alla persona come
onnicomprensiva ed ha riportato il sistema risarcitorio alla sua originale bipolarità tra
danno patrimoniale e danno non patrimoniale, impone una diversa soluzione. Si
pone anzitutto all’interprete la questione dell’omogeneità - ai
fini della surroga INAIL e della liquidazione al danneggiato del c.d. danno differenziale - tra il danno biologico
ristorato dal sistema previdenziale con criteri standardizzati ed il danno
biologico liquidato civilisticamente in maniera “personalizzata”
(comprensiva, tra l’altro, dell’intero ammontare che, in precedenza, veniva
liquidato a titolo di
danno morale e pacificamente riconosciuto per l’intero, in quanto non
indennizzato dall’INAIL, al lavoratore). Ritiene questo Tribunale che la
soluzione positiva alla questione sia imposta dallo stesso intervento del
Giudice nomofilattico,
che preclude ogni possibilità di scomposizione del danno alla persona in poste
distintamente risarcibili, onde non incorrere in duplicazioni risarcitorie, e
che, chiaramente, delinea una nozione anche ontologicamente unitaria del danno
biologico, “del quale
ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce
componente”. Non può dunque il giudice scorporare all’interno del danno non
patrimoniale riconosciuto, pena la violazione di questi principi (e neppure ai
soli fini della surroga
INAIL), la quota relativa al danno biologico “standard” da quella
relativa ad ulteriori componenti non valutate dall’INAIL ai fini indennitari.
Parte della giurisprudenza - onde pervenire all’affermazione di sopravvivenza
del danno morale come categoria autonoma e ontologicamente diversa dal danno biologico e
della scindibilità di queste due voci di danno ai fini del riconoscimento del
danno differenziale - si è adoperata in una interpretazione della sentenza n.
26972/2008 che, invero, contrasta apertamente con i principi di diritto accolti
nella stessa pronuncia. Si è, in particolare, affermato che le Sez. Unite
avrebbero inteso evitare solo la duplicazione risarcitoria in presenza di un
danno biologico c.d. “dinamico” o personalizzato; la surroga INAIL, a sua volta, sarebbe esercitabile
solo entro il danno biologico c.d. “statico” o “puro”, mentre
l’ente nulla avrebbe diritto ad ottenere sul quantum riconosciuto a titolo di
danno biologico “dinamico” e personalizzato e sull’intero (e ancora una volta
distinto) danno
morale. Come accennato, questa tesi non può essere condivisa. Le Sezioni Unite
sono tassative nell’espungere dal sistema ogni possibilità di
frammentazione, a fini risarcitori, del danno non patrimoniale. Infatti, non vi
sono ragioni per ritenere
che la Suprema Corte
abbia inteso negare l’esistenza e la risarcibilità delle sofferenze
fisiche e morali in presenza di danno biologico. Le Sezioni Unite hanno
semplicemente “bacchettato” i giudici (togati ed onorari), perché procedono a
queste liquidazioni
con errati automatismi tabellari. I giudici non si avvedono che, quando c’è
lesione biologica, i pregiudizi conseguenti alla menomazione psicofisica - “il
pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare” e quello ravvisato
nella pena e nel
dolore conseguenti e cioè “nella sofferenza morale determinata dal non
poter fare” - sono, in definitiva, due facce della stessa medaglia, essendo la
sofferenza morale “componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale”.
Il giudice deve quindi, con congrua motivazione, “procedere ad adeguata personalizzazione
della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva
consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde
pervenire al ristoro del danno nella sua interezza”. Per altro verso, il danno biologico
cui ha riguardo la normativa previdenziale non può sostanziarsi in concetto
ontologicamente distinto da quello cui ha riguardo la normativa civilistica.
Mentre ex art. 13 D.lgs n. 38/2000 devono essere cogentemente applicati i criteri di
liquidazione standard disciplinati dalla tabella degli indennizzi, in relazione
ai baréme previsti dalla tabella delle menomazioni, nel processo civile muta il
tipo e l’entità della tutela che richiede una valutazione maggiormente complessa e personalizzata ai fini
risarcitori. Tuttavia, non può conseguire a queste diverse modalità di
accertamento e liquidazione, il venir meno del diritto dell’ente
al recupero di quanto versato per il ristoro dello stesso danno. Del resto,
alla luce della
nozione di danno biologico prevista dall’art. 13 citato e dagli artt.
138 e 139 Codice delle Assicurazioni accolta espressamente dalle Sezioni Unite,
di danno biologico “statico” e cioè del tutto avulso dagli aspetti
interelazionali, ritiene questo Tribunale, “non è più dato discorrere”, perché “per danno
biologico si intende la lesione temporanea o permanente all’integrità
psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che
esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti
dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali
ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”. Ed
ancora, proprio l’aspetto dinamico relazionale connaturato al danno biologico
comporta, anche per questo
verso, l’impossibilità di scindere le sofferenze fisiche e psichiche dai
pregiudizi anatomo-funzionali conseguenti alla menomazione psico-fisica. Ed,
infatti, ha senso accertare un pregiudizio anatomo-funzionale del tutto avulso
dalla sofferenza psico-fisica?
Anche una gravissima menomazione fisica, scissa da qualsivoglia sofferenza
morale e/o percezione del dolore, darebbe luogo ad un irrisorio risarcimento
perché, in definitiva, il vero danno consiste nella percezione “emotiva”
della menomazione e delle
conseguenti alterazioni delle condizioni di vita della vittima in un contesto
sociale. Una differente conclusione comporterebbe proprio quella duplicazione
risarcitoria del danno non patrimoniale che lo sforzo ricostruttivo delle
Sezioni Unite ha inteso scongiurare, programmaticamente premettendo, nella
sentenza n. 26972/2008 che già le sentenze gemelle del 2003 “avevano
avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della
generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in
vario modo (n. 8828/2003) e di rilevare che la lettura costituzionalmente
orientata dell’art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già
come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di
duplicazione del
risarcimento degli stessi pregiudizi), ma per colmare le lacune della tutela
risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni Unite
condividono” e pervenendo infine ad affermare che“Il risarcimento del danno alla
persona deve essere
integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non
oltre”. In definitiva, il giudice – una volta liquidato il danno non
patrimoniale civilisticamente risarcibile e conseguente alla lesione del bene
salute – non può fare altro che raffrontare tale importo, senza ulteriori e non più consentiti
distinguo, con il quantum erogato dall’ente a titolo di danno
biologico, accogliendo la domanda di surroga per l’intero relativo ammontare
(nei limiti dell’importo risarcitorio liquidato) e riconoscendo in capo al danneggiato il diritto al
risarcimento dell’importo differenziale. Altra questione, posta e
non pacificamente risolta in passato, e della quale ora si rende quanto mai
opportuno un ripensamento, è quella relativa alla scindibilità delle poste di danno biologico e
patrimoniale ai fini della rivalsa. Si potrebbe sostenere che l’INAIL
possa agire in surroga per tutti gli importi unitariamente liquidati al
danneggiato. In tal modo si consentirebbe all’INAIL di rivalersi per l’intero
(sempre, ovviamente,
nei limiti del quantum civilisticamente liquidato a titolo complessivamente
patrimoniale e non patrimoniale), senza distinguere tra somma e/o quota di
rendita erogata per danno biologico e somma e/o quota di rendita erogata per le
conseguenze patrimoniali dell’infortunio, consentendo all’ente (in
caso di maggior indennizzo erogato a titolo patrimoniale), di rivalersi
integralmente erodendo così una quota dell’importo risarcitorio spettante al
danneggiato a titolo di danno non patrimoniale. Questo giudice ritiene inaccettabile una simile
soluzione. Se già in precedenza i dicta tanto della Corte Costituzionale
(sentenze nn. 319/1989, 87/1991, 356/1991, 485/1991), quanto della Corte di
Cassazione (sentenze nn. 3944/1995, 9761/1995, 4218/1998, 15859/2000,
8182/2001, 10289/2001) avevano affermato il principio della non comprimibilità
del diritto del lavoratore al risarcimento del danno non patrimoniale, tale
principio, oggi, deve essere affermato con ancor più vigore. In altri termini,
tanto la lettura costituzionalmente orientata dell’art.
2059 c.c. (che consente il completo ristoro del danno, necessariamente
personalizzato conseguente alla lesione del bene salute) quanto la ricostruita
netta bipolarità del sistema del danno alla persona (che impone la reductio ad unum del danno
non patrimoniale, ma impedisce ogni fungibilità tra danno patrimoniale e danno
non patrimoniale) escludono che il diritto del lavoratore all’integrale
risarcimento del danno non patrimoniale (differenziale) possa essere in qualche modo compresso dalle
ragioni creditorie dell’ente assicuratore relative al costo sopportato
per le conseguenze patrimoniali del sinistro. Qualora tale costo sia superiore
all’importo civilisticamente liquidato a titolo di danno patrimoniale, solo questa eccedenza non potrà che
restare a carico dell’INAIL, che l’ha sostenuta, per le finalità
previdenziali proprie dell’ente. Se, infatti, il sistema della responsabilità
civile mira a garantire il risarcimento integrale, scopo di quello
previdenziale è la
liberazione del lavoratore e della sua famiglia dallo stato di bisogno, in
attuazione dell’art. 38 Cost., mediante prestazioni strutturate
come indennizzo, ove l’eventualità di un ristoro non esaustivo del danno è
compensata dall’automaticità e rapidità dell’erogazione. Alla luce di tutte le
esposte considerazioni, si possono ora esaminare la domanda di surroga INAIL
svolta nel presente giudizio e la posizione dell’attore circa eventuali danni
differenziali. Il danno patrimoniale già riconosciuto dall’INAIL è pari ad Euro 266.314,00 e,
per l’effetto, non spetta all’attore (che ha subito un danno patrimoniale
pari ad Euro 254.576,00) alcun danno patrimoniale differenziale. I convenuti
devono essere condannati al pagamento, in favore dell’INAIL, della somma riconosciuta di Euro 254.576,00
oltre interessi legali dal 18.03.2005 (data della domanda) al saldo. Il danno
non patrimoniale già liquidato a tale titolo dall’ente è pari ad Euro
185.582,70 e, pertanto, il danno differenziale è pari ad Euro 607.517,30 (Euro 793.100,00 - 185.582,70). L’attore,
a titolo di acconto, ha ricevuto altresì la somma di Euro 500.000,00, somma
che, rivalutata dalla data del versamento (29.07.2004) ad oggi secondo gli
indici I.S.T.A.T., è pari ad Euro 546.191,00. Pertanto il danno differenziale, al cui pagamento in
favore dell’attore i convenuti in solido devono essere condannati, è pari ad Euro
61.326,30. Sugli importi predetti devono essere riconosciuti gli interessi
compensativi del danno derivante dal mancato tempestivo godimento dell’equivalente
pecuniario del bene perduto. Gli interessi compensativi - secondo il più
recente indirizzo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (v. sentenza n.
1712/1995) - decorrono dal momento della produzione dell'evento dannoso sino a
quello del versamento
dell'acconto e, poi, da tale data fino alla presente decisione; per ciascuno di
questi periodi, gli interessi compensativi si possono calcolare applicando un
tasso annuo medio ponderato sul danno rivalutato. Tale tasso di interesse è ottenuto
"ponderando" l'interesse legale sulla somma sopra liquidata, che -
"devalutata" alla data del fatto illecito, in base agli indici
I.S.T.A.T. costo vita - si incrementa mese per mese, mediante gli stessi indici
di rivalutazione, sino alla data dell'acconto e poi, detratto quest'ultimo,
fino alla data della presente sentenza. Da oggi, giorno della liquidazione,
all'effettivo saldo decorrono gli interessi legali sulla somma di Euro
61.326,30 dovuta all’attore. Pertanto, alla luce degli esposti
criteri, i convenuti
devono essere condannati al pagamento in solido, in favore dell’attore,
della complessiva somma di Euro 61.326,30 , oltre: - interessi compensativi, al
tasso annuo medio ponderato del 3%, sulla somma di Euro 793.100,00 dal
28.08.2002 (data del sinistro)
al 29.07.2004 (data dell’acconto); - interessi compensativi, al tasso
annuo medio ponderato del 3%, sulla somma di Euro 61.326,30 dal 29.07.2004
(data dell’acconto) ad oggi; - interessi, al tasso legale, su quest'ultimo
importo, da oggi al saldo effettivo. I convenuti devono, inoltre, essere condannati in solido al
pagamento in surroga all’INAIL della complessiva somma di Euro
185.582,70, liquidata in moneta attuale, oltre agli interessi al tasso legale
dal 18.03.2005 (data della domanda) al saldo effettivo. Per quanto attiene ai danni lamentati da
M. M. e dalla minore K. L., moglie e figlia dell’attore, il Tribunale
osserva che, nonostante vada condivisa la conclusione dei nominati C.T.U. circa
l’assenza, in capo alle medesime, del lamentato danno biologico in quanto lesione dell’integrità
psico-fisica medicalmente accertabile, non può disconoscersi, secondo dati di
comune esperienza e con accertamento presuntivo (sulla base, tra l’altro, dei
dati, in termini di disagio psicologico, emergenti dalla C.T.U. effettuata), l’ingente
danno non patrimoniale subito da entrambe in conseguenza dei fatti di causa.
Viene in rilievo in particolare (anche se non – per tutto quanto già esposto –
come autonoma voce di danno, ma soltanto come categoria descrittiva) il citato danno da grave lesione del
rapporto parentale subìto dalle due congiunte dell’attore.
Il rapporto tra i prossimi congiunti è compromesso dalle condizioni fisiche e
psichiche dell’attore accertate dai CTU, i quali hanno anche evidenziato
frequenti attacchi d’ira e
reazioni incontrollate: danno valutabile unitariamente nel suo aspetto di
sofferenza interiore già patita (soprattutto da M. M., per la compromissione
del rapporto di coniugio) e patienda (soprattutto dalla minore K., per la
precocissima compromissione
del rapporto con la figura paterna), nonché in quanto conseguenza della lesione
dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) da riconoscersi
in capo alle due congiunte di R. L.. Avuto pertanto riguardo a tali aspetti, al
sesso, all’età (ventottenne all’epoca del sinistro la signora M., di appena due
anni la piccola K.), alle condizioni di vita delle intervenute (ed
all’intervenuta separazione, a quanto consta, dei due coniugi), si ritiene equo
liquidare, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, alla minore K. L. l’importo
già rivalutato di Euro 300.000,00 ed alla signora M. M. l’importo già
rivalutato di Euro 150.000,00. Anche su tali importi andranno calcolati,
secondo gli esplicitati criteri, gli interessi compensativi dalla data del sinistro e
gli interessi legali dalla data della presente sentenza al saldo effettivo.
Pertanto i convenuti in solido devono essere condannati al pagamento, in favore
di L. R. e M. M., quali genitori esercenti la potestà sulla figlia minore L. K.
e a M. M. in proprio, delle somme, rispettivamente, di Euro 300.000,00 e di
Euro 150.000,00, oltre interessi compensativi su ciascuna somma al tasso annuo
medio ponderato del 3% dalla data del sinistro ad oggi ed interessi legali su
ciascuna delle predette somme di Euro 300.000,00 ed Euro 150.000,00 da oggi al
saldo effettivo. Quanto esposto è assorbente rispetto alle altre domande,
eccezioni ed istanze proposte dalle parti. Le spese della consulenza tecnica d’ufficio
vanno poste a carico dei convenuti
in solido. Consegue alla soccombenza la condanna dei convenuti in solido a
rifondere le spese processuali all'attore (da liquidarsi in favore degli avv.ti
Giuseppe Centola ed Ezio Centola, antistatari ex art. 93 c.p.c.), agli
intervenuti (da liquidarsi in favore dell’avv. Ferruccio Felice,
antistatario ex art. 93 c.p.c.) ed al terzo chiamato. La presente sentenza è
dichiarata provvisoriamente esecutiva ex lege. P.Q.M. Il Tribunale di Milano,
definitivamente pronunciando, così provvede: dichiara la responsabilità esclusiva di X.
nella causazione del sinistro occorso a L. R. il 28.08.2002; condanna i
convenuti in solido X., Ph Services e U.C.I. al pagamento, in favore
dell'attore, della somma di Euro 61.326,30, oltre interessi come specificati in
motivazione; condanna i convenuti in solido X., Ph Services e U.C.I. al
pagamento, in favore di L. R. e M. M. in qualità di genitori esercenti la
potestà sulla minore L. K., della somma di Euro 300.000,00, oltre interessi
come specificati in motivazione; condanna i convenuti in solido X., Ph Services
e U.C.I. al pagamento, in favore di M. M. in proprio, della somma di Euro
150.000,00, oltre interessi come specificati in motivazione; condanna i
convenuti in solido X., Ph Services e U.C.I. al pagamento, in favore dell’INAIL,
delle somme di Euro 254.576,00 e di Euro 185.582,70, oltre interessi legali dal
18.03.2005 al saldo; rigetta le altre domande, eccezioni ed istanze proposte
dalle parti; pone le spese della consulenza tecnica d’ufficio a carico dei
predetti convenuti in
solido; condanna i predetti convenuti in solido a rifondere all'attore, le
spese processuali, che liquida in Euro 1.463,63 per anticipazioni, Euro 232,00
per esborsi, Euro 7.200,00 per diritti, Euro 18.000,00 per onorario di
avvocato, Euro 3.150,00 per spese generali, oltre C.P.A. ed I.V.A., da
liquidarsi in favore degli avv.ti Giuseppe Centola ed Ezio Centola,
antistatari; condanna i predetti convenuti in solido a rifondere agli
intervenuti, le spese processuali, che liquida in Euro 2.070,62 per esborsi ed
anticipazioni, Euro 4.113,00 per diritti, Euro 12.000,00 per onorario di
avvocato, Euro 2.014,13 per spese generali, oltre C.P.A. ed I.V.A., da
liquidarsi in favore dell’avv. Ferruccio Felice, antistatario; condanna i
predetti convenuti in solido
a rifondere al terzo chiamato, le spese processuali, che liquida in Euro 20,00
per esborsi, Euro 5.749,00 per diritti, Euro 12.000,00 per onorario di
avvocato, Euro 2.218,63 per spese generali, oltre C.P.A. ed I.V.A.; dichiara la
presente sentenza provvisoriamente esecutiva. Milano, 9 giugno 2009. Il Giudice
Istruttore in funzione di giudice unico dr. Damiano SPERA Stampa | Segnala |
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( da "AltaLex" del
24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
"Legittimo
sospetto" e dubbi legittimi intorno alla nuova disciplina della rimessione
del processo Articolo di Federico Martella 24.07.2009 Commenta | Stampa |
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Martella | “Legittimo
sospetto” e dubbi legittimi intorno alla nuova disciplina della rimessione del
processo di Federico Martella I -“Legittimo sospetto” e profili funzionali
della rimessione Quando si parla di “legittimo sospetto” ci si riferisce ad un
presupposto applicativo
dell’istituto giuridico della rimessione dei processi. Quest’ultimo,
attualmente contemplato dall’art. 45 c.p.p., concretando una deroga a
previsioni ordinarie in materia di competenza, comporta, come noto, il
trasferimento del processo da una ad altra sede giudiziaria. Ratio ispiratrice del rimedio è la
necessità di assicurare l’imparzialità della decisione finale rispetto a
fattori di turbativa ambientale, capaci di incidere, dall’esterno, sulla
regolarità processuale, intaccando così la genuinità del verdetto definitivo. Obiettivo
del legislatore non è però quello di rendere insensibile agli interessi di
parte il giudice persona, essendo a ciò predisposto l’istituto
della ricusazione. Si tratta qui di garantire l’imparzialità del giudice-organo
o, meglio, dell’intero
ufficio giudiziario cui il giudice organo appartiene. Il bene protetto, in breve,
è la regolarità dei giudizi connessi a quello stesso ufficio, che potrebbe
risultare pregiudicata non necessariamente da parzialità del singolo o dei
singoli giudici, ma
per effetto della lesione, provocata dai suddetti fattori di turbativa, alla
libertà morale di qualsiasi soggetto che nel processo intervenga. Ulteriore
elemento di diversità rispetto alla ricusazione risiede - secondo la
ricostruzione più accreditata - nella natura delle ragioni determinanti l’esigenza
del trasferimento: esulando da rapporti personali intercorrenti fra le parti e
il giudice persona, esse devono sostanziarsi, come accennato, in situazioni o
fattori ambientali abnormi ed esterni all’ufficio giudiziario. Così come appena
illustrate, le caratteristiche strutturali della rimessione si presentano
idonee a fare della stessa uno strumento di carattere eccezionale. Per
l’attuale disciplina, che solo in parte, come si vedrà, sembra capace di riprodurre, sul piano
applicativo, lo schema strutturale dell’istituto ora riferito, il trasferimento
di sede giudiziaria va disposto qualora “gravi situazioni locali, tali da
turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle
persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l’incolumità
pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto”. Anche nell’odierno
testo, licenziato dal legislatore del 2002, il “legittimo sospetto” (rectius: i “motivi di legittimo
sospetto”) compare, tra le fattispecie applicative della rimessione. Esso, per
la verità, rappresenta una formula giuridica di antica tradizione. Inserito, in
termini di “legittima sospezione”, fra i casi di trasferimento processuale già nell’art.
766 c.p.p. del 1865, attraversa anche le successive esperienze codicistiche costituendo
causa di translatio iudicii nel codice di procedura del 1913 nonché in quello
del 1930: in quest’ultimo, in particolare, risultava contemplato dall’art. 55 c.p.p. abr. assieme ai “gravi
motivi di ordine pubblico”, ulteriore fattispecie rimessiva prevista dalla
disciplina previgente [1]. Con l’ingresso del nuovo codice di procedura penale
del 1989 viene invece soppresso: l’originaria versione dell’attuale art. 45 c.p.p., prima dell’ultimo
intervento (legge Cirami, 5 novembre 2002), aveva infatti sostituito il
“legittimo sospetto” con altra formula di cui nel prosieguo si darà conto.
L’ultima riforma ha infine sancito, come detto, la reintroduzione dei “motivi di legittimo sospetto” tra
le condizioni operative della rimessione. Dato singolare, in materia, è il
peculiare e storico parallelismo tra la costante presenza del “legittimo
sospetto”, nella disciplina della rimessione, e dominanti indirizzi interpretativi, dottrinali e
giurisprudenziali, sfavorevoli al suo ingresso o alla sua conservazione nella
fattispecie ordinaria. Non si spiegherebbe, dunque, proprio a fronte di
opinioni di segno contrario, la sua permanenza all’interno
delle varie esperienze codicistiche.
La perplessità, peraltro, si dissolve ove si tenga conto dell’alto
tasso di politicità che caratterizza l’istituto della rimessione. La storia
dello stesso si è sempre contraddistinta per i relativi impieghi strumentali,
rapportabili alle più varie
ragioni di parte, avallati da formule, come appunto il “legittimo
sospetto”, che, agevolando l’ingresso di valutazioni discrezionali nei
meccanismi di accertamento delle cause di modificazione della competenza, hanno
consentito utilizzazioni dell’istituto dirette a soddisfare esigenze estranee al processo.
Non è certo questa la sede per un’analisi politica della
questione, ma nella trattazione tecnico-normativa della rimessione e dei
rapporti fra questa e il “legittimo sospetto” è bene dunque tenere sempre presente le ragioni di
carattere extragiuridico sottese alle varie opzioni normative. Fra gli autori,
del resto, si sottolinea ormai da tempo la necessità di un approccio
sociologico e politico nello studio delle norme, segnatamente di quelle del
processo penale [2]. II - Rimessione del processo e garanzie costituzionali La
rimessione, come accennato, rientra nel sistema delle competenze
giurisdizionali in qualità di deroga a previsioni ordinarie fissate dal
legislatore. Al pari di tutte le norme dettate in materia, anche quelle
relative alla disciplina dell’istituto devono tuttavia uniformarsi al
precetto costituzionale dell’art. 25 comma 1 Cost., che
rappresenta - secondo consolidato orientamento - il parametro di legittimità di
tutta la normativa dettata
in punto di competenza. Secondo tale norma “nessuno può essere distolto
dal suo giudice naturale precostituito per legge”. Ora, la rimessione in quanto
tale, non si pone certo in contrasto con tale previsione, non comportando, di
per sé, alcuna distrazione
dal giudice fissato per legge. Il legislatore è infatti libero, in materia di
competenza, di contemplare discrezionalmente eccezioni alle regole ordinarie
[3]. Tanto più quando si tratta di assicurare, come succede per la rimessione,
lo svolgimento imparziale dei giudizi. Il contrasto col precetto costituzionale suddetto discende, semmai, dalla eventuale
difformità della disciplina dell’istituto, e in particolare delle
modalità di concretizzazione della deroga, rispetto al fulcro centrale
dell’art. 25 comma 1
Cost., rintracciabile, per opinione dominante, nel valore della precostituzione
legale. Il significato precettivo di tale garanzia va rinvenuto nella necessità
della costituzione previa della competenza giurisdizionale rispetto alla
verificazione di una certa controversia: il giudice competente rispetto ad una
vicenda processuale dovrà cioè risultare assegnato in una fase antecedente al
suo insorgere, non invece a posteriori, successivamente alla verificazione
della stessa. Ciò costituisce, secondo un indirizzo dottrinale, il contenuto
della “norma sostanziale” dell’art. 25 comma 1 Cost. Ad esso si aggiunge una
“norma formale”, pure individuata dagli interpreti fra i significati della
disposizione, secondo cui il precetto costituzionale in esame detta
una riserva di legge assoluta nei meccanismi di determinazione delle competenze.
La costituzione previa delle stesse, in particolare, deve avvenire sulla base
di soli criteri legali, non invece dipendere da provvedimenti discrezionali di
qualsivoglia organo giurisdizionale. E ciò, come può intuirsi, e come verrà
meglio detto, per ragioni attinenti al valore dell’imparzialità.
Sarebbe pertanto incostituzionale una legge che, pur disponendo per il futuro, prevedesse
un’alternativa fra competenze, risolubile a posteriori, a controversia già instaurata, per
mezzo di provvedimento di un certo soggetto giurisdizionale. Il mancato
rispetto, in tal modo, della norma formale, si tradurrebbe nel pregiudizio alla
norma sostanziale suddetta [4]. L’adeguamento allo schema precettivo, così come
descritto, insito nella precostituzione legale implica, in punto di rimessione,
la necessità di una duplice operazione normativa da eseguirsi, da un lato, sul
piano della individuazione del giudice del rinvio, il giudice cui, a seguito
della decisione circa lo spostamento, sarà attribuita la competenza, dall’altro
mediante una corretta redazione della disciplina dei presupposti della
rimessione. Quanto al primo profilo, la legittimità costituzionale
dell’istituto è legata alla previa fissazione legale, rispetto alla regiudicanda e al
sopraggiungere delle cause di rimessione, dell’ufficio cui dovrà
destinarsi la competenza nel caso di decisione positiva circa la translatio
iudicii. Il ruolo del soggetto che disporrà il trasferimento processuale si ridurrà in tal modo
all’esercizio di una funzione meramente esecutiva di precetti legislativi
prefissati. Problema più serio, passando al secondo aspetto, è garantire tale
figura del “giudice esecutore di criteri legali prefissati” nella fase di accertamento dei presupposti
di rimessione. Anche qui sussiste l’obbligo per il legislatore
di descrivere con espressioni puntuali le varie situazioni operative del
rimedio. Lo scopo, in cui - come accennato - risiede la ratio della norma costituzionale
in esame, che più avanti verrà esplicitata, è quello di evitare, proprio per
ragioni di imparzialità, nella fase di accertamento di tali cause, l’ingresso
di valutazioni discrezionali tali da far dipendere la transaltio iudicii, e
dunque la determinazione
della nuova competenza, da una decisione arbitraria, motivata in base alle più
disparate ragioni e svincolata da ogni parametro legalmente precostituito. La
storia dell’istituto, invero, dimostra come spesso inadeguate, proprio in
rapporto alla garanzia
espressa dall’art. 25 comma 1 Cost., si siano rivelate la
varie soluzioni normative adottate per descrivere i fattori determinanti lo
spostamento processuale. Non a caso l’insoddisfazione per le scelte legislative
di volta in volta adoperate hanno indotto vari giudici a sollevare questioni di legittimità costituzionale. Fin dagli albori, d’altronde,
le stesse tecniche interpretative hanno sempre incontrato serie difficoltà
nell’elaborare opzioni normative capaci di tipizzare compiutamente le
fattispecie applicative
della rimessione nel rispetto della garanzia del giudice precostituito per
legge. Significativo, del resto, è che in dottrina si tenda a parlare, in
rapporto alla stessa rimessione, come di un istituto a legalità di grado
inferiore, e a concludere che la verifica di costituzionalità dei relativi
presupposti - profilo più controverso di tutta la normativa - stante la
difficoltà di rintracciare ipotesi tassative, sfuma, sostanzialmente, in un
controllo di ragionevolezza [5]. II - Segue: divergenze interpretative sull’art.
25 comma 1 Cost. e ricadute in punto di rimessione. La precostituzione legale
nella prospettiva del principio di imparzialità. Palesemente irragionevole, a
tutto concedere, appariva - di fronte al valore della precostituzione legale - il dettato ordinario dell’art.
55 c.p.p. abr. Suo tramite, la rimessione del procedimento poteva essere
disposta per “gravi motivi di ordine pubblico” o per “legittimo sospetto”con
conseguente designazione del giudice del rinvio affidata a provvedimento discrezionale della Corte di
Cassazione. L’incostituzionalità della norma, sotto il profilo
dei presupposti operativi del rimedio, più volte sottolineata in dottrina e fra
gli stessi giudici, discendeva dall’eccessiva vaghezza delle formule adottate.
Il “legittimo sospetto”, in
particolare, implicando il richiamo ad un generico dubbio circa l’imparzialità
del giudice, era (ed è) locuzione inidonea a fornire parametri oggettivi capaci
di ridurre la discrezionalità dell’organo chiamato a decidere sulla richiesta di trasferimento processuale.
Per via di tale ambiguità normativa la decisione circa la nuova competenza
risultava individuata - in contrasto con l’art. 25 comma 1 Cost. - in
base ad una scelta arbitraria, compiuta a posteriori rispetto all’insorgere della controversia. Sintomatico,
del resto, di simile difficoltà interpretativa, generata dal “legittimo
sospetto”, era il ricorrente fenomeno di sovrapposizioni con l’istituto della
ricusazione [6]. Applicazioni distorte potevano registrarsi anche in rapporto all’ulteriore
caso di rimessione, facente capo ai “gravi motivi di ordine pubblico”. Tramite
simile presupposto, si giungeva spesso ad aberranti attuazioni della disciplina
della rimessione rispetto al profilo teleologico della stessa. Non di rado si attribuiva rilevanza a disordini
ambientali a prescindere dalla circostanza che essi si ripercuotessero sulla
sfera processuale. Tanto che la competenza veniva spesso trasferita non in
quanto il disordine pubblico pregiudicasse la regolarità processuale ma,
all'opposto, perché lo svolgimento in loco di un certo processo comportava agitazioni
pregiudizievoli per l’ordine pubblico senza riverbero alcuno
sull’imparzialità del giudizio. Tale impiego della rimessione, quale rimedio
diretto a salvaguardare beni di carattere extraprocessuale, era rafforzato dalla circostanza che la
fattispecie dei “motivi gravi di ordine pubblico” non richiedeva
l’incidenza di simile causa sulla regolarità del processo [7]. Ma anche nella
più corretta delle
interpretazioni, rivolta cioè ad intendere il presupposto in esame operante
solo se lesivo dell’imparzialità del giudizio, rimaneva il carattere
estremamente vago e omnicomprensivo dello stesso, inidoneo a rendere
percettibile l’elemento valutativo nel giudizio sulla necessità o meno della rimessione. Il codice
del 1930, al riguardo, aveva infatti fatto registrare un regresso, in punto di
tassatività, rispetto alla previsione contemplata nel codice del 1913, che si
riferiva alla “pubblica sicurezza” - intesa come ordre dan la
rue - rappresentante
senza dubbio un parametro più determinato. L’incompatibilità costituzionale
dell’art. 55 c.p.p. abr. poteva desumersi, oltretutto, dal profilo
riguardante l’individuazione del giudice di rinvio. A seguito dell’esito
positivo del giudizio concernente
l’accertamento delle condizioni operative della rimessione, la nuova
autorità competente veniva infatti individuata con provvedimento discrezionale
della Corte di Cassazione. Essendo tale aspetto della disciplina completamente
svincolato da parametri
oggettivi predeterminati, da solo sarebbe bastato a fondare una declaratoria di
incostituzionalità della norma in questione, per macroscopico contrasto con l’art.
25 comma 1 Cost. Non può certo ravvisarsi, al riguardo, nella qualità o
autorevolezza di
qualsivoglia organo giurisdizionale un qualche limite surroganeo al valore della
precostituzione legale. I forti dubbi sulla legittimità dell’art.
55 c.p.p. abr., che indussero vari giudici ad investire la Consulta della questione,
non portarono all’estromissione
di tale disciplina ordinaria dall’ordinamento [8]. A parere
degli autori, le ragioni di fondo che condussero, in quella occasione, la Corte Costituzionale
a “salvare” la disposizione in esame vanno rintracciate in esigenze di
carattere burocratico:
l’ingresso di elementi discrezionali, agevolato dalla formulazione
della fattispecie, consentiva alla Corte di cassazione, a fronte delle
frequenti richieste di rimessione, fenomeno anch’esso facilitato dalle larghe
maglie della norma, di perseguire una migliore organizzazione e distribuzione del lavoro
giurisdizionale. Non ci si può tuttavia esimere dall’analisi
degli altri rilievi, pertinenti stavolta alla discussione tecnica, formulati
dal Giudice delle leggi, proprio in quella vicenda, a sostegno della scelta circa la compatibilità costituzionale dell’art. 55 c.p.p. abr. Tanto più
che quelle stesse argomentazioni verranno recepite da successivi indirizzi
dottrinali volti a sostenere la perfetta legittimità di quella disciplina e di
altre soluzioni normative
non necessariamente conformi alla precostituzione legale. Come detto, quest’ultima
è considerata dall’indirizzo ormai prevalente l’unico valore contemplato
dall’art. 25 comma 1 Cost. La conclusione si giustifica considerando
precostituzione e naturalità,
anch’essa prevista dalla norma, come termini perfettamente sovrapponibili.
Si tratterebbe, in sostanza, di un’endiadi: il riferimento alla naturalità non
altera il significato della disposizione, rinvenibile nella sola
precostituzione legale. E l’adeguamento a tale valore, nella disciplina della rimessione, si traduce
nella necessità, come visto, di redigere una fattispecie imperniata sul
rispetto del principio di tassatività, sia in ordine ai presupposti applicativi
sia sul piano concernente l’individuazione del giudice del rinvio [9]. Sulla base di
una lettura disgiuntiva del precetto in esame, diffusa per lo più in passato ed
inaugurata dalla Consulta nella suddetta vicenda, si giunge invece a
considerare la “naturalità” come termine diverso ed indipendente rispetto alla
precostituzione. Il giudice naturale è stato via via identificato, in
particolare, nel giudice indipendente, imparziale, nel giudice di fronte al
quale trovano piena attuazione tutte le garanzie per lo svolgimento del giusto
processo. E l’art. 25 comma 1 Cost., affermando che nessuno
possa essere distolto dal proprio giudice naturale, inteso nel senso ora
descritto, sancisce, si dice, proprio il diritto di ciascuno di essere
giudicato da un giudice imparziale, indipendente, naturale [10]. Appare chiaro dunque come la
dimostrazione della compatibilità costituzionale della
rimessione, in una simile ricostruzione, risulti compito assai agevole. Essendo
infatti, quest’ultima, rimedio diretto a salvaguardare le
garanzie sottese proprio al concetto di naturalità, è ipso facto perfettamente legittima. L’identità
di ratio fra la norma costituzionale e la disciplina della rimessione costituisce,
in sostanza, per simili indirizzi, l’argomento fondante la
compatibilità della stessa con la
Carta fondamentale.
E ciò, per di più, anche quando la disciplina ordinaria dell’istituto
non risulti conforme al valore della precostituzione, quando cioè la decisione
circa il trasferimento processuale e l’individuazione del giudice del rinvio
dipenda da una scelta
dell’organo giurisdizionale: la preminenza da accordarsi alle garanzie
espresse dalla naturalità, perseguite dalla rimessione, rende infatti
tollerabile il mancato rispetto della precostituzione, che nulla può pretendere
dalla normativa ordinaria in quanto mirante, questa, a dare attuazione alla naturalità, cioè dire a
quelle (presunte) superiori garanzie. Da tali rilievi si sarebbe dovuto,
quindi, desumere la legittimità dell’art. 55 c.p.p. abr., in
tanto costituzionalmente compatibile in quanto orientato a realizzare le garanzie insite
nel concetto di naturalità. Assai criticabile appare peraltro il percorso
ermeneutico seguito nell’interpretazione dell’art. 25 comma 1 Cost. da
parte della riferita impostazione. Essa non sembra cogliere il vero significato della disposizione costituzionale in esame. Arbitraria, intanto, come ormai
rileva la dottrina maggioritaria, appare l’operazione con cui si tende
a ricondurre alla naturalità l’insieme delle garanzie processuali suddette: non
si specificano infatti i
criteri in base ai quali tale nozione viene, per così dire, riempita da simili
principi costituzionali. In un quid vacui, elusivo della verifica di
costituzionalità della rimessione, si risolve poi l’operazione
diretta ad inferire la perfetta legittimità della stessa dalla mera considerazione circa la finalità
perseguita dall’istituto. Forviante, al riguardo, è
l’istituzione di una sorta di contrapposizione fra naturalità e
precostituzione, con abdicazione della seconda per la prima, quasi che la
seconda esprimesse
valori contrastanti con quelli contenuti - secondo tale indirizzo - nella
naturalità. La precostituzione rappresenta invero un valore che si pone in
stretto rapporto di continuità col principio di imparzialità e con tutti quei
principi di volta in volta assegnati alla naturalità. Richiedendo, come visto,
che sia la sola legge a presiedere la fase di fissazione delle competenze
giurisdizionali affida ad un criterio oggettivo l’assolvimento di tale
funzione, preoccupandosi di garantire l’assenza di scelte discrezionali. Il meccanismo
da essa implicato non è altro che una manifestazione del principio di
imparzialità, perché chi cerca il giusto cerca l’imparziale e
l’imparziale è nella legge, nell’affermazione di una volontà generale ed
astratta in quanto
scevra dell’elemento passionale [11]. Quest’ultimo, per riportare il discorso
sulla rimessione, getta dubbi proprio sull’imparzialità delle modalità di
individuazione della nuova sede giudiziaria. Insinuandosi, per via di formule
indeterminate, nella fase
di accertamento dei presupposti applicativi e in quella relativa alla designazione
del giudice di rinvio, potrebbe risultare preordinato a perseguire esigenze di
interesse particolaristico, estranee alla regolarità del processo. E quand’anche
così non fosse, la
sola possibilità di decisioni discrezionali sarebbe comunque idonea a generare
dubbi sull’apparenza di imparzialità, altro valore pertinente alla giurisdizione
che un ordinamento come il nostro ha il compito di garantire [12]. L’esigenza
di evitare simili
risultati costituisce la ratio sottesa alla garanzia della precostituzione
legale. Lungi dall’essere dunque cristallizzato nel concetto di
naturalità, il principio di imparzialità si pone come canone informatore di
tutto l’ordinamento costituzionale. E altre garanzie, racchiuse nel tessuto
della Carta fondamentale, fra cui, per esempio, il diritto di difesa, la
presunzione di innocenza, concorrono ad affermarlo. Fra esse compare anche la
precostituzione legale, che si preoccupa di attuarlo già “in partenza”, al
momento cioè di fissazione della competenza del giudice. L’art. 25 comma 1
Cost., in buona sostanza, contempla una garanzia che rappresenta una specie del
più ampio genere dell’imparzialità. IV - Disciplina ordinaria della rimessione:
la soluzione normativa
del 1989. La progressiva valorizzazione della precostituzione legale ha senza
dubbio esercitato notevole influenza sulla scelta normativa compiuta dal
legislatore del 1989, che ha abbandonato la soluzione del codice abrogato.
Nella vigenza di quest’ultimo, la giurisprudenza aveva infatti
elaborato criteri interpretativi volti a razionalizzare le fattispecie del
“legittimo sospetto” e dei “gravi motivi di ordine pubblico” nella prospettiva
di uniformare la disciplina ordinaria al dettato costituzionale. Trattasi
di criteri che il nuovo codice di rito, in punto di rimessione, sembra recepire
appieno [13]. Con formulazione radicalmente diversa dalla vecchia disciplina, l’art.
45 c.p.p., nella versione originaria, prevedeva, infatti, che la rimessione si sarebbe potuta disporre “in
ogni stato e grado del processo di merito, quando la sicurezza o l’incolumità
pubblica ovvero la libertà delle persone che partecipano al processo sono
pregiudicate da gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti
eliminabili”. Il nuovo dettato positivo aveva invero suscitato più di un consenso
in dottrina. Si è autorevolmente sottolineato, al riguardo, come il legislatore
meglio non avrebbe potuto esprimere le nuove fattispecie di rimessione [14]. Apprezzabile, in
effetti, risultava la soluzione sia sul piano delle condizioni legittimanti sia
in punto di individuazione del giudice del rinvio. Per quanto riguarda quest’ultimo
profilo, dopo una serie di riforme, per vero introdotte sotto la vigenza del vecchio codice,
si è giunti a prevedere, con disposizione tra l’altro attuale, che il
nuovo giudice cui va attribuita la competenza deve risultare (pre)assegnato
sulla base dei meccanismi di cui all’art. 11 c.p.p. [15]. Non meno soddisfazioni si erano registrate anche
con riferimento all’aspetto dei presupposti applicativi del rimedio.
E ciò sia in ordine al parametro causale sia rispetto a quello effettuale,
momenti, entrambi, in cui si articola, anche attualmente, lo schema di accertamento implicato dalla norma. Il
primo, più in particolare, è espresso dalle “gravi situazioni locali”,
cioè da quei fattori causali costituenti l’indefettibile presupposto per
l’esistenza della turbativa processuale (prius); il secondo dal “pregiudizio
alla sicurezza o
pubblica incolumità” o dalla “libertà di determinazione delle persone
che partecipano al processo”, elementi la cui sussistenza soltanto, in presenza
del fattore causale, produce, per l’appunto, l’effetto dello spostamento di
competenza (posterius).
Quest’ultima locuzione (“libertà delle persone che partecipano al processo”)
è quella che ha esplicitato la fattispecie del “legittimo sospetto”, segnando
un indubbio progresso sul piano costituzionale. Dovendo, infatti, la
decisione circa il trasferimento di sede giudiziaria passare per la verifica
del pregiudizio alla libertà morale di autodeterminazione di ciascun soggetto,
maggiormente percettibile di quanto non fosse il richiamo al dubbio generico
circa l’imparzialità del giudice, evocato dal “legittimo sospetto”,
risulta il parametro di valutazione in ordine a tale scelta [16]. Lo stesso è a
dirsi per l’altro caso di rimessione, vale a dire i “gravi motivi di ordine
pubblico”. La formula è stata tradotta in una nozione, anch’essa, più
circoscritta e
maggiormente percepibile: tale infatti è la “sicurezza o pubblica
incolumità” rispetto al poliedrico concetto di ordine pubblico. Ciò che va
maggiormente evidenziato, sotto questo aspetto, è l’avvenuto dissolvimento di
ogni dubbio circa la natura della rimessione, istituto recuperato, con la formula originaria, fra gli
strumenti di tutela di interessi esclusivamente processuali. Come si è visto,
il cambio di sede giudiziaria veniva talora disposto - nella disciplina
previgente - anche in ragione di disordini, esterni al processo, che sullo
stesso non si ripercuotevano; la rimessione finiva spesso per soddisfare
interessi estranei alla salvaguardia della serenità processuale. Tali
applicazioni si giustificavano, come rilevato, per l’ambiguità
della disciplina
previgente che, per l’appunto, consentiva la rimessione per motivi di
ordine pubblico senza specificare la necessità circa la relativa incidenza sul
processo. A ciò si aggiungeva la circostanza per cui lo spostamento di sede,
per tale causa, rientrava
nelle sole prerogative della parte pubblica, essendo, si diceva, la tutela di
tali esigenze, quelle di ordine pubblico, estranea all’interesse
delle parti private, autorizzate solo ad avanzare richiesta di rimessione per
“legittimo sospetto”. Da tale ulteriore profilo ci si poteva in effetti rendere conto dell’equivoco,
anche legislativo, attorno alla natura e funzione di un istituto giuridico che
invece, secondo l’opinione comune, doveva intendersi come uno strumento di
tutela esclusivamente processuale. Il legislatore del 1989 recepisce simile indirizzo
fugando al riguardo ogni perplessità. Il pregiudizio alla “sicurezza
o alla incolumità pubblica” acquistava infatti rilevanza, per la previsione
iniziale, a condizione che esso si traducesse in un’alterazione del processo: esprimeva simile
necessità la formula di chiusura della fattispecie “tali
da turbare lo svolgimento del processo”, da riferirsi evidentemente al solo
pregiudizio della sicurezza o incolumità suddette, attesane la relativa
superfluità ove
rapportata alla lesione della libertà di determinazione degli altri soggetti
partecipanti, la cui sussistenza implica ipso facto la lesione al principio di
imparzialità. Ristabilita ogni chiarezza sul piano teleologico restava peraltro
qualche dubbio sull’idoneità della suddetta locuzione (“tali da
turbare lo svolgimento del processo”) ad offrire al giudicante parametri
altrettanto certi, in fase effettuale, per l’accertamento dell’effettiva
alterazione della regolarità processuale. La genericità della stessa non forniva infatti al giudice
un preciso elemento di valutazione. Ciò avveniva invece - ed avviene - per la “libertà
di determinazione delle persone che al processo partecipano”, altro parametro
effettuale capace, come visto, di orientare, condizionandola, la scelta dell’organo
giurisdizionale su elementi ben determinati [17]. Parimenti apprezzata, come
detto, è stata la scelta normativa sul profilo causale della fattispecie. Esso
è sintetizzato dall’espressione “gravi situazioni locali”. La locuzione sembra, in primo luogo, evocare il
richiamo a fattori di turbativa ambientale esterni all’ufficio
giudiziario, per poi chiarire la necessità della dimensione locale di tali
situazioni: il carattere nazionale dell’elemento di turbativa vanificherebbe,
si capisce, il cambio
di sede giudiziaria. Il requisito di gravità, invece, esprime la necessità del
carattere abnorme ed eccezionale delle stesse, cioè dire la notevole
consistenza di simili fattori. Esso funge da filtro selettivo rispetto ai
fattori da assumere come idonei a dar luogo a rimessione, implicando - al contempo
- l’intuibile considerazione circa il carattere eccezionale del rimedio
[18]. Altrettanto scontato poi è che, per via della stessa gravità, i suddetti
fattori di turbativa non potranno interpretarsi se non in modo tale da incidere sulla regolarità
processuale altrettanto gravemente. V – Segue: reintroduzione del
“legittimo sospetto” fra i casi di rimessione: riesumazione di una formula incostituzionale. Fra le ragioni ispiratrici l’ultimo intervento di riforma della
disciplina della rimessione, avvenuto con legge del 5 novembre 2002 (c.d. legge
Cirami), compare proprio l’accennato rilievo del carattere eccezionale
dell’istituto. Più precisamente, le rare applicazioni registratesi in materia -
a partire dall’introduzione
del nuovo codice di rito - si sarebbero dovute interpretare, secondo il nuovo
legislatore, come un indice di assenza di imparzialità. Essendo cioè la
rimessione strumento volto a perseguire tale valore, la sua scarsa applicazione rileverebbe come un sintomo di
mancata attuazione dello stesso. E ciò stride all’interno di un contesto
in cui l’esigenza di garantire il principio di imparzialità si pone,
inderogabilmente, alla luce della recente proclamazione legislativa di tale
fondamentale garanzia,
avvenuta con legge costituzionale (art. 111 comma 2
Cost.) [19]. Tutt’altro che fondati, simili rilievi sembrano
riecheggiare piuttosto quegli indirizzi, ormai superati, volti a valorizzare il
requisito della naturalità, in termini di imparzialità, giusto processo et similia, a discapito
della precostituzione. E ad inferire, dunque, la legittimità della rimessione
dalla circostanza mera che questa è diretta a realizzare la tutela della
imparzialità insita nel concetto di naturalità ex art. 25 comma 1 Cost.
Interventi modificativi della disciplina in esame non possono perciò trovare
giustificazione in tali argomenti: le ragioni interpretative invalidanti simile
impostazione, da ogni indirizzo ormai abbandonate, sono state sopra illustrate,
a proposito del rapporto di continuità fra precostituzione ed imparzialità. Né
decisivo, al riguardo, attesane l’inconcludenza, appare il
richiamo all’impiego eccezionale del rimedio: applicazioni poco frequenti dello
stesso si pongono semmai in linea con le stesse caratteristiche strutturali che lo definiscono
[20]. In realtà, il senso della nuova scelta normativa, che fra un momento
verrà riferita, si comprende ove si tenga conto del reale - e neanche tanto
celato [21] - intento legislativo, conforme del resto alla tradizione politica
dell’istituto, di intervenire su una ben nota vicenda processuale. A dire
il vero, l’iter legislativo di riforma si attiva a seguito di un dubbio di
legittimità costituzionale sollevato dalle sezioni unite della Corte di
cassazione proprio in punto di mancata riproduzione del “legittimo
sospetto”, da parte del legislatore del 1989, nella disciplina dei casi di
rimessione [22]. I giudici traevano argomento da una presunta lacuna normativa,
derivante dalla discrepanza tra le previsioni della legge delega (art. 2 direttiva n. 17) e la
soluzione adottata dal legislatore nell’art. 45 c.p.p. In effetti,
secondo le disposizioni della legge delega la rimessione si sarebbe dovuta
disporre ancora per “gravi ed oggettivi motivi di ordine pubblico” e
per “legittimo sospetto”. La scelta del legislatore, come visto, risulta
tuttavia difforme da tale previsione: in particolare, per quello che qui
interessa, si era accantonato il “legittimo sospetto”, che a tanti equivoci
aveva dato luogo, a favore
della suddetta formula del “pregiudizio alla libertà delle persone
che partecipano al processo” che, ad avviso della Corte, non riusciva a
sintetizzare tutte le situazioni pregiudizievoli per l’imparzialità, situazioni
- peraltro non meglio individuate - rimaste fuori dal dato positivo. Il rilievo dei supremi
giudici è parso, a rigore, ineccepibile. La constatazione, peraltro, è sembrata
tanto ovvia quanto poco significativa. L’opzione seguita dal
legislatore si configurava infatti come il frutto di una scelta altamente ponderata, volta
a recepire i criteri elaborati da dottrina e giurisprudenza all’interno
di un secolare dibattito che, però, nell’occasione, la Corte trascura
completamente; criteri, fra l’altro, perfettamente in linea col valore della precostituzione legale, che pure il
legislatore avrebbe dovuto tenere in considerazione, attesa oltretutto, la
previsione della legge delega stessa secondo cui, nella redazione del codice,
si sarebbero comunque dovuti attuare i principi costituzionali [23]. Sta di
fatto che la questione sollevata dalla Corte ha, per così dire, rafforzato gli
intenti di modifica del legislatore che, per di più, interviene prima che la Consulta si pronunci
sulla questione, modificando la disciplina della rimessione. A fronte di tale
modifica, la nuova normativa, sul piano dei presupposti operativi, stabilisce
che il trasferimento di sede processuale può essere disposto qualora “gravi
situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti
eliminabili, pregiudicano
la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la
sicurezza o l’incolumità pubblica, o determinano motivi di
legittimo sospetto”. Una prima considerazione attiene al fatto che la
constatazione circa il suddetto difetto di delega non ha dato luogo alla riproduzione dell’intero
contenuto dell’art. 55 c.p.p. abr. La reintroduzione del “legittimo sospetto”
come autonoma causa di rimessione, pure prevista dal disegno originario della
legge Cirami, avrebbe portato ad una grossolana violazione della precostituzione legale. La modifica
si inserisce invece nella previsione normativa, in aggiunta ai casi di
rimessione previsti dal dettato originario, licenziato dal legislatore del
1989. Prima di ogni altro rilievo sul “legittimo sospetto”,
profilo che qui maggiormente interessa, occorre sottolineare un dato,
apparentemente innocuo ma, in realtà, tanto innovativo quanto problematico. Ci
si riferisce alla diversa formulazione sintattica della fattispecie. Può
notarsi, in particolare, come
all’interno della stessa, l’elemento di chiusura non sia più
rappresentato - a differenza della formula precedente - dall’espressione “tali
da turbare lo svolgimento del processo”, significativa della necessità che il
pregiudizio alla pubblica sicurezza dovesse ripercuotersi sulla tranquillità processuale,
in ossequio alla natura del rimedio. Oggi, le gravi situazioni locali, già di
per sé tali da turbare lo svolgimento processuale, rilevano, ai fini della
translatio iudicii, ove pregiudichino “la libertà delle persone che partecipano
al processo”, ovvero determinino “motivi di legittimo sospetto” ovvero ledano la
“sicurezza e pubblica incolumità”. Quest’ultima rientra fra le previsioni
conclusive, di chiusura della fattispecie, restando svincolata dal “tali da
turbare lo svolgimento del processo”. Ciò potrebbe dare il via ad
interpretazioni, tanto diffuse nella previgente disciplina, volte a favorire la
rimessione anche a fronte di agitazioni esterne al processo e destinate a non
ripercuotersi sullo stesso.
Con espressione simbolica, al riguardo, si è detto che cambiando l’ordine
dei fattori, nel processo penale, il risultato cambia: potrebbe infatti
nuovamente essere rimessa in discussione, alla luce di tale modifica, la natura
stessa dell’istituto quale
strumento di tutela di interessi esclusivamente interni al processo [24]. I
dubbi interpretativi che si presentano invece attorno alla locuzione “motivi
di legittimo sospetto” sono gli stessi che si erano registrati nella vigenza
delle trascorse esperienze
codicistiche. L’eccessiva genericità della formula favorisce
l’ingresso di valutazioni discrezionali in ordine al trasferimento processuale,
dando luogo a decisioni arbitrarie contrastanti col valore della
precostituzione. Le perplessità si acuiscono ove poi si consideri che il presupposto applicativo si
aggiunge a quello relativo al “pregiudizio alla libertà delle persone
che partecipano al processo”, formula, come detto, coniata dagli interpreti per
esplicare proprio la vecchia fattispecie del “legittimo sospetto”.
Sarebbe stato dunque meglio, paradossalmente, se il legislatore del 2002 avesse
sostituito la suddetta formula con i “motivi di legittimo sospetto”: in tal
modo, per via interpretativa, si sarebbe potuto forse continuare ad intendere
tale ultima locuzione
come esprimente i casi di pregiudizio alla libera determinazione delle persone
partecipanti al processo. Per effetto della nuova disposizione, invece, il
legislatore crea, tramite la riesumazione della screditata fattispecie, una
lacuna normativa, questa sì, foriera di applicazioni arbitrarie, incompatibile
con l’art. 25 comma 1 Cost. [25]. Le preoccupazioni ora esposte si
giustificano anche alla luce dell’orientamento seguito dalla rara
giurisprudenza che dopo la riforma si è delineata sul punto [26]. Pur avendo, nell’occasione,
la Suprema Corte,
ribadito in premessa la necessità dell’impiego eccezionale della rimessione, ha
fornito un’interpretazione poco convincente del requisito dei “motivi di
legittimo sospetto”. Per effetto di questi la rimessione deve essere disposta, secondo i giudici,
quando le situazioni locali gravi siano tali da provocare un serio e “pericolo
concreto circa l’imparzialità del giudice”. La soluzione non introduce elemento
interpretativo alcuno capace di specificare meglio la fattispecie attraverso il riferimento a
parametri più specifici. Il “pericolo concreto per l’imparzialità del
giudice”, a ben guardare, è locuzione perfettamente sovrapponibile ai “motivi
di legittimo sospetto” nulla aggiungendo e nulla togliendo a quest’ultima.
Assai ardua, del resto, risulta come più volte ribadito, l’opera di
individuazione di criteri capaci di razionalizzare una formula vaga, come
quella in questione, insuperabilmente in contrasto con il principio del giudice
precostituito per legge.
VI - La richiesta di rimessione: soggetti ed effetti. Significative innovazioni
in materia di rimessione, per via dell’ingresso del nuovo codice,
si sono altresì registrate in punto di soggetti legittimati a proporre relativa
istanza. Si è detto che -
nel sistema precedente - rispetto ai “gravi motivi di ordine
pubblico”, legittimata, al riguardo, era la sola parte pubblica, in
considerazione della estraneità del privato rispetto agli interessi sottesi a
tale tipo di pregiudizio. Al di là dell’ambiguità legislativa, insita in simile previsione, circa
la natura stessa dell’istituto, l’impossibilità per il privato di
richiedere la rimessione in tali ipotesi concretava una lesione al principio
della par condicio fra le parti processuali. Il pregiudizio all’ordine pubblico poteva
infatti tradursi anche in una lesione della tranquillità processuale. Col nuovo
codice, si pone fine a tale disparità. Sicché oggi la rimessione per lesione
della “sicurezza o pubblica incolumità” può essere chiesta anche dal privato, atteso che la stessa è
concepita come elemento rilevante, salvo i rilievi sopra compiuti a proposito
del cambio di formulazione sintattica, in quanto diretto a ripercuotersi sulla
sfera processuale, e ad intaccare dunque anche un interesse del privato. A dire
il vero, la riforma del 1989, come quella del 2002, rappresenta un’occasione
perduta per la mancata estensione della facoltà di chiedere la rimessione anche
alle altre parti processuali. Se l’istituto mira infatti a garantire il bene
della imparzialità del
giudizio, tende a proteggere un oggetto giuridico rientrante in realtà nell’interesse
di ogni soggetto partecipante al processo. Opportuna dunque sarebbe stata
l’attribuzione anche a tali soggetti (parte civile, responsabile civile,
civilmente obbligato
per la pena pecuniaria) della possibilità di avanzare istanza di rimessione
[27]. Qualche considerazione, in ultimo, va fatta anche sul piano degli effetti
connessi alla presentazione della richiesta. Per evitare impieghi strumentali
del rimedio, il legislatore del 1989, nella versione originaria dell’art.
47 c.p.p., aveva previsto - al comma 1 - che la richiesta di rimessione non
avrebbe prodotto alcuna sospensione automatica del processo. La norma si poneva
in linea col valore della “efficienza processuale”, ulteriore principio informatore del nostro
sistema, recentemente oggetto di esplicita proclamazione (art. 111 comma 2
Cost.). Nella prospettiva di contemperare tale esigenza con quella
dell’imparzialità del giudizio, si era altresì introdotto un divieto, per il giudice
procedente, di pronunciare sentenza fino al momento in cui non si fosse
concluso l’incidente di rimessione. In caso contrario, ci si sarebbe trovati di
fronte ad una pronuncia conclusiva della questione emessa proprio dallo iudex suspectus; a dispetto del principio
di imparzialità. Lo sforzo di raggiungere un punto di equilibrio tra tali
esigenze non ebbe tuttavia successo. L’obiettivo perseguito fu in
particolare vanificato dalla previsione concernente il divieto di pronunciare
sentenza, che poteva
tradursi invero in uno strumento di pregiudizio al valore della ragionevole
durata. La norma infatti avrebbe potuto favorire una reiterazione strumentale
di richieste di rimessione volte a bloccare i processi, nell’intento
di far implodere le
vicende giudiziarie mediante la prescrizione del reato. Ben presto, dunque, la Consulta, pronunciandosi
su tale profilo della disciplina, perviene, con sentenza n. 353 del 1996, a dichiarare incostituzionale la previsione introdotta dal legislatore del
1989. Più di un dubbio circa il rispetto delle statuizioni compiute in quella
occasione dalla Corte Costituzionale sorge oggi sulla nuova disciplina, nella
parte in cui si occupa di tale aspetto. L’attuale art. 47 c.p.p.
dispone che il giudice procedente sospende il processo in prossimità delle conclusioni o
discussioni a seguito della comunicazione, da parte della Corte di cassazione,
della assegnazione della richiesta alle sezioni unite o altra sezione,
introducendo così un meccanismo normativo apparentemente razionale in ordine al
contemperamento tra esigenze di efficienza processuale e di imparzialità. Si è
fatto notare, infatti, come spesso la valutazione delle richieste di rimessione
in seno all’attività del Primo presidente della Suprema Corte si risolva in una verifica superficiale
rivolta soprattutto a soddisfare esigenze amministrative di organizzazione del
lavoro. In sostanza, il vaglio in questione si limita ad un controllo poco
approfondito, idoneo ad escludere le sole richieste ictu oculi inammissibili. E
con la non meglio definibile locuzione dei “motivi di legittimo
sospetto”, idonea ad autorizzare il richiamo a qualsivoglia generica
perplessità sull’imparzialità del giudice, non risulterà certo arduo formulare
richieste apparentemente fondate e diverse da altre identiche istanze prima presentate. Il combinato
disposto delle norme relative agli effetti della richiesta e di quelle facenti
capo ai casi di trasferimento processuale, segnatamente del “legittimo
sospetto”, legittimerebbe pertanto una nuova declaratoria di incostituzionalità per contrasto
col valore della ragionevole durata dei processi [28]. La soppressione dei “motivi
di legittimo sospetto” si porrebbe, pertanto, come un passo obbligato non solo
per il rispetto della precostituzione legale, e dunque della imparzialità del giudice.
Risulterebbe maggiormente protetta, per via di un simile intervento, anche l’ulteriore
garanzia dell’efficienza processuale, così come proclamata dall’art. 111, comma
2, Costituzione. _______________ [1] Per riferimenti storici della disciplina del rimedio v. G.
Spangher, La rimessione dei procedimenti, vol. I, precedenti storici e profili
di legittimità costituzionale, Giuffrè 1984, p. 57
ss.; nonché L. Giuliani, Rimessione del processo e valori costituzionali
,Giappichelli 2002, p. 30 ss. [2] Cfr. M. Nobili, La procedura penale tra “dommatica”
e sociologia: significato politico di una vecchia polemica, in La questione
criminale, 1977, p. 51 ss. [3] A. Pizzorusso, La competenza del giudice come
materia ricoperta da
riserva di legge, in Giur. it., 1963, I, c. 1313 ss. [4] Corte Cost., 7 luglio
1962 n. 88 relativa all’incostituzionalità dell’art. 30 c.p.p. abr., in
Giur. Cost.,1962., annotata da A. Micheli, In tema di illegittimità costituzionale
della proroga della competenza in materia penale p. 960. Sui concetti di norma “formale”
e “sostanziale” insiti nel precetto costituzionale in esame, cfr. A.
Pizzorusso, La competenza del giudice, cit., p. 1313 ss. [5] M. Nobili, in
Commento all’art 25 comma 1° Cost., in Commentario della Costituzione. Rapporti civili (art
24-26), a cura di G. Branca, p. 203 ss. [6] G. Spangher, La rimessione dei
procedimenti, vol. I, cit., p. 169 ss., il quale osserva che “il
generico riferimento al collettivo sospetto (legittimo) della rimessione sembrava suggerire il
richiamo alla specificità del sospetto individuale della ricusazione, facendo
confluire i confini tra i due istituti in una zona d’ombra
dove finivano inevitabilmente per confondersi”. Per i casi più discussi di
rimessione per “legittimo
sospetto”, cfr., tra gli altri, Cass. Sez. I, 9 ottobre 1961, Durando, in Cass.
pen., 1962, p. 45; Cass. Sez. I, 7 luglio 1961, Vasques, ivi, 1962, p. 44.
[7]Fra i casi di rimessione per ordine pubblico che hanno suscitato maggior
clamore; cfr., fra gli
altri, Cass., Sez. I, 30 giugno, 1966, Mattalia, in Riv. it. dir. e proc. pen.,
1966, p. 1097 ss.; Cass., Sez. I, 13 ottobre 1972, Valpreda, in Foro. it.,
1972, II, c. 489 (Processo per la strage di Piazza Fontana). [8] Cfr. Corte
Cost. 27 aprile 1963 n. 50, annotata da G. Conso, La costituzionalità dell’art.
55 c.p.p. alla luce di una sentenza provvidenziale, in Riv. it. dir e proc.
pen. 1963, p. 624, con cui la
Consulta dichiara la perfetta compatibilità dell’art. 55
c.p.p. abr. [9] Per tutti,
M. Nobili, in Commento all’art 25 comma 1° Cost. cit. [10] Per simile
ricostruzione, cfr. G. Ichino, Precostituzione e naturalità del giudice nello
spostamento di competenza per materia previsto dalla legge 14 ottobre 1974, n.
497. Nuove norme contro la
criminalità, in Riv. it. dir e proc. pen, 1975, p. 574. A. A. Dalia, Sulla
precostituzione del giudice naturale come fondamentale garanzia di certezza per
l’imputato, con particolare riguardo ai rapporti tra la competenza
penale dei consoli e dei comandanti di porto, in Riv. it. dir e proc. pen., 1965, p. 507; oppure da
ultimo Id., L’imputato e suoi diritti, in Il giornale, 8
novembre 2002; E. Somma “Naturalità” e Precostituzione” del giudice cit., p.
827. [11] E. Zappalà, La ricusazione del giudice penale, Giuffrè, 1989, p. 10 ss.; G.
Illuminati, La nuova disciplina della rimessione del processo, Francesco
Caprioli (a cura di), Giappichelli, 2004, p. 61 ss. [12] L. Giuliani,
Rimessione del processo, cit., p. 152 ss. [13] In realtà, era stata la stessa
Corte Costituzionale che, pur avendo dichiarato, nella vicenda suddetta (nota
8), la legittimità dell’art. 55 c.p.p abr. aveva fornito indicazioni
interpretative sulle formule dei presupposti applicativi della rimessione,
essendosi accorta dell’eccessiva vaghezza delle stesse. In quella stessa occasione, attraverso
un’interpretazione restrittiva delle condizioni legittimanti la
rimessione, la Consulta
affermava che la rimessione per ordine pubblico si sarebbe dovuta disporre “per
gravi perturbamenti della pubblica tranquillità e pacifica convivenza dei cittadini, con pericolo
per la sicurezza delle persone”; mentre la rimessione per legittimo
sospetto doveva concretarsi quando con “mezzi diretti o indiretti, non esclusa
la violenza nei riguardi delle persone che partecipano al processo si tenta di influire sullo
svolgimento dello stesso”. I criteri hanno senz’altro esercitato
un’influenza decisiva nella formulazione della fattispecie da parte del
legislatore del 1989. [14] F. Cordero, Quando il sonno della ragione (giudiziaria) genera mostri, in
Dir. giust., 2002, n. 30, p. 8, il quale afferma come il legislatore non
avrebbe potuto esprimere meglio l’elemento di valutazione da
cui far discendere eventualmente il trasferimento processuale: “la libertà di
autodeterminarsi
rappresenta l’optimum”; perciò meritano lodi i compilatori
dell’art. 45 c.p.p.; era il solo modo in cui fossero definibili i presupposti
della rimessione”. [15] In relazione a tale aspetto si dovette infatti
registrare un progressivo cambiamento della disciplina originaria con conseguente adeguamento
della stessa al dettato costituzionale. Una prima
modifica, dovuta alla legge 15 dicembre 1972, n. 773, limitava la scelta ai
giudici “compresi nel distretto della stessa Corte d’appello a cui appartiene il giudice competente, ovvero nel
distretto di una Corte d’appello vicina”; infine la legge 22 dicembre
1980, n. 879, aveva previsto una regola analoga a quella attualmente vigente,
mediante un rinvio al criterio automatico di attribuzione della competenza, in virtù del quale andava
designato il giudice egualmente competente per materia del capoluogo del
distretto della corte d’appello più vicina,
tenuto conto “della distanza chilometrica ferroviaria e se del caso marittima”.
Oggi, per la determinazione del giudice del rinvio, l’art. 45 c.p.p. rinvia all’art.
11c.p.p. [16] N. Galantini, Commento agli artt. 45-49, in Commentario del nuovo codice di procedura
penale, diretto da E. Amodio-O. Dominioni, vol. I, Giuffrè, 1989, p. 270. [17]
L. Giuliani, Rimessione del processo, cit. p. 203. [18] T. Rafaraci, La nuova
disciplina della rimessione del processo, Giappichelli, 2004, p. 79 ss. [19]
Cfr., per es., il disegno di legge d’iniziativa dei senatori
Pera, Centaro ed altri, recante “norme di attuazione del principio costituzionale
dell’imparzialità dei magistrati”, in Atti Senato XIII leg., Documenti,
Disegni di legge e relazioni, doc. n. 4621, nel quale, fra l’altro, comparivano proposte
dirette ad apportare modifiche alla sfera applicativa dell’istituto al fine
proprio di ottenere un maggior potenziamento del principio d’imparzialità così
come sancito dalla nuova disposizione costituzionale contemplata dall’art.
111 comma 2 Cost. Su tale linea si colloca anche la legge Cirami. [20] In
questo senso, P. Ferrua, La rimessione per legittimo sospetto è legge, in Dir.
giust., 2002 (40), p. 10. [21] Cirami, “Arrivare presto all’approvazione perché a Milano succedono cose
strane”, in Corriere della Sera, 10 luglio 2002. [22] Cass. Sez. Un., 29
maggio 2002, Berlusconi, in Guida dir., 2002, n. 29, p. 80, con nota di E.
Marzaduri, L’approvazione di un testo diverso dalla delega implica solo la responsabilità politica del governo.
[23] V. Grevi, Un sorprendente dubbio delle Sezioni unite in tema di rimessione
del processo: incostituzionale l’art.
45 c.p.p. per “difetto di delega” rispetto alla previsione del “legittimo
sospetto”?, in Cass. pen., 2002, p. 3015 ss. [24] V. Grevi, Gravità delle situazioni locali
perturbatrici del processo e “legittimo sospetto”: le Sezioni unite si
orientano per una stretta interpretazione dei presupposti della rimessione, in
Cass. pen., 2003, p. 2237 ss., [25] G. Illuminati, La nuova disciplina della rimessione del
processo, cit., p. 76. [26] Ci si riferisce a Cass., Sez. Un., 27 gennaio 2003,
Berlusconi, in Cass. pen., 2003, p. 2163, n. 627. [27] L. Giuliani, Rimessione
del processo, cit., p. 412 ss. [28] M. Bargis, Richiesta di rimessione e
vicende sospensive del processo, in La nuova disciplina della rimessione della
rimessione, cit., p. 159. Commenta | Stampa | Segnala | Condividi |
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( da "AltaLex" del
24-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Per l’IRAP
occorre sempre l’autonoma organizzazione Cassazione civile , SS.UU., sentenza
26.05.2009 n° 12108 (Gaetano Reale) Commenta | Stampa | Segnala | Condividi L’art.
2 del D.Lgs. n. 446/1997 stabilisce che “l’esercizio abituale di un’attività
autonomamente organizzata diretta (…) alla prestazione dei servizi” è
presupposto dell’IRAP. Come è noto, la
Corte
costituzionale con la sentenza 156/2001 ha escluso
dall’IRAP i professionisti, ossia i contribuenti individuali esercenti
arti e professioni,
che svolgono la loro attività senza organizzazione di capitali o lavoro altrui.
Al contrario, la nozione di impresa si basa sul concetto di organizzazione. L’elemento
organizzativo – si legge nella citata sentenza 156/01 § 9.2- è connaturato alla
nozione stessa di impresa. Di conseguenza non è nemmeno ipotizzabile un’impresa
senza organizzazione e quindi le imprese sono sempre soggette ad IRAP senza possibilità di dimostrare l’assenza
di autonoma organizzazione. In un precedente intervento, avevo sottolineato il
limite di validità di questa impostazione, che resta circoscritta solo ad una
categoria di contribuenti, ossia ai lavoratori autonomi. Avevo anche anticipato la rilevanza
della questione con riferimento alla figura dell’agente di commercio,
stante una giurisprudenza piuttosto contrastante e incerta sul punto. In molti
casi, infatti, gli agenti di commercio e i promotori finanziari ottenevano ragione da parte dei giudici cui si
rivolgevano, benché rimanesse fuori discussione la questione preliminare se l’agente
di commercio sia in generale un lavoratore autonomo, e come tale quindi
produttore di reddito di lavoro autonomo, con tutto ciò che ne consegue in materia IRAP (debenza
subordinata alla autonoma organizzazione; onere della prova dell’assenza
della stessa a carico del contribuente, ecc.) oppure sia un imprenditore (e
conseguente assoggettabilità all’IRAP senza necessità di accertare la presenza di autonoma organizzazione,
atteso che l'elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di
impresa, come chiarito dalla Cass. 2582/2008 e soprattutto da C. Cost.
156/2001). Ora, sulla questione, si sono pronunciate le SSUU della Cassazione
con la sentenza 12108/09 del 26 maggio 2009, dirimendo – si
spera una volta per tutte – la disparità di vedute esistente anche fra le
sezioni semplici. Le SSUU partono dalla nota sentenza 156/2001 della Corte costituzionale
e in particolare dalla considerazione che “9.2 – (…) L'assoggettamento
all'imposta in esame del valore aggiunto prodotto da ogni tipo di attività
autonomamente organizzata, sia essa di carattere imprenditoriale o
professionale, è d'altro canto pienamente conforme ai principi di eguaglianza e di capacità contributiva -
identica essendo, in entrambi i casi, l'idoneità alla contribuzione
ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta - né appare in alcun modo lesivo
della garanzia costituzionale del lavoro. È tuttavia
vero - come taluni rimettenti rilevano - che mentre l'elemento organizzativo è
connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per
quanto riguarda l'attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di
abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un'attività professionale
svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui. Ma è evidente
che nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di
elementi di organizzazione - il cui accertamento, in mancanza di specifiche
disposizioni normative, costituisce questione di mero fatto - risulterà
mancante il presupposto stesso dell'imposta sulle attività produttive, per
l'appunto rappresentato, secondo l'art. 2, dall'"esercizio abituale di
un'attività autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di
beni ovvero alla prestazione di servizi", con la conseguente
inapplicabilità dell'imposta stessa.” Sulla base di tale
considerazione, le SS.UU. sottolineano due punti: primo: che occorre
distinguere la nozione di impresa e quella di lavoro autonomo e che tale distinzione deve essere
tracciata sulla base della normativa IRAP e delle sue specifiche esigenze
tributaristiche (cfr. §5 e 6 SS.UU. n. 12108/09); secondo: discende dal primo
punto che occorre sempre verificare in concreto da parte del giudice di merito
se ricorre il requisito dell’autonoma organizzazione; e detto
requisito non solo potrebbe ricorrere nel caso di attività di lavoro autonomo,
ma potrebbe anche mancare nel caso di attività imprenditoriale. La ratio decidendi della sentenza si
richiama a precedenti della Corte costituzionale (n.
42/1980), in cui si sottolineava l’importanza di ancorare la
tassazione a indici reali, concreti di ricchezza effettiva. In mancanza di un
indice siffatto, la tassazione sarebbe incostituzionale. Quindi, non
è sufficiente affermare che l’agente di commercio o il promotore
finanziario esercita attività d’impresa per inferire sic et simpliciter che si
tratti di attività assoggettata ad IRAP. È necessario, invece, esaminare se sussiste il presupposto impositivo a
cui è subordinata la tassazione IRAP, ossia l’autonoma
organizzazione. Ciò in quanto non solo è possibile ipotizzare così un’impresa
senza organizzazione come un’attività autonomamente organizzata di lavoro
autonomo; ma ciò che
rende l’IRAP conforme a Costituzione è la produzione di un valore aggiunto da
parte dell’organizzazione di capitale o lavoro altrui (cfr. §4 e 8). Del resto,
nemmeno la normativa nazionale né quella comunitaria richiedono l’esistenza di
una qualche organizzazione
per l’esercizio dell’attività propria degli agenti di commercio o dei
promotori finanziari (cfr. § 9). La conclusione inevitabile di tale
ragionamento è che gli agenti di commercio, come pure i promotori, sono
soggetti ad IRAP solo quando sussista il requisito dell’autonoma organizzazione. In
definitiva, le SSUU hanno sposato un preciso orientamento della giurisprudenza
della Quinta Sezione (cfr. § 5; ma anche della stessa Corte Suprema di
Cassazione, in particolare v Cass. 3676/2007; 3678/2007 e 8177/2007). La quale esclude
che l’attività d’impresa sia, per ciò solo, sempre organizzata e perciò
assoggettata ad IRAP indipendentemente da ogni accertamento in fatto del
presupposto dell’autonoma organizzazione, respingendo così la tesi per la quale l’IRAP è tout court
dovuta per il solo fatto di esercitare un’attività rientrante nell’art. 2195
cod. civ.. Le SSUU hanno invece ritenuto costituzionalmente orientata la
diversa interpretazione che postula una valutazione complessiva, caso per caso,
dell’attività
svolta dal contribuente, prendendo atto che nella realtà tale attività può
assumere forme variabili dalla figura del lavoro dipendente, a quella
d’impresa, passando anche per quella di lavoro autonomo. In conclusione, l’IRAP
vuole colpire solo la
grande impresa, dotata di una grande organizzazione spersonalizzata, nel senso
cioè di essere in grado di svolgere l’attività produttiva del
valore aggiunto, oggetto del tributo, anche in assenza del «titolare» ovvero
anche quando muta la persona del titolare. Sarà a questo punto interessante verificare la
validità della tesi assunta dalle SS.UU. anche nei confronti delle più tipica e
diffusa struttura d’impresa in Italia, costituita da piccole società
di persone o di capitali, formate dall’imprenditore e dai suoi familiari e dotate
generalmente di una minima organizzazione, laddove il fattore «lavoro»
personale e familiare prevale sul «capitale». (Altalex, 24 luglio 2009. Nota di
Gaetano Reale) | irap | autonoma organizzazione | Gaetano Reale | SUPREMA CORTE
DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Sentenza 26 maggio 2009, n. 12108 IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO ...omissis... ha pronunciato la seguente SENTENZA ...omissis...
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La controversia concerne l'impugnazione del silenzio
rifiuto opposto dall'amministrazione all'istanza del contribuente che chiedeva
il rimborso dell'RAP corrisposta per gli anni 1998, 1999, 2000 e 2001 in relazione
allapropria attività di agente di commercio. La Commissione adita
rigettava il ricorso, ma la decisione era riformata inappello, con la sentenza
in epigrafe, sul presupposto che l'imposta possa essere applicata solo laddove
sussista (e nella specie, il giudice di merito negava che sussistesse in
concreto) una "abituale organizzazione" di capitale, beni strumentali
e prestazioni di terzi. Avverso tale sentenza l'Agenzia delle Entrate propone
ricorso per cassazione con unico motivo, illustrato anche con memoria. Il
contribuente non si è costituito. La causa è chiamata innanzi a queste Sezioni
Unite in quanto la
Quinta Sezione civile della Corte, riscontrata l'esistenza di
un contrasto di giurisprudenza interna alla Sezione sulla assoggettabilità ad
IRAP dell'attività svoltadall'agente di commercio e dal promotore finanziario,
con ordinanza n. 36 del 9 giugno 2008, rimetteva al Primo Presidente, per
l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, la questione, ritenuta anche di
massima di particolare importanza, se i contribuenti le cui attività
costituiscono "esercizio di impresa" ai sensi dell'art. 2195 c.c.
(come nel caso di specie quella di "agente di commercio") possano
essere considerati "lavoratori autonomi professionali" e, quindi,
essere assoggettati ad IRAP, solo qualora sia accertata unaorganizzazione
autonoma della loro attività, ovvero se lo debbano essere, comunque,
"ontologicamente", in relazione al fatto che svolgono una
delleattività considerate dal richiamato art. 2195 c.c.. MOTIVAZIONE 1. Con
l'unico motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate denuncia violazionee falsa
applicazione degli arti. 1742 e ss. cc, 2195 cc, 3, comma 144, L. n. 662 del 1996, 2,
3, 8, 27 e 36, D.Lgs. n. 446 del 1997. Ad avvisodell'amministrazione ricorrente
occorre chiedersi se, per l'applicabilità dell'IRAP in relazione agli agenti di
commercio eventualmente non organizzatim forma di impresa, «sia comunque
necessario l'accertamento in fatto del presupposto della autonoma
organizzazione», così come per i lavoratori autonomi: ed è questa,
sinteticamente espressa, la questione che la Quinta Sezione
civile ha sottoposto alla valutazione di queste Sezioni Unite. A tale domanda,
secondo la parte ricorrente dovrebbe darsi risposta negativa. Non possono
utilizzarsi, infatti, le conclusioni cui la giurisprudenza erapervenuta con
riferimento agli agenti di commercio in merito all'applicazione dell'ILOR, in
quanto tale imposta, pur essendo tra quelle sostituite con l'IRAP, aveva un
diverso presupposto di imposizione, essendo: a) la prima, una imposta di
carattere patrimoniale, destinata a colpire i redditi da capitaleo quelli ad
essi assimilabili con esclusione dei redditi frutto esclusivo di attività
lavorativa del soggetto, laddove quest'ultima sia esplicata senza unrequisito minimo
di imprenditorialità; b) la seconda, una imposta a caratterereale, il cui
presupposto è «costituito dall'esercizio abituale di un'attivitàautonomamente
organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla
prestazione di servizi». Tale presupposto sarebbe «ontologicamente presente»
nell'attività dell'agente di commercio, il quale è un «intermediario autonomo
dell'imprenditore commerciale», riveste egli stesso «la qualifica di
imprenditore commerciale, ausiliario dell'imprenditore commerciale preponente,
al quale non è vincolato da subordinazione» e su di lui «ricade il rischio
economico e giuridico dell'attività di promozione di contratti per conto del
preponente». Sottolinea, infine, la parte ricorrente chel'agente di commercio
oltre ad essere iscritto nel Ruolo degli agenti dicommercio deve essere altresì
iscritto «al registro delle imprese, obbligo riservato esclusivamente a chi
svolge attività di natura commerciale». 2. Di fronte al problema posto dal
ricorso, la posizione espressa dalla Quinta Sezione civile di questa Corte non
è stata univoca.Pronunciando in ordine all'attività del promotore finanziario la Sezione, con la sentenza
n. 3673 del 2007, ha
cassato una sentenza, la quale aveva accolto l'istanza del contribuente,
affermando che l'imposta è dovuta soltanto quando la combinazione di mezzi e
persone prevalga sull'apporto del titolare,essendo tale da poter operare, e
quindi produrre reddito, indipendentemente dall'attività personale di
quest'ultimo, sulla base del seguente principio: «In tema di IRAP, anche alla
stregua dell'interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 2001, l'esistenza di
un'autonoma organizzazione, che costituisce il presuppostoper l'assoggettamento
ad imposizione dei soggetti esercenti arti o professioni indicati dall'art. 49,
comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, esclusi i casi di soggetti
inseriti in strutture organizzative riferibili ad altruiresponsabilità ed
interesse, non dev'essere intesa in senso soggettivo, come auto-organizzazione
creata e gestita dal professionista senza vincoli di subordinazione, ma in
senso oggettivo, come esistenza di un apparato esterno alla persona del
professionista e distinto da lui, risultante dall'aggregazione di beni
strumentali e/o di lavoro altrui. Essa è riscontrabile ogni qual volta il
professionista si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui, o impieghi
nell'organizzazione beni strumentali eccedenti, per quantità o valore, il
minimo comunemente ritenuto indispensabile per l'esercizio dell'attività,
costituendo indice di tale eccedenza, fra l'altro, l'avvenuta deduzione
deirelativi costi ai fini dell'IRPEF o dell'IVA, ed incombendo al contribuente
che agisce per il rimborso dell'imposta indebitamente versata l'onere di
provare l'assenza delle predette condizioni». Sempre con riferimento alla
medesima attività, la Sezione,
con la sentenzan. 8177 del 2007,
ha affermato che: «In tema di IRAP, anche alla stregua
dell'interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 2001, l'assoggettamento ad
imposta dell'attività di promotore finanziario postula una valutazione
complessiva dell'attività svolta dal contribuente, la quale può assumere in concreto
connotati variabili tra la figura del lavoro subordinato dipendente, esente da
impo-sta, quella del lavoro autonomo, assoggettabile ad imposta solo in
presenzadi un'autonoma organizzazione, e quella dell'attività d'impresa,
pacificamente sottoposta ad imposizione». In tal modo si è evidenziata la
necessità di procedere ad una valutazione caso per caso. Pronunciando in ordine
alla attività di rappresentante di commercio, la Sezione, con la sentenza
n. 7899 del 2007, ha
affermato che: «In tema di IRAP, l'indagine circa l'esistenza di una struttura
organizzativa idonea a realizzareun incremento potenziale della produttività
derivante dalla mera autoorganizzazione del lavoro personale si impone
esclusivamente in riferimento allavoro autonomo professionale, nel quale la
prestazione personale del contribuente costituisce di regola l'elemento
essenziale dell'attività, che puòben essere esercitata anche in assenza di
un'autonoma organizzazione: essanon è pertanto necessaria ai fini
dell'assoggettamento ad imposizione dell'attività di agente o rappresentante di
commercio (ancorché operante in re-gime di contabilità semplificata), i cui
redditi, riferendosi ad un'attivitàcommerciale secondo la previsione dell'art.
2195 cod. civ., sono per questasola circostanza qualificabili come redditi
d'impresa». Emerge da queste pronunce una diversità di posizioni interpretative
che simuovono tra i due opposti poli della valutazione caso per caso della
situazione concreta del singolo agente di commercio o promotore finanziario alquale
si riferisca l'imposizione e della soggezione tout court di tali
soggettiall'imposta per il solo fatto di esercitare una delle attività
ausiliarie indicatenell'art. 2195 c.c.. La questione è, con tutta evidenza, una
questione di massima di particolareimportanza, in ragione delle conseguenze che
possono derivare dal seguire l'una o l'altra ricostruzione del dato normativo.
3. La soluzione non può prescindere dalla interpretazione che della natura
edella ratio dell'imposta ha dato la
Corte costituzionale con la sentenza
n. 156 del 21 maggio 2001. L'IRAP
è stata istituita in base alla legge delega n. 662 del 1996 (art. 3, comma 143,
lett. a) come imposta a carattere reale da applicare «in relazione
all'esercizio di una attività organizzata per la produzione di beni o servizi,
nei confronti degli imprenditori individuali, delle società, degli enti
commerciali e non commerciali, degli esercenti arti e professioni, dello Stato
edelle altre amministrazioni pubbliche». La base imponibile è determinata in base
«al valore aggiunto prodotto nel territorio regionale», con modalità diverse a
seconda dei soggetti incisi (art. 3, comma 144, lettere, a, be e).
All'attuazione della delega ha provveduto il D.Lgs. n. 446 del 1997, il
qualeprevede che l'imposta, a carattere reale e indeducibile ai fini delle
imposte sui redditi (art. 1), abbia come presupposto, laddove non si tratti di
attività esercitata dalle società e dagli enti, compresi gli organi e le
amministrazioni dello Stato (ipotesi in cui l'imposta si applica in ogni caso),
«l'esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata diretta alla
produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi» (art. 2,
come modificato dall'art. 1, comma 1, D.Lgs. n. 137 del 1998).Tra i soggetti
incisi dall'imposta sono collocate le persone fisiche, le società semplici e
quelle ad esse equiparate a norma dell'art. 5, comma 3, D.P.R. n. 917 del 1986,
esercenti arti e professioni di cui all'art. 49, comma 1, del medesimo decreto
(art. 3, comma 1, lettera e), ossia i lavoratori autonomi, la categoria di
contribuenti rispetto alla quale è apparsa più discutibile la identificazione
dei requisiti per l'applicabilità dell'imposta e più
marcato il possibile contrasto della imposta stessa con i principi costituzionali
di uguaglianza, di capacità contributiva e di tutela del lavoro, tanto da
determinare l'intervento della Corte costituzionale. 4.
Il giudice delle leggi, con la sentenza n. 156 del 2001, ha sancito la
legittimità costituzionale dell'imposta osservando che «l'IRAP non è un'imposta sul
reddito, bensì un'imposta di carattere reale che colpisce ... il valore
aggiunto prodotto dalle attività autonomamente organizzate», sicché «non
riguardando la normativa denunciata la tassazione dei redditi personali, le censure
(di illegittimità costituzionale) riferite
all'asserita equiparazione deltrattamento fiscale dei redditi di lavoro
autonomo a quello dei redditi di impresa risultano fondate su un presupposto
palesemente erroneo». A giudizio della Corte costituzionale,
«l'assoggettamento all'imposta in esame del valore aggiunto prodotto da ogni
tino di attività autonomamente organizzata, sia essa di carattere
imprenditoriale o professionale, è d'altrocanto pienamente conforme ai principi
di eguaglianza e di capacità contributiva - identica essendo, in entrambi i
casi, l'idoneità alla contribuzione ricollegabile alla nuova ricchezza prodotta
- né appare in alcun modo lesivo della garanzia costituzionale
del lavoro»: tuttavia, se «l'elemento organizzativo è connaturato alla nozione
stessa di impresa, altrettanto non può dirsi perquanto riguarda l'attività di
lavoro autonomo, ancorché svolto con caratteredi abitualità, nel senso che è
possibile ipotizzare un'attività professionale svolta in assenza di
organizzazione di capitali o lavoro altrui». Ciò non determina l'illegittimità
dell'imposta, ma solo la sua inapplicabilità «nel caso di una attività
professionale che fosse svolta in assenza di elementidi organizzazione - il cui
accertamento, in mancanza di specifiche disposizioni normative, costituisce
questione di mero fatto», perché «risulterà mancante il presupposto stesso
dell'imposta sulle attività produttive, per l'appunto rappresentato, secondo
l'art. 2 (D.Lgs. n. 446 del 1997, come modificato dall'art. 1, comma 1, D.Lgs.
n. 137 del 1998), dall'esercizio abituale diun'attività autonomamente
organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla
prestazione di servizi». 5. Seguendo le linee tracciate dalla Consulta - la cui
«sentenza dichiarativa dell'infondatezza della questione (di illegittimità costituzionale dell'IRAP),pur non essendo vincolante per il
giudice chiamato successivamente ad applicare quella norma, rappresenta, per
l'autorevolezza della fonte da cui proviene, un fondamentale contributo ermeneutico,
che non può essere disconosciuto senza valida ragione» (v. Cass. n. 5747 del
2007), la Quinta
Sezione civile della Corte di Cassazione ha affermato il
principio, che il Collegio condivide, secondo cui «l'esercizio delle attività
di lavoro autonomo di cuiall'art. 49, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986,
n. 917 (nella versione vigente fino al 31 dicembre 2003) e all'art. 53, comma
primo, del medesimo d.P.R. (nella versione vigente dal 1° gennaio 2004) è
escluso dall'applicazione dell'imposta soltanto qualora si tratti di attività
non autonomamente organizzata. Il requisito dell'autonoma organizzazione, il
cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di
legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia,
sotto qual-siasi forma, il responsabile dell'organizzazione, e non sia quindi
inserito instrutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed
interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo Vid quod plerumgue
accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di
organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.
Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell'imposta
asseritamentenon dovuta dare la prova dell'assenza delle predette condizioni
(Cass. n. 3676 del 2007). Questo orientamento coglie e valorizza l'elemento
distintivo che il giudicedelle leggi ha tracciato, nella ricordata sentenza n.
156 del 2001, tra l'attività di lavoro autonomo che abbia i requisiti di
"organizzazione" per essere legit-timamente incisa dall'imposta e
l'attività di lavoro autonomo che tali requisiti non abbia; e cioè
l'«organizzazione di capitali o lavoro altrui». Tuttavia, poiché la Corte costituzionale
ha anche distinto, ai fini dell'applicazione dell'imposta, tra
"impresa", nella quale l'elemento organizzativo sarebbe
«connaturato», e "lavoro autonomo", rispetto al quale sarebbe
necessario un accertamento caso per caso dell'esistenza di una «autonoma
organizzazio-ne», resta ineludibile, per la soluzione del problema che qui
interessa, accertare in base a quali criteri si possa dire che un determinato
soggetto, rispettoal quale debba essere applicata l'imposta, sia definibile un
"imprenditore" equando un "lavoratore autonomo". Invero, da
un lato, il giudice delle leggi non definisce quando vi sia
"impre-sa" e, dall'altro, solo «l'attività esercitata dalle società e
dagli enti, compresigli organi e le arruninistrazioni dello Stato, costituisce
in ogni caso presupposto di imposta» (art. 2, comma 1, secondo periodo, D.Lgs.
n. 446 del 1997), in quanto per le persone fisiche la soggezione all'imposta è
subordinata all'«esercizio abituale di una attività autonomamente organizzata
diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di
servizi» (art. 2, comma 1, primo periodo, del citato decreto). Orbene, poiché
la persona fisica può svolgere le attività predette, sia come imprenditore
indivi-duale, sia come lavoratore autonomo, purché ne risultino accertate le
relativecondizioni, diventa essenziale verificare quale sia, tra il polo
dell'impresa eil polo del lavoro autonomo, la collocazione dell'esercizio delle
attività ausiliare di cui all'art. 2195 ce, nel cui quadro si collocano tanto
l'agente dicommercio, quanto il promotore finanziario.6. In questa direzione
non soccorre la nozione civilistica di "imprenditore" e di
"lavoratore autonomo", perché su questo piano
"imprenditore" è una categoria soggettiva, mentre "lavoratore
autonomo" è una qualifica contrattuale", senza che tra l'una e
l'altra possa darsi incompatibilità, ben potendo il"lavoratore
autonomo" essere un "imprenditore". Diversa sembrerebbe essere
la situazione se si fa riferimento alla «nozione tributaria" di
"imprenditore" e di "lavoratore autonomo" che emerge dagli
arti. 49 e 51, D.P.R. n. 917del 1986 (nel testo anteriore alla riforma del
2004, oggi arti. 53 e 55). Nel quadro della disciplina del Testo Unico sulle
imposte dirette, il lavoroautonomo appare una nozione residuale, intendendosi
per reddito di lavoroautonomo quel che non è reddito di lavoro dipendente (art.
46), né reddito diimpresa (art. 51), né reddito agrario (art. 29). L'art. 49,
comma 1, dispone, infatti: «sono redditi di lavoro autonomo quelli che derivano
dall'esercizio di arti e professioni. Per esercizio di arti e professioni si
intende l'esercizioper professione abituale, ancorché non esclusiva, di
attività di lavoro autonomo diverse da quelle considerate nel capo VI» (il
quale disciplina i redditidi impresa). L'art. 51, comma 1, a sua volta dispone: «Sono
redditi d'impresa quelli che derivano dall'esercizio di imprese commerciali.
Per esercizio di imprese commerciali si intende l'esercizio per professione
abituale,ancorché non esclusiva, delle attività indicate nell'art. 2195 del
codice civilee delle attività indicate alle lettere b) e e) del comma 2
dell'art. 29 che eccedono i limiti ivi stabiliti, anche se non organizzate in
forma d'impresa». La formulazione normativa indica chiaramente che il
legislatore, ai fini delleimposte sul reddito, ha dato rilevanza esclusivamente
ad un profilo qualitativo, includendo nel reddito di impresa l'esercizio di
tutte quelle attività cheabbiano natura oggettivamente commerciale, senza tener
conto del profiloquantitativo, cioè proprio della dimensione organizzativa
dell'attività, nella quale deve essere valutato il "peso" del lavoro
personale dd soggetto, che quell'attività svolge, sull'impiego del capitale e
sull'utilizzazione del lavoro altrui: tanto non sorprende, se si prende in
considerazione la circostanza cheil citato art. 51 considera le attività
indicate dall'art. 2195 cc. produttive direddito di impresa «anche se non
organizzate in forma d'impresa». Ma a quel che è stabilito per le imposte sul
reddito non può essere riconosciuta una efficacia condizionante ai fini
dell'interpretazione di imposte, come è l'IRAP, che rispondono ad altri criteri
e ad una diversa ratio impositiva. 7. Del resto, l'esigenza di radicare
nell'ordinamento tributario una più rassi-curante distinzione tra
"impresa" e "lavoro autonomo" è stata individuata dal
giudice delle leggi fin dalla sentenza n. 42 del 1980, con la quale veniva
dichiarata costituzionalmente illegittima la sottoposizione ad ILOR dei redditi
di lavoro autonomo non assimilabili ai redditi di impresa. All'epoca,facendo
riferimento all'art. 51, D.P.R. n. 597 del 1973, il cui contenuto nonera
dissimile da quello dell'art. 51 T.U.I.R. (nella formulazione antecedentela
riforma del 2004), la Corte
costituzionale affermava: «allo stato
attualedell'ordinamento tributario, che non può essere diversamente articolato
dallaCorte stessa, la distinzione fra i redditi di lavoro e i redditi d'impresa
dovràessere operata alla stregua dell'art. 51 del D.P.R. n. 597 del 1973: dal
qualegià risulta un ampliamento della nozione d'impresa, rispetto ai criteri
adottati nel codice civile». Ma esprimeva la propria insoddisfazione per lo
statusquo, sostanzialmente suggerendo al legislatore di stabilire «nei limiti
dellaragionevolezza - ulteriori criteri, specificativi di quelli dettati
dall'art. 51». Allorché tornò ad occuparsi della legittimità costituzionale
dell'ILOR proprio relativamente ai soggetti che svolgono le attività ausiliarie
indicate nell'art. 2195 cc, come gli agenti di commercio, la Corte costituzionale,
verificata la mancata realizzazione dell'invito già rivolto al legislatore -
pur ribadendo di non essere «abilitata ad introdurre nella materia dell'imposta
locale sui redditi - mediante pronunce di accoglimento parziale - nuove
classificazioni dei tipi di reddito, interne rispetto a quelle operate o
comunque considerate dalla legislazione tributaria» non poteva esimersi dal
rilevare la peculiarità della fattispecie. Cosi essa affermò che «in presenza
di "attività ausiliarie" come quella dei rappresentanti di commercio
senza deposito,degli agenti di commercio, degli artigiani, dei procacciatori
d'affari in cam-po assicurativo, si rende ancor più necessario, soprattutto ai
fini dell'imposta locale sui redditi, verificare preliminarmente se ricorrano o
meno i requisiti minimi perché si possa realmente parlare d'impresa, e non
invece, di lavoro autonomo, onde evitare che la capacità contributiva correlata
all'ILOR, siapresunta, nelle singole ipotesi, indipendentemente da ogni
fondamento effettuale»: e ne affidava il compito alla interpretazione della
concreta fattispecie da parte del giudice di merito. La strada non è diversa
per quanto riguarda l'IRAP, la quale, pur essendo una imposta diversa
dall'ILOR, presuppone, comunque e soprattutto allaluce delle indicazioni
emergenti dalla sentenza n. 156 del 2001 della Corte costituzionale,
che il lavoro autonomo possa essere legittimamente inciso solo qualora vi sia
«organizzazione di capitali o lavoro altrui», ossia quandovi sia un quid pluris
che ecceda il lavoro personale di colui che svolge l'attività di riferimento.8.
Orbene, tenuto conto che la
Corte costituzionale ha più volte
affermato che «le presunzioni tributarie non sono di per sé illegittime, ma
debbono fondarsi su "indici concretamente rivelatori di ricchezza"
ovvero su "fattireali", quand'anche difficilmente accertabili,
affinché l'imposizione non abbia una «base fittizia"» (v. Corte cost. n.
42 del 1980), deve prendersi attoche esiste tra il "territorio dell'impresa"
e il «territorio del lavoro autonomo" un'area grigia, una linea mobile di
confine, rappresentata dallo svolgimento delle attività ausiliarie di cui
all'art. 2195 cc, le quali, pur essendo ai fini delle imposte sul reddito
considerate produttive di reddito d'impresa, posso-no essere (e spesso sono)
svolte dal soggetto senza «organizzazione di capitali o lavoro altrui». Se,
infatti, si considerassero ai fini IRAP queste attività tout court
"attività di impresa", l'imposta non troverebbe corrispondenza nella
sua ratio, e finirebbe per colpire una "base fittizia", un
"fatto non reale", in contraddizione con una interpretazione
costituzionalmente orientata del presupposto impositivo. Non è, infatti, la
oggettiva natura dell'attività svolta ad essere alla base dell'imposta, ma il
modo - autonoma organizza-zione - in cui la stessa è svolta, ad essere la
razionale giustificazione di una imposizione sul valore aggiunto prodotto, un
quid che eccede il lavoro personale del soggetto agente ed implica appunto
organizzazione di capitalio lavoro altrui»: se ciò non fosse, e il lavoro
personale bastasse, l'imposta considerata, non solo non sarebbe vincolata
all'esistenza di una «autonoma organizzazione», ma si trasformerebbe
inevitabilmente in una sostanziale "imposta sul reddito". 9. D'altro
canto la legge non esige l'esistenza di una particolare struttura perlo
svolgimento dell'attività dell'agente di commercio e del promotore finanziano.
Secondo la legge regolatrice «l'attività di agente di commercio si
intendeesercitata da chiunque venga stabilmente incaricato da una o più imprese
dipromuovere la conclusione di contratti in una o più zone determinate» (art.
1, comma 1, L.
n. 204 del 1985). In modo non dissimile si esprime la Direttiva comunitaria n.
86/653/CEE secondo la quale per "agente commerciale" si intende la
persona che, in qualità di intermediario indipendente, è incaricata in maniera
permanente di trattare per un'altra persona, qui di seguito chiamata
"preponente", la vendita o l'acquisto di merci, ovvero di trattare
edi concludere dette operazioni in nome e per conto del preponente» (art. 1,
comma 2). Si tratta di una «attività professionale» (terminologia
utilizzatnella direttiva europea) consistente in una prestazione d'opera per
l'esercizidella quale non è necessitata una struttura d'impresa, né valgono a
supportare una "presunzione" in questo senso né l'assunzione del
rischio per la conclusione del contratto (peraltro, il "rischio" non
è elemento normativamente considerato né dalla legge nazionale, né dalla
direttiva europea), né il paga-mento a provvigione (che può, d'altro canto
essere strutturato anche in unaparte fissa ed una parte variabile): entrambi
gli elementi attengono alla modalità della "retribuzione" e al legame
che viene stabilito dalle parti tra l'obbligazione assunta e il risultato
conseguito. Ma ciò non determina necessariamente la trasformazione
dell'attività professionale in attività di impresa, come non lo determinata
l'obbligatorietà dell'iscrizione in un determinato ruolo (tenuto presso le
Camere di Commercio, art. 2, comma 2,
L. n. 204 del 1985 e D.M. 21 agosto 1985), previsione
non dissimile dall'iscrizione adalbi per lo svolgimento di altre specifiche
attività professionali e che, comunque, non può, nel caso di specie,
determinare, pena il conflitto con la ricordata direttiva europea, la nullità
di un contratto concluso da un soggettonon iscritto (Corte Giustizia Europea,
sentenza Bellone del 13 luglio 2000, C-456/98, e sentenza Caprini del 6 marzo
2003, C-485/01). Non dissimile è la situazione del promotore finanziario, il
quale è definitodalla legge come «la persona fisica che, in qualità di agente
collegato ai sensi della direttiva 2004/39/CE (ossia «persona fisica o
giuridica che, sotto lapiena e incondizionata responsabilità di una sola
impresa di investimentoper conto della quale opera, promuove i servizi di
investimento e/o servizi accessori presso clienti o potenziali clienti, riceve
e trasmette le istruzioni ogli ordini dei clienti riguardanti servizi di
investimento o strumenti finanziari, colloca strumenti finanziari e/o presta
consulenza ai clienti o potenziali clienti rispetto a detti strumenti o servizi
finanziari»), esercita professionalmente l'offerta fuori sede come dipendente,
agente o mandatario» (art. 31, comma 2, D.lgs. n. 58 del 1998, come sostituito
dall'art. 6, D.Lgs. n. 164 del 2007). E anch'egli, alla stregua di altri
professionisti è iscritto ad un apposito albo (art. 31, comma 4, D.lgs. n. 58
del 1998, come sostituito dall'art. 14, L. n. 262 del 2005: albo tenuto dal 1
gennaio 2009, dall'Organismoper la tenuta dell'Albo unico dei promotori
finanziari, sulla base del regola-mento CONSOB n. 16190 del 2007, art. 91 ss.).
10. Pertanto, anche con riferimento all'agente di commercio e al promotore
finanziario (quest'ultimo per l'ipotesi che lo stesso non sia un
"lavoratore dipendente", come è possibile che egli sia alla luce
dell'art. 31, comma 2, D.lgs. n. 58 del 1998) deve essere ribadito il principio
che la soggezione ad IRAP della loro attività è possibile solo nell'ipotesi nelle
quali sussista il requisito dell'autonoma organizzazione che costituisce
accertamento di fatto spettante al giudice di merito e non censurabile in sede
di legittimità se congruamente motivato. Deve essere quindi affermato il
seguente principio di diritto: «In tema di IRAP, a norma del combinato disposto
degli arti. 2, coma 1,primo periodo, e 3, comma 1, lettera e), del digs. 15
dicembre 1997, n. 44, l'esercizio
delle attività di agente di commercio, di cui all'art, art. 1, L. n. 204 del 1985, e di
promotore finanziario di cui all'art. 31, comma 2, D.Lgs. n. 58 del 1998, è
escluso dall'applicazione dell'imposta soltanto qualora sitratti di attività
non autonomamente organizzata. Il requisito dell'autonoma organizzazione, il
cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di
legittimità se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia,
sotto qualsiasi forma, il responsabile dell'organizzazione, e non sia quindi
inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed
interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo Vid quod plerumque
accidit, il minimo indispensabile per l'esercizio dell'attività in assenza di
organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui.
Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell'imposta
asseritamente non dovuta dare la prova dell'assenza delle predette condizioni».
11. Nel caso di specie, tale accertamento è stato condotto dal giudice di
merito il quale è giunto alla conclusione che «il contribuente risulta
esercitare l'attività di rappresentante di commercio con l'esclusivo apporto
del proprio impegno, senza l'ausilio di rilevanti mezzi specifici, di capitali
e/o prestazioni lavorative di terzi, situazione peraltro non contestata dall'Ufficio».
Tale accertamento di fatto non è oggetto di censura nel ricorso nel quale si
so-stiene esclusivamente la soggezione ontologica dell'agente di commercio
all'imposizione sul valore aggiunto prodotto. Pertanto il ricorso deve essere
rigettato. La novità della questione giustificala compensazione delle spese
della presente fase del giudizio. P.Q.M. LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE Rigetta il ricorso. Compensa le spese. Così deciso in Roma, nella
camera di consiglio del 12 maggio 2009. Commenta | Stampa | Segnala | Condividi
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 25-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-25 - pag: 23 autore:
PROFESSORI è illegittima la riduzione del fuori ruolo La Corte costituzionale, con sentenza 236/09, ha dichiarato illegittima la norma che
riduce la durata del collocamento fuori ruolo per i professori universitari che
stanno svolgendo tale periodo. Si tratta dell'articolo 2, comma 434, della
legge 244/07. La Corte
riconosce la discrezionalità del legislatore di cancellare il periodo di fuori
ruolo, per agevolare il ricambio generazionale. Tuttavia, questo obiettivo non
può tradire il principio di affidamento nella sicurezza giuridica di quanti
stanno svolgendo il periodo di fuori ruolo, che viene progressivamente ridotto
da tre a un anno, finoall'abolizionedal1Úgennaio 2010. Questa norma, secondo la Corte costituzionale,
impone un sacrificio ai docenti coinvolti, senza salvaguardare, per il numero
ridotto dei professori, gli equilibri di bilancio. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 25-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-25 - pag: 24 autore: Comunità montane Nessuna penalità automatica alle regioni ROMA La Corte costituzionale spazza via la parte "automatica" della stretta
impressa nel 2008 dal Governo Prodi alle comunità montane. I giudici della
Consulta, con la sentenza n. 237 depositata ieri, hanno infatti accolto alcuni
rilievi sollevati dalle regioni Toscana e Veneto e dichiarato incostituzionali
il comma 20,l'ultimo periodo del comma 21 e il comma 22 dell'articolo 2
della Finanziaria 2008 (legge 244 del 2007). Le regioni, in verità, avevano
messo sotto accusa l'intera sezione della manovra (i commi da 17 a 22) con le disposizioni
che avevano previsto il riordino delle comunità montane con l'obiettivo di
ridurre, a regime, la spesa corrente per il loro funzionamento almeno di un
terzo rispetto al 2007. Secondo Toscana e Veneto, infatti, le norme statali
erano lesive della loro potestà legislativa e lo stato non era legittimato ad
adottarle. La Consulta
ha però accolto solo in parte le censure. I giudici, infatti, hanno salvato la
sostanza delle restrizioni, bocciando le critiche ai commi 17 (che ha imposto
alle regioni di riordinare le comunità montane riducendo la spesa), 18 (che ha
fissato i criteri per le leggi regionali) e 19. Mentre è stata dichiarata incostituzionale la parte "automatica" della
stretta. Vale a dire la soppressione – automatica appunto – (contenuta nei
commi 20, 21 e 22) delle comunità montane prive di determinati requisiti (come
avere almeno metà dei comuni situati per l'80% almeno a 500 metri sul livello del
mare) nelle regioni che non avessero provveduto da sé al riordino. V. M. ©
RIPRODUZIONE RISERVATA
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La Consulta corregge il
Codice dell'ambiente (sezione: Giustizia)
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 25-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-25 - pag: 24 autore: Raffica di censure
sulle disposizioni di salvaguardia La Consulta corregge il Codice dell'ambiente Gugliemo Saporito La Corte costituzionale
riscrive, in parte, il Codice dell'ambiente con un pacchetto di sentenze di
illegittimità. Da qui l'opportunità di una rapida ricognizione degli effetti
dell'intervento della Consulta. Sui bilanci dell'Autorità di ambito la Corte (sentenza 246/2009)
elimina la norma (articolo 148, comma 3 del decreto legislativo 152 del
2006) nella parte in cui prevede l'obbligo di affissione dei bilanci. Si
tratta, infatti, di una disciplina di minuto dettaglio, che regola una
specifica modalità di pubblicità. Ciò, secondo la Corte, incide sulla materia
dei servizi pubblici locali, senza che possano essere invocate competenze
statali quali la tutela della concorrenza o la tutela dell'ambiente. La norma
eccede, quindi, le competenze statali perchè non è necessario che lo Stato si
spinga fino a disciplinare dove e come debbano essere pubblicati i bilanci delle
Autorità d'ambito. L'articolo 241 del decreto legislativo 152/2006 è inciso
dalla sentenza 247, in
quanto emerge una violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e
Regioni. La materia della bonifica dei siti contaminati si colloca nell'ambito
della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, di esclusiva competenza statale:
tuttavia la bonifica delle aree adibite alla produzione agricola o
all'allevamento del bestiame, ha aspetti peculiari, con una normativa
differenziata. Questo motiva il coinvolgimento, nell'emanazione del regolamento
relativo agli interventi nelle aree di produzione agricola, sia del ministro
delle Attività produttive che di quello delle Politiche agricole e forestali,
chiamati a esprimere il "concerto". E nel concerto volto alla
adozione di regolamenti, la bonifica dei siti e l'agricoltura, sono collegati,
al punto da esigere una leale collaborazione e l'apporto partecipativo delle
Regioni. Queste ultime hanno, infatti, una competenza legislativa residuale,
con specifiche attribuzioni, costituzionalmente tute-late, in tema di
agricoltura e zootecnia. Da questo deriva la necessità che le regioni, in sede
di adozione del regolamento emanato dal ministro dell'Ambiente non solo di
concerto con quelli delle Attività produttive e delle Politiche agricole, siano
sentite attraverso la
Conferenza unificata. Quest'ultima è, infatti, il luogo
giuridico istituzionalmente preposto ai momenti di concertazione fra Stato,
Regioni ed enti locali. Cade, poi, per effetto della sentenza n. 249/2009,
l'articolo 199, comma 93 del decreto legislativo 152/2006, nella parte in cui
attribuisce allo Stato (ministero dell'Ambiente) un potere sostitutivo nel caso
in cui le autorità competenti non realizzino gli interventi previsti dal piano
regionale di gestione dei rifiuti, tutte le volte che tali omissioni possano
arrecare un pregiudizio all'attuazione del piano. Emerge, infatti, un contrasto
con gli articoli 117, 118 e 120 della Costituzione, che fondano un potere
sostitutivo dello Stato su enti locali e in materie di competenza regionale.
Ambiti nei quali il potere sostitutivo avrebbe dovuto essere riconosciuto, in
via preliminare, alle Regioni. Secondo il giudice delle leggi, l'articolo 118
della Costituzione attribuisce in via di principio ai Comuni, in tutte le
materie, le funzioni amministrative, ma riserva la possibilità che tali
funzioni, per esigenze di unitarietà, siano conferite, sulla base dei principi
di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, ai livelli territoriali di
governo di dimensioni più ampie. In conseguenza, la previsione di eccezionali
sostituzioni di un livello a un altro per il compimento di specifici atti,
considerati dalla legge necessari per il perseguimento degli interessi unitari
coinvolti, e non compiuti tempestivamente dall'ente competente spettano alla
legge regionale, che deve prevedere anche l'esercizio di funzioni
amministrative di competenza dei Comuni, comprensive di poteri sostitutivi in
capo a organi regionali, per il compimento di atti o attività obbligatorie, nel
caso di inerzia o di inadempimento da parte dell'ente competente. Poichè la
norma statale prevede l'intervento sostitutivo dello Stato qualora Comuni,
Province e, per quanto attiene ai rifiuti urbani, le cosiddette Autorità
d'ambito,non realizzino gli interventi del piano regionale di gestione dei
rifiuti, nei termini e con le modalità nello stesso stabilite, si genererebbe
una sostituzione statale in danno della regione con lesione delle sue
attribuzioni. Infine, la sentenza n. 250 sottrae allo Stato una competenza in
materia di formazione professionale (articolo 287, comma 1 del decreto 152/
2006), poichè tale competenza spetta alle regioni. La conduzione di impianti
termici civili avviene attraverso personale abilitato: non spetta, però,
all'Ispettorato provinciale del lavoro il compito di rilasciare il patentino di
abilitazione, ma alle regioni. Questi enti hanno, infatti, competenza in tema
di rilascio dell'abilitazione alla conduzione di impianti termici civili
compresa l'istituzione dei relativi corsi di formazione. © RIPRODUZIONE
RISERVATA LE PRONUNCE Al centro delle decisioni la ripartizione delle
competenze fra gli enti territoriali I RIFIUTI Stop ai poteri sostitutivi dello
Stato nel caso di mancata attuazione del piano regionale
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 25-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-25 - pag: 24 autore: «Concerto» sul suolo
Autorità di bacino Il Codice dell'ambiente, decreto legislativo 152/2006,
sopprime le autorità di bacino e istituisce le autorità distrettuali: secondo
le regioni esse costituirebbero una sorta di amministrazione decentrata dello
Stato, con partecipazione minoritaria delle regioni ma la Corte costituzionale
–sentenza 232 – ritiene che i piani di bacino sono il fondamentale strumento di
pianificazione di difesa del suolo e delle acque. «Gli interessi regionali
risultano adeguatanebte tutelati dalla forma di collaborazione previsa dal
Codice» Il programma di intervento Produce effetti nella materia del governo
del terriroria, che ricade sotto la competenza legislativa concorrente. Per
questo la Corte
costituzionale – sempre con la sentenza 232 – ritiene illegittima
la norma del Codice dell'ambiente là dove non prevede il parere della
Conferenza unificata Difesa del suolo Gli interventi in materia di difesa del
suolo appartengono – rileva la
Corte costituzionale – alla materia
della tutela dell'ambiente e hanno riflessi significativi sull'esercizio delle
attribuzioni regionali in materia di governo del territorio. Il principio di
leale collaborazione «impone un coinvolgimento delle Regioni e la norma va
dichiarata illegittima nella parte in cui non stabilisce che la programmazione
e il finanziamento degli interventi in difesa del suolo avvengano quando è
stata sentita la Conferenza
unificata
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 25-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-25 - pag: 24 autore: Sì a notifiche
prima di 60 giorni dal Pvc Accertamento valido anche se prematuro è
manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale
della norma dello Statuto del contribuente (articolo 12, comma 7 della legge
212/2000) che, dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura
delle operazioni da parte degli organi di controllo, impone agli uffici
tributari di non notificare l'avviso di accertamento prima del decorso dei 60
giorni, anche se non è prevista una sanzione di nullità in caso di mancato
rispetto del termine da parte del Fisco. Lo ha affermato la Corte costituzionale, con la sentenza 244 depositata ieri. Per la Consulta la norma non
lede alcun principio costituzionale, tanto meno gli articoli 24 e 111 che esigono il rispetto di
principi processuali. La norma censurata, infatti, è diretta a regolare il
procedimento di accertamento tributario e non ha natura processuale. La
disposizione denunciata di incostituzionalità, nel rispetto del principio di
cooperazione tra amministrazione e contribuente, stabilisce che, dopo il
rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte
degli organi di controllo, il contribuente può comunicare entro 60 giorni
osservazioni e richieste che sono valutate dall'agenzia delle Entrate. L'avviso
di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del termine, «salvo
casi di particolare e motivata urgenza ». Per il giudice delle leggi, però, il
fatto che non sia prevista una sanzione ad hoc in caso di inosservanza del
termine da parte dell'amministrazione finanziaria non pone la norma in
contrasto con la
Costituzione. Se. Tro. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 25-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-25 - pag: 24 autore: Corte costituzionale. Risolto il nodo-competenza Sulla tariffa
rifiuti parola ai giudici fiscali Sergio Trovato La tariffa rifiuti è
un'entrata tributaria. Quindi, non è in contrasto con la Costituzione la norma
che ha attribuito al giudice tributario la competenza a decidere in caso di
contestazioni degli atti emanati dai Comuni o dai soggetti affidatari. Lo ha
stabilito la Corte
costituzionale (presidente Amirante, redattore Franco
Gallo), con la sentenza 238 depositata ieri. La Consulta mette così la
parola fine alla questione riguardante la natura della Tia (tariffa d'igiene
ambientale),che ha creato un contrasto giurisprudenziale tra i giudici sia di
merito sia di legittimità. Per il giudice di pace di Catania e la Commissione
provinciale di Prato, che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale, si tratterebbe di un prelievo di natura non
tributaria, ma privatistica. Quindi, trattandosi di un corrispettivo contrattuale,
sarebbe in contrasto con la
Costituzione la disposizione (articolo 2 del decreto
legislativo 546/1992, come modificato dall'articolo 3 bis della legge 248/2005)
che demanda alle Commissioni tributarie il potere di decidere sulle relative
controversie. Per i giudici costituzionali, invece, le caratteristiche
strutturali e funzionali della Tia «rendono evidente che tale prelievo presenta
tutte le caratteristiche del tributo» e che, pertanto, «non è inquadrabile tra
le entrate non tributarie, ma costituisce una mera variante della Tarsu»
conservando la qualifica di tributo propria di quest'ultima. Del resto, prima della recente rimessione della questione alla Corte costituzionale da parte delle Sezioni unite, anche la prima sezione civile
della Corte di cassazione, con la sentenza 5298 del 5 marzo 2009, ha affermato che la
tariffa rifiuti è un'entrata tributaria perché non costituisce il corrispettivo
di una prestazione liberamente richiesta dal cittadino. Quindi, in caso
di mancato pagamento della somma dovuta dal contribuente, il credito può essere
insinuato nel passivo fallimentare e gode del privilegio speciale che
l'articolo 2752 del Codice civile assicura ai tributi locali. In effetti, il
presupposto della Tia è l'occupazione o conduzione di locali o aree scoperte a
uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei locali, a qualsiasi uso
adibiti, nel territorio comunale. I costi per i servizi relativi alla gestione
dei rifiuti giacenti su strade e aree pubbliche e soggette a uso pubblico devono
essere coperti dai Comuni con l'istituzione di una tariffa, composta da una
quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del
servizio e da una quota rapportata a quanti-tà di rifiuti conferiti, servizio
fornito e costi di gestione. Tuttavia, è necessario che il servizio venga
effettuato a prescindere dalla domanda dell'utente e deve essere finanziato in
base al principio di capacità contributiva. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Corriere della Sera"
del 25-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Lettere al Corriere data: 25/07/2009 - pag: 37 Risponde Sergio Romano I
TEDESCHI E L'EUROPA FINE DELL'AMBIGUITÀ La sentenza del 30
giugno della Corte Costituzionale tedesca sulla compatibilità della
Costituzione della Germania con il trattato di Lisbona è stata inizialmente
accolta con favore negli ambienti politici di Berlino e Bruxelles. Tuttavia, a
seguito di un più attento esame, sono emersi parecchi dubbi, a causa degli
ostacoli che essa pone sulla strada della integrazione europea. Leggo
sulla Süddeutsche Zeitung dell'11 luglio un articolo di Alfred Grosser secondo
il quale la sentenza è una pietra tombale sul ruolo propulsivo che la Germania ha avuto in
Europa da Adenauer fino a oggi. È verosimile? Potrebbe spiegare quale impatto
avrà la sentenza della Corte tedesca? Mario Gerolimetto mantese@iuav.it Caro
Gerolimetto, A lfred Grosser, emigrato in Francia negli anni Trenta, è uno dei
migliori conoscitori della Repubblica federale e della sua storia
istituzionale. I suoi timori non mi sorprendono. Giudizi altrettanto
preoccupati e molti interrogativi sono stati formulati in Italia da Antonio
Padoa Schioppa, da Giuseppe Guarino sul Corriere del 19 luglio, e da Riccardo
Perissich, collaboratore di Altiero Spinelli e autore di un libro su «L'Unione
Europea» apparso un anno fa presso Longanesi. Molti hanno accolto con un sospiro
di sollievo l'approvazione del testo del Trattato di Lisbona, ma hanno letto
con inquietudine la parte della sentenza in cui la Corte ricorda che il cuore
della democrazia tedesca è il suo parlamento e che il governo delle Repubblica
federale non potrà ratificare prima di avere sottoposto al Bundestag una legge
che ne rafforzi le competenze e lo metta in condizione di vigilare su ogni
ulteriore trasferimento della sovranità nazionale. Come dice Perissich, la Corte avverte il governo
«che l'estensione delle competenze dell'Unione ha raggiunto materie per cui la Germania non può
consentire ulteriori deleghe di sovranità senza rischiare il sovvertimento
delle garanzie che la costituzione dà al popolo tedesco». Perissich pensa che
queste posizioni riflettano gli umori euroscettici di questi ultimi anni e teme
che la sentenza finisca per fornire argomenti e alibi a tutti coloro che
vogliono boicottare il processo d'integrazione europea. Eppure la sentenza
potrebbe avere qualche effetto positivo. In uno dei suoi passaggi i giudici
osservano che l'Ue ha allargato la sfera dei propri poteri sino ad avere una
forma che corrisponde, in alcuni settori, a quella di uno Stato federale. Ma i
suoi processi decisionali e il modo con cui vengono scelte le sue cariche restano
quelli di una organizzazione internazionale e appartengono al dominio del
diritto internazionale. Fino a quando la legittimità democratica delle
istituzioni dell'Ue non sarà garantita da un popolo europeo, il potere deve
quindi restare saldamente nelle mani degli Stati membri. In Germania, dice la Corte, l'ingresso in uno
Stato federale richiederebbe un nuova costituzione, priva di quelle regole che
oggi impediscono la rinuncia alla sovranità nazionale. Non sarà facile
naturalmente persuadere i tedeschi a modificare la loro costituzione. Ma la Corte ha il merito di avere
messo in evidenza l'anomalia di una istituzione che assomiglia a certi animali
mitologici, per metà uomini e per metà animali. L'Ue non può continuare a
essere indefinitamente un ibrido fra Stato federale e organizzazione
internazionale. Se non vuole rinunciare alla moneta unica, al mercato unico,
alla politica agricola comune e alla politica commerciale comune, dovrà uscire
da questa ambiguità e fare una chiara scelta costituzionale.
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( da "Stampa, La" del
26-07-2009)
Argomenti: Giustizia
TRIBUNALE DI
SALUZZO. COPPIA DI MARENE Nozze fra due donne I giudici: "No per
legge" [FIRMA]ANDREA GARASSINO SALUZZO Niente matrimonio tra due donne a
Marene. Sarebbe stato il primo celebrato in Italia, ma l'autorità giudiziaria
si è pronunciata in senso contrario. La coppia, nei mesi scorsi, aveva chiesto
in municipio la pubblicazione per la celebrazione del matrimonio civile. Il
funzionario comunale, però, aveva bocciato l'istanza e le due fidanzate si
erano rivolte al Tribunale di Saluzzo, raccogliendo l'appello della
dell'associazione «Certi Diritti» che, insieme a «Rete Lanford», promuove la
campagna «Affermazione civile» per il diritto al matrimonio degli omosessuali.
I giudici saluzzesi, nei giorni scorsi, hanno depositato la sentenza che
respinge il ricorso delle due fidanzate marenesi. «Per il Tribunale - ha spiegato
l'avvocato che si è occupato della vicenda delle due donne, Michele Potè di
Torino - deve essere il legislatore a decidere in materia. Le clienti non sono
soddisfatte di questo pronunciamento e pertanto, entro il
31 luglio, presenteremo un reclamo alla Corte d'Appello». L'avvocato Potè ha
aggiunto: «Speravamo che i giudici saluzzesi aderissero almeno alla seconda
domanda dell'istanza, che prevedeva di rimettere gli atti alla Corte
Costituzionale come ha fatto, invece, in un'altra situazione il Tribunale di
Venezia». La Procura
di Saluzzo, con il pubblico ministero Maurizio Ascione, prima in Italia secondo
«Rete Lanford», non aveva appoggiato il diniego del Comune, rappresentato
dall'Avvocatura dello Stato, e non si era neanche opposto alla celebrazione del
matrimonio. Il magistrato si era rimesso alla decisione dei giudici.
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( da "Stampa, La" del
27-07-2009)
Argomenti: Giustizia
LA CORTE
COSTITUZIONALE REINTEGRA I DOCENTI CHE
USUFRUIVANO DEL FUORI RUOLO IL GRANDE FRATELLO All'interno COMUNEAPPARECCHI IN
FUNZIONE 24 ORE SU 24 DA SETTEMBRE, SERVIRANNO ANCHE PER LA SICUREZZA Il ritorno
di 30 prof di 72 anni «Nelle scuole l'amianto è sotto controllo» In città più
di 10 mila occhi indiscreti Telecamere in piazzaVittorio Alessandro Mondo Dopo
l'inchiesta sui
27 morti parla l'assessore: solo 4 istituti da bonificare Servizio Sei occhi
elettronici immortaleranno chi parcheggia l'auto in divieto Telecamere contro
gli abusivi della sosta in piazza Vittorio. Sei occhi elettronici a
sorvegliare, 24 ore su 24, gli automobilisti più incivili che, infischiandosene
del divieto permanente di sosta su tutta la piazza, abbandonano uno sciame di
vetture (ad alto tasso di Suv) lungo i portici, arrivando addirittura a
spostare le piramidi di cemento pesanti come macigni pur di parcheggiare. «È
l'ultima chance, l'unico accorgimento che potrà produrre risultati veri - ha
spiegato ieri l'assessore ai Vigili urbani Domenico Mangone - in capo a un mese
ne sistemeremo una ad ogni esedra, in grado di immortalare le targhe di chi non
potrebbe lasciare l'auto in quella piazza. Saranno molto ben segnalate e al
momento rappresentano l'unica forma di dissuasione in grado di stroncare il
fenomeno». Ci sono voluti parecchi mesi, ma adesso siamo alla decisione:
qualche giorno fa il comandante del Corpo di via Bologna, Mauro Famigli,
insieme con il direttore della Divisione nuove tecnologie Sandro Golzio, ha
fatto un primo sopralluogo in piazza Vittorio. Emanuela Minucci A PAGINA 48
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Reintegrati
i prof over 70 In
pensione i più giovani (sezione: Giustizia)
( da "Stampa, La" del
27-07-2009)
Argomenti: Giustizia
RIENTRO DI MASSA il
caso Rinviato il ricambio generazionale Norma incostituzionale:
i "fuori ruolo" rientrano in cattedra Al Politecnico sono 28
Apripista con il ricorso è stato Roberto Pomè ANDREA ROSSI Reintegrati i prof
over 70 In
pensione i più giovani Non pensavo di sollevare un simile polverone, però sono
contento: quell'articoletto imboscato nella Finanziaria era ignobile». L'ultima
beffa per l'Università italiana è nata dal gesto di rabbia di un professore. Un
anno fa Girolamo Cotroneo, 74 anni, docente di Storia della Filosofia
all'università di Messina, ha ricevuto una lettera dal suo ateneo. «Diceva che
il mio periodo di "fuori-ruolo" sarebbe terminato in anticipo. Mi
mandavano in pensione. E io ho reagito». Il fuori ruolo - il triennio aggiuntivo
di insegnamento concesso ai docenti di 72 anni - è stato abolito dalla
Finanziaria 2007, con effetto retroattivo. Le università nell'ultimo anno hanno
così mandato in pensione 1500 docenti tra 72 e 75 anni che avevano già chiesto
e ottenuto di mantenere la cattedra per altri tre anni. Tutto bene, finché il
professor Cotroneo ha fatto ricorso. «Ero indignato. Andarmene dopo 40 anni,
non mi sarebbe costato nulla. Ma non si cambiano le regole in corsa». Si è
rivolto al Tar di Catania, che lo scorso autunno gli ha
dato ragione rinviando la «leggina» incriminata alla Corte Costituzionale.
Centinaia di «baroni» tra 72 e 75 anni hanno fatto altrettanto. E sono stati
reintegrati . Adesso anche la
Consulta si è pronunciata: la norma è incostituzionale, a quei docenti andava consentito di terminare i loro tre anni
di «fuori ruolo». Succederà anche a Torino: al Politecnico, ma
soprattutto all'Università dove, il primo novembre del 2008, 28 docenti sono
stati mandati a casa dall'oggi al domani. Tanti hanno seguito l'esempio del
professor Cotroneo e si sono rivolti al Tar. Apripista, in realtà, è stato un
docente del «Poli», Roberto Pomè, seguito a ruota dai giuristi Sergio Chiarloni
e Marino Bin e dal sociologo Guido Sertorio, tutti reintegrati più tardi. Come Giorgio
Cerruti di Castiglione e Valeria Ramacciotti, professori di Letteratura
Francese a Lingue e l'economista Giorgio Pellicelli. Un'ondata. Altro che il
tanto declamato esodo dei baroni. «Hanno cacciato a pedate nel sedere centinaia
di docenti e adesso ne pagano le conseguenze», esulta Antonino Liberatore,
presidente dell'Unione sindacale dei professori universitari di ruolo. «La
colpa è dei rettori e della loro foga nel ripianare i bilanci in rosso. Hanno
fatto pressione sul governo di allora (Prodi, ndr) per mandare in pensione
anticipata i docenti, calpestando i loro diritti. Un'azione dissennata». «Era
un legge fatta male. A forza di andare avanti per imposizioni succede di
emanare norme frettolose che si ritorcono contro chi le ha volute», aggiunge Mimmo
Pantaleo, segretario nazionale della Cgil-Flc. Il paradosso è che gli atenei
con le casse vuote, sfruttando una legge dello scorso anno, a ottobre
cominceranno a mandare in pensione i professori ordinari a 70 anni anziché a 72. L'obiettivo è duplice:
risparmiare e accelerare il ricambio generazionale. L'esodo riguarderà circa
3500 professori tra novembre e il 2009. A Torino l'Università conta di
pensionarne 89 quest'anno e 79
l'anno prossimo, il Politecnico una trentina. Ma, ora
che la Consulta
si è pronunciata, si dovranno riprendere i 75enni e pagare loro stipendi da
130-140 mila euro l'anno. Alla faccia del ricambio. «Non è ammissibile che una
questione così delicata sia risolta nelle aule di tribunale», dice Enrico
Decleva, presidente della Conferenza dei rettori. «Servono leggi chiare che
mettano gli atenei in condizione di agire al riparo dai ricorsi. Ci sono troppe
norme equivoche». Ma il professor Cotroneo non vive di sensi di colpa: «Quella
legge era ingiusta. Le regole non si cambiano in corsa». Potrebbe non essere
finita. Davanti alla Corte pendono altre sentenze dei Tar italiani, che hanno
reintegrato i docenti che avevano chiesto di accedere al fuori ruolo spiegando
che la loro esperienza e chiara fama andavano tutelate. Se la Corte dovesse avallare anche
questa impostazione per gli atenei sarebbero altri 1500 docenti over 70 sul
groppone, e a Torino una quarantina tra Università e Politecnico.
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( da "Stampa, La" del
27-07-2009)
Argomenti: Giustizia
ENTI LOCALI. OGGI
INCONTRO CON LA
REGIONE Comunità montane: è caos Il Tar sospende la riforma
regionale, rischia di restarne soltanto una [FIRMA]GIAMPIERO CARBONE
ALESSANDRIA Comunità montane sempre più nel caos. Il Tar Piemonte ha sospeso la
legge regionale del 2008 che ha stabilito la riduzione degli enti montani da 48 a 31, con una serie di
accorpamenti «forzati». Contro questa legge la Comunità montana Alta Valle
Susa aveva presentato ricorso in quanto la norma avrebbe leso l'autonomia dei
singoli enti e trovava fondamento nella legge Finanziaria 2008, considerata incostituzionale dai ricorrenti (tesi considerata rilevante
dai giudici) in quanto le Comunità montane sono materia esclusiva delle
Regioni. Il Tar ad aprile aveva rinviato la questione alla
Corte costituzionale, che deve ancora dire la sua. La scorsa settimana il tribunale
ha deciso la sospensione della legge dopo un ulteriore ricorso contro il decreto
della Regione del 3 giugno con il quale si convocano i comizi per l'elezione
dei nuovi presidenti a partire dal 31 luglio, mentre gli attuali diventano
commissari. E' stato fermato quindi l'iter che in provincia di
Alessandria prevede la riduzione da quattro a due Comunità montane, con
l'accorpamento di Alta Val Lemme Alto Ovadese con la Suol d'Aleramo, da una parte,
e di Valli Borbera e Spinti con Valli Curone, Grue, Ossona, dall'altra. Un
percorso finora sofferto e contestato per i timori di prevalenza di un
territorio sull'altro, specie tra Curone e Borbera, e di peso eccessivo dei
Comuni collinari rispetto ai montani nell'altra situazione. Marco Mazzarello
(Alta Val Lemme Alto Ovadese), spiega che oggi «ci sarà un incontro a Torino
tra Uncem e Regione per capire come muoversi. E' una situazione disastrosa
poiché potrebbe tornare in vigore la legge Lanzillotta del 2007, che teneva in
vita soltanto le Comunità montane con una media di 600 metri di altitudine,
il che per la nostra provincia significa mantenere in vita solo la Val Borbera.
Oltretutto, era già stata fissata la data delle elezioni dei nuovi Consigli, il
7 novembre». A creare ulteriore confusione c'è anche il disegno di legge
Calderoli, sostenuto dal governo: prevede la cancellazione a livello statale
delle Comunità montane con una drastica riduzione dei fondi governativi.
Commenta Vincenzo Caprile, a capo della Val Curone: «Il governo intende
eliminare le Comunità montane per istituire le Unioni di Comuni, che dovrebbero
essere le agenzie di sviluppo del territorio, lo stesso ruolo stabilito dalla
Regione per le Comunità. Ricordo inoltre che si tratta solo di un disegno di
legge e che in Parlamento subirà certamente delle modifiche».
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( da "AltaLex" del
27-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Antefatti e
postfatti del mobbing Articolo di Aldo Niccoli 27.07.2009 Commenta | Stampa |
Segnala | Condividi | mobbing | Antefatti e postfatti del mobbing: personalità
del mobbizzato, conflittualità dell’ambiente di lavoro,
configurabilità dell’infortunio sul lavoro, responsabilità verso l’ufficio. di
Aldo Niccoli Di rilievo sono tre recenti pronunce sulla materia del mobbing: trattasi di Cass., sez. Lav.,
sent. 3785 del 17 febbraio 2009, sent. 21 aprile 2009, n. 9477 e T.A.R. Lazio,
Sez. I quater, sent. del 5 maggio 2009, n. 4564 (1). La prima esclude la
configurabilità del mobbing ove in un ufficio sia riscontrata in concreto una
conflittualità diffusa, piuttosto che anche una vera condotta prevaricatrice da
parte del superiore; la seconda spiega come un lavoratore che abbia difficoltà
caratteriali proprie, a prescindere dal contesto lavorativo, non può poi
imputare allo stesso dei comportamenti rientranti in alcune fattispecie di
mobbing aziendale (es: emarginazione, trasferimento ad altro reparto); la terza
enuncia a chiare lettere che il trasferimento per incompatibilità ambientale
non ha di per sé carattere sanzionatorio e non configura il mobbing. Le citate
pronunce danno in questa sede la stura per affrontare un aspetto specifico di
un argomento ormai trattato in ogni aspetto e forma. Essendo il mobbing ormai
ricostruibile come una figura di reato, possiamo prendere a prestito, pur con
una certa licenza, la terminologia penalistica: in questa sede analizzeremo,
pertanto, gli antefatti ed i postfatti del mobbing, che non sempre vengono
approfonditi congiuntamente e a tutto campo in quanto sono profili, per così
dire, collaterali, del fenomeno mobbing. Trattasi, quindi, della valutazione
del contesto lavorativo nel quale operano mobbizzati e mobbizzanti, terreno che
secondo le cd. buone prassi deve accogliere al meglio ogni lavoratore,
traducendosi in un obbligo di protezione (preventivo e successivo) a carico del
datore di lavoro; trattasi anche delle parallele condizioni psicologiche
soggettive del mobbizzato, prescindenti dal mobbing. Trattasi, ancora, della
connessione con l’infortunio sul lavoro e quindi della non solo risarcibilità diretta ma
indennizzabilità o pensionabilità ai fini inail; a tale aspetto si ricollega
poi l’argomento della responsabilità patrimoniale di chi ha causato o non
impedito il mobbing nei confronti della struttura che ha certamente subito una diminuzione patrimoniale sia in
termini diretti, a seguito di condanna ad un risarcimento, sia in via mediata,
per la perdita o lesione di un’unità lavorativa (2). Quanto alla
sentenza n. 3785/2009 della Sezione Lavoro della Cassazione, essa si distingue sotto due aspetti: difatti, essa da
un lato ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso in concreto il
mobbing poiché aveva in concreto riscontrato una certa conflittualità in
ufficio, ma non anche ravvisato una condotta prevaricatrice del superiore del
dipendente, mentre dall’altro ha precisato la nozione di mobbing,
richiedendo: a) una pluralità di comportamenti a carattere persecutorio,
illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, posti in essere
intenzionalmente in modo sistematico e durevole contro il dipendente con volontà vessatoria (3);
b) l’accadimento dell’evento lesivo della salute o della personalità del
dipendente; c) la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del datore
di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del
lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento
persecutorio. Quanto al soggetto su cui incombe l'onere della prova, al
lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute a causa dell'attività lavorativa svolta compete
l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di
lavoro e il nesso causale fra questi due elementi; una volta che il lavoratore
abbia provato tali circostanze, grava sul datore di lavoro l'onere di dimostrare
di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del
danno. La nocività dell’ambiente di lavoro è elemento di notevole
rilevanza anche per la di poco successiva Cass., sent. 9477/2009; la Corte ha respinto la
ricostruzione proposta
nell’esposizione di una lavoratrice, che asseriva di essere stata oggetto
per anni di continue vessazioni da parte di colleghi e superiori nel corso
dell’attività lavorativa e sul luogo di lavoro, nonché di essere stata
demansionata e che a causa di tali condotte, imputabili anche alla datrice di lavoro, era caduta
in uno stato di prostrazione (sindrome ansiosi-depressiva), chiedendo perciò la
condanna al risarcimento dei danni alla professionalità, biologico psichico,
morale ed esistenziale. La Corte
ha invece accolto la ricostruzione della Corte di Appello, che aveva concluso
non negando il clima di conflitto determinatosi all’interno
della azienda nei vari reparti in cui la ricorrente aveva operato, ma
ridimensionadone la portata e attribuendone la responsabilità soprattutto a problemi caratteriali e di
rapporto della stessa, quindi ad un suo disagio esistenziale ovvero ad una sua
condizione psicologica alterata. In tale quadro di riferimento, la Corte ha piuttosto
valorizzato il tentativo di superare la situazione conflittuale creatasi tra la
ricorrente e le proprie colleghe col trasferimento della stessa ad altro
reparto, in adesione a quanto richiesto o comunque suggerito dalla stessa
lavoratrice; infine, ha escluso una possibile responsabilità del datore di
lavoro, comunque valutata come solo confusamente e genericamente dedotta dall’appellante,
in ragione del fatto che il responsabile del personale, come la responsabile
dello specifico reparto, si erano adeguatamente attivati, sia pure inutilmente, per risolvere la situazione.
Quanto a quello che con una certa licenza rispetto ai termini giuridici,
abbiamo chiamato postfatto, va osservato come nel corso dell’ultimo
decennio alcuni operatori del diritto stanno facendo affiorare l’idea che si
possa configurare un
qualche legame tra le fattispecie di infortunio sul lavoro ed il fenomeno del
mobbing. Nell’economia di questa esposizione, per poter meglio
centrare la questione, è opportuno fare prima un piccolo passo indietro. Si
parla di infortunio sul
lavoro nelle situazioni in cui un lavoratore, a causa e in occasione del
servizio, contrae una manifestazione patologica che invalidi sia le sue
capacità lavorative che la sua persona. Si assiste pertanto ad un fenomeno
bidirezionale, che fa emergere danni morali e materiali, in quanto si
concretizza la lesione del diritto alla piena esplicazione della personalità
del lavoratore, alla sua realizzazione nel luogo di lavoro, e si ha anche un
danno economico per la stessa amministrazione, che deve privarsi per un certo
periodo di un lavoratore, o che addirittura potrà trovarsi a doverne fare un
impiego ridotto o comunque diverso. Si spiegano allora tutte le cautele che
circondano un fenomeno del genere: al di là di quelle formali, legate alla
denuncia alle autorità competenti da parte dell’ufficio di
appartenenza se l’infortunio supera la soglia temporale dei tre giorni,
sussistono veri e propri obblighi di protezione e di diligenza ai sensi della
normativa sulla sicurezza nel luoghi di lavoro, in capo sia al datore di lavoro che al lavoratore
stesso. Sarà infatti onere/obbligo (un vero munus) del lavoratore aver cura di
non incorrere in situazioni di pericolo, che possano quindi originare danni
alla sua persona o a quella di altri lavoratori o terzi; dovrà pertanto tenere
una condotta diligente, e dovrà segnalare agli uffici competenti eventuali
guasti, carenze o situazioni di pericolo per sé o per gli altri, che abbia
riscontrato durante la sua attività lavorativa. Ove questo elemento manchi,
sarà poi da vedere se e in che misura potrà essere addebitata allo stesso
lavoratore una responsabilità esclusiva o concorrente, in caso di infortunio
suo o di altri. Si è detto concorrente, in quanto certo non verrà meno la
responsabilità, di natura oggettiva, del datore di lavoro, nel caso in cui l’infortunio
sia comunque ascrivibile ad una carenza dal luogo o delle procedure da questi
gestite o coordinate. Ricostruito così l’infortunio sul lavoro, va visto poi
quali analogie esso presenta col fenomeno del mobbing e con le sue implicazioni lavorative e
sociali. Si parla di mobbing quando ci si riferisce ad un fenomeno di
aggressione, compulsione, afflizione, emarginazione di un lavoratore, ad opera
di un gruppo di colleghi o da parte di superiori (4); le modalità di realizzazione
sono quindi del tutto varie, come del resto si osserva dalla casistica
giurisprudenziale. Un autorevole studioso di mobbing, il Leymann, così lo ha
definito nel 1996: “Comunicazione ostile e contraria ai principi
etici, perpetrata in modo sistematico da una o più persone principalmente contro un singolo
individuo che viene per questo spinto in una posizione di impotenza e
impossibilità di difesa e qui costretto a restare da continue attività ostili “. Da
un’analisi coordinata dalla d.ssa Menelao (responsabile dei centri ascolto mobbing della UIL)
dopo l’emanazione della direttiva europea sulla violenza del 26/4/2007, le
conseguenza principali subite dalla vittima sono riconducibili a quattro
categorie: disturbi psicopatologici (disturbo post-traumatico da stress, disturbi di ansia,
disturbi dell’adattamento, depressione), alterazione
dell’equilibrio socio-emotivo (stati di preallarme, isolamento, ossessione,
anestesia reattiva, depersonalizzazione), alterazioni psico-fisiologiche
(disturbi del sonno, della
sessualità, gastrointestinali, senso di oppressione, cefalea, vertigini,
tachicardia, dermatosi), disturbi del comportamento (disturbi alimentari,
disturbi da sostanze psicoattive, aggressività); il tutto, con possibili
alterazioni psicosomatiche degli apparati digerente, respiratorio, cardiaco o
osteo-articolare e muscolare. In alcuni casi, inoltre, il senso di svilimento
può portare anche ad atti di autolesionismo o al suicidio (Di Martino, De
Santis). Da una recente osservazione condotta dall’INAIL di Isernia (coordinata dal dr.
Iacoviello) presso l'Ambulatorio Specializzato per i Disturbi da Disadattamento
Lavorativo dell'ASL Napoli 1 (coordinato dal dr. Pappone), emerge che tre sono
le dimensioni del rischio psico-sociale sul luogo di lavoro: 1) Stress organizzativo:
un ambiente di lavoro con una organizzazione non sana attraverso un iniziale
vissuto di inadeguatezza induce a produrre uno sforzo per adeguare le proprie
risorse e le proprie strategie alle richieste del contesto. Da questa fase di
stress positivo si transita verso una condizione di stress negativo se lo
sforzo di adeguamento non riesce oppure se al riuscito adeguamento fa seguito
un nuovo cambiamento troppo precoce che richiede un nuovo sforzo. 2)
Costrittività organizzativa: un ambito intermedio tra le condizioni di stress
organizzativo e le azioni di mobbing, può generare la sensazione di essere
costretto a condizioni che non rispondono allo scopo della funzione lavorativa,
traducendosi in incapacità di comprendere il contesto lavorativo e impotenza di
fronte ad esso 3) Mobbing: nel mobbing si aggiunge ai due precedenti un
elemento traumatico (dal punto di vista psichico): l’azione
persecutoria è in genere fortemente attivante dal punto di vista emotiva e
distorce una relazione (tra il lavoratore e l’Azienda, tra il lavoratore e il dirigente o tra
il lavoratore e il lavoro) che ha sempre forti implicazioni emotive. In questo
contesto emotivamente significativo è messa in atto una strategia che modifica
l’identità della persona nel contesto lavorativo (ne cambia in altre parole le regole di
interazione e io significati delle azioni della vittima verso il gruppo e del
gruppo verso la vittima) comportando per la vittima la necessità di una
revisione delle proprie convinzioni su se stesso sul mondo e sulle relazioni
interumane. Quando la gravità delle azioni, in relazione alle possibilità di
adattamento della vittima, supera le capacità di elaborazione emozionale dei
fatti, si produce un’esperienza traumatica in senso proprio che
produce il corteo di sintomi del disturbo post- traumatico da stress. L’INAIL,
con la Circolare
n. 71 del 17/12/2003, già aveva fornito, per la prima volta, delle precise
indicazioni sull’inquadramento a fini medico legali dei disturbi psichici da
costrittività organizzativa
sul lavoro, compreso il mobbing. In effetti, la costrittività organizzativa
comprende anche il cosiddetto “mobbing strategico”, ossia quell’insieme
di azioni poste in essere nell’ambiente di lavoro con lo scopo di allontanare o
emarginare il lavoratore
(5). Per quanto la decisione di restringere la prestazione assicurativa ai soli
casi di “mobbing strategico” possa sembrare una intenzionale limitazione degli
oneri dell’Istituto essa, tuttavia, ribadisce l’importanza di vincolare, con un
preciso nesso causale,
la patologia di cui si chiede il riconoscimento ad uno specifico rischio
lavorativo e non alla semplice coincidenza con l’attività lavorativa e
l’ambiente lavorativo stesso. Contrariamente a quanto avviene nei casi di
mobbing, in presenza di accertata
condizione di costrittività organizzativa l’individuazione o meno di
specifiche responsabilità soggettive non pregiudica il riconoscimento della
malattia professionale. Gli accertamenti clinici e medico-legali non possono
ovviamente prescindere dallo
stato anteriore del soggetto. La preesistenza di disturbi psichici non esclude
la possibilità di riconoscimento di malattia professionale, purché la patologia
denunciata tragga origine con elevata probabilità dall’esposizione
al rischio accertato come causa unica o preminente. In questa ottica, la trattazione delle
patologie da costrittività organizzativa segue il percorso delle malattie
professionali non tabellate, come avviene a partire dalla sentenza della Corte
Costituzionale n. 179/1988 e dal D.Lgs. 38/2000 (art. 10). In particolare, l’istruttoria
medico-legale non può prescindere da un’accurata anamnesi lavorativa
dell’assicurato, arricchita di tutti gli elementi raccolti presso i datori di
lavoro ed i colleghi dell’assicurato mediante accertamenti ispettivi mirati. L’assetto
delineatosi a seguito della Circolare INAIL n. 71/2003 è stato modificato col
D.M. del 27/04/2004, emanato in forza dell’art. 10 del D.Lgs. n. 38/2000, che –
sostituendo il precedente D.M. del 18/04/1973 - ha aggiornato l’elenco delle malattie per le quali è
obbligatoria la denuncia ai sensi dell’art. 139 del T.U. sulle
disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e
le malattie professionali. Il suddetto D.M., recependo il testo della citata
Circolare INAIL, ha
introdotto, nella “lista II (malattie la cui origine lavorativa è
di limitata probabilità)”, anche le “malattie psichiche e psicosomatiche da
disfunzione dell’organizzazione del lavoro” (cd. gruppo 7), riguardo alle
condizioni lavorative di costrittività
organizzativa cui sono correlabili” (6). Il T.A.R. del Lazio,
con decisione n. 5454 del 4 luglio 2005, è tuttavia intervenuto sulla citata
Circolare INAIL n. 71/2003 e sul citato D.M. 27/04/2004, a seguito di due
ricorsi presentati da Confindustria, da Confagricoltura e dall’A.B.I., con e in
rappresentanza di alcuni loro iscritti, contro l’INAIL e il Ministero del
Lavoro e delle Politiche Sociali. In entrambi i casi, la res controversa si
incentrava sull’opposizione a che il mobbing, attraverso vari mezzi, potesse assurgere al
rango di malattia professionale tipizzata indennizzabile in assenza di
definizioni scientifiche certe. La
Circolare n. 71/2003 è stata, quindi, considerata violativa
dell’art. 10, co. 1, del D.Lgs. n. 38/2000, “nella misura in cui siffatta integrazione
deriva non già dal rigoroso accertamento da parte della Commissione scientifica
per l’elaborazione e la revisione periodica delle tabelle ex artt. 3 e 211
del DPR n. 1124/1965, né tampoco dall’espressa volizione dei Ministeri a ciò competenti, bensì da un
Comitato interno all’Ente e senza le garanzie, pure partecipative,
recate dal citato D.lgs. 38/2000”. Viceversa, il T.A.R. non ha intaccato il
D.M. del 27 aprile 2004, ritenendolo il sintomo di un “principio di precauzione
in una vicenda, quale
quella del mobbing, ove l’assenza di norme nazionali definite, la
complessità degli accertamenti e fattuali e la probabile regolazione da parte
dell’UE devono indurre a trattare i casi patologici emergenti con estrema
prudenza e con la
dovuta serietà e rigore d’approccio”. Si è quindi ritenuto (Cantisani) che
conseguenza di tale decisione è che le cd. costrettività organizzative e il
mobbing strategico tornano ad essere considerati quali semplici fattori di
rischio generico, per cui il lavoratore avrà l’onere di provare non solo la sussistenza della
malattia ma pure il nesso causale tra la stessa e l’attività lavorativa. Caduta
ogni presunzione ed agevolazione, i casi di mobbing potranno comunque
continuare ad essere normalmente denunciati all’INAIL sulla scorta della sentenza della
Corte Costituzionale n. 179/1989, in quanto malattie professionali cd. non
tabellate. Ne deriva che in fase accertativa sarà d’obbligo una maggiore
cautela, perché, a questo punto, ripristinato lo status quo ante la Circolare n. 71/2003, l’onere
della prova dell’origine professionale è tornato a tutti gli effetti in capo al
lavoratore, coerentemente all’art. 10 del D.Lgs. 38/2000). Altri autori
(Remotti) (7) offrono una lettura di maggior respiro del citato intervento del T.A.R. Lazio,
sottolineando che a ben vedere la citata sentenza (la cui valenza è certamente
riferibile tanto al settore privato che a quello cd. pubblico privatizzato) non
stabilisce che non è possibile estendere a malattie cd. non tabellate la normativa
concernente gli infortuni sul lavoro; tanto, per concludere nel senso che
piuttosto è sempre necessaria l’individuazione del nesso eziologico tra
malattia e luogo di lavoro (elemento cui non la circolare non dà la giusta
rilevanza), e che per le
malattie non tabellate non può certo operare la medesima presunzione che si
applica a quelle cd. tabellate. Ciò in quanto, diversamente facendo, con l’attribuzione
della citata presunzione, l’INAIL nella sostanza scavalcherebbe la previsione
di legge per creare
esso stesso un’inversione dell’onere della prova, a detrimento
del datore di lavoro; l’Istituto deve invece limitare il suo raggio di azione a
offrire agli uffici destinatari delle proprie circolari solo un complesso di
elementi identificativi della patologia. Altro aspetto rilevante della sentenza è che poi i
giudici non si limitano all’analisi della circolare ma stabiliscono
di fatto che il mobbing, più che essere una malattia autonoma e diagnosticabile
come tale, è condicio sine qua non che può far insorgere malattie, per lo più tabellate (8). Fin qui
il risultato della ricostruzione sotto l’angolo visuale del
lavoratore, il quale, dimostrato il mobbing ed la sua derivazione dal contesto
lavorativo, potrà anche avanzare pretese risarcitorie art. 2043 c.c. di natura sia patrimoniale
che non patrimoniale. Sotto un aspetto diverso, inoltre, la condotta
mobbizzante priva un’unità produttiva (ente pubblico, ufficio
privato, studio professionale) di una risorsa umana, rendendola improduttiva o
propensa all’errore,
arrecando così un danno alla stessa struttura lavorativa; ancora, il danno può
estendersi al danno all’immagine per l’ente, al danno all’erario per gli uffici
pubblici, all’aumento del contenzioso e alla maggiore incidenza di infortuni e
malattie
professionali, senza contare poi le conseguenze per l’intera
società civile (in termini di assistenza sociale o comunque di recupero
psicologico della vittima) (9). Anche questo aspetto può presentare profili
risarcitori, e in tale contesto si dovrà tener in debito conto come è stata fronteggiata in via
preventiva e/o successiva dal datore di lavoro rientrandosi nel pieno campo di
applicazione degli artt. 2049 e 2087 c.c., e della disciplina sulla salute e
sicurezza nel luogo di lavoro, di cui al D.Lgs. 81/2008, che ha recepito il
D.Lgs. 626/1994 e succ. mod. e integr.. Da uno studio comparativo a livello
comunitario, frutto di un team coordinato dal dr. Iacoviello dell’INAIL
di Isernia, si nota come nel nostro Paese riveste in materia un fondamentale
rilievo la norma di
cui all’art. 2087 c.c., che, ad integrazione ex lege delle obbligazioni
nascenti dal contratto di lavoro, dispone “L’imprenditore è tenuto ad adottare
nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del
lavoro, l’esperienza e
la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”. Tale norma codicistica pone a
carico del datore di lavoro uno speciale ed autonomo obbligo (anzitutto
preventivo), di protezione della persona del lavoratore, recando una previsione
particolarmente ampia ed elastica, comprensiva non solo del rispetto delle
condizioni e dei limiti imposti dalle leggi e dai regolamenti per la
prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, ma anche
dell’introduzione
e manutenzione delle misure idonee, nelle concrete condizioni aziendali, a
prevenire infortuni ed eventuali situazioni di pericolo per il lavoratore,
derivanti da fattori naturali o artificiali di nocività o penosità presenti
nell’ambiente di
lavoro. Il descritto obbligo di protezione, inoltre, non attiene solo al
profilo dell’integrità psico-fisica dei lavoratori, ma anche a quello della
personalità morale (da intendersi nel senso di “sociale”). Quest’ultimo
aspetto, a lungo trascurato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, significa che nella fase dell’esecuzione
del rapporto di lavoro deve essere rispettata la “persona” del debitore di
opere, sia in senso fisico, sia nella direzione più ampiamente etica, in modo
da evitare che il prestatore
di lavoro, anziché cedere energie e forza-lavoro, sia costretto a “scambiare”
ed alienare i propri diritti personalissimi (Caracuta). La giurisprudenza di
legittimità ha più volte escluso che si versi in un’ipotesi di responsabilità
oggettiva, ben avendo
il datore di lavoro la possibilità di fornire la prova di avere adottato tutte
le cautele richieste dall’ordinaria diligenza; pertanto, ove l’infortunio
si verifichi comunque, pur se oggettivamente avrebbe potuto essere evitato, il
pregiudizio non sarà addebitabile
all’incolpevole e diligente imprenditore. In giurisprudenza è stato
chiarito che la responsabilità diretta ex art. 2087 c.c. del datore di lavoro
per la lesione della salute del lavoratore è esclusa quando sono eccezionali,
inevitabili ed assolutamente
imprevedibili le conseguenze che in concreto scaturiscono, per il soggetto
passivo, dall’atteggiamento perpetrato in azienda (in questo
caso si è ritenuto non sussistente il nesso causale). La costante
giurisprudenza ha letto l’art. 2087 c.c. tenendo conto dei principi dell’ordinamento,
particolarmente del diritto alla salute sancito dall’art. 32 della
Costituzione, nonché del limite che l’art. 41, comma 2, della stessa
Costituzione pone al principio della libertà di iniziativa economica privata, vietandone l’esercizio
con modalità tali da pregiudicare la sicurezza e la dignità umana. L’art. 2087
c.c., così interpretato, e letto anche alla luce degli obblighi di correttezza
e buona fede risultante dagli articoli 1175 (10) e 1375 c.c., è considerato norma di chiusura del sistema di
protezione del lavoratore, che impone al datore di lavoro non solo l’adozione
delle misure richieste specificatamente dalla legge, dall’esperienza e dalle
conoscenze tecniche, ma anche l’obbligo più generale di attuare tutte le misure generiche di prudenza e
diligenza necessarie al fine di tutelare l’incolumità ed integrità
psico-fisica del lavoratore. Da questa disposizione viene quindi fatto derivare
sia il divieto per il
datore di lavoro di compiere direttamente qualsiasi comportamento, quale ne
siano la natura e l’oggetto, lesivo dell’integrità fisica e della
personalità morale del dipendente, sia di prevenire e scoraggiare la
realizzazione di simili condotte nell’ambito ed in connessione con lo
svolgimento dell’attività lavorativa.
L’inadempimento di tale suo obbligo, genera la responsabilità
contrattuale dal datore di lavoro. Il datore di lavoro privato o pubblico (se
si tratta di cd. lavoro pubblico privatizzato), inoltre, ai sensi dell’art.
2219 del c. c. (secondo il quale ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della
scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso,
se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non
consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto), può licenziare per
giusta causa il proprio dipendente nel quale dovesse ravvisare il ruolo di
mobber (11), ledendo la dignità dei colleghi e la funzionalità dell’ambiente
di lavoro. Ancora, ai sensi del D.Lgs. 626/1994, di attuazione delle direttive CEE sul
miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori sul luogo di
lavoro, poi confluito nel D.Lgs. 81/2008, si sancisce il passaggio dalla tutela
dell'integrità fisica a quella psico-fisica del lavoratore, introduce il
concetto di salute non più intesa solo come assenza di malattia ma come
benessere e assenza di disagio, nell'art. 3 (Misure generali di tutela) sono
evidenti gli elementi utili a far rientrare il fenomeno mobbing tra i rischi
connessi all'attività lavorativa e gli artt. 4 e 17 identificano,
differenziandole per competenze, le figure responsabili della sorveglianza
della salute del lavoratore. Fondandosi su questa condivisa analisi dell’ordinamento,
la Corte dei
conti, Sezione terza centrale d'appello con la basilare sentenza n. 623/2005, ha asserito che una
volta che il giudice civile (o penale) abbia legittimamente imposto il
risarcimento di un qualunque tipo di danno (e in tale concetto rientra il danno
per mobbing inflitto o non impedito) è evidente che ciò determina una
diminuzione patrimoniale per le risorse finanziarie dell'amministrazione
interessata e non può non tradursi in un danno erariale (12). Ove pertanto
emerga dal riconoscimento di un tal genere di risarcimento una “tutela”
del lavoratore (in
quanto parte debole del rapporto) nei confronti della Amministrazione, non
avrebbe fondamento giuridico escludere poi diretti riflessi economici sul
patrimonio del convenuto, visto che (e nei limiti in cui) la necessità di
attivare tale tutela si è resa necessaria proprio per il suo comportamento
illecito, commissivo od omissivo. Si deve, dunque, asserire che il danno da
mobbing, ove esistente, sarà fonte ed oggetto di azione di rivalsa della P.A.
nei confronti dell'agente pubblico. In proposito, avendo la Corte dei Conti in forza
dell’art.103 Cost. la generale competenza nelle materie di contabilità
pubblica, e quindi competendole la conoscenza di condanne patrimoniali a carico
della P.A. e denunce di ingiustificata lesione del patrimonio pubblico, la Procura Regionale presso la Sezione
giurisdizionale regionale competente per territorio, diventa in ciascuna
ipotesi il giudice naturale titolare esclusivo dell’azione risarcitoria,
che va attivata nel termine prescrizionale di cinque anni dall’evento dannoso. Nel caso del mobbing, la
situazione è di maggior vantaggio per il recupero dell’esborso
eventualmente chiesto alla P.A.: difatti, il danno cagionato, consistente
nell’esborso di danaro pubblico ingiustamente patito dall’amministrazione, si
configura come
fattispecie di danno indiretto, per cui in tali vicende, che si sostanziano in
un danno conseguente a sentenza, il termine per l’attivazione
dell’azione risarcitoria può iniziare a decorrere anche dopo molti anni dalla
verificazione del fatto integrante gli estremi della fattispecie di mobbing. E’
importante ricordare, comunque, che ai fini dell’accertamento della
responsabilità nell’azione di rivalsa il giudice contabile deve individuare il
dolo o la colpa grave dell’agente pubblico e altresì valutare il vantaggio che comunque possa
esser stato conseguito dall’Amministrazione grazie al comportamento,
pur se per altri versi illecito o dannoso, riferibile al dipendente. Va,
infine, posto nel dovuto risalto che si possa giungere a sanzionare come
mobbing anche il caso
di accertata responsabilità dirigenziale dovuta a non corretta gestione delle
risorse umane ex art. 21 del D.Lgs. 165/2001 (13). Infatti, come noto, la
riscontrata cattiva gestione delle risorse umane rientra nella più generale
categoria dei risultati dell’attività amministrativa e dell’attività
di gestione riconnessa alla funzione dirigenziale, che, in quanto tale, può
determinare l’applicazione di non secondarie conseguenze nel mancato
conferimento della retribuzione di risultato, nella revoca dell’incarico dirigenziale
o nella destinazione ad altra funzione (Prinari). Ciò si pone in linea con le
recenti innovazioni legislative, nelle disposizioni concernenti la
responsabilità dirigenziale. In particolare, una eventuale fattispecie di
responsabilità diretta
o indiretta da mobbing, rientra in pieno nelle circostanze da valutare in sede
di responsabilità dirigenziale, cui l’art. 6, L. 15/2009 fa riferimento,
pur generico, nel porre i principi e criteri in materia di dirigenza pubblica
volti all’espletamento
della delega conferita al Governo per il riordino della materia. Il comma 2
dell’art. 6, difatti, impone di affermare la piena autonomia e
responsabilità del dirigente, in qualità di soggetto che esercita i poteri del
datore di lavoro pubblico, nella gestione delle risorse umane (lett. a), prevedere una specifica
ipotesi di responsabilità del dirigente, in relazione agli effettivi poteri
datoriali, nel caso di omessa vigilanza sulla effettiva produttività delle
risorse umane assegnate e sull’efficienza della relativa struttura nonché, all’esito
dell’accertamento della predetta responsabilità, il divieto di corrispondergli
il trattamento economico accessorio (lett. b), prevedere la decadenza dal
diritto al trattamento economico accessorio nei confronti del dirigente il quale, senza
giustificato motivo, non abbia avviato il procedimento disciplinare nei
confronti dei dipendenti, nei casi in cui sarebbe stato dovuto (lett.c), (sia
pur limitando la responsabilità civile dei dirigenti alle ipotesi di dolo e di
colpa grave, in relazione alla decisione di avviare il procedimento
disciplinare nei confronti dei dipendenti della pubblica amministrazione di
appartenenza – lett. d), nonché prevedere sanzioni adeguate
per le condotte dei dirigenti i quali, pur consapevoli di atti posti in essere dai dipendenti
rilevanti ai fini della responsabilità disciplinare, omettano di avviare il
procedimento disciplinare entro i termini di decadenza previsti, ovvero in
ordine a tali atti rendano valutazioni irragionevoli o manifestamente
infondate. Infine,va evidenziato come, in astratto, non si possa escludere che
sussistano situazioni mobbizzanti e correlativa responsabilità dirigenziale
anche in presenza di modelli organizzativi e regole di servizio della P.A.
ancora vigenti ma non più conformi all’evoluzione intervenuta nella
coscienza sociale; trattasi di prassi che il dirigente, soprattutto ove
qualificabile come datore di lavoro ai termini della disciplina sulla salute e
sicurezza nel luogo di lavoro, è tenuto a rivedere ed aggiornare, in omaggio al rispetto delle cd.
buone prassi, che si rivolgono non solo all’utenza ma anche ai
lavoratori, nel rispetto dei principi, di respiro comunitario, di governance
delle risorse umane. ______________ 1. Edita anche su http://www.studiolegalelaw.it/consulenza-legale/tag/mobbing.
2. Sull’argomento basilare è Corte dei conti, Sez. III centrale d'appello,
sent. 25/10/2005, n. 623, edita anche su
http://www.lavoropa.it/archivio/1000/1400/1460/1462/SentenzaCorteConti2005n623.htm.
3. In verità, una variante del mobbing è
lo “straining”,per aversi il quale è sufficiente una singola azione con
effetti duraturi nel tempo, proprio come nel caso di un demansionamento. 4. Si
tratta del cd. mobbing
cd. verticale, che si definisce poi bossing, ove si intenda indicare un’azione
persecutoria utilizzata quale strumento attuativo di una politica di
riorganizzazione aziendale finalizzata alla riduzione del personale o
all’esclusione dei lavoratori scomodi. 5. Un coevo studio condotto dalla
direzione Generale
dell’INAIL ha consentito poi di ricondurre i disturbi psichici da
costrittività organizzativa ai due quadri morbosi suscettibili di ammissione a
tutela, ossia la sindrome da disadattamento (disturbo dell’adattamento cronico)
e la sindrome post – traumatica
da stress (disturbo post – traumatico da stress). Il danno subito dalla
persona è calcolato dall’INAIL applicando la tabella per la valutazione del
danno biologico periodicamente aggiornata con D.M., distinguendo tra disturbo
post–traumatico da stress
cronico moderato o disturbo dell’adattamento cronico lieve-moderato,
valutabile fino al 6% (punto 180 della tabella di cui al D.M.12/07/2000) e
disturbo post–traumatico da stress cronico severo o disturbo dell’adattamento
cronico severo, valutabile fino al 15% (punto 181 della tabella). Il riconoscimento di un punteggio
massimo del 15%, sembrerebbe escludere la possibilità della costituzione della
rendita (possibile, in base al citato decreto, per punteggi maggiori del 15%).
Ciò potrebbe trovare una sua giustificazione nel fatto che queste patologie
sono generalmente reversibili o comunque suscettibili di miglioramento, nel
momento in cui viene a cessare lo stimolo che le ha determinate. In una
concezione del lavoro in cui la prestazione professionale diventa sempre più
globale, coinvolgendo l’individuo in tutta la sua interezza, con il
proprio vissuto affettivo e le proprie dinamiche relazionali, assumono
particolare importanza proprio le modalità con le quali il lavoro è organizzato
e gestito. Perché è soprattutto
dalla distorsione della relazione tra le figure coinvolte con ruoli diversi nei
processi lavorativi che possono scaturire situazioni di disagio psichico.
Bisogna quindi stare attenti al rischio che quella che è una risorsa (la
flessibilità) possa finire con l’essere confusa con lo scopo (il
benessere dei lavoratori e la produttività dell’azienda). È necessario pertanto
tradurre l’organizzazione aziendale in una coerente pratica gestionale al fine
della valorizzazione delle risorse umane e del capitale sociale dell’azienda. Trasparenza,
comunicazione chiara, occasioni di scambio, sistemi operativi corretti e
abbattimento dei pregiudizi sono obiettivi da perseguire per sradicare
situazioni di stress e sofferenza nei luoghi di lavoro (Bettoni). In proposito è stato comunque osservato
(Cantisani) come la
Direzione Generale dell’INAIL, nell’atto di
uniformare le procedure in vigore presso le varie Direzioni Regionali, ha
infatti semplicemente stilato un elenco (esplicitamente “orientativo”) di
quelle che ha chiamato
“costrittività organizzative”, inserendo a margine il c.d. “mobbing
strategico”. Quest’ultimo è stato specificamente ricollegato a “finalità
lavorative”, con l’espressa condizione che “le azioni finalizzate ad
allontanare o emarginare il lavoratore rivestono rilevanza assicurativa solo se si concretizzano in
una delle situazioni di “costrittività organizzativa” di cui all’elenco
riportato o in altre ad esse assimilabili. Oltretutto, le incongruenze
(rectius: costrittività) organizzative, per assumere rilevanza, avrebbero dovuto “avere
caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e
documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e non suscettibili di
discrezionalità interpretativa”. 6. L’intervento del D.M. ha non solo comportato un’ulteriore
limitazione (cautelativa) nel potenziale riconoscimento delle patologie
presuntivamente correlabili al mobbing ma ha anche ingenerato un pericoloso
sistema di denunce di ufficio presso le Procure della Repubblica e gli altri organi competenti, con
conseguente catastrofe nella credibilità stessa delle certificazioni mediche –
pubbliche e private - attestanti le suddette diagnosi. Semplificando, la
situazione che si delinea è questa: ogni medico, a propria discrezione, una volta redatta una certificazione
di “disturbo da disadattamento” potrebbe sentirsi tenuto (ai sensi
dell’art. 139 del D.P.R. 1124/1965) a denunciare la malattia professionale alle
Autorità competenti. Quest’ultime (in particolare l’Ispettorato del lavoro competente per territorio), ma
anche lo stesso assicurato o, addirittura, proprio l’INAIL,
potrebbero ritenere inoltre di sporgere denuncia o semplicemente di portare a
conoscenza anche dell’Autorità giudiziaria penale la notizia del reato previsto
dall’art. 590 co.3
c.p., che ai sensi del comma 4, è perseguibile d’ufficio. Di guisa,
considerato che qualunque comportamento colposo che abbia causato una malattia
professionale costituisce reato di lesioni colpose gravi, in tutti i casi di
malattia professionale
indennizzata, l’INAIL potrebbe aprire un’azione di regresso. 7.
Remotti, Pubblica amministrazione e infortuni sul lavoro, Simone, 2006. 8. I
comportamenti di mobbing o di molestie sessuali provocano spesso alla
lavoratrice o al lavoratore vere patologie che impediscono lo svolgimento della prestazione,
determinando la sospensione del rapporto di lavoro per malattia. Quando dette
malattie raggiungano notevole durata, si pone dunque il problema di evitare al
lavoratore la perdita del posto di lavoro determinata dalla maturazione del
periodo di comporto (per assenza continuativa o anche per sommatoria di assenze
frazionate), problema rilevante per il lavoratore, che dovrà tenere un conto
esatto delle proprie assenze per malattia, stante la giurisprudenza prevalente,
anche di legittimità (Cass. 18/2/1995, n. 1757), che nega la sussistenza di un
obbligo del datore di lavoro di avvisare il lavoratore della prossima scadenza
del periodo di comporto, salvo poi a dover rispondere ad un precisa istanza di
accesso del lavoratore. All'approssimarsi della scadenza del comporto il
lavoratore potrà tenere tre differenti comportamenti: 1- se il tipo di
patologia lo consente, potrà decidere di rientrare al lavoro non avvalendosi
del diritto alla sospensione del rapporto per malattia, ritenendo prevalente
l'interesse alla conservazione del rapporto (evitando il licenziamento, sia
pure impugnabile); 2- quando previsto dal contratto collettivo applicabile, al
fine di evitare ulteriori periodi di malattia potrà richiedere un periodo di
aspettativa non retribuita (o al più eventuali ferie non godute); 3- potrà
attivarsi per inibire al datore di lavoro l'atto di recesso, o comunque per
precostituirne più saldamente le ragioni di impugnazione. In proposito, si
segnala che un consistente orientamento giurisprudenziale ritiene illegittimo
il licenziamento intimato per superamento del comporto, ove i periodi di
assenza per malattia siano originati da un insalubre ambiente di lavoro, e,
quindi, da un'inottemperanza datoriale agli obblighi di cui all'art. 2087 c.c.
(v. C. Cass.14/5/1994 n. 4723,
in MGL, 1994, pag.597 ss.); analogamente, sembra
sostenibile che anche nei casi di menomazione dell'integrità psicofisica
derivanti da mobbing, il protrarsi dell'assenza oltre i termini del comporto
renda illegittimo un eventuale licenziamento. Un argomento indiretto a favore
di tale tesi si rinviene anche nell'art. 1, co. 7 L. n. 68/1999, il quale, sia
pure per la specifica materia dei disabili, esprime il principio che il datore
di lavoro è tenuto a garantire l'occupazione al lavoratore che abbia acquisito
una disabilità per infortunio sul lavoro o per malattia professionale.
Tuttavia, poiché il datore di lavoro non deve essere informato della diagnosi
che dà luogo alla sospensione del rapporto per malattia (deve conoscere solo la
prognosi), potrebbe essere opportuno in questi casi far risaltare espressamente
il nesso tra i comportamenti scorretti di mobbing e la malattia indotta,
facendo formale diffida dall'adottare atti di recesso per superamento del
periodo di comporto (Scarpelli, Lazzaroni, Manassero, Guaglione, Sozzi,
Venanzi, Boracchia). 9. Questione cara alla Corte dei Conti (dalla storica
decisione 10/QM/2003 delle sue SS.RR. alla n. 135/2009 della Sez. I Centrale
d'Appello e alla n. 306/2009 della Sez. giurisd. Toscana), quella della
risarcibilità dell’accertato danno all’immagine
dell’amministrazione, ormai ritenuto pacificamente risarcibile con liquidazione
in via equitativa a carico dell’autore della lesione del decoro
dell’amministrazione.
La questione comunque, è tranquillamente esportabile al campo privatistico, ben
potendo un’azienda chiedere al mobber o a chi, dovendo e potendo, non lo ha
fermato, un risarcimento per danni all’immagine per eventuali divulgazioni a
mezzo stampa di notizie
concernenti il mobbing aziendale. Sul tema interessante anche Cass. Civ., Sez.
Lav., sent. 23744/2008, sul punto di danno all’immagine lamentato non
dall’ente bensì dal professionista a contratto con un’Asl, la quale, nel non
mettere a disposizione del
professionista le strutture indispensabili al corretto svolgimento dell’attività
lavorativa, non adempieva al contratto di lavoro. 10. In particolare, l’art.
1175 pone una regola fondamentale statuendo che il debitore e il creditore
devono comportarsi secondo
le regole della correttezza nello svolgimento del rapporto obbligatorio. In
tema di esecuzione del contratto, quale è anche quello di lavoro, la buona fede
si atteggia come impegno di cooperazione ed un obbligo di solidarietà che
impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da
specifici obblighi contrattuali, o dal dovere extracontrattuale del neminem
laedere, siano idonei a preservare gli interessi della controparte senza
rappresentare un’apprezzabile sacrificio. La buona fede rappresenta un vero e
proprio dovere giuridico, che viene violato non solo nel caso in cui una delle
parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all’altra
(e tale potrebbe essere il caso del mobbing verticale cioè attuato volontariamente dal datore di lavoro
direttamente o tramite altri compagni di lavoro dallo stesso istigati), ma
anche se il comportamento da essa tenuto non sia stato, comunque, improntato
alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale che integrano
appunto il contenuto della buona fede (in tal caso il datore di lavoro potrà
essere chiamato a rispondere a titolo di culpa in eligendo, se non sarà in
grado di circondarsi di collaboratori competenti e corretti, e di culpa in
vigilando, nel caso in cui ometta di vigilare sui propri dipendenti per evitare
che si verifichino lesioni di un diritto soggettivo assoluto: quello alla
salute). Poiché nella fase di esecuzione del contratto le parti, al fine di
conservare integre le reciproche ragioni, devono comportarsi con correttezza e
secondo buona fede, anche la mera inerzia cosciente e volontaria in caso di
mobbing orizzontale, ossia esercitato dai colleghi (e sia coscientemente
ignorato o sottovalutato dal comune superiore gerarchico), che sia di ostacolo
al soddisfacimento del diritto della controparte, ripercotendosi negativamente
sul risultato finale avuto di mira nel regolamento contrattuale degli opposti
interessi, contrasta con i doveri di correttezza e di buona fede e può
configurare inadempimento. 11. Il potere del datore di sanzionare
disciplinarmente i lavoratori che mettono in atto comportamenti molesti verso
gli altri può valere non solo nei casi in cui le condotte lesive siano compiute
ad opera dei superiori nei confronti dei soggetti sottoposti al loro potere
gerarchico, ma anche nell’ipotesi opposta: il datore di lavoro può
sanzionare, specificamente recedendo dal rapporto di lavoro, le condotte
gravemente offensive, gli insulti, ingiurie e minacce dei lavoratori di livello
inferiore nei confronti
del superiore. In tali condotte sono state spesso riscontrate lesioni del
prestigio del datore di lavoro per il buon andamento dell’azienda,
negazione del potere gerarchico e rifiuto di obbedienza all’ordine di lavoro
legittimamente dato, con violazione dei diritti del datore all’ordinato adempimento
della prestazione lavorativa e corrispondente violazione degli obblighi del
lavoratore di diligenza e di osservanza delle disposizioni dettate per
l’esecuzione e la disciplina del lavoro (Cass. 25/10/90, n. 10344). E’
stato anche ritenuto licenziabile il lavoratore risultato essere il
responsabile di diverbi ripetuti, tali da determinare un ambiente lavorativo
insopportabile . Secondo una parte della giurisprudenza di merito, la
responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c., può concorrere con quella extracontrattuale originata
dalla violazione di diritti soggettivi primari (vengono in rilevo la lesione
del diritto primario ed assoluto alla salute ex art. 32 Cost. e di quello alla
sicurezza e dignità – nella specie dei lavoratori – sancito dall’art. 41, comma
2, Cost.) poiché sul datore di lavoro grava il generale obbligo di neminem
ledere previsto dall’art. 2043 c.c. ed anche quello specificatamente stabilito
dall’art. 2049 c.c. (responsabilità indiretta dei padroni e committenti per il fatto
illecito dei loro dipendenti nell’esercizio delle incombenze
lavorative). Le norme appena richiamate possono inoltre combinarsi con altre
applicabili alle specifiche condotte che integrano il mobbing (ad esempio
l’art. 2103 c.c. nel
caso in cui venga intaccato il valore professionale del lavoratore), e deve in
particolare essere sempre tenuta presente anche la disposizione penalistica
contenuta nell’art. 590 c.p. (reato di lesioni personali
colpose), che sanziona, con previsione generale, chi cagiona per colpa una lesione
personale ad altri soggetti (reato punibile a querela di parte, e d’ufficio
solo nei casi in cui siano state violate norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro o relative all’igiene del lavoro o sia stata determinata una malattia
professionale). Va in proposito osservato come la Cassazione ha, già da
tempo sottolineato che il datore di lavoro è tenuto, facendo uso dei poteri
disciplinari nei confronti del molestatore, a proteggere la dipendente dalle
molestie sessuali di un superiore gerarchico -Cass., 18/4/2000 n. 5049, nel
sito www.legge-e-giustizia.it – arrivando anche a considerare il
licenziamento quale provvedimento necessario e dovuto (Cass. 19/4/2000 n. 5157, in RGL news,
2/2000). 12. Il danno
qualificato come erariale, quindi, per sussistere, deve essere: a) certo (il
danno deve essersi verificato in tutti i suoi elementi); b) attuale (lo stesso
deve sussistere tanto al momento della proposizione della domanda che a quello
della decisione); c) concreto (la perdita deve essersi materialmente
realizzata); d) determinato (la perdita deve essere quantificata o
quantificabile secondo i principi propri del codice civile). Il danno erariale,
poi, è qualificato diretto, quando lo stesso sia causato ab ovo alla P.A.,
ovvero indiretto, nelle ipotesi in cui il danno cagionato originariamente nei
confronti di terzi, si rifletta, a seguito di pronuncia giurisdizionale di tipo
risarcitorio, a carico della P.A.. 13. Il primo comma dell’art.
21 D.Lgs. 165/2001
stabilisce che il mancato raggiungimento degli obiettivi, ovvero l'inosservanza
delle direttive imputabili al dirigente, valutati con i sistemi e le garanzie
di cui all'articolo 5 del D.Lgs. 286/1999, comportano, ferma restando
l'eventuale responsabilità disciplinare secondo la disciplina contenuta nel
contratto collettivo, l'impossibilità di rinnovo dello stesso incarico
dirigenziale. In relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione può,
inoltre, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli
di cui all'art. 23 (ruoli unici dei dirigenti istituiti presso ogni
amministrazione dello Stato), ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo
quanto previsto dal contratto collettivo della rispettiva area dirigenziale.
