HOME PRIVILEGIA NE IRROGANTO di Mauro Novelli BIBLIOTECA
Voltaire
(pseudonimo di
François Marie Arouet)
Candido ovvero
L'ottimismo
[tratto
dall’Edizione Sonzogno 1882 - collana Biblioteca Universale, prezzo cent. 25 -
Traduttore ignoto - edizione elettronica a cura di Claudio Paganelli e Sergio
Seghetti]
PARTE PRIMA
CAPITOLO
I.
Come Candido è allevato in un bel castello e come
n'è cacciato via
Era
nella Vesfalia, nel castello del baron di Thunder-ten-tronckh, un giovinetto
che aveva avuto dalla natura i più dolci costumi. Se gli leggeva il
cuore nel volto. Univa egli a un giudizio molto assestato una gran
semplicità di cuore, per la qual cosa, cred’io, chiamavanlo Candido. I
vecchi servitori di casa avean de' sospetti ch'ei fosse figliuolo della sorella
del signor barone, e d'un buon gentiluomo e da bene di quel contorno, che
questa signora non volle mai indursi a sposare perchè non aveva egli
potuto provare più di settantun quarti di nobiltà, il resto del
suo albero genealogico essendo perito per l’ingiuria de' tempi.
Era
il signor barone uno de' più potenti signori della Vesfalia,
perchè il suo castello aveva porta e finestre; e di più sala con
arazzi. Tutti i cani de' suoi cortili componevano in caso di bisogno una muta
di caccia; i suoi staffieri erano i suoi cacciatori, e il piovano del villaggio
il suo grande elemosiniere. Gli davan tutti dell’Eccellenza, e ridevano quando
contava delle novelle.
La
signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, si attirava per
questo un grandissimo riguardo, e faceva gli onori della casa con una
dignità che la rendeva più rispettabile ancora. La di lei figlia
Cunegonda, in età di diciassett'anni, era ben colorita, fresca,
grassotta, da far gola. Il figlio del barone si mostrava tutto degno germe di
suo padre. Il precettore Pangloss era l’oracolo di casa, e il giovanetto
Candido ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede dell'età sua e
del suo carattere.
Pangloss
insegnava la metafisico-teologo-cosmologo-nigologia. Provava egli a maraviglia
che non si dà effetto senza causa, e che in questo mondo, l'ottimo dei
possibili, il castello di S. E. il barone era il più bello de’ castelli,
e Madama la migliore di tutte le baronesse possibili.
- È dimostrato, diceva egli, che le
cose non posson essere altrimenti; perchè il tutto essendo fatto per un
fine, tutto è necessariamente per l'ottimo fine. Osservate bene che il
naso è fatto per portar gli occhiali, e così si portan gli
occhiali; le gambe son fatte visibilmente per esser calzate, e noi abbiamo
delle calze, le pietre son state formate per tagliarle e farne dei castelli, e
così S. E. ha un bellissimo castello; il più grande de' baroni
della provincia dev'essere il meglio alloggiato, e i majali essendo fatti per
mangiarli, si mangia del porco tutto l'anno. Per conseguenza quelli che hanno
avanzata la proposizione che tutto è bene; han detto una corbelleria,
bisognava dire che tutto è l'ottimo.
Candido
ascoltava tutto attentamente, e se lo credeva innocentemente; perch'ei trovava
Cunegonda bella all'estremo, sebbene non avesse mai avuto l’ardire di dirlo a
lei. Egli concludeva che dopo la fortuna di esser nato barone di
Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era d'esser Cunegonda,
il terzo di vederla tutti i giorni, il quarto di ascoltare il precettore
Pangloss, il più gran filosofo della provincia, e in conseguenza del
mondo.
Un
giorno Cunegonda, passeggiando presso il castello in un boschetto cui si dava
il nome di parco, vide tramezzo alle fratte il dottor Pangloss che dava una
lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre, vezzosa brunetta e
docilissima. Cunegonda ritornossene tutta agitata e pensosa, pensando a Candido
L'incontrò
ella nel ritornare al castello, e arrossì; Candido arrossì
anch'egli; ella gli diede il buon giorno con una voce interrotta, e Candido le
parlò senza saper quel ch'ei si dicesse. Il giorno dopo nell'escir da
pranzo, Cunegonda e Candido si trovarono dietro a un paravento, Cunegonda si
lasciò cascare il fazzoletto, Candido lo raccattò; ella gli prese
innocentemente la mano, egli innocentemente baciolla, con una vivacità,
con un trasporto, con una grazia particolarissima; le loro bocche
s’incontrarono, i loro occhi inffiammaronsi, le lor ginocchia caddero, le mani
si strinsero. Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò accanto al
paravento, e vedendo questa causa e questo effetto, cacciò via Candido
dal castello a pedate. Cunegonda svenne, fu schiaffeggiata dalla baronessa
appena rinvenuta che fu, ed ogni cosa fu sottosopra nel più bello e nel
più delizioso di tutti i castelli possibili.
CAPITOLO
II.
Quel che divenne Candido fra i Bulgari
Scacciato
Candido dal paradiso terrestre, vagò lungo tempo senza saper dove,
piangendo, alzando gli occhi al cielo, e spesso rivolgendogli al bellissimo
fra' castelli che racchiudeva la bellissima delle baronessine. Si coricò
senza cenare in mezzo a' campi fra due solchi, e la neve fioccava. Candido
intirizzito dal freddo si strascinò il giorno dopo verso la città
vicina che chiamavasi Waldberghoff-trarbk-dikdorff, senza un quattrino, morto
di fame, e di stanchezza; si fermò pien di tristezza alla porta di
un’osteria. Due uomini vestiti di turchino l'osservarono:
- Camerata, disse un di loro, ecco un
giovanotto ben fatto, della statura che si vuole.
S’avanzarono
verso Candido, e con tutta civiltà il pregarono a pranzar seco loro.
- Mi fan troppo onore, signori, disse lor
Candido con una modestia che incantava, ma io non ho da pagar lo scotto.
- Eh signore, replicogli un di quegli, le
persone della sua figura e del suo merito non pagan mai nulla; non è
ella cinque piedi e cinque pollici d’altezza?
- Sì, signori, diss’egli, con una bella
riverenza, questa è la mia statura.
- Ah signore, si metta a tavola: non solo noi
la farem franco di spesa, ma non soffrirem mai che un par suo manchi di danaro.
Gli uomini son fatti per soccorrersi scambievolmente l’un l'altro.
- Me l'ha sempre detto il signor Pangloss,
riprese Candido; han ragione, ed io vedo chiaramente che tutto è per lo
meglio.
Lo
pregano di accettare qualche danaro, ei lo prende, e vuol farne l’obbligo; non
se ne vuol saper nulla, e si mettono a tavola.
- Non amate voi teneramente?...
- Tenerissimamente io amo, diss'egli, la
signora Cunegonda.
- Eh no, replicò un di loro, si chiede
se voi amate teneramente il re de' Bulgari.
- Niente affatto, diss'egli, perchè non
l’ho mal veduto.
- Come? questo e il più amabile di
tutti i re, e s'ha da bere alla sua salute.
- Oh volentierissimo, signori miei; e beve.
- Tanto basta, gli dicono, eccovi l'appoggio,
il sostegno, il difensore, e l'eroe dei Bulgari; ecco fatta la vostra fortuna,
ecco stabilita la vostra gloria.
Immediatamente
gli si mettono i ferri ai piedi, e lo si conduce al reggimento.
Si
fa voltare a dritta e a sinistra, levar la bacchetta, rimetter la bacchetta,
impostarsi tirare, raddoppiar le file, e gli si regalano trenta bastonate; il
giorno dopo fa un po’ meno male l’esercizio, e non ne riceve che venti: l’altro
giorno non ne ha che dieci, ed è da' suoi camerati riguardato come un
prodigio.
Candido
stupefatto non sapeva raccapezzare ancor bene, come egli fosse un eroe:
s'avvisò in una bella giornata di primavera d'andarsene a passeggiare,
marciando di fronte, piè innanzi piè, credendo essere un
privilegio della specie umana, come della specie animale, il servirsi delle sue
gambe a sua voglia. Non aveva fatto due leghe, che eccoti quattro eroi di sei
piedi lo raggiungono, lo legano, e lo conducono in una prigione. Gli si domanda
giuridicamente se avea più gusto di passare trentasei volte per le
bacchette da tutto il reggimento, o di ricever tutt'a un tratto dodici palle di
piombo nel cervello. Aveva un bel dire che le volontà son libere, ch’ei
non voleva né l'uno né l'altro; bisognò risolversi a scegliere. In
virtù di quel dono di Dio che chiamasi libertà, egli si
determinò a passare trentasei volte per le bacchette, e se ne prese due
spasseggiate. Il reggimento era composto di duemila uomini e questo gli compose
sul fil delle rene quattromila frustate, che dalla nuca del collo per infino al
bel di Roma gli scopersero ti muscoli e i nervi. S'era per procedere alla terza
carriera, quando Candido non ne potendo più, domandò in grazia
che volessero aver la bontà di moschettarlo. Egli ottenne questo favore;
gli si bendano gli occhi, lo si fa mettere ginocchioni; il re de' Bulgari passa
in quel momento, s'informa del delitto del paziente; e come questo re aveva
grand'ingegno, comprese subito da ciò che intese da Candido, esser egli
un giovine metafisico, molto ignorante delle cose di questo mondo, e accordogli
la grazia con un tratto di clemenza che sarà celebrato da tutti i
giornali, e da tutti i secoli. Un bravo chirurgo guarì Candido cogli
emollienti insegnati da Dioscoride in tre settimane. Aveva egli rimessa un po’
di pelle, e poteva marciare, quando il re de’ Bulgari diè battaglia al
re degli Abari.
CAPITOLO
III.
Come Candido scappò da' Bulgari e quel che gli avvenne.
Non
si può dar cosa più bella, più addestrata, più
all’ordine, dei due eserciti. Le trombe, i pifferi, gli oboe, i tamburi, i
cannoni formavano un'armonia, che non se ne sente una simile a casa al diavolo.
Le cannonate buttaron giù al primo saluto vicino a seimila uomini da
ambe le parti, quindi la moschetteria portò via dall'ottimo dei mondi
nove o diecimila birbanti che ne infettavano la superficie. La bajonetta fu
anch'essa la ragion sufficiente della morte di qualche migliajo; in tutto
poteva montare a una trentina di mila uomini. Candido che tremava come un
filosofo, si appiattò meglio che potè durante quest'eroico
macello.
Finalmente,
mentre ognuno nel suo campo facevano i due re cantare il Te Deum, prese
il partito d'andarsene a raziocinare altrove degli effetti e delle cause.
Passò di sopra a mucchi di morti e di moribondi, e arrivò a un
villaggio vicino. Era questo un villaggio degli Abari che i Bulgari, secondo le
leggi del gius pubblico, avevan ridotto in cenere. Da una parte vecchi
crivellati da' colpi stavano a veder morir scannate le mogli che tenevano i lor
bambini alle sanguinanti mammelle; dall'altra fanciulle sventrate dopo aver
satollato le brame d'alcuni eroi, rendeano l’ultimo fiato; altre mezzo bruciate
chiedevano colle strida che si finisse di ucciderle; ed era coperto il terreno
di sparse cervella accanto a braccia e gambe tagliate.
Candido
se ne fuggì a tutta furia in un altro villaggio. Apparteneva questo a'
Bulgari, ed aveva ricevuto dagli Abari eroi un simile trattamento. Candido,
camminando sempre su delle membra ancor palpitanti, e tramezzo alle ruine,
arrivò finalmente fuor del teatro della guerra, con qualche piccola
provvisione nella bisaccia, e colla memoria ancor fresca della sua Cunegonda.
Gli mancaron le provvigioni arrivato che fu in Olanda, ma, avendo sentito dire
che quivi tutti eran ricchi, e che era paese di cristiani, non dubitò
punto di esser trattato come nel castello del signor barone, prima d'esserne
scacciato per i begli occhi di Cunegonda.
Dimandò
egli la limosina a molte gravi persone, ma gli fu da tutte risposto che se
seguitava a far quel mestiere l'avrebbero ficcato in una casa di correzione,
perchè imparasse a vivere.
S'accostò
quindi ad un uomo che aveva appunto finito di parlar egli solo per un’ora di
seguito in una grande assemblea sulla carità. Questo oratore guardandolo
a traverso:
- Che venite voi a far qui? gli disse. Vi
siete voi per la buona causa?
- Non si dà effetto senza causa,
rispose Candido con tutta modestia; in tutto v’è una concatenazione
necessaria, e un’ottima disposizione. È bisognato ch'io sia cacciato via
d'appresso a Cunegonda, ch'io sia passato per le bacchette e bisogna ch’io
accatti per mangiare finch’io possa guadagnarmelo. Tutto questo non poteva
essere altrimenti.
- Amico, gli disse l’oratore, credete voi che
il Papa sia l’Anticristo?
- Io non l’avevo ancora sentito dire, rispose
Candido ma o lo sia o non lo sia, io non ho pan da mangiare.
- Tu non meriti d’averne, riprese l’altro,
monello, birbante, vattene via e non mi venir mai più d’intorno.
La
moglie dell’oratore fattasi alla finestra, e scorgendo un uomo che dubitava che
il Papa fosse l’Anticristo, gli rovesciò addosso un pien... O cielo! a
quale eccesso arriva nelle dame lo zelo di religione.
Un
uomo che non era stato battezzato, un buon anabattista nomato Giacomo, vide
l’ignominiosa e crudel maniera con cui trattavasi uno de’ suoi confratelli, una
creatura bipede implume, la quale aveva un'anima; lo condusse in sua casa, lo
nettò, gli diè del pane e della birra, gli fe’ presente di due
fiorini, anzi volle insegnargli a lavorar nella sua fabbrica, alle stoffe di
Persia che si fanno in Olanda. Candido inginocchiandosegli innanzi esclamava:
“Il maestro Pangloss me l'aveva ben detto che in questo mondo tutto è
per lo meglio; io sono infinitamente più commosso dell’estrema vostra
generosità, che dell’asprezza di quel signore dal mantello nero e della
sua moglie.”
Il
giorno dopo andando a spasso s’imbatte in un accattone tutto coperto di bolle,
cogli occhi smorti la punta del naso rosicchiata, la bocca storta, i denti
neri, la voce affogata, tormentato da una tosse violenta, e che ad ogni nodo di
tosse sputava un dente.
CAPITOLO
IV.
Come Candido ritrova il suo antico maestro di filosofia il dottor
Pangloss, e quel che ne segue.
Candido
più commosso ancora di compassione che d’orrore, diede a quello
spaventevole accattone i due fiorini che avea ricevuti da quell’uom dabbene
dell'anabattista Giacomo. Quel fantasma gli fissò gli occhi addosso, cominciò
a piangere, e gli saltò al collo. Candido spaventato si tira indietro.
- Ahimè dice un miserabile all’altro,
non ravvisate il vostro caro Pangloss?
- Che ascolto? Voi il mio caro maestro! Voi in
questo orribile stato! Che sciagura v’è dunque accaduta? Perchè
non siete voi più nel bellissimo fra i castelli? E di Cunegonda, la
perla delle donzelle, il capolavoro della natura che n’è?
- Io non ne posso più, dice Pangloss.
Candido
lo mena immediatamente alla stalla dell’anabattista, ove gli dà del pane
a mangiare, e riavuto che fu alquanto:
- Ebbene: e Cunegonda? gli chiese.
- Cunegonda è morta, rispose quegli.
Candido
svenne a tai detti; l'amico lo fece ritornare in sè con del cattivo
aceto che per caso si trovò nella stalla. Riapre Candido gli occhi:
- Cunegonda è morta! O mondo l'ottimo
dei possibili dove sei tu? Ma di qual male è ella morta? Forse d’avermi
veduto scacciare dal bel castello del signor padre a furia di gran pedate!
- No, risponde Pangloss, ella è stata
sventrata da soldati Bulgari: dopo esser stata oltraggiata quanto esser si
possa. Al barone, che voleva difenderla, è stata fracassata la testa; la
baronessa tagliata a pezzi, il mio povero pupillo trattato per appuntino come
la sorella; e del castello non n'è rimasto pietra sopra pietra, non un
granajo, non un montone, non un'anatra, non un sol albero: ma abbiamo avuta la
rivincita; perchè gli Abari han fatto l'istesso di una baronia vicina
che apparteneva a un signore bulgaro.
A
questo discorso Candido tornò a svenire; ma rinvenuto che fu, e detto
quel che avea a dire, s'informò della causa e dell'effetto, e della
ragion sufficiente, che aveva ridotto Pangloss a un sì compassionevole
stato.
- Ahimè disse l'altro, questo è
l'amore; l'amore, il conforto dell’uman genere, il conservatore dell’universo,
l’anima di tutti gli esseri sensibili, il tenero amore.
- Ahimè, disse Candido, io l'ho
conosciuto cotesto amore, cotesto signor de’ cuori, cotest’anima dell'anima
nostra, egli non mi ha fruttato che un bacio, e venti pedate nel messere. Come
mai una sì bella cagione ha potuto produrre in voi un si abbominevole
effetto?
Pangloss
così rispose:
- O mio caro Candido! voi avete conosciuto
Pasquetta, la leggiadra damigella della nostra augusta baronessa, nelle sue
braccia ho io gustato le dolcezze del Paradiso; che mi han prodotto questi
tormenti d’inferno, onde lacerar mi vedete...[i]
Candido
andò a gettarsi ai piedi del suo caritatevole anabattista Giacomo, e gli
fece un ritratto sì vivo dello stato lacrimevole in cui era ridotto il
suo amico, che non esitò punto quell'uomo da bene ad accogliere il
dottor Pangloss, e a farlo guarire a sue spese. Altro non perdè Pangloss
in questa cura, che un occhio e un orecchio. Egli avea buona mano di scrivere,
e sapeva a perfezione far di conto. L'anabattista lo fece suo scritturale. In
capo a due mesi essendo per affari del suo commercio obbligato di andare a
Lisbona, condusse seco i due filosofi nel suo bastimento. Pangloss gli
spiegò come il tutto era l’ottimo. Giacomo era d’un altro parere.
Bisogna, ei diceva, che gli uomini abbiano alquanto corrotta la natura,
perchè non son nati lupi, e lupi divengono; Dio non ha dato loro nè
cannoni da ventiquattro, nè bajonette, ed essi son fatti per
distruggersi con bajonette e cannoni. Potrei metter su questo conto e i
fallimenti e la giustizia che mette le mani su' beni de' falliti per
defraudarne i creditori. - Tutto questo, replicava il guercio dottore, era
indispensabile, e le sciagure particolari fanno il bene generale; talmente che
più disgrazie particolari vi sono, più tutto è ottimo.
Nel
tempo che ei ragiona l'aria si abbuja, si scatenano i venti da quattr'angoli
del mondo, e il bastimento è assalito in vista del porto di Lisbona da
orribile tempesta.
CAPITOLO
V.
Tempesta, naufragio, terremoto e quel che avvenne di Pangloss, di
Candido e dell'anabattista.
La
metà de' passeggieri, languidi, e affranti dalle indicibili angosce che
il tentennìo d'un bastimento produce ne' nervi e in tutti gli umori del
corpo agitati in contrarie direzioni, non avea nemmeno la forza di mettersi in
pena del suo pericolo; l’altra metà gettava delle strida, e innalzava
preghiere. Eran lacere le vele, gli alberi spezzati, sdruscito il bastimento.
Lavorava chi poteva, non vi era chi s'intendesse, non vi era chi comandasse.
L'anabattista dava un po’ di ajuto alla manovra; egli era sul cassero; un
marinajo furioso lo colpisce malamente, e lo distende sulla coperta, ma dal colpo
che diede a lui ebbe egli stesso una scossa sì violente che cadde a capo
riverso fuor del bastimento. Restava egli sospeso e abbriccato a un pezzo
d'albero rotto. Il buon uomo di Giacomo corre al di lui soccorso, e l’ajuta a
risalire, ma dallo sforzo che fece è precipitato egli nel mare in vista
del marinajo che non si degnò nemmeno di rimirarlo. Candido si accosta,
vede il suo benefattore che ricomparisce a galla un momento, e resta
inghiottito per sempre. Vuole egli gettarsegli dietro nel mare, il filosofo
Pangloss lo ritiene, provandogli che la spiaggia di Lisbona era stata formata
apposta, perchè quest'anabattista vi si annegasse. Mentre lo stava
provando a priori, s'apre il bastimento e tutti periscono, a meno di
Pangloss, di Candido, e del marinaro brutale che aveva affogato il virtuoso
anabattista. Quel birbante nuotò fino alla riva, ove Pangloss e Candido
furono trasportati anch’essi sopra d'un asse.
Ritornati
che furono un poco in sè, presero il cammino verso Lisbona. Restava a
loro qualche denaro con cui speravano di scampar la fame dopo aver scampato il
naufragio.
Appena
messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, sentono
tremare la terra sotto i lor piedi; il mare si solleva ribollendo nel porto, e
fracassa i bastimenti che sono all'áncora. Vortici di fiamme e di cenere
coprono le strade o le piazze, crollano gli edifizj, si rovesciano tutti sulle
fondamenta, e le fondamenta dispergonsi. Trenta mila abitanti d'ogni età
e d'ogni sesso restano schiacciati dalle rovine. Il marinajo fischiando, e
bestemmiando dicea fra sè: - Qui v’è da buscar qualche cosa.
- Qual può esser la ragion sufficiente
da’ un tal fenomeno? dicea Pangloss.
- Questa è la fine del mondo, esclamava
Candido.
Il
marinajo corre addirittura tramezzo alle rovine ad affrontar la morte per
trovar de' quattrini, ne trova, se ne impadronisce, s’ubbriaca, e avendo
smaltito il vino, compra i favori della prima ragazza cortese che se gli para
davanti, sulle ruine delle case distrutte, e in mezzo dei moribondi e de'
morti. Pangloss lo tirava intanto per la manica, “amico, dicendogli, la non va
bene, voi mancate alla ragione universale, voi impiegate malamente il tempo.” -
Corpo di... sangue di... rispondeva l'altro, son marinajo e nato a Batavia; oh
va che tu hai trovato il tuo, colla tua ragione universale!
Candido
era stato ferito da alcune scaglie di pietre, e coperto di frantumi di rovine
giacea disteso sulla strada. - Ahimè, diceva egli a Pangloss, procurami
un po' di vino, e un po’ d’olio, ch’io mi muojo. - Questo terremoto rispondeva
Pangloss, non è cosa nuova; la città di Lima sofferse in America
le stesse scosse l'anno passato: l'istessa cagione produce l’istesso effetto:
bisogna che certamente sotto terra vi sia una striscia di zolfo da Lima fino a
Lisbona - Non vi è niente di più probabile, diceva Candido, ma
datemi per Dio un po' di vino e un po’ d’olio. - Come probabile? replica il
filosofo; la cosa è evidente, ed io la sostengo.
Candido
perdè il lume degli occhi, e Pangloss gli recò dell’acqua d'una
fontana vicina.
Il
giorno dopo, avendo trovato qualche po' di provvisioni con ficcarsi tramezzo
alle rovine, si rinfrancarono un po' di forze, quindi si posero come gli altri
a lavorare per sollievo degli abitanti ch’erano scampati alla morte. Alcuni
cittadini sovvenuti da essi gli diedero da desinare qual poteva apprestarsi in
tanta sciagura. Era il pranzo veramente assai tristo, bagnando i convitati il
loro pane di lacrime, ma Pangloss li consolava assicurandoli, che le cose non
potevano andare altrimenti; perchè, diceva egli, tutto quel che
è, è ottimo, imperocchè se vi è un vulcano a
Lisbona non poteva essere altrove non essendo possibile che le cose non sieno
dove sono; perchè ogni cosa è bene. Un omiciattolo moro famiglio
dell'Inquisizione, che gli era accanto, prese civilmente la parola, e gli
disse: - Al vedere il signore non crede al peccato originale; perchè se
ogni cosa è per lo meglio, non v’è dunque nè caduta
nè castigo. - Domando umilissima scusa a vostra eccellenza, rispose
anche più civilmente Pangloss, perchè la caduta dell'uomo e la
maledizione entravano necessariamente nell'ottimo de' mondi possibili. -
Vossignoria non crede dunque la libertà? riprese il famiglio. - Mi scusi
vostr'eccellenza, replicò Pangloss, la libertà può
sussistere, con la necessità assoluta, perchè era necessario che
noi fossimo liberi, perchè finalmente la volontà determinata...
Pangloss
era in mezzo a questo discorso, quando il famiglio fece un cenno al suo
staffiere che lo serviva a tavola con del vino di Porto.
CAPITOLO
VI.
Come si fece un bell'auto-da-fè per impedire i tremoti e
come Candido fu frustato.
Dopo
il terremoto che avea distrutto tre quarti di Lisbona, i dotti del paese non
avevan trovato mezzo più efficace per impedire una total rovina, che di
dare al popolo un bell'auto-da-fè. Era stato deciso
dall’Università di Coimbra che lo spettacolo di qualche persona bruciata
a fuoco lento in gran cerimonia era un segreto infallibile per impedire che la
terra non si scuota. Aveano in conseguenza catturato un biscaglino convinto
d’aver sposato la comare, e due portoghesi che, mangiando un pollastro, ne
aveano levato il lardo; si venne poi dopo pranzo alla cattura del dottor
Pangloss, e di Candido suo discepolo; di quello per aver parlato, e di questo
per aver ascoltato in aria d'approvazione. Furono tutti e due condotti
separatamente in appartamenti freschissimi, ne' quali non s'era mai infastiditi
dal sole. Otto giorni dopo furono tutti rivestiti d'un sambenìto,
e vennero loro adornate le teste di mitere di carta, la mitera e il sambenìto
di Candido eran dipinte con delle fiamme all’ingiù, e con de' diavoli
senza granfie e senza coda; ma i diavoli nel sambenìto di
Pangloss avean granfie e coda, e le fiamme eran dritte. Andarono così
vestiti a processione e sentirono un sermone assai patetico seguito da una
bella musica in falso bordone; Candido fu frustato sul messere a tempo di
battuta mentre cantavano; il biscaglino e quei due che non avean voluto mangiar
del lardo furono bruciati, e Pangloss fu appiccato, benchè non sia
questo il costume. Il medesimo giorno vi fu un'altra scossa di terremoto con un
fracasso spaventevole. Candido spaventato, confuso, smarrito, tutto
insanguinato, tutto affannato dicea fra sè: “Se questo mondo è
l’ottimo dei possibili che mai son gli altri? Se io non sono stato altro che
nerbato a posteriori, lo sono stato anche fra i Bulgari; ma, o mio caro
Pangloss, il massimo de' filosofi, ho io avuto a vedervi impiccare senza ch’i’
sappia perchè! Oh mio caro anabattista, ottimo degli uomini, avev’io a
vedervi annegare nel porto! O Cunegonda, perla delle fanciulle, er’egli dovere
che avessero a spaccarvi la pancia! ”
Egli
se ne ritornava mal reggendosi in piedi, sermonizzato, ma assoluto e benedetto,
quando una vecchia gli si fa innanzi, e gli dice: “Fatevi animo, figliolo mio,
e seguitatemi.”
CAPITOLO
VII.
Come una vecchia prese cura di Candido e come egli ritrova quel
che volea.
Candido
non si fece animo, nè punto, nè poco, ma seguitò la
vecchia in una casupola rovinata, dove diedegli della pomata per strofinarsi,
gli lasciò da mangiare, e da bere, un letto molto pulito, e accanto al
letto da rivestirsi da capo a piedi. “Mangiate, bevete, e dormite gli
diss’ella, la Madonna d’Antiochia, don S. Antonio di Padova, e don S. Giacomo
di Galizia abbian cura di voi. Io ritornerò dimattina.” Candido stordito
ognor più di quel che avea veduto, di quel che aveva sofferto, e molto
più ancora della carità della vecchia, volle baciarle la mano.
- Eh, non è la mia mano, che avete a
baciare, rispose la vecchia, io tornerò domani. strofinatevi colla
pomata, mangiate e dormite.
Candido,
malgrado tante disgrazie, mangiò e dormì. La mattina dopo, la
vecchia gli porta da colazione, gli dà una rivista alla schiena, lo
stropiccia con dell'altra pomata, gli porta poi da desinare; ritorna sulla sera
e gli reca da cena. Il posdomani fa l'istessa cerimonia.
- Chi siete voi? badava a dirle Candido, chi
vi ha inspirato tanta bontà? quali grazie poss’io io rendervi?
La
buona donna non rispondeva mai nulla; ritornò la sera, e non
portò nulla da cena.
- Venite con me, gli diss’ella, e non fiatate.
Se
lo prende per braccio e cammina con esso per la campagna circa un quarto di
miglio. Arrivano a un casino isolato, circondato di giardini e di canali. Bussa
la vecchia a una porticella; si apre; conduce ella Candido per una scaletta
segreta in un gabinetto tutt'oro; lo lascia sopra un canapè di broccato,
richiude la porta, e se ne va via. Candido si credea di sognare, e considerava
tutta la sua vita passata come un sogno funesto, o il momento presente come un
sogno dilettevole.
La
vecchia ricomparve ben tosto; sosteneva ella a fatica una donna tremante, d'una
statura maestosa, tutta rilucente di gioje, e ricoperta da un velo.
- Levate quel velo, disse a Candido la
vecchia.
Egli
si accosta, alza il velo con mano timorosa. Oh momento! oh sorpresa!
Credè di vedere Cunegonda, ei la vedeva in fatti, era ella stessa. Gli
mancano le forze, non sa proferir parola, e si lascia cascare a’ suoi piedi; e
Cunegonda si abbandona sul canapè, la vecchia li carica d’acque odorose,
finchè ritornano in sè e possono parlarsi. Non eran sul primo che
parole interrotte, domande e risposte, che facevano a urtarsi, sospiri, lacrime
e strida. La vecchia lor raccomanda di far meno rumore, e li lascia in
libertà. - Come! le dice Candido, voi Cunegonda? voi viva? Voi in Portogallo?
Non vi han dunque oltraggiata? - Non v'han spaccata la pancia come mi aveva
assicurato Pangloss? - Sibbene, dicea Cunegonda, egli è vero, ma non
sempre di questi due accidenti si muore. - Ma vostro padre e vostra madre son
eglino stati uccisi? - Pur troppo, disse Cunegonda piangendo, lo sono stati. -
E il vostro fratello? - Ucciso ancor egli. - E come siete voi in Portogallo, e
come sapeste ch’io vi fossi, e - per quale strana avventura fui condotto in
questa casa? - Vi dirò tutto, replicò la donna, ma ditemi prima
voi tutto quel che vi è succeduto dopo il bacio innocente che mi deste,
e le pedate che ne buscaste.
Candido
l’obbedì con un profondo rispetto, e benchè fosse confuso e
avesse la voce fievole e tremante, e benchè gli facesse anche un po'
male la schiena, le raccontò nella maniera più semplice quel che
egli aveva sofferto dal momento della loro separazione. Cunegonda alzava gli
occhi al cielo; pianse amaramente alla morte del buon anabattista, e di
Pangloss, e parlò quindi in questi termini a Candido, che non ne perdeva
una parola, e che la mangiava cogli occhi.
CAPITOLO
VIII.
Istoria di Cunegonda.
“Ero
nel mio letto e dormivo saporitamente, quando al ciel piacque di mandare i
Bulgari nel nostro bel castello di Thunder-ten-tronckh; essi scannarono mio
fratello e mio padre, e tagliaron mia madre a pezzi. Un gran bulgaro alto sei
piedi, vedendo che a un tale spettacolo avevo perduto il conoscimento, mi
oltraggiò; questo mi fece rinvenire e ripigliare i miei sensi. Gridai,
mi dibattei, morsi, sgraffiai, volli cavar gli occhi a quel bulgaro, non
sapendo che tutto quel che accadea nel castello era cosa solita e d'uso. Quel
brutale mi diede una coltellata sul fianco sinistro, di cui porto anche il
segno. - Ahimè, spero che me lo farete vedere, disse il semplice
Candido. - Voi lo vedrete, ma andiamo avanti, disse Cunegonda. - Andiamo pur
avanti, disse Candido.
Ella
così riprese il filo della sua istoria: “Un capitano de’ Bulgari
entrò, vide me tutta insanguinata, e il soldato che non facea vista di
muoversi. Il capitano in collera pel poco rispetto che avea per lui, quel
brutale, me l’ammazzò accosto; mi fece quindi curare, e mi menò
prigioniera di guerra nel suo quartiere. Io gl’imbiancavo quelle po’ di camicie
che aveva, io gli faceva la cucina; egli mi trovava, per dir vero, molta
bellezza, ed io nol negherò ch’ei fosse assai ben fatto; del restante
niente di spirito e meno di filosofia; si vedeva bene che non era stato
allevato dal dottor Pangloss.
“In
capo a tre mesi, avendo perduti tutti i quattrini ed essendo ristucco di me, mi
vende ad un ebreo chiamato don Issaccar, che negoziava in Olanda, e in
Portogallo, e a cui piacevano estremamente le donne. Questo ebreo mi si
affezionò moltissimo, ma non potè trionfare della mia ritrosia.
L’ebreo mi condusse in questa villetta che voi vedete. Avevo sempre creduto che
il castello di Thunder-ten-tronckh fosse quel che vi può esser di
più bello nel mondo, ma mi son disingannata.
“Il
grand'Inquisitore mi vide un giorno alla messa, mi adocchiò lungamente,
e mi fece dire che avea da parlarmi per affari segreti. Fui condotta al suo
palazzo, gli scopersi i miei natali, ed egli mi fece delle rimostranze di
quanto disconvenisse al mio rango l'esser in balìa d'un ebreo. Fece egli
propor per sua parte a don Issaccar di cedermi a monsignore. Ma don Issaccar,
ch’è il banchiere di Corte, e un uomo di credito, non ne volle saper
niente. L’inquisitore lo minacciò d'un auto-da-fè, sicchè
l'ebreo impaurito, concluse un contratto, in virtù del quale e la casa,
e la mia persona appartenessero a tutti due loro in comune; ma fecero i conti
senza di me, che non voglio alcuno.