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( da "AltaLex" del
27-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Riforma del processo
penale: il parere del Consiglio Superiore della Magistratura Consiglio
Superiore della Magistratura, parere 23.07.2009 Commenta | Stampa | Segnala |
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giudiziaria [...] preme, conclusivamente, sottolineare che l'ampliamento dell’autonomia
di quest'ultima – tanto nella ricerca delle notizie di reato quanto nelle
scelte investigative – determinerà, con ogni probabilità, rilevanti conflitti e
inefficienze. E' una delle critiche contenute nel Parere 23 luglio 2009 con il quale il Consiglio
Superiore della Magistratura si è espresso in merito alla riforma del processo
penale (DDL approvato dal CdM il 6 febbraio 2009). In particolare, si afferma,
"venendo nei fatti a mancare l’indispensabile ruolo di dominus
delle indagini da parte del PM, si origineranno interferenze e sovrapposizioni
sia delle attività dei diversi organi di polizia giudiziaria (si pensi a realtà
territoriali complesse, dove finiscono con l’intrecciarsi vicende procedimentali autonome ma
riconducibili a medesimi gruppi criminali) sia di tali attività con le
investigazioni gestite dal PM". "Tutto ciò, per altro verso, non
potrà che comportare una minore tutela degli interessi della difesa, atteso che
le garanzie di indipendenza e imparzialità, per quanto già ampiamente sopra
dedotto, costituiscono patrimonio proprio non della polizia giudiziaria ma dell’autorità
giudiziaria". (Altalex, 27 luglio 2009) | processo penale | Ddl Alfano |
riforma del processo penale | Consiglio Superiore della Magistratura | CONSIGLIO SUPRERIORE DELLA
MAGISTRATURA, PARERE 23 LUGLIO 2009 Parere sul disegno di legge n. 1440/S
recante "Disposizioni in materia di procedimento penale, ordinamento
giudiziario ed equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole
del processo" (Delibera del 23 luglio 2009) «Il disegno di legge n. 1440
consta di 8 capi e 35 articoli. I capi I, II, III, IV e VI hanno per oggetto
modifiche al codice di procedura penale; il capo V contiene norme in materia di
ordinamento giudiziario; il capo VII contiene deleghe al governo in materia di:
a1) comunicazioni e notificazioni del procedimento penale e modalità di
audizioni di testimoni a distanza, a2) misure cautelari personali e reali, a3)
sospensione del processo da celebrare in assenza dell’imputato,
a4) digitalizzazione del processo civile e penale nonché dell’amministrazione
della giustizia, a5) elezione dei viceprocuratori onorari presso il giudice di
pace; il capo VIII è dedicato alle disposizioni transitorie. L'opportunità di esprimere
sollecitamente il parere – anche in ossequio ai rilievi effettuati sul
punto dal Capo dello Stato – e la necessità di compiere un esame analitico
delle singole disposizioni (considerata la complessità dell’intervento legislativo) rendono opportuna una
trattazione separata delle singole parti del disegno di legge, cominciando dai
capi contenenti le più importanti modifiche al processo penale (capi I e III) e
riservando al prosieguo l’esame delle disposizioni in tema di rimedi contro l'irragionevole durata del
processo, di ordinamento giudiziario e di deleghe al Governo. Come di regola,
il parere sarà concentrato sui punti di maggior rilievo del disegno di legge e
limitato, ai sensi dell'art. 10 della legge 24 marzo 1958, n. 195, ai profili
riguardanti le previsioni con specifiche ricadute sul funzionamento della
giustizia nonché sulla disciplina dei diritti fondamentali costituzionalmente
previsti. ***** 1. Il capo I estende anzitutto (art. 1) la competenza della corte di assise facendo rientrare in essa anche i delitti di
cui agli artt. 630, 1° comma, c.p. e 51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p.
(eccettuati quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’art.
416 bis c.p.) e la celebrazione, per i reati di competenza, del giudizio abbreviato
(art. 438 bis c.p.p.). Mentre la seconda previsione ha un evidente carattere di
razionalizzazione del sistema, la prima suscita non poche perplessità. In
particolare: b1) l’aumento di competenza è quantitativamente
ingente e destinato – in
assenza di congrui correttivi degli organici (non previsti nel testo in esame)
– a determinare una ulteriore dilatazione dei tempi processuali, per di più con
riferimento a delitti di particolare gravità, in possibile violazione anche del
principio di
ragionevole durata del processo ; b2) molti dei delitti di cui all’art.
51, commi 3 bis e 3 quater, c.p.p. presentano notevole complessità tecnico
giuridica e si prestano – come l’esperienza insegna – a delicate questioni
processuali, con conseguente
necessità di una preparazione tecnico giuridica estranea alla componente di
estrazione popolare (indicata soprattutto per le valutazioni di fatto e per i
giudizi sulla qualità del reato e del reo e sulla quantificazione della pena);
b3) il maggior coinvolgimento di giudici non professionali nelle decisioni su
fatti riguardanti reati di criminalità organizzata può determinare, soprattutto
nelle regioni del Sud maggiormente caratterizzate dalla presenza di
associazioni di stampo mafioso, una pericolosa esposizione personale degli
stessi giudici popolari; 2. In
secondo luogo l'art. 1 attribuisce al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, in caso
di «eccezionali situazioni di contrasto» fra diversi uffici del pubblico
ministero tali da «pregiudicare l’ordinato esercizio
dell’attività ovvero da ledere il prestigio degli uffici medesimi», il potere,
di trasferire il processo «ad altro ufficio» del pubblico ministero (nuovo
comma 5 bis dell’art. 54 bis c.p.p.). Ai fini della individuazione dell'ufficio terzo a cui trasferire il
processo, il Procuratore generale deve fare riferimento al reato più grave per
cui si procede ovvero, in caso di pari gravità, al primo reato e in relazione
ad esso determinare l’ufficio competente secondo i criteri di cui all'art. 11 c.p.p. L’intervento
legislativo si completa con la precisazione che, nella ipotesi richiamata, le
funzioni di giudice per le indagini preliminari sono esercitate dal giudice
presso cui ha sede il pubblico ministero individuato dal Procuratore generale (art. 328, comma 1 quinques,
c.p.p.). La previsione, non a caso definita extra ordinem nella relazione
illustrativa, si presta a numerosi rilievi critici. In particolare: c1) la
risoluzione dei contrasti negativi e positivi tra uffici del pubblico ministero,
relativi alle attribuzioni di competenza dei procedimenti, è già
esaurientemente disciplinata dagli articoli 54 e 54 bis c.p.p.; c2) i
presupposti per l’attivazione del procedimento sono del tutto
evanescenti: il riferimento a «eccezionali situazioni di contrasto» non chiarisce se
si debba trattare di un contrasto sulla competenza, come negli altri casi
previsti dagli artt. 54 e seg. c.p.p., ovvero se l’ipotesi
possa configurarsi in presenza di altre imprevedibili situazioni di fatto. In
realtà il contrasto
positivo o negativo circa la competenza fra diversi uffici di procura altro non
è che una apparente difficoltà nell’attribuzione della
competenza; al contrario l’eccezionalità di una situazione è un fenomeno che
difficilmente trova riscontro nella terminologia giuridica la quale deve essere precisa e
chiara, al fine di evitare interpretazioni e applicazioni eccessivamente
soggettive; c3) viziate da insuperabile genericità – e la
circostanza appare particolarmente grave in una materia come quella relativa ai criteri di attribuzione
della competenza nei procedimenti penali che coinvolge, come si è detto, il
principio del giudice naturale – sono altresì le espressioni «ordinato
esercizio dell’attività» e «prestigio degli uffici medesimi», che evocano concetti sfumati e influenzati
dall'amplificazione mediatica degli eventi. In sostanza, con la innovazione
proposta si darebbe vita a un singolare subprocedimento gestito dal Procuratore
generale presso la Corte
di cassazione per la soluzione di contrasti dai contorni indefiniti teso a
sottrarre la competenza a entrambi gli uffici contendenti e con l'applicazione
straordinaria dell'art. 11 c.p.p. (che, come noto, risponde alla diversa
finalità di determinare la competenza per i procedimenti nei confronti dei magistrati).
La conseguenza è la alterazione dei principi che regolano la fissazione della
competenza e la risoluzione dei contrasti attraverso un'abdicazione degli
ordinari strumenti processuali. Si aggiunga che – salvo il riferimento
a recenti episodi di cronaca,
peraltro risolti agevolmente attraverso un sapiente utilizzo degli strumenti
processuali disponibili – è difficile comprendere la ratio della
innovazione e, in particolare, la ragione per cui, in presenza di un contrasto
sulla competenza suscettibile
di soluzione con gli strumenti processuali ordinari e di presupposti del tutto
generici, si debba derogare alla normativa del codice, facendo ricorso a un
criterio di determinazione anomalo che individua, senza alcun legame con i
principi, un terzo ufficio del pubblico ministero e da esso far dipendere anche
la competenza del giudice per le indagini preliminari. In definitiva, la norma
si presenta incerta nei presupposti, illogica nelle conseguenze e potrebbe
porsi in problematico rapporto con il principio cardine del nostro sistema
giudiziario, in base al quale ogni controversia, o procedimento, deve avere il
suo giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.). 3. Anche la
materia dell’astensione e ricusazione del giudice è attinta da modifiche. Quanto all'astensione, il
disegno di legge amplia l'ipotesi di cui alla lettera h dell'art. 36 c.p.p.
(«altre gravi ragioni di convenienza» diverse da quelle indicate nelle lettere
precedenti) precisando che tali gravi ragioni possono essere «anche rappresentate
da giudizi espressi fuori dall'esercizio delle funzioni giudiziarie, nei
confronti delle parti del procedimento e tali da provocare fondato motivo di
pregiudizio all'imparzialità del giudice». Tale regola viene, poi, estesa alla
ricusazione, laddove il disegno di legge prevede che all’art.
37 c.p.p. venga inserita fra le ipotesi di astensione che possono determinare
la ricusazione del giudice anche la lettera h dell’art. 36 nel nuovo testo.
Secondo la relazione illustrativa l'intervento in esame è necessario per colmare una
lacuna del sistema, poiché una manifestazione di giudizio da parte del
magistrato può tradursi in un pregiudizio alla sua imparzialità. In particolare
– prosegue la relazione – il giudice deve accostarsi non solo
all'oggetto ma anche
ai soggetti del processo, senza essersi formato sugli stessi alcuna opinione e
senza averla trasfusa, rispettivamente, in pareri o consigli e giudizi che
potrebbero pregiudicare la sua imprescindibile posizione di imparzialità. E ciò
in quanto i giudizi, critici o adesivi, formulati verso tutte le parti del
processo (il pubblico ministero, l'imputato, la parte civile, i difensori)
gettano un'ombra sulla terzietà del giudice. La funzione della norma è
all'evidenza quella di limitare la possibilità dei magistrati di esprimere,
individualmente o collettivamente, opinioni o posizioni in merito a condotte di
pubblico interesse, ancorché estranee alle questioni dedotte in giudizio. Ciò
si presta ad alcuni rilievi. In particolare, affermare che i giudizi, critici o
adesivi, nei confronti dell'operato di una parte processuale o di un difensore
possono rappresentare, di per sé, un sintomo di pregiudizio con riferimento
alla trattazione di un procedimento nel quale è coinvolto uno dei soggetti
predetti, significa porre un serio limite alla manifestazione del pensiero del
giudice, in contrasto con il dictum della sentenza n. 100 del 1981 della Corte costituzionale secondo cui «il diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero non tollera limiti soggettivi e compete quindi
anche ai magistrati, ai quali non può essere inibito di esprimere le proprie
opinioni, di consenso o dissenso, sulle vicende che interessano l'attività
giudiziaria e sui provvedimenti legislativi in elaborazione che incidono sul
funzionamento della giustizia» (cfr. risoluzione CSM 19 maggio 1993). La necessità di trovare un giusto equilibrio
tra diverse e contrapposte esigenze non può legittimare la creazione di un
meccanismo che, sulla base delle apparenze, incide sulla compatibilità del giudice
sovrapponendo il piano delle espressioni del pensiero a questioni relative alla
capacità del giudice di esaminare e decidere su condotte individuali.
Una tale dilatazione del concetto di imparzialità sembra dettata da un
presupposto, non dimostrato ed erroneo, in virtù del quale i magistrati non
sarebbero in grado di distinguere la valutazione delle idee dall’esame
e dal giudizio sui fatti e sulle condotte loro sottoposti in osservanza del
dettato normativo. Tale presupposto, che ha tutti i connotati del pregiudizio, altera la
cognizione del problema e rischia di far assumere al concetto di imparzialità
un significato indefinito in grado di scardinare, senza ragione, un gran numero
di processi. Specie quando le posizioni delle parti processuali assumono, per
qualsiasi ragione, una rilevanza di interesse generale può verificarsi che
anche dei magistrati prendano posizione a favore o contro un determinato
aspetto della questione sollevata. Trarre da ciò la certezza di un pregiudizio
nei confronti delle persone fisiche, eventualmente sottoposte al giudizio,
significa effettuare un salto logico difficilmente inquadrabile in schemi
razionali e ascrivibile alla categoria suggestiva dei pregiudizi indotti dall’insofferenza
per il controllo di legalità. L’imparzialità del giudice è un principio cardine del sistema: è
per il giudice l’essenza stessa del decidere. Il giudice deve
essere estraneo e terzo rispetto al processo e non deve avere interessi diretti
che possano essere condizionati dalla decisione. Egli è tenuto ad osservare la più
rigorosa imparzialità nel decidere, ma ciò non vuol dire che egli non abbia
diritto ad avere e a manifestare opinioni nel dibattito culturale e sociale. Ma
le ipotesi di incompatibilità del giudice sono regolate dal principio di
legalità, che non consente di far ricorso a criteri indeterminati, soprattutto
in presenza di una norma (l'art. 36 c.p.p.) che già prevede, fra le cause di
astensione, l'inimicizia grave (ictu oculi idonea ad escludere l’imparzialità).
Ne consegue che, laddove
i giudizi sulle parti non siano sintomo di inimicizia personale ma si
caratterizzino semplicemente come valutazioni sulle opinioni o sulle posizioni
assunte, non si giustifica una nuova ipotesi di astensione. Ed invero, l’implicazione
derivante dalle
personali opinioni non rientra nel concetto di imparzialità così come non è
tenuto ad astenersi, né può essere ricusato, il giudice che abbia pronunciato
in precedenza una decisione su questioni di diritto analoghe a quella su cui si
deve pronunciare o che abbia manifestato in sede accademica il proprio
convincimento in ordine ad essa. Ciò solo dovrebbe porre in evidenza che
l'indistinta dilatazione del concetto di imparzialità conduce a conseguenze
paradossali logicamente non sostenibili. 4. Gli artt. 3 e 5 del disegno di
legge riguardano la ridefinizione del rapporto tra pubblico ministero e polizia
giudiziaria. 4.1. Le modifiche contenute nell’art. 3 eliminano
anzitutto ogni possibilità di acquisizione diretta della notizia di reato da
parte del PM, configurando
un suo approccio “passivo” al riguardo e demandando in via
esclusiva detta acquisizione alla polizia giudiziaria. Si modificano a tal fine
sia l'art. 55 c.p.p. («Funzioni della polizia giudiziaria») sia l’art. 330
c.p.p., escludendo anche da tale norma la possibilità che il PM proceda d’iniziativa
all’acquisizione della notizia di reato; viene, poi, espunto il riferimento a
tale possibilità anche dall’art. 335 c.p.p. e dall’art. 12, comma 1, della
legge n. 274/2000 relativa ai procedimenti innanzi al giudice di pace. Il disegno di
legge procede, poi, alla precisazione dei rapporti fra PM e polizia
giudiziaria. Viene in primo luogo riformulato l’art. 56 c.p.p.
(«Servizi e sezioni di polizia giudiziaria») con eliminazione della attuale
premessa generale
secondo cui «le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alla dipendenza e
sotto la direzione dell’autorità giudiziaria» e con la previsione che le
funzioni di polizia giudiziaria sono svolte dalle sezioni di PG istituite
presso ogni procura della Repubblica «alla dipendenza e sotto la direzione» dell’autorità
giudiziaria ovvero dai «servizi di polizia giudiziaria previsti dalla legge,
nonché dagli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria appartenenti agli altri
organi cui la legge fa obbligo di compiere indagini a seguito di una notizia di reato»
semplicemente «sotto la direzione» (anziché «alle dipendenze») dell’autorità
giudiziaria. Muta, quindi, sia la qualificazione dei rapporti fra autorità
giudiziaria e polizia giudiziaria – diversa da quella riferibile alle tradizionali
«sezioni di PG» –, sia la modalità descrittiva dell'attività
della PG nei rapporti con l'autorità giudiziaria. Si opera, quindi, una
novellazione dell'art. 326 c.p.p., in relazione al quale particolarmente
significativa è la precisazione
che il PM «assume le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione
penale tenuto conto anche dei risultati delle indagini della polizia
giudiziaria» (precisazione non contenuta nel testo vigente). Nella relazione
introduttiva del disegno di legge sono esplicitate le ragioni poste a fondamento delle modifiche
proposte. In tale relazione si afferma, infatti, che con esse si è voluto
distinguere «più nettamente i compiti della polizia giudiziaria e del pubblico
ministero, per creare i presupposti di una maggiore "concorrenza" e
controllo reciproco». Le disposizioni richiamate – pur tenendo conto
dell'intento di razionalizzazione che, secondo la relazione di accompagnamento,
le anima – non appaiono condivisibili né sotto l'aspetto della ratio che le ispira né, tanto meno, nell’effetto
che realizzano. 4.2. In via preliminare si evidenzia che, come è stato
sottolineato da autorevole dottrina, le norme appaiono censurabili con riguardo
sia all’art. 109 (in base al quale «l’Autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia
giudiziaria»), sia all’art. 112 Cost. (che sancisce il principio di
obbligatorietà dell’azione penale). Può ricordarsi in proposito che la Corte costituzionale
è intervenuta ripetutamente a chiarire il senso della disposizione contenuta
nell'art. 109 Cost. e ancora da ultimo, nella sentenza n. 394/1998, ha ribadito
(riprendendo quando affermato nelle sentenze n. 94/1963 e n. 114/1968) che le
norme del codice di procedura penale, «in attuazione del precetto costituzionale che attribuisce all'autorità giudiziaria il
potere di disporre direttamente della polizia giudiziaria (art. 109 Cost.),
stabiliscono che le funzioni di polizia giudiziaria sono svolte alle dipendenze
e sotto la direzione della stessa autorità: dalle apposite sezioni di polizia
giudiziaria istituite presso ogni procura della Repubblica, dai servizi di
polizia giudiziaria inquadrati presso le diverse amministrazioni cui tale
compito sia rimesso, dagli ufficiali e dagli agenti di polizia giudiziaria
appartenenti ad altri organi, che hanno l'obbligo di compiere indagini a
seguito di una notizia di reato (art. 56 cod. proc. pen.). (…) Vi
è sempre, in tutte le distinte configurazioni organizzative, un diretto legame
funzionale con l'autorità giudiziaria, che si riflette in vario modo sulle condizioni sia
di stato che di impiego degli addetti». Sviluppando tali rilievi la distinzione
operata dall’art. 3, comma 1, lett. b, del disegno di legge tra sezioni di polizia
giudiziaria e servizi di polizia giudiziaria appare difficilmente compatibile con l'assetto costituzionale nella parte in cui pone solo le prime «alla
dipendenza» dell’autorità giudiziaria, stabilendo per i secondi
che agiscano «sotto la direzione dell'autorità giudiziaria» ma non alle sue
dipendenze. La diversificazione
inoltre risulta in contrasto con l’obiettivo di rendere
maggiormente efficace l’azione investigativa che, nella prassi, è
prevalentemente affidata ai servizi di polizia giudiziaria (notoriamente
forniti di maggiori risorse umane e materiali). Invero tale diversificazione,
indebolendo il rapporto di subordinazione funzionale della polizia giudiziaria
rispetto al pubblico ministero, si traduce in una sottrazione alla magistratura
dei mezzi necessari per compiere le indagini e per concluderle celermente,
finendo così per incidere negativamente sull’obbligatorietà dell’azione
penale. Non sfugge, infatti, il nesso strumentale sussistente tra il principio
di obbligatorietà dell’azione penale, sancito dall’art. 112 Cost., e la
direttiva della disponibilità diretta della polizia giudiziaria in favore dell’autorità
giudiziaria. Il principio espresso dall’art. 112 garantisce tra l’altro,
secondo l'unanime insegnamento dottrinale, l'indipendenza funzionale del
pubblico ministero da ogni altro potere e in particolare dal potere esecutivo. Orbene,
è chiaro che, nonostante l'indipendenza di status del PM e il correlato obbligo
di procedere di fronte a ogni notizia di reato, il principio di obbligatorietà
dell'azione penale potrebbe essere sostanzialmente eluso dalla concreta
organizzazione della polizia giudiziaria, perché quest’ultima
– in quanto principale fonte di cognizione delle notitiae criminis,
fondamentale strumento di indagine e organo esecutivo dei provvedimenti
giudiziari in materia penale – rappresenta la “chiave di volta” dell’intero sistema dell’azione
penale. È, infatti, evidente che – come è stato scritto – «per quanto
efficiente un sistema repressivo penale possa risultare, è del tutto normale
che gran parte dei reati commessi (..) rimangano impuniti e che la determinazione dei reati
che debbano restare impuniti dipenda, oltre che dal caso e dalla capacità degli
autori di non farsi scoprire, soprattutto dalle scelte di politica giudiziaria
compiute dagli organi di polizia giudiziaria e da chi li dirige». Pertanto, chi
gestisce la polizia giudiziaria può condizionarne l’iniziativa
determinando un rafforzamento della sua dipendenza dal potere esecutivo. Gli
organi di polizia giudiziaria, infatti, nelle loro diverse articolazioni,
integrano strutture gerarchicamente
dipendenti dal Governo, ragion per cui essi stessi non sono assistiti dalle
garanzie di autonomia e indipendenza che caratterizzano, invece, gli uffici del
pubblico ministero. 4.3. Per quanto riguarda più specificamente la eliminazione
del potere del PM di acquisire anche di propria iniziativa le notizie di reato
(1), è agevole rilevare, in sintonia con quanto osservato da autorevole
dottrina, che tale eliminazione realizza un vulnus al principio della
obbligatorietà dell’azione penale, per la cui concreta operatività è
necessaria appunto l'esistenza di una notizia di reato. Per poter attuare il
dettato costituzionale, infatti, il PM deve poter
agire anche di propria iniziativa, altrimenti l'obbligatorietà risulterebbe
condizionata dalla preliminare attività della polizia giudiziaria, priva dei
necessari requisiti di autonomia e indipendenza. Va, poi, sottolineato che la
proposta modifica dell’art. 326 c.p.p. non si limita a rafforzare il
ruolo e i poteri della polizia giudiziaria ma capovolge il rapporto ordinamentale oggi
esistente tra PM e polizia medesima. Invero, il nuovo testo dell’art.
326 prevede che le determinazioni inerenti l’esercizio dell’azione penale siano
assunte dal PM «tenuto conto anche dei risultati delle indagini della polizia giudiziaria». In realtà, gli organi
requirenti devono già oggi necessariamente tenerne conto, atteso che è proprio
alla polizia giudiziaria che viene delegato lo svolgimento delle indagini, di
talché è sull'esito delle stesse che, fisiologicamente. Il PM fonda le proprie
determinazioni. La proposta specificazione, tuttavia, sembra volere vincolare
il PM a motivare le scelte compiute allorquando le stesse non siano in linea
con le conclusioni raggiunte dalla polizia giudiziaria, che si trasforma così
inaccettabilmente in un organo di controllo dell’attività rimessa
all'esclusiva competenza del PM. 4.4. Le considerazioni fino ad ora svolte
conducono a formulare un giudizio di non condivisibilità anche con riferimento
alle modifiche proposte dall’art. 5 del disegno di legge, laddove le stesse, in linea di ideale
continuità con quanto previsto all’art. 3, contribuiscono ad
ampliare i poteri della polizia giudiziaria nella fase delle indagini
preliminari, sviluppando e completando il quadro di radicale mutamento dell’assetto dei rapporti
con il PM, nella prospettiva già sopra delineata di indebolimento del rapporto
di dipendenza funzionale oggi esistente. In particolare: - l'art. 5, comma 1,
lett. a, modifica l’art. 348, comma 3, c.p.p. in materia di assicurazione delle fonti di prova. La
disposizione vigente prevede che, dopo l’intervento del PM, la
polizia giudiziaria compie gli atti ad essa specificamente delegati da
quest’ultimo, esegue le sue direttive ed inoltre svolge di propria iniziativa,
informandone prontamente
il PM, tutte le altre attività di indagine per accertare i reati ovvero
richieste da elementi successivamente emersi e assicura le nuovi fonti di
prova. A seguito della riformulazione operata dalla lettera in esame, l’informativa
che la polizia giudiziaria
deve fare al PM sulle indagini che essa ha compiuto non dovrà più essere
effettuata “prontamente”. Risulta evidente come la soppressione dell’avverbio
determini conseguenze non di poco conto, giacché alla polizia giudiziaria non
risulta più imposto
alcun termine per informare il PM delle attività poste in essere autonomamente,
la conseguenza di immediata percepibilità, sarà quella che una comunicazione
non tempestiva delle investigazioni di polizia giudiziaria, in tal modo
disancorate dalla cadenze temporali proprie delle indagini preliminari,
comporterà il concreto rischio di una loro inutilizzabilità per superamento dei
tempi di indagine ai sensi dell’art. 407, ultimo comma, del codice di
procedura penale. Ciò appare in contrasto con l’attuale sistematica codicistica, che configura
il PM quale dominus delle indagini, giacché egli non sarebbe più messo al
corrente in maniera tempestiva delle investigazioni in atto, con le gravi
conseguenze che da ciò possono derivare in termini sia di efficacia sia di
efficienza dell'azione investigativa; - l'art. 5, comma 1 lett. b, attribuisce
agli ufficiali di polizia giudiziaria il potere di compiere gli accertamenti
urgenti ex art. 354 c.p.p. di propria iniziativa, anche quando sarebbe
possibile un intervento tempestivo del PM. Attualmente tale potere può essere
esercitato solo nei caso in cui il PM non possa intervenire tempestivamente
ovvero non abbia ancora assunto la direzione delle indagini. Secondo la
relazione illustrativa, con la normativa proposta si assicura l'esecuzione
immediata dell’atto urgente, in presenza delle esigenze
probatorie e del periculum in mora, rappresentato dal rischio di alterazione,
dispersione o modificazione delle cose o tracce o luoghi oggetto di indagine.
Resta fermo che, una volta
effettuato il sequestro, il relativo verbale va trasmesso senza ritardo e,
comunque, non oltre le quarantotto ore, al pubblico ministero del luogo dove il
sequestro è stato eseguito, per la convalida. Anche per la modifica in esame
valgono le considerazioni esposte al punto che precede in ordine al reale
intento perseguito dalla norma, vale a dire l’estromissione del PM
dalle indagini, con l'ulteriore precisazione che essa consentirà di compiere le
delicate attività previste dall’art. 354 c.p.p. – attività generalmente non ripetibili –
senza alcun controllo preventivo; - l'art. 5, comma 1 lett. d, stabilisce che
fino a quando non riceve la notizia di reato, il PM non può compiere alcuna
attività di indagine né personalmente né avvalendosi della polizia giudiziaria. Esso consente inoltre alla
polizia giudiziaria di compiere, su delega del PM, l'interrogatorio della
persona sottoposta a restrizione della libertà personale (attualmente, l'art.
370, comma 1, c.p.p. prevede che possano essere delegati alla polizia
giudiziaria solo gli interrogatori e i confronti cui partecipi la persona
sottoposta alle indagini che si trovi in stato di libertà). La lettera in esame
stabilisce infine che il PM può impartire le direttive e le deleghe di indagine
esclusivamente al dirigente del servizio o della sezione di polizia
giudiziaria. È evidente che le disposizioni in esame contribuiscono
ulteriormente ed ingiustificatamente a ridurre il ruolo del PM nell'ambito
dell'attività d'indagine. Non appare, invero, condivisibile che l’organo
requirente si rivolga soltanto ai dirigenti dei servizi e delle sezioni di
polizia giudiziaria, giacché tale limitazione determinerebbe non
un’accelerazione dei tempi d’indagine ma, al contrario, una loro dilatazione,
imponendo sulla medesima delega plurime e successive interlocuzioni che finirebbero con l'influire
anche sull’efficacia dell’attività investigativa. Qualche perplessità desta
anche la proposta delegabilità alla polizia giudiziaria degli interrogatori
degli indagati in vinculis. Invero, per un verso, non va sottovalutato che tali interrogatori
sono utilizzabili in dibattimento secondo le previsioni di cui agli artt. 513,
comma 1, e 503, comma 5, c.p.p.; per altro verso, viene –
ancora una volta – svalutata la funzione di garanzia propria del PM, il quale, nello
svolgimento delle indagini, deve ricercare, ai sensi dell’art.
358 c.p.p., anche elementi a favore dell’indagato. Sul tema del proposto
riassetto dei rapporti tra PM e polizia giudiziaria, preme, conclusivamente,
sottolineare che l'ampliamento
dell’autonomia di quest'ultima – tanto nella ricerca delle notizie di
reato quanto nelle scelte investigative – determinerà, con ogni probabilità,
rilevanti conflitti e inefficienze. Infatti, venendo nei fatti a mancare
l’indispensabile ruolo di
dominus delle indagini da parte del PM, si origineranno interferenze e
sovrapposizioni sia delle attività dei diversi organi di polizia giudiziaria
(si pensi a realtà territoriali complesse, dove finiscono con l’intrecciarsi
vicende procedimentali autonome ma riconducibili a medesimi gruppi criminali) sia di tali attività
con le investigazioni gestite dal PM. Peraltro la formulazione del disegno di
legge non esclude la possibilità che la polizia giudiziaria compia, in via
autonoma, attività anche in contrasto con le direttive impartite dal PM, il che
contribuirà ulteriormente a danneggiare l’efficacia dell’azione
investigativa. Tutto ciò, per altro verso, non potrà che comportare una minore
tutela degli interessi della difesa, atteso che le garanzie di indipendenza e imparzialità, per
quanto già ampiamente sopra dedotto, costituiscono patrimonio proprio non della
polizia giudiziaria ma dell’autorità giudiziaria. Invero la Carta costituzionale
delinea la figura del pubblico ministero quale garante della legalità dell’azione
penale e dei diritti dell’indagato e dell’imputato, e dunque organo di
giustizia con il compito di accertare in modo imparziale l’esistenza delle
condizioni di esercizio dell’azione penale. Proprio tale ruolo risulta essere
in conflitto con la
ratio del disegno di legge, diretto a «creare i presupposti di una maggiore
concorrenza e controllo reciproco», giacché tali attività presuppongono una
parità ordinamentale tra PM e polizia giudiziaria, la quale, tuttavia, non è in
alcun modo rinvenibile nel quadro costituzionale. 5. L’art.
3, comma 1, lett. c, del disegno di legge interviene anche sull’art. 291
c.p.p., in cui viene inserito un comma 1 ter carico di conseguenze sia sul
piano processuale, sia su quello dell'assetto gerarchico dei rapporti interni all’ufficio
del pubblico ministero. In particolare viene stabilito che l’assenso scritto
del Procuratore della Repubblica (o del Procuratore aggiunto o del magistrato
appositamente delegato), previsto dall’art. 3 del decreto legislativo n. 196/2006 per la formulazione di
richieste di misure cautelari personali o reali, è necessario a pena di
inammissibilità della richiesta. Sulla questione, come è noto, sono intervenute
di recente le Sezioni Unite penali della Corte di cassazione con la sentenza n.
8388/09, la quale ha ritenuto che l'ammissibilità della richiesta di
applicazione di misure cautelari personali, presentata dal magistrato
dell'ufficio del pubblico ministero, assegnatario del procedimento, non implica
l'assenso scritto del procuratore della Repubblica, previsto dall'art. 3, comma
secondo, decreto legislativo n. 106 del 2006, che, pertanto, non è condizione
di validità della conseguente ordinanza cautelare del giudice. L'intervento
normativo mira a contraddire il principio espresso dal Supremo collegio in
quanto intende sovrapporre i piani, quello ordinamentale e quello processuale,
dando vita in modo incongruo all’unico caso in cui un profilo
organizzativo interno all’ufficio di procura si riflette sul piano processuale
determinando una
ipotesi di inammissibilità della richiesta di misura cautelare. Ciò, oltre ad
essere eccentrico rispetto al regime ordinario utilizzato in tutti i casi di
possibile influenza delle norme ordinamentali sul piano processuale, conduce a
una gerarchizzazione dell'ufficio di procura oltre il modello della riforma
dell'ordinamento giudiziario appena varata. 6. L’art. 3, comma 1 lett.
f n. 2, interviene, poi, nella materia delle indagini per fatti non costituenti
notizia di reato. Viene, in particolare, inserito nell’art. 335 c.p.p. il
comma 3 ter, con il quale si stabilisce che «delle notizie iscritte in registri
diversi dal registro di cui al presente articolo (ndr, registro delle notizie
di reato) non può essere fatto alcun uso, né può essere svolto in relazione ad esse alcun atto di indagine».
Secondo la relazione illustrativa, «il pubblico ministero non potrà far uso dei
poteri afferenti alle indagini preliminari in relazione a notizie che non sono
state classificate come notizie di reato e che, di conseguenza, non sono state
inserite nei registri ad esse relativi, previsti dai decreti del Ministro della
giustizia, ai quali fa rinvio l’articolo 2 del regolamento per
l’esecuzione del codice di procedura penale (da ultimo, vedi il decreto del
Ministro della giustizia
27 marzo 2000, n. 264, recante regolamento per la tenuta dei registri presso
gli uffici giudiziari). Pertanto, per svolgere o delegare una qualsiasi
attività di indagine, il pubblico ministero dovrà prima operare una variazione
dell'iscrizione». La disposizione non appare funzionale a garantire l’efficacia
e l’efficienza dell’azione investigativa e contribuisce a svilire ulteriormente
la funzione del pubblico ministero, laddove mira ad impedire che siano svolti
anche meri accertamenti – così come oggi avviene – in ordine a notizie diverse da quelle
iscritte nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. Invero, è pacifico che spetta
esclusivamente al PM il potere di selezionare i fatti di rilevanza penale a sua
conoscenza e che tale attività di qualificazione giuridica è strumentale alla operatività di
determinate garanzie, connesse alla configurazione di accadimenti penalmente
rilevanti ascrivibili a soggetti individuati ovvero individuabili. Ciò
nondimeno le notizie non classificabili quali notizie di reato possono pur
sempre comportare la necessità di accertamenti diretti a verificare se nei
fatti in esse descritti siano o meno prospettabili ipotesi di reato (si pensi,
a titolo meramente esemplificativo, alle segnalazioni che pervengono alla
Procura della Repubblica in ordine a decessi sospetti ovvero alle missive che
si limitano a narrare degli accadimenti senza, però, denunciare alcunché). Con
la modifica proposta sembra volersi impedire all’autorità giudiziaria
di compiere tali indispensabili accertamenti (così come oggi vengono definiti per distinguerli
dalle indagini), di talché la ricaduta immediata non potrà che essere l’iscrizione
ai sensi dell’art. 335 c.p.p. anche per quelle notizie che, ad oggi,
formalmente non lo richiederebbero. 7. L’art. 5, comma 1 lett. e, propone l’inserimento
di un art. 370 bis («Indagini tecnico-scientifiche»), in base al quale è
riconosciuta al PM la possibilità di delegare l’esecuzione di indagini e
accertamenti tecnicoscientifici direttamente ai servizi di investigazione scientifica istituiti presso i diversi
servizi centrali e territoriali di polizia giudiziaria. La disposizione appare
idonea ad accelerare le attività d’indagine, in quanto consente
al PM di rivolgersi direttamente a detti servizi, senza dover preventivamente rivolgersi alla locale polizia
giudiziaria e, peraltro, risolve utilmente la questione postasi in ordine alla
delegabilità di tali indagini alla polizia giudiziaria. Del pari
favorevolmente, in ragione della sua funzione acceleratoria del procedimento, deve
accogliersi la modifica proposta dall’art. 5, comma 1, lett. c, in
base alla quale, nel caso in cui il PM abbia intenzione di procedere a un
accertamento tecnico non ripetibile ai sensi dell'art. 360 c.p.p. e la persona
sottoposta alle indagini, prima del conferimento dell'incarico, formuli riserva di
promuovere incidente probatorio, viene imposto che la richiesta di incidente
probatorio sia presentata nei 10 giorni successivi alla suddetta riserva.
Conseguentemente, la lettera g del medesimo comma modifica l'art. 398, comma 1,
c.p.p., prevedendo che entro due giorni dalla scadenza del termine suddetto, il
giudice pronunci ordinanza con la quale accoglie, dichiara inammissibile o
rigetta la richiesta di incidente probatorio. Infine, l’articolo
5 integra la
disciplina delle investigazioni difensive. In primo luogo, con la lettera f del
comma 1, sono inseriti nell’articolo 391 bis del codice di procedura
penale due nuovi commi. Il comma 11 bis prevede che, quando la persona
informata citata dal difensore non si presenta per il «colloquio», il giudice, su richiesta
motivata dello stesso difensore, ne dispone l’accompagnamento
coattivo. Ciò risponde alla tendenziale parificazione tra accusa e difesa e –
come sottolinea la relazione illustrativa – «colma la lacuna della novella del dicembre 2000,
che si limitava a prevedere le conseguenze del comportamento dell’informato
che, comparendo dinanzi al difensore, si avvalga della facoltà di tacere». In
proposito, tuttavia, sembrerebbe più idoneo consentire al giudice la facoltà di valutare la necessità
e l’opportunità di disporre l’accompagnamento coattivo, al fine di
limitare il ricorso ad uno strumento coercitivo ai casi strettamente necessari.
Il comma 11 ter chiarisce, inoltre, che i soggetti che svolgono le investigazioni difensive, nello stesso
procedimento o in procedimenti connessi o in indagini collegate, possono
informarsi reciprocamente e possono comunicare al proprio assistito sia le
attività da essi espletate, sia lo stato delle indagini dell’autorità
giudiziaria. 8. L’art.
4 del disegno di legge si sofferma sui termini a difesa, il diritto alla prova
e l’acquisizione delle sentenze irrevocabili: - con riferimento ai termini a
difesa viene inserito nell'art. 108 c.p.p. un comma 1 bis, che estende ai casi
previsti nell’art.
97, 4° comma, c.p.p. (semplice assenza del difensore titolare, di fiducia o
d’ufficio) la possibilità per il difensore designato d’ufficio per l’udienza di
ottenere un termine a difesa, che in questo caso non può comunque essere
inferiore a 48 ore
(con rilevanti ricadute in punto di scadenza dei termini di custodia
cautelare). La previsione è di per sé condivisibile in quanto dà attuazione non
formale al diritto di difesa ma – così come formulata – può dar luogo ad
abusi non contenibili, con
gravi ricadute sul principio di ragionevole durata; - con riferimento al
diritto alla prova si riscrive parzialmente l’art. 190 c.p.p.
mediante la sostituzione dei primi due commi, escludendo il vaglio del giudice
sulla eventuale manifesta superfluità della prova (pur se resta ferma la possibilità successiva di
esclusione delle prove superflue nel corso dell'istruttoria dibattimentale) ed
eliminando la previsione secondo cui «la legge stabilisce i casi in cui le
prove sono ammesse di ufficio». In particolare non condivisibile è il disposto
della lett. b, che interviene a limitare il vaglio sull’ammissibilità
delle prove, mantenendo la sola possibilità per il giudice di escludere quelle
vietate dalla legge e manifestamente irrilevanti, ma non più quelle manifestamente superflue.
Contrariamente a quanto rappresentato nella relazione introduttiva del disegno
di legge, per cui l’innovazione intenderebbe tutelare il principio costituzionale
del giusto processo, non è dato comprendere quale effettiva lesione alla disponibilità
delle parti ovvero al principio di formazione in contraddittorio delle prove
possa comportare il consentire al decidente, in via immediata e preventiva, di
eliminare tutte quelle prove che, in maniera manifesta, risultino ab initio
inutili rispetto ai fatti integranti il thema decidendum. L'indicata decisione,
d'altro canto, appare sminuire la funzione giudicante e la discrezionalità
rimessa al giudice in sede di ammissione delle prove, la quale, invece, opera
senza un approfondito sindacato del merito, limitandosi all'esclusione delle
sole prove palesemente superflue ai fini del giudizio. Una valutazione che
lambisca il merito processuale, del resto, é comunque rimessa all’organo
decidente nella stessa fase ammissiva, allorquando, guardando solo alla palese evidenza, è chiamato
ad escludere le prove manifestamente irrilevanti. Nemmeno sufficiente appare il
richiamo alla possibilità di rinviare l'esclusione delle prove manifestamente
superflue ad una successiva fase processuale, e cioè nel corso dell'istruttoria
dibattimentale, atteso che, del pari, non è dato comprendere le ragioni per cui
debba essere posticipato fino a tale momento un giudizio che, invece, deve
essere effettuato sulla sola evidenza dell’inutilità della prova,
senza, dunque, la
necessità del conforto delle risultanze di merito scaturite da altre attività
processuali. La soluzione normativa indicata determina una irragionevole
delimitazione della discrezionalità connessa all’esercizio della
funzione giudicante e un pesante limite al celere svolgimento del giudizio, la cui durata è
inevitabilmente allungata con la reiterata assunzione di prove superflue, con
connesse conseguenze dilatorie assai pericolose sulla decorrenza dei termini di
durata delle misure cautelari e sui tempi di prescrizione dei reati; - con
riferimento alla richiesta di esame di testimoni, periti, consulenti tecnici o
delle persone indicate nell’art. 210 c.p.p. si prevede, modificando
l’art. 468, comma 1, c.p.p., che le parti che intendono formularla, oltre a dover depositare tempestivamente entro
sette giorni dalla data del dibattimento la lista delle persone da sentire,
debbano anche indicare tanto le circostanze “specifiche” su cui la
persona deve essere sentita, quanto le ragioni per le quali la persona citata è in grado di riferirle
(precisazione, quest’ultima, non prevista nel testo vigente). La
modifica rende ancor più incomprensibili i limiti all’intervento del giudice
teso a limitare le prove superflue di cui si è detto nel punto che precede; -
con riferimento alla
acquisizione delle sentenze irrevocabili di cui all’art.
238 bis, il nuovo testo la limita ai soli procedimenti relativi ai delitti di
cui all’art. 51, commi 3 bis e 3 quater, e di cui all’art. 407, comma 2, lett.
a c.p.p. L’introduzione di tale regime diversificato tra i procedimenti riguardanti le fattispecie
delittuose di maggior allarme sociale e quelli riguardanti i reati meno gravi
determina per tali ultimi giudizi – senza plausibili ragioni
(considerato anche il recente intervento della Corte costituzionale
che, con la sentenza n. 29 del 2009,
ha dichiarato non fondata la questione di legittimità
sollevata sul punto) – un inutile aggravio nello svolgimento del
dibattimento e un conseguente allungamento dei tempi necessari per
l’accertamento di
fatti e situazioni già acclarati in un procedimento svoltosi in contraddittorio
tra le parti e deciso con sentenza pronunciata dall'Autorità giudiziaria
(particolarmente nocivo in quanto relativo a reati notoriamente caratterizzati
da termini prescrizionali più brevi). 9. L’art. 6 del disegno di legge
interviene in materia di indagini preliminari, proroga del termine, durata
massima delle indagini preliminari, avocazione e in materia di giudizio
abbreviato, con un intervento mirato soprattutto all’accrescimento delle garanzie dell’indagato.
9.1. Questi i punti fondamentali dell’intervento novellistico: - trascurando la
soppressione del comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p., in quanto già abrogato dalla
Corte costituzionale con la recentissima sentenza n. 121/2009,
viene proposto di modificare integralmente il 2° comma del medesimo art. 405. In particolare il
nuovo testo prevede che il termine ordinario di sei mesi entro i quali il PM
deve ordinariamente chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato
(e da cui decorre
anche il termine per la proroga delle indagini preliminari), decorra non già
dalla data di iscrizione del nominativo nel registro corrispondente (come nel
testo vigente), bensì dalla data in cui tale nominativo emerge agli atti,
Coerentemente, poi, il testo demanda al giudice la possibilità di verificare la
correttezza della data di iscrizione effettuata dal PM e di determinare egli
stesso il giusto termine di decorrenza, con effetti diretti sulla
utilizzabilità/inutilizzabilità degli atti; - viene precisato il contenuto
della richiesta di proroga delle indagini preliminari di cui al secondo periodo
del 1° comma dell’art. 406. A fronte dell’attuale testo, che prescrive
solo che la richiesta contiene l’indicazione della notizia di reato e
l’esposizione dei
motivi che la giustificano, il testo proposto stabilisce che la richiesta di
proroga deve contenere le generalità della persona sottoposta alle indagini, l’indicazione
della notizia di reato, del luogo e del tempo del reato, nonché «l'esposizione
dei motivi specifici
che giustificano la richiesta sulla base delle indagini svolte»: dunque i
motivi della richiesta dovranno essere “specifici” e giustificati
dalle indagini svolte; - viene inserito all’art. 407 c.p.p. il comma 3 bis: con
tale norma si stabilisce
che, nel caso di trasmissione degli atti per competenza ad altra autorità
giudiziaria e in ogni «altro» caso in cui si verifica la regressione del
procedimento alla fase delle indagini preliminari, se i termini sono scaduti le
indagini possono essere proseguite solo per ulteriori sei mesi; - pensato prima
della dichiarazione di incostituzionalità del comma 1 bis dell’art.
405, l’articolato prevede, poi, l’inserimento nell’art. 408 di un comma 1 bis,
che sostanzialmente ripropone la regola per cui il PM deve chiedere l’archiviazione
laddove l’ordinanza che dispone la misura cautelare sia stata annullata per
mancanza di gravi indizi di colpevolezza e non siano stati acquisiti ulteriori
elementi a carico dell’indagato. - viene riscritto integralmente l’art. 409 c.p.p., dedicato ai
provvedimenti del giudice sulla richiesta di archiviazione. In particolare: d1)
è esclusa la necessità di effettuare l’udienza in camera di
consiglio nel caso in cui il giudice, non accogliendo la richiesta di
archiviazione del PM, ritenga
necessario lo svolgimento di nuove indagini: in tal caso semplicemente il
giudice provvede con ordinanza ad indicare le indagini necessarie fissando il
termine per il loro compimento; d2) lo schema procedimentale per gli altri casi
di mancato accoglimento della richiesta di archiviazione resta sostanzialmente
invariato, con la necessità dell’udienza camerale e degli avvisi e con la
comunicazione al Procuratore generale; - viene prevista l’avocazione
“necessaria” del procedimento da parte del Procuratore generale nel caso che siano
decorsi 120 giorni dal termine di scadenza delle indagini preliminari senza che
il PM abbia assunto determinazioni chiedendo il rinvio a giudizio o l’archiviazione
del procedimento. Si prevede, poi, l’inserimento nell’art. 413 di un comma 2 bis, nel quale si
stabilisce che se il Procuratore generale, compulsato dall’indagato
o dalla persona offesa ad effettuare l’avocazione, non abbia provveduto in tal
senso o comunque non abbia formulato le sue richieste nel termine di 30 giorni, l’indagato
o la persona offesa possono stimolare il GIP, chiedendogli di fissare un
termine non superiore a 60 giorni per la formulazione da parte del PM delle richieste; - si
propone di inserire nell'art. 415 c.p.p. un comma 2 bis, fissando anche nei
processi a carico di “ignoti” un termine massimo di durata delle
indagini preliminari identico a quello fissato per i procedimenti a carico di
“noti”; - viene eliminato l’obbligo di avviso di conclusione delle indagini di
cui all’art. 415 bis nel caso in cui durante le indagini preliminari il PM abbia comunque provveduto
ad inviare all’indagato l’informazione di garanzia di cui
all’art. 369 o un atto equipollente, con tutte le correzioni codicistiche
conseguenti. Questa scelta induce, poi, il disegno di legge ad allungare i termini per la
fissazione dell’udienza preliminare, consentendo che essa venga
fissata entro 60 (e non più 30) giorni dalla richiesta di rinvio a giudizio e
che gli avvisi vengano notificati almeno 30 (e non più 10) giorni prima della data di udienza (artt. 418 e 419
c.p.p.); - si prevede, poi, un intervento sulle modalità della modificazione
dell’imputazione nel corso dell’udienza preliminare, di cui all’art 423
c.p.p. Rispetto al testo vigente si precisa che in caso di modificazioni dell’imputazione l’imputato
può chiedere un termine e difesa, in tal caso il giudice sospende l’udienza per
un termine non superiore a venti giorni; l’imputato può anche formulare
richiesta di integrazione probatoria ai sensi dell’art. 422; - viene modificata la disciplina relativa all’attività
integrativa di indagine del PM o del difensore successiva al rinvio a giudizio.
In particolare viene limitata la possibilità di svolgere attività integrativa
successivamente all’ordinanza dibattimentale che decide sull’ammissione delle prove
di cui all’art. 495 c.p.p.; in tal caso l’attività integrativa potrà essere
svolta solo in caso di scoperta di fonti di prova decisive sopravvenute o non
conosciute in precedenza o quando si rendono necessari ulteriori accertamenti sulla base di elementi nuovi
emersi nel corso del processo e previa autorizzazione del giudice nel
contraddittorio della parti; - si interviene inoltre sulla indicazione degli
atti che compongono il fascicolo per il dibattimento, di cui all’art.
431 c.p.p.. Fra gli
atti che devono comporre tale fascicolo viene inserito l’avviso
di conclusione delle indagini di cui all’art. 415 bis, ove previsto, o
l’informazione di garanzia di cui all’art. 369 o altro atto equipollente; -
poiché, come anticipato, viene attribuita alla corte di assise la
celebrazione del rito abbreviato per i processi di propria competenza, il
disegno di legge disciplina, con l’art. 438 bis, le relative
modalità di richiesta, precisando che l’imputato dovrà in tal caso avanzarla
prima della dichiarazione
di apertura del dibattimento; - viene inserito nell’art.
501 un comma 2 bis in forza del quale la disciplina per l’esame dei periti e
dei consulenti tecnici si applica anche agli ufficiali ed agenti di polizia
giudiziaria che abbiano svolto gli accertamenti tecnico-scientifici di cui all’art.
370 bis; - viene infine modificato il comma 4 dell'art. 558, in termini tali da
rendere eccezionale l’ipotesi che il PM ordini che l’arrestato in flagranza sia
posto a sua disposizione a norma dell’art. 386 presentandolo direttamente in udienza in stato di
arresto per la convalida ed il giudizio entro 48 ore dall’arresto.
9.2. Le disposizioni richiamate presentano un contenuto disomogeneo, rispetto
al quale è necessario esprimere giudizi di segno diversificato. Numerose innovazioni devono
essere valutate in maniera favorevole, in quanto finalizzate a scopi deflattivi
senza nessun parallelo pregiudizio per le garanzie dell’indagato:
- certamente positiva è la proposta di indicare con ordinanza immediatamente emessa dal GIP, senza la necessità
di celebrare l’udienza in camera di consiglio, le nuove
indagini da svolgersi da parte del PM in caso di mancato accoglimento della
richiesta di archiviazione, dovendosi considerare l'udienza camerale a tali
fini assai poco
incisiva o realmente apportatrice di significativi contributi processuali. L’unico
dubbio, caso mai, attiene all’opportunità della precisazione effettuata nel
dettato normativo per cui, in tali casi, i termini di cui all’art. 407, commi 1
e 2, non possono
essere superati di oltre sei mesi, con imposizione, dunque, di tempi assai
esigui per lo svolgimento delle nuove indagini; - parimenti idonea, per le
evidenti conseguenze acceleratorie che ne scaturiscono, è, poi, la scelta del
legislatore di prevedere l’eliminazione dell’obbligo di avviso di
conclusione delle indagini preliminari nelle ipotesi in cui il PM abbia già
comunque provveduto ad inviare all’indagato l'informazione di garanzia o un
atto ad essa equipollente, con conseguente allungamento dei termini per la fissazione dell’udienza
preliminare; - allo stesso modo opportuna è la previsione che limita la
possibilità di svolgere attività integrativa di indagine da parte del PM o del
difensore successivamente all’ordinanza dibattimentale che decide sull’ammissione delle
prove; - devono essere altresì considerate favorevolmente, per le garanzie ad
esse connesse, le previsioni che introducono: la possibilità per l’imputato di
chiedere un termine a difesa, ovvero formulare richiesta di integrazione probatoria, nel caso di modifica dell’imputazione
nel corso dell’udienza preliminare; l’inserimento nel fascicolo per il
dibattimento dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ove
previsto, o dell’informazione di garanzia o di altro atto equipollente; l’estensione della
disciplina che regola l’esame dei periti e dei consulenti tecnici anche agli
ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria che abbiano svolto accertamenti
tecnico-scientifici. Ciò detto: - la norma introdotta dalla lett. d non può
essere ritenuta
concretamente applicabile, in quanto sostanzialmente ripropone, sia pure senza
addivenire ad una perfetta coincidenza, il contenuto della disposizione dell’art.
405, comma 1bis, c.p.p. già abrogata dalla Corte costituzionale con la
recentissima sentenza n. 121/2009; - sicuramente incerta nella sua
formulazione, seppur dettata da ragioni apprezzabili, è la previsione normativa
che modifica il dies a quo della decorrenza del termine di durata delle
indagini preliminari, non più coincidente con la data di iscrizione del
nominativo dell’indagato nel registro delle notizie di reato,
bensì corrispondente alla data in cui tale nominativo emerge dagli atti,
demandando, peraltro, ad un successiva verifica del giudice la valutazione di
correttezza della data
di iscrizione (e ciò soprattutto tenendo conto della mancanza, nel nostro
sistema processuale, di una definizione univoca del concetto di «notizia di
reato» la cui introduzione sarebbe invece certamente opportuna); - pericoloso,
per l’evidente incertezza del dettato normativo, appare l’ancoraggio effettuato tra la
nozione di data in cui per la prima volta il nome dell’indagato risulta dalle
emergenze processuali e quella in cui deve essere effettuata l’iscrizione dello
stesso indagato nel registro delle notizie di reato. La persona successivamente indagata,
infatti, può in vario modo comparire in una fase assai iniziale delle indagini – ad
esempio quale persona informata sui fatti o come apparente persona offesa – e
poi solo dopo un lasso temporale assai considerevole – magari in esito a lunghe
operazioni di accertamento o per una successiva chiamata in correità – essere
considerato il presumibile autore del reato. In tali casi appare del tutto
evidente come l’assunzione tardiva di una simile consapevolezza da parte degli inquirenti, magari
in limine alla scadenza del termine per lo svolgimento delle indagini
preliminari, precluda ingiustificatamente la possibilità da parte del PM di
compiere, nella dovuta maniera, importanti attività investigative. Deve rilevarsi,
poi, come in caso di diversa valutazione del termine di decorrenza fra giudice
e PM vi sia il concreto pericolo che possano divenire inutilizzabili non solo
gli atti compiuti nel lasso temporale finale delle indagini, corrispondente al
periodo di differente valutazione, bensì anche tutti gli atti di indagine
svolti in una fase intermedia, laddove, come nella quasi totalità dei
procedimenti avviene, vi siano stati provvedimenti di proroga della durata
delle indagini preliminari. Il fine di favorire l’eliminazione di possibili
discrezionalità da parte del PM nella scelta del momento in cui procedere all’iscrizione
dell’indagato nel registro delle notizie di reato appare perseguito, pertanto,
a scapito della certezza interpretativa del dettato normativo, con possibili negative
ripercussioni processuali sia in sede di svolgimento di attività di indagine
che di utilizzabilità delle risultanze investigative acquisite; - fortemente
limitante, con ulteriore possibilità di frenare lo svolgimento delle attività di
indagine, è la disposizione che introduce la necessità di indicare, nella
richiesta di proroga delle indagini preliminari, «l’esposizione
dei motivi specifici che giustificano la richiesta sulla base delle indagini
svolte». Tale disposizione, da un lato pretende la presenza di ulteriori e ben circostanziati
elementi che possano giustificare il rilascio dell’autorizzazione
allo svolgimento di ulteriori indagini, così rendendo meno semplice l’emissione
del provvedimento autorizzatorio, mentre dall’altro lato, proprio al fine di favorire l’adozione
del provvedimento di accoglimento, sembra indurre il PM a pericolose discovery
delle risultanze processuali già acquisite, con conseguenti rischi di
pregiudizio dell’ancora espletanda attività investigativa; - nemmeno favorevole può essere il
giudizio sulla norma che introduce il principio per cui, nel caso di
trasmissione degli atti per competenza ad altra autorità giudiziaria, è
prevista la possibilità di svolgere le indagini, il cui termine sia già
scaduto, per soli ulteriori sei mesi. Tale disposizione, infatti, appare
eccessivamente penalizzante nei confronti dell’ufficio inquirente
successivamente dichiarato competente, perché esso, senza alcuna condotta a sé
imputabile, si vede privato della possibilità di svolgere un’attività
investigativa adeguata; - qualche perplessità suscita l’esplicita previsione
per i procedimenti a carico di ignoti di termini massimi di durata delle
indagini preliminari identici a quelli fissati per i procedimenti nei confronti
di indagati noti,
risolvendo in conformità al più recente dictum delle Sezioni Unite della
Cassazione (sentenza 28 marzo 2006 n. 13040) il risalente contrasto
giurisprudenziale sul punto. Sarebbe infatti opportuno, intervenendo in
materia, dettare una disciplina ad hoc, idonea a contemperare la necessaria
celerità della attività di indagine con le esigenze specifiche del procedimento
a carico di ignoti; - generica, infine, appare la norma che limita la
possibilità da parte del PM di ordinare che l'arrestato in flagranza sia posto
a sua disposizione ai soli casi in cui sussistano «specifici ed eccezionali
motivi di assoluta necessità». La mancanza di tassatività della previsione
normativa, infatti, impedisce di comprendere quando e in quali situazioni sia
rimessa al PM l’esercizio della indicata facoltà. ***** 10.
L’art. 8 del capo III («Disposizioni in materia di impugnazioni e di revisione
delle sentenze a seguito di condanna della Corte Europea dei diritti
dell’Uomo») reca disposizioni in materia di impugnazione e di revisione della sentenza. 10.1.
In particolare: - le lettere b e d disciplinano il nuovo istituto della “dichiarazione
di impugnazione”. La lett. b inserisce il nuovo art. 568 bis c.p.p., il quale
prevede che, salvo che sia stata pronunciata sentenza contumaciale, entro 3 giorni dalla
lettura del dispositivo il PM, l’imputato, il suo difensore e,
limitatamente agli effetti civili, la parte civile, che intendono proporre
impugnazione devono formulare, a pena di decadenza, specifica dichiarazione in
tal senso. La lett. d
modifica, di conseguenza, l’elenco dei casi di inammissibilità
dell’impugnazione previsti dall’art. 591 c.p.p., inserendovi anche la mancata
osservanza di quanto previsto dal nuovo art. 568-bis c.p.p.; - la lett. a
introduce nel comma 3 ter
dell’art. 544 una nuova modalità di redazione della sentenza, stabilendo
che se nessuna delle parti formula la dichiarazione di impugnazione la
motivazione della decisione si limita ad una concisa esposizione dei motivi di
fatto e di diritto su cui la decisione è fondata; - le modifiche di cui alle lettere c, f e h
eliminano la facoltà per l’imputato di redigere e presentare personalmente
ricorso per cassazione, imponendo al medesimo di ricorrere ad un avvocato
iscritto nell’albo dei patrocinanti in cassazione. Viene modificato, conseguentemente, l’art.
607, comma 1, c.p.p., stabilendo che l’imputato può proporre ricorso per
cassazione solamente tramite un difensore (lett. f), oltre che l’art. 613
c.p.p., disponendo che, in ogni caso, nel giudizio di cassazione l’atto
di ricorso, le memorie e i motivi nuovi devono essere sottoscritti, a pena di
inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della corte di
cassazione (lett. h). Si precisa, ancora, che la possibilità per l’imputato
di proporre impugnazione
personalmente o per mezzo di un procuratore speciale vale solo nei casi in cui
non sia diversamente previsto (lett. c). - la lett. e prevede che l’appello
debba essere deciso in camera di consiglio, oltre che nelle ipotesi elencate
nell’art. 599, comma
1, c.p.p., anche quando abbia esclusivamente ad oggetto la qualificazione
giuridica del fatto. - la lett. g disciplina diversamente da quanto attualmente
previsto la fattispecie della c.d. “inammissibilità originaria”
del ricorso per cassazione, e cioè le cause di inammissibilità esterne al contenuto dell’atto
impugnato. Essa introduce i nuovi commi 1 ter e 1 quater dell’art. 610 c.p.p.,
in cui sono elencati i casi in cui la Suprema Corte, sentito il Procuratore generale,
dichiara l’inammissibilità del ricorso senza bisogno di fissare previamente la camera di consiglio,
e cioè quando: e1) il ricorso è stato proposto dopo la scadenza del termine
stabilito; e2) il ricorso è assolutamente privo dei motivi di impugnazione; e3)
il ricorso non è sottoscritto da un difensore iscritto nell’albo
speciale della Corte di cassazione; e4) vi è rinunzia al ricorso; e5) il
ricorso é stato proposto contro una sentenza di applicazione della pena su
richiesta delle parti ed esso debba essere dichiarato inammissibile; - la lett. i prevede nel nuovo comma 1
bis dell’art. 618 c.p.p. un’ulteriore ipotesi di rimessione del ricorso alle
sezioni unite della Corte di cassazione per i casi in cui una sezione singola
della stessa Corte non intenda conformarsi al più recente principio di diritto con il quale le
sezioni unite hanno già risolto un contrasto tra sezioni singole. 10.2. La
disposizione dell’art. 8 di un maggiore impatto in termini
applicativi è certamente quella che introduce la “dichiarazione di
impugnazione”, con conseguente
previsione di una motivazione semplificata della sentenza in caso di mancata
proposizione della suddetta dichiarazione nel termine decadenziale di tre
giorni. L’indubbia finalità deflattiva posta base dell’istituto, ex se da
valutare in termini favorevoli,
sembra, tuttavia, avere spinto il legislatore all’adozione di un’opzione
processuale fonte di significativi dubbi applicativi. La circostanza che
l’impugnazione della sentenza venga rimessa alla decisione di una delle parti
nel ristretto termine di tre
giorni dalla lettura del dispositivo e senza la possibilità di conoscere il
percorso motivazionale sotteso alla decisione pone problemi di compatibilità
dell’istituto con il diritto di difesa e la corretta gestione del mandato
accusatorio. L'insicurezza
presumibilmente correlata all'obbligo di prendere una decisione “definitiva”
in un lasso temporale talmente esiguo, sull’emotività della appena avvenuta
lettura del dispositivo ed in assenza di un qualsivoglia parametro valutativo
che possa orientare sulle
ragioni di opportunità per cui impugnare (o meno) la sentenza, rendono agevole
la prognosi che la misura deflattiva così introdotta verrà in gran parte
disattesa, essendo probabile che possa verificarsi, quale opportuna cautela, un
ricorso costante alla proposizione di un immediato appello da parte del
soccombente. Addirittura è da ritenersi, proprio in antitesi alle finalità dell’istituto,
che in alcuni casi potrà optarsi per la proposizione di impugnazioni che,
all’esito di una ponderata ed attenta valutazione delle motivazioni della sentenza, potrebbero
altrimenti non essere avanzate. La modifica concernente l2eliminazione della
possibilità di ricorso personale per cassazione suscita, a sua volta,
perplessità. Essa, infatti, incide sull'esplicazione del diritto di difesa –
qualificato come «inviolabile in ogni stato e grado del procedimento» dall’art.
24, comma 2, Cost. – nello specifico ambito del processo penale. Il diritto di
difesa dell’imputato, infatti, nel vigente sistema processuale, si estrinseca attraverso la possibilità di
nomina di un difensore tecnico ovvero attraverso la predisposizione di una
difesa materiale o autodifesa da parte dello stesso imputato. Il richiamato
sistema bipolare di difesa trova rispondenza nella disciplina dettata dall'art.
6, comma 3, lett. c, della Convenzione EDU; la Convenzione europea
dei diritti dell’uomo attribuisce, invero, all’imputato la
possibilità di scegliere tra autodifesa e assistenza tecnica di un difensore,
privilegiando la prima delle richiamate facoltà. Conseguentemente, la eliminazione del diritto
dell'imputato di presentare personalmente il ricorso per cassazione appare non
in sintonia con il complessivo sistema multilivello di protezione dei diritti
di difesa emergente dalla richiamata normativa. Con riguardo, poi, alle
ulteriori innovazioni previste dalle norme dell’art. 8 un giudizio
certamente favorevole, in quanto misura idonea a snellire i lavori della
Suprema Corte, deve essere espresso con riferimento alla disposizione della
lett. g, che sancisce
la previsione di talune situazioni di immediata declaratoria di inammissibilità
del ricorso per cassazione, senza necessità di procedere nelle complesse forme
dell’udienza camerale. Lo stesso non è a dirsi, invece, con riferimento
alla disposizione che
autorizza il ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione nei casi in
cui una sezione non intenda conformarsi al più recente principio di diritto con
il quale le sezioni unite hanno già risolto un contrasto tra sezioni singole. L’indubbia
positiva conseguenza
che deriva all’espletamento della funzione nomofilattica
rischia, infatti, di determinare un pericoloso appesantimento dei lavori della
Suprema Corte. 11. L’art. 9 prevede l’introduzione di una nuova ipotesi di
revisione delle sentenze per i casi di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo
per violazione delle disposizioni di cui all’art. 6, paragrafo 3, della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali. La lett. a, pertanto, modifica l’art. 630 c.p.p., aggiungendo l’indicata
ipotesi a quelle per le quali il nostro ordinamento consente la revisione delle
sentenze definitive. La lett. b aggiunge all’art. 631 c.p.p. il nuovo comma 1
bis, secondo il quale la domanda di revisione in caso di condanna da parte della Corte europea dei
diritti dell’uomo è ammessa solo quando, al momento della sua presentazione, il
condannato si trovi in stato di detenzione o vi debba essere sottoposto in
virtù di un ordine di esecuzione, anche se sospeso, ovvero sia soggetto all’esecuzione
di una misura alternativa alla detenzione, diversa dalla pena pecuniaria. La
domanda di revisione deve essere dichiarata inammissibile dalla Corte di
appello, anche di ufficio, quando viene proposta dopo tre mesi dalla data in
cui la sentenza è
divenuta definitiva (lett. d). Ai sensi della disposizione transitoria di cui
all’art. 33, comma 4, del disegno di legge, la domanda di revisione delle
sentenze divenute definitive prima della data di entrata in vigore della legge
in esame deve essere
formulata, a pena di inammissibilità, entro 90 giorni dalla data di entrata in
vigore della legge stessa. Nella relazione al disegno di legge si evidenzia che
la norma di cui viene proposta l2introduzione risponde all2invito espresso
dalla Corte costituzionale (sent. n. 129 del 16 aprile
2008) che, in modo esplicito, ha sollecitato il legislatore nazionale a un
intervento normativo da effettuarsi secondo il modello revocatorio, ampliando i
casi di revisione, al fine di rispettare l2obbligo di conformarsi alle sentenze
definitive della Corte EDU, sancito a carico delle «Alte Parti contraenti» dall’art.
46 della Convenzione. Nel commentare l’introduzione della nuova ipotesi di
revisione, va osservato che la novella aggiunge, opportunamente, uno strumento
ad hoc a quelli già
presenti nel nostro sistema processuale tesi a consentire al giudice nazionale
l'adozione di misure di carattere individuale per emendare la specifica
violazione convenzionale accertata dalla Corte di Strasburgo (strumenti ai
quali lo stesso disegno di legge sembra fare riferimento allorché, nell’art.
10, introduce l’art. 201-bis disposizioni di attuazione e transitorie cpp,
rubricato «Adempimenti in caso di sentenza di condanna della Corte europea dei
diritti dell'uomo», che, nel secondo comma, prevede che «il Ministro della giustizia, ricevuta
la sentenza, ne dispone senza indugio la traduzione in lingua italiana e la
inoltra al procuratore generale presso la corte di
appello competente»). 12. L’art. 10 reca modifiche alle disposizioni
di attuazione, di
coordinamento e transitorie del codice di procedura penale. 12.1. In
particolare: - le lettere da a a d attenuano i poteri dei Procuratori generali
presso la Corte
di appello in materia di trasferimenti e di promozioni del personale delle sezioni
di polizia giudiziaria; - la lett. e prevede che gli atti inseriti in registri
diversi da quello delle notizie di reato debbano essere distrutti decorso un
periodo di tempo predeterminato (1 o 5 anni); - la lett. f dispone l’obbligo
per gli appartenenti
ai servizi di investigazione scientifica, che siano stati nominati consulenti
tecnici o periti, di versare il 30% del compenso percepito al servizio di
polizia giudiziaria di appartenenza; - la lett. g limita il potere del giudice
di disporre il trasferimento dell’arrestato o del fermato per
la comparizione davanti a sé esclusivamente ai casi in cui sussistano
eccezionali motivi di necessità ed urgenza; - la lett. h dispone che in tutte
le aule di udienza i banchi riservati alle parti debbano essere posti allo stesso livello di fronte
all’organo giudicante; - la lett. i prevede l’onere per il Presidente del
Consiglio dei ministri, nei casi di ricezione di una sentenza di condanna della
Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’art. 6, paragrafo 3, della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, di trasmettere copia autentica della
sentenza al Ministro della giustizia che, dispostane la traduzione, ne provvede
l’inoltre al Procuratore generale presso la Corte di appello competente. 12.2. Due delle disposizioni citate
meritano un commento. In primo luogo, la trasformazione da autorizzazione in
mero parere del sindacato espresso dal Procuratore generale o dal Procuratore
della Repubblica in sede di trasferimento, allontanamento o promozione del
personale delle sezioni di polizia giudiziaria o degli ufficiali posti a
dirigere i servizi di polizia giudiziaria completa il disegno di
controproducente separazione tra PM e polizia giudiziaria. Analogamente, la
disposizione della lett. e, che prevede l’obbligo di distruzione dopo
un anno degli atti inseriti in registri diversi da quello delle notizie di
reato (termine esteso a cinque anni con riguardo alle denunce o ai documenti
anonimi) è priva di utilità specifica e disfunzionale rispetto all'efficacia e all'efficienza dell’azione
investigativa coordinata dal PM, atteso che, favorendo una rapida distruzione
di tali tipologie di documenti, si contribuisce ad impedire che possano essere
svolti, magari dopo un certo lasso di tempo ed in esito a successive acquisizioni probatorie, anche
dei semplici accertamenti su notizie diverse da quelle iscritte nel registro di
cui all’art. 335 c.p.p., così determinando l’irrimediabile perdita di
documenti ipoteticamente passibili di importanti sviluppi processuali. 13. L’art. 11 modifica l’art.
2, comma 1, della legge 7 dicembre 1969, n. 742, stabilendo che la sospensione
dei termini processuali nel periodo feriale, compresi quelli stabiliti per la
fase delle indagini preliminari, non opera nei procedimenti relativi a imputati sottoposti a qualsiasi
tipo di misura cautelare personale (e non già solo, come attualmente previsto,
per gli imputati sottoposti alla custodia cautelare in carcere). Si tratta di
una innovazione da salutare con favore, in quanto finalizzata a ristabilire una
situazione di uguaglianza sostanziale tra le diverse ipotesi di sottoposizione
a misura cautelare personale, atteso che essa, per quanto esplicato nella
relazione illustrativa, tende a correggere «una disparità di trattamento
ingiustificata, nel segno della doverosa accelerazione del processo ogni
qualvolta sussista un sacrificio della libertà personale». Occorrerà, peraltro,
prestare attenzione alle ricadute pratiche che, soprattutto negli uffici
giudiziari con maggiori quantitativi di pendenze, deriveranno dall’applicazione
immediata della norma, considerato che la presenza anche di un solo indagato o
imputato sottoposto a misura coercitiva diversa da quella custodiale imporrà
una trattazione più rapida ed immediata del fascicolo processuale, con complicazioni nella gestione
dei ruoli di udienza e nella trattazione degli altri fascicoli processuali. 14.
L’art. 12, modificando l’art. 3, comma 5, della legge 11 dicembre 1984,
n. 839, dispone la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del testo integrale di tutte le sentenze della
Corte europea dei diritti dell’uomo che constatano, a carico dello
Stato italiano, la violazione di una o più disposizioni dell’art. 6, paragrafo
3, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Con tale norma si introduce una specifica forma di
pubblicità delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo
per violazione delle disposizioni di cui all’art. 6, paragrafo 3, della
Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il cui principale scopo
appare quello di consentire la concreta applicazione della nuova ipotesi di
revisione delle sentenze definitive prevista dall’art. 9 del disegno di
legge, alla cui norma, pertanto, la presente disposizione è strutturalmente correlata.». Il presente parere
viene trasmesso al Ministro della giustizia. _____________ (1) Il riferimento – come
si è già accennato – è all’art. 3, comma 1 lett. a, che riformula l’art. 55,
comma 1, c.p.p., attribuendo alla polizia giudiziaria l’esclusiva nella raccolta delle notizie di
reato; all’art. 3, comma 1 lett. d, che sostituisce il vigente art. 326 c.p.p.
con lo scopo di imporre al PM l’obbligo di assumere le determinazione inerenti
l’esercizio dell’azione penale tenendo conto anche dei risultati delle indagini di polizia
giudiziaria; all’art. 3, comma 1 lett. e, che modifica l’art. 330
c.p.p. – che disciplina l’acquisizione delle notizie di reato – privando il PM
di prendere notizia dei reati di propria iniziativa e attribuendo tale attività
in via esclusiva alla
polizia giudiziaria; all’art. 3, comma 1 lett. f, n. 1, che modifica
l’art. 335 c.p.p., in materia di registro delle notizie di reato, eliminando il
riferimento al potere del PM di iscrivere in tale registro le notizie di reato
che egli abbia
acquisito di propria iniziativa; all’art. 3, comma 2, che
modifica, conseguentemente, l’art. 12 D.Lgs. 274/2000, eliminando il
riferimento al potere del PM di prendere direttamente notizia di un reato di
competenza del giudice di pace. Commenta | Stampa | Segnala | Condividi |
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( da "AltaLex" del
27-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Tutela penale, differenti
discipline, legittimità, precisazioni Corte Costituzionale , sentenza
14.07.2009 n° 217 Stampa | Segnala | Condividi La separazione dell’azione
civile dal processo penale non può essere considerata come evoluzione o
menomazione del
diritto di tutela giurisdizionale, costituendone una modalità che generalmente
è alternativa, ma che il legislatore, nell’ambito del suo potere
discrezionale, può scegliere come esclusiva in vista di altri interessi da
tutelare come quello della speditezza del processo penale e che l’autonomo
esercizio dell’azione di restituzione o risarcitoria nel processo civile non
comprime il diritto di difesa, il quale potrà essere esercitato secondo le
regole generali del codice di procedura civile. (Fonte: Altalex Massimario 29/2009. Cfr. nota di
Adolfo Liarò) | tutela penale | Corte Costituzionale Sentenza 14 luglio 2009,
n. 217 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: - Francesco AMIRANTE Presidente - Ugo DE SIERVO Giudice -
Paolo MADDALENA “ - Alfio FINOCCHIARO “ - Alfonso QUARANTA “ -
Franco GALLO “ - Luigi MAZZELLA “ - Gaetano SILVESTRI “ - Sabino CASSESE “ -
Maria Rita SAULLE “ - Giuseppe TESAURO “ - Paolo Maria NAPOLITANO “ - Giuseppe
FRIGO “ - Alessandro CRISCUOLO
“ - Paolo GROSSI “ ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di
legittimità costituzionale degli artt. 420-ter, comma 5, e 484, comma
2-bis, del codice di procedura penale promosso dal Tribunale di Brindisi,
sezione distaccata di Francavilla Fontana, nel procedimento penale a carico di
S. M., con ordinanza del 2 ottobre 2008, iscritta al n. 24 del registro
ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6,
prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri; udito nella camera di consiglio del 10 giugno 2009 il Giudice
relatore Alessandro Criscuolo. Ritenuto in fatto 1.— Il
Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Francavilla Fontana, con ordinanza
del 2 ottobre 2008, ha sollevato
questione di legittimità costituzionale, in
riferimento agli articoli 3, 24, primo e secondo comma, e 111, secondo comma,
della Costituzione, dell’art. 420-ter, comma 5, e dell’art. 484, comma
2-bis, del codice di procedura penale nella parte in cui «non consentono al giudice del dibattimento
di rinviare ad una nuova udienza nel caso in cui l’assenza
del difensore della costituita parte civile sia dovuta ad assoluta
impossibilità di comparire per legittimo impedimento prontamente comunicato». Il rimettente premette di
essere chiamato a decidere in un procedimento penale a carico di S. M.,
imputato del delitto di cui all’art. 570 codice penale (violazione degli
obblighi di assistenza familiare), in relazione al quale, in data 5 giugno 2007, il difensore della costituita
parte civile P. M. ha depositato in cancelleria un certificato medico, datato 4
giugno 2007, attestante condizioni di salute incompatibili con la sua
comparizione per l’udienza del 7 giugno 2007. Il giudice a quo
riferisce che all’udienza
del 7 giugno 2007 non ha accolto la richiesta di differimento dell’udienza, in
forza del combinato disposto degli artt. 420-ter, comma 5, e 484, comma 2-bis,
cod. proc. pen., in quanto dette norme riservano il diritto di differimento
dell’udienza in caso di
legittimo impedimento, prontamente comunicato, soltanto al difensore dell’imputato,
sicché, nella medesima udienza, ai sensi dell’art. 519 cod. proc. pen., ha
provveduto all’ammissione di prove testimoniali richieste dall’imputato a seguito di contestazione suppletiva.
Precisa, inoltre, che all’udienza dell’8 maggio 2008 il difensore della
parte civile ha eccepito, ai sensi dell’art. 180 cod. proc. pen., la nullità
dell’ordinanza con la quale il giudicante ha respinto la richiesta di rinvio dell’udienza del 7 giugno 2007 e del
provvedimento di ammissione delle nuove prove richieste dall’imputato,
per violazione dell’art. 178, lett. c), cod. proc. pen., ovvero per
inosservanza delle disposizioni concernenti l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza della parte civile
costituita; in particolare, il difensore della parte civile ha eccepito che l’ordinanza
di ammissione delle prove richieste dall’imputato, a seguito della
contestazione suppletiva, è stata pronunziata nonostante la sua assenza, dovuta ad impedimento assoluto,
prontamente comunicato e, quindi, senza alcun contraddittorio con una delle
parti del processo. Il giudice rimettente prospetta la violazione degli artt.
3, 24, primo e secondo comma, e 111, secondo comma, Cost. ritenendo, in punto di
rilevanza della questione, che l’eccezione di nullità e, quindi, il
giudizio non possono essere definiti indipendentemente dalla risoluzione della
questione di costituzionalità in esame, giacché l’incostituzionalità degli
artt. 420-ter, comma 5
e 484, comma 2-bis, «nei termini prospettati dal difensore della parte civile
imporrebbe al decidente di accogliere l’eccezione di nullità». Pone
in evidenza il rimettente che la questione appare non manifestamente infondata,
in quanto «la mancata estensione
da parte del combinato disposto degli articoli 420-ter comma 5, e 484 comma
2-bis, cod. proc. pen. al difensore della parte civile dell’istituto
del rinvio dell’udienza in caso di mancata comparizione, quanto meno quando la
stessa sia dovuta, come nel
caso in esame, ad impossibilità assoluta per forza maggiore sembra contrastare»
con il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., con quello
della parità delle parti nel processo di cui al secondo comma dell’art. 111
Cost. e con il principio di inviolabilità della difesa di cui ai commi primo e secondo dell’art.
24 Cost. L’omessa previsione contrasterebbe, secondo il rimettente, con il
principio di uguaglianza, «stante l’irragionevole discriminazione operata tra
il difensore dell’imputato ed il difensore della parte civile che vengono a trovarsi nella
medesima situazione incolpevole»; con il principio della parità delle parti nel
processo, «stante l’attribuzione del diritto al differimento
dell’udienza al difensore di una delle parti del processo penale e la negazione di tale
identico diritto al difensore della parte civile che si trova nella medesima
situazione»; inoltre, con il principio della inviolabilità della difesa,
«sicuramente applicabile anche alla persona offesa dal reato in relazione alle
sue pretese civilistiche: diritto la cui effettività sarebbe vulnerata dallo
svolgimento di attività processuale nella quale l’imputato ed il suo
difensore possono svolgere la loro difesa in assenza della parte civile e del
suo difensore impossibilitato a presenziare per forza maggiore». 2. — Con atto depositato
in data 3 marzo 2009, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha
eccepito la manifesta irrilevanza della questione. La difesa erariale ha evidenziato che la
questione sollevata dal rimettente, «al fine di operare una corretta disamina
del caso oggetto di cognizione», deve essere affrontata nella «appropriata e
diversa sede normativa dell’art. 519 cod. proc. pen., con particolare riguardo al
comma 3 della norma medesima». Osserva che la citata disposizione, in caso di
contestazione suppletiva, effettuata ai sensi degli artt. 516, 517 e 518 cod.
proc. pen., nelle previsioni di cui ai commi 1 e 2, impone al giudice di
concedere termini per la difesa e di sospendere il dibattimento, se l’imputato
ne faccia richiesta; inoltre, il comma 3 prevede che il presidente dispone la
citazione della persona offesa osservando un termine non inferiore a cinque
giorni. L’Avvocatura
ritiene che «secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata
della norma processuale in esame, una volta che lo stesso ordinamento
processuale contempla la possibilità che dopo l’apertura del dibattimento i
fatti di reato per cui si procede vengano integrati e ridefiniti e, dunque, che il processo
conosca nuovi sviluppi, sarebbe illogico e contraddittorio –
rispetto a questi ultimi – impedire ai soggetti coinvolti l’esercizio dei loro
fondamentali diritti di ordine processuale». La difesa pubblica indica alcune decisioni della
Corte costituzionale con cui è stata riconosciuta la
facoltà dell’imputato di richiedere il “patteggiamento” (sentenza n. 265 del 1994)
e di proporre domanda di oblazione (sentenza n. 530 del 1995), ma anche la
facoltà del pubblico
ministero e delle parti private diverse dall’imputato di chiedere
l’ammissione di nuove prove in relazione alle contestazioni introdotte in via
suppletiva (sentenze n. 50 del 1995 e n. 241 del 1992); inoltre, evidenzia che
la possibilità di chiedere
l’ammissione di nuove prove sussiste a prescindere dalla circostanza
che la contestazione suppletiva abbia ad oggetto un fatto – reato già
risultante dagli atti prima dell’inizio del dibattimento o al momento
dell’esercizio dell’azione penale o, ancora, un fatto emerso successivamente nel corso dell’istruzione
dibattimentale. L’interveniente indica, altresì, la giurisprudenza della Corte
di cassazione secondo cui, in caso di contestazioni suppletive formulate ai
sensi degli artt. 516, 517 e 518 cod. proc. pen., la parte offesa, ancorché presente, ha diritto
anch’essa, come l’imputato, alla sospensione del dibattimento, onde
potersi costituire parte civile per la nuova udienza. Analogo diritto spetta
anche alla parte civile già costituita, in vista della possibile modifica, sotto il
profilo tanto della causa petendi, quanto del petitum dei già costituiti
rapporti processuali (Cass., sentenze n. 12732 del 2000 e n. 10660 del 1995). L’Avvocatura
sostiene, dunque, che nel caso di specie difetta il nesso di pregiudizialità che deve
necessariamente sussistere tra la soluzione della questione e la decisione del
giudizio principale, e ciò in quanto «l’eccezione di nullità
sollevata nel giudizio a quo», essendo «riconducibile esclusivamente alla mera
inosservanza della
disposizione di cui all’art. 519, comma 3, cod. proc. pen. è
suscettibile di essere decisa indipendentemente dalla risoluzione della
questione di legittimità
costituzionale sollevata dal giudice a quo».
Considerato in diritto 1.— Il Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di
Francavilla Fontana, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della
legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, primo e
secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dell’art.
420-ter, comma 5, e
dell’art. 484, comma 2-bis, del codice di procedura penale nella parte in
cui «non consentono al giudice del dibattimento di rinviare ad una nuova
udienza nel caso in cui l’assenza del difensore della costituita parte civile
sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento prontamente
comunicato». Il rimettente, chiamato a decidere in un procedimento penale a
carico di S. M., imputato del delitto di violazione degli obblighi di
assistenza familiare, in relazione al quale, in data 5 giugno 2007, il
difensore della costituita parte civile P. M. ha prodotto un certificato
medico, datato 4 giugno 2007, attestante condizioni di salute incompatibili con
la sua comparizione per l’udienza del 7 giugno 2007, osserva che
all’udienza indicata
ha respinto la richiesta di differimento in forza del combinato disposto degli
articoli 420-ter, comma 5, e 484, comma 2-bis, cod. proc. pen., che riserva il
diritto di differimento dell’udienza, in caso di legittimo
impedimento prontamente comunicato, soltanto al difensore dell’imputato; pertanto,
all’udienza del 7 giugno 2007, ai sensi dell’art. 519 cod. proc. pen., ha
provveduto all’ammissione delle prove testimoniali richieste dall’imputato a
seguito di contestazione suppletiva. Sussisterebbe, secondo il giudice a quo, la violazione
degli artt. 3, 24, primo e secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., in
quanto l’omessa previsione del diritto del difensore della parte civile al
differimento dell’udienza,
in caso di impedimento legittimo, prontamente comunicato, violerebbe il principio di uguaglianza,
«stante l’irragionevole discriminazione operata tra il difensore dell’imputato
ed il difensore della parte civile che vengono a trovarsi nella medesima
situazione incolpevole»; il principio della inviolabilità della difesa, «sicuramente
applicabile anche alla persona offesa dal reato in relazione alle sue pretese
civilistiche: diritto la cui effettività sarebbe vulnerata dallo svolgimento di
attività processuale nella quale l’imputato ed il suo difensore
possono svolgere la
loro difesa in assenza della parte civile e del suo difensore impossibilitato a
presenziare per forza maggiore»; inoltre, sarebbe in contrasto con il principio
della parità delle parti nel processo, «stante l’attribuzione del
diritto al differimento
dell’udienza al difensore di una delle parti del processo penale e la
negazione di tale identico diritto al difensore della parte civile che si trova
nella medesima situazione». E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del
Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha
eccepito la manifesta irrilevanza della questione in considerazione del difetto
del nesso di pregiudizialità che deve sussistere tra la soluzione della
questione e la decisione del giudizio principale. 2.— L’eccezione di inammissibilità per
manifesta irrilevanza, sollevata dall’Avvocatura dello Stato, non è fondata.
Essa si richiama ad una situazione processuale diversa da quella descritta
nell’ordinanza di rimessione, ossia alla situazione in cui, a seguito di nuove contestazioni
(artt. 516 e seguenti, cod. proc. pen.), il presidente debba disporre la
citazione della persona offesa (art. 178, lett. c, cod. proc. pen.), osservando
un termine non inferiore a cinque giorni (art. 519, comma 3, cod. proc. pen.).
Ma il difensore della parte civile non fa valere, a quanto risulta dall’ordinanza
di rimessione, la violazione di diritti processuali inerenti alla contestazione
suppletiva. Si duole, invece, di una diversa (presunta) violazione, correlata al mancato rinvio dell’udienza
per il dedotto suo impedimento a parteciparvi. Pertanto, non è ravvisabile la
carenza del nesso di pregiudizialità tra la soluzione della questione e la
decisione del giudizio principale, nei termini prospettati dall’Avvocatura dello Stato. La difesa
erariale omette, inoltre, di adempiere all’onere di indicare
circostanze a riscontro di ciò che sostiene, in quanto non fornisce elementi
idonei a dimostrare che l’udienza nella quale il pubblico ministero ha
formulato la contestazione
suppletiva sia stata la stessa cui il difensore di parte civile non ha potuto
partecipare, per impedimento legittimo. Posto, infatti, che l’obbligo
per il giudice, sanzionato a pena di nullità dal comma 3 dell’art. 519 cod.
proc. pen., di concedere
il termine in caso di contestazione suppletiva, anche in favore della persona
offesa e della parte civile, è immediatamente collegato alla formulazione della
contestazione stessa, soltanto qualora la nuova contestazione fosse stata
formulata all’udienza alla quale il difensore della parte civile è stato
nella impossibilità di partecipare, il giudice a quo avrebbe potuto decidere l’eccezione
di nullità ricorrendo alla disposizione menzionata (art. 519, comma 3, cod.
proc. pen.). 3.— Nel merito, la questione non è fondata. Si deve premettere che il codice di
procedura penale del 1988, introducendo nell’ordinamento il processo
penale di tipo accusatorio, ha comportato significativi riflessi sui rapporti
tra processo penale ed azione civile, ispirati non più – come accadeva nel
previgente sistema processuale penale di tipo inquisitorio – alla prevalenza
del processo penale su quello civile e amministrativo, quanto, piuttosto, alla
separazione dei giudizi ed alla indipendenza del giudizio civile e amministrativo da quello penale. L’intero
corpo normativo processuale risulta, infatti, strutturato sulla diversità delle
posizioni processuali della parte civile e dell’imputato, in particolare, sul
carattere accessorio, subordinato ed eventuale dell’azione civile rispetto al processo penale; si
tratta di disposizioni che delineano una netta diversificazione dei diritti e
dei poteri processuali attribuiti alla parte civile ed all’imputato,
costituenti, dunque, situazioni soggettive non omologabili. La non equiparabilità delle posizioni soggettive in
questione e il favor separationis tra azione civile ed azione penale è alla
base della più volte affermata non irragionevolezza della scelta del
legislatore, nei casi in cui non ha esteso anche alla parte civile facoltà e
diritti attribuiti in via esclusiva all’imputato ed in quelli in cui
non ha riconosciuto autonomi diritti e facoltà alla parte civile. Questa Corte,
infatti, non ha ritenuto discriminatoria la scelta del legislatore di
consentire soltanto all’imputato ed al pubblico ministero di formulare la richiesta di
rimessione del processo (sentenza n. 168 del 2006); né ha ritenuto
irragionevole il mancato riconoscimento alla parte civile del diritto di
impugnare il provvedimento con il quale la sua istanza di sequestro
conservativo sia stata respinta (ordinanza n. 424 del 1998); anzi, ha affermato
la ragionevolezza del comma 2 dell’art. 495 cod. proc. pen.,
nella parte in cui attribuisce soltanto all’imputato ed al pubblico ministero,
e non anche alla parte civile, il diritto alla prova contraria (sentenza n. 532 del 1995).
Inoltre, la Corte,
già sotto la vigenza del codice di procedura penale del 1930, ha ritenuto la
portata non discriminatoria dell’art.175 cod. proc. pen., nella parte in
cui non prevedeva, in tema di notificazioni, l’obbligo di disporre le ricerche del danneggiato
nei luoghi di nascita e di ultima dimora, così come era previsto per l’imputato
(sentenza n. 187 del 1972). La
Corte, dunque, tutte le volte in cui è stata chiamata a
decidere sui rapporti tra
azione civile e azione penale, ha costantemente affermato il principio per cui
«imputato e parte civile esprimono due entità soggettive fortemente
diversificate, non solo sul piano del differente risalto degli interessi
coinvolti, ma anche e soprattutto per l’impossibilità di configurare
in capo ad essi un paradigma di par condicio valido come regola generale su cui
conformare i relativi diritti e poteri processuali. Questa Corte, d’altra
parte, ha costantemente avuto modo di affermare che le differenze di “trattamento
processuale” tra le parti sono legittime, sempre che abbiano una loro
ragionevole base all’interno del sistema processuale. Se ciò vale per le parti
necessarie del processo, a fortiori è possibile tracciare un ragionevole
discrimen in riferimento
alle parti eventuali: specie nelle ipotesi in cui – come
nel caso della parte civile nel processo penale – sia assicurato un diretto ed
incondizionato ristoro dei propri diritti attraverso l’azione sempre
esercitabile in sede propria» (sentenza n. 168 del 2006). Si deve, inoltre, ribadire che la Corte, nel legittimare la
differenza del trattamento processuale, nei termini indicati, ha, al contempo,
affermato che l’eventuale impossibilità per il danneggiato di
partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul diritto di difesa e sulla parità
delle parti, data la possibilità di esercitare l’azione di risarcimento
del danno nella sede civile ed anche, atteso il carattere accessorio e
subordinato dell’azione civile, in considerazione della facoltà del danneggiato dal reato
di scegliere di far valere i propri diritti nella sede propria oppure in quella
penale dopo aver effettuato una valutazione comparativa dei relativi vantaggi
(sentenza n. 168 del 2006; ordinanza n. 124 del 1999). Ciò premesso, le
argomentazioni del rimettente in ordine all’omessa estensione del
diritto del differimento dell’udienza anche al difensore della parte civile,
non sono idonee a superare le considerazioni sopra richiamate, che debbono
essere qui ribadite, con la conseguenza che le norme denunziate si sottraggono alle censure mosse
con riferimento agli artt. 3, 24, primo e secondo comma, e 111, secondo comma,
Cost. Anche con riferimento alla diversità della disciplina concernente l’impedimento
del difensore dell’imputato
e di quello di parte civile, non può non venire in rilievo, ancora una volta,
la eterogeneità delle posizioni processuali nel cui interesse il difensore
compie e riceve tutti gli atti del procedimento. La scelta del legislatore di
non estendere anche al difensore della parte civile il diritto al differimento
dell’udienza non è, dunque, irragionevole, e ciò in quanto il differente
rilievo degli interessi di cui l’imputato e la parte civile sono portatori, e
la diversa natura degli scopi perseguiti, si riflettono anche sulla disciplina prevista in relazione
al diritto di partecipazione al processo e, quindi, alla presenza del
difensore. La non irragionevolezza della disposizione censurata deve essere
affermata anche in considerazione di altri interessi da tutelare, quale quello
della speditezza del processo penale, interesse che, evidentemente, il
legislatore non ha inteso compromettere attraverso la previsione del diritto al
rinvio anche per il difensore della parte civile, dovendo attribuirsi precipuo rilievo
al dato che nel processo penale l’imputato è soggetto
direttamente coinvolto, mentre la parte civile sceglie, liberamente, di far
valere le proprie pretese civili in esso, anziché in sede civile. In tal senso
è significativa la sentenza n. 39369 del 2 ottobre 2008 della Corte di cassazione che, nell’escludere
la possibilità di estendere l’applicazione dell’articolo 420-ter cod. proc.
pen. al difensore della parte civile, ha affermato che la diversità di
disciplina non appare irragionevole, in considerazione dei plurimi strumenti presenti nell’ordinamento
per chi chiede la tutela dei propri interessi civili in una valutazione
comparativa con l’interesse alla speditezza processuale. Con tale pronunzia la Corte di cassazione ha
ribadito quanto già espresso
da questa Corte nella sentenza n. 433 del 1977, secondo cui «la separazione
dell’azione civile dal processo penale non può essere considerata come
evoluzione o menomazione del diritto di tutela giurisdizionale, costituendone
una modalità che generalmente è alternativa, ma che il legislatore, nell’ambito
del suo potere discrezionale, può scegliere come esclusiva in vista di altri
interessi da tutelare come quello della speditezza del processo penale e che
l’autonomo esercizio dell’azione di restituzione o risarcitoria nel processo civile non comprime il
diritto di difesa, il quale potrà essere esercitato secondo le regole generali
del codice di procedura civile». Con riferimento alla violazione dell’art.
24 Cost., sotto il profilo per cui l’effettività del diritto di difesa della parte
civile sarebbe vulnerata dallo svolgimento di attività processuale nella quale
l’imputato ed il suo difensore possono svolgere la loro difesa, in
assenza della parte civile e del suo difensore, si deve rilevare che tale lesione non sussiste. Ciò non solo
perché ben può il difensore legittimamente impedito nominare un sostituto, il
quale esercita i diritti e assume i doveri del difensore ai sensi dell’art.
102 cod. proc. pen., ma anche perché, come più volte affermato da questa Corte, l’esercizio
dell’azione civile per il risarcimento del danno nel processo penale non
rappresenta l’unico strumento di tutela giudiziaria a disposizione della parte
civile «per l’esistenza di validi e praticabili percorsi giudiziari alternativi
nella piena
disponibilità del danneggiato (azione risarcitoria davanti al giudice civile)»
(ordinanze n. 562 del 2000 e n. 424 del 1998). Le considerazioni esposte
conducono, altresì, ad escludere la violazione del secondo comma dell’articolo
111 Cost., in particolare,
del principio della parità delle parti, atteso che la previsione della facoltà
prevista in capo alla parte civile di trasferire, in qualsiasi momento, l’azione
per il risarcimento del danno derivante dal reato nella sede civile, esclude di
regola pregiudizi agli
interessi di cui è portatrice. In conclusione, la questione di legittimità costituzionale, sollevata con l’ordinanza
indicata in epigrafe, deve essere dichiarata non fondata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art.
420-ter, comma 5, e dell’art. 484, comma 2-bis, del codice di procedura penale,
sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, primo e secondo comma, e 111,
secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Brindisi, sezione distaccata di Francavilla
Fontana, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in
Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8
luglio 2009. F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente Alessandro CRISCUOLO, Redattore Giuseppe DI
PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2009. Stampa |
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( da "Stampa, La" del
28-07-2009)
Argomenti: Giustizia
DOPO
LA SENTENZA DELLA
CORTE COSTITUZIONALE SUI DOCENTI TRA 72 E 74 ANNI Prof reintegrati in
Università scatta la rivolta dei precari
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( da "Stampa, La" del
28-07-2009)
Argomenti: Giustizia
«I baroni rientrano
dalla finestra e per noi non c'è nessuna speranza» [FIRMA]ANDREA
ROSSI Ora che la
Corte Costituzionale ha stabilito che i docenti "fuori
ruolo" mandati in pensione prima del tempo vanno reintegrati la rivolta
dei precari è scattata in un amen. «I baroni escono dalla porta e rientrano
dalla finestra; noi usciamo e basta». All'inizio del prossimo anno accademico
una trentina di professori tra 72 e 74 anni rientreranno in servizio (alcuni,
per effetto di una serie di sentenze del Tar sono già tornati al loro posto) e
contribuiranno a zavorrare le casse dell'ateneo. Sempre a inizio anno
scatteranno i pensionamenti dei docenti di 70 anni (89, altri 79 se ne andranno
a novembre del 2010). Un paradosso: il possibile risparmio, privandosi dei
professori settantenni, sarà in parte eroso dal rientro dei 74enni. Senza
contare che molti pensionandi in realtà continueranno a lavorare in università,
avendo già accettato un bienni di collaborazione a 20 mila euro l'anno. Il
coordinamento dei precari, dopo la sentenza della Consulta, ha calcolato il
bilancio di quest'operazione: nel 2006-2007 i contratti di collaborazione da
20mila euro per i professori in pensione sono costati all'ateneo di via Po 280
mila euro, lievitati a 540 mila l'anno successivo. Nell'anno accademico che sta
per finire la spesa è crescita a 656 mila euro. Nulla in confronto a quel che
succederà da novembre: molti di coloro che andranno in pensione hanno già
ottenuto il biennio aggiuntivo con cui l'Università intende non disperdere il
patrimonio di sapere e mantenere in vita i progetti di ricerca avviati da
questi docenti. «Di questo passo, però, per noi non ci sarà mai spazio»,
spiegano dal Coordinamento. La spesa per i contratti di collaborazione è
destinata a crescere, ma non per tutti. «A molti precari, che facevano docenza
a contratto, hanno offerto un contratto simbolico da 50 euro. E ne sborsano
20mila per tenere agganciati quelli che vanno in pensione».
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( da "Stampa, La" del
28-07-2009)
Argomenti: Giustizia
ALTRO RICORSO
Comunità montane in attesa di verdetto Si deciderà nei tribunali il futuro
delle comunità montane. Il Tar la scorsa settimana aveva sospeso la legge
regionale del 2008 sugli accorpamenti, accogliendo la richiesta della Comunità
Montana Alta Valle Susa. Secondo i giudici, era da tenere in considerazione il
rilievo mosso dall'ente valsusino sulla Finanziaria 2008, la quale imponeva
alle Regioni di determinare gli accorpamenti, norma considerata incostituzionale in quanto la legislazione sulle comunità
montane sarebbe materia esclusiva delle Regioni. Una tesi
accolta dalla Corte costituzionale, che a sua volta si è pronunciata a favore dei ricorsi
presentati dalle amministrazioni regionali di Toscana e Veneto contro la Finanziaria 2008.
Nell'incontro di ieri a Torino, fra Regione e Uncem, è stato annunciato che «la Regione farà ricorso al
Consiglio di Stato contro l'ordinanza del Tar che ha sospeso la legge sulle
comunità montane. Confidiamo in un esito favorevole dopo la sentenza
della Corte Costituzionale, che fa cadere molti dei presupposti della
sospensiva del Tar». La
Consulta ha anche annullato il comma che stabiliva il
parametro dei 600 metri
di altitudine stabilito in Finanziaria, con il quale si individuavano le
comunità da considerarsi effettivamente montane. Applicato in provincia,
avrebbe lasciato «in vita» solo la Valli Borbera e Spinti. La Regione vuole quindi
proseguire nell'accorpamento: a breve, con la decadenza di giunte e consigli, i
presidenti delle comunità montane diventeranno commissari. In provincia, da 4
si passerà a 2 comunità con l'unione tra Valli Borbera e Spinti e Valli Curone,
Grue, Ossona da una parte e Alta Val Lemme Alto Ovadese e Suol D'Aleramo.
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La Camera pronta a salvare
Matteoli (sezione: Giustizia)
( da "Unita, L'" del
28-07-2009)
Argomenti: Giustizia
La Camera pronta a «salvare» Matteoli C.FUS.
C'era una volta un rinvio a giudizio a carico del ministro Matteoli per
favoreggiamento. C'era una volta. E da oggi non ci sarà più. Per due motivi.
Perchè stamani la Giunta
delle autorizzazioni della Camera, presieduta da Pierluigi Castagnetti (Pd),
negherà l'autorizzazione a carico del ministro delle Infrastrutture pur non
essendo ancora stata ufficialmente investita del problema. Nel frattempo, il
processo, tuttora pendente al Tribunale dei ministri di Firenze e a quello
ordinario di Livorno, andrà presto in prescrizione. Forse già in agosto. E chi
s'è visto s'è visto. La vicenda è molto tecnica, balla dal 2004, ha coinvolto il
tribunale di Livorno, dove nasce, il tribunale dei ministri di Firenze, dove
approda in un primo momento, è rimbalzata alla Camera già due legislature fa e
poi alla Corte Costituzionale. Intanto il tempo è passato e
una cosa è certa: il ministro Matteoli non sarà mai processato per quei fatti.
Che sono questi. Nel 2004 l'allora
ministro dell'Ambiente Altero Matteoli fu rinviato a giudizio a Livorno,
sezione di Cecina, per favoreggiamento poichè aveva avvisato il prefetto di
Livorno di essere a sua volta indagato per una storia di abusi edilizi
all'isola d'Elba. Matteoli fece di tutto per dimostrare di aver commesso il
reato nell'esercizio delle proprie funzioni ministeriali e quindi di dover
avere l'autorizzazione a procedere della Camera al giudizio. Il punto è che il
tribunale di Livorno ha sempre sostenuto che spifferare al prefetto di essere
indagato non c'entrava nulla con l'esercizio delle proprie funzioni. Comunque,
il fascicolo da allora ha cominciato a transitare da Livorno a Firenze a Roma.
Ha costretto la Consulta
a pronunciarsi spaccandosi come una mela. E' stato perso un sacco di tempo.
Oggi la giunta della Camera dirà no al processo. Anche se nessuno, in realtà,
glielo ha ancora chiesto. In barba a regole e leggi. E la vicenda, complici i
tempi della precrizione, sarà chiusa per sempre. Si chiude oggi la vicenda
processuale del ministro Matteoli. A giudizio per favoreggiamento dal 2004, il
processo non è mai stato celebrato. Oggi la Giunta delle autorizzazioni della Camera dirà no
al giudizio.
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Congo,
l'Alta corte proclama eletto il contestato Nguesso La Corte costituzionale del... (sezione: Giustizia)
( da "Unita, L'" del
28-07-2009)
Argomenti: Giustizia
In pillole A Gaza
Hamas ordina il velo alle donne avvocato Il movimento radicale islamico Hamas
che governa la Striscia
di Gaza dal 2007 ha
imposto a tutte le donne avvocato delle corti di giustizia di vestirsi di
colori scuri e coprirsi la testa con il velo. Bill Gates dà addio a Facebook
«Troppe richieste d'amicizia» Esasperato Bill Gates lascia Facebook. «Avevo 10
mila persone che volevano diventare mie amiche», ha riferito il fondatore della
Microsoft. Ha definito «troppo problematico» gestire il suo profilo. Congo, l'Alta corte proclama eletto il contestato
Nguesso La Corte
costituzionale del Congo ha proclamato Dinis Sassou Nguesso presidente. La Corte, presieduta da Gerard
Bitsindou, ha respinto il ricorso delle opposizioni che avevano denunciato
brogli diffusi nel voto del 12 luglio.
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( da "AltaLex" del
28-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Beni demaniali e
responsabilità della Pubblica Amministrazione Cassazione civile , sez. III,
sentenza 09.04.2009 n° 8692 Commenta | Stampa | Segnala | Condividi La sentenza
della Suprema Corte di Cassazione del 9 aprile 2009, n. 8692 si inserisce nell’ambito di una discussione dottrinale
molto sentita dati i suoi immediati risvolti pratici. Infatti il principio di
diritto enunciato definisce gli oneri probatori gravanti su ciascuna parte in
materia di insidia e trabocchetto, nel caso di danno provocato da un’anomalia
di un bene demaniale. Il caso in questione riguarda la richiesta di
risarcimento avanzata dal ricorrente nei confronti della regione Piemonte, a
seguito dei danni subiti dal suo motoscafo durante la navigazione sul lago
Maggiore, per l’impatto con
rocce semiaffioranti presenti sul fondale e non segnalate dalle carte nautiche.
La particolarità delle condizioni in cui si è verificato l’incidente,
vale a dire nei pressi di un bene demaniale di grande estensione con
conseguente impossibilità di esercitare un effettivo potere di controllo e vigilanza, ha
fatto sì che la norma posta a fondamento della richiesta di risarcimento fosse
l’art. 2043 c.c. e non il più specifico art. 2051 c.c. In particolare
il ricorrente, pur avendo dimostrato l’esistenza di un’insidia e il nesso
causale tra tale anomalia e il danno subito, ha visto rifiutare la propria
richiesta risarcitoria prima dal Tribunale di Verbania e successivamente dalla
Corte d’ Appello di Torino, per non aver assolto l’onere della prova in ordine
al comportamento
colposamente omissivo della Regione nell’indicare puntualmente i dati
necessari ad una sicura navigazione lacuale. Ricorrendo in Corte di Cassazione
il danneggiato ha invece affermato che condizione necessaria e sufficiente per
la declaratoria di
responsabilità ex art. 2043 c.c. è la sola prova dell’esistenza
dell’insidia, da lui ampiamente dimostrata. I giudici di legittimità hanno
giudicato motivato il ricorso, cassando con rinvio la decisione di secondo
grado, asserendo innanzitutto che l’art. 2043 c.c. non limita ai soli casi di
insidia e trabocchetto la responsabilità della pubblica amministrazione;
inoltre il principio di diritto al quale il giudice di rinvio dovrà attenersi
sancisce che graverà sul danneggiato il solo onere di provare l’anomalia del bene
demaniale, che costituisce fatto di per sé idoneo a configurare un
comportamento colposo della P.A., sulla quale ricade conseguentemente l’onere
della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità, quali la
possibilità che l’utente
si sia trovato nella possibilità di percepire o prevedere con l’ordinaria
diligenza la suddetta anomalia o l’impossibilità oggettiva di rimuovere la
situazione di pericolo. Questa sentenza si pone sulla scia di precedenti
interventi della Corte di Cassazione, tendenti a eliminare i privilegi tuttora concessi alla
Pubblica Amministrazione nei rapporti con i privati, in vista di un progressivo
innalzamento del grado di responsabilizzazione degli Enti Pubblici. Questo
indirizzo, ormai consolidato in giurisprudenza, trova le proprie origini nella
pronuncia n. 156/1999 della Corte Costituzionale, con la quale si ampliavano le
ipotesi di applicabilità dell’art. 2051 c.c. Da quel momento la regola
generale contenuta nell’art. 2043 c.c. ha svolto una funzione residuale nei casi di
responsabilità della P.A. per danni causati da beni demaniali, in quanto
richiamato solo in via subordinata rispetto all’art. 2051 c.c. In
concreto e allo stato attuale del diritto e della giurisprudenza, la
presunzione di responsabilità
per il danno cagionato dalle cose che si hanno in custodia va valutata alla
luce di una complessa indagine condotta dal giudice di merito con riferimento
al caso singolo, per stabilire se la
P.A. aveva o meno la possibilità di esercitare un potere di
controllo e di vigilanza sui beni demaniali, con la conseguenza che
l'impossibilità di siffatto potere non potrebbe ricollegarsi puramente e semplicemente
alla notevole estensione del bene e all'uso generale e diretto da parte dei
terzi, considerati solo meri indici di tale impossibilità. Nonostante l’art.
2043 c.c. dovesse rappresentare una sorta di “rete di sicurezza” per tutti quei
casi che non rientravano nella fattispecie dell’art. 2051 c.c., fino a pochi
anni fa si è limitata molto la portata di questa regola generale, subordinandola ai concetti di
insidia e trabocchetto di creazione giurisprudenziale. Imponendo al danneggiato
la prova dell’insidia o trabocchetto si è cercato di
proteggere la pubblica amministrazione da una eccessiva richiesta di risarcimenti, ma si è anche operata un’interpretazione
della clausola generale del neminem laedere in contrasto con il tenore
letterale e la portata sostanziale della norma, che stabilisce quasi un
“incondizionato” favor per il danneggiato. Non a caso è sempre nel 1999 con la sentenza delle
Sezioni Unite n. 500 che l’art. 2043 c.c. comincia ad estendere la propria
portata. Infatti viene sancita la natura di interessi meritevoli di tutela
degli interessi legittimi, nei rapporti tra privati e pubblica amministrazione. Inoltre viene riconosciuto come
norma primaria ( e non più come norma secondaria che sanziona l’inosservanza
di norme primarie di condotta-divieto), che tratta del danno ingiusto,
consistente nella lesione di situazioni giuridiche tutelate dall’ordinamento; situazioni che non sono
riconosciute tali a priori dalla legge, ma che vanno costruite volata a volta
dal giudice. Nel caso in cui l’interesse o il diritto che si assume
leso sia legislativamente riconosciuto, il giudice si troverà di fronte un
diritto soggettivo e
non dovrà motivare ulteriormente la sua scelta; in caso contrario, egli non
dovrà agire arbitrariamente, ma sulla scorta del diritto positivo, stabilendo
un confronto tra i contrapposti interessi delle parti in causa. E’
evidente l’introduzione
dell’elemento dell’insidia o trabocchetto restringeva notevolmente
l’ambito di operatività del principio contenuto nell’art. 2043 c.c., in quanto
si poneva a carico del privato cittadino il dovere di evitare, per quanto
possibile, ogni situazione di pericolo che possa eventualmente presentarsi durante la fruizione degli
spazi di demanio pubblico. Infatti il danneggiato doveva dimostrare che il
danno non era visibile o prevedibile, prova non facile da raggiungere e che
contentiva alla difesa della P.A. di puntare sulla negligenza o disattenzione
del danneggiato per sottrarsi completamente alla richiesta di risarcimento o
per concludere il contenzioso con la dichiarazione di un concorso di colpa ex
art. 1227 c.c. In seguito alle fondamentali sentenze 20 Febbraio 2006 n. 3651 e
14 Marzo 2006 n. 5445 della Cassazione civile, sezione III, il soggetto che
lamenti un danno derivante dalla mancata manutenzione della strada - e ne
chieda il risarcimento ai sensi dell’art.2043 c.c. (e non ai
sensi dell’art.2051 c.c.)
- sarà tenuto a provare i consueti elementi strutturali dell’illecito
e in particolare l’esistenza di un’anomalia del bene demaniale (e segnatamente
della strada) idonea a configurare il comportamento colposo della P.A. Non
sarà, invece, tenuto alla prova della sussistenza dell’insidia o trabocchetto,
restando in capo alla P.A. l’onere della prova dei fatti cd. impeditivi (ossia
la prova dell’inesistenza della predetta anomalia, della visibilità e
prevedibilità di essa etc.). con la conseguenza che la P.A. sarebbe responsabile di ogni danno
causato dal cattivo stato o dalla cattiva manutenzione delle strade di cui è
custode, in quanto esercente su di esse un diritto di proprietà, a meno che
tali danni non possano essere effettivamente ricondotti ad eventi fortuiti. Con
la sentenza in esame n. 8692/2009 viene ribadito il concetto che la
responsabilità della Pubblica Amministrazione non è limitata ai soli casi di
insidia e trabocchetto, e che nell’ottica di una effettiva parità in
ambito giurisdizionale tra
Enti pubblici e soggetti privati, la circostanza che soggetto responsabile sia
la pubblica amministrazione non modifica gli oneri probatori propri della
regola generale ex art. 2043 c.c. Infatti il danneggiato dovrà dimostrare l’anomalia
del bene demaniale che
ha causato il danno, restando a carico della P.A. la prova di ogni fatto
impeditivo che possa escludere la propria responsabilità. (Altalex, 28 luglio
2009. Nota di Maria Antonietta Crocitto e Caterina D'Ambruoso) | beni demaniali
| responsabilità della P.A. | insidia | Maria Antonietta Crocitto | Caterina
D'Ambruoso | SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 9 aprile
2009, n. 8692 Testo Integrale Commenta | Stampa | Segnala | Condividi |
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( da "Repubblica, La"
del 29-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina IV - Bari Pd,
Bersani stoppa Emiliano segretario "No ai doppi incarichi". Ma il
sindaco: "Io incompatibile? Vado avanti" D´Alema venerdì a Bari,
resta in campo Lavarra Ma incombe la Consulta RAFFAELE
LORUSSO Emiliano candidato unico alla segreteria del Pd pugliese? «Vecchia
politica». I sostenitori di Pierluigi Bersani gelano Piero Fassino e Ignazio
Marino. Emiliano non ha però alcuna voglia di mollare. «Vado avanti lo stesso,
altro che incompatibilità», ha detto l´altro giorno durante il pranzo con Piero
Fassino e i sostenitori pugliesi della mozione di Dario Franceschini. Un
proposito ribadito ieri durante il faccia a faccia di oltre un´ora con Mario
Loizzo, che a nome dei dalemiani e dei sostenitori della mozione di Pierluigi
Bersani ha cercato invano di farlo recedere. Anche chiedendogli di indicare un
altro candidato alla segreteria. Emiliano non si è fatto trovare impreparato.
«Non ho altri nomi perché me li bruciate tutti», si è lasciato andare. Ufficialmente
il sindaco di Bari si mostra più cauto, ma di fatto conferma di non avere
alcuna voglia di mollare: «Non ho deciso nulla, ma aspetto che i sostenitori di
Bersani candidino qualcuno. Con tutto il rispetto per il coordinamento
regionale, aspetto di parlare con Bersani». Si profila uno scontro con l´ala
dalemiana. Che pare decisa a presentare il proprio candidato: Enzo Lavarra.
L´ex premier sarà a Bari venerdì. Il documento con cui ieri il coordinamento
regionale della mozione Bersani ha respinto la proposta di candidatura unitaria
lascia pochi spazi di manovra. «La vitalità democratica del nostro congresso -
si legge nella nota sottoscritta da Ugo Malagnino, Francesco Boccia e Gaetano
Piepoli - si esprime nella discussione più aperta, fra opzioni, intorno a
identità, programma, alleanze politiche, forma moderna di partito. Queste
opinioni vivono anche nella piattaforma per il confronto tra le candidature a
livello regionale. La proposta di un candidato unico fra mozioni diverse è
tipico esempio di vecchia politica, perché nega la fisiologia del confronto
democratico». I tre coordinatori pugliesi della mozione Bersani ricordano anche
che «la nostra area assume l´incompatibilità fra incarichi di governo e
funzioni di leadership del partito». Un altro aspetto, tutt´altro che
secondario, riguarda l´impossibilità per i magistrati, anche in aspettativa, di
essere iscritti a partiti, così come sancito dalla Corte costituzionale (il senatore Gianrico Carofiglio ha restituito la tessera del
Pd). Anche su questo Emiliano sembra però determinato. «A noi - racconta
l´assessore regionale Guglielmo Minervini - ha detto che quando si porrà il
problema lo affronterà e, se sarà il caso, si dimetterà dalla magistratura».
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( da "Unita, L'" del
29-07-2009)
Argomenti: Giustizia
COnsulta per cena
questione di regole Cenette conviviali tra giudici, ministri e Presidente del
Consiglio, per menu la riforma della magistratura. Il
figlio di un giudice costituzionale promosso a cariche importanti nel mezzo di decisioni delicate
proprio sul ministro sponsor della promozione.Una volta si diceva Corte
Costituzionale e scattava il rispetto dovuto a chi sta sopra di tutto a garanzia
dei diritti di tutti. Il giudice delle leggi, titolo VI della Carta, le
garanzie costituzionali. Oggi si dice Consulta e sorgono i sospetti di
inciucio. Anche qui, un altro potere rosicchiato e indebolito. Gravissimo visto
che proprio la Corte,
in ottobre, discuterà il lodo Alfano. Deciderà, in pratica, se Berlusconi dovrà
tornare in aula imputato per il processo Mills. A fine giugno s'è saputo della
cena a casa del giudice Luigi Mazzella, intorno al tavolo un altro giudice
della Corte, Paolo Maria Napolitano, il premier Berlusconi, il sottosegretario
Letta, il ministro della Giustizia Alfano. Cena rivendicata dal governo in aula
e dagli stessi giudici a mezzo stampa. Pochi giorni fa la notizia che Alessio
Quaranta, figlio del giudice della Consulta, era stato promosso direttore
generale dell'Enac su proposta del ministro Matteoli che la Corte, negli stessi giorni,
salvava da un processo per favoreggiamento. La composizione della Corte è
sempre la stessa, 5 giudici nominati dal Presidente della Repubblica, 5 dal
Parlamento in seduta comune, 5 tra le magistrature ordinarie e amministrative.
Berlusconi ha in mente di mettere mano anche qua, a modo suo ma più in là.
Visto che non si ha memoria di un chiacchiericcio del genere intorno alla
Consulta, non resta che concludere che sono cambiati i criteri di scelta dei
giudici. Prevale il genere grand commis. La cultura e la sensibilità giuridica
non sembrano criteri così dirimenti.
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( da "Manifesto, Il"
del 29-07-2009)
Argomenti: Giustizia
ABUSIVISMO EDILIZIO
Il tribunale dei ministri salva Matteoli Stefano Milani Altero Matteoli, come da
pronostico, è salvo. Nessuna autorizzazione a procedere nei suoi confronti, a
giudizio dal 2004 con l'accusa di favoreggiamento nell'ambito di un'inchiesta
per abusi edilizi sull'isola d'Elba. Ieri la Giunta per le autorizzazioni della Camera ha
approvato la relazione di Maurizio Paniz (Pdl) che toglie dall'imbarazzo il
ministro delle Infrastrutture, tra le proteste dell'opposizione, e non sarà
dunque processato. Mettendo così fine a una querelle cominciata sei anni prima
e condita da diversi colpi di scena. All'epoca dei fatti Matteoli era sempre
ministro ma si occupava di Ambiente. Un giorno prese il telefono e chiamò il
prefetto di Livorno per avere informazioni su una «voce» di denuncia a suo
carico per abusi edilizi commessi sull'isola toscana. La notizia si rivelò
vera, peccato però che il prefetto livornese non ne sapesse ancora nulla, e
così Matteoli si beccò due belle denunce: una per favoreggiamento e un'altra
per rivelazione di segreto d'ufficio in relazione all'inchiesta sul «mostro di
Procchio», un complesso in costruzione a Marciana, all'Elba. Inchiesta che ha
coinvolto, fra gli altri, un giudice e due prefetti accusati di corruzione. A
quel punto la palla passa ad un pubblico ministero di Livorno che, una volta
esaminate le carte, decide per l'archiviazione. Sbugiardato pochi giorni dopo
dal Gip che ritenne invece valide le accuse. E mandò avanti il procedimento
senza però chiedere l'autorizzazione a procedere, giudicando la telefonata di
Matteoli un atto non compiuto nelle funzioni di ministro, e dunque senza
bisogno di un via libera parlamentare. Tutto risolto? Neanche per idea. Il
nuovo stop arriva direttamente dalla Camera dei deputati, allora presieduta da
Fausto Bertinotti, che approva a larga maggioranza la
decisione di trasmettere il quesito alla Corte costituzionale,
l'unico organo considerato idoneo a stabilire se un reato può essere o meno
considerato ministeriale. Ma per non perder tempo, il ministro Matteoli si
porta avanti con il lavoro e dà incarico al suo legale (e collega di An)
Giuseppe Consolo di studiare il caso e trovare una soluzione. Detto
fatto: l'avvocato presenta un progetto di legge in cui chiariva una norma costituzionale del 1989 riguardante i reati ministeriali. Il
testo però non è stato mai discusso, ed è ora superato dal voto compatto di
ieri della maggioranza a favore della relazione di Paniz, che ora passa al
vaglio dell'Aula. L'opposizione ha votato contro ad eccezione della deputata
del Pd Donatella Ferranti che ha ritenuto la votazione della Giunta «illegittima»
in quanto, come spiega il Presidente Pierluigi Castagnetti, «l'autorità
giudiziaria non ci ha dato comunicazione di nulla: nè dell'archiviazione del
procedimento, nè della richiesta di autorizzazione a procedere». Lo scorso 9
luglio, infatti, la
Corte Costituzionale aveva annullato il rinvio a giudizio del
tribunale di Livorno nei confronti di Matteoli dando ragione alla Camera dei
deputati che aveva sollevato nella XV legislatura un conflitto tra poteri.
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( da "Corriere della Sera"
del 29-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Politica data: 29/07/2009 - pag: 14 Il collega di partito «Di Pietro
non entrò in politica da pm, così il potere giudiziario
esonda sugli altri» Pisicchio: doveva abbandonare, questione di credibilità
ROMA «Montesquieu, il teorico della divisione dei poteri, avrebbe parecchio da
osservare sul caso De Magistris e, in generale, sulla fase politica che stiamo
attraversando: l'esecutivo che invade il legislativo, il legislativo che non sa
bene cosa fare, il giudiziario che
esonda sugli altri poteri». Pino Pisicchio è stato eletto nelle liste
dell'Italia dei Valori ma già nella scorsa legislatura, da presidente della
Commissione Giustizia della Camera, ha dimostrato una certa propensione a
contrastare gli spiriti giustizialisti che pure nel suo partito hanno spesso il sopravvento.
E anche stavolta non si smentisce: «L'onorevole De Magistris avrebbe fatto bene
a seguire l'esempio di Di Pietro. Dimettendosi dalla magistratura una volta
entrato in politica». Proprio quello che disse Di Pietro il 18 marzo
presentando le candidature. I magistrati che si candidano dovrebbero dimettersi?
«Io l'ho fatto, De Magistris lo farà. Per noi è una regola». Eppure, ora... «La
credibilità di Antonio Di Pietro è stata costruita non solo attraverso un
quindicennio di comportamenti coerenti con uno stile tutto suo, per carità ed
assolutamente efficaci. Ma all'origine di tutto c'è una partenza scandita da un
gesto, importante e icastico, rimasto nell'immaginario collettivo: ovvero il
pubblico ministero che si toglie la toga e entra in politica. Ma lo fa non il
giorno successivo, non con la toga sulle spalle...». Di Pietro, prima di
accettare l'incarico di ministro nel governo Prodi, aspetta che si concludano
una serie di processi in cui era stato coinvolto a
Brescia. «Lui entra in politica quando ha messo una distanza importante tra sé
e quegli episodi. Non ricordo bene, poi, quanti mesi fossero passati tra le sue
dimissioni e la candidatura nel collegio del Mugello». Invece De Magistris,
almeno per ora, ha ritenuto di non doversi dimetter e. «E' chiaro. Ognuno
risponde con la sua sensibilità, con il proprio modo di porsi davanti a certi
passaggi delicati della vita politica » . Non dimettendosi potrebbe causare un
danno di immagine al partito? «De Magistris non fa nulla di eccepibile sotto il
profilo giuridico formale. Però, sicuramente, non si mette sulla stessa linea
che ha caratterizzato la storia politica di Antonio Di Pietro». Anche dal punto
di vista dei tempi di entrata in politica c'è una differenza. De Magistris ha
esercitato le funzioni, seppure di giudice del Riesame a Napoli perché trasferito
dal Csm, fino a poche settimane prima di essere eletto. «Non c'è dubbio che,
nella nostra Repubblica, da un certo momento in poi, questa indistinzione tra
poteri sia diventata un po' la cifra. Se per avventura dovesse ritornare in
vita Montesquieu, cui si fa risalire la divisione dei poteri, avrebbe un
momento di spavento » . Eppure De Magistris non è il primo magistrato a
scegliere l'impegno diretto in politica. «Sono un cultore delle statistiche:
c'è stata una stagione, la prima legislatura del maggioritario, in cui abbiamo
avuto in addirittura Parlamento il 2,4 per cento di magistrati eletti. Gente
che ha fatto esattamente quel che sta facendo l'onorevole De Magistris: si
metteva in aspettativa». E molti di questi sono tornati in ruolo. «Certo, molti
sono tornati ad esercitare il ruolo di magistrato». Alla fine De Magistris
spezzerà questa consuetudine? «Lui evidentemente ha deciso di dare una
tempistica diversa. Ha deciso di scandire la sua uscita dalla magistratura
maniera diversa. Un modo legittimo, che rientra nelle sue prerogative.
Personalmente, tuttavia, ho preferito e preferisco lo stile di Di Pietro».
D.Mart.
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( da "Manifesto, Il"
del 29-07-2009)
Argomenti: Giustizia
CSM De Magistris si tiene la toga: «Mi
dimetterò, ma non ora» Aveva detto che avrebbe lasciato la magistratura in modo
definitivo. Ma al momento di decidere, persino il pm Luigi De Magistris, cui
certo non manca il coraggio, ha tentennato ancora. Ieri ha confermato al Csm la
richiesta di essere tenuto in aspettativa mentre svolge la carica di
Eurodeputato a Strasburgo. Insomma, resta magistrato, con la possibilità di
rientrare in carriera se e quando dovesse terminare l'esperienza politica. A
marzo, la richiesta di aspettativa aveva fatto innervosire anche il
vicepresidente del Csm Nicola Mancino che aveva chiesto a De Magistris di «non
tornare». Una presa di posizione dura, cui il pm ha risposto nuovamente ieri:
«Confermo che non rientrerò in magistratura e che mi dimetterò. Ma i tempi
delle mie dimissioni non me li farò indicare o dettare da nessuno, se non dalla
mia coscienza». A scanso di equivoci ha poi precisato di essere «in aspettativa
senza retribuzioni e senza contributi».
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( da "Stampa, La" del
30-07-2009)
Argomenti: Giustizia
COSTI DELLA
POLITICA. RIORDINO DEGLI ENTI MONTANI Comunità, slitta il commissariamento La
giunta regionale deciderà martedì Slitta il commissariamento dei presidenti
delle Comunità montane. Previsto per venerdì, il passo che farà partire il
conto alla rovescia in attesa del 7 novembre, data dell'elezione dei nuovi
Consigli, è stato rimandato di qualche giorno. «Martedì la giunta regionale
delibererà in tal senso, solo allora potremo dare una data certa sui
commissariamenti», spiega il consigliere regionale Marco Travaglini. Dopo gli
ultimi giorni convulsi con le sentenze del Tar in merito al
ricorso della Comunità Antigorio Divedro e Formazza e quella della Corte
Costituzionale che fa riferimento all'esposto delle Regioni Veneto e Toscana
sulla legittimità della Finanziaria 2008 in merito al riordino degli enti montani,
che ha ribadito la competenza regionale sulla riforma, sta per delinearsi il
futuro di queste nuove «agenzie per lo sviluppo». «Avevamo ragione noi. La Regione era ed è
competente sulle Comunità montane e la riforma è stata corretta oltre che
giusta e necessaria» spiega ancora Travaglini in sintonia con il collega
consigliere regionale Aldo Reschigna. La sentenza della Corte Costituzionale
annulla di fatto uno dei presupposti su cui il Tar aveva basato la decisione
relativa agli accorpamenti. «Ora possiamo partire con i commissariamenti dei
presidenti, ma soprattutto possiamo iniziare a lavorare per il futuro delle
Comunità - continua Travaglini -. La cosa più importante è ora discutere in
maniera costruttiva con gli attuali enti. Noi non vogliamo imporre la
redistribuzione dei ricavi che vengono generati su un determinato territorio,
penso a questo proposito all'accordo tra la Antigorio Divedro
e Formazza e l'Enel per il rio Cairasca». Sulla questione tra la Regione e la comunità con
sede a Crodo torna anche uno degli assessori dell'ente montano: «Il riordino -
afferma Arturo Lincio - nazionale e regionale delle Comunità montane avrebbe
dovuto prefiggersi e conseguire chiari parametri di virtuosità come elementi
obbligatori e fondamentali, per sostenere appunto gli enti meglio amministrati.
Il ricorso al Tar e quello al Consiglio di Stato sono divenuti necessari per
sostenere una legittima, giusta e doverosa difesa del territorio e dei suoi
cittadini».
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( da "Repubblica, La"
del 30-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 2 - Interni Polemica
sui decreti anticrisi Berlusconi: un piano per il Sud Il dl al Senato, verso la
fiducia. Vertice di ministri con il premier Il premier: "Ho questo male
che mi affligge, andrò 9 giorni da quelli che fanno dimagrire" FRANCESCO
BEI ROMA - I parlamentari della maggioranza hanno già la testa sotto
l´ombrellone (ieri alla Camera, sul Dpef, sono mancati 90 voti tra Pdl e Lega)
e così, per non rischiare, il governo sarà costretto a mettere la fiducia anche
al Senato sul cosiddetto decreto "anticrisi". Ma la fretta di
approvarlo prima che suoni la campanella delle vacanze costringe palazzo Chigi
a una doppia acrobazia, dovendo inserire le modifiche - imprescindibili, sia
per ottenere l´ok di Napolitano, sia per tacitare i malumori interni al Pdl -
in un altro decreto legge anziché attraverso la regolare procedura emendativa.
«Un pasticcio indecente e inaccettabile», secondo la capogruppo del Pd al
Senato, Anna Finocchiaro, che sottolinea come il governo sia costretto a varare
un secondo decreto «altrimenti i deputati della maggioranza non potranno andare
in ferie nei prossimi giorni». E alle ferie pensa anche Berlusconi, che ieri
sera, incontrando i senatori Pdl, ha annunciato che andrà in un centro
benessere a farsi curare il torcicollo: «Ho questo male che mi affligge da
tempo, andrò 9 giorni da quelli che fanno dimagrire». Sul piede di guerra ci
sono anche le regioni, che minacciano ricorsi a pioggia
alla Corte costituzionale perché il decreto, dicono, intacca le loro competenze esclusive.
«Il clima che viviamo - preannuncia Vasco Errani, il presidente della
conferenza delle regioni - non può che portare a questo». Ma ieri è stata anche
la giornata dell´atteso vertice ministeriale a palazzo Grazioli sulla questione
del piano per il Sud. Tutto rinviato a data da destinarsi: gli unici a
vedere i "piccioli" in concreto saranno i siciliani, che hanno fatto
la voce grossa con Berlusconi e Tremonti. Così, durante la riunione a casa di
Berlusconi, viene stabilito che il Cipe di domani servirà a sbloccare circa 4
miliardi di risorse già stanziate a favore della Sicilia. Ovviamente la cosa
non ha fatto piacere a Raffaele Fitto, che nel vertice ha chiesto interventi
per tutto il Mezzogiorno e non solo per l´isola di Micciché e Lombardo. Anche
Angelino Alfano, benché siciliano, ha fatto notare come la regione disponga di
diversi miliardi di finanziamenti mai utilizzati. «Prima - ha detto il
Guardasigilli - dimostrino di spendere bene quello che hanno già avuto». Ma al
Cavaliere premeva chiudere la grana Micciché («i suoi attacchi sono diventati
intollerabili», si è sfogato durante il summit) e quei 4 miliardi del Cipe gli
sono sembrati il prezzo giusto per non rischiare una scissione nei gruppi
parlamentari e la nascita del partito del Sud. Per le altre regioni meridionali
è stato invece tutto rimandato a dopo l´estate. «Si tratta di un "work in
progress" - ha affermato il premier - per la preparazione di un piano
Berlusconi per il Sud che annunceremo nel prossimo Consiglio dei ministri e che
poi presenteremo in tutte le sue particolarità al ritorno dal periodo feriale».
Insomma, al consiglio dei ministri di domani, spiegano da palazzo Chigi,
dovrebbero essere annunciate al più le linee guida del Piano, in attesa di
capire quali opere finanziarie e, soprattutto, con quali soldi. In ogni caso,
durante il vertice, Berlusconi ha difeso il ministro dell´Economia dagli
attacchi concentrici che gli venivano portati dai colleghi. Altre volte, anche
di recente, ha dovuto ricordare a Tremonti che «il premier sono io», ma ieri in
pubblico lo ha difeso: «Non è quel mostro che dice di no a tutto. Anche a lui
piacerebbe dire di sì, ma ha un compito difficile: è la realtà dei conti che si
impone».
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( da "Repubblica, La"
del 30-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 30 - Cronaca
Dalla parlata di Gizzeria al tabarkino sardo: in Italia non c´è città senza il
suo dialetto Ma è sempre meno diffuso. Solo il 16%, ormai, lo usa con
assiduità. E quasi mai con gli estranei Però in molte scuole del Nord è materia
di studio. Per riscoprire le tradizioni, ma anche per effetto delle battaglie
leghiste Nella stessa regione spesso cambiano accenti e inflessioni In altri
casi anche le parole A Bergamo il poeta Zanetti ha stilato una grammatica e
l´ingegner Giavazzi fa ricevute orobiche (SEGUE DALLA COPERTINA) ROBERTO
BIANCHIN Perché conoscere i dialetti, secondo il presidente dell´Istituto di
cultura delle lingue del Csr, Pierfranco Bruni, «è definire un processo storico
e antropologico di una comunità, dal momento che i dialetti non sono strutture
linguistiche minoritarie né lingue altre rispetto alla lingua italiana. Ma sono
il vero tessuto di appartenenza a un territorio all´interno di un processo che
punta rigorosamente alla difesa della cultura italiana. Quindi, rafforzano
l´identità della lingua ufficiale di una nazione». In Italia non c´è regione,
città, e persino paese, che non abbia il suo dialetto. Da quello di Gizzeria, tipico
di alcuni paesi calabresi, al Tabarkino parlato a Carloforte, in Sardegna. Fra
gallo-italici del Nord, veneti, toscani, centrali, meridionali, siciliani,
sardi, se ne contano la bellezza di seimila. Molto diversi uno dall´altro.
Anche all´interno della stessa regione quando appaiono simili. In alcuni casi
solo per accenti e inflessioni, come tra Palermo e Catania, in altri casi anche
per le parole. Persino nelle isole della laguna di Venezia si parlano dialetti
diversi: quello di Burano non è uguale a quello di Pellestrina. Cantati da
Porta e da Belli, da Trilussa e Pasolini, da Baffo e Marin, o messi in prosa da
Camilleri, i "dialectos", che non è spagnolo ma latino e greco, sono
in realtà idiomi locali, «varietà linguistiche», secondo gli studiosi. «Vere e
proprie lingue», secondo il regista Maurizio Scaparro, teorico della
"confusione dei linguaggi", che nei suoi lavori ha spesso esaltato le
due "lingue" ufficiali del teatro italiano, il napoletano e il
veneziano. «Io credo che il dialetto rimanga una forza integra - spiega - il
fatto è che sta cambiando il mondo, e che ai dialetti di base si stanno
aggiungendo nuove lingue. Ma quello che mi preoccupa di più è che sta
diminuendo l´italiano, nel senso che sono sempre di più quelli che lo parlano
male, e lo stanno sostituendo con un semi-inglese da ragionieri. Ma perché mai
dobbiamo chiamare del welfare il ministero del lavoro e democratic party la
festa dell´unità? Mi sa che c´è qualcosa che sta cambiando, sì. Ma in male».
Quello che cambia, intanto, è l´uso del dialetto. Secondo l´Istat, l´utilizzo
esclusivo del dialetto, soprattutto nell´ambito familiare, è diminuito
«significativamente» nel tempo. In pochi anni si è praticamente dimezzato,
passando dal 32% del 1988 al solo 16% del 2006. è invece aumentato un «uso
misto» di italiano e dialetto, e dal 2000 al 2006 è molto cresciuto l´uso
esclusivo dell´italiano, sia in famiglia (45%) che con gli amici (48%), e
specie con gli estranei: 72%. Il dialetto continua ad essere parlato
soprattutto in famiglia (16%), meno con gli amici (13%) e molto poco con gli
estranei: appena il 5%. L´Istat segnala anche che l´uso esclusivo del dialetto
cresce con l´aumentare dell´età (lo parlano il 32% di chi ha più di 65 anni) e
riguarda maggiormente «coloro che hanno un titolo di studio basso». Tra le
regioni in cui il dialetto resiste meglio figura la Lombardia, dove un
abitante su dieci, circa 800mila persone, parla abitualmente il dialetto in
famiglia, e dove dal 2000 è cresciuto del 4% il numero di quelli che con gli
estranei usano pressoché indifferentemente sia l´italiano che il dialetto.
Effetto dovuto, probabilmente, anche alle iniziative di partiti come la Lega, che al Nord sull´uso
del dialetto hanno impostato da tempo una battaglia identitaria. Con epicentro,
nel caso lombardo, la città di Bergamo, patria del ministro Calderoli, dove un
abitante su dieci parla solo il bergamasco, dove il poeta Umberto Zanetti ha
stilato una preziosa "grammatica bergamasca" e l´ingegner Giancarlo
Giavazzi, che scrive nell´idioma orobico anche le presentazioni dei progetti e
le ricevute ai clienti, si è sobbarcato l´immane fatica di tradurre in
bergamasco nientemeno che le favole di Andersen, col risultato, dice lui, di
«entusiasmare i ragazzini». Ma è la scuola l´ultima vera frontiera della difesa
del dialetto. Alla media di Terno d´Isola, sempre in provincia di Bergamo, il
dialetto si insegna da anni. «Testi, poesie e film in bergamasco - spiega
Luciano Ravasio, l´insegnante - per raccontare la nostra campagna e le sue
tradizioni». Altre lezioni in dialetto si svolgono regolarmente in Lombardia
alle elementari di Torre Boldone, Bagnatica, Brusaporto, Villa di Serio, e in
alcune scuole del Veneto. In una elementare non statale di Treviso, di
ispirazione cattolica, il dialetto è diventato addirittura materia di studio
obbligatoria. Ha potuto farlo, spiegano, grazie all´autonomia concessa per
legge a tutti gli istituti scolastici, che prevede per ogni corso di studi che
il 20 per cento delle ore che costituiscono i "curricola" possa
essere diverso dalle materie istituzionali. Mentre in molte regioni italiane si
fanno corsi di dialetto, sia pure non scolastici, come a Bologna dove il
"Caurs ed Bulgnais" è molto seguito da gente di ogni età. In Friuli
ci hanno provato addirittura con una legge regionale a introdurre l´obbligo del
dialetto friulano. Anzi, della lingua friulana, la "marilenghe", la
madrelingua, come la chiamano. Guai a chiamarla dialetto. E non solo nelle
scuole, un´ora di friulano la settimana, ma anche negli uffici pubblici, che
avrebbero dovuto stendere gli atti anche in friulano, e nei consigli delle
istituzioni locali, dove gli interventi avrebbero dovuto essere fatti, oltre
che in italiano, anche in friulano. Ma la legge regionale, voluta dalla
precedente giunta di centrosinistra guidata da Riccardo Illy, è stata bocciata nel maggio scorso dalla Corte Costituzionale che
l´ha giudicata «illegittima». I comitati autonomisti hanno annunciato ricorsi
al Capo dello Stato e all´Unione Europea. Ma lo stop della Consulta non ha frenato
le spinte leghiste. Alcuni senatori del Carroccio hanno preparato una legge per
inserire il dialetto tra le materie da studiare a scuola. Il ministro
dell´agricoltura Luca Zaia, che ogni tanto tiene comizi in dialetto, è uno dei
più fieri sostenitori del progetto: «Le lingue sono ricchezze che appartengono
ai popoli e non alle burocrazie. Penso al mio Veneto. è una lingua usata in
modo trasversale rispetto alle varie classi della società. Si parla nei
consigli di amministrazione, nelle aziende, nelle fabbriche, a tutti i livelli.
è il significato di mille anni di storia e non la difesa di una volontà
dell´amarcord. Dietro la difesa identitaria c´è la difesa di una cultura, di
una tradizione, della storia del nostro popolo». Cita l´Imperatore Adriano, il ministro,
che definisce come «uno dei più grandi». «Lui diceva che aveva sempre governato
in latino ma pensando in greco, cioè in quella che considerava la sua lingua
madre». Anche per l´oste Ivano «si pensa e ci si arrabbia in dialetto, e poi
casomai si traduce in italiano». Il vero problema, spiega l´attore veneziano
Lino Toffolo, «è che per noi l´italiano è la prima lingua straniera». Va anche
detto che non tutti i dialetti, da Nord a Sud, sono ritenuti uguali. Il
viceministro leghista Roberto Castelli, per esempio, trova «una cosa
insopportabile, che dà fastidio» che in televisione «parlino tutti in
romanesco». Perfino nella fiction su Papa Giovanni XXIII. «Era un bergamasco
verace, e sentirlo parlare con l´accento romanesco è storicamente sbagliato».
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 30-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore sezione:
ECONOMIA E IMPRESE data: 2009-07-30 - pag: 23 autore: Tv. L'a.d. Mockridge
annuncia il lancio di 10 nuovi canali che sostituiranno quelli di Viale Mazzini
Fumata nera tra Sky e RaiSat Naufraga la trattativa per il rinnovo del
contratto fino al 2016 Marco Mele La trattativa che non c'è mai stata – se non
in extremis – è fallita. Sky lancia dal primo agosto dieci nuovi canali, in
sostituzione di quelli di RaiSat. Il Cda della Rai ne discute oggi. In vista
del rush finale, il servizio pubblico ha avanzato una controfferta relativa ai
soli canali di RaiSat. Sky ha ribadito di aver chiesto sin dall'inizio la
garanzia di avere sulla piattaforma satellitare l'offerta gratuita digitale
della Rai, per chiudere l'intesa su RaiSat. Le due parti non sono lontane,
invece, dal chiudere l'accordo sull'acquisto di film Rai da parte di Sky. I
canali RaiSat, escluso il Gambero Rosso, che resta su Sky, si trasferiranno sul
digitale terrestre. Non saranno più a pagamento ma gratuiti, finanziati dalla
pubblicità e saranno visibili anche da TivùSat, la piattaforma satellitare
Rai-Mediaset. I costi saranno tutti a carico della Rai: sinora sono stati
"coperti" al 100% da Sky. La
Rai esce così definitivamente dalla pay tv. I suoi canali
generalisti restano su Sky ma, come per Mediaset, alcuni programmi, nel tempo,
saranno "oscurati" agli abbonati Sky. «Parecchi mesi prima della
scadenza del contratto- sottolinea Tom Mockridge, amministratore delegato di
Sky Italia Sky ha fatto tutti i passi necessari per raggiungere l'obiettivo di
un accordo con Rai. Abbiamo inviato alla Rai, il 22 aprile scorso, un'offerta
vincolante di Sky del valore economico di 350 milioni di euro come minimo
garantito (per sette anni, ndr). Non solo l'offerta di canali per gli abbonati
Sky non diminuirà ma abbiamo colto quest'opportunità per renderla migliore». Il
primo dei dieci nuovi cana-li è Sky Cinema Italia: ma è possibile che la Rai non dedichi un canale al
cinema nazionale e Rupert Murdoch sì? Il secondo è Baby Tv - che ha sollevato
le perplessità di alcune associazioni di genitori - il canale di Fox Channels
Italy dedicato ai bambini in età prescolare e alle loro famiglie, privo di
pubblicità. Per bambini e ragazzi arrivano anche Nick Junior, Playhouse +1 e
Nickelodeon +1. Una novità assoluta è Fox Retro che raccoglie le migliori serie
tv degli anni 60-70-80. Ci saranno poi Lady Channel, già in onda, dedicato alle
telenovele, Comedy Central +1, Onda Latina Tve Gambero Rosso. L'Autorità per le
comunicazioni, intanto, sta definendo il regolamento per assegnare le cinque
frequenze digitali nazionali. Il confronto con la commissione Ue va avanti ma
si aspettano due verifiche prima di varare il testo: una avverrà nei prossimi
giorni, l'altra all'esito della prevista consultazione pubblica. Sembra acquisito
che il "tetto" richiesto dalla Ue, pari a cinque reti-multiplex
digitali terrestri ("tetto" dal quale sono escluse quelle per la tv
mobile in Dvb- h), non va inteso come un limite antitrust permanente ma è
valido solo per il totale cui potrà arrivare ogni gruppo al termine della
"gara". Gara che poi è un beauty contest, che dà ampi margini di
potere discrezionale a chi deve assegnare le cinque reti, per due delle quali
potranno concorrere Rai e Mediaset. Tale posizione trova in disaccordo Nicola
D'Angelo, uno dei componenti dell'Autorità per le comunicazioni. «Si potrà anche raggiungere un accordo con Bruxelles - spiega
D'Angelo - ma la
Corte Costituzionale ha sottolineato che il digitale
terrestre deve liberare risorse per soggetti terzi. Se dopo la gara, i maggiori
operatori potranno aumentare il numero delle loro reti, le risorse per gli
altri soggetti si restringeranno». Il regolamento, secondo le intese
raggiunte sinora con Bruxelles dovrebbe vietare, per cinque anni, il trading e
il leasing delle frequenze acquisite con la "gara" ai maggiori
operatori. La misura sarà asimmetrica: tale divieto non varrà per gli operatori
"minori". Non esistendo un limite di legge che limiti il numero di
reti, Rai e Mediaset potranno acquisire nuove frequenze dagli altri operatori,
fermo restando il divieto di trading su quelle " ereditate" (quattro)
e su quella eventualmente assegnata con le gara? «Un altro problema - aggiunge
D'Angelo - è che la qualità delle reti da assegnare non è la stessa. I
multiplex non sono tutti uguali: a chi andranno quelli con maggiori qualità?
Nella riunione di ieri, tra l'altro, non è stato presentato l'indispensabile
Piano nazionale delle frequenze». © RIPRODUZIONE RISERVATA L'AGCOM L'Authority
sta definendo il regolamento per assegnare le cinque frequenze digitali
nazionali, mentre continua il confronto con Bruxelles Top manager. Tom
Mockridge, a.d. di Sky Italia INFOPHOTO
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( da "Manifesto, Il"
del 30-07-2009)
Argomenti: Giustizia
La strategia
autoritaria del governo Luigi de Magistris * Credo sia un grave errore pensare
che il governo Berlusconi, la maggioranza berlusconiana, non persegua una ben
precisa strategia che mira a modificare in modo radicalmente autoritario ed
illiberale il nostro Paese. Il disegno, di chiara matrice piduista, impone sia
ampie revisioni costituzionali che svuotamenti della Carta attraverso la
legislazione ordinaria: matrice di fondo è la soppressione di quella che gli
anglosassoni chiamano balance of powers, il bilanciamento dei poteri. La Costituzione deve
subire - in tale progetto strategico - una svolta presidenziale, con la
concentrazione dei poteri di governo nelle mani di un'unica persona: il
Parlamento ridotto a mero organo di ratifica dei voleri della maggioranza, Corte costituzionale e Consiglio superiore della magistratura modificati nella loro
composizione attraverso l'aumento dei membri di nomina politica. Il Presidente
della Repubblica sarà quindi capo del governo, capo delle forze armate, capo
del Csm e magari, se lo scenario di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico
e politico-istituzionale del nostro paese rimarrà quello attuale, anche
capo dei capi. Dal momento che anche una maggioranza di chiara ispirazione
autoritaria ed illiberale non potrà mai abolire formalmente l'art. 3 della
Costituzione (l'uguaglianza delle persone di fronte alla legge) e l'art. 21
della Costituzione (libera manifestazione del pensiero e diritto di cronaca)
ecco che si colpiscono - attraverso lo strumento della legge ordinaria - quelli
che sono due baluardi di ogni stato di diritto che consentono l'effettiva
attuazione di tali principi: l'autonomia e l'indipendenza della magistratura e
dell'informazione. In questi ultimi mesi la maggioranza sta portando avanti un
disegno di complessivo annichilimento dell'autonomia della magistratura e
dell'indipendenza, libertà e pluralismo dell'informazione. Corollari di un
disegno autoritario di questo tipo sono anche taluni censurabili provvedimenti
normativi adottati negli ultimi mesi e che offrono una chiara cornice
dell'avanzare del fascismo del terzo millennio: 1) le ronde che - mortificando
le forze dell'ordine - introducono la privatizzazione della sicurezza pubblica
e l'istituzionalizzazione in alcune aree del controllo del territorio da parte
della criminalità organizzata (tipico strumento utilizzato nel ventennio del
secolo scorso e nel periodo iniziale dei paramilitari colombiani); 2) il
ricorso sempre maggiore ai militari per compiti di ordine pubblico che -
soprattutto in un'ottica di presidenzialismo di chiara ispirazione piduista -
potranno essere utilizzati per affrontare conflitti sociali e reprimere il
dissenso che viene sempre più criminalizzato nel nostro paese attraverso
pratiche liberticide tipiche della tolleranza zero; 3) la criminalizzazione
dell'immigrato in quanto tale e non perché ha commesso un reato, ossia
l'introduzione della colpa d'autore tanto cara al regime nazi-fascista, con tratti
xenofobi indegni di un paese democratico. Un disegno autoritario di tale
portata nasce e si consolida attraverso un ricercato crollo etico anche grazie
all'imperversare della pubblicità commerciale, del consolidamento della teoria
del consumatore universale, del radicamento del pensiero unico, del
rovesciamento dei valori: non conta chi sei, qual è la tua storia, ma quanto
appari; il culto del profitto, dell'avere al posto dell'essere, del dio denaro.
Un revisionismo culturale realizzato in anni di bombardamento mediatico, in un
conflitto di interessi mai affrontato da un opaco centro-sinistra intriso da
tanti conflitti d'interessi. Un definitivo controllo delle coscienze e la
narcotizzazione delle menti e finanche dei cuori deve passare attraverso la mortificazione
della scuola pubblica, dell'università e della ricerca: deve apparire che siamo
un paese normale (quanto bello ed attuale quell'articolo di Domenico Starnone
che parlava di normale devianza). Di fronte ad un disegno che appare a tratti
anche eversivo dell'ordine costituzionale; di fronte
ad un paese dove le mafie condizionano in modo devastante parte significativa
del Pil e riciclano immani somme di denaro in ogni settore suscettibile di
valutazione economica ed in ogni parte del territorio nazionale; di fronte ad
una capillare penetrazione della criminalità organizzata in vasti settori della
politica e delle istituzioni, attraverso soprattutto il controllo della spesa
pubblica; di fronte ad un collante sempre più evidente tra sistema politico castale
e criminalità organizzata; di fronte a tutto questo, le forze democratiche - in
qualunque articolazione della società civile siano presenti - debbono
impegnarsi concretamente per impedire la realizzazione di un tale progetto
politico che condurrà inesorabilmente alla fine dello Stato di diritto. Così
come chi è investito di ruoli istituzionali e non è ancora totalmente
assuefatto a tale sistema di potere deve battere un colpo per difendere la Costituzione nata
dalla Resistenza e per far sì che venga attuata giorno per giorno. *
parlamentare europeo Idv
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( da "AltaLex" del
30-07-2009)
Argomenti: Giustizia
CSM: nuove regole per la tutela
dell'indipendenza e del prestigio dei magistrati Consiglio Superiore della
Magistratura, decreto 15.07.2009, G.U. 20.07.2009 Commenta | Stampa | Segnala |
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o della magistratura hanno come presupposto l'esistenza di comportamenti lesivi
del prestigio e dell'indipendente esercizio della giurisdizione tali da determinare un
turbamento al regolare svolgimento o alla credibilità della funzione giudiziaria.
Lo stabilisce il Decreto 15 luglio 2009 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale 20
luglio 2009, n. 166) con il quale Consiglio Superiore della Magistratura ha
definito la procedura specifica per gli interventi a tutela dell'indipendenza e
del prestigio dei magistrati e della funzione giudiziaria. In particolare le
richieste di interventi a tutela sono trasmesse dal Comitato di Presidenza alla
Prima Commissione, che procede alla verifica dell'esistenza dei presupposti per
l'avvio della relativa procedura e se la Commissione ritiene che i comportamenti segnalati
siano effettivamente lesivi del prestigio e dell'indipendente esercizio della
giurisdizione, tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla
credibilità della funzione giudiziaria, delibera l'apertura della pratica (a
maggioranza dei componenti della commissione) e procede all'istruttoria ed alla
formulazione della proposta da sottoporre all'Assemblea plenaria. (Altalex, 30
luglio 2009) | Consiglio Superiore della Magistratura | magistratura |
indipendenza della magistratura | CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA,
DECRETO 15 luglio 2009 Inserimento dell'articolo 21-bis nel regolamento interno
del Consiglio Superiore della Magistratura. (09A08569) (GU n. 166 del
20-7-2009) IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Visto
l'art. 20 n. 7 della legge 24 marzo 1958, n. 195; Visto il testo attualmente
vigente del Regolamento interno del Consiglio superiore della magistratura;
Vista la delibera in data 2 luglio 2009 con la quale il Consiglio superiore
della magistratura ha inserito l'art. 21-bis del Regolamento interno; Decreta:
Dopo l'art. 21 del Regolamento interno e' inserito il seguente articolo: «Art.
21-bis (Procedura per gli interventi a tutela dell'indipendenza e del prestigio
dei magistrati e della funzione giudiziaria). - 1. Gli interventi del Consiglio
a tutela di magistrati o della magistratura hanno come presupposto l'esistenza
di comportamenti lesivi del prestigio e dell'indipendente esercizio della
giurisdizione tali da determinare un turbamento al regolare svolgimento o alla
credibilita' della funzione giudiziaria. 2. Le richieste di interventi a tutela
ai sensi del comma precedente sono trasmesse dal Comitato di Presidenza alla
Prima Commissione, che procede alla verifica della esistenza dei presupposti
per l'avvio della relativa procedura. Quando la Commissione ritiene
che i comportamenti segnalati siano lesivi del prestigio e dell'indipendente
esercizio della giurisdizione, tali da determinare un turbamento al regolare
svolgimento o alla credibilita' della funzione giudiziaria, delibera l'apertura
della pratica e procede all'istruttoria ed alla formulazione della proposta da
sottoporre all'Assemblea plenaria. La deliberazione di apertura della pratica
e' assunta dalla maggioranza dei componenti della commissione. 3. Se non viene
disposta l'apertura della pratica, la Prima Commissione
ne propone l'archiviazione. La proposta e' depositata presso la Segreteria generale del
Consiglio e del deposito e' data tempestiva notizia al Presidente ed a tutti i
componenti del Consiglio superiore con la procedura prevista dall'art. 44,
comma 4, del presente Regolamento interno. Decorsi dieci giorni dalla avvenuta
comunicazione del deposito la proposta si intende definitivamente approvata. Se
entro dieci giorni dalla avvenuta comunicazione del deposito almeno la meta'
dei componenti del Consiglio fa richiesta di apertura della pratica, gli atti
sono trasmessi alla Prima Commissione per la trattazione e la formulazione
della proposta da sottoporre all'approvazione dell'Assemblea plenaria.». Roma,
15 luglio 2009 NAPOLITANO Il segretario generale: Visconti Commenta | Stampa |
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( da "Repubblica, La"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina VI - Napoli
Bassolino contesta il governo Ricorso a Tar e Consulta, ma il presidente sarà
commissario "Si è proceduto in modo abnorme Palazzo Chigi non può fare
quel che vuole" GIUSEPPE DEL BELLO Decisione ingiusta e immotivata.
Disparità di trattamento. Grave blocco istituzionale. è deciso. «La giunta ha
dato mandato di impugnare il decreto di commissariamento della sanità. Davanti al Tar per profili di illegittimità e alla Corte costituzionale». Il giorno dell´arrivo ufficiale del documento a Palazzo Santa
Lucia è anche quello della resa dei conti. E il presidente Bassolino rivendica
le proprie ragioni. A partire dal ruolo di commissario che, precisa, sarà
«accettato ma con riserva». «Habemus decretum», ironizza sventolando il
provvedimento, «e dopo l´ennesima sollecitazione finalmente è pervenuto nella
sua sede naturale». Così, se due giorni fa l´ente di via Santa Lucia aveva annunciato
un´azione legale nei confronti del governo per ottenere un milione e 700 mila
euro, ieri è stato contestato il decreto. «Nei nostri confronti rispetto alla
Sicilia c´è stato un trattamento diverso», riepiloga il governatore, «che
prende il via nel novembre dell´anno scorso, quando alla fine del tavolo
tecnico si pervenne per Campania e Sicilia alle stesse conclusioni. Pochi
giorni dopo però, mentre per quest´ultima la lettera firmata da Berlusconi
"invitava" a produrre ulteriori atti, per la Campania il termine
"invito" era stato sostituito da "diffida", parola che
precede il commissariamento. Allora capii che era già stato deciso». Non è
tutto. Bassolino rivela che il provvedimento presenta "vizi
procedurali": «Si è andati al Consiglio dei ministri senza prima passare
per il tavolo politico». Poi tocca alle "prescrizioni". Sono diciotto
quelle menzionate nel decreto cui il commissario dovrà ottemperare: «Sono state
indicate sotto questa forma questioni e obblighi su cui la Regione ha già deliberato»,
aggiunge, «per esempio l´accordo che abbiamo siglato col Vecchio Policlinico».
«Si è proceduto in modo abnorme: noi vogliano far valere i diritti per tutelare
la salute dei cittadini». Per la futura attività di commissario (sempreché si
trovi un accordo sul o sui subcommissari), ribadisce: «Tutti gli atti che
firmerò da commissario saranno portati in giunta come avrei fatto da
presidente, e l´assessore Santangelo continuerà a svolgere la sua attività. Il
governo non può fare quel che vuole e io ho fiducia in un giudizio del Tar e
della Corte che ci consenta di riprendere a lavorare con i poteri ordinari».
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( da "Unita, L'" del
31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Campania, Sanità
commissariata Bassolino ricorre a Tar e Consulta GIUSEPPE VITTORI Sul
commissariamento della sanità campana, deciso dal Consiglio dei Ministri, la
giunta della Regione Campania ha dato mandato per impugnare il decreto di
commissariamento davanti al Tar per profili di illegittimità e davanti alla
Corte Costituzionale per conflitti di attribuzione. Nonostante questo, il
governatore Antonio Bassolino, che ha accusato il governo di aver «provocato in
modo unilaterale una lesione nei rapporti istituzionali», ha annunciato di
accettare l'incarico di commissario della Sanità, anche se «con riserva». Una
decisione, ha spiegato in una conferenza stampa, presa «non in rapporto ai
ricorsi, ma per alcuni punti del decreto, come la scelta del sub commissario o
sub commissari per i tempi indicati». «Il Governo non può pensare di fare
quello che gli pare, senza tener conto degli sforzi e degli impegni»,
Nonostante questo, ha sottolineato Bassolino, «firmerò tutti gli atti da
commissario ma saranno comunque discussi in giunta». Durante la conferenza
stampa, Antonio Bassolino ha parlato di «numerosi profili di illegittimità»
contenuti nel decreto di commissariamento della sanità in Campania. E tra tutti
ha citato «l'evidente disparità di trattamento tra la Campania e la Sicilia». Bassolino ha
ricordato il tavolo tecnico del 10 ottobre 2008 quando si parlò dei casi
Campania, Sicilia e Molise: un tavolo che si concluse con le stesse
considerazioni per tutte e tre le Regioni, avviare cioè le procedure che
avrebbero portato al commissariamento. «Ma mentre per la Campania e per il Molise
si utilizzò il termine diffida - ha detto Bassolino - per la Sicilia in modo singolare
si utilizzò il termine invito. C'è stata una evidente e grave disparità di
trattamento, il che porta nella vicenda la discrezionalità politica e, quindi,
un vulnus nei rapporti istituzionali». Il ritardo con cui l'atto di
commissariamento è arrivato (cinque giorni) viene maliziosamente attribuito al
lavoro tecnico di compilazione dell'atto soprattutto dal punto formale.
Insomma, si cercava di scrivere un testo che fosse
inappuntabile per evitare i già annunciati ricorsi al Tar o alla Corte
Costituzionale. Ma il ricorso ci sarà comunque. La giunta campana ricorrerà a
Tar e Corte Costituzionale contro il decreto di commissariamento della sanità
emanato dal governo. Bassolino firmerà comunque tutti gli atti da commissario,
ma «con riserva».
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-31 - pag: 23 autore: Imposte contese.
Depositata l'ordinanza cha ha preso in esame l'indeducibilità dal prelievo sui
redditi L'Irap si salva all'esame Consulta Determinante lo sconto del 10% a
forfait - La parola torna ai giudici tributari Luigi Lovecchio Punto e a capo
sulla questione della deducibilità dell'Irap dalle imposte sui redditi. Con
l'ordinanza 258, la Corte costituzionale ha infatti restituito gli atti alle Commissioni tributarie
rimettenti perché valutino l'impatto della novella di cui all'articolo 6 del
decreto legge 185/08. In forza di questa disposizione, è deducibile dalle
imposte sui redditi una quota pari al 10% dell'Irap versata, forfetariamente
riferibile alle spese sostenute a titolo di personale dipendente e di oneri
finanziari. Tutto lascia comunque credere che la questione verrà riproposta in
termini non molto diversi a quelli già prospettati alla Consulta. L'ordinanza è
molto interessante perché consente di misurare le tesi contrapposte dei giudici
tributari, da un lato, e dell'Avvocatura dello Stato, dall'altro. Le
Commissioni tributarie di Genova e di Bologna hanno in particolare dubitato
della legittimità costituzionale del divieto di
deducibilità dell'Irap dalle imposte sui redditi, per sospetta violazione
dell'articolo 53 della Costituzione. è stato in particolare messo in evidenza come
il divieto comporti l'assolvimento delle imposte non su un reddito netto, ma su
un reddito lordo, non depurato cioè di tutte le spese inerenti alla sua
produzione. Può così accadere, pertanto, che un'impresa in perdita debba subire
comunque l'imposizione reddituale, per effetto della variazione in aumento
rappresentata dall'Irap pagata e non deducibile. Ciò però, sempre secondo i
giudici rimettenti, si risolverebbe in una violazione del principio della
capacità contributiva, che richiede l'assunzionedi un indice rappresentativo di
un effettivo arricchimento economico. A queste obiezioni ha risposto
l'Avvocatura dello Stato, osservando in primo luogo che rientra nella
discrezionalità del legislatore il compito di fissare la misura della
deducibilità degli oneri sostenuti per la produzione del reddito. Rileva ancora
l'Erario come il principio della indeducibilità dell'Irap discenda dalla natura
di tributo reale dell'imposta regionale e dal fatto che l'Irap colpirebbe una
capacità contributiva che sfugge all'imposizione reddituale, colmando così una
lacuna dell'ordinamento. Non è mancata inoltre l'eccezione relativa
all'esigenza di semplificazione dei rapporti finanziari tra i diversi livelli
di Governo. Nell'ipotesi della deducibilità, infatti, qualsiasi manovra
sull'aliquota di imposta, decisa dalla Regione o dallo Stato nell'ambito
dell'entrata di propria competenza, si ripercuoterebbe sul gettito del tributo
gestito dall'altro livello di Governo. La Consulta, nel prendere in esame le contrapposte
eccezioni, ha tenuto in considerazione la novella,rappresentata dall'articolo 6
del Dl 185/ 08, relativa alla parziale deducibilità dell'Irap, sia per
l'esercizio 2008 sia per le annualità pregresse. Conseguentemente, l'ordinanza
ha disposto la trasmissione degli atti alle Commissioni tributarie, affinché
valutino la rilevanza della predetta modifica legislativa e motivino
l'eventuale ulteriore rimessione degli atti alla Corte costituzionale.
A questo punto, è facile prevedere che la questione sarà comunque riproposta
dai giudici tributari. La ratio della deducibilità riferita alla componente
lavoro e agli oneri finanziari risiede nell'esigenza di tener conto della quota
parte dell'imposta regionale astrattamente imputabile a costi della produzione
che sono deducibili ai fini dell'imposizione diretta. Il punto è però che la
misura del 10% è forfetaria e non è dunque commisurata all'entità delle spese
effettivamente sostenute. Ciò comporta che sono messi sullo stesso piano
soggetti che sopportano costi minimali per retribuzioni e interessi ( imprese
capital intensive) e soggetti che invece sono fortemente incisi da tali spese
(imprese labour intensive o sottocapitalizzate), a tutto danno di questi
ultimi. © RIPRODUZIONE RISERVATA IL PROSSIMO PASSAGGIO Spetterà alle commissioni
valutare se dopo il Dl 185 restano i margini per un'ulteriore questione di
legittimità
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-31 - pag: 23 autore: ANALISI La
pronuncia moltiplicherà i rinvii alla Corte di Enrico De Mita T utta la vicenda
dell'Irap e della sua deducibilità dalle imposte sui redditi è espressione di
una politica tributaria priva di logica sistematica. Le fasi di questa politica
sono le seguenti: • la stessa istituzione dell'Irap e della sua giustificazione
in termini di capacità contributiva e di compatibilità con il sistema
tributario italiano; • il divieto di dedurre l'imposta da quelle sui redditi; •
la deduzione successivamente introdotta del •0% e articolata in più ipotesi (un
atto di demagogia più che una razionalizzazione del tributo). Di fronte all'indeducibilità
dell'Irap dalle imposte sui redditi la Corte costituzionale avrebbe dovuto pronunciarsi in termini di logica giuridica,
cercando il collegamento di essa con le imposte sui redditi, ma nell'ordinanza
n. 258/2009 la Corte
ha voluto dare al requisito della «rilevanza » della questione di
costituzionalità proposta un significato indistinto tale da consentire ogni
tipo di soluzione da parte dei giudici tributari. E così, facendo lo
stesso gioco del decreto legge 185/2008, ha ritenuto che la rilevanza cambiasse
a seconda non solo dell'oggetto del ricorso ma in base agli spazi consentiti al
giudice tributario non dalla legge organica ma dai diversi profili del decreto.
Sicché le ipotesi di rilevanza della questione di costituzionalità si potranno
moltiplicare all'infinito. Difatti l'articolo 6 del decreto è qualcosa di
peggio di una circolare: la deducibilità del 10% dell'Irap pagata è configurata
come forfettizzazione dell'imposta sulla quota di essa e come limite del
rimborso negli anni di competenza rinviando addirittura l'integrazione delle
risorse a successivi provvedimenti legislativi. Anziché rilevare l'arbitrarietà
del decreto legge al fine di giudicare della costituzionalità della vicenda la Corte ha seguito la logica
governativa sicché ha espresso un'ordinanza sbrigativa che agisce come
moltiplicatore delle nuove formulazioni dell'ordinanza che ci saranno a seguito
del rinvio degli atti. Tutto viene rimandato alle calende greche. Una
giurisprudenza necessitata? No! Una giurisprudenza pigra. Perché la
giurisprudenza della Corte costituzionale è stata
definita necessitata dalla migliore dottrina quando non si poteva decidere
diversamente rispetto a obiettivi dai quali non si poteva prescindere come fu
la conservazione delle condizioni tributarie. L'ordinanza non è giurisprudenza
necessitata ma adeguamento a una confusa politica tributaria priva di logica in
parte demagogica (come dimostrato dal rinvio a nuove leggi). La Corte avrebbe potuto dare un
quadro sistematico della materia in ordine all'indeducibilità dell'Irap e
stabilire entro quali limiti c'era diritto al rimborso anziché rimettere alle
commissioni tributarie il giudizio di costituzionalità entro un quadro molto
più confuso. L'ordinanza della Corte potrebbe essere apprezzata come censura al
potere politico se ci fosse almeno un cenno critico al provvedimento di legge,
almeno laddove questo non è un atto normativo ma solo rinvio a «successivi
provvedimenti legislativi». Le commissioni tributarie e i contribuenti
frattanto che debbono fare? Aspettare. Questa è la giurisprudenza "
necessitata"? © RIPRODUZIONE RISERVATA IL QUADRO La scelta non è dovuta a
giurisprudenza «necessitata» ma soltanto a valutazioni pigre
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-07-31 - pag: 23 autore: Andata e ritorno La
questione La questione esaminata dalla Corte costituzionale
riguarda la deducibilità dell'Irap dalle imposte sui redditi. I giudici
remittenti, infatti, dubitavano della legittimità della indeducibilità
dell'Irap sotto il profilo della compatibilità con l'articolo 53 della
Costituzione La modifica intervenuta La Corte costituzionale ha
restituito gli atti ai giudici tributari affinché questi valutino la rilevanza
dell'intervento previsto dall'articolo 6 del decreto legge 185/08, in base al
quale è deducibile ai fini delle imposte sui redditi il 10% dell'Irap pagata,forfettariamente
riferibile alle spese del personale e agli oneri finanziari La prossima tappa
Le Commissioni tributarie dovranno valutare se la novità
normativa intervenuta eliminio meno tutti i dubbi di costituzionalità Gli
sviluppi possibili Con buona probabilità le Commissioni tributarie rimetteranno
nuovamente la questione all'esame della Corte costituzionale,
perché la deducibilità del 10%dell'Irap non consente di tener conto di tutti i
costi della produzione effettivamente sostenuti dalle imprese
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI GIUSTIZIA data: 2009-07-31 - pag: 29 autore: Legittime
le disposizioni pugliesi Regole territoriali per i rischi rilevanti Paolo
Pipere Le regioni possono legittimamente disciplinare la materia delle imprese
a rischio di incidente rilevante. Lo ha deciso la Corte costituzionale, con sentenza 248 del 16 luglio. Il governo aveva sollevato la
questione di legittimità di alcuni articoli della legge della regione Puglia 7
maggio 2008, n. 6, che le attribuiscono l'esercizio di funzioni di indirizzo e
coordinamento sui pericoli di incidenti rilevanti, sostenendo che la norma
regionale lede la competenza legislativa dello Stato nella tutela
dell'ambiente, e contrasta con il decreto legislativo 334/1999 (attuazione
della direttiva 96/82/Ce sul controllo dei pericoli di incidenti rilevanti per
sostanze pericolose). La Corte
ha stabilito che l'attribuzione alla regione di funzioni di indirizzo e
coordinamento in materia di pericoli di incidenti rilevanti non solo non viola
la potestà legislativa dello Stato, ma costituisce applicazione di quanto alla
regione demanda la legge statale. Secondo la Corte, la fissazione di indirizzi strategici e
programmatici e di linee guida in materia di controlli regionali non è lesiva
della competenza statale perché garantisce l'omogenea applicazione della disciplina
nel territorio regionale nel rispetto degli standard fissati dal legislatore. La Consulta ha respinto
anche, con sentenza 250 (si veda «Il Sole 24 Ore» del 25 luglio), il ricorso di
alcune regioni contro una serie di disposizioni in materiadi emissioni in
atmosfera contenute nel decreto legislativo 152/2006 (norme in materia
ambientale). La Puglia
sosteneva che le norme avrebbero introdotto una disciplina di estremo
dettaglio, non giustificata dall'esigenza di predisporre standard di tutela
uniformi, privando le regioni della possibilità di calibrare i procedimenti in
relazione alle peculiarità dei territori. La Calabria ha contestato,
tra l'altro, la competenza statale sulla abilitazione alla conduzione degli
impianti termici civili, che sottrarrebbe alle regioni una competenza di
dettaglio riconducibile alla materia della «tutela della salute» e della
«tutela e sicurezza del lavoro». Il Piemonte ha impugnato la parte quinta del
decreto legislativo anche sostenendo che viola principi del diritto comunitario
e di convenzioni internazionali. Sul primo punto (norme procedimentali
eccessivamente dettagliate), la
Corte ha ritenuto che «la riconduzione della disposizione
censurata alla competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela
dell'ambiente esclude in radice che la Regione possa contestarne il carattere
dettagliato». Le censure relative alla non conformità alle norme comunitarie
sono state respinte perché insufficientemente motivate. La conduzione di
impianti termici civili al solo personale abilitato, non è – secondo la Corte – un aspetto di
dettaglio della normativa, ma «ne costituisce piuttosto un cardine, dal momento
che affida tale compito solo a chi disponga di una formazione professionale che
lo renda idoneo a prevenire, e comunque a gestire nel migliore dei modi, gli
effetti pregiudizievoli per l'ambiente e la salute», anche se è stata
dichiarata l'illegittimità della disposizione nella parte in cui attribuisce
all'ispettorato provinciale del lavoro il compito di rilasciare l'attestato di
abilitazione. © RIPRODUZIONE RISERVATA L'INDICAZIONE Per i giudici le regioni
possono disciplinare la materia senza lesione delle competenze centrali
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI GIUSTIZIA data: 2009-07-31 - pag: 29 autore: Eccessiva
discrezionalità • Sentenza Corte Costituzionale 252/2009 La Regione Marche, nel
disciplinare in modo autonomo le modalità di selezione del personale esterno
destinatoa collaborare con i gruppi consiliari e le segreterie della Giunta,
non ha previsto alcun criterio selettivo alternativoa quelli dettati dalla
legge statale. è consentito così l'accesso a tali uffici di personale
esterno del tutto privo di qualificazione, in modo irragionevole e in
violazione del canone di buon andamento della pubblica amministrazione. Deve
essere dichiarata l'illegittimità (...) nella parte in cui consentono il conferimento
di incarichi (...) e l'instaurazione di rapporti di collaborazione (...)
indipendentemente dai requisiti fissati dall'articolo 7,comma6 del Dlgs n. 165
del 2001.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI GIUSTIZIA data: 2009-07-31 - pag: 29 autore: Consulta.
Stop alle Marche Vincoli statali per le consulenze Alessandro Galimberti ROMA
Nella scelta dei collaboratori esterni le Regioni devono rispettare i canoni
della ragionevolezza e del buon andamento della pubblica amministrazione, pur
nei limiti dell'autonomia riconosciuta loro anche dalla Consulta (sentenze
187/1990 e 1130/1988). Con questi motivi la Corte Costituzionale
( sentenza 252/2009, depositata ieri) ha bocciato la legge 7/2008 delle Marche
nella parte in cui consente di conferire incarichi esterni e instaurare
rapporti di collaborazione coordinata e continuativa indipendentemente dai
requisiti fissati dalla legge sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze della
Pa (decreto legislativo 165/2001). La normativa dichiarata incostituzionale permetteva ai gruppi consiliari regionali e
per analogia alla giunta- di scegliersi consulenti esterni sottraendosi ai
limiti rigidi fissati dalla legge nazionale, e cioè «la particolare e
comprovata specializzazione universitaria» dei candidati da contrattualizzare.
Proprio sulla rigidità della norma statale si era appuntata la difesa delle
Marche, contro l'eccezione di incostituzionalità sollevata dalla Presidenza del
Consiglio: la stretta contenuta nella legge 244 del 2007, che sostituiva
l'espressione «esperti di comprovata esperienza» con l'ulteriore requisito
della «specializzazione universitaria», avrebbe «vanificato il residuo spazio
di intervento normativo in materia da parte delle Regioni », comprimendo così
la potestà legislativa concorrente dell'autonomia (articolo 117 della
Costituzione). Lo stop dei giudici costituzionali è scattato però sulla
violazione degli articoli 3 (uguaglianza) e 97 (buon andamento e imparzialità)
della Carta dei diritti fondamentali. Le regole regionali, per la loro
genericità, determinerebbero «l'inserimento nell'organizzazione pubblica di
soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza
»; quanto ai paletti fissati dal legislatore nazionale, «non comprimono affatto
l'autonomia delle Regioni, ma si limitano a stabilire dei criteri oggettivi di
professionalità, che non mettono in discussione il ca-rattere discrezionale
della scelta dei collaboratori». E le Regioni possono anche derogarvi, ma
dentro binari normativi che garantiscano «professionalità e competenza dei
collaboratori», scongiurando così il pericolo «clientelare». © RIPRODUZIONE
RISERVATA
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La Campania impugna il Dl
sulla sanità (sezione: Giustizia)
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: PRIMO PIANO data: 2009-07-31 - pag: 5 autore: COMMISSARIAMENTO La Campania impugna il Dl
sulla sanità Antonio Bassolino ha deciso ieri di accettare «con riserva » il
ruolo di commissario per la Sanità
in Campania. Ma nello stesso tempo la giuntaha dato mandato per impugnare
davanti al Tar e alla Corte costituzionale il
decreto dicommissariamento deliberato la settimana scorsa dal Consiglio dei
ministri. La scelta di Bassolino è legata, ha detto egli stesso,
all'indicazione del sub commissario o dei sub commissari previsti. Mentre il
ricorso al Tar e alla Consulta fa perno sui profili di illegittimità che si
lamentano nella decisione del Governo di arrivare al commissariamento,
con cifre e valutazioni di merito che la giunta contesta apertamente. Con un
punto politico in particolare («discrezionalità politica », l'ha definita)
segnalato da Bassolino: «L'evidente disparità di trattamento tra la Campania e la Sicilia». La Sicilia, infatti, almeno
finora ha evitato il commissario.