“Finalmente
per distornare il flagello de' terremoti, e per impaurire don Issaccar, volle
monsignor inquisitore celebrare un auto-da-fè, e mi fè l’onor
d'invitarmici. Ebbi un buonissimo posto, e fra la messa e il supplizio si
servirono i rinfreschi alle dame. Mi raccapricciai per dir vero, a veder
bruciar vivi quei due ebrei, e quel galantuomo di Biscaglia, che avea sposata
la comare. Ma qual fu la mia sorpresa, il mio raccapriccio, la mia agitazione,
quando in sambenito e mitera vidi una figura che rassomigliava a Pangloss! Mi
stropicciai gli occhi, lo riguardai attentamente, lo vidi impiccare, e svenni.
Ritornata appena in me vi vidi spogliar nudo, e fu per me il colmo del dolore,
della costernazione, della disperazione, dell’orrore. Alzai un grido, e
fermate, dir volli, o barbari, fermate; ma la voce mancommi, e a nulla
avrebbero servito le mie strida. Quando fosti stato ben ben frustato -come mai
può darsi, dicea fra me, che l'amabil Candido, e il saggio Pangloss si
trovino a Lisbona, uno per pigliarsi cento frustate, e l'altro per farsi
impiccare d’ordine di monsignore inquisitore mio cicisbeo? Pangloss mi ha
dunque crudelmente ingannata, con dirmi, che tutto quel che segue è per
lo meglio?
“Agitata,
smarrita, ora fuori di me; ed ora sentendomi morir di debolezza, aveva l'anima
ripiena della strage di mio padre, di mia madre, e di mio fratello, di quel
birbon di soldato bulgaro, della coltellata che mi aveva data, della mia
condizione servile, del mio mestiere di cuciniera, del mio capitano, di quella
brutta figura di don Issaccar, di quell’abbominevole inquisitore,
dell’impiccatura di Pangloss di quel gran miserere in falso bordone, e sopra
tutto del bacio che dato vi aveva dietro un paravento quel giorno che io vi
vidi per l’ultima volta. Ringraziai il cielo che a me si riconduceva per tante
prove; e mi raccomandai alla mia vecchia, perchè si prendesse cura di
voi, e vi conducesse a me più presto che si potesse. Ella ha eseguito a
maraviglia la sua commissione, ho gustato il piacere indicibile di rivedervi,
di ascoltarvi, di favellarvi. Dovete avere una fame terribile, io ho un
grand'appetito, cominciamo a cenare.”
Eccoli
tutti e due a tavola, e dopo la cena si ripongono a sedere, quando don
Issaccar, un do' padroni di casa, arrivò.
CAPITOLO
IX.
Quel che successe di Cunegonda, di Candido, del Grand’Inquisitore
e d'un Ebreo.
Questo
Issaccar era un'ebreo il più collerico che si fosse seduto in Israelle
dopo la schiavitù babilonese. - Ah cagna di Galilea, diss’egli, non ti
basta l'inquisitore? Vuoi mettermi a parte anco con questo furfante?
In
questo cava fuori un lungo pugnale di cui era sempre provvisto, e non credendo
provveduto di alcun arme la sua parte avversa si avventa a Candido. Ma il
nostro bravo Vesfalo che insieme coll'abito di tutto punto aveva ricevuto dalla
vecchia una bella spada, mette mano addirittura, e benchè fosse d'un
assai dolce costume, distende morto sul terreno l’israèlita ai piedi di
Cunegonda..
- Santissima Vergine! grida ella, che
sarà di noi? Un uomo ucciso in mia casa! Se vien la giustizia siamo
perduti. - Se Pangloss non fosse stato impiccato, disse Candido, ci daria
qualche buon consiglio in simile estremità; egli era un gran filosofo. In
sua mancanza consultiamo la vecchia.
Questa
era molto prudente, e mentre cominciava a dire il suo parere, eccoti che s'apre
un'altra porticina. Era un'ora dopo mezzanotte, ed era il principio della
domenica, giorno assegnato a monsignor inquisitore. Entra egli, e vede il
frustato Candido colla spada in mano, un cadavere steso per terra, Cunegonda
smarrita, e la vecchia a dar consiglio.
Ecco
quel che in tal momento si presentò allo spirito di Candido, e come ei
ragionò: “se questo sant'uomo grida soccorso mi farà bruciare
infallibilmente e potria far l’istesso di Cunegonda. Ei mi ha fatto frustare
senza pietà, egli è mio rivale, io ho già preso il verso a
ammazzare, e non v’è da esitare un momento.” Questo ragionamento fu
semplice e corto, e senza dar tempo all’Inquisitore di rivenire dalla sua
sorpresa, lo passa da parte a parte, e lo distende accanto all'ebreo. - Eccoti
la seconda di cambio, grida Cunegonda, non c’è più remissione;
noi siamo scomunicati, è venuta per noi l’ultim’ora. Come avete potuto
fare voi, che siete nato così pacifico, ad ammazzare in due minuti di
tempo un prelato ed un ebreo? - Ah, bella Cunegonda, rispose Candido, quando
uno è innamorato, geloso e frustato dal Sant’Uffizio, esce fuori di
sè.
La
vecchia prese allor la parola: “Vi sono, diss’ella, tre cavalli d'Andalusia
nella stalla, con tutto il lor fornimento; Candido li metta all'ordine, madama
ha delle doppie e delle gioje; montiamo addirittura a cavallo, bench’io non
possa star che sopra una parte sola, e andiamocene a Cadice; fa il più
bel tempo del mondo, ed è proprio un piacere il viaggiar col fresco
della notte.”
Candido
mette immediatamente la sella al cavalli; Cunegonda, la vecchia, ed esso fan
trenta miglia tutte d'un fiato. Mentre s’allontanavano, arriva alla casa la
Santa Hermandad, si sotterra monsignore in una bellissima chiesa, e si
butta Issaccar al Campaccio.
Candido,
Cunegonda e la vecchia eran già nella piccola città
d’Avacèna in mezzo alle montagne della Sierra Morena, e così se
la discorrevano in 'osteria.
CAPITOLO
X.
In quale indigenza Candido, Cunegonda e la vecchia arrivarono a
Cadice e del loro imbarco.
- E chi poteva dunque rubarmi le mie doppie e
i mie diamanti? dicea Cunegonda piangendo. Come faremo a campare? dove
raccapezzare degli inquisitori, e degli ebrei che me ne dieno degli altri? -
Ahimè, diceva la vecchia, io ho gran sospetto di un reverendo zoccolante
che dormì con noi a Badajoz nell’istessa locanda. Dio mi guardi di fare
un giudizio temerario, ma egli entrò due volte nella nostra camera, e
partì molto tempo prima di noi. - Ahimè, diceva Candido, me
l'aveva sovente provato Pangloss, che i beni di questa terra son comuni a tutti
gli uomini, e che ciascheduno v'ha l’istesso diritto. Quel zoccolante doveva
bene secondo questo principio, lasciarci da finire il viaggio. Non vi riman
dunque nulla nulla, bella Cunegonda? - Nemmeno un picciolo, diss'ella. - A qual
partito appigliarci? diceva Candido. - Vendiamo un de’ tre cavalli, disse la
vecchia; io monterò in groppa dietro alla signora e arriveremo a Cadice.
Vi
era nell'istessa locanda un priore de' Benedettini, che comprò il
cavallo a buon mercato. Candido, Cunegonda e la vecchia passarono per Lucena,
per Chillas, per Lebrixa e finalmente giunsero a Cadice. Vi si equipaggiava una
flotta, e vi si radunavan delle truppe per mettere a dovere i reverendi padri
gesuiti del Paraguai, i quali eran accusati di aver fatto ribellare una delle
migliori provincie contro i re di Portogallo, e di Spagna i presso alla
città del SS. Sacramento. Candido, che aveva militato fra i Bulgari,
fece l’esercizio alla bulgara dinanzi al generale della piccola armata con
tanta grazia, con tanta celerità, con tanta destrezza, con tanta bravura
e agilità che gli è dato il comando di una compagnia di fanti.
Eccolo fatto capitano; egli s’imbarca con Cunegonda e la vecchia, due
servitori, e i due cavalli d'Andalusia, che eran già stati di monsignore
di Portogallo.
Durante
tutto il passaggio parlarono assai sulla filosofia del povero Pangloss. - Noi
andiamo in un altro mondo, diceva Candido, forse è là dove tutto
e ottimo; perchè confessar bisogna che vi sarebbe da sospirare di quel
che segue nel nostro, tanto in morale che in politica. - Ora vi voglio
veramente bene, dicea Cunegonda, perchè ho l'anima anch’io tutta
disgustata di quel che vi ho provato e veduto. - Tutto passerà bene,
ripetea Candido, in questo novello mondo; il mare istesso è migliore che
quel di Europa; egli è più placido, e il vento vi è men
variabile. Al vedere è il mondo nuovo il migliore degli universi possibili.
- Iddio lo voglia, dicea Cunegonda, ma son stata così orribilmente
maltrattata nel mio, che ho il cuore quasi intieramente chiuso alla speranza -
Voi vi lamentate, riprese la vecchia, ahimè, che voi non avete provato
sciagure simili alle mie.
A
Cunegonda scapparon quasi le risa, e le parve molto ridicola quella povera
vecchia a pretendere di esser più infelice di lei. - Eh cara mia, le
disse ella, quando non siate stata offesa da due Bulgari invece di uno, quando
non abbiate ricevuto due coltellate nella pancia, quando non siano stati
demoliti due de' vostri castelli e scannati sotto i vostri occhi due vostre
madri, e due padri, e frustati due vostri amanti in un auto-da-fè, non
vedo che possiate superarmi in disgrazia. Aggiungete che nata son io baronessa
con settantadue quarti di nobiltà, e che sonmi ridotta a far da cucina.
- Ah signorina, rispose la vecchia, voi non sapete qual è la mia
nascita, e se io vi mostrassi il mio bel di Roma non parlereste così, e
sospendereste il vostro giudizio. Questo discorso risvegliò nell'animo
di Cunegonda e di Candido un'estrema curiosità. La vecchia lor
parlò in questi termini:
CAPITOLO
XI.
Istoria della vecchia.
“Io
non son stata sempre cogli occhi cisposi e orlati di scarlatto, il mio naso non
è sempre andato a ritoccarsi col mento, nè sempre serva stata son
io. Io son figlia di papa Urbano decimo, e della principessa di Palestrina. Fui
fino all’età di quattordici anni allevata in un palazzo, a cui tutti i
castelli dei vostri baron tedeschi avrian potuto servir di stalla; e valeva
più un de' miei abiti che tutte le magnificenze della Vesfalia. Crescevo
in bellezza, in grazia, e in talento, in mezzo a' piaceri, agli ossequi ed alle
speranze, e inspiravo già amore: quali occhi! quali palpebre! quai
ciglia! quali fiammelle scintillavano dalle mie pupille, e oscuravano il
fulgore delle stelle! come diceanmi i poeti del luogo.
“Io
fui promessa in isposa a un principe sovrano di Massa di Carrara. Che principe!
impastato di dolcezza e di vezzi, pieno d'uno spirito brillante, e d’un fervido
amore. L'amavo qual suole amarsi ne' primi amori, con idolatria, e con
trasporto. Le nozze eran già preparate, con una pompa e una magnificenza
inaudita; non si trattava che di feste, di scarrozzate e di burlette in musica
a tutto pasto; e si fecero per tutta l’Italia de' sonetti sul mio soggetto, di
cui non ve ne fu pur uno di passabile. Ero presso al momento della mia
felicità, quando una vecchia marchesa che era stata cicisbea del mio
principe, invitollo a prender la cioccolata da lei. Morì egli in men di
due ore fra orribili convulsioni; ma questo non è nulla. Mia madre
disperava, e pur molto meno afflitta di me, volle per qualche tempo involarsi a
un sì funesto soggiorno. Aveva ella una bellissima terra presso Gaeta;
c'imbarcammo in una galera del paese, dorata come l'altar di san Pietro, ed
ecco che un corsal salettino ci dà addosso, e ci abborda. I nostri
soldati si difesero da soldati papalini, si misero tutti in ginocchione,
gittando le armi, e chiedendo al corsale un'assoluzione in articulo mortis.
“Furono
immediatamente spogliati ignudi come tanti scimmiotti; così mia madre e
le nostre damigelle d'onore, e così pur io.
“Non
starò a dirvi quanto sia cosa dura per una giovine principessa l'esser
condotta schiava al Marocco; voi comprendete benissimo quel che dovemmo
soffrire nel bastimento del corsaro. Mia madre era ancora bellissima, le nostre
damigelle d'onore, le nostre semplici cameriere aveano più vezzi di quel
che possa trovarsene in tutta l’Africa. Io poi ero un incanto, ero la bellezza
o la grazia medesima ed ero fanciulla...
“Marocco
nuotava nel sangue allorchè vi arrivammo; cinquanta figli
dell’imperatore Muley-Ismaele avean ciascuno un partito che produceva in
effetto cinquanta guerre civili di neri contro neri, di zaini contro zaini, e
di mulatti contro mulatti, ed era un continuo macello in tutta l'estensione
dell'impero.
“Fummo
appena sbarcate, che alcuni neri di una fazione nemica a quella del nostro
corsale si presentarono per involargli la preda. Dopo l’oro e i diamanti
eravamo noi quel che egli aveva di più prezioso. Io fui testimone d'una
zuffa qual mai non può vedersi nei nostri climi d'Europa. I popoli
settentrionali non hanno il sangue troppo bollente, nè il furor per le
donne nel grado ch’è ordinario nell’Africa. Par che gli Europei abbiano
latte nelle vene laddove è vetriolo e fuoco quel che scorre nelle vene
agli abitanti del monte Atlante e dei paesi vicini. Si combatteva col furor de’
leoni, delle tigri, de’ serpenti della contrada a chi ci avrebbe a possedere.
Un moro prese mia madre pel braccio destro, il luogotenente del mio capitano la
riteneva per il sinistro, un soldato l’afferrò per una gamba, un de’
nostri pirati la ritenne per l’altra, e in un momento tutte le nostre donne
trovaronsi nell’istessa guisa tirate da quattro soldati. Il mio capitano mi
teneva nascosta dietro a lui, avea impugnata la scimitarra, ed uccideva tutto
quel che opponevasi al suo furore. Finalmente vidi tutte le nostre italiane,
compresa mia madre, sbranate, trucidate e tagliate a pezzi dai mostri che se le
disputavano. Gli schiavi miei compagni, coloro che li avevan presi, soldati
marinari, negri, bianchi, mulatti, e finalmente il mio capitano, tutto
restò ucciso, ed io rimasi esangue sopra un mucchio di cadaveri. Simili
scene seguivano, come è noto, in tutta l’estensione di più
trecento leghe, senza si mancasse intanto alle cinque preghiere quotidiane
ordinate da Maometto.
“Mi
sbarazzai a gran fatica dalla folla di tanti cadaveri sanguinosi ammonticchiati
l’uno sull’altro, e mi trascinai sotto un grand’albero d'arancio sul margine
d'un ruscelletto vicino. Mi vi abbandonai svenuta dallo spavento, dalla
stanchezza, dall’orrore, dalla disperazione e dalla fame. Non andò
guari, che i miei sensi oppressi s’abbandonarono a un sonno che aveva
più del deliquio che del riposo. Ero in quello stato di debolezza e
d’insensibilità fra la morte e la vita, quando sentii qualcuno che mi
toccava stranamente. Apersi gli occhi, e vidi un uomo bianco, e di buon
aspetto, che dicea sospirando fra’ denti: oh che sciagura d'esser... quel
che sono!
CAPITOLO
XII.
Seguito delle sciagure della vecchia.
“Fra
lo stordimento e il contento a udire il linguaggio della mia patria, e non meno
stupita dalle parole che proferiva colui, gli risposi che vi erano delle
disgrazie maggiori di quella di cui lamentavasi. L'istrussi in poche parole
delle cose orribili da me sofferte, e caddi in isvenimento. Mi trasportò
egli in una casa vicina, mi fece mettere a letto, mi fece dar da mangiare, mi
servì, mi consolò, mi accarezzò, mi disse di non aver mai
veduta beltà maggiore della mia.
“-
Io sono nato a Napoli, mi diss’egli; vi si accapponano tutti gli anni due o
tremila ragazzi, altri ne muoiono, altri acquistano una voce più bella
di quella delle donne, altri vanno a governar degli Stati. Mi fu fatta questa
operazione con grandissimo successo, e sono stato virtuoso della cappella della
principessa di Palestina.
“-
Di mia madre! esclamai.
“-
Di vostra madre! esclamò egli piangendo. Come! sareste voi quella
giovine principessa, che io ho allevata fino all’età di sei anni, e che
prometteva fin d'allora di dover riuscire quella bellezza, che voi siete?
“-
Io son quella stessa; mia madre è lontana di qui quattrocento passi,
sbranata in quarti sotto un monte di morti.
“Gli
contai tutto quel che mi era accaduto, egli mi narrò finalmente le sue
avventure, e mi disse come egli era stato inviato al re di Marocco da una
potenza cristiana per concludere con quel monarca un trattato, in virtù
del quale gli si somministrerebbe polvere, cannoni e bastimenti per ajutarlo a
sterminare il commercio degli altri cristiani.
- La mia commissione è eseguita,
continuò quell’onorato eunuco, io devo imbarcarmi a Ceuta e di là
ricondurvi in Italia.
“Io
lo ringraziai con lacrime di tenerezza, egli invece di condurmi in Italia mi
menò ad Algeri, e mi vendè al Deì di quella provincia.
Appena fui venduta, quella pestilenza che ha fatto il giro dell’Africa,
dell'Asia e dell’Europa si scatenò furiosamente in Algeri. Voi avete
udito il terremoto, ma non avete mai signorina mia, provata la peste. Se
provata l'aveste, confessereste ch’ella è ben qualche cosa di più
che un terremoto. Ella è comunissima in Africa, ed io ne restai infetta.
Figuratevi qual condizione per una figlia di papa, in età di quindici
anni, che in tre mesi di tempo avea provata la povertà, la
schiavitù, aveva veduto spaccare in quarti la madre, avea provata la
fame e la guerra, e se ne moriva appestata in Algeri. Io però ne scampai,
ma il Deì, e quasi tutto il serraglio d'Algeri perì.
“Passata
la prima furia di questa orribile pestilenza si venderono le schiave del
Deì. Un mercante mi comprò e mi condusse a Tunisi. Mi
vendè egli a un altro mercante che mi rivendè a Tripoli, da
Tripoli fui rivenduta al Alessandria, d'Alessandria a Smirne, e da Smirne a
Costantinopoli. Toccai finalmente ad un Agà de’ giannizzeri ch’ebbe ben
tosto il comando di andare a difendere Azof contro i Russi, che l’assediavano.
L’Agà, ch’era un onestissimo uomo, condusse seco tutto il suo serraglio,
e ci diè quartiere in una fortezza sulla palude Meotide sotto la guardia
di due eunuchi, e di venti soldati. Fu ucciso un prodigioso numero di Russi, ma
essi si presero ben la rivincita. Azof fu messo a ferro e fuoco, e non si risparmiò
nè sesso, nè età. Non vi restò che la nostra
piccola fortezza, e i nemici pensarono di prenderci con affamarci. I venti
giannizzeri s'erano impegnati con giuramento di non arrendersi mai, e
l’estremità della fame a cui furon ridotti, li costrinse a mangiarsi i
nostri due eunuchi, per timore di violare il giuramento, e a capo di pochi
giorni risolverono di mangiarsi le donne.
“Avevamo
un pio Imano molto compassionevole, che fe’ loro un bellissimo sermone per
persuaderli a non ucciderci affatto. - Tagliate, diss’egli, solamente una
parte... carnosa per una a queste signore, e avrete da scialare. Se sarà
necessario ritornarci un’altra volta fra pochi giorni, ne avrete altrettanto;
il cielo vi saprà buon grado d’un’azione sì caritatevole, e ne
sarete soccorsi.
“Siccome
era molto eloquente, li persuase; ci fu fatta quest’orribile operazione, e
l’Imano ci applicò l'istesso balsamo che si adopra a' bambini dopo la
circoncisione; noi eravam tutte per morire.
“Appena
avevano i giannizzeri terminato il pasto che noi imbandito loro avemmo, eccoti
su de' battelli piatti arrivare i Russi, e neppur un giannizzero si
salvò. I Russi non badarono punto allo stato in cui ci trovavamo. Vi son
dappertutto dei chirurghi francesi; uno di questi molto bravo prese cura di
noi, e ci guarì, ci disse a tutte di consolarci, perchè in molti
assedj era stato praticato lo stesso, ed esser così la legge di guerra.
Quando
le mie compagne furono in grado di camminare ci mandarono a Mosca. Io toccai in
sorte un bojardo; che mi fece sua giardiniera, e mi regalava di venti frustate
al giorno; ma questo signore, essendo stato arruotato in capo a due anni con
una trentina d'altri bojardi, per impicci di corte, profittai di questa
avventura e me ne scappai. Traversai tutta la Russia; fui lungo tempo a servire
in una osteria a Riga, indi a Rostock, a Veimar, a Lipsia a Cassel, a Utrecth,
a Leida, all’Aja, a Rotterdam; sono invecchiata nella miseria e nell’obbrobrio,
ricordandomi sempre d’esser figlia di papa. Ho voluto uccidermi cento volte; ma
amavo ancora la vita. Questa debolezza ridicola è forse delle nostre
inclinazioni la più funesta. Perchè vi è nulla di
più ridicolo che di voler portar continuamente un fardello, che si
vorrebbe ad ogni momento buttar giù? Di aver in aborrimento la propria
esistenza, e di non poter distaccarsene? D’accarezzar finalmente il serpe che
ci divora, finchè non ci abbia mangiato il cuore?
“Ho
veduto ne' paesi che la fortuna m’ha fatto scorrere e nelle osterie dove ho
servito, un numero prodigioso di persone, che detestavano la propria esistenza,
ma otto soli ne ho veduti che abbian volontariamente posto fine alla lor
miseria, tre negri, quattro inglesi e un professore tedesco nominato Robek.
Finalmente; sono stata a servire in casa dell’ebreo don Issaccar che mi mise
appresso di voi signorina mia bella; mi vi sono affezionata, e mi son data
più pensiero delle vostre avventure che delle mie. Non vi avrei nemmen
parlato mai delle mie disgrazie, se voi non m'aveste un po' piccata e se non
fosse l’uso sui bastimenti di contar istorielle per divertirsi. Finalmente,
signora, io ho dell’esperienza e conosco il mondo. Pigliatevi un gusto;
impegnate i passeggeri a contarvi ognun la sua istoria, e se uno solo se ne
trova che non abbia sovente maledetto il punto in cui nacque, e che non abbia
sovente detto a sè medesimo d’essere il più infelice che viva,
gettatemi a capo all’ingiù nel mare, ch'io mi contento.”
CAPITOLO
XIII.
Come Candido fu obbligato di separarsi dalla bella Cunegonda e
dalla vecchia
La
bella Cunegonda udita che ebbe l’istoria della vecchia le fe’ tutte le cortesie
che a persona del di lei merito e del di lei rango si convenivano, ed avendo
accettato il consiglio, impegnò tutti i passeggieri a contare, uno dopo
l’altro, le loro avventure, ed ebbe, insieme con Candido, a confessare che la
vecchia aveva ragione. - Che peccato, diceva Candido, che il saggio Pangloss
sia contro il costume stato impiccato in un auto-da-fè! ei ci direbbe
delle cose ammirabili sul mal fisico e sul mal morale onde è coperta la
terra e il mare, ed io mi sentirei forza bastante di fargli con tutto il
rispetto delle obbiezioni.
A
misura che ognuno andava contando la propria istoria il bastimento avanzava
cammino. Abbordarono a Buenos-Aires, e Cunegonda, il capitan Candido, e la
vecchia andarono a casa del governatore don Fernando d’Ibaraa y Figueora y
Mascarenes y Lampourdos y Souza. Questo signore avea tutta la fierezza che
convenivasi a un uomo che portava una sì lunga sfilata di nomi, egli
parlava alla gente con un sì nobil disdegno, arricciava talmente il
naso, alzava sì spietatamente la voce, prendeva un tuono da imporre
talmente e affettava un portamento sì altiero, che faceva venir voglia
di bastonarlo a chiunque gli favellava. Amava furiosamente le donne, e
Cunegonda gli parve quanto di più bello avesse mai veduto. La prima cosa
ch’ei fece, fu di dimandare s'ella era moglie del capitano, e fece questa
domanda in un'aria, che mise Candido in apprensione; non ardì egli dire
che era sua sorella perchè non lo era nemmeno, quantunque questa bugia
officiosa fosse di moda fra gli antichi e potesse essere utile tra i moderni;
aveva l’anima troppo pura per avere a tradire la verità. -La signora
Cunegonda, diss'egli, deve farmi l'onor di sposarmi, e siamo a supplicar
l’Eccellenza Vostra a degnarsi di fare le nostre nozze.
Don
Fernando d'Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza, arricciando le
basette, sorrise amaramente, e ordinò al capitano Candido d'andare a far
la visita della sua compagnia. Candido obbedì; e il governatore si
fermò con Cunegonda; le dichiarò la sua passione, le
protestò che il giorno appresso l'avrebbe sposata in faccia alla Chiesa,
o altrimenti, come più fosse piaciuto alla di lei bellezza; Cunegonda
gli domandò un quarto d’ora per raccogliersi, per consultar la vecchia,
e determinarsi.
La
vecchia diceva a Cunegonda: - Signorina, voi avete settantadue quarti di
nobiltà, e nemmeno un picciolo; non sta che a voi il divenir la moglie
del più gran signore dell’America Occidentale, e che ha una bella
basetta: vorrete voi piccarvi d’una fedeltà a tutta prova?
Voi
siete stata oltraggiata da’ Bulgari; un ebreo e un inquisitore si sono
succeduti. Le disgrazie danno de' privilegi; ed io confesso, che se fossi ne'
vostri piedi non mi farei il minimo scrupolo di sposare il signor governatore,
e di far la fortuna di Candido.
Mentre
la vecchia così parlava con tutta la prudenza che viene dall'esperienza
e dagli anni, si vide entrar nel porto un piccolo legno, che portava un alcade,
e degli alguazil; ed ecco quel che era successo.
La
vecchia aveva molto bene indovinato, che era questi un francescano conventuale,
che avea rubato i danari e le gioje di Cunegonda nella città di Badajoz,
quando in tutta fretta se ne fuggiva con Candido. Questo frate avendo voluto
vendere alcune di quelle gioje a un giojelliere, furon da lui riconosciute per
quelle dell'inquisitore, e il francescano aveva, prima di farsi impiccare,
confessato d'averle rubate, indicando le persone e la strada ch’esse avean
presa. La fuga di Cunegonda e di Candido era già nota, s’inseguirono
fino a Cadice, e senza perder tempo si spedì un bastimento per tener lor
dietro, ed era già questi nel porto di Buenos-Aires. Si sparse la nuova
che era per sbarcarne un alcade, che veniva in traccia degli assassini di
monsignore il grand’Inquisitore; e la vecchia prudente, vide in un istante quel
che era da farsi. - Voi non potete fuggire, diss’ella a Cunegonda, e non avete
nulla da temere. Non siete voi quella che ha ucciso l'inquisitore, e d’altra
parte il governatore che vi ama non vi lascerà maltrattare; restate.
Corre
immediatamente da Candido, e “fuggite, gli dice, fra un'ora vi bruceranno.” Non
vi era un momento da perdere, ma come lasciar Cunegonda, e dove rifugiarsi?
CAPITOLO
XIV.
Come Candido e Cacambo furono ricevuti da’ Gesuiti del Paraguai
Candido
aveva condotto da Cadice un servitore di quelli che trovansi in abbondanza
sulle coste di Spagna e sulle colonie. Era questi un quarto di spagnuolo nato
da un meticcio nel Tucuman, era stato chierico di coro, sagrestano, marinaio,
frate, fattore, soldato e lacchè. Si chiamava Cacambo, e amava molto il
padrone, perchè il padrone era un bell’uomo. Sellò egli
immediatamente i due cavalli d’Andalusia, e “andiamo, disse al padrone,
seguitiamo il consiglio della vecchia, partiamo e galoppiamo senza voltarci
indietro.” - Oh mia cara Cunegonda, dicea Candido piangendo, ho io ad
abbandonarvi adesso che il signor governatore è per stringere i nostri
sponsali? Oh Cunegonda, condotta di sì lontano che sarà di voi? -
Farà quel che potrà, dicea Cacambo, le donne san ben levarsi
d'intrigo. Iddio le provvede, scappiamo. - Dove mi meni tu? dove si va? che
farem noi senza Cunegonda? - Per San Jacopo di Compostella, diceva Cacambo, tu
andavi a far la guerra a' gesuiti, andiamo a farla per loro, io son pratico
delle strade, e vi condurrò nel lor regno, ed essi avranno un gusto
grandissimo di avere un capitano che faccia l’esercizio alla bulghera, e voi
farete una fortuna prodigiosa. Quando non si trova il suo conto in un mondo si
va in un altro, ed è un gran piacere vedere, e far cose nuove. - Tu sei
dunque stato altre volte nel Paraguai? disse Candido. - E come! rispose
Cacambo, sono stato sguattero nel collegio dell’Assunzione, e conosco il
governo de los Padres quanto le strade di Cadice. Che cosa maravigliosa
che è quel governo! Il regno ha di già trecento leghe di diametro
diviso in trenta provincie. I padri vi hanno tutto e i popoli nulla. Questo
è il capo lavoro della ragione e della giustizia. Io non vedo per me
niente di sì divino quanto i padri che fan qui la guerra al re di Spagna
e di Portogallo, e sono in Europa i lor confessori. Qui ammazzano gli Spagnuoli
e a Madrid li mandano in paradiso. È un incanto; tiriamo avanti; voi
diventerete il più felice di tutti gli uomini. Che piacere avranno los
padres, quando sapranno che vien da loro un capitano, che fa l’esercizio
alla bulghera!
Arrivati
che furono alla prima barriera, Cacambo disse alla sentinella che un capitano
voleva parlare a monsignor comandante. Si andò a darne avviso alla gran
guardia. Un uffiziale paraguaino corse a’ piedi del comandante a dargliene
parte; Candido e Cacambo furono immediatamente disarmati, e furon loro presi i
due cavalli d'Andalusia. I due forestieri vengono introdotti in mezzo a due
file di soldati, in fondo alle quali era il comandante colla berrettina a tre
punte in capo, la toga tirata su, la spada al fianco e lo spuntone In mano.
Fece egli un segno, e immediatamente i due forastieri furono circondati da
ventiquattro soldati. Gli disse un sergente che conveniva aspettare, che il
comandante non potea parlargli, perchè il reverendo padre provinciale
non permette ad alcun spagnuolo di aprir la bocca fuorchè in sua
presenza, o di restare in paese più di tre ore. - Ma il signor capitano,
disse Cacambo, che muor di fame come me, non è spagnuolo, è
tedesco; non potrebb'egli intanto che si aspetta Sua Reverenza, far colazione?
Il
sergente andò subito a render conto di questo discorso al comandante. -
Ringraziato sia Dio, disse questo signore, giacchè è tedesco
posso parlargli, conducetelo nella mia pergola.
Candido
viene allora introdotto in un gabinetto di verdura adorno d'un bel colonnato di
marmo verde venato d'oro, di e belle graticolate con entrovi de' pappagalli,
dei colibrì, degli uccelli mosche, dei pintades, e tutti gli uccelli i
più rari. Era di già all’ordine in piatti d'oro una colazione
squisita, e mentre i paragauini mangiavano del mais in scodelle di legno alla
campagna aperta e al bollor del sole, il reverendo padre comandante entrò
sotto il pergolato.
Era
egli un bel giovanotto, pienotto di viso, di carnagion bianca e colorita, colle
ciglia rilevate, l’occhio vivo, l'orecchie rosse, le labbra vermiglie, e l'aria
fiera, ma di una fierezza non da spagnuolo e non da gesuita. Furono a Candido e
a Cacambo rendute le armi lor prese, come ancora i due cavalli d'Andalusia.
Cacambo gli mise a mangiar dell'avena vicino al pergolato, avendo sempre
l’occhio addosso a loro per paura di qualche sorpresa.
Candido
baciò il lembo della veste al comandante, e quindi si misero a tavola. -
Voi siete dunque tedesco, gli disse in quella lingua medesima il gesuita. -
Reverendo padre, sì, disse Candido, e l’uno e l’altro in ciò dire
si guardavano con estremo stupore e con un'emozione che trattener non.
potevano. - E di che paese di Germania siete voi? disse il gesuita. - Della
sudicia provincia di Vesfalia. disse Candido; io son nato nel castello di
Thunder-ten-tronckh. - Oh cielo! è egli possibile! esclamò il
comandante. - Che miracolo! esclamò Candido. - Sareste voi, disse il comandante.
Eh eh non può essere disse Candido...
Si
lasciano entrambi cadere a traverso, s’abbracciano e versano un fiume di
lacrime. - Come? Sareste voi, padre reverendo, il fratello della bella
Cunegonda, voi che foste ucciso da' Bulgari! voi il figlio del signor barone!
Voi gesuita nel Paraguai! Bisogna confessare che questo mondo è una
strana cosa. O Pangloss, Pangloss, qual piacere sarebbe ora il nostro se non
foste stato impiccato.