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( da "AltaLex" del
31-07-2009)
Argomenti: Giustizia
Lavoratore che
assiste handicappato trasferibile in caso di incompatibilità ambientale
Cassazione civile , sez. III, sentenza 09.07.2009 n° 16102 (Adolfo Liarò)
Commenta | Stampa | Segnala | Condividi La corte dice:
si al trasferimento del prestatore di lavoro che assiste una persona portatore
di handicap, senza il suo consenso, solo nel caso in cui la sua permanenza
possa recare forte pregiudizio all’attivita’ lavorativa
prestata. “In tema di assistenza alle persone handicappate deve affermarsi il diritto del genitore
o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che
assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado
handicappato, di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, non
potendo subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze
tecnico-produttive dell’azienda, ovvero della pubblica amministrazione,
non è invece attuabile ove sia accertata, in base ad una verifica rigorosa
anche in sede
giurisdizionale, la incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede
di lavoro”. Norme interessate Codice civile Art. 2103 - Prestazione del lavoro
Comma 3: <>. Comma 4 :<>. Legge 05.02.1992, n. 104 Art. 33, comma 5 (legge ?quadro per l?assistenza, l?integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) come modificato dall?art. 19, l. 08/03/2000 n. 53 Comma 5: <>. Decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 Art. 467 ?si fa luogo al trasferimento d?ufficio soltanto in caso di soppressione di posto o di cattedre, ovvero per accertata situazione di incompatibilità di permanenza del personale nella scuola o nella sede? Principi costituzionali interessati Costituzione Art. 3 = sotto il profilo del principio di solidarietà; Art. 97 = con riguardo al principio di buon andamento e dell?imparzialità dell?Amministrazione; Art. 41 = in relazione alle esigenze organizzative ed economiche del datore di lavoro. Il caso A causa dei comportamenti dell?insegnante sul posto di lavoro (la quale assisteva una persona handicappata), si era venuta a creare una situazione di acuta conflittualità con i colleghi, nonché con gli alunni e le loro famiglie, sicchè veniva disposto il trasferimento per incompatibilità ambientale. Il trasferimento veniva impugnato e, con sentenza del 24 giugno 2004 la Corte d?appello di Messina, confermava la decisione di primo grado diretta alla declaratoria di illegittimità del trasferimento, disposto per incompatibilità ambientale, della professoressa accudente una persona portatore di handicap. La Corte territoriale riteneva che, assistendo la docente un familiare handicappato con lei convivente, rientrava nella previsione normativa agevolatrice di cui all?art. 33, corna 5, della legge n. 104 del 1992, la quale statuisce l?impossibilità di trasferimento senza il consenso della stessa. Né secondo i giudici d?appello esiste una norma di legge che prevede, in tale ipotesi, un bilanciamento fra interessi familiari del lavoratore con quelli tecnico -produttivi del datore di lavoro. Avverso questa sentenza veniva proposto gravame e, con ordinanza di rimessione della Corte di Cassazione, Sezione lavoro, venivano adite le Sezioni unite a causa della particolare importanza rivestita dalla controversia ai sensi dell?art. 374, comma 2, c.p.c.. Inquadramento della problematica La Suprema Corte veniva investita, nelle sue Sezioni Unite, per districarsi in una problematica di estrema importanza. Il quesito verteva sull?applicazione o meno dell?art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992 (legge?quadro per l?assistenza, l?integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), che prevede agevolazioni per i lavoratori che assistono soggetti portatori di handicap qualora ci si trovi in possibili situazioni lesive degli interessi del datore di lavoro, come ad esempio in ipotesi di incompatibilità ambientali. Si pone cioè la questione dell?ammissibilità del trasferimento d?ufficio del lavoratore, che si trovi nella situazione familiare prevista dalla norma, ma in ipotesi di accertata incompatibilità ambientale, tali da non garantire il normale svolgimento della prestazione lavorativa richiesta. Quindi è richiesto, alla Suprema Corte, di bilanciare tra i principi avallati dall?articolo in parola, così come modificato dall?art. 19 della legge 8 marzo 2000, n. 53, il quale dispone che <> ed i principi Costituzionali relativi al buon andamento e imparzialità dei pubblici uffici finalizzati all?attuazione del principio costituzionale mediante l?ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e la determinazione di precisi livelli di efficienza per ciascuna struttura della pubblica amministrazione. La risposta della Corte I Cassazionisti sono quindi chiamati a vagliare la possibilità o meno di applicazione della disposizione di cuiall?art. 33, comma 5, l. n. 104/1992 e successive modificazioni, che richiede il preventivo consenso al trasferimento per i lavoratori che assistono soggetti portatori di handicap, nel caso in cui lo stesso lavoratore si trovi in situazione di in ipotesi di ?accertata incompatibilità ambientale?. Esaminando la vexata quaestio, i Giudici Ermellini iniziano con l?esame del dato normativo e, in particolare, dell?art. 33, l. 104/1992, così come modificato dall?art. 19 della legge 8 marzo 2000, n. 53, al comma 5, il quale dispone che << il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito, senza il suo consenso, ad altra sede>>. La norma, in origine prevedeva che il lavoratore dovesse essere categoricamente un convivente della persona handicappata, ma tale requisito è stato eliminato dal richiamato art. 19, l. n. 53/2000. La stessa legge all?art. 20 precisa, però, che l?assistenza deve essere prestata con continuità e in via esclusiva. Inoltre, la fruizione di tali agevolazioni presuppone che la condizione di portatore di handicap deve essere accertata mediante ?le commissioni mediche previste dall?art. 4 della stessa legge n. 104 del 1992? (cfr., ex plurimis, Cass. n. 8436 del 2003). La Corte compie una configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla norma, e i limiti del relativo esercizio all?interno del rapporto di lavoro, alla luce dei numerosi interventi della Corte costituzionale, che, collocando le agevolazioni in esame all?interno di un?ampia sfera di applicazione della legge n. 104 del 1992, diretta ad assicurare, in termini quanto più possibile soddisfacente, la tutela dei soggetti portatori di handicap, destinata a incidere sul settore sanitario e assistenziale, sulla formazione professionale, sulle condizioni di lavoro, sulla integrazione scolastica, ha precisato ?la discrezionalità del Legislatore nell?individuare le diverse misure operative finalizzate a garantire la condizione del portatore di handicap mediante la interrelazione e la integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale? (cfr. Corte cost. n. 406 del 1992; id., n. 325 del 1996). In questa ottica ? le misure previste dall?art. 33, comma 5, devono intendersi come razionalmente inserite in un ampio complesso normativo riconducibile al principio sancito dall?art. 3, secondo comma, della Costituzione che deve trovare attuazione mediante meccanismi di solidarietà che, da un lato, non si identificano esclusivamente con l?assistenza familiare e, dall?altro, devono coesistere e bilanciarsi con altri valori costituzionali?. Le Sezioni Unite, al riguardo, osservano che la tutela è riconosciuta come s?è visto, a seguito della richiamata legge n. 53 del 2000, al lavoratore che provveda all?assistenza della persona handicappata pur non essendo con essa convivente, sì che ?l?agevolazione è diretta non tanto a garantire la presenza del lavoratore nel proprio nucleo familiare, quanto evitare che la persona handicappata resti priva assistenza in ad di relazione alla sede lavorativa del familiare che la assiste, di modo che possa risultare compromessa la sua tutela psico - fisica e la sua integrazione nella famiglia e nella collettività? (cfr. Corte cost. n. 19 del 2009); e, d?altra parte, un?uguale agevolazione, quanto alla scelta della sede di lavoro e alla inamovibilità, è prevista dal comma sesto dello stesso art. 33 in favore della persona handicappata in situazione di gravità, così confermandosi che, in generale, il destinatario della tutela realizzata mediante le agevolazioni previste dalla legge non è il nucleo familiare in sé, bensì la persona portatrice di handicap. Un?interpetrazione come sopra delineata è in netta sintonia con la definizione contenuta nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, approvata il 13 dicembre 2006, là dove prevede che ?la finalità comune dei diversi ordinamenti viene identificata nella piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri, nonché con la nuova classificazione adottata nel 1999 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha sostituito il termine <> con ?attività personali? e i termini ?handicap? e <> con il termine <>?. Corollario della suesposta asserzione è che l?efficacia di questa tutela si realizza anche mediante una regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il familiare della persona tutelata, là dove il riconoscimento di diritti in capo al lavoratore è in funzione del diritto del portatore di handicap a ricevere assistenza. In considerazione dei richiamati orientamenti della Corte costituzionale, già le sezioni unite, occupandosi del diritto di scelta della sede di lavoro a conclusione di una procedura concorsuale pubblica, hanno avuto modo di rilevare che ?l?art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992 non configura in generale, in capo ai soggetti ivi individuati, un diritto assoluto e illimitato, poiché esso può essere fatto valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento fra tutti gli implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive ed organizzative del datore di lavoro e per tradursi , soprattutto nei casi relativi a rapporti di lavoro pubblico, in un danno per l?interesse della collettività? (cfr. Cass., sez. un., n. 7945/2008) Quest?ultimo rilievo, attesta l?esigenza che deve avere ogni interesse individuale, quantunque garantito dalla Costituzione, di compatibilità con la stessa e, nella fattispecie, con il principio di buon andamento e imparzialità dei pubblici uffici, ciò trova un significativo riscontro nella legge-delega 3 marzo 2009, n. 15, finalizzata alla attuazione del principio costituzionale mediante l?ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e la determinazione di precisi livelli di efficienza per ciascuna struttura della pubblica amministrazione. Mette conto rilevare che il bilanciamento degli indicati interessi avviene a livelli diversi in relazione alle distinte posizioni soggettive contemplate dalla disposizione in esame. A tal proposito, afferma la Corte, ?la limitazione del diritto, in ragione della concomitanza di valori di rilievo costituzionale, quali i principi distintamente espressi dall?art. 97 e dall?art. 41 Cost., si esplicita nella norma, con riguardo alla scelta della sede di lavoro all?atto dell?assunzione (od anche in via di successivo trasferimento a domanda: cfr., da ultimo, con riferimento all?ipotesi dell?art. 33, comma 6, Cass. n. 3896 del 2009), con l?inciso ?ove possibile?, che vale a configurare una subordinazione del diritto alla condizione che il suo esercizio non comporti una lesione eccessiva delle esigenze organizzative ed economiche del datore di lavoro privato, ovvero non determini un danno per la collettività compromettendo il buon andamento e l?efficienza della pubblica amministrazione? (cfr. Corte cost. n. 372 del 2002; Cass., sez. un., n. 7945 del 2008, cit.; Cass. n. 1396 del 2006; id., n. 8436 del 2003; id., n. 12692 del 2002) La mancanza di tale esplicitazione per l?ipotesi del trasferimento, per il quale la seconda parte della disposizione prevede semplicemente che il lavoratore non può essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso, esprime una diversa scelta di valori che è collegata alla diversità delle due situazioni, e specificamente ai riflessi negativi per il portatore di handicap di un trasferimento di sede del congiunto a fronte di una situazione assistenziale già consolidata. Tuttavia, ?la scelta operata dal Legislatore significa soltanto che in questa ipotesi l?interesse della persona handicappata, ponendosi come limite esterno del potere datoriale di trasferimento, quale disciplinato in via generale dall?art. 2103 c.c., prevale sulle ordinarie esigenze produttive e organizzative del datore di lavoro; ma non esclude che il medesimo interesse, pure prevalente rispetto alle predette esigenze, debba conciliarsi con altri rilevanti interessi, diversi da quelli sottesi alla ordinaria mobilità, che possono entrare in gioco nello svolgimento del rapporto di lavoro, pubblico o privato, così come avviene in altre ipotesi di divieto di trasferimento previste dall?ordinamento per le quali la considerazione dei princìpi costituzionali coinvolti può determinare, concretamente, un limite alla prescrizione di inamovibilità? (cfr. art. 22, secondo comma, della legge n. 300 del 1970; art. 78, comma 6, del decreto legislativo n. 267 del 2000; art. 2, sesto comma, della legge n. 1264 del 1971, introdotto dall?art. 17, comma 1, della legge n. 53 del 2000). La ricognizione di siffatti interessi è presente nella evoluzione della giurisprudenza di legittimità, che ha individuato ?situazioni di fatto, di incompatibilità ambientale, che, se pure prescindono da ragioni punitive o disciplinari e sono riconducibili in via sistematica all?art. 2103 c.c., si distinguono dalle ordinarie esigenze di assetto organizzativo in quanto costituiscono esse stesse causa di disorganizzazione e disfunzione realizzando, di per sé, un?obiettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro? (cfr. Cass. n. 4265 del 2007; id., 10252 del 1995). Si tratta, a ben vedere, di situazioni che possono essere accomunate alla soppressione del posto, per il fatto che in entrambi i casi il mutamento della sede corrisponde alla necessità obiettiva, da accertare rigorosamente anche in sede giurisdizionale, di conservare al lavoratore il posto di lavoro, ove risulti l?impossibilità della prosecuzione del rapporto nella precedente sede. E, peraltro, la eadem ratio delle due ipotesi si rinviene proprio nella previsione normativa applicabile nella controversia in esame, che é l?art. 467 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 ? inserito in un testo unico delle disposizioni legislative in materia di istruzione che prevede, all?art. 601, l?applicazione, anche per la mobilità, delle agevolazioni della legge n. 104 del 1992 ? dispone che ?si fa luogo al trasferimento d?ufficio soltanto in caso di soppressione di posto o di cattedre, ovvero per accertata situazione di incompatibilità di permanenza del personale nella scuola o nella sede?. Proprio nell?ottica di considerare ciascun principio e ciascun valore ?senza perdere di vista, comunque, l?insieme normativo? (cfr. Corte cost. n. 325 del 1996, cit.), i giudici della Suprema Corte, affermano che ?occorre anche osservare come l?accertata esistenza di tali situazioni comporti in realtà una pluralità di esigenze, ognuna diversa dalla mera mobilità del personale, che si identificano non soltanto con il funzionamento dell?azienda, ovvero dell?ente pubblico, ma anche con la necessità di conservare il posto al lavoratore: necessità che si riflette, d?altronde, sulla stessa persona handicappata, poiché la perdita del lavoro comporterebbe per il familiare uno squilibrio di assetti destinato a mettere a rischio la stessa possibilità dell?assistenza?. Pertanto ?la particolarità delle esigenze sottese a tali situazioni, riconducibili a valori di rilievo costituzionale e allo stesso mantenimento dell?assistenza alle persone handicappate, determina la inapplicabilità, in caso di soppressione del posto o di incompatibilità ambientale, della tutela di cui all?art. 33, comma 5, seconda parte, della legge n. 104 del 1992, che riguarda invece le ipotesi di mobilità dei lavoratori per ordinarie ragioni tecnico? produttive. In conclusione, ai sensi dei suesposti rilievi, la Suprema Corte ritiene che ?deve affermarsi, alla luce di una interpretazione dell?art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992 orientata alla complessiva considerazione dei principi e dei valori costituzionali coinvolti, il diritto del genitore o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato, di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede, mentre non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell?azienda, ovvero della pubblica amministrazione, non è invece attuabile ove sia accertata, in base ad una verifica rigorosa anche in sede giurisdizionale, la incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede di lavoro?. (Altalex, 31 luglio 2009. Nota di Adolfo Liarò) | lavoratore | handicap | insegnante | trasferimento del lavoratore | Adolfo Liarò | SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 9 luglio 2009, n. 16102 (Presidente G. B. Petti, Relatore B. Spagna Musso) Svolgimento del processo 1. - Con sentenza del 24 giugno 2004 la Corte d'appello di Messina, respingendo il gravame proposto dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca, ha confermato la decisione di primo grado con cui il Tribunale di Patti, in funzione di giudice del lavoro, aveva accolto la domanda di S. A., docente di scuola elementare, diretta alla declaratoria di illegittimità del proprio trasferimento dal Circolo didattico di Tortorici a quello di Galati Mamertino, disposto - per incompatibilità ambientale - per 1'anno scolastico 1998-1999. 1.1. - La Corte territoriale ha ritenuto che la A., asssistendo un familiare handicappato con lei convivente, ai sensi dell' art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992, non potesse essere trasferita senza il proprio consenso, non prevedendo la legge, in tale ipotesi, alcun bilanciamento degli interessi familiari del lavoratore con quelli tecnico-produttivi del datore di lavoro, così come invece previsto dal Legislatore per l'ipotesi di prima assegnazione della sede di lavoro, in cui 1'interesse del lavoratore è tutelato "ove possibile". Ha aggiunto che, nel caso di specie, si era verificata, a causa di comportamenti dell'insegnante, una situazione di acuta conflittualità con i colleghi, nonché con gli alunni e le loro famiglie, sì che il trasferimento non garantiva, comunque, l'interesse dell'Amministrazione, non potendosi escludere che una analoga situazione si ripetesse anche in altra sede. 2.- Avverso questa sentenza il Ministero ha proposto ricorso per cassazione deducendo due motivi di impugnazione. 3.- La lavoratrice non ha svolto attività difensive in questa sede. 4 - Il ricorso è stato assegnato a queste Sezioni unite, ai sensi dell' art. 374, secondo comma, c.p.c., a seguito di ordinanza di rimessione della Sezione lavoro che ha segnalato la particolare importanza della questione sottoposta alla Corte di cassazione. Motivi della decisione 1. - Con il primo motivo di ricorso viene denunciata violazione e falsa applicazione dell' art. 33, comma 5, della legge n. 104 del 1992 e dell'art. 468 del decreto legislativo n. 297 del 1994, nonché insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia. Si addebita alla sentenza impugnata di avere introdotto una netta distinzione fra 1'ipotesi dì prima assegnazione della sede di servizio, nella quale avrebbero rilievo anche le esigenze organizzative dell'Amministrazione, e quella del trasferimento, ove sarebbe indispensabile il consenso del lavoratore, finendo così per trascurare la ratio delle disposizioni in esame e per comprimere eccessivamente i poteri della Amministrazione datrice di lavoro, specialmente in relazione alle ipotesi di trasferimento d'ufficio previste dalla legge. 2. - Con il secondo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione dell' art. 468, sopra richiamato, nonché insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia. Si censura la decisione della Corte d'appello per avere ritenuto illegittimo il trasferimento in base al rilievo che la situazione di incompatibilità, che vi aveva dato causa, si sarebbe potuta verificare anche in una sede diversa, sì che la misura adottata non fosse quindi quella più idonea a risolvere i problemi ambientali creatisi presso la scuola di assegnazione. 3. - L'esame del primo motivo presuppone l'interpretazione dell' art. 33, comma 5, sopra richiamato, e, in particolare, pone la questione dell' ammissibilità del trasferimento d'ufficio del lavoratore, che si trovi nella situazione familiare prevista dalla norma, in ipotesi di accertata incompatibilità ambientale. 4 . - La legge 5 febbraio 1992, n. 104 (legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) prevede, all' art. 33, agevolazioni per i lavoratori che assistono soggetti portatori di handicap. In particolare, il quinto comma, così come modificato dall'art. 19 della legge 8 marzo 2000, n. 53, dispone che il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado handicappato ha diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito, senza il suo consenso, ad altra sede. La norma prevedeva, originariamente, che il lavoratore fosse convivente con la persona handicappata, ma tale requisito è stato eliminato dal richiamato art. 19 della legge n. 53 del 2000; l'art. 20 di tale legge ha precisato che l'assistenza deve essere prestata con continuità e in via esclusiva. Inoltre, la fruizione di tali agevolazioni presuppone che la condizione di portatore di handicap deve essere accertata mediante le commissioni mediche previste dall' art. 4 della stessa legge n. 104 del 1992 (cfr., ex plurimis, Cass. n. 8436 del 2003). 4.1. - Sul piano sistematico, la configurazione giuridica delle posizioni soggettive riconosciute dalla norma, e i limiti del relativo esercizio all' interno del rapporto di lavoro, devono essere individuati alla luce dei numerosi interventi della Corte >costituzionale,
che - collocando le agevolazioni in esame all' interno di un'ampia sfera di
applicazione della legge n. 104 del 1992, diretta ad assicurare, in termini
quanto più possibile soddisfacente, la tutela dei soggetti portatori di
handicap, destinata a incidere sul settore sanitario e assistenziale, sulla
formazione professionale, sulle condizioni di lavoro, sulla integrazione
scolastica - ha tuttavia precisato la discrezionalità del Legislatore
nell'individuare le diverse misure operative finalizzate a garantire la
condizione del portatore di handicap mediante la interrelazione e la
integrazione dei valori espressi dal disegno costituzionale
(cfr. Corte cost. n. 406 del 1992; id., n. 325 del 1996). In questa ottica, le
misure previste dall' art. 33, comma 5, devono intendersi come razionalmente
inserite in un ampio complesso normativo - riconducibile al principio sancito
dall' art. 3, secondo comma, della Costituzione - che deve trovare attuazione
mediante meccanismi di solidarietà che, da un lato, non si identificano
esclusivamente con 1'assistenza familiare e, dall' altro, devono coesistere e
bilanciarsi con altri valori costituzionali. Può osservarsi, al riguardo, che
la tutela è riconosciuta - come s'è visto, a seguito della richiamata legge n.
53 del 2000 - al lavoratore che provveda all' assistenza della persona
handicappata pur non essendo con essa convivente, sì che l'agevolazione è
diretta non tanto a garantire la presenza del lavoratore nel proprio nucleo
familiare, quanto ad evitare che la persona handicappata resti priva di
assistenza in relazione alla sede lavorativa del familiare che la assiste, di modo
che possa risultare compromessa la sua tutela psico-fisica e la sua
integrazione nella famiglia e nella collettività (cfr. Corte cost. n. 19 del
2009) ; e, d'altra parte, un'uguale agevolazione, quanto alla scelta della sede
di lavoro e alla inamovibilità, è prevista dal comma sesto dello stesso art. 33 in favore della persona
handicappata in situazione di gravità, così confermandosi che, in generale, il
destinatario della tutela realizzata mediante le agevolazioni previste dalla
legge non è il nucleo familiare in sé, bensì la persona portatrice dì handicap.
Una configurazione siffatta, d'altronde, è in linea con la definizione
contenuta nella Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità,
approvata il 13 dicembre 200 6, là dove la finalità comune dei diversi
ordinamenti viene identificata nella piena ed effettiva partecipazione nella
società su una base di eguaglianza con gli altri, nonché con la nuova
classificazione adottata nel 1999 dalla Organizzazione Mondiale della Sanità,
che ha sostituito il termine "disabilità" con "attività
personali" e i termini "handicap" e "svantaggio
esistenziale" con il termine "partecipazione sociale".
L'efficacia di questa tutela si realizza, per quanto qui interessa, anche
mediante una regolamentazione del contratto di lavoro in cui è parte il
familiare della persona tutelata, là dove il riconoscimento di diritti in capo
al lavoratore è in funzione del diritto del portatore dì handicap a ricevere
assistenza. 4.2. - In considerazione dei richiamati orientamenti della Corte costituzionale, queste Sezioni unite, occupandosi del
diritto dì scelta della sede di lavoro a conclusione di una procedura
concorsuale pubblica, hanno già avuto modo di rilevare che 1 ' art. 33, comma
5, della legge n. 104 del 1992 non configura in generale, in capo ai soggetti
ivi individuati, un diritto assoluto e illimitato, poiché esso può essere fatto
valere allorquando, alla stregua di un equo bilanciamento fra tutti gli
implicati interessi costituzionalmente rilevanti, il suo esercizio non finisca
per ledere in maniera consistente le esigenze economiche, produttive ed
organizzative del datore di lavoro e per tradursi - soprattutto nei casi
relativi a rapporti di lavoro pubblico - in un danno per 1'interesse della
collettività (cfr. Cass., sez. un., n. 7945 del 2008) . Quest'ultimo rilievo,
inerente all'esigenza di una compatibilità di ogni interesse individuale
quantunque garantito dalla Costituzione - con il principio di buon andamento e
imparzialità dei pubblici uffici, viene sottolineato nell'ordinanza di
rimessione della Sezione lavoro e, d'altra parte, trova un significativo
riscontro nella legge-delega 3 marzo 2009f n. 15, finalizzata alla attuazione del
principio costituzionale mediante 1'ottimizzazione
della produttività del lavoro pubblico e la determinazione di precisi livelli
di efficienza per ciascuna struttura della pubblica amministrazione. 4.3. -
Mette conto rilevare che il bilanciamento degli indicati interessi avviene a
livelli diversi in relazione alle distinte posizioni soggettive contemplate
dalla disposizione in esame. La limitazione del diritto, in ragione della
concomitanza di valori di rilievo costituzionale,
quali i principi distintamente espressi dall'art. 97 e dall' art. 41 Cost., si
esplicita nella norma, con riguardo alla scelta della sede di lavoro all' atto
dell'assunzione (od anche in via di successivo trasferimento a domanda : cfr.,
da ultimo, con riferimento all' ipotesi dell'art. 33, comma 6, Cass. n. 3896
del 2009), con 1'inciso "ove possibile", che vale a configurare una
subordinazione del diritto alla condizione che il suo esercizio non comporti
una lesione eccessiva delle esigenze organizzative ed economiche del datore di
lavoro privato, ovvero non determini un danno per la collettività
compromettendo il buon andamento e 1'efficienza della pubblica amministrazione
(cf r. Corte cost. n. 372 del 2 002 ; Cass., sez. un., n. 7945 del 2008, cit.;
Cass. n. 1396 del 2006; id., n. 8436 del 2003; id., n. 12692 del 2002). La
mancanza di tale esplicitazione per l'ipotesi del trasferimento, per il quale
la seconda parte della disposizione prevede semplicemente che il lavoratore non
può essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso, esprime una diversa
scelta di valori che è collegata alla diversità delle due situazioni, e
specificamente ai riflessi negativi per il portatore di handicap di un
trasferimento di sede del congiunto a fronte di una situazione assistenziale
già consolidata. Tuttavia, la scelta operata dal Legislatore significa soltanto
che in questa ipotesi 1'interesse della persona handicappata, ponendosi come
limite esterno del potere datoriale di trasferimento, quale disciplinato in via
generale dall' art. 2103 c. c., prevale sulle ordinarie esigenze produttive e
organizzative del datore dì lavoro; ma non esclude che il medesimo interesse,
pure prevalente rispetto alle predette esigenze, debba conciliarsi con altri
rilevanti interessi, diversi da quelli sottesi alla ordinaria mobilità, che
possono entrare in gioco nello svolgimento del rapporto di lavoro, pubblico o
privato, così come avviene in altre ipotesi di divieto di trasferimento
previste dall' ordinamento per le quali la considerazione dei princìpi
costituzionali coinvolti può determinare, concretamente, un limite alla
prescrizione di inamovibilità (cfr. art. 22, secondo comma, della legge n. 300
del 1970; art. 78, comma 6, del decreto legislativo n. 267 del 2000; art. 2,
sesto comma, della legge n. 1264 del 1971, introdotto dall'art. 17, comma 1,
della legge n. 53 del 2000). 4.4. - La ricognizione di siffatti interessi è
presente nella evoluzione della giurisprudenza di legittimità, che ha
individuato situazioni di fatto, di incompatibilità ambientale, che, se pure
prescindono da ragioni punitive o disciplinari e sono riconducibili in via
sistematica all'art. 2103 ce, si distinguono dalle ordinarie esigenze di
assetto organizzativo in quanto costituiscono esse stesse causa di
disorganizzazione e disfunzione realizzando, di per sé, un'obiettiva esigenza
di modifica del luogo di lavoro (cfr. Cass. n. 4265 del 2007; id., 10252 del
1995). Si tratta, a ben vedere, di situazioni che possono essere accomunate
alla soppressione del posto, per il fatto che in entrambi i casi il mutamento
della sede corrisponde alla necessità obiettiva, da accertare rigorosamente
anche in sede giurisdizionale, di conservare al lavoratore il posto di lavoro,
ove risulti 1'impossibilità della prosecuzione del rapporto nella precedente
sede. E, peraltro, la eadem ratio delle due ipotesi si rinviene proprio nella
previsione normativa applicabile nella controversia in esame, che l'art. 467
del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 - inserito in un testo unico
delle disposizioni legislative in materia di istruzione che prevede, all' art. 601, l'applicazione, anche
per la mobilità, delle agevolazioni della legge n. 104 del 1992 dispone che si
fa luogo al trasferimento d'ufficio soltanto in caso di soppressione di posto o
di cattedre, ovvero per accertata situazione di incompatibilità di permanenza
del personale nella scuola o nella sede. Proprio nell'ottica di considerare
ciascun principio e ciascun valore "senza perdere di vista, comunque,
l'insieme normativo" (cfr. Corte cost. n. 325 del 1996, cit.), occorre
anche osservare come l'accertata esistenza di tali situazioni comporti in
realtà una pluralità di esigenze - ognuna diversa dalla mera mobilità del
personale - che si identificano non soltanto con il funzionamento dell'azienda,
ovvero dell' ente pubblico, ma anche con la necessità di conservare il posto al
lavoratore: necessità che si riflette, d'altronde, sulla stessa persona
handicappata, poiché la perdita del lavoro comporterebbe per il familiare uno
squilibrio di assetti destinato a mettere a rischio la stessa possibilità
dell'assistenza. Pertanto, la particolarità delle esigenze sottese a tali
situazioni, riconducibili a valori di rilievo costituzionale
e allo stesso mantenimento dell' assistenza alle persone handicappate,
determina la inapplicabilità, in caso di soppressione del posto o di
incompatibilità ambientale, della tutela di cui all'art. 33, comma 5, seconda
parte, della legge n. 104 del 1992, che riguarda invece le ipotesi di mobilità
dei lavoratori per ordinarie ragioni tecnico-produttive . 4.5. - In
conclusione, si deve affermare che, alla luce di una interpretazione dell'art.
33, comma 5, della legge n. 104 del 1992 orientata alla complessiva
considerazione dei principi e dei valori costituzionali coinvolti, il diritto
del genitore o del familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o
privato, che assista con continuità un parente o un affine entro il terzo grado
handicappato, di non essere trasferito senza il suo consenso ad altra sede,
mentre non può subire limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie
esigenze tecnico-produttive dell' azienda, ovvero della pubblica
amministrazione, non è invece attuabile ove sia accertata, in base ad una
verifica rigorosa anche in sede giurisdizionale, la incompatibilità della
permanenza del lavoratore nella sede di lavoro. 4.6. - Alla stregua dell'
enunciato principio di diritto, si rivela fondato il primo motivo di ricorso
poiché la sentenza impugnata ha affermato la illegittimità del trasferimento
della docente, odierna intimata, pure in presenza di una accertata, gravissima
situazione di incompatibilità ambientale nella sede di assegnazione. 5. -
Fondato è anche il secondo motivo. La concorrente ratio decidendi della
sentenza impugnata si fonda sull'affermazione che la misura del trasferimento
non era comunque quella più idonea, in quanto la conflittualità dei rapporti
personali, addebitabili alla docente, si sarebbe ripresentata in una sede
diversa. Orbene, tale affermazione si rivela in netto contrasto con i principi
di diritto sopra enunciati, secondo cui il trasferimento d'ufficio del
lavoratore per incompatibilità ambientale, evitando la cessazione del rapporto
di lavoro, concorre a realizzare le finalità dell'assistenza alla persona
handicappata. Nella specie, il provvedimento di trasferimento si configura come
misura necessaria a contemperare i diversi interessi coinvolti - della scuola,
della lavoratrice e del familiare assistito - , non essendo consentito, d'altra
parte, sopperire a tale oggettiva incompatibilità con il licenziamento, che
presuppone comunque l'accertamento di autonome ragioni, del tutto estranee
all'oggetto della presente controversia. 6. - Il ricorso va pertanto accolto,
con la conseguente cassazione della sentenza impugnata. 7. - La causa può
essere decisa nel merito, ai sensi dell' art. 38 4, secondo comma, c.p.c., con
il rigetto della domanda proposta dalla A.. 8. - La difficoltà delle questioni
giuridiche trattate induce a compensare fra le parti le spese dell'intero
processo. P.Q.M. La Corte,
a sezioni unite, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo
nel merito, rigetta la domanda. Compensa fra le parti le spese dell'intero
processo. Così deciso in Roma, il 23 giugno 2009 Il Consigliere estensore
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( da "Repubblica, La"
del 01-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina IV - Bari Il
leader in carica spiega la decisione di andare avanti. Ed è pronto anche ad
affrontare la Consulta
"Incompatibile? Decida il Parlamento" La discesa
in campo di Michele Emiliano potrebbe essere frenata da una recente sentenza
della corte costituzionale che pone l´impossibilità per i magistrati di avere tessere di partito.
Il sindaco di Bari, concentrato a presentare la sua candidatura alla segreteria
del Pd, ha preferito rimandare ogni decisione ad un altro momento. «è un
problema serio, ma mal posto. Deve occuparsene il Parlamento», ha detto,
allontanando da sé la responsabilità di assumere una qualsiasi decisione
sull´argomento. «Ho deciso di candidarmi alla segreteria regionale del Pd da
solo, senza alcun altro apparentamento con le correnti o le mozioni». Così il
sindaco di Bari e attuale segretario regionale del Pd, Michele Emiliano, ha
spiegato la sua decisione di candidarsi alla segreteria. «Ho deciso di farlo -
ha spiegato - nella speranza che il mio invito all´unità del partito, almeno
quella pugliese visto che su quella nazionale non ho potuto fare nulla, in
qualche modo potesse realizzare il progetto che tutti i democratici pugliesi e
anche i cittadini vorrebbero vedere realizzarsi». Progetti elencati dallo
stesso Emiliano: «Accelerare i risultati di governo alla Regione, avviare la
campagna elettorale visto che mancano sette mesi al voto ed evitare che uno
scontro sanguinoso, credo meramente di potere all´interno del Pd, possa finire
per dare l´impressione a tutti gli italiani che mentre nel Paese c´è una
gravissima crisi economica e scoppia la questione del Mezzogiorno, il Pd è
impegnato solo su mozioni molto simili tra loro come quella di Bersani e quella
di Franceschini, in una guerra fratricida dove c´è addirittura il sospetto, da
parte di qualcuno, che lo scopo del congresso sia eliminare l´altro dal gioco».
Emiliano è ancora convinto della bontà di una proposta unitaria: «Mi candido
alla segreteria regionale del Pd perchè ho la speranza che almeno in Puglia una
candidatura unitaria possa essere raggiunta».
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 01-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-08-01 - pag: 23 autore: Manovra d'estate. Le
indicazioni dell'Anci Assunzioni ampie per i «precari» Gianni Trovati MILANO La
manovra d'estate rimette in moto il sistema delle stabilizzazioni del personale
pubblico precario, e negli enti locali può anche trovare applicazioni più ampie
rispetto a quelle previste per gli uffici statali. A sottolineare gli spazi di
manovra concessi ai sindaci dalla legge di conversione del Dl 78/2009, che
attende il via libera definitivo dal Senato, è l'Anci, che in una nota passa in
rassegna le conseguenze applicative della nuova apertura sulle assunzioni. La
manovra consente alle Pa di riservare fino al 40% dei posti a concorso ai
precari che possano ambire al posto fisso, ma la soglia si può alzare al 50%
per i comuni che si costituiscano in un'unione con almeno 20mila abitanti. La
soglia alta, secondo i tecnici dell'associazione, è applicabile a tutte le
unioni, anche quelle già attive, purché raggiungano la soglia dei 20mila
abitanti, ma per avere una conferma ufficiale si chiede una presa di posizione
da parte della Funzione pubblica. Agli enti locali, sottolinea il documento
Anci, non si possono applicare nemmeno i vincoli finanziari che impongono (
articolo 17, comma 13 del provvedimento) di non dedicare alle stabilizzazioni
più del 40% delle risorse disponibili per il nuovo personale. La Corte costituzionale, infatti, ha puntualmente bocciato le norme che hanno provato a
imporre a sindaci e presidenti di provincia limiti puntuali sulle assunzioni,
in contrasto con l'autonomia riconosciuta a comuni e province. Per loro,
dunque, i margini di manovra sulle stabilizzazioni sono quelli generali che
disciplinano la spesa di personale: gli enti soggetti al Patto di
stabilità devono continuare ad assicurare la riduzione complessiva delle spese
di personale (secondo i meccanismi di calcolo previsti dal comma 557 della
Finanziaria 2007), e quelli sotto i 5mila abitanti devono evitare di superare i
livelli del 2004 (come imposto dal comma 562 della stessa legge). La manovra
estiva in corso di approvazione cambia anche le regole per la gestione del
lavoro flessibile, eliminando il vincolo dei tre anni per l'utilizzo dello
stesso lavoratore con più formule contrattuali. Non si tratta, però, di un via
libera alla formazione di nuovo precariato, che viene tenuta sotto controllo in
due modi: i dirigenti degli uffici dove si verificano irregolarità nella
gestione dei contratti flessibili non riceveranno in busta i premi di
risultato, e ogni anno le amministrazioni dovranno inviare un «rapporto
analitico» ai revisori dei conti e alla Funzione pubblica. Lo stop alla
retribuzione dei risultato per i dirigenti scatterà anche per le irregolarità
nell'affidamento di incarichi. www.ilsole24ore.com/norme La nota Anci sul
personale © RIPRODUZIONE RISERVATA LE PRECISAZIONI La riserva nei concorsi si
può alzare al 50% nelle unioni di comuni I vincoli finanziari non riguardano le
autonomie
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( da "Manifesto, Il"
del 01-08-2009)
Argomenti: Giustizia
OSPEDALI Bassolino
contro Roma: «Decido io» Dopo aver accettato l'incarico di commissario alla
sanità campana «con riserva», il presidente della regione non demorde e
mantiene la questione sul terreno dello scontro. Farà ricorso
al Tar e alla Corte Costituzionale per alcuni punti del decreto. E sta
valutando di nominare, entro il 31 ottobre, i nuovi direttori generali di
alcune Aziende sanitarie ed ospedaliere. Il governo, invece, non è riuscito a
persuadere Andrea Monorchio che quella campana sarebbe stata una sfida facile.
L'ex ragioniere generale dello stato era stato proposto per la carica di sub
commissario. Ma nelle ultime ore, il dirigente ha evidenziato le sue
preoccupazioni, in particolare viste le scadenze elettorali che attendono la Campania. In sintesi,
Monorchio ha il timore che molte scelte da operare in una «sanità
commissariata» possano contrastare con la campagna elettorale che partirà tra
qualche settimana. «Preferisco non immischiarmi in queste beghe», avrebbe
confidato ad un orecchio attento che ha poi raccontato tutto al Velino. Lo
scontro, insomma, è destinato a durare.
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( da "Repubblica, La"
del 02-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina VIII - Bari
Ambiente, Losappio contro Fitto "Fa perdere alla Puglia soldi e
lavoro" Bloccata per un anno la legge sulle industrie a rischio La Consulta ha ritenuto
"non fondate" le osservazioni del ministro PAOLO VIOTTI Un anno
«perso per un atto di arroganza di un ministro, un anno che ha fatto perdere
alla Puglia e ai pugliesi risorse economiche, lavoro e garanzie in tema
ambientale». A lanciare l´accusa è l´assessore regionale al Lavoro, Michele
Losappio, che ieri si è scagliato contro il ministro per gli Affari regionali,
Raffaele Fitto. A scatenare la polemica la decisione della Corte
costituzionale che ha ritenuto «non fondate le questioni di legittimità costituzionale» poste dal ministro in relazione alla legge regionale sulle
industrie a rischio, la cosiddetta "legge Seveso". Un anno fa la Regione approvò una norma
con la quale, con trent´anni di ritardo, si recepivano le direttive nazionali sulla
prevenzione dei disastri ecologici in relazione alle grandi fabbriche,
direttive varate dopo appunto l´incidente di Seveso. Il ministro Fitto, però,
appena insediato, impugnò la legge sostenendo che non tocca alla Regione, ma
allo Stato, «classificare e sorvegliare le aziende più pericolose».
Evidentemente sbagliava, o per lo meno questo sostiene oggi la Corte costituzionale
che ha respinto l´azione del governo. «Quello - dice ora Losappio - fu uno dei
primi atti compiuti dal ministro Fitto: era il 17 luglio del 2008, poche
settimane dopo la nascita del governo Berlusconi. Un atto incredibile visto che
tutti sappiamo quale sia il bisogno o meglio la necessità per un territorio
come il nostro, contraddistinto da grandi impianti e dai tre siti di interesse
nazionale, e cioè Brindisi, Taranto e Manfredonia. Più volte - continua
l´assessore - in questi ultimi mesi nel petrolchimico di Brindisi e nella
raffineria di Taranto nuvole di sostanze chimiche e fiamme altissime hanno
allarmato i cittadini e costretto l´Arpa ad interventi di verifica per fortuna
rassicuranti nel loro responso. Cosa potrebbe succedere in caso di esplosione o
di fuoriuscita di sostanze velenose? è a questa domanda che noi volevamo
rispondere con la legge che io, da assessore all´Ecologia, presentai». «Questa
torsione di competenze che ha voluto intraprendere questo ministro per mostrare
subito il rigore del comando - continua Losappio - ha causato danni. Per un
anno la Regione
non ha potuto applicare la sua legge, che prevede un accordo di programma con
lo Stato come condizione indispensabile per l´operatività. Un altro anno di
ritardo e, questo sì, tutto sulle spalle del ministro». Dalla Regione ricordano
poi che «le direttive europee recepite sono diverse perché progressivamente
hanno spostato il baricentro dalla tutela dei lavoratori delle industrie a
quella dei cittadini del territorio. Non in contrapposizione, però, ma come
allargamento delle forme di garanzia per la salute di tutti». Come dimostra il
caso Ilva-diossine - conclude Losappio - è questa la scommessa del nostro
futuro: una alleanza fra il mondo del lavoro e della produzione ed il
territorio e l´ambiente per vivere e lavorare senza angosce e contrapposizioni.
Lavorare e vivere, finalmente». SEGUE A PAGINA VI
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( da "Repubblica, La"
del 02-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 16 - Cronaca Il
tribunale: sì ai matrimoni gay quel divieto è irragionevole Venezia, sollevata
alla Consulta la questione di legittimità L´ordinanza nasce dal ricorso di una
coppia di uomini. L´ira di Carlo Giovanardi FILIPPO TOSATTO VENEZIA - «La norma
che esclude gli omosessuali dal diritto di contrarre matrimonio con persone
dello stesso sesso non ha alcuna giustificazione razionale». A sostenerlo, in
un´ordinanza che solleva davanti alla Corte Costituzionale
una questione di legittimità degli articoli del codice civile che impediscono
le nozze gay, sono i magistrati della terza sezione civile del Tribunale di
Venezia presieduta da Maurizio Gionfrida. L´ordinanza, che risale al 3 aprile
scorso e reca la firma del giudice Silvia Bianchi, nasce dal ricorso di
una coppia di omosessuali - conviventi da 20 anni - che, vistisi negare la
pubblicazione di nozze dall´ufficiale di stato civile del municipio, hanno
sollevato il diritto costituzionale a sposarsi. Una
provocazione civile, sostenuta dall´associazione radicale "Certi
diritti", che non ha però lasciato insensibili i giudici. Che, infatti,
ipotizzano il contrasto tra le disposizioni "proibizioniste" del
codice civile e i principi della Carta, a cominciare da quello di uguaglianza
(art. 3) e dal riconoscimento dei diritti fondamentali dell´uomo (art. 2). «Il
diritto di sposarsi configura un diritto fondamentale della persona,
riconosciuto sia dalla Costituzione sia a livello sovranazionale», commenta il
tribunale veneto, citando la
Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo e la Carta dei diritti
fondamentali dell´Unione Europea. E argomenta: «La libertà di sposarsi (o di
non sposarsi) e di scegliere il coniuge autonomamente riguarda la sfera
dell´individualità». è perciò «una scelta sulla quale lo Stato non può interferire,
a meno che non vi siano interessi prevalenti incompatibili». E, nel caso di
matrimoni tra persone dello stesso sesso, uomini o donne che siano, «il
Tribunale non individua alcun pericolo di lesione ad interessi pubblici o
privati di rilevanza costituzionale, quali potrebbero
essere la sicurezza o la salute pubblica». Di più: il divieto alle nozze gay è
ritenuto «irragionevole» anche alla luce dell´analoga situazione dei
transessuali, che «ottenuta la rettificazione di attribuzione di sesso in
applicazione possono contrarre matrimonio con persone del proprio sesso di
nascita». Un´interpretazione che ha già suscitato le ire del sottosegretario
alla presidenza del Consiglio Carlo Giovanardi, lesto a definire «sconcertante»
l´ordinanza. Secondo l´esponente del centrodestra si tratta dell´«ennesimo
provocatorio ed eversivo tentativo, da parte di magistrati ideologicamente
schierati, di scavalcare e mettere davanti al fatto compiuto il Parlamento». Di
tutt´altro avviso la sezione veneta dell´Anm: l´associazione magistrati difende
i colleghi dalle critiche «gravi e offensive», ribadendo che la loro iniziativa
muove «nel pieno rispetto delle prerogative e nei limiti dei poteri del
tribunale».
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( da "Corriere della Sera"
del 02-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Politica data: 02/08/2009 - pag: 13 L'intervista L'ex capo dello Stato: facevo
il matto per poter dire la verità Cossiga vent'anni dopo le picconate «Potessi
tornare indietro starei zitto» «Dissi che servivano le riforme ma nella Dc
nessuno capì e neanche nel Pci, tranne D'Alema» ROMA A vent'anni dalla sua
prima picconata, rifarebbe tutto, presidente Cossiga? «No, proprio no. Non ne
valeva la pena. Se potessi tornare indietro, me ne starei zitto e buono. Se
allora mi fossi comportato così, probabilmente mi avrebbero rieletto, e c'era
una quota di mondo politico che lo voleva. Ma ero incazzato come una belva e
non potevo tacere». Sarebbe dunque stato meglio lasciare le cose come stavano,
visto quello che è venuto dopo? «A parte il fatto che una Seconda Repubblica
non è mai nata e l'ibrido che c'è oggi sta ormai morendo, chissà che cosa sarà la Terza. Pensando ai
vecchi tempi, il dualismo Dc-Pci funzionava molto meglio del bipolarismo
barbarico di adesso, se non altro perché un accordo lo si trovava sempre.
Mentre ora ci si scontra quotidianamente con la bava alla bocca, senza
combinare niente di buono». È passata una generazione da quando Francesco
Cossiga lanciò il primo segnale della svolta che sarebbe sfociata nella
traumatica «era del piccone». Il 9 novembre 1989 era crollato il Muro di
Berlino e l'allora presidente della Repubblica giudicò l'evento un'occasione
liberatoria anche per l'Italia. Di cui approfittare subito. Insomma: era il
momento di rimuovere quel «fattore K» che aveva relegato il Pci fuori dalla
stanza dei bottoni costringendoci a «un'alternanza di governi senza alternative
al governo» e di riformare in profondità le istituzioni. Per il suo
avvertimento il capo dello Stato usò il messaggio di fine anno. «Sono cambiate
tante cose all'Est... siamo a un nuovo punto di partenza, anche noi italiani
abbiamo bisogno del vento della libertà». Qualcuno definì «enigmatico» il
messaggio... «Invece era chiarissimo. Spiegavo che il Muro era caduto addosso
pure a noi. Che bisognava abolire la conventio ad excludendum verso i
comunisti, chiudere la 'guerra fredda interna' ed emancipare il cosiddetto arco
costituzionale. Denunciavo che il sistema non reggeva
più. Che serviva una rigenerazione istituzionale, un secondo tempo per la Repubblica. E
lasciavo intendere che, se non avessimo fatto nulla, ci avrebbero preso a
pietrate per le strade». Era, insomma, una profezia della catastrofe. «Sì.
Venne da me Antonio Gava, un potente della Dc, il mio partito, per chiedermi
che cosa volessi mai. Tentai di dirglielo e non capì. Ma anche nel Pci-Pds il
discorso fu giudicato criptico: tranne D'Alema, nessuno capiva. Avevano sempre
vissuto all'opposizione e sull'opposizione, non era facile per loro pensare di
assumersi responsabilità di governo. Più comodo sospettarmi e, più tardi,
attaccarmi». E lei ha ricambiato con gli interessi. Fu allora che cominciò la
sua seconda vita? «Ci furono varie tappe: il discorso del Capodanno 1989, un
intervento a Edimburgo nel quale approfondivo l'urgenza di 'ampliare l'ambito
della democrazia' cancellando l'interdetto politico verso il Pci, e infine il
mio messaggio alle Camere. Erano gli anni del patto tra Craxi, Andreotti e
Forlani, il Caf. Sollecitavo la grande riforma di cui c'era bisogno per
schivare la crisi che stava per esplodere. Andreotti, all'epoca premier,
rifiutò di controfirmare il documento per la presentazione in Parlamento perché,
si difese, non lo condivideva. Lo firmò il ministro della Giustizia Martelli.
Fu il momento più difficile, per me. Sembravano tutti ciechi». Cossiga
«l'incompreso»: è la sua eterna autodifesa. «Purtroppo era così. Tornò al
Quirinale il povero Gava. 'Francesco, ma cosa vuoi? Perché ti agiti tanto per
questa riforma? Abbiamo lavorato benissimo per quarant'anni con questo sistema,
possiamo farlo per altri quaranta'. Socialisti, liberali, repubblicani votarono
a favore e, nell' ex Pci, il costituzionalista Barbera. Tutti gli altri
sostenevano che il mio era un progetto ad alto rischio, quasi eversivo. Non
sapevano che ad aiutarmi a stendere il messaggio erano stati Amato e
Martinazzoli » . Nessuno dei due certo accusabile di «frenesie autoritarie». Ma
quella stagione fu un incrocio di complotti. Lei parlava di una congiura per
spodestarla dal Colle, tirarono fuori Gladio. «Dissero che ero il tutore di
quella struttura clandestina europea chiamata Stay Behind, e da noi Gladio,
accusata di mille nefandezze. Era comodo prendersela con me, nonostante avessi
avuto un ruolo poco più che marginale. Ero il Cossiga 'amerikano' e le uniche
firme trovate sui documenti erano mie, anche se chi autorizzò per primo
l'accordo con la Cia
e con gli inglesi fu Moro insieme a Taviani, con la consulenza di Enrico
Mattei. Senza contare che tutti i presidenti del Consiglio sapevano. Ho
domandato ad Andreotti perché avesse rivelato il segreto e mi ha risposto che,
cessata la guerra fredda, non c'era più motivo di tacere. Una volta il premier
inglese Major mi chiese: 'Era proprio necessario dirlo?'. Beh, lasciamo
perdere...». Gladio fu un capitolo dell'«intrigo» per farla dimettere? «Ci fu
anche una cena a casa di Eugenio Scalfari alla quale era presente, tra gli
altri, il gran borghese del Pri, Visentini. Si parlava di me e a un certo punto
Scalfari disse: 'Se non riusciamo a metterlo sotto impeachment, facciamo almeno
votare una mozione al Parlamento perché sia sottoposto a perizia psichiatrica'.
Mi volevano mandare a casa con la camicia di forza. Visentini raccontò la cosa
al liberale Altissimo, che mi telefonò subito. A quel punto, potevo mai stare
zitto?» E infatti, come tutti ricordano, non tacque. «Dicevano che ero in preda
a una 'tempesta neuro-vegetativa'. In realtà facevo il matto per poter dire la
verità, come il fool del teatro elisabettiano. Ero incazzato perché non mi
capivano né i comunisti né la Dc,
per la quale restavo un irregolare... Ero incazzato come il sardo che sono, e
lei sa che ho antenati pastori, testardi e durissimi» . Certe sue esternazioni
restano memorabili per le stilettate incendiarie verso i suoi nemici. «Di
alcune, premeditati atti di legittima difesa, ho chiesto scusa. Per esempio mi
sono pentito della definizione di 'zombie con i baffi' ad Achille Occhetto». Lo
shock era che lei bombardava il quartier generale, come aveva fatto Mao durante
la rivoluzione culturale in Cina. «Precisamente. E il quartier generale, che
era il vertice della Dc, non capiva nulla» . Nessun altro pentimento, oggi? «Mi
ero fatto patrocinatore di un salto nel futuro, ma ero troppo in anticipo.
Taviani, nelle sue memorie, scrive che sarei stato un buon politico se avessi
pensato meno al passato e al futuro, concentrandomi sul presente. Ecco il mio
errore: volevo liberare un sistema bloccato, ma ho fatto il passo più lungo
della gamba. E il cerchio che avevo aperto nell'89 si è chiuso solo molto dopo,
con il traghettamento dei post-comunisti al governo, quando creai un partito
transitorio proprio per questo scopo, l'Udr, e proposi al mio successore al
Quirinale, Scalfaro, di affidare a D'Alema l'incarico di formare il governo. Il
passaggio era completato. Quella sera andai a cena con Berlusconi (senza la D'Addario, beninteso) e
cercai di convincerlo ad astenersi, ciò che sarebbe stato il mio capolavoro...
non ce la feci». Presidente Cossiga, se lei ha contribuito a emancipare gli ex
comunisti, ha visto però cadere nel vuoto la sua richiesta di grandi riforme.
«E' così. Sono stati vent'anni sprecati e la mia storia resta soltanto una testimonianza
a uso degli storici. Le riforme non hanno voluto farle. Il giorno in cui
Berlusconi mi anticipò che voleva presentare la sua riforma della Costituzione,
quella bocciata dal referendum, gli dissi: perché non prendi la proposta uscita
dalla Bicamerale di D'Alema e la presenti tale e quale? Lì
dentro c'è tutto: l'assetto semipresidenziale dello Stato, l'elezione diretta
del presidente della Repubblica, la divisione delle carriere in magistratura,
la riforma della stessa Corte costituzionale... tu presentala e
voglio vedere come farà il centrosinistra a non votarla». Marzio Breda
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 03-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: AUTONOMIE LOCALI E PA data: 2009-08-03 - pag: 39 autore:
Autonomie. Ddl Calderoli e Consulta Comunità montane blindate dagli Statuti
oltre che dalla Carta Eduardo Racca Lo Stato non può sopprimere le comunità
montane. Lo afferma in modo inequivocabile la Corte costituzionale in alcuni passaggi chiave della sentenza 237/2009 depositata il
24 luglio scorso. Su ricorso del Veneto e della Toscana, la Corte dichiara
l'illegittimità di alcune disposizioni della Finanziaria 2008 (commi 20, 21,
ultimo periodo, e 22 della legge 244 del 2007) sul riordino delle comunità
montane finalizzato alla riduzione delle spese di funzionamento, perché
in contrasto con l'articolo 117 della Costituzione (si veda anche Il Sole 24
Ore del 25 luglio). La pronuncia non solo risuscita alcune comunità del Veneto,
tolte illegittimamente dalla circolazione in maniera automatica, ma impone che
dal disegno di legge sul nuovo Codice delle autonomie, approvato in prima
lettura dal Governo, venga eliminato l'articolo 17 che prevede la soppressione
tout- court di questi enti e richiama espressamente l'abrogato articolo 2,
comma 22, della Finanziaria 2008. Nella sua pronuncia, la Consulta ha ribadito
quanto già affermato nelle precedenti sentenze 244 e 456 del 2005 e 397 del
2006, ma totalmente ignorato a livello centrale. E cioè che, dall'entrata in
vigore del nuovo titolo V della Costituzione, la disciplina delle comunità
montane «rientra nella competenza legislativa residuale delle Regioni ai sensi
dell'articolo 117, quarto comma». Per quanto attiene alla minacciata
soppressione delle comunità montane, ogni decisione in merito spetta quindi
esclusivamente alle Regioni. Ma nemmeno loro possono agire liberamente, perché
devono rispettare i principi espressi nei loro Statuti. Se le comunità montane
sono state "blindate" da una norma Statutaria - come è avvenuto nella
maggior parte delle Regioni - per procedere alla loro soppressione occorrerà
prima modificare lo Statuto (con legge approvata a maggioranza assoluta dei
componenti il consiglio, con due deliberazioni successive adottate ad
intervallo non minore di due mesi, secondo la speciale procedura dettata
dall'articolo 123 della Costituzione) e poi emanare una legge ordinaria. La
sentenza non dà tuttavia piena soddisfazione alla Toscana e al Veneto che
avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale
sull'intero pacchetto delle disposizioni concernenti il riordino delle comunità
montane,disciplinato dall'articolo 2, commi da 17 a 22, Finanziaria 2008. La Corte salva - sia pure
attraverso una lettura autonomista e non vincolistica delle disposizioni
relative alle modalità per attuare il riordino delle comunità montane - la
disciplina contenuta nei commi da 17
a 19 ( che imponevano tale riordino quale mezzo per
«ridurre a regime la spesa corrente» per il loro funzionamento «per un importo
pari almeno a un terzo della quota del fondo ordinario» statale per l'anno
2007),perché espressione di principi fondamentali concernenti il coordinamento
della finanza pubblica. Boccia invece la disciplina di dettaglio e di
applicazione automatica – contenuta nei commi 20, 21 (ultimo periodo) e 22 –
perché «non lascia alle Regioni alcuno spazio di autonoma scelta e dispone, in
via principale, direttamente la conseguenza, anche molto incisiva, della
soppressione delle comunità» in base a rigorosi parametri altimetrici e
associativi, qualora le Regioni stesse non abbiano provveduto al loro riordino.
La normativa abrogata dalla Corte imponeva infatti, tra l'altro, la
soppressione automatica delle comunità montane in cui almeno la metà dei comuni
non sono situati per almeno l'80% della loro superficie al di sopra di 500 metri (600 sulle
Alpi) di altitudine sul livello del mare, oppure non sono situati per almeno il
50% della loro superficie al di sopra di 500 metri di altitudine
sul livello del mare e nei quali il dislivello tra la quota altimetrica
inferiore e quella superiore è almeno di 500 metri (600 nelle Regioni
alpine) e la soppressione delle comunità con meno di 5 comuni. © RIPRODUZIONE
RISERVATA COMPETENZE Dopo la sentenza 237/2009 della Corte costituzionale
il riordino va affidato alle scelte autonome delle Regioni ITER LUNGO Nemmeno i
governatori hanno mano libera: in molti casi è indispensabile il doppio
passaggio per cambiare lo Statuto
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( da "Repubblica, La"
del 04-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 2 - Interni
Il ministro della Difesa La
Russa ammette l´eccesso di maxi-emendamenti ma chiede nuove
regole "Gianfranco ha ragione, forse abbiamo esagerato" "Questa
è una maggioranza coesa. Meno fiducie se non ci sarà ostruzionismo"
GIOVANNA CASADIO ROMA - «Lo riconosco, il governo ricorre alla fiducia, ai
maxiemendamenti spesso senza necessità, per semplificare o per accelerare».
Ignazio La Russa
non ha difficoltà ad ammetterlo. Il ministro della Difesa, alle prese con il
varo delle misure-sicurezza prima delle ferie d´agosto, fa autocritica.
«Gianfranco - dice - ha ben detto, del resto questa è una preoccupazione di
tutti i presidenti della Camera, da alcune legislature a questa parte. L´ha
fatto con chiarezza. Fintanto che le regole sono queste, il presidente dei
deputati è giusto che vigili affinché siano rispettate. Però il primo a
rendersi conto che occorre una riforma globale e regolamentare del Parlamento è
proprio lui. Lo dice da quindici anni che va rivisto il bicameralismo, che
bisogna procedere a semplificazioni. I regolamenti andrebbero modificati
ponendo ad esempio, una data ultima entro cui decidere». Ministro La Russa, non faccia però come
Ponzio Pilato. «Nient´affatto. Ma prima che la Corte costituzionale imponesse la non reiterazione dei decreti - dopo la scadenza non
si può rinnovare - i governi di centrosinistra, la Dc in testa, ripresentavano un
decreto anche sei, sette volte. Davvero il Parlamento veniva esautorato. Ormai
se le Camere non trasformano in legge un decreto, questo decade. Oggi
c´è una maggiore sensibilità e una più forte attenzione al Parlamento. Un tempo
era meno sentita, non che non esistesse, solo che nessuno pensava di gridare
allo scandalo». Il governo Berlusconi in quattordici mesi ha posto 24 volte la
fiducia. Le pare poco? Non è il caso di fare autocritica? «Infatti sostengo che
ci si può sforzare di fare qualche fiducia in meno: ho dato il buon esempio
l´altro giorno. Nel decreto anticrisi era stato inserito il finanziamento delle
missioni militari all´estero. Sono andato alle commissioni parlamentari riunite
esteri e difesa e ho dato il via libera perché fosse tolto dal decreto e
diventasse un disegno di legge. è stato possibile anche perché c´è stata collaborazione
tra una larghissima parte dell´opposizione e la maggioranza. Così si è
realizzato il risultato di non sottrarre al Parlamento e alle commissioni una
competenza che era loro». L´opposizione, però, fa solo la propria parte. Il
governo vuole metterle la sordina? «Ci vogliono meno voti di fiducia, i
ministri devono avere più buona volontà e pazienza, e l´opposizione deve
rinunciare a ritardare strumentalmente l´approvazione, o la bocciatura, dei
provvedimenti. Questa è la ricetta». Lei si muove nel solco di Fini?
«Gianfranco si è rivolto a tutti, non ce l´ha solo con il governo Berlusconi.
Il problema c´è, anche se è un problema vecchio. Va affrontato. Nel breve
periodo ci vuole una maggiore condivisione e una maggiore disponibilità a non
strumentalizzare, a non esasperare le posizioni. Se lecitamente l´opposizione
allunga i tempi, lecitamente il governo ricorre agli strumenti per
accorciarli». Il ricorso alla fiducia serve pure a camuffare le crepe nella
coalizone? «Questa è la maggioranza più coesa dal dopoguerra a oggi».
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( da "AltaLex" del
04-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Impianti di energia
rinnovabile e verifica preventiva dell’interesse archeologico TAR Lecce-Puglia, sez.
I, sentenza 18.07.2009 n° 1890 (Alfredo Matranga) Commenta | Stampa | Segnala |
Condividi Anche per gli impianti di energia rinnovabile trova applicazione il
principio della verifica preventiva dell’interesse archeologico. E' con questo principio che Tar
Lecce ha accolto il ricorso qualora sull’area, anche in assenza di
specifici vincoli, risulti attestata sulla base di documentazione attendibile
la presenza di seri “indizi di culturalità”, ossia di elementi di rilevante interesse archeologico. Per li Tar in
tema di realizzazione di impianti di energia rinnovabile, sussiste la
violazione dell’art. 12 comma 7, d.lgs. 29 dicembre 2003, n.
387, quando le amministrazioni partecipanti al procedimento de quo non hanno
tenuto adeguatamente
conto della sussistenza di fondamentali aspetti di carattere
storico-antropologico e culturale. Peraltro, per Tar da un lato: il parere di
conformità alla normativa antincendio necessario per tutti gli impianti di
produzione di energia elettrica rientranti nell’elenco di cui al D.M.
16 febbraio 1982 deve essere acquisito per gli impianti di energia rinnovabile,
preventivamente, o comunque all’interno della apposita conferenza di servizi;
dall'altro il concetto di precarietà (mobilità) di un manufatto o di un impianto dipende non già
dal suo sistema di ancoraggio, ma dalla sua idoneità a determinare una stabile
trasformazione del territorio, sicché tale carattere va escluso quando trattasi
di un impianto di energia rinnovabile. (Altalex, 4 agosto 2009. Nota di Alfredo
Matranga) | energie rinnovabili | energia eolica | interesse culturale |
interesse archeologico | Alfredo Matranga | T.A.R. Puglia - Lecce Sezione I
Sentenza 18 luglio 2009, n. 1890 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO
ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce -
Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA Sul ricorso numero di
registro generale 418 del 2009, proposto da: X., rappresentato e difeso dagli
avv. Andrea Memmo, Valeria Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria
Pellegrino in Lecce, via Augusto Imperatore, 16; contro Regione Puglia,
rappresentato e difeso dall'avv. Antonella Loffredo, con domicilio eletto
presso Antonella Loffredo in Lecce, via Moro, 1; comune di Giuggianello, non
costituito; comune di Minervino, non costituito; comune di Muro Leccese, non
costituito; comune di Palmariggi, non costituito; ARPA Puglia, non costituita;
Soprintendenza per i beni archeologici della Puglia, Ministero della Difesa,
Ministero dell'Interno, Ministero per i beni e le attività culturali,
Soprintendenza per i beni paesaggistici, Ministero delle Politiche Agricole e
Forestali, Ministero delle Comunicazioni, Ente Nazionale Aviazione Civile - Enac,
tutti rappresentati e difesi dall'Avvocatura dello Stato, domiciliata per legge
in Lecce, via Rubichi; nei confronti di Wind Service S.r.l., rappresentata e
difesa dagli avv.ti Luigi Mariano, Luigi Quinto e Pietro Quinto, con domicilio
eletto presso Pietro Quinto in Lecce, via Garibaldi 43; Gestore della Rete di
Trasmissione Nazionale Spa, Enel Distribuzione, Autorità di Bacino della
Puglia, Anas, tutti non costituiti; e con l'intervento di ad adiuvandum: Unione
Terre D'Oriente, rappresentato e difeso dagli avv.ti Andrea Memmo e Valeria
Pellegrino, con domicilio eletto presso Valeria Pellegrino in Lecce, via
Augusto Imperatore, 16; Provincia di Lecce, rappresentato e difeso dagli avv.ti
Maria Giovanna Capoccia e Francesca Testi, con domicilio eletto presso Maria
Giovanna Capoccia in Lecce, Ufficio Legale C/Amm.Ne Prov.Le; per l'annullamento
previa sospensione dell'efficacia, della determinazione del Dirigente Servizio
Industria della Regione Puglia 10.10.2008 n. 1065, pubblicata sul BURP
31.12.2008 n. 204, avente ad oggetto Autorizzazione Unica alla costruzione ed
esercizio di un impianto di produzione di energia elettrica da fonte eolica
della potenza di 24,00 MW, e delle opere connesse e delle infrastrutture
indispensabili alla costruzione dell’impianto stesso da
realizzarsi nel Comune di Giuggianello (Le), ai sensi del comma 3 dell’articolo
12 del Decreto Legislativo 387 del 2003, ad opera della Società Wind Service
Srl, con sede legale in Soleto (Le); di tutti gli atti e i provvedimenti
istruttori richiamati nella stessa determinazione ivi compresi gli atti di
definizione della
conferenza di servizi e tra questi in particolare di: verbale 16.12.04 della
conferenza di servizi, nota 15.6.05 n. 38/4324 del Settore Industria e Energia
della Reg. Puglia (sconosciuta dalla ricorrente), determinazione dirigenziale
15.2.06 n. 83 del Settore Ecologia della Reg. Puglia, verbale 6.12.06 della
conferenza di servizi (sconosciuto dalla ricorrente), nota 19.12.2006 n. 11373
del Ministero per i Beni Culturali e le Attività Culturali di Lecce; nota ASL
Le 2 - Maglie prot. N. 2021 del 16 dicembre 2004, nota prot. 6633 del 12
novembre 2004 del Corpo Forestale dello Stato Coordinamento Provinciale di
Lecce (sconosciuta dalla ricorrente); nota prot. n. DD/P2003014383 del 4.11.2003
di Enel - Divisione Infrastrutture e Reti – Roma, nota prot. n. 46009 del 22.11.2006 della
Provincia di Lecce - Servizio Strade (sconosciuta dalla ricorrente), parere
favorevole del Comune di Giuggianello (di estremi e contenuti sconosciuti),
nota prot. n. RGC-16/43/49069/2/240/04 del 27.12.2004 della Aeronautica
Militare 16° Reparto Genio Campale - Ufficio Demanio (sconosciuta dalla
ricorrente); nota del Ministero delle Comunicazioni - Bari prot. n.
IT-BA/2-IE/VIE/7947 del 13 novembre 2006 (sconosciuta dalla ricorrente), nota
del Comando Reclutamento e Forze di Completamento “Puglia”
Prot. n. M_D E 23161/0003006 del 27.2.2007 (sconosciuta dalla ricorrente), note Arpa Puglia Bari,
prot. n. 17701 del 13.12.2006 (sconosciute dalla ricorrente); deliberazione di
Giunta Comunale n. 136 del 29.11.2007 del Comune di Minervino di Lecce,
deliberazione del Consiglio Comunale n. 7 del 29.4.2008 del Comune di
Palmariggi, nota prot. N. 7181 del 15.11.2006 della Autorità di Bacino della
Puglia, nota del Consorzio di Bonifica Ugento Li Foggi prot. N. 186 del
18.1.2007, tutte sconosciute dalla ricorrente; verbale 6.12.2006 della
conferenza di servizi (sconosciuto dalla ricorrente), nota 9.1.07 n. 38/192 del
Settore Industria della Regione Puglia, determinazione dirigenziale 11.12.2007
n. 631 del Settore Ecologia della Regione Puglia, autorizzazione paesaggistica
7.7.2008 n. 1447/2008 del Comune di Giuggianello (sconosciuta dalla
ricorrente), atto di impegno 24.4.08 e atto di convenzione 24.4.08 tra Regione
Puglia-Comune di Giuggianello-Wind Service s.r.l.; nonché ancora dei pareri
11.6.07 e 12.6.07 del Responsabile dell’UTC del Comune di
Giuggianello, delle note 26.10.06 e 29.11.06 del Responsabile dell’UTC del
Comune di Giuggianello, della nota 19.12.06 n. 11373 della Soprintendenza
BBAACC, della nota 17.01.08 n. 448 del Dirigente Settore Industria della Regione
Puglia, dell’atto 10.6.03 del Responsabile dell’UTC del Comune di Giuggianello; di
ogni altro atto presupposto, connesso, collegato e/o consequenziale;. Visto il
ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Puglia;
Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia di Lecce; Visto l'atto
di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa; Visto l'atto di
costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno; Visto l'atto di
costituzione in giudizio del Ministero per i beni e le attività culturali –
Soprintendenza per i beni archeologici; Visto l'atto di costituzione in
giudizio del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali; Visto l'atto di
costituzione in giudizio del Ministero delle Comunicazioni; Visto l'atto di costituzione in
giudizio di Wind Service S.r.l.; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Ente
Nazionale Aviazione Civile - Enac; Visto l'atto di costituzione in giudizio del
Consorzio di Bonifica Ugento e Li Foggi; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti
della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20/05/2009 il dott.
Massimo Santini e uditi per le parti gli Avv.ti Valeria Pellegrino, Memmo,
Luigi Quinto, Pietro Quinto, Mariano, Vantaggiato per Loffredo, Pedone e De
Giuseppe; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO Con
nota del 28 ottobre 2004 la
Wind Service s.r.l. richiedeva alla Regione Puglia il
rilascio della autorizzazione unica di cui all’art. 12 del d.lgs. n.
387 del 2003, per la
installazione di 14 pale eoliche, pari ad una potenza di 28 MW, all’interno
del Comune di Giuggianello (LE). Nel 2004 si teneva una prima conferenza di
servizi, con la quale si avviavano i relativi lavori istruttori. Con
determinazione n. 83
del 15 febbraio 2006, il settore ecologia della Regione escludeva dal canto suo
l’impianto dalla procedura di VIA. In data 6 dicembre 2006, la
conferenza di servizi convocata dalla Regione si pronunciava positivamente in
ordine al progetto, disponendo altresì alcune prescrizioni che comportavano lo spostamento di alcuni
aerogeneratori e dunque una nuova tavola di progetto (1bis) a tal fine
esplicativa. La nuova progettazione veniva ulteriormente sottoposta alla
verifica di assoggettabilità a VIA, ulteriormente esclusa, poi, dal dirigente
di settore. Inoltre, poiché emergeva che tutte le torri ricadono in area C del
PUTT, veniva richiesta l’autorizzazione paesaggistica al Comune di
Giuggianello, il quale si esprimeva positivamente con nota del 7 luglio 2008.
In
esito a tale istruttoria la
Regione Puglia, settore industria, adottava la determinazione
n. 1065 del 10 ottobre 2008, con la quale si autorizzava l’installazione
di 12 pale eoliche. L’associazione ricorrente interponeva dunque gravame per i
seguenti motivi, così
enucleabili: 1. Violazione degli artt. 14 ss. della legge n. 241 del 1990,
nella parte in cui le amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi
non si sarebbero espresse sul progetto definitivo, dato che a seguito della
conferenza stessa alcune delle pale sarebbero state spostate senza che la
conferenza si fosse ulteriormente espressa su dette variazioni progettuali; 2.
Violazione degli artt. 14 ss. della legge n. 241 del 1990 nella parte in cui la
valutazione di impatto ambientale sarebbe avvenuta ben oltre la conclusione dei
lavori della conferenza di servizi; 3. Violazione degli artt. 14 ss. della
legge n. 241 del 1990 nella parte in cui non sono stati chiamati a partecipare,
ai lavori della conferenza suddetta, anche i comuni di Sanarica, Giurdignano e
Poggiardo, che in ogni caso gravitano intorno all’area oggetto
dell’intervento; 4. Violazione delle norme in materia di conferenza di servizi
nella parte in cui la Provincia
di Lecce è stata convocata alla prima delle riunioni previste (2004) senza tenere conto dei
termini che debbono necessariamente intercorrere tra avviso della riunione e
riunione stessa; 5.1. Violazione delle disposizioni di cui agli artt. 14 ss.
nella parte in cui la Soprintendenza Archeologica non è stata messa
nella condizioni di partecipare effettivamente alla conferenza di servizi; 5.2.
Conseguente difetto di istruttoria, in quanto non sarebbe stato
sufficientemente valutato il particolare interesse storico ed archeologico dell’area
oggetto di intervento; 6. Violazione della disposizioni in tema di conferenza di servizi nella
parte in cui non è stato chiamato a partecipare il Comando provinciale dei
Vigili del Fuoco; 7. Violazione delle norme del PUTT nella parte in cui non è
stata rilasciata l’attestazione di compatibilità paesaggistica da parte della Regione
Puglia; 8. Violazione del regolamento regionale n. 16 del 2006, il quale impone
la previa adozione del piano regolatore degli impianti eolici (c.d. PRIE) ai
fini della realizzazione dell’intervento de quo; 9. Violazione dell’art.
2, comma 1, della legge regionale n. 31 del 2008, nella parte in cui si vieta
la installazione di siffatti impianti all’interno di aree caratterizzate dalla
presenza di “ulivi monumentali”; 10. Violazione in ogni caso della legge regionale n. 14 del 2007, la quale
tutela per l’appunto gli ulivi monumentali qualora il loro valore
storico-antropologico sia accertato e rappresentato da idonee documentazioni di
carattere storico. Ciò in quanto il progetto prevede in più parti l’espianto di alcuni olivi che poi saranno
ripiantumati; 11. Violazione della delibera regionale n. 35 del 2007 per
difetto di istruttoria relativa alla analisi del fabbisogno energetico ed alla
compatibilità dell’impianto con altri impianti già previsti
nell’area de qua. Non
si sarebbe peraltro osservato quanto previsto nel parere della Provincia di
Lecce del 16 dicembre 2004; 12. Violazione dell’art. 12, comma 7, del
d.lgs. n. 387 del 2003, nella parte in cui la Regione non avrebbe
adeguatamente tenuto conto del patrimonio culturale e del paesaggio rurale riguardante la
predetta area; 13. Violazione dell’art. 13 del regolamento
regionale n. 16 del 2006 nella parte in cui non sarebbe rispettato il c.d. parametro
di controllo; 14. Eccesso di potere per sviamento laddove il Comune di Giuggianello ha
espresso parere favorevole in merito alla proposta della Wind, rispetto ad
altre ditte, soltanto in ragione delle maggiori roylaties da questa
eventualmente versate; 15. Difetto di istruttoria, dovuta in particolare a
carenze progettuali relative alle dimensioni delle torri eoliche che la
conferenza di servizi non avrebbe correttamente rilevato; 16. Violazione sotto
vari profili delle linee guida regionali in materia di installazione di
impianti eolici (delibera giunta regionale n. 131 del 2004). Più in
particolare: a) non sarebbe rispettata la distanza minima (2 km) tra impianto e centro
abitato; b) non sarebbe rispettata la distanza minima (15 volte il diametro del
rotore) tra impianto e area edificabile; c) non sarebbe stata correttamente
indicata la gittata massima degli elementi rotanti in caso di rottura
accidentale; d) non sarebbe rispettato l’indice di ventosità media
annua del sito ; e) il trasformatore non sarebbe all’interno della torre; f)
non sarebbe rispettata la distanza minima tra impianto e strade provinciali e nazionali. Si è
costituita in giudizio, oltre alla Regione Puglia ed alle amministrazioni
statali interessate, anche la società controinteressata la quale ha eccepito,
in particolare: la carenza di interesse in capo alla associazione ricorrente
per quanto riguarda la mancata partecipazione alla conferenza di alcuni comuni
contermini; la circostanza secondo cui la Soprintendenza
archeologica sarebbe comunque stata resa edotta dell’intervento
de quo, i cui elaborati
progettuali aveva ricevuto in copia da parte della società interessata; l’assenza
in ogni caso di un interesse di tipo archeologico, dato che l’area non è
sottoposta al relativo vincolo; la disposizione regionale sul PRIE è
illegittima e va disapplicata;
non vi sono ulivi monumentali né per dimensione, né per accertato valore
storico-antroplogico. La medesima società controinteressata ha poi depositato
perizia di parte dalla quale risulta che l’installazione di alcuni
aerogeneratori comporterebbe qualche problematica relativa alla presenza, nell’area
interessata, di elementi di interesse archeologico. In particolare, due degli
aerogeneratori sarebbero localizzati in aree ascrivibili ad elevati fattori di
rischio archeologico (uno ricadente in località San Giovanni e l’altro nell’area del Masso
della Vecchia), motivo questo che avrebbe indotto i medesimi periti di parte a
suggerire in ogni caso, per tali aree, l’effettuazione di preventivi saggi
archeologici. Con ulteriore perizia agronomica la stessa parte controinteressata riconosce
che la localizzazione di alcuni aerogeneratori interessa una zona
caratterizzata dalla presenza di ulivi, sottolineando altresì che l’aerogeneratore
n. 9 – già segnalato in ordine al fattore di rischio archeologico – è inserito in un’area
con presenza di ulivi che “potrebbero” possedere il carattere della
monumentalità sia per le dimensioni, sia per la vicinanza al predetto Masso
della Vecchia. Proponeva poi intervento “ad adiuvandum” la Unione di Comuni denominata
Terre d’Oriente –
costituita da alcuni comuni contermini a quello di Giuggianello tra cui anche
le amministrazioni comunali di Poggiardo e Giurdignano - la quale aveva a suo
tempo presentato, altresì, ricorso straordinario dinanzi al Capo dello Stato.
DIRITTO 1. Si affronta
in via preliminare la questione relativa alla ammissibilità dell’intervento
dispiegato dalla Unione di Comuni denominata “Terre d’Oriente”. Quest’ultima
amministrazione ha infatti presentato ricorso straordinario avverso la
determinazione dirigenziale
n. 1065 del 10 ottobre 2008, dopo che l’odierna ricorrente aveva già
interposto (e depositato) il presente gravame contro il medesimo atto. Si
tratta in altre parole della impugnazione dello stesso atto amministrativo, da
parte di due soggetti diversi, rispettivamente dinanzi a questa autorità giurisdizionale
amministrativa e dinanzi al Capo dello Stato. Secondo una certa posizione
giurisprudenziale, la regola dell’alternatività scatterebbe
soltanto in ipotesi di duplice identità, oggettiva e soggettiva. Ritiene invece il collegio di
aderire a quella parte della dottrina la quale afferma che, in caso di
impugnazione dello stesso atto, la previa presentazione di uno dei due rimedi,
da parte di uno degli interessati al suo annullamento, condiziona la scelta
degli altri cointeressati (posizione processuale più correttamente da
attribuire, come si vedrà più avanti, alla predetta Unione): e ciò in quanto
occorre evitare una discordanza di pronunziamenti sul medesimo atto: esigenza
questa che è proprio alla base della regola della suddetta alternatività. Nel
caso di specie andrebbe dunque accordata prevalenza al mezzo giurisdizionale,
in quanto pacificamente esperito prima rispetto a quello amministrativo. Tanto
premesso va ritenuto ammissibile l’ingresso in questa sede della posizione vantata
dalla Unione in parola, attesa l’esigenza di garantire comunque a taluni
soggetti, a fronte della perentorietà scaturente dalla predetta regola
processuale dell’alternatività, un livello minimo di effettività della tutela giurisdizionale ai sensi degli
artt. 24 e 113 Cost. Tale posizione deve peraltro essere considerata alla
stregua non di interveniente, quanto piuttosto di cointeressata: e ciò dal
momento che i due soggetti (Unione di Comuni e associazione X.) sono in realtà
portatori di interessi identici, ossia diretti ed immediati, in merito all’impugnativa
dell’atto di cui si discute, laddove l’intervento ad adiuvandum postula la
presenza a livello processuale di soggetti che coltivano un interesse in ogni
caso riflesso e
indiretto rispetto a quello coltivato in via principale dal ricorrente
originario. La suddetta riqualificazione della posizione ricoperta dalla Unione
come cointeressata implica pertanto il previo riconoscimento, ancora più a
monte, del beneficio della rimessione in termini per errore scusabile, dal
momento che la stessa non poteva essere a conoscenza della presenza di un
ricorso giurisdizionale promosso da altri (è infatti pacifico che il ricorso
non deve essere notificato anche ai cointeressati). 2. Nel merito, il primo
motivo di ricorso è infondato. Obiettivo della conferenza di servizi è infatti
la massima semplificazione procedimentale: pertanto, poiché lo spostamento di
alcuni aerogeneratori è avvenuto proprio a seguito delle prescrizioni imposte
dalla conferenza di servizi, una nuova sottoposizione del progetto nel
frattempo adeguato alle predette prescrizioni avrebbe costituito una
inevitabile forma di aggravio del procedimento, avendo dovuto la conferenza
esprimersi – se del caso – in termini di mera conferma circa soluzioni dalla stessa prospettate. In
altre parole, gli spostamenti in questione erano non solo ampiamente conosciuti
dai partecipanti alla conferenza, ma dagli stessi prescritti, tanto che la
redazione della tavola 1-bis, come si evince dalla relazione istruttoria
allegata alla determina di autorizzazione unica qui impugnata, è “esplicativa
degli spostamenti avvenuti in sede di conferenza di servizi”. 3. Anche il
secondo motivo di ricorso è infondato. Il settore ecologia della Regione Puglia, in data 9 gennaio 2007
(dunque successivamente all’esito dei lavori della conferenza in
data 6 dicembre 2006) non ha infatti adottato un parere VIA (valutazione di
impatto ambientale), bensì una (ulteriore) determinazione di esclusione della
VIA, che per le stesse
ragioni legate all’inutile aggravio del procedimento non avrebbe
aggiunto alcunché rispetto alle valutazioni già operate in sede di conferenza
(la prescrizione circa l’abbattimento di alberi è infatti già contenuta, nella
sostanza, nel parere
del Corpo forestale dello Stato). Del resto, le valutazioni della conferenza
debbono concentrarsi, secondo quanto previsto dall’art.
14-ter della legge n. 241, unicamente sui pareri VIA, ossia sugli atti in cui
vengono espresse determinate posizioni ed eventuali prescrizioni, non anche sulle “determinazioni
di esclusione dalla VIA”. 4. Il quarto motivo è senz’altro inammissibile in
quanto genericamente formulato. Al di là di ogni considerazione circa la
effettiva (ed utile) partecipazione della Provincia di Lecce ai lavori della
conferenza di servizi (i quali si sono protratti sino al 2006, con conseguente
inclusione delle valutazioni espresse dalla amministrazione provinciale), non è
infatti chiaro in che termini la
Provincia non sarebbe stata messa in grado di valutare
tempestivamente, in vista della prima riunione del 16 dicembre 2004, i
documenti progettuali posti alla base della richiesta di autorizzazione. In
altre parole, non vi è cenno nel ricorso alla specifica violazione del termine
di cui all’art. 14-ter,
comma 1, della legge n. 241 del 1990, con particolare riferimento alla data di
ricezione della convocazione della predetta riunione del 14 dicembre 2004.
Peraltro, le osservazioni formulate dalla Provincia si attestano su un progetto
che ha formato oggetto di successive e profonde modifiche e sul quale la stessa
amministrazione, con nota del 26 novembre 2006, ha poi prestato
sostanziale assenso. 5. È invece fondato il motivo di ricorso sub 5) sia in
relazione alla mancata convocazione della Soprintendenza archeologica, o meglio
della sua convocazione in violazione delle regole del procedimento relativo
alla conferenza di servizi, sia in ordine al lamentato difetto di istruttoria
concernente la sussistenza di un eventuale interesse culturale con riferimento
all’area in questione.. 5.1. Quanto al primo profilo si evince, dagli
atti versati in giudizio, come la soprintendenza archeologica non sia stata
convocata in occasione della prima conferenza e sia stata sì convocata, ma in
dispregio dei termini
previsti dalla legge n. 241 del 1990, in relazione alla conferenza conclusiva
del 6 dicembre 2006. A
tale ultimo riguardo la lettera di convocazione è partita il 1° dicembre 2006 e
pervenuta soltanto il successivo 13 dicembre, laddove la riunione si era già
tenuta il 6 dicembre. Ne deriva la palese violazione di cui all’art.
14-ter, comma 1, della legge n. 241 del 1990, laddove è previsto che la
convocazione della riunione “deve pervenire alle amministrazioni interessate …
almeno cinque giorni prima della relativa data”. Termine questo ampiamente
obliterato dalla amministrazione regionale, la quale ha peraltro provveduto ad
inviare la predetta convocazione soltanto al quinto giorno antecedente la
riunione, così ampliando le possibilità di incorrere in un vizio di regolarità procedimentale
come quello qui esaminato e vagliato. D’altra parte, il progetto
modificato non è stato neppure inviato nella nota in data 8 gennaio 2007, con
la quale l’amministrazione regionale si è limitata a dare atto della
conclusione dei lavori
della conferenza: pertanto, la soprintendenza archeologica non era in
condizioni di chiedere una riapertura della suddetta conferenza di servizi. Né
può valere la circostanza per cui la società interessata avrebbe più volte
sollecitato il parere della suddetta soprintendenza, non potendo esso
costituire elemento idoneo a sanare né tanto meno a surrogare la individuata
irregolarità della convocazione (tanto più che le suddette note inviate dalla
società non contenevano il riferimento alla riunione della conferenza di
servizi del 6 dicembre 2006). 5.2. Ne deriva dalla mancata partecipazione della
soprintendenza archeologica – aggravata dal mancato invio del verbale
conclusivo, dal quale si sarebbe ricavato peraltro lo spostamento di alcuni
aerogeneratori e
dunque la modifica del progetto iniziale – non solo (e non tanto)
l’irregolarità del procedimento in seno alla conferenza di servizi, ma anche (e
soprattutto) il difetto di istruttoria di cui il provvedimento conclusivo
sarebbe ineludibilmente viziato (secondo profilo della censura sollevata). L’eventuale
apporto della Soprintendenza avrebbe infatti consentito quelle analisi e quegli
approfondimenti necessari per poter consapevolmente e razionalmente intervenire
sulla modifica di luoghi che, da quanto emerso in questa sede (si veda in questo senso la
memoria difensiva prodotta dalla amministrazione dei beni culturali), senz’altro
presentano profili di indubbio interesse storico, archeologico ed
antropologico. 5.2.1. Ciò è quanto si rileva non solo dalla copiosa documentazione versata
in atti dalla parte ricorrente (ricomprensiva di dati bibliografici e di
evidenze in superficie di cui si è offerta riproduzione fotografica), ma anche
dalla relazione prodotta in giudizio dalla stesa società controinteressata.
Relazione dalla quale si evince, in particolare, che l’installazione
di almeno due degli aerogeneratori progettati ricadono in aree ad elevato
fattore di rischio archeologico (nella specie, rispettivamente il n. 8 in località “Masso della
Vecchia” ed il n. 9 in località “San
Giovanni”). Tanto che i periti stessi concludono il proprio esame consigliando
la effettuazione di “indagini dirette con saggi preventivi o indagini
indirette”. 5.2.2. Ritiene pertanto il collegio che, al di là della presenza o meno di vincoli archeologici sull’area
de qua, ciò che rileva è l’incontestato (ed anzi confermato) rilievo di
elementi di seria consistenza che fanno propendere per l’oggettiva rilevanza
archeologica dell’area in questione (o quanto meno su parte di essa). 5.2.3. Onde individuare il
corretto percorso che le amministrazioni coinvolte nel procedimento avrebbero
dovuto osservare nel caso di specie giova innanzitutto rammentare, sul piano
normativo, che l’art. 1, comma 3, del codice dei beni culturali
(decreto legislativo
n. 42 del 2004) prevede che “lo Stato, le Regioni, le città
metropolitane, le province e i comuni assicurano e sostengono la conservazione
del patrimonio culturale e ne consentono la pubblica fruizione e la
valorizzazione”. Il successivo art. 5, comma 1, dal canto suo, stabilisce che le regioni
nonché gli altri enti pubblici territoriali (comuni, province, etc.) cooperano
con lo Stato nell’esercizio delle funzioni di tutela di cui al
Titolo I della parte seconda del Codice stesso. Ciò appare in linea con quanto previsto dalle
disposizioni costituzionali di cui agli artt. 9 – a norma del quale la Repubblica (da
intendersi, ai sensi dell’art. 114 Cost., come costituita da Comuni, Province,
Città metropolitane, Regioni e Stato) tutela tra l’altro il paesaggio ed il patrimonio
storico e artistico della Nazione – e 118, terzo comma, Cost.,
il quale fonda il principio di leale collaborazione tra Stato e regioni proprio
in materia di tutela dei beni culturali. L’art. 9 Cost., si può ben dire,
esprime quindi il
fondamentale valore del “pluralismo culturale” in base al quale l’azione
congiunta di più agenti istituzionali rappresenta senza dubbio, nella logica
del “compito comune” e dunque della leale collaborazione, la migliore garanzia
che siano valorizzate
le istanze culturali minoritarie e periferiche. In questa stessa direzione, l’art.
14, comma 1, del codice BAC, prevede che il procedimento per la dichiarazione
di interesse culturale viene avviato dal soprintendente “anche” su motivata
richiesta della regione
e di ogni altro ente territoriale interessato. Non si trascuri poi, in questo
quadro, la possibilità offerta dall’intervento dei privati, in
applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118,
quarto comma, Cost. e dei meccanismi partecipativi non ancora completamente collaudati di cui all’art.
9 della legge n. 241 del 1990. Nell’ottica della “governance” dei beni
culturali (concetto questo che implica come noto un elevato livello di
cooperazione tra attori statuali da una parte ed attori non statuali dall’altra
parte), tale modello sembra peraltro trovare oggi ampia conferma in quanto
previsto dall’art. 3-ter del decreto legislativo n. 152 del 2006 (codice dell’ambiente).
Questa disposizione, rubricata “principio dell’azione ambientale”,
prevede infatti che “la tutela dell’ambiente … e del patrimonio culturale deve
essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e
giuridiche pubbliche e private, mediante una adeguata azione che sia informata
ai principi della
precauzione, dell’azione preventiva, della correzione”. 5.2.4.
Tanto premesso si ritiene che, al di là della illegittime modalità di
convocazione della competente soprintendenza archeologica, l’invocato difetto
di istruttoria sussiste proprio alla luce del predetto quadro normativo (di rango primario e costituzionale) il quale impone, pure nei confronti di
regioni ed enti locali (qui partecipanti a vario titolo al procedimento de
quo), di apprestare tutte le misure necessarie per garantire – anche in attuazione del principio di
buon andamento di cui all’art. 97 Cost. – una tutela adeguata del
patrimonio culturale rientrante nella loro sfera di interesse. Siffatta tutela,
nel caso di specie, avrebbe dovuto in particolare concretizzarsi – come già anticipato –
mediante una analisi più approfondita dello stato dei luoghi che avrebbe potuto
comportare, in prima battuta, il ricorso allo strumento cautelare della
inibitoria preventiva di cui all’art. 28, comma 2, del codice BAC, e poi
eventualmente, in
seconda battuta, la dichiarazione di interesse culturale di cui agli artt. 13 e
14 del codice stesso. Ed infatti, il menzionato art. 28, comma 2, viene
applicato anche per interventi progettati e non ancora avviati ed in relazione
a beni per i quali non sia ancora intervenuta intervenuta la dichiarazione di
interesse culturale di cui all’art. 13 del codice. Ed anzi a tale
strumento per lo più si ricorre proprio allo scopo di giungere, se del caso, a
questo tipo di dichiarazione. Del resto, una simile dichiarazione avrebbe potuto
eventualmente coinvolgere – nella specie – soltanto parte dell’area
interessata dall’intervento, così consentendo, nell’interesse stesso della
società controinteressata, una modifica progettuale tale da rimodulare e
concentrare la realizzazione
dello stesso in area non caratterizzata da elementi di rilievo culturale. Tale
modus operandi è stato di recente regolamentato, nel dettaglio, all’interno
del codice dei contratti pubblici, ove si è affermato il principio della
verifica preventiva
dell’interesse archeologico. Pur non avendo il legislatore codificato la
stessa procedura per quanto riguarda le opere sì di interesse pubblico come
quelle in esame (impianti di energia rinnovabile) ma pur sempre ad iniziativa
privata, si ritiene in ogni
caso che alle medesime conclusioni possa giungersi qualora sull’area,
anche in assenza di specifici vincoli, risulti attestata sulla base di
documentazione attendibile la presenza di seri “indizi di culturalità”, ossia
di elementi di rilevante interesse archeologico. “Indizi” che – come nella specie avvenuto – ben
potrebbero emergere, altresì, in base all’azione dei privati, ossia in
applicazione del principio dell’azione ambientale di cui al menzionato art.
3-ter del d.lgs. n. 152 del 2006.
In tale ipotesi deve allora innestarsi un adeguato livello di
approfondimento istruttorio – da parte non solo della soprintendenza
statale ma anche di altri soggetti territorialmente interessati, in
ottemperanza al principio buon andamento nonché di doverosa e leale collaborazione interistituzionale –
diretto a vagliare preliminarmente la eventuale sussistenza dei presupposti
richiesti dalla normativa di settore per l’applicazione dei relativi meccanismi
di tutela (artt. 28 e 13 del codice BAC). E ciò anche al fine – come già detto – di
offrire al privato che intende svolgere l’iniziativa imprenditoriale di avere
un quadro di certezze più ampio riguardo alle effettive possibilità legali
connesse alla realizzazione dell’intervento. Prevale in questo senso un
principio di
effettività della tutela del bene culturale il quale consenta, in una ottica
eminentemente sostanzialista, di prescindere se del caso dalla sussistenza o
meno di un provvedimento vincolistico di natura formale: la dichiarazione di
interesse culturale, per l’orientamento dominante, implica infatti la
preesistenza rispetto ad essa della “culturalità” del bene. 5.2.5. Per tutti i
motivi suddetti la specifica censura concernente il difetto di istruttoria
merita dunque accoglimento. 6. Si affrontano ora, per ragioni di ordine logico e
sistematico, i motivi di ricorso rubricati sub numeri 10, 12 e 3 della parte in
fatto. 6.1. Con il motivo sub 10) si eccepisce la violazione della legge
regionale n. 14 del 2007 nella parte in cui si autorizza l’intervento
su aree caratterizzate
dalla presenza di ulivi monumentali, intendendosi per tali non solo quelli
aventi determinate dimensioni, ma anche quelli che possiedono età plurisecolare
deducibile da un “accertato valore storico-antropologico per
citazione o rappresentazione
in documenti o rappresentazioni iconiche-storiche” (art. 2, comma 1,
lettera b, della legge regionale citata). Premesso che ai sensi dell’art. 15
della stessa legge regionale questa forma di tutela è consentita, nelle more
della formazione degli elenchi degli ulivi monumentali di cui all’art. 5 della legge
regionale, per gli ulivi plurisecolari rispondenti ad una delle caratteristiche
di cui all’art. 2, da una serie di documenti versati in giudizio emerge come
parte dell’area interessata dall’intervento sia in effetti caratterizzata dalla presenza di ulivi
puntualmente citati all’interno di rappresentazioni, illustrazioni e
citazioni di carattere storico, archeologico, letterario ed antroplogico. Più
in particolare: a) scrive Nicandro, autore greco del II secolo a.c., che “Dagli
ulivi del Colle i fanciulli intrappolati nel legno emettono gemiti udibili
talvolta nella notte dagli umani”; b) il testo di Vincenzo Ruggeri dell’aprile
1989 (“Memorie di storia”) richiama la presenza di ulivi a fare da cornice ai racconti popolari sui luoghi di
cui si discute; c) nei “Bozzetti di Viaggio” di Cosimo De Giorgi (1882)
si richiamano per l’appunto gli oliveti della “Serra di Giuggianello”; d) la pubblicazione
di Paul Arthur “Masseria quattro macine”, di carattere storico-archeologico, fa riferimento
alla tradizionale coltivazione di uliveti nella zona di interesse. La stessa
relazione agronomica depositata dalla società controinteressata ammette la presenza
di ulivi monumentali di questo tipo, e in particolare di quelli allocati in
località “Masso della Vecchia”. Alla luce di quanto sopra riportato appare
evidente la presenza – almeno su parte dell’area interessata dal progettato
intervento – di uno dei due presupposti richiesti dalla legge regionale ai fini
dell’applicazione
delle misure di tutela ammesse, altresì, nel descritto periodo transitorio
(cfr. artt. 2 e 15 della legge regionale citata): da tanto consegue l’accoglimento
del motivo di ricorso rubricato al punto n. 10. 6.2. Parallelamente è da
ritenere fondato il
motivo di cui al punto n. 12, con il quale si lamenta la violazione dell’art.
12, comma 7, del decreto legislativo n. 387 del 2003, nella parte in cui si
impone, alle amministrazioni deputate al rilascio delle previste autorizzazioni
relative ad impianti
di energia rinnovabile, di tenere conto del “patrimonio culturale” e del
“paesaggio rurale” concernente l’area oggetto dei predetti interventi. Detto
patrimonio culturale, nella specie, è per l’appunto costituito da una serie di
miti e leggende che si sono
sviluppati, nel corso del tempo, intorno ai luoghi di cui si discute (sito
megalitico c.d. delle “Rocce Sacre”). Varie sono le testimonianze in
questa direzione – tra cui anche quelle poc’anzi citate con riferimento alla
presenza di ulivi monumentali - le quali stanno a testimoniare il grande valore simbolico e
storico-etnografico dell’area in questione. Sono infatti presenti, in
questo luogo chiamato anche il “Colle dei Fanciulli e delle Ninfe”, una serie
di monoliti evocati in antiche credenze popolari – ed in particolare della tradizione
contadina - legate alla ritenuta presenza di forze magiche e benefiche che governavano
lo svolgersi degli eventi nelle campagne. Pertanto, le amministrazioni
partecipanti al procedimento de quo avrebbero dovuto adeguatamente tenere conto, altresì,
della sussistenza di questi fondamentali aspetti di carattere
storico-antroplogico e culturale. Da quanto sopra detto deriva l’accoglimento
dello specifico motivo di ricorso. 6.3. Va conseguentemente accolto il motivo
sub n. 3, con il quale
si deduce la violazione degli artt. 14 ss. della legge n. 241 del 1990 nella
parte in cui non sono stati chiamati a partecipare, ai lavori della conferenza
suddetta, anche i comuni di Sanarica, Giurdignano e Poggiardo, i quali
graviterebbero in ogni caso intorno all’area oggetto
dell’intervento. Detti comuni distano rispettivamente 3,5, 7 e 5 km dall’area
dell’intervento. Quanto all’interesse a coltivare tale parte di gravame da
parte dell’associazione ricorrente, esso risiede nella possibilità che la conferenza di servizi si
esprima nuovamente ed approfonditamente sull’oggetto dell’intervento
anche attraverso una gamma più ampia e soprattutto più fedele dei soggetti
effettivamente “legati”, per le ragioni prima evidenziate, all’area interessata dall’intervento
medesimo. L’interesse risiede in altre parole nella più allargata possibile
partecipazione di tutti i soggetti che si trovano nell’orbita del sito di
ritenuta meritevolezza sul piano culturale, in modo da pervenire ad una
posizione adeguatamente
condivisa, informata e consapevole circa la tutela da accordare al patrimonio
storico archeologico di cui si discute. Quanto invece rispetto all’interesse,
da parte di questi comuni, in ordine alla realizzazione o meno dell’impianto in
oggetto e dunque alla
partecipazione in seno alla conferenza di servizi indetta dalla Regione, ciò
appare stretta derivazione di quanto appena affermato al punto n. 6.2. Ed
infatti la presenza di miti e leggende, da intendersi quali racconti di
avvenimenti che hanno avuto luogo nel tempo primordiale (la serra di
Giuggianello è altresì chiamata “La collina dei Fanciulli e delle Ninfe”),
determina un legame tra le popolazioni che ruotano attorno all’area de qua che
va ben oltre la percezione visiva e dunque fisica dei luoghi che formano oggetto del
presente intervento; tale legame – basato su un luogo ritenuto
di fondamentale valore simbolico – ha piuttosto un carattere spirituale e
sentimentale, sì da radicare ben più profonde radici di identità culturale tra
diverse comunità, pur
se non necessariamente contermini. Ne deriva da quanto sopra l’accoglimento
del motivo sub 3) e l’ulteriore conferma circa la legittimazione ad agire in
questa sede da parte della Unione Terre d’Oriente. 7. Circa la mancata
convocazione del Comando
provinciale dei Vigili del Fuoco si osserva che la delibera regionale n. 35 del
2007 contempla in effetti, tra gli enti chiamati a partecipare ai lavori della
conferenza di servizi di cui si discute, anche la predetta amministrazione.
Ora, a prescindere dalla circostanza che tale disposizione regionale è entrata
in vigore in un momento successivo alla conclusione dei lavori della
conferenza, si osserva che la normativa già vigente al momento dell’avvio
del procedimento in oggetto (artt. 1 e 2 del DPR n. 37 del 1998) prevede in ogni caso il rilascio del
parere di conformità alla normativa antincendio per tutti gli impianti di
produzione di energia elettrica rientranti nell’elenco di cui al DM 16
febbraio 1982. È ben vero che gli impianti di energia rinnovabile non rientrano espressamente
in tale elenco, ma ciò e senz’altro dovuto al fatto che, al tempo
della emanazione del predetto decreto ministeriale, siffatti impianti erano
pressoché sconosciuti al legislatore. La presenza di cavidotti, nonché di cabine di consegna e di trasformazione
elettrica, fa invece propendere per la necessità di acquisire preventivamente, o
comunque all’interno della apposita conferenza di servizi, lo specifico nulla osta
previsto dalla normativa anti incendio, così come ricognitivamente previsto dalla predetta
delibera regionale n. 35 del 2007. Lo specifico motivo di ricorso è dunque
fondato. 8. Per quanto attiene alla mancata attestazione di compatibilità
paesaggistica da parte della Regione, si osserva che il PUTT richiede tale
adempimento, al punto 5.04 delle NTA, in relazione ad opere di rilevante
trasformazione ai sensi dell’art. 4.01 dello stesso documento di
piano. Quest’ultimo, a sua volta, definisce quali “opere di rilevante
trasformazione territoriale quelle derivanti dalla infrastrutturazione …
relativa a: … energia”, evidenziando al tempo stesso che debba trattarsi
altresì di opere “comportanti modificazioni permanenti”. Parte
controinteressata assume che gli impianti in questione avrebbero al contrario
carattere precario e
non permanente, requisito questo necessario ai fini della applicazione della
richiamata disposizione regionale in tema di tutela paesaggistica. Occorre
tuttavia rilevare, al riguardo, che per la giurisprudenza amministrativa (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 15 giugno 2000, n. 3321; sez. V, 30 ottobre 2000, n. 5828)
il concetto di precarietà (mobilità) di un manufatto o di un impianto come
quello di specie “dipende non già dal suo sistema di ancoraggio,
ma dalla sua idoneità a determinare una stabile trasformazione del territorio. Il detto
carattere va quindi escluso quando trattasi di struttura destinata a dare un’utilità
prolungata nel tempo”. La permanenza o meno di un manufatto o di un impianto
deve dunque essere letta in termini “funzionali”, piuttosto che “strutturali”. Ebbene,
è indubbo che l’impianto in questione sia in grado di realizzare una siffatta
prolungata utilità nel tempo (tanto lunga da poter costituire elemento idoneo,
di per sé, ad agevolare l’acquisto della proprietà immobiliare in ragione del decorso del tempo). A siffatta
conclusione si perviene ove soltanto si consideri la natura e l’efficacia
(durevole nel tempo) del provvedimento autorizzatorio di cui si discute,
preordinato a consentire l’esercizio di una complessa attività imprenditoriale che, anche per assicurare il
ritorno degli investimenti (c.d. “break even point”), non
potrà che essere svolta per molti anni. Anche tale censura, per i motivi sopra
indicati, deve dunque trovare accoglimento. 9. In ordine alla assenza del
PRIE (piano regolatore
degli impianti eolici) quale elemento ostativo alla autorizzazione dell’impianto
eolico, si rammenta in proposito che la legge Regione Puglia n. 9 del 2005
aveva a suo tempo stabilito che le procedure autorizzatorie in materia di
impianti di energia
eolica erano sospese fino all'approvazione del piano energetico ambientale
regionale e, comunque, fino al 30 giugno 2006. La Corte costituzionale,
con la sentenza n. 364 del 2006, pur affermando la legittimità dell’intervento
regionale sul piano delle
competenze costituzionalmente assegnate (trattandosi di energia), ha in ogni
caso dichiarato la incostituzionalità della norma regionale poiché si poneva in
contrasto con il principio fondamentale posto dall'art. 12 del decreto
legislativo n. 387 del 2003, il quale fissa, alla stregua di principio
fondamentale di semplificazione ed accelerazione dell’azione
amministrativa in subiecta materia (produzione di energia), un termine massimo
di 180 gg. per la conclusione del procedimento autorizzativo: termine questo che nella specie sarebbe
stato superato dalla prevista moratoria (c.d. ad tempus). A questa declaratoria
ha fatto seguito il regolamento regionale n. 16 del 2006, il quale ha previsto
la adozione da parte dei comuni di piani regolatori degli impianti eolici,
soggetti ad approvazione regionale. La disposizione transitoria di cui all’art.
14, comma 1, prevede che, decorsi 180 gg. dalla entrata in vigore del
regolamento, in assenza di PRIE – così vengono definiti i suddetti piani di
settore – non possono
più essere approvati impianti eolici in quella determinata località. Anche
ragionando in termini di effetto equivalente, si osserva tuttavia come in
questo modo si passerebbe da una sospensione “ad tempus” ad una
sospensione “sine die”, dato che la mancata approvazione del PRIE nei suddetti termini, peraltro
meramente ordinatori, se per un verso già comporta il superamento del tempo
massimo stabilito dalla legge statale di principio, per altro verso si traduce
in concreto in una moratoria a tempo indeterminato (per l’appunto,
sine die) se poi tale inerzia si protrae nel tempo senza che ad essa
l’ordinamento (regionale) riconnetta una qualche sanzione o conseguenza
negativa. Determinandosi de facto, in questo modo, non solo un ritardo ma
addirittura la sostanziale
impossibilità di installare in determinate aree della regione gli impianti di
cui si discute (stante l’inerzia comunale o regionale rispettivamente ad
adottare o ad approvare il suddetto piano di settore), ne consegue la
violazione della suddetta normativa nazionale e comunitaria non solo nella parte in cui si impone
la conclusione del procedimento entro tempi che siano “certi”,
ma anche laddove viene espresso un certo favor legislativo per la realizzazione
di tali impianti, ritenuti come noto di pubblica utilità, senza che ad essa vengano frapposti
ostacoli di carattere normativo ed amministrativo (si veda in proposito anche l’art.
6 della direttiva comunitaria 2001/77/CE) o comunque preclusioni di carattere
generale ed assoluto. Da quanto sopra detto, al collegio non resta che disapplicare la disposizione
di cui all’art. 14, comma 1, ultimo periodo, del regolamento regionale n. 16 del
2006, in
quanto contrastante con i suddetti principi fondamentali della legge statale e
delle presupposte disposizioni di derivazione comunitaria. Ne deriva ulteriormente il rigetto
della censura in argomento. 10. Infondato è poi il motivo con cui si deduce la
violazione della legge regionale n. 31 del 2008, e ciò in quanto al momento
della adozione della determinazione impugnata (10 ottobre 2008) la legge
regionale non era stata ancora pubblicata (21 ottobre 2008), né tanto meno entrata
in vigore. 11. È invece generica e dunque inammissibile la censura riguardante
la delibera regionale n. 35 del 2007. Il difetto di istruttoria di cui sarebbe
viziato il provvedimento gravato non è stato infatti sufficientemente allegato
mediante elementi seri e circostanziati. Parimenti generica ed inammissibile è
la censura riguardante la mancata osservanza del parere espresso dalla
Provincia di Lecce in data 16 dicembre 2004, dato che non viene neppure
indicato a quale parte del predetto parere l’amministrazione regionale
non si sarebbe attenuta. 12. Ancora generico è l’ulteriore motivo con cui si
lamenta l’omessa valutazione del parametro di controllo di cui all’art. 13 del
regolamento regionale n. 16 del 2006, il quale è costituito dal rapporto tra la
somma delle lunghezze di tutti gli aerogeneratori ed il lato della superficie
comunale; tale rapporto non deve superare il valore di 0,75. Il motivo è palesemente
inammissibile in quanto non viene allegato il benché minimo elemento utile a
poter calcolare tale rapporto. D’altronde si consideri che il comma 7
dell’art. 14 del regolamento regionale n. 16 del 2006 esclude dalla
applicazione del
suddetto parametro le istanze presentate, come nella specie, prima della
adozione del regolamento stesso. 13. La censura riguardante la scelta da parte
del Comune di Giuggianello nei confronti di Wind, asseritamente ispirata da
ragioni unicamente connesse alla migliore offerta economica da questa
presentata (mediante royalties) rispetto ad altri operatori, è inammissibile
per difetto di interesse, e ciò in quanto una simile censura poteva essere
sollevata soltanto da un soggetto avente aspirazione ad installare analogo
impianto nella stessa zona. Peraltro la associazione ricorrente tutela
interessi di tipo ambientale, nella specie non altrimenti rinvenibili
(trattandosi infatti di aspetti meramente economici). 14. La censura
riguardante la carenza progettuale concernente le torri è generica, dunque
inammissibile, in quanto l’associazione ricorrente non ha sufficientemente
allegato, al di là delle ritenute incompletezze, l’insussistenza dei prescritti
requisiti dimensionali. 15. Con riferimento all’ultima censura, riguardante la asserita
violazione della delibera regionale n. 131 del 2004, si osserva che – al
di là della loro condizionata efficacia alla entrata in vigore del piano
energetico regionale (poi adottato con delibera n. 827 del 2007) – molte delle previsioni in esso contemplate sono
state poi superate da successivi regolamenti regionali (regolamentazioni per la
verità succedutesi in materia in modo quasi alluvionale, con conseguente
difficoltà per gli interpreti e gli operatori di avere un quadro organico e
razionale di riferimento normativo), ed in particolare dal citato regolamento
regionale n. 16 del 2006. Nel merito delle singole censure si osserva dunque
come le stesse siano in parte infondate ed in parte inammissibili. In
particolare: a) la distanza minima dal centro abitato è stata ridotta ad 1 km ad opera del regolamento
regionale n. 16 del 2006 (art. 6, comma 3, lettera d). Tale distanza sarebbe
dunque rispettata, distando 1,6
km l’aerogeneratore più vicino al centro
abitato di Palmariggi; b)
la distanza minima pari a 15 volte il rotore non è stata ripresa dal ridetto
regolamento regionale del 2006, il quale si limita ad affermare –
coerentemente con quanto detto al punto a) – che è sufficiente la distanza di 1 km dal centro abitato (lo
stesso ricorrente ha
affermato al riguardo che la gittata massima di residui è in ogni caso di 500
mt); c) la società contro interessata indica in 220 mt la gittata massima degli
elementi rotanti in caso di rottura accidentale. La ricorrente contesta tale
assunto sulla base di uno studio condotto in collaborazione con l’Università
– che indicherebbe tale gittata in 500-600 mt. – senza tuttavia indicare il
percorso attraverso il quale si giungerebbe a tale conclusione, né si allega al
riguardo la esistenza di eventuali relazioni di approfondimento tematico. La censura è dunque
inammissibile in quanto genericamente formulata; d) quanto all’indice
di ventosità media, lo stesso è ora mutato in base all’art. 14, comma 3,
lettera A), del regolamento n. 16 del 2006, il quale fissa tale valore in 1.600 ore annue. In base a
tale nuovo parametro non sono state dedotte specifiche contestazioni; e) l’art.
10 del regolamento regionale conferma la previsione della delibera 131 secondo
cui per gli impianti superiori ad 1 MW il trasformatore deve essere all’interno della torre.
Tale requisito tecnico appare in ogni caso confermato sulla base dei documenti
progettuali versati in atti dalla medesima ricorrente [cfr. doc. 22 della
produzione originaria, ossia la relazione tecnica al progetto definitivo del luglio 2006,
pag. 11 (norme sulle linee elettriche)]; f) quanto alla distanza tra pale e strade,
la perizia giurata prodotta dalla società controinteressata indica in 300 mt
tale valore, corrispondente a quello previsto dal regolamento regionale n. 16
del 2006 (art. 14, comma 3, lettera C); 16. Per tutte le ragioni sopra
individuate il ricorso è fondato, in relazione ai motivi affrontati nei punti
5, 6 e 7, con conseguente annullamento della autorizzazione regionale 10
ottobre 2008, n. 1065, nonché delle determinazioni di non assoggettabilità a
VIA n. 83 del 15 febbraio 2006 e n. 631 in data 11 dicembre 2007 della stessa
Regione Puglia. Stante la complessità e la sostanziale novità delle numerose
questioni qui affrontate sussistono in ogni caso giusti motivi per compensare
integralmente tra le parti le spese del presente giudizio. P.Q.M. Il Tribunale
Amministrativo Regionale per la
Puglia – Lecce, Prima Sezione, definitivamente
pronunciando sul ricorso n. 418/2009, lo accoglie nei sensi e nei limiti di cui in motivazione
e per l’effetto annulla la determinazione 10 ottobre 2008, n. 1065, del Dirigente
servizio industria della Regione Puglia, nonché le determinazioni
rispettivamente 15 febbraio 2006, n. 83, e 11 dicembre 2007, n. 631, entrambe del Dirigente settore
ecologia della Regione Puglia. Spese compensate. Ordina che la presente
sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Lecce nella
camera di consiglio del giorno 20/05/2009 con l'intervento dei Magistrati: Aldo
Ravalli, Presidente Luigi Viola, Consigliere Massimo Santini, Referendario,
Estensore DEPOSITATA IN SEGRETERIA IL 18/07/2009. Commenta | Stampa | Segnala |
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La Russa: "Fini ha
ragione forse abbiamo esagerato" (sezione: Giustizia)
( da "Repubblica.it"
del 04-08-2009)
Argomenti: Giustizia
ROMA - "Lo
riconosco, il governo ricorre alla fiducia, ai maxiemendamenti spesso senza
necessità, per semplificare o per accelerare". Ignazio La Russa non ha difficoltà ad
ammetterlo. Il ministro della Difesa, alle prese con il varo delle misure-sicurezza
prima delle ferie d'agosto, fa autocritica. "Gianfranco - dice - ha ben
detto, del resto questa è una preoccupazione di tutti i presidenti della
Camera, da alcune legislature a questa parte. L'ha fatto con chiarezza.
Fintanto che le regole sono queste, il presidente dei deputati è giusto che
vigili affinché siano rispettate. Però il primo a rendersi conto che occorre
una riforma globale e regolamentare del Parlamento è proprio lui. Lo dice da
quindici anni che va rivisto il bicameralismo, che bisogna procedere a
semplificazioni. I regolamenti andrebbero modificati ponendo ad esempio, una
data ultima entro cui decidere". Ministro La Russa, non faccia però come
Ponzio Pilato. "Nient'affatto. Ma prima che la Corte costituzionale imponesse la non reiterazione dei decreti - dopo la scadenza non
si può rinnovare - i governi di centrosinistra, la Dc in testa, ripresentavano un
decreto anche sei, sette volte. Davvero il Parlamento veniva esautorato. Ormai
se le Camere non trasformano in legge un decreto, questo decade. Oggi
c'è una maggiore sensibilità e una più forte attenzione al Parlamento. Un tempo
era meno sentita, non che non esistesse, solo che nessuno pensava di gridare
allo scandalo". Il governo Berlusconi in quattordici mesi ha posto 24
volte la fiducia. Le pare poco? Non è il caso di fare autocritica?
OAS_RICH('Middle'); "Infatti sostengo che ci si può sforzare di fare
qualche fiducia in meno: ho dato il buon esempio l'altro giorno. Nel decreto
anticrisi era stato inserito il finanziamento delle missioni militari
all'estero. Sono andato alle commissioni parlamentari riunite esteri e difesa e
ho dato il via libera perché fosse tolto dal decreto e diventasse un disegno di
legge. È stato possibile anche perché c'è stata collaborazione tra una
larghissima parte dell'opposizione e la maggioranza. Così si è realizzato il
risultato di non sottrarre al Parlamento e alle commissioni una competenza che
era loro". L'opposizione, però, fa solo la propria parte. Il governo vuole
metterle la sordina? "Ci vogliono meno voti di fiducia, i ministri devono
avere più buona volontà e pazienza, e l'opposizione deve rinunciare a ritardare
strumentalmente l'approvazione, o la bocciatura, dei provvedimenti. Questa è la
ricetta". Lei si muove nel solco di Fini? "Gianfranco si è rivolto a
tutti, non ce l'ha solo con il governo Berlusconi. Il problema c'è, anche se è
un problema vecchio. Va affrontato. Nel breve periodo ci vuole una maggiore
condivisione e una maggiore disponibilità a non strumentalizzare, a non
esasperare le posizioni. Se lecitamente l'opposizione allunga i tempi,
lecitamente il governo ricorre agli strumenti per accorciarli". Il ricorso
alla fiducia serve pure a camuffare le crepe nella coalizone? "Questa è la
maggioranza più coesa dal dopoguerra a oggi". (4 agosto 2009
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( da "Repubblica, La"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina II - Bari In
prima linea Incarichi esterni delle Asl e farmacie i carabinieri acquisiscono
nuove carte Verifiche su una delibera per Fiore: al setaccio gli atti dal 2005
Rispetto al centrodestra noi non abbiamo messo la testa sotto la sabbia I
nostri sono stati atteggiamenti anche molto duri ma esemplari GABRIELLA DE
MATTEIS GIULIANO FOSCHINI Le consulenze esterne, chieste dall´assessorato alla
Sanità e dall´Ares. E la legge con la quale il consiglio regionale ha
modificato i criteri per l´apertura di nuove farmacie. L´inchiesta della
procura di Bari che ha coinvolto il centrosinistra, ora, si concentra su nuovi
aspetti. Ieri mattina i carabinieri, su ordine del sostituto procuratore
Desirèe Digeronimo, sono arrivati negli uffici dell´assessorato alla Sanità, al
quartiere Japigia e hanno esibito un decreto di esibizione. Hanno chiesto di
poter acquisire la documentazione delle consulenze che, dal 2005, ad oggi sono
state autorizzate dalla Regione nel settore della sanità. Una in particolare ha
richiamato l´attenzione degli investigatori: quella, richiesta dall´assessorato
nel giugno luglio del 2006 e poi siglata dal Policlinico di Bari. A beneficiare
è stato l´attuale assessore regionale alla Sanità, l´anestesista Tommaso Fiore che,
per la sua prestazione, per un anno, fu regolarmente retribuito. Gratuita,
invece, la consulenza fornita dal medico, dal 2007 al 2008, al presidente della
Regione Nichi Vendola. Queste parte delle carte che i carabinieri del nucleo
investigativo hanno chiesto di esibire. Sotto la lente di ingrandimento anche
le consulenze legali a cui le Asl hanno fatto ricorso. Ma l´inchiesta nel quale
è indagato l´ex assessore Alberto Tedesco, ora, si estesa anche ad legge
regionale: è la 19 del 2008. L´articolo 14 autorizza l´apertura di nuove
farmacie ogni 3500 abitanti (e non più 5000 come, invece, prevedeva la
normativa nazionale) nei comuni con una popolazione non superiore alle 12.500
unità. Il provvedimento, approvato nel luglio del 2008 soprattutto, avevano spiegato
i consiglieri proponenti, per supplire alla carenza di farmacie in alcuni
comuni del Salento, suscitò alcune polemiche. L´articolo 14
della legge è stato anche impugnato dinanzi alla Corte Costituzionale dal
governo secondo cui la Regione
non avrebbe potuto legiferare su una materia che rientra invece nelle
competenze dello Stato. La Corte
rigettò però il ricorso. Sin qui il dibattito politico, ora la legge, però,
diventa materia d´indagine della procura. Alla base delle nuove
acquisizioni ci sono alcuni sospetti, nutriti dagli investigatori dopo la
lettura delle intercettazioni e l´interrogatorio dell´ex direttore dell´Asl di
Bari Lea Cosentino. La consulenza esterna affidata a Fiore, secondo la Dda, potrebbe dimostrare una
sorta di continuità tra la gestione Tedesco e quella dell´attuale assessore.
Gli altri incarichi esterni, invece, rientrerebbero, ma è solo un´ipotesi
investigativa, in una logica di spartizione del potere. La legge regionale
sulle farmacie, infine, sospettano gli investigatori, sarebbe il frutto di
alcune pressioni. Queste almeno le motivazioni che hanno portato i carabinieri
a compiere nuove acquisizioni.
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( da "Repubblica, La"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina V - Bari
Parla Ascanio Amenduni, l´avvocato dei privati "Noi, scandalizzati
vogliono creare il caos" «Non sono sorpreso, ma resto scandalizzato del
fatto che un ente pubblico, come la Regione Puglia, che ha firmato responsabilmente
un contratto, possa poi rimangiarsi la propria adesione». è la reazione di
Ascanio Amenduni, legale del 75 per cento della famiglia Messeni Nemagna,
proprietaria del Petruzzelli, dinanzi alla notizia del disconoscimento della
Regione del protocollo del 2002. Anche l´avvocatura dello Stato ne ha
contestato la validità appena una settimana fa. «è la stessa tesi sostenuta
davanti alla Corte che, bocciando l´esproprio, l´ha espressamente disattesa»
Cosa la scandalizza invece nella scelta della Regione? «Ogni questione fu
composta col protocollo d´intesa, ogni dettaglio fu discusso fino in fondo.
Ecco perché sono stupito di come si possa calpestare il passato contrattuale.
Sta di fatto che è grazie a quel contratto che ha preso avvio la ricostruzione
e che la stessa Fondazione è nata come ente lirico». E se la class action
dovesse vincere? «Tutte le spese della ricostruzione ricadrebbero sul Comune.
Questo si sottovaluta e si sottace: fuori dal protocollo d´intesa non vedo che
il caos. La Regione
nel riconoscere poi la nullità dei patti del 2002, non è forse la stessa che
chiede l´ingresso della Fondazione nel teatro?». I vostri prossimi passi?
«Proveremo a far fare un´altra brutta figura allo Stato. La Corte Costituzionale ha già annullato l´esproprio, ora cercheremo di far bocciare la
class action». Intanto, l´unica cosa di cui nessuno parla è la riapertura del
teatro. «Abbiamo più volte invocato spiegazioni dal ministro Bondi: deve
chiarire i motivi del ritardo nella riconsegna del Petruzzelli alla Fondazione.
Soprattutto perché un non proprietario, lo Stato in questo caso, non può
detenere un immobile altrui». (a.d.g.)
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( da "Unita, L'" del
05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
La retromarcia di
Rezart Taçi Il Bologna resta ai Menarini ANDREA BONZI Tace, il petroliere
albanese Rezart Taçi. Proprio ora che doveva far parlare i fatti (e i
petrodollari), prendendo in mano le redini del Bologna Calcio. Invece, dopo
settimane di annunci che avevano innescato un toto-giocatori capace di far
sognare il popolo rossoblù (Lavezzi e Di Natale, per fare due nomi), tutto si è
sgonfiato. Taçi non compra più. ADDIO BOLOGNA La conferma è arrivata nella
serata di ieri. Taçi ha dichiarato all'emittente albanese on line «Top-channel»
di «non aver sottoscritto l'accordo definitivo», ma di «non poter rivelare i
dettagli». Nella decisione non avrebbe influito l'incontro di alcuni giorni fa
a palazzo Chigi con Silvio Berlusconi, a cui il petroliere è vicino (la Taçi Oil International è
sponsor del Milan in Albania). «Non credo che il premier, con tutti i problemi
che deve affrontare, si interessi anche di questioni di calcio», ha detto Taçi,
evidentemente informato del burrascoso periodo che sta passando Berlusconi. Poi
ha aggiunto di essere ancora «interessato a partecipare al campionato
italiano». Ma non al Bologna. DIETRO ALLA ROTTURA Renzo e Francesca Menarini,
gli attuali proprietari del Bologna, sono sconcertati dalla retromarcia di
Taçi. E oggi accoglieranno i cronisti a Casteldebole per illustrare il loro
punto di vista. Tutto è accaduto in 24 ore: la fumata bianca era attesa per
lunedì, era già stata prenotata la sala di un grande albergo di Bologna per
incontrare la stampa. Una ventina di milioni di euro la cifra pattuita in
cambio dell'80% del società. Ma, al momento della firma, il magnate albanese si
è tirato indietro. E lo ha fatto sapere inizialmente con uno stringato sms (!)
del suo addetto stampa, in cui si confermava«di non procedere alla
finalizzazione del contratto» per l'acquisto del Bologna. Già, perché c'era già
un'intesa nero su bianco, e lunedì - a quanto pare - era l'ultimo giorno utile
per sfilarsi dall'impegno senza pagare penali. INTRIGO BALCANICO Perché è
saltato tutto? Le tesi sono diverse. Quasi tramontata l'ipotesi di tirare la
corda per ottenere uno sconto in extremis sul prezzo pattuito, è facile siano
altre le considerazioni che abbiano fatto riflettere Taçi sull'opportunità di
investire (tanto) denaro su una compagine che, l'anno scorso, si è salvata
all'ultima giornata. Il 28 luglio scorso, alcuni siti albanesi
(www.balkaninsight.com) hanno scritto che la Corte costituzionale locale ha accolto il ricorso di un gruppo di petrolieri
bocciando la decisione del governo di Sali Berisha di affidare il monopolio
della distribuzione di diesel ecologico (D2) alla Armo, la compagnia ex statale
acquistata da Taçi. Una partita, quella del monopolio di questo
carburante, che varrebbe - sostengono i concorrenti del tycoon albanese - ben
180 milioni di euro. La decisione della Corte è vincolante, e forse Taçi vuole
valutarne bene le conseguenze. Secondo il quotidiano albanese «Tema» (riportato
dal sito www.rinascitabalcanica.com), invece, Taçi avrebbe usato il clamore
dell'acquisto del Bologna come «diversivo» per distrarre l'attenzione dalla
richiesta di sconto al governo albanese sull'accisa di 6.500 tonnellate di petrolio
attualmente ancorate al porto di Valona. Sia come sia, l'addio dell'albanese ai
rossoblù sembra definitivo. Non comprerà più il Bologna, Rezart Taçi.
All'ultimo minuto il petroliere albanese ha fatto saltare la trattativa
lasciando di stucco i Menarini, attuali proprietari della società. Diverse
ipotesi sul clamoroso bidone.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: PRIMO PIANO data: 2009-08-05 - pag: 5 autore: Dai commercialisti
l'allarme sull'Irap Maria Carla De Cesari ROMA La lotteria telematica fissata
al 15 settembre per ottenere i rimborsi Irap «non è una procedura degna di un
Paese civile ». Il diritto del contribuente non può essere affidato alla
destrezza nell'inviare un file e a bypassare eventuali ingorghi nella rete, per
arrivare prima degli altri, prima che si esaurisca il plafond delle risorse. I
commercialisti, mentre stanno chiudendo le ultime dichiarazioni relative agli
studi di settore, non usano mezzi toni per definire la gara online, per
prenotare il rimborso Irap. «Il punto è semplice: se il contribuente ha diritto
al rimborso Irap e se ci sono i soldi per tutti, come si va dicendo, non si
capisce perché dovremmo affidarci alla prenotazione online», afferma Claudio
Siciliotti, presidente del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti. «Non
si può chiedere al contribuente – incalza Luigi Carunchio, presidente dei
giovani commercialisti dell'Ungdcec – una gara di abilità per ottenere ciò che
gli spetta. Non è su queste basi che si costruisce un rapporto di fiducia con
il Fisco». «Una graduatoria fatta in base all'abilità o alla fortuna telematica
– osserva Piero Panzetta, delegato per la fiscalità del Consiglio nazionale dei
consulenti del lavoro – è discriminatoria. Le informazioni da trasmettere
all'agenzia sono il risultato di procedure complicate: si rischia di fare un
gran lavoro e di restare a bocca asciutta». Per i commercialisti «la decisione
dell'agenzia delle Entrate di rinviare a settembre il click-day inizialmente
fissato per il 12 giugno è stata una prova di responsabilità. Tuttavia – dice
Siciliotti – non basta. Il meccanismo va rivisto. Se guardiamo all'esperienza
del bonus per ricerca e innovazione i fondi sono stati esauriti in 12 secondi.
Se si ripete per l'Irap questa situazione, allora è lecito pensare che il
rimborso del 10% per quanti hanno avuto oneri e spese per
il personale è una costruzione giuridica solo per salvare l'imposta regionale
alla Corte costituzionale ». Siciliotti denuncia anche situazioni ambigue: ci sono
strutture e società di servizi che promettono ai clienti di avere una
piattaforma informatica in grado di trasmettere la domanda in pochi secondi,
così da accappararsi i fondi. Ogni pratica andata a buon fine può
costare 500 euro o il 2% di quanto chiesto a rimborso. Insomma, la gara
telematica mette in moto un mercato parallelo per ottenere un diritto. Tutto
questo dopo calcoli complicati: occorre riprendere le dichiarazioni 2004-2007,
individuare l'Irap versata in acconto e saldo, verificare l'esistenza di oneri
per interessi e personale, rideterminare l'imponibile Ires o Irpef deducendo il
10% dell'Irap pagata e quantificare le minori imposte. Addizionali comprese. ©
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CRITICA La prenotazione online è fissata per il 15 settembre
Claudio Siciliotti: «Non è una procedura degna di un paese civile»
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( da "Manifesto, Il"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
PETRUZZELLI La
regione partecipa alla class action per il teatro La regione Puglia si
costituirà in giudizio accanto ai promotori della class action che sostengono
che la proprietà del Teatro Petruzzelli di Bari, ricostruito interamente con
denaro pubblico, debba essere pubblica. «Con questa decisione - ha annunciato
l'assessore regionale alle attività culturali, Silvia Godelli - la regione
Puglia ribadisce la propria ferma posizione in favore della acquisizione del
Teatro». Il Petruzzelli, semidistrutto nel 1991 da un incendio doloso, è
completamente ricostruito (anche se tuttora chiuso) ma non sono risolte le
questioni giuridiche relative alla proprietà passate anche
attraverso un esproprio deciso dal governo e annullato dalla Corte
Costituzionale nel 2008. Il teatro, infatti, è privato ma sorge su suolo
pubblico in concessione. Dopo l'incendio, il restauro è stato fatto anche
grazie ad un protocollo d'intesa tra proprietari, regione, provincia e comune
di Bari, la cui validità è messa in discussione dalla Regione.
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( da "Corriere della Sera"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Politica data: 05/08/2009 - pag: 12 Il caso Sequestrati nuovi
documenti. Il presidente della giunta dispone controlli sulla sanità: il buco
del settore è di un miliardo Bari, i carabinieri tornano in Regione L'inchiesta
si allarga alle farmacie. Il governatore: non sono indagato e non lo sarò DAL
NOSTRO INVIATO BARI «Non sono indagato e non lo sarò». Nichi Vendola si mostra
sereno e combattivo, malgrado le indagini del pubblico ministero antimafia
Desirè Digeronimo sulla presunta «organizzazione criminale » interna alla sua
giunta dedita a e scambiare appalti, voti e favori a imprenditori e boss
locali, non allentino la morsa delle acquisizioni. I carabinieri ieri sono
tornati negli uffici della Regione Puglia per portare via una nuova pila di
documenti. Carte che riguardano le consulenze esterne, una delle quali fornita
dall'attuale assessore alla Sanità Tommaso Fiore, anestesista del Policlinico,
al suo predecessore Alberto Tedesco ora sotto indagine. Ma la novità di ieri è
stata l'allargamento dell'indagine a una legge regionale, quella che ha
modificato i criteri per l'apertura di nuove farmacie. In Italia, unico Paese
europeo, se ne può aprire solo una ogni 5.000 abitanti. La Puglia, il 2 luglio 2008, ha abbassato il
quorum a 3.500 abitanti, autorizzando nuove aperture nei comuni al di sotto dei
12.500 abitanti. Norma impugnata dal governo di fronte alla
Corte Costituzionale. Il pm ha acquisito gli atti preparatori della legge per
capire se era ispirata da interessi illeciti. «Solo l'interesse dei cittadini
ad avere due farmacie nei paesini che ne hanno una sola e sono costretti a fare
chilometri quando è chiusa», rivendica Vittorio Potì, l'ex consigliere
regionale socialista, neo sindaco di Melendugno, che l'ha proposta, «e
ne sono orgoglioso, anche se magari mi indagheranno. Qui c'è da avere paura di
tutto». Non teme nulla invece Nichi Vendola. Mentre la Lady Asl pugliese,
indagata per appalti e nomine pilotati, ripete di «aver subito minacce» e
pressioni e parla di «sacche di non controllo» nella sanità, il governatore va
al contrattacco: «Noi non abbiamo messo la testa sotto la sabbia. Non ho avuto
nessuna indulgenza » ha detto ieri, dopo aver ripescato come consulente esterno
a 60 mila euro l'anno l'ex assessore Massimo Ostilio (Udeur), estromesso nel
rimpasto di luglio scorso che doveva fugare le ombre dalla giunta. Poi ha
varato una raffica di provvedimenti: controlli rafforzati con il sostegno della
Guardia di Finanza e la revisione degli accreditamenti e della lista dei
consulenti (che il pm ha subito acquisito). Ma ha un'altra grana: il debito
della sanità pugliese è di un miliardo di euro. Vendola avrebbe pensato a
convincere i creditori delle Asl a cedere i loro crediti a un operatore
finanziario, forse un pool di banche, che rimborserebbe immediatamente i debiti
e verrebbe a sua volta rimborsato dalla regione in qualche anno. E il Pdl
attacca: «Dopo tante bugie, il re è nudo». I vincoli Sospetta la decisione di
ridurre i vincoli per l'apertura degli esercizi per la vendita di medicinali
Virginia Piccolillo © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "AltaLex" del
05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Sanzioni
amministrative: percezione sensoriale dell'agente e querela di falso Cassazione
civile , SS.UU., sentenza 24.07.2009 n° 17355 Commenta | Stampa | Segnala |
Condividi Il verbale di accertamento delle violazioni amministrative contenente
le attestazioni riguardanti i fatti oggetto di percezione sensoriale del
pubblico ufficiale fa piena prova fino a querela di falso. E' quanto stabilito
dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 17355 del 24 luglio
scorso. Secondo i Supremi giudici è invece ammessa la contestazione e la prova
delle circostanze di fatto della violazione che non sono attestate nel verbale
di accertamento come avvenute alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto
alle quali l’atto non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva
contraddittorietà. (Altalex, 6 agosto 2009) | sanzioni amministrative | ordinanza-ingiunzione
| querela di falso | SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI SENTENZA
24.07.2009, n. 17355 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il Giudice di Pace de L’Aquila
con sentenza del 17 novembre 2003,
in accoglimento dell’opposizione proposta da (…) annullò
il verbale del 6 ottobre 2002, con il quale la Polstrada aveva
accertato la violazione dell’art. 172, 1° ed 8° co., C.d.S., per avere il (…) circolato alla guida
di un veicolo senza
utilizzare la cintura di sicurezza. Osservò il giudice che, non potendo il
verbale fare piena prova ex art. 2700, c.c., di un fatto non avvenuto alla
presenza degli agenti di polizia, ma presunto dall’
osservazione a
distanza del momentaneo arresto del veicolo, e che avendo il (…)
giustificato l’arresto con l’esigenza di sistemare meglio la cintura di
sicurezza da lui indossata, trovava applicazione il disposto dell’art, 22, 120
cc,., L. n. 689/81, secondo il quale l’opposizione deve essere accolta quando non vi
sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente. L’Ufficio
territoriale del Governo è ricorso con un motivo per la cassazione della
sentenza e l’intimato non ha resistito in giudizio. Il ricorso, assegnato alla seconda sezione
civile della Corte, è stato rimesso alle Sezioni Unite per la particolare
importanza della questione relativa all’efficacia probatoria delle
attestazioni contenute nel verbale di accertamento delle violazioni
amministrative e,
segnatamente, di quelle alle norme del C.d.S, riguardanti i fatti oggetto di
percezione sensoriale del pubblico ufficiale che le abbia accertate. MOTIVI
DELLA DECISIONE Con l’unico motivo, il ricorrente denuncia la nullità
della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 nn. 3 e 5, c.p.c., per violazione e
falsa applicazione dell’art. 2700, c.c., e degli artt. 21, 22, 22 bis e 23, L. n. 689/81, avendo
ritenuto presunto un fatto percepito visivamente dagli agenti accertatori e
rispetto al quale il verbale
di accertamento, costituendo un atto pubblico, faceva fede fino a querela di
falso. Il motivo è fondato. La questione dell’efficacia probatoria
dei fatti attestati nel processo verbale di accertamento delle violazioni
amministrative, e dei suoi limiti, nel giudizio di opposizione promosso ex art. 23, L. 24 novembre 1981 n.
689 (modifiche al sistema penale), avverso l’ordinanza ingiunzione
irrogativa di una sanzione pecuniaria (id est ex art. 204 - bis, C.d.S,), è
stata già esaminata dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali nella sentenza n. 125451/92
hanno posto in rilievo che: il processo verbale costituisce un atto pubblico,
in quanto forma necessaria dell’ esternazione dell’ atto di accertamento
che il pubblico ufficiale compie sulla base dell’attribuzione normativa di uno
specifico potere di documentazione, con effetti costitutivi sostanziali, prima
che processuali, perché soltanto attraverso il veicolo necessario di detto atto
di accertamento può essere determinato il credito della sanzione pecuniaria che l’autorità
competente dovrà riscuotere con I ‘ordinanza -ingiunzione; l’art. 2700 c.c. attribuisce
all’atto pubblico l’efficacia di piena prova, fino a querela di falso, della
provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle
parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua
presenza o da lui compiuti; il giudizio di opposizione all’ordinanza
- ingiunzione, benché formalmente costruito dagli artt. 22 e segg., L. n. 689/1981, come giudizio d’impugnazione
del provvedimento ed investa innanzitutto la legittimità formale dell’atto,
tende all’accertamento negativo della pretesa sanzionatoria della p.a e si
configura da un punto di vista procedimentale come un giudizio civile, del quale vanno applicate le
regole generali, salvo espressa contraria disposizione; l’esercizio
del diritto di difesa nel procedimento di opposizione all’ordinanza -
ingiunzione non è pregiudicato dalla fede privilegiata del verbale di
accertamento, potendo
I ‘interessato impugnare l‘atto con la querela di falso e fare ricorso
nel relativo giudizio ai formali mezzi di prova; - l’efficacia di prova legale
del verbale non può estendersi alle valutazioni espresse dal pubblico ufficiale
ed alla menzione di fatti
avvenuti in sua presenza, che possono risolversi in apprezzamenti personali,
perché mediati attraverso la occasionale percezione sensoriale di accadimenti,
che si svolgono così repentinamente da non potersi verificare e controllare
secondo un metro obiettivo, senza alcun margine di apprezzamento”. Ai
rilievi non sono seguiti nella giurisprudenza significativi dissensi quanto
alla natura di atto pubblico del verbale dl accertamento ed alla gerarchia
della prova che, in virtù del disposto dell’art. 116, 1° co, c.p.c., questa introduceva
nel giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione del pagamento
delle sanzioni e, tanto meno, quanto all’esclusione dalla fede privilegiata
delle valutazioni espresse dal pubblico ufficiale, mentre relativamente alla categoria degli apprezzamenti
personali è evidente in successive decisioni una deriva non soltanto verso l’inclusione
in essi di una generalità di fatti attestati nel verbale, sul mero fondamento
della possibilità di distinguere la loro percezione in statica o dinamica e dell’idoneità
delle sole percezioni statiche a dare certezza al fatto accertato, ma anche
verso una generale ed indiscriminata possibilità di prova nel procedimento ex
art. 23, L.
n. 689/1981, dell ‘errore del pubblico ufficiale nelle percezioni dinamiche, in base all’assunto,
sostanzialmente contraddittorio, che l’efficacia probatoria piena dell’ atto
pubblico sia condizionata dalle ragioni poste a base della contestazione dei
fatti in esso attestati, inoltre, con specifico riferimento alla materia della circolazione
stradale, nella quale è più frequente la percezione dinamica dei fatti integranti
le violazioni, sono stati in qualche caso anche ignorati, ed in altri
travisati, i requisiti dell’occasionalità della percezione e della
repentinità dell’accadimento,
enucleati dalle Sezioni Unite, e nel giudizio di opposizione all’ordinanza
-ingiunzione è stato ritenuto talora di per sé risolutivo il solo
disconoscimento da parte dell’interessato dei fatti oggetto di percezione
dinamica, e talaltra
ammesso l’espletamento della prova contraria, in base all’unica considerazione
della limitata durata dello stimolo sensoriale percepito dal pubblico ufficiale
e della sua ridotta possibilità di verifica (cfr. ad esempio, il rilevamento
del numero di targa di
una autovettura in movimento, (cass. Civ. sent. n. 3522/1999; o il superamento
di un semaforo recante luce rossa, cass. civ., sent. n. 140482/005), A tale
orientamento, benché in parte ispirato a condivisibili esigenze di
concentrazione ed accelerazione processuale e di salvaguardia del diritto di
difesa, non può essere dato ulteriore seguito, non soltanto per il suo
approssimativo intendimento della nozione di apprezzamento personale fornita
dalla sentenza n. 12545/1992 e dei limiti di attendibilità del fenomeno della
percezione dinamica, che è frutto, al pari di quella statica, del necessario
concorso di una pluralità di stimoli sensoriali in ogni caso elaborati dal
pubblico ufficiale nella loro complessità, concludenza e decisività secondo la
sua esperienza e qualificata professionalità, ma soprattutto per la lesione che
esso ha comportato, e può ulteriormente comportare, al superiore interesse alla
certezza giuridica dell’attività svolta dai pubblici ufficiali” ed alle
“esigenze di garanzia del buon andamento della P. A.”, alla cui tutela - come sottolineato in
materia dalla Corte Costituzionale (cfr. n. 50411/ 987) - è funzionale
l’efficacia di piena prova attribuita all’atto pubblico dall’art. 2700, c.c., e
per il cui perseguimento il legislatore ha ritenuto necessario e sufficiente in tema di sanzioni
amministrative, da un lato, non porre limiti alla contestazione dell’accertamento
nel ricorso amministrativo dell’ interessato (cfr. n. 18, L. n. 689/1981; art, 203,
d.p.r. a 2851/1992) e, dall’altro, tipizzare il contenuto del verbale, prevedendo l’obbligo
del pubblico ufficiale non soltanto di esporre il fatto in forma sommaria (cfr.
per tutti art. 383, d.p.r. 16 dicembre 1992, o 495 ed all. VLI), ma anche di
indicare in esso gli estremi precisi e dettagliati della violazione (cfr. art. 201, dpr. 30 aprile
1992, n. 285). La correlazione tra il dovere di menzionare nel verbale in modo
preciso e dettagliato, anche se sommario, l’elemento fattuale della
violazione e l’efficacia che l’art. 2700 c.c. attribuisce ai fatti che il pubblico
ufficiale attesta nell’atto pubblico essere avvenuti in sua presenza o
da lui compiuti, comportano infatti che tale efficacia concerne inevitabilmente
tutti gli accadimenti e le circostanze pertinenti alla violazione menzionati nell’atto
indipendentemente dalle modalità statica o dinamica della loro percezione,
fermo l’obbligo del pubblico ufficiale di descrivere le particolari condizioni
soggettive ed oggettive dell’accertamento, giacché egli deve dare conto
nell’atto pubblico non
soltanto della sua presenza ai fatti attestati, ma anche delle regioni per le
quale detta presenza ne ha consentito l’attestazione. L’approccio
alla questione relativa all’ammissibilità della contestazione e della prova nel
giudizio di opposizione all’ordinanza ingiunzione non va conseguentemente
condotto con riferimento alle circostanze di fatto della violazione attestate
nel verbale come percepite direttamente ed immediatamente dal pubblico
ufficiale ed alla possibilità o probabilità di un errore nella loro percezione, ma
esclusivamente in relazione a circostanze che esulano dall’
accertamento, quali l’identificazione dell’attore della violazione e la sua
capacità o la sussistenza dell’elemento soggettivo o di cause di esclusione
della responsabilità,
ovvero rispetto alle quali l’atto non è suscettibile di fede
privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva contraddittorietà (ad esempio,
tra numero di targa e tipo di veicolo al quale questa attribuita). Ogni diversa
contestazione, in esse comprese quelle relative alla mancata particolareggiata esposizione
delle circostanze dell’accertamento od alla non idoneità di essa a
conferire certezza ai fatti attestati nel verbale, va invece svolta nel
procedimento di querela di falso, che consente di accertare senza preclusione di alcun mezzo di
prova qualsiasi alterazione nell’atto pubblico, pur se involontaria o
dovuta a cause accidentali, della realtà degli accadimenti o del loro effettivo
svolgersi ed il cui esercizio è imposto, oltre che dalla già menzionata tutela della certezza dell’
attività amministrativa, anche dall’interesse pubblico alla verifica in sede
giurisdizionale della correttezza dell’operato del pubblico ufficiale che ha
redatto. Deve, conseguentemente, essere affermato il principio che: "nel giudizio di opposizione ad
ordinanza - ingiunzione del pagamento di una sanzione amministrativa è ammessa
la contestazione e la prova unicamente delle circostanze di fatto della
violazione che non sono attestate nel verbale di accertamento come avvenute
alla presenza del pubblico ufficiale o rispetto alle quali l’atto
non è suscettibile di fede privilegiata per una sua irrisolvibile oggettiva
contraddittorietà mentre è riservato al giudizio di querela di falso, nel quale
non sussistono limiti di prova e che è diretto anche a verificare la correttezza dell’operato
del pubblico ufficiale la proposizione e l’esame di ogni questione concernente
l’alterazione nel verbale, pur se involontaria o dovuta a cause accidentali,
della realtà degli accadimenti e dell’effettivo svolgersi dei fatti”. Detto principio è
stato disatteso dalla sentenza impugnata, giacché ha escluso l’efficacia
probatoria del verbale nel quale gli agenti della polstrada avevano attestato
di avere direttamente percepito la commissione della violazione in base ad un apprezzamento
del carattere presunto della percezione a lui precluso nel giudizio di
opposizione dalla fede privilegiata del verbale di accertamento. Alla
fondatezza del motivo seguono la cassazione della sentenza e, a norma dell’art.
384 2° co c.p.c., il
rigetto dell’opposizione proposta dall’intimato davanti al giudice di pace, non essendo
necessari ulteriori accertamenti di fatto. Le spese del giudizio vanno
dichiarate non ripetibili tenuto conto della novità del principio enunciato. P.Q.M. Accoglie il ricorso e cassa
la sentenza impugnata. Decidendo nel merito rigetta l’opposizione
proposta dal (…) avverso il verbale di accertamento della violazione e dichiara
non ripetibili le spese del giudizio. Commenta | Stampa | Segnala | Condividi |
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( da "Sestopotere.com"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Friuli, presidente
Renzo Tondo incontra Raffaele Fitto : vertice sulla legge anticrisi (5/8/2009
18:08) | (Sesto Potere) - Trieste - 5 agosto 2009 - Sulle obiezioni che il
Governo ha avanzato nei confronti della legge anticrisi approvata dalla Regione
Friuli Venezia Giulia, saranno individuate soluzioni in grado di
"confermare l'intendimento del legislatore regionale". è questo
l'esito dell'incontro, avvenuto oggi a Roma, tra il presidente della Regione
Renzo Tondo e il ministro per i Rapporti con le Regioni Raffaele Fitto. Al
centro dell'incontro c'è stata la recente decisione del Consiglio dei ministri
di impugnare davanti alla Corte costituzione alcune norme, relative in
particolare alla semplificazione delle procedure di appalto, della legge
regionale anticrisi, messa a punto e varata dalla Regione Friuli Venezia Giulia
per affrontare la crisi economica. "Al ministro - ha detto Tondo al
termine dell'incontro - ho ribadito l'urgenza di questo provvedimento, che è
stato approvato proprio per rispondere con rapidità ai problemi che la crisi ha
aperto nell'economia e nella società del Friuli Venezia Giulia, per sostenere
le imprese e le famiglie. Ho chiesto al ministro la possibilità di trovare, pur
nel rispetto della legittimità costituzionale,
percorsi che riaffermino le finalità della legge". Il ministro Fitto ha
dato ampia disponibilità in questo senso, ribadendo l'importanza del principio
di leale collaborazione fra istituzioni. Il ministro ha dato mandato agli
uffici di avviare una serie di approfondimenti tecnici, in modo da ricercare
soluzioni che preservino l'intendimento del legislatore regionale. Il presidente Tondo ha comunque informato il ministro che, in via
cautelativa e in vista della scadenza dei termini, la Giunta regionale di domani
autorizzerà l'Avvocatura della Regione a costituirsi in giudizio in merito
all'impugnazione della legge davanti alla Corte costituzionale.
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( da "Sestopotere.com"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Terremoto: numeri record
della solidarietà per l'Abruzzo (5/8/2009 19:16) | (Sesto Potere) - Roma - 5
agosto 2009 Prima riunione oggi a L’Aquila del Comitato dei
Garanti, costituto con
un’apposita ordinanza di protezione civile, che avrà il compito di assicurare
la supervisione alla gestione delle donazioni fatte dagli italiani all’indomani
del terremoto dello scorso 6 aprile in Abruzzo ed affidate alla Protezione
Civile Nazionale. La
riunione di oggi, che si è tenuta presso la Scuola Ispettori
e Sovrintendenti della Guardia di Finanza a Coppito, ha visto la partecipazione
di tutti i rappresentanti del Comitato, composto dal Senatore Franco Marini,
abruzzese ed ex Presidente del Senato, da Cesare Mirabelli, ex Presidente della
Corte Costituzionale, da Vito d’Ambrosio, ex Presidente della Regione
Marche nel periodo in cui la
Regione fu colpita dal terremoto del 1997, da Natalino Irti,
abruzzese e membro dell’Accademia dei Lincei e da Fernanda Contri ex Vice Presidente
della Corte Costituzionale, che è stata designata anche a presiedere il
Comitato stesso. Ad oggi l’importo complessivo delle donazioni ammonta a
74.677.720 euro, una cifra record che si compone delle donazioni dirette alla Protezione Civile Nazionale (circa
53 milioni di euro) e quelle agli Enti Locali che sono state comunque
finalizzate con il coordinamento del Dipartimento (circa 22 milioni di euro).
La cifra record di oltre 74 milioni e mezzo di euro è stata raggiunta grazie
alla straordinaria solidarietà dimostrata concretamente da milioni di italiani
e da moltissime amministrazioni pubbliche e private che hanno effettuato
versamenti direttamente sui conti correnti aperti dalla Protezione Civile
Nazionale per 13.709.746 euro, inviato sms per donare uno o due euro per un
totale di 18.523.443 euro e fornito strutture per sistemazioni temporanee per
circa 22 milioni di euro. Nel corso della riunione, a cui ha partecipato anche
il Capo del Dipartimento Guido Bertolaso, sono state condivise le prime
proposte per l’utilizzazione delle risorse economiche, in parte
già finalizzate direttamente dai donatori. Infatti, i primi indirizzi per la
destinazione delle donazioni prevedono che circa 40 milioni e mezzo di euro
siano utilizzati nell’ambito
del progetto C.A.S.E., che prevede la realizzazione di moduli abitativi per i
cittadini dell’Aquila, proprio come indicato da importanti soggetti pubblici e
privati. Oltre 11 milioni di euro, inoltre, saranno finalizzati ad iniziative
destinate al sostegno
della popolazione colpita dal terremoto, alla ripresa economica del territorio
ed al sistema scolastico ed universitario. Infine, circa 22 milioni di euro
serviranno alla realizzazione di moduli abitativi ed altre strutture per le
comunità colpite dal terremoto residenti nei comuni diversi da quello dell’Aquila.
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( da "Sestopotere.com"
del 05-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Regione Friuli:
tavolo con Governo su tributi Inps (5/8/2009 18:20) | (Sesto Potere) - Trieste
- 5 agosto 2009 - Sarà istituito un tavolo tecnico-politico con il Governo per
arrivare a una soluzione condivisa sulla questione delle compartecipazioni che la Regione vanta sui tributi
versati dai pensionati dell'INPS residenti in Friuli Venezia Giulia. Lo ha
assicurato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri Gianni
Letta, incontrando oggi a Roma a Palazzo Chigi il presidente della Regione
Renzo Tondo. "Il Friuli Venezia Giulia - ha detto Tondo - ha storicamente
sempre adottato un approccio responsabile anche nella rivendicazione dei propri
diritti. Dopo la sentenza favorevole della Corte costituzionale la nostra Regione ha acquisito un diritto di essenziale
rilevanza. Pur consapevoli delle difficoltà economiche che il nostro Paese sta
attraversando, non posso quindi esimermi dal rappresentare con forza al Governo
un diritto certificato". Tondo ha quindi chiesto la disponibilità
ad aprire un tavolo di confronto con il Governo sulla questione delle
compartecipazioni INPS, una proposta che il sottosegretario Letta ha condiviso.
Il tavolo potrà iniziare a operare subito dopo la pausa estiva, in settembre.
Il sottosegretario si è impegnato a riferire subito della questione al
presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, in vista dell'incontro di questa
sera tra lo stesso Berlusconi e la Conferenza dei presidenti delle Regioni, a cui
prenderà parte anche Tondo.
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( da "Repubblica, La"
del 06-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 37 - Cultura
Con l´assalto all´autorizzazione all´uso della Ru486 ritorna il tempo dei
diktat La crociata vaticana e le mani sulla vita Non è ammissibile la pretesa
autoritaria di fare dell´Italia un luogo dove alle donne è preclusa la
possibilità di fare le stesse scelte di quelle degli altri paesi (SEGUE DALLA
PRIMA PAGINA) aluti ciascuno in cuor suo e secondo la propria fede la
possibilità di affiancare l´aborto farmacologico a quello chirurgico. è
inammissibile, invece, la pretesa autoritaria e illegale di fare dell´Italia un
luogo dove alle donne è preclusa la possibilità di fare le stesse scelte delle
donne di quasi tutti gli altri paesi europei; e dove si violano consolidate
regole europee sulla registrazione dei farmaci, fondate sul "mutuo
riconoscimento": quando il farmaco è già stato autorizzato in un altro
paese europeo, si può chiedere che venga autorizzato anche in altri. Questa
procedura implica che si possa discutere sulle modalità dell´autorizzazione,
non sul concederla o negarla. E nel comunicato dell´Agenzia italiana per il
farmaco si dice che l´autorizzazione «conclude quell´iter registrativo di mutuo
riconoscimento seguito dagli altri paesi europei». Se, invece di abbandonarsi
alle invettive, si fossero lette queste poche parole e le equilibrate
considerazioni del direttore dell´Agenzia, si sarebbero evitate molte
sciocchezze e forzature. Dica pure il presidente della Cei che l´autorizzazione
della pillola Ru486 apre una «crepa nella nostra civiltà»: l´autorizzazione ad
esagerare non si nega a nessuno. Ma quando il responsabile per queste materie
della stessa Cei dice perentoriamente che «il governo deve bloccare tutto»,
siamo di fronte alla negazione dello Stato di diritto, del suo essere fondato
su regole e procedure che tutti devono rispettare. Altro che Stato e Chiesa,
«ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», come vuole l´articolo 7
della Costituzione! Di questo clima bisogna tenere conto, perché si cercherà di
svuotare in via amministrativa quell´autorizzazione, già severissima,
ricorrendo alle abituali falsificazioni dei dati scientifici, come sta
accadendo con il riferimento a 29 donne morte ricorrendo a quella pillola. Ma,
a parte il fatto che alcuni di quei casi sono controversi, si tratterebbe
comunque di 29 casi in ventun´anni e su un totale di milioni di donne: si è
fatto notare che, nello stesso arco di tempo, i morti per aspirina sono stati
50. Questa manipolazione mostra come si vogliano creare le condizioni per una
rinnovata offensiva contro la libertà femminile, invocando la mozione con la
quale la Camera
impegna il Governo a promuovere una risoluzione dell´Onu «che condanni l´uso
dell´aborto come strumento di controllo demografico». Conviene vigilare perché
questa richiesta non divenga il pretesto per nuove forme di condanna delle
donne, per imporre presenze di "dissuasori" nei consultori, per
contrastare le politiche di educazione sessuale e di informazione sulla
contraccezione, come quelle svolte dalle organizzazioni internazionali alle
quali Obama è tornato ad assicurare i finanziamenti. La volontà di limitare la
libertà di scelta e di espropriare le persone del diritto di governare la
propria vita, era già comparsa nelle discussioni che accompagnano il dibattito
parlamentare sul testamento biologico. Si contrappongono le decisioni sulla
morte dignitosa e la cura e l´accompagnamento del morente. La vita, non la
morte, dovrebbe essere oggetto dell´attenzione. Vivere, non morire, con
dignità. Qui l´ambiguità è massima. Proprio la riflessione laica ha
sottolineato che, se la morte appartiene alla natura, il morire è sempre più
governabile dall´uomo, appartiene alla sua vita, e dunque rientra
nell´autonomia delle scelte di ciascuno. E non si può contrapporre la vocazione
della Chiesa alla cura a una sorta di estraneità pubblica. In questi anni sono
stati proprio i laici a insistere sulla necessità delle cure palliative, sulla
iniqua distribuzione sul territorio di hospices e centri per la terapia
antidolore, sulla complessiva necessità di servizi per le persone. Il Governo,
pronto ad approvare decreti incostituzionali per impedire l´esercizio di
diritti, non ha riconosciuto quelle altre priorità, né mette a disposizione
risorse adeguate. Invece è proprio qui che la presenza pubblica è necessaria,
per consentire a ciascuno di fare le sue scelte. Una strategia di libertà
positiva, esattamente l´opposto delle politiche proibizioniste che si cerca di
imporre attraverso il disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di
trattamento già approvato dal Senato. Nei giorni scorsi un alto prelato, sempre
assai loquace, si è spinto a dire che quel testo è ottimo e che non è possibile
mettere in discussione uno dei suoi punti più controversi, quello
sull´alimentazione e l´idratazione forzata, perché la scienza avrebbe
unanimemente concluso che non sono trattamenti terapeutici. Non è così, come è
stato mille volte ricordato richiamando le posizioni delle maggiori società
mediche internazionali. Ma questi sono segni inquietanti di una volontà di
chiusura che si ritrova anche nella relazione che, nella Commissione Affari
sociali della Camera, ha avviato l´esame del disegno di legge. Una chiusura
tutta ideologica, sorda alla voce dei moltissimi studiosi che hanno
sottolineato le infinite sgrammaticature e contraddizioni di quel testo. Né
maggioranza e Governo vogliono trarre profitto dalle
lezioni impartite dalla Corte costituzionale con due recenti
sentenze che indicano quali debbano essere i rapporti tra potere legislativo,
potere medico e potere individuale quando si affrontano temi che riguardano la
vita delle persone. Viene ribadito il ruolo centrale dell´autodeterminazione,
per la prima volta riconosciuta esplicitamente come "diritto
fondamentale" della persona. Il consenso informato dell´interessato rimane
l´ineliminabile e vincolante punto di partenza. Il legislatore deve tener conto
delle «acquisizioni scientifiche e sperimentali che sono in continua
evoluzione», sì che «la regola di fondo deve essere l´autonomia e la
responsabilità del medico, che, con il consenso del paziente, opera le
necessarie scelte professionali». Le pretese del legislatore-scienziato, che
vuol definire che cosa sia un trattamento terapeutico, e del
legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vengono esplicitamente
dichiarate illegittime. E, al tempo stesso, la definizione dello spazio proprio
delle acquisizioni scientifiche e dell´autonomia del medico viene affidata al
consenso della persona, ribadendosi così il ruolo ineliminabile della volontà
individuale. Questo è il quadro costituzionale che la
politica deve rispettare se vuole che le sue decisioni siano legittime. In
questo modo difende anche la propria autonomia di fronte a chi vuole
trasformarla in potere biopolitico che si impadronisce della vita delle
persone, introducendo pericolosi doveri verso la "comunità", o in
potere subordinato a imposizioni esterne. Credo proprio che non debba essere
seguito l´esempio dell´"amico Putin", che tre settimane fa ha
consentito alla Chiesa ortodossa un diritto di esame preventivo di tutte le
leggi che riguardano temi eticamente sensibili.
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( da "Unita, L'" del
06-08-2009)
Argomenti: Giustizia
PIETRO SPATARO Nichi
Vendola esce trafelato da una riunione delle Regioni sulla sanità e borbotta:
«E' assurdo. Berlusconi ci riceve prima di andarsene in ferie, vuole lasciarci
il cerino acceso in mano». Accusa il governo di imporre i tagli e di non fare
interventi strutturali. Dice che così si eliminano diritti e servizi,
protesta... Non vorrà scaricare sul governo lo scandalo della sanità pugliese?
«No, non voglio tergiversare. Dico però che siamo di fronte a diverse
inchieste. La prima riguarda il circuito Angelucci e i rapporti con Fitto. Non
dimentichiamo che la Procura
ha avanzato una istanza di carcerazione per Fitto che il Parlamento ha
respinto. La seconda riguarda il sistema Tarantini. Dalle intercettazioni viene
fuori il ruolo di un rampollo del centrodestra pugliese, Tato Greco. E tra i
soci occulti di Tarantini c'è anche Fitto. Da qui parte il filone della cocaina
e delle escort ed emerge la confidenza straordinaria che Tarantini aveva con
Berlusconi». Pare anche con alcuni esponenti del centrosinistra. Il vice della
sua giunta, Frisullo, c'è finito in mezzo... «Diciamo che alcuni schizzi di
fango sono finiti pure sul centrosinistra. Frisullo però non è stato mai
indagato, finora non sono emersi fatti penalmente rilevanti». Vabbè però non ne
è uscito bene. Poi c'è il caso Tedesco, l'ex assessore alla sanità nel mirino
dei pm. «Certo, c'è Alberto Tedesco. Il quale, però, si è dimesso appena uscita
la notizia sull'Ansa». Questo gli fa onore. Ma le accuse sono pesanti, non
crede? «Guardi io credo che siamo di fronte a un teorema giudiziario, Da questa
vicenda ricavo sicuramente un giudizio politico. Ma aspetto ancora che le
ipotesi di reato vengano incardinate». È una critica ai magistrati? «Io penso
che la magistratura debba fare il proprio lavoro. Ma penso anche che il pm
abbia compiuto degli azzardi nelle modalità di procedere. C'è stata una inutile
spettacolarizzazione: hanno sguinzagliato i poliziotti per tutta Bari a caccia
dei bilanci dei partiti che sono su Internet. Così come è discutibile indagare
sulla formazione di una legge, quella che aumenta il numero delle farmacie e
che ha scatenato la lobby dell'Ordine dei farmacisti. Norme
che sono state legittimate dalla Corte Costituzionale. Ma il problema è un
altro». Quale? «È il rimbalzo mediatico. La mia faccia è comparsa sul Tg1
mentre si parlava di prostituzione e cocaina, inchiesta che tocca la destra e
Berlusconi. Su di me c'è stata una intensità comunicativa che non ha eguali».
Lei ha mai conosciuto Tarantini? «Ma non scherziamo. Non ho mai conosciuto né
Tarantini né l'altro imprenditore Romeo. Se penso all'onorevole Bocchino che
aveva conversazioni imbarazzanti con l'imprenditore Romeo e che ha avuto
l'opportunità di stare su tutti i tg per difendersi vedo una differenza. Io ho
subito una campagna mediatica. Ma non sono indagato. E se conosco bene la mia
vita sarà difficile che mi indaghino. Diciamo la verità: i giornali della
destra hanno compiuto operazioni di cecchinaggio». Qualche critica è arrivata
anche dal suo campo... «Sì, il fuoco amico. C'è addirittura qualcuno
screditato, penso all'onorevole Boccia che ho battuto alle primarie, che si
presta a operazioni di basso sciacallaggio». D'accordo, ma perché lei ha messo
in giunta uno come Tedesco i cui familiari avevano partecipazioni in società di
tipo ospedaliero e che ha portato ai vertici della sanità quello che ha
disegnato il piano di Fitto? «Ho pensato allora che dovessi evitare lo spoil
system. Quel signore portato ai vertici della sanità, Morlacco, era considerato
in giro per l'Italia uno dei migliori tecnici. Mi dicevano: se lo molli
avvertimi». Quindi è d'accordo con Emiliano che denuncia il governo bipartisan
della sanità pugliese? «Certo che c'è un trasversalismo degli affari. C'è in
Puglia e in tutta Italia. La sanità è come un casinò: entri e ci sono le slot
machine, poi trovi le roulette e poi l'azzardo si fa più forte». Sempre
Emiliano ha puntato il dito contro il sistema di potere dalemiano. Lei che ne
pensa? «No, no, cerchiamo di uscire dalla contesa congressuale del Pd. Io vedo
che l'area dalemiana è molto articolata e frastagliata. E poi voglio dire che i
candidati scelti per la segreteria regionale del Pd sono quattro persone
eccellenti, hanno messo in campo una nuova classe dirigente». Perché ha scelto
Tedesco? «Lui mi è stato presentato da tutti come persona di primo piano, un
conoscitore del sistema sanitario. Attorno a lui c'era un forte consenso». Ma
insomma nessun rimprovero? «Sì non sono mai riuscito a diffidare del genere
umano e poi ho peccato di ingenuità. Questo sì». Lo nominerebbe ancora
assessore? «Se avessi potuto leggere alcune intercettazioni avrei fatto
sicuramente un'altra scelta». Lei ha detto che la sua giunta ha fatto un grande
lavoro sulla legalità in ogni settore. Perché l'ha azzerata? «Perché dopo i
casi di Tedesco e Frisullo bisognava dare un messaggio forte ai cittadini. Mi
sono assunto una responsabilità mi sono fatto carico della questione morale che
per me è una una bussola». Eppure gli elettori dicono: siamo come la destra,
affari e politica... «Chiedetevi perché ho avuto più servizi giornalistici di
Totò Cuffaro. Loro vogliono dimostrare che siamo tutti uguali». A questo punto
l'anno prossimo che fa, si ricandida? Sul Corriere si dice che il solito
D'Alema lavora a un patto Pd-Udc e sarebbe già pronta Adriana Poli Bortone, ex
An ora centrista... «Si tratta di ricostruzioni fantasiose. Dico che nonostante
questa campagna il mio rapporto con il popolo resta forte e la speranza che
abbiamo aperto non è esaurita». Ma lei si ricandida? «Diciamo che penso di
essere il candidato naturale». Che ne pensa del congresso Pd? Qualcuno dice:
vedrete che Vendola finirà lì... «Sono molto interessato al congresso dei
democratici ma sono anche molto innamorato di Sinistra e Libertà». E se
Sinistra e Libertà finisse nel Pd? «Oppure: se il Pd finisse in Sinistra e
Libertà?»
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 06-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore sezione:
NORME E TRIBUTI data: 2009-08-06 - pag: 23 autore: Lettera Ambiente promosso a
pieni voti C ontro il decreto legislativo 152 /2006 (erroneamente definito poi
Codice ambientale), voluto dal ministro Altero Matteoli nel terzo Governo
Berlusconi, l'opposizione e i movimenti ambientalisti conformisti sollevarono
forti proteste, assumendo «la certa incostituzionalità» e «la chiara violazione
della normativa ambientale» della procedura e del contenuto. Appena entrato in
vigore, 12 Regioni lo impugnarono di fronte alla Corte costituzionale, con 130 contestazioni e richieste, che andavano dalla
cancellazione radicale dell'intero provvedimento all'impugnazione di minuzie
procedurali, tipo l'utilizzazione dei poteri sostitutivi delle Regioni in caso
di inadempienze da parte dei gestori del ciclo dei rifiuti.
Immediatamente la Corte
rigettò la richiesta di sospensiva; nei giorni scorsi ha emesso le sentenze n.
225, 246, 247 e 249, con le quali è stata decisa l'intera materia. Il dato
finale è significativo: di 130 capi di ricorso ne sono stati accolti 6; 45 sono
stati dichiarati inammissibili; 60 non fondati; cessata la materia del
contendere in 19 casi. Non può negarsi che il provvedimento, nel suo impianto
complessivo come nelle singole norme, abbia superato gloriosamente la verifica
di costituzionalità. Ma c'è di più: al momento dell'approvazione il
provvedimento era stato notificato alla commissione Ue per eventuali rilievi.
Bene, rilievi non ce ne sono stati, e la recente direttiva rifiuti è in gran
parte ispirata al contenuto del 152, che è stato così confermato in perfetta
sintonia con le regole comunitarie. Sconfitta totale, quindi, per coloro che
avversarono l'attuazione della delega ambientale. Paolo Togni Già capo di
gabinetto del ministero dell'Ambiente
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( da "Corriere della Sera"
del 06-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Politica data: 06/08/2009 - pag: 13 L'inchiesta Gasparri attacca Vendola. Il
governatore: lo cito per danni Tangenti per «regalare» farmacie Bari,
sequestrate altre carte L'ipotesi di accusa del pm. Blitz dei carabinieri in
Regione DAL NOSTRO INVIATO BARI Tangenti in cambio di una leggina regionale
fatta ad hoc per regalare la farmacia a 14 farmacisti che non ne avevano
diritto. E' questo il sospetto che guida il pm Desirè Digeronimo nelle nuove
acquisizioni, compiute ieri alla Regione Puglia dal nucleo investigativo dei carabinieri.
Dubbi tutti da verificare, nell'ipotesi di accusa che sia esistito, all'interno
della giunta Vendola, un comitato di affari che scambiava appalti, voti,
nomine, favori a boss locali e, appunto, leggine per gli amici. Sospetti nati
da intercettazioni. Rafforzati negli investigatori da alcune stranezze
riscontrate nei primi accertamenti: come l'assegnazione di una sede a un
farmacista ottantenne a San Giovanni Rotondo. Nel giorno delle farmacie,
scambio di insulti tra Maurizio Gasparri, presidente dei senatori Pdl e il
governatore Nichi Vendola. Gasparri: «Se la magistratura esita a indagare
Vendola, non potrà evitare la sua interdizione. O è coinvolto nel disastro
della sanità pugliese o non si è accorto di niente e allora è inadeguato».
Replica di Vendola: «Occupati del marciume della destra». Controreplica di
Gasparri: «E' un fallito politico e morale». Vendola presenta querela per danni
e la parola passa, anche in questo caso, alla magistratura. La storia dei 14
farmacisti baciati dalla leggina che ha suscitato la curiosità del pm ha
suscitato scandalo fra i colleghi e ricorsi ancora pendenti. La racconta
Francesca Conchiglia, presidente di Federfarma Puglia e nel consiglio di
presidenza nazionale: «E' una vergogna che noi denunciamo da cinque anni
invano. A quei quattordici erano state date in gestione provvisoria farmacie
vacanti che però nel 2006 dovevano andare ai regolari vincitori di un concorso
iniziato nel '99. I quattordici incassarono dai vincitori l'indennità di avvio
(una buonuscita legittima che può arrivare fino a 4-500 mila euro). Ma poi
vennero trasformati da questa legge-vergogna in assegnatari di sedi. Come i
vincitori. Anzi di più. A loro fu anche concesso scegliere la sede che
preferivano e hanno preso le più redditizie». «Ma fa notare la presidente
Conchiglia la cosa che più ci meravigliò fu che l'ex assessore alla Sanità
Alberto Tedesco, prima contrario, poi fece passare questa norma. Ci furono
proteste enormi. E, secondo me, la legge regionale che abbassò il quorum per
favorire i criteri di apertura di altre sedi, venne fatta per tacitarle ».
Ricorda le contestazioni anche l'avvocato Saverio Basile, legale di alcuni
farmacisti che hanno presentato ricorso contro la norma, chiedendo la
remissione degli atti di fronte alla Corte Costituzionale,
contro il parere dei 14 ex gestori provvisori (difesi inizialmente da Giovanni
Pellegrino, ex senatore ds ed ex presidente della Commissione stragi, all'epoca
presidente della Provincia di Lecce, e poi dalla figlia di lui Valeria e da
altri colleghi): «La legge venne approvata in una seduta segnata dalle proteste
dei farmacisti presenti. Ma la cosa strana è che, nel sito della regione
Puglia di quella seduta non vi è più traccia». Virginia Piccolillo ©
RIPRODUZIONE RISERVATA Il pm Desirè Digeronimo , sostituto procuratore di Bari:
ora indaga anche sulle autorizzazioni date in via provvisoria a 14 farmacie
pugliesi nel periodo che ha preceduto l'approvazione della legge regionale che
ha rivisto i criteri demografici (abbassandoli) per l'apertura di nuovi punti
vendita di medicinali nei Comuni fino a 12.500 abitanti Stranezze Tra le
«stranezze» anche l'assegnazione di una rivendita a un farmacista ottantenne
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( da "Corriere della Sera"
del 06-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Politica data: 06/08/2009 - pag: 13 L'intervista L'ex presidente della Corte costituzionale e l'editoriale di Panebianco: la sinistra non può trascurare
questo problema Onida: standard etici decisivi nella vita pubblica ROMA «La
posizione della sinistra viene dipinta in modo un po' caricaturale. Ma, a parte
questo, mi sembra che ci sia una confusione tra due aspetti: quello della
critica alla moralità privata del premier e quello della lotta alla corruzione.
Una cosa è la moralità nella vita pubblica, un'altra se la moralità privata dei
personaggi pubblici debba, e come, essere oggetto di attenzione ». Valerio
Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, interviene nel dibattito
aperto dall'editoriale di Angelo Panebianco, pubblicato sul Corriere del 3
agosto. La lotta alla corruzione, secondo Panebianco, tocca alla magistratura
non alla politica. «È esatto, se ci si riferisce al contrasto dei singoli
episodi. Come anche il fatto che sia compito della politica incidere sulle
condizioni che provocano la corruzione». Però? «Però c'è una palese
contraddizione. Perché poi, a questa premessa, si fa seguire la necessità di un
accordo con la maggioranza sul tema delle intercettazioni » . Accordo che non
condivide? «Se si impediscono o si rendono molto difficili le intercettazioni,
si creano le condizioni per accrescere l'impunità dei corrotti. Dunque, si
incide negativamente sulle condizioni che provocano la corruzione». Il
moralismo non è pericoloso? «Bisogna intendersi. Chiedo: c'è o non c'è un
problema di etica pubblica? So che c'è chi ritiene che sia più importante
l'efficienza e che si possa tollerare un grado più o meno alto di corruzione.
Ma questo mi sembra inaccettabile. A parte il fatto che noi spesso non abbiamo
nemmeno l'efficienza». Non è rischiosa la gara a chi è più «pulito»? «Noi non
vogliamo santi: vogliamo persone pulite e che non mescolino interessi privati e
interessi pubblici». Il moralismo giustizialista si fa risalire a Mani Pulite.
«Non voglio santificare quell'epoca: si devono riconoscere anche gli errori e
gli eccessi. Ma non si può neanche dire che l'obiettivo della lotta alla
corruzione fosse sbagliato». A Di Pietro spesso viene rimproverato
l'estremismo. «Non c'entra. Quello che mi scandalizza è che passi un messaggio
secondo cui la sinistra dovrebbe dimenticare, trascurare o addirittura
considerare sbagliato l'obiettivo di garantire standard etici nella vita
pubblica. Perseguire il rigore è necessario, e non ha niente a che vedere con
l'estremismo verbale». Si accusa la magistratura di avere ecceduto. «È vero che
ci sono stati anche eccessi, ma questi vanno combattuti sul terreno proprio. È
sbagliato usare la legge per 'tagliare le unghie' ai magistrati. Gli anticorpi
ci sono già e sono le regole. Fra l'altro, quelle che consentono l'intervento
della Corte costituzionale, quando è il caso, anche
contro eventuali deviazioni della magistratura ». La sinistra, da Mani Pulite
in poi, è stata considerata molto vicina ai magistrati. «Anche questa mi pare
un po' una leggenda. Ci sono stati spesso, a destra ma talora anche a sinistra,
atteggiamenti politici per nulla favorevoli all'opera della magistratura, come
l'approvazione di certe leggi e le pratiche seguite sulle immunità dei
parlamentari o di altre cariche politiche. Non è un problema di
fiancheggiamento ai pm: le leggi e la prassi debbono adeguarsi ai contenuti necessari
per garantire alti standard di moralità pubblica ». Alessandro Trocino ©
RIPRODUZIONE RISERVATA Giurista Valerio Onida, 73 anni, presidente emerito
della Consulta
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( da "AltaLex" del
06-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Irap, indeducibilità
dalle imposte sui redditi, legittimità Corte Costituzionale
, sentenza 30.07.2009 n° 258 Stampa | Segnala | Condividi | irap | imposte sui
redditi | deducibilità | Corte costituzionale Sentenza 30 luglio
2009 N. 258 LA
CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Francesco AMIRANTE
Presidente Ugo DE SIERVO Giudice Paolo MADDALENA " Alfio FINOCCHIARO
" Alfonso QUARANTA " Franco GALLO " Luigi MAZZELLA "
Gaetano SILVESTRI " Sabino CASSESE " Maria Rita SAULLE "
Giuseppe TESAURO " Paolo Maria NAPOLITANO " Giuseppe FRIGO "
Alessandro CRISCUOLO " Paolo GROSSI " ha pronunciato la seguente
ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale
dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446
(Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli
scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una
addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei
tributi locali) e dell’art. 10 del decreto del Presidente della
Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte
sui redditi), promossi
dalla Commissione tributaria provinciale di Genova con ordinanza del 12
febbraio 2004, dalla Commissione tributaria provinciale di Parma con quattro
ordinanze del 23 marzo 2006, dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti
con ordinanza del 30 ottobre 2006, dalla Commissione tributaria provinciale di
Parma con ordinanza del 9 novembre 2006, dalla Commissione tributaria
provinciale di Bologna con due ordinanze del 24 settembre 2007, ordinanze
rispettivamente iscritte al n. 521 del registro ordinanze 2004, ai nn. da 180 a 183, 362 e 498 del
registro ordinanze 2007 ed ai nn. 36 e 37 del registro ordinanze 2008 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie
speciale, dell’anno 2004, nn. 14, 20 e 26, prima serie speciale, dell’anno
2007 e n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2008. Visti l’atto di
costituzione di Francesco Paolucci ed altro nonché gli atti di intervento del
Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 7 luglio
2009 e nella camera di
consiglio dell’8 luglio 2009 il Giudice relatore Sabino
Cassese; uditi l’avvocato Vittorio Paolucci per Francesco Paolucci ed altro e
l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei
ministri. Ritenuto che nel corso di un giudizio, promosso da una società per azioni avverso il
provvedimento di diniego dell’Agenzia delle entrate, in relazione
all’istanza di rimborso dell’imposta sui redditi delle persone giuridiche
(Irpeg), per la quota indeducibile dell’imposta regionale sulle attività produttive (Irap), la Commissione tributaria
provinciale di Genova ha sollevato, con riferimento all’art.
53 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione
dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni,
delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale
regionale a tale imposta,
nonché riordino della disciplina dei tributi locali), nella parte in cui vieta
la deducibilità dell’Irap dalle imposte sui redditi (r.o. n. 521 del
2004); che, in ordine alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale,
la Commissione
osserva che essa condiziona direttamente ed inequivocabilmente la domanda di
restituzione dell’Irpeg formulata dalla società ricorrente; che,
per quanto riguarda la non manifesta infondatezza della questione, la Commissione ritiene
che, con riferimento al reddito
di impresa, l’esclusione della deducibilità dell’Irap (che per
l’imprenditore rappresenta un fattore economico di spesa) dal reddito
assoggettato alle imposte sui redditi determina l’imposizione non su un reddito
netto, il quale è e deve essere l’indice di capacità contributiva che giustifica l’imposizione
erariale, ma su un reddito lordo e, quindi, può verificarsi che imprese la cui
gestione sia in perdita paghino ugualmente Irpef ed Irpeg come se avessero
prodotto un reddito, mentre altre imprese con gestione in utile vengano assoggettate ad imposta con
prelievo pari o superiore all’utile stesso, con conseguente violazione
dell’art. 53 Cost.; che nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della
questione; che, secondo la difesa statale, l’inammissibilità discende dalla
insufficiente descrizione della fattispecie da parte del giudice rimettente, perché la censura è basata su una
«situazione-limite» di imprese in perdita o assoggettate a Irap di importo pari
o superiore all’utile, non corrispondente alla situazione
dell’impresa ricorrente, e perché dall’ordinanza non risulta chiaro se gli
importi Irap chiesti
dalla società ricorrente in rimborso siano versamenti in acconto o solo
accantonamenti; che, prosegue l’Avvocatura generale dello Stato, nel
merito la questione è palesemente infondata, perché la non deducibilità dalle
imposte personali dipende
dalla natura di imposta reale dell’Irap e dal fatto che essa è
stata istituita «anche per raggiungere capacità contributiva che, altrimenti
sfuggirebbe alla imposizione "personale" o da questa sarebbe solo
marginalmente lambita; la Irap
ha in sostanza doverosamente
colmato una lacuna rispetto alla piena applicazione del predetto parametro»;
che, in prossimità dell’udienza fissata per la trattazione (20 febbraio
2007), l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria con
ulteriori argomentazioni a
difesa della norma impugnata, rilevando che rientra nella discrezionalità del
legislatore l’individuazione non solo del fatto espressivo
della idoneità alla contribuzione, ma anche dell’entità e della proporzionalità
dell’onere tributario, anche con riferimento agli oneri deducibili, e che la scelta della non
deducibilità non è irragionevole ed arbitraria, in considerazione della
fisiologica traslabilità dell’onere fiscale e delle ragioni di
semplificazione, sotto il profilo della gestione amministrativa dell’imposta e della
regolazione dei flussi finanziari tra Stato e Regioni; che nel corso di quattro
procedimenti promossi da soci di una società in nome collettivo avverso
l’Agenzia delle entrate di Parma, volti all’annullamento del silenzio rifiuto
opposto dalla stessa
all’istanza di restituzione di somme versate a titolo di Irpef, per la
quota non deducibile dell’Irap, la Commissione provinciale tributaria di Parma, con
quattro distinte ordinanze di contenuto analogo, ha sollevato questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, del d.lgs.
n. 446 del 1997, con riferimento all’art. 53 Cost. (r.o. nn. 180, 181, 182 e
183 del 2007); che, in ordine alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale,
la Commissione
osserva che essa condiziona direttamente la domanda di restituzione dell’Irpef
formulata dai ricorrenti; che, per quanto riguarda la non manifesta
infondatezza della questione, la
Commissione ritiene che «l’indeducibilità dell’Irap dalla
base imponibile ai fini Irpef del socio confligge, con tutta evidenza, con il principio di
capacità contributiva espresso dall’art. 53 Cost., atteso che
l’Irpef finisce per gravare non già su di un reddito netto e realmente
indicativo della capacità contributiva, bensì su un reddito lordo e fittiziamente attribuito al contribuente,
per effetto della mancata deduzione dell’Irap già versata» e che la
duplicazione d’imposta «confligge anche con il principio di ragionevolezza»;
che in tutti e quattro i giudizi dinanzi alla Corte è intervenuto, con atti di contenuto analogo, il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità o l’infondatezza della
questione; che, in punto di ammissibilità, la difesa statale deduce il difetto di adeguata motivazione in
ordine alla rilevanza, non spiegando adeguatamente il giudice rimettente a
quale titolo il ricorrente nel giudizio principale, socio di una società in
nome collettivo, abbia chiesto il parziale rimborso dell’Irpef
pagata personalmente,
adducendo a motivo della richiesta l’illegittimità della norma
che impedisce la deducibilità dalle imposte sui redditi dell’Irap corrisposta,
nel caso in esame, da un soggetto di imposta diverso dal ricorrente medesimo;
che, nel merito, l’Avvocatura
generale dello Stato afferma che la prevista indeducibilità dell’Irap
dalle imposte dirette costituisce il frutto di una consapevole scelta operata
dal legislatore, non irragionevole, in coerenza con il sistema tributario e con
la prevista destinazione
del gettito dell’Irap alle Regioni; che, nel corso di un
procedimento promosso da un socio di una società in nome collettivo avverso
l’Agenzia delle entrate di Ortona, volto all’annullamento del silenzio rifiuto
opposto all’istanza di restituzione di somme versate a titolo di Irpef, per la quota
indeducibile dell’Irap, la Commissione tributaria provinciale di Chieti ha
sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 2, del d.lgs. n. 446 del 1997, in riferimento all’art. 53 Cost. (r.o. n. 362 del 2007); che la Commissione rimettente
ritiene rilevante la questione di legittimità costituzionale,
in quanto «l’eventuale caducazione o manipolazione della norma censurata
determinerebbe il favorevole scrutinio della domanda di rimborso dell’Irpef»; che, per
quanto riguarda la non manifesta infondatezza della questione, la Commissione richiama l’ordinanza della
Commissione tributaria provinciale di Genova (r.o. n. 521 del 2004), in ordine
alla possibilità che imprese, la cui gestione sia effettivamente in perdita, a causa
della mancata deduzione dell’Irap, paghino ugualmente Irpef e Irpeg
come se avessero prodotto un reddito e osserva che tale effetto estremamente
distorsivo «vulnera, all’evidenza, il principio di capacità contributiva, ex art. 53 Cost. […],
siccome implica una strutturale, irrazionale ed ingiustificata divaricazione
tra il reddito effettivo e quello imponibile»; che nel giudizio dinanzi alla
Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità o
l’infondatezza della questione; che, in punto di inammissibilità, la difesa
erariale deduce il difetto di adeguata motivazione in ordine alla rilevanza,
non spiegando sufficientemente
il giudice rimettente a quale titolo il ricorrente nel giudizio principale,
socio di una società in nome collettivo, abbia chiesto il parziale rimborso
dell’Irpef pagata personalmente, adducendo a motivo della richiesta
l’illegittimità della norma
che impedisce la deducibilità dalle imposte sui redditi dell’Irap
corrisposta, nel caso in esame, da un soggetto di imposta diverso dal
ricorrente medesimo; che, nel merito, l’Avvocatura dello Stato sostiene che
rientra nella discrezionalità del legislatore non solo individuare i singoli fatti indice di
ricchezza ed espressivi della capacità contributiva, ma anche definire il
regime giuridico tributario del fatto assunto come presupposto della
imposizione, con particolare riferimento al reddito imponibile ai fini delle
imposte dirette, e che l’indeducibilità dell’Irap costituisce il frutto
di una consapevole scelta operata dal legislatore, in coerenza con il sistema
tributario e con la prevista destinazione del gettito dell’Irap alle Regioni;
che nel corso di un
giudizio, promosso da una società per azioni avverso il provvedimento di
diniego dell’Agenzia delle entrate di Parma, in relazione all’istanza di rimborso
dell’imposta sui redditi delle persone giuridiche (Irpeg), per la quota
indeducibile dell’imposta
regionale sulle attività produttive (Irap), la Commissione tributaria
provinciale di Parma ha sollevato, con riferimento all’art.