Il comandante fece ritirare gli schiavi negri,
e i paraguaini che servivano a tavola recando da bere in gotti di cristallo di
rocca; ringraziò Dio e sant’Ignazio mille volte, si stringeva Candido
fra le braccia, e il lor viso era bagnato di lacrime. - Voi restereste
più stupefatto, più commosso, e più fuor di voi, disse Candido,
se lo vi dicessi che Cunegonda vostra sorella, che avete creduta sventrata
è piena di sanità. - Dove mai? - Nelle vostre vicinanze, in casa
del governatore di Buenos Aires; ed io venivo per farvi la guerra.
Ogni
parola che profferivano in questa lunga conversazione accumulava prodigio sopra
prodigio. Tutta l’anima volava sulla lingua, era attenta sulle orecchie,
brillava loro sugli occhi. Siccome eran tedeschi stettero molto tempo a tavola,
aspettando il molto reverendo provinciale; e il comandante così parlo al
suo caro Candido.
CAPITOLO
XV.
Come Candido uccise il fratello della sua cara Cunegonda.
“Mi
ricorderò finch'io viva di quel giorno orribile in cui i vidi uccidere
mio padre e mia madre, e offender mia sorella. Ritirati che furonsi i Bulgari
questa sorella adorabile non si trovo più; si mise in una carretta mia
madre, mio padre ed io, con tre altri ragazzi scannati per condurci a
seppellire in una cappella di Gesuiti due leghe distante dal castello de’ miei
maggiori. Un gesuita ci sparse sopra dell'acqua benedetta, che era
terribilmente salata, me n'entrarono alcune gocce negli occhi, e quel Padre
s’accorse che la mia pupilla facea un piccol moto. Mi pose la mano sul cuore, e
lo sentì palpitare; fui dunque soccorso, e in capo a tre settimane era
tornato sano. Il reverendo padre
Didio superior
della casa concepì per me un'affezione la più tenera. Mi
diè l'abito di novizio, e qualche tempo dopo fui mandato a Roma. Aveva
il padre generale bisogno di reclute di gesuiti tedeschi; perchè i
sovrani del Paraguai ricevon men che possono gesuiti spagnuoli; hanno
più gusto a' forestieri di cui si credono più assoluti padroni.
Fui prescelto a proposito dal padre generale di venire a lavorare in questa
vigna, onde partimmo un polacco, un tirolese, ed io. Fui al mio arrivo onorato
del suddiaconato e dell'impiego di tenente. Io sono al presente colonnello, e
sacerdote. Le truppe del re di Spagna saranno ricevute con vigore, ve ne
assicuro io, e saranno scomunicate e battute. La provvidenza vi ha qui mandato
per secondarci; ma è egli vero che la mia cara Cunegonda sia qui vicino
dal governatore di Buenos Aires?”
Candido
l’assicurò con giuramento che era verissimo, e le lor lacrime
ricominciarono.
Il
barone non sapea saziarsi d'abbracciar Candido chiamandolo suo fratello e
salvatore. - Ah forse, diss'egli, potremo entrar assieme trionfanti nella
città e ripigliar Cunegonda. - Questo è tutto quel che più
bramo, diceva Candido, perchè contavo di sposarla, e lo spero. - Come,
insolente, riprese allora il barone, avreste voi la sfacciataggine di sposar
mia sorella che vanta settantadue quarti di nobiltà? Mi parete bene
sfrontato ad aver l’ardire di parlarmi di un disegno sì temerario.
Candido
restò di sasso a questa escita, e: Tutt'i quarti del mondo,
replicò, non ci han che far nulla, padre mio reverendo. Io ho levato
vostra sorella di mano a un ebreo, e ad un inquisitore; ella mi deve
dell’obbligazioni e vuole sposarmi. - Maestro Pangloss mi ha sempre detto che
gli uomini son tutti eguali, e sicuramente la sposerò. - Lo vedremo,
pezzo di birbante, disse il gesuita baron di Thunder-ten-tronckh, e in queste
dire gli diè una gran piattonata sul viso.
Candido
pose immediatamente mano alla spada o l'immerse fino all'elsa nel corpo del
baron gesuita; ma nel ritirarla tutta fumante si mise a piangere;
“ahimè! dicendo, che io ho ucciso il mio vecchio padrone, il mio amico,
il cognato, io sono il miglior uomo del mondo, e intanto ho ammazzato
già tre persone, e fra queste due sacerdoti.”
Cacambo
che faceva la sentinella alla porta del gabinetto accorse, e: - Non ci resta;
gli disse il padrone, che a vender cara la nostra vita; entreranno senza dubbio
nel gabinetto, bisogna morir coll'armi alla mano.
Cacambo
che si era trovato in altri imbrogli non si si smarrì punto, prese egli la
toga da gesuita che portava il barone, la mise addosso a Candido, gli diede il
berrettino del morto, e lo fece montare a cavallo; tutto questo fu fatto in un
batter d'occhio.
“Galoppiamo,
padrone, sarete da tutti preso per un gesuita, che va a dar degli ordini, e si
saran passate le frontiere prima che vi possan dar dietro.”
Nel
dir queste parole volava via gridando in spagnuolo: - Largo, largo, al
reverendo padre colonnello.
CAPITOLO
XVI.
Quel che avvenne a' due viaggiatori con le due femmine, due
scimmie, e gli uomini selvaggi chiamati Orecchioni.
Candido
e il suo servo si trovarono al di là degli steccati, che nel campo non
si sapeva ancora la morte del gesuita tedesco. Il vigilante Cacambo avea
pensato a empir la valigia di pane, di cioccolata, di prosciutti e di alcune
misure di vino. S'internarono co' lor cavalli andalusi in una contrada
incognita, dove non era vestigio di strada alcuna; finalmente si
presentò loro una bella prateria, tramezzata di ruscelli. Ivi i nostri
viaggiatori fan pascere i lor cavalli; Cacambo propone al suo padrone di
mangiare, e glie ne dà l'esempio. - Come vuoi tu, dice Candido che io
mangi del prosciutto, quando ho ammazzato il figlio del signor barone, e che mi
vedo condannato a non riveder più la bella Cunegonda in tutto il tempo
di vita mia? A che mi servirà il prolungare i miei giorni, s'io devo
condurli lungi da lei nel rimorso, e nella disperazione? Che dirà il Giornale
di Trevoux?
Così
parlando, non lasciava però di mangiare. Il sole tramontava, quando i
due smarriti sentirono alcune piccole strida, che parean di femmine; essi non
sapevano se quelle strida eran di dolore, o di gioja; si alzaron
precipitosamente con quella inquietudine, e con quello spavento che tutto
inspira in un paese incognito. Quei clamori si partivano da due giovani, che
leggermente correvano lungo la sponda della prateria, mentre due scimmie le
mordevano alle spalle. Candido ne fu mosso a pietà; aveva egli imparato
a tirare da' Bulgari, ed avrebbe colpito una nocciuola in mezzo a un cespuglio,
senza toccar le foglie; prende egli il suo fucile spagnuolo a due canne, tira e
ammazza le due scimmie. - Dio sia lodato, mio caro Cacambo, io ho liberato da
un gran periglio quelle due povere creature; se ho commesso un peccato
ammazzando un inquisitore e un gesuita, io vi ho ben rimediato, salvando la
vita a due giovani, saran forse due damigelle di condizione, e questa avventura
ci può procurare gran vantaggi nel paese.
Volea
più dire, ma restò colla parola in bocca quando vide quelle due
giovani abbracciare teneramente le due scimmie, cadere piangendo su’ loro corpi
ed empir l’aria di dolorose grida. - Io non mi aspettava un cuor tanto buono,
disse finalmente a Cacambo, il qual gli replicò: - Voi avete fatto un
bel servizio padron mio: avete ammazzato i due amanti di quelle damigelle. - I
loro amanti! è possibile? Tu mi burli, Cacambo, come posso crederlo? -
Mio caro padrone, interrompe Cacambo, voi vi fate sempre maraviglia di tutto;
perchè ha egli a parervi strano che in qualche paese vi sieno delle
scimmie che ottengano simpatie dalle dame? esse son un quarto d’uomo com’io
sono un quarto di spagnuolo. - Ah, ripiglia Candido, mi sovviene d'aver inteso
dire dal mio maestro Pangloss, che altre volte sono accaduti simili accidenti,
e che avean prodotto degli Egipani, de' Fauni, dei Satiri, stati veduti dai
più gran personaggi dell'antichità; ma io la credeva un favola. -
Ora dovete esserne convinto, disse Cacambo. Quel che io temo per altro,
è che quelle dame non ci pongano in qualche imbroglio.
Queste
solide riflessioni determinarono Candido ad abbandonare la prateria, e ad
internarsi in un bosco, ove cenò con Cacambo, e dopo d'aver ambedue
maledetto l'inquisitor di Portogallo, il governator di Buenos-Aires, e il
barone, si addormentarono sull'erba. Al risvegliarsi sentirono che non si
potean muovere, e la ragione era che nella notte gli Orecchioni abitanti
del paese, ai quali erano essi stati accusati dalle due dame, li avevano
ammanettati con corde di scorza d’albero. Si videro noi attorniati da una
cinquantina d'Orecchioni armati di frecce, di clave, e di asce di sasso;
gli uni facean bollire una gran caldaja, gli altri preparavano degli spiedi
gridando tutti: - È un gesuita, è un gesuita, noi saremo
vendicati; e faremo un buon pasto, mangiamo un gesuita, mangiamo un gesuita!
- Io ve l'aveva detto, mio caro padrone, grida
afflitto Cacambo, che quelle due giovani ci avrebbero fatto un cattivo tiro.
Candido,
scorgendo la caldaja e gli spiedi grida: “Noi certamente saremo arrostiti e
lessati. Ah, che direbbe il maestro Pangloss s’egli vedesse come la pura natura
è fatta? Tutto va bene; lo sia pure, ma io provo che è cosa
crudele l'aver perduta la bella Cunegonda, e l'esser infilato su uno spiede dagli
Orecchioni.”
Cacambo
non si smarrì mai: - Non disperate di nulla, diss’egli all’afflitto
Candido: io intendo un poco il gergo di questi popoli. - Non lasciate dice
Candido, di far loro vedere qual orribile inumanità è quella di
cuocer gli uomini, e che non è da cristiani. - Signori, dice Cacambo,
voi credete dunque di mangiar oggi un gesuita: benissimo fatto; niente
v'è di più giusto che il trattar così i propri nemici; in
fatti il diritto naturale c’insegna ad uccidere il nostro prossimo, e questo si
costuma ancora in tutta la terra. Se noi non usiamo del diritto di mangiar gli
uomini, è perchè abbiamo d'altra parte di che scialare, ma voi
non avete il medesim rinfranco di noi; certamente è meglio mangiare i
suoi nemici, che abbandonare ai corvi e alle cornacchie i frutti di sua
vittoria; ma, signori, voi non vorreste mangiar il vostro amico, voi credete
d'infilare e arrostire un gesuita; ed egli è un vostro difensore, un
nemico de’ vostri nemici: per me, io son nato nel vostro paese, e questo signore
che vedete è mio padrone; che ben lungi d’essere un gesuita, ne ha
poc’anzi ammazzato uno, e ne porta le spoglie. Ecco l’oggetto del vostro
errore. Per verificare quel ch’io vi dico, prendete la sua toga, portatela al
primo steccato del regno de los Padres, e informatevi se il mio padrone
non ha ammazzato un uffiziale gesuita: poco tempo vi abbisognerà, e
potrete sempre mangiarci quando troviate ch'io abbia mentito, ma io vi ho detto
la verità: voi conoscete troppo i principj del gius pubblico, i
costumi e le leggi per non farci grazia.
Gli
Orecchioni trovarono questo discorso molto ragionevole, e deputarono due
cittadini de’ più ragguardevoli per andar con diligenza a informarsi
della verità. I due deputati eseguirono la lor commissione da gente di
spirito, e ritornarono ben tosto ad apportar buone nuove.
Gli
Orecchioni liberarono allora i due prigionieri, fecero loro ogni sorta
di civiltà, offrirono loro delle ragazze, diedero loro rinfreschi, e li
ricondussero ai confini dei loro Stati, gridando con allegrezza: Non è
gesuita, non è gesuita.
Candido
non lasciava di ammirare la sua liberazione - Che popolo! diceva egli, che
uomini! Che costumi! Se io non avessi avuta la fortuna di dare una stoccata a
traverso il corpo del fratello di Cunegonda, io era mangiato senza remissione;
ma finalmente la pura natura è buona, poichè questa gente in
luogo di mangiarmi, mi ha fatto mille gentilezze, allorchè han saputo
che io non era gesuita.
CAPITOLO
XVII.
Arrivo di Candido e del suo servo al Paese d'Eldorado e ciò
ch'essi vi videro.
Quando
furono alle frontiere degli Orecchioni: - Vedete voi, disse Cacambo a
Candido, che quell’emisfero non è miglior dell'altro: credete a me,
ritorniamocene in Europa per la più corta. - Come ritornarci? disse
Candido, e dove andare? Se vado nel mio paese, i Bulgari e gli Abari ci
scannano; se ritorno in Portogallo, son bruciato; se restiamo in questo paese,
corriamo rischio ogni momento di esser messi sullo spiedo; e poi come
risolversi ad abbandonare la parte del mondo ove abita la bella Cunegonda? -
Volgiamoci verso la Cajenna, dice Cacambo, noi vi troveremo de’ Francesi, i
quali vanno per tutto il mondo ed essi potranno ajutarci. Dio avrà forse
pietà di noi.
Non
era così facile di andare alla Cajenna. Essi sapevano press’a poco qual
cammino bisognava prendere, ma fiumi, precipizj, assassini, selvaggi, eran per
tutto terribili ostacoli; i lor cavalli morirono di fatica; le loro
provviggioni furono consumate, e si nudrirono un mese intero di frutti
selvatici; finalmente si trovarorono presso un fiumicello ornato di alberi di
cocco, che sostennero la lor vita o le loro speranze.
Cacambo
che sempre dava, al par della vecchia, de’ buoni consigli, disse a Candido: -
Noi non ne possiam più, abbiamo camminato assai, vedo un barchetto
vuoto, empiamolo di cocco, e gettiamoci dentro, a discrezione della corrente;
un fiume conduce sempre in qualche parte abitata; se non troveremo delle cose
aggradevoli, troveremo almen delle cose nuove. - Andiamo, disse Candido,
raccomandiamoci alla provvidenza.
Essi
vogarono per qualche lega fra ripe or fiorite, ora sterili, or piane, ed ora
scoscese. Il fiume si faceva sempre più largo; finalmente si perdeva
sotto una volta di spaventevoli scogliere che si ergevano fino al cielo. I due
viaggiatori ebbero l'ardire d'abbandonarsi al flutto, sotto quella volta. Il
fiume, chiuso in quello stretto, portava con una rapidità e un fracasso
terribile. In termine di ventiquattr’ore rividero la luce, ma il lor barchetto
si fracassò negli scogli, onde bisognò strascinarsi di rupe in
rupe e per una lega intera; finalmente discuoprirono un orizzonte immenso
contornato di montagne inaccessibili. Il paese era coltivato sì per
piacere, come per bisogno, e da per tutto il prodotto era aggradevole. Le
strade eran coperte, o piuttosto adornate di vetture, d’una forma e d’una
materia brillante, portando addentro degli uomini e delle donne d'una bellezza
singolare, condotte rapidamente da grossi montoni rossi, che sorpassavano in
corporatura i più bei cavalli d'Andalusia, di Tituano e di Mequinez.
- Ecco a buon conto, disse Candido, un paese
che val più della Wesfalia.
Mise
i piedi a terra con Cacambo al primo villaggio che gli si presentò.
Alcuni ragazzi, coperti di un broccato d’oro tutto stracciato, giuocavano alle
piastrelle all’entrata del borgo. I nostri due uomini dell’altro mondo
s’occupavano ad osservarli; le loro piastrelle erano tonde, assai larghe,
gialle, rosse, verdi, e gettavano uno splendore singolare; venne voglia ai
viaggiatori di raccoglierne alcune, e videro ch’erano d’oro, di smeraldi, di
rubini, la minor delle quali sarebbe stato il più grand’ornamento del
trono del Mogol. - Senza dubbio, disse Candido, questi ragazzi sono i figli del
re del paese, che giocano alle piastrelle.
Apparve
in quel momento il maestro del villaggio per ricondurli a scuola: - Ecco, dice
Candido, il precettore della famiglia reale.
Quei
baroncelli abbandonaron tosto il giuoco, lasciando in terra le lor piastrelle e
tutto ciò che aveva servito al lor divertimento. Candido le raccolse,
corse dal precettore, e gliele presentò umilmente, facendogli intendere,
a forza di cenni, che le loro altezze reali si erano dimenticate del loro oro e
delle loro gemme. Il maestro del villaggio, sorridendo, le gettò per
terra, guardò un momento la figura di Candido con stupore e
continuò il suo cammino.
I
viaggiatori non lasciarono di raccorre l’oro, i rubini e gli smeraldi. - Dove
siamo noi? grida Candido: bisogna che i figli del re di questo paese sieno bene
educati, perché s’insegna loro a sprezzar l’oro e le gemme.
Cacambo n’era meravigliato al par di Candido.
Si avvicinarono in fine alla prima casa del villaggio, la quale era fabbricata
come un palazzo europeo; una folla di popolo si affrettava verso la porta, e
più ancora al di dentro; si faceva sentire una musica graziosissima e un
odor delizioso di cucina. Cacambo s’appressò alla porta, e sentì
che si parlava peruviano; era questo il suo linguaggio materno, poiché ognun sa
che Cacambo era nato al Tucuman, in un villaggio ove non si conosceva che
questa lingua. - Io vi servirò d’interprete, disse a Candido; entriamo,
qui v’è un’osteria.
Immediatamente
due giovani e due ragazze dell’osteria, vestite di drappi d’oro e guarnite i
capelli di nastri, li invitano a porsi a tavola. Furon serviti di quattro
minestre guarnite ciascuna di due pappagalli, d’un lesso che pesava duecento
libbre, di due scimmie arrostite, d’un gusto eccellente, di trecento
colibrì in un piatto, e di seicento uccelli mosca in un altro, di ragù
squisiti, e di paste deliziose, il tutto in certi piatti d’una specie come di
cristallo di rocca, e i giovani e le ragazze versavan loro più liquori
estratti da canne da zucchero.
I
convitati erano per la maggior parte mercanti e vetturini, tutti d’una somma civiltà;
questi fecero alcune domande a Cacambo col più circospetto riguardo, e
risposero alle sue con una maniera più che propria a soddisfarlo.
Terminato
il pasto, Cacambo e Candido crederono di ben pagare la loro parte col gettare
sulla tavola dell'oste due di que' grossi pezzi d'oro che avean raccolti;
l'oste e l'ostessa diedero in uno scoppio di risa e si tennero per lungo tempo
le coste; finalmente rimessosi: - Signori, disse l'oste, vediamo bene che siete
forestieri; noi non siamo soliti a vederne; scusateci perciò se ci siamo
messi a ridere quando ci avete offerto i ciottoli delle nostre strade; voi,
senza dubbio, non avete moneta del paese, ma non è necessario d'averne
per desinar qui: tutte le osterie erette per il comodo del commercio son pagate
dal governo: avrete avuto un cattivo trattamento, perchè questo è
un povero. villaggio; ma, altrove sarete ricevuti come meritate d'esserlo.
Cacambo
spiegò a Candido tutto il discorso dell'oste, e Candido l'ascoltò
con la stessa ammirazione, e con lo stesso stupore che ne aveva risentito il
suo amico Cacambo. “Che paese dunque è questo, diceva l'uno all'altro,
incognito a tutto il resto della terra; e dove la natura è sì
diversa dalla nostra? Questo, probabilmente, è il paese dove tutto va
bene, giacchè bisogna assolutamente che uno ve ne sia di questa specie:
dica quel che vuole il maestro Pangloss, io mi sono spesso avveduto che tutto
andava molto male in Wesfalia.”
CAPITOLO
XVIII.
Ciò che videro nel paese d'Eldorado.
Cacambo
testificò al suo oste tutta la sua curiosità; l’oste gli disse: -
Io sono molto ignorante, e me ne trovo bene; ma qui abbiamo un vecchio
ritiratosi dalla Corte; che è il più sapiente uomo del regno, e
il più comunicativo.
Egli
condusse Cacambo dal vecchio; Candido allora che non faceva altra figura che di
secondo personaggio, seguiva il suo servo. Entrarono essi in una casa molto
semplice, poichè la porta non era che di argento, e le soffitte degli
appartamenti non erano che d'oro, ma lavorate con gusto tale, che le più
ricche soffitte non le oscuravano; l’anticamera non era invero incrostata che
di rubini e di smeraldi, ma l'ordine, nel quale tutt'era disposto, correggeva
bene quella somma semplicità.
Il
vecchio ricevè i due forastieri sopra un sofà spiumacciato di
penne di colibrì, fece lor presentare de' liquori in vasi di diamanti, e
appagò poi la lor curiosità in questi termini:
- Io sono nell'età di settantadue anni,
e ho saputo dal fu mio padre, scudiere del re, le stupende rivoluzioni del
Perù, delle quali egli fu testimone. Il regno ove noi siamo è
l'antica patria degli Incas che ne uscirono imprudentemente per andare a
soggiogare una parte del mondo, e che furono finalmente distrutti dagli
Spagnuoli. I principi della lor famiglia che restarono nel lor paese nativo furono
più saggi; essi comandarono col consenso della nazione che nessuno
abitante non uscisse dal nostro piccolo regno; ed ecco come ci siamo conservati
nella nostra innocenza, e nella nostra felicità. Gli Spagnuoli hanno
avuta una conoscenza confusa di questo paese; essi l’hanno chiamato l’Eldorado,
ed un inglese nominato il cavalier Raleigh ci si avvicinò circa a
cent’anni sono; ma siccome noi siamo circondati da scogliere inaccessibili e da
precipizj, perciò siamo sempre stati fino al presente al sicuro dalla
rapacità delle nazioni d'Europa; che hanno un'avidità
incomprensibile per i sassi e per il fango della nostra terra, e che per
averne, ci ucciderebbero tutti dal primo all'ultimo.
La conversazione fu lunga, o andò a
cadere sulla forma di governo, su' costumi, sulle femmine, su i pubblici
spettacoli e sulle arti. Candido infine, che avea sempre piacere alla
metafisica, fece dimandare da Cacambo se nel paese vi era una religione.
Il
vecchio arrossì un poco - Come dunque, diss'egli, potete voi dubitarne?
ci prendete forse per ingrati?
Cacambo gli dimandò umilmente qual era
la religione d'Eldorado. Il vecchio arrossì ancora. - Che forse possono
esservi due religioni? diss'egli: noi abbiamo la religione, cred'io, di tutto
il mondo: noi adoriamo Iddio dalla sera alla mattina. - Non adorate voi che un
solo Iddio? disse Cacambo, che serviva sempre d'interprete a’ dubbi di Candido
- Apparentemente, disse il vecchio non ve ne sono nè due, nè tre,
nè quattro: io vi confesso che mi pare che le genti del vostro mondo
faccian delle dimande ben singolari.
Candido
non lasciava di far interrogare questo buon vecchio: ei volle sapere come si
pregava Iddio nell'Eldorado. Non lo preghiamo, disse il buono e rispettabile
vecchio: non abbiamo nulla da chiedergli: ei ci dà tutto ciò che
ci abbisogna, e noi lo ringraziamo senza fine.
Candido
avea la curiosità veder de' preti, e fece domandare se ve n'erano. Il
buon vecchio sorrise. - Amici miei, disse egli, noi siamo tutti preti: il re e
tutti i capi di famiglia cantan degl'inni di rendimento di grazie;
solennemente, e tutte le mattine, e cinque o seimila musici li accompagnano. -
Come! voi non avete frati, che insegnino, che disputino, che governino, che
brighino e che facciano bruciare la gente che non è del lor parere. -
Bisognerebbe che noi fossimo ben pazzi, disse il vecchio: noi siamo tutti di un
medesimo sentimento, e non intendiamo ciò che vogliate dire co’ vostri
frati.
Candido
a tutti que' discorsi restava maravigliato, e diceva fra sè medesimo -
“Questo paese è ben differente dalla Wesfalia, e dal castello del signor
barone: se il nostro amico Pangloss avesse veduto Eldorado non avrebb’egli
più detto che il castello di Thunder-ten-tronckh era quel che v'è
di meglio sulla terra. È certo che bisogna viaggiare.”
Dopo
questa lunga conversazione, il buon vecchio fece, attaccar la carrozza a sei
montoni e diede dodici de’ suoi domestici ai due viaggiatori per farli condurre
alla Corte - Scusatemi, disse loro, se la mia età mi toglie l'onore di
accompagnarvi. Il re vi riceverà in una maniera, di cui non sarete mal
soddisfatti, e voi perdonerete senza dubbio agli usi del paese, se ve ne sono
alcuni che vi dispiacciano.
Candido
e Cacambo salirono in carrozza; i sei montoni volavano, e in meno di quattr'ore
arrivarono al palazzo del re situato alla cima della capitale. L'ingresso era
di duecentoventi piedi di altezza, e cento di larghezza. È impossibile
di esprimere qual ne fosse la materia: si può considerare qual
prodigiosa superiorità ella doveva avere su que' sassi e su quella
sabbia che noi chiamiamo oro e gemme.
Venti
belle ragazze della guardia ricevettero Candido e Cacambo al discendere dalla
carrozza; li condussero ai bagni, li vestirono di abiti tessuti di piuma di
colibrì, e dopo i grand’uffiziali e grand'uffizialesse della corona li
introdussero all'appartamento di sua maestà in mezzo a due file ciascuna
di mille musici, secondo l'uso ordinario. Quand'essi si avvicinarono alla sala
del trono, Cacambo dimandò a un grand’uffiziale come bisognava
contenersi per salutare sua maestà: se si stava ginocchioni o colla
pancia per terra, se si mettevano le mani sulla testa o sul di dietro, se si
leccava la polvere della sala, in una parola qual era il cerimoniale. - L'uso,
disse il grand’uffiziale, è di abbracciare il re e baciarlo da una parte
e dall'altra.
Candido
o Cacambo saltarono al collo di sua maestà, ed egli li ricevè con
tutta la grazia immaginabile, e gl'invitò gentilmente a cena.
Frattanto
si fece lor vedere la città, gli edifizj pubblici innalzati fino alle
nuvole, i passeggi adornati di mille colonne, le fontane d'acqua pura, quelle
d'acqua di rosa, quelle di liquor di canna di zucchero, che gettavano zampilli
continuamente nelle vaste piazze lastricate di una specie di pietre che
tramandavano un odore simile a quello del garofano e della cannella. Candido
chiese di vedere il palazzo della giustizia, e il parlamento, o gli si disse
che non vi era nulla di questo, nè mai si facean liti. Dimandò se
vi erano delle prigioni, e gli si disse che no. Ciò lo stupì
d’avvantaggio, e finalmente quel che più gli piacque fu il palazzo delle
scienze, nel quale ei vide una galleria di duemila passi, tutta piena di
strumenti di fisica.
Dopo
di aver trascorsa, tutto il dopo pranzo, press'a poco la millesima parte della
città, furono ricondotti dal re. Candido si mise al tavola fra sua
maestà, il suo servo Cacambo e molte dame. Non si poteva far miglior
pasto, nè si poteva cenare con maggior gusto, di quel che ne
provò il re. Cacambo spiegava le idee del re a Candido, e benchè
tradotte, eran sempre concettose. Di tutto quel che maravigliava Candido questo
non era il meno.
Essi
passarono un mese alla Corte; Candido diceva sempre a Cacambo: “È vero,
amico, che il paese ov'io son nato non ha nessun grado di comparazione col
paese ove siamo, ma finalmente la bella Cunegonda non v’è, e voi ancora
avrete senza dubbio qualche amante in Europa. Se noi restiamo qui non vi faremo
maggior figura degli altri, invece se torniamo nel nostro mondo con dodici
montoni carichi de' ciottoli d'Eldorado, saremo più ricchi di tutti
insieme i re: non avremo più inquisitori da temere, e potremo facilmente
riprenderci la bella Cunegonda.
Piacque
tal discorso à Cacambo; s'ha tanto gusto a gironzare e farsi valere fra
i suoi, e far mostra di ciò che s'è veduto viaggiando, che i due
fortunati si risolverono di più non esserlo, e di prender congedo da sua
maestà.
-
Voi fate una pazzia, disse loro il re: so bene che il mio paese è
piccola cosa, ma quando si vive passabilmente in qualche luogo, bisogna
restarvi; io non ho al certo il diritto di ritenere i forastieri; questa
è una tirannia che non è nè secondo i nostri costumi,
nè secondo le nostre leggi. Tutti gli uomini sono liberi; partirete
quando vorrete, ma sappiate che l'escita è ben difficile. È
impossibile di rivalicare il rapido fiume su cui siete qui giunti per miracolo,
e che corre sotto a volte di scogliere. Le montagne che chiudono tutto il mio
regno, hanno diecimila piedi d'altezza, e son diritte come muraglie; esse
occupano in larghezza uno spazio di dieci leghe per ciascuna, e non si
può discenderle che per precipizj. Per altro, giacchè volete
assolutamente partire, io darò ordine agli intendenti di macchine di
farne una che comodamente possa trasportarvi; ma quando sarete condotti a
traverso le montagne nessuno vi potrà accompagnare; perchè i miei
sudditi han fatto voto di non uscir giammai dal loro recinto, ed essi son
troppo saggi per rompere il loro voto; pel resto chiedetemi tutto ciò
che vi piacerà. - Noi non chiediamo a vostra maestà, disse Cacambo,
che alcuni montoni carichi di viveri, de' ciottoli o del terriccio del paese. -
Il re rispose: Io non capisco, qual gusto abbiano le vostre genti d’Europa per
la nostra mota gialla; ma portatevene quanta ne vorrete, e buon pro vi faccia.
Egli died'ordine in quell'istante a' suoi
ingegneri di fare una macchina per levar in alto, e calar fuor del regno i due
uomini straordinari. Tremila bravi fisici vi lavorarono; essa fu pronta in
termine di quindici giorni, e non costò più di venti milioni di
lire sterline, moneta del paese. Furon messi sulla macchina Candido e Cacambo;
vi eran due gran montoni sellati, e brigliati per servir loro di cavalcatura
quando avessero scalato lo montagne: venti montoni da basto carichi di viveri,
trenta che portavano di regali, consistenti in ciò che il paese aveva di
più raro, ed altri cinquanta carichi d'oro, di pietre, e di diamanti. Il
re abbracciò teneramente i due forestieri.
Fu
un bello spettacolo la lor partenza, e la maniera ingegnosa con cui furono
innalzati essi e i lor montoni alla cima delle montagne. I fisici presero da
lor congedo. Dopo di averli posti in sicurezza, a Candido non restò
altro desiderio che d'andare a presentare i suoi montoni alla sua bella
Cunegonda, messa forse a prezzo. - Camminiamo verso la Cajenna, imbarchiamoci,
e vedremo in seguito qual regno potremo comprare.
CAPITOLO
XIX,.
Ciò che accadde loro a Surinam e come Candido fece
conoscenza con Martino.
Il
primo giorno de' nostri viaggiatori fu piacevole. Essi erano incoraggiati
dall'idea di vedersi possessori di tesori di gran lunga maggiori di quanti ne
avessero potuti riunire l'Asia, l'Europa e l'Africa. Candido entusiasmato,
scrisse il nome di Cunegonda sugli alberi. Il secondo giorno due de' lor
montoni s'affondarono nelle paludi, e vi subissarono col lor carico; due altri
montoni morirono di fatica alcuni giorni appresso; sette o otto perirono in
seguito dalla fame in un deserto; altri in termine di alcuni giorni caddero da
precipizj; finalmente dopo cento giorni di cammino non restaron loro che due
montoni. Candido disse a Cacambo: - Vedete, amico, come le ricchezze di questo
mondo son caduche: nulla vi è di stabile come la virtù, e la
fortuna di veder Cunegonda. - Lo confesso anch'io, rispose Cacambo; ma ci
restano ancor due montoni con più tesori che non avrà mai il re
di Spagna e vedo da lontano una città, che io suppongo Surinam,
appartenente agli Olandesi. Eccoci al termine dello nostre fatiche e al
principio della nostra felicità.”
Avvicinandosi
alla città s'incontrarono in un negro disteso in terra, che non aveva
che la metà del suo abito, cioè un par di braghe di tela azzurra;
mancava a questo povero uomo la gamba sinistra, e la mano dritta. - Mio dio!
gli dice Candido, che fai tu là, amico, in questo stato orribile in cui
ti vedo? - Attendo il mio padrone il signor Vanderdendur il famoso negoziante,
risponde il negro. - E questo signor Vanderdendur, dice Candido, ti ha conciato
così? - Sì, signore, risponde il negro, quest’è l’uso: ci
vien dato un par di brache di tela per vestito due volte l’anno: quando
lavoriamo alle zuccheriere, e che la macina ci acchiappa un dito, ci si taglia
la mano; quando vogliam fuggire ci si taglia la gamba; a questo prezzo voi
mangiate dello zucchero in Europa. Intanto, allorchè mia madre mi vendè
per dieci scudi patacconi sulla costa di Guinea, ella mi diceva: figliuol mio,
benedici i nostri feticci, adorali tutti i giorni, essi ti faran vivere
fortunato; tu hai l’onore d’essere schiavo de’ nostri signori i bianchi, e tu
fai la fortuna di tuo padre e di tua madre. Ah! io non so se ho fatto la lor
fortuna, so bene che essi non han fatto la mia: i cani, le scimmie, i
pappagalli son mille volte meno disgraziati di noi. I feticci olandesi che mi
han convertito, mi dicon tutte le domeniche che noi siamo tutti figli d’Adamo,
bianchi e neri; io non sono genealogista, ma se quei predicatori dicono il vero
noi siam tutti fratelli cugini; or voi converrete che non si possono usare tra
parenti trattamenti più orribili.