53 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 2, del d.lgs. n. 446 del 1997 (r.o. n. 498 del 2007); che, in ordine alla rilevanza
della questione di legittimità costituzionale, la Commissione osserva
che essa condiziona direttamente ed inequivocabilmente la domanda di
restituzione dell’Irpeg formulata dalla società ricorrente; che,
per quanto riguarda la
non manifesta infondatezza della questione, la Commissione ritiene
che «l’indeducibilità dell’Irap dalla base imponibile ai fini Irpeg
confligge, con tutta evidenza, con il principio di capacità contributiva
espresso dall’art. 53 Cost., atteso che l’Irpeg finisce per gravare non su un reddito netto e
realmente indicativo della capacità contributiva, bensì su un reddito lordo e
fittiziamente attribuito al contribuente, per effetto della mancata deduzione
dell’Irap già versata», e che la duplicazione d’imposta «confligge anche con il
principio di ragionevolezza, atteso che l’imposta Irpef viene ad
essere pagata anche sull’imposta Irap»; che nel giudizio dinanzi alla Corte è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per l’infondatezza della
questione; che l’Avvocatura generale dello Stato osserva che l’Irap colpisce
non il reddito, ma il valore della produzione netta derivante dall’attività
esercitata, che il relativo onere economico gravante sulla produzione ben può essere dal
soggetto passivo traslato, secondo le leggi del mercato, sul prezzo dei beni e
dei servizi prodotti, che compete alla discrezionalità del legislatore
individuare quali oneri siano deducibili e che l’indeducibilità è spiegabile con la
necessità di mantenere distinto il sistema della finanza pubblica statale,
alimentato con i tributi erariali, da quello facente capo alle singole Regioni
e con l’esigenza dello Stato di pianificare scelte di programmazione economica e finanziaria; che nel
corso di due giudizi promossi da altrettanti avvocati avverso l’Agenzia
delle entrate di Bologna, per ottenere l’annullamento del silenzio rifiuto in
ordine all’istanza di rimborso della maggiore imposta Irpef dichiarata in conseguenza della mancata
deduzione dell’importo versato a titolo di Irap dalla base
imponibile Irpef, la
Commissione tributaria provinciale di Bologna, con due
ordinanze di contenuto analogo, ha sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 53
Cost., questione di
legittimità costituzionale dell’art.
10 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi), e dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 446 del 1997 (r.o.
nn. 36 e 37 del 2008); che la
Commissione rimettente riferisce che i ricorrenti invocano l’illegittimità costituzionale
delle disposizioni menzionate, affermando che esse violano, in primo luogo, l’art.
53 Cost., in quanto l’imposizione dell’Irap produrrebbe una riduzione del
reddito e la mancata deducibilità determinerebbe l’assoggettamento a imposta in
assenza di reddito effettivo e di capacità contributiva, e, in secondo luogo,
l’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento tra le imprese e i lavoratori
autonomi, soggetti all’Irap, e i lavoratori dipendenti, non soggetti a essa; che la Commissione riferisce
altresì di aver sospeso i due giudizi in attesa della definizione della
questione di legittimità costituzionale relativa alle
stesse disposizioni, sollevata da essa stessa nel corso di un altro giudizio, e
dichiarata inammissibile da questa Corte con l’ordinanza n. 100 del
2007, e che, a seguito di questa ordinanza, i ricorrenti hanno contestato le
motivazioni della medesima, ritenendo che la dichiarazione di inammissibilità
sia stata basata su «capziose argomentazioni» e chiedendo alla Commissione di sollevare
nuovamente la questione di legittimità costituzionale;
che la Commissione
tributaria rimettente ritiene che la questione sollevata dai ricorrenti sia
meritevole di considerazione e non sia manifestamente infondata; che nei due
giudizi è intervenuto, con due atti di contenuto analogo, il Presidente del
Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità o l’infondatezza
della questione; che,
in punto di inammissibilità, la difesa erariale osserva che la Commissione tributaria
si limita a trascrivere l’eccezione di illegittimità costituzionale
così come sollevata dai ricorrenti, senza un’autonoma motivazione sulla
non manifesta infondatezza;
che, nel merito, l’Avvocatura dello Stato, dopo aver richiamato la
giurisprudenza costituzionale secondo cui l’individuazione degli
oneri deducibili rientra nella discrezionalità del legislatore, rammenta che in
tema di imposte sui redditi la legge ha sempre tendenzialmente escluso la deducibilità di oneri di
natura fiscale e che la deduzione di un’imposta dall’imponibile di
un’altra attenua, sino alla possibilità di neutralizzarlo, l’effetto economico
perseguito con il prelievo, mentre la disparità di trattamento tra lavoratori autonomi e lavoratori
dipendenti è già stata esclusa dalla sentenza n. 156 del 2001; che nei due
giudizi sono intervenuti, con atti di contenuto analogo, i ricorrenti dei
giudizi principali, chiedendo che la questione sia dichiarata ammissibile e
fondata, argomentando in ordine alla violazione del principio di capacità
contributiva derivante dal fatto che l’importo versato a titolo di
Irap riduce il reddito e, quindi, la capacità contributiva; che, in prossimità
dell’udienza fissata
per la trattazione (7 luglio 2009), l’Avvocatura generale dello
Stato ha depositato una memoria, relativa a entrambi i giudizi, nella quale, oltre a insistere sull’infondatezza
della questione, rileva la sopravvenienza dell’art. 6 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185
(Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per
ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito,
con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e afferma l’inammissibilità della questione per
difetto di motivazione sulla rilevanza, in considerazione della giurisprudenza
secondo cui il reddito dello studio associato è soggetto a Irap a meno che il
contribuente dimostri che esso è derivato dal solo lavoro professionale dei
singoli associati, in quanto le ordinanze di rimessione non fornirebbero alcuna
motivazione sulle ragioni per cui i ricorrenti sarebbero assoggettati all’imposta;
che anche i ricorrenti nei giudizi principali hanno depositato due memorie, di
contenuto analogo, con
le quali essi ribadiscono gli argomenti già esposti e ne sviluppano ulteriori,
rilevando, tra l’altro, che la Corte deve decidere in base al diritto, senza
tener conto degli effetti di un’eventuale pronuncia di accoglimento sul bilancio dello Stato. Considerato che
tutte le Commissioni provinciali tributarie rimettenti dubitano della
legittimità costituzionale dell’art.
1, comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione
dell’imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle
detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale
a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali), nella
parte in cui esclude la deducibilità dell’Irap dalle imposte sui redditi, con riferimento all’art.
53 Cost., sotto il profilo del principio della capacità contributiva, che la
sola Commissione tributaria provinciale di Parma (r.o. nn. 180, 181, 182 e 187
del 2007) ne dubita anche con riferimento al principio di ragionevolezza e che la sola
Commissione tributaria provinciale di Bologna dubita, altresì, della
legittimità costituzionale dell’art.
10 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle
imposte sui redditi), per la stessa ragione e sotto gli stessi profili, nonché sotto il profilo
della disparità di trattamento tra le imprese e i lavoratori autonomi, soggetti
all’Irap, e i lavoratori dipendenti, non soggetti a essa; che le
questioni sollevate dalle ordinanze sono in gran parte coincidenti e, pertanto, i relativi giudizi
devono essere riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia; che
le questioni sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Parma sono
manifestamente inammissibili, in quanto le ordinanze – pur motivando in ordine alla questione sollevata – non
contengono nel dispositivo l’indicazione del petitum, e che alcune di esse
(r.o. nn. 180, 181, 182 e 183 del 2007, con l’eccezione, quindi, dell’ordinanza
di cui al r.o. n. 498) non spiegano a quale titolo i ricorrenti, soci di società in nome collettivo,
abbiano chiesto il parziale rimborso di un’imposta da essi pagata
personalmente (Irpef), adducendo a motivo della richiesta l’illegittimità
dell’indeducibilità dall’Irpef dell’Irap corrisposta dalla società, cioè da un
diverso soggetto d’imposta
(ordinanze n. 242 e n. 100 del 2007); che la questione sollevata dalla
Commissione tributaria provinciale di Chieti è manifestamente inammissibile, in
quanto anche la relativa ordinanza (r.o. n. 362 del 2007) non spiega a quale titolo il ricorrente, socio di
società in nome collettivo, abbia chiesto il parziale rimborso di un’imposta
pagata personalmente (Irpef), adducendo a motivo della richiesta
l’illegittimità dell’indeducibilità dalle imposte sui redditi dell’Irap
corrisposta dalla
società, cioè da un diverso soggetto d’imposta; che, per quanto
riguarda le questioni sollevate dalle Commissioni tributarie provinciali di
Genova e di Bologna, successivamente alla proposizione delle questioni, è
entrato in vigore il decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a
famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione
anti-crisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni,
dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2; che l’art. 6 del citato decreto-legge n. 185 del 2008
prevede che, a partire dal periodo d’imposta in corso al 31
dicembre 2008, è ammesso in deduzione un importo pari al 10 per cento
dell’Irap, «forfetariamente riferita all’imposta dovuta sulla quota imponibile
degli interessi
passivi e oneri assimilati al netto degli interessi attivi e proventi
assimilati ovvero delle spese per il personale dipendente e assimilato al netto
delle deduzioni spettanti», e che, per i periodi di imposta anteriori, per i
quali era stata presentata istanza di rimborso, è ammesso il rimborso per una
somma fino al 10 per cento dell’Irap dell’anno di competenza, da
eseguirsi secondo l’ordine cronologico di presentazione delle istanze, nel
rispetto dei limiti di spesa indicati, e che, ai fini dell’eventuale completamento dei rimborsi,
si provvederà all’integrazione delle risorse con successivi
provvedimenti legislativi; che, pertanto, occorre restituire gli atti alle
Commissioni tributarie rimettenti, perché operino una nuova valutazione della
rilevanza e della non
manifesta infondatezza della questione (ex multis, ordinanze nn. 112, 43 e 26
del 2009). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara
la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
dell’art. 1,
comma 2, del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 (Istituzione dell’imposta
regionale sulle attività produttive, revisione degli scaglioni, delle aliquote
e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale
imposta, nonché
riordino della disciplina dei tributi locali), sollevate, con riferimento agli
artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di
Parma e dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti, con le ordinanze
indicate in epigrafe; ordina la restituzione degli atti alla Commissione
tributaria provinciale di Genova e alla Commissione tributaria provinciale di
Bologna. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 23 luglio 2009. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente
Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in
Cancelleria il 30 luglio 2009. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA
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( da "AltaLex" del
07-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Spetta al GA la giurisdizione
in materia di scorrimento di graduatorie degli idonei Tribunale Lecce, sez.
lavoro, ordinanza 21.07.2009 (Alfredo Matranga) Stampa | Segnala | Condividi
Per il Giudice del lavoro di Lecce spetta alla giurisdizione del Giudice
ordinario la cognizione delle controversie relative allo scorrimento delle
graduatorie, come più volte ribadito dalla giurisprudenza della Cassazione.
Nella specie, la controversia riguardava l’utilizzazione mediante
scorrimento di due graduatorie degli idonei per lo stesso profilo di assistente amministrativo:
una approvata nel 1999 e l’altra nel 2005. Per il GdL di Lecce,
preliminarmente, sono da ritenere ancora valide le graduatorie approvate nel
1999 e vanno pertanto utilizzate in caso di assunzione mediante scorrimento delle stesse. Nel
caso il ricorso d'urgenza e' stato proposto dagli idonei della graduatoria del
'05 che l'Asl ha deciso pure di utilizzare, unitamente a quella del ’99, e
che non erano rientrati nella delibera di scorrimento perche' eccedenti, momentaneamente, rispetto
alle esigenze dell'azienda. I ricorrenti hanno sostenuto l'intervenuta scadenza
della graduatoria del '99. Viceversa, il Giudice ha rigettato il ricorso
aderendo alle tesi dei controinteressati secondo cui la validita' delle
graduatorie approvate dal '99
in poi e' stata nel tempo sempre prorogata dalle leggi
finanziarie nazionali e regionali e, da ultimo, dall’art.
5 del Decreto Mille Proroghe D.L. n. 207/08 (convertito in L. n. 14/09 e,
aggiungiamo noi, dal Decreto Anticrisi, art. 17 comma 19, al vaglio delle Camere per la
conversione). (Altalex, 7 agosto 2009. Nota di Alfredo Matranga) | concorsi |
scorrimento delle graduatorie | giurisdizione amministrativa | Alfredo Matranga
| Tribunale di Lecce Sezione Lavoro Ordinanza 21 luglio 2009 ordinanza ex artt.
669 bis e segg., 700 c.p.c. Il Giudice del lavoro sciogliendo la riserva nel
procedimento ex art. 700 c.p.c. n. 9154\2009 R.G. tra **** (ricorrenti) e
A.S.L. di Lecce, **** (resistenti); rilevato che tra i resistenti si sono
costituiti in giudizio la A.S.L.,
****; esaminati gli atti e sentite le parti costituite; letti gli artt. 669 bis
e segg., 700 c.p.c.; osserva quanto segue. La controversia riguarda le
contrapposte posizioni dei ricorrenti, collocati come candidati
"idonei" nella graduatoria di un concorso pubblico per la copertura
dì posti di assistente amministrativo bandito dalla (ora soppressa) Azienda
Ospedaliera "Vito Fazzi" di Lecce con deliberazione n.330 del 1998,
approvata con deliberazione n.3072 del 20.12.2005 dalla A.U.S.L. LE\l (A.U.S.L.
nella quale nel 2003 è stata incorporata la predetta Azienda Ospedaliera, e le
posizioni dei resistenti (diversi dalla attuale A.S.L.), collocati come
candidati "idonei" in un'altra graduatoria, ossia in quella relativa
al concorso per assistente amministrativo bandito dalla A.U.S.L. LE\1 con
deliberazione n.949 del 09.03.1995, approvata con deliberazione D.G. n.12 del
11.1.1999. In sostanza i due concorsi sono stati banditi da due soggetti che in
origine erano distinti e che poi sono confluiti in un unico ente (A.U.S.L.
LE\1), il quale, da ultimo, a seguito di ulteriori variazioni, ha assunto la
denominazione di A.S.L. (Azienda Sanitaria Locale) di Lecce. Con deliberazione
n.1498 del 06.05.2009 la A.S.L.
di Lecce ha deciso di procedere all'assunzione di 15 assistenti amministrativi
attingendo alla graduatoria approvata nel 2005; tuttavia, in un secondo
momento, revocata la deliberazione n.1498, con successiva deliberazione n.1773
del 29.05.2009 ha stabilito di coprire 16 posti per il 50% mediante lo
scorrimento della graduatoria approvata nel 2005 e per il residuo 50% mediante
lo scorrimento della graduatoria approvata nel 1999. I ricorrenti deducono
l'illegittimità della deliberazione del 29.05.2009 per una serie di motivi,
diretti a dimostrare che i 16 posti di assistente amministrativo devono essere
coperti attingendo solo alla graduatoria approvata per ultima. La A.S.L. di Lecce e gli altri
resistenti contestano l'avverse deduzioni sotto diversi profili, processuali e
di merito, e chiedono il rigetto del ricorso. Non appare fondata l'eccezione di
difetto di giurisdizione del giudice ordinario. Ed invero, sono devolute alla
giurisdizione del giudice ordinario lcontroversie aventi ad oggetto it mancato
(o insufficiente) scorrimento della graduatoria concorsuale, in quanto it
candidato idoneo, vantando una determinata posizione nella graduatoria gia
approvata ed it possesso dei requisiti previsti dal bando, fa valere il diritto
all'assunzione senza porre in discussione le procedure concorsuali devolute al
giudice amministrativo (cfr. Cass. n.8736\2008; n.26113\2007). Va altresi
disattesa l'eccezione di giudicato, sollevata dalla resistente P. D. con
riferimento alla sentenza n.5619 resa dal T.A.R. Puglia, sede di Lecce,
2.12.2006 su ricorso della stessa P. e di altri nei confronti della A.U.S.L.
LE\ 1 e di altri, in quanto sulla questione relativa alla validita e
all'efficacia della graduatoria approvata nel 1999 (e quindi sulla questione
ora sottoposta alla cognizione di questo Giudice) it T.A.R. ha espressamente
precisato che le sue valutazioni ed argomentazioni sono !imitate at raffronto
tra la posizione degli allora ricorrenti, idonei nel concorso dell'AUSL Le \1 1
(graduatoria 1999), e la posizione dei vincitori del concorso dell'A.O.Vito Fazzi
(graduatoria del 2005), senza estendersi ai graduati ulteriori di tale ultima
procedura. Si rileva inoltre che la prodotta ordinanza del T.A.R. Puglia, sede
di Lecce, del 16.09.2009, con la quale a stata disposta la sospensione
dell'efficacia della deliberazione del Direttore Generale della A.S.L. LE
n.1773 \ 2009, non preclude l'esame della domanda cautelare di ****, atteso,
tra l'altro, che tale ordinanza ha efficacia temporanea fino at 03.09.2009 e
che a stata resa in un processo at quale non partecipano (neppure tra i
soggetti per i quali a stata ivi disposta l'integrazione del contraddittorio) i
ricorrenti ed i resistenti - eccezione della A.S.L.- del presente procedimento
d'urgenza. Nel merito occorre in primo luogo affrontare l'aspetto della persistenza
o meno della validità della graduatoria approvata con deliberazione D.G. dell'
11.01.1999. Dal bando di concorso del 09.03.1995 (v. copia Bollettino Ufficiale
Regione Puglia n.32\1992 prodotto da P.) emerge che l'approvazione della
relativa graduatoria e la nomina dei vincitori sono regolate dall'art.9
1.n.207\1985, it quale prevede, tra l'altro, che "(...) Le graduatorie
relative ai concorsi effettuati in applicazione della presente Legge rimangono
valide per un biennio dalla data di approvazione da parte del comitato di
gestione. (...)" Quindi la graduatoria dell' 11.01.1999, in difetto di
proroghe, avrebbe esplicato efficacia fino all' 11.01.2001. Tuttavia aè nel
frattempo intervenuta la legge della Regime Puglia n.28\2000 che all'art.23,
comma 3, ha
stabilito che "Fino all'attuazione di quanto previsto ai commi 1 e 2 e
fatto divieto alle Aziende sanitarie di procedere ad assunzioni di personale a
tempo indeterminato, nonche di procedere all'avvio di bandi concorsuali per
poste resisi vacanti o che si renderanno vacanti" (ai commi 1 e 2 si
prevedeva la rideterminazione delle piante organiche delle aziende sanitarie e
la riduzione del personale dipendente): - L'art.8 della Legge della Regione
Puglia n.32 \2001, at comma 8
ha poi stabilito che "La validita delle graduatorie
dei concorsi pubblici delle Aziende sanitarie, sospesa cilia data di entrata in
vigore della Lr. 28/2000, riprende efficacia con riferimento ai termini fissati
dal comma 5 del presente articolo" (il comma 5 fa a sua volta implicito
riferimento alla rideterminazione degli organici e alla ristrutturazione della
rete ospedaliera). Come emerge dalla deliberazione D.G. A.U.S.L. LE\l n.3072
del 2005 la nuova dotazione organica della stessa A.U.S.L 8 stata rideterminata
con deliberazione n.4032 del 09.12.2003, approvata dalla Giunta della Regione
Puglia il 27.04.2004; pertanto dal 27.4.2004 la validita della graduatoria
dell'11.01.199, che era rimasta sospesa 22.12.2000 (giomo di entrata in vigore
della 1.r. n.28\2000), ha ripreso efficacia per i residui 20 giorni (quelli che
intercorrevano tra il 22.12.2000 e l'11.1.2001), restando valida alneno fino al
17.5.2004. Ma nel frattempo a intervenuta la 1. 24.12.2003, n. 350, che
all'art.3, comma 60, ha
previsto che "Ai fini del concorso delle autonomie regionali e locali al
rispetto degli obiettivi di finanza pubblica, con decreti del Presidente del
Consiglio dei ministri da emanare entro sessanta giorni dalla data di entrata
in vigore della presente legge, previo accordo tra Governo, regioni e autonomie
locali da concludere in sede di Conferenza unificata, sono fissati per le
amministrazioni regionali, per le province e i comuni con popolazione superiore
a 5.000 abitanti che abbiano rispettato le regole del patto di stability
interno per l'anno 2003 e gli enti del Servizio sanitario nazionale, criteri e
limiti per le assunzioni a tempo indeterminato per l'anno 2004. (..)Per gli end
del Servizio sanitario nazionale possono essere disposte esclusivamente
assunzioni, entro i limiti predetti, di personale appartenente al ruolo
sanitario."; il comma 61 della stessa nonna ha poi stabilito che "I
termini di validita delle graduatorie per le assunzioni di personale presso be
amministrazioni pubbliche che per l'anno 2004 sono soggette a limitazioni delle
assunzioni sono prorogati di un anno.". La sentenza
della Corte Costituzionale n.390\2004 invocata dai ricorrenti ha dichiarato costituzionale dell'art. 3, comma 60, 1.n.350\2003 limitatamente alla parte in
cui dispone che le assunzioni a tempo indetenninato «devono, comunque, essere
contenute (...) entro percentuali non superiori al 50 per cento delle
cessazioni dal servizio verificatesi nel corso dell'anno 2003». Come
emerge dally motivazione della stessa sentenza, l'illegittimiti costituzionale deriva dal fatto che si tratta di una
disposizione che non si limita a fissare un principio di coordinamento della
finanza pubblica -in attuazione del precetto costituzionale
che attribuisce alla legge statale tale compito-, ma incide direttamente
sull'entita della copertura delle vacanze verificatesi nel 2002, e, imponendo
che tale copertura non sia superiore al 50 per cento, determina una indebita
invasion, da parte della legge statale, delParea (organizzazione della propria
struttura amministrativa) riservata alle autonomie regionali e degli enti
locali: la legge statale pub, infatti, prescrivere criteri ed obiettivi, come,
per esempio, ii contenimento della spesa pubblica, ma non pile imporre nel
dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi.
Il resto dell'art. 3, comma 60, nella parte in cui prevede la stipulazione di
un accordo tra Governo, Regioni e autonomie locali al fine di stabilire i
criteri ed i limiti delle assunzioni a tempo indeterminato per l’anno 2004, ha resistito al vaglio di
costituzionalita ed a conseguentemente legittimo. Ciò induce a ritenere che gli
enti del servizio sanitario, menzionati nello stesso art.3, comma 60, fossero
comunque soggetti alle altre limitazioni nelle assunzioni del personale, ossia
a quelle limitazioni che dovevano essere stabilite mediante il predetto
accordo. Anche alle aziende sanitarie locali, quindi, sembra estendersi la
proroga di un anno dei termini di validità delle graduatorie, disposta
dall'art.3, comma, 61 , l. n. 350\2003 per le amministrazioni pubbliche
soggette a limitazioni delle assunzioni per l'anno 2004, risultando tale norma
riferibile alle "limitazioni delle assunzioni" diverse rispetto a
quelle dichiarate incostituzionali. L'art. 1, comma 98, 1. 30.12.2004 n.111 ha poi
previsto analoghi accordi tra Governo, Regioni, autonomie locali ed enti del
servizio nazionale per la fissazione di criteri e limiti per le assunzioni per
il triennio 2005-2007 e l'art. l, comma 100, della stessa l. n. 111/2004 ha
stabilito che i termini di validità delle graduatorie per le assunzioni di
personale presso le amministrazioni pubbliche che per gli anni 2005, 2006 e
2007 sono soggette a limitazioni delle assunzioni sono prorogati di un
triennio. Tale termine risulta essere stato successivamente prorogato al 31
dicembre 2008 dall'articolo 1, comma 536, della legge 27 dicembre 2006, n. 296
e al 31 dicembre 2009 dall'articolo 5, comma 1, del D.L. 30 dicembre 2008, n.
207, convertito, con modificazioni, nella 1. n. 14\2009. A proposito
dell'ultimo intervento normativo tra quelli citati, si rileva che l'art. 5 del
D.L. n. 207\2008 originariamente prevedeva la proroga al 31 dicembre 2009 della
validità delle graduatorie per le assunzioni a tempo indeterminato approvate
successivamente al 10 gennaio 2001 relative alle amministrazioni pubbliche
soggette a limitazioni delle assunzioni, ma, in sede di legge di conversione,
l'art.5 è stato modificato con la disposizione che estende la proroga alle
graduatorie approvate successivamente all' 1.1.1999. E' in base a tale modifica
che sembra potersi dire, nei limiti di questa fase processuale cautelare a
cognizione sommaria, che la graduatoria del concorso per assistente
amministrativo della A.U.S.L. LE\I approvata 1' 11.01.1999 (nella quale sono
inseriti come "idonei" i resistenti diversi dall'azienda sanitaria)
all'epoca della deliberazione D.G. n. 1498 del 6.5.2009, con cui la A.S.L. di Lecce ha disposto di
procedere all'assunzione a tempo indeterminato di un certo numero di assistenti
amministrativi, fosse ancora valida ed efficace. Per tale ragione con la
successiva deliberazione D.G. n. 1773 del 26.5.2009 la A.S.L., nel prendere atto
della modifica apportata al predetto D.L. n.207\2008 dalla legge di conversione
n.14\2009, e revocando la precedente determinazione che attingeva solo alla
graduatoria approvata nel 2005,
ha disposto di assumere una parte dei nuovi assistenti
amministrativi scorrendo tale graduatoria e un'altra parte scorrendo la
graduatoria approvata nel 1999. Il secondo motivo di doglianza dei ricorrenti
attiene al fatto che le graduatorie dei candidati idonei non potrebbero essere
utilizzate per la copertura di posti istituiti successivamente all'approvazione
delle graduatorie medesime, ossia con la pianta organica adottata dalla AUSL
con delibera n. 4302 del 9.12.2003. Tuttavia, dalle deliberazioni D.G. A.S.L.
di Lecce n. 1498\2009 e n. 1773\2009 risulta che i posti che la stesssa A.S.L.
intende coprire sono quelli vacanti previsti dalla pianta organica approvata
con deliberazione n. 4213 del 13.11.2007, con la conseguenza che anche la
graduatoria approvata nel 2005, essendo anteriore alla predetta pianta
organica, risentirebbe, in ipotesi, degli stessi problemi sollevati dai
ricorrenti con riferimento alla graduatoria del 1999. In ogni caso giova
rilevare che dal testo della predetta deliberazione n.4213\2007 (prodotta dalla
A.S.L.) emerge che la dotazione organica della Azienda Sanitaria Locale di
Lecce (istituita nel 2007 a
seguito dell'incorporazione delle preesistenti A.U.S.L. Le\1 e A.U.S.L. Le\2) è
determinata dalla sommatoria delle due cessate A.U.S.L. e che anche nella
determinazione della pianta organica del 1 2003 (allorchè l'Azienda Ospedaliera
Vito Pazzi fu incorporata nella AUSL LE\1) sembra essersi posta la necessità di
accorpare gli organici dei due enti (incorporato ed incorporante). Pertanto
nemmeno il secondo motivo di ricorso appare accoglibile. Il terzo motivo
attiene all'asserita insussistenza di un potere di autotutela della pubblica
amministrazione (con riferimento alla delibera n. 1773\2009 che ha revocato la
n. 1498\2009) nella veste di datore di lavoro in ambito di pubblico impiego
privatizzato. Ma in questa sede è sufficiente osservare che nella fattispecie
in esame il rapporto di lavoro pubblico con gli idonei delle due graduatorie
non è ancora sorto, trovandosi il procedimento in una fase anteriore alla
conclusione del contratto di lavoro. Il quarto punto di doglianza dei
ricorrenti riguarda l'asserita illegittimità della deliberazione n. 1773\2009
per la mancata comunicazione agli interessati (in base agli artt. 7,8,10 1. n.
241\1990) dell'avvio del procedimento di revoca della precedente deliberazione
che era a loro favorevole. Tuttavia, alla luce della ratio dell'art. 21 octies
1. n. 241\1990, poichè la deliberazione n. 1773\2009 ha posto rimedio ad una
precedente deliberazione che violava l'art.5 del D.L. n. 207\2008 convertito,
con modificazioni, nella 1. n. 14\2009, il dedotto vizio procedimentale non
appare idoneo a consentire la disapplicazione dell'atto deliberativo. Non è
quindi ravvisabile, per i motivi fin qui analiticamente indicati, il fumus boni
juris in ordine alla pretesa dei ricorrenti di coprire i posti in questione
solo mediante lo scorrimento della graduatoria del 2005 e con esclusione dello
scorrimento della graduatoria del 1999. Il ricorso cautelare va quindi
rigettato. La peculiare complessità delle questioni giuridiche affrontate, che
si manifesta anche nel ricorso, da parte di più soggetti, a tutele
giurisdizionali di tipo diverso, giustifica la compensazione delle spese
processuali. p.q.m. Il Tribunale di Lecce, in finzione di Giudice del Lavoro,
rigetta il ricorso ex art. 700 c.p.c.. Compensa tra le parti le spese del
procedimento. Il Giudice del Lavoro Dott.ssa M. Grazia Corbascio Stampa |
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del 07-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Ici agricola, 3,5 milioni
di euro alle cooperative di Reggio Emilia (7/8/2009 20:02) | (Sesto Potere) -
Reggio Emilia - 7 agosto 2009 - Vale 3,5 milioni di euro per le cooperative
agroalimentari reggiane la sentenza della Corte costituzionale
che ha definitivamente sancito che queste imprese non erano tenute al pagamento
dell’Ici, stabilendo al tempo stesso che alle cooperative di
trasformazione (latterie e cantine sociali in primis) spetta il rimborso delle
somme versate negli ultimi cinque anni. La cifra è stata calcolata da Confcooperative (relatrice
davanti alla Corte con l’avvocato Ermanno Belli), che ha valutato in
oltre 700.000 euro all’anno l’imposta a carico delle cooperative di
trasformazione reggiane. “L’effetto della sentenza della Corte Costituzionale – spiega Confcooperative – è
che nelle casse delle imprese rientreranno somme che abbiamo sempre ritenuto
non dovute, tanto che a partire dal 2007 abbiamo esplicitamente invitato le
nostre associate a sospendere ogni versamento, ritenendo ingiusta l’applicazione
dell’Ici e del tutto inopportuna la via del versamento con la successiva
richiesta di rimborso, che avrebbe comportato un esborso immediato, tempi
lunghi e assolutamente incerti per la restituzione e, oltretutto, il mancato
rispetto della dignità
e delle istanze delle nostre imprese”. “Un segnale forte – spiega
Confcooperative – che ha concorso a sbloccare una situazione caratterizzata da
una assoluta incertezza legislativa e dal conseguente moltiplicarsi di pareri e
sentenze contraddittorie sull’effettivo assoggettamento all’obbligo di
pagamento dell’Imposta comunale sugli immobili da parte delle cooperative di
trasformazione”. Dedotti i mancati versamenti da parte delle imprese e sulla
base dei criteri applicativi della sentenza, i rimborsi – secondo la Confcooperative –
si attesteranno tra 1,8 e 2,2 milioni di euro per le cooperative di
trasformazione reggiane: “all’affermazione di un principio –
sottolinea la
Confcooperative – corrisponde dunque anche una cifra
rilevante, tanto più importante in una fase di prolungata crisi del settore”. “Sebbene vi siano
imprese che vedranno rientrare nelle loro casse decine di migliaia di euro, è
evidente che il rimborso dell’Ici non è una soluzione rispetto a
queste difficoltà”. “La crisi del comparto agricolo – conclude la Confcooperative -
richiede più decise politiche di sostegno ai produttori, interventi strutturali
sulla tutela e la promozione dei prodotti, azioni atte al contenimento del
costo del lavoro, interventi di credito agevolato per la liquidità delle
aziende e i futuri investimenti, il ripristino di aiuti alla stagionatura del
parmigiano-reggiano, ma i rimborsi rappresenteranno comunque una boccata d’ossigeno
e, soprattutto, vanno valutati come effetto di una sentenza che si tradurrà in
minori costi per il
futuro”.
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( da "Stampa, La" del
08-08-2009)
Argomenti: Giustizia
ENTI LOCALI. APPROVATO
IL REGOLAMENTO ELETTORALE Comunità montane avanti tutta A novembre forse si
vota. Scontro sulla sede a Casapinta «Meglio Crocemosso» [FIRMA]MATTEO PRIA
VALLE MOSSO La Regione
accelera i tempi per arrivare all'accorpamento delle Comunità montane, nonostante
si rimanga ancora in attesa che il Consiglio di Stato si esprima sulla sentenza
sospensiva del Tar. La giunta regionale ha voluto portarsi avanti con il lavoro
adottando il regolamento che disciplina il sistema elettorale delle Comunità
montane, presentato dalla presidente Mercedes Bresso e dall'assessore Luigi
Sergio Ricca. Questo documento riguarda la formazione della base elettorale, la
procedura per la preparazione e presentazione delle candidature, la verifica
delle liste elettorali, la composizione degli uffici elettorali, lo svolgimento
delle operazioni di voto, di scrutinio e di proclamazione degli eletti.
«L'approvazione di questo testo dà il via all'accorpamento - spiega il
consigliere regionale Wilmer Ronzani -. E' un'azione motivata dalla sentenza
emessa dalla Corte Costituzionale, che riconosce le Regioni
competenti in materia». Per quanto riguarda il commissariamento, tutto rimane
ancora congelato come illustra sempre Ronzani: «Ovviamente i commissari non
sono stati ancora nominati, proprio in attesa di conoscere il verdetto del
Consiglio di Stato sulla sentenza sospensiva emessa dal Tar nei confronti del
provvedimento di accorpamento promosso dalla Regione». Per il nuovo ente
che vedrà la fusione di Valsessera, Valle di Mosso e Prealpi, si dovrebbe
votare il 7 novembre, e sono chiamati a farlo i 421 consiglieri comunali dei 31
paesi che formeranno la nuova comunità montana. Tanti i nodi ancora da
risolvere. Uno riguarda la sede. Stando al regolamento della Regione, la scelta
potrebbe cadere su Casapinta, dato che la Prealpi ha il maggior numero di abitanti. Proprio
questa opzione non sembra essere stata digerita dai presidenti di Valle di
Mosso e Valsessera, Enzo Cravello e Pier Giorgio Fava, che hanno scritto una
lettera di proteste formali in Regione sostenendo invece l'idea di fissare la
sede a Crocemosso, zona ritenuta più centrale all'interno del territorio e con
uffici meglio organizzati. L'ente della Valle di Mosso infatti gestisce diversi
servizi associati tra i Comuni della zona, ed è dotato di un organico fatto di
tecnici preparati. Più lineare la situazione invece per la Valsesia, che con
l'accorpamento di fatto non vedrà particolari cambiamenti: la sede rimarrà
sempre la stessa, l'unica novità riguarderà l'ampliamento del proprio
territorio con l'annessione di due nuovi Comuni, ovvero quelli di Postua e
Guardabosone, che facevano parte della Valsessera.
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( da "Repubblica, La"
del 08-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 3 - Interni
"In autunno tenteranno di buttarmi giù" il premier chiama alle armi i
media di casa Riunione ad Arcore con i fedelissimi. "Dobbiamo comu- nicare
meglio tutti i nostri risultati" Feltri al "Giornale" e Giordano
a "Italia1" per dare più smalto alla linea filo-governo CLAUDIO TITO
ROMA - «Prepariamoci ad una fase difficile. In autunno ci sarà l´ultimo
tentativo di buttarmi giù con le solite armi della sinistra». Solo pochi giorni
fa, durante una cena con un gruppo di fedelissimi ad Arcore, Silvio Berlusconi
ha iniziato a organizzare la "campagna d´autunno". Dopo gli ultimi
passaggi parlamentari - in primo luogo l´approvazione faticosa del decreto
anticrisi - il Cavaliere non ha nascosto i timori su quella che ha definito
«una fase difficile». La paura del «complotto», i sospetti su eventuali
«ribaltoni» e semplicemente i rischi di una dinamica economica ingarbugliata stanno
agitando i sonni del premier. I quattro mesi di qui a fine anno sono infatti
considerati «decisivi». Il vero banco di prova per l´esecutivo. «Se lo
supereremo - è la convinzione di tutto lo staff del presidente del Consiglio -
tutto il resto sarà più facile». I timori, infatti, riguardano il possibile
picco della crisi economica. L´ultimo dato sul pil ha segnato un´ulteriore
flessione. Il meno 6% di ieri è un indice ancora peggiore rispetto alle
previsioni, già fosche, di Palazzo Chigi. Le stime sul calo dell´occupazione
indicano un profondo rosso. Un contesto che, coniugato alle vicende personali e
al pressing di buona parte della stampa estera, sta allarmando il capo del
governo. Il quale ha messo subito in cantiere le sue contromosse. A suo giudizio,
infatti, se davvero la recessione dovesse rilasciare i suoi effetti più
negativi proprio in autunno, «qualcuno potrebbe approfittarne». Il sospetto
della «campagna» di aggressione nei suoi confronti non riesce a dissolversi.
Una manovra che, a suo giudizio, potrebbe essere giocata sulla paralisi
economica, sugli scandali che negli ultimi tre mesi hanno condizionato
l´attività dell´esecutivo e sulla sentenza della Corte costituzionale che si esprimerà sul Lodo Alfano, ossia sullo scudo che protegge
le più alte cariche istituzionali dalle indagini della magistratura. Il tutto -
ripete sempre più spesso il Cavaliere - «ingigantito» dai mass media. Un clima
che - sono le osservazioni di molti dei suoi collaboratori - rischia di trovare
sponde nei settori della maggioranza più «influenzabili». Non a caso,
ieri il presidente del Consiglio ha insistito nell´allontanare alcune
interpretazioni secondo cui le questioni private lo abbiano reso «ricattabile».
Per lo stesso motivo, dunque, ha puntato i suoi riflettori su giornali e tv.
«Noi - spiegava nella stessa riunione che si è tenuta a Villa San Martino -
dobbiamo riuscire a dire tutto quello che facciamo. Spesso non comunichiamo
tutti i nostri risultati. Nei mass media ci sono troppi pregiudizi. E adesso è
arrivato il momento di superarli». Non per niente ha premuto sull´acceleratore
per le nomine della Rai. Come aveva fatto nel 2002 con il cosiddetto
"editto di Sofia", anche ieri ha puntato l´indice contro la tv
pubblica (in particolare il Tg3) e il gruppo L´Espresso-Repubblica. Ma
soprattutto ha ripreso a muoversi sullo scacchiere delle sue imprese
editoriali. Ha «ripescato» Vittorio Feltri proprio per assegnare al Giornale
una linea più aggressiva. Un direttore in grado di avere pure «una faccia
televisiva». Ha spostato Mulè a Panorama dopo l´addio di Belpietro e ha fatto
rientrare Giordano a Italia1. Tutte operazioni legate da un unico filo rosso:
quello tessuto per allestire una difesa intorno al governo sotto il profilo
della comunicazione. Anche perché, sebbene Berlusconi parli di «record» per
quanto riguarda gli indici di popolarità, nelle ultime settimane anche i suoi
sondaggisti di fiducia hanno dovuto registrare un calo. Il 68% di popolarità
non è più il 72% segnalato ad aprile. Una flessione - ripete in questi giorni -
provocata soprattutto dalla scarsa attenzione degli organi di informazione
all´attività dell´esecutivo. Senza contare la recente diffidenza emersa nel
mondo cattolico e il fastidio che serpeggia nell´universo femminile in seguite
ai noti scandali. Il precedente sondaggio, ad esempio, segnava un meno 13% tra
le donne. Un contesto, dunque, che per Berlusconi impone un contrattacco.
Tant´è che da settembre i suoi riflettori si accenderanno anche sull´altro
punto: la politica internazionale. Perché, al di là delle dichiarazioni
pubbliche, il premier si sta lamentando dei danni subiti dalla sua immagine
all´estero. E dopo le vacanze estive è pronto ad un tour de force in giro per
le cancellerie europee.
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( da "Manifesto, Il"
del 08-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Referendum, il sì a valanga
Mamadou Tandja inarrestabile Ha vinto il «sì», con il 92,50 per cento dei voti:
è questo, secondo la
Commissione elettorale, il risultato del controverso
referendum sulla modifica della Costituzione che si è tenuto martedì scorso in
Niger. Il tasso di affluenza alle urne, sempre secondo la Commissione, è stato
del 68,26 per cento. Il voto popolare del 4 agosto era stato voluto dal
presidente Mamadou Tandja, il cui secondo mandato consecutivo scadrà il 22
Dicembre. Grazie alle modifiche approvate con il referendum, Tandja potrà
rimanere in carica altri tre anni e ripresentarsi senza limiti. Il voto era
stato boicottato dall'opposizione e preceduto da una vasta campagna di
sensibilizzazione della società civile sui valori democratici. Per contrastare
l'opposizione al referendum, nei mesi scorsi Tandja aveva sciolto il
parlamento, il principale partito anti-governativo (Convention démocratique et
sociale) e sostituito i membri della Corte costituzionale. Questi provvedimenti hanno suscitato molte critiche anche
all'estero, in Africa ma anche in Europa e negli Stati uniti. L'Unione europea
ha già sospeso l'erogazione di una «tranche» di aiuti e minacciato «serie
conseguenze» nella cooperazione con il Niger se Tandja porterà avanti - come
ormai assai plausibile - i suoi piani autoritari.
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( da "Repubblica.it"
del 08-08-2009)
Argomenti: Giustizia
ROMA -
"Prepariamoci ad una fase difficile. In autunno ci sarà l'ultimo tentativo
di buttarmi giù con le solite armi della sinistra". Solo pochi giorni fa,
durante una cena con un gruppo di fedelissimi ad Arcore, Silvio Berlusconi ha iniziato
a organizzare la "campagna d'autunno". Dopo gli ultimi passaggi
parlamentari - in primo luogo l'approvazione faticosa del decreto anticrisi -
il Cavaliere non ha nascosto i timori su quella che ha definito "una fase
difficile". La paura del "complotto", i sospetti su eventuali
"ribaltoni" e semplicemente i rischi di una dinamica economica
ingarbugliata stanno agitando i sonni del premier. I quattro mesi di qui a fine
anno sono infatti considerati "decisivi". Il vero banco di prova per
l'esecutivo. "Se lo supereremo - è la convinzione di tutto lo staff del
presidente del Consiglio - tutto il resto sarà più facile". I timori,
infatti, riguardano il possibile picco della crisi economica. L'ultimo dato sul
pil ha segnato un'ulteriore flessione. Il meno 6% di ieri è un indice ancora
peggiore rispetto alle previsioni, già fosche, di Palazzo Chigi. Le stime sul
calo dell'occupazione indicano un profondo rosso. Un contesto che, coniugato
alle vicende personali e al pressing di buona parte della stampa estera, sta
allarmando il capo del governo. Il quale ha messo subito in cantiere le sue
contromosse. A suo giudizio, infatti, se davvero la recessione dovesse
rilasciare i suoi effetti più negativi proprio in autunno, "qualcuno
potrebbe approfittarne". Il sospetto della "campagna" di
aggressione nei suoi confronti non riesce a dissolversi. Una manovra che, a suo
giudizio, potrebbe essere giocata sulla paralisi economica, sugli scandali che
negli ultimi tre mesi hanno condizionato l'attività dell'esecutivo e sulla sentenza della Corte costituzionale che
si esprimerà sul Lodo Alfano, ossia sullo scudo che protegge le più alte
cariche istituzionali dalle indagini della magistratura. Il tutto - ripete
sempre più spesso il Cavaliere - "ingigantito" dai mass media. Un clima
che - sono le osservazioni di molti dei suoi collaboratori - rischia di trovare
sponde nei settori della maggioranza più "influenzabili". Non
a caso, ieri il presidente del Consiglio ha insistito nell'allontanare alcune
interpretazioni secondo cui le questioni private lo abbiano reso
"ricattabile". OAS_RICH('Middle'); Per lo stesso motivo, dunque, ha
puntato i suoi riflettori su giornali e tv. "Noi - spiegava nella stessa
riunione che si è tenuta a Villa San Martino - dobbiamo riuscire a dire tutto
quello che facciamo. Spesso non comunichiamo tutti i nostri risultati. Nei mass
media ci sono troppi pregiudizi. E adesso è arrivato il momento di
superarli". Non per niente ha premuto sull'acceleratore per le nomine
della Rai. Come aveva fatto nel 2002 con il cosiddetto "editto di
Sofia", anche ieri ha puntato l'indice contro la tv pubblica (in
particolare il Tg3) e il gruppo L'Espresso-Repubblica. Ma soprattutto ha
ripreso a muoversi sullo scacchiere delle sue imprese editoriali. Ha
"ripescato" Vittorio Feltri proprio per assegnare al Giornale una
linea più aggressiva. Un direttore in grado di avere pure "una faccia
televisiva". Ha spostato Mulè a Panorama dopo l'addio di Belpietro e ha
fatto rientrare Giordano a Italia1. Tutte operazioni legate da un unico filo
rosso: quello tessuto per allestire una difesa intorno al governo sotto il
profilo della comunicazione. Anche perché, sebbene Berlusconi parli di
"record" per quanto riguarda gli indici di popolarità, nelle ultime
settimane anche i suoi sondaggisti di fiducia hanno dovuto registrare un calo.
Il 68% di popolarità non è più il 72% segnalato ad aprile. Una flessione -
ripete in questi giorni - provocata soprattutto dalla scarsa attenzione degli
organi di informazione all'attività dell'esecutivo. Senza contare la recente
diffidenza emersa nel mondo cattolico e il fastidio che serpeggia nell'universo
femminile in seguite ai noti scandali. Il precedente sondaggio, ad esempio,
segnava un meno 13% tra le donne. Un contesto, dunque, che per Berlusconi
impone un contrattacco. Tant'è che da settembre i suoi riflettori si
accenderanno anche sull'altro punto: la politica internazionale. Perché, al di
là delle dichiarazioni pubbliche, il premier si sta lamentando dei danni subiti
dalla sua immagine all'estero. E dopo le vacanze estive è pronto ad un tour de
force in giro per le cancellerie europee. (8 agosto 2009
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 08-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI PROFESSIONISTI data: 2009-08-08 - pag: 19 autore:
Imposte contese. La Corte
di cassazione precisa gli obblighi sul prelievo regionale Il notaio deve pagare
l'Irap Non è rilevante che l'organizzazione derivi da pubbliche funzioni Sergio
Trovato I notai sono soggetti all'Irap anche se la loro attività professionale
è autonomamente organizzata per lo svolgimento di pubbliche funzioni ed è lo
stesso legislatore che gli impone il collegamento telematico con enti pubblici
e banche dati e l'utilizzo di personale necessario al corretto svolgimento
degli incarichi. Lo ha affermato la sezione tributaria della Corte di
cassazione, con la sentenza 16855 del 20 luglio 2009. Un notaio aveva chiesto
il rimborso dell'Irap per l'inesistenza del presupposto del tributo, in quanto
l'organizzazione dell'attività professionale è imposta ex lege per
l'espletamento di pubbliche funzioni. Il ricorso era stato accolto in primo
grado. In appello, invece, il giudice aveva ritenuto esistente il presupposto
d'imposta perché il professionista faceva ricorso al lavoro dipendente e
utilizzava beni strumentali. Anche per i giudici di piazza Cavour non hanno
alcun rilievo «le considerazioni circa la ricorrenza obbligata di una autonomia
organizzativa e di una complessità organizzativa nell'attività dei notai». Del
resto, la Cassazione
(sentenza 14693/2009) ha chiarito, per esempio, come sia sufficiente la
presenza di elementi modesti di organizzazione nello svolgimento dell'attività
professionale e l'ausilio di un collaboratore non occasionale, anche se a tempo
parziale, perché un professionista possa essere assoggettato al pagamento
dell'imposta. Nella motivazione della sentenza 16855 i giudici di legittimità
hanno ribadito che per il pagamento dell'Irap è richiesta l'autonoma
organizzazione,costituita da impiego di capitali, risorse, beni strumentali e
lavoro altrui non occasionale. Dunque, la presenza di elementi che da soli sono
in grado di accrescere la potenzialità reddituale del contribuente. In presenza
di un reddito che non è direttamente riconducibile a un'organizzazione autonoma
(Corte costituzionale, sentenza 156/2001)
e, invece, del tutto dipendente dal titolare professionista, è esclusa
l'applicazione dell'imposta (Commissione tributaria regionale del Lazio,
sezione XIV, sentenza 98/2005). I professionisti, quindi, sono soggetti
all'Irap quando nella loro attività si avvalgono di collaboratori,
effettuano investimenti economici e utilizzano sofisticate strutture informatiche,
che da soli sono idonei a creare un quid pluris di capacità contributiva e un
valore aggiunto tassabile. Il loro reddito non può essere assoggettato a Irap
quando è il risultato solo del lavoro personale. La mancanza di organizzazione
può essere dimostrata attraverso la documentazione dei costi sostenuti
nell'esercizio dell'attività. Anche i giudici di merito, dunque, hanno
sostenuto che l'imposta è dovuta quando si è in presenza di un contribuente che
eserciti l'attività con un'organizzazione autonoma, costituita da un insieme di
capitale, anche se di importo non elevato, e di lavoro, coordinati in modo tale
da creare valore aggiunto con un ridotto apporto personale del professionista.
© RIPRODUZIONE RISERVATA L'INDICAZIONE Per i giudici di legittimità non incide
il fatto che l'utilizzo della struttura sia imposto dall'attività per conto
dello stato
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 08-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI PROFESSIONISTI data: 2009-08-08 - pag: 19 autore: La Ctp di Torino:
l'organizzazione non ha effetti economici Esentati i medici del Ssn Alessandro
Meloncelli Due sentenze della commissione tributaria provinciale di Torino
(Sezione XIII, sentenze 74 e 75 del 7 luglio) hanno fornito un contributo alla
progressiva definizione del presupposto di applicazione dell'Irap ai redditi di
lavoro autonomo, rappresentato dalla necessaria autonomia dell'organizzazione
utilizzata nell'esercizio dell'attività. I redditi ritratti dall'attività
esercitata dai medici di medicina generale (Mmg) in convenzione con il Ssn non
sono assoggettabili a Irap, affermano i giudici, «qualunque sia
l'organizzazione che il medico intende darsi, in quanto non produce vantaggi
economici maggiori rispetto a quelli prodotti con le proprie capacità
individuali». La Ctp
di Torino ha come presupposto la definizione di autonoma organizzazione che la Corte di cassazione ha elaborato a partire dalla sentenza della Corte costituzionale 156/2001 che ha riconosciuto imponibili i redditi di lavoro
autonomo solo nei casi in cui l'attività sia esercitata con un'organizzazione
in grado di imprimere alle capacità lavorative e produttive del professionista
un impulso economicamente rilevante che altrimenti non riuscirebbe a ottenere.
Su questa definizione una larghissima giurisprudenza di merito ha trovato
spazio, individuando l'esistenza del presupposto impositivo con una valutazione
caso per caso dell'importanza assunta dal numero dei dipendenti e dalla
consistenza e natura dei beni strumentali. In termini più generali,
l'organizzazione ha assunto la qualifica di autonoma con una valutazione di
tipo sostanzialmente quantitativo, in base all'ampiezza dei fattori produttivi
impiegati. La valutazione quindi si incentra su una rilevazione di fatto su cui
la Cassazione
peraltro in varie occasioni si è rifiutata di intervenire, rinviando il
giudizio alle Ctr. Il profilo di novità nel caso dei medici convenzionati con
il Ssn consiste nella conclusione che l'organizzazione a supporto del
lavoratore autonomo non può mai avere le caratteristiche dell'autonomia tali da
configurare il presupposto imponibile dell'Irap. Qualunque sia l'ampiezza,
l'articolazione e l'efficienza della propria struttura organizzativa l'attività
del medico non beneficia di alcun impulso economicamente rilevante. Infatti, la
natura soggettiva dei medici di medicina generale con molte difficoltà è
assimilabile a quella degli autonomi. è previsto dagli accordi convenzionali
con il Ssn un regime di vincoli rigoroso entro i quali sono tenuti a esercitare
l'attività: orari, conformità a standard predefiniti, obbligatorietà della
struttura minima e limiti di età. La struttura dei compensi nonè basata sulla
libera contrattazione tra le parti, ma è legata a parametri ancorati al numero
degli assistiti. La consistenza della struttura organizzativa, pertanto, si
risolve in un onere che diminuisce i proventi prestabiliti, migliorando la
qualità della prestazione piuttosto che accrescendone le potenzialità
economiche. In questo senso è netta la conclusione della Ctp: «Manca quindi
quel "quid pluris" che l'organizzazione può dare in termini di
arricchimento del medico, in sovrappiù rispetto a quanto da lui prodotto con le
proprie capacità individuali». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Repubblica, La"
del 09-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 23 - Commenti
PERCHé LA LEGA STA
FACENDO AMMUINA (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Le due insicurezze e le isterie che
ne derivano – quella del premier e quella della Lega – rischiano di raggiungere la
loro massima intensità nei prossimi mesi a partire dalla ripresa di settembre, con
conseguenze preoccupanti sulla tenuta democratica. Perciò è urgente e
necessario approfondire questa diagnosi e ricercarne le cause. * * * Sappiamo
da sempre quali siano gli obiettivi politici della Lega: staccare le sorti del
lombardo-veneto e possibilmente dell´intera Padania dal resto del Paese. Per un
lungo periodo vagheggiarono una vera e propria secessione mantenendo semmai un
innocuo legame confederativo con le altre zone del paese. Ma visto che la Padania in quanto tale era
malvista come entità politico-territoriale da moltissimi dei suoi abitanti,
ripiegarono sul federalismo, fiscale e istituzionale. L´obiettivo era ed è
quello di trattenere il reddito e la ricchezza nei luoghi dove si forma,
concedendo blande forme di perequazione alle zone più deboli. E poiché
l´alleanza politica con la Lega
è sempre stato uno dei punti fermi di Berlusconi a partire dalla sua prima
discesa in campo, così il federalismo fiscale e istituzionale diventò anche un
obiettivo di Forza Italia ed ora del Partito della libertà, essendosi in buona
parte spente le resistenze un tempo opposte da An in nome dell´unità nazionale.
Poiché un obiettivo così complesso come quello di trasformare uno Stato
unitario e centralizzato in un´unione di regioni federate aveva bisogno di
aggregare ampi e solidi consensi in tutto il Paese e poiché il federalismo in
quanto tale quei consensi non era in grado di produrli, gli strumenti per
ottenerli furono individuati nei due temi, strettamente connessi tra loro,
della sicurezza e della lotta contro l´immigrazione. Fu messa in campo tutta la
potenza mediatica della quale Berlusconi dispone per montare al massimo la
"paura percepita" dei reati e il loro collegamento con l´immigrazione.
In particolare con quella clandestina, ma anche con quella regolarizzata che
ammonta ormai a quasi 5 milioni di persone. Questa strategia, che aveva già
dato i primi risultati nella legislatura 2001-2006, fu ampiamente premiata
durante la campagna elettorale del 2007 ed ha raggiunto ora il punto culmine di
attuazione. La legge-quadro sul federalismo è stata votata (con l´astensione
del centrosinistra) nello scorso maggio. Pochi giorni fa è stata approvata la
legge sulla sicurezza. Alla ripresa di settembre verranno sul tavolo i problemi della delega e dei decreti delegati per la graduale
attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma costituzionale che
trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto il ricasco che una
tale trasformazione avrà sull´organizzazione del governo, delle istituzioni di
controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte costituzionale e
dall´Ordine giudiziario. Per finire con inevitabili modifiche sul ruolo
del presidente della Repubblica. Insomma, un sommovimento istituzionale di
ampie dimensioni che ha come radice il federalismo fiscale e come obiettivo
della Lega quello di "isolare" la parte ricca ed efficiente del paese
dal contagio con la parte "povera, brutta e cattiva" che vive "oziosa
e parassitaria" nel Centro e nel Sud. Poiché questa strategia sta andando
avanti ed è stata fin qui largamente premiata per l´asse Berlusconi-Bossi,
sembrerebbe incongruo parlare di isteria, soprattutto per quanto riguarda la Lega. E invece no. La
strategia nordista si trova infatti proprio ora ad una stretta e in uno stallo
che forse i suoi fautori non avevano previsto e che rischia di frantumargli in
mano il giocattolo che volevano costruire. * * * Voglio dire che, passando da
una versione generica e ideologica ad una concreta, sono emerse alcune gravi
difficoltà ed alcune profonde reazioni che stanno prendendo corpo e suscitando
crescente inquietudine. Non si tratta soltanto della rabbiosa rivendicazione
dei siciliani di Lombardo e di Micciché, che il premier è ancora in grado di
tacitare con regalie personali e spostamento di risorse. Si tratta
dell´incognita del federalismo fiscale che è arrivata ormai al punto di svolta.
Dopo la legge-quadro che è stata un puro elenco di intenzioni e di vaghi
principi, si profila ora il passaggio dall´ideologia al merito, emergono le
contraddizioni, la diversità degli interessi, la complessità dei parametri e
soprattutto l´incognita del costo. Nessuno è in grado di dire quanto costerà il
federalismo fiscale, chi ne sopporterà l´onere maggiore, quali ne saranno i
vantaggi per la comunità nazionale, per le zone più ricche come per quelle più
povere, tenendo presente che ricchezza e povertà non sono divisibili soltanto
tra il Nord e il Sud poiché aree ricche esistono anche nel Mezzogiorno (soprattutto
quelle che coincidono con le organizzazioni criminali e con le clientele della
zona grigia) così come sacche di povertà frastagliano anche il Nord. Le cifre
del federalismo fiscale non le conosce nessuno, neppure il ministro
dell´Economia che pure dovrebbe esserne debitamente informato. Quelle cifre
danno (a regime) un saldo attivo o un saldo passivo? Quanto tempo dovrà passare
perché il sistema funzioni a pieno ritmo? E che cosa accadrà nel frattempo,
quali scosse, quali tensioni si verificheranno e quali ceti sociali e quali
territori avvertiranno quelle scosse con maggiore intensità? Questo nodo di
domande ha fatto dire a chi spinge avanti il progetto federalista che la
qualità del budino si conoscerà dopo averlo mangiato. Lo stesso Tremonti ha usato
l´immagine del budino. Dal canto mio dico, parafrasando, che il federalismo
fiscale è come l´araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, come sia nessuno lo
sa. Potrà essere un salto di qualità oppure una trappola di sabbie mobili, una
più solida democrazia oppure un brulicare di burocrazie, un diretto controllo
dei cittadini o una delega in bianco a gruppi di potere locali. Infine
un´accresciuta solidarietà oppure una secessione silenziosa e lo sfasciamento
del paese. Tutto si svolge alla cieca. Ecco perché perfino la Lega è impaurita ed ecco
perché i tempi di realizzazione concreta del federalismo fiscale saranno
inevitabilmente allungati. Nel frattempo però il consenso popolare rischia di
smottare e alcuni segnali già ci sono. In vista di questo pericolo il terzetto
di punta della Lega ha deciso di fare "ammuina": le ronde, le gabbie
salariali, il ritiro delle missioni militari all´estero, la guerra delle
bandiere regionali contro quella nazionale, sono pura e semplice
"ammuina" per nascondere che l´incognita del federalismo fa paura
perfino a coloro che lo hanno voluto e portato avanti fino ad un punto di non
ritorno. Domenica scorsa scrissi che questa situazione di disfacimento e di
secessione silenziosa richiede il lancio di un allarme rosso che blocchi la
deriva e metta in campo tutte le energie positive, latenti ma disperse, e le
riporti in campo. Ripeto quel mio invito. E´ il momento che queste energie
potenziali entrino in scena, si manifestino, usino gli strumenti che ci sono
per costruirne altri più appropriati ed efficaci. Temo che non ci sia tempo da
perdere. L´abbiamo detto tante volte in questi quindici anni ed anche prima.
Purtroppo era sempre vero ma questa volta è più vero che mai. * * * Post
Scriptum. Il ministro Brunetta (ma sì, quel simpaticone) ci ha scritto una
lettera a proposito dello sfondamento della spesa ordinaria di 35 miliardi tra
il 2008 e il 2009. Avevo scritto che uno sfondamento di tali dimensioni in una
fase di crisi e dissesto dei nostri conti pubblici (anche se il ministro
Tremonti continua pervicacemente a negare quest´evidenza da lui stesso
documentata nell´ultimo Dpef) era incomprensibile. Quei miliardi di euro
equivalgono ad un aumento del 4,9 per cento della spesa ordinaria. Vogliamo
sapere a che cosa sono serviti. E´ una curiosità morbosa? Tremonti dovrebbe
rispondere ma ecco che in sua vece ha risposto Brunetta nella lettera da noi
pubblicata. So bene che con questo «post scriptum» espongo i lettori di
"Repubblica" al rischio di un´altra lettera del Brunetta medesimo, ma
le cifre da lui fornite chiedono risposta. Dunque. Scrive il ministro della
Funzione pubblica che tra il 2008 e il 2009 le spese della Pubblica
amministrazione destinate al personale sono aumentate di circa quattro
miliardi. Il ministro ne spiega la ragione e noi non vogliamo entrare nel
merito. Spiega anche che la spesa per "Consumi intermedi" è a sua
volta aumentata da un anno all´altro di 3850 milioni. Non dice il perché, debbo
dedurne che si tratta di sprechi. Altro Brunetta non dice. Il totale delle
risorse da lui giustificate nel modo suddetto ammonta dunque a poco meno di
otto miliardi. Lo sfondamento della spesa ordinaria è stato di 35 miliardi. La
differenza per la quale attendiamo ancora notizie dal ministro dell´Economia o
dal suo vice alla Funzione pubblica è quindi di 27 miliardi di euro. Volete per
favore dire alla pubblica opinione come diavolo li avete spesi?
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Perché
la Lega sta facendo ammuina (sezione: Giustizia)
( da "Repubblica.it"
del 09-08-2009)
Argomenti: Giustizia
LA PAROLA "isteria" e l'aggettivo
"isterico" sono stati usati per la prima volta da Ezio Mauro nel suo
articolo di ieri a proposito dei recentissimi comportamenti del nostro
presidente del Consiglio. Si sente braccato, inventa un suo ruolo maieutico in
tutte le trattative internazionali che si rivela però del tutto infondato (a
cominciare dal vertice russo-turco sul gasdotto); insulta come delinquenti due
giornalisti che fanno domande scomode ma pertinenti nel corso di una conferenza
stampa da lui convocata; teme l'arrivo di un settembre difficile per il governo
e per lui e lo dice nel corso d'una riunione con i suoi collaboratori mentre
contemporaneamente riafferma che il peggio della crisi è passato e che da
settembre verrà il bello. Insomma isteria. Isteria da insicurezza psicologica,
economica, politica. Osservo tuttavia che il presidente del Consiglio non è il
solo a soffrire di questo sintomo e a manifestarlo con i suoi comportamenti. Ne
sta infatti visibilmente soffrendo il partito a lui più vicino, quello dalla
cui tenuta dipende la permanenza in carica del governo e del premier. Parlo
della Lega Nord e del terzetto che la guida: Umberto Bossi e i suoi colonnelli
Calderoli e Maroni. I loro più recenti comportamenti non consentono dubbi su
questa diagnosi: il terzetto di punta della Lega sembra in preda ad un male
oscuro al quale cerca di sottrarsi inseguendo alternative che hanno il solo
effetto di peggiorare la situazione e di scaricarne gli effetti negativi non
tanto sulla Lega quanto sull'intera comunità nazionale. Le due insicurezze e le
isterie che ne derivano - quella del premier e quella della Lega - rischiano di
raggiungere la loro massima intensità nei prossimi mesi a partire dalla ripresa
di settembre, con conseguenze preoccupanti sulla tenuta democratica. Perciò è
urgente e necessario approfondire questa diagnosi e ricercarne le cause.
OAS_RICH('Middle'); * * * Sappiamo da sempre quali siano gli obiettivi politici
della Lega: staccare le sorti del lombardo-veneto e possibilmente dell'intera
Padania dal resto del Paese. Per un lungo periodo vagheggiarono una vera e
propria secessione mantenendo semmai un innocuo legame confederativo con le
altre zone del paese. Ma visto che la Padania in quanto tale era malvista come entità
politico-territoriale da moltissimi dei suoi abitanti, ripiegarono sul
federalismo, fiscale e istituzionale. L'obiettivo era ed è quello di trattenere
il reddito e la ricchezza nei luoghi dove si forma, concedendo blande forme di
perequazione alle zone più deboli. E poiché l'alleanza politica con la Lega è sempre stato uno dei
punti fermi di Berlusconi a partire dalla sua prima discesa in campo, così il
federalismo fiscale e istituzionale diventò anche un obiettivo di Forza Italia
ed ora del Partito della libertà, essendosi in buona parte spente le resistenze
un tempo opposte da An in nome dell'unità nazionale. Poiché un obiettivo così
complesso come quello di trasformare uno Stato unitario e centralizzato in
un'unione di regioni federate aveva bisogno di aggregare ampi e solidi consensi
in tutto il Paese e poiché il federalismo in quanto tale quei consensi non era
in grado di produrli, gli strumenti per ottenerli furono individuati nei due
temi, strettamente connessi tra loro, della sicurezza e della lotta contro
l'immigrazione. Fu messa in campo tutta la potenza mediatica della quale
Berlusconi dispone per montare al massimo la "paura percepita" dei
reati e il loro collegamento con l'immigrazione. In particolare con quella
clandestina, ma anche con quella regolarizzata che ammonta ormai a quasi 5
milioni di persone. Questa strategia, che aveva già dato i primi risultati
nella legislatura 2001-2006, fu ampiamente premiata durante la campagna
elettorale del 2007 ed ha raggiunto ora il punto culmine di attuazione. La
legge-quadro sul federalismo è stata votata (con l'astensione del
centrosinistra) nello scorso maggio. Pochi giorni fa è stata approvata la legge
sulla sicurezza. Alla ripresa di settembre verranno sul tavolo i problemi della delega e dei decreti delegati per la graduale
attuazione del federalismo fiscale, nonché la riforma costituzionale che
trasformerà il Senato in Assemblea delle autonomie con tutto il ricasco che una
tale trasformazione avrà sull'organizzazione del governo, delle istituzioni di
controllo a cominciare dal Parlamento, dalla Corte costituzionale e
dall'Ordine giudiziario. Per finire con inevitabili modifiche sul ruolo
del presidente della Repubblica. Insomma, un sommovimento istituzionale di
ampie dimensioni che ha come radice il federalismo fiscale e come obiettivo
della Lega quello di "isolare" la parte ricca ed efficiente del paese
dal contagio con la parte "povera, brutta e cattiva" che vive
"oziosa e parassitaria" nel Centro e nel Sud. Poiché questa strategia
sta andando avanti ed è stata fin qui largamente premiata per l'asse
Berlusconi-Bossi, sembrerebbe incongruo parlare di isteria, soprattutto per
quanto riguarda la Lega. E
invece no. La strategia nordista si trova infatti proprio ora ad una stretta e
in uno stallo che forse i suoi fautori non avevano previsto e che rischia di
frantumargli in mano il giocattolo che volevano costruire. * * * Voglio dire
che, passando da una versione generica e ideologica ad una concreta, sono
emerse alcune gravi difficoltà ed alcune profonde reazioni che stanno prendendo
corpo e suscitando crescente inquietudine. Non si tratta soltanto della
rabbiosa rivendicazione dei siciliani di Lombardo e di Micciché, che il premier
è ancora in grado di tacitare con regalie personali e spostamento di risorse.
Si tratta dell'incognita del federalismo fiscale che è arrivata ormai al punto
di svolta. Dopo la legge-quadro che è stata un puro elenco di intenzioni e di
vaghi principi, si profila ora il passaggio dall'ideologia al merito, emergono
le contraddizioni, la diversità degli interessi, la complessità dei parametri e
soprattutto l'incognita del costo. Nessuno è in grado di dire quanto costerà il
federalismo fiscale, chi ne sopporterà l'onere maggiore, quali ne saranno i vantaggi
per la comunità nazionale, per le zone più ricche come per quelle più povere,
tenendo presente che ricchezza e povertà non sono divisibili soltanto tra il
Nord e il Sud poiché aree ricche esistono anche nel Mezzogiorno (soprattutto
quelle che coincidono con le organizzazioni criminali e con le clientele della
zona grigia) così come sacche di povertà frastagliano anche il Nord. Le cifre
del federalismo fiscale non le conosce nessuno, neppure il ministro
dell'Economia che pure dovrebbe esserne debitamente informato. Quelle cifre
danno (a regime) un saldo attivo o un saldo passivo? Quanto tempo dovrà passare
perché il sistema funzioni a pieno ritmo? E che cosa accadrà nel frattempo,
quali scosse, quali tensioni si verificheranno e quali ceti sociali e quali
territori avvertiranno quelle scosse con maggiore intensità? Questo nodo di
domande ha fatto dire a chi spinge avanti il progetto federalista che la
qualità del budino si conoscerà dopo averlo mangiato. Lo stesso Tremonti ha
usato l'immagine del budino. Dal canto mio dico, parafrasando, che il
federalismo fiscale è come l'araba fenice: che ci sia ciascuno lo dice, come
sia nessuno lo sa. Potrà essere un salto di qualità oppure una trappola di
sabbie mobili, una più solida democrazia oppure un brulicare di burocrazie, un
diretto controllo dei cittadini o una delega in bianco a gruppi di potere
locali. Infine un'accresciuta solidarietà oppure una secessione silenziosa e lo
sfasciamento del paese. Tutto si svolge alla cieca. Ecco perché perfino la Lega è impaurita ed ecco
perché i tempi di realizzazione concreta del federalismo fiscale saranno
inevitabilmente allungati. Nel frattempo però il consenso popolare rischia di
smottare e alcuni segnali già ci sono. In vista di questo pericolo il terzetto
di punta della Lega ha deciso di fare "ammuina": le ronde, le gabbie
salariali, il ritiro delle missioni militari all'estero, la guerra delle
bandiere regionali contro quella nazionale, sono pura e semplice
"ammuina" per nascondere che l'incognita del federalismo fa paura
perfino a coloro che lo hanno voluto e portato avanti fino ad un punto di non
ritorno. Domenica scorsa scrissi che questa situazione di disfacimento e di
secessione silenziosa richiede il lancio di un allarme rosso che blocchi la
deriva e metta in campo tutte le energie positive, latenti ma disperse, e le
riporti in campo. Ripeto quel mio invito. E' il momento che queste energie
potenziali entrino in scena, si manifestino, usino gli strumenti che ci sono
per costruirne altri più appropriati ed efficaci. Temo che non ci sia tempo da
perdere. L'abbiamo detto tante volte in questi quindici anni ed anche prima.
Purtroppo era sempre vero ma questa volta è più vero che mai. * * * Post
Scriptum. Il ministro Brunetta (ma sì, quel simpaticone) ci ha scritto una
lettera a proposito dello sfondamento della spesa ordinaria di 35 miliardi tra
il 2008 e il 2009. Avevo scritto che uno sfondamento di tali dimensioni in una
fase di crisi e dissesto dei nostri conti pubblici (anche se il ministro
Tremonti continua pervicacemente a negare quest'evidenza da lui stesso
documentata nell'ultimo Dpef) era incomprensibile. Quei miliardi di euro
equivalgono ad un aumento del 4,9 per cento della spesa ordinaria. Vogliamo
sapere a che cosa sono serviti. E' una curiosità morbosa? Tremonti dovrebbe
rispondere ma ecco che in sua vece ha risposto Brunetta nella lettera da noi
pubblicata. So bene che con questo "post scriptum" espongo i lettori
di "Repubblica" al rischio di un'altra lettera del Brunetta medesimo,
ma le cifre da lui fornite chiedono risposta. Dunque. Scrive il ministro della
Funzione pubblica che tra il 2008 e il 2009 le spese della Pubblica
amministrazione destinate al personale sono aumentate di circa quattro
miliardi. Il ministro ne spiega la ragione e noi non vogliamo entrare nel
merito. Spiega anche che la spesa per "Consumi intermedi" è a sua
volta aumentata da un anno all'altro di 3850 milioni. Non dice il perché, debbo
dedurne che si tratta di sprechi. Altro Brunetta non dice. Il totale delle
risorse da lui giustificate nel modo suddetto ammonta dunque a poco meno di
otto miliardi. Lo sfondamento della spesa ordinaria è stato di 35 miliardi. La
differenza per la quale attendiamo ancora notizie dal ministro dell'Economia o
dal suo vice alla Funzione pubblica è quindi di 27 miliardi di euro. Volete per
favore dire alla pubblica opinione come diavolo li avete spesi? (9 agosto 2009
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( da "Repubblica, La"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 21 - Commenti
IL POTERE SENZA CONTROLLO (SEGUE DALLA PRIMA PAGINA) Piuttosto nella
concretissima dimensione istituzionale dove, invece, si è realizzato uno
stravolgimento continuo del sistema delle garanzie al quale sono affidate le
possibilità stesse di funzionamento della democrazia. Consideriamo quel che è
avvenuto solo nelle ultime settimane. Si è andati all´assalto della Banca
d´Italia e della Corte dei Conti. Si è stravolto in forme sconcertanti l´uso
del decreto legge. Si è inflitta l´ennesima mortificazione al Parlamento, con
un ricorso al voto di fiducia che azzera l´autonomia di deputati e senatori e
conferma l´ostilità mai nascosta di Berlusconi per l´istituzione parlamentare.
Si è realizzata una nuova blindatura del sistema televisivo intorno agli
interessi delle reti Mediaset, ai quali vengono subordinate le reti che
dovrebbero essere pubbliche. Si è manifestata una volta di più l´ostilità per
la libertà di informazione e di critica, con toni variamente intimidatori verso
chi scrive cronache sportive o riferisce di vizi privati che annientano le
virtù pubbliche. Un comune denominatore unisce queste diverse iniziative. Il
bisogno di un potere sciolto da ogni controllo; l´insofferenza per una opinione
pubblica critica e vitale, non ridotta a "carne da sondaggio"; il
disprezzo per ogni "governo delle leggi" che dia la regola al
"governo degli uomini". Alcuni guai sono stati evitati, almeno per il
momento. Grazie al provvido intervento del Presidente della Repubblica vengono
salvaguardate l´autonomia della Banca d´Italia e la possibilità della Corte dei
Conti di continuare a esercitare il controllo sul funzionamento delle
amministrazioni pubbliche. Il Presidente della Camera, anche se inascoltato,
non si stanca di ricordare quale sia il valore, davvero non negoziabile, della
democrazia parlamentare. Ma più passa il tempo più la tenacia di Napolitano e
Fini si rivela come il segno di difficoltà gravi del sistema istituzionale, la
cui buona salute non può essere affidata ad una sorta di guerriglia
istituzionale divenuta ormai quasi quotidiana. Intendiamoci. La
"custodia" della Costituzione garantita dal Presidente della
Repubblica è preziosa, ma rivela pure come garanzie e controlli fondamentali
non siano più patrimonio dell´intero sistema, ma vadano rifugiandosi in alcuni
suoi luoghi soltanto, appunto la Presidenza della
Repubblica e la Corte
costituzionale, di cui cresce la responsabilità. I casi ricordati prima,
infatti, non sono una eccezione o una emersione casuale di pulsioni
autoritarie. Rappresentano la conferma di una linea avviata fin dall´inizio
della legislatura: con il Lodo Alfano e gli attacchi ripetuti e le minacce
rivolte a giudici costituzionali e ordinari; con la drastica riduzione
dei poteri di controllo della magistratura e del sistema dell´informazione
affidata al disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche; con la
negazione della stessa separazione dei poteri, che ha avuto la sua
manifestazione più clamorosa, ma non unica, in occasione del caso Englaro,
quando si cercò di cancellare in via legislativa una sentenza già passata in
giudicato. Proprio questa vicenda consente di cogliere l´altra faccia della
politica istituzionale di questo governo e della sua maggioranza. Mentre si
opera tenacemente per affrancare il potere esecutivo da ogni forma di
controllo, questo medesimo potere agisce anche con violenza per assumere il
controllo della vita delle persone, cancellando diritti, negando l´idea stessa
d´una moderna cittadinanza come patrimonio inalienabile e non comprimibile
d´ogni persona. La logica dei controlli democratici è così capovolta. Di nuovo
vicende recentissime. Questi sono i giorni dell´entrata in vigore del pacchetto
sicurezza e dell´attacco all´autorizzazione all´uso della pillola Ru486. I
diritti delle donne e degli immigrati vengono esplicitamente messi in
discussione, con un inquietante ritorno verso forme di discriminazione e
stigmatizzazione sociale. Quale sia l´idea di dignità e libertà femminile
coltivata da questa maggioranza lo ha rivelato la "cultura" messa in
campo dai comportamenti del presidente del Consiglio e dalle difese apprestate
dalla sua corte. Una cultura, peraltro, che continua a
fare un uso spudoratamente strumentale del riferimento alla tutela della
privacy per assicurare coperture ad una figura pubblica per definizione, come
il presidente del Consiglio, e per far passare norme autoritarie in materia di
intercettazioni telefoniche, mentre si approva una più generale riduzione delle
garanzie modificando, per asserite ragioni di efficienza, l´articolo 1 proprio
del codice sulla privacy. Schizofrenia istituzionale o manifestazione ulteriore
del doppio movimento in materia di controlli, inaccettabili per i potenti e
costrittivi per le persone? Un inquietante "efficientismo penale"
percorre il testo sulla sicurezza appena entrato in vigore. Ne conosciamo le
caratteristiche. Una pericolosa privatizzazione della sicurezza pubblica
attraverso le ronde. La negazione della cittadinanza come insieme di diritti
che accompagnano la persona in qualsiasi luogo del mondo in cui si trovi
attraverso il reato di immigrazione clandestina che porta con sé la
cancellazione di diritti fondamentali come quelli di sposarsi o di avere una
abitazione, e rende precaria la possibilità del diritto alla salute,
all´istruzione, al riconoscimento e alla educazione dei figli (dove sono gli
scatenati difensori della famiglia?). Ce lo ha appena ricordato il Presidente
della Repubblica, sottolineando che la piena integrazione degli immigrati e la
sicurezza sui luoghi di lavoro "sono diritti fondamentali ed esigenze
totali e civili", in un messaggio significativamente letto dal presidente
della Camera in uno dei luoghi simbolo della tragedia dell´emigrazione italiana,
Marcinelle. La regressione culturale e civile incarnata dagli ultimi
provvedimenti è evidentissima, e ha la sua origine e il suo fondamento
soprattutto nella politica della Lega, la cui influenza è cresciuta a dismisura
e sta producendo una curvatura del sistema istituzionale nel senso
dell´accettazione della logica della diseguaglianza e della discriminazione
come via per la legittimazione di identità separate e della costruzione di una
cittadinanza a geometria variabile, non solo tra italiani e immigrati, ma tra
gli stessi italiani in base alle appartenenze regionali. Non sono folclore i
test di cultura regionale, già presi in considerazione dal ministro
dell´Istruzione, o il "pluralismo delle bandiere" o il modo in cui si
propongono le gabbie salariali. Più si seguono le iniziative politiche della
maggioranza, più si fa pesante il bilancio istituzionale di questi quattordici
mesi. Siamo di fronte a una strisciante revisione costituzionale,
ad un vero e proprio abbandono della logica della Costituzione repubblicana
proprio nella sua parte più significativa e impegnativa, quella dei principi e
dei diritti. Le istituzioni repubblicane si scompongono lungo strategie che
parlano di dissoluzione, non di federalismo. Sono le dichiarazioni di esponenti
politici con impegnative responsabilità pubbliche, e non aggressive
interpretazioni "laiciste", a dare la prova di una crescente
debolezza dello Stato, di una sua perdita di autonomia di fronte alle gerarchie
vaticane, come sta accadendo con la pretesa di far intervenire Parlamento e
governo per bloccare il ricorso alla pillola Ru486. Per evitare di essere
sempre più prigionieri di questa perversa "costituzione materiale",
servono almeno due mosse. La prima riguarda la necessità di uscire da una forma
di schizofrenia politico-istituzionale robustamente presente nel mondo del
centrosinistra: si può continuare a fare analisi che rivelano i guasti di
questi anni senza chiedersi se all´origine di tutto questo non vi sia pure
quell´ingegneria costituzionale che ha secondato la
personalizzazione del potere? La seconda rimanda alle proposte di riforma
indicate come le più urgenti, in primo luogo quella dei regolamenti
parlamentari che, almeno in alcune proposte, assomiglia pericolosamente a una
semplice razionalizzazione delle prassi che oggi vengono indicate come
spoliazione delle prerogative delle Camere. Di tutto questo bisognerà
discutere, liberi dalle malie che il presidente del Consiglio cerca di
esercitare su una opinione pubblica sempre meno informata e, soprattutto, dalle
arretratezze di cui sono ancora prigionieri troppi suoi oppositori.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-08-09 - pag: 15 autore: FISCO E
COSTITUZIONE Tassa sul lusso della Sardegna senza avallo Ue di Enrico De Mita
imposta su aeromobili e unità di diporto istituita dalla RegioneSardegna nell'ambito
delle cosiddette L' che un ruolo significativo è rivestito dalle questioni
fiscali, "tasse sul lusso", applicata in maniera differenziata a
seconda che i contribuenti siano o meno residenti in Sardegna, è illegittima
dal punto di vista del diritto comunitario, per due motivi: sia in quanto
restrizione alla libera prestazione dei servizi (articolo 49 del Trattato Ce),
sia in quanto aiuto di Stato alle imprese con domicilio fiscale in Sardegna (
articolo 87 del Trattato). Queste le conclusioni dell'avvocato generale Juliane
Kokott nel procedimento di fronte alla Corte di giustizia su una delle
cosiddette "tasse sul lusso" istituite dalla Regione Sardegna nel
2006 e nel 2007 (conclusioni presentate il 2 luglio 2009, nella causa
C-169/2008). La
Regione Sardegna, nel 2006, introdusse quella che la stampa
quotidiana aveva frettolosamente denominato appunto "tassa sul
lusso": si tratta in realtà di distinte imposte, non già sul lusso, ma
piuttosto sul turismo. Esse colpiscono, rispettivamente le plusvalenze dei
fabbricati adibiti a seconde case, le seconde case a uso turistico, gli
aeromobili e unità da diporto; viene anche introdotta una imposta di scopo. La
legge 4/2006, istitutiva appunto tali imposte, era stata impugnata dal Governo
di fronte alla Corte costituzionale, per farne
dichiarare l'illegittimità. La successiva legge regionale 2/2007, che aveva
l'obiettivo di correggere alcuni punti della precedente disciplina, secondo
quanto rilevato dal Governo, era stata anch'essa impugnata di fronte alla Corte.
Questa, nella sentenza 102/2008, riuniti i due ricorsi, ha dichiarato
l'illegittimità costituzionale dell'imposta che
colpisce le plusvalenze dei fabbricati adibiti a seconde case e di quella che
colpisce le seconde case a uso turistico; ha invece dichiarato infondata la
questione con riguardo all'imposta di soggiorno. Con l'ordinanza 103/2008,
invece, la Corte
ha sottoposto alla Corte di giustizia una questione di interpretazione del
Trattato Ue, in riferimento all'applicabilità dell'imposta su aeromobili e
unità di diporto alle imprese esercenti tali attività in maniera differenziata
a seconda che siano o meno residenti in Sardegna. Avevamo già rilevato come
tale profilo sia quello più interessante dal punto di vista dei principi
dell'ordinamento, in quanto per la prima volta la Corte costituzionale
ha sospeso un giudizio dinanzi a sé per inviare la questione alla Corte di
giustizia. E ben coglie l'importanza di questo aspetto l'avvocatura generale
nelle conclusioni del 2 luglio, sottolineandone la novità addirittura in
apertura, rimarcando la svolta sul punto da parte della
Corte costituzionale (la quale aveva in passato negato tale possibilità, da ultimo
con l'ordinanza n. 536/1995) e sottolineando come essa ora si inserisca «nella
cerchia delle corti costituzionali nazionali che intrattengono un rapporto di
cooperazione attivo con la Corte
di giustizia». Non è la prima volta, d'altra parte, nel lungo e
dialettico percorso che contrassegna il rapporto tra la giurisprudenza della
Corte costituzionale italiana e quella della Corte di
giustizia quale occasione per formulare principi di rilevante portata anche per
il profilo più generale dei rapporti fra i due ordinamenti. Venendo al merito
della questione, le conclusioni dell'avvocato generale non lasciano spazio a
dubbi di sorta. La norma che introduce l'imposta regionale sullo scalo
turistico nei confronti di soggetti non aventi domicilio fiscale in Sardegna,
nell'assoggettare a tassazione le imprese non aventi domicilio fiscale in
Sardegna, crea una discriminazione rispetto alle imprese che, pur svolgendo la
stessa attività, non sono tenute al pagamento del tributo per il solo fatto di
avere domicilio fiscale nella Regione. Detta discriminazione si pone in
contrasto con l'ordinamento sia come restrizione alla libera prestazione dei
servizi (articolo 49 del Trattato), sia come aiuto di Stato alle imprese con
domicilio fiscale in Sardegna (articolo 87 del Trattato), con effetti
discriminatori e distorsivi della concorrenza. Né valgono, a salvare il tributo
le giustificazioni via via addotte dalla Regione e tutte cassate dall'avvocato
generale: tributo ambientale, tutela della salute, coerenza del regime fiscale,
carattere insulare della Sardegna, considerazioni di politica sociale. Se
dunque, come è prevedibile in base alla casistica passata, le conclusioni
dell'avvocato generale verranno accolte dalla Corte di giustizia nella
sentenza, una soltanto delle quattro imposte istituite dalla Regione Sardegna
sopravviverà alle censure di illegittimità costituzionale
e comunitaria, vale a dire l'imposta regionale di soggiorno. La Corte costituzionale
aveva affermato, con riguardo a essa, che è giustificabile un prelievo fiscale
a carico soltanto dei soggiornanti non residenti nell'isola, avendo detta
imposizione «lo scopo di finanziare il complesso delle spese connesse alla
tutela dell'ambiente e alla promozione del turismo sostenibile nell'intera
Regione,con gli opportuni aggiustamenti compensativi tra le varie zone». Non a
caso un'imposta simile esiste in vari Stati dell'Unione europea, pur non
sussistendo una specifica normativa comunitaria in materia di imposte di
soggiorno (basti pensare, ad esempio, alla Kurtaxe tedesca, alla taxe de séjour
francese, all'impuesto sobre las estancias en empresas turÍsticas de alojamiento
già vigente nella Comunità autonoma delle Isole Baleari, all'impÔt sur les
chambres d'hÔtels et de pensions a Bruxelles). © RIPRODUZIONE RISERVATA
COOPERAZIONE Per la prima volta la
Consulta ha sospeso un giudizio e lo ha sottoposto alla Corte
europea PER L'AVVOCATO GENERALE I prelievi differenziati ai non residenti
limitano la prestazione di servizi e falsano la concorrenza
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: PRIMA data: 2009-08-10 - pag: 1 autore: Comuni. Dopo la sentenza
della Consulta Tassa rifiuti senza Iva: sei milioni di famiglie hanno diritto
al rimborso La tariffa rifiuti è in realtà una tassa, perché il suo costo non è
direttamente proporzionale alla qualità e quantità del servizio reso. La decisione della Corte costituzionale,
nella sentenza 238/2009, fa cadere l'Iva al 10%applicata sulla tariffa, e apre
per 6 milioni di famiglie la strada del rimborso, che può riguardare anche gli
arretrati degli anni scorsi. La decisione riguarda anche operatori economici e
imprese. Chi è esente Iva ha lo stesso trattamento delle famiglie,
mentre chi finora ha scaricato l'imposta pagata dovrebbe addirittura restituire
le somme all'Erario. In gioco c'è una partita da 200 milioni l'anno e un
intervento legislativo è urgente per evitare il caos fiscale. Persa l'Iva, i
gestori dovranno poi rimodulare le tariffe, e il rischio è quello di dover
pagare più di prima. Servizi u pagina 5 l'articolo prosegue in altra pagina
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: IN PRIMO PIANO data: 2009-08-10 - pag: 5 autore: Il futuro. La
ristrutturazione del prelievo Per far quadrare i conti da
domani si pagherà di più Paolo Maggiore La decisione della Corte costituzionale sulla natura tributaria della tariffa d'igiene ambientale sembra
venire incontro a una esigenza di diminuzione dei costi sostenuti dalle
famiglie, certamente auspicabile in un momento di crisi economica. Ma siamo
veramente sicuri che sia questo il risultato raggiungibile? Purtroppo,
almeno per quel che riguarda il futuro, l'effetto rischia di essere opposto. Il
sistema di determinazione della tariffa, indipendentemente dalla sua natura,
deve portare obbligatoriamente alla copertura di tutti i costi sostenuti per
l'espletamento del servizio. Ed è su questa base certa che occorre valutare le
conseguenze future, destinate a vanificare gliaspetti positivi contenuti nella
Sentenza della Corte. L'articolo 19 del Dpr 633/1972 prevede infatti che se i
ricavi di un'azienda sono esenti o comunque non soggetti all'imposta, l'azienda
non può detrarre l'Iva pagata sugli acquisti, che quindi si trasforma in un
costo aziendale da tener presente nella determinazione dei "listini
prezzi". Considerato che per le aziende del settore l'Iva sugli acquisti è
in gran parte ad aliquota 20%, ma che non tutti i costi sono soggetti all'imposta,
si può ragionevolmente ritenere che l'aggravio per l'indetraibilità si attesti
intorno al 14 per cento. Questo importo andrà obbligatoriamente recuperato
nella determinazione della tariffa per gli utenti. L'effetto perverso
dell'eliminazione dell'imponibilità Iva, quindi, comporta per i consumatori un
risparmio iniziale del 10% e un aggravio successivo di almeno il 14 per cento.