- O Pangloss! grida Candido, tu non avevi pensato
a questa abominevole circostanza; ed è pur cosa di fatto;
bisognerà finalmente che io rinunzii al tuo ottimismo. - Che
cos’è quest’ottimismo? dice Cacambo. - Ah, risponde Candido, è la
maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male.
Intanto
versava lagrime riguardando il negro, e piangendo entrò in Surinam.
La
prima cosa di cui essi s’informarono, fu se v’era nel porto alcun vascello che
si potesse spedire a Buenos-Aires. Quello a cui si presentarono era appunto un
padrone spagnuolo, che si offrì di far con essi un onesto partito, e
disse loro d’andare a far capo a un’osteria. Candido e il fedele Cacambo vi
andarono, e ivi l’aspettarono co’ loro due montoni.
Candido
che aveva il cuor sulle labbra, raccontò allo spagnuolo tutte le sue
avventure, e gli confessò che volea rapire Cunegonda. - Io mi
guarderò bene di darvi il passaggio a Buenos-Aires, disse il padrone.
Saremmo impiccati ambedue; la bella Cunegonda è l’amante favorita di sua
eccellenza.
Questo
fu un colpo di fulmine per Candido; diede in dirotto pianto, e infine
tirò a parte Cacambo: - Ecco, o caro amico, gli dic’egli, ciò che
hai da fare: abbiamo ciascuno di noi nella tasca cinque o sei milioni di
diamanti; tu sei più abile di me, va a prendere Cunegonda a Buenos-Aires;
se il Governatore fa delle difficoltà dàgli un milione; se non
s’arrende, dagliene due; tu noi hai ammazzato inquisitori, né sarai per conto
alcuno persona sospetta; io noleggerò un altro bastimento, ed
andrò ad attenderti a Venezia; questo è un paese libero dove non vi
sono da temere nè Bulgari, nè Abari, nè Ebrei, nè
inquisitori.
Cacambo
applaudì una sì saggia risoluzione; gli dispiaceva di separarsi
dal suo buon padrone, divenuto suo intimo amico, ma il piacere d’essergli utile
prevalse al dolore d’abbandonarlo. Si abbracciarono colle lagrime agli occhi;
Candido gli raccomandò di non scordarsi della buona vecchia, e Cacambo
partì il giorno stesso. Era pure il buon uomo questo Cacambo!
Candido
soggiornò per qualche tempo in Surinam, aspettando che qualche altro
padrone lo conducesse in Italia coi due montoni che gli restavano. Ei prese de'
domestici, e comprò tutto quel che gli era necessario per un lungo
viaggio; infine il signor Vanderdendur padrone di un grosso bastimento venne a
presentarglisi.:
- Quanto volete voi, disse Candido a costui,
per condurre addirittura a Venezia me, la mia gente, il mio bagaglio e que' due
montoni là?
Il
padrone chiese dieci mila piastre; Candido non fiatò.
- Oh oh, disse fra sè il prudente
Vanderdendur, questo forastiere accorda diecimila piastre tutte a un colpo!
bisogna ch'egli sia ben ricco.
Gli
si fece avanti un momento dopo, e gli significò che non poteva partire
per meno di ventimila. - E bene, voi le avrete, rispose Candido.
- Capperi! quest'uomo, disse fra sè il
mercante, dà ventimila piastre sì facilmente come diecimila;
ritorna di nuovo, e gli dice che non poteva condurlo per meno di trentamila
piastre. - Voi ne avrete dunque trentamila, rispose Candido.
- Oh oh, dice nuovamente fra sè il
mercante olandese, trentamila piastre non son niente a quest'uomo; senza dubbio
i due montoni portano tesori immensi; non insistiamo di più, facciamogli
pagar subito le trentamila piastre, e poi vedremo.
Candido
vendè due piccoli diamanti, il minore dei quali valeva più del
danaro che chiedeva il padrone, e pagò anticipatamente. I due montoni
furono imbarcati, e mentre Candido andava per raggiungere in un piccolo
battello il bastimento alla rada, il padrone coglie il tempo, si mette alla
vela, leva l'ancora e il vento lo favorisce. Candido smarrito e stupefatto lo
perde di vista, e: - Ahimè! grida, ecco un tratto degno del vecchio
mondo. Ritorna al porto assorto nel suo dolore, poichè finalmente avea
perduto tanto da fare la fortuna di venti monarchi.
Si
trasferisce dal giudice olandese, e brusco come egli era, picchia fieramente
alla porta; entra, espone il suo caso, e grida in tuono un poco più alto
di quel che conveniva. Il giudice comincia a fargli pagare diecimila piastre
per lo strepito ch’egli aveva fatto; indi l'ascoltò pazientemente; gli
promette d'esaminare il caso tosto che il mercante sia tornato, e si fa pagare
diecimila altre piastre per le spese dell'udienza.
Una
tale procedura pose in disperazione Candido; egli aveva in vero provato delle
disgrazie mille volte più triste, ma la pacatezza del giudice, e quella
del padrone, da cui era stato truffato, accese la sua bile, e lo gettò
in una nera melanconia; la perfidia degli uomini si presentava alla di lui
mente in tutta la sua laidezza, ed egli non si nutriva che di torve idee. Finalmente
un vascello francese essendo sul punto di partire per Bordeaux, giacchè
egli non aveva più montoni carichi di diamanti da imbarcare,
pattuì una camera su quello a giusto prezzo, e fece intendere nella
città, ch’ei pagherebbe il passaggio, il nutrimento, e darebbe duemila
piastre a un galantuomo che volesse fare il viaggio con lui, a condizione ch'ei
fosse il più contento del proprio stato, e il più sventurato
della provincia.
Gli
si presentò una folla tale di pretendenti che una flotta non avrebbe
potuto contenerla. Candido, volendo fare una scelta di quelli che ne avevano
più l'apparenza, distinse una ventina di persone che a lui pareano assai
sociabili, e che pretendevano tutte di meritar la preferenza. Egli le
adunò nella sua osteria, e diè loro da cena, a condizione che
ciascuno giurasse di raccontar fedelmente la sua istoria; promettendo di
sceglier quello ch'ei avrebbe giudicato il più scontento del proprio
stato a più giusto titolo, e di dare agli altri qualche gratificazione.
La
seduta durò sino alle quattro del mattino; e Candido, ascoltando tutte
le loro avventure, si ricordava di ciò che gli aveva detto la vecchia,
andando a Buenos-Aires, e della scommessa che aveva fatta, che non v'era alcuno
sul bastimento a cui non fossero occorse delle grandi sciagure; pensava egli
altresì a Pangloss in ciascuna avventura che gli si raccontava e diceva:
- Questo Pangloss sarebbe bene imbrogliato a far valere il suo sistema; io
vorrei ch'ei fosse qui. Certamente se tutto va bene, tutto va bene
nell'Eldorado, e non già in tutto il resto della terra. Finalmente si
determinò a favore d'un povero letterato che avea lavorato dieci anni
per le librerie d'Amsterdam giudicando che niun altro mestiere potesse darsi al
mondo, di cui si potesse essere più malcontenti.
Questo letterato era d'altra parte un
buon uomo; era stato tradito dalla sua moglie, bastonato dal figlio, e
abbandonato dalla figlia, che s'era fatta rapire da un portoghese; era stato
privato di un modesto impiego da cui traeva la sua sussistenza, e i predicatori
di Surinam lo perseguitavano perchè lo credevano un socciniano. Bisogna
confessare che gli altri eran forse più disgraziati di lui, ma Candido
sperava che il letterato lo avrebbe divertito nel viaggio; tutti gli altri suoi
rivali si lamentavan con Candido della grand'ingiustizia che lor faceva, ma
egli gli acquietò, dando a ciascuno cento piastre.
CAPITOLO
XX.
Ciò che accadde sul mare a Candido e a Martino.
Il
vecchio letterato che si chiamava Martino, s'imbarcò dunque per Bordeaux
con Candido. L'uno e l'altro avean troppo veduto e troppo sofferto; e quando il
bastimento avesse dovuto far vela da Surinam al Giappone, per il capo di Buona
Speranza avrebbero avuto con che trattenersi sul male morale e sul male fisico
in tutto il viaggio
Intanto
Candido aveva un gran vantaggio sopra Martino; egli aveva la speranza di
riveder Cunegonda, e Martino nulla aveva da sperare; di più aveva egli
dell'oro e de' diamanti, e sebbene avesse perduto cento grossi montoni rossi
carichi de' più gran tesori della terra, sebbene avesse sempre sul cuore
la ribalderia del padrone olandese, pure, quand'egli pensava a ciò che
gli restava in tasca, e quando parlava di Cunegonda, specialmente in fin di
tavola, pendeva verso il sistema al Pangloss.
- Ma voi, signor Martino, diceva egli al
letterato, che pensate voi su tutto questo? qual è la vostra idea sul
mal morale, o sul mal fisico? - Signore, risponde Martino, i miei preti mi
hanno accusato di essere socciniano; ma la verità del fatto è che
io son manicheo. Voi mi burlate, dice Candido, non vi son più manichei
al mondo - Vi son io, dice Martino: non so che farvi, ma non; posso pensate
altrimenti. Bisogna che voi abbiate il diavolo addosso, dice Candido. - Ei si mescola
tanto nelle cose del mondo, dice Martino, che potrebbe esser ben nel mio corpo,
come in ogni altra parte; ma io vi confesso che dando un'occhiata su questo
globo, o piuttosto su questo globetto, io penso che Dio l'abbia abbandonato a
qualche essere malefico, eccettuato sempre Eldorado; io non ho mai veduto
città che non desideri la rovina della città vicina: niuna
famiglia che non voglia sterminare qualche altra famiglia: per tutto i deboli
hanno in esecrazione i potenti, innanzi a' quali s'avviliscono, e i potenti
trattano quegli come le pecore, di cui si vende la lana e la carne; un milione
d'assassini arruolati, corre da una parte all'altra dell'Europa, esercitando
l'omicidio e la ruberia con disciplina, per guadagnare il pane, perchè
non hanno più onesto mestiere; e nelle città che sembrano goder
la pace, e dove fioriscono l'arti, gli uomini son divorati da più gare,
più pensieri, e più inquietudini, che una città assediata
non prova fiamme; le tristezze secrete sono ancor più crudeli che le
miserie pubbliche: in una parola io ho veduto tanto e tanto ho provato, che son
manicheo.
- Vi è per altro del buono, replicava
Candido. - Può essere, diceva Martino, ma io non lo conosco.
A
mezzo di questa disputa si sente uno strepito di cannone, lo strepito cresce a
ogni istante, e ciascuno prende il suo cannocchiale. Si scorgono due vascelli
che combattono tre miglia distante; il vento conduce l'uno e l'altro sì
vicino al vascello francese, che si ha il piacere di vedere il combattimento a
tutt'agio; infine uno di quegli scarica sull'altro una fiancata sì
bassa, e sì ben misurata, che lo cola a fondo; Candido e Martino videro
distintamente un centinajo d'uomini sul cassero del vascello che andava a
picco, che alzavano tutti le mani al cielo, e gettavano spaventevoli strida; ad
un tratto tutto fu inghiottito.
- Ebbene, dice Martino, ecco come gli uomini
si trattano gli uni cogli altri. - È vero, dice Candido: v'è
qualche cosa di diabolico in questo.
Così
discorrendo ei scorge un non so che di rosso lucente, che nuotava verso il suo
bastimento. Fece staccare la scialuppa per conoscere ciò che poteva
essere; era uno de’ suoi montoni, e Candido in ritrovare quel montone,
provò un contento maggiore dell'afflizione che avea provata in perderne
cento tutti carichi di grossi diamanti d'Eldorado.
Il
capitano francese conobbe tosto che il capitano del vascello vittorioso era
spagnuolo, e quel del vascello sommerso era un pirata olandese, ed era quello
stesso che avea tradito Candido. Le ricchezze immense di cui quello scellerato
si era impadronito, furono seppellite con lui nel mare: un montone solo s'era
salvato. - Voi vedete, dice Candido a Martino: il delitto alcuna volta è
punito: questo furfante di padrone olandese ha avuto la sorto che meritava. - Sì,
dice Martino, ma i passeggieri non han dovuto perire anch'essi? Dio ha punito
quel briccone, e il diavolo ha annegati gli altri.
Intanto
il vascello francese e lo spagnuolo continuarono il lor cammino e Candido
continuò le sue conversazioni con Martino. Essi disputarono quindici
giorni di seguito e in que' quindici giorni essi eran tanto avanzati quanto il
primo; ma finalmente parlavano, si comunicavano delle idee, e si consolavano.
Candido accarezzava il suo montone. - Giacchè io ho ritrovato te,
diceva, potrò ben ritrovare la mia bella Cunegonda.”
CAPITOLO
XXI.
Candido e Martino si avvicinano alle coste di Francia e ragionano.
Si
scorsero infine le coste di Francia. - Siete mai stato in Francia, signor
Martino? dice Candido. - Sì, risponde Martino, io ne ho trascorso
più provincie, ve ne sono alcune dove una metà degli abitanti
sono pazzi, alcune dove son molto astuti, altre dove son assai minchioni, altre
dove si fa il bello spirito; ed in tutte la principale occupazione è
l'amore, la seconda il mormorare, e la terza il dir scempiaggini. - Signor
Martino, avete voi veduto Parigi? - Sì, l’ho veduto: là vi sono
tutte queste specie: e un caos, e, una calca dove ciascuno cerca il piacere, e
dove quasi nessuno lo trova almen per quanto mi è parso: io vi ho
dimorato poco, e vi fui derubato di tutto ciò che avevo al mio arrivo
da' ladri della fiera di San Germano: indi io stesso fui preso per un ladro, e
stetti otto giorni in prigione, dopo di che mi feci correttore di stamperia,
Per guadagnare tanto da ritornare a piedi in Olanda. Io vi ho conosciuto la
canaglia degli scrittori, la canaglia de' cavillatori e la canaglia de'
convulsionari; si dice che vi è della gente assai civile in quel paese:
io voglio crederlo.
- Per me, io non ho niuna curiosità di
veder la Francia, dice Candido; voi vi persuaderete facilmente, che quando sl
è passato un mese nell'Eldorado non viene voglia di veder altro sulla
terra, che la bella Cunegonda; io vado ad aspettarla a Venezia; noi
traverseremo la Francia per passare in Italia, non mi accompagnerete voi? -
Volentierissimo, risponde Martino; si dice che Venezia non è buona che
per i nobili veneziani, ma che intanto si son ben ricevuti i forastieri,
quand'essi però hanno molto danaro: io non ne ho punto, voi ne avete, ed
io vi seguirò per tutto. - A proposito, dice Candido, pensate voi che la
terra sia stata originariamente un mare, come si assicura in quel grosso libro
appartenente al capitano del vascello? - Io non credo niente affatto a questo,
risponde Martino, e neppure di tutti i sogni che si spacciano da qualche tempo.
- Ma a qual fine questo mondo è stato dunque formato? ripiglia Candido.
- Per farci arrabbiare, risponde Martino. - Credete voi, dice Candido, che gli
uomini si siano sempre vicendevolmente straziati, come lo fanno al presente?
ch'essi siano sempre stati bugiardi, furbi, perfidi, ingrati, assassini, pieni
di debolezze, ladri, vili, invidiosi, ingordi, ubbriaconi, avari, ambiziosi,
sanguinari, calunniatori, discoli, fanatici, ipocriti e pazzi? - Credete voi,
dice Martino, che gli sparvieri abbian sempre mangiato degli uccelli quando ne
han trovati? - Sì, senza dubbio, dice Candido.
Ebbene,
soggiunge Martino, se gli sparvieri han sempre avuto il medesimo carattere,
perchè volete voi che gli uomini abbian cambiato il loro? - Oh, dice
Candido, vi è ben differenza perchè il libero arbitrio....
Così
ragionando arrivarono a Bordeaux.
CAPITOLO
XXII.
Ciò che accadde in Francia a Candido e a Martino.
Candido
non si trattenne in Bordeaux che tanto tempo quanto gliene abbisognò a
vendere de' ciotoli d'Eldorado, e per provvedersi d'una buona carrozza a due
posti, non potendo più discostarsi dal suo filosofo Martino. Si
separò solamente, e con rincrescimento dal suo montone, lasciandolo
all'Accademia delle scienze di Bordeaux, la quale propose per soggetto del
premio di quell'anno di trovare perchè la lana di quel montone era
rossa; ed il premio fu assegnato ad un sapiente del nord, che dimostrò
per A più B meno C diviso per Z, che il montone dovea esser rosso o
dovea morire.
Intanto
tutti que' viaggiatori che Candido incontrava nell'osteria per la strada che
faceva, gli dicevano: “noi andiamo a Parigi.” Questa festa universale fece
finalmente anche a lui venir la voglia di vedere quella capitale, tanto
più che non molto si discostava dal cammino per Venezia.
Entrò
egli per il borgo di San Marcello, e credè di essere nel villaggio
più vile della Wesfalia.
Appena
Candido giunse al suo albergo fu assalito da una leggiera malattia causata
dalle sue fatiche, e siccome aveva in dito un diamante smisurato, e si era
veduta fra il suo equipaggio una cassetta eccedentemente pesante, egli ebbe
immediatamente presso di lui due medici, stati mandati da alcuni intimi amici,
che non l’abbandonavano, e due bacchettone gli facevano scaldare le bevande;
Martino diceva: - Mi ricordo di essere stato ammalato anch'io a Parigi nel mio
primo viaggio, e perchè ero molto povero, non ebbi nè amici,
nè bacchettone, nè medici, eppur guarii.
Intanto
a forza di medicine e cavature di sangue, la malattia di Candido divenne seria.
Un abitante del quartiere venne con dolcezza a chiedergli un biglietto pagabile
al latore per l'altro mondo; Candido non volle farlo; le bacchettone
l'assicurarono che questa era un nuova moda; Candido rispose ch'ei non era
punto uom alla moda; Martino volea gettar colui fuori della finestra; un
chierico giurò che non si sarebbe sotterrato Candido; Martino
giurò ch'ei seppellirebbe il chierico se continuava ad importunarlo: la
contesa si riscaldò e Martino lo prese per le spalle, e lo scacciò
fieramente. Questo cagionò un grave scandalo, e se ne fece un processo
verbale.
Candido
guarì e nella sua convalescenza ebbe una buonissima compagnia a cenar
seco lui. Si giuocava di grosso e Candido si stupiva di veder che non gli
venivano mai gli assi; ma non se ne stupiva Martino.
Fra
quei che facevano gli onori della città vi era un abatino di Perigord,
uno di quei tipi sempre officiosi, sfrontati, adattabili a tutto, che
corteggiano i forastieri che raccontan loro l'istoria scandalosa della
città e offrono loro i piaceri a ogni prezzo; questo condusse subito
Candido e Martino al teatro della Commedia; si recitava una tragedia nuova;
Candido si trovò fra alcuni belli spiriti; questo non gl'impediva di
piangere su certe scene perfettamente rappresentate; ma uno de' ragionatori gli
disse in tempo di un intermezzo: - Voi avete torto di piangere: quell'attrice
è molto cattiva, l'attore che recita seco è cattivo anch'egli, il
contenuto della tragedia è peggiore degli attori, l'autore non sa una
parola araba, e intanto la scena è in Arabia; di più egli
è un uomo che non crede alle idee innate; io vi farò vedere
domani venti libercoli contro di lui. - Signore, gli dice l'abate di Perigord
avete voi osservato quella giovinetta che ha un volto sì attraente, e un
personale sì ben composto? ella non vi costerà che diecimila
franchi il mese e cinquantamila scudi di diamanti.
“-
Io non ho tempo di occuparmi di lei, dice Candido perchè son chiamato a
Venezia per un affare che mi preme.
La
sera, dopo cena, l'insinuante Perigordino raddoppiò le sue convenienze e
le sue attenzioni. - Voi avete dunque, signore, una cosa di premura a Venezia.
- Sì signor abbate, dice Candido, bisogna assolutamente che io vada a
trovar madamigella Cunegonda.
E
qui impegnato dal piacere di ciò che amava, contò secondo il suo
uso una parte de' casi suoi con quella illustre wesfaliana.
- Io credo, disse l'abate, che Cunegonda,
abbia molto spirito, e che ella scriva delle lettere graziose. - Io non ne ho
mai ricevute, disse Candido, perchè figuratevi che, essendo stato
scacciato dal castello per amor di lei, io non potei scriverle: che
immediatamente dopo, seppi che ella era morta: che in seguito la ritrovai e la
perdei, e che le ho inviato un espresso lontan di qui duemila e cinquecento
leghe, e ne aspetto la risposta.
L'abate
ascoltava attentamente, e pareva un poco pensieroso; ei si licenziò
finalmente dai forastieri dopo averli teneramente abbracciati; il giorno
appresso riceve Candido, all'alzarsi dal letto, una lettera concepita in questi
termini:
“Signore;
amante mio carissimo, sono otto, giorni che sono ammalata in questa
città; so che voi vi siete; volerei nelle vostre braccia, se io potessi
muovermi: ho saputo il vostro passaggio a Bordeaux; io vi ho lasciato il fedele
Cacambo, e la vecchia, che devono ben tosto seguirmi. Il governatore di
Buenos-Aires ha preso tutto, ma mi resta il vostro cuore. La vostra presenza o
mi renderà la vita, o mi farà morir di piacere.”
Questa
graziosa lettera, questa lettera inaspettata trasportò Candido in una
gioja inesprimibile, e la malattia della sua cara Cunegonda lo oppresse di
dolore; diviso così fra un sentimento e l'altro, ei prende il suo oro, e
i suoi diamanti, e si fa condurre con Martino all'albergo ove dimorava
Cunegonda. Ivi entra tutto tremante, tutto agitato; gli palpita il cuore,
singhiozza, vuole aprire le cortine del letto, vuol far portare il lume. -
Avvertite di non farlo, gli dice la servente: il lume l'ammazza, e immantinente
ella serra la cortina - Mia cara Cunegonda, dice Candido piangendo, come state?
Se voi non potete vedermi, parlatemi almeno. - Ella non può parlare,
dice la servente.
La
dama allora leva una mano pienotta, e Candido la bagna di lacrime; l'empie in
seguito di diamanti, e lascia sulla sedia un sacco d'oro.
A
mezzo i suoi trasporti giunge il bargello seguito dall'abate perigordino e da
una squadra. - Questi son dunque, dic'egli, que' due forastieri sospetti?
Ei
li fa tosto legare, e ordina ai suoi famigli di condurli in prigione. - Non si
trattan così i forastieri nell’Eldorado, dice Candido. - Io son manicheo
più che mai, dice Martino. - Ma, signore, dove ci conducete? soggiunse
Candido. - In un fondo di segreta, risponde il bargello.
Martino,
riprendendo la sua mente fredda, giudicò che la dama che si pretendeva
Cunegonda fosse una furfante; un furfante il signor abate; che si era
così presto servito dell'innocenza di Candido, e un altro furfante il
bargello, da cui si potessero facilmente sbrogliare.
Candido,
piuttosto che esporsi alle procedure della giustizia, e d'altra parte
impaziente di rivedere la vera Cunegonda, si attenne al consiglio di Martino, e
offrì al bargello tre piccoli diamanti di circa tremila pezze l'uno. -
Ah signore, gli disse l'uomo del baston d'avorio, quando aveste commessi tutti
i delitti immaginabili, siete il più galantuomo del mondo: tre diamanti!
Signore, io mi farei ammazzar per voi, non che condurvi in carcere: tutti i
forastieri si arrestano; ma lasciate fare a me: ho un fratello a Dieppe in
Normandia, voglio condurvici, e se avete qualche diamante da dargli egli
avrà cura di voi, come io stesso.
- E perchè si arrestano i forastieri? -
Perchè, dice allora l'abate perigordino prendendo la parola, un birbante
del paese d'Atrebazia ha sentito fare e tanto e bastato per fargli commettere
un parricidio, non come quello del 1610 del mese di maggio ma come quello del
1513 nel mese di dicembre, e come diversi altri commessi in altri anni, e in
altri mesi da altri birbanti, che avevano inteso dello sottigliezze.
Il
bargello spiegò allora di che si trattava. - Ah, mostri
dell'umanità, gridava Candido; tali orrori fra un popolo che balla e che
canta! non potrei io uscire al più presto di questo paese ove le scimmie
attizzano le tigri? Io ho veduto degli orsi nel mio paese, e non ho veduto
degli uomini che nell'Eldorado. In nome di Dio, signor bargello, menatemi a
Venezia, ove devo attendere la mia Cunegonda. - Io non posso menarvi che nella
bassa Normandia, dice il bargello.
Immantinente
gli fa levare i ferri, dicendo d'aver preso uno sbaglio; licenzia la sua gente,
conduce a Dieppe Candido e Martino, e li lascia nelle mani di suo fratello.
V'era piccolo vascello olandese alla rada; il normanno o coll'ajuto di tre
altri diamanti diviene l'uomo più officioso del mondo, e imbarca Candido
colla sua gente nel vascello, che facea vela per Portsmouth in Inghilterra. Non
era questo il cammino per Venezia, ma Candido credeva di liberarsi dall'inferno
e facea conto di riprendere la via per Venezia alla prima occasione.
CAPITOLO
XXIII.
Candido e Martino arrivano sulle coste d'Inghilterra e ciò
che vi vedono.
- Ah Pangloss! Pangloss! ah Martino! Martino
ah mia cara Cunegonda! che mondo è questo? dice Candido sul vascello
olandese. - Qualche cosa di ben pazzo e di ben abominevole, diceva Martino. -
Voi conoscerete forse l'Inghilterra; vi sono là dei pazzi come in
Francia? - Là v'è un'altra specie di pazzia, dice Martino: voi
sapete che queste due nazioni sono in guerra per alcune staja di terreno nevoso
verso il Canada, e ch'essi spendono per questa bella guerra molto più di
quanto vale tutto il Canada; il dirvi precisamente se vi sian più pazzi
in un paese, o nell'altro, la mia debole cognizione non mel permette: solamente
so che in generale le genti che stiamo per vedere sono molto barbare.
Discorrendo
così approdarono a Portsmouth; una moltitudine di popolo cuopriva la
riva e attentamente osservava un omaccione che stava ginocchioni cogli occhi
bendati sul cassero d'una nave da guerra; quattro soldati impostati dirimpetto
a lui gli tirarono ciascuno una fucilata a tre palle nel cranio con la maggior
placidezza del mondo, e tutta l'assemblea se ne ritornò estremamente
soddisfatta. - Che cosa è questa? dice Candido: qual demonio mai
esercita per tutto il suo impero? chi era quell'omaccione che han ammazzato in
cerimonia?
E
gli si risponde: Questo è un ammiraglio. - E perchè ammazzare
quest'ammiraglio? - Perchè, gli vien detto, non ha fatto ammazzare della
gente abbastanza: ei diede una battaglia navale a un ammiraglio francese e si
è saputo che egli non era abbastanza vicino al nemico. - Ma l'ammiraglio
francese, dice Candido, era egli egualmente lontano dall'altro? - Senza dubbio,
gli si replica, ma in questo paese è bene ammazzare di tempo in tempo un
ammiraglio per incoraggiare gli altri.
Candido
restò sì stordito e sì commosso da ciò che vedeva e
da ciò che udiva, che non volle neppure metter piede a terra, ma
pattuì col padrone olandese (non credendolo un ladro come quello di
Surinam) per farsi condurre senza dilazione a Venezia.
Il
padrone olandese fu lesto in termine di due giorni; si costeggiò la
Francia, si passò alle viste di Lisbona e Candido ivi
raccapricciò: s'entrò nello stretto, indi nel Mediterraneo e
infine si approdò a Venezia. - Sia lodato Iddio, disse Candido
abbracciando Martino, qui rivedrò la bella Cunegonda; io conto su
Cacambo come su me stesso. Tutto è bene, tutto va bene, tutto va alla
meglio che sia possibile.
CAPITOLO
XXIV.
.
Visita al signor Pococurante, nobile veneziano.
Tosto
che ei fu a Venezia fece cercar Cacambo in tutte le osterie, in tutti i
caffè, e non si trovò; ei mandava tutti i giorni a fare scoperta
di tutti i vascelli, di tutte le barche; non si sentiva nulla di Cacambo. -
Come, diceva egli a Martino, io ho avuto il tempo di passare da Surinam a Bordeaux,
d'andare da Bordeaux a Parigi, da Parigi a Dieppe, da Dieppe a Portsmouth, di
costeggiare il Portogallo e la Spagna, di traversare tutto il Mediterraneo, di
passare qualche mese a Venezia e la bella Cunegonda non è arrivata! Io
non ho riscontrato che una tristanzuola in vece sua, e un abate di Perigord!
Cunegonda è morta senza dubbio e non resta anche a me che morire. Ah!
era meglio rimanere nel paradiso d'Eldorado che tornare in questa maledetta
Europa. Voi avete ragione, mio caro Martino, tutto non è che illusione e
calamità.
Ei
cadde in una nera malinconia e non prestò attenzione alcuna all'opera
alla moda, ne ad alcun altro divertimento del carnevale, e niuna dama
diè a lui la minima tentazione. Martino gli diceva: - Voi siete pur
buono, a figurarvi che un servo bastardo che ha cinque o sei milioni in tasca
vada a cercare la vostra amante in capo al mondo e ve la conduca a Venezia! ei
la prenderà per sè, se la trova, e se non la trova ne
prenderà un'altra; io vi consiglio a scordarvi del vostro servo Cacambo
e della vostra amante Cunegonda
Martino
non era troppo consolante; la malinconia di Candido s'aumenta, e Martino non
cessa di provargli che vi era poca virtù e poca felicità sulla
terra, eccettuato forse nell'Eldorado, dove nessuno poteva entrare. [ii]
- Si parla, dice Candido, d'un certo senatore
Pococurante che abita in quel bel palazzo sulla Brenta, che è tanto
compito co' forastieri. Si pretende che questo sia un uomo che non abbia mai
provata tristezza. - Io vorrei vedere una specie sì rara, dice Martino
Candido
manda immediatamente a chiedere al signor Pococurante la permissione di
visitarlo il giorno appresso. Candido e Martino andarono in gondola sulla
Brenta, ed arrivarono al palazzo del nobil Pococurante. I giardini erano di
buon gusto, ed ornati di belle statue di marmo, e il palazzo di bellissima
architettura. Il proprietario del luogo, uomo di sessant'anni, molto ricco,
ricevè con molta compitezza i due visitatori, ma con altrettanta
freddezza, il che sconcertò Candido, e non dispiacque punto a Martino.
Tosto
due belle ragazze, portarono la cioccolata, che avean fatta bene spumare.
Candido non potè fare a meno di lodare la loro bellezza, la loro grazia,
la loro attività. - Queste sono buonissime creature, disse il senatore
Pococurante; non mi dispiacciono perchè sono stufo delle:. dame della
città, per le loro civetterie, per le loro contese, per i loro capricci,
per il loro orgoglio, per le loro bassezze, per lo loro pazzie, e per i sonetti
che bisogna fare, o far fare per loro. Ma anche queste due ragazze cominciano
ad annojarmi.
Candido
dopo la colazione passeggiando in una lunga galleria, fu colpito dalla bellezza
de' quadri; dimandò di quale artista erano i due primi. - Son di
Raffaello, disse - il senatore; li comprai a caro prezzo per vanità,
anni or sono: si dice che non vi è cosa più bella in Italia, ma a
me non piacciono niente affatto; il colore è cupissimo, le figure non
son bene arrotondate, e non risaltano abbastanza; il panneggiamento non
somiglia punto a un panno insomma, checchè se ne dica, io non vi trovo
una vera imitazione della natura: a me non piacerà un quadro se non
allora che vi vedrò la natura medesima: di questa: specie non ve ne
sono: io ho molti quadri, ma non li guardo mai.
Pococurante,
aspettando il desinare, si fece eseguire un concerto; a Candido parve la musica
graziosissima - Questo suono, dice Pococurante, può divertire per una
mezz'ora, ma se dura di più annoja tutti, sebbene nessuno ardisca di
confessarlo: la musica oggigiorno non è altro che un'arte di eseguir
cose difficili, e ciò che è solamente difficile, a lungo andare
piace. Io avrei forse maggior piacere all'opera se non si fosse trovato il
secreto di farne un mostro, che mi fa stomacare: vada chi vuole a veder delle
cattive tragedie in musica, ove le scene non son fatte che per introdurre male
a proposito due o tre ariette ridicole che fanno valere il gorgozzulo
d'un'attrice; si intenerisca di piacere chi vuole, o chi può, vedendo un
castrato trillare sulla parte di Cesare, e di Catone, e passeggiare goffamente
sul palco; per me, io ho rinunziato da gran tempo a tali leggerezze, che fanno
la gloria oggigiorno del teatro italiano, e che son pagate da’ sovrani a
carissimo presso.
Candido
contese un poco su questo, ma con discrezione, e Martino fu interamente del
sentimento del senatore.
Si
misero a tavola, e dopo un eccellente desinare entrarono nella biblioteca.
Candido, vedendo un Omero magnificamente legato, lodò
l’illustrissimo, sul suo buon gusto. - Ecco, dic’egli, un libro che era la
delizia del gran Pangloss, il miglior filosofo dell’Alemagna. - Non è
già la mia, risponde freddamente Pococurante: mi si diede ad intendere
in passato, che io provavo piacere a leggerlo, ma quella ripetizione continua
di combattimenti che sempre si rassomigliano, quegli Dei che agiscon sempre per
non concluder nulla, quell’Elena ch’è il soggetto della guerra che
appena comparisce sulla scena, quella Troja che si assedia, e non si prende
mai, tutto mi cagionava una noja mortale: io ho dimandato qualche volta ad
alcuni letterati se s’annojavano come me in quella lettura: i più
sinceri mi han confessato che il libro cadeva lor dalle mani, ma che bisognava
per altro averlo nella biblioteca, come un monumento dell’antichità, e
come quelle medaglie rugginose, che non sono buone a spendersi.
- Vostr’Eccellenza non penserà
così di Virgilio, dice Candido. - Io convengo, risponde Pococurante, che
il secondo, il quarto e il sesto libro della sua Eneide sono eccellenti:
ma per quel suo pio Enea e il forte Cloante, e l’amico Acate,
e il piccolo Ascanio, e il melenso re Latino, e la villanzona Amata,
e l’insipida Lavinia, io non credo che vi sia niente di più
freddo, e di più disaggradevole; stimo meglio il Tasso, e le fandonie
dell’Ariosto, sebbene sonniferi da fare dormire uno in piedi.
- Signore, disse Candido, non avete un gran
piacere a leggere Orazio? - Vi sono delle massime, risponde, Pococurante, dalle
quali un uomo di mondo può ricavar del profitto, e che, essendo raccolte
in versi, che hanno molta forza, s’imprimono più facilmente nella
memoria; ma io fo pochissimo caso, del suo viaggio a Brindisi, e della sua
descrizione di un cattivo desinare, e della contesa de’ facchini tra un certo
Rupilio, le cui parole, dic’egli, erano piene di marcia, ed un altro le
cui parole erano aceto; io non ho letto, che con infinito disgusto i
suoi versi grossolani contro le vecchie, e contro le streghe, e non so qual
merito possa egli avere per dire al suo antico Mecenate che se fosse stato da
lui aggregato alla schiera de’ poeti lirici, avrebbe colla sua fronte sublime
dato di cozzo alle stelle. I pazzi ammiran tutto, in un autore stimato; io non
leggo che per me, e non ho piacere se non a quel che mi aggrada.
Candido,
ch’era stato educato a non giudicar cosa alcuna da per sé stesso, era molto
stupefatto di ciò che sentiva, e Martino trovava la maniera di pensare
di Pococurante assai ragionevole.
- Oh, ecco un Cicerone, dice Candido, io credo
che vostr’eccellenza non lascerà punto di leggere cotesto grand’uomo. -
Io non lo leggo mai, risponde il Veneziano: che m’importa ch’egli abbia difeso
la causa di Rabirio o di Cluenzio? Ne ho d’avanzo de’ processi da
giudicare; mi sarei adattato a leggere le sue opere filosofiche, ma quando mi
son accorto che ei dubitava di tutto, ho concluso che io ne sapeva quanto lui,
e che non avevo bisogno d’alcuno per essere ignorante.
- Oh, ecco là ottanta volumi di
raccolte d’un’accademia di scienze, dice Martino, può essere che in
quelle vi sia del buono. - Ve ne sarebbe, risponde Pococurante, se un degli
autori di coteste bagatelle avesse inventato almen l’arte di far delle spille;
ma non v’è in tutti que’ libri che vani sistemi, e niuna cosa utile.
- Quante opere di teatro io vedo là!
dice Candido, in italiano, in spagnuolo, e in francese. - Sì, osserva il
senatore. Ve ne son tremila, ma non ve ne saran tre dozzine delle buone. Quelle
raccolte poi di sermoni, che tutti insieme non vagliono una pagina di Seneca, e
tutti que’ gran volumi di teologia, credetelo, non si aprono mai, né da me né
da alcuno.
Vide
Martino degli scaffali carichi di libri inglesi. - Io credo, diss’egli, che un
repubblicano abbia ordinariamente ad aver piacere di cotesti libri, scritti
liberamente. - Sì, rispose Pococurante, è bello scrivere
ciò che si pensa, ed è questo un privilegio dell’uomo: in tutta
la nostra Italia non si scrive se non quel che non si pensa. Coloro che abitano
la patria di Cesare, e degli Antonini non osano aver un’idea, senza la
permissione di un domenicano. Io sarei contento della libertà che
inspirano gl’ingegni inglesi, se la passione, e lo spirito di partito non
corrompesse totalmente ciò che quella preziosa libertà ha di
stimabile.
Candido
scorgendo un Milton gli dimandò se considerava quell’autore per un
grand’uomo. - Chi? dice Pococurante, quel barbaro che fa un lungo commentario,
in dieci libri di versi duri, del primo capitolo della Genesi, quel grossolano
imitator de’ Greci, che disfigura la creazione, e che mentre fa da Mosè
rappresentar l’Ente increato che produce il mondo con una parola, fa prendere
un gran compasso dal Messia, in un armadio del cielo, per disegnar la sua
opera? Io dovrei forse stimar colui che ha guastato l’inferno e il diavol del
Tasso: che Trasforma Lucifero ora in gigante, e ora in pigmeo: che gli fa
ribattere cento volte i medesimi discorsi: che lo fa disputare sulla teologia,
che imitando seriamente l’invenzione comica dell’armi da fuoco dell’Ariosto, fa
sparare il cannone nel cielo da’ diavoli? Né io, né alcun altro in Italia ha
potuto trar piacere da queste triste stravaganze; e il maritaggio del peccato
colla morte, e i serpi che partorisce il peccato, non fanno vomitare ogni uomo
che ha il gusto un poco delicato? Quel poema oscuro, bizzarro e disgustevole fu
schernito fin dalla sua nascita, ed io lo tratto oggi come lo fu nella sua
patria da’ contemporanei; del resto, io dico ciò che penso, e curo
pochissimo che gli altri pensino come me.
Candido
era mal soddisfatto di que’ discorsi; egli rispettava Omero, ed amava Milton. -
Ahimè, diss’egli sottovoce a Martino, io ho ben paura che quest’uomo
abbia un sommo disprezzo per i nostri poeti alemanni. - Non vi sarebbe gran
male, dice Martino. - Oh che uomo superiore! dicea pur Candido fra’ denti. Che
spirito è questo Pococurante! Non può niente piacergli.
Dopo
di aver fatta così la rivista di tutti i libri, discesero nel giardino;
Candido ne lodò tutte le bellezze. - Io non so di cattivo gusto, disse
il padrone: noi abbiam qui delle figurine, ma dopodomani voglio farvene porre
d’un disegno più nobile.
Allorchè
i due visitatori si furono licenziati da sua eccellenza, Candido chiese a
Martino:
- Voi dunque converrete meco, che quello
è il più felice di tutti gli uomini, perché è al di sopra
di tutto ciò che possiede.
- E non vedete voi, rispose Martino, che di
tutto ciò che possiede egli è disgustato? Platone disse, molto
tempo fa, che i migliori stomaci non son quelli che rigettano tutti gli
alimenti.
- Ma, disse Candido, non è un piacere a
criticar tutto? A trovar de’ difetti, dove gli altri uomini credon vedere delle
bellezze?
Intanto
i giorni e le settimane passavano; Cacambo non tornava, e Candido era immerso
nel dolore.
CAPITOLO
XXV.
D'una cena che Candido e Martino fecero con sei forestieri, e chi
erano.
Una
sera che Candido, seguitando Martino andava a porsi a tavola co' forestieri che
alloggiavano nella stessa osteria, un uomo col viso color di fuliggine, gli
andò di dietro, e gli disse:
- Siate pronto a partir con noi; non mancate.
Ei
si voltò, e vide Cacambo. Non v’era che la vista di Cunegonda, che
potesse stupirlo d'avvantaggio; ei fu sul punto d'impazzire dall'allegrezza:
abbraccia il caro amico.
- Cunegonda è qui senza dubbio; dove
è ella? menatemi da lei, ond'io con lei muoja di gioja.
- Cunegonda non è qui, rispose Cacambo;
ella è a Costantinopoli. - Cielo! a Costantinopoli! ma foss’ella anche
nella China, io vi volo, partiamo.
- Partiremo dopo cena, ripigliò
Cacambo, non posso dirvi di più: io sono schiavo, il mio padrone mi
aspetta, bisogna ch'io vada a servirlo a tavola; non fate parola, e tenetevi
pronto.
Candido,
fra l'allegrezza ed il dolore, felice d'aver riveduto il suo fedele agente,
stupito di vederlo schiavo, pieno dell’idea di ritrovare la sua amata, col
cuore agitato, coll'animo scomposto, si mette a tavola con Martino (il quale
non si scompose a tutte quelle avventure) e co' sei forestieri che eran venuti
a passare il carnevale a Venezia.
Cacambo,
che dava da bere ad uno di que' tre forestieri, s'avvicina all'orecchio del suo
padrone sul fin della tavola, e gli dice: - Sire, vostra maestà
partirà quando le piace; il bastimento e pronto.
Dette
queste parole esce. Stupiti i convitati si guardavano l'un l'altro, senza far parola;
quando un altro domestico, avvicinandosi all'altro suo padrone, gli dice:
- Sire, la sedia di Vostra Maestà
è a Padova, e la barca è pronta.
Il
padrone fa un cenno e il domestico parte; i convitati tornano a guardarsi, e
raddoppia lo stupore di tutti. Un terzo servo, avvicinandosi pure a un terzo
forestiero gli dice: - Sire, vostra maestà faccia a mio modo, non si
trattenga di più: io vado a preparare il tutto.
Tosto
sparisce
Candido
e Martino non ebbero più dubbio allora che quella non fosse una mascherata
da carnevale. Viene un quarto domestico, e dice a un quarto padrone:
- Vostra maestà partirà quando
vorrà; e parte. - Un quinto domestico dice altrettanto a un quinto
padrone; ma il sesto servo parla direttamente al sesto forestiero, che era accanto
a Candido e gli dice: - In fede mia, sire, non si vuol dar credenza a vostra
maestà, e neppure a me, ed io e voi potremmo esser benissimo carcerati
in questa notte: io vado a provvedere a' miei affari: addio.
Spariti
tutti i domestici, i sei forestieri, Candido e Martino, restarono in un
profondo silenzio; infine, proruppe Candido: - Signori, questa è una
burla singolare: perché farvi tutti re? per me io vi confesso che nè io,
nè Martino non lo siamo.
Il
padrone di Cacambo prese allora a parlare gravemente, e disse in italiano: -
Per me non è punto una burla. Io mi chiamo Acmet III; sono stato gran
sultano per più anni; levai dal trono mio fratello; e mio nipote ne ha
levato me; si tagliò la testa a' miei visiri; io termino i miei giorni
nel vecchio serraglio: mio nipote il gran sultano Mahmud mi permette di
viaggiare qualche volta per mia salute, e son venuto a passare il carnevale a
Venezia.
Un
altro uomo giovine, che era accanto ad Acmet, parlò dopo di lui, e
disse: - Io mi chiamo Ivan; sono stato imperatore di tutte le Russie; fui
detronizzato in cuna; mio padre e mia madre furono rinserrati; io allevato in
prigione; qualche volta ho la permissione di viaggiare accompagnato da coloro
che mi guardano, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Il
terzo disse: - Io son Carlo Odoardo re d'Inghilterra: mio padre mi ha ceduti i
suoi diritti al regno; ho combattuto per sostenerlo; è stato strappato
il cuore a ottocento de' miei partigiani e si è tolta loro ogni
speranza; sono stato in carcere; or vado a Roma a fare una visita al re mio
padre, detronizzato come me, e come mio nonno, e son venuto a passare il
carnevale a Venezia.
Indi
il quarto prese a parlare, e disse: - lo son re de Polacchi: la sorte della
guerra mi ha privato de' miei stati ereditari; mio padre provò le stesse
avversità; io mi rassegno a]la Provvidenza come il sultano Acmet
l'imperator Ivan, e il re Carlo Odoardo, che Dio conceda lor lunga vita; e son
venuto a passare il carnevale a Venezia.
Disse
il quinto: - Sono ancor io re de' Polacchi: ho perduto due volte il mio regno
ma la Provvidenza mi ha dato un altro stato, nel quale ho fatto miglior fortuna
di quella che han fatta tutti insieme i re de' Sarmati sulle sponde della
Vistola; io ancora mi rassegno alla Provvidenza, e son venuto a passare il
carnevale a Venezia.
Restava
a, parlare il sesto monarca: - Signori, diss’egli io non sono sì gran
signore come voi, ma finalmente fui re al pari d'ogni altro; sono Teodoro,
eletto re in Corsica; fui chiamato maestà, e presentemente mi si
dà appena del signore; feci batter moneta., ed ora non possiedo un
danaro; ebbi due secretari di Stato, ed ora ho appena un servitore; mi vidi sul
trono, e poi per lungo tempo in prigione a Londra sulla paglia; temo d'esser
trattato egualmente qui, benchè io sia venuto come le maestà
vostre a passare il carnevale a Venezia.
I
cinque altri re ascoltarono questo discorso con una nobile compassione;
ciascuno di essi dette venti zecchini al re Teodoro per comprarsi degli abiti e
delle camicie, e Candido gli regalò un diamante di due mila zecchini.
- Chi è dunque, diceano gli altri
cinque re, questo semplice particolare che è in istato di dare cento
volte più di ciascuno di noi, e che lo dà?
Nell’istante
in che s’usciva da tavola, ecco nell'osteria quattro altezze serenissime che
avean pure perduti i lor Stati per la sorte della guerra, e che venivano a
passare il resto del carnevale a Venezia: ma Candido non ci badò
nemmeno, non pensando ad altro che di andare a trovar la sua cara Cunegonda a
Costantinopoli.
CAPITOLO
XXVI.
Viaggio di Candido a Costantinopoli
Il
fedele Cacambo avea già ottenuto la permissione da padrone turco, che
andava a ricondurre il sultano Acmet a Costantinopoli, di potere ricevere a
bordo Candido e Martino. L'uno e l'altro vi si trasferirono dopo d'essersi
inchinati avanti a sua miserabile altezza. Candido, nell'andare a bordo, disse
a Martino: - Ecco intanto sei re detronizzati, co' quali abbiamo cenato, e fra
questi sei re ve n'è ancora uno a cui ho fatto l’elemosina, Vi saranno
forse altri principi molto più infelici; per me io non no perduto se non
cento montoni, e volo nelle braccia a Cunegonda: mio caro Martino, qualche
volta Pangloss avea ragione tutto è bene. - Io lo desidero, rispose
Martino. - Ma, ripigliò Candido, è un'avventura ben poco
verosimile quella che ci si è presentata a Venezia; non si era giammai
veduto nè udito che sei re detronizzati si trovassero a cenar insieme
all'osteria. - Questo non è più stravagante, disse Martino, di
tante altre cose che ci sono accadute. È cosa comunissima che vi sieno
de' re balzati dal trono, e rispetto all’onore che abbiamo avuto di cenar con
loro, è una bagattella che non merita la nostra attenzione.
Appena
che Candido fu nel vascello, saltò al collo del suo antico servo, del
suo amico Cacambo: - Ebbene, gli disse, che fa Cunegonda? è ella sempre
un prodigio di bellezza? mi ama ella sempre? come sta ella? Tu gli hai senza
dubbio comprato un palazzo a Costantinopoli?
- Mio caro padrone, rispose Cacambo, Cunegonda
rigoverna le scodelle sulle sponde della Propontide, in casa di un principe che
ha pochissime scodelle; ella è schiava in casa d'un antico sovrano
chiamato Ragotski, a cui il Gran Turco dà tre scudi il giorno, e
l'asilo; ma ciò che è ben più tristo, si è che ella
ha perduta la sua bellezza ed è diventata orribilmente brutta. - Ah! o
bella o brutta, dice Candido, io son galantuomo, e il mio dovere è di
amarla sempre; ma come mai può ella essersi ridotta in uno stato si
miserabile co' cinque o sei milioni che tu avevi portati? - Buono! dice
Cacambo, non mi è abbisognato di dare due milioni al signor don Fernando
d’Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza, governatore di
Buenos-Aires, per ottenere Cunegonda? Ed un pirata non ci ha bravamente
spogliati di tutto il resto? Questo pirata non ci ha egli condotti al capo di
Matapan, a Milo, a Nicaria, a Samos, a Petra, a Dardanelli, a Marmora, a
Scutari? Cunegonda e la vecchia servono quel principe, di cui vi ho parlato, ed
io son schiavo del sultano detronizzato. - Che spaventevoli calamità
concatenate le une alle altre! dice Candido; ma finalmente io ho ancora alcuni
diamanti, e libererò facilmente Cunegonda. Ma è un peccato che
sia divenuta sì brutta.
Indi
rivolgendosi a Martino: - Chi pensate voi che sia più degno di
compassione l'imperatore Acmet, l'imperatore Ivan, il re Carlo Odoardo, od io?
- Non lo so, risponde Martino, bisognerebbe
che io fossi ne' loro cuori per saperlo. - Ah, dice Candido, se fosse qui
Pangloss ei lo saprebbe. - Io non so, ripiglia Martino con quali bilance il vostro
Pangloss potrebbe pesare l’infelicità degli uomini e valutare i lor
dolori; io son di sentimento che vi sieno de' milioni d'uomini sulla terra da
compiangersi molto più del re Carlo Odoardo, dell'imperatore Ivan e del
sultano Acmet. - Potrebb'essere risponde Candido.
Arrivarono
in pochi giorni sul canale del mar Nero. Candido cominciò dal riscattare
Cacambo a caro prezzo e senza perder tempo, s'imbarcò sopra una galera
co’ suoi compagni, per andare sulla riva della Propontide a cercar Cunegonda,
per quanto brutta esser potesse.
Vi
erano fra la ciurma due forzati che remavano malissimo, e a' quali il padrone
levantino applicava di tempo in tempo alcune nerbate sulle nude spalle.
Candido, per una naturale compassione, gli osservava più attentamente
degli altri galeotti, e s'avvicinò tutto pietoso verso di loro. Alcuni
tratti del viso disfigurato di due di quei miserabili gli parvero aver qualche
similitudine con Pangloss, e col disgraziato gesuita, quel barone, quel
fratello di madamigella Cunegonda. Tali somiglianze lo intenerirono e lo
attristarono; e sempre più considerandoli attentamente, disse a Cacambo:
- Se io non avessi veduto impiccare il maestro Pangloss, e se non avess'io, per
mia disgrazia, ammazzato il barone, crederei che fossero quelli là che
remano.
Al
nome del barone e di Pangloss, i due forzati alzarono delle strida, si
fermarono sul loro banco, e si lasciarono cadere i remi. Il padrone levantino
accorse, e raddoppiò loro lo nerbate. - fermate, fermate, signore, grida
Candido, io vorrei... - Come! questo è Candido! si dicono l'un l'altro i
due forzati. - Sogno, dice Candido, o son desto? Son io in questa galera?
È quello là il signor barone che ho ammazzato? e quello là
il maestro Pangloss, che io ho veduto impiccare?
- Siamo noi, siamo noi, rispondean essi. -
Come! è quello là il gran filosofo? dicea Martino. - Eh, signor
padrone! dice Candido, qual somma volete voi per il riscatto di
Thunder-ten-tronckh, uno de' primari baroni dell'impero, e del signor Pangloss,
il più profondo metafisico dell’Alemagna? - Can di cristiano, risponde
il levantino padrone, giacchè questi due cani di forzati cristiani son
baroni e metafisici, che sono, senza dubbio, dignità grandi nel lor
paese, tu mi darai cinquantamila zecchini. - Voi li avrete, signore, conducetemi
come un fulmine a Costantinopoli, e li avrete addirittura; ma no, conducetemi
da madamigella Cunegonda. Il padrone levantino, alla prima offerta di Candido,
aveva girata la prora verso la città, e facea remare con maggior impeto
d’un uccello che fenda l'aria.
Candido
abbracciò cento volte il barone e Pangloss. - E come non vi ho io
ammazzato mio caro barone? e come, mio caro Pangloss siete restato in vita dopo
d'avervi veduto impiccare? e perchè siete tutti e due in galera in
Turchia? - È vero che mia sorella sia in questo paese? diceva il barone.
- Sì, rispose Cacambo. - Io rivedo dunque il mio caro Candido, gridava
Pangloss.
Candido
presentò loro Martino e Cacambo; tutti si abbracciarono, e parlavan
tutti a una volta; la galera volava ed eran già nel porto. Si fece
venire un ebreo a cui Candido vendè per cinquantamila zecchini un
diamante del valor di centomila, perchè l'ebreo giurò per Abramo
che non potea pagarlo di più. Candido pagò incontanente il
riscatto del barone o di Pangloss. Questi gettossi ai piedi del suo liberatore
e lo bagnò di lacrime; l’altro lo ringraziò con un segno di
testa, e promise di rendergli il danaro alla prima occasione.
- Ma è possibile, diceva questi, che
mia sorella sia in Turchia? - Niente di più possibile, riprese Cacambo,
giacchè ella lava i piatti in casa di un principe di Transilvania.
Si
fecero immediatamente venir due ebrei; Candido vendè nuovamente alcuni
diamanti, e tutti si rimbarcarono in un'altra galera per andare a liberare
Cunegonda.
CAPITOLO
XXVII.
Ciò che accade a Candido, a Cunegonda, a Pangloss, a
Martino, ecc.
- Perdono, per questa volta, dice Candido al
barone, perdono, mio reverendo padre, di avervi dato una stoccata traverso il
corpo. - Non ne parliamo più, risponde il barone: io fui un po' troppo
vivo, lo confesso ma giacchè, volete sapere per quale avventura mi avete
veduto in galera, vi dirò, che dopo d'essere stato guarito della mia
ferita dal padre speziale del collegio, fui attaccato e preso da un partito
spagnuolo, e fui messo in prigione a Buenos-Aires nel tempo che mia sorella ne
partiva. Chiesi di tornare a Roma presso il padre generale, e fui nominato per
servire quale elemosiniere a Costantinopoli l'ambasciatore di Francia. Non
erano otto giorni ch'io era entrato in funzione, quando trovai sulla sera un
giovine turco; facea molto caldo; il giovine volle bagnarsi, ed io presi
quell'occasione per bagnarmi anch'io. Io non sapea che fosse un delitto
capitale per un cristiano l'esser trovato nudo con un giovine musulmano; un cadì
mi fece dare cento bastonate sotto le piante de' piedi, e mi condannò
alla galera. Io credo che non possa darsi una più orribile ingiustizia.
Ma vorrei sapere perchè mia sorella è nella cucina d'un principe
di Transilvania, rifugiato fra' Turchi? -.
- Ma voi, mio caro Pangloss, come può
darsi che io vi riveda? - È vero, dice Pangloss che voi mi avete veduto
impiccare; io dovea naturalmente esser bruciato, ma vi ricorderete che piovve a
distesa, allorchè si volea cuocermi; la tempesta fu sì violenta,
che si disperò di accendere il fuoco; fui impiccato, perchè non
si potea fare di meglio; un chirurgo comprò il mio corpo, e mi condusse
a casa sua per notomizzarmi. Mi fece tosto un’incision crociale dall'ombelico
fino alla clavicola. Io non, potea essere stato impiccato peggio di quel che lo
era: l’esecutore dell’alte opere della santa Inquisizione, il quale era
suddiacono, bruciava invero la gente a maraviglia, ma non era accostumato ad
impiccare: la corda era bagnata, e scorse male: il nodo era altresì mal
fatto; insomma io respirava ancora. L’incisione crociale mi fece alzare un
sì gran strido, che il mio chirurgo cadde indietro, e credendo di
notomizzare il diavolo, mezzo morto di paura fuggì ruzzolando per la
scala. A quello strepito corse la moglie da un gabinetto vicino e vedendomi
disteso sulla tavola coll'incision crociale, ebbe maggior paura di suo marito,
fuggì e cadde sopra di lui. Quando furono un poco rinvenuti, io sentii
che la chirurga diceva al chirurgo: - Mio caro, perchè proporti di notomizzare
un eretico? non sai che il diavolo e sempre nei corpi di simil gente? Io vado
ora a cercare un prete per esorcizzarlo.
Raccapricciai
a tal proposizione, e raccolsi le poche forze che mi restavano per gridare:
-Abbiate pietà di me. Allora il barbiere portoghese riprese l'ardire, e
ricucì la mia pelle; la sua moglie medesima prese cura di me, ed io fui
libero in termine di quindici giorni. Il barbiere mi trovò da servire, e
mi fece lacchè d'un cavalier di Malta che andava a Venezia, ma non avendo
il mio padrone di che pagarmi, io mi misi al servizio di un mercante veneziano,
e lo seguii a Costantinopoli.
Un
giorno mi venne la fantasia di entrare in una moschea; non v'era che un vecchio
imano, e una giovine bacchettona molto bella che diceva i suoi paternostri; sul
seno aveva un bel mazzetto di tulipani, di rose, d'anemoni, di ranuncoli, di
giacinti e d'orecchie d’orso. Ella lasciò cadere il suo mazzetto, ed lo
con una fretta rispettosissima glielo raccolsi, ma l'imano entrò in
collera, e vedendo che io era cristiano gridò al sacrilegio. Fui menato
dal cadì, egli mi fece dare cento staffilate sotto le piante de' piedi,
e mi condannò alla galera. Fui incatenato appunto nella galera e al
banco medesimo del signor barone. V'erano in quella galera quattro giovani
marsigliesi, cinque preti napolitani, e due frati di Corfù, i quali ci
dissero che simili avventure accadevano tutti i giorni. Il signor barone
pretendeva d'aver sofferto una ingiustizia maggiore della mia; noi disputavamo
senza fine, e ricevevamo venti nerbate il giorno, quando il concatenamento
degli eventi di quest'universo vi ha a noi condotto.
- Ebbene, mio caro Pangloss, gli dice Candido,
quando voi siete stato impiccato, notomizzato, arruotato, ed avete remato nella
galera, avete sempre pensato che tutto andava ottimamente? - Io son sempre del
mio primo sentimento, risponde Pangloss, perchè finalmente essendo io
filosofo, non mi conviene il disdirmi. Leibnitz non può aver torto, e
l'armonia prestabilita è la più bella cosa del mondo, come il
pieno e la materia sottile
CAPITOLO
XXVIII.
Come Candido ritrova Cunegonda e la vecchia.
Mentre
Candido, il barone, Pangloss, Martino e Cacambo raccontavano le loro avventure,
e ragionando sugli avvenimenti contingenti e non contingenti di quest'universo,
disputavano sugli effetti e le cause, sul mal morale e sul mal fisico, sulla
libertà e la necessità, sulle consolazioni che si possono provare
trovandosi in galera in Turchia, approdarono sulle rive della Propontide alla
casa del principe dì Transilvania. I primi oggetti che si presentarono
loro furono Cunegonda e la vecchia, che stendevano alcuni tovagliuoli sopra le
funi per farli asciugare.
Il
barone impallidì a quella vista; il tenero amante Candido vedendo la sua
bella Cunegonda imbrunita, cogli occhi scerpellati, il petto risecco, le gote
aggrinzite, le braccia abbronzite e scagliose, si ritirò tre passi
indietro pieno d'orrore; s'avanzò poi per convenienza, ed ella
abbracciò Candido e il suo fratello; fu abbracciata la vecchia e furono
ricomprate tutte due.
V'era
un piccolo podere nel vicinato; la vecchia propose a Candido di comprarlo, aspettando
che tutta la truppa avesse un miglior destino. Cunegonda non sapea d'esser
così imbruttita, perchè di ciò niuno l’avea prevenuta.
Ella fece ricordare a Candido le di lui promesse con un parlar sì
assoluto che egli non osò di far ripulsa. Egli fece dunque intendere al
barone che volea maritarsi colla sua sorella. Io non soffrirò giammai,
disse il barone, una tal bassezza dalla parte sua, e una tale insolenza dalla
vostra: questa infamia non mi sarà giammai rimproverata: i figli di mia
sorella non potrebbero entrare nei capitoli d'Alemagna: no, la mia sorella non
sposerà giammai altri che un barone dell'impero.
- Cunegonda si gettò a' suoi piedi, e
li bagnò di lagrime; egli fu inflessibile. - Bel mio stivale, gli disse
Candido, io ti ho scampato dalla galera, io ti ho pagato il tuo riscatto, io ho
pagato quello di tua sorella - ella lavava qui le stoviglie, ella è
brutta, io ho la bontà di farla mia moglie, e tu pretendi anche di
opportici? io ti riammazzerei, se mi lasciassi vincere dalla collera - Tu puoi
pure ammazzarmi, disse il barone, ma non sposerai la mia sorella, me vivente.
CAPITOLO
XXIX.
Conclusione della prima parte.
Candido
nel fondo del buon cuore non aveva alcuno stimolo di sposare Cunegonda; ma
l'estrema impertinenza del barone lo determinava a concludere il maritaggio, o
Cunegonda lo pressava sì vivamente ch'ei non poteva ritirarsene.
Consultò egli Pangloss, Martino e il fedele Cacambo. Pangloss fece un
bel discorso, col quale ei provava che il barone non aveva alcun diritto sulla sorella,
e che ella poteva, secondo tutte le leggi dell'impero, sposar Candido colla
mano sinistra.
Martino
concluse di gettare il barone nel mare; Cacambo decise che doveasi renderlo al
padrone levantino e rimetterlo in galera per poi rimandarlo a Roma al padre
generale col primo bastimento. Il progetto fu trovato assai buono; la vecchia
l'approvò; non se ne disse niente alla sorella, la cosa fu eseguita
mediante qualche danaro, e s'ebbe il piacere d'ingannare un gesuita, e di punir
l'orgoglio di un barone tedesco
Egli
era ben naturale immaginarsi che dopo tanti disastri, Candido maritato, e in
compagnia del filosofo Pangloss, del filosofo Martino, del prudente Cacambo e
della vecchia, avendo di più portato tanti diamanti dalla patria degli
antichi Incas, dovesse condurre la vita più deliziosa del mondo; ma egli
fu tanto truffato dagli ebrei, che non gli restò null'altro che la sua
villetta. La sua consorte, divenendo ogni giorno più brutta, era
altresì inquieta e insopportabile la vecchia era inferma, e di peggiore
umore di Cunegonda. Cacambo che lavorava al giardino e andava a vendere i
legumi a Costantinopoli, era oppresso dalle fatiche e malediceva il suo
destino. Pangloss era in disperazione per non poter fare il bello in qualche
università d’Alemagna. Martino poi, era persuaso che si stava ugualmente
male da per tutto, e prendeva ogni cosa con pazienza. Candido, Martino e
Pangloss disputavano qualche volta sulla metafisica, e sulla morale. Si
vedevano spesso passare sotto le finestre della villetta, dei battelli carichi
di effendi, di bascià e di cadì, che si mandavano in esilio a
Lemno, a Metelino e ad Erzerum, e si vedean tornare altri cadì, altri
bascià e altri effendi, che andavano a occupare i posti degli esiliati.
Si vedevano delle teste decentemente impalate, che si andavano a presentare
alla Porta. Questi spettacoli facevano aumentare le dissertazioni; e quando non
si disputava, era così eccessiva la noja che la vecchia osò un
giorno dir loro: - Io vorrei sapere qual è la peggiore cosa, o l’essere offesa
cento volte dai pirati negri, il passare per le bacchette fra' Bulgari, l'esser
frustato e Impiccato in un auto-da-fè, l'essere notomizzato
remare in galera, provare infine tutto le miserie che noi abbiamo passate,
oppure il restar qui a non far niente. - Questa è una gran questione,
disse Candido.
Un
tal discorso fece nascere nuove riflessioni e Martino soprattutto concluse che
l'uomo era nato per vivere fra le agitazioni dell'inquietudine e nel letargo
della noja. Candido non ne conveniva, ma non assicurava nulla.
Pangloss
confessava d'aver sempre orribilmente sofferto ma siccome aveva sostenuto una
volta che tutto andava a maraviglia, seguitava a sostenerlo, e non credeva a
niente.
Vi
era nel vicinato un dervis famosissimo che passava per uno de' migliori
filosofi della Turchia; essi andarono a consultarlo; Pangloss si fece avanti e
disse: - Maestro, noi veniamo a pregarvi di dirci perchè un animale
sì stravagante come l'uomo è stato formato.
- Di che ti occupi tu? disse il dervis tocca
egli a te? - Ma reverendo padre, disse Candido, vi sono de' mali orribili sulla
terra. - Che t'importa, soggiunse il dervis, che vi sia del male o del bene?
Quando sua altezza spedisce un vascello in Egitto, s'imbarazza ella se i topi
vi sieno a lor agio o no? - Che bisogna dunque fare? disse Pangloss. - Tacere,
rispose il dervis. - Io mi lusingava, disse Pangloss di ragionare un poco con
voi degli effetti e delle cause dei migliore de' mondi possibili, dell'origine
del male, della natura dell'anima e dell'armonia prestabilita.
Il
dervis a tali parole gli serrò l’uscio in faccia.
- Nel tempo di questa conversazione si sparse
la nuova che erano stati strangolati a Costantinopoli due visiri del soglio ed
il muftì, e che erano stati impalati diversi loro amici. Questa catastrofe
fece per tutto un grande strepito di poche ore. Pangloss, Candido e Martino,
ritornando alla villetta s'incontrarono in un buon vecchio, che prendeva il
fresco sulla sua porta sotto un pergolato d'aranci; Pangloss che era
altrettanto curioso quanto ragionatore, gli dimandò come si chiamava il
muftì che era stato strangolato. - Io non so niente, rispose il buon
uomo, e non ho mai saputo il nome di alcun muftì, nè di alcun
visir, anzi ignoro il caso di cui mi parlate; son di parere bensì che
generalmente coloro che si mescolano negli affari pubblici, qualche volta
miseramente periscono, e non senza lor colpa; ma non m'informo mai ai
ciò che si fa a Costantinopoli. Mi contento di mandare a vendervi le
frutta del giardino che io coltivo
Dopo
tali parole egli fece entrare i forestieri nella sua casa. Due sue figlie, e
due suoi figli presentaron loro diverse qualità di sorbetti, che essi
facevano, di kaimak macolato, di scorze di cedrato candito, d’aranci, di
cedri di limoni, di pistacchi e di caffè di Moca, che non era punto
mescolato col cattivo caffè di Batavia e dell'Isole dopo di che le due
ragazze di quel buon musulmano profumarono le barbe a Candido, a Pangloss ed a
Martino
- Voi dovete avere, disse Candido al turco,
una vasta e magnifica terra. - Io non ho che venti staja, rispose il turco; le
coltivo co’ miei figli, ed il lavoro allontana da noi tre mali: la noja, il
vizio e il bisogno.