Questa è una delle motivazioni che intutti questi anni non avevano consentito
di arrivare a una lettura univoca della struttura tariffaria, in assenza di
qualsiasi interpretazione autentica fornita dal legislatore. Che però può
intervenire ora. Il riconoscimento della privativa da parte dell'ente locale
anche nel caso di gestione del servizio affidata a terzi dovrà poi avere
risvolti su una serie di problemi specifici. Uno concerne il servizio svolto
nei confronti delle scuole statali, apparentemente favorite nella
determinazione della tariffa dall'articolo 33-bis della legge 31/2008 che, a
questo punto, potrebbe ritenersi a rischio di incostituzionalità. ©
RIPRODUZIONE RISERVATA IL MECCANISMO La legge impone ai gestori la copertura
integrale dei costi e il gioco della detraibilità farà caricare oneri maggiori
rispetto all'imposta decaduta
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del lunedì
sezione: IN PRIMO PIANO data: 2009-08-10 - pag: 5 autore: L'effetto domino crea
il caos fiscale per le imprese Raffaele Rizzardi I cittadini, gli enti e le
aziende contribuiscono al pagamento del servizio di raccolta e smaltimento dei
rifiuti, ricevendo la cartella esattoriale – se il comune continua ad applicare
la Tarsu, cioè
una tassa – oppure una normale fattura, con Iva del 10%, emessa dalla società
che gestisce il servizio, nel caso in cui il prelievo abbia assunto la
denominazione di Tia (tariffa di igiene ambientale). L'importo addebitato al
contribuente è calcolato secondo le stesse modalità in entrambi i casi: anche la Tia copre pure il costo dello
spazzamento delle strade e si applica secondo criteri di tipo fiscale e non in
proporzione alla quantità dei rifiuti che possono essere prodotti. Basta
guardare il regolamento della Tia di una città turistica che ha adottato questo
sistema: i non residenti – che magari stanno per un mese in due persone –
pagano come cinque residenti tutto l'anno, cioè non in proporzione ai rifiuti
che potrebbero produrre, e quindi senza alcun rapporto con la quantità e la
qualità del servizio, condizione essenziale per l'emissione di una fattura con
Iva. Il tema dell'onere dell'Iva sulla Tia era già stato al centro di molti
interventi delle associazioni di consumatori, specie dopo che il legislatore e la Cassazione avevano
riconosciuto che anche la "tariffa" è un vero tributo, per cui le
liti relative devono essere portate dal giudice tributario. L'agenzia delle
Entrate aveva risposto con la risoluzione 250/E del 17 giugno 2008, sostenendo
che l'Iva è dovuta, richiamando la circolare 111/E del 21 maggio 1999, in quanto la Tia avrebbe natura di
corrispettivo, e quindi di prestazione di servizi. Nulla da eccepire – e il
problema si pone ora in modo particolare – sull'aspetto della procedura di
recupero del tributo: l'utente non ha alcun titolo verso l'erario, deve
chiedere il rimborso (ove spettante) al gestore, e sarà lui ad attivarsi nei
confronti dell'erario. Questa costruzione è stata demolita dalla Corte costituzionale, chiamata a confermare la natura tributaria della Tia agli
effetti del contenzioso. Ma nella corposa motivazione, opera di un autorevole
studioso del diritto tributario come il professor Franco Gallo, la Corte dichiara che l'Iva non
può essere applicata, non esistendo una differenza sostanziale tra Tarsu e Tia
e mancando la condizione essenziale di corrispettività tra il servizio
reso al singolo cittadino e quanto gli si chiede di pagare. Tra le tante conseguenze
di questa sentenza c'è anche la ricaduta sull'Irap, per l'articolo 5-bis del
Dlgs 446/97, relativo al calcolo dell'imponibile per le imprese individuali e
societarie che non hanno optato per la tassazione a bilancio. Se la Tia era una prestazione di
servizi, risultava deducibile per il tributo regionale, mentre non lo era la Tarsu, che non aveva questa
natura. Ma se anche la Tia
è una tassa, hanno sbagliato a dedurre tutti coloro che l'hanno considerata nel
significato ora inammissibile. Tra i tanti pasticci della Tia c'è il problema
delle modalità pratiche del contenzioso: la Corte costituzionale
afferma che l'ente impositore resta il comune, e non la società che emette la
"bolletta". Questo documento deve avere però i requisiti degli avvisi
tributari, ma non si comprende come vada calcolato il termine di decadenza di
60 giorni per ricorrere, considerando che la "bolletta" non ha una
notifica con data certa. Tornando all'imposta sul valore aggiunto, vi sono
effetti di grande rilievo per il passato, in quanto tutti coloro che hanno
ricevuto le fatture con Iva possono chiedere la restituzione al gestore che le
ha emesse. Il gestore, a sua volta, potrà chiedere il rimborso all'erario (qui
il tema controverso riguarda i termini per farlo, come insegna una sentenza
della Corte di giustizia europea, la
C-35/05 del 2007) ma dovrà restituire la detrazione che ha
operato, "scaricando" l'Iva sui beni strumentali e sugli altri
acquisti di beni e servizi. In questo modo però si evidenzierà un maggior costo
del servizio, corrispondente a questa imposta indetraibile. Ma anche i soggetti
con normale attività di impresa o di lavoro autonomo dovrebbero restituire
all'erario la detrazione sulla Tia, in quanto non spetta se l'Iva non è dovuta.
Per evitare il caos, il legislatore deve intervenire nella materia, concordando
una soluzione semplificata con la Commissione europea, per evitare che scelte
affrettate possano dar luogo a una procedura di infrazione alle direttive. ©
RIPRODUZIONE RISERVATA LA
CATENA Le aziende hanno il diritto di rivalersi sull'Erario,
ma devono riversare le somme prima dedotte CONTROMOSSE Per evitare contenziosi
il legislatore deve concordare in fretta una soluzione chiara con l'Unione
europea
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: IN PRIMO PIANO data: 2009-08-10 - pag: 5 autore: Rischio
rimborsi sulla tariffa rifiuti La
Tia perde l'Iva al 10%: più di sei milioni di famiglie in
lizza per la restituzione Alessandro Garzon Gianni Trovati Si scrive tariffa,
ma si legge tassa. Per avere l'ultima parola sulla «natura» della tariffa di
igiene ambientale, la Tia,
che si paga per lo smaltimento dei rifiuti, si è dovuti
arrivare fino alla Corte costituzionale, che con la sentenza 238/2009 (si veda Il Sole 24 Ore del 25
luglio) ha chiuso un dibattito durato anni. I giudici delle leggi non hanno
avuto dubbi, e ribaltando i ragionamenti di molti tribunali amministrativi
hanno decretato che la tariffa, a guardarla bene, è una tassa. Messa
così sembra una disputa per appassionati di filosofia del diritto tributario,
per di più su un tema non proprio affascinante come quello dei rifiuti. Ma la
questione muove interessi assai concreti e diffusi, che mettono in gioco
centinaia di milioni di euro l'anno. In quanto tassa, la Tia non può essere appesantita
dall'Iva, che quindi è stata finora chiesta illegittimamente ai contribuenti.
La notizia ha due facce: buona per le famiglie e per le attività che non
scaricano l'Iva, e che ora possono chiedere il rimborso degli arretrati, e
cattiva per gli altri, che rischiano di trovarsi nuovi costi non detraibili al
posto dell'Iva che prima veniva dedotta. Il ballo dell'Iva interessa quasi 17
milioni di cittadini (cioè più di 6 milioni di famiglie) e tutti gli operatori
economici sparsi nei 1.193 comuni che finora hanno adottato la Tia abbandonando la vecchia
tassa sui rifiuti solidi urbani (Tarsu). La somma in gioco, ovviamente, dipende
dal conto annuale presentato dal gestore, su cui fino a oggi si è applicata
l'Iva al 10 per cento. A una famiglia di quattro persone che abita a Roma in 100 metri quadrati,
per esempio, il servizio rifiuti costa 375 euro all'anno, di cui 33 di Iva
(l'imposta non si applica sull'addizionale provinciale). Nella capitale, però,
la tariffa ha debuttato nel 2003, per cui i contribuenti potrebbero reclamare
l'arretrato fiscale di sei anni. Per quasi mezzo milione di italiani la
richiesta può andare ancora più indietro, perché il loro comune ha abbandonato
la vecchia tassa all'inizio del decennio, mentre in 680mila, abitanti in comuni
appena approdati alla tariffa, possono chiedere solo la cifra annuale. Il ballo
dell'Iva potrebbe essere fermato solo con un aumento retroattivo della tariffa,
per coprire la perdita dell'Iva e stoppare l'offensiva del contribuente. Una
mossa, questa, che da un lato potrebbe corrispondere al principio per cui la
tariffa deve coprire tutti i costi di gestione del servizio (ribadito
dall'articolo 49 del Dlgs 22/2009), ma dall'altro si scontra con il divieto di
introdurre aumenti tariffari validi per il passato (Dlgs 446/1997). La partita
si fa più ricca per le utenze diverse da quelle domestiche, che pagano tariffe
più alte rispetto a quelle riservate alle famiglie. In questo caso, come
accennato sopra, l'esito del dare-avere dipende però dalle regole fiscali
previste per la singola attività: chi è esente Iva (per esempio uno studio medico
o un'assicurazione) incontra un risultato analogo a quello delle famiglie,
perché non poteva in alcun modo detrarre l'imposta pagata, che quindi gli
restava "in carico". Gli altri, invece, troveranno dalla
ristrutturazione tariffe per compensare la mancata Iva, un costo nuovo al posto
di quello che prima scaricavano. Le cifre possono essere consistenti. Chi ha un
negozio di media grandezza a Padova, per esempio, paga per lo smaltimento 1.750
euro all'anno, di cui 150 di Iva, mentre l'Iva di un albergo con ristorante a
Firenze vola oltre quota 5mila euro, perché la gestione dei rifiuti costa quasi
58mila euro ogni anno. Basando la stima sulle medie tariffarie registrate
nell'ultimo rapporto governativo sui rifiuti (si può consultare al sito
www.apat.it) è possibile stimare che tra famiglie e imprese la partita viaggi
oggi intorno ai 200 milioni l'anno. Le richieste di rimborso, poi, sono
destinate a innescare un effetto domino nel rapporto dei gestori con i comuni e
con l'erario. Il futuro, invece, non riserva sconti ai contribuenti, né
eccessivi problemi finanziari a gestori e comuni (che però dovranno
riaccogliere in bilancio entrate tariffarie e costi del servizio). I gestori e,
più in generale, tutti gli appaltatori del servizio, dovranno fatturare al comune
il servizio reso, dopodiché il comune non potrà che includere l'Iva tra i costi
che concorrono alla determinazione della tariffa. E il giro di giostra potrebbe
non essere piacevole per il contribuente (si veda anche l'articolo in basso).
Le casse dello Stato potrebbero guadagnare cifre consistenti perché l'addio
all'Iva ferma il gioco delle detrazioni da parte delle aziende. I sindaci,
comunque, dovranno in fretta mettere mano ai regolamenti per disciplinare
accertamento e liquidazione del tributo, oltre alle sanzioni per chi non paga e
alle modalità del contenzioso. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: IN PRIMO PIANO data: 2009-08-10 - pag: 5 autore: LE COMPONENTI
Parte fissa è la quota di tariffa che nasce per misurare le «componenti
essenziali» del costo del servizio, gli investimenti e gli ammortamenti Parte
variabile è l'aliquota che dovrebbe essere correlata in modo più specifico alla
quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornitoe all'entità dei costi di
gestione. In realtà i meccanismi di calcolo di parte fissa e variabile sono
sostanzialmente analoghi per l'utente,e proprio la mancata
correlazione fra quantità e qualità del servizioe corrispettivo pagato dai
consumatori ha determinato la sentenza della Corte costituzionale che
ha stabilito la natura tributaria e non tariffaria della Tia Iva è il 10% sulla
somma di parte fissa e parte variabile Addizionale provinciale è un'ulteriore
aliquota (spesso del 5%) applicata sulla somma di parte fissa e variabile
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: IN PRIMO PIANO data: 2009-08-10 - pag: 5 autore: L'altra bocciatura della Corte costituzionale
Sull'acqua indennizzi da ottobre ma non si sa dove trovare i soldi La tariffa
rifiuti non è la prima voce dei servizi localia uscire male dall'esame della
Corte costituzionale. A ottobre dell'anno scorso i giudici delle leggi si erano
esercitati sul canone di depurazione, sentenziando una verità ovvia ma
rivoluzionaria: chi nonè collegato all'impianto non deve pagare il
servizio. Tra un mesee mezzo 14 milioni di italiani dovrebbero cominciarea
ricevere i rimborsi, ma nessuno sa ancora dove prendere i soldi. Anche in quel
caso, infatti, la riflessione in punta di diritto assestava una bordata ai
conti dei gestori (gli Ato, ambiti territoriali ottimali, che la riforma
Calderoli ora vuole cancellare), che per anni hanno chiesto puntualmente a una
famiglia su quattro di pagare in media 70 euro per un servizio non reso. Il
dettaglio vale 350 milioni all'anno, 3,2 miliardi di arretrati (fino al 3
ottobre 2000, data di nascita dell'attuale sistema tariffario) e mandaa picco
bilanci e programmi di investimento (20 miliardi nei prossimi 15 anni) per
costruire gli impianti dove non ci sono. La corsa all'indennizzo, alimentata
anche dalle associazioni dei consumatori, è partita subito, ma con altrettanta
rapidità è stata congelata dal governo, che per decreto ha reintrodotto il
canone per tuttie ha preso tempo per gestire la grana dell'arretrato.Il canone
di depurazione (Dl 208/2008, articolo 8-sexies) è diventato una «componente
vincolata», che l'utente deve pagare anche se non ha il servizio quando il
gestore ha avviato almeno la progettazione delle opere. Il decreto ha provato a
intervenire anche sul passato, e forzando la sentenza della Corte ha stralciato
dai rimborsi i soldi già spesi per progettare o avviare i depuratori mancanti.
Il resto in qualche modo va restituito (anche a rate, in cinque anni), ma nelle
casse degli Ato i soldi non ci sono e il rebus rimane insolubile. Il
regolamento per i rimborsi, previsto per febbraio, è ancora fermo al ministero
dell'Ambiente, e il Coviri, che doveva proporlo, nel frattempo è stato
addirittura abolito dal decreto per l'emergenza Abruzzo. G.Tr. © RIPRODUZIONE
RISERVATA REGOLAMENTO IN RITARDO Al 25% degli italiani spetta il recupero per
il canone versato senza depurazione, ma il nodo-risorse ritarda il via libera
del ministero
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-08-10 - pag: 40 autore: ANCI
RISPONDE Contenzioso con più cautele nel nuovo processo civile Mariantonietta
Di Vincenzo La delega per la riforma del processo civile contiene anche disposizioni
di immediata operatività sul contenzioso tributario. Gli enti locali sono
chiamati a un'attenta ponderazione degli atti processuali per assicurare la
migliore tutela riducendo i rischi di responsabilità amministrativa. La
compensazione delle spese non potrà più essere pronunciata per «giusti motivi»
ma, oltre che per soccombenza reciproca, soltanto per «gravi ed eccezionali
ragioni». La parte soccombente potrà comunque essere condannata anche al
pagamento di una somma ulteriore da determinare per equità. Si introduce
inoltre un filtro per il giudizio in Cassazione: il ricorso è inammissibile se
il giudice di secondo grado ha deciso secondo l'indirizzo della Corte e, se
dall'esame del ricorso, risulta che parte ricorrente non ricaverebbe nessun
vantaggio. Le difese dell'ente locale dovranno pertanto essere impostate in
modo da assicurare l'accesso ai gradi superiori di giudizio e tali da evitare
l'addebito di spese per non avere contrastato adeguatamente le argomentazioni
della controparte. © RIPRODUZIONE RISERVATA La translatio iudicii Un
contribuente ha impugnato un atto relativo al Cosap di fronte alla Commissione
tributaria. In base alla sentenza della Corte costituzionale n. 64 del 10 marzo 2008, il giudice individuato nonè quello
corretto, quali sono le conseguenze del suo errore? Le conseguenze sono di tipo
processuale, in caso di difetto di giurisdizione il giudice infatti invece di
dichiarare inammissibile il ricorso, dichiara la propria carenza di
giurisdizione con sentenza e rimette le parti al giudice competente. In
questo caso il contribuente avrà l'onere di riassumere la causa di fronte al
giudice ordinario. La legittimazione passiva è stato notificato all'ente, oltre
che al concessionario, un ricorso alla Commissione tributaria provinciale avverso
una cartella di pagamento relativa all'anno 2002 (ruolo reso esecutivo il
23/9/2002). Il contribuente ha contestatoe sollevato eccezione di nullità della
cartella di pagamento impugnata per intervenuta prescrizionee conseguente
decadenza dei termini di riscossione (violazione dell'articolo 17,comma 1,
lettera c) Dpr n. 602/73 e successive modificazioni) nonché eccezione di
nullità della cartella di pagamento impugnata per violazione dell'articolo 6
comma 1 legge n. 212/2000. Considerato che la cartella di pagamento è stata
notificata al contribuente il 4/4/2009,l'Ente è stato ingiustamente chiamato in
giudizio? Il ricorrente ha contestato esclusivamente vizi propri della
cartella, che è un atto dell'agente della riscossione; l'ente, pertanto, si deve
costituire in giudizio, facendo rilevare alla commissione tributaria il difetto
di legittimazione passiva, in quanto l'unico legittimato è appunto l'agente
della riscossione. Essendosi così costituito in giudizio, l'ente locale può
verificare il contegno tenuto dall'agente della riscossione; se rileva
responsabilità da parte di questo, le farà valere in sede di controllo delle
comunicazioni di inesigibilità, ai sensi degli articoli 19 e 20 del Dlgs
112/1999. Le agevolazioni per gli imprenditori agricoli Il Comune ha notificato
gli avvisi di accertamento in rettifica per gli anni 2004/2007 a un
contribuente che dichiarava i terreni edificabili come agricoli senza
conduzione diretta. Il contribuente, medico condotto in pensione dal 2003, ha aderito
all'accertamento con adesione per tutti gli anni e ha pagato le prime rate. Ora
chiede il rimborso perché l'Inps con effetto retroattivo dal 2004 gli ha
riconosciuto la qualifica di imprenditore agricolo. Per il periodo dal 2004 al
2006 i terreni sono stati dati in affitto con contratto ad una società di fatto
di cui è socio lo stesso contribuente, pertanto nella dichiarazione dei redditi
personale risultava reddito agrario nullo mentre vi sono altri redditi da
fabbricati e da partecipazioni e il reddito da attività agricola veniva
dichiarato dalla società di fatto. Il contribuente per il periodo 2004e per gli
anni seguenti ha diritto alle agevolazioni previste per gli imprenditori
agricoli ai fini Ici? L'atto di adesione è definitivo e non può essere
modificato, né costituisce atto impugnabile. In caso di mancato pagamento,
l'ufficio iscrive a ruolo le rate residue (articolo 8, comma 3-bis del Dlgs
218/1997). L'ufficio può comunque agire in autotutela; nel caso di specie,
tuttavia, l'agevolazione non spetta perché il terreno non è condotto
direttamente dal contribuente, ma dalla società. Fiscalmente, tali soggetti
sono distinti e di ciò ne dà contezza lo stesso comune istante, mostrando come
il reddito agrario sia stato dichiarato dalla società e non dal contribuente. «Il
Sole-24 Ore del lunedì» pubblica in questa rubrica una selezione delle risposte
fornite dall'Anci ai quesiti (che qui appaiono in forma anonima) degli
amministratori locali. I Comuni possono accedere al servizio «Anci-risponde» —
solo se sono abbonati — per consultare la banca dati, porre domandee ricevere
la risposta, all'indirizzo Internet Web www.ancitel.it. I quesiti non devono,
però, essere inviati al Sole-24 Ore. Per informazioni, le amministrazioni
possono utilizzare il numero di telefono 06762911 o l'e-mail
«ancirisponde@ancitel.it».
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( da "Sole 24 Ore, Il (Del Lunedi)"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore del
lunedì sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-08-10 - pag: 40 autore: INTERVENTO
Il «controllo preventivo» rischia di bloccare i processi contabili di Aldo
Carosi N ella sua versione definitiva, la manovra d'estate prevede che l'azione
del pubblico ministero contabile si possa esercitare solo di fronte a
«specifica e precisa notizia di danno», e dispone la nullità, reclamabile da
«chiunque vi abbia interesse», di «qualunque atto istruttorio o processuale»
che violi la nuova norma. La ragione dell'intervento sarebbe quella di
assicurare una tutela contro gli straripamenti dell'attività dei Pm,con
l'acquisizione seriale di atti secondo il principio «scava, scava che prima o
poi qualcosa viene fuori». In realtà questa esigenza trova già tutela nell'ordinamento: nella sentenza 29/1995 la Corte costituzionale aveva negato la possibilità di avviare l'azione di danno senza
un preciso rispetto degli «inviolabili» diritti di difesa, tra i quali c'è
l'esistenza di una notizia preesistente all'azione, già astrattamente
configurabile come sospetto di «illecito contabile ». Se proprio si
volevano contrastare in modo più netto situazioni di straripamento dei poteri
istruttori senza attendere il giudizio di merito, si poteva comunque prevedere
una impugnativa entro ristretti termini temporali dall'avviso ma non certo
prescrivere una nullità sconfinata. Le conseguenze di una così sproporzionata
soluzione è l'assoluto indebolimento dell'azione di responsabilità, che rimane
in balia di qualsiasi vizio formale. La locuzione «specifica e concreta notizia
», con la sua accezione generica, è in grado di ingenerare profonde disparità
interpretative sia nei Pm contabili sia nei collegi giudicanti, con
complicazioni processuali di infinito sviluppo e con conseguenti margini di
incertezza sugli esiti dei processi, incompatibili con i principi di
imparzialità, ragionevolezza e trasparenza. La formulazione lascia indefiniti
profili fondamentali del diritto processuale: le forme di impulso dell'azione
rivendicante la nullità, l'eventuale contraddittorio con il Pm, la natura dei
provvedimenti giudiziali, le eventuali preclusioni in relazione ad illeciti
collegati a quelli colpiti da nullità. La formulazione della norma sembra
travalicare principi cardine come l'intangibilità del giudicato, dal momento
che la nullità è rilevabile in qualsiasi momento, in tal mondo lasciando spazio
a strategie difensive opportunistiche. Dal punto di vista della funzionalità
del processo contabile, la norma introduce un previo controllo del giudice sul
pubblico ministero, con creazione di situazioni di incompatibilità per i
giudici che si siano pronunciati sulla validità degli atti istruttori prima
della decisione di merito. Considerati i limitati organici delle sezioni
regionali, anche questo fatto può condurre a stasi e rallentamenti
intollerabili. L'illecito contabile, salvo specifiche ipotesi definite dalla
legge, non è interamente tipizzato ma è incardinato in fatti dannosi
eterogenei. A questa complessità è proporzionale l'entità del danno, per cui
una specificazione in termini di concretezza dello stesso (si pensi alla
materia dei derivati e della finanza creativa, per la quale non di rado i
giudici penali e contabili devono ricorrere a consulenze specialistiche per
chiarire l'essenza stessa del fatto giuridico) può divenire penalizzante
proprio per i comportamenti che più pregiudicano gli interessi della
collettività. Con il risultato che la nuova norma potrebbe indurre un riflusso
della giurisdizione contabile verso fattispecie dannose minimali, per le quali
non sarebbe opportuno conservare una giurisdizione speciale. Discorso a parte
merita la retroattività della norma, che mette in pericolo una serie di
procedimenti in corso su materie delicatissime quali il dissesto della Sanità,
lo sperpero di fondi per investimenti produttivi, la cattiva utilizzazione dei
subprime e così via. Proprio queste fattispecie renderanno probabile un
notevole numero di ricorsi, finalizzati a rallentare o ad impedire lo
svolgimento dei processi. Ma la vicenda parlamentare svela, in realtà, la
episodicità e l'anomalia dei contesti normativi in cui sono emerse negli ultimi
tempi le disposizioni sulla Corte dei conti. Queste norme dovrebbero rispondere
a un disegno organico per assicurare certezza, efficienza, imparzialità
nell'amministrazione della giustizia. è auspicabile, in sede di conversione del
decreto, un ripensamento della norma sulle nullità, per bilanciare meglio gli
interessi del diritto alla difesa con quelli dell'Erario e della collettività,
e circoscrivere il suo grave impatto al solo arco temporale di vigenza. *
Magistrato della Corte dei conti © RIPRODUZIONE RISERVATA IL VINCOLO L'obbligo
di procedere solo con notizie di danno specifiche e precise lascia all'arbitrio
la scelta delle azioni da annullare
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( da "Repubblica.it"
del 10-08-2009)
Argomenti: Giustizia
ROMA - In Italia
esiste almeno una coppia omosessuale legalmente sposata. Non per una scelta
illuminata della politica, ma grazie alla burocrazia. Che si è ingarbugliata e,
scambiando un nome maschile per femminile, ha finito per inserire nei registri
dello stato civile le nozze celebrate a San Francisco tra due uomini. In attesa del verdetto della Corte costituzionale -
chiamata in causa dal Tribunale di Venezia e da quello di Trento che hanno
considerato fondate le ragioni delle coppie omosessuali che chiedono di
accedere all'istituto del matrimonio - dai faldoni dello stato civile italiano
esce una storia surreale, fatta di equivoci e vita vissuta. Una storia
che permette ai suoi protagonisti di dirsi sposati di fronte alla legge in un
Paese in cui non sono riconosciute come tali neanche le coppie di fatto.
Protagonisti un bancario italiano di 36 anni e il suo compagno, consulente
aziendale francese di un anno più giovane. Si conoscono a Francoforte dieci
anni fa e subito decidono di convivere. Sono una coppia solida, affiatata,
vera. Ma sulla carta non esistono. Si trasferiscono a Parigi, acquistano casa,
la ristrutturano, fanno progetti per il futuro. Ricacciano in un angolo, come
un pensiero fastidioso, l'idea che la loro unione per l'amministrazione pubblica
non valga nulla. Poi il viaggio che cambia la vita, una vacanza a lungo
progettata nel West America. E una coincidenza: il loro volo decolla a
settembre, nei giorni in cui la
California accetta di sposare coppie dello stesso sesso e non
residenti. Il referendum che abrogherà questa possibilità non si è ancora
svolto, a San Francisco gli omosessuali esibiscono i documenti e si giurano
fedeltà nella gioia e nel dolore. Alla fine saranno circa 18mila le unioni
celebrate in quella breve stagione di libertà, tra maggio e ottobre 2008.
"Tra queste anche la nostra - spiega il 36enne -. Il mio compagno
inizialmente era titubante, saremmo stati soli, senza famiglia e amici. Io
invece lo desideravo perché volevo sentirmi finalmente una persona 'normale', non
più di serie B. Pensavo inoltre che la domanda di trascrizione in Italia mi
sarebbe stata rifiutata: volevo ricorrere alla Corte europea dei diritti
dell'uomo, combattere una battaglia di civiltà". OAS_RICH('Middle');
Scelgono una cerimonia privata, senza testimoni, un treppiedi con la telecamera
a riprenderli e l'emozione di sentire che l'amore non ha barriere: "Prima
e dopo di noi c'erano coppie eterosessuali, nessuna discriminazione".
Qualche mese più tardi inviteranno amici e famigliari in Francia per una festa
in cui proietteranno il video della cerimonia. "Abbiamo chiesto al giudice
di pace di poterci sposare sotto la cupola del municipio e quando gli abbiamo
spiegato che non ci saremmo scambiati le fedi, perché le avevamo già da anni,
ha replicato che non era importante perché quello che contava era il cerchio
che formavamo e che da adesso in poi ci avrebbe unito". Riconosciuta
l'unione in America e assicurati i diritti in Francia - "Qualche mese dopo
ci siamo pacsati" - restava un'unica cosa: cambiare lo stato civile in
Italia, da celibe a sposato. "Ho seguito la trafila burocratica,
rimandando il certificato di matrimonio a Sacramento affinché le autorità
notarili californiane lo apostillassero (convalidassero). Dopo averli fatti
tradurre da un traduttore giurato, ho raccolto i documenti e li ho spediti al
consolato italiano in California. In America sugli atti di matrimonio non vi
sono indicazioni sul sesso dei contraenti, ma solo i nominativi. Il mio
compagno ha un nome che termina con la 'e', scambiato spesso per femminile. Non
hanno fatto domande, hanno messo tutti i timbri che servivano e hanno inviato
l'incartamento al ministero degli Esteri a Roma, che a sua volta ha convalidato
e trasmesso tutto in Italia al Comune dove risulto come residente all'estero".
L'atto di matrimonio viene trascritto e il trentaseienne non è più celibe:
"Sono sposato, sposato a tutti gli effetti... Peccato solo che mio marito
figuri come moglie". La vecchia idea di trasformare se stesso in un
simbolo per il riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali è ancora
presente: "Ho deciso di rinviare perché ci vuole energia per spendersi in
prima persona, ma prima o poi lo farò: è assurdo che in Europa basti passare il
confine per trovarsi da sposati a celibi". A meno che, una volta tanto,
non sia la burocrazia a venire in aiuto. (10 agosto 2009
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( da "Stampa, La" del
11-08-2009)
Argomenti: Giustizia
DIRITTO PENALE Addio
a Marini professore con Cossiga È morto il professor Giuliano Marini, 74 anni,
ex docente di Diritto penale all'Università di Torino. Era malato da tempo.
Marini è stato allievo prediletto del luminare torinese del diritto Marcello
Gallo, fondatore della «scuola penale» torinese. Aveva iniziato la carriera
universitaria a Sassari, a fianco dall'ex presidente della
Repubblica Francesco Cossiga (docente di Diritto costituzionale)
cui era legato da profonda amicizia. Marini è stato anche pro-rettore
dell'Università tra il 1982 e il 1984 e giudice della sezione della Corte
Costituzionale incaricata di giudicare il presidente della Repubblica in caso
di messa in stato d'accusa.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 11-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: POLITICA E SOCIETA data: 2009-08-11 - pag: 12 autore: Giustizia.
Berlusconi annuncia l'agenda dell'autunno - Il no di opposizione, Csm ed Anm:
si dilatano inutilmente i tempi Priorità al nuovo processo penale Il premier
accelera sulla riforma: limiti ai pm e più autonomia alla polizia giudiziaria
Donatella Stasio ROMA «A settembre porteremo a termine la riforma del processo
penale». Silvio Berlusconi rompe la consolidata tradizione di rilanciare, più o
meno intorno a ferragosto,l'emergenza intercettazioni, con annessa stretta
sugli ascolti e sulle sanzioni per magistrati e giornalisti; stavolta,
nell'indicare le priorità del governo alla ripresa dell'attività, decide di
puntare sul processo penale. Provvedimento «devastante » – per dirla con le
parole del Csm – poiché depotenzia fortemente le indagini, allunga la durata
dei processi, pone le premesse per il controllo del governo sul pubblico
ministero. «Una riforma quasi eversiva », dice Massimo Donadi dell'Idv, secondo
cui l'affermazione del premier è «velleitaria e campata per aria». «Per noi è
il provvedimento più pericoloso, per loro il più vantaggioso- rincara la dose
il senatore del Pd Felice Casson - perché punta a interferire sulle indagini,
indirizzandole. è assolutamente impossibile pensare che venga approvato alla
ripresa dei lavori ». «Una boutade estiva», chiosa Michele Vietti dell'Udc. Il
ddl sul processo penale è ancora alle primissime battute, al Senato. Varato dal
Consiglio dei ministri il 6 febbraio scorso, è dal 10 marzo all'esame della
commissione Giustizia, che ne ha appena avviato la discussione, sospesa a metà
luglio e rinviata a settembre per lasciare spazio al ddl sulle intercettazioni,
poi slittato anch'esso all'autunno. Su entrambi, il Csm ha speso parole
durissime che, nel caso delle intercettazioni, hanno avuto un'eco nella moral
suasion del Presidente della Repubblica dopo il voto della Camera. Sul processo
penale, il parere dell'Organo di autogoverno della magistratura è stato, forse,
persino più duro, quanto a rilievi di incostituzionalità; tanto da far dire al
ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che «l'iter parlamentare è ancora
lungo e ci sarà tempo per ogni riflessione ». Era metà luglio. Ora Berlusconi
preannuncia «il completamento» della riforma entro l'autunno. Casson lo
esclude,non foss'altro perché la precedenza dovrebbe andare alla riforma
dell'ordinamento forense ( il 15 settembre scade il termine per gli
emendamenti) seguita dalle intercettazioni (alla ripresa, dopo le audizioni del
procuratore antimafia e del capo della polizia, ci saranno le repliche e poi
gli emendamenti). Ma maggioranza e opposizione concordano nel ritenere che
sull'iter parlamentare di entrambi i ddl peserà un fattore esterno: la decisione della Corte costituzionale sul
Lodo Alfano - lo scudo per le alte cariche dello Stato - attesa per il 6
ottobre. Grazie al Lodo, il premier è "uscito" momentaneamente dal
processo Mills, in cui è accusato di aver corrotto l'avvocato inglese
condannato nel frattempo a 4 anni e sei mesi per falsa testimonianza («mentì
per salvare Silvio Berlusconi », ha scritto il Tribunale di Milano nella
sentenza di condanna). Se la
Consulta dovesse dichiarare illegittimo il Lodo, il processo
a Berlusconi si rimetterebbe in moto, anche se davanti a un collegio diverso da
quello che ha condannato Mills (presieduto da Nicoletta Gandus, il giudice più
volte ricusato, senza successo, dai legali del premier, perché in passato ha
criticato la politica del centro destra) e con una prospettiva di corto
respiro, poiché la prescrizione maturerà nella primavera del 2010. Impossibile,
entro quella data, arrivare anche a una sentenza di primo grado. Tanto più se
dovesse essere approvato, così com'è, il ddl sul processo penale. Il
provvedimento contiene una serie di norme che, secondo l'opposizione, il Csm e
l'Anm,dilatano i tempi della giu-stizia, aumentando «in maniera ingiustificata
i poteri della difesa ». è, ad esempio, ampliato il potere dell'imputato di far
ammettere le prove a discarico, anche se manifestamente superflue (potranno
essere escluse solo durante l'istruttoria dibattimentale). Inoltre (salvo nei
processi di mafia) le sentenze definitive non potranno più essere acquisite
come prova dei fatti già accertati, per cui nel processo Berlusconi la sentenza
Mills non avrebbe alcun peso, anche se passata in giudicato (entro fine anno
comincerà l'appello). Ancora: il ddl consente all'imputato di ricusare il
giudice anche se ha espresso giudizi nei confronti delle parti fuori
dall'esercizio delle sue funzioni. Queste e numerose altre norme sono finite
nel mirino del Csm, indipendentemente dal fatto di essere o meno "ad
personam", come dice l'opposizione. Ma più di tutte, nel mirino sono
finite le disposizioni che sganciano la polizia giudiziaria dal pm:
quest'ultimo non potrà più acquisire direttamente le notizie di reato, ma avrà
un ruolo «passivo» rispetto alla pg, non più alle sue dipendenze. Il che
significa, secondo il Csm, «eludere » il principio dell'obbligatorietà
dell'azione penale, ridurre il ruolo del pm nelle indagini, rafforzare il
legame polizia giudiziaria- potere esecutivo. E, quindi, aprire la strada al
controllo politico sulle indagini. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La Tia alla scoperta di
sanzioni e ravvedimenti (sezione: Giustizia)
( da "Sole 24 Ore, Il"
del 11-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-08-11 - pag: 25 autore: Tributi locali/2.
Dopo la sentenza della Consulta La «Tia» alla scoperta di sanzioni e
ravvedimenti Luigi Lovecchio Secondo la Corte Costituzionale
(sentenza 238/09), la Tia,
in quanto tassa, non può essere soggetta a Iva, poiché vi sarebbe
incompatibilità tra l'imposta sul valore aggiunto e una prestazione di
carattere tributario (si veda «Il Sole 24 Ore»di ieri).L'affermazione
perentoria si fonda sull'assunto secondo cui una tassa non si qualifica mai
come corrispettivo di un servizio, poiché è dovuta in base a legge e non
in forza di un contratto. Ne discende che, in caso di prelievo tributario,
difetterebbe il presupposto oggettivo dell'Iva (cessione di beni o prestazione
di servizi). Al più, il rapporto tra il servizio e la tassa viene qualificato
da dottrina e giurisprudenza in termini di para commutatività e mai di
corrispettività. Del resto, in caso di applicazione della vecchia Tarsu si è
sempre data per scontata l'esclusione Iva. L'asserzione della Consulta si pone
in contrasto sia con le istruzioni ministeriali, sia, per vero, con una certa
giurisprudenza della stessa Corte di cassazione. Nel recente passato, quando si
è trattato di discutere della natura dei diritti d'imbarco aeroportuali, la Corte ne aveva accertato
inizialmente la qualificazione tributaria, rilevando come tale natura non fosse
di per sé incompatibile con l'Iva. Sotto questo profilo, va detto tuttavia che
l'interpretazione della Consulta appare più convincente. L'esclusione da Iva
comporta un duplice effetto in capo a gestori e utenti. Nei confronti
dell'utente famiglia, che non può detrarre l'imposta, l'aspettativa è quella di
una riduzione del costo. In realtà, non è detto che questo accada nella
totalità dei casi. L'espulsione dalla sfera di applicazione del tributo
determina, infatti,l'impossibilità per il gestore di recuperare l'Iva assolta
sugli acquisti. Si apre inoltre il fronte per il pregresso. I principi della
tutela dell'affidamento edella buona fede escludono senz'altro l'applicazione
di sanzioni nei confronti dei soggetti passivi. Ciò non impedirà però il
moltiplicarsi delle istanze di rimborso da parte delle famiglie. Una soluzione
legislativa sembra, inoltre, di non agevole praticabilità. Si discute, infatti,
dei fondamentali di una imposta retta dalla disciplina comunitaria. Né
ovviamente varrebbe adottare una disposizione interpretativa che sancisca la
natura privatistica della Tia. Come osservato dalla Corte costituzionale,
infatti, la qualificazione di un'entrata discende dalla sua struttura e non dal
nome. La natura tributaria della tariffa rifiuti porta con sé ulteriori
conseguenze. In primo luogo, la stessa sentenza n. 238 ha riconosciuto
pacificamente applicabili le sanzioni tributarie. Tra queste, si segnala la
sanzione per omesso o ritardato pagamento dei tributi, prevista nell'articolo
13 del decreto legislativo 471/97, pari al 30% della somma dovuta. Trovano,
inoltre, ingresso il ravvedimento operoso e l'accertamento con adesione, previa
delibera comunale di recepimento. Non va dimenticato, ancora, che la Tia rientra a questo punto
nell'operatività del " mini testo unico" delle procedure dei tributi
locali, contenuto nei commi 158 e seguenti dell'articolo 1 della legge 296/06.
Questo significa che i controlli devono essere effettuati entro il 31 dicembre
del quinto anno successivo a quello di commissione della violazione. Le
rettifiche devono concretizzarsi in veri e propri avvisi di accertamento da
notificare secondo le regole di legge. E ancora, la riscossione coattiva della
tariffa va effettuata entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello
in cui l'accertamento è divenuto definitivo. La Consulta ha inoltre
avvertito che eventuali lacune legislative nella fase dei controlli vanno
colmate con modifiche nei regolamenti comunali. Gli enti locali dovranno
provvedere al più presto. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Corriere della Sera"
del 11-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Esteri data: 11/08/2009 - pag: 17 Svolta Ritirato il ricorso della
Baviera contro il rafforzamento dei diritti delle coppie gay Germania, arrivano
le unioni omosessuali DAL NOSTRO INVIATO BERLINO L'ultimo ostacolo per la
graduale equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio è crollato
all'improvviso, nel bel mezzo del «Sommerloch», il vuoto estivo di notizie che
come ogni anno lascia la
Germania a crogiolarsi piacevolmente sotto il sole d'agosto.
La notizia ha colto tutti di sorpresa: il governo bavarese, il più cattolico
tra i Länder tedeschi, ha ritirato il ricorso alla Corte costituzionale federale contro il rafforzamento dei diritti delle coppie gay e
lesbiche, stabilito da una legge del 2005. Nessuna spiegazione, nessun
comunicato ufficiale a motivare la marcia indietro: l'anticipazione, comparsa
ieri sulla prima pagina della Süddeutsche Zeitung , è stata poi confermata dal
ministro bavarese della Giustizia, la cristianosociale Beate Merk: il
Land non ha più obiezioni contro la cosiddetta Stiefkind- Adoption , la
possibilità di adottare i figli naturali del partner, anche quando la coppia
sia composta da persone dello stesso sesso. Un passaggio contenuto nella legge
federale, cui il governo di Monaco si era pervicacemente opposto. Ora, con un
atto depositato l'8 luglio (ma emerso solo oggi), il via libera. E chissà se,
come scrive la Süddeutsche
, è una pura coincidenza il fatto che proprio a inizio luglio siano stati resi
noti due studi effettuati dall'Istituto sulla famiglia dell'università di
Bamberg e da quello di Pedagogia infantile, a Monaco concordi nello stabilire
come non vi sia alcuna differenza nello sviluppo dei bambini cresciuti in
coppie tradizionali o nelle Regenbogenfamilien, le «famiglie arcobaleno»: ad
essere fondamentali sono le attenzioni ricevute, non l'orientamento sessuale
dei genitori. La Csu
aveva polemizzato con le due ricerche, ma a quanto pare il loro contenuto ha
colpito nel segno. Anche perché a detta degli esperti del partito e della Fdp,
suo partner di governo il ricorso non aveva possibilità di successo; le manovre
affini tentate dalla Baviera e dalla Sassonia erano già fallite miseramente.
Esulta la Fdp, a
favore di un allargamento dei diritti di gay e lesbiche: «Abbiamo aiutato la Csu a sbarcare nel 21Ú
secolo», dichiara la presidente liberaldemocratica Sabine Leutheusser-
Schnarrenberger. Esultano anche i media di entrambi gli schieramenti: per la Berliner Zeitung,
il principale quotidiano berlinese, di centrosinistra, il governo bavarese «è
finalmente entrato nella società tedesca, che da molto tempo ha fatto pace con
l'omosessualità »; per il liberalconservatore Frankfurter Rundschau , «una
famiglia ha bisogno di bambini e genitori e questi possono esistere anche in
una famiglia arcobaleno ». Da parte sua, la ministra Merk mette le mani avanti:
Stiefkind-Adoption sì, ma nessuna apertura globale sul fronte adozione
extrafamiliare. «Continuerò a difendere il matrimonio e la famiglia contro ogni
graduale equiparazione ». In Germania sono 2.200 i bimbi allevati da «famiglie
arcobaleno», in maggioranza composte da due donne. Gabriela Jacomella ©
RIPRODUZIONE RISERVATA
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( da "Stampa, La" del
12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
IL CREDENTE IL LAICO
Polemica La Chiesa
non vuole scelte etiche decise a maggioranza Le posizioni Chi ci fa la morale? Pensa
seguendo la fede che anche le norme abbiano derivazione divina Come decidere
cosa è bene o male per la società Ubbidisce a un imperativo categorico della
ragione e non accetta ingerenze MATTIA FELTRI ROMA Non è l'opinione pubblica a
scegliere che cosa è morale o immorale», ha detto il cardinale Angelo Bagnasco,
presidente della Conferenza episcopale italiana. Il bene e il male non siano
decisi dalle convinzioni della maggioranza o, come ha già sostenuto
l'arcivescovo emerito di Bologna, Giacomo Biffi, «la verità non si stabilisce
per alzata di mano». E, dunque, la morale non può combaciare con le
consuetudini di una società, nemmeno se - proprio come scriveva ieri sul
Corriere della Sera il filosofo Remo Bodei - «nella sfera sessuale l'uso dei
contraccettivi (...) rende donne e uomini più propensi alle avventure, alle
trasgressioni e all'eros fine a se stesso, in comportamenti fortemente
biasimati dalla morale ereditata e dalle chiese non solo cristiane». Per
combinazione, sempre ieri, ma sulla Repubblica e affrontando il parallelo
offerto da Benedetto XVI fra il nazismo e il nichilismo, Adriano Sofri ha
ricordato che «la Chiesa
cattolica non ha il monopolio della conoscenza (e tanto meno della pratica) del
bene, così come non ne è esclusa. La strada è difficile, per ciascuno. Le fede
religiosa non può essere una compagnia di assicurazione, né pubblica né
privata». L'articolo di Bodei - titolato «La dittatura dei desideri» - sembra
andare incontro alle tesi di Bagnasco, e all'opposto pare dirigersi Sofri. Chi
stabilisce che cosa è morale? La prassi di una comunità oppure il diritto
naturale cui si è richiamato il direttore dell'Osservatore Romano, Gian Maria
Vian? E' morale ciò che la maggioranza considera accettabile o ci sono valori -
per usare un'espressione cara alla dottrina cattolica - non negoziabili? Lo
storico del cristianesimo Alberto Melloni vuole intanto evitare
fraintendimenti: «Il cardinale Bagnasco non sostiene che la morale cattolica
debba essere imposta: è soltanto proposta». La morale, lo dice Melloni, lo
aveva detto martedì Bagnasco, lo ripete Rocco Buttiglione, è «della coscienza».
Il problema, dunque, lo sottolinea Gianni Vattimo: «Se uno è credente ritiene
che la morale abbia una derivazione divina. Se uno è kantiano ubbidisce a un imperativo
categorico della ragione e ritiene di esercitare la morale in proprio, e non
riconosce autorità esterna. Non è facile. Il guaio sorge quando la morale deve
tradursi in legge e lì, è scontato, comanda la maggioranza». La considerazione
è condivisa. Buttiglione però rifiuta decisamente che la maggioranza sia per
forza nel giusto: «Anzi, che abbia spesso torto lo sappiamo dai tempi di
Socrate, condannato da una maggioranza. E gli evangelisti non mettono in dubbio
che fu una maggioranza a salvare Barabba e a mandare a morte Gesù». E allora? E
allora, continua Buttiglione, «bisogna affidarsi a Machiavelli: il popolo fa
sempre la cosa giusta se gli vengono forniti gli strumenti adeguati alla
valutazione». Insomma, l'intervento di Bagnasco sarebbe semplicemente diretto
al popolo credente, ad incitarlo anche se si ritrova in minoranza su buona
parte dei temi bioetici, a non avere paura di essere fuori dal mucchio, come
sovente ha ammonito Joseph Ratzinger. Buttiglione ci sta, e rimarca: «L'idea di
Bagnasco, di tutta la Chiesa,
è l'idea di Platone su cui si basa la cultura occidentale: la democrazia non
produce la verità ma produce delle leggi e sono leggi che hanno sempre la
possibilità di appello. Se oggi esistono leggi contrarie alle leggi della
Chiesa, significa che ci siamo spiegati male, e che dobbiamo chiederci dove
abbiamo sbagliato per porvi rimedio». Per esempio, dice, un giorno o l'altro -
fra un anno, fra un secolo - la morale cattolica e la legge coincideranno, e
l'aborto sarà unanimemente rifiutato. «Purché - obietta l'ex presidente della Corte costituzionale,
Giovanni Maria Flick - si obbedisca al concetto di legge permissiva che ho
imparato da un cattolico adulto come Leopoldo Elia». Flick, che si definisce un
cattolico vecchio, un giuspositivista costituzionale, si
richiama a Elia perché «ha ragione Bagnasco: se è l'opinione pubblica a
stabilire la morale si va incontro alla dittatura della maggioranza. Ma
i valori non possono essere imposti: se c'è una minoranza che vuole usare il
preservativo o ricorrere all'aborto, deve avere la libertà di farlo». E quindi,
un cattolico non può praticare l'aborto ma nemmeno può impedirne la pratica ad
altri, purché vengano rispettati i valori costituzionali: «Ecco perché la
morale e la legge non confliggono. Io ho due vangeli, quello rivelato e quello
laico, che è la
Costituzione. Anche la Costituzione ha
valori non negoziabili, e sono valori spesso coincidenti con quelli propugnati
dal Vangelo. Quando il Papa andò in Parlamento a invocare un atto di clemenza
per i carcerati, non faceva altro che ripetere l'articolo 27 della Carta,
secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di
umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Eppure Vattimo
conserva un dubbio: «Quando la
Chiesa dice che la maggioranza non esprime la morale dice
un'ovvietà, ma mi rimane il sospetto che nell'affermare così fortemente la sua
morale, la sua morale di minoranza, cerchi il modo di farla valere per tutti.
Oggi Ratzinger e i suoi dicono di interpretare il vero senso della sessualità,
ma della sessualità hanno sempre fatto carne di porco. E l'espressione mi
sembra calzante». E' un punto di vista rifiutato da Melloni per il quale, fra
l'altro, l'appello di Bagnasco era rivolto non tanto alle questioni sessuali e
bioetiche («su cui il Vaticano si è pronunciato diffusamente e fortemente»),
quando alle politiche della sicurezza, al diffondersi delle ronde, «alle quali
si affida l'educazione dei diciottenni, cresciuti secondo precetti di odio e
paura». E' insomma una Chiesa, dice Melloni, che non si arrende allo spirito
dei tempi, e vuole partecipare alla costruzione della città, della civitas. Lo
fa attraverso i suoi valori irrinunciabili così come Flick («almeno finché
l'Italia è repubblicana») non rinuncia al valore irrinunciabile e costituzionale della laicità. «E la democrazia vive», e vive
la laicità, «finché alle minoranze resta il diritto di non sentirsi nel torto»,
chiosa Buttiglione.
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( da "Repubblica, La"
del 12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina IV - Firenze Quadrifoglio rischia pioggia di ricorsi La Corte Costituzionale
cancella l´Iva dalla tariffa rifiuti Riunione per capire come far fronte ad un
esborso che potrebbe arrivare a 10 milioni MICHELE BOCCI La Corte Costituzionale
toglie l´Iva dalla tariffa sui rifiuti, la Tia, e al Quadrifoglio temono una pioggia di
ricorsi. C´è il rischio di dover rendere il 10% di ciascuna bolletta
incassata dal 2005 ad oggi. Ieri all´azienda controllata dal Comune hanno fatto
una riunione per chiarire i contorni del problema, ipotizzando di dover
restituire a cittadini ed imprese anche 8-10 milioni di euro: sarebbe un colpo
durissimo ai bilanci. Quei soldi sono stati riscossi e subito girati allo
Stato, visto che l´Iva è un´imposta, e dunque non sono praticamente mai stati
nelle casse del Quadrifoglio. La sentenza di un paio di settimane fa della
Corte Costituzionale chiude una lunga battaglia giudiziaria sulla Tia,
affermando che si tratta di una tassa e dunque non può essere tassata. Sulla
tariffa di igiene ambientale si era espressa anche la Cassazione con una
sentenza che la considerava ugualmente un tributo e l´agenzia delle Entrate,
che ha risposto con una risoluzione per riaffermare la sua natura di
prestazione di servizi su cui si doveva quindi pagare l´Iva. Per il futuro la
decisione della Corte Costituzionale non dovrebbe portare benefici alle tasche
dei cittadini perché se Quadrifoglio non incasserà più l´Iva non potrà più
detrarla sugli acquisti. Ne verrà fuori un aumento dei costi aziendali che
inevitabilmente andrà ad incidere sulle tariffe, cioè sulle bollette dei
cittadini. Secondo qualcuno queste potrebbero addirittura diventare più elevate
di quando comprendevano l´Iva. «Noi comunque aspettiamo un intervento normativo
che accolga la sentenza della Corte Costituzionale. Fino ad allora non potremo
certo emettere fatture senza Iva, sarebbe un inadempimento nei confronti
dell´erario», dice Livio Giannotti, amministratore delegato di Quadrifoglio. I
crucci più seri ai dirigenti dell´azienda del Comune vengono gettando lo
sguardo al passato. Teoricamente cittadini ed imprese potrebbero avviare una
serie di ricorsi per avere indietro i soldi dati in questi anni come Iva. «Noi
non possiamo restituirla perché l´abbiamo già versata alle casse dello Stato»,
dice sempre Giannotti. Ma i ricorsi potranno essere fatti proprio contro il
gestore del servizio rifiuti, che successivamente dovrà chiedere il rimborso
all´erario. Una procedura i cui tempi potrebbero essere piuttosto lunghi, con
evidenti danni per le casse del Quadrifoglio, che si troverebbe ad anticipare
somme ingenti. Un problema ancora più complesso riguarda chi ha un´attività di
imprese o di lavoro autonomo, che si troverebbe a dover restituire all´erario
la detrazione ottenuta sulla Tia, che non spetta visto che l´Iva non era
dovuta.
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: ECONOMIA E IMPRESE data: 2009-08-12 - pag: 19 autore: La storia. Kalos
già coinvolta in passato per le pulizie Quel contratto nuovo a metà MILANO
Treni più puliti cercansi. Le nuove aziende che stanno sostituendo le vecchie
nei servizi di pulizia delle carrozze – la Pietro Mazzoni
Ambiente e il gruppo Di Stasio – potrebbero non essere tanto nuove. E non solo
perché, come rivelato dal Sole 24 Ore lo scorso 31 luglio, nelle fasi di
pre-aggiudicazione degli ultimi 35 lotti in ben 18 casi le "vecchie"
erano ancora in pole position nella classifica del bando («Ma si tratta di
un'ammissione con riserva », puntualizza Trenitalia), quanto perché le
"nuove" in alcuni casi già comparivano come subappalti delle società
che oggi si vogliono sostituire. I fatti: il 7 agosto l'amministratore delegato
delle Ferrovie, Mauro Moretti, dichiarava al Tg1 : «Le Fs hanno contestato alle
ditte il lavoro svolto non correttamente e gli hanno intimato di pulire i treni
(...), ma c'è una novità (...) abbiamo fatto subentrare l'impresa Kalos e
assunto i lavoratori di San Lorenzo». Ed è appunto la cooperativa Kalos la
nuova impresa subentrata temporaneamente alla Ceias e alla Saes, oggi in stato
di fallimento, ambedue controllate del gruppo Di Stasio e attualmente sotto
l'amministrazione giudiziale dell'avvocato Romano Vaccarella, ex giudice della Corte Costituzionale e già legale del premier
Silvio Berlusconi in diversi processi civili. Ma qual è la carta d'identità
della Kalos? Si tratta di una cooperativa di Milano che ha chiuso il bilancio
2007 con un valore della produzione di soli 50mila euro, divenuti 7,1 milioni
l'anno successivo. Cosa è successo nel frattempo? Alla Kalos Trenitalia
starebbe progressivamente rigirando, come dichiarato dallo stesso Moretti,
parte delle commesse prima in capo alle controllate del gruppo Di Stasio. Dal
subappalto all'appalto. Nel marzo scorso le Fs hanno rescisso con la Saes il contratto riferito al
lotto 13 Calabria, del valore di 7,5 milioni di euro, affidandolo proprio alla
Kalos, che a sua volta lo avrebbe girato a un'altra cooperativa, la consorziata
New Labor, sempre di Milano. In aprile, invece, alla Ceias sarebbe stato
rescisso un contratto riferito al lotto 14 Friuli Venezia Giulia, questa volta
da 5 milioni di euro e trasferito alla Carma Srl, con sede sociale ancora nel
capoluogo lombardo. Eppure, secondo quanto risulta al Sole 24 Ore, i rapporti
tra le Ferrovie e il gruppo Kalos sarebbero antecedenti ai più recenti cambi.
Addirittura alla Kalos le stesse Ceias e Saes avrebbero subappaltato negli
scorsi mesi parte del proprio lavoro, come dimostrano i pagamenti effettuati
alla fine di luglio proprio da Ceias e Saes all'indirizzo della Kalos
(rispettivamente 175mila e 185mila euro). Questa la replica delle Ferrovie:
«Con la Kalos
abbiamo stipulato dei contratti "tampone", cioè provvisori, per
garantire l'attività di pulizia dei treni, in attesa della conclusione della
procedura di fronte al Consiglio di stato. I contratti con le controllate del
gruppo Di Stasio sono stati rescissi perché non venivano più fornite le
informazione rispetto alla tracciabilità del pagamento dei lavoratori». D.Le.
daniele.lepido@ilsole24ore.com © RIPRODUZIONE RISERVATA LA SCELTA Le Ferrovie: «Con
la coop milanese solo contratti tampone in attesa della conclusione della
procedura davanti al Consiglio di stato»
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore
sezione: NORME E TRIBUTI data: 2009-08-12 - pag: 23 autore: Le Entrate spiegano
il favor rei per la maxi-multa sull'attività in nero L'Agenzia alleggerisce le
sanzioni Giuseppe Maccarone Quando una disposizione sanzionatoria viene
cambiata, la stessa violazione, a seconda del periodo in cui è commessa, può
essere punita con sanzioni di diverso peso. Sulla base del principio del favor
rei, si può applicare quella meno pesante. A tal fine, si devono mettere a
confronto le norme (quella attualmente in vigore con quella vigente all'epoca
della violazione) comminando, anche d'ufficio, la sanzione che, effettivamente,
risulta più favorevole al trasgressore. Non è possibile applicare una
combinazione di disposizioni più favorevoli delle diverse leggi, in quanto se
ne creerebbe una ulteriore, inammissibile (Cassazione 1994/05). Restano esclusi
i provvedimenti di irrogazione diventati definitivi. Con la risoluzione
211/E/09 l'agenzia delle Entrate torna a parlare di favor rei.L'oggetto è la
maxi sanzione per il lavoro nero (comma 3, articolo 3 del Dl 12/02). Ora la
maxi sanzione è di competenza della direzione provinciale del Lavoro, ma resta
competenza dell'Agenzia per le violazioni con-statate sino all'11 agosto 2006.
Nel testo in vigore fino all'11 agosto 2006 la maxi sanzione andava da un
minimo del 200% a un massimo del 400% del costo del lavoro di ogni lavoratore
in nero, per il periodo compreso dall'inizio dell'anno e sino alla data di
constatazione dell'illecito. In seguito la quantificazione della sanzione è
cambiata ma va anche rilevato che la norma originaria venne
ritenuta incostituzionale (sentenza Corte costituzionale 144/05) nella parte
in cui non ammetteva la possibilità per il datore di lavoro di dimostrare che
il rapporto irregolare era iniziato dopo il 1Ú gennaio. Oggi la sanzione varia
da 1.500 a
12mila euro per ogni lavoratore, maggiorata di 150 euro per ciascuna giornata
di lavoro effettivo. Nella prima parte della risoluzione l'Agenzia
affronta la problematica collegata alla commisurazione della sanzione in base
al testo previgente. Per effetto della pronuncia della Consulta, il meccanismo
presuntivo in funzione del quale il periodo di
applicazio-nedellasanzioneerasempreindi-viduabile al 1Ú gennaio dell'anno di
constatazione della violazione, è superato. Se il datore di lavoro è in grado
di produrre prove che attestino che il rapporto ha avuto inizio in data
diversa, il minor periodo deve costituire il parametro della sanzione.
Rispetto, invece, alla sanzione vigente, commisurata al periodo di lavoro nero
(150 euro per ogni giornata di lavoro effettivo), l'Agenzia afferma che per quantificarla
si devono valutare le prove; in mancanza e laddove un supplemento di indagini
non sia proficuo, la sanzione va applicata alla sola giornata di lavoro
constatata al momento dell'ispezione. Se la sanzione è stata comminata ma il
relativo provvedimento non è de-finitivo, la stessa deve essere ridotta,
prevedendo anche il rimborso di quanto pagato in più. © RIPRODUZIONE RISERVATA
IL CHIARIMENTO La penalità aggiuntiva di 150 euro va comminata solo se è
possibile provare l'impiego effettivo nel sommerso
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( da "Sole 24 Ore, Il"
del 12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Il Sole-24 Ore sezione:
NORME E TRIBUTI GIUSTIZIA data: 2009-08-12 - pag: 29 autore: Scuola. Sentenza
del Tar Lazio Negli scrutini nessun vantaggio dalla religione ROMA I docenti di
religione cattolica non possono partecipare «a pieno titolo» agli scrutini ed
il loro insegnamento non può avere effetti sulla determinazione del credito
scolastico: a stabilirlo è il Tar del Lazio, che, con la sentenza n. 7076, ha accolto i ricorsi
presentati, a partire dal 2007, da alcuni studenti, supportati da diverse
associazioni laiche e confessioni religiose non cattoliche, che chiedevano
l'annullamento delle ordinanze ministeriali firmate dall'ex ministro Giuseppe
Fioroni e adottate durante gli esami di Stato del 2007 e 2008. La bocciatura
delle ordinanze è stata spiegata dal Tar attraverso motivazioni che si
soffermano su concetti di principio: «in una società democratica –affermano i
giudici – certamente può essere considerata una violazione del principio del
pluralismo il collegamento dell'insegnamento della religione con consistenti vantaggi
sul piano del profitto scolastico e quindi con un'implicita promessa di
vantaggi didattici, professionali ed in definitiva materiali». Ne deriva che
l'inclusione della religione nella "rosa" delle materie oggetto dei
giudizi sugli allieviè ritenuta illegittima: secondo il Tar questa
interpretazione, data dal ministero dell'Istruzione, «appare aver generato una
violazione dei diritti di libertà religiosa e della libera espressione del
pensiero; nonché di libera determinazione degli studenti relativamente
all'insegnamento della religione cattolica». Nella sentenza, i giudici
ricordano anche il principio della laicità dello Stato, enunciato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 203/89), ritenuto garanzia dello
Stato per la salvaguardia della libertà religiosa, in regime di pluralismo
confessionale e culturale: «sul piano giuridico, un insegnamento di carattere
etico e religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può
assolutamente – sottolinea il Tar – essere oggetto di una valutazione sul piano
del profitto scolastico». Partendo da questo concetto di fondo lo stesso metro
va adottato per i crediti formativi utilizzati dai commissari della maturità,
derivanti da esperienze extra- curricolari svolte nell'ultimo triennio delle
superiori e che hanno incidenza diretta nella formazione del punteggio finale (
fino a 25 punti). Per i giudici del tribunale del Lazio «l'attribuzione di un
credito formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei
loro genitori, quale quella di avvalersi dell'insegnamento della religione
cattolica nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di
discriminazione, dato che lo Stato italiano non assicura identicamente la
possibilità per tutti i cittadini di conseguire un credito formativo nelle
proprie confessioni ovvero per chi dichiara di non professare alcuna religione
in Etica morale pubblica». La sentenza ha precisato poi che «lo Stato, dopo
aver sancito il postulato costituzionale
dell'assoluta, inviolabile libertà di coscienza nelle questioni religiose, di
professione e di pratica di qualsiasi culto noto, non può conferire ad una
determinata confessione una posizione dominante». N. T. © RIPRODUZIONE
RISERVATA I PRINCIPI Per i giudici amministrativi il profitto deve essere
«neutrale» rispetto alla confessione professata
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( da "Manifesto, Il"
del 12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
SCUOLA Accolti i ricorsi
di alcune associazioni contro l'ordinanza Fioroni Religione via dagli scrutini
Il Tar del Lazio: non vale per i crediti formativi alla maturità Stefano Milani
ROMA ROMA Non c'è più religione, verrebbe da dire con una battutaccia. Ma in
realtà è esattamente quello che ha deciso il Tar del Lazio che di fatto ha
bloccato i docenti di religione cattolica a partecipare «a pieno titolo» agli
scrutini e decidendo che il loro insegnamento non può avere effetti sulla
determinazione del credito scolastico finale. Tanto basta perché oggi la scuola
italiana possa definirsi po' più laica. E visto i tempi che corrono anche
avanzare di un centimetro è come vincere una maratona. La questione è annosa,
risale ai tempi in cui a sedere sulla poltrona più alta di viale Trastevere era
il ministro Fioroni, che emanò alcune ordinanze ministeriali - avallate anche
dall'attuale ministro Gelmini - per gli esami di Stato del 2007 e 2008 che
prevedevano la valutazione della frequenza dell'insegnamento della religione
cattolica ai fini della determinazione del credito scolastico, e la
partecipazione «a pieno titolo» agli scrutini da parte degli insegnanti della
materia. Ci ha pensato ora una sentenza del Tar (n. 7076 del 17 luglio 2009) a
riazzerare tutto, accogliendo due ricorsi presentati da alcuni studenti e
studentesse insieme a numerose associazioni laiche e confessioni religiose non
cattoliche. Secondo il giudice amministrativo «l'attribuzione di un credito
formativo ad una scelta di carattere religioso degli studenti e dei loro
genitori, quale quella di avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica
nelle scuole pubbliche, dà luogo ad una precisa forma di discriminazione, dato
che lo Stato Italiano non assicura identicamente la possibilità per tutti i
cittadini di conseguire un credito formativo nelle proprie confessioni ovvero
per chi dichiara di non professare alcuna religione in Etica Morale Pubblica».
A peggiorare la situazione sono intervenuti poi i recenti tagli al personale
docente inferti del ministro «unico» Mariastella Gelmini, che hanno eliminato
anche la più remota speranza di poter istituire corsi alternativi per carenza
di insegnanti. Oltre al merito della questione, la sentenza del Tar è
importante soprattutto perché dà una concreta applicazione al principio supremo
della laicità dello Stato enunciato dalla Corte
Costituzionale (n.203/1989) come «garanzia dello Stato per la salvaguardia
della libertà religiosa, in regime di pluralismo confessionale e culturale»,
precisando che «sul piano giuridico, un insegnamento di carattere etico e
religioso, strettamente attinente alla fede individuale, non può assolutamente
essere oggetto di una valutazione sul piano del profitto scolastico». La
scelta di avvalersi o meno dell'insegnamento della religione cattolica deve
essere perciò assolutamente libera e in nessun modo condizionata. La notizia fa
felice tutte quelle associazioni coordinate dalla Consulta romana per la Laicità delle istituzioni
e dall'associazione «per la
Scuola della Repubblica» che da anni portano avanti questa
«battaglia di civiltà» e che giudicano la sentenza «illuminante». Ad esse il
Tar ha riconosciuto la richiesta di salvaguardia dei valori di carattere
morale, spirituale e/o confessionale che «sono tutelati - secondo i giudici
amministrativi del Lazio - direttamente dalla Costituzione e che quindi come
tali non possono restare estranei all'alveo della tutela del giudice
amministrativo». Antonia Sani, tra le prime firmatarie del ricorso, non si
accontenta e fa sapere che le associazioni e le confessioni delle altre
religioni continueranno ad operare «per garantire il rispetto di tali limiti»,
auspicando che il ministero dell'Istruzione ora «prenda atto dell'illegittimità
delle ordinanze e non le riproponga negli anni a venire». Consapevole che «la strada
è ancora lunga» lancia già la prossima sfida: collocare l'ora di religione
cattolica fuori dall'orario obbligatorio. Ovvero buttare giù quel concordato
che dura da più di vent'anni. Era il 16 dicembre 1985 quando veniva emanato il
Dpr 751, la storica intesa Falcucci-Poletti attuativa del nuovo regime
concordatario per l'insegnamento della religione cattolica (Irc) nelle scuole
statali e degli Enti locali. E se una battaglia tira l'altra, sul piatto
rimangono poi tutti quei privilegi esclusivi a chi insegna nella scuola
pubblica il verbo di Gesù. Rimane, ad esempio, l'anomalia tutta italiana voluta
nel 2003 dall'allora ministro Letizia Moratti che mise a busta paga dello Stato
tutti gli insegnanti di religione, che sono scelti e nominati dalla Curia. E che
se poi il Vescovato non rinnova l'incarico annuale a uno di loro, questi può
accedere alle graduatorie per l'insegnamento di altre discipline, magari
superando in punteggio colleghi entrati in ruolo per regolare concorso e non
per nomina vescovile. Non proprio una prova di carità cristiana. MILA Sono
tanti gli studenti disabili maltrattati a scuola negli Stati uniti ogni anno. A
rivelarlo è una ricerca condotta dalla American Civil Liberties Union e da
Human Rights Watch
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( da "Corriere della Sera"
del 12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Corriere della Sera
sezione: Primo Piano data: 12/08/2009 - pag: 8 Il rettore Dalla Torre della
Lumsa «La Cei
farà ricorso i giudici sbagliano» ROMA Ci sarà in tempi brevi un ricorso al
Consiglio di Stato da parte della Conferenza della Cei contro la sentenza del
Tar del Lazio. Ne è certo il prof. Giuseppe Dalla Torre, magnifico rettore
della Libera Università SSma Maria Assunta (Lumsa), consultore della
congregazione vaticana per l'educazione cattolica e docente di rapporti fra
Chiesa cattolica e comunità politica nelle università ecclesiastiche. «Posso
dire, in attesa di leggere il testo della sentenza ci ha detto che in base alle
disposizioni vigenti, alle norme del Concordato e alle intese fra la Conferenza episcopale e
il ministero della Pubblica istruzione, l'insegnamento della religione
cattolica è un insegnamento curriculare per chi lo sceglie. Quindi è evidente che
chi non lo sceglie ha il diritto di non essere oggetto di giudizio da parte di
un insegnante che non ha scelto. Viceversa, chi lo ha scelto ha non solo il
dovere di seguirlo ma ha anche il diritto di essere giudicato e di aspettarsi
un giudizio finale. Quindi mi pare che non sia condivisibile questa
interpretazione che dà il Tar». Dalla Torre sottolinea che «la libertà
religiosa è un diritto che viene garantito nel momento in cui a ciascuno è
offerta la possibilità se volere o non volere l'insegnamento della religione
cattolica. Uno si può dolere se viene giudicato da un docente per un
insegnamento che non ha voluto. Ma non si può dolere se altri hanno scelto
questo insegnamento che per loro è divenuto curricolare. Pensi a quello che è
lo statuto per le materie facoltative. C'è una differenza fra queste e le
materie obbligatorie ». E quindi il magnifico rettore della Lumsa è convinto
che ci sia da «attendersi un appello al Consiglio di Stato, tanto più che su
questo punto c'è una giurisprudenza molto abbondante, soprattutto degli Anni 80
e 90, comprese delle sentenze della Corte costituzionale. Mi sembra quindi assai difficile che questa sentenza del Tar
del Lazio possa trovare accoglienza da parte del Consiglio di Stato». A causa
della pausa di agosto la commissione della Cei per l'educazione cattolica, la
scuola e l'università verrà convocata dal suo presidente, il vescovo di Como
Diego Coletti, soltanto dopo Ferragosto. Nessuno dei vescovi della
commissione ha voluto pronunciarsi prima di allora. Bruno Bartoloni ©
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( da "Sestopotere.com"
del 12-08-2009)
Argomenti: Giustizia
I nuovi 7 Comuni
dell' Alta Valmarecchia nella provincia di Rimini, commento Lorenzo Valenti
(12/8/2009 14:15) | (Sesto Potere) - Novafeltria - 12 agosto 2009 - Il
Presidente della Comunità Montana Alta Valmarecchia, Lorenzo Valenti , esprime
grande soddisfazione per il recente voto definitivo di approvazione del Senato
della legge di aggregazione dell’alta valmarecchia alla Regione Emilia
Romagna e alla Provincia di Rimini. "E’ stata una affermazione della
democrazia e una vittoria dei cittadini. Ritengo anche che si tratti di un
fatto storico e di una svolta epocale per la nostra valle, della quale beneficeranno soprattutto
le nuove generazioni. Come amministratori locali ci siamo già attivati per
affrontare adeguatamente il passaggio": spiega Lorenzo Valenti. In
collaborazione con la
Regione Emilia Romagna, si è già avviato un notevole lavoro
di approfondimento delle tematiche della aggregazione affrontando tutti gli
aspetti ed i problemi che potranno esservi, sia per le amministrazioni che per
i semplici cittadini. La
Regione E.R. ha attivato i propri uffici legali ed una
società esterna (Ervet) per preparare documenti ed elaborati. Sono state
coinvolte le amministrazioni comunali e provinciali nel lavoro di
approfondimento, cosi come il comitato del Sì. Il 3 agosto in Provincia di
Rimini s'è svolto l'incontro con il coinvolgimento anche della Provincia di
Pesaro. "Per quanto riguarda il processo di aggregazione, prendiamo
altresì favorevolmente atto che il Governo ha già preso impegni precisi per
procedere alla immediata nomina del Commissario e a dare senza indugio le
opportune istruzioni affinché i due termini (rispettivamente un anno - per
l'Amministrazione periferica dello Stato e per gli enti locali - e centottanta
giorni - per i collegi elettorali) vengano assolutamente rispettati. Il governo
poi si impegna a dare costanti e opportune informazioni ai cittadini affinché
il passaggio delle competenze determini il minor disagio possibile e a
monitorare, attraverso i Prefetti delle Province interessate, la progressiva
compiuta applicazione della legge": afferma ancora il Presidente della
Comunità Montana Alta Valmarecchia. Come è ovvio, con il passaggio in Emilia
Romagna e nella Provincia di Rimini cambiano completamente gli scenari
amministrativi locali. "Personalmente - aggiunge - ritengo che una delle
prime richieste da avanzare a Bologna sia quella del mantenimento della nostra
Comunità Montana nel quadro delle norme della Regione Emilia Romagna. Infatti
le nove Cm emiliane romagnole riconosciute dalla loro legge hanno molti compiti
e buoni finanziamenti per attività tipiche della vera montagna come per l’agricoltura.
E’ chiaro che la Regione
dovrebbe fare una legge ad hoc per noi, ma questo va anche nel senso del
referendum svolto sotto lo slogan Unavalmarecchia, come recentemente ha
ricordato il portavoce del Comitato del si Settimio Bernardi. Inoltre, personalmente, mi
aspetto la trasformazione del Parco regionale Simone Simoncello in parco
interregionale fra Marche e Emilia Romagna, magari con il coinvolgimento anche
della Toscana in un quadro di valorizzazione di una montagna dell’Appennino
senza confini". Ultima nota positiva, continua Lorenzo Valenti, infine, è
che il Presidente della Regione Marche Spacca ha annunciato alla stampa di
rinunciare alla presentazione del ricorso contro la legge teste approvata presso la Corte Costituzionale.
E’ un opportuno segno di distensione verso la nostra vallata che
interpretiamo nel segno di una auspicabile collaborazione interregionale nel
delicato momento del passaggio di regione: conclude il Presidente della
Comunità Montana Alta
Valmarecchia.
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( da "Stampa, La" del
13-08-2009)
Argomenti: Giustizia
COURMAYEUR.CONSIGLIO
COMUNALE Cittadinanze onorarie eccellenti [FIRMA]CRISTIAN PELLISSIER COURMAYEUR
Da martedì 18 agosto Courmayeur avrà 5 cittadini illustri in più. Ieri il
Consiglio comunale ha deliberato il riconoscimento della cittadinanza onoraria
a personalità che hanno saputo instaurare negli anni un forte legame con il
paese. La cerimonia si svolgerà alle 16,30 di martedì, al Jardin de l'Ange.
Saranno insigniti della cittadinanza onoraria: Franco Bassanini (più volte
ministro) «per il suo incessante impegno nel campo delle riforme istituzionali
e amministrative al servizio delle democrazie moderne»; Francesco Saverio
Borrelli (ex magistrato del pool di Mani pulite) «alto testimone di un invito
alla rinascita di un impegno civico diffuso»; Giuseppe De Rita (sociologo, tra
i fondatori del Censis) «per l'alto contributo di studio e ricerca in settori
vitali della realtà sociale, e per l'esemplare spirito di "civil
servant" testimoniato dal suo impegno, come segretario generale del Censis
e per aver contribuito alla nascita e alla crescita della Fondazione
Courmayeur»; Giovanni Maria Flick (ex presidente della Corte
Costituzionale) «per l'impegno civico che ha dimostrato lungo tutta la sua
carriera che lo ha portato sino a ricoprire la carica di presidente della Corte
Costituzionale, e per il suo impegno nella Fondazione Courmayeur» e a Piero
Savoretti (fondatore delle Funivie Val Veny) «per le grandi capacità
imprenditoriali che ne hanno fatto uno dei più riconosciuti esponenti del
tessuto economico nazionale». Il sindaco Fabrizia Derriard ha
specificato che queste persone hanno un forte legame con Courmayeur: «Tra di
loro c'è chi frequenta le nostre montagne da più di 30 anni». Il Consiglio ha
votato a favore, a esclusione di Albert Tamietto e Raffaella Roveyaz,
dell'opposizione. Entrambi hanno riconosciuto il grandissimo valore delle
persone scelte, ma hanno criticato il metodo con il quale si è arrivati a
sceglierle: «Credo che prima di scegliere le persone ci volesse una
consultazione tra di noi», ha detto Tamietto. Vittorio Alliod, consigliere di
minoranza, ha votato a favore: «Mi riconosco nei valori incarnati dai
candidati». A prima vista sembrerebbe che il Comune di Courmayeur, che con i
Circoli di Michela Vittoria Brambilla ha in qualche modo anticipato l'accordo
Uv-Pdl, abbia «girato» a sinistra. Alcune delle personalità selezionate
appartengono al mondo del centro-sinistra. Ma, come ha specificato Derriard,
«non si valutano le persone per il loro colore politico, ma per quello che
fanno». Il Consiglio ha anche approvato il conto consuntivo 2008. L'avanzo è di 62.628
euro, le spese correnti 8 milioni e 800 mila euro. Chi si aspettava domande
della minoranza sul documento finanziario è stato deluso, la preoccupazione
principale è parsa essere la segnaletica dei sentieri. Alliod ha però spiegato
il motivo del silenzio e dell'astensione: «Non è il massimo fare un Consiglio
pochi giorni prima di Ferragosto, quando chi lavora nel turismo è oberato di
lavoro. Leggere tutto il malloppo del bilancio diventa veramente difficile».
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( da "Unita, L'" del
13-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Stai consultando
l'edizione del FRANCESCA ORTALLI Le polemiche, i sospetti. Le intercettazioni e
le testimonianze delle show girl coinvolte nel Bari-gate. Ma al «Billionaire»
anche quest'anno è tutto pronto per il Ferragosto. Tappeti orientali e cuscini
sparsi per terra. Pouf e divani in ferro battuto protetti da tende bianche per
riparare da occhi indiscreti, con lanterne africane e bassi tavolini in legno
all'insegna dell'etno chic. Il tutto circondato da enormi colonne con in cima
zampilli d'acqua protetti dal plexiglass e, ai piani alti delle sale private,
statue orientali negli angoli come custodi dei graditi ospiti. È sempre qui,
nella creatura esclusiva del manager Flavio Briatore, il centro di gravità
permanente delle notti in Costa Smeralda. In questa villa a tre piani che si
affaccia sul golfo del Pevero sono passati tutti. Dai vip, accolti gratis con
accesso alla sala riservata un po' più in alto sulla destra, a quelli che
invece non li conosce nessuno ma sono disposti a pagare 50 euro per vedere da
vicino qualche velina con calciatore annesso che si dimenano sulla pista della
discoteca. Al terzo piano, salendo una scala in cotto si spalancano le porte
del ristorante, allestito in una terrazza coperta con tetti in paglia e curato
da Cipriani, il manager del famosissimo Harry's Bar. Per accontentare tutti i
palati è stato predisposto anche il sushi corner, con il guru della cucina
giapponese Miki Nosawa. Per le serate del 14 e 15 qui si può cenare alla modica
cifra di 500 euro ogni quattro persone con bottiglia di champagne base (le
successive naturalmente a pagamento) mentre per l'accesso al privè non bastano
due stipendi, visto che si tocca il picco dei 2500. Non è roba per tutti. E' un
club esclusivo così come il giro smeraldino del rampante Tarantini,
intercettato da queste parti la scorsa estate con la sua corte
svolazzante. E quando entrava lui, rigorosamente nell'inaccessibile privè sulla
destra, veniva circondato da un capannello di gente nota e meno nota. Ma
qualcosa è cambiato dalla scorsa estate: effetto del fotografo ficcanaso
Zappaddu, si è detto, ma anche lo tsunami dell'inchiesta di Bari, che con le
sue onde anomale ha sconvolto quest'angolo di Sardegna. Per la verità, i veri
aristocratici del luogo, quelli che già c'erano ai tempi dell'Aga Khan, sono un
poco infastiditi da tutte queste stelline e stellette. Troppi eccessi, così
come i barconi ormeggiati al largo che fanno «cafone», racconta una nostalgica
contessa dal sangue blu, per non parlare poi del «fracasso» del via vai di
macchinoni che scuote a tutte le ore i ginepri dell'eremo del Romazzino, la
zona più chic di Porto Cervo. Sarà per questo che da alcuni anni il consorzio
Costa Smeralda ha preferito la strada della cultura, organizzando mostre,
reading con scrittori di grido e quant'altro, con l'intento di riportare la
sobrietà e lo stile di un tempo. Resta il fatto la Costa Smeralda è
dominio assoluto di Flavio Briatore, gran visir del turismo di lusso. Ancora si
ricorda la violenta campagna organizzata dal manager Renault all'indomani della
tassa sul lusso voluta dalla giunta Soru: paginoni interi acquistati sui
quotidiani locali al grido di «essere ricchi non è un reato». La misura fu poi bocciata in alcune sue parti dalla Corte
Costituzionale e poi, per essere proprio sicuri, abolita completamente dal neo
governatore Cappellacci ad una settimana dal suo insediamento. Che Briatore sia
ben visto dagli amministratori del centro destra non è un mistero: lo conferma
la concessione per cinque anni firmata dall'ex sindaco di Arzachena Pasquale
Ragnedda (Fi) a cinque giorni dalle elezioni comunali del 2008. Che
regala in pratica l'uso della pineta alle spalle della spiaggia di Capriccioli
(quella dell'hotel Cala di Volpe) al «Rubacuori», ultimo sogno estivo per vip
dell'imprenditore di Cuneo. Qui dove un lettino con tenda costa 500 euro e
un'insalata con bibita 75, si è combattuta la guerra solitaria del carpentiere
arzachenese Francesco Pirina. Una domenica mattina si è presentato nella pineta
con tutta la famiglia e alcuni «simpatizzanti» armato di ombrellone e tavolo da
pic nic, come aveva sempre fatto, scandalizzando gli sciccosissimi ospiti nelle
tende in stile Gheddafi e nei lettini-baldacchino. Alla fine Mr Briatore chiede
a Pirina 380 mila euro di risarcimento danni per il semplice fatto di aver
usufruito di un bene comune, che, nel frattempo, era stato trasformato con
radicale potatura in una specie di giardino Zen. La settimana scorsa i
carabinieri hanno trovato al «Billionaire» 300 persone in più rispetto al
dovuto. Tutto nasce da alcuni problemi con le certificazioni antincendio, e in
sintesi, Briatore dovrebbe pagare una multa. Poco male, il «Billionaire» non
chiude e si rifarà in fretta con le cene di ferragosto a colpi di 2500 euro.
Una multa cosa volete che sia. Il racconto Visualizza la pagina in PDF
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( da "Manifesto, Il"
del 13-08-2009)
Argomenti: Giustizia
GENOVA Un
regolamento per i figli dei clandestini ROMA L'idea nasce dalla necessità di
risolvere un problema: quello di permettere anche alle coppie di immigrati
irregolari di iscrivere all'anagrafe il figlio nato in Italia. Un gesto semplice
fino a pochi giorni fa, ma divenuto difficile e perfino pericoloso da quando la
nuova legge sulla sicurezza ha introdotto il reato di clandestinità. Il
risultato è che, per paura di essere denunciati, i genitori irregolari non si
presentino più, dopo il parto, all'anagrafe per denunciare la nascita,
trasformando così il figlio in un «bambino fantasma». E questo nonostante il
governo assicuri che per le donne immigrate incinta la legge conceda un
permesso di soggiorno temporaneo. Per ovviare al problema, il Comune di Genova
sta pensando di permettere direttamente ai medici, ginecologi e pediatri, di
procedere all'iscrizione del bambino all'anagrafe dopo il parto. Evitando in
questo modo possibili denuncie per i genitori. La novità verrà inserita in un
regolamento ad hoc per l'accesso all'anagrafe e ai servizi all'infanzia che gli
esperti legali del comune stanno mettendo a punto.«In questo modo i figli degli
immigrati potranno avere garantito il codice fiscale e quindi l'assistenza
sanitaria e tutti i servizi previsti per l'infanzia, dagli asili nidi alla
scuola materna», spiega Paolo Veardo, assessore ai servizi civici del comune.
«Poter iscrivere il proprio figlio all'anagrafe è un passo importante per
garantire l'integrazione degli immigrati, e vogliamo che tutti possano goderne,
senza avere paura». Per un bambino immigrato l'iscrizione all'anagrafe non
rappresenta solo la possibiltà di poter accedere ai servizi per l'infanzia e
all'assistenza sanitaria, ma risulta fondamentale anche per poter ottenere in
futuro la cittadinanza italiana. Una possibilità legata alla facoltà che i
comuni hanno di segnalare al ministero degli Interni gli stranieri nati nel
proprio territorio che vi hanno soggiornato fino alla maggiore età. Sempre a
Genova in un anno sono stati un centinaio i figli di immigrati che hanno
ottenuto la cittadinanza in questo modo. «Affinché questa pratica possa
continuare a essere applicata - prosegue Veardo - è fondamentale poter
dichiarare la nascita e, con le nuove norme, per i clandestini diventa un
problema». A settembre, finita la pausa estiva, il nuovo regolamento verrà
portato in aula e discusso con l'opposizione. «Noi non governiamo con i
decreti, e tutti avranno modo di poter dire ciò che pensano», spiega ancora
Veardo polemizzando con la pratica del governo di procedere attraverso
provvedimenti d'urgenza e voti di fiducia, impedendo di fatto ogni confronto.
Il rischio è che in futuro, una volta che il regolamento dovesse essere
approvato, il governo possa cercare di bloccarlo facendo ricorso
alla Corte costituzionale. Non sarebbe la prima volta. La stessa cosa accadde infatti con
la legge che, sempre a Genova, consentiva agli immigrati di votare alle
elezioni amministrative. «Certo, la possibilità esiste - ammette l'assessore -
ma ricordiamoci che stiamo parlando dei diritti dei bambini». «La Costituzione va
rispettata ma ci sono leggi che non la rispettano», conclude Veardo parlando
delle nuove misure anti-immigrati introdotte con al legge sulla sicurezza. «Noi
stiamo studiando gli spazi di autonomia delle amministrazioni locali, e
riteniamo che in questo caso esistano. La nascita diventa un fattore dirimente.
Senza la dichiarazione di nascita tutto questo ragionamento cade».
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( da "Repubblica, La"
del 14-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina XIII - Napoli
Torre Orsaia Processo in piazza a Giulio Cesare Processo alla storia alle 21,30 in piazza a Torre
Orsaia (Sa). Imputato per insurrezione armata, attentato alla Costituzione,
strage, alto tradimento e sovversione è Giulio Cesare. Il
tribunale del popolo sarà presieduto da Giuseppe Tesauro, giudice della Corte costituzionale. Giudici: Claudio Tringali (presidente tribunale Vallo della
Lucania), Raffaele Quaranta (penalista), Nicola D´Angelo (magistrato), Raffaele
Grisolia, (docente di filologia). A sostenere l´accusa: il Procuratore Corrado
Lembo e il giudice Nicola Graziano. Cesare sarà difeso dai penalisti
Attilio Tajani e Franco Maldonato. Cancelliere Lorenzo Vallone.
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( da "Repubblica, La"
del 14-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Pagina 13 - Cronaca
Religione, il Vicariato di Roma avverte "A settembre battaglia agli
scrutini" L´associazione magistrati amministrativi: "Troppe critiche
ideologiche" ROMA - Dopo i duri attacchi della Cei e dell´Osservatore
Romano contro la sentenza del Tar del Lazio sull´ora di religione cattolica,
scende in campo il Vicariato di Roma: «Agli scrutini di settembre, dedicati
alla valutazione degli studenti che hanno debiti scolastici, sarà battaglia -
annuncia don Filippo Morlacchi, direttore dell´Ufficio per la pastorale
scolastica - A giugno l´insegnante di religione ha partecipato a pieno titolo,
ora non lo potrà più fare? Si tratterebbe di una nuova ingiustizia, di un´altra
disparità». E non lesina accuse ai magistrati del Tar: «La sentenza non nasce
tanto da un atteggiamento laicista, quanto da una mentalità anticlericale e
avversa alla Chiesa cattolica, visto che tra i promotori del ricorso ci sono
denominazioni cristiane non cattoliche e gruppi di ebrei». La replica
dell´Associazione nazionale magistrati amministrativi non è fatta attendere:
«Le sentenze possono essere criticate - si legge nel comunicato dell´Anma - ed
esiste un rimedio istituzionale come l´appello. Appaiono invece gratuite e
pericolose le considerazioni sui giudici, fondate su contrapposizioni
ideologiche. Il giudice ha il dovere di applicare le leggi e prima tra esse, la Costituzione». In
attesa del ricorso al Consiglio di Stato da parte del ministro Gelmini, i
sostenitori della linea cattolica affilano le armi: il neonato gruppo Facebook
ha raccolto in pochi giorni centinaia di adesioni. Ma anche sul fronte opposto
ci si prepara allo scontro. Le associazioni laiche e le confessioni religiose
non cattoliche che hanno presentato e vinto al Tar annunciano che andranno fino
in fondo. «Diciamo no alla religione insegnata secondo i
dettami del catechismo - afferma Mario Di Carlo, coordinatore della Consulta
romana per la laicità delle istituzioni - e per sancire una volta per tutte il
principio di "non discriminazione", spiegheremo ai giudici del
Consiglio di Stato che è necessario l´intervento della Corte Costituzionale».
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( da "Manifesto, Il"
del 14-08-2009)
Argomenti: Giustizia
Sull'ora di
religione è battaglia di ricorsi Stefano Milani ROMA ROMA «Quelli che vogliono
la religione cattolica nel percorso curriculare». Dopo l'appello accorato,
mascherato da ordine, della Cei, la conseguente presa di posizione della
Gelmini che si appellerà al Consiglio di Stato e l'indignazione (quasi) totale
del mondo politico di ogni colore, anche il mondo virtuale di Facebook si
mobilita con uno suo gruppo, nato per contrastare il tentativo di rendere la
scuola un po' più laica la scuola italiana. Giusto per dare retta a quel che
dice la nostra Costituzione. Ma questa polemica agostana oltre a far dividere
l'Italia tra «laici» e «cattolici» (come se le due cose non possono andare
parallele) rischia di produrre altri guelfi e ghibellini. Contro i prof di
religioni si schierano infatti tutti gli altri credi «minori» che, sentenza del
Tar in mano, ora chiedono «equità». Se così non sarà, se il Consiglio di Stato
annullerà la decisione del tribunale amministartivo, sono pronti a scendere in
piazza. «Contrariamente agli anni precedenti questa volta andremo fino in
fondo. In caso di invalidazione anche di questo
pronunciamento faremo ricorso alla Corte costituzionale»,
minaccia Domenico Maselli, presidente della Federazione delle chiese
evangeliche in Italia (Fcei). Ma la diatriba sull'ora di religione rischia di
spostare il cuore del problema sulla scuola pubblica in Italia. Seriamente
compromessa tra un taglio gelminiano e una «sparata» leghista. L'ultima
si potrà leggere oggi (in rigoroso dialetto piemontese) sulle pagine della
Padania. In un articolo a firma Roberto Cota, presidente del Carroccio alla
Camera, si ribadisce un cult padano, ovvero che «gli idiomi locali devono far
parte del processo formativo degli studenti, entrare nei programmi scolastici
insieme alle nozioni della cultura locale». Su questo il ministro Gelmini, un
paio di settimane fa, si era detta disponibile a parlarne.
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