Candido
ritornando alla sua villetta fece delle profonde riflessioni sul discorso del
turco, e disse a Pangloss ed a Martino: - Quel buon vecchio sembra che siasi
fatta una sorte ben preferibile a quella de' sei re, co' quali avemmo l'onore
di cenare. - Le grandezze, disse Pangloss, sono molto pericolose, secondo
ciò che ne dicono tutti i filosofi; perchè finalmente Eglon, re
de' Moabiti, fu assassinato da Aod; Assalonne restò appiccato per i
capelli e ferito da tre lancie; il re Nadab figlio di Geroboamo, fu ucciso da
Zambri; Giosia dal Jehu; Atalia da Jojada; il re Gioachimo, Jeconia, Sedecia
andarono schiavi. Voi sapete come perirono Creso, Dario, Dionigi di Siracusa,
Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone,
Vitellio, Domiziano, Riccardo II d Inghilterra, Odoardo II, Enrico VI, Riccardo
III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia. l'imperatore Enrico IV?
Voi sapete... - Io so ancora, disse Candido, che bisogna coltivare il nostro
giardino. - Voi avete ragione, ripetè Pangloss, poichè quando
l'uomo fu messo nel giardino d'Eden vi fu messo ut operaretur eum,
perchè lavorasse; ciò che prova che l'uomo non è nato per
il riposo. - Lavoriamo senza ragionare, disse Martino; questo, è il solo
mezzo di render la vita sopportabile.
Tutta
la piccola società prese parte in quel lodabile disegno; ciascuno si
mise ad esercitare i suoi talenti. La piccola terra fruttò molto.
Cunegonda era invero ben deforme, ma ella divenne un'eccellente pasticciera; la
vecchia ebbe cura della biancheria; Pangloss diceva qualche volta a Candido. -
Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel miglior de' mondi possibili,
perchè finalmente se voi non foste stato scacciato a pedate da un bel
castello per amor di Cunegonda, se voi non foste stato messo all'Inquisizione,
se non aveste scorso l'America a piedi, se non aveste dato una stoccata al
barone, se non aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d'Eldorado,
voi non mangereste qui dei cedri canditi e de' pistacchi. - Benissimo detto,
rispondea Candido, ma intanto bisogna coltivare il giardino.
PARTE SECONDA
CAPITOLO
I.
Come Candido si separa dalla sua società e ciò che
accade
Di
tutto ci stanchiamo nella vita; le ricchezze affaticano quei che le possiede;
l’ambizione soddisfatta non lascia che rimorsi; le dolcezze dell’amore, a
lung’andare, non son più dolcezze; e Candido, nato a provare tutte le
vicende della fortuna, s’annoia ben presto di coltivare il suo giardino. -
Maestro Pangloss, diceva egli, se noi siamo nati nel migliore de’ mondi
possibili, mi confesserete almeno che non è un godere della porzione di felicità
possibile, il vivere ignoto in un piccolo angolo della Propontide, senza altri
conforti che quelli delle mie braccia, che potrebbero un giorno mancarmi;
senz’altri piaceri che quelli che mi procura Cunegonda, che è molto
brutta, e, quel ch’è peggio, è mia moglie; senz’altra compagnia
che la vostra, che qualche volta m’annoja, o quella di Martino che m’attrista,
o quella della vecchia che fa racconti da far dormire in piedi.
Allora
Pangloss prese a parlare e disse: - La filosofia c’insegna che le monadi divisibili
in infinito, si dispongono con una intelligenza meravigliosa per comporre i
differenti corpi che osserviamo nella natura. I corpi celesti son quello che
devono essere: essi descrivono i cerchi che devono descrivere; l’uomo inclina a
quel che doveva inclinare: egli è quel che doveva essere, e fa quel
ch’ei doveva fare. Voi vi lamentate, o Candido, perché la monade dell’anima
vostra s’annoja; ma la noja è una modificazione dell’anima, e non
impedisce che tutto non sia per il meglio, tanto per voi che per gli altri.
Quando mi avete veduto tutto coperto di piaghe, io non sosteneva meno il mio
sentimento; perché se ciò non fosse stato, io non v’avrei incontrato in
Olanda, non avrei dato cagione all’anabattista Giacomo di fare un’opera
meritoria, non sarei stato impiccato a Lisbona, per edificazione del prossimo,
non sarei qui a sostenervi co’ miei consigli e farvi vivere e morire
nell’opinione leibnitziana. Sì, mio caro Candido; tutto è
concatenato, tutto è necessario nel migliore de’ mondi possibili; bisogna
che il cittadino di Montalbano istruisca i re: che il vermiciattolo di
Quimper-Corentin, critichi, critichi, critichi: che il referendario de’
filosofi si faccia crocifiggere nella strada San Dionigi: che il torzone degli
zoccolanti, e l’arcidiacono di San Malò distillino il fiele e la
calunnia ne’ lor giornali cristiani, che si portino le accuse di filosofia al
tribunal di Melpomene: e che i filosofi continuino a illuminar
l’umanità, malgrado gli strepiti di quelle bestie ridicole, che gracchiano
nel pantano della letteratura; e quando doveste esser scacciato di nuovo nel
più bel de’ castelli a pedate, imparare l’esercizio de’ Bulgari, passar
per le bacchette, nuotare dinanzi a Lisbona, essere crudelissimamente frustato
per ordine della santissima Inquisizione, incontrare i medesimi pericoli fra los
Padres, fra gli Orecchioni e fra i Francesi; quando doveste finalmente
provare tutte le calamità possibili, e non intendere giammai Leibnitz
meglio di quel che l’intendo io stesso, voi sosterrete sempre, che tutto
è bene, che tutto è per lo meglio; che il pieno, la materia
sottile, l’armonia prestabilita e le monadi sono le più belle cose del
mondo, e che Leibnitz è un grand’uomo, fin per quelli che non lo
comprendono.
A
quel bel discorso, Candido, l’essere il più dolce della natura,
benchè avesse ammazzato tre uomini, due de’ quali erano preti, non fece
parola, ma annojato del dottore e della società, il giorno appresso con
una canna in mano, se ne fuggì, senza saper dove, cercando in luogo
ov’ei non s’annojasse, e dove gli uomini non fossero uomini, come nel buon
paese d’Eldorado.
Candido
meno sfortunato, inquantochè non amava più Cunegonda, campando
della liberalità di differenti popoli che non son Cristiani, ma che fan
l’elemosina, arrivò dopo un lunghissimo e penosissimo cammino a Tauride
sulle frontiere della Persia, città celebre per le crudeltà che i
Turchi e i Persiani vi hanno esercitato ognuno a sua volta.
Rifinito
dagli stenti. e non avendo altro indosso che quanto gli abbisognava per
nascondere le sue membra, Candido non piegava troppo verso l’opinione di
Pangloss, quando un persiano gli si fece innanzi con un’aria delle più
civili, e lo pregò di nobilitare la sua casa con la di lui presenza. -
Voi mi burlate, gli disse Candido: io sono un povero diavolo che abbandono una
miserabile abitazione che avevo nella Propontide, perchè ho sposato
Cunegonda, la quale è diventata molto brutta, e che m’annojavo; in
coscienza non son punto fatto per nobilitare la casa di alcuno: non son nobile
per me medesimo, grazie a Dio; e s’io avessi l’onore di esserlo, il barone di
Thunder-ten-tronckh m’avrebbe pagate ben care le pedate, con le quali ei mi
gratificò; ovvero ne sarei morto di vergogna. Ciò che sarebbe
stato più filosofico; d’altra parte, sono stato frustato ignominiosamente
dai carnefici della santissima Inquisizione, e da duemila eroi da tre soldi e
sei danari al giorno. Datemi ciò che vi piace, ma non insultate la mia
miseria con degli scherni che vi toglierebbero tutto il pregio de’ vostri
benefizj. - Signore, replicò il persiano, voi potete essere un
accattone, e questo apparisce ben chiaro, ma la religione m’obbliga
all’ospitalità; è bene che voi siate uomo e disgraziato, perché
la mia pupilla sia il sentiero de’ vostri passi, e vi dico: degnatevi di
nobilitare la sua casa con la vostra presenza.
- Io farò quel che vorrete, rispose
Candido. - Entrate dunque, disse il persiano.
Entrarono,
e Candido non lasciava d’ammirare le rispettose attenzioni che il suo ospite
aveva per lui. Le schiave prevenivano i di lui desiderj, e tutta la casa non
parea occupata che a stabilire la sua soddisfazione. - Se questo dura, diceva
Candido fra sé stesso, le cose non van tanto male in questo paese. - Eran
passati tre giorni durante i quali le buone grazie del persiano non si eran
punto smentite, e Candido già gridava: - Maestro Pangloss, io ho sempre
dubitato che aveste ragione: voi siete un gran filosofo.
CAPITOLO
II.
Come Candido uscì dalla casa del Persiano
Candido,
ben pasciuto, ben vestito, e non annojato, divenne ben presto così
colorito, così fresco, così bello come lo era in Wesfalia. Ismael
Raab suo ospite vide quel cambiamento con piacere. Questi era un uomo alto sei
piedi, ornato di due occhietti estremamente rossi, e di un grosso naso tutto
bernoccoluto che mostrava assai chiaro ch’ei non stava troppo attaccato alla
legge di Maometto; le sue basette erano rinomate nella provincia, e le madri
non desideravano altro a’ loro figli che le basette di Raab. Raab aveva alcune
mogli perché era ricco, ma pensava come si pensa moltissimo in Oriente, e in
alcuni collegi d’Europa. - Vostra eccellenza è più bella delle
stelle, disse un giorno il persiano a Candido, solleticandogli leggermente il
mento; voi avete dovuto cattivarvi ben de’ cuori, siete propriamente fatto per
render felice e per esserlo. - Ah! rispose il nostro eroe, io non fui felice
che per metà, dietro un paravento, ove stavo non troppo ad agio.
Cunegonda era bella allora...
In
quel tempo uno de’ più saldi sostegni della milizia monacale di Persia,
il più dotto dei dottori maomettani, che sapeva l’arabo sulla punta
delle dita, ed anche il greco che si parla oggigiorno nella patria di Demostene
e di Sofocle, il reverendo Ed-Ivan-Baal-Denk tornava da Costantinopoli ov’egli
era andato a conversare col reverendo Mamud Abram sopra un punto di dottrina
ben delicato, cioè se il profeta avesse strappata dall’ale dell’angelo
Gabriele la penna di cui si servì per scrivere l’Alcorano, o se Gabriele
glien’avesse fatto un presente. Essi disputarono per tre giorni e tre notti con
un calore degno de’ più be’ secoli della controversia; e il dottore se
ne tornava persuaso, come tutt’i discepoli d’Alì, che Maometto avesse
strappata la penna, e Mamud Abram era restato convinto come il resto de’
settatori di Omar, che il profeta fosse incapace di quella inciviltà, e
che l’angelo gli avesse presentata la sua penna col miglior garbo del mondo.
L’arrivo
di Candido avea fatto molto strepito in Tauride, e più persone che
l’aveano sentito discorrere degli effetti contingenti e non contingenti,
avevano sospettato ch’ei fosse filosofo. Se ne parlò al reverendo
Ed-Ivan-Baal-Denk, ed egli ebbe la curiosità di vederlo, e Raab che non
potea ricusar nulla a una persona di quella considerazione, fece venir Candido
in sua presenza. Parve soddisfattissimo della maniera con cui Candido
parlò del mal fisico e del mal morale, dell’agente e del paziente. - Io
comprendo che voi siete un filosofo, e tanto basta. Basta così, Candido,
disse il venerabile cenobita: non conviene ad un grand’uomo come voi l’essere
trattato sì indegnamente nel mondo, come ho udito. Voi siete forastiero:
Ismael-Raab non ha niun diritto sopra di voi: voglio condurvi alla corte, e vi
riceverete un favorevole accoglimento. Il sofì ama le scienze. Ismael,
ponete nelle mie mani questo giovine filosofo, o temete d’incorrere la
disgrazia del principe, e di attirar su di voi le vendette del cielo, e
soprattutto de’ frati.
Quest’ultime
parole spaventarono l’intrepido persiano; egli acconsentì a tutto, e
Candido uscì lo stesso giorno di Tauride col dottor maomettano. Presero
la volta d’Ispahan, ove arrivarono carichi di benedizioni e di benefici de’
popoli.
CAPITOLO
III.
Candido Ricevuto alla Corte, e ciò che ne segue
Il
reverendo Ed-Ivan-Baal-Denk non tardò a presentar Candido al re. Sua
maestà ebbe un piacere singolare nell’ascoltarlo. Lo mise in lizza coi
maggiori letterati della corte, e questi lo trattarono da pazzo, da ignorante,
da idiota, il che contribuì a persuadere sua maestà ch’egli era
un grand’uomo. - Perché, disse loro, voi non comprendete niente de’
ragionamenti di Candido, per questo lo insultate; nemmeno io ne comprendo
niente, ma vi assicuro ch’egli è un gran filosofo, e lo giuro sulle mie
basette.
Queste
parole imposero silenzio ai letterati. Fu alloggiato Candido in palazzo, gli si
diedero delle schiave per servirlo, lo si rivestì d’un abito magnifico,
ed il sofì ordinò che per qualunque cosa ch’egli avesse potuto
dire, alcuno non ardisse di provare ch’egli avesse torto. Sua maestà non
si ristrinse a questo solo. Il venerabil monaco non cessava di sollecitarla in
favore del suo protetto, ed ella risolse alfine di metterlo numero de’ suoi
più intimi favoriti.
- Dio sia lodato e il nostro santo Profeta,
disse l’imano facendosi innanzi a Candido: vengo a parteciparvi una nuova ben
grata: oh quanto siete felice, mio caro Candido! oh quanti gelosi siete per
fare! Voi sguazzerete nell’opulenza: voi potrete aspirare ai più bei
posti dell’impero. Almeno non vi scordate di me, caro amico: pensate che sono
stato io che vi ho procurato il favore di cui siete per godere: che il giubilo
regni sull’orizzonte del vostro volto. Il re vi accorda una grazia ben
mendicata; e voi siete per dare uno spettacolo, di cui la corte non ha goduto
da due anni. - E quali sono i favori di cui il principe m’onora? dimanda
Candido. - Questo giorno medesimo, rispose il monaco tutto contento, riceverete
cinquanta nerbate sotto le piante de’ piedi in presenza di sua maestà.
Gli eunuchi nominati per profumarvi già vengono; preparatevi a
sopportare gagliardamente questa piccola prova, e a rendervi degno del re dei
re. - Che il re dei re si tenga le sue bontà, gridò Candido in
collera, se bisogna ricevere cinquanta nerbate per meritarle. - Questo è
l’uso, riprese freddamente il dottore, con quelli su cui vuole versare i suoi
benefizi. Perché vi amo troppo non voglio far caso al piccolo disgusto che
dimostrate; voglio rendervi fortunato, vostro malgrado.
Non
avea terminato ancor di parlare, che arrivarono gli eunuchi preceduti dall’esecutore
dei minuti piaceri di sua maestà, che era uno dei più grandi e
dei più robusti signori della corte. Candido ebbe un bel dire e un bel
fare; gli si profumarono le gambe e i piedi secondo l’uso; quattro eunuchi lo
portarono nel luogo destinato per la cerimonia, in mezzo a una doppia schiera
di soldati, allo strepito degli strumenti musicali, de’ cannoni e delle campane
di tutte le moschee d’Ispahan. Il sofì già vi era, accompagnato
da’ suoi principali uffiziali, e da’ cortigiani più distinti. A un tratto
fu steso Candido sopra una panca tutta dorata, e l’esecutore dei minuti piaceri
di sua maestà cominciò la funzione. - O maestro Pangloss, se
foste qui... diceva Candido piangendo e gridando a più non posso; il che
sarebbe stato giudicato indecentissimo, se il frate non avesse dato a credere
che il suo protetto, non per altro faceva questo se non per meglio divertire
sua maestà. Infatti quel gran re rideva come un pazzo, e vi prese tanto
piacere che oltre ai cinquanta colpi dati, ne ordinò cinquanta altri; ma
il suo primo ministro avendogli esposto con una straordinaria fermezza, che
quel favore inaudito verso un forestiero poteva alienare i cuori dei sudditi,
gli revocò quell’ordine e Candido fu riportato nel suo appartamento.
Fu
accompagnato al letto dopo che gli ebbero stropicciato i piedi con aceto. I
grandi vennero a turno a rallegrarsi con lui. Il sofì vi venne in
seguito, e non solamente gli diede la sua mano da baciare secondo l’uso, ma
anche un gran pugno ne’ denti. I politici ne congetturarono che Candido farebbe
una fortuna quasi senza esempio; e quel ch’è raro, non s’ingannarono,
benchè politici.
CAPITOLO
IV.
Nuovi favori che riceve Candido, e sua elevazione
Dopo
che il nostro eroe fu guarito, venne introdotto dal re per fargli i suoi ringraziamenti.
Quel monarca lo ricevè nel miglior modo; gli diede due o tre schiaffi
nel corso della conversazione, e lo ricondusse fino alla sala delle guardie a
pedate nel sedere. I cortigiani ebbero a creparne di dispetto. Da che sua
maestà si era data a percuotere la gente, di cui ella faceva un caso
particolare, non vi era ancora chi avesse avuto l’onore di aver avuto
più busse di Candido.
Tre
giorni dopo questo congresso, il nostro filosofo, che si lamentava di esser
così favorito e trovava che le cose andavano molto male, fu nominato
governatore del Chusistan, con un potere assoluto; fu decorato d’un berretto
foderato, ch’è un gran segno di distinzione in Persia; ei prese congedo
dal sofì, che gli fece ancora altre carezze, e partì per Sus
capitale della sua provincia. Dal momento che Candido era comparso alla corte,
i grandi dell’impero avean tramata la sua perdita. I favori eccessivi di cui il
sofì l’avea colmato, non avean fatto che ingrossar la tempesta, pronta a
piombargli sul capo. Intanto egli si felicitava della sua fortuna, e
soprattutto del suo allontanamento: gustava anticipatamente i piaceri del grado
supremo, e dicea nel fondo del suo cuore: Troppo felici i sudditi lontani
dal lor sovrano!
Non
era ancora venti miglia distante da Ispahan, che ecco cinquecento persone a
cavallo armate da capo a piedi, che fanno una scarica furiosa sopra di lui, e
sopra la sua gente. Candido sul subito credette per un momento che quello fosse
per fargli onore; ma una palla che gli fracassò una gamba, lo fece accorgere
di che si trattava. La sua scorta depose le armi, e Candido più morto
che vivo fu portato in un castello isolato. Il suo bagaglio, i suoi cammelli,
le sue schiave, i suoi eunuchi bianchi, i suoi eunuchi neri, e trentasei
femmine che il sofì gli avea date, tutto fu preda del vincitore. Si
tagliò la gamba al nostro eroe per paura di cancrena, e s’ebbe cura de’
suoi giorni per dargli una morte più crudele.
- O Pangloss! Pangloss! che sarebbe del vostro
ottimismo se voi mi vedeste con una gamba di meno fra le mani de’ miei
più crudeli nemici, mentre che io entrava nella carriera della fortuna,
che io era governatore, o re, per così dire, d’una delle più
considerevoli provincie dell’antica Media, che avevo de’ cammelli, delle
schiave, degli eunuchi bianchi, degli eunuchi neri, e trentasei femmine!
Così
parlava Candido appena che potè parlare.
Mentr’egli
si lamentava, le cose andavano per lui nella miglior maniera del mondo. Il
ministero, informato della violenza che gli era stata usata, aveva spedito una
truppa di soldati agguerriti in traccia de’ sediziosi; ed il frate
Ed-Ivan-Baal-Denk avea fatto pubblicare da altri frati che Candido, essendo
opera loro, era per conseguenza l’opera di Dio. Quelli che aveano cognizione di
quell’attentato lo rivelarono con tanta maggior premura, inquantochè i
ministri della religione assicurarono da parte di Maometto, che qualunque uomo
che avesse mangiato del porco, bevuto del vino, passato più giorni senza
andare al bagno, contro le espresse proibizioni dell’Alcorano, sarebbe assoluto
ipso facto, dichiarando quel che sapesse della cospirazione. Non si
tardò a discoprire la prigione di Candido; essa fu aperta a forza, e
siccome si trattava di religione, i vinti furono sterminati secondo la regola.
Candido, camminando sopra un mucchio di morti, scappò trionfante del
maggior periglio ch’egli avesse ancor corso, e riprese col suo seguito il
cammino pel suo governo. Ei vi fu ricevuto come un favorito che era stato
onorato di cinquanta nerbate sotto la pianta de’ piedi in presenza del re dei
re.
CAPITOLO
V.
Come Candido è un gran signore, e non è contento.
Il
buono della filosofia è di farci amare i nostri simili. Pascal è
quasi il solo de’ filosofi che par che voglia farceli odiare. Per fortuna
Candido non avea mai letto Pascal, ed egli amava con tutto il cuore la povera
umanità. Le genti da bene se n’accorgevano: esse eran sempre state
lontane dai missi dominici della Persia, ma non fecero difficoltà
di riunirsi a Candido, ed ajutarlo coi lor consigli. Ei formò alcuni
saggi regolamenti per incoraggire l’agricoltura, la popolazione, il commercio.
E l’arti: ricompensò quelli che avean fatto delle esperienze utili:
incoraggì quelli che non avean fatto che de’ libri. - Quando ognuno
sarà generalmente contento nella mia provincia, lo sarò forse
anch’io, diceva egli con una ingenuità singolare. Candido non conosceva
la specie umana; egli si vide lacerato ne’ libelli sediziosi, e calunniato in
un’opera che avea per titolo L’amico degli uomini. Ei trovò che
lavorando a fare dei fortunati, non avea fatto altro che del’ingrati. - Ah
quanta fatica si dura, gridò Candido, a governar alcuni esseri senza
penne che vegetano sulla terra! E perché non son io ancora nella Propontide, in
compagnia di maestro Pangloss, di Cunegonda, e della figlia di papa Urbano X?
Candido,
nell’amarezza del suo dolore, scrisse una lettera pateticissima al reverendo
Ed-Ivan-Baal-Denk, e gli dipinse sì vivamente lo stato attuale
dell’anima sua, ch’ei ne fu sensibile a segno di fare aggradire al sofì
che Candido si dimettesse dai suoi impieghi. Sua maestà per ricompensa
de’ sui servizj gli accordò una pensione considerevolissima. Alleggerito
del peso della grandezza, il nostro filosofo cercò immediatamente ne’
piaceri della vita privata l’ottimismo di Pangloss. Egli aveva vissuto fin
allora per gli altri, e pareva essersi scordato che aveva un serraglio. Se ne
risovvenne con quella sensibilità che ispira quel solo nome. - Tutto si
prepari, diss’egli al suo primo eunuco, per il mio ingresso dalle donne. -
Signore, rispose l’uomo con voce chiara: ora vostra eccellenza merita il
soprannome di saggio. Gli uomini per cui avete fatto tanto non eran degno
d’occuparvi, ma le donne... - Può essere, disse modestamente Candido.
CAPITOLO
VI.
Disgusto di Candido. Incontro ch’ei non s’aspettava.
Il
nostro filosofo in mezzo al suo serraglio ripartiva i suoi favori con
uguaglianza; ma non durò troppo, perch’ei sentì immediatamente
de’ mali di reni violenti, delle coliche ardenti, e diventava uno scheletro,
divenendo felice. Allora osservò calmamente nelle donne de’ difetti che
gli erano sfuggiti ne’ primi trasporti della sua passione; non vide in loro che
un vergognoso passatempo: ebbe rammarico di aver camminato nel sentiero del
più saggio degli uomini, et invenit amariorem morte mulierem.
Con
questi sentimenti cristiani Candido passava la sua oziosa tranquillità,
passeggiando per le strade di Sus. Ecco che un cavaliere superbamente vestito
gli salta al collo chiamandolo per nome. - Sarebbe possibile! grida Candido.
Signore, sareste voi… No, non è possibile; ma pure, v’assomigliate
tanto… signor abate perigordino. - Son io, risponde l’abate di Perigord.
Candido
allora fa tre passi indietro, e dice in tono commovente - Come siete felice,
signor abate? - Bella domanda, risponde il perigordino: la piccola soperchieria
che io vi feci non ha poco contribuito a mettermi in credito. La politica m’ha
tenuto impiegato per qualche tempo, ed essendomi disgustato con essa, ho
lasciato l’abito ecclesiastico che non m’era più buono a niente. Son
passato in Inghilterra, dove le genti del mio mestiere son meglio pagate. Ho
detto tutto ciò che io non sapevo del forte e del debole del paese che
avevo abbandonato. Ho assicurato, soprattutto, che il francese è la
feccia de’ popoli, e che il buon senso non risiede che a Londra; finalmente ho
fatto un’illustre fortuna, e vengo a concludere un trattato alla corte di
Persia, consistente in fare sterminare tutti gli europei, che vengono a cercare
il cotone e la seta negli stati del sofì, con pregiudizio degli Inglesi.
- L’oggetto della vostra commissione è lodabilissimo, dice il nostro
filosofo, ma signor abate, voi siete un furfante; io non stimo punto i furfanti
ed ho qualche credito alla corte: tremate, chè la vostra fortuna
è giunta al suo termine: troverete la sorte che meritate. -
Illustrissimo signor Candido, grida l’abate perigordino, gettandosegli ai
piedi, abbiate pietà di me; io mi sono spinto al male con una forza
irresistibile, come voi vi sentite portato alla virtù; presi
quell’inclinazione fatale dall’istante che feci conoscenza col signor Valsp, e
che lavorai ai foglietti. - Cosa sono questi foglietti? dicea Candido. - Sono,
risponde il Perigordino, certi quinterni di settantadue pagine di stampa, ne’
quali si diverte il pubblico sul tuono della calunnia, della satira e della
materialità. Un galantuomo che sa leggere e scrivere, non avendo potuto
esser gesuita, come ha cercato per lungo tempo, si è messo a comporre
quella bella operetta, per aver di che comperare de’ merletti a sua moglie, e
allevare i suoi figli nel timor di Dio; e alcuni galantuomini per alcuni soldi,
e alcuni boccali di vino di Brie, ajutano quel galantuomo a sostenere la sua
impresa. Questo signor Valsp è di una combriccola deliziosissima, dove
si divertono a far rinnegare Dio alla gente, quando ha alzato un po’ il gomito,
ovvero andare a mangiare alle spalle d’un povero diavolo, a fracassargli tutt’i
mobili e a sfidarlo a duello da solo a solo; gentilezze che questi signori
chiamano mistificazioni, e che meritano l’attenzione della politica.
Finalmente, questo gran galantuomo del signor Vasp, che dice di non essere
stato in galera, è immerso in un letargo che lo rende insensibile alle
verità più austere; né si può distrarnelo che con certi
mezzi violenti, ch’ei sopporta con una rassegnazione e un coraggio superiore ad
ogni lode. Io ho lavorato qualche tempo sotto questa celebre penna, e a poco a
poco sono divenuto una penna celebre anch’io. Avevo appena abbandonato il
signor Valsp, per industriarmi da me solo, quando ebbi l’onore di farvi una
visita a Parigi. - Vi siete un bel birbante, signor abate, ma la vostra
sincerità mi commuove. Andate alla corte, e cercate del reverendo
Ed-Ivan-Baal-Denk; io gli scriverò in vostro favore, a condizione
però che mi promettiate di diventare galantuomo, e di non fare
strangolare migliaja d’uomini per un po’ di seta e di cotone.
Il
Perigordino promise tutto quel che volle Candido, ed ambedue si separarono da
buoni amici.
CAPITOLO
VII.
Disgrazie di Candido. Viaggi e avventure.
Il
Perigordino appena arrivato alla corte impiegò tutta la sua disinvoltura
per guadagnare il ministro, e per rovinare il suo benefattore. Egli sparse la
voce che Candido era un traditore, e che avea sparlato delle sacre basette del
re de’ re. Tutt'i cortigiani lo condannarono ad esser abbruciato a fuoco lento,
ma il sofì più indulgente, non lo condannò che ad un
esilio perpetuo, ed a baciare prima le piante de' piedi al suo accusatore,
secondo l'uso de persiani. Il Perigordino partì per far eseguire questa
sentenza; egli trovò il nostro filosofo in buonissima salute e disposto
a ridiventar fortunato.
- Amico, gli disse l'ambasciator d'Inghilterra, io vengo con mio rincrescimento
a farvi sapere che bisogna uscir quanto prima.da questo impero, e baciarmi i
piedi, con vero pentimento de' vostri enormi delitti... - Baciarvi i piedi,
signor abate! Che diamine dite voi? Io non raccapezzo nulla di questa celia
Entrarono
allora alcuni muti che aveano seguito il Perigordino, e lo scalzarono. Fu fatto
intendere a Candido che bisognava accomodarsi a quella umiliazione, o
aspettarsi d'essere impalato. Candido, in virtù del suo libero arbitrio,
baciò i piedi all'abate. Fu rivestito d'uno straccio di tela, e il boja
lo scacciò dalla città gridando: - Egli è traditore: ha
sparlato delle basette del sofì: ha sparlato delle basette imperiali.
Che
facea l'oficcioso cenobita mentre si trattava così il suo protetto? Non
lo so. È ben da credere ch'ei si fosse stancato di protegger Candido.
Chí può contare sul favore dei re, e sopratutto dei frati?
Intanto
il nostro eroe camminava pieno di tristezza. - Io, diceva egli, non ho parlato
giammai delle basette del re di Persia. Io cado in un momento dal colmo della
felicità, in un abisso di disgrazie, perchè un miserabile che ha
violato tutte le leggi, m'accusa d'un preteso delitto, che io non ho mai
commesso, e questo birbante, questo mostro persecutore della virtù...
è felice.
Candido
dopo qualche giorno di cammino si trovò sulle frontiere della Turchia.
Ei diresse i suoi passi verso la Propontide, col disegno di stabilirvisi, e di
passare il resto de' suoi giorni a coltivare il suo giardino. Vide, passando di
un piccolo villaggio, una quantità di gente affollata tumultuariamente.
Egli s'informo della causa e dell'effetto. - Questo è un accidente ben
particolare, gli disse il vecchio. È qualche tempo che il ricco Mehemet
chiese in isposa la figlia del giannizzero Tamud; essa non era fanciulla, e
secondo un principio ben naturale lo sposo, autorizzato dalle leggi, la
rimandò a suo padre dopo d'averla sfregiata. Tamud, oltraggiato da un
tale affronto, ne' primi trasporti d'un furore ben naturale, con un colpo di
scimitarra svelse dal busto della figlia quel volto disfigurato. Il suo figlio
primogenito, saltò addosso al padre, e inviperito di rabbia gl'immerse naturalmente
un acutissimo pugnale nel petto; dipoi come un leone che s' infuria a vedersi
grondar di sangue, l' arrabbiato Tamud corse da Mehemet, rovesciò alcuni
schiavi che s'opposero a' suoi passi, e trucidò a pezzi Mehemet, le sue
donne e due figli, il che è ben naturale nella situazione violenta in
cui egli flnalmente si trovava. Egli poi finì per darsi la morte collo
stesso pugnale fumante del sangue di suo padre, e de' suoi nemici, il che pure
è ben naturale. - Oh quali orrori! grida Candido. Che direste voi,
maestro Pangloss, se trovaste tali barbarie nella natura? Non confessereste voi
che la natura è corrotta, che tutto non è... - No, disse il
vecchio, perchè l'armonia prestabilita... - Oh cielo! non m'ingannate?
È Pangloss quel ch'io rivedo? dice Candido. - Son io, rispose il
vecchio: vi ho riconosciuto, ma ho voluto penetrare nei vostri sentimenti prima
di scoprirmi; qua: discorriamo un poco sugli effetti contingenti, e vediamo se
avete fatto de' progressi nell'arte della sapienza... - Ah, dice Candido voi
scegliete ben male il vostro tempo; fatemi piuttosto sapere quel ch'è
avvenuto di Cunegonda e dov'è la figlia di papa Urbano. - Non ne so
niente, risponde Pangloss; son due anni che ho abbandonato la nostra
abitazione, per venirvi a cercare. Ho scorso quasi tutta la Turchia: mi son
portato alla corte di Persia, ove avevo saputo che stavate in barba di micio, e
non ho abitato in questo borghetto fra questa buona gente, senonchè per
riposarmi, affine di continuare il mio viaggio. - Che vedo mai? dice Candido
molto stupito, vi manca un braccio, caro dottore. - Non è niente, disse
il dottor guercio e monco; nulla di sì ordinario nel miglior de mondi,
che il veder delle genti le quali non hanno che un occhio e un braccio solo.
Quest'accidente mi è accaduto in un viaggio alla Mecca. La nostra
carovana fu attaccata da una truppa d'Arabi; la scorta volle far resistenza, e
secondo i diritti della guerra gli Arabi che si trovarono più forti; ci
trucidarono tutti spietatamente. Perirono circa cinquecento persone in questa
mischia, fra le quali vi era una dozzina di donne incinte; per me, io non ebbi
che il cranio offeso e un braccio tagliato; non ne morii, ed ho sempre trovato
che tutto andava ottimamente. Ma voi, mio caro Candido, come va che avete una
gamba di legno?
Allora
Candido cominciò a parlare, e raccontò le sue avventure. I nostri
filosofi ritornarono insieme nella Propontide, e fecero piacevolmente il loro
cammino, discorrendo del mal fisico, del mal morale, della libertà e
della predestinazione, delle monadi e dell'armonia prestabilita
CAPITOLO
VIII.
Arrivo di Candido e di Pangloss alla Propontide; ciò che
videro e ciò che avvenne.
-
O Candido, dicea Pangloss, perchè avete lasciato di coltivare il vostro
giardino? Non mangiavamo noi de' cedrati canditi, e de' pistacchi?
Perchè vi siete annojato della vostra felicità? Perchè
tutto è necessario nel migliore de' mondi; bisognava che voi soffriste
le nerbate in presenza del re di Persia, che aveste la gamba tagliata, per rendere
felice il Chusistan, per provare l'ingratitudine degli uomini, e per attirar
sul capo di qualche scellerato i castighi che aveva meritati.
Così
discorrendo arrivarono al loro antico soggiorno. Il primo oggetto che si
offrì a' loro occhi fu Martino in abito da schiavo. - Qual metamorfosi
è questa? disse Candido, dopo di averlo teneramente abbracciato. - Ah,
rispose singhiozzando, voi non avete più casa; un altro si è
incaricato di far coltivare il vostro giardino; ei mangia i vostri cedri
canditi, i vostri pistacchi, e mi tratta da negro. - Chi è quest'altro?
domandò Candido. - Egli è, disse Martino, il general di marina,
l'uomo il meno umano di tutti gli uomini. Il sultano volendo ricompensare i di
lui servigi senza che gliene costasse cosa alcuna, ha confiscato tutti i vostri
beni, sotto pretesto che voi siete passato fra i suoi nemici e ci ha condannati
alla schiavitù. Fate a mio modo, Candido, soggiunse, continuate il
vostro viaggio: io ve l'ho sempre detto, tutto è per il peggio, la somma
de' mali eccede troppo la somma de' beni: partite, e non dispero che diventiate
manicheo, seppur già non lo siete.
Pangloss
voleva cominciare un argomento in forma, ma Candido l'interruppe per
dimandargli nuove di Cunegonda, della vecchia e di Cacambo. - Cacambo, rispose
Martino, è qui; egli è occupato attualmente a ripulire una fogna,
la vecchia è morta di una pedata che un eunuco le diè nel petto;
Cunegonda è ingrassata e ha ripreso la sua primiera bellezza: ella
è nel serraglio del nostro padrone. - Qual concatenamento di sventure!
dice Candido, bisognava che Cunegonda tornasse bella per farmi becco! - Importa
poco, dice Pangloss, che Cunegonda sia bella o brutta, e ch'ella sia vostra o
di un altro; questo non ha che fare col sistema generale; per me, io le
desidero una numerosa posterità. I filosofi non s'imbarazzano di
ciò. La popolazione... - Ah, dice Martino i filosofi dovrebbero
piuttosto occuparsi a render felice qualche individuo, invece d'impegnarlo a
moltiplicare la specie de' sofferenti
Mentre
discorrevano si sente un gran fracasso: era il general del mare che si
divertiva a far bastonare una dozzina di schiavi. Pangloss e Candido spaventati
si separarono colle lagrime agli occhi dal loro amico, e presero in fretta il
cammino di Costantinopoli.
Essi
vi trovarono tutta la gente in moto; erasi appiccato il fuoco nel sobborgo di
Pera, e già cinque o seicento case erano incenerite, ed erano perite fra
le fiamme due o tremila persone. Qual orribil disastro! grida Candido. - Tutto
è bene, dice Pangloss; questi piccoli accidenti accadono tutti gli anni,
ed è ben naturale che s'appicchi il fuoco alle case di legno, e che
quelli che vi si trovano restino abbruciati; del resto, questo procura lavoro a
molti galantuomini che languiscono nella miseria. - Che sento? dice un
uffiziale dell'eccelsa Porta. Disgraziato, e puoi tu dire che tutto è
bene, quando la metà di Costantinopoli è in fuoco e in fiamma?
Va, cane maledetto dal Profeta, va a ricevere il castigo della tua audacia.
Dicendo
queste parole, prese Pangloss per la vita, e lo precipitò nelle flamme.
Candido, mezzo morto, si strascinò come potè in un quartier
vicino, ove le cose eran più tranquille; e noi vedremo ciò che
accadde nel capitolo seguente.
CAPITOLO
IX.
Candido continua a viaggiare, ed in qual qualità.
-
Io non ho altro partito da prendere, diceva il nostro filosofo, che quello di
farmi schiavo o turco; la fortuna mi ha abbandonato per sempre. Un turbante
corromperebbe tutt'i miei piaceri: io mi sento incapace di provare la
tranquillita dell'anima in una religione piena di imposture, e nella quale non
sarei entrato che per un vile interesse. No, non sarei mai contento se io
cessassi d'esser galantuomo. Facciamoci dunque schiavo.
Presa
questa risoluzione, si mise Candido in dovere di eseguirla. Egli scelse un
mercante armeno per padrone. Era questi un uomo di buonissimo carattere, e che
passava per virtuoso quanto può esserlo un armeno. Egli diede dugento
zecchini a Candido per prezzo della sua libertà. L'armeno era sul punto
di partire per la Norvegia, e con sè condusse Candido, sperando che un
filosofo gli sarebbe utile nel suo commercio. S'imbarcarono, ed il vento fu
loro sì favorevole, che non impiegarono la metà del tempo che si
mette ordinariamente per fare un simil tratto; non ebbero neppur bisogno di
comprare del vento dai maghi della Lapponia, e si contentarono di dar loro de'
rinfreschi, purchè non fosse loro turbata la buona fortuna con gli
incantesimi, come accade qualche volta, se si deve credere al Dizionario di Moreri.
Sbarcato
che fu, l'armeno fece la sua provvisione di grasso di balena, e incaricò
il nostro fllosofo di andar per il paese a comprargli del pesce secco. Egli
adempì alla sua commissione al meglio che gli fu possibile; se ne
tornava con molte ceste cariche di quella mercanzia, e rifletteva profondamente
sulla differenza maravigliosa che passa fra i Lapponi, e gli altri uomini,
quando una piccola lappona, che aveva il capo un po' piu grosso del corpo, gli
occhi rossi e pieni di fuoco, il naso largo, e la bocca della maggior grandezza
posslbile, gli diede il buon giorno con mille smorfie. - Mio signorino, gli
disse quell'essere alto un piede e dieci dita, io vi trovo vezzoso, fatemi la
grazia d'amarmi un poco.
Così
dicendo la lappona gli salta al collo; Candido la respinge con orrore; ella
grida, e viene suo marito accompagnato da più lapponi. - Cos'è
questo baccano? dissero eglino. - Egli è, disse il piccolo essere, che
questo forastiero.... ah, mi soffoca il dolore nel dirlo! egli mi disprezza. -
Che sento? disse il marito lappone: incivile, disonesto, brutale, infame,
furfante, tu copri d'obbrobrio la mia casa: tu mi fai l'ingiuria più
grave; tu ricusi di dormir, com'è l'usanza del paese, con mia moglie! -
Eccone un'altra! dice il nostro eroe; che avreste voi dunque detto se io avessi
dormito con lei? - Io ti avrei desiderato ogni sorta di prosperità,
risponde il lappone in collera, ma tu non meriti che la mia indignazione.
Così dicendo scaricò sul dorso di Candido un fracco di bastonate.
Le ceste furono sequestrate dai parenti della sposa offesa, e Candido, temendo
di peggio, si vide costretto a fuggirsene, e rinunziare per sempre al suo buon
padrone, perchè come poteva ardire di presentarsi a lui senza danaro,
senza grasso di balena e senza ceste?
CAPITOLO
X.
Candido continua i suoi viaggi. Nuove avventure
Camminò
Candido lungo tempo senza saper dove dirigersi; prese finalmente la risoluzione
di portarsi in Danimarca; dove avea inteso dire che le cose andavano molto
bene. Si trovava ancora qualche po' di denaro regalatogli dall'armeno, e con
questo modesto peculio lusingavasi di finire il viaggio. La speranza gli rese
sopportabile la miseria, ed egli passò qualche momento tranquillo.
Capitò un giorno in un'osteria con tre viaggiatori; che gli parlavano
con calore del pieno e della materia sottile. - Benissimo, dicea
fra sè Candido; questi son filosofi. - Signori, diss'egli loro, il pieno
è incontrastabile: non v'è vuoto nella natura, e la materia
sottile è benissimo immaginata. - Voi siete dunque cartesiano, dicono i
viaggiatori. - Senza dubbio, risponde Candido, e, quel ch'è più,
seguace di Leibnitz. - Tanto peggio per voi, soggiungono i viaggiatori;
Cartesio o Leibnitz non avevano senso comune. Noi altri siamo neuttoniani, e ce
ne gloriamo, e se si disputa, è solamente per affondarci ne' nostri
sentimenti, e siamo tutti d'un istesso parere. Cerchiamo la verità sulle
tracce di Newton, perchè siamo persuasi che Newton è un
grand'uomo. - Anco Cartesio, anco Leibnitz, anco Pangloss, disse Candido, son
grandi uomini, che non cedono a un altro. - Voi siete un bell'impertinente,
amico caro, replicarono i filosofi; conoscete voi tutte le leggi della refrangibilità
dell' attrazione? del moto? Avete voi letto le verità che il
dottor Clark dà in risposta a' sogni del vostro Leibnitz? Sapete voi che
cosa sia la forza centrifuga, e la forza centripeta? Sapete voi
che i colori dipendono dalle grossezze? Avete voi qualche idea della luce e
della gravitazione? Conoscete voi il periodo di venticinquemila novecentoventi
anni, che per disgrazia non s'accorda colla cronologia? No, senza dubbio. Voi
non avete delle cose che un'idea falsa. Chetatevi dunque, monade miserabile, e
guardatevi d'insultare i giganti con paragonarli a pigmei. - Signori, rispose
Candido, se Pangloss fosse qui vi direbbe di gran belle cose, giacchè
egli è un gran filosofo. Egli ha un sommo disprezzo pel vostro Newton e
come suo discepolo, non ne ho nemmen io troppo caso.
I
filosofi, inveleniti di rabbia, se gli gettarono addosso, e il povero Candido
fu battuto veramente alla filosofica.
La
loro collera s'ammansì, chiesero perdono a Candido di quella
vivacità, e quindi un di loro prese a parlare, e fece un bellissimo
discorso sulla dolcezza e la moderazione.
Nel
mentre che stavan parlando, ecco si vede passare un magnifico funerale, che
diede occasione a' nostri filosofi di ragionare sulla ridicola vanità
de' mortali. - Non sarebb'egli più ragionevole, disse un di loro, che i
parenti e gli amici del morto portassero da sè la bara funebre, senza
pompa e senza susurro? Questa trista incombenza con rappresentar loro l'idea
della morte, non produrrebb'ella in loro il più salutare effetto, e il
più filosofico? Questa riflessione che verrebbe da sé: Il corpo che
io porto è quello del mio amico, è quello del mio parente. Egli
ha finito d'essere, e così devo far io nè più nè
meno, non sarebb'ella capace di risparmiar molti delitti a questo globo
sciagurato, e di ricondurre sulla buona strada quegli esseri che credono
nell'immortalità dell'anima? Purtroppo gli uomini son portati a sbandir
da sè; il pensiero della morte, perchè sia a temersi di
presentarne loro delle immagini troppo vive. Perchè allontanare da
questo spettacolo una madre e una sposa piangente? Le voci lamentevoli della
natura, lo acute strida della disperazione, onorerebbero molto più le
ceneri di un defunto, che tutti questi individui abbrunati da capo a' piedi,
questa ciurma di ministri, che salmeggiano allegramente delle preci che non
intendono.
-
Benissimo detto! rispose Candido. Se voi parlaste sempre così, senza che
vi venisse il ticchio di picchiar la gente, voi sareste un gran filosofo.
I
nostri viaggiatori si separarono profondendosi in attestazioni di confidenza e
d'amicizia. Candido, pigliando la strada di Danimarca, entrò dentro a un
bosco, e rimuginando fra sè tutte le sciagure occorsegli nel miglior de'
mondi possibili, escì di strada e si smarrì. Il giorno cominciava
a calare quando s'accorse dello sbaglio: si perdè di coraggio, ed
alzando tristamente gli occhi al cielo appoggiato ad un tronco d'albero il
nostro eroe parlò in questi termini: - Io ho scorso mezzo mondo; ho
veduto trionfar la calunnia e la frode; non ho cercato che di far bene al
prossimo, e ne sono stato perseguitato: un gran re mi onora del suo favore, e
mi fa dare cinquanta nerbate solenni; arrivo con una gamba di legno in una
bellissima provincia, a vi gusto i piaceri, dopo essermi abbeverato di fiele e
d'amarezza; arriva un abate, io me ne fo il protettore; egli s'insinua alla
corte, ed eccomi costretto a baciargli i piedi... Incontro il mio povero
Pangloss, ma solo per vederlo bruciare... Mi trovo con de' filosofi, la
più dolce e più sociabile specie animale dell'universo, e mi
picchiano senza misericordia. Bisogna che tutto vada bene, giacchè
Pangloss l'ha detto, ma non per questo non son io il più sciagurato di
tutti gli esseri possibili.
Interruppe
Candido il suo parlare per porgere l'orecchio a delle altissime strida che
sembravano escir da un luogo vicino. S'avanza per curiosità e se gli
presenta allo sguardo una giovine che si strappava i capelli con tutti i segni
della più fiera disperazione. - Chiunque voi siete, gli diss'ella, se
avete cuore in petto, seguitemi! S'accompagnano, e avean fatto appena pochi
passi che Candido vede stesi sull'erba un uomo e una donna. Dalla loro
fisonomia traspariva la nobiltà del loro animo e della lor nascita, e le
loro sembianze, benchè contraffatte dal dolore che provavano, avevano
tanta nobiltà, che Candido non potè fare a meno di compiangerli e
di cercar con una viva premura la cagione che avevali ridotti in sì
compassionevole stato. - Questi che voi vedete son mio padre e mia madre, gli
disse la giovinetta, sì; gli autori son questi degl'infelici miei giorni
(continuò ella gettandosi precipitosamente fra le loro braccia).
Fuggivano per evitare il rigore di una ingiusta sentenza; io compagna della lor
fuga, ero abbastanza contenta di divider con essi le loro sciagure, e di
pensare che fra' deserti, ove andavano ad albergare, queste mie deboli mani
avrebbero potuto procurar loro il necessario alimento. Ci siamo fermati qui per
pigliare un poco di riposo; ho scoperto l'albero che vedete, e il suo frutto mi
ha tradita. Oh Dio, signore, io sono una creatura in odio all'universo e a me
stessa. S'armi il vostro braccio per vendicar la virtù offesa, per
punire un parricidio. Ferite! Questo frutto... Io ne ho presentato a mio padre
e a mia madre, essi ne han mangiato con piacere, ed io mi applaudivo d'aver
trovata la maniera di smorzar loro la sete che tormentavali; me infelice! La
morte avevo lor presentata: questo è veleno!
Raccapricciò
Candido a questo racconto, se gli rizzarono i capelli sul capo, e un sudor
freddo gli scorse per tutto il corpo. S'ingegnò, per quanto
permettevangli le circostanze, di dare ajuto a quella sfortunata
famiglia ; ma il veleno aveva già fatto troppo progresso, e i
più efficaci rimedj non avrebber potuto arrestarne il funestissimo
effetto
-
Cara figlia, unica nostra speranza, esclamarono i due infelici, perdona te
stessa, come noi ti perdoniamo. Un eccesso in te di tenerezza è quel che
ci toglie la vita... Generoso straniero, degnatevi aver cura de' suoi giorni,
ella ha il cuor nobile e formato alla virtù; questo è un
deposito, che lasciamo alla vostra mano, infinitamente per noi più
prezioso, che tutta la nostra passata fortuna... Cara Zenoide, ricevi i nostri
ultimi baci; mescola le tue colle nostre lacrime. Oh cielo che deliziosi
momenti son mai questi per noi! Tu ci hai aperta la porta della prigion
tenebrosa in cui da quarant'anni languivamo. Tenera Zenoide, noi ti benediciamo.
Ah non possa tu mai scordarti di quelle lezioni che ti ha dettate la nostra
prudenza, e possan queste preservarti da quell'abisso che vediamo aprirtisi
sotto i piedi!
Spirarono
nel pronunziar queste ultime voci. Candido durò gran fatica a far ritornare
in sè Zenoide. La luna avea illuminato la lacrimevole scena, e compariva
già il giorno senza che Zenoide, immersa in una cupa afflizione, avesse
ancor ripreso l'uso de' sensi. Appena ebb'ella aperto gli occhi, prega Candido
di fare in terra una fossa per riporvi i cadaveri, e vi lavorò anch'ella
con un maraviglioso coraggio. Compito questo dovere, lasciò libero il
corso al piantò. Il nostro filosofo la trascinò lontano da quel
luogo fatale, e camminarono un pezzo senza tenere una strada fissa,
finchè scopersero una capannaccia.
Due
persone sul declive degli anni abitavano quel deserto; esse s'ingegnarono
d'apprestar tutta l'aita, che la lor povertà offrir poteva, allo stato
lacrimevole de lor prossimi. Questi due vecchi eran quali ci vengon dipinti
Bauci e Filemone; da cinquant'anni gustavano le dolcezze dell'imeneo,
senz'averne assaporato mai le amarezze; una sanità robusta, frutto della
temperanza e della tranquillità dello spirito, semplici e dolci costumi,
un fondo inesausto di schiettezza nel lor carattere; tutte le virtù che
l'uomo non riconosce, che da sè stesso, formavano l'appannaggio
accordato loro dal cielo. Erano essi la venerazione di tutti í vicini villaggi
i cui abitanti immersi in una rusticità felice, avrebbero potuto passar
per gente da bene, se fossero stati cattolici. Si facevano essi un dovere di
non lasciar mancar nulla ad Agatone e Suname (tale era il nome de' due vecchi
sposi) e la loro carità si stendeva a nuovi ospiti.- Oh mio caro
Pangloss, diceva Candido, che peccato che voi siate stato bruciato! Avevate ben
ragione; ma non è in alcuna parte dell'Europa o dell'Asia che tutte le
cose van bene; è solo nell'Eldorado, dove non è possibile
d'andare, e in una capannuccia situata nel luogo più freddo, più
arido, più spaventevole della terra. Quanto piacere avrei a sentirvi qui
ragionare dell'armonia prestabilita e delle monadi! Oh quanto volentieri
passerei io i miei giorni fra questi luterani dabbene, sennonchè mi
converrebbe rinunziare al privilegio d'andare alla messa, e riserbarmi ad esser
lacerato nel Giornale cristiano.
Candido
aveva un gran desiderio di saper le avventure di Zenoide; ma non le richiedeva
per discretezza, ed ella che se ne accorse soddisfece alla di lui impazienza,
parlando in tal guisa.
CAPITOLO
XI.
Istoria di Zenoide. Come qualmente Candido se ne innamorò e
quel che ne seguì.
“Io
nasco da una delle più antiche case della Danimarca. Uno de' miei
antenati perì in quel convito in cui il perfido Cristierno
apprestò la morte a tanti senatori. Le ricchezze e le dignità
accumulate nella mia famiglia non han prodotto finora che illustri sventurati.
Mio padre osò dispiacere a un uomo potente, dicendogli la verità;
gli si suscitarono contro degli accusatori che lo infamarono di mille
immaginari delitti; i giudici furono ingannati. Ah quali giudici posson mai
evitare le trappole, che la calunnia tende all'innocenza? Mio padre fu
condannato ad esser decapitato sopra un patibolo. La fuga sola potendolo
liberar dal supplizio, si rifugiò da un amico, che credeva degno di
sì bel nome. Stemmo qualche tempo nascosti in un castello ch'ei possiede
sulla, riva del mare, e vi saremmo ancora, se il crudele, abusando dello stato
deplorabile in cui eravamo, non avesse voluto vendere i suoi servigi a un
prezzo che ce li fece detestare. Aveva l'infame concepita una sregolata
passione per mia madre e per me; tentò la nostra virtù coi mezzi
più indegni d'un galantuomo, e noi ci vedemmo costretti ad esporci ai
più spaventevoli pericoli, per evitar gli effetti della sua
brutalità. Prendemmo la fuga una seconda volta, e voi sapete il resto.”
Nel
finir questo racconto Zenoide pianse nuovamente. Candido asciugò le sue
lacrime, e disse per consolarla - Tutto è per lo meglio, signorina;
poiché se il vostro signor padre non moriva avvelenato, ei sarebbe stato
infallibilmente scoperto; e gli avrebbero tagliata la testa: la vostra signora
madre ne sarebbe certamente morta di dolore, e noi non saremmo in questa
capanna, ove le cose van molto meglio, che ne' più be' castelli
possibili. - Ah! signore, rispose Zenoide, mio padre non ha detto mai che tutto
fosse per lo meglio. Noi apparteniamo tutti a Dio che ci ama, ma che non ha
voluto. allontanar da noi le cure divoratrici, le malattie crudeli, i mali
innumerabili che affliggon l'umanità: nasce il veleno in America accanto
alla chinachina: il più felice mortale ha' sparso delle lacrime: dal
mescuglio dei piaceri e delle pene risulta quel che si chiama vita, cioè
un tratto di tempo determinato, sempre troppo lungo agli occhi del saggio, che
deve impiegarsi a fare il bene della società, nella quale ei si trova
per godere le opere dell'Onnipotente, senza ricercarne follemente le cagioni: a
regolare la sua condotta sul testimone di sua coscienza, ed a rispettare in
ispecie la sua religione. O felice chi può seguirla! Ecco quel che
spesso diceami il mio rispettabile padre. Venga il malanno, aggiungeva egli, a
quegli scrittori temerari che cercano di penetrare nei secreti
dell'Onnipotente. Su questo principio, che Dio vuol essere rispettato dalle
migliaia di atomi a' quali ha dato l'essere, hanno gli uomini unito chimere
ridicole a verità rispettabili. Il dervis dai turchi, il bramino in
Persia, il bonzo in China, il talapuino nell'Indie, rendon tutti un differente
culto alla divinità, ma essi godono la quiete dell'anima nelle tenebre
ove sono immersi; e chi volesse dissiparle, renderebbe loro un cattivo uffizio.
Non è un voler bene agli uomini, il sottrarli dall'impero del
pregiudizio.
-
Voi parlate come un filosofo, disse Candido: vorrei sapere, mia bella
signorina, di qual religione siate. - Io sono stata allevata nel luteranismo,
rispose Zenoide: questa è la religione del mio paese. - Tutto ciò
che avete detto, riprese Candido, è un tratto di luce che mi ha colpito:
io provo per voi un mondo di stima e di ammirazione... Come può darsi
che regni tanto spirito in sì bel corpo? In verità. signorina, io
vi stimo e vi ammiro a un segno.... Candido borbottava ancor qualche parola, e
Zenoide avvedendosi della sua agitazione, lo lasciò. Ella evitò
da quell'istante in poi di trovarsi sola con lui, e Candido cercò di
trovarsi solo con lei, o d'esser solo affatto. Egli era immerso in una
melanconia, che aveva per lui del diletto; amava con trasporto Zenoide; e volea
dissimularlo; i suoi sguardi tradivano i segreti del suo cuore. - Ah diceva
egli, se il maestro Pangloss fosse qui, ei mi darebbe un buon consiglio,
perchè egli era un filosofo.
CAPITOLO
XII.
Continuazione dell'amore di Candido.
L'unica
consolazione che provava Candido, era di parlare alla bella Zenoide in presenza
de' loro ospiti. - Come, le disse un giorno, il re a cui vivevate da presso,
potè permettere l'ingiustizia che si fece alla vostra casa? Voi dovete bene
aborrirlo. - Ah, disse Zenoide, chi può odiare il suo re? Chi può
non amar quello in cui è riposta la spada sfolgoreggiante delle leggi? I
re sono le vive immagini della divinità, e noi non dobbiamo condannare
mai la loro condotta; l'obbedienza, e il rispetto fanno il dovere de' buoni
sudditi. - Io vi ammiro, sempre più rispose Candido: conoscete voi,
signorina, il gran Leibnitz, e il gran Pangloss, che è stato abbruciato
dopo che scampò da esser impiccato? Sapete voi dello monadi, della
materia sottile, e de' vortici? - No, disse Zenoide, mio padre non mi ha
parlato mai di alcuna di queste cose; egli mi ha dato solamente una tintura
della fisica sperimentale, e mi ha insegnato a disprezzare ogni sorta di
filosofia, che non concorra direttamente alla felicità dell'uomo, che
gli dia false nozioni di ciò ch'ei deve a se stesso, e di ciò
ch'ei deve agli altri, che non gl'insegni a regolare i costumi, che non gli
riempia lo spirito che di parole barbare, e di congetture temerarie, che non
gli dia più chiare idee dell'autore degli esseri che quella che gli
somministrano le di lui opere, e le maraviglie che si operano tutti i giorni
sotto i suoi occhi. - E maggiormente v'ammiro, signorina; voi m'incantate, voi
mi rapite; siete un angelo che il cielo m'ha inviato per illuminarmi sopra i
sofismi del maestro Pangloss. Povero animale ch'io era! Dopo d'aver sopportato
un numero prodigioso di pedate, di frustate sulle spalle, di nerbate sotto le
piante de' piedi; dopo d'aver sopportato un terremoto; dopo d'aver assistito
all'impiccagione del dottor Pangloss e averlo veduto abbruciare poco fa; dopo
d'essere stato preso per decreto del Divano, e battuto da alcuni filosofi, io
credeva pure che tutto andasse bene. A ch'io ne son ben disingannato! Intanto
la natura non mi è parsa mai tanto bella, quanto allora ch'io vi ho
veduta. I concerti campestri degli uccelli suonano al mio orecchio con una
armonia che fino a questo giorno io non conosceva; tutto si anima, e il
sentimento che mi invade, pare che imprima un altro colore su tutti gli
oggetti: io più non sento quella molle languidezza che provava ne'
giardini che avevo a Sus. Quel che voi m'ispirate è differente
assolutamente. - O via, finiamola, disse Zenoide, il seguito de' vostri
discorsi potrebbe offendere la mia delicatezza, e voi dovete rispettarla. -
Tacerò, disse Candido, ma il mio fuoco non sarà che più
ardente.
Pronunziando
queste parole riguardò Zenoide, si avvide che ella arrossiva, e da uomo
esperto concepì le più lusinghiere speranze
La
giovine danese scansò per qualche tempo ancora di trovarsi con Candido.
Un giorno ch'ei passeggiava in fretta nel giardino degli ospiti, diede in un
trasporto amoroso. - Perchè non ho più i miei montoni del buon
paese d'Eldorado! Perchè non son io in stato di comprare un piccolo regno!
Ah s'io fossi re... - Che vi sarei io... disse una voce che colpì il
cuore del nostro filosofo. - Siete voi, bella, Zenoide? diss'egli cadendole ai
piedi. Io mi credeva solo; le poche parole che avete pronunziate pare che mi
assicurino fa felicità alla quale aspiro: io non sarò mai re,
nè forse mai ricco, ma se voi mi amate... non rivolgete da me quegli
occhi pieni di vezzi, che io vi leggo un consenso che può solo compire i
miei desideri. Bella Zenoide, io vi adoro; aprasi la vostr'anima alla
pietà. Che vedo! voi piangete! Ah ch'io son troppo fortunato! -
Sì voi siete fortunato, disse Zenoide: niente mi obbliga a celare la mia
sensibilità per un oggetto che io ne credo degno: finora non avete avuto
pietà della mia sorte che per i legami dell'umanità: è
tempo ormai di stringere questi legami con altri legami più santi. Io mi
sono consigliata; riflettete seriamente ai casi vostri, e pensate sopratutto
che sposandomi, contraete l'obbligo di proteggermi, e di mitigare e dividere le
miserie che forse ancora mi serba la sorte. - Sposarvi? dice Candido: queste
parole mi illuminano sull'imprudenza della mia condotta. Ah! caro idolo della
mia vita, io non merito da voi tanta bontà. Cunegonda non è morta
ancora. - Chi è questa Cunegonda? chiese Zenoide - Questa è mia
moglie, rispose Candido colla sua solita sincerità.
Restarono
i nostri amanti qualche tempo senza aprir bocca voleano parlare, e le loro
parole spiravano su' lor labbri; i loro occhi erano molli di pianto; Candido
tenea fra le sue mani quelle di Zenoide, se le stringeva al cuore e le divorava
di baci. Ardì alzare gli sguardi e credè di vedere scritto il suo
perdono ne' begli occhi di lei - Caro amante, gli diss'ella, la mia collera
coprirebbe malamente i trasporti che autorizza il mio cuore. Fermati per altro;
tu mi rovineresti nell'opinione degli uomini, e saresti poco capace d'amarmi se
io diventassi l'oggetto de' loro disprezzi: fermati, e rispetta la mia
debolezza.
Non
riferiremo tutta quella conversazione interessante; ci contenteremo di dire che
l'eloquenza di Candido abbellita dall'espressioni amorose, ebbe tutto
quell'effetto che egli potea aspettare sopra una filosofessa giovine e
sensibile.
Questi
amanti, i cui giorni passavano per l'innanzi fra la mestizia e fra
l'inquietudine, parvero felici; il silenzio delle foreste, le montagne coperte
di bronchi e spine, ed attorniate da precipizj, le pianure gelate, i campi
ripieni d'orrore de' quali erano circondati, li persuasero maggiormente del
bisogno ch'essi avevano di amarsi. Erano risoluti a non abbandonare quella
solitudine orribile, ma il destino non era stanco di perseguitarli, come lo
vedremo nel capitolo seguente.
CAPITOLO
XIII.
Arrivo di Volhall. Viaggio a Copenaghen,
Candido
e Zenoide trattenevansi sull'opere della divinità, sul culto che gli
uomini devono rendergli, su i doveri che li uniscono fra loro, e specialmente
sulla carità, virtù d'ogni altra virtù più utile al
mondo, e non vi s'occupavano con declamazioni frivole; insegnava Candido ai giovinetti
il rispetto dovuto al freno sacrato delle leggi; Zenoide istruiva ragazze su
quanto doveano a' lor parenti, ed ambi si riunivano per gettare in quei giovani
cuori i fecondi semi della religione. Un giorno ch'essi si dedicavano in quelle
pie occupazioni, venne Suname ad avvertire ch'era arrivato un vecchio signore
accompagnato da molti domestici, e che al ritratto che le avea fatto di quella
ch'ei cercava, non aveva potuto dubitare che non fosse la bella Zenoide. Quel
signore seguiva Suname alle calcagna ed entrò quasi nel tempo stesso di
lei nel luogo ov'erano Zenoide e Candido.
Svenne
Zenoide alla sua vista, ma poco sensibile a spettacolo compassionevole, la
prese Volhall per mano e la tirò con tanta violenza ch'ella rinvenne; ma
non rinvenne che per spargere un rio di lacrime. - Mia nipote, le diss'egli con
un sorriso amaro, io vi trovo in molto buona compagnia: non mi stupisco che la
preferiate al soggiorno della capitale, alla mia casa, alla vostra famiglia.
Sì, signore, rispose Zenoide, io preferisco i luoghi ove abitano la
semplicità e il candore, al soggiorno del tradimento e dell'impostura.
Io non rivedrò che con orrore quel luogo ov'ebbero principio le mie
sventure, ove ho ricevuto tante prove del vostro nero carattere, ove non ho
altri parenti che voi... - Signorina, replicò Volhall, voi mi seguirete,
se vi piace; quand'anche doveste svenire un'altra volta.
Così
dicendo, la strascinò seco, e la fe' montare in un calesse che
l'attendea. Ella ebbe appena tempo di dire a Candido di seguirla, e
partì benedicendo i suoi ospiti e promettendo loro di ricompensare i
generosi servigi ricevuti.
Un
domestico di Volhall ebbe compassione del dolore in cui Candido era immerso;
credendo ch'ei non avesse altro affetto per la giovine danese, fuor quello che
inspira la virtù infelice, gli propose di andare a Copenaghen, e gliene
facilitò i mezzi; fece di più; gl'insinuò che potrebbe
essere ammesso al numero de' domestici di Volhall, s'ei non avesse altro modo
che il servizio per tirare avanti. Candido gradì quelle offerte, e tosto
che fu giunto, il suo futuro camerata lo presentò come un suo parente,
per cui egli stava garante. - Birbante, gli disse Volhall, voglio accordarti
l'onore di stare appresso a un pari mio. Non ti scordar mai del profondo
rispetto che devi alle mie volontà: previenile, se hai sufficiente
istinto per questo: considera che un pari mio si avvilisce parlando ad un uomo
come te.
Il
nostro filosofo rispose con tutta la sommissione a quel discorso impertinente,
e da quello stesso giorno fu rivestito della livrea del suo padrone.
È
da immaginarsi facilmente quanto fu stupita e contenta Zenoide, riconoscendo il
suo amante fra i servitori dello zio; ella fece nascere le occasioni di
trovarsi: Candido ne profittò; si giurarono una costanza inviolabile.
Avea Zenoide qualche momento di cattivo umore; ella si rimproverava qualche
volta il suo amore per Candido; lo affliggea co' suoi capricci, ma Candido
l'idolatrava; ei sapea che la perfezione non è propria dell'uomo, e
molto meno della donna. Zenoide riprendeva il suo buon umore nelle di lui
braccia.
CAPITOLO
XIV.
Come Candido ritrovò la moglie e perdè l'amante.
Non
aveva il nostro eroe a soffrire altro che le alterigie del suo padrone, e
ciò non era un comprar troppa caro l'affetto della dolce amante. L'amor
soddisfatto non si cela così facilmente, come suol dirsi: i nostri
amanti si tradirono da loro stessi: il loro accordo non fu più un
mistero, se non agli occhi poco penetranti di Volhall, tutti i domestici lo
sapevano; Candido ne ricevea de' mirallegro che lo facevan tremare; aspettava
egli la tempesta vicina a cader sopra di lui; e non si sarebbe mai pensato che
una persona che gli era stata cara, fosse sul punto d'affrettare la sua
disgrazia. Erano alcuni giorni che aveva scorto un volto che si assomigliava a
quello di Cunegonda e l'aveva ritrovato ancora alla corte di Volhall; questa
tal persona era malissimo vestita e non vi era apparenza che una favorita d'un
gran maomettano si trovasse nel cortile d'un palazzo a Copenaghen. Intanto
quell'oggetto disaggradevole osservava Candido con moltissima attenzione:
quell'oggetto s'avvicinò tutt'a un tratto, e acciuffando Candido per i
capelli gli diede il più sonoro schiaffo ch'egli avesse mai ricevuto. -
Io non m'inganno, grida il nostro filosofo: oh cielo! chi l'avrebbe mai creduto?
che cosa venite a far qui dopo d'esservi lasciata sedurre da un settatrio di
Maometto? Andate, perfida sposa, io non vi conosco. - Tu conoscerai i miei
furori, replicò Cunegonda: io so la vita che tu meni, il tuo amore per
la nipote del tuo padrone, e il tuo disprezzo per me. Ahimè! son tre
mesi che ho lasciato il serraglio, perchè non ero più buona a
niente; comprommi un mercante per ricucir la sua biancheria, e mi condusse con
lui in un viaggio che fece per queste coste. Martino e Cacambo ch'egli avea pur
comprati erano nello stesso viaggio: il dottor Pangloss, per il caso più
strano del mondo, trovossi nello stesso vascello in qualità di
passeggiere. Naufragammo qualche miglio lontano di qui; io scampai dal periglio
col fedele Cacambo: qui ti rivedo e ti rivedo infedele. Tremane, e temi quanto
si può temere una donna irritata!
Era
Candido tutto stupefatto da quella affettuosa scena e lasciava andar Cunegonda,
senza pensare a quanto dobbiamo riguardarci da chi conosce il nostro segreto,
quando gli si fece innanzi Cacambo. Si abbracciarono teneramente; Candido
ascoltò quanto egli veniva a dirgli, e molto si afflisse della perdita
del gran Pangloss, che dopo d'essere stato impiccato e abbruciato, s'era
annegato miseramente. Essi parlavano con quella tenerezza di cuore che ispira
l'amicizia, quando un bigliettino che Zenoide gettò dalla finestra mise
fine alla conversazione. Candido l'aprì e vi trovò queste parole:
“Fuggi,
mio caro bene; tutto è scoperto. Una inclinazione innocente che la
natura autorizza, e che non ferisce in niente la società, è un
delitto agli occhi degli uomini creduli e crudeli. Volhall esce dalla mia
camera ove mi ha trattata con l'estrema inumanità. Egli va ad ottenere
un ordine, per farti perire in un carcere. Fuggi, o troppo caro amante! poni in
sicurezza quei giorni che non puoi più passare presso me. Ecco il fine
di quei tempi felici, in cui la nostra reciproca tenerezza... Ah misera
Zenoide, che hai tu fatto al cielo, per meritare un trattamento sì
rigoroso? Io mi perdo: ricordati sempre della tua cara Zenoide. Caro bene, tu
vivrai eternamente nel mio cuore: no, tu non hai compreso mai quanto io
t'amassi... Possa tu ricevere, sulle mie labbra ardenti, il mio ultimo addio, e
l'ultimo mio sospiro! Io mi sento vicina a raggiungere il padre infelice: la
luce del giorno ora mi è in orrore; essa non illumina che misfatti.”
Cacambo,
sempre saggio e prudente, trascinò Candido che era fuor di sè, ed
escirono dalla città per la più corta. Candido non apriva bocca,
ed erano già lontani da Copenaghen, ch'egli non era ancor uscito da
quella specie di letargo in cui era sepolto. Finalmente volse un guardo al
fedele Cacambo, e parlò in questi termini:
CAPITOLO
XV.
Come Candido volesse ammazzarsi, e non ne facesse niente.
Ciò che gli accadde in un'osteria.
-
Caro Cacambo, un tempo mio servo, ora mio uguale, e sempre mio amico, tu hai
meco divise alcune delle tue disgrazie, tu mi hai dato consigli giovevoli, tu
hai veduto il mio amore per Cunegonda... - Ah, mio antico padrone, disse
Cacambo, fu lei che vi ha fatto il tiro più indegno e lei che dopo aver
saputo dai vostri compagni, che voi amavate Zenoide e ch'ella amava voi, ha
tutto rivelato al barbaro Volhall. - Se così è, disse Candido,
non mi resta che morire.
Trasse
il nostro filosofo dalla sua tasca un coltellino, e si mise ad arrotarlo, con
una calma degna d'un antico romano o d'un inglese. - Che pretendete di fare?
chiese Cacambo. - Tagliarmi la gola, rispose Candido. - Buonissimo pensiere,
replicò Cacambo; ma il saggio non deve decidersi che dopo le più
mature riflessioni: starà sempre a voi l'ammazzarvi, se la voglia non vi
passa. Fate a mio modo, mio caro padrone, rimettete la partita a domani;
più differite, e più l'azione sarà coraggiosa. - Mi
piacciono le tue ragioni disse Candido: tanto se io mi tagliavo la gola
addirittura, il gazzettiere di Trevoux insulterebbe ora alla mia memoria: basta
così, io non mi ammazzerò che fra due o tre giorni.
Così
discorrendo arrivarono a Elseneur, città considerevole, poco lontana da
Copenaghen. Essi vi dormirono, e Cacambo fu contento del buon effetto che il
sonno avea prodotto in Candido. Uscirono allo spuntar del giorno dalla
città, e Candido sempre filosofo, perchè i pregiudizi
dell'infanzia non si cancellan mai, tratteneva il suo amico Cacambo sul bene e
sul mal fisico, su' discorsi della saggia Zenoide, sulle lucenti verità
che aveva ricavate nella sua conversazione. - Se Pangloss, diceva egli, non
fosse morto, io combatterei il suo sistema vittoriosamente. Dio mi guardi di
divenir manicheo, la mia amante mi ha insegnato a rispettare il velo
impenetrabile sotto il quale la divinità cela la sua maniera di operare
su di noi. L'uomo è quello che da sè stesso si è forse
precipitato nell'abbisso delle miserie ove egli geme. I selvaggi che noi
vedemmo, non mangiano che i gesuiti, e non vivono male fra loro, ed i selvaggi
che vivono sparsi ad uno ad uno ne' boschi, e non campano che di ghiande e
d'erbe, son certamente più felici ancora. Dalla società son nati
i più gravi delitti. Vi sono uomini nella società che son
costretti, per ragion di stato, a desiderare la morte degli uomini. Il
naufragio d'un vascello, l'incendio d'una casa, la perdita d'una battaglia,
inducono alla mestizia una parte della società, e spargono la gioja in
un'altra. Tutto va molto male, mio caro Cacambo, e non v'è per il saggio
altro partito da prendere che di tagliarsi la gola più delicatamente che
sia possibile. - Avete ragione, disse Cacambo; ma io scorgo un'osteria, voi
dovete aver molta sete; andiamo, mio antico padrone, beviamo un poco, e
continueremo dopo i nostri trattenimenti filosofici.
Entrarono
in quell'osteria; una truppa di contadini e di contadine ballavano in mezzo al
cortile, al suono di alcuni cattivi strumenti; spirava il brio da tutti i
volti, ed era uno spettacolo degno del pennello di Vatteau. Tosto che apparve
Candido, una ragazza lo prese per mano e lo invitò a ballare. - Mia
bella signorina, rispose Candido, quando si è perduta la sua amante, che
si è ritrovata la moglie, e che si è saputo che il gran Pangloss
è morto, non si ha voglia niente affatto di far capriole; dall'altro
canto, io devo ammazzarmi domani mattina, e voi vedete che un uomo che ha poche
ore da vivere, non deve perderle a ballare.
Allora
Cacambo s'appressò a Candido, e gli disse: - La passione della gloria fu
sempre quella de' gran filosofi. Catone in Utica s'ammazzò dopo aver ben
dormito: Socrate ingojò la cicuta dopo essersi famigliarmente trattenuto
co' suoi amici: più inglesi si sono abbruciati il cervello nell'uscir da
pranzo; ma nessun grand'uomo, che io sappia, si è tagliata la gola dopo
d'aver ben ballato; a voi, mio caro padrone, questa gloria è riservata;
fate a mio modo, danziamo a crepa pancia, e doman mattina ci ammazzeremo. - Non
hai tu osservato, rispose Candido, quella contadinella brunetta quanto è
piacevole? - Ella ha un non so che di seducente disse Cacambo. Mi ha stretto la
mano, riprese il nostro filosofo. Cospetto! s'io non avessi il cuor ripieno di
Zenoide.
La
brunetta interruppe Candido, e di nuovo lo invitò.
Il
nostro eroe lasciossi andare, ed eccolo che balla colla miglior grazia del
mondo. Dopo d'aver ballato, ed abbracciato la bella contadinotta, si
ritirò al suo posto, senza invitare a ballare la padrona di casa. Nacque
a un tratto un mormorio, e tutti gli attori e spettatori pareano oltraggiati
d'un disprezzo così visibile. Candido non conoscea il suo errore, e non
era per conseguenza in istato di rimediarlo. Un contadinaccio gli si
accostò e gli diè un pugno sul naso. Cacambo rese a quel
contadinaccio una pedata nel ventre, e in un istante si fracassano gli
strumenti, donne e ragazze si arruffano i ciuffi; Candido e Cacambo si battono
come due eroi, e sono finalmente obbligati a prender la fuga tutti lividi di
colpi.
-
Tutto per me è veleno, dicea Candido, dando braccio al suo amico
Cacambo: io ho sofferto molte disgrazie, ma non mi aspettavo mai di essere
tartassato di busse, per aver ballato con una contadina che mi aveva invitato a
ballare.
CAPITOLO:
XVI.
Candido e Cacambo si ritirano in un ospedale. Incontro ch'essi
fanno.
Cacambo
e il suo antico padrone non ne potean più, e cominciavano a dare in
quella specie di malattia dell'anima che n'estingue tutte le facoltà,
cadeano nell'inquietudine e nella disperazione, quando videro un ospedale
eretto pei viaggiatori. Cacambo propose d'entrarvi, e Candido lo seguì.
S'ebbe per loro tutta la cura che si ha in tali abitazioni, e furono trattati
per l'amor di Dio, come si suol dire. In poco tempo furono guariti dalle loro
ferite, ma vi guadagnarono la rogna. Non v'era apparenza che quella malattia
fosse affare d'un giorno, e questo pensiero empieva di lacrime gli occhi di
Candido, che dicea grattandosi: - Tu non hai voluto lasciarmi tagliare la gola,
mio caro Cacambo; i tuoi cattivi consigli mi immergono di nuovo nell'obbrobrio
e nella sciagura; e se io voglio ora tagliarmi la gola, si dirà nel
giornale di Trevoux: questo è un vile che si è ammazzato
perchè aveva la rogna: ecco a quel che tu mi esponi per un malinteso
interesse che hai voluto prendere alla mia sorte
I
nostri mali non sono senza rimedio, rispose Cacambo, e se vorrete fare a mio
modo, abbiamo a fissarci qui in qualità di fratelli; io so un
poco di chirurgia, e vi prometto di mitigare e render sopportabile la nostra
miserabile condizione. - Ah! dice Candido, crepin tutti gli asini, e in specie
gli asini cerusici, sì dannosi all'umanità. Io non
comporterò mai che tu ti spacci per quel che non sei; questo sarebbe un
tradimento, le cui conseguenze mi spaventano. D'altra parte, se tu sapessi
quanto è dura, dopo d'essere stato vicerè d'una bella provincia,
dopo essersi veduto in istato di comprare de' bei regni, dopo d'essere stato
l'amante favorito di Zenoide il risolversi a servire in qualità di
fratello in un ospedale....
-
Lo so, riprese Cacambo, ma so ancora che è assai dura cosa il morir di
fame; riflettete di più, che il partito ch'io vi propongo, è
forse l'unico che possiate prendere per isfuggire le ricerche del crudele
Volhall, e sottrarvi ai castighi ch'ei vi prepara.
Mentre
parlavano così passò un fratello e gli fecero alcune
dimande; egli rispose in una maniera soddisfacente, e assicurò loro che
i fratelli erano bene nutriti, e godevano d'una onesta libertà. Candido
si decise; ei prese con Cacambo l'abito di fratello che gli si
accordò addirittura, e i nostri due miserabili si misero a servire altri
miserabili.
-
Un giorno che Cacambo distribuiva in giro poche cattive minestre, gli
diè nell'occhio un vecchio, il cui viso era livido, le labbra coperte di
schiuma, gli occhi mezzo stravolti, e sulle cui gote crespe e inaridite,
appariva l'immagine della morte. - Pover'uomo, gli disse Candido, quanto vi
compiango! voi dovete orribilmente soffrire. - Io soffro molto, rispos'egli con
una voce da sepoltura; si dice ch'io sono etico, polmoniaco e asmatico: se
così è, io son ben malato, ma intanto tutto non va male, e questo
e quello che mi consola. - Ah, esclama Candido, non v'è che il dottor
Pangloss, che in uno stato così deplorevole, possa sostenere la dottrina
dell'ottimismo, quand'ogni altro non predicherebbe che il pess... - Non
pronunziate quella detestabil parola, grida il pover'uomo; io sono quel
Pangloss di cui voi parlate, disgraziato; lasciatemi morire in pace, tutto
è bene, tutto è per lo meglio.
Lo
sforzo ch'ei fece pronunziando queste parole, gli costò l'ultimo dente,
ch'ei vomitò con una tremenda quantità di marcia. Spirò
pochi momenti dopo.
Candido
lo pianse, perchè aveva il cuor buono. Il suo funerale fu una sorgente
di riflessioni per il nostro filosofo; egli si ricordava sovente tutte le sue
avventure. Cunegonda era restata a Copenaghen, ed ei seppe che v'esercitava il
mestiere di lavandaja, colla maggior distinzione possibile. La passione di
viaggiare l'abbandonò affatto. Il fedele Cacambo lo sosteneva co' suoi
consigli e colla sua amicizia. Candido non mormorò contro la
Provvidenza. - Io so che la felicità non è il retaggio dell'uomo,
diceva egli qualche volta: la felicità non risiede che nel buon paese
d'Eldorado, ma è impossibile d'andarvi.
CAPITOLO
XVII.
Nuovi incontri.
Candido
non era tanto disgraziato, poichè aveva un vero amico; ei l'avea trovato
in un servo bastardo, ciò che invano si cerca nella nostra Europa; forse
la natura che fa crescere in America le erbe proprie alle malattie corporali
del nostro continente, vi ha piantato ancora de' rimedj per le nostre malattie
del cuore e dello spirito: forse vi son formati differentemente da noi:
chè non sono schiavi dell'interesse personale, che son degni di ardere
al bel fuoco dell'amicizia. Quanto sarebb'egli da desiderarsi, che invece di
ciurli d'indaco e di cocciniglia tutti coperti di sangue, ci si conducesse
qualcheduno di questi uomini. Una tal sorte di commercio sarebbe ben vantaggiosa
all'umanità. Cacambo valeva più per Candido, che una dozzina di
montoni rossi carichi di ciottoli dell'Eldorado. Il nostro filosofo
ricominciò a godere il piacere di vivere; era una consolazione per lui
il vigilare alla conservazione della specie umana e non essere un membro
inutile nella società. Iddio benedisse intenzioni sì pure,
rendendo a lui, come a Cacambo, le dolcezze della sanità. Essi non
avevano più la rogna ed adempivano piacevolmente le faticose funzioni del
loro stato; ma la sorte tolse loro ben tosto la sicurezza nella quale gioivano.
Cunegonda, che s'era presa a petto di tormentare il suo sposo, abbandonò
Copenaghen per andarne in traccia; il caso la condusse all'ospedale; era ella
accompagnata da un uomo che Candido riconobbe per il signor barone di
Thunder-ten-tronckh; è da immaginarsi facilmente qual dovesse essere la
sua maraviglia; il barone se ne accorse e gli parlò così:- Io non
ho remato gran tempo sulle galere ottomane; seppero i gesuiti la mia disgrazia,
e mi riscattarono per onore della società: ho fatto un viaggio in
Alemagna, ove ho ricevuto alcuni benefizj dagli eredi di mio padre; non ho
niente trascurato per trovar mia sorella, ed avendo saputo da Costantinopoli
ch'ella era partita con un bastimento ch'era naufragato sulle coste di
Danimarca, mi sono travestito, ho preso delle lettere di raccomandazione per
alcuni negozianti danesi che han relazione colla società, e ho trovato
finalmente la mia sorella, la quale vi ama, benchè indegno voi siate
della sua amicizia; e giacchè avete avuta l'imprudenza di vivere con
lei, consento alla confermazione del matrimonio, o piuttosto a una nuova
celebrazione di nozze, ben intesi che mia sorella non vi darà che la
mano sinistra; il che è ben giusto, poichè ella ha settant'un
quarto di nobiltà, e voi non ne avete neppur uno.- Ah! dice Candido,
tutt'i quarti del mondo senza la bellezza... La signora Cunegonda era molto
brutta, quando io ebbi l'imprudenza di sposarla; ella è tornata bella,
ed un altro vide i suoi vezzi; ella è tornata brutta, e volete che io le
ridia la mano? No per certo, mio reverendo padre: rimandatela nel suo serraglio
di Costantinopoli. Ella mi ha fatto troppo danno in questo paese. - Lasciati
compungere, ingrato, disse Cunegonda, facendo contorsioni spaventevoli; non obbligare
il signor barone, ch'è prete, ad ammazzarci tutti e due per lavare nel
nostro sangue la sua vergogna. Mi credi tu capace d'aver mancato di buona
voglia alla fedeltà che io ti doveva? Che volevi tu ch'io facessi in
faccia a un padrone che mi trovava bella? Ecco il mio delitto, e questo non
merita la tua collera. Un delitto più grave agli occhi tuoi è
quello di averti rapito la tua amante, ma questo delitto deve darti prova del
mio amore. Senti, mio caro Candido, se mai ritorno bella, se... ciò non sarà
che per te, mio caro Candido: noi non siamo più in Turchia.
Questo
discorso non fece molta impressione in Candido; ei chiese alcune ore per
determinarsi sul partito che aveva a prendere. Il signor barone gli
accordò due ore, durante le quali ei consultò il suo amico
Cacambo. Dopo pesate le ragioni del pro e del contra, essi si determinarono a
seguire il gesuita, e la sorella in Alemagna. Ecco che abbandonano l'ospedale,
ed in compagnia si mettono in cammino, non già a piede, ma su buoni
cavalli, che aveva condotti il baron gesuita, e arrivano sulle frontiere del
regno. Un grand'uomo d'assai cattiva cera considera attentamente i nostri eroi.
- È lui, diss'egli, porgendo gli occhi sopra un pezzetto di carta:
signore, s'è lecito, non vi chiamate voi Candido? - Si signore,
così mi han sempre chiamato.- Me lo figuravo signore; in fatti voi avete
le ciglia nere, gli occhi al pari della fronte, le orecchie d'una mediocre
grandezza, il viso tondo e colorito, e per quanto pare, dovete essere di cinque
piedi e cinque pollici d'altezza. - Sì, signore, questa è la mia
statura; ma che volete voi dalla mia statura e dalle mie orecchie? - Signore,
non si può usare tanta circospezione quanta basti nel nostro ministero;
permettetemi di farvi ancora un'altra breve dimanda: non avete voi servito il
signor Volhall? - Signore, in verità, rispose Candido tutto sconcertato,
io non comprendo... - Lo comprendo ben io a maraviglia, che voi siete quello di
cui m'è stato mandato il contrassegno. Datevi la pena d'entrare nel
corpo di guardia. Soldati, conducete il signore, preparate la camera bassa, e
fate chiamare il fabbro per fare al signore una piccola catena di trenta o
quaranta libbre di peso. Signor Candido, voi avete là un buon cavallo;
avevo giusto bisogno d'un cavallo del medesimo pelame. Ci aggiusteremo.
Il
barone non ardì di reclamare il cavallo. Si strascinò Candido, e
Cunegonda pianse per quattr'ore. Il gesuita non mostrò alcun dispiacere
di quella catastrofe. - Io sarei stato obbligato ad ammazzarlo, e a
rimaritarvi, diss'egli alla sorella, ma considerato ogni cosa, quel che accade
è molto meglio per l'onore della nostra casa.
Cunegonda
partì col fratello, e non vi fu che il fedele Cacambo, che non volesse
abbandonare il suo amico.
CAPITOLO
XVIII.
Seguito del disastro di Candido. Com'egli trovo la sua amante. La
fine.
-
Oh Pangloss, dicea Candido, gran danno che siate perito miseramente! voi non
siete stato testimone che di una parte delle mie disgrazie; io speravo di farvi
lasciare quell'insussistente opinione che avete sostenuta fino alla morte. Non
v'è uomo sulla terra che abbia sofferto più calamità di
me, nè ve n'è uno solo che non abbia maledetta la sua esistenza,
come ce lo diceva energicamente la figlia di papa Urbano. Che sarà di
me, mio caro Cacambo? - Non lo so, rispose Cacambo: quel ch'io so è che
non vi abbandonerò mai. - E Cunegonda mi ha abbandonato, disse Candido.
Ah, un amico bastardo val più d'una donna!
Candido
e Cacambo così parlavano in carcere Furono tratti di là, per
essere condotti a Copenaghen. Là dovea il nostro filosofo sapere il suo
destino. Ei non s'aspettava che l'orribile prigione, ed i nostri lettori pur se
l'aspettano, ma Candido s'ingannava, ed i nostri lettori pure s'ingannano. A
Copenaghen l'aspettava la felicità. Appena vi fu arrivato, seppesi la
morte di Volhall. Quel barbaro non fu compianto da alcuna persona e ciascheduno
s'interessò per Candido. Furono rotti i suoi ferri, e la libertà
fu tanto più lusinghiera per lui, inquantochè gli procurò
i mezzi di ritrovar Zenoide. Corse da lei, stettero un pezzo senza parlare, ma
il lor silenzio diceva tutto: piangeano, s'abbracciavano, volevan parlare, e
piangevan ancora. Cacambo godeva di quello spettacolo, così tenero per
un essere che è sensiblle; dividevano la gioja col loro amico, ed egli
era quasi in uno stato simile al loro. - Caro Cacambo, adorabile Zenoide; grida
Candido, voi cancellate dal mio cuore la traccia profonda de' mali miei:
l'amore e l'amicizia mi preparano giorni sereni e momenti preziosi. Quante
prove ho passato, per giungere a questa felicità inaspettata! Tutto è
dimenticato, cara Zenoide; io vi veggo, voi m'amate, tutto va per lo meglio per
me; tutto è bene nella natura
La
morte di Volhall avea lasciata Zenoide padrona della sua sorte. La corte gli
aveva assegnata una pensione sopra i beni di suo padre, che erano stati confiscati;
ella la ripartì con Candido e Cacambo; li tenne in casa, e fece dire per
la città che aveva ricevuto servizi sì importanti da que' due
forastieri, che la obbligavano a procurar loro tutti i beni della vita, e a
riparare alla ingiustizia della fortuna verso di loro. Vi fu chi penetrò
il motivo de' suoi benefici, ed era ben facile, poichè la sua
corrispondenza con Candido aveva dato malamente nell'occhio. Il maggior numero
la biasimò, e non fu approvata la sua condotta che da qualche cittadino
che sapea pensare. Zenoide che facea un certo caso della stima de' pazzi,
soffriva di non esser nel caso di meritarla. La morte di Cunegonda, che i
corrispondenti de' negozianti gesuiti sparsero in Copenaghen, procurò a
Zenoide i mezzi di conciliare ogni cosa. Ella fece fare una genealogia per
Candido, e l'autore, che era un uomo abile, lo fe' discendere da una delle
più antiche case d'Europa; pretese che il suo vero nome fosse Canuto,
che porta uno de' re di Danimarca, il che è verosimilissimo. Dido
in uto non è una sì gran metamorfosi, e Candido, per mezzo
di questo leggier cambiamento, divenne un grandissimo signore.
Sposò
Zenoide in facie Eccelesiæ, ed essi vissero sì
tranquillamente quanto lo è possibile. Cacambo fu loro amico comune, e
Candido diceva spesso.
-
Tutto non va sì bene quanto in Eldorado, ma non va neppur tanto male.
[i] (Nota all’edizione Manuzio)
L’edizione ottocentesca ha tralasciato un brano che riportiamo qui di seguito
nella traduzione di Paola Angioletti per l’edizione Newton Compton del
settembre l994, collana Tascabili Economici Newton, ISBN 88-7983-632-3.:
Ella ne era infetta, forse
ne è morta. Paquette aveva avuto questo regalo da un frate francescano
molto colto, il quale era risalito all’origine: infatti egli l’aveva preso da
un capitano di cavalleria, che lo doveva a un paggio, che l’aveva preso da un
gesuita il quale, da novizio, l’aveva ereditato in linea diretta da un compagno
di Cristoforo Colombo. Quanto a me, non lo darò a nessuno, perché sto
morendo.
- O Pangloss! gridò
Candido, che strana genealogia! Certamente il diavolo ne è il
capostipite! -
Niente affatto,
replicò quel grand’uomo: era una cosa indispensabile nel migliore dei
mondi, un ingrediente necessario: poiché, se Colombo non avesse preso in
un’isola dell’America questa malattia che avvelena la sorgente della
generazione, che spesso anzi impedisce la generazione e che evidentemente
è l’opposto del gran fine della natura, noi non avremmo né cioccolata né
cocciniglia; bisogna ancora osservare che fino ad oggi questa malattia esiste
solo nel nostro continente, come le dispute. I Turchi, gli Indiani, i Persiani,
i Cinesi, i Siamesi, i Giapponesi, non la conoscono ancora; ma c’è una
ragione sufficiente perché la conoscano a loro volta fra qualche secolo. In
quest’attesa, essa ha fatto progressi meravigliosi fra noi, e soprattutto fra
quei grandi eserciti composti di onesti stipendiati così cortesi, i
quali decidono il destino degli Stati; si può ben affermare che, quando
trentamila uomini combattono schierati in battaglia contro truppe di numero
uguale, ci sono circa ventimila sifilitici da ogni parte.
- Questa è una cosa
ammirevole, disse Candido, ma bisogna farvi guarire. - E come potrei? disse
Pangloss; non ho soldi, amico mio, e in tutta la distesa del globo non ci si
può salassare né fare un’abluzione senza pagare o senza che qualcuno
paghi per noi”.
Queste ultime parole
decisero Candido; andò a gettarsi ai piedi...
[ii] Un secondo brano, quasi un
intero capitolo,(il XXIV dell’edizione originale) è la seguente storia Di
Paquette e di Fra Giroflé, disinvoltamente cancellata dall’edizione qui
riportata. Anche qui ci rifacciamo all’edizione Newton Compton del settembre l994,
collana Tascabili Economici Newton, ISBN 88-7983-632-3.:
Mentre discuteva su questo
importante argomento e aspettava Cunegonda, Candido vide in piazza San Marco un
giovane teatino che teneva sotto braccio una ragazza. Il teatino era fresco,
paffuto, vigoroso; aveva gli occhi brillanti, l’aspetto sicuro, la testa alta,
l’andatura fiera. La ragazza era molto bella e cantava; guardava con amore il
suo teatino, e di tanto in tanto gli pizzicava le grosse guance. “Ammetterete
almeno, disse Candido a Martino, che queste persone sono felici. Fino ad ora in
tutta la terra abitata, ad eccezione dell’Eldorado, ho trovato solo
disgraziati, ma scommetto che questa ragazza e questo teatino sono creature
molto felici. - Scommetto di no, disse Martino. - Non c’è che da
invitarli a pranzo, disse Candido, e vedrete se mi sbaglio.”
Subito li avvicina, presenta
loro i propri omaggi, e li invita a venire alla sua locanda a mangiare
maccheroni, pernici di Lombardia, uova di storione, e a bere vino di
Montepulciano, Lachrima Cristi, Cipro e Samo. La signorina arrossì, il
teatino accettò l’invito, e la ragazza lo seguì guardando Candido
con occhi pieni di sorpresa e di confusione, oscurati da qualche lacrima.
Appena fu entrata nella stanza di Candido gli disse: “Ma come! , il signor
Candido non riconosce più Paquette ! ”. A queste parole Candido,
che fino allora non l’aveva osservata con attenzione, perché pensava solo a
Cunegonda, le disse: “Ahimè, povera bambina, siete stata dunque voi a
ridurre il dottor Pangloss nel bello stato in cui l’ho visto? - Ahimè,
signore, sono stata proprio io, disse Paquette; vedo che conoscete tutto. Ho
saputo delle spaventose disgrazie successe a tutta la casa della signora
baronessa e alla bella Cunegonda. Vi giuro che la mia sorte non è stata
meno triste. Ero innocente quando mi avete conosciuta. Un frate francescano che
era il mio confessore mi sedusse facilmente. Le conseguenze furono terribili:
fui costretta ad uscire dal castello poco dopo la vostra cacciata a calci nel
sedere da parte del signor barone. Se un famoso medico non avesse avuto
compassione di me sarei morta. Per riconoscenza fui per qualche tempo l’amante
di quel medico. Sua moglie, che era terribilmente gelosa, mi batteva tutti i
giorni senza pietà: era una furia. Quel medico era il più brutto
di tutti gli uomini, e io la più infelice di tutte le creature, perché
venivo battuta continuamente a causa di un uomo che non amavo. Sapete, signore,
quanto sia pericoloso per una donna bisbetica essere la moglie di un medico.
Costui, stanco della condotta della moglie, le diede un giorno, per guarirla da
un leggero raffreddore, una medicina così efficace che essa ne
morì in due ore, in mezzo ad orribili convulsioni. I genitori della
signora intentarono al signore un processo criminale; egli fuggì ed io
fui messa in prigione. La mia innocenza nn mi avrebbe salvata se non fossi
stata un po’ graziosa. Il giudice mi scarcerò a patto di succedere al
medico. Presto fui soppiantata da una rivale, cacciata senza ricompensa e
costretta a continuare questo mestiere abominevole che pare tanto piacevole a
voi uomini, e che per noi è soltanto un abisso di miserie. Andai ad
esercitare la professione a Venezia. Ah! Signore, se poteste immaginare cosa
vuol dire accarezzare indifferentemente un vecchio mercante, un avvocato, un
monaco, un gondoliere, un abate, essere esposta a tutti gli insulti, a tutte le
ingiurie; essere spesso ridotta a chiedere in prestito una gonna per andare a
farsela togliere da un uomo disgustoso; essere derubata dall’uno di quel che si
è guadagnato con l’altro; essere ricattata dagli ufficiali di giustizia,
e avere per prospettiva un’orribile vecchiaia, un ospedale e un letamaio,
concludereste che io sono una delle creature più infelici del mondo”.
Paquette apriva così
il proprio cuore al buon Candido, in una stanza, in presenza di Martino, il
quale diceva a Candido: “Vedete che ho già vinto metà della
scommessa”.
Fra Giroflé era rimasto
nella sala da pranzo, e beveva un bicchiere aspettando di mangiare. “Ma, disse
Candido a Paquette, avevate un’aria tanto allegra, tanto contenta, quando vi ho
incontrata, accarezzavate il teatino con una naturale compiacenza; mi siete
parsa tanto felice quanto voi pretendete di essere disgraziata. - Ah, Signore!
rispose Paquette, questa è un’altra miseria del mestiere. Sono stata
derubata e battuta da un ufficiale, e oggi devo sembrare di buon umore per
piacere a un teatino.”
Candido non volle saper di
più; ammise che Martino aveva avuto ragione. Si misero a tavola con
Paquette e il teatino; il pranzo fu assai divertente, e verso la fine la
conversazione diventò più confidenziale. “Padre, disse Candido al
monaco, voi mi sembrate godere di una sorte che tutti vi debbono invidiare; il
fiore della salute vi brilla sul viso, la vostra fisionomia denuncia la felicità;
avete una bellissima ragazza per i vostri passatempi, e sembrate molto contento
del vostro stato di teatino. - In fede mia, signore, disse fra Giroflé, vorrei
che tutti i teatini fossero in fondo al mare. Sono stato tentato cento volte di
dar fuoco al convento e di andare a farmi turco. I miei genitori mi obbligarono
a quindici anni a indossare questo detestabile abito, per lasciare un
più grande patrimonio a un maledetto fratello maggiore, che Dio lo
confonda! La gelosia, la discordia, l’ira regnano nel convento. È vero
che ho fatto qualche pessima predica, che mi ha fruttato il denaro di cui il
priore mi ruba la metà; il rimanente mi serve per mantenere qualche
ragazza; ma quando la sera rientro al monastero, mi spaccherei la testa contro
i muri del dormitorio, e tutti i miei confratelli sono nella stessa
situazione.”
Martino, rivolgendosi a
Candido col suo solito sangue freddo: “Ebbene, gli disse, non ho vinto la
scommessa intera?”. Candido diede duemila piastre a Paquette e mille piastre a
fra Giroflé. “Vi garantisco, disse, che con questo saranno felici. - Non lo
credo affatto, disse Martino, forse con queste piastre li renderete ancora
più infelici. - Sarà di loro quel che Dio vorrà, disse
Candido, ma una cosa mi consola: vedo spesso che si ritrovano le persone che si
credeva di non ritrovare mai; può essere che, dopo aver ritrovato il mio
montone rosso e Paquette, incontri anche Cunegonda. - Vi auguro, disse Martino,
che essa possa un giorno fare la vostra felicità; ma ne dubito molto. -
Siete molto duro. Rispose Candido. È perché ho vissuto, disse Martino. -
Ma guardate questi gondolieri, disse Candido, non cantano forse continuamente?
- Voi non li vedete in famiglia, con le mogli e i marmocchi, disse Martino. Il
doge ha i suoi dispiaceri, i gondolieri hanno i loro. È vero che dopo
tutto la sorte di un gondoliere è migliore di quella di un doge; ma la
differenza mi pare tanto mediocre che non vale nemmeno la pena di esaminare
tale problema.
- Si parla, disse Candido,
del senatore Pococurante...